Atti - Università degli Studi di Pavia

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Atti - Università degli Studi di Pavia
Atti
Pubblicati on line
all’indirizzo web
www.unipv.it/webchir/atti/attircs2006.htm
a cura della Segreteria Organizzativa
del Dipartimento di Scienze Chirurgiche
Rianimatorie-Riabilitative
e dei Trapianti d’Organo
dell’Università degli Studi di Pavia
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
FONDAZIONE I.R.C.C.S. POLICLINICO “S. MATTEO”
- PAVIA -
ATTI DELLA
I RIUNIONE ANNUALE CLINICO-SCIENTIFICA
DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE CHIRURGICHE,
RIANIMATORIE-RIABILITATIVE
E DEI TRAPIANTI D’ORGANO
LA RICERCA SPERIMENTALE
E CLINICA
IN CHIRURGIA
Pavia, 17 Novembre 2006
Aula M. Campani
Chirurgia Generale Epatopancreatica
Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo
Piazzale C. Golgi, 2
27100 PAVIA
SI RINGRAZIANO:
Il Magnifico Rettore dell’Università di Pavia
Prof. Angiolino Stella
Il Direttore Amministrativo dell’Università di Pavia
Dott. Giovanni Colucci
Il Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia
Prof. Alberto Calligaro
Il Presidente della Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo
Dott. Alberto Guglielmo
Il Direttore Generale della Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo
Dott. Giovanni Azzaretti
Il Direttore Sanitario dell’IRCCS Policlinico S.Matteo
Dott.ssa Luigina Zambianchi
Il Direttore Scientifico dell’IRCCS Policlinico S.Matteo
Prof. Carlo Alberto Redi
Il Presidente dell’Ordine dei Medici di Pavia
Dott. Giovanni Belloni
Il Direttore Generale della A.S.L. di Pavia
Dott. Maurizio Amigoni
INDICE
PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO
Prof. Mario Viganò
Direttore del Dipartimento ………………………………………………… pag. 1
LA SCUOLA CHIRURGICA DI PAVIA
L. Bonandrini ……………………………………………………………... pag. 3
I SESSIONE
Moderatori: A. Braschi, P. Dionigi, E. Forni, S. Tinozzi
IL TRATTAMENTO SHORT TERM CON CICLOSPORINA
ASSOCIATO AL COTRAPIANTO DI SPLENOCITI PROLUNGA
LA SOPRAVVIVENZA D’ORGANO NEL TRAPIANTO RENALE
SPERIMENTALE
M. Maestri, A. Gaspari, L. Cansolino, P. Dionigi………………………… pag. 9
IPOFUNZIONE SPLENICA E MALATTIE INTESTINALI
C. Bianchi, P. Cazzola, P. Biancheri, A. Di Sabatino, G.R. Corazza,
S. Tinozzi ………………………………………………………………...… pag. 17
CONSIDERAZIONI ATTUALI SULLA MALATTIA DI CAROLI
F. Meriggi ed E. Forni ……………………………………………………. pag. 21
TRATTAMENTO CHIRURGICO DELL’IPERTENSIONE
POLMONARE CRONICA TROMBOEMBOLICA MEDIANTE
ENDOARTERECTOMIA POLMONARE
A. M. D’Armini, M. Morsolini, S. Nicolardi, M. Pozzi, G. Zanotti,
C. Monterosso, M. Viganò ……………………………………………………….. pag. 29
PERSISTENZA DI ELEVATE RESISTENZE VASCOLARI
POLMONARI DOPO INTERVENTO DI ENDOARTERECTOMIA
POLMONARE: CONSEGUENZE SULLA GESTIONE
POSTOPERATORIA E SULL’OUTCOME
F. Mojoli ed A. Braschi …………………………………………………… pag. 35
i
II SESSIONE
Moderatori: C. Arienta, P.E. Bianchi, E. Dalla Toffola, A. Faga, E. Mira
RIABILITAZIONE FUNZIONALE PRECOCE IN CHIRURGIA
CARDIOTORACICA
L. Petrucci, S. Ricotti, A. Lanzi, D. Vanzini, I. Lanzani, L. Carlucci,
E. Dalla Toffola ………………………………………………………...
pag. 47
NUOVE METODICHE PER LA PREPARAZIONE DEL LEMBO
DEL DONATORE NEL TRAPIANTO DI CORNEA
P. E. Bianchi, R. Ceccuzzi, F. Romanazzi, A. Del Favero ……………. pag. 57
L’APPROCCIO ENDOSCOPICO AI TUMORI DELLA REGIONE
SELLARE
F. R. Canevari, D. Locatelli, I. Acchiardi, F. Zappoli, P. Scagnelli ….
pag. 61
I TUMORI DELLA TECA CRANICA
I. Chiaranda, L. Bottani, L. Magrassi, C. Arienta …………………….
pag. 71
EFFETTI DELLA VAC TERAPIA SUL TESSUTO DI
GRANULAZIONE: DATI BIOCHIMICI ED ISTOLOGICI
S. Scevola, G. Nicoletti, A. Faga ……………………………………….
pag. 85
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Atti della I Riunione Annuale Clinico-Scientifica del Dipartimento di Scienze Chirurgiche,
Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia
« La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia »
Pavia, 17 novembre 2006
PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO
Prof. Mario Viganò
Professore Ordinario di Chirurgia Cardiaca
Direttore del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative
e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia
Buongiorno e benvenuti a quest’incontro che rappresenta la prima riunione clinicoscientifica dipartimentale avente per oggetto precisamente “La ricerca sperimentale e clinica
in chirurgia”, la prima di questo nostro dipartimento che per numerosità di docenti è il secondo della Facoltà di Medicina e credo dell’Ateneo.
Questo dipartimento che, anche se a prima vista potrebbe apparire eterogeneo, nella
realtà è legato da un filo conduttore omogeneo che è proteso alla simbiosi ed alla uniformizzazione di tante discipline che hanno come fondo comune la formazione delle giovani leve e
la sollecitata predisposizione alla ricerca nel settore delle scienze chirurgiche, oltre che
dell’anestesia-rianimazione e della riabilitazione fisioterapica, in un percorso ideale unico
ed ininterrotto.
Abbiamo voluto dare a questa prima riunione un significato di sperimentazione, cioè
abbiamo voluto organizzarla senza eccesso di pubblicizzazione e di attività promozionale,
quasi gelosi delle nostre competenze, senza estraneità nazionali o internazionali.
Vedremo se questa formula andrà bene oppure dovremo ritornare ad un ambito più
tradizionale dell’organizzazione dei convegni dipartimentali, con invito a tema variabile rivolto a personaggi di rilievo sia nazionali che internazionali.
La motivazione principale sottostante a questa impostazione è quella di “conoscerci
meglio”, in una dimensione di comitato ristretto, di conduzione “quasi famigliare” con interscambio di conoscenze circa i temi principali di ricerca caratterizzanti le singole sezioni e
con uno sforzo di dare ad ognuno di noi la convinzione che l’aspetto di ricerca scientifica,
oltre che ovviamente quello assistenziale, rappresenti la configurazione più marcata della
nostra quotidianità nella sede di un Ateneo e di un Ospedale dalle grandi e gloriose tradizioni e nell’alveo di una scuola chirurgica o di più scuole chirurgiche che sono state caratterizzate da personaggi di altissima levatura e prestigio, come peraltro ci dirà Bonandrini.
Fa piacere constatare la presenza di una folta partecipazione, quasi a confermare la
consapevolezza che la struttura dipartimentale sia l’amalgama dell’attività scientifica e propugnando una forma di sempre più marcata collaborazione tra le sezioni.
Si viene così configurando un percorso all’inverso di quello che si è verificato invece
nei precedenti decenni, con l’affermarsi e il distaccarsi dal ceppo principale di tante specializzazioni.
Auguro pertanto buon lavoro a tutti i partecipanti, sia moderatori che relatori, soprattutto agli auditori che spero possano trarre spunti di entusiasmo, di interesse e di approfondimento dai temi che verranno proposti.
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Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo dell’Università di Pavia
« La Ricerca Sperimentale e Clinica in Chirurgia »
Pavia, 17 novembre 2006
LA SCUOLA CHIRURGICA DI PAVIA
L. Bonandrini
Università degli Studi di Pavia,
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo
Cattedra di Chirurgia d’Urgenza e Pronto Soccorso
Scuola di Specializzazione in Chirurgia Generale (ind. d’Urgenza)
(Direttore: Prof. L. Bonandrini)
La Scuola di Pavia ha origini antichissime e la sua storia si perde, per cosi dire, nella
notte dei tempi; altrettanto accade per l’insegnamento chirurgico che attraversa non poche
vicende prima di assumere connotazioni ben definite.
Pavia realizza le prime scuole ufficiali quando diviene sede del regno longobardo e poi
del governo carolingio; già nel 680, al tempo di Re Cuniberto, è accertata l’esistenza di una
Scuola, nella quale viene più tardi educato Paolo Diacono, chiamato da Carlo Magno a fondare a Parigi le Scuole Regie o Palatine.
Il 25 maggio dell’825, l’imperatore Lotario I, nipote di Carlo Magno e figlio di Ludovico il Pio e di Ermengarda, emana a Corteolona, presso Pavia, il Capitolare Olonnenses,
con il quale fonda ufficialmente la Scuola di Pavia e stabilisce che ad essa debbano confluire
gli studenti di Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli, Tortona, Acqui, Genova,
Asti, Como. Questo documento, autentico, contiene tutti i principi di quella che sarà l’università medioevale e permette di considerare Pavia come la più antica delle università,
avendo già festeggiato, nel maggio del 1925, l’ XI centenario della sua fondazione, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III e dei Rettori delle maggiori università del mondo. Adalberto Pazzini, uno dei maggiori storici della medicina, riconosce questo diritto di primogenitura, sottolineando la presenza, nella Scuola di Pavia, dei principi ispiratori delle future università; studenti ed insegnanti, provenienti da località e da nazioni diverse, portano avanti
l’organizzazione dello studio, la pluralità di insegnamento e l’autonomia intellettuale, riflettendo l’impostazione, le basi e lo spirito culturale dello studio accademico.
La Scuola di Pavia fondata da Lotario I, comprende una Scuola di Retorica, una di Diritto e una di Arti Liberali del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, musica, geometria e astronomia). L’insegnamento giuridico è predominante perché a
Pavia vi è il tribunale supremo della Corte Regia e perché la Scuola ha la finalità di preparare i giudici che andranno ad amministrare la giustizia in tutto il regno; un’altra finalità
della Scuola è di elaborare nuove leggi, elemento di grande fama per Pavia, al punto da essere in seguito «concordemente riconosciuta come superiore a quella di Bologna, della quale
è senza dubbio più antica».
L’insegnamento, nel corso di cinque secoli, passa attraverso le Scuole Municipali, le
Scuole Vescovili o Ecclesiali e le Scuole Canoniche, finché, raccogliendo e rimodellando
nel tempo l’eredita culturale dell’antica Scuola di Pavia, si giunge alla fondazione dello Studium Generale.
In questo lungo percorso, l’atteggiamento verso la chirurgia è il rifiuto, in coerenza con
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il disprezzo delle attività manuali, caratteristico dell’antichità classica; anche l’atteggiamento ecclesiastico non è favorevole alla chirurgia, considerata un mestiere crudele e
sanguinario. Gli stessi chirurghi del tempo, con il loro comportamento, contribuiscono a
gettare ulteriore discredito sulle cosiddette «discipline manuali». I chirurghi sono di due tipi:
gli empirici e i cerusici. I primi tentano di spiegare le malattie facendo ricorso a disquisizioni sofiche, i secondi tentano di risolverle nei modi piu strani. Gli empirici si cimentano nelle «operazioni di piccola chirurgia» (ascessi, fistole, emorroidi, ferite, fratture,
lussazioni), i cerusici affrontano le «operazioni di grande chirurgia» (ernie, cataratta, calcoli
vescicali, chirurgia plastica). I primi insegnano, e, per non perdere la reputazione e il posto,
preferiscono astenersi dall’intervenire; i secondi, ambulanti e barbieri, intervengono e poi
scappano per salvare la pelle.
In un ambiente di questo genere, con il Diploma di Norimberga emanato il 13 aprile
1361 da Carlo IV re di Boemia e imperatore di Germania, e voluto da Galeazzo II Visconti
duca di Milano, nasce a Pavia lo Studium Generale e con esso viene istituito ufficialmente
l’insegnamento della chirurgia, praticata all’inizio nel convento di S. Tommaso, nella basilica di San Michele e nella chiesa di S. Benedetto nel convento dei Frati Predicatori.
L’esame dei ruoli dell’università permette di ricostruire i nomi di tutti i Lettori di Chirurgia, con il relativo stipendio dei fiorini. Il primo insegnante di chirurgia si chiama Gradi o
Grado Antonio, nasce a Milano, è licenziato in Medicina a Pavia il 25 marzo 1385 e viene
nominato Lettore di Chirurgia (doctor deputatus ad legendum in scientia Cyrogiae) nel
1386.
Con la riforma universitaria proposta dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria nel 1753,
la figura del Lettore viene trasformata in Professore, e l’insegnamento di Chirurgia viene
impartito prima dalla Cattedra di Anatomia ed Istituzioni Chirurgiche, poi da quella di Operazioni Chirurgiche ed Arte Ostetrica, e, infine, da quella di Clinica Chirurgica.
La Cattedra di Patologia Chirurgica Speciale e Propedeutica Clinica, viene istituita nel
1859, e anch’essa assume nel tempo denominazioni diverse.
Il fondatore della Scuola Chirurgica Pavese è Antonio Scarpa, il quale, nel 1787, ottiene dal governo austriaco l’istituzione e la nomina alla Cattedra di Clinica Chirurgica, che
viene sistemata nell’Ospedale S. Matteo; prima di allora non si hanno notizie né di una attività didattica in sede ospedaliera, né di una frequenza ospedaliera a scopo di addestramento.
Scarpa è il fondatore della Scuola Chirurgica di Pavia, non soltanto sul piano didattico
perché ha avuto l’idea di unire la Cattedra di Anatomia a quella di Chirurgia, ma anche sul
piano assistenziale, poiché la nuova istituzione trova «hospitalitas», cioé una sede, nell’Hospitale di S. Matteo; una sorta di convenzione «ante litteram», nella quale dovrebbero convivere, nel reciproco rispetto, universitari ed ospedalieri, cioé didattica ed assistenza. La
«suddivisione» dei malati avveniva secondo un preciso rituale: il cattedratico sceglie sotto i
portici del vecchio ospedale, ora sede universitaria centrale, i pazienti di proprio interesse ai
fini didattico-assistenziali, lasciando tutti gli altri malati al responsabile ospedaliero, il
quale, spesso, riesce ad acquisire un’esperienza pratica notevolissima, proprio perché il cattedratico opera solo ed esclusivamente con finalità didattiche. La stessa ricerca di «casi particolari», tipica del mondo universitario, conduce ad una mentalità diffusa, non senza una
qualche ragione, secondo la quale il cattedratico «sperimenta», spesso con esiti infausti,
nuove tecniche operatorie, a differenza dell’ospedaliero il quale opera secondo consolidati
principi chirurgici. A volte è lo stesso ospedaliero che di sua iniziativa, ed anche per ingraziarsi il cattedratico, «propone» all’universitario «casi interessanti», suscitando a volte nel
malato una qualche opposizione perché il paziente intuisce un maggior rischio operatorio.
Pur tuttavia, il fenomeno di sudditanza è di un certo rilievo, perché il cattedratico dispone di
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insegnamenti accademici da attribuire, ha un peso notevolissimo nei concorsi e basta essergli invisi per arrischiare il posto di lavoro.
Antonio Scarpa (1752-1832) studia Medicina a Padova e conosce due grandi maestri
che incidono profondamente sulla sua preparazione e sulla sua carriera: Giovanni Battista
Morgagni e Girolamo Vandelli, rispettivamente lettori di Anatomia e di Chirurgia. Giovanissimo, viene chiamato prima a Modena e poi, grazie alla protezione del chirurgo militare
Giovanni Alessandro Brambilla, a Pavia sulla cattedra di Anatomia. Personaggio grandissimo, lavoratore instancabile ed osservatore finissimo, Scarpa si rivela uno dei più straordinari anatomici della storia della medicina; autoritario in campo metodologico e dottrinale,
come cultore della scienza e della conoscenza dimostra di essere un autentico fuoriclasse.
Nei rapporti interpersonali è prepotente, avido, vendicativo; è il più grande anatomico del
nostro paese, ma anche colui che ha fatto uso del potere accademico nel modo più cinico,
spregiudicato e disumano di tutta la storia dell’università. Numerosissime le scoperte di
Scarpa, dalla struttura della finestra rotonda dell’ orecchio al timpano secondario, dal ganglio vestibolare ai nervi del cuore, dal nervo olfattivo al nervo naso-palatino, oltre ad una serie di dissezioni anatomiche innovative. Va sottolineato che Scarpa «era solito lavare abbondantemente le ferite con alcool acidificato con qualche goccia di acido muriatico per limitare l’incidenza dei processi suppurativi», intuizione che ne fa uno degli antesignani
dell’antisepsi.
La successione di Scarpa è complicata e richiede alcuni anni di movimentati interregni
prima di giungere alla figura di Luigi Porta. In questo periodo un chirurgo, spesso dimenticato ed incaricato della cattedra di Clinica Chirurgica, è Carlo Cairoli (1777-1849), grande
clinico e abilissimo operatore oltre che fervente patriota; antiaustriaco viscerale, è il padre
dei fratelli Cairoli dei quali iI primo, Benedetto, diviene Presidente del Consiglio, mentre gli
altri, Ernesto, Enrico, Giovanni e Luigi, lottano eroicamente e si sacrificano per la patria.
Luigi Porta (1800-1875) sale in cattedra giovanissimo e vi rimane per ben 43 anni, fino
alla scomparsa. Clinico geniale ed operatore ardito, di Porta viene conservata una ricchissima raccolta di preparati anatomici, realizzati con un raffinato metodo sperimentale rigorosamente scientifico; studia in particolare lo sviluppo di circoli collaterali da legatura vascolare, elaborando una serie di considerazioni di fisiopatologia chirurgica, disciplina della
quale Porta può essere considerato fondatore. Porta si occupa intensamente di «litotrizia»,
ideando una specie di tenaglia a trapano per le «pietre voluminose in vescica». Realizza il
primo intervento di enucleazione dello struma tiroideo, descrivendo in ogni particolare l’operazione che «meriterebbe di portare il suo nome» e la cui paternità viene invece attribuita
ad Emil Kocher. Magistrale l’intuizione di quella che oggi indichiamo come malattia postoperatoria di Renè Leriche; Porta descrive, documenta ed interpreta la natura del complesso
di modificazioni che intervengono nel decorso postoperatorio delle affezioni chirurgiche.
Anche la successione di Porta è travagliata. Dapprima l’incarico di Clinica Chirurgica
viene affidato ad Angelo Scarenzio (1831-1904), fondatore della Chirurgia Plastica e della
Clinica Dermatologica; l’anno successivo l’incarico passa ad Edoardo Bassini (1844-1924),
primo assistente del Porta ed indicato ufficialmente come suo successore. Da giovane Bassini, combattente a Villa Glori contro l’esercito papalino, riceve un’archibugiata in addome
che gli procura una fistola stercoracea; guarisce dopo un lunghissimo ricovero nella Clinica
Chirurgica diretta da Porta. Bassini, pavese di nascita e di scuola, approfondisce gli studi
anatomici di Scarpa sulla regione inguinale e crurale; questo studio lo conduce ad eseguire a
Padova, nel 1884, il suo «rivoluzionario» intervento per l’ernia, nella convinzione che
«l’ernia sia una malattia meccanica per errore di ruolo», e che si debba puntare al ripristino
della situazione anatomica. Viene definita «un’operazione d’arte che, nel ricopiare la natura,
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la perfeziona». Bassini e ricordato in tutto il mondo per l’ernia, ma esegue un numero impressionante di interventi chirurgici che dovrebbero portare il suo nome: la laparotomia
semplice nella peritonite tubercolare (corrisponde alla moderna laparostomia), la derivazione colecisto-duodenale, la puntura sovrapubica nella ritenzione urinaria, l’amputazione
interscapolo-toracica, la resezione ileo-cecale, la nefropessia, l’ileo-colostomia.
Il concorso per la successione di Porta viene vinto da Enrico Bottini (1835-1903), anch’egli pavese di nascita e di scuola, di dieci anni meno giovane di Bassini ed insegnante di
Clinica Chirurgica per venticinque anni. Oltre che formidabile chirurgo, Bottini si cimenta
in «ogni branca della chirurgia come in ogni regione del corpo umano»; è l’antesignano di
quel rigoroso metodo chirurgico che un ruolo tanto importante gioca sui risultati operatori.
Bottini è il vero padre dell’antisepsi. Fin dal 1863 utilizza l’acido fenico per combattere la
suppurazione delle ferite e lo usa su ben 600 malati; ne comprende anche gli effetti irritanti
e, dopo una serie di ricerche, sostituisce l’acido fenico con il sulfafenato di zinco. Bottini
pubblica le conclusioni della sua vastissima esperienza sugli Annali Universali di Medicina
nel 1866. Lister fa uso dell’acido fenico nel 1865 e ne abbandona le soluzioni per la loro
causticità solo nel 1870; pubblica le sue esperienze «assai meno chiare e scientifiche di
quelle del Bottini» oltre che molto meno numerose, su Lancet nel 1877. Due lapidi, una a
Novara e una a Pavia, ricordano la scoperta di Bottini e ne rivendicano la priorità; non esiste
nessuna buona ragione per sottrargli un onore legittimamente guadagnato sul campo. Fra le
molte pubblicazioni di Bottini una in particolare merita di essere ricordata, il libro «La chirurgia del collo». Si tratta di un’opera fondamentale nella quale, continuando l’esperienza di
Porta, Bottini detta le regole e le tecniche per affrontare anche le più ardite operazioni chirurgiche sul collo; Kocher, molti anni dopo, riceve iI premio Nobel per la chirurgia della tiroide, ma Bottini ne era ben più meritevole e molto tempo prima. Chirurgo audace fino alla
temerarietà, Bottini reseca un tratto di vena cava superiore per un linfosarcoma del collo ed
esegue per primo in Italia la laringectomia totale, l’isterectomia per via vaginale, la resezione del mascellare superiore e dei condili mandibolari; il principio ispiratore è sempre
quello di «tentar nuove vie e conquistar nuove terre». Nel 1883 Bottini, con Ferdinando Palasciano e Pietro Loreta, fonda la Società Italiana di Chirurgia, la pia antica e prestigiosa Società che riunisce i chirurghi del nostro paese.
Il fondatore della moderna Scuola Chirurgica di Pavia è Iginio Tansini (1855-1942),
successore di Bottini; le sue capacità chirurgiche, i suoi interventi innovativi e le sue intuizioni sulla chirurgia del futuro, coincidono con la affermazione dell’anestesia e dei primi
supporti terapeutici della chirurgia, anche se, a quel tempo, tutto o quasi tutto era affidato
dell’operatore. Tansini nel 1887, per primo in Italia, realizza la resezione gastrica per cancro
con sopravvivenza del paziente e nel 1890 realizza la prima epatectomia sinistra per una cisti da echinococco, ricorrendo alla esteriorizzazione della trancia epatica con riposizione
successiva del fegato in cavità addorninale. Un alto intervento straordinario effettuato da
Tansini è la prima splenectomia con omentopessia sec. Talma per un morbo di Banti con
cirrosi epatica ed enorme ascite; successivamente sperimenta sul cadavere e sul cane
l’anastomosi porto-cavale termino-laterale. Tansini allarga la sua vasta esperienza chirurgica
ad interventi mai fino ad allora eseguiti: l’autoplastica con il muscolo grande dorsale dopo
mastectomia allargata, l’esofagizzazione dello stomaco per la deformità gastrica a clessidra,
la torcipressura vascolare in corso di nefrectomia, l’ipertrofia prostatica mediante galvanocaustica secondo la tecnica messa a punto da Bottini.
Numerosi altri personaggi andrebbero ricordati per aver inciso in modo significativo
sull’evoluzione della chirurgia, dell’assistenza e della didattica: andrebbero per esempio
sottolineati i meriti e il valore di Bartolomeo Signoroni, di Angelo Mazzucchelli, di Giu-
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seppe Moscatello, di Francesco Purpura, di Gaetano Fichera, di Giovanni Perez, di Fedele
Fedeli, molti dei quali sono andati a ricoprire prestigiose cattedre in altre sedi universitarie.
La successione di Tansini segna una svolta importante nella storia della Scuola perché
da essa prendono il via due «filoni» accademici; non si tratta di una doppia scuola perché
Giovanni Morone (1880-1957), successore naturale di Tansini, e Giuseppe Salvatore Donati
(1902-1982) hanno uno stesso maestro, Tansini appunto, perché Donati diviene prima assistente e poi aiuto di Morone e perché Morone contribuisce all’ascesa alla cattedra di Donati.
Morone esegue, tra i primi in Italia, la decorticazione polmonare e la toracoplastica per
il trattamento degli empiemi, pratica l’intervento sul nervo frenico per la cura della tubercolosi polmonare, affronta i problemi della chirurgia vascolare eseguendo le prime anastomosi
dei grossi vasi; continua la tradizione della Scuola Chirurgica di Pavia occupandosi della
patologia del collo ed in particolare della tiroide, «contemperando, con molta saggezza, l’ardimento con la prudenza nel rispetto di una rigorosa metodologia». La disciplina e il rigore
intellettuale di Morone, lo conducono ad elaborare il concetto di «errore logico» per esprimere, con questo termine, la validità ed il significato di un processo diagnostico conforme
alla logica rispetto ad un ragionamento senza logica, allorquando la diagnosi clinica non
corrisponda alla diagnosi chirurgica. Morone è uno studioso del metodo, caratterizzato da
una rigorosissima procedura di indagine clinica, «dalla quale il medico non dovrebbe mai
trasgredire».
L’episodio che modifica la struttura monolitica della Scuola, è una chiamata «esterna»;
dopo non pochi illustri chirurghi «in transito accademico», viene chiamato prima alla Cattedra di Patologia Chirurgica e poi a quella di Clinica Chirurgica Francesco Paolo Tinozzi
(1894-1973), napoletano di famiglia abruzzese, allievo di Giovanni Pascale, incaricato di
Patologia Chirurgica prima a Napoli e poi a Bologna. L’inserimento accademico «esterno»,
fenomeno a volte contestato ma sempre apportatore di nuovi stimoli e di nuove esperienze,
conduce, anche per la profonda differenza di temperamento fra i due personaggi, Tinozzi e
Donati, al determinarsi di due gruppi di lavoro, fra loro diversi per interessi, vocazione e
spirito chirurgico; a tutt’oggi, accanto alla chirurgia generale, questi due gruppi seguono
percorsi ed indirizzi di lavoro fra loro differenti.
Oggigiorno esiste un autentico «plotone» di chirurghi formatisi alla Scuola Chirurgica
di Pavia; essi hanno lavorato e lavorano in molti ospedali italiani con un elevato numero di
allievi e, ormai, di allievi degli allievi. Una ventina di Professori Universitari e quasi un
centinaio di Primari Ospedalieri hanno diretto e dirigono strutture assistenziali di prim’ordine, facendo onore alla storia chirurgica del nostro paese. La vecchia polemica tra universitari ed ospedalieri non ha più ragione di essere, perché è naturale che le grandi scuole chirurgiche comprendano allievi di ruoli differenti; il patrimonio che ricevono è comune e comune è il patrimonio che trasmettono agli allievi, certo affinato ed improntato dalle esperienze personali.
La chirurgia è una disciplina pratico-applicativa ed è fisiologico che l’enzima che la sostiene sia il confronto permanente fra le esperienze personali, non certo lo scontro su polemiche banali o sui momenti tormentati di una Scuola; la forza e l’eredità di una Scuola non
sono le carriere che, con motivazioni diverse, intraprendono gli allievi, ma sono le esperienze e le novità che gli allievi hanno saputo e sanno portare avanti. L’eredità di una scuola
è verificabile giorno dopo giorno, osservando, con attenzione, le metodologie, le tecniche e
l’impostazione generale del nostro fare chirurgico, ma anche le gestualità, i rituali e le
usanze, a ricordo di un insegnamento che, anche volendo, non possiamo e non potremo mai
cancellare.
Negli anni ‘80 vengono letteralmente sovvertite le due grandi strade maestre dell’inse-
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gnamento chirurgico, la Clinica e la Patologia Chirurgica, dando luogo ad una serie di importanti trasformazioni. Il ridimensionamento delle grandi cliniche, l’aumento del numero
dei reparti, lo sdoppiamento degli insegnamenti, la nascita delle divisioni specialistiche, le
leggi del Sistema Sanitario Nazionale, l’avvento della tabella XVIII e delle sue varianti, la
nascita per «gemmazione» prima della Seconda Facoltà di Medicina e poi dell’Universita
dell’Insubria – Varese, il convenzionamento con strutture assistenziali accreditate, il formarsi dei Dipartimenti Universitari ed Ospedalieri, sono soltanto alcuni dei fenomeni che
allargano gli orizzonti della Scuola, ma che, allo stesso tempo, tendono a far disperdere e dimenticare le molte radici comuni e le non poche identità di Scuola.
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IL TRATTAMENTO SHORT TERM CON CICLOSPORINA
ASSOCIATO AL COTRAPIANTO DI SPLENOCITI PROLUNGA
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SPERIMENTALE
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Università degli Studi di Pavia
Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo di Pavia
INTRODUZIONE
Nonostante i progressi in campo farmacologico, gli immunosoppressori di nuova
generazione, sebbene riescano a controllare efficacemente gli episodi di rigetto acuto, non
sono in grado di promuovere un vero e proprio stato di tolleranza immunologica permanente.
Il mantenimento a vita della terapia immunosoppressiva rimane a tutt’oggi una scelta obbligata ed espone i pazienti al rischio di infezioni e neoplasie (1). L’induzione di tolleranza
donatore-specifica permetterebbe, invece, l’accettazione a lungo termine del graft e nel contempo manterrebbe inalterata la capacità di risposta immune agli antigeni non-self (2).
Un fattore decisivo nel processo di accomodazione al graft è rappresentato dal ruolo
delle cellule presentanti gli antigeni (APC), fondamentale all’inizio della risposta immune
primaria.
Sembra ormai assodato che le cellule dendritiche (DC) siano le APC che maggiormente
sono coinvolte nelle risposte immuni primarie, presentando gli antigeni sia in forma
immunogena che tollerogena in dipendenza del regime di inoculazione utilizzato (3, 4). La
modulazione del ricevente mediante donor-specific cell transfusion (DSCT) potrebbe, perciò, rappresentare una strategia efficace per lo sviluppo di tolleranza al graft. In tale direzione sono stati proposti diversi protocolli sperimentali che prevedono l’infusione nel ricevente di cellule immunocompetenti del donatore, il cui limite principale è risultato, però, essere la quasi esclusiva applicabilità a modelli su roditori (3, 5, 6).
Non sono presenti in Letteratura lavori scientifici recenti che riportino, in animali di
media taglia, il trapianto di milza come trattamento immunomodulante combinato al trapianto di altri organi (7). Nonostante la milza sia da tempo considerata un organo potenzialmente tollerogeno, infatti, le potenzialità del cotrapianto in modelli diversi dal roditore non
sono ancora state indagate a fondo.
Fu Carrel per primo, nel 1910, a testare sperimentalmente l’autotrapianto di milza (8),
ma solo nel 1953 Simonsen sottolineò il contributo della milza nell’induzione di uno stato di
equilibrio dinamico fra reazioni graft versus host e host versus graft (9).
Si deve, invece, a Jacobsen nel 1949 il presupposto che il tessuto splenico, fornisca più
che un contributo alla ricostituzione dell’emopoiesi dopo total body irradiation (10).
Sulla base di queste premesse, è stata valutata, in un modello sperimentale di trapianto
renale nel suino, l’efficacia del cotrapianto di milza o della somministrazione di cellule
9
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spleniche del donatore (DST)
MATERIALI E METODI
GRUPPI DI STUDIO
Nel corso di questo studio 86 suini (43 trapianti), razza Landrace/Large-White (peso
29±1,8 kg) sono stati ripartiti per randomizzazione in quattro gruppi di studio e sottoposti ad
allotrapianto di rene con o senza contemporanea somministrazione di antigeni del donatore,
come descritto di seguito e dettagliato in tabella I
• gruppo 1 o di controllo (n=7); allotrapianto di rene senza trattamento immunomodulante postoperatorio;
• gruppo 2 (n=9); allotrapianto di rene ed immunomodulazione mediante infusione
portale di 3x108 splenociti dello stesso donatore (DST) per Kg di peso corporeo;
• gruppo 3 (n=14): allotrapianto di rene con trattamento immunosoppressivo (ciclosporina A) per 12 gg
• gruppo 4 (n=13); allotrapianto di rene, immunomodulazione mediante infusione portale di 3x108 splenociti dello stesso donatore (DST) per Kg di peso corporeo e trattamento immunosoppressivo (ciclosporina A) per 12 gg.
Nel periodo di osservazione postoperatoria, tutti gli animali utilizzati per questo studio
sono stati stabulati in condizioni standard di ambiente e clima, con libero accesso a cibo
standard per suini ed acqua. Gli animali trapiantati sono stati sottoposti quotidianamente a
prelievo venoso. Quali indici della funzionalità renale sono state valutate le concentrazioni
plasmatiche di creatinina ed azoto ureico fino al momento del loro sacrificio, posto in 60a
giornata postoperatoria (gpo) o, in ogni caso, quando le condizioni generali dell’animale
risultavano gravemente compromesse. Gli animali al termine del periodo di osservazione
sono stati sacrificati con una dose letale di anestetico.
PROCEDURA CHIRURGICA
Preparazione del donatore
Rene sinistro e milza sono stati prelevati da animali donatori sacrificati al termine della
procedura chirurgica. Dopo laparotomia xifo-ombelico-pubica sono stati isolati gli elementi
dell’ilo renale di sinistra e dell’uretere. Il prelievo renale è stato eseguito includendo nei
capi vascolari un patch ampio di aorta e di vena cava.
Ricevente
Il trapianto di rene nei riceventi è stato eseguito con tecnica standard intraperitoneale,
confezionando le anastomosi vescolari su aorta e vena cava inferiore. I reni nativi del ricevente sono stati espiantati al termine della procedura
Preparazione ed infusione degli splenociti del donatore
Gli animali dei gruppi 3 e 4, hanno ricevuto per via portale 3x108 splenociti del donatore per kg di peso corporeo subito dopo la rivascolarizzazione del rene trapiantato. Gli
splenociti sono stato preparati, in condizioni di sterilità, per omogeneizzazione della milza
del donatore, raccolti mediante filtrazione su rete metallica e risospesi in rapporto di volume
1:1 con soluzione fisiologica di NaCl 0,9% addizionata di eparina sodica. Per la separazione
delle cellule mononucleate, fra le quali le cellule dendritiche, sono stati effettuati passaggi di
centrifugazione secondo gradiente di densità su Ficoll 1077. Il pellet cellulare è stato riso10
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speso in soluzione fisiologica salina ed è stata effettuata la conta cellulare in microscopia
luce valutando la vitalità delle cellule per esclusione vitale con Tripan Blu.
Monitoraggio del rigetto
I preparati sperimentali sono stati valutati giornalmente e la funzione renale è stata
controllata misurando le concentrazioni ematiche di azoto e creatinina. L’end point dello
studio è stato fissato a 90 giorni dall’intervento. È stata eseguita l’autopsia di tutti i preparati
previa esclusione macroscopica di cause tecniche di fallimento della procedura.
Analisi istologica
Al momento dell’esame autoptico tutti gli animali utilizzati per questo studio sono stati
sottoposti a prelievi bioptici del rene. Le biopsie sono state fissate in formalina tamponata al
10% ed incluse in paraffina. Le sezioni di tessuto ottenute, colorate con ematossilina-eosina,
sono state osservate in microscopia luce a diverso ingrandimento (10x, 25x e 40x) per valutare il grading di rigetto renale e per effettuare un’analisi dell’infiltrato cellulare presente.
Analisi statistica
Per l’analisi statistica dei parametri biochimici considerati si è utilizzato il metodo
dell’analisi della varianza a due criteri di classificazione (non-parametric ANOVA). Sono
state considerate significative differenze di p<0.05. Per quanto riguarda l’analisi della
sopravvivenza è stato utilizzato il metodo di Kaplan-Meier per il confronto globale fra
gruppi ed il Log-Rank test per il confronto diretto fra singoli gruppi. In entrambi i casi sono
state considerate significative differenze di p<0.05.
Tabella I - Sopravvivenze, trattamento e cause di morte.
Gruppo 1
Gruppo 3
Gruppo 2
Gruppo 4
N
7
9
14
13
Procedura
Tx rene
Tx rene
Tx rene
Tx rene
Immunosoppressione
-
-
CyA 9/mg/Kg;
i.v. 12 gg.
Immunomodulatione
-
DST 3x108 cell/kg;
Infusione portale
-
Sopravvivenza (giorni)
5, 8, 8, 8,
8,9,10
8, 8, 9, 11, 11, 29,
60, 60, 60
20, 23, 27, 27, 30,
33, 42,
51, 90, 90, 90, 90,
90, 90
CyA 9/mg/Kg; i.v.
12 gg
DST 3x108
cells/kg;
Infusione portale
60, 60, 90, 90, 90,
90, 90,
90, 90, 90, 90, 90,
90
Mediana sopravvivenza
8
11
46,5
90
7/7: rigetto
3/9: rigetto
2/9: rigetto e GvHD
1/9: polmonite con
insuff renale
3/9: sacrificio per
insuff. renale
progressiva
- 6/14: rigetto
- 2/14: sacrificio
per insuff renale
terminale
- 6/14: sacrificio
all’ endpoint
2/13: sacrificio per
valutazione
istologica
11/13: sacrificio
all’ endpoint
Causa di morte
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RISULTATI
Le sopravvivenze sono riportate in tabella I. Le sopravvivenze sono evidenziate in
figura 1, dove le significatività fra gruppi sono state identificate utilizzando il Log-Rank test
(tabella II).
La figura 2 descrive la funzionalità renale posttrapianto osservata nel corso dello studio.
I campioni istologici valutati per l’incidenza di rigetto nei gruppi di studio sono riportati per
campionatura nella figura 3.
Cumulative Proportion Surviving (Kaplan-Meier)
1,0
0,9
Cumulative Proportion Surviving
0,8
p<0.01
(multiple samples survival analysis)
0,7
0,6
0,5
0,4
0,3
0,2
0,1
0,0
-0,1
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90
100
POD
group 1
group 2
group 3
group 4
Figura 1 - Le curve di Kaplan-Meier dimostrano un differenza significativa fra I gruppi
(p<0.01). Il carico di splenociti induce un prolungamento della sopravvivenza nel gruppo 2,
mentre l’associazione con ciclosporina short-term migliora ulteriormente i risultati (gruppo
4) con effetto sinergico.
Tabella II - Log-Rank tests dell’analisi di sopravvivenza.
Vs.
Gruppo 1
Gruppo 2
Gruppo 3
Gruppo 4
Gruppo 1
-
p=0,01702
p=0,00302
p=0,00015
Gruppo 2
p=0,01702
-
p=0,03774
p=0,00006
Gruppo 3
p=0,00302
p=0,03774
-
p=0,01436
Gruppo 4
p=0,00015
p=0,00006
p=0,01436
-
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Figura 2 - Creatinina e azotemia nei gruppi di studio
DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
Precedenti studi riportati in Letteratura hanno elucidato il possibile ruolo della milza
nei naturali processi di immunomodulazione dell’organismo. In alcuni casi, tali studi hanno
evidenziato come questo organo giochi un ruolo non secondario nell’emopoiesi e nei processi di difesa dalle infezioni (7).
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Figura 3 - a) gruppo 1: rigetto acuto; b) gruppo 2: quadro di rigetto cronico con moderata fibrosi
interstiziale; c) gruppo 3: infiltrato mononucleare pervasale e peritubulare; d): gruppo 4: iperplasia
vasale con infiltrato interstiziale di grado lieve.
Altre ricerche hanno sviluppato il tema dell’induzione di tolleranza con particolare
riferimento al chimerismo, inteso come l’effetto dell’infusione di cellule midollari del donatore, contemporaneamente o nelle vicinanze temporali del trapianto, ottenendo prove di
possibile modulazione dell’alloreattività donatore-specifica del ricevente (3, 6, 11).
Ciò sottolinea come l’insorgenza di rigetto dopo trapianto d’organo possa essere rallentata o fermata dalla manipolazione del patrimonio immunogenetico e dei recettori esposti
dalle cellule immunocompetenti del donatore e del ricevente (3, 8-9).
Un effetto tollerogeno del trapianto di milza o dell’infusione di splenociti è stato
riscontrato in diversi modelli sperimentali animali, in particolare nei roditori.
L’induzione di uno stato di tolleranza graft-specifica è stato descritto sia nel caso di
singolo trapianto splenico che nel caso di trapianto combinato di milza e di un secondo
organo donatore-correlato (7, 12). Questo stato di accettazione del graft è stato associato
allo sviluppo di cellule regolatorie (3, 13).
Un organo trapiantato potrebbe, perciò, essere protetto dal rigetto mediante somministrazione di splenociti derivanti dalla milza di un animale tollerante al graft splenico. Nei
mammiferi superiori e nell’uomo, però, non è stato finora possibile dimostrare che la milza
trapiantata risultasse tollerogena per se stessa o che migliorasse la sopravvivenza di un
secondo organo trapiantato contemporaneamente (7).
Occorre ricordare, inoltre, che l’immunosoppressione convenzionale abolisce comple-
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tamente la risposta immunitaria del ricevente e, se da una parte può controllare efficacemente le reazioni di rigetto, dall’altra può prevenire lo sviluppo di tolleranza al graft (1, 5).
Oltre a ciò, in caso di trapianto clinico di milza, è stato dimostrato uno stato di chimerismo misto nel ricevente, ma anche la possibile insorgenza di una risposta graft versus host
tanto severa da risultare letale per il paziente trapiantato (14, 15).
Il nostro studio sperimentale è stato realizzato con lo scopo di studiare l’effetto della
presenza di cellule immunocompetenti provenienti dal donatore sull’induzione di tolleranza
dopo trapianto renale, valutandone la persistenza dopo sospensione del trattamento
immunosoppressivo.
Studi precedenti hanno dimostrato che il trapianto di milza con drenaggio per via sistemica induce tolleranza nei roditori ma non in mammiferi superiori ed in particolare nel
suino (3, 7).
Dai risultati ottenuti nel corso del nostro studio, è emerso che il trapianto splenico con
drenaggio portale in associazione al trapianto di rene può prolungare efficacemente la
sopravvivenza del rene trapiantato, pur non impedendo l’insorgenza di rigetto cronico.
Ciò è stato osservato sia nel caso degli animali del gruppo 2, riceventi del graft combinato spleno-renale, che nel caso degli animali del gruppo 4, trattati con infusione di splenociti al momento del trapianto di rene e protetti per un breve periodo di tempo con un
immunosoppressore convenzionale. In entrambi i gruppi è stato osservato un prolungamento
della sopravvivenza renale, dovuta al raggiungimento di un equilibrio dinamico fra
meccanismi di riconoscimento, accettazione e rigetto del graft.
I dati ottenuti suggeriscono che la milza, o meglio, le cellule immunocompetenti che la
popolano, siano effettivamente in grado di mediare l’instaurarsi di tolleranza o per lo meno
dei meccanismi regolatori di tale processo.
L’osservazione dell’andamento dei valori di creatininemia e azotemia nel periodo
postoperatorio mostra che il processo di accomodazione evolve nel tempo attraverso l’insorgenza di multipli episodi di rigetto, segno tangibile di una cascata reattiva in atto tra i tessuti
del donatore e il sistema immunitario del ricevente.
Nel gruppo di controllo il rigetto acuto è nella totalità dei casi evento terminale per la
sopravvivenza del graft, in quanto non sono presenti "difese" capaci di bilanciare la reazione
anti "danger antigens".
Nel gruppo 2 e nel gruppo 4 la presenza delle cellule spleniche induce un equilibrio
instabile, evidente nell’andamento dei valori che riflettono episodi di rigetto in animali singoli. Per tutti gli animali che hanno raggiunto sopravvivenze prolungate, l’analisi istologica
ha dimostrato un danno renale moderato, dovuto all’insorgenza e progressione del rigetto,
inevitabile in assenza di trattamento immunosoppressivo.
Non sorprendentemente nel gruppo 4, è frequente la comparsa di reazioni GVH-like,
con comparsa di eruzioni cutanee, diarrea importante, astenia e calo ponderale, in presenza
di anemia, trombocitopenia e linfocitopenia (dati non pubblicati). Ulteriori studi dovrebbero
essere rivolti alla comprensione dei meccanismi in gioco e delle popolazioni cellulari coinvolte
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IPOFUNZIONE SPLENICA E MALATTIE INTESTINALI
C. Bianchi*, P. Cazzola**, P. Biancheri**, A. Di Sabatino**, G.R. Corazza**,
S. Tinozzi*
*Chirurgia Generale Gastroenterologica e Mammaria (Direttore: Prof. S. Tinozzi)
**Clinica Medica I (Direttore: Prof. G.R. Corazza)
Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia
Università degli Studi di Pavia
La milza è l’organo linfoide che gioca il ruolo principale nella risposta immunitaria
contro le infezioni permettendo, grazie alla sua particolare struttura, uno stretto contatto tra
le cellule ematiche circolanti ed il sistema reticolo-endoteliale. E’ composta dalla polpa
bianca, dalla polpa rossa e dalla zona marginale posta tra le due precedenti. Tali strutture
sono destinate a svolgere importanti funzioni di tipo immunologico, reticolo-endoteliale ed
emopoietico. Con il termine di iposplenismo funzionale si intende una riduzione di tutte le
funzioni della milza in presenza di un normale volume splenico. Tra i diversi metodi utilizzati per valutare il grado di funzionalità splenica, la conta in microscopia a contrasto interferenziale della percentuale di pitted red cell, globuli rossi caratterizzati da caratteristiche inclusioni intracitoplasmatiche non rimossi al loro passaggio nella milza, si è rivelata ottimale
grazie alla sua maggiore semplicità, elevata sensibilità e riproducibilità nel valutare alterazioni della funzionalità splenica di grado medio.1 Viene considerato come limite superiore
della normale funzione splenica un valore di pitted red cell < 4%. Nei pazienti splenectomizzati la percentuale di pitted red cell è notevolmente aumentata rispetto ai soggetti sani. I
pazienti sottoposti a splenectomia hanno un rischio notevolmente aumentato di gravi complicanze infettive, causate in particolare da batteri capsulati (Streptococcus pneumoniae,
Haemophilus influenzae, Neisseria meningitidis),2 rispetto alla popolazione generale, mentre
tale rischio è inferiore nella splenectomia post-traumatica. Infatti, nel caso di splenosi, autotrapianto di tessuto splenico spontaneo da trauma della milza o chirurgico, viene mantenuta
una discreta funzionalità splenica, confermata da valori di pitted red cell meno elevati rispetto ai soggetti sottoposti a splenectomia radicale, in grado di fornire una protezione immunologica contro le infezioni. La misurazione delle dimensioni della milza non può,
invece, essere considerata un indicatore attendibile della funzionalità splenica. E’ documentato, infatti, come in alcune malattie intestinali (malattia celiaca, malattie infiammatorie
croniche intestinali) si possano verificare alterazioni della funzione splenica in relazione al
miglioramento o al peggioramento della patologia sottostante, in presenza di normali dimensioni della milza.
La malattia celiaca è, a tutt’oggi, ritenuta la più comune causa non chirurgica di iposplenismo3-5 ed è stato suggerito che la presenza di una malattia celiaca asintomatica dovrebbe sempre essere sospettata in pazienti con le caratteristiche dell’iposplenismo idiopatico. Nei pazienti celiaci trattati con dieta priva di glutine, la conta delle pitted red cell ha
mostrato una prevalenza di iposplenismo pari al 32%. Il fatto che l’iposplenismo si verifichi
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con maggiore frequenza dopo molti anni di malattia celiaca non trattata supporta l’ipotesi
che una durata prolungata di malattia attiva sia correlata con un’aumentata incidenza di ipofunzionalità splenica. La conta delle pitted red cell nel sangue periferico dei pazienti celiaci
adulti mostra un significativo miglioramento della funzione splenica dopo dieta priva di
glutine e in circa la metà dei soggetti iposplenici i livelli di pitted red cell ritornano alla
normalità dopo la dieta, mentre i soggetti con livelli molto alti presentano un miglioramento
solo parziale. Questi dati sembrano suggerire che due componenti contribuiscono
all’iposplenismo nella malattia celiaca dell’adulto: l’atrofia splenica con perdita irreversibile
di tessuto e la compromissione funzionale che può regredire con il trattamento.
L’ipofunzione splenica è una condizione che può complicare numerose altre malattie
intestinali, tra le quali il morbo di Crohn e la colite ulcerosa. Nonostante i numerosi studi effettuati, esistono tuttora controversie relative alla frequenza ed alle cause dell’ipofunzionalità splenica nelle malattie infiammatorie croniche intestinali.6-8 Tali patologie sono
molto eterogenee da un punto di vista eziologico e per questo motivo è improbabile che il
deficit di funzionalità della milza sia legato all’eziopatogenesi della malattia di base. Poiché
sono tutte caratterizzate dallo sviluppo di lesioni infiammatorie intestinali, è ragionevole
supporre che meccanismi immunologici comuni siano responsabili dell’iposplenismo.
Numerose evidenze cliniche suggeriscono che l’atrofia/ipofunzione splenica nella malattia
celiaca possa rappresentare un marker di prognosi sfavorevole, comportando un aumentato
rischio di gravi infezioni da batteri capsulati ed un aumentato rischio di mortalità. Nei
pazienti celiaci con deficitaria funzione splenica sono stati descritti, infatti, numerosi casi di
infezioni gravi talora fatali e sepsi sostenute da batteri capsulati (Streptococcus pneumoniae,
Haemophilus influenzae, Neisseria meningitidis). Anche nei pazienti affetti da malattie
infiammatorie croniche intestinali viene rilevato un aumentato rischio di insorgenza di
manifestazioni infettive e sepsi causate da batteri capsulati, particolarmente frequenti e gravi
nel post-operatorio di interventi chirurgici di colectomia. In pazienti iposplenici affetti da
malattie infiammatorie croniche intestinali è possibile che vi sia un aumentato rischio di
perforazioni intestinali, fistole, ascessi, megacolon tossico e coagulazione intravascolare
disseminata in conseguenza di sepsi dopo interventi chirurgici.
Va sottolineato, infine, come la protezione dei pazienti splenectomizzati dalle complicanze infettive è piuttosto standardizzata e necessita di vaccinazioni anti-pneumococcica ed
anti-meningococcica, mentre esistono poche indicazioni riguardo alla gestione clinica dei
pazienti iposplenici, esposti comunque al rischio di gravi infezioni fulminanti. Ogniqualvolta essi divengano febbrili o manifestino segni e sintomi di pertinenza infettivologica, occorre quindi tenere in adeguata considerazione questa evenienza.
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CONSIDERAZIONI ATTUALI SULLA MALATTIA DI CAROLI
Francesco Meriggi ed Eugenio Forni
Università degli Studi di Pavia
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo
Sezione di Clinica Chirurgica e di Riabilitazione
(Direttore: Prof. E. Forni)
Unità di Chirurgia Epato-Biliare
Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico San Matteo
PREMESSA
Le malformazioni dilatative congenite delle vie biliari1 sono rare affezioni a trasmissione ereditaria autosomica recessiva, caratterizzate da dilatazioni cistiche (sacciformi) o cilindriche (fusiformi), uniche o multiple, comunicanti con l’albero biliare. Colpiscono prevalentemente il sesso femminile e la razza asiatica (giapponese).
Le malformazioni possono essere uniche o multiple, intra od extraepatiche (più frequenti).
La classificazione di Todani,2,3 comprensiva di tutte le malformazioni dilatative biliari
sia extra che intraepatiche, ha individuato cinque tipi. I tipi I e IV rappresentano più
dell’85% dei casi e coinvolgono costantemente la via biliare principale. Il tipo II è rappresentato dal diverticolo dell’epato-coledoco, il tipo III dal coledococele, il tipo V dalla malattia di Caroli (Fig. 1).
Figura 1 - Classificazione delle dilatazioni congenite delle vie biliari intra ed extraepatiche secondo
Todani
Tipo I: dilatazione della via biliare principale (78%)
cistica o sacciforme totale (Ia)
cistica o sacciforme segmentaria (Ib)
cilindrica o fusiforme totale (Ic)
Tipo II: diverticolo della via biliare principale (2%)
Tipo III: coledococele (2%)
Tipo IV: dilatazioni cistiche multiple (15%)
delle vie biliari extra ed intraepatiche (IVa)
delle sole vie biliari extraepatiche (IVb)
Tipo V: dilatazioni cistiche uniche o multiple delle vie biliari intraepatiche (2%)
( N.B. Il tipo IVa e V corrispondono alla malattia di Caroli).
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MALATTIA DI CAROLI
Jacques Caroli nel 1958 osservò e descrisse una “dilatazione congenita delle vie biliari
intraepatiche, localizzata in un solo emifegato (più spesso quello sinistro) con possibilità di
formazione di calcoli endocistici e di colangiti recidivanti, con assenza di cirrosi epatica e di
ipertensione portale, con possibile associazione di ectasia dei tubuli renali o di altre forme di
patologia cistica dei reni e/o del pancreas”.4-6
Negli anni successivi7, lo stesso Caroli dovette prendere atto che le forme “pure” di dilatazione cistica delle vie biliari intraepatiche (malattia di Caroli) erano rare (13%). Ad esse
spesso si associavano la fibrosi epatica congenita, malattia ereditaria autosomica recessiva
(34,7%), e la dilatazione congenita cistica dell’epato-coledoco (21,7%) (sindrome di Caroli). Era, pure, possibile lo sconfinamento delle lesioni cistiche epatiche nell’emifegato
controlaterale.1,8
Figura 2 - Tomografia computerizzata. Estasia delle vie biliari intraepatiche con dilatazioni
cistiche multiple parenchimali: malattia di Caroli (osservazione personale).
Oggi, sappiamo che la malattia di Caroli è una malformazione congenita caratterizzata
dalla dilatazione multifocale delle vie biliari intraepatiche distali o segmentarie (tipo V secondo Todani).9 Le zone dilatate formano delle cisti di vario volume, che comunicano con
l’albero biliare (Fig. 2 e Fig. 3). La dilatazione multifocale può essere diffusa ed interessare
l’insieme dell’albero biliare intraepatico o prevalere su un segmento (tipo I di Guntz, 14%)
od un settore (tipo II di Guntz, 43,7%), solitamente a carico del lobo sinistro. Possono essere
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interessati anche il dotto epatico destro o sinistro (tipo III di Guntz, 18,7%) ed il dotto
epato-coledoco (tipo IV di Guntz, 23,4% corrispondente al tipo IVa secondo Todani).10 Le
cavità cistiche sono rivestite da epitelio cubico o cilindrico e contengono bile o pus o calcoli.
Figura 3 - Colangiografia transKehr. Malattia di Caroli: le dilatazioni cistiche multiple epatiche
comunicano con le vie biliari intraepatiche (osservazione personale).
La sindrome di Caroli non è un’entità unica. In una metà dei casi si associa a fibrosi
epatica congenita con ipertensione portale ed a malformazione renale (nefrospongiosi con
ectasie tubulari della midollare renale o sindrome di Cacchi-Ricci).8-10 Nell’altra metà dei
casi non ha causa genetica e non si associa né a fibrosi epatica congenita nè a malformazione renale. Si associa, però, ad altre malformazioni delle vie biliari, in particolare a cisti
del coledoco (tipo IVa secondo Todani).
Dal punto di vista eziopatogenetico, tenuto conto che l’embriogenesi1 delle vie biliari
extraepatiche avviene separatamente da quello delle vie biliari intraepatiche, è probabile una
genesi dualistica delle malformazioni dilatative biliari intra ed extraepatiche. Le prime potrebbero dipendere 1) dalla pressione di secrezione epatica, 2) dall’eccessiva proliferazione
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epiteliale biliare durante la fase cordonale dello sviluppo embrionario, 3) dall’eccessiva
proliferazione del connettivo degli spazi portali, 4) da una stimolazione ormonale gonadotropinica dell’epitelio biliare, 5) da fenomeni di ischemia epatica. Le seconde risentirebbero
degli influssi di un’anomalia giunzionale coledoco-pancreatica con reflusso di bile e succhi
pancreatici.11,12
SINTOMATOLOGIA E DIAGNOSI
Il paziente con malattia o sindrome di Caroli può essere asintomatico.
La sintomatologia è sostenuta dall’insorgenza di temibili complicanze quali colangiti
ricorrenti (44%), sepsi, ascesso epatico, litiasi intraepatica (32,6%) (Fig.. 4) associata a
litiasi della via biliare principale (26,8%),12 pancreatite acuta, ipertensione portale (quando è
associata fibrosi epatica congenita), cirrosi biliare secondaria, cancerizzazione (colangiocarcinoma),10,13-15 insufficienza renale con nefrospongiosi (6%).9,10
Figura 4 - Colangiografia percutanea transepatica. Litiasi intraepatica e stenosi della via biliare
principale in malattia di Caroli (osservazione personale).
La diagnosi, di solito, viene fatta nella IV decade di vita per la comparsa di epatomegalia, dolore (85%), febbre (72%), ittero ostruttivo (58,4%).
Per la diagnosi 1,12 sono utili l’ecografia, l’eco-endoscopia, la tomografia computerizzata con mezzo di contrasto (tipica la presenza di un’arteria al centro di una cisti), la RMN,
l’ERCP con rischio di colangiti ascendenti (cisti comunicanti con l’albero biliare), la PTC,
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la scintigrafia epatica con HIDA (ac. iminodiacetico marcato con 99Tc), la colangio-RM. I
tests epatici solitamente sono normali tranne che per l’aumento della fosfatasi alcalina.
TERAPIA
La terapia medica si fonda sull’impiego di antibiotici per le complicanze infettive. Per
la litiasi intraepatica si può ricorrere ai fluidificanti biliari in presenza di calcoli colesterinici. Anche la litotripsia extracorporea16 è una metodica da non trascurare. Le instillazioni
endobiliari di metil-tert-butil-etere si sono rivelate eccessivamente tossiche.17
Sicuramente più risolutiva è la terapia chirurgica, che consente di asportare la patologia cistica intraepatica con i calcoli eventualmente associati e di ristabilire un adeguato drenaggio biliare interno.18,19
Le resezioni epatiche (emiepatectomia, lobectomia o segmentectomia) sono indicate
nelle forme circoscritte, unilobari o segmentarie.20,21 Nel tipo IVa secondo Todani ad esse
viene associata l’exeresi della via biliare principale con un’epatico-digiunoanastomosi alla
Roux.
Per le complesse forme diffuse, che di solito prevalgono nel lobo sinistro, all’exeresi
epatica (fegato sinistro) e della via biliare principale deve essere abbinata la bonifica strumentale delle vie biliari intraepatiche residue (fegato destro) mediante colangioscopia e utilizzo di cateteri di Fogarty, di cestelli di Dormia, di pinze da calcoli e di lavaggi sotto pressione. All’exeresi segue una colangio-digiunoanastomosi centrale alla Roux utilizzando la
confluenza dei dotti settoriali dilatati. Con la stessa ansa è possibile associare una seconda
anastomosi bilio-digestiva periferica segmentaria (segmento VI), avendo l’accortezza di posizionare un drenaggio transanastomotico, che viene esteriorizzato attraverso la parete addominale.22 Si conserva, così, un accesso postoperatorio ai dotti segmentari dilatati per
eventuali ulteriori rimozioni di calcoli residui. Lo stesso risultato è ottenuto eseguendo una
colangio-digiunoanastomosi con ansa sottocutanea od una epatico-digiuno-cutaneo-stomia.23,24 Se indicate, possono essere realizzate anche colangio-digiunoanastomosi secondo
Soupault-Couinaud25 o secondo Hepp.26 In casi particolari, al drenaggio biliare interno può
essere associato anche un drenaggio biliare esterno transepatico secondo Praderi.27
Nei pazienti con varici esofagee può essere prudente far precedere all’exeresi epatica
una scleroterapia endoscopica od uno shunt porto-sistemico (spleno-renale centrale o distale).
I pazienti con lesioni cistiche intraepatiche diffuse, afflitti da colangiti recidivanti o con
ipertensione portale da fibrosi epatica congenita e funzione epatocellulare gravemente compromessa, possono necessitare di un trapianto di fegato.9,19 In tale evenienza, la prognosi è
aggravata dalle possibili complicanze intraoperatorie (emorragia) e postoperatorie (sepsi).
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TRATTAMENTO CHIRURGICO DELL’IPERTENSIONE
POLMONARE CRONICA TROMBOEMBOLICA MEDIANTE
ENDOARTERIECTOMIA POLMONARE
A.M. D’Armini, M. Morsolini, S. Nicolardi, M. Pozzi, G. Zanotti, C. Monterosso,
M. Viganò
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo
Sezione di Cardiochirurgia e dei Trapianti d’Organi Toracici
Università degli Studi di Pavia
Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico San Matteo, Pavia
L’ipertensione polmonare cronica tromboembolica (IPCTE) rappresenta l’unico tipo di
ipertensione polmonare (IP) trattabile, nella maggior parte dei casi, mediante terapia chirurgica conservativa salvavita chiamata endoarteriectomia polmonare (EAP). Questo intervento
chirurgico è stato documentato dallo stesso ideatore della classificazione chirurgica oggi in
uso, Stuart W. Jamieson del Centro di San Diego, California, nel 1993, pubblicando l’esperienza raccolta da 150 casi in un periodo di 29 mesi1.
L’IPCTE è senza dubbio una malattia spesso misconosciuta o non diagnosticata. Gli
unici dati ottenuti da un significativo campione di popolazione risalgono ad una casistica
americana degli anni ’80 e descrivono circa 600.000 nuovi casi/anno di embolia polmonare
acuta dei quali lo 0.1 – 0.5 % evolve in IPCTE. Rapportando i dati epidemiologici alla popolazione italiana si ottiene un’incidenza di IPCTE pari a 100 – 500 nuovi casi/anno. Tale
previsione rappresenta comunque una sottostima della reale situazione, non considerando
tutti i casi di IPCTE secondari ad embolia polmonare asintomatica. Attualmente sono stati
eseguiti poco più di 5.000 interventi di EAP in tutto il mondo, il 50 % dei quali praticato
presso il Centro di San Diego mentre la restante parte in circa 10 Centri nel mondo che praticano questo tipo di chirurgia routinariamente2.
La storia naturale della malattia prevede che, in seguito ad uno o più episodi di embolia
polmonare acuta, si assista ad un periodo più o meno duraturo di relativo benessere. Durante
tale periodo l’albero vascolare polmonare e le sezioni cardiache destre vanno incontro ad
importanti modificazioni anatomiche e funzionali, con ipertrofia parietale vascolare del circolo arterioso polmonare simile alla Sindrome di Eisenmenger e progressiva ipertrofiadilatazione del ventricolo destro. Nella fasi più avanzate si manifesta un quadro di scompenso cardiaco destro e successivamente, causa la compressione del ventricolo sinistro, biventricolare.
Generalmente sono riportati in anamnesi episodi di trombosi venosa profonda, spesso
sostenuti da difetti coagulativi ed immunologici. I sintomi più frequenti della malattia sono
legati allo scompenso cardiaco destro ed all’insufficienza respiratoria: dispnea ingravescente, tosse stizzosa talora con episodi di emoftoe o emottisi, cianosi, episodi sincopali,
edemi declivi, epatomegalia da stasi fino ad ascite ed a gravi quadri anasarcatici.
Tra i principali fattori di rischio per lo sviluppo di IPCTE rivestono un ruolo significa-
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tivo le malattie infiammatorie croniche, la presenza di anticorpi anticardiolipina, lupus anticoagulant, stati trombofilici e turbe della fibrinolisi congenite o acquisite, il posizionamento
di cateteri venosi a permanenza, di cardiostimolatori e di shunt ventricolo-atriali. Per la diagnosi della malattia è indicata l’esecuzione di una serie di esami secondo più livelli di approfondimento. Il tracciato elettrocardiografico a 12 derivazioni, il radiogramma del torace
antero-posteriore e l’esplorazione ecocardiografica transtoracica sono definiti di primo livello. Il secondo livello diagnostico comprende la scintigrafia polmonare ventilatoria e perfusoria, il cateterismo cardiaco destro e le prove di funzionalità respiratoria con emogasanalisi. Sulla base dei sospetti originati da tali accertamenti, per la conferma della natura tromboembolica della IP e per la determinazione della classificazione chirurgica, necessaria per
stabilire l’indicazione all’intervento chirurgico, si ricorre allo studio angiografico del circolo
polmonare e alla tomografia computerizzata del torace ad alta risoluzione3.
L’indicazione al trattamento chirurgico della IPCTE viene posta sulla base di dati clinici ed emodinamici mentre la scelta del tipo di chirurgia è guidata dall’anatomia delle lesioni tromboemboliche. Data la storia naturale della malattia, inesorabilmente progressiva,
ed i risultati dell’intervento di EAP, strettamente dipendenti dalle condizioni cliniche preoperatorie dei pazienti, l’indicazione chirurgica attualmente viene posta anche in soggetti in
classe funzionale NYHA II, previa terapia anticoagulante orale di almeno 3 mesi. I criteri
emodinamici sono rappresentati dal calcolo delle resistenze vascolari polmonari (> 300
dyne*sec*cm-5) e dalla pressione arteriosa polmonare media a riposo (≥ 25 mmHg), che diviene la variabile fondamentale quando il calcolo delle resistenze vascolari polmonari risulta
falsato da portate cardiache relativamente conservate (≥ 3.5 L/min) o da pressioni di incuneamento polmonare sovrastimate per la presenza di importanti collateralità bronchiali. Le lesioni infine possono essere distinte in prossimali e distali sulla base del coinvolgimento arterioso polmonare. Apposizioni tromboemboliche organizzate che ostruiscono le arterie polmonari principali, i rami lobari o i rami segmentali in presenza di un letto vascolare periferico pervio ed indenne vengono considerate prossimali ed eleggibili ad intervento chirurgico
conservativo mediante EAP. Quando invece la IPCTE è sostenuta da microembolizzazioni
coinvolgenti esclusivamente i rami subsegmentali l’intervento di EAP è controindicato e
l’unica alternativa chirurgica è rappresentata dal trapianto polmonare bilaterale sequenziale.
L’unica controindicazione all’intervento di EAP indipendente dall’anatomia delle lesioni è
l’associazione con severa pneumopatia parenchimale, che rende necessario ricorrere
all’opzione trapiantologica.
In totale presso il nostro Centro sono stati eseguiti 155 interventi di EAP. Dall’analisi
del numero di pazienti valutati presso il nostro Centro dal Gennaio 2004 al Dicembre 2006
si ottiene un tasso di operabilità della malattia del 75 % circa. Le caratteristiche anagrafiche,
emodinamiche, ecocardiografiche, radiologiche RMN e funzionali dei 155 pazienti sottoposti ad intervento di EAP sono riassunte nelle relative tabelle.
Tabella I - Caratteristiche anagrafiche.
Età (anni)
53 ± 16 (11 – 84)
Sesso
84 M : 71 F
Classe NYHA
5 II – 65 III – 85 IV
Durata NYHA III/IV (mesi)
21 ± 27
O2 terapia
80/155
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Tabella II -. Caratteristiche emodinamiche.
Pressione arteriosa polmonare media
47 ± 13 (17 – 88) mmHg
Indice cardiaco
1.9 ± 0.6 (1.1 – 4.1) L/min/m2
Resistenze vascolari polmonari
1149 ± 535 (191 – 3938) dyne*sec*cm-5
Tabella III - Caratteristiche ecocardiografiche.
Diametro telediastolico ventricolo destro
39 ± 8 (20 – 66) mm
Frazione di accorciamento ventricolo destro
24 ± 10 (5 – 47) %
Diametro vena cava inferiore
22 ± 6 (10 – 38) mm
Collassabilità vena cava inferiore
Presente 41 % – Assente 59 %
Insufficienza tricuspidale moderata – severa
78 %
Setto paradosso
Presente 92 % – Assente 8 %
Diametro telediastolico ventricolo sinistro
41 ± 8 (23 – 56) mm
Volume telediastolico ventricolo sinistro
71 ± 31 (14 – 157) ml
Tabella IV - Caratteristiche radiologiche RMN.
Volume telediastolico ventricolo destro 113 ± 40 (45 – 200) ml
Volume telesistolico ventricolo destro
80 ± 33 (28 – 160) ml
Frazione eiezione ventricolo destro
33 ± 11 (10 – 57) %
Volume telediastolico ventricolo sinistro 88 ± 29 (38 – 156) ml
Volume telesistolico ventricolo sinistro
50 ± 21 (20 – 109) ml
Frazione eiezione ventricolo sinistro
43 ± 13 (11 – 72) %
Tabella V - Caratteristiche funzionali.
PaO2
PaCO2
SaO2
Test di Bruce modificato – step
Test di Bruce modificato –
distanza
65 ± 10 (43 – 97) mmHg
31 ± 7 (24 – 43) mmHg
93 ± 3 (84 – 98) %
No (PaO2 < 60 mmHg) 37 %; step < 1 57 %; step ≥ 1 6
%
103 ± 160 (0 – 852) m
Test cardiopolmonare – picco
No (controindicato) 16 %; Watt ≤ 50 62 %; Watt > 50
22 %
Test cardiopolmonare – VO2
picco
9.9 ± 3.6 (3.0 – 29.4) ml/kg/min
L’intervento chirurgico viene realizzato tramite un accesso per via sternotomica mediana longitudinale, con utilizzo della circolazione extracorporea mediante cannulazione
centrale bicavale – aorta ascendente ed posizionamento di uno scarico sinistro in vena polmonare superiore destra, al fine di garantire un ottimale drenaggio delle cavità cardiache
quando il cuore fibrilla causa l’ipotermia. Solitamente l’aorta ascendente non viene clampata nè viene utilizzata soluzione cardioplegica lasciando la preservazione cardiaca
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all’ipotermia stessa. Durante il tempo centrale dell’intervento si raggiungono infatti temperature di circa 18° – 20° C, che consentono di realizzare in sicurezza successivi periodi di
arresto di circolo fondamentali per mantenere il campo operatorio esangue, ciascuno < 20
minuti intervallati ognuno da periodi di riperfusione ≥ 10 minuti, con continuo monitoraggio
cerebrale della NIRS (Near InfraRed Spectroscopy).
Mediante un dissettore – aspiratore sottile atraumatico si estende il piano di clivaggio,
precedentemente individuato nello spessore della tonaca media di ciascuna arteria polmonare principale, verso la periferia per tutta la lunghezza di ciascuna diramazione vascolare,
con l’obiettivo di realizzare una endoarteriectomia radicale fino ai vasi subsegmentali, requisito fondamentale per ottenere un miglioramento emodinamico significativo.
I risultati della casistica del nostro Centro in termini di sopravvivenza sono eccellenti,
considerate le critiche condizioni pre-operatorie dei pazienti, essendo 88 % e 84 % ad 1 e 3
anni rispettivamente e rimanendo invariata a 5, 7 e 10 anni. Analizzando separatamente le
sopravvivenze dopo EAP dei pazienti divisi per classe funzionale NYHA pre-operatoria si
osserva come le condizioni cliniche pre-operatorie influenzino drasticamente il successo
della procedura, come mostrato dalla tabella 6.
Tabella VI - Mortalità operatoria.
Mortalità globale 16/155 (10 %)
NYHA II
0/5 (0 %)
NYHA III
2/65 (3 %)
NYHA IV
14/85 (17 %)
Il sanguinamento dalle vie aeree è la principale complicanza peri-operatoria legata
all’intervento di EAP, rappresentando il 43 % delle cause di decesso, seguito da insufficienza cardiaca destra e sepsi, ciascuna al 19 % e da complicanze gastrointestinali al 13 %.
La ricerca e l’eventuale embolizzazione di rami arteriosi anomali a partenza da arterie coronarie, intercostali, mammarie e freniche tributari di circoli anomali bronchiali che alimentano flussi anastomotici collaterali con il circolo polmonare riveste quindi un ruolo importante nel controllo dei fattori di rischio modificabili. L’edema polmonare da riperfusione
complica il 15 % circa degli interventi di EAP, determinando un prolungamento della degenza ospedaliera, e soltanto in un caso è stato fatale, responsabile quindi del 6 % circa
delle cause di decesso.
I risultati a medio e lungo termine, ottenuti grazie ad un attivo programma di follow-up
dei pazienti operati realizzato presso il nostro Centro, mostrano su tutti i fronti un drastico
recupero dell’integrità morfo-funzionale. L’adesione dei pazienti è ottima, intorno al 93 %,
e per i restanti pazienti sono state recuperate informazioni telefonicamente. Dalla dimissione
dall’ospedale i pazienti hanno mostrato una retrocessione significativa e stabile nel tempo a
classi funzionali NYHA inferiori. Il recupero emodinamico è invece evidente nel 90 % dei
pazienti immediatamente allo svezzamento dalla circolazione extracorporea in sala operatoria e rimane stabile alle successive misurazioni di follow-up, ripristinando un circolo polmonare normoteso4. Contestualmente al miglioramento emodinamico si assiste ad un altrettanto immediato rimodellamento morfologico della cardiomeccanica, con regressione
dell’insufficienza valvolare tricuspidale e dei segni di sovraccarico ventricolare destro e di
compressione ventricolare sinistra. Associando all’esplorazione ecocardiografica transtoracica lo studio radiologico RMN, il recupero della funzionalità del ventricolo destro si è di-
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mostrato progressivo nel tempo, rivelando un processo di rimodellamento ventricolare inverso secondario all’intervento di EAP5. Dal punto di vista funzionale nella maggioranza dei
pazienti si è assistito ad un recupero di normali valori emogasanalitici già a 3 mesi
dall’intervento. La tollerabilità all’esercizio fisico invece subisce un recupero più graduale
nel tempo6.
Circa il 10 % dei pazienti sottoposti ad intervento di EAP non ha mostrato differenze
statisticamente significative al confronto con la condizione pre-operatoria o ha mantenuto
una condizione di IP nonostante l’intervento. Il 5 % circa ha mostrato nel tempo una recidiva di IP. Verosimilmente la causa di questi insuccessi è rappresentata dall’inesorabile
avanzamento della malattia dei piccoli vasi che insorge nei distretti vascolari perfusi
dall’iperafflusso ematico secondario all’ostruzione cronica dei segmenti colpiti dalla malattia, similmente ai processi di rimodellamento vascolare tipici della Sindrome di Eisenmenger. Anche per questo motivo quindi l’indicazione chirurgica andrebbe estesa ai soggetti in
classe funzionale NYHA II, riducendo il tempo che separa la diagnosi della malattia
dall’intervento chirurgico. Nella maggior parte dei pazienti comunque si assiste ad un
drammatico ed immediato miglioramento emodinamico, associato al documentato completo
recupero funzionale cardiaco, e ad un recupero funzionale costante e progressivo nel tempo.
Il raffronto tra la severa storia naturale della malattia, il relativamente basso tasso di
mortalità legato all’intervento di EAP ed i brillanti risultati mostrati dal follow-up a medio e
lungo termine fanno di questa procedura chirurgica conservativa il trattamento di scelta per
la maggior parte dei pazienti affetti da IPCTE.
BIBLIOGRAFIA
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PERSISTENZA DI ELEVATE RESISTENZE VASCOLARI
POLMONARI DOPO INTERVENTO DI ENDOARTERECTOMIA
POLMONARE: CONSEGUENZE SULLA GESTIONE
POSTOPERATORIA E SULL’OUTCOME
Francesco Mojoli e Antonio Braschi
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo
Sezione di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica
Università degli Studi – Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Pavia
ABSTRACT
Premessa. La mortalità precoce dopo intervento di Endoarterectomia Polmonare (PEA) nei pazienti
con ipertensione polmonare cronica tromboembolica (CTEPH) è considerata una conseguenza, nella
maggior parte dei casi, della persistenza di elevate resistenze vascolari polmonari (PVR) e dello
sviluppo di insufficienza cardiaca destra postoperatoria. L’estensione dell’indicazione chirurgica
anche ai pazienti nei quali all’ostruzione vascolare prossimale si associa una componente periferica,
e un variabile grado di vasocostrizione polmonare postoperatoria rendono il riscontro di elevate PVR
residue non infrequente nei primi giorni postoperatori. Scopo di questo studio è identificare i fattori
predisponenti e le conseguenze sulla gestione post-operatoria di elevate PVR residue dopo PEA.
Metodi. Ottantanove pazienti ammessi consecutivamente nel nostro reparto di Terapia Intensiva
dopo intervento di PEA sono stati divisi in un gruppo di studio caratterizzato da elevate PVR residue
ed un gruppo di controllo, a seconda che le PVR postoperatorie fossero rispettivamente > o ≤ 500
dyne*s*cm-5.
Risultati. 24 pazienti (28 %) presentavano PVR postoperatorie maggiori di 500 dyne*s*cm-5.
Dodici di questi pazienti avevano elevate PVR residue anche alla dimissione. La presenza di elevate
PVR residue ha determinato la necessità di un trattamento postoperatorio più intensivo e prolungato.
Tra le complicanze, l’edema polmonare da riperfusione, il fallimento dell’estubazione e le polmoniti
sono risultate più frequenti nel gruppo di studio. Non è stata invece osservata nessuna differenza nel
tasso di mortalità precoce tra i due gruppi ( 4.2 % vs 6.5 %).
Conclusioni. Nonostante la condizione “elevate PVR residue” dopo PEA abbia avuto un netto
impatto sulla gestione postoperatoria e sulle complicanze, nella nostra serie di pazienti non ha
influenzato la mortalità postoperatoria precoce. Una ridotta mortalità associata a questa condizione
offre la possibilità di un approccio combinato, medico e chirurgico, nei pazienti affetti da CTEPH
che, alla valutazione preoperatoria, presentano una significativa malattia periferica.
INTRODUZIONE
L’ipertensione polmonare cronica tromboembolica (chronic thromboembolic pulmonary hypertension, CTEPH) si verifica all’incirca nel 38 % dei casi di embolia polmonare1.
L’endoarterectomia polmonare (pulmonary endarterectomy, PEA) rappresenta il trattamento
di scelta per i pazienti con ipertensione polmonare dovuta alla presenza di trombi organizzati a livello delle arterie principali, lobari e segmentali2. Il miglioramento emodinamico è
generalmente drastico subito dopo la chirurgia con una sostanziale diminuzione delle resistenze vascolari polmonari (pulmonary vascular resistance, PVR) ed un recupero della funzione ventricolare destra3-6. A questo consegue un netto miglioramento sintomatico e funzionale, che è di lunga durata nella maggior parte dei pazienti, anche quelli più compromessi7.
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D’altra parte, la mortalità precoce postoperatoria dopo PEA varia ancora tra il 5 % ed il
10 %, anche nei centri con maggior esperienza. Questa mortalità si verifica quasi esclusivamente durante i primi giorni postoperatori ed è considerata nella maggior parte dei casi conseguenza di elevate PVR residue postoperatorie ed insufficienza ventricolare destra8-10.
Nella più ampia serie ad oggi pubblicata, la persistenza di elevate PVR dopo PEA comportava una mortalità precoce postoperatoria di circa il 30 %9. Pertanto, è stato suggerito di non
operare paziente per i quali non può essere garantita una riduzione delle PVR maggiore del
50 % e basse PVR postoperatorie10.
La sensibilità e specificità con le quali una significativa ostruzione periferica dei vasi
polmonari, non chirurgicamente accessibile, può essere identificata alla valutazione preoperatoria non sono però ancora ottimali11-13. D’altra parte, anche quando si è sicuri che una
significativa malattia periferica è presente, la decisione di non operare il paziente non viene
presa automaticamente. Infatti, in molti casi una significativa componente distale è conseguenza dello sviluppo di un’arteriopatia secondaria dei piccoli vasi2,14, complicanza tipica
dei pazienti con malattia severa e di lunga durata, i quali hanno una prognosi lesivamente
sfavorevole e nei quali una più elevata mortalità postoperatoria potrebbe eventualmente essere accettata. Inoltre, c’è una crescente convinzione che, qualora questi pazienti superino
l’intervento e l’immediato postoperatorio, essi possano successivamente beneficiare di una
terapia medica a lungo termine diretta contro la componente residua e non chirurgicamente
correggibile della loro malattia15-22. Infine, alcuni pazienti sviluppano un certo grado di vasocostrizione polmonare postoperatoria, la quale rappresenta quindi una causa funzionale e
difficilmente prevedibile di elevate PVR postoperatorie23. Per tutte queste ragioni, il verificarsi di elevate PVR residue dopo PEA è tutt’altro che infrequente.
Riportiamo la nostra esperienza nella gestione postoperatoria dei pazienti affetti da
CTEPH e sottoposti a PEA nel nostro istituto negli ultimi 12 anni. I pazienti che presentavano elevate PVR residue dopo PEA sono stati attentamente analizzati con lo scopo di
identificare i fattori predisponenti e gli effetti sulla gestione postoperatoria. Sono state inoltre ipotizzate strategie intra e postoperatorie atte a limitare le conseguenze di questa condizione.
PAZIENTI E METODI
Pazienti
Dal 1994 al Dicembre 2005, 140 pazienti affetti da CTEPH sono stati sottoposti a PEA
presso la Divisione di Cardiochirurgia dell’Ospedale San Matteo di Pavia. Di questi
pazienti, 89 sono stati ricoverati per la gestione postoperatoria nel nostro reparto di Terapia
Intensiva generale (Rianimazione I) e sono stati inclusi nel presente studio retrospettivo ed
osservazionale. Tre pazienti sono stati successivamente esclusi per incompletezza dei dati.
Degli 86 pazienti definitivamente arruolati 50 erano maschi (58 %) con un’età media di 53.2
± 15.3 anni. Alla valutazione preoperatoria sono stati misurati valori medi di resistenze
vascolari polmonari (PVR), portata cardiaca (cardiac output, CO) e pressione arteriosa
polmonare media (mean pulmonary artery pressure, mPAP) equivalenti a 1050 ± 409 dynes
* s * cm-5, 3.5 ± 1.0 l/min e 49.2 ± 12.8 mmHg rispettivamente.
Tecnica chirurgica
L’intervento è stato eseguito seguendo la tecnica standard descritta dai chirurghi della
Università di San Diego in California (UCSD). Diversamente dal gruppo dell’UCSD, nel
nostro centro non viene usualmente né clampata l’aorta ascendente né somministrata
soluzione cardioplegica perchè è nostra opinione che si possa ottenere una migliore
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protezione cardiaca perfondendo il cuore in arresto con il sangue raffreddato del circuito
extracorporeo, con drenaggio del ventricolo sinistro attraverso la vena polmonare superiore
destra.
Gestione Postoperatoria
Nella nostra esperienza l’uso combinato di un agente inotropo e di un vasopressore è
quasi la regola per assicurare lo svezzamento dalla circolazione extracorporea (cardiopulmonary bypass, CBP). Il supporto inotropo viene successivamente regolato in modo da evitare un eccessivo incremento della portata cardiaca postoperatoria:di conseguenza, è gradualmente diminuito e generalmente sospeso entro le 24-48 ore. Lo svezzamento dal vasopressore è invece più lento allo scopo di contrastare la frequente vasoplegia postoperatoria,
ottenere un bilancio idrico negativo mediante diuresi forzata e sostenere le pressioni di perfusione cardiaca e renale.
Nelle prime ore utilizziamo una ventilazione a pressione controllata (volume corrente
pari a 8-10 ml/kg di peso corporeo, pressione di plateau < 32 cm H20 e una pressione positiva di fine espirazione (PEEP) di 8-12 cm H20), la quale è rapidamente sostituita con una
modalità assistita; l’estubazione viene effettuta il prima possibile e spesso nonostante la persistente necessità di livelli di PEEP e FiO2 ancora elevati.
La presenza di elevate PVR residue e lo sviluppo di insufficienza ventricolare destra
dopo PEA sono gestiti con l’ottimizzazione del precarico, l’utilizzo di vasopressori sistemici, vasodilatatori polmonari e con un supporto inotropo. L’edema polmonare da riperfusione e l’ipossiemia severa sono trattate mediante diuresi forzata, l’inalazione di ossido nitrico (iNO) e l’aumento dei livelli di PEEP, o nel caso di ipossiemia post-estubazione, con
pressione positiva continua nelle vie aeree (continuous positive airway pressare, C-PAP)
non invasiva mediante casco.
Raccolta dati ed analisi statistica
I dati sono stati ottenuti da un database raccolto in modo prospettico ed anche mediante
la revisione della cartelle cliniche originali. Sono state considerate tre successive valutazioni
emodinamiche: preoperatoria, a 3-5 ore dal ricovero nel nostro reparto dopo l’intervento, ed
appena prima della rimozione del catetere arterioso polmonare (pulmonary artery catheter,
PAC), in 3a – 6a giornata postoperatoria. La mortalità è stata valutata alla 60a e 180a giornata
postoperatoria. Sulla base di un valore di PVR, alla prima determinazione postoperatoria,
superiore o inferiore a 500 dyne*s*cm-5, i pazienti sono stati divisi in due gruppi: elevate
PVR residue (gruppo di studio) e basse PVR postoperatorie (gruppo di controllo). I pazienti
con elevate PVR residue sono stati ulteriormente divisi in un gruppo con PVR residue e persistenti (gruppo persistente) ed un gruppo con PVR residue ma transitorie (gruppo funzionale) a seconda di un valore di PVR, all’ultima determinazione prima della rimozione del
PAC, > o ≤ di 500 dyne*s*cm-5. Per valutare le differenze tra i vari gruppi sono stati utilizzati i tests T di Student, χ2 con correzione di Mantel-Haenszel e Fisher exact.
RISULTATI
PVR superiori a 500 dynes * s * cm-5 in occasione della prima misurazione
postoperatoria erano presenti in 24 pazienti (27.9 %). Dodici di questi pazienti (14.0 %)
presentatavano elevate PVR residue anche all’ultima misurazione prima della rimozione del
PAC. La Figura 1 mostra l’andamento nel tempo delle PVR nel gruppo persistente,
funzionale e di controllo.
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Caratteristiche preoperatorie
Alla valutazione preoperatoria, i pazienti del gruppo persistente risultavano sintomatici
da più tempo e presentavano PVR più elevate, una più bassa portata cardiaca ed una più severa vasocostrizione sistemica rispetto ai pazienti appartenenti sia al gruppo di controllo sia
al gruppo funzionale (tabella 1). Il sesso femminile era più frequente nel gruppo persistente.
I pazienti con elevate PVR residue (sia funzionali che persistenti) erano più anziani e più
ipossici in aria ambiente rispetto ai controlli.
Trattamento postoperatorio
Non sono state osservate differenze significative in termini di degenza in Terapia Intensiva e di trattamento postoperatorio nel confronto tra i pazienti con elevate PVR di tipo funzionale e quelli con elevate PVR di tipo persistente, a parte una più prolungata necessità di
ossido nitrico per via inalatoria (4.3 ± 2.5 giorni vs 1.7 ± 1.3; p = 0.0259), sedazione (6.7 ±
6.6 giorni vs 2.7 ± 2.0; p = 0.0323) ed elevate frazioni inspiratorie di ossigeno (FiO2 dopo
estubazione 0.6 ± 0.1 vs 0.5 ± 0.1; p = 0.0313) nel gruppo persistente.
Elevate PVR residue nell’immediato postoperatorio, di tipo reversibile o persistente,
hanno determinato la necessità di un trattamento postoperatorio più intensivo e prolungato
rispetto al gruppo di controllo, sia per quanto riguarda il supporto circolatorio che quello
respiratorio (tabella 2); la degenza media in Rianimazione è stata di 18.2 ± 16.9 giorni nel
gruppo di studio e di 7.7 ± 9.1 nei controlli (p = 0.0002).
Complicanze postoperatorie
Tra le complicanze postoperatorie, l’edema polmonare da riperfusione (41.7 % vs 16.1
%; p = 0.0124), il fallimento dell’estubazione (41.7 % vs 11.3 %; p = 0.0029) e la polmonite
(50.0 % vs 17.7 %; p = 0.0026) sono risulati più frequenti nei pazienti con elevate PVR residue (gruppo di studio). Le complicanze postoperatorie non differivano in modo significativo tra il gruppo persistente e quello funzionale.
I pazienti con PVR residue persistentemente elevate hanno avuto peggiori scambi respiratori in ogni fase del periodo postoperatorio rispetto ai controlli (figura 2). Il rapporto
PaO2/FiO2 del gruppo funzionale era simile a quello osservato nel gruppo persistente
all’ammissione e prima dell’estubazione, mentre è divenuto simile a quello del gruppo di
controllo dopo l’estubazione ed alla dimissione dalla Terapia Intensiva.
Nel gruppo persistente è stata misurata una riduzione media delle resistenze vascolari
sistemiche (systemic vascular resistance, SVR) pari al 53.9 ± 17.6 % del valore preoperatorio; questa riduzione è risultata maggiore di quelle verificatasi nel gruppo funzionale (78.0 ±
15.7 %; p = 0.0010) e nel gruppo di controllo (66.3 ± 29.2 %; p = 0.0949).
Mortalità precoce dopo PEA
Cinque pazienti sono morti nel primo periodo postoperatorio, con una mortalità a 60
giorni del 5.8 %. Nessun altro paziente è morto tra la 60a e 180a giornata postoperatoria. I tre
pazienti esclusi dallo studio per incompletezza dei dati erano tutti vivi alla 180a giornata
postoperatoria. Nella nostra serie la condizione “elevate PVR residue” nell’immediato postoperatorio dopo PEA non ha influenzato la mortalità a 60 giorni: le morti sono state 1/24
(4.2 %) nel gruppo di studio e 4/62 (6.5 %) nel gruppo di controllo. L’unico paziente con
elevate PVR residue che è morto entro il 180o giorno postoperatorio apparteneva al gruppo
persistente.
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2000
PVR (dyne s cm -5)
1600
1200
800
400
0
Figura 1
Valori medi delle resistenze vascolari polmonari (PVR) in 3 differenti momenti (preoperatorio, postoperatorio
precoce ed appena prima della rimozione del catetere arterioso polmonare) nei pazienti con basse PVR
(gruppo di controllo, simboli bianchi), PVR elevate ma reversibili (gruppo funzionale, simboli grigi) ed PVR
elevate e persistenti (gruppo persistente, simboli neri) alla prima determinazione dopo l’intervento di
endoarterectomia polmonare.
Il gruppo persistente aveva più alte PVR rispetto al gruppo funzionale ed al gruppo di controllo nel
preoperatorio (p = 0.0052 and p < 0.0001), nel primo postoperatorio (p = 0.0288 and p << 0.0001) e prima
della rimozione del PAC (p = 0.0002 and p << 0.0001).
Il gruppo funzionale ha mostrato un maggior decremento delle PVR (-37 %) durante il periodo postoperatorio
sia rispetto al gruppo di controllo (- 9 %, p = 0.009) sia rispetto al gruppo persistente (- 13 %, p = 0.0086).
400
PaO2 / FiO2 (mmHg)
350
300
250
200
150
100
50
Figura 2
Valori medi del rapporto PaO2 / FiO2 in 4 differenti momenti (postoperatorio precoce, appena prima
dell’estubazione, subito dopo l’estubazione ed appena prima della dimissione) nei pazienti con basse PVR
(gruppo di controllo, simboli bianchi), PVR elevate ma reversibili (gruppo funzionale, simboli grigi) e PVR
elevate e persistenti (gruppo persistente, simboli neri) alla prima determinazione dopo l’intervento di
endoarterectomia polmonare.
Il gruppo persistente ha avuto rapporti PaO2 / FiO2 più bassi rispetto al gruppo di controllo all’ammissione (p =
0.0179), prima dell’estubazione (p = 0.0149), dopo l’estubazione (p = 0.0068) e prima della dimissione dalla
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Terapia Intensiva (p = 0.0144).
Il gruppo funzionale ha avuto rapporti PaO2 / FiO2 più bassi rispetto al gruppo di controllo all’ammissione (p =
0.0346) e prima dell’estubazione (p = 0.045), e più alti rapporti PaO2 / FiO2 rispetto al gruppo persistente dopo
l’estubazione (p = 0.0248) e prima della dimissione dalla Rianimazione (p = 0.0695).
Tabella I: Caratteristiche preoperatorie dei pazienti con basse PVR postoperatorie (gruppo di
controllo), PVR elevate ma reversibili (gruppo funzionale) e PVR elevate e persistenti (gruppo
persistente).
Età (anni)
Sesso maschile (n, %)
NYHA III-IV (mesi)
CO (l / min)
PVR (dyne*s*cm-5)
mPAP (mmHg)
SVR (dyne*s*cm-5)
PaO2 (mmHg)
Pz di controllo
(n = 62)
Valore di P
(F vs C)
Pz funzionali
(n = 12)
Valore di P
(P vs F)
Pz persitenti
(n = 12)
Valore di P
(P vs C)
50.6 ± 15.8
40 (65 %)
19.8 ± 14.3
3.7 ± 1.0
977 ± 379
48.0 ± 13.5
2032 ± 625
67.3 ± 8.8
0.0096
62.2 ± 12.5
6 (50.0 %)
18.1 ± 12.2
3.6 ± 0.8
1023 ± 368
50.8 ± 12.1
1878 ± 449
58.2 ± 9.5
0.2030
58.2 ± 10.5
4 (33.3 %)
28.1 ± 14.8
2.7 ± 0.7
1454 ± 385
53.6 ± 7.7
2956 ± 872
62.3 ± 9.0
0.0576
0.2633
0.4066
0.4825
0.3491
0.2526
0.2110
0.0009
0.4175
0.0424
0.0032
0.0052
0.2571
0.0005
0.1431
0.0462
0.0278
0.0010
0.0000
0.0866
0.0000
0.0399
Tabella II: Trattamento postoperatorio dei pazienti con e senza elevate PVR residue dopo PEA.
#
I valori si riferiscono alla prima giornata postoperatoria.
Pz di controllo
(n = 62)
Degenza in Rianimazione
(giorni)
Dobutamina
(n, %)
(mcg/Kg/min) #
(giorni)
Noradrenalina
(n, %)
(mcg/Kg/min) #
(giorni)
Bilancio idrico dopo 1 giorno
(ml)
dopo 3 giorni
(ml)
NO inalato
(n, %)
Ventilazione meccanica
(giorni)
PEEP
(cmH2O) #
Tidal Volume
(ml/Kg) #
FiO2
(%) #
Prima Estubazione (giornata postop.)
C-PAP
(n, %)
(giorni)
Tracheostomia
(n, %)
Sedazione
(giorni)
7.7 ± 9.1
45 (72.6 %)
5.9 ± 2.5
1.9 ± 1.4
44 (71.0 %)
0.19 ± 0.16
2.7 ± 2.6
-614 ± 1296
-1772 ± 2253
10 (16.1 %)
4.2 ± 6.0
7.7 ± 1.9
8.9 ± 1.9
58.6 ± 14.3
2.9 ± 3.5
33 (53.2 %)
1.8 ± 1.2
2 (3.2 %)
3.0 ± 3.5
Valore di P
0.0002
0.3010
0.0101
0.1344
0.2412
0.4983
0.0321
0.0115
0.0348
0.0124
0.0002
0.0075
0.0002
0.0027
0.0012
0.2616
0.0141
0.0166
0.0391
Pz di studio
(n = 24)
18.2 ± 16.9
20 (83.3 %)
7.6 ± 2.9
2.4 ± 1.8
20 (83.3 %)
0.19 ± 0.14
4.8 ± 6.1
126 ± 1113
-875 ± 1231
10 (41.7 %)
11.5 ± 11.7
8.9 ± 2.1
10.7 ± 1.9
68.5 ± 14.9
6.0 ± 5.2
16 (66.7 %)
3.8 ± 4.7
5 (20.8 %)
4.8 ± 5.2
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DISCUSSIONE
Nei pazienti con CTEPH l’ostruzione dei vasi polmonari distalmente alle arterie segmentali può essere spiegata con un’associata ipertensione polmonare idiopatica, con una ricorrente microtromboembolia facilitata dalla presenza di dispositivi intravascolari24 o con lo
sviluppo di un’arteriopatia dei piccoli vasi per il progressivo rimodellamento vascolare che
si verifica nella malattia tromboembolica di lunga durata2. Infatti, la persistente ostruzione
delle arterie polmonari espone ad elevate pressioni i segmenti vascolari risparmiati
dall’occlusione tromboembolica: in questi segmenti si sviluppano modificazioni istologiche
simili a quelle osservate nelle altre forme di ipertensione polmonare14, 25-27.
Una significativa componente vascolare distale predispone i pazienti con CTEPH ad
una chirurgia meno efficace e di conseguenza ad elevate PVR residue dopo l’intervento di
endoarterectomia polmonare.
Inoltre, in alcuni pazienti può essere osservata una componente reversibile rappresentata da un grado variabile di vasocostrizione polmonare postoperatoria23: la sindrome post
circolazione extracorporea, il trauma chirurgico del sistema vascolare polmonare ed il danno
da ischemia-riperfusione possono essere responsabili di questa causa “funzionale” di elevate
PVR residue dopo PEA.
Nella nostra serie, più di un quarto dei pazienti ha presentato nell’immediato postoperatorio PVR superiori a 500 dynes * s *cm-5, una quota superiore rispetto a quella precedentemente riportata da Jamieson e colleghi9. Questo risultato può essere spiegato dal diverso momento in cui è stata effettuata la valutazione emodinamica postoperatoria. Nel nostro caso la valutazione nelle prime ore dopo PEA ha permesso di includere anche i pazienti
con elevate PVR residue di tipo funzionale; al contrario, Jamieson e colleghi hanno riportato
i dati ottenuti in occasione dell’ultima determinazione appena prima della rimozione del
PAC, per cui questi pazienti sono stati presumibilmente esclusi.
I pazienti del gruppo persistente erano caratterizzati da una più severa malattia tromboembolica, come testimoniato da più elevate PVR, da una minore portata cardiaca, dalla necessità di una maggiore vasocostrizione sistemica, da una peggiore ipossiemia e da una più
lunga durata dei sintomi. I nostri dati confermano l’impressione che più la malattia tromboembolica è severa e di lunga durata, più importante risulta anche il rimodellamento del sistema vascolare polmonare. Al contrario, i pazienti in cui si è verificato una significativa,
ma reversibile, vasocostrizione polmonare postoperatoria erano simili al gruppo di controllo
riguardo alla severità della malattia e si distinguevano solo perché più anziani e più ipossici
alla valutazione preoperatoria.
La condizione “elevate PVR residue” ha identificato i pazienti che hanno necessitato di
un trattamento postoperatorio più intensivo e prolungato: questo è vero non solo per il supporto cardiovascolare ma anche per quello respiratorio. La degenza in Rianimazione per
questi pazienti è risultata più che doppia. Hanno necessitato di più inotropi, vasopressori sistemici e vasodilatatori polmonari. Per questi pazienti è stato più difficile ottenere un bilancio idrico negativo nei primi giorni del post-operatorio. Inoltre, quando le PVR sono rimaste
elevate dopo PEA la ventilazione meccanica è stata prolungata e caratterizzata da livelli di
PEEP e FiO2 più elevati. Il primo tentativo di estubazione è stato ritardato di 3 giorni rispetto ai controlli, è fallito in più del 40 % dei casi ed il 20 % dei pazienti del gruppo di studio ha avuto bisogno della tracheotomia per essere definitivamente svezzati dalla ventilazione meccanica.
In un lavoro di recente pubblicazione è stato descritto l’andamento postoperatorio dei
pazienti con ipertensione polmonare tromboembolica “estrema” 28: questi pazienti erano ca-
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ratterizzati da PVR preoperatorie molto alte, una condizione che è nota predisporre ad elevate PVR residue8-10. Gli autori hanno osservato una più lunga degenza nel reparto intensivo
e una più lunga durata della ventilazione meccanica, insieme ad una maggiore incidenza di
edema polmonare da riperfusione e polmonite rispetto ai pazienti con più bassi valori di
pressione arteriosa polmonare. Nel nostro gruppo di studio con elevate PVR residue abbiamo ottenuto dei risultati molto simili. La comparsa dell’edema polmonare da riperfusione
può essere facilitato nei casi più severi e duraturi di CTEPH a causa dello svilupparsi della
malattia dei piccoli vasi e della deviazione, dopo l’intervento, del flusso sanguigno verso i
segmenti vascolari appena liberati dall’ostruzione tromboembolica. Al contrario, l’elevata
incidenza di polmonite è probabilmente più correlata alla prolungata ventilazione meccanica
piuttosto che a una particolare suscettibilità di questi pazienti alle infezioni polmonari. A
questo riguardo, i possibili vantaggi di un più ampio utilizzo della ventilazione non invasiva
devono essere provati. I pazienti con PVR residue persistentemente elevate hanno mostrato
peggiori scambi respiratori in ogni fase della loro permanenza in Terapia Intensiva:
all’ammissione, poco prima dell’estubazione, appena dopo essere stati svezzati dalla ventilazione meccanica ed alla dimissione. Questa osservazione può essere spiegata da una combinazione variabile di peggiori scambi respiratori già alla valutazione preoperatoria, bilanci
idrici meno negativi nei primi giorni del postoperatorio e maggior frequenza di edema polmonare da riperfusione.
Il fatto che il trattamento postoperatorio e le complicanze siano risultate indipendenti
dal presunto meccanismo causa di elevate PVR residue (rimodellamento vascolare o vasocostrizione polmonare reversibile, rispettivamente, nel gruppo persistente e funzionale) può
suggerire che le elevate resistenze vascolari polmonari, di per sé, abbiano prolungato e
complicato il periodo postoperatorio dei nostri pazienti. Rimane ancora da determinare se un
più aggressivo trattamento farmacologico delle elevate PVR postoperatorie possa ridurne
effettivamente le conseguenze in questi pazienti.
Nonostante le elevate PVR residue abbiano avuto un chiaro impatto sulla gestione postoperatoria e sulle complicanze, nella nostra serie non c’è stato un effetto sulla mortalità
postoperatoria precoce. Questo risultato è in contrasto con un tasso di mortalità precedentemente riportato in questa tipologia di pazienti pari al 30 %9. A questo proposito, nel nostro
centro sono peculiari due aspetti della gestione dei pazienti affetti da CTEPH. In primo
luogo, generalmente l’aorta ascendente non viene clampata né si utilizza la soluzione cardioplegica perché nella nostra esperienza si può ottenere una migliore protezione miocardica
perfondendo il cuore in arresto con il sangue raffreddato della circolazione extracorporea.
Questo approccio può eventualmente limitare la disfunzione miocardia postoperatoria, permettendo al ventricolo destro di affrontare meglio delle resistenze vascolari polmonari ancora elevate dopo l’intervento. Inoltre, nella nostra esperienza l’uso di vasopressori avviene
senza significative restrizioni. Il verificarsi di una importante vasodilatazione sistemica è riportata come più frequente e severa a seguito di PEA rispetto ad altre procedure necessitanti
la circolazione extracorporea e l’arresto di circolo in ipotermia profonda23. In effetti, nella
nostra serie abbiamo osservato una diminuzione media postoperatoria delle resistenze vascolari sistemiche pari al 66 % del valore preoperatorio; inoltre, la riduzione del tono vascolare sistemico è stata particolarmente significativa (circa il 50 % del valore preoperatorio) nel gruppo con PVR persistentemente elevate dopo PEA. La somministrazione sistemica di Noradrenalina può aver protetto i nostri pazienti dalla rischiosa combinazione di
sovraccarico del cuore destro da PVR residue ed ischemia ventricolare destra dovuta alla
vasoplegia sistemica, prevenendo in questo modo una franca insufficienza ventricolare destra nell’immediato postoperatorio.
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Un basso tasso di mortalità nei pazienti con elevate PVR residue dopo PEA offre la
possibilità di un approccio combinato, medico e chirurgico, nei pazienti affetti da CTEPH
con una significativa componente periferica. In effetti, si sta affermando la convinzione che
i pazienti liberati chirurgicamente dall’ostruzione centrale tromboembolica possano successivamente essere trattati per la residua malattia distale con terapia medica. I pazienti affetti
da ipertensione arteriosa polmonare idiopatica o associata e quelli affetti da CTEPH condividono simili proprietà di vasoreattività acuta e di compliance vascolare: questi risultati forniscono un razionale per l’utilizzo, anche nelle malattie tromboemboliche, di un trattamento
a lungo termine vasodilatatorio ed antiproliferativo29. Diversi piccoli studi non controllati
hanno arruolato pazienti con CTEPH non operabile, riportando significativi miglioramenti
nei marcatori della severità della malattia con l’uso di terapie con prostanoidi ed inibitori
delle fosfodiesterasi 515-18. Recentemente sono state anche riportate esperienze di utilizzo
del Bosentan, antagonista del recettore dell’endotelina, sia nei pazienti con CTEPH inoperabile sia nei pazienti con malattia residua dopo PEA19-22. Questi studi hanno dimostrato un
miglioramento, a breve e lungo termine, nella capacità di eseguire esercizio fisico, nella
classe funzionale e nell’emodinamica. E’ inoltre suggestivo che nello studio di Hughes e
collaboratori22 ci fosse una tendenza ad un più marcato miglioramento nei pazienti con ipertensione polmonare persistente dopo PEA. In effetti, questi pazienti avevano ricevuto un
trattamento per entrambe le componenti della loro malattia, centrale e distale, mentre nei
pazienti giudicati inoperabili (o che avevano rifiutato l’operazione) era stata trattata solamente la malattia periferica.
In conclusione, la persistenza di elevate PVR dopo PEA complica il trattamento postoperatorio dei pazienti con CTEPH, pertanto sarebbe preferibile operare questi pazienti prima
che si sviluppi un severo rimodellamento vascolare e l’arteriopatia dei piccoli vasi.
D’altronde, anche per i pazienti con elevate PVR residue dopo l’intervento è possibile un
tasso di mortalità relativamente basso. Rimane da definire quali pazienti con una significativa malattia periferica alla valutazione preoperatoria possano ottenere maggior beneficio
con un approccio combinato, medico e chirurgico, rispetto al solo trattamento medico.
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RIABILITAZIONE FUNZIONALE PRECOCE
IN CHIRURGIA CARDIOTORACICA
L. Petrucci, S. Ricotti, A. Lanzi, D. Vanzini, I. Lanzani, L. Carlucci, E. Dalla Toffola
Servizio di Recupero e Rieducazione Funzionale, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo
Cattedra di Medicina Fisica e Riabilitativa
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo
Sezione di Clinica Chirurgica e di Riabilitazione
Università di Pavia
INTRODUZIONE
Dopo interventi di chirurgia toracica (polmonare, cardiaca) e chirurgia addominale alta
si possono verificare problematiche di pertinenza riabilitativa. In particolare si può osservare una compromissione respiratoria (1-6) caratterizzata da una sindrome restrittiva, tipica
dell’immmediato post operatorio ma che può persistere per settimane, mesi dopo
l’intervento chirurgico (2,3).La presenza di fattori di rischio rappresentati da precedenti
patologie respiratorie,fumo di sigaretta, diabete, obesità può comportare l’ insorgenza di
complicanze respiratorie (7-11).La variabile incidenza delle complicanze respiratorie riportate in letteratura dipende dalla diversità della tipologia di pazienti considerati nonché dalla
definizione stessa di complicanza respiratoria (9,11).
Il dolore della ferita chirurgica rappresenta una costante dell’operato. La gestione del
dolore in acuto è di pertinenza farmacologia, ma strategie riabilitative mirate possono coadiuvare il suo controllo. Il controllo del dolore acuto può influenzare e ridurre l’ incidenza e
la durata del dolore cronico (chronic post surgical pain) che riconosce nella particolare
intensità e durata del dolore in acuto una delle possibili cause della sua cronicizzazione (1180% toracotomie, 25-56% sternotomie) e durare per settimane o mesi dopo l’intervento
(12-17).
Il dolore della ferita chirurgia toracica limita oltre che la espansibilità toracica
nell’immediato post operatorio, caratterizzando un respiro superficiale, monotono, legato
all’assenza di atti inspiratori profondi, anche la mobililità dell’arto superiore. Nota da
tempo è la possibile compromissione della funzionalità della spalla omolaterale alla toracotomia postero laterale, con una incidenza nel primo anno dall’intervento chirurgico dal 10 al
26%. Tale disfunzione di spalla oltre al dolore della ferita è legata alla incisione muscolare.
Anche dopo sternotomia mediana viene riportata una compromissione della funzionalità
delle spalle con una incidenza del 1,5-24%, riconoscendo tuttavia cause diverse dalla incisione muscolare (18).
Nelle strategie individuate per ridurre il rischio di complicanze respiratorie nel perioperatorio vengono annoverate manovre riabilitative sia in fase pre operatoria che post operatoria.(19-25). Inizialmente per la chirurgia cardiaca e successivamente anche per la chirurgia
polmonare sono stati formulati protocolli Fast Tracking per la fase perioperatoria, che pre-
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vedono rapidità di intervento secondo linee guida giornaliere in cui viene puntualizzata la
precocità dell’applicazione del trattamento riabilitativo già in prima giornata post operatoria
(26-28) .
Scopo di questo lavoro è la presentazione e valutazione del protocollo riabilitativo effettuato su pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia toracica e la valutazione della funzionalità della spalla nel periodo post operatorio immediato.
MATERIALI E METODI
Sono stati valutati 22 pazienti di età media 65 anni (48-76) sottoposti a toracotomia postero laterale per interventi di lobectomia e 28 pazienti di età media 67 (48-79) con sternotomia mediana per rivascolarizzazione miocardica.
I tempi di osservazione sono stati a 7 giorni e ad 1 mese dall’intervento chirurgico per
entrambi i gruppi e a tre mesi per le toracotomie. Il dolore del post operatorio era trattato
secondo protocolli farmacologici specifici in uso alle due Unità Operative.
Si è classificato il dolore della ferita chirurgica a seconda delle modalità di insorgenza:dolore spontaneo,dolore con il respiro profondo,dolore al colpo di tosse,dolore nei
cambi posturali, ed ai movimenti dell’arto superiore omolaterale alla incisione chirurgica in
caso di toracotomia e bilaterale nella sternotomia.
La valutazione funzionale della spalla è stata effettuata con la scala di Constant (29)
È una scala standardizzata suddivisa in quattro sezioni che valutano: dolore, attività
della vita quotidiana (ADL), movimento attivo, forza muscolare della spalla. Il punteggio è
espresso in centesimi, dei quali 35% riferiti dal paziente(dolore 15 punti, ADL 20 punti),
mentre il restante 65% rilevati dall’operatore (movimento attivo 40 punti, forza muscolare
25 punti). Calcolato il punteggio totale si quantifica il grado di funzionaltà dell’arto superiore definendo: eccellente un risultato pari al 100%, buono un risultato fra 85 e 99%, medio
un risultato compreso fra 65% ed 84%, scarso un risultato inferiore al 65%.
Il dolore della ferita chirurgica è stato correlato,con un modello di regressione, con la
funzionalità dell’arto superiore espressa dalla scala di Constant.
TRATTAMENTO RIABILITATIVO
Il protocollo riabilitativo adottato nel postoperatorio in chirurgia toracica prevede:
− riabilitazione respiratoria con esercizi a volume corrente, esercizi di respiro profondo, tosse assistita,manovre di huffing,tecniche che utilizzano l’applicazione di una
pressione espiratoria positiva, spirometria incentivante;
− rieducazione motoria segmentaria degli arti superiori ed inferiori;
− rieducazione motoria globale con esercizi per il recupero della stazione seduta e
della stazione eretta.
Riabilitazione Respiratoria
Il trattamento riabilitativo nei pazienti sottoposti a chirurgia cardiaca viene iniziato in
terapia intensiva dopo l’estubazione; nel caso di tempi di intubazione superiore alle quarantotto ore si inizia una mobilizzazione analitica degli arti per la prevenzione del danno
secondario.
Dopo chirurgia polmonare il trattamento riabilitativo inizia in prima giornata post operatoria.
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La tipologia di esercizio respiratorio adottato è simile nei due gruppi di pazienti.
Riabilitazione motoria
Le caratteristiche dell’esercizio per gli arti superiori dipende dal tipo di incisione chirurgica.
Nella toracotomia postero laterale già in prima giornata si inizia la mobilizzazione in
flessione dell’articolazione scapolo omerale omolaterale all’incisione, in seconda giornata
vengono inseriti esercizi in intra, extrarotazione ed abduzione aumentando progressivamente l’ampiezza del movimento ed inserendo gradualmente esercizi contro resistenza.
Nella sternotomia mediana accanto alla necessità di mantenere una mobilità funzionale
di entrambe le articolazioni scapolo omerale è imperativo rispettare i tempi di consolidamento dell’osso sternale per cui gli esercizi di mobilizzazione, iniziati in seconda giornata,
vengono effettuati solo sul piano sagittale evitando movimenti complessi (intrarotazione,
extrarotazione ed abduzione) che sollecitano in modo abnorme la ferita sternale.
Il trattamento riabilitativo prevede inoltre una accurata educazione del paziente sulle
modalità di contenzione della ferita chirurgica, sulle posture da mantenere nel letto durante
la notte (decubito supino per il primo mese) e sull’utilizzo dell’arto superiore nelle comuni
attività della vita quotidiana (vestirsi, sollevare pesi,evitare movimenti in extrarotazione ed
abduzione), nonché il mantenere un adeguato stile di vita (dieta,astensione dal fumo, regolare esercizio aerobico).
RISULTATI
Ventidue pazienti (16 maschi ) con toracotomia postero laterale e 28 (16 maschi) con
sternotomia mediana sono stati valutati nei tempi previsti.
Il tempo medio di trattamento riabilitativo postoperatorio è stato di 7 giorni (2-20) e 5
(4-8) durante la degenza in chirurgia toracica e cardiochirurgia rispettivamente.
Dolore
La Figura 1 riporta il dolore in sede di ferita chirurgica nei tempi di osservazione sia
per i pazienti con toracotomia che con sternotomia.
Toracotomia
Sternotomia
Figura 1
Nelle toracotomie postero laterali il dolore alla ferita chirurgica è riferito con maggiore
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frequenza nei movimenti dell’arto superiore e nei cambi posturali.
Nella sternotomie il dolore è maggiormente evocato dalla tosse e dagli atti respiratori
profondi.
A distanza (1 mese dall’intervento) il dolore provocato e spontaneo si riduce in entrambi i gruppi mantenendo le stesse caratteristiche di insorgenza. Nel gruppo delle toracotomie si osserva a tre mesi dall’intervento la persistenza del dolore spontaneo nel 13 % dei
casi ed al movimento dell’arto superiore nel 18%.
Funzionalità
Nel pre operatorio nessun paziente riferiva una limitazione funzionale della spalla.
Considerando le singole sezioni della scala di valutazione della spalla (dolore, movimento attivo, forza muscolare) nel post operatorio si hanno valori ridotti rispetto al punteggio considerato di normalità, sia per la toracotomia postero laterale che per la sternotomia
mediana. Il punteggio tuttavia aumenta migliorando già ad un mese dall’intervento nei due
gruppi considerati, con un ulteriore incremento a tre mesi per le toracotomie Figg. 2 e 2a.
Dolore
Forza muscolare
Articolarità
Categ . Box & Whisker Plot: Consta nt MOV
Categ. Box & Whisker Plot: Constant FORZA
Categ. Box & Whisker Plot: Constant DOL
16
26
41
25
40
15
39
24
38
14
23
37
22
13
36
21
Constant FORZA
Constant DOL
11
10
Mean
±SE
±1,96*SE
9
0
1
2
3
visita
Constant MOV
12
20
19
35
34
33
32
18
Mean
±SE
±1,96*SE
17
0
1
2
3
visita
31
0
1
2
3
v isita
Mean
±SE
±1,96*SE
Figura 2 - Toracotomia: sezioni Scala Constant spalla omolaterale all’intervento
Dolore valore di normalità (VN) 15, Forza muscolare VN 25, Articolarità VN 40
Spalla ds
Spalla sin
Dolore
Categ. Box & Whisker Plot:
Categ. Box & Whisker Plot: Const forza dx
sx
15
14,0
13,5
14
13,0
13
12
12,0
sx
Const forza dx
12,5
11
11,5
11,0
10
10,5
9
10,0
9,5
1
2
Mean
Mean±SE
Mean±1,96*SE
8
Mean
Mean±SE
Mean±1,96*SE
1
2
N.Vis
N.Vis
Forza muscolare
Categ. Box & Whisker Plot:
Categ. Box & Whisker Plot: Const dol dx
sx
14,5
15
14,0
14
13,5
13
13,0
12,5
sx
Const dol dx
12
11
12,0
11,5
10
11,0
9
10,5
8
10,0
7
1
2
N.Vis
Mean
Mean±SE
Mean±1,96*SE
9,5
1
2
Mean
Mean±SE
Mean±1,96*SE
N.Vis
50
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Articolarità
Categ. Box & Whisker Plot:
Categ. Box & Whisker Plot: Const mov dx
sx
39
38
37
38
36
37
36
34
sx
Const mov dx
35
33
32
35
34
31
33
30
32
29
28
1
2
Mean
Mean±SE
Mean±1,96*SE
31
1
2
Mean
Mean±SE
Mean±1,96*SE
N.Vis
N.Vis
Figura 2a - Sternotomia: sezioni della Sscala Costant per la spalla destra e sinistra.
Dolore Valore di Normalità (VN) 15, Forza muscolare VN 25, Articolarità VN 40
Il modello di regressione costruito per il tempo visita ha evidenziato una correlazione
significativa fra dolore della ferita chirurgica scatenato dai cambi posturali e dal movimento
dell’arto superiore e lo score della Constant considerata globalmente e nelle sezioni dolore,
forza ed ADL (Tab. I).
Tabella I - Associazione fra dolore della ferita chirurgica e la Scala di Constant controllata per il
tempo visita
Constant Constant Constant Constant
Constant
Totale
Dolore
ADL
Movimento Forza
Dolore spontaneo
Sternotomia: arto sinistro
Dolore cambi posturali
Sternotomia: arto destro
Toracotomia
Dolore movimento arti superiori
Sternotomia: arto destro
arto sinistro
Toracotomia
p 0.02
p 0.049
p 0.024
p 0.003
p 0.022
p 0.011
p 0.003
p 0.016
p 0.004
p 0.016
p 0.001
p 0.008
p 0.029
p 0.002
p 0.026
La funzionalità globale della spalla ottenuta dalla categorizzazione degli score della
scala di Constant valutata nei tempi stabiliti post intervento viene riportata in Fig. 3
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Toracotomia
Sternotomia
Figura 3
Nel preoperatorio nessun paziente riferiva limitazione funzionale nelle ADL. In
7giornata post operatoria si rileva una compromissione funzionale della spalla in tutti i pazienti che tuttavia tende a migliorare ad un mese dall’intervento con funzionalità buona nel
46% nelle toracotomie e del 45% per le sternotomie. Il recupero delle attività della vita
quotidiana è riportato in figura 4.
spalla ds
Sternotomia
Sternotomia spalla sin
Categ. Box & Whisker Plot: Const ADL dx
Categ. Box & Whisker Plot:
18,5
19,0
18,0
18,5
17,5
18,0
17,0
17,5
16,5
17,0
Toracotomia
sx
Categ. Box & Whisker Plot: Constant ADL
21
20
18
sx
Const ADL dx
19
16,0
17
16,5
Constant ADL
15,5
16,0
15,0
15,5
16
15
14,5
15,0
14,0
1
2
Mean
Mean±SE
Mean±1,96*SE
14,5
N.Vis
1
2
Mean
Mean±SE
Mean±1,96*SE
14
0
1
2
v isita
3
Mean
±SE
±1,96*SE
N.Vis
Figura 4 - Recupero delle attività della vita quotidiana (ADL): VN 20
DISCUSSIONI E CONCLUSIONI
Il programma riabilitativo proposto ha consentito il recupero funzionale della spalla sia
nelle toracotomie che nelle sternotomie entro il primo mese dopo l’intervento.
Tradizionalmente l’intervento riabilitativo nel post operatorio immediato ha privilegiato manovre di rieducazione respiratoria per ridurre il rischio di comparsa di complicanze
respiratorie ed una mobilizzazione globale intesa al raggiungimento di una precoce verticalizzazione (1).
Il paziente chirurgico nell’immediato post operatorio per ridurre al minimo stimoli che
potrebbero esacerbare il dolore della ferita chirurgica si muove globalmente poco (atti respiratori poco profondi, inibizione della tosse, riduzione della motilità spontanea segmentaria)
con evidenti ripercussioni sul recupero funzionale globale
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Nel nostro protocollo sono previsti già in prima/seconda giornata postoperatoria esercizi di mobilizzazione segmentaria degli arti superiori con tempi e modalità differenti a seconda del tipo di incisione chirurgica.
Infatti i tempi dell’intervento riabilitativo sono dettati dalle necessità cliniche proprie di
ogni singolo paziente e dalla tipologia dell’intervento chirurgico.
Accanto ai protocolli chirurgici per accelerare il recupero dopo interventi a cuore
aperto e resezione polmonare (26-28), anche i protocolli riabilitativi devono a nostro avviso
accompagnare il paziente in tutte le fasi del post operatorio. Abbiamo quindi definito un
Fast –Track Cardiothoracic Rehabilitation Protocol per la cardiochirurgia e la chirurgia
polmonare.
Il programma da noi adottato nella fase immediatamente successiva all’intervento è simile sia nelle sternotomie mediane che nelle toracotomie. La fisioterapia respiratoria inizia
in prima giornata post operatoria sul paziente estubato. Il trattamento riabilitativo
respiratorio in pazienti ancora intubati non ha infatti dimostrato una riduzione del tempo di
degenza sia in terapia intensiva che nel reparto di cardiochirurgia (30).
Il trattamento riabilitativo include tecniche diverse: il respiro profondo, l’huffing, la
tosse assistita, il positioning, la mobilizzazione segmentaria e la deambulazione precoce.
Un corretto intervento riabilitativo inteso sia come mobilizzazione precoce sia come
correzione delle posture viziate trova posto nella gestione del dolore in acuto, accanto ad
interventi farmacologici specifici. Infatti una corretta gestione del dolore acuto può ridurre il
rischio del dolore cronico post chirurgico riportato in letteratura con una incidenza dall’11
all’80% nelle toracotomie e dal 25 al 39% nelle sternotomie (13,17).
Nella nostra casistica a 7 giorni dall’intervento il 30% delle toracotomie ed il 17%
delle sternotomie mediane riferiva dolore spontaneo in sede di ferita chirurgica, esacerbato
nelle sternotomie dal respiro profondo nel 57% e dai colpi di tosse nell’85%. Nelle toracotomie il dolore era maggiormente legato ai movimenti dell’arto superiore omolaterale
all’intervento (67%) e ai cambi posturali (63%).
Ad un mese dall’intervento si è assistito ad una netta riduzione del dolore sia spontaneo, presente nel 14% delle sternotomie mediane e nel 17% delle toracotomie, sia provocato con il respiro profondo, con i cambi di postura e con i movimenti dell’arto superiore.
Nel paziente sottoposto a chirurgia cardiotoracica è riconosciuta a distanza una limitazione funzionale della spalla omolaterale alla toracotomia nel 15-33% e nelle sternotomia
nel 1,5-32% in parte legata in entrambe alla componente algica, alla compromissione muscolare nelle toracotomie ed ad altri fattori nelle sternotomie (15,18).
Nella nostra casistica ad un mese dall’intervento la funzionalità globale della spalla è
nelle toracotomie completa nel 10% e buona nel 46%, mentre nelle sternotomie il recupero è buono nel 45% dei casi e medio nel 35%.Tali dati evidenziano una ridotta compromissione funzionale rispetto alla letteratura, con un buon recupero ad un mese delle attività della vita quotidiana che viene ulteriormente incrementato nel controllo a tre mesi.
Il nostro protocollo riabilitativo prevede una precoce mobilizzazione segmentaria per
l’arto superiore e una precoce verticalizzazione con l’intento di recuperare precocemente
l’autonomia. Precoce mobilizzazione dell’arto superiore che deve tuttavia tener conto nelle
sternotomie dell’obiettivo principale in questa fase che è il consolidamento sternale. Recupero funzionale della spalla che vede ad un mese un miglioramento degli score considerati
nella scala di Constant, quali la riduzione del dolore riferito alla spalla, il miglioramento
dell’articolarità goniometrica e della forza muscolare dell’arto superiore in entrambi i
gruppi.
La percentuale di ridotto recupero della funzionalità di spalla si è verificata nei casi in
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cui il dolore della ferita chirurgica è tale da limitare la mobilità, come si deduce dalla correlazione significativa tra dolore e gli score della scala di Constant.
I limiti di questo lavoro sono la mancanza di casi controllo non trattati, poiché il protocollo riabilitativo presentato viene applicato routinariamente per trecentosessantacinque
giorni all’anno su tutti i pazienti sottoposti a chirurgia polmonare e cardiaca, per assicurare
la continuità terapeutica e il precoce recupero funzionale.
Ringraziamento
Ringraziamo tutte le Fisioterapiste del Servizio di Recupero e Rieducazione Funzionale della Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo che quotidianamente prestano la loro
opera nei reparti di Chirurgia.
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_________________________________________________________________________________
NUOVE METODICHE PER LA PREPARAZIONE DEL LEMBO
DEL DONATORE NEL TRAPIANTO DI CORNEA
P.E. Bianchi, R. Ceccuzzi, F. Romanazzi, A. Del Favero
Clinica Oculistica
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo
dell’Università degli Studi di Pavia
Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Pavia
Il trapianto di cornea, in base alla patologia e ai fini terapeutici, viene eseguito con
tecniche diverse a seconda che si sostituisca un lembo corneale a tutto spessore
(cheratoplastica perforante = PK), un lembo di stroma parziale (cheratoplastica lamellare =
LK) o fino alla membrana di Descemet (cheratoplastica lamellare profonda = DLK). In tutti
questi interventi è fondamentale una buona preparazione del lembo da innestare. Nel
presente lavoro verrà descritta una nuova tecnica per la preparazione del lembo da utilizzare
nella LK.
Per LK si intende la sostituzione di strati anteriori della cornea opachi o alterati con
cornea omologa, ciò al fine di ripristinare un ordine nell’architettura sia per integrità che
spessore. Le principali indicazioni di questo intervento sono malattie degenerative o
iatrogene che causino un assottigliamento prevalentemente periferico della cornea (Tab. I).
Nella fig. 1 si può vedere un caso di degenerazione marginale di Terrien, malattia di causa
non nota che provoca un cronico e progressivo assottigliamento della periferia corneale,
associata a una variabile vascolarizzazione e deposizione di lipidi.
Tabella. I - Indicazioni alla LK
Malattie periferiche della cornea con assottigliamento
• degenerazione marginale di Terrien
• ulcera di Mooren
• cheratopatia neurotrofica
• cheratopatia da artrite reumatoide
Difetti corneali post-chirurgici
• pterigio
• dermoide
• neoplasie
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Figura 1 - degenerazione marginale di Terrien
In precedenza la preparazione della lamella stromale da innestare nel letto ricevente
adeguatamente preparato, presentava qualche difficoltà poiché il chirurgo modellava il
lembo corneale mentre veniva sostenuto mediante pinze dal secondo operatore.
Recentemente si è resa disponibile in commercio una camera anteriore artificiale
disposable di nuova concezione che fornisce un valido supporto per la preparazione delle
lamelle corneali.
Questa camera artificiale consta di un supporto in materiale plastico sul quale mediante
ghiere di diverso diametro è possibile fissare il lembo sclero-corneale da cui preparare la
lamella. Una mira a croce favorisce la centratura (fig. 2 e 3).
Figura 2
Figura 3
La camera è inoltre dotata di un raccordo per l’infusione di soluzione salina bilanciata
(BSS) al fine di creare un tono adeguato (fig. 4).
Figura 4
Dopo aver fissato il lembo e creato il tono adeguato si procede ad una trapanazione
mediante trapano presettato alla profondità desiderata (300-400 µm) (fig. 5).
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Figura 5
Successivamente si disseziona con bisturi sclerotomo la lamella trapanata cercando di
mantenere una trazione ottimale per creare un piano regolare (fig. 6).
Figura 6
La lamella così ottenuta viene poi deposta in una capsula Petri su sostanza viscoelastica
e utilizzata poi nelle fasi successive dell’intervento (fig. 7).
Figura 7
Nella fig. 8 si può vedere un caso di cheratopatia da artrite reumatoide con assottigliamento periferico (a) e lo stesso caso post-intervento (b).
Figura 8 a
Figura 8 b
Le lamelle corneali possono essere preparate oltre che durante la procedura operatoria
anche molto prima dell’intervento e conservate nella Banca degli Occhi mediante un
processo di liofilizzazione. La liofilizzazione consiste nella rimozione sottovuoto dell’acqua
dai tessuti precedentemente congelati mediante sublimazione (passaggio diretto da fase
solida a gassosa). Si appendono i lembi mediante sutura in seta 7/0 in appositi flaconi che
vengono posti nel liofilizzatore: si ottengono così dei tessuti di aspetto pergamenaceo sterili,
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sottovuoto, conservabili per lungo tempo (6 mesi e oltre) a temperatura ambiente (fig. 9);
prima dell’utilizzo vengono reidratati immergendoli in soluzione fisiologica sterile.
Figura 9
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L’ APPROCCIO ENDOSCOPICO AI TUMORI
DELLA REGIONE SELLARE
F.R. Canevari, D. Locatelli†, I. Acchiardi†, F. Zappoli‡, P. Scagnelli‡
Clinica Otorinolaringoiatria, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e
dei Trapianti d’Organo dell’Università degli Studi di Pavia
† Clinica Neurochirurgica, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei
Trapianti d’Organo dell’Università degli Studi di Pavia
‡ Servizio di Radiodiagnostica, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia
ABSTRACT
La scelta della via di approccio alla regione sellare è stato storicamente un problema dibattuto. La tecnica endoscopica è stata introdotta nel trattamento della patologia sellare
nei primi anni ’90 e nel corso degli anni successivi ha avuto una progressiva diffusione.
La nostra esperienza, nell’ambito di un gruppo di lavoro interdisciplinare, ci ha indotti a
verificare le eventuali variazioni alla via di approccio endoscopico considerando
l’anatomia naso-sinusale del basicranio, nonché la patologia sellare da trattare. Dopo
studi anatomici dissettori abbiamo codificato le vie di approccio endoscopico utilizzabili.
INTRODUZIONE
Le patologie della base cranica presentano problematiche multidistrettuali che coinvolgono la competenza di più specialisti. Per questo motivo l’iter diagnostico e terapeutico può essere ottimizzato utilizzando un approccio interdisciplinare. Nell’ambito di tali
patologie un ruolo importante è rappresentato dalla patologia sellare, di cui tratteremo in
questa sede le modalità di approccio chirurgico. Questo alla luce del fatto che la scelta
della via di approccio e’ stata, nel corso degli anni, la problematica principale della chirurgia sellare sia per la sede anatomica della sella sia per la presenza nelle regioni confinanti di strutture vitali.
L’approccio endoscopico per il trattamento di patologie sellari e parasellari fu introdotto nei primi anni ’90. Nel 1993 Jho e Carrau descrissero un approccio transfenoidale
endonasale monolaterale alla sella. La tecnica endoscopica fu sviluppata successivamente
in Italia da De Divitis e Cappabianca a Napoli, Frank e Pasquini a Bologna, Locatelli e
Castelnuovo a Pavia.
L’utilizzo della tecnica endoscopica presenta i seguenti vantaggi:
• accesso miniinvasivo alla regione sellare
• rispetto dell’unità anatomo-fisiologica naso-sinusale
• ottima visualizzazione del campo operatorio con possibilità di esplorare tutti i recessi con l’ausilio di ottiche angolate.
Questi vantaggi consentono di eseguire un intervento più radicale, riducono
l’incidenza delle complicanze e permettono una ridotta ospedalizzazione.
Il limite attribuito alla tecnica endoscopica della possibilità di utilizzare una sola
mano operatoria è stato nella nostra esperienza superato utilizzando un approccio
bilaterale da entrambe le fosse nasali rendendo in tal modo possibile l’utilizzo di tre e
quattro mani.
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Fig. 1
Esempio di utilizzo della
tecnica a 3 mani in uno
spaccato anatomico in
sezione assiale
Fig. 2
Esempio di utilizzo della
tecnica a 4 mani in uno
spaccato anatomico in
sezione assiale
Punto comune di tutti gli approcci chirurgici endonasali alla sella è il raggiungimento del seno sfenoidale in modo di poter disporre un campo chirurgico adeguatamente
ampio, esplorabile e facile da raggiungere con gli strumenti chirurgici.
Nella nostra esperienza abbiamo concluso che non è corretto parlare di approccio
chirurgico alla sella ma, tenuto conto del fatto che le vie attraverso le quali è possibile
raggiungere la sella sono molteplici, è più corretto parlare di approcci endoscopici alla
regione sellare. La scelta della via di approccio dipende dall’anatomia dei distretti nasosinusali e dalla sede e dall’estensione della patologia sellare da trattare.
Nella programmazione chirurgica risulta indispensabile uno studio radiologico che
prevede un RM, per delimitare l’estensione della patologia sellare e enfatizzarne i rapporti anatomici con le strutture confinanti, e una TC, finalizzata allo studio dell’anatomia
naso sinusale e quindi alla scelta della migliore via di accesso.
Fig. 3
Immagine TC in proiezione assiale che evidenzia la posizione
dell’ostio naturale del
seno sfenoidale
Fig. 4
Immagine RM in proiezione in coronale T1 pesata con gadolinio che
dimostra la presenza di
un macroadenoma e dei
suoi rapporti con l’arteria
carotide interna nel suo
tratto intracavernoso
VIE DI APPROCCIO ENDOSCOPICHE
Tramite studi anatomici con dissezione su cadavere abbiamo verificato la fattibilità
degli approcci alla sella descrivendo i punti cardine delle tecniche chirurgiche.
Elenchiamo di seguito le principali vie di approccio endoscopico.
VIA TRANSNASALE PARASETTALE
Questa è la via più diretta e la più utilizzata. Il vantaggio di questa via di
approccio è rappresentato dal raggiungimento diretto dell’ ostio naturale del seno
sfenoidale senza modificare le strutture anatomiche naso-sinusali che lo precedono.
Procedendo dall’avanti all’indietro lungo il pavimento della fossa nasale si raggiunge la coana. Salendo superiormente al bordo canale, medialmente alla coda del
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turbinato medio, si individua uno spazio anatomico definito recesso sfeno-etmoidale, punto cruciale per la ventilazione e il drenaggio dell’etmoide posteriore e del
seno sfenoidale. Salendo verticalmente nel recesso sfeno-etmoidale si individua il
turbinato superiore e occasionalmente il turbinato supremo, non sempre rappresentato e il più delle volte fuso insieme al turbinato superiore. Medialmente alla coda
del turbinato superiore è individuabile l’ ostio naturale del seno sfenoidale che a
volte è visualizzabile direttamente mentre altre volte è individuabile mediante la
palpazione delicata con una courette. Individuato l’ ostio si procede al suo ampliamento utilizzando strumenti taglienti come il circular punch in direzione dapprima
mediale, quindi inferiormente e, individuata visivamente la parete laterale del seno
sfenoidale, anche lateralmente. Un ulteriore ampliamento delle sfenoidotomia può
essere ottenuto con l’ausilio di trapano intranasale con fresa diamantata.
Nell’estensione inferiore della sfenoidotomia è necessario praticare una elettocauterizzazione della porzione inferiore della parete anteriore della sfenoide per evitare un
sanguinamento del ramo canale dell’arteria sfenopalatina. I limiti della sfenoidotomia sono superiormente il planum sfenoidale, lateralmente la parete laterale dello
sfenoide, inferiormente il pavimento sfenoidale e inferolateralmente qualche millimetro medialmente alla congiunzione tra seno sfenoidale e pterigiode, per evitare un
sanguinamento dell’arteria vidiana.
Fig. 5
Visione endoscopica del
recesso sfenoetmoidale sinistro (indicato dalla freccia) e del bordo coanale.
Fig. 6
Visione endoscopica
dell’allargamento
dell’ostio naturale del
seno sfenoidale con
pinza a morso circolare
Fig. 7
Visione endoscopica
dell’allargamento dell’ostio
naturale del seno sfenoidale
con trapano intranasale
Fig. 8
Visione endoscopica al
termine della sfenoidotomia
VIA TRANSETMOIDALE A MINIMA
Questa via viene utilizzata raramente, di norma in presenza di modificazioni
anatomiche nasosinusali che determinano una ristrettezza degli spazi utilizzati
nella via tranasnasale parasettale e che quindi ne impediscono l’utilizzo. Questa
via permette di raggiungere la sella passando attraverso le strutture etmoidali, risparmiandole il più possibile.
Il primo tempo di tale via prevede l’ispezione del meato medio, l’individuazione del processo uncinato e della bulla etmoidale e quindi l’individuazione
della seconda porzione della lamella basale del turbinato medio e la sua apertura
medialmente alla bulla etmoidale. Si ha in questo modo un accesso diretto
all’etmoide posteriore conservando le strutture dell’etmoide anteriore rap-
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presentate dal processo uncinato e dalla bulla. Individuato l’etmoide posteriore si
passa alla individuazione del turbinato superiore che è situato a livello della sua
parete mediale e quindi alla sua scomposizione in senso anteroposteriore. Raggiunta la coda del turbinato superiore si individua l’ostio naturale del seno sfenoidale e si procede quindi alla sfenoidotomia.
Fig. 9
Visione endoscopica
dell’apertura della seconda
porzione del turbinato medio con accesso diretto all’
etmoide posteriore conservando il processo uncinato
e la bulla etmoidale
Fig. 10
Visione endoscopica della
scomposizione del turbinato
superiore via etmoide
posteriore per accedere all’
ostio naturale del seno
sfenoidale
Fig. 11
Visione endoscopica
dell’allargamento dell’ ostio
naturale del seno sfenoidale
con pinza a morso circolare
Fig. 12
Visione endoscopica finale
dell’ approcio trans
etmoidale a minima
VIA TRANSETMOIDALE
Questa via trova un utilizzo nei casi in cui l’anatomia nasosinusale non
consenta un approccio transnasale parasettale, nei casi in cui siano coesistenti
patologie disventilatorie sinusali meritevoli di una correzione chirurgica e nei
processi espansivi sellari di grosse dimensioni con un iniziale interessamento
laterale in direzione della regione parasellare. Essa consente di ottenere spazi di
approccio sufficientemente ampi da poter controllare agevolmente con più strumenti
la regione sellare e parasellare.
L’approccio inizia con l’individuazione e l’asportazione della porzione libera
del processo uncinato. Individuato l’ ostio naturale del seno mascellare si passa alla
esplorazione della bulla etmoidale e alla sua asportazione partendo dal suo angolo
inferomediale e proseguendo lateralmente e superiormente. Asportata la bulla
risulta visualizzabile la seconda porzione del turbinato medio e procedendo alla sua
apertura nell’angolo inferomediale si passa nell’etmoide posteriore. Si individua
quindi il turbinato superiore che rappresenta la parete mediale dell’etmoide
posteriore e asportando il turbinato stesso si raggiunge l’ ostio naturale del seno
sfenoidale proseguendo quindi con la sfenoidotomia.
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Fig. 13
Visione endoscopica della
asportazione del processo
uncinato con bisturi falcato
Fig. 14
Visione endoscopica dell’
.apertura della bulla etmoidale nel suo angolo infero
mediale
Fig. 15
Visione endoscopica dell’apertura dell’etmoide posteriore nell’angolo inferomediale della seconda
porzione del turbinato
medio
Fig. 16
Visione endoscopica dello
spostamento del turbinato
superiore via etmoide
posteriore con individuazione dell’ ostio naturale
del seno sfenoidale
Fig. 17
Visione endoscopica finale dell’ approccio transetmoidale ( SS, seno
sfenoidale; SM, seno mascellare;
C, coana )
VIA TRANSETMOIDO PTERIGOIDEA
Questa via trova impiego in casi selezionati in cui la patologia sellare ha
sconfinato ampliamente nella regione parasellare per cui si rende necessario
accedere a strutture poste lateralmente. Essa consente di ottenere spazi chirurgici
ampi e di poter accedere direttamente alla regione parasellare.
La problematica principale di questa via è l’individuazione e il trattamento di
due strutture vascolari che si attraversano durante l’approccio, rappresentate
dall’arteria sfenopalatina e dall’arteria vidiana. Eseguita l’etmoidectomia e una
amplia sfenoidotomia si passa al trattamento dell’arteria sfenopalatina. Si procede
ad una ampia antrostomia media a spese dell’area delle fontanelle posteriori, si
individua il piano sottoperiosteo e con uno scollamento in senso anteroposteriore
si individua, medialmente e dorsalmente alla coda del turbinato medio, il forame
dell’arteria sfenoplatina. Si procede quindi alla sua elettrocauterizzazione bipolare
e alla sua sezione. L’approccio prosegue con l’apertura della fossa pterigopalatina
asportando la parete posteriore del seno mascellare, quindi, asportato il processo
orbitario dell’osso palatino, si trasforma il forame sfenopalatino in una doccia. Si
individua così il tronco comune dell’arteria sfenoplatina che viene cauterizzata.
Esponendo il contenuto delle fossa pterigoplatina si individuano l’arteria vidiana
e il forame rotondo passando quindi alla elettrocauterizzazione dell’arteria. Si
prosegue drillando il processo pterigoideo e il pavimento laterale del seno
sfenoidale. Con questo approccio risulta raggiungibile direttamente la parete
laterale del seno sfenoidale potendo così accedere al seno cavernoso e alla fossa
cranica media.
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Fig. 18
Visione endoscopica della
fine della via transetmoidale, punto di partenza
della via transetmoidopterigiodea
Fig. 19
Visione endoscopica dell’
individuazione dell’ arteria
sfenoplatina alla sua emergenza dall’ omonimo canale
Fig. 20
Visione endoscopica del
forame dell’artria vidiana
( indicato dalla strumento)
nel passaggio nel suo
canale nel pavimento del
seno sfenoidale
Fig. 21
Visione endoscopica della
fresatura del processo pterigiodea che permette una accesso alla strutture laterali
alla sella
Fig. 22
Visione endoscopica finale dell’approccio
transetmoidopterigoideo. La freccia indica
l’esposizione della carotide interna nel suo
tratto intracavernoso.
SCOMPOSIZIONE DEL SETTO INTERSFENOIDALE
Punto comune di tutte le vie di approccio è la scomposizione del setto intersfenoidale per creare una cavità unica con al centro la sella. Il setto viene asportato mediante trapano intranasale con fresa diamantata cominciando dalla sua
porzione anteroinferiore e procedendo in senso posterosuperiore facendo attenzione ad evitare movimenti di torsione in quanto spesso il setto si inserisce sulla
salienza della carotide interna. Individuati i punti di repere rappresentati dai recessi interottico-carotidei e dalle salienze delle arterie carotidi interne si può procedere con la fresatura dell’osso sellare.
Fig. 23
Visione endoscopica
dell’ asportazione del setto
intersfenoidale con fresa
diamantata
Fig. 24
Visione endoscopica finale
con la creazione di un’ unica cavità sfenoidale con al
centro la sella
DISCUSSIONE
L’approccio chirurgico endoscopico è da considerare la via di prima scelta nel trattamento delle patologie sellari e parasellari per la possibilità di ottenere campi operatori
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ampi con una visualizzazione diretta e ravvicinata della patologia da trattare e per il minimo impatto sulle strutture anatomiche che precedono la lesione.
La possibilità di poter lavorare nel campo operatorio con tre e con quattro mani ha
amplificato ulteriormente le indicazioni di utilizzo di tale approccio permettendo di sorpassare agevolmente i limiti imputati agli approcci endoscopici a due mani e rendendo
quindi possibile il trattamento di patologie estese e di patologie a ricca vascolarizzazione.
La nostra esperienza maturata nell’ambito del gruppo interdisciplinare, studi anatomici dissettori e il confronto con la letteratura ci hanno condotto a parlare di approcci endoscopici alla sella descrivendo diverse vie di approccio alla regione sellare.
La via più utilizzata è quella transnasale parasettale in quanto senza modificare le
strutture naso sinusali permette una buana esposizione del campo sellare.
La via tranasetmoidale a minima trova un impiego più limitato ma offre una valida
alternativa nel caso in cui modificazioni anatomiche etmoidali o settali non consentano
un approccio diretto parasettale. Questa via permette di raggiungere la regione sellare con
un impatto minimo sulle strutture etmoidali.
Nel caso in cui siano presenti patologie etmoidali o sia necessaria una via di approccio più ampia a causa delle dimensioni della patologia sellare risulta utile la via transetmoidale.
Se infine la patologia sellare da trattare presenta una ampia estensione laterale verso
il seno cavernoso e la fossa cranica media la via di scelta è quella tresetmoidopterigoidea.
Questa via consente di ottenere un approccio molto ampio e inoltre consente di accedere
in modo diretto alla strutture laterali. Per la sua complessità di esecuzione e per i potenziali rischi emorragici a cui si esposti, essa è da utilizzare solo in rari casi selezionati.
Nell’approccio endoscopico alla sella sono quindi utilizzabili multiple opzioni nella
via per raggiungere la sella. Punto cardine di tutte le vie proposte è di combinare il minor
impatto possibile sulle strutture nasosinusali con il confezionamento di un approccio
adeguato alla patologia da trattare. Risulta indispensabile un attento studio anatomico e
dissettorio per determinare i criteri di fattibilità di un determinato approccio. Le vie proposte sono inoltre utilizzabile non solo per le patologie sellari ma possono trovare un impiego nel trattamento delle patologie clivari, della fossa cranica anteriore e media. Studi
anatomici e dissettori sono in corso per verificare se l’approccio endoscopico transnasale
possa essere utilizzato nel trattamento di patologie selezionate della fossa cranica posteriore.
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I TUMORI DELLA TECA CRANICA
I. Chiaranda, L. Bottani, L. Magrassi, C. Arienta
Clinica Neurochirurgica
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo
dell’Università degli Studi di Pavia
Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Pavia
CARATTERISTICHE GENERALI
Le lesioni espansive della teca cranica, che costituiscono l’1-2% di tutte le masse ossee,
rappresentano una piccola ma importante porzione della pratica neurochirurgica. Queste lesioni possono essere suddivise in neoplasie primitive e secondarie, benigne e maligne e
masse non neoplastiche (Tab. I)
Tabella. I – Caratteristiche delle neoplasie della teca cranica.
NEOPLASIE PRIMITIVE DELLA TECA CRANICA
NEOPLASIE SECONDARIE DELLA TECA CRANICA
TUMORI BENIGNI
MALATTIA METASTATICA
Osteoma
Emangioma, linfangioma
Neoplasie embrionarie
Condroma
Tumore a cellule giganti
Cisti aneurismaticadell’osso
Lipoma
Carcinoma (polmone, mammella, rene,
tiroide, prostata)
Mieloma multiplo
Linfoma
Sarcoma di Ewing
Neuroblastoma
INTERESSAMENTO PER ESTENSIONE DIRETTA
TUMORI MALIGNI
Sarcoma osteogenico
Fibrosarcoma
Condrosarcoma
Cordoma
Estesioneuroblastoma
Paraganglioma
Meningioma
LESIONI REATTIVE, PROLIFERATIVE E PARANEOPLASTICHE
Malattia di Paget
Istiocitosi a cellule di Langerhans
Displasia fibrosa
Iperostosi frontale interna
Sinus pericranii
Cefaloematoma
Mucocele
Cisti leptomeningea
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Le neoplasie secondarie raggiungono la teca cranica per diffusione ematica o per diretta
estensione dai tessuti molli adiacenti. Queste lesioni sono spesso asintomatiche, ma i sintomi più tipici sono raggruppati nella Tab. II.
Tabella II – Sintomi tipici delle neoplasie secondarie della teca cranica
Massa sottocutanea visibile o palpabile
Dolore
Cefalea
Massa pulsatile/rumori o fremiti
Ipersensibilità
Reazioni tissutali locali
Effetto massa
La diagnosi può essere fatta mediante RX cranio, tomografia computerizzata (TAC),
risonanza magnetica nucleare (RMN) e angiografia (Tab. III)
Tabella III – Modalità diagnostiche delle neoplasie della teca cranica
RX CRANIO
•
•
•
•
•
•
Caratteristiche radiologiche generiche
Sclerosi periferica
Dimensioni e sede
Origine
Bordi
Struttura in trasparenza
TAC
•
•
Dettagli dell’osso corticale
Mineralizzazione della matrice
RMN
•
•
•
•
Complementare alla TAC
Componenti della massa
Interessamento di meningi, cervello, strutture neurovascolari
Enhancement
ANGIOGRAFIA
•
•
Lesioni vascolari
Embolizzazione preoperatoria
TRATTAMENTO CHIRURGICO
Il trattamento dei tumori della teca cranica dipende dalle dimensioni, dalla sede e
dall’istologia della lesione, così come l’utilizzo di chemio e radioterapia. Le difficoltà chirurgiche consistono nel rischio di copiose emorragie, nell’interessamento di seni venosi, in
particolare del seno sagittale superiore, e nel trattamento dei difetti cutanei e ossei. Il trattamento chirurgico consiste nel curettage e nel drillaggio dell’osso per lesioni piccole e super-
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ficiali, e nella craniotomia per le lesioni più grandi. La rimozione può essere parziale o totale, in base alle strutture coinvolte. La successiva riparazione chirurgica dei difetti maggiori
dello scalpo e della volta cranica ha due scopi principali: protezione cerebrale e estetica.
RICOSTRUZIONE DELLO SCALPO
Il trattamento dei difetti dei tessuti molli dipende dalla quantità di tessuto perso e dal
tipo di tessuto esposto. L’incisione della galea permette la chiusura di un difetto di tre centimetri per avanzamento dei bordi della ferita. Le ferite in cui la perdita di tessuti molli è
così estesa che i bordi cutanei non possono essere avvicinati, vengono chiuse sia con innesti
cutanei che con lembi. Gli innesti cutanei coprono qualunque ferita abbia una circolazione
capillare che sarà poi in grado di provvedere al nutrimento dell’innesto stesso. Le ferite con
esposizione di strutture vitali, o che non sono abbastanza irrorate, necessitano di un lembo,
poiché esso apporta il proprio rifornimento di sangue. Le ferite troppo grandi per essere coperte da un lembo di vicinanza di solito richiedono un lembo libero: in questo caso la circolazione sanguigna è ripristinata dall’anastomosi microchirugica del lembo stesso, utilizzando l’arteria temporale superficiale o altre branche dell’arteria carotide esterna al collo,
che provvedono alla vascolarizzazione del lembo donatore. Espansori tissutali vengono posizionati in sede adiacente al difetto in una tasca subgaleale: essi aumentano la superficie
cutanea per la ricostruzione dello scalpo. Quando vengono rimossi, il lembo di scalpo che si
ottiene viene utilizzato per la chiusura del difetto.
CRANIOPLASTICA
Il calvarium è composto da tre differenti strati nell’adulto: lamina interna, esterna e diploe. E’ coperto da periostio su entrambe le superfici esterna ed interna: a livello di
quest’ultima esso si fonde con la dura per formare lo strato esterno di essa. Tutti i difetti ossei maggiori di due-tre centimetri dovrebbero essere presi in considerazione per una ricostruzione. Questa decisione varia in base alla sede del difetto: anche piccoli difetti dell’area
frontale possono essere fastidiosi per il paziente, e devono quindi essere riparati, mentre difetti dell’osso temporale o occipitale, che sono coperti dallo spessore dei muscoli, non sono
di solito trattati, se non per proteggere l’encefalo.
SCELTA DEI MATERIALI
Mesh in titanio
Utilizzate per difetti medio-piccoli, vengono tagliate e modellate manualmente dal
chirurgo in sala operatoria (Fig. 1)
Figura. 1 - Mesh in titanio
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Osso autologo
È il materiale preferito da molti chirurghi poichè viene incorporato dall’ospite come innesto vivente grazie alla propria vascolarizzazione e alla concomitante creeping substitution. Queste caratteristiche permettono una ricostruzione poco suscettibile a successivi processi infettivi. Le sedi tipiche di prelievo di osso includono le coste, la teca cranica (dopo
craniotomia a pieno spessore, il tavolato esterno viene separato da quello interno con un
drill posto a livello della diploe, dopodichè il tavolato esterno viene riposizionato nella
stessa sede e quello interno utilizzato per riparare il difetto osseo) e la cresta iliaca. L’uso di
osso però comporta l’insorgenza di numerose complicanze ed è associato ad alta incidenza
di morbilità come il dolore nella sede di prelievo, l’aumento della perdita ematica,
l’aumento dei tempi chirurgici, la presenza di ulteriori cicatrici. Inoltre spesso la quantità di
osso autologo prelevabile per l’innesto risulta insufficiente. Di conseguenza nel corso degli
anni si è ricorsi a materiali sintetici in grado di funzionare come sostituti ossei (cementi, polimeri, bioceramiche).
Metilmetacrilato
Oggi, il materiale più comunemente usato per la cranioplastica è il metilmetacrilato, resina acrilica dotata di adeguata resistenza meccanica. I vantaggi sono il facile utilizzo e la
mancanza di morbidità del sito donatore. E’ radiotrasparente, e quindi non entra in conflitto
con la diagnostica radiologica postoperatoria; non è soggetto alla temperatura. Il kit da cranioplastica contiene polimero in polvere e monomero liquido che verranno mescolati con
una spatola dal chirurgo per formare un composto che verrà poi posizionato e adattato manualmente sul difetto osseo. Il processo di modellamento avviene sotto continua irrigazione
per evitare un danno termico al cervello e alla dura. L’impianto sarà poi fissato con placchette e microviti. Gli svantaggi sono la reazione esotermica del polimero con necrosi cellulare ossea all’interfaccia tra osso e cemento, la bassa resistenza meccanica, la suscettibilità
a infezioni e lo scarso risultato estetico.
Materiali porosi
Polietilene e polimetilmetacrilato/poliidrossimetilmetacrilato (Fig. 2). Piccoli difetti ossei vengono immediatamente riempiti durante l’intervento: il chirurgo modella l’impianto
dopo immersione in soluzione salina sterile portata ad alta temperatura Sono impianti di
nuova generazione, la cui porosità permette un certo grado di integrazione da parte
dell’ospite, in opposizione all’incapsulamento fibroso visto con gli impianti a superficie liscia (metilmetacrilato). Si tratta però di materiali inerti che non possono essere vascolarizzati, e sono suscettibili a infezioni e a reazioni da corpo estraneo.
Figura 2
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Idrossiapatite (Fig. 3)
Biomateriale ceramico composto da calcio-fosfato, simile nella struttura chimico-fisica
e geometrica all’osso umano. Rilascia ioni-fosfato nell’ambiente fisiologico circostante
agevolando la neo-osteogenesi e integrandosi con processi di osteoconduzione: la porosità
del materiale è il punto chiave per l’ancoraggio dello stesso al tessuto osseo mediante la
formazione di un’interfaccia non solo di tipo fisico, ma di tipo biologico-invasivo. La colonizzazione osteoblastica della protesi conferisce caratteristiche simili all’osso vitale, con un
comportamento biologico attivo, in grado di promuovere processi riparativi.
Figura 3
PROTESI “CUSTOM MADE”
Metodica che consiste nell’importazione ed elaborazione (operazione di tresholding
con software dedicati) di immagini TAC, acquisite con protocollo definito. Si tratta di tecniche che garantiscono ottima resistenza meccanica, bassi rischi d’infezione, assai ridotti
tempi d’intervento chirurgico, il miglior risultato estetico per il paziente. La progettazione
delle protesi segue tre metodiche differenti:
1) Si realizza tramite stereolitografia 3D (tecnica di fotopolimerizzazione) o sintetizzazione, un modello anatomico tridimensionale del cranio del paziente in resina epossidica, necessario per la modellazione di un dispositivo uguale al difetto osseo, e
successiva lavorazione di un blocco di idrossiapatite porosa fino a ottenere una sagoma identica al modello approvato.
2) CAD/CAM (Fig. 4) Si progetta la protesi cranica in ambiente CAD (ComputerAided Design) 3D. Le immagini TAC del difetto osseo forniscono informazioni
digitali che possono essere trasferite a un software di progettazione o di acquisizione
di macchine ad esportazione di materiale (CAM o Computer-Aided Manufacture). In
pratica, i dati che descrivono i bordi e le caratteristiche del cranio che circonda il
difetto osseo vengono utilizzate per progettare un impianto “fatto su misura”. I dati
elettronici della protesi così ottenuti sono poi usati da un sistema di manufacturing
per creare un modello in cera che viene poi trasformato nella protesi definitiva.
Questa metodica è disponibile per vari materiali (soprattutto materiali porosi).
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Figura 4
3) Si progetta la protesi cranica tramite software 3D dedicati. Il file del dispositivo
viene poi utilizzato per la creazione di un modello anatomico della protesi in resina
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acrilica, tramite tecniche di rapid prototyping e, a partire dal modello si ottiene uno
stampo in silicone nel quale si versa il PMMA in fase di polimerizzazione.
CASISTICA PERSONALE
Abbiamo analizzato retrospettivamente una serie di 18 lesioni espansive della volta
cranica (Tab. IV) che hanno presentato delle peculiarità neuroradiologiche e/o chirurgiche.
Pertanto abbiamo escluso gli osteomi e i granulomi eosinofili che costituiscono gli istotipi
più frequenti in tale sede e che non comportano problematiche dal punto di vista diagnostico
e chirurgico. Si tratta di 9 uomini e 9 donne ricoverati fra il 1999 e il 2006. Tutti hanno eseguito una TAC cerebrale o una RMN. I tipi istologici sono stati i seguenti: 9 casi di metastasi, 3 casi i plasmocitomi senza segni di malattia disseminata, 2 casi di osteoangioma, 1
ascesso tubercolare, 1 istiocitosi X, 1 displasia fibrosa e 1 meningioma intradiploico. Per
quanto riguarda la sintomatologia clinica, in quasi tutti i casi i è trattato di riscontro occasionale di tumefazione apprezzabile attraverso i tessuti sottocutanei, dolente o no alla palpazione. In un solo caso (plasmocitoma solitario) vi era stata una storia di crisi comiziali parziali motorie iniziata 5 anni prima. In tutti i casi di metastasi vi era erosione ossea: in alcuni
di essi la localizzazione cranica è stata il primo segno della malattia. L’interesse dei tre casi
di plasmocitoma risiede nel fatto che si trattava di una localizzazione isolata senza manifestazioni sistemiche di mieloma multiplo e la cui asportazione radicale non seguita da radioterapia ha consentito una buona prognosi. Il caso di osteoangioma era associato ad aneurisma cirsoideo del cuoio capelluto al vertice: la lesione era vascolarizzata dalle arterie occipitali, temporali e meningee ed è stata sottoposta ad embolizzazione preoperatoria. Non vi è
stata mortalità intra o perioperatoria. In tutti i pazienti l’asportazione della lesione è stata ra77
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dicale, accompagnata però in alcuni casi da copiose perdite ematiche. Le protesi sono state
fissate con placche e microviti. Una TAC di controllo è stata eseguita nel postoperatorio per
evitare le immediate complicanze, a un mese per valutare il corretto posizionamento
dell’impianto che a quell’epoca può ancora essere riposizionato poiché non ancora ossificato, a sei, dodici e ventiquattro mesi per valutare la corretta ossificazione dei margini
dell’impianto.
CONCLUSIONI
Malgrado la loro rarità i tumori della volta cranica possono porre dei problemi al neurochirurgo per quanto riguarda il loro trattamento:
1) Alcuni di essi particolarmente vascolarizzati comportano delle copiose perdite
ematiche intraoperatorie, soprattutto se non vi è stata un’embolizzazione preoperatoria dei vasi afferenti;
2) La maggior parte di essi richiede una riparazione del difetto osseo con una cranioplastica che può essere particolarmente estesa;
3) Quando vi è coinvolgimento del piano cutaneo da parte della lesione si richiede una
soluzione prettamente plastica per la riparazione del difetto.
§§§§§§§§§§§§§§
Di seguito verrà mostrata la nostra casistica (Tab. IV) e alcuni dei casi più significativi
dei tumori della teca cranica riassunti nella tabella (Figg. 5, 6, 7, 8, 9).
§§§§§§§§§§§§§§
78
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Tabella IV - Casistica personale. Una cranioplastica è stata eseguita in 11 casi con differenti
materiali.
79
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Figura 5 - CT scan di una vasta displasia fibrosa parieto-occipitale destra
Figura 6 - Metastasi da carcinoma renale; lo studio agiografico mostra l’ipertrofia
dell’arteria occipitale che vascolarizza il tumore
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Figura 7 - Osteoangioma del vertice, embolizzato preoperatoriamente
Figura 8 - Plasmocitoma della convessità parietale sx, a livello della quale si può apprezzare
l’ipertrofia del drenaggio venoso e delle arterie temporale superficiale e occipitale che
vascolarizzano il tumore
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Figura 9 - Meningioma intradiploico del vertice con interessamento del seno sagittale superiore (rimozione subtotale)
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EFFETTI DELLA V.A.C. TERAPIA SUL TESSUTO DI
GRANULAZIONE: DATI BIOCHIMICI ED ISTOLOGICI
Silvia Scevola, Giovanni Nicoletti, Angela Faga
Cattedra di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Rianimatorie-Riabilitative e dei Trapianti d’Organo
Università di Pavia
Divisione di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva
Fondazione Salvatore Maugeri, Pavia
INTRODUZIONE
La Vacuum Assisted Closure (V.A.C.® Therapy) è frutto della sofisticata rielaborazione
di una procedura chirurgica standard, quale l’uso di drenaggi ad aspirazione per rimuovere
sangue, siero o altri fluidi da una ferita.
La parte principale del sistema è rappresentata da un’unità aspirante, controllata da un
microprocessore, preposto al controllo dei livelli di pressione negativa, compresi tra -25 e
-200 mmHg, in funzionamento continuo o intermittente (Foto 1).
Foto 1 - V.A.C.® PUMP (KCI)
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La pressione negativa viene applicata al sito da trattare attraverso un tubo con una
spugna in materiali diversi, a seconda degli scopi clinici, che viene sigillata alla cute sana
circostante con un film di poliuretano adesivo (Foto 2).
Foto 2 - V.A.C. pump in funzione in sede in decubito sacrale
La V.A.C.® therapy fu approvata dalla FOOD and DRUG ADMINISTATION nel 1995
per consentire il trattamento di ferite che includevano ustioni estese, ulcere diabetiche,
ulcere da pressione, deiscenze di ferite chirurgiche, lembi, innesti, ulcere traumatiche, e altre
ferite di difficile guarigione.
Nel 1997 venne assegnata una licenza universale alla Kinetic Concepts, Inc., San Antonio, TX (KCI), che da allora produce apparecchi sempre più innovativi per l’utilizzo della
V.A.C.® Therapy.
E’ stato stimato che circa il 2% della popolazione svilupperà nel corso della vita
un’ulcera cronica, con un tasso di mortalità attorno al 2,5%. La VAC® terapia ha profondamente cambiato l’approccio clinico alla guarigione delle ulcere croniche, incluse le lesioni da pressione (decubiti), deiscenze di ferite, ulcere da stasi venosa, ulcere diabetiche. I
pazienti affetti da ulcere croniche che non sono ottimi candidati per procedure ricostruttive
vengono trattati con la VAC® finchè l’ulcera non si sia stabilizzata o finchè le sempre presenti comorbidità non siano sotto controllo, consentendo la chiusura definitiva in condizioni
elettive con innesti, lembi o biomateriali.
Numerosi studi sono stati condotti per capire i meccanismi d’azione con cui
l’applicazione di una pressione subatmosferica alle ferite aumenta la velocità di guarigione,
ma le basi fisiologiche responsabili del successo clinico della VAC® non sono ancora state
del tutto chiarite.
A fronte di una ricchissima letteratura volta a dimostrare l’efficacia clinica di questo
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presidio per la guarigione tissutale in svariati contesti clinici (1-22), pochi sono invece gli
studi sperimentali su ulcere croniche trattate con VAC® terapia (23-26).
Nessuno studio morfologico e biochimico su campioni del tessuto di granulazione indotto dalla VAC® in ulcere croniche nell’uomo è stato finora pubblicato.
OBIETTIVI
Lo scopo di questo studio è stato quello di verificare gli effetti della VAC® terapia sul
tessuto di granulazione in ulcere croniche (lesioni da pressione e post- traumatiche) da un
punto di vista morfologico e biochimico.
MATERIALI E METODI
SELEZIONE DEI PAZIENTI
Criteri di inclusione
Pazienti portatori di ulcere croniche (LDP e post-traumatiche) di ogni età e sesso, ricoverati
nei reparti di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva e di Neuroriabilitazione del Centro Medico
di Pavia della Fondazione S. Maugeri, in condizioni cliniche generali stabilizzate in IV stadio evolutivo secondo la stadiazione NPUAP (National Pressure Ulcer Advisory Panel)
(27) (vd. Tab.I), con esposizione di tessuti profondi già sottoposte a debridement chirurgico
della necrosi, senza segni di infezione locale, in cui già era avviato il processo di riparazione
con deposizione di tessuto di granulazione.
Tabella I - Classificazione lesioni da pressione in base alla profondità secondo NPUAP.
I STADIO
II STADIO
III STADIO
Eritema fisso
Disepitelizzazione
Esposizione
tessuti profondi
fino alla fascia
IV STADIO
Esposizione osso
e/o tessuti
profondi
sottofasciali
Criteri di esclusione:
−
−
−
−
−
Sierologia positiva per: HAV, HBV, HCV, HIV
Presenza di fistole
Assenza di granulazione o scarsità di tessuto
Infezione di ferita intesa come esame colturale con conta batterica > 105 / g di tessuto
Presenza di tessuti necrotici
In tutto sono stati arruolati 25 pazienti, 22 maschi e 3 femmine, di età compresa tra 20 e
80 anni dal gennaio 2005 all’agosto 2006, ciascuno portatore di un’ulcera cronica. Le sedi
delle ulcere erano: sacro (12), tallone (5), ischio (4), tibia (2), malleolo (1), trocantere (1).
23 erano lesioni da pressione, 2 post-traumatiche.
La preparazione dell’ulcera è consistita nella medicazione con i trattamenti standard
87
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come da protocollo di medicazione delle perdite di sostanza croniche da noi messo a punto e
regolarmente impiegato, con frequenza variabile a seconda delle condizioni cliniche locali
delle ulcere.
Prima dell’applicazione della VAC® si eseguiva il prelievo di tessuto di granulazione
dal fondo.
Si è stabilito di eseguire il primo prelievo di tessuto di granulazione indotto da VAC®
dopo almeno 10 giorni dalla prima applicazione e gli eventuali prelievi successivi a distanza
di almeno 3 settimane l’uno dall’altro.
Tecnica di prelievo
Dal fondo di ogni ulcera è stato prelevato in media un grammo di tessuto di granulazione sia per lo studio morfologico che per quello biochimico, previa detersione dell’ulcera
con garze sterili imbevute di Soluzione Fisiologica. I prelievi sono stati effettuati con un bisturi e una pinza chirurgica. Ciascun campione è stato lavato con Soluzione Fisiologica, per
eliminare parte del sangue in esso presente.
Il campione destinato alla biochimica veniva conservato in refrigeratore in contenitori
sterili a -20°C, quello destinato all’istologia veniva fissato in formalina al 20%.
A ogni prelievo sono stati misurati i parametri di area e profondità della lesione ed è
stata raccolta documentazione fotografica digitale standardizzata (1280x960 pixel distanza
focale 30 cm, asse ottico ad angolo retto con il piano dell’ulcera) per valutare la progressione clinica della lesione.
La misura dell’area è stata automaticamente calcolata con ImageJ, un programma Java
di processazione delle immagini, di dominio pubblico, che attraverso un algoritmo permette
di estrapolare dal perimetro di una superficie irregolare selezionata l’area corrispondente
(28, 29).
I campioni di tessuto di granulazione prelevati sono stati processati e analizzati presso
i laboratori del Dipartimento di Biochimica della Facoltà di Scienze e dell’Anatomia Patologica del Dipartimento di Patologia Umana ed Ereditaria dell’Università di Pavia.
BIOCHIMICA
Estrazione di proteine in condizioni dissocianti
Il tessuto di granulazione sminuzzato meccanicamente viene sospeso in 10 volumi (v/w) di
PBS (Sigma) in presenza di inibitori delle proteasi (Protease Inhibitor Cocktail Tablets (Roche) e
PMSF 1 mM per 2h a 4°C.
Al termine del lavaggio il tessuto, recuperato per centrifugazione a 13000 rpm a 4°C per 5 min.
viene sospeso in 10 volumi (v/w) di tampone sodio acetato, 50 mM, pH 6.0 contenente cloruro di
guanidinio (GuHCl) 4M ed inibitori delle proteasi, per 24h a 4°C.
Dopo centrifugazione a 13000 rpm a 4°C per 5 min. il pellet viene eliminato e il surnatante
viene misurato e precipitato con 9 volumi di etanolo assoluto freddo per 24h a 4°C.
Dopo centrifugazione a 10000 rpm a 4°C per 20 min. il surnatante viene eliminato e il pellet
lavato per 2 volte con una miscela di etanolo:acqua =20:1.
Il pellet così ottenuto viene ripreso direttamente nella soluzione dissociante e opportune
quantità (10µl) vengono caricate in elettroforesi (SDS-PAGE).
88
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Elettroforesi su gel di poliacrilamide in presenza di SDS (SDS-PAGE)
L’elettroforesi viene condotta secondo il metodo di Laemmli su gel di dimensioni 80x73x0.75
mm, con apparecchiatura Miniprotean II Biorad.
Reattivi per la preparazione del gel:
1.
2.
3.
4.
5.
30% Acrylamide/Bis Solution, 37.5:1 (2.6% C) (Bio-Rad)
Tris/acido cloridrico 1.5 M, pH 8.8
Tris/acido cloridrico 0.5 M, pH 6.8
Ammonio persolfato (APS) 10%
TEMED (Tetra-metiletilendiammina).
Reattivi per la corsa elettroforetica:
6. Tris/acido cloridrico 24 mM, glicina 192 mM, pH 8.3
7. Soluzione dissociante: SDS 2% (p/v), DL-ditiotreitolo 0.5% (p/v), glicerolo 10% (v/v), blu
di bromofenolo 0.01% (p/v).
Reattivi per la colorazione del gel:
8. soluzione fissante:metanolo 50% (v/v), acido acetico 7% (v/v)
9. soluzione colorante: acido picrico 0.08 M, CoomassieBrillant Blue 0.04% (p/v), metanolo
9% (v/v), acido acetico 2% (v/v)
10. soluzione decolorante: acido acetico 10% (v/v).
Dopo la preparazione del gel secondo metodiche standard i campioni vengono preparati per
elettroforesi aggiungendo un volume di reattivo 7 (soluzione dissociante 2x) ed incubando a 100 °C
per 3 minuti. L’elettroforesi viene condotta applicando una corrente di 150 V durante la corsa, al
termine della quale il gel viene fissato per 1h con la soluzione 8, colorato per 30 minuti con la
soluzione 9 e poi decolorato con ripetuti cambi del reattivo 10 a temperatura ambiente.
ISTOLOGIA
I campioni fissati in formalina sono stati inclusi in paraffina e successivamente tagliati e
colorati parte con ematossilina-eosina, per una valutazione dell’architettura generale del tessuto,
parte con tricromica di Masson, colorazione particolarmente indicata per la determinazione delle
fibre collagene e delle cellule connettivali. Le fibre collagene sono state studiate da un punto di
vista morfologico e dall’intensità della colorazione; un punteggio da 1 a 4 è stato assegnato a ciascun
campione, dove 1= fibre collagene ad andamento lineare, ossia alterate; 4= fibre collagene con un
andamento “a ricciolo d’angelo”, ossia istologicamente normali. Lo stesso punteggio da 1 a 4 è stato
assegnato all’intensità della colorazione del collagene, laddove 1=colorazione azzurro-verde, bassa
concentrazione di collagene , 4= blu-verde intenso, alta concentrazione di collagene.
Inoltre si è determinata la proliferazione cellulare con tecnica immunoistochimica usando
anticorpi contro il Ki 67, un anticorpo che colora le cellule che sono andate incontro a mitosi nelle
24 ore precedenti. La proliferazione è stata espressa come numero di cellule colorate per cento.
La neo-angiogenesi è stata determinata contando i vasi sanguigni ad un ingrandimento di x40
L’osservazione microscopica è stata effettuata sia al microscopio luce tradizionale, sia in luce
polarizzata.
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RISULTATI
RISULTATI CLINICI
Il cambio della medicazione è avvenuto ogni 3 giorni; il tempo medio di applicazione
della VAC® terapia è stato di 39 giorni (min 11, max 90 giorni).
Il numero totale di prelievi tissutali eseguiti è stato di 98, di cui 49 destinati allo studio
morfologico e 49 a quello biochimico.
In 23 pazienti sono stati prelevati 2 campioni di tessuto di granulazione a crescita
spontanea prima del trattamento VAC®: uno per l’esame istologico e uno per l’esame
biochimico.
Nell’ambito di questi 23 pazienti, a 13 pazienti è stato possibile successivamente
prelevare tessuto di granulazione indotto da VAC® terapia, sempre in campioni doppi. In 9
di questi pazienti è stato inoltre possibile eseguire almeno due doppi prelievi distanziati di
almeno 3 settimane l’uno dall’altro. Sui campioni prelevati in questi 13 pazienti è stato
quindi possibile confrontare il tessuto prima e dopo trattamento VAC®.
In 2 pazienti si è studiato solo il tessuto di granulazione indotto dalla VAC®, senza
possibilità di un confronto basale, per l’esiguità del tessuto che ricopriva il fondo all’inizio
dello studio e che sarebbe stato eticamente non corretto ulteriormente ridurre a scopi di
ricerca (Tab. II) .
Tabella II - Quadro sinottico della distribuzione dei campioni di tessuto di granulazione sottoposti ad
osservazione istologica. Ldp=lesione da pressione. n.r.=neuroriabilitazione. c.p.=chirurgia plastica.
S= granulazione spontanea. VAC= granulazione VAC-indotta.
PZ
sf
pc
mg
bg
cl
cg
vm
bm
pe
ge
te
mg
lv
gg
as
se
ml
sc
bd
cb
vz
ac
ct
lr
bb
ETA'
64
62
60
25
24
45
67
68
69
43
20
50
55
26
60
31
51
79
77
23
56
25
58
59
80
SESSO REPARTO ULCERA
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
f
n.r.
ldp
f
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
c.p.
trauma
f
n.r.
ldp
m
n.r.
ldp
m
c.p.
trauma
m
n.r.
ldp
m
c.p.
ldp
SEDE PREL TOT
sacro
4
ischio
1
sacro
1
sacro
3
sacro
3
sacro
3
sacro
1
sacro
2
tallone
2
tibia
1
trocantere
2
tallone
1
tallone
1
sacro
3
ischio
1
tallone
2
ischio
4
sacro
4
sacro
1
tibia
1
sacro
2
ischio
2
malleolo
2
sacro
1
tallone
1
PRE S
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
0
1
1
0
1
PREL VAC
3
0
0
2
2
2
0
2
2
0
1
0
0
2
0
1
3
3
0
0
2
1
1
1
0
90
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In tutte le ulcere trattate con VAC® la crescita tissutale è stata decisamente stimolata,
dando luogo a tessuto di granulazione florido, dall’aspetto rosso vivo, ben sanguinante e in
quantità tale da ridurre le dimensioni di tutte le ulcere (Foto 3 e 4) e, nei 2 casi di origine
traumatica obliterare la perdita di sostanza, consentendo la successiva copertura con un
innesto dermo-epidermico.
Nessun problema clinico si è verificato in conseguenza dell’applicazione della VAC®,
né a livello locale né dal punto di vista delle condizioni generali.
Foto 3 - PDS da trauma tibia ant. dx; crescita spontanea (S).
Foto 4 - PDS tibia ant.dx; crescita V.A.C. indotta (VAC).
Tempo permanenza trattamento con V.A.C. 11 gg.
91
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RISULTATI BIOCHIMICI
Il trattamento di un tessuto con una soluzione contenente cloruro di guanidinio
(GuHCl) permette la solubilizzazione di gran parte delle proteine di matrice extracellulare
come glicoproteine e proteoglicani e solo in piccola misura della componente collagenica.
Il GuHCl infatti è in grado di eliminare tutti i legami non covalenti che sono alla base
dell’architettura delle matrici, permettendo così il passaggio in soluzione delle proteine presenti.
Aliquote dei due tessuti di granulazione sono state trattate con GuHCl 4M, in rapporto
peso/volume identico.
Le proteine solubilizzate sono state caratterizzate mediante SDS-PAGE (elettroforesi in
condizioni dissocianti) e il risultato è riportato in Foto 5.
Tale risultato è costante in tutti i campioni di tessuto da noi esaminati, che appaiono
pertanto caratterizzati dalla stessa estraibilità delle proteine presenti (bande con identica intensità di colorazione) e dallo stesso pattern proteico (bande con la stessa mobilità elettroforetica).
Questo dato è sicuramente preliminare ma è un indice sicuro dell’assenza di macroscopiche differenze di composizione tra due tipi di tessuto esaminato.
Informazioni più dettagliate potrebbero essere ottenute sottoponendo lo stesso estratto
ad una elettroforesi bidimensionale, in grado di evidenziare differenze di composizione di
minor entità
Foto 5 - Tracciato elettroforetico delle proteine estratte dal tessuto di granulazione a crescita
spontanea (S) e indotto da VAC terapia (V).
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RISULTATI ISTOLOGICI
In tutti i campioni, sia quelli a crescita spontanea, sia quello indotto da VAC®, si osserva la presenza di tessuto di granulazione, caratterizzato da fenomeni di angiogenesi (neovascolarizzazione) associata alla proliferazione di elementi fibroblastici.
L’aspetto comune è quello della formazione di una delicata rete di vasi capillari che
tendono ad avere decorso rettilineo ed a ramificarsi dicotomicamente.
Il numero dei capillari mostra variazioni da area ad area dei diversi campioni con valori
medi di 50-60 strutture vasali sezionate trasversalmente / mm2 (5 campi ad alto ingrandimento microscopico).
I vasi neoformati mostrano endoteli in genere prominenti endoluminalmente, deposizioni parietali di fibrina e frequentemente, granulociti in diapedesi intraparietale.
All’interno del tessuto di granulazione i vasi neoformati appaiono in diverso stadio
“maturativo” variando da strutture con parete sottile rivestita internamente da un singolo
strato di elementi endoteliali a strutture con parete di maggiore spessore presentante, oltre
alle cellule endoteliali, elementi di tipo periendoteliale (cellule muscolari della parete vascolare) e pericitario.
In prossimità di alcuni vasi capillari sono rilevabili plurifocalmente elementi endoteliali
con nuclei periferizzati da singoli vacuoli intracitoplasmatici, corrispondenti ad abbozzi intracellulari di lumi vascolari. In tutti campioni si rilevano anomalie delle capacità di barriera
delle strutture vascolari neoformate, con edema dei tessuti perivascolari, focali microstravasi di emazie ed occasionale presenza di pigmento emosiderinico.
Sono inoltre presenti nei vari campioni deposizioni confluenti (“laghi”) di materiale fibrinoso intensamente eosinofilo comprendenti sottili spazi fissurali contenenti sparse emazie.
Nelle aree periferiche di tali depositi si notano plurifocalmente microaggregati di
strutture tubulari a contenuto ematico di aspetto congestizio, solo parzialmente endotelizzate.
L’interstizio variamente edematoso è sede di proliferazione di elementi di tipo fibroblastico e miofibroblastico di forma da ovalare a poligonale, con nuclei “rigonfi” e nucleoli
modicamente prominenti, citologicamente simili a fibroblasti in coltura.
In tutti i campioni si osservano più o meno estesi aspetti di transizione verso la formazione di un tessuto connettivo maturo con deposizioni di tralci di collagene neoformato che
mostra tintorialità bluastra nei preparati colorati con tricromica di Masson e che appare birifrangente all’esame in luce polarizzata.
Nelle aree di fibrosi riparativa più avanzata i vasi neoformati appaiono compressi dai
depositi extracellulari di materiale collagene e si osservano fibroblasti uniformemente dispersi, con aspetti citologici di transizione fra elementi “attivati” e “quiescenti”, tendendo
alla forma fusata e presentando nuclei allungati di dimensioni ridotte e nucleoli inapparenti
o di piccole dimensioni. In tutti i campioni risultano inoltre costantemente presenti elementi
infiammatori.
Nelle aree con matrice extracellulare lassa e vasi capillari in stadio “maturativo” iniziale gli infiltrati flogistici appaiono prevalentemente costituiti da granulociti neutrofili che
focalmente mostrano fenomeni di carioressi con formazione di “polvere nucleare”.
Ad essi si associano rari mastociti, linfociti e plasmacellule. Queste ultime cellule infiammatorie divengono progressivamente più evidenti, anche se relativamente limitate numericamente, nelle aree di fibrosi riparativa più avanzata, ove tendono a disporsi periva-
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scolarmente. In alcune di tali aree è inoltre presente un numero relativamente rilevante di
granulociti eosinofili.
In sintesi non si sono osservate differenze morfologiche tra i campioni di tessuto a crescita spontanea e i campioni di tessuto stimolato dalla V.A.C. (Foto 6-9): non è stata riscontrata alcuna differenza nella qualità e quantità di collagene depositato, valutato dall’intensità
della colorazione, né in termini di proliferazione cellulare, valutata come numero di cellule
positive per il Ki67, né di neoangiogenesi tra i 2 diversi tipi di campioni.
Foto 6 - Campione di tessuto di granulazione spontaneo. Colorazione Ematossilina Eosina; 400x.
Ben evidenti fibroblasti uniformemente dispersi, con tendenza alla forma fusata; coesistono
abbondanti elementi infiammatori.
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Foto 7 - Campione di tessuto di granulazione indotto da VAC. Colorazione Ematossilina Eosina;
200x. Non si apprezzano grossolane variazioni morfologiche a carico degli elementi cellulari rispetto
al campione della foto 6.
Foto 8 - Campione di tessuto di granulazione spontaneo. Colorazione Tricromica di Masson; 200x.
Sono evidenti tralci bluastri di collagene neoformato con vasi ectasici e fibroblasti uniformemente
dispersi.
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Foto 9 - Campione di tessuto di granulazione indotto da VAC. Colorazione Tricromica di Masson;
400x. Non si apprezzano variazioni morfologiche né a carico degli elementi cellulari né a carico dei
depositi extracellulari rispetto al campione della foto 8.
DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
L’uso della V.A.C.® terapia in medicina può essere considerato un presidio terapeutico
utile e finalizzato ad accelerare i tempi di guarigione delle ulcere cutanee in 4° stadio evolutivo.
Pur essendo scarsi gli studi che evidenziano la natura del fine meccanismo alla base
dell’accelerazione della crescita del tessuto di granulazione, si può affermare che l’uso di
tale terapia ha certamente una base empirica che lo può ricondurre nell’ambito della Evidence Based Medicine.
Rimane comunque importante cercare di capire questi meccanismi sia per poter valorizzare al massimo la tecnologia in questione, sia per approfondire le conoscenze sui meccanismi di rigenerazione tissutale.
In questo studio ci si è proposti di indagare se l’applicazione di una pressione negativa
con VAC® terapia a ulcere croniche provochi delle modificazioni cellulari e nella matrice
collagenica che diano una spiegazione biologica alla evidenza clinica di un aumento di deposizione di tessuto di granulazione.
Inoltre abbiamo voluto verificare la sicurezza della metodica a livello cellulare; certamente l’utilizzo della VAC® da ormai circa 15 anni e la sua diffusione in tutto il mondo tra
le diverse specialità mediche in assenza di segnalazioni di effetti negativi, se utilizzata secondo indicazioni, rappresenta una risposata indiretta al requisito di sicurezza. Tuttavia il
meccanismo d’azione e l’effetto a livello cellulare e sub-cellulare non è chiarito.
Una così rapida proliferazione di tessuto non potrebbe tradursi in una trasformazione in
senso neoplastico delle cellule che lo compongono? Il collagene depositato ha caratteristiche
di normalità? Potrebbero esservi elementi cellulari anomali o completamente estranei re-
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clutati attraverso il circolo da una aspirazione esercitata per lunghi periodi sui tessuti?
Per cercare di rispondere a queste domande abbiamo deciso di confrontare il tessuto di
granulazione indotto dalla VAC® con quello a crescita spontanea da un punto di vista istologico e biochimico.
Lo studio biochimico ha dimostrato che il tessuto di granulazione a crescita spontanea e
quello stimolato dalla V.A.C.® sono caratterizzati dalla stessa estraibilità delle proteine presenti e dallo stesso pattern proteico.
Questi dati si allineano integralmente con i risultati dell’ indagine morfologica.
Non è stato infatti possibile evidenziare alcuna differenza morfologica all’indagine microscopica tradizionale.
Si può pertanto affermare che la variazione positiva nella velocità di rigenerazione tissutale mediante l’uso di V.A.C.® Therapy non è correlata a grossolane alterazioni nei tessuti
rigenerati.
Pertanto possiamo concludere, in prima approssimazione, che l’uso della V.A.C.®
Therapy è da considerare sicuro, in quanto non pare alterare i tessuti stimolati.
I fini meccanismi responsabili dell’accelerazione nel processo rigenerativo sono verosimilmente correlati alla stimolazione di fattori umorali.
Variazioni cellulari più fini potrebbero verosimilmente essere identificate con tecniche
di caratterizzazione in grado di evidenziare variazioni a livello molecolare.
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