S - Altervista

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S - Altervista
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02
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COVER ART
Cover Artist: Minjae Lee
Direttore: Alessandra Zengo
Logo e Design Grafico: Petra Zari
Redazione
Giovanni Arduino
Stefania Auci
Sergio Bevilacqua
Alexia Bianchini
Elisabetta Bricca
Claudio Cordella
Roberto Gerilli
Pia Ferrara
Viviana Filippini
Desy Giuffrè
Sara Lippi
Roberta Maciocci
Barbara Maio
Giulia Marengo
Miriam Mastrovito
Leni Medeiros
Gabriella Parisi
Selene Pascarella
Francesca Santucci
Christian Soddu
Roberta de Tomi
Petra Zari
Hanno collaborato
Patrizia Ferrando
Germana Maciocci
Irene Montanelli
Selvaggia Oricchio
Si ringraziano
Alan D. Altieri
Marco Buticchi
Harold Cobert
Sebastian Fitzek
Rhiannon Frater
Lara Manni
Marzia Musneci
Marilù Oliva
Francesca Scotti
Rossano Trentin
Correttore Bozze: Maila Daniela Tritto
Webmaster: Azzurra Ponti
03
www.speechlessmagazine.com
redazione@speechlessmagazine.com
Portale dedicato al Fantastico
www.urban-fantasy.it
Blog Letterario Collettivo
www.diariodipensieripersi.com
sommario
08< EDITORIALE
ALESSANDRA ZENGO
10 < COVER ARTIST
L’INCANT(ESIM)O ARTISTICO DI MINJAE LEE
14 < EDITORIA
PIXEL RUBATI
INTERVISTA: ALESSANDRA PENNA
RUBRICA: WEST EGG - VAGHÈZIE DELL’EDITOR
INTERVISTA: ROSSANO TRENTIN
RUBRICA: LETTORI E “LETTORI”
30 < ATTUALITÀ
ABISSI
34 < FANTASY
SPECIALE VIRGINA WOOLF>70
LE BEATRICI - BENNI>110
VIVERE E MORIRE A KING’S LANDING
RUBRICA: I LUOGHI DELL’IMMAGINARIO
TANIT DI LARA MANNI
RACCONTO: BABY BLUES DI LARA MANNI
1Q84 DI MURAKAMI HARUKI
INTERVISTA: GIULIA MARENGO
RACCONTO: ECHI DI MEMORIA DI GIULIA MARENGO
72 < CLASSICI
SPECIALE: VIRGINIA WOOLF
L’INGRATITUDINE DI CHARLOTTE BRONTË
86 < HORROR
ZOMBIE REVIVAL
INTERVISTA: FRANCESCO SPAGNUOLO
RACCONTO: AUTOSTRADE PERICOLOSE DI RHIANNON FRATER
04
S
ZOMBIE REVIVAL>84
SHERLOCK HOLMES>174
COVER ARTIST>10
marco buticchi>158
PIXEL RUBATI>14
MAMORU NAGANO>118
GLI AMORI DI WOODY ALLEN>163
CINEMA, COLORI E SUONI, PRIMA DI
MARILU’ OLIVA>138
L’INGRATITUDINE DI CHARLOTTE BRONTE>80
TANIT>
I “THE ARTIST”>180
>42
sommario
104 < NARRATIVA
MR GWYN DI ALESSANDRO BARICCO
RACCONTO: UNA COLLINA DI HAROLD COBERT
LE EROINE LETTERARIE DI ERIN BLAKEMORE
LE BEATRICI DI STEFANO BENNI
RACCONTO: MEDUSA, UNA FAVOLA DI FRANCESCA SCOTTI
117 < FANTASCIENZA
FANTASCIENZA E FUTURO: I MILLE VOLTI DISTOPICI
L’ESTETICA DI MAMORU NAGANO
126 < THRILLER/GIALLO
RACCONTO: TUTTO PER BERGKAMEN DI SEBASTIAN FITZEK
IL MARCHIO DEL DIAVOLO DI GLENN COOPER
INTERVISTA: MARILÙ OLIVA
RACCONTO: AMANDA DI MARZIA MUSNECI
152 < STORICO
SPECIALE: MAGDEBURG DI ALAN D. ALTIERI
INTERVISTA: MARCO BUTICCHI
165 < CINEMA & TV
07
GLI AMORI DI WOODY ALLEN
CINEMA CHIAMA FANTASY
HUGO CABRET E LO STUPORE DEL CINEMA
ELEMENTARE SHERLOCK!
FANBOYS STATUNITENSI: JOSS WHEDON VS KEVIN SMITH
CINEMA, COLORI E SUONI, PRIMA DI “THE ARTIST”
1Q84 - MURAKAMI HARUKI>56
editoriale
di ALESSANDRA ZENGO
«art should be a place of h
inexperience, which is not
Proprio in concomitanza con l’arrivo della primavera – che speriamo
sia di buon auspicio –, siamo riusciti, dopo molti mesi di preparazione,
a pubblicare finalmente online il numero 0 di Speechless, un nuovo
magazine che spazierà nel mondo della letteratura e del cinema,
con qualche sporadica incursione in altri ambiti culturali.
L’era del Web 2.0 – in cui fioriscono quotidianamente una
moltitudine di attività online legate all’attività culturale,
come blog, siti web etc – ha visto recentemente la nascita
di numerose riviste digitali di varia natura, complice
anche la diffusione sempre più massiccia dell’e-book
e la possibilità di creare, più o meno facilmente,
un luogo di discussione e critica che si pone su un
piano parallelo alla tradizionale carta stampata.
L’idea di Speechless nasce a fine novembre 2011, e
all’inizio questo nostro piccolo spazio indipendente
– che speriamo sia di vostro gradimento –, altri
non era che l’idea di una webzine del blog
letterario Diario di Pensieri Persi, il mio primogenito.
Adesso Diario ha ufficialmente una sorellina
minore; una bambina dall’urlo facile, cosicché
il messaggio venga recepito forte e chiaro, e dai
capelli fiammeggianti, simbolo del suo carattere
indipendente e indomabile. Insomma, Speechless
è donna, per questo si è fatta attendere a lungo!
Lo spirito di questa neo-rivista è quello di elaborare
strumenti che possano permettere di capire al meglio
il mondo della letteratura, senza pretese di esaustività;
senza vincoli di sorta per generi o argomenti; senza
preclusioni o intellettualismi di maniera, ma con la curiosità
e la passione che nascono dall’amore per i libri e il cinema.
Questo primo numero di S non rappresenta ancora la
versione definitiva di questo progetto; già dal prossimo
numero, infatti, potrete leggere gli interventi di altri articolisti
– che, forse, conoscerete già – e nuove rubriche si apriranno
anche a nuovi orizzonti culturali, diversi da quelli cui siamo abituati.
Ogni numero, oltre ad articoli, interviste e recensioni, vi offrirà la possibilità
di leggere alcuni racconti di autori stranieri e italiani, esordienti o affermati.
Il nostro staff – sempre in crescita – unisce professionisti del settore
e non (giornalisti, editor, scrittori, blogger), in un coro-web che ha
qualcosa da dire. Da raccontare o, semplicemente, da condividere.
hope, not doubt. and your doubts rise from
t a dishonorable thing.» [stephen king]
SPEECHLESS NASCE DALLA VOGLIA DI COMUNICARE E DI ESSERE ASCOLTATI.
“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare
le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le
nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia
come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge
l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi
supera sè stesso senza essere “superato”. Chi attribuisce alla
crisi i suoi fallimenti e le sue difficoltà, violenta il suo stesso
talento e da più valore ai problemi che alle soluzioni.”
Così scriveva l’illustre scienziato Albert Einstein negli anni
30 del secolo scorso, solo un anno dopo la grande
crisi economica del ‘29. Parole forti, emblematiche
che riassumono brillantemente quello che è il nostro
intento e il nostro pensiero. In un momento di forte
crisi per l’editoria tradizionale, ci siamo impegnati
in un progetto che vuole promuovere, seppur
nel suo piccolo e con mezzi ancora limitati, la
passione per la lettura e una riflessione critica sul
numerosissimo numero di testi che ci vengono
proposti. Un surplus ingestibile dai lettori che rischia,
d’altro canto, di offuscare piccole perle letterarie e
talenti nascosti, e promuovere con efficaci scelte
di marketing libri dal dubbio valore letterario che,
ironicamente, raggiungono – quasi per farci un
dispetto – la vetta delle classifiche dei libri più venduti.
Prima di augurarvi buona lettura, devo fare i dovuti
e sentiti ringraziamenti a tutte le persone che hanno
reso possibile questa nuova avventura collettiva:
tutta la splendida Redazione, pazientissima nei
miei confronti per i ripetuti ritardi; la bravissima Petra,
grafica eccezionale di S, Maila che ha ri-corretto le
bozze di tutti gli articoli, anche quelli che non leggerete
mai; le traduttrici e i collaboratori della rivista; gli autori e
gli addetti ai lavori che hanno accettato di essere intervistati
sulle nostre pagine; gli scrittori che hanno scelto di pubblicare
un loro racconto nella rivista; e, infine, un grazie a tutti i sostenitori e i
lettori che hanno atteso in questi mesi la nascita di Speechless. Grazie!
Per qualsiasi – o quasi – cosa, domanda o chiarimento potete scrivermi a:
alessandrazengo@yahoo.it
Enjoy the rumors!
09
parole che fanno rumore
cover artist
CIRCULATION
(2011 - Tecnica mista su carta)
11
L’incant(esim)o artistico di
minjae LEE
di PETRA ZARI e ELENA BIGONI
Minjae Lee è un giovanissimo artista sudcoreano, autore della bellissima ed evocativa cover del primo numero di Speechless. L’artista ritrae
una giovane donna pensierosa attraverso l’utilizzo di colori potenti e vividi, che risaltano sullo sfondo bianco, privilegiando l’intento sull’azione.
Questo talentuoso artista, classe ‘89, è sempre stato affascinato dal colore e dalle forme sin da quando a 7 anni ha scoperto tempere, pastelli
e in seguito acrilici. Attraverso l’uso di questi strumenti, Minjae ha potuto finalmente esprimere la propria creatività creando opere sempre
più complesse ed originali che si distinguono per la meravigliosa giustapposizione di bellezza, innocenza, fragilità, arroganza e dramma che
coinvolgono a livello emotivo lo spettatore.
BLOSSOM DESIRE
Il suo percorso creativo e la sua sensibilità artistica non sono mai stati
imbrigliati da studi specifici, soprattutto per la difficoltà di Minjae Lee
di relazionarsi con professori che non comprendevano appieno il suo
mondo fatto di colori. L’artista trae ispirazione dai volti delle persone
che osserva sempre e in ogni luogo, i suoi artisti preferiti sono il 55enne
fotografo giapponese Hiroshi Nonmi e l’eccentrico e geniale stilista John
Galliano.
La sua tecnica può apparire complessa ad un primo sguardo, mentre i
suoi strumenti sono semplicissimi; la complessità risiede, invece, nell’articolazione delle forme, delle linee, delle scelte coloristiche con cui costruisce le sue opere, come in un mosaico bizantino. Matite, pastelli,
tempere acriliche ed un talento racchiuso in una mente che riesce a vedere il mondo attraverso le lenti coloratissime della fantasia; un talento
raro in un adulto, una prerogativa dei bambini del quale Minjae conserva la freschezza immaginativa.
In una chiarezza grafica capace di avvolgere lo sguardo di ogni osservatore, i lavori di Minjae attraggono l’attenzione nel sottile gioco di linee e
colore, in un viaggio all’interno dell’immagine che, dalla visione d’insieme, scivola sui dettagli fittissimi, dentro l’opera. Le sue opere sono un
incantesimo che ci ricorda la perdizione delle figure impossibili di Escher.
intervista>
minjae LEE
Speechless: Il tuo stile, le scelte delle associazioni
di colori e i soggetti sono decisamente originali
e fortemente personali. Cosa vorresti trasmettere attraverso le tue opere d’arte? E da cosa trai
l’ispirazione?
Minjae Lee: Mostro alla gente ciò che provo in quel momento, e probabilmente ciò
li colpisce, e riescono a provare ciò che ho
provato io.
S: Come avviene il processo creativo e come
ti approcci con la tela bianca?
M: Cerco qualcuno, un viso, e quando ho trovato quel viso, quell’immagine, ho la mia ispirazione.
S: Sei un artista molto giovane. Come trascorri il tuo
tempo libero quando non lavori a una delle tue opere?
M: Lo trascorro come chiunque altro, ma forse lo trascorro anche alla ricerca di un’ispirazione.
S: Ci puoi dire quali sono i tuoi progetti per il futuro?
M: Vorrei poterlo fare, ma non lo so neanche io. Creo opere
e a volte alle gente piace lavorare con me. Ma non posso
dirvelo, attendo con impazienza alcune mostre nel 2012
e alcune collaborazioni su cui non vedo l’ora di lavorare.
Minjae LEE
CONTATTI»
12
website: www.grenomj.com
email: info@roth-mgmt.com
BLUE LIP
cover artist
FLOWER
INDIAN
PIXEL
RUBATI
di GIOVANNI ARDUINO
A volte ascolti discorsi. A volte ricevi strane e-mail. A volte incappi in qualcosa sulla
rete. A volte, se ti occupi o
ti interessi anche solo tangenzialmente di libri (quei curiosi oggetti), ti capita con una
certa frequenza.
Se si parla di scrittura e dello scrivere, poi, si aprono i
cancelli dell’inferno, del purgatorio e del paradiso, tutti
insieme.
Ho stilato una breve lista in
tema: non so se sia divertente,
ma mi metteva di buon umore.
Sarò strano, che so. Ce ne potranno, nel caso, essere altre.
Le frasi riportate sono tutte
vere. Rigorosamente. Naturalmente. Al massimo qualche additivo e colorante in più, ma si
sa che quelli male non fanno.
Non subito, almeno.
Pregasi inviare segnalazioni,
indicazioni, dritte, eventuali
insulti (quando necessario) a:
giovanniarduino@gmail.com
Statemi sani, Giovanni
editoria
15
« Scrivo per diventare come Sylvia Plath però senza suicidarmi. »
« Scrivo perché mi piace tanto la rubrica sui libri di Glamour. »
« Scrivo perché è facile. »
« Scrivo perché la maestra delle elementari mi diceva che ero bravo. »
« Scrivo perché voglio essere invitato nei posti importanti. »
« Scrivo perché voglio sbugiardare la mafia degli scrittori. »
« Scrivo perché lavoro come copywriter ma la vera scrittura è un’altra cosa. »
« Scrivo perché voglio farmi dei nemici. »
« Scrivo perché ci ho la penna in mano. »
« Scrivo perché il mio blog letterario ha duecentomila visitatori unici al mese e ora voglio passare a
un romanzo. »
« Scrivo perché così si fanno i soldi. »
« Scrivo perché mi autopubblico e in culo alle case editrici che hanno rifiutato i miei libri. »
« Scrivo perché ho un ottimo senso del marketing e questo è importantissimo. »
« Scrivo perché ho visto il film Wonder Boys, mi piace tanto Robert Downey Jr. e scrivere mi sembra figo. »
« Scrivo perché ho frequentato un corso di scrittura creativa e mi spetta di diritto. »
« Scrivo perché ci ho l’editor. »
« Scrivo perché non mi hanno preso ad Amici. »
« Scrivo perché negli ultimi dieci anni ho letto due libri e voglio scriverne uno uguale al secondo. »
« Scrivo perché così mi pubblicano; se non scrivessi, non mi pubblicherebbero. »
« Scrivo perché ieri notte me lo ha detto Robert Pattinson. »
« Scrivo perché su Facebook ho messo “scrittore” subito dopo il mio nome. »
« Scrivo dopo aver visto il concerto dei Cani al Circolo degli artisti. »
« Scrivo perché la casa editrice Albatros mi ha pregato di continuare a farlo. »
« Scrivo per creare un brand vincente per la comunicazione transmediale. »
« Scrivo perché sono una vampira e voglio raccontare la verità sulla mia specie. »
« Scrivo perché tengo un tumblr solo con foto di librerie di scrittori. »
« Scrivo perché così faccio gli eBook e divento famosa come Amanda Hocking. »
« Scrivo perché chi mi followa rewitta sempre i miei tweet »
« Scrivo gialli perché in fondo sono porcherie e vendono. »
« Scrivo perché sono un giornalista ma voglio scrivere un romanzo di denuncia che duri nel tempo. »
« Scrivo perché a sedici anni, quando scrivi, ti pubblicano sempre. »
« Scrivo perché mi sento molto, ma molto steampunk. »
« Scrivo perché la mia fidanzata dice che sono un tipo genio e sregolatezza. »
« Scrivo romanzi letterari perché l’horror mi ha pugnalato alle spalle. »
« Scrivo romanzi di genere fantastico perché mi piace fare esperimenti con cose che non conosco. »
« Scrivo perché ho aperto una piccola casa editrice indipendente (o l’ho aperta perché scrivo). »
« Non scrivo perché, piuttosto che scrivere ancora una riga, sturo il cesso di casa a mani nude. »
editoria
I N T E
di DESYGIUFFRÈ
Un caloroso benvenuto ad Alessandra Penna, responsabile editoriale di Newton Compton Editori. Qui con noi per rispondere ad alcune
domande e aiutarci a fare chiarezza su alcuni aspetti dell’affascinante
- quanto complesso - mondo dell’editoria.
Speechless: Grazie per essere qui, Alessandra!
Alessandra Penna: Ciao ciao e grazie a voi per l’invito e per questo spazio.
S: Quando e come hai capito di voler intraprendere il cammino dell’editor? Qual è stato il tuo percorso formativo? I pregi e i difetti del lavoro
di editor secondo te.
A: Più che decidere di farlo, mi sono trovata su questo cammino, e a
quel punto mi sono detta: è quello che fa per me. È la cosa più adatta a
me tra tutte quelle che ho fatto. È quella che sento di potere fare bene
e che mi rende felice.
Mi sono laureata in filosofia a Roma, sono stata un anno a Napoli per
una borsa di studio e, poi, ho vinto il dottorato. Fino ai miei 29 anni sono
rimasta dentro l’università, convinta che sarebbe stata la mia strada.
Poi, in attesa di altro dopo il dottorato, ho iniziato a lavorare per Carocci,
e lì è iniziato tutto. Mi occupavo di saggistica universitaria, di psicologia
all’inizio e poi della riprogettazione della collana di architettura. Quello
universitario era un mondo con cui avevo una certa prossimità e
familiarità, ma io sentivo di voler fare anche altro. Fu Giancluca
Mori - il mio direttore editoriale da Carocci - che mi spinse a
tentare. E qui sarò breve: due anni da Fazi, dove mi sono occupata soprattutto di narrativa italiana e di scouting (tanto,
tanto scounting!) e poi Newton Compton, ormai da due anni.
Amo questo lavoro, non riesco a trovargli dei difetti. Quelli che
ha, derivano dal fatto che non sempre si lavora su cose che abbiamo personalmente scelto. Non tutto può piacerci allo stesso
16
ALESSANDRA
PENNA
17
E R V I S T A
modo. Ma insomma, nel complesso, nulla che mi sembra assomigli a un difetto!
S: Come definiresti il tuo percorso lavorativo in questi ultimi anni?
A: Credo sia stato molto vario e mi abbia consentito di imparare tanto. In realtà, io credo di
essere in un certo modo ancora all’inizio. Mi sento giovane per questo mestiere e sento di
aver bisogno ancora di tanta, tantissima esperienza. Ma le cose che ho fatto finora – almeno
alcune –, romanzi scelti, autori scoperti, mi rendono soddisfatta di questi anni.
S: Quali sono le basi fondamentali per un valido manoscritto? Coincidono con le caratteristiche di un romanzo di successo?
A: Premesso che un manoscritto va lavorato e che l’editing potrà migliorarne certamente
degli aspetti, direi di sì, che in genere già nel manoscritto si riescono a individuare delle caratteristiche che sono quelle del romanzo di successo.
A meno che tu non intenda il bestseller. In questo caso no, non credo sia vero: credo ci siano
ottimi manoscritti che non necessariamente diventeranno un bestseller. Ma che, a mio giudizio, non per questo valgono meno.
Un manoscritto è buono se cattura la mia attenzione dopo che ne ho letta una pagina. Se è
ben scritto, se mi incuriosisce ad andare avanti, se mi lascia immaginare che ci sarà una storia
con una struttura forte e se, alla fine della lettura, non ha deluso buona parte di queste aspettative. Ma probabilmente, se sono arrivata in fondo, è così.
S: Quale ritieni essere il momento più entusiasmante del tuo lavoro?
A: Lavorare su un testo, capire cosa funziona e cosa invece va migliorato. Sottoporre all’autore i dubbi, indicargli la strada per scioglierli e sentire che, dall’altra parte, c’è fiducia e volontà di intervenire. In buona
sostanza, l’editing sul testo insieme all’autore è, per
me, entusiasmante. Forse perché mi sembra unisca due aspetti di me entrambi importanti, o mi
permetta di esprimere delle abilità apprese nel
tempo: la riflessione su un testo scritto, sulla parola prima – e questo lo devo, ne sono certa, agli
anni del dottorato – e il momento creativo, poi.
Io lascio, quasi sempre, che siano gli autori a decidere come intervenire. Mi limito a consigliare e indicare
possibilità praticabili, ma già questo secondo me ha a che fare
con la creazione. Qualcosa che in fondo mi mancava nella ricerca.
Recentemente un’autrice mi ha più volte chiesto, dopo il secondo
editing sul suo romanzo: «Ti piace come ho scritto quel dialogo? Pensi
che vada bene rispetto a prima?» Quando l’ho letto tutto scorreva – le ho risposto – non ricordo più il motivo per cui non andava bene. Ecco, quando questo
editoria
INTERVISTA: ALESSANDRA PENNA
18
accade, quando la volontà di editor e scrittore procedono insieme, questo è
davvero un momento bellissimo.
S: Quali sono le caratteristiche fondamentali che rendono indimenticabili i protagonisti di un romanzo?
A: La loro autenticità. E non intendo che siano tratteggiati in modo realistico
o che siano, con un aggettivo abusato oggi, “veri”. No, autentici significa che
dietro di loro io non devo avvertire la penna dello scrittore o la sua voce, che li
impersona di volta in volta. Devono avere vita propria. È difficile, è la cosa più
difficile in un romanzo. Non capita spesso, lo ammetto. Lo scrittore che riesce
a farlo è davvero bravo.
S: Un libro che hai scoperto e che ha dato i frutti da te previsti?
A: Il Divoratore, di Lorenza Ghinelli e Il carnefice, di Francesca Bertuzzi.
S: Cosa ti colpisce – di primo impatto – di un testo che ti viene sottoposto?
A: Personalmente la lingua, o meglio, lo stile. Il modo in cui le parole stanno
insieme per una qualche necessità. Quando capita, penso che chi le ha scritte
non sia solo “qualcuno che scrive un romanzo”, ma uno scrittore. Per me esiste
una differenza.
S: Quali sono gli errori più frequenti che gli scrittori esordienti commettono?
A: Uso e abuso di luoghi comuni, sia nei contenuti che nella forma. Tendenza a
parlare di sé mentre si scrive, anche quando si usa un narratore esterno. Predisposizione allo sfogo. I diari, lo ripeto spesso, a volte vanno lasciati nel cassetto!
S: Sappiamo che non sempre è possibile leggere integralmente tutti i romanzi
che vengono sottoposti a un editore. Quanto contano quindi una buona pre-
sentazione e una buona sinossi?
A: La presentazione e la sinossi contano per capire se il manoscritto può rientrare
nella linea editoriale della casa editrice. Se così è, allora si comincia a leggere. Sono
le pagine che fanno fede. Un romanzo può essere buono sulla carta ma non reggere
alla lettura. È la differenza tra un saggio o un romanzo. I primi li puoi a volte scegliere
sulla base di proposal. Coi secondi è sempre più difficile, soprattutto se si tratta di
esordi.
S: Cosa consigli a chi è deciso ad intraprendere il mestiere dell’editor?
A: Il mio percorso è molto poco ortodosso. Non arrivavo da master in editoria o stage in qualche redazione. Ma credo anche che non sia un percorso diffusissimo. Ho
la sensazione che sempre più spesso, adesso, sia necessario aver frequentato qualche corso di editoria. Di buoni ce ne sono senz’altro.
Se poi mi stai chiedendo come si possa essere un buon editor, la
risposta è che non lo so esattamente. Forse leggendo e avendo letto
tanto. Forse affinando la capacità di vedere, al di là dei personaggi e
azioni, l’ossatura del romanzo, come in controluce, per riuscire a capire se sia solida o se qualche parte risulti invece debole e da rafforzare. Credo che un bravo editor debba riuscire ad avere una visione
– analitica e sintetica insieme – del romanzo: debba essere in grado
di scomporlo quasi in parti, e al tempo stesso vederlo come un tutto.
S: Bene, siamo giunti al termine della nostra chiacchierata, Alessandra. Vuoi aggiungere qualcosa?
A: Ma no, non sono stata già noiosa così?
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editoria
«Io abitavo a West Egg, nella parte...
WESTEGG
rubrica
di CHRISTIAN SODDU e ALESSANDRA PENNA
«Io abitavo a West Egg, nella parte...
bÈ, quella meno alla moda delle due»
Così F. Scott Fitzgerald, con una sciabolata delle sue, ritaglia magistralmente quel sotterraneo senso di estraneità che talvolta ci prende nei
confronti di un mondo al quale pur si appartiene, di uno spazio al quale si è
in qualche modo organici o che ci vede, addirittura, protagonisti.
C’è molto di più del passo indietro del narratore, in quella frase; della distanza di sicurezza, tecnicamente necessaria, dalla
quale Nick Carraway ne Il grande Gatsby osserva l’agitarsi delle
comparse e l’inesorabile distruzione di un sogno romantico. C’è
l’autore stesso, che con le sue frequentazioni fu uno dei principali animatori del decennio più folle del Novecento, i “Roaries Twenties”, e che
pure
rivela, con le sue storie e il suo talento troppo presto corrotto, una malinconica alterità pari
soltanto all’avido desiderio di appartenenza. E c’è ancora, forse, quell’unico, ambiguo spazio
emotivo da cui le crepe sul muro risultano impietosamente chiare, anche se non potremmo
mai vivere facendo a meno di quelle splendide pareti dipinte d’azzurro.
West Egg è una rubrica dall’interno del mondo dell’editoria, che di questo mondo, mese
dopo mese, fornirà sprazzi, notizie, informazioni, aneddoti e riflessioni... Saranno interventi
animati dallo spirito di chi, lavorando all’interno di importanti case editrici, in particolare nel
comparto della narrativa, con i suoi ritmi convulsi e meccanismi da cui facilmente possono scaturire situazioni parossistiche o episodi tragicomici, si tiene in bilico tra passione
e disincanto, tra lo slancio d’una fascinazione che resiste
Christian
e lo scarto dell’ironia, di chi si diverte a trarre da questo
Christian Soddu, nato a Sassari,
vive e lavora a Roma, dove è atmateriale umano e professionale spunti anche vagamente
tualmente editor per la narratinarrativi. Come nel caso di questo primo intervento, in cui
va italiana presso la Fazi Editore.
Crede nell’uso del puntoevirgola.
il dato autobiografico si fonde con psicologie e situazioni
Ha visto 16 volte L’appartamento.
Forse prende un cane, moglie pertipiche che il lavoro di editor ti sbatte in faccia spesso e vomettendo.
lentieri. Che l’editoria stia cambiando, ormai, è banale dirIncipit preferito:
lo. E non è una novità il fatto che oggi si richiedo“Tutti i bambini crescono.
no agli editori e ai professionisti del settore nuovi
Meno uno” (Peter Pan)
modelli di comunicazione e d’intervento per far
Mail: christiansoddu@gmail.com
Twitter: @westegg76
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bÈ, quella meno alla moda delle due».
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fronte alle sfide del digitale, alle prospettive di mercato degli e-book, a fenomeni quali il self-publishing
che tendono ad annullare il filtro una volta esistente tra editore e aspirante autore... Ma al di là dei
tecnicismi e delle valutazioni circa i cambiamenti
fisiologici inerenti qualunque realtà, resta il fatto
che lavorare sui e con i libri, a contatto con chi li
pubblica e con chi li scrive (o vorrebbe scriverli),
è una scelta o una fatalità che racchiude sempre
qualcosa del sogno iniziale. La speranza è che questa
rubrica possa rispondere ad alcune curiosità, sfatare qualche
luogo comune, informare e, perché no, divertire; sempre offrendo un punto d’osservazione attento,
appena al di là del fossato, interessante più che interessato.
Buona lettura.
NOTA AL TITOLO
Per “vaghèzia” - termine da terra padana - s’intende una categoria dello spirito, quella che Alberto Bevilacqua, in un
recente articolo sul Corriere della Sera in ricordo di Cesare Zavattini, definisce “la parabola istintiva con cui un po’ s’inventa
e un po’ no, rubando dalla realtà quel tanto di inverosimile che sempre contiene, e che realtà resta...”.
Giornalista, narratore, sceneggiatore di film immortali, poeta e pittore, noto soprattutto come artefice della scuola neorealista, Cesare Zavattini è stato prima ancora, prima di tutto e di molti (v. Ennio Flaiano), un delizioso osservatore della vita
e un grande umorista. Un malinconico che amava la compagnia e la buona tavola, e che da una tavolata di amici era capace
di alzarsi all’improvviso, esclamando: “Scusate, devo andare a prendere appunti per una vaghèzia. Se dovessi morire nel
frattempo, avvisate casa mia che apparirò tardi”.
E vorrei una risposta rapida
di Christian Soddu
«…E vorrei una risposta rapida, se no m’incazzo e do
tutto alla Minimum Fax»
Queste parole, chissà perché, rimbalzano d’un tratto
nella mente assorta dell’editor.
Un personaggio strano, il nostro editor, che nella migliore e più tautologica delle ipotesi viene pagato per
leggere e fornire a chi lo paga un suo parere circa
la bontà dei testi che ha letto, ma che nella realtà
– dove le ipotesi migliori si realizzano di rado – si
ritrova quotidianamente invischiato in mille trappole
collaterali, trabocchetti e angoli bui nei quali la parola scritta cede il passo ai numeri.
È proprio su questo che l’editor stava divagando…
Su quei numeri che lo assalgono di continuo, strattonandolo per la manica, risucchiandolo altrove, come
accade ai bambini delle fiabe che sempre precipita-
no dentro un armadio senza fondo per
poi ritrovarsi, infreddoliti e quantomeno
perplessi, al cospetto di qualche livida regina delle Nevi. In modo analogo,
come a contrappasso del proprio persistente lato fanciullo, l’editor è costretto
ad avventurarsi in quelle esotiche terre
rette con pugno di ferro da Sua Maestà il Marketing. Questi, coadiuvato
nell’amministrazione dal fidato Nielsen,
ministro delle Classifiche, e resistendo
ai settimanali capricci della principessa
Arianna, è protagonista di una dialettica
complessa e dai connotati vagamente
berlusconiani col popolo dei Lettori, che
si vorrebbe “sovrano”, se non fosse che
l’intera faccenda è meno democratica e
più monarchica di quanto non la si racconti…
«…Una risposta rapida, se no…».
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L’editor ha un sussulto. Il ricordo di quella frase lo
strappa dalle sue fantasticherie su armadi e numeri
malvagi e lo riporta al presente. Per la precisione,
all’uomo che gli siede di fronte, a un tavolo di Lucarelli in via Satrico.
L’uomo si chiama M. Avrà tra i 45 e i 50 anni. Ha scritto un romanzo. Niente di irreparabile, se non fossero
le sei pomeridiane di sabato 31 dicembre. Insomma,
l’editor si è fatto incastrare e, a dire il vero, non saprebbe spiegare come si trovi lì, mentre in ogni casa
ci si affretta a mettere lo spumante in fresco in vista
del brindisi di mezzanotte.
A scanso di equivoci, occorre precisare che non
era M. a minacciare “incazzature” in quella lettera
di presentazione arrivata in casa editrice due o tre
anni prima, allegata a un manoscritto e destinata a
fissarsi nella memoria collettiva dell’ufficio. E l’editor pensa che sia un peccato. Perché con uno così
ci si potrebbe almeno litigare, e tutto sarebbe più
semplice e veloce, mentre ciò che si sta celebrando a questo tavolo è il Trionfo dell’Educazione. Un
senso neoclassico della misura, un pavido senso del
pudore, impediscono all’editor di interrompere la recita, smettere di annuire per spiattellare la domanda
che da circa un’ora è lì, sommersa nella sua mole
distruttiva, soltanto una minuscola capocchia che
emerge dal moto ondoso di quel monologo, come un
iceberg minaccioso. Teoria dell’iceberg!, rimugina
senza volerlo l’editor – ormai si sarà capito: ha la
scomoda abitudine di lasciar andare la mente dove
capita. “Solo un terzo del racconto dev’essere visibile in superficie, come in Hemingway… il non detto
è più importante…”. Pensa che dovrebbe dirglielo,
a quest’uomo. Sta per farlo, ma poi scuote la testa.
Alla fine mormora un «Scusi…»
«Avevamo detto di darci del tu.» Sorriso disarmante.
M. non ha nemmeno il fiatone, dopo tutto quel parlare.
Anche l’editor sorride. «Scusa, non… non sono sicuro di aver capito bene.»
M. lo guarda, sempre sorridendo.
«Cioè, abbiamo detto, il protagonista è un gatto, giusto?»
«Un gatto sì ma non proprio un gatto un gatto cen-
tauro mezzo gatto mezzo uomo che a bordo di un velocipede attraversa…»
«Un velocipede?»
Il sorriso ha un lieve appannamento. «Una
specie di bicicletta.»
«So cos’è un velocipede», fa l’editor. Non
può fermarsi ora. «Ma il problema non è il
velocipede. Vede…»
M. allarga le braccia come qualcuno a cui
abbiano sparato in petto.
«…vedi!, è che mi stai raccontando la trama da quanto, un’ora? E ancora non ho capito di che parla.»
«Ho quasi finito.»
«Sì ma non è questo il punto.»
M. lo fissa. Il sorriso è scomparso.
L’editor finge di bere il fondo del caffè rimasto nella tazzina, poi scuote la testa.
«Scusa, ma credo che nemmeno tu abbia
ben chiara in testa la storia, altrimenti…»
«Ma te l’ho detto è complesso perché vedi
il gatto è come il monocolo dell’artista che
fa un viaggio nella multiformità dell’arte e
dell’essenza creativa dell’uomo e…»
Fra circa tre ore l’editor deve essere a cena
con sua moglie in casa di amici per festeggiare il capodanno.
Pensa che potrebbe dirgliela alla Checov,
che è meglio scrivere di cose semplici in
modo semplice, scrivere di cose che conosci bene, lasciar perdere gli avvenimenti
straordinari… Ma, poi, quello gli risponderebbe «e Tolkien allora?!» Se è battagliero, e dallo sguardo a fessura gli pare
lo sia, potrebbe anche uscirsene con un
impertinente «e i vostri vampiri, allora?!»,
pronunciando quel vostri col piglio di chi
stia schiacciando una blatta in cantina, in
riferimento alla sigla editoriale per la quale
l’editor lavora. Allora gli toccherebbe ribattere che il fantastico ha le sue regole, un
codice che si asseconda o dal quale si è
editoria
fuori, che portandoci “altrove” ci parla però sempre della realtà e la conversazione si protrarrebbe a
lungo, acquisendo una fastidiosa tendenza all’astrazione e… D’un tratto l’editor ha l’impressione di
non sentirsi granché bene. Fa scorrere il dito all’interno del colletto della camicia. È per quello che M.
ha appena detto.
«La materia del mio romanzo è il tempo!»
È una trappola. Qualunque cosa obietti, sa che l’altro risponderà «e Proust allora?!»
Sceglie la strategia del silenzio. Sì, terrà la bocca chiusa e quello gli parlerà di Calvino e Joyce. Sicuro.
C’è già passato. Lui non ha niente contro Calvino e non ha niente contro Joyce. Ha la sensazione che
siano un po’ fuori contesto, in quella conversazione, ma non batte ciglio. Non deve dimenticare di esser lì per lavoro! Un errore, d’accordo, andare all’appuntamento senza aver prima comprato le bottiglie
di Berlucchi da portare alla festa, così si rischia che i negozi chiudano, ma il lavoro è lavoro, e certo,
potrebbe comprarle lì dove si trova, ma al market le pagherebbe molto meno, e poi sente nominare il
Gruppo 63.
Si guarda intorno, ma inutile farsi illusioni: M. è il responsabile. È stato lui a pronunciare quella sigla,
che all’editor dice qualcosa, sì, non sa bene… ma qualcosa che, in modo vago e misterioso, gli fa
paura.
Scatta in piedi.
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Sul tavolo, tra la tazzina di caffè e il Crodino, giace il manoscritto copertinato di nero che raccoglie
le gesta del gatto-centauro-ciclista-monocolo… L’editor fissa il blocco di carta con la stessa, primitiva fascinazione che ogni spettatore ha riservato al monolite di 2001 Odissea nello spazio, o, anni
dopo, ai dinosauri che si fanno le fusa in Tree of Life, ed è solo con un estremo sforzo di volontà che
riesce a dire qualche parola di commiato, voltarsi e uscire dal locale, nella sera umida e tesa. Mentre
corre verso la macchina, si sente un po’ colpevole. Che altro avrebbe potuto fare, dire, consigliare,
per indorargli la pillola? «Ah sì», dice tra sé e sé, «c’era quella di Stephen King: la strada dell’inferno
è costellata di avverbi… Carina, potevo dirgliela. Potevo consigliargli di leggerlo tutto, On Writing di
King». Scuote la testa… Aforismi, suggerimenti, pillole, aneddoti sono tutti divertenti e utili quanto
coriandoli a una festa in cui manchino però musica e beveraggi adeguati.
L’editor aspetta che scatti il verde, la macchina è sull’altro lato del marciapiede, e ripensa a quando,
ragazzino, lesse la biografia degli U2. Era rimasto colpito dal passaggio in cui Paul Hewson alias Bono
Vox annunciava al padre, un tipo tutto d’un pezzo, la decisione di dedicarsi alla musica e di voler diventare una rockstar. Col buon senso tipico di qualunque uomo meno folle, affamato e fortunato di Steve
Jobs, il padre non l’aveva presa bene, riflettendo sul fatto che suonare in un garage con gli amici è una
cosa, ma suonare in modo tale da portare la gente a sborsare soldi per ascoltarti è tutt’altra faccenda.
Non è questione di denaro da guadagnare o spillare al prossimo, ma di pura e semplice onestà: questo
avrebbe dovuto dire – riflette l’editor – se non fosse stato il tardo pomeriggio di un 31 dicembre, e sua
moglie non lo stesse aspettando a casa per uscire. Avrebbe potuto dire che al di là degli interventi
e delle malizie tecniche per far sì che una macchina narrativa viaggi a peno regime, occorre essere
onesti e chiedersi molto semplicemente se ciò che si ha da dire ha le carte in regola per interessare
qualcun altro oltre a se stessi. Avrebbe potuto dirgli, alla Scott Fitzgerald, «il personaggio è azione»,
mentre questo gatto che fa, oltre a pedalare? Ma l’altro avrebbe senz’altro riposto «e Oblomov allora?!». E, in un certo senso, avrebbe avuto ragione lui.
Ecco perché l’editor, ora, appena salito in macchina, prima di mettere in moto, posa sul sedile accanto
il manoscritto copertinato di nero. S’è già fatto un’idea, ma lo leggerà, lo leggerà… Lo fa sempre.
Non si sa mai.
editoria
AGENTI LETTERARI:
di ELISABETTA BRICCA
La Trentin Zandeteschi Literary Agency, di
Rossano Trentin e Massimiliano Zandeteschi,
è una delle agenzie letterarie più giovani e grintose dell’attuale panorama letterario italiano.
Tanto che si è aggiudicata i diritti per l’Italia di uno dei casi letterari dell’anno:
“La casa per bambini speciali di Miss Peregrine” di Ransom Riggs, edito da Rizzoli.
Audacia, determinazione, e amore per il proprio lavoro. Tutto questo e molto altro,
si nasconde dietro il lavoro dei due agenti. ROSSANO TRENTIN, ad esempio, è uno
che non molla mai. Ma proprio mai.
SPEECHLESS LO HA INTERVISTATO PER VOI.
INTERVISTA
Speechless: Ciao Rossano e benvenuto nella nostra Webzine. Emozionato? (Scherzo!).
Rossano Trentin: Molto, ma ho il pregio di essere una persona fredda e calcolatrice. Riuscirò
a mascherare le mie emozioni! Scherzo anch’io naturalmente, in realtà trovo sempre stimolante e interessante parlare del mio lavoro. Magari sfatando qualcuno dei misteri che qui da
noi avvolgono ancora la mia professione.
S: La prima domanda è di rito: Perché hai scelto di fare l’agente? Hai fatto forse parte di quella
schiera di scrittori mancati?
R: Quello dell’agente letterario è un lavoro oltremodo complicato, che non si improvvisa. Occorre una grandissima preparazione, tanta pazienza, determinazione, e una buona dose di
aggressività. La passione per i libri e la scrittura è solo una delle variabili, il resto è istinto,
fiuto e DNA. Uno scrittore non potrebbe mai fare l’agente, semplicemente perché scrivere è
tutt’altra cosa.
S: Credi che la vostra agenzia – TZLA Literaty Agency – possa definirsi cross over oriented?
R: In questo momento senza dubbio: un’agenzia deve sapersi plasmare al mercato. Ma il nostro lavoro di scouting sulla narrativa più tradizionale continua, così come la ricerca di buoni
saggi. Lavorare sul cross over e sul genere, certo, è molto stimolante e ti permette di esplorare territori assolutamente affascinanti.
S: Due aggettivi per definire cosa distingue gli autori americani (e stranieri, in generale) da
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ROSSANO TRENTIN
quelli italiani.
R: Gli scrittori sono scrittori. Italiani o stranieri che siano. Con i loro pregi e i loro difetti. Le
buone idee e le insicurezze. Vanno ascoltati, capiti, assecondati ma anche messi di fronte alla
cruda realtà, quando necessario.
S: Quando ti arriva un manoscritto da valutare, cosa deve saltare subito agli occhi per far sì
che tu prenda l’autore in considerazione?
R: Lo stile prima di tutto. L’incipit e la capacità di trascinarmi dentro la storia, quella commistione tra magia e scorrevolezza di scrittura. Dalla scrittura non si prescinde, mai; sul resto c’è
sempre da lavorare sodo.
S: Un difetto degli esordienti?
R: Quanto spazio abbiamo? Francamente non saprei nemmeno da dove incominciare. Uno
su tutti: la fretta di pubblicare, tutto e a tutti i costi, a costo di firmare contratti di edizione al
limite della circonvenzione e pubblicare libri francamente brutti, magari pagando, e tanto, per
poi pentirsene quasi subito.
S: È così importante avere un agente per un autore? E se sì, perché?
R: È un obbligo all’estero, specie nei paesi anglosassoni, dove gli scrittori senza agente non
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editoria
INTERVISTA
vengono quasi nemmeno presi in considerazione. In Italia piano piano ci stiamo arrivando, anche se si fa ancora fatica a vedere l’agente come un “complice”, c’è ancora
questa convinzione che sia utile solo per essere presi in considerazione più in fretta
dagli editori, una sorta di “corriere espresso per manoscritti”, per capirci.
La presenza di un’agenzia è assolutamente indispensabile invece: quando si va a firmare un contratto di edizione, un vero contratto di edizione con delle condizioni vantaggiose e un buon anticipo; è importante per essere tutelati nel modo migliore possibile; per avere rendiconti chiari (e in tempi brevi) sulle vendite; per poter lavorare
con tranquillità. L’agente è una guida, e risolve i problemi.
S: Cosa sta cambiando nell’editoria italiana? Puoi farci una previsione personale
sull’immediato futuro?
R: Non ho la sfera di cristallo, magari potessi fare una previsione. Forse per la prima
volta c’è una vera apertura versi dei generi letterari fino ad oggi un poco snobbati,
questo sì, e un maggiore consapevolezza del potere del marketing e della promozione.
S: È vero o non è vero che gli autori italiani che scrivono genere fantastico stentano a
essere pubblicati? E che comunque il fantastico italiano soffre di ghettizzazione?
R: Non più, come dicevo negli ultimi mesi c’è grandissimo fermento attorno al genere
fantastico. Anche per il fantasy inteso nel senso più classico del termine. E finalmente
anche lo young adult incomincia ad avere una sua identità.
Se l’idea è realmente originale - sottolineo realmente originale - e ben orchestrata, se
i personaggio sono solidi e credibili, gli editori sono assolutamente disponibili a valutarla. Basta presentarla nel modo giusto, ma per questo ci siamo noi.
S: Ultima domanda: Quanto lavora Rossano Trentin e verso quali generi si orienterà la
vostra agenzia?
R: Rossano Trentin lavora troppo. Ma si diverte quasi sempre tantissimo. Per quanto
riguarda il futuro l’intenzione è quella di continuare a puntare su libri stranieri di grande qualità e lavorare su un gruppo affiatato e selezionato di scrittori e scrittrici italiani.
Ci piacerebbe dar maggior spazio all’illustrato e alle graphic novel e poi c’è un’idea
innovativa a cui io e Massimiliano Zantedeschi stiamo dedicando del tempo, ma è
ancora troppo presto per parlarne.
Un grazie di cuore per la tua disponibilità!
editoria
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di SERGIO BEVILACQUA
INTRODUZIONE
Sono felice di questo spazio che mi consentirà, nei mesi a venire, di trattare (per coloro che, “cadendo” nella Rete,
saranno “pescati” da questa rivista telematica) una serie di argomenti sul rapporto tra lettura e scrittura. Affronterò
il tema passo passo, in quanto è complesso ed è insidioso, per diversi motivi, tra cui:
• L’avvento dell’audiovisivo (radio prima, e poi cinema e televisione), che ha tolto ovunque alla lettura lo scettro
dell’intrattenimento principale umano;
• L’incedere della velocità a tutti i costi, che ha aperto la via all’abbandono della coltivazione dello spirito e della
fantasia quieta;
• La globalizzazione selvaggia nel mondo della cultura, che ha portato masse di umanità ad ascoltare testi
(musicati) in lingue che non capiscono, a leggere traduzioni mal fatte che parlano di argomenti distanti, a
emozionarsi per ambienti che nulla hanno a che fare con il proprio;
• La situazione dell’editoria in Italia, che è viziata da un cartello di case editrici asfissiante, portatore di strategie
opportunistiche e di orientamenti bugiardi, e che ha lasciato al lettore solo l’illusione della scelta;
• La verità filosofica della metafora baudelairiana dello scrittore come ‘albatros’, dalle grandi ali ottime per il
volo ma tanto d’intralcio per camminare per terra, che è particolarmente vera per lo scrittore italiano, privo di
contatto reale con i suoi lettori e senza alcuna guida da parte di editori degni di questo nome;
• Le nuove tecniche di lettura, che sono basate su strumenti tecnologici incompatibili con la condizione ideale e
unica della lettura di una letteratura artistica.
Buona lettura!
Prosciugate i mari, spianate le montagne!
Sia oscurato il sole.
Giù i centri storici.
Così, finalmente, distrutto il BEL Paese, gli italiani leggeranno di più.
Non sfoglieranno, soltanto, distrattamente, un libro sotto l’ombrellone. In spiaggia, oltretutto,
anche l’e-ink dei migliori lettori di e-book vacilla di fronte al solleone e, con orrore nostro,
l’oggetto ambìto rischia di insabbiarsi, peggio di Tex Willer (dell’italianissimo Bonelli, più
grande del vero Far West, alla stregua di Sergio Leone ed Ennio Morricone) nel deserto
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americano in Sangue Navajo.
Mica te la cavi con un bel soffio, come si è sempre fatto con l’umile, dolce libro che se ti cade
sorridi: se si bagna il “lettore di e-book”, salta un pezzo di tredicesima, e cospicuo.
Per avere cosa, poi, cari i miei lettori?
Lettori… che fastidio dover precisare che si tratta di “umani” e non di windowsiane, androidiane,
ipadiane creature tecnologiche.
Cari lettori umani, dicevo, ricordiamo insieme Blanchot: la letteratura è “infinito intrattenimento”.
Allora, va bene che siamo degli umanisti, e che io per primo gongolo a guardare nella mia
biblioteca il Grande Dizionario Italiano del Salvatore, Battaglia e anche un po’ della lingua
italiana, ma fino qui credo che in aritmetica ci arriviamo anche noi affabulatori: quanto fa
infinito per 1000? Sempre infinito.
Mi dite allora che senso ha tenere in tasca 1000 romanzi, che si sperano ottimi, nel vostro
Kindle quando ciascuno è un intrattenimento infinito, e lo diciamo noi che leggiamo davvero,
non bulimici o anoressici, bensì normali fruitori del buon prodotto letterario, nella sua profonda
sostanza?
Mille romanzi in tasca sono un delirio da consumisti beceri.
Un libro in tasca non si rompe e più di uno, ah che bello!, non ci sta. Un buon libro in tasca
è pur sempre l’infinito. Un libro in tasca è come un cane a casa, lui ti ama. Come il cane,
se cade non si rompe. Continua a guardarti e ad amarti anche quando l’hai finito. Sta lì
appoggiato in quiete, conservando le sue pagine tra cui hai volato nell’ovunque senza confini
della fantasia umana, la quale comincia proprio dietro l’angolo, dove la fisica della materia ci
dice nisba (come Cassola, lui sì!), cioè al 6 % (6 e non più 6, impossibile andare oltre, dicono
gli scienziati) del nostro anelito di conoscenza.
E allora, che gli italiani leggano di più…? Non vadano al mare in montagna al sole si
chiudano in casa in poltrona come se fuori ci fosse il freddo, la nebbia, la pioggia, la neve,
il nulla d’America o il poco d’oltralpe… Impossibile! Noi che lavoriamo sull’uomo per il suo
piacere di crescere, sappiamo che il suo piacere è però indispensabile.
Che gli italiani allora leggano MEGLIO. Cioè leggano chilometro zero. Leggano autori
italiani. Portati per mano da editori italiani. Che mostrano, sognano, raccontano quelle cose
italiane che il mondo ha sempre amato, invidiato e che “i cattivi” vorrebbero farci dimenticare.
Leggano utilizzando il libro di carta (ecosostenuta), perché è il palcoscenico dell’esperienza
letteraria, un intero teatro che ti porti in tasca. Un solo teatro, e buono!
Oppure, nessuno e centomila, che sono pirandellianamente circa lo stesso.
No! Noi non dimenticheremo nulla del nostro Bel Paese.
Manderemo la sua immagine, di bellezza e di storia, di complessità e di valore, in giro
per il mondo come è sempre stato in tutti i secoli, escluso questo infausto mezzo secolo di
colonizzazione subdola e, soprattutto, gli ultimi venti anni di abbandono.
E voi cosa ne pensate? Siete d’accordo?
Scriveteci la vostra opinione a: redazione@speechlessmagazine.com
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DIVAG A ZIO NI
SUL CONCETTO DI
TRASGRESSIONE
E SULL’ITALICO
DESTINO
di LENI REMEDIOS
Mi sono
sempre chiesta che cosa provassero quegli scienziati che, su apposite navicelle, vengono calati nel profondo degli abissi a scopi
esplorativi. Recentemente mi è capitato di vedere un documentario e studiavo con ansia e ardore gli occhi di coloro che dall’interno di
questo
cubicolo si trovavano avvolti dalle acque nere, separati da esse solamente grazie a uno spesso
strato di vetro. Mi chiedevo se anche lo scienziato dal sangue più freddo, quello a cui la mano non
trema mai, in una situazione simile non abbia anch’egli un sano guizzo di terrore. Ecco cosa cercavo nei suoi occhi. Forse anche a lui passa per la testa il dubbio che, nonostante le innumerevoli
prove di laboratorio, nonostante la fede granitica verso madre scienza, prima o poi quel vetro multitestato si crepi. E che quelle adorabili creature – mostri dotati di denti affilati e corpi fluorescenti
– si accaniscano finalmente contro l’umano invasore. Come osi, tu, varcare la soglia e penetrare
nel nostro mondo? Quelle terrificanti bestioline che da bambina osservavo con autentico orrore –
e una buona dose di eccitazione – nel primo volume dell’enciclopedia illustrata di famiglia, sotto
la voce abissi, creature degli.
Mi sono chiesta anche: c’è un momento in cui il suddetto esploratore, una volta superata l’ebbrezza del momento, venga colto dallo spasimo di tornare subito in superficie? Un improvviso, folle
anelito a tornare al sicuro: far schizzare la navicella come una scheggia impazzita, fuggire dalle
acque nere, via verso la luce.
La saggezza popolare dice che per riprendere a salire bisogna prima aver toccato il fondo. Ma
quand’è che il fondo è fondo?
Mi dicono che la nave da crociera si muove, fra un po’ potrebbe sprofondare negli abissi. Quelli
veri, fuor di metafora.
E se rimanessimo nella metafora?
Noi siam gente di lettere, abbiamo radici in terra e testa fra le nuvole, raccogliamo vibrazioni e le
trasformiamo in pensieri. Le analisi giornalistiche, sociologiche etc etc le lasciamo volentieri ad
altri, a chi le sa fare.
In molti mi dicono anche un’altra cosa: che la nave da crociera, cosí paurosamente inclinata sulle
acque, quasi una triste colossale creatura agonizzante che invoca pietá, sia la perfetta metafora
- un’altra - del nostro paese.
Il nostro paese. Il mio paese. Da emigrata sospiro tristemente a guardarlo affondare, declassare,
impoverire. Quanti verbi consumati nel tritacarte mediatico.
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attualità
Ma l’affondamento-inabissamento non è certo iniziato
l’altro ieri. Le piaghe innumerevoli dell’italico stivale sono appunto innumerevoli e hanno radici profonde.
Non sta a noi analizzarle tutte.
Quel che ci preme è quel che si respira nell’aria, quel che sentono e soffrono i singoli,
le palpitazioni.
Parto da un esempio di cultura giovanile, che cosí spesso è uno specchio dei tempi.
A fine anni settanta, qui nel Regno Unito, in tutto il paese imperversava l’urlo impertinente del
punk. “I am an antichrist, I am an anarchist” urlava nel microfono Johnny Rotten, Sex Pistols.
Era acerbo, era disordinato, ma diceva qualcosa: da una parte c’erano quel che si chiamano le
istituzioni, le regole, le cosiddette autoritá costituite. Dall’altra una grande voglia di rompere
quelle regole, guidati da una forte, per quanto sommaria, volontá di cambiamento; in una parola:
trasgredire.
Un ipotetico Johnny Rotten italico dei nostri giorni (lo so, mettetevi pure a ridere) cosa avrebbe
da dire?
Facciamo ordine.
Trasgredire: dal latino transgredior, andare oltre.
Ora, il discorso è molto semplice: trasgredire vuol dire andare oltre, oltrepassare i confini.
Se tu non hai più confini, non c’è più trasgressione. E nemmeno il gusto di trasgredire, quello che
animava i suddetti punk. Rimane solo il dis-gusto.
Tutto perde di appetibilità. Ma questo è solo un corno del problema.
Tutto prende una patina di pericolositá.
Tutto è permesso e permissibile. Ogni azione, ogni pensiero.
Lí dove non ci sono limiti e suddivisioni di alcun tipo, non c’è più qualcosa di maggiormente importante, di prioritario rispetto ad altro.
Tutto è edulcorato in questa nebbia di permessibilitá.
La mente umana e l’animo umano hanno molte pericolose predisposizioni. Una di queste è il fatto
di abituarsi a tutto, il che non è necessariamente un male: ma la mente umana, dicevo, si abitua,
gradualmente o meno, proprio a tutto, anche all’indicibile. Nel processo di edulcorazione, in cui la
nebbia avvolge i nostri cervelli e il nostro sentire, presto si giunge ad un altro livello, quello della
saturazione. Di fronte alle follie o alle vere e proprie efferatezze umane dapprima compare un sussulto di indignazione poi, complice il silenzio del resto della compagine umana e il reiterarsi continuo di quelle efferatezze o banali follie quotidiane, il moto indignatorio si affievolisce e si comincia
a percepire una sorta di abitudine. Lo sanno bene coloro che hanno indirettamente appoggiato
le dittature nazi-fasciste, riparatisi più o meno consciamente dietro il paravento della mera esecuzione degli ordini. Lo sanno bene, andando a un esempio completamente diverso, gli spetattori
televisivi italiani, che hanno assistito negli ultimi venti o trent’anni un graduale imbarbarimento
del linguaggio televisivo, dove in particolare ci si è “abituati” al regolare uso della figura femminile
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come mero, muto richiamo sessuale, fino al punto di non suscitare più scalpore.
Aggiungiamo un livello ulteriore.
Alla progressiva abitudine, saturazione e spegnimento degli ultimi residui di capacitá critiche si
aggiunga pure il completo rovesciamento del valore: cioè, quel che prima veniva chiaramente
individuato come oltrepassamento del limite, l’esempio negativo da evitare, viene assurto a modello. Esattamente come la punta estrema dell’iceberg che sta sotto acqua, negli abissi, tanto
per tornare alla metafora. Come se una mano gigantesca avesse afferrato l’iceberg e l’avesse
rovesciato.
Di fronte alla ragazza seminuda che ancheggia dinanzi alle telecamere nelle ore
preserali, non è indignazione il sentimento prevalente, nè rabbia nè tantomeno – alè! – un sussulto di dignitá: è l’ammirazione, la volontá di
emulazione, la consapevolezza che quella donna lí ce l’ha fatta
e quindi devo fare anch’io allo stesso modo. Di fronte a
un’alta carica dello stato che ha conquistato e si mantiene la posizione grazie a furberie e/o ladronerie,
l’emozione principe è l’invidia e, di nuovo, l’ammirazione. Senza vergogna alcuna.
Ma cosa è successo?
I bambini hanno un bisogno vitale di
avere dei limiti: checchè ne pensino
i sostenitori delle linee educative
più lassiste, il bambino ha bisogno della regola e dell’autoritá .
Quando compaiono i primi episodi di aggressivitá nei bimbi, ti insegnano a insegnar loro (eh sí, non ci s’improvvisa educatori!) a non
fare di testa propria: se subiscono un torto da parte di un compagno,
che sia un calcio o una botta, non devono replicare indietro, bensí devono imparare ad andare dall’insegnante e comunicare a lei/lui cosa è
successo. Questo si chiama rimettersi nelle mani dell’autoritá. Perfetto.
Ma che succede se il torto subito viene impartito dall’autoritá stessa? Che
succede se la comunitá fornisce, nei suoi membri rappresentativi, modelli di
“rottura delle regole”? Che succede se lo stato con una mano protegge i privilegi
della sua casta e con l’altra perseguita o abbandona, a seconda del caso, i suoi più
onesti cittadini, quelli che attoniti vedono l’iceberg rovesciarsi? Mamma, da chi vado
io se è la maestra a darmi un calcio nel sedere?
32 Nella tragica vicenda, “che purtroppo ben simboleggia il nostro paese”, c’è un dato
rilevante da sottolineare: il fatto che tutti, dico tutti, abbiano pensato alla stessa metafora, indica che c’è un comune sentire. C’è quindi una consapevolezza dell’affondamento. E quindi? Detto questo, perseveriamo, con la nostra folle abitudine mentale, a
sfiorare coste, a intraprendere percorsi non autorizzati, a far sfoggia del nostro oltrepassare le regole, nel pressapochismo che tanto ci contraddistingue, sull’onda del “non
si potrebbe fare, peró...”?
C’è’ un sano rigurgito, una spinta feroce e istintiva a venir via dal nero abisso, verso la
luce?
attualità
In un’epoca e societá come quella nostra, dove tutto è trasgressione e quindi nulla lo è, dove
l’anarchia (non nel senso storico del termine, ma in senso di assenza di regole) è la regola summa,
non è che la vera trasgressione è quella di volere, pretendere, dei limiti?
Il paradosso più eclatante, nel parossismo lassista dei nostri tempi, è che il vero trasgressivo è
quello che vuole le
regole.
Mi par di capire che i giovani italiani di oggi, molto
lontano dai punk inglesi o anche italiani degli anni
’70, abbiano una gran voglia di stabilitá. Altro che
destabilizzare, a sovvertire le regole non servono i
punk, “bastano” i vari gangli di potere (non solo politico) sparsi nella società.
Chiedono sicurezza per il proprio futuro. Chiedono di
emergere dalle nebbie, chiedono che ci siano dei percorsi
rispettati e che li rispettino tutti, per primo chi le regole le fa.
Chiedono di poter lavorare sui propri progetti, dopo aver speso
anni in fatica e formazione. Etc etc, l’elenco sarebbe ancora lungo.
Io lo so che queste persone ci sono: sono quelle che ancora si indignano, che ancora lottano per un grammo di giustizia, personale o collettiva.
Ma la maggior parte di loro son sole e lo stupore di fronte all’iceberg rovesciato si è tramutato in gelida, triste rassegnazione. L’autoritá costituita si è
tramutata in caotica, sfacciata anarchia costituita e i singoli si piegano inevitabilmente nel loro solipsismo, nel timore forse che una lotta solitaria contro il
mostro di ghiaccio porti alla follia, come tanti novelli Don Chisciotte.
Mi dicono anche che stia iniziando un sussulto, che più di qualcuno stia tentando
di uscire dal proprio guscio di disperato, rassegnato solipsismo .
Ma quante generazioni occorreranno per sovvertire questo gigantesco dramma culturale? Non mi
preoccupano tanto le condizioni economiche del paese, quanto la famosa deriva culturale che ci sta alla
base. Come fai ad estirpare in poco tempo abitudini, pensieri, comportamenti che sono entrati come virus nelle nostre
menti? Quale tremendo sforzo bisogna fare?
Io mi occupo di letteratura gotica e affini, sono avvezza a sentimenti e sensazioni come paura, orrore, senso di incertezza. Noi scribacchini di storie siamo
ben consapevoli che la vita reale è la fonte primaria e insuperabile di ogni tipo di orrore e di
follia. I brividi più grandi li ho nel vedere la nave sul ciglio dell’orrido. Pronta per una lenta, inesorabile discesa nell’abisso, in un perpetrarsi interminabile della metafora.
Vorrei avere una smentita, la anelo. Vorrei qualcuno che mi contraddicesse,
in maniera veemente ed appassionata. Vorrei vedere l’esploratore risalire
sereno in superficie, dopo essere stato negli abissi.
33
fantasy
di GIULIA MARENGO
vivere e morire
a King’s Landing
A GAME OF THRONES
LIBRO PRIMO DE LE CRONACHE DEL GHIACCIO E DEL FUOCO
Era il 1996 quando George R. R. Martin esordì
nelle librerie con il romanzo A Game of Thrones, il
primo capitolo di una saga destinata a cambiare per
sempre la storia del fantasy.
E di certo non avrebbe potuto immaginare che
diciotto anni più tardi il volume sarebbe stato ancora in cima a tutte le classifiche di bestseller al mondo. Un risultato, per un libro fantasy, che nessuno
avrebbe potuto prevedere, e che riempie i cuori degli appassionati – e degli autori stessi – di speranza.
Eppure, Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco
(A Song of Ice and Fire) non è la saga cui ci hanno abituati Robert Jordan o Terry Goodkind, volumi
dove a farla da padrone sono i viaggi e la ricerca di
qualcosa – un manufatto, un potere – destinato a
risolvere la situazione e consegnare la vittoria nelle
mani dei protagonisti. Le Cronache di Martin sono
molto di più.
Palpitanti di magia e portenti, percorse da una
corrente sotterranea di potere, ambizione, desiderio di conquista. Ambientate in un continente dove
le stagioni durano anni, e un oscuro nemico minaccia le piccole vite di quegli uomini che stolti si affannano a strapparsi terre e onori, e la stessa vita,
ciechi al pericolo che grava su tutti loro.
A Game of Thrones è il primo volume di una serie che in lingua originale comprende sei volumi già
scritti e altri tre, presumibilmente, ancora in fieri. E
sebbene l’autore abbia abituato i lettori a lunghe attese fra un romanzo e l’altro – a volte anche di anni
«Cos’è l’onore, confrontato
con l’amore di una donna?
Cos’è il dovere, di fronte
alla sensazione del tuo figlio
neonato fra le braccia... o
il ricordo del sorriso di un
fratello? Vento e parole. Vento
e parole. Siamo soltanto
umani, e gli dei ci hanno
modellati per l’amore. Questa
è la nostra gloria più grande, e
la nostra più grande tragedia».
(Game of Thrones, G.R.R. Martin)
34
35
–, l’aspettativa è così alta per ogni
nuovo capitolo da trasformare
l’evento in un avvenimento epocale, tale da essere paragonabile all’ansia che soleva precedere
l’uscita di ciascun Harry Potter.
È difficile, se non impossibile, descrivere in poche righe che
cosa, esattamente, renda l’universo creato da Martin così affascinante.
Immaginiamo un mondo
complesso popolato da genti da
mille diverse culture ma legato
strettamente da una storia millenaria. Un continente, Westeros,
dove la magia sta svanendo, e dei
draghi leggendari che un tempo
solcavano i cieli è rimasta soltanto la polvere delle leggende. Una
terra minacciata da creature di
ghiaccio e di morte, tenute lontane solo dal coraggio di uomini
consacrati al dovere che mettono ogni giorno
a repentaglio la propria vita difendendo con il
sangue l’ultimo baluardo della civiltà.
Un mondo dove sedere sul trono è tutto,
e dove niente – nemmeno la famiglia, o l’onore
– divide il regno dalle dita avide dei suoi pretendenti.
A Game of Thrones si apre nelle fredde lande oltre la Barriera, dove ombre oscure attendono il giorno in cui i Sette Regni saranno messi a
ferro e fuoco.
Ma l’abilità di Martin ci riconduce presto a
Winterfell (“Grande Inverno”, in italiano), il castello da cui Eddard “Ned” Stark difende il Nord,
su ordine del re Robert Baratheon.
Ned è un padre di famiglia, e nello stesso
giorno in cui giunge notizia che il re, accompagnato dall’algida regina Cersei e dal gemello di
lei Jaime Lannister, sta giungendo a Winterfell
per una visita; il figlio bastardo di Ned, Jon Snow,
si imbatte in una cucciolata di metalupi. Molto
più feroci e possenti dei lupi tradizionali, i metalupi sono creature leggendarie e, sorprenden-
fantasy
temente, vi è un cucciolo per ciascun ragazzo Stark. Anche per John, che da quel
momento sarà seguito ovunque da Ghost:
il cucciolo albino dagli occhi di sangue.
Ned Stark ancora non sa che il re
giunge con una proposta. Quella di raggiungerlo a King’s Landing, la capitale, e
diventare Hand of the King, la Mano del
Re, ovvero il cancelliere del reame. È una
richiesta, quella di Robert, che Ned accoglie con cuore pesante: insieme a essa,
arriva la notizia della morte misteriosa di
John Arryn, la precedente Mano del Re,
che per i due vecchi amici ha rivestito da
sempre il ruolo di padre.
Nubi minacciose si addensano sulla
36
famiglia Stark, rese ancora più terribili da
minacce e segreti sconvolgenti, che alcuni
per nascondere sarebbero anche disposti
a uccidere. Non a caso, il motto degli Stark
è “Winter is coming”: “l’inverno sta arrivando”. E così, vicino alla Barriera, la notte
è oscura e piena di terrore.
Dall’altra parte del continente, la giovane Daenerys Stormborn (“Nata dalla
tempesta”) ultima discendente della dinastia dei Targaryen sta per andare in sposa al possente khal Drogo, capo supremo
di una tribù di migliaia di guerrieri feroci.
L’ultimo re Targaryen, Aerys il Folle, padre
della fanciulla, è stato spodestato e ucciso
nella rivolta che ha posto Robert Barathe-
on sul Trono di Spade. E ora Daenerys brama il
suo regno e la sua vendetta.
George R.R. Martin ci immerge in una terra in cui sangue, odio, vendetta si intrecciano a
intrighi e omicidi efferati. Il clangore delle lame
e le grida della battaglia si mescolano al fruscio
serico delle vesti delle dame, fra le cui pieghe si
nascondono stiletti d’acciaio di Valyria e volontà
altrettanto ferree.
L’affresco è complesso e multicolore, così
ammaliante proprio perché tra le pagine troviamo coraggio e sacrificio, ambiguità e mistero.
La scelta di Martin di dedicare ciascun capitolo al punto di vista di un diverso personaggio
si rivela vincente per la straordinaria capacità
di tratteggiare figure vibranti nella loro unicità.
37
Eddard Stark
Tyrion Lannister
fantasy
Niente personaggi piatti. Ciascuno di essi
si porta sulle spalle il proprio fardello fatto di sofferenze, rimpianti e delusioni. E
tutti sono ricchi di contraddizioni perché,
come le persone reali, risplendono delle
sfaccettature contrastanti che li rendono
tanto vivi.
Eddard Stark è un uomo d’onore, è
vero, eppure per quell’onore è disposto
a sacrificare la sua felicità e i suoi affetti.
Non scende a compromessi con la propria
coscienza, e questo è il suo maggior limite.
Jaime Lannister è orgoglioso, ed egoista, ma anche la sua crudeltà è motivata
dal desiderio di proteggere, in un modo
distorto e oscuro, coloro che ama.
Su tutti emergono l’acume e lo scanzonato umorismo di Tyrion Lannister, il
fratello, nano e deforme, di Cersei e Jaime. È il lato corroso della scintillante aura
dorata dei gemelli; tuttavia si eleva più
38
alto di loro per la sua rutilante, sfrontata,
commovente, feroce umanità. Ed è anche
difficile identificare i personaggi secondari, proprio perché ognuno di essi, anche il
più umile, brilla con una tale forza abbagliante da essere sempre protagonista.
A Game of Thrones è l’emozionante prologo a una folle corsa in un mondo
dove la morte è sempre in agguato, e il
coraggio e l’onore raramente vengono
ricompensati. La politica e i maneggi di
potere nulla possono contro la sensazione che da qualche parte, negli angoli più
remoti di Westeros, la magia si sta risvegliando, e che portenti misteriosi si preparano a piombare sulle vite ignare di coloro che sono troppo distratti dalle proprie
meschine ambizioni da accorgersi di un
pericolo ben più grande.
L’autore lascia, deliberatamente,
molti nodi narrativi irrisolti, e solo alcuni
di essi troveranno spiegazione nei volumi seguenti. Altri interrogativi - “chi sono
EDIZIONI ITALIANE
> Il Trono di Spade (Mondadori, 1999)
> Il grande inverno (Mondadori, 2000)
> Il regno dei lupi (Mondadori, 2001)
> La regina dei draghi (Mondadori, 2001)
> Tempesta di spade (Mondadori, 2002)
> I fiumi della guerra (Mondadori, 2002)
> Il Portale delle Tenebre (Mondadori, 2003)
> Il dominio della regina (Mondadori, 2006)
> L’ombra della profezia (Mondadori, 2007)
> I guerrieri del ghiaccio (Mondadori, 2011)
Nel 2011 Mondadori, in concomitanza con l’uscita
della serie tv, ha deciso di raccogliere i volumi
in due nuove edizioni, che rispettano con più
accuratezza quelle originali.
CURIOSITÀ
I MOTTI DELLE FAMIGLIE NOBILI DEI SETTE REGNI
Ciascuna delle nobili case dei Sette Regni reca con orgoglio un
motto.
Eccone alcuni:
Casa Stark: “Winter is coming (L’inverno sta arrivando)”
Casa Tully: “Family, duty, honor (Famiglia, dovere, onore)”
Casa Baratheon: “Our is the fury (Nostra è la furia)”
Casa Lannister: “Hear me roar (Udite il mio ruggito)”
Casa Arryn: “As high as honor (In alto quanto l’onore)”
Casa Martell: “Unbowed, unbent, unbroken (Mai inchinati, mai
piegati, mai spezzati)”
Casa Tyrell: “Growing strong (Cresciamo forti)”
Casa Targaryen: “Fire and blood (Fuoco e sangue)”
Casa Greyjoy: “We do not sow (Noi non seminiamo)”
le tre teste del drago?”, “di
chi è figlio realmente Jon
Snow?” - attanagliano i fans
da quasi vent’anni, e il dubbio ha dato vita ad appassionanti speculazioni in giro per
la rete, dove fioriscono i siti
web dedicati alle Cronache
del Ghiaccio e del Fuoco.
George R.R. Martin è
riuscito a infondere la vita
nelle sue pagine, quella vera,
dove il lieto fine non è mai scontato, e forse mai ci sarà. Martin, però, è anche un uomo
saggio perché sa quanta parte di quella vita, la nostra, sia intessuta di mondi fantastici.
«Il migliore fantasy è scritto nel linguaggio dei sogni. È vivo come lo sono i sogni,
più vero della realtà... per un momento, almeno... quel lungo, magico momento prima
del risveglio».
CITAZIONI
«Mai dimenticare chi sei, perché di certo il mondo non lo dimenticherà. Trasforma chi sei nella
tua forza, così non potrà mai essere la tua debolezza. Fanne un’armatura, e non potrà mai
essere usata contro di te»
(Tyrion Lannister)
«Udite le mie parole, siate testimoni del mio giuramento. Cala la notte, e la mia guardia ha
inizio. Non si concluderà fino alla mia morte. Io non avrò moglie, non possiederò terra, non
sarò padre di figli. Non porterò corona e non vorrò gloria. Io vivrò al mio posto, e al mio posto
morirò. Io sono la spada delle tenebre. Io sono la sentinella che veglia sul muro. Io sono il
fuoco che arde contro il freddo, la luce che porta l’alba, il corno che risveglia i dormienti, lo
scudo che veglia sui domini degli uomini. Io consacro la mia vita e il mio onore ai Guardiani
della Notte. Per questa notte e per tutte le notti a venire»
(Giuramento della Night’s Watch – Guardiani della Notte)
«Un uomo può ancora essere coraggioso, anche se ha paura?»
«È l’unico momento in cui un uomo può essere coraggioso»
(Brandon ed Eddard Stark)
«Sulla terra non c’è creatura così terrificante che un uomo veramente giusto»
(Lord Varys)
fantasy
«Si tratta di una storia fantasy che sfida le
aspettative, per cristallizzarsi infine in unmondo
scomodamente simile a quello in cui viviamo,
più che a quello verso cui vorremo fuggire.»
I Soprano nella Terra di Mezzo.
Questo il sunto del produttore David Benjoff
della serie TV tratta dal capolavoro di George R.R.
Martin, riferendosi probabilmente alla trama densa
(Adam Serwer, The American Prospect)
di intrighi e alle ambientazioni fantasy di bellezza
struggente.
Non è difficile immaginare l’esultanza degli appassionati, quando, già anni orsono, trapelarono
le prime indiscrezioni su una serie tv ispirata alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. Quando la
HBO ha dato l’annuncio ufficiale, il fandom è letteralmente impazzito di gioia.
La serie ha esordito sul panorama statunitense il 17 Aprile 2011. La puntata pilota ha riscosso
un tale successo che la seconda serie è stata opzionata appena due giorni dopo. Ciascuna serie conterà dieci episodi, e coprirà interamente
uno dei volumi delle Cronache.
La narrazione è
estremamente fedele al
testo di Martin, anche grazie alla partecipazione dell’autore.
A differenza di altre produzioni tratte da opere fantasy, infatti, lo scrittore non solo non
è stato estromesso dalla sceneggiatura, ma ha anche firmato per poter scrivere di suo pugno il testo
di almeno una puntata a stagione.
Grazie a un budget milionario (si mormora di 60 milioni di dollari), la serie offre allo sguardo dello
spettatore i colori vivaci di un mondo lontano, quello di Westeros, ricostruito seguendo alla lettera
la fantasia di George R.R. Martin in location suggestive disseminate fra Malta, Scozia, Marocco e
Irlanda del Nord.
La produzione è accurata al punto tale da offrire all’orecchio dello spettatore idiomi sconosciuti, come quello dei Dothraki, creato ad hoc con tanto di lessico e grammatica dalla Language Creation
Society.
Non si è davvero badato a spese. Tant’è che A Game of Thrones non ha nulla da invidiare per
40
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sonoro e scenografie a produzioni cinematografiche milionarie come Il Signore degli Anelli.
E, naturalmente, è stato chiamato a calcare le scene un un cast d’eccezione. Sulle scene, infatti,
si avvicendano attori del calibro di Sean Bean che dismessi i panni di Boromir di Gondor , entra con
facilità in quelli di Eddard Stark. Oppure Iain Glen, già attore di teatro, che offre il volto e uno sguardo
tormentato a Ser Jorah Mormont. E che dire Peter Dinklage, sfavillante nelle vesti di Tyrion Lannister?
Si è portato a casa l’Emmy per il migliore attore non protagonista, e mai onorificenza fu più meritata.
Particolare attenzione è stata posta sulle figure femminili. Lontane da essere semplicemente
personaggi comprimari, le donne nella serie rivestono un ruolo di spicco, lasciando da parte le graziose movenze in favore di acume, spregiudicatezza, e volontà d’acciaio.
E se talora gli appassionati potrebbero storcere il naso nel vedere alcuni dei protagonisti invecchiati di qualche anno, per obbedire ai regolamenti relativi alle ore che i minori possono trascorrere
sul set; se certi personaggi sono risultati vagamente snaturati – in particolare la figura di Renly Baratheon, il fratello del re Robert –, ne ha guadagnato probabilmente la maggiore comprensibilità della
trama, per quegli spettatori che si sono avvicinati ai Sette Regni grazie alla serie.
Per poter adattare la storia al piccolo schermo si sono resi necessari numerosi adattamenti, che
talora hanno richiesto sacrifici: personaggi dal ruolo ridotto, o eliminato; scene appena accennate, e
non mostrate nella loro dettagliata interezza.
La critica ha acclamato la prima stagione di A Game of Thrones all’unanimità, definendola uno
specchio che costringe lo spettatore a riconoscere che, a dispetto dell’ambientazione fantasy, la
malvagità esiste, e che la vita richiede una lotta continua contro il fato e l’oscurità.
Ed è per questo che è facile identificarsi con il dolore e il trionfo, alternativamente, che percorrono la narrazione, rica-
mata con
mano esperta grazie ai consigli del suo stesso autore.
Quello che resta, tuttavia, è un rincorrersi di immagini e situazioni dall’atmosfera epica che fanno battere il cuore. A
Game of Thrones riesce a risucchiare lo spettatore in un turbine di sensazioni
che spaziano: dal desiderio spezzato di libertà di Bran, all’ambizione sfrenata di Cersei, alla sorda
ribellione che cova nel cuore della piccola Arya.
Fra lo squillare delle trombe dei tornei e il clangore delle spade, fra i sussurri e i bisbigli che
si rincorrono nei sotterranei delle fortezze, solo un capriccio del destino separa i protagonisti dalla
vita... o dalla morte.
fantasy
Rubrica a cura di MIRIAM MASTROVITO
I romanzi di genere fantastico, molto spesso, sono ‘biglietti’ che ci consentono di viaggiare alla scoperta di nuovi mondi: terre sconosciute, dimensioni parallele, città incantate si annidano tra le pagine, attendendo solo di
essere esplorate.
Questa rubrica intende proporre un possibile itinerario nei luoghi dell’immaginario, attraverso la lettura di alcuni libri che hanno il potere di trasportarci altrove. Pronti per l’avventura? Allora slacciate le cinture di sicurezza,
si parte!
Prima destinazione: l’Illinois degli ’70. Precisamente siamo diretti in un
paesino chiamato Prairie Bluff. In una radura – confinante con una foresta
rigogliosa – si erge un piccolo Bed&Breakfast. All’apparenza un comune
luogo di ristoro. Una semplice sbirciatina all’interno basterà, però, a farci
capire che si tratta di un posto davvero fuori dall’ordinario.
La proprietaria Anne Marie Entwhistle accoglie, infatti, clienti molto particolari. Non si sa da dove vengano, né perché capitino proprio lì. Si presentano come donne comuni, abbigliate secondo la moda del tempo. Eppure,
i loro nomi hanno qualcosa di familiare e un rapido scambio di battute è
sufficiente a dissipare qualsiasi dubbio sulla loro identità. Rossella O’Hara,
Madame Bovary, Franny Glass, Blanche DuBois, sono tutte eroine saltate
fuori dalle pagine di romanzi famosi. Ciascuna di loro si trova a un punto cruciale della sua storia e ha bisogno di conforto, prima di sparire così
come si è materializzata.
Anne Marie si mostra sempre discreta, offre: tè, comprensione e biancheria pulita, badando bene a non rivelare mai le informazioni di cui è in
possesso, avendo letto i libri. Interferire con il destino delle protagoniste potrebbe essere, infatti, pericoloso.
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Sua figlia Penny – di soli tredici anni –, conosce bene questa
regola. Così come quella di non
recarsi mai nel bosco ai margini
della prateria. Giacché nel bosco, si sa, si possono fare cattivi
incontri.
Infrangere le regole, però,
è nel DNA delle ragazzine vivaci e Penny non fa eccezione.
Potremo, così, seguirla durante
un’escursione notturna in quel
luogo proibito e restare senza
fiato nel ritrovarci al cospetto di
un vero re irlandese con tanto di
spada e cavallo.
Chi è quell’uomo? È il cattivo di qualche storia dimenticata? Quali misteri cela davvero il
bosco?
Per scoprirlo, dovremo addentrarci in un territorio che – per
sua natura – rievoca la magia
delle favole e, nel contempo, incarna le nostre paure ancestrali.
Una dimensione in cui possono
celarsi pericoli ma che può rivelarsi anche una via di fuga da
certi orrori della nostra realtà.
Quando Penny verrà ritrovata e rinchiusa nell’Unità – un
manicomio minorile –, avremo
occasione di esplorare una prigione al cospetto della quale il
bosco ci apparirà più rassicurante.
A quel punto, il nostro viaggio assumerà i contorni di un percorso simbolico che ci indurrà a
interrogarci sui limiti dei comuni
schemi di pensiero. Giacché la negazione dell’incomprensibile – in nome
di una razionalità che vuol prevalere a
tutti i costi – può trasformarsi, a volte, in
una minaccia alla nostra stessa libertà.
Non mancheranno, inoltre, occasioni
per brevi soste nel misterioso universo
della complessa psicologia femminile.
Se
desiderate
approfondire
o,semplicemente, tornare a visitare
i luoghi protagonisti di questa breve
escursione non vi resta che immergervi nella lettura de Il bosco delle storie
perdute di Eileen Favorite (Elliot Edizioni). Un romanzo in cui i sogni sono
tangibili.
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LARA MANNI
di STEFANIA AUCI
La bambina nera
Dal 17 febbraio è disponibile il nuovo romanzo
scritto da Lara Manni: Tanit, edito da Fazi Editore.
Tanit è il capitolo conclusivo della trilogia iniziata
con Esbat e proseguita con Sopdet.
Tanit giunge in un momento particolare del
fantasy italiano: una fase di crisi in cui il fantastico
made in Italy non ha ancora compreso se sia più conveniente arenarsi lungo le spiagge del paranormal di
marca statunitense o se, invece, non sia grande e
forte abbastanza da poter camminare sulle proprie
gambe per cercare strade nuove e insolite.
Titolo: Tanit - La Bambina Nera
Autore: Lara Manni
Editore: Fazi - Collana Lain
Data di pubblicazione: 17 Febbraio
Tanit – e la trilogia completa della Manni – diPagine: 370
mostra che un altro fantastico è possibile. In Italia
ISBN: 9788876251139
vi è, sicuramente, poco coraggio da parte degli ediPrezzo: € 16,00
tori: ciò che non rientra nel mainstream è guardato
con sospetto, accettato soltanto se porta una firma
anglosassone, poiché già “rodato”. Gli editori – pochi – che investono sulle firme italiane di fantastico
lo fanno perché motivati dalla bontà del testo o per
l’appeal della storia. Sotto quest’aspetto la trilogia si
segnala come una delle saghe più interessanti e originali degli ultimi anni.
L’universo letterario scaturito dall’immaginazione dell’autrice ha una fisionomia peculiare, in cui gli umani – solo alcuni – sono in grado di comunicare con la dimensione dei
demoni, e nel quale la fantasia diviene tangibile e pericolosa. Due sono i personaggi essenziali tra i demoni: Yobai e Hyoutsuki. Accanto a loro una dea, la Signora del Caos, dotata
di molti nomi. Per tutti, uno: Axeiros.
Tra gli umani, solo alcuni sono in grado di aprire le porte di un mondo parallelo al
nostro, popolato da creature magiche e pericolose: Tolkien, Poe, Lovecraft, e poi ancora
i residenti di Villa Diodati, dove nacquero Frankenstein e Il Vampiro di Polidori, fino a
giungere a Stephen King. Artisti, soprattutto scrittori, che con la loro immaginazione sono
in grado di mettere in contatto le diverse dimensioni, poiché possiedono una “chiave”, la capacità di immaginare e narrare le storie, che mette in contatto il mondo degli dei con quello
degli uomini. E come loro è Ivy, un’adolescente che lotta disperatamente per trovare il proprio posto nel mosaico dell’esistenza e, nello stesso tempo, per mantenere viva e pulsante
l’energia che le permette di vivere guardando oltre i confini del mondo che gli altri esseri
umani conoscono. La sua chiave di lettura è la fantasia.
In Tanit, la scacchiera in cui i personaggi hanno agito è a un punto di rottura. Axeiros
fantasy
di Tolkien e di Poe) rendono Tanit una vera
delizia per gli amanti del genere.
Da Amleto a Stephen King, il lettore
viene trasportato in un universo che poco
ha a che fare con la produzione letteraria
fantastica che, per adesso, affolla gli scaffali delle librerie. È un romanzo per un
pubblico adulto: non per scene di sesso e di
violenza, quanto per la ricchezza e la profondità dei contenuti, poco frequenti negli
urban fantasy cui il pubblico giovane e non
si è assuefatto.
L’autrice si è concentrata sulla resa
psicologica dei personaggi, mettendo da
parte i facili sensazionalismi legati a una
protagonista adolescente per creare, invece, il ritratto di una ragazza tormentata da
quello che per lei è un dono e una maledizione, che le ha regalato un amore che non
è di questo mondo.
è pronta a tutto pur di proteggere se stessa e il suo mondo, persino a devastare la
vita di una donna che ha subito il dolore più
atroce, ossia la perdita della figlia. Ivy tenta di ritrovare un equilibrio psicologico che
pare lontanissimo. E accanto a lei, fanno la
loro comparsa Brizio e Nadia: figure ambigue, che avranno un ruolo fondamentale
nel futuro della ragazza.
Dal Giappone all’Italia, da Venezia a
Roma, l’ambientazione è realistica, dotata
di un fascino sottile. Il volume è intriso di
cultura fantastica che pesca sia nei classici del genere che nella televisione, ossia
in quell’immaginario collettivo che è parte
della cultura occidentale. Tanit è un libro
complesso, ricco di riferimenti letterari, musicali, artistici. Non si tratta di una mera
dimostrazione di bravura o di cultura fine
a se stessa. Non vi è autocompiacimento
quanto, piuttosto, la ricerca che è insieme
un omaggio alla grande narrativa di genere.
È un tessuto narrativo curato nei minimi
dettagli. I particolari ricercati, l’inserimento
di elementi legati alla grande tradizione del
romanzo horror e fantastico (come nel caso
Ma Tanit è anche – e soprattutto – un
libro sulla genitorialità. In questo romanzo
doloroso e dalle tinte livide si parla di madri
che perdono i propri figli e di madri che li
rifiutano, di una ricerca di amore che è insita negli esseri umani. In una certa misura,
quest’affetto totalmente gratuito può esser
dato solo a se stessi: cosa ancor più forte e
vera nel caso della donna e della maternità.
Il figlio è qualcosa che una donna nutre e
porta dentro, un riflesso della propria persona e, per questo motivo, il momento del
parto viene vissuto come una separazione.
Un lutto.
La paternità, invece, è vissuta come
trasmissione dei valori e degli affetti. Di
quel patrimonio di conoscenza che rende un essere (umano e non) cosciente del
proprio background. La sabbia dei demoni
morti che avvolge il mondo è il retaggio di
qualcosa che non è più ma che, nello stesso
tempo, rappresenta la coscienza, il coraggio, la dignità.
Tanit è anche un romanzo sulla rinuncia e sulla speranza. I protagonisti avvertono in maniera forte il bisogno di sacrificare
qualcosa di sé, comprendendo che solo mettendosi in gioco in maniera piena possono
raggiungere il proprio obiettivo, qualunque
esso sia. I sacrifici rappresentano il dazio
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fantasy
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che la vita richiede per poter continuare: elementi estremi (come il taglio di capelli di Ivy)
che garantiscono però la continuità dell’esistenza.
La rinuncia è allegoria della morte: è necessario lasciare che il tempo scorra perché
l’ordine naturale della vita possa riprendere forza. È attraverso la rinuncia che la speranza
può trovare diritto di cittadinanza nel futuro dei personaggi, e non importa che si tratti di
una speranza amara, figlia della desolazione. Si tratta del futuro, della vita che continua e
si reinventa, come accade nel bellissimo e struggente finale del romanzo.
Infine, una parola sullo stile. L’autrice ha abbandonato almeno in parte il suo stile
iniziale che talvolta era duro, scabro. La scrittura non è più acerba e “arrabbiata” come
accadeva in Sopdet ma corposa, armonica. Questo non significa un uso maggiore degli aggettivi – sempre ridotti al minimo sindacale – ma un uso sapiente del fraseggio che adesso
è più lungo, elegante e fluido. Una scrittura figlia della maturità, forse anche di una consapevolezza maggiore dei propri strumenti espressivi. La narrazione procede in un crescendo
morbido e insieme affascinante che porta il lettore per mano sino alle soglie della catastrofe, che lo seduce e lo avvince fino alle ultime pagine, dolorosamente liberatorie.
Un libro che rimane dentro, Tanit: intriso d’amore, passione, paura e voglia di rinascere, malinconico e insieme potente. Che colpisce, emoziona, affascina e commuove fino all’ultima, struggente riga.
Debora Scarico © 2012
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racconto
di LARA MANNI
È un dado?
Batte le palpebre, una ragnatela
grigia le scende sugli occhi,
sembra uno stormo di uccelli in
volo dentro le pupille. Liquefazione
del vitreo, ha detto l’oculista.
Succede dopo una gravidanza, beva molto, ha
aggiunto, alzandosi per congedarla. Lei non ha
osato chiedere altro e ha obbedito. Dunque,
versa acqua nel bicchiere, lo vuota in un sorso,
lascia che qualche goccia le scivoli sul mento,
si stringe nella vestaglia rosa. Fa freddo, anche
se i termosifoni sono accesi da un’ora. Sarà la
mancanza di sonno, pensa. Il freddo sembra
aumentare quando guarda la cosa che somiglia
a un dado.
Strizza gli occhi, si sforza di mettere a fuoco
l’immagine.
Ecco.
Brilla come sale sul ghiaccio, sotto la lampadina
della credenza. Un piccolo foro attraversa due
delle sei facce. Come se nel buco dovesse
passare un filo per appenderlo al collo. Sì
avvicina, lo prende fra le dita. Su ogni faccia
c’è la stessa lettera, e la lettera è la Elle. Elle
come Liliana. Lilli.
Io.
Forse sta dormendo in piedi e questo è un
sogno. Sono le cinque e mezza del mattino, dalla
strada sale il rumore metallico dell’immondizia
gettata nei camion. Lattine di coca cola,
bottiglie di birra, pannolini sporchi. Montagne
di pannolini, pensa Lilli. Sette al giorno per tre
mesi, moltiplicato per tutti i bambini di questo
quartiere. Sono stanca, pensa ancora. Le
sembra che una mano delicata le accarezzi la
nuca, come per confermarle che è così, che è
stanchissima, che dovrebbe riposare.
Il biberon, forza. Prepara il biberon.
Si riscuote. Ai gesti si è abituata, ormai le sue
mani fanno tutto da sole. Apri il frigo, prendi
il barattolo di latte in polvere, conta cinque
misurini. Rasi, fai attenzione. Versa acqua di
Fiuggi fino alla tacca, poi mescola bene perché
non si formino grumi, poi…
Il dado.
Con il cucchiaino in mano, lo guarda di nuovo.
È bianco come un osso, sembra sogghignare al
centro esatto di un libro con la copertina gialla.
Metamorfosi, Ovidio.
Ritornerà Proserpina à la luce
Per sententia del ciel
Lilli scaccia via il ricordo. Non è il momento
di pensare a Ovidio. Il problema è il dado. Gli
oggetti piccoli sono pericolosi per una neonata.
Metti che ci arrivi con la mano. Magari quando
è sul seggiolone si sporge e lo stringe fra le dita
e poi lo mette sulla lingua e, proprio mentre Lilli
sta caricando la lavatrice, lo inghiotte.
Diventerebbe viola. Poi nera. Poi.
Aggrotta le sopracciglia, posa il cucchiaino,
chiude il biberon con il tappo, lo agita.
Non deve fare così. Lo ha promesso al
ginecologo. Quando ha cattivi pensieri deve
respirare a fondo, come per le doglie. Prepararsi
una camomilla. Magari fare una passeggiata. “O
andare dal parrucchiere, Lilli. Non sai quanto è
importante prendersi cura di sé per una donna al
primo figlio. Sono gli ormoni a provocare ansia:
si chiama baby blues. Comunque, se arrivi al
limite, c’è questo”. Il ginecologo aveva allungato
48
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verso
di lei il
flaconcino
con scritto Lexotan.
Lilli lo aveva guardato
chiedendosi se era riservato a quelle come lei,
quelle che dopo una scopata di Capodanno
rimangono incinte e decidono di tenersi il figlio,
senza un perché. O forse perché a trentacinque
anni il tempo corre, e magari non ci sarà mai la
persona giusta con cui scegliere i parati per la
stanza del bambino e leggere il dottor Spock
tenendolo aperto sopra la pancia gonfia. Forse
alle donne sposate, alle donne con un uomo
vicino, il flaconcino non lo danno.
Respira a fondo.
Pensieri inutili, riesce a dirsi al decimo respiro.
I pericoli semmai, verranno dopo, quando Sara
sarà più grande. A tre mesi il seggiolone è una
conquista lontana. Comunque, toglierà di mezzo
il dado.
Ma da dove viene fuori? E il libro?
Da quanto non legge Ovidio. Infatti questo è
un testo di scuola, ha ancora il cellophane sulla
copertina e persino l’etichetta Liliana Maggi 1
E. Dentro dovrebbero esserci le caricature della
professoressa di latino fatte a matita e le frasi
che le scriveva Giulia: “La nostra amicizia non
morirà mai”. Bei tempi.
Mette il biberon a scaldare.
Vediamo. Ci dev’essere una spiegazione anche
per il libro. Mi sono alzata a mezzanotte e non
so come ho fatto a lasciare il letto. Sonno. Ho
tanto sonno. Mentre aspettavo che il latte fosse
pronto devo aver preso qualcosa da leggere
per non riaddormentarmi. Un giallo, magari.
I gialli mi tengono sveglia. E li tengo vicino ai
libri di scuola. Ecco. Devo essermi sbagliata e
ho preso Ovidio. Copertina gialla. Dev’essere
andata così.
La spia dello scaldabiberon si spegne.
Sì, ma il dado.
Magari era sullo scaffale.
Sì, ma.
Basta, ora.
Prende il biberon, fa cadere una goccia di latte
sul polso per sentire se scotta. È perfetto.
Passa davanti alla finestra. Dietro i vetri c’è
il melograno. Lo intuisce nero nella nebbia di
gennaio, e il freddo aumenta. Non le piace. Non
le piaceva quando le sue foglie erano d’oro, e
Sara era appena nata e lei stava perdendo il
conto di quante volte la cambiava e le faceva
il bagno e preparava i biberon. Non le piaceva
neanche quando ha visto la casa per la prima
volta, ed era pieno di fiori rossi come il sangue.
Era giugno, e il sudore era diventato gelido sulla
sua schiena quando aveva visto il melograno al
centro del giardino, incorniciato in una finestra
ovale. Sembrava un quadro. No. Sembrava
la ceramica di una tomba. “Una particolarità
della casa”, aveva detto il proprietario. Aveva
sorriso, e le rughe che prima le erano apparse
così piacevoli – un vecchio saggio che deve
andarsene perché da solo non ce la fa più –
avevano tremato come grasso rappreso, e la
nuca di Lilli si era increspata per la paura, come
se un dito sottile l’avesse solleticata, per darle
il benvenuto.
Si era affrettata a dirsi che era normale, che
era preoccupata perché stava facendo la
sciocchezza di affittare una casa grande e
isolata (ma c’è l’autobus proprio a due passi)
solo perché nel giardino la bambina avrebbe
potuto correre senza pericoli (Le automobili! I
motorini! Gli zingari!) e perché c’erano cespugli
di ortensie lilla e rose gialle profumate. Alla
fine, aveva deciso che il melograno era innocuo.
Il latte si sta freddando. Devo andare.
Non è così vero. Da quando è nata la bambina,
il melograno le fa ancora più paura. Perché
quando si alza di notte, specie se c’è la luna,
racconto
crede di scorgere un punto sotto l’albero dove
l’aria sembra solidificarsi in un callo opaco.
Forse perché i suoi occhi sono malati, si è detta
tante volte. Ma c’è altro. A volte le sembra che
dentro quella nebbia dura ci sia qualcuno che
bisbiglia, e dall’albero la voce vola verso di lei
per annidarsi nella sua testa. Ci sono state notti,
quando allattava Sara in cucina, in cui le diceva
che sarebbe stato così facile allargare le braccia
e lasciarla cadere, e il volo sarebbe stato breve
e il tonfo soffice, come di un frutto maturo
che sparge polpa sul pavimento. Ogni volta,
Lilli stringeva forte la bambina e la bambina
piangeva. Finché aveva deciso che l’avrebbe
allattata in camera.
Ma il melograno continua a guardarla, e a
sussurrarle richiami. Non è un bene che la
casa sia al pianterreno, Lilli? Non sei contenta?
Perché se ti fosse venuta l’idea che a ogni
madre viene, se avessi aperto la finestra e la
finestra fosse stata al quinto piano e se ti fossi
sporta insieme a Sara e…
Si morde le labbra, si avvia verso la camera.
Ma con la coda dell’occhio sbircia fuori e la
ragnatela davanti ai suoi occhi si fa più fitta,
fino a farle credere che la zona densa accanto
al melograno si sta muovendo.
Anzi, sta danzando. Si scinde in due.
Due bambine.
Una è arrivata di corsa e ha il fiatone e dice:
“Guarda!”.
“Guarda il mio regalo!”.
Giulia ha la mano nascosta dietro il grembiule.
C’è una striatura di cioccolato sul colletto, nota
Lilli, e subito dopo pensa che sua madre ha
ragione quando dice che Giulia non sa tenersi in
ordine. Anche i codini sono legati con l’elastico.
Lilli ha due fermacapelli di velluto rosa e gli
occhi azzurri e non vuole essere amica di Giulia,
perché i suoi occhi, invece, sono gialli come
quelli dei gatti e forse da un momento all’altro
i canini le diventeranno affilati e le unghie si
allungheranno, e Giulia la morderà e la graffierà.
Però Giulia non vuole farle del male: anzi, vuole
esserle amica. Vuole è proprio la parola giusta,
perchè riesce sempre a ottenere quello che si
mette in testa: in classe si dice che sia riuscita
a rubare una Barbie nel negozio di giocattoli,
semplicemente infilandola nella cartella.
Dunque, Giulia le porta un regalo, ogni giorno da
quando ha deciso che diventeranno inseparabili.
Lunedì un Tronky, sbucato caldo e molliccio
dalla sua tasca. Ieri una figurina di Lady Oscar. Il
terzo, che è oggi….
“Guarda il mio regalo!”.
“Che cos’è?”, mormora Lilli, sistemando una
ciocca di capelli sfuggita al fermaglio.
Era una collana, si dice ora, con il biberon che si
raffredda nella mano destra, mentre il mugolio
di Sara si trasforma nei primi vagiti di richiamo.
Una collana di dadi. Dadi con la lettera Elle.
“Elle come Lilli, sei contenta?”
No. Non sono contenta. Non lo sono stata
neanche allora. Quella collana non mi è mai
piaciuta. Sembrava fatta di denti umani. Non
l’ho mai messa. L’ho tenuta in un cassetto per
anni.
Il vagito si trasforma in pianto.
Dunque non può essere qui.
Il pianto si fa acuto. Sara dev’essere diventata
rossa. I suoi pugni staranno tremando come ali
di farfalla.
Oppure, è andata così. Quando ho fatto il
trasloco, devo aver preso anche la collana
insieme ai libri di scuola, e il dado si è staccato
e questa notte è scivolato fuori.
E chi l’ha messo al centro del libro? Al centro
esatto?
Magari, nel dormiveglia, l’ho raccolto da terra e
ce l’ho messo io. Dev’essere andata così.
La bambina sta urlando. I singhiozzi arrivano
alle orecchie di Lilli come attraverso la nebbia,
senza riuscire a raggiungerla davvero.
Poi, si riscuote. Grida “Sara” in risposta. Corre
verso la camera da letto.
***
Deve comprare biscotto granulato, latte in
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051
polvere, liquido per sterilizzare il biberon e
una tettarella nuova. Ah, e miele rosato. Il
libro, almeno, diceva così. Lo ha consultato
con attenzione, la matita stretta fra le dita per
sottolineare i passaggi più importanti, cercando
di ricacciare indietro l’ansia. Che sarà mai, Sara
ha vomitato, tutti i neonati vomitano.
Aveva messo a bagno nel sapone di Marsiglia la
camicia da notte, si era buttata un po’ d’acqua
fredda sulla faccia e aveva aperto “Il bambino e
la sua crescita”. Lettera V. Vomito.
“È un fenomeno consueto e che non deve
allarmare”
Visto, visto?
“In alcuni casi, potrebbe trattarsi di un virus”.
Ma certo. Un virus. Quando l’ho portata a
spasso, due giorni fa. Quei bambini con la
madre impicciona, che voleva a tutti i costi
toccare Sara. Ah, e le ha trovato quei capelli
fra le dita. I miei capelli, e di chi altri? Ha detto
che non è un buon segno. Che al suo paese vuol
dire che uno spirito ha preso di mira la bambina,
e bisogna bruciare l’incenso nei quattro angoli
della stanza dove dorme. Che si fotta. Gente di
periferia. Cosa ne sanno. Magari aveva le mani
sporche. Magari Sara si è presa il virus così.
“Il vomito potrebbe essere dovuto anche alla
dentizione. Provate a massaggiare le gengive
con miele rosato”.
Dunque, deve comprare il miele rosato, e anche
un collirio per i suoi occhi che bruciano come
se li avesse bagnati con l’acido. La ragnatela
è diventata più fitta, e in certi momenti una
macchia nera nasconde il mondo. Ci penserà
quando avrà tempo.
Intanto, è qui da venti minuti. Davanti a lei c’è
una vecchia con una ricetta scaduta. Quasi
piange. Le medicine le servono, dice alla
dottoressa. Lilli vorrebbe impugnare la bottiglia
di disinfettante che ha sottobraccio e fargliela
cadere sulla nuca. Una volta, due volte. Farebbe
un rumore sordo. Poi il rumore diventerebbe
croccante, come quando si spezza un guscio di
noce con il pugno. Giulia sapeva farlo. Quando
Lilli era giovane. Giovane e libera.
Gli uccelli in volo nelle sue pupille si trasformano
nell’immagine di una Lilli ragazza, con un
maglione nero e pantaloncini color prugna e
calze azzurre, una Lilli immemore e leggera che
non tornerà mai più. È seduta per terra a gambe
incrociate. Sta guardando la videocassetta di
un vecchio film horror. Il film è L’ultima casa a
sinistra. Vicino a lei c’è Giulia, i capelli rossi
legati in una treccia, gli occhi gialli scintillanti
mentre rompe le noci. Sullo schermo le due
protagoniste vengono stuprate e torturate.
Lilli ride. “A noi non capiterà mai”. Giulia cala il
pugno su un’altra noce. “Mai. Noi li apriremmo
in due. Guarda che forza”.
Crac, fa la noce. Crac, fa la nuca della vecchia.
Questa vecchia inutile. Giulia le avrebbe riso in
faccia.
Batte le palpebre e gli uccelli spariscono. La
vecchia la sta guardando. “Cos’ha da ridere?”,
chiede. Lilli arrossisce e balbetta una scusa.
Non si è resa conto di aver riso, non è da lei,
non ne avrebbe avuto il coraggio. Colpa degli
occhi che le fanno male, e del sonno che manca.
Deve dormire almeno mezz’ora, magari dopo la
poppata di mezzogiorno.
La dottoressa si è arresa: sta tirando fuori dai
cassetti una confezione di pillole. Cardiotonici
per il vecchio cuore della signora, pensa Lilli.
Nessuno si preoccupa per i cuori delle madri,
che sono così pieni di ferite, e quando si è
ragazze tutto questo non si sa, si spezzano le
noci con un pugno e si è potenti, e si ride con la
propria amica del cuore.
Dovrebbe distrarsi: indietro non si torna e
pensare fa male. Lilli si volta a guardare lo
scaffale dei giocattoli per neonati. Le giostrine
con le api. I carillon. Ecco, ne comprerà uno
per Sara. Magari quello con gli orsacchiotti
affacciati alle finestre della casetta rossa.
La vecchia la urta, uscendo con la sua confezione
di medicinali. Ha capelli radi e unti, e un cappotto
marrone con i polsi sfilacciati. Mi ridurrò così.
Presto, pensa Lilli. Prima che il carillon si rompa,
Sara mi farà impazzire.
Poi, però, quando è arrivata a casa, le torna il
racconto
buonumore. Posa la busta con la spesa sulla
credenza, tende l’orecchio. Nessun rumore.
Senza togliersi il cappotto, si precipita nella
camera da letto. La schiena di Sara si solleva
piano. Respira. È viva. Bene.
Lavarsi le mani. Preparare il biberon. Prima,
mettere il carillon nel box, così la bambina
lo troverà più tardi. Ma quando si china sul
tappetino, Lilli vede qualcosa che brilla fra il
pulcino di gomma e il sonaglio rosa. Allunga le
dita. È un anello. Un anello d’oro con due pesci
di smalto che si baciano sulla bocca.
“Ti ho portato un regalo, Lilli”.
“Un altro?”
“Questo è speciale. Guarda. Guarda il mio
regalo”.
“Un anello? Ma è troppo, Giulia!”
“Non è troppo, sei la mia migliore amica per
sempre. Ti piace? Ti piace il mio regalo?”
Lilli porta la mano alla bocca, la morde. Non deve
urlare. C’è una spiegazione. Proprio ieri ha aperto
il cassettino dei gioielli per guardare i regali che
Sara ha ricevuto per il battesimo. Ricorda di aver
tenuto sul palmo della mano un ciondolo con
l’angelo triste che le ha sempre messo paura.
Forse c’era anche l’anello nel cassetto. Magari
se lo è infilato senza accorgersene, e poi le è
scivolato nel box. È andata così. Perché se così
non fosse, dovrebbe pensare che qualcuno le
sta facendo uno scherzo. Ma non saprebbe chi.
E non saprebbe perché.
Giulia avrebbe capito. Giulia sapeva sempre
tutto.
Giulia era morta due mesi dopo la laurea, ed
era stata una morte stupida. Erano alla Conad
e cercavano di rubare una bottiglia di vodka
per andarsi a sbronzare su qualche panchina.
Canticchiavano la canzone nuova degli Alice in
Chains, Them Bones.
I believe them bones are me
Some say wÈre born into the grave
I feel so alone
Giulia camminava avanti, i jeans le fasciavano
le gambe magre e Lilli si era sentita stringere
il cuore. Aveva sempre subito la sua amicizia,
così come subiva quasi tutto nella sua vita,
sesso incluso, perché dire no era più difficile.
Ma adesso, mentre le gambe di Giulia si
allontanavano fra due ali di biscotti e crostate,
Lilli traboccava di tenerezza, e avrebbe voluto
correre verso di lei e stringerla forte, da dietro.
Facendole un po’ male, perché è giusto così.
I feel so alone
Dunque, Lilli aveva fatto un passo per avvicinarsi
a Giulia e Giulia si era fermata. Erano nel reparto
latticini, ora, e il freddo che saliva dal banco
frigo faceva venire la pelle d’oca. “Si gela”,
aveva detto Giulia con una nuova voce sottile,
mentre lanciava occhiate incerte agli yogurt e
alle mozzarelle sotto il neon degli scaffali.
Poi, la sua mano si era stretta sul polso di Lilli.
“Freddo”, aveva mormorato ancora iniziando a
trascinarla verso il pavimento, perché si stava
piegando sulle ginocchia, come quando la faceva
sedere a terra per guardare una videocassetta.
Ma adesso le guance e la fronte di Giulia
erano bianche come pasta di pane, e le labbra
tremavano, e sulla pelle sembrava avere un velo
come di latte. “Fred..”, aveva detto infine, e poi
era caduta a terra e Lilli era caduta sopra di
lei, la faccia sopra la faccia, e gli occhi di Giulia
erano rovesciati indietro e non si muovevano
più. Così, prima ancora che le donne lasciassero
i carrelli per correre verso di loro, Lilli aveva
saputo che Giulia era morta.
Gonna end up a big ole pile a them bones
Aneurisma cerebrale, le aveva detto due giorni
dopo sua madre, mettendole davanti una tazza
di tè all’arancia e il giornale aperto alla pagina
dei necrologi. “È domattina, alle nove. Il funerale
di Giulia”.
Lilli non era andata. Era rimasta sul divano, ad
ascoltare con gli occhi sbarrati i bambini che
giocavano nel cortile cantando Hanno ucciso
l’Uomo Ragno. Poi aveva dormito. Aveva dormito
per tutta l’estate. E a settembre Giulia era già
una fotografia formato tessera con la dedica
“per sempre” e un cassetto pieno di regali.
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Il cassetto era rimasto chiuso per dieci anni.
Ancora trenta cc. Questo dice la tacca del
biberon, e Sara non li vuole. Non è normale,
pensa Lilli, mentre la bambina si dimena sulle
sue ginocchia, torcendo la bocca ogni volta
che la tettarella la sfiora. Una poppata non
può durare un’ora, si dice ancora Lilli, e sa che
dovrebbe smettere di torturare Sara che è rossa
in viso per il troppo piangere, e il bavaglino è
chiazzato di bianco e odora di latte fermentato.
“Mangia, cazzo”, urla. La bambina sgrana gli
occhi, che sembrano ancora liquidi come se la
guardassero da sott’acqua. Poi inarca la schiena
ed emette una specie di miagolio stupito, e
un fiotto di vomito giallo colpisce Lilli in piena
guancia.
È stato tutto inutile, ha il tempo di pensare
mentre il suo corpo reagisce automaticamente,
mettendo Sara in posizione eretta con la testa
sopra la spalla. Altro liquido caldo le cola sopra
il maglione. Un maglione da uscita, uno dei pochi
buoni che sono rimasti, si dice Lilli, sperando che
il pensiero frivolo scacci quello, enorme, che le
martella nelle tempie.
Sara sta male. Sara è malata. Sara morirà e
sarà solo colpa mia.
Al mignolo, i pesciolini di smalto si baciano
per sempre nell’anellino d’oro. Lo ha infilato
cercando di non pensare a come era arrivato
nel box. Basta misteri. Calmarsi, poi un bel
bagnetto, poi, magari, una camomilla. Poi una
doccia per lei, e il pediatra.
La testa della bambina è calda sulla sua spalla.
Cosa farebbe senza Sara? Semplice, si dice
mentre, tenendola con un braccio, fa scorrere
l’acqua nella vasca di plastica rosa: non ci
sarebbe più un centro nella sua vita, dunque
morirebbe anche lei.
Però quando Giulia è morta, Lilli è andata avanti.
E Giulia non era forse il centro della sua vita
di ragazza? Non l’aveva costretta, giorno dopo
giorno, a interessarsi a lei, a fare di lei l’unica
ragione di vita? Nulla ha resistito a Giulia, si dice
Lilli mentre adagia la bambina sul fasciatoio e le
sfila la tutina. Solo la morte.
C’è un raggio di sole che entra dalla finestra e
cade sulle sue mani. L’anellino scintilla come un
occhio giallo.
E magari non è stato semplice, per la morte.
Magari in quel momento, nel supermercato,
Giulia ha detto no, che non voleva, e ha lottato:
pochi secondi che sono stati eterni, sono
diventati l’eternità, e in quell’eternità c’è Giulia
che si ribella.
Sara fa un piccolo colpo di tosse. Poi un altro. Il
visino diventa rosso, poi viola. Oddio, grida Lilli.
Oddio.
“È solo un virus”, le sta dicendo Daniela. Sono
nella pasticceria sotto l’ospedale: sembra
pensata per i genitori dei bambini ricoverati,
ha le pareti rosa e celesti e dolci che sembrano
giocattoli, tortine sacher, cannoli, muffin verde
menta. Daniela ha ordinato cioccolata calda con
la panna. Un riflesso di luce rosa le attraversa
i capelli.
Daniela è una delle poche amiche a cui Lilli ha
concesso un po’ della sua confidenza, dopo
Giulia. L’ha chiamata al telefono, sbavando sul
microfono e urlando che Sara respirava con la
pancia come i bambini in incubatrice, e Daniela
era arrivata subito e avevano attraversato
la città volando, e tutto fuggiva dai finestrini,
i semafori, i cartelloni pubblicitari (e quanti
bambini, oddio, su quei cartelloni), gli alberi,
mentre Sara aspirava aria a strappi.
“Un virus”, aveva detto il pediatra dell’ospedale.
“Porta complicazioni di questo tipo: disturbi
gastrointestinali e polmonari. Ma non è grave
– aveva aggiunto – è solo un piccolo stress
respiratorio”. Però l’avevano ricoverata. Per
idratarla, avevano detto. Lilli aveva stretto
il braccio di Daniela in una morsa quando le
avevano spiegato che avrebbero dovuto rasare
la fronte di Sara per infilare l’ago della flebo. “I
capelli ricresceranno”, aveva detto l’infermiera,
distogliendo gli occhi.
Lilli guarda il riflesso rosato sulla frangetta
bionda di Daniela. Sembra vivo. Sembra un
folletto. No, sembra un piccolo dio della morte,
perché la morte non è nera. È rosa come il
racconto
nastro che ha appeso sulla porta quando è nata
Sara e che adesso è chiuso in una scatola di
plastica trasparente come una bara di cristallo
e un giorno, magari facendo il cambio dei vestiti
estivi, lei lo troverà, e ricorderà di aver avuto
una figlia e allora lo getterà in aria e ricadrà
sulle ginocchia e batterà i pugni, tutti e due,
sulla fronte, e urlerà.
Perché Sara sta morendo.
Daniela la guarda fisso: “Sei tu che stai male,
Lilli. La bambina non ha niente di grave, hai
sentito anche tu”.
Già, e l’ossigeno? Come si spiegava la mascherina
trasparente sulla bocca – così bianca – di Sara?
È inutile che chieda, sa già la risposta, l’ha
ascoltata dal dottore. “Il livello di ossigeno nel
sangue è basso: questo l’aiuterà. Ma mi creda,
signora, è soltanto una precauzione”.
Mentono. Le stanno mentendo, tutti.
Lilli guarda nella tazza di cioccolata ancora
intatta, e il ricciolo di panna montata diventa il
merletto di un abito bianco. Un abito da morta.
Daniela le mette la mano sulla sua. È calda, o
forse è lei che è gelata, di già, come sarà per il
resto dei suoi giorni dopo che Sara.
“Si chiama baby blues”, dice Daniela. “Succede
a molte donne dopo il parto. È depressione. Un
calo di ormoni. In genere passa presto: a te,
evidentemente, non è passato”.
“Non sono depressa”, soffia Lilli. La cioccolata,
freddandosi, ha formato chiazze marroni che
sembrano terra. La terra del cimitero. La terra
dove Sara.
“Sì che lo sei”. Daniela tenta una carezza, Lilli
sottrae la mano di scatto.
“Non prenderò le vostre merde di medicine. Io
sto bene. È Sara che sta male”.
“Sara starà benissimo, Lilli. E tu devi stare calma
per lei. Quindi, ti devi curare”.
“Non capisci. Non capisci”.
Lilli sta piangendo a singhiozzi rauchi, le cola il
moccio dal naso. La cameriera la sta guardando.
Si fotta anche la cameriera. Fruga nella tasca
del giaccone per cercare un fazzoletto. Deve
averne uno, ne è sicura. Qui ci sono le chiavi,
qui una caramella.
Qui.
Le dita di Lilli si chiudono su un oggetto piccolo
e liscio.
Quando lo tira fuori e lo guarda, lo riconosce. È
un seme.
Un seme di melograno.
“Devo andare a casa”, aveva detto a Daniela.
“Come a casa? E Sara?” “Ci sono i medici, con
Sara”. Daniela aveva gli occhi sgranati per lo
stupore e Lilli aveva capito che doveva giocare
d’astuzia. “Ho bisogno di staccare. Solo per
poco. È come hai detto tu. Devo stare bene per
aiutare Sara”.
Così, l’aveva accompagnata a casa. I cartelloni
pubblicitari con i bambini l’avevano guardata,
stavolta, senza ferirla. Non troppo. Perché Lilli
aveva qualcosa da fare: qualcosa che l’aveva
strappata al gorgo di disperazione e di orrore
in cui stava affogando. Sara era in pericolo. Ma
non era un virus a minacciarla. Era qualcos’altro.
Qualcosa che stava giocando con lei da due
giorni. Il dado. L’anello. Il seme.
Eppure, ora che sono arrivate, non è più così
sicura. Ricorda di aver morso una melagrana
pochi giorni prima. Era ferma all’ingresso, la
melagrana era nel cesto sulla cassapanca.
Forse, un seme le era rimasto fra le dita, e
l’aveva messo in tasca. Forse.
Come le bruciano gli occhi. Lo stormo di uccelli
le sta beccando la pupilla e ogni colpo di becco
è una fitta. Deve parlare con l’oculista. E questa
volta quello stronzo presuntuoso l’ascolterà e la
visiterà come si deve: altrimenti minaccerà di
denunciarlo, anzi, lo prenderà per il bavero del
camice e…
Si porta una mano alla bocca. Perché questi
pensieri? Non sono da lei. Non ha mai immaginato
cose del genere. Dev’essere il sonno. Devono
essere gli uccelli. Dev’essere la paura.
“Va tutto bene?”, dice Daniela, poggiandole
una mano sul braccio. Lilli la toglie, senza
54
455
gentilezza. “Benissimo. Prenderò i calmanti, te lo
prometto. Vattene, adesso ”. Daniela la guarda,
si allontana senza parlare. Lilli sa che è stata
sgarbata, ma per la prima volta nessun senso di
colpa le risale in gola. Se solo fosse stata così
forte anche prima. Insieme alla ragnatela, che è
diventata viola e pulsa come un cuore velenoso,
danzano davanti ai suoi occhi tutti i suoi dolori.
L’uomo che ha amato, l’unico, chino a baciare
un’altra, e forse lei avrebbe potuto fermarlo,
se avesse trovato le parole e il coraggio, ma
non lo ha fatto e lui è andato via per sempre,
e in questo momento lui si china sulla ragazza
bionda che non è lei ancora e ancora, e Lilli può
vedere, può sentire, ma non può far nulla, come
quando Giulia è caduta. Come ora.
Non è vero. Ora posso. Non è tardi, mormora
mentre infila la chiave nella toppa. Sotto i suoi
piedi scricchiola il ghiaccio. La casa sarà gelata.
La casa senza Sara.
Sara è al sicuro adesso. Per un po’. Sei tu che
puoi salvarla. Se solo capisci cosa vogliono da
te.
Spalanca la porta, resta dritta sulla soglia e la
casa sembra svegliarsi e stirarsi come un gatto.
Lilli avanza di un passo, accende la luce. È tutto
come l’ha lasciato. Il vaso di ceramica azzurra
per gli ombrelli. La fotografia di Sara nella
cornice rosa. Il tappeto di stuoia.
Gira a destra, entra in cucina. Spalanca la
finestra. Il melograno dorme nella notte fredda.
Si affaccia, e una folata di vento le fa volare
i capelli sugli occhi, fra i denti. Mi hai sentito,
pensa Lilli. E sai che ti ho capito. Che sono qui
per te. Chiunque tu sia.
Si toglie i capelli dal viso. Grida.
“Cosa sei? Cosa vuoi?”
Non c’è risposta, non c’è rumore. Il vento non
cresce e non diminuisce. È tutto normale. È una
fredda notte di gennaio. Baby blues. Lilli si dice
che forse Daniela ha ragione. Che deve fare
qualcosa prima di diventare pericolosa. Per sé,
per Sara. Quante madri lo hanno fatto? Quante
hanno ucciso i propri figli per paura che qualcuno
potesse far loro del male? Quanto ci vorrà prima
che infili Sara nel cestello della lavatrice?
Si tira indietro, accosta la finestra.
Prenderò il Lexotan, e poi chiamerò un taxi
e tornerò da Sara. È solo un virus. Domani
la dimetteranno. E io mi curerò. Non voglio
impazzire. Voglio essere una buona madre.
Di colpo, la finestra si spalanca, e la folata la
travolge, la spinge all’indietro. Lilli cade sul
sedere, i piedi pattinano sul pavimento cercando
appiglio.
Poi, è come se la casa stessa si curvasse su di
lei.
Non è il lampadario della cucina, quello con
il paralume giallo che ha sempre odiato, a
dondolare vicino vicinissimo al suo viso? Non
è il freddo del frigorifero, che dovrebbe essere
contro la parete, quello che sente contro la
stoffa dei pantaloni?
Riapre gli occhi e il dolore le trafigge il cervello.
Lo stormo di uccelli è impazzito. Non vede
quasi nulla: nella nebbia che è diventato il
mondo riconosce il lampadario al suo posto,
immobile, e il frigorifero che ronza a due metri
di distanza. È tutto normale. Allucinazioni. Altro
che mosche volanti. Sta perdendo la vista, oltre
che la ragione.
Non è vero. C’è qualcosa. Mi sta facendo male.
Mi sta uccidendo. Non so cosa sia ma vuole che
io muoia.
Gemendo, si tira su, prova a guardare oltre la
finestra. Altra nebbia. Forse viene dai suoi
occhi. Forse è reale e sta davvero circondando
il melograno e avvolgendosi a spirale attorno al
tronco, ornando i rami di festoni bianchi come
per una cerimonia. Il dolore aumenta. Le sembra
che la nebbia si addensi in un unico punto,
proprio davanti al tronco. Forma un ovale.
Dall’ovale fuoriescono due protuberanze, in alto.
Due braccia. Due in basso. Le gambe.
Inghiotte saliva. Sono gli occhi. Deve chiamare
un’ambulanza. Andare al pronto soccorso.
Subito. Apre la porta.
Un ovale più piccolo. La testa.
racconto
Si incammina verso il melograno mentre aghi
roventi le scavano le pupille
Una linea nera. La bocca.
Le orecchie ronzano. Depressione. Depressione
grave. Dove lo ha letto? Sintomi: umore cupo,
perdita di memoria. Allucinazioni.
Come una scia che ondeggia, a destra e a
sinistra. I capelli. I capelli rossi di Giulia.
Lilli potrebbe allungare la mano e quella figura
fatta di nebbia svanirebbe. Perché quella figura
non esiste ed è frutto solo della sua mente
impazzita. Giulia non può essere tornata. Non
può essere Giulia a volerle fare del male. “Non
ti ho fatto niente”, riesce a mormorare, mentre
le lacrime le scorrono sulle guance. La figura
che è Giulia, ormai, identica a com’era anche nel
respiro che le solleva dolcemente i seni, scuote
la testa.
“Perchè, Giulia? È per il funerale? È perché non
sono venuta al tuo funerale?”
Giulia getta indietro i capelli, come faceva da
viva. Ride, e la sua voce torna come un’onda
calda alle orecchie di Lilli.
Delirio. La depressione maggiore fa credere al
paziente di ascoltare voci inesistenti.
Lilli riesce a sorridere. Quanto le è mancata.
Quando era viva pensava che fosse stata la
forza di volontà di Giulia ad averla attirata come
una calamita e ad averla tenuta stretta a sé per
tutti quegli anni. Ora capisce che le ha voluto
bene davvero, e che quella sofferenza che ha
sempre negato è viva e forte sotto il ghiaccio
del suo cuore, e che dietro tutto il suo amore
e la sua paura per Sara c’erano l’amore, e la
paura, e il dolore per Giulia.
“Mi dispiace così tanto”, dice soltanto, e poi
singhiozza davvero, e gli aghi nelle pupille
diventano coltelli e singhiozza più forte. “Anche
a me”, mormora la figura di nebbia, e nei suoi
occhi c’è dolore, e un rimpianto terribile, e un
desiderio ancora più spaventoso.
“Perché ti vedo?”, chiede Lilli, e non le importa
se questa è pazzia. Che sia benvenuta, la pazzia.
“Perché siamo sotto il melograno”, dice quella
che forse è Giulia. E poi scoppia di nuovo a
ridere. “Non è buffo? Tutte quelle cose che
abbiamo studiato a scuola, ricordi? Chi mangia
i frutti degli inferi deve rimanerci per l’eternità.
Proserpina e la melagrana, ricordi?”
Lilli ricorda, e la sua schiena si ghiaccia.
“Giulia…”, dice.
“…Certo che ricordi. Per questo il seme ti ha
spaventato così tanto. Per questo il melograno
non ti piaceva. Non piace neanche a me, sai? Io
non volevo morire, Lilli. Volevo mangiare, fare
l’amore, annoiarmi, fare tutte le cose che una
persona viva fa. La birra. Mi piaceva tanto la
birra. Doppio malto, ricordi?”.
Lilli annuisce, senza parlare.
“Mi piaceva accarezzare i gatti per strada,
e il modo in cui si strusciavano sulle gambe.
Mi piacevano le caramelle alla fragola. Mi
piacevano i ragazzi che sorridono sghembo.
Volevo innamorarmi. Volevo un figlio”.
Qualcosa scatta nella mente di Lilli. Deve
reagire. Deve svegliarsi, deve cacciare via le
voci e la nebbia. Grida. “Per questo sei qui?
Perché vuoi Sara? Perché vuoi portartela via?”.
Giulia ride di nuovo.
“Non è la morte di Sara che voglio. Voglio un
regalo da te, Lilli. Te ne ho fatti tanti, quando ero
viva. Adesso è il momento di ricambiare”.
“Come?”, urla Lilli, e nessuno risponde a quel
grido, non c’è neanche un uccello notturno che
si alzi in volo, una finestra che si apra, un ramo
che si spezzi.
“Voglio tornare”, dice Giulia nella sua testa.
“Tu hai vissuto abbastanza, Lilli. Hai lavorato,
mangiato e dormito e scopato e hai avuto anche
una figlia. Ho aspettato che Sara nascesse
proprio per questo. Non c’è altro che tu possa
desiderare, giusto? O meglio, sì: potresti bere il
tuo tè all’arancia per anni e mangiare biscotti e
dipingere e veder crescere Sara, lo so che stai
per dirmi questo. Ma è adesso che è perfetta,
Lilli. Adesso che è così piccola. Poi, cambierà e
fuggirà. E non sei già così stanca? Non è meglio
56
657
lasciar perdere ora?”.
Lilli non vede più nulla, ma mentre Giulia parla
avverte il calore della tazza di tè, e il profumo
dei biscotti, e la sensazione della tempera sulla
punta delle dita, e il respiro leggero di Sara
mentre sta per addormentarsi, e non vuole
rinunciare a niente, ed è spaventoso che le si
chieda questo.
“Non piangere così. Non è tanto brutto. Non
come pensi. E non te ne accorgerai nemmeno.
Nessuno se ne accorgerà. Lascia che io prenda
il tuo posto: durerà poco e tu resterai qui, sotto
il melograno, e potrai riposare, e io andrò da
Sara…:”
“NO!” urla Lilli.
“…oppure Sara morirà. Tutto qui. Non dirmi di
no. Non hai mai saputo dire di no”.
Lilli cade in ginocchio davanti a Giulia. “Per
favore”, dice. “Non potresti lasciar stare? Ti
prego. Perché io?”
Una mano fra i suoi capelli. Una mano gentile
ma forte. Che strano. Le sembra vera. Le sembra
calda. Ma reagirà. Fra un momento riuscirà ad
alzarsi e a tornare in cucina e prendere i calmanti.
E poi tornerà da Sara. Fra un momento solo.
Buio sui suoi occhi.
“Perché sei la mia migliore amica”, dice Giulia.
Il buio è giallo.
L’infermiera è contenta di vederla. “Abbiamo
provato a chiamarla, ma non rispondeva
nessuno”, cinguetta mentre la precede verso la
camera dove è ricoverata Sara. “È migliorata di
colpo. Ieri sera non glielo avevamo detto per non
preoccuparla, sembrava così disperata, ma la
situazione era critica, sa? Invece, all’improvviso,
tutti i valori sono tornati normali. I bambini sono
così: si riprendono come fiori a cui si dà da bere”.
“Lo so”, dice lei, sorridendo.
“Anche lei, la vedo più tranquilla. Ha seguito il
consiglio della sua amica? Ha preso qualcosa?”
“Sì, quindici gocce di Lexotan. Avrei dovuto
farlo prima. Mi sono decisa quando ero arrivata
proprio al limite. Se le dicessi dove mi sono
risvegliata stanotte non ci crederebbe”.
L’infermiera annuisce. “Le crederei, invece. È il
baby blues. Capita a quasi tutte le donne. Vedrà
che adesso tutto andrà bene”.
“Lo so”, annuisce lei.
Si sorridono ancora.
Sara è nel lettino, scalcia con forza. Le hanno
tolto la flebo. Sulla fronte ha una fasciatura
bianca. Poche settimane e i capelli saranno
cresciuti.
Poche settimane e potrà smettere di portare
gli occhiali da sole. Altro che liquefazione del
vitreo. Qualche goccia di collirio e il dolore è
sparito. Deve proprio cambiare oculista.
Allunga le mani verso Sara.
“La lascio allattare tranquilla”, dice l’infermiera,
chiudendosi la porta alle spalle.
Annuisce. Com’è morbida la pelle della bambina.
Com’è bella. E com’è bello respirare, camminare,
guardare, invece di continuare a strapparsi
di dosso quel buio in cui ha vagato per tanto
tempo. Baby blues.
Fa un piccolo sospiro di gratitudine. Prende la
bambina fra le braccia. Sara si divincola solo un
attimo.
Si scopre il seno, e una goccia di latte scivola
dal capezzolo. La bambina si avventa, ha fame.
Con la mano destra, si toglie gli occhiali. Gli
occhi gialli mandano bagliori di felicità.
Sara smette di succhiare. Corruga la fronte.
Poi, riprende a poppare.
fantasy
M u ra k a m i
Har u ki
di STEFANIA AUCI
1Q84
L’ultimo romanzo dell’autore giapponese di Kafka sulla spiaggia è un’opera ponderosa, sia
intermini di foliazione che di tematiche. Al centro di tutto, l’incomunicabilità tra i protagonisti e il
mondo in cui essi vivono.
Aomame è una killer particolare, assoldata da una ricca e anziana signora per far fuori in
maniera indolore quegli uomini – mariti, compagni, fidanzati – che abusano delle proprie donne fino
a distrugger loro la vita. Tengo è uno scrittore di belle speranze ma di scarso successo, destinato
a rimanere nell’ombra del suo editor. Le loro vite sembrano mescolarsi, sfiorarsi fin quasi a entrare
in contatto, ma è destino che Aomame e Tengo non possano mai toccarsi, non possano nemmeno
condividere il medesimo cielo.
Eppure l’uno è parte dell’altra. Compagni di scuola, vittime di un’infanzia difficile, sono
diventate creature spaventate da un mondo che tengono a distanza attraverso una solitudine che
è divenuta corazza e prigione. Non hanno legami di amicizia, né una relazione stabile: Aomame va
a caccia di notti di sesso, Tengo ha una comoda relazione sessuale con una donna sposata.
Il mondo di Tengo viene scompaginato nel momento in cui gli viene offerta la possibilità di
essere il ghost writer per un romanzo fantastico: La crisalide d’aria, scritto da un’adolescente dalla
bellezza misteriosa e dal comportamento inquietante, Fukada Eriko, figlia di un componente di una
setta potente e pericolosa, svanito nel nulla.
Il romanzo viene pubblicato e diviene un successo. Ma l’autrice scompare e, ben presto,
Tengo scopre che la vicenda angosciante descritta nella Crisalide d’aria sembra aver travalicato il
confine della carta stampata per divenire realtà. Così come Aomame nel suo mondo rischiarato da
due lune riceve l’incarico di eliminare il capo di una pericolosa setta che assomiglia, stranamente,
a quella descritta nel volume di Fukada e che ha fatto più di una vittima tra le bambine della
comunità.
Tengo è una figura rigorosa e metodica, che trova nelle abitudini consolidate e nell’ordine
metodico della propria casa la sua perfetta dimensione. È una figura anonima, e insieme insolita:
ricca di sfumature, attaccato alla propria vita senza scossoni, da prova di un coraggio non comune
nel momento in cui accetta le conseguenze della sua scelta di divenire il Ghost Writer della
Crisalide.
Aomame, sebbene viva in un appartamento asettico e si presenti come una donna fredda
e distaccata ha in realtà una vita personale anarchica, fatta di sesso occasionale e pericoloso
58
59
Due persone, Aomame e Tengo, perse nella grande
città di Tokio in una giornata torrida. Due mondi
destinati a non toccarsi, due destini che seguono
in maniera ineluttabile la regola delle rette
parallele: correre l’uno accanto all’altro senza
incontrarsi mai.
oltre che di omicidi efferati. In comune: l’estrema solitudine, la paura di essere feriti, il timore di
un contatto fisico che non sia occasionale e spersonalizzante, la consapevolezza che non esiste
nessuno di cui potersi fidare e affidare in maniera piena e assoluta.
Due personaggi forti e insieme malinconici, affamati di un affetto in maniera quasi disperante
ma, nello stesso tempo, ben determinati a non permettere che alcuno possa andar oltre la barriera
che tiene fuori il mondo e la realtà. Sono due figure libere, prive di legami e insieme vincolati da
una stretta gabbia interiore che rappresenta la loro prigione volontaria.
Accanto a essi, i Little People. Personaggi fantastici di difficile qualificazione, non sono folletti
o fate, né entità metafisiche. Essi costituiscono un elemento fantastico importante nel volume,
ma di certo non sono l’unico. Poiché tutto 1Q84 è fantastico, a cominciare dal titolo, un esplicito
richiamo al capolavoro distopico 1984.
Nel romanzo di Murakami, la vera protagonista è l’incomunicabilità delle persone. Non vi è un
vero e proprio dialogo dettato dal bisogno di condivisione o dalla volontà di realizzare un legame
affettivo. Vi è unicamente un flusso di pensiero che sfiora il vissuto degli altri: una lettura acuta
delle situazioni e dei contesti che non si sostanzia mai in uno scambio reale. Il lettore vede con gli
occhi dei protagonisti, immagina le reazioni degli altri personaggi, comprende le loro motivazioni
poiché Murakami ha usato al meglio una delle principali caratteristiche, ossia quella di descrivere
minuziosamente ambienti, situazioni e figure.
Secondo alcuni, questo rappresenta il limite principale dell’autore giapponese in odore
di Nobel, in quanto non lascia che uno spazio minimo all’immaginazione del lettore. Tuttavia è
proprio questa la grande ricchezza della scrittura di Murakami: la cura metodica del dettaglio
nell’ambientazione, l’attenzione per le sfumature psicologiche dei personaggi e la prosa raffinata
e potente. Murakami non è certamente un fan dello show don’t tell, anzi: vi son lunghe descrizioni
minuziose che possono stancare il lettore meno scafato, ma che entusiasmano chi è in grado di
gustare una prosa così ben costruita e cesellata. Vi è una netta prevalenza del narrato rispetto
ai dialoghi, ridotti al minimo e punteggiati dal silenzio che pare, invece, essere il vero canale di
comunicazione dei personaggi. Unica eccezione, un brano musicale di Janacek: la Sinfonietta,
traid d’union tra il mondo di Aomame e quello di Tengo.
Il ritmo è uniforme, quasi ipnotico: il lettore viene risucchiato nel volume passo dopo passo,
incuriosito dal progressivo avvicinarsi dei due protagonisti che si muovono nell’universo di 1Q84
come due pianeti dalle orbite che si sfiorano senza intersecarsi mai.
1Q84 è soprattutto un libro sulla scrittura. Tengo, uno dei due protagonisti, è uno scrittore
ma è anche un matematico. A lui sono affidate le pagine più interessanti, che rappresentano
fantasy
altresì il punto di vista dell’autore sul mondo della letteratura “alta”, verso cui Murakami sembra
patire una sorta di insofferenza.
Le riflessioni sono pungenti e insieme tecniche: un catalogo di indicazioni preziose che
nascondono, sotto aspetti di pura narrazione, un metodo consolidato e saggio, pieno di un’autentica
passione per ciò che è narrativa fantastica.
«Scrivo storie strane, bizzarre. Non so perché mi piaccia tanto tutto ciò che è strano. In realtà,
sono un uomo molto razionale. Non credo alla New Age, né alla reincarnazione, ai sogni, ai tarocchi,
all’oroscopo. [...] Ma quando scrivo, scrivo cose bizzarre. Non so perché. Piú sono serio, piú divento
balzano e contorto».
Murakami Haruki «The Salon Magazine», 16-12-1997
Murakami Haruki è nato
a Kyoto nel 1949 ed è
cresciuto a Kobe. È autore
di molti romanzi, racconti
e saggi e ha tradotto in
giapponese autori americani
come Fitzgerald, Carver,
Capote, Salinger. Con La
fine del mondo e il paese
delle meraviglie Murakami
ha vinto in Giappone il
Premio Tanizaki.
60
Titolo: 1Q84
Autore: Murakami Haruki
Editore: Einaudi - Collana Supercoralli
Pagine: 722
ISBN: 9788806203795
Prezzo: € 20,00
fantasy
INTERVISTA A
di ALESSANDRA ZENGO
Per Reverdito Editore prestigiosa casa editrice che ha pubblicato
autori del calibro di Francesco Falconi e Pierdomenico Baccalario ,
esordisce la talentuosa autrice torinese Giulia Marengo con un
romanzo di genere fantastico che spazia dalla suggestione del fantasy
più classico, all’ampio e fantascientifico respiro di uno spazio infinito.
Una nuova stella brilla nel firmamento del fantastico italiano.
L’autrice dipinge magnificamente un universo leggendario dove la
magia è stata soggiogata da un mondo iper-tecnologico, intessuto
di lotte per il potere, intrighi e oscuri segreti. Una galassia in decadenza
fa da sfondo alle vicende di personaggi realistici e ben caratterizzati
nelle loro umane debolezze, in cui la distinzione tra bene e male si fa
esigua. L’autrice sfoggia uno stile impeccabile ed elegante – che solo
in rari momenti offusca la narrazione con un surplus di aggettivazione
– che tratteggia in modo magnifico le atmosfere e le ambientazioni
fantastiche rendendole incredibilmente reali agli occhi del lettore,
completamente avvinto dalle pagine.
GIULIA MARENGO
Abbiamo incontrato l’autrice per un’intervista a proposito del suo romanzo d’esordio, delle nuove
tecnologie che hanno investito il mondo dell’editoria, del fantastico
italiano, dei suoi progetti futuri e molto altro ancora.
scheda libro
Speechless: In Un Antico Peccato mescoli un’ambientazione
fantascientifica con un richiamo al fantasy tradizionale per
creare un universo in decadenza dove la magia è stata
Titolo
soppiantata dalla tecnologia. Come mai questa scelta e
Un antico peccato
come sei riuscita ad unire in un unico universo due generi
Autrice
diversi? Parlaci un po’ della genesi del tuo romanzo.
62
Giulia Marengo
Editore
Reverdito
Collana
Pegaso
Pubblicazione
Settembre 2011
Prezzo
€ 15.00
Pagine
288
Giulia Marengo: Prima di Un Antico Peccato avevo scritto
solo racconti brevi, e nessuno di essi era di genere fantasy,
sebbene ne sia appassionata da sempre. E infatti, quando misi
mano alle prime righe, avevo intenzione di scrivere un racconto
lungo, fantascientifico, immaginando un gruppo di persone di
diversa estrazione sociale e culturale che si trovano per caso
a dover fare i conti con un ambiente ostile. La mia idea iniziale
è durata pochissimo. Già dopo poche pagine mi sono lasciata
conquistare dalla vena fantasy, e mi sono domandata “perché
mai i due generi dono dovrebbero coesistere?”
63
Non sono stata la prima ad avere questa idea,
naturalmente. Ho semplicemente voluto coniugare
due grandi passioni. E così è iniziata l’avventura
di Un Antico Peccato. Scrivevo per me stessa,
affastellando pagine su pagine, e il manoscritto
si allungava sempre di più. A un certo punto ho
dovuto apporre una cesura, seppure temporanea,
altrimenti sarei andata avanti all’infinito. È bello
quando i personaggi e le loro storie prendono in
mano la situazione, perché l’autore ne diventa solo
il complice entusiasta.
S: Un Antico Peccato è il tuo romanzo
d’esordio. Qual è stata la tua esperienza di
pubblicazione?
G: Quando ho concluso quello che per me era il
primo volume, mi sono ritrovata con un malloppo di
ben ottocento pagine, e l’ho rinchiuso a maturare
per un bel po’. Un sogno nel cassetto è, in fin dei
conti, molto più rassicurate di uno che hai lasciato
volare via. Eppure, alla fine, l’ho tirato fuori e l’ho spedito a qualche casa editrice. Lo ammetto, un
po’ alla cieca. Poi, un giorno, ho ricevuto una telefonata da Luigi Reverdito, che si congratulava
per il bel lavoro e mi diceva che mi avrebbe fatto contattare a breve per discutere di un contratto.
Quando mi è arrivata l’e-mail in cui il curatore della collana Pegaso, Luca Azzolini, mi domandava
se ero ancora interessata a pubblicare il romanzo, sono saltata dalla sedia e ho strillato così forte
da spaventare i vicini.
E così è cominciata l’avventura, con l’editing. Il testo non è stato rimaneggiato granché, ma il mio
«pantagruelico manoscritto» è stato suddiviso in due. Pubblicare un’esordiente è sempre un po’
un salto nel buio da parte di un editore, e chi avrebbe acquistato un mattone alto un palmo scritto
da una perfetta sconosciuta?
Alla Reverdito ho trovato grande professionalità, e ho avuto la possibilità di confrontarmi
con persone davvero capaci. Sono molto contenta del risultato, e molto, molto emozionata,
soprattutto perché dopo nomi come Falconi e Baccalario hanno deciso di includere nella collana
Pegaso anche me. Ancora fatico a ricordare che ora, nel mio piccolo, sono passata dall’altra parte:
da avida lettrice, a scrittrice entusiasta.
S: Nel tuo romanzo spiccano due personaggi femminili forti e tenaci: Jayce e Lerin. In
molti fantasy l’eroe è una figura maschile, mentre le donne sono relegate a figure di
contorno o protagoniste indifese che aspettano soltanto di essere salvate. Come mai
questa scelta? Ti va di parlarci di questi due personaggi e di come sono nati?
G: In effetti, leggendo romanzi non necessariamente di genere fantasy mi sono domandata spesso
perché le donne fossero spesso ricacciate in un angolo, nei panni della fanciulla in pericolo, molle
e senza spina dorsale, che attende il più classico principe azzurro per cavarla dagli impicci. Le
donne che conosco io non sono affatto così: sono capaci, determinate e intelligenti. Combattono
fantasy
64
per quello in cui credono e non hanno paura di
affrontare il mondo.
Ecco, le donne di Un Antico Peccato sono un
tributo a tutte le lettrici che si sentono strette
nel ruolo modesto che tante pagine impongono.
Lerin è forte, fisicamente e caratterialmente.
È una donna completa, sicura di sé, in grado
di compiere in tutta coscienza scelte talora
difficili. Jayce, sebbene più insicura, ha
un’indole combattiva, una mente acuta, ed è
pronta a sacrificare tutto – persino se stessa
– per coloro che ama. Ci sono tante donne
straordinarie, là fuori. Lerin e Jayce, forse,
assomigliano un po’ a loro.
S: A differenza di alcuni fantasy
tradizionali i tuoi personaggi si muovono
su una zona d’ombra, e non si può notare
una netta separazione tra buoni e cattivi.
Caratterizzi i tuoi protagonisti a tutto
tondo, sottolineando sia i pregi che i difetti
caratteriali. Questi personaggi molto
umani, quindi, da dove nascono? Da dove
hai preso ispirazione?
G: Non ho mai amato particolarmente la
dicotomia mutuamente esclusiva del buono e
del cattivo. Anche in questo caso, le persone
reali non sono fatte così. È difficile trovare il
bianco o il nero, perché gli animi sono più
inclini alle sfumature incerte del grigio. I
personaggi di Un Antico Peccato si muovono in
questa labile zona d’ombra, dove l’ambizione si
mescola al rimorso, e la nostalgia al desiderio di
affermazione. In fondo, anche l’azione più bieca
e meschina può nascondere solide motivazioni.
Nessuno agisce senza ragione, per il semplice
gusto di essere malvagio. O per purissima,
fulgida bontà.
I personaggi del romanzo sono ispirati alla realtà
quotidiana, anche perché ritengo difficile, se non
impossibile, narrare di ciò che non si conosce.
Il fantasy e la fantascienza hanno il grande
pregio di poter affiancare a un’ambientazione
mozzafiato storie molto concrete, nelle quali il
lettore
p u ò
facilmente
ritrovare se
stesso. Amore,
sofferenza,
passione, coraggio,
lealtà, nostalgia per la
patria perduta, desiderio
di rivalsa, sono solo alcune delle
emozioni che attraversano le pagine, e
tutte sono intensamente familiari a chiunque di
noi.
S: Essendo un’accanita lettrice, cosa ne
pensi dell’avvento degli e-books? Sei
una tradizionalista e nostalgica, oppure
accogli felicemente questo rinnovamento
nel campo dell’editoria? L’e-book, a tuo
parere, è destinato a soppiantare il
cartaceo (con grande disappunto di librerie
e biblioteche), oppure ad essere un mezzo
che si affiancherà all’editoria tradizionale
e che può incentivare la lettura? Cosa ne
pensi?
G: La “questione e-book” sta dividendo il mondo
dei lettori in fazioni terribilmente agguerrite.
Io mi colloco un po’ nel mezzo. Perché ho libri,
quelli cartacei, un po’ ovunque, e raramente
65
si mantengono così alti? Mi auguro che la carta
e i byte possano coesistere pacificamente, e
che il lettore sia libero di scegliere la modalità
di fruizione del suo romanzo. Non importa come
si legge. L’importante è che si legga, giusto?
dove
dovrebbero
s t a r e .
Tutti
amati,
vezzeggiati,
coccolati, letti e
riletti.
Amo
l’odore
dell’inchiostro, e la sensazione
squisitamente tattile della carta –
un po’ ruvida, ma non troppo – sotto le dita.
Ma amo anche la tecnologia. Moltissimo.
Sono l’orgogliosa proprietaria di un tablet (no,
non dirò quale, niente pubblicità!), e soltanto
nell’ultimo mese avrò acquistato una decina
di e-book, da sgranocchiare comodamente,
con estremo sollievo dei miei polsi. Sì, perché
l’ultimo libro cartaceo che ho riletto è stato la
Trilogia di Bartimeus di Jonathan Stroud. Un
tomo di più di mille pagine. Leggero come una
piuma nello stile, ma decisamente pesantuccio
da sorreggere.
Penso che l’innovazione sia sempre un’ottima
cosa, se sfruttata con criterio. Un libro in formato
elettronico non dovrebbe costare quanto il suo
corrispettivo cartaceo, perché in effetti i costi
di produzione pressoché si annullano. E come
incentivarne la diffusione, se i prezzi, in Italia,
S: Parecchi agenti letterari e case editrici
sono ormai concordi nell’affermare che
la stagione del fantastico sia giunta al
termine, dopo il successo degli ultimi
anni. Nonostante ciò, ogni mese vengono
pubblicati dalle grandi realtà editoriali
romanzi fantasy di autori stranieri che
in patria hanno ottenuto un grande
successo. La qualità lo sappiamo non è
quasi mai eccelsa, soprattutto per quanto
riguarda la letteratura young adult e il
paranormal romance. L’editore italiano,
però, preferisce puntare su un nome
straniero di bassa qualità a discapito di
un esordiente italiano di maggior talento.
Come ti spieghi questo fenomeno? Perché
gli editori italiani non si impegnano nella
promozione delle opere degli autori
italiani?
G: Io non penso che il fantastico morirà mai.
La fantasia è parte integrante della mente
umana. Quando il plausibile mescola le carte
della realtà, quando l’incredibile si stempera
nel possibile, ecco, lì si trova il fantastico.
Quanti grandi romanzi sono intinti nelle acque
magiche del soprannaturale? Stoker, Shelley,
Buzzati, Pennac, Lovecraft, Calvino, la stessa
tragedia greca, intrisa di divinità e portenti...
potrei andare avanti all’infinito a declinare
autori che hanno fatto la storia della letteratura
sconfinando nel fantastico. Cambiano i tempi, e
i generi, ma la passione per realtà diverse dalla
nostra rimane.
L’editoria italiana ha la tendenza ad affidarsi
a filoni – quello dei vampiri, per citarne uno,
o quello degli angeli – che hanno riscosso
successo su mercati differenti dal nostro,
piuttosto che scommettere su romanzi originali,
fantasy
di autori italiani. E naturalmente il lettore,
gironzolando per le librerie, si imbatte solo
in titoli stranieri e di conseguenza si adegua
all’offerta. È un po’ la storia del gatto che si
morde la coda.
Eppure, il nostro Paese conta molti talenti
della penna, anche nel fantasy, che andrebbero
valorizzati, superando quelle vaghe remore
che ancora permangono nei confronti della
letteratura di genere. In fin dei conti, cosa ci può
essere di più straordinario in un libro, quando
riesce a distogliere l’attenzione del lettore dalle
sue preoccupazioni, e anche solo per un breve
momento lo trasporta in un mondo meraviglioso
fatto di magia, passioni, e mondi meravigliosi?
Ritengo che il fantastico in Italia avvia ancora
molto spazio per evolversi. Secondo le proprie
originalissime regole.
S: Con l’avvento di Amazon, degli e-books
e la sempre maggior fruibilità di internet e
delle nuove tecnologie si è affermato
il fenomeno del self publishing, che
in America, più degli altri paesi, ha
fatto conoscere il successo a più
di un autore, basti pensare alla
giovane Amanda Hocking che
debutterà in Italia il 19 gennaio.
Moltissimi autori che scelgono
l’auto-pubblicazione però non
sono altrettanto fortunati, sia
per la mancanza di visibilità e
sia in alcuni casi per la scarsa
qualità dell’opera (con l’autopubblicazione, per esempio, viene
a mancare l’editing professionale al
testo). Qual è il tuo parere da autrice?
Realisticamente, in Italia, l’autopubblicazione è una strada praticabile
per farsi conoscere?
G: Le case editrici sono spesso criticate perché
concedono poco spazio agli esordienti, che
a volte non riescono neanche a raggiungere
l’attenzione delle persone preposte alla lettura
66
dei manoscritti. In Italia si pubblicano ogni
anno 60.000 titoli. Sono un’enormità, ma sono
solo una minima parte rispetto ai manoscritti
che quotidianamente inondano gli editori,
reclamando di essere giudicati. Tuttavia, la
lettura dei testi da parte di professionisti
svolge un ruolo fondamentale, quello della
selezione dei testi validi, sotto criteri stilistici
e di contenuto.
Se potessi pubblicare da me, per esempio, una
raccolta dei miei temi delle elementari –
orrore e raccapriccio –, innanzitutto
non avrei una rete distributiva
alle
spalle
per
promuoverla,
attività che
le case
67
6
editrici invece svolgono con efficienza. E se invece riuscissi
a distribuirla, toglierei spazio ad altri volumi che potrebbero
essere molto più validi del mio guazzabuglio incerto fatto
di fate, elfi, e faraoni maledetti. Quindi, da una parte il
‘self-publishing’ potrebbe permettere a quegli scrittori che
sono effettivamente talentuosi ma il cui manoscritto si è
perso fra centinaia di altri di farsi conoscere ugualmente,
e magari aumentare le loro chance di essere pubblicati in
futuro; dall’altra, elimina completamente la fase di selezione
qualitativa, e rischia pertanto di inondare il mercato di testi,
rendendo difficile la scelta ai lettori.
S: Il tuo romanzo è il primo di una trilogia. Puoi anticiparci
qualcosa in merito? Quali sono i tuoi progetti futuri?
G: Il secondo volume della serie Il Risveglio del Potere
è già concluso, ed è in attesa dell’editing. Mi è piaciuto
davvero scrivere il secondo capitolo, perché contiene più
magia e più azione. Molti segreti verranno svelati, mentre
alcuni misteri si infittiranno ancora. Ora sto lavorando al terzo
volume e non sono ancora certa che sarà quello conclusivo,
visto che la storia ha una costante tendenza a voler prendere
il sopravvento sulle mie intenzioni.
La scorsa estate, inoltre, mi sono dedicata a un nuovo progetto.
Un romanzo questa volta auto-conclusivo ambientato in una
città che amo moltissimo. Per il momento sta riposando nel
suo cassetto, ma non si può mai dire, giusto?
r acconto
Echi di Memoria
di GIULIA MARENGO
DOBRALL, TERZO QUADRANTE, 783 dopo
il III millennio
Non era ancora l’alba.
Il clima mite delle Lande Basse non era
sufficiente a imperlare le corolle dei fiori
di un soffio argenteo di gelo, ma stille delicate di rugiada occhieggiavano timide sul
sentiero.
Un uomo incedeva, lento ma risoluto, su
per il leggero declivio che conduceva sulla sommità dell’altura. Era una figura imponente, ritagliata contro il cielo ancora
bagnato d’inchiostro. Molto alto, portava
i capelli rasati, e il capo era sorretto da un
collo possente. Dopo essersi fermato, esitando, scosse leggermente le spalle muscolose, come se avesse raggiunto una decisione, e allungò il passo. Si muoveva con
grazia sorprendente per un uomo della
sua mole, scivolando leggero e silenzioso
sulle pietre del vialetto.
Volute di una foschia evanescente quanto
un sospiro si arricciavano pigre intorno agli
abiti di fattura semplice, scherzando con
gli stivali allacciati stretti fino al ginocchio.
Giunto in cima alla collina, si fermò un momento per armeggiare con il laccio di plastacciaio che manteneva chiuso un piccolo
cancello fatto di pali sottili, intrecciati a losanghe, poi scivolò all’interno.
Il cimitero di campagna era immerso nella
quiete, mossa soltanto dal pigolio asson-
nato di qualche uccello troppo mattiniero.
L’uomo accarezzò con lo sguardo le modeste lapidi bianche, distrattamente, finché
i suoi occhi non si posarono su una pietra
tombale un poco discosta dalle altre, a ridosso di un frondoso albero di aloreca.
Con un sospiro così lieve da rassomigliare un’illusione, il gigante si arrestò dinanzi
alla lapide, sulla quale si arrampicava un
tralcio odoroso di fiori.
Nella luce color albicocca della terza luna
di Dobrall, le parole incise sulla pietra
erano a malapena visibili, ma lo sguardo
dell’uomo era acuto e conosceva bene la
scritta, come se fosse stata vergata da lui
stesso con mano paziente.
«Mai donna più amata, mai madre più
rimpianta»
Gli occhi grigi si velarono di sofferenza, e
una mano si posò sulla fronte, incerta, evocando piano un ricordo. Nella sua mente,
il suono affilato dell’acciaio che incontra
altro acciaio cantava alto nell’aria, e due
corpi si fronteggiavano, intrecciando sulla
polvere del cortile una danza sinuosa fatta
di affondi e schivate.
Il suo avversario era più giovane, poco più
di un ragazzo, eppure già un abile spadaccino. Padroneggiava quella quiete interiore che l’avrebbe presto distinto fra i compagni di allenamento, e che l’avrebbe
condotto a rivestire un giorno quel
titolo che lui stesso si sarebbe la-
68
sciato alle spalle.
Ora, però, era soltanto uno dei suoi allievi, per quanto dotato, e il gigante sorrise
fra sé mentre arretrava di qualche passo.
Come aveva immaginato, l’altro si sbilanciò in avanti con un lampo di trionfo negli
occhi, certo, con quella sicurezza sfrontata
che hanno i giovani, di aver sopraffatto il
proprio maestro. Un guizzo di lato, e l’uomo evitò la punta smussata della spada da
addestramento, e con una torsione elegante del polso mandò l’arma del suo avversario a rotolare lontano nella polvere.
Per un momento, i due avversari di fronteggiarono, la lama del maestro appoggiata appena alla trachea dell’allievo.
«Non devi mai abbassare la guardia, Laar»,
mormorò, abbassando l’arma e detergendosi la polvere dalla fronte ampia. «Hai
troppa fiducia in te stesso».
Il giovane strinse appena le labbra, rilassando la postura. «Un giorno o l’altro riuscirò a sconfiggerti», ribatté con voce sicura.
Il gigante aprì la bocca per rispondere a
tono, quando la sua attenzione fu catturata
da un movimento, in alto, lungo i bastioni
che circondavano il cortile. Un riquadro di
stoffa, che somigliava a un fazzoletto, era
stato catturato dalla brezza settembrina,
e ora danzava nell’aria, irrequieto. Rimase sospeso finché il refolo dispettoso non
l’abbandonò, poi ricadde molle ai suoi piedi. Entrambi gli uomini alzarono lo sguardo
in direzione del camminamento che orlava
le mura merlate della Rocca.
Lassù, con i lunghi boccoli biondi che riflettevano la luce come un’alone di
sole, una figuretta stava ritta, le dita
ancora tese a trattenere ciò che era
69
loro sfuggito già da qualche istante. La ragazza incrociò lo sguardo dei due uomini
nel cortile e sorrise, agitando la mano in
un cenno delicato di saluto.
Il giovane rispose con un mezzo inchino,
alitando: «Dama Isanne», con reverenza.
Ma il gigante attraversò lo spazio che lo
separava dal fazzoletto con due falcate
rapide e, chinatosi, raccolse il pezzetto di
stoffa e lo ripose nel taschino della giubba
di cuoio.
«Un giorno», assentì, rivolto al suo allievo.
«Ma non oggi».
***
Il sole aveva ormai eclissato le due lune di
Dobrall quando l’uomo si voltò e riattraversò il cimitero a grandi passi.
Non si voltò indietro neanche una volta,
tutto concentrato com’era su ciò che lo
attendeva. In pochi minuti, fu davanti alla
porta di una casa. Era una costruzione modesta, in legno, ma così graziosa nell’elegante semplicità delle sue linee da apparire ben più grande. Tende di stoffa leggera,
giallo pallido, ombreggiavano le finestre,
e viticci di gelsomino si rincorrevano sulla facciata, saturando l’aria con il morbido
aroma dei fiori bianchi.
Sempre in silenzio, l’uomo aperse la porta e svanì all’interno per qualche minuto.
Quando riapparve, portava fra le braccia
un involto, che maneggiava con cura infinita.
Non si curò di chiudere la porta alle sue
spalle. Non avrebbe più fatto ritorno alla
casa nelle Lande Basse.
La strada da percorrere era breve, poche
centinaia di passi appena, ma il gigante camminava lentamente, come se fos-
racconto
se riluttante a percorrere l’ultimo tratto.
Quando infine giunse alla sua meta, strinse
il fagotto al petto con un braccio, liberando l’altra mano per battere tre colpi secchi all’ingresso di una nuova abitazione.
La sua visita doveva essere stata attesa,
perché le sue nocche non avevano ancora
lasciato il legno che la porta venne spalancata con impeto.
Sulla soglia stava un uomo non molto alto,
dalla carnagione olivastra e capelli neri e
folti, che ricadevano sulla fronte in un ciuffo. Intelligenti occhi scuri sovrastavano un
naso aquilino e una bocca dagli angoli leggermente piegati in su, come se fosse in
procinto di aprirsi in un sorriso. Indossava
una veste bianca e fluente, sulla quale erano ricamati, in alto, il simbolo di Acqua e
l’insegna del suo ordine.
Il gigante abbassò il capo in un saluto.
«Guaritore Reel».
L’altro fece un cenno, ma la sua attenzio-
ne era tutta calamitata dal piccolo involto,
stretto in una coperta color arancio.
«Capitano, benvenuto. Volete entrare?»,
domandò, come per un ripensamento.
«Meglio di no». La voce era tersa, quasi
sgarbata. Ma quando tese il fagotto verso
le braccia dell’altro, lo fece con attenzione
spasmodica. «Ecco».
70
Il Guaritore accomodò il peso su un braccio, svolgendo un lembo della coperta. Fra
la lana fece capolino un visetto paffuto.
Un alone vibrante d’oro rosso circondava
la testolina, e i capelli sottili s’arricciavano
appena intorno alle orecchie. Non appena
la luce le piovve sul volto, due occhi nocciola di straordinaria intensità si spalancarono di sorpresa, e la bimba, spaventata
dal volto poco familiare, cominciò a piangere piano, ma con concentrata intensità.
Subito il gigante fece un passo avanti, e allungò una mano verso la bambina.
«Shhht, Jayc’ulla», mormorò, carezzevole.
«Va tutto bene».
La bambina catturò l’indice nel piccolo
pugno e si acquietò all’istante, fissandolo assorta. Dopo qualche istante, scivolò
nuovamente nel sonno, la bocca semiaperta in un piccolo sorriso sognante.
Il Guaritore la guardò con affetto. «La crescerò come se fosse mia», promise. «Non
lascerò che le accada nulla di male».
Lo sguardo che ricevette fu lungo e valutativo. «Avete giurato».
«Ho giurato. E manterrò il mio giuramento. Desiderate che le parli di voi, quando
crescerà?», domandò, esitante.
«No». Dopo un’ultimo sguardo alla bambi-
na addormentata, l’uomo si voltò di scatto, lasciando alle sue spalle il Guaritore ancora ritto sulla soglia. «Se sarà fortunata,
non dovrà mai udire il mio nome».
Eston Reel alzò la mano che non reggeva
la bambina a schermarsi gli occhi. Quel
giorno splendeva il sole e il riverbero era
forte, ma avrebbe giurato di aver visto una
lacrima brillare negli occhi grigi del gigante.
***
MICONDAR, ORLO ESTERNO, 803 dopo il
III millennio
Il fuoco che aveva scoppiettato allegramente nel camino per tutta la sera si era
ridotto a un cumulo di braci morenti.
La Locanda del Boia era avvolta nel silenzio. Gli avventori, dopo battuto le mani
e cantato a squarciagola in accompagnamento alle romanze stonate di Sand Colcher, avevano abbandonato la sala grande
fra risate e pacche sulle spalle. Uno a uno,
tutti gli ospiti della locanda avevano salito le scale diretti alle stanze spartane che
avrebbero condiviso per la notte, e perfino la vecchia Sida, una volta ramazzato
sommariamente il pavimento in pietra, si
era ritirata nei suoi alloggi.
Solo due figure rimanevano, avvolte dalla
penombra che giocava a rimpiattino con i
bagliori di fiamma.
Geth Iarmod osservava la fanciulla ai suoi
piedi, stretta nella coperta di lana grigia
tirata fin sotto il collo. Appoggiava la testa contro le sue gambe, in una posizione
a suo parere terribilmente scomoda, che
però non le impediva di dormire ormai da
qualche ora. Lo sguardo dell’uomo si soffermò sulle dita sottili che stringevano la
stoffa, poi risalirono lungo il volto delicato, ombreggiato dalle lunghe ciglia scure.
Riccioli d’oro rosso raccoglievano gli scarni
barbagli di luce.
Come se avesse percepito il suo esame, la
ragazza aggrottò la fronte, e un lamento
sommesso le sfuggì dalle labbra. Stringeva
la coperta così forte che le nocche sbiancarono, e borbottò una mezza protesta irrequieta.
Geth si sporse in avanti, sfiorandone le
dita, quasi con esitazione, con l’indice.
«Dormi, Jayce di Dobrall», si ritrovò a sus-
surrare come l’eco di una voce lontana.
«Va tutto bene».
Le labbra della ragazza si schiusero in un
sorriso appena accennato, e di nuovo il
sonno l’avvolse di quiete.
71
speciale
« […] La bellezza del mondo, che dovrà così presto soccombere, ha due tagli,
uno di gioia, l’a ltro d’angoscia, che ci dividono il cuore.»
(Una stanza tutta per sé)
73
RITRATTO DI
VIRGINIA WOOLF
Scrittrice dallo stile raffinato e ricercato, acuta critica letteraria, autrice di romanzi
dal carattere sperimentale, saggi, racconti,
circondata da un alone romantico per quella
sua malinconica bellezza ripetutamente offerta dal suo più famoso ritratto fotografico
(eseguito da G. C. Beresford intorno al 1902),
per la fragilità, la frigidità, i disturbi psichici,
il suicidio, ombre della sua vita originate da
fatti concreti, come, in gioventù, le ripetute
violenze sessuali da parte dei fratellastri,
ebbe un’esistenza funestata da gravi dolori,
ma anche costellata di soddisfazioni letterarie.
Arrivata relativamente tardi alla carriera di scrittrice, ma famosa già alla fine degli
anni Venti, attraversò in profondità le problematiche della condizione femminile borghese, costituendo la sua opera un essenziale punto di riferimento per le autrici che
rifiutavano di adeguarsi ai dominanti modelli
maschili e cercavano di elaborare una forma
autonoma di scrittura, divenendo una figura
importante nell’evoluzione del romanzo del
ventesimo secolo e di culto del nuovo movimento delle donne, suscitando enorme interesse anche taluni aspetti del suo privato,
come l’intenso legame con la scrittrice Vita
Sackville-West.
Nata a Londra il 25 gennaio 1882 in una
famiglia facoltosa, di intellettuali, numerosa,
da genitori entrambi reduci da esperienze
matrimoniali, Julia Prinsep sua madre era
donna bellissima e colta. Vedova, dalla precedente unione con Herbert Duckworth aveva avuto tre figli, George, Gerald e Stella, dal
di FRANCESCA SANTUCCI
secondo matrimonio ebbe Virginia, Vanessa
(con la quale molto stretto fu il legame di
Virginia), Thoby e Adrian. Leslie Stephen,
suo padre, storiografo e critico, pure vedovo,
dal primo matrimonio aveva avuto una figlia
mentalmente ritardata, Laura.
Virginia, insieme a sua sorella Vanessa, secondo la tradizione vittoriana fu educata in casa dai genitori, apprendendo dal
padre (al quale non perdonò mai di averla
privata dell’educazione scolastica!) la matematica e l’inglese, dalla madre il latino, il
francese e la storia. Pur non potendo accedere all’Università preclusa allora alle donne
tuttavia ugualmente crebbe colta e ricca di
stimoli, entrando in contatti con gli intellettuali del tempo tramite il fratello Thoby, che
frequentava il Trinity College di Cambridge.
I primi grandi dolori della sua vita furono la morte della madre centro della vita,
fulcro della casa, nel 1895 e, successivamente, della sorellastra Stella, che le provocarono profondi attacchi d’insicurezza. E proprio
dopo la morte della madre, Virginia fu colpita dal primo violento attacco della malattia
che, più volte, si sarebbe riaffacciata nella
sua vita: un crollo nervoso con conseguente
crisi maniaco-depressiva e tendenze suicide.
Scrisse Virginia:
[…] la morte di mia madre, la morte di
Stella. Non sto pensando ad esse: sto pensando al danno insensato che queste morti
hanno causato.1
speciale
In questi lutti il padre — che, dopo la morte della moglie, molto si era appoggiato a Stella
— non riuscì ad essere di alcun conforto, né a Virginia, né agli altri figli e figliastri, e lei, sola,
indifesa, cominciò a soffrire dell’indifferenza del mondo degli uomini, ma ne aveva già conosciuto
anche la violenza subendo, a soli sei anni, un’aggressione sessuale da parte del fratellastro Gerald e, dopo la morte della madre, pure l’altro fratellastro, George, cominciò a molestare sia
lei che Vanessa, (George Duckworth non fu soltanto padre e madre, fratello e sorella delle
povere ragazze Stephen, ma anche il loro amante);2 ciò causò in lei un grave collasso nervoso, peggiorando i disturbi psichici nei mesi in cui Stella, alla quale era molto legata,
cominciava a star male, avviandosi alla fine.
Alla morte del padre, nel 1904, Virginia ebbe il secondo serio attacco della sua
malattia aggravata la sua depressione dal senso di colpa per non avergli espresso
pienamente il suo affetto e tentò per la prima volta il suicidio; la salvarono le cure
mediche e, soprattutto, il grande conforto di Violet Dickinson, amica della defunta sorellastra Stella, che la ospitò nella sua casa, la curò e poi la introdusse al Guardian, il
settimanale clericale londinese. Virginia riuscì, poi, comunque, a vivere una vita normale,
ad essere attiva e impegnata, a scrivere e a viaggiare.
Nell’autunno del 1904, insieme alla sorella Vanessa e ai fratelli Thoby e Adrian, si
trasferì a Gordon Square, nel quartiere londinese di Bloomsbury, dove prese vita il gruppo
Bloomsbury Set, un circolo intellettuale di scrittori e artisti che credevano fermamente
nell’amicizia e nella libertà di tutti, dalle donne agli omosessuali, dalle razze sottomesse
ai poveri, e che fino agli anni Trenta animò la scena culturale inglese, riunendosi settimanalmente in casa dell’editore Leonard Woolf per discutere di arte, letteratura e politica.
Anche Virginia fu tra gli animatori del circolo, insieme ad altri nomi eccellenti come il
romanziere Edward Forster, lo storico e biografo Lytton Strachey e l’economista John
Keynes, poi ispiratore della politica economica di Roosevelt.
Libera, finalmente, dalla presenza dei fratellastri che molestavano sia lei che Vanessa,
stimolata dal nuovo ambiente in cui era inserita, con rinnovati entusiasmi iniziò a dare ripetizioni
serali alle operaie di un collegio della periferia, ad essere attiva nel movimento delle suffragette
e a pubblicare sul “Times Literary Supplement” le prime critiche letterarie.
Il 10 agosto del 1912, dopo aver rifiutato altre proposte di matrimonio, non volendo restare
nubile (A ventinove anni non sono ancora sposata-sono una fallita- non ho figli-e sono anche pazza,
oltre che scrittrice: 3 così aveva precedentemente asserito) sposò Leonard Woolf, accomunata a lui
anche da sogni di gloria letteraria, ma durante il viaggio di nozze compiuto in Francia, Spagna e Italia non
seppe corrispondere alla passione amorosa del marito e ben lo capì Vanessa se così commentò:
Virginia secondo me non ha mai compreso né apprezzato la passione sessuale degli uomini .4
Ben presto, però, Virginia ricominciò a dare segni di squilibrio mentale e nel 1913
tentò il suicidio per la seconda volta, ingerendo una dose massiccia di veronal. Nel
1915 fu nuovamente ricoverata in clinica, rifiutando di vedere Leonard verso il
quale si mostrava particolarmente aggressiva, convinta che lui fosse d’accordo con i medici che la curavano privandola dei suoi amati libri e costringendola ad un’alimentazione forzata e a dormire.
74
n
75
speciale
Si riprese, poi, anche grazie al marito
che, per farle ritrovare fiducia ed equilibrio, le
propose di fondare una casa editrice; acquistarono una piccola macchina da stampa vista
durante una passeggiata a Clerkenwell in un
negozio (davanti al quale si erano fermati come
due bambini affamati di fronte alla vetrina del
pasticciere),5 impararono subito ad usarla e
nacque, così, la “Hogarth Press” che pubblicò opere sperimentali e innovative di scrittori
emergenti di grande talento, tra cui la Mansfield ed Eliot.
Nel 1922 le sue fragili condizioni mentali
subirono un nuovo colpo, allorché dei critici illustri, tra cui proprio la Mansfield, mal giudicarono il suo romanzo “Night and Day” (Notte e
giorno).
Risale a quel tempo la sua amicizia con
Vita Sackville-West, scrittrice e poetessa, donna passionale ed eccentrica, dalle non nascoste
tendenze lesbiche (ma anche la Woolf in gioventù era stata attratta da altre donne), sposata con Harold Nicolson, un diplomatico omosessuale dal quale aveva avuto due figli. Con
Vita Virginia intrecciò una profonda relazione
che non intaccò il suo rapporto con Leonard e
divenne fonte d’ispirazione: fu a lei, infatti, che
pensò nella creazione di Orlando, il protagonista androgino del suo romanzo (la storia di una
nobildonna affascinante che vive attraverso i
secoli cambiando sesso molte volte) definito da
Nigel Nicolson, il figlio di Vita, La più lunga ed
affascinante lettera d’amore della letteratura.6
Virginia e Vita s’incontrarono per la prima
volta ad una cena da amici e da quel momento
cominciarono a frequentarsi, fra alti e bassi, e
a scriversi fino alla fine dei giorni di Virginia,
producendo un epistolario tra i più belli della
letteratura, tenero, fantasioso, gioioso, giocoso.
L’amicizia fra le due donne dalle comples-
76
s e
personalità simili eppure
diverse (Vita navigava a
gonfie vele sulle alte maree,7 Virginia costeggiava in
acque chete8) si sviluppò lentamente, e fu solo nel dicembre
del ’25 che mutò in appassionata vicenda sentimentale. Il 17 dicembre Virginia fu ospite per tre notti a casa di
Vita a Long Barn, e qui ebbe inizio la loro relazione amorosa, scoprendo, finalmente, Virginia,
la passione.
Virginia cercava in Vita, forte, ardente,
virile, dominatrice, insofferente della vita borghese, amante dei viaggi, cacciatrice come
un uomo di donne dalle quali si faceva amare
come un uomo, che possedeva esercitando un
potere assoluto e che poi abbandonava, sempre pronta a nuove conquiste, quella protezione
materna che tanto aveva desiderato nella sua
vita:
«Mi fai sentire - le scriveva - come un
bebè che ha bevuto latte zuccherato.9 »
Vita, che tante donne aveva “cacciato”,
era attratta dalla bellezza e fragilità del corpo
di Virginia, dalla sua “spiritualità”:
c
giat
con
cos
sist
bam
gini
lette
son
mod
con
mai
non
ti ac
rest
un
cos
cred
77
za, e molto. Così,
in realtà, questa
lettera è solo uno
strillo di dolore.
(21 gennaio 1926)
11
Ho
visto Virginia oggi, incredibilmente deliziosa e fragile, semiadata su due seggiole, sotto un manto d’oro;
n la voce esile e le mani affusolate; Virginia,
sì bella e dorata, sdraiata su due sedie, irretibile più che mai, sparito il brillio, rimasta la
mbina.10
E ancora:
Sono ridotta a una cosa che desidera Viria. Avevo composto per te una bellissima
era, nelle ore da incubo della mia notte innne, ed è sfuggita: mi manchi e basta, in un
do molto semplice, disperato e umano. Tu,
n tutte le tue lettere non mute, non scriveresti
i una frase elementare come questa; forse
n la sentiresti nemmeno. Tuttavia credo che
ccorgerai di un piccolo vuoto. Ma lo rivestiti di una frase tanto squisita che perderebbe
po’ della sua realtà. Mentre per me è una
sa fortissima: mi manchi ancor più di quanto
dessi: ed ero pronta, a sentire la tua mancan-
La loro storia
d’amore e d’amicizia, sia pure con
interruzioni fra allontanamenti, fughe,
tradimenti dell’infedele Vita che sempre con furore nuove
donne amava addolorando Virginia, durò
quindici anni, incontrandosi ovunque, in
case, castelli, salotti mondani, fino alle soglie della morte, che colse Virginia lontana da Vita.
Vita è spiritosa e capace di un affetto profondo, voglio dire maldestro e silenzioso. Sono
felice che il nostro amore abbia resistito così
bene.12 In Virginia, con il passare degli anni, pur
continuando l’attività letteraria, sempre più
frequenti diventarono le crisi depressive, peggiorate dalle fobie, comuni un po’ a tutti all’epoca, acuite dalla seconda guerra mondiale. Nel
gennaio del 1941, esattamente il 25, giorno del
suo compleanno, si ripresentarono i segni della
sua malattia, che ben riconobbe, forti emicranie, attacchi di angoscia acuta, depressione
crescente con idee suicide accompagnata dal
senso d’inutilità e di vuoto che le impediva
di scrivere costringendola all’inattività e che
sempre seguiva al termine di un lavoro creativo, quando doveva sottoporlo al giudizio di
tutti. Dopo il momento “maniaco” dell’euforia,
quando, come trasportata in alto da un’onda,
si sentiva forte e potente, e riusciva a creare
dando corpo e vita ad emozioni e forme, torna-
speciale
va l’abbattimento.
zo 1941)13
Sono certa che sto di nuovo impazzendo.
Sento che non possiamo affrontare un altro di
quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la
cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che chiunque avrebbe mai potuto essere.
Non penso che due persone abbiano potuto
essere più
felici fino
a quando
è arrivata questa
t e rri b i l e
malattia. Non
posso più
combattere. So che
ti sto rovinando la
vita, che
senza di
me potresti andare
avanti. E
lo farai lo
so. Vedi
non riesco
neanche a scrivere questo come si deve. Non
riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che
devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se
qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato
tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza
della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone
possano essere state più felici di quanto
lo siamo stati noi. V. (Lettera del 28 mar-
Annichilita dal terrore che la depressione
potesse riassalirla, furiosa contro chi avrebbe
voluta curarla col cibo privandola dei libri, rabbiosa perché non avrebbe potuto più scrivere,
presa da una cupa ossessione di morte, dopo
aver scritto dei biglietti d’addio alla sorella Vanessa e al devoto marito, la cui presenza sempre confortante era stata nei momenti di disagio mentale, Virginia uscì di casa, attraversò i
campi, si diresse verso il fiume Ouse, che scorreva vicino alla sua casa di campagna a Rodmeil, raccolse sulle sponde due pietre pesanti,
se le cacciò nelle tasche e andò ad annegarsi. In una lettera del 1912 a Violet Dickinson
la Woolf aveva scritto che, se si fosse sentita
fallita come scrittrice e come donna, sarebbe
andata ad affogarsi:14 e così fece!
78
Il cadavere, trascinato in mare, fu ritrovato tre settimane dopo, e le sue ceneri furono seppellite sotto un olmo nel giardino della
Monk’s House, a Rodmell.
Quando Vita apprese la tragica notizia
non riuscì a comprendere, ma qualche anno
dopo scrisse a Leonard che se avesse saputo dello stato mentale in cui stava affondando
e si fosse trovata sul posto sarebbe riuscita a
salvare Virginia dalla depressione e dai demoni
della sua follia.
Qualche tempo dopo, poi, si recò a trovarlo a Rodmell; Leonard l’accompagnò nel salottino di Virginia, dove tutto di lei era rimasto
intatto: sul tavolo le sue lane, i lavori di cucito,
il ditale, un quaderno di appunti, riempito dalla
sua scrittura. Vita disse a Leonard:
Leonard, non mi va che tu te ne stia qui da
solo in questo modo. Leonard guardò Vita con i
suoi limpidi occhi azzurri e le rispose: È l’unica
cosa che possa fare.15
Leonard seguì Virginia 28 anni dopo; tra
le sue carte fu trovato questo scritto:
So che Virginia non verrà attraverso il
giardino dal suo studio, eppure guardo in quella
direzione cercandola. So che è affogata eppure
mi aspetto sempre di sentirla entrare. So che il
libro è finito, ma io ancora giro pagina. La stupidità e l’egoismo non hanno limiti.16
Virginia aveva scritto di Leonard:
La sensazione che il proprio essere riecheggi nello spazio, quando lui non è qui a racchiuderne tutte le vibrazioni, non è espresso in
modo molto chiaro, ma è la sensazione stessa
che è strana. Come se il matrimonio fosse lì a
completare lo strumento, e se suona uno solo
penetra come un violino derubato della sua orchestra e del suo pianoforte.17
Vasta fu la produzione di Virginia Woolf, opere in prosa, romanzi e racconti, come
“The Voyage Out” (La crociera), 1915, “Two
Stories” (Due storie) 1917, “Night and Day”
(Notte e giorno), 1919; “Monday or Tuesday”
(Lunedì o martedì), 1921; “Jacob’s Room” (La
stanza di Giacobbe), 1922; “Mrs Dalloway”
(La signora Dalloway), 1925; “Tho the Lighthouse” (Una gita al faro), 1927, “Orlando:
a Biography” (Orlando, una biografia), 1928;
“A Room of OnÈs Own” (Una stanza tutta
per sé), 1929; “The Waves” (Le onde), 1931;
“Flush: a Biography” (Flush, una biografia),
1931; ”The Years” (Gli anni), 1937: “Between the Acts” (Tra un’atto e l’altro), 1941, “A
Haunted House and Other Short Stories”
(Una casa infestata e altre storie). Soprattutto
importanti per il carattere sperimentale i romanzi, in opposizione alla corrente naturalistica
di molti romanzieri del tempo (che si soffermavano sulla descrizione esteriore dei personaggi)
caratterizzati da un’innovativa struttura narrativa volta a polverizzare la trama a favore degli
eventi psichici, a descrivere l’individuo nella
sua interiorità, i vari momenti dell’essere nel
fluire dell’esistenza, non in ordinata successione temporale degli eventi, ma (con) fondendo
passato, presente e futuro, descrivendo le
infinite
s f a c c e ttature
dell’io
(pensieri,
emozioni,
sogni, idee,
impressioni), utilizzando il “monologo interiore” e
il
“flusso di coscienza”
(stream of consciousness)
per scandagliare ed offrire al lettore la più profonda
interiorità del soggetto, le protagoniste eroine
sempre tese alla “verità”, alla “realizzazione”,
sovente raggiunta.
Rilevante anche la saggistica a cui autorevolmente la Woolf si dedicò, con erudizione
e competenza, occupandosi di storia letteraria
inglese, ma anche di argomenti di costume,
in particolare la condizione della donna nella
società del suo tempo. Di grande rilevanza il
lungo saggio/denuncia/protesta “Una stanza
tutta per sé “, rielaborazione di due conferenze tenute nel 1928 ad Oxford e Cambridge sulla
donna e il romanzo (Women and Fiction).
In quest’opera la Woolf si chiede che effetto abbia prodotto sulla creatività femminile
la privazione di una stanza (uno spazio personale) tutta per sé e di risorse economiche. In
analisi lucida, garbata ma impietosa, ripercorre la storia culturale della donna, discriminata,
vessata dalla presunzione maschile, per secoli
considerata inferiore all’uomo, esclusa dalle
professioni, dai luoghi di potere, dai processi
creativi, dagli affari, dalla politica, relegata nel
domestico ruolo prestabilito di angelo del fo-
79
speciale
80
colare, impossibilitata a realizzarsi intellettualmente perché priva di un luogo della casa in
cui potersi concentrare in un progetto artisticoculturale e d’indipendenza economica (tema sul
quale giustamente insiste anche nell’altro importante saggio, “Le tre ghinee”, sottolineando come gli uomini ne abbiano sempre goduto,
a scapito delle donne, che alle loro figlie null’altro hanno avuto da lasciare in eredità se non
la loro povertà, insieme alla subordinazione al
maschio). Esorta, dunque, le donne ad uscire di
casa, ad istruirsi, a limitare il numero delle nascite perché far nascere dei figli comporta sempre la limitazione della realizzazione femminile,
a ritagliarsi spazi propri e a rendersi economicamente indipendenti, perché per poter scrivere romanzi o poesia servono cinquecento sterline l’anno e una stanza con una serratura alla
porta,18 laddove simbolicamente le cinquecento
sterline significano la possibilità di contemplare
e la serratura alla porta la possibilità di pensare
senza l’aiuto di nessuno.19
Concludendo che La libertà intellettuale
dipende da cose materiali. La poesia dipende
dalla libertà intellettuale,20 la Woolf auspica
che le donne un giorno abbiano sufficiente denaro per viaggiare o per oziare, per contemplare il futuro o il passato del mondo, per sognare
davanti ai libri e vagare per le strade e lasciare
che la lenza del pensiero scenda sempre più in
fondo al fiume.21
NOTE
FONTI
V. Woolf, Momenti di essere. Scritti autobiografici, p.216.
op. cit. pag. 226.
3
Woolf, Romanzi.
4
op. cit.
5
op. cit.
6
Adorata creatura. Le lettere di Vita Sackville-West a Virginia Woolf, pag.28.
7
op. cit. pag.22.
8
op. cit. pag.22
9
op. cit. pag.22.
10
op. cit. pag.214.
11
op..cit. pag.87.
12
op. cit. pag.451.
13
Lettere in morte di Virginia Woold, S. Oldfield.
14
The letters of Virginia Woolf, a cura di N. Nicolson e J.
Trautman, Harcourt Brace Jovanovich, New York, vol.I
p.449.
15
Op.cit.
16
L. Woolf , The Journey Not The Arrival Matters.
17
V. Woolf, A Writher’s Diary (Diario di una scrittrice), 1953,
postumo.
18
Una stanza tutta per sé, pag.132.
19
op. cit., 134.
20
op. cit., pag.136.
21
op. cit., pag.137.
22
op. cit., pag.113.
M. Merlini, Invito alla lettura di Virginia Woolf, Mursia, Milano 1991.
1
2
Con tutti gli ovvi limiti e contraddizioni
per gli ormai acquisiti diritti e le sempre più numerose e pari opportunità offerte alle donne,
fortunatamente non più vite infinitamente oscure,22 il saggio, scritto nel consueto stile scorrevole ed elegante, propone numerose riflessioni
tuttora illuminanti sul maschile e sul femminile
e dimostra l’acutezza, la vivacità intellettuale e
la straordinaria modernità del pensiero di Virginia Woolf che, in Italia già molto famosa negli
anni ’30, riscosse un’incredibile successo negli
anni ’60, ponendosi come modello da seguire
per la scrittura femminile.
Adorata creatura. Le lettere di Vita Sackville-West a Virginia Woolf, La Tartaruga edizioni, Milano 1985.
V. Woolf, Saggi, prose, racconti, I Meridiani, Mondadori edizioni, Milano 1998.
V. Woolf, I romanzi, I Meridiani, Mondadori edizioni, Milano
1998.
S. Oldfield, Lettere in morte di Virginia Woolf, Dalai Editore,
Milano 2006.
V. Woolf, Una stanza tutta per sé, La Biblioteca di Repubblica, Ariccia (Roma) 2011.
V. Woolf, Le donne e la scrittura, La Tartaruga, Milano 2003.
V. Woolf, Momenti di essere. Scritti autobiografici, La Tartaruga, Milano 2003.
The letters of Virginia Woolf, a cura di N. Nicolson e J.
Trautman, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1976.
L. Woolf , The Journey Not The Arrival Matters, Harcourt,
Brace & World , New York 1970.
c lassici
82
L’ingratitudine di
Ch a r lot t e
Brontë
di DESY GIUFFRÈ
83
Un topo, stanco della vita delle città e dei tribunali (perché aveva fatto la sua parte in
palazzi di re e in saloni di gran signori), un topo che l’esperienza aveva reso saggio,
insomma, un topo che da cortigiano era diventato filosofo, si era ritirato nella sua casa
di campagna (un buco nel tronco di un grande e giovane olmo), dove viveva da eremita,
dedicando tutto il suo tempo e le sue cure all’educazione del suo unico figlio.
Il topo più giovane, che non aveva ancora ricevuto lezioni severe, ma salutari, che forniva
solo l’esperienza, era un po’ sconsiderato, i saggi consigli di suo padre gli sembravano
noiosi, il riparo e la tranquillità dei boschi, invece di calmargli la mente, lo stancavano.
Crebbe impaziente di viaggiare e di vedere il mondo.
Un bel mattino, si alzò presto, preparò un piccolo bagaglio con formaggio e cereali, e
c lassici
senza dire una parola a nessuno,
l’ingrato abbandonò il genitore e
sua dimora paterna e partì verso
terre sconosciute.
In un primo momento, tutto gli
sembrò affascinante, i fiori gli
apparivano di una freschezza e
gli alberi di un verde mai visti
dalle sue parti - e poi, vide così
tante meraviglie: un animale con
la coda più grande del suo corpo (si trattava di un scoiattolo),
una piccola creatura che portava la sua casa sulla schiena
(una lumaca). Dopo diverse ore
si avvicinò a una fattoria, attirato dall’odore della cucina, entrò
nel cortile – dove vide una sorta
di gigantesco uccello che faceva
un verso orribile mentre marciava con aria feroce e orgogliosa.
Ora, si trattava di un tacchino,
ma il nostro topo lo prese per
un mostro, e spaventato dal suo
aspetto, subito fuggì via.
Verso sera, entrò in un bosco,
stanco e spossato, e si sedette ai piedi di un albero, aprì il
suo pacchettino, mangiò la sua
cena, e se ne andò a dormire.
Si svegliò al verso dell’allodola
con le membra intorpidite dal
freddo, il giaciglio duro sotto il
suo corpo; poi, ricordandosi di
suo padre, l’ingrato ripensò alla
cura e alla tenerezza del buon
vecchio topo, formulando vani
progetti per il futuro, ma era
troppo tardi, il freddo aveva ormai gelato il suo sangue. L’esperienza è stata con lui un’austera
padrona, e gli diede una sola
lezione e un’unica punizione; la
morte.
84
Il giorno dopo un taglialegna trovò il cadavere, e lo giudicò solo una cosa disgustosa - e lo spinse via
con il piede mentre passava, senza pensare che lì giaceva il figlio ingrato di un tenero padre.
Una fiaba inedita e dal triste
finale che vanta la generosa età
di ben 170 anni
di Desy Giuffrè
(Traduzione di Germana Maciocci)
Sono dovuti trascorrere ben 170 anni dalla sua composizione, ma infine è giunta a noi la fiaba
senza lieto fine firmata da Charlotte Brontë, nel lontano 16 Marzo 1842 e intitolata: “L’ ingratitudine”.
In realtà, a detta di Bracken – il ricercatore d’archivio autore del rinvenimento – il testo era un compito di esercizio alla scrittura, assegnato a Charlotte dal suo insegnante, Constantin Heger, durante
il soggiorno a Bruxelles trascorso in compagnia della sorella minore, Emily – futura autrice di Cime
tempesose – per studiare le lingue straniere. Constantin altri non è che il tutore del quale la giovane scrittrice s’innamorò perdutamente… ma questa è un’altra storia.
L’ingratitudine è un testo inedito piuttosto breve, scritto in lingua
francese e ritrovato nel Museo Reale di Mariemont a Bruxelles.
Non mancano alcuni errori di ortografia certamente riconducibili alla giovane età di Charlotte ai tempi della composizione, e la
tematica custodisce una morale dai molteplici risvolti, seppure
apparentemente semplice e ovvia.
A noi tutti è infatti nota l’esistenza ritirata e piuttosto ombrosa
che la vita ha riservato alle sorelle Bronte, unite da una genialità
genetica e particolarissima, ed è dunque facile cogliere il sottile
riferimento che questa fiaba propone in merito al desiderio di
libertà ed evasione da una realtà troppo angusta e opprimente,
sebbene ricca di protezione paterna.
Una libertà però ingiusta, quasi meritevole di una punizione
intransigente come la stessa morte. È infatti questa la trama
centrale di L’ingratitudine, il cui protagonista è un topolino che
decide di abbandonare la casa e l’amore di un padre premuroso, per inseguire il fascino della città. Una fuga breve la sua,
smorzata dalle difficoltà del cammino e dall’inevitabile fine a
cui è destinato colui che sceglie di lasciare qualcosa di sicuro e
perpetuo in cambio dell’ignoto.
Un brano in cui salta immediatamente lo stile fresco e giovane
dell’autrice, sempre però intriso di quella parvenza saggia che
caratterizza il suo essere equilibrata e “di mezzo” tra le diverse
personalità delle tre sorelle Brontë, ovvero tra la dolcezza di
Anne e l’ombrosità di Emily.
Si aggiunge così un altro tesoro al patrimonio che porta con sé
l’impronta dei Brontë, un tesoro dai tratti grezzi, ma non per
questo meno preziosi.
85
speciale
86
di SELENE PASCARELLA
L’Apocalisse è questione di punti
di vista. Quello che per noi è
l’ultimo anno, il lungo count
down verso la fine del mondo,
per i morti che ritornano è un
gigantesco party zombie della
vigilia.
Entro il 2012 i ghoul divoratori
di carne umana, i proletari del
mondo horror nati dall’innesto
tra Caraibi e american suburbs,
percorreranno l’ultimo miglio che
li separa dalla consacrazione,
la fase “terminale” di una
marcia partita appena prima dello
scoccare del terzo millennio. C’è
voluto del tempo (che volete, la
decomposizione è nemica della
fretta) ma poi nemmeno tanto
se ragioniamo in termini di
colonizzazione.
Ri-partiti dalle lande dell’horror
poco meno di una decade fa (Volete
proprio una data? Scegliamo il
biennio 2002-2003, quello di 28
giorni dopo di Danny Boyle e The
Walking Dead di Robert Kirkman)
nei prossimi 365 giorni i walking
dead arriveranno dappertutto e
non è un modo di dire.
horror
Cinema di genere e web series,
narrativa
young
adult
e
pamphlettistica
satirica,
libri
illustrati per ragazzi e bambole per
pre-pre-adolescenti, pilastri della
letteratura e romanzacci rosa sono
il loro terreno di caccia già da
un po’. Saggi scientifici e manuali
politici che utilizzano i non morti
come chiave d’interpretazione del
mondo e codice per ripensare i cardini
intellettuali del XX secolo non sono
più una novità. Vengono sfornati
così tanti prodotti di genere “Z” da
indurre le riviste specializzate ad
aprire rubriche dedicate.
Le ricerche mediche su formiche
zombie
e
virus
prionici
che
potrebbero trasformare gli uomini
in folli cannibali
sono materia
per i media generalisti, assieme
ai pezzi sull’influenza stagionale
e l’omosessualità degli orsi bruni.
Il Center for Desease Control and
Prevention ha inserito gli zombie
tra le minacce alla salute pubblica
americana nel prossimo futuro, in
Messico oltre diecimila zombie hanno
marciato per le strade solo poche
settimane fa e l’attiva partecipazione
dei morti viventi al movimento Occupy
Wall Street li ha ufficialmente
candidati come nemici dell’ordine
pubblico.
88
Volete sapere cosa bolle in pentola
in questo pazzo, decrepito, mondo?
La regola è una e una sola: Follow
the zombies!
I divoratori dondolanti hanno un fiuto
eccezionale per i luoghi di frattura,
il tempo di crisi. La loro epifania
nella cultura di massa avviene a
ridosso della grande depressione e
della cavalcata della vecchia Europa
verso l’incubo del totalitarismo e le
crudeltà immani della seconda guerra
mondiale.
Gli zombie, nella loro primordiale
versione voodoo, sono un incubo figlio
del colonialismo, scaturito dalla
cattiva coscienza di una piccola
fetta di mondo che si alimenta del
sangue, della vita e del lavoro dei
tre quarti restanti.
Il loro successo è immediato e
clamoroso, ma ha una controparte.
Come ogni altro mostro passato della
produzione di genere al consumo
popolare, lo zombie viene assorbito,
modificato, addomesticato. Finisce
nelle strisce per ragazzi e si perde
nel sottobosco degli orrori da drive
in. Ma resiste, pronto a sorprendere
alle spalle una nuova generazione,
quella destinata a cambiare il mondo
con il ‘68.
La
rentrée
zombie
cavalca
la
contestazione
giovanile
lungo
i fotogrammi di The Night of the
Living Dead di Romero, trasformando
il cadavere-burattino (il mostro di
qualcun altro, lo stregone bokor,
di gran lunga più mostro di lui)
nel predatore famelico che divora
ogni vita che incontra, trasforma
qualsiasi
essere
vivente
nella
negazione dell’umano.
Il mass dimensional monster ha il volto
familiare e terrificante del vicino
di casa e la capacità di penetrazione
di un jingle pubblicitario. Preso
singolarmente è un nemico temibile
ma di cui si può aver ragione: è
89
horror
lento, è insenziente e non si rialza
più dopo un colpo ben assestato alla
testa. Di norma però se ne va in giro
a gruppi, se non a orde, costituendo
una minaccia che non lascia scampo:
lenta, insenziente, con una nuova
testa pronta a prendere il posto a
quella appena saltata via.
La
nemesi
perfetta
di
una
società
costruita
sul
mito
dell’autoaffermazione
e
dell’individualismo, eppure incastrata
in una cornice di massificazione e
spersonalizzazione.
Lo zombie di Romero diventa subito
canone abbandonando le suggestioni
fantastiche
e
l’appeal
caraibico
per
l’ambientazione
realistica
e
la
dimensione
metropolitana.
Ma
nei successivi quarant’anni la sua
mutazione non si arresta, continua
sottotraccia, tra exploit e letarghi,
nuove strade e vicoli ciechi.
L’evoluzione del morto vivente non
segue percorsi univoci, non assistiamo
a una eliminazione darwiniana delle
caratteristiche biofisiche del mostro
non più al passo coi tempi. Lo
zombie lento e quello veloce, quello
senziente e il predatore afasico
divora cervelli, coesistono e creano
sempre nuove forme, presentandosi
all’appuntamento con la nuova grande
crisi (quella di oggi) sotto vesti
diverse, contaminate e contaminanti,
in continuo movimento.
Gli zombie non sono «i nuovi vampiri»,
ma la traduzione (in fotogrammi,
spartiti, parole, fotografie, etc.,
etc.) dello spirito apocalittico dei
nostri tempi. Dove tutto torna e la
morte ha smesso di essere un limite:
la guerra è infinita, la pandemia è
globale, il rischio è una condizione
permanente.
L’apocalisse
questione di
abbiamo detto – è
punti di vista, lo
zombie è l’icona
liquida capace
di contenerli
tutti.
È l’escathon,
il game over
biblico:
«Verrà
il
giorno
in
cui i morti
c a m miner a n n o
sulla terra». È
la madre di tutte le
catastrofi,
l’evento
che
separa il tempo in un prima
e un dopo, la rottura di senso
che stravolge dalle fondamenta
l’unica certezza assoluta, la
morte, illuminando ogni nostra
azione, dal passato al futuro, di
una luce nuova, di un significato
sconosciuto.
È la fine che non è la fine,
l’apocalisse che comincia davvero
quando si è ormai consumata.
Ogni buona storia di zombie si
disinteressa non a caso delle origini
del contagio, la sua natura di postapocalittico la proietta oltre, non
a cercare le ragioni della caduta
del vecchio mondo ma ad esplorare la
geografia di quello nuovo.
Una dimensione dove il tempo lineare
non serve più e la natura di ciò che è
umano si ridisegna su nuove coordinate.
Jonathan Maberry l’ha definita «una
terza
condizione
dell’esistenza»,
dove “uomini” e “mostri” sono solo
categorie vuote e fine e inizio si
mordono reciprocamente la coda.
Gli zombie non sono la nuova moda,
ma la narrazione ultima di un mondo
che è morto, e lo sa.
90
horror
INTERVISTA
FRANCESCO SPAGNUOLO
di ALESSANDRA ZENGO
Visto il rinnovato interesse per la letteratura horror concernente la figura
dello zombie, in particolare nel mercato editoriale d’oltreoceano, la casa
editrice Delos Books nota al grande pubblico soprattutto per la serie della
telepate cameriera Sookie Stackhouse di Charlaine Harris e specializzata
nella narrativa di genere ha deciso nello scorso 2011 di creare una collana
interamente dedicata agli zombie, sulla scia del successo di Odissea Vampiri. Il risultato, tutt’altro che scontato, è stato un vasto apprezzamento da
parte del pubblico – complice anche l’edizione di ottima fattura, diversa
dalle altre collane Delos – per i primi due titoli della collana: Rot & Ruin
di Jonathan Maberry, finalista al Bram Stoker Award, e Il Primo Giorno di
Rhiannon Frater, vincitore del Dead Letter Award nel 2008 e romanzo nominato dall’Examiner tra i 10 migliori libri sugli zombie dell’ultima decade.
Abbiamo deciso di intervistare, quindi, il curatore – insieme a Franco Forte,
direttore editoriale Delos Books – della collana Francesco Spagnuolo che ci rivela quando e perché è maturata
questa scelta ardita,
i retroscena redazionali e anche
le anticipazioni
per il corrente anno.
Speechless: La Collana Odissea
Zombie è giunta,
ormai, al secondo titolo con il romanzo Il Primo Giorno di Rhiannon Frater. Questa collana, di cui sei il co-curatore insieme a Franco
Forte, ha avuto gli esiti che avevate immaginato inizialmente?
Francesco Spagnuolo: Ciao, Alessandra. Se
per esito
intendi le vendite, bÈ è ancora presto per darti
una stima
precisa, soprattutto per Il primo giorno di Rhiannon
Frater, che
è stato distribuito da troppo poco tempo. Per Rot & Ruin invece posso dirti
che da giugno – mese di distribuzione – a oggi le copie sono in esaurimen-
92
ARMATEVI DI CLAVE, SPRANGHE E BADILI,
SENZA DIMENTICARE QUALCHE ASCIA:
GLI ZOMBIE SONO ARRIVATI!
93
horror
to. Per quanto riguarda gli esiti delle recensioni,
direi che sono state positive fino a oggi, e in entrambi i casi. Molti blogger hanno preso l’iniziativa chiedendo e ottenendo interviste da entrambi
gli autori. Tirando le somme: sì, siamo soddisfatti,
considerando anche che viviamo a stretto contatto con la crisi economica.
S: Com’è nata questa nuova collana? Quali sono
i suoi obiettivi?
F: È nata dopo una mail di Franco Forte, che mi
chiedeva di aiutarlo nella curatela dei romanzi,
soprattutto nel lavoro di scouting (che amo alla
follia). L’obiettivo iniziale era di avvicinare i lettori
a un tema conosciuto solo attraverso i film di George Romero, il che
a complicato un
po’ le cose all’inizio perché l’horror
vive di pregiudizi in
Italia. Mi è capitato
di leggere un po’
di tutto sul Web.
Ma ripeto, molti si
stanno avvicinando
e stanno scoprendo
che in tema di zombie c’è molto da
dire e da leggere.
L’altro obiettivo, più
importante, è quelFRANCESCO SPAGNUOLO lo di dare ai lettori
solo testi validi. Vogliamo che chi investe nella collana sia ricompensato con una storia
che, durante la lettura, trascini via la mente dalla
realtà per una realtà fatta di carta e inchiostro
altrettanto incandescente e appassionante. Vorrei
che i lettori si appassionassero a queste storie, a
tutti i romanzi che porteremo. L’obiettivo futuro
è di arrivare a dieci titoli l’anno, con una cadenza
simile a quella relativa alla collana ammiraglia,
Odissea Vampiri. Speriamo di riuscirci.
S: Stiamo vivendo una sorta di revival degli zombie, sia in campo letterario che cinematografico.
Basti pensare agli innumerevoli nuovi romanzi
sugli zombie di recente pubblicazione (in particolare sul suolo statunitense) e all’enorme successo
ottenuto dalle prime due stagioni di The Walking
Dead. Da cosa pensi sia dipeso questo fenomeno? Cosa cattura di questa figura appartenente
all’immaginario dell’orrore?
F: Sì, stiamo vivendo un revival è vero, e come
è successo con i vampiri e i licantropi, anche gli
zombie sono stati reinventati (ma non per questo
rammolliti). Come nasca il fenomeno non saprei
dirtelo, sì, certo, potrei attingere al passato e dirti
che in tempo di crisi o di particolari momenti bui,
l’horror e le sue varianti riemergono come fanno
gli zombie; o che gli zombie sono la materializzazione di qualche paura profonda che ha a che
fare con la fine dei tempi, ma questa per me è
solo una parte della torta, l’altra metà la gestisce
probabilmente chi fa marketing ad alto livello (gli
americani). Di sicuro The Walking Dead, la serie
Tv, ha sensibilizzato l’opinione pubblica, generando curiosità e voglia di approfondire, motivo per
cui c’è più attenzione sui libri di questo genere da
parte dei lettori, ma anche degli scrittori che con
il mondo degli zombie stanno variando parecchio
rispetto all’universo tratteggiato da George Romero.
S: A tuo parere, come conseguenza di questa
nuova tendenza letteraria, si potrà assistere ad
un rinnovato interesse anche per il genere horror,
disdegnato dai più e relegato a genere di nicchia
per pochi appassionati?
F: Sì, l’interesse verso gli zombie ha sicuramente
94
4
risvegliato gli animi, non solo dei fedelissimi, verso
le tematiche horror. I libri con gli zombie affrontano molti temi però, che porteremo nella nostra
collana nella speranza di coinvolgere e avvicinare
sia i nostri lettori abituali, spingendoli verso nuove
frontiere, sia i duri e puri del genere che amano le
storie legate al vecchi canoni del genere, ma reinterpretati sotto una nuova luce. Il mercato offre
una varietà di temi, e le nostre prossime uscite
rimarcheranno ancora di più questo dettaglio.
S: Parliamo di come vengono selezionati i titoli
da pubblicare. Quali criteri utilizzate per la scelta
e cosa ricercate in un autore e in un testo adatto
per questa nuova collana? Potremmo leggere a
breve anche qualche autore italiano?
F: I fattori e i criteri sono tanti e non sempre
uguali per ogni testo. E vivono in base ai tempi in
cui si fanno le scelte, perciò non c’è proprio una
regola ferrea. Esiste, però, un’idea di fondo per
quanto riguarda l’uniformità e il tipo di opere che
possono o non possono rientrare nella collana. Altra cosa a cui stiamo attenti è la qualità dell’opera
o dell’idea di fondo di un romanzo. Una buona
opera fa parlare di sé. Se la qualità del testo è
elevata, ne saranno felici i nostri lettori e perfino
quelli che fino a oggi sono stati un po’ in disparte.
Sono convinto che riusciremo ad accontentare sia
lettori che amano l’horror sia lettori che si avvicinano alla collana e alla tematica per la prima
volta, e questo proprio attraverso l’universalità dei sentimenti intrinseci ai romanzi che porteremo in Odissea
Zombie. Perciò preparatevi
a una grande quantità di
temi e modi diversi di vivere
l’esperienza “Zom”.
Spero di poter inserire qualche italiano in
futuro, ma dovranno esserci le condizioni adat-
te, sia per quanto riguarda la robustezza della collana, che è relativamente giovane al momento,
sia la maturità dei lettori italiani che ancora non
leggono i nostri scrittori di genere. Penso che un
progetto vincente e il nome dell’autore possano
fare la differenza. Si vedrà.
S: Recentemente è uscito il romanzo Warm Bodies di Isaac Marion, da cui verrà tratto anche
un film prodotto dalla Summit Entertainment
(Twilight). Quello che ha fatto “discutere” gli appassionati di horror è il tipo di zombie proposto
dall’autore statunitense: uno zombie con dei
sentimenti che si innamora di una giovane
umana. Cosa ne pensi di questa dubbia
scelta? Dopo i vampiri cercheranno di
rendere fascinosi anche gli zombie?
F: BÈ, non posso e non voglio
entrare nel merito delle scelte
altrui, che sono sicuramente
motivate da altri criteri.
Posso dirti che il mercato offre, a parte il
romanzo che citi,
questo tipo di
storie. In
Odis-
horror
sea Zombie non ci saranno però storie su quel facsimile. Questa è una decisione presa sin dall’inizio
con Franco Forte. Così come non abbiamo intenzione di trascinare dentro lo splatter fine a se stesso. Per gli zombie, per i nostri zombie, sono altri
gli ingredienti che cerchiamo. Toccheremo molti argomenti, che in qualche maniera si legano all’idea
della collana, nonostante la diversità del genere a
cui appartengono, ma non porteremo dentro storie tipo quelle che ho appena citato.
S: Parliamo del futuro. Quali saranno le nuove
uscite della collana Odissea Zombie? Nuovi autori e graditi ritorni per il 2012?
F: Per il 2012 Odissea Zombie tornerà con tre
romanzi. Ognuno dei quali tratta gli zombie in
maniera differente. A maggio, durante la prossima Fiera Internazionale del libro a Torino, tornerà
il nostro Jonathan Maberry con Dust & Decay,
volume due delle Cronache di Benny Imura, che
la bravissima Delia Mazzocchi sta traducendo per
noi. Questo romanzo è qualcosa di incredibile. E
ancora più appassionante di Rot & Ruin. La quadrilogia è destinata a far parlare di sé, c’è poco da
dire. Anzi, spero che si aggiudichi il Bram Stoker
Award che verrà decretato a marzo.
A settembre arriverà un romanzo con gli zombie
molto particolare, apprezzato da tutti: recensori
affermati, blogger (duri e puri dell’horror), associazioni letterarie e librarie. Ha vinto l’ALEX Award, un
premio – vinto da gente come Neil Gaiman – per
opere di genere fantastico ideato dall’A.L.A. (American Library Association) nel 2010, superando
persino opere del calibro di The Passage di Justin
Cronin. È stato finalista, e quindi in nomination,
allo Shirley Jackson Award 2010 e al Philip K.Dick
Award 2010. Un romanzo lirico, che colpisce, e
che affronta in maniera stupenda la condizione
96
umana al tempo dei non morti, che qui vengono
chiamati Meatskin, ma che sono zombie in tutto
e per tutto e che infestano le strade. Il titolo è The
Reapers are the Angels. Molti lo hanno paragonato a una via di mezzo tra lo stesso The Passage
e The Road di C.Mccarty. La traduzione è stata
affidata a Cristiana Astori, e questo è un altro colpo considerando che la Astori è famosa per le sue
traduzioni e che ha accettato di far parte di questo
progetto. Spero di tenerla con noi ancora a lungo,
non solo per quest’opera.
L’ultimo romanzo arriverà a novembre. E si entrerà
nel cuore del thriller e del bio-terrorismo. La protagonista sarà una detective che dovrà vedersela
con gli zombie. L’autore è sempre Jonathan Maberry e l’opera è Dead of Night. La traduttrice
è Annarita Guarnieri che moltissimi lettori della
collana Odissea Vampiri conoscono già.
In tema zombie, vorrei ricordare ai lettori un altro
appuntamento (spero gradito). La Delos Books
si è aggiudicata i diritti di traduzione di Twittering from the Circus of the Dead di Joe Hill autore di prestigio mondiale, che è anche l’arcinoto
figlio di Stephen King. Il racconto a tema zombie
è stato opzionato per un film e dovrebbe vedere
la luce nel 2014. Noi siamo contenti di averlo in
esclusiva perché il suo racconto verrà pubblicato
sul numero 3 dell’almanacco di Horror Magazine
(“H”), che da 2012 diventa annuale e pubblicato
ad Halloween.
Colgo l’occasione per salutare e ringraziare tutti i
nostri affezionati lettori, che ci aiutano a far vivere
un sogno in un periodo difficile come questo che
stiamo vivendo.
rAcconto
traduzione di
Roberta
Maciocci
di RHIANNON FRATER
Monica odiava il sapore di benzina.
Meglio prelevare la benzina dai serbatoi delle
automobili bloccate lungo la strada che tagliava il
deserto. Purtroppo, questa volta aveva aspettato
troppo prima di togliere le labbra dall’estremità
del tubo, da ritrovarsene in bocca alcune gocce
calde e brucianti. Sputò furiosamente, afferrò la
bottiglia d’acqua che aveva messo al suo fianco
per precauzione. Si sciacquò subito la bocca,
mentre cercava di inserire l’estremità del tubo
nel recipiente rosso della benzina, senza sprecare
troppo carburante.
“Merda”, brontolò, poi si ricordò che aveva bisogno
di rimanere in silenzio.
L’aria secca e calda del deserto agitava
furiosamente la sua coda di cavallo sotto il
berretto da baseball, sferzandole viso e collo
con le ciocche dei suoi capelli scuri. Nonostante
il caldo, indossava una giacca di jeans. Guanti da
moto e stivali malconci da cowboy completavano
l’abbigliamento. Cercava di mantenere il suo corpo
il più possibile coperto non solo per combattere i
raggi ardenti del sole o l’aria fredda del deserto, ma
anche per proteggersi dai morsi dei denti dei nonmorti.
Accovacciata accanto a una station wagon
sfracellata, guardava verso le montagne lontane
oltre il cofano accartocciato aggrovigliato attorno a
un palo. El Paso si trovava oltre le colline scoscese.
Era stata la sua casa per anni, ma ora era diventato
il deserto dei non-morti. Si era appena salvata
97
racconto
la vita. Se non fosse stato per il camion
di Beto, sarebbe morta come il suo exfidanzato.
Scansionando la zona che la
circondava, si rialzò in piedi.
I polpacci cominciavano ad
intorpidirsi, da quanto era stata
accovacciata. La benzina era
come acqua che scorre da un
rubinetto. Era ancora più assetata,
dopo la boccata di benzina.
Sorseggiò altra acqua, risciacquandola
all’interno della bocca, sputò, poi bevve
una lunga sorsata.
Tutto era stranamente tranquillo in questo
tratto della Interstate 10. L’unico rumore era
quello del vento, della benzina che riempiva
il bidone, e di due ragazzini zombie che
battevano sul vetro posteriore della station
wagon, ringhiandole contro.
Alzando lo sguardo, provò una fitta di dolore
per i due bambini non-morti dai capelli e gli
occhi scuri. Le ricordavano un po’ lei e di suo
fratello, Sergio, da piccoli. Purtroppo, erano
tutti e due coperti di morsi sulle braccia e
sul collo. Vestiti di abiti da bambini stile
Disney incrostati di sangue secco, erano
la triste testimonianza della diffusione
di quella piaga che aveva spazzato via il
mondo. La loro madre era morta, davvero,
sul sedile anteriore della vettura distrutta,
il cervello schizzato su tutto il cruscotto e il
parabrezza. Nessuna traccia del padre. Era
ciò che di più la preoccupava. Non c’erano
finestrini rotti o portiere aperte. Eppure,
qualcuno doveva essere stato alla guida al
momento dell’incidente. Si chiese se era
riuscito a uscire dalla macchina e chiudersi
la portiera alle spalle.
La benzina era ridotta ad un filo.
I ragazzi zombie battevano sul finestrino,
macchiandolo di sangue e putrefazione.
Morbosamente, Monica bussò alla finestra.
Entrambi i ragazzi premettero il naso e le
labbra al vetro, digrignando i denti verso di
lei, voracemente, cercando di morderle le
dita.
“Siete piuttosto stupidi, non è vero?”
Tirando il pezzo di tubo da giardino che
aveva usato per prelevare la benzina dal
serbatoio della vettura, si alzò e studiò il
circondario. La I-10 era deserta tranne che
per la station wagon e per il grande didietro
del monster truck di Beto, parcheggiato
dietro la macchina. Gli spinner massicci
sul lato erano macchiati di sangue e
putredine. L’auto da sogno di Beto era
stata la sua salvezza, quando era uscita
da El Paso. Tutto il duro lavoro fatto per
convertire un vecchio camion Ford in una
creatura mostruosa con fiamme di vernice
spray fiamme lungo le fiancate, gli alettoni
verniciati di nero, e le alte sospensioni
l’avevano beneficiata molto di più di quanto
non avesse mai impressionato i suoi amici .
Monica arrancò verso il monster truck, la
benzina che sciabordava dentro la tanica,
la mano sulla pistola infilata nella cintura.
Anche l’arma era di Beto. Gliel’aveva sfilata
dalla mano, una volta morto.
Mentre saliva sul predellino del camion
per il rifornimento, scrutò nuovamente il
circondario, per scorgere segni di nonmorti. La I-10 brulicava di loro, quando era
uscita dai confini di El Paso. Le gomme
erano ancora incrostate di budella. Invece,
questo tratto di strada solitaria era deserto
come il terreno intorno a lei.
I bambini zombie battevano ancora su
un finestrino posteriore, ringhiandole
avidamente. Li fissò, sospirando.
Perché lei era ancora viva mentre i bambini
erano morti?
L’anno precedente, aveva fatto un sacco di
cose delle quali si era che pentita. Beto è
98
99
stata una di quelle. Poderoso, calvo, tatuato,
un arrogante messicano-americano, Beto
possedeva il fascino del cattivo. Meccanico
di professione, qualche losco affare con
gente dall’altra parte del confine, Beto
pensava a sé come ad un uomo da non
sottovalutare. Lei lo aveva incontrato
mentre lavorava al Chili come cameriera
tuttofare. Erano stati insieme quasi un anno
prima che lei non riuscisse più a sopportare
le sue stronzate. La trattava come una
principessa, ma la tradiva in continuazione.
Era ancora difficile da credere che il suo
ragazzo, duro come l’acciaio, fosse morto,
mentre lei era ancora viva. Ed era stata
stramaledettamente colpa sua, se era morto.
Non poteva credere che era passato solo un
giorno da quando aveva caricato le sue cose
sul vecchio beat-up Mustang, mentre Beto
le gridava dietro. Ora si chiedeva se erano i
proclami d’amore o l’insignificanza dei suoi
tradimenti, ad attirare la sua attenzione
su di lui. Chiudendo violentemente il
bagagliaio, si era eretta, pronta a dirglielo,
quando aveva visto una creatura da
incubo correre verso Beto, dall’altra parte
della strada. l primo pensiero di Monica
era stato che l’uomo dal viso maciullato
dovesse essere uno scherzo. Gli zombie non
esistevano, eppure qualcosa dentro di sé le
aveva detto che ciò che vedeva era reale.
Quando finalmente era riuscita a gridare
un avvertimento, era stato troppo tardi. Lo
zombie aveva buttato per terra Beto, i denti
seghettati che dilaniavano il collo carnoso.
Beto aveva istintivamente estratto la
pistola, ma era troppo tardi. L’abitudine
costante ad avere a riconoscere la gravità
delle malattie, aveva portato Monica
a capire che lo zombie aveva colpito
un’arteria. L’arco di sangue era stata una
fontana che sgorgava sopra lo zombie e
su lei stessa. Appena Beto era caduto, lei
aveva preso a calci in faccia lo zombie con
il tacco dello scarpone. Concentrato sulla
preda, lui l’aveva ignorata. Afferrando la
pistola dalla mano ancora tremante di Beto,
si era eretta sopra i due. Due proiettili nella
parte posteriore e la testa dello zombie si
era immobilizzata. Singhiozzando, si era
guardata intorno, mentre l’agonia del suo
fidanzato aveva avuto fine.
“Cazzo,” aveva sussurrato, pulendosi il
viso dal sangue. Se fossero stati veri
quegli stupidi film di Juan sugli zombie,
Beto sarebbe tornato. Lei non riusciva a
sparargli. Forse non si sarebbe trasformato
in uno zombie.
Quando Beto, da morto, aveva aperto gli
occhi e si era lasciato sfuggire un urlo
ultraterreno, lei gli aveva sparato due volte
alla testa.
“Cazzo, sono davvero zombie», ansimò.
Terrorizzata, aveva tirato fuori le valigie
dalla sua Mustang e le aveva gettate nel
portabagagli del camion di Beto, aveva preso
le chiavi, e se la era data a gambe. Aveva
attraversato come una pazza la periferia di
El Paso, vedendo scene che sembravano
venute fuori da quei film stupidi che vedeva
sempre suo cugino Juan. Eppure, doveva
esserle grata perché quell’ossessione le
aveva salvata la vita. Era stata decisamente
in grado di uccidere sia Beto che lo zombie.
Svitando il tappo del serbatoio della
benzina del monster truck, Monica cercava
di non soffermarsi sui terribili eventi del
giorno precedente. Ogni volta che pensava
al momento in cui aveva visto lo zombie per
la prima volta, le sue mani cominciavano a
tremare. Le dita che le tremavano, posizionò
il tubo per il combustibile nel camion. Il
gas risuonò nel serbatoio quasi a secco
mentre lei si sporgeva oltre il bordo del
cofano del camion. I suoi capelli sferzavano
contro gli occhiali da sole, mentre pregava
che il gas potesse durare fino a quando
racconto
avrebbe potuto trovarne altro da prelevare.
Guardando indietro, verso l’autostrada, si
chiese se Juarez stesse ancora bruciando e
se El Paso fosse ancora in fiamme. Durante
la sua folle fuga dalla città, aveva visto il
fuoco ardere dall’altra parte del confine.
Girando lo sguardo verso la direzione
opposta, si chiese quanto tempo ci sarebbe
voluto per arrivare nella sua città natale.
Ashley Oaks, in Texas era lontana. Era stato
difficile arrivare fino a lì, attraversando
autostrade affollate da zombie, poi facendo
percorsi fuori strada, per chilometri,
cercando di evitare ingorghi enormi. Aveva
trascorso la notte accovacciata nella
cabina del camion, ascoltando esplosioni in
lontananza.
“Dio, ho fame”, mormorò.
Aveva bisogno di cibo, prima possibile. E
anche di acqua.
Il sudore le colava dal naso, e si asciugò
il viso con le mani coperte dai guanti. Era
necessario credere che la sua famiglia fosse
ancora viva, ad Ashley Oaks. Anche se suo
fratello Sergio non era sempre stato così
sveglio nello scegliersi le amicizie, riusciva
a cavarsela abbastanza bene. Sperava
che con lui si fosse salvata anche la “zia
Rosie”. Sua madre e suo padre erano morti
da tempo in un tragico incidente stradale.
Rosie, Juan e Sergio erano tutto ciò che le
rimanesse al mondo. Doveva credere che
fossero al sicuro ad Ashley Oaks. Tutto
100
stava a riuscire ad arrivarci.
Mentre avvitava il tappo sul serbatoio di
benzina, sentì una sorta di impatto contro
il lato del camion. Il cuore in gola, si era
sollevata, impugnando l’arma.
“Aiutami!”
Lentamente, fece un passo verso l’altro lato
del camion che dava sulla strada e sbirciò
oltre il bordo del cofano. Un uomo si era
appoggiato pesantemente contro la porta,
e picchiava la mano contro il metallo. Aveva
i capelli pieni di polvere e volto gravemente
bruciato dal sole. Gli occhi gonfi cercavano
di metterla a fuoco, mentre le sue labbra
screpolate fecero per parlare.
“Aiutami!”
“Sei stato morso?”
Scuotendo la testa, l’uomo proruppe in
profonde boccate d’aria. Il sudore gli colava
dal suo volto ed i suoi vestiti erano umidi.
“No, signora», disse. “Devi aiutarmi.”
I bambini zombie ringhiavano e battevano
i pugni contro il finestrino posteriore della
station wagon, gli occhi morti fissi sull’uomo.
“Dov’eri?” Monica guardò intorno il
paesaggio arido di nuovo.
“Nascosto in un fosso lungo la strada. Mi
sono svegliato e ho visto il camion “.
“Come ti chiami?”
“Ramon”.
“È la tua macchina, Ramon?”
Singhiozzando, l’uomo annuì. “Sì.. Siamo
usciti da El Paso, ma mia moglie è stato
morsa mentre scappava dal lavoro. Giaceva
nella parte posteriore con i bambini. Ho
pensato che si fosse addormentata, ma poi
i ragazzi hanno iniziato a urlare. Lei ... lei ...
era ....”. Si coprì il viso con la mano, cercando
di non guardare la station wagon ed i suoi
terribili passeggeri. “Lei stava attaccando
i bambini. Io ... io ... stava venendo anche
verso di me, e l’auto ha sbandato e lei ... “
“Non c’è bisogno di aggiungere altro. Ho
capito “, disse Monica. Non era troppo
difficile ricostruire la situazione. La
moglie zombie lo aveva attaccato, uno
strattone al volante, aveva colpito il palo,
la moglie zombie aveva urtato sul cruscotto
spappolandosi il cervello, e Ramon era
scappato dalla macchina.
“Per favore, aiutami”, Ramon sussurrò. “Per
favore”.
Rimettendo via la pistola nei jeans, Monica
si chinò a lato del camion. I suoi piedi erano
quasi a terra quando sentì Ramon che le
sfilava via la pistola.
“Che diavolo?”, ruggì contro di lui, atterrando
con un tonfo pesante sull’autostrada.
“Dammi le chiavi,” ordinò Ramon. La sua
mano tremava e i suoi occhi scuri erano
pericolosi, pieni di dolore e di una più
profonda, terribile emozione.
“Assolutamente no”, rispose Monica, con
rabbia crescente. “Stai cercando di rubarmi
il camion, dopo che stavo per aiutarti?”
“Ho bisogno di uscire di qui!” Ramon gridò,
sputando saliva dalle labbra screpolate.
“Non posso stare qui! Sono tutti morti! “.
“Senti, ti porto via da qui se ti dai una
calmata!”
“Devo andarmene da qui!” Ramon urlato.
“Devo andarmene da qui! Non capisci? “
I bambini zombie erano al massimo della
frenesia, ora.
“Non ti lascio il mio camion!”
Ramon le puntò la pistola al petto. “Dammi
le chiavi!”
“Perché fai così?”
“Devo andarmene da qui!”
Erano state l’intensità del suo sguardo e
la disperazione nella sua voce che alla fine
avevano rivelato che l’uomo era uscito di
senno. Era fuori di testa. Il corpo tremava
violentemente, faceva una smorfia ogni
volta che udiva i bambini morti battere le
mani contro il finestrino.
Abbassando la voce, Monica disse:
“Ramon, lascia che ti porti via di qui.” Non
c’era storia che fosse sopravvissuta così a
lungo per permettere a un pazzo rubare il
suo trasporto.
“Sapevo che era morta, ma ho continuato
a guidare”, ha sussurrato. “Ho continuato a
101
racconto
guidare perché avevo paura”.
Monica deglutì a fatica, lottando per tenere
emozioni e parole sotto controllo. Era così
arrabbiata da accantonare la sua paura e
non poteva permettersi di fare stupidaggini
con una pistola puntata al petto.
“Ho pensato che forse lei non sarebbe
tornata come gli altri. E ‘stato un piccolo
morso. Più come un graffio. I bambini
piangevano, dicendomi che non si svegliava,
ma ho continuato a guidare. Anche quando
hanno cominciato a urlare, ho continuato. “
Monica realizzò che Ramon non stava
parlando con lei. La sua confessione era
per se stesso e forse per i suoi figli. Poteva
vedere i suoi occhi che lottavano per non
guardare in direzione dei bambini.
“Ramon, tutti commettiamo degli errori”,
disse infine.
“Ho bisogno di andarmene da qui”, Ramon
borbottò di nuovo.
“Dove hai intenzione di andare, Ramon?”
“Non lo so. Da qualche parte ... “
“Lascia che ti porti con me da mio cugino.
È un esperto di zombie. Saprà cosa fare”.
Lo sguardo di Monica non si staccava
dall’arma.
Ramon scosse la testa, le lacrime gli
scendevano sulle guance ustionate mentre
il muco gli colava dal naso. “No, no. Non c’è
speranza “.
“Ramon, cerchiamo di farcela insieme.
Dobbiamo stare insieme. Siamo ancora vivi
“, insistette Monica.
“Tu non sei mia amica cazzo, puttana! Tu
non sei la mia famiglia! La mia famiglia è
morta! “Ramon le urlò in faccia, con le dita
che iniziavano a premere il grilletto.
Monica si buttò da un lato e gli afferrò il
braccio e in attimo si mise alle sue spalle.
La pistola non gli cadde di mano come aveva
sperato. Iniziò invece a sparare mentre
cadeva. I proiettili si conficcarono nella
fiancata del veicolo. Ramon, atterrato sulla
schiena, iniziò a muovere l’arma verso di lei.
Monica gli si lanciò sul petto e gli afferrò il
polso, allontanandolo con il peso del corpo.
Ramon continuava a sparare.
Vicino a loro vetri frantumati mentre
combattevano a terra per l’arma. Squilibrato
e senza un briciolo di senno, Ramon urlava
parole mute contro di lei.
La pistola cliccò a vuoto.
Il gomito nel naso di Ramon, Monica si
gettò all’ indietro. Conosceva il significato
di quel rumore di vetro rotto. Armeggiando
per le chiavi, trovò il coraggio di guardare
verso la parte posteriore della station
wagon. La bambina era già a terra,
strisciando verso il padre. Il bambino stava
strisciando attraverso il buco nella finestra.
Ramon giaceva a terra, singhiozzando e
piagnucolando, mentre guardava avvicinarsi
i suoi bambini, morti.
Monica bestemmiò tra sé. Tirò a sé
la portiera, si arrampicò sul sedile del
conducente e girò la chiave nel blocchetto
di accensione. Il grosso camion ruggiva
alla vita e lei rapidamente inserì la marcia.
Facendo retromarcia col camion, vide
Ramon sporgersi per abbracciare i suoi figli
zombificati.
Le labbra serrate in una espressione tetra,
Monica volse le spalle all’uomo, lasciandolo
al suo destino.
Il suo, di destino, era un altro.
102
Una
storia
delicata
e romantica, sospesa
tra la magia e la
tenerezza, con accenti
che
richiamano
la
struggente poesia di
Edward Mani di Forbice
e de La Sposa Cadavere
di Tim Burton.
DAL 4 APRILE IN LIBRERIA
NARRATIVA
Mr.
Gwyn
e l’uomo che non c’è
di DESY GIUFFRÈ
104
Fuggire. Fuggire dal mondo e da se stessi. E poi
ritrovare la strada di casa, la strada del ritorno:
quella capace di mostrare il paesaggio che
ognuno di noi è.
È uscita per Feltrinelli, nel mese di
Novembre 2011, l’ultima e attesissima
opera firmata da Alessandro Baricco:
Mr. Gwyn, romanzo dagli strani equilibri
che lasciano una specie di dolce-amaro in
bocca, non appena questi vengono svelati
al termine della lettura.
Un giorno qualsiasi, non più speciale
degli altri, uno scrittore di notevole fama
decide di dare una svolta a quel che era
stata la sua vita fino a quel momento. La
passeggiata lungo il viale Regent’s Park
sembra aprire una visuale tutta nuova e
allettante per Mr. Gwyn, subito colto da
una smania di libertà da quello che aveva
sempre considerato un autentico lavoro:
scrivere per propria “necessità” e diletto
altrui.
Un mondo divenuto oramai troppo
stretto all’eccentrico Mr. Gwyn, vincolato
dai fittizi codici esistenti nel variopinto
panorama della letteratura. Ed ha così
inizio la sua storia, la sua vera storia, fatta
di scalate e discese emozionali, di progetti
alternativi, egocentrici e mirati a trafiggere
la maschera di cui improvvisamente sentirà
il bisogno di liberarsi. Per farlo cercherà
negli altri ogni risposta alle sue domande,
scavando quella realtà necessaria al
percorso da lui iniziato. Divenendo, in
poche parole: copista di persone. Di vite,
di anime.
Ritratti scritti di coloroche incroceranno
il cammino del nostro protagonista,
lasciando in lui le loro impronte, brandelli
di esistenze immortalate in cartelle segrete
da custodire gelosamente.
Una stanza, un letto, due poltrone,
diciotto lampadine che portano il nome di
Caterina de’ Medici, ombre e luci, nudità e
silenzi. E la verità che ognuno trascina con
sé, senza troppe volte conoscerla neanche.
Ad accompagnare questa sorta
d’iniziazione al nuovo mestiere di cui Mr.
Gwyn è intenzionato a divenire portavoce
sarà Rebecca: giovane donna in conflitto
con il proprio corpo, dall’animo passionale
e in cerca di una felicità mai giunta prima.
Sarà proprio lei a srotolare la matassa
del mistero che avvolge il maestro
dell’impossibile; lo scrittore che da tempo
aveva imparato ad apprezzare, l’uomo che
scoprirà di amare con profonda rabbia e
devozione.
Ancora una volta, Alessandro
Baricco ci pone innanzi i suoi personaggi
estremamente bizzarri, capaci di “toccare”
le corde più recondite dei lettori che
innumerevoli volte si ritroveranno a dover
arrestare la propria lettura, chiudere gli
occhi, prendere fiato e lasciare qualche
istante di distanza tra i loro pensieri
e il seguito di questo nuovo romanzo
introspettivo.
Il suo stile pur sempre mantenendo
la linea originale, spezzata e poetica già
conosciuta ampiamente attraverso i
suoi precedenti lavori tende stavolta a
risentire di una certa spaccatura musicale
che rallenta in diversi periodi il corso della
storia, per poi lasciare che quest’ultima
proceda in maniera fin troppo veloce e, a
volte, scontata.
È forse la marcata indecisione che
spesso caratterizza i pensieri di Mr.
Gwyn a rendere, poi, le sue scelte
frutto di un’attesa estenuante e, in
definitiva, in contrasto con ciò che
ci si aspetterebbe. Proprio come
accadrebbe di fronte ad un film dalle
mille possibilità irrisolte e perdute.
La forza della parola continua,
tuttavia, ad assecondare la fame di
materia “umana” nel lato emozionale delle
inverosimili scene che tracciano la crescita
interiore del protagonista e del resto dei
personaggi. In effetti, ogni volto presente
nel libro non è definibile da contorno, bensì
parte integrante di un’unica storia: quella
che muove i fili della nostra coscienza e
traccia un’immagine perfettamente nitida
del nostro “io” in contatto con il respiro
del Mondo che lo circonda.
L’impeccabile
alternanza
delle
diverse tappe che l’autore ci propone,
gocciola in un’armonia tipica degli scritti
di Baricco, rotta dalle rivelazioni, dolorose
o meno, capaci di rendere infine diversi i
protagonisti delle sue storie. E perché no:
anche i lettori.
105
rAcconto
L’isola
in cima alla collina
di HAROLD COBERT
106
Traduzione di Selvaggia Oricchio
Per quanto io ricordi, mio nonno era marinaio
nell’animo. Ha vissuto la vita come un
filibustiere che attraversa oceani e tempeste.
Ora pirata, ora corsaro. Ha, però, sempre
fatto ritorno sulla sua isola. Un’isola un po’
particolare, persa nella campagna bordolese.
Un’isola arroccata in cima ad una collina.
Sin dalla più giovane età, prendeva già il
largo. Derivista, solitario, “quattro e venti”,
in seguito, da adulto, su barche a vela dai
nomi allusivamente familiari, tirava bordi
tutti i fine settimana nelle correnti e nei
canali della baia di Arcachon, filava di bolina
fino al Banc d’Arguin, strambava, cazzava le
vele, rientrava, vento in poppa, planando sul
Golfo di Jeannette.
L’isola degli Uccelli era il suo scalo preferito.
Fantomatico lembo di sabbia che riappare
e scompare parzialmente, a seconda dei
capricci delle maree, puntellato qui e là di
palafitte, simili a strane grancevole immobili,
sospese tra la terra ferma e gli abissi. Vi si
fermava il tempo di un panino, faccia a faccia
con i suoi pensieri, un sorso di rum bevuto
dalla bottiglia e una passeggiata tra le
alte erbe, profumate di iodio
e di varech. Nel silenzio
degli spruzzi d’acqua,
tra i sibili del vento
e i garriti dei
gabbiani,
recuperava le forze, prima di issare
nuovamente le vele verso l’orizzonte, con
gli occhi socchiusi, lo sguardo riflesso sulle
scaglie dorate degli sciabordii incendiati dal
tramonto.
L’esistenza aveva, in seguito, preso il suo
ritmo di crociera. La vita, il suo spettacolo
e il suo corteo di agitazioni, l’avevano
condotto, in una spirale ascendente, fino a
Parigi. Durante il giorno faceva tirocinio nelle
fabbriche di Ivry, per entrare nella piccola
azienda paterna, e contemporaneamente
seguiva corsi di filosofia e teologia. La sera,
invece, ritrovava lo spazio in cui vibrava e si
ravvivava realmente. Col sassofono al collo,
andava al Club Saint Germain o al Caveau de
la Huchette. Lì suonava fino all’alba con Boris
Vian et Charlie Parker, sfiorando le ombre
intrecciate di Sartre e di Beauvoir. Il jazz era
la sua nuova isola, luogo impalpabile verso il
quale navigava da pirata e ove si rifocillava per
meglio affrontare la durezza del giorno e del
mondo. Mi parlava spesso di quei musicisti
jazz americani che vivevano a New York in
camere misere, le cui finestre affacciavano
su un muro a meno di un metro
di distanza. Mi
1
6
107
Harold Cobert
è autore di
vari libri
di argomento
storico. Un
inverno con
Baudelaire,
suo secondo
romanzo
pubblicato
in Italia
da Elliot
Editore, è
in corso di
traduzione
in numerosi
paesi.
HAROLD COBERT
rAcconto
raccontava come, davanti a quella muraglia
che si innalzava fino al cielo, quegli uomini
disegnavano ampi orizzonti con le volte
invisibili e vellutate dei loro strumenti.
Distintosi all’epoca come miglior sassofonista
contralto di Francia, Charlie Parker gli aveva
proposto di seguirlo negli Stati Uniti per
registrare un album insieme. Ma mio nonno,
pur tentato come una farfalla che vola
attorno ad una fiamma, aveva avuto paura.
Partito un mattino presto per ristorarsi alle
Halles con quel gigante, egli aveva notato
la decadenza di quell’Albatros del jazz,
completamente sfibrato e impotente una
volta lontano dalle scene ove spiegava le ali
del proprio genio. Quel naufragio annunciato
gli aveva fatto fare marcia indietro. Il prezzo
da pagare per elevarsi in quelle sfere eteree
gli era sembrato troppo elevato, troppo
pericoloso. Un limite di Orfeo, senza ritorno.
Aveva, allora, appeso il sassofono al chiodo
ed era tornato a Bordeaux, per rientrare nei
ranghi della borghesia locale e dell’azienda
di famiglia.
Sebbene avesse ritrovato i suoi luoghi, la
baia d’Arcachon, l’isola degli Uccelli, i cieli
scintillanti, a volte limpidi a volte tormentati,
il demone della creazione tuonava come una
tempesta nella sua testa.
Rappresentante per l’azienda paterna
durante la settimana, egli percorreva la
Francia in lungo e in largo, al volante della sua
auto. Dietro il parabrezza, muro trasparente,
immaginava altri orizzonti che l’avrebbero
riavvicinato a quell’isola della musica e
dell’arte che aveva abbandonato alle Halles,
nella febbrilità di un’alba parigina.
Dopo aver trascorso anni a navigare sulle
strade, sognando di essere altrove, in
continenti lontani, finì col ritagliarsi i contorni
di una nuova isola. Il tempo di preparare
la rotta di quella spedizione improbabile e
folle, costruire una nave ammiraglia, mettere
insieme un equipaggio di lupi di mare, e
l’avventura Sigma cominciava.
Sigma era un festival di arti contemporaneed’avanguardia, secondo la definizione
dell’epoca. Il suo nome traeva ispirazione
dalla lettera greca che esprime la somma
di quantità infinetesimali che, addizionate
insieme, finiscono col dare un risultato
significativo e significante. Vi sono stati
scoperti e rivelati numerosi continenti
artistici maggiori della seconda metà del XX
secolo: i Living Theatre, Jérôme Savary e il
famoso Magic Circus, e ancora il misterioso,
affascinante e ipnotico Bartabas, solo per
fare qualche nome.
Quell’avventura, finanziata dallo Stato e dalle
sue diverse istituzioni, durò trentatré
anni. Trentatré anni durante i quali
mio nonno, dopo essere stato un
pirata della cultura, suonando
jazz nei club fumosi, solcò i
mari della creazione mondiale
da corsaro. Come un abile segugio,
navigava nelle acque torbide e agitate
dell’arte in fieri, fiutando le novità, stanando
i visionari che anticipavano e esprimevano, a
volte con impeto a volte con tenerezza, i limiti
e i vagabondaggi del mondo di domani. Di
quella crociera al limite della crociata estetica
e umanista, Jean Lacouture ha scritto queste
parole in una lettera che incarna e riassume
perfettamente lo spirito utopico degno di un
Don Chisciotte, suo stendardo, sua bandiera
che sventola a seconda del vento.
1081
“Noi tutti sappiamo che il destino delle
avanguardie è di essere superato o
recuperato. Ma Sigma fu e resta ben altro:
un’allegra infrazione, una burrasca alla quale
non hanno resistito né le imposte né le
porte né le tele di ragno della vecchia casa.
Si può sempre tentare di incanalare il vento,
di tagliarlo o deviarlo: vi sarà sempre, sulla
vetta, un mulino con le ali piene di vento.”
In una delle sue spedizioni, dopo essersi
imbattuto in un piccolo gruppo di attori della
periferia londinese, aveva accettato di andare
ad ascoltare un gruppo di rock underground
di loro amici che suonavano in un garage.
Seconda rivelazione. Aveva deciso di farli
venire tutti insieme a Bordeaux, l’autunno
seguente.
Quel gruppo di sconosciuti e matti furiosi si
ritrovò presto in testa a tutte le classifiche
mondiali, appena qualche mese dopo
il loro passaggio tra le mura della Bella
Addormentata. Si trattava dei Pink Floyd.
Nello stesso periodo aveva acquistato una
casa nella campagna bordolese, a Baurech.
Una bâtisse tipica della regione, situata al
centro di un triangolo culturale indivisibile,
tra le dimore delle tre grandi M
– Montaigne, Montesquieu,
Mauriac – e arroccata in cima
ad una collina, ai cui piedi si
estendeva a perdita d’occhio
l’inizio della foresta delle Lande.
109
Era lì che, tra un’avventura e l’altra, andava
a cercare ristoro. Era lì che, sul suo trattore,
dirigeva tutti gli spettacoli che aveva visto,
inseguendo i visionari ispirati su tutti gli oceani
del mondo, negli angoli più bui e nascosti,
li metteva insieme, mentalmente, per
proporre, in seguito, una programmazione
coerente per la nuova edizione del suo
festival.
L’isola in cima alla collina conteneva tutte
le sue isole. Durante l’estate, spalancava il
fienile e organizzava serate jazz che andavano
avanti fino a notte inoltrata. In una radura
della proprietà, aveva costruito un piccolo
teatro vegetale ove, insieme ai miei cuginetti
e alle mie cuginette, allestivamo spettacoli
alla fine di ogni mese di luglio. Accanto a
quella sala a cielo aperto, sotto i pini, aveva
disposto botti, trespoli e filari di lampioni
che, dopo le rappresentazioni, formavano
quel che chiamava il “Bar dei Filibustieri”,
ove il rum scorreva a fiumi.
Oggi, quella casa è diventata la mia isola.
Appena posso, fuggo da Parigi e dalle sue
turpitudini e vado lì per rigenerarmi.
Nell’oro della sera che cala, intravedo a
volte l’ombra di mio nonno che sogna oceani
immaginari sui quali non ha mai smesso di
voler protendersi, un giorno. Persino in
punto di morte, parlava ancora di quelle
distese lontane e sconosciute su cui contava
di navigare.
Di fronte alla foresta delle Lande, penso
sempre a quel muro dei jazzisti newyorkesi.
Quando scrivo e mi capita di imbattermi in
una frase o una parola che non riesco ad
esprimere, guardo il muro difronte alla mia
scrivania. Cerco di vedere e di pensare al di
là di esso. E, sempre, quell’isola in cima alla
collina che porto in me, ad ogni istante, mi
apre nuovi e utili orizzonti.
Seduto sulla panca difronte al grande campo
dorato dischiuso su questo mare di pini delle
Lande che si estende ai piedi della collina,
mentre traccio queste linee nella penombra
del crepuscolo che avanza placidamente, mi
tornano in mente le parole di mio nonno,
diventate il mio stendardo, la mia bandiera
invisibile:
“Non ci preoccuperemo né della moda né
dello scandalo. Dubito di tutto e vivo tutto
con passione. Quest’incertezza è, in sé,
un’affermazione e una promessa. Oggi,
in questa competizione culturale sempre
più accesa, ove il meccanismo speculativo
prende il sopravvento, è la nozione stessa
di Creazione che dobbiamo preservare,
affinché l’attribuzione dei valori non sia,
sempre di più, definita da mercati e poteri.
L’Immaginazione e l’Espressione sono tenaci.
Lo spettacolo continua. Lo spettacolo della
vita pure.”
NARRATIVA
Le eroine letterarie di
Erin Blakemore
110
di PATRIZIA FERRANDO
La biblioteca delle donne di Erin Blakemore,
edito da Orme, merita di essere letto, un po’
con lo spirito con cui si affronta un saggio
e, un po’, col gusto col quale ci si tuffa in un
romanzo o in una biografia appassionante.
Il primo invito dell’autrice è alla rilettura:
il suggerimento – specie per momenti
emotivamente complessi – riprendere fra le
mani volumi amati da ragazzine e riallacciare
il dialogo con le eroine con cui abbiamo riso,
pianto e palpitato.
Naturalmente, alcuni capitoli – ciascuno
tratteggia una protagonista e chi le ha dato
vita – possono anche suscitare la curiosità di
cercare storie che ancora non conosciamo.
Un merito di questo lavoro che è quasi un
monito: un libro interessante e significativo
è sempre tale e non è detto che sia adeguato
ad una sola stagione della vita, o – nel caso
di romanzi considerati “per ragazzi” – che
smetta di “parlarci” quando cresciamo, se lo
abbiamo amato molto.
Le presenze rimaste – in attesa sulla carta
stampata –, rivelano molto di noi e magari
delle nostre potenzialità, ma non solo. La
Blakemore – con felice piglio narrativo –
pone in relazione le figure dei romanzi con
Titolo: La biblioteca delle donne
Autore: Erin Blakemore
Editore: Orme Editore
Pagine: 190
Prezzo: € 16,50
quelle in carne e ossa che le hanno
create. Spesso sfidando difficoltà e
pregiudizi, in tempi in cui cultura e
narrativa non erano appannaggi da
ragazze.
La lettura sarà apprezzata da chi ama
i profili di scrittrice: da Jane Austen
a Louisa May Alcott, da Charlotte
Brontë a Alice Walker, a molte altre. Il
tocco in più di Erin Blakemore risiede
– a mio avviso – nell’approcciare
una materia che potrebbe essere da
tomo di letteratura. Con leggerezza,
dunque, ma senza superficialità.
Lasciando trasparire la sua autentica
adesione a questi incontri fatti di
carta, sentimento ed entusiasmo
ed il rispetto di una donna del
ventunesimo secolo per chi scriveva
a lume di candela con inchiostro e
calamaio, e per chi sceglieva il sua
destino di autrice, quando anche la
semplice alfabetizzazione femminile
era quasi una stravaganza.
Con un pizzico di attitudine
statunitense al manuale di self-help,
l’autrice indica – alla fine di ogni
capitolo – il momento più adeguato
per rincontrare quella data eroina;
con una piacevolissima empatia di
amiche che condividono passioni.
Individua, però, anche le ideali sorelle
letterarie di ciascuna.
111
Erin Blakemore
Nata in California, laureata
in
Storia
Contemporanea
alla UCLA. Vive a Boulder, in
Colorado dove ha fondato il
“social media” VOCO Creative.
La biblioteca delle donne è il
suo primo libro.
NARRATIVA
I mille volti delle donne ne
“Le Beatrici”di Stefano Benni
di ROBERTA DE TOMI
Dalla penna
del vulcanico scrittore bolognese,
otto monologhi per voce femminile
Le Beatrici è un libro che s’inscrive,
perfettamente, nel contesto storico e sociale
dell’anno appena concluso. Il 2011 che, tra gli
eventi, ha visto scendere in piazza migliaia
di donne per chiedere rispetto e dignità,
nella direzione di una Parità di Genere che
sembra ancora relegata all’inchiostro della
teoria.
“Il corpo è mio e me lo gestisco io” sembra
lampante, in una Beatrice che si svincola
dall’immagine dipinta dal Poeta. Una donna
che non è solo cuore e spirito, ma anche
corpo e che a differenza delle eroine
letterarie oppresse dalle convenzioni della
società del loro tempo gioca la carta di
un’ironia disincantata nel parlare di sé.
E proprio le donne si raccontano ne Le
Beatrici (Feltrinelli) dello scrittore Stefano
Benni. L’autore bolognese ha creato otto
monologhi per voce femminile, intervallati
da sei poesie e due canzoni. Ancora una
volta fa centro, con un lavoro che fonde
registri (comico, drammatico, poetico) e
generi differenti (teatro, racconto, lirica),
confermando la vocazione di questo scrittore
eclettico; creatore di scenari e situazioni
estrose che diventano la satira della società
italiana con i suoi vizi e le sue virtù.
Segue la Mocciosa – nulla a che vedere con
la “Margherita Dolcevita” protagonista
dell’omonimo romanzo di Benni del 2005
– una crudele ragazzina che rispecchia
la superficialità di generazioni cresciute
a chirurgia estetica e tivù. Crudele è
anche la Presidentessa, donna in carriera
che tra i fornelli snocciola la lista delle
raccomandazioni e il cinismo della manager
senza scrupoli e moralità.
Apre la serie ”la Beatrice per antonomasia”
l’amata dell’Alighieri , presentata come una
sorta di Penelope in attesa del suo Ulisse. Per
il Sommo Poeta, l’avventura è, naturalmente,
quella della Divina Commedia e a differenza
dell’Odissea questa Penelope mostra segni
d’insofferenza, al punto da adocchiare un
calciatore e affermare che: «Basta col poeta
che si sceglie la donna ispiratrice, d’ora in
avanti i poeti ce li scegliamo noi.»
112 Il riferimento allo slogan femminista
Non manca l’incursione nell’ambito clericale
di Suor Filomena: una religiosa assatanata
che si esprime con un turpiloquio, alternato a
un vocabolario ripulito da ogni volgarità, anzi,
in sintonia con la veste che indossa. È come
se nella religione ci fosse una componente
di repressione che rende la suora costretta
a prendere i voti dal padre in balia di diverse
e contrastanti pulsioni. Il monologo di Suor
Filomena è tra tutti quello più esilarante,
con le continue alternanze di sacro e un
profano che sconfina nella bestialità.
Momento più drammatico e intimistico per
113
l’Attesa, in cui torna la figura tout court
della Penelope. Questa volta, però, colta in
un atto in cui si identifica il ruolo femminile.
La vita delle donne è fatta di attese: del
proprio uomo, di un figlio e non solo. Come
se per la donna diventasse una missione
di vita, di cui la voce monologante pone il
senso.
tenutosi al Teatro dell’Archinvolto di Genova,
in cui cinque giovani attrici di talento hanno
messo in scena monologhi inediti. Lo stesso
autore, nella nota al testo, scrive che: «Lo
spettacolo Beatrici è stata l’occasione per
mostrare che esistono giovani attrici italiane
di talento e non necessariamente devono
essere ingoiate dalla televisione.»
Struggente è la Vecchiaccia che sull’onda
dei ricordi di una gioventù ormai remota ,
accende i riflettori su una condizione vera.
In una società, questa, in cui l’ossessione
della bellezza e la vecchiaia sono viste
come qualcosa da nascondere. È una figura
che nel mettere in rilievo elementi
sgradevoli commuove per quell’alone
di tristezza e di rabbia che cinge la
donna. Sul finale si apre uno spiraglio,
con il volo che può essere visto come
una via di salvezza a una “condanna”.
Donne di talento, donne vere in scena e
sulla carta, che rifuggono ai cliché creati da
tivù e mass-media. Le donne, ben oltre il
“tanto gentile e tanto onesta pare”.
E condannata è anche l’altra figura,
Mademoiselle Lycanthrope. La
“Lupa Mannara” che si trasforma e
che per questo è emarginata. Non ha
possibilità di redenzione, nemmeno
attraverso l’amore. Nell’apparente
bestialità si svela, però, un’umanità che
altre persone non hanno e lampante
è la frase: “La gelosia è per i lupi, la
vendetta per gli uomini”.
Evitando intenti didascalici e
ponendosi nel solco dell’invenzione
linguistica alla “Benni” tra giochi di
parole e neologismi, ritmo cadenzato
e musicalità, commistione di elementi
il lavoro del bolognese coglie nel
segno, tracciando un repertorio di
personaggi con una psicologia in 3D.
“Raccontando” le donne, evitando
manierismi, e cogliendo in pieno aspetti
cruciali della condizione femminile.
L’opera nasce sul palcoscenico. Si tratta,
infatti, di uno spettacolo-laboratorio
rAcconto
MEDUSA
una favola
di FRANCESCA SCOTTI
Viola al mare ci era andata tutte le estati di
cui aveva un ricordo. Finita la scuola suo padre
le preparava la valigia, le metteva un cuscino
morbido sul sedile posteriore dell’automobile
e poi partivano all’imbrunire. Al risveglio la
aspettava già Palmira, nella sua casa luminosa
con uno strano odore di umidità fresca. Palmira
non amava essere chiamata nonna, era una
donna robusta con gli occhiali appesi a una
catenella di pietre dure.
Il paese aveva poche vie e poche case, si
conoscevano tutti e Viola poteva giocare
indisturbata. La maggior parte del tempo che
non trascorreva fra le onde, preferiva passarlo
nel frutteto. O nell’orto. C’erano albicocchi,
fichi, susini. E poi angurie, piante di cappero,
pomodori messi a seccare che diffondevano
quell’odore acre al caldo del sole.
fare?”
Mentre si allontanavano dal molo Viola le
domandò perché quella signora la chiamassero
proprio così, se fosse perché bruciava o perché
aveva qualcosa di viscido: erano quelle le
meduse che lei conosceva. Palmira, ridendo
senza tenerezza, le rispose che la medusa di
cui parlavano loro era una creatura che nessun
essere umano avrebbe potuto guardare negli
occhi senza essere pietrificato all’istante.
Lei ne aveva sentite tante di storie come quella
da sua nonna, e tutte la rendevano inquieta.
Forse Palmira si divertiva a non spiegarle
le cose fino in fondo e a lasciare che la sua
immaginazione facesse il resto.
Di Medusa ormai, in paese, parlavano tutti e
Viola era sempre più impaurita. Anche prima di
Palmira, intanto, si dedicava alle conserve chiudere gli occhi, tra le lenzuola che sapevano
piccanti, definendole sbrigativamente amare, e di vecchio armadio, il pensiero era arrivato a lei.
alle salse. Aveva sempre addosso un profumo Mettendo in fuga il sonno fino al mattino.
sapido e di alloro. Riempiva i barattoli di piccole “Palmira, ma Medusa pietrifica proprio
olive nere aiutandosi con un mestolo, mentre chiunque?” Aveva domandato Viola mentre
Viola le chiedeva, per l’ennesima volta, come si pizzicava con le dita il pane fresco che di solito
preparassero. Poi avvitava il tappo e asciugava mangiava con voracità a colazione.
la salamoia con il grembiule.
“Chiunque” le aveva risposto la nonna,
Le vicine di casa andavano da Palmira a bere spaccando una fetta di anguria con il coltello.
il caffè quasi ogni giorno e fu da una di loro “E se non ti va il pane, almeno mangia la frutta.”
che, per la prima volta, quell’estate, Viola sentì
parlare di Medusa. Così chiamavano la nuova Viola si sedette dove il porticato confinava
arrivata che era andata ad abitare nella casa con il prato, appoggiando la fetta di anguria
vuota poco lontano. Poi quel nome lo sentì sulle ginocchia. Sembrava un sorriso rosso. Il
pronunciare anche dal ragazzo che vendeva il pensiero di quella nuova vicina, però, non le
pesce la mattina presto: a bocca semichiusa, dava pace.
mentre incartava le triglie luccicanti “Palmira, e “Quindi Medusa deve abitare da sola? Non ha
voi che mi dite della Medusa?”
anche lei una bambina come me?”
Lei lo guardò sospirando. “E che ci dobbiamo “No, Viola mia, diventerebbe pure lei di pietra.”
114
Viola quella mattina non disegnò con i pastelli e
non sfogliò nemmeno un libro di quelli con tante
figure. Ma il pomeriggio arrivò comunque in un
attimo.
L’odore dell’aria era quello della linfa che entrava
in ebollizione e dei fichi che si trasformavano in
marmellata pur restando attaccati alla pianta.
Viola era irrequieta ma Palmira riposava con le
palpebre chiuse e gli occhiali inforcati. Le cicale
avevano interrotto bruscamente il loro frinire e
lei si era sentita ancora più sola. Con gli altri
bambini del paese non si divertiva, passavano le
giornate a gareggiare in bici, pedalando scalzi.
Viola si domandava se anche loro sapessero
di Medusa e se, più coraggiosamente di lei, si
fossero spinti a vedere dove abitava. Andò sul
prato, aprì l’acqua della canna rimasta al sole e
si lavò le gambe minute, rese appiccicose dal
succo di anguria di quella mattina.
Il paese le si mostrò appisolato come sua
nonna, crollata davanti a un televisore a
volume troppo alto. Accanto a casa di Palmira
c’erano i ruderi di una villa in costruzione che
probabilmente mai avrebbe visto la fine. Tra
questi spuntò un giovane cane randagio con
quella magrezza incerta dei puledri. Lei gli andò
incontro timidamente mentre lui si faceva avanti
festoso. Aveva delle orecchie troppo grandi,
una in particolare si richiudeva sull’altra come
una sfoglia di pasta fresca. Viola, dimenticando
ogni raccomandazione, lo accarezzò e giocò
con lui. Corsero su e giù per la via. Lei, di tanto
in tanto, cambiava rapidamente direzione e
lui si abbassava al suolo, allargando le zampe
davanti pronto ad accettare la nuova sfida. La
bambina saltellava sollevando la polvere e lui la
inseguiva ansando.
mani giunte in preghiera, fanciulle che tenevano
cestini di fiori, un uomo basso e panciuto con il
volto deformato da un ghigno. Erano state tutte
verniciate di bianco, alcune di fresco. Lungo il
davanzale del balcone c’erano delle figure, più
esili. Per evitare che cadessero, i loro piedi
erano stati coperti di cemento dipinto. Viola,
prima di correre via terrorizzata, si avvicinò
alcuni passi al cancello, per guardare meglio
ciò che non avrebbe mai dimenticato. Intanto
il cane abbaiava, desideroso di tornare al loro
gioco. Ma lei non lo sentiva. Lui abbaiava
acquattandosi e correndo intorno. Guaiva
cercando di essere persuasivo. Viola percepì
qualche movimento nella casa, suscitato,
probabilmente, dal verso della bestiola. La porta
si schiuse e lei, spaventata, si girò per sgridare
il cane e farlo tacere. Lui abbaiava solo di più,
divertito, continuando a balzellare inarrestabile.
“Shhhhhh, buono, zitto!”
Una delle poche auto che si vedevano in paese
passò in quel momento. Non andava veloce e la
strada era libera, eppure investì il cane senza
nemmeno accorgersene.
Viola guardava la bestiola a terra, con il pelo
ispido sotto il quale le ossa premevano come se
volessero spuntare. Gli occhi fissi e le orecchie
riverse sull’asfalto. Viola rimase immobile,
accovacciata, finché, dopo un tempo che le parve
infinito, sentì la porta delle casa richiudersi.
Avrebbe voluto toccare l’animale per sentire se
il suo corpo fosse diventato di pietra, ma non
ne ebbe il coraggio. E in ogni caso ne era certa:
Medusa lo aveva guardato.
Viola camminò fino a casa in preda a dei
singhiozzi contratti, che non la lasciavano
Come quando si nuota in mare puntando respirare. Intanto si dimenticava dell’automobile
all’orizzonte e solo troppo tardi ci si accorge di e si convinceva solo della crudeltà dello sguardo
aver perso la riva, Viola si rese conto di essere della vicina.
arrivata fino a casa di Medusa.
Sotto il porticato tutto era rimasto uguale
Un cancello smaltato di blu racchiudeva un a poco prima: Palmira dormiva e gli insetti
lungo giardino interamente ricoperto di statue. ronzavano intorno alla frutta caduta. Ma Viola,
Ce n’erano di ogni dimensione e ritraevano dopo quell’estate, non volle più tornarci.
esseri umani e animali in diverse condizioni:
115
“Frasi nitide, che hanno bisogno di quella
semplicità perfetta per poter “non dire”,
sosopendono la scrittura, proiettandola in
quela fessura invisibile del mondo, in cui
l’indicibile è la chiave della narrazione”
Valeria Parrela, Grazia
“Qualcosa di simile, l’esordio della trentenne
Francesca Scotti. La sorpresa più rilevante
dell’anno. Dieci storie: vive, fulminanti,
crudeli.”
Giovanni Pacchiano, Il Fatto Quotidiano
fantascienza
Fantascienza
e
futuro
La diamo una sbirciatina?
di ALEXIA BIANCHINI
Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale
è un pleonasmo, ossia anticipare quello che accadrà.
(Ennio Flaiano)
Anelato Futuro, enigma irrisolvibile, arcano per eccellenza.
Molte opere di fantascienza hanno plasmato storie, attraverso l’immaginazione scaturita dal
pensiero di ciò che ancora non è accaduto. Trasportati in una dimensione temporale diversa
protratta in avanti , molti registi e scrittori hanno strutturato società moderne o decadute, scaturite
da noi, da ciò che siamo, ossia il passato.
Utopie e distopie si alternano, sebbene anche le prime nascondano sempre qualcosa di marcio. La
distopia ossia utopia negativa racconta una società indesiderata, estremista, pessima da ogni
punto di vista. L’uomo, come entità pensante, voce del popolo schiacciato, tenta di far sentire il
disagio.
È un grido d’aiuto proveniente dalla massa, un grido politico. L’insoddisfazione, le ingiustizie sono
sempre all’ordine del giorno. Da questo disagio prende spunto un nuovo futuro.
Non esiste in questo genere di fantascienza una sterilità sociale proprio perché tutto ciò a
noi conosciuto decade miseramente e fa paura. La struttura su cui poggia la nostra esistenza
è messa in gioco. Il valore della
libertà, in ogni
sua forma, viene meno. Il diverso è
abietto, sinonimo di sbagliato, ci si deve sempre uniformare. Il
diverso è il male, chi alza la mano per obiettare sarà punito.
Il motivo di cotanta smania di decadenza , vi chiederete voi, a cosa porta? Leggere (o vedere)
di un mondo all’apparenza perfetto ma con quintali di scheletri nell’armadio o una realtà terribile
che non nasconde le sue magagne spinge alla riflessione.
Avete presente il detto: chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia non sa quel che
117
fantascienza
trova? Ebbene signori miei: ponderiamo. Tali
film o romanzi ci narrano di un futuro temibile,
ma ricordatevi sempre che la realtà supera
sempre l’immaginazione.
Ci sono letture indimenticabili che nascondono
distopie paurose. Il piccolo gioiello di Ursula Le
Guin, I reietti dell’altro pianeta, descrive la
contrapposizione tra la distopica Urras divisa
in una corrente capitalista e una socialista
e l’utopica Anarres; libro di una profondità
antropologica non indifferente, sempre odierno
e capace di far riflettere. Il sempreverde 1984
di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous
Huxley, guarda caso compaiono nell’Europa del
Dopoguerra, dove il pessimismo era all’ordine
del giorno.
Il romanzo di Orwell ha ispirato molti altri
scrittori e registi. Come V per Vendetta tratto
dal graphic novel V for Vendetta, scritta da Alan
Moore e illustrata da David Lloyd.
Altri esempi di distopie sono: La città del
118
sole di Tommaso Campanella o L’Utopia
di Tommaso Moro, Fahrenheit 451 di Ray
Bradbury. Quest’ultimo nasce del racconto
breve The Fireman. Nel romanzo ci ritroviamo in
un ipotetico futuro, dopo il 1960, dove leggere
libri è considerato reato. È stato istituito un
apposito corpo di vigili del fuoco per bruciare
ogni tipo di volume.
Tratto dal romanzo, nel 1966 esce Fahrenheit
451 film diretto da François Truffaut.
Sottolinea lo strapotere mediatico del mezzo
televisivo. L’onnipresente schermo costringe
la popolazione alla sottomissione nei confronti
del potere. I libri costituiscono una via di fuga
verso nuovi orizzonti, stimolano al pensiero,
vanno eliminati.
Ispirato a Fahrenheit 451, Il mondo nuovo
e 1984, troviamo il film Equilibrium, le cui
vicende sono ambientate in una immaginaria
società distopica in un futuro postatomico.
Libria, una città-stato, vive sotto il regime di
un dittatore, Il Padre. La popolazione
è completamente soggiogata, una
sostanza azzera ogni tipo di emozione.
Il primo lungometraggio di George
Lucas è: L’uomo che fuggì dal futuro
(THX 1138), film del 1971. Anche
qui ogni tipo di sentimento viene
represso e vietato. Non è la morale
la motivazione di cotanta coercizione,
quanto il fatto che dalle emozioni
si scatena il pensiero, stimolatore
della coscienza e motivo di probabile
ribellione.
Un altro famoso esempio è: Io sono
leggenda, romanzo fantascientifico/
horror del 1954 dello scrittore
americano Richard Matheson, da cui
hanno tratto tre film. Ispirato ad esso
ritroviamo film horror sensazionali,
come La notte dei morti viventi di
George A. Romero e 28 giorni dopo di
Danny Boyle.
Matheson riflettendo su Dracula di
Tod Browning capovolge la situazione
di base: non più un vampiro in un mondo di umani, ma un
solo essere umano in un mondo di mostri.
Tornando agli albori del cinema, ritroviamo il
fantasmagorico Metropolis di Fritz Lang, simbolo del
cinema espressionista. In una città futuristica la classe dei
privilegiati cerca di opprimere la gente comune, comandata
dai voleri dittatoriali di un androide dalle fattezze femminili.
Nel 1982 ispirato ad esso arriva nelle sale cinematografiche
Blade Runner, diretto da Ridley Scott. È uno dei più
celebri film di fantascienza, liberamente tratto dal romanzo Il
cacciatore di androidi di Philip K. Dick, uno dei maggiori
scrittori statunitensi della seconda metà del Novecento,
precursore del filone cyberpunk.
La lista è lunga ma vorrei finire con una chicca: WALL•E,
lungometraggio d’animazione del 2008, realizzato da Pixar
Animation Studios in coproduzione con Walt Disney Pictures, diretto da Andrew Stanton. Noi
umani ridotti a obesi e apatici passeggeri di una mega astronave, mentre la nostra Terra non è
altro che una grossa discarica senza più vita.
E pensare che molti sono convinti che la fantascienza sia solo frutto di fantasia, un amplificazione
dell’immaginario infantile. La fantascienza “distopica” è accattivante perché sbircia nel futuro,
ma al tempo stesso serve come monito a noi umani, troppo spesso abituati a guardare il nostro
piccolo giardino, senza valutare i problemi in senso globale.
119
fantascienza
di CLAUDIO CORDELLA
Il geniale fumettista nipponico Mamoru Nagano, nato a Kyōto il 21 gennaio
1960, ha creato con The Five Star Stories (d’ora in poi FSS) un manga
raffinato di genere science-fantasy, riunendo in sé elementi narrativi
fantascientifici che si alternano a spunti provenienti dal fantastico
puro.
Nell’universo di FSS convivono draghi, maghi (riuniti nella Gilda
dei Parah e dei Daiver) e incarnazioni divine assieme a pianeti
extrasolari, vascelli interstellari e robot giganti (i mortar
headd). Le stesse creature artificiali che hanno un ruolo
così importante nella narrazione, le fatima, non sono
solo dei semplici esseri umani creati in laboratorio. Ad
esempio, tre di loro: Lachesis, Klotho e Atropos, sono
gli avatar delle Parche mitologiche dell’antica Grecia.
I capitoli di FSS sono pubblicati sin dal 1986 sulle
pagine del mensile Newtype: un magazine della casa
editrice giapponese Kadokawa Shoten. Per, poi, essere
periodicamente ripubblicati nel formato tankōbon
(cioè in volume).
In Giappone questa serie è giunta al dodicesimo volume.
Nel mercato fumettistico nostrano grazie alla casa editrice
Flashbook , ha fatto la sua comparsa solo verso la fine del
2010.
Nel 1989 per la regia di Kazuo Yamazaki è realizzato un omonimo
film d’animazione, modesto sia dal punto di vista tecnico che della
regia. Attualmente non ancora doppiato in italiano, ha l’unico pregio di
seguire abbastanza fedelmente gli avvenimenti relativi al primo volume
di FSS.
A questo punto, dobbiamo dire che Nagano è un vero geniaccio: fumettista,
cantante e fashion designer. Nel 1984 entra negli studi della Sunrise. Qui ha
l’occasione di collaborare assieme a Yoshiyuki Tomino: il creatore della celebre serial
d’animazione fanta-robotica Kidō Senshi Gundam (Mobile Suit Gundam). Recentemente
120
121
è stato impegnato nella realizzazione di un anime,
Gothicmade, in collaborazione con lo studio Automatic
Flowers con il ruolo di regista, sceneggiatore, character
e mecha designer (cioè di creatore sia dei personaggi
che dei mezzi meccanici). L’uscita di questa pellicola
d’animazione nelle sale cinematografiche del Sol
Levante è prevista per il 2012. Dalle notizie trapelate
su Gothicmade come i bozzetti dei personaggi e
i trailer reperibili su internet , possiamo
dedurre che sia una space-opera
assimilabile, per molti aspetti, a FSS.
Anche qui abbiamo guerrieri, personaggi
femminili chiave in questo caso delle
sacerdotesse dette Songstress costumi
barocchi e robot giganti detti Gothicmade.
Il che, però, non sorprende più di tanto.
Tutt’oggi FSS rimane l’apice creativo,
sia dal punto di vista iconografico che
narrativo, di Nagano.
Questa lunghissima saga è
ambientata
nell’Ammasso
Stellare del Joker costituito dai
soli di Nourth, Southernd,
Easterr e Westerr. Il nome
dal suono anglofono di
ciascuna stella deriva dal
nome dei quattro punti
cardinali in inglese:
north (nord), south
(sud), east (est) e
west (ovest). A questi
ultimi dobbiamo, poi,
aggiungere un quinto
elemento: il gruppo
di corpi celesti erranti
di Stantt, che si avvicina
solo periodicamente al resto
dell’Ammasso.
Una delle principali caratteristiche che
contraddistinguono questo capolavoro della “letteratura
disegnata” è il suo accentuato barocchismo che si sposa,
alla perfezione, con quell’aria da kolossal che si respira
fantascienza
parimenti nella space-opera occidentale. Si pensi solo ai romanzi del ciclo
Foundation (Fondazione) di Isaac Asimov o a Frank Herbert (l’autore di
Dune) oppure sul versante cinematografico all’esalogia di Star Wars di
George Lucas, tra l’altro esplicitamente citata da Nagano.
In FSS abbiamo – per prima cosa una trama intricata, in cui non solo si
intrecciano e si sovrappongono tra loro diversi percorsi narrativi ma anche
l’ordine cronologico degli eventi è abbandonato. In buona sostanza, qui il
lettore non solo si trova ad avere a che fare con una selva di personaggi
ognuno con la propria storia da raccontare ma anche con un ciclo epico
che inizia dalla sua conclusione; ovverosia dal momento in cui l’albino
Amaterasu Dis Grand Gris Eihtath IV, sovrano del mondo di Delta Belun da
lui unificato con la creazione dell’Amaterasu Kingdom Demesnes (A.K.D.)
diventa l’indiscusso padrone dell’intero Ammasso. Amaterasu più che un
monarca umano è l’avatar di un essere celeste, la divinità solare nipponica
Amaterasu-ō-mi-kami (“Grande dea che splende nei cieli”).
Da qui, l’autore parte a ritroso per raccontarci delle vicende guerresche
ma anche sentimentali che vedono protagonisti i Cavalieri (o headdliner) e
le fatima. Questo talentuoso mangaka (cioè fumettista) non sembra, però,
amare per nulla ciò che è semplice. Dunque, nel raccontarci tali imprese,
inserisce talvolta delle visioni profetiche. Degli squarci nel tessuto della
realtà, capaci di condurre, di colpo, il lettore in uno spazio-tempo lontano
dall’azione a cui poco prima assisteva.
Quando nel terzo volume Chorus III, eroico sovrano e Cavaliere dalle
mille virtù, muore in battaglia, la sua fatima Klotho riesce a condurre
ugualmente da sola alla vittoria il mortar headd Jünoon. L’esperienza,
però, è traumatizzante per la poveretta che, in seguito, sceglie di porre sé
stessa in una sorta di stato di ibernazione. Durante questo lungo sonno,
lei vede il futuro, osserva la lotta del giovane Chorus VI contro il tiranno
Eupandora, sosia di Amaterasu a cui quest’ultimo ha delegato ogni potere.
Ancor più sconvolgenti sono le tavole del quarto tomo di FSS dedicate a
Taika un mondo posto in un altro universo , a cui approderà la misteriosa
Kallen, la figlia di Amaterasu e della fatima Lachesis.
Invece, nell’ottavo volume l’ultimo al momento in cui scriviamo a esser
edito in Italia Lachesis intravede le fasi iniziali della distruzione del pianeta
Kallamity, evento funesto che la porterà a essere una naufraga del cosmo.
Per fortuna questo fumettista ha pensato bene di corredare con un’ampia
cronologia i volumi di FSS, assieme ad alcune dettagliate appendici. Il che
aiuta, senz’altro, il lettore a non perdersi all’interno di questo meraviglioso
affresco, offrendogli un’ancora di salvezza.
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Ritornando all’estetica di Nagano, dobbiamo dire che sia i protagonisti di FSS per la
maggior parte Cavalieri, nobildonne e fatima sono, quasi tutti quanti, caratterizzati da una
straordinaria bellezza, fascino ed eleganza. In particolare, Amaterasu in quanto creatura
divina non è né maschio, né femmina. I suoi lineamenti sono palesemente androgini e
solenni: pienamente degni di un re-dio. Inoltre, nella raffigurazione dei corpi femminili sia
di donne che di fatima Nagano sembra essersi ispirato ai character ideati dal celebre Leiji
Matsumoto, mangaka notissimo nel nostro paese per essere stato il creatore del pirata
spaziale Harlock. In entrambi i casi, sia in Matsumoto quanto in Nagano, abbiamo a che
fare con delle creature femminee dalle fluenti chiome ma magrissime, sin troppo simili in
questo a tante modelle anoressiche.
Le fatima assumono un ruolo centrale all’interno dell’economia narrativa di tutto FSS. Per
prima cosa bisogna precisare che headdliner, mortar headd e fatima formano un tutt’uno
inscindibile. I mortar headd sono sia dei robot giganti tipici della fantascienza made
fantascienza
in Japan , sia l’ennesima espressione del barocchismo “naganiano”. Queste imponenti
macchine antropomorfe dall’aspetto medievaleggiante rappresentano in guerra dinastie
regnanti, ordini cavallereschi e intere nazioni. Sono l’arma suprema che domina l’Ammasso.
Paradossalmente, sono tanto dei prodotti di un industria bellica quanto dei raffinati oggetti
d’artigianato. Il Knight of Gold caratterizzato da una vistosa corazza dorata è il vanto e
l’orgoglio dello stesso Amaterasu, che l’ha progettato e costruito. Analogo discorso per il
Jünoon dalla bianca armatura, partorito dal genio dello sfortunato Chorus III. Artefatti simili,
però, non possiedono una coscienza tranne in rarissimi casi in cui essa pare ridestarsi.
Dunque, essi devono essere pilotati da qualcuno: per l’esattezza da Cavalieri assistiti dalle
loro fatima.
Queste ultime, in definitiva, non sono nient’altro che computer biologici di forma umanoide:
utilissimi per il controllo dei dispositivi di macchine complesse e gigantesche come i mortar
headd. Eppure esse sono, sin da subito, presentate come qualcosa di più: se il rapporto
simbiotico che una fatima instaura con il suo mortar headd sfocia in qualcosa che sembra
un rapporto madre-figlio, quando si tratta di Cavalieri abbiamo, invece, a che fare con
un amore totalizzante. L’headdliner è il padrone assoluto del destino della sua fatima. Il
fatto che lei sia felice o infelice, trattata come un essere umano oppure come un mero
124
oggetto, tutto dipende dal suo capriccio e dalla sua indole. D’altra parte, all’opposto, la vita
in battaglia di un Cavaliere dipende dal comportamento della sua compagna.
Personaggi dai nobili sentimenti trattano con umanità le loro fatima: lo stesso Amaterasu
persa l’amata Lachesis nello spazio-tempo inizierà una lunga odissea alla sua disperata
ricerca. La Legge Stellare dell’Ammasso del Joker, però, non riconosce alcun diritto alle
fatima. Inoltre, precise norme sanciscono la foggia degli abiti che esse devono indossare
e come devono esser fatte le lenti ideate per nascondere i loro occhi. Precisiamo qui che
sia Cavalieri che fatima possono essere ambosessi. Nella maggior parte dei casi, però, i
primi sembrano essere in genere maschi, mentre le seconde femmine. Il che spiega perché
dato il legame privilegiato che le fatima stringono con i loro patner esse finiscano per
essere odiate dalle mogli di costoro. Esse, infatti, sono pronte a veder le fatima solo come
delle belle bambole, costruite proprio per venir incontro ai desideri degli uomini e far loro
concorrenza.
Che cos’è dunque FSS? A giudizio di chi scrive è sostanzialmente un’incredibile epopea dove
misticismo, alta tecnologia, arte, amore e morte, si sposano tra di loro per comporre un
unico, stupefacente quadro dai colori accesi, sensuale, eccessivo, dalle prospettive inedite
e debordante. Insomma, un’autentica opera barocca.
125
racconto
Tutto per Bergkamen
di SEBASTIAN FITZEK
traduzione di
Irene Montanelli
Molti mi ritengono uno stronzo. E magari lo sono pure. Ma pochi possono giudicare
davvero. Il fatto è che mi incontrano sempre in situazioni in cui stringere amicizia
è impossibile. Non mi incontrano, infatti, per bere una birra in santa pace, né allo
stadio, né tantomeno a qualche festa. Ci troviamo sul posto di lavoro. E il mio posto
di lavoro è la morte.
Siccome la morte non fa orario d’ufficio, io l’ufficio non ce l’ho. Sono una
specie di agente di commercio, un commesso viaggiatore. E viaggio inseguendo
le persone di cui voi preferite non sapere niente.
Psicopatici che se ne vanno in giro con il dito mozzato di un bambino nel
tascapane e, dopo averlo raccolto, vogliono succhiarlo ancora un po’; sociopatici
che se ne stanno lì a guardare la propria moglie paralizzata morire di fame. Gente
della porta accanto. Spesso arrivo troppo tardi. Come oggi, a Bergkamen.
Quando ho ricevuto la chiamata sul mio numero per le emergenze, stavo
facendo scomparire un orologio da polso di Hello Kitty sotto gli occhi di mia
figlia. Lisa festeggiava il suo settimo compleanno e la mia ex moglie, Tanja, mi
aveva assunto come mago per intrattenere i bambini.
Ora, se la sarebbe dovuta vedere lei da sola con tutti quei marmocchi che si
aspettavano dei trucchi di magia, mentre io viaggiavo lungo la B61 per andare a
Bergkamen, a incontrare un malato di mente.
“La prima a scoprirlo è stata la vecchia Dobkowitz” mi spiegò il capo per
telefono.
Dobkowitz. Hartmann, il capo dell’unità speciale, aveva pronunciato il nome
dell’anziana signora come se fosse una celebrità locale. Per me, tuttavia, era una
perfetta sconosciuta, al pari di ogni singolo componente della schiera angelica
dell’unità speciale, della stampa e della folla dei curiosi che, nonostante
la pioggia battente, affollava la zona pedonale di Nordberg e che gli ignari
poliziotti trattenevano a stento lontano dal luogo del delitto.
Il capo dell’unità era esattamente come me l’ero immaginato sentendone
al telefono la voce asmatica: sovrappeso, spelacchiato e con un nasone
dai pori dilatati. Quando gli strinsi la mano sudaticcia, mi aspettavo quasi
che mi proponesse di andare a prenderci una birra e un po’ di polpettone.
“Tempaccio, lo voleva?” Come me, non aveva né un impermeabile
né un ombrello, ma ai piedi aveva un paio di enormi stivali di gomma
verde militare. Se quello era davvero il suo numero di scarpe, dopo
potevo portarlo con me alla festa di Lisa per fargli fare il clown.
Due dei suoi uomini alzarono il nastro per farmi passare.
126
“Come mai vuole trattare soltanto con Lei, ha qualche idea?”
“Nessuna” risposi con un’alzata di spalle.
Suggerire al capo che bastava googlare un po’ il mio nome, poteva sembrare un
po’ presuntuoso. Come spiegare, a qualcuno che non lo sa, che sono il migliore? Certo,
non ero un vero psicologo della polizia con tutti i crismi. Avevo studiato giurisprudenza,
poi, a un certo punto, ero rimasto impantanato nel Dipartimento
Federale Anticrimine.
“Quelli del Dipartimento Federale Anticrimine dicono che
lei è un profiler e non un negoziatore” osservò Hartmann.
Non sembrava diffidente, il suo era solo genuino interesse.
Per ora non mi riteneva apertamente un pezzo di merda.
Ma avrebbe presto cambiato idea, cioè quando si
sarebbe accorto chi gli stava strappando il comando.
“Esatto. Di solito cerco di immedesimarmi nei
serial killer e nelle loro menti disturbate” spiegai.
“Ma questo mi aiuta anche a trattare con i
sequestratori. Come dire, smorzare i conflitti è
un po’ il mio hobby.”
Mi portarono all’edificio di mattoni rosso
della Banca di Bergkamen-Bönen che si
trovava di fronte al luogo del delitto, a circa
trenta metri. “Non male come idea” feci
cenno a Hartmann. Avevano stabilito
il quartier generale dietro la
vetrata
antiproiettile
della banca, da dove
avevano una
visuale
diretta dello psicopatico,
attraverso
la
vetrina
sull’altro lato della strada.
“Ha già avanzato delle
richieste?” chiesi mentre, nel
grande ufficio della banca, Hartmann
si scuoteva inzuppandomi ulteriormente
d’acqua. Il poliziotto si accomodò a una
scrivania vuota e mi fece cenno di prendere a mia
volta una sedia. Di lì a poco fissavamo entrambi lo
127
racconto
schermo di un computer. Le telecamere di
sicurezza della banca erano ora puntate
sulla fila di negozi di fronte, rimandando
sullo schermo davanti a noi nitidissime
immagini a colori.
“Richieste?” Hartmann scosse la
testa spruzzando d’acqua la tastiera.
Vidi un mouse sparire sotto le sue mani
e la telecamera zoomò sull’obiettivo.
L’immagine si sgranò.
“Riesce a leggerci?”
Mi ero concentrato troppo sull’uomo
mascherato seduto sulla seggiola di
legno dietro la vetrina sporca e non avevo
ancora notato il cartoncino ai suoi piedi.
Hartmann mi mise in mano una stampa
a colori appena fatta. Un dettaglio della
vetrina molto ingrandito.
“Settecento euro o la città muore”
lessi ad alta voce le parole scritte in nero
a stampatello, sul cartoncino. “E voi mi
avete fatto venire qui per una somma
tanto ridicola?”
Hartmann annuì lentamente. “Gertrud
Dobkowitz stava passeggiando col suo
cane Gassi ed è stata la prima a vederlo
lì, accovacciato nella vetrina. All’inizio
l’aveva scambiato per un manichino, poi il
tipo con la maschera da sci si è mosso e il
cane si è fermato.”
“E allora la signora è entrata?”
“Sì, la vecchia Dobkovitz è la migliore
‘guida turistica’ di Bergkamen mica per
niente. Conosce tutti i posti e tutte le
persone, e quando c’è qualcosa di nuovo,
è la prima ad approfondire.”
“E l’uomo che le ha detto?”
“Non molto di più di quello che sta sul
cartello. Vuole settecento euro altrimenti
la città muore. Allora Gertrud gli ha detto
di smetterla con quelle fesserie e di
andare a lavorare che era meglio, al che
lui le ha riso e ha chiesto di Lei.”
128
“E com’è che non l’avete tirato fuori
di lì, se persino una pensionata ha potuto
entrare e uscire senza problemi?” chiesi.
“Perché alla Dobkovwitz ha dato
questo.”
Hartmann mi allungò un barattolo
trasparente con dentro della roba che
sembrava il pongo con cui, l’anno prima,
Lisa mi aveva fatto un portacenere. Il
leggero odore di nitro che emanava dal
barattolo non lasciava dubbi.
“Semtex” dissi restituendo a
Hartmann l’esplosivo al plastico. “Il
che spiega cosa sia quella cosa che
lampeggia.” Mi riferivo al puntino rosso
che sfarfallava dal gilet militare dell’uomo.
“Possibile. Magari è cablato.”
Hartmann si soffiò il naso. “Ora non
lascia entrare più nessuno. E dalla
porta chiusa del negozio i cani non
sentono l’esplosivo. Ehi, dove pensa
di andare?”
Scattò in piedi sconvolto
quando
si
accorse
che
avevo lasciato il mio posto e
riattraversavo l’ufficio, diretto al
portone.
“Dove andrò mai?” chiesi
con un vago tono cinico. Era il
momento di prendere in mano il
timone. “Vuole parlare con me,
no? Vado a fargli una visitina.”
Ovviamente Hartmann non mi
lasciò andare impreparato. Prima
che mi permettesse di avvicinarmi
alla vetrina attraversando la zona
pedonale, mi procurò un giubbetto
antiproiettile e un auricolare, con cui
potevo rimanere in contatto con la
polizia e che ora era nel mio orecchio
destro. Sapevo che avrebbe preferito
sostituirmi con uno dei suoi uomini
addestrati per le trattative, ma poi avrebbe
dovuto spiegare a quelle iene della
stampa armate di macchine fotografiche,
telecamere e stazioni mobili che stavano
al di là del nastro della polizia, perché non
mi lasciavano parlare direttamente con
l’attentatore, dato che lo aveva richiesto in
modo esplicito. Se il tipo si faceva saltare
in aria perché mi aveva rispedito a casa,
un trasferimento per motivi disciplinari
sarebbe
stato il
minore dei suoi problemi.
Con le mani in alto, mi avvicinai
lentamente alla vetrina, fermandomi a
una distanza di circa dieci metri, presso
un lampione. Un cartellone attaccato al
palo con del filo grigio, si mosse nel vento:
sopra, Roland Schäfer sorrideva fiducioso
sponsorizzando la sua rielezione. Staccai
il filo, tirai fuori la mia penna Edding dal
taschino della giacca di pelle e scrissi dei
numeri sulla fronte spaziosa del sindaco.
Quindi girai il cartello verso la finestra.
Pochi secondi dopo, il mio cellulare
squillò.
“Ciao Adam”.
L’uomo con la maschera da sci
parlava come se ci conoscessimo
da tempo. Avevo messo il vivavoce
cosicché Hartmann potesse sentire
quello che ci dicevamo attraverso
l’auricolare.
“Ciao” risposi. “Ora, visto che
lei conosce il mio nome, vorrebbe
gentilmente dirmi il suo?”
“Certo” disse, sfilandosi la
maschera dalla testa.
“Oh merda!” mi sibilò
Hartmann all’orecchio. “Quello è
Benny!”
Tutto intorno a me ronzavano
i motori elettronici di innumerevoli
fotocamere digitali. Per fortuna, per
ora, la stampa si atteneva al divieto
di usare i flash.
“Benjamin” confermò il ragazzo
scuotendo la testa e facendo
ondeggiare i lunghi capelli finora rimasti
schiacciati. Per quello che riuscivo a
vedere attraverso la pioggia battente,
le labbra erano piegate in un ghigno.
Era chiaro che si beava di tutta quella
attenzione che gli veniva concessa.
“Posso avvicinarmi un pochino,
129
racconto
Benjamin?” chiesi cauto.
Annuì.
“Bene, almeno me ne sto all’asciutto”
entrai sotto la tettoia del negozio che, un
tempo, doveva essere stata una cartoleria.
Sulla porta era ancora attaccata la vecchia
pubblicità di una marca di cartucce
d’inchiostro.
“Benny Senner è un po’ squinternato,
ma innocuo” mi spiegava da lontano il capo
della squadra speciale. “Ventiquattro
anni, ha studiato Economia Ambientale,
specializzandosi nelle Energie Rinnovabili,
un attivista ecologista, insomma. Già tre
anni fa aveva occupato il grattacielo e
chiesto affitti gratis per le case popolari.”
Mi chiesi se per “grattacielo”
Hartmann
intendesse
quell’orrendo
palazzone di cemento di fronte al municipio.
Ma c’erano domande più importanti da
fare.
“Cosa vuole, Benny?”
“Lo sapete già. Sta tutto scritto lì.”
Evidentemente Benny non si era infastidito
per il mio tentativo di costruire un rapporto
di fiducia usando l’abbreviazione del suo
nome. Con la punta dello stivale toccò il
cartello ai suoi piedi. Solo allora mi accorsi
che sotto la sedia c’era un cronometro. Il
contatore ticchettava.
“Settecento euro? Non mi sembra
una gran cifra per piantare un tale casino”
dissi ostentando un’aria disinvolta. Tenevo
la mano sinistra alzata, il palmo rivolto
verso di lui, per mostrargli che non avevo
niente da nascondere.
“Non capisce. Anche Lei si limita a...
nuotare seguendo la corrente.”
Socchiusi gli occhi. “Che vuol dire,
Benny?” Il sorriso scomparve dal volto
segnato dall’acne del giovane. Aveva la
faccia di uno che si preoccupa perché
nessuno lo ascolta, nonostante avesse
cose importanti da dire.
130
“Lei sa che, negli anni, Berkamen è
sprofondata di venticinque metri?” mi
chiese.
“No”
“Eccoci!” mi ringhiò Hartmann
nell’orecchio. “I danni dell’industria
mineraria...”
Annuii. Mentre arrivavo con la
macchina, avevo notato le crepe nelle
strade e sui muri delle case. Sono cresciuto
a Lünen e ricevevamo il risarcimento dalla
società di demolizioni. Almeno finché, nel
’67, mio padre non rimase coinvolto nella
sciagura della miniera Minister Achenbach
e io e mia madre non ci trasferimmo a
Colonia.
“Maledetto carbone” imprecò Benny
e per un attimo credetti che avrebbe
sputato sul cartello. “Hanno estratto
tutto il carbon fossile del cazzo, per le
loro centrali del cazzo e la loro corrente
del cazzo. Senza curarsi dei danni. E ora il
casino è fatto. Sprofondiamo. E non parlo
solo di strade, prati, campi e case. Anche
i fiumi. Lo sa cosa significa?”
“Posso immaginare.”
“Presto la corrente di questi fiumi
di merda andrà al contrario. Non hanno
più pendenza. Provi a dire quante pompe
abbiamo a Berkamen per evitare di morire
tutti affogati.”
Scrollai le spalle.
“Nove. Nell’ultimo anno 22,3 miliardi
di litri d’acqua si sono riversati nei bacini
più in alto, per esempio nell’Emscher. 22,3
milioni di metri cubi.”
“Ecco che inizia la conferenza sui
danni eterni” lo informò Hartmann via
radio e aveva ragione.
“Questi sono i danni infiniti ed eterni
che ci ha lasciato l’industria mineraria.
Combattere contro le masse d’acqua, ci
costa cinquantacinque milioni all’anno.
Fino alla fine dei nostri giorni. Finché
Bergkamen sarà abitata, le pompe
dovranno lavorare o finiamo tutti a mollo.
E intanto l’acqua si accumula nelle miniere
abbandonate e contamina le nostre falde
acquifere. E questo costa altri cento
milioni, capisce? Oltre centocinquanta
milioni, ogni anno fino al Giorno del
Giudizio. Tutti soldi che i magnati del
carbone di certo non avevano calcolato.
“Capisco” dissi interrompendo
l’infervorato discorso dello studente. “E
con la sua azione, Lei vorrebbe suscitare
attenzione su questa problematica
ambientale?”
“No” rispose Benny. “Per quello è già
tardi. I danni sono bell’e fatti. Le miniere
sono state abbandonate troppo tardi.”
“E allora cosa vuole?”
“È scritto sul cartello” ripeté con
tono quasi scocciato. “Settecento euro”.
“Bene, allora vado al bancomat,
prendo un paio di banconote e la finiamo
con questa storia?”
“Non credo che nel bancomat ci
siano così tanti soldi.”
“Perché?”
“Lo sa quanti sono 22,3 miliardi di litri
d’acqua?” chiese lui di rimando. “Glielo
dico io: sono settecento litri al secondo,
che passano dalle pompe affinché non
si sprofondi tutti. E questo è il mio tasso
di conversione: settecento euro per ogni
secondo che stiamo qui a negoziare.”
Prese il cronometro sotto la sedia.
“E sono già passati quattro minuti e
quarantasette secondi. Da Adam Riese
fino a ora fanno oltre duecentomila euro.
Con tendenza al rialzo.”
“E perché mai dovremmo pagarti
questa somma?” chiesi.
“Perché non avete altra scelta.”
Tirò fuori qualcosa dalla tasca
del gilet che, da lontano, sembrava un
accendino di plastica, solo che sulla punta
c’era un diode luminoso.
“Se mi farete aspettare troppo
per avere il mio denaro, io premo su
detonatore.” Benny sogghignò. “Il che
significa, al massimo entro un’ora, quando
cioè la mia richiesta sarà arrivata a due
milioni e cinquecentoventimila euro”.
Mi accorsi dei movimenti febbrili alle
mie spalle. Sapevo che Hartmann aveva
posizionato diversi tiratori scelti sui tetti
delle case di fronte e dietro le portiere
aperte delle autopattuglie, in formazione
a V a debita distanza di sicurezza dal
negozio.
“Benny, abbiamo già evacuato la zona
pedonale e tutte le case qua attorno” dissi
in tono calmo, evitando parole negative
tipo “morte” e “ostaggio”: “Se lo preme,
131
racconto
non farà del male che a se stesso.”
Benny rise come se gli avessi
raccontato la barzelletta del secolo.
“Si sbaglia. Tutti pensate che io sia
cablato, vero? E in effetti è così. Tuttavia,
non ci lascerei le penne solo io, ma tutta
la città.”
“Questa me la deve spiegare” gli
chiesi. “Come pensa di riuscirci?”
Benny alzò il naso. “Mi ascolti
bene, amico. Ho posizionato diverse
cariche esplosive in altrettanti punti
nevralgici della città. Se saltano, tutte
e nove le pompe verranno danneggiate.
Irrimediabilmente. In un colpo solo. Dopo
il Diluvio Universale dei giorni scorsi,
le vasche di deflusso saranno piene.
Lo chieda al sindaco quanto ci metterà
Bergkamen a finire sott’acqua.”
Rise ancora.
“Forse avrete tempo di evacuare la
città. Ma poi non ci tornerà nessuno. Non
avrebbe più senso, dopo che tutto sarà
andato distrutto. Quindi si sbrighi, Adam:
se entro un’ora non avrò i miei soldi,
trasformo Bergkamen in una seconda
New Orleans. Solo un po’ più umida.”
Finito di parlare con Benny, tornai
nella banca, dove Hartmann mi venne
incontro con un’espressione che avevo
già vista sul volto di Tanja. La volta che mi
mostrò l’orecchino trovato fra i cuscini del
nostro divano e che lei, sfortunatamente,
SEBASTIAN FITZEK
Sebastian Fitzek è nato a Berlino nel 1971, ha un dottorato in Giurisprudenza
e lavora alla direzione programmi di una grossa radio privata berlinese.
Il suo romanzo di debutto La Terapia (2006) ha destato grande sorpresa,
coniugando giallo poliziesco e thriller. Sono seguiti Amokspiel e poi nel 2008
Il bambino e Il ladro di anime, con cui ha rinsaldato la sua posizione fra i
maggiori autori tedeschi di thriller.
www.sebastianfitzek.de
132
133
non aveva perso.
“Che cazzo sta succedendo?” chiese
Hartmann con un tono che, a sua volta,
sembrava quello della mia ex moglie. Uno
degli assistenti mi portò un caffè tiepido.
Io mi tolsi la giacca fradicia e la appesi
allo schienale di una delle sedie.
“Me lo dica lei” risposi e guardai il
televisore al plasma attaccato alla parete,
che normalmente trasmetteva filmati
pubblicitari o mute notizie di borsa per i
clienti in attesa. Adesso mostrava delle
riprese aeree sfocate della zona pedonale.
Dovevano venire dall’elicottero della
stampa che, proprio in quel momento,
rombava sopra le nostre teste.
“È vero quello che dice questo Benny?
Può veramente affogare la città intera?”
“In teoria, sì”. Mi voltai verso quella
nuova voce che veniva da dietro le mie
spalle e mi ritrovai a fissare un volto noto.
Roland Schäfer, sorridendo come sui
cartelloni, mi porse la mano e si sedette
con noi. “Vuole sapere se può tenere
l’intera città in ostaggio?”
Annuii.
“Purtroppo sì. Piove ininterrottamente
da una settimana. Se solo la pompa del
Beverbach a Rünthe o quella del Kuhbach
smettono di funzionare, succede un
casino. Intere aree della città verrebbero
sommerse, fino ad Hamm, probabilmente.
In ogni caso le cantine verrebbero allagate
e le case rese inabitabili per mesi. Fermo
restando, naturalmente, che l’attentatore
abbia trovato un modo per mettere
davvero le pompe fuori combattimento
per lungo tempo”.
“Per esempio facendole saltare in
aria?” chiesi buttando giù un sorso di
quella brodaglia marrone che passava per
caffè.
“Stiamo facendo controllare i vari
impianti” disse Hartmann. “Ma per ora
non abbiamo trovato niente di sospetto.”
Si massaggiava gli occhi con l’indice e
il pollice della mano destra e mi chiesi
se fosse più tipo da emicrania o da lenti
a contatto. O magari aveva solo dormito
male.
“E cosa propone di fare?” chiese,
senza alzare gli occhi verso di me.
Aspettai un secondo prima di
rispondere.
“Ora, qui abbiamo un caso piuttosto
particolare: una minaccia di suicidio
combinata con una di attentato. Il
soggetto vuole farsi saltare in aria
e,
contemporaneamente,
lasciare
cinquantamila persone senza casa. È
chiaro che all’uomo non interessa tenere
segreta la propria identità, come succede
di solito con gli attivisti con motivazioni
politiche o idealistiche. Cionondimeno,
ha avanzato chiare richieste di denaro.
Sapete se è parte di qualche cellula
organizzata?”
“No, non ci risulta. Come vi ho detto
per noi Benny Senner è solo Benny SenzaSenno. Hartmann prese una penna con
la pubblicità della banca e se la mise in
bocca. “Violazione di domicilio, molestie,
disturbo della quiete pubblica... è quello
il suo genere. Mai violenza contro le
persone.”
“Solo che, a un certo punto, il nostro
innocuo Benny ha messo le mani su
dell’esplosivo al plastico” rammentai.
“Sì, eppure non ce lo vedo a mettere
altre persone in pericolo di vita, né a
nascondere bombe negli impianti di
pompaggio.”
Annuii. “Su questo sono d’accordo con
lei.”
La penna passò da un angolo
all’altro delle labbra di Hartmann che,
racconto
stupito, inarcò le sopracciglia. “Quindi
starebbe solo bluffando?”
“No. Credo solo che abbia piazzato
le bombe altrove”.
Vidi che il sindaco voleva dire
qualcosa, ma non lasciai che mi
interrompesse.
“Con Benny ho scambiato solo
poche parole, ma in quel breve tempo
ha pronunciato più volte le parole
“corrente” e ha imprecato contro le
“centrali”. E non dimentichiamoci che
si occupa di energie rinnovabili.” Mi
alzai, parlando a turno a Hartmann e
al sindaco. “Ovviamente, per lui, non
conta solo il denaro. Vuole di sicuro
lasciare un segno. Ecco spiegata la
sceneggiata a effetto. E non vuole
colpire solo Bergkamen ma anche
i “magnati” come li chiama lui. E
questo mi spinge a pensare che voglia
prendere i classici due piccioni con una
fava.” Feci una pausa studiata, conscio
che, a quel punto, tutti i presenti
a portata di orecchio mi stavano
ascoltando con attenzione. “Grazie
ai suoi studi, sa piuttosto bene come
funziona una centrale. Interromperà
il flusso di elettricità che alimenta le
pompe. Credo si limiterà a far saltare
qualche traliccio, a distruggere le linee
aeree o a togliere energia all’impianto
di trasformazione.”
Hartmann sbiancò. Sembrava
quasi di vedere il pensiero del numero
spropositato di possibili obiettivi
agitarsi in lui.
“E ora cosa facciamo? L’ultimatum
134
scade fra trentadue minuti.” Il
sindaco tirò fuori una calcolatrice.
“Che è come dire tra un milione e
trecentoquarantaquattromila euro.”
Gettai uno sguardo al display
verdognolo dell’apparecchio. Schäfer
stava calcolando la somma finale, allo
scadere dei sessanta minuti di Benny,
e il totale era 2,52 milioni.
Hartmann
prese
una
ricetrasmittente e si alzò in piedi a sua
volta.
“Squadra A, com’è la situazione?”
chiese, dandomi le spalle. Oltre la
vetrata, sul piazzale, vidi un uomo a
volto coperto della squadra speciale
alzare appena una mano.
“Pronti a entrare in azione,
signore”. Disse una voce sommessa
dal trasmettitore. “Tutti gli uomini in
posizione.”
“Io non lo farei”. Sferrare
un attacco non era consigliabile.
Hartmann si voltò lanciandomi uno
sguardo seccato. “Ma non mi ha
appena detto che quell’uomo è da
ritenersi pericoloso? Cosa devo fare,
aspettare che metta in atto la sua
minaccia?”
“No.”
“Cosa, allora?”
“Dategli il denaro.”
Al che Hartmann scoppiò a ridere,
come se gli avessi suggerito di far
imbracciare a Gertrud Dobkowitz una
mitragliatrice e di farle condurre il
blitz.
135
“Lei ha perso completamente
la ragione” disse con la familiare
cadenza della mia ex moglie.
“Mi ascolti” spiegai, cercando
di rimanere più calmo possibile.
“Il soggetto procede con ordine,
seguendo un piano preciso. Non è,
di conseguenza, uno psicopatico
impulsivo. Ma noi abbiamo un
vantaggio: gli manca una strategia di
uscita.”
“Ovvero?”
“Ovvero, coi soldi non può
cominciare. Lo guardi un attimo.”
Accennai al monitor di sorveglianza
che
rimandava
costantemente
l’immagine della vetrina del negozio.
Benny era intento a rimboccarsi il
pantalone di destra. Anche dalla
nostra posizione si vedeva bene che
gli tremavano le dita.
“Quello non è un assassino. È
insicuro, e diventa ogni momento più
nervoso. Non si è mai trovato in un
affare tanto grosso. Sono sicuro di
riuscire a convincerlo a venire fuori,
ma per farlo mi serve tempo. E lo
ottengo solo se, la prossima volta che
vado lì da lui, ho qualcosa in mano.”
Ventidue
minuti
e
novecentoventiquattromila
euro
dopo, tornai ad avvicinarmi alla vetrina.
Non mi ero sbagliato. Benny sudava
e la sua kefiah giaceva abbandonata
vicino alla sedia. Stavolta, quando
mi vide, non sogghignò, nonostante
avessi con me una ventiquattrore
nera e lui sapesse perfettamente
cosa conteneva. Si portò, nervoso,
una mano alla nuca e comincio a
massaggiarsela lentamente. Con
l’altra mano si sfilò il cellulare di
tasca. Poco dopo il mio suonò.
“Quanto?”
mi
chiese
a
bruciapelo.
“Quasi due milioni. Di più non
siamo riusciti a trovare, in così poco
tempo.”
Non era una bugia. Anzi, c’era
piuttosto da meravigliarsi che
fossimo arrivati a tanto. Negli ultimi
venti minuti, tutte le filiali nei dintorni
di Nordberg avevano mandato i propri
portavalori.
“A-ah” disse Benny con un tono
che non lasciava trapelare se fosse
d’accordo o piuttosto sul punto di
premere il bottone. D’altronde, con
la somma raccolta eravamo circa
centomila euro al di sotto della sua
richiesta e il cronometro ai suoi piedi
continuava a ticchettare.
“Come procediamo?” chiesi, nel
modo più cordiale possibile.
“Si tolga l’auricolare.”
“Merda” fu il commento di
Hartmann alla richiesta di Benny. E
anche l’ultima cosa che sentii dire al
capo attraverso la radio.
“Fatto” dissi a Benny e sollevai
la valigetta. “Ora posso entrare?”
“Sì. Ma prima spenga il cellulare
e ci tolga la batteria.”
Sentii chiaramente Hartmann
che, alle mie spalle, colpiva rabbioso
racconto
la scrivania.
“Ehi tu, non ci prendere per i fondelli”
dissi prima di chiudere la comunicazione.
“Ora sono io quello in pericolo.”
Tolsi la batteria dal telefono e poggiai
entrambi gli oggetti sulla strada bagnata.
Poi mi avvicinai alla vetrina, lento, con le
mani in alto. I due milioni erano divisi in sei
mazzette e ognuna pesava circa come un
romanzetto in edizione tascabile. Eppure
la ventiquattrore mi tirava il braccio destro
verso il basso come un grosso peso.
La porta del negozio era aperta.
Dall’interno vuoto mi investì un tanfo di
polvere, sudore e paura. Ora che ero vicino,
mi resi conto che Benny non avrebbe
retto cinque minuti di più. Un giochetto da
bambini, per un negoziatore come me.
“Come va?” gli chiesi.
“Insomma” rispose e si schiarì la
gola. “Ci sono davvero i soldi lì dentro?”
“Sì.” Aprii la valigia. Per la prima volta
il suo corpo esile si mosse. Si avvicinò alla
vetrina e azionò un interruttore vicino
al bordo. Si sentì uno scricchiolio e la
saracinesca del negozio si abbassò.
“Fine dello spettacolo” disse e
fece il gesto di salutare il comando delle
operazioni.
Quando da fuori nessuno poté più
vederci, si voltò verso di me, passandosi
nervoso la mano tra i capelli. “Bene e ora
come procediamo?”
“Come stabilito” risposi e guardai
l’orologio. Poi poggiai la valigetta ai suoi
piedi e tirai fuori una mazzetta.
“Girati” gli ordinai e gliela misi in una
delle tante tasche del gilet.
“Non appena ti ho riempito le tasche
di grana, tu esci e aspetti che tutte le
telecamere ti riprendano.”
“Certo, lo so, così tutti sentono quello
che ho da dire.”
136
“Esatto”
Per fortuna Benny era molto nervoso
ma non completamente fuori di testa. Ne
avevamo parlato per ore. Da settimane. Il
mondo intero doveva sapere quali danni
aveva provocato l’industria mineraria.
Danni che sarebbero durati in eterno e
davanti ai quali non si potevano chiudere
gli occhi. Non mentre in Cina veniva
perpetrato uno sfruttamento ancora
più selvaggio, a dispetto dell’uomo e
dell’ambiente.
“Non appena ti sarai messo in
posizione per la stampa, chiama questo
numero.” Gli infilai in tasca un’ultima
mazzetta e gli detti un foglietto su cui
avevo annotato il numero di Hartmann.
“Cosa devo dire?”
“Dici ‘tutto questo lo faccio solo per
Bergkamen’.” Gli suggerii. “Niente di più.
Per il resto ci sarà tempo dopo, quando ti
interrogheranno. A quel punto restituisci
loro i due milioni ed entro stasera tutti
quanti sapranno che non sei né un
attentatore né un ladro.”
“E il mondo intero saprà del tasso
di conversione” sogghignò Benny.
“Settecento litri di acqua al secondo. Porca
miseria, era davvero l’ora che qualcuno
si svegliasse, prima che si costruiscano
altre centrali a carbone.”
“Vero”.
Chiusi la valigetta vuota e lo presi per
un braccio.
“Amico mio, mi sono proprio divertito”
mi fece, con un sorriso nervoso. “Grazie
per avermi aiutato a realizzare tutto
questo. Solo non vedo l’ora di togliermi di
dosso questo esplosivo finto, che dà un
prurito della Madonna sotto la maglietta!”
Ridacchiai e gli spettinai i capelli.
Durante l’anno della preparazione, mi ero
proprio affezionato a questo squinternato.
Ovviamente non era stato un caso che si
fosse rivolto a me. Infondo non sono molti
i negoziatori della polizia che hanno perso
il padre in un incidente in miniera.
“L’ultimatum sta scadendo” gli
ricordai, indicandogli la porta. “Vai e
facciamola finita”.
Per un attimo, mi sembrò come
se procedesse al rallentatore, piano,
dondolando, eppure il suo passo era
energico. Era un guerriero, che andava
ad affrontare la sua ultima battaglia.
Un idealista che, nonostante la giovane
età, covava in sé così tanta rabbia da
sacrificare tutto il suo futuro sull’altare
di una guerra che non avrebbe mai
potuto vincere. Avevo rispetto per quel
suo coraggio, che non avrei mai potuto
ripagare. Ma avevo fatto tutto quello che
potevo. Avevo mostrato loro dove tutto il
loro scavare, quello che aveva ucciso mio
padre, li aveva portati.
Mentre Benny apriva la porta e
usciva fuori, sotto la pioggia battente,
indietreggiai verso il fondo del negozio. Sul
retro, non c’erano uscite secondarie da
cui scappare, solo un bagnetto di servizio,
con un lavandino e il water. Mentre mi
acquattavo sotto il lavabo, sentii che
Benny stava già facendo il numero di
Hartmann. Guardai l’orologio. Ancora dieci
secondi alla scadenza dell’ultimatum.
Da fuori, mi giungeva la voce acuta di
Benny che strillava la frase che avevamo
deciso insieme.
“Tutto questo lo faccio solo per
Bergkamen.”
Poi, con due secondi di anticipo, una
potente esplosione ridusse in pezzi non
solo la saracinesca e la vetrina, ma anche
il torso di Benjamin Senner.
Più tardi, dopo i primi concitati
momenti di caos, curati i pochi curiosi
feriti e costatato ufficialmente il decesso
dell’attentatore, chiaramente un pazzo, ero
sulla via del ritorno, diretto al compleanno
di Lisa. Con un po’ di fortuna sarei arrivato
in tempo per la torta e il caffè. I trucchetti
di magia non li avrei fatti. Per oggi ne
avevo fatti abbastanza, di trucchetti.
Perché, mi pare ovvio, i soldi andati in
fumo, quelli trovati vicino all’attentatore
suicida, non erano tutti. Mentre Benny mi
dava le spalle, avevo continuato a infilare
nelle tasche sempre la stessa mazzetta.
Benny era troppo nervoso per accorgersi
di avere addosso sì e no centomila euro
di banconote, alcune delle quali erano poi
svolazzate per la zona pedonale dopo la
detonazione, facendo un certo effetto.
Quella
sera,
le
immagini
dell’esplosione avrebbero invaso i
notiziari: attivista ecologista si fa saltare
in aria per denunciare i danni dell’industria
mineraria.
Misi la freccia per prendere
l’autostrada e, soddisfatto, toccai la
mazzetta di banconote che avevo nella
tasca della giacca. Quasi due milioni per
quattro ore di lavoro. Che fortuna che
quell’idealista abbia chiesto proprio a me
di aiutarlo in questa assurda protesta.
La sua maggiore preoccupazione
era che lo arrestassero con un’azione di
commando prima che potesse dire la sua
frasetta di fronte alle telecamere. E in
effetti non si era sbagliato: alla fine avevo
dovuto davvero ricorrere a tutte le mie
capacità di persuasione per impedire ad
Hartmann di assaltare.
Accesi la radio e accelerai, sulle note
di The winner takes it all.
Ebbene, sì, molti mi ritengono uno
stronzo. E magari lo sono pure.
Ma adesso, per favore, non venite
a dirmi che non vi avevo avvisato fin
dall’inizio.
137
G ialli Thriller
Il marchio del Diavolo
il nuovo romanzo di Glenn Cooper
di VIVIANA FILIPPINI
Chi o cosa sono i Lemuri? Animaletti
simpatici con gli occhioni teneri che ti fanno
tenerezza al cuore a prima vista? Oppure, gli
spiriti vaganti dei morti che nella mitologia
romana ritornavano sulla terra per atterrire
i vivi? Ne Il marchio del Diavolo, il nuovo
romanzo di Glenn Cooper, la scelta ricade
sulla seconda categoria – anche se i lemuri
in questione sono meno immateriali degli
spiriti dell’antica Roma – e porta i lettori a
compiere un avventuroso viaggio nel corso
dei secoli.
Si comincia con un flashback nella Roma
del 1139, dove un misterioso individuo scruta
il cielo notturno osservando le 112 stelle
apparse nel cielo dopo l’eclissi lunare che ha
provocato un allineamento astrale insolito.
Perché sono così importanti gli astri? Perché
essi rappresentano una profezia destinata a
cambiare le sorti della Chiesa: nella storia
si susseguiranno ancora 112 papi, poi un
nuovo mondo sorgerà sulle rovine della
stessa. All’improvviso, Cooper ci catapulta
nella Roma del 2000 nella quale Elisabetta
Celestino una giovane archeologa è a
terra in una pozza di sangue, con in testa
alcuni pensieri che non dimenticherà mai:
il Vaticano senza una motivazione precisa
l’ha obbligata a smettere gli studi negli scavi
nella catacombe di San Callisto e lei non
capisce il perché. Poi, un pazzo scatenato
che non ha ben compreso se sia un uomo
o un animale le ha inferto una tremenda
coltellata.
138
Roma 2010. Una giovane suora è
ingaggiata dal Vaticano per lo studio di
simboli astrologici nell’antico colombario di
San Callisto. Qui la donna si ritrova circondata
da scheletri che la sconvolgono per quella
particolare protuberanza anatomica che lei
aveva notato anche nell’uomo che, dieci anni
prima, aveva attentato alla sua vita. Infatti,
la religiosa alle prese con la misteriosa
indagine, non è nient’altri che Elisabetta
Celestino, diventata suora dopo essere
miracolosamente sopravvissuta alla morte.
Ad aiutare la protagonista, partecipa la sua
famiglia: il padre, un docente di matematica
alla Sapienza; la sorella Michela, esperto
medico in un ospedale romano; Zazo,
il fratello ex poliziotto che lavora nelle
guardie svizzere in Vaticano e l’allampanato
sacerdote padre Trembaly. Tutto sembra
andare per il meglio, ma quando la suora
entrerà in possesso di un’antica copia del
Dottor Faust di Marlowe e – con maestria
Cooper ci prende per mano facendoci fare
un bel viaggio nell’epoca elisabettiana alla
conoscenza delle rivalità e dell’ambigua
natura dei poeti della corte regale –
comincerà a studiarne la composizione per
scovare il misterioso messaggio nascosto
tra le righe. La sua esistenza e quella di chi
la circonda sarà travolta da cambiamenti
improvvisi ed eclatanti. Nella caotica Urbe
tutti sono in tensione emotiva per il conclave
che porterà all’elezione del nuovo Papa. Si
scatenano, perciò, attorno ad Elisabetta e
Co. inseguimenti mozzafiato, fughe ad alta
tensione, assassinii, ricerche spasmodiche
della verità e una catena di complessi
intrighi che risvegliano l’interesse, mai
sopito, di loschi individui.
Questo quarto romanzo di Cooper
– i tre precedenti sono La biblioteca
dei morti, Il libro delle anime e La
mappa del destino – mostra, ancora
una volta, la vasta competenza culturale
e storica dello scrittore americano. Una
conoscenza che gli permette di creare una
storia avvincente in grado di coinvolgere
il lettore, mantenendo sempre attivo lo
stato emotivo e l’interesse per le vicende
narrate. La “capacità d’interessamento”
scatenata nell’altro, dalla scrittura di
Cooper, sta nella sua abilità creativa
di storie dall’intreccio solido e ben
costruito dove per rendere complice il
lettore, l’autore non inventa tesi surreali
e non utilizza teorie che mettono in crisi i
“saperi” e le credenze del pubblico. Glenn
Cooper ha uno stile garbato e rispettoso,
abile a guidare sapientemente chi legge in
un’avventura caratterizzata da personaggi
dalla fine e complessa psicologia e da
un’atmosfera intrigante che ha da sfondo
l’eterno scontro tra le forze del bene e
quelle del male. Tutto questo si amalgama
perfettamente, appassionando chi legge
dalla prima all’ultima pagina, ma allo stesso
tempo fomenta in noi un dubbio legittimo:
“Le persone che incontriamo nella nostra
vita sono veramente quello che sembrano
e che affermano di essere?”
Citando Manzoni:
“Ai posteri l’ardua sentenza”.
Titolo: Il marchiodel diavolo
Autore: Glenn Cooper
Editore: Nord Editrice
Pagine: 416
Prezzo: 19,40
139
G ialli Thriller
AUTRICE DI TU LA PAGARAS! E FUEGO
Un giallo a passo di salsa, intriso di malinconia
e disincanto, ma nello stesso tempo dotato
di una forza magica e seducente. Questa
potrebbe essere una delle decine di
definizioni entro cui racchiudere lo spirito di
tu la pagaras!, il romanzo di Marilù Oliva,
pubblicato dalla Elliot. Un giallo che, sebbene
abbia già due anni, continua a far parlare
di sé: cosa rara in un mondo, qual è quello
editoriale, che tende a creare e macinare
fenomeni letterari nel giro di pochi mesi.
Protagonista di questo giallo, ambientato a
Bologna, è Elisa Guerra. Una donna su cui la
vita ha infierito, ma che non è stata piegata da
nulla, proprio come indica il suo soprannome:
la Guerrera. Dotata di grande carisma, tacchi
vertiginosi e un coraggio nell’affrontare
la vita che ricorda le
grandi eroine della
letteratura
di STEFANIA AUCI
sudamericana. La Guerrera è una lottatrice
che non si è lasciata piegare né dall’infanzia
terribile che ha vissuto, né dagli amori
sbagliati/complicati/autolesionisti in cui si è
impelagata.
Elena ha una passione e insieme una
debolezza: il ballo latino americano. Balla
la salsa per sentirsi viva, per avvertire
quell’energia magica che l’ha affascinata in
un viaggio a Cuba, anni prima, assieme a un
amore finito male.
Nel locale dove solitamente si reca a ballare,
però, avviene un omicidio: Thomas Delgado,
brasiliano, barista e dongiovanni, viene
trovato morto, ucciso in modo orribile. Piccolo
particolare: Thomas era l’uomo di Elisa. Non
una relazione stabile, quanto piuttosto un
cercarsi per poi fuggire e riprendersi ancora.
Non amore: sesso.
A indagare è un commissario tutto a un
pezzo, senza grilli per la testa Basilica.
Quest’uomo di origine meridionale e con
una vita familiare e professionale ordinata ai
confini della noia viene “rapito” dal mondo
passionale e anarchico della salsa e degli
strani personaggi che in esso gravitano.
Manuela, ballerina non più nel fiore degli
anni e con molti conti in sospeso con colleghi
e dipendenti; Catalina la migliore amica di
Elisa Guerra, un po’ maga, un po’ mamma;
Azuk, barista amico di Thomas; Princesa, una
salseira tanto affascinante quanto ambigua,
seguita dai suoi cugini con cui ha un rapporto
morboso.
Una girandola di personaggi vitali, forti,
ciascuno con le proprie caratteristiche, attori
di un microcosmo a tinte forti, in cui il giallo
140
del sole si mescola con il rosso scuro del
sangue raggrumato. Un mondo affascinante
e colorato in cui il dato saliente è costituito
proprio dai personaggi, tratteggiati con
mano salda. Frizzanti, cinici, talora arrabbiati,
talaltra naif ma sempre umani e concreti.
Il romanzo di Marilù Oliva è un omaggio alla
cultura cubana che l’autrice ama e apprezza.
Niente immagini o emozioni da cartolina
dunque, ma una passione vera, che si sente e
si respira tra le pagine di un noir che mescola
versi di Dante a un ritratto impietoso della
realtà nostrana.
Bologna costituisce lo sfondo e l’ancoraggio
solido della vicenda: il tessuto sociale italiano
è rappresentato in maniera realistica, a
volte caricaturale. Una società corrotta e
avvelenata, in cui le persone autentiche
appaiono come strane figure un po’ naif.
Exemplum di questo mondo ipocrita è
Torinelli, il caporedattore della rivista per
cui lavora la Guerrera: un individuo laido,
dal passato losco con l’ambizione di essere
il castigamatti della società civile bolognese.
Una pretesa, la sua, che si traduce nel diritto
di pescare nel torbido per raggiungere i propri
scopi.
La narrazione procede attraverso capitoli
che alternano la prima persona alla terza,
con brevi prefazioni sulle divinità Orisha:
un pantheon variegato in cui ogni figura
incarna doti o difetti che si rispecchiano
nei personaggi. Il piano esoterico, sia pure
appena accennato, si alterna, si sovrappone
e si mescola con il mondo reale: la Guerrera
è a metà strada, tra le suggestioni magiche di
Catalina e il pragmatismo di Basilica.
Tu la pagaras! è un romanzo impregnato di
colori e di musica: uno dei noir più interessanti
pubblicati in Italia negli ultimi anni. Originale,
non solo – o non tanto – per l’ambientazione,
ma soprattutto per la costruzione della
storia e dei personaggi, che rimarrà a lungo
impresso nella mente dei lettori.
Speechless: Cara Marilù, grazie di aver
accettato quest’intervista. Allora, vuoi
parlarci di te?
Cosa fai nella
vita (a parte
scrivere)?
E
quando inizi a
lavorare su una
nuova
storia,
cosa fai, come ti
prepari? Ascolti
musica, hai dei
riti di scrittura di
cui vuoi parlarci?
Marilù: Non ho
riti particolari se
non quello della
concentrazione,
quindi
niente
musica,
se
non
nelle
pause.
Prima
di cominciare
a
scrivere
dedico ore di
proget tazione
alla
storia
senza scaletta
cartacea, solo
mentale. Penso
alla
vicenda
con ossessione,
troppo spesso,
anche
nei
momenti meno
opportuni
(mentre guido, ad esempio), del resto ho
davvero poco tempo a disposizione perché
svolgo un lavoro che mi appassiona: sono
docente di lettere alle superiori.
S: Tu la pagaras! nasce dal tuo grande amore
per Cuba e per la Salsa. È un sentimento
autentico che si respira nelle pagine del
romanzo e che arriva al lettore come una
brezza calda, struggente e intenso. Come hai
scoperto quest’isola? E che rapporto hai con
il ballo?
M: L’ho scoperta attraverso diversi viaggi. Il
mio rapporto con la salsa – sia musica che
142
Gialli Thriller
ballo – lo spiego
nelle
pagine
centrali di “Tu
la
pagaràs!”:
è un rapporto
totalizzante, che
sa di libertà, di
confini valicati,
di respiri pieni.
S: Al boom
dei
balli
latinoamericani
è seguito lo
“sboom”. Oggi
sono rimasti i
veri cultori, gli
appassionati
che trascorrono
come
la
Guerrera, notti
in pista. Com’è
cambiato
in
questi
anni
il
mondo
della salsa, se
cambiamenti ci
sono stati?
M: Premetto che
negli ultimi anni
non sono andata
a ballare, quindi
non
saprei
risponderti con
precisione. Una cosa che vorrei sottolineare,
invece, è quanto spesso il mondo salsero
venga considerato erede del liscio, delle
vecchie balere: non è affatto così! Il mondo che
conosco io è frizzante, dinamico, moderno.
Ci sono varie tipologie di frequentatori, li
descrivo abbastanza puntigliosamente nei
miei libri, delle volte ironizzando. Anche se,
per utilizzare le discoteche come sfondo
noir, sono stata costretta ad estremizzarne i
contesti.
S: Veniamo a Tu la pagaras!. Un romanzo
particolare, struggente e arrabbiato, in cui
la protagonista è guerriera nell’anima. Porta
143
con orgoglio le proprie cicatrici, fortifica il
corpo con una disciplina molto “fisica” come
la Capoeira, abbraccia il dolore dei suoi ricordi
e non si nasconde per sfuggirvi. Quanto c’è di
Marilù nella Guerrera?
M: Diciamo un cinquanta per cento. Alcuni
particolari sono autobiografici, sia per
quanto riguarda la situazione della Guerrera
(anch’io ho lavorato per anni in redazioni dal
clima asfittico, ho praticato capoeira) sia per
quanto riguarda le descrizioni fisiche (il fatto di
essere piccolina, anche se lei è molto diversa
da me: ha i capelli scuri e lisci e la carnagione
olivastra). Si può dire che, in un certo senso,
La Guerrera è la proiezione di quello che
ero io a venticinque-trent’anni, ovvero una
decina di anni fa, opportunamente ridipinta
per esigenze narrative. Ho reso più rabbioso
il suo senso di ribellione per le ingiustizie, l’ho
voluta più libera, più scanzonata, a tratti più
nera. E l’ho ritratta, rendendo onore al suo
nome, come una vera “guerriera della vita”.
S: Basilica è un personaggio meraviglioso. Un
uomo integerrimo che riesce a mantenere
saldo il suo rigore morale anche in momenti
“caldi” come quello del condotto di
areazione... ma nello stesso tempo è umano,
fragile e consapevole di sé. A chi ti sei ispirata
per creare questo commissario poco eroico e
molto concreto?
M: Il nome l’ho rubato a mio marito, il resto
è inventato.
S: Catalina ricorda le figure della grande
letteratura sudamericana: non tanto per la
sua passione per il misterioso e l’alchemico o
per le doti culinarie, quanto per quel senso di
protezione materno, persino avvolgente che
lei dimostra nei confronti del mondo e della
sua amica on particolare. Hai mai conosciuto
una persona così o è frutto di un’ispirazione
meramente letteraria?
M: Diversamente dalla Guerrera e da Basilica,
che sono sì di ispirazione reale ma nascono
da una rielaborazione fantasiosa, abbastanza
lunga e complessa, esistono due i personaggi
che ho invece ripreso quasi identici dalla
G ialli Thriller
realtà: una è la dottoressa Buldini Virginia,
l’altra è Catalina, la più “magica” tra le mie
amiche del cuore. Lei si chiama Caterina,
revisiona la parte esoterica dei miei scritti, è
grande cartomante e apprendista alchimista.
Ovviamente io e lei la pensiamo all’opposto
su ogni cosa.
S: Vi sono alcuni passi in cui la protagonista
parla del suo vissuto non certo facile da
cui traspare un rapporto molto bello e forte
con il proprio corpo. Oggi, il corpo femminile
è spesso mercificato: usato come merce
di scambio, diventa fulcro di insicurezze e
negatività, mortificato da comportamenti che
vanno contro il benessere delle donne. Cosa
pensi del modo in cui le donne, oggi, vivono la
propria femminilità?
M: Questo è un discorso molto serio e ti
ringrazio per la domanda, che meriterebbe
una risposta più lunga. Penso che oggi
si stia insidiando in maniera sotterranea
un maschilismo – non è esatto nemmeno
chiamarlo maschilismo, meglio la locuzione
“svalutazione della donna” – insidioso che
si manifesta sostanzialmente sui due livelli
che tu hai citato: la mercificazione fisica
e la svalutazione dell’operato. Le donne
sul lavoro sono svantaggiate rispetto agli
uomini (eccezion fatta per i mestieri vocati
quali l’insegnante, ad esempio), guadagnano
di meno, fanno meno carriera. La cosa più
allarmante è che questa realtà venga spesso
negata anche dalle donne stesse. Eppure
queste affermazioni sono suffragate da dati
scientifici, basterebbe solo informarsi. Penso,
inoltre, che anche che in molte delle donne
più intelligenti abbia attecchito il modello
di bellezza propinato dai mezzi mediatici.
Le donne sono insicure sia rispetto ai propri
presunti difetti sia rispetto al tempo che
passa, per questo ci tenevo a presentare
una protagonista come La Guerrera. Lei è
altamente imperfetta, ciononostante risulta
seducente attraverso alcuni dettagli. Ma la sua
grande virtù è che non è affetta da complessi.
Ha altri problemi con cui fare i conti...
S: Tu sei una giornalista che scrive per
testate web e cartacee. Come vedi il mondo
dell’informazione telematica e, più in
specifico, della letteratura dal tuo osservatorio
privilegiato?
M: Il Web è un’opportunità di democrazia.
Tutti possono accedervi, tutti possono
esprimersi. Anobii è un esempio in piccolo di
questa democrazia. È molto bello che esista
una tale comunità di bibliofili e io presto
molta attenzione a quello che i lettori dicono.
Se una persona ti legge, significa non solo che
ha speso dei soldi per acquistare il tuo libro
o si è preso la briga di andare a sceglierlo in
biblioteca, ma significa soprattutto che ti
ha dedicato del tempo, delle energie, delle
emozioni, e questa è la cosa più preziosa.
C’è infine da distinguere un’esigua fascia di
persone che utilizzano questi contenitori
come valvola di sfogo alla loro frustrazione.
Basta ignorarli.
S: Si parla apertamente di una crisi del mercato
editoriale. Numerose case editrici registrano
segni negativi e altre guardano con sospetto
all’avvento degli e book. Cosa pensa di tutto
ciò Marilù Oliva scrittrice?
M: Penso che l’avvento degli e book possa
portare molti vantaggi: minor prezzo,
reperibilità, la visibilità, lo spazio compresso,
minor impatto sull’ecosistema. Niente, però,
almeno per la nostra generazione, potrà
sostituire il fascino della carta da sfogliare.
Guardo comunque con grande attenzione alla
realtà dell’eBook e credo che i due sistemi
possano procedere di pari passi ancora per
qualche decennio, proprio in virtù delle diverse
modalità di fruizione e, di conseguenza,
della diversa utilità dell’oggetto cartaceo o
elettronico.
S: Progetti per il futuro?
M: Sto scrivendo la terza puntata della
Guerrera, che dovrebbe uscire entro un anno.
144
Hai un
racconto
inedito che
vorresti veder
pubblicato?
SPEECHLESS
VUOLE TE!
INVIA
il tuo racconto
e le tue generalità
alla Redazione:
redazione@speechlessmagazine.com
IL PROSSIMO RACCONTO
POTREBBE ESSERE
PROPRIO IL TUO!
r acconto
Amanda
di MARZIA MUSNECI
146
La coscienza tornò lentamente, come sempre dopo il Lungo Sonno.
Nell’atmosfera rarefatta e lattiginosa, ricordò le forme del suo corpo sinuoso.
Ci volle più tempo perché ne ricordasse anche la forza e le capacità. Controllò
la funzionalità di ogni connessione nervosa, verificò i sensi affilati, distese
i muscoli, si girò e rigirò, fece tutto quello che a tutte le altezze e latitudini
fanno le creature quando si svegliano. Poi cominciò a vagare nell’ambiente
impalpabile, che sosteneva il suo peso grazie a misteriose forze che non aveva
mai analizzato. Non che le importasse, dopotutto. Esisteva da sempre, e questo
era sufficiente.
Quando si sentì in forze, ebbe curiosità di vedere cosa fosse successo nel
mondo dopo tutto quel tempo. Era notte, e quello che vide le piacque: Terra
era un globo oscuro spruzzato di luci sparse in modo irregolare con fresca
armonia, come se il pianeta volesse replicare la volta stellata che lo copriva.
Di giorno fu diverso. Quello che vide le piacque molto meno. La specie
dominante che brulicava sul pianeta si era data da fare, e alcuni dei suoi posti
prediletti erano imbruttiti, degradati, irriconoscibili. Ricordò con disappunto
che doveva lasciar correre, che al destino che uno si sceglieva da sé non poteva
mettere mano.
Ma ci fu una cosa che risvegliò la sua rabbia.
Visto che era quello che era, qui poteva intervenire, oh sì che poteva. Voleva. Doveva fare qualcosa.
Scelse il luogo. Scelse il giorno e l’ora. Scelse il corpo.
Devo avere quella donna.
Stasera è rientrata alla solita ora.
Amo i garage come questo, a livello della strada, le entrate cariche di cespugli fioriti, i cancelli generosi che si
richiudono lenti. Ho trovato un punto di osservazione eccellente, fra una bouganvillea e la siepe di bosso.
Lei parcheggia la macchina nel suo box. Di solito ce la fa con due manovre, quando è stanca con tre, anche
quattro.
È sempre sola. È alta, forte, bionda.
È bella, ma ho visto altre donne più belle di lei. Non è quello. È il suo modo di muoversi, qualcosa che si lascia
dietro quando passa, che ti afferra e non ti lascia più andare.
Devo avere quella donna.
Proverò con le buone. Come sempre.
Tutte le mattine, prima di entrare in un edificio arcigno, prende il caffè nello stesso bar. Io sono sempre lì,
chino a leggere il giornale sul frigo del gelato. Voglio che si abitui a me, che non mi consideri uno sconosciuto, o
147
peggio una minaccia, quando le rivolgerò la parola.
A volte arriva seria e stanca, chiedendo un caffè
miracoloso che la pacifichi con l’idea di un’altra
giornata lavorativa; altre è energica e vitale, si guarda
intorno, sorride ai soliti frequentatori del bar.
Non toglie mai gli occhiali da sole.
È lì che ho scoperto come si chiama. Una collega
arrivata prima del solito. Entra, la saluta, insiste per
offrirle un caffè, da festeggiare che lei, la collega, sia
arrivata finalmente a un’ora decente. La mia amata è
sempre puntuale, ci si può rimettere l’orologio. Parlano
di viaggi e di vacanze per pochi minuti, è tempo di
migrazioni estive.
- Ciao, Amanda - le ha detto.
Ho anche sentito il suo profumo, avvicinandomi
al bancone per poggiare la tazzina di caffè vuota. Un
odore strano, diverso da quello di tutte le donne che ho
conosciuto. Un profumo di fiori bagnati, schiacciati, e di
qualcosa che non riesco a definire, complesso come un
accordo d’organo.
Un odore che mi stringe di più nella morsa di
un’attrazione feroce.
Oh, Amanda.
Stasera – dovrei dire stanotte – è tornata tardi.
Pensavo che non rientrasse più. Appostato nella mia
nicchia di verde, nella notte tiepida d’inizio estate, ho
avuto il tempo per fare le peggiori congetture del mondo.
Un uomo? Dormirà fuori casa? Con lui? Sta
regalando a un altro i capelli biondi, il corpo sinuoso,
l’incedere da regina, il suo profumo di palude? Sta
dando via la sua meravigliosa solitudine?
Sono incazzato, ma anche eccitato.
Eccola che arriva. Sono le tre di notte. Scommetto
tra me che ci vorranno quattro manovre per ficcare la
macchina nel box. Vinco.
Come la conosco. Meglio di quanto lei conosca se
stessa.
Potrei agire stanotte. Il mio umore è quello
giusto, ho con me il poco che mi occorre e lei è stanca
e assonnata.
Ma non lo faccio. La guardo sparire nel budello
buio del corridoio del garage, dietro la porta tagliafuoco
che si chiude con uno scatto pulito come uno sparo.
Lascia la sua solita malìa e l’odore di gelsomini
appassiti, calpestati.
No, non ancora. Prima con le buone, ho promesso.
Mantengo sempre le promesse, Amanda.
È lei a parlarmi per prima. Un incidente per strada
mi ha fatto tardare una manciata di minuti. Minuti di
angoscia, perché Amanda non tarda mai. Ma la trovo lì,
a leggere il giornale che di solito leggo io.
Mi avvicino. Lei alza lo sguardo e si toglie gli
occhiali da sole blu. Gli occhi sono verdi, una lama di
sole dalla vetrina del negozio li rende liquidi. E sono
se possibile più particolari del suo odore, anche se non
capisco perché.
- Oggi l’ho rubato io, il giornale - dice con un
sorriso malandrino.
Che sarà mai. È più di un mese che mi hai rubato
l’anima e il tempo.
- Non importa, faccia con comodo - dico invece,
scegliendo una frase banale di cortesia che non
desterebbe preoccupazione neanche in un paranoico
senza remissione.
- Finisco di leggere l’unica rubrica seria e glielo
do.
Termina di leggere l’oroscopo. Il suo sguardo
indica Scorpione.
- BÈ, che dice? - continuo il gioco. - Giornata
buona?
- E chi lo sa? Dimentico tutto quello che ho letto
in trenta secondi netti.
Sta per uscire dal locale, ma non riesco a lasciarla
andare via.
- E comunque… piacere, mi chiamo Dario.
La prudenza che mi consente di rimanere libero
mi impone di dare un nome a caso. E nessuno lascia
senza risposta una mano tesa. Nessuna delle donne che
ho avuto l’ha mai fatto.
Neanche lei lo fa. Un’esitazione, una perplessità
disegnata dal movimento delle sopracciglia – il bar non
è luogo di presentazioni ufficiali – poi mi regala una
stretta asciutta e fresca, nonostante il caldo.
- Amanda.
Lo so. Amanda con un abito bianco e leggero e il
cestino di vimini per la colazione. Amanda che se ne va
col suo passo regale. Amanda che sa benissimo che la
sto guardando. Oggi sono la sua catch of the day, la sua
preda quotidiana.
Glielo lascerò credere, per un po’ è divertente.
racconto
Oh, Amanda, non sai cosa stai facendo.
Forse dovrei darci un taglio e passare all’azione,
ma questa donna non è come le altre, voglio darle tutte
le possibilità.
Esce dalla palestra, il corpo umido di doccia
e di sudore, i capelli bagnati, il borsone sbattuto
distrattamente in macchina, sul sedile del passeggero.
Sono sicuro che esca con i capelli bagnati anche
nelle sere di gennaio. Simona lo faceva. Era così
affascinante, con quel senso di invulnerabilità, quella
noncuranza del gelo, quella sicurezza che nulla, nulla
le avrebbe mai fatto del male. Sono tutte così, quelle di
cui m’innamoro. Sono tutte così, prima di incontrarmi.
- Ah… Dario, vero? - mi riconosce a malincuore
mentre le urto una spalla diretto alla palestra.
- Oh, Amanda. Scusa, scusa tanto, ti ho fatto
male?
- Mi hai quasi smontato l’omero. Che ci fai qui?
Non ti ho mai visto prima.
Non è di buon umore. Forse sospetta che io la stia
seguendo. Non è stupida, Amanda. Ma anche questo fa
parte del gioco.
- Sto andando a dare un’occhiata.
Sta per entrare in macchina, liquidandomi con
un saluto frettoloso.
- Se mi iscrivo, magari ci facciamo qualche vasca
insieme - azzardo, fidandomi del leggero sentore di
cloro che si sovrappone al suo particolarissimo odore.
- Io nuoto sempre da sola.
Sbatte lo sportello, mette in moto e se ne va.
Ahi, Amanda, proprio non lo sai, cosa stai facendo.
Chi cazzo è, quello, Amanda? Sì, mi hai capito
benissimo. Quello che ieri sera in pizzeria giocherellava
coi tuoi capelli. E tu lo lasciavi fare. Sorridevi. Civettavi.
Le regine non civettano. Le mie donne non civettano. Mi
hai proprio deluso, mi hai fatto incazzare.
Non penserai mica che ti stessi seguendo. Non
è nel mio stile. Semmai, io ti aspetto. Sono dove so che
sarai. Sono lì dove ti fermi, lì dove ti fidi. Il fatto è che la
pizzeria è giusto dietro casa tua, non potevo non vederti,
là fuori. Fai luce, lo sai? Sì che lo sai, puttana. Mi stai
facendo perdere il controllo. Non va bene. Soprattutto
per te, non va bene.
Non sai quello che hai fatto, Amanda.
148
È ora. Devo solo aspettare l’occasione. Le tue,
Amanda, le hai buttate via, non hai colto i segnali, non
hai usato il tono giusto, non conosci le risposte giuste.
Sei come le altre, dopotutto. Peccato, Amanda.
Sì, è ora.
L’occasione arriva una settimana dopo le tue
sgarberie da palestra, tre giorni dopo il tuo tradimento
in pizzeria.
Un venerdì notte, o meglio, un sabato mattina,
visto che ti degni di rientrare alle due passate.
Quattro manovre, come previsto.
Carino, come sei vestita: tutta in blu e viola, coi
sandali alla schiava. Molto appropriato.
Ho con me quello che mi serve. Sono pronto. Per
queste cose, sono nato pronto.
Ora vedrai, Amanda.
Mi dà le spalle. Aspetto che si spenga la luce
temporizzata. Scatto e avanzo rapido e silenzioso. So
essere molto silenzioso, al buio.
Ma lei mi sente. Si volta e sorride.
- Ti sei deciso finalmente, Dario.
Per un momento penso di essermi sbagliato, che
le risposte giuste, invece, Amanda le conosca. Vuole solo
essere corteggiata, come tutte. Ma risento come un’eco
l’inflessione beffarda con cui ha pronunciato il mio
nome.
“Sa che non mi chiamo così. Lo sa.”
È bella anche inondata dalla luce smorta del
neon, che ha riacceso con un colpo secco della mano
è così che… sbagli tutte le battute, Amanda, ti prego,
cosa…?
Mi spinge contro il muro lentamente, quasi con
amore, continuando a guardarmi fisso, sorridendo.
Gli occhi sono così brillanti.
Il temporizzatore scatta, rimaniamo al buio.
Ma gli occhi di Amanda continuano a brillare.
Così vicini ai miei che riesco a vedere le pupille
verticali che si dilatano quando viene a mancare la luce.
sull’interruttore.
- Allora? Avvicinati, no? Non è quello che vuoi?
Intanto è lei che si avvicina. Lenta e sicura. Con
passo divino. Quel passo.
Gli occhi verdi e liquidi non lasciano i miei.
Dietro l’aria divertita c’è qualcosa di feroce, qualcosa
di… antico. I denti scoperti nel sorriso hanno un
bianco crudele.
Mi sento paralizzato. Il taglierino mi cade di
mano.
Lei è a un passo da me.
No, no, no. Questo copione è tutto sbagliato, non
Il suo odore di gelsomini appassiti mi stordisce.
Perché una donna così bella deve avere odore di
marcio? Di fiori morti? E insieme di miele e di fuoco, e
mondi bruciati, e polvere secca, cenere fredda, ghiaccio
siderale, di chi sono questi pensieri, e culle di stelle,
vortici di nebbie, il vuoto, io non penso queste cose,
sono in un garage, maledizione, nel suo garage e
guarda, due protuberanze ai lati della fronte d’avorio,
nascoste dalla frangia, e cos’è che si agita in terra dietro
di lei, sembra proprio una…
Riemergo non so da dove. Sento di nuovo Amanda
149
racconto
L’infermiera carceraria le cinge le spalle, protettiva.
Un’attrice superba, Amanda.
La proteggono. Ommioddìo, proteggono Lei.
Stanno per andarsene, l’infermiera l’accompagna
premurosa verso la porta.
Ma Amanda ci ripensa. Si volta e si avvicina
rapida a me. La sua accompagnatrice, benché interdetta
e preoccupata, la lascia fare.
I suoi occhi sono a pochi centimetri dai miei, le
pupille verticali nella trasparenza verde dell’iride.
Sorride, schiude le labbra. Guardo, affascinato e
immobile, una lingua sottile e lunga, molto lunga. No,
non è biforcuta, ma è oscena, umida e rovente. Si posa
sulla mia fronte e segue il mio profilo fino al mento.
Poi Amanda si volta e se ne va.
- Cosa gli ha detto? - chiede l’assistente mentre
apre la porta.
- Gli ho chiesto se… se riesce a dormire, dopo le
cose che ha fatto a tutte quelle donne.
Sì, Amanda, riuscivo a dormire. Ci riuscivo
Alla Polizia non volevano credermi. Roba da benissimo.
Ma ora non più. Lo so.
matti, ho dovuto convincerli. Li ho portati a casa mia,
ho mostrato loro trentasette slip da donna, ognuno col
Il ritorno alla sua forma reale la riempiva
suo odore, ognuno col suo nome, la sua storia, la nostra
storia intensa, breve e mortale. Non mi sono difeso, non sempre di gioia. Non capiva come si potesse condurre
ho dato spiegazioni. Come spiegare che le punizioni una vita, per quanto breve, stretti in quei corpi
umane mi spaventano molto meno di… di cosa? Come rigidi, fissi, predeterminati. Gli abitanti di Terra si
comportavano in maniera assolutamente idiota
spiegare Amanda?
Ci ho provato, mi hanno guardato come si con le forme che, in base a criteri imperscrutabili,
consideravano belle, perciò aveva scelto una di
guardano i pazzi.
Ovviamente sono malato, certo. Ovviamente ho quelle. Ma continuava a ritenere che fosse lo stesso
scomoda, inefficiente e noiosa.
bisogno di aiuto.
Utile, però, se si voleva interagire, pur nei
Ho chiesto la castrazione chimica. La cosa ha
limiti del Piano. Sperava di non averli superati, o le
fatto buona impressione.
sarebbe toccato di nuovo un Lungo Sonno. Non lo
Mi chiudono in un manicomio criminale.
desiderava, non ora.
Per questo non aveva ucciso. Si era premurata,
Amanda è venuta a trovarmi. La psichiatra che mi
hanno affibbiato ha detto che vuole vedermi per essere però, di fare in modo che la vita fosse peggio della
sicura che io sia finalmente innocuo. Ne ha bisogno per morte, per quella strana entità umana che si
superare il trauma della mia aggressione. Le sue ferite da permetteva di chiamare amore quello che faceva.
Era stato difficile, ma si era comportata bene.
difesa, il suo sangue sul taglierino con le mie impronte
La
prossima
volta, era sicura, avrebbe fatto meglio.
(le sue no, maledizione, perché le sue non c’erano?)
sono le cose che mi hanno incastrato definitivamente Chiese ispirazione alla prima stella della sera, cui gli
umani avevano dato il suo nome tanti secoli prima.
quando è andata a denunciare un tentativo di stupro.
È tutta in blu e viola, coi sandali alla schiava, C’era così tanto da fare.
Fiduciosa, si arrotolò nel nulla e riprese a
come quella sera.
osservare.
Mi guarda sgomenta, le trema il labbro inferiore.
che mi tiene fermo contro il muro. È straordinariamente
forte. Continua a guardarmi e a sorridere.
Poi allenta la presa, sa che non riuscirò a
muovermi. Si china sul pavimento. La sua testa mi sfiora
la patta, come sarebbe stato bello, ci pensi, Amanda?
Raccoglie da terra il taglierino. Ci vede bene, al
buio. Meglio di me.
- Non mi ammazzare, ti prego, non mi ammazzare
– la supplico quando la vedo rialzarsi stringendo la mia
arma fedele. - Io… io… è perché ti amo. Ti amo come
un pazzo, Amanda.
Lei non risponde, scuote solo la testa, continuando
a sorridere in quel modo che fa pensare a un animale
antico, paziente, affamato.
Con gesto rapido, si infligge tre tagli irregolari
all’esterno dell’avambraccio sinistro, uno sul destro.
- Co… cosa fai? Cosa vuoi da me?
- Che tu faccia quello che devi fare. Quando sarà
il momento. Te ne accorgerai.
150
IN LIBRERIA DAL 19 APRILE
LA NUOVA AVVENTURA DI
ALICE ALLEVI
Storico
speci a le
LA
TRILOGIA
di STEFANIA AUCI
DI
MAGDEBURG
Rileggiamo l’Opus Magna storico-apocalittica di Alan
Altieri, in attesa del quarto volume, La via della spada.
Nel 1630 la Germania è un inferno di razzie e
morti, devastato dalla Guerra dei Trent’anni.
L’atmosfera è quella di un mondo sul baratro
della distruzione definitiva, dove non vi
è pietà, dove nel nome di un Dio assente
si massacrano inermi e si brutalizzano le
donne.
Mikla, poco più che una ragazzina, è una di
queste. Condannata al rogo perché aveva
tentato di alleviare le sofferenze con le
sue conoscenze delle erbe, incrocia la sua
esistenza con quella di Padre Bolanos,
un esaltato frate domenicano che ha un
unico obiettivo: cancellare i protestanti
dalla faccia della terra. È in questo
momento che entra in scena l’Eretico in
nero, un guerriero letale e potentissimo.
Accompagnato da stormi di corvi, questo
guerriero si muove con grazia sconosciuta e
fa strage della soldataglia della Falange di
Arnhem, salva la ragazza e si rifugia in un
monastero distrutto anni prima dalla stessa
Falange. A guidarli sulle tracce dell’eretico
è Caleb Stark, un giovane soldato che per
sopravvivere alla distruzione
della propria famiglia ha dovuto
accettare di militare tra coloro
che hanno sterminato il suo
villaggio.
152
È così che ha inizio il primo volume della
Trilogia di Magdeburg: il trittico storico
sulla guerra dei Trent’anni scritto da Alan
D. Altieri e composto da tre romanzi:
L’eretico, La furia e Il demone.
Non c’è speranza in questi romanzi. È una
sensazione opprimente che schiaccia il
lettore, che avvinghia e nello
stesso tempo che riempie la
mente. I tre volumi coprono un
periodo di circa 18 mesi, nel
quale la Germania assiste alla
fase più devastante della Guerra
dei Trent’anni. Al termine di
questo periodo vi sarà la caduta
di Magdeburgo, la città simbolo
dell’indipendenza
religiosa
e politica della Germania,
bruciata da un incendio che
è paragonabile per violenza e
numero di morti a quello che
distrusse Dresda nella seconda
Guerra Mondiale. Con la caduta
della città, l’assetto politico e
sociale dell’intera Europa subì un
cambiamento dalle conseguenze
allora inimmaginabili, in cui si
assistette alla progressiva perdita di potere
e di influenza delle chiese nazionali e del
Papato, allo spostamento dell’asse politicoistituzionale della politica tedesca verso
al Prussia e l’Austria e last but not least
all’ascesa della Francia.
La grande forza dei tre volumi è il realismo
estremo della narrazione, ottenuto con
quello stile icastico, forgiato nel ferro e
nel fuoco del lavoro di perfezionamento
e riscrittura che caratterizza lo stile di
quest’autore straordinario. I periodi sono
brevi, spesso frammentari, con una presenza
di verbi ridotta al minimo sindacale e
l’aggettivazione insolita, ricercata, a volte
ardita. Precisione e rigore storico magistrali,
psicologia dei personaggi calibrata al
millimetro, descrizione dei combattimenti
dall’impatto
cinematografico,
scene
descritte senza compiacimento morboso
ma con l’occhio crudo e disincantato del
narratore. Il tutto
in una narrazione
coinvolgente che non
lascia un attimo di
respiro.
L’impatto con questo
stile così sobrio e
insieme
“scolpito”
può essere straniante,
ma superate le prime
pagine si trasforma in
una magia che assorbe
completamente
il
lettore trascinandolo
a piedi uniti nel fango
mescolato al sangue,
sulla neve sporca, tra
le ceneri di un falò di
eretici, in mezzo alle grida assordanti di
un’umanità che chiede che la fine del mondo
giunga presto a liberarla.
La disperazione e la desolazioni sono
tangibili, anche grazie alle descrizioni dei
colori acidi e lividi del paesaggio che fa da
sfondo alla guerra. C’è una frase in cui si
riassume questa trilogia: Dio è morto. Non
è un proclama politico, ma l’affermazione
153
disperata di un uomo che ha visto la sua
vita ridotta in cenere in nome della religione
e di un dio ancora più geloso e vendicativo:
l’ambizione.
La Trilogia di Magdeburg è un romanzo di
guerra, di crescita e cambiamento interiore,
di discesa all’inferno. Ma è sopratutto la
storia di una vendetta e di un’ossessione.
Ed è, in ultima analisi, anche una storia
d’amore disperata che non avrà mai scene
madri. Solo alla fine, in un tiepido mattino
di primavera, ai piedi del monastero di
Kolstadt si avrà un cenno di speranza.
Una storia forte e concepita come un
mosaico di singole vicende, costruito
per filoni che si giustappongono. I singoli
capitoli si incastrano attraverso sottili fili di
raccordo perfettamente celati nel tessuto
narrativo che impediscono la lettore di
“perdersi” in una geografia umana varia e
complessa.
Abbiamo intervistato l’autore sulla saga e
sull’uscita de La via della spada, l’atteso
quarto volume della serie di Magdeburg
che sarà una sorta di prequel della vita di
Wulfarg. Ecco cosa le parole di Alan D.
Altieri.
Speechless: La tua Trilogia di
Magdeburg è un’opera monumentale
che ha conquistato me e decine di
migliaia di lettori. Come mai hai scelto
di narrare di una guerra “lontana”
come quella dei Trent’anni?
Alan D. Altieri: Un grande grazie a te e a tutti
voi per ospitarmi. Venendo alla Trilogia di
Magdeburg, a dispetto dell’ambientazione
storica, il riferimento primario rimane il
thriller apocalittico, il genera narrativo che
Storico
direttamente o indirettamente affronto più
spesso. Riguardo alla Guerra dei Trent’anni,
gli storici concordano fu il conflitto europeo
più apocalittico in assoluto, l’equivalente
attuale di una guerra nucleare. Nel ‘caso di
Magdeburg’, il tarlo viene da molto lontano:
l’epoca del liceo. Sul sussidiario di storia,
la Guerra dei Trent’anni veniva liquidata
con un trafiletto di cinque righe. Nel tempo,
continuai a domandarmi come fosse
possibile che una guerra potesse durare per
tre decadi. Non avevo ancora il concetto di
guerra generazionale, un conflitto in cui il
bastone del testimone dello scontro passa,
appunto, da una generazione a quella
successiva. Fino ad arrivare al paradosso
di avere perduta la memoria del perché si
combatte. Qui e ora, siamo tutti testimoni
di svariate “guerre generazionali”, prime fra
esse Israele/Palestina, ormai sessant’anni,
e Afghanistan/resto del mondo, ben oltre i
trent’anni.
S: I tuoi personaggi sono piegati
dalla guerra e dal dolore. Induriti
come Madre Erika, coraggiosi come
Caleb, addolorati come Mikla, pieni
di rimpianto come Leopold, rabbiosi
come Alessandro Colonna e morti
“dentro” come Wulfgar. Il fardello di
dolore che ciascuno porta diviene
la forza cui attingere per affrontare
il cambiamento. Puoi raccontarci la
genesi di queste figure così dolenti e
cariche di umanità?
A: La chiave di volta di tutti i personaggi
di Magdeburg è il rapporto che ognuno
di loro ha con la morte. A mio parere,
una delle più gigantesche ipocrisie della
società contemporanea immersi come
siamo nei “giocattoli” tecno e non è
154
considerare la morte come una sorta di
“incidente di percorso”. Per contro non
dobbiamo dimenticare che il Secolo XVII
era un’epoca estremamente diversa dalla
nostra. Un’epoca in cui la morte naturale,
accidentale o violenta era parte integrante
della quotidianità. Il Secolo XVII era anche
un’epoca molto più brutale, molto più feroce.
Ognuno dei personaggi di Magdeburg si
scontra precisamente con queste realtà,
e con esse cerca di coesistere sulla base
della propria psicologia.
S: La Trilogia di Magdeburg è un
affresco storico epico, pieno di una
disperazione cupa comune a tutte le
guerre. Quanto è stato impegnativo
per lo scrittore e per l’uomo scrivere di
scenari così desolati?
A: L’elemento primario alla base di
Magdeburg rimane la documentazione. I due
libri di storia ai quali ho attinto maggiormente
sono: La Guerra dei Trent’Anni della grande
studiosa inglese Catherine Wedgewood,
e (stesso titolo) La Guerra dei Trent’Anni
dell’ottimo storiografo Geoffrey Parker,
anche lui inglese. Esistono solamente due
lavori di narrativa del passato ambientati
nella Guerra dei Trent’anni. Uno si intitola
L’Avventuroso Simplicius Simplicissimus,
di Hans Von Grimmelshausen, scritto verso
la fine del ‘600 sulla base di racconti e
memorie del nonno dell’autore, il quale
aveva partecipato alla Grande Guerra
Tedesca. L’altro è la trilogia del Wallenstein
di Friedrich Schiller. Albrecht von Wallestein
è stato uno dei più grandi signori della guerra
di quel periodo, se non di tutti i tempi. Non
oso ovviamente mettermi in competizione
con Grimmelshausen, meno che meno con
Schiller, però vado a occupare uno spazio
155
abbastanza vuoto, un terreno inesplorato.
In realtà, la Guerra dei Trent’anni non fu una
sola guerra ma di quattro guerre: una dopo
l’altra e una che nutrì l’altra. Sia I Promessi
Sposi, che I Tre Moschettieri, che Vent’anni
Dopo, sono tutti episodi a margine del
conflitto. Da un punto di vista iconografico,
deve essere ricordato il capolavoro
teatrale “Madre Coraggio e i suoi figli”,
dell’immortale Berthold
Brecht. Da un punto di
vista filmico non perdete
il grandioso L’Ultima
Valle (The Last Valley,
1970), scritto e diretto
da James (“Shogun”)
Clavell, con Michael
Caine e Omar Sharif.
Per quanto concerne il
“look” del trittico così
livido e desolato è
basato sì su cronache
e resoconti presenti nei
due titoli che ho appena
citato, deriva dal mio
interesse per il genere
apocalittico. A tutti
gli effetti, il mondo di
Magdeburg è un modo...
post-nuclear ante-litteram, oops!
S: Nel tuo ritratto della guerra eterna,
poni una particolare attenzione nel
tratteggiare le figure dei soldati e dei
mercenari che devastano l’Europa
centrale in una guerra che di religioso
non ha nulla se non il nome. Sono
creature laide, ladri, assassini e
stupratori, sin dai comandanti come
Van Der Kaal o Auerbach. Come hai
creato i personaggi della Falange di
Arnehm, a chi, o cosa ti sei ispirato?
A: Va sottolineato che l’unico esercito
nazionale esistente al tempo della Guerra
Eterna era l’esercito svedese. Tutti gli altri
eserciti erano composti da mercenari.
Arruolati nella violenza, addestrati
all’infamia, mandati al macello il che
ci riporta allo squilibrio tra vita e morte
erano due i fattori chiavi di una “carriera
mercenaria”: ammontare del soldo, diritto
di saccheggio. Nel
Secolo
XVII
non
esistevano grottesche
farse come guerre
umanitarie, missioni
di
pacificazione,
esportazione
della
demoKrazia
(K
d’obbligo).
Esisteva
solo assassinio per
l’assassinio,
stupro
per stupro, saccheggio
per
saccheggio.
Letteralmente
per
trent’anni
l’Europa
fu
percorsa
in
ogni direzione da
flussi militari che si
lasciavano
dietro
niente altro che terra
bruciata. La tragica ironia è che non
c’è molto d’inventato nel modo in cui
rappresento i mercenari in Magdeburg.
S: Heinrich von Dekken. IL Dekken.
Una figura in cui il male assume una
dimensione quasi ontologica, dove
l’ambizione si mescola con la follia e
l’esaltazione, che non esita a sterminare
i propri familiari pur di ottenere ciò che
vuole e che termina la sua esistenza
nella cenere, letteralmente. Esiste un
modello storico per questa figura così
149
Storico
sfaccettata o è “nata” con la trilogia?
A: Ritengo importante sottolineare che
i protagonisti di Magdeburg sono due:
Reinhardt senz’altro, ma soprattutto
Wulfgar, l’eretico in nero. Il motore della
storia è il loro incontro/scontro. Quanto a
Reinhardt, non è un fanatico religioso. A tutti
gli effetti è un ateo tossico di potere che
usa la religione cattolica come strumento
per i propri fini egemonici. È un personaggio
immaginario, certo, ma la sua struttura
psicologica ricalca quella pressoché di tutti i
soggetti “megalomanici” e, inevitabilmente,
psicotici che regolarmente scrivono la storia
con il sangue dello sterminio di massa. Da
Alessandro il Macedone ad Attila, da Gengis
Kahn a Hitler, da Napoleone a Stalin. Nomi
diversi, ere diverse, medesimo, solipsistico
delirio genocidario. IL Dekken, come tu
giustamente lo definisci, è uno di loro.
S: Parliamo di Wulfgar. Ciò che colpisce
di più di questa figura è il nero assoluto
in cui si muove, che è parte della sua
persona. Che proviene da lui, poiché,
come si comprende nelle ultime pagine
della trilogia, ha guardato nell’abisso e
l’abisso ha guardato in lui. È una figura
particolare, nel quale mistero e morte
si fondono, in cui la speranza è bandita
poiché ciò che ha visto e vissuto ha
cancellato il futuro. Ma nello stesso
tempo, è empatico e generoso. Come è
nata l’idea di farne un guerriero simile
ai ronin giapponesi? Quanto è stato
difficile familiarizzare con “la via della
spada”?
A: Il mio sforzo è rendere il trittico di
Magdeburg non solo uno scontro tra
eserciti, religioni, poteri, ma soprattutto
un confronto tra modi di pensare antitetici.
156
Nell’Europa della prima metà del Secolo
XVII, Wulfgar è una completa anomalia. Un
gai-jin, “barbaro”
dall’Occidente,
che ha viaggiato
fino all’Impero
Nipponico
già
chiuso al mondo
esterno
dopo
la
grandiosa
Battaglia
di
Sekigahara,
autunno
1600
finendo
con
immergersi
completamente
in quella cultura
e in quella
filosofia. Da qui la
sua applicazione
dello Zen e l’uso
della scherma giapponese. Un contrasto
esplosivo con il mondo che lo circonda. Ma
sotto la blindatura del “guerriero mistico”
c’è pur sempre un uomo. Nella parole
di Mikla il personaggio che comprende
Wulfgar forse più di ogni altro Wulfgar è un
uomo “che ha perduto tutto, che ha perduto
tutti.” Per molti versi, Wulfgar soffre della
medesima sindrome dei sopravvissuti alla
trincee della Prima Guerra Mondiale o ai
campi di sterminio nazisti: costretti alla
vita quando invece appartengono alla
morte. Nel suo “dialogare con il vuoto”,
nel suo “scrutare nell’abisso”, Wulfgar ha
la consapevolezza di essere sopravvissuto
a se stesso. In assoluto, Wulfgar rimane il
personaggio più difficile che io abbia mai
affrontato nel mio lavoro di narratore.
S: Il personaggio dell’osservatore
Deveraux ha in sé qualcosa di
misterioso, quasi metafisico. Sembra
una figura al di là del tempo, chiamata
a trascendere le regole per poter
osservare, per conto di un’entità
superiore, le miserie umane. Come
mia questa scelta così intrigante?
A:
Jean-Jacques
Deveraux
è
l’unica concessione non tanto sl
soprannaturale quando al metafisico
presente in Magdeburg. Non è un
caso che Devearus sia “l’Osservatore”,
e non è un caso che “sembri” essere
un testimone di eventi in luoghi diversi
ma soprattutto epoche diverse. Non è
parimenti un caso che Deverarux sia
l’antagonista in Phoenix, il romanzo
breve che è diventato una sorta di
“connettore” di gran parte del mio
lavoro. La tua analisi del personaggio
è ottima. Con un’unica precisazione:
Deveraux vorrebbe trascendere le
miserie umane. Ma finisce per esservi a
propria volta risucchiato.
S: Una delle cose che colpisce
maggiormente della trilogia è la
precisione con cui descrivi i duelli e
le tecniche di combattimento in uso
nel XVII secolo, oltre che il modo
di maneggiare sia la Katana che la
Daikatana. Le tue descrizioni sono
pulite e precise, tale che anche un
lettore inesperto può prefigurare
l’andamento dei duelli. Quanto è stato
difficile impadronirsi di questi dati
tecnici per filtrarli nella narrazione?
A: Anche qui, la chiave di volta è la
documentazione. Per quanto riguarda gli
scontri tra eserciti armamenti, strategia,
tattiche molto viene dall’ottima serie di
saggi storici illustrati della collana inglese
Osprey, una vera miniera d’oro per i cultori
della storia militare. In materia dei duelli
all’arma bianca, Magdeburg presenta due
tecniche di spada estremamente diverse
quali la scherma occidentale e il ken-jutsu
nipponico. Ho avuto dalla mia due autentici
fuoriclasse di queste due straordinarie
discipline: l’ottimo Jari Lanzoni, spadaccino
della Scuola di Scherma Rinascimentale
Achille Morozzo di Castelguelfo, presso
Bologna; l’eccezionale Stefano Di Marino
a sua volta tra i migliori e più prolifici
auori italiani contemporanei e tra i
massimi esperti della cultura orientale per
quanto concerne l’intero “lavoro di lame”
asiatico. A entrambi, Jari e Stefano, la mia
costante ammirazione e il mio profondo
ringraziamento.
S: Il tuo stile è il vero, grande
valore aggiunto di quest’opera.
Curatissimo, con aggettivi taglienti
come le lame dei protagonisti, nessun
autocompiacimento o morbosità.
“Solo” una rappresentazione cruda e
realistica di una guerra infame. Quali
sono gli autori verso cui senti un debito,
o comunque, che hanno rappresentato
per te un punto di riferimento nella
stesura della trilogia?
A: Da lettore, sono cresciuto alla scuola
del grande horror/thriller post-gotico e
neo-gotico: Edgar Allan Poe, Herbert G.
Wells, H.P. Lovecraft e Jack London sono
i miei mostri sacri. Grandissima influenza
ha avuto su di me anche la fantascienza
tetra della Guerra Fredda e dell’”Equilibrio
del Terrore”. Da Robert Heinlein a Richard
Matheson, da Roger Zelazny a John
Brunner, solo per citare alcuni dei grandi
maestri di quell’epoca. Un autore al quale
157
Storico
devo molto è Wilson Tucker. Relativamente
poco prolifico, due dei suoi libri: L’Anno
del Sole Quieto (Year of the Quiet Sun) e Il
Silenzio della Morte (The Long Loud Silence)
sono a mio parere autentici capolavori della
letteratura apocalittica tout-court.
politicamente scorretta e iconograficamente
brutale. Ulteriori problemi nell’attuale
scenario fimico ancora tanto ipocritamente
buonista. Una strada sarebbe una miniserie
concepita come l’attuale eccezionale
miniserie HBO basa sul primo volume de
A song of ice and fire, la grandiosa saga
S: La tue figure femminili sono sempre
fantasy di George R.R. Martin che ho il
forti. Mai leziose, mai sopra le righe,
privilegio di tradurre dall’inglese. Ma anche
mai piegate sulle proprie disgrazie, a
qui, long shot.
differenza degli uomini. Da lettrice,
ammetto di esser rimasta affascinata S: I corvi. Accompagnano Wulfgar, il
dalla vividezza con cui riesci a tracciare signore dei corvi. Sono presenti nelle
questi personaggi. Da chi o cosa trai tua altre opere. Che cosa rappresentano
ispirazione?
per te questi animali così sinistri e
insieme affascinanti?
A: D’accordo, lo confesso: le donne che
descrivo nei miei libri sono “le donne che A: La risposta più immediata è più sintetica
vorrei incontrare”, altro oops! Battute a è che i corvi sono le “anime morte”,
parte, le donne principali di Magdeburg presenti e passate. Nella blasfema risposta
Madre Erika e Mikla sono personaggi di Wulfgar: “Io sono molti” c’è anche
grandemente positivi. Prima di essere un’ulteriore chiave di lettura dei corvi: il
personaggi però, cerco di rappresentare peso del memento e degl’incubi. Infine, i
degli esseri umani, con la loro forza, la loro corvi sono le creature incaricate della pulizia
vulnerabilità, la loro contraddizione. Esatto, conclusiva. Nella Guerra Eterna, nulla era
prima esseri umani, poi personaggi.
più facile che “finire in pasto ai corvi.”
S: Il ritmo della narrazione della trilogia
è altissimo. Le scene sono quasi
cinematografiche, i dialoghi serrati. C’è
speranza di poter vedere quest’opera
sullo schermo, prima o poi?
A: Ti ringrazio di questa domanda. Nello
scrivere Magdeburg la mia esperienza nel
campo della sceneggiatura cinematografica
è stata fondamentale. Da qui a ipotizzare
Magdeburg - The Movie, è un azzardato
tiro di dadi. Sempre facendo riferimento al
mondo del cinema americano, difficile, se
non impossibile, concentrare il trittico in un
unico film. Inoltre, “Magdeburg” è un’opera
S: Hai annunciato su Facebook che ci
sarà un quarto volume che integrerà
questa trilogia: La via della Spada.
Come mai la scelta di scrivere un nuovo
romanzo per questa serie? Ci puoi già
anticipare qualcosa a proposito?
A: Per rispondere a questa domanda in
modo esauriente, è necessario parlare della
struttura del trittico. La sfida narrativa
più grossa è stata pensare in termini di
trilogia e non di libro singolo. Ognuno dei
tre libri ha quindi un’identità propria, ma
al tempo stesso è integrato nel quadro
trilogico. La Furia può essere letto senza
158
avere letto “L’Eretico”, ma molto sfuggirebbe leggendo Il Demone senza avere letto i due
libri precedenti. Una decisione non facile ma ineccepibile resta l’eliminazione di quello
che definisco “il blocco nipponico”, eccellente intuizione di Cecilia Perucci, straordinaria
Direttore Editoriale di Corbaccio. Difatti: nella struttura iniziale di Magdeburg già
esisteva un “blocco nipponico” in cui intendevo mostrare Wulfgar alla fine del suo transito
nella Terra delle Lacrime. Inserendo questo blocco, però, la narrazione si sarebbe allungata
di altre duecento pagine, presentando un mondo e una cultura del tutto diversi da quelle
europee. Troppo, decisamente troppo. Ecco la genesi di Magdeburg 4: La Via della
Spada. In termini sintetici, La Via della Spada mostra in che modo Wulfgar... è diventato
Wulfgar. Come e perché è andato in Giappone, chi ha incontrato, chi lo addestrato, qual è il
suo legame con Deveraux, da dove originano le enigmatiche monete con i “simboli primari”,
qual è la genesi della sia spada, questa daikatana forgiata da un “acciaio maledetto.” “La
Via della Spada è, quindi, l’estensione del “blocco nipponico” originario.
S: Grazie mille per aver acconsentito a questa intervista, vorresti aggiungere
qualcosa prima di salutarci? A: Voglio ringraziare te e tutti voi per l’attenzione e la simpatia che avete per me e il mio
lavoro di narratore.
159
Storico
Marco Buticchi
intervista
Marco Buticchi è uno degli scrittori di
romanzi d’avventura più apprezzati non
solo in Italia, ma in tutto il mondo. Infatti,
nel dicembre 2008 il Presidente della
Repubblica lo ha insignito del titolo di
Commendatore, per aver contribuito alla
diffusione della lingua e della letteratura
italiana all’estero.
È il primo autore italiano pubblicato
da Longanesi nella collana “I Maestri
dell’Avventura”, accanto a Wilbur
Smith, Clive Cussler e Patrick O’Brian,
e ha venduto più di un milione di copie
dei suoi romanzi. Corrado Augias lo ha
definito «Un Ken Follett italiano, ma
potrei dire anche uno Steven Spielberg.»,
mentre Wilbur Smith ha dichiarato «Il
mio scrittore preferito».
Il 29 settembre 2011 è uscita la sua
ultima opera, La voce del destino, un
romanzo che si muove fra gli episodi
più oscuri del XX secolo, attraversando
quattro continenti: dall’Europa nazista
all’Argentina dei descamisados; dai
campi di concentramento croati durante
la seconda guerra mondiale, ai casinò
di Las Vegas; dai teatri dell’Opera di
mezzo mondo, alla base sotto i ghiacci
dell’Antartide da cui i nazisti tentano di
ricostruire il Quarto Reich; dai clochard
francesi al Vaticano. Il tutto ruota
intorno alla mitica lancia con cui Longino
trafisse il costato di Cristo, che secondo
la leggenda
era stata donata agli
160
di GABRIELLA PARISI
uomini dalle divinità celtiche, i Tuatha
dÈ Danaan, ed era capace di rendere
invincibile chiunque ne fosse entrato in
possesso.
Buticchi intreccia sapientemente fatti
storici ed episodi di fantasia, personaggi
fittizi (primo fra tutti Oswald Breil, lo
007 nano, protagonista di tutti i suoi
romanzi, con la sua bellissima neo-moglie
Sara Terracini) a personaggi realmente
esistiti, fra cui spicca la figura simbolo
dell’Argentina del 1900: Evita Perón.
Abbiamo chiesto al maestro italiano
dell’Avventura di parlarci dei suoi
libri e della sua carriera di scrittore, e
Marco Buticchi è stato gentilissimo nel
concederci questa intervista.
Speechless: Come mai una persona
laureata in Economia e Commercio ha
pensato di diventare scrittore di
Romanzi d’Avventura? Cosa ti ha spinto
ad intraprendere questa strada e
quando è nata questa passione?
Marco Buticchi: Non credo ci siano
percorsi di studio “propedeutici” alla
scrittura. Ci sono scrittori autodidatti,
medici come Andrea Vitali, laureati in
giurisprudenza come Giorgio Faletti.
Si scrive per “buttare fuori” mille cose:
angosce, paure, piacere, disperazione,
ma su tutto domina il desiderio di
161
Storico
raccontare. E, per quanto mi riguarda, di
far viaggiare il lettore con la fantasia.
S: Quali sono i tuoi scrittori preferiti? E il
tuo libro preferito in assoluto?
M: Sicuramente la mia “formazione”
è Salgariana: sono cresciuto a fianco
delle Tigri di Mompacem tra le “paludi
putrescenti del Gange”.
Non riuscirei a stilare una classifica
dei libri che mi hanno lasciato il segno.
Recentemente ho “preso parte” a
un’antologia e ho dichiarato che un
romanzo che mi ha condizionato è stato I
ragazzi della via Pal di Molnar.
S: Come nasce il personaggio di Oswald
Breil?
M: Nasce dalla necessità (mia) di esulare
dallo stereotipo di agente segreto
“arcifigo” e super atletico. Ho così trovato
un nano, traendo spunto da un cartellone
pubblicitario della mia infanzia.
S: Quanto un’opera di fantasia, delle
ipotesi collegate da un autore di fiction
in un romanzo, può influenzare l’opinione
pubblica relativamente a fatti storici?
Specialmente se intorno ad essi c’è
effettivamente un mistero?
M: Se lo si va a cercare ovunque, tra le
pagine della storia, si può celare un mistero.
La storia è scritta dai vincitori e quindi, per
definizione, non è obiettiva. Ogni scritto,
anche un foglietto svolazzante, è in grado
di cambiare il susseguirsi degli eventi.
Figuriamoci un romanzo!
S: Di solito nei tuoi libri c’è un tesoro, un
oggetto o la mappa di un tesoro che viaggia
162
attraverso i secoli. Parti dall’oggetto per
scrivere il romanzo, o viceversa da un
episodio realmente accaduto, o da un
personaggio storico, e poi cerchi l’oggetto
“protagonista” che dovrà viaggiare nel
tempo?
M: Parto da una folgorazione: per Il respiro
del Deserto fu il Williamsburg, la nave
appartenuta a Truman e oggi in disarmo
alla Spezia. E da lì che inizio a studiare la
storia che ha circondato il mio oggetto di
interesse.
S: Quale fra i tuoi libri è quello a cui sei più
affezionato, e quale fra i ‘tesori’ avresti
voluto trovare tu? M: Sono tutti figli miei e non faccio
differenze. I tesori? Tutti, naturalmente
S: I tuoi libri sono divisi in varie parti, e
ognuna di esse è aperta da un disegno
realizzato da tua moglie. È una tua
richiesta o un suo piacere disegnare per
te?
M: Consuelo si diverte a illustrare i miei
romanzi e io trovo che i suoi disegni siano
esplicativi: a volte una mappa o il disegno
di un oggetto riesce a far capire meglio il
divenire della storia.
S: Quanto tempo impieghi per le ricerche
storiche e geografiche indispensabili per
scrivere uno dei tuoi libri?
M: Un romanzo mi richiede un paio d’anni.
Metà del tempo la dedico alla ricerca,
l’altra metà alla stesura.
S: Per quale motivo ne La voce del destino
non troviamo la consueta suddivisione in
163
Storico
diversi periodi storici? Pensi di tornare
alla vecchia formula nel prossimo
romanzo o di continuare con questa
soluzione cronologica più semplice?
M: I romanzi corrono da soli. Il compito
dell’autore è non forzarne la trama. La
Voce del Destino “ha corso” in questa
maniera. Per il futuro non so che cosa mi
chiederà la nuova pagina bianca.
S: C’è un periodo storico di cui non hai
mai scritto, e che vorresti affrontare
prossimamente? E un personaggio?
M: Ormai, in 20 anni di “attività” credo
di aver spaziato dalla preistoria a
dopodomani. Un’ambientazione su cui
mi piacerebbe lavorare è nel periodo
etrusco... chissà…
S: Quale personaggio storico vorresti
essere stato?
Dileo e a Il mercante di libri maledetti
di Marcello Simoni, il premio della
Giuria Tecnica del prestigioso Premio
Salgari. Qual è stata la tua reazione?
Conti di vincere anche il premio della
giuria popolare?
M: La reazione è stata di commossa
felicità. E ancora mi sono commosso
quando qualcuno mi ha ricordato con
quanto orgoglio Mario Spagnol, il mio
editore scomparso nel 1999, avrebbe
accolto questa notizia. Per me che ho
amato Salgari più di ogni altro autore,
il solo fatto di essere tra i vincitori del
premio rappresenta un sogno. Per
definizione, l’essere “sub judice”, implica
accettare il verdetto, quale esso sia…
164
M: Una piccola parte di ognuno di quelli
che ho trattato.
S: Hai già in mente quale sarà il prossimo
tesoro che entrerà nelle vite di Oswald
Breil e Sara Terracini? Sperando di
leggere al più presto un tuo prossimo
romanzo, ti andrebbe di anticiparci i
tuoi prossimi progetti?
M: Ancora non ho in mente il tesoro, ma
un ragazzo, che alleva un’aquila. E sarà il
più stretto collaboratore del re etrusco
Porsenna…
S: Il 21 Dicembre La voce del Destino ha
ricevuto, insieme a Un buon posto per
morire di Tullio Avoledo e Davide Boosta
146
165
C INEMA TV
Strano il destino di Woody Allen.
Attualmente è uno degli autori
con una poetica maggiormente
riconoscibile e personale.
Realizza un cinema che resiste
alle mode e al tempo. Lavora
con una costanza e una precisione
quasi ministeriale, girando
regolarmente un film l’anno.
Eppure, l’autore newyorchese
fatica ad affermarsi nell’olimpo
dei grandi del cinema, accanto
ai Coppola e agli Scorsese, ad
esempio.
Ma se si ama Woody Allen, lo
si ama fino in fondo, con tutti i
suoi pregi e difetti.
Il suo ultimo lavoro, Midnight in
Paris, si inserisce perfettamente
in un percorso che l’autore sta
seguendo, ormai, da qualche
anno allontanandosi dall’adorata
Manhattan ed andando nella
vecchia Europa. Dopo Londra e
Barcellona e in attesa di Roma,
è il turno di Parigi, la città più
romantica del mondo, alla quale
Allen aveva promesso da tempo
di dedicare un film.
Gli amori di
Woody Allen
6
di BARBARA MAIO
La storia è quella di uno scrittore
in crisi di ispirazione che desidera
trasferirsi a Parigi, ma la futura
moglie e la sua famiglia lo vedono
a Los Angeles, dove si guadagna
da vivere come scrittore di
sceneggiature per mediocri film
Hollywoodiani.
Dopo noiose giornate trascorse
tra passeggiate familiari per
mercatini parigini e cene alto
borghesi, le notti del nostro
scrittore si animano a mezzanotte
quando i suoi eroi della Parigi
C INEMA TV
degli anni Venti (Fitzgerald, Picasso, Stein, tra gli altri) si animano per portarlo in un mondo
fantastico e desiderabile come non mai.
I temi sono ricorrenti: il personaggio dello scrittore è frequente nei suoi film così come il
compromesso tra arte e Hollywood. Anche il significato del vero amore è un topos che definire
ricorrente nel cinema di Allen è poco.
Ma anche se tutti questi temi sono stati già trattati, questo cinema emana comunque
magia e fascino, almeno per tutti quelli che almeno una volta nella vita hanno sognato di poter
parlare con i loro scrittori preferiti. Il nostro protagonista Gil (interpretato con convinzione da
Owen Wilson) può perfino far leggere il suo manoscritto a Gertrude Stein.
Il cast in generale risulta all’altezza con in evidenza Adrien Brody che da il volto a Salvador
Dalì ossessionato dai rinoceronti, Kathy Bates che incarna Gertrude Stein e il tanto citato
cameo di Carla Bruni che interpreta la guida di un museo.
Per quanto riguarda la location, come si poteva immaginare, Parigi diventa protagonista
e non si sa se sia più bella di giorno o di notte. Pur muovendosi nei luoghi famosi della ville
lumière (la Torre Eiffel, Montmartre, il museo Rodin), Allen evita di cadere nel qualunquismo da
cartolina dozzinale e sceglie inquadrature che possano trasferire il fascino di Parigi senza dare
una sensazione di déjà vu.
166
Sicuramente i sogni Alleniani restano alto borghesi e leggermente al di fuori della portata
dell’uomo medio, ma non è questo che si chiede al suo cinema. Allen piace proprio perché
può farci sognare una vita “altra”, in un mondo lontano dall’ordinario, e in un altro
livello percettivo, quello della poesia e dei sogni più nascosti.
Infatti, lo scrittore protagonista abbandona la sua compagna quasi senza rendersene conto,
ma non c’è tristezza in questo allontanamento, quasi una liberazione piuttosto. Come se
Allen interpretasse il rapporto di coppia ormai solo come un ostacolo al raggiungimento delle
proprie aspirazioni. A ben guardare, però, è sempre stato questo il suo punto di vista, anche se
sicuramente il passare degli anni ha reso più cinico il nostro autore.
Il finale risulta forse un po’ banale, dichiarando che ognuno sogni una epoca diversa: così Adriana,
musa di Picasso e sogno d’amore del protagonista, proietta la coppia nella Belle Epoque dove
incontrano anche Gauguin e Toulouse-Lautrec.
Ma Gil comprende che non esiste una epoca perfetta e il desiderio nasce piuttosto da una
insoddisfazione del presente. La speranza è di ricominciare una nuova vita nella città
dei sogni, con un lavoro che soddisfa e, magari, con una nuova storia d’amore con la
ragazza incontrata al mercatino.
La passeggiata finale sul ponte lascia speranza, cosa che non accadeva da tempo nei film di Allen
che ci aveva sempre più abituati a finali amari. Si esce dalla sala leggeri e con la sensazione che
magari i nostri sogni potranno un giorno realizzarsi. A Parigi o altrove.
167
C INEMA TV
di PIA FERRARA
168
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Tutto ebbe inizio dieci anni fa: era il 19 dicembre 2001 quando, negli
Stati Uniti, La Compagnia dell’Anello debuttava nelle sale americane
inaugurando il successo di un filone cinematografico — quello legato
alla letteratura fantasy — che oggi, ad anni di distanza, sembra non
aver ancora esaurito la sua spinta propulsiva.
Ma un trend che ha vissuto un decennio di enorme popolarità
sfruttando la fama di serie di romanzi che hanno venduto milioni di
copie nel mondo — da Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, a Harry
Potter di J.K. Rowling alla Twilight Saga di Stephenie Meyer — può
essere sufficiente a decretare il successo di un genere cinematografico?
Volendo approfondire la questione in modo forse provocatorio,
potremmo interrogarci sulla natura stessa del fantasy cinematografico:
è possibile parlare di “genere” riferendosi a questo fenomeno?
Nel cinema, come nella letteratura, il genere (dal latino genus) è
definito da alcuni elementi contenutistici e stilistici che differenziano
un prodotto culturale da altri che sarebbero altrimenti simili.
Se pensiamo al western e al musical, noteremo che si tratta dei
due generi che più di ogni altra categoria filmica sono riusciti ad
appropriarsi del linguaggio cinematografico facendolo proprio.
Oppure, modificando leggermente la nostra prospettiva, si potrebbe
dire che del linguaggio cinematografico sono i figli prediletti: entrambi
sono riusciti a caratterizzarsi come una categoria di film a sé stante non
solo se si guarda a ciò che narrano, ma anche se si considera il modo in
cui lo fanno. Il musical, di derivazione teatrale, riunisce in sé un aspetto
recitativo, uno canoro e uno danzante. Il western addirittura ha dato
vita al piano americano, inquadratura oggi classica che ci mostra gli
attori fino a metà coscia: un’esigenza che rispondeva alla necessità di
comprendere nell’inquadratura il gesto di afferrare la pistola con la
mano destra durante le dispute tra cow-boys.
Applicando un’analisi di tipo stilistico al genere fantasy cinematografico,
finiremmo per chiederci se il modo in cui ci sono stati raccontati
i film fantasy che abbiamo visto nell’ultimo decennio ha una sua
169
specificità e ci accorgeremo che manca: è solo
il contenuto a fare di un film fantasy quel che
è, un fantasy e non, per esempio, un giallo o
un horror. Il motivo? Presto detto: quasi tutte
queste storie fantasy erano state inizialmente
pensate per un altro medium di diffusione, un
altro linguaggio, il romanzo. Se pensiamo alle
saghe di successo che ci hanno accompagnato
nel corso degli ultimi anni, ci renderemo conto
che si tratta di trasposizioni cinematografiche
di prodotti letterari che in alcuni casi sono
riuscite ad attirare un pubblico nuovo e più
ampio, costituendo un prodotto in grado
di “viaggiare sulle proprie gambe”, in altri
casi no. Due esempi “principe” dell’uno e
dell’altro caso, sono alcune saghe già citate
in precedenza: Il Signore degli Anelli e Harry
Potter.
La trilogia di Peter Jackson, composta da
La Compagnia dell’Anello, Le Due Torri e Il
Ritorno del Re, ci ha tenuto compagnia dal
2001 al 2003, sebbene in Italia l’episodio
finale sia uscito nel 2004, ma il mondo di
Tolkien non accenna ad abbandonare il
grande schermo: The Hobbit: An Unexpected
Journey e The Hobbit: There and Back Again,
che, insieme, costituiranno la trasposizione
del prequel del Signore degli Anelli, Lo
Hobbit, sono previsti rispettivamente per il
2012 e il 2013, quasi a chiudere il cerchio di
un decennio cinematografico profondamente
influenzato dall’opera del professore di
Oxford. Nonostante le frange di lettori
tolkieniani più “estreme”, non manchino di
rilevare pecche nel lavoro di Peter Jackson, il
Signore degli Anelli ha ottenuto un successo
straordinario su scala globale. Aggiudicandosi
complessivamente 17 premi Oscar, di cui
11 solo a Il Ritorno del Re, unica pellicola ad
aver vinto così tante statuette nella storia del
cinema insieme a Ben-Hur e Titanic nonché
quinto miglior incasso nella storia del cinema.
La magnificenza scenografica e fotografica
nell’attenta ricostruzione della Terra di Mezzo
di Jackson e la qualità eccelsa degli effetti
speciali hanno senza dubbio contribuito a
decretare il successo della trilogia, tuttavia
pur sempre di un adattamento si tratta. La
difficoltà di contenere la mole delle pagine
tolkieniane nei ristretti tempi cinematografici
è testimoniata dalle extended edition di tutte
e tre le pellicole. Le extended edition hanno
vissuto un cammino indipendente rispetto
al prodotto cinematografico, diventando
oggetto di culto per gli appassionati. Pensate
inizialmente per la sola versione dvd, sono
finite nella programmazione televisiva nonché
170
C INEMA TV
sul grande schermo in proiezioni allestite
appositamente.
Una saga che, invece, ha destato più perplessità
che apprezzamento nei fan del prodotto
originario, senza riuscire a catturare un pubblico
più ampio, è stata quella di Harry Potter,
ispirata ai sette romanzi di J.K. Rowling (Pietra
Filosofale, Camera dei Segreti, Prigioniero di
Azkaban, Calice di Fuoco, Ordine della Fenice,
Principe Mezzosangue e Doni della Morte). Il
problema principale nella trasposizione su
grande schermo della saga potteriana è stato
la difficoltà nel dare una visione d’insieme alla
saga: a Chris Columbus (PF e CS) è subentrato
il messicano Alfonso Cuaròn (PA), a sua volta
sostituito dall’inglese Mike Newell (CF). Gli
ultimi quattro film della saga, OF, PM, DM I e
II, sono stati diretti da David Yates, più filmmaker che regista, incaricato dalla produzione
(probabilmente desiderosa di economizzare in
proporzione all’incremento degli ingaggi del
trio di protagonisti Radcliffe-Grint-Watson) del
difficile compito di trasporre i tre romanzi più
lunghi e complessi della saga. Il risultato è che il
pubblico cinematografico a digiuno della saga
letteraria si è trovato davanti quattro pellicole
difficili da seguire per la scarsa attenzione
riservata a passaggi logici fondamentali per
la comprensione della trama ma difficili da
rendere sul grande schermo.
Ancor più ostico discutere della Twilight Saga:
all’amore viscerale per Edward Cullen (Robert
Pattinson) e Bella Swan (Kristen Stewart) da
parte delle lettrici della Meyer (e dei lettori,
perché no!) si contrappone un’antipatia
altrettanto viscerale da parte dei detrattori
della serie, che gli aficionados della letteratura
gotica giudicano incompatibile con la visione
del vampiro di stampo classico. Tralasciando i
giudizi di merito sulla saga della Meyer, la saga
di Twilight prende le mosse quasi come una
produzione cinematografica indipendente e
171
a basso costo, con il primo episodio affidato
a Catherine Hardwick (Thirteen). Sono gli
incassi ottenuti già da Twilight a proiettare
le successive pellicole (New Moon, Eclipse
e Breaking Dawn) a un diverso livello, in
America e all’estero, anche se Twilight non ha
attualmente eguagliato i record di incassi di
Harry Potter e Signore degli Anelli.
C’è una saga pensata originariamente per il
cinema e non per la parola scritta: si tratta del
franchise di Pirati dei Caraibi, che si compone
di quattro titoli: La maledizione della prima
luna, La maledizione del forziere fantasma,
Ai confini del mondo, Oltre i confini del mare.
Dietro la produzione di Pirati c’è lo zampino
della Disney, e si può notare la nascita già di
per sé cinematografica del progetto se solo
si pensa che uno dei motivi del successo di
Pirati sta nella sua capacità di mescolare
l’ambientazione piratesca allo humor e alla
magia, un mix reso possibile in gran parte
dall’interpretazione di Johnny Depp del pirata
Jack Sparrow. Con la sua inseparabile bandana
e le treccine aggrovigliate, Depp reinterpreta
a modo suo lo stereotipo del pirata della
letteratura d’avventura classica, con un’ironia
più vicina al gioco per pc Monkey Island. Non
si tratta di un prodotto esplicitamente fantasy
se per “fantasy” si intende high fantasy alla
Tolkien. La saga di Pirati appartiene di diritto
al filone nel nome dei suoi numerosi elementi
fantastici (zombi, maledizioni, divinità, mostri
marini e sirene) e, soprattutto, ha il merito
di uscire nella stagione cinematografica più
congeniale, perché non è detto che il successo
riscosso dalla pellicola prodotta da Jerry
Bruckheimer sarebbe stato lo stesso in un
decennio cinematografico non dominato da
tematiche fantastiche.
Il successo al botteghino di saghe come Il
Signore degli Anelli, Harry Potter, Twilight e
Pirati dei Caraibi ha portato alla trasposizione
di tutta una serie di altri cicli letterari: dalle
Cronache di Narnia alle Cronache di Spiderwick,
da Eragon a Una serie di sfortunati eventi. È
curioso osservare come, benché alcuni di
questi esperimenti non abbiano prodotto
i risultati sperati, non portando quindi alla
produzione di sequel, la tendenza è quella
di proporre al cinema storie complesse e
C INEMA TV
172
composte da più episodi. Cosa che, da una parte, è giustificata dalla necessità di garantirsi un
incasso minimizzando i rischi comportati dall’investimento su un progetto nuovo, e dall’altra
dalla tendenza verso l’unificazione dei linguaggi tra cinema e serialità televisiva. È indicativo
anche l’aumento, registratosi negli ultimi anni, di produzioni televisive ispirate a saghe letterarie
fantasy e horror: da Game of Thrones e Legend of the Seeker passando per i vampiri di Charline
Harris in True Blood.
Se l’ampliamento dell’offerta cinematografica e televisiva fantastica può rivelarsi una manna
dal cielo per gli appassionati nonché la possibilità di scoprire un genere nuovo per i neofiti,
dall’altra il surplus di produzioni fantastiche può incidere negativamente sulla qualità delle
suddette produzioni: si inizia a trasporre le serie più significative per finire con quelle meno
note in primis al pubblico di lettori. Senza dubbio il boom del fantasy cinematografico è un
fenomeno ancora in atto, non può dirsi concluso ed è difficile tirare le somme. Nel 2012 ci
attendono numerosi nuovi progetti di ambito fantastico: dalle pellicole ispirate alla fiaba di
Biancaneve (Snow White and the Huntsman, Mirror Mirror: the Untold Adventures of Snow
White) alla trasposizione del primo volume della serie dei Mortal Instruments di Cassandra Claire
e man mano che passano i mesi ci avviciniamo al debutto de Lo Hobbit. Sarebbe auspicabile
che a queste pellicole “derivate” dalla letteratura se ne affiancassero altre più propriamente
cinematografiche, con storie progettate esplicitamente per il grande schermo soprattutto per
quanto riguarda la sceneggiatura e la libertà nel casting, spesso influenzato dalla somiglianza
fisica tra un attore e il personaggio da interpretare piuttosto che dalla bravura.
168
C INEMA TV
Hugo
Cabret
e lo stupore del Cinema
di BARBARA MAIO
Nella Parigi degli anni Trenta un orfano vive
nella stazione ferroviaria cercando di riparare
un automa, eredità di un padre scomparso
troppo presto. L’incontro con una ragazzina e il
suo tutore rivoluzioneranno la sua vita.
Hugo Cabret è senz’altro il film che ha segnato
questa stagione cinematografica. Lo era già
prima che arrivasse sugli schermi poiché molta
era la curiosità intorno all’opera prima in 3D di
Martin Scorsese, uno dei maestri del cinema
che ancora riescono a stupire e stupirsi.
Ed è proprio su questo stupore che punta
Scorsese, quello che sollevò il cinema di
Georges Méliès, pioniere non solo per lo
strumento stesso ma, soprattutto, per la scelta
di affrontare la fantascienza e l’utilizzo di effetti
speciali che aggiunsero meraviglia a meraviglia.
Scorsese parte dalla graphic novel di Brian
Selznick La straordinaria invenzione di Hugo
Cabret costruendo una riflessione sul cinema
in generale e sul suo cinema in particolare,
con gli occhi di un bambino (per la prima volta
protagonista del suo cinema fatto solitamente
di star del calibro di Robert De Niro e Leonardo
Di Caprio).
E l’utilizzo del 3D di inserisce perfettamente
in questa costruzione metariflessiva, con i
panorami dei tetti innevati di Parigi che ci
appaiono più magici che mai. Non è un utilizzo
dedito ad attirare l’attenzione dello spettatore
in spericolate scene mozzafiato, cosa che
purtroppo accade troppo spesso in questo
nuovo tipo di visione 3D. Scorsese utilizza la
nuova tecnologia per attirare sì lo spettatore
ma in una sorta di favola. E chi meglio di un
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bambino può raccontarcela?
E poi la contrapposizione tra il giovane
protagonista e l’anziano Méliès. Laddove il
primo, pur con tutta la tragedia già presente
nella sua vita, non perde la fiducia nel futuro
e nella possibilità di cambiare la propria
vita (ideale rappresentato dall’automa la cui
riparazione è l’obiettivo del ragazzo e ciò che
gli dona la forza per sopravvivere), Méliès ha
perso ogni speranza e sogno, nonostante il
passato glorioso del quale resta solo qualche
sbiadito ricordo. L’incontro con il ragazzo e il suo
entusiasmo lo porteranno a rivivere la grandezza
del passato e a meglio comprendere il suo ruolo
nella nascita del cinema come nuova tecnologia
ma, soprattutto, come mezzo per sognare una
nuova vita.
Un film fatto di scatole cinesi, di continui rimandi
tra sogno e realtà e con un occhio particolare per
il meccanismo-cinema, che prima che un’arte
è una forma meccanica di riproduzione della
realtà. Le virate tridimensionali tra gli ingranaggi
degli orologi (sempre presente in maniera
ossessiva, l’immagine, il tempo, quelli insomma
di Deleuziana memoria), porta lo spettatore a
vivere dentro la vita di Hugo. Ed Hugo stesso
riesce ad uscire dalla sua vita in maniera anche
fisica, abbandonando il suo rifugio segreto per
la confortevole casa di Méliès, alla ricerca di
una chiave, fisica e simbolica.
Con i 5 premi Oscar vinti, Hugo Cabret ha
confermato la sua potenza, anche se Scorsese
non ha vinto come miglior regista mentre, nella
stessa categoria, ha vinto il Golden Globe.
Nella notte degli Oscar hanno prevalso premi
più “tecnici” come quelli per Dante Ferretti e
Francesca Lo Schiavo che, come accade spesso,
hanno regalato ulteriore magia al film con il loro
splendido lavoro nella costruzione del set.
Divergenti gli incassi e le critiche: il film è stato
accolto tiepidamente al botteghino (soprattutto
in relazione al suo enorme costo di produzione
stimato in circa 170 milioni di dollari) nonostante
sia stato presentato come un film per famiglie;
inoltre, la critica si è fortemente divisa in
due poiché a chi ha gridato al capolavoro si è
contrapposto chi ha letto l’opera di Scorsese
come una furberia, una voglia di rientrare nel
grande circuito Hollywoodiano dalla porta
principale utilizzando un 3D abbinato ad una
storia scontata e banale.
Come per ogni film, ognuno avrà la sua lettura ed
un suo giudizio. Quel che è certo è che Scorsese
ci ha mostrato un modo diverso di utilizzare il
3D, forse aprendo nuove strade all’utilizzo di
questa tecnologia visuale.
C INEMA TV
Elementare,
Sherlock!
di ROBERTO GERILLI
Indossa il cappello, fuma la pipa e
risolve casi con il metodo deduttivo. Di
chi sto parlando? Di Sherlock Holmes,
ovvio, anzi... elementare, non trovate?
della pipa ricurva o dell’esclamazione
“Elementare, Watson!”), ma hanno
conservato quella vena supereroistica
che è alla base del personaggio.
Sherlock Holmes è il protagonista
di quattro romanzi e cinquantasei
racconti firmati dalla penna di sir Arthur
Conan Doyle, tra la fine dell’Ottocento
e l’inizio del secolo successivo. È
un investigatore colto, geniale e
iperattivo, ma è anche arrogante,
saccente e asociale. Un personaggio
letterario complesso che è stato
capace di varcare i confini d’inchiostro
e conquistare la fantasia dei lettori di
ogni età, sesso ed estrazione sociale.
Che sia nella sua veste originale, in
quella patinata di alcune pieces teatrali,
di alcuni cartoni animati di successo
(Basil l’investigatopo della Disney e le
serie anime Il fiuto di Sherlock Holmes
e Detective Conan), o ancora in una
delle numerose trasfigurazioni più o
meno fedeli (come i personaggi di Gil
Grissom o Gregory House), Sherlock
Holmes è un uomo intelligente e
scorbutico, sempre pronto a fare la
cosa giusta. Un supereroe, appunto.
Ha fatto il suo esordio nel 1887 nel
romanzo Uno studio in rosso e nel 2012
è il protagonista di un multimilionario
franchise cinematografico e di una serie
tv che sta appassionando gli spettatori
italiani. In questi centoventicinque anni
di storia, Holmes è stato il protagonista
di decine di adattamenti che ne hanno
mutato i dettagli in maniera radicale
(nei romanzi di Conan Doyle non c’è
traccia del cappello da cacciatore,
Questa
considerazione
è
il
fondamento dell’ultima versione
cinematografica pensata dal regista
Guy Ritchie e dallo sceneggiatore
Lionel Wigram, che hanno riscoperto
il vero personaggio creato da sir
Arthur Conan Doyle, inserendolo in
un contesto adrenalinico tipico degli
action movies di Hollywood. Ritchie
e Wigram hanno portato sul grande
schermo lo Sherlock Holmes originale
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177
(senza cappello e pipa e con problemi
di alcol e droga), estremizzandone la
capacità deduttiva fino a renderla simile
a un superpotere. L’Holmes interpretato
da Robert Downey Jr è un eroe moderno,
sarcastico e anticonvenzionale, ma
sempre pronto a salvare il mondo. Un
cavaliere indomito, in una luccicante
corazza di logica.
inglesi). Il telefilm riprende i personaggi
di Conan Doyle ma li trasferisce nella
Londra contemporanea, aggiustandone
le loro caratteristiche secondo gli usi e
i costumi della nostra società. Essendo
un programma televisivo, Sherlock
deve sottostare a tutti quei dettami
politicamente corretti tanto cari agli
inglesi, ma nonostante questo Moffat
e Gatiss sono riusciti a realizzare un
Di tutt’altro genere è lo Sherlock
adattamento intelligente, che si avvicina
dell’omonima serie tv, creata per la BBC
molto alle opere originali. Lo Sherlock
da Mark Gatiss e Steven Moffat (già
Holmes televisivo (che ha il volto di
produttore e ideatore di molti serial
C INEMA TV
Benedict Cumberbatch) è un giovane troppo intelligente per capire la vita sociale
moderna. La sua mente brillante lo aiuta a risolvere casi intricati, ma al contempo
lo rende fragile verso quei rapporti umani spesso privi di razionalità.
Sia al cinema che in tv, il personaggio di Sherlock Holmes è stato restaurato.
Sono stati eliminati, strato dopo strato, tutti gli orpelli aggiunti dalle innumerevoli
rivisitazioni e si è scoperto che, nonostante la veneranda età, il famoso investigatore
è ancora attuale e verosimile. La accoppiate Ritchie-Wigram e Moffat-Gatiss, hanno
aggiunto il loro personale tocco per rimodernare Holmes, ma i piccoli accorgimenti
usati hanno reso ancora più evidente la maestria di sir Arthur Conan Doyle,
capace di creare non solo un’icona del metodo scientifico-deduttivo, ma anche
un protagonista complesso e fuori dal tempo, che, a distanza di centoventicinque
anni, è ancora in grado di appassionare.
“Tutto ciò è divertente, anche se elementare, Watson.”
179
C INEMA TV
di BARBARA MAIO
Amano il cinema, la televisione, la letteratura popolare, i fumetti, e tutto quello che ruota
intorno al mondo dei geek, dai videogiochi in giù. Sono i cosiddetti “fanboys”, fenomeno
tipicamente statunitense che definisce questa nuova frontiera dello spettatore-consumatore di
cultura popolare. Ma andando oltre, esiste anche il fanboy autore, ovvero l’autore di un prodotto
di cultura popolare che, a sua volta, è anche un grande e attento consumatore di essa e, quindi,
infarcisce le sue creazioni di tutta una ragnatela di citazioni e omaggi alle sue passioni.
Come detto, si tratta di un fenomeno tipicamente statunitense e prevalentemente maschile.
Tra i nome che più spiccano in questa categorie vale la pena citare almeno quelli di Joss Whedon
e Kevin Smith.
Joss Whedon (New York, 1964), inizia la sua carriera come sceneggiatore (Toy Story,
Alien: La clonazione) ed evidenzia sin dagli esordi la sua linea autoriale prediligendo il cinema
di genere, il fantasy declinato in varie forme e l’ibridazione di mezzi e generi. Nel 1992 scrive
la sceneggiatura del film Buffy The Vampire Slayer che portato sul grande schermo passa
praticamente inosservato. Qualche anno dopo Whedon ripropone, questa volta in tv, la sua
cacciatrice di vampiri e da il via ad una serie che segnerà la fiction a cavallo degli anni Duemila.
Con Buffy e con i prodotti successivi Angel, Firefly e Serenity, Dollhouse, Whedon definisce
chiaramente la sua estetica e, soprattutto, comincia a lavorare trasversalmente tra i media: le
sue serie si muovono tra cinema, televisione e fumetti, creando universi cross mediali pronti a
soddisfare i fans più accaniti. Anche il web diventa il suo regno con la web-series Dr.Horrible che,
realizzata in tempi di sciopero degli sceneggiatori, diviene un successo commerciale nonostante
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181
una prima distribuzione gratuita. Anche al cinema Whedon si cimenta in film che richiamano la
sua passione con la regia del prossimo The Avengers, già destinato ad essere cult prima ancora
della sua uscita.
Come ben sanno i suoi seguaci, Whedon predilige una scrittura che richiama in continuazione
mondi paralleli fatti di comics e supereroi, musica pop e classica, personaggi letterari e
cinematografici. Le sue opere restano saldamente nell’universo popolare ma si evidenziano per la
loro solidità e ricchezza, senza mai scadere nella banalità o nella volgarità. A quasi cinquanta anni
Whedon è ormai un autore completo ma ancora con una voglia di sognare e di giocare intatta.
Kevin Smith (Red Bank, NJ, 1970) segue un percorso, per certi versi, molto simile a quello di
Whedon. Il suo successo inizia nel 1994 con il low budget Clerks che dimostra come sia possibile
realizzare un film divertente ed originale grazie ad una ottima scrittura e pochi soldi. Da qui
parte una carriera trasversale che seppur rimane al cinema si serializza portando sullo schermo
personaggi ricorrenti tra cui Silent Bob interpretato dallo stesso Smith. Da un film all’altro, da
Generazione X a Jersey Girl, dal pilot per la tv Reaper alla serie animata tratta da Clerks, Smith
– come Whedon – tesse una ragnatela di citazioni ed autocitazioni che vanno ad espandersi
trasversalmente anche sui generi, creando commedie romantiche, film generazionale, parodie
sgangherate e perfino andando a sfidare la religione con Dogma, film a lungo censurato pur se
alla fine si rivela inoffensivo.
Dal 2008 Smith sembra aver imboccato la svolta del mainstream (come lo accusano i suoi
fans più integralisti), prima realizzando Zack & Miri. Amore a primo sesso che, anche se sembra
muoversi sulla strada dei film precedenti, evidenzia subito la ricerca di un pubblico più ampio, non
tanto per il cast che vede protagonisti Seth Rogen (Molto incinta e successivamente Green
Hornet) e Elizabeth Banks (la saga cinematografica di Spider Man) poiché i film precedenti di
Smith avevano visto spesso tra i protagonisti Matt Damon e Ben Affleck quanto, piuttosto, per la
voglia di tentare la strada della commedia romantica senza perdere la propria impronta autoriale.
La svolta è ancora più evidente con il successivo Poliziotti fuori con Bruce Willis e Tracy Morgan,
questo sicuramente un film mainstream dove l’autore del New Jersey deve piegare la sua estetica
al servizio di un film destinato al grande pubblico. Ancora diverso il suo film successivo Red State
che segna la definitiva maturazione dell’autore ma si allontana dalla sua precedente produzione,
non una pecca a mio giudizio ma un segno di come questo tipo di autori vadano presi sul serio
poiché alla fine, il cinema non è solo un grande gioco?
C INEMA TV
cinema, colori e suoni,
prima – ma molto, molto prima –
di ROBERTA MACIOCCI
di THE ARTIST
A costo di risultare impopolare, la recensione
del film Oscar The Artist e la parabola similviale del tramonto – annessi riscatto finale
ed amore platonico del protagonista – non
saranno oggetto delle mie considerazioni.
Vuoi per tutto quello di cui sopra, vuoi
perché media di ogni genere se ne sono
abbondantemente occupati, ma soprattutto
per la preferenza che accordo ad Hugo Cabret
di Scorsese.
Lasciando comunque da parte opinioni
personali, vorrei fornire qualche curiosità
sulla nascita del colore e del sonoro nel
cinema, decisamente più appetibili per i
lettori cinefili.
Si tratta di notizie “archeologiche” relative
alle due istanze che avrebbero migliorato – o
peggiorato, a detta di qualcuno, soprattutto
per quanto riguarda il sonoro – i testi
della Settima Arte. Il resto, dalle immagini
analogiche a quelle digitali, dal supporto in
vinile al cd è storia più o meno recente, e
forse più nota alla maggior parte dei lettori e
degli amanti di cinema.
Cominciamo, dunque, dalla “primitiva”
colorazione dei film. Già il “mago” Georges
Méliès girava i suoi film in bianco e nero,
per poi colorarli tramite due tecniche,
il viraggio (immersione della pellicola in
soluzione chimica che accentuava le zone
scure, lasciando quasi neutre quelle chiare),
o l’imbibizione (immersione nella tinta della
pellicola già sviluppata, con colorazione delle
parti chiare e mantenimento del nero per
quelle scure).
Il colore si diffuse soprattutto a partire dal
1903-1904, quando la casa di produzione
francese Pathé Fréres aveva ideato un metodo
di colorazione meccanica tramite tampone
(pochoir in francese, stencil in inglese), anche
se il colore era riservato soprattutto a film
densi di “effetti speciali” come quelli di Méliès
o a pellicole che avevano per protagoniste
signore riccamente abbigliate.
Successivamente, già alla metà degli anni
venti si cominciarono ad usare pellicole
pancromatiche che – a differenza delle
ortocromatiche le quali registravano solo
alcuni colori – fotografavano l’intero spettro
cromatico. La diffusione incrementò grazie
alla produzione di pellicole sempre più
economiche, ad opera della Eastman Kodak.
Passando al sonoro nel cinema è notorio che
i primi, brevissimi filmati erano commentati
dal un sottofondo musicale su vinile, dalle
voci degli attori dietro lo schermo, o dalle
parole dell’esercente stesso della sala
cinematografica. Ancora: i film potevano
essere accompagnati da un sottofondo
musicale creato da un singolo elemento (un
pianoforte) oppure, da un’orchestra formata
da elementi di numero variabile, in base al
“prestigio” della sala cinematografica. Una
curiosità su un’altra antesignana – dal punto
di vista funzionale – del sonoro, la didascalia:
le prime didascalie presenti in un film
americano furono quelle inserite da Edwin S.
Porter ne La capanna dello Zio Tom (1903),
adattamento cinematografico dell’omonimo
romanzo.
182
183
Contemporaneamente
all’innovazione
del colore – rappresentata dalla pellicola
pancromatica – si svilupparono le prime
tecniche del sonoro nel cinema: già infatti
nel 1923, la pellicola 35mm fu dotata di
suono, grazie all’invenzione di Lee DeForest,
il Phonofilm. Le onde sonore erano inserite su
una striscia a lato del fotogramma.
Le svolte ulteriori e decisive furono
rappresentate però da altri brevetti, realizzati
dalle aziende americane leader per tecnologia
dell’epoca. Il Vitaphone, ad esempio,
invenzione della Western Electric: fu utilizzato
come metodo innovativo di registrazione da
parte dei fratelli Warner, per la prima volta, il
6 agosto del 1926.
Altro sistema era il Movietone, utilizzato
invece dalla Fox Film Corporation a partire dal
1927. Anche la RCA, sempre nel 1927, produsse
un sistema di riproduzione a pellicola sonora,
chiamato Photophone: tuttavia, a seguire
dell’accordo sempre dello stesso anno tra
le cinque principali case cinematografiche,
fu il Vitaphone della Western Electric ad
essere scelto quale sistema principe per la
sonorizzazione. Va ricordato, anche se noto
ai più, che il primo film sonoro fu proiettato il
6 ottobre del 1927, ed è Il cantante di jazz di
Alan Crosland.
Altra
curiosità
sul
sonoro:
come
precedentemente
accennato,
molti
personaggi di rilievo espressero qualche
perplessità sull’avvento del suono nei film.
Luigi Pirandello, tra questi, ed uno dei più
grandi teorici del cinema, se non il maggiore:
Sergej Ėjzenštejn, il quale, nel 1928 fu autore
della Dichiarazione sul futuro cinema sonoro,
insieme ai due colleghi Vsevolov Pudovkin e
Grigorij Alexandrov. Detto anche ‘Manifesto
sull’asincronismo’, a grandi linee, il testo
sostiene la validità di tale innovazione per il
cinema, solo quando il suono venga utilizzato
in maniera contrappuntistica rispetto al testo
visivo e soprattutto non ne impoverisca le
caratteristiche.
“Shirakawa Yofune” (Sonno Profondo)
Omaggio a Banana Yoshimoto
Petra Zari (©2001)
Tempera acrilica e pastello secco su tela
Speechless ©2012 - numero zero
www.speechlessmagazine.com