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digital magazine gennaio 2010 N.63 Four Tet Power-Pop 1968-1977 Decennio Transelettronico Gimme Some Inches #1 Demo punto a capo. Re-boot Attila Faravelli Comaneci Elio e le Storie Tese Krallice Ättestupa 2010 Future Sound of... Beach House // These New Puritans Monolake // Pantha du Prince Owen Pallett 63 Sentireascoltare n. Classifica Sentireascoltare 2009 1 2010 Future Sound Of... Mulatu Astatke / Heliocentrics (The) Inspiration Information p. 4 Pantha du Prince, Monolake, Beach House, Owen Palett, These New Puritans... Tune In Turn On 2 3 Hexlove Pija Z Bogiem Moritz von Oswald Trio Vertical Ascent p. 10 Krallice 14 Elio e le Storie Tese 11 Ättestupa 18 Attila Faravelli 12 Comaneci Drop Out 4 Vic Chesnutt At The Cut 5 Harmonic 313 When Machines Exceed Human Intelligence 6 Gala Drop Self Titled 7 Animal Collective Merriweather Post Pavilion 8 Oneida Rated O 9 Tune-Yards BiRd-BrAiNs 10 Broadcast / Focus Group (The) Investigate Witch Cults Of The Radio Age 22 Four Tet Recensioni 30 Flaming Lips, Bologna Violenta, Animal Collective, Martyn, Unthanks... Rearview Mirror 80 Power Pop, Raincoats, Sonic Youth, Drexciya... Rubriche 68 Gimme Some Inches 70 Demo punto a capo - Re-boot 90 Giant Steps 91 Classic Album 92 La sera della prima Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco Coordinamento: Gaspare Caliri 11 Zu Carboniferous 12 Natural Snow Buildings Shadow Kingdom 13 Evangelista Prince Of Truth 14 Svarte Greiner Kappe 15 Talibam Boogie In The Breeze Blocks 16 OOIOO Armonico Hewa 17 Shackleton Three EPs 18 Sa-Ra Nuclear Evolution: The Age Of Love 19 King Midas Sound Waiting For You... 20 Black To Comm Alphabet 1968 Layout e Grafica: Nicolas Campagnari Redazione: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale, Teresa Greco, Stefano Pifferi, Stefano Solventi. Hanno collaborato: Leonardo Amico, Gianni Avella, Luca Barachetti, Salvatore Borrelli, Marco Braggion, Luca Colnaghi, Gabriele Marino, Francesca Marongiu, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Aldo Romanelli, Costanza Salvi, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi. Guida In spirituale: copertina: Adriano Trauber (1966-2004) Four Tet 2010 Future Sound of… Monolake Pantha du Prince Enjoy (the Silence) Il nuovo design minimal della techno tedesca Ritmo e ascesi aerea, pulsazioni techno su geometrie congelate. Suoni e visioni del nuovo principe del dancefloor intelligente Fresco di tour in supporto agli Animal Collective, viene da Amburgo ed ha elargito ritmo e visioni nei club giusti d’Europa. Ora sta per pubblicare un disco nuovo su un’etichetta ad ampio raggio come Rough Trade e il profilo dell’ultimo eroe del dancefloor intellettuale si completa: Hendrik Weber, ovvero Pantha Du Prince; fotografia scattata un attimo prima che le cose cambino, perché lo scenario è sul punto di aprirsi ad un pubblico più ampio. Lo si avverte in una maniera non dissimile da quel senso di inquietudine che gli animali percepiscono prima di una tempesta e che sta alla base del nuovo lavoro Black Noise, dato in anteprima in questi giorni con The Splendour EP, il primo estratto dall’album che vive della collaborazione con Tyler Pope già noto come membro di !!! e LCD Soundsystem. I segnali del cambiamento, o per meglio dire, dell'evoluzione, sono già tutti lì, nel modo tutto suo di far convivere techno calda ed energica stile Detroit, con il minimal beat berlinese di etichette come Kompakt e ancora un senso arioso ed etereo che tradisce il gusto per lo shoegaze riletto da Morr Music. The Splendour è una tempesta di ghiaccio che danza su un ritmo caldo e corposo alla Carl Craig e con uno gusto per la metratura dei samples che deve 4 più di qualcosa a Monolake. Una sintesi che odora di coolness lontano un miglio a cui si aggiunge una campagna stampa a base di foto in distese innevate come un Malboro Man in terra islandese. Eppure a pensarci bene le premesse dell’attività di Weber non erano delle più rosee se si considera il debutto per i tipi della Dial Records, sotto lo pseudonimo di Gluchen 4 con un lavoro intitolato Das Schweigen der Sirenen, che sposava sperimentalismi concretnoise con una marea di idee confuse e mal gestite. Un bel passo falso, ricalibrato rapidamente sotto la maschera di Pantha Du Prince, lungo le coordinate a lui più consone di un dancefloor levigato sul suono dei maestri britannici dell’etereo e spinto da una motore minimal techno che si alimenta ad una tradizione aurea. E’ la direzione giusta: Pantha Du Prince spinge al movimento coordinato di piedi e testa, di suggestione ed energia. Arriva così Diamond Daze, debutto con il moniker attuale, che nonostante il generale senso di acerbo già desta l’attenzione del settore. Premessa al successo riconosciuto, che arriva con il secondo album, This Bliss, pubblicato sempre per i tipi della Dial. Antonello Comunale Robert Henke è il balance man dei livelli d'ascolto. Cosa c'è dietro l'ultimo disco di Monolake Robert Henke rompe il silenzio di Monolake, quasi gravato da un forte senso di responsabilità, ora che la mano data da Torsten Profrock sul precedente Polygon Cities si è diradata e il fido Gerhard Behles non condivide più con lui il progetto dal 2004. Questioni di priorità, dato che quest’ultimo ha preferito relegare tutte le sue forze nelle interne dinamiche della Ableton, acclamata società di sviluppo software che in qualche modo funge da habitat tecnologico per Henke stesso. La progettualità di Monolake si sposta così ancora di più sul versante tecnico di quanto non lo fosse già in precedenza, giocando in primis su un piano teorico-concettuale che va di pari passo con l’impiego della tecnologia. Il silenzio secondo Henke è una questione che si muove su un livello molto ambiguo, da qui la scelta di non comprimere il disco in fase di mastering. Una scelta che pare dettata esclusivamente da ragioni tecniche, e che invece ha una valenza quasi politica, come attestano le parole del musicista tedesco: “Una volta la musica aveva delle dinamiche. C’erano le parti rumorose, e quelle più calme. Poi venne la radio. Nella radio c’è un limite tecnico per la trasmissione a volume massimo. Come conseguenza di questo, la quantità di musica con un vasto spettro di dinamiche è assai inferiore di quella che invece presenta un basso livello. La musica più rumorosa possibile in radio è quella dove ogni elemento arriva al limite, ergo musica senza dinamiche. La radio e più recentemente gli mp3 players e gli speaker dei laptop hanno influenzato il modo in un cui la musica popolare è stata composta, prodotta e masterizzata: ogni singolo elemento deve essere al livello massimo per tutto il tempo. Una cosa che funziona meglio con musica che da un punto di vista sonoro è semplice, in cui solo pochi elementi sono di interesse. Una sinfonia non suona bene attraverso gli speaker di un telefono cellulare, e massimizzare questa sinfonia non suonerebbe convincente del tutto”. Come risultato di tutto questo Henke e come tale Monolake si colloca su un piano diverso e ben più complesso di quello degli altri. Ne consegue che le astratte geometrie di una minimal techno mai così ricca e rigogliosa nella descrizione dei dettagli giocano in modo inedito con la profondità dei ritmi. Un avvincente dialogo tra ritmica sullo sfondo e pattern di primo piano rielabora una serie di field recordings per cui Henke è stato impegnato per un anno. Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: a cosa serve lavorare su una musica in cui la filigrana va vagliata fin nel dettaglio più minuto, se poi la si ascolta su un sistema audio che livella tutto sui i medi, come un ipod? La risposta ce la darà probabilmente Henke al prossimo parto come Monolake. Antonello Comunale 5 2010 Future Sound of… Beach House Gioventù trasognata Song Cycle Il ritorno di Owen Pallett tra senso di appartenenza e concept orchestrato Sogni e certezze, movimento e melodie. I Beach House atto terzo “More cosmos, less reverb”. Questo dice Victoria Legrand se le domandi qualcosa sul nuovo disco e sui cambiamenti che porta. I Beach House erano i due bohemienne che si facevano fotografare trasognati e svampiti sulle spiagge in pieno autunno e con le nuvole gonfie di pioggia su di sé. Gli stessi che nella tenebra della malinconia ci sguazzavano come due romantici all’ultima lettera d’amore. Dopo due dischi abbastanza omogenei e simili nelle soluzioni, il terzo, chiamato Teen Dream e in arrivo ad inizio 2010, fotografa due musicisti ormai smaliziati e pronti a cambiare le carte in tavola senza perdere nulla del proprio stile. “Un titolo come Teen Dream non è malinconico o nostalgico. è aperto, leggero, libero, astratto e un invito. Ci sono giovani e sogni. Passato e futuro. Le parole stesse suonano bene insieme. Ci sembrano a loro modo classiche. Questo disco ha vita dentro di se”. Victoria è la donna che porta i pantaloni in casa, la prima voce, il motore primo del progetto, oltre che una professionista ormai navigata nel settore: “Registrare a New York ci ha permesso di continuare a lavorare stando concentrati senza distrazioni. Avevamo già scritto il disco nove mesi prima portandolo in fase di registrazione a luglio. Abbiamo registrato in una chiesa chiamata Dreamland, ma non per qualche motivo religioso. Era semplicemente Owen Pallett un grande studio con un sacco di natura intorno quando ne avevamo bisogno. E nessuna distrazione”. Teen Dream è effettivamente un passo avanti nel mondo dei Beach House. Considerato il taglio lento e ipermalinconico delle composizioni, sempre un passo oltre nel giocare con le armonie in minore, inizialmente i due venivano effettivamente accomunati alla scuola americana della lentezza, tirando in ballo Red House Painters, Tarnation, Dakota Suite e soprattutto Low. Dall’altro quel mood etereo e fiabesco, leggero e volatile che sa di dream pop europeo, di scuola 4AD e Creation, di Slowdive e Cocteau Twins. Teen Dream, effettivamente, rompe in parte con tutto questo. è un disco che domina le melodie, non ne viene vinto, ottenendo una serie di gemme pop (quelle cose classiche fatte a base di verse chorus verse) di cui i Beach House di dimostrano maestri assoluti: “In Teen Dream c’è più movimento e c’è un’intensità che è fisica e più tangibile”, parole di Victoria che vengono sposate dal fido Alex che chiosa: “c’è effettivamente più movimento, piuttosto che accordi in maggiore. Ci sono ancora momenti tristi, ma sono bilanciati con molti altri fattori e umori, come un diamante che ha molte facce”. Antonello Comunale Ci eravamo lasciati sul finire del 2008 con l’uscita di due EP (Spectrum, 14th Century e Plays To Please) da parte del canadese Final Fantasy ovvero Owen Pallet, anticipazioni del terzo lavoro Heartland previsto prima per il 2009 e slittato ora a inizi 2010. Intanto il Nostro a dicembre ha fatto parlare di sé per il cambio definitivo di nome, vale a dire l’abbandono dello storico moniker FF a favore del vero nome Pallett. In ballo questioni di copyright con l’omonimo videogioco che lo hanno volontariamente convinto ad affrancarsi definitivamente dal marchio, togliendolo anche dai dischi precedenti una volta ristampati. Sintomo anche questo di quella precisione quasi maniacale che lo contraddistingue. Su Heartland anticipato come “ racconto epico-fantastico” nel 2008, ora Pallett aggiusta il tiro; da un lato c’è il riferimento a un’area rurale del nativo Canada (Manitoba, Saskatchewan e Alberta), dall’altra il nome risulta essere un po’ ambiguo, dice Owen. “Mi piace il titolo Heartland - cuore, centro -, come ‘homeland’ indica sentimenti di familiarità e comfort, ma nella maggior parte dei casi viene usato con un senso di xenofobia e/o diritto acquisito; il disco doveva essere in origine sul nulla ma poi via via il suo significato è cambiato e il risultato non è certamente sulla morte, come lo era He Poos Clouds, bensì su tutto ciò che c’è prima della morte”; l’album è sull’inizio, il proseguimento e la fine di una relazione, dal punto di vista dell’oggetto amato”. Ampiamente orchestrato e stratificato con la partecipazione della Czech Symphony di Praga e di Gentleman Reg, Nico Muhly e Jeremy Gara (batterista degli Arcade Fire) tra gli altri, l’album risulta avere una base narrativa di concept, e un’ambientazione in un regno fittizio, Spectrum, ed è basato su conversazioni tra la divinità del posto e un giovane fondamentalista religioso, Lewis. Argomenti questi che sono di pretesto per metaforizzare, come anticipava l’autore, sul senso umano di appartenenza e/o non appartenenza a un posto e sulla xenofobia che ne può derivare, argomento sempre attuale. Una personale “song cycle di fiction contemporanea” che deve molto all’amato Van Dyke Parks, nella quale si passa dalle marcette militari ottocentesche al synth e al chamber pop, fino alla saturazione del suono, in un mix di analogico e digitale, in cui “i pezzi orchestrali sono scritti come musica elettronica che si avvicina a quella orchestrale”. Il disco è quindi realizzato coerentemente con il massimo equilibrio, anche quando si tende verso il barocco. Il lavoro della maturità. Teresa Greco 2010 Future Sound of… These New Puritans Giovanna D’Arco a ritmo di dancehall Un sunto possibile della odierna wave d’Albione, in Questi Nuovi Puritani… Il tempo vola. Sembrano nati lo scorso anno i These New Puritans. I fatti, le scene e le etichette si muovono velocemente, e in questa decade giunta alla fine ci si dimentica che il quartetto capitanato da Jack Barnett esordiva quattro anni fa, nel 2006, con un sette pollici su un’etichetta laterale ma importantissima per la nuova generazione di brit wavers. Per la Angular, i ragazzi firmarono il numero di catalogo ARC016 con l'EP Now Pluvial, quando appena prima, a marzo, sempre da quelle parti sbucavano i Klaxons di Gravity’s Rainbow (ARC012), anch'essi esordienti assoluti. Prima ancora ci troviamo le primine (o primini fate voi) The Long Blondes (esordio in singolo con Appropriation) e per finire c’è il sampler dell’etichetta ARC 002 con Bloc Party e Art Brut. Grandi assenti nel rooster quell’anno erano gli Horrors. Mr Chris Cunningum se ne era invaghito grazie a Sheena Is A Parasite, esordio in 7’’ per la Loog, etichetta wavey altrettanto (e più) indie di uno dei sospettabilissimi redattori di NME, James Oldham. Il gruppo di Faris Badwan è certamente il più citato affianco ai TNP, sia per provenienza geografica (la deliziosa e immobile Southend-on-Sea), sia per la classica scena pilotata dai media che vedeva entrambi nel mucchio assieme a Neils Children, The Violets, XX Teens, No Bra e altre next big thing in un Paese di 40000 anime… Tutti facenti parte della coda lunga del revival post-punk di inizio Duemila, implicati - e quindi scontratisi - con il funk punk, stile, forgiato da Gang Of Four, che dai Franz Ferdinand - passando per Bloc Party - aveva furoreggiato fino a quell’agente scompaginante chiamato Nu Rave. Il Nu Rave: la corrente più finta e pilotata della decade, ma anche la più autenticamente postmoderna e artisticamente plausibile ai nostri anni. Sarà per l’immaginario, ma in confronto la tornata rockish post Strokes e post Ferdinand era stata una questione di art rock con il solito glam e le solite chitarre a tracolla; i nuovi mostri Art Brut a cavarsela con l’ironia e altri come Rakes a mostrare inevitabili segni di crisi. I Bloc Party di A Weekend in the City avevano compreso lo scarto di quell’anno eppure avevano perso il treno facendosi mettere le mani troppo a fondo da Garret "Jacknife" Lee. Quel treno lo riprenderanno ma ad aiutarli a sbancare è proprio la frottola nu rave. Nel 2006, i Klaxons avevano letteralmente coperto la parabola della scena in tre singoli bomba. L’album che ne seguì, pochi mesi più tardi, guardava a falsetti ben più blandi e Ottanta degli acidi esordi. E del resto, il nu rave erano praticamente loro stessi e non certo i TNP in erba. Anzi, il quartetto, in un singolo come Elvis, masticava fugacemente funk-punk mutando proprio il sound con voglie digitali dei Bloc Party in una faccenda più scura, carbonara, virata verso le tenebre scientifiche degli Horrors e non certo guardando ai nuovi punkers on E di Kicks Like a Mule e ai Grace (osannati - e coverizzati - dai Klaxons). Eppure Jack Barnett, il gemello George, Thomas Hein e Sophie Sleigh-Johnson, postmodernamente, e in modalità d’appropriazione analoghe agli stessi Klaxons, avevano una passione extra rock intimamente sballata e dance. Non era l’ardkore, il dub o il reggae che così tanto avevano forgiato il ballo delle passate generazioni brit. Era la carta mancante del mazzo: il dancehall. Lo sbandierano da sempre assieme all’hip hop; non come citazione, bensì come base per una trasfigurazione. Proprio come gli Wire iniettavano nel punk elementi non convenzionali diventando qualcosa di post, parlando con il pop e trasfondendone obliquità (e le tecnologie di allora), così TNP utilizzano lo studio e le tecnologie di oggi come chi fa hip hop settando però i sequencer in un “sacco di terzine” o “gruppi di beat 2-3-2” tipici del dancehall. E se questo già era sufficiente per rovesciare il cliché della arty band copia incolla, come per i cugini Horrors, ai TNP piacevano i Joy Division, o meglio gli Warsaw (e vederne gli esordi dai video del tubo è una conferma oltre ogni indizio). Tutti i loro video sembrano derivati dalla iconografia Curtis e co., eppure c’è un’inedita marzialità che si posa su quelle lastre dai toni sempre più scuri e immaginifici. Dietro alle fascinazioni c’è un gioco di studio e incastro fatto di estraniamento, libertà associativa e semplicità. Ecco perché a Jack piace tanto il pop e ci confida che gli archi sul nuovo Hidden l’avrebbero trasformato in quelle menate classicheggianti. Sono i fiati dunque ad indicare una via chamber non banale, ma soprattutto un’orchestrazione minimal a scaldare una secca marzialità taiko giapponese che ti fa tremare lo sterno. In We Want War l’amalgama riesce perfettamente, la traccia è quell’incubo lucido senza pretenziosità, o perlomeno, un singolo di 7 minuti con le manie di grandezza sottocontrollo, pop come impatto della band sul pubblico che da loro si “aspetta qualcosa di potente, suggestivo e nuovo”. A differenza del pop però è musica che non cerca “nessun feeling”, non pone il climax come obiettivo, "incastra" con dichiarato fare Steve Reich. Il sound si fa intimamente minimalista nel senso che ogni suono, ogni pattern, porta a una mossa successiva e così via, passo passo, senza fronzoli e in diretta verso un elaboratissimo lavoro di cesello che sottende la trama. La complicazione avviene a livello di produzione e non come portato del sound. “La musica al tempo degli Wire era ideologica, nordica e distaccata. Erano tempi diversi e provocatori. Oggi la musica è più emotiva e vibrante”, borbotta Jack con un fare rispettoso della tradizione wave del Regno ma anche “lontano da quegli ascolti”. Parla di un tempo remoto in cui cogitava sul post-punk e trova che la canzone che più gli piace del nuovo lavoro è Drum Courts - Where Corals Lie, un altro di quei brani marziali caratteristici dei TNP, ma con un’inedita maniacalità in fase d’assemblaggio e una fissa per il feudalesimo giapponese. Il nuovo lavoro è anche troppo audace, ma ha senz’altro ragione Barnett quando s’esalta per quel “misto di disperazione medioevale e tuffi in un mare blu notte”. Già, il medioevo torna spesso nell’immaginario della band: la scorsa tournée i ragazzi si presentavano vestiti e coi caschetti da Giovanna D’Arco; nelle nuove tracce, dal nulla, sbucano spadaccini (i Wu-Tang Clan?) che scoccano colpi nelle tenebre. Il portato sonico di quest’epoca è senz’altro la croce e la delizia dell’album, il cui unico antidoto è rappresentato dall’altro lato della poetica TNP, la melanconia. “E’ l’aspetto che mi piace di più del dance hall” dichiara gemello Jack “Non l’etnica. La melanconia. La stessa che credo si respiri in un posto dove sfocia il Tamigi, che è poi quello in cui sono nato e cresciuto; l’unica influenza che credo passi dal mio ambiente esterno”. Edoardo Bridda Ättestupa Krallice Disagi violenti si fanno calcolo Cosa succede quando spietati terro-chitarristi decidono di suonare Black Metal. La matematica drammatica che non ti saresti aspettato D opo anni di musica di confine, con i Krallice Mick Barr sembra misurarsi con delle forme in qualche modo convenzionali. Non si tratta infatti, di correre a 300 all'ora lungo il manico della chitarra - sparando raffiche di note a velocità quasi extra-tone - da solo (Ocrilim/Octis) o in compagnia (Orthrelm). Nemmeno si ha molto a che fare con i suoi esordi CromTech, in cui il genere di riferimento, l'hardcore, detonava in un'esplosione di schegge brutal-progressive. Un discorso simile vale per il cofondatore della band Colin Marston. Sound Engineer nel suo studio di registrazione a NYC, è Warr-chitarrista per i labirinti tech-death di Behold...The Arctopus e seconda mente dell'IDM per metalheadz di Infidel?/Castro!. Krallice è per entrambi abbandonare i virtuosismi gelidi e le sperimentazioni asettiche dei loro altri progetti, per una musica intensa e diretta come mai si era vista da queste parti. Colin e Mick si conoscono da tempo. Hanno uno split insieme con le rispettive band Behold...The Arctopus/Orthrelm, ed è Marston a registrare nel 2005 quel manifesto di minimalismo brutale che è OV di Orthrelm. L'idea di formare una band black metal, raccontano a Pitchfork all'epoca dell'esordio, ce l'avevano in mente già da tempo, essendo entrambi estimatori della scena scandinava, da Burzum a Darkthrone. Assoldato alle pelli Lev Weinstein (Bloody Panda) esce nel 2008 il primo album, per la canadese Profound Lore. Sei pezzi in saliscendi vertiginosi, con le chitarre a scontrarsi e a sorreggersi l'un l'altra in contrappunti ed armonizzazioni. Tecnicismi marchio di fabbrica dei due chitarristi di New York, ma per la prima volta non finalizzati a definire 10 Turn On con la propria complessità un immaginario disumano ed alienante, tra ripetizioni ossessive e frammentazioni irrimediabili. Le trame matematiche, in Krallice sono piuttosto energie atte a rendere vividi i tratti epici della loro musica, ad arricchire le loro visioni. Coordinate efficaci si trovano nel black progressivo di Weakling o Wolves In The Throne Room, ma svuotate sia dalle catastrofi dei primi che dallo sfarzo dei secondi. E se alcune caratteristiche stilistiche - chitarre in tremolo perpetuo, urla agonizzanti - indicano inequivocabilmente le direzioni estetiche della band, alcuni riferimenti possono invece essere trovati altrove. Nell'evitare i toni compiaciuti, tipici di tutto il black nel riferire di orrore ed oscurità, Krallice trova affinità nei disagi violenti dell' emo-core di casa Ebullition e Gravity, e in band quali Portraits of Past, Orchid. La sensazione è una sorta di iper-emotivismo, che nel suonare black metal si fa paura da solo. A solo un anno di distanza, ecco già il secondo disco, Dimensional Bleedthrough, segnale che le meccaniche nella band funzionano a pieno regime. E se la scrittura torrenziale dell'esordio è venuta un po' meno, a guadagnarci è una maggiore introspezione. In alcuni episodi la musica rallenta e si incupisce, (forse anche per l'apporto dato dal nuovo bassista Nick McMaster) mentre il riffing epico, distribuito calibratamente lungo l'album, si fa più vivido che mai. Krallice è musica trasversale, che pur intrinsecamente black metal, si arricchisce di fulminate math, introspezioni emo, paesaggi dark. E qui, l'insieme è decisamente superiore alla somma delle parti. Leonardo Amico Droni liturgici La peste dell'era post-moderna arriva dalle foreste svedesi Ä ttestupa è la rupe spartana della mitologia svedese. Una rupe crudele quanto quella greca in cui ad essere trucidati non sono i bambini menomati, ma gli anziani che non possono più essere d'aiuto nei campi e nelle fattorie. E poco conta che l'attendibilità del mito spartano sia stata recentemente messa in discussione dalle nuove scoperte archeologiche. Ättestupa è ancora un ricordo vivido tra le genti del Nord; tanto vivido da indurre un piccolo gruppo di noisers di Göteborg a riesumarne lo spettro per dare un nome alle proprie mostruose creazioni. Nelle loro mani però, Ättestupa non è più un modo per sbarazzarsi del passato, ma un oscuro baratro cui attingere per evocare demoni urlanti e ridare vita ad antiche, meste leggende. Musicalmente parlando, è il luogo dove la forze della natura celebrate da Popol Vuh e Amon Düül II incontrano la metà oscura decantata dal Burzum e dagli Ulver degli anni d'oro (anche se sarebbe più corretto chiamarli neri). Un'alchemica pozione che resuscita le paure di una Svezia pre-industriale dove carestie, povertà e malattie sono all'ordine del giorno. Ecco dunque luttuose nenie di tastiera accompagnare le veglie funebri nei boschi e sommessi lamenti farsi largo tra la coltre di sporcizia che ricopre tutte le registrazioni del gruppo. Il rock non esiste se non come strumentazione e l'impostazione è da lunga dissertazione folk. Il ritmo è ridotto a mera ripetizione che induce in trance, come in un mantra negativo. L'unico spazio lasciato alla modernità sta nella manipolazione dei nastri e nelle pedaliere usate per creare una nebbia simile a quella delle loro lande. Nei due anni di attività i nostri hanno licenziato un LP, partecipato alla compilation-manifesto Utmarken, e sverginato diversi nastri, uno dei quali viene oggi riversato su polivinile dalla californiana Dnt (1867). Con l'anno nuovo è previsto anche il secondo full-lenght, sempre per Release The Bats. Come una piaga che torna a mietere vittime. Andrea Napoli Turn On 11 comaneci Folk da monolocale Un secondo disco che è già una ripartenza. Per un trio che diventa duo senza grossi scossoni e senza rinunciare alla consueta attrattiva. Ne abbiamo parlato con Francesca Amati. A qualche mese di distanza dalla sua pubblicazione, You A Lie rientra ancora nella nostra personale playlist. Per la malinconica indolenza che ne tratteggia l'incedere, per la semplicità che lo caratterizza, per l'inquietudine sfuggente che lascia trasparire. Il dondolare d'archi dell'esordio Volcano è lontano anni luce e anche i Comaneci non sono più gli stessi da quando Jenny Burnazzi e Andrea Carella hanno lasciato il gruppo. Ma il buon momento della band ravennate continua. Le ragioni sono più semplici di quanto non potrebbe sembrare e risiedono tutte nella scrittura e nella voce di Francesca Amati. Nel suo essere al tempo stesso limite formale e motore del gruppo. Da un lato per un approccio alla musica ormai riconoscibile, standardizzato, forse persino ovvio, con la sua chitarra acu- 12 Turn On stica al centro; dall'altro perché proprio quegli steccati minimalisti che identificano la produzione della musicista ravennate garantiscono la conservazione di una creatività quasi primordiale. Fantasticare rimane la prerogativa. Ed è un fantasticare sulle piccole cose, nell'ottica di un folk epidermico che è simulacro e auto-analisi al tempo stesso. “You A Lie è stato un lavoro che ho amato dall'inizio alla fine, anche perché è arrivato dopo il cambio di formazione dei Comaneci. Un momento che per me è stato decisamente traumatico. Il disco lo abbiamo registrato in dieci giorni nella casa di campagna di un'amica, grazie anche a Mattia Coletti che ha portato tutta l'attrezzatura. A darmi una mano sono passati vari amici, tra cui anche Bruno Dorella (Bachi da pietra, ndr).” A parlare è proprio Francesca Amati. Una che nei suoi Comaneci ha sempre visto un'entità profondamente “sociale” composta da amici, prima che da musicisti. Ancor più nell'ultimo disco (recensione nel pdf n. 61) vista la line-up ridottissima, tanto che tra i crediti oltre ai già citati Dorella e Coletti, ritroviamo Pete Cohen dei Sodastream, Paolo Gradari, Bob Corn e le fantomatiche Missing Choirgirls. Per un'opera che dal passato riprende scrittura e naturalezza espressiva pur mutando drasticamente nelle intenzioni: “Penso che You A Lie possa vantare una piega più realistica, rispetto a Volcano. Nel disco ho voluto ricercare una direzione più cupa. C'è molta meno spensieratezza, meno leggerezza. Anche perché credo che sia rappresentativa del momento che sto vivendo”. Il cambiamento - nella continuità - è evidente. A tenere le fila c'è un blues ideale e malinconico, sommesso e intensissimo, che ha a che fare con lo split up del nucleo originale della band ma che non vive solo di quello. Certo è che fin dal titolo l'immaginario si tinge di nero, rimarcando quell'etica dell'imperfezione che da sempre caratterizza i lavori del gruppo: “You A Lie è un errore. Nel senso che grammaticalmente non è corretto. E' un' espressione colloquiale americana che tuttavia qualcuno usa. E' venuta fuori durante il tour negli Stati Uniti che ho fatto con Bob Corn, parlando di slang con alcuni amici. Mi piaceva che questa cosa dell'errore, nel disco, fosse evidente. Nel titolo, ma anche nell'estetica della confezione, quest'ultima come al solito cucita a mano, con qualche “sbavatura” e quindi molto artigianale. Come poi è sempre stato artigianale un po' tutto l'immaginario dei Comaneci.” Chitarra acustica, mandolino, violoncello, elettricità sparsa e una voce che macina filosofia spicciola ma efficacie (If You Wanna Be A Satisfied Man / Just Let Me Be A Satisfied Girl) su cadenze Cat Power. Questi sono i Comaneci del 2010. Gli stessi che l'estate scorsa pubblicavano un ennesimo EP (Girl Was Sent To Grandma's in 1914) per dare continuità a un'entità riconoscibile e an- cora in grado di far scattare in chi ascolta un processo di condivisione immediato. Condivisione profondamente legata all'approccio diretto e senza fronzoli della Amati, tanto che chi suona con lei è da sempre destinato a un ruolo di accompagnatore tra livelli strumentali che si inseguono e soluzioni estetiche che circoscrivono il mood dei brani. Da Gennaio 2009 di questa parte di progetto si occupa Glauco Salvo: “Glauco mi sta dando tantissimi stimoli. Lui cura tutti gli strumenti che non siano la mia chitarra acustica e lavora con me sugli arrangiamenti. Nel suo lavoro è una persona molto disciplinata, accademica, mentre io sono l'anti-accademia per eccellenza. Il che significa che ci compensiamo a vicenda creando un rapporto artistico molto costruttivo. L'ho conosciuto perché è diventato un elemento quasi costante dell'altro gruppo in cui suono, gli Amycanbe. Mi è sempre piaciuto il suo modo di suonare e in una situazione di difficoltà come è stata quella che mi sono trovata ad affrontare dopo il cambio di formazione, mi è sembrata la soluzione più naturale”. Sempre più tascabili i Comaneci, ma non meno toccanti. A misura di un mercato discografico dei piccoli spazi e delle poche risorse ma abbastanza trasversali per andare oltre i confini ristretti della penisola o adattarsi a situazioni artistiche tra le più disparate. Come le esibizioni condivise con il fumettista Giuseppe Palumbo - durante le quali quest'ultimo disegna mentre la band suona - o quegli house concerts che hanno permesso al gruppo di emergere decretandone la statura in fatto di “componibilità": “Con l'esperienza degli house concerts entri nel vivo di un luogo. Sai che la serata è organizzata per il tuo evento, sai che le persone vengono lì perché sono interessate esclusivamente a quello che fai, sai che compreranno CD perché hanno voglia di contribuire al tuo progetto. In più c'è l'accoglienza di una casa che, quando viaggi, vuol dire tantissimo. Ceni con chi organizza il concerto, sai già dove dormire, non devi scaricare e caricare tutti gli strumenti". Consolatoria o familiare, folk o cameristica, la sensibilità dei Comaneci è unica nel suo genere e a suo modo necessaria. Al di là dei cambi di line-up e di una critica istituzionale che fatica a gratificare il gruppo con lo spazio che meriterebbe, resta una musica da monolocale che continua a raccogliere buoni risultati. L'unico rischio per il futuro potrebbe passare per un'eccessiva sclerotizzazione del suono che trasformi la personalità in clichè. Anche in questo caso, comunque, pare che Francesca Amati abbia le idee chiare: “Il gruppo deve tendere a una crescita, mirare a un'evoluzione, cercare un senso in quello che è. Andare oltre la casualità del momento e costruirsi giorno dopo giorno.” Fabrizio Zampighi Turn On 13 «It's just entertainment» -Frank Zappa L' eterna lotta tra il bene e il male Elio e le storie Tese Non mi ha fatto ridere Vent'anni di dischi, quasi trenta sui palchi, fino all'uscita dell'ultimo deludente Gattini. Riflessioni tra Squallor, Zappa e Skiantos - su uno dei gruppi italiani più fraintesi di sempre. - Gabriele Marino Quando ero piccolo un amico più grande mi passò una cassetta degli Squallor, Cielo Duro, dicendo «poi ti passo anche gli Elio», come a sottintendere un apparentamento stretto e quasi scontato tra le due cose. La seconda cassettina però non arrivò mai. Negli Elio così ci sono andato a inciampare - come molti - solo con l'exploit sanremese (in zona vip), e non li calcolai più di tanto: mi sembravano abbastanza scemi. Avevo capito tutto e avevo capito niente. Fu poi la volta - tra i banchi del liceo, quando tutti mi tiravano fuori i Gem Boy - di Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu, di Esco dal mio corpo e ho molta paura, della chicca assoluta Not Unpreviously Unreleased'nt (à rebours), e di Craccracriccrecr (al passo coi tempi): era il 1999. Fu amore. In parallelo scoprivo anche un musicista italo-americano baffo&mosca che faceva musica "assurda", e piano piano cominciai a chiudere i primi cerchi. Gli Elio sono uno dei gruppi italiani più importanti di sempre: che in pochi lo riconoscano e lo dicano sottolinea ulteriormente l'italianità del contesto, brodo di coltura perfetto per prese di posizione in fondo sempre ideologiche. Italianissimi gli Elio, come la pizza (spaghetti, mandolino, mamma), entrati nell'immaginario nostrano con una serie di mosse ben assestate e di tormentoni facili facili (ma tutt'altro che banali, dai cachi sanremesi ai vari Ti amo: Cara, Campionato e Andreotti), portando avanti però un discorso musicalmente poliglotta e - per quanto dotato di una sua immediatezza - non certo facilissimo. Gli Elio sono stati sempre abbastanza fraintesi: ma loro fanno musica pop (con la "p" maiuscola e dove "pop" sta per gioco), fanno musica che parla di se stessa, che ride di se stessa, musica orgogliosamente umoristica. Se fanno cabaret, e lo fanno, fanno un cabaret innanzitutto musicale: musica parodica e auto-parodica. C hi va con Z appa impara a zappicare Chi conosce Frank Zappa (e abbiamo già citato un paio di paroline magiche che non possono non rimandare a lui), sa bene come gli Elio siano vicinissimi ai suoi modi pop-carica(tura)ti anni Settanta/Ottanta: gli stessi che sono poi andati a coverizzare in The Lugano Tapes (2001). Non si tratta di una filiazione diretta, certamente è un'influenza forte, e dichiarata (e oculatamente sfruttata), ma comunque nell'ottica di un riscontro, della scoperta di uno spirito affine, di una via possibile: di una visione compiuta, già lì bella e pronta quasi a legittimare 14 TUNE IN delle idee che non aspettavano altro per potere esplodere. Gli Elio hanno mutuato da FZ la giocosa visione del fare e del vivere la musica. Parolacce incluse. I paragoni però sono davvero insensati (oltre che ingenerosi), data la portata enciclopedica e la complessità dell'opera del baffuto, la sua potente capacità di sintesi dei riferimenti musicali metabolizzati. Gli Elio, in questo esattamente come Zappa (e da Zappa), hanno una visione collagistica della cosa musicale, ci giocano come con un puzzle, come coi Lego, e usano pezzi provenienti da tanti scatoloni musicali diversi: cabaret (quello meneghino), canzone italiana vecchia e nuova (soprattutto - ovviamente - nella sua declinazione canzone d'amore "appiccicosa"), pop e rock internazionale (da Burt Bacharach ai Beatles ai Deep Purple), dance (la disco e l'italo-disco tamarra del periodo d'oro), jazz (nella sua accezione più soft e "conservatrice"), prog (Genesis e PFM, ma anche Area), musica classica (con citazioni smangiucchiate qui e lì). Il tutto sempre e comunque come assunto in secondo grado, con una strizzatina d'occhio. Implicito, viste le premesse, il riferimento al loro percorso artistico, cominciato sui palchi scalcinati dei teatrini off: nati sulla spinta adolescenziale di un pauperismo do it yourself figlio del punk, con un approccio fortemente sbilanciato sulla verbalità, temprati dalla gavetta nei locali della provincia milanese, su sempre più su fino allo Zelig di Viale Monza e all'incontro col produttore Claudio Dentes aka Otar Bolivecic. Poi, rapidissimo, l'arricchimento e la messa a fuoco sulla sostanza propriamente musicale, matura già all'esordio su disco, a creare un mondo di lussureggiante varietà: una forma-canzone infarcita di bizzarrie, di ammiccamenti, di citazioni, di seconde letture. I testi? Grande inventiva linguistica e intelligente stupidità, testi demenziali (ma nel senso - ancora - di «vena surreal-sessual-sarcastica zappiana» - Luca Valtorta), con quell'uso insistito della parolaccia e quel nonsense portato al parossismo. Il rischio è che, per osmosi, l'etichetta "demenziale" (così come comunemente intesa) finisca per identificare tout court la musica del gruppo. E lio e le storie pese Proseguendo coi confronti e con le supposte (...) filiazioni, la vexata quaestio Skiantos vs. Elio, ottima pubblicità per entrambi, ha solo in minima parte motivo d'essere, generatrice com'è di una gran confusione: gli Skiantos fanno rock (punk, hard, blues), gli Elio fanno pop (come quando si fanno scoppiare i cuscinetti della carta da imballaggio), gli Skiantos portano avanti un discorso essenzialmente poetico, gli Elio un discorso essenzialmente musicale, gli Skiantos furono vera ruvida avanguardia (pubblico di TUNE IN 15 filo a cavallo tra il musicale e il sociologico. Gli Elio sono la cumpa, la banda di bastardi trasformata in complessino raccontata dal docu-libro Vite bruciacchiate (AAVV, 2006), il carroarmato linguistico-semiotico spiegato ne L'importanza di chiamarsi Elio (Angelo Di Mambro, 2004), la giocosità non priva di retrogusto amaro dei racconti surreali di Animali spiaccicati (EelST, 2004), Fiabe centimetropolitane (il solo Elio, 2004) e Scritti scelti male (Rocco Tanica, 2008), sono la zozzerie goliarda della joint venture con Rocco Siffredi di Rocco e le Storie Tese (1997; progetto fortemente voluto dall'intenditore Sergio Conforti aka Rocco Tanica, che del gruppo - per inciso - è l'anima musicale). Sono il piglio da entertainer consumati che anima le loro liasisons televisive, da quelle storiche con Gialappa's Band e derivati (l'ultima - inevitabile - con la Shortcut di Maccio Capatonda, uno che gli Elio se li è ascoltati per bene fin da ragazzino), fino al Dopofestival 2008, girandola di parodie e pastiche dei loro bersagli-riferimenti preferiti: la canzone italiana e la canzone d'amore. Ecco allora gli Elio al varco dei venti (1989, primo disco) e dei trent'anni (1980, nascita della sigla Elio e le Storie Tese con una formazione di cui è superstite il solo fondatore, Stefano Belisari aka Elio). Dopo una serie di dischi musicalmente generosissimi, dall'esordio fino a Craccracriccrecr (aperto quest'ultimo da quella dedica che è l'intensissimo solo di sax - preso da TVUMDB - di merda), per questo ancora sostanzialmente moderni (ribelli e contestatari, e non poteva essere diversamente), gli Elio sono un fenomeno di riflusso, dichiaratamente post-avanguardia, giocano col kitsch consapevole (uno per tutti: il duetto con Raffaella Carrà), post-moderni per definizione, nessun bersaglio da colpire, interessati semmai ad una "protesta" tutta pragmatica (il caso Parco Sempione, 2008), per quanto comunque oggetto di storici episodi di censura che nulla hanno a che vedere con le solite parolacce, ma con l'avere messo in mezzo i nomi "sbagliati" (è il caso Sabbiature, Primo Maggio 1991). Più vicini allora gli Elio, per paradosso, alla gratuità di Savio, Bigazzi & Cerruti, con l'aggravante della spiccata meta-musicalità di questi ultimi rispetto al discorso portato avanti da Freak Antoni & Co. Agli Skiantos, del resto, il neo-dada di Piero Manzoni, agli Elio il neo16 TUNE IN Paolo Panigada aka Feyez, stroncato da un malore sul palco della Biba Band), passando per il picco assoluto di Italyan, Rum Casusu Çikti (con dentro la massima espressione della meta-musicalità elica, La Vendetta del fantasma formaggino), ecco, dopo almeno dieci anni di ottimi dischi (in soldoni: tutti come minimo sul sette), proprio quella degli entertainer sembra essere diventata la dimensione più congeniale agli Elio, quella più curata e produttiva. Il passo francamente inutile, inutilmente celebrativo, dell'ultimo Gattini, ne è la conferma: i loro pezzi classici resi ancora più classici - queste almeno le intenzioni - dall'arrangiamento orchestrale. In mezzo ci sono stati i temporeggiamenti degli infiniti riepiloghi live (comunque godibili) e i decisi abbassamenti qualitativi registrati con Cicciput (2003) e Studentessi (2008), con dentro però alcune chicche delle loro, anche solo a livello di efficacia della trovata, una per tutte la cover au contraire di Elvis in Ignudi fra i nudisti. Gli Elio sono oggi più che mai a un bivio, restando la loro attività live un punto fermo (coèsi, se vi pare): riconcentrarsi sulla materia musicale oppure considerare il fare dischi - magari anche di inediti - come una delle loro tante attività.Vedremo. situazionismo di Maurizio Cattelan. Chi è meglio, chi è peggio? La domanda è fuorviante: si gioca in due campionati diversi. Il difetto degli Elio? Essere un prodotto di seconda generazione, essersi nutriti anche degli Skiantos (il nome del gruppo storpia la mitica intro di Eptadone). Il punto di contatto tra le due monadi ridanciane? Non tanto la demenzialità dei testi, quanto proprio lo sfondo - attenzione, parolone - filosofico in cui questi testi trovano posto, il valore assegnato alla risata: riso a oltranza come unico possibile farmaco contro la stupidità (quella vera, non costruita in laboratorio) del mondo. Nubi di ieri sul nostro domani odierno Troppo da dire sugli Elio fissati su disco, troppa la carne al fuoco, tra picchi, abbassamenti fisiologici e autoriclichi, e allora noi tagliamo la testa a Mangoni e ci agganciamo agli Elio extra-disco, per tracciarne un proTUNE IN 17 Lo spazio del suono / 6 Attila Faravelli La dinamica degli organismi sonori Faravelli giunge all'esordio dopo esperienze come compositore di musiche per teatro, danza, pellicole mute e installazioni, dimostrandosi padrone assoluto di tecniche proprie dell'elettroacustica. - Sara Bracco e Vincenzo Santarcangelo 18 TUNE IN U n nuovo - l'ennesimo - saggio di eleganza ed essenzialità in musica ci è stato offerto, qualche mese fa, dalla Die Schachtel, etichetta che continua a sbalordire per intelligenza (delle riscoperte) e attualità (delle nuove proposte). Come dovrebbe suonare la musica elettroacustica, oggi, è nuovamente un artista italiano sostenuto da Bruno Stucchi e Fabio Carboni, i due uomini dietro all'etichetta, a suggerircelo con forza. Allievo di Alvise Vidolin e Michele Tadini, Attila Faravelli giunge all'esordio discografico dopo numerose esperienze come compositore di musiche per teatro, danza, pellicole mute e installazioni artistiche. Un giovane sound-artist che si dimostra padrone assoluto di tutte le tecniche compositive proprie dell'elettroacustica: la saturazione dello spazio sonoro, il bricolage con i microsuoni, l'alternanza dei pieni e dei vuoti, la contrapposizione analogico/digitale-suonato/campionato, il lavoro certosino su timbri e texture. Tecniche che Faravelli utilizza, e ciò è più importante, per comporre una musica astratta ma altamente comunicativa, rigorosa eppure seducente come di rado capita di essere a lavori di questo genere. Elettronica ed elettroacustica, architetture fluide e fonti sonore le più disparate ma che, per motivi misteriosi, finiscono per confluire in un ordine superiore nel segno di un'organizzazione estetica e spaziale geometrizzante e quasi puntigliosa. Oggetti che catalizzano l’attenzione, che si rapportano in modo non univoco, che rinviano di continuo allo spazio sonoro entro il quale vengono disposti, come adagiati, nella realizzazione di qualcosa che finisce per assomigliare meno a un edificio e più a un paesaggio naturale o a un organismo vivente. Un equilibrio costantemente ricercato e superato da Faravelli, un paesaggio in cui disperdersi ed entro il quale ridefinirsi (proprio a partire da questa dispersione), un paesaggio che, come affermava Luc Ferrari, “non è facile da penetrare”. “E' divertente: quando cerchi una cosa, ne trovi un’altra” . Parlando di struttura sonora e dei rapporti esistenti tra i concetti di spazio, ritmo e flusso: come ti poni e come senti influenzata la tua architettura digitale da tali elementi? Molta musica elettronica o elettroacustica, e ci metto dentro anche la mia, crea delle architetture fluide proprio per il modo con cui la si fa, si mettono insieme delle cose diversissime e a volte stanno bene insieme per dei motivi misteriosi che solo le orecchie sono in grado di capire. C’è anche una ragione estetica però. Come diceva Ligeti a proposito delle sue composizioni dronose se si toglie anche uno solo dei tre elementi che stanno alla base della musica occidentale, ritmo, armonia o melodia, il suono stesso acquista maggiore importanza. In una canzone, tipicamente, lo spazio musicale è organizzato prospetticamente dal fatto che la melodia sta davanti e l’accompagnamento sullo sfondo, e inoltre gli accordi sono costruiti in modo da generare in chi ascolta l’attesa di una risoluzione. Il risultato è che invece di vedere lo spazio musicale stesso si vede il modo con cui è stato organizzato, perché gli oggetti che lo abitano catalizzano tutta l’attenzione. A me piace l’idea di mettere in questo luogo immaginario degli oggetti che stanno in relazione non univoca tra loro e che rinviano di continuo allo spazio intero in cui sono, realizzando una cosa che assomiglia meno ad un edificio e più ad un paesaggio naturale o ad un organismo vivente. Partendo dalle tue esperienze di musiche per ambiente - dalle mostre fotografiche di Mike Goldwater Acqua, alle musiche per lo spettacolo di Dites leur qu'on est partis - intese come supporti sonori alla dimensione visiva: in che modo ti poni, leggi, interpreti, ti relazioni nei confronti dell'audiovisivo? Nello studio classico di Michel Chion su questo argomento (Suono e visione) si dice che il legame tra un’immagine e una musica si compie quando le due cose ne formano una terza in cui sono unite, una senza l’altra non è più sufficiente. Lui aveva ragione a sottolineare che la musica non è un semplice corollario, un accessorio che accompagna le immagini e che invece l’utilizzo del suono legato all’immagine genera un prodotto nuovo e altrettanto unico, la cosiddetta audiovisione. Recentemente ho partecipato insieme ad Andrea Belfi e a Robert Curgenven ad un progetto molto interessante in questo senso; un regista italiano di base in Francia, Augusto Contento, ha realizzato dei film molto belli sul Brasile sonorizzandoli con musiche di area sperimentale con cui ha fatto la versione definitiva del film, l’audiovisivo con la A maiuscola, quello che si vede in sala, nei festival e su dvd. Parallelamente, ha preparato dei mix dell’audio del film tenendo tutti i suoni e le voci ma escludendo le musiche e ha domandato ad altri musicisti tra cui a noi di suonare dal vivo, sulle immagini e sul suono del film, delle altre musiche originali. In Francia chiamano questa operazione cineconcert, una parola che da noi non esiste, e in genere si fa sulle pellicole mute. Negli ultimi lavori che ho fatto, in particolare per un film di Andrea Caccia, mi è capitato di sperimentare un sistema abbastanza diverso: prima di tutto ci si fa un’idea molto generale del progetto, si guardano alcune immagini ma non necessariamente tutte, si discute col regista delle intenzioni e poi si registrano delle lunghe sessioni di improvvisazione durante le quali si tiene in mente lo spirito delle immagini più che delle sequenze precise e TUNE IN 19 dunque si fornisce al regista una quantità molto grande di materiale grezzo da cui lui stesso, in fase di montaggio, ricava per tentativi ed errori dei momenti che associati alle immagini funzionano. Il risultato spesso è molto più naturale che non quando ci si concentra su delle sequende precise perché le nostre orecchie e il nostro sguardo, quasi autonomamente da noi, sono in grado di cogliere delle connessioni inimmaginabili tra cose nate in maniera semi-indipendente. Stockhausen nel ‘52 a Parigi diceva: nella natura della musica più recente si può riconoscere un cambiamento di direzione in atto dall’ascolto guidato dal desiderio a un ascolto riflessivo, come parte di una trasformazione spirituale più ampia, da un carattere individualistico a uno personale ma anche collettivo. Un ascolto riflessivo, quasi meditativo, come lo definisce Shinkei. Cosa ne pensi, a oggi come senti cambiato e come ti poni a tale riguardo? Non saprei, quando mi capita di parlare con qualcuno di trasformazioni epocali nella musica a volte penso che non se ne siano mai verificate, altre volte mi capita di credere che data l’involuzione autistica del nostro modo di vivere semmai anche l’ascolto della musica tenda a perdere di senso. E se ne succedono poi non è senz’altro negli ambienti della musica contemporanea. Il discorso di Stockhausen, come quello dei teorici della postmodernità, lo ritengo verissimo nel momento in cui descrive un fenomeno di trasformazione della ricezione e della sensibilità, quando però ci si spinge a sostenere una valenza di superamento etico di questa trasformazione sospendo il giudizio. E’ vero che siamo passati da un mondo in cui gli oggetti erano chiari, i ruoli fissi e le identità più definite ad una situazione di rarefazione, dalle grandi narrazioni ai blog. E’ vero che la dinamica dell’orgasmo, quindi la ricerca di una soddisfazione rivolta ad un obiettivo unico che culmina in un apice che coincide con la fine del desiderio non è un modello che spiega il senso di alcune musiche tra cui nel mio piccolo ci metto pure la mia. In Underneath the Surface l’elettronica è fluida, attenta alla superficie ma anche alla lentezza del processo che la mette in movimento: un lento sgretolarsi simile ai “disintegration loops” di Basinski o agli orizzonti inquieti alla Fennesz. Ti senti in qualche modo legato al filone purista dell'elettronica attento alla materia sonora e a qualche interprete in particolare? Cosa ispira il tuo modo di comporre? Di Fennesz mi piacciono moltissimo i primi due album, e non i più recenti, Basinski, ma anche The Caretakers, sviluppano un discorso in una direzione che mi 20 TUNE IN interessa molto ma che non è abbastanza compositiva per i miei gusti, nel senso che questi artisti non trovano secondo me un equilibrio tra il lasciare che i processi quasi organici di deterioramento del suono determinino la materia musicale in maniera incontrollabile, cosa che condivido del tutto, e l’ascolto delle reazioni che provoca su di sé lo scorrere di questo materiale, da cui deriva un risultato che rimane per me un po’ concettuale, ma allora neanche abbastanza, come ad esempio i capolavori di Alvin Lucier, in cui questo aspetto di lavorare con la materia era assunto e dichiarato fino in fondo in maniera rigorosa. Invece amo moltissimo Stephan Mathieu, perché lavora con vecchi supporti, sull’interferenza radio, su fenomeni effimeri ed incontrollabili, ma con una capacità di ascolto del materiale e di selezione che lo porta a fare dei dischi proprio belli da ascoltare e riascoltare. Questo però implica del tempo e una forma permanente di ricerca, infatti Mathieu per fare Radioland ci ha messo qualcosa come 5 anni e Basinski invece quasi su ogni numero di The Wire che leggo c’è una recensione di un suo disco. In questo senso i miei riferimenti principali sono da un po’ di tempo due figure davvero giganti di cui però solo una è un musicista, Luc Ferrari, l’altro invece è un regista, Werner Herzog, personalità apparentemente distintissime ma in realtà credo per molti aspetti quasi sovrapponibili. Entrambi si calano apposta in situazioni all’interno delle quali quello che succede è sorprendente prima di tutto per l’autore: c’è un paesaggio e l’autore che lo penetra e, come dice la voce di Ferrari stesso in uno dei suoi pezzi più celebri, ne è penetrato a sua volta. Dice poi nello stesso pezzo, non è facile penetrare un paesaggio, è divertente, quando cerchi una cosa, ne trovi un’altra. La voce narrante, l’autore che descrive dall’interno quello che sta succedendo all’esterno e all’interno di sé è un elemento comune sia in molti film di Herzog che in molti pezzi di Ferrari. E’ questo equilibrio che, nel mio piccolo, mi piacerebbe trovare, tra un paesaggio in cui disperdersi ma a partire da questa dispersione paradossalmente ridefinirsi. Rafael Toral dice: "Non esiste più alcuna definizione esatta di cosa significhi oggi comporre; tutti i suoni sono generati manualmente, fisicamente, direi, su un fondale di silenzio”. Un “fondale" o una sorta di "suono colorato" - lo definiva così Stockhausen -, fatto di strati sovrapposti, non assoluto; o ancora, quel non-suono, come lo ha chiamato Skinhei, in una precedente intervista, che permette l’ascolto di tutti i suoni. Partendo da queste considerazioni, potresti parlarci del tuo specifico approccio al tema del silenzio? Condivido assolutamente questa definizione di una specie di piano di immanenza in cui non c’è un suono in alto e, in basso, il rumore da cui il suono dovrebbe elevarsi e distinguersi. Anche negli strumenti più tradizionali dell’orchestra classica se non ci fossero le armoniche superiori e inferiori e i rumori dovuti ai modi stessi con cui il suono viene emesso tutti gli strumenti avrebbero lo stesso suono, delle semplici onde sinusoidali. In alcuni dei primi pezzi elettronici di Stockhausen, invece, fatti solo di sinusoidi, l’aspetto secondo me più interessante è proprio l’imprecisione del suono degli oscillatori del periodo, l’eterna presenza di un consistente strato di fruscio di fondo dei nastri tagliati con le forbici e l’astrazione inattuabile di quei pezzi fatti di onde pure da cui risalta ancora di più la sporcizia dei mezzi di registrazione di quel periodo. Dunque il discorso vale proprio in tutti i casi. Nel pop e nel rock lo strumento più utilizzato oggi non è la chitarra o la batteria ma la compressione, una tecnica per cui quando un suono supera una certa soglia lo si abbassa e si alza poi tutto il volume generale, quindi il silenzio e le dinamiche sono state da tempo abolite in tantissima parte della musica. Nell’ottica di una musi- ca organica a me interessa il vuoto non come una cosa che viene aggiunta per ottenere dei risultati conformi ad un genere che contempli il silenzio come un elemento compositivo tra gli altri ma perché i suoni hanno naturalmente, di per se, come un organismo vivente, delle oscillazioni, dei respiri, delle assenze e delle presenze. In un paesaggio poi a volte si trovano anche delle rocce, in un corpo delle ossa, delle materie dense e senza pori, quindi dei suoni compatti e senza vita, senza silenzi, mi interessano ma nell’ottica complessiva di un organismo in cui l’una e l’altra cosa convivono. TUNE IN 21 R itrattismi Four Tet Kieran Hebden Decennio transelettronico Kieran Hebden, Four Tet, Fridge e le vicende dentro e fuori l'elettronica '00. Un ritratto complesso - Gaspare Caliri 22 DROP OUT Ci vorrebbe forse un grande ritrattista per riprodurre la figura di Kieran Hebden. Qualcuno che sappia far affiorare dalle espressioni del viso la molteplicità serena di un musicista che naviga da ormai quindici anni nelle acque della musica popolare. Un viso di origini indiane (denunciate pure e in modo ironicamente contemporaneo da una t-shirt con elefante che spesso indossa), senza per questo mancare di essere un londinese medio; un’espressione per niente tesa, sorriso appena accennato, sguardo profondissimo (accentuato dalle occhiaie) e nient’affatto aggressivo. Gli occhi, in realtà, sarebbero sfuggenti e rivolti verso il basso, o di lato, come nella maggior parte delle foto che lo ritraggono (ma supponiamo che il ritrattista ometta questo particolare), a testimoniare una certa timidezza che traspare anche, a detta di molti intervistatori, dal tono della sua voce. Non tanto per verificare questo, ma per confrontarci riguardo a una produzione che inizia a essere davvero molto sostanziosa, abbiamo fatto due chiacchiere con Hebden. Abbiamo posto domande e ottenuto risposte innanzitutto sul progetto principale che lo vede protagonista, Four Tet ovviamente, alla vigilia dell’uscita di There Is Love In You, primo album dopo più di cinque anni dal precedente - lustro intervallato invero dalla comparsa sul mercato di un EP che, come vedremo, trova cittadinanza tra le produzioni maggiori, per il valore assertivo che ha avuto. Abbiamo però cercato di spaziare per avere modo di tratteggiare un ritratto a tutto tondo sul personaggio, dipingendone le sfumature dell’intorno. Di fronte a Kieran ci si può infatti allontanare dalla missione del ritrattista, e, di converso, concentrare sulla cornice, anzi cambiare scala e rompere gli argini verso il contesto, verso quello che forse descrive meglio il nostro tipico londinese: un viaggio nel suo network di contatti, di collaborazioni, di immedesimazioni e temporanee aggregazioni in moniker e stili di diversa provenienza. Si andrebbe così a rappresentare un magma di situazioni centrifugo più che centripeto. E questo approccio potrebbe intrecciarsi con un terzo programma di rappresentazione, probabilmente una sintesi tra i primi due. Altra e ultima maniera è quella squisitamente biografica, che quasi sempre si legge nei giornali di musica; nato a, a vent’anni ha ascoltato questo, prodotto quest’altro. Non è necessariamente la peggiore, anche se la più diffusa, specie trattando queste righe di un musicista come Kieran Hebden: in questo caso, infatti, seguirne la vita, le vicende musico-biografiche, gli incontri, i cambiamenti, non significa solo mettere il fiato sul collo di una figura. Vuol dire prenderlo come esempio, come tipicità, di un intero decennio e più. È così che ci vogliamo approcciare a Kieran: ci interessa come figura esemplare e cartina al tornasole degli ’00 e di come essi sono sprigionati dai Novanta, per i generi di cui si è interessato mr. Four Tet. I primi passi Personaggio timido, si diceva, ma in qualche modo perfettamente cosciente del proprio tempo - forse in questa frase fatta si riassume nel modo migliore la cifra di Hebden; e quindi timido ma nondimeno presente nell’etere e nella rete, con decine di interviste a ogni nuova uscita; un musicista di cui non è difficile ricostruire fasi, suggestioni, letture diverse, date in prima istanza da egli stesso. A partire da qualche confessione fatta in prima persona, si fa generalmente iniziare la vita di Kieran - come musicista, dato che come persona quella ha avuto senza dubbio avvio a Putney, Londra, nel 1980 - con un concerto dei Tortoise. È forse la prima mossa di generalizzazione del personaggio nel suo contenitore, ovvero la seconda metà dei Novanta e il primo decennio del terzo millennio. Oppure, semplicemente, è il modo migliore per passare a parlare della prima incarnazione musicale del Nostro. Quando vede la band di Chicago Kieran si innamora del loro suono e delle possibilità che il loro approccio consente. Intuisce le potenzialità di associare strumenti come la marimba e synth, set da post-rocker (che i Tortoise, per loro stessa volontà auto-revisionista, non sono mai stati) e progressione, glacialità e disinvoltura morriconiana.Troppo per il giovanissimo Hebden, che non è ancora abbastanza maturo per fare dell’esperienza un tesoro fruttuoso che vada al di là della fascinazione inevitabile. Anzi, troppo per metabolizzare tutto e subito. Ma abbastanza - e Kieran è già sufficientemente ricettivo - per trovare il lato operativo della scottatura: fondare una band di post-rock, fredda e combinatoria, intelligente e volenterosa di tentare e ritentare in sala prove di riprodurre l’insegnamento di Mc Entire e soci. In realtà Kieran imbraccia la chitarra ben prima, all’età di dodici anni, e repentinamente passa dal tentativo di emulare Hendrix alle fascinazioni DIY della musica Riot Grrrl, e poi dal lo-fi americano a un gruppo che faceva lunghe tracce strumentali, i britannici Quickspace Supersport (poi Quickspace), che l’adolescente Hebden segue in tutti i live londinesi, che di fatto introducono il Nostro a post-rock, Soft Machine, strutture e macchine morbide e complesse. Siamo a metà Novanta quando nascono i Fridge, che vedono tre ragazzi neanche ventenni - Kieran, obviously, Adam Ilhan e Sam Jeffers - tentare la strada d’Albione di un post che ha tanto di Chicago quanto di europeo (ma poco del coevo post-rock glasgowiano, per esempio). DROP OUT 23 Tempo di fare i primi vagiti quando Kieran, in un negozio di dischi, incrocia un tale e ci si mette a chiacchierare; gli racconta della band nascente e delle sue passioni. Il ragazzo suona negli Emperor’s New Clothes, gruppetto all’epoca nelle mani del dj e produttore Trevor Jackson. Il compagno di conversazione si propone come ambasciatore di un demo dei Fridge da consegnare a Trevor, Hebden accetta e una settimana dopo riceve la telefonata del big in questione. Ditemi cosa vi serve, chiede il dj, e tempo qualche giorno e a casa di Hebden arriva per posta un registratore multi traccia, con cui i Fridge registreranno i loro early singles e i primi due album del lotto. Per ammissione proprio di Hebden, i primi tentativi della band non sono sempre dei picchi di originalità, ma tracciano delle linee. Sono necessari apripista e anzi viatico per entrare in una forma mentis (quella dei Novanta) e traghettarla verso la successiva, con ogni probabilità ancora in corso. L’esordio ufficiale ha luogo nel 1997, con Ceepax (uscito per la Output di Trevor, appunto): c’è il basso di Adam (più tardi Adem), la batteria di Sam e una prima formulazione dell’elettronica di Hebden, accanto alla chitarra, suonata sempre dal Nostro. Non male, anche qui, come esemplarità, il rapporto tra il personaggio e la seicorde. Certo, una decostruzione costante in un tempo in cui decostruire non fa notizia, ma soprattutto una ricostruzione, per certi versi, come elemento tra i tanti della miscela analogico-digitale. Un momento aurorale a cui tornerà, come vedremo, in una traccia di apparentemente facile - troppo facile? - interpretazione come quella conclusiva di There Is Love In You, She Just Like To Fight, con richiami a quei Novanta e a quelle sonorità. “Sono rimasto abbastanza stupito di me stesso quando ho realizzato quel pezzo.Trovo che sia qualcosa che avrei potuto fare in qualsiasi momento, negli ultimi dieci anni; è come se fosse un sound che mi viene naturale, un pezzo di musica per così dire onesto nei confronti di me stesso. She Just Like To Fight è innocentemente mia, niente che mi proietti verso il futuro, giusto qualcosa di semplice e diretto. È per questo che ho deciso di metterla come ultima traccia del disco…” Una dichiarazione che denuncia una fortissima autoconsapevolezza, non c’è che dire. Parole che confortano il nostro discorso: niente fast-forward del ragionamento, ma conferme semplici e dirette, che ci autorizzano a fare un gioco di rime e rimandi, per trattare, in modo che l’espressione dia un poco del contenuto, l’esperienza Fridge. Il trio è ormai lontano nel tempo, sotto molti punti di vista, ma è anche vero che l’ultimo album della fredda ragione sociale è datato 2007 (in mezzo al lungo silenzio Four Tet 2005-2008), e che quello che possiamo 24 DROP OUT tranquillamente pensare come l’uscita più interessante della band, Happiness, viene licenziato da Temporary Residence solo nel 2001, anno in cui nel catalogo Four Tet ci sono già due titoli in long-playing. I Fridge sono più di una scottatura giovanile. Una sorgente di musica che a Kieran viene naturale far sgorgare.Tanto più che in pieno 2009 esce una compila che raccoglie le primissime produzioni a nome Fridge, quelle più rotondamente tortoisiane: si chiama Early Output 1996-1998 (Domino), fa rima con l’etichetta che pubblicò Ceepax e il successivo Semaphore, del ’97, ma anche ci rimanda a quel Seven’s And Twelve’s (Output, 1998) - a sua volta una raccolta di quegli anni, che sembrò mettere una pietra tombale sulla prima fase Fridge. Rilanciamo: da Seven’s And Twelve’s si passa, numerologia che fa da ponte, a un presunto singolo, della durata reale di trentasei minuti e venticinque secondi, e per questo intitolato Thirtysixtwentyfive. Siamo ancora nel 1998; con questo lavorio di attenta produzione Kieran licenzia l’ultima mossa con Output; il nome che compare sul fianco del doppio 12” non è più Fridge; è un moniker “solo” del Nostro, dove inizia a sperimentare qualcosa di davvero personale: l’avrete capito, è Four Tet. C ambio di registro In Thirtysixtwentyfive è decisivo il cambio di registro. Non più le strutture come “programma” (architettonicamente parlando), ma un “leggero urbanismo” che si regge su un tema di tromba e un rigoglioso (ma non preponderante) lavoro produttivo: suoni che finiscono per riaccendere le sinapsi già stimolate da gente come Terry Riley, o da compositori che, detto con beneficio di raffinamento, usano tutte le fasi della creazione discografica come momenti dove avere pieno controllo degli strumenti. Ragionamento, esecuzione e, naturalmente, studio, stanze dei bottoni. Il travaso della complessità del post cambia affluente ed estuario insieme. Gli ascolti di Kieran si dilatano a 360 gradi, e il suo orecchio inizia a occhieggiare con fare sornione a jazz e hip-hop. L’inizio del college coincide con l’acquisto di un laptop. Il resto già lo immaginate. Computer e un hi-fi diventano la strumentazione, la sua stanza il suo studio, insieme a un registratore con cui raccogliere tracce di tutto e poi manipolare, missare, editare. Su Dialogue (Output, 1999), il primo album a nome Four Tet, e soprattutto su Pause (Domino, 2001) ci sono tutti questi suoni registrati e trasfigurati. Hebden diventa maestro della tecnica, soprattutto per i bassi, che non riproducono mai suoni già esistenti come tali (o suonati per esserlo), ma lo diventano rallentando a dismisura le frequenze di chissà cos’altro. Per confezionare Untangle, brano di DROP OUT 25 Pause, Kieran lavora moltissimo su un’arpa e sul trattamento di quella con programmi informatici. Il massimo dell’artificio dal massimo simulacro di sonorità naturale. Unicamente le percussioni sono analogiche, ancora intoccabili. E non è un caso: il ritmo diventerà con gli anni protagonista assoluto. Per ora la sua preponderanza è dimostrata in termini di reverenza e rispetto, una specie di trattamento speciale riservato a qualcosa per cui bisogna avere una degna preparazione, prima di affrontarla. Nel frattempo, ai tamburi è dedicata un’enfasi espressiva che spicca sul resto; in Dialogue c’è tanto jazz nella batteria, che anticipa uno sfogo mancato che da lì a qualche anno verrà sanato dalla collaborazione con Steve Reid, mago e velocista jazz delle pelli tese. Ma devono passare ancora degli anni. Tra ’99 e 2000, più che il jazz, forse, lo spartiacque - quanto meno con gli altri componenti dei Fridge - è l’hip-hop: un amore per così dire “negato” spesso dalla critica. Hebden inizia la sua attività come Four Tet e non tutti si accorgono che lui preferisce (come dichiara spesso) interfacciarsi all’hip hop piuttosto che al vecchio post. In Dialogue nasce poi una sorta di malinteso, spesso sostenuto dalla conoscenza e dalla frequentazione di Dan “Manitoba” Snaith, che in quegli anni, e soprattutto poi, con il progetto Caribou, viene preso come esemplare da studiare, a proposito di indietronica. A proposito del montaggio, qualcuno parla di folk-tronica per l’incastro tra strumenti suonati ed elettronici, soprattutto nelle atmosfere più rilassate e downtempo di Pause e di Rounds (Domino, 2003), terzo album effettivo targato FT. Per il resto, il rapporto tra i due è propizio; Kieran conosce Dan prima ancora della nascita del progetto Manitoba, e Four Tet viene indicato 26 DROP OUT come riferimento costante di Snaith. È inoltre Hebden che lo indirizza alla Leaf e che gli propone di mixare un suo pezzo di Pause per far girare il nome. Un meccanismo, quello dei remix, che fra l’altro è stato fondamentale innanzitutto per Four Tet. A partire dal 1999, all’indomani dell’uscita di Dialogue, la Warp gli chiede di remixare un pezzo di Aphex Twin per la compila del decimo anniversario della label. Il lavoro piace e il nome Four Tet inizia a girare tra coloro che vengono dall’IDM e hanno bisogno di una rinnovata freschezza della fonte - o di un glitch che fa stare bene, più che scassare le meningi. Hebden è la figura giusta al momento giusto; ed è molto bravo - e umile - a buttarsi a capofitto nel nuovo mondo elettronico, ad accettare remix anche rischiosi e a lavorare moltissimo nella nuova veste ibrida di musicista e produttore. L’ampiezza del suo network di contatti e collaborazioni cresce moltissimo in due-tre anni, cioè prima dell’uscita di Everything Ecstatic (Domino, 2005), terzo album a nome Four Tet, sostanziale consacrazione del personaggio, ma anche un forte discrimine nella produzione, dato che, tra Ecstatic e There Is Love In You, non ci saranno album , solo un EP, lo splendido (e miliare) Ringer. Kieran, giusto per dare un’idea dell’hype che si sta creando attorno a lui, apre per il tour europeo dei Radiohead, nel 2003, ne remixa una traccia da Hail To The Thief, lavora con nomi più noti di lui e inizia ad avere la statura per promuovere a sua volta altri personaggi. A forza di missare e lavorare con produzioni altrui, inizia a prenderci gusto, con l’arte del djing, prima come aspirazione occasionale, poi come professionista vero e proprio. Lo si conosce ormai non solo presso gli idiem- mers, ma anche nel mondo della club culture. La strada sembra tracciata, così come il suo perfezionismo. Eppure in Hebden non si stabilizza nulla. A ridosso dell’uscita di Everything Ecstatic qualcosa si incrina, nell’amore verso le tecniche laptop-music. Cresce il desiderio di complessificare la faccenda, sperimentare altre cose, e soprattutto fare jazz; atteggiamento a cui Hebden ci ha abituati: se c’è qualcosa che gli piace, prima o poi cercherà di farlo lui stesso. Grazie a un giro di contatti Kieran riesce a incontrare il batterista jazz Steve Reid, con il quale tiene un paio di concerti a Parigi, nella primavera del 2005. È un nuovo inizio, che fa riemergere quel rispetto reverente già segnalato nei confronti dei tamburi. Ora c’è un batterista vero, un africanista jazz tra i migliori in circolazione, la persona giusta con cui intraprendere un’iniziativa senza minimamente sapere dove andare a finire. Kieran riesce così a esternalizzare il suo impulso jazzistico verso le percussioni, per di più con una collaborazione duratura. Nasce il combo Kieran Hebden & Steve Reid, che fissa improvvisazioni e scambi nei due The Exchange Session Vol. 1 e The Exchange Session Vol. 2 (entrambi Domino, 2006), come prima tappa del processo. Gli episodi successivi saranno Tongues (Domino, 2007) e NYC (Domino, 2008), capitolo quest'ultimo dove il duetto di elettronica e free-jazz si trasforma nella profferta di una personale (ma a due teste) versione della ritmica newyorkese a respiro mondiale. L’incontro con Reid per Kieran è qualcosa di davvero catartico: Steve fa il ruolo del maestro di vita e di esperienze, gli mostra il mondo (soprattutto dell’Africa) e gli apre ulteriormente la testa, come si suol dire. Hebden impara e assorbe come una spugna. Più che i dischi insieme, ammette, è la partecipazione attiva al suo ensemble a essere estremamente formativa. Londra viene ridimensionata, mostra i suoi limiti, le sue illusioni cosmopolite. L’intelligenza di Kieran è però contenuta anche nella capacità di non rifiutare mai il proprio passato, la propria esperienza, ma di metterla a frutto con il presente. Tra il 2005 e il 2008 Hebden si trova bene a fare altro, che non sia “Four Tet stuff”. La doppia raccolta Remixes (Domino, 2006), sempre a nome Four Tet, denota un cambio di equilibrio tra produzione e creazione, sbilanciato ora verso il primo polo della categoria: remix scelti da Hebden nel primo disco, un misto tra remix fatti da lui e da altri nel secondo. Non solo: Kieran si vede bene come produttore e decide di accettare di occuparsi della registrazione e finalizzazione di Fire Escape (Smalltown Supersound), disco del 2007 dei Sunburned Hand Of The Man; il risultato vedrà soddisfatti in molti e la conseguenza sarà la curatela completa della fase in studio del disco successivo della band della “New Weird America”, un paio di anni dopo. Un’altra via di fuga, un altro modo di fare altro e rimanere sempre se stesso. Un filone in più, che rende sempre meno impellente, agli occhi del Nostro, la necessità di fare uscire l’album n°5 di Four Tet. Pane ed elettronica E qui veniamo all’altra “infanzia” musicale hebdeniana, che oggi acquista rilevanza e decisiva consistenza, sicuramente più di quanto sarebbe successo cinque anni fa - per non parlare di dieci. Del resto, abbiamo iniziato il secondo paragrafo dell’articolo dicendo “si è soliti”, o “si fa generalmente”, sottendendo dunque un’alternativa, una possibile ripartenza, un'altra angolatura o taglio. L’abbiamo rimossa volutamente, per riprendere tutto da capo e riconsiderare tutta la situazione storica del Nostro. La chiave è tornare a qualche anno più indietro, non necessariamente prima rispetto a quel grado zero individuato dall’incontro con i Tortoise. Nel periodo in cui il giovabe Kieran iniziava a cimentarsi con l’idea di passare dallo strimpellio a un progetto musicale, attorno a lui c’era l’Inghilterra e le sue high school, traboccanti di jungle e drum’n’bass. “Jungle everywhere”, ma anche un borbottio costante di suoni d’elettronica garage. Quegli anni in Inghilterra si cresceva anche con la 2-step delle radio pirata. Kieran vive quell’incrocio di riferimenti che sembra poco pertinente citare ora, ma che in realtà forse è particolarmente adatto per inquadrarne tutta la storia. Prendete il post-rock da un lato, il 2-step garage dall’altro. Fatte passare qualche anno (frullandoli) e provate a immaginare cosa possa venirne fuori. Lezioni di maestria ritmica, forte affezione al ritmo, dipendenza quasi; eppure grandissimo controllo della pasta del suono e del suo effetto catartico. Un melange di vintagismi analogici, di suoni suonati e di trattamenti digitali. Insomma, tutto questo non sembra particolarmente calzante, per il progetto Four Tet? Kieran non è il solo, ovviamente, nell’elite dei miscelatori di suoni della UK ’00, a fare quelle esperienze. Il 2-step, come ci confida lui stesso, è alla base della nascita e progressione di un’amicizia forte, personale e musicale, quella con Burial: “Io e Burial siamo cresciuti con il 2-step, un genere che ha sicuramente avuto un’influenza enorme sulla musica di entrambi. Quando ascolto le sue cose sento immediatamente il tentativo ben riuscito di prendere dosi massicce di 2-step, aggiornarlo e adattarlo a nuovi contesti. Sono un fan di vecchio corso della sua musica e siamo amici da molto. Abbiamo iniziato a fare musica insieme un sacco di tempo fa, e lo DROP OUT 27 sviluppo naturale - eccitante e divertente - è stato lavorare insieme.” Il 2-step è un tassello sicuramente fondamentale, nella musica e nella formazione di Hebden. Ma la cosa più interessante è che tale tassello si inserisce nel mosaico di un humus culturale che è diventato imprescindibile per leggere la stessa produzione Four Tet-iana di oggi. Non ci riferiamo solo a Moth / Wolf Cub, il misterioso singolo che a inizio 2009 ha sancito, con un’uscita ufficiale, la collaborazione tra Burial e Four Tet. E' tutta la club culture a rifrangersi nelle esperienze di Kieran degli ultimi anni. La pausa di produzione interrotta da Ringer EP non è stata per nulla silenziosa, per il Nostro. Ha significato anzi musica a tutto volume, ma quella musica d’altri di cui si occupano i dj dei club. Già dal 2001 Kieran iniziava a sentire che il mare magnum di dischi che si ritrovava in casa, rigorosamente su supporto vinilico, sarebbero potuti divenire il materiale per fare un po’ di djing. Per uno come lui, e per la destrezza - diciamolo con cui sa muoversi, tra il dire e il fare è bastato un giro di telefonate e e-mail. Tra 2005 e 2006 riceve l’incarico da residence dj al The End di Londra, dove incontra Timo Maas, con cui poi condividerà svariate serate nei due anni successivi. L’incontro più importante è però con un altro personaggio, suppergiù suo coetaneo peraltro, ma davvero importante per il mondo dell’elettronica inglese. Si tratta di James Holden, responsabile della label Border Community - fondamentale universo post-IDM - e autore di quella gemma solitaria e poliedrica che è The Idiots Are Winning (Border Community, 2006) - un disco della cui influenza non smetteremo di stupirci ancora per parecchio, plausibilmente. 28 DROP OUT “Credo che sia stato molto interessante per me assimilare i suoni e i ritmi del giro Border Community, per poi farne la mia traduzione personale, per esempio nella fase di arrangiamento dei miei pezzi. Mi piace sempre mettere nel mio quello che sento e vedo fuori; ma nel caso di Border Community penso che l’ispirazione che ho ricevuto sia stata più ampia del solito. Ho suonato parecchio nel club di James Holden e in lui ho trovato una persona con cui condividere moltissima musica e interessi musicali. È innanzitutto una persona che si dedica con completa abnegazione alla musica: lo dimostra il modo in cui è riuscito a mettere in piedi proprio la sua label.” Certo le analogie tra Kieran e James non mancano. Entrambi latitano nel mercato musicale per qualche anno ma fanno talmente tante cose che non si può non parlarne. È così che in un lustro Kieran cambia radicalmente ambiente: dall’idrovoro hip-hop e dal downtempo alla velocità di Reid e della musica da club. Four Tet inizia a essere assimilato alla schiera di talentuosissimi produttori di talento prodotti in terra d’Albione. Le sue nuove attività non fanno più chiedere, da parte dell’intervistatore di passaggio, di raccontare i rapporti con il Caribou del caso; il fuoco si sposta su gente come Apparat, Nathan Fake, oltre, chiaramente, a Holden. Riguardo ad Apparat, per esempio, Hebden ritrova una familiarità basata proprio sulla formazione musicale. “C’è un’intera generazione di persone [di cui faccio parte] che sono cresciute ascoltando, mentre erano teenager, roba che va dalla Warp di Aphex ai Boards Of Canada; oggi quelle persone fanno musica da club e techno, mischiando influenze melodiche provenienti anche da elettronica d’antan…”, ci confessa Kieran, quasi guardandosi allo specchio. D'altronde, è evidente, nel già citato Ringer EP, quanto la sua testa sia a bagno nei club inglesi. Grazie anche al lavoro con Steve Reid, e alla liberazione freejazz-acustica dei suoi tamburi, il club dà a Kieran nuovi input e un universo in cui gettarsi a capofitto. Ringer non è un avvicinamento alla club-cluture, ne è un’assimilazione. Per essere più precisi, è l’esito di una metabolizzazione, che ha investito gli stessi riferimenti a cui milieu come quello di Border Community si rifanno. In Ringer si sente il kraut-rock. Si sente la musica cosmica. Swimmer ha i fuochi fatui dei Tangerine Dream fase Alpha Centauri, come le tastiere (snare?) di Klaus Schulze. Ma in Ringer si sente anche l’Inghilterra che filtra quelle esperienze. Come non ritrovare, nella stessa traccia appena citata, anche le tecniche di crescendo techno usate negli stessi mesi dai Fuck Buttons? Sono suggestioni che mirano a coprire le distanze spazio-temporali. E soprattutto a prepararci al nuovo capitolo di Four Tet, di cui Ringer (secondo alcuni, il punto più alto a cui sia arrivato Hebden) dovrebbe essere l’in- troduzione. Per realizzare There Is Love In You, Kieran ha deciso di mettere da parte le attività collaterali. Ha messo in pausa la collaborazione con Reid. Limitato a zero i remix e i nuovi contatti - anche se, ammette, l’eccezione avrebbe sempre ragione di esistere, se a chiamarlo per qualsiasi proposta fosse Busta Rhymes. Si è concentrato su se stesso, ci dice, confermandoci di fatto che in Four Tet si riassumono contemporaneamente il ritratto e il contesto, il micro- e il macro-cosmo di ciò che avviene attorno a Kieran Hebden. È lì che si concentra la summa a cui ci stiamo interessando rispetto a tutta l’opera di Kieran. There Is Love In You è un potenziale riassunto del decennio ’00, per molti versi, il punto culminante della rappresentatività di Hebden come figura esemplare degli ultimi anni. Eppure contiene una qualità che forse Ringer non aveva, pur nella genialità di rimescolamento di ascolti e nuovi stimoli. There Is Love In You è un momento di classicità - veicolata quasi da un fare trance - a cui è arrivato il rapporto Hebden / elettronica inglese. Ci sono le sue tecniche e tutto il savoir faire nel toccare mondi diversi mantenendo riconoscibile un tocco, se non un gesto. Come si diceva, vi trovano spazio sprazzi di post-rock come il minimalismo compositivo con cui, di fatto, lo si chiami così o ripetizione degli elementi, Four Tet ha sempre lavorato. È quindi il disco giusto, probabilmente, con cui tentare un ritratto del Nostro. E per rinchiuderlo in un quadro. Post - jazz e oltre ? Dice giustamente Paul Morley, introducendo il video di una recentissima intervista a Kieran Hebden, che una cosa di cui è profondamente convinto è che un musicista jazz - o post-jazz, per differenziare la produzione attuale - non è più (se lo è mai stato) un musicista che suona sax, batteria o percussioni, ma qualcuno che libera lo spirito dei grandi jazzman del passato, vale a dire una persona che fa della fluidità il cardine della ricettività e produttività della propria musica. Soggiunge Paul - stiamo traducendo molto liberamente il suo pensiero, dietro alle parole - che sotto questa ottica la palma di post-jazzman della decade ‘00 (o anche più) la darebbe tranquillamente a Hebden. Ciò su cui ci sentiamo più d’accordo con Morley riguarda la puntualizzazione successiva: non si sta riferendo all’esperienza (chiaramente jazzistica) con Steve Reid, ma alla produzione licenziata sotto il moniker Four Tet. Qui la cosa si fa interessante. È questione di atteggiamento. L’elettronica intelligente da cameretta per persone intelligenti è lontana, nella musica di Hebden. Non l’intelligenza stessa, ma il concetto e l’ideologia che stan- no dietro. C’è piuttosto una fluidità che oltre a traghettare se stessa (cioè, autopoieticamente, la musica che si trasporta da un genere all’altro) diventa superficie di trasporto, soprattutto per l’ascoltatore. Alla fine della decade e del nostro articolo, va ancora esplicitata la risposta a una domanda rimasta implicita dall’inizio, quando dichiaravamo pacifiche conseguenze senza spiegarne il motivo: in che senso Kieran Hebden è rappresentativo, una tipicità, dei tre lustri passati? La risposta passa per quella funzione di “caronte” di cui poco sopra. La sua musica è superficie di trasporto, in tanti sensi. La produzione un concentrato di attenzione al particolare che però non ha mai la presunzione di assorbire tutte le nostre attenzioni. Detto altrimenti, è un mezzo che ci porta di qua e di là, e anche un partner perfetto per montare un video di architettura, un documentario urbano, un supporto cinematico. Di per sé, questo non rappresenta di certo una novità del decennio appena trascorso. È chi fa questo che ci porta su nuove considerazioni. Kieran è un ragazzo - lo ripetiamo, classe ’80 - che è cresciuto con la sua chitarra ma che è anche riuscito a staccare il cordone ombelicale. Qui sì, fenomeno rappresentativo. Il grande addio alle chitarre mitizzate l’abbiamo metabolizzato tutti come affare di un "prima", ma gli arrivederci e i “ciao, come va” ciclici e funzionali a un modo di fare musica, un modo disinvolto, sono cose nostre. Ci ritroviamo, in Kieran, in una figura passata dal post al clubbing, prima come ascoltatore e poi operativamente, da musicista. Anche noi abbiamo fatto alcuni dei suoi passaggi, negli ultimi anni. Basta vedere la quantità di elettronica inglese post-IDM presente nelle classifiche di mezzo mondo, alla pari dell’underground e/o del rumore. L’opzione chiusa dell’ascoltatore post-rock è roba vecchia e storicizzata. Ma siamo noi, in prima persona, ad avere messo a distanza quello che eravamo. Anzi, meglio: abbiamo assorbito quello che eravamo in quello che siamo. Non sopportiamo il post-rock fatto oggi ma le nostre orecchie giudicano la nuova produzione Warp anche alla luce di quegli ascolti passati. Non c’è più bisogno di rinnegare? Sta di fatto che chi a fine Novanta ascoltava prevalentemente le strutture del post, magari insieme all’IDM, ora non disdegna l’ascolto di quell’ibrido tra club e cameretta che sono le produzioni hebdeniane. Un’attenzione all’orecchio, per l’orecchio, anche e soprattutto. Il post-jazz esistenziale non è per nulla postmoderno, né liquido, né schizofrenico. Come, del resto, Kieran Hebden che fa djing, kraut-electro e jazz non è un goliardo della pluralità, né nessuno si sognerebbe di medicalizzare, con categorie, la presunta scissione delle sue identità. DROP OUT 29 Recensioni::::gennaio:: ►►►► 2 Pigeons - Land (La Fabbrica, Gennaio 2010) G enere : trip - hop / elettronica / rock Freschi vincitori del premio Demo di Radio Rai per la migliore autoproduzione del 2009 (li abbiamo potuti apprezzare nella serata di apertura della scorsa edizione del Meeting delle Etichette Indipendenti) i 2 Pigeons arrivano all'inevitabile esordio discografico. Inevitabile perché in tempi di secca creativa come sono quelli in cui operiamo, la formula della band milanese è un fulmine a ciel sereno che non può passare inosservato. Immaginatevi una Shirley Bassey traviata dai Portishead ed esaltata da un programming che mescola frammenti di synth, rhodes, pianoforti e sax di scuola Zu. Pochi compromessi, rispettando una musicalità a scatti metafora sublime dell'illogicità estetica del presente. Nella pratica, ci si focalizza su un drum & bass/easy listening etereo (Fairuz), una P.J. Harvey febbrile su sfrontatezza Björk (Broken Umbrella), dei Morcheeba magmatici e industrial (Boing 737), una Tori Amos vicina a certe cadenze di Beatrice Antolini (I-Land). Con la voce di Chiara Castello a dare continuità ai primitivismi sintetici di Kole Laca tra cadenze black (Biko) e crooning bianchissimo (Circus Lady).(7.35/10) Fabrizio Zampighi A Spirale - Agaspastik (From Scratch, Novembre 2009) G enere : avant - rock La caleidoscopica scena avant-rock napoletana passa imprescindibilmente per A Spirale. Uno dei progetti più longevi e ramificati torna con un album che è dimostrazione vivente (anzi, suonante) della splendida copertina. Un corpo ai raggi X in cui spiccano tre viti d’acciaio. Carne e ferro fusi assieme come un Tetsuo ripulito dell’ascesi unidimensionale di certe fisime japanoise e dove la carne è la strumentazione acustica (sax, chitarra, batteria) e il ferro l'elettronica (rumori, feedback, little things) che deturpa l'incompromissorio free-jazz(core). A colpire è la verve post-punk con la quale il terzetto s'avvicina al jazz: di primo acchito potrebbero essere gli Zu ma gli A Spirale ne rappresentano una versione disidratata, improntata sull’improvvisazione e sulla spe30 recensioni rimentazione (ascoltate la chitarra di Maurizio Argenziano). Per capirci, la barbarous music di cardewiana memoria non è lontana: più che i pieni (l’assalto all’arma bianca di Black Crack e Naja Tripudians; la trance agonistica di Climbing Your Backbone, tutta scatti e spigoli) sono i vuoti a colpire: Suriciorbu (stasi sovrastati dalla tensione) e soprattutto Kaluli (la frammentazione del corpo sonoro). Agaspastik è il miglior album del trio. L’ennesimo colpo ben assestato dalla From Scratch.(7/10) Stefano Pifferi AA. VV. - 2010 From Warp Records (Warp Records, Dicembre 2009) G enere : compil ation electronica Anticipo di quello che sarà il 2010 Warp, la sfiziosa compilation ci presenta dieci tracce contenenti i ben conosciuti Bibio, Flying Lotus e Hudson Mohawke sbizzarriti rispettivamente in un bel remix sognante cori siderali (per mano del fidato Pivot), un bbreaking sbilenco e tagliato wonky e un richiamo agli '80 più Animal Collective che mai. Poi le nuove leve d'obbligo: il pasticcomane Rustie (era ora!) in progressività a 8 bit farcite di nerditudine e uk-ness (Inside Pikachu’s Cunt è il titolo dell’anno), The Hundred In The Hands che rivedono il p-funk con delle bordatine DFA (Dressed In Dresden), Nice Nice in camp sognante spiagge glo (See Waves appunto), Africa Hi Tech in ragga tagliato Tempa (Blen), De Tropix che mescola M.I.A., Zomby e La Roux con l’afro pop (Adeyhey) e per finire l’attesissimo Gonjasufi con un post-folk da urlo (Ancestors). Non male per farsi un’idea.(6.5/10) Marco Braggion Akkura - Brucerò la Vucciria col mio piano in fiamme (Dario Flaccovio Editore, Dicembre 2009) G enere : folk Links. Come quelli che legano gli Akkura al resto della cricca Malintenti Records. Una comune in cui tutte le parti in causa si scambiano i ruoli in una miriade di progetti intrecciati tra loro. Links. Come quelli che spin- highlight 2tall/Dj Clockwork/Kper - A Boom Bap Continuum (Autoprodotto, Novembre 2009) G enere : H ip hop Tre nerd, tre maniaci dei beat, ci regalano (in tutti i sensi: http://www.aboombapcontinuum.com) il loro bignami hip-hop per questi primi dieci anni Duemila. Tutto comincia nel 2008, con un mixtape (Wonk Fonk, funk base e origine di tutto) approntato dal giramondo Laurent Fintoni aka Kper - giornalista freelance e appassionato - allo scopo di accompagnare alcuni articoli su quella che ha definito la "rinascita del boom bap creativo" (anzi, "progressivo") nelle musiche ritmiche-elettroniche degli ultimi anni. A Boom Bap Continuum, realizzato da Kper assieme a Jim Coles aka 2tall (il più famoso dei tre, si vedano i trascorsi produttivi al servizio di Dudley Perkins e Georgia Anne Muldrow) e Dj Clockwork, sviluppa quella traccia e allarga ulteriormente il campo. Il mix mappa l'evoluzione del fare hip-hop (oltre le etichette, oltre il "wonky", il "glitch", il "bassy"), rintracciandone continuità (il culto della pulsazione, quella cosa che ti fa dondolare la testa avanti e indietro) e discontinuità: centrale la svolta con J Dilla e Madlib, e la conseguente imposizione di un nuovo standard, fatto di ritmi non quadrati ("heavy humanized groove", le famose batterie campionate-non quantizzate), scelte timbriche immediatamente riconoscibili, ibridazioni con l'elettronica, fascinazioni terzo e quartomondiste. La staffetta passa di mano dall'egotismo degli MC all'onnipotenza dei produttori: si impone per vitalità e importanza l'HH strumentale. A Boom Bap Continuum, evidente un - parzialmente polemico - parallelo con l'Hardcore Continuum di Simon Reynolds, sceglie (e mixa come solo i grandi mix) più di 200 beat, più di 50 produttori, venti pezzi e sette minuti circa per ogni anno, dal 1999 dei Lootpack di Mad, dei Company Flow di El-P, dei jazzofili Sound Providers, di Busta Rhymes, fino al 2009 di Paul White, Dam-Funk, Hudson Mohawke, Nosaj Thing, del "doppio" Mark Pritchard (presente come Harmonic 313 e come solista assieme a Om'Mas Keith dei Sa-Ra con Wind It Up, pezzo che è un po' una sintesi della Weltanschauung di questi nostri giorni). C'è l'hip-hop "hip-hop" ma c'è anche quello che abbiamo imparato a chiamare dubstep e/o grime (King Midas Sound, The Bug, Joker, Loeafah) e che solitamente siamo abituati ad associare alla dancehall e all'elettronica ma mai all'hip-hop. Boom Bap estetica che travalica i generi. Illuminante il gioco delle assenze: niente mainstream (Large Professor, Timbaland, Pharrell Williams), niente deviazioni dal discorso sul groove (niente Anticon-Clouddead, sì però a un pezzo dei Boards Of Canada, niente Antipop Consortium). Come tutte le opere di storia, è in realtà un pezzo di letteratura che ci restituisce solo una visione parziale dell'oggetto, e il cui scopo non è informare ma convincere. Qui il messaggio - in controtendenza (ancora il feticcio polemico Reynolds) - è largamente condivisibile: l'HH non è (ancora?) morto, è anzi una delle forze più vitali della musica d'oggi.(8/10) Gabriele Marino recensioni 31 gono gli artisti dell'etichetta a dare una forma in musica a quella Sicilia popolare e folk che fa un po' da sfondo a molte delle produzioni della label. C'è chi ci legge dentro un'autorialità ombrosa e rinsecchita (Donsettimo), chi una canzone jazzata leggera (Toti Poeta), chi una musicalità a tutto tondo in bilico tra Sud America e Sud Italia (Akkura), chi un folk-vaudeville sdrucito (Mimì Sterrantino). Links. Come quelli che emergono dai testi delle canzoni. Con una musica d'autore riconoscibile che sa lavorare sui significati, l'ironia, l'aspetto letterario del connubio note-parole. Soprattutto in questo terzo disco degli Akkura, in cui il testo è anche un concept-book che raccoglie dieci racconti su Palermo. Dieci spaccati di sei autori diversi (tra cui Cesare Basile e gli stessi Akkura) abbinati a dieci canzoni della band siciliana, omaggio ai tempi lenti e ai suoni della narrazione popolare. E' un cerchio che si allarga e che poi si richiude Brucero' la Vucciria col mio piano in fiamme. Un'opera che lavora su più dimensioni ma in un'unica direzione: descrivere per immagini un localismo geografico-culturale circoscritto e vissuto in prima persona. Grazie a scelte formali avventurose (il rock'n'roll della title track o magari il jazz percussivo di Vicoli Vicoli), poco lineari, e decisamente lontane dai cliché del folk autoctono più convenzionale.(7.3/10) Fabrizio Zampighi Andrew Weatherall - Andrew Weatherall Vs The Boardroom Vol.2 (Rotters Golf Club, Novembre 2009) G enere : D eep A distanza di un anno dall'esordio, s'aggiunge un volume alle session weatheralliane con alcuni tecnici e musicisti del Boardroom studio. L'aria che tira è deep e cassa in quattro. Tolte le scorie e i sample rockish (leggi Two Lone Swordsmen e dintorni) della precedente raccolta, Andrew firma una personale idea anemica e vampiresca di deep e lo fa mettendo le mani su pezzi come U Know U Jack (di Tim Fairplay), ovvero l'old skool portata nei sottoscala londinesi, oppure lasciando intonsa una track come Brother Johnston's Travelling Disco Consultancy, sempre old ma a bagnomaria nell'house e via di radiazioni e coolness. E' roba che scotta, anche se la tracklist contiene cosucce ordinarie tipo il remember R&S di The Blood (sempre Fairplay) oppure il viaggio tra space disco e baleric di Direct Action (Radical Majik), salvo poi ribaltare tutto in take dell'uomo che ti fanno capire il peso specifico della wave e della gotica girandoti il facile esercizio in dance 32 recensioni da brivido e assuefazione pura (la stessa Direct Action nel Weatherall remix). Menzione anche per The Last Frontier, visioni epiche nella space techno di E.S.C. tra tentazioni psych e tunnel kubrickiano.(7.2/10) Edoardo Bridda Asa Chang - Kage No Nai Hito (Avex Trax, Luglio 2009) G enere : P ost no Dopo che il matrimonio con Leaf è finito, di Asa Chang & Junrey si sono perse le tracce. Nel 2005, per la sussidiaria della Sony Japan, Ki/ oon, si registrava un album intitolato Minna No Junray, praticamente sconosciuto al mercato occidentale, e poi più nulla. Silenzio fino allo scorso luglio, quando la famosa label indipendente nipponica Avex Trax (la più grande al mondo stando a Wikipedia) ha pubblicato un nuovo lavoro del trio, acquistabile soltanto in mailorder dal Giappone. Non sarà il remix dubstep dell'indiano-londinese Talvin Singh della loro Bushi 24...22.46 a valerne la spesa, ma quello che è il loro lavoro punk per eccellenza ne vale sicuramente la pena. Irresistibili le appropriazioni indebite della nostra cultura sotto forma di fanfare sbilenche (Chesnuts Street peraltro roypaciana al massimo) e avant spettacolo à la Residents (Stew), le versioni disco punk del loro pop da classifica (Wohan No Hito vicina anche alle Slits) e persino un vaudeville che si prende gioco delle arie degli anni '30 in puro stile Syd Vicious da scalinata. Sono mosse freak che ricordano da vicino la Yoshimi P-We extra OOIOO (presentissima negli stacchetti folktronici intinti nel jazz di Sabadilla). Sketch che hanno il solo demerito di formare una raccolta d'esperienze in divenire più che un seguito della strada maestra disegnata da Hana, per la quale bisognerà accontentarsi dei nove, splendidi, minuti della traccia omonima. Ci troverete il meglio del trademark inconfondibile della ragione sociale: quell'affastellamento di tablas e strofe processate al pc di cui la Leaf s'innamorò a inizio Duemila. E' il lavoro più godibile mai realizzato dai nipponici.(7.5/10) Edoardo Bridda Ättestupa - 1867 (Dnt, Dicembre 2009) G enere : B l ack N oise Dopo la partecipazione al 10 pollici Utmarken con il brano migliore pubblicato ad oggi, e in attesa del secondo album, il gruppo di Göteborg torna con la stampa su vinile di un nastro edito precedentemente in sole cinquanta copie. 1867 è l'anno di una terribile carestia nelle campagne svedesi e i nostri ne traggono spunto per dar vita a nuovi incubi sonori. Missväxt mostra gli Ättestupa più rock (unico esempio insieme al pezzo della sopracitata compilation), con tanto di batteria e chitarre cadenzate, anche se tutto è sepolto sotto fischi e feedback assassini, come di regola. Halshuggarnatten continua sulle coordinate dell'LP del 2008: ritmiche ai limiti della narcolessia, disperanti note di synth e linee vocali tra il liturgico e il salmodiante. In chiusura, un brano che occupa l'intero lato B, assalto brutale ed impietoso, tortura di progressiva ferocia di ben tredici, interminabili, minuti. Tre tracce. Tre esperienze. Tre (r)umori diversi. Probabilmente non il modo più organico di traghettarsi dal primo al secondo album ma tant'è, l'organicità spesso non è la priorità di band come questa.(7/10) Andrea Napoli Barn Owl - The Conjurer (Root Strata, Novembre 2009) G enere : drone - doom Li dove finiva Hex inizia The Conjurer. La band di Jon Porras e Evan Caminiti prende in mano quanto avevano lasciato perdere gli Earth con il disco doom-western del ritorno e prosegue il discorso immaginando un seguito che gioca quasi istintivamente la carta dell’ascesi mistica. Porras e Caminiti sono tra i migliori visionari psichedelici dell’ultima generazione. Arrivano da San Francisco e hanno lo sguardo regolato in direzione del deserto, di cui sono gli ultimi legittimi profeti. The Conjurer pertanto si muove lento e mantrico sulle note di una chitarra twang spastica e malandata, come se stessimo ascoltando un Duane Eddy in punto di morte. E’ il passo malfermo di una Into The Red Horizon cui spetta il compito di prendere il largo verso la deriva di Across the Deserts of Ash, li dove i due incominciano a ragionare intorno alle sfere celesti aggiornandosi al canone della musica eterna. Un percorso questo, compiuto in maniera quasi identica sul lato B, con il dittico Procession of Golden Bones/Ancient of Days. I Barn Owl danno una linfa tutta loro al clangore austero del doom, aprendosi la strada con gli squarci del blues mitologico di Elm, per proseguire via via sempre più oltre, verso i territori di uno sciamanesimo da nuovo occidente dove non arriva più nessuno. Nemmeno loro.(7.3/10) Antonello Comunale Bear In Heaven - Beast Rest Forth Mouth (Hometapes Records, Novembre 2009) G enere : indie ecletrock Che l'act dell'anno 2009, classifiche permettendo, siano stati gli Animal Collective è fuori discussione. Non è questo il luogo da cui analizzare le loro mutazioni, ma per spiegare il nuovo disco del gruppo di Jon Philpot (ex Presocratics) sembra doveroso riconoscere quanto il gruppo di Baltimora stia influenzando i generi della musica 'elettronica' (dal wonky al glo passando pure per quello che chiamavamo indie rock). Se si ascolta questo disco veloce, osannato da Pitchfork e da gran parte del giro giusto della critica d'oltreoceano, si capisce come le sonorità degli animali siano diventate pane quotidiano per i gruppi emergenti. La parola d'ordine che si aggiunge all'eterogeneità del gruppo di Panda Bear e soci è retrofilia. In particolare i suoni anni 80. Non avevamo già sentito questo profumo? Sì, nei ragazzi del glo solo pochi istanti fa. Ma qui il tracciato sonoro non va tanto ad indagare quelle connessioni da pop star, anzi cerca di percorrere i binari del rock tout court. Sembra quasi di sentire la freschezza dei Fleet Foxes senza country (il primitivismo della batteria e i cori di Beast In Peace), le chitarre dei Cure (Dust Cloud), gli echi degli Stone Roses (Wholehearted Mess) il tutto mescolato sapientemente in calderone che convince (soprattutto nelle belle tastiere progressive di You Do You) e prelude al meritato successo. Il disco entra di diritto nel rock anni 00, di semplice assimilazione e di facile consumo si lascia ascoltare. Per tutti i palati.(7.3/10) Marco Braggion Beck/Charlotte Gainsbourg - IRM (Because, Dicembre 2009) G enere : avant pop Charlotte feticcio o musa? Puro pretesto emozionale, sfizio cool ad uso e consumo dei consumatori pop dalle pensose esigenze. Oppure: additivo corroborante per campioni dello shobiz alternativo in fase interlocutoria. Mah. Il mistero resta e regna, non si spiccica da questo secondo lavoro firmato da cotanta figlia di Serge Gainsbourg (e - non scordiamolo - Jane Birkin), attrice apprezzatissima dall'imago anomalo e spigoloso che si permette - in taluni scatti - di ricordarci la Patti Smith giovincella. recensioni 33 Ma, insomma, la ragazza ha la fregola del canto, che al padre un qualche pegno lo deve pur pagare. E se per il debutto fu coccolata dai francesi cosmicheggianti Air, oggi ricorre al di loro amico Beck, che in un certo senso è come aver scelto il bottone da infilare nell'asola. Diversi gli esiti rispetto al non eccelso 5.55, oggi meglio definiti anche nella varia indefinizione. Forse perché Mr. Hansen sembra così coinvolto da far sembrare questa cosa un sussidiario beckiano (il loser 2.0, i languori gainsbourghiani - già! - e l'hobo ciberfunk, così a spanna). Il canto di Charlotte è il nastro di velluto color carne sul completo bianco stazzonato da slacker losangelino. Ma anche, se preferite enfatizzare: il segno europeo (lo charme femminino, cerebrale e terrigno, sofisticato e passionale) chiamato a sedurre lo sguardo statunitense (organizzato e lunatico, tradizionalista e dissacrante, sempre e comunque razionale anche al top del trasporto). Un incontro/scontro che si celebra tra raffinatezze pop con fregole vintage, scatti da fotoromanzo d'alto bordo, cartoline spedite da qualche loft post-moderno sulla Côte d'Azur. Non mancano i bei momenti, come l'errebì slavato di Heaven Can Wait, il boogie da Marc Bolan sotto valium di Dandelion, la giocheria folk-psych di Me And Jane Doe, le malsane delizie di In The End, le arguzie kraute della titile track. Finisci però col godere più per l'arguzia sagace della confezione (archi sontuosamente affilati, il tiro frizzante e nervosetto delle ritmiche, le misurate perturbazioni elettriche ed elettroniche...) che non per il bastimento d'emozioni. Che restano perlopiù impantanate nella patina.(6.3/10) Stefano Solventi Bill Wells/Barbara Morgenstern/ Stefan Schneider/Annie Whitehead - Paper Of Pins (Karaoke Kalk, Novembre 2009) G enere : pop - jazz Paper Of Pins si descrive enucleando i personaggi implicati (come già avvenne per il mini Pick Up Sticks, del 2004): Bill Wells, cinematico appassionato di vecchia data del jazz di Gil Evans, con le mani nella pasta arrangiativa e produttiva dell’indie-pop; Barbara Morgenstern, pianista e songwriter tedesca; Stefan Schneider dei To Rococo Rot, tra le altre cose; il trombone di Annie Whitehead (che ha lavorato con Wyatt, e 34 recensioni a volte ne porta in dote le atmosfere). E partiamo proprio da quest’ultimo strumento-personapersonalità, per parlare, oltre che descrivere, il frutto della collaborazione di tutti questi personaggi. Il trombone è forse il vero protagonista del disco, e questo è il più grosso problema della produzione, se così si può dire; è una presenza ingombrante, che catalizza quasi tutti gli elementi melodici, appiattendoli al suo timbro un po’ struggente e un poco grottesco. Niente di grave; e più che di Whitehead probabilmente tutto ciò è “colpa” di Wells, che ama i fiati bassi (come ci dimostra anche il recente rendez vous con Maher Shalal Hash Baz). Per il resto Paper Of Pins è un soffuso sfondo che ha il pregio di restare lì, per la maggior parte delle tracce, e accompagnare i pensieri, ridestandoli nei rari e apprezzabili picchi: Tributaries (picco di rumore); il free sottovoce della conclusiva The Three Ronnies, arrotolata attorno a un tema che apre e chiude la traccia; Loitering With Intent, un duetto tra Schneider e gli altri, presi come organico, con interessanti esiti inizio Duemila. Un meccanismo tanto-poco che funziona.(6.5/10) Gaspare Caliri Biosphere - Wireless: Live at the Arnolfini, Bristol (Touch Music UK, Giugno 2009) G enere : ambient techno Proprio mentre leggiamo del primo brano per ensemble scritto da Geir Jennsen, con prima assoluta il prossimo 23 gennaio al Roundhouse di Londra ed esecuzione della London Contemporary Orchestra, andiamo a riascoltare questo disco uscito a metà anno ma decisamente meritevole di attenzione. La sesta uscita su Touch Music di Biosphere ci restituisce inalterato, grazie alla resa eccellente della registrazione di Chris Watson, il fascino di un'esibizione dal vivo tenuta da Jennsen all'Arnolfini di Bristol il 27 ottobre 2007, in occasione delle celebrazioni del venticinquennale dell'etichetta di Jon Wozencroft. Missato e masterizzato da BJ Nilsen (come dire: la creme della Touch), il disco percorre direzioni che, com'era lecito aspettarsi, risultano piuttosto variegate rispetto agli ultimi lavori in studio, rivelatori di una certa carenza di idee da parte del sound-artist norvegese. Al ripetitivismo quasi trance di brani come Pneuma e Shenzou, alla stasi ambient di Calays Ferryport, fanno così eco le concessioni ritmiche di Birds By Flapping Their Wings e When I Leave (pura ambient techno in stile Biosphere). Ma è a metà concerto che si ascoltano le cose migliori: quando Warmed By The Drift simula aperture sinfoniche e il drone di The Things I Tell You finisce per lasciare con il fiato sospeso un pubblico che smette di far sentire la propria presenza. Splendida anche la chiusa di Pneuma II, breve brano in cui il trombone di Anders Karlskas si fa generatore di loop.(7/10) Vincenzo Santarcangelo Black Joker - Watch Out! (Olde English Spelling Bee, Novembre 2009) G enere : noise Mai come in quest’ultimo periodo irriducibili prime movers del rumore vengono tirati in ballo in ogni occasione e ad ogni latitudine. E pensare che gente come James Ferraro e Spencer Clark aka Skaters e mille altre cose ancora, sono in giro a sbattersi da almeno un paio di lustri. Si vede che l’integrità rende, almeno a livello di influenze e riconoscimenti, dato che ora, magicamente, le luci dei riflettori dell’underground sembrano essersi dirette sui volti seminascosti dei due. Non è perciò un caso che la OESB (ri)pubblichi in vinile una delle gemme meglio nascoste in quell’intricata selva di nomi e progetti che i due noisers portano avanti da tempo. Originariamente una tour-tape in tiratura a 80 copie (!), Watch Out! è l’ennesima manifestazione dell’ennesimo moniker, Black Joker, dietro il quale Spencer Clark si diverte a elaborare spirali di droni che si inerpicano l’uno nell’altro e l’uno dentro l’altro, finendo col tratteggiare crop circles di matrice etno-industriale dentro il cervello di chi ascolta. Minimale nel senso rileyiano del termine, sintetico e sci-fi oriented, fortemente percussivo, Watch Out! è a suo modo mantrico oltre che, come facilmente preventivabile, disorientante.(6.8/10) Stefano Pifferi Bob Dylan - Christmas In The Heart (Columbia Records, Ottobre 2009) G enere : C anti natalizi ( cantati da B ob D yl an ) Christmas In The Heart, secondo disco di Zimmie per il 2009 ma soprattutto raccolta di canti tradizionali natalizi (peraltro uscita ad ottobre), spiazza. Se al Dylan di Newport avessero detto che nel 2009 avrebbe pubblicato un disco del genere, probabilmente si sarebbe sentito preso per il culo. E invece eccolo qua, lui ebreo (per quanto "problematico"), a celebrare il natale cristiano (nessun intento ironico o iconoclasta, precisa), in un'operazione curiosa e che verrebbe anche comodo archiviare semplicemente alla voce beneficenza (le royalties verranno infatti devolute ad associazioni come Feeding America). Cerchiamo però di andare oltre. Con una voce che ormai è quella del compagno d'ospizio di un Tom Waits (degli esordi) o di un Willy DeVille (degli ultimi giorni), da Dylan ci si poteva (voleva, meglio) aspettare rendition più strapazzate e zoppicanti, comunque più rooty, e invece, per quanto roco e gracchiante, Zimmie non aggredisce mai davvero questi american classic: semplicemente li canta come può con la voce che si ritrova adesso. Non ne viene fuori neppure un involontario - e tragicamente tutto americano - senso dell'apocalittico come invece per il Paul Anka che rifà i Nirvana di Rock Swings. Dylan insomma, confrontandosi con questa fetta della tradizione USA, poteva presentarci un disco memorabile, demolendo una certa americanità o al contrario restituendocene uno struggente ritratto da outsider. Per questo delude, perché resta a metà strada (né sacro, né blasfemo, né grottesco), e ci regala soltanto un paio di momenti di vera commozione interpretativa, trasmettendo più di tutto un senso come di tenerezza e di umana comprensione che è davvero il caso di definire senili.(6/10) Gabriele Marino Brett Anderson - Slow Attack (B A Songs, Novembre 2009) G enere : C hamber folk , pop Benché continui a prendersi una stroncatura dietro l'altra, e sia particolarmente preso di mira da coloro che si ostinano a far paragoni tra la china di lui e la sempreverde creatività di coetanei più fortunati quali - a caso - Damon Albarn e Jarvis Cocker, il triste Brett, non senza fatica e particolari lodi, cresce e, per una volta, un'alternativa intimista all'urban glamourness degli Suede sembra possibile (e si chiama Ashes of Us), non necessariamente buona ma neanche insufficiente. Il pop rimane convalescente e autunnale, i testi indubbiamente noiosi e - a tratti - ingenui, eppure, grazie ad una produzione chamber folk accurata, una varietà di situazioni ragguardevole, strumenti ad entrare e uscire di scena sempre nei tempi giusti, e abbiamo un album che si tiene, con dei momenti d'afflato decenti. Al 70% sarà merito dell'arrangiatore Leo Abrahams. Un 30% farina dell'Anderson. Non emozionerà neanche con il limone negli occhi, ma un po' di masochismo ce lo concediamo.(6/10) Edoardo Bridda recensioni 35 Brunettes (The) - Paper Dolls (Lil' Chief, Novembre 2009) G enere : couple pop Ritmo regolare nelle pubblicazioni quello mantenuto da Jonathan Bree e Heather Mansfield, ovvero Brunettes. Un disco ogni due anni all’incirca inframmezzato da un e.p., ma se è ai Fiery Furnaces che la vostra mente corre, rallentate: nessun arzigogolo ben gestito qui, nessuna tendenza al suono totale ed enciclopedico. Neppure un’attitudine da stucchevoli puristi, per fortuna rimpiazzata dal benvenuto equilibrare il giulebbe twee con un’elettronica spartana, applicando uno spirito “midfi” alla tecnologia dal volto umanizzato. I sentimenti sono centrifugati tramite l’ironia di un duo che - pur innegabilmente ispirato da nomi prestigiosi del passato - mostra di conoscere la fierezza indie di quella Nuova Zelanda da cui proviene. L’attitudine a rileggere con vigore e orgoglio modelli “dominanti” provenienti da altre nazioni anglosassoni e restituirli personalizzati il giusto come facevano i compatrioti Chills, Clean e Verlaines. Significativo dunque per loro accasarsi presso la label di Auckland Lil' Chief e da lì spargere azzardi che colgono il segno (In Colours e Thank You sono gli Architecture In Helsinki a ranghi ridotti e la bussola ritrovata) e omaggiare spesso e volentieri la penna di Stephin Merritt (in Red Rollerskates più che altrove). Ipotizzando degli Human League nutriti a bubblegum ’60 (The Crime Machine, Magic) o consapevoli della giocosità tagliente di They Might Be Giants (Bedroom Disco) e persuadendo in ogni episodio, persino allorché indossano paillette lounge (la title-track) e temprano d’umorismo tagliente la ballata dolceamara If I. Pop che arriva da un soggiorno con le finestre spalancate, più che dalla canonica cameretta: quel che davvero conta è che sia fresco, godibile e intelligente come non mai. Li vorremmo sempre così, lui e i suoi artefici, coraggiosi e incuranti di ciò che dice l’arredatore.(7.2/10) Giancarlo Turra Bruskers - Guitar Sketch (Autoprodotto, Dicembre 2009) G enere : jazz folk Due bravi ragazzi per due chitarre e due conflitti che covano, questi ultimi carburante di un disco che altrimenti sarebbe rimasto a metà tra il saggio virtuoso e l'impudente passatempo. Matteo Minozzi ed Eugenio Polacchi36 recensioni ni sono due chitarristi, già membri della Lybra Guitar Oschestra diretta da Mauro Bruschi, ensemble di venti elementi allestito dalla Scuola di Musica dell’Unione dei Comuni Modenesi dell’Area Nord. Ebbene, il primo conflitto nasce dalle diverse inclinazioni dei due, l'uno più accademico, l'altro più moderno, speziato jazzy da un lato, insolenntio classico dall'altro, l'intesa comunque ne usciva viva e anzi ringalluzzita. Tanto che i due - ed eccoci al secondo conflitto - decidono di portarla fuori dalle auliche stanze delle sale da concerto, per inseguire l'estro dei busker, sulla strada dei suonatori da strada che li porterà ad esibirsi - apprezzati - un po' in tutta Europa. Ergo, eccoci al qui presente Guitar Sketch, un brano originale (il trepido Not Tomorrow, scritto da Polacchini, inquietudini minimali e trepidazioni flamenco) e dieci rivisitazioni tra standard jazz (una notevole Blue Bossa, una briosa Take Five) e non solo (una saettante Besame Mucho). E se l'alternativa passasse anche un po' da qui?(6.9/10) Stefano Solventi Buraka Som Sistema - Fabric Live 49 (Fabric, Dicembre 2009) G enere : tribal , bas s Mimetizzato dal sapore tribalista che li contraddistingue, il live della coppia di DJ portoghesi non è fortunatamente una riproposizione paro paro dei Novanta. Nel loro Fabric ci troviamo un’ora e poco più di svarioni baile (Gone Too Far), supercori da stadio in spolvero truzzofidget (Hey), un po’ di grime-deep (Fick di Skream) e il wonky dell’onnipresente Zomby (Dynamite Sandwich). A spaccare però ci troviamo i ritmi sudamericano da torcida infernale (Bazuka, Afro Nuts) mescolati con l’house preannunciata quest’anno da Major Lazer (Bruk Out appunto) e soci (Joga Bola). Una bella variazione sul tema per gli estimatori dell’eccesso ritmico a Sud dell’equatore ora sdoganato in chiave techno.(6.8/10) highlight Animal Collective - Fall Be Kind (Domino, Dicembre 2009) G enere : E static B each B oys Come d’abitudine un eppì degli Animal Collective che è praticamente un mini album d’inediti. Sarebbe il terzo dopo Water Curses e lo split con Vashti Bunyan, Prospect Hummer, ed è di nuovo l'occasione per fare il punto della situazione su un combo in crescita costante. Ai tempi della Bunyan si parlava di riscoperte folk (e di reinvenzioni dello stesso). Era il momento d’oro di Devendra Banhart e gli animali incarnavano il gruppo di cui ogni orecchio attento al nuovo - in senso se vogliamo generazionale - andava fiero. Poi è arrivato il passo falso, Strawberry Jam, osannato da chi li voleva a tutti i costi fare il botto e criticato da chi aveva la netta impressione che il giocattolo si fosse rotto. All'album ha fatto seguito Water Curses. Il classico resumé: esagerati i blasoni di chi li voleva dei nuovi Beatles altezza Magical Mystery Tour, fondate le critiche di chi intravedeva il cul de sac. In pratica, in epoca pre-Merriweather Post Pavilion, gli animali erano il classico gruppo indie con i nodi al pettine. Quelli normali, fisiologici beninteso: indecisione sull’aspetto “avant”, fluttuazioni di organico (Deakin se ne andrà, progetti solisti per i due leader), qualche dubbio sulla crescita e sull’impatto della formula su un pubblico più ampio. Tutto si risolve come sappiamo: virata elettronica, arrodondamento sul versante freak, popness coerentemente tale. E’ il disco wilsoniano per eccellenza, dichiarano; la sintesi di disparate influenze che vanno dal folk alla techno. L’album di questo 2009 a inizio 2009. Elogi che dai tempi degli Arcade Fire non si sentivano così forti e pervasivi. Per una volta poi, l'album fa anche dei numeri di vendita concreti: tredicesimo posto nella Top200 della Billboard americana e ventiseiesimo nella Uk album chart. Un trionfo che i 27 minuti di Fall Be Kind completano in bellezza; cinque tracce che presentano una band non più indie ma neanche major, stato d’estasi da un lato e voglia di godersi il blasonato mondo sonico dall’altro. La Domino ad appuntare la medaglia come “major indie” del momento, noi ad apprezzare l’indimenticata vena avant sottoforma di flauti di pan in coda all’opener Graze (quasi un omaggio ai vecchi fan), l’interludio da vecchie maniere in Bleed, la dichiarazione - e sarebbe la prima al mondo - d’appartenenza del sample dei Grateful Dead di Unbroken Chain nella bella melodia di What Would I Want? Sky e il dialogo in strofe tra Porter e Lennox nella riflessiva On a Highway. E' un eppì che pare una fiaba. Disney commestibile. Gli animali non potevano scegliere modo migliore per concludere le manovre di Merriweather: proprio come gli Orb facevano rientrare i Pink Floyd nei Novanta di chillout e techno, così i Collective riconnettono l’avant indie dei Duemila al classico Pet Sounds e senza dimenticare psichedelia (e chillout stessa). E ora? Probabilmente il loro I'm Going Away...(7.2/10) Edoardo Bridda Marco Braggion CFCF - Continent (Paper Bag, Ottobre 2009) G enere : balearic glo Michael Silver è il post-Lindstrøm invischiato con il glo, anche se quei ricordi ora così di moda sono solo carta da parati decorativa per questo esordio. Come a dire che non ci sono troppe lacrimucce, ma la fascinazione per gli '80 ribolle ancora (Snake Charmer), pronta a scatenarsi in un rispolvero della moda progressiva che ha portato sul podio delle balere la Eskimo e tutto il suo roaster. Progressività uber alles quindi per il giovane DJ e remixatore canadese (Sally Shapiro,The Presets e Crystal Castles tra gli altri) che non risparmia la citazione ai Fleetwood Mac, agli episodi più cool di Miami Vice o agli archi dell’old school disco. L’ispezione del passato passa attraverso downtempo in breaking analogici (Raining Patterns) e tastierine yuppiewave (stupenda la cavalcata di Monolith), ma si trasforma subito in un movimento che coniuga il balearico al passato prossimo (Big Love), richiamando le visioni del Washed Out più funky (Invitation To Love, Half Dreaming) o i passaggi dei Boards of Canada mescolati con la new age (Summerlong) e le chitarrine à la Santana (You Hear Colours). Per finire c’è ancora il poking di Windham Hill e Tangerine Dream che esplode nel mix di flauti di pan (!) e tastierine 90 di Letters Home o nei pattern kraut di Break-In. L’estate è ancora qui più che mai, col gloss brillante per la pista. Produzione di classe e arrangiamenti recensioni 37 che non stancano. Se lo sentissero gli Animal Collective...(7.3/10) Marco Braggion Dakota Suite - The Night Just Keeps Coming In (Karaoke Kalk, Febbraio 2010) G enere : chamber - tronica Fu un gran bel riscaldarsi dai freddi dello scorso inverno The End Of Trying, bella prova di pianismo intimista da qualche parte tra Erik Satie e i Rachel’s. Sorprendente, anche, per il modo in cui sparigliava le carte nel contesto globale di una carriera sino a quel momento per lo più dedita a un pregevole cantautorato in moviola. Desta dunque ulteriore curiosità questa serie di riletture altrui - personaggi che gli specialisti conosceranno a menadito come Tape, Machinefabriek, Deaf Center - di composizioni che costituivano la spina dorsale di quanto sopra, secondo una prassi comune nell’ambito dell’elettronica “intellettuale”. Ricordiamo il felice precedente System/Layers dove, con sintesi e scioltezza, si rileggevano proprio pagine dell’ensemble di Louisville e ci lanciamo dentro questi settantacinque lunghi minuti (l’edizione “fisica” è limitata a 300 copie, ma è disponibile anche il download). Nei quali dominano respiri ambientali e inquietanti gassosità, cinematismi intessuti di silenzi e drones; dove disturbi in sottofondo e minutaglia di tasti e archi levita sui grigi panorami evocati dalla copertina. Benché per lunghi tratti piuttosto interessante, il risultato è penalizzato da eccessi di uniformità e freddezza, perciò consigliamo l’ascolto solo a chi è avvezzo a certi esoterismi sperimentali. Sfugge in ogni caso il senso dell’operazione, poiché di intervenire così su una musica già eccellentemente compiuta non si avvertiva il bisogno.(6.6/10) Giancarlo Turra Dam-Funk - Toeachizown (Stones Throw, Novembre 2009) G enere : space - synth bl ack Il doppio ciddì raccoglie i cinque mini che ST ha rilasciato in mp3 nel periodo luglio-novembre 2009. Eravamo partiti in quarta, ma l'epopea delle singole uscite ha smesso di appassionarci quasi subito, quando cioè il timore - che la folgorazione avuta con la prima fosse solo un abbaglio 38 recensioni - si è mutato in consapevolezza. Non che Dam non sia un vero visionario black e che i suoi pezzi non possano essere realmente incredibili: ci eravamo illusi però che questo Toeachizown potesse essere un capolavoro. Mentre è un debutto un po' presuntuoso che mostra parimenti grandi potenzialità e facili debolezze. Netto infatti l'abbassamento di qualità dal secondo volume in avanti: bellissimi pezzi di quel boogie-funk in cui il nostro è maestro annegati in mezzo ad altri che suonano quasi come dei riempitivi, meno incisivi (melodicamente e ritmicamente), meno rifiniti, esageratamente lunghi, autoriclicatori, con Dam ad abusare fino all'inverosimile di due feature chiave del disco, finendo col farne da pregi dei difetti: il leit motiv delle due note si e la a costruire un lick di tastiera che fa tanto anni Ottanta (e tanto Sunrise dei Simply Red) e il vocoder a modificare la voce. Tutta questione di misura insomma, per un progetto, del resto, da subito profilatosi come pericolosamente smisurato e di difficile gestione. La versione su compact - semplicemente rimescolando la tracklist - riesce però a compiere un mezzo miracolo. L'ascolto è sì sfinente, sono sempre ventiquattro tracce per due ore e venti, ma la nuova sequenza, alternando con intelligenza pezzi a fuoco (e sono bombe, è il caso di ribadirlo) e stiracchiamenti vari (accettabili nell'ottica del sottofondo da club), riesce a fare prevalere sui tanti difetti - o meglio sull'unico grande difetto che è la dissennatezza produttiva dell'uomo - l'atmosfera magica che Dam sa creare quando non perde la bussola.(7/10) Gabriele Marino Daniel Menche - Kataract (Editions Mego, Dicembre 2009) G enere : noise Chi non rimane colpito di fronte ad una cascata, esperienza audio-visiva tra le più potenti in natura? Daniel Menche parte da qui, dall’elemento cascata, per erigere un’altra scultura elettro-noise imponente e maligna. Nelle note di copertina non è dato sapere esattamente le fonti precise da cui attinge. Quello che viene riportato è che tutte i field recordings provengono da cascate situate nel nordovest pacifico, grossomodo la regione degli USA che comprende lo stato di Washington e parte dell’Alaska. Kataract quindi è il risultato dell’attività di due anni (2007-2009) impiegati per registrare il suono delle cascate e poi manometterle e ricrearle tramite l’editing digitale. Quello che ne viene fuori è un’unica traccia di 40 minuti che si rovescia addosso all’ascoltatore con tutta l’immane potenza noise che uno si aspetta da un disco di Menche: stordente, incessante, deflagrante, immane. Che poi all’origine di tanto frastuono e rumore ci siano delle semplici registrazioni sul campo, di solito abusate in ambito ambient per dischi di tutt’altro tenore e livello sonoro, questo non fa altro che aumentare i pregi dell’operazione.(7/10) Antonello Comunale Davide Tosches - Dove l'erba è alta (Contro Records, Novembre 2009) G enere : folk - canzone d ' autore Un immaginario, più che un disco. Fatto di mezze luci, chiaroscuri, vapori crepuscolari. Davide Tosches si presenta con un'opera che miscela con acume fascino notturno e canzone d'autore à la Giancarlo Onorato - quest'ultimo, non a caso, produttore artistico -, lavorando di rimando su citazioni che non diresti possibili visto l'ambito di riferimento. Tanto che ci si ritrova a ripassare sottovoce certi Black Sabbath acustici versione Sleeping Village - gli aromi dello strumentale I muri - e pure qualcosa dei For Carnation - le mezze voci di Case -, ingannati da suoni che irretiscono con una promessa di malinconie slabbrate e lentezze incipienti. Violini, chitarre, pianoforti, batterie spazzolate, hammond, wurlitzer completano il quadro, assieme a una voce che prende in prestito il crooning sotterraneo di Hugo Race per farne un tratto distintivo. Talmente curata l'idea estetica che talvolta ci si dimentica delle canzoni. Nel senso che la vena autoriale diventa quasi una scusa per le elaborate declinazione di un approccio che esalta gli spazi vuoti, sussurra all'orecchio, ma al tempo stesso scandaglia un unicum cromatico che fatica a farsi strada oltre un apprezzamento generalizzato. Con qualche brillante eccezione, come la melodia di Completamente, e senza dimenticare che si tratta comunque di una prova d'esordio.(6.8/10) Fabrizio Zampighi Dirty Projectors - Temecula Sunrise (Domino, Gennaio 2010) G enere : avant pop Due delle quattro tracce di Temecula Sunrise, le conosciamo perfettamente. Temecula Sunrise e Cannibal Resource (in pratica, come suonerebbero gli Shutter To Think negli anni Zero), sono un paio di deliziosi episodi di Bitte Orca. Gli inediti, pur altrettanto validi (Ascending Melody è l’arzigolato poppettino della casa; Emblem of the World procede svampita e volutamente a mezz’aria) sono tracce destinate ai completisti. (6/10) Gianni Avella DJ Rupture/Matt Shadetek - Solar Life Raft (The Agriculture Records, Novembre 2009) G enere : ragga - dub - tronica mix In un mondo che campa anche e soprattutto di musica campionata, è semplicemente assurdo tenere in piedi il luogo comune (legge "non scritta" ma diffusa) per cui una compilation o un mixato sarebbero inferiori a un album: è una cazzata. L'anno scorso Dj Rupture ha detto la sua, proponendo un mix intrigantissimo che ha fatto giustamente sensazione. Eccolo adesso, aiutato dallo specialista Matt Shadetek, confezionare un serpentone raggaedub 2009 semplicemente trascinante con deviazioni e contaminazioni dubstep (Shackleton), etno, techno e breakbit (Luc Ferrari). Sorpresa per le produzioni firmate ad hoc dai due dj, Underwater High Rise e 4th Story Waterline, bellissime e decisamente fuori dal canone dub&affini (altrimenti qui predominante), con la prima che è praticamente una Where Is My Mind dell'elettronica glitchstep d'oggi. Meno eclettico di Uproot e meno epocale (nel senso della sintesi di un anno musicale), ma davvero, senza troppi patemi, una goduria.(7.3/10) Gabriele Marino Edan - Echo Party (Five Day Weekend, Dicembre 2009) G enere : psychfunk mix La voce, ossessiva e grassamente distorta, a scandire «You're listening to a bullshit promotional copy of Echo Party» non ci ha impedito di apprezzare il superfrullato - attitudinalmente progressivo - di hiphopfunk in salsa psichedelica preparato da Edan: colori acidissimi, senso del groove, senso del grottesco pop (vengono in mente i collage di Eduardo Paolozzi), una musica che riesce a suonare contemporaneamente primitiva e futuristica, un party vero, dove il culo segue subito a ruota le orecchie. Edan dichiara al mondo l'essere produttore di terza generazione: i materiali del disco provengono infatti da vinili hip-hop old skool messi a disposizione dal distributore indipendente Traffic. Insomma, si tratta di "campioni di campioni". L'album è un mixtape monotraccia che dura trenta minuti: non sembri assurdo affermare che già i quindici scarsi di questo promo ci danno piena conferma della bravura - no, meglio, del talento - del ragazzo. Recuperate il recensioni 39 precedente, giustamente acclamatissimo, secondo album The Beauty and the Beat (2005). Feticismo: mille copie in vinile con copertina timbrata-decorata a mano da Edan himself e booklet che mappa caoticamente ma ultradettagliatamente tutto quanto finito dentro al mix (fonti dei campioni, trick elettronici adoperati, strumenti suonati).(7.3/10) Gabriele Marino Eels - End Times (Vagrant, Gennaio 2010) G enere : pop rock Sorpresa annunciata, questo End Times, ottavo titolo per la premiata ditta Eels. Che ci conferma il senso di arte che smeriglia se stessa almeno dalla summa di Blinking Lights in avanti, si reitera citandosi come a nessun altro riuscirebbe, facendo scalo nelle stazioni già oltrepassate per vedere se c'era qualcos'altro da scoprire e da far scoprire. In particolare, se il precedente Hombre Lobo rimandava allo spasmo brusco e sferzante di Souljacker (con la civilizzazione del licantropo sempre sul punto di compiersi, anzi a ben vedere già compiuta), quest'ultimo lavoro si accoccola nell'intima tribolazione del Daisies Of The Galaxy. Se quello era il disco della dolcezza recuperata attraverso il dolore, questo palpeggia il ventre tiepido di una malinconia che è sì presente e viva (ispirata pare alla fine del matrimonio con Natasha Kovaleva) però come differita, ipotizzata in un futuro plausibile ma neanche troppo imminente. E perciò depotenziata, più riflessiva se preferite, non intenzionata o forse non più in grado di raggiunge gli antichi livelli di lancinante afflizione. Tuttavia, le ballate si susseguono come teneri gioiellini, aggrappati ora al piano ora ad un fraibile arpeggio di chitarra, carezzate ora dagli archi ora da un organo, ravvivate da un paio di guizzi aciduli (lo psycherrebì di Paradise Blues, la kinksiana Gone Man) ma anche capaci d'affondare il colpo verso un caracollare che diresti quasi Black Heart Procession (The Beginning). Disco in sostanza gradevole, o - se preferite - un classico secondo i canoni eelsiani. (6.8/10) Stefano Solventi Fontana - Fontana (X! Recs, Novembre 2009) G enere : garage - rock Detroit è sempre Detroit. E a ricordarcelo ci pensano 40 recensioni tre sbarbatelli e un’etichetta. I primi sono i Fontana, Paul Derochie (chitarra), Geoff Iverson (basso) e Colin Simon (batteria), sindrome da fratellini punk post-Ramones e qualche 7” sparso nel sottobosco americano; la seconda è la X! Recs, l’etichetta di Scott Dunkerley che bene ha fotografato la rinascita rumorosa di Detroit nella compila Shiftless Decay: New Sounds Of Detroit. Unite le forze il risultato è la mezzora di garage-rock incendiario di questo omonimo debutto. Roba che mette in chiaro da subito di che pasta sono fatti i protagonisti. Tre-accordi-tre che vomitano fiele pur non disdegnando passaggi più melodici e richiami più o meno espliciti a blues (Mess), hardcore (When She’s Not Wearing Black, Get Bent), wave (Entropy, Rumor Of War), noise-rock (Bitch Bitch Bitch pare persa per strada da Scratch Acid e compagnia bella) così come al rock storto e out of tune (Giant Centipede, l’anthem generazionale Yer Generation). Sudati, sbracati, sboccati i tre non si risparmiano, la buttano sulla rissa e trasudano energia da ogni poro. Non era poi questo il senso ultimo del rock?(6.8/10) Stefano Pifferi Franco Battiato - Inneres Auge - Il tutto è più della somma delle sue parti (Universal, Novembre 2009) G enere : canzone d ' autore Franco Battiato è uno a cui piace fare quello che gli va, talvolta rischiando di inoltrarsi in strade dagli esiti non troppo felici - vedi la recente passione cinematografica - ma sempre con un senso di libertà che alimenta un'indole curiosa e raramente sazia. Inneres Auge - Il tutto è più della somma delle sue parti arriva ad un anno dall'ultimo episodio della saga Fleurs e scartando di netto l'ipotesi antologia natalizia si presenta come disco a tema formato da materiale vario. In ordine di apparizione: tre inediti (di cui diremo dopo), quattro brani già incisi e qui proposti in nuova veste (in realtà non troppo difforme da quella originaria, a parte per Haiku, privata del cantato femminile in arabo), una cover (Inverno di Fabrizio De André, rifatta in versione da camera come il primo Fleurs) e due b-side dal capolavoro Gommalacca (Incantesimo e Stage Door) giustamente ripescate perché tutt'altro che minori. Per quanto riguarda i brani nuovi, il dato più importante della composita track-list , pare che Battiato abbia ritrovato un buono stato di forma, almeno al confronto con le prove autografe più recenti che denunciavano - a volte a partire da titoli involontariamente programmatici, come nel caso de Il vuoto (2007) - la distrazione verso il cinema del loro titolare. Qua invece torna una certa verve, con ancora quel tanto di mestiere che basta a highlight Beach House - Teen Dream (Sub Pop, Gennaio 2010) G enere : T een D ream P op “Norway è una canzone ispirata dalla pazza energia della Norvegia. Per me c’è fantasia e forza in questa canzone. Norway è una canzone intensamente visiva e molto fisica”.Victoria Legrand e Alex Scully nel descrivere questo loro terzo album, nonché debutto su Sub Pop, usano spessissimo le parole “movimento” e “fisico”. Concetti che finora erano stati abbastanza esclusi dal mondo malinconico dei Beach House. Teen Dream è il disco della rivolta, dell’alzare il culo dalla sedia e darsi una mossa. Si stemperano le nubi eteree di tradizione dream pop e i ritmi in stasi permanente di ascendenza slowcore vengono messi a soqquadro. I due ottengono così una collezione di frammenti pop, di stampo classico con un impatto immediato ed euforico. Un disco che non fa mistero di voler essere radiofonico e “amichevole”, scevro però di malizie e astuzie da mercato del disco. Le canzoni vivono con il preciso scopo di veder nascere e morire nel lasso di quattro minuti melodie calde e avvolgenti (Zebra, Silver Soul), che anche quando rallentano i ritmi e il battito non sprofondano mai nella tristezza, conservandosi per sé giusto un velo di turgore melò (Used To Be, Love Of Mine, Better Times). A supportare la visione melodica dei due uno studio sugli arrangiamenti e una produzione ad opera del celebre Chris Coady che sottolineano senza prevaricare, dando spazio allo stile in punta di piedi dei Beach House. Si ottengono così piccoli capolavori come il primo singolo Norway, con loop di voci a supportare il ritmo e la chitarra hawaiana venata di flanger di Alex a disegnare una cartolina colorata e ricca. Oppure l’eccentrica 10 Miles Stereo, canzone con ritornello in tirata stile M83 che per Victoria “è come stare su una scogliera, alla fine o all'inizio di un momento nella vita”. C’è n’è abbastanza per mettere i Beach House sugli scudi e archiviarli, già al terzo disco, al rango di classici indie doc. ma i due non sembrano voler passare le consegne e si godono il momento in questo loro perenne sogno giovane da cui probabilmente non si risveglieranno mai.(7.5/10) Antonello Comunale portare la barca in porto sempre e comunque ma anche con alcune belle idee. E' il caso del singolo title-track, techno-pop contagioso con classico florilegio di tastiere nonché secca bastonata nella prima parte del testo ad una classe politica sempre più in stile Satyricon - a cui Battiato contrappone il tema cardine di una vita protesa al verticale.Transitoria invece Tibet, dedicata ai massacri cinesi nella terra che dovrebbe essere del Dalai Lama e cantata in un inglese dalla pronuncia come al solito scolastica. Pienamente riuscita infine U' Cuntu, lamentazione sepolcrale dai toni gravi metà in dialetto siciliano e metà in latino posta in chiusura come sigillo («‘Usennu stamu piddennu ‘u sennu / ti ni stai accuggennu unni stamu jennu a finiri») del tema dominante in tutto il disco. Ovvero - azzardiamo l'esegesi - quella mancanza di senso (della vita e delle cose nel loro valore reale) che rende appunto il tutto qualcosa di più della somma delle sue frammentazioni.(6.5/10) Luca Barachetti frYars - Dark Young Hearts (Bandstocks, Settembre 2009) G enere : electro - pop L'impronta vocale di Dave Gahan su Visitors annuncia una referenza che si realizzerà all'ascolto. frYars, ovvero Ben Garrett da Londra, recupera il synth-pop più canonico e lo ricucina senza aggiungerci troppe altre spezie. In pratica, pensate ai nomi anni Ottanta e non solo ricollegabili ai Depeche Mode: ecco, ci sono quasi tutti. Wham! e George Michael? Nel cabaret-pop glitterato di Jerusalem - e nella voce una volta muscolare, un'altra calda, a volte gigiona. Duran Duran? Nel funky accorto di The Ides. Spandau Ballet? Nella new-wave convertita pop di Ananas Trunk Railway. Editors? Nella recensioni 41 quadratura compitata con lode di Of March.; Garret non sembra aver alcuna voglia di deviare, si gonfia il petto e ammicca illuminato. Almeno fino a metà disco. Poi se ne viene fuori con un animo meno romantico e più crepuscolare, quasi elegiaco, che è già nella voce dagli interstizi sepolcrali tipo Rufus Wainwright e si ritrova in parte anche nella scrittura. A last resort sembra Beirut, ma con i synth al posto della fisarmonica. Novelist's Wife si gioca un Lou Reed incravattato su solide colonne pop di piano e batteria, prima che queste stesse colonne s'incrinino un po' follemente una sull'altra. E soprattutto Morning - con la voce ora sì direttamente collegata allo stomaco sull'orizzonte aurorale del pezzo - irrora luce bianca di tastiere e piano come se la producesse Brian Eno, svogliatamente ma con classe. E' questa dunque la sorpresa? In parte sì. Anche se quella vera è che Garret ha solo diciannove anni, e ne ha messi tre per fare queste dodici tracce (quindi già a sedici anni maneggiava mica male...). Ha imparato perfettamente la lezione e già prova a contraddire i maestri. E' ora che dimostri del tutto cosa sa fare.(6.4/10) Luca Barachetti Go Find (The) - Everybody Knows It's Gonna Happen Only Not Tonight (Morr Music, Febbraio 2010) G enere : pop Terzo disco per la band del belga Dieter Sermeus, dedita ad un pop indie figlio delle produzioni di casa Morr e dei modi Notwist-iani. Fare pop-song è uno dei mestieri più difficili del mondo, Sermeus se la cavicchia, proponendo almeno un tre-quattro pezzi che non passano via subito (It's Automatic), ma che pure rimandano sempre troppo a qualcos'altro (e cioè alle basi: Beatles, XTC, miscela britpop). Pop zuccherino-agrodolce, con qualche tocco di finezza negli arrangiamenti, piacevole forse soprattutto per chi di solito non frequenta questi territori. Esce per San Valentino.(6.2/10) Gabriele Marino Grant Hart - Hot Wax (Con D'Or Records, Ottobre 2009) G enere : garage - psych - pop Tappa canadese anche per Grant Hart a dieci anni da Good News for Modern Man, ultimo disco firmato da solo. L'ex voce e batteria degli Hüsker Dü registra 42 recensioni Hot Wax all'Hotel 2 Tango di Montreal in compagnia di alcuni membri di Silver Mt. Zion che, assieme a lui, riprendono un discorso lasciato in parte sospeso con la band originaria e nelle esperienze successive. Ci riferiamo ad un'ascendenza tra lo psichedelico e il solare in triangolazione Beach Boys-Beatles-Byrds che in più d'uno dei nove episodi del disco sfiora il calco (e come potrebbe essere altrimenti) seppur con buoni risultati (è la voce, ancora vibrante, alla fine a fare la differenza). Il resto si assesta un po' stancamente su rivisitazioni garage-melodiche dove le chitarre muscolari si lasciano frizionare da un organo classificato Doors. In sintesi: pollice verso all'ammiccamento Patti Smith della fin troppo reiterata You're the reflection of the moon on the water e applauso convinto ad una ballad cla sbracata e seducente come School buses are for children, dove Hart dimostra di esserci ancora e meritare un'affettuosa pacca sulla spalla. Bentornato.(6.5/10) Luca Barachetti Il Pan del Diavolo - Sono all’osso (La Tempesta Records, Gennaio 2010) G enere : folk - rock blues Dopo l’EP di presentazione omonimo i palermitani Il pan del diavolo esordiscono sulla lunga distanza con un album prodotto da Fabio Rizzo (Waines), ed è un comeback che conferma quel che di positivo si era già rilevato l’anno scorso. Un blues sanguigno, un’attitudine punk e “combat folk” di marca Clash e Violent Femmes, ibridato con l’italianità del cantautorato nostrano dei penultimi e ultimi anni (Rino Gaetano, Edoardo Bennato e in generale il mood e l’ironia disincantata di tanta tradizione d’autore) costituiscono l’ossatura di Sono all’osso; il duo Pietro Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo (una grancassa, un sonaglio e due chitarre acustiche) viene coadiuvato in un pezzo dagli Zen Circus (basso acustico, batteria, chitarra elettrica e voce di Andrea Appino in Bomba nel cuore). Accompagnato da testi che fanno dello sberleffo e della spontaneità il loro punto di forza, Sono all’osso racconta in musica l’assurdo quotidiano in cui non si fa troppo fatica a riconoscersi, un immaginario rivisitato che ha il merito di riuscire ad arrivare all’universale. Rockabilly blues rock folk e punk in una sintesi organica omogenea, trattati con uno stile ormai riconoscibile. Un gruppo da tenere d’occhio sicuramente d’ora in poi.(7.2/10) Teresa Greco Il vortice - Dodicigradidigrigio (CNI, Gennaio 2010) G enere : post - rock / noise E' l'originalità che fa la differenza. Soprattutto se oltre a presentarti come post qualcosa sei pure attratto da certe cadenze emo-noise dalle potenzialità autodistruttive. Piazzare tra un riff e l'altro false certezze e un cantato che ricicla un Niccolò Fabi fuori contesto (Etere) diventa a questo punto la naturale conseguenza di una faccenda che potrebbe complicarsi ben oltre i dodici gradi di grigio dichiarati dal titolo. La struttura del vuoto è emblematica, come del resto un po' tutto il disco. Melodia mascherata da rock sperimentale su pletore di arpeggi e alcune licenziose distorsioni. Contenuti discutibili ben esemplificati anche dal reading à la Massimo Volume di Beautiful Sadness, con i suoi quattro minuti e diciassette di profondità azzardata e senza catarsi, serietà compita ma fuori luogo. Qualche buona idea la si coglie e i ragazzi mostrano un buon livello di coesione, ma manca la scintilla che distingue l'immagine dalla semplice didascalia.(5.5/10) Fabrizio Zampighi James Pants - Seven Seals (Stones Throw, Dicembre 2009) G enere : psych - wave Dei due modi esposti nel bell'esordio Welcome (2008), il tuttofare James Pants pare adesso sviscerare soprattutto quello legato a una psych-wave sporca - a tratti marcia - e giocosa, illuminata da lampi di follia e di demenza. L'altro modo, per capirci, è una funk-dance elettronica che si cala negli anni Ottanta alla maniera dell'amico Dam-Funk (tendenza che predomina nel primo volume della serie Rhtytm Trax, 2007). Pants si è letto l'Apocalisse di S. Giovanni (da cui il titolo di bergmaniana memoria) e ne ha tirato fuori il suo affresco pop-delirante, significativamente inguantato in un artwork degno dello Zorn esoterico: se non fosse per il minuscolo ritratto del nostro che alza il dito medio contro Lucifero in persona. Lo spirito è questo. Residents-iano il progetto con cui Pants aveva timbrato a settembre il 2009, All the Hits (disco minore ma spassoso, raccolta di ipotetici jingle pubblicitari che era un po' il suo Commercial Album), residentsiano il senso del grottesco che informa questo Seven Seals (ditemi se I Saw You non è uguale a Suburban Bathers). Sporcature garage Sessanta (sempre virate psichedelico, fino al ricordo dei Silver Apples di I Promise I Lied), uno spirito naïve che possiamo anche chiamare lo-fi e un senso dell'artigianato eccentrico rendono ancora più golose queste piccole caramelle underground.(7.4/10) Gabriele Marino Jesu - Opiate Sun (Caldo Verde Records, Novembre 2009) G enere : shoegaze Justin Broadrick a.k.a. Jesu continua imperterrito a macinare riff e affollare il mercato, spesso e volentieri scegliendo distanze brevi come ep e split. Opiate Sun ripropone quattro prove di quel mantra shoegaze ascensionale che è ormai la cifra stilistica della nuova fase del man from Birmingham, e se a riemergere qua e là sono scorie del passato industrial (la grana del suono, ad esempio), la sensazione è quella del già sentito. Non male, sia chiaro, ma da chi è stato parte integrante di band seminali come Napalm Death, Godflesh, God, Techno Animal, ci si aspetta sempre qualcosa di diverso e innovativo.(6/10) Stefano Pifferi Jesu - Infinity (Avalanche, Novembre 2009) G enere : S toner S hoegaze Sfogate le mai sopite pulsioni heavy nei Greymachine, insieme al sodale Aaron Turner (Isis), è di nuovo la volta per Broadrick di Jesu, un progetto che assomiglia sempre più ad una periodica seduta psicanalitica in cerca di redenzione dai fasti apocalittici di Napalm Death e Godflesh. La differenza è che stavolta, sin dalla struttura dell'album, sembra rompere con i più convenzionali formati canzone cui ci aveva abituato. Lungo l'unica traccia - quasi 50 minuti - c'è spazio per diverse soluzioni: si assiste a variazioni d'intensità tra arpeggi distesi e riffoni sludge e nei momenti più intensi la voce malinconica di Conqueror lascia il posto a un canto rabbioso, come si trattasse ancora dei suoi Godflesh. Storceranno un po' il naso i fan del versante shoegaze, ma saranno accontentati quelli degli Sleep in pene di cuore.(6.1/10) Leonardo Amico Jori Hulkkonen - Man From Earth (Turbo Recordings, Ottobre 2009) G enere : techno - pop Dopo un cambio d'etichetta non indifferente (da F Commmunications alla Turbo del tiratissimo Tiga), e il recensioni 43 highlight Bologna Violenta - Il Nuovissimo Mondo (Bar La Muerte, Gennaio 2010) G enere : grindcore necrologico Coloro che ancora comprano i dischi anche per leggerne i libretti conosceranno il nome di Nicola Manzan ed il suo violino al servizio di diverse uscite recenti dell'indie nostrano e oltre (Baustelle, Alessandro Grazian, Il Teatro degli Orrori). Ma il trevigiano quando è solo evita qualsiasi tipo di rotondità, preparando invece la polvere pirica per le deflagrazioni di Bologna Violenta che dopo una serie di cd-r, ep e partecipazioni a compilation arriva all'esordio ufficiale con la spinta produttiva della Bar La Muerte di Bruno Dorella. 
La passione per il b-movie italiano evinta fin dalla ragione sociale si concentra qui in un omaggio ai Mondo Movies anni sessanta, pellicole simildocumentaristiche dalla tematiche volontariamente scabrose tra sessualità e violenza: Il Nuovissimo Mondo risulta così un necrologio, in forma di radiodramma grind-breakcore schizoide e rumoroso, su una società (la nostra) che nel declino inarrestabile festeggia festeggia, ovviamente prima di morire. Di scampo non ce n'è proprio per nessuno, né dalla crapula né dalla fine, e la strada costruita su tappe che accennano microstrutture folk, lounge, addirittura techno, è in realtà disseminata di cluster spaccatimpani chitarraviolino-drum machine e trapanature claustrofobiche, nelle quali s'inseriscono brevi recitativi sui più assortiti deliri generati dai più assortiti rimbambimenti (leggi alla voce politica, cultura, tradizione). 
 L'effetto finale è sardonico e angosciante, anche quando gli animi si placano per una rilettura ad archi intrecciati di Blue Song dalla colonna sonora di “Milano Trema” di Guido e Maurizio De Angelis, raccordo non meno inquietante all'aria Naked City che si respira nelle altre tracce. Bologna Violenta racconta che il genere umano è alla frutta, sottolineando che pure la frutta è definitivamente marcia.(7.5/10) Luca Barachetti grande ritorno dei Gus Gus, torna Jori, l'uomo che ne segue i turbamenti disco-pop nordici deviando su malinconie electro. A sorpresa, il suffisso techno trasfigura l’ascolto casalingo in un ologramma da club e sotto il nuovo tetto spuntano bordate, sincopi e qualche sorriso chimico. La lunga raccolta bilancia electro Depeche Mode e Chemical Brothers (Dancerous) con il tiro da old school detroitiana (da urlo la percussione in uptempo su The Other Side Of Time), l’acidità curatissima '90 (Boying In The Smokeroom) con la scuola Jack (Bend Over Beethoven risposta alla Trax), l’eurodisco moroderiana (Man From Earth) e la deep stampata per Felix Da Housecat (I Dance To Your Bass My Friend). Immancabile per chi vive di electro o techno. Il mutaforme cresce ad ogni uscita.(7.1/10) Marco Braggion Josephine Foster - Graphic As A Star (Fire Records, Gennaio 2010) G enere : songwriting Nato da un lungo periodo vissuto in isolamento tra le montagne spagnole, Graphic As A Star mette in musica alcuni componimenti dell’americana Emily Dickinson, la cui poetica tra lirica e naturalismo ben si confà alla musicista. Lontana dall’America, armata di poco più che una chitarra e di molti libri come ci viene da immaginarla, una Josephine Foster "primordiale" sonorizza i versi rendendoli in acustico e nulla aggiungendo alla delicata epicità degli stessi. Apprezziamo le parole conosciutissime tra i cultori, eppure la raccolta ci sembra rivolta più ai fan della Dickinson (i cui richiami esistenziali ben hanno attraversato quasi due secoli), che di Josephine. Un album interlocutorio in attesa di qualcos’altro che ce la riporti ai fasti ormai appannati de A Wolf in Sheep’s Clothing del 2006.(6.8/10) Teresa Greco 44 recensioni Kim Cascone - Anti-musical Celestial Forces (Storung, Settembre 2009) G enere : F ield R ecordings Una propensione eminentemente cinematografica è rimasta caratteristica fondante del modo di comporre di Kim Cascone. Peculiarità ben riconoscibile che il sound-artist del Michigan deve aver ereditato dall'apprendistato con David Lynch, quando ebbe la fortuna (e il merito) di ricoprire il ruolo di assistente musicale per le serie Twin Peaks e Wild At Heart. Così, i field recordings raccolti in giro per l'Europa nell'autunno del 2008 - assemblati con una serie di asettici recitativi e un sottofondo di very low frequencies captate da un ricevitore radio di proprietà della Nasa - fungono qui da personaggi sonori (quasi macchiette: non manca neppure la figura dello scienziato folle) di uno script pseudo sci-fi che potremmo addirittura considerare un esemplare di (riammodernata) arte radiofonica. Radiodramma astratto o film cieco? Poco importa. Come ha scritto giustamente qualcuno, Anti-musical Celestial Forces - titolo che va a rinfoltire la serie di lavori dell'ex PGR consacrati all'arte del field recording - andrebbe ascoltato, per essere goduto appieno, come fosse la traccia nascosta della colonna sonora del film Il Quinto Elemento.(6.8/10) Vincenzo Santarcangelo Laura Veirs - Julie Flame (Bella Union, Gennaio 2010) G enere : songwriting Dismessa la band che l’aveva accompagnata finora, anche se i fondamentali ci sono ancora ossia Karl Blau e il fido produttore batterista Tucker Martine, Laura Veirs fa il suo ritorno a oltre due anni di distanza dall’ultimo ottimo Saltbreakers, con alcuni cambiamenti. E’ da rilevare una certa scarnificazione del suono, sono sparite infatti quasi del tutto le stratificazioni; rimangono alcune orchestrazioni (e l’accompagnamento alla viola da parte del solito Eyvind Kang) per un album che si muove tra indie rock e folk e in sottotraccia umori country soul sparsi. Alla voce in molti brani troviamo Jim James (My Morning Jacket), per il resto resta inalterata la cifra stilistica, un songwriting ancora in stato di grazia che fa dell’espressività la sua forza, mettendo insieme un compendio di molta della musica sino ad ora espressa dalla folkster americana - che sia folk, pop, soul, indie rock o country poco importa a questo punto. Con l’impronta caratteristica del fidato Karl Blau, la Veirs pone un altro tassello alla sua musica evocativa e sbilenca, come la sua voce, che passa con disinvoltura da un versante all’altro senza mai risultare stonata. Inutile aggiungere che questo ritorno ci piace.(7.3/10) Teresa Greco Led Er Est - Dust On Common (Wierd, Novembre 2009) G enere : S ynth -W ave A Brooklyn, oltre alle ormai note Sacred Bones e Captured Tracks, si trovano etichette ancor più elitarie e di genere. Parliamo di Pieter Schoolwerth e della sua Wierd, dal 2006 luce degli angoli bui dell'elettronica minimale e sotterranea della Grande Mela e non solo. Grazie alla label, un piccolo manipolo di band come Xeno & Oaklander, Martial Canterel e Staccato du Mal, ha avuto modo di pubblicare dischi decisamente nostalgici e fedeli alla linea. Stessa sorte che tocca ora ai locali Led Er Est, intenti in sonorità d'antan quali cold wave francese, Sheffield '80, e inevitabili D.A.F. Niente abbozzi o canovacci di canzoni, come va di moda oggi, ma probabili hit fuori tempo massimo (Bikini Fun, Port Isabel, Laredo, non a caso il trittico che apre il disco). Accanto troviamo umori proto-industriali (Something For The Children), vorticosi up-tempo (The Unkept Area) e divagazioni sintetiche (CC Exit) che rendono Dust On Common un ascolto obbligato per i fan integralisti della ice age.(7.1/10) Andrea Napoli Leyland Kirby - Sadly, The Future Is No Longer What It Was (History always favours the winners, Novembre 2009) G enere : ambient , avant Gli anni “zero” si aprivano valutando l’erosione come fine ultimo delle cose secondo i fondamentali Disintegration Loops di William Basinski. Ora Leyland Kirby chiude il decennio con l’amara constatazione che il futuro che ci eravamo aspettati non è arrivato. Opera destinata ad occupare storicamente un posto tutto suo, ovviamente accanto a quella del musicista newyorkese, Sadly, The Future Is No Longer What It Was è un’ambiziosa trilogia sulla perdita di riferimenti, sulla sconfitta come metro di giudizio dell’agire quotidiano, ma soprattutto sulla solitudine come unica conseguenza di un individualismo sempre più spinto. Leyland Kirby lascia da parte tutti i moniker con cui recensioni 45 highlight tragedia della mia esistenza - e mentre ero seduto accanto a te ho sentito la grande tristezza quel giorno - questa notte è l’ultima notte del mondo - neanche la nostalgia è una cosa buona come avrebbe dovuto essere - e non c’è niente tra la tristezza e l’urlo…(7.8/10) Flaming Lips - Journey To The Dark Side Of The Moon (Autoprodotto, Dicembre 2009) G enere : avant psych Antonello Comunale Cos'è il The Dark Side Of the Moon secondo i Flaming Lips? Pensiamoci. Pensiamo al disco originale dei Floyd, innanzitutto: archetipo sonoro, categoria mentale, alibi e cliché intergenerazionale, punto di convergenza e di fuga, falda patinata che raccoglie spinte convergenti e parallele psych, prog, blues, kraut, beat (e infine pop), cucinandole in un minestrone lucido, conciso, ad altissima definizione, l'alta definizione come dimensione unificante di un trip estetico, euforizzante, esorcizzante. E' il prisma sì, ma al contrario, fasci di luce diversamente colorata che entrano interallacciandosi molecola dopo molecola dando vita ad un laser solido, pulito, inesorabile. Che dopo trentasei anni continua a trapassare teste e pianeti, lati chiari e scuri, in virtù di un esistere che non ammette troppe repliche. E' un disco che è. E' il disco che è. Su questo archetipo Coyne e compagni si gettano come spiritelli sulla zucca magica. Il timore reverenziale virato in una devozione impertinente, guida la loro calligrafia in un'opera di rilettura traditrice. Una terapia invasiva, indagando a cuore aperto su una formidabile ossessione e su quanto e come riverberi attraversando le corde visionarie e psicotiche della band di Oklahoma. Il risultato è: un benedetto, febbrile, destabilizzante esercizio sonico. Reinvenzione. Stravaganza. Motorismi nipponici, groove brutali, vocoder svalvolati, chitarre erratiche, tastiere siderali. L'inscalfibile laser torna ad irradiare colori insalubri. Un regresso raggiante, umorale, isterico. All'origine della cosa. L'effetto è - non solo per chi abbia adorato ma anche per chiunque conosca il Dark Side (ma TUTTI lo conoscono, è questo il punto) - come una nutella messa a friggere sul fornello stermina-insetti. Un dolce sfrigolante sacrilegio. Un'ultima cosa da dire: mentre ascolti ti viene automaico sovrapporre gli icastici arrangiamenti originali a questi che, nel loro brusco vitalismo, suonano come precari, in bilico su una ruspante indefinitezza, innescando una tenzone tra memoria e possibilità, sliding doors che si aprono, varchi spazio-tempo eccetera. Non stupirebbe che si tratti di un effetto voluto, visto che gli autori hanno nel palmares titoli come Zaireeka. Ultimissima cosa: al progetto (al sabba?) partecipano quei buontemponi di Peaches e Henry Rollins, rispettivamente voce gospel e reading terrorifico.(7.8/10) Stefano Solventi Lil Wayne - Rebirth (Cash Money, Febbraio 2010) G enere : hiprock cros sover Why Lil Wayne Sucks? Se lo chiedeva Doseone intitolando così una parte del corso di freestyle che per qualche tempo ha tenuto alla Youth Movement Records di Oakland (si veda Be Evil). Chi è LW? Una delle più clamorose facce da schiaffi del rap degli ultimi dieci anni e passa, uno degli alfieri del gangsta mainstream di seconda generazione, con tutto quel caricaturale corredo fatto di droga, armi, arresti, tatuaggi che manco uno yakuza, denti d'oro, soldi e puttane: il genere di papponismo materialista che viene in mente a chi non conosce le cose belle del rap quando si dice la parola rap. La palingenesi wayniana è in realtà una svolta in senso crossover - ma di quelle che fanno accapponare la pelle - che ne sancisce il definitivo affossamento artistico. Basi hardrockpop che ammiccano disperatamente a Linkin Park, al poppunk ma anche agli U2 (l'intro di Ground Zero sembra Mysterious Ways), rappato stanchissimo, che trasuda codeina da tutti i pori, con una voce sempre costantemente filtrata in autotune stile T-Pain. Detto questo, detto tutto. Disco bruttissimo, feat francamente inutile di Eminem in un pezzo. Non date retta né a Bob Xgau, né a RS, né a Pitchfork: date retta a Dose.(3/10) Gabriele Marino è diventato celebre e pubblica questo concept sotto il proprio nome, segno probabile che qui si apre un ulteriore step nella sua ricerca d’artista. Sadly… si articola in tre dischi distinti (3cd, 6 lp) a cui sono dati altrettanti titoli: When We Parted, My Heart Wanted To Die - Sadly, The Future Is No Longer What It Was Memories Live Longer Than Dreams. La musica in qualche modo si adegua al cambio di veste e tutto il lavoro di editing digitale che aveva reso celebre The Careteker viene parzialmente aggiornato al nuovo standard che prevedere suoni veri e tangibili, messi in essere da Kirby stesso. Li dove generazioni di pianisti minimal-Satie incontrano i panorami e le terre più esotiche di Eno, dove i nastri di Basinski, nella loro condizione analogica cedono 46 recensioni il passo ad un’elettroacustica convertita da un digitale sempre più “post”, li Leyland Kirby trova lo spazio per formulare visioni terribilmente tristi di un individualità condannata a se stessa. Il suono classico e rassicurante di qualche nota di piano apre il primo disco e dà il tono all’opera, che rimane perennemente sospesa in una tenebra fumosa che è al tempo stesso romantica e solipsista, timida e avventurosa. Parlare di singoli brani lascia il tempo che trova, perché i tre dischi vivono come un tutt’uno integro, al punto che il minutaggio non può che impennarsi fino a quota quattro ore o giù di li. E che allora parli Leyland Kirby stesso attraverso i titoli delle sue composizioni: il suono della musica scompare - la bellezza dell’imminente Lindstrøm/Christabelle - Real Life Is No Cool (Smalltown Supersound, Gennaio 2010) G enere : electro , disco Le mutazioni prog di marca Lindstrøm si sposano alle vocals della giovane cantante norvegio-mauriziana Christabelle (il vero nome è Christabelle Silje Isabelle Birgitta Sandoo), già conosciuta con lo pseudonimo Solale in una collaborazione di qualche anno fa su due 12 pollici. E abbiamo un lavoro dai classici tracciati del nordico farciti dalla wavey bella voce di lei: soul disco onirica (Looking For What, High & Low), bbreaking electro-funk (Lovesick, Music In My Mind, Baby Can’t Stop), visioni spacey '80 che sono da sempre la specialità dello chef (stupendo il mood pop d’antan di Let It Happen, buono il tentativo di gospel misto alle sonorità Cocteau Twins di Keep It Up) e altre sparate stellari che ne fanno un album discreto il cui peso di Lindstrøm non sembra alleggerirsi sulla bilancia, anzi, ascoltando il full lenght, viene naturale il tributo allo storico duo Giorgio Moroder / Summer (in particolare il ricordo di I Feel Love in Let’s Practice). Deviando dalle atmosfere monolitiche della collaborazione con il fido Prins Thomas, e fermi restando i trick sperimentali (Never Say Never), ancora una volta gli '80 rivivono con lo spirito di chi sa come far ballare l’anima. Bravo Hans-Peter.(7/10) Marco Braggion Lone - Ecstasy & Friends (Werk Discs, Novembre 2009) G enere : bbreaking ambient C’è ancora spazio per la Werk discs dopo l’invasione summer glo? In altre parole c’è ancora spazio per la connessione con i suoni strictly bbreaking dei Boards of Canada e di un certo sentire Warp? E il wonky? Con questo disco di Lone assistiamo all’ennesima bollitura del calderone magmatico che da qualche mese accompagna il suono break. Proprio al termine di un 2009 in cui si sono succeduti gli Animal Collective, gli amici di scuderia Lukid e Actress, nel quale abbiamo visto salire esponenzialmente il successo di Zomby e dei paladini del taglia e cuci di perfezione (vedi Bibio e il giovanissimo Toro Y Moi), questo disco fa il riassuntino di tutto e cerca di tirar fuori ancora qualcosa di nuovo da un’idea di suono che ama i campioni, il filtraggio onirico e il sogno. La formula magica non riesce però a focalizzarsi sulla melodia (come invece fa egregiamente Washed Out), sul ritmo o su qualche altra feature e propone una palette che non stupisce e annoia. Andranno bene per i parties davanti al camino queste tracce break-ambient (Waves Imagination, Love Heads), lounge’n’bass (Endlessly), i giochini a 8 bit (Go Greenhills Racer), ma dopo più di 40 minuti il compito è solo un lavoro routinario da secchioni perfettini. La sufficienza se la potrebbe guadagnare per la tecnica, ma l’anima è ormai giocata. Dispiace dirlo, ma l’ecstacy del titolo dura poco e se la Werk non cerca una svolta si fa la fine degli emuli. Al cubo, dato che Bibio citava i Boards che citavano a loro volta. Plagio o incidente di percorso?(5/10) Marco Braggion recensioni 47 Luminance Ratio - Like Little Garrison Besieged (Fratto9 Under The Sky, Dicembre 2009) G enere : ambient - drone Cose tipo Sunday Is Grey capitano a fagiolo, sono ideali per contrappuntare stati d’animo tendenti al melanconico quando il cielo è una monotona lastra grigia. Sfruttando droni pesanti, echi lontani, percussioni gravi e rintocchi chiesastici, il pezzo si sfalda in un landscape sonoro vago e deforme, proprio come le lunghe domeniche nebbiose scontornano l’esistente in visioni evanescenti. Il resto di Like Little Garrison Besieged non è da meno. Minimal drone-music che utilizza squarci di free-folk astruso ed elettroacustica acquosa (è il caso dell’iniziale title track) per tratteggiare composizioni che sono al guado tra ambient estatica e elettroacustica disturbante. Esemplare in questo senso è Solid State Tuners. Dopotutto Luminance Ratio è sì una sigla nuova che nasconde tre volti noti della scena sperimentale italiana: Eugenio Maggi aka Cría Cuervos, Andrea ics Ferraris (da Deep End a Ulna e Ur) e Gianmaria Aprile, titolare di Fratto9, label che marchia il disco insieme a Boring Machines. Sensibilità diverse, quelle dei tre, come diversi sono i background di provenienza, eppure c'è convergenza in quest’ora di densa drone-music (ir)rituale ed evocativa, pur in obbiettivi non del tutto messi a fuoco.(6.9/10) Stefano Pifferi Mammooth - Back In Gum Palace (Forward, Dicembre 2009) G enere : rock Generi musicali distanti tra loro (rock, elettronica, postrock), progettualità su ampia scala (le colonne sonore di Sandrine nella pioggia e Polvere), videoarte, collaborazioni inaspettate (il Live@Enzimi con l'attore Claudio Santamaria alla tromba): in tempi di crossover selvaggio, Mammooth è un contenitore più che un gruppo. Un'ipotesi di mondo perfetto in cui far coesistere concisione e intelaiature in stile Deus, rimandi a certe cavalcate emozionali à la U2 e elettronica ad ampio spettro. Il gioco dura poco ma finchè dura, funziona (What A Mess, Sketches Of A Personal War). Poi si assiste a uno sfilacciarsi graduale della scrittura sull'elettronica in levare di Key 6, nei Notwist in chiave jazz di Vincent, sulle vacuità sintetiche di My Left Hand e nel post-rock psichedelico da Bignami di Actually I Don't Understand This. Il livello tecni48 recensioni co di chi suona è ottimo ma Back In Gum Palace rimane comunque un cantiere aperto.(6.4/10) Fabrizio Zampighi Mapstation - The Africa Chamber (˜Scape DE, Novembre 2009) G enere : T ribal tronica Caratterizzandosi per i tipici mood composti dei palindromi e grane africane, The Protector è l’ideale trait d’union tra il precedente Distance Told Me Things To Be Said e The Africa Chamber, terzo album ufficiale a firma Mapstation, moniker ufficiale sotto il quale Stefan Schneider dei To Rococo Rot si firma da anni. Non è certo la prima volta che il tedesco si cimenta in trasfigurazioni di questo tipo, eppure, in maniera analoga a quanto è accaduto con Tony Allen nell'Inspiration Information di Jimi Tenor, un qualcosa di altrettanto rimarcabile succede qui con un nome del calibro di Nicholas Addo-Nettey (già Fela Kuti Band e guarda caso collaboratore di Allen). Grazie al percussionista, Schenider trova nuovi equilibri tra quartomondismi e jazz; rinnova i dialoghi tra loop, linee sintetiche e pelli, riusciendo a spaziare dal continente nero fino a Oriente, passando per i rave intellettuali dei Rot senza perderci in magia e coerenza krauta. Al risultato contribuiscono amici di vecchia data, quali Annie Whitehead al trombone (fa molto Gil Evans via Tied & Tickled Trio il suo contributo in Carmel) e Thomas Klein (Kreidler) alla batteria (che ha sempre il suo perché). Ne esce un album oltre Jon Hassell e Can. Pienamente parte della Weltanschauung To Rococo Rot di cui Mapstation è una filiale cartografica e meridionalista (quando il trio è nordista e legato all'architettura). Acquisto obbligatorio per tedescofili e non.(7/10) highlight Four Tet - There Is Love In You (Domino, Gennaio 2010) G enere : house - trance - minimalism Esce con un mese di ritardo, il nuovo Four Tet. Perché gennaio 2010 vuol dire inizio del decennio, e non fine di quello precedente. È pur vero che la prospettiva è sempre rovesciabile, sicché si possa dire che There Is Love In You è invece in tempismo eccezionale, per inaugurare un decennio. Dipende dai punti di vista, appunto. Noi possediamo quello degli ’00, che sono appena finiti e che hanno visto in Kieran Hebden, che piaccia o meno, un personaggio chiave. E non solo. Sono le tracce dell’album che ci danno indizi di qualcosa che è appena finito. È un’impressione ma anche qualcosa di più, visto che in Reversing e, andando a fondo scaletta, in She Just Like To Fight, abbiamo quei sentori o finanche quelle certezze che Hebden sta parlando con le proprie origini, con il post-rock dei suoi Fridge, momento aurorale della produzione del Nostro; e pure elemento di messa a distanza rispetto ai Novanta, oramai lontani più di due lustri. E poi c’è tutta la club culture che aveva pervaso Ringer, e che a partire da quello che rimarrà uno degli EP più famosi degli ’00 aveva creato aspettative molto alte per l’album fourtettiano n° 5. Ci sono sì i club, ma in una forma riproducibile in camera, ancora una volta, senza che si possa però parlare di IDM. Kieran dice di aver rovesciato i suoi ascolti dal downtempo alla velocità; eppure in There Is Love In You c’è una sorta di trance diffusa, dinamiche percussive che sanciscono uno zoom out rispetto alla maniacale fedeltà alle pelli del Nostro e al contempo il solito lavoro certosino di rifinitura che ipnotizza, pur rimanendo sempre a disposizione per essere lo sfondo di altre attività. La Border Community di James Holden e il djing hanno fatto il loro mestiere, e ci riconsegnano la spugna Kieran in grado di fare musica da club che non metteremmo mai in un club, ma che non ci apre le meningi come l’IDM o post-tale. Si torna semmai a citare i minimalisti e a estrarre dal cilindro un termine ombrello che va in cortocircuito con tutti i discorsi fatti sul micro-macrocosmo Hebden-decennio ’00: classicità. Già il singolo Love Cry (qui contenuto) ci aveva messo dell’avviso. Per quanto detto finora, si ascolti come saggio Plastic People. Puntigliosità, house e ripetizione, se vogliamo tirare le fila. Ma forse che Four Tet ha mai fatto qualcosa di diverso, che tentare delle sintesi?(7.2/10) Gaspare Caliri Edoardo Bridda Mathias Kaden - Studio 10 (Vakant, Settembre 2009) G enere : D eep house Dj e procucer alemanno, Mathis Kaden è un ragazzo piuttosto fresco sulla piazza. Ha iniziato a sfornare 12 pollici assieme all’amico Marek Hemmann a partire dal 2003 e da quel poco che si sa ha una venerazione per la T808 che lo porta dritto a Chicago. Windy City, nel suo caso, si traduce in un’house calda dai sapori samba, venature jazz e funk liquido e, per gradire, una bella smaltata di deep a completare un’architettura mogano dalle assi d’acciaio. Realizzato in due anni, Studio 10 è il primo album di un tedesco che già mira a dipingersi un'aura da Frankie Knuckles in versione kraut puntando le migliori fiches su un sound ultra editato e non di meno suonato.Violini, sax e organi a cura di ospiti quali Lars Mäurer, Florian Schirmacher e Claudia Ander-Donathand, tutti su per giù jazzisti; canto perferibilmente talkin' per una triade di vocalist (jazzy Ian Simmonds, lo sconosciuto Gjaezon, e una sciantosissima Tomomi Ukumori) e, a completamento, citazioni più o meno evidenti dalla black al reggae e baleari, ne fanno un ottimo vino di marca jazz house adatto ad un vero house party. Tra gli estimatori già abbiamo una lista: Dinky, Luciano, M.A.N.D.Y., Matthias Tanzmann e il più entusiasta di tutti Sascha Funke (album dell’anno per lui). Ci accodiamo all'entusiasmo senza esagerazioni.(7/10) Edoardo Bridda Matthew Shipp - Nu Bop Live (Rai Trade, Dicembre 2009) G enere : avant jazz Il pianista del Delaware classe '60 Matthew Shipp in un quartetto grandi firme che vede un sanguigno Daniel Carter al sax (alto e tenore), il grande William Parker al basso e - soprattutto, è il caso di dire - Guillermo E. Brown ai tamburi con delega alle elettroniche. Perché il punto è questo: al di là dell'apprezzabile impasto postbop, col virus modale che s'infebbra free, con la vena funky che pulsa tra spigoli e sospensioni avant, il tentativo di questa performance (incisa live a Roma nell'aprile del 2004) era la metabolizzazione dell'elemento electro in un linguaggio da intendersi in progress. Va detto che lo fece entro prospettive in tutto e per tutrecensioni 49 to jazz (quindi black) che si guardarono bene dal concedere troppo all'intruso sintetico. A differenza di quanto avveniva nei mai abbastanza rimpianti E.S.T., i loop e i samples non entrano mai abbastanza dentro la calligrafia, non ne sposano (e neppure spostano) il centro emotivo, sembrano poco più che suppellettili nel boudoir dei reduci da una stagione meravigliosa e meravigliosamente appassita. Non stupisce che alla fine il passaggio più emozionante ce lo regali l'ancia di Carter con la breve, umorale Did I Say That?.(6/10) Stefano Solventi Melt Banana - Melt Banana Lite Live: Ver. 0.0 (A-Zap, Gennaio 2010) G enere : techno - grind Riuscite ad immaginare un live di Melt Banana? No? Bene, allora procuratevi Melt Banana Lite Live:Ver. 0.0 e buttatevi a capofitto in una di quelle sale giochi nippo zeppe di led coloratissimi e musica sparata a volumi parossistici in cui a farla da padrone è il pachinko. Questo live saccheggia il recente Bambi’s Dilemma ed è in realtà attribuibile a Melt Banana Lite, sorta di mutazione electro della band originale (via le chitarre e dentro synth e sampler, senza cambi sostanziali) che ne devia l’aggro-punk malato verso lidi più ossessivamente elettronici. Alla digital hardcore, per intendersi. Come se il cicerone di una visita nella downtown di Tokyo fossero dei giovani Atari Teenage Riot con gli occhi a mandorla e le stimmate dell’affiliazione alla yakuza. Ossessiva e schizzata a 400 bpm, la musica ultra-macina-core dei nippos lascia poco spazio all’immaginazione e rende appieno l’idea di techno-grindcore. Quando si parla di rumore e oltranzismo, i giapponesi sono maestri.(6.5/10) Stefano Pifferi Mika Vainio - Ununquadium / Vandal Ep (Raster Noton DE, Novembre 2009) G enere : club music Un tuffo solitario nel passato, un viaggio a ritroso nell'autodistruzione privata, senza compagnia-Vaisanen, quello di Mika Vainio nelle brutali (nuove/vecchie) traccie. Analogue working si legge nella press-release: come se qualche beats da techno afasica, avesse più valore provenendo da una macchina midi che da un laptop-looper. Vecchie questioni e espedienti commerciali per la Raster che una manciata di beats, un oscillatore, ed un mixer non riscatteranno, né scuoteranno uno stile diventato evidentemente solenne. Come un orologio colante, Vainio è oramai rappreso 50 recensioni nella memoria polverosa dei suoi sogni andati. Fa paura ammetterlo ma è così.(5/10) Salvatore Borrelli Mir - Mir (Wallace Records, Ottobre 2009) G enere : T his H eat C ore Per la Wallace di Mirko Spino l'esordio su lunga distanza degli svizzeri Mir. La loro musica è diretta discendente dei This Heat prima maniera, e quello stesso modo di intendere il rock progressivo. Trame percussive postpunk ante litteram, bordate da squarci di elettronica analogica. Ma se nell'EP Ex Modules, il discorso di procedeva per architetture in (de)costruzione, come degli Aufgehoben meno oltranzisti, nell'album le idee iniziano a mancare. Per buona parte del disco, gli svizzeri sembrano limitarsi stiracchiare textures sintetiche senza i movimenti del post, né kraute glorificazioni d'immobilità. Piuttosto, riescono nei ruggenti riff di Shellac-iana memoria, bastonati a dovere da batterie esplosive, pur con risultati che non competono con gli Ex Modules. Merita una nota il brillante titolo di Organ Donor, non le interiora a cui si riferivano gli Unsane, ma l'organo musicale: un accordo tenuto per tutta la durata del brano. E di sicuro non basta. Nessuna insufficenza, ma un disco di potenzialità ancora inespresse o peggio, aspettative deluse.(6/10) Leonardo Amico Miriam in Siberia - Il suono del phon (Autoprodotto, Dicembre 2009) G enere : rock Zitta zitta, piano piano, la via italiana ad un rock caustico e melodico, nipotino scapestrato dei cantautori nonché cuginastro di quanti nei novanta provavano a sognarsi Sonic Youth, si fa strada. Che passa anche da dischi come questo, degli esordienti (su lunga distanza) Miriam In Siberia, quattro ragazzi da Caserta che hanno tutta l'intenzione di credere a quello che fanno. Sanguigni e ruvidi da un lato (Il tuo buono), malinconici e persino allibiti dall'altro (prendete Non lo so, oppure la title track), potrebbero essere la soundtrack perfetta per la vita esistenzialmente randagia di molti giovincelli contemporanei. Quando ti sembra che eccedano con l'afflizione à la Verdena (Soletude), se ne escono incalzanti e carezzevoli (Sai col se) per poi giocarsela lunga e ondivaga tra folk e hard-psych in Before The Insane God. Ok, forse è ancora presto per chiudere la pesante pagina aperta a suo tempo da Afterhours e Marlene Kuntz (e la conclusiva Affanni sembra ribadirlo), ma la sensazione è che perlomeno si stia cercando qualcosa di nuovo tra le righe. Per poi passare oltre, magari. (6.5/10) Stefano Solventi Monolake - Silence (Monolake / Imbalance Computer Music, Dicembre 2009) G enere : ambient , minimal Le fonti da cui ha attinto Robert Henke per sviluppare questo settimo disco di Monolake: annunci di aeroporti, martellate su piatti metallici al Kabelwerk Oberspree, diversi suoni captati dentro la cupola radio a Teufelsberg di Berlino, sciabordii acquatici nel giardino botanico di Firenze, condizionatori e turbine a Las Vegas, Francoforte e Tokyo, passi sulle rocce di Joshua Tree, folate di vento nel Grand Canyon, il telefono di un amico, una stampante, qualche conversazione con il cellulare, battiti sulla tastiera di un vecchio Macintosh e lavori nelle gallerie in Svizzera. Tutto concorre all’elaborazione meditata del silenzio che c’è intorno a noi. Le premesse che Henke usa per architettare il sound tridimensionale di Watching Clouds, stereoscopia del 2030 su battito androide, e ancora l’ascetismo zen di Infinite Snow che come la maggioranza degli altri brani devia via Skull Disco una minimal techno aggiornata all’aria dei tempi, quelli della battuta spezzata. Di contro, c’è sempre qualcosa di fisico e “tattile” nel modo in cui Henke muove i sample in primo piano come se facesse action painting su una tela, valga per tutti l’avventurosa Reconnect. Al di là di qualunque costrutto tecnico-teorico, Monolake si conferma griffe di qualità nel mondo delle suggestioni digitali di inizio millennio. (7/10) Antonello Comunale Move D/Pete Namlook - The Evolution Of (Fax +49-69/450464, Novembre 2009) G enere : A mbient , techno Classe Sessanta, Pete Namlook è una vecchia cono- scenza degli amanti delle cosmologie ‘90 post Rave in aggancio kraut. Partito con la techno (e poi convertitosi in ambient-tronico a inizio Novanta), l’uomo di Francoforte ha fatto delle sfere celesti la propria missione orbitando presso Rising High (Wagon Christ, Air Liquide e compagnia sci fi) e successivamente mettendosi in proprio con Fax +49-69/450464, sfogando così una smania compositiva smisurata. Non fa eccezione la produzione a firma della coppia che lo vede accanto all’altro famigerato protagonista della techno da salotto (e non) Move D. Assieme, i due hanno inciso una cosa come venti volumi, uno all’anno a cadenze regolari. The Evolution Of segue a XX: Taygete (sempre di quest'anno) ed è una sorta di The Best spacciato come album d’inediti e, a parte qualche cultore che se ne accorgerà, è come se lo fosse. 79 minuti filati. Un lunghissimo trip space techno venato jazzy, lounge e cosmic per due che potrebbero andare avanti per sempre. Inevitabile assenza di brivido e vertigine. In pratica, a mancare è quello che forgiò la triade iniziale di Exploring The Psychedelic Landscape, prima collaborazione della coppia datata 1996, ora affare dell'ora del the. Maniere, con momenti più e altri meno. Moog e Roland qua e là. Ma senza alcuna tensione vera. Più fortunata sicuramente la collaborazione dei due come Koolfang: solite basi ma speziate di fusion, blaxploitation e lounge (serie sempre numerata. Ultimo lavoro III - Be Aware del 2005).(5.5/10) Edoardo Bridda Mungolian Jet Set - We Gave It All Away, Now We Are Taking It Back (Smalltown Supersound, Agosto 2009) G enere : cosmic trip techno Già uscito in estate sul mercato estero, approda finalmente anche da noi il doppio del duo di Oslo. Paul Nyhus e Knut Saevik ci conducono in una lunga odissea che svela due metà complementari: la prima più psichedelica (nel primo disco), la seconda più ballabile (nel secondo). Data la provenienza dai jazz club di Oslo, i due riportano poi all’attenzione quel sentire house mescolato alla passione per la blackness già esaltato tempo fa dai Cobblestone Jazz. Ma se i fratelli canadesi puntavano più sull’immediatezza live, qui si prende come vangelo la lezione degli ORB e la si coniuga in una dimensione filtrata e pompata da compressori analogici che tolgono il dub e innestano il movimento sul 4 progressivo. L’iconografia del gruppo si basa poi su un velato misticismo orientale che definisce un’estetica massimalista: i Pink Floyd e i PiL a braccetto con l’acid jack (Creepy), il bbreaking old recensioni 51 highlight Frogwomen & Superfreak - Allegretto (Lepers Produtcions, Dicembre 2009) G enere : hard punk core indie Tornano sul luogo del delitto due colonne Lepers, unendo le forze come già fecero nel famigerato Volume 4. Identico il piglio, il taglio, irriguardoso e sferzante per qualsivoglia schematizzazione che li inquadri alle prese con questo o con quest'altro. Resta invece eccome quel prodigarsi in groppa al cavallo imbizzarrito hard-funk-blues-psych-noise-math-punk. La fluviale Sunshine impasta tutto ciò ed è come assistere in diretta alla preparazione di una pagnotta mefistofelica su cui i nostri fornai pugliesi infieriscono strizzando, stendendo, insaporendo, sbattendo e lasciando riposare, poi la febbre - una febbre di meningi, di giunture e di cuore cuoce il tutto a fuoco deciso. Quindi tra gottini di sudore, adrenalina, bile e seddiovuole rosolio (al peperoncino), esaudite le fregole Sonic Youth, Shellac, Dead C, Mc5, Black Flag e compagnia travolgente, ti vanno a chiudere la scaletta con una Safety che smazza riffettini adesivi (di synth e chitarra) su melodia ammiccante da indie band scafata con minacce & impudenze Rolling Stones nel taschino. Il messaggio è chiaro: non ci avrete mai, ma se ne volete, eccoci.(7.5/10) Stefano Solventi school (Could You Be Loved) e la deep onirica (Madre Epics Pt. 2), la word balearica (Big Smack And Flies), gli archi dei Rondò Veneziano (A Blast Of Loser) o le tastiere dei Supertramp (Clairevoyage). La sintesi quando si viaggia in modalità psichedelica non è da tutti. In due dischi il gruppo norvegese riesce ad attingere dal passato senza stancare o mostrare spocchia. Un po’ come stanno tentando di fare i ragazzi londinesi in fissa wonky, anche qui si taglia e si cuce, ma all’orizzonte si intravedono balere adult. Il tiro di questa raccolta è da brivido. Settate il replay, please.(7.1/10) Marco Braggion Musée Mécanique - Hold This Ghost (Frog Stand, Gennaio 2010) G enere : folk / pop Malinconie da fine anni Novanta come The Propellors - che cita i Radiohead di Ok Computer rivisitandoli in chiave folk - fanno di questo Hold This Ghost un'opera revanscista. Per lo meno in parte. Parliamo di arrangiamenti ricercati ma non debordanti che lasciano il giusto spazio agli umori di chi ascolta; di musica acustica sospesa tra organi e chitarre, theremin e batterie essenziali, archi e fisarmoniche. Un breviario sul folk-pop degli ultimi quarant'anni che cita i Mojave 3 (Fits & Starts) come Simon & Garfunkel (Somehow Bound), sempre con piglio ammiccante e 52 recensioni una latitudine di posa satura di morbidezze. Che si scelga l'impasto vocale di Sleeping In Our Clothes o le voci appese a un filo di Like Home poco importa. E' l'intero lavoro a godere di un'ispirazione crepuscolare dalla vocazione apprezzabile.(7.1/10) Fabrizio Zampighi MV & EE - Barn Nova (Ecstatic Peace!, Dicembre 2009) G enere : acid folk Confesso di non star più molto dietro a Matt Valentine e Erika Elder. La coppia inizialmente si prodigava in ballate acide da folk astrale, le famose Lunar Blues, che pur evocando i soliti fantasmi sixties e seventies, riusciva ad avere un linguaggio per lo meno ancorato all’andazzo contemporaneo. La ben nota faccenda della new weird america come ormai sanno anche i sassi. Il passaggio ad Ecstatic Peace però ha evidentemente fatto male ai due. Delle due, una: o hanno smesso di fare uso di sostanze psicotropiche oppure si sono invecchiati e ci giocano anche su, andando a rimestare non solo nel solito turbinio folk rock modello Neil Young, ma in tutto il suono acid rock anni ’60 - ’70, utilizzando un linguaggio completamente passatista. Roba che nemmeno Banhart si permette di fare, quando si mette a scimmiottare gli idoli del passato. Quello che ne viene fuori così è un sound acid rock, anziano, da terza età. Roba che per chi ci è cresciuto con quei suoni e prova nostalgia ascolterà con piacere, ma cosa c’entra un disco come Barn Nova con Ecstatic Peace, il 2009 e quello che gira adesso, anche e soprattutto in ambito folk? J Mascis, invecchiatissimo pure lui, supporta la band come di recente ha preso a fare, evidentemente preso pure lui in piena crisi geriatrica.(6/10) Antonello Comunale Myrmyr - The Amber Sea (Digitalis, Dicembre 2009) G enere : avant - folk , elettroacustica Avevamo iniziato l’anno con Marielle V. Jakobson e il suo primo disco come Darwinsbitch, prevedendone future felici incursioni in ambito ambient e affini. Non finisce il 2009 che si rifà viva come metà del duo Myrmyr, in compagnia di Agnes Szelag. La musica prodotta dalle due è una calibrata miscela di diversi ingredienti: elettroacustica, folk, musica da film, improvvisazione. Evidentemente la somma delle due parti in questione. Marielle porta con se tutto uno studio su rifrazioni, riverberi e toni abissali di una ambient trattata da un violino androide come accadeva nel disco di Darwinsbitch. Agnes è invece l’anima folk, che ammanta di tradizione e leggenda sprazzi di melodie dalle evidenti ascendenze traditional. Si ascoltano così tracce di un cantautorato elettroacustico che immagina e crea una irreale storia dell’ambra, minerale legato a leggende e miti arcaici. Frammenti di un ambient rielaborata alla stregua di materiale cinematografico sull’esempio degli ultimi Stars Of The Lid (Baltic Winds, The Sea Returns, The Story Begins) oppure filastrocche dal sapore gotico (sposiamo la definizione di Boomkat che parla di “gothic avantgarde”) con i brani che vivono sulla miscela di canto, strumenti analogici e costrutti digitali (First Seed, Silver Rooster, Eagle’s Escape) in un modo non troppo distante dagli esempi di Hala Strana e Black Forest / Black Sea. Alla fine si ottiene un disco che è acerbo se si pensa a quello che le due musiciste possono raggiungere, ma già sufficientemente maturo guardando alla difficile calibratura di tutti gli ingredienti. Altro progetto da tenere sott’occhio per Marielle.(7/10) Antonello Comunale Neil Young - Dreamin' Man (Reprise, Novembre 2009) G enere : folk Cos'era la carriera di Neil Young all'inizio dei Novanta? Il catastrofico tracollo degli eighties era stato parzialmente riscattato da tre buoni lavori in sequenza (This Note's For You, Freedom e Ragged Glory, rispetti- vamente '88, '89 e '90). La ritrovata verve fu ribadita dallo stupendo doppio live Weld (1991), forse il punto più alto dell'intesa live coi Crazy Horse (vi basti la fluviale versione di Cortez The Killer), cui fu peraltro abbinato Arc, un dischetto di insolita ma tutto sommato interessante sperimentazione noise. Col grunge ormai in piena detonazione, e col buon Neil'ufficialmente nominato suo ideale padrino, il cavallo pazzo non poteva che spiazzare tutti sfornando Harvest Moon (Reprise, 1992), un album di soffice, accorato, addirittura patinato country rock. Fu un po' come se il freak ruspante e randagio di Harvest, dopo essersi raddrizzato nel saloon straight edge di Comes A Time, si fosse infine adagiato su un sofà mitologico tra front-porch e campi irrorati di luna. Quelle dieci tracce raccontavano una senilità in procinto di sbocciare, uno stare in bilico tra irrequietezza e incanto che ci consegnava un artista classico suo malgrado, pacificato suo malgrado. Il qui presente Dreamin' Man, ennesimo capitolo della Archives Performance Series, è un live coevo che celebra quel momento per certi versi irripetibile, proponendoci la lettura della scaletta in versione solitaria, scarna e fragrante. Senza gli archi ed i coretti delle versioni in studio - che vedevano all'opera Linda Ronstadt e James Taylor tra gli altri -, canzoni come Natural Beauty o One Of These Days finiscono col guadagnare uno status di sospesa inquietudine che le valorizza non poco. Per il resto, nulla di imprescindibile.(6.4/10) Stefano Solventi Nest - Retold (Serein, Gennaio 2010) G enere : A mbient Composita midi-libreria ambient, sali-scendi orientali di eniana memoria, microcapsule eteree, ascesi acquatiche eccetera eccetera. L'assortimento di Retold (11 brani, di cui già 6 editi nel 2007) si presenta come un irresistibile ritratto di musica libera ed intensa. Eppure, il duo formato da Otto Totkand, metà dei Deaf Center (e Type Records) e Huw Roberts, boss della Serein, spaventosamente vicino alle timbriche di James Horner, e a cavallo tra la colonna sonora e citazione feldmaniana, non riesce. I brani sono noiosissimi, le soluzioni trite e ritrite, vuoi per il mastering gracchiante, vuoi la pesantezza cosmica dei pezzi.(5/10) Salvatore Borrelli recensioni 53 Nicola Ratti - Ode (Preservation, Giugno 2009) G enere : C hitarra jazz minimale Una splendida confezione-origami in puro stile Preservation ci introduce al cospetto del misterioso universo sonoro di Ode. Nicola Ratti è giunto ormai da tempo alla messa a punto di una raffinata forma di chitarrismo che definiremmo senz'altro jazz tout-court se, nel 2010, non dovessimo ancora fare i conti con dischi di Mike Stern. Chitarra, piano, una voce sussurata (...and Fireworks è quanto di meglio si sia sentito fare ultimamente in musica con la lingua italiana); e poi, il contrabbasso di Chet Martino e la sparuta batteria di Andre Arraiz, entrambi affermati musicisti jazz australiani. E' quanto basta all'artista italiano per declamare un'ode sotto forma di musica (alla musica), monodica nella sostanza anche se spesso timidamente corale - ma chi diceva che il jazz è musica della solitudine non si sbagliava poi di tanto. Con un salto geografico (ma non di sensibilità) ci sentiamo di accostare volentieri Ode ai lavori più riusciti dei portoghesi Manuel Mota e David Maranha. Un disco intimo e denso di quella carica spirituale che sempre più raramente anima dischi di jazz contemporaneo.(7.4/10) Vincenzo Santarcangelo No Sound - A Sense Of Loss (Kscope, Novembre 2009) G enere : post rock / ambient Band d'esperienza con alle spalle una produzione discografica già corposa - gli esordi risalgono al 2001 -, No Sound è post-rock e ambient in una sola soluzione. Dalla copula tra i due generi nasce un figliastro cinematico che cerca di sbrogliare i nodi originati dalle diversità di fondo in un ralenti dalla solennità maestosa. Si sommano archi e chitarre elettriche, voci eteree e synth, in crescendo epici e sognanti che arrivano ai quindici minuti di durata. Per un mix di Sigur Rós, Pink Floyd anni Settanta e Brian Eno omogeneo e paradossalmente spendibile, dedicato soprattutto a chi nella musica cerca pulizia, ordine e saturazione.(6.5/10) Fabrizio Zampighi 54 recensioni Nolan - Secondi fini per fare le ore piccole (Totally Unnecessary Record, Dicembre 2009) G enere : jazz , songwriting Canzone d'autore minimal in chiave jazz, costruita su chitarra acustica, ebow, chitarra elettrica, batteria, contrabbasso e programming. Questo e molto altro nel progetto di Gipo Gurrado, compresa un'imprevedibilità di fondo con cui non di rado ci si scontra e che vive di tempi dispari (La strada opposta), funky deraglianti (La pazienza), arpeggi accelerati (Pedalo seduto) e giochi di parole. Alla lunga emerge un certo gusto per la frammentazione dei suoni e dei concetti, nell'ottica di una musica che se da un lato rimane lineare e avvinghiata alla melodia, dall'altro mostra di sapersi imbizzarrire alla bisogna su crinali elettro-acustici. Facciamo due più due e chiamiamo in causa la “scuola romana” dei cantautori, oltre a quel Marco Parente (Inverno Veritas) che viene in mente come primo termine di paragone. Anche se in Secondi fini per fare le ore piccole ci si prende meno sul serio e si gioca con una complessità dimessa che è ironia più che orchestrazione in senso classico-jazz. Per un esordio che convince con la sua sobrietà e l'ottimo lavoro di strumentisti come Mauro Sansone, Andrea Sicardi, Mell Morcone, Stefano Risso, Lucio Sagone e Attila Faravelli .(7.25/10) Fabrizio Zampighi Numero 6/Enrico Brizzi - Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro (Autoprodotto, Gennaio 2010) G enere : reading rock Il reading che mastica energia nevrastenica di Brizzi, quella febbre di narrare che segue un vivere in bilico per procedere lungo un cammino che ti misuri l'esistere, che misuri il tuo stare al mondo, sul mondo. E poi il sound vigoroso dei Numero 6, infarcito di spigoli, di crepitii fuzz, di pungoli elettronici, melodia strattonata wave con complicazioni emomatematiche. Poli espressivi che s'immischiano e scozzano, s'accendono l'un l'altro ribadendosi, contrapposti e complementari, complici e rivali. Insieme, comunque, lungo questo percorso che racconta la vicenda (ispirata al viaggio a piedi Canterbury-Roma effettuato nel 2006) già narrataci dal Brizzi romanziere nel volume Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro, che ha fornito la base per il fumetto illustrato da Maurizio Manfredi e per la performance omonima (reading + indie rock) condotta dallo stesso Brizzi assieme alla band di Michele Bitossi. Alal fine di tutto questo proliferare di forme ed espressione arriva il suggello di un album, consacrando vieppiù la riuscita di quest'ultimo sodalizio, i cui esiti sono anche migliori del comunque buono Nessuno lo saprà che vide lo scrittore spallegiato dai Frida X. Rispetto a quello, oggi è più incisiva l'interpretazione (ai limiti della recitazione), più scolpiti appaiono i personaggi e più emblematiche le situazioni, fin quasi a sfiorare un rabbrividente grottesco. I Numero 6 sciorinano tutta la loro veemente versatilità, appropriandosi del mood cui forniscono pulsazioni, umori e vibrazioni senza risparmio. Un concept in piena regola per questi anni di scarsa fede in qualsiasi cosa ma anche di devozioni totalitarie. Starci nel mezzo, in itinere, significa anche questo.(6.8/10) Stefano Solventi Nurse With Wound - Paranoia In HiFi (United Dirter, Dicembre 2009) G enere : avantgarde Gente come Stapleton starà sempre avanti anni luce rispetto agli altri, perché il depistaggio e lo smarcarsi è una regola di vita non un modus saltuario di comportarsi. Che poi al giorno d’oggi, essere avanti e originali significhi fare uno, due, anche tre passi indietro questo poi è tra le regole d’ordine del post moderno quotidiano. Ecco allora l’antologia di Nurse With Wound dall’appeal “commerciale”. Paranoia In Hi-Fi infatti è una compilation che raccoglie trent’anni di musica, collaborazioni con Peat Bog, Freida Abton, Aranos e Stereolab, il tutto triturato, spezzettato e tagliuzzato e remixato in 79 tracce da Stapleton e Andrew Liles. Quello che ne esce fuori è appunto un frullato di Nurse With Wound, di cui mette in luce soprattutto il taglio exotic-lounge venato di surrealismo dadaista. Ma dove sta la genialata? Per avere una copia fisica del cd, dovrete recarvi per forza in un negozio di dischi unica forma di distribuzione imposta da Stapleton, così come il prezzo simbolico e ultra discount di 99 pence. Quindi niente mailorder, itunes, o altri metodi più o meno legali per avere una copia del disco. Questo è il metodo che Stapleton adotta per supportare l’esistenza dei negozi di dischi dove andare a cercare e comprare musica. Una questione di vita, più che economica, per uno come lui.(6.8/10) Obsil - Distances (Disaster By Choice, Novembre 2009) G enere : G litch P ost -D igital Micro-patches caosmotiche, affasellamenti vibrafonici e circuiti mitragliati, queste le prime essenze di Distances, seconda fatica di Giulio Aldinucci, Obsil. 13 tracks, frutto di svariati tagli/cuci/incolla, e di una stratificazione barocca e plurifonica, che si spostano in libero movimento, come maree attorno a canovacci mutevoli. Potrebbero essere micro-sogni oggetto, o livelli d'immaginazione parallela sullo stile Serial Experiments Lain, o monadi leibniziane; congegni robotici o congestioni da designer drugs: si tratta senz'altro di quel lato dell'elettronica sperimentale che trae origine da Nuno Canavarro, passando per Oval e Sogar, fino a sciogliersi nella post-digitale, intesa come manipolazione insieme d'oggetti fluttuanti e di dati d'ambiente. S'insinua anche un lato alla Murcof, da textures orchestrali, che ci trasportano su scenari fiabeschi, strani miscugli di musica per balletto e installazione protogiapponese, anche se rendono più sfocata, la miscela sonora del materiale obsiliano. Tralasciando dei passaggi talvolta stucchevoli (B.V. 1-06-08, notte) e la vicinanza con i ben più rodati (e sopravvalutati) Tu'm, i nostalgici dell'era glitch, troveranno certamente pane per i loro denti.(6.7/10) Salvatore Borrelli Oneohtrix Point Never - Rifts (No Fun Records, Novembre 2009) G enere : synth - trance Di Daniel Lopatin negli ultimi mesi si è detto tutto e il contrario di tutto. Saltiamo perciò i convenevoli e passiamo a Rifts: doppio di 2 ore e mezza tecnicamente da inserire nella sezione ristampe per una manciata di rarità e la presenza degli album “ufficiali” (Betrayed in the Octagon, Zones Without People), ma rientrante in zona novità per un terzo lavoro appena uscito per la No Fun a completarne la trilogia, Russian Mind, nonché l'omnia rimasterizzazione da parte di James Plotkin. Il maniaco del synth, il retrofuturista in fissa con la kosmische musik più liquida e sfuggente, l’esteta del suono nostalgico-passatista si mostra così in un processo d'affinamento degli obiettivi: dai più granulosi ed aspri (e ancora acerbi) primi passi, a un sound sgrassato delle asperità e scorie noise verso le rotte della rinascita spacey di questi '00.(7/10) Stefano Pifferi Antonello Comunale recensioni 55 Oren Ambarchi - Intermission 2000-2008 (Touch Music UK, Novembre 2009) G enere : L owercase Sarebbe riduttivo intendere Intermission 2000-2008 un'operazione assemblativa, non è soltanto un'istantanea sulla produzione parallela di Oren Ambarchi, bensì un'opera sorprendentemente zen incentrata sull'algoritmica del monolite, su esotermismi annichilenti; dinamiche che allargano ancor più il raggio di ciò che Oren Ambarchi può e sa fare. Iron Waves con Paul Duncan alla voce, è l'esatta risposta al Transit Fennesz / Sylvian; Intimidator con Anthony Pateras al piano preparato, è una scavatrice di onde basse che infrangono risacche di spazio per inghiottirlo. Otto anni si chiudono in appena cinque traccie che di minore hanno un assetto armonico pestato da cavernosa solitudine. Ed è la miglior risposta di Ambarchi a coloro che lo considerano una figura derivativa, crocevia tra Pan Sonic, Phil Niblock, Jim O'Rourke di una error-music fatta con cavi e saldatori, pedali e macchine midi. L'ultima traccia A final kiss on poisoned cheeks (originariamente apparsa su Table of the Elements), è il paradiso caotico di un disco quasi interamente basato su configurazioni ostili e droni cerebrali.(6.8/10) Salvatore Borrelli Pantha Du Prince - The Splendour (Rough Trade, Gennaio 2010) G enere : minimal techno I concretismi glaciali che danno la spinta a The Splendour li potresti sentire tranquillamente in un disco dei Múm o dei Sigur Rós. Invece sono l’evoluzione dello “spleen of consciousness” di Hendrik Weber: decenni di ascolti shoegaze e dream-pop riportati sulla terra del beat al passo corposo ed energico di una minimal techno in egual misura debitrice di Detroit e Berlino. Water Falls fonde Carl Craig, Basic Channel e Ulrich Shnauss, con un visibile (ma non troppo marcato) tocco ambient alla maniera di Deepchord mentre l’antipasto del nuovo album Black Noise si chiude con Sach Mal Baum, pietanza abbastanza in linea con le premesse: pulsazioni calde e dense che animano microsamples geometrici ed astratti alla maniera di Monolake. Appuntamento rimandato al 18 febbraio per ascoltare il nuovo corso di Pantha Du Prince. L’appetito è stato stimolato quel tanto che basta per salivare ancora.(7/10) Antonello Comunale 56 recensioni Peter Brötzmann - Hairy Bones (Okka Disk, Dicembre 2009) G enere : impro Un super gruppo particolarissimo in cerca di una deliziosamente impossibile quadratura impro, quello che prende vita in Hairy Bones, un'ora abbondante incisa in quel di Amsterdam nel settembre 2008, rigorosamente live. I quattro in questione sono il vecchio guerriero del sax Peter Brötzmann (di cui possiamo ammirare anche l'ottimo artwork), il di poco più giovane (è un clase '48) Toshinori Kondo con la sua tromba elettrificata, e una base ritmica ben più giovane costituita dal talentuoso drummer norvegese Paal Nilssen-Love e dal "nostro" Massimo Pupillo, già bassista degli Zu. Lo schema prevede obblighi e libertà: ci si avventa sull'osso scozzando frenesia e lirismo, strattonando battute e tensione con le vibrazioni truci e ossessive del basso, spigolando sincopi febbrili di batteria, un ordito ispido e teso su cui i due veterani imperversano tramando assalti febbrili, l'un contro l'altro e l'uno con l'altro, dialoghi e contrappunti scontrosi e sconnessi, a tratti formidabilmente lirici. Alle impellenze ayleriane del sassofonista tedesco, il trombettista giapponese risponde spremendo succhi davisiani mercuriali, ma le due tracce concedono tempi e spazi per calcare territori più meditabondi dove anche Pupillo e Nilssen-Love dicono la loro. Disco che scuote come era lecito attendersi, eppure in qualche modo prevedibile, prigioniero delle proprie premesse. Un problema comune a molto impro, ahinoi.(6.6/10) Stefano Solventi Pimmon - Smudge Another Yesterday (Preservation, Giugno 2009) G enere : D rone , glitch Primo album da cinque anni a questa parte per il solitamente prolifico Pimmon, Smudge Another Yesterday ci riconsegna un Paul Gough in splendida forma. Nemmeno il sound-artist australiano riesce ad evitare la malia del drone: accade così che quegli urticanti collage di scarti e rumori un tempo indiscusso marchio di fabbrica vengano diluiti (come edulcorati) nel flusso di un'atmosfera di fondo che, pur restando noise, si concede il lusso di farsi languida psichedelia come provenisse da un disco di Fabio Orsi (col quale, pare, sia in programma una collaborazione a breve). Anche la voce di Kazumi, ospite in Don't Remember con una serie di vocalizzi che si confondono nel magma sonoro, contribuisce ad alimentare sognante - oseremmo dire psichedelico - che rende Smudge Another Ye- highlight Martyn - Fabric 50 (Fabric, Gennaio 2010) G enere : C ompil ation tribal bbreakin - step E' Martyn, consacrato sul palco del Fabric, a festeggiare il 50° anniversario di una delle serie più longeve e amate dalle electroheadz. L'olandese mette in piazza l'anima breaking e celebra la cricca di amici wonkystep che va di moda oggi. E così via alle specialità: street, tribal (Drummin’ di Alec Wizz), 8 bit, insoliti flavour caraibici (Bossa Boogie, stupendo Lost On Tenori Street di Maddslinky) e fumate Toddla T (ottimo il rockreggae remixato di Circles). Tutto un patchwork che si combina alla perfezione, e inoltre ottime le tracce di Zomby farcite di spezie che manco Luciano, la chicca hypno-tagliente firmata Kode9 (Oozi), lo splendore da consolle del sempreverde Actress (Slowjam), l’ortodossia di 2562 (Flashback) e l'acid nordica di Jan Driver (Rat Alert). L'ostinazione al replay automatico sta nella sensibilità del ragazzo, una leggerezza d’altri tempi di uno che acquista più punti in consolle che in studio. Obbligatorio per i fan, consigliato per i parties del nuovo anno.(7.3/10) Marco Braggion sterday uno dei lavori più fruibili (e meglio messo a fuoco) della sterminata discografia di Pimmon.(7.3/10) Vincenzo Santarcangelo Piotta - S(u)ono diverso (La grande onda, Ottobre 2009) G enere : hiprock cros sover Er Piotta e quell'italianità trashy che fa tanto Stacult next generation. Ci sta. Poi però ascolti altro oltre a Supercafone e allora ti chiedi - come pure te lo chiedi dopo esserti sciroppato la videografia dei sodali Flaminio Maphia, quelli di Ragazza Acidella (e loro sono anche peggio) - ma ci è o ci fa? Da tempo Tommaso Zannello ha preso la via del crossover alla Caparezza e - di scorta - alla Articolo 31 versione restyling (ma con meno fortuna commerciale). Ecco allora strumenti suonati (con momenti persino punkrock) e temi "engagé" come TV-cattiva-maestra, immigrazione (con tanto di frammento audio verité), violenza urbana e paura del futuro. Già due palle i temi, tre palle il modo di trattarli. Qualunquismo "contro" della peggio maniera, tipo inno per quattordicenni stipati sottopalco (il singolo title track sembra una versione ancora più enfatica del Salvami del suo mito Jovanotti), con un pezzo che da solo spiega musicalmente dove ci troviamo: Un'altra volta, e cioè Linkin Park (basta!) + Fabrizio Moro (semiplagiato in Scappa). Le predicozze di Piotta fanno rimpiangere quelle di Capa, con quest'ultimo che, per quanto ruffiano e musicalmente adolescenziale, ha dalla sua - innegabili - l'inventiva linguistica e un flow serratissimo. Piotta invece non sembra neppure uno che alle spalle ha dieci anni e passa di rap, sembra adesso uno dei tanti che vogliono fare in qualche modo il cantautore ("contro" o d'amore che sia) e che però scelgono di farlo rappandoci sopra. Genuino, non c'è dubbio, però davvero indifendibilmente ingenuo.(4/10) Gabriele Marino Plan De Fuga - In A Minute (About:Blank, Dicembre 2010) G enere : indie rock Tra la voce à la Eddie Vedder di Filippo De Paoli e un songwriting nervoso che ricorda i Pearl Jam, sembrerebbe quasi di trovarsi di fronte a un quadro clinico già definito, con i Plan De Fuga. E invece ci si accorge dopo qualche minuto di dettagli che stridono, come certe chitarre acustiche al posto delle elettriche e una scrittura che flirta felicemente con jazz e funk. A creare continuità tra i cambi di umore repentini degli strumenti e le melodie istintive, una ritmica costantemente sincopata. Materiale che funziona negli episodi più strutturati (Fresh As Air) e un po' meno negli ammiccamenti palesi (Orange Room) ma che nel complesso fatica a far emergere un'identità precisa, pur offrendo qualche stimolo interessante.(6.5/10) Fabrizio Zampighi recensioni 57 highlight facile etichettarlo come secondario che ricordarsene con ardore.(6.2/10) Owen Pallett - Heartland (Domino, Gennaio 2010) G enere : chamber pop Luca Barachetti Al terzo album, Owen Pallett, assunto il proprio nome al posto del moniker Final Fantasy per evidenti motivi di copyright, ha composto un personale song cycle di fiction contemporanea alla maniera degli adorati Van Dyke Parks e Brian Wilson. Il pretesto narrativo del concept risale a un bel po’ di tempo fa e all’idea di trattare attraverso la fiction temi quali l’appartenenza, lo sradicamento territoriale e, tra le altre cose, la xenofobia. Concepito in quasi un anno di lavoro tra Canada, Stati Uniti e Reykjavik, oltre alla collaborazione di Gentleman Reg, Nico Muhly, Jeremy Gara (batterista degli Arcade Fire) e la Czech Philharmonic di Praga, il lavoro è un equilibrato mix orchestrale nel quale convivono chamber e synth pop, indie e songwriting classico, in un mix di analogico e digitale. Alla base dei brani risiede una concezione polifonica e, come ha rivelato lo stesso Pallett, l'album è stato concepito programmando l’orchestra come un vero e proprio synth, cercando cioé di ricreare quello che era l'esperienza di Final Fantasy nei live: stratificazioni di suono - tendenti alla saturazione - che creavano un muro orchestrale. La liricità e uno spiccato senso della melodia fanno il resto, con empatia e senso alto del dramma, forgiando un disco pop nel senso più compiuto del termine. Il lavoro più maturo del Nostro e la consacrazione che ci si aspettava.(7.4/10) Teresa Greco Puerto Rico Flowers - 4 EP (Fan Death, Gennaio 2010) G enere : P op D arkwave Rhett Miller - Rhett Miller (Shout! Factory, Giugno 2009) G enere : power pop d ' as salto John Sharkey III è il frontman dei Clockcleaner, postpunk band di Philadelphia attiva dal 2003 che solo un paio di anni fa licenziò un ottimo Babylon Rules dalle pesanti influenze Killing Joke (che sembravano però alle prese con delle cover dei Cramps). Oggi il nostro cambia nome e mira al cuore pop degli eighties, come in una versione rock dei Depeche Mode, devozione che ci ricorda i concittadini Cold Cave con la differenza che dove il quartetto di Eisold puntava sull’elettronica, lui integra l’heavy sound della precedente formazione. La batteria è uno stomp che incede minaccioso, il basso possiede l'elettricità di un cavo ad alta tensione e un synth liquido irrora ogni brano di linfa vitale analogica. E la chitarra non serve: Sharkey scrive e registra da solo, aggiungendo un vocione lamentoso a decantare insicurezze e fallimenti. La formula assai azzeccata prepara il terreno per le prossime uscite. (7.2/10) Lavoro in solitaria per Rhett Miller, leader dei momentaneamente fermi Old 97's - ma l'ultimo disco, Blame It On Gravity, risale all'anno scorso. Nelle sue avventure soliste il songwriter texano è solito tirare fuori un'anima power-pop in buona parte distante dall'altcountry d'aurea Uncle Tupelo della band originaria, al quale l'accomuna però lo stesso spirito d'assalto marchiato Replacements. Così accade in questa quarta opera autografa e dal titolo omonimo: un retrogusto Beatles più o meno spiccato un po' ovunque (la rullante Nobody Says I Love You Anymore, l'ascensionale Hapazhardly), qualche devozione Kinks laddove viene tirata fuori tutta la ferraglia per mettere in scena una fantasmagoria a mo' di biglietto d'auguri alla figlia Soleil e il suo centesimo compleanno (Happy Birthday Don't Die) e gli ovvi ammorbidimenti acustici in punta di voce (Bonfire) che interpongono momenti di quiete tra una sgroppata e l'altra. Miller non cala mai di tono, ma nemmeno esalta più di tanto. Certo piace parecchio quando imbastisce un quadretto così velenosamente ironico come in Another Girlfriend, tuttavia soprattutto nei prossimi mesi sarà più Andrea Napoli 58 recensioni Samuel L Session - The Man With The Case (Be As One, Ottobre 2009) G enere : T echno , groove Di Samuel S. Session, svedese di Gothenburg, si sapeva poco prima di The Man With The Case: titolo che fa molto Mission Impossible e vintagedelia fine Sessanta, ma che con l'immaginario in questione non ha nulla a che fare se non la voglia di futuro espressa in un misto di tecnologia, abiti aderenti e apolidismo spinto. Li evochiamo perché sono gli stessi ingredienti portati a battesimo da tre ragazzi di Belleville, Detroit che a furia di mandare a memoria i Kraftwerk fecero una rivoluzione che risuonò almeno fino ai cent’anni del Futurisimo, ovvero l’altro ieri. Le notizie ufficiali del my space danno Session attivo fin dalla genesi della techno ma è soltanto dieci anni dopo, nel 1997, che il producer inizia l'attività vinilica. Dodici pollici, ma soprattutto singoli, si susseguono a gettito continuo da allora sia per label in proprio (Solid Beat, Cycle and Klap Klap) sia per altri (come Planet E, Soma and Intec).Tassello imprescindibile nell'immancabile zona remix: Pump The Move di Kevin Sauderson, il numero tre della famosa triade techno, quello con quei bassi profondi che a Samuel non gli usciranno più dalla testa. Lo svedese li amplifica (e se possibile li dilata); la dorsale dell’esordio è forgiata ed è il maestro stesso a includerlo nel doppio antologico History Elevate dello scorso luglio. The Man With The Case all’old school deve molto ma è un prodotto tutt'altro che derivativo. Il tratto di Session emerge come uno smalto groove asciutto e preciso come gli indizi che riportano alla storia della ricezione techno europea (soprattutto UK). Oltre all’ortodossia Roland, troviamo spezie sci-fi marchiate Korg che da Ibiza ci portano diretti alla Warp (Autechre) ma anche a pionieri come KLF e Orb. Un affaire di miratissimi ingredienti per un album che certamente insegue il sogno del disco techno perfetto. Quasi quasi, il buon Session ha fatto bene a promuoversi con un foto set à la Star Trek. Non ci ridete su, l’uomo viaggia nel tempo che è una meraviglia e se l’amido progressivo di Lucios è il colesterolo buono, quello cattivo si manifesta in due bombe ipnotiche e trancey come The Soloist e Past And Present. Ascoltatelo.(7/10) Edoardo Bridda Screaming Lights - Like Angels (ANTI-, Dicembre 2009) G enere : W ave pop Diviso e indeciso tra wave rock (con le chitarre à la Interpol, White Lies, Editors) e wave pop (ballate al piano, pastelli synth e crooning vellutato à la Ian McCulloch), questo giovanissimo quartetto di Liverpool non convince né in una veste né nell'altra. Bravo chi tira le loro fila. Chi li ha fatti provare e riprovare. Ma non è proprio una cavia da contest - il cui obiettivo prossimo è già una certa adultness firmata Coldplay o Starsailor - quella di cui abbiamo bisogno. Fucilate chi ci sente i Teardrop Explodes, o appiccica facili paragoni a certa epica Echo & The Bunnymen, piuttosto sentiteci i Comsat Angels dai quali gli Interpol hanno preso gli aspetti più kitch. Avranno anche vinto il referendum degli ascoltatori BBC come migliore band emergente presente al festival di Reading, ma dietro a una bella voce c'è un karaoke senza passione e, come dicono loro, pretty sweet, fuck you.(6/10) Edoardo Bridda Sergio Altamura - Aria meccanica (CANdYRAT Records, Dicembre 2009) G enere : wave rock Si è sognato chissà quale film, Sergio Altamura da Molfetta, e se lo è musicato. Disegnando cerchi eccentrici, concentrici, incrociati, il perno ficcato nella chitarra acustica (6 e 12 corde), suonata sia in purezza che in regime di marcata rielaborazione, l'archetto e gli effetti sintetici, le percussioni frenetiche sulla cassa armonica nel pullulare tribal-wave. Il tema, se ho ben capito, è il conflitto tra l'individuo senziente e lo spazio disumanizzante della metropoli, dove la natura residua è testimone muto e ultimo ricettacolo di speranza. Le tentazioni ambientali rimandano a certe angosciosi e suggestivi trip Robert Fripp & Brian Eno, il languore mediterraneo alla potabile indolenza d'un Mauro Pagani, quell'ariosità da landscapes trasognati al Pat Metheny in vacanza dal jazz. Poi però ti convinci che questo disco - il secondo a suo nome - non potrebbe esistere senza il caracollare sperso dei Red House Painters e le digressioni ab libitum di tanto post-rock, per non dire della strisciante inquietudine contemporanea che puoi far discendere dalla post-wave Depeche Mode e far risalire persino ai Radiohead. Bellissimo lo pseudo camerismo di Arkestra, suggestive le volute di Dragonfly e le battenti irrequietezze di Flipper Special. Disco deliziosamente inqualificabile.(7/10) Stefano Solventi recensioni 59 Strange Flowers - Vagina Mother (Go Down Records, Novembre 2009) G enere : rock - psichedelia E' psichedelia didascalica e un po' facile, quella degli Strange Flowers. Materiale che gioca con gli stereotipi di genere adagiandosi tra navigato stupore e mestiere, qualche buona idea e clichè. Dalla sua, una scrittura che riesce a conciliare chitarre elettriche e melodie pop da garage band Sixties, con in più reminiscenze Black Rebel Motorcycle Club (Blue Mother), malinconie Ride (Powder Tears), parentesi barrettiane (Seven Years Old Poets) e qualche rilettura sorprendente di standards fuori asse (la cover trasfigurata della Hollywood di Madonna). A fare da collante wah wah onnipresenti, echoes, deviazioni acide controllate (il finale vorticoso di The Insect And The Fish) e mai troppo spinte lungo il crinale della sperimentazione. Il che ci porta a concludere che l'obiettivo della band pisana sia soprattutto diffondere il verbo, affamando un tantino il fervore in favore di una formula digeribile ai più e friendly a sufficienza per garantirsi qualche passaggio radiofonico fuori dai soliti giri. Produce Federico Guglielmi del Mucchio Selvaggio, per un disco psichedelico nella forma più che nella sostanza ed esentato dal correre grossi rischi. Dopo due decenni di underground alle spalle - il primo episodio della band risale al 1990 - sembra quasi comprensibile.(6.6/10) Fabrizio Zampighi Strong Arm Steady - In Search of Stoney Jackson (Stones Throw, Gennaio 2010) G enere : hip hop Gli Strong Arm Steady del nero-albino Krondon avevano già incrociato Madlib un paio di volte e, al momento di sfornare il secondo LP, ne hanno voluto la prestigiosa firma alla produzione (le basi sono state scelte dal gruppo su una vasta selezione di beat approntata highlight Unthanks (The) - Here’s The Tender Coming (Rough Trade, Settembre 2009) G enere : modern folk Impresa ardua tenere testa a un predecessore discografico che ha impressionato per qualità e raccolto premi ed elogi ovunque, riviste e nomi celebri inclusi. Ancor più se, al terzo lavoro, si rifiutano comode opzioni pur mantenendosi fedeli a un’immaginaria linea tracciata a congiungere coscienza del passato e desiderio di ammodernamento. Assecondando, in altre parole, la regola che consegnare musiche oggi importanti, che da qui a dieci o cinque anni riassaporerai intatte in tutto il potenziale evocativo e in tutta la bellezza. Solo pescando dal proprio retaggio - qualunque esso sia - con atteggiamento felicemente “interpretativo” hai la chiave del rebus: non è cosa alla portata di tutti e altrettanto valga per l’abilità prodigiosa di rimanere distinguibili nel cambiamento. Tali erano dunque i presupposti del disco e le risposte sono un nome di battesimo diverso (nel quale Rachel Unthank adegua il ruolo della sorella Becky nel progetto) e l’espansione della formazione allo strumentista Chris Pierce e al produttore Adrian McNally. Soprattutto il cambiare rotta senza scossoni, affidandosi ad arrangiamenti ricchi sebbene bilanciati e a un’accentua presenza della sezione ritmica, cui sono da aggiungere - e, in parte, attribuire - melodie avvolte di un’inedita luminosità. Senza che la compattezza dell’opera venga meno, accogli la sublime Annachie Gordon (acusticherie, minimalismo e prog del più acuto), le venature pop dell’elaborata Lucky Gilchrist, il gusto per intrecciare forme cristalline della traccia omonima e di Sad February. Salvo cedere definitivamente di fronte a ciò che tutto unisce grazie a una capacità comunicativa mai scontata, valgano a esempio l’iniziale Because She Was A Bonnie Lad, una Living By The Water jazzata e cameristica, il riaffacciarsi di atmosfere cupe nel madrigale At First She Starts. Così il folk anglo-celtico respira una vita sperimentale, moderna, fresca. Nuova, anche, per quel che storia ed evoluzione permettono negli indecifrabili Anni Zero.(7.6/10) Giancarlo Turra dall'amico e sodale di Mad J Rocc). Momenti buoni sia nella musica che nel flow e un paio di pezzi ottimi, eppure uno score stiracchiato. Forte la sensazione di assemblaggio e routine madlibiana alla base della solita collaudata miscela funkdiscosoul, senza lampi particolari. Gli Strong come rapper sono apposto, ma la classe è materia per i guest Planet Asia, Guilty Simpson (in uscita per lui un album sempre prodotto da Mad, il singolo è già fuori) e Talib Kweli. Per completisti della West Coast Duemila e della discografia madlibiana.(6/10) Gabriele Marino Supersilent - 9 (Rune Grammofon, Gennaio 2010) G enere : avanguardia 9 e lode, verrebbe da dire giocando con la scelta numerica che da sempre contraddistingue la discografia del collettivo norvegese. Sì perché, tanto vale dirlo subito, 9 è un disco discutibile quanto si voglia, ma che innegabilmente segna un passo ulteriore nella circumnavigazione del (post) jazz d’avanguardia degli anni '00. Perso per strada il batterista Jarle Vespestad, l’ormai trio si è messo l’anima in pace e ha deathprodizzato la propria proposta: solo organi hammond moltiplicati per tre che rendono ancor più astratte le composizioni untitled cui siamo abituati. Gli orizzonti si rarefanno e paradossalmente i pezzi acquistano un respiro (se possibile) ancor più ampio rispetto ai precedenti. Ai confini del noise minimale e chiesastico (9.2), dentro un abisso di solitudine innevata (9.3) o intento a infiorettare ambient sfuggente da aurora boreale che si fa quasi horror (vacui) soundtrack (9.4), il terzetto imbastisce un disco cosmico e oscuro, psichedelico e ancestrale e sicuramente unico nella propria discografia. Che sia un nuovo inizio o un episodio a sé stante, solo il tempo saprà dircelo.(6.9/10) Stefano Pifferi Tempelhof - We Were Not There For The Beginning, We Won't Be There For The End (Distraction, Novembre 2009) G enere : ambientronica Chiedete ai Tempelhof una definizione di elettronica. Vi citeranno Brian Eno, certo ambient in minore, una 60 recensioni techno minimalista e un krautrock a maglie larghe. E' ciò che si ascolta nel disco della band mantovana, tra dilatazioni in crescendo rubate a un post-rock in salsa Notwist (The Black Calypso) e parentesi cinematiche da dieci minuti di durata (Ten Years After), campionamenti in reverse (Song For Lily) e “multistrati” à la Tim Hecker (la title track). Nel gioco di sponda che si fa equilibrio più che sperimentazione fine a se stessa c'è personalità e una certa eleganza formale, filtrata da un approccio metodico e cristallino. Il gruppo sa dove mettere le mani, anche se un minimo di weird in più non avrebbe certo guastato in un programma che affida a un pianoforte "normalizzante" il compito d'indirizzare la spinta centrifuga degli sfondi evocativi.(7.1/10) Fabrizio Zampighi These New Puritans - Hidden (Angular Recordings, Gennaio 2010) G enere : M edioeval wave Jack Barnett, voce chitarra e mente dei TNPS, basta guardarlo negli occhi. Il suo è lo sguardo di chi alle interviste mente sornione e di chi alla bisogna sa e conosce il suono della propria creatura in ogni particolare inimmaginabile. Con Hidden, è chiaro che le teste basse dei compagni di cordata fanno compagnia allo sfondo della tela e il maître ha pensato in grande. Per mesi ha cogitato il next step bilanciando millimetricamente la semplicità e pulizia del formato (pop come lo chiama lui) alla complicazione dell'arrangiamento con perseveranza e maniacalità rimarcabili. Non pago, si è persino trasferito per un breve periodo a Los Angeles per attivare con Dave Cooley (il fonico preferito dalla Stones Throw) una partnership per il missaggio e, nel frattempo, ha ottenuto da Graham Sutton (Bark Psychosis, Boymerang) una co-produzione per l'album. La nuova miscela doveva ed è il sorpasso di quel Beat Pyramid che già mirabilmente si configurava come post punk pensato con i sequencer (e i bassi) dell'hip hop e le terzine (e la melanconia) del dancehall; lo rappresenta per uno stuolo di espedienti a entrare in scena, alcuni spettacolari come i tamburi Taiko, altri da segaioli sottoforma di field recording di meloni e lame che ricordano Matthew Herbert; e sorpattutto per gli smalti e i sapori medioevali (nostri e giapponesi) trattati secondo dettami minimalisti (le forme semplici e geometriche recensioni 61 delle Vexations di Satie) e caratterizzanti un nuovo corso settato (oltre che sul tipico canto codice Morse), su inni, fanfare, cori quasi gregoriani e di bambini e così via. Già tra le righe il passo falso di un'operazione del genere è intuibile, eppure nel singolo non ci sono che i pregi di tanto lavoro; ottimo il bilanciamento caldo degli ottoni (dimenticavamo una piccola orchestrina ingaggiata per questa e altre tracce) alla solenne e secchissima percussività delle drums nipponiche, espediente che ritroviamo anche nell'altra bella Drum Courts-Where Corals Lie, nella quale un inedito Jack, dolce e accorato, osserva le profondità marine narrate. Altra traccia riuscita Three Thousand, converte in thrilling le voglie soundtrack à la Massive Attack del singolo pur dandoti quel brivido post-Wire che non guasta e che troneggia in una dura Fire Power, finalmente senza troppe menate e giochi d'angolo. Strega e, al contempo, ti lascia addosso un'irrisolta ambivalenza (quando non un poco di irritazione) il sophomore dei TNPS, ambiguità che non si scioglierà neppure dopo ripetuti ascolti. Calcolata è calcolata anch'essa, ma non doveva essere semplicemente pop?(6.9/10) Edoardo Bridda Todd - Big Ripper (Riot Season, Novembre 2009) G enere : N oise R ock Instancabile Craig Clouse. Dopo appena 2 mesi dall'uscita dell'ultimo Shit & Shine, sempre sotto Riot Season, eccovi tredici tracce di garage noise delle origini, né riveduto né corretto, semplicemente ultramplificato firmate dai suoi Todd. Come per il precedente Comes To Your House, tra mono riff caciaroni, latrati David Yow, e ritmi 2 quarti, è come ai bei tempi Amphetamine Reptile, quando i bassi muscolosi parlavano la lingua di Melvins e Cows, anche se qui l'impianto è aggiornato Lightning Bolt così da stuzzicare le leve più aggiornate. Declinazioni del verbo madre sì ...e mega-crunch-boostStooges.(6.9/10) Leonardo Amico Tommy T - The Prester John Sessions (Easy Star, Novembre 2009) G enere : etnorock Thomas T. Gobena è l'attuale bassista dei Gogol Bordello. Se con la band "madre" vive già un'idea di contaminazione musicale forte, strapazzata e casinara, con questo esordio solista spiazza tutti, proponendo una jam invece compostissima, in odore di worldfusion, a cavallo tra turnismo di classe e pastosità reggaedub alla Fat 62 recensioni Freddy's Drop (non mancano pure funk e psichedelia, assolate e sabbiose). Alla base della miscela, ci tiene però a precisare l'autore, stanno i temi e i modi tradizionali del paese natio, l'Etiopia, tanto che in filigrana lungo tutto il disco - prevalentemente strumentale - si dovrebbe leggere la narrazione per quadri sonori delle vicende di Prete Gianni (il Prester John del titolo), personaggio leggendario del folklore etiope e della tradizione cristiana medievale. Tommy T, come Prete Gianni, vuole celebrare le bellezze della propria terra e si propone come loro ambasciatore nel mondo. Disco suonato benissimo (registrato in rilassatezza nell'arco di quasi tre anni) e risultato di assoluta piacevolezza, una piccola sorpresa etnorock, tenuta comunque in conto la ripetitività delle take più reggaedub e la nota francamente stonata del cameo finale dei compagni di Bordello.(6.8/10) Gabriele Marino TwinSisterMoon - The Hollow Mountain (Blackest Rainbow, Novembre 2009) G enere : psyck folk Ormai lo sappiamo. Twisistermoon altro non è che Mehdi Ameziane in trasferta nelle lande naïve di un suono folk magico e pagano, libero finalmente di dare spazio all’altra metà del suo cielo. In pratica, un lato ben preciso del diamante chiamato Natural Snow Buildings, che invece gioca proprio sull’alternanza e la varietà. Stando alle metafore proprie della band, qui c’è solo la luna ad illuminare i passi di una musica mai così umorale e “sentita”. Pubblicato esclusivamente in vinile in un centinaio di copie ad inizio 2009 da Dull Knife, The Hollow Mountain, ultimo parto solista, vede ora nuova luce grazie alla stampa su cd messa in essere da Blackest Rainbow. Lavoro molto centrato e omogeneo, che inizia lì dove finiva il precedente Levels And Crossings, ovvero sulle note di un raga folk occulto e primitivo (Druids), salvo poi abbandonarsi nella infinita mestizia cantata a mezza voce, ricurvi sulle note di una chitarra pizzicata come se fosse l’ultimo atto definitivo prima di morire. Mehdi si abbandona quindi ad uno struggimento da ultimo dei romantici (Sun Snaring, Errand, The Hollow Mountain), con una natura che riscalda cuori solitari da errabondi in terre di nessuno (Walhalla) e una connessione con gli spiriti gentili di un romanticismo senza freni (“Please let me keep one of your eyes. I will swallow it, so you’ll know me from the inside” da Unseen Seen). Il disco originale finiva poi sulle note disperate di una Conjuring che lasciava in qualche modo il discorso aperto. Volutamente chiuso questa volta con un mini ep di corredo messo in appendice a mo’ di bonus tracks “nascoste”, ovvero Doomed Me In Skies To Dwell che si articola in altre nove tracce e suggella in modo definitivo il miglior disco (dei tre e mezzo pubblicati finora) di Mehdi Ameziane. Solange arricchisce come suo solito con artwork spettacolare.(7.5/10) Antonello Comunale Vinegar Socks - Self Titled (Grinding Tapes, Dicembre 2009) G enere : folk blues Mi fanno pensare a degli Arcade Fire fermi ad un crocicchio assieme al Mike Scott solista, intenti a decidere se prendere la via d'una taverna dove li attende un frugale Tom Waits o di un cinema dove proietteranno il Pinocchio di Comencini. Oppure un Patrick Wolf che risciacqua i panni nel camerismo irrequieto dei Venus. Sono i Vinegar Socks, un duo "aperto", nato nel 2008 dall'incontro tra il chitarrista e cantante statunitense Jordan De Maio col violinista italiano Paolo Petrocelli. Il loro è un folk che inspira tradizioni trasversali ed espira tremori contemporanei. Gli spazi bretoni, gli umori mediterranei, malanimo mitteleuropeo, inquietudini gotic, una certa veemenza da busker che gioca a dadi tra epica e marciapiedi (con l'epica dei marciapiedi), puntando ad un immaginario da cinema che spiccia visioni ad altezza d'uomo. Non a caso il loro primo impegno è stata la soundtrack di Dieci inverni, opera prima di Valerio Mieli presentata alla Mostra del Cinema di Venezia del 2009. Il precedente è di tutto rispetto, però stupisce la maturità di questo omonimo esordio, vuoi per la matura intensità della scrittura vuoi per la ricca essenzialità degli arrangiamenti, innervati certo su chitarra e violino ma cui contribuiscono archi, oboe, contrabbasso, il tipico bodhràn irlandese e soprattutto un mandolino che in un certo senso ribatte le cuciture. Tra le dodici tracce, spiccano la delicata doglianza di Vacation From A Vacation, il trascinante languore di Salesman In Love e lo swing da bettola alla fine del mondo di Zeppo. Un gran bel disco, del tipo out of time che ti guarda negli occhi.(7.3/10) Yello - Touch (Polydor, Ottobre 2009) G enere : elettronica hi - tech E' un piacere scrivere degli Yello. Anzitutto perché, anche questa volta, parliamo di un album piacevole; poi perché la 16sima fatica da studio (compilation più, compilation meno) a 6 anni dal precedente The Eye (se si esclude Progress and Perfection, opera strumentale del 2007 limitata a 350 copie) aggiunge qualche spezia alla già ricchissima ricetta del duo svizzero. L'incipit The Expert trae in inganno, proiettando l'orecchio attento nelle atmosfere dei titoli più recenti; il secondo passo, complice la voce della connazionale Heidy Happy, attualizza il discorso verso una lounge impastata a malinconia adulta e quasi insperata per i nostri. Lontana è l'enfasi di Shirley Bassey nella declinazione The Rhythm Divine: uno straniamento nordico sbuffa direttamente in gola quella secca eleganza che giocherà da collante per il resto dell'album (Vertical Vision, Stay). Out Of Dawn è amore perduto, per il sottofondo di un wine bar hi-tech (ma una chitarra classica in carne e ossa sarebbe stata preferibile al suo campionamento); Till Tomorrow vanta la tromba post Chet Baker del tedesco Till Brönner; Tangier Blue brilla di una cupezza in bilico tra esoterismo e delicati manierismi esotici. Perdonati certi inevitabili episodi di funky robotico, il rimanente si conferma in virtù di un'invidiabile ispirazione. Il rifacimento del classico Bostich suona invece come un omaggio dovuto (ah sì?) per la frangia dei fan irriducibili. Complessivamente Touch si attesta tra le prove più riuscite e godibili della seconda fase Yello, quella cioè nella quale un artista, delineata l'originalità del suo stile, trascorre le ore rimanenti della propria creatività ricamandoci attorno ghirigori a forma di variazioni. (7.6/10) Filippo Bordignon Stefano Solventi recensioni 63 live report Pan Sonic/Martin Rev L ocomotiv B ologna 28 N ovembre 2009 Le due facce del rumore. Chi non può che prendersi poco sul serio, e chi ha bisogno di celebrarsi. Nuove e vecchie mitologie I due lati opposti del mito. O meglio, le due interpretazioni sulla linea di superficie. Una serata con Pan Sonic che si celebrano per l’ultimo degli ultimi concerti (o quasi) e un Martin Rev che porta sul palco il suo passato è ricca di considerazioni per il mondo sofisticato - e underground, sia chiaro - dell’elettronica. E quindi non è male vedere le due attrazioni specchiarsi l’una sull’altra e notarle riflesse con notevoli divergenze. Ma andiamo con ordine. Apre le danze al Locomotiv di Bologna il redivivo Martin Rev, che sfoggia i mitici (non è aggettivo usato in senso ingenuo) occhiali da sole dei tempi che furono per dire che i tempi sono. Indefinibile la sua età (in realtà nota, basta fare due conti). Ineccepibile la forma. Intatta la nonchalance. E il ghigno con cui esalta chi vuole divertirsi con l’ironia con cui Rev si approccia e ci ripresenta oggi a quel periodo - e quella band - che tutt'ora porta con sé una sacralità intatta. Parliamo della no-wave, e dei Suicide, ovviamente. Della band Martin ci riproduce - come spirito, soprattutto, e con tanto di vocalizzi strozzati alla Alan Vega - il secondo disco, con quel gioco synthetico, urbano e già più glam che intellettuale. Eppure ancora essenzialmente “no”. Qui sta la capra e il cavolo. Ciò che sottolinea lo snellissimo Martin e il suo armamentario di elettronica è la possibilità oggi di aprire un barattolo e ascoltare anche dal vivo la nowave in vitro. La no-wave che non appartiene più solo a un tempo e a uno spazio irraggiungibili, i cui protagonisti in tanti abbiamo visto direttamente sul palco. E per uno che denuncia a suo modo l’artificialità della purezza del mito, altri due che si prendono sul serio 64 recensioni finendo per risultare meno credibili. Qui partiamo dalla fine. Una scritta cubitale passa sugli schermi che fino a poco prima avevano ospitato il più classico e atteso spettrogramma minimale tipica degli ex-Panasonic. La scritta recita, appunto, “Pan Sonic”. Celebra un evento avvenuto. E chiude con coerenza un set fatto di scarsissimo rigore, e che quindi di fatto ha negato la principale cifra distintiva dei Pan Sonic. Almeno dal vivo. Pezzi isolati, scoordinati tra loro, sbruffonate di rumore bianco (seppure bellissimo), tanti stralci di Kulma (per i fan), molti colpi a effetto. Le orecchie apprezzano, il corpo e la mente meno. Niente di grave. Li aspettiamo a rinnovare il rigore (in vitro), in una reunion. Gaspare Caliri Woven Hand/Six Organs Of Admittance T eatro R asi R avenna 18 N ovembre 2009 Un polverone folk che torna alle radici con Six Organs Of Admittance e Woven Hand Ammirevole.Traslare il rock meno convenzionale dal palcoscenico di un club a quello di uno dei teatri più illustri di Ravenna. Bronson Produzioni si conferma come una realtà solida guidata da appassionati e noi ringraziamo sentitamente. Anche perché non capita tutti i giorni di poter assistere a un doppio concerto comodamente seduti, con un impianto luci degno di questo nome e un suono avvolgente. Senza dimenticare il valore aggiunto dell'abside della chiesa monastica di Santa Chiara a fare da sfondo naturale a un evento che, sulla carta, è di quelli da non perdere. Six Organs Of Admittance e Woven Hand: come a dire, due modi diversi di dare alla musica una valenza profonda e lontanissima nel tempo. I primi persi in un fingerpicking dilatato in bilico tra psichedelia e suoni ancesterali, i se- woven hand condi spacciatori di incubi biblici e metà oscure da “bassa” sudista americana. E' un polverone folk che torna alle radici, e poco importa che la chitarra di Ben Chasey sia una Fender elettrificata o che il sempre coreografico David Eugene Edwards macini fondali registrati di synth sulle solite fucilate di sei corde tremolanti. Ci sarebbe di che gioire, ma ci accorgiamo con il passare dei minuti che non è tutto oro quel che luccica. A disilluderci pensano proprio i Six Organs Of Admittance, a cui tocca aprire. Ce li aspettavamo lucidi, razionali e invece per la prima mezz'ora ci troviamo di fronte a un'entità scoordinata, poco in serata, persa tra coinvolgimento ai minimi storici e suono impastato, autoflagellazioni strumentali e resa mortificante delle ottime cose ascoltate su disco. Più che a John Fahey, Chasey somiglia a un John Garcia dei Grateful Dead musicalmente sovrappeso e poco creativo, con i suoi virtuosismi freddi come il marmo e il resto della band (batteria e due chitarre elettriche, di cui una torturata dalla Elisa Ambrogio già nel libro paga dei Magic Markers) che lo segue in ogni passo falso. Difficile giustificare il tutto, se non chiamando in causa un momentaneo sbandamento. Tanto più che nella seconda parte di set ci si riprende un poco - anche grazie a un battere ai tamburi capace finalmente di sintonizzarsi sulle divagazioni elettrificate del front man -, ritrovando il bandolo della matassa e riuscendo a recuperare la compattezza necessaria per chiudere (quasi) in attivo. Discorso diverso per Woven Hand. Il buon Edwards è di casa qui, come dimostra il suo passaggio all'Hana-Bi di Marina di Ravenna della scorsa estate. Tanto che ormai il musicista americano recita come da copione, con le solite pose da tarantolato, echoes Mississipi anni '30 e un'espressione che da sola fa metà concerto. Bandana in testa, riflettore costantemente puntato sulla sua persona, voce riconoscibilissima e accordature aperte sotto un bottle neck che con due note butta giù il teatro. Un misto di mestiere e reale trasporto che piace da morire, sorretto com'è da un power drumming studiato ad hoc e certi bassi di regola coriacei e inquietanti, anche se non sempre a tono. Come nel caso di una Straw Foot ripresa da Secret South dei Sixteen Horsepower, di cui questi ultimi contribuiscono a minimizzare il fascino arcaico con un'invadenza quasi fuori luogo. I momenti migliori, comunque, sono quelli in cui il leader della formazione si concede in solitaria, alternando alla schiera di chitarre riposte in ordine alle sue spalle la banjola d'ordinanza. Il mood ne guadagna a dismisura e in questa veste emerge pure il reale background di Edwards. Sospeso consapevolmente tra tradizione rock-blues e un approccio al canto radicale, come potrebbe essere quello di un muezzin arabo o di un nativo americano. Anche nella Heart & Soul cover dei Joy Division che come di consueto chiude il set e manda tutti a casa col groppo in gola. Fabrizio Zampighi recensioni 65 Ettore Giuradei/Mariposa/Il Pan del Diavolo.... N everl andinverno C astello C olleoni B ergamo dal 14 N ovembre 2009 al 19 D icembre 2009 grazie ad una presenza di palco fisica e degenerante. Allo stesso modo cantautorale la terza serata, che vede Airìn e le sue melodie ariose con testi tra l'intimo e l'ironico ma una voce non sempre all'altezza fare da spalla all'esibizione assai intensa di Paolo Cattaneo, bresciano con ascendenze Riccardo Sinigallia e trance pianistica che abbraccia i presenti sempre di buon numero. Un castello, una serie di concerti, un luogo che d'in- De Il Pan del Diavolo si è parlato tanto in questi mesi contro che nasce. E nella provincia bergamasca non e con merito, vista la solita rustica irruenza portata ansolo i cartelli dei paesi scritti in dialetto, il dio Po e che nell'esibizione di Solza che ha aperto il cartellone di dicembre, ma l'impasto Rino Gaetano-Marta Sui le ronde Tubi-Violent Femmes alla lunga pare un ricorso stoArrivato alla seconda edizione, Neverland. Isola senza rico non così necessario e la curiosità (di verifica) per il confini fa il passo che ti aspetti, ovvero si allarga e acqui- primo disco sulla lunga distanza in uscita prossimamente sta importanza. Da due o tre anni a questa parte musical- è tanta - mentre poco da dire sugli Arturo Fiesta Cirmente parlando nell'Inverno della provincia bergamasca co in gravitazione come troppi altri sul pianeta Vinicio non succede quasi nulla, e così il festival organizzato al Capossela. I Mariposa invece portano al Castello ColCastello Colleoni di Solza - e ribattezzato per la parte leoni un progetto speciale, la riproposizione per intero autunnale-invernale Neverlandinverno - dall'Associa- dell'esordio Portobello Illusioni riletto alla luce delle zione Luna Nuova con la direzione artistica di Alessandro esperienze successive, e offrono la miglior esibizione di Giovaniello (lo stesso di Rockisland, sorta di contraltare questa edizione di Neverland e, per chi scrive, una delestivo “anziano”, diciotto edizioni quest'anno, a Never- le loro migliori di sempre. Li apre il cantautore psicheland) diventa punto di riferimento, occasione di passaggio delico Dario Antonetti, sorta di Antoine proveniente e incontro per appassionati, addetti ai lavori e musicisti.; da Marte che snocciola non-sense acustici sotto l'omIdeale il luogo, il suggestivo castello che nel 1395 diede bra verdeacida di Syd Barrett e il saltuario accompai natali al condottiero Bartolomeo Colleoni, con la sua gnamento alla batteria di Alessandro Fiori, ispiratissimo divisione tra sala-bar e sala concerti che evita il difetto come i compagni che nel loro set offrono al pubblico tutto italiano di chiacchierare durante i set (chi vuole tutta la magia del progetto Mariposa - leggasi musica ascoltare sta dentro, chi vuole parlare va al bar) e che al componibile: che diventa a seconda dei momenti deriva contempo favorisce una dimensione intima, spesso acu- radiofonico-psichedelica, quadretto Yann Tiersen grastica, dove la musica si sente (bene) e anche si vede. Suc- vido di malinconia, folleggiamento di accelerazioni funky, culento il cartellone, con sei appuntamenti tra novembre improvvisazioni linguistiche e cori alpini.; e dicembre sempre di sabato (e tanti altri da gennaio a Ultimo appuntamento infine con Tablo (cantautoratomaggio 2010, tutti gratuiti) e due esibizioni per sera con pop acustico dagli esiti Roberto Angelini-Niccolò appendice di altre sei date al Bloom di Mezzago, a spa- Fabi che deve crescere) ed Ettore Giuradei con le ziare agilmente nelle lande sempre più ampie dell'indie canzoni del pluripremiato Era che così. Un piccolo culto discografico quello del bresciano per il pubblico che songwriting italico cogliendone spesso le cose migliori. L'inizio è affidato ad un set in solitario di Federico Fiu- canta le canzoni a memoria tendendo gli occhi fissi sulla mani, aperto dal discreto cantautorato blues dei Gui- sua mimica surreale - di Giuradei tra l'altro si attendono gnol. Il rocker fiorentino, in gran forma, non si piega alla con ansia brani nuovi. Arrivederci dunque al 2010, per la dimensione acustica ma presenta un vero e proprio live seconda parte del festival (Edda, Max Manfredi, Bachi dei Diaframma senza basso e batteria, rimanendo in da Pietra tra gli altri) a chiudere l'Inverno e continuare piedi per tutta l'esibizione con la sua telecaster in mano finalmente una (vera) Primavera. e lasciando il microfono anche al pubblico numeroso, (Grazie a Roberto Bonfanti) con un paio di momenti che sfiorano il karaoke-rock. SeLuca Barachetti guono il sabato successivo Caso e Dino Fumaretto, entrambi a vagare in zona cantautorato seppur secondo traiettorie ben diverse: gravido d'urgenza e voce maltrattata con imprinting punk il primo (che cerca il contatto col pubblico lasciando microfono e amplificazione della chitarra), più coinvolgente che su disco il secondo anche 66 recensioni La casa editrice Odoya e SentireAscoltare presentano: PJ HARVEY Musica.Maschere.Vita Un libro di Stefano Solventi La sua musica è una sferzata misteriosa e misteriosamente liberatoria. Un’ossessione blues sbocciata nella culla del Dorset, cresciuta tra inquietudini adolescenziali e una incontenibile brama di mondo. Quando infine è esplosa, lo ha fatto col piglio travolgente dei predestinati. Dei suoi primi quaranta anni, Polly Jean Harvey ne ha dedicati venti a tracciare una parabola fatta di musica, maschere e vita. 240 pagine Volume illustrato euro 15,00 CONCEPT ALBUM Un libro di Daniele Follero Introduzione Franco Fabbri Nata sull’onda della rivoluzione musicale di fine anni Sessanta, la pratica del concept album ha accompagnato la maturità del rock, scrivendo un capitolo importantissimo nella storia della popular music. I dischi “a tema” continuano ancora oggi a rappresentare un affascinante mezzo espressivo, anche negli ambienti del pop da classifica. I recenti concept album dei Green Day sono la testimonianza più lampante di un filo rosso che, partendo da Frank Sinatra, tiene insieme Sgt. Pepper’s dei Beatles, Tommy degli Who, The Dark Side of the Moon e The Wall dei Pink Floyd, le storie d’amore di Claudio Baglioni arrivando fino ai Dream Theater e al brit-pop. 226 pagine Volume illustrato euro 15,00 www.odoya.it www.sentireascoltare.com In tutte le librerie recensioni 67 Gimme Some Inches #1 Anni '00: Il ritorno del vinile. No, non è il titolo di un sequel di qualche brutto b-movie d’antan, ma una riflessione su quello che sta succedendo da un po’ di tempo a questa parte. Se c’è una certezza in questi anni di micro-rivoluzioni durate lo spazio di giro di lancette è quella del trionfo di mezzi e sistemi “antiquati” per la diffusione della musica. In principio fu il cd-r, con relativo florilegio di etichette homemade che unite agli strumenti del web 2.0 (myspace e p2p su tutti) hanno allargato a dismisura la circolazione e la fruizione della musica (fu) “underground”. Sull’onda di questo rifiorire casalingo, manifatturiero e low cost, sono riemersi all’attenzione di pubblico e musicisti altri obsoleti mezzi di divulgazione: cassette e vinili. Spesso se non sempre in modalità artisticoartigianali, con tanto di copertine fatte a mano, edizioni limitate, colorate, serigrafate, incise ecc. ecc., questo ritorno al passato ha contagiato 68 recensioni ogni ambito delle musiche underground, fossero esse di stampo garage, weird-folk, indie o appartenenti all’universo in continuo divenire del noise. È perciò per celebrare la riscoperta del vinile – riscoperta più che rinascita – che qui a SA abbiamo deciso di aprire uno spazio che agisca da scandaglio sulle innumerevoli uscite “minori” (per formato, sia chiaro) degli anni '00: vinili a 7, 10 o 12 pollici, ep e split, nastri, cd-r in vari formati. Questo sarà coltivato nel nostro piccolo orticello. +++ Lucidate le puntine e riesumati i mangianastri inauguriamo Gimme Some Inches. Partiamo da casa nostra, in cui mai come ora ci si distingue nella vecchia arte del plasmare il vinile grezzo. Prendete la Wallace di Mirko Spino. Non soddisfatta di aver superato il decennale a furia di spie al rosso e uscite rumorose, da un po’ di tempo a questa parte sembra prediligere il vinile. Lo fece tempo addietro al momento di stampare il 10” Fula Fula Fular dei R.U.N.I. e continua a farlo tuttora: le ultime uscite (Two Feathers dei Rollerball e Kimidanzaigen di Plasma Expander) escono in versione lp+cd, oltre che in collaborazione (diy as a way of life) con molte altre etichette italiane. A incuriosirci è una collaborazione a 45 giri (in combutta con Holidays Records) tra i campioni dell’instrumental rock 70s oriented Rosolina Mar e la (out) folk chanteuse Larkin Grimm: due pezzi originali (Anger In Your Liver e The Butcher) + una cover di Old Time Relijun (Los Angeles) per pochi minuti di pura poesia sospesa tra passaggi strumentali doc (c’è pure Asso Stefana a dar man forte) e reminiscenze di old americana soffice come neve. A far compagnia alla Wallace c’è la Holidays, da almeno una quindicina di uscite a questa parte immolata al verbo dell’edizione vinyl only. Non paga di aver stampato in vinile New Amsterdam di uno dei nomi più chiacchierati dell’underground, Zola Jesus, la label milanese sta sfornando una manciata di interessanti vinilini. Per primo lo split a 5” Phoenix Bodies/La Quiete: quattro minuti di screamo-violence parossistica e degenere equamente divisi tra l’inglese dei primi (Get A Job) e l’italiano dei secondi (Animali Di Fede E Di Memoria); poi Autunno, primo di una serie di quattro 7” a firma Altro, in cui Baronciani & co. danno vita a tre bozzetti di postpunk nervoso (Rico) e lirico (Ottimismo) in b/n, as usual. Classe poi si slancia verso una bizzarra forma di post-reggae-punk affilato come un rasoio. In attesa degli lp di Claudio Rocchetti The Carpenter e della collaborazione tra Golden Jooklo Age e Peaking Lights, è il 7” di Blessure Grave a solleticarci l’attenzione. Il duo formato da T. Graves e Reyna Kay inscena un teatrino tra goth e post-punk che non puzza mai di stantio né, tanto meno, di artefat- to. La cover di Human Fly dei Cramps posta sul lato B cortocircuita alla grande r’n’r slabbrato e suggestioni Batcave. Proprio i due di San Diego incarnano alla grande lo spirito 2.0 del vinyl lover; in previsione hanno infatti una nidiata di uscite viniliche a 45 giri e tapes (tra cui una dall’emblematico titolo di Covers Pt. 1). Un'altra caratteristica di questi anni è il cambiamento continuo delle release in programma e anche in questo i nostri sono maestri. E' dunque sempre un piccolo evento quando un disco esce per davvero, specialmente se annunciato quasi un anno prima come in questo caso. Dopo mille peripezie Making The Death Beds For Teenage Vampires vede finalmente la luce su Release The Bats, Grotesque Modern e Nail In The Coffin. Presumibilmente provenienti dalle stesse session dell'ep Learn To Love The Rope, le due tracce in questione ondeggiano su percussioni ottuse e filastrocche lamentose, e si affermano come le migliori rilasciate ad oggi. Spostandoci a NY, ma rimanendo sempre in ambiti oscuri, è da segnalare il nuovo singolo dei Led Er Est su Captured Tracks: Poll Gorm è una hit synthdarkwave (giustamente?) rubata all'lp Dust On Common, mentre la flipside Man And Tree un'insolita ballata electro-pop che ricorda i Cure di Disintegration. Non esattamente un brano imprescindibile ma serve pur un lato b per pubblicare un singolo. Stefano Pifferi, Andrea Napoli recensioni 69 DEMO DEMO DEMO DEMO DEMO DEMO ARE ARE ARE ARE ARE ARE Re -Bo ot WE WE WE WE WE WE è arrivato il momento di dire basta. Mese dopo mese, settimana dopo settimana, la situazione è cambiata fino a diventare illeggibile. Imbarazzante. Grottesca. Insostenibile. Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti 70 recensioni Qualcosa è cambiato. Durante la mutazione, abbiamo progressivamente perduto il senso e le coordinate, finché non abbiamo fatto fatica a comprendere le nostre stesse parole. Stiamo parlando di We Are Demo, la nostra oramai ex rubrica dei demo e delle autoproduzioni. Sembra passata un'era geologica da quando decidemmo di avviarla, da quando ci fu chiaro di non poterne fare a meno. In effetti, sono passati tre anni: un'eternità nell'era internet. Era l'ottobre del 2006 quando ci sembrò evidente che una webzine come Sentireascoltare non poteva continuare ad esistere senza una rubrica dedicata al fenomeno dei demo. La cassetta della posta e la casella e-mail venivano costantemente raggiunte da proposte d'ascolto più o meno carbonare, velleitarie, benedette da lampi di selvatico genio e ingenuo entusiasmo. Una situazione affascinante. Ci dicemmo: non sarà un'idea originale, ma facciamolo. Trovammo un nome. Mettemmo assieme un team. La cosa si avviò con una inerzia scoppiettante. Inizialmente accettavamo solo formati "fisici", niente download, un po' per paura di virus e un po' per non scordarci di quei files rannicchiati in una cartellina sfigata. Il flusso di pacchetti giallognoli si fece costante. Dentro di essi si nascondevano packaging di ogni tipo: spartani, trafelati, sferzanti, accurati, creativi, shockanti, lussuriosi... La loro evidente artigianalità oppure l'evidente tentativo di dissimularla era un aspetto che toccava il cuore.Anche se talvolta superava in efficacia la funzionalità patinata delle produzioni "ufficiali". Esattamente come accadeva per il contenuto di quei dischi: incisioni che pagavano pegno alla mancanza di autorevoli direttrici produttive, nella maggior parte dei casi, e graziaddio. E che pure regalavano intuizioni straordinarie, combinazioni formali avventate, insolite derive e audaci prese di posizione. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, le centinaia di dischi autoprodotti raccontavano un paese-calderone un po' imbalsamato e un po' temerario, conformista come uno studente alle prese col proprio acerbo fervore, oppure geniale come chi conosce il modo di gettare cuore, muscoli e cervello oltre i fin troppi ostacoli. Folk ed elettronica, psych e noise, punkwave e art-prog, funk-jazz e dub, sembrava non esserci preclusione né particolare predilezione per alcun genere. La rubrica andava come un treno. Senza conoscere particolari periodi di penuria: il materiale semmai avanzava, obbligandoci a tenere fuori molti titoli che avrebbero meritato almeno la menzione. Lavoro impegnativo, certo, ma anche parecchio divertente. E utile, in qualche modo, a stare sul polso di ciò che accade, o a darcene l'illusione. Bastevole comunque a vagliare ed ipotizzare movimenti, direzioni, scenari. Con tutta la inevitabile parzialità e virtualità del caso (le stesse che informerebbero qualsiasi indagine ad ogni livello). In questi tre anni pieni di cose, che a ripensarci sembrano un formicolare sonico dalle mille e mille testoline imbizzarrite, è accaduta quella mutazione cui accennavamo. E' stato come una tonalità divenuta via via dominante. Come un cambio di scena in dissolvenza. I demo, le autoproduzioni senza se e senza ma, hanno ceduto il passo a dischi "etichettati", titoli ufficiali in tutto e per tutto. Di fatto, rimanevano frutto di compagini emergenti, calligrafie da mettere a punto attorno ad un quid in fase d'assestamento. Ma era sempre più difficile considerarli e affrontarli in questo senso. Il marchio di una qualsivoglia label, magari messa in piedi per l'occasione e destinata ad estinguersi entro un paio di stagioni, cambiava le carte in tavola. Non tanto perché la musica ne uscisse per chissà quale magia arricchita: il punto stava nella realtà che questa nuova situazione ci raccontava. Era come se le nuove dinamiche promozionali introdotte dai social network (myspace in primis) avessero suggerito la possibilità di giocarsela alla pari, semplicemente recensioni 71 perché tutti - grandi e piccoli - dovevano passare da lì, dovevano piegarsi verso tali piattaforme come in una coatta limbo dance, e che si affrettassero a mettere in piedi questo giochino ad altezza degli utenti. Ai quali dovevano fornire informazioni utili nonché un assaggio di musica, immagini e video. Eppoi, casomai, le comode coordinate d'acquisto. Un modello eminentemente commerciale, semplice ed evoluto, che si diffuse come una fulminea pandemia. In breve, tutti ne furono provvisti, adeguando di conseguenza la proposta, la cui struttura non proponeva sostanziali distinzioni tra grandi nomi ed esordienti assoluti: il Myspace dei Subsonica si presentò fin da subito come uno dei più ricchi, aggiornati e frequentati, ma dal punto di vista dell'offerta audio e video non riusciva a porre un significativo scarto tra sé e quello - poniamo - dei Phono Emergency Tool. Di contro, il debuttante non tardò a comprendere quanto tutto ciò contribuisse a ridurre il gap dai "professionisti". Rispetto ai quali ormai rimanevano soltanto alcune differenze, diciamo così, formali: ad esempio, l'etichetta. Un problema risolvibile con poco sforzo e poca spesa. Bastava inventarsene una. Di etichette ne nacquero così a decine, a centinaia. Indipendenti assolute, microscopiche, effimere, ma pur sempre etichette. Si trattava di una fase di transizione nella quale siamo ancora immersi con tutti e due i piedi: tutto sta cambiando, ma esistono dei vincoli burocratici e commerciali ineludibili, il cappello da mettere sopra i diritti di sfruttamento della creazione artistica. L'etichetta va quindi vista come una pantomima residua, retaggio di un passato che tarda fisiologicamente a sintonizzarsi col futuro. Altrove, forse con più lungimiranza, si ricorre alla formula del Creative Commons, immaginando un mondo nel quale i diritti d'autore ambiscano alla riproduzione illimitata a patto che ciò non comporti lucro di alcun genere. L'effetto più evidente è che nel momento stesso in cui crollavano le vendite del cd, mettendo in discussione il concetto fisico e la modalità espressiva correlata al termine "album", il panorama fonografico nazionale e internazionale veniva scosso da una duplice spinta, dall'alto e dal basso verso una piattaforma più estesa e - soprattutto - orizzontale. Mainstream e underground non si sono mai tanto assomigliati, inseguiti, imitati. Dal punto di vista del suono, la standardizzazione informatica delle tecniche d'incisione ha reso le produzioni "dilettantesche" sempre più economiche e sostanzialmente paragonabili a quelle realizzate in studi professionali con personale qualificato. Detto questo, e ribadito che per i criteri che muovono questa webzine ciò che rende un suono interessante è l'intuizione artistica, è diventato sempre più difficile e imbarazzante distinguere tra una autoproduzione e un titolo "ufficiale". Da qualche mese a questa parte sempre iosonouncane 72 recensioni the calorifer is very hot meno band ci proponevano "demo", aumentando sempre di più gli EP d'esordio, veri e propri "debutti ufficiali". La differenza la facevano, come già detto, una qualità d'incisione più che accettabile e la famigerata etichetta. Per il resto, erano i vecchi soliti demo solo più curati e "scafati". D'altronde, cosa obiettargli? Difficile scorgere in questo fenomeno elementi negativi. Successivamente - anzi in contemporanea - l'esplosione delle net-label ha finito col rendere più varia, ricca e finanche confusa l'offerta. La residua "lentezza" della catena distributiva fisica evaporava letteralmente col sistema del download, generalmente gratuiti con licenza creative commons. La portata del fenomeno, tuttora in fase di espansione e consolidamento, è tutta da analizzare. L'unica affermazione che ci sentiamo di fare è che non sembrano limitarsi a rappresentare una agile piattaforma promozionale per gruppi emergenti, ma veri e propri nuovi "contesti creativi" capaci di fornire veri e propri indirizzi estetici e poetici, sorta di accolite virtuali che in un certo senso aggiornano gli antichi concetti di "scena" o di "comune" traslandoli nella dimensione del web (vedi ad esempio il caso della ruspante Lepers Produtcion). Quello che appare ormai chiaro è che ci stiamo avviando verso un'epoca di dilettantismo diffuso e perciò "istituzionalizzato", ciò che vale per la musica come per la letteratura (dai blog ai libri fai-da-te) e la videoarte. E che non sembra affatto male. Ovvero, se l'eccesso d'offerta viene da molti visto come un male - per la conseguente inevitabile svalutazione del valore medio della proposta, per la ribalta invasa da orde di mediocri - d'altronde si nota una gradevole mancanza di riguardo nei confronti dei format e delle macro-tendenze imposti dal sistema major. Un pullulare democratico di fronte al quale il "lavoro" del giornalista musicale - anch'esso sempre più dilettante, come questa webzine insegna - deve concentrare i principali sforzi sul setaccio, sul vaglio, sulla ricerca della pagliuzza d'oro nella rena. Consapevoli che in tempi di magra va benissimo anche l'argento e persino il rame. Alla fine di tutto questo ragionamento, la scelta di non occuparci più di demo in quanto tali non significa quindi ignorarne il fenomeno bensì di riqualificarlo, osservarlo da un altro punto di vista. Promuoverlo in effetti al livello di generica "emergenza", abbattendo l'ormai oziosa distinzione operata dall'etichettatura. In ragione di ciò, facciamo punto e accapo. Re-boot. Catalogata l'esperienza come positiva e nutritiva, accantoniamo il lavoro svolto fin'ora e ripartiamo azzardando un diverso campo d'azione. Tenteremo cioè di tastare il polso del rock italiano che incalza ai margini, consapevoli della vastità e profondità e complessità di tali margini. Consapevoli di quanto sia e sarà impossibile coprire tutto il panorama stilistico e geografico. Consapevoli che sarà dura ed eccitante. Ci proveremo, insomma. Tanto per iniziare, scandagliando la situazione. Abbiamo intervistato tre band, tre realtà diverse e a loro modo emblematiche. Abbiamo chiesto loro di raccontarci quel che succede. Ad altezza d'uomo. Ci è sembrato un buon punto da cui ripartire. Prima di iniziare, una piccola presentazione delle band: Iosonouncane (nell'intervista abbreviato ISUC) Cercare nella spazzatura frattaglie sonore e annusarle, recensioni 73 rimasticarle. Un cane che digerisce ciò che ha trovato in un bordo strada accanto a un centro commerciale della solita terribile provincia italiana. Jacopo Incani, da Bologna, ovvero Iosonouncane, cerca un nuovo senso alla parola cantautore ripassando Rino Gaetano con un Tom Waits che ha trascorso troppo tempo davanti alla nintendo e immergendo Gaber in un magma di elettronica da cameretta col sottofondo di Barbara D'Urso di là in cucina: «lo psicologo le vallette il meteorologo il giornalista i calciatori il consigliere comunale ballano tutti cantano tutti si passano il microfono da mano in mano e poi il trenino, oh il trenino». The Calorifer is very hot (nell'intervista abbreviati CIVH) Nazareno Realdini, Samuele Palazzi e Nicola Donà, ovvero The Calorifer Is Very Hot. Esemplari rappresentanti di un indie di quartiere, familiare, che vive di ritmi sdruciti ma terribilmente vitali. Un guazzabuglio di stili per estasiati fancazzisti ad opera di emigranti del melodico nella terra dei “sottomarini gialli”. Musica che non è solo materiale per nerds all'ultimo stadio. Piuttosto una scrittura geniale, nascosta dietro a schegge elettro di scuola Labrador, chitarre acustiche scordate, voci ubriache, pianole e refrains post-adolescenziali. Con un Marzipan In Zurich del 2007 che li spedisce a rinfrancare i loosers di tutta Europa e un Evolution On Stand-By dell'anno scorso che abbandona, in parte, le involute (e volute) pacchianerie synth del passato. A bussare alla porta c'è un pop con la P maiuscola: surreale, stralunato, perso in chincaglierie di ogni genere ma dalla ricchezza tonale del tutto inedita. Intercity (nell'intervista abbreviati IC) Un terzetto da Brescia edificato su una via parallela agli Edwood e sui di loro residui vapori shoegaze, virati però verso una forma emo-indie in italiano. Idioma su cui lavorano premendo tasti stralunati, onirici, angosciosi, pulsanti. Che la musica innerva di apprensione e impeto che sa infilarsi nelle sabbie mobili del melodico con grave leggerezza, che sa raccontare un presente in bilico tra autobahn virtuali e snodi metropolitani. Come un rapido mitteleuropeo in viaggio tra Notwist e Perturbazione via Marlene Kuntz, capace altresì di sognare (di sognarsi) Grandaddy. Dentro un moderno incubo pop. Il loro album di debutto Grand Piano è scaricabile gratuitamente dal myspace, perché tanto i cd non se li compra più nessuno, "neanche a due euro". Intervista a Iosonouncane, The calorifer is very hot e Intercity Toglieteci il lavoro e descrivete in dieci righe chi siete, da dove venite, dove andate. ISUC: Mi chiamo Jacopo, ho quasi 27 anni, sono sardo, 74 recensioni intercity vivo a Bologna da otto anni. Non so dove vado, so un po' meglio da dove vengo. CIVH: Togliervi il lavoro? cioè prendiamo un altro Non lavoro da aggiungere al nostro Non Lavoro per avere due Non Lavori?!? Da dove venite? Veniamo da una due giorni di furgone-on the road-viva il norcino dell'autogrill-e l'aranciata amara. La terza era?? Ah... Dove andate? Eddove andiamo?? Boh... Mi ha chiesto la stessa cosa un ragazzo sabato sera mentre scaricavo le chitarre dal furgone ("Ma dove vuoi andare????") IC: Siamo tre ragazzotti che vivono tra il lago di Garda e Milano: Anna, Fabio, Michele. Ci siamo conosciuti suonando e frequentando gli stessi locali e abbiamo deciso di collaborare. Da qui è nato Intercity. Dopo innumerevoli scambi di mail e mp3, ci siamo trovati in studio a più riprese e ne è nato Grand Piano. Dove andiamo? Verso un secondo disco, verso il 2010 e verso l’età pensionabile. Oltre a suonare cosa fate? Avete un lavoro? Studiate? Nel caso, come riuscite a stare dentro entrambe le cose? Avete mai pensate di mollare tutto e provarci solo con la musica? ISUC: Lavoro in un call center. E diciamola meglio: oltre a lavorare in un call center suono. Ci si riesce cercando di ottimizzare i ritagli di tempo e programmando intelligentemente la sveglia. Mollare tutto e provarci solo con la musica è una scelta. Una scelta che per ora non mi posso permettere. CIVH: Io (Nic) faccio il Barrista (con due erre), Nani e' in aspettativa ehm... all'università ed è piu' bravo di me a fare il Barrista, Samuele Bara ai concorsi per diventare Uno del pubblico di qualche programma televisivo. Mengacci non ne può più! IC: Lavoriamo tutti. Qualcuno ha un lavoro che gli permette di dedicarsi con costanza alla musica, qualcun altro meno. Se abbiamo mai pensato di mollare tutto e provarci con la musica? Da lucidi credo di no, piedi per terra. Come svolgete le prove? Avete un locale a disposizione? Quali spese dovete affrontare? (quantificate pure, se volete. Fate i numeri) Siete soddisfatti della situazione, in termini logistici e artistici? ISUC: Provo a casa con le cuffie al mattino, prima di andare a lavoro (diciamo tra le 8 e le 10) e quando non son troppo fritto dopo il lavoro (diciamo tra le 19 e le 21). Non sono per nulla soddisfatto. Ma credo che comprare delle cuffie decenti mi darà delle soddisfazioni. CIVH: Facciamo lunghissime sessioni di prove a casa di Samu in via persicello a Campse'nt in aperta campagna. Le spese che dobbiamo affrontare io e Nani sono spese vere, vive & vegete perché Samu non ha mai niente in frigo e se non vogliamo morire di fame e sete quando facciamo le provee dobbiamo provvedere alla spesa... I numeri non li faccio, ci mettiamo a posto col fatto che poi lui cucina da Dio. (cosi rispondo anche alla domanda sula religione..) IC: Non proviamo tantissimo, cerchiamo di preparare il più possible a casa e ci troviamo ogni tanto.Abbiamo una sala prove gentilmente offerta e ben attrezzata, quindi direi che siamo fortunati. Per i concerti vi affidate ad un promoter? Organizzate dei veri e propri tour o procedete per date quando si presenta l'opportunità? Ci sono problemi di incompatibilità tra la vita "reale" (lavoro, famiglia, affetti in genere...)? Avete un circuito di locali collaudati? Come trovate in generale e in particolare il livello delle strutture e dei tecnici in Italia? Nel caso, avete riscontrato differenze con la situazione sperimentata all'estero? ISUC: La Trovarobato mi cura il booking. Le date sono per ora spaiate, non inserite all'interno d'un "piano d'azione". Anche perché ho fatto il mio primo concerto alla fine di gennaio 2009, non ho un disco ufficiale. Direi che per ora è già tanto. La qualità dell'amplificazione e dell'acustica è solitamente scadente. Ma ci si adatta e ci si deve adattare come si adatta chi tiene in piedi un locale andando costantemente in perdita. CIVH: Di solito programmiamo dei tour, ma se qualcuno ci invita a suonare ad una Festa (il termine Festa ha mille sfumature per noi), anche se "fuori tour" non ci facciamo molti problemi... La discriminante in questo caso è la vodka. Chi indovina la marca giusta... Evidentemente non siamo bravissimi a pianificare i tour (viste le varie Slovenia-Taranto-Ferrara in due giorni, oppure le 17ore della Stoccolma-Bruxelles) e quindi da settembre Grinding Halt cura la programmazione dei nostri concerti. Crediamo molto nel gemellaggio tra realta' fatte di persone diverse, che parlano lingue diverse (ne siamo l'esempio: un veneto, un ferrarese, un modenese eheheh), che si sbattono per organizzare concerti concentrandosi nel recensioni 75 iosonouncane creare un'atmosfera calda, bella, di gusto, senza pensare Solo al numero dei paganti. E' uno dei motivi per cui adoriamo gestire i rapporti in prima persona ed in questo contesto/scenario rientrano anche una grossa parte dei nostri affetti più cari. IC: Tasto dolente. Sappiamo tutti che è una vera scommessa riuscire a mettere insieme 3 date in un mese. Alcuni locali ci chiamano, su altri cerchiamo di insistere. Non abbiamo un booking, e questo sicuramente non aiuta. Per ora problemi di incompatibilità lavorativa direi che non ce ne sono, spero ce ne siano in futuro! Non abbiamo mai sperimentato situazioni estere, però [come dico qualche domanda più giù ( lo ammetto, non sono andata in ordine cronologico)] credo che a livello tecnico e strettamente fonico, tra noi e altri paesi ci sia un abisso qualitativo. Vi è mai capitato di pensare "no, qui non ci suono"? Nel caso, com'è andata poi? ISUC: Non mi è mai capitato. Suono ovunque e a qualunque condizione. CIVH: Assolutamente no e chi ci conosce lo sa che non siamo mai stati carabinieri. Al massimo solo una volta abbiamo pensato (in coro) "No, Qui non ci dormo!". La serata e' finita con tutti e 3 collassati/addormentati sotto la pioggia... IC: Molte volte. Ci siamo divertiti un sacco, poi. Avete contatti con artisti stranieri? In cosa (nel76 recensioni la pratica) l'approccio alla musica di un'artista italiano indipendente si caratterizza come differente rispetto alle realtà estere di cui avete fatto esperienza (se c'è una differenza)? ISUC: Non ho contatti con artisti stranieri. Potrei dare il mio parere di ascoltatore ma rischierei di andare fuori tema. CIVH: L'approccio inteso come ispirazione, istinto, creatività, attitudine, genio ha mutevoli/innumerevoli conformazioni ma non credo abbia una bandiera. Per il resto le differenze tra le varie realtà sono figlie e sorelle di culture e storie diverse. In Italia un musicista e' uno che suona in una cover band o suona la chitarra per... Oppure semplicemente uno che mette sui i cd in una discoteca. All'estero il musicista è anche uno che suona per strada e quando nasce la musica gliela offrono come un'opportunita'... IC: No, non abbiamo contatti. Nell’approccio alla musica le differenze possono esserci anche tra italiani, quindi non saprei. Quello che invece noto tantissimo, è la scelta dei suoni sia live sia su disco. Recentemente mi è capitato di vedere gli Efterklang alla Casa139. La cosa che più mi ha colpito, a parte il gruppo che è strepitoso, è stata la maestria nel mixare i suoni.Volumi bassi, voci non sparate rispetto al resto e tutto suonava alla perfezione. In Italia su questo siamo molto molto carenti. Pensate ai concerti come ad un'opportunità pro- mozionale, al compimento del vostro sogno r'n'r' o alla possibilità di raggranellare qualche soldo (se ne rimangono)? ISUC: Durante i concerti mi diverto, mi incazzo, mi auto esorcizzo. Poi sono fondamentali per farsi conoscere e procurare altri concerti. Non ho sogni r'n'r. Se avanzano dei soldi dal cachet ben venga. Anche perché nei call center si è notoriamente in mutande. IC: Pensiamo ai concerti come un’eventualità estremamente divertente, un momento promozionale e un modo per mettere via quei due soldi che uniti a tanti due soldi ci permetteranno di fare il prossimo disco. Come giudicate l'ambiente, ovvero che opinione avete delle regole scritte e non scritte, delle persone che tirano le fila delle attività live in Italia? Politicamente avete avuto pressioni o preclusioni, visto che parecchie situazioni sono comunque legate a movimenti politici (feste di partito e sindacali, circoli arci...)? ISUC: Si incontrano persone splendide. Ma se dovessi fare uno zoom out dire che è un reciproco pisciarsi addosso e farsi gli schizzetti come al mare. Ridendone, ovviamente. Ho "subìto" una contestazione parecchio grottesca a Bologna. Probabilmente non vale la pena di parlarne se non in questi termini. Quanto manifestazioni "totalizzanti" come Il Meeting delle Etichette Indipendenti - solo per citare una delle più articolate - aiutano una giovane proposta ad emergere? E i concorsi musicali? ISUC: Il MEI aiuta parecchio a quanto pare. I concorsi sono da evitare, per principio e pragmatismo. CIVH: Secondo me queste cose servivano di più quando internet non era alla portata di tutti, quando per farti conoscere (ma anche solo ed esclusivamente per suonare) si prendevano al volo tutte le occasioni. C'erano anche molti meno posti (e molti meno gruppi...). Non capisco chi continua imperterrito ad accanirsi con alcune manifestazioni, meeting, concorsi che, vuoi perche' i tempi sono cambiati, vuoi perché hanno fatto naturalmente il loro corso, sono ormai defunte da anni. Nell'usare il termine accanirsi non mi riferisco solo a chi programma queste cose, molto spesso sono i musicisti i primi feticisti del "Premio in palio." IC: Il MEI poteva forse essere un buon evento anni fa. Ora la sensazione è che sia diventato un festival estremamente autoreferenziale dove ci si premia a vicenda. Crediamo molto poco nei concorsi: mai o quasi mai prevedono un premio serio e utile, e non fanno effettivamente crescere il gruppo di mezzo passo. Poi viene il tempo del raccolto. Lo studio di registrazione. Gli arrangiamenti. I take. Il missaggio. Innanzitutto, ha ancora senso per voi l'idea di "album"? ISUC: No. Ma è ancora necessario. Il senso delle cose è patrimonio di pochi. Sempre ed anche in questo caso. CIVH: Hai detto bene: e' proprio nel periodo del "Raccolto" che ci chiudiamo in studio... Fosse per me ci vivrei in uno studio (e per fortuna ogni tanto capita). Per questo motivo ho cominciato a registrare in casa, l'ambiente è fondamentale per comporre e registrare. Gli album per me hanno senso. Non e' fondamentale invece la durata dell'album. Ci sono album stupendi rovinati dalla troppa generosità di chi li fa o più semplicemente, dall'esaurimento delle idee. Ci sono ep di 4 pezzi che per me sono piu' importanti di interi dischi. IC: Certo che ha senso. Non ha più molto senso stamparlo e distribuirlo forse, ma l’album in sè, registrato al meglio possibile, è un passaggio obbligato. Quanta distanza c'è tra la musica che avevate ipotizzato e quella che è effettivamente venuta fuori? ISUC: Credo poca. Ma per arrivarci son passato per passaggi parecchio lontani. CIVH: Se per musica ipotizzata intendi l'idea iniziale che c'e' alla base di una canzone spesso c'e' una distanza siderale. A volte ci capita di chiamare i pezzi senza titolo con il nome di un gruppo che ci rimanda a quella canzone e sistematicamente il pezzo ricorda tutti tranne il gruppo citato... IC: Pochissima, quasi nulla. I produttori: specie pregiata in via d'estinzione? Prestatori d'opera col tassametro al posto del cuore? Vie di mezzo? CIVH: A me dispiace che si siano estinti gli impresari, con i loro biglietti da visita ed il loro fiuto per gli affari! Quelli erano veri e propri squali! Il nostro delfino e' Alessandro Paderno (LMALL), produttore artistico con noi di Evolution On Stand-By ma anche del primo Marzipan In Zurich. Se legge questa intervista scoppiera' a ridere (o a piangere) al "Prestatori d'opera col tassametro al posto del cuore" visto che ormai abbiamo anche il suo codice del bancomat! La cosa che di piu' sorprende in studio e' che Ale arriva sempre dove noi non arriviamo. Con lui l'atmosfera e' sempre perfetta per creare e distruggere. Pur non suonando con noi, anche lui e' un calorifero. IC:Via di mezzo. Non abbiamo mai avuto produttori, ma qualcuno in gamba ce n’è! Chi ha paura del peer to peer? Voi, per esempio? ISUC: Io per niente. Anzi. IC: Così paura che Grand Piano è uscito in free download su Myspace. E siamo contentissimi di tutto ciò che recensioni 77 the calorifer is very hot questo ha portato, finchè abbiamo potuto tenerlo in download gratutito. Aiutateci a farci un'idea più precisa su che genere di guadagno garantisce (ancora) la vendita dei CD per gli artisti... ISUC: Se ne avrò l'occasione, risponderò dopo l'estate. IC: Guadagno? Il nostro disco, come ho appena detto, è uscito in free download. Siamo fermamente convinti che le entrate di un gruppo siano da misurare in altre cose banalmente I concerti - e non nella vendita dei dischi. Che importanza credete ricoprano (ancora) le etichette discografiche? ISUC: Le etichette sono, come prima cosa, gruppi di persone che lavorano insieme ad un obiettivo comune. L'obiettivo ed il modo di raggiungerlo lo fanno le persone. E la loro capacità di esser tali davanti alle necessità economiche, culturali, organizzative, che necessariamente si presentano. Ecco. Sono importanti, sempre. IC: Molto poca. Se si tratta di etichette disposte a investire molto, allora ne hanno ancora qualcuna. Se no è molto meglio autoprodursi e assicurarsi piuttosto il booking. Arriva una major (o una sottospecie di) e vi propone di lasciare la vostra amata indipendente, 78 recensioni con la quale avete rapporti fraterni e rispetto alla quale potete muovervi in assoluta libertà artisticamente parlando: cosa fate? ISUC: Non ne ho idea. CIVH: E' tutto talmente surreale che non riesco neanche a risponderti con una battuta. IC: Dipende da cosa offrono. Spesso le major sembrano offrire tanto sulla carta, che poi si traduce nel nulla assoluto. Prima di tutto vorremmo essere sicuri che vogliano investire veramente su di noi, e non utilizzare del budget avanzato dal 2009 giusto per spenderlo e farsi dare lo stesso budget l’anno dopo. Ed è una cosa che accade sistematicamente. Se la proposta fosse seria, ci penseremmo. Il rapporto con una indipendente è qualitativamente migliore quasi sempre, ma se si tratta di muoverci davvero una major ha molto più potere d’investimento e molti più mezzi a disposizione. O almeno si spera. Ok, avete in mano il vostro cd. E' il momento di battere le radio, tampinare giornalisti e giornalistucoli, telefonare ai negozianti, insomma fare promozione. Più gratificante o frustrante? Raccontateci (raccontatevi) pure... ISUC: Stancante. Sono pigro. Sapere che qualcuno, in par- te, lo farà per me mi rilassa. IC: No perchè? Dovendo scegliere, più gratificante che frustrante. Penso che l’ago si sposti in base alle prime reazioni sul disco. Per ora confermiamo, gratificante. Radio, web radio, riviste, webzine, televisione: ce n'è per tutti i gusti o i gusti sono pochi e per pochi? ISUC: "Sta nei gusti la vera sostanza ideologica", diceva Gaber. Ed io sottoscrivo. IC: Ce n’è per tutti. Poi per alcuni gusti basta poco o zero sforzo per sentire e leggere di questo o di quello, per altri diventa vera e propria ricerca tra mille webzine e qualche cartaceo. Entriamo nel dettaglio della cosa: la scelta della lingua non è solo la scelta della lingua. Significa selezionare un pubblico e un range espressivo. E' una scelta poetica e strategica, giusto? ISUC: Per me non è stata neanche una scelta. CIVH: La scelta della lingua da utilizzare non è mai stata fatta. Sul primo demo c'e' addirittura un pezzo in francese (Histoire d'un petit Loop). Il motivo per cui la maggior parte delle canzoni nascono in inglese e' forse legato al fatto che il nostro background musicale è prevalentemente in lingua inglese e cosi il cerchio si chiude. Se scrivo io il testo spesso parto da un disegno scritto, butto via il disegno e il testo prende forma. IC: Giusto. Scegliere l’italiano piuttosto che l’inglese è un misto di poetica e strategia, inutile negarlo. Poi a qualcuno viene più immediato scrivere in italiano, a qualcuno in inglese. Con Intercity abbiamo trovato subito un buon modo di esprimerci con l’italiano, ed è indiscutibile che in questo abbiamo intravisto anche la possibilità di rivolgerci a un pubblico che forse con Edwood restava inesplorato o poco coinvolto. In particolare, chi sceglie l'inglese sceglie anche di aprirsi verso l'estero? ISUC: Forse. Il rischio è quello di farsi ulteriormente aprire dall'estero. CIVH: Nella maggior parte dei casi il suo vestito e' inglese, anche se purtroppo faccio ancora moltissimi errori. Non escludiamo assolutamente il fatto di scrivere in italiano in futuro. Per il momento (e parlo per me) non mi sento all'altezza. Adoro giocare con le parole ed in inglese mi viene piu' spontaneo. IC: Questa è l’idea. Poi, bastasse solo l’inglese per aprirsi verso l’estero, avremmo grandissima parte delle band nostrane in giro per l’Europa. Chi sceglie l'italiano accetta di limitarsi? ISUC: Limitarsi? Limitarsi rispetto a cosa? CIVH: Se vuoi che parliamo di limiti non sono mai stato bravo in matematica... IC: No. Chi sceglie l’italiano, tra le mille ragioni, sceglie di scommettere sul proprio potenziale e consolidarlo in Italia. Che non è poca roba… Fare pop, fare avanguardia, fare i borderline alternativi: è una scelta di campo o vi piacerebbe avere a che fare con un pubblico onnivoro, capace di ascoltarsi qualsiasi cosa? ISUC: Se non provo costantemente a spostare più in là la soglia del mio gusto e del gusto di chi mi ascolta cosa ci sto a fare? il pubblico non è un monolite immobile. Per fortuna cambia. Se gli si rifila sempre la stessa pappa non cambierà mai. CIVH: Borderline alternativo è un rafforzativo che suona più come un ossimoro! Mi vengono in mente quelli che aspettano la notte per entrare nei laboratori di esperimenti sugli animali e liberare le cavie, vestiti con gli eskimo e i guanti tagliati... Loro si che sono dei fighi! Per quanto riguarda i possibili fruitori non mi sembra che il calorifero suoni estremo noise digitale, fondamentalemente siamo super pop (e si sente, no???). Non e' un problema di onnivoro o vegano, quelli che dicono "mi piace la musica in generale, ascolto tutto" sono quelli che non selezionano e se a loro piace il nostro disco sono solo contento. IC: Noi siamo per un pubblico trasversale, che ascolta qualsiasi cosa (buona e giusta). Ma alla fine qual è il vostro progetto, o il sogno se preferite: vivere di musica? In tal caso, quanto accettereste di scendere a patti col mestiere? ISUC: Certamente è quello. Vivere di musica. Si scende sempre a patti. Con la propria etichetta, col pubblico, con i propri gusti, col proprio istinto di emulazione, con la propria ragione. CIVH: Il mio sogno da piccolo era quello di giocare nell'NBA, ci sto lavorando... Non smontarmi che sono ancora gggiovane e ci credo molto... IC: Il piccolo sogno è continuare a fare dischi e poter suonare molto più di quanto succede ora. Dipende che significa scendere a patti. In linea di massima di tutto ciò che è legale e rispettoso nei confronti degli altri se ne può quantomeno discutere. recensioni 79 Un contagio, una nebulosa, il brivido che ha drizzato le orecchie e le antenne di chi camminava sulla linea di mezzeria tra pop e rock. L'utopia power verso un mondo impossibilmente nuovo. Power 1968-1977 Pop Così (non) è, se vi pare - Stefano Solventi 80 rearview mirror I l power-pop nasce già nato. Raccolto come un fiore che impollina sogni di cambiamento (possibile, impossibile: conta poco). I "giardinieri" rispondono al nome albionico di Beatles, Kinks, The Who, The Hollies, ma anche Beach Boys se volete (quelli più energici e bruschi), senza contare le primizie tipo Wake Up Little Susie degli Everly Brothers laggiù dalla fine dei fifties. Il concime è quell'euforia mitizzante che li portò a concepire nuove forme pop per una nuova era, nel tentativo di cambiare il mondo anche (immancabilmente) attraverso la lente/proiezione della musica rivolta alle giovani leve sbilanciate su un futuro di radiose vibrazioni. Il power-pop è anche il più emblematico dei non generi. Una volta pronunciato - fu Pete Townshed, a quanto sembra, a farlo per primo rispondendo a un giornalista che gli chiedeva una definizione della propria musica già smette di esistere. Perché non fa altro che obbedire ad uno stato delle cose, è il gradino che abbiamo salito e non poteva essere altrimenti coi nomi tirati in ballo qualche riga sopra. Semplicemente, in quegli anni il pop divenne più potente, fu contagiato dalla scossa, spasimò nuove frontiere come una febbre di crescita che non ti fa più indossare i vestitini di ieri. Quando il power-pop nacque, non nacque. Nacque semmai quale reazione ostinata e contraria il soft-pop, nostalgicamente aggrappato alle radio sui centrini nei salotti dove nulla doveva turbare la quiete familiare, docile soundtrack di giorni intruppati verso l'era delle inscalfibili new frontier. Altro che quiete e asettiche nuove frontiere. Erano tempi di evoluzioni veloci come napalm e razzi a squarciare la magia della luna. Da chissà quale ignoto recesso cosmico giunsero radiazioni nuove di un futuro possibile e per nulla inscalfibile, sviluppandosi senza freno né controllo, sintonizzando frequenze vogliose di sfondare il muro per gettare lo sguardo sull'other side, con tutto ciò di eccitante e tragico che questo significò. Più che un flusso, una scena o una corrente, pensando al power pop è lecito ipotizzare una nebulosa percorsa da una stessa energia ma peculiare in ogni suo componente. Del resto, i repertori stessi delle band tendono ad una stuzzicante schizofrenia che non consente di includerle o escluderle a cuor leggero da qualsivoglia branca stilistico/espressiva. Neppure la collocazione geografica aiuta, sbalestrata da un imprinting in bilico tra le due sponde dell'oceano. Come certo saprete, alla british invasion di metà anni sessanta risposero subito e con ragguardevole turgore i carbonari del garage rock, cui non difettava certo la parte "power" della questione, però appunto erano poco "pop" perché votati a soddisfare gli istinti stradaioli, poco o per nulla disponibili a scendere a patti con i dettami dell'airplay radiofonico. Anche se certi languori ad esempio di Blue Magoos o Beau Brummels (e poi di rimbalzo - sulle sponde d'Albione - Pretty Things, Easybeats o Troggs) rientrerebbero appieno nei canoni di ciò che osiamo definire popular. Per non parlare di quanto nutritiva per entrambi i versanti dovesse rivelarsi la “rivalità” tra Beach Boys e Beatles, vera e propria corsa a chi sarebbe per primo allunato sull’iperuranio del pop. Tutto ciò non durò molto. Ben presto tempi nuovi e più duri si presentarono alla porta chiedendo un conto salatissimo da pagare. L'utopia effervescente di quei pionieri garbati e facinorosi durò appunto il tempo dell'effervescenza, ma non per questo fu dimenticata. Anzi, molti ne furono marchiati a fuoco e tentarono di raccogliere il testimone. Non tutti allo stesso modo, ovviamente. (1968-1970) S intomi e vagiti : T he N azz , T he M ove, F lamin ' G roovies A proposito di psichedelia, prendete una band come gli Spirit all'altezza del loro secondo album, l’ottimo The rearview mirror 81 Family That Plays Together del dicembre ‘68: tra l'arrembante I Got a Line on You e l'eterea Darlin' If passa tutto un mondo di possibilità pop scalate su un piano acido, con evidenti lasciti folk, soul e jazz ad impreziosire la sottotrama. Una band anomala per la scena californiana, cui non a caso guardarono con particolare attenzione quelli della costa opposta, gente meno propensa a farsi incantare dagli idilli bucolico/balneari love & peace. Non stupisce troppo quindi che i Nazz - che con gli Spirit divisero il palco in quel di Chicago nell'aprile del '69 - ce li ricordino col loro ondeggiare tra blues elettrico e sdrucciolii soul. Formatisi a Philadelphia nel 1967 per iniziativa di Todd Rundgren, ammiccarono con sconcertante ambivalenza picchi formali apparentemente inconciliabili, alla ricerca di un centro di gravità che sfuggiva traccia dopo traccia. Una parabola breve, affascinante e tutto sommato fallimentare, da cui un insoddisfatto Rundgren - che incontreremo di nuovo - si chiamò fuori dopo il secondo album, anno 1969. Dire che i Nazz furono uno dei primi gruppi powerpop potrebbe apparire forzoso. Mancava loro una visione unitaria, quel desiderio utopico cui accennavamo. Certo che tra la veemenza sfrigolante di una Open My Eyes e le languide irrequietezze di Hello It's Me (entrambe dall'omonimo The Nazz, 1968) ti sembra quasi di intravedere il punto di fuga prospettico che aggiusti le proporzioni di entrambe.Tuttavia prevale una impetuosa, abbastanza supina e a tratti geniale aderenza agli stilemi più hot del periodo, dall'acid rock hendrixiano all'hard blues à la Blue Cheer, costeggiando la psichedelia ammaliante di Love e The Zombies. Quel famoso punto di fuga fu messo a fuoco con ben altra convinzione dai The Move di Roy Wood (chitarrista e cantante che all'inizio dei seventies fonderà gli Electric Light Orchestra). Inglesi di Birmingham, non potevano certo prescindere dall'opera dei Beatles (sentitevi il riff iniziale di Fire Brigade, dal primo omonimo album del '68), quel marciare impettito e impertinente tra espedienti ruvidi e spiritosi indossando tradizione e avanguardia, puntando la barra senza preclusioni verso il folk'n'roll inturgidito degli Eddie Cochran ed il camerismo mieloso di certi Kinks. Tutto in loro è eminentemente pop, eppure - malgrado certi rigurgiti fifties e qualche siparietto gratuito - non cedono mai al piacionismo/perbenismo formale, sposando anzi con l'opera seconda Shazam (1970) la causa dell'energia catchy in anticipo sull'addivenente glam (vi basti la splendida Hello Susie). Del resto, volendo speculare un po' aggratis, i coretti di Useless Information sembrano il cliché cui si rifarà abbondantemente David Bowie da Hunky Dory in avanti… 82 rearview mirror Diverso il discorso riguardo ai Flamin' Groovies da San Francisco, band invero molto valida però solo sfiorata dal "demone" del power pop, impegnata com'era a reincarnare lo spirito che mosse gli scavezzacollo britannici dei primi sessanta (i primi Animals, i Beatles del periodo amburghese...), sulle tracce del RnB quindi però senza scordare il piglio entusiasta e accomodante à la Everly Brothers e Lovin' Spoonful. Emblematico in tal senso Supersnazz (Epic, 1969), il loro primo album vero e proprio, in cui tra cover di Little Richard e Eddie Cochran e originali tanto sbrigliati quanto innocui, azzeccano con A Part From That la ballad power pop per eccellenza, malinconica, subdolamente folle e irrequieta. Si trattò tuttavia di una circostanza episodica, l'occasionale conclamazione di un virus che i Groovies spazzarono via assieme alla frustrazione commerciale, accelerando in direzione dei Rolling Stones più stradaioli (con Flamingo del '70 e Teenage Head del '71), preparando il terreno a quei Ramones che non a caso saranno loro compagni d'etichetta (la Sire) da Shake Some Action (1976) in avanti. Se i The Move possono a ragione venire indicati quali importante segnale di una sistematizzazione in atto, e se nei Flamin' Groovies troviamo sintomi di una epidemia blanda ma in espansione, abbiamo il dovere di ricondurre tali fenomeni all'orizzonte in cui si mossero.Visto che siamo qui a ciarlare di una cosa che non sappiamo bene se sia mai esistita, nulla ci impedisce di generalizzare. Per cui, facciamolo: coi seventies il fronte musicale si frammentò come uno specchio nei cui mille riflessi l'epoca disperse l'anima reinventandosi e smarrendosi senza tregua. In mezzo a questa fantasmagorica misticanza di folk acido e hard trucido, passando dall'art progressivo immischiato jazz e dal funky soul con fregole cosmiche, le manifestazioni power-pop erano un'eventualità ricorrente ma abbastanza occasionale. Ovvero, tanto per ribadire: il power-pop non lo vedevi, nessuno lo incarnava, ma esisteva. Pienamente. Era la propaggine catchy di band consegnate alle istanze radiofoniche qualunque fossero le basi di partenza: degli Spirit abbiamo già detto, e non erano forse ordigni pop ad alto tasso energetico certi irresistibili ordigni sfornati dai Creedence Clearwater Revival (ad esempio Molina), dai Cream (I'm So Glad), dai Faces (Flying) o la Strange Kind of Woman dei Deep Purple? Persino certe pietre miliari del rock "senza se e senza ma" come Exile On Main Street o Led Zeppelin III prevedono situazioni decisamente "abboccate" come All Down the Line e Tangerine (solo per fare un esempio). Difficilmente però possiamo parlare di un genere (sarà mai davvero possibile?). Persino in occasione delle due entità che più vi si rifecero, azzardando col loro repertorio una codificazione tutt'ora in auge. Parliamo - alzatevi in piedi, togliete gli eventuali copricapo - di Badfinger e Big Star. (1969-1974) A poteosi e olocausto : B adfinger, B ig S tar I Badfinger presero le mosse in Galles sotto la migliore benedizione possibile, quella dei Fab Four nientemeno. Nati a metà anni sessanta come The Iveys, attirarono le attenzioni di Mal Evans della Apple che ne pubblicò l'esordio Maybe Tomorrow (1969), prodotto da - nientepopodimenoche - Tony Visconti. La vena compositiva di Tom Evans e soprattutto Pete Ham non mancò di colpire i bersagli giusti, tra cui un certo Paul McCartney che regalò loro Come And Get It, opening track di Magic Christian Music (1970), sorta di secondo esordio sotto l'egida Badfinger nonché parziale soundtrack di Magic Christian, poco memorabile pellicola con Peter Sellers e Ringo Starr. E' un buon disco, prodotto ancora da Visconti assieme a Macca con la partecipazione addirittura di George Martin. L'aura di Sir Paul pervade il tutto (sentite I'm In Love), epperciò (eppure?) suona chiaramente come un album che si è lasciato i sixties alle spalle e quindi tenta di ricostruirne il "realismo magico", ovvero s'illude di poterne ripercorrere le strade riallacciando le direzioni smarrite, consapevole della splendida velleità cui si sta prestando. In questo senso, brani come Carry On Till Tomorrow, Midnight Sun o Dear Angie raccontano questo stato di crisi artistica come le parole non possono, con quell'impastare trasporto e disincanto, spleen e fervore, prospettiva e nostalgia. Una tragicommedia di finzione ed eccitazioni che significano spostare un po' più in là gli steccati del sogno rock, per non rassegnarsi all'incubo che stava diventando. Il successivo No Dice (1970) è un capolavoro: prodotto da un beatlesiano doc come Geoffrey Emerick, riesce a combinare nelle giuste dosi una scrittura intrigante e un sound che pesca con sagacia dal jingle jangle, dal soul, dall'errebì, dal folk-psych, il tutto ovviamente in chiave pop. Se No Matter What e I Can't Take It sono l'anello di congiunzione tra i boogie dei Creedence e quelli dei T.Rex, Midnight Caller e Without You sono le ballate in cui l'inquietudine elettrica è la bestiolina nell'ombra, il ghigno malevolo e dolciastro. Il fatto poi che Without You sia stato un singolo sfasciaclassifiche nelle versioni di Harry Nillson e Mariah Carey, non fa che ribadire la qualità delle penne di Ham e Evans, che difatti col successivo Straight Up rearview mirror 83 (1971) - prodotto, pensate un po', dalla strana coppia Todd Rundgren e George Harrison - misero a segno un'altra meraviglia: pezzi come Day After Day, Money, Take It All, Flying (scritta dal chitarrista Joey Molland) e Baby Blue sono l'alfa e l'omega di un sentire pop contagiato di smarrimenti psych. Ascoltandoli ti viene voglia di rimpiangere davvero l'occasione perduta di un mondo migliore in cui le radio diffondono sensazioni morbide ma vere. Ma poi c’è la realtà, la dura realtà. Dopo gli ancor buoni Ass (1973) ed il successivo omonimo (1974), la parabola della band si interruppe tragicamente in seguito al suicidio del leader Pete Ham (il 23 aprile del '75), non prima però di aver licenziato il canto del cigno Wish You Were Here (1974). Emblematici anche nel paradossale insuccesso, i Badfinger sono oggi perlopiù dimenticati da critica e mercato. Diverso il discorso per i Big Star. Diversissimo. A partire dal fatto che sono molto più famosi e celebrati oggi che nel periodo di massima attività. Un breve periodo, ahiloro e ahinoi. Diversa anche la collocazione geografica, a testimoniare l'ubiquità di un sentire pop che raccoglieva le fila di vibrazioni già "globali". Fu a Memphis infatti che Alex Chilton, già cantante nella soul-band Box Tops, pensò di mettere assieme uno dei combo più azzeccati e travagliati (in senso artistico e umano) di ogni tempo. La matrice soul - non a caso incidevano per la Stax - è presente seppure come un'impronta amniotica, andando a mischiarsi coi palpiti beatlesiani, il trillare Byrds e le fregole Kinks, lasciando quindi decantare il tutto tra disillusioni e languori che diresti Velvet Underground. Capita così che l'impeto power e l'estro pop rimangano sospesi in una sorta di liquido amniotico decadente, contrito, sul punto di collassare in uno spleen autodistruttivo. Insomma, siamo con tutti e due i piedi dentro la questione, eppure ne siamo fuori perché il "disimpegno" pop sembra continuamente precipitare in una crisi introspettiva d'intensità inaudita. Poco conta però, visto che, come dicevamo, il power pop è ma in realtà non è, profilandosi come una categoria cui tendere più che un ordine d'idee stabile cui appoggiarsi. Big Star, dicevamo: l'esordio #1 Record (1972) vede Chilton ed il co-leader Chris Bell alle prese con un repertorio originale con evidenti debiti folk screziati di psichedelia devitalizzata (Give Me Another Chance, Thirteen, Try Again), come un trip anfetaminico a fine corsa solcato da qualche spasmo facinoroso (Don't Lie To Me, When My Baby's Beside Me) ma perlopiù impegnati a definire uno stato d'animo in bilico tra eccitazione e depressione, non una roba occasionale ma esistenziale (il boogie 84 rearview mirror tagliente e melmoso di Feel, l'impeto al guinzaglio di The Ballad Of El Goodo, il turgore strisciante di My Life Is Right). Un cocktail già peculiare, godibile e accattivante ma contagiato di malanimo, come del resto la liasion artistica e umana tra Chilton e Bell. Quest'ultimo abbandona alla vigilia del secondo album Radio City (1974), che è quindi frutto quasi esclusivo di Chilton, dalla polpa dolciastra, per molti versi avariata. A tratti sembra di sentire un Bob Dylan prostrato ai piedi di un boogie-soul The Band (Life Is White), quel continuo disequilibrio arreso e arrembante (il boogie asprigno e svampito di O My Soul, con un mellotron sconcertante), i jingle jangle coagulati nelle pennate ruvide e argentine (September Gurl), il soul ormai uno spettro sbiadito (tra gli spasmi folk-rock di What's Going Ahn, tra i tremori George Harrison di You get What You Deserve), soprattutto quegli ordigni post-psych inpantanati tra visioni oppiacee e stremate (il siparietto piano-voci quasi Robert Wyatt di Morpha Too), strattonate da un estro residuo The Who (Daisy Glaze) anticipando d'amblé certo dark side glam (Mod Lang). Diciamolo chiaro: come in tutti i casi "seminali", i Big Star fanno storia a sé. Pur cavalcando quel nugolo energetico che spingeva a ridefinire gli statements del pop e del quale tentiamo di tracciare i confini. Quindi, col terzo album Third (del '75 ma rimasto nel cassetto per tre anni) tutto si compie in un modo che splendidamente esula dai fini della nostra indagine. Questo disco - che fu tolto dalla polvere e dall’oblio solo per onorare la memoria di Bell, morto in un incidente automobilistico - mise in scena tutta la beffarda, esausta, intensa, derelitta verve di Chilton, i cui boogie si affannano ormai gracchiando dietro a fiati senza sfarzo (O, Dana), tra chamber pop affranto (Stroke It Noel), amarissimo sberleffo (Thank You Friend) e spurghi errebì residui (gli Stones svalvolati The Who con un sax in libera uscita di You Can't Have Me). Soprattutto, il veleno Velvet Undeground ha raggiunto ormai gli organi vitali, conclamandosi in cover pervase di friabile trepidazione (Femme Fatale) per poi innescare episodi di languida stringente desolazione (il caracollante abbandono di Big Black Car, la livida piece su mantice di contrabbasso e slide carezzevole di Holocaust). E' chiaro che siamo da un'altra parte, che i cigolii, i grugniti, le salve percussive, i deliri del mellotron ed il febbricitante ciondolio canoro (da brividi in Kangaroo) spostano le coordinate del discorso, cui non a caso faranno riferimento nel tempo entità sonore non precisamente pop quali Wilco, Replacements, Elliott Smith, This Mortal Coil e Jeff Buckley, solo per fare qualche nome. (1970-1974) D eclinazioni iperpop : Todd R undgren , R aspberries , B lue A sh Torniamo a bomba in territorio power pop riallacciando le fila della vicenda Todd Rundgren. Lo avevamo lasciato deluso in uscita dall'avventura Nazz, ma questo polistrumentista e cantante di Philadelphia non era certo il tipo da scoraggiarsi. Tempo pochi mesi ed eccolo alla guida del trio Runt, spalleggiato dai fratelli Tony e Hunt Sales, rispettivamente batterista e bassista, entrambi poi con l'Iggy Pop di Lust For Life e nei Tin Machine di David Bowie. Due album (Runt del '70 e Runt: The Ballads Of Tod Rundgren del '71) misero in luce una straordinaria e persino stordente versatilità in ambito psych-jazz-soul-errebì dal mai domo sostrato pop, qualcosa come un formidabile delirio dipinto a otto mani da Steve Winwood, David Crosby, Roger Waters e Brian Wilson. Pur sempre questione di nostalgie corroborate, fibrillate, lasciate lievitare fino al turgore, eppure non senti mai prevalere una tensione retroattiva, piuttosto a permeare il tutto c’è una potente ipotesi pop coniugata al presente, presto - bontà sua - rivelatasi fuori dal tempo. Ciò che ribadì di lì a poco Something/Anything (Bearsville, 1972), formidabile opera doppia firmata dal solo Rundgren una volta dissolta la "copertura" del trio. Venticinque tracce che esplorano in lungo e in largo i versanti più impetuosi, accomodanti, suadenti, gagliardi, capricciosi, soffici e sottilmente irrequieti del power pop, o almeno di ciò che potrebbe spacciarsi per tale. Degne di rilievo una rilettura di Hello It's Me (pezzo risalente al periodo Nazz) dal piglio quasi Steely Dan, l'amarognola ruffianeria di I Saw The Light, la clamorosa evoluzione boogie/jangle di Couldn't I Just Tell You, una Dust In The Wind che ammicca a Van Morrison e a George Harrison e quella Black Maria che sguinzaglia CSN&Y sulle tracce dei Pink Floyd. Molto buono anche se inevitabilmente inferiore il successivo A Wizard, A True Star (Bearsville, 1973), che rivelò altresì una spinta sperimentale con tentazioni prog (risalendo la corrente al contrario rispetto ad un Marc Bolan ed al glam in genere) enfatizzata dal successivo Todd (Bearsville, 1974). E qui col Rundgren, in procinto d'imbarcarsi nell'avventura Utopia, è il caso di fermarsi. A questo punto, parlare di band come i Raspberries da Cleveland può suonare un pizzico riduttivo. Eppure è il caso di farlo se vogliamo rientrare in tema (malgrado l'oggetto del tema sfugga continuamente alla presa), perché questa band fondata dal chitarrista e cantante Eric Carmen nel 1970 è power pop dalla testa ai piedi, focalizzandone il lato più docile e disimpegnato. Sentimento, rearview mirror 85 melodramma, turgide svenevolezze, proclami impetuosi, una evidente nostalgia per la generosità vibrante dei Roy Orbison (I Wanna Be With You) magari immischiate surf (Drivin' Around) e Kinks (la clamorosa Go All The Way), la propensione per i boogie roots (Every Way I Can), le ballate setose (Don't Want To Say Goodbye) e le rimembranze paesane al sapor Lennon/McCartney (I Reach For The Light), rendono il loro repertorio (4 album per la Capitol dal '72 al '74) una sorta di soffice sistematizzazione del (non) genere di cui stiamo parlando, oppure se preferite un manuale di istruzioni per aggredire le classifiche flirtando coi rockers più svenevoli (che poi è la stessa cosa). Provenivano invece dall'Ohio - Youngstown, per la precisione - i Blue Ash di Jim Kendzor, cantante adenoidale e graffiante che assieme al bassista Frank Secich (più avanti con Stiv Bators e Jimmy Zero dei Dead Boys) allestì il combo nel 1969. Quattro anni di concerti a rotta di collo tra la Pennsylvania e l'Ohio fruttarono un contratto per la Mercury e un elettrizzante album di debutto dal titolo vagamente punteggiante, No More, No Less (1973). Solite le coordinate - un intruglio ipervitaminico, aspro e ammaliante di Beatles, Byrds, Kinks - però portate su livelli di ruvidezza che fa vacillare le colonne portanti del pop, bazzicando spesso e volentieri la fregola impetuosa degli Stones in direzione Aerosmith e MC5 (Let There Be Rock, Abracadbra), tanto che non deve stupirci se capitò loro di aprire per alcuni concerti degli Stooges. Resta però - ne dubitavate? - un indomito e indefesso sostrato pop, come dimostrano il jingle-jangleggiare accomodante sotto la scorza di una Any Time At All o di Plain To See, per non dire di quella What Can i Do For You che distilla Buffalo Springfield e i Fab Four altezza Abbey Road, ottenendo con Wasting My Time e Smash My Guitar il giusto dosaggio di veemenza, inquietudine e dolcezza secondo la imprescindibile lezione dei Pete Townsend e dei Ray Davies. I Blue Ash furono una buona band con intuizioni poco originali (salvo forse la travolgente cover dell'inedito dylaniano Dusty Old Fairgrounds) ma con un bel tiro e soprattutto l'aria di aver capito e carpito in pieno la fregola del power pop. A riascoltarli oggi - l'album di debutto è stato stampato in cd solo nel settembre 2008 - sembra incredibile che la loro carriera fosse destinata ad esaurirsi dopo il secondo lavoro Front Page News per i tipi della Playboy Records, ma si era ormai al 1977, altre vibrazioni reclamavano la sintonia, e la band si dissolse due anni più tardi. Ah, ok, c'è stata una reunion (nel 2003), ma soprassediamo. 86 rearview mirror (1972-1977) Verso il glam e l ' infinito ( non ) ritorno punk pop : S weet , S cruffs Quanto agli inglesi Sweet, casomai per loro il power pop fu un'infatuazione passeggera tra le altre. E, in un certo senso, fu il loro merito principale. Anch'essi come i Big Star presero le mosse dal soul visto che il batterista Mick Tucker ed il vocalist Brian Connolly (subentrato ad un certo Ian Gillan...) lo esercitavano nei Wainwright's Gentlemen. Nel '68 i due decisero di formare un'altra band, gli Sweetshop, orientando la barra verso la psichedelia e l'errebì. Accorciato il nome in Sweet per problemi di omonimia, nel '69 firmarono per la EMI e iniziarono ad irrobustire il sound azzeccando tra il '72 e il '75 una serie di singoli clamorosi (Block Buster, Teenage Rampage, Ballroom Blitz, Fox On The Run...) che messi assieme fanno un campionario di espedienti sempre più turgidi, enfatizzando gli stilemi boogie, pop e folk-blues (dai The Who ai Beatles passando da vaghe nostalgie Beach Boys) fino ad ottenere pose para-glam e proto-hair metal. Non si tratta certo di una band fondamentale né in senso assoluto né relativamente al nostro discorso, tuttavia vale citarla almeno per rimarcare la sottile ma incolmabile distanza che separa il fantomatico power pop dal cosiddetto glam, mancando al primo l'immaginario ultraterreno da cui il secondo non poteva prescindere per allestire la sua pantomima fulgida e derelitta. Non a caso gente come i T.Rex e i Bowie giungeranno al glam attraverso esperienze psych e prog, arrivando a concepire la propria musica come una soundtrack per sovrastrutture stranianti (pensate all’impagabile baraccone trans-teatrale allestito per Ziggy Stardust), veri e propri trip estetici per sublimare la desolazione esistenziale (e infatti il gotic guarderà al glam come a una fonte di ispirazione anche diretta, vedi il caso dei Bauhaus). Se in fondo il glam era un luccicante e tragicomico "rock'n'roll suicide", il power pop giocava invece coi sentimenti ad altezza d'uomo, fu (è) un diversivo che si nutriva di (e reinterpretava i) tumulti del quotidiano, affondando la sonda più o meno in profondità avendo cura di non essere troppo invasivo (a parte il caso dei Big Star che però, come dicevamo, giocarono una partita a sé). Per questo motivo, gli Sweet furono essenzialmente una band di power pop che si è spacciata via via per ciò che il tornaconto gli suggeriva. E non hanno ancora smesso! Ci piace chiudere questa schizofrenica e raffazzonata carrellata di qua e di là dall'oceano - facendo fulcro su qualcosa che probabilmente non esiste, oltretutto - con i formidabili Scruffs di Stephen Burns. Formatisi come classico quartetto nel 1974, questa band concittadina dei Big Star concentra tutte le caratteristiche e gli elementi del power pop ipotizzando un loro superamento che non mancherà di provocare conseguenze sul lungo periodo. Ascoltare le tracce del loro debutto Wanna Meets The Scruffs (1977) e ancor meglio le prime incisioni raccolte in Angst - The Early Recordings 1974-1976, significa assistere ad una sorta di distorsione spazio-temporale e poetica, con le istanze del pop sballottate dalle vibrazioni agre del rock acido e un estro garagista a tenere caldo il ferro. Rasoiate dolciastre di chitarra elettrica, il basso sempre impellente, qualche tastiera a ricamare bordoni wave, nel mezzo la voce di Burns come un razzo terra-terra spedito nell'immediato futuro e ritorno, cartoline che illustrano l'utopia di un pop visionario e acido per un mondo visionario e acido (sentitevi l'anfetaminico struggimento di Number One, l'epica sfrigolante di Revenge, la nostalgica veemenza di Break The Ice...). Diverranno altrettanti cliché per le turbe folli e maliose dei Flaming Lips, ma anche per le piéce turgide e sfrigolanti dei Suede, che proprio a quell'allucinazione consapevole, a quei lineamenti distorti su espressioni affabili dedicheranno energie ed intuizioni, con gli esiti diversi - se volete pure opposti all’estremo - che ben sappiamo. Purtroppo per noi e per gli Scruffs - destinati as usual a non conoscere la fama - si era già in piena tempesta punk, anni veloci e scellerati che non fai in tempo a voltare una pagina già inizia il prossimo capitolo.Tempo quindi di passare il testimone, tenendosi caro quel ghigno innocuo e sferzante di chi ha intuito la possibilità di deviare dal tranquillo solco della normalità senza perdere il gusto - direi quasi la tenerezza - del semplice intrattenere. rearview mirror 87 highlight Ristampe Raincoats (The) - The Raincoats (Phantom Sound & Vision, Ottobre 2009) G enere : post - punk / mes sthetic s Drexciya - Neptune's Lair (Tresor, Dicembre 2009) G enere : techno Dopo una serie di EP (su Warp e Underground Resistance), i Drexciya approdano su Tresor. Questo disco, insieme al seguente Grava 4 (Clone, 2002) segnava, nel 1999, uno standard e un culto che aleggia ancor’oggi inconsapevolmente sopra molte consolle. Neptune’s Lair è costituito da tracce brevi, sprazzi e visioni eterogee che riflettono la profondità della proposta del combo formato da James Stinson (purtroppo dal 2002 non più sul pianeta terra) e dal suo partner-ombra Gerald Donald. Se qualcuno si era fatto sconsolare dalla cripticità dei summenzionati eppì, è proprio da queste parti che si incontra l’ascoltabilità tout court. E che si vada su paesaggi ambient (Temple Of Dos De Agua), perfezione scientifica del beat mescolata con la melodia oggi ereditata dai Dopplereffekt (Andreaen Sand Dunes), oscurità pregrime (Habitat ‘o’ Negative), classicismo Detroit (Universal Element) o bbreaking puro (Surface Terrestrial Colonization, Organic Hydropoly Spores), psichedelia progressiva (Draining Of The Tanks) in questo disco si coniuga l’utopia di Mike Banks e soci con un respiro ampio. Da classico. Possono far sorridere quei suoni sporchi mescolati a melodie a pochi bit, ma è proprio da quest’estetica di nerd puristi e sperimentatori (con macchine e tastiere obsolete) che sono nate poi le vie alternative dell’elettronica per le masse danzanti. I Drexciya hanno rielaborato le istanze sperimentali dei vari Autechre, Pan Sonic o Keith Fullerton Withman riportandole sul pianeta techno con una firma personale e indelebile. Una mini bibbia.(8/10) Marco Braggion Slits (The) - Cut / Uncut - Deluxe Edition (Island, Novembre 2009) G enere : post - punk / dub Le prime cose che si percepiscono ascoltando Cut sono l’atmosfera, la gioia, il dinamismo militante. Bastano due 88 rearview mirror minuti di Istant Hit e la familiarità con le chitarre inconfutabilmente post-punk, il ritmo in levare, la vocalità agitprop ma cristallina di Ari Up è già completa. So Tough ha un tiro che trascinerebbe una mummia, e ci introduce a quel basso che toglie ogni dubbio: questa roba è dub, oltre che post-punk. Eppure le Slits nascevano come il primo gruppo punk tutto al femminile, con Ari che incontra Palmolive al concerto di Patti Smith, et cetera et cetera… Ma l’insegnamento di Cut è quell’“eppure” può non essere pertinente. Anzi, è proprio il momento che il primo album delle Slits fotografa con una felicità che ha pochi pari. Felicità che nasce dal loro entusiasmo e da quell’equilibrio precariamente incosciente che investì il combo femminile una volta fatta la conoscenza dei ritmi giamaicani arrivati in UK. In Cut c’è tanto il punk quanto il dub, punto. C’è il supporto della produzione di Dennis Bovell, che secondo alcuni semplicemente stravolse l’anima del gruppo. Ma noi sappiamo che l’anima delle Slits (sempre che esistano le anime) non poté rimanere impassibile ai deliri ripetuti delle feste raggae in cui Ari e co., assieme agli amici del Pop Group, passavano le nottate. E quindi sgorgò dalle vite alla musica. In Cut vediamo il dub modificare l’ipnosi delle sue strutture da taglia e cuci di foga e riflessione del post-punk. Notiamo anche il fallimento della tecnica, quando si dimentica delle teste in questione, e cioè quando Liebe And Romanze dilata a dismisura Love And Romance. E grazie al lussuoso cofanetto doppio CD della deluxe-edition di Cut, stampato in occasione dei trent’anni del disco, ci è concesso di osservare gli effetti della sottrazione reciproca tra dub e punk. Ci sono ben due sessioni da John Peel, dove i pezzi Cut-iani si asciugano del lavoro in studio e tornano a essere deliziosamente arrembanti. C’è un secondo CD che non poteva che chiamarsi Uncut, a richiamare un famoso articolo di Reynolds del '97, proprio sulle Slits (poi mutato nel pezzo di Rip It Up che conosciamo bene). In tutto, tra CD e Un-CD, oltre alla tracklist originale di Cut, ci sono ben 30 trac- Erano delle icone, le Raincoats. Lo sono ancora, dal momento che la citazione di The Raincoats, primo album della band, è d’obbligo quando si parla di un bel po’ di generi e questioni - non solo musicali. Delle Raincoats si sa molto, e soprattutto del periodo in cui fecero la loro felicissima comparsa. Fine anni Settanta. Scuderie nascenti Rough Trade. Gruppo femminile ma soprattutto femminista, anzi già postfemminista, probabilmente. Militanti già solo per l’essere lì, a sanzionare la propria presenza e a mettere il nome dell’impermeabile in tutte le cronache attendibili sulla nascita del post-punk e sulle prime evoluzioni più efficaci. È difficile quando si è così intrise di ambiente, di spirito del tempo, fare a meno di quello e concentrarsi sulle canzoni. Eppure quelle di The Raincoats sono amorevolmente degli scrigni di arte vocale, delizie di armonia, piccoli esercizi di disordine, passi delicati di arrangiamento su tessuti ed angolature post-punk, violino, cori memori dell’arte vocale di una tradizione di decine d’anni prima. Se dobbiamo dire che è capolavoro, diciamolo. Poco importa; e anche qui; lo spirito del tempo porta a inquadrare The Raincoats come uno dei momenti aurorali e comunque di massima realizzazione della messthetics, sorta di movimento interno al post punk inglese (e, più specificamente, dentro a Rough Trade, insieme a Scritti Politti, Young Marble Giants, e via dicendo) che faceva di quel disordine un’estetica coerente. Si trattava di cambi di tempo, di armonia, di sfilacciatura portata a elemento compositivo, a pause interne e ripartenze; tutte cose, soprattutto l’apparente distrazione e casualità della batteria di Palmolive (sì, la stessa delle Slits), che in The Raincoats trovano cittadinanza ideale, nonché un esito mirabile. La notizia è che dopo dieci anni di indisponibilità, questo scrigno è stato rimasterizzato, sotto la supervisione nella rifinitura proprio delle Raincoats (di due di esse, Ana da Silva e Gina Birch), e ristampato con un video e una bonustrack supplementari, a sigillare un anno di ritorno della band, con tournée americana, presentazione del documentario The Raincoats, Fairytales - A Work In Porgress, celebrazione presso ambienti LGBTQ. Si ventila un passaggio italiano, dal vivo. Abbiamo tutto il tempo di tornare a gustarci la freschezza rinnovata del primo album, a ripararci dalla pioggia…(8/10) Gaspare Caliri ce bonus (selezionate e compilate dalle Slits stesse, insieme a Mark Paytress di Mojo) che impreziosiscono, accanto a un booklet succosissimo, un’uscita che, una volta in più, conferma il raggiunto status del post-punk inglese nel mercato discografico: una fonte di celebrazione.(7.5/10) Gaspare Caliri Sonic Youth - Silver Session (Syr, Gennaio 2010) G enere : guitar noise Torna disponibile, dopo un periodo fuori catalogo, uno dei pezzi forti del lato selvaggio della gioventù sonica. Silver Session, sottotitolo For Jason Knuth - dal nome del fan suicida al quale il mini venne dedicato - è forse uno dei pezzi più incompromissori di una carriera ormai divisa equamente tra lavori accessibili (su major) e altri di ricerca e sperimentazione (in proprio col marchio SYR). Se Thurston Moore nelle note che accompagnano il mini si premura di ricordare come all’epoca della registrazione avessero portato “every amp we owned on to 10+” facendoli collassare come “airplanes burning over the pacific”, capirete benissimo cosa avete davanti: mezzora di white noise in overdrive, un trionfo di feedback chitarristico che tocca picchi da massimalismo del rumore e i cui risultati sono a tratti addirittura mantrici (Silver Shirt).(6.5/10) Stefano Pifferi rearview mirror 89 (GI)Ant Steps #34 classic album rev Miles Davis Van Der Graaf Generator Kind of blue (columbia records, agosto 1959) H To He Who, Am The Only One (Charisma Records, Dicembre 1970) Sempre nell'olimpo, tra i classici forse il più classico, uno di quei pochi dischi capaci di incarnare il significato della parola jazz così come sedimentato nella coscienza collettiva e immediatamente disponibile al gioco delle associazioni mentali: quasi una definizione da dizionario. Dici jazz e anche il peggiore degli sprovveduti si figura Miles Davis e forse proprio Kind of Blue e la sua copertina (con tutto l'immaginario cui questa allude e che sottintende, night fumosi e giacche e cravatte sudate in testa). Delle tante facce del mutante Davis questa tinta di blue(ness) è la più spendibile a qualsiasi livello (non intendiamo questo, ma diciamolo anche, per inciso, che è uno dei dischi più venduti della storia del jazz), la più basica (nel senso di basilare e fondativa) e composta: elegante di un minimalismo fatto di contorti netti, perfettamente disegnati. Davis prende per mano il Virgilio Bill Evans e sviscera qui, definendo un nuovo standard, le intuizioni modali (dove modo è uguale a scala, lidio, misolidio, eccetera, in opposizione al classico improvvisare jazz sugli accordi che sorreggono il tema) già testate in alcune prove di poco precedenti. E' un ritorno al piacere della melodia dopo le abbuffate virtuosistiche della tonalità bebop, per un Davis che in fondo è e sarà sempre un "virtuoso del 90 rearview mirror non virtuosismo", uno sciamano del silenzio e dell'intuizione (fino all'alea controllata - appunto - di In a Silent Way, 1969). Inutile stare a chiosare sui cinque pezzi, praticamente cinque standard fin da subito (l'iniziale So What su tutti), e sulle performance dei singoli uomini del quintetto che accompagna Miles (la classicità - di nuovo - dello swing di Jimmy Cobb; i misuratissimi tocchi al piano di Evans, memori di certa classica-contemporanea; i primi chiari bagliori del John Coltrane che sarà). Basta da sola la sua tromba a fermare il tempo, ancora oggi, cinquant'anni dopo, limpida e notturna com'è: come un chiaro di luna. Sono lame sottili che non lacerano ma illuminano il buio di una luce bianca, lirica, astratta, ultraterrena, apollinea. E' un miracolo la tromba di Miles, quasi sempre, e qui più che altrove. «E' classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo. E' classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona», diceva Calvino. Kind of Blue, allora, è semplicemente il più classico tra i grandi classici del jazz. Gabriele Marino Manchester, 1969: The Aerosol Grey Machine è il primo disco dei Van Der Graaf Generator dopo due anni di tormentate vicissitudini, tra beghe legali e continui cambi di formazione. Il suono prodotto da Peter Hammill (autore, cantante e polistrumentista), Hugh Banton (tastiere), Keith Ellis (basso) e Guy Evans (percussioni) intriga il pubblico e convince la critica (quest’ultima parlerà addirittura di “nuovi Beatles”). Tuttavia, manca ancora qualcosa, l’ingrediente decisivo: il sassofono elettrificato di David Jackson, una scheggia jazz veemente, generosa e anomala che renderà inconfondibile la calligrafia della band. E’ grazie all’ottimo The Least We Can Do Is To Wave To Each Other (1970), per qualcuno da considerarsi come il loro vero primo album, che i Van Der Graaf Generator iniziano a riscuotere un più che meritato successo. Però il combo è un calderone, i caratteri stridono, l’iperattività erode i rapporti, gli strumentisti vanno e vengono. Soprattutto, vanno: buon ultimo il bassista Keith Ellis, parzialmente sostituito da Nic Potter, che a sua volta si tratterrà appena il tempo di suonare in tre pezzi di H To He Who, Am The Only One. E’ l’album della maturità per i “generatori”, le sonorità veementi e preziose, le strutture espanse e ritorte su melodie intensissime: un miracolo di complessità e urgenza, amalgama ipertrofico che pure riesce a sembrare spontaneo, diretto, addirittura toccante. Il lavoro di arrangiamento e produzione è imponente e calligrafico, e basterebbero a dimostrarlo i primi secondi di The Emperor In His War-Room: flauto, tastiere, basso e batteria compaiono sulla scena simultanei e vaporosi, un senso di leggerezza inafferrabile mentre la voce scolpisce il tema tra brume nichiliste e improvvise deflagrazioni d’acidità. Le canzoni sono percorsi, peripli, avvitamenti tra convulsi cambi di scena e pastose scenografie, con una febbre jazzy a pungolare quel senso d'epica spacey di marca King Crimson (e non a caso c'è Robert Fripp ospite proprio nel pezzo prima citato). Certo, l'imponenza dell'edificio sonico - cui l'organo di Banton è colonna portante, vedi quel che combina in Killer - sarebbe poco senza la scrittura di Hammill, memore di blues e intrisa di post-psichedelia, come quel canto a metà tra shouter black e hard-rocker tenorile, capace altresì di gestire tenerezze come nella stupenda House With No Door, cosmicamente pervasa di spleen e ugge pastorali (Jackson alle prese col flauto, con effetto quasi Traffic). La conclusiva Pioneers Over C. alza definitivamente l'asticella decollando floydianamente e destrutturando errebì in stile pseudo-Faust, impastando piglio Spirit e misticismi beatlesiani, crimsoniani, canterburiani, in un processo che si dipana erratico e ubriacante attraversando oasi acustiche, assolo incandescenti, sinusoidi misteriose e insensatezze di piano. E pensare che tutto questo non sarà che antipasto del più celebre Pawn Hearts, licenziato solo pochi mesi dopo. Purtroppo anche apice di una carriera troppo breve. Stefano Solventi rearview mirror 91 la sera della prima (500) giorni insieme M arc W ebb (USA, 2009) Peccato! Ci avevo sperato, creduto. Lo giuro! Lo so, stupido io a farmi abbindolare ma che ci posso fare, in questo periodo sorrido parecchio! (500) giorni insieme (500 Days of Summer), di Marc Webb ha un solo reale problema: è troppo di Marc Webb. Mi spiego, si percepisce sin dal'inizio il potere catartico e terapeutico di tutto il film, opera dell’esordiente Webb, che viene dai videoclip. Che sia suo il bisogno o dei suoi scrittori non lo so né mi interessa ma il film è, evidentemente, il frutto di un lavoro di pulizia e affrancamento. Sin dall'inizio, con la dedica a una “stronza” che si può immaginare che cosa gli abbia fatto, attraverso poi la battuta dell'amico per la quale si deve fare come Miller e rendere la delusione amorosa letteratura e infine attraverso il ripetuto concetto quasi manzoniano della porta che si chiude e del portone che si apre, si capisce che qualcuno dalle parti di Los Angeles ha il cuore infranto e si è detto: “Beh, lo sai che c'è, io scrivo tutto!”. L'autobiografismo di (500) giorni insieme, la personale visione del mondo che fa credere che si troverà prima o poi qualcuno che la pensi allo stesso modo, è il limite maggiore di un film divertente, fresco e solare. Se Federico Fellini raccontava se stesso e faceva Cinema, Marc Webb racconta se stesso e fa: “mammamia quanto mi piacciono i film del Sundance”! Mi spiego. Ovviamente il paragone con l'Autore italiano è vano, non mi sono bevuto il cervello per il momento, ma questo film ripiega la mancanza di un sentimento e di una scrittura degna sul mezzo tecnico, sul montaggio, sulle alternanze stilistiche, sulla trovata del conto dei giorni e, assolutamente, sulla colonna sonora. Andiamo con un po' d'ordine. La colonna sonora è un insieme di memorie, gioie e dolori per tutti quelli che sanno qualcosa di musica. L'incontro tra Tom e Summer in ascensore, mentre lui sta ascoltando There Is A Light That Never Goes Out degli Smiths ha, per me, del mitologico, del “benvenutinelmondodeiricordidiAldo” ma non basta! Arrivano Here Comes Your Man dei Pixies e Bad Kids dei Black Lips così sbotto, salto sulla poltroncina e inizio a urlare “PENE, PENE, PENE!” (citazione dal film, s'intende!). Il film, apprezzato al Sundance e ben anticipato da un bombardamento mediatico tra social forum e banner internet ha tutto per conquistare il suo pubblico e dispone una dietro l'altra sequenze da copiare e rifare. Fingere di abitare all'Ikea, andarsi a innamorare in un karaoke, sbroccare tra alcool, amici che ti conoscono da sempre e con la canzone giusta in cuffia, sono macrosituazioni, elementi di una riconoscibilità precisa, specifica e ammiccante. Buone un po' per tutte le età. Ok! Un filmetto. Ok! Sono troppo vecchio per certe cose. Eh no! Perché a un certo punto cercano di farmi capire che le cose capitano, che è inutile farsi promesse, che le coincidenze ci governano e lì i personaggi si sgretolano, si polverizzano in frasi senza senso, scomodi pensieri dalla profondità paragonabile al Bergman citato nel film. Già, perché si fa anche un po' di metacinema qui, si cita, si copia e rifà. Il finale rovina tutto quello che, durante il film, di buono è stato fatto. Affrettata, improbabile e fastidiosa. Consiglio di procurarsi la colonna sonora e di andarlo a vedere solo se avete una storia d'amore che sta prendendo il volo, se siete liberi e volete restarlo o se, come Syd e Nancy, non ve ne frega niente di niente! Aldo Romanelli 92 (500) giorni insieme Dieci inverni V alerio M ieli (I talia , 2009) E’ che alla fine sono un inguaribile romantico. Nonostante il gusto populista di alcuni melodrammi sentimentali del Bel Paese ogni tanto ci ricasco con il rischio di perdermi nella retorica del melenso e del banale. A dispetto di molti drammi da adolescenti brufolosi, qui non si sentono cccioè ed altre amenità lessicali, ed è ovviamente un bene. Non c’è nemmeno Stefano Accorsi che grida in maniera isterica, però non temete cuccioloni sta tornando anche lui nei panni in cui abbiamo potuto misurare a tutto schermo la circonferenza delle sue arterie giugulari. Contrariamente alla recherche dello stereotipo, Dieci inverni indaga il rovescio della medaglia. I toni sono lontani milioni di inverni luce da quelli a cui ci hanno abituato le ultime produzioni italiane. L’esordio di Valerio Mieli, fresco di centro sperimentale, è ottimo e coraggioso. Ci ha creduto la Rai, ci ha creduto il centro di cinematografia moscovita, ci ha creduto la Bolero che lo sta distribuendo in Italia. A volte magari qualche scivolone gli è concesso sul terreno ghiacciato e impraticabile di un genere palustre come quello della commedia sentimentale. Ad aiutarlo una giovane coppia di attori, Isabella Ragonese e Michele Rondino, in grado di invecchiare di dieci anni in poco più di un’ora e mezza senza insosteni- bili quanto ridicoli ricorsi al parrucco. Non ci è dato di conoscere né un prima né un dopo. La nostra finestra ha un arco definito e il raggio visivo è chiuso sui due protagonisti e il loro mondo. Attorno gravitano personaggi satellite che a volte escono dal nostro spettro per poi ricomparire con una relazione finita male, una laurea o un prossimo matrimonio. Ed è tutto. Dieci inverni è un film dolce e malinconico. Timido, quella timidezza garbata e un po’ ruffiana di chi rifiuta l’ennesimo pasticcino, ma che in cuor suo avrebbe voluto davvero assaporarne l’impasto. La storia tutta nebbie e solitudini di Silvestro e Camilla è ambientata in una Venezia isola e Canali, fotografata da Marco Onorato con la maestria che il DOP ha mostrato nella sua lunga collaborazione con Matteo Garrone in Gomorra (2008), Primo amore (2004) e L’imbalsamatore (2002). Senza molte soluzioni di continuità spazio temporali, così che Venezia sembra simile a Mosca, ed entrambe sembrano irreali; ogni anno sembra uguale a quello precedente e si proietta su quello che verrà. Minimo comune denominatore la giacca di Silvestro. Perché lei alla fine cambia e si cambia. Cambia acconciatura, finge di cambiare testa e cambia soprabito per nascondere sempre la solita insicurezza che solo lui - a discapito della sua faccia da schiaffi - alla fine riesce a dichiarare. La storia di questa educazione sentimentale si concela sera della prima 93 de senza malizie, procede come uno zibaldone di annotazioni che si proiettano in quadri in cui il mondo dei personaggi finge di cambiare, ma al massimo si limita ad oscillare tra uno dei due poli. Due protagonisti insolenti e allo stesso tempo deboli, che si rincorrono come lancette di orologi. Ovviamente tarati male, ma anche il mondo esterno sembra contare qualche inverno di troppo, del resto. Tempo dell’anima e stagioni della vita che picchiettano sullo stesso tasto, perché il giro completo e di ripresa è stato concesso forse solo a Kim Ki Duk e a Eric Rohmer. Dieci inverni, e forse qualcosa dicevamo si perde, qualcosa si aggiunge nella conta. Poi la primavera, non solo metaforica, che li porterà ancora allineati allo zenit. Lui per la prima volta davvero cambiato, con la barba. Una corsa in senso antiorario attorno ad una chiesa, quello che dovrebbe essere forse l’obiettivo di coronamento di ogni storia che si rispetti, e si ritorna indietro, all’inizio, alla loro prima casa e alla loro prima notte. Con esito diverso, grazie a dio. Il walzer delle ritrosie, delle frustrazioni, delle relazioni tappabuco dura un decennio, e sul finale il sospetto crescente che la storia finisca in un nulla di fatto dall’amaro in bocca come in Come Eravamo (The Way We Were, Sidney Pollack, 1973). Una relazione stabile, una figlia, ma con la persona sbagliata, a riprova di questo inseguirsi alla mercé di un destino un po’ beffardo o forse solo preparatorio: Camilla e Silvestro, vicini come nella loro prima casta notte, ballano sulle note di Vinicio Capossela - che regala un prezioso e poetico cammeo interpretando la sua Parla Piano - ma mai così distanti. È la vita. Quando «Il tempo ha già giocato già scherzato non rimane che provar la verità». Luca Colnaghi Welcome P hilippe L ioret (F rancia , 2009) La tratta Calais-Dover ha un prezzo variabile. Si va da 30 euro, se si è in possesso di documenti, ad un massimo di 500 euro in assenza di questi. A volte il prezzo può essere anche più caro, perché per passare una cortina di 94 la sera della prima ferro servono polmoni d’acciaio e un cuore d’oro. Bilal, giovane curdo, lo sa bene. Ha lasciato il suo Paese sognando l’Inghilterra, un’adolescente che il padre ha promesso in sposa e il Manchester United. Difficile tracciare il confine tra sogno e follia, innocenza e ostinazione, linea che può avere un solco di 34km che molti immigrati come Bilal sperano di passare a nuoto, quando vedono fallire il tentativo di salire clandestinamente sul traghetto. Premio del pubblico alla Berlinale e campione di incassi in Francia, Welcome è un apologo morale sull’attuale. Polemizza con la legge sull’immigrazione voluta da Sarkozy, ricordando che se oggi è reato aiutare un immigrato curdo in Francia, un tempo in Germania era reato aiutare un ebreo. E lo fa mostrando l’indifferenza, la disperazione, i soprusi della polizia e la logica dei nuovi kapò, guardie giurate di colore che impediscono ai clandestini di far la spesa. Quello che pensavamo ormai un dramma del sud del mondo, viene riproiettato a nord, ricoprendo con il cono d’ombra anche l’Italia. Philippe Lioret ancora una volta dopo il suo bell’esordio in Tombés du Ciel (1993) lavora sul concetto di alterità: l’altro diventa una particella tumorale da essere annientata, una particella da essere fagocitata o espulsa. È la mercificazione dell’uomo, letterale: gli immigrati attraversano il confine in tir contenenti i beni di consumo che avremo sui banchi dei nostri supermercati, trattengono (mortalmente) il respiro dentro le buste di plastica. Noi e loro, in una dialettica così serrata che non vi può essere mediazione. Da un lato occorre schierarsi, non si può stare a guardare come Audrey Dana dirà a Vincent Lindon; dall’altro l’unico connettore tra i due mondi (Inghilterra e Francia) e gli interni (riccamente) desolati e gli esterni popolati di miseria può essere solo il mare, il grande forse, il dubbio di Volmey cui lo stesso Simon deve piegarsi. L’istruttore della piscina è l’uomo qualunque: pavido, ignavo e qualunquista. Abbandonato dalla moglie a causa della sua inerzia, troverà la forza di riscattarsi anche se prima spinto dal mero fine egoistico di riconquistar la moglie. La sua non è solo una risalita dall’apnea negli abissi dell’indifferenza, ma anche una riconquista dell’umanità perduta: curvo e ripiegato su se stesso per proteggersi dal mondo esterno finirà per alzare la testa e farsi carico sulle spalle del destino altrui. Welcome è un titolo che sarebbe piaciuto a Brecht, probabilmente. Ovviamente ironico, lascia un retrogusto amaro, quella della realtà. Un film in riva al mare che sa essere commovente in modo asciutto, risparmiandosi parentesi lacrimevoli. Una ben congegnata struttura di polemiche e dibattiti di supporto fanno il resto per un film che non solo si presenta come film a tesi, ma anche come panoramica sulla disumanizzazione xenofoba sto nulla è concesso alla logica dei buoni sentimenti gratuiti e della facile commozione. Perché qui non bisogna riflettere solo con il cuore e la testa, ma anche con lo stomaco che si contorce dai sensi di colpa collettivi e dai colpi inflitti dai fatti tanto elementari quanto tristemente reali ed ignorati. Sono reali i controlli e le perquisizioni ai camion, le sonde che rivelano il respiro, i morti, le tangenti, lo stato di polizia che assedia il volontariato francese. Ogni epoca ha il suo muro. Il nostro è un muro d’acqua. Luca Colnaghi Nemico pubblico M ichael M ann (USA, 2009) dell’Europa. I sentimenti sono complessi. La passione repressa trasformata in amicizia con la moglie, il desiderio di riconquistarla mostandosi all’altezza del suo operato nel sociale, la voglia di riscattare una carriera consumatasi in fretta, l’impossibilità di fidarsi ciecamente dell’altro, il rapporto quasi paterno tra Simon e Bilal, l’adulto solo che si rivede negli occhi ostinati del ragazzo. Anzi, il rapporto tra Simon e Bilal passa da quello maestro-allievo a quello padre-figlio, per poi maturare in quello di due adulti innamorati di due donne inarrivabili. A loro modo i due sono due eroi romantici. Una favola triste, fotografata da Laurent Dillaud con colori lividi e ampie campiture adatte al lirismo dell’umanità negata e riscoperta, nelle sue sfaccettature più crude, disumane e sopraffatte. L’immobilismo della piscina francese e della società contro quello del mare e degli immigrati, fiumi in piena che finiscono nel mare la loro corsa. Welcome, è un film a chiasmi costruiti in un’ottica per cui l’importanza delle cose è messa in discussione: se risulta pleonastica la sequenza finale con il gol di Cristiano Ronaldo, nessuno spazio è dato all’esito della traversata del giovane curdo. L’importante non è chiedersi come vadano a finire queste storie, ma chiedersi durante il loro protrarsi le ragioni e i modi del loro svolgersi. Qualche luogo comune prevedibile, come il furto della medaglia d’oro, o di sentimentalismo, come la scena in cui Simon cede l’anello della moglie a Bilal, ma per il re- Nemico pubblico è un film da manuale. È, soprattutto, un manuale sull’arte della messa in scena con tutta la sua maniacale accuratezza per gli oggetti o con le sue locations accattivanti: gli interni di banche e locali, gli esterni, tra la gelida e ventosa città di Chicago, i cactus e le palme di Miami, l’ambientazione western del Little Bohemia (da notare il dipinto del cowboy a cavallo sotto cui Dillinger si addormenta). La passione di John Dillinger per auto veloci e vestiti eleganti è pienamente soddisfatta. Harry Bergman all’inizio offre alla banda una Plymouth, una Essex e una DeSoto. È ovviamente una Ford (V-8) l’auto con cui Johnny fugge dalla prigione dell’Indiana. Billie confessa alla fine ai poliziotti che il suo uomo si trovava fuori dal locale di liquori di Larry Strong in una Buick nera. Sono macchine eleganti, lucide, scure, perfette. Così le definisce Mr Bergman: macchine velocissime, da lavoro, per gentiluomini come voi. Ma i mezzi di trasporto non si fermano qui. C’è anche l’aereo dell’American Airways con cui Dillinger viene spostato da Miami all’Indiana. Le riprese in volo e il suo atterraggio tra fasci di luce e scroscio di pioggia sono un peana alla tecnologia. Oppure il locomotore nero che butta fuori fumo bianco mentre avanza verso la stazione di Chicago per condurre Winstead a destinazione, come un altro testimone di questa cura della messa in scena che potremmo definire ‘antiquaria’. Che dire poi delle lampade Art Deco delle banche, dei marmi rosa e verdi dei soffitti dell’American Bank, degli affreschi intravisti al tribunale, dei lucidi soprammobili della casa in cui si incontrano per un attimo Billie e Johnny, dei cappotti neri di ottima fattura? Infine i mitra, il Thompson Submachine Gun, meglio conosciuto come Tommy Gun (la canzone del secondo album dei Clash), vero e proprio oggetto di culto che fa il paio con le macchine da presa dell’epoca che varie volte compaiono nel film. Sembrerebbe quasi che questo sia il vero obiettivo del film: mostrare oggetti, il gusto antiquario per l’ogla sera della prima 95 getto di culto. Quando, poi, a questo mostrar oggetti, in particolar modo le cineprese, si aggiunge la classica, hollywoodiana critica verso i mezzi di comunicazione che siano la stampa, che sia, più tardi, la televisione - è solo un promemoria per la critica e un contentino per chi ama dibattiti e discussioni. È stato detto che Nemico pubblico costruisce un discorso sul potere demistificante dei media (Hoover rispetto a McKellar, Purvis rispetto a Dillinger, Dillinger stesso rispetto al suo pubblico). Tutto vero ma - anche rispetto ai precedenti film di Mann - niente di nuovo. E allora? Che il suo vero scopo sia mostrare più che raccontare? Nessun desiderio di costruzione discorsiva ma pura cinefilia, puro desiderio scopico, pura messa in scena. Questo film è poi un manuale di sceneggiatura: la struttura è perfetta. C’è un colpo di scena a metà film quando lui viene sorpreso nell’Hotel Congress a Miami e, dopo l’evasione, la seconda ora è un lento declino. I poliziotti gli fanno terra bruciata attorno, mentre la malavita cambia codici, maniere, strumenti, volgendogli le spalle. Queste due linee si congiungeranno in una pinza che afferra il gangster. Come non notare, poi, che è anche un manuale di regia: la mdp digitale corre dietro a Dillinger, gli sta addosso, spesso lo precede e lo segue, sta dentro agli eventi, mostra gli oggetti (ecco la forma sensibile di 96 la sera della prima quel desiderio scopico accennato prima). Non si vuole raccontare oggettivamente, non si vuole nemmeno commentare, l’obiettivo è essere con il personaggio, al suo fianco. Per questo la focale principale è ovviamente Dillinger ma non del tutto. È necessario, infatti, affiancare avversari di tutto rispetto - quali sono sia Winstead che Purvis - oltre che oggettivare, in certi momenti, quella stessa focale quando, per esempio, il racconto passa attraverso le cineprese, le radio, il cinematografo. Non dà tregua il montaggio, ritmico, sincopato, veloce, al limite della comprensibilità che fa il paio con la musica. Il bellissimo blues Ten Million Slaves di Otis Taylor è un valore aggiunto ma non tutta la musica si limita al commento. Nell’unica scena di sesso fra Billie e Dillinger, per esempio, la voce di Billie Holiday si alterna, in controcanto, con il tema della caduta dell’eroe - JD Dies di Goldenthal - e la linearità della sequenza è interrotta da momenti pacati e distesi in cui Billie racconta la sua vita passata. Il destino è già segnato e - in questa scena - il tempo cede la linearità su una serie di riprese (una specie di analessi) di momenti che non ritorneranno mai più e che già sono segnati dal tema musicale della fine. Nemico pubblico è anche un manuale sul gangster movie. Il realismo del racconto americano cola tutto nello stampo ambiente/carattere e questo film non fa eccezione: è la metafora del born losers che, nato in un ambiente malavitoso, non può che diventare quello che è. Da Scarface in poi il gangster è un perdente nato che non conosce altra legge che quella della strada, ha un lato megalomane e piccole incrinature del carattere. Per Tony Camonte era il rapporto con la sorella, per Dillinger è Billie. Sono tutti personaggi bigger than life che si lasciano prendere la mano, hanno codici morali personali, desiderio assoluto di piacere, sono abili seduttori ma finiscono per strafare. Così è una minima incrinatura del carattere a fregarli e condurli a destino certo. Niente di nuovo ma anche: tutto è nuovo, perché non si finisce mai di vedere e rivedere quello che si ama. In questo senso la scena finale che ruota attorno al film di Van Dyke II, Manhattan Melodrama (Le due strade) - storia di un tradimento e di un uomo dalla filosofia molto simile a Dillinger: vivere (e morire) il momento - costituisce il nucleo cinefilo del film. Francamente poco scientifica eppure tangibile e rinfrancante è questa mistica della visione che, nonostante lo scarso valore di quel film, spinse molti a recarsi al cinema per vedere le ultime immagini viste da Dillinger. Barthes di fronte alla foto dell’ultimo fratello di Napoleone diceva: sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore. Così l’America costruisce i suoi miti. Ma in questo film perfetto (nel senso di ben strutturato e chiuso su di sé) ci sono, come nel carattere del gan- gster, delle piccole incrinature. Francois Truffaut diceva di trovare abietta e immorale la perfezione. E, in effetti, uno dei punti più interessanti del film è proprio la sua stortura, il suo rifuggire da una figura armonica. In questo caso il difetto è costituito dalla distorsione del suo stesso potere di mostrare. Già nella primissima scena c’è un inganno. Dillinger e ‘Red’ arrivano nel piazzale vuoto di fronte alla prigione, scendono dall’auto e si avviano verso il cancello. Dillinger è ammanettato, ‘Red’ lo segue spingendolo, ha un distintivo da federale sul cappotto nero. I due sembrano allo spettatore (oltre che ai secondini della prigione) preda e cacciatore; in realtà scopriremo solo dopo che fra i due c’è un rapporto di tutt’altro tipo. ‘Red’ è, infatti, l’uomo che sta più vicino a Johnny, l’ultimo a morire prima di lui, quello che, in fondo, prende il posto lasciato vuoto dalla morte iniziale di Walter. La cosa non è così insignificante come sembra dal momento che l’imperfezione del film, la sua stonatura è esattamente una specie di sottile inganno perpetrato ai danni dell’immagine. L’immagine è ovunque ma non ci dice niente sull’oggetto della visione. Come mai, infatti, nonostante foto e stampa, cineprese e cinematografo, nessuno riconosce Dillinger? Non lo riconosce Billie e non lo riconosce il Bureau, addirittura per due volte, e non lo riconosce la gente al cinema. Quest’ultima occasione, veramente, è particolarmente interessante perché mette in ridicolo una delle sensazioni popolari più diffuse riguardo al po- tere, ovvero che si vada a incuneare in una profondità molto lontana dalla gente e che si addensi in un confuso ammasso di corruzione e mistero, che a volte rasenta l’assurdo: se tutti, contemporaneamente e a comando, si girano prima a destra poi a sinistra chi vedrà chi?! Ci sarebbero analisi da fare per ciascuno di questi mancati riconoscimenti, ogni spettatore darà la sua interpretazione, ma se notate bene sono proprio questi i momenti (imperfetti) migliori; a cominciare, senz’ombra di dubbio, dalla sequenza più bella di tutte: la luce del sole sul viso di Dillinger che, quasi in ralenti, si aggira beffardo tra le scrivanie della Dillinger Squad. La luce del sole in quella scena è più foriera di virtualità e fantasmi di quanto possa esserlo la più nera oscurità della notte. In un film carico di scene notturne come questo, quella luce piena e diurna mi sembra acquisti ancor più valore lirico. Due note finali sul titolo. Il Nemico Pubblico di William Wellman (1931) con Cagney non racconta, ovviamente, la storia di Dillinger ma di un immaginario gangster di New York, Tom Powers. Lo sterminatore (Dillinger) di Max Nosseck (1945) è il primo film che racconta la sua storia. Il termine ‘public enemy’ fu usato per la prima volta dalla Chicago Crime Commission per definire Al Capone. Sia nel film che nel romanzo di Bryan Burrough, da cui è tratto, il titolo è al plurale, Public Enemies. Costanza Salvi la sera della prima 97 A Serious Man J oel & E than C ohen (USA, 2009) C’è un rabbino che recita un pezzo di Somebody to love e dopo snocciola i nomi degli Airplane, capito? Questo passaggio del film varrebbe forse da se un quarto d’ora di risate, come la faccia del vecchio yiddish polacco scambiato per un dybbuk, un non morto, che passato allo spiedo dalla contadina proto sovietica di turno si alza, saluta e se ne và; o come la sequenza dei denti del non-ebreo. Epocali. Come questo film, una retrospettiva autobiografica alla maniera dei Coen sull’America provinciale in cui sono cresciuti. L’umorismo yiddish diciamocelo, a volte è un po’ difficile da digerire a causa di una certa differenza culturale che ad esempio non ci porterebbe ad esporre in bacheca duecentimetri di pelle di prepuzio (anche se credo che questo sia più un retaggio del pubblico da attribuire a Ben Stiller), e non sempre risulta sufficiente la vaccinazione Woody Allen. Anche perché i Coen non sono mai stati della parrocchia della comprensione facile, anzi sul nonsense e sul fatto di lasciare di stucco il pubblico ci hanno ricamato sopra parecchio. Anche a non capirci molto, però, il film è di una bellezza fotografica notevole. Roger Deakins è uno di quelli che colleziona nomination all’Oscar ogni 98 la sera della prima volta, e della middle upper class americana da sobborgo aveva già fornito dei ritratti con Revolutionary Road (Sam Mendes, 2008). Peccato che non riesca mai a vincerli. Forse anche di questo ci sarebbe da ridere su alla maniera dei Coen. Larry Gopnik è un ebreo praticante, è sposato e ha due figli. Il signor Rossi del Minnesota. E’ un insegnante precario di fisica, vive in una tranquilla comunità ebrea nel Minnesota degli anni ’60 e il mondo è ovviamente pronto a crollargli addosso, come ad ogni ragionier Ugo Fantozzi che si rispetti. La moglie vuole divorziare e lo farà con un rito pubblico, i figli gli rubano i soldi per comprarsi la marijuana o per rifarsi il naso. Questa poi è una metafora di laicizzazione e americanizzazione stupenda se del naso ebreo si discusse anche nelle infelici parentesi dell’antisemitismo. Non a caso il consacramento all’inettitudine del padre avviene proprio a ridosso del Bar Mitzvah del figlio, l’ingresso in società. Bisogna capire quale. Insomma il padre è il classico bigotto, i figli sono pronti a rinunciare alle loro radici e perdersi nel qualunquismo tutto Mad, walkman e chewingum di una cultura un po’ be bop a lula o giù di lì. Larry sembra perdere su tutti i fronti: quello familiare, quello professionale (forse anche etnico con le minacce dello studente asiatico, la nuova minoranza arricchita degli States) e anche umano con la perdita del giardino, non tanto quello dell’Eden che con certe visioni a sfondo erotico è del tutto compromesso, ma in senso fisico con l’occupazione da parte del vicino. Un uomo che in pieno clima di fermenti e cambiamenti si rifugia nella tradizione può o vincere o fallire completamente. Come da film: «Siamo ebrei, quando le cose vanno male abbiamo il pozzo della tradizione da cui attingere ». Vi ricordo che stiamo parlando dei Coen, quindi è ovvio a quale destino andrà in contro il povero travet. Larry si ostina a cercare nella parola non di uno, bensì di tre rabbini, la via per diventare un mensch, un uomo serio. Terapia psicoanalitica travestita da torah postmoderna made in Allen, humor da black comedy e ambienti glam ’60 antisettici come in un quadro di Hopper. Atmosfere surreali per un villaggio di case di marzapane tratto dal vissuto autobiografico, umorismo esistenziale e disilluso, un mix esplosivo di cinismo e nonsense. In definitiva un film di difficile assimilazione, machissenefrega. L’Italo Svevo dei Coen è un Michael Stuhlbarg che si candida al premio di Medioman cinematografico battendo anche il recente brillante operato di Christian Slater in He was a quite man (Frank A. Cappello, 2007), perché la camicia quadrettata in flanella a maniche corte con il plusvalore della maglia della salute non può avere rivali. Prima del 1968 l’ultimo grande tentativo disperato di aggrapparsi alle tradizioni e farsi portare via da un uragano (culturale) in arrivo. A Serious man non è un film per tutti. Dopo la conquista del grande pubblico e degli Oscar, i Coen sfornano un film che metterei in parallelo a Mister Hula Hoop (The Hudsucker Proxy, 1994), se non altro per il fatto di essere una pellicola che l’80% del pubblico (me compreso) capirà e apprezzerà con gli anni. C’è da sbatterci la testa, e un passaggio del film può regalarci degli spunti. Luca Colnaghi Segreti di Famiglia - Tetro F rancis F ord C oppol a (USA, A rgentina , S pagna , 2009) Al cinema è arrivato il 30 novembre, un po' in sordina, un po' senza voler disturbare Segreti di Famiglia - Tetro, di Francis Ford Coppola. Passato a Cannes con grande attesa, segna il ritorno di Coppola alla regia e alla scrittura originale di un film dopo anni. Il film comincia più che bene, con un ritorno a casa o meglio con un arrivo a casa per la prima volta di Benny, un bravissimo Alden Ehrenreich, dal fratello maggiore Tetro, il grande Vincent Gallo, andato via anni prima, a Buenos Aires, nel quartiere de La Boca. Il tutto è mostrato con un livido bianco e nero perfetto e digitale ma non abbacinante né iperrealista alla Mann. La costruzione delle inquadrature è sapiente e fatta a regola d'arte, le luci sono poste dove uno studente di cinema le metterebbe, i campi e i controcampi funzionano alla perfezione e il risultato ottenuto è quello di una totale fedeltà concessa al flusso visivo, un cieco colpo di fulmine che rapisce lo spettatore. Il film nella prima metà, fino all'incidente di Benny procede a splendida velocità. Tutto fila come dovrebbe, occhieggiando a Pedro Almodovar, c'è Carmen Maura nel cast, e a molta storia del cinema, la vicenda avvince e convince ma d'un tratto tutto inizia a traballare. Purtroppo. Dal momento in cui il fratello minore decide di portare a termine il lavoro di Tetro, concludere una pièce autobiografica abbandonata da anni sulla figura paterna castrante e misteriosa, tutto declina, il film si fa lento e fastidioso. Stantio e ridondante. Se già prima, quando il film aveva entusiasmato, erano stati inseriti dei frammenti a colori nel flusso in bianco e nero e questo aveva galvanizzato per l'uso sapiente del flashback e del montaggio, ora, questi inserti si fanno estenuanti con la novità di brevi sequenze digitali rappresentanti scene di ballo che metaforizzano banalmente le vicende dei personaggi e simboleggiano la fragilità dei legami e delle emozioni. Troppo semplice, banale, affidarsi a questi mezzi quando il nome in cima al cartellone è quello di Francis Ford Coppola. Si evince che Coppola trova nel mito greco e nella psicoanalisi una soluzione al suo film. Di rimozioni, conflitti irrisolti e pulsioni primarie inizia a infarcire il racconto che diventa scontato e fastidioso. Fratelli che son padri, padri che devono essere uccisi dai figli, madri che sono amanti e il tutto in salsa di pomodoro al basilico Corleone. Le sequenze drammatiche della veglia funebre del padre si tingono di colorazioni che rimandano a l'epocalità padrinesca delle successioni, delle famiglie che devono andare avanti sempre e comunque e, infatti, il film si chiude con Tetro che dice:“Siamo una famiglia.” Coppola è da un po' in crisi artistica: il ruolo di ex-genio ostracizzato da Hollywood; la figlia stimata e brava e il figlio astro nascente che lo relegano a capo dell'American Zoetrope Production che più di un sonno gli ha rovinato; l'ultimo insuccesso- piaciuto molto a chi scrive- di Un'altra giovinezza (Youth without Youth, 2007). Il dubbio che resta è perché lasciar franare tutto nello scontato e banale psicologismo e citazionismo quando si ha in mano, fino a metà, un film perfetto? Per di più quando si tratta di un film che si è anche scritto e tanto amato? Aldo Romanelli la sera della prima 99 www.sentireascoltare.com
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Redazione: Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco, Staff: Stefano Pifferi, , Giancarlo Turra, Stefa...
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