Atti - Università degli Studi di Pavia
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Atti Pubblicati on line all’indirizzo web www.unipv.it/webchir/atti/attircs2006.htm a cura della Segreteria Organizzativa del Dipartimento di Scienze Chirurgiche Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università degli Studi di Pavia UNIVERSITÀ DEGLI STUDI FONDAZIONE I.R.C.C.S. POLICLINICO “S. MATTEO” - PAVIA - ATTI DELLA I RIUNIONE ANNUALE CLINICO-SCIENTIFICA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE CHIRURGICHE, RIANIMATORIE-RIABILITATIVE E DEI TRAPIANTI D’ORGANO LA RICERCA SPERIMENTALE E CLINICA IN CHIRURGIA Pavia, 17 Novembre 2006 Aula M. Campani Chirurgia Generale Epatopancreatica Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo Piazzale C. Golgi, 2 27100 PAVIA SI RINGRAZIANO: Il Magnifico Rettore dell’Università di Pavia Prof. Angiolino Stella Il Direttore Amministrativo dell’Università di Pavia Dott. Giovanni Colucci Il Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia Prof. Alberto Calligaro Il Presidente della Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo Dott. Alberto Guglielmo Il Direttore Generale della Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo Dott. Giovanni Azzaretti Il Direttore Sanitario dell’IRCCS Policlinico S.Matteo Dott.ssa Luigina Zambianchi Il Direttore Scientifico dell’IRCCS Policlinico S.Matteo Prof. Carlo Alberto Redi Il Presidente dell’Ordine dei Medici di Pavia Dott. Giovanni Belloni Il Direttore Generale della A.S.L. di Pavia Dott. Maurizio Amigoni INDICE PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO Prof. Mario Viganò Direttore del Dipartimento ………………………………………………… pag. 1 LA SCUOLA CHIRURGICA DI PAVIA L. Bonandrini ……………………………………………………………... pag. 3 I SESSIONE Moderatori: A. Braschi, P. Dionigi, E. Forni, S. Tinozzi IL TRATTAMENTO SHORT TERM CON CICLOSPORINA ASSOCIATO AL COTRAPIANTO DI SPLENOCITI PROLUNGA LA SOPRAVVIVENZA D’ORGANO NEL TRAPIANTO RENALE SPERIMENTALE M. Maestri, A. Gaspari, L. Cansolino, P. Dionigi………………………… pag. 9 IPOFUNZIONE SPLENICA E MALATTIE INTESTINALI C. Bianchi, P. Cazzola, P. Biancheri, A. Di Sabatino, G.R. Corazza, S. Tinozzi ………………………………………………………………...… pag. 17 CONSIDERAZIONI ATTUALI SULLA MALATTIA DI CAROLI F. Meriggi ed E. Forni ……………………………………………………. pag. 21 TRATTAMENTO CHIRURGICO DELL’IPERTENSIONE POLMONARE CRONICA TROMBOEMBOLICA MEDIANTE ENDOARTERECTOMIA POLMONARE A. M. D’Armini, M. Morsolini, S. Nicolardi, M. Pozzi, G. Zanotti, C. Monterosso, M. Viganò ……………………………………………………….. pag. 29 PERSISTENZA DI ELEVATE RESISTENZE VASCOLARI POLMONARI DOPO INTERVENTO DI ENDOARTERECTOMIA POLMONARE: CONSEGUENZE SULLA GESTIONE POSTOPERATORIA E SULL’OUTCOME F. Mojoli ed A. Braschi …………………………………………………… pag. 35 i II SESSIONE Moderatori: C. Arienta, P.E. Bianchi, E. Dalla Toffola, A. Faga, E. Mira RIABILITAZIONE FUNZIONALE PRECOCE IN CHIRURGIA CARDIOTORACICA L. Petrucci, S. Ricotti, A. Lanzi, D. Vanzini, I. Lanzani, L. Carlucci, E. Dalla Toffola ………………………………………………………... pag. 47 NUOVE METODICHE PER LA PREPARAZIONE DEL LEMBO DEL DONATORE NEL TRAPIANTO DI CORNEA P. E. Bianchi, R. Ceccuzzi, F. Romanazzi, A. Del Favero ……………. pag. 57 L’APPROCCIO ENDOSCOPICO AI TUMORI DELLA REGIONE SELLARE F. R. Canevari, D. Locatelli, I. Acchiardi, F. Zappoli, P. Scagnelli …. pag. 61 I TUMORI DELLA TECA CRANICA I. Chiaranda, L. Bottani, L. Magrassi, C. Arienta ……………………. pag. 71 EFFETTI DELLA VAC TERAPIA SUL TESSUTO DI GRANULAZIONE: DATI BIOCHIMICI ED ISTOLOGICI S. Scevola, G. Nicoletti, A. Faga ………………………………………. pag. 85 ii Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO Prof. Mario Viganò Professore Ordinario di Chirurgia Cardiaca Direttore del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia Buongiorno e benvenuti a quest’incontro che rappresenta la prima riunione clinicoscientifica dipartimentale avente per oggetto precisamente “La ricerca sperimentale e clinica in chirurgia”, la prima di questo nostro dipartimento che per numerosità di docenti è il secondo della Facoltà di Medicina e credo dell’Ateneo. Questo dipartimento che, anche se a prima vista potrebbe apparire eterogeneo, nella realtà è legato da un filo conduttore omogeneo che è proteso alla simbiosi ed alla uniformizzazione di tante discipline che hanno come fondo comune la formazione delle giovani leve e la sollecitata predisposizione alla ricerca nel settore delle scienze chirurgiche, oltre che dell’anestesia-rianimazione e della riabilitazione fisioterapica, in un percorso ideale unico ed ininterrotto. Abbiamo voluto dare a questa prima riunione un significato di sperimentazione, cioè abbiamo voluto organizzarla senza eccesso di pubblicizzazione e di attività promozionale, quasi gelosi delle nostre competenze, senza estraneità nazionali o internazionali. Vedremo se questa formula andrà bene oppure dovremo ritornare ad un ambito più tradizionale dell’organizzazione dei convegni dipartimentali, con invito a tema variabile rivolto a personaggi di rilievo sia nazionali che internazionali. La motivazione principale sottostante a questa impostazione è quella di “conoscerci meglio”, in una dimensione di comitato ristretto, di conduzione “quasi famigliare” con interscambio di conoscenze circa i temi principali di ricerca caratterizzanti le singole sezioni e con uno sforzo di dare ad ognuno di noi la convinzione che l’aspetto di ricerca scientifica, oltre che ovviamente quello assistenziale, rappresenti la configurazione più marcata della nostra quotidianità nella sede di un Ateneo e di un Ospedale dalle grandi e gloriose tradizioni e nell’alveo di una scuola chirurgica o di più scuole chirurgiche che sono state caratterizzate da personaggi di altissima levatura e prestigio, come peraltro ci dirà Bonandrini. Fa piacere constatare la presenza di una folta partecipazione, quasi a confermare la consapevolezza che la struttura dipartimentale sia l’amalgama dell’attività scientifica e propugnando una forma di sempre più marcata collaborazione tra le sezioni. Si viene così configurando un percorso all’inverso di quello che si è verificato invece nei precedenti decenni, con l’affermarsi e il distaccarsi dal ceppo principale di tante specializzazioni. Auguro pertanto buon lavoro a tutti i partecipanti, sia moderatori che relatori, soprattutto agli auditori che spero possano trarre spunti di entusiasmo, di interesse e di approfondimento dai temi che verranno proposti. 1 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 LA SCUOLA CHIRURGICA DI PAVIA L. Bonandrini Università degli Studi di Pavia, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo Cattedra di Chirurgia d’Urgenza e Pronto Soccorso Scuola di Specializzazione in Chirurgia Generale (ind. d’Urgenza) (Direttore: Prof. L. Bonandrini) La Scuola di Pavia ha origini antichissime e la sua storia si perde, per cosi dire, nella notte dei tempi; altrettanto accade per l’insegnamento chirurgico che attraversa non poche vicende prima di assumere connotazioni ben definite. Pavia realizza le prime scuole ufficiali quando diviene sede del regno longobardo e poi del governo carolingio; già nel 680, al tempo di Re Cuniberto, è accertata l’esistenza di una Scuola, nella quale viene più tardi educato Paolo Diacono, chiamato da Carlo Magno a fondare a Parigi le Scuole Regie o Palatine. Il 25 maggio dell’825, l’imperatore Lotario I, nipote di Carlo Magno e figlio di Ludovico il Pio e di Ermengarda, emana a Corteolona, presso Pavia, il Capitolare Olonnenses, con il quale fonda ufficialmente la Scuola di Pavia e stabilisce che ad essa debbano confluire gli studenti di Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli, Tortona, Acqui, Genova, Asti, Como. Questo documento, autentico, contiene tutti i principi di quella che sarà l’università medioevale e permette di considerare Pavia come la più antica delle università, avendo già festeggiato, nel maggio del 1925, l’ XI centenario della sua fondazione, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III e dei Rettori delle maggiori università del mondo. Adalberto Pazzini, uno dei maggiori storici della medicina, riconosce questo diritto di primogenitura, sottolineando la presenza, nella Scuola di Pavia, dei principi ispiratori delle future università; studenti ed insegnanti, provenienti da località e da nazioni diverse, portano avanti l’organizzazione dello studio, la pluralità di insegnamento e l’autonomia intellettuale, riflettendo l’impostazione, le basi e lo spirito culturale dello studio accademico. La Scuola di Pavia fondata da Lotario I, comprende una Scuola di Retorica, una di Diritto e una di Arti Liberali del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, musica, geometria e astronomia). L’insegnamento giuridico è predominante perché a Pavia vi è il tribunale supremo della Corte Regia e perché la Scuola ha la finalità di preparare i giudici che andranno ad amministrare la giustizia in tutto il regno; un’altra finalità della Scuola è di elaborare nuove leggi, elemento di grande fama per Pavia, al punto da essere in seguito «concordemente riconosciuta come superiore a quella di Bologna, della quale è senza dubbio più antica». L’insegnamento, nel corso di cinque secoli, passa attraverso le Scuole Municipali, le Scuole Vescovili o Ecclesiali e le Scuole Canoniche, finché, raccogliendo e rimodellando nel tempo l’eredita culturale dell’antica Scuola di Pavia, si giunge alla fondazione dello Studium Generale. In questo lungo percorso, l’atteggiamento verso la chirurgia è il rifiuto, in coerenza con 3 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 il disprezzo delle attività manuali, caratteristico dell’antichità classica; anche l’atteggiamento ecclesiastico non è favorevole alla chirurgia, considerata un mestiere crudele e sanguinario. Gli stessi chirurghi del tempo, con il loro comportamento, contribuiscono a gettare ulteriore discredito sulle cosiddette «discipline manuali». I chirurghi sono di due tipi: gli empirici e i cerusici. I primi tentano di spiegare le malattie facendo ricorso a disquisizioni sofiche, i secondi tentano di risolverle nei modi piu strani. Gli empirici si cimentano nelle «operazioni di piccola chirurgia» (ascessi, fistole, emorroidi, ferite, fratture, lussazioni), i cerusici affrontano le «operazioni di grande chirurgia» (ernie, cataratta, calcoli vescicali, chirurgia plastica). I primi insegnano, e, per non perdere la reputazione e il posto, preferiscono astenersi dall’intervenire; i secondi, ambulanti e barbieri, intervengono e poi scappano per salvare la pelle. In un ambiente di questo genere, con il Diploma di Norimberga emanato il 13 aprile 1361 da Carlo IV re di Boemia e imperatore di Germania, e voluto da Galeazzo II Visconti duca di Milano, nasce a Pavia lo Studium Generale e con esso viene istituito ufficialmente l’insegnamento della chirurgia, praticata all’inizio nel convento di S. Tommaso, nella basilica di San Michele e nella chiesa di S. Benedetto nel convento dei Frati Predicatori. L’esame dei ruoli dell’università permette di ricostruire i nomi di tutti i Lettori di Chirurgia, con il relativo stipendio dei fiorini. Il primo insegnante di chirurgia si chiama Gradi o Grado Antonio, nasce a Milano, è licenziato in Medicina a Pavia il 25 marzo 1385 e viene nominato Lettore di Chirurgia (doctor deputatus ad legendum in scientia Cyrogiae) nel 1386. Con la riforma universitaria proposta dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria nel 1753, la figura del Lettore viene trasformata in Professore, e l’insegnamento di Chirurgia viene impartito prima dalla Cattedra di Anatomia ed Istituzioni Chirurgiche, poi da quella di Operazioni Chirurgiche ed Arte Ostetrica, e, infine, da quella di Clinica Chirurgica. La Cattedra di Patologia Chirurgica Speciale e Propedeutica Clinica, viene istituita nel 1859, e anch’essa assume nel tempo denominazioni diverse. Il fondatore della Scuola Chirurgica Pavese è Antonio Scarpa, il quale, nel 1787, ottiene dal governo austriaco l’istituzione e la nomina alla Cattedra di Clinica Chirurgica, che viene sistemata nell’Ospedale S. Matteo; prima di allora non si hanno notizie né di una attività didattica in sede ospedaliera, né di una frequenza ospedaliera a scopo di addestramento. Scarpa è il fondatore della Scuola Chirurgica di Pavia, non soltanto sul piano didattico perché ha avuto l’idea di unire la Cattedra di Anatomia a quella di Chirurgia, ma anche sul piano assistenziale, poiché la nuova istituzione trova «hospitalitas», cioé una sede, nell’Hospitale di S. Matteo; una sorta di convenzione «ante litteram», nella quale dovrebbero convivere, nel reciproco rispetto, universitari ed ospedalieri, cioé didattica ed assistenza. La «suddivisione» dei malati avveniva secondo un preciso rituale: il cattedratico sceglie sotto i portici del vecchio ospedale, ora sede universitaria centrale, i pazienti di proprio interesse ai fini didattico-assistenziali, lasciando tutti gli altri malati al responsabile ospedaliero, il quale, spesso, riesce ad acquisire un’esperienza pratica notevolissima, proprio perché il cattedratico opera solo ed esclusivamente con finalità didattiche. La stessa ricerca di «casi particolari», tipica del mondo universitario, conduce ad una mentalità diffusa, non senza una qualche ragione, secondo la quale il cattedratico «sperimenta», spesso con esiti infausti, nuove tecniche operatorie, a differenza dell’ospedaliero il quale opera secondo consolidati principi chirurgici. A volte è lo stesso ospedaliero che di sua iniziativa, ed anche per ingraziarsi il cattedratico, «propone» all’universitario «casi interessanti», suscitando a volte nel malato una qualche opposizione perché il paziente intuisce un maggior rischio operatorio. Pur tuttavia, il fenomeno di sudditanza è di un certo rilievo, perché il cattedratico dispone di 4 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 insegnamenti accademici da attribuire, ha un peso notevolissimo nei concorsi e basta essergli invisi per arrischiare il posto di lavoro. Antonio Scarpa (1752-1832) studia Medicina a Padova e conosce due grandi maestri che incidono profondamente sulla sua preparazione e sulla sua carriera: Giovanni Battista Morgagni e Girolamo Vandelli, rispettivamente lettori di Anatomia e di Chirurgia. Giovanissimo, viene chiamato prima a Modena e poi, grazie alla protezione del chirurgo militare Giovanni Alessandro Brambilla, a Pavia sulla cattedra di Anatomia. Personaggio grandissimo, lavoratore instancabile ed osservatore finissimo, Scarpa si rivela uno dei più straordinari anatomici della storia della medicina; autoritario in campo metodologico e dottrinale, come cultore della scienza e della conoscenza dimostra di essere un autentico fuoriclasse. Nei rapporti interpersonali è prepotente, avido, vendicativo; è il più grande anatomico del nostro paese, ma anche colui che ha fatto uso del potere accademico nel modo più cinico, spregiudicato e disumano di tutta la storia dell’università. Numerosissime le scoperte di Scarpa, dalla struttura della finestra rotonda dell’ orecchio al timpano secondario, dal ganglio vestibolare ai nervi del cuore, dal nervo olfattivo al nervo naso-palatino, oltre ad una serie di dissezioni anatomiche innovative. Va sottolineato che Scarpa «era solito lavare abbondantemente le ferite con alcool acidificato con qualche goccia di acido muriatico per limitare l’incidenza dei processi suppurativi», intuizione che ne fa uno degli antesignani dell’antisepsi. La successione di Scarpa è complicata e richiede alcuni anni di movimentati interregni prima di giungere alla figura di Luigi Porta. In questo periodo un chirurgo, spesso dimenticato ed incaricato della cattedra di Clinica Chirurgica, è Carlo Cairoli (1777-1849), grande clinico e abilissimo operatore oltre che fervente patriota; antiaustriaco viscerale, è il padre dei fratelli Cairoli dei quali iI primo, Benedetto, diviene Presidente del Consiglio, mentre gli altri, Ernesto, Enrico, Giovanni e Luigi, lottano eroicamente e si sacrificano per la patria. Luigi Porta (1800-1875) sale in cattedra giovanissimo e vi rimane per ben 43 anni, fino alla scomparsa. Clinico geniale ed operatore ardito, di Porta viene conservata una ricchissima raccolta di preparati anatomici, realizzati con un raffinato metodo sperimentale rigorosamente scientifico; studia in particolare lo sviluppo di circoli collaterali da legatura vascolare, elaborando una serie di considerazioni di fisiopatologia chirurgica, disciplina della quale Porta può essere considerato fondatore. Porta si occupa intensamente di «litotrizia», ideando una specie di tenaglia a trapano per le «pietre voluminose in vescica». Realizza il primo intervento di enucleazione dello struma tiroideo, descrivendo in ogni particolare l’operazione che «meriterebbe di portare il suo nome» e la cui paternità viene invece attribuita ad Emil Kocher. Magistrale l’intuizione di quella che oggi indichiamo come malattia postoperatoria di Renè Leriche; Porta descrive, documenta ed interpreta la natura del complesso di modificazioni che intervengono nel decorso postoperatorio delle affezioni chirurgiche. Anche la successione di Porta è travagliata. Dapprima l’incarico di Clinica Chirurgica viene affidato ad Angelo Scarenzio (1831-1904), fondatore della Chirurgia Plastica e della Clinica Dermatologica; l’anno successivo l’incarico passa ad Edoardo Bassini (1844-1924), primo assistente del Porta ed indicato ufficialmente come suo successore. Da giovane Bassini, combattente a Villa Glori contro l’esercito papalino, riceve un’archibugiata in addome che gli procura una fistola stercoracea; guarisce dopo un lunghissimo ricovero nella Clinica Chirurgica diretta da Porta. Bassini, pavese di nascita e di scuola, approfondisce gli studi anatomici di Scarpa sulla regione inguinale e crurale; questo studio lo conduce ad eseguire a Padova, nel 1884, il suo «rivoluzionario» intervento per l’ernia, nella convinzione che «l’ernia sia una malattia meccanica per errore di ruolo», e che si debba puntare al ripristino della situazione anatomica. Viene definita «un’operazione d’arte che, nel ricopiare la natura, 5 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 la perfeziona». Bassini e ricordato in tutto il mondo per l’ernia, ma esegue un numero impressionante di interventi chirurgici che dovrebbero portare il suo nome: la laparotomia semplice nella peritonite tubercolare (corrisponde alla moderna laparostomia), la derivazione colecisto-duodenale, la puntura sovrapubica nella ritenzione urinaria, l’amputazione interscapolo-toracica, la resezione ileo-cecale, la nefropessia, l’ileo-colostomia. Il concorso per la successione di Porta viene vinto da Enrico Bottini (1835-1903), anch’egli pavese di nascita e di scuola, di dieci anni meno giovane di Bassini ed insegnante di Clinica Chirurgica per venticinque anni. Oltre che formidabile chirurgo, Bottini si cimenta in «ogni branca della chirurgia come in ogni regione del corpo umano»; è l’antesignano di quel rigoroso metodo chirurgico che un ruolo tanto importante gioca sui risultati operatori. Bottini è il vero padre dell’antisepsi. Fin dal 1863 utilizza l’acido fenico per combattere la suppurazione delle ferite e lo usa su ben 600 malati; ne comprende anche gli effetti irritanti e, dopo una serie di ricerche, sostituisce l’acido fenico con il sulfafenato di zinco. Bottini pubblica le conclusioni della sua vastissima esperienza sugli Annali Universali di Medicina nel 1866. Lister fa uso dell’acido fenico nel 1865 e ne abbandona le soluzioni per la loro causticità solo nel 1870; pubblica le sue esperienze «assai meno chiare e scientifiche di quelle del Bottini» oltre che molto meno numerose, su Lancet nel 1877. Due lapidi, una a Novara e una a Pavia, ricordano la scoperta di Bottini e ne rivendicano la priorità; non esiste nessuna buona ragione per sottrargli un onore legittimamente guadagnato sul campo. Fra le molte pubblicazioni di Bottini una in particolare merita di essere ricordata, il libro «La chirurgia del collo». Si tratta di un’opera fondamentale nella quale, continuando l’esperienza di Porta, Bottini detta le regole e le tecniche per affrontare anche le più ardite operazioni chirurgiche sul collo; Kocher, molti anni dopo, riceve iI premio Nobel per la chirurgia della tiroide, ma Bottini ne era ben più meritevole e molto tempo prima. Chirurgo audace fino alla temerarietà, Bottini reseca un tratto di vena cava superiore per un linfosarcoma del collo ed esegue per primo in Italia la laringectomia totale, l’isterectomia per via vaginale, la resezione del mascellare superiore e dei condili mandibolari; il principio ispiratore è sempre quello di «tentar nuove vie e conquistar nuove terre». Nel 1883 Bottini, con Ferdinando Palasciano e Pietro Loreta, fonda la Società Italiana di Chirurgia, la pia antica e prestigiosa Società che riunisce i chirurghi del nostro paese. Il fondatore della moderna Scuola Chirurgica di Pavia è Iginio Tansini (1855-1942), successore di Bottini; le sue capacità chirurgiche, i suoi interventi innovativi e le sue intuizioni sulla chirurgia del futuro, coincidono con la affermazione dell’anestesia e dei primi supporti terapeutici della chirurgia, anche se, a quel tempo, tutto o quasi tutto era affidato dell’operatore. Tansini nel 1887, per primo in Italia, realizza la resezione gastrica per cancro con sopravvivenza del paziente e nel 1890 realizza la prima epatectomia sinistra per una cisti da echinococco, ricorrendo alla esteriorizzazione della trancia epatica con riposizione successiva del fegato in cavità addorninale. Un alto intervento straordinario effettuato da Tansini è la prima splenectomia con omentopessia sec. Talma per un morbo di Banti con cirrosi epatica ed enorme ascite; successivamente sperimenta sul cadavere e sul cane l’anastomosi porto-cavale termino-laterale. Tansini allarga la sua vasta esperienza chirurgica ad interventi mai fino ad allora eseguiti: l’autoplastica con il muscolo grande dorsale dopo mastectomia allargata, l’esofagizzazione dello stomaco per la deformità gastrica a clessidra, la torcipressura vascolare in corso di nefrectomia, l’ipertrofia prostatica mediante galvanocaustica secondo la tecnica messa a punto da Bottini. Numerosi altri personaggi andrebbero ricordati per aver inciso in modo significativo sull’evoluzione della chirurgia, dell’assistenza e della didattica: andrebbero per esempio sottolineati i meriti e il valore di Bartolomeo Signoroni, di Angelo Mazzucchelli, di Giu- 6 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 seppe Moscatello, di Francesco Purpura, di Gaetano Fichera, di Giovanni Perez, di Fedele Fedeli, molti dei quali sono andati a ricoprire prestigiose cattedre in altre sedi universitarie. La successione di Tansini segna una svolta importante nella storia della Scuola perché da essa prendono il via due «filoni» accademici; non si tratta di una doppia scuola perché Giovanni Morone (1880-1957), successore naturale di Tansini, e Giuseppe Salvatore Donati (1902-1982) hanno uno stesso maestro, Tansini appunto, perché Donati diviene prima assistente e poi aiuto di Morone e perché Morone contribuisce all’ascesa alla cattedra di Donati. Morone esegue, tra i primi in Italia, la decorticazione polmonare e la toracoplastica per il trattamento degli empiemi, pratica l’intervento sul nervo frenico per la cura della tubercolosi polmonare, affronta i problemi della chirurgia vascolare eseguendo le prime anastomosi dei grossi vasi; continua la tradizione della Scuola Chirurgica di Pavia occupandosi della patologia del collo ed in particolare della tiroide, «contemperando, con molta saggezza, l’ardimento con la prudenza nel rispetto di una rigorosa metodologia». La disciplina e il rigore intellettuale di Morone, lo conducono ad elaborare il concetto di «errore logico» per esprimere, con questo termine, la validità ed il significato di un processo diagnostico conforme alla logica rispetto ad un ragionamento senza logica, allorquando la diagnosi clinica non corrisponda alla diagnosi chirurgica. Morone è uno studioso del metodo, caratterizzato da una rigorosissima procedura di indagine clinica, «dalla quale il medico non dovrebbe mai trasgredire». L’episodio che modifica la struttura monolitica della Scuola, è una chiamata «esterna»; dopo non pochi illustri chirurghi «in transito accademico», viene chiamato prima alla Cattedra di Patologia Chirurgica e poi a quella di Clinica Chirurgica Francesco Paolo Tinozzi (1894-1973), napoletano di famiglia abruzzese, allievo di Giovanni Pascale, incaricato di Patologia Chirurgica prima a Napoli e poi a Bologna. L’inserimento accademico «esterno», fenomeno a volte contestato ma sempre apportatore di nuovi stimoli e di nuove esperienze, conduce, anche per la profonda differenza di temperamento fra i due personaggi, Tinozzi e Donati, al determinarsi di due gruppi di lavoro, fra loro diversi per interessi, vocazione e spirito chirurgico; a tutt’oggi, accanto alla chirurgia generale, questi due gruppi seguono percorsi ed indirizzi di lavoro fra loro differenti. Oggigiorno esiste un autentico «plotone» di chirurghi formatisi alla Scuola Chirurgica di Pavia; essi hanno lavorato e lavorano in molti ospedali italiani con un elevato numero di allievi e, ormai, di allievi degli allievi. Una ventina di Professori Universitari e quasi un centinaio di Primari Ospedalieri hanno diretto e dirigono strutture assistenziali di prim’ordine, facendo onore alla storia chirurgica del nostro paese. La vecchia polemica tra universitari ed ospedalieri non ha più ragione di essere, perché è naturale che le grandi scuole chirurgiche comprendano allievi di ruoli differenti; il patrimonio che ricevono è comune e comune è il patrimonio che trasmettono agli allievi, certo affinato ed improntato dalle esperienze personali. La chirurgia è una disciplina pratico-applicativa ed è fisiologico che l’enzima che la sostiene sia il confronto permanente fra le esperienze personali, non certo lo scontro su polemiche banali o sui momenti tormentati di una Scuola; la forza e l’eredità di una Scuola non sono le carriere che, con motivazioni diverse, intraprendono gli allievi, ma sono le esperienze e le novità che gli allievi hanno saputo e sanno portare avanti. L’eredità di una scuola è verificabile giorno dopo giorno, osservando, con attenzione, le metodologie, le tecniche e l’impostazione generale del nostro fare chirurgico, ma anche le gestualità, i rituali e le usanze, a ricordo di un insegnamento che, anche volendo, non possiamo e non potremo mai cancellare. Negli anni ‘80 vengono letteralmente sovvertite le due grandi strade maestre dell’inse- 7 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 gnamento chirurgico, la Clinica e la Patologia Chirurgica, dando luogo ad una serie di importanti trasformazioni. Il ridimensionamento delle grandi cliniche, l’aumento del numero dei reparti, lo sdoppiamento degli insegnamenti, la nascita delle divisioni specialistiche, le leggi del Sistema Sanitario Nazionale, l’avvento della tabella XVIII e delle sue varianti, la nascita per «gemmazione» prima della Seconda Facoltà di Medicina e poi dell’Universita dell’Insubria – Varese, il convenzionamento con strutture assistenziali accreditate, il formarsi dei Dipartimenti Universitari ed Ospedalieri, sono soltanto alcuni dei fenomeni che allargano gli orizzonti della Scuola, ma che, allo stesso tempo, tendono a far disperdere e dimenticare le molte radici comuni e le non poche identità di Scuola. 8 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 IL TRATTAMENTO SHORT TERM CON CICLOSPORINA ASSOCIATO AL COTRAPIANTO DI SPLENOCITI PROLUNGA LA SOPRAVVIVENZA D’ORGANO NEL TRAPIANTO RENALE SPERIMENTALE M. Maestri, A. Gaspari, L. Cansolino, P. Dionigi Sezione di Chirurgia Generale Epato-Pancreatica Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo Università degli Studi di Pavia Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo di Pavia INTRODUZIONE Nonostante i progressi in campo farmacologico, gli immunosoppressori di nuova generazione, sebbene riescano a controllare efficacemente gli episodi di rigetto acuto, non sono in grado di promuovere un vero e proprio stato di tolleranza immunologica permanente. Il mantenimento a vita della terapia immunosoppressiva rimane a tutt’oggi una scelta obbligata ed espone i pazienti al rischio di infezioni e neoplasie (1). L’induzione di tolleranza donatore-specifica permetterebbe, invece, l’accettazione a lungo termine del graft e nel contempo manterrebbe inalterata la capacità di risposta immune agli antigeni non-self (2). Un fattore decisivo nel processo di accomodazione al graft è rappresentato dal ruolo delle cellule presentanti gli antigeni (APC), fondamentale all’inizio della risposta immune primaria. Sembra ormai assodato che le cellule dendritiche (DC) siano le APC che maggiormente sono coinvolte nelle risposte immuni primarie, presentando gli antigeni sia in forma immunogena che tollerogena in dipendenza del regime di inoculazione utilizzato (3, 4). La modulazione del ricevente mediante donor-specific cell transfusion (DSCT) potrebbe, perciò, rappresentare una strategia efficace per lo sviluppo di tolleranza al graft. In tale direzione sono stati proposti diversi protocolli sperimentali che prevedono l’infusione nel ricevente di cellule immunocompetenti del donatore, il cui limite principale è risultato, però, essere la quasi esclusiva applicabilità a modelli su roditori (3, 5, 6). Non sono presenti in Letteratura lavori scientifici recenti che riportino, in animali di media taglia, il trapianto di milza come trattamento immunomodulante combinato al trapianto di altri organi (7). Nonostante la milza sia da tempo considerata un organo potenzialmente tollerogeno, infatti, le potenzialità del cotrapianto in modelli diversi dal roditore non sono ancora state indagate a fondo. Fu Carrel per primo, nel 1910, a testare sperimentalmente l’autotrapianto di milza (8), ma solo nel 1953 Simonsen sottolineò il contributo della milza nell’induzione di uno stato di equilibrio dinamico fra reazioni graft versus host e host versus graft (9). Si deve, invece, a Jacobsen nel 1949 il presupposto che il tessuto splenico, fornisca più che un contributo alla ricostituzione dell’emopoiesi dopo total body irradiation (10). Sulla base di queste premesse, è stata valutata, in un modello sperimentale di trapianto renale nel suino, l’efficacia del cotrapianto di milza o della somministrazione di cellule 9 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 spleniche del donatore (DST) MATERIALI E METODI GRUPPI DI STUDIO Nel corso di questo studio 86 suini (43 trapianti), razza Landrace/Large-White (peso 29±1,8 kg) sono stati ripartiti per randomizzazione in quattro gruppi di studio e sottoposti ad allotrapianto di rene con o senza contemporanea somministrazione di antigeni del donatore, come descritto di seguito e dettagliato in tabella I • gruppo 1 o di controllo (n=7); allotrapianto di rene senza trattamento immunomodulante postoperatorio; • gruppo 2 (n=9); allotrapianto di rene ed immunomodulazione mediante infusione portale di 3x108 splenociti dello stesso donatore (DST) per Kg di peso corporeo; • gruppo 3 (n=14): allotrapianto di rene con trattamento immunosoppressivo (ciclosporina A) per 12 gg • gruppo 4 (n=13); allotrapianto di rene, immunomodulazione mediante infusione portale di 3x108 splenociti dello stesso donatore (DST) per Kg di peso corporeo e trattamento immunosoppressivo (ciclosporina A) per 12 gg. Nel periodo di osservazione postoperatoria, tutti gli animali utilizzati per questo studio sono stati stabulati in condizioni standard di ambiente e clima, con libero accesso a cibo standard per suini ed acqua. Gli animali trapiantati sono stati sottoposti quotidianamente a prelievo venoso. Quali indici della funzionalità renale sono state valutate le concentrazioni plasmatiche di creatinina ed azoto ureico fino al momento del loro sacrificio, posto in 60a giornata postoperatoria (gpo) o, in ogni caso, quando le condizioni generali dell’animale risultavano gravemente compromesse. Gli animali al termine del periodo di osservazione sono stati sacrificati con una dose letale di anestetico. PROCEDURA CHIRURGICA Preparazione del donatore Rene sinistro e milza sono stati prelevati da animali donatori sacrificati al termine della procedura chirurgica. Dopo laparotomia xifo-ombelico-pubica sono stati isolati gli elementi dell’ilo renale di sinistra e dell’uretere. Il prelievo renale è stato eseguito includendo nei capi vascolari un patch ampio di aorta e di vena cava. Ricevente Il trapianto di rene nei riceventi è stato eseguito con tecnica standard intraperitoneale, confezionando le anastomosi vescolari su aorta e vena cava inferiore. I reni nativi del ricevente sono stati espiantati al termine della procedura Preparazione ed infusione degli splenociti del donatore Gli animali dei gruppi 3 e 4, hanno ricevuto per via portale 3x108 splenociti del donatore per kg di peso corporeo subito dopo la rivascolarizzazione del rene trapiantato. Gli splenociti sono stato preparati, in condizioni di sterilità, per omogeneizzazione della milza del donatore, raccolti mediante filtrazione su rete metallica e risospesi in rapporto di volume 1:1 con soluzione fisiologica di NaCl 0,9% addizionata di eparina sodica. Per la separazione delle cellule mononucleate, fra le quali le cellule dendritiche, sono stati effettuati passaggi di centrifugazione secondo gradiente di densità su Ficoll 1077. Il pellet cellulare è stato riso10 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 speso in soluzione fisiologica salina ed è stata effettuata la conta cellulare in microscopia luce valutando la vitalità delle cellule per esclusione vitale con Tripan Blu. Monitoraggio del rigetto I preparati sperimentali sono stati valutati giornalmente e la funzione renale è stata controllata misurando le concentrazioni ematiche di azoto e creatinina. L’end point dello studio è stato fissato a 90 giorni dall’intervento. È stata eseguita l’autopsia di tutti i preparati previa esclusione macroscopica di cause tecniche di fallimento della procedura. Analisi istologica Al momento dell’esame autoptico tutti gli animali utilizzati per questo studio sono stati sottoposti a prelievi bioptici del rene. Le biopsie sono state fissate in formalina tamponata al 10% ed incluse in paraffina. Le sezioni di tessuto ottenute, colorate con ematossilina-eosina, sono state osservate in microscopia luce a diverso ingrandimento (10x, 25x e 40x) per valutare il grading di rigetto renale e per effettuare un’analisi dell’infiltrato cellulare presente. Analisi statistica Per l’analisi statistica dei parametri biochimici considerati si è utilizzato il metodo dell’analisi della varianza a due criteri di classificazione (non-parametric ANOVA). Sono state considerate significative differenze di p<0.05. Per quanto riguarda l’analisi della sopravvivenza è stato utilizzato il metodo di Kaplan-Meier per il confronto globale fra gruppi ed il Log-Rank test per il confronto diretto fra singoli gruppi. In entrambi i casi sono state considerate significative differenze di p<0.05. Tabella I - Sopravvivenze, trattamento e cause di morte. Gruppo 1 Gruppo 3 Gruppo 2 Gruppo 4 N 7 9 14 13 Procedura Tx rene Tx rene Tx rene Tx rene Immunosoppressione - - CyA 9/mg/Kg; i.v. 12 gg. Immunomodulatione - DST 3x108 cell/kg; Infusione portale - Sopravvivenza (giorni) 5, 8, 8, 8, 8,9,10 8, 8, 9, 11, 11, 29, 60, 60, 60 20, 23, 27, 27, 30, 33, 42, 51, 90, 90, 90, 90, 90, 90 CyA 9/mg/Kg; i.v. 12 gg DST 3x108 cells/kg; Infusione portale 60, 60, 90, 90, 90, 90, 90, 90, 90, 90, 90, 90, 90 Mediana sopravvivenza 8 11 46,5 90 7/7: rigetto 3/9: rigetto 2/9: rigetto e GvHD 1/9: polmonite con insuff renale 3/9: sacrificio per insuff. renale progressiva - 6/14: rigetto - 2/14: sacrificio per insuff renale terminale - 6/14: sacrificio all’ endpoint 2/13: sacrificio per valutazione istologica 11/13: sacrificio all’ endpoint Causa di morte 11 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 RISULTATI Le sopravvivenze sono riportate in tabella I. Le sopravvivenze sono evidenziate in figura 1, dove le significatività fra gruppi sono state identificate utilizzando il Log-Rank test (tabella II). La figura 2 descrive la funzionalità renale posttrapianto osservata nel corso dello studio. I campioni istologici valutati per l’incidenza di rigetto nei gruppi di studio sono riportati per campionatura nella figura 3. Cumulative Proportion Surviving (Kaplan-Meier) 1,0 0,9 Cumulative Proportion Surviving 0,8 p<0.01 (multiple samples survival analysis) 0,7 0,6 0,5 0,4 0,3 0,2 0,1 0,0 -0,1 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 POD group 1 group 2 group 3 group 4 Figura 1 - Le curve di Kaplan-Meier dimostrano un differenza significativa fra I gruppi (p<0.01). Il carico di splenociti induce un prolungamento della sopravvivenza nel gruppo 2, mentre l’associazione con ciclosporina short-term migliora ulteriormente i risultati (gruppo 4) con effetto sinergico. Tabella II - Log-Rank tests dell’analisi di sopravvivenza. Vs. Gruppo 1 Gruppo 2 Gruppo 3 Gruppo 4 Gruppo 1 - p=0,01702 p=0,00302 p=0,00015 Gruppo 2 p=0,01702 - p=0,03774 p=0,00006 Gruppo 3 p=0,00302 p=0,03774 - p=0,01436 Gruppo 4 p=0,00015 p=0,00006 p=0,01436 - 12 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Figura 2 - Creatinina e azotemia nei gruppi di studio DISCUSSIONE E CONCLUSIONI Precedenti studi riportati in Letteratura hanno elucidato il possibile ruolo della milza nei naturali processi di immunomodulazione dell’organismo. In alcuni casi, tali studi hanno evidenziato come questo organo giochi un ruolo non secondario nell’emopoiesi e nei processi di difesa dalle infezioni (7). 13 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Figura 3 - a) gruppo 1: rigetto acuto; b) gruppo 2: quadro di rigetto cronico con moderata fibrosi interstiziale; c) gruppo 3: infiltrato mononucleare pervasale e peritubulare; d): gruppo 4: iperplasia vasale con infiltrato interstiziale di grado lieve. Altre ricerche hanno sviluppato il tema dell’induzione di tolleranza con particolare riferimento al chimerismo, inteso come l’effetto dell’infusione di cellule midollari del donatore, contemporaneamente o nelle vicinanze temporali del trapianto, ottenendo prove di possibile modulazione dell’alloreattività donatore-specifica del ricevente (3, 6, 11). Ciò sottolinea come l’insorgenza di rigetto dopo trapianto d’organo possa essere rallentata o fermata dalla manipolazione del patrimonio immunogenetico e dei recettori esposti dalle cellule immunocompetenti del donatore e del ricevente (3, 8-9). Un effetto tollerogeno del trapianto di milza o dell’infusione di splenociti è stato riscontrato in diversi modelli sperimentali animali, in particolare nei roditori. L’induzione di uno stato di tolleranza graft-specifica è stato descritto sia nel caso di singolo trapianto splenico che nel caso di trapianto combinato di milza e di un secondo organo donatore-correlato (7, 12). Questo stato di accettazione del graft è stato associato allo sviluppo di cellule regolatorie (3, 13). Un organo trapiantato potrebbe, perciò, essere protetto dal rigetto mediante somministrazione di splenociti derivanti dalla milza di un animale tollerante al graft splenico. Nei mammiferi superiori e nell’uomo, però, non è stato finora possibile dimostrare che la milza trapiantata risultasse tollerogena per se stessa o che migliorasse la sopravvivenza di un secondo organo trapiantato contemporaneamente (7). Occorre ricordare, inoltre, che l’immunosoppressione convenzionale abolisce comple- 14 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 tamente la risposta immunitaria del ricevente e, se da una parte può controllare efficacemente le reazioni di rigetto, dall’altra può prevenire lo sviluppo di tolleranza al graft (1, 5). Oltre a ciò, in caso di trapianto clinico di milza, è stato dimostrato uno stato di chimerismo misto nel ricevente, ma anche la possibile insorgenza di una risposta graft versus host tanto severa da risultare letale per il paziente trapiantato (14, 15). Il nostro studio sperimentale è stato realizzato con lo scopo di studiare l’effetto della presenza di cellule immunocompetenti provenienti dal donatore sull’induzione di tolleranza dopo trapianto renale, valutandone la persistenza dopo sospensione del trattamento immunosoppressivo. Studi precedenti hanno dimostrato che il trapianto di milza con drenaggio per via sistemica induce tolleranza nei roditori ma non in mammiferi superiori ed in particolare nel suino (3, 7). Dai risultati ottenuti nel corso del nostro studio, è emerso che il trapianto splenico con drenaggio portale in associazione al trapianto di rene può prolungare efficacemente la sopravvivenza del rene trapiantato, pur non impedendo l’insorgenza di rigetto cronico. Ciò è stato osservato sia nel caso degli animali del gruppo 2, riceventi del graft combinato spleno-renale, che nel caso degli animali del gruppo 4, trattati con infusione di splenociti al momento del trapianto di rene e protetti per un breve periodo di tempo con un immunosoppressore convenzionale. In entrambi i gruppi è stato osservato un prolungamento della sopravvivenza renale, dovuta al raggiungimento di un equilibrio dinamico fra meccanismi di riconoscimento, accettazione e rigetto del graft. I dati ottenuti suggeriscono che la milza, o meglio, le cellule immunocompetenti che la popolano, siano effettivamente in grado di mediare l’instaurarsi di tolleranza o per lo meno dei meccanismi regolatori di tale processo. L’osservazione dell’andamento dei valori di creatininemia e azotemia nel periodo postoperatorio mostra che il processo di accomodazione evolve nel tempo attraverso l’insorgenza di multipli episodi di rigetto, segno tangibile di una cascata reattiva in atto tra i tessuti del donatore e il sistema immunitario del ricevente. Nel gruppo di controllo il rigetto acuto è nella totalità dei casi evento terminale per la sopravvivenza del graft, in quanto non sono presenti "difese" capaci di bilanciare la reazione anti "danger antigens". Nel gruppo 2 e nel gruppo 4 la presenza delle cellule spleniche induce un equilibrio instabile, evidente nell’andamento dei valori che riflettono episodi di rigetto in animali singoli. Per tutti gli animali che hanno raggiunto sopravvivenze prolungate, l’analisi istologica ha dimostrato un danno renale moderato, dovuto all’insorgenza e progressione del rigetto, inevitabile in assenza di trattamento immunosoppressivo. Non sorprendentemente nel gruppo 4, è frequente la comparsa di reazioni GVH-like, con comparsa di eruzioni cutanee, diarrea importante, astenia e calo ponderale, in presenza di anemia, trombocitopenia e linfocitopenia (dati non pubblicati). Ulteriori studi dovrebbero essere rivolti alla comprensione dei meccanismi in gioco e delle popolazioni cellulari coinvolte 15 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 BIBLIOGRAFIA 1. Billaud EM. Clinical pharmacology of immunosuppressive drugs: year 2000 - time for alternatives. Therapie 2000; 55(1): 177-83. 2. Matzinger P. Graft tolerance: a duel of two signals. Nat Med 1999; 5(6): 616-7. 3. Rossini AA, Greiner DL, Mordes JP. Induction of immunologic tolerance for transplantation. Physiol Rev 1999; 79(1): 99-141. 4. 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Tali strutture sono destinate a svolgere importanti funzioni di tipo immunologico, reticolo-endoteliale ed emopoietico. Con il termine di iposplenismo funzionale si intende una riduzione di tutte le funzioni della milza in presenza di un normale volume splenico. Tra i diversi metodi utilizzati per valutare il grado di funzionalità splenica, la conta in microscopia a contrasto interferenziale della percentuale di pitted red cell, globuli rossi caratterizzati da caratteristiche inclusioni intracitoplasmatiche non rimossi al loro passaggio nella milza, si è rivelata ottimale grazie alla sua maggiore semplicità, elevata sensibilità e riproducibilità nel valutare alterazioni della funzionalità splenica di grado medio.1 Viene considerato come limite superiore della normale funzione splenica un valore di pitted red cell < 4%. Nei pazienti splenectomizzati la percentuale di pitted red cell è notevolmente aumentata rispetto ai soggetti sani. I pazienti sottoposti a splenectomia hanno un rischio notevolmente aumentato di gravi complicanze infettive, causate in particolare da batteri capsulati (Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, Neisseria meningitidis),2 rispetto alla popolazione generale, mentre tale rischio è inferiore nella splenectomia post-traumatica. Infatti, nel caso di splenosi, autotrapianto di tessuto splenico spontaneo da trauma della milza o chirurgico, viene mantenuta una discreta funzionalità splenica, confermata da valori di pitted red cell meno elevati rispetto ai soggetti sottoposti a splenectomia radicale, in grado di fornire una protezione immunologica contro le infezioni. La misurazione delle dimensioni della milza non può, invece, essere considerata un indicatore attendibile della funzionalità splenica. E’ documentato, infatti, come in alcune malattie intestinali (malattia celiaca, malattie infiammatorie croniche intestinali) si possano verificare alterazioni della funzione splenica in relazione al miglioramento o al peggioramento della patologia sottostante, in presenza di normali dimensioni della milza. La malattia celiaca è, a tutt’oggi, ritenuta la più comune causa non chirurgica di iposplenismo3-5 ed è stato suggerito che la presenza di una malattia celiaca asintomatica dovrebbe sempre essere sospettata in pazienti con le caratteristiche dell’iposplenismo idiopatico. Nei pazienti celiaci trattati con dieta priva di glutine, la conta delle pitted red cell ha mostrato una prevalenza di iposplenismo pari al 32%. Il fatto che l’iposplenismo si verifichi 17 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 con maggiore frequenza dopo molti anni di malattia celiaca non trattata supporta l’ipotesi che una durata prolungata di malattia attiva sia correlata con un’aumentata incidenza di ipofunzionalità splenica. La conta delle pitted red cell nel sangue periferico dei pazienti celiaci adulti mostra un significativo miglioramento della funzione splenica dopo dieta priva di glutine e in circa la metà dei soggetti iposplenici i livelli di pitted red cell ritornano alla normalità dopo la dieta, mentre i soggetti con livelli molto alti presentano un miglioramento solo parziale. Questi dati sembrano suggerire che due componenti contribuiscono all’iposplenismo nella malattia celiaca dell’adulto: l’atrofia splenica con perdita irreversibile di tessuto e la compromissione funzionale che può regredire con il trattamento. L’ipofunzione splenica è una condizione che può complicare numerose altre malattie intestinali, tra le quali il morbo di Crohn e la colite ulcerosa. Nonostante i numerosi studi effettuati, esistono tuttora controversie relative alla frequenza ed alle cause dell’ipofunzionalità splenica nelle malattie infiammatorie croniche intestinali.6-8 Tali patologie sono molto eterogenee da un punto di vista eziologico e per questo motivo è improbabile che il deficit di funzionalità della milza sia legato all’eziopatogenesi della malattia di base. Poiché sono tutte caratterizzate dallo sviluppo di lesioni infiammatorie intestinali, è ragionevole supporre che meccanismi immunologici comuni siano responsabili dell’iposplenismo. Numerose evidenze cliniche suggeriscono che l’atrofia/ipofunzione splenica nella malattia celiaca possa rappresentare un marker di prognosi sfavorevole, comportando un aumentato rischio di gravi infezioni da batteri capsulati ed un aumentato rischio di mortalità. Nei pazienti celiaci con deficitaria funzione splenica sono stati descritti, infatti, numerosi casi di infezioni gravi talora fatali e sepsi sostenute da batteri capsulati (Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, Neisseria meningitidis). Anche nei pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali viene rilevato un aumentato rischio di insorgenza di manifestazioni infettive e sepsi causate da batteri capsulati, particolarmente frequenti e gravi nel post-operatorio di interventi chirurgici di colectomia. In pazienti iposplenici affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali è possibile che vi sia un aumentato rischio di perforazioni intestinali, fistole, ascessi, megacolon tossico e coagulazione intravascolare disseminata in conseguenza di sepsi dopo interventi chirurgici. Va sottolineato, infine, come la protezione dei pazienti splenectomizzati dalle complicanze infettive è piuttosto standardizzata e necessita di vaccinazioni anti-pneumococcica ed anti-meningococcica, mentre esistono poche indicazioni riguardo alla gestione clinica dei pazienti iposplenici, esposti comunque al rischio di gravi infezioni fulminanti. Ogniqualvolta essi divengano febbrili o manifestino segni e sintomi di pertinenza infettivologica, occorre quindi tenere in adeguata considerazione questa evenienza. BIBLIOGRAFIA 1. Corazza GR, Bullen AW, Hall R, et al. Simple method of assessing splenic function in coeliac disease. Clin Sci 1981;60:109-13. 2. Styrt B. 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Policlinico San Matteo PREMESSA Le malformazioni dilatative congenite delle vie biliari1 sono rare affezioni a trasmissione ereditaria autosomica recessiva, caratterizzate da dilatazioni cistiche (sacciformi) o cilindriche (fusiformi), uniche o multiple, comunicanti con l’albero biliare. Colpiscono prevalentemente il sesso femminile e la razza asiatica (giapponese). Le malformazioni possono essere uniche o multiple, intra od extraepatiche (più frequenti). La classificazione di Todani,2,3 comprensiva di tutte le malformazioni dilatative biliari sia extra che intraepatiche, ha individuato cinque tipi. I tipi I e IV rappresentano più dell’85% dei casi e coinvolgono costantemente la via biliare principale. Il tipo II è rappresentato dal diverticolo dell’epato-coledoco, il tipo III dal coledococele, il tipo V dalla malattia di Caroli (Fig. 1). Figura 1 - Classificazione delle dilatazioni congenite delle vie biliari intra ed extraepatiche secondo Todani Tipo I: dilatazione della via biliare principale (78%) cistica o sacciforme totale (Ia) cistica o sacciforme segmentaria (Ib) cilindrica o fusiforme totale (Ic) Tipo II: diverticolo della via biliare principale (2%) Tipo III: coledococele (2%) Tipo IV: dilatazioni cistiche multiple (15%) delle vie biliari extra ed intraepatiche (IVa) delle sole vie biliari extraepatiche (IVb) Tipo V: dilatazioni cistiche uniche o multiple delle vie biliari intraepatiche (2%) ( N.B. Il tipo IVa e V corrispondono alla malattia di Caroli). 21 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 MALATTIA DI CAROLI Jacques Caroli nel 1958 osservò e descrisse una “dilatazione congenita delle vie biliari intraepatiche, localizzata in un solo emifegato (più spesso quello sinistro) con possibilità di formazione di calcoli endocistici e di colangiti recidivanti, con assenza di cirrosi epatica e di ipertensione portale, con possibile associazione di ectasia dei tubuli renali o di altre forme di patologia cistica dei reni e/o del pancreas”.4-6 Negli anni successivi7, lo stesso Caroli dovette prendere atto che le forme “pure” di dilatazione cistica delle vie biliari intraepatiche (malattia di Caroli) erano rare (13%). Ad esse spesso si associavano la fibrosi epatica congenita, malattia ereditaria autosomica recessiva (34,7%), e la dilatazione congenita cistica dell’epato-coledoco (21,7%) (sindrome di Caroli). Era, pure, possibile lo sconfinamento delle lesioni cistiche epatiche nell’emifegato controlaterale.1,8 Figura 2 - Tomografia computerizzata. Estasia delle vie biliari intraepatiche con dilatazioni cistiche multiple parenchimali: malattia di Caroli (osservazione personale). Oggi, sappiamo che la malattia di Caroli è una malformazione congenita caratterizzata dalla dilatazione multifocale delle vie biliari intraepatiche distali o segmentarie (tipo V secondo Todani).9 Le zone dilatate formano delle cisti di vario volume, che comunicano con l’albero biliare (Fig. 2 e Fig. 3). La dilatazione multifocale può essere diffusa ed interessare l’insieme dell’albero biliare intraepatico o prevalere su un segmento (tipo I di Guntz, 14%) od un settore (tipo II di Guntz, 43,7%), solitamente a carico del lobo sinistro. Possono essere 22 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 interessati anche il dotto epatico destro o sinistro (tipo III di Guntz, 18,7%) ed il dotto epato-coledoco (tipo IV di Guntz, 23,4% corrispondente al tipo IVa secondo Todani).10 Le cavità cistiche sono rivestite da epitelio cubico o cilindrico e contengono bile o pus o calcoli. Figura 3 - Colangiografia transKehr. Malattia di Caroli: le dilatazioni cistiche multiple epatiche comunicano con le vie biliari intraepatiche (osservazione personale). La sindrome di Caroli non è un’entità unica. In una metà dei casi si associa a fibrosi epatica congenita con ipertensione portale ed a malformazione renale (nefrospongiosi con ectasie tubulari della midollare renale o sindrome di Cacchi-Ricci).8-10 Nell’altra metà dei casi non ha causa genetica e non si associa né a fibrosi epatica congenita nè a malformazione renale. Si associa, però, ad altre malformazioni delle vie biliari, in particolare a cisti del coledoco (tipo IVa secondo Todani). Dal punto di vista eziopatogenetico, tenuto conto che l’embriogenesi1 delle vie biliari extraepatiche avviene separatamente da quello delle vie biliari intraepatiche, è probabile una genesi dualistica delle malformazioni dilatative biliari intra ed extraepatiche. Le prime potrebbero dipendere 1) dalla pressione di secrezione epatica, 2) dall’eccessiva proliferazione 23 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 epiteliale biliare durante la fase cordonale dello sviluppo embrionario, 3) dall’eccessiva proliferazione del connettivo degli spazi portali, 4) da una stimolazione ormonale gonadotropinica dell’epitelio biliare, 5) da fenomeni di ischemia epatica. Le seconde risentirebbero degli influssi di un’anomalia giunzionale coledoco-pancreatica con reflusso di bile e succhi pancreatici.11,12 SINTOMATOLOGIA E DIAGNOSI Il paziente con malattia o sindrome di Caroli può essere asintomatico. La sintomatologia è sostenuta dall’insorgenza di temibili complicanze quali colangiti ricorrenti (44%), sepsi, ascesso epatico, litiasi intraepatica (32,6%) (Fig.. 4) associata a litiasi della via biliare principale (26,8%),12 pancreatite acuta, ipertensione portale (quando è associata fibrosi epatica congenita), cirrosi biliare secondaria, cancerizzazione (colangiocarcinoma),10,13-15 insufficienza renale con nefrospongiosi (6%).9,10 Figura 4 - Colangiografia percutanea transepatica. Litiasi intraepatica e stenosi della via biliare principale in malattia di Caroli (osservazione personale). La diagnosi, di solito, viene fatta nella IV decade di vita per la comparsa di epatomegalia, dolore (85%), febbre (72%), ittero ostruttivo (58,4%). Per la diagnosi 1,12 sono utili l’ecografia, l’eco-endoscopia, la tomografia computerizzata con mezzo di contrasto (tipica la presenza di un’arteria al centro di una cisti), la RMN, l’ERCP con rischio di colangiti ascendenti (cisti comunicanti con l’albero biliare), la PTC, 24 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 la scintigrafia epatica con HIDA (ac. iminodiacetico marcato con 99Tc), la colangio-RM. I tests epatici solitamente sono normali tranne che per l’aumento della fosfatasi alcalina. TERAPIA La terapia medica si fonda sull’impiego di antibiotici per le complicanze infettive. Per la litiasi intraepatica si può ricorrere ai fluidificanti biliari in presenza di calcoli colesterinici. Anche la litotripsia extracorporea16 è una metodica da non trascurare. Le instillazioni endobiliari di metil-tert-butil-etere si sono rivelate eccessivamente tossiche.17 Sicuramente più risolutiva è la terapia chirurgica, che consente di asportare la patologia cistica intraepatica con i calcoli eventualmente associati e di ristabilire un adeguato drenaggio biliare interno.18,19 Le resezioni epatiche (emiepatectomia, lobectomia o segmentectomia) sono indicate nelle forme circoscritte, unilobari o segmentarie.20,21 Nel tipo IVa secondo Todani ad esse viene associata l’exeresi della via biliare principale con un’epatico-digiunoanastomosi alla Roux. Per le complesse forme diffuse, che di solito prevalgono nel lobo sinistro, all’exeresi epatica (fegato sinistro) e della via biliare principale deve essere abbinata la bonifica strumentale delle vie biliari intraepatiche residue (fegato destro) mediante colangioscopia e utilizzo di cateteri di Fogarty, di cestelli di Dormia, di pinze da calcoli e di lavaggi sotto pressione. All’exeresi segue una colangio-digiunoanastomosi centrale alla Roux utilizzando la confluenza dei dotti settoriali dilatati. Con la stessa ansa è possibile associare una seconda anastomosi bilio-digestiva periferica segmentaria (segmento VI), avendo l’accortezza di posizionare un drenaggio transanastomotico, che viene esteriorizzato attraverso la parete addominale.22 Si conserva, così, un accesso postoperatorio ai dotti segmentari dilatati per eventuali ulteriori rimozioni di calcoli residui. Lo stesso risultato è ottenuto eseguendo una colangio-digiunoanastomosi con ansa sottocutanea od una epatico-digiuno-cutaneo-stomia.23,24 Se indicate, possono essere realizzate anche colangio-digiunoanastomosi secondo Soupault-Couinaud25 o secondo Hepp.26 In casi particolari, al drenaggio biliare interno può essere associato anche un drenaggio biliare esterno transepatico secondo Praderi.27 Nei pazienti con varici esofagee può essere prudente far precedere all’exeresi epatica una scleroterapia endoscopica od uno shunt porto-sistemico (spleno-renale centrale o distale). I pazienti con lesioni cistiche intraepatiche diffuse, afflitti da colangiti recidivanti o con ipertensione portale da fibrosi epatica congenita e funzione epatocellulare gravemente compromessa, possono necessitare di un trapianto di fegato.9,19 In tale evenienza, la prognosi è aggravata dalle possibili complicanze intraoperatorie (emorragia) e postoperatorie (sepsi). 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Questo intervento chirurgico è stato documentato dallo stesso ideatore della classificazione chirurgica oggi in uso, Stuart W. Jamieson del Centro di San Diego, California, nel 1993, pubblicando l’esperienza raccolta da 150 casi in un periodo di 29 mesi1. L’IPCTE è senza dubbio una malattia spesso misconosciuta o non diagnosticata. Gli unici dati ottenuti da un significativo campione di popolazione risalgono ad una casistica americana degli anni ’80 e descrivono circa 600.000 nuovi casi/anno di embolia polmonare acuta dei quali lo 0.1 – 0.5 % evolve in IPCTE. Rapportando i dati epidemiologici alla popolazione italiana si ottiene un’incidenza di IPCTE pari a 100 – 500 nuovi casi/anno. Tale previsione rappresenta comunque una sottostima della reale situazione, non considerando tutti i casi di IPCTE secondari ad embolia polmonare asintomatica. Attualmente sono stati eseguiti poco più di 5.000 interventi di EAP in tutto il mondo, il 50 % dei quali praticato presso il Centro di San Diego mentre la restante parte in circa 10 Centri nel mondo che praticano questo tipo di chirurgia routinariamente2. La storia naturale della malattia prevede che, in seguito ad uno o più episodi di embolia polmonare acuta, si assista ad un periodo più o meno duraturo di relativo benessere. Durante tale periodo l’albero vascolare polmonare e le sezioni cardiache destre vanno incontro ad importanti modificazioni anatomiche e funzionali, con ipertrofia parietale vascolare del circolo arterioso polmonare simile alla Sindrome di Eisenmenger e progressiva ipertrofiadilatazione del ventricolo destro. Nella fasi più avanzate si manifesta un quadro di scompenso cardiaco destro e successivamente, causa la compressione del ventricolo sinistro, biventricolare. Generalmente sono riportati in anamnesi episodi di trombosi venosa profonda, spesso sostenuti da difetti coagulativi ed immunologici. I sintomi più frequenti della malattia sono legati allo scompenso cardiaco destro ed all’insufficienza respiratoria: dispnea ingravescente, tosse stizzosa talora con episodi di emoftoe o emottisi, cianosi, episodi sincopali, edemi declivi, epatomegalia da stasi fino ad ascite ed a gravi quadri anasarcatici. Tra i principali fattori di rischio per lo sviluppo di IPCTE rivestono un ruolo significa- 29 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 tivo le malattie infiammatorie croniche, la presenza di anticorpi anticardiolipina, lupus anticoagulant, stati trombofilici e turbe della fibrinolisi congenite o acquisite, il posizionamento di cateteri venosi a permanenza, di cardiostimolatori e di shunt ventricolo-atriali. Per la diagnosi della malattia è indicata l’esecuzione di una serie di esami secondo più livelli di approfondimento. Il tracciato elettrocardiografico a 12 derivazioni, il radiogramma del torace antero-posteriore e l’esplorazione ecocardiografica transtoracica sono definiti di primo livello. Il secondo livello diagnostico comprende la scintigrafia polmonare ventilatoria e perfusoria, il cateterismo cardiaco destro e le prove di funzionalità respiratoria con emogasanalisi. Sulla base dei sospetti originati da tali accertamenti, per la conferma della natura tromboembolica della IP e per la determinazione della classificazione chirurgica, necessaria per stabilire l’indicazione all’intervento chirurgico, si ricorre allo studio angiografico del circolo polmonare e alla tomografia computerizzata del torace ad alta risoluzione3. L’indicazione al trattamento chirurgico della IPCTE viene posta sulla base di dati clinici ed emodinamici mentre la scelta del tipo di chirurgia è guidata dall’anatomia delle lesioni tromboemboliche. Data la storia naturale della malattia, inesorabilmente progressiva, ed i risultati dell’intervento di EAP, strettamente dipendenti dalle condizioni cliniche preoperatorie dei pazienti, l’indicazione chirurgica attualmente viene posta anche in soggetti in classe funzionale NYHA II, previa terapia anticoagulante orale di almeno 3 mesi. I criteri emodinamici sono rappresentati dal calcolo delle resistenze vascolari polmonari (> 300 dyne*sec*cm-5) e dalla pressione arteriosa polmonare media a riposo (≥ 25 mmHg), che diviene la variabile fondamentale quando il calcolo delle resistenze vascolari polmonari risulta falsato da portate cardiache relativamente conservate (≥ 3.5 L/min) o da pressioni di incuneamento polmonare sovrastimate per la presenza di importanti collateralità bronchiali. Le lesioni infine possono essere distinte in prossimali e distali sulla base del coinvolgimento arterioso polmonare. Apposizioni tromboemboliche organizzate che ostruiscono le arterie polmonari principali, i rami lobari o i rami segmentali in presenza di un letto vascolare periferico pervio ed indenne vengono considerate prossimali ed eleggibili ad intervento chirurgico conservativo mediante EAP. Quando invece la IPCTE è sostenuta da microembolizzazioni coinvolgenti esclusivamente i rami subsegmentali l’intervento di EAP è controindicato e l’unica alternativa chirurgica è rappresentata dal trapianto polmonare bilaterale sequenziale. L’unica controindicazione all’intervento di EAP indipendente dall’anatomia delle lesioni è l’associazione con severa pneumopatia parenchimale, che rende necessario ricorrere all’opzione trapiantologica. In totale presso il nostro Centro sono stati eseguiti 155 interventi di EAP. Dall’analisi del numero di pazienti valutati presso il nostro Centro dal Gennaio 2004 al Dicembre 2006 si ottiene un tasso di operabilità della malattia del 75 % circa. Le caratteristiche anagrafiche, emodinamiche, ecocardiografiche, radiologiche RMN e funzionali dei 155 pazienti sottoposti ad intervento di EAP sono riassunte nelle relative tabelle. Tabella I - Caratteristiche anagrafiche. Età (anni) 53 ± 16 (11 – 84) Sesso 84 M : 71 F Classe NYHA 5 II – 65 III – 85 IV Durata NYHA III/IV (mesi) 21 ± 27 O2 terapia 80/155 30 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Tabella II -. Caratteristiche emodinamiche. Pressione arteriosa polmonare media 47 ± 13 (17 – 88) mmHg Indice cardiaco 1.9 ± 0.6 (1.1 – 4.1) L/min/m2 Resistenze vascolari polmonari 1149 ± 535 (191 – 3938) dyne*sec*cm-5 Tabella III - Caratteristiche ecocardiografiche. Diametro telediastolico ventricolo destro 39 ± 8 (20 – 66) mm Frazione di accorciamento ventricolo destro 24 ± 10 (5 – 47) % Diametro vena cava inferiore 22 ± 6 (10 – 38) mm Collassabilità vena cava inferiore Presente 41 % – Assente 59 % Insufficienza tricuspidale moderata – severa 78 % Setto paradosso Presente 92 % – Assente 8 % Diametro telediastolico ventricolo sinistro 41 ± 8 (23 – 56) mm Volume telediastolico ventricolo sinistro 71 ± 31 (14 – 157) ml Tabella IV - Caratteristiche radiologiche RMN. Volume telediastolico ventricolo destro 113 ± 40 (45 – 200) ml Volume telesistolico ventricolo destro 80 ± 33 (28 – 160) ml Frazione eiezione ventricolo destro 33 ± 11 (10 – 57) % Volume telediastolico ventricolo sinistro 88 ± 29 (38 – 156) ml Volume telesistolico ventricolo sinistro 50 ± 21 (20 – 109) ml Frazione eiezione ventricolo sinistro 43 ± 13 (11 – 72) % Tabella V - Caratteristiche funzionali. PaO2 PaCO2 SaO2 Test di Bruce modificato – step Test di Bruce modificato – distanza 65 ± 10 (43 – 97) mmHg 31 ± 7 (24 – 43) mmHg 93 ± 3 (84 – 98) % No (PaO2 < 60 mmHg) 37 %; step < 1 57 %; step ≥ 1 6 % 103 ± 160 (0 – 852) m Test cardiopolmonare – picco No (controindicato) 16 %; Watt ≤ 50 62 %; Watt > 50 22 % Test cardiopolmonare – VO2 picco 9.9 ± 3.6 (3.0 – 29.4) ml/kg/min L’intervento chirurgico viene realizzato tramite un accesso per via sternotomica mediana longitudinale, con utilizzo della circolazione extracorporea mediante cannulazione centrale bicavale – aorta ascendente ed posizionamento di uno scarico sinistro in vena polmonare superiore destra, al fine di garantire un ottimale drenaggio delle cavità cardiache quando il cuore fibrilla causa l’ipotermia. Solitamente l’aorta ascendente non viene clampata nè viene utilizzata soluzione cardioplegica lasciando la preservazione cardiaca 31 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 all’ipotermia stessa. Durante il tempo centrale dell’intervento si raggiungono infatti temperature di circa 18° – 20° C, che consentono di realizzare in sicurezza successivi periodi di arresto di circolo fondamentali per mantenere il campo operatorio esangue, ciascuno < 20 minuti intervallati ognuno da periodi di riperfusione ≥ 10 minuti, con continuo monitoraggio cerebrale della NIRS (Near InfraRed Spectroscopy). Mediante un dissettore – aspiratore sottile atraumatico si estende il piano di clivaggio, precedentemente individuato nello spessore della tonaca media di ciascuna arteria polmonare principale, verso la periferia per tutta la lunghezza di ciascuna diramazione vascolare, con l’obiettivo di realizzare una endoarteriectomia radicale fino ai vasi subsegmentali, requisito fondamentale per ottenere un miglioramento emodinamico significativo. I risultati della casistica del nostro Centro in termini di sopravvivenza sono eccellenti, considerate le critiche condizioni pre-operatorie dei pazienti, essendo 88 % e 84 % ad 1 e 3 anni rispettivamente e rimanendo invariata a 5, 7 e 10 anni. Analizzando separatamente le sopravvivenze dopo EAP dei pazienti divisi per classe funzionale NYHA pre-operatoria si osserva come le condizioni cliniche pre-operatorie influenzino drasticamente il successo della procedura, come mostrato dalla tabella 6. Tabella VI - Mortalità operatoria. Mortalità globale 16/155 (10 %) NYHA II 0/5 (0 %) NYHA III 2/65 (3 %) NYHA IV 14/85 (17 %) Il sanguinamento dalle vie aeree è la principale complicanza peri-operatoria legata all’intervento di EAP, rappresentando il 43 % delle cause di decesso, seguito da insufficienza cardiaca destra e sepsi, ciascuna al 19 % e da complicanze gastrointestinali al 13 %. La ricerca e l’eventuale embolizzazione di rami arteriosi anomali a partenza da arterie coronarie, intercostali, mammarie e freniche tributari di circoli anomali bronchiali che alimentano flussi anastomotici collaterali con il circolo polmonare riveste quindi un ruolo importante nel controllo dei fattori di rischio modificabili. L’edema polmonare da riperfusione complica il 15 % circa degli interventi di EAP, determinando un prolungamento della degenza ospedaliera, e soltanto in un caso è stato fatale, responsabile quindi del 6 % circa delle cause di decesso. I risultati a medio e lungo termine, ottenuti grazie ad un attivo programma di follow-up dei pazienti operati realizzato presso il nostro Centro, mostrano su tutti i fronti un drastico recupero dell’integrità morfo-funzionale. L’adesione dei pazienti è ottima, intorno al 93 %, e per i restanti pazienti sono state recuperate informazioni telefonicamente. Dalla dimissione dall’ospedale i pazienti hanno mostrato una retrocessione significativa e stabile nel tempo a classi funzionali NYHA inferiori. Il recupero emodinamico è invece evidente nel 90 % dei pazienti immediatamente allo svezzamento dalla circolazione extracorporea in sala operatoria e rimane stabile alle successive misurazioni di follow-up, ripristinando un circolo polmonare normoteso4. Contestualmente al miglioramento emodinamico si assiste ad un altrettanto immediato rimodellamento morfologico della cardiomeccanica, con regressione dell’insufficienza valvolare tricuspidale e dei segni di sovraccarico ventricolare destro e di compressione ventricolare sinistra. Associando all’esplorazione ecocardiografica transtoracica lo studio radiologico RMN, il recupero della funzionalità del ventricolo destro si è di- 32 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 mostrato progressivo nel tempo, rivelando un processo di rimodellamento ventricolare inverso secondario all’intervento di EAP5. Dal punto di vista funzionale nella maggioranza dei pazienti si è assistito ad un recupero di normali valori emogasanalitici già a 3 mesi dall’intervento. La tollerabilità all’esercizio fisico invece subisce un recupero più graduale nel tempo6. Circa il 10 % dei pazienti sottoposti ad intervento di EAP non ha mostrato differenze statisticamente significative al confronto con la condizione pre-operatoria o ha mantenuto una condizione di IP nonostante l’intervento. Il 5 % circa ha mostrato nel tempo una recidiva di IP. Verosimilmente la causa di questi insuccessi è rappresentata dall’inesorabile avanzamento della malattia dei piccoli vasi che insorge nei distretti vascolari perfusi dall’iperafflusso ematico secondario all’ostruzione cronica dei segmenti colpiti dalla malattia, similmente ai processi di rimodellamento vascolare tipici della Sindrome di Eisenmenger. Anche per questo motivo quindi l’indicazione chirurgica andrebbe estesa ai soggetti in classe funzionale NYHA II, riducendo il tempo che separa la diagnosi della malattia dall’intervento chirurgico. Nella maggior parte dei pazienti comunque si assiste ad un drammatico ed immediato miglioramento emodinamico, associato al documentato completo recupero funzionale cardiaco, e ad un recupero funzionale costante e progressivo nel tempo. Il raffronto tra la severa storia naturale della malattia, il relativamente basso tasso di mortalità legato all’intervento di EAP ed i brillanti risultati mostrati dal follow-up a medio e lungo termine fanno di questa procedura chirurgica conservativa il trattamento di scelta per la maggior parte dei pazienti affetti da IPCTE. BIBLIOGRAFIA 1. Jamieson SW et al: Experiance and results with 150 pulmonary thromboendarterectomy operations over a 29-month period, J Thorac Cardiovasc Surg 1993;106:116-27. 2. Fedullo PF: Chronic thromboembolic pulmonary hypertension, N Engl J Med 2001;345(20):1465-72. 3. D’Armini AM et al: Terapia chirurgica dell’ipertensione polmonare cronica tromboembolica mediante endoarteriectomia polmonare, G Ital Cardiol 2006;7(7):45463. 4. D’Armini AM et al: Pulmonary thromboendarterectomy in patients with chronic thromboembolic pulmonary hypertension: hemodynamic characteristics and changes, Eur J Cardiothorac Surg 2000;18(6):696-701. 5. D’Armini AM et al: Reverse right ventricular remodeling after pulmonary endarterectomy, J Thorac Cardiovasc Surg 2007;133(1):162-8. 6. Zoia MC et al: Mid term effects of pulmonary thromboendarterectomy on clinical and cardiopulmonary function status, Thorax 2002;57(7):608-12. 33 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 PERSISTENZA DI ELEVATE RESISTENZE VASCOLARI POLMONARI DOPO INTERVENTO DI ENDOARTERECTOMIA POLMONARE: CONSEGUENZE SULLA GESTIONE POSTOPERATORIA E SULL’OUTCOME Francesco Mojoli e Antonio Braschi Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo Sezione di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica Università degli Studi – Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Pavia ABSTRACT Premessa. La mortalità precoce dopo intervento di Endoarterectomia Polmonare (PEA) nei pazienti con ipertensione polmonare cronica tromboembolica (CTEPH) è considerata una conseguenza, nella maggior parte dei casi, della persistenza di elevate resistenze vascolari polmonari (PVR) e dello sviluppo di insufficienza cardiaca destra postoperatoria. L’estensione dell’indicazione chirurgica anche ai pazienti nei quali all’ostruzione vascolare prossimale si associa una componente periferica, e un variabile grado di vasocostrizione polmonare postoperatoria rendono il riscontro di elevate PVR residue non infrequente nei primi giorni postoperatori. Scopo di questo studio è identificare i fattori predisponenti e le conseguenze sulla gestione post-operatoria di elevate PVR residue dopo PEA. Metodi. Ottantanove pazienti ammessi consecutivamente nel nostro reparto di Terapia Intensiva dopo intervento di PEA sono stati divisi in un gruppo di studio caratterizzato da elevate PVR residue ed un gruppo di controllo, a seconda che le PVR postoperatorie fossero rispettivamente > o ≤ 500 dyne*s*cm-5. Risultati. 24 pazienti (28 %) presentavano PVR postoperatorie maggiori di 500 dyne*s*cm-5. Dodici di questi pazienti avevano elevate PVR residue anche alla dimissione. La presenza di elevate PVR residue ha determinato la necessità di un trattamento postoperatorio più intensivo e prolungato. Tra le complicanze, l’edema polmonare da riperfusione, il fallimento dell’estubazione e le polmoniti sono risultate più frequenti nel gruppo di studio. Non è stata invece osservata nessuna differenza nel tasso di mortalità precoce tra i due gruppi ( 4.2 % vs 6.5 %). Conclusioni. Nonostante la condizione “elevate PVR residue” dopo PEA abbia avuto un netto impatto sulla gestione postoperatoria e sulle complicanze, nella nostra serie di pazienti non ha influenzato la mortalità postoperatoria precoce. Una ridotta mortalità associata a questa condizione offre la possibilità di un approccio combinato, medico e chirurgico, nei pazienti affetti da CTEPH che, alla valutazione preoperatoria, presentano una significativa malattia periferica. INTRODUZIONE L’ipertensione polmonare cronica tromboembolica (chronic thromboembolic pulmonary hypertension, CTEPH) si verifica all’incirca nel 38 % dei casi di embolia polmonare1. L’endoarterectomia polmonare (pulmonary endarterectomy, PEA) rappresenta il trattamento di scelta per i pazienti con ipertensione polmonare dovuta alla presenza di trombi organizzati a livello delle arterie principali, lobari e segmentali2. Il miglioramento emodinamico è generalmente drastico subito dopo la chirurgia con una sostanziale diminuzione delle resistenze vascolari polmonari (pulmonary vascular resistance, PVR) ed un recupero della funzione ventricolare destra3-6. A questo consegue un netto miglioramento sintomatico e funzionale, che è di lunga durata nella maggior parte dei pazienti, anche quelli più compromessi7. 35 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 D’altra parte, la mortalità precoce postoperatoria dopo PEA varia ancora tra il 5 % ed il 10 %, anche nei centri con maggior esperienza. Questa mortalità si verifica quasi esclusivamente durante i primi giorni postoperatori ed è considerata nella maggior parte dei casi conseguenza di elevate PVR residue postoperatorie ed insufficienza ventricolare destra8-10. Nella più ampia serie ad oggi pubblicata, la persistenza di elevate PVR dopo PEA comportava una mortalità precoce postoperatoria di circa il 30 %9. Pertanto, è stato suggerito di non operare paziente per i quali non può essere garantita una riduzione delle PVR maggiore del 50 % e basse PVR postoperatorie10. La sensibilità e specificità con le quali una significativa ostruzione periferica dei vasi polmonari, non chirurgicamente accessibile, può essere identificata alla valutazione preoperatoria non sono però ancora ottimali11-13. D’altra parte, anche quando si è sicuri che una significativa malattia periferica è presente, la decisione di non operare il paziente non viene presa automaticamente. Infatti, in molti casi una significativa componente distale è conseguenza dello sviluppo di un’arteriopatia secondaria dei piccoli vasi2,14, complicanza tipica dei pazienti con malattia severa e di lunga durata, i quali hanno una prognosi lesivamente sfavorevole e nei quali una più elevata mortalità postoperatoria potrebbe eventualmente essere accettata. Inoltre, c’è una crescente convinzione che, qualora questi pazienti superino l’intervento e l’immediato postoperatorio, essi possano successivamente beneficiare di una terapia medica a lungo termine diretta contro la componente residua e non chirurgicamente correggibile della loro malattia15-22. Infine, alcuni pazienti sviluppano un certo grado di vasocostrizione polmonare postoperatoria, la quale rappresenta quindi una causa funzionale e difficilmente prevedibile di elevate PVR postoperatorie23. Per tutte queste ragioni, il verificarsi di elevate PVR residue dopo PEA è tutt’altro che infrequente. Riportiamo la nostra esperienza nella gestione postoperatoria dei pazienti affetti da CTEPH e sottoposti a PEA nel nostro istituto negli ultimi 12 anni. I pazienti che presentavano elevate PVR residue dopo PEA sono stati attentamente analizzati con lo scopo di identificare i fattori predisponenti e gli effetti sulla gestione postoperatoria. Sono state inoltre ipotizzate strategie intra e postoperatorie atte a limitare le conseguenze di questa condizione. PAZIENTI E METODI Pazienti Dal 1994 al Dicembre 2005, 140 pazienti affetti da CTEPH sono stati sottoposti a PEA presso la Divisione di Cardiochirurgia dell’Ospedale San Matteo di Pavia. Di questi pazienti, 89 sono stati ricoverati per la gestione postoperatoria nel nostro reparto di Terapia Intensiva generale (Rianimazione I) e sono stati inclusi nel presente studio retrospettivo ed osservazionale. Tre pazienti sono stati successivamente esclusi per incompletezza dei dati. Degli 86 pazienti definitivamente arruolati 50 erano maschi (58 %) con un’età media di 53.2 ± 15.3 anni. Alla valutazione preoperatoria sono stati misurati valori medi di resistenze vascolari polmonari (PVR), portata cardiaca (cardiac output, CO) e pressione arteriosa polmonare media (mean pulmonary artery pressure, mPAP) equivalenti a 1050 ± 409 dynes * s * cm-5, 3.5 ± 1.0 l/min e 49.2 ± 12.8 mmHg rispettivamente. Tecnica chirurgica L’intervento è stato eseguito seguendo la tecnica standard descritta dai chirurghi della Università di San Diego in California (UCSD). Diversamente dal gruppo dell’UCSD, nel nostro centro non viene usualmente né clampata l’aorta ascendente né somministrata soluzione cardioplegica perchè è nostra opinione che si possa ottenere una migliore 36 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 protezione cardiaca perfondendo il cuore in arresto con il sangue raffreddato del circuito extracorporeo, con drenaggio del ventricolo sinistro attraverso la vena polmonare superiore destra. Gestione Postoperatoria Nella nostra esperienza l’uso combinato di un agente inotropo e di un vasopressore è quasi la regola per assicurare lo svezzamento dalla circolazione extracorporea (cardiopulmonary bypass, CBP). Il supporto inotropo viene successivamente regolato in modo da evitare un eccessivo incremento della portata cardiaca postoperatoria:di conseguenza, è gradualmente diminuito e generalmente sospeso entro le 24-48 ore. Lo svezzamento dal vasopressore è invece più lento allo scopo di contrastare la frequente vasoplegia postoperatoria, ottenere un bilancio idrico negativo mediante diuresi forzata e sostenere le pressioni di perfusione cardiaca e renale. Nelle prime ore utilizziamo una ventilazione a pressione controllata (volume corrente pari a 8-10 ml/kg di peso corporeo, pressione di plateau < 32 cm H20 e una pressione positiva di fine espirazione (PEEP) di 8-12 cm H20), la quale è rapidamente sostituita con una modalità assistita; l’estubazione viene effettuta il prima possibile e spesso nonostante la persistente necessità di livelli di PEEP e FiO2 ancora elevati. La presenza di elevate PVR residue e lo sviluppo di insufficienza ventricolare destra dopo PEA sono gestiti con l’ottimizzazione del precarico, l’utilizzo di vasopressori sistemici, vasodilatatori polmonari e con un supporto inotropo. L’edema polmonare da riperfusione e l’ipossiemia severa sono trattate mediante diuresi forzata, l’inalazione di ossido nitrico (iNO) e l’aumento dei livelli di PEEP, o nel caso di ipossiemia post-estubazione, con pressione positiva continua nelle vie aeree (continuous positive airway pressare, C-PAP) non invasiva mediante casco. Raccolta dati ed analisi statistica I dati sono stati ottenuti da un database raccolto in modo prospettico ed anche mediante la revisione della cartelle cliniche originali. Sono state considerate tre successive valutazioni emodinamiche: preoperatoria, a 3-5 ore dal ricovero nel nostro reparto dopo l’intervento, ed appena prima della rimozione del catetere arterioso polmonare (pulmonary artery catheter, PAC), in 3a – 6a giornata postoperatoria. La mortalità è stata valutata alla 60a e 180a giornata postoperatoria. Sulla base di un valore di PVR, alla prima determinazione postoperatoria, superiore o inferiore a 500 dyne*s*cm-5, i pazienti sono stati divisi in due gruppi: elevate PVR residue (gruppo di studio) e basse PVR postoperatorie (gruppo di controllo). I pazienti con elevate PVR residue sono stati ulteriormente divisi in un gruppo con PVR residue e persistenti (gruppo persistente) ed un gruppo con PVR residue ma transitorie (gruppo funzionale) a seconda di un valore di PVR, all’ultima determinazione prima della rimozione del PAC, > o ≤ di 500 dyne*s*cm-5. Per valutare le differenze tra i vari gruppi sono stati utilizzati i tests T di Student, χ2 con correzione di Mantel-Haenszel e Fisher exact. RISULTATI PVR superiori a 500 dynes * s * cm-5 in occasione della prima misurazione postoperatoria erano presenti in 24 pazienti (27.9 %). Dodici di questi pazienti (14.0 %) presentatavano elevate PVR residue anche all’ultima misurazione prima della rimozione del PAC. La Figura 1 mostra l’andamento nel tempo delle PVR nel gruppo persistente, funzionale e di controllo. 37 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Caratteristiche preoperatorie Alla valutazione preoperatoria, i pazienti del gruppo persistente risultavano sintomatici da più tempo e presentavano PVR più elevate, una più bassa portata cardiaca ed una più severa vasocostrizione sistemica rispetto ai pazienti appartenenti sia al gruppo di controllo sia al gruppo funzionale (tabella 1). Il sesso femminile era più frequente nel gruppo persistente. I pazienti con elevate PVR residue (sia funzionali che persistenti) erano più anziani e più ipossici in aria ambiente rispetto ai controlli. Trattamento postoperatorio Non sono state osservate differenze significative in termini di degenza in Terapia Intensiva e di trattamento postoperatorio nel confronto tra i pazienti con elevate PVR di tipo funzionale e quelli con elevate PVR di tipo persistente, a parte una più prolungata necessità di ossido nitrico per via inalatoria (4.3 ± 2.5 giorni vs 1.7 ± 1.3; p = 0.0259), sedazione (6.7 ± 6.6 giorni vs 2.7 ± 2.0; p = 0.0323) ed elevate frazioni inspiratorie di ossigeno (FiO2 dopo estubazione 0.6 ± 0.1 vs 0.5 ± 0.1; p = 0.0313) nel gruppo persistente. Elevate PVR residue nell’immediato postoperatorio, di tipo reversibile o persistente, hanno determinato la necessità di un trattamento postoperatorio più intensivo e prolungato rispetto al gruppo di controllo, sia per quanto riguarda il supporto circolatorio che quello respiratorio (tabella 2); la degenza media in Rianimazione è stata di 18.2 ± 16.9 giorni nel gruppo di studio e di 7.7 ± 9.1 nei controlli (p = 0.0002). Complicanze postoperatorie Tra le complicanze postoperatorie, l’edema polmonare da riperfusione (41.7 % vs 16.1 %; p = 0.0124), il fallimento dell’estubazione (41.7 % vs 11.3 %; p = 0.0029) e la polmonite (50.0 % vs 17.7 %; p = 0.0026) sono risulati più frequenti nei pazienti con elevate PVR residue (gruppo di studio). Le complicanze postoperatorie non differivano in modo significativo tra il gruppo persistente e quello funzionale. I pazienti con PVR residue persistentemente elevate hanno avuto peggiori scambi respiratori in ogni fase del periodo postoperatorio rispetto ai controlli (figura 2). Il rapporto PaO2/FiO2 del gruppo funzionale era simile a quello osservato nel gruppo persistente all’ammissione e prima dell’estubazione, mentre è divenuto simile a quello del gruppo di controllo dopo l’estubazione ed alla dimissione dalla Terapia Intensiva. Nel gruppo persistente è stata misurata una riduzione media delle resistenze vascolari sistemiche (systemic vascular resistance, SVR) pari al 53.9 ± 17.6 % del valore preoperatorio; questa riduzione è risultata maggiore di quelle verificatasi nel gruppo funzionale (78.0 ± 15.7 %; p = 0.0010) e nel gruppo di controllo (66.3 ± 29.2 %; p = 0.0949). Mortalità precoce dopo PEA Cinque pazienti sono morti nel primo periodo postoperatorio, con una mortalità a 60 giorni del 5.8 %. Nessun altro paziente è morto tra la 60a e 180a giornata postoperatoria. I tre pazienti esclusi dallo studio per incompletezza dei dati erano tutti vivi alla 180a giornata postoperatoria. Nella nostra serie la condizione “elevate PVR residue” nell’immediato postoperatorio dopo PEA non ha influenzato la mortalità a 60 giorni: le morti sono state 1/24 (4.2 %) nel gruppo di studio e 4/62 (6.5 %) nel gruppo di controllo. L’unico paziente con elevate PVR residue che è morto entro il 180o giorno postoperatorio apparteneva al gruppo persistente. 38 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 2000 PVR (dyne s cm -5) 1600 1200 800 400 0 Figura 1 Valori medi delle resistenze vascolari polmonari (PVR) in 3 differenti momenti (preoperatorio, postoperatorio precoce ed appena prima della rimozione del catetere arterioso polmonare) nei pazienti con basse PVR (gruppo di controllo, simboli bianchi), PVR elevate ma reversibili (gruppo funzionale, simboli grigi) ed PVR elevate e persistenti (gruppo persistente, simboli neri) alla prima determinazione dopo l’intervento di endoarterectomia polmonare. Il gruppo persistente aveva più alte PVR rispetto al gruppo funzionale ed al gruppo di controllo nel preoperatorio (p = 0.0052 and p < 0.0001), nel primo postoperatorio (p = 0.0288 and p << 0.0001) e prima della rimozione del PAC (p = 0.0002 and p << 0.0001). Il gruppo funzionale ha mostrato un maggior decremento delle PVR (-37 %) durante il periodo postoperatorio sia rispetto al gruppo di controllo (- 9 %, p = 0.009) sia rispetto al gruppo persistente (- 13 %, p = 0.0086). 400 PaO2 / FiO2 (mmHg) 350 300 250 200 150 100 50 Figura 2 Valori medi del rapporto PaO2 / FiO2 in 4 differenti momenti (postoperatorio precoce, appena prima dell’estubazione, subito dopo l’estubazione ed appena prima della dimissione) nei pazienti con basse PVR (gruppo di controllo, simboli bianchi), PVR elevate ma reversibili (gruppo funzionale, simboli grigi) e PVR elevate e persistenti (gruppo persistente, simboli neri) alla prima determinazione dopo l’intervento di endoarterectomia polmonare. Il gruppo persistente ha avuto rapporti PaO2 / FiO2 più bassi rispetto al gruppo di controllo all’ammissione (p = 0.0179), prima dell’estubazione (p = 0.0149), dopo l’estubazione (p = 0.0068) e prima della dimissione dalla 39 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Terapia Intensiva (p = 0.0144). Il gruppo funzionale ha avuto rapporti PaO2 / FiO2 più bassi rispetto al gruppo di controllo all’ammissione (p = 0.0346) e prima dell’estubazione (p = 0.045), e più alti rapporti PaO2 / FiO2 rispetto al gruppo persistente dopo l’estubazione (p = 0.0248) e prima della dimissione dalla Rianimazione (p = 0.0695). Tabella I: Caratteristiche preoperatorie dei pazienti con basse PVR postoperatorie (gruppo di controllo), PVR elevate ma reversibili (gruppo funzionale) e PVR elevate e persistenti (gruppo persistente). Età (anni) Sesso maschile (n, %) NYHA III-IV (mesi) CO (l / min) PVR (dyne*s*cm-5) mPAP (mmHg) SVR (dyne*s*cm-5) PaO2 (mmHg) Pz di controllo (n = 62) Valore di P (F vs C) Pz funzionali (n = 12) Valore di P (P vs F) Pz persitenti (n = 12) Valore di P (P vs C) 50.6 ± 15.8 40 (65 %) 19.8 ± 14.3 3.7 ± 1.0 977 ± 379 48.0 ± 13.5 2032 ± 625 67.3 ± 8.8 0.0096 62.2 ± 12.5 6 (50.0 %) 18.1 ± 12.2 3.6 ± 0.8 1023 ± 368 50.8 ± 12.1 1878 ± 449 58.2 ± 9.5 0.2030 58.2 ± 10.5 4 (33.3 %) 28.1 ± 14.8 2.7 ± 0.7 1454 ± 385 53.6 ± 7.7 2956 ± 872 62.3 ± 9.0 0.0576 0.2633 0.4066 0.4825 0.3491 0.2526 0.2110 0.0009 0.4175 0.0424 0.0032 0.0052 0.2571 0.0005 0.1431 0.0462 0.0278 0.0010 0.0000 0.0866 0.0000 0.0399 Tabella II: Trattamento postoperatorio dei pazienti con e senza elevate PVR residue dopo PEA. # I valori si riferiscono alla prima giornata postoperatoria. Pz di controllo (n = 62) Degenza in Rianimazione (giorni) Dobutamina (n, %) (mcg/Kg/min) # (giorni) Noradrenalina (n, %) (mcg/Kg/min) # (giorni) Bilancio idrico dopo 1 giorno (ml) dopo 3 giorni (ml) NO inalato (n, %) Ventilazione meccanica (giorni) PEEP (cmH2O) # Tidal Volume (ml/Kg) # FiO2 (%) # Prima Estubazione (giornata postop.) C-PAP (n, %) (giorni) Tracheostomia (n, %) Sedazione (giorni) 7.7 ± 9.1 45 (72.6 %) 5.9 ± 2.5 1.9 ± 1.4 44 (71.0 %) 0.19 ± 0.16 2.7 ± 2.6 -614 ± 1296 -1772 ± 2253 10 (16.1 %) 4.2 ± 6.0 7.7 ± 1.9 8.9 ± 1.9 58.6 ± 14.3 2.9 ± 3.5 33 (53.2 %) 1.8 ± 1.2 2 (3.2 %) 3.0 ± 3.5 Valore di P 0.0002 0.3010 0.0101 0.1344 0.2412 0.4983 0.0321 0.0115 0.0348 0.0124 0.0002 0.0075 0.0002 0.0027 0.0012 0.2616 0.0141 0.0166 0.0391 Pz di studio (n = 24) 18.2 ± 16.9 20 (83.3 %) 7.6 ± 2.9 2.4 ± 1.8 20 (83.3 %) 0.19 ± 0.14 4.8 ± 6.1 126 ± 1113 -875 ± 1231 10 (41.7 %) 11.5 ± 11.7 8.9 ± 2.1 10.7 ± 1.9 68.5 ± 14.9 6.0 ± 5.2 16 (66.7 %) 3.8 ± 4.7 5 (20.8 %) 4.8 ± 5.2 40 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 DISCUSSIONE Nei pazienti con CTEPH l’ostruzione dei vasi polmonari distalmente alle arterie segmentali può essere spiegata con un’associata ipertensione polmonare idiopatica, con una ricorrente microtromboembolia facilitata dalla presenza di dispositivi intravascolari24 o con lo sviluppo di un’arteriopatia dei piccoli vasi per il progressivo rimodellamento vascolare che si verifica nella malattia tromboembolica di lunga durata2. Infatti, la persistente ostruzione delle arterie polmonari espone ad elevate pressioni i segmenti vascolari risparmiati dall’occlusione tromboembolica: in questi segmenti si sviluppano modificazioni istologiche simili a quelle osservate nelle altre forme di ipertensione polmonare14, 25-27. Una significativa componente vascolare distale predispone i pazienti con CTEPH ad una chirurgia meno efficace e di conseguenza ad elevate PVR residue dopo l’intervento di endoarterectomia polmonare. Inoltre, in alcuni pazienti può essere osservata una componente reversibile rappresentata da un grado variabile di vasocostrizione polmonare postoperatoria23: la sindrome post circolazione extracorporea, il trauma chirurgico del sistema vascolare polmonare ed il danno da ischemia-riperfusione possono essere responsabili di questa causa “funzionale” di elevate PVR residue dopo PEA. Nella nostra serie, più di un quarto dei pazienti ha presentato nell’immediato postoperatorio PVR superiori a 500 dynes * s *cm-5, una quota superiore rispetto a quella precedentemente riportata da Jamieson e colleghi9. Questo risultato può essere spiegato dal diverso momento in cui è stata effettuata la valutazione emodinamica postoperatoria. Nel nostro caso la valutazione nelle prime ore dopo PEA ha permesso di includere anche i pazienti con elevate PVR residue di tipo funzionale; al contrario, Jamieson e colleghi hanno riportato i dati ottenuti in occasione dell’ultima determinazione appena prima della rimozione del PAC, per cui questi pazienti sono stati presumibilmente esclusi. I pazienti del gruppo persistente erano caratterizzati da una più severa malattia tromboembolica, come testimoniato da più elevate PVR, da una minore portata cardiaca, dalla necessità di una maggiore vasocostrizione sistemica, da una peggiore ipossiemia e da una più lunga durata dei sintomi. I nostri dati confermano l’impressione che più la malattia tromboembolica è severa e di lunga durata, più importante risulta anche il rimodellamento del sistema vascolare polmonare. Al contrario, i pazienti in cui si è verificato una significativa, ma reversibile, vasocostrizione polmonare postoperatoria erano simili al gruppo di controllo riguardo alla severità della malattia e si distinguevano solo perché più anziani e più ipossici alla valutazione preoperatoria. La condizione “elevate PVR residue” ha identificato i pazienti che hanno necessitato di un trattamento postoperatorio più intensivo e prolungato: questo è vero non solo per il supporto cardiovascolare ma anche per quello respiratorio. La degenza in Rianimazione per questi pazienti è risultata più che doppia. Hanno necessitato di più inotropi, vasopressori sistemici e vasodilatatori polmonari. Per questi pazienti è stato più difficile ottenere un bilancio idrico negativo nei primi giorni del post-operatorio. Inoltre, quando le PVR sono rimaste elevate dopo PEA la ventilazione meccanica è stata prolungata e caratterizzata da livelli di PEEP e FiO2 più elevati. Il primo tentativo di estubazione è stato ritardato di 3 giorni rispetto ai controlli, è fallito in più del 40 % dei casi ed il 20 % dei pazienti del gruppo di studio ha avuto bisogno della tracheotomia per essere definitivamente svezzati dalla ventilazione meccanica. In un lavoro di recente pubblicazione è stato descritto l’andamento postoperatorio dei pazienti con ipertensione polmonare tromboembolica “estrema” 28: questi pazienti erano ca- 41 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 ratterizzati da PVR preoperatorie molto alte, una condizione che è nota predisporre ad elevate PVR residue8-10. Gli autori hanno osservato una più lunga degenza nel reparto intensivo e una più lunga durata della ventilazione meccanica, insieme ad una maggiore incidenza di edema polmonare da riperfusione e polmonite rispetto ai pazienti con più bassi valori di pressione arteriosa polmonare. Nel nostro gruppo di studio con elevate PVR residue abbiamo ottenuto dei risultati molto simili. La comparsa dell’edema polmonare da riperfusione può essere facilitato nei casi più severi e duraturi di CTEPH a causa dello svilupparsi della malattia dei piccoli vasi e della deviazione, dopo l’intervento, del flusso sanguigno verso i segmenti vascolari appena liberati dall’ostruzione tromboembolica. Al contrario, l’elevata incidenza di polmonite è probabilmente più correlata alla prolungata ventilazione meccanica piuttosto che a una particolare suscettibilità di questi pazienti alle infezioni polmonari. A questo riguardo, i possibili vantaggi di un più ampio utilizzo della ventilazione non invasiva devono essere provati. I pazienti con PVR residue persistentemente elevate hanno mostrato peggiori scambi respiratori in ogni fase della loro permanenza in Terapia Intensiva: all’ammissione, poco prima dell’estubazione, appena dopo essere stati svezzati dalla ventilazione meccanica ed alla dimissione. Questa osservazione può essere spiegata da una combinazione variabile di peggiori scambi respiratori già alla valutazione preoperatoria, bilanci idrici meno negativi nei primi giorni del postoperatorio e maggior frequenza di edema polmonare da riperfusione. Il fatto che il trattamento postoperatorio e le complicanze siano risultate indipendenti dal presunto meccanismo causa di elevate PVR residue (rimodellamento vascolare o vasocostrizione polmonare reversibile, rispettivamente, nel gruppo persistente e funzionale) può suggerire che le elevate resistenze vascolari polmonari, di per sé, abbiano prolungato e complicato il periodo postoperatorio dei nostri pazienti. Rimane ancora da determinare se un più aggressivo trattamento farmacologico delle elevate PVR postoperatorie possa ridurne effettivamente le conseguenze in questi pazienti. Nonostante le elevate PVR residue abbiano avuto un chiaro impatto sulla gestione postoperatoria e sulle complicanze, nella nostra serie non c’è stato un effetto sulla mortalità postoperatoria precoce. Questo risultato è in contrasto con un tasso di mortalità precedentemente riportato in questa tipologia di pazienti pari al 30 %9. A questo proposito, nel nostro centro sono peculiari due aspetti della gestione dei pazienti affetti da CTEPH. In primo luogo, generalmente l’aorta ascendente non viene clampata né si utilizza la soluzione cardioplegica perché nella nostra esperienza si può ottenere una migliore protezione miocardica perfondendo il cuore in arresto con il sangue raffreddato della circolazione extracorporea. Questo approccio può eventualmente limitare la disfunzione miocardia postoperatoria, permettendo al ventricolo destro di affrontare meglio delle resistenze vascolari polmonari ancora elevate dopo l’intervento. Inoltre, nella nostra esperienza l’uso di vasopressori avviene senza significative restrizioni. Il verificarsi di una importante vasodilatazione sistemica è riportata come più frequente e severa a seguito di PEA rispetto ad altre procedure necessitanti la circolazione extracorporea e l’arresto di circolo in ipotermia profonda23. In effetti, nella nostra serie abbiamo osservato una diminuzione media postoperatoria delle resistenze vascolari sistemiche pari al 66 % del valore preoperatorio; inoltre, la riduzione del tono vascolare sistemico è stata particolarmente significativa (circa il 50 % del valore preoperatorio) nel gruppo con PVR persistentemente elevate dopo PEA. La somministrazione sistemica di Noradrenalina può aver protetto i nostri pazienti dalla rischiosa combinazione di sovraccarico del cuore destro da PVR residue ed ischemia ventricolare destra dovuta alla vasoplegia sistemica, prevenendo in questo modo una franca insufficienza ventricolare destra nell’immediato postoperatorio. 42 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Un basso tasso di mortalità nei pazienti con elevate PVR residue dopo PEA offre la possibilità di un approccio combinato, medico e chirurgico, nei pazienti affetti da CTEPH con una significativa componente periferica. In effetti, si sta affermando la convinzione che i pazienti liberati chirurgicamente dall’ostruzione centrale tromboembolica possano successivamente essere trattati per la residua malattia distale con terapia medica. I pazienti affetti da ipertensione arteriosa polmonare idiopatica o associata e quelli affetti da CTEPH condividono simili proprietà di vasoreattività acuta e di compliance vascolare: questi risultati forniscono un razionale per l’utilizzo, anche nelle malattie tromboemboliche, di un trattamento a lungo termine vasodilatatorio ed antiproliferativo29. Diversi piccoli studi non controllati hanno arruolato pazienti con CTEPH non operabile, riportando significativi miglioramenti nei marcatori della severità della malattia con l’uso di terapie con prostanoidi ed inibitori delle fosfodiesterasi 515-18. Recentemente sono state anche riportate esperienze di utilizzo del Bosentan, antagonista del recettore dell’endotelina, sia nei pazienti con CTEPH inoperabile sia nei pazienti con malattia residua dopo PEA19-22. Questi studi hanno dimostrato un miglioramento, a breve e lungo termine, nella capacità di eseguire esercizio fisico, nella classe funzionale e nell’emodinamica. E’ inoltre suggestivo che nello studio di Hughes e collaboratori22 ci fosse una tendenza ad un più marcato miglioramento nei pazienti con ipertensione polmonare persistente dopo PEA. In effetti, questi pazienti avevano ricevuto un trattamento per entrambe le componenti della loro malattia, centrale e distale, mentre nei pazienti giudicati inoperabili (o che avevano rifiutato l’operazione) era stata trattata solamente la malattia periferica. In conclusione, la persistenza di elevate PVR dopo PEA complica il trattamento postoperatorio dei pazienti con CTEPH, pertanto sarebbe preferibile operare questi pazienti prima che si sviluppi un severo rimodellamento vascolare e l’arteriopatia dei piccoli vasi. D’altronde, anche per i pazienti con elevate PVR residue dopo l’intervento è possibile un tasso di mortalità relativamente basso. Rimane da definire quali pazienti con una significativa malattia periferica alla valutazione preoperatoria possano ottenere maggior beneficio con un approccio combinato, medico e chirurgico, rispetto al solo trattamento medico. BIBLIOGRAFIA 1. Pengo V, Lensing AW, Prins MH, et al. Incidence of chronic thromboembolic pulmonary hypertension after pulmonary embolism. N Engl J Med 2004;350:2257–2264 2. Hoeper MM, Mayer E, Simonneau G, Rubin LJ. Chronic thromboembolic pulmonary hypertension. Circulation. 2006;113:2011–2020 3. Jamieson SW, Auger WR, Fedullo PF, et al. 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Dalla Toffola Servizio di Recupero e Rieducazione Funzionale, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo Cattedra di Medicina Fisica e Riabilitativa Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo Sezione di Clinica Chirurgica e di Riabilitazione Università di Pavia INTRODUZIONE Dopo interventi di chirurgia toracica (polmonare, cardiaca) e chirurgia addominale alta si possono verificare problematiche di pertinenza riabilitativa. In particolare si può osservare una compromissione respiratoria (1-6) caratterizzata da una sindrome restrittiva, tipica dell’immmediato post operatorio ma che può persistere per settimane, mesi dopo l’intervento chirurgico (2,3).La presenza di fattori di rischio rappresentati da precedenti patologie respiratorie,fumo di sigaretta, diabete, obesità può comportare l’ insorgenza di complicanze respiratorie (7-11).La variabile incidenza delle complicanze respiratorie riportate in letteratura dipende dalla diversità della tipologia di pazienti considerati nonché dalla definizione stessa di complicanza respiratoria (9,11). Il dolore della ferita chirurgica rappresenta una costante dell’operato. La gestione del dolore in acuto è di pertinenza farmacologia, ma strategie riabilitative mirate possono coadiuvare il suo controllo. Il controllo del dolore acuto può influenzare e ridurre l’ incidenza e la durata del dolore cronico (chronic post surgical pain) che riconosce nella particolare intensità e durata del dolore in acuto una delle possibili cause della sua cronicizzazione (1180% toracotomie, 25-56% sternotomie) e durare per settimane o mesi dopo l’intervento (12-17). Il dolore della ferita chirurgia toracica limita oltre che la espansibilità toracica nell’immediato post operatorio, caratterizzando un respiro superficiale, monotono, legato all’assenza di atti inspiratori profondi, anche la mobililità dell’arto superiore. Nota da tempo è la possibile compromissione della funzionalità della spalla omolaterale alla toracotomia postero laterale, con una incidenza nel primo anno dall’intervento chirurgico dal 10 al 26%. Tale disfunzione di spalla oltre al dolore della ferita è legata alla incisione muscolare. Anche dopo sternotomia mediana viene riportata una compromissione della funzionalità delle spalle con una incidenza del 1,5-24%, riconoscendo tuttavia cause diverse dalla incisione muscolare (18). Nelle strategie individuate per ridurre il rischio di complicanze respiratorie nel perioperatorio vengono annoverate manovre riabilitative sia in fase pre operatoria che post operatoria.(19-25). Inizialmente per la chirurgia cardiaca e successivamente anche per la chirurgia polmonare sono stati formulati protocolli Fast Tracking per la fase perioperatoria, che pre- 47 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 vedono rapidità di intervento secondo linee guida giornaliere in cui viene puntualizzata la precocità dell’applicazione del trattamento riabilitativo già in prima giornata post operatoria (26-28) . Scopo di questo lavoro è la presentazione e valutazione del protocollo riabilitativo effettuato su pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia toracica e la valutazione della funzionalità della spalla nel periodo post operatorio immediato. MATERIALI E METODI Sono stati valutati 22 pazienti di età media 65 anni (48-76) sottoposti a toracotomia postero laterale per interventi di lobectomia e 28 pazienti di età media 67 (48-79) con sternotomia mediana per rivascolarizzazione miocardica. I tempi di osservazione sono stati a 7 giorni e ad 1 mese dall’intervento chirurgico per entrambi i gruppi e a tre mesi per le toracotomie. Il dolore del post operatorio era trattato secondo protocolli farmacologici specifici in uso alle due Unità Operative. Si è classificato il dolore della ferita chirurgica a seconda delle modalità di insorgenza:dolore spontaneo,dolore con il respiro profondo,dolore al colpo di tosse,dolore nei cambi posturali, ed ai movimenti dell’arto superiore omolaterale alla incisione chirurgica in caso di toracotomia e bilaterale nella sternotomia. La valutazione funzionale della spalla è stata effettuata con la scala di Constant (29) È una scala standardizzata suddivisa in quattro sezioni che valutano: dolore, attività della vita quotidiana (ADL), movimento attivo, forza muscolare della spalla. Il punteggio è espresso in centesimi, dei quali 35% riferiti dal paziente(dolore 15 punti, ADL 20 punti), mentre il restante 65% rilevati dall’operatore (movimento attivo 40 punti, forza muscolare 25 punti). Calcolato il punteggio totale si quantifica il grado di funzionaltà dell’arto superiore definendo: eccellente un risultato pari al 100%, buono un risultato fra 85 e 99%, medio un risultato compreso fra 65% ed 84%, scarso un risultato inferiore al 65%. Il dolore della ferita chirurgica è stato correlato,con un modello di regressione, con la funzionalità dell’arto superiore espressa dalla scala di Constant. TRATTAMENTO RIABILITATIVO Il protocollo riabilitativo adottato nel postoperatorio in chirurgia toracica prevede: − riabilitazione respiratoria con esercizi a volume corrente, esercizi di respiro profondo, tosse assistita,manovre di huffing,tecniche che utilizzano l’applicazione di una pressione espiratoria positiva, spirometria incentivante; − rieducazione motoria segmentaria degli arti superiori ed inferiori; − rieducazione motoria globale con esercizi per il recupero della stazione seduta e della stazione eretta. Riabilitazione Respiratoria Il trattamento riabilitativo nei pazienti sottoposti a chirurgia cardiaca viene iniziato in terapia intensiva dopo l’estubazione; nel caso di tempi di intubazione superiore alle quarantotto ore si inizia una mobilizzazione analitica degli arti per la prevenzione del danno secondario. Dopo chirurgia polmonare il trattamento riabilitativo inizia in prima giornata post operatoria. 48 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 La tipologia di esercizio respiratorio adottato è simile nei due gruppi di pazienti. Riabilitazione motoria Le caratteristiche dell’esercizio per gli arti superiori dipende dal tipo di incisione chirurgica. Nella toracotomia postero laterale già in prima giornata si inizia la mobilizzazione in flessione dell’articolazione scapolo omerale omolaterale all’incisione, in seconda giornata vengono inseriti esercizi in intra, extrarotazione ed abduzione aumentando progressivamente l’ampiezza del movimento ed inserendo gradualmente esercizi contro resistenza. Nella sternotomia mediana accanto alla necessità di mantenere una mobilità funzionale di entrambe le articolazioni scapolo omerale è imperativo rispettare i tempi di consolidamento dell’osso sternale per cui gli esercizi di mobilizzazione, iniziati in seconda giornata, vengono effettuati solo sul piano sagittale evitando movimenti complessi (intrarotazione, extrarotazione ed abduzione) che sollecitano in modo abnorme la ferita sternale. Il trattamento riabilitativo prevede inoltre una accurata educazione del paziente sulle modalità di contenzione della ferita chirurgica, sulle posture da mantenere nel letto durante la notte (decubito supino per il primo mese) e sull’utilizzo dell’arto superiore nelle comuni attività della vita quotidiana (vestirsi, sollevare pesi,evitare movimenti in extrarotazione ed abduzione), nonché il mantenere un adeguato stile di vita (dieta,astensione dal fumo, regolare esercizio aerobico). RISULTATI Ventidue pazienti (16 maschi ) con toracotomia postero laterale e 28 (16 maschi) con sternotomia mediana sono stati valutati nei tempi previsti. Il tempo medio di trattamento riabilitativo postoperatorio è stato di 7 giorni (2-20) e 5 (4-8) durante la degenza in chirurgia toracica e cardiochirurgia rispettivamente. Dolore La Figura 1 riporta il dolore in sede di ferita chirurgica nei tempi di osservazione sia per i pazienti con toracotomia che con sternotomia. Toracotomia Sternotomia Figura 1 Nelle toracotomie postero laterali il dolore alla ferita chirurgica è riferito con maggiore 49 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 frequenza nei movimenti dell’arto superiore e nei cambi posturali. Nella sternotomie il dolore è maggiormente evocato dalla tosse e dagli atti respiratori profondi. A distanza (1 mese dall’intervento) il dolore provocato e spontaneo si riduce in entrambi i gruppi mantenendo le stesse caratteristiche di insorgenza. Nel gruppo delle toracotomie si osserva a tre mesi dall’intervento la persistenza del dolore spontaneo nel 13 % dei casi ed al movimento dell’arto superiore nel 18%. Funzionalità Nel pre operatorio nessun paziente riferiva una limitazione funzionale della spalla. Considerando le singole sezioni della scala di valutazione della spalla (dolore, movimento attivo, forza muscolare) nel post operatorio si hanno valori ridotti rispetto al punteggio considerato di normalità, sia per la toracotomia postero laterale che per la sternotomia mediana. Il punteggio tuttavia aumenta migliorando già ad un mese dall’intervento nei due gruppi considerati, con un ulteriore incremento a tre mesi per le toracotomie Figg. 2 e 2a. Dolore Forza muscolare Articolarità Categ . Box & Whisker Plot: Consta nt MOV Categ. Box & Whisker Plot: Constant FORZA Categ. Box & Whisker Plot: Constant DOL 16 26 41 25 40 15 39 24 38 14 23 37 22 13 36 21 Constant FORZA Constant DOL 11 10 Mean ±SE ±1,96*SE 9 0 1 2 3 visita Constant MOV 12 20 19 35 34 33 32 18 Mean ±SE ±1,96*SE 17 0 1 2 3 visita 31 0 1 2 3 v isita Mean ±SE ±1,96*SE Figura 2 - Toracotomia: sezioni Scala Constant spalla omolaterale all’intervento Dolore valore di normalità (VN) 15, Forza muscolare VN 25, Articolarità VN 40 Spalla ds Spalla sin Dolore Categ. Box & Whisker Plot: Categ. Box & Whisker Plot: Const forza dx sx 15 14,0 13,5 14 13,0 13 12 12,0 sx Const forza dx 12,5 11 11,5 11,0 10 10,5 9 10,0 9,5 1 2 Mean Mean±SE Mean±1,96*SE 8 Mean Mean±SE Mean±1,96*SE 1 2 N.Vis N.Vis Forza muscolare Categ. Box & Whisker Plot: Categ. Box & Whisker Plot: Const dol dx sx 14,5 15 14,0 14 13,5 13 13,0 12,5 sx Const dol dx 12 11 12,0 11,5 10 11,0 9 10,5 8 10,0 7 1 2 N.Vis Mean Mean±SE Mean±1,96*SE 9,5 1 2 Mean Mean±SE Mean±1,96*SE N.Vis 50 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Articolarità Categ. Box & Whisker Plot: Categ. Box & Whisker Plot: Const mov dx sx 39 38 37 38 36 37 36 34 sx Const mov dx 35 33 32 35 34 31 33 30 32 29 28 1 2 Mean Mean±SE Mean±1,96*SE 31 1 2 Mean Mean±SE Mean±1,96*SE N.Vis N.Vis Figura 2a - Sternotomia: sezioni della Sscala Costant per la spalla destra e sinistra. Dolore Valore di Normalità (VN) 15, Forza muscolare VN 25, Articolarità VN 40 Il modello di regressione costruito per il tempo visita ha evidenziato una correlazione significativa fra dolore della ferita chirurgica scatenato dai cambi posturali e dal movimento dell’arto superiore e lo score della Constant considerata globalmente e nelle sezioni dolore, forza ed ADL (Tab. I). Tabella I - Associazione fra dolore della ferita chirurgica e la Scala di Constant controllata per il tempo visita Constant Constant Constant Constant Constant Totale Dolore ADL Movimento Forza Dolore spontaneo Sternotomia: arto sinistro Dolore cambi posturali Sternotomia: arto destro Toracotomia Dolore movimento arti superiori Sternotomia: arto destro arto sinistro Toracotomia p 0.02 p 0.049 p 0.024 p 0.003 p 0.022 p 0.011 p 0.003 p 0.016 p 0.004 p 0.016 p 0.001 p 0.008 p 0.029 p 0.002 p 0.026 La funzionalità globale della spalla ottenuta dalla categorizzazione degli score della scala di Constant valutata nei tempi stabiliti post intervento viene riportata in Fig. 3 51 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Toracotomia Sternotomia Figura 3 Nel preoperatorio nessun paziente riferiva limitazione funzionale nelle ADL. In 7giornata post operatoria si rileva una compromissione funzionale della spalla in tutti i pazienti che tuttavia tende a migliorare ad un mese dall’intervento con funzionalità buona nel 46% nelle toracotomie e del 45% per le sternotomie. Il recupero delle attività della vita quotidiana è riportato in figura 4. spalla ds Sternotomia Sternotomia spalla sin Categ. Box & Whisker Plot: Const ADL dx Categ. Box & Whisker Plot: 18,5 19,0 18,0 18,5 17,5 18,0 17,0 17,5 16,5 17,0 Toracotomia sx Categ. Box & Whisker Plot: Constant ADL 21 20 18 sx Const ADL dx 19 16,0 17 16,5 Constant ADL 15,5 16,0 15,0 15,5 16 15 14,5 15,0 14,0 1 2 Mean Mean±SE Mean±1,96*SE 14,5 N.Vis 1 2 Mean Mean±SE Mean±1,96*SE 14 0 1 2 v isita 3 Mean ±SE ±1,96*SE N.Vis Figura 4 - Recupero delle attività della vita quotidiana (ADL): VN 20 DISCUSSIONI E CONCLUSIONI Il programma riabilitativo proposto ha consentito il recupero funzionale della spalla sia nelle toracotomie che nelle sternotomie entro il primo mese dopo l’intervento. Tradizionalmente l’intervento riabilitativo nel post operatorio immediato ha privilegiato manovre di rieducazione respiratoria per ridurre il rischio di comparsa di complicanze respiratorie ed una mobilizzazione globale intesa al raggiungimento di una precoce verticalizzazione (1). Il paziente chirurgico nell’immediato post operatorio per ridurre al minimo stimoli che potrebbero esacerbare il dolore della ferita chirurgica si muove globalmente poco (atti respiratori poco profondi, inibizione della tosse, riduzione della motilità spontanea segmentaria) con evidenti ripercussioni sul recupero funzionale globale 52 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Nel nostro protocollo sono previsti già in prima/seconda giornata postoperatoria esercizi di mobilizzazione segmentaria degli arti superiori con tempi e modalità differenti a seconda del tipo di incisione chirurgica. Infatti i tempi dell’intervento riabilitativo sono dettati dalle necessità cliniche proprie di ogni singolo paziente e dalla tipologia dell’intervento chirurgico. Accanto ai protocolli chirurgici per accelerare il recupero dopo interventi a cuore aperto e resezione polmonare (26-28), anche i protocolli riabilitativi devono a nostro avviso accompagnare il paziente in tutte le fasi del post operatorio. Abbiamo quindi definito un Fast –Track Cardiothoracic Rehabilitation Protocol per la cardiochirurgia e la chirurgia polmonare. Il programma da noi adottato nella fase immediatamente successiva all’intervento è simile sia nelle sternotomie mediane che nelle toracotomie. La fisioterapia respiratoria inizia in prima giornata post operatoria sul paziente estubato. Il trattamento riabilitativo respiratorio in pazienti ancora intubati non ha infatti dimostrato una riduzione del tempo di degenza sia in terapia intensiva che nel reparto di cardiochirurgia (30). Il trattamento riabilitativo include tecniche diverse: il respiro profondo, l’huffing, la tosse assistita, il positioning, la mobilizzazione segmentaria e la deambulazione precoce. Un corretto intervento riabilitativo inteso sia come mobilizzazione precoce sia come correzione delle posture viziate trova posto nella gestione del dolore in acuto, accanto ad interventi farmacologici specifici. Infatti una corretta gestione del dolore acuto può ridurre il rischio del dolore cronico post chirurgico riportato in letteratura con una incidenza dall’11 all’80% nelle toracotomie e dal 25 al 39% nelle sternotomie (13,17). Nella nostra casistica a 7 giorni dall’intervento il 30% delle toracotomie ed il 17% delle sternotomie mediane riferiva dolore spontaneo in sede di ferita chirurgica, esacerbato nelle sternotomie dal respiro profondo nel 57% e dai colpi di tosse nell’85%. Nelle toracotomie il dolore era maggiormente legato ai movimenti dell’arto superiore omolaterale all’intervento (67%) e ai cambi posturali (63%). Ad un mese dall’intervento si è assistito ad una netta riduzione del dolore sia spontaneo, presente nel 14% delle sternotomie mediane e nel 17% delle toracotomie, sia provocato con il respiro profondo, con i cambi di postura e con i movimenti dell’arto superiore. Nel paziente sottoposto a chirurgia cardiotoracica è riconosciuta a distanza una limitazione funzionale della spalla omolaterale alla toracotomia nel 15-33% e nelle sternotomia nel 1,5-32% in parte legata in entrambe alla componente algica, alla compromissione muscolare nelle toracotomie ed ad altri fattori nelle sternotomie (15,18). Nella nostra casistica ad un mese dall’intervento la funzionalità globale della spalla è nelle toracotomie completa nel 10% e buona nel 46%, mentre nelle sternotomie il recupero è buono nel 45% dei casi e medio nel 35%.Tali dati evidenziano una ridotta compromissione funzionale rispetto alla letteratura, con un buon recupero ad un mese delle attività della vita quotidiana che viene ulteriormente incrementato nel controllo a tre mesi. Il nostro protocollo riabilitativo prevede una precoce mobilizzazione segmentaria per l’arto superiore e una precoce verticalizzazione con l’intento di recuperare precocemente l’autonomia. Precoce mobilizzazione dell’arto superiore che deve tuttavia tener conto nelle sternotomie dell’obiettivo principale in questa fase che è il consolidamento sternale. Recupero funzionale della spalla che vede ad un mese un miglioramento degli score considerati nella scala di Constant, quali la riduzione del dolore riferito alla spalla, il miglioramento dell’articolarità goniometrica e della forza muscolare dell’arto superiore in entrambi i gruppi. La percentuale di ridotto recupero della funzionalità di spalla si è verificata nei casi in 53 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 cui il dolore della ferita chirurgica è tale da limitare la mobilità, come si deduce dalla correlazione significativa tra dolore e gli score della scala di Constant. I limiti di questo lavoro sono la mancanza di casi controllo non trattati, poiché il protocollo riabilitativo presentato viene applicato routinariamente per trecentosessantacinque giorni all’anno su tutti i pazienti sottoposti a chirurgia polmonare e cardiaca, per assicurare la continuità terapeutica e il precoce recupero funzionale. Ringraziamento Ringraziamo tutte le Fisioterapiste del Servizio di Recupero e Rieducazione Funzionale della Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo che quotidianamente prestano la loro opera nei reparti di Chirurgia. BIBLIOGRAFIA 1. Brasher PA, McClelland KH, Denehy L, Story I. Does removal of deep breathing exercise from a physiotherapy program including pre-operative education and early mobilisation after cardiac surgery alter patient outcomes? Australian Journal of Physiotherapy 2003;49:165-173 2. Westerdahl E, Lindmark B, Bryngelsson I, TenlingA. Pulmonary function 4 months after coronary artery bypass graft surgery. 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Matteo, Pavia Il trapianto di cornea, in base alla patologia e ai fini terapeutici, viene eseguito con tecniche diverse a seconda che si sostituisca un lembo corneale a tutto spessore (cheratoplastica perforante = PK), un lembo di stroma parziale (cheratoplastica lamellare = LK) o fino alla membrana di Descemet (cheratoplastica lamellare profonda = DLK). In tutti questi interventi è fondamentale una buona preparazione del lembo da innestare. Nel presente lavoro verrà descritta una nuova tecnica per la preparazione del lembo da utilizzare nella LK. Per LK si intende la sostituzione di strati anteriori della cornea opachi o alterati con cornea omologa, ciò al fine di ripristinare un ordine nell’architettura sia per integrità che spessore. Le principali indicazioni di questo intervento sono malattie degenerative o iatrogene che causino un assottigliamento prevalentemente periferico della cornea (Tab. I). Nella fig. 1 si può vedere un caso di degenerazione marginale di Terrien, malattia di causa non nota che provoca un cronico e progressivo assottigliamento della periferia corneale, associata a una variabile vascolarizzazione e deposizione di lipidi. Tabella. I - Indicazioni alla LK Malattie periferiche della cornea con assottigliamento • degenerazione marginale di Terrien • ulcera di Mooren • cheratopatia neurotrofica • cheratopatia da artrite reumatoide Difetti corneali post-chirurgici • pterigio • dermoide • neoplasie 57 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Figura 1 - degenerazione marginale di Terrien In precedenza la preparazione della lamella stromale da innestare nel letto ricevente adeguatamente preparato, presentava qualche difficoltà poiché il chirurgo modellava il lembo corneale mentre veniva sostenuto mediante pinze dal secondo operatore. Recentemente si è resa disponibile in commercio una camera anteriore artificiale disposable di nuova concezione che fornisce un valido supporto per la preparazione delle lamelle corneali. Questa camera artificiale consta di un supporto in materiale plastico sul quale mediante ghiere di diverso diametro è possibile fissare il lembo sclero-corneale da cui preparare la lamella. Una mira a croce favorisce la centratura (fig. 2 e 3). Figura 2 Figura 3 La camera è inoltre dotata di un raccordo per l’infusione di soluzione salina bilanciata (BSS) al fine di creare un tono adeguato (fig. 4). Figura 4 Dopo aver fissato il lembo e creato il tono adeguato si procede ad una trapanazione mediante trapano presettato alla profondità desiderata (300-400 µm) (fig. 5). 58 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Figura 5 Successivamente si disseziona con bisturi sclerotomo la lamella trapanata cercando di mantenere una trazione ottimale per creare un piano regolare (fig. 6). Figura 6 La lamella così ottenuta viene poi deposta in una capsula Petri su sostanza viscoelastica e utilizzata poi nelle fasi successive dell’intervento (fig. 7). Figura 7 Nella fig. 8 si può vedere un caso di cheratopatia da artrite reumatoide con assottigliamento periferico (a) e lo stesso caso post-intervento (b). Figura 8 a Figura 8 b Le lamelle corneali possono essere preparate oltre che durante la procedura operatoria anche molto prima dell’intervento e conservate nella Banca degli Occhi mediante un processo di liofilizzazione. La liofilizzazione consiste nella rimozione sottovuoto dell’acqua dai tessuti precedentemente congelati mediante sublimazione (passaggio diretto da fase solida a gassosa). Si appendono i lembi mediante sutura in seta 7/0 in appositi flaconi che vengono posti nel liofilizzatore: si ottengono così dei tessuti di aspetto pergamenaceo sterili, 59 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 sottovuoto, conservabili per lungo tempo (6 mesi e oltre) a temperatura ambiente (fig. 9); prima dell’utilizzo vengono reidratati immergendoli in soluzione fisiologica sterile. Figura 9 60 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 L’ APPROCCIO ENDOSCOPICO AI TUMORI DELLA REGIONE SELLARE F.R. Canevari, D. Locatelli†, I. Acchiardi†, F. Zappoli‡, P. Scagnelli‡ Clinica Otorinolaringoiatria, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università degli Studi di Pavia † Clinica Neurochirurgica, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università degli Studi di Pavia ‡ Servizio di Radiodiagnostica, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia ABSTRACT La scelta della via di approccio alla regione sellare è stato storicamente un problema dibattuto. La tecnica endoscopica è stata introdotta nel trattamento della patologia sellare nei primi anni ’90 e nel corso degli anni successivi ha avuto una progressiva diffusione. La nostra esperienza, nell’ambito di un gruppo di lavoro interdisciplinare, ci ha indotti a verificare le eventuali variazioni alla via di approccio endoscopico considerando l’anatomia naso-sinusale del basicranio, nonché la patologia sellare da trattare. Dopo studi anatomici dissettori abbiamo codificato le vie di approccio endoscopico utilizzabili. INTRODUZIONE Le patologie della base cranica presentano problematiche multidistrettuali che coinvolgono la competenza di più specialisti. Per questo motivo l’iter diagnostico e terapeutico può essere ottimizzato utilizzando un approccio interdisciplinare. Nell’ambito di tali patologie un ruolo importante è rappresentato dalla patologia sellare, di cui tratteremo in questa sede le modalità di approccio chirurgico. Questo alla luce del fatto che la scelta della via di approccio e’ stata, nel corso degli anni, la problematica principale della chirurgia sellare sia per la sede anatomica della sella sia per la presenza nelle regioni confinanti di strutture vitali. L’approccio endoscopico per il trattamento di patologie sellari e parasellari fu introdotto nei primi anni ’90. Nel 1993 Jho e Carrau descrissero un approccio transfenoidale endonasale monolaterale alla sella. La tecnica endoscopica fu sviluppata successivamente in Italia da De Divitis e Cappabianca a Napoli, Frank e Pasquini a Bologna, Locatelli e Castelnuovo a Pavia. L’utilizzo della tecnica endoscopica presenta i seguenti vantaggi: • accesso miniinvasivo alla regione sellare • rispetto dell’unità anatomo-fisiologica naso-sinusale • ottima visualizzazione del campo operatorio con possibilità di esplorare tutti i recessi con l’ausilio di ottiche angolate. Questi vantaggi consentono di eseguire un intervento più radicale, riducono l’incidenza delle complicanze e permettono una ridotta ospedalizzazione. Il limite attribuito alla tecnica endoscopica della possibilità di utilizzare una sola mano operatoria è stato nella nostra esperienza superato utilizzando un approccio bilaterale da entrambe le fosse nasali rendendo in tal modo possibile l’utilizzo di tre e quattro mani. 61 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Fig. 1 Esempio di utilizzo della tecnica a 3 mani in uno spaccato anatomico in sezione assiale Fig. 2 Esempio di utilizzo della tecnica a 4 mani in uno spaccato anatomico in sezione assiale Punto comune di tutti gli approcci chirurgici endonasali alla sella è il raggiungimento del seno sfenoidale in modo di poter disporre un campo chirurgico adeguatamente ampio, esplorabile e facile da raggiungere con gli strumenti chirurgici. Nella nostra esperienza abbiamo concluso che non è corretto parlare di approccio chirurgico alla sella ma, tenuto conto del fatto che le vie attraverso le quali è possibile raggiungere la sella sono molteplici, è più corretto parlare di approcci endoscopici alla regione sellare. La scelta della via di approccio dipende dall’anatomia dei distretti nasosinusali e dalla sede e dall’estensione della patologia sellare da trattare. Nella programmazione chirurgica risulta indispensabile uno studio radiologico che prevede un RM, per delimitare l’estensione della patologia sellare e enfatizzarne i rapporti anatomici con le strutture confinanti, e una TC, finalizzata allo studio dell’anatomia naso sinusale e quindi alla scelta della migliore via di accesso. Fig. 3 Immagine TC in proiezione assiale che evidenzia la posizione dell’ostio naturale del seno sfenoidale Fig. 4 Immagine RM in proiezione in coronale T1 pesata con gadolinio che dimostra la presenza di un macroadenoma e dei suoi rapporti con l’arteria carotide interna nel suo tratto intracavernoso VIE DI APPROCCIO ENDOSCOPICHE Tramite studi anatomici con dissezione su cadavere abbiamo verificato la fattibilità degli approcci alla sella descrivendo i punti cardine delle tecniche chirurgiche. Elenchiamo di seguito le principali vie di approccio endoscopico. VIA TRANSNASALE PARASETTALE Questa è la via più diretta e la più utilizzata. Il vantaggio di questa via di approccio è rappresentato dal raggiungimento diretto dell’ ostio naturale del seno sfenoidale senza modificare le strutture anatomiche naso-sinusali che lo precedono. Procedendo dall’avanti all’indietro lungo il pavimento della fossa nasale si raggiunge la coana. Salendo superiormente al bordo canale, medialmente alla coda del 62 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 turbinato medio, si individua uno spazio anatomico definito recesso sfeno-etmoidale, punto cruciale per la ventilazione e il drenaggio dell’etmoide posteriore e del seno sfenoidale. Salendo verticalmente nel recesso sfeno-etmoidale si individua il turbinato superiore e occasionalmente il turbinato supremo, non sempre rappresentato e il più delle volte fuso insieme al turbinato superiore. Medialmente alla coda del turbinato superiore è individuabile l’ ostio naturale del seno sfenoidale che a volte è visualizzabile direttamente mentre altre volte è individuabile mediante la palpazione delicata con una courette. Individuato l’ ostio si procede al suo ampliamento utilizzando strumenti taglienti come il circular punch in direzione dapprima mediale, quindi inferiormente e, individuata visivamente la parete laterale del seno sfenoidale, anche lateralmente. Un ulteriore ampliamento delle sfenoidotomia può essere ottenuto con l’ausilio di trapano intranasale con fresa diamantata. Nell’estensione inferiore della sfenoidotomia è necessario praticare una elettocauterizzazione della porzione inferiore della parete anteriore della sfenoide per evitare un sanguinamento del ramo canale dell’arteria sfenopalatina. I limiti della sfenoidotomia sono superiormente il planum sfenoidale, lateralmente la parete laterale dello sfenoide, inferiormente il pavimento sfenoidale e inferolateralmente qualche millimetro medialmente alla congiunzione tra seno sfenoidale e pterigiode, per evitare un sanguinamento dell’arteria vidiana. Fig. 5 Visione endoscopica del recesso sfenoetmoidale sinistro (indicato dalla freccia) e del bordo coanale. Fig. 6 Visione endoscopica dell’allargamento dell’ostio naturale del seno sfenoidale con pinza a morso circolare Fig. 7 Visione endoscopica dell’allargamento dell’ostio naturale del seno sfenoidale con trapano intranasale Fig. 8 Visione endoscopica al termine della sfenoidotomia VIA TRANSETMOIDALE A MINIMA Questa via viene utilizzata raramente, di norma in presenza di modificazioni anatomiche nasosinusali che determinano una ristrettezza degli spazi utilizzati nella via tranasnasale parasettale e che quindi ne impediscono l’utilizzo. Questa via permette di raggiungere la sella passando attraverso le strutture etmoidali, risparmiandole il più possibile. Il primo tempo di tale via prevede l’ispezione del meato medio, l’individuazione del processo uncinato e della bulla etmoidale e quindi l’individuazione della seconda porzione della lamella basale del turbinato medio e la sua apertura medialmente alla bulla etmoidale. Si ha in questo modo un accesso diretto all’etmoide posteriore conservando le strutture dell’etmoide anteriore rap- 63 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 presentate dal processo uncinato e dalla bulla. Individuato l’etmoide posteriore si passa alla individuazione del turbinato superiore che è situato a livello della sua parete mediale e quindi alla sua scomposizione in senso anteroposteriore. Raggiunta la coda del turbinato superiore si individua l’ostio naturale del seno sfenoidale e si procede quindi alla sfenoidotomia. Fig. 9 Visione endoscopica dell’apertura della seconda porzione del turbinato medio con accesso diretto all’ etmoide posteriore conservando il processo uncinato e la bulla etmoidale Fig. 10 Visione endoscopica della scomposizione del turbinato superiore via etmoide posteriore per accedere all’ ostio naturale del seno sfenoidale Fig. 11 Visione endoscopica dell’allargamento dell’ ostio naturale del seno sfenoidale con pinza a morso circolare Fig. 12 Visione endoscopica finale dell’ approcio trans etmoidale a minima VIA TRANSETMOIDALE Questa via trova un utilizzo nei casi in cui l’anatomia nasosinusale non consenta un approccio transnasale parasettale, nei casi in cui siano coesistenti patologie disventilatorie sinusali meritevoli di una correzione chirurgica e nei processi espansivi sellari di grosse dimensioni con un iniziale interessamento laterale in direzione della regione parasellare. Essa consente di ottenere spazi di approccio sufficientemente ampi da poter controllare agevolmente con più strumenti la regione sellare e parasellare. L’approccio inizia con l’individuazione e l’asportazione della porzione libera del processo uncinato. Individuato l’ ostio naturale del seno mascellare si passa alla esplorazione della bulla etmoidale e alla sua asportazione partendo dal suo angolo inferomediale e proseguendo lateralmente e superiormente. Asportata la bulla risulta visualizzabile la seconda porzione del turbinato medio e procedendo alla sua apertura nell’angolo inferomediale si passa nell’etmoide posteriore. Si individua quindi il turbinato superiore che rappresenta la parete mediale dell’etmoide posteriore e asportando il turbinato stesso si raggiunge l’ ostio naturale del seno sfenoidale proseguendo quindi con la sfenoidotomia. 64 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Fig. 13 Visione endoscopica della asportazione del processo uncinato con bisturi falcato Fig. 14 Visione endoscopica dell’ .apertura della bulla etmoidale nel suo angolo infero mediale Fig. 15 Visione endoscopica dell’apertura dell’etmoide posteriore nell’angolo inferomediale della seconda porzione del turbinato medio Fig. 16 Visione endoscopica dello spostamento del turbinato superiore via etmoide posteriore con individuazione dell’ ostio naturale del seno sfenoidale Fig. 17 Visione endoscopica finale dell’ approccio transetmoidale ( SS, seno sfenoidale; SM, seno mascellare; C, coana ) VIA TRANSETMOIDO PTERIGOIDEA Questa via trova impiego in casi selezionati in cui la patologia sellare ha sconfinato ampliamente nella regione parasellare per cui si rende necessario accedere a strutture poste lateralmente. Essa consente di ottenere spazi chirurgici ampi e di poter accedere direttamente alla regione parasellare. La problematica principale di questa via è l’individuazione e il trattamento di due strutture vascolari che si attraversano durante l’approccio, rappresentate dall’arteria sfenopalatina e dall’arteria vidiana. Eseguita l’etmoidectomia e una amplia sfenoidotomia si passa al trattamento dell’arteria sfenopalatina. Si procede ad una ampia antrostomia media a spese dell’area delle fontanelle posteriori, si individua il piano sottoperiosteo e con uno scollamento in senso anteroposteriore si individua, medialmente e dorsalmente alla coda del turbinato medio, il forame dell’arteria sfenoplatina. Si procede quindi alla sua elettrocauterizzazione bipolare e alla sua sezione. L’approccio prosegue con l’apertura della fossa pterigopalatina asportando la parete posteriore del seno mascellare, quindi, asportato il processo orbitario dell’osso palatino, si trasforma il forame sfenopalatino in una doccia. Si individua così il tronco comune dell’arteria sfenoplatina che viene cauterizzata. Esponendo il contenuto delle fossa pterigoplatina si individuano l’arteria vidiana e il forame rotondo passando quindi alla elettrocauterizzazione dell’arteria. Si prosegue drillando il processo pterigoideo e il pavimento laterale del seno sfenoidale. Con questo approccio risulta raggiungibile direttamente la parete laterale del seno sfenoidale potendo così accedere al seno cavernoso e alla fossa cranica media. 65 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Fig. 18 Visione endoscopica della fine della via transetmoidale, punto di partenza della via transetmoidopterigiodea Fig. 19 Visione endoscopica dell’ individuazione dell’ arteria sfenoplatina alla sua emergenza dall’ omonimo canale Fig. 20 Visione endoscopica del forame dell’artria vidiana ( indicato dalla strumento) nel passaggio nel suo canale nel pavimento del seno sfenoidale Fig. 21 Visione endoscopica della fresatura del processo pterigiodea che permette una accesso alla strutture laterali alla sella Fig. 22 Visione endoscopica finale dell’approccio transetmoidopterigoideo. La freccia indica l’esposizione della carotide interna nel suo tratto intracavernoso. SCOMPOSIZIONE DEL SETTO INTERSFENOIDALE Punto comune di tutte le vie di approccio è la scomposizione del setto intersfenoidale per creare una cavità unica con al centro la sella. Il setto viene asportato mediante trapano intranasale con fresa diamantata cominciando dalla sua porzione anteroinferiore e procedendo in senso posterosuperiore facendo attenzione ad evitare movimenti di torsione in quanto spesso il setto si inserisce sulla salienza della carotide interna. Individuati i punti di repere rappresentati dai recessi interottico-carotidei e dalle salienze delle arterie carotidi interne si può procedere con la fresatura dell’osso sellare. Fig. 23 Visione endoscopica dell’ asportazione del setto intersfenoidale con fresa diamantata Fig. 24 Visione endoscopica finale con la creazione di un’ unica cavità sfenoidale con al centro la sella DISCUSSIONE L’approccio chirurgico endoscopico è da considerare la via di prima scelta nel trattamento delle patologie sellari e parasellari per la possibilità di ottenere campi operatori 66 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 ampi con una visualizzazione diretta e ravvicinata della patologia da trattare e per il minimo impatto sulle strutture anatomiche che precedono la lesione. La possibilità di poter lavorare nel campo operatorio con tre e con quattro mani ha amplificato ulteriormente le indicazioni di utilizzo di tale approccio permettendo di sorpassare agevolmente i limiti imputati agli approcci endoscopici a due mani e rendendo quindi possibile il trattamento di patologie estese e di patologie a ricca vascolarizzazione. La nostra esperienza maturata nell’ambito del gruppo interdisciplinare, studi anatomici dissettori e il confronto con la letteratura ci hanno condotto a parlare di approcci endoscopici alla sella descrivendo diverse vie di approccio alla regione sellare. La via più utilizzata è quella transnasale parasettale in quanto senza modificare le strutture naso sinusali permette una buana esposizione del campo sellare. La via tranasetmoidale a minima trova un impiego più limitato ma offre una valida alternativa nel caso in cui modificazioni anatomiche etmoidali o settali non consentano un approccio diretto parasettale. Questa via permette di raggiungere la regione sellare con un impatto minimo sulle strutture etmoidali. Nel caso in cui siano presenti patologie etmoidali o sia necessaria una via di approccio più ampia a causa delle dimensioni della patologia sellare risulta utile la via transetmoidale. Se infine la patologia sellare da trattare presenta una ampia estensione laterale verso il seno cavernoso e la fossa cranica media la via di scelta è quella tresetmoidopterigoidea. Questa via consente di ottenere un approccio molto ampio e inoltre consente di accedere in modo diretto alla strutture laterali. Per la sua complessità di esecuzione e per i potenziali rischi emorragici a cui si esposti, essa è da utilizzare solo in rari casi selezionati. Nell’approccio endoscopico alla sella sono quindi utilizzabili multiple opzioni nella via per raggiungere la sella. Punto cardine di tutte le vie proposte è di combinare il minor impatto possibile sulle strutture nasosinusali con il confezionamento di un approccio adeguato alla patologia da trattare. Risulta indispensabile un attento studio anatomico e dissettorio per determinare i criteri di fattibilità di un determinato approccio. Le vie proposte sono inoltre utilizzabile non solo per le patologie sellari ma possono trovare un impiego nel trattamento delle patologie clivari, della fossa cranica anteriore e media. Studi anatomici e dissettori sono in corso per verificare se l’approccio endoscopico transnasale possa essere utilizzato nel trattamento di patologie selezionate della fossa cranica posteriore. BIBLIOGRAFIA 1. Wolfsberger S., Ba-Ssalamah A., Pinker K., Mlynarik V., Czech T., Knosp E., Trattinig S. : Application of three tesla magnetic resonance imaging for diagnosis and surgery of sellar lesions. Neurosurgery 100: 278-286, 2004. 2. 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Neurol. 61:488-493, 2004. 69 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 I TUMORI DELLA TECA CRANICA I. Chiaranda, L. Bottani, L. Magrassi, C. Arienta Clinica Neurochirurgica Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università degli Studi di Pavia Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Pavia CARATTERISTICHE GENERALI Le lesioni espansive della teca cranica, che costituiscono l’1-2% di tutte le masse ossee, rappresentano una piccola ma importante porzione della pratica neurochirurgica. Queste lesioni possono essere suddivise in neoplasie primitive e secondarie, benigne e maligne e masse non neoplastiche (Tab. I) Tabella. I – Caratteristiche delle neoplasie della teca cranica. NEOPLASIE PRIMITIVE DELLA TECA CRANICA NEOPLASIE SECONDARIE DELLA TECA CRANICA TUMORI BENIGNI MALATTIA METASTATICA Osteoma Emangioma, linfangioma Neoplasie embrionarie Condroma Tumore a cellule giganti Cisti aneurismaticadell’osso Lipoma Carcinoma (polmone, mammella, rene, tiroide, prostata) Mieloma multiplo Linfoma Sarcoma di Ewing Neuroblastoma INTERESSAMENTO PER ESTENSIONE DIRETTA TUMORI MALIGNI Sarcoma osteogenico Fibrosarcoma Condrosarcoma Cordoma Estesioneuroblastoma Paraganglioma Meningioma LESIONI REATTIVE, PROLIFERATIVE E PARANEOPLASTICHE Malattia di Paget Istiocitosi a cellule di Langerhans Displasia fibrosa Iperostosi frontale interna Sinus pericranii Cefaloematoma Mucocele Cisti leptomeningea 71 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Le neoplasie secondarie raggiungono la teca cranica per diffusione ematica o per diretta estensione dai tessuti molli adiacenti. Queste lesioni sono spesso asintomatiche, ma i sintomi più tipici sono raggruppati nella Tab. II. Tabella II – Sintomi tipici delle neoplasie secondarie della teca cranica Massa sottocutanea visibile o palpabile Dolore Cefalea Massa pulsatile/rumori o fremiti Ipersensibilità Reazioni tissutali locali Effetto massa La diagnosi può essere fatta mediante RX cranio, tomografia computerizzata (TAC), risonanza magnetica nucleare (RMN) e angiografia (Tab. III) Tabella III – Modalità diagnostiche delle neoplasie della teca cranica RX CRANIO • • • • • • Caratteristiche radiologiche generiche Sclerosi periferica Dimensioni e sede Origine Bordi Struttura in trasparenza TAC • • Dettagli dell’osso corticale Mineralizzazione della matrice RMN • • • • Complementare alla TAC Componenti della massa Interessamento di meningi, cervello, strutture neurovascolari Enhancement ANGIOGRAFIA • • Lesioni vascolari Embolizzazione preoperatoria TRATTAMENTO CHIRURGICO Il trattamento dei tumori della teca cranica dipende dalle dimensioni, dalla sede e dall’istologia della lesione, così come l’utilizzo di chemio e radioterapia. Le difficoltà chirurgiche consistono nel rischio di copiose emorragie, nell’interessamento di seni venosi, in particolare del seno sagittale superiore, e nel trattamento dei difetti cutanei e ossei. Il trattamento chirurgico consiste nel curettage e nel drillaggio dell’osso per lesioni piccole e super- 72 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 ficiali, e nella craniotomia per le lesioni più grandi. La rimozione può essere parziale o totale, in base alle strutture coinvolte. La successiva riparazione chirurgica dei difetti maggiori dello scalpo e della volta cranica ha due scopi principali: protezione cerebrale e estetica. RICOSTRUZIONE DELLO SCALPO Il trattamento dei difetti dei tessuti molli dipende dalla quantità di tessuto perso e dal tipo di tessuto esposto. L’incisione della galea permette la chiusura di un difetto di tre centimetri per avanzamento dei bordi della ferita. Le ferite in cui la perdita di tessuti molli è così estesa che i bordi cutanei non possono essere avvicinati, vengono chiuse sia con innesti cutanei che con lembi. Gli innesti cutanei coprono qualunque ferita abbia una circolazione capillare che sarà poi in grado di provvedere al nutrimento dell’innesto stesso. Le ferite con esposizione di strutture vitali, o che non sono abbastanza irrorate, necessitano di un lembo, poiché esso apporta il proprio rifornimento di sangue. Le ferite troppo grandi per essere coperte da un lembo di vicinanza di solito richiedono un lembo libero: in questo caso la circolazione sanguigna è ripristinata dall’anastomosi microchirugica del lembo stesso, utilizzando l’arteria temporale superficiale o altre branche dell’arteria carotide esterna al collo, che provvedono alla vascolarizzazione del lembo donatore. Espansori tissutali vengono posizionati in sede adiacente al difetto in una tasca subgaleale: essi aumentano la superficie cutanea per la ricostruzione dello scalpo. Quando vengono rimossi, il lembo di scalpo che si ottiene viene utilizzato per la chiusura del difetto. CRANIOPLASTICA Il calvarium è composto da tre differenti strati nell’adulto: lamina interna, esterna e diploe. E’ coperto da periostio su entrambe le superfici esterna ed interna: a livello di quest’ultima esso si fonde con la dura per formare lo strato esterno di essa. Tutti i difetti ossei maggiori di due-tre centimetri dovrebbero essere presi in considerazione per una ricostruzione. Questa decisione varia in base alla sede del difetto: anche piccoli difetti dell’area frontale possono essere fastidiosi per il paziente, e devono quindi essere riparati, mentre difetti dell’osso temporale o occipitale, che sono coperti dallo spessore dei muscoli, non sono di solito trattati, se non per proteggere l’encefalo. SCELTA DEI MATERIALI Mesh in titanio Utilizzate per difetti medio-piccoli, vengono tagliate e modellate manualmente dal chirurgo in sala operatoria (Fig. 1) Figura. 1 - Mesh in titanio 73 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Osso autologo È il materiale preferito da molti chirurghi poichè viene incorporato dall’ospite come innesto vivente grazie alla propria vascolarizzazione e alla concomitante creeping substitution. Queste caratteristiche permettono una ricostruzione poco suscettibile a successivi processi infettivi. Le sedi tipiche di prelievo di osso includono le coste, la teca cranica (dopo craniotomia a pieno spessore, il tavolato esterno viene separato da quello interno con un drill posto a livello della diploe, dopodichè il tavolato esterno viene riposizionato nella stessa sede e quello interno utilizzato per riparare il difetto osseo) e la cresta iliaca. L’uso di osso però comporta l’insorgenza di numerose complicanze ed è associato ad alta incidenza di morbilità come il dolore nella sede di prelievo, l’aumento della perdita ematica, l’aumento dei tempi chirurgici, la presenza di ulteriori cicatrici. Inoltre spesso la quantità di osso autologo prelevabile per l’innesto risulta insufficiente. Di conseguenza nel corso degli anni si è ricorsi a materiali sintetici in grado di funzionare come sostituti ossei (cementi, polimeri, bioceramiche). Metilmetacrilato Oggi, il materiale più comunemente usato per la cranioplastica è il metilmetacrilato, resina acrilica dotata di adeguata resistenza meccanica. I vantaggi sono il facile utilizzo e la mancanza di morbidità del sito donatore. E’ radiotrasparente, e quindi non entra in conflitto con la diagnostica radiologica postoperatoria; non è soggetto alla temperatura. Il kit da cranioplastica contiene polimero in polvere e monomero liquido che verranno mescolati con una spatola dal chirurgo per formare un composto che verrà poi posizionato e adattato manualmente sul difetto osseo. Il processo di modellamento avviene sotto continua irrigazione per evitare un danno termico al cervello e alla dura. L’impianto sarà poi fissato con placchette e microviti. Gli svantaggi sono la reazione esotermica del polimero con necrosi cellulare ossea all’interfaccia tra osso e cemento, la bassa resistenza meccanica, la suscettibilità a infezioni e lo scarso risultato estetico. Materiali porosi Polietilene e polimetilmetacrilato/poliidrossimetilmetacrilato (Fig. 2). Piccoli difetti ossei vengono immediatamente riempiti durante l’intervento: il chirurgo modella l’impianto dopo immersione in soluzione salina sterile portata ad alta temperatura Sono impianti di nuova generazione, la cui porosità permette un certo grado di integrazione da parte dell’ospite, in opposizione all’incapsulamento fibroso visto con gli impianti a superficie liscia (metilmetacrilato). Si tratta però di materiali inerti che non possono essere vascolarizzati, e sono suscettibili a infezioni e a reazioni da corpo estraneo. Figura 2 74 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Idrossiapatite (Fig. 3) Biomateriale ceramico composto da calcio-fosfato, simile nella struttura chimico-fisica e geometrica all’osso umano. Rilascia ioni-fosfato nell’ambiente fisiologico circostante agevolando la neo-osteogenesi e integrandosi con processi di osteoconduzione: la porosità del materiale è il punto chiave per l’ancoraggio dello stesso al tessuto osseo mediante la formazione di un’interfaccia non solo di tipo fisico, ma di tipo biologico-invasivo. La colonizzazione osteoblastica della protesi conferisce caratteristiche simili all’osso vitale, con un comportamento biologico attivo, in grado di promuovere processi riparativi. Figura 3 PROTESI “CUSTOM MADE” Metodica che consiste nell’importazione ed elaborazione (operazione di tresholding con software dedicati) di immagini TAC, acquisite con protocollo definito. Si tratta di tecniche che garantiscono ottima resistenza meccanica, bassi rischi d’infezione, assai ridotti tempi d’intervento chirurgico, il miglior risultato estetico per il paziente. La progettazione delle protesi segue tre metodiche differenti: 1) Si realizza tramite stereolitografia 3D (tecnica di fotopolimerizzazione) o sintetizzazione, un modello anatomico tridimensionale del cranio del paziente in resina epossidica, necessario per la modellazione di un dispositivo uguale al difetto osseo, e successiva lavorazione di un blocco di idrossiapatite porosa fino a ottenere una sagoma identica al modello approvato. 2) CAD/CAM (Fig. 4) Si progetta la protesi cranica in ambiente CAD (ComputerAided Design) 3D. Le immagini TAC del difetto osseo forniscono informazioni digitali che possono essere trasferite a un software di progettazione o di acquisizione di macchine ad esportazione di materiale (CAM o Computer-Aided Manufacture). In pratica, i dati che descrivono i bordi e le caratteristiche del cranio che circonda il difetto osseo vengono utilizzate per progettare un impianto “fatto su misura”. I dati elettronici della protesi così ottenuti sono poi usati da un sistema di manufacturing per creare un modello in cera che viene poi trasformato nella protesi definitiva. Questa metodica è disponibile per vari materiali (soprattutto materiali porosi). 75 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Figura 4 3) Si progetta la protesi cranica tramite software 3D dedicati. Il file del dispositivo viene poi utilizzato per la creazione di un modello anatomico della protesi in resina 76 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 acrilica, tramite tecniche di rapid prototyping e, a partire dal modello si ottiene uno stampo in silicone nel quale si versa il PMMA in fase di polimerizzazione. CASISTICA PERSONALE Abbiamo analizzato retrospettivamente una serie di 18 lesioni espansive della volta cranica (Tab. IV) che hanno presentato delle peculiarità neuroradiologiche e/o chirurgiche. Pertanto abbiamo escluso gli osteomi e i granulomi eosinofili che costituiscono gli istotipi più frequenti in tale sede e che non comportano problematiche dal punto di vista diagnostico e chirurgico. Si tratta di 9 uomini e 9 donne ricoverati fra il 1999 e il 2006. Tutti hanno eseguito una TAC cerebrale o una RMN. I tipi istologici sono stati i seguenti: 9 casi di metastasi, 3 casi i plasmocitomi senza segni di malattia disseminata, 2 casi di osteoangioma, 1 ascesso tubercolare, 1 istiocitosi X, 1 displasia fibrosa e 1 meningioma intradiploico. Per quanto riguarda la sintomatologia clinica, in quasi tutti i casi i è trattato di riscontro occasionale di tumefazione apprezzabile attraverso i tessuti sottocutanei, dolente o no alla palpazione. In un solo caso (plasmocitoma solitario) vi era stata una storia di crisi comiziali parziali motorie iniziata 5 anni prima. In tutti i casi di metastasi vi era erosione ossea: in alcuni di essi la localizzazione cranica è stata il primo segno della malattia. L’interesse dei tre casi di plasmocitoma risiede nel fatto che si trattava di una localizzazione isolata senza manifestazioni sistemiche di mieloma multiplo e la cui asportazione radicale non seguita da radioterapia ha consentito una buona prognosi. Il caso di osteoangioma era associato ad aneurisma cirsoideo del cuoio capelluto al vertice: la lesione era vascolarizzata dalle arterie occipitali, temporali e meningee ed è stata sottoposta ad embolizzazione preoperatoria. Non vi è stata mortalità intra o perioperatoria. In tutti i pazienti l’asportazione della lesione è stata ra77 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 dicale, accompagnata però in alcuni casi da copiose perdite ematiche. Le protesi sono state fissate con placche e microviti. Una TAC di controllo è stata eseguita nel postoperatorio per evitare le immediate complicanze, a un mese per valutare il corretto posizionamento dell’impianto che a quell’epoca può ancora essere riposizionato poiché non ancora ossificato, a sei, dodici e ventiquattro mesi per valutare la corretta ossificazione dei margini dell’impianto. CONCLUSIONI Malgrado la loro rarità i tumori della volta cranica possono porre dei problemi al neurochirurgo per quanto riguarda il loro trattamento: 1) Alcuni di essi particolarmente vascolarizzati comportano delle copiose perdite ematiche intraoperatorie, soprattutto se non vi è stata un’embolizzazione preoperatoria dei vasi afferenti; 2) La maggior parte di essi richiede una riparazione del difetto osseo con una cranioplastica che può essere particolarmente estesa; 3) Quando vi è coinvolgimento del piano cutaneo da parte della lesione si richiede una soluzione prettamente plastica per la riparazione del difetto. §§§§§§§§§§§§§§ Di seguito verrà mostrata la nostra casistica (Tab. IV) e alcuni dei casi più significativi dei tumori della teca cranica riassunti nella tabella (Figg. 5, 6, 7, 8, 9). §§§§§§§§§§§§§§ 78 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Tabella IV - Casistica personale. Una cranioplastica è stata eseguita in 11 casi con differenti materiali. 79 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Figura 5 - CT scan di una vasta displasia fibrosa parieto-occipitale destra Figura 6 - Metastasi da carcinoma renale; lo studio agiografico mostra l’ipertrofia dell’arteria occipitale che vascolarizza il tumore 80 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Figura 7 - Osteoangioma del vertice, embolizzato preoperatoriamente Figura 8 - Plasmocitoma della convessità parietale sx, a livello della quale si può apprezzare l’ipertrofia del drenaggio venoso e delle arterie temporale superficiale e occipitale che vascolarizzano il tumore 81 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Figura 9 - Meningioma intradiploico del vertice con interessamento del seno sagittale superiore (rimozione subtotale) BIBLIOGRAFIA 1) Malis LI. 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Section II 83 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 EFFETTI DELLA V.A.C. TERAPIA SUL TESSUTO DI GRANULAZIONE: DATI BIOCHIMICI ED ISTOLOGICI Silvia Scevola, Giovanni Nicoletti, Angela Faga Cattedra di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo Università di Pavia Divisione di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva Fondazione Salvatore Maugeri, Pavia INTRODUZIONE La Vacuum Assisted Closure (V.A.C.® Therapy) è frutto della sofisticata rielaborazione di una procedura chirurgica standard, quale l’uso di drenaggi ad aspirazione per rimuovere sangue, siero o altri fluidi da una ferita. La parte principale del sistema è rappresentata da un’unità aspirante, controllata da un microprocessore, preposto al controllo dei livelli di pressione negativa, compresi tra -25 e -200 mmHg, in funzionamento continuo o intermittente (Foto 1). Foto 1 - V.A.C.® PUMP (KCI) 85 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 La pressione negativa viene applicata al sito da trattare attraverso un tubo con una spugna in materiali diversi, a seconda degli scopi clinici, che viene sigillata alla cute sana circostante con un film di poliuretano adesivo (Foto 2). Foto 2 - V.A.C. pump in funzione in sede in decubito sacrale La V.A.C.® therapy fu approvata dalla FOOD and DRUG ADMINISTATION nel 1995 per consentire il trattamento di ferite che includevano ustioni estese, ulcere diabetiche, ulcere da pressione, deiscenze di ferite chirurgiche, lembi, innesti, ulcere traumatiche, e altre ferite di difficile guarigione. Nel 1997 venne assegnata una licenza universale alla Kinetic Concepts, Inc., San Antonio, TX (KCI), che da allora produce apparecchi sempre più innovativi per l’utilizzo della V.A.C.® Therapy. E’ stato stimato che circa il 2% della popolazione svilupperà nel corso della vita un’ulcera cronica, con un tasso di mortalità attorno al 2,5%. La VAC® terapia ha profondamente cambiato l’approccio clinico alla guarigione delle ulcere croniche, incluse le lesioni da pressione (decubiti), deiscenze di ferite, ulcere da stasi venosa, ulcere diabetiche. I pazienti affetti da ulcere croniche che non sono ottimi candidati per procedure ricostruttive vengono trattati con la VAC® finchè l’ulcera non si sia stabilizzata o finchè le sempre presenti comorbidità non siano sotto controllo, consentendo la chiusura definitiva in condizioni elettive con innesti, lembi o biomateriali. Numerosi studi sono stati condotti per capire i meccanismi d’azione con cui l’applicazione di una pressione subatmosferica alle ferite aumenta la velocità di guarigione, ma le basi fisiologiche responsabili del successo clinico della VAC® non sono ancora state del tutto chiarite. A fronte di una ricchissima letteratura volta a dimostrare l’efficacia clinica di questo 86 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 presidio per la guarigione tissutale in svariati contesti clinici (1-22), pochi sono invece gli studi sperimentali su ulcere croniche trattate con VAC® terapia (23-26). Nessuno studio morfologico e biochimico su campioni del tessuto di granulazione indotto dalla VAC® in ulcere croniche nell’uomo è stato finora pubblicato. OBIETTIVI Lo scopo di questo studio è stato quello di verificare gli effetti della VAC® terapia sul tessuto di granulazione in ulcere croniche (lesioni da pressione e post- traumatiche) da un punto di vista morfologico e biochimico. MATERIALI E METODI SELEZIONE DEI PAZIENTI Criteri di inclusione Pazienti portatori di ulcere croniche (LDP e post-traumatiche) di ogni età e sesso, ricoverati nei reparti di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva e di Neuroriabilitazione del Centro Medico di Pavia della Fondazione S. Maugeri, in condizioni cliniche generali stabilizzate in IV stadio evolutivo secondo la stadiazione NPUAP (National Pressure Ulcer Advisory Panel) (27) (vd. Tab.I), con esposizione di tessuti profondi già sottoposte a debridement chirurgico della necrosi, senza segni di infezione locale, in cui già era avviato il processo di riparazione con deposizione di tessuto di granulazione. Tabella I - Classificazione lesioni da pressione in base alla profondità secondo NPUAP. I STADIO II STADIO III STADIO Eritema fisso Disepitelizzazione Esposizione tessuti profondi fino alla fascia IV STADIO Esposizione osso e/o tessuti profondi sottofasciali Criteri di esclusione: − − − − − Sierologia positiva per: HAV, HBV, HCV, HIV Presenza di fistole Assenza di granulazione o scarsità di tessuto Infezione di ferita intesa come esame colturale con conta batterica > 105 / g di tessuto Presenza di tessuti necrotici In tutto sono stati arruolati 25 pazienti, 22 maschi e 3 femmine, di età compresa tra 20 e 80 anni dal gennaio 2005 all’agosto 2006, ciascuno portatore di un’ulcera cronica. Le sedi delle ulcere erano: sacro (12), tallone (5), ischio (4), tibia (2), malleolo (1), trocantere (1). 23 erano lesioni da pressione, 2 post-traumatiche. La preparazione dell’ulcera è consistita nella medicazione con i trattamenti standard 87 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 come da protocollo di medicazione delle perdite di sostanza croniche da noi messo a punto e regolarmente impiegato, con frequenza variabile a seconda delle condizioni cliniche locali delle ulcere. Prima dell’applicazione della VAC® si eseguiva il prelievo di tessuto di granulazione dal fondo. Si è stabilito di eseguire il primo prelievo di tessuto di granulazione indotto da VAC® dopo almeno 10 giorni dalla prima applicazione e gli eventuali prelievi successivi a distanza di almeno 3 settimane l’uno dall’altro. Tecnica di prelievo Dal fondo di ogni ulcera è stato prelevato in media un grammo di tessuto di granulazione sia per lo studio morfologico che per quello biochimico, previa detersione dell’ulcera con garze sterili imbevute di Soluzione Fisiologica. I prelievi sono stati effettuati con un bisturi e una pinza chirurgica. Ciascun campione è stato lavato con Soluzione Fisiologica, per eliminare parte del sangue in esso presente. Il campione destinato alla biochimica veniva conservato in refrigeratore in contenitori sterili a -20°C, quello destinato all’istologia veniva fissato in formalina al 20%. A ogni prelievo sono stati misurati i parametri di area e profondità della lesione ed è stata raccolta documentazione fotografica digitale standardizzata (1280x960 pixel distanza focale 30 cm, asse ottico ad angolo retto con il piano dell’ulcera) per valutare la progressione clinica della lesione. La misura dell’area è stata automaticamente calcolata con ImageJ, un programma Java di processazione delle immagini, di dominio pubblico, che attraverso un algoritmo permette di estrapolare dal perimetro di una superficie irregolare selezionata l’area corrispondente (28, 29). I campioni di tessuto di granulazione prelevati sono stati processati e analizzati presso i laboratori del Dipartimento di Biochimica della Facoltà di Scienze e dell’Anatomia Patologica del Dipartimento di Patologia Umana ed Ereditaria dell’Università di Pavia. BIOCHIMICA Estrazione di proteine in condizioni dissocianti Il tessuto di granulazione sminuzzato meccanicamente viene sospeso in 10 volumi (v/w) di PBS (Sigma) in presenza di inibitori delle proteasi (Protease Inhibitor Cocktail Tablets (Roche) e PMSF 1 mM per 2h a 4°C. Al termine del lavaggio il tessuto, recuperato per centrifugazione a 13000 rpm a 4°C per 5 min. viene sospeso in 10 volumi (v/w) di tampone sodio acetato, 50 mM, pH 6.0 contenente cloruro di guanidinio (GuHCl) 4M ed inibitori delle proteasi, per 24h a 4°C. Dopo centrifugazione a 13000 rpm a 4°C per 5 min. il pellet viene eliminato e il surnatante viene misurato e precipitato con 9 volumi di etanolo assoluto freddo per 24h a 4°C. Dopo centrifugazione a 10000 rpm a 4°C per 20 min. il surnatante viene eliminato e il pellet lavato per 2 volte con una miscela di etanolo:acqua =20:1. Il pellet così ottenuto viene ripreso direttamente nella soluzione dissociante e opportune quantità (10µl) vengono caricate in elettroforesi (SDS-PAGE). 88 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Elettroforesi su gel di poliacrilamide in presenza di SDS (SDS-PAGE) L’elettroforesi viene condotta secondo il metodo di Laemmli su gel di dimensioni 80x73x0.75 mm, con apparecchiatura Miniprotean II Biorad. Reattivi per la preparazione del gel: 1. 2. 3. 4. 5. 30% Acrylamide/Bis Solution, 37.5:1 (2.6% C) (Bio-Rad) Tris/acido cloridrico 1.5 M, pH 8.8 Tris/acido cloridrico 0.5 M, pH 6.8 Ammonio persolfato (APS) 10% TEMED (Tetra-metiletilendiammina). Reattivi per la corsa elettroforetica: 6. Tris/acido cloridrico 24 mM, glicina 192 mM, pH 8.3 7. Soluzione dissociante: SDS 2% (p/v), DL-ditiotreitolo 0.5% (p/v), glicerolo 10% (v/v), blu di bromofenolo 0.01% (p/v). Reattivi per la colorazione del gel: 8. soluzione fissante:metanolo 50% (v/v), acido acetico 7% (v/v) 9. soluzione colorante: acido picrico 0.08 M, CoomassieBrillant Blue 0.04% (p/v), metanolo 9% (v/v), acido acetico 2% (v/v) 10. soluzione decolorante: acido acetico 10% (v/v). Dopo la preparazione del gel secondo metodiche standard i campioni vengono preparati per elettroforesi aggiungendo un volume di reattivo 7 (soluzione dissociante 2x) ed incubando a 100 °C per 3 minuti. L’elettroforesi viene condotta applicando una corrente di 150 V durante la corsa, al termine della quale il gel viene fissato per 1h con la soluzione 8, colorato per 30 minuti con la soluzione 9 e poi decolorato con ripetuti cambi del reattivo 10 a temperatura ambiente. ISTOLOGIA I campioni fissati in formalina sono stati inclusi in paraffina e successivamente tagliati e colorati parte con ematossilina-eosina, per una valutazione dell’architettura generale del tessuto, parte con tricromica di Masson, colorazione particolarmente indicata per la determinazione delle fibre collagene e delle cellule connettivali. Le fibre collagene sono state studiate da un punto di vista morfologico e dall’intensità della colorazione; un punteggio da 1 a 4 è stato assegnato a ciascun campione, dove 1= fibre collagene ad andamento lineare, ossia alterate; 4= fibre collagene con un andamento “a ricciolo d’angelo”, ossia istologicamente normali. Lo stesso punteggio da 1 a 4 è stato assegnato all’intensità della colorazione del collagene, laddove 1=colorazione azzurro-verde, bassa concentrazione di collagene , 4= blu-verde intenso, alta concentrazione di collagene. Inoltre si è determinata la proliferazione cellulare con tecnica immunoistochimica usando anticorpi contro il Ki 67, un anticorpo che colora le cellule che sono andate incontro a mitosi nelle 24 ore precedenti. La proliferazione è stata espressa come numero di cellule colorate per cento. La neo-angiogenesi è stata determinata contando i vasi sanguigni ad un ingrandimento di x40 L’osservazione microscopica è stata effettuata sia al microscopio luce tradizionale, sia in luce polarizzata. 89 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 RISULTATI RISULTATI CLINICI Il cambio della medicazione è avvenuto ogni 3 giorni; il tempo medio di applicazione della VAC® terapia è stato di 39 giorni (min 11, max 90 giorni). Il numero totale di prelievi tissutali eseguiti è stato di 98, di cui 49 destinati allo studio morfologico e 49 a quello biochimico. In 23 pazienti sono stati prelevati 2 campioni di tessuto di granulazione a crescita spontanea prima del trattamento VAC®: uno per l’esame istologico e uno per l’esame biochimico. Nell’ambito di questi 23 pazienti, a 13 pazienti è stato possibile successivamente prelevare tessuto di granulazione indotto da VAC® terapia, sempre in campioni doppi. In 9 di questi pazienti è stato inoltre possibile eseguire almeno due doppi prelievi distanziati di almeno 3 settimane l’uno dall’altro. Sui campioni prelevati in questi 13 pazienti è stato quindi possibile confrontare il tessuto prima e dopo trattamento VAC®. In 2 pazienti si è studiato solo il tessuto di granulazione indotto dalla VAC®, senza possibilità di un confronto basale, per l’esiguità del tessuto che ricopriva il fondo all’inizio dello studio e che sarebbe stato eticamente non corretto ulteriormente ridurre a scopi di ricerca (Tab. II) . Tabella II - Quadro sinottico della distribuzione dei campioni di tessuto di granulazione sottoposti ad osservazione istologica. Ldp=lesione da pressione. n.r.=neuroriabilitazione. c.p.=chirurgia plastica. S= granulazione spontanea. VAC= granulazione VAC-indotta. PZ sf pc mg bg cl cg vm bm pe ge te mg lv gg as se ml sc bd cb vz ac ct lr bb ETA' 64 62 60 25 24 45 67 68 69 43 20 50 55 26 60 31 51 79 77 23 56 25 58 59 80 SESSO REPARTO ULCERA m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp f n.r. ldp f n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m n.r. ldp m c.p. trauma f n.r. ldp m n.r. ldp m c.p. trauma m n.r. ldp m c.p. ldp SEDE PREL TOT sacro 4 ischio 1 sacro 1 sacro 3 sacro 3 sacro 3 sacro 1 sacro 2 tallone 2 tibia 1 trocantere 2 tallone 1 tallone 1 sacro 3 ischio 1 tallone 2 ischio 4 sacro 4 sacro 1 tibia 1 sacro 2 ischio 2 malleolo 2 sacro 1 tallone 1 PRE S 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 0 1 1 0 1 PREL VAC 3 0 0 2 2 2 0 2 2 0 1 0 0 2 0 1 3 3 0 0 2 1 1 1 0 90 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 In tutte le ulcere trattate con VAC® la crescita tissutale è stata decisamente stimolata, dando luogo a tessuto di granulazione florido, dall’aspetto rosso vivo, ben sanguinante e in quantità tale da ridurre le dimensioni di tutte le ulcere (Foto 3 e 4) e, nei 2 casi di origine traumatica obliterare la perdita di sostanza, consentendo la successiva copertura con un innesto dermo-epidermico. Nessun problema clinico si è verificato in conseguenza dell’applicazione della VAC®, né a livello locale né dal punto di vista delle condizioni generali. Foto 3 - PDS da trauma tibia ant. dx; crescita spontanea (S). Foto 4 - PDS tibia ant.dx; crescita V.A.C. indotta (VAC). Tempo permanenza trattamento con V.A.C. 11 gg. 91 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 RISULTATI BIOCHIMICI Il trattamento di un tessuto con una soluzione contenente cloruro di guanidinio (GuHCl) permette la solubilizzazione di gran parte delle proteine di matrice extracellulare come glicoproteine e proteoglicani e solo in piccola misura della componente collagenica. Il GuHCl infatti è in grado di eliminare tutti i legami non covalenti che sono alla base dell’architettura delle matrici, permettendo così il passaggio in soluzione delle proteine presenti. Aliquote dei due tessuti di granulazione sono state trattate con GuHCl 4M, in rapporto peso/volume identico. Le proteine solubilizzate sono state caratterizzate mediante SDS-PAGE (elettroforesi in condizioni dissocianti) e il risultato è riportato in Foto 5. Tale risultato è costante in tutti i campioni di tessuto da noi esaminati, che appaiono pertanto caratterizzati dalla stessa estraibilità delle proteine presenti (bande con identica intensità di colorazione) e dallo stesso pattern proteico (bande con la stessa mobilità elettroforetica). Questo dato è sicuramente preliminare ma è un indice sicuro dell’assenza di macroscopiche differenze di composizione tra due tipi di tessuto esaminato. Informazioni più dettagliate potrebbero essere ottenute sottoponendo lo stesso estratto ad una elettroforesi bidimensionale, in grado di evidenziare differenze di composizione di minor entità Foto 5 - Tracciato elettroforetico delle proteine estratte dal tessuto di granulazione a crescita spontanea (S) e indotto da VAC terapia (V). 92 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 RISULTATI ISTOLOGICI In tutti i campioni, sia quelli a crescita spontanea, sia quello indotto da VAC®, si osserva la presenza di tessuto di granulazione, caratterizzato da fenomeni di angiogenesi (neovascolarizzazione) associata alla proliferazione di elementi fibroblastici. L’aspetto comune è quello della formazione di una delicata rete di vasi capillari che tendono ad avere decorso rettilineo ed a ramificarsi dicotomicamente. Il numero dei capillari mostra variazioni da area ad area dei diversi campioni con valori medi di 50-60 strutture vasali sezionate trasversalmente / mm2 (5 campi ad alto ingrandimento microscopico). I vasi neoformati mostrano endoteli in genere prominenti endoluminalmente, deposizioni parietali di fibrina e frequentemente, granulociti in diapedesi intraparietale. All’interno del tessuto di granulazione i vasi neoformati appaiono in diverso stadio “maturativo” variando da strutture con parete sottile rivestita internamente da un singolo strato di elementi endoteliali a strutture con parete di maggiore spessore presentante, oltre alle cellule endoteliali, elementi di tipo periendoteliale (cellule muscolari della parete vascolare) e pericitario. In prossimità di alcuni vasi capillari sono rilevabili plurifocalmente elementi endoteliali con nuclei periferizzati da singoli vacuoli intracitoplasmatici, corrispondenti ad abbozzi intracellulari di lumi vascolari. In tutti campioni si rilevano anomalie delle capacità di barriera delle strutture vascolari neoformate, con edema dei tessuti perivascolari, focali microstravasi di emazie ed occasionale presenza di pigmento emosiderinico. Sono inoltre presenti nei vari campioni deposizioni confluenti (“laghi”) di materiale fibrinoso intensamente eosinofilo comprendenti sottili spazi fissurali contenenti sparse emazie. Nelle aree periferiche di tali depositi si notano plurifocalmente microaggregati di strutture tubulari a contenuto ematico di aspetto congestizio, solo parzialmente endotelizzate. L’interstizio variamente edematoso è sede di proliferazione di elementi di tipo fibroblastico e miofibroblastico di forma da ovalare a poligonale, con nuclei “rigonfi” e nucleoli modicamente prominenti, citologicamente simili a fibroblasti in coltura. In tutti i campioni si osservano più o meno estesi aspetti di transizione verso la formazione di un tessuto connettivo maturo con deposizioni di tralci di collagene neoformato che mostra tintorialità bluastra nei preparati colorati con tricromica di Masson e che appare birifrangente all’esame in luce polarizzata. Nelle aree di fibrosi riparativa più avanzata i vasi neoformati appaiono compressi dai depositi extracellulari di materiale collagene e si osservano fibroblasti uniformemente dispersi, con aspetti citologici di transizione fra elementi “attivati” e “quiescenti”, tendendo alla forma fusata e presentando nuclei allungati di dimensioni ridotte e nucleoli inapparenti o di piccole dimensioni. In tutti i campioni risultano inoltre costantemente presenti elementi infiammatori. Nelle aree con matrice extracellulare lassa e vasi capillari in stadio “maturativo” iniziale gli infiltrati flogistici appaiono prevalentemente costituiti da granulociti neutrofili che focalmente mostrano fenomeni di carioressi con formazione di “polvere nucleare”. Ad essi si associano rari mastociti, linfociti e plasmacellule. Queste ultime cellule infiammatorie divengono progressivamente più evidenti, anche se relativamente limitate numericamente, nelle aree di fibrosi riparativa più avanzata, ove tendono a disporsi periva- 93 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 scolarmente. In alcune di tali aree è inoltre presente un numero relativamente rilevante di granulociti eosinofili. In sintesi non si sono osservate differenze morfologiche tra i campioni di tessuto a crescita spontanea e i campioni di tessuto stimolato dalla V.A.C. (Foto 6-9): non è stata riscontrata alcuna differenza nella qualità e quantità di collagene depositato, valutato dall’intensità della colorazione, né in termini di proliferazione cellulare, valutata come numero di cellule positive per il Ki67, né di neoangiogenesi tra i 2 diversi tipi di campioni. Foto 6 - Campione di tessuto di granulazione spontaneo. Colorazione Ematossilina Eosina; 400x. Ben evidenti fibroblasti uniformemente dispersi, con tendenza alla forma fusata; coesistono abbondanti elementi infiammatori. 94 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Foto 7 - Campione di tessuto di granulazione indotto da VAC. Colorazione Ematossilina Eosina; 200x. Non si apprezzano grossolane variazioni morfologiche a carico degli elementi cellulari rispetto al campione della foto 6. Foto 8 - Campione di tessuto di granulazione spontaneo. Colorazione Tricromica di Masson; 200x. Sono evidenti tralci bluastri di collagene neoformato con vasi ectasici e fibroblasti uniformemente dispersi. 95 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 Foto 9 - Campione di tessuto di granulazione indotto da VAC. Colorazione Tricromica di Masson; 400x. Non si apprezzano variazioni morfologiche né a carico degli elementi cellulari né a carico dei depositi extracellulari rispetto al campione della foto 8. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI L’uso della V.A.C.® terapia in medicina può essere considerato un presidio terapeutico utile e finalizzato ad accelerare i tempi di guarigione delle ulcere cutanee in 4° stadio evolutivo. Pur essendo scarsi gli studi che evidenziano la natura del fine meccanismo alla base dell’accelerazione della crescita del tessuto di granulazione, si può affermare che l’uso di tale terapia ha certamente una base empirica che lo può ricondurre nell’ambito della Evidence Based Medicine. Rimane comunque importante cercare di capire questi meccanismi sia per poter valorizzare al massimo la tecnologia in questione, sia per approfondire le conoscenze sui meccanismi di rigenerazione tissutale. In questo studio ci si è proposti di indagare se l’applicazione di una pressione negativa con VAC® terapia a ulcere croniche provochi delle modificazioni cellulari e nella matrice collagenica che diano una spiegazione biologica alla evidenza clinica di un aumento di deposizione di tessuto di granulazione. Inoltre abbiamo voluto verificare la sicurezza della metodica a livello cellulare; certamente l’utilizzo della VAC® da ormai circa 15 anni e la sua diffusione in tutto il mondo tra le diverse specialità mediche in assenza di segnalazioni di effetti negativi, se utilizzata secondo indicazioni, rappresenta una risposata indiretta al requisito di sicurezza. Tuttavia il meccanismo d’azione e l’effetto a livello cellulare e sub-cellulare non è chiarito. Una così rapida proliferazione di tessuto non potrebbe tradursi in una trasformazione in senso neoplastico delle cellule che lo compongono? Il collagene depositato ha caratteristiche di normalità? Potrebbero esservi elementi cellulari anomali o completamente estranei re- 96 Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia « La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia » Pavia, 17 novembre 2006 clutati attraverso il circolo da una aspirazione esercitata per lunghi periodi sui tessuti? Per cercare di rispondere a queste domande abbiamo deciso di confrontare il tessuto di granulazione indotto dalla VAC® con quello a crescita spontanea da un punto di vista istologico e biochimico. Lo studio biochimico ha dimostrato che il tessuto di granulazione a crescita spontanea e quello stimolato dalla V.A.C.® sono caratterizzati dalla stessa estraibilità delle proteine presenti e dallo stesso pattern proteico. Questi dati si allineano integralmente con i risultati dell’ indagine morfologica. Non è stato infatti possibile evidenziare alcuna differenza morfologica all’indagine microscopica tradizionale. Si può pertanto affermare che la variazione positiva nella velocità di rigenerazione tissutale mediante l’uso di V.A.C.® Therapy non è correlata a grossolane alterazioni nei tessuti rigenerati. Pertanto possiamo concludere, in prima approssimazione, che l’uso della V.A.C.® Therapy è da considerare sicuro, in quanto non pare alterare i tessuti stimolati. I fini meccanismi responsabili dell’accelerazione nel processo rigenerativo sono verosimilmente correlati alla stimolazione di fattori umorali. Variazioni cellulari più fini potrebbero verosimilmente essere identificate con tecniche di caratterizzazione in grado di evidenziare variazioni a livello molecolare. BIBLIOGRAFIA 1) Argenta LC , Morykwas MJ. Vacuum-assisted closure: a new method for wound control and treatment: clinical experience. 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