Bellus Tempus
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Bellus Tempus
Francesco Onnis Bellus Tempus Arregòtta de contixèddus in sadru seddorèsu A cura di Renzo Cau Capitolo1 Questo libro... Questa pubblicazione è stata voluta e finanziata dalla Amministrazione del Comune di Sanluri. Tutti i diritti e le competenze sui testi di Francesco Onnis sono tutelati dalla Ass. turistica Pro loco di Sanluri. Coordinamento e consulenza linguistica: Renzo Cau e Sergio Usai Progetto grafico e immagini: Roberto Bandinu uesto libro è per me un omaggio all’amico Francesco Onnis. Non lo ricorderò da docente che ha lavorato con lui o da presidente della Pro Loco che cercava di convincerlo a lasciare che si pubblicasse qualcosa della sua notevole produzione scritta, meno che mai oggi, nello scomodo ruolo di Assessore del Comune di Sanluri. L’amico Cheddi era un perfetto rappresentante del sanlurese che si ritrova nella memoria. Sagace, divertente, pungente, dissacratore, ma allo stesso tempo fermo nelle sue convinzioni e osservante rigoroso di principi di vita che hanno come perno la famiglia ed il rispetto delle tradizioni. Era anche un grande attore comico ed io nella mia vita ho avuto la fortuna di interpretarne in più di un’occasione il ruolo di spalla. La sua comicità stava nella capacità di far ridere o sorridere delle vicende tragiche della vita, trasformando la povertà, le malattie, le disgrazie in momenti di gioia. Nella mia testa girano vorticosi i ricordi di decine di sanluresi descritti da Cheddi; lui conosceva tutti, di tutti sapeva cogliere espressioni, manie, caratterizzazioni e pregi, trovando per ognuno un ruolo indispensabile come personaggio nella commedia della vita. Come tutti i grandi comici, riusciva con facilità a suscitare risate immediate e coinvolgenti. Ma, oltre alle risate, i suoi racconti portavano lo spettatore a pensare e a meditare su ciò che vi era di serio, spesso di tragico. Si scopriva in essi il monito nascosto a non rimpiangere la miseria, le ricchezze dei pochi, la fame, i disagi; si capiva che il messaggio era sempre: apprezza ciò che hai, vivi ogni giorno con gioia, come un regalo che Dio ti concede, non dimenticare mai che molti altri sono meno fortunati di te. Con presunzione voglio credere che questa piccola raccolta possa servire a portare avanti il suo messaggio. Antonello Porcedda 7 5 Bellus tempus Un ringraziamento La stampa e la diffusione di questo libro si deve, oltre alla famiglia Onnis che per espressa volontà di Francesco ha donato i diritti presenti e futuri all’Associazione Pro Loco di Sanluri, all’Assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione del Comune di Sanluri, Prof. Antonello Porcedda, al lavoro puntuale del Prof. Renzo Cau che ne ha curato l’introduzione e la correzione dei testi in modo del tutto gratuito, in nome del legame di amicizia con Francesco. Associazione Turistica Pro Loco di Sanluri 8 6 Introduzione Vede finalmente la luce, sia pure con la nostalgia del postumo, Bellus tempus di Francesco Onnis: un’opera di non facile definizione, di cui, però, si percepirà l’importanza a lettura finita. Affinché non venga deluso l’orizzonte d’attesa, è bene precisare subito che non si tratta di una tradizionale autobiografia, giocata sull’evocazione del buon tempo antico. Il recupero memoriale è presente, attivo, a volte preponderante, ma non esaustivo. Lontana da ogni accademismo, l’opera non si propone neppure una riesumazione delle tradizioni di Sanluri. Benché il lettore possa trovarvi al riguardo utili e numerosi spunti, non si imbatterà in una trattazione sistematica e ben articolata, propria di un lavoro scientifico. Francesco Onnis, come appare d’altra parte dalla sua raccolta (arregòtta), è soprattutto un artista. Pochi lo sanno, ma di lui restano, purtroppo ancora inedite, le poesie in italiano. E da buon artista ci ha lasciato un’opera composita, in cui la mescidanza di elementi eterogenei sembra regnare sovrana, compromettendone, almeno apparentemente, l’unità. Il lettore, infatti, si imbatterà in una silloge di poesie e racconti in sardo, in scarni elenchi di nomi (Is mèsisi de s’annu, Is attisi de û tèmpusu, I disi de sa xida), nelle preghiere più comuni del buon cristiano (Invocaziõisi sàdrasa), un elenco di proverbi (Cancû diciu, Dicius sàdrusu...seddorèsusu) e perfino in un nutrito elenco delle similitudini più in uso nel linguaggio quotidiano (Narànta is antìgusu). Questi elementi, meglio sarebbe chiamarli 9 7 Bellus tempus reperti, convivono ognuno nella sua forma originaria, finché non vengono ospitati negli spazi magici della scrittura: da semplici comparse assurgono allora a dignità di protagonisti, perché innescati nella vivacità del racconto-didascalia, come accade all’elenco dei mestieri nella chiusa di S’avventùra de sa vida, a quello dei soprannomi (Is annomìngiusu), o infine a quello relativo alle malattie più comuni e alla loro arcaica terapia (Mexîasa de û’otta). Con brillanti notazioni di sapore autobiografico, l’autore non rinuncia a divertire il lettore, scopo dichiarato dell’opera, intrecciando l’ironia, talora il sarcasmo con l’arguzia spiccatamente sanlurese, ed enfatizzando i toni del parlato, che gode di notevole esposizione quando distorce gli acquisti linguistici provenienti dall’Italiano o dall’Inglese o quando ricorre a paragoni desunti dal costume odierno per spiegare parole o abitudini del passato. Tuttavia, se è vero che i materiali meno fortunati, tagliati fuori in apparenza dalla scansione poetico - narrativa della raccolta, costituiscono indubbiamente il materiale grezzo di un testo mai emerso dal mondo del possibile artistico, è anche altrettanto vero che essi, indelebili icone della memoria, nella particolare struttura dell’opera conservano il fascino dell’incompiuto. Poiché gli scrittori non lasciano niente al caso, il segno della loro presenza costituisce per il lettore un’evidente provocazione, come una pagina bianca in un libro di poesie. E’ il caso di alcune preghiere in sardo, che l’autore ha accolto in Bellus tempus. Il peso della loro citazione non è di poco conto. Benché non siano precedute da alcuna didascalia, è assai facile postulare la ragione della loro ospitalità, dettata non solo dal desiderio di salvarle dall’oblio, ma dalla preoccupazione di offrire al lettore un’opzione ancora valida per il colloquio con Dio, così da recuperare un’identità religiosa, ormai compromessa anche da una liturgia cristiana irrimediabilmente italianizzata. Questi che possono apparire spezzoni ingombranti, non 10 8 Introduzione lo sono di certo per l’autore, che intende la tradizione come un innesto, sia pure doloroso, nella propria vita: Torrèndu a cussus tempus passàusu, candu si bivìada û pagheddu a sa cadrangiàda e in su mundu chi giràda ancora cun is arròdasa de taba, ndi êidi de còsasa a conca, bellas e màbasa, ma sempri craccàdasa in su coru, a pungi che corr’e boi in sa schîa (S’avventùra de sa vida). Questo e altri numerosi passi evidenziano lo straordinario impatto nel testo dell’evocazione memoriale. Il sentimento profondo e dolente, che si alimenta dal ricordo, anima infatti i disparati elementi di Bellus tempus e ne incrementa la loro significanza. A ben guardare, non solo gli elenchi nella loro nudità espressiva, ma anche i singoli fonemi sembrano rivelare, in una poetica così concepita, le strutture palpitanti della tradizione. Non stupisca dunque la ridondanza del segno. Si prenda a mo’ d’esempio anche l’elenco dei proverbi. Condensato della sapienza del popolo sardo e sanlurese in particolare, il proverbio rappresenta per l’autore, come appare dai racconti, l’unica vera auctoritas, che avvalora o conclude un ragionamento. Poco importa se nell’elenco ne compaiano alcuni, che proprio sardi non sono. E’ importante per l’autore, al di là di uno squallido purismo, sottolineare che essi vennero accolti e assimilati dalla cultura della sua gente. La ridondanza del segno suggerisce anche un concetto sano di tradizione, che non implichi il rifiuto aprioristico dell’altro. Neppure dell’altro linguistico: nessun accenno all’annosa problematica sul bilinguismo. Nulla di più estraneo dallo spirito della raccolta. Vi aleggia invece un concetto di tradizione aperto e dinamico, capace di rivitalizzare detriti linguistici non più in uso e di accogliere contemporaneamente i neologismi, provenienti in gran parte dal linguaggio settoriale, non senza averli sottoposti a una divertita, spesso maliziosa sardizzazione, quasi a sottolineare una certa qual frizione tra codici, e la difficoltà di una messa a dimora in un nuovo 11 9 Bellus tempus territorio linguistico. Il lettore più attento noterà agevolmente che l’autore predilige, violando i teritori del genere comico, i momenti in cui l’ibrido linguistico raggiunge la sua esibizione più vistosa. Non meraviglia, quindi, se un tale meticciato linguistico interessi a tal punto lo scrittore, da costringerlo a dargli forma di racconto nelle cinque lettere di Fisieddu. Senza dubbio le missive alla cara mammaicella possono essere lette come un esercizio di ridanciana mimesi, ma, se si coglie l’irradiazione del segno nel suo impatto semiotico, appaiono piuttosto come un’espressionistica cronistoria delle difficoltà che il popolo sanlurese, e non solo, ha incontrato quando, costretto a imparare l’italiano, ha affrontato l’avventura bilingue. Come in filigrana, tuttavia, la dialettica tra le due lingue segna anche la testimonianza storica di un evento dagli effetti devastanti per la lingua sarda. Quando questa dialettica cede il posto al puro gioco linguistico, si scopre in tutta la sua portata l’intentio operis, che è quella di rallegrare (a procurài arrisàdasa) il lettore, con la rievocazione di alcuni fra i momenti più sereni della tradizione (custus arregòdus bèllusu de su tèmpusu chi oramài si nd’est andau...). Disseminato nel testo come un’autentica struttura, il gioco linguistico non disdegna né il calembour né l’antitesi fra i due codici, se queste figure retoriche servono alla realizzazione del fine. Il testo offre allora una lingua agile, sorgiva, per nulla succube all’italiano, capace di esprimere in tutta la sua freschezza ogni pur lieve sfumatura. A ben guardare, questo particolare divertissement, che sfrutta abilmente le ottime risorse della lingua parlata, disponendolo all’ironia e ai toni di una bonaria caricatura, sfugge abilmente ai tranelli del kitsch. Mai fine a se stesso, è orientato dall’autore a disegnare con precisione veristica la Sanluri di cinquant’anni fa e, probabilmente, per la lentezza dei ritmi storici che la Sardegna ha conosciuto, una Sanluri ancora più remota. Il racconto-didascalia, esibisce - lo 12 10 Introduzione ribadiamo - quasi esclusivamente gli stilemi del parlato, e forse soprattutto grazie a questa scelta linguistica, di sequenza in sequenza chiama a nuova vita i materiali della memoria, offrendoli al lettore integri, liberati dalle scorie del passato, miracolosamente presenti nel loro palpitante e caotico divenire. L’abile strumentazione linguistica non distrae, tuttavia, dalle sottili connotazioni, che si propagano dal testo, dove anche un semplice reperto, in apparenza un flebile flatus vocis, evoca un affresco di costumi, di abitudini, in cui un intero popolo si riconosce. Più esplicitamente il narratore, in improvvisi squarci metalinguistici, punta l’obiettivo sull’ambiente socio-economico, segnando con crudezza gli spazi di arretratezza e di sofferenza in cui si dibatte la Sanluri degli anni Quaranta e Cinquanta. Il limite temporale, e lo scrittore ne è dolorosamente conscio, è ampiamente superato da una gestualità, che ripete fatalmente i ritmi più antichi imposti dalla povertà (Sa poberesa). Filtrata dalla magia del racconto quella gestualità può oggi apparire surreale, se non fosse anche un amaro documento di storia e quindi di verità. A intermittenza, però, abbandonati i toni scanzonati del modulo narrativo, con lucida consapevolezza il narratore lascia trasparire la commozione per le vicissitudini della sua gente, domata da sofferenze ancestrali e succube alle imposizioni del progresso. Alla sopraggiunta cosiddetta civiltà del benessere, che pur eclissando la povertà, violentemente e in modo acritico cancellò i preziosi valori della tradizione, travolgendo con essi anche lo strumento linguistico che li esprimeva, non resta che opporre lo sforzo del ricordo (su traballu chi eu fattu po torrai a luxi custus’arregòdusu bellus) e il brio di una lingua risuscitata a nuova vita. Si leggano in proposito le divertenti pagine dedicate ai giochi della fanciullezza (Arregòdusu de piciòccu de crobi) o alle medicine (mexîasa de û’otta) in auge negli anni difficili del secondo dopoguerra, ma forse in uso da secoli: 13 11 Bellus tempus l’autore vi ha allestito un’interessante e ricca vetrina di informazioni, in cui fa bella mostra di sé anche un artigianato linguistico sanlurese tra i più raffinati. Analoga osservazione va fatta per la commossa rievocazione de Su stabi de santu Mattî, una delle più belle prose della raccolta, in cui è in vista la figura della prosopopea, ma anche la sensibilità dello scrittore per i problemi sociali. Il gioco linguistico si concede docilmente al piacere affabulatorio negli undici racconti, dove il novel delle didascalie con il suo puntiglioso attaccamento alla verità della tradizione è sostituito dal romance, dal fantastico e dal fiabesco o addirittura dal fascino della favola. Il variegato materiale narrativo, grazie sopattutto alla spiccata flessibilità del suo segno linguistico, è filtrato da una sola voce narrante di estrazione popolare, che amalgama i racconti in una rassicurante unità redazionale In perfetta sintonia con la narrativa popolare il narratore ne sposa anche i canoni e i moduli narrativi tipici dell’oralità, orientando il racconto, privo di complicazioni strutturali, alla comunicazione dei più genuini distillati della sapienza tramandata, pregnante di esperienza e di buon senso e talora avvallata dall’onnipresente proverbio.. L’alto tasso di oralità presente in questi undici racconti pone un problema critico di non piccola rilevanza: si tratta di reperti narrativi, che l’autore ha salvato dall’effimero e inteso tramandare ai posteri o di detriti della tradizione orale da lui raccolti, dando loro dignità di racconto in una nuova veste popolare ben congegnata e consona ai moduli narrativi dell’oralità? Il problema appare di difficile soluzione. Il sottotitolo dell’opera (Arregòtta de contixèddusu in sadru seddorèsu) sembra fornire un debole indizio a favore della prima ipotesi. Non abbiamo trovato, tuttavia, nessun documento scritto, che possa essere stato utilizzato come fonte. La seconda ipotesi appare più attendibile, perché suffragata da una duplice informazione, che leggiamo in uno dei racconti: in Is tres fradisi, 14 12 Introduzione infatti, apprendiamo che il narratore ha ascoltato il racconto (custu contu) dalla nonna (ascuttàu tanti’òtasa de sa bucca de aiàia...) e che esiste a Sanluri un autentico repertorio orale di leggende (leggèndasa seddorèsasa). Queste informazioni permettono di ipotizzare una pluralità di fonti da cui l’autore ha attinto e, nel contempo, di penetrare meglio nel significato del sottotitolo, dove raccolta (arregòtta) è probabilmente da intendersi in un’accezione più generale, che investe gran parte dell’opera e non solo i racconti: un’antologia, insomma, dove sono stati accolti materiali di varia provenienza, scritti e orali, che l’autore ha giudicato degni di essere tramandati. Il lettore potrà ammirare nella silloge poetica la perfezione compositiva di alcune liriche, tra cui spicca Cussas mãusu, un autentico gioiello, che fa onore allo scrittore e al codice da lui prescelto. Ma tutta l’opera, non la singola lirica o il singolo racconto, si offrono al lettore come un momento importante della tradizione sanlurese, in cui l’autore si è inserito, a buon diritto, come punto di riferimento e sapiente restauratore. Se ne potrà condividere o no il metodo, ma è innegabile che l’autore con Bellus tempus abbia dotato il lettore di uno strumento che gli consenta un facile e divertente approccio ai territori spesso impervi della propria tradizione. Ma l’originale testo di Francesco Onnis costituisce anche un momento di utile riflessione per chi abbia rimosso, spesso anche incolpevolmente, il problema fondamentale dell’identità. Il messaggio più accorato, che traspare da ogni sezione del testo, urge, infatti, in una direzione univoca: un invito a rivisitare le proprie radici e a riappropriarsi dell’identità linguistica. Mi sia consentito, infine, di rivolgere un grazie riconoscente all’amico Sergio Usai per la collaborazione avuta nel dirimere i non pochi problemi relativi alla grafia e alla pronuncia del sardo sanlurese. Renzo Cau 15 13 Bellus tempus Incipit NOTA La grafia del testo ha subito lievi ritocchi nei confronti di quello originale. Per renderla più consona alla pronuncia della variante sanlurese, si è preferito avvertire il lettore della presenza della vocale provvista di nasale, dotandola di deltide. Per esempio: invece di scrivere su cai si è preferita la grafia di su cãi; invece di biu (termine equivoco per vino, vivo e visto), nel significato di vino si è optato per bîu, grafia più fedele alla pronuncia, lasciando biu nel significato di vivo e di visto. Si è inoltre alleggerita l’eccessiva presenza di accenti, conservandoli in genere nelle parole con più di due sillabe e nei casi in cui si è ritenuto necessario facilitare la lettura di una prosa assai legata all’oralità e rendere più immediato il significato delle parole omografe. Nella sezione riservata alla poesia, l’accentuazione è stata ridotta ai canoni grammaticali per non turbare la naturale scansione del verso. In modo analogo si è operato in presenza di elenchi di nomi, proverbi e preghiere. Il problema ortografico non è stato minimamente sfiorato, avendo prevalso il rispetto per le scelte dell’autore. 16 14 asciando nel suo percorso la possibilità di una presenza e, quindi, essendo in grado di liberarsi dalla caducità assoluta, il tempo umano si costituisce come futuro. Ed è un futuro in qualche misura prevedibile, poiché si fa della materia del passato… Il ricordo del passato armonizza l’esistenza umana e rende possibili il progetto, il desiderio, la speranza… Il presente dell’uomo è sempre un presente storico; un presente in cui si armonizzano memoria del passato e progetto futuro, il quale nasce precisamente da quel passato. Questa armonia sorpassa l’approssimarsi rischioso di qualunque futuro. Emilio lledò 17 15 Bellus Tempus 18 19 Bellus tempus Arregòdusu de picciòccus de crobi Pagu tèmpusu apùstisi de sa guerra, naràusu de su 1945 a su 1955, Seddòri fia fatta a bixiãusu, cumènti Siena fia fatta a cuntradasa. Sceti ca a Siena, me in su paddiu, currìanta is quàddusu, me in Seddòri, invèciasa, currìanta, maccai senz’e gana, is pòburus cristiãusu po sa mir’a pedra de sa picciocàlla, chi sciorronciuàda a totu dì me is arrùgasa. Is bixiãusu prus nodìusu e pirigullòsusu fìanta quattru: s’Arei, Santu Mattî, sa Matt’e s’obia e Funtãmùrusu! Is primus tresi, pòstusu in zona stratègica e fotunàda, tenìanta tèrrasa, in cantidàdi e bèllasa, po giogai a boccia de izzàppu, chi fìada uã mingia de trattoxiu, prëa de izzàppusu e cosìda a mãu. Sa novidàdi de s’invenziõi de sa busciùcca de procu, suàda a bucca, a Seddòri no fìada ancòra arribàda! Su bixiãu de funtãmùrusu, invèciasa, serrau cumènti fìada, in mes’e’ su triàngullu infrennàlli, donni’ota chi obia provai s’imbriagadùra de s’erbixèdda frisca, chi abundàda sceti me is axriòbasa de Gallantõi, de Sriviu Usai, de Luisìcu Màrrasa o me in cussa de don Luigi, depìada preparài su pianu bèllicu de sa batàlla a s’ùttima pedra, po si guadangiài sa partidèdda carcìstica dominicàlli. Ma is allenamèntusu de sa dì’e fattu (su de fai gei fia sempri pagu!), fiàusu obrigàusu a ddùs fai me in sa prazza de Funtãmùrusu ca ddoi fìada s’acqua frisca accànta, o me in s’arrùga de is Scaberèddusu, Via Mannu de immõi. Su camp’e giogu, a nai sa beridàdi, no fìada 20 18 21 19 Bellus tempus nì collaudàu nì regollamentàri e nimàncu praticàbilli. A patti cancü fundu de camingiõi asùb’e i mùrusu e cussu poghèddu de cannaiõi chi spuntàda de s’impedràu, de bidri sindi bidìada pagu diadèrusu me i bìasa de bidda. Ma is tèmpusu fìanta cùssusu e toccàd’a s’arrangiài. Su chi fadìada pru’ prexei, però, fìada sa tribunèdda zentràlli de sa zittadèdda sportìva, posta asùba de su muru de làdriri, mesu sciorroccàu, de zia Maitèdda. Is ispettadòrisi fìanta sempri adattadèddusu, ma, cabexèttasa a brenti a susu po pigai su sobi gei sindi scabullìada a totu dì. De cussa tribunèdda però, si podìanta bì tòtusu is càmpusu sportìvusu chi teneiàusu e no fìanta cosa de pagu: su campu po giogai a boccia de izzàpu me in s’impedràu a pedra lisa de frummi; quattru càmpusu de peinconèddu cun is arrìgasa trassàdasa a tabàcciu; dexi fèrasa o còrasa allisàdasa a spudu po giogai a pallìnasa de gazzòsa o de terra cotta; quattru arrògusu de terrènu traballàu a pei scruzzu po giogai a piràsta o a badrùffa; poi, ü poghèddu prus attèsu su marciapèi de is fònniasa, fatt’a pista, po curri a xriccu cun sa nettànica. Sa partìda si fadìada donnia dì, senza de cussu perìgullu chi oindì zèrrianta stressi psicufìsicu e chi nanta chi ghèttidi a terra is giogadòrisi de frootboll affrimmàusu. Is attrèttasa, cuncodràusu tòtusu aguàllisi (ita bellixèddusu chi fiàusu!), nò deppìanta pedri tèmpusu sceti po is crapìttasa. Cùstasa fìanta arregallàdasa direttamènti de Nostu Sinniori; atru che isponsùrrusu de oindì! Peddi moddi e lisa, totu cunfezionàda appèna nasciu e fatta bëi bëi, a misùra prefètta! In dì di oi is picciocchèddusu custùmmanta, e cancüa mamma affroddièra puru, a potai crapìttasa frimàdasa de Adidas. Nosu, invèciasa, si depiàusu accuntentài de su nonnu de custa marca nodìda: A...didusu! Fiada üa marca, però, chi lassàda sempri allibetàu totu su pei, senza de istringimèntusu fastidiòsusu speciarmènti cun is 22 20 Arregòdusu de picciòccus de crobi crapìtasa de is femmièddasa, e fadìa cresci is dìdusu mànnusu cument’e’ üa canciòffa femmia sprappaddàda e prònt’a còi me in sa braxia. Ü antra cosa bella de su pei iscrùzzu fìada in su momèntu de scioberài is giogadòrisi de is dùasa squàdrasa. Su ruòllu si bidìada sùbitu. Su chi potà su didu mannu de mãu travèssa scancioffàu deppìa fai obbrigatoriamènti s’aba derètta; su chi potà su derèttu mabandàu, deppìa fai s’aba sinìstra; su chi potà tott’e i du’dìdusu scancioffàusu, fadìa su pottièri (tant’agò ndi bessìada scuncodriàu a is arrodèddasa de is genùgus puru!). I nùmmerusu, nosu puru ddus potteiàusu attaccàusu a is prantalloncìnusu cumènti de is...brasilliànusu; scetti ca cùstusu ddus pòttanta appiccigàusu a fiancu; nosu, invèciasa, a fùndu de pantallòni, pò accònciu. A s’intràda de is dùasa squàdrasa in campu, (cùstu, affacc’iòra de s’ùna de merì), no mancà mai su tiffu de is crùvasa. Appàbasa de sa funtã de Funtãmùrusu accostumànta a si cuai is pru toccàusu a conca (òlligansa de is ingrèsusu di oindì, là!), cun bòmbasa a bottu de carburu e bòssullusu de su tèmpus de sa guerra, senz’e sparai. Fìada üa festa po tòtusu in mèsu de su budrèllu de is attrètasa, maccai cun is còncasa e is càmbasa pinzollàdasa. Pagu invèciasa fia su spassiu po is fèmmiasa, chi ìanta appèna sciacquau is pànnusu, po su fangu pudèsciu chi bobàd’in aria. Sa partìda fìada a s’ùttimu sangui in mes’escroxiobadùrasa, segàdasa e scancioffadùrasa. Su medicu sozzialli giai sempri fìada su chi buffà prus acqua, ca poi, bogà prus lìquidu anargèsigu… Intrà sùbitu in trabàllu: po disinfettài àlcullu de naturàu a grifõi, oppùru piricciòu spuntu de ziu Luisèddu Usai! Is prüiusu atipriòtticcusu prus’adoperàusu fìanta cùssusu chi s’arregollìanta de sa terra de frommìga a conca arrubia. Po is ceròttusu 23 21 Bellus tempus toccàda andai a is cànnasa de ziu Luigìnu Collu: pettia grussa, ma fàzilli a sperrài in mesu e ndi scerai su coramèddu friscu! In casu de fasciadùra urgenti, is scimbùssasa, ü poghèddu fragòsidasa, de sa guerra quìndixi/dixiòttu, sìddasa prestàda ziu Pietrìnu passabàra. Su sinniàlli finàlli deppìad’essi a su scurigadròxiu, ma càncü’otta toccàd’a lassai su cumbattimèntu prim’e s’ora. Difàttu, càndu is bàccasa de Ziu Accheddu Pittau accorrànta in antìzzippu, su campu de giogu si fadìada ü poghèddu impraticabilli e deppiàusu cambiài giògu: tirollàsticu de busciàcca e via a sconchiài cabaxèttasa me is mùrusu de zia Candida. Candu totu fia normalli, invèciasa, a fischiài su finàlli toccàd’a su cabõi de ziu Giuanniccu Congia, ma, a nai sa beridàdi, is tres fìschiusu o is tres cantàdasa no accudìa mai a ddas fai, puetta ca su mèri, a su primu azzìnnu de càntidu fora de oràriu, nci ddi scudìada su fusti annodiàu e ddù siddìada in d’ü nudda. Poi ndi bessìada a sa ia cun su cabõi asùtt’e surèccu e su fusti me is mãusu e zerriàda: - Fòrasa de innoi, scurreggìusu chi no seisi àtrusu, ca cun custu giogu de pralloni furistèru, mi sbelliàisi tòtusu is cabõis e mi ddus fadèisi cantai a is noiòrasa de notti, e poi, a su chizzi, si ddoi dromminti e no mi ndi scìdanta. E castiènd’a su cabõi cun d’üa oghiàda maba, accabbàd’aìcci.- A tui crasi gei ti potu anch’è s’arrelloggèri de Futtèi, po ti cambiài su tèmpusu. E di fattu, a s’incràsi, su pòburu cabõi, no cantà prusu, nì ai noiòrasa de nòtti, nì a su chizzi. Dd’ia fattu a bànnia po cundì üa bella timbàlla de maccarrõis de cibìru.Cancü’otta si giogàda in nottùrna puru e fia notturna diadèrusu. S’illuminaziõi accabà totu in duas lampadinèddasa de quìndixi. (sa SES, Sozziedadi Ellertica Sadra, fia pobirittèdda!), pòstasa centu mètrusu s’una de s’àtra e appiccigàdasa asutt’e ü crobettòri arruiãu, me in sa contonàda de zia Nocenzia e a costau de sa fentanèdda de ziu Trassilliu Muntõi. Ca fìada giai cumenzàu su spettàccullu nottùrnu, sa genti 24 22 Arregòdusu de picciòccus de crobi sind’accattàda de is izzèrriusu de ziu Trassilliu, po s’imbìdri torrau a segai. De cussu momèntu su giogu si fadìada po tòtusu obbrigàu: su giogu de mammacùa, chi obia nai: curri cantu pòdisi e cuadìdda in logu sigùru. Sa tappa prus indicàda fia sa fentanèdda obètta de s’omu po sa pàlla de ziu Luiginu Matta, bëi cuada me in su strintu de su guttureddu de Pappasattizzu. Chi cancùnu no sturridàda po su pruîu de sa palla, totu gei andà bëi, deghinò toccàda a si ciccai atru logu prus attèsu. Poi, candu is mànnusu cumenzànt’arretirài de sa friscùra, toccàda a nosu puru rientrài a domu: segùnda razziõi de cìxiri o de fa, candu sìndi tenìada, e sùbitu a nanna. Matallàfusu premafregusu, càncüa scorriàda de mammasèssi a schîadùra, lenzòrusu a frorixèddusu (stampàusu, là!), coprillèttusu frimmàusu o, chi obèisi, abarràus frìmmusu me in sa buttèga po sa poberèsa, e a drommì gràtisi e a vollontàdi. Tantu, a s’incràsi, sa musica no cambiàda. Unica novidàdi fia su murzu de su mengiãu, totu diettètticu: pãi arridàu a nu’ mannu de fa cun ladru, oppùru, tanti po cambiai, pãi arridàu a palla fini de fa. Ma fiàusu cuntèntusu a su proppiu! 25 23 Bellus tempus Is annomìngiusu Is annomìngiusu In s’antigòriu, candu is còsasa costànta tresi arriàbisi o mesu pezza, candu su zùccuru o sa cunsèrva si compràd’a ùnzasa; candu s’arròba si tallàda a pràmusu e su imbùdu fattu arràsu misurà su trigu, meda prusu di òi, s’annomìngiu fìa cosa de tòtusu: de s’arrìcu e de su pòburu, de su sãu o de su strupiàu. Mànnusu e pittìusu, fèmmiasa u òmisi, depìanta nasci e bivi pròntusu a sa brulla. Sa genti seddorèsa fia connòta po su giogu e s’allirghìa pronta e acùzza. E po su seddorèsu, beffiãu de sangui, custa fia diventàda ü’atti chi benìa passàda de babbu in fillu, (fillu de craba, crabìttu bèssidi, narànta is antìgusu!), e sa cosa prus nommenàda me in su cìrcullu de su furistèri. E sigumènti tòtusu scidìanta ca semièndu spîa non depìanta andai scrùzzusu e ca su chi seidi a cuaddu è suggèttu a nd’arrui, toccàd’a essi pròntusu a parai su croppu e iscì torrai s’ottàva, cumènti fai su bonu cantadòri. Su vaccìnu di allirghìa ddu fadìada sa levadòra, giai de sa prim’ora de vida. Su neonnàtu, pereffèttu, dd’abituànta de sùbitu a tenni prontu s’arrìsu e a fai arrì. Nàranta is mammas nòstasa, ca cussa chi benìad’a Seddori, fìada üa levadòra totu patticullàri: a su pipiu, appena nasciu, di fatti, no ddi zaccà sa nadièdda po prangi, ma ddi fadìa su chirighìtu a crox’e pei, po fai trestammèngiusu e arrì a scraccàxiusu. In custu modu su corixèddu, chi no ddi cabà prima gutta coràbi, s’affottiàda e su picciocchèddu fìa preparàu a totu! S’arracumandìzia prusu importànti 26 24 27 25 Bellus tempus fia sempri custa: - Su chi pòtta pistòccu in betua, no morri de fami! Su chi poòtta sa brulla in su sangui, no morri de bregùngia! A mussiu de cãi, pìu de cãi, - dd’arrecumandànta su babbu e sa mamma! Praxìbi o inzurtadòri, allìrgu o malliziòsu, su chi pottàda cussu annomìngiu, bolli o no bolli, si ddu tenìada : sa brulla fatta è pru fotti de su ferru e, maccai a spagu tirau e a crànciusu e inzùnchiusu, deppìada ammoddìai su zùmburu e s’ammasedài che angiõi. Arròrisi mànnusu nascìanta candu cancùnu s’allulluràda e s’arribìada de febi, cumènti de ü còmbudu becciu, cicchèndu de si ndi liberài de cussu pesu. Gei nd’iddi cabànta is mustàzzusu a punt’a susu! Dd’accabàda arrecraccàu de ü antru annomìngiu, pru bregungiòsu de su primu e no podia camminai derèttu mancu me in sa ia. - A cuaddo friàto la sedda li pizzia, - naràda ancòra su verbu sadru, ma su seddoresu giai mai si fadia nodiu po si cuai, candu cancüa mancanzèdda o cancü fìziu si torràd’a fai intendi de contonàda in contonàda, cun s’arrisixèddu de sa genti. Giai tòtusu, de su restu, fianta imbudrigàusu in su stessu ludràgu e, dùncasa, pàgusu si ndi dispraxìanta: campàna soba, malli sònada e boi sou no tira carru. Arrièndu impàri s’ü de s’atru, s’aghettà su modu de alluttài sa menti (- S’apprèttu, - nanta, - ca fai curri sa beccia) e de nci passai su tèmpusu divertendusìdda in brulla. Mabi chi andèssidi, a su scurigadròxiu, ddoi fìanta pròntasa ü scantu bòmbasa de pezz’e procu o sa maccarronàda cun tamàtigas frìscasa e cabõìscu troppu cantadòri, chi nd’arruìada de i sas scabèrasasa iscannìdasa de su parcuscèniccu. S’abogàu prù bellu e pru cannòtu in totu su circondàriu po discinì sa causa, fia sempri su stessu: su piricciòu friscu de carràda, chi arrennescìada in donnia ciccustànzia a nci bogai su mab’e conca, a punta de arratàssa. E nosu puru obeus fai sa stessa cosa, torrènd’a bogai a pillu s’ellèncu spassiòsu de su seddorèsu beffiãu. Su trabàllu chi eu fattu po torrai a luxi custus’arregòdusu bellus de su tempusu 28 26 Is annommingius chi oramài si nd’est’andau, srèbada scetti a procurài arrisàdasa a onniü de nosu, senza de mabèsa po nisciùnusu. Nosu dd’eu fattu sciendu bëi ca su chi morìga pedra, scrappõi ddu pùngidi e ca sa marighèdda bàndada a funtã, fìnzasa chi no si sègada. Ma seus sigùrusu ca su vaccìnu de sa levadora seddorèsa appi fattu effèttu po sa genti di òi puru! S’arrìsu fai sangui bellu! E, poi, ita nàrada su dìcciu antìgu ? Tutti i sallàmi finìscono in groria. Allìrgu seddoresu e impàra bëi is annommìngiusu! A come ARRASAU! Acceddu; Allichidiu; Allievu cristiãu; Andrieddu; Arrallasciau; Arrasau; Arrellichîu; Arrodeddu; Arrubieddu; Ascutta fragusu. B come BUSCADÎU! Baddidoi; Baieddu; Ballei; Ballica; Ballõi; Bangheddu; Banghillõi; Barabba; Barracca; Barracellu; Barragosu; Barr’e conchedda; Battìbi Battistedda; Battollu; Bell’annadendu; Bent’e sobi; Bibbîu; Biccu Billella; Billettu; Bobboi; Bollanti; Bottu; Brabalunga; Braghetta; Brent’e cuarra; Brentedda; Bucch’e brabei; Bucch’e turra; Bucch’e zirigheddu; Buddas de proccu; Bullettu; Bum Mereu; Burrullu; Burzighîu; Buscadîu; Busciucca; Buttonera. C come CABASCETTA! Caboru; Caga bombasa; Caga dinai; Cagallõi; Cagaredda; Cagasucci; Cagheddu; Callellu; Calloddi; Cariafà; Carroga; Carrõipedda; Carzaglia; Cavua; Checchei Nieddu; Chillichi; Chirriou; Coccodè; Coeda; Cioccioi; Coccoi; Cõillu; Conch’e boccia; Conch’e malloru; Conca niedda; Conch’e ottigu; Conch’e proccu; Conchedda; Conch’i mannu; Corighedda; Corriazzu; Corrudeddu; Coscia cagada; Cott’a fêu; Craccaterra; Cri-Cri; Crobeddu; Cruccueu; Cull’a tuppu; Cu’e toppi; Cu’ e peddi. 29 27 Bellus tempus D F come DROLLU! Derett’a proi; Drollu. come FRIAXIU! Facci niedda; Fadiori; Fariseu; Fai contusu; Fascittu; Fazzõi; Fesci; Fibettu; Fibiccitu; Friaxiu; Friolla; Frosceddu; Fuettu. G come GALLETTU! Gallantõi; Gallettu; Garotti; Garrucciu; Garzõi; Gattou; Gattu; Ghitarra; Giarrettu; Giunchiu; Gravellu. L M come LEBIEDDU ! Lebieddu; Lioddi; Lioni; Lugori. come MACCAI! Maccai; Macchiori; Manestu; Mangiamosca; Mantinica; Mantiorusu; Marighedda; Marragau; Marrollu; Mazza cabada; Masedu; Mes’e idasa; Micchittu ; Miracèu; Miss a pompa; Mraxiãi; Mungetta; Murrottu; Muscadeddu; Muscedra. N O P Is annommingius Pizzõi; Poddingiu; Priogu. S come STUGÕI! S’arrosa; Sa tega; Sa tentaziõi; Sa tennica; Sa tradotta; Scarfollio; Schicchioba; Sciasciapeisi; Scricchillõi; Segadì casu; Sillieta; Sizziacca; Sa bell’e sa idda; Sa culla; Sa mongia; Sannoreddu; Santubellu; Sàntusu; Spabada; Spaghittu; Srubiettu; Stugõi; Su chiu; Su cocchi; Su cogu; Su cruzzu; Su cuccu; Su frori; Su para; Su puntori; Su topi; Su rei; Su stori; S’intruxiu; S’untroddi. T U Z come TOPPOLLINO! Torramidd’a fai; Tragera; Troddiapãi; Tromba; Tutturigu. come UNGHEDDA! come ZACCA LA COSTEDDA! Zaccarreddu; Ziddicca; Zigarru; Ziringõi; Ziroddi. come NIEDDEDDU! come OPPADDADA! Offu ta basca; Olli Olli pãi. come PRIOGU! Pabedda; Padriedu; Passabara; Pattata; Peidepepiri; Pellonero; Perregãi; Perriogu; Pettiãu; Pibizzua; Pidaddu; Pigh’e torra; Pillàtusu; Pioncu; Piredda; Piribicchia; Piricciou; Pirichèlla; Pirisiû; Piroddi; Pirracciu; Piscia - piscia; Pisittu; Pisõi; Pistiddu; Pistillemuru; Pistinca; Pistolla; Pizzalleddu; Pizz’e pudda; Pizzillotu; 30 28 31 29 Bellus tempus S’avventura de sa vida SA XIDA Nasci e cresci me is tempus andàusu Lüisi Cettu ca, a nci pensài bëi bëi, si ndi scabùllidi de cosittèddasa de arregodài, furrièndu sa conca appàbasa de s’avventùra de sa vida. Torrèndu a cussus tempus passàusu, candu si bivìada unu poghèddu a sa cadrangiàda e in su mundu chi giràda ancòra cun is arròdasa de tàba, ndi ëidi de còsasa a conca, bellas e màbasa, ma sempri craccàdasa in su coru, a pungi che corr’e boi in sa schîa. Bellus tempus, candu po si coiai bastàd’ü fustìgu e po nasci ü sturrìdu! E di fattu, s’avventùra de sa vida nosta, cumenzà propiu cun is ispòsusu. Sùbitu, però, muccàd’in giògu su vicariu, e guai chi manchèssidi su sraghestãu, (ca ddi sputtìa sa mància, sciadàu!). Nascìa di aicci sa famillia. Manna o pittìa? Eh, dipendìada de sa Provvidenzia, ma meda òttasa de sa previdenza de is interessàusu puru! S’atru avvenimèntu mannu de sa famillièdda appena affricongiàda, fìada candu in domu s’aspettàda ü pippìu e no fia cosa arrara, ànzisi… Nanta ca is Ciccònniasa, in cussus tempus antìgusu, accostumànt’a tenni gràndusu scòntusu e agevollaziõisi de viaggiu, po dònnia mesi de s’annu, e in tòtusu is bìasa de su mundu. Is preparatòrius po sa nàscita fìanta fattus e penzàusu aìntr’e sa fammìlli’e totu, cun cosittèddasa a sa bona. Oindì, no si bì s’ora de cannòsci chi è pisèddu o faixèdda, e si curri sùbitu a fai dònnia trastamèngiu specciallìsticu: sa taccammografìa, s’ecugrammografìa, sa pottografia a su pippiu, in deretta e de travèssu, arrièndu o gioghèndu me in sa brenti de sa mamma. In cussus tempus, invèciasa, sa primu Mattisi Mrecuisi Giobia Cenabara Sabudu Domigu 32 30 S’avventura de sa vida I disi de sa xida 33 31 Bellus tempus visita speciallìstica, spettàd’a s’aiàia, ca fìa sa prus’anziàna di edàdi e sa pru pràtiga de mãusu. Beimìndi bella! Ge ndi obìada de tàccasa de is crìnicasa di òi! Cun grandu attenziõi, fadìada totu a su toccu! - Lassài mi bì a mimmi, narà sa beccittèdda, - ca gei ddu scìu dèu su chi deppu fai. Immui si fazzu scì sùbitu chi è mascu o chi è fèmmia.! Üa toccadèdda a sa brenti e sùbitu, senz’e nisciùnu dubbiu, sa sceda prus aspettàda arribàda zètta e prezìsa: - Est’a pùntasa a susu, dùncasa no si pòdidi sballiài. E’ mascu! E, mabagràbiu, gei si ndi intendìa puru, bàlla! Di fattu, sa dì de sa nascita, sinniora Domenica, sa primu strettica de bidda nosta, bessènd’a fòrasa, zerriàda: - Funti duas femmièddasa! Ma fìant’accullìdasa a su propiu, cun totu su coru e cun tott’is istrèpusu giai preparàusu po sa primu dì de sa vida. Sùbitu is scimbussasa, sa fasca e su triàngullu o...su cuaccèddu, a sa sadra, là! Totu arròba de cotõi, linu, mollettõi o teba grussa (po aguantài de prusu. Su neonnàtu, pobirìttu, de cussu momèntu, diventà pru mummiedda egizziàna che pippìu, totu serrau cument’e ü bòzzullu de farfàlla prima de si scrappuddài. S’ùnica cosa chi si bidìada, sciadadèddu, fia sa conchittèdda spinniàda cu is ogus sprappaddàusu; e no si scidìada chi fessi po sa strintùra de is codrèddasa o po su scraffìngiu a sa schîa de sa sciustùra finzas’a su zugu, po is servizièddusu abbudàntisi chi fadìada. Sa cosa prù bella, però, fìa su girottìu - girèllu. Ingüi, nci passà totu su tempu lìberu. Fiad’üa crobedd’e’quarra, cuncodràda cun chirriòusu de xillõisi beccius, accappiàusu a istrìntu cun is tirèllasa de sa unnèdda antìga de sa zia abarràda bagadìa. Candu su pippiu cumenzà d’ammattuccài e a si strobeddài sempri de prusu, accostummàd’a si nci furriai cun crobèdd’e totu e a si scadraxiài de prantu, mes’abbungiàu a conca o a mùrrusu (e mancu malli ca no iad’ancòra cuncòdràu is dentixèddasa!). Po ddu torrai a settiu e ddi fai passai is sungùttidusu, però, is 34 32 S’avventura de sa vida màmmasa tenìanta pròntusu is biscottîusu Mellusu: càncüa scorriàda de cimingionèddusu de pãi ammoddiàusu in s’acqua de funtã e appèna appèna incaràusu in su zùccuru. Cànd’accabbàda sa brovènda adìzziu adìzziu indrucciàda, tenìad’ora succèndu su pippìu cuss’arrògu de teba mesu scorriàu e stirongiàu de is gingìvasa giai accuzzixèddasa! Drivèssu fìada candu cumenzàd’affottiài a cantrèxiusu. Po incarrerài a ddi fai tastai cancüa cosa de prù sustanziosa, ddi ponìanta in mãusu ü ossu de proccu giai allisàu de sa mamma. E ìta iàist’a bì? Cuddu pippìu, pòburu nozzènti, stidingiàu de trumèntu po ddi ogai oll’e còstasa, si ddoi drommiàda appàgu appàgu che üa bellèsa! Candu fìada de intèna bona, invècciasa, ddi srebia po si ddoi stentai totu su mengiãu e, cancü’òtta, su merì puru. Cüi gust’allimentaziõi, arrìcca scetti de sabìasa, a nai sa beridàdi, sa crescimènta, gei no si ndi pesà meda meda, no! Ma, assummàncu, su pappai gei fìada sanu e cuntrollàu de sa tabella diettettica, cùssa stabillìda dopu su consùrtu specciallìsticu cun su dietollogu e su pediatru. Di fattu, fìnzas’a dexiòtt’ànnusu, no fadeiàusu atru che arrecrammài sa tabella diettettica. - Ta...bella, nareiàusu cun is sabìasa in corr’e bucca! Ta...bella sa pezza, babbài! Ta...bella sa costèdda, mammài! E, de torràda, su babbu e sa mamma: - Ma no podèisi pedì atru, ca seisi sempri cicchèndu còsasa bèllasa, e bàstada? Cùssasa, no si tòccanta, deghinò si spàccianta e no ddasa biei prusu. E’ bèrusu ca bivieiàusu scetti addisiggèndu, ma di aicci puru, si spassieiàusu e cresceiàusu: totu a frozza de sparau, matùzzu, lau, fighèndiasa, pir’e pròccusu e, a sa fini, po diggirì totu su chi iàu pappau o...no pappau, piricciòu de sattu, chi fadìada broccobài i sabìasa fìnzas di ògusu! Sa primu bessìda cuncodràusu a nou, fia cussa po andai a i scolla. Mallionèddu fàtt’in domu, cun lana de brabei, prantalloncìnusu 35 33 Bellus tempus crùzzusu de teba ca pru crùzzusu no si podìada, po arrispramiài arròbba, zòccullusu de taba candu si ndi tenìada, puetta sinnùccasa nci fiada scetti su pei limpiu de su nasciòri; pinna cun su pinnìnu sempri accancarronàu e, po accabài sa cuncòdria, üa fitt’e pãi ingiàbi, mesu assiccorràda de sa basca. E bëimìndi mundu, ita bellèsa! Cancùnu ad’a nai: - E su grembiullìnu? Gei nci fìa puru su chi s’attrivìad’a ndi furai su pannianànti de sa mamma, ma gei nci stuppà de sa scolla, cun su fragh’e xibùdda o di oll’e proccu chi nd’ittìada! Però, deppu arricconnòsci ca sa scolla si praxìada. M’arregòdu sa primu lizziõi. Su maistu, scedau, bonu che ü arrògh’e pãi, cannoscèndu bëi su bivi nostu di onniadì, si prepparàda prissicollogicamènti, totu appàgu appàgu, me in sa timmorìa de no si enni càncü attàccu a su coru e ddoi abarrài parallizzàusu de gutta coràbi. Di fattu, appèna intendeiàusu: - Pronti a fare i maccarroni!- nascìa sùbitu üa spezzia de budrellu intra scraxiàlli. - Nosta Sannora mia! – zerrià su prus axebiàu, - ta bella sa marraconada! Cun su fammi chi lompìad’a chinzu, òi morrèusu tre bòttasa! Però, a frozza de intèndi cussas còsasa, bolli o no bolli, gei passànt’ammaròlla is accancarronadùrasa a su stògumu. Dopu tre mesis de maccarrõisi in biancu, toccàd’a is lìttrasa de s’arfabèttu. Arràzz’e ispàssiu, cussu puru! Oi, po nai, is pippìusu, me in sa scolla, binti appiccigàusu a is mùrusu pullìusu e biàncusu, quadrìttusu bëi fàttusu, totu pintàusu, praxìbisi, chi ingrunguìzzanta sempri a studiai: A uguàlle Anadedda B uguàlle Briccichetta C uguàlle Giuccollàtto R uguàlle Ralloggètto pintàto Po nosu, invècciasa, fianta totu còsasa de fai muccai su friusu scetti 36 34 S’avventura de sa vida a ddas intendi nommenài. A dònnia patti ti giràsta, no fadìasta atru che bì e intèndi cosas màbasa chi ti lumbànta is còstasa giai pagu imbuttìdasa di oll’e lùmbusu, candu no si nci pedrìada càncüa carrèr’e dèntisi, puru. Is quadrìttusu appiccàusu, sonànta aicci: A uguàlle Agittoriu...mamma B uguàlle Bastõi P uguàlle Pettia Z uguàlle Zirònia E chi oindì, no impàra sùbitu sa liziõi, po penittènzia, a totu mabandài, ti compòranta de ü marrocchìnu assummàncu ü arralloggèddu. Po nosu, invèciasa, fiad’assiguràda üa scarrocciàd’e schissiòba o de zirònia e...adiòsu barràcca cun sa past’e latti. Però, e custa fia sa fottüa nosta, gei nci fia su prangiu a ti torrai a pàrisi su logu, candu totu andà bëi. M’arregòdu, sa torràda a domu. üa bella arraffriscàda di acqua tèbida cun su sciampu de Parigi, in su bànniu luxènti e fragòsigu di arràncu de froris arèstisi, cun sa maiòllica chi ti sprigàda a dònnia patti ti giràsta. ma chi no nci muccàsta a su muttõi, corrovonàu de is pùddasa, gei tenìasta cosa bella di aspettài! Sia cumenti siada, pullìusu o accattobiàusu, arribà su momentu de si sei a mesa. Deppèisi iscì, ca me is tempus passàusu, sa mesa, obia nai totu. A s’ora giusta, difàttu, fadìa su quadru e cancü’òtta sa pottografìa puru de su stad’e famìllia. Medasa o pàgusu, bàbbusu o fìllusu, nisciùnusu s’azzadràda a mancai a s’or’e pappai. Anzisi fiaus tòttus’a orìgas paràdasa a scruccullìai, fadèndu sa mantinichèdda in s’or’e s’enna de coxîa, e abettèndu s’indrà de patti de sa mamma. Ü tocch’e coccerõi a sa pingiàda annieddàda de su fumu de sa forrèdda e, bëi o malli chi stadèssisti, mesu izzòppu a accallenturàu, 37 35 Bellus tempus toccàd’arregòlli is ùttimas fròzzasa chi abarrànta me in cròppusu, po no nci dd’as pedri cumprettamènti schicchiobàu de su dinganimèntu de su fammi. Sa cuncòdria de sa mesa, impàri cun s’eticchètta de ...Missiè Lassàllo, gei fìa pagu strolliccàda! Ü prattu mesu scannìu (a ddu castiai bëi, parria chi essi fattu scummìssa po sighì aguantài!), üa frocchìtta a còrrusu mes’accancarronàusu o giài struncàusu. Su fammi, meda bòttasa, no pedronà mancu sa ferràllia: sa cullièra, sciadàda, torràd’a s’òssu po s’allisadùra linguìstica. Zettu ca fadèndu sa lissia, sa mamma no deppìada spacciài sa spunniètt’arrùvida, po ndi ddi andai s’arrest’e s’ollu, no! Serrà sa cuncòdria de sa tàvulla imbrandìda, cuss’arroghèdd’e civràxiu tostau, post’anànt’e donniü, e istrunciàu de segadùra, ca parrìa segàu de su maist’e càrrusu! A nai sa beridàdi, de su settiu de sa talladùra, gei no ndi fadìanta contu is cantrèxiusu affottiàusu de s’avvèsu a mazziai tostau. Sa cosa pru bella, però, fia su follièttu affroriggiàu de su mennù pressonnallizzàu, po podi donai arrispòsta a is disìggius prus arriccercàusu. M’arregòdu, donnia dì, su trabbàllu pru mau me in domu nosta (ca fiàusu doxi de donai a pappai !), fia cussu de nc’approddài in su parastàggiu de coxîa, üa pùnt’e billèttu scrìttu po sa desiderata de s’incràsi. Lisàndias còttasa a forru deu acostumà a domandài sempri, sottillèttassa meda, arrosbìffu cun conniàcciu, fibèttu o... fibi cittu de boi cottu pagu a su sangui, kiiuis o...schìbius de fammi, annannàssu a fìttasa (mànnasa a su stògumu!), e, po finì bëi, üa bella ciccarèdda de Gaffeu. Arròbb’e prima callidàdi! Spudeiàusu mamma de caffè tòttu sa dì. E a nai sa beridàdi, sa torràda gei no si fadìada aspettài mèda meda. Ü cartèllu mannu, narà sempri: mandiàre arrichièsto, arrinviàto preche’ sheffo no’ arrivàto. E di aicci, de üa dì a s’atra, 38 36 S’avventura de sa vida s’arrisurtàu fìada unu scetti: o mangi di questo minestrello (acqua e ollio!), o sarti questo pranzerello e, cancuna vorta, il cenerello , pure! Oi, invècciasa, òinti tott’is cosa bèllasa e proffummàdasa. E aicci, si alliàganta su nuncu cun is muccadòreddus de pappèri e imbrùttanta su logu scavuenducèddusu a terra! E bai in bonòra s’ambiènti cun s’ecullogìa! S’atra pedra milliari de tëi bëi annòttu me in sa vida è siguramènti sa Prima cummeniõi. M’arregòdu is maìstasa: zia Maittèdda, zia Consollàta, zia Lisètta, zia Cràmmina, zia Pasquallìna, zia Arrosìna. Arrazz’e festa in famìllia! Fìanta tòtusu parèntisi di accànta! Totus’izzìasa! Ma, maccai nci fèssinti is accàppiusu de sangui, chi no ponìasta memmòria a imparài sùbitu sa drottîa de su catachisimu, gei nci torràsta a domu cun is trèmpasa mesu scuncodriàdasa! Abòttasa parrìanta üa circhiòlla de xeu doppu su dillùviu! S’arreccumàndu, poi, sa salla de lezziõi, oiamommìa bèlla! Fia sa Cappèlla de su Santissimu, tòttu ingiriàda de bàngusu arrogàusu e de cadìrasa scosciàdasa, chi parrìada ü corràzzu de brabèisi cun s’attàccu de su mabacadùccu. Candu torreiàusu a domu, mesu axebiàusu de su fammi e de su sonnu, cussa fitt’e pãi cun ladru chi aghetteiàusu maccai mesu annieddàu de sa cagadùr’e musca, gei ndi ddu fadìada scarraxiài su sonnu di ògusu e su pruîu de mùrrusu! Però, bëi o malli, si prommovìanta sempri a tòtusu, e tòtusu impari fadeiàusu üa bella festa po arreccì sa primu òtta a Gesu Cristu. E aicci, de festa in festa, si crescìada e si tiràd’a innàntisi. Arribà su Natalli e benìa sa Befana. Cussa pùru, sigurèdda iad’èssi! Deppèisi iscì, ca in cussus tèmpusu, Gesùsu pippiu, ancora troppu pitticchèddu e nozzènti, no tenia su premmìssu de bessì assou adenòtti. E di aicci, ia donau su podèri a sa Befana, parenti di Eva de tantus sèccullusu, maccai beccittèdda e mesu mobadiòngia, a pottai is 39 37 Bellus tempus arregàllusu a donnia picciocchèddu chi duranti s’annu ia fattu a bonixèddu. Abòttasa, sciadàda, cun sa cataràtta me is ògusu chi dda fadìanta mesu zrùppa, nò inzettà su logu o nc’arruìada a su fògu e abruxendusì, lassà scetti crabõi mottu. Cussas pagus ottasa chi nc’attaffàda a sa crappìtta giusta, pòbera in s’òssu cumènti fiada, lassàda adìzziu adìzziu duas figus siccàdasa, dua nùxisi o ü mandarinu, e chi proppiu fìausu stausu bonixèddusu bonixèddusu, podia lassai ü arroghèddu de sattìzzu mesu stantissàu! Sa bellèsa, però, de cussus tempusu de picciocchèddus de crobi, fìanta i vacanzasa. Podeiàusu scioberài donnia tippu de locallidàdi turìstica po is feriasa longasa o is vuichendisi mussia e ...fui. Sa locallìdadi pru cannòtta me in cussus tempus fìada s’...Arenilli de Frummi Mannu beach, su carròppu de Santa Luxìa, là! Pòi si podìada cambiai aria a Muntarràsu camping o Cùccuru Santa Rita rellax. Su seddorèsu chi proppiu obia cumenzài de pittìccu sa ia de is attividàdisi sportìvasa, gei tenia cosa de scioberài! A pottàtta di mano e di pede, podìada andai gràttisi a su...Saddori sport center, axròbasa imbrazzamàdas de is brabèisi o de is bàccasa a vollontàdi... A su nòtti, infìnisi, a si sezzi in sa friscùra po is giògusu de sozziedàdi, cundìusu de còntusu de mòttusu e da pantàsimasa. Arràzz’e sonnu discanzòsu, appùstisi! Però, aicci puru, cresceiàusu pagu in fottillènzia e, prus pagu ancòra, me in sciènzia. S’edàdi mattucchèdda si pottàda a fai su millitari, chi dd’ oi fia s’artèzza e su xriccu torràccicu, e poi, a penzai a si coiai e a si ciccai ü trabàllu. E calli trabàllu me in cussus tempusu? A nai sa beridàdi, de mestièrisi, gei sindi scabullìada, po chi tenìada gana. E incummenzànta de picciocchèddus pittìccusu. E poi, iast’a nai ca no tenìasta tìttullu onnorìfficu. Tòtusu ammaistàusu. Ndi antèssi 40 38 S’avventura de sa vida arrùttusu quattru òttasa de i sa scabèrasa de s’Univressidadi! Ma, sia cumènti siada, totusu ddis izzerriànta maiste’e pannusu; maist’e murusu; maist’e carrusu; maist’e crappittasa; maist’e linna! Avvòllia de scioberài sa callidàdi de insenniamèntu! Is atrus trabàllusu prusu arramattadèddus fìanta, invècciasa acconciacòssu, cuzzalifèrri, bandidòri, interramòttusu, pastòri, mindadòri, marradòri, pudadòri, sozzu, castiadòri de axròbasa, castiadòri de bìngiasa. Cùssusu chi ponìanta pagu dabòri de conca, fìanta is trabàllus de is vippis o ellittisi. Ma fianta troppu pàgusu: su mèri (arràzza di àtti, custa!); su potacàriu, su frebòttumu, sa levadòra, ( gei ndi onà quattru de nadiàdasa, dònnia dì!). Donniü podìada imparài su mestieri chi dd’aggradessìada. Ma ü mestieri tòtusu, deppìanta scì fai: su panetteri domesticu! Ü mestièri troppu importanti, chi srebia po bivi, dì po dì, maccài poberesamenti. E tra sudòri e arrìsu, sallùdi o mobadìa, s’avventùra de sa vida de is tempus andàusu, nci scorriàda a pagu a pagu, fìnzasa a candu, cument’e tòtusu in custu mundu, si serrànta is ògusu po bì atra luxi. 41 39 Cancu diciu Bellus tempus Fridu che sa nì Friscu che s’arrosa Frunziu che fa Grai che û tronu Grassu che û proccu “In mesu che su mreccuisi.” Grogu che sa xera “Ad’a tenni duas giobiasa.” Imbriagu che suppa “Tristu che sa cenabara.” Lebiu che ûa pinna Leggiu che su tiau Longu che s’annada maba Narànta is antigusu Luxenti che su sprigu Maccu che û quaddu Marriu che cãi 42 40 Arrosciu che pezza pudescia Nieddu cha sa pixi Arrubiu che su fogu Prêu che s’ou Asullu che su lillu Prexiau che puxi Bellu che û frori Pudesciu a bentu Biancu che su casu Pudesciu che cãi motu Bidri che s’erba Sazzau che intruxiu Brundu che su nènniri Sciugu che sa linna Callenti che su latti Siccau che s’ossu Caru che su fogu Tontu che ûa cozzîa Drucci che su zuccuru Tostau che sa balla Frassu che Giuda Tristu che sa notti. 43 41 Bellus tempus Giògusu e gioghìttusu Sa xida de su mandrõi Giògusu e gioghìttusu Arregòdusu de su tempus andau “Palchì no torri, di tempu passatu! Palchì no torri di tempu paldutu!” Lûisi lûisi miu Mattisi no ddu sciu Mreccuisi incappasa fibu Giobia fazzu farra Cenabara cozzu pãi, Sabudu non pozzu Domigu è baganza. 44 42 Aicci cantàda, cun is suspìrusu in su coru, ü poetta de sa patt’e’ Sassari. Ma teniad’ora cantèndu, su picciòccu. Su tèmpusu no si frìmmada e de sa giovventùdi, bella o maba chi sìada stada, chi si òllidi o chi no si òllidi, abàrrada scetti s’arregòdu. E in conca? Cant’arregòdusu ddoi aidi istuggiàusu! De fammi e de abudànzia, de festa e de tristùra, de sallùdi e de mobadìasa, de fattìga e de bagànzia, de giògusu e de gioghittusu, sempri bèllusu, sempri nousu e, asùb’e totu, sempri abettàusu. Puetta, s’atti pru bella de su picciocchèddu de ü otta, fìada cussa de fai gioghittèddusu. Su mommèntu prus indiccàu fia su mericceddu , a sobi mesu indrommiscàu, cun s’àbidu de su bentixeddu estu, chi spirà de Biddaxìdru a t’infriscài sa peddi bruttàzza e ü poghèddu scallentàda. I màmmasa, doppu üa dì passàd’a trummentài e attrippoggiài cun is fìllusu e is animabèddusu de su cottìlli, arrolliànta asùtt’e su pottàbi prù mannu e prus apprigàu de su xiãu, (su scannixèddu a fundu de fastòia frisca in mãusu, chi nò manchèssidi!), e tòtusu pigàdasa de s’arràlla, accrastullàda di arrìsu, lassànta chi is fìllusu si stentèssinti, fadèndu maccai màbisi, in dònnia manèra. Di fattu, sa primu impunnàda de su maschixèddu, po misurài is fròzzasa e s’abillènzia, fìa sa giogàda de sa strumpa, üa spezzia de lotta ammericàna fàtt’a sa sadra, in mes’e s’impedràu. Su chi pedrìada sa lotta, giai sempri accostummàd’a nci lassai in terra ü scantu dèntisi o cancüa costa scannigàda. Però gei dd’aspettàda 45 43 Bellus tempus ü bellu prèmmiu finàlli: üa scuttullàd’e pettia di ollàstu fatt’a nusu, de patt’e sa mamma, dd’accabbàd’e callentài sa schîa e sa nadièdda. Cettu ca su picciòccu, po totu su merì, no si torràd’attrivvì a ciccai su puggillàu furistèri! Prepparà, prusappèstu, ü àntru giogu arrillassànti e prus pagu pirigullòsu po s’ossammènta ancòra strammattigàda. Per esèmpiu allisàda is corixeddasa a ispùdu lattinòsu , po fai curri prus allèstru is pallinasa de terra cotta o de gazzosa, oppùru prepparàda is pirastasa, üa spezzia de gallettìna tunda de pedra o de tabàcciu, po’ studai mèllusu su muttonèddu de sa fa crobètta de terra! Bellu giogu custu, nommenàu faffonnànna! Bèllu, però, fia su sciaccu, candu, spacciàda sa fa frisca, furàda naturarmènti de is càrrusu chi passànta me in s’arrùga, po andai a s’axriòba a dda trebai. Chi obìasta sighì a giogai, eh...ti deppìasta arrangiài cummènti Deusu bòidi, cicchèndu s’arremmèdiu pru fàzzilli, ma de zettu, ü poghèddu azzadràu: üa tiràda a istrùnciu e adiòsu i buttõisi ...de is prantallõisi. Mau fìada candu si nci pedrìanta cussus puru! Chi no pottàsta codrèdda bella in bucciàcca, gei tindi cabàda üa bella giorronnàda de sobi, torrènd’a domu, cü is pantallõisi appoddàusu in mãusu! Però, candu cabà su scurìu, pappau ü mussièdd’e pãi lunt’a tammàttiga frisca (nàsciu, s’ìant’a scancioffài i gengìvvasa cun sa spazzullèdd’e is dèntisi, prima de nci essì di omu!), sùbbitu, cummenzànta i drivessivi nottambulli, chi oindì, a sa tellevisiõi, izzèrrianta giochi di merzanotte e...drintorni...! Su pru nodiu, po donai s’indran a sa seràtta, fia su giogu de mammaccùa, spezzia di nascondimmènto arràpido, durànte che si contàva fino a diècci dippiù no si eraviàmmo cappàzzi. Pòi sighìada su zaccaeppõi, spezzia de spruzzigàda arrogadùra, chi nci furriàd’a terra su pobirìttu mabaccappittàu. Is chi timmìanta i sas spruzzigàdasa a is bàrrasa, girànta a illàrgu e currìant’a xriccu cun sa mettànicca, arnèsu de ferru o pettia de 46 44 Giògusu e gioghìttusu canna bëi allisàda chi fadìada girai ü cerchiõi becciu de briccicchètt’arrogàda. Su chi no tenìada sa possibbillidàdi sfinanziària de comporài custa attrezzadùra de arrìccu, si nci ghettàd’a sa badrùffa, giogu prus pagu dispendiòsu e prus’adattàu po dònnia accurrènzia. Ma su giogu pru fini e pru poetticcu de sa notti, fia cussu didiccàu a sa lüa. Candu bessia cussa bella lüa, a trèmpasa sempri bëi prëasa, incarreràda de dèntisi arrisprendèntisi de su prexiu, (oindì, po finzas sa lüa è trista e mobadiòngia, sempri minudèdda, e si fai bì adìzziu adìzziu e a spizzuèddusu, totu istrunciàd’e fatta!) po nosu fia su mommèntu indiccàu de cummenzài sa nennia de sa giogàda: una la luna, due ar bue, tre al re, quatturo spazzullini e mani in terra! Arràzz’e giogu intelligènti e sinzìllu! Ellusu, cument’e cùssasa imbrabballuccàdas de femmîèddas, a bambulleddasa de izzàppu in mãusu, no mi tocchètti che mi caghètti, sempri a inzùnchiusu e zicchìrriusu! Nosu maschittèddusu, de izzàppu fadeiàusu scetti sa boccia, po giogai cun is peisi. Cùssasa, invèciasa, alle belle stattuette! Orasa e òrasa, ingüi, frìmmasa che mummùzziasa, pillìguru de ndi pigai cancu puntòri. E poi bellixèddasa chi no fìanta! Su froccu pru mannu de sa conca! Scrùzzasa...su istirèddu poi si ddu arraccumàndu! Totu stirongiàu a pattiàttra, fia cruzzu e parrìa longu, mesu ingespiàu de succ’e trammàttiga, arròri bèllu! de...modèllasa di cinemmatrògaffo o de missaittàllia! Ca no fianta curiòsasa, poi, candu scioberànta su giògu de musca zruppa (càncüa bastonàda de pistadùra a is contonàdasa de is mùrusu!), o cussu de cavvalieri in potta oppùru scaberèddu scaberèddu o ancòra, cussu de s’anèddu, po prepparài sa coia. Ta mmi sia sa coia de cùssasa strecchèddasa! Ü giogu prus allìrgu e carinniòsu fiada, invèciasa, cussu de sa fillastrocca sadra, chi donà sa penittènzia a su chi sballiàda! Bàlla! 47 45 Bellus tempus In custu giogu, sa femmièdda, bella de linguàzzu, no sballià, nou! Sempri a nosu toccàd’a pagai! S’attru giogu mescollatto o prommisco, premittiu de is màmmasa, fia sa spirriccìa uno, spirriccìa duo, triei, quatturo, puetta ca fadìa cannòsci a su chi ìada studiàu sa tabellìna pittagòricca. Su peinconèddu, sàttidu a camba assobàda in mesu de is casèllasa sinniàdasa a inghìsci, oppùru su sartido colla fune, fianta is esercittazzioni finalli, ollìmpiche femminìlli. Nòsu maschixèddusu, no teneiàusu sciabèru: sa finàlli di onnia notti fia sempri uguàllisi. Fògusu di attiffìziu a bottu de carburu. Candu scoppiànta cùssusu, in mes’è su ludràgu e su fragu pudèsciu, sa cumpangìa si sciollìada e tòttus a nànna. Tanti, s’uncràsi, fìa sa stessa minèstra: arràllasa de is mànnusu, giogus e gioghittusu de is pittìccusu. 48 46 Is mesisi de s’annu Is mesisi de s’annu Gennarxiu Friaxiû Mrazzu Abribi Maiu Lampadasa Mesi’i axriobasa Austu Cabudannu Mes’e ladammi Onnia Santu Mes’e idasa 49 47 Bellus tempus Cancu diciu Cancu diciu Gennargiu: bîu, satizzu e civraxiu. Gennargiu: disi ndi conta trintuna, ma chi dd’accùcada no tindi lassa traballai manc’una. Friaxiu: donnia pillõi põidi a scraxiu. Friaxiu: cruzzitteddu, totu giogu, senz’e cappeddu. Mrazzu: mrazzu siccu, messaiu arriccu. Mrazzu: sperra peisi e scroxia brabeisi. Abribi: nci tòrrada su leppiri a coibi. Abribi: abribi sciuttu, messaiu arruttu. Mesi de axriobasa: tempusu de aberri i mobasa. Mesi de axriobasa: su bentu a riga a riga ndi ògada sa biga. Austu: marrammidda in austu chi òisi fai mustu, Austu: su mesi pru giustu.. Cabudannu: Acconcia su pannu ca nci passaus s’annu. Cabudannu: scavuanci su lodammi po boccì su fammi. Mes’e ladammi: no si timi pru su fammi. Mes’e ladammi: Gennargiu prêidi is foràdasa. Mes’e ladammi: prêidi is carràdasa. Onnia Santu: a Santu Mattî sa carrad’à prantu. Onnia Santu: non c’è lazzu paràu che su lori arau. Mes’e idasa: tra baganzasa e dì fridasa nc’eu bogau s’annu. Mes’e idasa: tra festasa e dì fridasa, baganzasa po tres cidasa. Maiu: maiu arrosiau, mesi proffummau. Maiu: maiu affroriggiau, senz’e fundoriu chi è acquau.. Lampadasa: chi no podi messai, spigada. Lampadasa: malleducau, de palla m’à carriau. 50 48 51 49 Bellus tempus Mexîasa de u’otta Me is tèmpus andàusu, ma non troppu, prima meda, però, chi sa Sanidadi fèssidi arrefrommàda a su pàrisi de su sodràu de leva, patticullàri me is bìddasa scarrappacciàdasa, is apparàttusu po assigurài a sa genti sa sallùdi fìanta diadèrusu paghixèddusu. Su Tiki fìada scetti cussu de su mabaccadùcu, e is fàsciasa de pagamèntu, chi oi ant’appiccigàu a is mexîasa, in cussus tèmpusu benìanta attruccillàdasa a is pòburusu pippièddusu appena nàsciusu. Tombollini, De Lareèzu, Sgarravàllia, Arrosabrùnda...e chi ddus cannoscìada? Cummessiõi premmanènti de sallùdi pùbbrica? Gei nci fiada in cussus tempus puru. Ma fìa frommàda scetti de tres pressònasa: s’Arrettori po dd’aggiudài a mòrri, su maist’e linna po fai baùllusu, e s’interramòttusu po ddi ciccai domixèdda de acuiài po sempri. Chi su parèri asub’e su brofètt’e sa mexîa dd’onà su preìdi, ancòra ancòra su digraziàu si podìada arrecumandài s’ànima a Dèusu. Ma chi nc’arruìada in mãusu a is atrus dusu, adiòsu barracca! No accudìada mancu a imbruttài is cràzzasa! De dattòrisi, dùncasa, mancu s’arràstu. Adìziu, adìziu nci fia su frebòtumu, üa spezzia de speciallìstu arrùsticu fattu in domu e femmîèddas bellasa a improddai donnia impriàstu e a cuncodrài donnia arrimèdiu. De cussas femmîèddasa gei si ndi scabullìada in abbudànzia. I nòmisi de su pressonàlli mèdicu e de cussu infremmierìsticu, pònianta brugària in cròppusu scetti a ddus intèndi nommenài: ziu conca carròccia, bonu meda po tirai casciàbisi e 52 50 53 51 Bellus tempus scuncodrài cantrèxiusu; zia Annixedda bruccuìtu, pràtiga po sanai sa co fatta a gancìttu, s’appendicìccolla di òi, là!; zia Maria corriàzzu, maista de s’ogu liau, cand’unu fiada striau de s’asssìcchidu. Custa fèmmia, parri chi fèssidi aicci leggia, ca scetti su s’apparài in su pottallìt’e s’enna de coxîa mes’affaccàu, a su pobirìttu sciottunàu chi benìada a passài, ddi pigàda üa spezzia de scatarru abbruschiãu e ddoi abarràda mottu accidriàu. Narai totu su chi obèisi, ma assummàncu su sreviziu premanenti de guàdria medica fìa sempri assiguràu. Maccài s’àbidu de.cuncòdria de su dattòri candu andàda a bisittài su pippìu o su mannu mabacapittàu chi arruìada iscònciu, gei fìa pagu fraccòngiu. Podèisi maginài su dattòri frebòttumu, candu torràda de pasci is pròccusu! Sa muscìllia, fadìada de bussa pottastrumèntusu po is accurrènziasa prusu difficurtòsasa: livèllu po misurài sa callentùra, sanguissùgasa po abbasciài su fogadõi de su sangui, decottèddu de cim’e lampàzzu e coramèdd’e moddìzia, po ndi ogai su muccu de is prummõisi, pruîusu de scatàrru assofocatòriu, arroghèddusu de lua siccàda po s’avòmbitu buidu, mazzùccu a conca lisa, po su mabaccadùcu arrivortòsu, croccorìga de piricciòu po su pàsiu ( su breku de gaffeu di òi, là!, candu s’operaziõi tirà troppu a longu). Cument’ei biu, totu su necessarièddu po podi aggiudài su pobirìttu a nci trapassài de sa notti a s’atra vida. Però, a patti is brùllasa, gei si ndi scabullìada, in cussus tempus puru, arrimèdiusu naturàllisi po donnia arrazza de màbisi. Eccu, üa spezzia de prontuàriu sanitàriu antìgu, ma chi oi puru, bollèndu, donniü po contu sù, poidi sperimentài in domu o me in su sattu, senz’e pagai tìccusu e senz’e fai tàccasa abettèndu su dattòri. Dabori de dentisi Cucchèddasa de scetti affibbiàdas a bàrrasa! 54 52 Sa preparaziõi è fàzzili e lestra: si pìgada ü poghèddu de scetti de trigu Cappelli, no cussu de trigu dent’e cani, totu brenti bianca chi no balli nudda; si impàstada a longu cun bîu axèdu (a is tempus andàusu gei si ndi scabullìada unu zicchèddu, gràziasa a su Sinniori; su bîu, chi no fìada spuntu, no fìa bellu!), e poi si spràxidi in d’üa pezza de teba bianca (ma, chi est’asùlla, ddi faidi üa stoccàda, ddi fàidi!), e si nci appròdda me in trempa unfràda, bëi bëi accappiàda a gir’a giru de sa conca. S’effèttu è giai sempri sùbitu benèficu. Candu, però, no funziònada in custa manèra, c’esti ü’aggiùdu prus sigùru: sa rezzètta de ziu conca carròccia, chi dd’adi sperimentàda meda cun is pròccusu. Dùncasa, a totu s’ammestùru de prima s’acciùngidi üa fa siccàda in bucca, s’allùidi a fogu abìllu su forru de coi su pãi e sinci incàrada sa conca cun sa fa. Candu custa è cotta sperràda, su dabòri de su casciàbi, de sigùru, è totu sparèssiu.Sa rizzètta, pagu cumpricàda, nu ha mai faddìttu. E’ maracullòsa! Provài po crei! Dabori de conca Innoi puru nci srebia sa fa, ma cust’otta occùrridi üa bella fa frisca sperràda, appèna appèna spappàda. Üa perra si põidi in sa memmòria de derètta e s’atra perra me in sa memmòria de manca, appiccigàdasa a fotti a fotti cun is dua mãusu e doppu üa mesorèdda de sfrigadùra e craccamèntu a giru tundu, giai sempri passa su dabòri. Chi custu no suzzedìada, zerriànta a ziu conca carròccia e sa mazzòcca a conca lisa accabà sa cura cun brofèttu. Dabori de brenti Custa rezzètta, lestra e sigùra, fia praticàda meda de Zia Annixèdda Bruccuìttu, imparàda - pàrridi - a frozza de furai prupellènti de is Arrioprànus ammericànus, me in s’Acqua cotta de Biddaremòsa: Zia Annixèdda, dùncasa, ponia su mobàdiu brent’a ceu e cun is 55 53 Bellus tempus mãusu accappiàdasa a patt’e asègusu. Fattu custu, cumenzàda a frigai su stògumu indaborìu cun petrolliu bëi callenti, ghettèndu üa parìgh’e istìddiusu aìntru de s’ombellìcu, su biddiu, a sa sadra, là! S’affoghìggiu e su callentòri chi ndi stuppàda, nci ogà donnia dabòri de brenti. S’ùnicu incumbeniènti fia ca a s’incràsi sa peddi si pesàd’a busciùcca e scoppiàda a lìquidu artamenti infiammàbilli. Ma s’arremèdiu, gei fia broffettòs’e totu. Dabori de zugu Po custu mabi s’arrecurrìada a sa pudda oppùru a su quaddu. Zia Maria Corriàzzu pigàda ü poghèddu di ollu de pudda o de quaddu, ddu callentàda in d’ü tianèddu de terra cotta smartàda, ddu spraxìada in su zugu e, agò, ddu trogàda cun sa sciarpa de lan’e trottòxiu buddìda. A s’un crasi ammengiãu, chi andà bëi, fia totu scarèsciu. Chi no arrennescìa cussa cura, nci fia sempri prontu Ziu Conca Carròccia cun su forru callenti... Dabori de origasa Innoi puru sa rizzètta fiada a basi di ollu callènti. Bastàda ü zicchèddu di ollu buddìu in s’orìga mobàdia, üa notti accugucciàu a lettu, e po su pazziènti accabànta is dabòrisi. Su màu fiada candu sa dottoressa Bruccuittu abbundàda ü poddixèddu me in su tanti o me in s’affracchìlliu de s’arràlla cun is ammìgasa, si scarescìa s’ollu in su fogu. Su maràccullu, sciadàu, gei ddi passàda! Buddèndu cumènti fiada, s’ollu ddi stampà su trìmpanu de s’orìga e a su pobirìttu ndi ddi torràda in càrigasa affritteddèndu me is cantrèxiusu e me in sa lingua. Issàrasa gei fìanta dabòrisi diadèrusu! Guroisi de sangui Ollu minàu e cera noba po nappuittusu! 56 154 Custa fìa su succia sangui ammallòrau de su gurõi assoddìttu. Fìa sa cura de sa scienzia prus avanzàda, po cussus tèmpusu! Candu, però, no scioppàda cun su nappuìttu, si torràd’a s’antìgu, arreccurrèndu a ü ferru operatòriu totu patticcullàri, chi scetti ziu Arrolliu baffu, sabatteri nommenàu de Futtei, tenìa sempri prontu: sa sua a punta furriàda a ganc’e proccu! Üa infrissìda bëi donàda e gei ndi stuppà sa mattèria truazza a muccu caborìu e gei ndi cabàd’a lestru s’unfradùr’e sa camba! Bogadura de pari Su trattamèntu tirapèutticu prusu usau fia cussu de su sab’a pedra, scallau bëi me in d’ü lavamàu di acqua frida. Postu su pei o sa mãu a ammoddiài in custu lavamàu de ferru smartau (chi è possìbilli scroxiobàu, po ddi muccài mèllusu su ferru arruiàu), sa cura bandà fatta durài setti disi e setti nòttisi. Chi poi si tenìada s’avvettènzia de acciùngi a s’acqua sabìda cancü’arroghèddu di allu friscu, su pei o sa mãu fìanta pròntusu a coi a cadrìga e fai sallamòia. S’àtru trattamèntu ottopèdicu meda broffettòsu de ziu Niccollàu froscèddu, specciallizzàu in sa crinica trottomollògica Arfio Zudda de Cruccùrisi, fia su picch’e pãi cun latti. S’effèttu fia cussu de s’inghìsci intostàu, ingeostatùra di oindì, là! Scetti ca custa incrostadùra fia pru lestra di effèttu. Difàttu, appena si ingiriàd’a sa patti chi ia tentu su dannu, totu a frozza de pallittèdda de muradòri po maiòllica de còmbudu, arrolliànta de pressi musca, muschìttu, muscõi, àbisi, lambrèttasa e Zanzàrasa collùdasa, chi attaccànta a pungi arrogàdura su mobàdiu, fìnzasa a candu su pobirìttu. olli o no bolli, sindi strempiàd’a curri, sanèndu a su stanti. Scarraffiu de cani Posollògia scientrifica: Nòdolli guinàlli di debollèzza sfamìfuga 57 55 Bellus tempus Candu bessìanta cussu nuixèddusu dolloròsusu in mes’e càmbasa, is beccius nòstusu, custu fattu, d’attrivìanta a su cãi, chi, fadèndu is ...abbisòngius susu in mes’e sa ìa, scarraffiàda sa terra. Su mabacapittàu chi ddoi ponia su pei asùba, ndi pinnicà su mabi! Ma, su motìvu, invècciasa, chi fadìada spuntai i nodulli trubecollari dabillitanti a tipu codroîu tabacch’e mraxiãi, fiada sa dieta ecullògica frozzàda de dopu sa guerra (su fammi, là!) Però sa cura fìa curiòsa diadèrusu. S’arresurtàu, maccai, prus pagu gioiòsu! Dùncasa: si pigàda terrixèdda fini fini e sciniòsa de linna , sprüiàda me in su scetti (spèzia de borrotàrcu modernu, là) e si nci scavuàd’a terra. Su pippìu, mesu disinganìu de fammi e iscosciàu de zoppìmmi, dda deppia sattai currèndu e spudendìdda asùba. Chi no inzettà su spudu a sa turra, torràd’a cummenzài. Agò sa mamma pigà sa turra maracullòsa e nci dda craccaxiàda me in su nuixèddu mobàdiu e po premmiu, nci ddu pottàd’a lettu chen’e pappai. S’incràsi, chi totu andà bëi, su picciocchèddu abarrà parallìticu assummàncu po ü mèsi. Atras mabadìasa nci fìanta: su tussi mobentîu, sa callentùra martèsa, cussa de sa mallària, sa diarrèa mottàlli, s’arrasfrìu a canabi frassu, s’àsima sbrunchiàlli a fìschiu de trenu in pesàda, là!, su scadrimèntu insanguentàu, s’abarradùra de su carru (sa stìppisi di oindì, là!), su dabòr’e costau a suidu de cabor’e siccu, sa straccommatòsa a is ogus (üa spezzia de ziddìca appiccigadòngia, a sa sadra!) Senz’e contai priogu, puxi e lìndiri, chi aggiudànta a nci passai su merì me in sa ia, arrallèndu, sprughèndu e scraccabièndu a festa. Insòmma, in cussus tempus puru, gei no si podìanta lamentài de is mabis chi si cannoscìanta. Sa fottüa fiada ü antra, però. Tòtusu is cùrasa fìanta baràttasa: si spendìa pagu po bivi e prus pagu po morri. E narai ca fìa pagu cosa cussa… Assoddimentu de idu Su trattamèntu studiau po custu mabi è fruttu di ànnusu de pròvasa frammacollògicasa de su frebòttumu ziu Conca carroccia, sperimentàu in su Laborattòiu Furistèri ottosallicìllico murcollìticu a pullitùra arràppida de is proccus de Santa Cadenìa. Sa cur’è lestra: acqua buddèndu in cassaròll’e terra cotta; dùasa o tresi intràdasa e bessìdasa de su idu sconciu e s’assoddidùra è bell’e che sparèssia. Cancü’otta, però, po sa buddidùra de s’acqua ü poghèddu arretraddàda po iscarescimèntu, a su pobirìttu, chi no accudìada a ddi cabai gutta corabi, ddi sparessìada assoddimèntu impàri cun totu su idu. Certu su quadru crìnicu de totus is mabis de su tempus passau, presentàu in custus pagus fuèddus, no poidi essi cumprèttu e finiu. 58 56 59 57 Bellus tempus Su sabatteri Su ferreri Su maist’e linna Su sedderi Su braberi Su panetteri Su messaiu Su procaxiu Su pudadori Su guetteri Su interramotusu Su buttaiu Su maist’e pannu Su maist’e muru Su crannazzeri S’ottuãu Su barraccellu Su castiadori Su pisciaiu Su carratoneri Sa levadora Su craddaxiaiu S’acconcia cossu 60 58 Su bandidori Su messadori Su marradori Su sciaferru S’acciappacãi Su potacariu S’arrettori Su stangheri Su stangiaiu 61 59 Bellus tempus Bellus tempus Invocaziõi Cara mammaicella... Santr’Abara e Santu Iaccu, osu pottàisi is crai de lampu, osu potàisi is crai de xeu. No tocchèisi a fillu allêu, nè in domu nè in su sattu! Santr’Abara e Santu Iaccu! 62 60 63 61 Bellus tempus Cara mammaicella Cara mammaicella Currispundènzia epistullàri de su...spattriu a Aborèa Maccai poberesamènti, in su tempus passau puru, cumènt’e òi, is picciocchèddusu, accostumànta a pattì attèsu di omu, po fai üa parìgh’e disi de vacànza. Efisièddu, spray-boi de Seddòri, dezzìdidi de si nci stesiai meda de sa idda sua, impàri cun sa cumbrìcculla de is amìgus prus’ accunnotàusu. Sa spiaggia de aghettài, esti, po cùssusus tèmpusu, attesu e pagu serbida de mèzzusu de trasportu. Sa locallidàdi sciaberàda, si zerriàda Aborèa, in sadru, o Mussollìnea, in talliano. Arribàu a su logu sonnau, cìccad’e imparài bëi sa lingua furistèra e cumènzada a mandai a sa mammai, lìtrasa de su viaggiu e de sa vida di onnia dì de su campèggiu . Sa prima littarèdda sònada di aicci: Cara mammai, ànzisi, cara mammaicella (chi fa piu talliano arricercato), chi sei buona e indovini inzettando e chi e che ti scrive questa littra a missiva quasi continentalle. Ci scommitto che anchi si sei abilla e spizzecca come la margianetta di boscallia, no nci riesci a sciorinare la mantassa! Eppuro, no è diffizzille, connoscendo i tuoi casalinghi fatti in casa di te stessa. Zetto, a primma vista, ti potteresse sembrare anche una scritta di studiante di scuolle grandi o dirittura nivressitarie. Ma proppio li nci fa la cascatta l’asinella. E’ tuo fillio Fisieddu, mammiccella! Proppio 64 62 65 63 Bellus tempus lui, chi a due giorronnatte solle della dippartitta dalla sua nidiata nascittalle di Salluri, a paratto a iscrivere colle mani di sestesso onni parolla talliana! Tu puoi magginare chi si ano pottatto in uno paeso straspostato da Continnente a Sadrinia e chi si chiamma Musollinea, ovverosia in sadrinniollo Aborèa. Cui la terra è cuasi ugualle alla nostra. Sollo chi è tutta scannallata a srucchi grandi coi canalli di aqqua, dove nci scorrono a vollontà i pisci chi li chiammano trinche. La lingua si chi e un pocchettino drivessa e trobeddata, per afferrarla subito. Però il cappo iscuadra vuolle a prallettare no colla nostra diallettica, ma colla sua. Io tuttainvia no nci o miettutto morto a rancogliere l’odore della cosa e a falli fare una arrazza di figurina. Ascorta questa, mammaiccella, e poi me ne tornerai una rrisposta tu stessa. A noi, vedi, si chiammano colla lingua di essi boi - scappusu. Il bello della chistione però e chi a tutti vengono soprainnominati così, sia ai masculletti chi alle femminuccie. Io chi no sono colla sarsiccia drento il naso, li o fatto annotttare cuesta grossia discre pancia. Sono andato alla sua faccia e li o sputtato nelli occhi le arregolle sgrammatticcalli dei vrebbi talliani. - Guardi sinniore cappo iscuadra, - li o detto - guardi chi a scuolla (e io ai fatto anchi cuarche annetto buono nella sigunda illimmentare), si ano sinniatto chi nci sono il vrebo maschietto e il vrebo femminuccia. Duncue è obbrigo di dovere grammatticcalle e orto apostograffico a dire: boi scappusu pe i maschietti e bacca scappasa pe i femminilli! Mammai, nci vuoi credere? Quello si e arburiato come un bue di montannia chi strarrippa nel riggannio di pianura dormitta. Si lo vedevi i triccicri spettoralli e le cordulle unsimanti dello zugo! Si li vedevi le arrottelle dei ginocchi chi si grappano alle stibbie e ai piscioni delle gambe! E le mani? Ano i giunti arrottullari dei ditti comme i cuscinetti dei carri armatti, e assimbillano alle pabie per 66 64 Cara mammaicella inforrare il civraxiu. No ti dico dei piedi! Onni giorno li carzano a ispinta il nummino 88! Sollo il piede si era più grando di Lilliccu messo in deretto! Il dittino piu piccollo (il pistirinchiu, la!), no intrava nianchi nella bucca di Giuanniccu su proccu! Cosmuncue, tu vuoi sapere l’arresurtato finalle, vero? Cuando si stava per asventarsi sopra di me, si esce fuori da dentro Giuanniccu, chi di muscolli ni a piu di io, e lli dice: - Chi sei capazzo e lo tocchi, cuesto chi e mio ammicco? Cuello, senza nianchi musciare, lli da una sventolla arrotteatta e lli sbrunca una larva superiore. Allora Giuanniccu, prosciugandosi l’arrossore della larva buccalle, si pinnicca a guido e lli grida: - Si sei cappazzo e mi ne ddai ü’antro? Cuello, senza pronunciarsi di parolla, lli scarroccia ü’antra sventolla in faccia e lo arrottolla a terra. Giuanniccu, si riarza tutto stontitto e mi fa: - Tocca, Fisieddu, tocca chi se ne andiammo, artrimenti cuesto ci arritorna come linna inturronnata. E sai chi ti dicco, mammaicella? Andati se ne siamo. Cui lo chiammano Rambo, ma noi lo soppra annommingiamo Rambullone, proppio per le sue spropositazioni di talliasfisica. Adesso, però, lassiamo dietro alle spalle Rambullone per conto suo proppio, ca ti vollio arracontare la partenzia di noi da Salluri paesano a cuello di Stato. Eraviamo tutti assudorati per la camminata appiedi affrettollati, ca doveviammo afferrare in orario il treno arrapido, cuando lli capita la primma disventura a Lillicu. Siccomme si erano abbusciuccate le scarpe nei piedi e, dato per il caso che spiazza della stazzione sollatta no si potteva arresisistere per l’asfa cani a collare, a vidutto un furgone di treno arrimmorchiatto a vuoto, e sinc’e intratto senza il premesso delli addendi ai lavori. Tutto di vorta il furgone, si e miettutto a partire assollo e Lilliccu soppra senza billietto di uscita fuori paese. Cuando si è vidutto così, che ti a fattu Lilliccu furittu, pe si cuare 67 65 Bellus tempus alle controllate delle guadrie ferro e viarie? Li viccino si a annottatto una cascia piccollina di morto scovveccatto (senza la cadaverina, la!), e sinc’e scuttullatto drento. Chi vedevi, mammaiccella, comme si era cariccello tutto ingiriatto di arraso indrammascatto di broscatto arrosso e col cuscinetto arrandatto a punto crocce. Era coricatto in sillenzio, arrussando biatto, cuando chi si muove il cun vollio trenille e llui, senza nci penzare nianchi ü mommento, si accovvecca di fuori a chiudere di drento la sua pressona cuasi morta per viva. Oiammommia! Cuando o visto di lontano chi lo pottavvano di drento un binario ucciso immagazzinato per la scaricazzione delle sderratte limentari arrepperibilli, mi sono corso correndo straffellatto, e cosa ti o visto? Due opperai, colla testa a berretto di treno, chi pilliano la cascitta di tumbina e la fanno per colloccarla in una cambionetta frigorifferatta a ghiaccio attiffizzialle sgasato pe no facere sudare i morticcelli. Appena se lanno caricatta a spallatta, Lilliccu, alla fidatta, scovecca in arto la crobetta della tumbetta in linna intrassiata dal maisto di legno, e ne sarta in aria come uno furittu alla strada arrotteata di ferro per il treno. Cosa dovevi vedere, mammaiccella! I due strappottattori chi pottavano a collo la cassiccella, la sbuttano in arto nell’asfartico arribollente e arzano le gambe indimmoniate fino ai piedi, e lli prende a correre a correre e...proppio dove si andava Lilliccu, il morticello arrisuscitato. Lilliccu, chi si credeva assegitto di cuesti, correva anchi di piu. Fino a cuando no si scontra co il cancello ferroviario a terra, precché sbassatto per il periccolo combente di passaggio deralliante di cuarche convollio. E si come no si aveva il premmesso ni a apprillo ni a arzallo e no nci arrennesceva a sartallo, precché era arrimpicciollitto di piccollino, si gira di scarto a di dietro, colla fazzia e anchi il corpo. I due correnti 68 66 Cara mammaicella della carrossa ferro viaria, vedendo tornare a loro il morto arresuscitatto, si fanno una gira e vorta frumminea lampiggiante e ritornano a correre di dietro dalla parte di dove erano vienuti. Meno malle chi alla fine Lilliccu, allocchiatto dalla sfattica, si ascascia a terra e si frimma suando comme una bisciolla di luogo siccu. Asino, la giorronnata già finisce nella groria, già! Comuncue, mammaicella, speccifficcato onni patticcullari della storiella al capo della ferrovia, cuesto, si a fatto una arrisatta a bocca apritta, e si a datto anchi i billietti grattisi pe sallire alle seggiolline della litta orina. E cosi siamo spartiti per la disventura campeggialle stiva! Beh, adesso devo istudiare un’antro porchettino di lingua talliana e cosi spero anche di te istessa. Ti sbaccio e ti sbraccio a occhio cummosso senza lagrime, tuo discendente carnalle di primo aggrado. Fisieddu 69 67 Cara mammaicella Bellus tempus Cara mammaiccella Segùnda missìva pistollàre di Aborèa Cara mammaiccella, e comme ti statte a casa, sedutta nello scanniccello affundato a sessene, a spidiobare alla friscura della serata chi si ingolla nella nostra bella arruga? Nci scommitto chi nci saranno tutte le tue commariccelle a crastullare e scraccabiare cuando zio Corriazzu arracconta i sui arraccontini drivettenti e un porchettino sgrassoncelli. Eh, biatti voi tutti, messi impari! Ma anchi noi, però, no abarriammo agò, no! Cuì, no si possiammo mai frimmare, sempri a camminare deretti nelle nostra strada, anchi sinc’è una cruva. Cuesto è un mallincommio scollastico, chi no ti fa drommire mai. Io, onni giorno dippiù, mi sto arraffinando la lingua, lingendo libri e giorronnalli struttivi. Ma lassiamo le cose di oggi aggiorno, pre torrare a quelle di ieri, chi e già passatto arremmotto senza girundivo scomposto. Ti arriccordi, mammaiccella, chi ti avevo lassiatto sopra le seggiolline della litto orina, doppo che Lilliccu si era morto pre brulla brullata? Be, le sviccende sventurose no erano ancora accabbate. Lilliccu, diffattu, anche drento il cumpartimento litto orinalle, ni à cumbinato un’antra belliccella. Si avieva pottatto indietro impari a si madesimo, un pacchiccello chi tieneva infianco, tutto arrottollato di giorronnalli a tippo pronnografico sissualle, e lo imprassava affotti sotto lo sureccu, senza si dire a nessuno la robba chi nc’era 70 68 71 69 Bellus tempus imboddiccata a strinto. Tutto di una vorta, si scuallia la sinniorina spollinca annuda del giorronnale e si esce sconchiando una testicciolla di anguilla, arridendo a denticcelli apritti. Puoi magginare nel vagone assollato e imbrazzimmato di gente a sardina! Uno sgrido urlatto di gente ammacciatta di mallore generalle, mentre Lilliccu sbutta la pacchettata in terra e una spazziatta di anguille (figlie trotte di fiume mannu, la!), si struffolano in mezzo alle gambe appette delle donne, comme zreppenti avvischiosi di terra acuosa pallustre. Gesu,Giuseppe e Maria! No ti dicco le donne, i babini, i babi grandi, li zoppatti alle gambe e quelli alli occi. Tutti si appiccavano appenzolloni nella tettoia del trenicello sgridando e scontorcendosi coi cappelli strallunatti della paura. In tutto cuesto bisbillio di urli sterici e scontrollatti di mallincommio, si ne esce Fidericcu bibbîu, co un corpo di gennio soppra dente. Pillia la sua croccoriga di crannaccia di Solla Arrussa (...e meno ammalle chi eraviamo iniziando il viaggio e ci ne avieva ancora!), la sbutta assopra delle anguille, faccendolle arrussare diavvero! Così durante che Lilliccu le rincoglieva di nuovo in mano, tutti praudivano e sbacciavano in onni luogo della sua pressona, a Fidericcu bibbîu. Ma lui si scarniva arridendo e diceva chi era Dante allighiero chi lli avieva donnatto il penzamento nella Di vina Cu media, cuando annaffiava le anguille colla crannaccia sadra ( ...però no si capische bene si fosse di Riolla, di Barattilli, Zeddiani o Solla Arrussa .) E comuncue, bene o malle, si siamo arribatti a Marrubiu, e da cuì, camminando coi piedi sempre fissati alla terra, siamo arraggiunti drento il Campo Scuolla di Aborèa. E cuì torriammo a bomba di Arrambullone, chi aveviamo tralla sciato ai bisticci con Giuanniccu chi si era messo a diffesa di io. Adesso, però, tanto pe dire, tine vollio arraccontare una frettollosa sverta, sempri di Lilliccu. 72 70 Cara mammaicella Eraviamo di primmo giorno di scuolla, tutti spianati in filla diana, nella prazza di esercitazione verballe e spratticcata di colleganza per arrestare impari aggruppati insieme. Tutto in un mommento, Lilliccu, chi era il capo figlia dell’adunata (precché pocco arto), sente odore di mangimme nella furreria avviccina e sballia la mano di marcia, furriando alla contraria e faccendo infillare a tutti drento i cuccinieri. E si sente una sgridatta di urlo arrentro anante polliffemmico nei nostri corniccolli oreccialli. Mammaiccella, ti arriccordi le notti avventose ullullatte di straccìa nottambulla, chi io ero ancora bamboccello, cuando tu mi addiccevi di arricoverarmi sotto i lenzuolli stampatti, che stava passando il carro di nannai, arrummorando nel ciello colle ruotte chi parevano di ferro? Agualle, mammai, agualle e anchi peggiore di cuello! Ci siamo rincorrutti tutti di nuovo di fuori, coi piedi arzati alle gambe e con il quore drento i budelli della golla. Appena si eraviamo tutti rindisposti in filla, uno di fianco coll’artro, Rambullone si e miettutto le pabie delle mani ai fianchi, a stirato i corni della bucca, à arrivortato li occhi uno drivesso dell’artro comme lo scammalleonte allullurato, e spalla ancando l’ugolla della campana grande, à mettutto in movvimentazione sollo la pabia di deretta e dorrododò!, la lassiatta andare assoppra di Lilliccu. Cuesto, scartante comme uno furittu, si é provvisamente croccatto in terra e no lo à preso. Ha preso, verce, a Giuanniccu, chi era secondario di filla. Cosa dovevi vedere, mammaiccella! A messattura, a farciattura alla arradicce, tutti uno di dietro all’artro come una morto sega chi sbatte giù una figlia intera di callipti. Mi pariva una spezzia di mottalla a pestillenzia fantille e adurterille stantania. Una strange dei nozzenti. di mammoria bimbricca, la! E’ da dire, però, che nel fondo del fondo, é un bravvo cammeratta di commandazzione di odrini, e morto pieno di cuore. Pe dire, adesso, ieri chi era sabbatto ( di cueste parti é primma 73 71 Bellus tempus della dommenica, chi attaccano insieme e fanno due giorronnatte di spicchi - nicchis !), giai chi aveviamo appeso bene la lizzione della sua lingua, si à ditto: - Di oggi, sabbatto, a domani, chi poteresse essere di dommenica, il campo della scuolla lo innarzeremmo drento al mare. E così nci à pilliatti tutti insiemme e nci à colloccatto sulla sabbioncella della istrada comunalle dicci-otto di Aborèa (cuì le istrade ano i santi tutti annummeratti comme la tombolla di Natalle) Il primmo giorno chi siammo accostati viccino del mare (Bissenticcu lo credeva una funtana di pozzo grande e senza le costolle, che si facceva scappare l’acua!), si siamo miettutti insiemme noi salluresi, uno soppra fianco dell’artro. Lilliccu, sempre primmo per la sua corporazione piccollina di neonnatto; Giuanniccu Proccu, basciotto e grassoncello; Luisiccu corriazzu; Arremundiccu ziringõi; Fidericcu bibbîu (ca lo tastava per il salle, il viniccello!); Bissenticcu pidaiou e, urtimo, a capo isquadretta, io, Fisieddu, lo studiante posto allimmentare. Li artri, sono tutti asfarbettici senza arritorno! Cosmunque, eraviamo tutti spranciatti sulla spiaggia insabbiollatta, bianchi comme il latte fatto a callatto frisco appena smunto. Il solle, assollatto comme di giorno callente, scallava anchi le pedre. Sudoratti eraviamo, e rossatti come mai alletti pinturatti di sangue malloratto. Si arza, tutto in un mommento, Arremundiccu ziringõi e fa: Fisieddu, nella cuccina del cucciniere, attendato a sollo, ci sono cuelle tanniche a barattollo grande di frommaggio mericano chi si scalla appena lo sparmi nella scutte. Farà pe sbronzante di solle? Io nci ò penzatto sollo due mommenti: - vadi, lli dico, - ziringona sotto della tendiccella culli in aria, vedi cuello chi incià drento il cucciniere e arrittorna collo oggetto. Arrottollando la terra comme un’animmalletto a strisciatura, Arremundiccu, sgattaiolla nella rippostillia serchetta e avviettatta, e ti tira fuori la cosa intera già scovveccata di cuel frommaggio mericano. 74 72 Cara mammaicella L’odore no sembrava troppo buono di profummo, ma alla primma lisciattura sulla pelle roventatta, si era apparutta rappaccifficcante con le busciucchelle di solle. Ma doppo un pocchiccello, cosa ti dovevi vedere mammin...cella! Dalla pinnetta arberatta di Aborèa, si arza un arrummore svorticcoso, sfischiante e asciordante, comme di rio prani tedeschi della Raffa durante lli abbombardamenti della guerra mondialle. Una nuvollatta, neritta e carbonniffica, vollava arzandosi nel ciello a scurare il solle, e si spagliava a cespullio, vienendo tutta vresso di noi che si eraviamo lunti coriccatti! Avevano fatto adunata poppollare, senza filla diana, tutte le arrazze animallesche vollanti circondarialli: api, apicelle, musche, muschitti, musconi, vespe, vesponi, lambrette, scraffaioni neri e ludrigonatti pibizziri in cintollati, frommicche colle alli di rioprano, sizzimurreddi giornallieri. In piu,ancora, le api arreggine, si erano tiratti indietro di loro anche i casiddi, pe facci derettamente a mielle. La gente della riva, timmendo una novella sbombardata di guerra nemmicca, fa a fagotto frettolloso, i bambini coi paraspioggia sollari, i gellatti scallatti colle stoie arenariatte, fitte di sindriette già smasticatte a mezzo co il vino appressiatto in frisco e sinci entra a gridi, sterre fatti e larghimmosi disparatti, nei fortini della spiaggia appinnettatta. Ma il soggetto prellibbatto dei vellivolli, no si erano i fortini, armatti di cemmento, ma bensì verce, eraviamo sollo noi, luccicchianti di frommaggio bavoso a di scualliamento. Il primo di essere appungilliatto è Giuanniccu proccu, grasso e arrottondatto come ü’ maialle pronto a fare a sarsiccia fresca. Ma no nci era cosa di tristulliare co il tempo nianchi pe noi artri, no! Ce ne siamo pesatti, tutti in un tallo, e senza nimmanco tulliarci il sabbioncello, via alla grida sordatesca della Sbrigata Sazzari fratelli di Sadrinia, filli Salluri, si sarvi a chillo può! No ti dicco mammaiccella cuello chi nc’era a palla di noi! Una 75 73 Bellus tempus nuvollatta animmallesca coi pingillioni accuzzi in fuori, chi assimbillavano a schidoni e chi no vedevano l’ora di firzarci a sangue le arrobbettine più moddiccelle e cuatte! Tutto di un mommento, però, eccu Rambullone, chi si mette paratto a fronte di noi e sbutta un urlo feroccitto di bestia forestalle antiga pre-isterica: - Tutti sotto dell’acua! - fa Rambullone! Lilliccu, sempre scappo-filla devanti di noi, isballia svortatta, e si rientra drento della pinnetta arberatta. Oiammommia oiammommia, mammai! Che dallori! Una smancellata di aghiccelli, agoncini, prinzette, serracchetti, artilli, artillietti, sbeccatte, surbiture dentallistiche chi si infrissivano di onni parte della corporatura, e i gridi, e lli urli co i lammenti e lli occhi sbranatti di fuori! Una battallia all’urtimo sangui, inserralliatti nella foresta di pinnie, fino a cuando Lilliccu no torna a imbuccare una uscitta di strada secondariatta (un more di campannia, la!), chi si saresse doviutta gittare drento il mare. E cuì, gialla fa bella una nuova vorta, Lilliccu! La seratta primma, si eraviamo spassiatti nella notte della luna a fromma di farcetta scallante a cantecchiare canzonnette di montannia sopra del mare, colla lucce del fallò di fuocco, a lennia siccatta (cuella frisca no volliono a metterla pe scoppio culloggico!). Poi, cuando si siamo arrogatti di voce, abbiammo tudatto il cinisetto ancora abbracciffero (vivo ancora, là!), sotto una sbucca accovveccata di sabbia. Beh...lo crederessi, mammai! e Lilliccu e no va a si sbuttare, coi piedi scarzatti, a pelle pullitta, proppio nella sfossa affuoccatta e noi anchi, dietro di elli. Gesu,Maria e Giuseppi, che sarti in arto, in longo e trippo, arrotteatti si siamo fatto! Mammaiccella, lai visto un ferro orbigatto chi nci cade in una banni e ruolla di aqqua sghiacciatta? Vero é che boga fummiccella e soffiggia afforte, afforte? Agualle, mammai, anzisi più aguallissimo di cuello, anchi pe noi! Una annebbiatta di svappore aqquo, adorante di rosto sbunci ancatto 76 74 Cara mammaicella si mette a truffollare nelli sfori nasallici della gente, serratta ancora nei fortini, ai quali li torna il sangue a logo e si rincorrono dietro di noi precché si credono chi nci sia pezza arrustitta a gratticcola o a schidione. Dovevi vedere che artra bella sfifficcella, e comme onni uno di noi si era costrinto di allontanarsi a sravvammento in mezzo all’aqqua del mare! Beh adesso ti lassio alle frescatte seralli paesane e torno alle raffinazioni lingualli, pre accurturarmi in onni punto, giogra fico, sterico, e della fill’e soffia stronommicca. Cuesta vorta ti mando uno sbaccio sollo, così mi aspetti lartra missiva della prossima ventura. Fisieddu 77 75 Bellus tempus Cara mammaicella Cara mammaiccella Atra missìva di Aborèa: e...seus’a tresi! Cara mammaiccella, no nc’e due senza trei, dice il porvebbio anticco chi fa anche per oggi di giorno. Eccu il tuo Fisieddu che si arrittorna a ti scrivere, pe no struncare il fillo sbelliccalle di congiungimento mattriarcalle sfill ianciatto dalla luntananzia, anchi si temporaniesca, dell’scitta a gitta a drivessivo cuasi continentalle. Tu già arriccorderai che lantra vorta si eraviamo rimasti correndo drento il mare, precchè rincorrutti da tutta la gente che si creva i nostri piedi cuasi rostitti dalla fariccella di fuoco abillo cuato nella sabbia, spezzettini di procco appena cotto. Eh...mammaiccella! Già era andata a terminare bene, anche quella cosa di là. Dinfarto, allontana chi ti allontana dalla arrivva, si siammo trovatti chi laqqua ti sfregava alla golla. E cuando la sfregava a noi, a Lilliccu, verce, già li tuda la testa. E così, cuello, trovandosi a simmilli condizioni, e no si mette a disbattere colle mani sbassatte e i piedi arzatti, drento laqqua, a fare la pianta, sgridando tutto sprappaddatto colli ecchi. E tutti noi a si ridere e a si dire: Là, là, Lilliccu, comme si sta spassiando di sollo, precché à paratto a naticare! E, datosi che tutto di un momento si frimma in trunco e si coricca a spancia in giù, colle spalle arrivortate soppra di oi, Bissenticcu li sgrida dillontano: Hai visto chi già ti frimmi di gioccare, anchi tu! Mammaiccella artro chi spassio era! Stava a sbevverare aqqua a sospirattura comme gli buoi di ziu passabara nello sbevverattoio fatto 78 76 79 77 Bellus tempus a lacco piettreso. Cuando se ne siammo accattatti chi la pancia si stava abbusciuccando cemme una sindria di cueste patti di Musollinea, labbiammo pilliatto tutto di fretta in cuattro e pottatto fuori drento la sabbia. Dovevi vedello, mammai. Era asullettatto comme i lilli della settimana santa. Li occhi erano fuoruscitti drento lerbittallica cullare, comme cuelli di una testiccella di anniello messa a cuoccere nella gratticcolla affuoccatta. Noi giallo credeviamo morto e sepurtoratto. Totununo, eccu chi arriva Rambullone. Si scara avventa a tutti lontano, e lo pillia sotto conservazzione mediccalle. Poi, senza nisciuna piettà, li mette la rottulla ginocchialle di deretta drento la spancia impallonatta e sgrida a corpo sicco: - Affuori laqqua! Nci crederessi, mammai? La gente era colli occhi aspuntatti allinsù vresso larto, a vedere cuel miraccollo di Milano abborese, fatto aqquolleggico. Un zampillo arto piu del campanille nostrano e ascompagatto da uno scibillo urlante di Lilliccu, pe il dallore scorporalle arripportatto. E nci avieva raggione, poverello! La craccatta ginocchialle, llo avieva vallidatto colla sfrattura di tre cestolle sane, lo sfracello della preura e la spuntattura straummattiga dei pormoni sinistri. Mapperò, bene o malle chi sia svuottatta, lavieva laqqua sgurgittatta drento il mare, e tornatto in vita è statto, eccomme! Ma lassiamo le cose vecchie e stantifiche comme te, e torriammo alle cose piu fresche di giornatta, che sono morto mellio. Oggi, mammaiccella carissima, si siamo arreccatti a un paesoncello del tempo anticco (lo chiammano di ettà parallittico - preistericco!), chi si chiamma Della pietra, anzisi Sassu , tiratto in su dai piscatteri. Tutti si credeviammo di trovare sollammente una postazzione da spedriare o luoghi di sgavvi, verce si siamo scontratti in una sterratta di vasche a piscina per le rincorse dei pisci murgini, li sfammosi mughelli di Sassu, pe siccare lli ovvulli sfarinnaccei a bottariga sallatta. E i pisci erano a millianta e più ancora, chi sartavano luno 80 78 Cara mammaicella soppra dellantro e no si sappeva mai a chi arrivvava primmo nel tranguardo. Però si eraviamo accattati che onni pisci chi sartiava più grande, lo pilliavano subbitto con la manica lunga di una retticcella di mortadella usatta, e lo accasciavano nelle scattelle di giunco viccine. Cuando erano tutte costippatte di mughelli, chi faccevano gli urtimi caschilli per morire assiggenatti, i pescatteri si erano contenti e lassiavano li antri pisci a gioccare ancora nella vasca grande. Che bella visualle di vedere a giorronnatte intere e a bocca apritta! Ma ne si potteviamo stare lì, pollaiatti come bimbolleti di negozzio a gioccattolli di Beffana! Dinfarto, siccome anco in cuel mare di lì si poteviamo fare il bannio arregullare, Rambullone si à detto: Oggi e domani si fermiamo in cuesta arena di Sassu a sostare, primma e doppo i pasti, così due vorte al giorno si mangiamo e si dormiamo e si fazziamo il bannio. Ci vuolle, però, una scompannia pe tirare insù la barracca di dormitta, e una pe fare un cucciniere di giornatta, pe laccurrente mangereccio. Subbito, Lilliccu, anche se un porco arrogatto di vocce, per via delle costolle infratturatte e i pormoni un tantinello scuccitti dal vello pre urico, si arza di diettro e iscramma a tutti, appena appena sentendosi: - Io saperessi faccere la gallina a brodiccello e anchi la bannietta di tammartighe frische di staggione pe i maccarroni lunghi. Così chi è sconcuassatto di stommacco, mangia il brodiccello e chi, verce, nc’ella guastatto, si beve la pasta sciutta. Bene - si dice Rambullone, - adesso voi antri sei, a pilliare canne frische per la casina della notte: tutti lli antri al mare! E così, durante che Lilliccu a sollo, si indaffariava a cuoccere tutto onni cosa, noi, li antri, si eraviamo sdraiatti nella spiaggia cardissima di solle. Onni tanto Lilliccu si faccava dalla cuccinetta e noi li gridaviammo di lontano: - La bannia, Lilliccu, giralla e saggialla per il salle! E lui, bidiente comme ü babbinello drommiscatto di sonnollenza, andava e torrava doppo un quartioretto diccendo: - Già 81 79 Bellus tempus vva tutto bene! Mammiccella, nci crederessi? Lo sai cosa facceva, di nascosto sillenziatto, Lilliccu furittu? Si talliava una fitta di pane cuanto tutto andava il civraxiu e lo imbrazzimmava nella casseruolla della bannia. Doppo chi lo facceva dui o tre vorte... adiosu bella bannia! La casseruella si era divventatta limpia comme lo sprigo di cristallo antigo e lucciccanti comme cuando si era comperatta! Di cuesto trestamengio disfidatto, però, si ne siammo accattatti sollo doppo, cuando è succedutto ü antro fatto callammittoso e disdiccibbille. Le galline chi dovveviano faccere il brodollino cardo pe cuelli istommaccati di fegatto billiattico mirzeso, si erano statte gittatte drento la pentolla grande di terra-corta furatta della mamma, sollo spinniatte, ma senza smazzimmazione. Ne potterai mai magginare cuello chi si è suzzedutto! Le galline, piene azzeppo fino al cello di onni benegallinaccio di cuesta terra, mettutte nellaqqua sbollente, si unfrano si unfrano e si unfrano ancora, fino accuando ne possono dippiù e si scuattarano a bomba tommica tippo Harroscimmi, la zittadella friccana abbombardatta dei tedeschi nella primma guerra spanniolla. Sartano accosi i coppercolli della pentollona, tienutti frimmi da bronchetti di tuffollo di una cavua lì viccino, spratticcamente si possiammo chiamarli coppercolli a impressione. Tutto di un po si arza una spezzia di terremmepullo vurcanisticco visuviano di Pompeio, inseguitto di un fuocco incendiario , no dolloroso ni punibbille di legge. Dai finestrelli del fortino sbellico, chi fingeva di cuccina pre visoria temporalle, si sproiettano comme balle di pistolla tommattiga, tutti i scremmenti a collori di gallina scoppiettatta: favi piccolli, favi grandi, linticchie, cicci, pisurcetti e piseddini, trigo sardo e trigo turco, a vena, e onni antro lore che puoi magginare, e vanno a corpire, comme una matrallia feroccitta, cuelli poverelli chi erano coriccatti nella spiaggia. Fidericcu, il piu prontutto di tutti, nci ddà una sgridatta e grida 82 80 Cara mammaicella affotti: - Croccattevi, croccattevi, asinò nci stampano comme tratta casi. E così, si siammo sarvati di cuella arrattata’ sbellicca marina. Ma eccu chi alla fidatta improvvisa di pantasimma fernalle dimmoniatta, ne stuppa fuori anchi Luisiccu, tutto allampionatto di brodo verdo arramme, chi sembrava uno svenusiano di Marzio, sterratto di pocco dalla tumba assideralle gallattica. Già pocca ni aveva di vocce primma, precchè arraccostollato di Rambullone, ma adesso si era comme corpitto di parallisi guttullaria, e così, comme appena appena si à pottutto scanciare i labbri, à ditto: - Scuattaratte, tutte le gallinelle scuattarate, e anchi la pingiada di mammai di me. Ma armeno la bannia ne si è andatta sperduta. Ammarolla, si la era tutta sarzatta co il civraxiu! A cuesto spunto, pe larrobba di mangiare, le cose si erano divventate diffizzilli di risorvere. Tu, mammaiccella, che cosa ne avriesti fatto sartare in fuori? Io gia llo so che tu no ti saressi abarratta di fare cuarche cosa. Ma anchi tuo fillio, però, nò è arrimmasto agò, no! O’ sgridatto subbitto a Rambullone :- Sinniò cappo scua drillia, io sono cappaccio di prepparare uno pasto di mangimme pe tutti, sollo in una quartioretta. Saresse un pranzetto porco arriccercatto, ma sano, arrobbustoso e fotti ficcante pe onni sciammi gatto: pattatte a schiscioni era verde, talliatte a grandiccello e pullitte sollo della sbuccia di fuori, con pietro semme, cippolla bondante allio in crianza e bondante, ollio più bondante ancora. Dattemi dieci infermi eri di cuccina e alluna di pranzo si mettiammo tutti alla tavvollatta sparecchiatta. Cuello che ti fa, mammaiccella? Mi ne mette in mano, pella pullizzia delle sue pattatte chi nci avieva allogatte bene di riserva, armeno venti. Così, in un patri di fillio, le pattatte sono pullitte e talliatte e miettutte nella pentollaccia a bidene di ferro-asmattico. Mi ò fatto pottare cincue smazzi di pietro semme, cincue di allio grosso e cincue chilli di cippolla arrossatta e pizziccosa. Pe lallio, 83 81 Bellus tempus verce, ò fatto allocchio. Ti arriccordi, mammaiccella, cosa mi avveressi detto pe il tanto di mettere? Un cuarticcello di ollio onni chillo di pattatte. Io no mello sono scarescio, no! Così, in fretta memmorialle, appo fatto i conti smattemmatticci della tabbellina ritti mettica. Venti chilli di pattatte addivviso pe cento bambinelli, distratto Luisiccu, addietta pe costollitte pre-uricca accuzza, e Rambullone, chi si era già smangiatto le galline scuattaratte, mortrippiccatto lora diggià arrittardo, sdizzionata lasciammighenzia cu mmullata di tutti, facceva a compressivo ammente, armeno cincue littri di ollio! Ma, pe faccerle un porchettino piu spettittose, mi sono confidatto comme stesso madesimmo, e appo arrippettutto in sordinamente, collalingua latrina: mellusu abbundaccere chi disficcere pe mancanzia di cosa primmaria. E così ni ò sbuttatto artri due litriccelli budanti. Ma adesso lassiammo cuoccere le pattatte da solle, che già tello dicco la proscimma vorta larresto della storia campeggialle. Ti abbandono, senza sbacci, precchè no ò piu tempo di perdere cotte chi sei un pocco ostruitta nella scienzia occippittale, e anche dippù sfarbettica, pella nascitta di crescenza origginalle. Ti arriccordo sollo chi sei mia marde di carne e di sangue fino da princippio della tua esistenza, no di cuella mia, e chillo sarai anco doppo di prima. Tuo fillio di nascita Fisieddu 84 82 Cara mammaicella Cara mammaicella E siammo già a cuattro, comme ammissive! Cara mammai, oggi no ti faccio la festa pecchè no sono nella vena, ànzisi sono tristo e affriggitto precchè la primma giorronnatta di Sassu, à sciambussollatto la nosta asistenzia, pottandoci tutti, cuasi a punto di morte pe la diarrea mottalle chi poi di seguito ti farò sentire collo scritto e cosi lo potterai fare vedere e sentire alle tue ammicche e toccare colle tue mani medesimme, a che cosa vuolle dire a provallo. Anchi il solle adesso sta morendosi appalla del mare e lunica allirga è cuella schiffosa di luna, a trempe arrippiene, chi se ne va a giro di notte a ridere di noi chi siammo allocchiatti di dallori e di sfattica sventriccollari. E sono sicuro chi, sbuggiarda comme chi è, no a chiesto neppuro il premmisso a suo babbo il solle, chi a cuest’ora si è, poveretto, drommitto di sfatticcamento pendullare! Pibiruda chi nu e artra! A uscire solla di notte! Basta a essere femmiedda... Ma già li passerà anchi a essa dommani mattina, cuando si tornerà a arzare suo babbo! Vabbene chi anchi quello no è chi sia morto sicuro di cervello. E’ comme un crabo medio...totunduno chi va avvanti, arrittorna indietro comme il mio arrevvulloggio di mracca Arrenscoffo. Pe dire, adesso comme farà a si coriccare dalla parte dei monti di Villacidro e a arzarsi allo dommani di tutta ü antra parte chi è cuella di Segariu? Dui sono li spiegammenti arrazzionalli chi si possono intra vollare colla raggionatura scattollogica: o cuello no dromme, penzando a sua fillia un pochettino sconcorrata di testa, 85 83 Bellus tempus oppuro magari nci cade dal letto chi videntemente deve essere in cabata, e si scivvolla, arrottollando a se stesso di un’antra parte. Meno malle chi nc’e la scienzia esatta, di cuella rammifficazzione studiante chi si annommina astri-anemia chi saresse la mediccina giusta pe no fare stumbare le istelle. Asinò gei succederebbe bello con tutte le arrotteazzioni stelli uriche! Ah, si arrittornasse armeno Nicolletto Scoppernico, chi volleva facere la revolluzzione del ciello, frimmando il solle e facciendo arrestare sempre a giorno anchi la notte. Vai chi la luniccella no si uscirebbe più solla e spomposa a riccerca di cuarche stelloncino scadente, pieno di fuocco ardente pe pottesselo scallappiare... Ma meno malle chi di cueste patti perintanto sua un bel venticcello frescollino. Mi pare chi sia proppio vento di Villacidro, anchi si Villacidro è rovesciatto a fronte di diettro di Aborea. Ma si a ditto Giuanniccu, metrollogo iollico, chi la cosa è la stessa medesima proppia: -Tanto, dicce, - sempre soffio è, sia chi porvenga di Villacidro, sia chi ne arrivi di Cruccurisi, o di dove vuolle venire. E forse forse no nci à tutti li storti di arrexionare a così. Tanto, cuell’abido arranfriscatto, che sia soffio sventoso, che sia vento soffioso, sempre aria fa a sventollare e allevare porvere nelle istrade. Beh, torriamo un mommentello alla cuccina dellantra vorta, ca seguramente lo starai amcora sonnando, di che cosa avevvo fatto colle pattatte a schiscio nera! Ti arriccordi che nci avievo sbuttatto anchi artri due littriccelli di ollio im più ai cinque di primma? Mammaiccella! Tutto benissimo assai, fino a cuando le pattatte si erano ancora crude. Ma, cuando, verce, sono cummenzatte a runzare e a si sfarinare un porchettino, addivvenendo un liquido un po ammermoso, che ti dovevi vedere? Lollio, chi si era nascosto sotto le pattatte, si comincia a sgattaiollare fuori, sempri più su, ancora di più su, fino allagare tutta la pentollona. Morigavo, morigavo e cuanto 86 84 Cara mammaicella di piu morigavo, sempri dippiu sartava fuori di antro ollio chi pareva olliatto. No ti dicco, però, allora di si mettere a tavolla pe mangiare! La scuadrillia di bambinelli ne arrivva sciammigatta fino alla spuppilla delli occhi e comenzia a sgridare la richiesta del pasto a rancio sordatesco millittare. E mi spriogo a sforrare scucchiaiatte di spassatto di ollio di pattatte e a gittare a vollontà drinto ai piatti cuppudi svuotti; e ti vedi cuesti marmocchielli bugoni e disfammatti impastare di pane drento il brodo, e appallare in bocca, senza sostare le mani, e nianchi tirare la respirazione. E subbitto a recrammare: Ancora artro, artro! Bisi, Bisi!(chi vuolle dicere: addoppio!). Beh, mammaiccella, pe no tiralla troppo allunga, io non ò fatto a tempo a girare li occhi, che cuella pentollona a bidone era accovveccata e sfinitta! Ero cosi scuntento di allirghia, che no mi vieniva vollia nianchi di penzare a mangiare ammè istesso. Ma allimprovviso, in cuesta tommosfera di spenzieratto penzammento gioioso, si arza un bambinello colla mano craccatta nella sprancietta, e si domanda a me stesso medesimo si lo pottevo attorizzare a andare a bannio commudalle arberatto. Ora, mammaiccella, precchè tu, chi sei pocco uscitta, carpisca onni cosa di cuesto luogo esteroggeneo, ti fazzio sapere chi noi, nella spiaggia, no abbiammo un bannio a muntone di sgalline e sgalloni, chiuso di muri, comme a casa di noi. Cuì, il cabinetto lo fanno cullogico - campanniollo, e appetto a tutti, però, comme scompenzo, è grando e arberatto alla moda di Funtanó di Salluri. Lunicco sconvenienta disfettoso è che, si no sei già pronto a fare in fretta la tua abbisongia cropporalle, mmm....gialla fai bella, sì! Precchè, diffarto, appiattatte sotto e di sopra alli arberi, nci sono cuatte, le zanzare collude, chi ano li aghi comme cuelli di scuccire mantellaffi di crinitto o di mammola setzi. E allora, cuasi tutti, pre frozza di vollere, sono addivvenutti stintichi 87 85 Bellus tempus (co il carro abarratto, là!) pe la paura dei pungilioni acuzzi e pizziosi. Cuarcuno chi si azzarda, precchè obbrigatto di ammarolla, lo dobbiamo subbito sottosporre a frigatture cu ollio e accetto, pe abbrandare un porchettino le bullucche nauticcalli. Eccu il meravigliamento di cuesta premmissione arricchiesta dal bambinello. Ma, poicchè, però, si scontorceva di larchime, li ò detto: - Pillia la cartollina gienica appresa al fillo di ferro a ganciu e fai correndo di fretta, ca io già ti prepparo lunguento sana - nauticca, appena arrittorni. No ò fatto a tempo a vortarmi per cercare i condimmenti farmi accettici, chi ü antro bambinello mi chiede lo stesso, e poi ü antro, e ü antro ancora e, allaccabbo della storia, tutti si arzano, senza nianchi premmissi torizzattivi, e si scuinzalliano nella foresta, fatta a cabinetto pumbricco spoppollare. I bambinettini pe iscrezzo, lo avvevviano sopra annomminatto labbaia del tuono, per li arrummori trumbulliatti e scontinuatti a fromma di sconvorgimmento terremmottalle! Artro che iscrezzo era. Lampi, troni e scuttullate sfragorose accuiffere si disfondevano a Sassu e dintorni .marini. Le pattatte olleatte, spurganti a pronta ripresa, si avvvievvano fatto una addiarrea generalle. No ti dicco, mammaiccella, i gridi di doppo, di cuesti siederini sbuccatti dei pungi - leoni delle zanzare avvortoie e draccullate. Allora, io, chi era cuello unicco chi si era sarvatto dalli effetti cu latteralli, ò pilliatto pratti di ollio e accetto e li o miettutti affianco del moriccello di arrittorno della pinnetta. Mammaiccella, arriccordi cuando ano organizzatto la girata podisticca del nosto paesello a piedi, per Santu Lorenzo? In onni cantonatta miettevano robba di restaurazione riffoccillaria pe cuelli chi erano distrutti di sudore e sfatticca. Eccu, anchi cuì erano ugualli dentici. Tutti si frimmavano pe restaurare un porchettino la parte 88 86 Cara mammaicella diettrolloggica siederalle culli naria, chi si era fatta a luppie unfratte, comme i guroni di sangue ammalloratto senza sciopparsi. Ma però alla fine della disventura visceralle, tutti si erano tornatti cuntenti, precche, sinnò artro, si erano scariccatti di un penzammento chi li pesava più di due giorni. E meno malle chi, doppo di seguitto venendo i piscivvendolli di Sassu, si ano datto una bella cascitta di mughelli nuottattori di vasca accuiffera. Sollo Luisiccu, a dietta frozzatta, li ano arregallatto una scattolletta di scarpe, però piena con un gatticcello piccollo piccollo, chi ammalla pena musciavva! E cosi, anchi lui, nci avvievva il suo arregallopremmio di sconzollazzione. Ma già fu statto arregallo fortunatto, anchi cuello! Siccomme, però, siammo arriviatti cuasi alla finalle cinimascoppica, ti lassio in suspensione di sospirammento nottizziario, fino allurtima spuntatta dell’arracconto spollizziesco di Agatina Scristi, tutto sconditto di strillinghi. Mammaiccella, ti arre cu mando carda mmente, no ti fare cabare cuarche cidente allinterno, mi! Aguanta ancora un porchettino, che già no crepperai, no, si aspetti unantro brevviatto arribbo litterario arrammanzatto. E’ vero chi la curiositta è femminille, ma tu pe una vorta armeno, falla divientare maschietta, e cosi potterai carmierare la tua spassienzia. Anchio ti bandono a fretta di subbito co una parma di naso miettutta dovve vuoi. Se ti l’appiccighi bene bene, vederai che ti passerà onni svollia di sappere i pidi artrui, andando di arruga in arruga, a spibisare sfandonie crastullaria, colle artre tue cumpangie scrianzatte. Drommi perintanto! Drommi e aspetta il proximmo scuùppo letterario di tuo fillio. Fisieddu 89 87 Cara mammaicella Bellus tempus Cara mammaiccella Missiva finalle da Aborèa Cara mammaiccella, Oggi mi à sopra ingiunto un corpo di nostargia provisa e fantille chi à cattarputtato il mio stato di animo in una tommosfera di luntananzia mammiffera chi si avviccina per il proximmo arribbo del mio arrittorno nella brincocca casallinga. Tutto inciò mi fa sentire comme assimbilliante morto a Robinsonnu Croxi ou! Mammaiccèlla, mi guardo a giro e no sono più io! Mi paro un cagno arrandaggio, un garto servattico di campannia, pilliuncatto dei pelli della schiena e della coda per la mancanzia disvittamminosa di sostanzia curturo allimmentare, un gambo di arbero stenchitto, pe legno di facere a carbone. No riesco a scrivello nianchi in rommanze cuello chi provo aintro e fuori della mia arroventatta corporattura. Vorrei fare una produzzione di scritti infrennalli e spurgattorialli, ma mi ammanca la prottosi nasalle di Danto Allighiero, pe essere a odore poetticco di vino e pe sbuttare tutti i paesani salluresi nei gironi avvortollatti dei dellitti e delle pene dellartro mondo. Ah gioventudine! Ah Naturella! Pecchè mi tolli cuello chi no mi ài datto primma, faccièndomi soffriggere tanto, e mettendo a repe intallio la mia asistenzia adulterille? Pecchè nò mi dai la potte stà di fare da sollo cuello chi mi abbisongia? - Oh, biatta sollitudine! Oh, solla biattittudine - dicceva Santo Bernardino, chi camminava sempri da sollo a riccercare gente, sotto la neve dei monti arti e annevvatti delle arpi arpine. 90 88 91 89 Bellus tempus Già lo so che cràmmina no’ danno pane, ma armeno potterò castigare arridendo i mori e inventare cuarche cosa di nuovvo. Ahh, cuanto lo invidio a Lilliccu, inventore di cose tutte belle e tutte novve! A sproppòsito di Lillicu. Adesso, mammaicella, ascorta bene cuesto arto pìccollo reccontino che ti vollio arrecontare. E’ già una cosa diffizzille di capire pe tuo fìllio che nel gambo scienziattico à fatto istudi lunghi e sproffon ditti, sfiguratti pe te chi sei un porchettino abarratta indiettro comme curtura mettarsfìsicco inforrattica. Cuando siammo torratti al paeso di Musollinea, oppuro sia Aborèa, istrada numminu dicci otto, il cappo istruttore si à fatto la lizzione pe il tellefforo di scampo, ovverossìa senza fìgli ellerticci. E si à ditto comme si funzionavva di viccino e anchi di luntano. Uno, pe esempio, chistiona a Rio Ciccu di Salluri e subbito lo intendono a Rio de Giuannerio, chi si trova un porchettìno più di soppra delle bucche di Bonisfaccio, a un tiro di schioppollo di Arghero. E si à fatto una esempiazzione naturalle della nosta vitta giornalliera, chi si può cappittare a tutti di onniuno di noi: Si uno pillia un garto e li tira la punta della coda di diettro, cuello cosa tiffà? Scrammia subbito di avanti. Eppuro no nci à figli ellerticci attaccatti allaria o sterratti sotto della terra. Allo stesso è il tellefforo! Si tiri la vocce dal corniccello davvanti, cuèllo scràmmia, corrispundendo di diettro, sia diaccanta, sia puro di atteso, in luntananzia. A Luisiccu, tutto cu esto fatticcello stuzzicchiante, no li era strappazzatto neanchi nellartra origa, no! La notte, durante cuando era senza drommire e si corcollava il gatticcello chi avvievva soppra innomminato scu ettu, si rovvellavva la cerviccalle della testa per fare, anchi esso, li sperimmenti tellefforicci senza fìgli. Così, alla primma arzatta di solle, furtivammente di sos piatto, si ne esce col gattuccino scu ettu e si mette di diettro di un arbero grande, pe no si vedello nessuno. Pillia il gatt uccello tellefforicco 92 90 Cara mammaicella senza figli e lo stringe affotte affote intra i due ginocchi delle gambe. Poi, faccendosi finzione chi la testa sia larrottella pe fare la nummerazziòne sfonicca, cummenzia a fricchire i ditti soppra li occhiccini, drento le carighette nasalli e drento la bocchetta apritta dal dallore e, pe accabbare, li tira a frozza la codiccella. Tutto di un tratto il gattoncello, cuando no nci à visto dippiu dei craccammenti annummerari, si è spolliatto delle unghie a puntine di vettro, accuzze comme cortelli, e sfillandosi dalle gambe, si è affraccatto nella faccia di Luisiccu, scrammiando comme uno indimmoniatto. Gia dovvevvi vedello, mammaiccella, a Luisiccu Gulliermo Marconicco tellefforico, tutto assanguentatto è fatto, le costolle arrogatte, la preura staccatta dai pormoni, i piedi abbulluccatti dallo fari-fari sotto arenille, la corporazzione tutta spunturatta dalle aspidi e la vocce chi appena appena si sente e dicce: - Gartinello filliacco, verità che mi ài sgraffinatto a sangue, però balla, già ài scrammiatto lo stesso ammarolla, a movvenza del tellefforo senza figli! Eh, cuanto si è bello sentire un ammicco di fanzia giovannille chi riesce a scienziatto della Sippa telleforicca e cuanto si è più bello ancora a ti pottere arracontare tutte cueste storielle struttive, chi de sicuro ti faranno risare a creppa pella. Mammai, no ti sbattere di niente dalli evventi sproccellosi della nosta asistenzia, precchè fra un pocchiccello ti potterò imprassare una nuova vorta e adesso chi inciò la lingua a padrona, arrennescerò zetammente, a arraccontare da vivvo, onni artra disventura. Tù aspetta, e spira chi, a frozza di spirare, suffierai assiggeno e cuarche cosa ni arrivverà a te stessa puro. Pe intanto chi sei così, io di sospiatto ti lassio stare. Ma tu no ti rimmanere rintanatta a casa fìno al giorno dellarrivvo del tuo dismentigabile iscrittore a epistolle favollatte, comme si sfossi Sfedro ommerico. Accuzza anchi tu la tua lingua (ca già no sei 93 91 Bellus tempus cancaratta, no cuando vuoi!), e fai le predicche a tutte le case, che fra pocco si giungerà il Messiatticco della litterattura cicro pedicca e anchi Salluri avrà la nuova Cademmia della cruscolla comme incontinnente, nei tempi delle cincue giorronnatte di Millano. Mammaiccella, ascortammi bene pe il proximmo futuro della tua arberatta gennealloggica cu insanguinea: Fisieddu si è gia scritto alla Socciazzione crandestina e crabonaia smazziniana della Scampilliattura (chi sarebbe una sembrea di pressone studiatte pe fare a tutti braba e pilli), e frabbicherà anchi in Sadrinnia una più manniffica Cademmia. Ma cuesta, sarà morto drivessa di cuella della Cruscolla (arrobbetta di galline ovaiolle!). Sarà, diffàrto, una Cademmia più mellio, più sostanzialle e più sfammante, precchè la farò di sembolla e anchi grussa: la cademmia della sembolla sallurese ! Eccu, la tittollazzione pe la sentenzia dei sposteri, comme addiccevva Sandro Manzone a padre Rovvigo, cuando no volleva sposare a Luxia Arrenziana. E poi, cuesta Cademmia sarà traspottatta da tuo fìllio Fisieddu, ai covegni di frommazziòne, chi si interranno alli attrippodi del mondo: anchi al pollo nord e al circollo pollaio attricco. Dillo, pecciò, a mio zio Pallanchîu Farranco, chi saresse il tuo frattello mandrone, preccheé pianti morto granoduro (no cuello molle e a ventre bianco, chi fa sollo sfarinaccio), e lo mollini subbito, anchi girando le pietre delli asinelli, pe fare grande cuantittà di sembolla, pe cuando arribbo io. Areremmo arberi di uva a curtura pranosfericca-universalle, pe spandere alla rosea dei venti ( macchè venti, anchi trenti si è possibbille!), i semmenti ciiìlli, millittari e arrelliggiosi. Voi, alle pianticcelle allevvattelle cortivandolle, marrandolle, scrazzandolle e accozzandolle, ca già nci penzo io a pudalle a tallio furistero, dimmodo che nascia una novella scrittoria e rammanzeria poppollaresca dei tempi chi seranno comme di sempio: 94 92 Cara mammaicella bimbriotteccolle, briccicchetteccolle, civraxiotteccolle, ammaretteccolle, panino teccolle, pinna a cotteccolle, ecc.ecc. (chi saresse comme dire uno sturrido arrimmasto a mezzo). Chi, verce, no devve arrestare a mezzo sei tu, mammaiccella, donna fellicce e frottunatta. Puro voiantri di casallinga estirpazzione, sarette grandi e potterette entrare nel vasca bollario sfammoso dei Treccani (pe Lilliccu, verce, sollo dei tre garti!). Per il mommento, mettettevvi la musa arolla e stattevvi sidditti, chi no vi pillia il callappa cani e vi ranchiude nella canilliatta comunalle e saranno fammi, istenti e zicchirri di denticci. Sillenzio, dunca, e moscolla in bucca, tanto a casa già se ne cabbulle in abbudanzia. Aspettattemi, e statte approntatti a bracci arzatti pe sempre e in onni luogo che io sto vienendo! Il tuo scienziatticco spezzialle. Frimmatto (ma cuasi vienutto) Fisieddu 95 93 Dicius Bellus tempus Dicius sadrusu...seddoresusu A chi têidi atti no ddi manca patti 2) A chi têidi proccu o pudda no dd’ammanca nudda 3) A dì a dì tocca su casu 4) A fueddusu maccusu, origas sudrasa 5) A morri e a pagai nc’à sempri tempusu 6) A mussiu de cãi, piu de cãi 7) A peddi allêa corrìa lada 8) A pregontu s’arrìbada a Roma 9) A quaddu friau, sa sedda ddi pìzziada 10) A s’arriccu no dèppasta e a su poburu no imprommittasta 11) A santu Mattîu donnia mustu è bîu 12) A su toccu de s’Ave Maria, o me in dommu o in sa ia 13) Abribi, nci torra su epiri a coibi 14) Acqua e friusu, annad’e pippiusu 15) Acqua e sobi annad’e lori; acqua e bentu annada de srammentu 16) An chi dd’oidi a fumu dd’oidi a fogu 17) Anch’i oi su meri accappiausu su quaddu 18) Aria limpia no timi trõusu 19) Arrì de is carrusu furriausu 20) Arriu chi curridi no pudèscidi 1) 96 194 97 95 Bellus tempus 21) Assimbillasa a û pisittu pappendu prummõi 22) Axia cotta cu mur’e arrù, donnia cosa a su tempu su 23) Balli pru sa salludi che centu boisi 24) Boi sou no tira carru 25) Cãi becciu, fûi noba 26) Cãi zàbada e proccu pàscidi 27) Campana soba, mabi sònada 28) Chi àndada cun su zoppu impàrada a zoppiai 29) Chi àndasa a mari no agàttasa acqua 30) Chi àrada, incùngiada 31) Chi bàndada a segai concasa ndi tòrrada a conca segàda 32) Chi bivi de speranza, morridi disisperau 33) Chi càntada a mesa o a lettu o è maccu o è fettu 34) Chi cròccada cun cãi sindi pèsada carriau de puxi 35) Chi cròccada cun mrexiãi, sindi pèsada carriau de piu 36) Chi dona prangiu aspetta cena 37) Chi esti accant’e su fogu, si dd’oi callèntada 38) Chi esti iscrammentau de s’acqua buddida, timi sa frida puru 39) Chi mànda mau missu, mellus chi àndid’issu 40) Chi no arrìscada, no pìscada 41) Chi no têi cos’e fai scràffidi su cuu a is cãisi 42) Chi oi pappai piscau, si sciundi su paneri 43) Chi pàppada e allògada, donnia dì ndi ògada 44) Chi seid’a quaddu allêu, ndi càbada candu no boidi 45) Chi sèmia bentu, arregòllidi tempesta 46) Chi têi bingia, têi tingia 47) Chi têidi santusu in cotti, no timi sa motti 98 96 Dicius 48) Circhiolla di a merì, sinnialli de bella dì 49) Circhiolla di ammengiãu, sinnialli de tempu mau 50) Compra e coia in bidda tua e chi podisi in bixiãu 51) Corroxiu de mobenti no arrìbbad’a su xeu 52) Cuaddu furiosu, arringu cruzzu 53) Cummercianti de proccu...a ddu bì appusti mottu 54) Cun is Santusu e cun is maccusu no cumbenidi a giogai 55) Cun su preìdi in paxi, ma attesu 56) Cunfrommasa a su stampu su babballoti 57) De cussa linna ndi fainti is santusu 58) De mau pagadori, tirandi su chi podisi 59) De s’acqua chi si straùllada sindi tòrrada a buffai 60) De su chi timisi no ti ndi scampasa 61) Deusu si ndi campidi de su poburu avanzau 62) Donnia buncõi è nemigu de su fammi 63) Donnia mandrõi têi sotti 64) Fai bêi e bài in oramabasa 65) Fammi finzas’a coi no è fammi maba 66) Fill’e gattu topi càssada 67) Fillu de crabu, crabittu bessidi 68) Fillu pittìusu axìu pittìusu, fillu mannusu axìu mannusu 69) Giuabisi trottusu, àxia meda 70) In domm’e su ferreri schidõisi de linna 71) Mellu motta pobidda che quaddu 72) Mellusu a istrintu in logu su, che a largu in logu allêu 73) Mellusu a mi bì caghendu che a mi cagai 74) Mellusu a timi che a provai 99 97 Dicius Bellus tempus 75) Mi parrisi û proccu puntu 76) Naramì cun chi abitasa e ti nau chi sesi 77) No mi neristi biada, fìnzas’a candu no seu tudàda 78) Pagu genti, mellu festa 79) Passau su santu passàda sa festa 80) Peccau de babbu, fìllu ddu prangidi 81) Pezza niedda, brodu saboriu 82) Pillõi chi no bìccada, ha biccau 83) Po imbellì, tòccad’a sunfrì 84) Pobiddu allêu collumbu parridi 85) Preìdi, para o sodrau, mancu in su muru pintau 86) S’appretu fai curri sa beccia 87) S’è travessu che sa linna maba 88) S’uncõi prazziu, s’àngiullu si dd’oi sèidi 89) Sa brulla è pru fotti de su ferru 90) Sa dì si bidi de su mengiãu 91) Sa mariga càbada a funtã finzas’a candu no si sègada 92) Sa maxîa pru bella è sa cagàda fatt’a su mengiãu 93) Sa pressi faidi is pisitteddusu zurpusu 94) Saccu buidu no abàrrada strantaxiu 95) Su bixîu è prusu de su parenti 96) Su boi nàra corrudu a su mobenti 97) Su bonu pagadori agatta sempri sa potta abetta 98) Su cãi cùrridi a s’ossu 99) Su chi abàrrada agò, serra s’enna 100) Su chi no scidi è cumpangiu de su chi no bidi 101) Su chi sèidi a quaddu è suggett’a nd’arrui 100 98 102) Su chi sèmiada spîa no deppidi andai scruzzu 103) Su mau no têidi serradura 104) Su mobenti doppu chi dd’ungrassasa si fùrriada a su maiou 105) Su mobenti no pàppada zaffanau 106) Su mrexiãi cambia su piu ma no su viziu 107) Su tiau faidi is pingiadasa ma no is crobettorisi 108) Su topi si cùada, ma sa co si parridi 109) Su traballu de su dommigu è farra de su tiau 110) Su troppu, strùppiada 111) Tòccad’a bentuai candu sua su entu 112) Totusu is arriusu currinti a mari 113) Tra muru e cresura, fueddusu a misura 114) Tra pobiddu e mulleri no ti pongiasta mèri 115) Trigu in su saccu, saîa in su laccu 116) Trõusu medasa, acqua pagu 117) Truncu’e figu, astua’e figu 118) Tui òisi s’ou, sa pudda e s’arriabi 101 99 Bellus tempus Contisceddus Contisceddus 102 100 103 2 Bellus tempus Contisceddus Su preìdi e sa gommai Ziu Sisìnni Murrùdu (aicci ddi zerriànta po duas dèntisi chi ndi ddi essìanta ü poghèddu allonghiàdasa de is còrrusu de sa ucca), fìada ü ommi de mes’edàdi, proppietarièddu de càncüa terrixèdda a bingia, obìasa e a mattixèddasa de frutta. Donnia tanti accostummàda a nci essì a su sattu cun su fusìlli a coddu, a fai ü girixèddu, naràda ìssu, po pigai aria bona. Üa dì, po fottüa sua, càssada dexiòttu sturrus pintus e, cuntèntu che ü pùxi, tòrrada a domu, e ddi nàrada a sa pobìdda Ludovìcca: - Pobìdda mia, castia cantu pillõisi appu cassàu oi. Incàppasa, giai chi no dd’eu fattu mai, invitàusu a cèna a goppai su preìdi. Tanti, funti dexiòttu e ndi spèttada sesi a donniü. - Ei ei, ddi nara sa pobìdda, invitàddu puru! Sùbitu ziu Sisìnni bàndada a domu de su goppai arrattòri, e ddu invìttada a cenai. Deppèisi scì ca sa pobìdda de Sisìnni, fèmmia fracòngia e faidòsa cantu nd’esìstidi, tenia però su vizziu de pappaccìna ü poghèddu ingordiggiòsa e di aicci, dòppu chi à bëi bëi cottu is pillonèddus de tàcculla, ponendìddusu me in sa cassaròlla de terracòtta cun sa mutta, non si ndi trattëidi e ndi spattìlliada in d’ü patterefilliu tresi tott’a ü otta. - Ma, - nàra castièndu is àtrasa abarràdas, - funti quìndixi, divìdiasa in tresi fàinti cinqu a donniü. Incàppasa dd’i tastu cancü’antra. E aicci sighèndu, contèndu e dividèndu, dd’accàbbada chi de pillõisi de tàccula nd’abàrrada scetti tresi. 104 102 Candu s’accàttada ca orammài su sciaccu chi à fattu è meda mannu e pagu arrimmediàbbili, pensa tra si: - E immui cummènti fàzzu a invitài a cenai a goppai su preìdi, cun tres pillonèddusu scetti? Ah...ma si dda imbèntu deu üa de cussas bèllasa a goppài, candu bëidi! De ingüi a pagu, eccu arribbàu s’arrattòri totu prexiàu e cuntèntu, giai pensèndu a su pastu chi dd’aspettàda. Ma candu a mabapèna ia salludàu a gommai Ludovìcca, eccu chi custa s’accòstada accànta e ddi nàrada totu avabottàda: - Goppài, goppài arrattòri, gei tëidi bèllasa intenziõisi òi pobìddu miu! À nau ca doppu chi ddi fai pappai is pillonèddus, ndi ddi sègada tott’e is dùasa is orìgasa. - Mabagràbiu fàzzada cun pillõis’e totu! Chi si ndi sèghidi issu cancü’àtra cosa e bàndidi in mabòra! E si dd’ònad’a curri me in sa ia aicci drabèssi, ma aicci drabèssi, ca is peisi ddi lompìanta a nàdiasa. In sù mèntrisi, ziu Sisìnni, fischiètta fischiètta, mùccada a domu e faidi a sa pobìdda: - Pronta sa xëa, Ludovìcca? - E pronta gei fiada, e bëi preparàda puru, - ddi torra cussa, - ma è benìu goppai, nd’à liau tòtusu is pillõisi e s’è fùiu. Ddu bisì, là, ch’è currèndu cummènt’e ü maccu me in sa ia! - Su santu chi dd’à criau, fatt’a preìdi! Aìcci si põidi a furai puru! Lassa ca immüi si ndì ddus fazzu torrai deu maccai de cròppusu is pillonèddus mìusu! A calli patti est’andau? - Ai cussa, là, ddu bisi? E Ziu Sisìnni, a gottèddu in mãusu, inchièttu che ü sribõi, cùrridi a su preìdi e donnia tanti izzerriàda: - Assummànc’üa, assummànc’üa! Cussu pobirìttu de preìdi, credèndu chi fèssidi assummanc’üa di orìga, currìada sempri de prusu, cuttu de Ziu Sisìnni chi obìada assummàncu ü pillonèddu de tàcculla. Sa pobìdda, in su mèntrisi chi is dusu si currìanta pari pari senza de si scumpõi po nudda, si tòrrad’a sei a mesa e s’accàbbad’e pappai 105 103 Bellus tempus is atras tres tàccullasa. E di aicci, Sisìnni cun su goppai, po su bribantèsimu de üa fèmmîa, funti abarràusu che Annìcca chen’e cadìra, diggiùnusu e inchièttusu a su contràriu de Ludovìcca prexiàda e a brenti bëi prèna! Gei no fàddidi su dicciu antìgu: Sa femmîa ndi scidi üa pru de su tiau! Contisceddus Is tres fràdisi Custu contu de Is tres fràdisi, ascuttàu tanti òtasa de sa bucca di aiàia, ancòra in dì di oi, maccai s’edàdi si sia fatta mattucchèdda, à lassau in sa conca mia üa spezzia de dubbiu, diffìzzilli a si ndi scancellài de s’arregòdu. Mi domandu sempri: ad’essi beridàdi sa storièdda aicci antìga oppuru cosa imbentàda de sa genti de cussus tèmpusu, prena de timmorìasa e imprenniàdasa de credullènziasa, chi attrivìada a donnia callidàdi de tiàusu, brusciasa o pantàsimasa, s’arricchèsa o sa poberèsa chi arribbàda in d’ü nudda o cùssasa mabadìasa o sanadùrasa chi nisciùnusu arrennescìada a cumprendi? A nai su chi oi deu penzu, creu ca me in mesu de totus cussas còsasa ü poghèddu morigadasa de ü’aiàia a s’atra, cancu spizzuèddu de beridadi accostummèssidi a ddoi essi. Aiàia mia, naturarmenti, no tenia nisciùnu dubbiu. Totusu is contixeddusu chi si fadìada ascutai, fìanta, segund’issa, fàttusu suzzèdiusu diadèrusu, e nosu, nozzèntisi, nci credeiàusu fìnzasa a s’ùttimu fueddu. M’arregòdu, candu s’ierru cummenzàda a fai intendi is aràxisi frìdasa e pizziòsasa de su bentu estu chi ndi cabàda de is montisi de Biddexìdru, e su merì si fadìada sempri pru cruzzu, mamma ndi muccàd’a coxîa cun d’üa scatèdda de numànnu de fa, alluìada su fogu, e sùbitu tòtusu a si sei a giru a giru de sa stufa, accànta accànta de aiàia, giai assettiàda cun su scannixèddu de linna , affundàu sempri 106 104 107 105 Bellus tempus a nou. E di aicci cummenzànta is còntusu de forrèdda. Unu de is pru bellusu fia propiu custu de Is tres fradisi. - Tanti, ma tanti tempus faidi - cummenzàda aiàia, – me in Seddori, in logu assobàu chi si narada Muntarràsu, tres fràdisi, òrfanusu de babbu e de mamma, tenìanta ü arroghèddu de terra cun d’ü scantu màttasa de obia e üa parìga de fiòbasa di axia de pappai. Candu su tèmpusu ddu premmittìada, ponianta me in sa bettua su froxèddu de s’acqua, üa tacchixèdda de pãi tostaiòngiu e cancü’ otta ü arroghèddu de casu mesu stantissàu e nci azziànta a su territorièddu de su monti. Ü merì, sudàusu e fadiàusu po sa pudadùra de is màttasa de s’obia, biu ca s’ora si fia fatta trada e ca s’incràsi puru deppìanta sighì a traballài ingüi e totu, dezzìdinti de xenai in su sattu e de si croccai in sa barracchèdda de canna, fatta proppiu po s’abbisòngiu. Stèrrinti ü chirriòu de xillõi e ndi bòganta s’arrèstu de prandi. In su mèntrisi, su fradi pru giòvunu piga su froxèddu oramài buidu, e bàndada a ddu torrai a prëi a sa funtã chi fìada ingüi accanta. - Depèisi iscì - naràda aiàia - ca cussa funtã fia nommenàda meda me in s’antigòriu po s’acqua sempri limpia e frisca, ma in patticullàri po cettus fàttusu ü poddixèddu misteriòsusu, passausu a sa storia de is leggèndasa sedorresasa e contausu in donnia famillia. Dùncasa, torrèndu a su contu de Is tres fràdisi, su pru giovunèddu, s’accòstada a sa funtã miracullosa, piga sa craccìda appiccàda a sa tallòra e in mesu de is zicchìrriusu de s’arròda arrüiàda, nci dda làssada andai fìnzasa a fundu po dda prëi di acqua. Candu, però, cìccada de nd’idda pesài a susu, intèndidi cummènt’e üa spezzia de frozza chi no ddi lassa tirai sa füi. Pròvada a puntai is peisi me in sa costa de sa funtã, po fai prus appoggiu siguru e cìccada ancòra de tirai sa füi de sa craccìda. Ma su pesu est’aicci mannu chi sa craccìda mancu si mòvidi de su fundu. Biu ca non d’accammìngia nudda issu a sou, lassa sa füi accappiàda a su ferru de sa tallora e curridi a sa barràcca totu assustràu. Torrau 108 106 Contisceddus suidu pagu pagu, conta su chi ddi fia suzzèdiu a is dus fràdisi chi fianta giai pròntusu a cenai. E maccai no ddu crèttanta meda meda, dezzìdinti, comunque, tot’e is tresi impari, de torrai a sa funtã, po bi cun is ògusu insoru ita fia capitàu diadèrusu. Su prus anziànu e pru forzùdu puru piga sa füi e fai po tirai a susu sa craccìda, ma custa a mabapèna si movi de su fundu. Prova su segùndu, ma is còsasa càmbianta pagu o nudda. A sa fini dezzìdinti de tirai tot’e is tresi impari e, a frozza de provai in tanti manèrasa, cun suìdusu lòngusu e cun su sudori chi còbada a terra che arriu in tèmpusu de ierru, nci arrennèscinti a ndi dda pesai a pàrisi de sa costera. Ma ita ddi si scumpàrridi ananti de is ogusu sprappaddàusu, in cussa notti de luna prena? Aintru de sa craccìda, in logu de s’aqua frisca, ddoi fìanta abbrazzàdasa a pari, a strintu a strintu, tres beccittèddasa, cun is pìusu biàncusu lòngusu fìnzasa a metàdi de is pàbasa, sdentàdasa e cun sa facci marrìda, ma diaìcci marrìda chi ddas fadìada assimbillài prusu a tres cògasa chi no a genti de custu mundu. Is fràdisi, mesu sciolloccàusu de sa cosa chi ddis parìada ü bisu, si càstianta a pari e prënusu de timorìa in su momèntu no scinti ita fai. Sa primu impunnàda chi bëidi a conca è cussa de nci ddas torrai a ghettai a funtã senza de nisciùna piedadi. Ma proppiu candu cummènzanta a lassai andai sa füi, eccu chi a simprovvisu de sa bucca de una de is tres beccittèddasa, ndi èssidi ü fiu de boxi, chi assimbillà prusu a su lamèntu de ü pisittu mobadiòngiu che a su fueddu de cristiànu. - Bonus picciòccusu – nara sa femmîa chi a s’apparenza parria prus anziana, – si domandu una grazia: fadeisì torrai a su mundu de is biusu, ca po troppu tèmpusu eus biviu me in cussu friusu de su fundàbi de sa funtã. Donaisì acculliènzia me in sa barràcca callenti 109 107 Bellus tempus e offreisì ü mussièddu de pãi, puru chi sia tostau! Sa ricumpènza, a modu nostu, ad’essi sigùra e bëi aggradèssia. Maccai cun su coru ü poghèddu trumbullàu, is tres fràdisi, giovunèddusu ma de grandu bonu coru, accumpàngianta is tres femmièddasa a sa barràcca e dividendu sa pòbera xëa fatta de is arrèstusu de su prangiu, dònanta a pappai a cussas òspitisi pagu connòttasa e improvvisàdasa. Duranti sa xëa nisciùnu boga mesu fueddu. Arribba, però, su momentu de si separài e is tres femmîèddasa, prima de torrai gràziasa a cussus bravus picciòccusu e de ddus salludài cun su teneisì a contu, lassanta sa ricunpenza promittia. - Seisi stèttiusu bravus fìllusu a bolli accùlli me in sa barracca di osàtrusu tres beccittèddasa mai bìdasa e mai connòttasa, lèggiasa de fai a timi fìnzasa a su tiau; seisi stèttiusu ancora pru bràvusu e de bonu coru a bolli divìdi su pagu de pãi e ingaungiu cun genti cumment’e nosu. Dùncasa, sa promissa chi eu fattu in su momèntu chi s’eisi liberau de sa cundànna de s’aqua, bàndada mantènnia. Ascutài attèntusu su chi si lassàusu prima de si ndi andai e de sparèssi de custu logu chi, a cummenzai de sa dì di oi, ad’essi sempri nommenàu su monti de sa funtã miracullosa. Immui, accostaisì tòtusu accànta nosta e donai bëi attenziõi a su chi si naràusu: - A tui - nara sa primu coga (o fata?), - a tui, ca sesi su pru mannu de is tres fràdisi, t’arregàllu custa tialla bianca. Donni’otta chi as a bolli pappai assou, impàri cun is fràdisi o in cumpangìa di amìgusu, no deppi fai atru che dda sbatti tres bòttasa a s’aria e dda stendi me in terra. Asub’e cussa, subitu, ad a cumpàrri donnia bëi de Deusu! - A tui, invèciasa, - sentènziada sa segunda coga – a tui, ca se’ nasciu segundu cumment’e mei – t’arregàllu custu pottafòlliu. Donni’ otta chi dd’as appèrri, ddoi as’agatài tòttu su dinai chi ü ommini podi disigiài me in sa vida - . Arrìbba s’ora de sa recumpènza a su fradi prus pittiu e, cust’otta, 110 108 Contisceddus tòccada a sa coga chi pàrridi, a s’ogu, prus pagu anziàna e ü pogheddu prus bellixèdda de is atras sòrrisi. - A tui, ca sesi ancòra picciocchèddu e, dùncasa, pottau po su giogu, ti onu, de vera ammìga, custu suittu de canna. Custa launedda, pittia e dillicada, no ad a srebì scetti a tui, ma ad’essi de bona fortuna po is chi dd’anta sonai e is chi dd’ant’ascuttài. Bai, giovunèddu, deu no tengiu de mèllusu de t’arregallài, ma asa bì ca custu donu, fattu cun ammòri, t’ad’a rendi srevìzziusu prus bèllusu e prusu importàntisi de cùssusu chi ant’a rendi a fradis tusu su pottafòlliu e sa tialla. No iada accabbàu de sentenziài custas prommìssasa, ca a s’improvvìsu is tres beccittèddasa sparessinti de su monti e làssanta me in su spantu pru mannu is tres fràdisi de bonu coru ma fottunàusu. No tenèndu prusu abbisòngiu de traballài, mèrisi oramài de cùssusu arregàllusu miracullòsusus, is tres fràdisi si ònanta a girai pe is bìddasa de totu sa Sardìnnia, pappèndu, buffèndu, fadèndu festa a donni’ora e baddèndu a su sõu de su suittu de canna de su fradixèddu pittiu. De bonus giòvunus chi fìanta, poi, in donnia patti chi ponìanta pei, no fadìanta atru che donai a sa genti abbisongiòsa dinai e cosa de pappai, lassèndu appàbasa de ìssusu arrastu de generosidadi e de beneficienzia. Custu fai de bonu coru, chi ddus pottàda a essi bëi òffiusu de sa genti de totu su circondàriu, bëi però a s’orìga de ü preìdi gellòsu e prepotènti. Custu, senz’e nci penzai duas òttasa, òrdinada a is tres fràdisi de no torrai mai prusu a fai cussus trestammèngiusu miracullòsusu, pena sa cresiàstica scommùniga o su presõi a vida. Is tres fràdisi, naturarmènti, a cust’òrdini de su preìdi, si pointi arrì, puetta ca scidìanta bëi su podèri de is arregàllusu miracullòsusu, invisìbillisi a totusu, ma nou ai cùssusu chi ddus pussidìanta. Dùncasa no tenìanta nudda de timi. Ma su preìdi, sempri pru prepotènti, ghetta sa scommùniga de s’artàri a is tres fràdisi, credendu, in custu modu, 111 109 Bellus tempus de dd’is ponni timoria de is vangèllusu. Cummenti intendi di aicci, su meri de su suittu no faid’atru che si ponni a sonai me in prazz’e cresia. Su sõu, chi tenia su poderi de fai baddai totus cussus chi ascuttànta sa musica, obbrigàda, a s’improvvìsu, a sattai che crabu mediu, proppiu a su preìdi maccai chen’e gana. Biendu cussu spettàcullu macchillòtu e senz’e frëusu cuncodràu de s’arrettòri, cummènzada a s’arrolliài üa grandu cantidàdi de genti me in su spiazzu de sa cresia, e tòtusu, cantu prusu ascuttànta su sõu de suittu, tanti prusu sattànta e zerriànta e, bolli o no bolli, nisciùnusu nc’arrennescìada a si frimmai. In pagus tempusu, totu sa bia de cresia si prëidi de genti ammacchiàda e cunvusionàda, e no s’ntèndidi atru che pràntusu e pregadorìasa a su sonadòri, chi accàbidi custu trumèntu. Ma su giovunèddu si spassia sempri de prusu, biendu baddai su preìdi, grassu e tundu cumment’e üa carradèdda de xentu. E diaìcci su spassiu sìghidi fìnzasa a candu no ddu bidi arrùttu a terra cummènti de ü saccu de patàtasa e svenniu de su sfinimèntu. Ma, dopu totu custu budrèllu cuncodrau contras’a su preìdi prepotenti, biu s’arresurtàu pagu praxìbi po s’atra genti puru, a is tre fràdisi, castiàusu unu pogheddu a cu di ogu, no abàrrada atra cosa de fai che si fuì de bidda. Is pobiritusu chi ìanta deppiu baddai ammaròlla, però, ddus cùrrinti avatu, ddus càssanta e, accappiausu cun d’üa bella füi, nci ddusu ghèttanta in su fundu de sa turri de su casteddu. Ma ingüi in basciu puru, dì e notti, no fadìanta atru che si spassiài, sonèndu, baddèndu e pappèndu in grandu abbudanzia, no sceti cun is is presonèrisi, ma cun tòtusu is guàdrias puru. Po custu motivu su dibattimentu bëi fattu allestru e, cundannàusu a motti, dopu pagus disi funti pottàusu a s’mpìccu. Sa genti, po bì su spettàcullu, arrìbada a milliàiasa; ü frummi de crosidadòsusu, benìusu de onnia bidda accànta e fìnzasa de cùssasa prus attèsu, pronta a si gosai su momèntu de bì sa motti de is tres 112 110 Contisceddus fràdisi arrambullèrisi, chi tòtusu, oramài, cunsiderànta nudd’atru che tiàusu. Arrìba su momèntu fatalli, ma proppiu in su puntu de tirai sa codrèdda allosingiàda a nou, su fradi mannu domàndada a su giùdici presènti a sa zerimònia mottàlli, de podi ottenni, a nomi de is atrus dus fradis puru, s’ùttima grazia prima de morri. E sigumenti a su cundannàu a motti, custa no si nega mai, (a patti sa vida!), is tres fradisi ottëinti totu su chi domàndanta. Su primu domàndada de podi offèrri a tòtusu is presèntisi, cumprèndiusu i giùdicisi de sa cumpangìa de motti, ü bellu prangiu, arrìccu de onnia arràzza de mandiàrisi, fàttusu de pezza , de pisci, de drùcisi e de frutta. Sa proposta de su primu fradi, mancu nau siat’essi, bëidi accùllia, de cussa sciumàna de genti, cun izzèrriusu de prexiu e de cuntentèsa. Su cundannàu, aicci biendu, in d’unu patterefìlliu scutùlla sa tialla me in aria po tres bòttasa e poi dda stèrridi me in terra. In d’ü nudda, asub’e custa mesa, manna cantu totu sa prazza de sa cresia, cumpàrrinti còsasa de pappai di onnia callidàdi in cantidàdi mai bida de is ògusu de cussa genti, e poi su biü nieddu e biancu a damingiànas prenasa, tanti de podi accuntentài assummàncu centu milla pressònasa. Sa genti pàppada e bùffada senz’e torràda, e prus pàppada e bùffada e prus còsasa bèllasa cumparrìanta anant’e is ògusu allampaiàusu de totu su biü sgrangarrozzàu a bruncu e senz’e ritènniu. A sa fini, tòtusu , sodràusu, giùdicisi, popollaziõi, crannazzèrisi e preìdi, barraccollèndu cumment’e badrùffasa, s’agàtanta imbriàgusu e sazzàusu fìnzasa a ògusu, axebiàusu de su stantonamèntu. E di fattu, candu su segundu fradi fai sa propòsta de arregallài dinai in grandu cantidàdi a tòtusu is presèntisi, nisciùnusu si oppõidi. Abéttu su pottafòlliu miracullòsu, su segundu cundannàu a motti, cummènzada a spraxi me in aria marèngusu di oru fìnzasa a candu totu sa prazza de cresia non bessi crobètta de dinai. 113 111 Bellus tempus Cussa genti, maccai totu arrambullonadura e a càmbasa arrammoddàdasa de sa imbriaghèra, si ghèttada a pari me in terra, spantàda de cussa maravìllia mai bida me in sa vida insòru. Ma proppiu candu sa cunfusiõi si fia fatta pru manna, su fradi pittiu, domàndada de podi sonai su suitèddu de canna. Sa genti e i giùdicisi, oramài fora de xrobèddu, penzendu di ottenni cancu antru benefiziu, no nci pènzanta dua botasa a ddi onai su premmìssu po sonai su strumentèddu màggicu. Su picciocchèddu, strantàxiu asub’e su intabàu de s’impìccu, si põidi a sonai e subitu sa genti imbriàga, impari cun is giùdicisi, is sodràusu, su preìdi e i bòiasa, si ònanta a baddai cumment’e màccusu, spingendusì s’unu cun s’atru, pistendusì e accraccaxendusì disisperausu. E in cust’inferru de cunvusiõi generalli, chi nci arrùidi a terra, chini svènidi toccau de su mabacadùccu arcòllicu, chi ddoi abbàrrada ammattroxiàu e alliagàu de is trìncusu a conca, e , in mesu de totu cussa scutullàda furiòsa, cancunu ddoi lassa puru sa peddi. E proppiu in mesu de custa cunfusiõi de disisperàusu, is tres fràdisi cundannàusu a s’impìccu, nc’arrennèscinti a sindi scappiai de is füisi e scoitta scoitta si fùinti attèsu de cussa bidda, pottendusì avàtu is arregàllus miracullòsusu. Su pru prexiau de is tresi, però, fia su fradixèddu pittiu ca ia pozziu sperimentài a prëu su chi dd’ia nau sa coga prus giòvuna: - Custu suitèddu maccai pàrrada ü gioghìtu, chi esti scipiu usai in s’ora giusta, ad essi prus ùtilli de sa tialla e de su pottafòlliu. E proppiu di aicci esti stau. 114 112 Contisceddus Si còntada ca in d’ü muntronàxiu de üa domu de campànnia, nci fìada üa pùdda chi sciorrònciua sciorrònciua, me in mesu de su lodami iad’aghettàu ü soddixèddu di oru. In su stessu mommèntu est’arribbàu su cabõi, chi à biu totu su trestammèngiu, e rivòrgiu a sa puddastèdda, ddi nàrada: - O gommài puddixèdda, it’eisi aghettàu ingüi asùtta?” - ü soddu di oru - ddi fai totu pompòsa cussa. - Andàusu a sa festa! - ddi torra su cabõi. - E puetta no? Andàusu!- e s’incammìnanta me in sa ia. Andèndu andèndu si faint’a pari cun d’ü proccu chi scricchiobàda làndiri a cantu podìada: - Oh, gommài pudda, e ita tenèisi, ca si biu aicci prexiàda? - App’agattàu ü soddixèddu di oru e sèusu andèndu a si spassìai a sa festa. - E mi obèisi a mei puru? - Zettu ca ti obèusu. Ahiò! - ddi fài sa pùdda. E di aicci, cun sa cumpangìa chi s’ingrùssa sempri de prusu, sìghinti, canta che ti canta, a s’accostài a su logu de sa festa. Ma eccu, a s’improvvìsu, paràusu anànti, ü burrìccu mannu e sanzèru e ü cãi de cassa. - E a innui toccàisi, aicci prexiàda e in grandu cumpangìa, gom mài puddastèdda? - ddi fàinti i dusu. - A sa festa, po spendi ü soddu di oru chi app’agattàu! - E puetta no pottàisi a nosu puru? - Ma zettu ca si pottàusu a 115 113 Bellus tempus osàtrus puru. Ahiò, ahiò a si spassiài! Su cammìnu, tra croccobàdasa, arràlliusu de burrìccu e izzàbidus de cãi e càntidus de cabõi cun bòxisi de proccu, arrìbbada giai a sa fìni candu, de su xeu limpiu e asullettàu ndi càbada üa bella cadrallîa, asrubiettèndu che ü suittu de canna. - E a innui seis’andèndu tòtusu impàri - fai cun boxixèdda educàda, sa cadrallîa. - Seus de grandu festa, - dd’arrespùndidi cun boxi de tronu de fai a timi, su proccu. - Bëi tui puru, aicci sa cumpangìa si fai cumprèta! E senza de pònni atrus fuèddusu, sa cadrallîa sighi su bòbidu cun is cumpàngiusu de fottüa. Ma sa carovàna fìa destinàda a si fài pru manna. Di fattu, proppiu a s’intràda de su corràzzu de sa festa, giràda scoìtta scoìtta ü mrexiãi cun sa co’ grussa e arrubiàsta. - Dd’oi bì - nàrada cun d’ü fai de bribànti, prontu a nd’aproffitài de sa bonèsa de is àtrusu, - ca seisi andèndu a sa festa po spendi cancü soddixèddu in cosa de pappai e de buffai? - Proppiu di aicci - ddi faidi azzùda e arrodiànti sa pùdda - e sigummènti oi sèusu tòtusu de bonu coru, arregollèusu a tui puru.” E s’incammìnanta a su corràzzu de sa festa, ma candu fìanta accànta de is paràdasa, su mrexiãi fàidi üa propòsta: - Immui andàusu a bì a pobìdda mia: si dda fazzu cannòsci, - sìghidi cun aria de nozzènti, - puètta ca seisi amìgus mìusu. - Sì, sì, - fàinti tòtusu impàri. - Andàusu! E nci ddus pòttada a domu sua. Doppu chi nci funti muccàusu tòtusu a sa tana, su mrexiãi sèrrada bëi bëi appàbasa su stampu de intràda e sùbitu faid’a cumprèndi su chi pottàd’in conca . Po primma càstiada arrì-arrì a sa pudda e ddi nàrada: - Immui, po cumenzài pru bëi sa festa de su soddixèddu, po primma tòccad’a fustei, gommai puddixèdda. A mei pràxidi sa pittùrra, a Pullighìtta, pobìdda mìa, is costixèddasa e a fillu miu sa conca po ciucciài. Poi, 116 114 Contisceddus ad’ a toccai a tòtusu osàtrusu chi seisi innoi aintru. Sa cadrallîa, candu intèndidi a su mrexiãi narèndu custas còsasa, ita faidi po ciccai de si sravai de sa motti oramài sigùra? Senz’e nci penzai meda meda, ddi nàrada a su mrexãi: - Prova appèrri sa ucca, bellu mrexiãi, aicci deu, de su mommèntu chi deppu morri mazziàu de is dentis tùasa, nci mùccu derettu e intèru a brenti tua. Su mrexiãi, totu cuntèntu de custa propòsta, appèrridi sùbitu is cantrèxiusu e sa cadrallîa, svèrta ddu càgada a bucca. Pigau a sa sprovvìsta de su sabòri e de su fragu mau, su mrexiãi, a vòmbitus de ndi fai torrai s’anima, s’accancarrònada a izzèrriusu, me in terra e si ndi scarèscidi de is presonèrisi chi si deppìa pappai. Sa cadrallîa nd’approffìtada sùbitu e, agattàu ü stampixèddu po nci essì a fòrasa, izzèrriada aggiùdu po ndi ogai is atrus cumpàngiusu abarràusu aìntru. Ddoi fìada ingüi accànta ü quaddu pascèndu tranquìllu chi prontu a sa domànda de sa cadrallîa, accùrri sùbitu e cun sa frozza chi tenìada, no abàrra meda a nci sfundai sa tuppadùra. E di aicci, cun su prexiu me in su coru, tòtusu impàri, sìghint’andai a sa festa fadèndu sciallu mannu. Su mrexiãi, invècciasa, fìad’abarràu cùn d’ü prammu de nàsu, fraghèndu e tastèndu ü drucci chi fìa pagu saborìu. E diaìcci, medi òtasa, su bribantèsimu pagu onèstu, bëi superàu de sa bundàdi e su coràggiu. 117 115 Bellus tempus Contisceddus Su goppai Custa storièdda chi si contu, fuèddada de ü ommi pòburu in canna, de nòmm Bissènti, chi s’esti sposau e à cumenzàu a fai fìllusu a scattèddasa. A ü’ certu puntu, sa famìllia si faidi aicci nummeròsa ca non c’arrennèsci prùsu mancu a agattài goppàisi de battìsimu. Üa bella dì, senz’e nimmàncu dd’olli, ddi nàscidi ü antru pippiu. - Immui, nàra tra sè su pobirìtu, - po aghettài goppai, mi tòccad’a nci essì a fòrasa de bidda: tanti, me in noi nisciùnus prusu è dispòstu a battiài ü fìllu miu. E di aicci, puru de malagàna, si põidi in cammìnu e bàndada a sa bidda accànta. Ma durànti sa camminàda, incòntrada ü ommi pe istràda chi ddu frìmmada e ddi domàndada: -A innui seisi andèndu, bon’ommi! -Eh, - ddi fai de torrada Bissenti, - Seu andèndu a mi ciccai ü goppai de battìsimu, ca in bidda non d’appu pozziu aghettài. - Mi oisi a mei? - ddi fai su viandànti . - E tui chi sesi?” - Deu seu Gesù Cristu! - Nou, no ti ollu. - E po calli motìvu no mi oisi, - domànda Gesù Cristu. - Puètta ca Tui non faisi is cosas giùstasa. E aìcci narèndu, sìghidi a camminài derèttu. A üa certa distànza, però, incòntrada ü antr’ommi, mai biu e mai connòttu, chi ddi 118 116 domàndada: - E a innui seisi andèndu, bon’ommi? - E di aicci e di aicci, caru viandanti. M’è nasciu ü antru fìllu e seu andendu a mi ciccai ü goppài de battìsimu, ca me in bidda mia nisciùnus prusu mi fài custu prexei. Sùbitu s’atru: - M’iad’a bolli a mimmi? - E chi ses tui? - Dèu seu sa motti. - Ah balla, a tui gei ti ollu, puetta ca faisi is cosas giùstasa. E di aicci si põinti di accòrdiu, tòrranta a domu e bàttianta su pippiu. Sa motti, pòi, biu ca iad’aghettàu crienti nou, pò si fai ancòra prus stimmàda de su goppai, dd’aggiùdada a si procurài tanti ma tanti terras e dinai a muttõisi, ca me in bidda sua Bissènti su pòburu divèntada a s’improvvìsu s’arrìccu prus nodiu. Su tèmpusu pàssada allèstru, in mesu de s’abbudànzia e de is prexèisi de sa vìda, ma üa bella dì sa pobìdda de Bissènti intèndidi ü toccu a sa potta di ommu. S’affàcciada e chi ddoi esti parau anànti de su minàxi de s’enna? Ddoi è proppiu su goppai de battìsimu de s’ùttimu fìllu: sa motti. - E goppai non c’esti ? - fai sa motti. - Nossi, - arrespùndidi sùbitu sa mullèri; - ma fustèi e ita iad’a bolli de pobìddu miu? - Umm, pagu cosa o nudda, gommài: seu benìu scetti po ndi ddu liai. - Po ndi ddu liai, à nau? E ndi ddu oi liai proppiu immüi ca stadèusu aicci bëi? - Eh, gommài mia bella, deu fazzu sempri is cosas giùstasa e dùncasa ndi ddu deppu liai per forza. Nerissìddu a goppài ca gei app’a torrai talli dì e a tall’ora. - Sissi sissi, goppài, fàzzada cummènt’oidi. Torrau su pobìddu, sa mullèri ddi conta totu su chi è suzzèdiu e 119 117 Bellus tempus ddi nara pùru ca sa motti, in talli dì e a tall’ora, ad’a bëi a ndi ddu liai. - Ih, arrazz’e cosa bella puru, - fai Bissanti, - immui ca stau bëi e ca mi seu fàttu üa bella propiedàdi, immui oidi sciusciài totu su chi eus fattu e mi ndi oi liai. E proppiu a mei chi dd’appu scioberau po goppai! A custu puntu sa pobìdda, credendusìdda prù bribànta de sa motti, ddi nàrada: - Càstia, fadeus di aicci; deu, sa dì chi bëi sa motti, ti serru in d’üa cascia de linna tostàda e, candu cìccada de tui, ddi nau ca non ci sesi. Sa dì chi deppìa torrai sa motti, nci dd’à ghettàu aintru de üa bella cascia fatta de linn’e castàngia e dd’à serràda bëi bëi a istrìntu, cun füisi grùssasa e obìbisi lòngusu. A üa cert’ora, eccu sa motti arribbàda! - E goppai non c’è ? - domàndada a sa mullèri de Bissènti. - Nossi, esti andau a su sattu, e no sciu mancu s’ora chi ad’ a deppi torrai. -Ah no ddi fai nudda, arrespùndidi sa motti. Custa è sa màncu cosa. E, senz’e ddi acciùngi ü antru fueddu, si ndi àndada. Appèna sinc’èsti stesiàda ü poghèddu, sa pobìdda de Bissènti, abèrri debrèssi sa cascia, ma calli è sa sopprèsa! Su pobìddu è giai mottu e pòttada ü cartèllu mannu me in su zugu: sa motti fai sempri is cosas giustasa. 120 118 Contisceddus Su serpenti e su pastori Me in su sattu de Seddòri, prëu di erba frisca e de mìtzasa di acqua pullìda, iada aghettàu arricòveru tranquìllu, ü bravu pastorèddu, giòvunu, traballànti e sempri prontu a sa generosidàdi. Üa dì, accumpangèndu is brabèisi me is tèrrasa bìdrisi di erba appèna spuntàda, intèndidi custa boxi prantuèna: - A innoi, a innoi! Su pastori, pigau ü poghèdd’a sa sprovvìsta de cussa boxi stramba e mai connòtta, maccai timi timi, po crosidàdi si ddòi accòstada accànta, e tòrrad’a intèndi: - Bogamìndi de innoi, bogamìndi! Chi mi faisi custu prexei às’a bì cantu bëisi nd’às’a tènni me in sa vida tua! Bogamìndi, po prexei! E diaicci po tre bòtasa. Su pastorèddu, cummòviu de cùstu pràntu chi fadìa piedàdi, si fai cunvìnci a nd’azziài üa pedra manna e grai che ü trõu, chi tenìada impresonàu su pòbirittèddu chi domandàda aggiùdu. Candu, cun d’ü sforzu fora de contu nc’arrennèscidi a spostai appènasa-appènasa cussu pesu chi dd’arrecraccàda in terra, de asùtta ndi èssidi ü serpènti grussu e longu, cun sa bucca obètta, prontu a ndi ddu divorài. E s’idea fìa proppiu cussa: - Tì ndi pappu, ti ndi pappu. - naràda a su pòburu pastòri, giài moribùndu e cun is cambas a tremuîa. - Ma cummènti ? - ddi fai su pastorèddu cùn d’ü fìu de boxi, - m’à nau ca iadèssi ü grandu bëi po mimmi, chi t’indèssi bogau de asùtta 121 119 Bellus tempus de sa pedra, e immui mi oisi divorài biu e bonu. Aspètta assummàncu ca domandàusu su parèri a chi si ndi intèndidi diadèrusu; càstia là!, me ingüi in basciu funti pascèndu ü quaddu e ü burrìccu. Su pastori e su serpènti s’accòstanta po primu a su quaddu e ddi fàinti custa domànda: - Naramì quaddu miu e ascùtta chi seu fueddèndu bëi o mabi. Custu serpènti m’adi zerriàu po ndi ddu bogai de asùtt’e üa pedra manna, promittendumì grandu bëisi po sa vida mia. Deu appu ascuttàu su lamèntu e ndi dd’appu sarvau, e immui cussu mi ndi oi pappai cun sa bucca manna chi pòttada e chi adi giai abéttu. - Ti ndi pappu...ti ndi pappu, - arripettìa su serpènti, sempri prùsu infuriàu de su fàmmi. - No, nu ànda bëi, - sentènzia su quaddu, - no banda bëi po nudda, Deu gei ddu sciu ca sa ricumpènsa de su mundu nu è mai ni bella nì giusta e meda bòttasa no bëidi arrispettàda mancu sa vida. Càstia a mei, scavuàu me innoi doppu tant’ànnusu de trabàllu! - Ddu bisi, ddu bisi, - nara prontu su serpènti.- Ti divòru, ti divòru! - Nò, aspètta, - fai su pastòri ,- aspètta ca intendèusu ancòra su parèri de su mobènti. - Naramì, bellu mobènti, custu serpènti mi oi divorài doppu chi deu ndi dd’appu tirau a fòrasa de asùtta de üa pedra manna cantu üa dommu. -Mabi à fattu! Ha fattu mabi meda, pastorèddu nozzènti! Ma non ti nd’accàttasa cumment’è sa recumpènsa de cùstu mundu. Dèu pùru, po tant’ànnusu appu sudau e fadigàu po su mèri miu chi credìa bonu e arricconoscènti! E calli esti stada, a s’accàbbu, sa paga donàda? M’anti lassàu a sou e senz’e nisciùna assistènzia, me in custu logu spèrrimu, a pigai donnia dì frìusu, basca, sidi e cancü’ òtta fammi puru! - Ddu bisi, ddu bisi, - arripettìada sempri prusu allulluràu su serpènti, - deu ti ndi pappu, e bàstada. Ma proppiu candu pottà sa 122 120 Contisceddus ucca sparrancàda asùba de sa conch’e su pastorèddu po nci ddu ingùtti intèru, eccu chi arrìbba su mrexiãi. - E ita c’esti, e ita c’esti? - domàndada su mrexiãi: - Bëi, mrexianèddu miu, bëi. E no ddu bisi ca custu serpènti mi oidi divorài, dopo chi deu ndi dd’appu bogau de asùtt’e üa pedra manna e grai che ü trònu, fadèndu üa fadìga de duas persònasa! - Aspètta, fadèusu is còsasa cumènti si spèttada e a pagu a pagu nàra su mrexiãi. - Andàusu accànta de sa pedra chi tui nd’as’azziàu, collu bì chi fìada aicci manna cummènti nàrasa. Bollu bì chi tui ha fattu, diadèrusu ü trabàllu de duas persònasa, po ndi dda pesai. E funti andàusu - Torra, torrànci asùtt’e sa pedra an chi fìasta attruccillìau, - ddi fai su mrexiãi a su serpenti, - ca ollu bì deu personalmènti cummènti fìasta postu. Su serpènti, de pagu intelligènzia, senz’e nci pensai duas bòttasa, tòrrada a s’acconcoiài bëi bëi an chi dd’iada aghettàu su pastorèddu, e sùbitu su mrexiãi fai s’ogu a su pastòri e di schìcchiada a boxi bascia: -Tòcca, debrèssi, torrancèdd’a ghettài sa pedra asùba! Su pastòri, cùn lestrèsa acciùnta a sa timmorìa, sènz’e màncu si nai, nci ddi tòrrada a scutullài sa pedra manna asùba e ddu strèccada che pattèdda in terra. E di aicci su bribantèsimu de su mrexiãi nc’è arrennèsciu a binci sa mabèsa de su serpènti e à pozziu sarvai sa vida de ü giòvunu traballànti e di ànimu bonu. 123 130 Contisceddus Bellus tempus Is duas connadasa Ü otta nci fìanta duas connàdasa, una arrìcca, s’àtra pòbera. Sa pòbera, sciadàda, andà donnia santa dì a fai su pãi a sa genti allëa. Candu torràd’a domu sa fillixèdda ddi naràda: - O mamma, non d’ei bittìu manc’òi de pãi? - Nòu, filla mia, scètti ü poghèdd’e farra. Bëi, accostadìdda e scutullamì su devantàgliu e su istìri, aicci ti fazzzu sa costeddèdda. E ita fadìada cussa pobirìtta de femmîa, donnia merì, candu torràd’a domu? Cun cussu pagu de farra chi abarràda me in sa unnèdda, ddi fadìada, misenìa misenìa, üa costeddèdda. S’atra, invècciasa, sa connàda arrìcca, a sa fìlla si dda fadìada aicci manna de no dda podi aguantài me in mãusu. Üa dì sa mamma pòbera nàrada a sa fìlla: - Bai,fìlla mìa, bai a sa funtã e pottamì üa marighèdda di acqua.” Custa, ubbidiènti cummènt’e sempri, cùrridi a sa funtã, potendusì avàttu sa costeddèdda , chi a mabapèna si bidìada. Po prëi sa màriga, però, làssada su paîxèddu asùb’e sa costa de su putzu, e sùbitu, üa callellèdda bracca e a piu longu arricciàu ndi lìada sa costeddèdda e in d’ü nudda si dda pàppada. - Ohia, fai sa picciocchèdda, ohiamomìa de mei! E immui, cummènti fazzu? Non di tengiu atra ca seus pòberusu. Beneditta callelledda torrami’ sa costeddèdda. Ma cussa callellèdda ca fìada üa fata bona, dd’arrespùndi a sa pippìa: - Benedìtta sìasta de Deusu e de is Santus! Chi t’arrùanta marèngusu di oru de sa conca, donni’otta chi mamma tua ti pettònada cùstus bellus pìusu chi pòttasa. Sa picciocchèdda, 124 131 mesu intontìda de su chi ddi fia capitàu, torràd’a domu, conta totu a sa mamma. Sa mamma, puru, cun is cambas tremuîasa, pìga su petti e cummènzada a ddu passai me is pìusu de sa filla. E ita iais’ a bì? Üa sciummàna de marèngusu di oru me in terra ca parrìada su tesòru de Rei Sallammõi. E cantu prusu pettònada, sempri de prusu arruìada oru de sa conca de sa fìlla. Biu cummènti fia sa cosa, manda sùbitu sa filla a domandài sa misura a sa zia, narèndu ca deppìanta misurài làndiri! Candu, però, nci tòrrada sa misura a sa zia, po isbàlliu fiad’abarràu attaccàu ü marèngu di oru e sa pippìa, ca non scia nai fàbasa, conta totu a sa zia puru. Senz’e pedri tèmpusu fàidi üa costèdda manna che üa poîa, e màndada a sa fìlla a bittì acqua a sa funtã. Custa, lòmpia a su putzu, põidi cuss’arrògu de pãi mannu me in sa costèra, e sùbitu cumpàrridi sa cãixèdda. - Bau Bau, - fai custa e in d’ü àttimu ndi lia sa costèdda manna e si dda pàppada. - Mabadìtta callellèdda ti occiu a pedra chi non mi tòrrasa sa costèdda. - Mabadìtta sìasta de s’ora chi s’è nascia! Chi de custu mommèntu, candu chistiònasa, ti ndi èssanta de bucca, pìbarasa, arrãsa, serpèntisi e cabòrusu, - sentènzia sa callellèdda. Torràda a dòmu ü poghèddu intimmorìda, sa filla arrìcca non bòidi fueddài. Sa mamma, insàrasa, ddi domàndada: -Dùncasa, contamì ita t’à nau sa fata. Ma, appèna cummènzada a nai is primus fuèddusu, de sa ucca impriastàda de succi bidri, ndi èssinti animàbisi de onnia arràzza. Sa mamma arrìcca, in sa cunvusiõi fatta de is pìberas, cabòrusu e serpèntisi, pìgada ü fusti mannu, e ghèttada ü croppu mottàlli a sa fìlla puru. Aicci fìnidi s’ingordìgia de s’arricchèsa, bella scetti chi esti accumpangiàda di onestàdi e generosidàdi. 125 132 Bellus tempus Me is mòntisi de Biddaxìdru e Arbus, in tèmpusu andàusu, ddoi fìanta scetti barràccasa de linna e crobèttasa de fòllasa frìscasa de moddìzia e de oiõi. Proppiu in custu logu spèrrimu e fòrasa de su mundu, bivìanta tres fràdisi, abarràusu òrfanusu de babbu e de mamma: a ùnu ddi narànta Francìscu, a ü antru Giuànni, a su prus pittìu Cuccudèddu, aicci nommenàu po sa basciùra e sa grassèsa. Tenìanta ü bellu tallu de cràbasa e ü scantu mõisi de tèrrasa arrìccasa di erba e de pùtzusu di acqua sempri abbudànti chi ddis’assiguràda pastùra po totu s’annu. Cuccudèddu, chi is fràdisi credìanta mesu scrammèccu, biu ca is atrus dusu fìanta sposàusu e ca traballànta pagu o nudda, proppõidi de divìdi su tallu de is cràbasa in modu chi donniü traballèssidi e guadangèssidi po contu su. Is fràdisi mànnusu accèttanta sa propòsta de Cuccudèddu, penzèndu giai però de dd’imbrolliài a modu insòru. Fàinti ü corràzzu nou anànti de cussu becciu e nànta a Cuccudèddu: - Dùncasa, po stabillì su chi toccada a nosu e su chi tòccada a tui, lassau chi sia sa sotti a ddu dezzìdi. Is cràbasa chi nci mùccanta a su corràzzu becciu ant’essi is nòstasa, cussas chi nci mùccanta a su corràzzu nou is tuasa. - Anda bëi, - nàra Cuccudèddu e diaìcci fàinti. Naturarmènti, is cràbasa, abituàdasa a s’arregòlli me in su corràzzu 126 133 Su crabu zurpu becciu, a ùnasa a ùnasa nci mùccanta tòtusu a ingüi. S’ùnicu a sballiài logu e a nci muccài a su reccìntu fattu de nou, esti ü crabu becciu scorantàu e zurpu lìmpiu. - S’è cuntèntu? - ddi nanta is fràdisi a Cuccudèddu. - E puetta no? - fai custu. - Sa sotti ad’offiu di aicci e di aicci siada - Pìga su crabu mascu e zurpu, si ddu põidi a coddu e nci càbada a bidda po ddu bendi. Passèndu in d’üa bia, agàttada üa fèmmia sforrèndu pãi callènti e moddi, cosa de ndi fai cabai is sabìasa sceti a ddu bì. - Ddu comporàisi, bòna fèmmia, ü crabu mascu, ma zurpu? domànda Cuccudèddu, - Càstidi chi no tëidi dinai, si dd’onu maccai po ü poghèdd’e pãi moddi: basta chi mi ndi lessi pappai a vollontàdi. - Chi è di aicci, gei ddu compòru, - fai sa femmina, - sezzeisì e pappai totu su chi s’arrecchèdidi! E seziu s’esti! Sciammigàu de üa parìgh’e dìsi de diggiùnu, prëu de sallùdi e di appittìttu, (no po nudda dd’ianta appiccigàu su nommi de Cuccudèddu!), no podìada accùdi cussa pòbera fèmmia, apporrèndu costèdda e civràxiu! Candu, però, Cuccudèddu nd’iada spattilliàu mesu forru de pãi, arrìbba su pobìddu e, allulluràu cummènt’e ü sribõi ferìu, piga sa pabia de inforrài su pãi e mi ddu cùrridi fìnzasa a sa potta de sa ia. Cuccudèddu, fàtt’a tontu, bëi prëu de brenti, ndi tòrrada a liai su crabu, e sìghidi a zerriài me in totu su xiãu. Andèndu andèndu, agàttada dus fràdisi chi fìanta travasèndu bîu nou e ddisi fàidi: - Dd’obèisi custu crabu mascu in cambiu de bîu? No bollu dinai. Bàsta chi mi lassèisi buffai bîu a vollontàdi. Cùstusu, credèndu ca custu bendidòri fèssidi üa pressòna normàlli, accèttanta sa proppòsta, e Cuccudèddu cummènzada a sbuidài buccàllisi de cinqu lìtrusu po una, po dùasa e di aicci fìnzasa a dexi otasa. I dus fràdisi, candu s’accàttanta ca su stògumu de su criènti esti senz’e fundu e pìgada prusu de üa carràda de centu, infuriàsu cument’e 127 134 Bellus tempus bèstiasa, ncì ddi scàvuanta su crabu a sa ia e nci dd’òganta de su magasîu zerrièndu: - Foras de innoi, bruttu imbriagõi chi no ses atru! E di aicci, gira che ti gira me in sa bidda, nc’attàffada a domu de üa fèmmîa sposàda, ammìga de su preìdi, e mancu a ddu fài appòsta, in cussu momèntu ddoi fìa proppiu s’arrettòri. - Ddu còmprada, bona fèmmîa, ü crabu mascu ma zurpu po ddu coi arrùstu? - ddi nàrada Cuccudèddu a cussa picciòcca. In su mèntrisi, però, s’accàttada ca ddoi è su preìdi, chi s’è cuau aintru de üa cascia, e candu sa mèri de sa domu ddi domàndada cant’oidi, sùbitu nàrada:- No seu beniu po dinài, m’iad’a praxi cussa cascia beccia chi è posta in cussu furrungõi. Sa fèmmîa, naturarmènti, scièndu ca me ingüi aintru ddoi è su preìdi, cìccada iscùsasa di onnia manèra e no dd’oi donai. Ma eccu chi arrìbba su pobìddu. Cùstu, biu ca Cuccudèddu no obìa dinai, ma sa cascia beccia chi addirittura nci deppìada scavuài, senz’e pònni fueddu si dda càrriada me is pàbasa e ndi lìada su crabu po dd’arrustì. Càrrigu de su bagàlliu de linna prezziòsu cun su preìdi aintru, Cuccudèddu cummènzada a izzerriài, me in sa ia: - Preìdisi, a chi oi comporài preìdisi, bèngiada a innoi! - Cittu, cittu po caridàdi, fai su preìdi de aintru! No izzèrristi, naramì cant’oisi e faimmìndi bessì de custa cascia! E ddi torra Cuccudèddu: - ü preìdi costa mèda! Domàndu cinquxèntusu scùdusu di oru. Su pòburu preìdi, bia sa catta mabi tallàda e su momèntu ü pagu imbarazzànti, ddi ònada su inai. Cun is cinquxèntusu scudus di oru me in busciàcca, Cuccudèddu piga pobìdda, e bàndada a su stazzu de is fràdisi chi fìanta mullèndu is cràbasa. Si põidi accànta de cùssusu e a boxi atta cummènzada a contai i monètasa di oru. - Eh, cantu scùdusu di oru! - nàranta sùbitu is fràdisi, spantàusu e giài gellòsusu de cùss’arricchèsa de su fràdi, 128 135 Su crabu zurpu chi sempri credìanta pagu abìllu. - Seisi osàtrusu is màccusu, ch’eisi offiu is cràbasa bèllasa e m’eisi lassau cussu crabu zurpu! Chi sciàisi cantu ddus pàganta in bidda! Aicci intendèndu, is dus fràdisi, ànti inzurpàu quàttru cràbasa sànasa, e nci funti cabàusu a bidda po ddasa bendi. E tòrranta a fai su giru ch’iada giai fattu Cuccudèddu. Ma s’arrisurtàu si fàidi ü poghèddu drivèssu! De su forru ndi essi su mèri, mi ddus cùrridi a pabia de inforrài pãi e ddisi ònada üa bella catatrìppa; de su magasîu ndi èssinti a gottèddu de boccì su proccu is dus fràdisi e ndi ddi sèganta ü’orìga. Aicci currèndu, po s’arrepparài de is cròppusu, nci mùccanta a cresia. Innoi, manc’a ddu fai appòsta, si fàint’a pari cun su preìdi ancòra allulluràu de s’imbròlliu de sa cascia, e, maccài fèssinti aintru de cresia, su sreghestãu ndì spicca sa gruxi manna de linna de s’artàri, e ddus accòllada a cròppusu a conca e a donnia patti capittèssidi. Pèdriasa is quattru cràbasa senz’e guadangiài mancu ü soddu; pedria ü orìga su mannu e cun sa conca mesu sciasciàda su mesànu, infuriàusu, tòrranta a su corràzzu po si dda fai pagai a Cuccudèddu sa beffa chi ddis’ ia cuncodràu! Cuccudèddu, però, ca si dd’iada incannugàda ca is fràdi si dd’iant’essi fàtta pagai cara, si cuada appàbasa de üa moba de moddìzzia. Cùstusu, ancòra prusu inchièttusu, pìganta sa pobìdda de Cuccudèddu e dd’òccinti. Cun su prantu in su coru, Cuccudèddu, adenòtti, si põidi sa pobìdda motta me is pàbasa, nci dda pòttad’a cresia e dd’adi ingenugada me in su cunfessionàlli. Poi, dd’adi accappiàu üa füi a su zugu e s’è cuau appàbasa de s’artàri, tenèndu in mãusu su càbudu de sa füi. Candu arrìbba su sragerstãu po serrai sa cresia e s’accàttada ca ddoi esti üa fèmmia de cunfessài, zèrriada a su preìdi, chi muccàu a su cunfessionàlli, cummènzada a ddi domandài is peccàusu. A is dommàndasa de su cunfessòri, Cuccudèddu, tirà sa füi, e sa 129 136 Bellus tempus motta parìada chi arrespundèssidi sempri sì; ma nòn ndi ddi èssìada mai nisciùnu fueddu. - Arrespùndi, arrespùndi cancüa cosa, - narà su preìdi. Pedria sa passiènzia, ndi stùppada arrubisconàu e fattu e ddi ònada üa bella spruzzigàda. Sa mòtta nc’arrùidi a brent’a s’aria, nci sbàttid’ a terra sa conca e si dda spàccada in dusu. Eccu sùbitu chi ndi èssidi su pobìddu, e cummènzada a zerriài, cun tòtusu is fròzzasa chi pottàda in cròppusu: - Agittòriu, agittòriu! Su preìdi ha boccìu a pobìdda mia! Accurrèi a crèsia! - Citti, citti, - ddi fai su preìdi, - narammì cant’oisi e baidìndi de innoi! - Eh, arreverèndu arrettòri, üa pobìdda in dì di oi no è fàzzilli a dd’aghettài! Costa meda, ma...mèda! - Ciccàusu de arrangiài is còsasa: ti onu su dinai, nci dda sutterràusu me in cresia e di aicci no ddu scì nisciùnusu! Ti ònu settixèntusu scùdusu di òru! - Cummènti, - nàra Cuccudèddu, - settixèntus scùdusu po üa pobìdda? Custa ndi bàllidi assummàncu milla. Pòstusu di accòdriu po sa summa, suttèrranta a sa pobìdda e Cuccudèddu è torrau a domu. Cun totu cussu inai in mãusu, s’accòstada a su corràzzu de is fràdisi e cummènzada a contai: centu, duxèntusu, trexèntus fìnzasa a candu no lòmpidi a milla. Spantàusu de totu custu ìnai chi proccurà su fradi créttiu tontu, ddi domàndanta it’à fattu me in bidda po ddu podi ottènni. - Ah, no dda scièsi sa novidàdi! Deppèis bì cantu ddas pàganta me in cussu logu is fèmmiasa mòttasa! Ddis fàinti sa imbrazzimmazziõi e poi, doppu sèccullusu e sèccullusu, ddasa fàinti sàntasa! Aicci intendèndu, is dus fràdisi, bòccinti is pobìddasa, e bàndanta a ddas’a bendi a su preìdi. Custu appèna ddusu bidi intrèndu, ancòra cun s’arregòdu in conca de su chi fia suzzèdiu sa dì primma e penzèndu ca oramài ìanta pigau vizziu a boccì fèmmias po dinai, mànda su 130 137 Su crabu zurpu sreghestãu a sa caserma de is carabinnièrisi e ddus faidi arrestài. E sa storièdda finidi cun is dus fràdisi, chi si credìanta meda bribàntisi, in presõi po totu sa vida, e su fradi, sempri crettiu pagu intelliggènti, mèri de su tallu de is cràbasa e de üa bella summixèdda de inai. Ita nàrada su diciu sadru: su chi si crei meda mannu e bribbànti, giai sempri tòrrada pittìccu. 131 138 Su sabatteri de cruccurisi Bellus tempus Su sabatteri de cruccurisi Tanti ma tàntisi annus faidi, me in sa biddixèdda de Cruccùrisi, sa poberèsa lassàda de sa guèrra fìada su trummèntu de tòtusu is pàgusu anziànusu chi ianta deppiu abarrài in domu insoru. Is ommisi, genti onèsta e traballànti, bivìanta a sa giorronnàda chi adìzziu adìzziu ddu bastàda po comporài ü mussièdd’e pãi po sa famìllia. Unu de is pàgusu chi tenìanta ü’atti, chi donnia dì donàda ü poddixèddu de passallàggiu in prusu de su giorrunnadèri, fìada Ziu Turrunnìu Tommàia, aicci nommenàu po s’abillènzia me in sa cosidùra a spagu impixiàu de donnia arràzz’e crapìtta. Fìada ü maist’e crapìttasa connòttu e stimmau in totu su circondàriu e, maccai sa famìllia fèssidi abudànti (tenìada noi fìllusu pitticchèddusu!), cun su trabàllu e sa vollontàdi, gei nc’arrennescìada a tirai ainnàntisi. Me in sa stessa bidda, però, bivìada ü grandu arrìccu, aicci arrìccu chi si fia fattu fai ü magasîu mannu appòsta po stuggiài, in logu sigùru, misùrasa e misùrasa de dinai di oru. Ma custu mèri de sa bidda, chi ddi narànta Don Ferràndu, fìada arrìccu scetti de dinai, ma pòburu de coru e di ànimu mau. Chi podìada, po s’ingordìgia de arraffài de tòtusu, pagàda cun d’üa misèria su trabàllu de is operàiusu o addirittùra no ddisi donà nùdda. Üa bella dì, arrìbba sa notìzia de Masùddas, ca üa netta sua de ingüi a pagu tèmpusu si deppìa coiai. Po fai bella figùra, dùncasa, 132 139 pènsada de incingiài ü bistìri nou e üa parìgh’e crapìttasa bëi fàttasa. E sùbitu no faid’atru che si rivòrgi a Ziu Turrunnìu chi, puru tenèndu atrus traballèddusu promìttiusu, po su mèri don Ferràndu làssa totu e, de bona lena, cummènzada a tallai peddi e tommàia. Is crapìttasa nobas, po su dommìgu infàttu, funti pròntasa e su mèri, cuntèntu ca dd’assèttianta bëi, arringràziada a Ziu Turrunnìu e ndi ddasa lìada chen’e pagai. No podèisi immagginài cantu su pobirìttu de sabattèri nci siada abarràu malli! Doppu tanti trabàllu, fattu cun attenziõi e sacrifìziu, sa famìllia abarràda, invèciasa, senz’e pappai po ü scantu disi. Doppu su primu mommèntu de infrascadùra, si dezzìdidi e bàndada a domu de su mèri. Custu, meravilliàu de sa faci tosta de su maìst’e crapìttasa, non scetti no ddi ònada su inai, ma ddi scàppada is cãisi chi ddu cùrrinti fìnzasa a sa potta de sa ia. Ziu Turrunnìu, sciadau, disispèrau, no scidìada a calli santu si votai. Sa famìllia tenìada abbisòngiu e su trabàllu issu dd’ia fattu e bëi puru. E di aicci, sperèndu chi su mèri si pentèssidi, donnia dì torràda a domandài su inai, preghèndu don Ferràndu a tëi piedàdi de is pippìusu chi tenìada in domu aspettèndu ü mussièddu de pãi. Ma su coru de cust’ommi malvàggiu no intendìada improraziõisi o sùppricasa de nèmusu, ànzisi, sù andai e torrai de su sabattèri a ddu impottunài a donni’ora, ddu pòttada a si unfrai de prusu, tanti ca pènsada de ddi cuncòdrai ü antra bella beffa. Chistiònada ü scantu ammìgusu de Masùddasa e fai crei a totu sa bidda chi sia mottu. A is ammìgusu ddis’arreccumàndada de nci ddu pottai a campusàntu cun sà cascia de mottu abètta e de ddù lassài diaìcci, in mòdu chi si bìanta bëi is crapìttas nòbasa chi si fia postu po nci ddu interrài. Fadèndu di aicci, fìa sigùru ca ziu Turrunnìu, maccai a su notti e me in campusàntu, iad’èssi andau a ndi torrai a liai is crapìttasa de is peisi de su mottu. E di fattu, su pòburu sabattèri, 133 140 Bellus tempus scipiu ca su mèri nci dd’ìanta cabau a campusàntu, bistìu a festa e cun is crapìttasa nòbasa chi dd’ia fattu proppiu issu, piga coràggiu a dexi mãusu e nci càbada a ciccai de ndi ddi tirai is crapìttasa de peisi. Arribbàu cun sa tremuëa me in cròppusu ma dezzìdiu a totu, senz’e pedri tèmpusu, ndì ddas tìrada de su fintu mottu. Custu fìada giai strantaxendusìndi de sa cascia, candu de fòrasa s’intèndinti bòxisi de genti chi è benèndu a s’obitòriu. Ziu Turrunnìu, cun is crapìttasa in mãusu, accùdidi a si cuai asutt’e su catafàrcu e su mottu (chi è biu !) si tòrrada a croccài seriu me in sa cascia ingiriàda de arràsu e de fròrisi. In sù mèntrisi, tres ommisi a cappèddu, cappòttu longu e fusìlli a coddu, mùccanta in su mottuàriu cund’üa bella summa de dinai. Unu de is tresi, chi fìada sen’e fai nudda, bièndu sa cascia abètta, pagu timmoròsu de is mòttusu, nàrada a is ammìgus: - Custu picciòccu a conca scrobètta e cun is ògusu sprappaddàusu, mi pàrridi ancòra biu! Incàppasa provu a ndi ddi segai su zugu, aicci seu sigùru chi sia mottu diadèrusu! Appèna intèndidi aicci, Don Ferràndu, cummènt’e ü pisìttu chi dd’àppanta pistau sa co, ndi stùppada de sa cascia de mottu e si ònada a curri scruzzu, cichèndu sa ia chi pòttada a domu, ma me in su trambùstu de su disispèru, gira totu su sattu de Cruccùrisis senz’e ddoi podi inzettài prusu. Is tres ommisi accappottàusu, chi mancu a ddu fai appòsta fìanta is tres bandìdusu chi nd’ìanta furau totu su inai a Don Ferràndu, bièndu su mottu pesau e currèndu me in sa strada, nci scàvuanta totu a terra e si dd’ònanta, cussus puru, a curri cummènt’e màccusu. Ziu Turrunnìu, chi in totu custu budrèllu fìada abarràu cuau asutt’e su catafàrcu, doppu ü poddixèdd’e tèmpusu ndi essid’a fòrasa, ndi sègada ü bell’arrògu de seda de sa cascia de mottu, pinnìcca totu su dinai e cun is crappìtasa appiccàdasa me in su zugu tòrrada a domu 134 141 Su sabatteri de cruccurisi cuntèntu e prexiàu. E di aicci su mèri arrìccu è torrau pòburu e iscrùzzu, mèntrisi su pòburu s’è fattu arrìccu e a crappìttas nobas puru. Gei no faddi su dicciu antìgu: sa poberèsa onèsta paga sempri de prusu de s’arricchèsa disonèsta. 135 142 Bellus tempus Maria Xinisu Maria Xinisu Ci fìada ü ommi fiudu chi tenìada üa filla soba. Üa bixîa ddi naràda a custa picciocchèdda: - Naràddi a babbu tuu chi si tòrridi a coiai! E sa pippia: - Ha nau ca fìnzasa a candu no si sèganta is istivàllisi nousu, no si spòsada. Sa bixîa, ca tenìada ü poghèddu de interèssu ddi conzìllada: - Fai cummènti ti nau deu; ghettànci is u stivàllisi a s’urìna e appiccàddusu me in su fumu; as’a bì ca si conzùmmanta de prèssi. Aicci fai sa picciocchèdda e dopu üa parìgh’e disi is u stivàllisi si fàinti arrohghddèddusu. Biu su chi fia suzzèdiu, su babbu dezzìdidi de si sposai, ma no scidìada a chi scioberài. Sùbitu sa filla ddi proppõidi de coiai sa bixîa. Su fiudu dda domàndada e sa coia è bell’e fatta. Sa bixìa, però, tenìada ü antra filla femmia e pagu tèmpusu appùstis sa coia ha cummenzàu a trattai mabi sa fillàsta e bëi sa filla: fìa gellòsa puetta ca s’atra no tenia paragõi po sa bellèsa. Donnia dì a sa fillàsta ddi onàda pãi ingiàbi di orxiu, po dda fai diventài leggia e marrìda, e a sa filla pãi friscu e biancu de simbua. Ma sa fillàsta tenìada accàntu üa vitellèdda divina chi totu su chi ddi ponìada in bucca, diventàda arròbba prellìbada. E di aicci su pãi di orxiu si fadìada pãi de simbua, sa lana pru maba si torràda a linu veru e su fibau de sa fillàsta fia sempri pru bellu. Üa dì, però, sa bidria iscobèrridi su secrètu, bièndu a sa picciocchèdda passèndu donnia cosa me in sa bucca de sa vitèlla. 136 143 Inchiètta e furiòsa dezzìdidi de boccì sa vitèlla, e candu bëi su pobìddu, ddi nàrada totu su fattu e dd’obbrìgada a fai su chi oidi issa. Is pràntusu de sa fillàsta e cùssusu de sa vitellèdda no dda cummòvinti po nudda e diaìcci dda bòccinti. Prima de morri, però, sa vitèlla ddi nàrada a Maria Xinìsu: - No pràngiasta po mei e ascùtta su chi deppi fai; ndi liasa sa peddi e is peisi e ddus põisi aintr’e cussa cascia de mamma tua e ingüi ddus làssasa po setti mèsisi. Dopu setti mèsisi nndi oga totu e ddus tëisi tui bëi allogàusu; üa cosa t’arracumàndu: no pàppisti pezza de mei e no bùffisti brodu! E di fattu, candu su babbu ddi ònada ü arrògh’e pezza, Maria Xinìsu no ndi oidi. Biu diaìcci, sa bidria pìgada ü coccerõi e nci ddi scùdidi a facci su brodu. Ma sùbitu i làrvasa divèntanta che cerèsia, e is dèntisi de argèntu. Fia diventàdada pru bella ancòra de prima! - Aicc’esti, - si fai sa bidria, - immoi ndi ettu a filla mia puru. Ma su risurtàu è bëi divèrsu. Is làrvasa si funti fàttasa di ottìgu e is dèntisi de canna. - Gei dd’appu fattu s’arròri! Appu struppiàu de totu a fìlla mia! No mi dd’app’a pedronài mai! E diaicci, addollòrada e affriggìda po tanti tèmpusu no scidìada ita mãu si onai. In su frattèmpusu, passàusu is setti mèsisi chi dd’ia nau sa vitèlla, appèrri sa cascia e ddoi agàttada dua parìgasa de crappìttas argentàdasa e ü bistìri arriccamàu di oru. Candu à biu custu bistìri aìcci bellu, nci à lassàu bessì sa bìdria a cresia e cussa, bistìda che üa regina, nci sìghidi avàttu e si põidi propriu in su primu bangu. E tòtusu dda castiànta e dda imbidiànta, domandendusì chi fèssidi cussa bella picciocchèdda. Sa bidria, candu torràda a domu, dd’aghettàda giai in coxîa sezia in su xinìsu. - Cussa picciòcca chi fiada oi me in cresia gei fìa mellus de tui, Maria Xinìsu - ddi naràda po dda pigai in giru. Torrau su domìgu, Maria Xinìsu fai sa stessa cosa, scetti ca sa dì dd’oi fìa su prìncipeddu, chi abàrrada a bucca abetta de sa bellèsa de 137 144 Bellus tempus cussa picciòcca. Domàndada a tòtusu chi fèssidi e de innùi benìada, ma nisciùnusu scidìada donai ü’arrispòsta. Su domìgu infàttu, però, su prìncipi, põidi ü poghèddu de pixi me in terra a s’essìda de cresia e candu Maria Xinìsu pàssada dd’arrèscidi üa crappìtta e dda làssada mè ingüi. Su prìncipi ndi dd’arregòllidi e nci dda pòttada a cotti, me in su castèddu chi tenìada. Sùbitu ghèttada ü bandu prommittèndu ca sa picciòcca chi crazzà bëi sa crappìtta aghettàda in cresia iad’èssi divèntada sa sposa sua. Maria Xinìsu, in su frattèmpusu, rientràda a domu, si põidi s’atra parìgh’e crappìttasa chi tenìada e aspètta chi tòrri sa bidria. Cummènt’e sempri, custa appèna intràda, dda cummènzada a pigai in giru narèndu ca siguramènti no iad’èssi stada cussa a crazzai sa crappìtta aghettàda de su prìncipi. Fattu stadi chi po tanti tèmpusu a nisciùna picciòcca de su contàdu stadìa bëi sa crappìtta. - Maria Xinìsu, movidì ca a nisciùnusu stai bëi cussa crappìtta, poidi essi chi a tui… - ddi narà sa bidria po dda fai inchiettài! Maria Xinìsu, biu ca sa bidria oramài dda pigàda in giru a donnia momèntu, si põidi su bistìri bellu aghettàu in sa cascia de sa mamma, si crazza cun s’atra parìgh’e crappìttasa chi tenìada e cun sa cumpàngia de cussa chi nd’ia liau su prìncipi de s’enna de cresia bëi strinta me in mãusu, si presèntada a sa cotti de su rei. Appèna dda bidi, sùbitu su prìncipi, prexiàu e cuntèntu, dda faidi intrai anch’è su rei e dezzìdinti de si sposai a su pru prestu. Totu sa genti, candu tòrrada a domu sua, dd’acumpàngiada allìrga e cantèndu, ca sa notti, in cussa domixèdda pobera, si deppìa fai su fidanzamèntu. Ma ita fai sa bìdria! Ndi tìrada su bistìri bellu a sa fillàsta e ddu põidi a sa fìlla leggia, cuendu a Maria Xinìsu asùtta de üa carràda. Candu arrìbada su prìncipi cun su rei, su sposu si nd’accàttada 138 145 Maria Xinisu sùbitu ca cussa picciòcca no è sa bella giovunèdda chi ia biu me in sa cotti. E sezzendusì a cenai, naràda a boxi atta: - Ma custa no è sa fidanzàda mia! Nò è cùsta! Ma sa mamma de cussa filla leggia, po cuai is còsasa, ddi naràda: - Sì ch’è custa, pàppidi, pàppidi tranquìllu! A ü’ certu puntu però s’intèndidi üa boxi chi parrìada de ü pillõi stranu e chi cantàda diaìcci: - Cùccuru, cùccuru, pobìddu mìu! Deu pottu dèntisi de canna e làrvasa di ottìgu! Cùccuru, cùccuru! Su principi, intèndiu custu càntidu divèrsu de tott’is àtrusu, s’accòstada a sa carràda, e tòrrada a intèndi: - Cùccuru, cùccuru... - Deu ollu bì custu pillõi, - nàrada, e scobèrridi sa carràda! Appèna chi bì sa bella picciocchèdda, ddi pìgada is mãusu e dda presèntada a su Rei e a sa Regina, chi abàrranta a bucca obètta po su splendòri de cussus ògusu e sa bellèsa de sa facci. Sùbitu ndi tìranta su bistìri bellu a cussa leggia e impàri cun sa mamma, sèzziasa asùb’e dùs quàddusu senz’e domai, nci ddas’accumpàngianta a su sattu e ddasa làssanta curri in mesu de sa campànnia assobàda. Maria Xinìsu, invèciasa, cun sa cumpangìa allìrga de totu sa poppollaziõi e sezzia in sa carròzza reàlli, bëi pottàda a cotti e si spòsada a su prìncipi. 139 146 Bellus tempus Luisa Ottighitta Luisa Ottighitta Custa fiada una chi ddi fia motta sa mamma e chi tenìada su babbu scetti. Sa mamma, prima de morri, ìa lassau a su pobìddu ü bell’anèddu di oru, narendìddi: - Candu ti tòrrasa a coiai, cussa femmia chi ddi anda bëi s’anèddu, cussa adèssi sa sposa tua. Intàntu sa filla si fai manna e üa dì su babbu ddi põidi s’anèddu in su didu e ddi andà bëi! - Ah, - nara sùbitu - tui astèssi sa sposa mia! - Ma deu seu filla tua - si lamènta sa picciocchèdda. - No m’impòtta nùdda - ddi torra cuss’ommi, pigau cumpretamènti de is tiàusu. Sa filla prangìada e no si podìa donai paxi po cussu arròri chi obìa fai su babbu, candu üa dì dda bidi üa bella fata de su xeu. - E ita tëisi, filla mia? - ddi domànda sa fata. - Eh, sinniòra bella, di aicci e di aicci! -Ascùtta, - ddi nàrada sa fata - si oidi proppiu a tui, domandàddi chi còmpridi ü bistìri de seda, arriccammàu in oru, cun su sobi e cun sa lüa. - Ma issu mi ddu compòrada! - Tui fai di aicci, poi gei nc’appa penzai deu. Torrau su babbu, subitu sa stessa storia: - Tui s’è sa sposa mia - ddi nàrada. - No, babbu, - ddi fai sa filla, - chi mi obèisi diadèrusu, mi deppèi comprai ü bistìri cun su sobi e cun sa lüa. -E di aicci adèssi. 140 147 Bessìu a su mercàu, dòppu ü poghèdd’e tèmpusu tòrrada cun su sobi e cun sa lüa. Sa fìlla prangìa prima, immui de prus’ancòra po sa disperaziõi, ca su babbu dd’obìa coiai. - No ancora - dd’assigùrada sa fata. - Immui, tui, ddi dèppisi domandài ü bistìri chi potti pintàusu a ricàmu di argèntu tòtusu is pìscisi de su mari. Su babbu, dezzìdiu a sposai sa filla, ddi còmpra custu bistìri puru. Ma sa fata, tòrrad’a donai aggiùdu a cussa giovunèdda disisperàda e ddi nàrada: - Immui, chi ti oi coiai, ti deppi comporài ü bistìri cun tòtusu is stèllasa de su xeu. Compràu cussu puru, a sa fini sa fata ddi conzìllada de si fai donai ü bistìri di ottìgu. Bistìda di aicci, sa fata ndi dda lìada avàttu su, nci dda pòttada a sa cotti de su Rei e domàndada chi dda pòdinti pigai maccai cummènt’e srebidòra. - Mah, - nara su capu de su personàlli, - chi s’accuntèntada de castiai e donai a pappai a is pùddasa. - Eh, maccai di aicci, - arrespùndidi sa fata, - bàsta chi tèngiada üa stanza po contu su. Luisa puru accètada sùbitu. Si põidi su bistìri di ottìgu e po cussu dd’anti annommingiàda: ottighìtta. Donnia dì, comùnque, tenìa su logu totu in òrdini e bëi pulliu, sempri bistìda di ottìgu. Su principèddu, candu bessìada a su giardìnu po si fai üa bella passillàda, dda zerriàda: - Luisa Ottighìtta! - Cummàndidi, su principi! - Pottamì i su scarpõisi! E appèna nci ddusu lompìada, po si fai bèffasa de issa, ddi onà cròppusu de stivàllisi. - Pottamì is frëusu! Pigàda is frëusu, ndi ddi onàda ü croppu e si ponìada arrì. - Andàusu a baddai? - ddi naràda sempri po beffa. - Deu? Cun cùstu bistìri? Nò, non pozzu andai! Ma Luisa Ottighìtta, a iscùsi de tòtusu si põidi su an chi ddoi fìanta is stellasa de su xeu. Fia bella, ma bella che su splendòri de su sobi! 141 148 Bellus tempus Mai dd’essi bida su principinu! Si nd’è sùbitu innammoràu e baddàda sempri cu issa e ddi domandàda: - De innüi sesi? - Seu de ü logu meda attèsu! - E de calli bidda? - Seu de cussa bidda innui attrìppanta cun is crappìttasa! A custus fuèddusu su principi si tùrbada u poghèddu. A sa fini de is bàllusu, a su mommèntu de si salludài, Luisa si fùidi e su principi non nc’arrennèscidi a bì an chi esti andàda. Torrau a cotti, su principi, bièndu a Luisa Ottighìta in mes’e is puddasa, ddi nàrada po dda pigai in giru ancòra: - Chi fèssisti benìda oi a su ballu, iastài biu üa picciòcca chi dd’oi fìada! Gei fìa mèllusu de tui! Ma là ca fìa bella, là! Ma no sciu proppiu de innüi esti. De ingui a pagu tòrranta a fài is bàllusu e Luisa, cust’òtta, si põidi su bistìri cun tòtusu is pìscisi de su mari. Su principi, biendìdda, abàrra prusu incantàu de sa primu otta. Torràu a cotti, accostendusì a Luisa Ottighìtta, ddi faidi: - Oi nd’à benìu ü antra chi pottàda in su bistìri tòtusu is pìscisi de su mari. Bella, bella cant’e sa prima. Ma candu si nd’esti andàda no appu biu a calli patti nc’è bessìda. Zettu ca sa bellèsa sua no si pòdidi paragonài a sa tua, bistìda cummènti sesi di ottìgu! Infìnisi anti fattu ü antru ballu e cust’otta Luisa s’è postu cussu cun su sobi e cun sa lüa. Bèllusu fìanta is àtrusu, ma custu fia su mèllusu! E su principi dd’à domandàu: - De innùi sesi? - Deu seu de sa bidda an chi attrìppanta cun is frëusu. - Arrazz’e nommi chi tëi custa bidda, - fai su pìncipi, e dd’arregàllada ü bell’anèddu di oru chi Luisa allògada in logu sigùru. Sa dì, candu su prìncipi è torrau a domu, ddi nàrada a Ottighìtta: - Chi fèssisti benìda a su ballu! Arràzza de giovunèdda s’è presentàda, bella e cuncodràda cun d’ü bistìri pru bellu ancòra de is atrus dusu. Gei fia mèllusu de tui! Però, muccau aintru, penzèndu a su ch’ia nau sa bella giovunèdda po su nommi de sa bidda, ddi ëidi ü dubbiu chi fessi 142 149 Luisa Ottighitta proppiu Ottighìtta travestìda. Intàntu s’ammobàdiada e no tenìa gana de pappai nudda, maccai sa mamma ddi preparèssidi cosittèddasa chi ingruguìzzanta s’appittìtu. E üa dì su prìncipi nàrada: - Chi obèisi chi deu pappi, sa cos’e pappai mi dda dèppi preparai Luisa Ottighìtta. - No mi ddu nèristi, ddi fai sa mamma, e tui òi pappài cosa coxiàda de cussa? Ita schiffu! - Ollu chi sia coxîàda de issa, - ddi tòrrada su principìnu. Insàrasa sa mamma, po no bì a su fìllu mottu po su fammi, no podi fai de mancu di andai anch’è Luisa e ddi nai ca su prìncipi òi chi sìada issa a ddi prepparài sa cos’e pappai. - Mah, proppiu deu! - si meravìlliada Ottighìtta. Comùnque, preppàrada su prangiu e me’ in su vassòiu nci èttada s’anèddu di oru. Su prìncipi cumprèndi subitu su chi fia suzzèdiu e nàrada a sa mamma ca òidi sposai a Luisa Ottighìtta. - Ma nimmàncu chi ti ddu sònnisti - dd’arrespùndidi! Ma Luisa Ottighìtta si põidi su bistìri cun su sobi e cun sa lüa, chi luxìada cummènt’e chi su sobi e sa lüa ddoi fèssinti diadèrusu, e sa mamma puru abàrrada alluîàda de sa bellèsa de cussa picciocchèdda. E di aicci s’avventùra de Luisa Ottighìtta, pòbera ma bella, fìnidi in su prexiu e sa cuntentèsa. Si còiada a su prìncipi e bìvidi po totu s’arrèstu de sa vida me in domu de su Rei, castiàda e riverìda proppiu de cussa genti chi prima dd’ia pigàda in giru. 143 150 Bellus tempus In campidànu, connòttu de totu sa genti, nci fìada unu de cùssusu ommisi attaccàusu a su inai, chi bivìanta prestendìddu a su pròximu abbisongiòsu, ma fadendìddu pagai a tres bòtasa o quattru òtasa puru, in prùsu de su chi ballìada. Ü ommi, dùncas, profittadòri e strozzìnu, chi sfruttàda is pòburusu e chi no castiàda in facci a nisciùnusu. Üa dì, ascuttèndu is arràllasa de is operàiusu chi tenìa traballèndu me in domu, bëidi a iscì, ca in d’üa biddixèdda accànta, ddoi èsti ü certu Carraffîa su Beffiãu, grandu buffadòri de bîu ma de xrobèddu allùttu e pròntu sempri a spizzuài su pròximu cun su fuèddu acùzzu, fadèndu brùllasa di onnia callidàdi. - Mah, - si faidi tra sì s’avàru, - gei dd’ia bolli cannòsci custu Carraffîa su Beffiãu! Dd’ia bolli proppiu incontrài, po bì chi diadèrusu esti aicci abìllu fadèndu giògusu. In calli logu bìvidi? - Eh, - dd’arrespùnditi sùbitu is operàiusu, - bàndidi a talli bidda e siguramènti dd’ad’a incontrài. No è passau tèmpusu meda chi s’avàru, sempri cun su bibbigòrru in conca de olli chistionài custu brullãu aicci nodìu, sàttada in gròppasa a su quaddu pru bellu chi tenìada, cun d’üa sedda bella e luxènti, sprõisi nòusu alluccidàusu, e totu cuncodràu cun d’ü bistìri de pannu arrigàu, giacca de peddi de cassadòri e ü cappèddu appèna arribbàu de Castèddu. Parrìa proppiu ü gràndu sannòri pront’a si coiai. Si nci èssidi, dùncasa, a quaddu e, dopu paghìssimu strada fatta, si faidi a pari cun 144 151 Su susuncu e carraffia su beffiãu d’ü picciocchèddu totu bruttu e cun s’arrobbittèdda scorriàda e stirongiàda. Si frìmmada ü poghèddu dubbiòsu anànt’e su giovunèddu e custu, bièndu totu s’ellegànzia de su cavallièri, ddi domàndada: - A innúi andàisi, aicci bëi postu? S’avàru, sùbitu dd’arrespùndidi: - Seu andèndu a ciccai ü brullãu chi, m’anti nau, bìvidi a custas pàttisi. De nommini mi parri chi ddi nèrinti Carraffîa su Beffiãu. - Accidènti, - ddi tòrrada prontu su picciocchèddu, seisi fottunàu diadèrusu! Carraffîa su Beffiãu seu proppiu deu! - Eh, balla, sa sotti m’adi accumpangiàu, senz’è dèppi aspettài meda meda. Ma, nàra, giai chi sesi innoi, mi dd’iast’a fai üa bella brulla de cùssasa chi appu scippiu tui scisi cuncodrài in d’ü nudda? Carraffîa nci pènzada ü poghèddu, poi, cummènt’e chi dd’essidi allùttu üa lampadìna, si faidi: - Eh, càstidi, deu dd’ia podi fai puru, ma non pottu is attrèzzusu chi mi srèbinti. Ddusu tengiu in domu e, dùncasa, ia deppi andai a innì po ndi ddusu bittì pueta ca sceti cun cùssusu pozzu attrocciài sa brulla pru bëi. - E cumènti iasta bolli fai, insàrasa? - ddi nàrada su susùncu. - Ah, gei è cosa fàccilli, - d’arrespùndi Carraffîa, - sa domu, leidi, esti innoi accànta. Chi fustei mi prèstada po cinqu minùtusu su quaddu, deu curr’a domu, ndi leu su chi mi accùrridi e ad’a bì ita bella brulla chi ddi cuncòdru. - E liandi su quaddu - ddi faidi s’avàru. Carraffîa sàtta sùbitu in gròppasa a su quaddu, ma de bribbànti cummènti fiada, craccàda is i sprõisi e tiràda is guidas in modu chi sa bestia no camminèssidi. - O su cavallièri, - nàra su Beffiãu, no mi cannòscidi custu quaddu e no cammìnada chi no mi onàisi sa bistimènta puru. Cunvìntu ca fia narèndu sa beridàdi, si spòllada e ddi ònada su bistìri nou. Carraffîa, totu allippuzzìu, tòrrada a sattai in gròppasa a su quaddu e fài su stessu tranèllu de primma: pungi cun is i sprõisi e tìrada is 145 152 Bellus tempus guìdasa. - No, nu ànda proppiu! Bisòngiada chi mi oneis su cappèddu puru. Scetti di aicci sa bestia pòi crei chi deu seu su veru mèri e s’ad’a pònni a camminài! S’avàru, ancòra ü’otta nc’arrùidi in s’imbròlliu, e ddi ònada su cappèddu nou appèna arribbàu de Castèddu. Carraffîa, bëi bistìu e a cappèddu nou, pàrtidi cun su quaddu di arràzza, lassèndu su mèri a pei e spullìncu in mesu de sa ia. Camminèndu camminèndu cun cussu quaddu, a ü certu puntu, bidi üa bella cumpangìa de cassadòrisi cun d’ü tallu de cãisi di arràzza avàttu, e sùbitu, de tesu izzèrriada: - Oh, Oh cassadòrisi, labai c’appu biu ü bellu cõìllu appàbasa de cussa moba manna de moddìzzi! Senz’e pedri ü mommèntu de tèmpusu, is cassadòrisi ncì scàppanta is cãisi mesu arrabiàusu e ndi stànanta su pobirìttu, spullìncu e prëu de timmorìa. - E fustei, ita nci faidi aicci acconciàu me in su sattu e in dì de cassa? - ddi domàndanta is cassadorisi. “ Oh, nu… è nudda, - arrespùndi s’avàru; appu prestau su quaddu e su istìri a Carraffîa su Beffìãu po andai a domu sua a ndi liai totusu is attrèzzusu chi ddi srèbinti po mi fai üa bella brulla. - Ehi, Ehi, ddi tòrranta is cassadòrisi, arrièndu e pighendìddu in giru. E calli brulla pru bella de custa! Carraffîa a quaddu di arràzza, a bistìri nou e fustei senz’è quaddu, spullìncu e a pei scruzzu e in mesu de su sattu! E su susùncu, castiendusìdda bëi asùba, nàrada: - Balla, gei mi dd’à fatta cumprìda sa brullìxèdda, su picciòccu! A ùnu cummènt’e mei! - Proppiu a ùnu cummènt’e fustei, sa lizziõi è meritàda e bëi fatta, bruttu strozzìnu! Sa disonestàdi no paga mai! 146 153 Su tempusu Su tempusu (sa stòria pagàna de sa nàscida de su mundu) Ddu scièisi cumènti is pagànusu de is tempus andàusu, penzànta sa nàscida de su mundu? No ddù scièisi? Chi mi sighèisi avàttu, si dda fazzu passai deu sa crosidàdi chi tenèisi! Dùncasa, tàntusu e tàntusu annus faidi, primm’ancòra de s’antigòriu prus antìgu, me in su mundu accroxiobàu e prontu a si squattarài in centu e ü arrògu, scetti su xeu e sa terra nci fianta cumprìusu e bëi fàttusu. Totu s’atru chi si bidìada in gìru, fìada arrogàlla de stèddusu de fogu, chi arrumbullànta senz’e assèbiu, dì e notti, cummènt’e ü crabu maccu chi no scidi anchì ammediài! A su xeu e a sa terra, de nommini ddis ìanta appioppàu Uranu e Gea cummènt’e sa callellèdda de sa levadòra chi teneiàusu in bidda. De intelligènzia, tott’e is dusu, gei no fianta mancu cummènt’e Micchellàngellu Bonarròda, nou! Però, sciadausu,bivèndu sòusu che cãisi e sparafundàusu in su scuriu pru nieddu de sa notti senz’ e fini, a frozza de si castiài a cu di ogu e in sillènziu, depint’ài dezzìdiu de si sprazzì totu a mesapàri. Gea (sa Terra) poi, femmîèdda bribbànta e ü poghèddu spizzècca, arrodièndu a tott’arrodiài, a su chi pàrridi gei ia fattu sa furriàda de accàbbu! Dd’adi imbriagàu sa conca e dd’à cunvìntu (arrazz’e pobirìttu ammattallaffàu!) a s’accappiài po totu sa vida cun sa cadèna a doppia mallia de sa coia. E arrazz’e coia fottunàda e cumprìda! In quatturu e quattr’ottu nàscinti bintiquattru fillusu, a duzzîasa, cummènt’e 147 154 Bellus tempus canciòffa! E m’eis’a nai: - arràzz’e fìllusu! Is primus dusu, gemèllusu, annà ca pottànta centu mãusu e cinquànta còncasa. A vollia de barrìttas de cuncodrài, mammài! Atrusu, is cicropusu, fìanta nàsciusu invèciasa cun d’üa conca scetti e cun d’ü ogu scetti, ma gei si ddu arreccumàndu po ddu põi a sopprammòbilli, me in su cummodîu de sa camber’e lettu! Ddu credèisi ca di oghixèddu fia bëi cumprìu! Nanta chi parrìada ü far’e trattòri allùttu. Is ùttimus doxi, pòi, sesi maschittèddusu e sesi femmîèddasa, parri chi fèssinti mànnusu cummènt’e üa costèra de montànnia, tanti ca ddus ianta annommingiàusu tittànusu. Sa famìllia, dùncasa, ia fatt’a lestru a si pesai a manna e is picciòccusu, pagu abittuàusu a is sas scàbasasa lòngasa de s’univressidàdi, donnia tanti accostummànt’a si ghettai appàri. No si nau s’avvabòttu, candu movvìanta a si cettai is centu mãusu! Üa bobària furiòsa de bentu moi-moi fadìa curri izzèrriusu e pràntusu di onni arràzza, arrìsusu a scraccàbiusu ammesturàusu a càrigasa de sangui ammalloràu, chi si nci sbettuàd’a donnia furrungõi, e su mundu, sciolloccàu de su budrèllu de sa battàlla, si pesàd’ìn bobàriusu! Aìcci, a frozza de iscunvorgimmèntus sempri pru fottisi e sanguinariusu, i làgrimmasa de su Xeu si fainti steddusu e sa Terra si sciàsciada in mill’arrogheddèddusu. Sa Sadrinnia puru, in mes’e cussa cunvusiõi, pàrri chi si nci sia fuìda de s’Africa, ma senz’e is quattro murrèddusu. Inzomma, sa cata crisma univressalli è fàtta! Su babbu Xeu, sciadau, becciu e scarrappacciàu, prëu de attròsi e cun is cattaràttasa me in ògusu (arràzz’e friusu e ummididàdi, bivèndu ingüi antu, spullazzîu e’ fattu!), dezzìdidi de lassai a su primu fillu, Tittànu, totu s’eredidàdi, maccai sprappalliàda in mesu mundu! S’ùttimu nasciu, però, Cronu (a sa sadra tèmpusu), pru sanu, pru bellu e meda prus abìllu e bribbànti de su fradi mannu, ddu cunvìncidi a ddi onai su renniu, cun sa prommittènzia ca no iad’essi tentu mai 148 155 Su tempusu fillusu e, si puru nd’essi tentu, ddu s’iadèssi mòttusu appèna nàsciusu. E diaìcci faidi po tòtusu is fillusu chi arrìbbanta. Po s’ùttimu, però, sa pobìdda disisperàda ddi cuncòdrada ü fangottèddu de pedra, affascàu a tippu pippiu e si ddu presèntada po su pastu de adenòtti! Su babbu, me in su scuriu de su momèntu e pagu dilliccàu de cantrèxiusu, sì ddu divvòrada che pãi lunt’in mebi, sigùru di ai mantènniu su fuèddu donau. Ma is còsasa deppìant’andai ü poghèddu drivessammènti. S’ùttimu pippiu arribbàu e sarvau a fura, de nommini Zeus, crèscidi sanu e fotti, e appèna cùmpridi dexiottànnusu (ingüi puru s’edàdi de bessì a sou fia cussa), fai guerra a su babbu e ndi ddu scuttùllada de sa cadìra arreggia. No dd’òccidi, ca ndi tëidi piedàdi, ch’è giài becciu, però ddu pìgada a frozza e nci ddu pòttada a su soggiornu obbrigau me in su Laziu, accànta de su frummi Tevere e attèsu de sa terra sua, chi fia su monti Ollìmpu. Ma Cronu, maccai becciu, si inzaùrrada de gana bella e cun su trabàllu e sa cuncòdria de sa genti, de cuss’arroghèdd’e terra noba ndi faidi ü spizzuèdd’e paradisu. Ammòri, paxi, libbettàdi, frùmmisi prëusu de mebi, mattasa càrrigasa de fruttu, animàbisi feròcisi chi si fainti paxiòsusu! Inzòmma, ü renniu de fellicidàdi; cun is ommisi sempri giòvunusu e sãusu fai nasci s’edàdi de s’oru. Ma giai de insàrasa, me in su mundu ancòra in fàsciasa, sa imbìdia de s’ommi à cummenzàu a cresci e ponni arrèxisi in su coru de sa genti. Biendu su babbu fellìcci e cuntèntu, Zeusu gellòsu, maccai fèssid’attèsu, de su monti Ollimpu, nci ddi tìrada ü lampu chi pottà sempri in mãusu e ddu frùnmminada in cinìsu. In custu modu, po s’ànimu mau de s’ommi, accàbbada s’edadi de s’oru e cummènzada cùsssa de sa prata. Nienti prusu üa staggiõi scètti (cussa bella primavera chi no cambià mai!), ma primavera, istadi, attòngiu e ierru! Quattru staggiõisi 149 156 Bellus tempus (pàrridi chi in cussu perìudu, su primu nappullittãu cumpàrriu in sa terra, àppada imbentàu sa pìzza quattrustaggioni!). Dùncasa, pò is ommisi cummènzanta is tèmpusu de dabòrisi e zicchìrriusu de dèntisi! Trabàllu, sudòri, mabadìasa, frìusu, basca, sidi e fammi: senz’è trabbàllu, inzàrasa puru, no si podiada nì pappai, nì bivvi. De cussu mommèntu, s’ommi pèdridi s’ngenuidàdi de sa primavèra, nasci s’egoìsmu e sì nci stesia s’arregòdu bellu de su latti e de su mebi. Aicci, senz’e mancu s’accattài de nudda, s’ommi s’agàttada me in s’edàdi de su brunzu. Ma sa ia de su mabi, orammài, s’è fatta totu a cabàda. Non nc’è prus ammòri, arrispèttu po su pròximu, non nc’è pru caridàdi s’unu cun s’atru. Finzas is bixîusu si càstiant’a cujògu. E donnia dì, no si bid’atru che guèrrasa, cùn is mòttusu a peddi, po su dommìniu e su podèri. Donnia ierru si fai sempri pru fridu, s’istàdi sempri pru callènti, sa terra sempri pru pòbera e avvàra de frùttusu. Po si proccurài su pãi tòccad’a trummentài, maccài a pagu gana, e, cancü’ otta, a pèdri sa dinnidàdi e sa libbettàdi. Seusu arribbàusu po cruppa nosta a s’edàdi de su ferru. Ü’edàdi, me in sa calli donniü si bìsada de podi bivi sempri cun su gottèddu in mãusu. Ma s’ommi, chi diadèrusu esti üa bestia intelligènti, su ferru de s’odiu e de s’egoìsmu, ddu poidi scallai in su fogu de s’amòri e ddu poi torrai a latti e mebi. 150 157 E’ posta ingüi anànti, a serrai su vialli longu e derèttu po Samàssi, sa cresièdda de Santu Mattî, cussa cresièdda pòbara, fatta po is pòburusu, cumènti pòburu si fia fattu su Santu chi dd’ìanta dedicàu. Est’üa cresia beccia, beccia meda, ma is annus ddus potta bëi e no ddus cumpàrridi. Me is tempus andàusu si fadìa sa missa donnia dommìgu, po sa genti chi bivìada in su xiãu; poi su preìdi benedixìada is mòtusu de su campusantu chi fiada a fiancu. Unu campusantu pitticchèddu e arregòttu aintru de quattru mùrusu, puetta ca in cussu bixiãu morria pagu genti. Si còntada (ma sa storia nu è sigura sigura), ca po inaugurài su campusàntu de Santu Mattî, su preìdi de insàrasa, ia deppiu aspettài pru de dex’ànnusu po mancànzia de mòttusu, finzas’a candu, biu ca non si nd’accamingià nudda cun is bixîusu, si fia fattu prestai ü mottu de sa matt’e s’obia, logu bëi connòttu me in bidda. Ü’otta incarreràu, però, parri chi no ia tentu prus abbisòngiu de aggiùdus torràusu foras di omu. Sa pistillènzia, arribàd’a s’improvvìsu, gei ia bogau cos’e fai. Is mòttusu nàranta chi fèssinti a frusa. Is vìsitasa importàntisi e is cunvènnius de istùdiu paraffritteollògicusu no si còntanta me in sa storia de sa cresia de Santu Mattî, assumàncu de su 1600 a su 1950: vìsitasa de vèscuvusu, munzinniòrisi, de còntisi e mrachèsusu, de attòrisi e po finzas regìstasa. E dopu tanti vìsitasa, fu propiu in s'’Annu santu de su 1950, chi, po mèritu de dus francèsusu 151 158 Bellus tempus imparentàusu in bidda, fiada stada organizzàda s’ùttima tavollarrotùnda internazzionàlli po discùti de sa toppìnno - mastica de Seddòri. Is dus picciòccusu, Les Frères Ballones, chi nu obia nai pallõisi o busciùccasa de frèi a su nuncu, ma scetti scetti is fradis Ballõisi, àttusu, brùndusu, ogus bràxiusu, sempri bistìusu a prìnzipi de gàllusu e abituàusu a is offellerìasa de Parigi, ànti pensau, datu s’ambiènti frequentàu po tanti tèmpusu, de svilluppài ü studiu cumènti genti cumpetènti me in s’arràmmu de sa toppollogia. Sa boxi s’esti spratta subitu e no s’è fatt’aspettài ü antru grandu scienziau, studiòsu de madrònas furistèrasa, ü madronòllugu ddi aus’a nai in dì di oi. Cussu puru, Emmanuellèddo quattro, cun arrèxisi me in s’antìga monarchìa europèa e de s’erènzia de su gurrei Gustàvu de Isvezia. A nài sa beridàdi, nu è chi podèssi gustai meda meda su chi ddi adèssi praxiu.. Su cunvènniu, però, è passau a sa storia po is gràndusu arrisurtàusu ch’ia tentu. Me in sa fiera chi si fia fatta me in su Stabi de Santu Mattî, iant’espòstu is pègusu pru bèllusu de tòppisi e madrònasa de totu su circondàriu. Nanta is crònacasa de s’èpuca ca s’esempràri prus annodizzàu fiad’ü incròcciu de toppimàdro, studiàu e allevàu de is tresi scienziàusu cun is arrèxisi nòbillisi di arrèammi crèsciasa in tanti sèccullusu de istòria. Üa cosa mai bida e mai connòtta: mesu metru de longària e tres chillus e mesu de pesu! Candu, po sa disattenziõi de is guàdriasa, unu de custus pègusu si nci fia fuiu e nci fìad’attaffàu a sa prazza de su macèllu, chi fiada propiu a fiancu de su Stabi de Santu Mattî, su veterinnàriu dd’ia pigau po ü cõìllu martesu e senz’e nci penzai meda meda dd’à fattu macellài e pottai a domu sua po ddu coi arrùstu, bëi cundiu. Òi, a sa cresièdda no ndi dd’impòtta nudda chi a su costau e allàd’e pàbasa nci dd’anti accozzàu su macèllu. Sa cumpangìa, a nai sa beridàdi, è pagu praxìbi e, zettu, no ddi canta su fardaròllu a gir’a giru. Fràgusu, sõusu e animàbisi di onni’arràzza, cuncòdranta diadèrus 152 159 pagu cun sa dillicadèsa de sa cresièdda chi tëidi abbisòngiu scetti de paxi e de tranquillidàdi, ma sa bundàdi de sa genti à crobèttu donnia bregùngia e donni’abbisòngiu, cumenti ia fattu santu Mattî cun su mantellu. E’ bèrusu ca nc’esti stau scarescimèntu e pagu divoziõi po tant’ànnusu; è berusu puru ca custu fattu ha pottau cancu sciarroccamèntu a is mùrusu e a sa crabetttùra, ma sa cresièdda no s’è mai scarèscia de su santu chi dd’ia donau su nommini e dd’à boffiu assimbillài, fadèndu bëisi a deretta e a manca. E di aicci, maccai beccia e scarrappacciàda, cun is dèntisi andàdasa e sa conca mesu scroccorigàda, tremmi tremmi, e ü poghèddu accancarronàda, no à mai lassau de penzai a is àtrusu chi fianta prus abbisongiòsusu de issa. E si fadìada in dusu o tresi e, cancü’otta, in quàttru e cinqu puru, po donai ü’ òra de cunfòrtu a donnia pòburu. M’arregòdu cussu stabi, pront’a t’indarrùi a conca, accumpangiàu de inzùnchiusu e zicchìrriusu, ma cument’e sa turri de Pisa, sempri istrantàxiu me in su logu su. Arbèrgu - stabi santu Mattî, narà su cartèllu turìsticu: ü arbèrgu a tresi istèddusu o tresi...stàddasa. Ma, in donnia modu, arregallàda, po cussus tèmpusu, servìziusu de prima crassi, mànnusu e ariàusu, appàbas de is cresùrasa de figheìndia de bi’e Castèddu. Ü arbèrgu mabandàu, è bèrusu, ma cantu pòburusu ad’ai biu, in disi de sobi o in nòttisi de intempèriasa, croccàusu in sa friscùra, cancü’otta scallentàusu de u’ zicchèddu de mruguèu in prusu, o riparèndu de su frìusu e sa straccìa. Fiada, de su restu, s’arbergu pru connòttu po su seddorèsu pagu in pottafòlliu. Nisciùnusu domandà catta de cannosciènzia pressonnàlli o boìada arricevùta sfiscàlli. Tòttu a straccu barattu e senz’e nisciùnu contròllu de sa guadria de finànza. De pagu, a sa cresièdda, dd’anti 153 160 Bellus tempus torrau a fai sa cur’e sa bellèsa e s’è torràd’a giovunèdda! In conca sa coròna de teba antìga cabòr’e coràllu, su bistìri totu arricamàu a pedra traballàda; orecchîusu nousu po fentànasa, imbellettàda e allipuzzìda, ca pàrri bessìda frisca frisca de lavatriciasèccu. E no anti scarèsciu mancu su Santu! De ü scantus ànnusu a custa patti, sa bona volluntàdi de su bixiãu à torrau a bogai sa bella festa de Santu Mattî. Esti üa festa po genti fatta a sa bona, senz’e grandus pretèsasa, naràusu sa festa chi pràxidi a is seddorèsusu: missa e brufessiõi po onnorài su Santu; pisci a collèttu po spassiài sa genti. Pisci a collèttu a donnia manèra: a forru e poi piricciòu a bruncu, scuppau a nou de sa carradèdda, appètta appòsta po s’ùndixi de donniasàntu. No si narà, difàttu, ca po santu Mattîu donnia mustu s’e’ fattu bîu? Totu custa bellèsa de festa è callentàda de sa pampa bia de su fogadõi, e cundìda de s’allirghìa de is pippìusu e de is mànnusu, puètta ca Santu Mattî è sa festa de tòtusu. Però, candu cumènzad’a muccai sa notti manna e su frischèttu de s’attòngiu si faidi intèndi, parri chi manchi cancüa cosa po cumpretài sa cuntentèsa de sa genti. Di fattu, castièndu sa cresièdda incannacàda de istèddusu e allùxîada de sa pampa de su fogadõi ardènti, bëid’a sa memmòria cussu bell’arregòdu de candu si fia picciocchèddusu: su stabi de santu Mattî! Ü stabi ghettau anànti de sa cresièdda cumènt’e su mantellu de su Santu ghettau me is pàbasa de su pòburu. E sùbitu ü penzamentu: no nc’eusu arrennèsci a ddu torrai a bì, pesau a nou, bellu po sa dì e po sa notti, po sa basca o po su friusu e, cust’otta, po su poburu e po s’arriccu? Invocaziõisi sadrasa 2 154 161 155 Bellus tempus Gruxi santa serenada innoi s’è prantada po arregolli sobi e serenu Gesu Cristu Nazzarenu. Invocaziõisi sadrasa Gesù Crìstu èst’û Angiõi e Ti promittu Gesusu de no Ti offendi prusu in totu sa vida mia: ddu salludeusu impari cun Giuseppi e cun Maria. Sa cenabara Santa sa dì de Nosta Sinniora, passàd’èsti innoi de bonora, cun sa Maddallena accanta. Ohi, ta mabasa arrispostasa Sinniora mia chi s’appu bittiu! A Fillu ostu cussas faccis tostasa a crucifissai ddu pottanta, nozzenti che pippiu. Ah, t’arrazza de novasa m’ei pottau, ca mindi lìanta po finzas is sentidusu! Penzai o mammasa chi teneisi unu amau su dabori provau chi nci pedreisi is fillusu! Benei a prangi, aggiudaimì! A is peisi de Fillu miu totusu ghettaisì ca malli non d’eis’aghettai e po custa cundanna eis’a tenni de nai. Ca tre disi innantisi de morri ad’a bì a sa Mamma de totusu sa sorri impari cun is apostullusu susu su Cor’e Maria e su de Gesusu dona sa grazia a chi à creau a mei fradi tuu e a chi è battiau. Angiullu miu, apperrimì sa ia c’ollu bì su fillu de Maria! Ca est’allogàu in s’Artari Maggiori aintru de Cresia cun grandu amori aintru de Cresia cun assentu salludi a Gesusu e a su Sacrammentu! In sa potta dei Ballèisi ddoi à meda sodrausu e unu incravau ûa femmia no attobieisi chi si domànda pei bia: - Biu dd’eisi a Deusu fillu de Maria? - Sì, sì, ca dd’appu biu ca innoi è passau in mes’e sa ia. Ave Maria, frori de lillu sa Mamma cun su Fillu su mundu s’è sciusciau po unu solu de peccau. Chi Adamu ha fattu totu po cussu Deusu è motu in sa gruxi incravau! Pillàtusu dd’ìa cundannau chen’e causa o arrexiõi. 156 163 157 164 Bellus tempus Su pannu miu dd’appu donau po si strexi sa facci Sua Santa ca sciustu fiada cun sa gruxi accanta. Andausu e debressi andausu ca pru trigausu andendu e incravau dd’aghettausu cun is obibisi chi ddu fainti pendi cun is obibisi de ferru me in mãusu e in conca sa corona de pena; a chi ad’a nai tre botasa i lausu sravada û anima sia sua che allena. Invocaziõisi sadrasa e s’atra me in sa menti e passa su nozzenti ddu biu andendu in su camminu. Bittei a innoi ollu Santu a battiai su Spiritu Santu. Su lettu miu è de quattru cantusu e ddoi cròccanta quattru Santusu dusu a peisi e dusu a conca: Nosta Sinniora è po mei pronta! Sa campana è tocchendu, Gesusu est’abbasciendu cun s’Ostia cunsacrada beni ciuetta e cummossada, cun su latti de Maria, Ostia Santa a s’anima mia. Sa cammisa mi bistu a nommi de Gesu Cristu, a nommi de Nosta Sinniora Gesusu e Maria mi lessinti in bonora. Su lettu miu è de quattru peisi. Angellu bellu chi ti ddoi sèisi, Angellu caru Serraffinu deu mi pongiu sa mãu in su sinu 158 165 159 166 Bellus tempus Is pregadoriasa Avi maria Is pregadoriasa Avi Maria, prena de grazia, su Sinniori è cun tegusu. Beneditta ses Tui intr’e totusu is femmîasa, e beneditt’è su fruttu de is intrannias Tuas, Gèsus. Santa Maria, Mamma de Deusu, prega po nosatrus peccadorisi, immui e in s’ora de sa moti nostra. Aicci siada. In nommi de su Babbu, de su Fillu e de su Spiridu Santu. Aicci siada. Groria a su babbu Babbu nostu Groria a su Babbu, a su Fillu e a su Spiridu Santu. Cummenti fìada in prinzipiu, immui e sempri me is secullusu de is secullusu. Aicci siada. Babbu nostu chi seisi me is xelusu sia santificau su nommini Tuu bengia su renniu Tuu sia fatta sa volluntadi Tua cummenti in su xeu aicci in sa terra. Su pãi nostu di onnia dì donanosì a nos’ òi e pedronasì is peccaus nostusu cummènti nosu ddus pedronausu a is depidoris nostusu. No si lessisti arrui in tentaziõi ma liberasì de malli. Aicci siada. 160 167 161 168 Bellus tempus Sa domu antiga Sa domu antiga (e su comudu me in su...muttõi) No è tempusu meda chi is domusu de Seddori fattasa giai sempri a ladriri ammesturau cun palla, in forasa parrianta bellasa, luxentisi de cabori, ma aintru s’inginnieri ia fattu pagu galla. I murusu de mesu o cussus de sa ia, tirausu a susu a ogu, de unu pagu abillu, cun gobba dd’accabbànta, chi si pedrìa pebia: a tipu cu de forru o fund’e tistivillu. Su scer’e s’arreggiolla obia pagu lareddu. Sa frabbica nasciada candu nci fia s’accorru De baccasa o de boisi me is domusu de zi’Accheddu. Frisca si oddìa sa medra, po fai fomment’a forru. I mãusu no accudianta a morigai s’impastu, po nci ddu spraxi in terra e subitu allisai, chi nu abarressi bungiusu o trass’e cancu guastu. Su chi arribbàd’in visita no deppìa tëi de nai. Finiu de pianellai, benia s’attrippa scova, fatu de marmu lisu o linna fiammanti. Su banniu andà fattu cun d’una doccia in prova, 162 169 163 170 Bellus tempus Su tuist’e arrellichiu is sanitariusu biancusu e üa bella vasca ananti! Sciadaus de nosu poburusu! Atru che vasca ananti! Òi, po ddu nai pru craru, non nc’è chi ddu scaresciada Cussu muttõi abettu cun gecca e cun potanti, e ü bellu fragu mau chi sempri ndi bessiada. S’arreccummàndu poi sa brenti chi si unfràda, ca ti obbrigàd’a intrai cun tempus fridu o gellu! Sa crobettura fatta de linna giai siccàda, fadia passai su entu o s’acqua abellu abellu. Sa tab’e s’appattai fia posta proppiu in mesu, affottiàda pagu e poi accozzàda a ogu. Di fattu is abbisongiusu pottànta a andai attesu, cun is peisi a fai su dòndullu, cummènti ddu appa fogu. Su tuist’e arrellichiu Deu su trigu no ddu mollu, no ddu toccu su sedazzu, a tuìstu mi nci ammollu e su pãi no ddu fazzu. Babbu currid’a spongiai sorri mia allui su forru, gei nc’è mamma a cummossai Su picciocchedd’i òi, mùccada me in sa stanza E liggendu su giornalli, abètta su coccoi. No tenni pressi mai, ca si stai bëi abbastanza: su logu è profummau de bellu fror’e arroi. Tui mi fai sa costeddedda, deu ti baddu de ammengianu, a su fogh’e sa forredda su tuìst’americanu. Chi a lestru no intrasta, giai prontu a ndi dda fai, a nadia limpia e lisa e is cosas de appiccai, ddoi fia sa puddixedda, giai pront’a ti biccai. E ü spizzu me is sannorisi, gei fìa cos’e provai! Turradori e muziõi po girai me in sa scivedda, gei ndi essi su coccoi po sa bella picciochedda. Su bru - ginsi fai gallosu po sa dì e po sa notti, sa ciumgomm’e su fadosu 164 171 165 172 Bellus tempus Poesias srebi propiu a fai sa cotti. Pappu, buffu e m’indafutu, ca po crasi no ddu sciu, baddu sempri scadrallutu su tuìst’e Arrellichìu. Trintasettista (anno 1996) Su domigu de sa Pramma a sa una e cimqu in puntu, sa cumpangia de sa bramma faid’ü prangiu a pani luntu. Totusu anch’è Giovanni Medda, a prandi cun appittitu, accùlliusu in d’üa xedda, ma sen’e call’e crabittu. Antipastu a serr’a serru, pastasciutta a frocus mannusu, bistecchedd’e procch’e ierru, bîu nieddu de tant’annusu. Su motivu de sa riunioni È sa gita in continenti; no fazzaisi üa confusioni! Su dinai, o bona genti! Su chi srebidi ddu scieisi. Po donnia coppia ü millioneddu. Pottaindeddu chi beneisi, o s’attaccaisi a Larenzeddu! 166 173 167 174 Bellus tempus Poesias Uspidalli In mesu de üa tempesta de sa vida mia, mi seu aghetau in d’üa lettiga scura, prëu de daborisi po üa strana malladia, chi s’è fatta longa e pagu che sigura. Ma ü mengianu paràda s’esti a s’improvvisu üa puba bella de infermiera sorridenti, ca sceti castiendidda m’è patta sollu ü bisu, filla de ü steddu nou de xeu arrisprendenti. E subitu in su coru dollenti e affrigiu si point’a pari is orasa bellasa cun cussas mabasa, e grandu luxi nascidi in mes’e su scuriu, po fai scaresci is penasa po tanti disi passadasa. Andend’a innantisi in su contu de sa corsia, tra prellievusu de sangui e misur’e callentura, mi parriada di essi me in sa giusta bia, po accabbai a lestru su tempus de tristura. Ah, cant’è leggiu s’arregod’e ddu contai, is disi chi appu fattu in s’avventura, c’a nemmusu si dd’auguru mancu mai, de bivi aicci tristu e tanti malli stai! S’arreccumandu cussa sveglia, fatta sempri a crazza, candu su cabõi ancora nu à cantau! Sonusu s’intendinti de ferrallia di onni’arrazza, ca su mobadiu si ndi pèsada maccai siada indrommiscau. E gìranta luxentisi agusu e pratilliasa, po pungi senz’e coru e sangui ndi furai, po ponni frebusu a litrusu in buttilliasa, ca su trumentu no teni sièr’e dd’accabbai. 168 175 169 176 Poesias Bellus tempus Intristida Intristida, sa boxi mia, si pèsada a contai sa pena, spiritu di entu infrorau de sobi in su mengianu. S’arrisu bellu de is ogus tusu, un spizzu nou mi tòrranta de cussu xeu steddau, chi pedriu giai intendìa. Callènta sempri su sobi, mancai annurrau, chi nasci cü amori. (anno 1999) No prangiasta Maria No prangiasta, Maria, po Fillu Tuu ingruxiau. De Deus è su merì cument’è su mengiãu. Su sobi, nasciu de sa notti, è limpiu de pecau. No prangiasta, Maria. Su sangu’e su costau currend’a s’agonia, sa terra at cumossau. Po cussu prim’arrori, premitiu o cumandau, de su Respiru Eternu s’àbidu pru bellu s’à lassau: Gesusu, luxi di onnia bia! Ti pregu, no prangiasta Maria. (anno 1999) 170 177 171 178 Bellus tempus Poesias In sa pott’e su Sinniori In sa pott’e su Sinniori cent’e tresi funti is sodrausu, po sa tumba de dolori ingiriàd’e cristiãusu. Nosta Sinniora addolorada cun is apostulus angiullus susu, a sa genti domandàda: biu dd’eis a Fillu Gesusu? Biu dd’appu in sa bi’e passai, pann’e linu dd’appu donau, gruxi manna toccàd’a pottai, coron’e spina dd’ant appuntau. Currei, o genti, currei, aggiudai, santus obibisi dd’abrùxiant’is mãusu. Sinniori Gesusu, su cor’ascutai, sravaus de s’inferru totus siausu! (anno 1999) Cussas mãusu Cussas mãusu chi accudíanta a totu mi ddas arregodu ancora, dì e notti, sempr’in avabotu. ca no teníanta sigures’i ora. Cussus tempus no scaresciu mai candu is mãusu accudiant’a totu, prangiu, strexiu, pippius de castiai e puddixeddas in s’or’e s’otu. E cussas mãusu iscolliádasa chi fia giustu, e ddu tengiu annotu, accudianta puru ai nadiádasa. Accudianta a totu, cussas mãusu! A fai su pãi a pizzicorru, sanziai pippiusu indrommiscausu, a segai linna e allui su forru. Òi, ca mamma, tui s’è mota, deu ddu sciu, ndi seu siguru, sezia a scannu me ingüi in susu, siad’ a luxi, siad’a iscuru, pénzasa sceti a fillus tusu. 172 179 173 180 Bellus tempus Poesias Cussas mãusu chi accudiant’a totu, arrasend’in s’eternu bisu si prepàranta, beni arregotu, unu spizzuedd’e Paradisu. S’e’ fatta luxi (anno 1995) Ascutta Fillu, ca s’ é fatta notti e no è notti. Fillu, attentu, no è prant’e maba sotti su lamentu de custa notti chi no è notti. Fillu, ascutta, su dabori è fotti. ca sa genti è arrutta in bratzus a sa motti, in custa dì chi s’è fatta notti. Fillu, castia su Sinniori. Est’incravau de sa genti chen’e amori. Fillu, sa vida s’at donau me in sa gruxi, fradi nostu Gesusu. Alleluia, Fillu, ca s’è fatta luxi e notti no è prusu! 174 181 (anno 1996) 175 182 Poesias Bellus tempus Steddu fuiu S’uttimu sparu, e sa famillia cun sa genti a dommu, a mãu pigàda. Su xeu è craru e sa festa è giai passada. Üa lagrima callenti a su lugori de sa notti andàda nd’at sottiu, basidu di amori, a cussa mamma. Arris’à su pipiu, e subitu sa lagrima s’è fatta steddu, stedd’e fiamma, a curri me in su xeu pulliu, angiulleddu, de su coru fuìu! 176 183 A luna noba A luna noba de arris’abétu sa notti crara faid’allirghia, su coru bàndada cicchend’affetu in su giardin’e sa prenda mia. Curri silenziu in boscu incantau, drommi sonnendu sa bella pipia liggera sa boxi in lettu biau, gentibi e sincera ddi fai mellodia. De i stella potàda m’apparid’in bisu, velludu sa mãu a istringi su coru, ta bellu s’arcanu de cussu sorrisu chi gira narendu: ti amu e ti adoru! Bellu miu coru, s’è sobi po mei. De xeu cussus’ogus ü spizzu furau. Coru miu bellu, no trighist’a bëi, (anno 1999) (anno 1996) 177 184 Bellus tempus Incipit Incipit (anno 1985) (anno 1985) 186 179 186 Siguru mamma (libera traduzione in sardo di “A mia madre”) Mamma, siguru in Paradisu, momentu po momentu, ansiosa tui mi cástiasa, a sospirus de rosariu senz’e tempus, e disi de preghiera stendisi me is mãusu, luxi domandendu, po su viaggiu miu. E a merì, me in s’enna de s’Eternu, siguramenti tui m’abbrazzasa, cun d’ü sorrisu ch’è suspiru de rosariu senz’e tempusu. 178 185 Indice INDICE Pag.5 Pag. 7 Pag. 14 Pag. 15 Pag. 19 Pag. 25 Pag. 30 Pag. 31 Pag. 40 Pag. 40 Pag. 42 Pag. 43 Pag. 47 Pag. 48 Pag. 51 Pag. 58 Pag. 60 “Questo libro” Introduzione Nota Incipit Arregòdusu de picciòccus de crobi Is annommìngiusu Sa xida S’avventùra de sa vida Cancü diciu Narànta is antìgusu Sa xida de su mandrõi Giògusu e gioghìtusu Is mèsisi de s’annu Cancü diciu Mexîasa de ü otta Is àttisi de ü tempusu Invocaziõi Pag. 61 Cara mammaicella Pag. 69 Pag. 77 Pag. 83 Pag. 89 Cara mammaicella (Segunda missiva pistollàre di Aborea) Cara mammaicella (Atra missiva di Aborea) Cara mammaicella (E siammo già a quattro come ammisssive) Cara mammaicella (Missiva finalle da Aborea) (Currispundenzia…epistullari de su spattriu a Aborea) 181 188 INDICE Pag. 95 Pag. 101 Pag. 102 Pag. 105 Pag. 113 Pag. 116 Pag. 119 Pag. 131 122 Pag. 133 124 Pag. 139 130 Pag. 143 134 Pag. 147 138 Pag. 151 142 Pag. 154 145 Pag. 158 149 Pag. 162 153 Pag. 167 158 Pag. 170 161 Pag. 172 163 Pag. 174 165 Pag. 175 166 Pag. 177 168 Pag. 178 169 Pag. 179 170 Pag. 180 171 Pag. 182 173 Pag. 183 174 Pag. 184 175 Pag. 186 176 182 189 Dicius sadrusu…. seddoresus Contisceddus Su preìdi e sa gommai Is tres fràdisi Sa cadrallîa Su goppai Su serpènti e su pastòri Is duas connàdasa Su crabu zurpu Su sabattèri de Cruccùrisi Maria Xinìsu Luisa Ottighìtta Su susùncu e Carrafîa su befiãu Su tèmpusu (Sa storia pagana de su mundu) Su stabi de Santu Mattî Invocaziõisi sàdrasa Is pregadoriasa Sa domu antìga Su tuist’e arrellichiu Trintasettìsta Uspidàlli Intristìda No pràngiasta Maria In sa Pott’e su Sinnori Cussas mãusu Se’ fatta luxi Steddu Fuiu A Luna Noba Siguru Mamma Finito di stampare nel dicembre del 2011 seconda edizione