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digital magazine gennaio 2010
N.63
Four Tet
Power-Pop
1968-1977
Decennio Transelettronico
Gimme Some Inches #1
Demo punto a capo. Re-boot
Attila Faravelli
Comaneci
Elio e le Storie Tese
Krallice
Ättestupa
2010 Future Sound of...
Beach House // These New Puritans
Monolake // Pantha du Prince
Owen Pallett
63
Sentireascoltare n.
Classifica Sentireascoltare 2009
1
2010 Future Sound Of...
Mulatu Astatke / Heliocentrics (The)
Inspiration Information
p. 4
Pantha du Prince, Monolake, Beach House,
Owen Palett, These New Puritans...
Tune In
Turn On
2
3
Hexlove
Pija Z Bogiem
Moritz von Oswald Trio
Vertical Ascent
p. 10
Krallice
14 Elio e le Storie Tese
11
Ättestupa
18
Attila Faravelli
12
Comaneci
Drop Out
4
Vic Chesnutt
At The Cut
5
Harmonic 313
When Machines Exceed Human Intelligence
6
Gala Drop
Self Titled
7
Animal Collective
Merriweather Post Pavilion
8
Oneida
Rated O
9
Tune-Yards
BiRd-BrAiNs
10
Broadcast / Focus Group (The)
Investigate Witch Cults Of The Radio Age
22
Four Tet
Recensioni
30
Flaming Lips, Bologna Violenta, Animal Collective, Martyn, Unthanks...
Rearview Mirror
80
Power Pop, Raincoats, Sonic Youth, Drexciya...
Rubriche
68
Gimme Some Inches
70
Demo punto a capo - Re-boot
90
Giant Steps
91
Classic Album
92
La sera della prima
Direttore: Edoardo Bridda
Direttore Responsabile: Antonello Comunale
Ufficio Stampa: Teresa Greco
Coordinamento: Gaspare Caliri
11 Zu Carboniferous
12 Natural Snow Buildings Shadow Kingdom
13 Evangelista Prince Of Truth
14 Svarte Greiner Kappe
15 Talibam Boogie In The Breeze Blocks
16 OOIOO Armonico Hewa
17 Shackleton Three EPs
18 Sa-Ra Nuclear Evolution: The Age Of Love
19 King Midas Sound Waiting For You...
20 Black To Comm Alphabet 1968
Layout
e
Grafica: Nicolas Campagnari
Redazione: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale, Teresa Greco, Stefano Pifferi, Stefano Solventi.
Hanno
collaborato:
Leonardo Amico, Gianni Avella, Luca Barachetti, Salvatore Borrelli, Marco Braggion,
Luca Colnaghi, Gabriele Marino, Francesca Marongiu, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Aldo
Romanelli, Costanza Salvi, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi.
Guida
In
spirituale:
copertina:
Adriano Trauber (1966-2004)
Four Tet
2010
Future Sound of…
Monolake
Pantha du Prince
Enjoy (the Silence)
Il nuovo design minimal
della techno tedesca
Ritmo e ascesi aerea, pulsazioni techno
su geometrie congelate. Suoni e visioni
del nuovo principe del dancefloor
intelligente
Fresco di tour in supporto agli Animal Collective,
viene da Amburgo ed ha elargito ritmo e visioni nei
club giusti d’Europa. Ora sta per pubblicare un disco
nuovo su un’etichetta ad ampio raggio come Rough
Trade e il profilo dell’ultimo eroe del dancefloor intellettuale si completa: Hendrik Weber, ovvero Pantha Du Prince; fotografia scattata un attimo prima
che le cose cambino, perché lo scenario è sul punto
di aprirsi ad un pubblico più ampio. Lo si avverte in
una maniera non dissimile da quel senso di inquietudine che gli animali percepiscono prima di una
tempesta e che sta alla base del nuovo lavoro Black
Noise, dato in anteprima in questi giorni con The
Splendour EP, il primo estratto dall’album che vive
della collaborazione con Tyler Pope già noto come
membro di !!! e LCD Soundsystem.
I segnali del cambiamento, o per meglio dire, dell'evoluzione, sono già tutti lì, nel modo tutto suo di far
convivere techno calda ed energica stile Detroit, con
il minimal beat berlinese di etichette come Kompakt
e ancora un senso arioso ed etereo che tradisce il
gusto per lo shoegaze riletto da Morr Music. The
Splendour è una tempesta di ghiaccio che danza su
un ritmo caldo e corposo alla Carl Craig e con
uno gusto per la metratura dei samples che deve
4
più di qualcosa a Monolake. Una sintesi che odora
di coolness lontano un miglio a cui si aggiunge una
campagna stampa a base di foto in distese innevate
come un Malboro Man in terra islandese. Eppure a
pensarci bene le premesse dell’attività di Weber non
erano delle più rosee se si considera il debutto per i
tipi della Dial Records, sotto lo pseudonimo di Gluchen 4 con un lavoro intitolato Das Schweigen
der Sirenen, che sposava sperimentalismi concretnoise con una marea di idee confuse e mal gestite.
Un bel passo falso, ricalibrato rapidamente sotto la
maschera di Pantha Du Prince, lungo le coordinate
a lui più consone di un dancefloor levigato sul suono dei maestri britannici dell’etereo e spinto da una
motore minimal techno che si alimenta ad una tradizione aurea. E’ la direzione giusta: Pantha Du Prince
spinge al movimento coordinato di piedi e testa, di
suggestione ed energia. Arriva così Diamond Daze,
debutto con il moniker attuale, che nonostante il generale senso di acerbo già desta l’attenzione del settore. Premessa al successo riconosciuto, che arriva
con il secondo album, This Bliss, pubblicato sempre
per i tipi della Dial.
Antonello Comunale
Robert Henke è il balance man dei
livelli d'ascolto. Cosa c'è dietro
l'ultimo disco di Monolake
Robert Henke rompe il silenzio di Monolake, quasi gravato da un forte senso di responsabilità, ora che la mano
data da Torsten Profrock sul precedente Polygon Cities si è diradata e il fido Gerhard Behles non condivide
più con lui il progetto dal 2004. Questioni di priorità,
dato che quest’ultimo ha preferito relegare tutte le sue
forze nelle interne dinamiche della Ableton, acclamata
società di sviluppo software che in qualche modo funge
da habitat tecnologico per Henke stesso. La progettualità di Monolake si sposta così ancora di più sul versante
tecnico di quanto non lo fosse già in precedenza, giocando in primis su un piano teorico-concettuale che va di
pari passo con l’impiego della tecnologia.
Il silenzio secondo Henke è una questione che si muove su un livello molto ambiguo, da qui la scelta di non
comprimere il disco in fase di mastering. Una scelta che
pare dettata esclusivamente da ragioni tecniche, e che
invece ha una valenza quasi politica, come attestano le
parole del musicista tedesco: “Una volta la musica aveva
delle dinamiche. C’erano le parti rumorose, e quelle più calme. Poi venne la radio. Nella radio c’è un limite tecnico per la
trasmissione a volume massimo. Come conseguenza di questo, la quantità di musica con un vasto spettro di dinamiche è
assai inferiore di quella che invece presenta un basso livello.
La musica più rumorosa possibile in radio è quella dove ogni
elemento arriva al limite, ergo musica senza dinamiche. La
radio e più recentemente gli mp3 players e gli speaker dei
laptop hanno influenzato il modo in un cui la musica popolare è stata composta, prodotta e masterizzata: ogni singolo
elemento deve essere al livello massimo per tutto il tempo.
Una cosa che funziona meglio con musica che da un punto
di vista sonoro è semplice, in cui solo pochi elementi sono di
interesse. Una sinfonia non suona bene attraverso gli speaker
di un telefono cellulare, e massimizzare questa sinfonia non
suonerebbe convincente del tutto”. Come risultato di tutto
questo Henke e come tale Monolake si colloca su un
piano diverso e ben più complesso di quello degli altri.
Ne consegue che le astratte geometrie di una minimal
techno mai così ricca e rigogliosa nella descrizione dei
dettagli giocano in modo inedito con la profondità dei
ritmi.
Un avvincente dialogo tra ritmica sullo sfondo e pattern
di primo piano rielabora una serie di field recordings per
cui Henke è stato impegnato per un anno. Ma a questo
punto sorge spontanea una domanda: a cosa serve lavorare su una musica in cui la filigrana va vagliata fin nel
dettaglio più minuto, se poi la si ascolta su un sistema
audio che livella tutto sui i medi, come un ipod? La risposta ce la darà probabilmente Henke al prossimo parto
come Monolake.
Antonello Comunale
5
2010
Future Sound of…
Beach House
Gioventù trasognata
Song Cycle
Il ritorno di Owen Pallett tra
senso di appartenenza e concept
orchestrato
Sogni e certezze, movimento e
melodie. I Beach House atto terzo
“More cosmos, less reverb”. Questo dice Victoria Legrand
se le domandi qualcosa sul nuovo disco e sui cambiamenti che porta. I Beach House erano i due bohemienne che si facevano fotografare trasognati e svampiti
sulle spiagge in pieno autunno e con le nuvole gonfie
di pioggia su di sé. Gli stessi che nella tenebra della malinconia ci sguazzavano come due romantici all’ultima
lettera d’amore. Dopo due dischi abbastanza omogenei
e simili nelle soluzioni, il terzo, chiamato Teen Dream e
in arrivo ad inizio 2010, fotografa due musicisti ormai
smaliziati e pronti a cambiare le carte in tavola senza
perdere nulla del proprio stile. “Un titolo come Teen Dream non è malinconico o nostalgico. è aperto, leggero, libero,
astratto e un invito. Ci sono giovani e sogni. Passato e futuro.
Le parole stesse suonano bene insieme. Ci sembrano a loro
modo classiche. Questo disco ha vita dentro di se”.
Victoria è la donna che porta i pantaloni in casa, la prima voce, il motore primo del progetto, oltre che una
professionista ormai navigata nel settore: “Registrare a
New York ci ha permesso di continuare a lavorare stando
concentrati senza distrazioni. Avevamo già scritto il disco
nove mesi prima portandolo in fase di registrazione a luglio. Abbiamo registrato in una chiesa chiamata Dreamland,
ma non per qualche motivo religioso. Era semplicemente
Owen Pallett
un grande studio con un sacco di natura intorno quando ne
avevamo bisogno. E nessuna distrazione”. Teen Dream
è effettivamente un passo avanti nel mondo dei Beach
House. Considerato il taglio lento e ipermalinconico
delle composizioni, sempre un passo oltre nel giocare
con le armonie in minore, inizialmente i due venivano
effettivamente accomunati alla scuola americana della
lentezza, tirando in ballo Red House Painters, Tarnation, Dakota Suite e soprattutto Low. Dall’altro
quel mood etereo e fiabesco, leggero e volatile che sa
di dream pop europeo, di scuola 4AD e Creation, di
Slowdive e Cocteau Twins.
Teen Dream, effettivamente, rompe in parte con tutto
questo. è un disco che domina le melodie, non ne viene
vinto, ottenendo una serie di gemme pop (quelle cose
classiche fatte a base di verse chorus verse) di cui i
Beach House di dimostrano maestri assoluti: “In Teen
Dream c’è più movimento e c’è un’intensità che è fisica e
più tangibile”, parole di Victoria che vengono sposate dal
fido Alex che chiosa: “c’è effettivamente più movimento,
piuttosto che accordi in maggiore. Ci sono ancora momenti
tristi, ma sono bilanciati con molti altri fattori e umori, come
un diamante che ha molte facce”.
Antonello Comunale
Ci eravamo lasciati sul finire del 2008 con l’uscita di due
EP (Spectrum, 14th Century e Plays To Please) da
parte del canadese Final Fantasy ovvero Owen Pallet,
anticipazioni del terzo lavoro Heartland previsto prima
per il 2009 e slittato ora a inizi 2010. Intanto il Nostro a
dicembre ha fatto parlare di sé per il cambio definitivo
di nome, vale a dire l’abbandono dello storico moniker
FF a favore del vero nome Pallett. In ballo questioni di
copyright con l’omonimo videogioco che lo hanno volontariamente convinto ad affrancarsi definitivamente
dal marchio, togliendolo anche dai dischi precedenti una
volta ristampati. Sintomo anche questo di quella precisione quasi maniacale che lo contraddistingue.
Su Heartland anticipato come “ racconto epico-fantastico” nel 2008, ora Pallett aggiusta il tiro; da un lato c’è il riferimento a un’area rurale del nativo Canada (Manitoba,
Saskatchewan e Alberta), dall’altra il nome risulta essere
un po’ ambiguo, dice Owen. “Mi piace il titolo Heartland
- cuore, centro -, come ‘homeland’ indica sentimenti di familiarità e comfort, ma nella maggior parte dei casi viene usato
con un senso di xenofobia e/o diritto acquisito; il disco doveva
essere in origine sul nulla ma poi via via il suo significato è
cambiato e il risultato non è certamente sulla morte, come lo
era He Poos Clouds, bensì su tutto ciò che c’è prima della
morte”; l’album è sull’inizio, il proseguimento e la fine di una
relazione, dal punto di vista dell’oggetto amato”.
Ampiamente orchestrato e stratificato con la partecipazione della Czech Symphony di Praga e di Gentleman
Reg, Nico Muhly e Jeremy Gara (batterista degli Arcade Fire) tra gli altri, l’album risulta avere una base narrativa di concept, e un’ambientazione in un regno fittizio,
Spectrum, ed è basato su conversazioni tra la divinità del
posto e un giovane fondamentalista religioso, Lewis. Argomenti questi che sono di pretesto per metaforizzare,
come anticipava l’autore, sul senso umano di appartenenza e/o non appartenenza a un posto e sulla xenofobia
che ne può derivare, argomento sempre attuale.
Una personale “song cycle di fiction contemporanea” che
deve molto all’amato Van Dyke Parks, nella quale si
passa dalle marcette militari ottocentesche al synth e al
chamber pop, fino alla saturazione del suono, in un mix
di analogico e digitale, in cui “i pezzi orchestrali sono scritti
come musica elettronica che si avvicina a quella orchestrale”.
Il disco è quindi realizzato coerentemente con il massimo equilibrio, anche quando si tende verso il barocco. Il
lavoro della maturità.
Teresa Greco
2010
Future Sound of…
These New Puritans
Giovanna D’Arco a ritmo di dancehall
Un sunto possibile della odierna
wave d’Albione, in Questi Nuovi
Puritani…
Il tempo vola. Sembrano nati lo scorso anno i These New Puritans. I fatti, le scene e le etichette si muovono
velocemente, e in questa decade giunta alla fine ci si dimentica che il quartetto capitanato da Jack Barnett esordiva
quattro anni fa, nel 2006, con un sette pollici su un’etichetta laterale ma importantissima per la nuova generazione di
brit wavers. Per la Angular, i ragazzi firmarono il numero di catalogo ARC016 con l'EP Now Pluvial, quando appena prima, a marzo, sempre da quelle parti sbucavano i Klaxons di Gravity’s Rainbow (ARC012), anch'essi esordienti assoluti.
Prima ancora ci troviamo le primine (o primini fate voi) The Long Blondes (esordio in singolo con Appropriation) e
per finire c’è il sampler dell’etichetta ARC 002 con Bloc Party e Art Brut.
Grandi assenti nel rooster quell’anno erano gli Horrors. Mr Chris Cunningum se ne era invaghito grazie a Sheena
Is A Parasite, esordio in 7’’ per la Loog, etichetta wavey altrettanto (e più) indie di uno dei sospettabilissimi redattori
di NME, James Oldham. Il gruppo di Faris Badwan è certamente il più citato affianco ai TNP, sia per provenienza
geografica (la deliziosa e immobile Southend-on-Sea), sia per la classica scena pilotata dai media che vedeva entrambi nel mucchio assieme a Neils Children, The Violets, XX Teens, No Bra e altre next big thing in un Paese di
40000 anime… Tutti facenti parte della coda lunga del
revival post-punk di inizio Duemila, implicati - e quindi
scontratisi - con il funk punk, stile, forgiato da Gang Of
Four, che dai Franz Ferdinand - passando per Bloc
Party - aveva furoreggiato fino a quell’agente scompaginante chiamato Nu Rave. Il Nu Rave: la corrente più
finta e pilotata della decade, ma anche la più autenticamente postmoderna e artisticamente plausibile ai nostri
anni. Sarà per l’immaginario, ma in confronto la tornata
rockish post Strokes e post Ferdinand era stata una
questione di art rock con il solito glam e le solite chitarre a tracolla; i nuovi mostri Art Brut a cavarsela con
l’ironia e altri come Rakes a mostrare inevitabili segni
di crisi. I Bloc Party di A Weekend in the City avevano
compreso lo scarto di quell’anno eppure avevano perso
il treno facendosi mettere le mani troppo a fondo da
Garret "Jacknife" Lee. Quel treno lo riprenderanno ma
ad aiutarli a sbancare è proprio la frottola nu rave.
Nel 2006, i Klaxons avevano letteralmente coperto la
parabola della scena in tre singoli bomba. L’album che
ne seguì, pochi mesi più tardi, guardava a falsetti ben più
blandi e Ottanta degli acidi esordi. E del resto, il nu rave
erano praticamente loro stessi e non certo i TNP in
erba. Anzi, il quartetto, in un singolo come Elvis, masticava fugacemente funk-punk mutando proprio il sound
con voglie digitali dei Bloc Party in una faccenda più scura, carbonara, virata verso le tenebre scientifiche degli
Horrors e non certo guardando ai nuovi punkers on E di
Kicks Like a Mule e ai Grace (osannati - e coverizzati
- dai Klaxons).
Eppure Jack Barnett, il gemello George, Thomas Hein e
Sophie Sleigh-Johnson, postmodernamente, e in modalità
d’appropriazione analoghe agli stessi Klaxons, avevano
una passione extra rock intimamente sballata e dance.
Non era l’ardkore, il dub o il reggae che così tanto avevano forgiato il ballo delle passate generazioni brit. Era
la carta mancante del mazzo: il dancehall. Lo sbandierano da sempre assieme all’hip hop; non come citazione,
bensì come base per una trasfigurazione. Proprio come
gli Wire iniettavano nel punk elementi non convenzionali diventando qualcosa di post, parlando con il pop e
trasfondendone obliquità (e le tecnologie di allora), così
TNP utilizzano lo studio e le tecnologie di oggi come
chi fa hip hop settando però i sequencer in un “sacco di
terzine” o “gruppi di beat 2-3-2” tipici del dancehall. E se
questo già era sufficiente per rovesciare il cliché della
arty band copia incolla, come per i cugini Horrors, ai
TNP piacevano i Joy Division, o meglio gli Warsaw
(e vederne gli esordi dai video del tubo è una conferma
oltre ogni indizio).
Tutti i loro video sembrano derivati dalla iconografia
Curtis e co., eppure c’è un’inedita marzialità che si posa
su quelle lastre dai toni sempre più scuri e immaginifici.
Dietro alle fascinazioni c’è un gioco di studio e incastro
fatto di estraniamento, libertà associativa e semplicità.
Ecco perché a Jack piace tanto il pop e ci confida che
gli archi sul nuovo Hidden l’avrebbero trasformato in
quelle menate classicheggianti. Sono i fiati dunque ad
indicare una via chamber non banale, ma soprattutto
un’orchestrazione minimal a scaldare una secca marzialità taiko giapponese che ti fa tremare lo sterno. In We
Want War l’amalgama riesce perfettamente, la traccia è
quell’incubo lucido senza pretenziosità, o perlomeno, un
singolo di 7 minuti con le manie di grandezza sottocontrollo, pop come impatto della band sul pubblico che da
loro si “aspetta qualcosa di potente, suggestivo e nuovo”. A
differenza del pop però è musica che non cerca “nessun
feeling”, non pone il climax come obiettivo, "incastra" con
dichiarato fare Steve Reich. Il sound si fa intimamente
minimalista nel senso che ogni suono, ogni pattern, porta a una mossa successiva e così via, passo passo, senza
fronzoli e in diretta verso un elaboratissimo lavoro di cesello che sottende la trama. La complicazione avviene a
livello di produzione e non come portato del sound. “La
musica al tempo degli Wire era ideologica, nordica e distaccata. Erano tempi diversi e provocatori. Oggi la musica è più
emotiva e vibrante”, borbotta Jack con un fare rispettoso
della tradizione wave del Regno ma anche “lontano da
quegli ascolti”. Parla di un tempo remoto in cui cogitava
sul post-punk e trova che la canzone che più gli piace del
nuovo lavoro è Drum Courts - Where Corals Lie, un altro di
quei brani marziali caratteristici dei TNP, ma con un’inedita maniacalità in fase d’assemblaggio e una fissa per il
feudalesimo giapponese.
Il nuovo lavoro è anche troppo audace, ma ha senz’altro ragione Barnett quando s’esalta per quel “misto di
disperazione medioevale e tuffi in un mare blu notte”. Già,
il medioevo torna spesso nell’immaginario della band: la
scorsa tournée i ragazzi si presentavano vestiti e coi caschetti da Giovanna D’Arco; nelle nuove tracce, dal nulla,
sbucano spadaccini (i Wu-Tang Clan?) che scoccano
colpi nelle tenebre. Il portato sonico di quest’epoca è
senz’altro la croce e la delizia dell’album, il cui unico antidoto è rappresentato dall’altro lato della poetica TNP,
la melanconia. “E’ l’aspetto che mi piace di più del dance
hall” dichiara gemello Jack “Non l’etnica. La melanconia. La
stessa che credo si respiri in un posto dove sfocia il Tamigi,
che è poi quello in cui sono nato e cresciuto; l’unica influenza
che credo passi dal mio ambiente esterno”.
Edoardo Bridda
Ättestupa
Krallice
Disagi violenti si fanno calcolo
Cosa succede quando spietati terro-chitarristi
decidono di suonare Black Metal. La matematica drammatica che non ti saresti aspettato
D
opo anni di musica di confine, con i Krallice Mick
Barr sembra misurarsi con delle forme in qualche
modo convenzionali. Non si tratta infatti, di correre a
300 all'ora lungo il manico della chitarra - sparando
raffiche di note a velocità quasi extra-tone - da solo
(Ocrilim/Octis) o in compagnia (Orthrelm). Nemmeno si ha molto a che fare con i suoi esordi CromTech, in cui il genere di riferimento, l'hardcore, detonava in un'esplosione di schegge brutal-progressive. Un
discorso simile vale per il cofondatore della band Colin
Marston. Sound Engineer nel suo studio di registrazione
a NYC, è Warr-chitarrista per i labirinti tech-death di
Behold...The Arctopus e seconda mente dell'IDM per
metalheadz di Infidel?/Castro!. Krallice è per entrambi
abbandonare i virtuosismi gelidi e le sperimentazioni
asettiche dei loro altri progetti, per una musica intensa e
diretta come mai si era vista da queste parti.
Colin e Mick si conoscono da tempo. Hanno uno
split insieme con le rispettive band Behold...The Arctopus/Orthrelm, ed è Marston a registrare nel 2005 quel
manifesto di minimalismo brutale che è OV di Orthrelm.
L'idea di formare una band black metal, raccontano a
Pitchfork all'epoca dell'esordio, ce l'avevano in mente
già da tempo, essendo entrambi estimatori della scena
scandinava, da Burzum a Darkthrone. Assoldato alle
pelli Lev Weinstein (Bloody Panda) esce nel 2008 il
primo album, per la canadese Profound Lore. Sei pezzi
in saliscendi vertiginosi, con le chitarre a scontrarsi e a
sorreggersi l'un l'altra in contrappunti ed armonizzazioni. Tecnicismi marchio di fabbrica dei due chitarristi di
New York, ma per la prima volta non finalizzati a definire
10
Turn On
con la propria complessità un immaginario disumano ed
alienante, tra ripetizioni ossessive e frammentazioni irrimediabili.
Le trame matematiche, in Krallice sono piuttosto
energie atte a rendere vividi i tratti epici della loro musica, ad arricchire le loro visioni. Coordinate efficaci si
trovano nel black progressivo di Weakling o Wolves
In The Throne Room, ma svuotate sia dalle catastrofi
dei primi che dallo sfarzo dei secondi. E se alcune caratteristiche stilistiche - chitarre in tremolo perpetuo, urla
agonizzanti - indicano inequivocabilmente le direzioni
estetiche della band, alcuni riferimenti possono invece
essere trovati altrove. Nell'evitare i toni compiaciuti, tipici di tutto il black nel riferire di orrore ed oscurità, Krallice trova affinità nei disagi violenti dell' emo-core di casa
Ebullition e Gravity, e in band quali Portraits of Past,
Orchid. La sensazione è una sorta di iper-emotivismo,
che nel suonare black metal si fa paura da solo.
A solo un anno di distanza, ecco già il secondo disco, Dimensional Bleedthrough, segnale che le meccaniche
nella band funzionano a pieno regime. E se la scrittura
torrenziale dell'esordio è venuta un po' meno, a guadagnarci è una maggiore introspezione. In alcuni episodi la
musica rallenta e si incupisce, (forse anche per l'apporto
dato dal nuovo bassista Nick McMaster) mentre il riffing epico, distribuito calibratamente lungo l'album, si fa
più vivido che mai. Krallice è musica trasversale, che pur
intrinsecamente black metal, si arricchisce di fulminate
math, introspezioni emo, paesaggi dark. E qui, l'insieme è
decisamente superiore alla somma delle parti.
Leonardo Amico
Droni liturgici
La peste dell'era post-moderna arriva dalle foreste svedesi
Ä
ttestupa è la rupe spartana della mitologia svedese. Una rupe crudele quanto quella greca in cui
ad essere trucidati non sono i bambini menomati, ma gli
anziani che non possono più essere d'aiuto nei campi e
nelle fattorie. E poco conta che l'attendibilità del mito
spartano sia stata recentemente messa in discussione
dalle nuove scoperte archeologiche. Ättestupa è ancora
un ricordo vivido tra le genti del Nord; tanto vivido da
indurre un piccolo gruppo di noisers di Göteborg a riesumarne lo spettro per dare un nome alle proprie mostruose creazioni. Nelle loro mani però, Ättestupa non è
più un modo per sbarazzarsi del passato, ma un oscuro
baratro cui attingere per evocare demoni urlanti e ridare vita ad antiche, meste leggende.
Musicalmente parlando, è il luogo dove la forze della
natura celebrate da Popol Vuh e Amon Düül II incontrano la metà oscura decantata dal Burzum e dagli
Ulver degli anni d'oro (anche se sarebbe più corretto chiamarli neri). Un'alchemica pozione che resuscita
le paure di una Svezia pre-industriale dove carestie, povertà e malattie sono all'ordine del giorno. Ecco dunque
luttuose nenie di tastiera accompagnare le veglie funebri
nei boschi e sommessi lamenti farsi largo tra la coltre di
sporcizia che ricopre tutte le registrazioni del gruppo. Il
rock non esiste se non come strumentazione e l'impostazione è da lunga dissertazione folk. Il ritmo è ridotto
a mera ripetizione che induce in trance, come in un mantra negativo. L'unico spazio lasciato alla modernità sta
nella manipolazione dei nastri e nelle pedaliere usate per
creare una nebbia simile a quella delle loro lande.
Nei due anni di attività i nostri hanno licenziato un
LP, partecipato alla compilation-manifesto Utmarken, e
sverginato diversi nastri, uno dei quali viene oggi riversato su polivinile dalla californiana Dnt (1867). Con l'anno
nuovo è previsto anche il secondo full-lenght, sempre
per Release The Bats. Come una piaga che torna a mietere vittime.
Andrea Napoli
Turn On
11
comaneci
Folk da monolocale
Un secondo disco che è già una ripartenza. Per un
trio che diventa duo senza grossi scossoni e senza
rinunciare alla consueta attrattiva. Ne abbiamo parlato
con Francesca Amati.
A
qualche mese di distanza dalla sua pubblicazione, You A Lie rientra ancora nella nostra personale playlist. Per
la malinconica indolenza che ne tratteggia l'incedere, per la semplicità che lo caratterizza, per l'inquietudine
sfuggente che lascia trasparire. Il dondolare d'archi dell'esordio Volcano è lontano anni luce e anche i Comaneci non
sono più gli stessi da quando Jenny Burnazzi e Andrea Carella hanno lasciato il gruppo. Ma il buon momento
della band ravennate continua. Le ragioni sono più semplici di quanto non potrebbe sembrare e risiedono tutte nella
scrittura e nella voce di Francesca Amati. Nel suo essere al tempo stesso limite formale e motore del gruppo. Da
un lato per un approccio alla musica ormai riconoscibile, standardizzato, forse persino ovvio, con la sua chitarra acu-
12
Turn On
stica al centro; dall'altro perché proprio quegli steccati
minimalisti che identificano la produzione della musicista
ravennate garantiscono la conservazione di una creatività quasi primordiale.
Fantasticare rimane la prerogativa. Ed è un fantasticare sulle piccole cose, nell'ottica di un folk epidermico
che è simulacro e auto-analisi al tempo stesso. “You A
Lie è stato un lavoro che ho amato dall'inizio alla fine, anche
perché è arrivato dopo il cambio di formazione dei Comaneci. Un momento che per me è stato decisamente traumatico. Il disco lo abbiamo registrato in dieci giorni nella casa
di campagna di un'amica, grazie anche a Mattia Coletti
che ha portato tutta l'attrezzatura. A darmi una mano sono
passati vari amici, tra cui anche Bruno Dorella (Bachi da
pietra, ndr).” A parlare è proprio Francesca Amati. Una
che nei suoi Comaneci ha sempre visto un'entità profondamente “sociale” composta da amici, prima che da
musicisti. Ancor più nell'ultimo disco (recensione nel pdf
n. 61) vista la line-up ridottissima, tanto che tra i crediti oltre ai già citati Dorella e Coletti, ritroviamo Pete
Cohen dei Sodastream, Paolo Gradari, Bob Corn e
le fantomatiche Missing Choirgirls. Per un'opera che
dal passato riprende scrittura e naturalezza espressiva
pur mutando drasticamente nelle intenzioni: “Penso che
You A Lie possa vantare una piega più realistica, rispetto a Volcano. Nel disco ho voluto ricercare una direzione
più cupa. C'è molta meno spensieratezza, meno leggerezza.
Anche perché credo che sia rappresentativa del momento
che sto vivendo”. Il cambiamento - nella continuità - è evidente. A tenere le fila c'è un blues ideale e malinconico,
sommesso e intensissimo, che ha a che fare con lo split
up del nucleo originale della band ma che non vive solo
di quello. Certo è che fin dal titolo l'immaginario si tinge
di nero, rimarcando quell'etica dell'imperfezione che da
sempre caratterizza i lavori del gruppo: “You A Lie è un
errore. Nel senso che grammaticalmente non è corretto. E'
un' espressione colloquiale americana che tuttavia qualcuno
usa. E' venuta fuori durante il tour negli Stati Uniti che ho
fatto con Bob Corn, parlando di slang con alcuni amici. Mi
piaceva che questa cosa dell'errore, nel disco, fosse evidente.
Nel titolo, ma anche nell'estetica della confezione, quest'ultima come al solito cucita a mano, con qualche “sbavatura” e
quindi molto artigianale. Come poi è sempre stato artigianale
un po' tutto l'immaginario dei Comaneci.”
Chitarra acustica, mandolino, violoncello, elettricità
sparsa e una voce che macina filosofia spicciola ma efficacie (If You Wanna Be A Satisfied Man / Just Let Me Be
A Satisfied Girl) su cadenze Cat Power. Questi sono i
Comaneci del 2010. Gli stessi che l'estate scorsa pubblicavano un ennesimo EP (Girl Was Sent To Grandma's in
1914) per dare continuità a un'entità riconoscibile e an-
cora in grado di far scattare in chi ascolta un processo
di condivisione immediato. Condivisione profondamente
legata all'approccio diretto e senza fronzoli della Amati,
tanto che chi suona con lei è da sempre destinato a un
ruolo di accompagnatore tra livelli strumentali che si inseguono e soluzioni estetiche che circoscrivono il mood
dei brani. Da Gennaio 2009 di questa parte di progetto
si occupa Glauco Salvo: “Glauco mi sta dando tantissimi
stimoli. Lui cura tutti gli strumenti che non siano la mia chitarra acustica e lavora con me sugli arrangiamenti. Nel suo
lavoro è una persona molto disciplinata, accademica, mentre
io sono l'anti-accademia per eccellenza. Il che significa che ci
compensiamo a vicenda creando un rapporto artistico molto
costruttivo. L'ho conosciuto perché è diventato un elemento
quasi costante dell'altro gruppo in cui suono, gli Amycanbe.
Mi è sempre piaciuto il suo modo di suonare e in una situazione di difficoltà come è stata quella che mi sono trovata
ad affrontare dopo il cambio di formazione, mi è sembrata la
soluzione più naturale”.
Sempre più tascabili i Comaneci, ma non meno toccanti. A misura di un mercato discografico dei piccoli
spazi e delle poche risorse ma abbastanza trasversali per
andare oltre i confini ristretti della penisola o adattarsi
a situazioni artistiche tra le più disparate. Come le esibizioni condivise con il fumettista Giuseppe Palumbo
- durante le quali quest'ultimo disegna mentre la band
suona - o quegli house concerts che hanno permesso al
gruppo di emergere decretandone la statura in fatto di
“componibilità": “Con l'esperienza degli house concerts entri nel vivo di un luogo. Sai che la serata è organizzata per
il tuo evento, sai che le persone vengono lì perché sono interessate esclusivamente a quello che fai, sai che compreranno
CD perché hanno voglia di contribuire al tuo progetto. In più
c'è l'accoglienza di una casa che, quando viaggi, vuol dire
tantissimo. Ceni con chi organizza il concerto, sai già dove
dormire, non devi scaricare e caricare tutti gli strumenti".
Consolatoria o familiare, folk o cameristica, la sensibilità dei Comaneci è unica nel suo genere e a suo modo
necessaria. Al di là dei cambi di line-up e di una critica
istituzionale che fatica a gratificare il gruppo con lo spazio che meriterebbe, resta una musica da monolocale
che continua a raccogliere buoni risultati. L'unico rischio
per il futuro potrebbe passare per un'eccessiva sclerotizzazione del suono che trasformi la personalità in clichè.
Anche in questo caso, comunque, pare che Francesca
Amati abbia le idee chiare: “Il gruppo deve tendere a una
crescita, mirare a un'evoluzione, cercare un senso in quello
che è. Andare oltre la casualità del momento e costruirsi giorno dopo giorno.”
Fabrizio Zampighi
Turn On
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«It's just entertainment» -Frank Zappa
L' eterna
lotta tra
il bene e il male
Elio e le
storie Tese
Non mi ha fatto ridere
Vent'anni di dischi, quasi trenta sui palchi, fino
all'uscita dell'ultimo deludente Gattini. Riflessioni tra Squallor, Zappa e Skiantos - su uno dei gruppi
italiani più fraintesi di sempre.
- Gabriele Marino
Quando ero piccolo un amico più grande mi passò una cassetta degli Squallor, Cielo Duro, dicendo «poi ti passo
anche gli Elio», come a sottintendere un apparentamento stretto e quasi scontato tra le due cose. La seconda
cassettina però non arrivò mai. Negli Elio così ci sono
andato a inciampare - come molti - solo con l'exploit
sanremese (in zona vip), e non li calcolai più di tanto:
mi sembravano abbastanza scemi. Avevo capito tutto e
avevo capito niente. Fu poi la volta - tra i banchi del liceo, quando tutti mi tiravano fuori i Gem Boy - di Elio
Samaga Hukapan Kariyana Turu, di Esco dal mio
corpo e ho molta paura, della chicca assoluta Not
Unpreviously Unreleased'nt (à rebours), e di Craccracriccrecr (al passo coi tempi): era il 1999. Fu amore.
In parallelo scoprivo anche un musicista italo-americano
baffo&mosca che faceva musica "assurda", e piano piano
cominciai a chiudere i primi cerchi.
Gli Elio sono uno dei gruppi italiani più importanti
di sempre: che in pochi lo riconoscano e lo dicano sottolinea ulteriormente l'italianità del contesto, brodo di
coltura perfetto per prese di posizione in fondo sempre
ideologiche. Italianissimi gli Elio, come la pizza (spaghetti,
mandolino, mamma), entrati nell'immaginario nostrano
con una serie di mosse ben assestate e di tormentoni
facili facili (ma tutt'altro che banali, dai cachi sanremesi
ai vari Ti amo: Cara, Campionato e Andreotti), portando
avanti però un discorso musicalmente poliglotta e - per
quanto dotato di una sua immediatezza - non certo facilissimo. Gli Elio sono stati sempre abbastanza fraintesi:
ma loro fanno musica pop (con la "p" maiuscola e dove
"pop" sta per gioco), fanno musica che parla di se stessa,
che ride di se stessa, musica orgogliosamente umoristica.
Se fanno cabaret, e lo fanno, fanno un cabaret innanzitutto musicale: musica parodica e auto-parodica.
C hi
va con
Z appa
impara
a zappicare
Chi conosce Frank Zappa (e abbiamo già citato un
paio di paroline magiche che non possono non rimandare a lui), sa bene come gli Elio siano vicinissimi ai suoi
modi pop-carica(tura)ti anni Settanta/Ottanta: gli stessi
che sono poi andati a coverizzare in The Lugano Tapes (2001). Non si tratta di una filiazione diretta, certamente è un'influenza forte, e dichiarata (e oculatamente
sfruttata), ma comunque nell'ottica di un riscontro, della
scoperta di uno spirito affine, di una via possibile: di una
visione compiuta, già lì bella e pronta quasi a legittimare
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TUNE IN
delle idee che non aspettavano altro per potere esplodere. Gli Elio hanno mutuato da FZ la giocosa visione del
fare e del vivere la musica. Parolacce incluse. I paragoni
però sono davvero insensati (oltre che ingenerosi), data
la portata enciclopedica e la complessità dell'opera del
baffuto, la sua potente capacità di sintesi dei riferimenti
musicali metabolizzati.
Gli Elio, in questo esattamente come Zappa (e da
Zappa), hanno una visione collagistica della cosa musicale, ci giocano come con un puzzle, come coi Lego, e
usano pezzi provenienti da tanti scatoloni musicali diversi: cabaret (quello meneghino), canzone italiana vecchia e
nuova (soprattutto - ovviamente - nella sua declinazione
canzone d'amore "appiccicosa"), pop e rock internazionale (da Burt Bacharach ai Beatles ai Deep Purple),
dance (la disco e l'italo-disco tamarra del periodo d'oro),
jazz (nella sua accezione più soft e "conservatrice"), prog
(Genesis e PFM, ma anche Area), musica classica (con
citazioni smangiucchiate qui e lì). Il tutto sempre e comunque come assunto in secondo grado, con una strizzatina d'occhio.
Implicito, viste le premesse, il riferimento al loro percorso artistico, cominciato sui palchi scalcinati dei teatrini off: nati sulla spinta adolescenziale di un pauperismo
do it yourself figlio del punk, con un approccio fortemente
sbilanciato sulla verbalità, temprati dalla gavetta nei locali
della provincia milanese, su sempre più su fino allo Zelig
di Viale Monza e all'incontro col produttore Claudio Dentes aka Otar Bolivecic. Poi, rapidissimo, l'arricchimento
e la messa a fuoco sulla sostanza propriamente musicale, matura già all'esordio su disco, a creare un mondo
di lussureggiante varietà: una forma-canzone infarcita di
bizzarrie, di ammiccamenti, di citazioni, di seconde letture. I testi? Grande inventiva linguistica e intelligente stupidità, testi demenziali (ma nel senso - ancora - di «vena
surreal-sessual-sarcastica zappiana» - Luca Valtorta), con
quell'uso insistito della parolaccia e quel nonsense portato al parossismo. Il rischio è che, per osmosi, l'etichetta "demenziale" (così come comunemente intesa) finisca
per identificare tout court la musica del gruppo.
E lio
e le storie pese
Proseguendo coi confronti e con le supposte (...) filiazioni,
la vexata quaestio Skiantos vs. Elio, ottima pubblicità per
entrambi, ha solo in minima parte motivo d'essere, generatrice com'è di una gran confusione: gli Skiantos fanno
rock (punk, hard, blues), gli Elio fanno pop (come quando
si fanno scoppiare i cuscinetti della carta da imballaggio),
gli Skiantos portano avanti un discorso essenzialmente
poetico, gli Elio un discorso essenzialmente musicale,
gli Skiantos furono vera ruvida avanguardia (pubblico di
TUNE IN
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filo a cavallo tra il musicale e il sociologico. Gli Elio sono
la cumpa, la banda di bastardi trasformata in complessino
raccontata dal docu-libro Vite bruciacchiate (AAVV, 2006),
il carroarmato linguistico-semiotico spiegato ne L'importanza di chiamarsi Elio (Angelo Di Mambro, 2004), la giocosità non priva di retrogusto amaro dei racconti surreali
di Animali spiaccicati (EelST, 2004), Fiabe centimetropolitane
(il solo Elio, 2004) e Scritti scelti male (Rocco Tanica, 2008),
sono la zozzerie goliarda della joint venture con Rocco
Siffredi di Rocco e le Storie Tese (1997; progetto fortemente voluto dall'intenditore Sergio Conforti aka Rocco
Tanica, che del gruppo - per inciso - è l'anima musicale).
Sono il piglio da entertainer consumati che anima le loro
liasisons televisive, da quelle storiche con Gialappa's
Band e derivati (l'ultima - inevitabile - con la Shortcut di
Maccio Capatonda, uno che gli Elio se li è ascoltati per
bene fin da ragazzino), fino al Dopofestival 2008, girandola
di parodie e pastiche dei loro bersagli-riferimenti preferiti: la canzone italiana e la canzone d'amore.
Ecco allora gli Elio al varco dei venti (1989, primo disco) e dei trent'anni (1980, nascita della sigla Elio e le
Storie Tese con una formazione di cui è superstite il
solo fondatore, Stefano Belisari aka Elio). Dopo una serie di dischi musicalmente generosissimi, dall'esordio fino
a Craccracriccrecr (aperto quest'ultimo da quella dedica
che è l'intensissimo solo di sax - preso da TVUMDB - di
merda), per questo ancora sostanzialmente moderni (ribelli e contestatari, e non poteva essere diversamente),
gli Elio sono un fenomeno di riflusso, dichiaratamente
post-avanguardia, giocano col kitsch consapevole (uno
per tutti: il duetto con Raffaella Carrà), post-moderni
per definizione, nessun bersaglio da colpire, interessati
semmai ad una "protesta" tutta pragmatica (il caso Parco
Sempione, 2008), per quanto comunque oggetto di storici episodi di censura che nulla hanno a che vedere con le
solite parolacce, ma con l'avere messo in mezzo i nomi
"sbagliati" (è il caso Sabbiature, Primo Maggio 1991).
Più vicini allora gli Elio, per paradosso, alla gratuità di
Savio, Bigazzi & Cerruti, con l'aggravante della spiccata meta-musicalità di questi ultimi rispetto al discorso portato avanti da Freak Antoni & Co. Agli Skiantos,
del resto, il neo-dada di Piero Manzoni, agli Elio il neo16
TUNE IN
Paolo Panigada aka Feyez, stroncato da un malore sul
palco della Biba Band), passando per il picco assoluto
di Italyan, Rum Casusu Çikti (con dentro la massima espressione della meta-musicalità elica, La Vendetta
del fantasma formaggino), ecco, dopo almeno dieci anni
di ottimi dischi (in soldoni: tutti come minimo sul sette),
proprio quella degli entertainer sembra essere diventata
la dimensione più congeniale agli Elio, quella più curata e produttiva. Il passo francamente inutile, inutilmente
celebrativo, dell'ultimo Gattini, ne è la conferma: i loro
pezzi classici resi ancora più classici - queste almeno le
intenzioni - dall'arrangiamento orchestrale. In mezzo ci
sono stati i temporeggiamenti degli infiniti riepiloghi live
(comunque godibili) e i decisi abbassamenti qualitativi registrati con Cicciput (2003) e Studentessi (2008), con
dentro però alcune chicche delle loro, anche solo a livello
di efficacia della trovata, una per tutte la cover au contraire di Elvis in Ignudi fra i nudisti.
Gli Elio sono oggi più che mai a un bivio, restando
la loro attività live un punto fermo (coèsi, se vi pare): riconcentrarsi sulla materia musicale oppure considerare il
fare dischi - magari anche di inediti - come una delle loro
tante attività.Vedremo.
situazionismo di Maurizio Cattelan. Chi è meglio, chi è
peggio? La domanda è fuorviante: si gioca in due campionati diversi. Il difetto degli Elio? Essere un prodotto di
seconda generazione, essersi nutriti anche degli Skiantos
(il nome del gruppo storpia la mitica intro di Eptadone).
Il punto di contatto tra le due monadi ridanciane? Non
tanto la demenzialità dei testi, quanto proprio lo sfondo
- attenzione, parolone - filosofico in cui questi testi trovano posto, il valore assegnato alla risata: riso a oltranza
come unico possibile farmaco contro la stupidità (quella
vera, non costruita in laboratorio) del mondo.
Nubi di ieri sul nostro domani odierno
Troppo da dire sugli Elio fissati su disco, troppa la
carne al fuoco, tra picchi, abbassamenti fisiologici e autoriclichi, e allora noi tagliamo la testa a Mangoni e ci
agganciamo agli Elio extra-disco, per tracciarne un proTUNE IN
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Lo spazio del suono / 6
Attila Faravelli
La dinamica degli organismi sonori
Faravelli giunge all'esordio dopo esperienze come compositore
di musiche per teatro, danza, pellicole mute e installazioni, dimostrandosi padrone assoluto di tecniche proprie dell'elettroacustica.
- Sara Bracco e Vincenzo Santarcangelo
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TUNE IN
U
n nuovo - l'ennesimo - saggio di eleganza ed essenzialità in musica ci è stato offerto, qualche
mese fa, dalla Die Schachtel, etichetta che continua a sbalordire per intelligenza (delle riscoperte) e attualità (delle nuove proposte). Come dovrebbe suonare
la musica elettroacustica, oggi, è nuovamente un artista
italiano sostenuto da Bruno Stucchi e Fabio Carboni, i due uomini dietro all'etichetta, a suggerircelo con
forza. Allievo di Alvise Vidolin e Michele Tadini, Attila Faravelli giunge all'esordio discografico dopo numerose esperienze come compositore di musiche per
teatro, danza, pellicole mute e installazioni artistiche. Un
giovane sound-artist che si dimostra padrone assoluto di
tutte le tecniche compositive proprie dell'elettroacustica: la saturazione dello spazio sonoro, il bricolage con i
microsuoni, l'alternanza dei pieni e dei vuoti, la contrapposizione analogico/digitale-suonato/campionato, il lavoro certosino su timbri e texture. Tecniche che Faravelli
utilizza, e ciò è più importante, per comporre una musica
astratta ma altamente comunicativa, rigorosa eppure seducente come di rado capita di essere a lavori di questo
genere. Elettronica ed elettroacustica, architetture fluide
e fonti sonore le più disparate ma che, per motivi misteriosi, finiscono per confluire in un ordine superiore nel
segno di un'organizzazione estetica e spaziale geometrizzante e quasi puntigliosa.
Oggetti che catalizzano l’attenzione, che si rapportano in modo non univoco, che rinviano di continuo allo
spazio sonoro entro il quale vengono disposti, come
adagiati, nella realizzazione di qualcosa che finisce per
assomigliare meno a un edificio e più a un paesaggio naturale o a un organismo vivente. Un equilibrio costantemente ricercato e superato da Faravelli, un paesaggio
in cui disperdersi ed entro il quale ridefinirsi (proprio a
partire da questa dispersione), un paesaggio che, come
affermava Luc Ferrari, “non è facile da penetrare”. “E'
divertente: quando cerchi una cosa, ne trovi un’altra” .
Parlando di struttura sonora e dei rapporti esistenti tra i concetti di spazio, ritmo e flusso: come
ti poni e come senti influenzata la tua architettura digitale da tali elementi?
Molta musica elettronica o elettroacustica, e ci metto
dentro anche la mia, crea delle architetture fluide proprio per il modo con cui la si fa, si mettono insieme delle
cose diversissime e a volte stanno bene insieme per dei
motivi misteriosi che solo le orecchie sono in grado di
capire. C’è anche una ragione estetica però. Come diceva Ligeti a proposito delle sue composizioni dronose se
si toglie anche uno solo dei tre elementi che stanno alla
base della musica occidentale, ritmo, armonia o melodia, il suono stesso acquista maggiore importanza. In una
canzone, tipicamente, lo spazio musicale è organizzato
prospetticamente dal fatto che la melodia sta davanti e
l’accompagnamento sullo sfondo, e inoltre gli accordi
sono costruiti in modo da generare in chi ascolta l’attesa di una risoluzione. Il risultato è che invece di vedere
lo spazio musicale stesso si vede il modo con cui è stato
organizzato, perché gli oggetti che lo abitano catalizzano
tutta l’attenzione. A me piace l’idea di mettere in questo
luogo immaginario degli oggetti che stanno in relazione
non univoca tra loro e che rinviano di continuo allo spazio intero in cui sono, realizzando una cosa che assomiglia meno ad un edificio e più ad un paesaggio naturale o
ad un organismo vivente.
Partendo dalle tue esperienze di musiche per
ambiente - dalle mostre fotografiche di Mike
Goldwater Acqua, alle musiche per lo spettacolo
di Dites leur qu'on est partis - intese come supporti
sonori alla dimensione visiva: in che modo ti poni,
leggi, interpreti, ti relazioni nei confronti dell'audiovisivo?
Nello studio classico di Michel Chion su questo argomento (Suono e visione) si dice che il legame tra un’immagine e una musica si compie quando le due cose ne
formano una terza in cui sono unite, una senza l’altra non
è più sufficiente. Lui aveva ragione a sottolineare che la
musica non è un semplice corollario, un accessorio che
accompagna le immagini e che invece l’utilizzo del suono
legato all’immagine genera un prodotto nuovo e altrettanto unico, la cosiddetta audiovisione. Recentemente
ho partecipato insieme ad Andrea Belfi e a Robert
Curgenven ad un progetto molto interessante in questo senso; un regista italiano di base in Francia, Augusto
Contento, ha realizzato dei film molto belli sul Brasile
sonorizzandoli con musiche di area sperimentale con cui
ha fatto la versione definitiva del film, l’audiovisivo con
la A maiuscola, quello che si vede in sala, nei festival e
su dvd. Parallelamente, ha preparato dei mix dell’audio
del film tenendo tutti i suoni e le voci ma escludendo
le musiche e ha domandato ad altri musicisti tra cui a
noi di suonare dal vivo, sulle immagini e sul suono del
film, delle altre musiche originali. In Francia chiamano
questa operazione cineconcert, una parola che da noi
non esiste, e in genere si fa sulle pellicole mute. Negli
ultimi lavori che ho fatto, in particolare per un film di
Andrea Caccia, mi è capitato di sperimentare un sistema abbastanza diverso: prima di tutto ci si fa un’idea
molto generale del progetto, si guardano alcune immagini ma non necessariamente tutte, si discute col regista
delle intenzioni e poi si registrano delle lunghe sessioni
di improvvisazione durante le quali si tiene in mente lo
spirito delle immagini più che delle sequenze precise e
TUNE IN
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dunque si fornisce al regista una quantità molto grande
di materiale grezzo da cui lui stesso, in fase di montaggio,
ricava per tentativi ed errori dei momenti che associati
alle immagini funzionano. Il risultato spesso è molto più
naturale che non quando ci si concentra su delle sequende precise perché le nostre orecchie e il nostro sguardo,
quasi autonomamente da noi, sono in grado di cogliere
delle connessioni inimmaginabili tra cose nate in maniera
semi-indipendente.
Stockhausen nel ‘52 a Parigi diceva: nella natura della musica più recente si può riconoscere
un cambiamento di direzione in atto dall’ascolto guidato dal desiderio a un ascolto riflessivo,
come parte di una trasformazione spirituale più
ampia, da un carattere individualistico a uno personale ma anche collettivo. Un ascolto riflessivo,
quasi meditativo, come lo definisce Shinkei. Cosa
ne pensi, a oggi come senti cambiato e come ti
poni a tale riguardo?
Non saprei, quando mi capita di parlare con qualcuno
di trasformazioni epocali nella musica a volte penso che
non se ne siano mai verificate, altre volte mi capita di
credere che data l’involuzione autistica del nostro modo
di vivere semmai anche l’ascolto della musica tenda a
perdere di senso. E se ne succedono poi non è senz’altro
negli ambienti della musica contemporanea. Il discorso
di Stockhausen, come quello dei teorici della postmodernità, lo ritengo verissimo nel momento in cui descrive un fenomeno di trasformazione della ricezione e della
sensibilità, quando però ci si spinge a sostenere una valenza di superamento etico di questa trasformazione sospendo il giudizio. E’ vero che siamo passati da un mondo
in cui gli oggetti erano chiari, i ruoli fissi e le identità
più definite ad una situazione di rarefazione, dalle grandi
narrazioni ai blog. E’ vero che la dinamica dell’orgasmo,
quindi la ricerca di una soddisfazione rivolta ad un obiettivo unico che culmina in un apice che coincide con la
fine del desiderio non è un modello che spiega il senso di
alcune musiche tra cui nel mio piccolo ci metto pure la
mia. In Underneath the Surface l’elettronica è fluida,
attenta alla superficie ma anche alla lentezza del processo che la mette in movimento: un lento sgretolarsi simile
ai “disintegration loops” di Basinski o agli orizzonti
inquieti alla Fennesz.
Ti senti in qualche modo legato al filone purista
dell'elettronica attento alla materia sonora e a
qualche interprete in particolare? Cosa ispira il
tuo modo di comporre?
Di Fennesz mi piacciono moltissimo i primi due album,
e non i più recenti, Basinski, ma anche The Caretakers, sviluppano un discorso in una direzione che mi
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TUNE IN
interessa molto ma che non è abbastanza compositiva
per i miei gusti, nel senso che questi artisti non trovano
secondo me un equilibrio tra il lasciare che i processi
quasi organici di deterioramento del suono determinino
la materia musicale in maniera incontrollabile, cosa che
condivido del tutto, e l’ascolto delle reazioni che provoca su di sé lo scorrere di questo materiale, da cui deriva
un risultato che rimane per me un po’ concettuale, ma
allora neanche abbastanza, come ad esempio i capolavori di Alvin Lucier, in cui questo aspetto di lavorare
con la materia era assunto e dichiarato fino in fondo
in maniera rigorosa. Invece amo moltissimo Stephan
Mathieu, perché lavora con vecchi supporti, sull’interferenza radio, su fenomeni effimeri ed incontrollabili, ma
con una capacità di ascolto del materiale e di selezione
che lo porta a fare dei dischi proprio belli da ascoltare e riascoltare. Questo però implica del tempo e una
forma permanente di ricerca, infatti Mathieu per fare
Radioland ci ha messo qualcosa come 5 anni e Basinski
invece quasi su ogni numero di The Wire che leggo c’è
una recensione di un suo disco. In questo senso i miei
riferimenti principali sono da un po’ di tempo due figure
davvero giganti di cui però solo una è un musicista, Luc
Ferrari, l’altro invece è un regista, Werner Herzog,
personalità apparentemente distintissime ma in realtà
credo per molti aspetti quasi sovrapponibili. Entrambi si
calano apposta in situazioni all’interno delle quali quello
che succede è sorprendente prima di tutto per l’autore:
c’è un paesaggio e l’autore che lo penetra e, come dice la
voce di Ferrari stesso in uno dei suoi pezzi più celebri,
ne è penetrato a sua volta. Dice poi nello stesso pezzo,
non è facile penetrare un paesaggio, è divertente, quando
cerchi una cosa, ne trovi un’altra. La voce narrante, l’autore che descrive dall’interno quello che sta succedendo
all’esterno e all’interno di sé è un elemento comune sia
in molti film di Herzog che in molti pezzi di Ferrari.
E’ questo equilibrio che, nel mio piccolo, mi piacerebbe
trovare, tra un paesaggio in cui disperdersi ma a partire
da questa dispersione paradossalmente ridefinirsi.
Rafael Toral dice: "Non esiste più alcuna definizione esatta di cosa significhi oggi comporre; tutti i
suoni sono generati manualmente, fisicamente,
direi, su un fondale di silenzio”. Un “fondale" o
una sorta di "suono colorato" - lo definiva così
Stockhausen -, fatto di strati sovrapposti, non
assoluto; o ancora, quel non-suono, come lo ha
chiamato Skinhei, in una precedente intervista,
che permette l’ascolto di tutti i suoni. Partendo
da queste considerazioni, potresti parlarci del
tuo specifico approccio al tema del silenzio?
Condivido assolutamente questa definizione di una specie di piano di immanenza in cui non c’è un suono in alto
e, in basso, il rumore da cui il suono dovrebbe elevarsi e distinguersi. Anche negli strumenti più tradizionali
dell’orchestra classica se non ci fossero le armoniche
superiori e inferiori e i rumori dovuti ai modi stessi con
cui il suono viene emesso tutti gli strumenti avrebbero
lo stesso suono, delle semplici onde sinusoidali. In alcuni
dei primi pezzi elettronici di Stockhausen, invece, fatti
solo di sinusoidi, l’aspetto secondo me più interessante
è proprio l’imprecisione del suono degli oscillatori del
periodo, l’eterna presenza di un consistente strato di
fruscio di fondo dei nastri tagliati con le forbici e l’astrazione inattuabile di quei pezzi fatti di onde pure da cui risalta ancora di più la sporcizia dei mezzi di registrazione
di quel periodo. Dunque il discorso vale proprio in tutti
i casi. Nel pop e nel rock lo strumento più utilizzato oggi
non è la chitarra o la batteria ma la compressione, una
tecnica per cui quando un suono supera una certa soglia
lo si abbassa e si alza poi tutto il volume generale, quindi
il silenzio e le dinamiche sono state da tempo abolite
in tantissima parte della musica. Nell’ottica di una musi-
ca organica a me interessa il vuoto non come una cosa
che viene aggiunta per ottenere dei risultati conformi ad
un genere che contempli il silenzio come un elemento
compositivo tra gli altri ma perché i suoni hanno naturalmente, di per se, come un organismo vivente, delle
oscillazioni, dei respiri, delle assenze e delle presenze. In
un paesaggio poi a volte si trovano anche delle rocce, in
un corpo delle ossa, delle materie dense e senza pori,
quindi dei suoni compatti e senza vita, senza silenzi, mi
interessano ma nell’ottica complessiva di un organismo
in cui l’una e l’altra cosa convivono.
TUNE IN
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R itrattismi
Four Tet
Kieran Hebden
Decennio transelettronico
Kieran Hebden, Four Tet, Fridge e le vicende dentro e fuori l'elettronica '00. Un ritratto complesso
- Gaspare Caliri
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DROP OUT
Ci vorrebbe forse un grande ritrattista per riprodurre
la figura di Kieran Hebden. Qualcuno che sappia far
affiorare dalle espressioni del viso la molteplicità serena
di un musicista che naviga da ormai quindici anni nelle
acque della musica popolare. Un viso di origini indiane
(denunciate pure e in modo ironicamente contemporaneo da una t-shirt con elefante che spesso indossa),
senza per questo mancare di essere un londinese medio;
un’espressione per niente tesa, sorriso appena accennato, sguardo profondissimo (accentuato dalle occhiaie)
e nient’affatto aggressivo. Gli occhi, in realtà, sarebbero
sfuggenti e rivolti verso il basso, o di lato, come nella
maggior parte delle foto che lo ritraggono (ma supponiamo che il ritrattista ometta questo particolare), a
testimoniare una certa timidezza che traspare anche, a
detta di molti intervistatori, dal tono della sua voce.
Non tanto per verificare questo, ma per confrontarci
riguardo a una produzione che inizia a essere davvero
molto sostanziosa, abbiamo fatto due chiacchiere con
Hebden. Abbiamo posto domande e ottenuto risposte
innanzitutto sul progetto principale che lo vede protagonista, Four Tet ovviamente, alla vigilia dell’uscita di
There Is Love In You, primo album dopo più di cinque anni dal precedente - lustro intervallato invero dalla
comparsa sul mercato di un EP che, come vedremo, trova cittadinanza tra le produzioni maggiori, per il valore
assertivo che ha avuto.
Abbiamo però cercato di spaziare per avere modo di
tratteggiare un ritratto a tutto tondo sul personaggio, dipingendone le sfumature dell’intorno. Di fronte a Kieran
ci si può infatti allontanare dalla missione del ritrattista,
e, di converso, concentrare sulla cornice, anzi cambiare
scala e rompere gli argini verso il contesto, verso quello
che forse descrive meglio il nostro tipico londinese: un
viaggio nel suo network di contatti, di collaborazioni, di
immedesimazioni e temporanee aggregazioni in moniker
e stili di diversa provenienza. Si andrebbe così a rappresentare un magma di situazioni centrifugo più che centripeto. E questo approccio potrebbe intrecciarsi con un
terzo programma di rappresentazione, probabilmente
una sintesi tra i primi due.
Altra e ultima maniera è quella squisitamente biografica, che quasi sempre si legge nei giornali di musica; nato
a, a vent’anni ha ascoltato questo, prodotto quest’altro.
Non è necessariamente la peggiore, anche se la più diffusa, specie trattando queste righe di un musicista come
Kieran Hebden: in questo caso, infatti, seguirne la vita, le
vicende musico-biografiche, gli incontri, i cambiamenti,
non significa solo mettere il fiato sul collo di una figura.
Vuol dire prenderlo come esempio, come tipicità, di un
intero decennio e più. È così che ci vogliamo approcciare
a Kieran: ci interessa come figura esemplare e cartina al
tornasole degli ’00 e di come essi sono sprigionati dai
Novanta, per i generi di cui si è interessato mr. Four Tet.
I
primi passi
Personaggio timido, si diceva, ma in qualche modo perfettamente cosciente del proprio tempo - forse in questa
frase fatta si riassume nel modo migliore la cifra di Hebden; e quindi timido ma nondimeno presente nell’etere e
nella rete, con decine di interviste a ogni nuova uscita; un
musicista di cui non è difficile ricostruire fasi, suggestioni,
letture diverse, date in prima istanza da egli stesso.
A partire da qualche confessione fatta in prima persona, si fa generalmente iniziare la vita di Kieran - come
musicista, dato che come persona quella ha avuto senza
dubbio avvio a Putney, Londra, nel 1980 - con un concerto dei Tortoise. È forse la prima mossa di generalizzazione del personaggio nel suo contenitore, ovvero la
seconda metà dei Novanta e il primo decennio del terzo
millennio. Oppure, semplicemente, è il modo migliore
per passare a parlare della prima incarnazione musicale
del Nostro. Quando vede la band di Chicago Kieran si
innamora del loro suono e delle possibilità che il loro
approccio consente. Intuisce le potenzialità di associare
strumenti come la marimba e synth, set da post-rocker
(che i Tortoise, per loro stessa volontà auto-revisionista,
non sono mai stati) e progressione, glacialità e disinvoltura morriconiana.Troppo per il giovanissimo Hebden, che
non è ancora abbastanza maturo per fare dell’esperienza
un tesoro fruttuoso che vada al di là della fascinazione
inevitabile. Anzi, troppo per metabolizzare tutto e subito.
Ma abbastanza - e Kieran è già sufficientemente ricettivo
- per trovare il lato operativo della scottatura: fondare
una band di post-rock, fredda e combinatoria, intelligente
e volenterosa di tentare e ritentare in sala prove di riprodurre l’insegnamento di Mc Entire e soci.
In realtà Kieran imbraccia la chitarra ben prima, all’età
di dodici anni, e repentinamente passa dal tentativo di
emulare Hendrix alle fascinazioni DIY della musica Riot
Grrrl, e poi dal lo-fi americano a un gruppo che faceva
lunghe tracce strumentali, i britannici Quickspace Supersport (poi Quickspace), che l’adolescente Hebden
segue in tutti i live londinesi, che di fatto introducono il
Nostro a post-rock, Soft Machine, strutture e macchine
morbide e complesse.
Siamo a metà Novanta quando nascono i Fridge, che
vedono tre ragazzi neanche ventenni - Kieran, obviously,
Adam Ilhan e Sam Jeffers - tentare la strada d’Albione di un post che ha tanto di Chicago quanto di europeo
(ma poco del coevo post-rock glasgowiano, per esempio).
DROP OUT
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Tempo di fare i primi vagiti quando Kieran, in un negozio
di dischi, incrocia un tale e ci si mette a chiacchierare;
gli racconta della band nascente e delle sue passioni. Il
ragazzo suona negli Emperor’s New Clothes, gruppetto
all’epoca nelle mani del dj e produttore Trevor Jackson.
Il compagno di conversazione si propone come ambasciatore di un demo dei Fridge da consegnare a Trevor,
Hebden accetta e una settimana dopo riceve la telefonata del big in questione. Ditemi cosa vi serve, chiede
il dj, e tempo qualche giorno e a casa di Hebden arriva
per posta un registratore multi traccia, con cui i Fridge
registreranno i loro early singles e i primi due album del
lotto.
Per ammissione proprio di Hebden, i primi tentativi della band non sono sempre dei picchi di originalità,
ma tracciano delle linee. Sono necessari apripista e anzi
viatico per entrare in una forma mentis (quella dei Novanta) e traghettarla verso la successiva, con ogni probabilità ancora in corso. L’esordio ufficiale ha luogo nel
1997, con Ceepax (uscito per la Output di Trevor, appunto): c’è il basso di Adam (più tardi Adem), la batteria
di Sam e una prima formulazione dell’elettronica di Hebden, accanto alla chitarra, suonata sempre dal Nostro.
Non male, anche qui, come esemplarità, il rapporto tra
il personaggio e la seicorde. Certo, una decostruzione
costante in un tempo in cui decostruire non fa notizia,
ma soprattutto una ricostruzione, per certi versi, come
elemento tra i tanti della miscela analogico-digitale. Un
momento aurorale a cui tornerà, come vedremo, in una
traccia di apparentemente facile - troppo facile? - interpretazione come quella conclusiva di There Is Love In
You, She Just Like To Fight, con richiami a quei Novanta e
a quelle sonorità.
“Sono rimasto abbastanza stupito di me stesso quando
ho realizzato quel pezzo.Trovo che sia qualcosa che avrei potuto fare in qualsiasi momento, negli ultimi dieci anni; è come
se fosse un sound che mi viene naturale, un pezzo di musica
per così dire onesto nei confronti di me stesso. She Just Like
To Fight è innocentemente mia, niente che mi proietti verso il
futuro, giusto qualcosa di semplice e diretto. È per questo che
ho deciso di metterla come ultima traccia del disco…”
Una dichiarazione che denuncia una fortissima autoconsapevolezza, non c’è che dire. Parole che confortano
il nostro discorso: niente fast-forward del ragionamento, ma conferme semplici e dirette, che ci autorizzano
a fare un gioco di rime e rimandi, per trattare, in modo
che l’espressione dia un poco del contenuto, l’esperienza Fridge. Il trio è ormai lontano nel tempo, sotto molti
punti di vista, ma è anche vero che l’ultimo album della
fredda ragione sociale è datato 2007 (in mezzo al lungo
silenzio Four Tet 2005-2008), e che quello che possiamo
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DROP OUT
tranquillamente pensare come l’uscita più interessante
della band, Happiness, viene licenziato da Temporary
Residence solo nel 2001, anno in cui nel catalogo Four
Tet ci sono già due titoli in long-playing. I Fridge sono
più di una scottatura giovanile. Una sorgente di musica
che a Kieran viene naturale far sgorgare.Tanto più che in
pieno 2009 esce una compila che raccoglie le primissime produzioni a nome Fridge, quelle più rotondamente
tortoisiane: si chiama Early Output 1996-1998 (Domino), fa rima con l’etichetta che pubblicò Ceepax e il
successivo Semaphore, del ’97, ma anche ci rimanda a
quel Seven’s And Twelve’s (Output, 1998) - a sua volta
una raccolta di quegli anni, che sembrò mettere una pietra tombale sulla prima fase Fridge.
Rilanciamo: da Seven’s And Twelve’s si passa, numerologia che fa da ponte, a un presunto singolo, della
durata reale di trentasei minuti e venticinque secondi, e
per questo intitolato Thirtysixtwentyfive. Siamo ancora nel
1998; con questo lavorio di attenta produzione Kieran
licenzia l’ultima mossa con Output; il nome che compare
sul fianco del doppio 12” non è più Fridge; è un moniker
“solo” del Nostro, dove inizia a sperimentare qualcosa di
davvero personale: l’avrete capito, è Four Tet.
C ambio
di registro
In Thirtysixtwentyfive è decisivo il cambio di registro. Non
più le strutture come “programma” (architettonicamente
parlando), ma un “leggero urbanismo” che si regge su un
tema di tromba e un rigoglioso (ma non preponderante)
lavoro produttivo: suoni che finiscono per riaccendere
le sinapsi già stimolate da gente come Terry Riley, o
da compositori che, detto con beneficio di raffinamento, usano tutte le fasi della creazione discografica come
momenti dove avere pieno controllo degli strumenti. Ragionamento, esecuzione e, naturalmente, studio, stanze
dei bottoni. Il travaso della complessità del post cambia
affluente ed estuario insieme.
Gli ascolti di Kieran si dilatano a 360 gradi, e il suo
orecchio inizia a occhieggiare con fare sornione a jazz e
hip-hop. L’inizio del college coincide con l’acquisto di un
laptop. Il resto già lo immaginate. Computer e un hi-fi
diventano la strumentazione, la sua stanza il suo studio,
insieme a un registratore con cui raccogliere tracce di
tutto e poi manipolare, missare, editare. Su Dialogue
(Output, 1999), il primo album a nome Four Tet, e soprattutto su Pause (Domino, 2001) ci sono tutti questi
suoni registrati e trasfigurati. Hebden diventa maestro
della tecnica, soprattutto per i bassi, che non riproducono mai suoni già esistenti come tali (o suonati per esserlo), ma lo diventano rallentando a dismisura le frequenze
di chissà cos’altro. Per confezionare Untangle, brano di
DROP OUT
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Pause, Kieran lavora moltissimo su un’arpa e sul trattamento di quella con programmi informatici. Il massimo
dell’artificio dal massimo simulacro di sonorità naturale.
Unicamente le percussioni sono analogiche, ancora intoccabili.
E non è un caso: il ritmo diventerà con gli anni protagonista assoluto. Per ora la sua preponderanza è dimostrata in termini di reverenza e rispetto, una specie di
trattamento speciale riservato a qualcosa per cui bisogna avere una degna preparazione, prima di affrontarla.
Nel frattempo, ai tamburi è dedicata un’enfasi espressiva
che spicca sul resto; in Dialogue c’è tanto jazz nella batteria, che anticipa uno sfogo mancato che da lì a qualche
anno verrà sanato dalla collaborazione con Steve Reid,
mago e velocista jazz delle pelli tese.
Ma devono passare ancora degli anni. Tra ’99 e 2000,
più che il jazz, forse, lo spartiacque - quanto meno con gli
altri componenti dei Fridge - è l’hip-hop: un amore per
così dire “negato” spesso dalla critica. Hebden inizia la
sua attività come Four Tet e non tutti si accorgono che
lui preferisce (come dichiara spesso) interfacciarsi all’hip
hop piuttosto che al vecchio post. In Dialogue nasce poi
una sorta di malinteso, spesso sostenuto dalla conoscenza e dalla frequentazione di Dan “Manitoba” Snaith, che
in quegli anni, e soprattutto poi, con il progetto Caribou, viene preso come esemplare da studiare, a proposito di indietronica. A proposito del montaggio, qualcuno
parla di folk-tronica per l’incastro tra strumenti suonati
ed elettronici, soprattutto nelle atmosfere più rilassate e
downtempo di Pause e di Rounds (Domino, 2003), terzo album effettivo targato FT. Per il resto, il rapporto tra
i due è propizio; Kieran conosce Dan prima ancora della
nascita del progetto Manitoba, e Four Tet viene indicato
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DROP OUT
come riferimento costante di Snaith. È inoltre Hebden
che lo indirizza alla Leaf e che gli propone di mixare un
suo pezzo di Pause per far girare il nome.
Un meccanismo, quello dei remix, che fra l’altro è
stato fondamentale innanzitutto per Four Tet. A partire
dal 1999, all’indomani dell’uscita di Dialogue, la Warp gli
chiede di remixare un pezzo di Aphex Twin per la compila del decimo anniversario della label. Il lavoro piace e
il nome Four Tet inizia a girare tra coloro che vengono
dall’IDM e hanno bisogno di una rinnovata freschezza
della fonte - o di un glitch che fa stare bene, più che scassare le meningi. Hebden è la figura giusta al momento
giusto; ed è molto bravo - e umile - a buttarsi a capofitto
nel nuovo mondo elettronico, ad accettare remix anche
rischiosi e a lavorare moltissimo nella nuova veste ibrida
di musicista e produttore.
L’ampiezza del suo network di contatti e collaborazioni cresce moltissimo in due-tre anni, cioè prima
dell’uscita di Everything Ecstatic (Domino, 2005),
terzo album a nome Four Tet, sostanziale consacrazione del personaggio, ma anche un forte discrimine nella
produzione, dato che, tra Ecstatic e There Is Love In
You, non ci saranno album , solo un EP, lo splendido (e
miliare) Ringer. Kieran, giusto per dare un’idea dell’hype
che si sta creando attorno a lui, apre per il tour europeo
dei Radiohead, nel 2003, ne remixa una traccia da Hail
To The Thief, lavora con nomi più noti di lui e inizia ad
avere la statura per promuovere a sua volta altri personaggi.
A forza di missare e lavorare con produzioni altrui,
inizia a prenderci gusto, con l’arte del djing, prima come
aspirazione occasionale, poi come professionista vero e
proprio. Lo si conosce ormai non solo presso gli idiem-
mers, ma anche nel mondo della club culture. La strada
sembra tracciata, così come il suo perfezionismo. Eppure
in Hebden non si stabilizza nulla. A ridosso dell’uscita
di Everything Ecstatic qualcosa si incrina, nell’amore verso le tecniche laptop-music. Cresce il desiderio di
complessificare la faccenda, sperimentare altre cose, e
soprattutto fare jazz; atteggiamento a cui Hebden ci ha
abituati: se c’è qualcosa che gli piace, prima o poi cercherà di farlo lui stesso.
Grazie a un giro di contatti Kieran riesce a incontrare
il batterista jazz Steve Reid, con il quale tiene un paio
di concerti a Parigi, nella primavera del 2005. È un nuovo
inizio, che fa riemergere quel rispetto reverente già segnalato nei confronti dei tamburi. Ora c’è un batterista
vero, un africanista jazz tra i migliori in circolazione, la
persona giusta con cui intraprendere un’iniziativa senza
minimamente sapere dove andare a finire. Kieran riesce così a esternalizzare il suo impulso jazzistico verso le
percussioni, per di più con una collaborazione duratura.
Nasce il combo Kieran Hebden & Steve Reid, che
fissa improvvisazioni e scambi nei due The Exchange
Session Vol. 1 e The Exchange Session Vol. 2 (entrambi Domino, 2006), come prima tappa del processo.
Gli episodi successivi saranno Tongues (Domino, 2007)
e NYC (Domino, 2008), capitolo quest'ultimo dove il
duetto di elettronica e free-jazz si trasforma nella profferta di una personale (ma a due teste) versione della
ritmica newyorkese a respiro mondiale.
L’incontro con Reid per Kieran è qualcosa di davvero
catartico: Steve fa il ruolo del maestro di vita e di esperienze, gli mostra il mondo (soprattutto dell’Africa) e gli
apre ulteriormente la testa, come si suol dire. Hebden
impara e assorbe come una spugna. Più che i dischi insieme, ammette, è la partecipazione attiva al suo ensemble
a essere estremamente formativa. Londra viene ridimensionata, mostra i suoi limiti, le sue illusioni cosmopolite.
L’intelligenza di Kieran è però contenuta anche nella capacità di non rifiutare mai il proprio passato, la propria
esperienza, ma di metterla a frutto con il presente. Tra
il 2005 e il 2008 Hebden si trova bene a fare altro, che
non sia “Four Tet stuff”. La doppia raccolta Remixes (Domino, 2006), sempre a nome Four Tet, denota un cambio
di equilibrio tra produzione e creazione, sbilanciato ora
verso il primo polo della categoria: remix scelti da Hebden nel primo disco, un misto tra remix fatti da lui e da
altri nel secondo.
Non solo: Kieran si vede bene come produttore e
decide di accettare di occuparsi della registrazione e finalizzazione di Fire Escape (Smalltown Supersound),
disco del 2007 dei Sunburned Hand Of The Man; il
risultato vedrà soddisfatti in molti e la conseguenza sarà
la curatela completa della fase in studio del disco successivo della band della “New Weird America”, un paio
di anni dopo. Un’altra via di fuga, un altro modo di fare
altro e rimanere sempre se stesso. Un filone in più, che
rende sempre meno impellente, agli occhi del Nostro, la
necessità di fare uscire l’album n°5 di Four Tet.
Pane
ed elettronica
E qui veniamo all’altra “infanzia” musicale hebdeniana,
che oggi acquista rilevanza e decisiva consistenza, sicuramente più di quanto sarebbe successo cinque anni fa
- per non parlare di dieci. Del resto, abbiamo iniziato il
secondo paragrafo dell’articolo dicendo “si è soliti”, o
“si fa generalmente”, sottendendo dunque un’alternativa, una possibile ripartenza, un'altra angolatura o taglio.
L’abbiamo rimossa volutamente, per riprendere tutto
da capo e riconsiderare tutta la situazione storica del
Nostro. La chiave è tornare a qualche anno più indietro,
non necessariamente prima rispetto a quel grado zero
individuato dall’incontro con i Tortoise. Nel periodo in
cui il giovabe Kieran iniziava a cimentarsi con l’idea di
passare dallo strimpellio a un progetto musicale, attorno
a lui c’era l’Inghilterra e le sue high school, traboccanti di
jungle e drum’n’bass.
“Jungle everywhere”, ma anche un borbottio costante
di suoni d’elettronica garage. Quegli anni in Inghilterra
si cresceva anche con la 2-step delle radio pirata. Kieran vive quell’incrocio di riferimenti che sembra poco
pertinente citare ora, ma che in realtà forse è particolarmente adatto per inquadrarne tutta la storia. Prendete
il post-rock da un lato, il 2-step garage dall’altro. Fatte
passare qualche anno (frullandoli) e provate a immaginare cosa possa venirne fuori. Lezioni di maestria ritmica,
forte affezione al ritmo, dipendenza quasi; eppure grandissimo controllo della pasta del suono e del suo effetto catartico. Un melange di vintagismi analogici, di suoni
suonati e di trattamenti digitali. Insomma, tutto questo
non sembra particolarmente calzante, per il progetto
Four Tet?
Kieran non è il solo, ovviamente, nell’elite dei miscelatori di suoni della UK ’00, a fare quelle esperienze. Il
2-step, come ci confida lui stesso, è alla base della nascita
e progressione di un’amicizia forte, personale e musicale,
quella con Burial:
“Io e Burial siamo cresciuti con il 2-step, un genere che
ha sicuramente avuto un’influenza enorme sulla musica di
entrambi. Quando ascolto le sue cose sento immediatamente
il tentativo ben riuscito di prendere dosi massicce di 2-step,
aggiornarlo e adattarlo a nuovi contesti. Sono un fan di vecchio corso della sua musica e siamo amici da molto. Abbiamo
iniziato a fare musica insieme un sacco di tempo fa, e lo
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sviluppo naturale - eccitante e divertente - è stato lavorare
insieme.”
Il 2-step è un tassello sicuramente fondamentale, nella musica e nella formazione di Hebden. Ma la cosa più
interessante è che tale tassello si inserisce nel mosaico
di un humus culturale che è diventato imprescindibile
per leggere la stessa produzione Four Tet-iana di oggi.
Non ci riferiamo solo a Moth / Wolf Cub, il misterioso
singolo che a inizio 2009 ha sancito, con un’uscita ufficiale, la collaborazione tra Burial e Four Tet. E' tutta la
club culture a rifrangersi nelle esperienze di Kieran degli
ultimi anni. La pausa di produzione interrotta da Ringer
EP non è stata per nulla silenziosa, per il Nostro. Ha
significato anzi musica a tutto volume, ma quella musica
d’altri di cui si occupano i dj dei club. Già dal 2001 Kieran iniziava a sentire che il mare magnum di dischi che
si ritrovava in casa, rigorosamente su supporto vinilico,
sarebbero potuti divenire il materiale per fare un po’ di
djing. Per uno come lui, e per la destrezza - diciamolo con cui sa muoversi, tra il dire e il fare è bastato un giro
di telefonate e e-mail.
Tra 2005 e 2006 riceve l’incarico da residence dj al
The End di Londra, dove incontra Timo Maas, con cui
poi condividerà svariate serate nei due anni successivi.
L’incontro più importante è però con un altro personaggio, suppergiù suo coetaneo peraltro, ma davvero importante per il mondo dell’elettronica inglese. Si tratta di
James Holden, responsabile della label Border Community - fondamentale universo post-IDM - e autore
di quella gemma solitaria e poliedrica che è The Idiots
Are Winning (Border Community, 2006) - un disco
della cui influenza non smetteremo di stupirci ancora
per parecchio, plausibilmente.
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DROP OUT
“Credo che sia stato molto interessante per me assimilare i
suoni e i ritmi del giro Border Community, per poi farne la mia
traduzione personale, per esempio nella fase di arrangiamento
dei miei pezzi. Mi piace sempre mettere nel mio quello che
sento e vedo fuori; ma nel caso di Border Community penso
che l’ispirazione che ho ricevuto sia stata più ampia del solito.
Ho suonato parecchio nel club di James Holden e in lui ho
trovato una persona con cui condividere moltissima musica e
interessi musicali. È innanzitutto una persona che si dedica con
completa abnegazione alla musica: lo dimostra il modo in cui è
riuscito a mettere in piedi proprio la sua label.”
Certo le analogie tra Kieran e James non mancano.
Entrambi latitano nel mercato musicale per qualche
anno ma fanno talmente tante cose che non si può non
parlarne. È così che in un lustro Kieran cambia radicalmente ambiente: dall’idrovoro hip-hop e dal downtempo
alla velocità di Reid e della musica da club. Four Tet inizia
a essere assimilato alla schiera di talentuosissimi produttori di talento prodotti in terra d’Albione. Le sue nuove
attività non fanno più chiedere, da parte dell’intervistatore di passaggio, di raccontare i rapporti con il Caribou del caso; il fuoco si sposta su gente come Apparat,
Nathan Fake, oltre, chiaramente, a Holden. Riguardo
ad Apparat, per esempio, Hebden ritrova una familiarità
basata proprio sulla formazione musicale.
“C’è un’intera generazione di persone [di cui faccio parte] che sono cresciute ascoltando, mentre erano teenager,
roba che va dalla Warp di Aphex ai Boards Of Canada; oggi
quelle persone fanno musica da club e techno, mischiando
influenze melodiche provenienti anche da elettronica d’antan…”, ci confessa Kieran, quasi guardandosi allo specchio. D'altronde, è evidente, nel già citato Ringer EP,
quanto la sua testa sia a bagno nei club inglesi. Grazie
anche al lavoro con Steve Reid, e alla liberazione freejazz-acustica dei suoi tamburi, il club dà a Kieran nuovi
input e un universo in cui gettarsi a capofitto. Ringer
non è un avvicinamento alla club-cluture, ne è un’assimilazione. Per essere più precisi, è l’esito di una metabolizzazione, che ha investito gli stessi riferimenti a cui milieu
come quello di Border Community si rifanno. In Ringer
si sente il kraut-rock. Si sente la musica cosmica. Swimmer ha i fuochi fatui dei Tangerine Dream fase Alpha
Centauri, come le tastiere (snare?) di Klaus Schulze.
Ma in Ringer si sente anche l’Inghilterra che filtra quelle
esperienze. Come non ritrovare, nella stessa traccia appena citata, anche le tecniche di crescendo techno usate
negli stessi mesi dai Fuck Buttons?
Sono suggestioni che mirano a coprire le distanze
spazio-temporali. E soprattutto a prepararci al nuovo capitolo di Four Tet, di cui Ringer (secondo alcuni, il punto
più alto a cui sia arrivato Hebden) dovrebbe essere l’in-
troduzione. Per realizzare There Is Love In You, Kieran ha deciso di mettere da parte le attività collaterali.
Ha messo in pausa la collaborazione con Reid. Limitato a
zero i remix e i nuovi contatti - anche se, ammette, l’eccezione avrebbe sempre ragione di esistere, se a chiamarlo per qualsiasi proposta fosse Busta Rhymes. Si è
concentrato su se stesso, ci dice, confermandoci di fatto
che in Four Tet si riassumono contemporaneamente il
ritratto e il contesto, il micro- e il macro-cosmo di ciò
che avviene attorno a Kieran Hebden. È lì che si concentra la summa a cui ci stiamo interessando rispetto a tutta
l’opera di Kieran.
There Is Love In You è un potenziale riassunto del
decennio ’00, per molti versi, il punto culminante della
rappresentatività di Hebden come figura esemplare degli
ultimi anni. Eppure contiene una qualità che forse Ringer non aveva, pur nella genialità di rimescolamento di
ascolti e nuovi stimoli. There Is Love In You è un momento di classicità - veicolata quasi da un fare trance - a
cui è arrivato il rapporto Hebden / elettronica inglese.
Ci sono le sue tecniche e tutto il savoir faire nel toccare mondi diversi mantenendo riconoscibile un tocco, se
non un gesto. Come si diceva, vi trovano spazio sprazzi
di post-rock come il minimalismo compositivo con cui,
di fatto, lo si chiami così o ripetizione degli elementi,
Four Tet ha sempre lavorato. È quindi il disco giusto, probabilmente, con cui tentare un ritratto del Nostro. E per
rinchiuderlo in un quadro.
Post - jazz
e oltre ?
Dice giustamente Paul Morley, introducendo il video
di una recentissima intervista a Kieran Hebden, che una
cosa di cui è profondamente convinto è che un musicista jazz - o post-jazz, per differenziare la produzione
attuale - non è più (se lo è mai stato) un musicista che
suona sax, batteria o percussioni, ma qualcuno che libera lo spirito dei grandi jazzman del passato, vale a dire
una persona che fa della fluidità il cardine della ricettività e produttività della propria musica. Soggiunge Paul
- stiamo traducendo molto liberamente il suo pensiero,
dietro alle parole - che sotto questa ottica la palma di
post-jazzman della decade ‘00 (o anche più) la darebbe
tranquillamente a Hebden.
Ciò su cui ci sentiamo più d’accordo con Morley riguarda la puntualizzazione successiva: non si sta riferendo all’esperienza (chiaramente jazzistica) con Steve Reid,
ma alla produzione licenziata sotto il moniker Four Tet.
Qui la cosa si fa interessante. È questione di atteggiamento. L’elettronica intelligente da cameretta per persone intelligenti è lontana, nella musica di Hebden. Non
l’intelligenza stessa, ma il concetto e l’ideologia che stan-
no dietro. C’è piuttosto una fluidità che oltre a traghettare se stessa (cioè, autopoieticamente, la musica che
si trasporta da un genere all’altro) diventa superficie di
trasporto, soprattutto per l’ascoltatore.
Alla fine della decade e del nostro articolo, va ancora
esplicitata la risposta a una domanda rimasta implicita
dall’inizio, quando dichiaravamo pacifiche conseguenze
senza spiegarne il motivo: in che senso Kieran Hebden
è rappresentativo, una tipicità, dei tre lustri passati? La
risposta passa per quella funzione di “caronte” di cui
poco sopra. La sua musica è superficie di trasporto, in
tanti sensi. La produzione un concentrato di attenzione al particolare che però non ha mai la presunzione di
assorbire tutte le nostre attenzioni. Detto altrimenti, è
un mezzo che ci porta di qua e di là, e anche un partner perfetto per montare un video di architettura, un
documentario urbano, un supporto cinematico. Di per
sé, questo non rappresenta di certo una novità del decennio appena trascorso. È chi fa questo che ci porta su
nuove considerazioni. Kieran è un ragazzo - lo ripetiamo,
classe ’80 - che è cresciuto con la sua chitarra ma che è
anche riuscito a staccare il cordone ombelicale. Qui sì,
fenomeno rappresentativo. Il grande addio alle chitarre
mitizzate l’abbiamo metabolizzato tutti come affare di
un "prima", ma gli arrivederci e i “ciao, come va” ciclici e
funzionali a un modo di fare musica, un modo disinvolto,
sono cose nostre.
Ci ritroviamo, in Kieran, in una figura passata dal post
al clubbing, prima come ascoltatore e poi operativamente, da musicista. Anche noi abbiamo fatto alcuni dei suoi
passaggi, negli ultimi anni. Basta vedere la quantità di
elettronica inglese post-IDM presente nelle classifiche
di mezzo mondo, alla pari dell’underground e/o del rumore. L’opzione chiusa dell’ascoltatore post-rock è roba
vecchia e storicizzata. Ma siamo noi, in prima persona,
ad avere messo a distanza quello che eravamo. Anzi, meglio: abbiamo assorbito quello che eravamo in quello che
siamo. Non sopportiamo il post-rock fatto oggi ma le
nostre orecchie giudicano la nuova produzione Warp
anche alla luce di quegli ascolti passati. Non c’è più bisogno di rinnegare? Sta di fatto che chi a fine Novanta
ascoltava prevalentemente le strutture del post, magari
insieme all’IDM, ora non disdegna l’ascolto di quell’ibrido tra club e cameretta che sono le produzioni hebdeniane. Un’attenzione all’orecchio, per l’orecchio, anche e
soprattutto. Il post-jazz esistenziale non è per nulla postmoderno, né liquido, né schizofrenico. Come, del resto,
Kieran Hebden che fa djing, kraut-electro e jazz non è
un goliardo della pluralità, né nessuno si sognerebbe di
medicalizzare, con categorie, la presunta scissione delle
sue identità.
DROP OUT
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Recensioni::::gennaio::
►►►►
2 Pigeons - Land (La Fabbrica,
Gennaio 2010)
G enere : trip - hop / elettronica / rock
Freschi vincitori del premio Demo di Radio Rai per la
migliore autoproduzione del 2009 (li abbiamo potuti apprezzare nella serata di apertura della scorsa edizione
del Meeting delle Etichette Indipendenti) i 2 Pigeons
arrivano all'inevitabile esordio discografico. Inevitabile
perché in tempi di secca creativa come sono quelli in cui
operiamo, la formula della band milanese è un fulmine a
ciel sereno che non può passare inosservato.
Immaginatevi una Shirley Bassey traviata dai Portishead ed esaltata da un programming che mescola frammenti di synth, rhodes, pianoforti e sax di scuola Zu. Pochi
compromessi, rispettando una musicalità a scatti metafora sublime dell'illogicità estetica del presente. Nella
pratica, ci si focalizza su un drum & bass/easy listening
etereo (Fairuz), una P.J. Harvey febbrile su sfrontatezza Björk (Broken Umbrella), dei Morcheeba magmatici
e industrial (Boing 737), una Tori Amos vicina a certe
cadenze di Beatrice Antolini (I-Land). Con la voce di
Chiara Castello a dare continuità ai primitivismi sintetici di Kole Laca tra cadenze black (Biko) e crooning
bianchissimo (Circus Lady).(7.35/10)
Fabrizio Zampighi
A Spirale - Agaspastik (From
Scratch, Novembre 2009)
G enere : avant - rock
La caleidoscopica scena avant-rock napoletana passa imprescindibilmente per A Spirale. Uno dei progetti più
longevi e ramificati torna con un album che è dimostrazione vivente (anzi, suonante) della splendida copertina.
Un corpo ai raggi X in cui spiccano tre viti d’acciaio. Carne e ferro fusi assieme come un Tetsuo ripulito dell’ascesi unidimensionale di certe fisime japanoise e dove la
carne è la strumentazione acustica (sax, chitarra, batteria) e il ferro l'elettronica (rumori, feedback, little things)
che deturpa l'incompromissorio free-jazz(core).
A colpire è la verve post-punk con la quale il terzetto s'avvicina al jazz: di primo acchito potrebbero essere
gli Zu ma gli A Spirale ne rappresentano una versione
disidratata, improntata sull’improvvisazione e sulla spe30
recensioni
rimentazione (ascoltate la chitarra di Maurizio Argenziano).
Per capirci, la barbarous music di cardewiana memoria
non è lontana: più che i pieni (l’assalto all’arma bianca
di Black Crack e Naja Tripudians; la trance agonistica di
Climbing Your Backbone, tutta scatti e spigoli) sono i vuoti
a colpire: Suriciorbu (stasi sovrastati dalla tensione) e soprattutto Kaluli (la frammentazione del corpo sonoro).
Agaspastik è il miglior album del trio. L’ennesimo colpo
ben assestato dalla From Scratch.(7/10)
Stefano Pifferi
AA. VV. - 2010 From Warp Records
(Warp Records, Dicembre 2009)
G enere : compil ation electronica
Anticipo di quello che sarà il 2010 Warp, la sfiziosa
compilation ci presenta dieci tracce contenenti i ben
conosciuti Bibio, Flying Lotus e Hudson Mohawke
sbizzarriti rispettivamente in un bel remix sognante cori
siderali (per mano del fidato Pivot), un bbreaking sbilenco e tagliato wonky e un richiamo agli '80 più Animal
Collective che mai.
Poi le nuove leve d'obbligo: il pasticcomane Rustie
(era ora!) in progressività a 8 bit farcite di nerditudine e uk-ness (Inside Pikachu’s Cunt è il titolo dell’anno),
The Hundred In The Hands che rivedono il p-funk
con delle bordatine DFA (Dressed In Dresden), Nice
Nice in camp sognante spiagge glo (See Waves appunto), Africa Hi Tech in ragga tagliato Tempa (Blen), De
Tropix che mescola M.I.A., Zomby e La Roux con
l’afro pop (Adeyhey) e per finire l’attesissimo Gonjasufi
con un post-folk da urlo (Ancestors). Non male per farsi
un’idea.(6.5/10)
Marco Braggion
Akkura - Brucerò la Vucciria
col mio piano in fiamme (Dario
Flaccovio Editore, Dicembre 2009)
G enere : folk
Links. Come quelli che legano gli Akkura al resto della cricca Malintenti Records. Una comune in cui tutte
le parti in causa si scambiano i ruoli in una miriade di
progetti intrecciati tra loro. Links. Come quelli che spin-
highlight
2tall/Dj Clockwork/Kper - A Boom Bap Continuum (Autoprodotto,
Novembre 2009)
G enere : H ip hop
Tre nerd, tre maniaci dei beat, ci regalano (in tutti i sensi: http://www.aboombapcontinuum.com) il loro
bignami hip-hop per questi primi dieci anni Duemila. Tutto comincia nel 2008, con un mixtape (Wonk Fonk,
funk base e origine di tutto) approntato dal giramondo Laurent Fintoni aka Kper - giornalista freelance e
appassionato - allo scopo di accompagnare alcuni articoli su quella che ha definito la "rinascita del boom
bap creativo" (anzi, "progressivo") nelle musiche ritmiche-elettroniche degli
ultimi anni.
A Boom Bap Continuum, realizzato da Kper assieme a Jim Coles aka
2tall (il più famoso dei tre, si vedano i trascorsi produttivi al servizio di
Dudley Perkins e Georgia Anne Muldrow) e Dj Clockwork, sviluppa
quella traccia e allarga ulteriormente il campo. Il mix mappa l'evoluzione del
fare hip-hop (oltre le etichette, oltre il "wonky", il "glitch", il "bassy"), rintracciandone continuità (il culto della pulsazione, quella cosa che ti fa dondolare
la testa avanti e indietro) e discontinuità: centrale la svolta con J Dilla e
Madlib, e la conseguente imposizione di un nuovo standard, fatto di ritmi non quadrati ("heavy humanized
groove", le famose batterie campionate-non quantizzate), scelte timbriche immediatamente riconoscibili,
ibridazioni con l'elettronica, fascinazioni terzo e quartomondiste. La staffetta passa di mano dall'egotismo
degli MC all'onnipotenza dei produttori: si impone per vitalità e importanza l'HH strumentale.
A Boom Bap Continuum, evidente un - parzialmente polemico - parallelo con l'Hardcore Continuum di Simon Reynolds, sceglie (e mixa come solo i grandi mix) più di 200 beat, più di 50 produttori, venti pezzi
e sette minuti circa per ogni anno, dal 1999 dei Lootpack di Mad, dei Company Flow di El-P, dei jazzofili
Sound Providers, di Busta Rhymes, fino al 2009 di Paul White, Dam-Funk, Hudson Mohawke,
Nosaj Thing, del "doppio" Mark Pritchard (presente come Harmonic 313 e come solista assieme a
Om'Mas Keith dei Sa-Ra con Wind It Up, pezzo che è un po' una sintesi della Weltanschauung di questi
nostri giorni).
C'è l'hip-hop "hip-hop" ma c'è anche quello che abbiamo imparato a chiamare dubstep e/o grime (King
Midas Sound, The Bug, Joker, Loeafah) e che solitamente siamo abituati ad associare alla dancehall e
all'elettronica ma mai all'hip-hop. Boom Bap estetica che travalica i generi. Illuminante il gioco delle assenze:
niente mainstream (Large Professor, Timbaland, Pharrell Williams), niente deviazioni dal discorso
sul groove (niente Anticon-Clouddead, sì però a un pezzo dei Boards Of Canada, niente Antipop
Consortium).
Come tutte le opere di storia, è in realtà un pezzo di letteratura che ci restituisce solo una visione parziale
dell'oggetto, e il cui scopo non è informare ma convincere. Qui il messaggio - in controtendenza (ancora
il feticcio polemico Reynolds) - è largamente condivisibile: l'HH non è (ancora?) morto, è anzi una delle
forze più vitali della musica d'oggi.(8/10)
Gabriele Marino
recensioni
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gono gli artisti dell'etichetta a dare una forma in musica
a quella Sicilia popolare e folk che fa un po' da sfondo a
molte delle produzioni della label. C'è chi ci legge dentro un'autorialità ombrosa e rinsecchita (Donsettimo),
chi una canzone jazzata leggera (Toti Poeta), chi una
musicalità a tutto tondo in bilico tra Sud America e Sud
Italia (Akkura), chi un folk-vaudeville sdrucito (Mimì
Sterrantino). Links. Come quelli che emergono dai testi
delle canzoni. Con una musica d'autore riconoscibile che
sa lavorare sui significati, l'ironia, l'aspetto letterario del
connubio note-parole.
Soprattutto in questo terzo disco degli Akkura, in cui il
testo è anche un concept-book che raccoglie dieci racconti su Palermo. Dieci spaccati di sei autori diversi (tra
cui Cesare Basile e gli stessi Akkura) abbinati a dieci
canzoni della band siciliana, omaggio ai tempi lenti e ai
suoni della narrazione popolare.
E' un cerchio che si allarga e che poi si richiude Brucero' la Vucciria col mio piano in fiamme. Un'opera
che lavora su più dimensioni ma in un'unica direzione:
descrivere per immagini un localismo geografico-culturale circoscritto e vissuto in prima persona. Grazie a
scelte formali avventurose (il rock'n'roll della title track
o magari il jazz percussivo di Vicoli Vicoli), poco lineari, e
decisamente lontane dai cliché del folk autoctono più
convenzionale.(7.3/10)
Fabrizio Zampighi
Andrew Weatherall - Andrew
Weatherall Vs The Boardroom
Vol.2 (Rotters Golf Club, Novembre
2009)
G enere : D eep
A distanza di un anno dall'esordio, s'aggiunge un volume
alle session weatheralliane con alcuni tecnici e musicisti del Boardroom studio. L'aria che tira è deep e cassa in quattro. Tolte le scorie e i sample rockish (leggi
Two Lone Swordsmen e dintorni) della precedente
raccolta, Andrew firma una personale idea anemica e
vampiresca di deep e lo fa mettendo le mani su pezzi
come U Know U Jack (di Tim Fairplay), ovvero l'old
skool portata nei sottoscala londinesi, oppure lasciando
intonsa una track come Brother Johnston's Travelling Disco
Consultancy, sempre old ma a bagnomaria nell'house e via
di radiazioni e coolness.
E' roba che scotta, anche se la tracklist contiene cosucce
ordinarie tipo il remember R&S di The Blood (sempre
Fairplay) oppure il viaggio tra space disco e baleric di
Direct Action (Radical Majik), salvo poi ribaltare tutto in
take dell'uomo che ti fanno capire il peso specifico della
wave e della gotica girandoti il facile esercizio in dance
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recensioni
da brivido e assuefazione pura (la stessa Direct Action nel
Weatherall remix). Menzione anche per The Last Frontier,
visioni epiche nella space techno di E.S.C. tra tentazioni
psych e tunnel kubrickiano.(7.2/10)
Edoardo Bridda
Asa Chang - Kage No Nai Hito (Avex
Trax, Luglio 2009)
G enere : P ost no
Dopo che il matrimonio con Leaf è finito, di Asa Chang
& Junrey si sono perse le tracce. Nel 2005, per la sussidiaria della Sony Japan, Ki/
oon, si registrava un album
intitolato Minna No Junray,
praticamente sconosciuto
al mercato occidentale, e
poi più nulla. Silenzio fino
allo scorso luglio, quando la
famosa label indipendente
nipponica Avex Trax (la più
grande al mondo stando a
Wikipedia) ha pubblicato un nuovo lavoro del trio, acquistabile soltanto in mailorder dal Giappone.
Non sarà il remix dubstep dell'indiano-londinese Talvin
Singh della loro Bushi 24...22.46 a valerne la spesa, ma
quello che è il loro lavoro punk per eccellenza ne vale
sicuramente la pena. Irresistibili le appropriazioni indebite della nostra cultura sotto forma di fanfare sbilenche
(Chesnuts Street peraltro roypaciana al massimo) e avant
spettacolo à la Residents (Stew), le versioni disco punk
del loro pop da classifica (Wohan No Hito vicina anche alle
Slits) e persino un vaudeville che si prende gioco delle
arie degli anni '30 in puro stile Syd Vicious da scalinata.
Sono mosse freak che ricordano da vicino la Yoshimi
P-We extra OOIOO (presentissima negli stacchetti
folktronici intinti nel jazz di Sabadilla). Sketch che hanno
il solo demerito di formare una raccolta d'esperienze in
divenire più che un seguito della strada maestra disegnata da Hana, per la quale bisognerà accontentarsi dei
nove, splendidi, minuti della traccia omonima. Ci troverete il meglio del trademark inconfondibile della ragione
sociale: quell'affastellamento di tablas e strofe processate
al pc di cui la Leaf s'innamorò a inizio Duemila.
E' il lavoro più godibile mai realizzato dai nipponici.(7.5/10)
Edoardo Bridda
Ättestupa - 1867 (Dnt, Dicembre
2009)
G enere : B l ack N oise
Dopo la partecipazione al 10 pollici Utmarken con il
brano migliore pubblicato ad oggi, e in attesa del secondo album, il gruppo di Göteborg torna con la stampa su
vinile di un nastro edito precedentemente in sole cinquanta copie. 1867 è l'anno di una terribile carestia nelle
campagne svedesi e i nostri ne traggono spunto per dar
vita a nuovi incubi sonori.
Missväxt mostra gli Ättestupa più rock (unico esempio insieme al pezzo della sopracitata compilation), con
tanto di batteria e chitarre cadenzate, anche se tutto è
sepolto sotto fischi e feedback assassini, come di regola.
Halshuggarnatten continua sulle coordinate dell'LP del
2008: ritmiche ai limiti della narcolessia, disperanti note
di synth e linee vocali tra il liturgico e il salmodiante.
In chiusura, un brano che occupa l'intero lato B, assalto
brutale ed impietoso, tortura di progressiva ferocia di
ben tredici, interminabili, minuti.
Tre tracce. Tre esperienze. Tre (r)umori diversi. Probabilmente non il modo più organico di traghettarsi dal
primo al secondo album ma tant'è, l'organicità spesso
non è la priorità di band come questa.(7/10)
Andrea Napoli
Barn Owl - The Conjurer (Root
Strata, Novembre 2009)
G enere : drone - doom
Li dove finiva Hex inizia The Conjurer. La band di Jon
Porras e Evan Caminiti prende in mano quanto avevano
lasciato perdere gli Earth con il disco doom-western del
ritorno e prosegue il discorso immaginando un seguito
che gioca quasi istintivamente la carta dell’ascesi mistica.
Porras e Caminiti sono tra i migliori visionari psichedelici dell’ultima generazione. Arrivano da San Francisco e
hanno lo sguardo regolato in direzione del deserto, di
cui sono gli ultimi legittimi profeti.
The Conjurer pertanto si muove lento e mantrico sulle
note di una chitarra twang spastica e malandata, come se
stessimo ascoltando un Duane Eddy in punto di morte.
E’ il passo malfermo di una Into The Red Horizon cui spetta il compito di prendere il largo verso la deriva di Across
the Deserts of Ash, li dove i due incominciano a ragionare
intorno alle sfere celesti aggiornandosi al canone della
musica eterna. Un percorso questo, compiuto in maniera
quasi identica sul lato B, con il dittico Procession of Golden
Bones/Ancient of Days.
I Barn Owl danno una linfa tutta loro al clangore austero del doom, aprendosi la strada con gli squarci del
blues mitologico di Elm, per proseguire via via sempre
più oltre, verso i territori di uno sciamanesimo da nuovo occidente dove non arriva più nessuno. Nemmeno
loro.(7.3/10)
Antonello Comunale
Bear In Heaven - Beast Rest Forth
Mouth (Hometapes Records,
Novembre 2009)
G enere : indie ecletrock
Che l'act dell'anno 2009, classifiche permettendo, siano
stati gli Animal Collective è fuori discussione. Non è
questo il luogo da cui analizzare le loro mutazioni, ma
per spiegare il nuovo disco del gruppo di Jon Philpot
(ex Presocratics) sembra doveroso riconoscere quanto il gruppo di Baltimora stia influenzando i generi della
musica 'elettronica' (dal wonky al glo passando pure per
quello che chiamavamo indie rock).
Se si ascolta questo disco veloce, osannato da Pitchfork
e da gran parte del giro giusto della critica d'oltreoceano,
si capisce come le sonorità degli animali siano diventate
pane quotidiano per i gruppi emergenti. La parola d'ordine che si aggiunge all'eterogeneità del gruppo di Panda
Bear e soci è retrofilia. In particolare i suoni anni 80.
Non avevamo già sentito questo profumo? Sì, nei ragazzi
del glo solo pochi istanti fa.
Ma qui il tracciato sonoro
non va tanto ad indagare
quelle connessioni da pop
star, anzi cerca di percorrere i binari del rock tout
court. Sembra quasi di sentire la freschezza dei Fleet Foxes senza country (il
primitivismo della batteria
e i cori di Beast In Peace), le chitarre dei Cure (Dust
Cloud), gli echi degli Stone Roses (Wholehearted Mess) il
tutto mescolato sapientemente in calderone che convince (soprattutto nelle belle tastiere progressive di You Do
You) e prelude al meritato successo. Il disco entra di diritto nel rock anni 00, di semplice assimilazione e di facile
consumo si lascia ascoltare. Per tutti i palati.(7.3/10)
Marco Braggion
Beck/Charlotte Gainsbourg - IRM
(Because, Dicembre 2009)
G enere : avant pop
Charlotte feticcio o musa? Puro pretesto emozionale,
sfizio cool ad uso e consumo dei consumatori pop dalle pensose esigenze. Oppure: additivo corroborante per
campioni dello shobiz alternativo in fase interlocutoria.
Mah. Il mistero resta e regna, non si spiccica da questo secondo lavoro firmato da cotanta figlia di Serge
Gainsbourg (e - non scordiamolo - Jane Birkin), attrice
apprezzatissima dall'imago anomalo e spigoloso che si
permette - in taluni scatti - di ricordarci la Patti Smith
giovincella.
recensioni
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Ma, insomma, la ragazza ha la fregola del canto, che al
padre un qualche pegno lo deve pur pagare. E se per
il debutto fu coccolata dai francesi cosmicheggianti Air,
oggi ricorre al di loro amico Beck, che in un certo senso
è come aver scelto il bottone da infilare nell'asola. Diversi gli esiti rispetto al non
eccelso 5.55, oggi meglio
definiti anche nella varia
indefinizione. Forse perché
Mr. Hansen sembra così
coinvolto da far sembrare
questa cosa un sussidiario
beckiano (il loser 2.0, i languori gainsbourghiani - già! - e
l'hobo ciberfunk, così a spanna).
Il canto di Charlotte è il nastro di velluto color carne
sul completo bianco stazzonato da slacker losangelino.
Ma anche, se preferite enfatizzare: il segno europeo (lo
charme femminino, cerebrale e terrigno, sofisticato e
passionale) chiamato a sedurre lo sguardo statunitense (organizzato e lunatico, tradizionalista e dissacrante,
sempre e comunque razionale anche al top del trasporto). Un incontro/scontro che si celebra tra raffinatezze
pop con fregole vintage, scatti da fotoromanzo d'alto
bordo, cartoline spedite da qualche loft post-moderno
sulla Côte d'Azur.
Non mancano i bei momenti, come l'errebì slavato di
Heaven Can Wait, il boogie da Marc Bolan sotto valium
di Dandelion, la giocheria folk-psych di Me And Jane Doe,
le malsane delizie di In The End, le arguzie kraute della titile track. Finisci però col godere più per l'arguzia
sagace della confezione (archi sontuosamente affilati, il
tiro frizzante e nervosetto delle ritmiche, le misurate
perturbazioni elettriche ed elettroniche...) che non per
il bastimento d'emozioni. Che restano perlopiù impantanate nella patina.(6.3/10)
Stefano Solventi
Bill Wells/Barbara Morgenstern/
Stefan Schneider/Annie Whitehead
- Paper Of Pins (Karaoke Kalk,
Novembre 2009)
G enere : pop - jazz
Paper Of Pins si descrive enucleando i personaggi implicati (come già avvenne per il mini Pick Up Sticks,
del 2004): Bill Wells, cinematico appassionato di vecchia data del jazz di Gil Evans, con le mani nella pasta
arrangiativa e produttiva dell’indie-pop; Barbara Morgenstern, pianista e songwriter tedesca; Stefan Schneider dei To Rococo Rot, tra le altre cose; il trombone di Annie Whitehead (che ha lavorato con Wyatt, e
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recensioni
a volte ne porta in dote le atmosfere).
E partiamo proprio da quest’ultimo strumento-personapersonalità, per parlare, oltre che descrivere, il frutto
della collaborazione di tutti questi personaggi. Il trombone è forse il vero protagonista del disco, e questo è
il più grosso problema della produzione, se così si può
dire; è una presenza ingombrante, che catalizza quasi tutti gli elementi melodici, appiattendoli al suo timbro un
po’ struggente e un poco grottesco. Niente di grave; e
più che di Whitehead probabilmente tutto ciò è “colpa”
di Wells, che ama i fiati bassi (come ci dimostra anche il
recente rendez vous con Maher Shalal Hash Baz).
Per il resto Paper Of Pins è un soffuso sfondo che ha
il pregio di restare lì, per la maggior parte delle tracce, e
accompagnare i pensieri, ridestandoli nei rari e apprezzabili picchi: Tributaries (picco di rumore); il free sottovoce
della conclusiva The Three Ronnies, arrotolata attorno a
un tema che apre e chiude la traccia; Loitering With Intent,
un duetto tra Schneider e gli altri, presi come organico, con interessanti esiti inizio Duemila. Un meccanismo
tanto-poco che funziona.(6.5/10)
Gaspare Caliri
Biosphere - Wireless: Live at the
Arnolfini, Bristol (Touch Music UK,
Giugno 2009)
G enere : ambient techno
Proprio mentre leggiamo del primo brano per ensemble
scritto da Geir Jennsen, con prima assoluta il prossimo
23 gennaio al Roundhouse di Londra ed esecuzione della
London Contemporary Orchestra, andiamo a riascoltare questo disco uscito a metà anno ma decisamente meritevole di attenzione.
La sesta uscita su Touch Music di Biosphere ci restituisce inalterato, grazie alla resa eccellente della registrazione di Chris Watson, il fascino di un'esibizione
dal vivo tenuta da Jennsen all'Arnolfini di Bristol il 27
ottobre 2007, in occasione delle celebrazioni del venticinquennale dell'etichetta di Jon Wozencroft.
Missato e masterizzato da BJ Nilsen (come dire: la creme della Touch), il disco percorre direzioni che, com'era
lecito aspettarsi, risultano piuttosto variegate rispetto
agli ultimi lavori in studio, rivelatori di una certa carenza
di idee da parte del sound-artist norvegese.
Al ripetitivismo quasi trance di brani come Pneuma e
Shenzou, alla stasi ambient di Calays Ferryport, fanno così
eco le concessioni ritmiche di Birds By Flapping Their Wings
e When I Leave (pura ambient techno in stile Biosphere).
Ma è a metà concerto che si ascoltano le cose migliori:
quando Warmed By The Drift simula aperture sinfoniche
e il drone di The Things I Tell You finisce per lasciare con
il fiato sospeso un pubblico che smette di far sentire la
propria presenza. Splendida anche la chiusa di Pneuma II,
breve brano in cui il trombone di Anders Karlskas si fa
generatore di loop.(7/10)
Vincenzo Santarcangelo
Black Joker - Watch Out! (Olde
English Spelling Bee, Novembre
2009)
G enere : noise
Mai come in quest’ultimo periodo irriducibili prime movers del rumore vengono tirati in ballo in ogni occasione
e ad ogni latitudine. E pensare che gente come James
Ferraro e Spencer Clark aka Skaters e mille altre cose
ancora, sono in giro a sbattersi da almeno un paio di
lustri. Si vede che l’integrità
rende, almeno a livello di
influenze e riconoscimenti,
dato che ora, magicamente,
le luci dei riflettori dell’underground sembrano essersi dirette sui volti seminascosti dei due.
Non è perciò un caso che la OESB (ri)pubblichi in vinile
una delle gemme meglio nascoste in quell’intricata selva
di nomi e progetti che i due noisers portano avanti da
tempo. Originariamente una tour-tape in tiratura a 80
copie (!), Watch Out! è l’ennesima manifestazione dell’ennesimo moniker, Black Joker, dietro il quale Spencer
Clark si diverte a elaborare spirali di droni che si inerpicano l’uno nell’altro e l’uno dentro l’altro, finendo col
tratteggiare crop circles di matrice etno-industriale dentro il cervello di chi ascolta. Minimale nel senso rileyiano del termine, sintetico e sci-fi oriented, fortemente
percussivo, Watch Out! è a suo modo mantrico oltre che,
come facilmente preventivabile, disorientante.(6.8/10)
Stefano Pifferi
Bob Dylan - Christmas In The Heart
(Columbia Records, Ottobre 2009)
G enere : C anti natalizi ( cantati da B ob D yl an )
Christmas In The Heart, secondo disco di Zimmie per il
2009 ma soprattutto raccolta di canti tradizionali natalizi (peraltro uscita ad ottobre), spiazza. Se al Dylan di
Newport avessero detto che nel 2009 avrebbe pubblicato un disco del genere, probabilmente si sarebbe sentito
preso per il culo. E invece eccolo qua, lui ebreo (per quanto "problematico"), a celebrare il natale cristiano (nessun
intento ironico o iconoclasta, precisa), in un'operazione
curiosa e che verrebbe anche comodo archiviare semplicemente alla voce beneficenza (le royalties verranno
infatti devolute ad associazioni come Feeding America).
Cerchiamo però di andare oltre.
Con una voce che ormai è quella del compagno d'ospizio
di un Tom Waits (degli esordi) o di un Willy DeVille
(degli ultimi giorni), da Dylan ci si poteva (voleva, meglio)
aspettare rendition più strapazzate e zoppicanti, comunque più rooty, e invece, per quanto roco e gracchiante,
Zimmie non aggredisce mai davvero questi american
classic: semplicemente li canta come può con la voce
che si ritrova adesso. Non ne viene fuori neppure un
involontario - e tragicamente tutto americano - senso
dell'apocalittico come invece per il Paul Anka che rifà i
Nirvana di Rock Swings.
Dylan insomma, confrontandosi con questa fetta della
tradizione USA, poteva presentarci un disco memorabile, demolendo una certa americanità o al contrario
restituendocene uno struggente ritratto da outsider.
Per questo delude, perché resta a metà strada (né sacro, né blasfemo, né grottesco), e ci regala soltanto un
paio di momenti di vera commozione interpretativa, trasmettendo più di tutto un senso come di tenerezza e di
umana comprensione che è davvero il caso di definire
senili.(6/10)
Gabriele Marino
Brett Anderson - Slow Attack (B A
Songs, Novembre 2009)
G enere : C hamber folk , pop
Benché continui a prendersi una stroncatura dietro l'altra, e sia particolarmente preso di mira da coloro che
si ostinano a far paragoni tra la china di lui e la sempreverde creatività di coetanei più fortunati quali - a caso
- Damon Albarn e Jarvis Cocker, il triste Brett, non
senza fatica e particolari lodi, cresce e, per una volta,
un'alternativa intimista all'urban glamourness degli Suede sembra possibile (e si chiama Ashes of Us), non necessariamente buona ma neanche insufficiente.
Il pop rimane convalescente e autunnale, i testi indubbiamente noiosi e - a tratti - ingenui, eppure, grazie ad
una produzione chamber folk accurata, una varietà di situazioni ragguardevole, strumenti ad entrare e uscire di
scena sempre nei tempi giusti, e abbiamo un album che
si tiene, con dei momenti d'afflato decenti. Al 70% sarà
merito dell'arrangiatore Leo Abrahams. Un 30% farina
dell'Anderson.
Non emozionerà neanche con il limone negli occhi, ma
un po' di masochismo ce lo concediamo.(6/10)
Edoardo Bridda
recensioni
35
Brunettes (The) - Paper Dolls (Lil'
Chief, Novembre 2009)
G enere : couple pop
Ritmo regolare nelle pubblicazioni quello mantenuto da
Jonathan Bree e Heather Mansfield, ovvero Brunettes. Un disco ogni due anni all’incirca inframmezzato
da un e.p., ma se è ai Fiery Furnaces che la vostra
mente corre, rallentate: nessun arzigogolo ben gestito
qui, nessuna tendenza al suono totale ed enciclopedico.
Neppure un’attitudine da stucchevoli puristi, per fortuna
rimpiazzata dal benvenuto equilibrare il giulebbe twee
con un’elettronica spartana, applicando uno spirito “midfi” alla tecnologia dal volto umanizzato.
I sentimenti sono centrifugati tramite l’ironia di un duo
che - pur innegabilmente ispirato da nomi prestigiosi del
passato - mostra di conoscere la fierezza indie di quella
Nuova Zelanda da cui proviene. L’attitudine a rileggere
con vigore e orgoglio modelli “dominanti” provenienti
da altre nazioni anglosassoni e restituirli personalizzati
il giusto come facevano i compatrioti Chills, Clean e
Verlaines.
Significativo dunque per loro accasarsi presso la label di
Auckland Lil' Chief e da lì spargere azzardi che colgono il
segno (In Colours e Thank You sono gli Architecture In
Helsinki a ranghi ridotti e la bussola ritrovata) e omaggiare spesso e volentieri la
penna di Stephin Merritt
(in Red Rollerskates più che
altrove). Ipotizzando degli
Human League nutriti a
bubblegum ’60 (The Crime
Machine, Magic) o consapevoli della giocosità tagliente
di They Might Be Giants
(Bedroom Disco) e persuadendo in ogni episodio, persino allorché indossano paillette lounge (la title-track) e
temprano d’umorismo tagliente la ballata dolceamara If
I. Pop che arriva da un soggiorno con le finestre spalancate, più che dalla canonica cameretta: quel che davvero
conta è che sia fresco, godibile e intelligente come non
mai. Li vorremmo sempre così, lui e i suoi artefici, coraggiosi e incuranti di ciò che dice l’arredatore.(7.2/10)
Giancarlo Turra
Bruskers - Guitar Sketch
(Autoprodotto, Dicembre 2009)
G enere : jazz folk
Due bravi ragazzi per due chitarre e due conflitti che covano, questi ultimi carburante di un disco che altrimenti
sarebbe rimasto a metà tra il saggio virtuoso e l'impudente passatempo. Matteo Minozzi ed Eugenio Polacchi36
recensioni
ni sono due chitarristi, già membri della Lybra Guitar
Oschestra diretta da Mauro Bruschi, ensemble di venti
elementi allestito dalla Scuola di Musica dell’Unione dei
Comuni Modenesi dell’Area Nord.
Ebbene, il primo conflitto nasce dalle diverse inclinazioni
dei due, l'uno più accademico, l'altro più moderno, speziato jazzy da un lato, insolenntio classico dall'altro, l'intesa comunque ne usciva viva e anzi ringalluzzita. Tanto
che i due - ed eccoci al secondo conflitto - decidono di
portarla fuori dalle auliche stanze delle sale da concerto,
per inseguire l'estro dei busker, sulla strada dei suonatori
da strada che li porterà ad esibirsi - apprezzati - un po'
in tutta Europa.
Ergo, eccoci al qui presente Guitar Sketch, un brano
originale (il trepido Not Tomorrow, scritto da Polacchini,
inquietudini minimali e trepidazioni flamenco) e dieci
rivisitazioni tra standard jazz (una notevole Blue Bossa,
una briosa Take Five) e non solo (una saettante Besame Mucho). E se l'alternativa passasse anche un po' da
qui?(6.9/10)
Stefano Solventi
Buraka Som Sistema - Fabric Live
49 (Fabric, Dicembre 2009)
G enere : tribal , bas s
Mimetizzato dal sapore tribalista che li contraddistingue,
il live della coppia di DJ portoghesi non è fortunatamente una riproposizione paro paro dei Novanta. Nel loro
Fabric ci troviamo un’ora e poco più di svarioni baile
(Gone Too Far), supercori da stadio in spolvero truzzofidget (Hey), un po’ di grime-deep (Fick di Skream) e il
wonky dell’onnipresente Zomby (Dynamite Sandwich).
A spaccare però ci troviamo i ritmi sudamericano da
torcida infernale (Bazuka, Afro Nuts) mescolati con l’house preannunciata quest’anno da Major Lazer (Bruk Out
appunto) e soci (Joga Bola). Una bella variazione sul tema
per gli estimatori dell’eccesso ritmico a Sud dell’equatore ora sdoganato in chiave techno.(6.8/10)
highlight
Animal Collective - Fall Be Kind (Domino, Dicembre 2009)
G enere : E static B each B oys
Come d’abitudine un eppì degli Animal Collective che è praticamente un mini album d’inediti. Sarebbe
il terzo dopo Water Curses e lo split con Vashti Bunyan, Prospect Hummer, ed è di nuovo l'occasione
per fare il punto della situazione su un combo in crescita costante.
Ai tempi della Bunyan si parlava di riscoperte folk (e di reinvenzioni dello stesso). Era il momento d’oro
di Devendra Banhart e gli animali incarnavano il gruppo di cui ogni orecchio attento al nuovo - in senso se vogliamo generazionale - andava fiero. Poi è arrivato il passo falso, Strawberry Jam, osannato da chi
li voleva a tutti i costi fare il botto e criticato da chi aveva la netta impressione che il giocattolo si fosse
rotto. All'album ha fatto seguito Water Curses. Il classico resumé: esagerati i blasoni di chi li voleva dei nuovi
Beatles altezza Magical Mystery Tour, fondate le critiche di chi intravedeva il cul de sac. In pratica, in epoca
pre-Merriweather Post Pavilion, gli animali erano il classico gruppo indie con i
nodi al pettine. Quelli normali, fisiologici beninteso: indecisione sull’aspetto
“avant”, fluttuazioni di organico (Deakin se ne andrà, progetti solisti per i
due leader), qualche dubbio sulla crescita e sull’impatto della formula su un
pubblico più ampio.
Tutto si risolve come sappiamo: virata elettronica, arrodondamento sul versante freak, popness coerentemente tale. E’ il disco wilsoniano per eccellenza, dichiarano; la sintesi di disparate influenze che vanno dal folk alla techno.
L’album di questo 2009 a inizio 2009. Elogi che dai tempi degli Arcade Fire
non si sentivano così forti e pervasivi. Per una volta poi, l'album fa anche dei numeri di vendita concreti:
tredicesimo posto nella Top200 della Billboard americana e ventiseiesimo nella Uk album chart.
Un trionfo che i 27 minuti di Fall Be Kind completano in bellezza; cinque tracce che presentano una band
non più indie ma neanche major, stato d’estasi da un lato e voglia di godersi il blasonato mondo sonico
dall’altro. La Domino ad appuntare la medaglia come “major indie” del momento, noi ad apprezzare l’indimenticata vena avant sottoforma di flauti di pan in coda all’opener Graze (quasi un omaggio ai vecchi fan),
l’interludio da vecchie maniere in Bleed, la dichiarazione - e sarebbe la prima al mondo - d’appartenenza
del sample dei Grateful Dead di Unbroken Chain nella bella melodia di What Would I Want? Sky e il dialogo
in strofe tra Porter e Lennox nella riflessiva On a Highway.
E' un eppì che pare una fiaba. Disney commestibile. Gli animali non potevano scegliere modo migliore
per concludere le manovre di Merriweather: proprio come gli Orb facevano rientrare i Pink Floyd
nei Novanta di chillout e techno, così i Collective riconnettono l’avant indie dei Duemila al classico Pet
Sounds e senza dimenticare psichedelia (e chillout stessa). E ora? Probabilmente il loro I'm Going
Away...(7.2/10)
Edoardo Bridda
Marco Braggion
CFCF - Continent (Paper Bag,
Ottobre 2009)
G enere : balearic glo
Michael Silver è il post-Lindstrøm invischiato con il
glo, anche se quei ricordi ora così di moda sono solo
carta da parati decorativa per questo esordio. Come a
dire che non ci sono troppe lacrimucce, ma la fascinazione per gli '80 ribolle ancora (Snake Charmer), pronta
a scatenarsi in un rispolvero della moda progressiva che
ha portato sul podio delle balere la Eskimo e tutto il suo
roaster.
Progressività uber alles quindi per il giovane DJ e remixatore canadese (Sally Shapiro,The Presets e Crystal
Castles tra gli altri) che non risparmia la citazione ai
Fleetwood Mac, agli episodi più cool di Miami Vice o agli
archi dell’old school disco. L’ispezione del passato passa attraverso downtempo in breaking analogici (Raining
Patterns) e tastierine yuppiewave (stupenda la cavalcata
di Monolith), ma si trasforma subito in un movimento
che coniuga il balearico al passato prossimo (Big Love),
richiamando le visioni del Washed Out più funky (Invitation To Love, Half Dreaming) o i passaggi dei Boards
of Canada mescolati con la new age (Summerlong) e le
chitarrine à la Santana (You Hear Colours).
Per finire c’è ancora il poking di Windham Hill e Tangerine Dream che esplode nel mix di flauti di pan (!)
e tastierine 90 di Letters Home o nei pattern kraut di
Break-In. L’estate è ancora qui più che mai, col gloss brillante per la pista. Produzione di classe e arrangiamenti
recensioni
37
che non stancano. Se lo sentissero gli Animal Collective...(7.3/10)
Marco Braggion
Dakota Suite - The Night Just Keeps
Coming In (Karaoke Kalk, Febbraio
2010)
G enere : chamber - tronica
Fu un gran bel riscaldarsi dai freddi dello scorso inverno
The End Of Trying, bella prova di pianismo intimista da
qualche parte tra Erik Satie e i Rachel’s. Sorprendente, anche, per il modo in cui sparigliava le carte nel contesto globale di una carriera sino a quel momento per lo
più dedita a un pregevole cantautorato in moviola. Desta
dunque ulteriore curiosità questa serie di riletture
altrui - personaggi che gli
specialisti conosceranno a
menadito come Tape, Machinefabriek, Deaf Center - di composizioni che
costituivano la spina dorsale di quanto sopra, secondo
una prassi comune nell’ambito dell’elettronica “intellettuale”.
Ricordiamo il felice precedente System/Layers dove,
con sintesi e scioltezza, si rileggevano proprio pagine
dell’ensemble di Louisville e ci lanciamo dentro questi
settantacinque lunghi minuti (l’edizione “fisica” è limitata
a 300 copie, ma è disponibile anche il download). Nei
quali dominano respiri ambientali e inquietanti gassosità,
cinematismi intessuti di silenzi e drones; dove disturbi
in sottofondo e minutaglia di tasti e archi levita sui grigi
panorami evocati dalla copertina.
Benché per lunghi tratti piuttosto interessante, il risultato è penalizzato da eccessi di uniformità e freddezza,
perciò consigliamo l’ascolto solo a chi è avvezzo a certi esoterismi sperimentali. Sfugge in ogni caso il senso
dell’operazione, poiché di intervenire così su una musica
già eccellentemente compiuta non si avvertiva il bisogno.(6.6/10)
Giancarlo Turra
Dam-Funk - Toeachizown (Stones
Throw, Novembre 2009)
G enere : space - synth bl ack
Il doppio ciddì raccoglie i cinque mini che ST ha rilasciato
in mp3 nel periodo luglio-novembre 2009. Eravamo partiti in quarta, ma l'epopea delle singole uscite ha smesso
di appassionarci quasi subito, quando cioè il timore - che
la folgorazione avuta con la prima fosse solo un abbaglio
38
recensioni
- si è mutato in consapevolezza. Non che Dam non sia
un vero visionario black e che i suoi pezzi non possano
essere realmente incredibili: ci eravamo illusi però che
questo Toeachizown potesse essere un capolavoro.
Mentre è un debutto un po' presuntuoso che mostra
parimenti grandi potenzialità e facili debolezze.
Netto infatti l'abbassamento di qualità dal secondo volume in avanti: bellissimi pezzi di quel boogie-funk in cui il
nostro è maestro annegati in mezzo ad altri che suonano
quasi come dei riempitivi, meno incisivi (melodicamente e ritmicamente), meno rifiniti, esageratamente lunghi,
autoriclicatori, con Dam ad abusare fino all'inverosimile
di due feature chiave del disco, finendo col farne da pregi
dei difetti: il leit motiv delle due note si e la a costruire un lick di tastiera che fa tanto anni Ottanta (e tanto
Sunrise dei Simply Red) e il vocoder a modificare la voce.
Tutta questione di misura insomma, per un progetto, del
resto, da subito profilatosi come pericolosamente smisurato e di difficile gestione.
La versione su compact - semplicemente rimescolando
la tracklist - riesce però a compiere un mezzo miracolo.
L'ascolto è sì sfinente, sono sempre ventiquattro tracce
per due ore e venti, ma la nuova sequenza, alternando
con intelligenza pezzi a fuoco (e sono bombe, è il caso
di ribadirlo) e stiracchiamenti vari (accettabili nell'ottica del sottofondo da club), riesce a fare prevalere sui
tanti difetti - o meglio sull'unico grande difetto che è la
dissennatezza produttiva dell'uomo - l'atmosfera magica
che Dam sa creare quando non perde la bussola.(7/10)
Gabriele Marino
Daniel Menche - Kataract (Editions
Mego, Dicembre 2009)
G enere : noise
Chi non rimane colpito di fronte ad una cascata, esperienza audio-visiva tra le più potenti in natura? Daniel
Menche parte da qui, dall’elemento cascata, per erigere
un’altra scultura elettro-noise imponente e maligna. Nelle note di copertina non è dato sapere esattamente le
fonti precise da cui attinge.
Quello che viene riportato è che tutte i field recordings
provengono da cascate situate nel nordovest pacifico,
grossomodo la regione degli USA che comprende lo stato di Washington e parte dell’Alaska. Kataract quindi è
il risultato dell’attività di due anni (2007-2009) impiegati
per registrare il suono delle cascate e poi manometterle
e ricrearle tramite l’editing digitale. Quello che ne viene
fuori è un’unica traccia di 40 minuti che si rovescia addosso all’ascoltatore con tutta l’immane potenza noise
che uno si aspetta da un disco di Menche: stordente,
incessante, deflagrante, immane.
Che poi all’origine di tanto frastuono e rumore ci siano
delle semplici registrazioni sul campo, di solito abusate
in ambito ambient per dischi di tutt’altro tenore e livello sonoro, questo non fa altro che aumentare i pregi
dell’operazione.(7/10)
Antonello Comunale
Davide Tosches - Dove l'erba è alta
(Contro Records, Novembre 2009)
G enere : folk - canzone d ' autore
Un immaginario, più che un disco. Fatto di mezze luci,
chiaroscuri, vapori crepuscolari. Davide Tosches si presenta con un'opera che miscela con acume fascino notturno e canzone d'autore à la Giancarlo Onorato
- quest'ultimo, non a caso, produttore artistico -, lavorando di rimando su citazioni che non diresti possibili visto
l'ambito di riferimento. Tanto che ci si ritrova a ripassare
sottovoce certi Black Sabbath acustici versione Sleeping Village - gli aromi dello strumentale I muri - e pure
qualcosa dei For Carnation - le mezze voci di Case -,
ingannati da suoni che irretiscono con una promessa di
malinconie slabbrate e lentezze incipienti. Violini, chitarre, pianoforti, batterie spazzolate, hammond, wurlitzer
completano il quadro, assieme a una voce che prende
in prestito il crooning sotterraneo di Hugo Race per
farne un tratto distintivo.
Talmente curata l'idea estetica che talvolta ci si dimentica delle canzoni. Nel senso che la vena autoriale diventa
quasi una scusa per le elaborate declinazione di un approccio che esalta gli spazi vuoti, sussurra all'orecchio,
ma al tempo stesso scandaglia un unicum cromatico che
fatica a farsi strada oltre un apprezzamento generalizzato. Con qualche brillante eccezione, come la melodia di
Completamente, e senza dimenticare che si tratta comunque di una prova d'esordio.(6.8/10)
Fabrizio Zampighi
Dirty Projectors - Temecula
Sunrise (Domino, Gennaio 2010)
G enere : avant pop
Due delle quattro tracce di Temecula Sunrise, le conosciamo perfettamente. Temecula Sunrise e Cannibal
Resource (in pratica, come suonerebbero gli Shutter To
Think negli anni Zero), sono un paio di deliziosi episodi di Bitte Orca. Gli inediti, pur altrettanto validi
(Ascending Melody è l’arzigolato poppettino della casa;
Emblem of the World procede svampita e volutamente a
mezz’aria) sono tracce destinate ai completisti. (6/10)
Gianni Avella
DJ Rupture/Matt Shadetek - Solar
Life Raft (The Agriculture Records,
Novembre 2009)
G enere : ragga - dub - tronica mix
In un mondo che campa anche e soprattutto di musica
campionata, è semplicemente assurdo tenere in piedi il
luogo comune (legge "non scritta" ma diffusa) per cui
una compilation o un mixato sarebbero inferiori a un album: è una cazzata. L'anno scorso Dj Rupture ha detto
la sua, proponendo un mix intrigantissimo che ha fatto giustamente sensazione. Eccolo adesso, aiutato dallo
specialista Matt Shadetek, confezionare un serpentone raggaedub 2009 semplicemente trascinante con deviazioni e contaminazioni dubstep (Shackleton), etno,
techno e breakbit (Luc Ferrari).
Sorpresa per le produzioni firmate ad hoc dai due dj,
Underwater High Rise e 4th Story Waterline, bellissime e
decisamente fuori dal canone dub&affini (altrimenti qui
predominante), con la prima che è praticamente una
Where Is My Mind dell'elettronica glitchstep d'oggi. Meno
eclettico di Uproot e meno epocale (nel senso della
sintesi di un anno musicale), ma davvero, senza troppi
patemi, una goduria.(7.3/10)
Gabriele Marino
Edan - Echo Party (Five Day
Weekend, Dicembre 2009)
G enere : psychfunk mix
La voce, ossessiva e grassamente distorta, a scandire
«You're listening to a bullshit promotional copy of Echo
Party» non ci ha impedito di apprezzare il superfrullato
- attitudinalmente progressivo - di hiphopfunk in salsa
psichedelica preparato da Edan: colori acidissimi, senso
del groove, senso del grottesco pop (vengono in mente
i collage di Eduardo Paolozzi), una musica che riesce a
suonare contemporaneamente primitiva e futuristica, un party vero, dove il
culo segue subito a ruota
le orecchie. Edan dichiara
al mondo l'essere produttore di terza generazione:
i materiali del disco provengono infatti da vinili
hip-hop old skool messi a disposizione dal distributore
indipendente Traffic. Insomma, si tratta di "campioni di
campioni".
L'album è un mixtape monotraccia che dura trenta minuti: non sembri assurdo affermare che già i quindici scarsi
di questo promo ci danno piena conferma della bravura - no, meglio, del talento - del ragazzo. Recuperate il
recensioni
39
precedente, giustamente acclamatissimo, secondo album
The Beauty and the Beat (2005). Feticismo: mille
copie in vinile con copertina timbrata-decorata a mano
da Edan himself e booklet che mappa caoticamente ma
ultradettagliatamente tutto quanto finito dentro al mix
(fonti dei campioni, trick elettronici adoperati, strumenti
suonati).(7.3/10)
Gabriele Marino
Eels - End Times (Vagrant, Gennaio
2010)
G enere : pop rock
Sorpresa annunciata, questo End Times, ottavo titolo
per la premiata ditta Eels. Che ci conferma il senso di
arte che smeriglia se stessa almeno dalla summa di Blinking Lights in avanti, si reitera citandosi come a nessun
altro riuscirebbe, facendo scalo nelle stazioni già oltrepassate per vedere se c'era qualcos'altro da scoprire e
da far scoprire. In particolare, se il precedente Hombre Lobo rimandava allo spasmo brusco e sferzante di
Souljacker (con la civilizzazione del licantropo sempre sul punto di compiersi,
anzi a ben vedere già compiuta), quest'ultimo lavoro
si accoccola nell'intima tribolazione del Daisies Of
The Galaxy.
Se quello era il disco della
dolcezza recuperata attraverso il dolore, questo palpeggia il ventre tiepido di una malinconia che è sì presente e
viva (ispirata pare alla fine del matrimonio con Natasha
Kovaleva) però come differita, ipotizzata in un futuro
plausibile ma neanche troppo imminente. E perciò depotenziata, più riflessiva se preferite, non intenzionata o
forse non più in grado di raggiunge gli antichi livelli di lancinante afflizione. Tuttavia, le ballate si susseguono come
teneri gioiellini, aggrappati ora al piano ora ad un fraibile
arpeggio di chitarra, carezzate ora dagli archi ora da un
organo, ravvivate da un paio di guizzi aciduli (lo psycherrebì di Paradise Blues, la kinksiana Gone Man) ma anche
capaci d'affondare il colpo verso un caracollare che diresti quasi Black Heart Procession (The Beginning).
Disco in sostanza gradevole, o - se preferite - un classico
secondo i canoni eelsiani. (6.8/10)
Stefano Solventi
Fontana - Fontana (X! Recs,
Novembre 2009)
G enere : garage - rock
Detroit è sempre Detroit. E a ricordarcelo ci pensano
40
recensioni
tre sbarbatelli e un’etichetta. I primi sono i Fontana,
Paul Derochie (chitarra), Geoff Iverson (basso) e Colin
Simon (batteria), sindrome da fratellini punk post-Ramones e qualche 7” sparso nel sottobosco americano; la
seconda è la X! Recs, l’etichetta di Scott Dunkerley che
bene ha fotografato la rinascita rumorosa di Detroit nella compila Shiftless Decay: New Sounds Of Detroit.
Unite le forze il risultato è la mezzora di garage-rock incendiario di questo omonimo debutto. Roba che mette
in chiaro da subito di che pasta sono fatti i protagonisti.
Tre-accordi-tre che vomitano fiele pur non disdegnando
passaggi più melodici e richiami più o meno espliciti a
blues (Mess), hardcore (When She’s Not Wearing Black,
Get Bent), wave (Entropy, Rumor Of War), noise-rock (Bitch
Bitch Bitch pare persa per strada da Scratch Acid e
compagnia bella) così come al rock storto e out of tune
(Giant Centipede, l’anthem generazionale Yer Generation).
Sudati, sbracati, sboccati i tre non si risparmiano, la buttano sulla rissa e trasudano energia da ogni poro. Non
era poi questo il senso ultimo del rock?(6.8/10)
Stefano Pifferi
Franco Battiato - Inneres Auge - Il
tutto è più della somma delle sue
parti (Universal, Novembre 2009)
G enere : canzone d ' autore
Franco Battiato è uno a cui piace fare quello che gli va,
talvolta rischiando di inoltrarsi in strade dagli esiti non
troppo felici - vedi la recente passione cinematografica
- ma sempre con un senso di libertà che alimenta un'indole curiosa e raramente sazia. Inneres Auge - Il tutto
è più della somma delle sue parti arriva ad un anno
dall'ultimo episodio della saga Fleurs e scartando di
netto l'ipotesi antologia natalizia si presenta come disco
a tema formato da materiale vario. In ordine di apparizione: tre inediti (di cui diremo dopo), quattro brani già
incisi e qui proposti in nuova veste (in realtà non troppo
difforme da quella originaria, a parte per Haiku, privata
del cantato femminile in arabo), una cover (Inverno di Fabrizio De André, rifatta in versione da camera come
il primo Fleurs) e due b-side dal capolavoro Gommalacca (Incantesimo e Stage Door) giustamente ripescate
perché tutt'altro che minori.
Per quanto riguarda i brani nuovi, il dato più importante
della composita track-list , pare che Battiato abbia ritrovato un buono stato di forma, almeno al confronto con
le prove autografe più recenti che denunciavano - a volte a partire da titoli involontariamente programmatici,
come nel caso de Il vuoto (2007) - la distrazione verso
il cinema del loro titolare. Qua invece torna una certa
verve, con ancora quel tanto di mestiere che basta a
highlight
Beach House - Teen Dream (Sub Pop, Gennaio 2010)
G enere : T een D ream P op
“Norway è una canzone ispirata dalla pazza energia della Norvegia. Per me c’è fantasia e forza in questa canzone. Norway è una canzone intensamente visiva e molto fisica”.Victoria Legrand e Alex Scully nel descrivere
questo loro terzo album, nonché debutto su Sub Pop, usano spessissimo le parole “movimento” e “fisico”.
Concetti che finora erano stati abbastanza esclusi dal mondo malinconico
dei Beach House.
Teen Dream è il disco della rivolta, dell’alzare il culo dalla sedia e darsi
una mossa. Si stemperano le nubi eteree di tradizione dream pop e i ritmi in
stasi permanente di ascendenza slowcore vengono messi a soqquadro. I due
ottengono così una collezione di frammenti pop, di stampo classico con un
impatto immediato ed euforico. Un disco che non fa mistero di voler essere
radiofonico e “amichevole”, scevro però di malizie e astuzie da mercato del
disco. Le canzoni vivono con il preciso scopo di veder nascere e morire nel
lasso di quattro minuti melodie calde e avvolgenti (Zebra, Silver Soul), che anche quando rallentano i ritmi e
il battito non sprofondano mai nella tristezza, conservandosi per sé giusto un velo di turgore melò (Used
To Be, Love Of Mine, Better Times).
A supportare la visione melodica dei due uno studio sugli arrangiamenti e una produzione ad opera del
celebre Chris Coady che sottolineano senza prevaricare, dando spazio allo stile in punta di piedi dei Beach
House. Si ottengono così piccoli capolavori come il primo singolo Norway, con loop di voci a supportare
il ritmo e la chitarra hawaiana venata di flanger di Alex a disegnare una cartolina colorata e ricca. Oppure
l’eccentrica 10 Miles Stereo, canzone con ritornello in tirata stile M83 che per Victoria “è come stare su una
scogliera, alla fine o all'inizio di un momento nella vita”. C’è n’è abbastanza per mettere i Beach House sugli
scudi e archiviarli, già al terzo disco, al rango di classici indie doc. ma i due non sembrano voler passare
le consegne e si godono il momento in questo loro perenne sogno giovane da cui probabilmente non si
risveglieranno mai.(7.5/10)
Antonello Comunale
portare la barca in porto sempre e comunque ma anche
con alcune belle idee.
E' il caso del singolo title-track, techno-pop contagioso
con classico florilegio di tastiere nonché secca bastonata
nella prima parte del testo ad una classe politica sempre
più in stile Satyricon - a cui Battiato contrappone il tema
cardine di una vita protesa al verticale.Transitoria invece
Tibet, dedicata ai massacri cinesi nella terra che dovrebbe essere del Dalai Lama e cantata in un inglese dalla
pronuncia come al solito scolastica. Pienamente riuscita infine U' Cuntu, lamentazione sepolcrale dai toni gravi
metà in dialetto siciliano e metà in latino posta in chiusura come sigillo («‘Usennu stamu piddennu ‘u sennu /
ti ni stai accuggennu unni stamu jennu a finiri») del tema
dominante in tutto il disco. Ovvero - azzardiamo l'esegesi - quella mancanza di senso (della vita e delle cose nel
loro valore reale) che rende appunto il tutto qualcosa di
più della somma delle sue frammentazioni.(6.5/10)
Luca Barachetti
frYars - Dark Young Hearts
(Bandstocks, Settembre 2009)
G enere : electro - pop
L'impronta vocale di Dave Gahan su Visitors annuncia
una referenza che si realizzerà all'ascolto. frYars, ovvero Ben Garrett da Londra, recupera il synth-pop più
canonico e lo ricucina senza aggiungerci troppe altre
spezie. In pratica, pensate ai nomi anni Ottanta e non
solo ricollegabili ai Depeche Mode: ecco, ci sono quasi tutti. Wham! e George Michael? Nel cabaret-pop
glitterato di Jerusalem - e nella voce una volta muscolare,
un'altra calda, a volte gigiona. Duran Duran? Nel funky
accorto di The Ides. Spandau Ballet? Nella new-wave
convertita pop di Ananas Trunk Railway. Editors? Nella
recensioni
41
quadratura compitata con lode di Of March.;
Garret non sembra aver alcuna voglia di deviare, si gonfia
il petto e ammicca illuminato. Almeno fino a metà disco.
Poi se ne viene fuori con un animo meno romantico e
più crepuscolare, quasi elegiaco, che è già nella voce dagli
interstizi sepolcrali tipo Rufus Wainwright e si ritrova
in parte anche nella scrittura. A last resort sembra Beirut,
ma con i synth al posto della fisarmonica. Novelist's Wife
si gioca un Lou Reed incravattato su solide colonne
pop di piano e batteria, prima che queste stesse colonne
s'incrinino un po' follemente una sull'altra. E soprattutto
Morning - con la voce ora sì direttamente collegata allo
stomaco sull'orizzonte aurorale del pezzo - irrora luce
bianca di tastiere e piano come se la producesse Brian
Eno, svogliatamente ma
con classe.
E' questa dunque la sorpresa? In parte sì. Anche se
quella vera è che Garret ha
solo diciannove anni, e ne
ha messi tre per fare queste dodici tracce (quindi
già a sedici anni maneggiava
mica male...). Ha imparato perfettamente la lezione e già
prova a contraddire i maestri. E' ora che dimostri del
tutto cosa sa fare.(6.4/10)
Luca Barachetti
Go Find (The) - Everybody Knows
It's Gonna Happen Only Not Tonight
(Morr Music, Febbraio 2010)
G enere : pop
Terzo disco per la band del belga Dieter Sermeus, dedita ad un pop indie figlio delle produzioni di casa Morr e
dei modi Notwist-iani. Fare pop-song è uno dei mestieri più difficili del mondo, Sermeus se la cavicchia, proponendo almeno un tre-quattro pezzi che non passano via
subito (It's Automatic), ma che pure rimandano sempre
troppo a qualcos'altro (e cioè alle basi: Beatles, XTC,
miscela britpop). Pop zuccherino-agrodolce, con qualche
tocco di finezza negli arrangiamenti, piacevole forse soprattutto per chi di solito non frequenta questi territori.
Esce per San Valentino.(6.2/10)
Gabriele Marino
Grant Hart - Hot Wax (Con D'Or
Records, Ottobre 2009)
G enere : garage - psych - pop
Tappa canadese anche per Grant Hart a dieci anni da
Good News for Modern Man, ultimo disco firmato
da solo. L'ex voce e batteria degli Hüsker Dü registra
42
recensioni
Hot Wax all'Hotel 2 Tango di Montreal in compagnia
di alcuni membri di Silver Mt. Zion che, assieme a lui,
riprendono un discorso lasciato in parte sospeso con
la band originaria e nelle esperienze successive. Ci riferiamo ad un'ascendenza tra lo psichedelico e il solare in
triangolazione Beach Boys-Beatles-Byrds che in più
d'uno dei nove episodi del disco sfiora il calco (e come
potrebbe essere altrimenti) seppur con buoni risultati
(è la voce, ancora vibrante, alla fine a fare la differenza). Il resto si assesta un po' stancamente su rivisitazioni
garage-melodiche dove le chitarre muscolari si lasciano
frizionare da un organo classificato Doors.
In sintesi: pollice verso all'ammiccamento Patti Smith
della fin troppo reiterata You're the reflection of the moon
on the water e applauso convinto ad una ballad cla sbracata e seducente come School buses are for children, dove
Hart dimostra di esserci ancora e meritare un'affettuosa
pacca sulla spalla. Bentornato.(6.5/10)
Luca Barachetti
Il Pan del Diavolo - Sono all’osso
(La Tempesta Records, Gennaio
2010)
G enere : folk - rock blues
Dopo l’EP di presentazione omonimo i palermitani Il
pan del diavolo esordiscono sulla lunga distanza con
un album prodotto da Fabio Rizzo (Waines), ed è un
comeback che conferma quel che di positivo si era già
rilevato l’anno scorso.
Un blues sanguigno, un’attitudine punk e “combat folk”
di marca Clash e Violent Femmes, ibridato con l’italianità del cantautorato nostrano dei penultimi e ultimi
anni (Rino Gaetano, Edoardo Bennato e in generale
il mood e l’ironia disincantata di tanta tradizione d’autore) costituiscono l’ossatura di Sono all’osso; il duo Pietro Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo (una grancassa,
un sonaglio e due chitarre acustiche) viene coadiuvato
in un pezzo dagli Zen Circus (basso acustico, batteria,
chitarra elettrica e voce di Andrea Appino in Bomba nel
cuore).
Accompagnato da testi che fanno dello sberleffo e della
spontaneità il loro punto di forza, Sono all’osso racconta in musica l’assurdo quotidiano in cui non si fa troppo
fatica a riconoscersi, un immaginario rivisitato che ha il
merito di riuscire ad arrivare all’universale. Rockabilly
blues rock folk e punk in una sintesi organica omogenea,
trattati con uno stile ormai riconoscibile. Un gruppo da
tenere d’occhio sicuramente d’ora in poi.(7.2/10)
Teresa Greco
Il vortice - Dodicigradidigrigio
(CNI, Gennaio 2010)
G enere : post - rock / noise
E' l'originalità che fa la differenza. Soprattutto se oltre
a presentarti come post qualcosa sei pure attratto da
certe cadenze emo-noise dalle potenzialità autodistruttive. Piazzare tra un riff e l'altro false certezze e un cantato che ricicla un Niccolò Fabi fuori contesto (Etere)
diventa a questo punto la naturale conseguenza di una
faccenda che potrebbe complicarsi ben oltre i dodici
gradi di grigio dichiarati dal
titolo.
La struttura del vuoto è emblematica, come del resto
un po' tutto il disco. Melodia mascherata da rock
sperimentale su pletore di
arpeggi e alcune licenziose
distorsioni. Contenuti discutibili ben esemplificati anche dal reading à la Massimo Volume di Beautiful Sadness, con i suoi quattro minuti e diciassette di profondità azzardata e senza catarsi,
serietà compita ma fuori luogo.
Qualche buona idea la si coglie e i ragazzi mostrano un
buon livello di coesione, ma manca la scintilla che distingue l'immagine dalla semplice didascalia.(5.5/10)
Fabrizio Zampighi
James Pants - Seven Seals (Stones
Throw, Dicembre 2009)
G enere : psych - wave
Dei due modi esposti nel bell'esordio Welcome
(2008), il tuttofare James Pants pare adesso sviscerare
soprattutto quello legato a una psych-wave sporca - a
tratti marcia - e giocosa, illuminata da lampi di follia e
di demenza. L'altro modo, per capirci, è una funk-dance
elettronica che si cala negli anni Ottanta alla maniera
dell'amico Dam-Funk (tendenza che predomina nel
primo volume della serie Rhtytm Trax, 2007).
Pants si è letto l'Apocalisse di S. Giovanni (da cui il titolo
di bergmaniana memoria) e ne ha tirato fuori il suo affresco pop-delirante, significativamente inguantato in un
artwork degno dello Zorn esoterico: se non fosse per
il minuscolo ritratto del nostro che alza il dito medio
contro Lucifero in persona. Lo spirito è questo.
Residents-iano il progetto con cui Pants aveva timbrato a settembre il 2009, All the Hits (disco minore ma
spassoso, raccolta di ipotetici jingle pubblicitari che era
un po' il suo Commercial Album), residentsiano il
senso del grottesco che informa questo Seven Seals
(ditemi se I Saw You non è uguale a Suburban Bathers).
Sporcature garage Sessanta (sempre virate psichedelico,
fino al ricordo dei Silver Apples di I Promise I Lied),
uno spirito naïve che possiamo anche chiamare lo-fi e
un senso dell'artigianato eccentrico rendono ancora più
golose queste piccole caramelle underground.(7.4/10)
Gabriele Marino
Jesu - Opiate Sun (Caldo Verde
Records, Novembre 2009)
G enere : shoegaze
Justin Broadrick a.k.a. Jesu continua imperterrito a macinare riff e affollare il mercato, spesso e volentieri scegliendo distanze brevi come ep e split.
Opiate Sun ripropone quattro prove di quel mantra
shoegaze ascensionale che è ormai la cifra stilistica della
nuova fase del man from Birmingham, e se a riemergere
qua e là sono scorie del passato industrial (la grana del
suono, ad esempio), la sensazione è quella del già sentito.
Non male, sia chiaro, ma da chi è stato parte integrante di band seminali come Napalm Death, Godflesh,
God, Techno Animal, ci si aspetta sempre qualcosa di
diverso e innovativo.(6/10)
Stefano Pifferi
Jesu - Infinity (Avalanche,
Novembre 2009)
G enere : S toner S hoegaze
Sfogate le mai sopite pulsioni heavy nei Greymachine, insieme al sodale Aaron Turner (Isis), è di nuovo la
volta per Broadrick di Jesu, un progetto che assomiglia
sempre più ad una periodica seduta psicanalitica in cerca
di redenzione dai fasti apocalittici di Napalm Death e
Godflesh.
La differenza è che stavolta, sin dalla struttura dell'album,
sembra rompere con i più convenzionali formati canzone cui ci aveva abituato. Lungo l'unica traccia - quasi
50 minuti - c'è spazio per diverse soluzioni: si assiste a
variazioni d'intensità tra arpeggi distesi e riffoni sludge e
nei momenti più intensi la voce malinconica di Conqueror
lascia il posto a un canto rabbioso, come si trattasse ancora dei suoi Godflesh.
Storceranno un po' il naso i fan del versante shoegaze,
ma saranno accontentati quelli degli Sleep in pene di
cuore.(6.1/10)
Leonardo Amico
Jori Hulkkonen - Man From Earth
(Turbo Recordings, Ottobre 2009)
G enere : techno - pop
Dopo un cambio d'etichetta non indifferente (da F
Commmunications alla Turbo del tiratissimo Tiga), e il
recensioni
43
highlight
Bologna Violenta - Il Nuovissimo Mondo (Bar La Muerte, Gennaio
2010)
G enere : grindcore necrologico
Coloro che ancora comprano i dischi anche per leggerne i libretti conosceranno il nome di Nicola Manzan
ed il suo violino al servizio di diverse uscite recenti dell'indie nostrano e oltre (Baustelle, Alessandro
Grazian, Il Teatro degli Orrori). Ma il trevigiano quando è solo evita qualsiasi tipo di rotondità, preparando invece la polvere pirica per le deflagrazioni di Bologna Violenta che dopo una serie di cd-r, ep
e partecipazioni a compilation arriva all'esordio ufficiale con la spinta produttiva della Bar La Muerte di
Bruno Dorella.

La passione per il b-movie italiano evinta fin dalla ragione sociale si
concentra qui in un omaggio ai Mondo Movies anni sessanta, pellicole simildocumentaristiche dalla tematiche volontariamente scabrose tra sessualità
e violenza: Il Nuovissimo Mondo risulta così un necrologio, in forma di
radiodramma grind-breakcore schizoide e rumoroso, su una società (la nostra) che nel declino inarrestabile festeggia festeggia, ovviamente prima di
morire. Di scampo non ce n'è proprio per nessuno, né dalla crapula né dalla
fine, e la strada costruita su tappe che accennano microstrutture folk, lounge,
addirittura techno, è in realtà disseminata di cluster spaccatimpani chitarraviolino-drum machine e trapanature claustrofobiche, nelle quali s'inseriscono brevi recitativi sui più assortiti deliri generati dai più assortiti rimbambimenti (leggi alla voce politica, cultura, tradizione). 

L'effetto finale è sardonico e angosciante, anche quando gli animi si placano per una rilettura ad archi intrecciati di Blue Song dalla colonna sonora di “Milano Trema” di Guido e Maurizio De Angelis, raccordo
non meno inquietante all'aria Naked City che si respira nelle altre tracce. Bologna Violenta racconta
che il genere umano è alla frutta, sottolineando che pure la frutta è definitivamente marcia.(7.5/10)
Luca Barachetti
grande ritorno dei Gus Gus, torna Jori, l'uomo che ne
segue i turbamenti disco-pop nordici deviando su malinconie electro. A sorpresa, il suffisso techno trasfigura
l’ascolto casalingo in un ologramma da club e sotto il
nuovo tetto spuntano bordate, sincopi e qualche sorriso
chimico.
La lunga raccolta bilancia electro Depeche Mode
e Chemical Brothers (Dancerous) con il tiro da old
school detroitiana (da urlo la percussione in uptempo su
The Other Side Of Time), l’acidità curatissima '90 (Boying
In The Smokeroom) con la scuola Jack (Bend Over Beethoven risposta alla Trax), l’eurodisco moroderiana (Man
From Earth) e la deep stampata per Felix Da Housecat
(I Dance To Your Bass My Friend). Immancabile per chi
vive di electro o techno. Il mutaforme cresce ad ogni
uscita.(7.1/10)
Marco Braggion
Josephine Foster - Graphic As A
Star (Fire Records, Gennaio 2010)
G enere : songwriting
Nato da un lungo periodo vissuto in isolamento tra le
montagne spagnole, Graphic As A Star mette in musica alcuni componimenti dell’americana Emily Dickinson, la cui poetica tra lirica e naturalismo ben si confà
alla musicista. Lontana dall’America, armata di poco più
che una chitarra e di molti libri come ci viene da immaginarla, una Josephine Foster "primordiale" sonorizza
i versi rendendoli in acustico e nulla aggiungendo alla
delicata epicità degli stessi.
Apprezziamo le parole conosciutissime tra i cultori, eppure la raccolta ci sembra rivolta più ai fan della Dickinson (i cui richiami esistenziali ben hanno attraversato
quasi due secoli), che di Josephine.
Un album interlocutorio in attesa di qualcos’altro che ce
la riporti ai fasti ormai appannati de A Wolf in Sheep’s
Clothing del 2006.(6.8/10)
Teresa Greco
44
recensioni
Kim Cascone - Anti-musical
Celestial Forces (Storung,
Settembre 2009)
G enere : F ield R ecordings
Una propensione eminentemente cinematografica è
rimasta caratteristica fondante del modo di comporre
di Kim Cascone. Peculiarità ben riconoscibile che il
sound-artist del Michigan deve aver ereditato dall'apprendistato con David Lynch, quando ebbe la fortuna
(e il merito) di ricoprire il ruolo di assistente musicale
per le serie Twin Peaks e Wild At Heart.
Così, i field recordings raccolti in giro per l'Europa nell'autunno del 2008 - assemblati
con una serie di asettici recitativi e un sottofondo di
very low frequencies captate
da un ricevitore radio di
proprietà della Nasa - fungono qui da personaggi sonori (quasi macchiette: non
manca neppure la figura
dello scienziato folle) di uno script pseudo sci-fi che potremmo addirittura considerare un esemplare di (riammodernata) arte radiofonica.
Radiodramma astratto o film cieco? Poco importa. Come
ha scritto giustamente qualcuno, Anti-musical Celestial Forces - titolo che va a rinfoltire la serie di lavori dell'ex
PGR consacrati all'arte del field recording - andrebbe
ascoltato, per essere goduto appieno, come fosse la traccia nascosta della colonna sonora del film Il Quinto
Elemento.(6.8/10)
Vincenzo Santarcangelo
Laura Veirs - Julie Flame (Bella
Union, Gennaio 2010)
G enere : songwriting
Dismessa la band che l’aveva accompagnata finora, anche se i fondamentali ci sono ancora ossia Karl Blau e
il fido produttore batterista Tucker Martine, Laura
Veirs fa il suo ritorno a oltre due anni di distanza dall’ultimo ottimo Saltbreakers, con alcuni cambiamenti.
E’ da rilevare una certa scarnificazione del suono, sono
sparite infatti quasi del tutto le stratificazioni; rimangono
alcune orchestrazioni (e l’accompagnamento alla viola
da parte del solito Eyvind Kang) per un album che
si muove tra indie rock e folk e in sottotraccia umori
country soul sparsi. Alla voce in molti brani troviamo
Jim James (My Morning Jacket), per il resto resta
inalterata la cifra stilistica, un songwriting ancora in stato
di grazia che fa dell’espressività la sua forza, mettendo
insieme un compendio di molta della musica sino ad ora
espressa dalla folkster americana - che sia folk, pop, soul,
indie rock o country poco importa a questo punto.
Con l’impronta caratteristica del fidato Karl Blau, la Veirs
pone un altro tassello alla sua musica evocativa e sbilenca, come la sua voce, che passa con disinvoltura da
un versante all’altro senza mai risultare stonata. Inutile
aggiungere che questo ritorno ci piace.(7.3/10)
Teresa Greco
Led Er Est - Dust On Common
(Wierd, Novembre 2009)
G enere : S ynth -W ave
A Brooklyn, oltre alle ormai note Sacred Bones e Captured Tracks, si trovano etichette ancor più elitarie e di genere. Parliamo di Pieter Schoolwerth e della sua Wierd,
dal 2006 luce degli angoli bui dell'elettronica minimale
e sotterranea della Grande Mela e non solo. Grazie
alla label, un piccolo manipolo di band come Xeno &
Oaklander, Martial Canterel e Staccato du Mal, ha
avuto modo di pubblicare dischi decisamente nostalgici
e fedeli alla linea.
Stessa sorte che tocca ora ai locali Led Er Est, intenti
in sonorità d'antan quali cold wave francese, Sheffield
'80, e inevitabili D.A.F. Niente abbozzi o canovacci di
canzoni, come va di moda oggi, ma probabili hit fuori
tempo massimo (Bikini Fun, Port Isabel, Laredo, non a caso
il trittico che apre il disco). Accanto troviamo umori
proto-industriali (Something For The Children), vorticosi
up-tempo (The Unkept Area) e divagazioni sintetiche (CC
Exit) che rendono Dust On Common un ascolto obbligato
per i fan integralisti della ice age.(7.1/10)
Andrea Napoli
Leyland Kirby - Sadly, The Future
Is No Longer What It Was (History
always favours the winners,
Novembre 2009)
G enere : ambient , avant
Gli anni “zero” si aprivano valutando l’erosione come
fine ultimo delle cose secondo i fondamentali Disintegration Loops di William Basinski. Ora Leyland
Kirby chiude il decennio con l’amara constatazione che
il futuro che ci eravamo aspettati non è arrivato. Opera
destinata ad occupare storicamente un posto tutto suo,
ovviamente accanto a quella del musicista newyorkese, Sadly, The Future Is No Longer What It Was
è un’ambiziosa trilogia sulla perdita di riferimenti, sulla
sconfitta come metro di giudizio dell’agire quotidiano,
ma soprattutto sulla solitudine come unica conseguenza
di un individualismo sempre più spinto.
Leyland Kirby lascia da parte tutti i moniker con cui
recensioni
45
highlight
tragedia della mia esistenza - e mentre ero seduto accanto
a te ho sentito la grande tristezza quel giorno - questa notte
è l’ultima notte del mondo - neanche la nostalgia è una cosa
buona come avrebbe dovuto essere - e non c’è niente tra la
tristezza e l’urlo…(7.8/10)
Flaming Lips - Journey To The Dark Side Of The Moon
(Autoprodotto, Dicembre 2009)
G enere : avant psych
Antonello Comunale
Cos'è il The Dark Side Of the Moon secondo i Flaming Lips? Pensiamoci. Pensiamo al disco originale
dei Floyd, innanzitutto: archetipo sonoro, categoria mentale, alibi e cliché intergenerazionale, punto di
convergenza e di fuga, falda patinata che raccoglie spinte convergenti e parallele psych, prog, blues, kraut,
beat (e infine pop), cucinandole in un minestrone lucido, conciso, ad altissima
definizione, l'alta definizione come dimensione unificante di un trip estetico,
euforizzante, esorcizzante.
E' il prisma sì, ma al contrario, fasci di luce diversamente colorata che entrano interallacciandosi molecola dopo molecola dando vita ad un laser solido,
pulito, inesorabile. Che dopo trentasei anni continua a trapassare teste e
pianeti, lati chiari e scuri, in virtù di un esistere che non ammette troppe
repliche. E' un disco che è. E' il disco che è. Su questo archetipo Coyne e
compagni si gettano come spiritelli sulla zucca magica. Il timore reverenziale
virato in una devozione impertinente, guida la loro calligrafia in un'opera di rilettura traditrice.
Una terapia invasiva, indagando a cuore aperto su una formidabile ossessione e su quanto e come riverberi
attraversando le corde visionarie e psicotiche della band di Oklahoma. Il risultato è: un benedetto, febbrile,
destabilizzante esercizio sonico. Reinvenzione. Stravaganza. Motorismi nipponici, groove brutali, vocoder
svalvolati, chitarre erratiche, tastiere siderali. L'inscalfibile laser torna ad irradiare colori insalubri. Un regresso raggiante, umorale, isterico. All'origine della cosa. L'effetto è - non solo per chi abbia adorato ma
anche per chiunque conosca il Dark Side (ma TUTTI lo conoscono, è questo il punto) - come una nutella
messa a friggere sul fornello stermina-insetti. Un dolce sfrigolante sacrilegio.
Un'ultima cosa da dire: mentre ascolti ti viene automaico sovrapporre gli icastici arrangiamenti originali
a questi che, nel loro brusco vitalismo, suonano come precari, in bilico su una ruspante indefinitezza,
innescando una tenzone tra memoria e possibilità, sliding doors che si aprono, varchi spazio-tempo eccetera. Non stupirebbe che si tratti di un effetto voluto, visto che gli autori hanno nel palmares titoli come
Zaireeka. Ultimissima cosa: al progetto (al sabba?) partecipano quei buontemponi di Peaches e Henry
Rollins, rispettivamente voce gospel e reading terrorifico.(7.8/10)
Stefano Solventi
Lil Wayne - Rebirth (Cash Money,
Febbraio 2010)
G enere : hiprock cros sover
Why Lil Wayne Sucks? Se lo chiedeva Doseone intitolando così una parte del corso di freestyle che per qualche tempo ha tenuto alla Youth Movement Records di
Oakland (si veda Be Evil). Chi è LW? Una delle più clamorose facce da schiaffi del rap degli ultimi dieci anni e
passa, uno degli alfieri del gangsta mainstream di seconda
generazione, con tutto quel caricaturale corredo fatto di
droga, armi, arresti, tatuaggi che manco uno yakuza, denti
d'oro, soldi e puttane: il genere di papponismo materialista che viene in mente a chi non conosce le cose belle
del rap quando si dice la parola rap.
La palingenesi wayniana è in realtà una svolta in senso
crossover - ma di quelle che fanno accapponare la pelle
- che ne sancisce il definitivo affossamento artistico. Basi
hardrockpop che ammiccano disperatamente a Linkin
Park, al poppunk ma anche agli U2 (l'intro di Ground
Zero sembra Mysterious Ways), rappato stanchissimo, che
trasuda codeina da tutti i pori, con una voce sempre costantemente filtrata in autotune stile T-Pain.
Detto questo, detto tutto. Disco bruttissimo, feat francamente inutile di Eminem in un pezzo. Non date retta né a Bob Xgau, né a RS, né a Pitchfork: date retta a
Dose.(3/10)
Gabriele Marino
è diventato celebre e pubblica questo concept sotto il
proprio nome, segno probabile che qui si apre un ulteriore step nella sua ricerca d’artista. Sadly… si articola
in tre dischi distinti (3cd, 6 lp) a cui sono dati altrettanti
titoli: When We Parted, My Heart Wanted To Die
- Sadly, The Future Is No Longer What It Was Memories Live Longer Than Dreams. La musica in qualche
modo si adegua al cambio di veste e tutto il lavoro di
editing digitale che aveva reso celebre The Careteker
viene parzialmente aggiornato al nuovo standard che
prevedere suoni veri e tangibili, messi in essere da Kirby
stesso. Li dove generazioni di pianisti minimal-Satie incontrano i panorami e le terre più esotiche di Eno, dove i
nastri di Basinski, nella loro condizione analogica cedono
46
recensioni
il passo ad un’elettroacustica convertita da un digitale
sempre più “post”, li Leyland Kirby trova lo spazio per
formulare visioni terribilmente tristi di un individualità
condannata a se stessa.
Il suono classico e rassicurante di qualche nota di piano
apre il primo disco e dà il tono all’opera, che rimane
perennemente sospesa in una tenebra fumosa che è al
tempo stesso romantica e solipsista, timida e avventurosa. Parlare di singoli brani lascia il tempo che trova,
perché i tre dischi vivono come un tutt’uno integro, al
punto che il minutaggio non può che impennarsi fino a
quota quattro ore o giù di li. E che allora parli Leyland
Kirby stesso attraverso i titoli delle sue composizioni: il
suono della musica scompare - la bellezza dell’imminente
Lindstrøm/Christabelle - Real
Life Is No Cool (Smalltown
Supersound, Gennaio 2010)
G enere : electro , disco
Le mutazioni prog di marca Lindstrøm si sposano alle
vocals della giovane cantante norvegio-mauriziana Christabelle (il vero nome è Christabelle Silje Isabelle Birgitta
Sandoo), già conosciuta con lo pseudonimo Solale in una
collaborazione di qualche anno fa su due 12 pollici.
E abbiamo un lavoro dai classici tracciati del nordico farciti dalla wavey bella voce di lei: soul disco onirica (Looking For What, High & Low), bbreaking electro-funk (Lovesick, Music In My Mind, Baby Can’t Stop), visioni spacey '80
che sono da sempre la specialità dello chef (stupendo il
mood pop d’antan di Let It Happen, buono il tentativo di
gospel misto alle sonorità Cocteau Twins di Keep It Up)
e altre sparate stellari che ne fanno un album discreto il
cui peso di Lindstrøm non sembra alleggerirsi sulla bilancia, anzi, ascoltando il full lenght, viene naturale il tributo
allo storico duo Giorgio Moroder / Summer (in particolare il ricordo di I Feel Love in Let’s Practice).
Deviando dalle atmosfere monolitiche della collaborazione con il fido Prins Thomas, e fermi restando i trick
sperimentali (Never Say Never), ancora una volta gli '80
rivivono con lo spirito di chi sa come far ballare l’anima.
Bravo Hans-Peter.(7/10)
Marco Braggion
Lone - Ecstasy & Friends (Werk
Discs, Novembre 2009)
G enere : bbreaking ambient
C’è ancora spazio per la Werk discs dopo l’invasione
summer glo? In altre parole c’è ancora spazio per la connessione con i suoni strictly bbreaking dei Boards of
Canada e di un certo sentire Warp? E il wonky? Con
questo disco di Lone assistiamo all’ennesima bollitura del calderone magmatico che da qualche mese
accompagna il suono break. Proprio al termine di un
2009 in cui si sono succeduti gli Animal Collective,
gli amici di scuderia Lukid
e Actress, nel quale abbiamo visto salire esponenzialmente il successo di Zomby e dei paladini del taglia e
cuci di perfezione (vedi Bibio e il giovanissimo Toro Y
Moi), questo disco fa il riassuntino di tutto e cerca di
tirar fuori ancora qualcosa di nuovo da un’idea di suono
che ama i campioni, il filtraggio onirico e il sogno.
La formula magica non riesce però a focalizzarsi sulla
melodia (come invece fa egregiamente Washed Out),
sul ritmo o su qualche altra feature e propone una palette che non stupisce e annoia. Andranno bene per i
parties davanti al camino queste tracce break-ambient
(Waves Imagination, Love Heads), lounge’n’bass (Endlessly),
i giochini a 8 bit (Go Greenhills Racer), ma dopo più di 40
minuti il compito è solo un lavoro routinario da secchioni perfettini. La sufficienza se la potrebbe guadagnare
per la tecnica, ma l’anima è ormai giocata. Dispiace dirlo,
ma l’ecstacy del titolo dura poco e se la Werk non cerca
una svolta si fa la fine degli emuli. Al cubo, dato che Bibio
citava i Boards che citavano a loro volta. Plagio o incidente di percorso?(5/10)
Marco Braggion
recensioni
47
Luminance Ratio - Like Little
Garrison Besieged (Fratto9 Under
The Sky, Dicembre 2009)
G enere : ambient - drone
Cose tipo Sunday Is Grey capitano a fagiolo, sono ideali per
contrappuntare stati d’animo tendenti al melanconico
quando il cielo è una monotona lastra grigia. Sfruttando
droni pesanti, echi lontani, percussioni gravi e rintocchi
chiesastici, il pezzo si sfalda in un landscape sonoro vago
e deforme, proprio come le lunghe domeniche nebbiose
scontornano l’esistente in visioni evanescenti.
Il resto di Like Little Garrison Besieged non è da meno.
Minimal drone-music che utilizza squarci di free-folk
astruso ed elettroacustica acquosa (è il caso dell’iniziale
title track) per tratteggiare
composizioni che sono al
guado tra ambient estatica
e elettroacustica disturbante. Esemplare in questo
senso è Solid State Tuners.
Dopotutto Luminance
Ratio è sì una sigla nuova
che nasconde tre volti noti
della scena sperimentale italiana: Eugenio Maggi aka Cría
Cuervos, Andrea ics Ferraris (da Deep End a Ulna e
Ur) e Gianmaria Aprile, titolare di Fratto9, label che marchia il disco insieme a Boring Machines.
Sensibilità diverse, quelle dei tre, come diversi sono i
background di provenienza, eppure c'è convergenza in
quest’ora di densa drone-music (ir)rituale ed evocativa,
pur in obbiettivi non del tutto messi a fuoco.(6.9/10)
Stefano Pifferi
Mammooth - Back In Gum Palace
(Forward, Dicembre 2009)
G enere : rock
Generi musicali distanti tra loro (rock, elettronica, postrock), progettualità su ampia scala (le colonne sonore di
Sandrine nella pioggia e Polvere), videoarte, collaborazioni inaspettate (il Live@Enzimi con l'attore Claudio
Santamaria alla tromba): in tempi di crossover selvaggio, Mammooth è un contenitore più che un gruppo.
Un'ipotesi di mondo perfetto in cui far coesistere concisione e intelaiature in stile Deus, rimandi a certe cavalcate emozionali à la U2 e elettronica ad ampio spettro.
Il gioco dura poco ma finchè dura, funziona (What A Mess,
Sketches Of A Personal War). Poi si assiste a uno sfilacciarsi
graduale della scrittura sull'elettronica in levare di Key 6,
nei Notwist in chiave jazz di Vincent, sulle vacuità sintetiche di My Left Hand e nel post-rock psichedelico da
Bignami di Actually I Don't Understand This. Il livello tecni48
recensioni
co di chi suona è ottimo ma Back In Gum Palace rimane
comunque un cantiere aperto.(6.4/10)
Fabrizio Zampighi
Mapstation - The Africa Chamber
(˜Scape DE, Novembre 2009)
G enere : T ribal tronica
Caratterizzandosi per i tipici mood composti dei palindromi e grane africane, The Protector è l’ideale trait
d’union tra il precedente Distance Told Me Things To
Be Said e The Africa Chamber, terzo album ufficiale a firma Mapstation, moniker ufficiale sotto il quale
Stefan Schneider dei To Rococo Rot si firma da anni.
Non è certo la prima volta che il tedesco si cimenta in
trasfigurazioni di questo tipo, eppure, in maniera analoga a quanto è accaduto con Tony Allen nell'Inspiration
Information di Jimi Tenor, un qualcosa di altrettanto rimarcabile succede qui con un nome del calibro di Nicholas Addo-Nettey (già Fela Kuti Band e guarda caso
collaboratore di Allen). Grazie al percussionista, Schenider trova nuovi equilibri
tra quartomondismi e jazz; rinnova i dialoghi tra loop,
linee sintetiche e pelli, riusciendo a spaziare dal continente nero fino a Oriente, passando per i rave intellettuali dei Rot senza perderci in magia e coerenza krauta.
Al risultato contribuiscono amici di vecchia data, quali
Annie Whitehead al trombone (fa molto Gil Evans
via Tied & Tickled Trio il suo contributo in Carmel) e
Thomas Klein (Kreidler) alla batteria (che ha sempre il
suo perché).
Ne esce un album oltre Jon Hassell e Can. Pienamente parte della Weltanschauung To Rococo Rot di cui
Mapstation è una filiale cartografica e meridionalista
(quando il trio è nordista e legato all'architettura). Acquisto obbligatorio per tedescofili e non.(7/10)
highlight
Four Tet - There Is Love In You (Domino, Gennaio 2010)
G enere : house - trance - minimalism
Esce con un mese di ritardo, il nuovo Four Tet. Perché gennaio 2010 vuol dire inizio del decennio, e non
fine di quello precedente. È pur vero che la prospettiva è sempre rovesciabile, sicché si possa dire che
There Is Love In You è invece in tempismo eccezionale, per inaugurare un decennio.
Dipende dai punti di vista, appunto. Noi possediamo quello degli ’00, che
sono appena finiti e che hanno visto in Kieran Hebden, che piaccia o meno,
un personaggio chiave. E non solo. Sono le tracce dell’album che ci danno
indizi di qualcosa che è appena finito. È un’impressione ma anche qualcosa di
più, visto che in Reversing e, andando a fondo scaletta, in She Just Like To Fight,
abbiamo quei sentori o finanche quelle certezze che Hebden sta parlando
con le proprie origini, con il post-rock dei suoi Fridge, momento aurorale
della produzione del Nostro; e pure elemento di messa a distanza rispetto ai
Novanta, oramai lontani più di due lustri.
E poi c’è tutta la club culture che aveva pervaso Ringer, e che a partire
da quello che rimarrà uno degli EP più famosi degli ’00 aveva creato aspettative molto alte per l’album
fourtettiano n° 5. Ci sono sì i club, ma in una forma riproducibile in camera, ancora una volta, senza che si
possa però parlare di IDM. Kieran dice di aver rovesciato i suoi ascolti dal downtempo alla velocità; eppure
in There Is Love In You c’è una sorta di trance diffusa, dinamiche percussive che sanciscono uno zoom
out rispetto alla maniacale fedeltà alle pelli del Nostro e al contempo il solito lavoro certosino di rifinitura che ipnotizza, pur rimanendo sempre a disposizione per essere lo sfondo di altre attività. La Border
Community di James Holden e il djing hanno fatto il loro mestiere, e ci riconsegnano la spugna Kieran
in grado di fare musica da club che non metteremmo mai in un club, ma che non ci apre le meningi come
l’IDM o post-tale. Si torna semmai a citare i minimalisti e a estrarre dal cilindro un termine ombrello che
va in cortocircuito con tutti i discorsi fatti sul micro-macrocosmo Hebden-decennio ’00: classicità. Già il
singolo Love Cry (qui contenuto) ci aveva messo dell’avviso. Per quanto detto finora, si ascolti come saggio
Plastic People. Puntigliosità, house e ripetizione, se vogliamo tirare le fila. Ma forse che Four Tet ha mai fatto
qualcosa di diverso, che tentare delle sintesi?(7.2/10)
Gaspare Caliri
Edoardo Bridda
Mathias Kaden - Studio 10 (Vakant,
Settembre 2009)
G enere : D eep house
Dj e procucer alemanno, Mathis Kaden è un ragazzo
piuttosto fresco sulla piazza. Ha iniziato a sfornare 12
pollici assieme all’amico Marek Hemmann a partire dal
2003 e da quel poco che si sa ha una venerazione per la
T808 che lo porta dritto a Chicago. Windy City, nel suo
caso, si traduce in un’house calda dai sapori samba, venature jazz e funk liquido e, per gradire, una bella smaltata
di deep a completare un’architettura mogano dalle assi
d’acciaio.
Realizzato in due anni, Studio 10 è il primo album di
un tedesco che già mira a dipingersi un'aura da Frankie
Knuckles in versione kraut puntando le migliori fiches
su un sound ultra editato e non di meno suonato.Violini,
sax e organi a cura di ospiti quali Lars Mäurer, Florian
Schirmacher e Claudia Ander-Donathand, tutti su per giù
jazzisti; canto perferibilmente talkin' per una triade di vocalist (jazzy Ian Simmonds, lo sconosciuto Gjaezon, e una
sciantosissima Tomomi Ukumori) e, a completamento,
citazioni più o meno evidenti dalla black al reggae e baleari, ne fanno un ottimo vino di marca jazz house adatto
ad un vero house party. Tra gli estimatori già abbiamo
una lista: Dinky, Luciano, M.A.N.D.Y., Matthias Tanzmann e il più entusiasta di tutti Sascha Funke (album
dell’anno per lui). Ci accodiamo all'entusiasmo senza
esagerazioni.(7/10)
Edoardo Bridda
Matthew Shipp - Nu Bop Live (Rai
Trade, Dicembre 2009)
G enere : avant jazz
Il pianista del Delaware classe '60 Matthew Shipp in
un quartetto grandi firme che vede un sanguigno Daniel
Carter al sax (alto e tenore), il grande William Parker
al basso e - soprattutto, è il caso di dire - Guillermo E.
Brown ai tamburi con delega alle elettroniche. Perché il
punto è questo: al di là dell'apprezzabile impasto postbop, col virus modale che s'infebbra free, con la vena
funky che pulsa tra spigoli e sospensioni avant, il tentativo di questa performance (incisa live a Roma nell'aprile
del 2004) era la metabolizzazione dell'elemento electro
in un linguaggio da intendersi in progress.
Va detto che lo fece entro prospettive in tutto e per tutrecensioni
49
to jazz (quindi black) che si guardarono bene dal concedere troppo all'intruso sintetico. A differenza di quanto
avveniva nei mai abbastanza rimpianti E.S.T., i loop e i
samples non entrano mai abbastanza dentro la calligrafia,
non ne sposano (e neppure spostano) il centro emotivo, sembrano poco più che suppellettili nel boudoir dei
reduci da una stagione meravigliosa e meravigliosamente appassita. Non stupisce che alla fine il passaggio più
emozionante ce lo regali l'ancia di Carter con la breve,
umorale Did I Say That?.(6/10)
Stefano Solventi
Melt Banana - Melt Banana Lite
Live: Ver. 0.0 (A-Zap, Gennaio 2010)
G enere : techno - grind
Riuscite ad immaginare un live di Melt Banana? No? Bene,
allora procuratevi Melt Banana Lite Live:Ver. 0.0 e buttatevi a capofitto in una di quelle sale giochi nippo zeppe di
led coloratissimi e musica sparata a volumi parossistici in
cui a farla da padrone è il pachinko.
Questo live saccheggia il recente Bambi’s Dilemma
ed è in realtà attribuibile a Melt Banana Lite, sorta di
mutazione electro della band originale (via le chitarre e
dentro synth e sampler, senza cambi sostanziali) che ne
devia l’aggro-punk malato verso lidi più ossessivamente
elettronici. Alla digital hardcore, per intendersi. Come se
il cicerone di una visita nella downtown di Tokyo fossero
dei giovani Atari Teenage Riot con gli occhi a mandorla e le stimmate dell’affiliazione alla yakuza.
Ossessiva e schizzata a 400 bpm, la musica ultra-macina-core dei nippos lascia poco spazio all’immaginazione
e rende appieno l’idea di techno-grindcore. Quando si
parla di rumore e oltranzismo, i giapponesi sono maestri.(6.5/10)
Stefano Pifferi
Mika Vainio - Ununquadium / Vandal
Ep (Raster Noton DE, Novembre
2009)
G enere : club music
Un tuffo solitario nel passato, un viaggio a ritroso nell'autodistruzione privata, senza compagnia-Vaisanen, quello
di Mika Vainio nelle brutali (nuove/vecchie) traccie.
Analogue working si legge nella press-release: come se
qualche beats da techno afasica, avesse più valore provenendo da una macchina midi che da un laptop-looper.
Vecchie questioni e espedienti commerciali per la Raster
che una manciata di beats, un oscillatore, ed un mixer
non riscatteranno, né scuoteranno uno stile diventato
evidentemente solenne.
Come un orologio colante, Vainio è oramai rappreso
50
recensioni
nella memoria polverosa dei suoi sogni andati. Fa paura
ammetterlo ma è così.(5/10)
Salvatore Borrelli
Mir - Mir (Wallace Records,
Ottobre 2009)
G enere : T his H eat C ore
Per la Wallace di Mirko Spino l'esordio su lunga distanza
degli svizzeri Mir. La loro musica è diretta discendente
dei This Heat prima maniera, e quello stesso modo
di intendere il rock progressivo. Trame percussive postpunk ante litteram, bordate da squarci di elettronica
analogica. Ma se nell'EP Ex
Modules, il discorso di
procedeva per architetture
in (de)costruzione, come
degli Aufgehoben meno
oltranzisti, nell'album le
idee iniziano a mancare.
Per buona parte del disco,
gli svizzeri sembrano limitarsi stiracchiare textures sintetiche senza i movimenti del post, né kraute glorificazioni d'immobilità. Piuttosto, riescono nei ruggenti riff di
Shellac-iana memoria, bastonati a dovere da batterie
esplosive, pur con risultati che non competono con gli
Ex Modules.
Merita una nota il brillante titolo di Organ Donor, non le
interiora a cui si riferivano gli Unsane, ma l'organo musicale: un accordo tenuto per tutta la durata del brano.
E di sicuro non basta. Nessuna insufficenza, ma un disco
di potenzialità ancora inespresse o peggio, aspettative
deluse.(6/10)
Leonardo Amico
Miriam in Siberia - Il suono del
phon (Autoprodotto, Dicembre
2009)
G enere : rock
Zitta zitta, piano piano, la via italiana ad un rock caustico e melodico, nipotino scapestrato dei cantautori nonché cuginastro di quanti nei novanta provavano
a sognarsi Sonic Youth, si fa strada. Che passa anche
da dischi come questo, degli esordienti (su lunga distanza) Miriam In Siberia, quattro ragazzi da Caserta che
hanno tutta l'intenzione di credere a quello che fanno.
Sanguigni e ruvidi da un lato (Il tuo buono), malinconici
e persino allibiti dall'altro (prendete Non lo so, oppure
la title track), potrebbero essere la soundtrack perfetta
per la vita esistenzialmente randagia di molti giovincelli
contemporanei.
Quando ti sembra che eccedano con l'afflizione à la Verdena (Soletude), se ne escono incalzanti e carezzevoli
(Sai col se) per poi giocarsela lunga e ondivaga tra folk e
hard-psych in Before The Insane God. Ok, forse è ancora
presto per chiudere la pesante pagina aperta a suo tempo da Afterhours e Marlene Kuntz (e la conclusiva
Affanni sembra ribadirlo), ma la sensazione è che perlomeno si stia cercando qualcosa di nuovo tra le righe. Per
poi passare oltre, magari. (6.5/10)
Stefano Solventi
Monolake - Silence (Monolake
/ Imbalance Computer Music,
Dicembre 2009)
G enere : ambient , minimal
Le fonti da cui ha attinto Robert Henke per sviluppare
questo settimo disco di Monolake: annunci di aeroporti, martellate su piatti metallici al Kabelwerk Oberspree,
diversi suoni captati dentro la cupola radio a Teufelsberg
di Berlino, sciabordii acquatici nel giardino botanico di
Firenze, condizionatori e turbine a Las Vegas, Francoforte e Tokyo, passi sulle rocce di Joshua Tree, folate di
vento nel Grand Canyon, il telefono di un amico, una
stampante, qualche conversazione con il cellulare, battiti
sulla tastiera di un vecchio Macintosh e lavori nelle gallerie in Svizzera.
Tutto concorre all’elaborazione meditata del silenzio che
c’è intorno a noi. Le premesse che Henke usa per architettare il sound tridimensionale di Watching Clouds,
stereoscopia del 2030 su
battito androide, e ancora
l’ascetismo zen di Infinite
Snow che come la maggioranza degli altri brani
devia via Skull Disco una
minimal techno aggiornata
all’aria dei tempi, quelli della battuta spezzata. Di contro,
c’è sempre qualcosa di fisico e “tattile” nel modo in cui
Henke muove i sample in primo piano come se facesse
action painting su una tela, valga per tutti l’avventurosa
Reconnect. Al di là di qualunque costrutto tecnico-teorico, Monolake si conferma griffe di qualità nel mondo
delle suggestioni digitali di inizio millennio. (7/10)
Antonello Comunale
Move D/Pete Namlook - The
Evolution Of (Fax +49-69/450464,
Novembre 2009)
G enere : A mbient , techno
Classe Sessanta, Pete Namlook è una vecchia cono-
scenza degli amanti delle cosmologie ‘90 post Rave in
aggancio kraut. Partito con la techno (e poi convertitosi
in ambient-tronico a inizio Novanta), l’uomo di Francoforte ha fatto delle sfere celesti la propria missione orbitando presso Rising High (Wagon Christ, Air Liquide
e compagnia sci fi) e successivamente mettendosi in proprio con Fax +49-69/450464, sfogando così una smania
compositiva smisurata.
Non fa eccezione la produzione a firma della coppia che
lo vede accanto all’altro famigerato protagonista della
techno da salotto (e non) Move D. Assieme, i due hanno
inciso una cosa come venti volumi, uno all’anno a cadenze regolari. The Evolution Of segue a XX: Taygete
(sempre di quest'anno) ed è una sorta di The Best spacciato come album d’inediti e, a parte qualche cultore che
se ne accorgerà, è come se lo fosse.
79 minuti filati. Un lunghissimo trip space techno venato
jazzy, lounge e cosmic per due che potrebbero andare
avanti per sempre. Inevitabile assenza di brivido e vertigine. In pratica, a mancare è quello che forgiò la triade
iniziale di Exploring The Psychedelic Landscape,
prima collaborazione della coppia datata 1996, ora affare dell'ora del the. Maniere, con momenti più e altri
meno. Moog e Roland qua e là. Ma senza alcuna tensione vera. Più fortunata sicuramente la collaborazione dei
due come Koolfang: solite basi ma speziate di fusion,
blaxploitation e lounge (serie sempre numerata. Ultimo
lavoro III - Be Aware del 2005).(5.5/10)
Edoardo Bridda
Mungolian Jet Set - We Gave It All
Away, Now We Are Taking It Back
(Smalltown Supersound, Agosto
2009)
G enere : cosmic trip techno
Già uscito in estate sul mercato estero, approda finalmente anche da noi il doppio del duo di Oslo. Paul Nyhus e
Knut Saevik ci conducono in una lunga odissea che svela
due metà complementari: la prima più psichedelica (nel
primo disco), la seconda più ballabile (nel secondo).
Data la provenienza dai jazz club di Oslo, i due riportano poi all’attenzione quel sentire house mescolato alla
passione per la blackness già esaltato tempo fa dai Cobblestone Jazz. Ma se i fratelli canadesi puntavano più
sull’immediatezza live, qui si prende come vangelo la lezione degli ORB e la si coniuga in una dimensione filtrata
e pompata da compressori analogici che tolgono il dub e
innestano il movimento sul 4 progressivo. L’iconografia
del gruppo si basa poi su un velato misticismo orientale
che definisce un’estetica massimalista: i Pink Floyd e i
PiL a braccetto con l’acid jack (Creepy), il bbreaking old
recensioni
51
highlight
Frogwomen & Superfreak - Allegretto (Lepers Produtcions,
Dicembre 2009)
G enere : hard punk core indie
Tornano sul luogo del delitto due colonne Lepers, unendo le forze come già fecero nel famigerato Volume 4. Identico il piglio, il taglio, irriguardoso e sferzante per qualsivoglia schematizzazione che li inquadri
alle prese con questo o con quest'altro. Resta invece eccome quel prodigarsi in groppa al cavallo imbizzarrito hard-funk-blues-psych-noise-math-punk. La fluviale Sunshine impasta tutto ciò ed è come assistere
in diretta alla preparazione di una pagnotta mefistofelica su cui i nostri fornai
pugliesi infieriscono strizzando, stendendo, insaporendo, sbattendo e lasciando riposare, poi la febbre - una febbre di meningi, di giunture e di cuore cuoce il tutto a fuoco deciso.
Quindi tra gottini di sudore, adrenalina, bile e seddiovuole rosolio (al peperoncino), esaudite le fregole Sonic Youth, Shellac, Dead C, Mc5, Black
Flag e compagnia travolgente, ti vanno a chiudere la scaletta con una Safety
che smazza riffettini adesivi (di synth e chitarra) su melodia ammiccante da
indie band scafata con minacce & impudenze Rolling Stones nel taschino. Il
messaggio è chiaro: non ci avrete mai, ma se ne volete, eccoci.(7.5/10)
Stefano Solventi
school (Could You Be Loved) e la deep onirica (Madre Epics Pt. 2), la word balearica (Big Smack And Flies), gli archi
dei Rondò Veneziano (A Blast Of Loser) o le tastiere dei
Supertramp (Clairevoyage).
La sintesi quando si viaggia in modalità psichedelica non
è da tutti. In due dischi il gruppo norvegese riesce ad attingere dal passato senza stancare o mostrare spocchia.
Un po’ come stanno tentando di fare i ragazzi londinesi
in fissa wonky, anche qui si taglia e si cuce, ma all’orizzonte si intravedono balere adult. Il tiro di questa raccolta è
da brivido. Settate il replay, please.(7.1/10)
Marco Braggion
Musée Mécanique - Hold This Ghost
(Frog Stand, Gennaio 2010)
G enere : folk / pop
Malinconie da fine anni Novanta come The Propellors - che
cita i Radiohead di Ok Computer rivisitandoli in chiave
folk - fanno di questo Hold This Ghost un'opera revanscista. Per lo meno in parte. Parliamo di arrangiamenti ricercati ma non debordanti che lasciano il giusto spazio agli
umori di chi ascolta; di musica acustica sospesa tra organi
e chitarre, theremin e batterie essenziali, archi e fisarmoniche. Un breviario sul folk-pop degli ultimi quarant'anni
che cita i Mojave 3 (Fits & Starts) come Simon & Garfunkel (Somehow Bound), sempre con piglio ammiccante e
52
recensioni
una latitudine di posa satura di morbidezze.
Che si scelga l'impasto vocale di Sleeping In Our Clothes
o le voci appese a un filo di Like Home poco importa. E'
l'intero lavoro a godere di un'ispirazione crepuscolare
dalla vocazione apprezzabile.(7.1/10)
Fabrizio Zampighi
MV & EE - Barn Nova (Ecstatic
Peace!, Dicembre 2009)
G enere : acid folk
Confesso di non star più molto dietro a Matt Valentine e
Erika Elder. La coppia inizialmente si prodigava in ballate
acide da folk astrale, le famose Lunar Blues, che pur
evocando i soliti fantasmi sixties e seventies, riusciva ad
avere un linguaggio per lo meno ancorato all’andazzo
contemporaneo. La ben nota faccenda della new weird
america come ormai sanno anche i sassi. Il passaggio ad
Ecstatic Peace però ha evidentemente fatto male ai due.
Delle due, una: o hanno smesso di fare uso di sostanze
psicotropiche oppure si sono invecchiati e ci giocano anche su, andando a rimestare non solo nel solito turbinio
folk rock modello Neil Young, ma in tutto il suono acid
rock anni ’60 - ’70, utilizzando un linguaggio completamente passatista. Roba che nemmeno Banhart si permette di fare, quando si mette a scimmiottare gli idoli
del passato. Quello che ne viene fuori così è un sound
acid rock, anziano, da terza età. Roba che per chi ci è
cresciuto con quei suoni e prova nostalgia ascolterà con
piacere, ma cosa c’entra un disco come Barn Nova con
Ecstatic Peace, il 2009 e quello che gira adesso, anche e
soprattutto in ambito folk? J Mascis, invecchiatissimo
pure lui, supporta la band come di recente ha preso a
fare, evidentemente preso pure lui in piena crisi geriatrica.(6/10)
Antonello Comunale
Myrmyr - The Amber Sea (Digitalis,
Dicembre 2009)
G enere : avant - folk , elettroacustica
Avevamo iniziato l’anno con Marielle V. Jakobson e il suo
primo disco come Darwinsbitch, prevedendone future
felici incursioni in ambito ambient e affini. Non finisce il
2009 che si rifà viva come metà del duo Myrmyr, in compagnia di Agnes Szelag. La musica prodotta dalle due è una
calibrata miscela di diversi ingredienti: elettroacustica, folk,
musica da film, improvvisazione. Evidentemente la somma
delle due parti in questione. Marielle porta con se tutto
uno studio su rifrazioni, riverberi e toni abissali di una ambient trattata da un violino androide come accadeva nel
disco di Darwinsbitch. Agnes è invece l’anima folk, che
ammanta di tradizione e leggenda sprazzi di melodie dalle
evidenti ascendenze traditional. Si ascoltano così tracce
di un cantautorato elettroacustico che immagina e crea
una irreale storia dell’ambra, minerale legato a leggende e
miti arcaici. Frammenti di un ambient rielaborata alla stregua di materiale cinematografico sull’esempio degli ultimi
Stars Of The Lid (Baltic Winds, The Sea Returns, The Story
Begins) oppure filastrocche dal sapore gotico (sposiamo la
definizione di Boomkat che parla di “gothic avantgarde”)
con i brani che vivono sulla miscela di canto, strumenti
analogici e costrutti digitali (First Seed, Silver Rooster, Eagle’s
Escape) in un modo non troppo distante dagli esempi di
Hala Strana e Black Forest / Black Sea.
Alla fine si ottiene un disco che è acerbo se si pensa
a quello che le due musiciste possono raggiungere, ma
già sufficientemente maturo guardando alla difficile calibratura di tutti gli ingredienti. Altro progetto da tenere
sott’occhio per Marielle.(7/10)
Antonello Comunale
Neil Young - Dreamin' Man
(Reprise, Novembre 2009)
G enere : folk
Cos'era la carriera di Neil Young all'inizio dei Novanta?
Il catastrofico tracollo degli eighties era stato parzialmente riscattato da tre buoni lavori in sequenza (This
Note's For You, Freedom e Ragged Glory, rispetti-
vamente '88, '89 e '90). La ritrovata verve fu ribadita dallo stupendo doppio live Weld (1991), forse il punto più
alto dell'intesa live coi Crazy Horse (vi basti la fluviale
versione di Cortez The Killer), cui fu peraltro abbinato Arc,
un dischetto di insolita ma tutto sommato interessante
sperimentazione noise.
Col grunge ormai in piena
detonazione, e col buon
Neil'ufficialmente nominato suo ideale padrino, il cavallo pazzo non poteva che
spiazzare tutti sfornando
Harvest Moon (Reprise,
1992), un album di soffice,
accorato, addirittura patinato country rock. Fu un po'
come se il freak ruspante e randagio di Harvest, dopo
essersi raddrizzato nel saloon straight edge di Comes
A Time, si fosse infine adagiato su un sofà mitologico
tra front-porch e campi irrorati di luna. Quelle dieci
tracce raccontavano una senilità in procinto di sbocciare, uno stare in bilico tra irrequietezza e incanto che ci
consegnava un artista classico suo malgrado, pacificato
suo malgrado. Il qui presente Dreamin' Man, ennesimo capitolo della Archives Performance Series, è un live
coevo che celebra quel momento per certi versi irripetibile, proponendoci la lettura della scaletta in versione
solitaria, scarna e fragrante. Senza gli archi ed i coretti
delle versioni in studio - che vedevano all'opera Linda
Ronstadt e James Taylor tra gli altri -, canzoni come
Natural Beauty o One Of These Days finiscono col guadagnare uno status di sospesa inquietudine che le valorizza
non poco. Per il resto, nulla di imprescindibile.(6.4/10)
Stefano Solventi
Nest - Retold (Serein, Gennaio
2010)
G enere : A mbient
Composita midi-libreria ambient, sali-scendi orientali di
eniana memoria, microcapsule eteree, ascesi acquatiche
eccetera eccetera. L'assortimento di Retold (11 brani, di
cui già 6 editi nel 2007) si presenta come un irresistibile
ritratto di musica libera ed intensa. Eppure, il duo formato da Otto Totkand, metà dei Deaf Center (e Type
Records) e Huw Roberts, boss della Serein, spaventosamente vicino alle timbriche di James Horner, e a cavallo tra la colonna sonora e citazione feldmaniana, non
riesce. I brani sono noiosissimi, le soluzioni trite e ritrite,
vuoi per il mastering gracchiante, vuoi la pesantezza cosmica dei pezzi.(5/10)
Salvatore Borrelli
recensioni
53
Nicola Ratti - Ode (Preservation,
Giugno 2009)
G enere : C hitarra jazz minimale
Una splendida confezione-origami in puro stile Preservation ci introduce al cospetto del misterioso universo
sonoro di Ode. Nicola Ratti è giunto ormai da tempo
alla messa a punto di una raffinata forma di chitarrismo
che definiremmo senz'altro jazz tout-court se, nel 2010,
non dovessimo ancora fare i conti con dischi di Mike
Stern.
Chitarra, piano, una voce sussurata (...and Fireworks è
quanto di meglio si sia
sentito fare ultimamente
in musica con la lingua italiana); e poi, il contrabbasso di Chet Martino e la
sparuta batteria di Andre
Arraiz, entrambi affermati
musicisti jazz australiani. E'
quanto basta all'artista italiano per declamare un'ode sotto forma di musica (alla
musica), monodica nella sostanza anche se spesso timidamente corale - ma chi diceva che il jazz è musica della
solitudine non si sbagliava poi di tanto.
Con un salto geografico (ma non di sensibilità) ci sentiamo di accostare volentieri Ode ai lavori più riusciti dei
portoghesi Manuel Mota e David Maranha. Un disco
intimo e denso di quella carica spirituale che sempre più
raramente anima dischi di jazz contemporaneo.(7.4/10)
Vincenzo Santarcangelo
No Sound - A Sense Of Loss
(Kscope, Novembre 2009)
G enere : post rock / ambient
Band d'esperienza con alle spalle una produzione discografica già corposa - gli esordi risalgono al 2001 -, No
Sound è post-rock e ambient in una sola soluzione. Dalla copula tra i due generi nasce un figliastro cinematico
che cerca di sbrogliare i nodi originati dalle diversità di
fondo in un ralenti dalla solennità maestosa. Si sommano
archi e chitarre elettriche, voci eteree e synth, in crescendo epici e sognanti che arrivano ai quindici minuti
di durata.
Per un mix di Sigur Rós, Pink Floyd anni Settanta e
Brian Eno omogeneo e paradossalmente spendibile,
dedicato soprattutto a chi nella musica cerca pulizia, ordine e saturazione.(6.5/10)
Fabrizio Zampighi
54
recensioni
Nolan - Secondi fini per fare le
ore piccole (Totally Unnecessary
Record, Dicembre 2009)
G enere : jazz , songwriting
Canzone d'autore minimal in chiave jazz, costruita su
chitarra acustica, ebow, chitarra elettrica, batteria, contrabbasso e programming. Questo e molto altro nel progetto di Gipo Gurrado, compresa un'imprevedibilità di
fondo con cui non di rado ci si scontra e che vive di
tempi dispari (La strada opposta), funky deraglianti (La
pazienza), arpeggi accelerati (Pedalo seduto) e giochi di
parole. Alla lunga emerge un certo gusto per la frammentazione dei suoni e dei concetti, nell'ottica di una
musica che se da un lato rimane lineare e avvinghiata
alla melodia, dall'altro mostra di sapersi imbizzarrire alla
bisogna su crinali elettro-acustici.
Facciamo due più due e chiamiamo in causa la “scuola
romana” dei cantautori, oltre a quel Marco Parente
(Inverno Veritas) che viene in mente come primo termine
di paragone. Anche se in Secondi fini per fare le ore piccole
ci si prende meno sul serio e si gioca con una complessità dimessa che è ironia più che orchestrazione in senso classico-jazz. Per un esordio che convince con la sua
sobrietà e l'ottimo lavoro di strumentisti come Mauro
Sansone, Andrea Sicardi, Mell Morcone, Stefano
Risso, Lucio Sagone e Attila Faravelli .(7.25/10)
Fabrizio Zampighi
Numero 6/Enrico Brizzi - Il
pellegrino dalle braccia
d'inchiostro (Autoprodotto,
Gennaio 2010)
G enere : reading rock
Il reading che mastica energia nevrastenica di Brizzi,
quella febbre di narrare che segue un vivere in bilico per
procedere lungo un cammino che ti misuri l'esistere, che
misuri il tuo stare al mondo, sul mondo. E poi il sound
vigoroso dei Numero 6, infarcito di spigoli, di crepitii
fuzz, di pungoli elettronici, melodia strattonata wave con
complicazioni emomatematiche. Poli espressivi che s'immischiano e scozzano, s'accendono l'un l'altro ribadendosi, contrapposti e complementari, complici e rivali.
Insieme, comunque, lungo questo percorso che racconta
la vicenda (ispirata al viaggio a piedi Canterbury-Roma
effettuato nel 2006) già narrataci dal Brizzi romanziere
nel volume Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro,
che ha fornito la base per il fumetto illustrato da Maurizio Manfredi e per la performance omonima (reading
+ indie rock) condotta dallo stesso Brizzi assieme alla
band di Michele Bitossi. Alal fine di tutto questo proliferare di forme ed espressione arriva il suggello di un
album, consacrando vieppiù la riuscita di quest'ultimo
sodalizio, i cui esiti sono anche migliori del comunque
buono Nessuno lo saprà che vide lo scrittore spallegiato dai Frida X.
Rispetto a quello, oggi è più incisiva l'interpretazione (ai
limiti della recitazione), più scolpiti appaiono i personaggi e più emblematiche le situazioni, fin quasi a sfiorare un
rabbrividente grottesco. I Numero 6 sciorinano tutta la
loro veemente versatilità, appropriandosi del mood cui
forniscono pulsazioni, umori e vibrazioni senza risparmio.
Un concept in piena regola per questi anni di scarsa fede
in qualsiasi cosa ma anche di devozioni totalitarie. Starci
nel mezzo, in itinere, significa anche questo.(6.8/10)
Stefano Solventi
Nurse With Wound - Paranoia In HiFi (United Dirter, Dicembre 2009)
G enere : avantgarde
Gente come Stapleton starà sempre avanti anni luce rispetto agli altri, perché il depistaggio e lo smarcarsi è una
regola di vita non un modus saltuario di comportarsi.
Che poi al giorno d’oggi, essere avanti e originali significhi fare uno, due, anche tre passi indietro questo poi
è tra le regole d’ordine del post moderno quotidiano.
Ecco allora l’antologia di Nurse With Wound dall’appeal
“commerciale”.
Paranoia In Hi-Fi infatti
è una compilation che raccoglie trent’anni di musica,
collaborazioni con Peat
Bog, Freida Abton, Aranos e Stereolab, il tutto
triturato, spezzettato e tagliuzzato e remixato in 79
tracce da Stapleton e Andrew Liles. Quello che ne esce
fuori è appunto un frullato di Nurse With Wound, di cui
mette in luce soprattutto il taglio exotic-lounge venato
di surrealismo dadaista. Ma dove sta la genialata? Per avere una copia fisica del cd, dovrete recarvi per forza in un
negozio di dischi unica forma di distribuzione imposta da
Stapleton, così come il prezzo simbolico e ultra discount
di 99 pence.
Quindi niente mailorder, itunes, o altri metodi più o
meno legali per avere una copia del disco. Questo è il
metodo che Stapleton adotta per supportare l’esistenza
dei negozi di dischi dove andare a cercare e comprare
musica. Una questione di vita, più che economica, per
uno come lui.(6.8/10)
Obsil - Distances (Disaster By
Choice, Novembre 2009)
G enere : G litch P ost -D igital
Micro-patches caosmotiche, affasellamenti vibrafonici e
circuiti mitragliati, queste le prime essenze di Distances, seconda fatica di Giulio Aldinucci, Obsil.
13 tracks, frutto di svariati tagli/cuci/incolla, e di una
stratificazione barocca e plurifonica, che si spostano in
libero movimento, come maree attorno a canovacci
mutevoli. Potrebbero essere micro-sogni oggetto, o livelli d'immaginazione parallela sullo stile Serial Experiments Lain, o monadi leibniziane; congegni robotici o
congestioni da designer drugs: si tratta senz'altro di quel
lato dell'elettronica sperimentale che trae origine da
Nuno Canavarro, passando per Oval e Sogar, fino a
sciogliersi nella post-digitale, intesa come manipolazione
insieme d'oggetti fluttuanti e di dati d'ambiente.
S'insinua anche un lato alla Murcof, da textures orchestrali, che ci trasportano su scenari fiabeschi, strani
miscugli di musica per balletto e installazione protogiapponese, anche se rendono più sfocata, la miscela sonora del materiale obsiliano. Tralasciando dei passaggi
talvolta stucchevoli (B.V. 1-06-08, notte) e la vicinanza
con i ben più rodati (e sopravvalutati) Tu'm, i nostalgici
dell'era glitch, troveranno certamente pane per i loro
denti.(6.7/10)
Salvatore Borrelli
Oneohtrix Point Never - Rifts (No
Fun Records, Novembre 2009)
G enere : synth - trance
Di Daniel Lopatin negli ultimi mesi si è detto tutto e il
contrario di tutto. Saltiamo perciò i convenevoli e passiamo a Rifts: doppio di 2 ore e mezza tecnicamente da
inserire nella sezione ristampe per una manciata di rarità
e la presenza degli album “ufficiali” (Betrayed in the
Octagon, Zones Without People), ma rientrante in zona
novità per un terzo lavoro appena uscito per la No Fun
a completarne la trilogia, Russian Mind, nonché l'omnia
rimasterizzazione da parte di James Plotkin.
Il maniaco del synth, il retrofuturista in fissa con la kosmische musik più liquida e sfuggente, l’esteta del suono nostalgico-passatista si mostra così in un processo
d'affinamento degli obiettivi: dai più granulosi ed aspri
(e ancora acerbi) primi passi, a un sound sgrassato delle
asperità e scorie noise verso le rotte della rinascita spacey di questi '00.(7/10)
Stefano Pifferi
Antonello Comunale
recensioni
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Oren Ambarchi - Intermission
2000-2008 (Touch Music UK,
Novembre 2009)
G enere : L owercase
Sarebbe riduttivo intendere Intermission 2000-2008
un'operazione assemblativa, non è soltanto un'istantanea sulla produzione parallela di Oren Ambarchi, bensì
un'opera sorprendentemente zen incentrata sull'algoritmica del monolite, su esotermismi annichilenti; dinamiche che allargano ancor più il raggio di ciò che Oren
Ambarchi può e sa fare.
Iron Waves con Paul Duncan alla voce, è l'esatta risposta
al Transit Fennesz / Sylvian; Intimidator con Anthony
Pateras al piano preparato, è una scavatrice di onde
basse che infrangono risacche di spazio per inghiottirlo.
Otto anni si chiudono in appena cinque traccie che di
minore hanno un assetto armonico pestato da cavernosa solitudine. Ed è la miglior risposta di Ambarchi a
coloro che lo considerano una figura derivativa, crocevia
tra Pan Sonic, Phil Niblock, Jim O'Rourke di una
error-music fatta con cavi e saldatori, pedali e macchine
midi.
L'ultima traccia A final kiss on poisoned cheeks (originariamente apparsa su Table of the Elements), è il paradiso
caotico di un disco quasi interamente basato su configurazioni ostili e droni cerebrali.(6.8/10)
Salvatore Borrelli
Pantha Du Prince - The Splendour
(Rough Trade, Gennaio 2010)
G enere : minimal techno
I concretismi glaciali che danno la spinta a The Splendour
li potresti sentire tranquillamente in un disco dei Múm
o dei Sigur Rós. Invece sono l’evoluzione dello “spleen
of consciousness” di Hendrik Weber: decenni di ascolti
shoegaze e dream-pop riportati sulla terra del beat al
passo corposo ed energico di una minimal techno in
egual misura debitrice di Detroit e Berlino.
Water Falls fonde Carl Craig, Basic Channel e Ulrich Shnauss, con un visibile (ma non troppo marcato)
tocco ambient alla maniera di Deepchord mentre l’antipasto del nuovo album Black Noise si chiude con Sach
Mal Baum, pietanza abbastanza in linea con le premesse:
pulsazioni calde e dense che animano microsamples geometrici ed astratti alla maniera di Monolake.
Appuntamento rimandato al 18 febbraio per ascoltare il nuovo corso di Pantha Du Prince. L’appetito è
stato stimolato quel tanto che basta per salivare ancora.(7/10)
Antonello Comunale
56
recensioni
Peter Brötzmann - Hairy Bones
(Okka Disk, Dicembre 2009)
G enere : impro
Un super gruppo particolarissimo in cerca di una deliziosamente impossibile quadratura impro, quello che
prende vita in Hairy Bones, un'ora abbondante incisa
in quel di Amsterdam nel settembre 2008, rigorosamente live. I quattro in questione sono il vecchio guerriero
del sax Peter Brötzmann (di cui possiamo ammirare
anche l'ottimo artwork), il di poco più giovane (è un clase '48) Toshinori Kondo con la sua tromba elettrificata, e
una base ritmica ben più giovane costituita dal talentuoso drummer norvegese Paal Nilssen-Love e dal "nostro"
Massimo Pupillo, già bassista degli Zu.
Lo schema prevede obblighi e libertà: ci si avventa sull'osso scozzando frenesia e lirismo, strattonando battute e
tensione con le vibrazioni truci e ossessive del basso,
spigolando sincopi febbrili di batteria, un ordito ispido e
teso su cui i due veterani imperversano tramando assalti
febbrili, l'un contro l'altro e l'uno con l'altro, dialoghi e
contrappunti scontrosi e sconnessi, a tratti formidabilmente lirici. Alle impellenze ayleriane del sassofonista
tedesco, il trombettista giapponese risponde spremendo
succhi davisiani mercuriali, ma le due tracce concedono
tempi e spazi per calcare territori più meditabondi dove
anche Pupillo e Nilssen-Love dicono la loro.
Disco che scuote come era lecito attendersi, eppure
in qualche modo prevedibile, prigioniero delle proprie
premesse. Un problema comune a molto impro, ahinoi.(6.6/10)
Stefano Solventi
Pimmon - Smudge Another
Yesterday (Preservation, Giugno
2009)
G enere : D rone , glitch
Primo album da cinque anni a questa parte per il solitamente prolifico Pimmon, Smudge Another Yesterday ci riconsegna un Paul Gough in splendida forma.
Nemmeno il sound-artist australiano riesce ad evitare
la malia del drone: accade così che quegli urticanti collage di scarti e rumori un tempo indiscusso marchio di
fabbrica vengano diluiti (come edulcorati) nel flusso di
un'atmosfera di fondo che, pur restando noise, si concede il lusso di farsi languida psichedelia come provenisse
da un disco di Fabio Orsi (col quale, pare, sia in programma una collaborazione a breve). Anche la voce di Kazumi, ospite in Don't Remember con
una serie di vocalizzi che si confondono nel magma sonoro, contribuisce ad alimentare sognante - oseremmo
dire psichedelico - che rende Smudge Another Ye-
highlight
Martyn - Fabric 50 (Fabric, Gennaio 2010)
G enere : C ompil ation tribal bbreakin - step
E' Martyn, consacrato sul palco del Fabric, a festeggiare il 50° anniversario di una delle serie più longeve e
amate dalle electroheadz. L'olandese mette in piazza l'anima breaking e celebra la cricca di amici wonkystep che va di moda oggi. E così via alle specialità: street, tribal (Drummin’ di Alec Wizz), 8 bit, insoliti flavour
caraibici (Bossa Boogie, stupendo Lost On Tenori Street di Maddslinky) e fumate Toddla T (ottimo il rockreggae remixato di Circles).
Tutto un patchwork che si combina alla perfezione, e inoltre ottime le tracce
di Zomby farcite di spezie che manco Luciano, la chicca hypno-tagliente
firmata Kode9 (Oozi), lo splendore da consolle del sempreverde Actress
(Slowjam), l’ortodossia di 2562 (Flashback) e l'acid nordica di Jan Driver
(Rat Alert). L'ostinazione al replay automatico sta nella sensibilità del ragazzo, una leggerezza d’altri tempi di uno che acquista più punti in consolle che in studio. Obbligatorio per i fan, consigliato per i parties del nuovo
anno.(7.3/10)
Marco Braggion
sterday uno dei lavori più fruibili (e meglio messo a
fuoco) della sterminata discografia di Pimmon.(7.3/10)
Vincenzo Santarcangelo
Piotta - S(u)ono diverso (La grande
onda, Ottobre 2009)
G enere : hiprock cros sover
Er Piotta e quell'italianità trashy che fa tanto Stacult
next generation. Ci sta. Poi però ascolti altro oltre a Supercafone e allora ti chiedi - come pure te lo chiedi dopo
esserti sciroppato la videografia dei sodali Flaminio
Maphia, quelli di Ragazza Acidella (e loro sono anche
peggio) - ma ci è o ci fa?
Da tempo Tommaso Zannello ha preso la via del crossover alla Caparezza e - di scorta - alla Articolo 31
versione restyling (ma con meno fortuna commerciale).
Ecco allora strumenti suonati (con momenti persino punkrock) e temi "engagé" come TV-cattiva-maestra, immigrazione (con tanto di frammento audio verité), violenza
urbana e paura del futuro. Già due palle i temi, tre palle
il modo di trattarli. Qualunquismo "contro" della peggio
maniera, tipo inno per quattordicenni stipati sottopalco
(il singolo title track sembra una versione ancora più
enfatica del Salvami del suo mito Jovanotti), con un pezzo che da solo spiega musicalmente dove ci troviamo:
Un'altra volta, e cioè Linkin Park (basta!) + Fabrizio
Moro (semiplagiato in Scappa). Le predicozze di Piotta fanno rimpiangere quelle di Capa, con quest'ultimo
che, per quanto ruffiano e musicalmente adolescenziale,
ha dalla sua - innegabili - l'inventiva linguistica e un flow
serratissimo. Piotta invece non sembra neppure uno che
alle spalle ha dieci anni e passa di rap, sembra adesso uno
dei tanti che vogliono fare in qualche modo il cantautore
("contro" o d'amore che sia) e che però scelgono di farlo
rappandoci sopra. Genuino, non c'è dubbio, però davvero indifendibilmente ingenuo.(4/10)
Gabriele Marino
Plan De Fuga - In A Minute
(About:Blank, Dicembre 2010)
G enere : indie rock
Tra la voce à la Eddie Vedder di Filippo De Paoli e
un songwriting nervoso che ricorda i Pearl Jam, sembrerebbe quasi di trovarsi di fronte a un quadro clinico già
definito, con i Plan De Fuga. E invece ci si accorge dopo
qualche minuto di dettagli che stridono, come certe chitarre acustiche al posto delle elettriche e una scrittura
che flirta felicemente con jazz e funk.
A creare continuità tra i cambi di umore repentini degli
strumenti e le melodie istintive, una ritmica costantemente sincopata. Materiale che funziona negli episodi più
strutturati (Fresh As Air) e un po' meno negli ammiccamenti palesi (Orange Room) ma che nel complesso fatica
a far emergere un'identità precisa, pur offrendo qualche
stimolo interessante.(6.5/10)
Fabrizio Zampighi
recensioni
57
highlight
facile etichettarlo come secondario che ricordarsene
con ardore.(6.2/10)
Owen Pallett - Heartland (Domino, Gennaio 2010)
G enere : chamber pop
Luca Barachetti
Al terzo album, Owen Pallett, assunto il proprio nome al posto del moniker Final Fantasy per evidenti
motivi di copyright, ha composto un personale song cycle di fiction contemporanea alla maniera degli adorati
Van Dyke Parks e Brian Wilson. Il pretesto narrativo del concept risale a un bel po’ di tempo fa e
all’idea di trattare attraverso la fiction temi quali l’appartenenza, lo sradicamento territoriale e, tra le altre cose, la xenofobia.
Concepito in quasi un anno di lavoro tra Canada, Stati Uniti e Reykjavik,
oltre alla collaborazione di Gentleman Reg, Nico Muhly, Jeremy Gara
(batterista degli Arcade Fire) e la Czech Philharmonic di Praga, il lavoro
è un equilibrato mix orchestrale nel quale convivono chamber e synth pop,
indie e songwriting classico, in un mix di analogico e digitale.
Alla base dei brani risiede una concezione polifonica e, come ha rivelato lo
stesso Pallett, l'album è stato concepito programmando l’orchestra come un
vero e proprio synth, cercando cioé di ricreare quello che era l'esperienza di Final Fantasy nei live: stratificazioni di suono - tendenti alla saturazione - che creavano un muro orchestrale.
La liricità e uno spiccato senso della melodia fanno il resto, con empatia e senso alto del dramma, forgiando un disco pop nel senso più compiuto del termine. Il lavoro più maturo del Nostro e la consacrazione
che ci si aspettava.(7.4/10)
Teresa Greco
Puerto Rico Flowers - 4 EP (Fan
Death, Gennaio 2010)
G enere : P op D arkwave
Rhett Miller - Rhett Miller (Shout!
Factory, Giugno 2009)
G enere : power pop d ' as salto
John Sharkey III è il frontman dei Clockcleaner, postpunk band di Philadelphia attiva dal 2003 che solo un
paio di anni fa licenziò un ottimo Babylon Rules dalle
pesanti influenze Killing Joke (che sembravano però
alle prese con delle cover dei Cramps). Oggi il nostro
cambia nome e mira al cuore pop degli eighties, come in
una versione rock dei Depeche Mode, devozione che
ci ricorda i concittadini Cold Cave con la differenza che
dove il quartetto di Eisold puntava sull’elettronica, lui integra l’heavy sound della precedente formazione.
La batteria è uno stomp che incede minaccioso, il basso
possiede l'elettricità di un cavo ad alta tensione e un
synth liquido irrora ogni brano di linfa vitale analogica. E
la chitarra non serve: Sharkey scrive e registra da solo,
aggiungendo un vocione lamentoso a decantare insicurezze e fallimenti. La formula assai azzeccata prepara il
terreno per le prossime uscite. (7.2/10)
Lavoro in solitaria per Rhett Miller, leader dei momentaneamente fermi Old 97's - ma l'ultimo disco, Blame
It On Gravity, risale all'anno scorso. Nelle sue avventure soliste il songwriter texano è solito tirare fuori
un'anima power-pop in buona parte distante dall'altcountry d'aurea Uncle Tupelo della band originaria, al
quale l'accomuna però lo stesso spirito d'assalto marchiato Replacements.
Così accade in questa quarta opera autografa e dal titolo
omonimo: un retrogusto Beatles più o meno spiccato
un po' ovunque (la rullante Nobody Says I Love You Anymore, l'ascensionale Hapazhardly), qualche devozione Kinks
laddove viene tirata fuori tutta la ferraglia per mettere
in scena una fantasmagoria a mo' di biglietto d'auguri
alla figlia Soleil e il suo centesimo compleanno (Happy
Birthday Don't Die) e gli ovvi ammorbidimenti acustici in
punta di voce (Bonfire) che interpongono momenti di
quiete tra una sgroppata e l'altra.
Miller non cala mai di tono, ma nemmeno esalta più
di tanto. Certo piace parecchio quando imbastisce un
quadretto così velenosamente ironico come in Another
Girlfriend, tuttavia soprattutto nei prossimi mesi sarà più
Andrea Napoli
58
recensioni
Samuel L Session - The Man With
The Case (Be As One, Ottobre 2009)
G enere : T echno , groove
Di Samuel S. Session, svedese di Gothenburg, si sapeva
poco prima di The Man With The Case: titolo che fa molto
Mission Impossible e vintagedelia fine Sessanta, ma che
con l'immaginario in questione non ha nulla a che fare se
non la voglia di futuro espressa in un misto di tecnologia,
abiti aderenti e apolidismo spinto. Li evochiamo perché
sono gli stessi ingredienti portati a battesimo da tre ragazzi di Belleville, Detroit che a furia di mandare a memoria
i Kraftwerk fecero una rivoluzione che risuonò almeno
fino ai cent’anni del Futurisimo, ovvero l’altro ieri. Le notizie ufficiali del my space danno Session attivo fin dalla genesi della techno ma è soltanto dieci anni dopo, nel 1997,
che il producer inizia l'attività vinilica. Dodici pollici, ma
soprattutto singoli, si susseguono a gettito continuo da
allora sia per label in proprio (Solid Beat, Cycle and Klap
Klap) sia per altri (come Planet E, Soma and Intec).Tassello imprescindibile nell'immancabile zona remix: Pump The
Move di Kevin Sauderson, il numero tre della famosa
triade techno, quello con quei bassi profondi che a Samuel
non gli usciranno più dalla testa. Lo svedese li amplifica (e
se possibile li dilata); la dorsale dell’esordio è forgiata
ed è il maestro stesso a includerlo nel doppio antologico History Elevate dello
scorso luglio. The Man With
The Case all’old school deve
molto ma è un prodotto
tutt'altro che derivativo. Il
tratto di Session emerge come uno smalto groove asciutto e preciso come gli indizi che riportano alla storia della
ricezione techno europea (soprattutto UK). Oltre all’ortodossia Roland, troviamo spezie sci-fi marchiate Korg
che da Ibiza ci portano diretti alla Warp (Autechre) ma
anche a pionieri come KLF e Orb. Un affaire di miratissimi ingredienti per un album che certamente insegue
il sogno del disco techno perfetto. Quasi quasi, il buon
Session ha fatto bene a promuoversi con un foto set à la
Star Trek. Non ci ridete su, l’uomo viaggia nel tempo che
è una meraviglia e se l’amido progressivo di Lucios è il colesterolo buono, quello cattivo si manifesta in due bombe
ipnotiche e trancey come The Soloist e Past And Present.
Ascoltatelo.(7/10)
Edoardo Bridda
Screaming Lights - Like Angels
(ANTI-, Dicembre 2009)
G enere : W ave pop
Diviso e indeciso tra wave rock (con le chitarre à la Interpol, White Lies, Editors) e wave pop (ballate al
piano, pastelli synth e crooning vellutato à la Ian McCulloch), questo giovanissimo quartetto di Liverpool non
convince né in una veste né nell'altra. Bravo chi tira le
loro fila. Chi li ha fatti provare e riprovare. Ma non è
proprio una cavia da contest - il cui obiettivo prossimo è
già una certa adultness firmata Coldplay o Starsailor
- quella di cui abbiamo bisogno.
Fucilate chi ci sente i Teardrop Explodes, o appiccica
facili paragoni a certa epica Echo & The Bunnymen,
piuttosto sentiteci i Comsat Angels dai quali gli Interpol hanno preso gli aspetti più kitch.
Avranno anche vinto il referendum degli ascoltatori
BBC come migliore band emergente presente al festival
di Reading, ma dietro a una bella voce c'è un karaoke
senza passione e, come dicono loro, pretty sweet, fuck
you.(6/10)
Edoardo Bridda
Sergio Altamura - Aria meccanica
(CANdYRAT Records, Dicembre 2009)
G enere : wave rock
Si è sognato chissà quale film, Sergio Altamura da Molfetta, e se lo è musicato. Disegnando cerchi eccentrici,
concentrici, incrociati, il perno ficcato nella chitarra acustica (6 e 12 corde), suonata sia in purezza che in regime
di marcata rielaborazione, l'archetto e gli effetti sintetici,
le percussioni frenetiche sulla cassa armonica nel pullulare tribal-wave. Il tema, se ho ben capito, è il conflitto
tra l'individuo senziente e lo spazio disumanizzante della
metropoli, dove la natura residua è testimone muto e
ultimo ricettacolo di speranza.
Le tentazioni ambientali rimandano a certe angosciosi e
suggestivi trip Robert Fripp & Brian Eno, il languore
mediterraneo alla potabile indolenza d'un Mauro Pagani, quell'ariosità da landscapes trasognati al Pat Metheny in vacanza dal jazz. Poi però ti convinci che questo
disco - il secondo a suo nome - non potrebbe esistere
senza il caracollare sperso dei Red House Painters e
le digressioni ab libitum di tanto post-rock, per non dire
della strisciante inquietudine contemporanea che puoi
far discendere dalla post-wave Depeche Mode e far
risalire persino ai Radiohead.
Bellissimo lo pseudo camerismo di Arkestra, suggestive le
volute di Dragonfly e le battenti irrequietezze di Flipper
Special. Disco deliziosamente inqualificabile.(7/10)
Stefano Solventi
recensioni
59
Strange Flowers - Vagina Mother
(Go Down Records, Novembre 2009)
G enere : rock - psichedelia
E' psichedelia didascalica e un po' facile, quella degli
Strange Flowers. Materiale che gioca con gli stereotipi
di genere adagiandosi tra navigato stupore e mestiere,
qualche buona idea e clichè. Dalla sua, una scrittura che
riesce a conciliare chitarre elettriche e melodie pop da
garage band Sixties, con in più reminiscenze Black Rebel Motorcycle Club (Blue Mother), malinconie Ride
(Powder Tears), parentesi barrettiane (Seven Years Old Poets) e qualche rilettura sorprendente di standards fuori
asse (la cover trasfigurata della Hollywood di Madonna).
A fare da collante wah wah onnipresenti, echoes, deviazioni acide controllate (il finale vorticoso di The Insect
And The Fish) e mai troppo spinte lungo il crinale della
sperimentazione. Il che ci porta a concludere che l'obiettivo della band pisana sia soprattutto diffondere il verbo,
affamando un tantino il fervore in favore di una formula
digeribile ai più e friendly a sufficienza per garantirsi qualche passaggio radiofonico fuori dai soliti giri.
Produce Federico Guglielmi del Mucchio Selvaggio,
per un disco psichedelico nella forma più che nella sostanza ed esentato dal correre grossi rischi. Dopo due
decenni di underground alle spalle - il primo episodio
della band risale al 1990 - sembra quasi comprensibile.(6.6/10)
Fabrizio Zampighi
Strong Arm Steady - In Search of
Stoney Jackson (Stones Throw,
Gennaio 2010)
G enere : hip hop
Gli Strong Arm Steady del nero-albino Krondon
avevano già incrociato Madlib un paio di volte e, al
momento di sfornare il secondo LP, ne hanno voluto la
prestigiosa firma alla produzione (le basi sono state scelte dal gruppo su una vasta selezione di beat approntata
highlight
Unthanks (The) - Here’s The Tender Coming (Rough Trade,
Settembre 2009)
G enere : modern folk
Impresa ardua tenere testa a un predecessore discografico che ha impressionato per qualità e raccolto
premi ed elogi ovunque, riviste e nomi celebri inclusi. Ancor più se, al terzo
lavoro, si rifiutano comode opzioni pur mantenendosi fedeli a un’immaginaria
linea tracciata a congiungere coscienza del passato e desiderio di ammodernamento. Assecondando, in altre parole, la regola che consegnare musiche
oggi importanti, che da qui a dieci o cinque anni riassaporerai intatte in tutto
il potenziale evocativo e in tutta la bellezza.
Solo pescando dal proprio retaggio - qualunque esso sia - con atteggiamento
felicemente “interpretativo” hai la chiave del rebus: non è cosa alla portata
di tutti e altrettanto valga per l’abilità prodigiosa di rimanere distinguibili nel
cambiamento. Tali erano dunque i presupposti del disco e le risposte sono un nome di battesimo diverso (nel quale Rachel Unthank adegua il ruolo della sorella Becky nel progetto) e l’espansione della
formazione allo strumentista Chris Pierce e al produttore Adrian McNally. Soprattutto il cambiare
rotta senza scossoni, affidandosi ad arrangiamenti ricchi sebbene bilanciati e a un’accentua presenza della
sezione ritmica, cui sono da aggiungere - e, in parte, attribuire - melodie avvolte di un’inedita luminosità.
Senza che la compattezza dell’opera venga meno, accogli la sublime Annachie Gordon (acusticherie, minimalismo e prog del più acuto), le venature pop dell’elaborata Lucky Gilchrist, il gusto per intrecciare forme
cristalline della traccia omonima e di Sad February. Salvo cedere definitivamente di fronte a ciò che tutto
unisce grazie a una capacità comunicativa mai scontata, valgano a esempio l’iniziale Because She Was A Bonnie Lad, una Living By The Water jazzata e cameristica, il riaffacciarsi di atmosfere cupe nel madrigale At First
She Starts. Così il folk anglo-celtico respira una vita sperimentale, moderna, fresca. Nuova, anche, per quel
che storia ed evoluzione permettono negli indecifrabili Anni Zero.(7.6/10)
Giancarlo Turra
dall'amico e sodale di Mad J Rocc).
Momenti buoni sia nella musica che nel flow e un paio di
pezzi ottimi, eppure uno score stiracchiato. Forte la sensazione di assemblaggio e routine madlibiana alla base
della solita collaudata miscela funkdiscosoul, senza lampi
particolari. Gli Strong come rapper sono apposto, ma la
classe è materia per i guest Planet Asia, Guilty Simpson (in uscita per lui un album sempre prodotto da
Mad, il singolo è già fuori) e Talib Kweli. Per completisti
della West Coast Duemila e della discografia madlibiana.(6/10)
Gabriele Marino
Supersilent - 9 (Rune Grammofon,
Gennaio 2010)
G enere : avanguardia
9 e lode, verrebbe da dire giocando con la scelta numerica che da sempre contraddistingue la discografia del
collettivo norvegese. Sì perché, tanto vale dirlo subito,
9 è un disco discutibile
quanto si voglia, ma che
innegabilmente segna un
passo ulteriore nella circumnavigazione del (post)
jazz d’avanguardia degli
anni '00.
Perso per strada il batterista Jarle Vespestad, l’ormai trio si è messo l’anima in pace e ha deathprodizzato
la propria proposta: solo organi hammond moltiplicati
per tre che rendono ancor più astratte le composizioni
untitled cui siamo abituati. Gli orizzonti si rarefanno e
paradossalmente i pezzi acquistano un respiro (se possibile) ancor più ampio rispetto ai precedenti. Ai confini
del noise minimale e chiesastico (9.2), dentro un abisso
di solitudine innevata (9.3) o intento a infiorettare ambient sfuggente da aurora boreale che si fa quasi horror
(vacui) soundtrack (9.4), il terzetto imbastisce un disco
cosmico e oscuro, psichedelico e ancestrale e sicuramente unico nella propria discografia. Che sia un nuovo
inizio o un episodio a sé stante, solo il tempo saprà dircelo.(6.9/10)
Stefano Pifferi
Tempelhof - We Were Not There
For The Beginning, We Won't Be
There For The End (Distraction,
Novembre 2009)
G enere : ambientronica
Chiedete ai Tempelhof una definizione di elettronica.
Vi citeranno Brian Eno, certo ambient in minore, una
60
recensioni
techno minimalista e un krautrock a maglie larghe. E'
ciò che si ascolta nel disco della band mantovana, tra
dilatazioni in crescendo rubate a un post-rock in salsa
Notwist (The Black Calypso) e parentesi cinematiche da
dieci minuti di durata (Ten Years After), campionamenti in
reverse (Song For Lily) e “multistrati” à la Tim Hecker
(la title track).
Nel gioco di sponda che si fa equilibrio più che sperimentazione fine a se stessa c'è personalità e una certa
eleganza formale, filtrata da un approccio metodico e
cristallino. Il gruppo sa dove mettere le mani, anche se un
minimo di weird in più non avrebbe certo guastato in un
programma che affida a un pianoforte "normalizzante"
il compito d'indirizzare la spinta centrifuga degli sfondi
evocativi.(7.1/10)
Fabrizio Zampighi
These New Puritans - Hidden
(Angular Recordings, Gennaio
2010)
G enere : M edioeval wave
Jack Barnett, voce chitarra e mente dei TNPS, basta guardarlo negli occhi. Il suo è lo sguardo di chi alle interviste
mente sornione e di chi alla bisogna sa e conosce il suono della propria creatura in ogni particolare inimmaginabile. Con Hidden, è chiaro che le teste basse dei compagni di cordata fanno compagnia allo sfondo della tela
e il maître ha pensato in grande. Per mesi ha cogitato il
next step bilanciando millimetricamente la semplicità e
pulizia del formato (pop come lo chiama lui) alla complicazione dell'arrangiamento
con perseveranza e maniacalità rimarcabili. Non pago,
si è persino trasferito per
un breve periodo a Los Angeles per attivare con Dave
Cooley (il fonico preferito
dalla Stones Throw) una
partnership per il missaggio
e, nel frattempo, ha ottenuto da Graham Sutton (Bark
Psychosis, Boymerang) una co-produzione per l'album.
La nuova miscela doveva ed è il sorpasso di quel Beat
Pyramid che già mirabilmente si configurava come post
punk pensato con i sequencer (e i bassi) dell'hip hop e
le terzine (e la melanconia) del dancehall; lo rappresenta
per uno stuolo di espedienti a entrare in scena, alcuni
spettacolari come i tamburi Taiko, altri da segaioli sottoforma di field recording di meloni e lame che ricordano
Matthew Herbert; e sorpattutto per gli smalti e i sapori medioevali (nostri e giapponesi) trattati secondo
dettami minimalisti (le forme semplici e geometriche
recensioni
61
delle Vexations di Satie) e caratterizzanti un nuovo corso
settato (oltre che sul tipico canto codice Morse), su inni,
fanfare, cori quasi gregoriani e di bambini e così via.
Già tra le righe il passo falso di un'operazione del genere
è intuibile, eppure nel singolo non ci sono che i pregi di
tanto lavoro; ottimo il bilanciamento caldo degli ottoni
(dimenticavamo una piccola orchestrina ingaggiata per
questa e altre tracce) alla solenne e secchissima percussività delle drums nipponiche, espediente che ritroviamo
anche nell'altra bella Drum Courts-Where Corals Lie, nella
quale un inedito Jack, dolce e accorato, osserva le profondità marine narrate.
Altra traccia riuscita Three Thousand, converte in thrilling
le voglie soundtrack à la Massive Attack del singolo
pur dandoti quel brivido post-Wire che non guasta e
che troneggia in una dura Fire Power, finalmente senza
troppe menate e giochi d'angolo.
Strega e, al contempo, ti lascia addosso un'irrisolta ambivalenza (quando non un poco di irritazione) il sophomore dei TNPS, ambiguità che non si scioglierà neppure
dopo ripetuti ascolti. Calcolata è calcolata anch'essa, ma
non doveva essere semplicemente pop?(6.9/10)
Edoardo Bridda
Todd - Big Ripper (Riot Season,
Novembre 2009)
G enere : N oise R ock
Instancabile Craig Clouse. Dopo appena 2 mesi dall'uscita dell'ultimo Shit & Shine, sempre sotto Riot Season,
eccovi tredici tracce di garage noise delle origini, né riveduto né corretto, semplicemente ultramplificato firmate dai suoi Todd. Come per il precedente Comes To
Your House, tra mono riff caciaroni, latrati David Yow, e
ritmi 2 quarti, è come ai bei tempi Amphetamine Reptile,
quando i bassi muscolosi parlavano la lingua di Melvins
e Cows, anche se qui l'impianto è aggiornato Lightning
Bolt così da stuzzicare le leve più aggiornate. Declinazioni del verbo madre sì ...e mega-crunch-boostStooges.(6.9/10)
Leonardo Amico
Tommy T - The Prester John
Sessions (Easy Star, Novembre
2009)
G enere : etnorock
Thomas T. Gobena è l'attuale bassista dei Gogol Bordello. Se con la band "madre" vive già un'idea di contaminazione musicale forte, strapazzata e casinara, con
questo esordio solista spiazza tutti, proponendo una jam
invece compostissima, in odore di worldfusion, a cavallo tra turnismo di classe e pastosità reggaedub alla Fat
62
recensioni
Freddy's Drop (non mancano pure funk e psichedelia,
assolate e sabbiose).
Alla base della miscela, ci tiene però a precisare l'autore,
stanno i temi e i modi tradizionali del paese natio, l'Etiopia, tanto che in filigrana lungo tutto il disco - prevalentemente strumentale - si dovrebbe leggere la narrazione
per quadri sonori delle vicende di Prete Gianni (il Prester John del titolo), personaggio leggendario del folklore etiope e della tradizione cristiana medievale. Tommy
T, come Prete Gianni, vuole celebrare le bellezze della
propria terra e si propone come loro ambasciatore nel
mondo.
Disco suonato benissimo (registrato in rilassatezza
nell'arco di quasi tre anni) e risultato di assoluta piacevolezza, una piccola sorpresa etnorock, tenuta comunque
in conto la ripetitività delle take più reggaedub e la nota
francamente stonata del cameo finale dei compagni di
Bordello.(6.8/10)
Gabriele Marino
TwinSisterMoon - The Hollow
Mountain (Blackest Rainbow,
Novembre 2009)
G enere : psyck folk
Ormai lo sappiamo. Twisistermoon altro non è che Mehdi Ameziane in trasferta nelle lande naïve di un suono
folk magico e pagano, libero finalmente di dare spazio
all’altra metà del suo cielo. In pratica, un lato ben preciso
del diamante chiamato Natural Snow Buildings, che
invece gioca proprio sull’alternanza e la varietà. Stando
alle metafore proprie della band, qui c’è solo la luna ad
illuminare i passi di una musica mai così umorale e “sentita”.
Pubblicato esclusivamente in vinile in un centinaio di copie ad inizio 2009 da Dull Knife, The Hollow Mountain,
ultimo parto solista, vede ora nuova luce grazie alla
stampa su cd messa in essere da Blackest Rainbow. Lavoro molto centrato e omogeneo, che inizia lì dove finiva il precedente Levels And Crossings, ovvero sulle
note di un raga folk occulto e primitivo (Druids), salvo
poi abbandonarsi nella infinita mestizia cantata a mezza
voce, ricurvi sulle note di una chitarra pizzicata come
se fosse l’ultimo atto definitivo prima di morire. Mehdi si abbandona quindi ad uno struggimento da ultimo
dei romantici (Sun Snaring, Errand, The Hollow Mountain),
con una natura che riscalda cuori solitari da errabondi
in terre di nessuno (Walhalla) e una connessione con gli
spiriti gentili di un romanticismo senza freni (“Please let
me keep one of your eyes. I will swallow it, so you’ll know me
from the inside” da Unseen Seen).
Il disco originale finiva poi sulle note disperate di una
Conjuring che lasciava in qualche modo il discorso aperto. Volutamente chiuso questa volta con un mini ep di
corredo messo in appendice a mo’ di bonus tracks “nascoste”, ovvero Doomed Me In Skies To Dwell che si articola in altre nove tracce e suggella in modo definitivo il
miglior disco (dei tre e mezzo pubblicati finora) di Mehdi
Ameziane. Solange arricchisce come suo solito con artwork spettacolare.(7.5/10)
Antonello Comunale
Vinegar Socks - Self Titled
(Grinding Tapes, Dicembre 2009)
G enere : folk blues
Mi fanno pensare a degli Arcade Fire fermi ad un crocicchio assieme al Mike Scott solista, intenti a decidere
se prendere la via d'una taverna dove li attende un frugale Tom Waits o di un cinema dove proietteranno il
Pinocchio di Comencini. Oppure un Patrick Wolf che
risciacqua i panni nel camerismo irrequieto dei Venus.
Sono i Vinegar Socks, un duo "aperto", nato nel 2008
dall'incontro tra il chitarrista e cantante statunitense
Jordan De Maio col violinista italiano Paolo Petrocelli. Il
loro è un folk che inspira tradizioni trasversali ed espira
tremori contemporanei.
Gli spazi bretoni, gli umori mediterranei, malanimo mitteleuropeo, inquietudini gotic, una certa veemenza da
busker che gioca a dadi tra epica e marciapiedi (con l'epica dei marciapiedi), puntando ad un immaginario da
cinema che spiccia visioni
ad altezza d'uomo. Non a
caso il loro primo impegno
è stata la soundtrack di
Dieci inverni, opera prima
di Valerio Mieli presentata
alla Mostra del Cinema di
Venezia del 2009. Il precedente è di tutto rispetto, però
stupisce la maturità di questo omonimo esordio, vuoi
per la matura intensità della scrittura vuoi per la ricca
essenzialità degli arrangiamenti, innervati certo su chitarra e violino ma cui contribuiscono archi, oboe, contrabbasso, il tipico bodhràn irlandese e soprattutto un
mandolino che in un certo senso ribatte le cuciture.
Tra le dodici tracce, spiccano la delicata doglianza di Vacation From A Vacation, il trascinante languore di Salesman
In Love e lo swing da bettola alla fine del mondo di Zeppo.
Un gran bel disco, del tipo out of time che ti guarda negli
occhi.(7.3/10)
Yello - Touch (Polydor, Ottobre
2009)
G enere : elettronica hi - tech
E' un piacere scrivere degli Yello. Anzitutto perché, anche questa volta, parliamo di un album piacevole; poi
perché la 16sima fatica da studio (compilation più, compilation meno) a 6 anni dal precedente The Eye (se si
esclude Progress and Perfection, opera strumentale del
2007 limitata a 350 copie) aggiunge qualche spezia alla
già ricchissima ricetta del duo svizzero. L'incipit The Expert trae in inganno, proiettando l'orecchio attento nelle atmosfere dei titoli più recenti; il secondo passo, complice la voce della connazionale Heidy
Happy, attualizza il discorso verso una lounge impastata
a malinconia adulta e quasi insperata per i nostri. Lontana è l'enfasi di Shirley Bassey nella declinazione The
Rhythm Divine: uno straniamento nordico sbuffa direttamente in gola quella secca eleganza che giocherà da collante per il resto dell'album (Vertical Vision, Stay).
Out Of Dawn è amore perduto, per il sottofondo di un
wine bar hi-tech (ma una chitarra classica in carne e ossa
sarebbe stata preferibile al suo campionamento); Till Tomorrow vanta la tromba post Chet Baker del tedesco
Till Brönner; Tangier Blue brilla di una cupezza in bilico
tra esoterismo e delicati manierismi esotici.
Perdonati certi inevitabili episodi di funky robotico, il rimanente si conferma in virtù di un'invidiabile ispirazione. Il rifacimento del classico Bostich suona invece come
un omaggio dovuto (ah sì?) per la frangia dei fan irriducibili.
Complessivamente Touch si attesta tra le prove più riuscite e godibili della seconda fase Yello, quella cioè nella
quale un artista, delineata l'originalità del suo stile, trascorre le ore rimanenti della propria creatività ricamandoci attorno ghirigori a forma di variazioni.
(7.6/10)
Filippo Bordignon
Stefano Solventi
recensioni
63
live report
Pan Sonic/Martin Rev
L ocomotiv B ologna
28 N ovembre 2009
Le due facce del rumore. Chi non può che prendersi
poco sul serio, e chi ha bisogno di celebrarsi. Nuove
e vecchie mitologie
I due lati opposti del mito. O meglio, le due interpretazioni sulla linea di superficie. Una serata con Pan Sonic
che si celebrano per l’ultimo degli ultimi concerti (o quasi) e un Martin Rev che porta sul palco il suo passato
è ricca di considerazioni per il mondo sofisticato - e
underground, sia chiaro - dell’elettronica. E quindi non è
male vedere le due attrazioni specchiarsi l’una sull’altra
e notarle riflesse con notevoli divergenze.
Ma andiamo con ordine. Apre le danze al Locomotiv di
Bologna il redivivo Martin Rev, che sfoggia i mitici (non
è aggettivo usato in senso ingenuo) occhiali da sole dei
tempi che furono per dire che i tempi sono. Indefinibile la
sua età (in realtà nota, basta fare due conti). Ineccepibile
la forma. Intatta la nonchalance. E il ghigno con cui esalta
chi vuole divertirsi con l’ironia con cui Rev si approccia
e ci ripresenta oggi a quel periodo - e quella band - che
tutt'ora porta con sé una sacralità intatta. Parliamo della
no-wave, e dei Suicide, ovviamente. Della band Martin
ci riproduce - come spirito, soprattutto, e con tanto di
vocalizzi strozzati alla Alan Vega - il secondo disco, con
quel gioco synthetico, urbano e già più glam che intellettuale. Eppure ancora essenzialmente “no”. Qui sta la
capra e il cavolo. Ciò che sottolinea lo snellissimo Martin
e il suo armamentario di elettronica è la possibilità oggi
di aprire un barattolo e ascoltare anche dal vivo la nowave in vitro. La no-wave che non appartiene più solo a
un tempo e a uno spazio irraggiungibili, i cui protagonisti
in tanti abbiamo visto direttamente sul palco.
E per uno che denuncia a suo modo l’artificialità della purezza del mito, altri due che si prendono sul serio
64
recensioni
finendo per risultare meno credibili. Qui partiamo dalla fine. Una scritta cubitale passa sugli schermi che fino
a poco prima avevano ospitato il più classico e atteso
spettrogramma minimale tipica degli ex-Panasonic. La
scritta recita, appunto, “Pan Sonic”. Celebra un evento
avvenuto. E chiude con coerenza un set fatto di scarsissimo rigore, e che quindi di fatto ha negato la principale
cifra distintiva dei Pan Sonic. Almeno dal vivo. Pezzi isolati, scoordinati tra loro, sbruffonate di rumore bianco
(seppure bellissimo), tanti stralci di Kulma (per i fan),
molti colpi a effetto. Le orecchie apprezzano, il corpo e
la mente meno. Niente di grave. Li aspettiamo a rinnovare il rigore (in vitro), in una reunion.
Gaspare Caliri
Woven Hand/Six Organs Of
Admittance
T eatro R asi R avenna
18 N ovembre 2009
Un polverone folk che torna alle radici con Six Organs Of Admittance e Woven Hand
Ammirevole.Traslare il rock meno convenzionale dal palcoscenico di un club a quello di uno dei teatri più illustri
di Ravenna. Bronson Produzioni si conferma come
una realtà solida guidata da appassionati e noi ringraziamo sentitamente. Anche perché non capita tutti i giorni
di poter assistere a un doppio concerto comodamente
seduti, con un impianto luci degno di questo nome e un
suono avvolgente. Senza dimenticare il valore aggiunto
dell'abside della chiesa monastica di Santa Chiara a fare
da sfondo naturale a un evento che, sulla carta, è di quelli
da non perdere.
Six Organs Of Admittance e Woven Hand: come a dire,
due modi diversi di dare alla musica una valenza profonda
e lontanissima nel tempo. I primi persi in un fingerpicking
dilatato in bilico tra psichedelia e suoni ancesterali, i se-
woven hand
condi spacciatori di incubi biblici e metà oscure da “bassa” sudista americana. E' un polverone folk che torna alle
radici, e poco importa che la chitarra di Ben Chasey
sia una Fender elettrificata o che il sempre coreografico David Eugene Edwards macini fondali registrati di
synth sulle solite fucilate di sei corde tremolanti.
Ci sarebbe di che gioire, ma ci accorgiamo con il passare dei minuti che non è tutto oro quel che luccica.
A disilluderci pensano proprio i Six Organs Of Admittance, a cui tocca aprire. Ce li aspettavamo lucidi,
razionali e invece per la prima mezz'ora ci troviamo di
fronte a un'entità scoordinata, poco in serata, persa tra
coinvolgimento ai minimi storici e suono impastato, autoflagellazioni strumentali e resa mortificante delle ottime cose ascoltate su disco. Più che a John Fahey, Chasey
somiglia a un John Garcia dei Grateful Dead musicalmente sovrappeso e poco creativo, con i suoi virtuosismi freddi come il marmo e il resto della band (batteria
e due chitarre elettriche, di cui una torturata dalla Elisa
Ambrogio già nel libro paga dei Magic Markers) che lo
segue in ogni passo falso. Difficile giustificare il tutto, se
non chiamando in causa un momentaneo sbandamento.
Tanto più che nella seconda parte di set ci si riprende
un poco - anche grazie a un battere ai tamburi capace
finalmente di sintonizzarsi sulle divagazioni elettrificate
del front man -, ritrovando il bandolo della matassa e
riuscendo a recuperare la compattezza necessaria per
chiudere (quasi) in attivo.
Discorso diverso per Woven Hand. Il buon Edwards è
di casa qui, come dimostra il suo passaggio all'Hana-Bi di
Marina di Ravenna della scorsa estate. Tanto che ormai
il musicista americano recita come da copione, con le
solite pose da tarantolato, echoes Mississipi anni '30 e
un'espressione che da sola fa metà concerto. Bandana in
testa, riflettore costantemente puntato sulla sua persona, voce riconoscibilissima e accordature aperte sotto
un bottle neck che con due note butta giù il teatro. Un
misto di mestiere e reale trasporto che piace da morire,
sorretto com'è da un power drumming studiato ad hoc e
certi bassi di regola coriacei e inquietanti, anche se non
sempre a tono. Come nel caso di una Straw Foot ripresa
da Secret South dei Sixteen Horsepower, di cui questi
ultimi contribuiscono a minimizzare il fascino arcaico
con un'invadenza quasi fuori luogo. I momenti migliori,
comunque, sono quelli in cui il leader della formazione
si concede in solitaria, alternando alla schiera di chitarre
riposte in ordine alle sue spalle la banjola d'ordinanza. Il
mood ne guadagna a dismisura e in questa veste emerge pure il reale background di Edwards. Sospeso consapevolmente tra tradizione rock-blues e un approccio al
canto radicale, come potrebbe essere quello di un muezzin arabo o di un nativo americano. Anche nella Heart &
Soul cover dei Joy Division che come di consueto chiude
il set e manda tutti a casa col groppo in gola.
Fabrizio Zampighi
recensioni
65
Ettore Giuradei/Mariposa/Il Pan
del Diavolo....
N everl andinverno
C astello C olleoni B ergamo
dal 14 N ovembre 2009 al 19 D icembre
2009
grazie ad una presenza di palco fisica e degenerante. Allo
stesso modo cantautorale la terza serata, che vede Airìn
e le sue melodie ariose con testi tra l'intimo e l'ironico
ma una voce non sempre all'altezza fare da spalla all'esibizione assai intensa di Paolo Cattaneo, bresciano con
ascendenze Riccardo Sinigallia e trance pianistica che
abbraccia i presenti sempre di buon numero.
Un castello, una serie di concerti, un luogo che d'in- De Il Pan del Diavolo si è parlato tanto in questi mesi
contro che nasce. E nella provincia bergamasca non e con merito, vista la solita rustica irruenza portata ansolo i cartelli dei paesi scritti in dialetto, il dio Po e che nell'esibizione di Solza che ha aperto il cartellone
di dicembre, ma l'impasto Rino Gaetano-Marta Sui
le ronde
Tubi-Violent Femmes alla lunga pare un ricorso stoArrivato alla seconda edizione, Neverland. Isola senza rico non così necessario e la curiosità (di verifica) per il
confini fa il passo che ti aspetti, ovvero si allarga e acqui- primo disco sulla lunga distanza in uscita prossimamente
sta importanza. Da due o tre anni a questa parte musical- è tanta - mentre poco da dire sugli Arturo Fiesta Cirmente parlando nell'Inverno della provincia bergamasca co in gravitazione come troppi altri sul pianeta Vinicio
non succede quasi nulla, e così il festival organizzato al Capossela. I Mariposa invece portano al Castello ColCastello Colleoni di Solza - e ribattezzato per la parte leoni un progetto speciale, la riproposizione per intero
autunnale-invernale Neverlandinverno - dall'Associa- dell'esordio Portobello Illusioni riletto alla luce delle
zione Luna Nuova con la direzione artistica di Alessandro esperienze successive, e offrono la miglior esibizione di
Giovaniello (lo stesso di Rockisland, sorta di contraltare questa edizione di Neverland e, per chi scrive, una delestivo “anziano”, diciotto edizioni quest'anno, a Never- le loro migliori di sempre. Li apre il cantautore psicheland) diventa punto di riferimento, occasione di passaggio delico Dario Antonetti, sorta di Antoine proveniente
e incontro per appassionati, addetti ai lavori e musicisti.; da Marte che snocciola non-sense acustici sotto l'omIdeale il luogo, il suggestivo castello che nel 1395 diede bra verdeacida di Syd Barrett e il saltuario accompai natali al condottiero Bartolomeo Colleoni, con la sua gnamento alla batteria di Alessandro Fiori, ispiratissimo
divisione tra sala-bar e sala concerti che evita il difetto come i compagni che nel loro set offrono al pubblico
tutto italiano di chiacchierare durante i set (chi vuole tutta la magia del progetto Mariposa - leggasi musica
ascoltare sta dentro, chi vuole parlare va al bar) e che al componibile: che diventa a seconda dei momenti deriva
contempo favorisce una dimensione intima, spesso acu- radiofonico-psichedelica, quadretto Yann Tiersen grastica, dove la musica si sente (bene) e anche si vede. Suc- vido di malinconia, folleggiamento di accelerazioni funky,
culento il cartellone, con sei appuntamenti tra novembre improvvisazioni linguistiche e cori alpini.;
e dicembre sempre di sabato (e tanti altri da gennaio a Ultimo appuntamento infine con Tablo (cantautoratomaggio 2010, tutti gratuiti) e due esibizioni per sera con pop acustico dagli esiti Roberto Angelini-Niccolò
appendice di altre sei date al Bloom di Mezzago, a spa- Fabi che deve crescere) ed Ettore Giuradei con le
ziare agilmente nelle lande sempre più ampie dell'indie canzoni del pluripremiato Era che così. Un piccolo culto discografico quello del bresciano per il pubblico che
songwriting italico cogliendone spesso le cose migliori.
L'inizio è affidato ad un set in solitario di Federico Fiu- canta le canzoni a memoria tendendo gli occhi fissi sulla
mani, aperto dal discreto cantautorato blues dei Gui- sua mimica surreale - di Giuradei tra l'altro si attendono
gnol. Il rocker fiorentino, in gran forma, non si piega alla con ansia brani nuovi. Arrivederci dunque al 2010, per la
dimensione acustica ma presenta un vero e proprio live seconda parte del festival (Edda, Max Manfredi, Bachi
dei Diaframma senza basso e batteria, rimanendo in da Pietra tra gli altri) a chiudere l'Inverno e continuare
piedi per tutta l'esibizione con la sua telecaster in mano finalmente una (vera) Primavera.
e lasciando il microfono anche al pubblico numeroso, (Grazie a Roberto Bonfanti)
con un paio di momenti che sfiorano il karaoke-rock. SeLuca Barachetti
guono il sabato successivo Caso e Dino Fumaretto,
entrambi a vagare in zona cantautorato seppur secondo
traiettorie ben diverse: gravido d'urgenza e voce maltrattata con imprinting punk il primo (che cerca il contatto
col pubblico lasciando microfono e amplificazione della
chitarra), più coinvolgente che su disco il secondo anche
66
recensioni
La casa editrice Odoya e SentireAscoltare presentano:
PJ HARVEY
Musica.Maschere.Vita
Un libro di Stefano Solventi
La sua musica è una sferzata misteriosa e misteriosamente liberatoria.
Un’ossessione blues sbocciata nella culla del Dorset, cresciuta tra inquietudini adolescenziali e una incontenibile brama di mondo. Quando infine
è esplosa, lo ha fatto col piglio travolgente dei predestinati. Dei suoi primi
quaranta anni, Polly Jean Harvey ne ha dedicati venti a tracciare una
parabola fatta di musica, maschere e vita.
240 pagine
Volume illustrato
euro 15,00
CONCEPT ALBUM
Un libro di Daniele Follero
Introduzione Franco Fabbri
Nata sull’onda della rivoluzione musicale di fine anni Sessanta, la pratica
del concept album ha accompagnato la maturità del rock, scrivendo un
capitolo importantissimo nella storia della popular music. I dischi “a tema”
continuano ancora oggi a rappresentare un affascinante mezzo espressivo,
anche negli ambienti del pop da classifica. I recenti concept album dei Green Day sono la testimonianza più lampante di un filo rosso che, partendo
da Frank Sinatra, tiene insieme Sgt. Pepper’s dei Beatles, Tommy degli Who,
The Dark Side of the Moon e The Wall dei Pink Floyd, le storie d’amore di
Claudio Baglioni arrivando fino ai Dream Theater e al brit-pop.
226 pagine
Volume illustrato
euro 15,00
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www.sentireascoltare.com
In tutte le librerie
recensioni
67
Gimme Some
Inches #1
Anni '00: Il ritorno del vinile. No,
non è il titolo di un sequel di qualche brutto b-movie d’antan, ma una
riflessione su quello che sta succedendo da un po’ di tempo a questa
parte.
Se c’è una certezza in questi anni
di micro-rivoluzioni durate lo spazio
di giro di lancette è quella del trionfo di mezzi e sistemi “antiquati” per
la diffusione della musica. In principio fu il cd-r, con relativo florilegio
di etichette homemade che unite
agli strumenti del web 2.0 (myspace e p2p su tutti) hanno allargato a
dismisura la circolazione e la fruizione della musica (fu) “underground”.
Sull’onda di questo rifiorire casalingo, manifatturiero e low cost, sono
riemersi all’attenzione di pubblico e
musicisti altri obsoleti mezzi di divulgazione: cassette e vinili. Spesso
se non sempre in modalità artisticoartigianali, con tanto di copertine
fatte a mano, edizioni limitate, colorate, serigrafate, incise ecc. ecc., questo ritorno al passato ha contagiato
68
recensioni
ogni ambito delle musiche underground, fossero esse di stampo garage, weird-folk, indie o appartenenti
all’universo in continuo divenire del
noise. È perciò per celebrare la riscoperta del vinile – riscoperta più
che rinascita – che qui a SA abbiamo deciso di aprire uno spazio che
agisca da scandaglio sulle innumerevoli uscite “minori” (per formato, sia
chiaro) degli anni '00: vinili a 7, 10 o
12 pollici, ep e split, nastri, cd-r in
vari formati. Questo sarà coltivato
nel nostro piccolo orticello.
+++
Lucidate le puntine e riesumati i
mangianastri inauguriamo Gimme
Some Inches. Partiamo da casa
nostra, in cui mai come ora ci si
distingue nella vecchia arte del plasmare il vinile grezzo. Prendete la
Wallace di Mirko Spino. Non soddisfatta di aver superato il decennale a
furia di spie al rosso e uscite rumorose, da un po’ di tempo a questa
parte sembra prediligere il vinile. Lo
fece tempo addietro al momento di
stampare il 10” Fula Fula Fular dei
R.U.N.I. e continua a farlo tuttora: le ultime uscite (Two Feathers
dei Rollerball e Kimidanzaigen di
Plasma Expander) escono in versione lp+cd, oltre che in collaborazione (diy as a way of life) con molte
altre etichette italiane. A incuriosirci è una collaborazione a 45 giri (in
combutta con Holidays Records) tra
i campioni dell’instrumental rock 70s
oriented Rosolina Mar e la (out)
folk chanteuse Larkin Grimm: due
pezzi originali (Anger In Your Liver e
The Butcher) + una cover di Old
Time Relijun (Los Angeles) per pochi minuti di pura poesia sospesa tra
passaggi strumentali doc (c’è pure
Asso Stefana a dar man forte) e reminiscenze di old americana soffice
come neve.
A far compagnia alla Wallace c’è
la Holidays, da almeno una quindicina di uscite a questa parte immolata al verbo dell’edizione vinyl only.
Non paga di aver stampato in vinile
New Amsterdam di uno dei nomi
più chiacchierati dell’underground,
Zola Jesus, la label milanese sta
sfornando una manciata di interessanti vinilini. Per primo lo split a
5” Phoenix Bodies/La Quiete:
quattro minuti di screamo-violence
parossistica e degenere equamente
divisi tra l’inglese dei primi (Get A
Job) e l’italiano dei secondi (Animali
Di Fede E Di Memoria); poi Autunno,
primo di una serie di quattro 7” a
firma Altro, in cui Baronciani & co.
danno vita a tre bozzetti di postpunk nervoso (Rico) e lirico (Ottimismo) in b/n, as usual. Classe poi si
slancia verso una bizzarra forma di
post-reggae-punk affilato come un
rasoio. In attesa degli lp di Claudio
Rocchetti The Carpenter e della
collaborazione tra Golden Jooklo
Age e Peaking Lights, è il 7” di
Blessure Grave a solleticarci l’attenzione. Il duo formato da T. Graves
e Reyna Kay inscena un teatrino tra
goth e post-punk che non puzza mai
di stantio né, tanto meno, di artefat-
to. La cover di Human Fly dei Cramps posta sul lato B cortocircuita alla
grande r’n’r slabbrato e suggestioni
Batcave. Proprio i due di San Diego
incarnano alla grande lo spirito 2.0
del vinyl lover; in previsione hanno
infatti una nidiata di uscite viniliche
a 45 giri e tapes (tra cui una dall’emblematico titolo di Covers Pt. 1).
Un'altra caratteristica di questi anni è il cambiamento continuo
delle release in programma e anche
in questo i nostri sono maestri. E'
dunque sempre un piccolo evento
quando un disco esce per davvero,
specialmente se annunciato quasi
un anno prima come in questo caso.
Dopo mille peripezie Making The
Death Beds For Teenage Vampires
vede finalmente la luce su Release
The Bats, Grotesque Modern e Nail
In The Coffin. Presumibilmente provenienti dalle stesse session dell'ep
Learn To Love The Rope, le due
tracce in questione ondeggiano su
percussioni ottuse e filastrocche
lamentose, e si affermano come le
migliori rilasciate ad oggi. Spostandoci a NY, ma rimanendo sempre in
ambiti oscuri, è da segnalare il nuovo
singolo dei Led Er Est su Captured
Tracks: Poll Gorm è una hit synthdarkwave (giustamente?) rubata
all'lp Dust On Common, mentre la
flipside Man And Tree un'insolita ballata electro-pop che ricorda i Cure
di Disintegration. Non esattamente
un brano imprescindibile ma serve
pur un lato b per pubblicare un singolo.
Stefano Pifferi, Andrea Napoli
recensioni
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DEMO
DEMO
DEMO
DEMO
DEMO
DEMO
ARE
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Re
-Bo
ot
WE
WE
WE
WE
WE
WE
è arrivato il momento di dire basta. Mese
dopo mese, settimana dopo settimana, la
situazione è cambiata fino a diventare illeggibile.
Imbarazzante. Grottesca. Insostenibile.
Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti
70
recensioni
Qualcosa è cambiato. Durante la mutazione, abbiamo
progressivamente perduto il
senso e le coordinate, finché
non abbiamo fatto fatica a
comprendere le nostre stesse parole. Stiamo parlando
di We Are Demo, la nostra
oramai ex rubrica dei demo
e delle autoproduzioni. Sembra passata un'era geologica
da quando decidemmo di avviarla, da quando ci fu chiaro
di non poterne fare a meno.
In effetti, sono passati tre
anni: un'eternità nell'era
internet.
Era l'ottobre del 2006
quando ci sembrò evidente che una webzine come
Sentireascoltare non poteva continuare ad esistere senza una rubrica dedicata al fenomeno dei
demo. La cassetta della
posta e la casella e-mail
venivano costantemente
raggiunte da proposte
d'ascolto più o meno
carbonare, velleitarie, benedette da lampi di selvatico
genio e ingenuo entusiasmo. Una situazione affascinante.
Ci dicemmo: non sarà un'idea originale, ma facciamolo.
Trovammo un nome. Mettemmo assieme un team. La
cosa si avviò con una inerzia scoppiettante. Inizialmente
accettavamo solo formati "fisici", niente download, un
po' per paura di virus e un po' per non scordarci di quei
files rannicchiati in una cartellina sfigata.
Il flusso di pacchetti giallognoli si fece costante. Dentro
di essi si nascondevano packaging di ogni tipo: spartani,
trafelati, sferzanti, accurati, creativi, shockanti, lussuriosi...
La loro evidente artigianalità oppure l'evidente tentativo
di dissimularla era un aspetto che toccava il cuore.Anche
se talvolta superava in efficacia la funzionalità patinata
delle produzioni "ufficiali". Esattamente come accadeva
per il contenuto di quei dischi: incisioni che pagavano
pegno alla mancanza di autorevoli direttrici produttive,
nella maggior parte dei casi, e graziaddio. E che pure regalavano intuizioni straordinarie, combinazioni formali
avventate, insolite derive e audaci prese di posizione.
Settimana dopo settimana, mese dopo mese, le centinaia
di dischi autoprodotti raccontavano un paese-calderone
un po' imbalsamato e un po'
temerario, conformista come
uno studente alle prese col
proprio acerbo fervore, oppure geniale come chi conosce il modo di gettare cuore,
muscoli e cervello oltre i fin
troppi ostacoli. Folk ed elettronica, psych e noise, punkwave e art-prog, funk-jazz e
dub, sembrava non esserci
preclusione né particolare
predilezione per alcun genere. La rubrica andava come un
treno.
Senza conoscere particolari periodi di penuria:
il materiale semmai avanzava, obbligandoci a tenere fuori molti titoli che
avrebbero meritato almeno la menzione. Lavoro impegnativo, certo, ma
anche parecchio divertente. E utile, in qualche
modo, a stare sul polso
di ciò che accade, o a
darcene l'illusione. Bastevole comunque a vagliare
ed ipotizzare movimenti, direzioni, scenari. Con tutta la
inevitabile parzialità e virtualità del caso (le stesse che
informerebbero qualsiasi indagine ad ogni livello).
In questi tre anni pieni di cose, che a ripensarci sembrano un formicolare sonico dalle mille e mille testoline imbizzarrite, è accaduta quella mutazione cui accennavamo.
E' stato come una tonalità divenuta via via dominante.
Come un cambio di scena in dissolvenza. I demo, le autoproduzioni senza se e senza ma, hanno ceduto il passo
a dischi "etichettati", titoli ufficiali in tutto e per tutto. Di
fatto, rimanevano frutto di compagini emergenti, calligrafie da mettere a punto attorno ad un quid in fase d'assestamento. Ma era sempre più difficile considerarli e
affrontarli in questo senso. Il marchio di una qualsivoglia
label, magari messa in piedi per l'occasione e destinata ad
estinguersi entro un paio di stagioni, cambiava le carte in
tavola. Non tanto perché la musica ne uscisse per chissà
quale magia arricchita: il punto stava nella realtà che questa nuova situazione ci raccontava.
Era come se le nuove dinamiche promozionali introdotte dai social network (myspace in primis) avessero suggerito la possibilità di giocarsela alla pari, semplicemente
recensioni
71
perché tutti - grandi e piccoli - dovevano passare da lì,
dovevano piegarsi verso tali piattaforme come in una coatta limbo dance, e che si affrettassero a mettere in piedi
questo giochino ad altezza degli utenti. Ai quali dovevano
fornire informazioni utili nonché un assaggio di musica,
immagini e video. Eppoi, casomai, le comode coordinate
d'acquisto.
Un modello eminentemente commerciale, semplice ed
evoluto, che si diffuse come una fulminea pandemia. In
breve, tutti ne furono provvisti, adeguando di conseguenza la proposta, la cui struttura non proponeva sostanziali
distinzioni tra grandi nomi ed esordienti assoluti: il Myspace dei Subsonica si presentò fin da subito come uno
dei più ricchi, aggiornati e frequentati, ma dal punto di
vista dell'offerta audio e video non riusciva a porre un significativo scarto tra sé e quello - poniamo - dei Phono
Emergency Tool. Di contro, il debuttante non tardò a
comprendere quanto tutto ciò contribuisse a ridurre il
gap dai "professionisti". Rispetto ai quali ormai rimanevano soltanto alcune differenze, diciamo così, formali: ad
esempio, l'etichetta. Un problema risolvibile con poco
sforzo e poca spesa. Bastava inventarsene una.
Di etichette ne nacquero così a decine, a centinaia. Indipendenti assolute, microscopiche, effimere, ma pur
sempre etichette. Si trattava di una fase di transizione
nella quale siamo ancora immersi con tutti e due i piedi:
tutto sta cambiando, ma esistono dei vincoli burocratici
e commerciali ineludibili, il cappello da mettere sopra i
diritti di sfruttamento della creazione artistica. L'etichetta va quindi vista come una pantomima residua, retaggio
di un passato che tarda fisiologicamente a sintonizzarsi
col futuro. Altrove, forse con più lungimiranza, si ricorre alla formula del Creative Commons, immaginando un
mondo nel quale i diritti d'autore ambiscano alla riproduzione illimitata a patto che ciò non comporti lucro di
alcun genere.
L'effetto più evidente è che nel momento stesso in cui
crollavano le vendite del cd, mettendo in discussione il
concetto fisico e la modalità espressiva correlata al termine "album", il panorama fonografico nazionale e internazionale veniva scosso da una duplice spinta, dall'alto e
dal basso verso una piattaforma più estesa e - soprattutto - orizzontale. Mainstream e underground non si sono
mai tanto assomigliati, inseguiti, imitati. Dal punto di vista
del suono, la standardizzazione informatica delle tecniche d'incisione ha reso le produzioni "dilettantesche"
sempre più economiche e sostanzialmente paragonabili
a quelle realizzate in studi professionali con personale
qualificato.
Detto questo, e ribadito che per i criteri che muovono
questa webzine ciò che rende un suono interessante è
l'intuizione artistica, è diventato sempre più difficile e
imbarazzante distinguere tra una autoproduzione e un
titolo "ufficiale". Da qualche mese a questa parte sempre
iosonouncane
72
recensioni
the calorifer is very hot
meno band ci proponevano "demo", aumentando sempre di più gli EP d'esordio, veri e propri "debutti ufficiali". La differenza la facevano, come già detto, una qualità
d'incisione più che accettabile e la famigerata etichetta.
Per il resto, erano i vecchi soliti demo solo più curati e
"scafati". D'altronde, cosa obiettargli? Difficile scorgere
in questo fenomeno elementi negativi.
Successivamente - anzi in contemporanea - l'esplosione
delle net-label ha finito col rendere più varia, ricca e finanche confusa l'offerta. La residua "lentezza" della catena distributiva fisica evaporava letteralmente col sistema
del download, generalmente gratuiti con licenza creative commons. La portata del fenomeno, tuttora in fase
di espansione e consolidamento, è tutta da analizzare.
L'unica affermazione che ci sentiamo di fare è che non
sembrano limitarsi a rappresentare una agile piattaforma promozionale per gruppi emergenti, ma veri e propri
nuovi "contesti creativi" capaci di fornire veri e propri
indirizzi estetici e poetici, sorta di accolite virtuali che in
un certo senso aggiornano gli antichi concetti di "scena"
o di "comune" traslandoli nella dimensione del web (vedi
ad esempio il caso della ruspante Lepers Produtcion).
Quello che appare ormai chiaro è che ci stiamo avviando
verso un'epoca di dilettantismo diffuso e perciò "istituzionalizzato", ciò che vale per la musica come per la letteratura (dai blog ai libri fai-da-te) e la videoarte. E che
non sembra affatto male. Ovvero, se l'eccesso d'offerta
viene da molti visto come un male - per la conseguente
inevitabile svalutazione del valore medio della proposta,
per la ribalta invasa da orde di mediocri - d'altronde si
nota una gradevole mancanza di riguardo nei confronti
dei format e delle macro-tendenze imposti dal sistema
major.
Un pullulare democratico di fronte al quale il "lavoro"
del giornalista musicale - anch'esso sempre più dilettante, come questa webzine insegna - deve concentrare i
principali sforzi sul setaccio, sul vaglio, sulla ricerca della
pagliuzza d'oro nella rena. Consapevoli che in tempi di
magra va benissimo anche l'argento e persino il rame.
Alla fine di tutto questo ragionamento, la scelta di non
occuparci più di demo in quanto tali non significa quindi
ignorarne il fenomeno bensì di riqualificarlo, osservarlo
da un altro punto di vista. Promuoverlo in effetti al livello di generica "emergenza", abbattendo l'ormai oziosa
distinzione operata dall'etichettatura. In ragione di ciò,
facciamo punto e accapo. Re-boot. Catalogata l'esperienza come positiva e nutritiva, accantoniamo il lavoro
svolto fin'ora e ripartiamo azzardando un diverso campo d'azione. Tenteremo cioè di tastare il polso del rock
italiano che incalza ai margini, consapevoli della vastità e
profondità e complessità di tali margini.
Consapevoli di quanto sia e sarà impossibile coprire
tutto il panorama stilistico e geografico. Consapevoli che sarà dura ed eccitante. Ci proveremo, insomma.
Tanto per iniziare, scandagliando la situazione. Abbiamo
intervistato tre band, tre realtà diverse e a loro modo
emblematiche. Abbiamo chiesto loro di raccontarci quel
che succede. Ad altezza d'uomo. Ci è sembrato un buon
punto da cui ripartire.
Prima di iniziare, una piccola presentazione delle band:
Iosonouncane (nell'intervista abbreviato ISUC)
Cercare nella spazzatura frattaglie sonore e annusarle,
recensioni
73
rimasticarle. Un cane che digerisce ciò che ha trovato in
un bordo strada accanto a un centro commerciale della
solita terribile provincia italiana. Jacopo Incani, da Bologna, ovvero Iosonouncane, cerca un nuovo senso alla
parola cantautore ripassando Rino Gaetano con un
Tom Waits che ha trascorso troppo tempo davanti alla
nintendo e immergendo Gaber in un magma di elettronica da cameretta col sottofondo di Barbara D'Urso di là
in cucina: «lo psicologo le vallette il meteorologo il giornalista
i calciatori il consigliere comunale ballano tutti cantano tutti
si passano il microfono da mano in mano e poi il trenino, oh
il trenino».
The Calorifer is very hot (nell'intervista abbreviati CIVH)
Nazareno Realdini, Samuele Palazzi e Nicola Donà, ovvero The Calorifer Is Very Hot. Esemplari rappresentanti di
un indie di quartiere, familiare, che vive di ritmi sdruciti
ma terribilmente vitali. Un guazzabuglio di stili per estasiati fancazzisti ad opera di emigranti del melodico nella
terra dei “sottomarini gialli”. Musica che non è solo materiale per nerds all'ultimo stadio. Piuttosto una scrittura
geniale, nascosta dietro a schegge elettro di scuola Labrador, chitarre acustiche scordate, voci ubriache, pianole e refrains post-adolescenziali. Con un Marzipan In
Zurich del 2007 che li spedisce a rinfrancare i loosers
di tutta Europa e un Evolution On Stand-By dell'anno
scorso che abbandona, in parte, le involute (e volute)
pacchianerie synth del passato. A bussare alla porta c'è
un pop con la P maiuscola: surreale, stralunato, perso in
chincaglierie di ogni genere ma dalla ricchezza tonale del
tutto inedita.
Intercity (nell'intervista abbreviati IC)
Un terzetto da Brescia edificato su una via parallela agli
Edwood e sui di loro residui vapori shoegaze, virati
però verso una forma emo-indie in italiano. Idioma su
cui lavorano premendo tasti stralunati, onirici, angosciosi,
pulsanti. Che la musica innerva di apprensione e impeto che sa infilarsi nelle sabbie mobili del melodico con
grave leggerezza, che sa raccontare un presente in bilico
tra autobahn virtuali e snodi metropolitani. Come un rapido mitteleuropeo in viaggio tra Notwist e Perturbazione via Marlene Kuntz, capace altresì di sognare
(di sognarsi) Grandaddy. Dentro un moderno incubo
pop. Il loro album di debutto Grand Piano è scaricabile
gratuitamente dal myspace, perché tanto i cd non se li
compra più nessuno, "neanche a due euro".
Intervista a Iosonouncane, The calorifer is very hot e Intercity
Toglieteci il lavoro e descrivete in dieci righe chi
siete, da dove venite, dove andate.
ISUC: Mi chiamo Jacopo, ho quasi 27 anni, sono sardo,
74
recensioni
intercity
vivo a Bologna da otto anni. Non so dove vado, so un po'
meglio da dove vengo.
CIVH: Togliervi il lavoro? cioè prendiamo un altro Non
lavoro da aggiungere al nostro Non Lavoro per avere
due Non Lavori?!? Da dove venite? Veniamo da una due
giorni di furgone-on the road-viva il norcino dell'autogrill-e l'aranciata amara. La terza era?? Ah... Dove andate?
Eddove andiamo?? Boh... Mi ha chiesto la stessa cosa un
ragazzo sabato sera mentre scaricavo le chitarre dal furgone ("Ma dove vuoi andare????")
IC: Siamo tre ragazzotti che vivono tra il lago di Garda
e Milano: Anna, Fabio, Michele. Ci siamo conosciuti suonando e frequentando gli stessi locali e abbiamo deciso
di collaborare. Da qui è nato Intercity. Dopo innumerevoli scambi di mail e mp3, ci siamo trovati in studio a più
riprese e ne è nato Grand Piano. Dove andiamo? Verso
un secondo disco, verso il 2010 e verso l’età pensionabile.
Oltre a suonare cosa fate? Avete un lavoro? Studiate? Nel caso, come riuscite a stare dentro entrambe le cose? Avete mai pensate di mollare
tutto e provarci solo con la musica?
ISUC: Lavoro in un call center. E diciamola meglio: oltre
a lavorare in un call center suono. Ci si riesce cercando
di ottimizzare i ritagli di tempo e programmando intelligentemente la sveglia. Mollare tutto e provarci solo con
la musica è una scelta. Una scelta che per ora non mi
posso permettere.
CIVH: Io (Nic) faccio il Barrista (con due erre), Nani e'
in aspettativa ehm... all'università ed è piu' bravo di me
a fare il Barrista, Samuele Bara ai concorsi per diventare
Uno del pubblico di qualche programma televisivo. Mengacci non ne può più!
IC: Lavoriamo tutti. Qualcuno ha un lavoro che gli permette di dedicarsi con costanza alla musica, qualcun altro meno. Se abbiamo mai pensato di mollare tutto e
provarci con la musica? Da lucidi credo di no, piedi per
terra.
Come svolgete le prove? Avete un locale a disposizione? Quali spese dovete affrontare? (quantificate pure, se volete. Fate i numeri) Siete soddisfatti
della situazione, in termini logistici e artistici?
ISUC: Provo a casa con le cuffie al mattino, prima di andare a lavoro (diciamo tra le 8 e le 10) e quando non son
troppo fritto dopo il lavoro (diciamo tra le 19 e le 21).
Non sono per nulla soddisfatto. Ma credo che comprare
delle cuffie decenti mi darà delle soddisfazioni.
CIVH: Facciamo lunghissime sessioni di prove a casa di
Samu in via persicello a Campse'nt in aperta campagna.
Le spese che dobbiamo affrontare io e Nani sono spese
vere, vive & vegete perché Samu non ha mai niente in
frigo e se non vogliamo morire di fame e sete quando
facciamo le provee dobbiamo provvedere alla spesa... I
numeri non li faccio, ci mettiamo a posto col fatto che
poi lui cucina da Dio. (cosi rispondo anche alla domanda
sula religione..)
IC: Non proviamo tantissimo, cerchiamo di preparare il
più possible a casa e ci troviamo ogni tanto.Abbiamo una
sala prove gentilmente offerta e ben attrezzata, quindi
direi che siamo fortunati.
Per i concerti vi affidate ad un promoter? Organizzate dei veri e propri tour o procedete per
date quando si presenta l'opportunità? Ci sono
problemi di incompatibilità tra la vita "reale" (lavoro, famiglia, affetti in genere...)? Avete un circuito di locali collaudati? Come trovate in generale
e in particolare il livello delle strutture e dei tecnici in Italia? Nel caso, avete riscontrato differenze con la situazione sperimentata all'estero?
ISUC: La Trovarobato mi cura il booking. Le date sono
per ora spaiate, non inserite all'interno d'un "piano
d'azione". Anche perché ho fatto il mio primo concerto
alla fine di gennaio 2009, non ho un disco ufficiale. Direi
che per ora è già tanto. La qualità dell'amplificazione e
dell'acustica è solitamente scadente. Ma ci si adatta e ci si
deve adattare come si adatta chi tiene in piedi un locale
andando costantemente in perdita.
CIVH: Di solito programmiamo dei tour, ma se qualcuno
ci invita a suonare ad una Festa (il termine Festa ha mille
sfumature per noi), anche se "fuori tour" non ci facciamo molti problemi... La discriminante in questo caso è la
vodka. Chi indovina la marca giusta... Evidentemente non
siamo bravissimi a pianificare i tour (viste le varie Slovenia-Taranto-Ferrara in due giorni, oppure le 17ore della
Stoccolma-Bruxelles) e quindi da settembre Grinding
Halt cura la programmazione dei nostri concerti. Crediamo molto nel gemellaggio tra realta' fatte di persone
diverse, che parlano lingue diverse (ne siamo l'esempio:
un veneto, un ferrarese, un modenese eheheh), che si
sbattono per organizzare concerti concentrandosi nel
recensioni
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iosonouncane
creare un'atmosfera calda, bella, di gusto, senza pensare
Solo al numero dei paganti. E' uno dei motivi per cui adoriamo gestire i rapporti in prima persona ed in questo
contesto/scenario rientrano anche una grossa parte dei
nostri affetti più cari.
IC: Tasto dolente. Sappiamo tutti che è una vera scommessa riuscire a mettere insieme 3 date in un mese. Alcuni locali ci chiamano, su altri cerchiamo di insistere.
Non abbiamo un booking, e questo sicuramente non
aiuta. Per ora problemi di incompatibilità lavorativa direi
che non ce ne sono, spero ce ne siano in futuro! Non
abbiamo mai sperimentato situazioni estere, però [come
dico qualche domanda più giù ( lo ammetto, non sono
andata in ordine cronologico)] credo che a livello tecnico e strettamente fonico, tra noi e altri paesi ci sia un
abisso qualitativo.
Vi è mai capitato di pensare "no, qui non ci suono"? Nel caso, com'è andata poi?
ISUC: Non mi è mai capitato. Suono ovunque e a qualunque condizione.
CIVH: Assolutamente no e chi ci conosce lo sa che non
siamo mai stati carabinieri. Al massimo solo una volta
abbiamo pensato (in coro) "No, Qui non ci dormo!". La
serata e' finita con tutti e 3 collassati/addormentati sotto
la pioggia...
IC: Molte volte. Ci siamo divertiti un sacco, poi.
Avete contatti con artisti stranieri? In cosa (nel76
recensioni
la pratica) l'approccio alla musica di un'artista
italiano indipendente si caratterizza come differente rispetto alle realtà estere di cui avete fatto
esperienza (se c'è una differenza)?
ISUC: Non ho contatti con artisti stranieri. Potrei dare
il mio parere di ascoltatore ma rischierei di andare fuori
tema.
CIVH: L'approccio inteso come ispirazione, istinto, creatività, attitudine, genio ha mutevoli/innumerevoli conformazioni ma non credo abbia una bandiera. Per il resto le differenze tra le varie realtà sono figlie e sorelle
di culture e storie diverse. In Italia un musicista e' uno
che suona in una cover band o suona la chitarra per...
Oppure semplicemente uno che mette sui i cd in una
discoteca. All'estero il musicista è anche uno che suona
per strada e quando nasce la musica gliela offrono come
un'opportunita'...
IC: No, non abbiamo contatti. Nell’approccio alla musica
le differenze possono esserci anche tra italiani, quindi
non saprei. Quello che invece noto tantissimo, è la scelta
dei suoni sia live sia su disco. Recentemente mi è capitato di vedere gli Efterklang alla Casa139. La cosa che
più mi ha colpito, a parte il gruppo che è strepitoso, è
stata la maestria nel mixare i suoni.Volumi bassi, voci non
sparate rispetto al resto e tutto suonava alla perfezione.
In Italia su questo siamo molto molto carenti.
Pensate ai concerti come ad un'opportunità pro-
mozionale, al compimento del vostro sogno r'n'r'
o alla possibilità di raggranellare qualche soldo
(se ne rimangono)?
ISUC: Durante i concerti mi diverto, mi incazzo, mi auto
esorcizzo. Poi sono fondamentali per farsi conoscere e
procurare altri concerti. Non ho sogni r'n'r. Se avanzano
dei soldi dal cachet ben venga. Anche perché nei call center si è notoriamente in mutande.
IC: Pensiamo ai concerti come un’eventualità estremamente divertente, un momento promozionale e un
modo per mettere via quei due soldi che uniti a tanti due
soldi ci permetteranno di fare il prossimo disco.
Come giudicate l'ambiente, ovvero che opinione
avete delle regole scritte e non scritte, delle persone che tirano le fila delle attività live in Italia?
Politicamente avete avuto pressioni o preclusioni, visto che parecchie situazioni sono comunque
legate a movimenti politici (feste di partito e sindacali, circoli arci...)?
ISUC: Si incontrano persone splendide. Ma se dovessi fare uno zoom out dire che è un reciproco pisciarsi
addosso e farsi gli schizzetti come al mare. Ridendone,
ovviamente. Ho "subìto" una contestazione parecchio
grottesca a Bologna. Probabilmente non vale la pena di
parlarne se non in questi termini.
Quanto manifestazioni "totalizzanti" come Il Meeting delle Etichette Indipendenti - solo per citare una delle più articolate - aiutano una giovane
proposta ad emergere? E i concorsi musicali?
ISUC: Il MEI aiuta parecchio a quanto pare. I concorsi
sono da evitare, per principio e pragmatismo.
CIVH: Secondo me queste cose servivano di più quando
internet non era alla portata di tutti, quando per farti conoscere (ma anche solo ed esclusivamente per suonare)
si prendevano al volo tutte le occasioni. C'erano anche
molti meno posti (e molti meno gruppi...). Non capisco
chi continua imperterrito ad accanirsi con alcune manifestazioni, meeting, concorsi che, vuoi perche' i tempi
sono cambiati, vuoi perché hanno fatto naturalmente il
loro corso, sono ormai defunte da anni. Nell'usare il termine accanirsi non mi riferisco solo a chi programma
queste cose, molto spesso sono i musicisti i primi feticisti del "Premio in palio."
IC: Il MEI poteva forse essere un buon evento anni fa.
Ora la sensazione è che sia diventato un festival estremamente autoreferenziale dove ci si premia a vicenda.
Crediamo molto poco nei concorsi: mai o quasi mai prevedono un premio serio e utile, e non fanno effettivamente crescere il gruppo di mezzo passo.
Poi viene il tempo del raccolto. Lo studio di registrazione. Gli arrangiamenti. I take. Il missaggio.
Innanzitutto, ha ancora senso per voi l'idea di "album"?
ISUC: No. Ma è ancora necessario. Il senso delle cose è
patrimonio di pochi. Sempre ed anche in questo caso.
CIVH: Hai detto bene: e' proprio nel periodo del "Raccolto" che ci chiudiamo in studio... Fosse per me ci vivrei
in uno studio (e per fortuna ogni tanto capita). Per questo motivo ho cominciato a registrare in casa, l'ambiente
è fondamentale per comporre e registrare. Gli album per
me hanno senso. Non e' fondamentale invece la durata
dell'album. Ci sono album stupendi rovinati dalla troppa
generosità di chi li fa o più semplicemente, dall'esaurimento delle idee. Ci sono ep di 4 pezzi che per me sono
piu' importanti di interi dischi.
IC: Certo che ha senso. Non ha più molto senso stamparlo e distribuirlo forse, ma l’album in sè, registrato al
meglio possibile, è un passaggio obbligato.
Quanta distanza c'è tra la musica che avevate
ipotizzato e quella che è effettivamente venuta
fuori?
ISUC: Credo poca. Ma per arrivarci son passato per passaggi parecchio lontani.
CIVH: Se per musica ipotizzata intendi l'idea iniziale che
c'e' alla base di una canzone spesso c'e' una distanza siderale. A volte ci capita di chiamare i pezzi senza titolo
con il nome di un gruppo che ci rimanda a quella canzone e sistematicamente il pezzo ricorda tutti tranne il
gruppo citato...
IC: Pochissima, quasi nulla.
I produttori: specie pregiata in via d'estinzione?
Prestatori d'opera col tassametro al posto del
cuore? Vie di mezzo?
CIVH: A me dispiace che si siano estinti gli impresari, con
i loro biglietti da visita ed il loro fiuto per gli affari! Quelli
erano veri e propri squali! Il nostro delfino e' Alessandro
Paderno (LMALL), produttore artistico con noi di Evolution On Stand-By ma anche del primo Marzipan
In Zurich. Se legge questa intervista scoppiera' a ridere
(o a piangere) al "Prestatori d'opera col tassametro al
posto del cuore" visto che ormai abbiamo anche il suo
codice del bancomat! La cosa che di piu' sorprende in
studio e' che Ale arriva sempre dove noi non arriviamo.
Con lui l'atmosfera e' sempre perfetta per creare e distruggere. Pur non suonando con noi, anche lui e' un
calorifero.
IC:Via di mezzo. Non abbiamo mai avuto produttori, ma
qualcuno in gamba ce n’è!
Chi ha paura del peer to peer? Voi, per esempio?
ISUC: Io per niente. Anzi.
IC: Così paura che Grand Piano è uscito in free download su Myspace. E siamo contentissimi di tutto ciò che
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the calorifer is very hot
questo ha portato, finchè abbiamo potuto tenerlo in
download gratutito.
Aiutateci a farci un'idea più precisa su che genere di guadagno garantisce (ancora) la vendita dei
CD per gli artisti...
ISUC: Se ne avrò l'occasione, risponderò dopo l'estate.
IC: Guadagno? Il nostro disco, come ho appena detto, è
uscito in free download. Siamo fermamente convinti che
le entrate di un gruppo siano da misurare in altre cose banalmente I concerti - e non nella vendita dei dischi.
Che importanza credete ricoprano (ancora) le
etichette discografiche?
ISUC: Le etichette sono, come prima cosa, gruppi di
persone che lavorano insieme ad un obiettivo comune.
L'obiettivo ed il modo di raggiungerlo lo fanno le persone. E la loro capacità di esser tali davanti alle necessità
economiche, culturali, organizzative, che necessariamente si presentano. Ecco. Sono importanti, sempre.
IC: Molto poca. Se si tratta di etichette disposte a investire molto, allora ne hanno ancora qualcuna. Se no
è molto meglio autoprodursi e assicurarsi piuttosto il
booking.
Arriva una major (o una sottospecie di) e vi propone di lasciare la vostra amata indipendente,
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recensioni
con la quale avete rapporti fraterni e rispetto alla
quale potete muovervi in assoluta libertà artisticamente parlando: cosa fate?
ISUC: Non ne ho idea.
CIVH: E' tutto talmente surreale che non riesco neanche
a risponderti con una battuta.
IC: Dipende da cosa offrono. Spesso le major sembrano
offrire tanto sulla carta, che poi si traduce nel nulla assoluto. Prima di tutto vorremmo essere sicuri che vogliano
investire veramente su di noi, e non utilizzare del budget
avanzato dal 2009 giusto per spenderlo e farsi dare lo
stesso budget l’anno dopo. Ed è una cosa che accade
sistematicamente.
Se la proposta fosse seria, ci penseremmo. Il rapporto
con una indipendente è qualitativamente migliore quasi
sempre, ma se si tratta di muoverci davvero una major
ha molto più potere d’investimento e molti più mezzi a
disposizione. O almeno si spera.
Ok, avete in mano il vostro cd. E' il momento di
battere le radio, tampinare giornalisti e giornalistucoli, telefonare ai negozianti, insomma fare
promozione. Più gratificante o frustrante? Raccontateci (raccontatevi) pure...
ISUC: Stancante. Sono pigro. Sapere che qualcuno, in par-
te, lo farà per me mi rilassa.
IC: No perchè? Dovendo scegliere, più gratificante che
frustrante. Penso che l’ago si sposti in base alle prime
reazioni sul disco. Per ora confermiamo, gratificante.
Radio, web radio, riviste, webzine, televisione: ce
n'è per tutti i gusti o i gusti sono pochi e per pochi?
ISUC: "Sta nei gusti la vera sostanza ideologica", diceva Gaber. Ed io sottoscrivo.
IC: Ce n’è per tutti. Poi per alcuni gusti basta poco o
zero sforzo per sentire e leggere di questo o di quello,
per altri diventa vera e propria ricerca tra mille webzine
e qualche cartaceo.
Entriamo nel dettaglio della cosa: la scelta della
lingua non è solo la scelta della lingua. Significa
selezionare un pubblico e un range espressivo. E'
una scelta poetica e strategica, giusto?
ISUC: Per me non è stata neanche una scelta.
CIVH: La scelta della lingua da utilizzare non è mai stata
fatta. Sul primo demo c'e' addirittura un pezzo in francese (Histoire d'un petit Loop). Il motivo per cui la maggior
parte delle canzoni nascono in inglese e' forse legato al
fatto che il nostro background musicale è prevalentemente in lingua inglese e cosi il cerchio si chiude. Se scrivo io il testo spesso parto da un disegno scritto, butto
via il disegno e il testo prende forma.
IC: Giusto. Scegliere l’italiano piuttosto che l’inglese è un
misto di poetica e strategia, inutile negarlo. Poi a qualcuno viene più immediato scrivere in italiano, a qualcuno
in inglese. Con Intercity abbiamo trovato subito un buon
modo di esprimerci con l’italiano, ed è indiscutibile che
in questo abbiamo intravisto anche la possibilità di rivolgerci a un pubblico che forse con Edwood restava
inesplorato o poco coinvolto.
In particolare, chi sceglie l'inglese sceglie anche
di aprirsi verso l'estero?
ISUC: Forse. Il rischio è quello di farsi ulteriormente
aprire dall'estero.
CIVH: Nella maggior parte dei casi il suo vestito e' inglese, anche se purtroppo faccio ancora moltissimi errori. Non escludiamo assolutamente il fatto di scrivere in
italiano in futuro. Per il momento (e parlo per me) non
mi sento all'altezza. Adoro giocare con le parole ed in
inglese mi viene piu' spontaneo.
IC: Questa è l’idea. Poi, bastasse solo l’inglese per aprirsi verso l’estero, avremmo grandissima parte delle band
nostrane in giro per l’Europa.
Chi sceglie l'italiano accetta di limitarsi?
ISUC: Limitarsi? Limitarsi rispetto a cosa?
CIVH: Se vuoi che parliamo di limiti non sono mai stato
bravo in matematica...
IC: No. Chi sceglie l’italiano, tra le mille ragioni, sceglie
di scommettere sul proprio potenziale e consolidarlo in
Italia. Che non è poca roba…
Fare pop, fare avanguardia, fare i borderline alternativi: è una scelta di campo o vi piacerebbe
avere a che fare con un pubblico onnivoro, capace
di ascoltarsi qualsiasi cosa?
ISUC: Se non provo costantemente a spostare più in là la
soglia del mio gusto e del gusto di chi mi ascolta cosa ci
sto a fare? il pubblico non è un monolite immobile. Per
fortuna cambia. Se gli si rifila sempre la stessa pappa non
cambierà mai.
CIVH: Borderline alternativo è un rafforzativo che suona
più come un ossimoro! Mi vengono in mente quelli che
aspettano la notte per entrare nei laboratori di esperimenti sugli animali e liberare le cavie, vestiti con gli
eskimo e i guanti tagliati... Loro si che sono dei fighi! Per
quanto riguarda i possibili fruitori non mi sembra che
il calorifero suoni estremo noise digitale, fondamentalemente siamo super pop (e si sente,
no???). Non e' un problema di onnivoro o vegano, quelli
che dicono "mi piace la musica in generale, ascolto tutto"
sono quelli che non selezionano e se a loro piace il nostro disco sono solo contento.
IC: Noi siamo per un pubblico trasversale, che ascolta
qualsiasi cosa (buona e giusta).
Ma alla fine qual è il vostro progetto, o il sogno
se preferite: vivere di musica? In tal caso, quanto
accettereste di scendere a patti col mestiere?
ISUC: Certamente è quello. Vivere di musica. Si scende
sempre a patti. Con la propria etichetta, col pubblico,
con i propri gusti, col proprio istinto di emulazione, con
la propria ragione.
CIVH: Il mio sogno da piccolo era quello di giocare
nell'NBA, ci sto lavorando... Non smontarmi che sono
ancora gggiovane e ci credo molto...
IC: Il piccolo sogno è continuare a fare dischi e poter
suonare molto più di quanto succede ora. Dipende che
significa scendere a patti. In linea di massima di tutto ciò
che è legale e rispettoso nei confronti degli altri se ne
può quantomeno discutere.
recensioni
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Un contagio, una nebulosa, il brivido che ha drizzato le orecchie e le antenne di chi camminava sulla linea di mezzeria
tra pop e rock. L'utopia power verso un mondo impossibilmente nuovo.
Power 1968-1977
Pop
Così (non) è,
se vi pare
- Stefano Solventi
80
rearview mirror
I
l power-pop nasce già nato. Raccolto come un fiore
che impollina sogni di cambiamento (possibile, impossibile: conta poco). I "giardinieri" rispondono al nome
albionico di Beatles, Kinks, The Who, The Hollies, ma
anche Beach Boys se volete (quelli più energici e bruschi), senza contare le primizie tipo Wake Up Little Susie
degli Everly Brothers laggiù dalla fine dei fifties.
Il concime è quell'euforia mitizzante che li portò a concepire nuove forme pop per una nuova era, nel tentativo
di cambiare il mondo anche (immancabilmente) attraverso la lente/proiezione della musica rivolta alle giovani
leve sbilanciate su un futuro di radiose vibrazioni.
Il power-pop è anche il più emblematico dei non generi. Una volta pronunciato - fu Pete Townshed, a quanto
sembra, a farlo per primo rispondendo a un giornalista
che gli chiedeva una definizione della propria musica già smette di esistere. Perché non fa altro che obbedire
ad uno stato delle cose, è il gradino che abbiamo salito
e non poteva essere altrimenti coi nomi tirati in ballo
qualche riga sopra. Semplicemente, in quegli anni il pop
divenne più potente, fu contagiato dalla scossa, spasimò
nuove frontiere come una febbre di crescita che non ti
fa più indossare i vestitini di ieri.
Quando il power-pop nacque, non nacque. Nacque
semmai quale reazione ostinata e contraria il soft-pop,
nostalgicamente aggrappato alle radio sui centrini nei salotti dove nulla doveva turbare la quiete familiare, docile
soundtrack di giorni intruppati verso l'era delle inscalfibili new frontier.
Altro che quiete e asettiche nuove frontiere. Erano
tempi di evoluzioni veloci come napalm e razzi a squarciare la magia della luna. Da chissà quale ignoto recesso
cosmico giunsero radiazioni nuove di un futuro possibile e per nulla inscalfibile, sviluppandosi senza freno né
controllo, sintonizzando frequenze vogliose di sfondare
il muro per gettare lo sguardo sull'other side, con tutto
ciò di eccitante e tragico che questo significò. Più che un
flusso, una scena o una corrente, pensando al power pop
è lecito ipotizzare una nebulosa percorsa da una stessa
energia ma peculiare in ogni suo componente.
Del resto, i repertori stessi delle band tendono ad
una stuzzicante schizofrenia che non consente di includerle o escluderle a cuor leggero da qualsivoglia branca
stilistico/espressiva. Neppure la collocazione geografica
aiuta, sbalestrata da un imprinting in bilico tra le due
sponde dell'oceano. Come certo saprete, alla british invasion di metà anni sessanta risposero subito e con ragguardevole turgore i carbonari del garage rock, cui non
difettava certo la parte "power" della questione, però
appunto erano poco "pop" perché votati a soddisfare gli
istinti stradaioli, poco o per nulla disponibili a scendere a
patti con i dettami dell'airplay radiofonico.
Anche se certi languori ad esempio di Blue Magoos
o Beau Brummels (e poi di rimbalzo - sulle sponde
d'Albione - Pretty Things, Easybeats o Troggs) rientrerebbero appieno nei canoni di ciò che osiamo definire
popular. Per non parlare di quanto nutritiva per entrambi
i versanti dovesse rivelarsi la “rivalità” tra Beach Boys e
Beatles, vera e propria corsa a chi sarebbe per primo
allunato sull’iperuranio del pop.
Tutto ciò non durò molto. Ben presto tempi nuovi e più duri si presentarono alla porta chiedendo un
conto salatissimo da pagare. L'utopia effervescente di
quei pionieri garbati e facinorosi durò appunto il tempo dell'effervescenza, ma non per questo fu dimenticata.
Anzi, molti ne furono marchiati a fuoco e tentarono di
raccogliere il testimone. Non tutti allo stesso modo, ovviamente.
(1968-1970) S intomi e vagiti :
T he N azz , T he M ove, F lamin '
G roovies
A proposito di psichedelia, prendete una band come gli
Spirit all'altezza del loro secondo album, l’ottimo The
rearview mirror
81
Family That Plays Together del dicembre ‘68: tra l'arrembante I Got a Line on You e l'eterea Darlin' If passa
tutto un mondo di possibilità pop scalate su un piano
acido, con evidenti lasciti folk, soul e jazz ad impreziosire
la sottotrama. Una band anomala per la scena californiana, cui non a caso guardarono con particolare attenzione
quelli della costa opposta, gente meno propensa a farsi
incantare dagli idilli bucolico/balneari love & peace.
Non stupisce troppo quindi che i Nazz - che con
gli Spirit divisero il palco in quel di Chicago nell'aprile
del '69 - ce li ricordino col loro ondeggiare tra blues
elettrico e sdrucciolii soul. Formatisi a Philadelphia nel
1967 per iniziativa di Todd Rundgren, ammiccarono con
sconcertante ambivalenza picchi formali apparentemente inconciliabili, alla ricerca di un centro di gravità che
sfuggiva traccia dopo traccia. Una parabola breve, affascinante e tutto sommato fallimentare, da cui un insoddisfatto Rundgren - che incontreremo di nuovo - si chiamò
fuori dopo il secondo album, anno 1969.
Dire che i Nazz furono uno dei primi gruppi powerpop potrebbe apparire forzoso. Mancava loro una visione unitaria, quel desiderio utopico cui accennavamo.
Certo che tra la veemenza sfrigolante di una Open My
Eyes e le languide irrequietezze di Hello It's Me (entrambe dall'omonimo The Nazz, 1968) ti sembra quasi di
intravedere il punto di fuga prospettico che aggiusti le
proporzioni di entrambe.Tuttavia prevale una impetuosa,
abbastanza supina e a tratti geniale aderenza agli stilemi
più hot del periodo, dall'acid rock hendrixiano all'hard
blues à la Blue Cheer, costeggiando la psichedelia ammaliante di Love e The Zombies.
Quel famoso punto di fuga fu messo a fuoco con ben
altra convinzione dai The Move di Roy Wood (chitarrista e cantante che all'inizio dei seventies fonderà gli
Electric Light Orchestra). Inglesi di Birmingham,
non potevano certo prescindere dall'opera dei Beatles
(sentitevi il riff iniziale di Fire Brigade, dal primo omonimo
album del '68), quel marciare impettito e impertinente
tra espedienti ruvidi e spiritosi indossando tradizione e
avanguardia, puntando la barra senza preclusioni verso il
folk'n'roll inturgidito degli Eddie Cochran ed il camerismo mieloso di certi Kinks.
Tutto in loro è eminentemente pop, eppure - malgrado certi rigurgiti fifties e qualche siparietto gratuito
- non cedono mai al piacionismo/perbenismo formale,
sposando anzi con l'opera seconda Shazam (1970)
la causa dell'energia catchy in anticipo sull'addivenente
glam (vi basti la splendida Hello Susie). Del resto, volendo
speculare un po' aggratis, i coretti di Useless Information
sembrano il cliché cui si rifarà abbondantemente David
Bowie da Hunky Dory in avanti…
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Diverso il discorso riguardo ai Flamin' Groovies da
San Francisco, band invero molto valida però solo sfiorata dal "demone" del power pop, impegnata com'era a
reincarnare lo spirito che mosse gli scavezzacollo britannici dei primi sessanta (i primi Animals, i Beatles
del periodo amburghese...), sulle tracce del RnB quindi
però senza scordare il piglio entusiasta e accomodante
à la Everly Brothers e Lovin' Spoonful. Emblematico in
tal senso Supersnazz (Epic, 1969), il loro primo album
vero e proprio, in cui tra cover di Little Richard e Eddie Cochran e originali tanto sbrigliati quanto innocui,
azzeccano con A Part From That la ballad power pop per
eccellenza, malinconica, subdolamente folle e irrequieta.
Si trattò tuttavia di una circostanza episodica, l'occasionale conclamazione di un virus che i Groovies
spazzarono via assieme alla frustrazione commerciale,
accelerando in direzione dei Rolling Stones più stradaioli (con Flamingo del '70 e Teenage Head del '71),
preparando il terreno a quei Ramones che non a caso
saranno loro compagni d'etichetta (la Sire) da Shake
Some Action (1976) in avanti.
Se i The Move possono a ragione venire indicati quali
importante segnale di una sistematizzazione in atto, e se
nei Flamin' Groovies troviamo sintomi di una epidemia
blanda ma in espansione, abbiamo il dovere di ricondurre tali fenomeni all'orizzonte in cui si mossero.Visto che
siamo qui a ciarlare di una cosa che non sappiamo bene
se sia mai esistita, nulla ci impedisce di generalizzare. Per
cui, facciamolo: coi seventies il fronte musicale si frammentò come uno specchio nei cui mille riflessi l'epoca disperse l'anima reinventandosi e smarrendosi senza
tregua.
In mezzo a questa fantasmagorica misticanza di folk
acido e hard trucido, passando dall'art progressivo immischiato jazz e dal funky soul con fregole cosmiche, le manifestazioni power-pop erano un'eventualità ricorrente
ma abbastanza occasionale. Ovvero, tanto per ribadire: il
power-pop non lo vedevi, nessuno lo incarnava, ma esisteva. Pienamente.
Era la propaggine catchy di band consegnate alle
istanze radiofoniche qualunque fossero le basi di partenza: degli Spirit abbiamo già detto, e non erano forse
ordigni pop ad alto tasso energetico certi irresistibili ordigni sfornati dai Creedence Clearwater Revival (ad
esempio Molina), dai Cream (I'm So Glad), dai Faces
(Flying) o la Strange Kind of Woman dei Deep Purple?
Persino certe pietre miliari del rock "senza se e senza
ma" come Exile On Main Street o Led Zeppelin III
prevedono situazioni decisamente "abboccate" come All
Down the Line e Tangerine (solo per fare un esempio).
Difficilmente però possiamo parlare di un genere (sarà
mai davvero possibile?). Persino in occasione delle due
entità che più vi si rifecero, azzardando col loro repertorio una codificazione tutt'ora in auge. Parliamo - alzatevi
in piedi, togliete gli eventuali copricapo - di Badfinger
e Big Star.
(1969-1974) A poteosi e
olocausto : B adfinger, B ig S tar
I Badfinger presero le mosse in Galles sotto la migliore
benedizione possibile, quella dei Fab Four nientemeno.
Nati a metà anni sessanta come The Iveys, attirarono
le attenzioni di Mal Evans della Apple che ne pubblicò
l'esordio Maybe Tomorrow (1969), prodotto da - nientepopodimenoche - Tony Visconti. La vena compositiva
di Tom Evans e soprattutto Pete Ham non mancò di colpire i bersagli giusti, tra cui un certo Paul McCartney
che regalò loro Come And Get It, opening track di Magic
Christian Music (1970), sorta di secondo esordio sotto l'egida Badfinger nonché parziale soundtrack di Magic Christian, poco memorabile pellicola con Peter
Sellers e Ringo Starr.
E' un buon disco, prodotto ancora da Visconti assieme a Macca con la partecipazione addirittura di George
Martin. L'aura di Sir Paul pervade il tutto (sentite I'm
In Love), epperciò (eppure?) suona chiaramente come
un album che si è lasciato i sixties alle spalle e quindi
tenta di ricostruirne il "realismo magico", ovvero s'illude
di poterne ripercorrere le strade riallacciando le direzioni smarrite, consapevole della splendida velleità cui si
sta prestando. In questo senso, brani come Carry On Till
Tomorrow, Midnight Sun o Dear Angie raccontano questo
stato di crisi artistica come le parole non possono, con
quell'impastare trasporto e disincanto, spleen e fervore,
prospettiva e nostalgia.
Una tragicommedia di finzione ed eccitazioni che significano spostare un po' più in là gli steccati del sogno
rock, per non rassegnarsi all'incubo che stava diventando.
Il successivo No Dice (1970) è un capolavoro: prodotto
da un beatlesiano doc come Geoffrey Emerick, riesce a
combinare nelle giuste dosi una scrittura intrigante e un
sound che pesca con sagacia dal jingle jangle, dal soul,
dall'errebì, dal folk-psych, il tutto ovviamente in chiave
pop. Se No Matter What e I Can't Take It sono l'anello
di congiunzione tra i boogie dei Creedence e quelli dei
T.Rex, Midnight Caller e Without You sono le ballate in
cui l'inquietudine elettrica è la bestiolina nell'ombra, il
ghigno malevolo e dolciastro.
Il fatto poi che Without You sia stato un singolo sfasciaclassifiche nelle versioni di Harry Nillson e Mariah Carey, non fa che ribadire la qualità delle penne
di Ham e Evans, che difatti col successivo Straight Up
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(1971) - prodotto, pensate un po', dalla strana coppia
Todd Rundgren e George Harrison - misero a segno
un'altra meraviglia: pezzi come Day After Day, Money, Take
It All, Flying (scritta dal chitarrista Joey Molland) e Baby
Blue sono l'alfa e l'omega di un sentire pop contagiato di smarrimenti psych. Ascoltandoli ti viene voglia di
rimpiangere davvero l'occasione perduta di un mondo
migliore in cui le radio diffondono sensazioni morbide
ma vere. Ma poi c’è la realtà, la dura realtà.
Dopo gli ancor buoni Ass (1973) ed il successivo
omonimo (1974), la parabola della band si interruppe
tragicamente in seguito al suicidio del leader Pete Ham
(il 23 aprile del '75), non prima però di aver licenziato
il canto del cigno Wish You Were Here (1974). Emblematici anche nel paradossale insuccesso, i Badfinger
sono oggi perlopiù dimenticati da critica e mercato.
Diverso il discorso per i Big Star. Diversissimo. A partire dal fatto che sono molto più famosi e celebrati oggi
che nel periodo di massima attività. Un breve periodo,
ahiloro e ahinoi. Diversa anche la collocazione geografica, a testimoniare l'ubiquità di un sentire pop che raccoglieva le fila di vibrazioni già "globali". Fu a Memphis
infatti che Alex Chilton, già cantante nella soul-band
Box Tops, pensò di mettere assieme uno dei combo
più azzeccati e travagliati (in senso artistico e umano) di
ogni tempo.
La matrice soul - non a caso incidevano per la Stax - è
presente seppure come un'impronta amniotica, andando
a mischiarsi coi palpiti beatlesiani, il trillare Byrds e le
fregole Kinks, lasciando quindi decantare il tutto tra disillusioni e languori che diresti Velvet Underground.
Capita così che l'impeto power e l'estro pop rimangano sospesi in una sorta di liquido amniotico decadente,
contrito, sul punto di collassare in uno spleen autodistruttivo.
Insomma, siamo con tutti e due i piedi dentro la questione, eppure ne siamo fuori perché il "disimpegno" pop
sembra continuamente precipitare in una crisi introspettiva d'intensità inaudita. Poco conta però, visto che, come
dicevamo, il power pop è ma in realtà non è, profilandosi
come una categoria cui tendere più che un ordine d'idee
stabile cui appoggiarsi.
Big Star, dicevamo: l'esordio #1 Record (1972) vede
Chilton ed il co-leader Chris Bell alle prese con un repertorio originale con evidenti debiti folk screziati di psichedelia devitalizzata (Give Me Another Chance, Thirteen,
Try Again), come un trip anfetaminico a fine corsa solcato
da qualche spasmo facinoroso (Don't Lie To Me, When
My Baby's Beside Me) ma perlopiù impegnati a definire
uno stato d'animo in bilico tra eccitazione e depressione, non una roba occasionale ma esistenziale (il boogie
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tagliente e melmoso di Feel, l'impeto al guinzaglio di The
Ballad Of El Goodo, il turgore strisciante di My Life Is Right).
Un cocktail già peculiare, godibile e accattivante ma contagiato di malanimo, come del resto la liasion artistica e
umana tra Chilton e Bell.
Quest'ultimo abbandona alla vigilia del secondo album
Radio City (1974), che è quindi frutto quasi esclusivo di
Chilton, dalla polpa dolciastra, per molti versi avariata. A
tratti sembra di sentire un Bob Dylan prostrato ai piedi
di un boogie-soul The Band (Life Is White), quel continuo
disequilibrio arreso e arrembante (il boogie asprigno e
svampito di O My Soul, con un mellotron sconcertante),
i jingle jangle coagulati nelle pennate ruvide e argentine
(September Gurl), il soul ormai uno spettro sbiadito (tra
gli spasmi folk-rock di What's Going Ahn, tra i tremori George Harrison di You get What You Deserve), soprattutto
quegli ordigni post-psych inpantanati tra visioni oppiacee
e stremate (il siparietto piano-voci quasi Robert Wyatt
di Morpha Too), strattonate da un estro residuo The Who
(Daisy Glaze) anticipando d'amblé certo dark side glam
(Mod Lang).
Diciamolo chiaro: come in tutti i casi "seminali", i Big
Star fanno storia a sé. Pur cavalcando quel nugolo energetico che spingeva a ridefinire gli statements del pop e del
quale tentiamo di tracciare i confini. Quindi, col terzo album Third (del '75 ma rimasto nel cassetto per tre anni)
tutto si compie in un modo che splendidamente esula dai
fini della nostra indagine. Questo disco - che fu tolto dalla
polvere e dall’oblio solo per onorare la memoria di Bell,
morto in un incidente automobilistico - mise in scena
tutta la beffarda, esausta, intensa, derelitta verve di Chilton, i cui boogie si affannano ormai gracchiando dietro
a fiati senza sfarzo (O, Dana), tra chamber pop affranto
(Stroke It Noel), amarissimo sberleffo (Thank You Friend) e
spurghi errebì residui (gli Stones svalvolati The Who con
un sax in libera uscita di You Can't Have Me).
Soprattutto, il veleno Velvet Undeground ha raggiunto
ormai gli organi vitali, conclamandosi in cover pervase
di friabile trepidazione (Femme Fatale) per poi innescare
episodi di languida stringente desolazione (il caracollante
abbandono di Big Black Car, la livida piece su mantice di
contrabbasso e slide carezzevole di Holocaust). E' chiaro
che siamo da un'altra parte, che i cigolii, i grugniti, le salve
percussive, i deliri del mellotron ed il febbricitante ciondolio canoro (da brividi in Kangaroo) spostano le coordinate del discorso, cui non a caso faranno riferimento nel
tempo entità sonore non precisamente pop quali Wilco,
Replacements, Elliott Smith, This Mortal Coil e
Jeff Buckley, solo per fare qualche nome.
(1970-1974) D eclinazioni
iperpop : Todd R undgren ,
R aspberries , B lue A sh
Torniamo a bomba in territorio power pop riallacciando le fila della vicenda Todd Rundgren. Lo avevamo
lasciato deluso in uscita dall'avventura Nazz, ma questo
polistrumentista e cantante di Philadelphia non era certo
il tipo da scoraggiarsi. Tempo pochi mesi ed eccolo alla
guida del trio Runt, spalleggiato dai fratelli Tony e Hunt
Sales, rispettivamente batterista e bassista, entrambi poi
con l'Iggy Pop di Lust For Life e nei Tin Machine
di David Bowie. Due album (Runt del '70 e Runt: The
Ballads Of Tod Rundgren del '71) misero in luce una
straordinaria e persino stordente versatilità in ambito
psych-jazz-soul-errebì dal mai domo sostrato pop, qualcosa come un formidabile delirio dipinto a otto mani da
Steve Winwood, David Crosby, Roger Waters e Brian
Wilson.
Pur sempre questione di nostalgie corroborate, fibrillate, lasciate lievitare fino al turgore, eppure non senti
mai prevalere una tensione retroattiva, piuttosto a permeare il tutto c’è una potente ipotesi pop coniugata al
presente, presto - bontà sua - rivelatasi fuori dal tempo. Ciò che ribadì di lì a poco Something/Anything
(Bearsville, 1972), formidabile opera doppia firmata dal
solo Rundgren una volta dissolta la "copertura" del trio.
Venticinque tracce che esplorano in lungo e in largo i
versanti più impetuosi, accomodanti, suadenti, gagliardi,
capricciosi, soffici e sottilmente irrequieti del power pop,
o almeno di ciò che potrebbe spacciarsi per tale.
Degne di rilievo una rilettura di Hello It's Me (pezzo
risalente al periodo Nazz) dal piglio quasi Steely Dan,
l'amarognola ruffianeria di I Saw The Light, la clamorosa
evoluzione boogie/jangle di Couldn't I Just Tell You, una Dust
In The Wind che ammicca a Van Morrison e a George Harrison e quella Black Maria che sguinzaglia CSN&Y
sulle tracce dei Pink Floyd. Molto buono anche se inevitabilmente inferiore il successivo A Wizard, A True
Star (Bearsville, 1973), che rivelò altresì una spinta sperimentale con tentazioni prog (risalendo la corrente al
contrario rispetto ad un Marc Bolan ed al glam in genere) enfatizzata dal successivo Todd (Bearsville, 1974). E
qui col Rundgren, in procinto d'imbarcarsi nell'avventura
Utopia, è il caso di fermarsi.
A questo punto, parlare di band come i Raspberries
da Cleveland può suonare un pizzico riduttivo. Eppure è
il caso di farlo se vogliamo rientrare in tema (malgrado
l'oggetto del tema sfugga continuamente alla presa), perché questa band fondata dal chitarrista e cantante Eric
Carmen nel 1970 è power pop dalla testa ai piedi, focalizzandone il lato più docile e disimpegnato. Sentimento,
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melodramma, turgide svenevolezze, proclami impetuosi,
una evidente nostalgia per la generosità vibrante dei Roy
Orbison (I Wanna Be With You) magari immischiate surf
(Drivin' Around) e Kinks (la clamorosa Go All The Way), la
propensione per i boogie roots (Every Way I Can), le ballate setose (Don't Want To Say Goodbye) e le rimembranze paesane al sapor Lennon/McCartney (I Reach For The
Light), rendono il loro repertorio (4 album per la Capitol
dal '72 al '74) una sorta di soffice sistematizzazione del
(non) genere di cui stiamo parlando, oppure se preferite un manuale di istruzioni per aggredire le classifiche
flirtando coi rockers più svenevoli (che poi è la stessa
cosa).
Provenivano invece dall'Ohio - Youngstown, per la
precisione - i Blue Ash di Jim Kendzor, cantante adenoidale e graffiante che assieme al bassista Frank Secich (più avanti con Stiv Bators e Jimmy Zero dei Dead
Boys) allestì il combo nel 1969. Quattro anni di concerti
a rotta di collo tra la Pennsylvania e l'Ohio fruttarono
un contratto per la Mercury e un elettrizzante album di
debutto dal titolo vagamente punteggiante, No More, No
Less (1973). Solite le coordinate - un intruglio ipervitaminico, aspro e ammaliante di Beatles, Byrds, Kinks - però
portate su livelli di ruvidezza che fa vacillare le colonne
portanti del pop, bazzicando spesso e volentieri la fregola impetuosa degli Stones in direzione Aerosmith e
MC5 (Let There Be Rock, Abracadbra), tanto che non deve
stupirci se capitò loro di aprire per alcuni concerti degli
Stooges.
Resta però - ne dubitavate? - un indomito e indefesso sostrato pop, come dimostrano il jingle-jangleggiare
accomodante sotto la scorza di una Any Time At All o di
Plain To See, per non dire di quella What Can i Do For
You che distilla Buffalo Springfield e i Fab Four altezza
Abbey Road, ottenendo con Wasting My Time e Smash
My Guitar il giusto dosaggio di veemenza, inquietudine
e dolcezza secondo la imprescindibile lezione dei Pete
Townsend e dei Ray Davies.
I Blue Ash furono una buona band con intuizioni poco
originali (salvo forse la travolgente cover dell'inedito dylaniano Dusty Old Fairgrounds) ma con un bel tiro e soprattutto l'aria di aver capito e carpito in pieno la fregola
del power pop. A riascoltarli oggi - l'album di debutto è
stato stampato in cd solo nel settembre 2008 - sembra
incredibile che la loro carriera fosse destinata ad esaurirsi dopo il secondo lavoro Front Page News per i tipi
della Playboy Records, ma si era ormai al 1977, altre vibrazioni reclamavano la sintonia, e la band si dissolse due
anni più tardi. Ah, ok, c'è stata una reunion (nel 2003), ma
soprassediamo.
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(1972-1977) Verso il glam e
l ' infinito ( non ) ritorno punk pop : S weet , S cruffs
Quanto agli inglesi Sweet, casomai per loro il power pop
fu un'infatuazione passeggera tra le altre. E, in un certo
senso, fu il loro merito principale. Anch'essi come i Big
Star presero le mosse dal soul visto che il batterista Mick
Tucker ed il vocalist Brian Connolly (subentrato ad un
certo Ian Gillan...) lo esercitavano nei Wainwright's
Gentlemen. Nel '68 i due decisero di formare un'altra
band, gli Sweetshop, orientando la barra verso la psichedelia e l'errebì.
Accorciato il nome in Sweet per problemi di omonimia, nel '69 firmarono per la EMI e iniziarono ad irrobustire il sound azzeccando tra il '72 e il '75 una serie di
singoli clamorosi (Block Buster, Teenage Rampage, Ballroom Blitz, Fox On The Run...) che messi assieme fanno un
campionario di espedienti sempre più turgidi, enfatizzando gli stilemi boogie, pop e folk-blues (dai The Who ai
Beatles passando da vaghe nostalgie Beach Boys) fino ad
ottenere pose para-glam e proto-hair metal.
Non si tratta certo di una band fondamentale né in
senso assoluto né relativamente al nostro discorso, tuttavia vale citarla almeno per rimarcare la sottile ma incolmabile distanza che separa il fantomatico power pop
dal cosiddetto glam, mancando al primo l'immaginario
ultraterreno da cui il secondo non poteva prescindere
per allestire la sua pantomima fulgida e derelitta.
Non a caso gente come i T.Rex e i Bowie giungeranno al glam attraverso esperienze psych e prog, arrivando
a concepire la propria musica come una soundtrack per
sovrastrutture stranianti (pensate all’impagabile baraccone trans-teatrale allestito per Ziggy Stardust), veri e
propri trip estetici per sublimare la desolazione esistenziale (e infatti il gotic guarderà al glam come a una fonte
di ispirazione anche diretta, vedi il caso dei Bauhaus).
Se in fondo il glam era un luccicante e tragicomico
"rock'n'roll suicide", il power pop giocava invece coi
sentimenti ad altezza d'uomo, fu (è) un diversivo che si
nutriva di (e reinterpretava i) tumulti del quotidiano, affondando la sonda più o meno in profondità avendo cura
di non essere troppo invasivo (a parte il caso dei Big Star
che però, come dicevamo, giocarono una partita a sé).
Per questo motivo, gli Sweet furono essenzialmente una
band di power pop che si è spacciata via via per ciò che il
tornaconto gli suggeriva. E non hanno ancora smesso!
Ci piace chiudere questa schizofrenica e raffazzonata
carrellata di qua e di là dall'oceano - facendo fulcro su
qualcosa che probabilmente non esiste, oltretutto - con
i formidabili Scruffs di Stephen Burns. Formatisi come
classico quartetto nel 1974, questa band concittadina
dei Big Star concentra tutte le caratteristiche e gli elementi del power pop ipotizzando un loro superamento
che non mancherà di provocare conseguenze sul lungo
periodo. Ascoltare le tracce del loro debutto Wanna
Meets The Scruffs (1977) e ancor meglio le prime
incisioni raccolte in Angst - The Early Recordings
1974-1976, significa assistere ad una sorta di distorsione spazio-temporale e poetica, con le istanze del pop
sballottate dalle vibrazioni agre del rock acido e un estro
garagista a tenere caldo il ferro.
Rasoiate dolciastre di chitarra elettrica, il basso sempre impellente, qualche tastiera a ricamare bordoni wave,
nel mezzo la voce di Burns come un razzo terra-terra
spedito nell'immediato futuro e ritorno, cartoline che
illustrano l'utopia di un pop visionario e acido per un
mondo visionario e acido (sentitevi l'anfetaminico struggimento di Number One, l'epica sfrigolante di Revenge, la
nostalgica veemenza di Break The Ice...). Diverranno altrettanti cliché per le turbe folli e maliose dei Flaming
Lips, ma anche per le piéce turgide e sfrigolanti dei Suede, che proprio a quell'allucinazione consapevole, a quei
lineamenti distorti su espressioni affabili dedicheranno
energie ed intuizioni, con gli esiti diversi - se volete pure
opposti all’estremo - che ben sappiamo.
Purtroppo per noi e per gli Scruffs - destinati as usual
a non conoscere la fama - si era già in piena tempesta
punk, anni veloci e scellerati che non fai in tempo a voltare una pagina già inizia il prossimo capitolo.Tempo quindi
di passare il testimone, tenendosi caro quel ghigno innocuo e sferzante di chi ha intuito la possibilità di deviare
dal tranquillo solco della normalità senza perdere il gusto - direi quasi la tenerezza - del semplice intrattenere.
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highlight
Ristampe
Raincoats (The) - The Raincoats (Phantom Sound & Vision, Ottobre
2009)
G enere : post - punk / mes sthetic s
Drexciya - Neptune's Lair (Tresor,
Dicembre 2009)
G enere : techno
Dopo una serie di EP (su Warp e Underground Resistance), i Drexciya approdano su Tresor. Questo disco,
insieme al seguente Grava 4 (Clone, 2002) segnava, nel
1999, uno standard e un culto che aleggia ancor’oggi inconsapevolmente sopra molte consolle. Neptune’s Lair è
costituito da tracce brevi, sprazzi e visioni eterogee che
riflettono la profondità della proposta del combo formato da James Stinson (purtroppo dal 2002 non più sul
pianeta terra) e dal suo partner-ombra Gerald Donald.
Se qualcuno si era fatto sconsolare dalla cripticità dei
summenzionati eppì, è proprio da queste parti che si
incontra l’ascoltabilità tout
court.
E che si vada su paesaggi
ambient (Temple Of Dos De
Agua), perfezione scientifica del beat mescolata con
la melodia oggi ereditata
dai Dopplereffekt (Andreaen Sand Dunes), oscurità pregrime (Habitat ‘o’ Negative), classicismo Detroit (Universal
Element) o bbreaking puro (Surface Terrestrial Colonization,
Organic Hydropoly Spores), psichedelia progressiva (Draining Of The Tanks) in questo disco si coniuga l’utopia di
Mike Banks e soci con un respiro ampio. Da classico.
Possono far sorridere quei suoni sporchi mescolati a
melodie a pochi bit, ma è proprio da quest’estetica di
nerd puristi e sperimentatori (con macchine e tastiere
obsolete) che sono nate poi le vie alternative dell’elettronica per le masse danzanti. I Drexciya hanno rielaborato le istanze sperimentali dei vari Autechre, Pan
Sonic o Keith Fullerton Withman riportandole sul
pianeta techno con una firma personale e indelebile. Una
mini bibbia.(8/10)
Marco Braggion
Slits (The) - Cut / Uncut - Deluxe
Edition (Island, Novembre 2009)
G enere : post - punk / dub
Le prime cose che si percepiscono ascoltando Cut sono
l’atmosfera, la gioia, il dinamismo militante. Bastano due
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minuti di Istant Hit e la familiarità con le chitarre inconfutabilmente post-punk, il ritmo in levare, la vocalità agitprop ma cristallina di Ari Up è già completa. So Tough ha
un tiro che trascinerebbe una mummia, e ci introduce
a quel basso che toglie ogni dubbio: questa roba è dub,
oltre che post-punk. Eppure le Slits nascevano come il
primo gruppo punk tutto al femminile, con Ari che incontra Palmolive al concerto di Patti Smith, et cetera
et cetera…
Ma l’insegnamento di Cut è quell’“eppure” può non essere pertinente. Anzi, è proprio il momento che il primo album delle Slits fotografa con una felicità che ha
pochi pari. Felicità che nasce dal loro entusiasmo e da
quell’equilibrio precariamente incosciente che investì il
combo femminile una volta fatta la conoscenza dei ritmi
giamaicani arrivati in UK. In Cut c’è tanto il punk quanto
il dub, punto. C’è il supporto della produzione di Dennis
Bovell, che secondo alcuni
semplicemente stravolse
l’anima del gruppo. Ma noi
sappiamo che l’anima delle
Slits (sempre che esistano
le anime) non poté rimanere impassibile ai deliri ripetuti delle feste raggae in cui
Ari e co., assieme agli amici
del Pop Group, passavano le nottate. E quindi sgorgò
dalle vite alla musica.
In Cut vediamo il dub modificare l’ipnosi delle sue strutture da taglia e cuci di foga e riflessione del post-punk.
Notiamo anche il fallimento della tecnica, quando si dimentica delle teste in questione, e cioè quando Liebe And
Romanze dilata a dismisura Love And Romance. E grazie
al lussuoso cofanetto doppio CD della deluxe-edition
di Cut, stampato in occasione dei trent’anni del disco,
ci è concesso di osservare gli effetti della sottrazione
reciproca tra dub e punk. Ci sono ben due sessioni da
John Peel, dove i pezzi Cut-iani si asciugano del lavoro
in studio e tornano a essere deliziosamente arrembanti. C’è un secondo CD che non poteva che chiamarsi
Uncut, a richiamare un famoso articolo di Reynolds del
'97, proprio sulle Slits (poi mutato nel pezzo di Rip It
Up che conosciamo bene). In tutto, tra CD e Un-CD,
oltre alla tracklist originale di Cut, ci sono ben 30 trac-
Erano delle icone, le Raincoats. Lo sono ancora, dal momento che la citazione di The Raincoats, primo album della band, è d’obbligo quando si parla di un bel po’ di generi e questioni - non solo musicali.
Delle Raincoats si sa molto, e soprattutto del periodo in cui fecero la loro felicissima comparsa. Fine anni
Settanta. Scuderie nascenti Rough Trade. Gruppo femminile ma soprattutto femminista, anzi già postfemminista, probabilmente. Militanti già solo per l’essere lì, a sanzionare la propria presenza e a mettere il
nome dell’impermeabile in tutte le cronache attendibili sulla nascita del post-punk e sulle prime evoluzioni
più efficaci.
È difficile quando si è così intrise di ambiente, di spirito del tempo, fare a meno di quello e concentrarsi
sulle canzoni. Eppure quelle di The Raincoats sono amorevolmente degli scrigni di arte vocale, delizie
di armonia, piccoli esercizi di disordine, passi delicati di arrangiamento su tessuti ed angolature post-punk,
violino, cori memori dell’arte vocale di una tradizione di decine d’anni prima. Se dobbiamo dire che è capolavoro, diciamolo. Poco importa; e anche
qui; lo spirito del tempo porta a inquadrare The Raincoats come uno
dei momenti aurorali e comunque di massima realizzazione della messthetics, sorta di movimento interno al post punk inglese (e, più specificamente,
dentro a Rough Trade, insieme a Scritti Politti, Young Marble Giants, e
via dicendo) che faceva di quel disordine un’estetica coerente. Si trattava di
cambi di tempo, di armonia, di sfilacciatura portata a elemento compositivo,
a pause interne e ripartenze; tutte cose, soprattutto l’apparente distrazione
e casualità della batteria di Palmolive (sì, la stessa delle Slits), che in The
Raincoats trovano cittadinanza ideale, nonché un esito mirabile.
La notizia è che dopo dieci anni di indisponibilità, questo scrigno è stato rimasterizzato, sotto la supervisione nella rifinitura proprio delle Raincoats (di due di esse, Ana da Silva e Gina Birch), e ristampato con
un video e una bonustrack supplementari, a sigillare un anno di ritorno della band, con tournée americana,
presentazione del documentario The Raincoats, Fairytales - A Work In Porgress, celebrazione presso ambienti LGBTQ. Si ventila un passaggio italiano, dal vivo. Abbiamo tutto il tempo di tornare a gustarci
la freschezza rinnovata del primo album, a ripararci dalla pioggia…(8/10)
Gaspare Caliri
ce bonus (selezionate e compilate dalle Slits stesse, insieme a Mark Paytress di Mojo) che impreziosiscono,
accanto a un booklet succosissimo, un’uscita che, una
volta in più, conferma il raggiunto status del post-punk
inglese nel mercato discografico: una fonte di celebrazione.(7.5/10)
Gaspare Caliri
Sonic Youth - Silver Session (Syr,
Gennaio 2010)
G enere : guitar noise
Torna disponibile, dopo un periodo fuori catalogo, uno
dei pezzi forti del lato selvaggio della gioventù sonica.
Silver Session, sottotitolo For Jason Knuth - dal nome
del fan suicida al quale il mini venne dedicato - è forse
uno dei pezzi più incompromissori di una carriera ormai
divisa equamente tra lavori accessibili (su major) e altri di ricerca e sperimentazione (in proprio col marchio
SYR).
Se Thurston Moore nelle note che accompagnano il mini
si premura di ricordare come all’epoca della registrazione avessero portato “every amp we owned on to 10+”
facendoli collassare come “airplanes burning over the
pacific”, capirete benissimo cosa avete davanti: mezzora
di white noise in overdrive, un trionfo di feedback chitarristico che tocca picchi da massimalismo del rumore
e i cui risultati sono a tratti addirittura mantrici (Silver
Shirt).(6.5/10)
Stefano Pifferi
rearview mirror
89
(GI)Ant Steps #34
classic album rev
Miles Davis
Van Der Graaf Generator
Kind of blue (columbia records, agosto 1959)
H To He Who, Am The Only One (Charisma
Records, Dicembre 1970)
Sempre nell'olimpo, tra i classici forse il più classico, uno
di quei pochi dischi capaci di incarnare il significato della parola jazz così come sedimentato nella coscienza
collettiva e immediatamente disponibile al gioco delle
associazioni mentali: quasi una definizione da dizionario.
Dici jazz e anche il peggiore degli sprovveduti si figura
Miles Davis e forse proprio Kind of Blue e la sua
copertina (con tutto l'immaginario cui questa allude e
che sottintende, night fumosi e giacche e cravatte sudate in testa). Delle tante facce del mutante Davis questa
tinta di blue(ness) è la più spendibile a qualsiasi livello
(non intendiamo questo, ma diciamolo anche, per inciso,
che è uno dei dischi più venduti della storia del jazz), la
più basica (nel senso di basilare e fondativa) e composta:
elegante di un minimalismo fatto di contorti netti, perfettamente disegnati.
Davis prende per mano il Virgilio Bill Evans e sviscera
qui, definendo un nuovo standard, le intuizioni modali
(dove modo è uguale a scala, lidio, misolidio, eccetera, in
opposizione al classico improvvisare jazz sugli accordi
che sorreggono il tema) già testate in alcune prove di
poco precedenti. E' un ritorno al piacere della melodia
dopo le abbuffate virtuosistiche della tonalità bebop, per
un Davis che in fondo è e sarà sempre un "virtuoso del
90
rearview mirror
non virtuosismo", uno sciamano del silenzio e dell'intuizione (fino all'alea controllata - appunto - di In a Silent
Way, 1969).
Inutile stare a chiosare sui cinque pezzi, praticamente
cinque standard fin da subito (l'iniziale So What su tutti),
e sulle performance dei singoli uomini del quintetto che
accompagna Miles (la classicità - di nuovo - dello swing
di Jimmy Cobb; i misuratissimi tocchi al piano di Evans,
memori di certa classica-contemporanea; i primi chiari
bagliori del John Coltrane che sarà). Basta da sola la
sua tromba a fermare il tempo, ancora oggi, cinquant'anni
dopo, limpida e notturna com'è: come un chiaro di luna.
Sono lame sottili che non lacerano ma illuminano il buio
di una luce bianca, lirica, astratta, ultraterrena, apollinea.
E' un miracolo la tromba di Miles, quasi sempre, e qui più
che altrove.
«E' classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango
di rumore di fondo. E' classico ciò che persiste come
rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona», diceva Calvino. Kind of Blue, allora,
è semplicemente il più classico tra i grandi classici del
jazz.
Gabriele Marino
Manchester, 1969: The Aerosol Grey Machine è il
primo disco dei Van Der Graaf Generator dopo due
anni di tormentate vicissitudini, tra beghe legali e continui
cambi di formazione. Il suono prodotto da Peter Hammill (autore, cantante e polistrumentista), Hugh Banton
(tastiere), Keith Ellis (basso) e Guy Evans (percussioni) intriga il pubblico e convince la critica (quest’ultima
parlerà addirittura di “nuovi Beatles”). Tuttavia, manca
ancora qualcosa, l’ingrediente decisivo: il sassofono elettrificato di David Jackson, una scheggia jazz veemente,
generosa e anomala che renderà inconfondibile la calligrafia della band.
E’ grazie all’ottimo The Least We Can Do Is To Wave
To Each Other (1970), per qualcuno da considerarsi
come il loro vero primo album, che i Van Der Graaf Generator iniziano a riscuotere un più che meritato successo. Però il combo è un calderone, i caratteri stridono, l’iperattività erode i rapporti, gli strumentisti vanno
e vengono. Soprattutto, vanno: buon ultimo il bassista
Keith Ellis, parzialmente sostituito da Nic Potter, che a
sua volta si tratterrà appena il tempo di suonare in tre
pezzi di H To He Who, Am The Only One. E’ l’album
della maturità per i “generatori”, le sonorità veementi e
preziose, le strutture espanse e ritorte su melodie intensissime: un miracolo di complessità e urgenza, amalgama
ipertrofico che pure riesce a sembrare spontaneo, diretto, addirittura toccante.
Il lavoro di arrangiamento e produzione è imponente e
calligrafico, e basterebbero a dimostrarlo i primi secondi
di The Emperor In His War-Room: flauto, tastiere, basso e
batteria compaiono sulla scena simultanei e vaporosi, un
senso di leggerezza inafferrabile mentre la voce scolpisce il tema tra brume nichiliste e improvvise deflagrazioni d’acidità. Le canzoni sono percorsi, peripli, avvitamenti
tra convulsi cambi di scena e pastose scenografie, con
una febbre jazzy a pungolare quel senso d'epica spacey
di marca King Crimson (e non a caso c'è Robert Fripp
ospite proprio nel pezzo prima citato). Certo, l'imponenza dell'edificio sonico - cui l'organo di Banton è colonna portante, vedi quel che combina in Killer - sarebbe
poco senza la scrittura di Hammill, memore di blues e
intrisa di post-psichedelia, come quel canto a metà tra
shouter black e hard-rocker tenorile, capace altresì di
gestire tenerezze come nella stupenda House With No
Door, cosmicamente pervasa di spleen e ugge pastorali
(Jackson alle prese col flauto, con effetto quasi Traffic).
La conclusiva Pioneers Over C. alza definitivamente l'asticella decollando floydianamente e destrutturando errebì
in stile pseudo-Faust, impastando piglio Spirit e misticismi beatlesiani, crimsoniani, canterburiani, in un processo che si dipana erratico e ubriacante attraversando
oasi acustiche, assolo incandescenti, sinusoidi misteriose
e insensatezze di piano. E pensare che tutto questo non
sarà che antipasto del più celebre Pawn Hearts, licenziato solo pochi mesi dopo. Purtroppo anche apice di
una carriera troppo breve.
Stefano Solventi
rearview mirror
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la sera della prima
(500) giorni insieme
M arc W ebb (USA, 2009)
Peccato! Ci avevo sperato, creduto. Lo giuro! Lo so, stupido io a farmi abbindolare ma che ci posso fare, in questo periodo sorrido parecchio! (500) giorni insieme
(500 Days of Summer), di Marc Webb ha un solo reale
problema: è troppo di Marc Webb. Mi spiego, si percepisce sin dal'inizio il potere catartico e terapeutico di
tutto il film, opera dell’esordiente Webb, che viene dai
videoclip. Che sia suo il bisogno o dei suoi scrittori non
lo so né mi interessa ma il film è, evidentemente, il frutto
di un lavoro di pulizia e affrancamento.
Sin dall'inizio, con la dedica a una “stronza” che si può
immaginare che cosa gli abbia fatto, attraverso poi la battuta dell'amico per la quale si deve fare come Miller e
rendere la delusione amorosa letteratura e infine attraverso il ripetuto concetto quasi manzoniano della porta
che si chiude e del portone che si apre, si capisce che
qualcuno dalle parti di Los Angeles ha il cuore infranto e
si è detto: “Beh, lo sai che c'è, io scrivo tutto!”.
L'autobiografismo di (500) giorni insieme, la personale visione del mondo che fa credere che si troverà
prima o poi qualcuno che la pensi allo stesso modo, è il
limite maggiore di un film divertente, fresco e solare. Se
Federico Fellini raccontava se stesso e faceva Cinema,
Marc Webb racconta se stesso e fa: “mammamia quanto
mi piacciono i film del Sundance”! Mi spiego. Ovviamente il
paragone con l'Autore italiano è vano, non mi sono bevuto il cervello per il momento, ma questo film ripiega la
mancanza di un sentimento e di una scrittura degna sul
mezzo tecnico, sul montaggio, sulle alternanze stilistiche,
sulla trovata del conto dei giorni e, assolutamente, sulla
colonna sonora.
Andiamo con un po' d'ordine. La colonna sonora è un
insieme di memorie, gioie e dolori per tutti quelli che sanno qualcosa di musica. L'incontro tra Tom e Summer in
ascensore, mentre lui sta ascoltando There Is A Light That
Never Goes Out degli Smiths ha, per me, del mitologico,
del “benvenutinelmondodeiricordidiAldo” ma non basta!
Arrivano Here Comes Your Man dei Pixies e Bad Kids dei
Black Lips così sbotto, salto sulla poltroncina e inizio a urlare “PENE, PENE, PENE!” (citazione dal film, s'intende!). Il
film, apprezzato al Sundance e ben anticipato da un bombardamento mediatico tra social forum e banner internet
ha tutto per conquistare il suo pubblico e dispone una
dietro l'altra sequenze da copiare e rifare. Fingere di abitare all'Ikea, andarsi a innamorare in un karaoke, sbroccare
tra alcool, amici che ti conoscono da sempre e con la
canzone giusta in cuffia, sono macrosituazioni, elementi di
una riconoscibilità precisa, specifica e ammiccante. Buone
un po' per tutte le età. Ok! Un filmetto. Ok! Sono troppo
vecchio per certe cose. Eh no! Perché a un certo punto
cercano di farmi capire che le cose capitano, che è inutile farsi promesse, che le coincidenze ci governano e lì
i personaggi si sgretolano, si polverizzano in frasi senza
senso, scomodi pensieri dalla profondità paragonabile al
Bergman citato nel film. Già, perché si fa anche un po' di
metacinema qui, si cita, si copia e rifà.
Il finale rovina tutto quello che, durante il film, di buono
è stato fatto. Affrettata, improbabile e fastidiosa. Consiglio di procurarsi la colonna sonora e di andarlo a vedere solo se avete una storia d'amore che sta prendendo
il volo, se siete liberi e volete restarlo o se, come Syd e
Nancy, non ve ne frega niente di niente!
Aldo Romanelli
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(500) giorni insieme
Dieci inverni
V alerio M ieli (I talia , 2009)
E’ che alla fine sono un inguaribile romantico. Nonostante il gusto populista di alcuni melodrammi sentimentali
del Bel Paese ogni tanto ci ricasco con il rischio di perdermi nella retorica del melenso e del banale. A dispetto
di molti drammi da adolescenti brufolosi, qui non si sentono cccioè ed altre amenità lessicali, ed è ovviamente
un bene. Non c’è nemmeno Stefano Accorsi che grida
in maniera isterica, però non temete cuccioloni sta tornando anche lui nei panni in cui abbiamo potuto misurare a tutto schermo la circonferenza delle sue arterie
giugulari.
Contrariamente alla recherche dello stereotipo, Dieci
inverni indaga il rovescio della medaglia. I toni sono
lontani milioni di inverni luce da quelli a cui ci hanno
abituato le ultime produzioni italiane. L’esordio di Valerio Mieli, fresco di centro sperimentale, è ottimo e
coraggioso. Ci ha creduto la Rai, ci ha creduto il centro
di cinematografia moscovita, ci ha creduto la Bolero che
lo sta distribuendo in Italia. A volte magari qualche scivolone gli è concesso sul terreno ghiacciato e impraticabile
di un genere palustre come quello della commedia sentimentale. Ad aiutarlo una giovane coppia di attori, Isabella
Ragonese e Michele Rondino, in grado di invecchiare di
dieci anni in poco più di un’ora e mezza senza insosteni-
bili quanto ridicoli ricorsi al parrucco. Non ci è dato di
conoscere né un prima né un dopo. La nostra finestra ha
un arco definito e il raggio visivo è chiuso sui due protagonisti e il loro mondo. Attorno gravitano personaggi
satellite che a volte escono dal nostro spettro per poi
ricomparire con una relazione finita male, una laurea o
un prossimo matrimonio. Ed è tutto.
Dieci inverni è un film dolce e malinconico. Timido,
quella timidezza garbata e un po’ ruffiana di chi rifiuta
l’ennesimo pasticcino, ma che in cuor suo avrebbe voluto davvero assaporarne l’impasto. La storia tutta nebbie
e solitudini di Silvestro e Camilla è ambientata in una Venezia isola e Canali, fotografata da Marco Onorato con
la maestria che il DOP ha mostrato nella sua lunga collaborazione con Matteo Garrone in Gomorra (2008),
Primo amore (2004) e L’imbalsamatore (2002).
Senza molte soluzioni di continuità spazio temporali,
così che Venezia sembra simile a Mosca, ed entrambe
sembrano irreali; ogni anno sembra uguale a quello precedente e si proietta su quello che verrà. Minimo comune denominatore la giacca di Silvestro. Perché lei alla fine
cambia e si cambia. Cambia acconciatura, finge di cambiare testa e cambia soprabito per nascondere sempre la
solita insicurezza che solo lui - a discapito della sua faccia
da schiaffi - alla fine riesce a dichiarare.
La storia di questa educazione sentimentale si concela sera della prima
93
de senza malizie,
procede
come
uno zibaldone di
annotazioni che si
proiettano in quadri in cui il mondo dei personaggi
finge di cambiare,
ma al massimo si
limita ad oscillare
tra uno dei due
poli. Due protagonisti insolenti e
allo stesso tempo deboli, che si
rincorrono come
lancette di orologi. Ovviamente tarati male, ma anche
il mondo esterno sembra contare qualche inverno di
troppo, del resto. Tempo dell’anima e stagioni della vita
che picchiettano sullo stesso tasto, perché il giro completo e di ripresa è stato concesso forse solo a Kim Ki
Duk e a Eric Rohmer.
Dieci inverni, e forse qualcosa dicevamo si perde, qualcosa si aggiunge nella conta. Poi la primavera, non solo
metaforica, che li porterà ancora allineati allo zenit. Lui
per la prima volta davvero cambiato, con la barba. Una
corsa in senso antiorario attorno ad una chiesa, quello
che dovrebbe essere forse l’obiettivo di coronamento di
ogni storia che si rispetti, e si ritorna indietro, all’inizio,
alla loro prima casa e alla loro prima notte. Con esito
diverso, grazie a dio. Il walzer delle ritrosie, delle frustrazioni, delle relazioni tappabuco dura un decennio, e
sul finale il sospetto crescente che la storia finisca in un
nulla di fatto dall’amaro in bocca come in Come Eravamo (The Way We Were, Sidney Pollack, 1973). Una
relazione stabile, una figlia, ma con la persona sbagliata, a
riprova di questo inseguirsi alla mercé di un destino un
po’ beffardo o forse solo preparatorio: Camilla e Silvestro, vicini come nella loro prima casta notte, ballano sulle note di Vinicio Capossela - che regala un prezioso
e poetico cammeo interpretando la sua Parla Piano - ma
mai così distanti. È la vita. Quando «Il tempo ha già giocato
già scherzato non rimane che provar la verità».
Luca Colnaghi
Welcome
P hilippe L ioret (F rancia , 2009)
La tratta Calais-Dover ha un prezzo variabile. Si va da 30
euro, se si è in possesso di documenti, ad un massimo
di 500 euro in assenza di questi. A volte il prezzo può
essere anche più caro, perché per passare una cortina di
94
la sera della prima
ferro servono polmoni d’acciaio e un cuore d’oro.
Bilal, giovane curdo, lo sa bene. Ha lasciato il suo Paese sognando l’Inghilterra, un’adolescente che il padre
ha promesso in sposa e il Manchester United. Difficile
tracciare il confine tra sogno e follia, innocenza e ostinazione, linea che può avere un solco di 34km che molti
immigrati come Bilal sperano di passare a nuoto, quando
vedono fallire il tentativo di salire clandestinamente sul
traghetto. Premio del pubblico alla Berlinale e campione di incassi in Francia, Welcome è un apologo morale
sull’attuale. Polemizza con la legge sull’immigrazione voluta da Sarkozy, ricordando che se oggi è reato aiutare
un immigrato curdo in Francia, un tempo in Germania
era reato aiutare un ebreo. E lo fa mostrando l’indifferenza, la disperazione, i soprusi della polizia e la logica
dei nuovi kapò, guardie giurate di colore che impediscono ai clandestini di far la spesa. Quello che pensavamo
ormai un dramma del sud del mondo, viene riproiettato
a nord, ricoprendo con il cono d’ombra anche l’Italia.
Philippe Lioret ancora una volta dopo il suo bell’esordio in Tombés du Ciel (1993) lavora sul concetto di alterità: l’altro diventa una particella tumorale da essere annientata, una particella da essere fagocitata o espulsa. È
la mercificazione dell’uomo, letterale: gli immigrati attraversano il confine in tir contenenti i beni di consumo che
avremo sui banchi dei nostri supermercati, trattengono
(mortalmente) il respiro dentro le buste di plastica.
Noi e loro, in una dialettica così serrata che non vi può
essere mediazione. Da un lato occorre schierarsi, non
si può stare a guardare come Audrey Dana dirà a
Vincent Lindon; dall’altro l’unico connettore tra i due
mondi (Inghilterra e Francia) e gli interni (riccamente)
desolati e gli esterni popolati di miseria può essere solo
il mare, il grande forse, il dubbio di Volmey cui lo stesso
Simon deve piegarsi. L’istruttore della piscina è l’uomo
qualunque: pavido, ignavo e qualunquista. Abbandonato
dalla moglie a causa della sua inerzia, troverà la forza di
riscattarsi anche se prima spinto dal mero fine egoistico
di riconquistar la moglie. La sua non è solo una risalita
dall’apnea negli abissi dell’indifferenza, ma anche una riconquista dell’umanità perduta: curvo e ripiegato su se
stesso per proteggersi dal mondo esterno finirà per alzare la testa e farsi carico sulle spalle del destino altrui.
Welcome è un titolo che sarebbe piaciuto a Brecht,
probabilmente. Ovviamente ironico, lascia un retrogusto
amaro, quella della realtà. Un film in riva al mare che
sa essere commovente in modo asciutto, risparmiandosi
parentesi lacrimevoli. Una ben congegnata struttura di
polemiche e dibattiti di supporto fanno il resto per un
film che non solo si presenta come film a tesi, ma anche come panoramica sulla disumanizzazione xenofoba
sto nulla è concesso alla logica dei buoni sentimenti gratuiti e della facile commozione. Perché qui non bisogna
riflettere solo con il cuore e la testa, ma anche con lo
stomaco che si contorce dai sensi di colpa collettivi e dai
colpi inflitti dai fatti tanto elementari quanto tristemente
reali ed ignorati.
Sono reali i controlli e le perquisizioni ai camion, le sonde che rivelano il respiro, i morti, le tangenti, lo stato di
polizia che assedia il volontariato francese. Ogni epoca
ha il suo muro. Il nostro è un muro d’acqua.
Luca Colnaghi
Nemico pubblico
M ichael M ann (USA, 2009)
dell’Europa. I sentimenti sono complessi. La passione repressa trasformata in amicizia con la moglie, il desiderio
di riconquistarla mostandosi all’altezza del suo operato
nel sociale, la voglia di riscattare una carriera consumatasi in fretta, l’impossibilità di fidarsi ciecamente dell’altro,
il rapporto quasi paterno tra Simon e Bilal, l’adulto solo
che si rivede negli occhi ostinati del ragazzo. Anzi, il rapporto tra Simon e Bilal passa da quello maestro-allievo
a quello padre-figlio, per poi maturare in quello di due
adulti innamorati di due donne inarrivabili. A loro modo
i due sono due eroi romantici.
Una favola triste, fotografata da Laurent Dillaud con
colori lividi e ampie campiture adatte al lirismo dell’umanità negata e riscoperta, nelle sue sfaccettature più crude, disumane e sopraffatte. L’immobilismo della piscina
francese e della società contro quello del mare e degli
immigrati, fiumi in piena che finiscono nel mare la loro
corsa. Welcome, è un film a chiasmi costruiti in un’ottica
per cui l’importanza delle cose è messa in discussione:
se risulta pleonastica la sequenza finale con il gol di Cristiano Ronaldo, nessuno spazio è dato all’esito della traversata del giovane curdo. L’importante non è chiedersi
come vadano a finire queste storie, ma chiedersi durante
il loro protrarsi le ragioni e i modi del loro svolgersi.
Qualche luogo comune prevedibile, come il furto della
medaglia d’oro, o di sentimentalismo, come la scena in
cui Simon cede l’anello della moglie a Bilal, ma per il re-
Nemico pubblico è un film da manuale. È, soprattutto, un
manuale sull’arte della messa in scena con tutta la sua
maniacale accuratezza per gli oggetti o con le sue locations accattivanti: gli interni di banche e locali, gli esterni,
tra la gelida e ventosa città di Chicago, i cactus e le palme
di Miami, l’ambientazione western del Little Bohemia (da
notare il dipinto del cowboy a cavallo sotto cui Dillinger
si addormenta). La passione di John Dillinger per auto
veloci e vestiti eleganti è pienamente soddisfatta. Harry Bergman all’inizio offre alla banda una Plymouth, una
Essex e una DeSoto. È ovviamente una Ford (V-8) l’auto con cui Johnny fugge dalla prigione dell’Indiana. Billie
confessa alla fine ai poliziotti che il suo uomo si trovava
fuori dal locale di liquori di Larry Strong in una Buick
nera. Sono macchine eleganti, lucide, scure, perfette.
Così le definisce Mr Bergman: macchine velocissime, da
lavoro, per gentiluomini come voi. Ma i mezzi di trasporto non si fermano qui. C’è anche l’aereo dell’American
Airways con cui Dillinger viene spostato da Miami all’Indiana. Le riprese in volo e il suo atterraggio tra fasci di
luce e scroscio di pioggia sono un peana alla tecnologia.
Oppure il locomotore nero che butta fuori fumo bianco
mentre avanza verso la stazione di Chicago per condurre Winstead a destinazione, come un altro testimone di
questa cura della messa in scena che potremmo definire
‘antiquaria’.
Che dire poi delle lampade Art Deco delle banche, dei
marmi rosa e verdi dei soffitti dell’American Bank, degli
affreschi intravisti al tribunale, dei lucidi soprammobili
della casa in cui si incontrano per un attimo Billie e Johnny, dei cappotti neri di ottima fattura? Infine i mitra, il
Thompson Submachine Gun, meglio conosciuto come
Tommy Gun (la canzone del secondo album dei Clash),
vero e proprio oggetto di culto che fa il paio con le macchine da presa dell’epoca che varie volte compaiono nel
film. Sembrerebbe quasi che questo sia il vero obiettivo
del film: mostrare oggetti, il gusto antiquario per l’ogla sera della prima
95
getto di culto. Quando, poi, a questo mostrar oggetti,
in particolar modo le cineprese, si aggiunge la classica,
hollywoodiana critica verso i mezzi di comunicazione che siano la stampa, che sia, più tardi, la televisione - è
solo un promemoria per la critica e un contentino per
chi ama dibattiti e discussioni. È stato detto che Nemico
pubblico costruisce un discorso sul potere demistificante dei media (Hoover rispetto a McKellar, Purvis rispetto a Dillinger, Dillinger stesso rispetto al suo pubblico).
Tutto vero ma - anche rispetto ai precedenti film di
Mann - niente di nuovo. E allora? Che il suo vero scopo
sia mostrare più che raccontare? Nessun desiderio di
costruzione discorsiva ma pura cinefilia, puro desiderio
scopico, pura messa in scena.
Questo film è poi un manuale di sceneggiatura: la struttura è perfetta. C’è un colpo di scena a metà film quando
lui viene sorpreso nell’Hotel Congress a Miami e, dopo
l’evasione, la seconda ora è un lento declino. I poliziotti gli fanno terra bruciata attorno, mentre la malavita
cambia codici, maniere, strumenti, volgendogli le spalle.
Queste due linee si congiungeranno in una pinza che
afferra il gangster. Come non notare, poi, che è anche un
manuale di regia: la mdp digitale corre dietro a Dillinger,
gli sta addosso, spesso lo precede e lo segue, sta dentro
agli eventi, mostra gli oggetti (ecco la forma sensibile di
96
la sera della prima
quel desiderio scopico accennato prima). Non si vuole raccontare oggettivamente, non si vuole nemmeno
commentare, l’obiettivo è essere con il personaggio, al
suo fianco. Per questo la focale principale è ovviamente
Dillinger ma non del tutto. È necessario, infatti, affiancare
avversari di tutto rispetto - quali sono sia Winstead che
Purvis - oltre che oggettivare, in certi momenti, quella
stessa focale quando, per esempio, il racconto passa attraverso le cineprese, le radio, il cinematografo. Non dà
tregua il montaggio, ritmico, sincopato, veloce, al limite
della comprensibilità che fa il paio con la musica. Il bellissimo blues Ten Million Slaves di Otis Taylor è un valore
aggiunto ma non tutta la musica si limita al commento.
Nell’unica scena di sesso fra Billie e Dillinger, per esempio, la voce di Billie Holiday si alterna, in controcanto,
con il tema della caduta dell’eroe - JD Dies di Goldenthal
- e la linearità della sequenza è interrotta da momenti
pacati e distesi in cui Billie racconta la sua vita passata. Il
destino è già segnato e - in questa scena - il tempo cede
la linearità su una serie di riprese (una specie di analessi)
di momenti che non ritorneranno mai più e che già sono
segnati dal tema musicale della fine.
Nemico pubblico è anche un manuale sul gangster movie.
Il realismo del racconto americano cola tutto nello stampo ambiente/carattere e questo film non fa eccezione: è
la metafora del born losers che, nato in un ambiente malavitoso, non può che diventare quello che è. Da Scarface
in poi il gangster è un perdente nato che non conosce
altra legge che quella della strada, ha un lato megalomane e piccole incrinature del carattere. Per Tony Camonte
era il rapporto con la sorella, per Dillinger è Billie. Sono
tutti personaggi bigger than life che si lasciano prendere la mano, hanno codici morali personali, desiderio assoluto di piacere, sono abili seduttori ma finiscono per
strafare. Così è una minima incrinatura del carattere a
fregarli e condurli a destino certo. Niente di nuovo ma
anche: tutto è nuovo, perché non si finisce mai di vedere
e rivedere quello che si ama. In questo senso la scena
finale che ruota attorno al film di Van Dyke II, Manhattan
Melodrama (Le due strade) - storia di un tradimento e
di un uomo dalla filosofia molto simile a Dillinger: vivere
(e morire) il momento - costituisce il nucleo cinefilo del
film. Francamente poco scientifica eppure tangibile e rinfrancante è questa mistica della visione che, nonostante
lo scarso valore di quel film, spinse molti a recarsi al
cinema per vedere le ultime immagini viste da Dillinger.
Barthes di fronte alla foto dell’ultimo fratello di Napoleone diceva: sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore. Così l’America costruisce i suoi miti.
Ma in questo film perfetto (nel senso di ben strutturato
e chiuso su di sé) ci sono, come nel carattere del gan-
gster, delle piccole incrinature. Francois Truffaut diceva di
trovare abietta e immorale la perfezione. E, in effetti, uno
dei punti più interessanti del film è proprio la sua stortura, il suo rifuggire da una figura armonica. In questo
caso il difetto è costituito dalla distorsione del suo stesso potere di mostrare. Già nella primissima scena c’è un
inganno. Dillinger e ‘Red’ arrivano nel piazzale vuoto di
fronte alla prigione, scendono dall’auto e si avviano verso
il cancello. Dillinger è ammanettato, ‘Red’ lo segue spingendolo, ha un distintivo da federale sul cappotto nero.
I due sembrano allo spettatore (oltre che ai secondini
della prigione) preda e cacciatore; in realtà scopriremo
solo dopo che fra i due c’è un rapporto di tutt’altro tipo.
‘Red’ è, infatti, l’uomo che sta più vicino a Johnny, l’ultimo
a morire prima di lui, quello che, in fondo, prende il posto
lasciato vuoto dalla morte iniziale di Walter. La cosa non
è così insignificante come sembra dal momento che l’imperfezione del film, la sua stonatura è esattamente una
specie di sottile inganno perpetrato ai danni dell’immagine. L’immagine è ovunque ma non ci dice niente sull’oggetto della visione. Come mai, infatti, nonostante foto e
stampa, cineprese e cinematografo, nessuno riconosce
Dillinger? Non lo riconosce Billie e non lo riconosce il
Bureau, addirittura per due volte, e non lo riconosce la
gente al cinema. Quest’ultima occasione, veramente, è
particolarmente interessante perché mette in ridicolo
una delle sensazioni popolari più diffuse riguardo al po-
tere, ovvero che si vada a incuneare in una profondità
molto lontana dalla gente e che si addensi in un confuso
ammasso di corruzione e mistero, che a volte rasenta
l’assurdo: se tutti, contemporaneamente e a comando,
si girano prima a destra poi a sinistra chi vedrà chi?! Ci
sarebbero analisi da fare per ciascuno di questi mancati
riconoscimenti, ogni spettatore darà la sua interpretazione, ma se notate bene sono proprio questi i momenti
(imperfetti) migliori; a cominciare, senz’ombra di dubbio,
dalla sequenza più bella di tutte: la luce del sole sul viso
di Dillinger che, quasi in ralenti, si aggira beffardo tra le
scrivanie della Dillinger Squad. La luce del sole in quella scena è più foriera di virtualità e fantasmi di quanto
possa esserlo la più nera oscurità della notte. In un film
carico di scene notturne come questo, quella luce piena
e diurna mi sembra acquisti ancor più valore lirico.
Due note finali sul titolo. Il Nemico Pubblico di William
Wellman (1931) con Cagney non racconta, ovviamente,
la storia di Dillinger ma di un immaginario gangster di
New York, Tom Powers. Lo sterminatore (Dillinger) di
Max Nosseck (1945) è il primo film che racconta la sua
storia. Il termine ‘public enemy’ fu usato per la prima
volta dalla Chicago Crime Commission per definire Al
Capone. Sia nel film che nel romanzo di Bryan Burrough,
da cui è tratto, il titolo è al plurale, Public Enemies.
Costanza Salvi
la sera della prima
97
A Serious Man
J oel & E than C ohen (USA, 2009)
C’è un rabbino che recita un pezzo di Somebody to love
e dopo snocciola i nomi degli Airplane, capito? Questo
passaggio del film varrebbe forse da se un quarto d’ora
di risate, come la faccia del vecchio yiddish polacco
scambiato per un dybbuk, un non morto, che passato
allo spiedo dalla contadina proto sovietica di turno si
alza, saluta e se ne và; o come la sequenza dei denti del
non-ebreo. Epocali. Come questo film, una retrospettiva autobiografica alla maniera dei Coen sull’America
provinciale in cui sono cresciuti. L’umorismo yiddish diciamocelo, a volte è un po’ difficile da digerire a causa
di una certa differenza culturale che ad esempio non ci
porterebbe ad esporre in bacheca duecentimetri di pelle
di prepuzio (anche se credo che questo sia più un retaggio del pubblico da attribuire a Ben Stiller), e non
sempre risulta sufficiente la vaccinazione Woody Allen.
Anche perché i Coen non sono mai stati della parrocchia della comprensione facile, anzi sul nonsense e sul
fatto di lasciare di stucco il pubblico ci hanno ricamato
sopra parecchio. Anche a non capirci molto, però, il film
è di una bellezza fotografica notevole. Roger Deakins è
uno di quelli che colleziona nomination all’Oscar ogni
98
la sera della prima
volta, e della middle upper class americana da sobborgo
aveva già fornito dei ritratti con Revolutionary Road
(Sam Mendes, 2008). Peccato che non riesca mai a vincerli. Forse anche di questo ci sarebbe da ridere su alla
maniera dei Coen. Larry Gopnik è un ebreo praticante,
è sposato e ha due figli. Il signor Rossi del Minnesota.
E’ un insegnante precario di fisica, vive in una tranquilla
comunità ebrea nel Minnesota degli anni ’60 e il mondo
è ovviamente pronto a crollargli addosso, come ad ogni
ragionier Ugo Fantozzi che si rispetti. La moglie vuole
divorziare e lo farà con un rito pubblico, i figli gli rubano i soldi per comprarsi la marijuana o per rifarsi il
naso. Questa poi è una metafora di laicizzazione e americanizzazione stupenda se del naso ebreo si discusse
anche nelle infelici parentesi dell’antisemitismo. Non a
caso il consacramento all’inettitudine del padre avviene
proprio a ridosso del Bar Mitzvah del figlio, l’ingresso in
società. Bisogna capire quale.
Insomma il padre è il classico bigotto, i figli sono pronti
a rinunciare alle loro radici e perdersi nel qualunquismo
tutto Mad, walkman e chewingum di una cultura un po’
be bop a lula o giù di lì. Larry sembra perdere su tutti i
fronti: quello familiare, quello professionale (forse anche
etnico con le minacce dello studente asiatico, la nuova
minoranza arricchita degli States) e anche umano con la
perdita del giardino, non tanto quello dell’Eden che con
certe visioni a sfondo erotico è del tutto compromesso,
ma in senso fisico con l’occupazione da parte del vicino.
Un uomo che in pieno clima di fermenti e cambiamenti
si rifugia nella tradizione può o vincere o fallire completamente. Come da film: «Siamo ebrei, quando le cose vanno
male abbiamo il pozzo della tradizione da cui attingere ». Vi
ricordo che stiamo parlando dei Coen, quindi è ovvio
a quale destino andrà in contro il povero travet. Larry
si ostina a cercare nella parola non di uno, bensì di tre
rabbini, la via per diventare un mensch, un uomo serio.
Terapia psicoanalitica travestita da torah postmoderna
made in Allen, humor da black comedy e ambienti glam
’60 antisettici come in un quadro di Hopper. Atmosfere
surreali per un villaggio di case di marzapane tratto dal
vissuto autobiografico, umorismo esistenziale e disilluso,
un mix esplosivo di cinismo e nonsense. In definitiva un
film di difficile assimilazione, machissenefrega.
L’Italo Svevo dei Coen è un Michael Stuhlbarg che si
candida al premio di Medioman cinematografico battendo anche il recente brillante operato di Christian Slater
in He was a quite man (Frank A. Cappello, 2007), perché
la camicia quadrettata in flanella a maniche corte con il
plusvalore della maglia della salute non può avere rivali.
Prima del 1968 l’ultimo grande tentativo disperato di aggrapparsi alle tradizioni e farsi portare via da un uragano
(culturale) in arrivo. A Serious man non è un film per tutti.
Dopo la conquista del grande pubblico e degli Oscar, i
Coen sfornano un film che metterei in parallelo a Mister
Hula Hoop (The Hudsucker Proxy, 1994), se non altro per
il fatto di essere una pellicola che l’80% del pubblico (me
compreso) capirà e apprezzerà con gli anni. C’è da sbatterci la testa, e un passaggio del film può regalarci degli
spunti.
Luca Colnaghi
Segreti di Famiglia - Tetro
F rancis F ord C oppol a (USA, A rgentina ,
S pagna , 2009)
Al cinema è arrivato il 30 novembre, un po' in sordina, un
po' senza voler disturbare Segreti di Famiglia - Tetro,
di Francis Ford Coppola. Passato a Cannes con grande
attesa, segna il ritorno di Coppola alla regia e alla scrittura originale di un film dopo anni.
Il film comincia più che bene, con un ritorno a casa o
meglio con un arrivo a casa per la prima volta di Benny, un bravissimo Alden Ehrenreich, dal fratello maggiore
Tetro, il grande Vincent Gallo, andato via anni prima, a
Buenos Aires, nel quartiere de La Boca. Il tutto è mostrato con un livido bianco e nero perfetto e digitale ma non
abbacinante né iperrealista alla Mann. La costruzione delle inquadrature è sapiente e fatta a regola d'arte, le luci
sono poste dove uno studente di cinema le metterebbe,
i campi e i controcampi funzionano alla perfezione e il
risultato ottenuto è quello di una totale fedeltà concessa
al flusso visivo, un cieco colpo di fulmine che rapisce lo
spettatore.
Il film nella prima metà, fino all'incidente di Benny procede a splendida velocità. Tutto fila come dovrebbe, occhieggiando a Pedro Almodovar, c'è Carmen Maura
nel cast, e a molta storia del cinema, la vicenda avvince e
convince ma d'un tratto tutto inizia a traballare. Purtroppo. Dal momento in cui il fratello minore decide di portare a termine il lavoro di Tetro, concludere una pièce
autobiografica abbandonata da anni sulla figura paterna
castrante e misteriosa, tutto declina, il film si fa lento
e fastidioso. Stantio e ridondante. Se già prima, quando
il film aveva entusiasmato, erano stati inseriti dei frammenti a colori nel flusso in bianco e nero e questo aveva
galvanizzato per l'uso sapiente del flashback e del montaggio, ora, questi inserti si fanno estenuanti con la novità
di brevi sequenze digitali rappresentanti scene di ballo
che metaforizzano banalmente le vicende dei personaggi
e simboleggiano la fragilità dei legami e delle emozioni.
Troppo semplice, banale, affidarsi a questi mezzi quando
il nome in cima al cartellone è quello di Francis Ford
Coppola. Si evince che Coppola trova nel mito greco e
nella psicoanalisi una soluzione al suo film. Di rimozioni,
conflitti irrisolti e pulsioni primarie inizia a infarcire il
racconto che diventa scontato e fastidioso. Fratelli che
son padri, padri che devono essere uccisi dai figli, madri
che sono amanti e il tutto in salsa di pomodoro al basilico Corleone. Le sequenze drammatiche della veglia funebre del padre si tingono di colorazioni che rimandano
a l'epocalità padrinesca delle successioni, delle famiglie
che devono andare avanti sempre e comunque e, infatti,
il film si chiude con Tetro che dice:“Siamo una famiglia.”
Coppola è da un po' in crisi artistica: il ruolo di ex-genio
ostracizzato da Hollywood; la figlia stimata e brava e il figlio astro nascente che lo relegano a capo dell'American
Zoetrope Production che più di un sonno gli ha rovinato;
l'ultimo insuccesso- piaciuto molto a chi scrive- di Un'altra giovinezza (Youth without Youth, 2007). Il dubbio che resta è perché lasciar franare tutto nello scontato e banale
psicologismo e citazionismo quando si ha in mano, fino a
metà, un film perfetto? Per di più quando si tratta di un
film che si è anche scritto e tanto amato?
Aldo Romanelli
la sera della prima
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