47°ANNO SOCIALE - Circolo del Cinema Charlie Chaplin

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47°ANNO SOCIALE - Circolo del Cinema Charlie Chaplin
47°ANNO SOCIALE
CIRCOLO DEL CINEMA
C H A R L I E C H A P L I N
Calendario delle proiezioni
FILM D’APERTURA - Martedì 14 ottobre 2014
Jimi - All Is By My Side di John Ridley
TALENTI E DESTINI
21/10/2014 - L’uomo in più - Regia di P. Sorrentino
28/10/2014 - Frances Ha - Regia di N. Baumbach
04/11/2014 - Frank - Regia di L. Abrahamson
11/11/2014 - Spaghetti story - Regia di C. De Caro
SLIDING DOORS
18/11/2014 - Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’Oriente
Regia di S. Estibal
25/11/2014 - Lunchbox - Regia di R. Batra
02/12/2014 - Father and Son - Regia di H. Koreeda
SENTIMENTI IN CAMMINO
09/12/2014 - Le weekend - Regia di R. Michell
16/12/2014 - Pazza idea - Regia di P.H. Koutras
13/01/2015 - La gabbia dorata - Regia di D. Quemada-Diez
MAKE UP
20/01/2015 - Solo gli amanti sopravvivono - Regia di J. Jarmusch
27/01/2015 - L’arte della felicità - Regia di A. Rak
03/02/2015 - Blancanieves - Regia di P. Berger
10/02/2015 - Snowpiercer - Regia di B. Joon-ho
NEL NOME DEL PADRE
17/02/2015 - Padre vostro - Regia di V. Bresan
24/02/2015 - Stop the pounding heart - Regia di R. Minervini
03/03/2015 - Station of the cross - Regia di D. Brüggemann
INTERNI DI FAMIGLIA
10/03/2015 - Gebo e l’ombra - Regia di M. de Oliveira
17/03/2015 - Ida - Regia di P. Pawlikowski
24/03/2015 - Il passato - Regia di A. Farhadi
31/03/2015 - I segreti di Osage County - Regia di J. Wells
COMING SOON
07/04/2015 - film anteprima
14/04/2015 - film anteprima
21/04/2015 - film anteprima
47anno
Cari soci..
Eccoci, siamo pronti a ripartire per un nuovo viaggio
attraverso il racconto delle immagini.
L’anno scorso avevamo sottolineato con “riprese italiane”
il felice momento della nostra cinematografia; oggi,
considerato quanto offerto dai vari festival internazionali
e nazionali, ci pare sia il caso di soffermarci su quanto
si produce in ambito UE. Comunità - ricordiamolo - a
cui si aderisce solamente per scelta politica; che vanta
profonde radici comuni ma anche tradizioni e costumi
peculiari fortemente sentiti dalle singole realtà locali.
Insomma, un patrimonio culturale, antropologico, ricco,
variegato e forse contraddittorio che in parte ci lega e in
parte ci divide. Una comunità che oggi – questo ci preme
evidenziare – discute e dibatte dei problemi dello stare
insieme qui e ora. E’ proprio dello “stare insieme”, delle
nuove aspettative e delle diversificate ansie che la migliore
produzione cinematografica dei paesi UE si fa specchio,
capace di restituire immagini, denotate da una grande
varietà di forme e di stili degni di grande attenzione e,
forse, riconoscibili come “made in UE”. Il racconto di
questo tempo europeo – attuale e contemporaneo –
avviene, appunto, su diverse strade e diversi cammini ma ci pare - con una marcata capacità di distinguersi. In tutti
i cicli del programma è dunque sottesa una domanda: è
possibile rinvenire un “fare cinema” europeo? La risposta
la darà ogni socio.
Veniamo ora ai racconti del programma 2014/2015. Come
consuetudine le opere proposte vengono organizzate
all’interno di cicli tematici, cioè di contenitori creati al
solo fine di segnalare affinità, comunanze di stili e/o di
toni, condivisione di scelte di natura narratologica e/o di
genere, in una parola, legami culturali.
Talenti e destini racconta il mondo dello spettacolo
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e dei diversi percorsi per arrivare al successo. Se Clint
Eastwood ci regala un altro gioiellino da “cinema classico”
rileggendo la storia dei Jersey Boys, Noah Baumbach, con
un appropriato bianco e nero ed una sinuosa camera a
mano, confeziona una pellicola disincantata e schietta che
presenta più di un valido motivo per essere “gustata”, con
gli occhi e con il cuore, da ogni spettatore, per la capacità
di mettere in scena l’umana imperfezione. In Frank
l’esperienza autobiografica di Jon Ronson - sceneggiatore
di Frank ed ex-tastierista di Frank Sidebottom, sconosciuto
performer e alter ego del comico Christopher Sievey - è solo
la base per dare corpo ad un’ idea bizzarra ma memorabile
e destabilizzante. Il film di Lenny Abrahamson è infatti
la riflessione su molte cose, certamente penetrante, sul
dono e la maledizione di nascere musicista ma, ancor di
più, uno sguardo approfondito sulle sensazioni di una
persona che non riesce a guardare negli occhi chi ha di
fronte ma, contemporaneamente, ricerca il successo del
grande pubblico. Talenti e destini si scontrano anche
nel disincantato ma italianissimo Spaghetti Story
dell’esordiente Ciro De Caro.
Sliding doors ovvero cosa può succedere se le certezze
della vita quotidiana - anche quelle piccole - si modificano,
se la quotidianità della vita subisce una piccola ma
significativa variazione. Inizieremo questa esplorazione
con l’ironia di Un insolito naufrago nell’inquieto mare
d’Oriente per addentrarci nelle più complesse situazioni di
Lunchbox e Father and son.
Sentimenti in cammino rientra nel macro-genere
del ‘viaggio’. Lega queste opere la capacità di mettere
nitidamente in scena i diversi i sentimenti che animano
e guidano i protagonisti. Ne La gabbia dorata, di Diego
Quemada Diaz, il tema è quello della frontiera intesa come
limite e separazione: linea che separa i ricchi dai poveri,
l’arretratezza dallo sviluppo; un confine da aggirare e
superare grazie alla condivisione ed alla solidarietà. In
Le Weekend, e in Pazza Idea ci si mette in viaggio alla
ricerca di qualcosa che si è persa o non ancora trovata; un
viaggio per ricucire una ferita, la fine di una scissione, per
ritrovare la pienezza e l’equilibrio al proprio essere.
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Make Up riunisce le opere in cui l’autore sceglie la
trasfigurazione del reale quale condizione necessaria per
poter esprimere il proprio punto di vista, la propria visione
dello stato delle cose. In Solo gli amanti sopravvivono
Jarmusch fa dei suoi vampiri due antiquari languidi come lui innamorati dei lampi elettrici di Tesla e dei White
Stripes, della lentezza analogica e del vinile - eroi di un
romanticismo perduto, stilizzati come bellissime figurine.
Parodia elegante, divertissement ironico che restituisce ai
vampiri la nobiltà perduta, con un canto funebre sorridente:
freddo eppure spensierato come un ghiacciolo al sangue.
Ne L’arte della felicità, lungometraggio di animazione,
Alessandro Rak, trasforma un taxi in un microcosmo in
cui il protagonista si rinchiude per sfuggire al suo mondo.
Mentre fuori imperversa la tempesta, l’auto si affolla
di passeggeri: sono anime, fantasmi, memorie, ricordi,
speranze, rimpianti e nuove occasioni. Blancanieves,
vincitore di ben dieci premi Goya, gli Oscar spagnoli, è una
rivisitazione in chiave macabra e grottesca della celebre
favola dei fratelli Grimm. Film muto e in bianco e nero,
ambientato nell’Andalusia degli anni ‘20, Blancanieves è
innanzitutto un grande omaggio al cinema muto, ricco
di citazioni e riferimenti a registi come Friedrich Wilhelm
Murnau, Eric von Stroheim e Tod Browning. Coinvolgente
ed emozionante dal primo all’ultimo minuto, ha tra i
suoi punti di forza un incantevole apparato visivo e una
toccante colonna sonora, realizzata dal compositore
Alfonso de Vilallonga. Con Snowpiercer, il più costoso
film mai prodotto in Corea, Bong porta sullo schermo un
classico della fantascienza. Non è solo un’efficace opera
di genere, ma anche la ricercata occasione per condurre
una riflessione filosofica sulla natura dell’uomo e le sorti
dell’umanità: metafora cupa e inquietante, disperata e
appropriatamente raggelante, ma al contempo ironica e
aperta ad un finale di speranza.
Nel nome del Padre propone un’ attualissima
riflessione sui pericoli della religione intollerante e
integralista: si va dalla imprevedibile indole balcanica di
Padre Vostro e attraversando i territori della provincia
americana narrati da Roberto Minervini di Stop the
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pounding heart, si giunge all’inaspettato fondamentalismo
religioso di Station of the cross “ come ogni sistema che
non accetta altra verità che la propria… è la negazione
stessa della vita”. (Anna Brüggemann, sorella e cosceneggiatrice del regista Dietrich).
Interni di famiglia racconta le storie dei diversi
sentimenti che il micro-cosmo sociale è in grado di
evocare. A dare corpo ai fantasmi e ai sentimenti che
popolano le mura domestiche, sono tre grandi autori di
cinema, Manoel de Oliveira, Pawel Pawlikowskie e Asghar
Farhadi oltre alla gradita riconferma di John Wells (Killer
Joe). Infine Coming soon ci consentirà, come è ormai
nostra consuetudine, di recuperare le “pellicole” che la
distribuzione commerciale ci nega.
Non possiamo chiudere la nostra presentazione senza
ricordare la scomparsa di Domenico (Mimmo) Borrello,
amico e dirigente, per lunghissimi anni, del Circolo ed a
noi tutti molto caro. Lo ricordiamo qui con grande affetto,
sicuri che sarà sempre con noi.
A presto in sala con tutti
P.S. L’anno scorso avevamo sollecitato ed auspicato una
comunanza di intenti ed un maggior coordinamento nel
mondo dell’associazionismo cittadino. Nel nostro piccolo
abbiamo cercato, coerentemente, di farlo, aiutando anche
gli amici del Museo dello Strumento Musicale. Altri, invece,
in nome di “ansie di spazio” metteranno il pubblico dei
cineclub nella condizione di seguire con molti affanni
e grandi difficoltà proposte cinematografiche che si
sovrappongono temporalmente. Sulla libertà di ognuno
non si discute; parimenti sulla libertà di giudizio. Non resta
che una mera constatazione: lo spirito “Rriggitaneddu”,
mirabilmente descritto nelle poesie di Nicola Giunta,
alberga sempre in questa comunità.
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47°
Anno sociale
2014 - 2015
21 ottobre 2014
Talenti e destini
L’uomo in più
Regia: Paolo Sorrentino; Sceneggiatura: Paolo Sorrentino;
Fotografia: Pasquale Mari; Montaggio: Giogiò Franchini;
Scenografia: Lino Fiorito; Musiche: Pasquale Catalano;
Interpreti: Toni Servillo, Andrea Renzi, Nello Mascia, Ninni
Bruschetta, Angela Goodwin, Roberto De Francesco, Enrica
Rosso. Italia 2001. Durata: 100’
Napoli, anni ‘80. Tony è un cantante all’apice del successo.
Sprezzante e apparentemente sicuro di sé, ma cocainomane
incallito e con la morte del fratello sulla coscienza. Antonio
Pisapia è uno stopper integro che non si presta ai trucchi
del calcio scommesse. I due cercano di risalire la china,
ma se Tony sembra disilluso, Antonio è convinto di potere
essere un valido allenatore. Film interessante ed ispirato a
due personaggi reali: il cantautore Califano e il calciatore Di
Bartolomei. Si svolge in una Napoli diversa, spietata e cinica
senza mai essere folkloristica.
Il primo lungometraggio del regista napoletano, presentato
nella sezione Cinema del Presente alla Mostra Internazionale
di Arte Cinematografica di Venezia del 2001, vince il Nastro
d’Argento per il miglior film esordiente e ottiene tre
candidature al David di Donatello. Oltre che regista, Paolo
Sorrentino è autore del soggetto e della sceneggiatura,
nonché si diletta, insieme all’amico Nino Bruno e a Peppe
Servillo (fratello di Toni e leader degli “Avion Travel”) nella
stesura dei testi de “La notte” e di “Lunghe notti da bar”. Le
canzoni di Tony Pisapia sono interpretate dallo stesso Toni
Servillo.
Lo schema a quattro punte con “l’uomo in più” è ispirato allo
schema tattico applicato da Ezio Glerean con il Cittadella,
Sorrentino però ce lo serve come intuizione, ipotesi di
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rinascita dal caos giovanile nella maturità. E sebbene non più
giovanissimi i protagonisti è questo che tentano, fallendo
compiutamente.
I titoli di testa del film mostrano un’analogia con la scena
finale del film “Le conseguenze dell’amore”. In entrambi i casi
infatti l’attenzione si sposta su un personaggio (il fratello in
un caso, un amico di infanzia nell’altro) totalmente estraneo
ai fatti narrati nel film ma la cui assenza è importante nella
caratterizzazione psicologica del protagonista.
Superlativa interpretazione di Toni Servillo, memorabile
il lungo monologo-riepilogo della sua vita, dinanzi
all’attonito conduttore televisivo. Meno poliedrica ma
ugualmente all’altezza, l’interpretazione di Renzi (sua l’idea
di caratterizzare il personaggio con un lieve accento umbro)
che oltre alla fisicità, assume il portamento e le precise
movenze dei calciatori dell’epoca, robusti e impettiti ma
non certo muscolosi come quelli attuali (come si vede nel
suo ingresso sul terreno del San Paolo, scena peraltro girata
“velocemente”, prima di una partita casalinga del Napoli).
Sorprendente e di notevole impatto, nella scena che segue
i titoli di apertura, lo sproloquio con cui il “Molosso” (Nello
Mascia) si scaglia contro i suoi giocatori (tributo al “Petisso”
Bruno Pesaola, celebre e focoso allenatore del Napoli,
liberamente ispirato al sergente Hartman di “Full Metal
Jacket”).
Facendo già sfoggio di uno stile che poi affinerà nelle
opere successive, Sorrentino affonda oltre l’apparenza delle
persone e ne traccia le multiformi personalità, stavolta in
una fase della vita comune ad ogni essere umano: il declino.
Ne dipinge le ombre, che già si insinuano nel momento
del successo, della massima soddisfazione personale che
spietatamente precede la decadenza. Atmosfere cupe,
sordide, un senso di solitudine quasi costante, si alternano al
ritmo leggero e volubile degli anni ‘80. Una scelta di opposti
certo non casuale. Come casuale non è l’oggetto d’indagine
di Sorrentino, ovvero il lato oscuro di due colonne portanti
del nostro paese: il calcio e la musica leggera.
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28 ottobre 2014
Talenti e destini
Frances HA
Regia: Noah Baumbach; Sceneggiatura: Noah Baumbach,
Greta Gerwig; Produttore: Noah Baumbach, Scott Rudin,
Rodrigo Texeira, Lila Yacoub; Fotografia: Sam Levy;
Montaggio: Jennifer Lame; Scenografia: Sam Lisenco;
Interpreti: Greta Gerwig, Mickey Sumner, Adam Driver,
Michael Zegen, Patrick Heusinger; USA 2012; Durata: 86’
Frances vive a New York, ma non ha un vero e proprio
appartamento. è un’aspirante ballerina, ma non fa
veramente parte della compagnia con cui danza. La sua
migliore amica Sophie è per lei un’altra se stessa con capelli
differenti. Ma quando Sophie conosce Patch e si trasferisce
da lui, Frances deve imparare a badare a se stessa. Frances si
butta a capofitto nei suoi sogni, anche se le loro possibilità
di realizzarsi diminuiscono. Frances vuole molto di più di
quello che ha, ma vive la sua vita con un’incalcolabile gioia
e leggerezza. Frances Ha è una favola in chiave comico
moderna dove Noah Baumbach esplora New York, l’amicizia,
la classe, l’ambizione, il fallimento e la redenzione.
Il filtro dello sguardo è tanto curioso quanto affettuoso e
non si sa se sia più la Gerwig ad offrire l’anima a Francis,
la protagonista del film, o la sceneggiatura del film, scritta
dal regista, ad offrire all’attrice quanto di meglio potesse
chiedere. Il film è girato in bianco e nero e per questo
aspetto vuole richiamare direttamente molte pellicole di
Woody Allen (vedi “Manhattan”) dove protagonista diventa
anche, se non solo, la città di New York stessa.
Gaffes, goffaggini e disavventure connotano questa ragazza
giovane ma non giovanissima (27 anni viene detto più volte)
con la sindrome di “Peter Pan” che sembra non voler proprio
imparare né a vivere né ad avere rapporti sociali semplici.
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I maggiori problemi sembrano nascere quando Frances
deve imparare a badare a se stessa perché la sua migliore
amica nonché roomate Sophie, si innamora di Patch e va
a vivere con lui. Sophie rappresenta una sorta di alter ego,
tanto precisa, pulita e ordinata quanto Frances disordinata e
trasandata. “L’essere e l’apparire” è il suo dramma quotidiano
che in tal mondo perde affetti, lavoro e piaceri: ad esempio
il suo week-end a Parigi è uno dei week-end più disastrati
visti sullo schermo.
Il bianco e nero aggiunge inoltre una prospettiva romantica
e atemporale che si adatta alla perfezione a questo ritratto
di una ragazza di oggi, in viaggio da un appartamento
da dividere all’altro, che deve fare i conti con aspirazioni
smisurate e soldi contati, ma è allo stesso tempo e prima
di tutto una donna, che potrebbe appartenere a qualsiasi
epoca.
Ciò che rende Francis un personaggio, o “carattere”, è il
possesso di un punto di vista sul mondo assolutamente
personale. Non siamo di fronte ad una bambinona cresciuta
o, se è anche questo, lo è nel suo aspetto meno comodo e
patologico: Francis sa quello che vuole, semplicemente, suo
malgrado, non ce l’ha. Non ha il talento per danzare nella
compagnia di ballo né il potere di impedire alla sua migliore
amica di innamorarsi e andarsene. Eppure guarda al mondo
(e cioè vive) con innata gioia, senza pigrizia, supplendo da
sola alle sue stesse continue goffaggini.
La sceneggiatura è scritta dal regista Noah Baumbach e dalla
stessa attrice Greta Gerwig che sembra cucirsi addosso il
personaggio. Baumbach, che per primo diede alla Gerwig
visibilità internazionale in Greenberg, torna a lavorare con
lei, nel frattempo divenuta la musa del cinema indipendente
e cosiddetto mumblecore e realizza questo piccolo gioiello,
leggero, pudico e pieno di vita, anche quando fotografa il
fallimento.
Ottima la colonna sonora e il riferimento alla danza di Pina
Bausch.
Come i film di Allen di una volta, il ritmo è serrato e molto
verboso quindi in alcuni punti si fatica anche un po’ a starle
dietro. Forse dieci minuti in meno avrebbero giovato al suo
successo.
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4 novembre 2014
Talenti e destini
Frank
Regia: Lenny Abrahamson; Sceneggiatura: Jon Ronson, Peter
Straughan; Produttore: Film4, Element Pictures, Runaway
Fridge Productions, Indieproduction; Fotografia: James
Mather; Montaggio: Nathan Nugent; Musiche: Stephen
Rennicks; Interpreti Michael Fassbender, Domhnall Gleeson,
Maggie Gyllenhaal, Scoot McNairy, Tess Harper; UK, IRLANDA
2014; Durata: 95’
Jon è un giovane aspirante musicista che fatica a sfondare e a
trovare una sua voce. Ma le cose cambiano quando si unisce ai
Soronprfbs, una band d’avanguardia dal nome impronunciabile
e dai modi alquanto inusuali. Il leader del gruppo, il misterioso
Frank, è un artista di grande talento, un vero genio della musica.
Ha solo un vezzo, che lo rende ancora più indecifrabile: indossa
costantemente una gigantesca maschera di cartapesta.
Tragicommedia esistenziale, Frank è stato presentato al
Sundance Film Festival 2014 e successivamente distribuito
nelle sale cinematografiche britanniche il 9 maggio.
Pur non riprendendo nella trama fatti reali, il film è liberamente
ispirato al personaggio di Frank Sidebottom, alter ego del
musicista e comico britannico Chris Sievey e ai cantautori
Daniel Johnston e Captain Beefheart.
Il film è diretto dal regista irlandese Lenny Abrahamson: “Non
volevo seguire il classico cliché da film sulla rock band che
dopo una faticosa avventura raggiunge la gloria con un live
finale”, spiega Abrahamson presente al Biografilm Festival di
Bologna, “Frank è un film su chi non esiste nel mainstream, su
degli outsider”. Così superata la sorpresa per la star che recita
ma non mostra il viso, l’impianto drammaturgico di Frank viene
orientato sull’intera comitiva di folli musicisti, necessariamente
con ricoveri psichiatrici o un’infanzia difficile alle spalle: il
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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manager impazzito, la taciturna batterista, il bassista francese,
la cinica collaboratrice musicale Maggie Gyllenhaal al suo
meglio nei ruoli ruvidi e comicamente torbidi. “Volevo celebrare
la creatività in modo trasversale, oltre ogni limite – continua
Abrahamson – ho cercato quindi di avvicinarmi a esperienze
reali di musicisti come Daniel Jonhston, Captain Beefheart, The
Residents”.
Nulla di strano però, perché Frank non è un film demenziale o
grottesco, bensì una sorta di opera esistenziale sulla caducità
della creazione artistica e del talento musicale. Felpine e t-shirt
dal look un pò hypster, sonorità che spizzicano arie da theremin
e sfregamenti di carta stagnola, Frank e i suoi The Soronprfbs
si ritirano in una casetta dei boschi irlandesi per registrare il
nuovo album, ma prima fanno entrare nel gruppo Jon (quel
Domnhall Gleeson in questi giorni al lavoro sul set di Star
Wars), tastierista ragazzotto pel di carota: dapprima titubante,
Jon lascerà poi il lavoro e affronterà i suoi imbarazzanti limiti
compositivi, fino a diventare l’effimero manager della band nel
disastroso concerto che compiranno al South by Southwest in
Texas.
Ultimo tassello narrativo/musicale l’ispirazione alla carriera di
Frank Sidebottom, all’anagrafe il comico inglese Chris Sievey
che recitava sketch con la stessa maschera del film in testa
e del suo gruppo musicale il cui tastierista Jon Ronson è
diventato sceneggiatore del film, in coppia con Peter Straughan
(La Talpa). “La grande sfida per me è il compositore dei brani
della band nel film”, conclude il regista irlandese, “è stata non
scadere nel ridicolo. Un po’ di pezzi sono grigi e semplici pezzi
melodici, altri più sperimentali e al limite”. In questa ‘credibilità’
del bordone sonoro, cioè fin dove lo spettatore coglie l’aspetto
‘artistico’, anche in base alle proprie competenze e gusto
musicale, che “Frank” sta a galla.
Ma c’è sempre l’attesa per la ‘scopertura’ di Fassbender: semi
lobotomizzato, intontito e catatonico come Jack Nicholson
negli ultimi minuti di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, ritrova
la sua band e canta un pezzo struggente e strappalacrime, o
patetico e da sbellicarsi. Al pubblico l’ardua sentenza.
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11 novembre 2014
Talenti e destini
Spaghetti Story
Regia: Ciro De Caro; Sceneggiatura: Ciro De Caro; Produttore:
PFA Films, Enjoy Movies; Fotografia: Davide Manca; Montaggio:
Alessandro Cerquetti; Musiche: Francesco D’andrea; Interpreti:
Valerio Di Benedetto, Cristian Di Sante, Sara Tosti; Italia 2013;
Distribuzione: Distribuzione indipendente. Durata: 82’
Valerio è un aspirante attore ventinovenne che non riesce
a sbarcare il lunario, e si arrangia con impieghi part-time,
nell’attesa di poter vivere del proprio lavoro. L’amico d’infanzia
Christian è un pusher (ma lui precisa: “rivenditore al dettaglio”)
che fa affari con la mala cinese e vive ancora con la nonna.
Valerio vive con Serena che persegue un dottorato grazie
ad una borsa di studio e vorrebbe costruire una famiglia.
Giovanna, sorella di Valerio, lavora come massoterapista, ma
sogna di diventare chef di cucina cinese. Quattro giovani adulti
dei nostri giorni, che sembrano avere le idee chiare su chi sono e
cosa vogliono ma di fatto restano ingabbiati nei propri schemi
mentali. Ognuno giudica l’altro ed è cieco di fronte alle proprie
esigenze e potenzialità. Quando la giovane prostituta cinese
Mei entra a far parte delle loro vite, tutto è costretto a cambiare
rapidamente.
Spaghetti story è un film realizzato all’insegna dell’economia,
girato con un budget di 15000 euro, in soli 11 giorni, con una
macchina digitale corredata di un’unica ottica (50 mm), un
microfono, due luci d’ambiente e poco piu’. E’ stato l’unico
film italiano presente al Moscow International Film Festival,
ed è stato coraggiosamente proposto in poche copie da una
distribuzione indipendente.
De Caro, regista romano proveniente dalla pubblicità,
esordisce in maniera interessante riuscendo a mettere a
fuoco il ritratto complesso e sincero di una generazione allo
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sbando, in bilico tra le difficoltà di una quotidianità ostile e
le (dis)illusioni di un futuro assai poco accattivante. La sua
pellicola, scrivono i giornali, “dà voce a una generazione
che voce non ha” e lo stesso De Caro racconta «Quando mi
sono seduto a scrivere avevo in mente di rappresentare la
mia generazione così com’è, senza quel velo patinato delle
produzioni a grande budget, dove i precari hanno la Mini e
i disoccupati vivono nei loft”. I suoi adulti bambini, insicuri e
mai del tutto risolti che si affannano invano per sconfiggere
una precarietà (emotiva ed economica) quasi inappellabile,
raccontano molto della nostra società: sono lo specchio di
una generazione data per spacciata in troppi telegiornali e
statistiche percentuali.
Comunque “Spaghetti Story” sorprende lo spettatore per la
sua ironia sferzante e una garbata leggerezza, mai sinonimo
di superficialità. Merito soprattutto di dialoghi scoppiettanti
e di sfacciata onestà, messi in bocca a un affiatato gruppo
di attori debuttanti o semi-sconosciuti, “pasoliniani proprio”
direbbe Scheggia. Il vero motore della pellicola sono le loro
performance, ora toccanti, ora esilaranti, servite con pratica
compostezza da una regia essenziale e piana, che privilegia
la camera a mano e i lunghi piani fissi ravvivati da un
montaggio dinamico e giocoso.
Anche questi attori debuttanti, come i personaggi che
interpretano, fanno altro nella vita per riuscire a sbarcare
il lunario: Cristian Di Sante, durante la lavorazione del film,
era un dipendente dell’Ama; Valerio Di Benedetto, invece,
fino allo scorso settembre serviva ai tavoli in un locale alla
Garbatella: «Poi ho smesso per un lavoro come attore, ma da
gennaio chissà…”. De Caro descrive con precisione anatomica
il mix di umiliazione e apatia che la crisi economica genera
nella sua generazione, il suo ritratto, in forma di commedia,
di certa realtà generazionale sospesa tra aspettative e
disillusione, cinismo e (finta) sicurezza nei propri mezzi,
funziona e colpisce nel segno.
Tra battute di dialogo fulminanti e scene da commedia del
nostro primo neorealismo, si morde l’amaro di una condizione
che non sembra offrire nessuna facile via di riscatto. La
sceneggiatura, opera del regista e della compagna (presente
anche nel cast nel ruolo di Giovanna) Rossella D’Andrea, è
ben scritta, si rileva solida e brillante.
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18 novembre 2014
Sliding doors
Un insolito naufrago nell’inquieto
mare d’Oriente
Regia di Sylvain Estibal. Con Sasson Gabay, Baya Belal, Myriam
Tekaïa, Gassan Abbas, Khalifa Natour. Titolo originale - Le
cochon de Gaza. Commedia, Francia, Germania, Belgio 2011.
Durata: 98’
Jafaar è un pescatore palestinese che pesca sardine e vive con
la moglie lungo il muro della Striscia di Gaza. Dimenticato da
Allah, incalzato dai creditori e avvilito da una vita sorvegliata
da Israele e dai suoi militari che ‘bazzicano’ nella sua casa e
controllano ogni suo respiro, Jafaar butta la rete in mare e una
mattina pesca l’impensabile: un grosso maiale vietnamita.
Considerato animale impuro dalla sua religione, decide subito di
sbarazzarsene. Il desiderio di qualcosa di meglio per lui e la sua
consorte tuttavia lo fa desistere e il maiale diventa una fonte
inaspettata di guadagno. Dopo numerosi tentativi falliti al di là
e al di qua del muro, Jafaar trova in una giovane colona russa e
nella capacità riproduttiva del suo maiale il business e la risposta
alle sue preghiere. Quando tutto sembra andare finalmente per
il verso giusto, un gruppo di terroristi integralisti lo recluta suo
malgrado, mandando letteralmente in aria il suo commercio e
la sua vita.
Opera prima di Sylvain Estibal, giornalista, scrittore e realizzatore
francese di origine uruguaiana, il film è una commedia che
azzarda in un territorio delicato e suscettibile come la Striscia
di Gaza. Estibal si prende il rischio e (lo) fa bene, lasciando
che il suo protagonista agisca maldestramente dentro gli
spazi ridotti, della vita e della pesca, da Israele. Motore della
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storia è un grande e grosso maiale vietnamita, il cui consumo
è tabù tanto per i palestinesi quanto per gli ebrei. Di nuovo
sono le ‘restrizioni’, questa volta religiose, a costringere Jaafar,
accrescendone la creatività e provocando la comicità. Nel suo
svolgersi rocambolesco il film incrementa il nonsense, indotto
dalla paranoia delle due parti, giocando sulle corrispondenze tra
israeliani e palestinesi e senza fermarsi davanti alle differenze.
Che sia imposta militarmente dall’esercito israeliano o congiurata
dagli estremisti islamici, la violenza non è mai nascosta, piuttosto
è scoperta, visibile e moderata dal tono farsesco che sfoga le
ipocrisie, come i calzini calzati dal maiale di Jafaar sul territorio
israeliano o l’allevamento di maiali dei coloni ebrei tollerato per
la capacità che hanno questi mammiferi di fiutare gli esplosivi.
Piccola commedia umanista e ‘fraterna’, premiata nel 2012 con
un César al miglior debutto, Il film trova il giusto equilibrio tra
farsa e fiaba, giudaismo e islamismo, tra Haram e Taref (il cibo
proibito secondo le prescrizioni alimentari di ebrei e musulmani),
rinnovando il discorso su un conflitto infinito e attivo da più di
sessant’anni. Adottando un punto di vista originale e poetico
che ‘approda’ nella visione onirica, Sylvain Estibal realizza un
ritratto sensibile dove niente è eluso e dove le due fazioni sono
calate, con la propria umanità e la reciproca indulgenza, dentro
la loro realtà complessa e davanti agli immutabili (e immutati)
affanni quotidiani. Le cochon de Gaza (per altro stupidamente
rititolato per l’Italia “Un insolito naufrago nell’inquieto mare
d’oriente” scimmiottando banalmente - e anche inutilmente la Wertmuller, visto come poi sono andate le cose e le risibili
presenze che è riuscito a racimolare) è l’interessante debutto
in veste di regista di Sylvain Estibal (autore anche della
scoppiettante sceneggiatura): è all’apparenza un sapido e
intelligente “divertissement” tutt’altro che fine a se stesso però,
poiché riesce a sfruttare magistralmente il gustoso paradosso
dell’indovinatissima trovata di partenza per costruirci sopra una
commedia che pone molti quesiti, lancia importanti messaggi
e suggerisce qualche seria riflessione che prende forma
all’interno di situazioni sempre molto divertenti utilizzando
i classici stilemi tutti ben rodati e sperimentati, degli inganni,
dei sotterfugi, delle deliberate finzioni (equivoci compresi), dei
camuffamenti e delle allegorie, il tutto condito con moltissima
satira sociale che si spinge fino all’estremismo religioso.
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25 novembre 2014
Sliding doors
Lunchbox
Regia: Ritesh Batra; Sceneggiatura: Ritesh Batra, Rutvik Oza;
Produttore: Anurag Kashyap, Guneet Monga, Karan Johar,
Siddharth Roy Kapur, Arun Rangachari; Fotografia: Michael
Simmonds; Scenografia: Shruti Gupte; Interpreti: Irrfan Khan,
Nimrat Kaur, Nawazuddin Siddiqui, Denzil Smith, Bharati
Achrekar; Nakul Vaid; Lillete Dubey; Nazionalità: India Francia,
Germania, USA 2013; Durata: 101’
Ogni mattina a Mumbai 5 mila fattorini consegnano i cestini
del pranzo che le mogli preparano per i mariti al lavoro. Spesso
analfabeti, i fattorini sono efficienti e riescono a muoversi nei
labirinti della città grazie a un complesso sistema di codifica
fatto di colori e simboli. Così, Ila Singh, giovane moglie che
cerca di salvare il proprio matrimonio in crisi, prepara tutti i
giorni il pranzo al marito, lo impacchetta in una lunchbox e
lo consegna al fattorino. Un giorno le sue squisite pietanze
finiscono per sbaglio col nutrire un sopito desiderio di vita,
quello di Saajan, un uomo solitario nel crepuscolo della sua
vita che vive a Bandra, vecchio quartiere cristiano minacciato
dai grattacieli di moderna costruzione. Entrambe persone
sole (egli è vedovo, lei una madre con figlia piccola e marito
di fatto assente), attraverso il cibo, riescono a instaurare
una comunicazione emotiva, in quel misterioso ambito del
pensiero che si situa tra allusione e illusione, attraverso la
quale Ila scopre di più su un uomo che ha da tempo smesso di
cercare qualcosa nella vita, e di converso scoprendo che forse
è il momento anche per lei di cambiare qualcosa.
LUNCHBOX, il cui titolo in origine è “Dabba” è un’opera prima
di Ritesh Batra, il quale ne ha scritto anche la sceneggiatura
oltre che curarne la regia. Prodotto dal TorinoFilmLab, è
stato selezionato alla Settimana Internazionale della Critica
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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al Festival di Cannes 2013, vincendo il Critics Week Viewers
Choice Award ed è stato presentato al Toronto International
Film Festival. È uscito nelle sale indiane il 20 Settembre 2013
e in Italia il 28 Novembre 2013. Si caratterizza per essere
una delicata poesia, grazie soprattutto alla bravura dei
protagonisti e ad una sceneggiatura ricca di momenti felici,
resa in immagini ben fotografate, in riprese da vicino, spesso
in interni malinconici e solitari, contrapposte a quelle della
folla colorata degli esterni.
Schiacciando tutto e tutti su sfondi densi e colmi di persone
(gli uffici, come le strade, come i mezzi pubblici o i ristoranti)
Lunchbox stupisce anche per la sua capacità di avere una
dimensione visiva potente e ragionata per cui l’esordiente
Ritesh Batra sembra dire molto più con le immagini di quanto
non faccia con le parole.
Lontano dal sentimentalismo zuccheroso dei film alla
Bollywood, ci troviamo di fronte ad una commedia
sentimentale che si caratterizza per il tono leggero e le
risate, quasi sempre scatenate con recitazione e messa in
scena e raramente attraverso battute o gag fisiche, nei due
personaggi protagonisti e nel loro atteggiamento nei confronti
dell’occasione che il caso offre loro. Esiste un’austerità
penetrante che non viene mai abbandonata neanche dopo
la fine del film, un peso silenzioso che è quello di un’entità
invisibile ma sempre presente, come la società. Il famoso
attore Irrfan Khan (attore molto noto al pubblico occidentale
per le apparizioni in film come Spider-man, Il treno per il
Darjeeling, The milionaire e Vita di Pi) impreziosisce il film con
un’interpretazione tanto intensa quanto composta, eppure
ricca di sfumature, dove è degnamente affiancato da una
deliziosa e naturale Nimrat Kaur.
Sicuramente la disillusione di Saajan, rimasto senza l’amore
della sua vita, è una caratterizzazione che si è vista molte
volte eppure Irrfan Khan gli da vita con una misura ed
un’economia d’espressioni che sfondano in pochi gesti il
muro dell’incredulità e si accoppiano perfettamente al colore
grigio dei luoghi che abita. Il finale arriva prevedibile e definito
oppure aperto, a seconda di come lo si voglia interpretare.
Che si tratti di una storia possibile e realizzabile o di una storia
che naviga in un magico sogno, giusto per quel momento,
essa riesce, comunque, a donare un senso di poesia e di
speranza che rafforza intimamente le anime avvilite dei due
protagonisti e le rincuora a vivere e a valorizzarsi.
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2 dicembre 2014
Sliding doors
Father and son
Regia di Hirokazu Koreeda. Con Masaharu Fukuyama, Yôko
Maki, Jun Kunimura, Machiko Ono, Kirin Kiki; Nazionalità:
Giappone 2013. Titolo originale Soshite Chichi Ni Naru.
Durata: 120’
Nonomiya Ryota è un professionista di successo, un uomo
che ha fatto della qualità e crescita della sua professione
il suo primo scopo con la conseguenza di un benessere
vissuto con orgoglio e compiacimento. Un giorno, lui e
la moglie Midori, ricevono una chiamata dall’ospedale di
provincia dove sei anni prima è nato loro figlio, Keita, e con
stupore apprendono di essere stati vittima di uno scambio
di neonati. Il piccolo Keita non è loro figlio naturale ma
è, in realtà, il figlio biologico di un’altra coppia, che sta
crescendo il loro vero figlio, insieme a due fratellini, in
condizioni sociali più disagiate e con uno stile di vita
molto differente. Ryota si trova di fronte alla necessità di
una decisione terribile, che potrebbe cambiare per sempre
la sua esistenza: scegliere tra il figlio che ha cresciuto
come tale e quello che invece gli appartiene per natura.
Inizierà così a rimettere in discussione anche se stesso e il
tipo di padre che è stato.
Il giapponese Kore-Eda conferma le qualità artistiche
di cui ha sempre dato prova con questa esplorazione
splendidamente misurata di un dilemma, che mira dritto
al cuore dell’uomo con la sobrietà e il logico distacco,
volti ad approfondire i meandri della memoria e dei
sentimenti profondi e come tali contrastanti, tra cui
l’elaborazione del lutto e, nel caso di quest’opera di una
storia rappresentata in chiave di commedia, con lievi
sfumature drammatiche, sulle conseguenze a distanza di
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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6 anni della rivelazione di uno scambio in culla di due
neonati, cresciuti in due famiglie opposte per stile di vita
e approccio ai problemi e ai sentimenti.
Con la leggerezza della grande scrittura, l’abilità di
costruire un’architettura perfetta nel bilanciare il peso
di azioni e reazioni tra i due nuclei familiari coinvolti (il
regista ha affermato di essere partito con questo film
per un viaggio dentro se stesso, riconoscendosi nelle
questioni personali di Ryota), e con un cast in grado di
conferire all’opera un valore aggiunto altissimo, Kore-Eda
mantiene un registro contenuto ma attento ai particolari
e ai piccoli incidenti del vivere, nel quale le belle idee sono
silenziosamente numerose e nulla è mai di troppo.
In particolare, nonostante il film racconti la maturazione
di Ryota rispetto al suo essere padre, sorprende la verità
con la quale il regista coglie le reazioni dei due bambini,
bloccati tra la fiducia che ripongono nei genitori, la
volontà di ottenere la loro ammirazione e il disagio
dell’incomprensione.
Non sono poche le barriere culturali che ci impediscono di
non trovare mostruoso il comportamento del protagonista
o colpevolmente remissivo quello della moglie, ma è il
film stesso, probabilmente, ad accrescerli leggermente
nella prima parte.
Un film senza tempo sul destino e il dolore ma anche
la gioia dei bambini e di chi li cresce, li educa e li ama.
La straordinaria colonna sonora è tutta in pianoforte,
ad accompagnare i diversi moti dell’anima di ognuno.
Straordinari i bambini per naturalezza e indimenticabile
interprete di Ryota per sottrazione e intensità del
bell’attore Masaharu Fukujama, ben fiancheggiato da
Machiko Ono e dagli interpreti dell’altra coppia.
Quello di Koreeda è cinema di realismo limpido,
profondamente umanista: se si piange, se si ride,
lo si fa frequentando i personaggi, guardandoli
con comprensione. Alla superficie placida delle sue
inquadrature non interessano gli eventi notevoli, ma le
increspature della realtà, le piccole onde che trasportano
i tumulti interiori.
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9 dicembre 2014
Sentimenti in cammino
Le weekend
Regia: Roger Michell; Sceneggiatura: Hanif Kureishi;
Produttore: Film4, Free Range Films, Le Bureau;
Fotografia: Nathalie Durand; Montaggio: Kristina
Hetherington; Musiche: Jeremy Sams; Interpreti: Lindsay
Duncan, Jim Broadbent, Sophie-Charlotte Husson, Jeff
Goldblum, Olly Alexander, Judith Davis; Francia Gran
Bretagna 2013; Distribuzione: Lucky Red. Durata: 93’
Nick e Meg sono una coppia inglese di ultracinquantenni:
lui professore universitario, lei insegnante di liceo. Decidono
di festeggiare il loro trentesimo anniversario di matrimonio
tornando per un weekend a Parigi, dove avevano trascorso
la loro luna di miele. La Parigi bella e volubile (come il loro
altalenante stato d’animo) che attraverseranno diverrà
testimone di quella loro unione, attraversata tanto da
rabbia e frustrazione quanto da un legame assai profondo
e forse impossibile da recidere. Sarà poi l’incontro con
Morgan (vecchio compagno di università di Nick) e la serata
da questi organizzata per festeggiare la pubblicazione del
suo ultimo libro, a ufficializzare lo stato di quella catarsi
umana e relazionale che nel viaggio a Parigi troverà il suo
climax ideale.
Il week-end del titolo è quello che due insegnanti inglesi
ultrasessantenni con figli ormai grandi decidono di
trascorrere nella capitale francese per festeggiare il loro
trentesimo anniversario di matrimonio. A Parigi erano
già andati per la luna di miele; il nuovo viaggio dovrebbe
anche servire per rinverdire (almeno un poco) un menage
ormai segnato dalla routine. Decisamente saranno giorni
diversi dal solito...Una commedia agrodolce, sulla fatica e la
difficoltà di invecchiare insieme più che su termini alti e non
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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di rado annacquati come “amore”.
Il regista inglese Roger Mitchell affronta con Le WeekEnd il discorso sulle evoluzioni-rivoluzioni cui la coppia va
incontro nell’arco di una vita. In un film costruito tutto su
dialoghi che mischiano ironia, amarezza e le consuetudini
comunicative di una ‘solidità affettiva’, Mitchell sceglie il
luogo del romanticismo per eccellenza per decostruirlo e
(soprattutto) decostruirne l’assolutismo amoroso di cui è
simbolo. Attraverso il logorio, il compromesso, le frustrazioni
e anche gli insondabili legami della coppia di sessantenni,
Le Week-End spalanca la finestra sul mondo del disincanto
e dello stoicismo che rappresentano il lato più oscuro ma
anche più veritiero del legame amoroso.
Saltate le luci, i sogni sconfinati, e la magia dell’amore
giovane vissuto per mano, sotto i riverberi romantici della
Tour Eiffel, ciò che resta è il ricordo dei sacrifici e dei
compromessi fatti per arrivare fin lì.
Che dipenda dalla scrittura di Hanif Kureishi, alla sua quarta
collaborazione con il regista, o dal fatto che entrambi
hanno l’età esatta dei personaggi del film, la verità è che
la storia che hanno inventato è una gemma preziosa, un
ritratto disperatamente malinconico, ma anche spiritoso,
dell’amore a 60 anni e delle difficoltà non di stare insieme,
ma di evolvere allo stesso modo e di continuare a conoscersi
intimamente.
Le situazioni sono articolate con delicatezza e il film
risulta convincente, perché i suoi protagonisti, interpretati
con evidente empatia da tre magnifici attori, sono ben
riconoscibili, ma non scontati. Jim Broadbent e Lindsay
Duncan duettano magnificamente all’interno di un’opera
amara e cinica che non manca però (a suo modo) di
rappresentare anche le gioie e le rassicuranti fondamenta
delle vita a due.
Un film in cui i dialoghi, ironici o pungenti, assieme
all’alternarsi dei momenti di tenerezza o reciproca ostilità,
trasmettono piuttosto bene la bivalenza, la doppia faccia di
uno stare insieme che pesa sull’autonomia e sull’indipendenza
dell’individuo, ma che dovrebbe (all’occorrenza) essere anche
in grado di alleggerirlo dal fardello della solitudine, di una
vita vissuta nella mancanza di condivisione.
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16 dicembre 2014
Sentimenti in cammino
Pazza idea
Regia: Panos H. Koutras; Sceneggiatura: Panagiotis Evangelidis
, Panos H. Koutras; Produttore: 100% Synthetic Films, Wrong
Men, Movie Partners In Motion Film; Fotografia: Helene
Louvart Simos Sarketzis; Montaggio: Yorgos Lamprinos;
Musiche: Delaney Blue; Interpreti: Kostas Nikouli, Nikos
Gelia, Aggelos Papadimitriou, Romanna Lobats, Marissa
Triandafyllidou; Grecia, Francia, Belgio 2014. Distribuzione:
Officine Ubu. Durata: 128’
Morta la madre, il sedicenne omosessuale Dany (Kostas
Nikouli) lascia Creta per raggiungere il fratello maggiore
Odysseus (Nikos Gelia) ad Atene. Danny e Odysseus insieme
decidono di partire da Atene alla volta di Salonicco alla
ricerca del padre, che li aveva abbandonati in tenera età.
Dal padre voglio farsi dare ciò che spetta loro, compresa la
nazionalità greca, e poi vincere un talent show cantando
una canzone di Patty Pravo, la passione della loro mamma,
morta di alcool e solitudine. Sulla strada dovranno
affrontare i fantasmi del proprio passato, la crudeltà degli
uomini per realizzare a qualunque costo il loro sogno.
Il regista Panos H. Koutras, sconosciuto in Italia, ha trovato,
nel suo quarto lungometraggio, presentato al Festival di
Cannes 2014 nella sezione Un Certain Regard, una sintesi
molto ben riuscita di alcune tematiche a lui molto care,
che spaziano dalla cultura classica greca a quella post
moderna del pop e dei reality.
Il film appare come un miscuglio agrodolce dove la
cultura gay e quella televisiva, il cinema d’autore (da
Araki a Almodovar passando per le citazioni di Donnie
Darko e Charles Laughton) e Canzonissima, il fantastico
e il documentario (i protagonisti sono non professionisti),
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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s’incontrano in una terra di mezzo che rende possibile la
coesistenza del melodramma e della sua parodia. La terra
di mezzo è il sentimento. Il sentimento dell’amore fraterno,
che diventa faro nella nebbia.
Koutras percorre una strada diversa rispetto ai colleghi del
cosiddetto nuovo cinema greco che inscenano l’aspetto
algido e mortifero della crisi sociale, spesso proprio a
partire dalla disintegrazione della famiglia, e opta invece
per la musica, il colore e il palpito, senza per questo
rinunciare alla tensione e alla denuncia. Tutta la pellicola
è attraversata trasversalmente, anche nei passaggi più
drammatici, da un’ironia di fondo che sa alleggerire e
approfondire, molto funzionali in questo senso le canzoni
di Patty Pravo disseminate un po’ in tutto il film, ma non
manca nel film la tematica della crisi.
Quella economica si percepisce, quella sociale si soffre
insieme ai protagonisti: fascisti che organizzano retate,
polizia violenta, discriminazione per gli omosessuali e
assenza di integrazione tra le varie etnie, il quadro attuale
del paese ellenico che ne esce fuori è drammatico, ma non
senza speranze. Non lo è grazie per esempio all’amore
fraterno, rappresentato come paradigma indissolubile e
invincibile.
Vediamo quindi mescolarsi il melodramma mediterraneo
alla Almodóvar, la commedia queer, il romanzo familiare, un
qualcosa di classica tragedia greca, il tutto incapsulato in
un racconto di formazione con al centro il fiammeggiante
Dany. Personaggio che trova nel giovanissimo Kostas
Nikouli – una scoperta – un attore in grado di restituire
insieme improntitudine e fragilità, rabbia e arrendevolezza.
Un gay che sfiora i cliché ma che non ne resta ingabbiato,
a momenti irresistibile, di una vitalità anarchica e disperata
e accattivante, un character cui lo spettatore impara presto
ad affezionarsi.
Sceneggiatura e regia riescono ad inscenare in modo
perfetto e complementare il mondo interno di Dany, le sue
paure e i suoi rifugi, le sue “visioni” e le sue premonizioni.
Quanto a lei, Nicoletta-Patty, pare sia un totem personale
del regista Panos H. Koutras, il quale se la vedeva bambino
sulla tv greca nelle varie Canzonissime e poi l’ha incontrata
a Napoli nel 2006, recuperando da allora (“sono le mie
madeleine”, racconta lui) tutti i suoi dischi.
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13 gennaio 2015
Sentimenti in cammino
La gabbia dorata
Regia: Diego Quemada-Diez; Sceneggiatura: Diego QuemadaDiez, Gibrán Portela, Lucia Carreras; Fotografia: María Secco;
Montaggio: Leonardo Heiblum, Paloma López; Musiche:
Jacobo Lieberman; Interpreti: Brandon López, Rodolfo
Domínguez, Karen Martínez, Carlos Chajon; Spagna, Messico.
Distribuzione: Parthénos. Durata: 102’
Juan, Sara e Samuel, 15 anni, fuggono dal Guatemala
tentando di arrivare negli Stati Uniti. Durante la traversata
del Messico, incontrano Chauk, un indio tzotzil che non parla
spagnolo e sta viaggiando senza documenti. I tre adolescenti
aspirano ad una vita migliore oltre la frontiera messicana, ma
ben presto dovranno affrontare tutt’altra realtà.
La gabbia dorata è l’opera prima di Diego Queimada-Diez,
regista nato in Spagna, che dopo una lunga esperienza
come assistente di personaggi quali Ken Loach, Oliver
Stone, Alejandro Gonzalez Inàrritu e Fernando Meirelles,
è passato al corto e al documentario (9 prodotti) ed ora al
lungometraggio.
Al centro del film di Quemada-Díez c’è il concetto di frontiera.
Intesa come limite e separazione, linea immaginaria che
separa i ricchi dai poveri, terre economicamente sviluppate
da altre ferme sotto il giogo di una grande arretratezza. Un
confine da aggirare, navigando su corsi d’acqua, strisciando
in angusti cunicoli, camminando sulle rotaie di una ferrovia
che dovrebbe portare al progresso, ad una realtà migliore,
almeno in teoria. Un tema attualissimo che ci vede diretti
testimoni soprattutto in questi ultimi anni.
Il viaggio di Juan, Sara e Chauk è quello di tutti i migranti, di
uomini alla ricerca di un luogo solo concettualmente distante
in cui giocarsi la possibilità di essere diversi da quello che la
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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geografia ha scelto per loro alla nascita.
Il regista ha raccolto le storie vere di centinaia di persone,
ha vissuto in casa loro e ha frequentato i ghetti più
pericolosi, rischiando a volte la vita. E’ un film nato in anni di
preparazione e centinaia di ore di interviste e testimonianze
di prima mano, Quemada-Diez ci tiene a sottolineare la
componente realistica: “Tutto quello che è nel film c’è perché
l’ho visto o vissuto o saputo. Ho conosciuto una ragazzina,
come Sara, di 17 anni, che ha iniziato il viaggio a 12 anni
con la madre che prima di partire le tagliò i capelli, le fasciò il
seno e la vestì da uomo.
A un certo punto del viaggio la madre è scomparsa.
Sono storie molto forti. Ho incontrato una donna che
prendeva la pillola perché sapeva che sarebbe stata violentata,
era scontato per lei, ho preso dettagli da persone vere per
costruire questi personaggi che sono un insieme di più cose.
La maglietta di Rambo era quella del ragazzo indio, così come
l’idea di salire sull’albero per ritrovare se stesso. Ognuno
aveva la sua verità da raccontare. Ho cercato di fare ascoltare
le voci di tutti perché diventassero memoria collettiva”. Con
questo film, il regista, ha voluto sfatare il mito della frontiera,
mostrandoci il muro su cui si infrangono i sogni e le speranze
che spingono tanta gente ad affrontare un viaggio denso di
insidie.
Nel film c’è tutto quello che ruota intorno alla tragedia
dell’immigrazione clandestina in quei paesi: la sorte delle
donne, vittime di elezione in una società criminale e
maschilista (impossibile non pensare alle oltre 400 ragazze
massacrate nell’impunità a Ciudad Juárez, in Messico),
la cultura india ormai quasi perduta, i migranti che si
ammassano sui treni come gli hobos de L’imperatore del
Nord, le tappe forzate lungo il cammino, dove pochi sprazzi
di lavoro e solidarietà si alternano alle razzie dei criminali e
dei narcotrafficanti.
Sono tutte storie vere, rese ancora più forti e toccanti dalla
poesia che si sprigiona dai volti e dalle voci degli adolescenti
protagonisti, che ci fanno immedesimare in un dramma
che la televisione tocca solo il tempo necessario per fargli
esprimere la nostra indignazione sui social media, prima di
passare ad altro. In questo senso Quemada-Diez ha appreso
e superato la lezione del suo maestro Ken Loach, togliendo
alla sua narrazione qualsiasi sovrastruttura ideologica e
coinvolgendosi/ci da essere umano, invece che politico ed
intellettuale.
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20 gennaio 2015
Make up
Solo gli amanti sopravvivono
Regia e Sceneggiatura: Jim Jarmusch, Scenografia: Marco
Bittner Rosser; Fotografia: Yorick Le Saux; Montaggio:
Alfonso Goncalves; Musica: Jozef Van Wissem. Interpreti:
Tilda Swinton, Tom Hiddleston, Mia Wasikowska, Anton
Yelchin, John Hurt, Jeffrey Wright. Distribuzione: Movies
Inpired. GB, Usa, Germania, Francia, Cipro 2013. Durata: 123’
Adam ed Eve sono due vampiri destinati a vivere in eterno
e a rinnovare ripetutamente il loro amore. Adam, amante
della musica e del passato vive a Detroit; Eve trascorre le
sue giornate a Tangeri in bar dall’atmosfera esotica. I due
vampiri si nutrono di sangue, che si procurano nei migliori
ospedali, evitando di succhiarlo direttamente dalle vittime.
Vivono appartati dal mondo esterno, in piena decadenza
e trovano un equilibrio nel momento in cui Eve raggiunge
Adam a Detroit. Ma l’entrata in scena di Ava, giovane sorella
di Eve, ragazza turbolenta ed irrequieta, spezza l’incantesimo
mettendo in crisi i due amanti. L’uomo che procura il sangue
ad Adam muore e la coppia si trasferisce a Tangeri dove pero’
Marlowe, il loro referente risulta gravemente ammalato. Tutto
sembra precipitare, ma infine i due vampiri si procureranno il
sangue azzannando una coppia di innamorati che si baciano
e la loro vita vampiresca riprendera’ a scorrere.
Jim Jarmush, esponente di spicco del cinema indipendente
americano, torna a farsi vivo dopo 4 anni di silenzio con una
storia gotica che rappresenta la sua personale rivisitazione
del genere horror, dopo avere esplorato in precedenti
pellicole il western, il noir, il road movie e il gangster movie.
L’ambientazione cambia ma i temi cari al regista dell’Ohio
restano inalterati.
Anche qui i protagonisti sono degli emarginati, degli
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outsiders, che mal si adattano all’ambiente esterno e che
anzi difendono fieramente la propria diversità e la propria
irriducibilità.
Tuttavia, in questo ultimo lavoro di Jarmush si assiste ad un
paradossale rovesciamento di ruoli: i vampiri amanti della
musica, dei libri, dell’arte e della cultura in genere sono i
paladini dell’umanità del passato a rischio di estinzione,
viceversa, gli uomini sono degli zombie, incapaci di nutrire
valori ed ideali, sensibili solo alle esigenze materiali, erranti
come fantasmi nelle loro città fatiscenti ed in rovina.
Ai giorni d’oggi, sembra sostenere JJ, i vampiri che anelano ai
raffinati valori del passato, sono gli assediati, le prede di una
umanità in caduta libera, che via via distrugge ogni traccia
di civilta’ regredendo ad una condizione di animalesca
brutalità.
Il pessimismo di Jarmusch sembra essere assoluto. La
crisi irreversibile investe tutto il mondo. L’occidente è
rappresentato dalla decadenza di Detroit, un tempo capitale
dell’automobile ed oggi desertificata e privata delle sue
fabbriche e delle sue attività. L’oriente, a sua volta, evocato
da Tangeri, un tempo sinonimo dell’abbandono ai sensi e al
misticismo, viene dipinta come un luogo in cui prevale la
morbosità e la contraffazione.
Ne’ le prospettive future appaiono più rosee. I giovani sono
impersonati da Ava, sorella della protagonista, ragazza
disturbata, confusionaria, priva del benchè minimo spessore
atto a segnare un’inversione di tendenza nel processo
sempre più grave di decadimento generale.
In questo clima di totale abbrutimento, in cui la
sopravvivenza tende a diventare un fatto puramente fisico,
materiale, si potrebbe dire darwiniano, l’unica via di salvezza
è l’amore, in grado, con la sua forza, di squarciare la spessa
coltre degli istinti piu’ bassi, come insegnano Adam ed Eve
che nel rinnovare il proprio sentimento, riescono a sfuggire
alla disperazione del mondo esterno e a dare un senso alla
propria vita..
Un film dunque amaro, che però sa farsi apprezzare
dal pubblico, sia per l’ironia del regista (si pensi alla
impareggiabile trovata del ghiacciolo al gusto di sangue
zero negativo sorbito dai vampiri) sia per l’interpretazione
degli attori principali, Tilda Swinton, Tom Hiddleston e Mia
Wasikowska, particolarmente ispirati nei rispettivi ruoli.
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27 gennaio 2015
Make up
L’arte della felicità
Regia, Soggetto e Scenografia di Alessandro Rak; Sceneggiatura:
Alessandro Rak, Luciano Stella, Nicola Barile, Paola Tortora;
Animatori: Antonia Angrisani, Annarita Calligaris, Giorgio
Siravo; Musiche: Antonio Fresa e Luigi Scialdone; Produzione:
Big Sur Srl, Mad Entertainmentt, Rai Cinema; Italia 2013;
Durata: 84’
Sergio Cometa è un tassista napoletano di 40 anni, che si aggira
con il suo taxi bianco tra le strade di Napoli, dialogando sulla
propria vettura con i clienti, rappresentanti di una variegata
umanità. Fuori piove, il Vesuvio brontola minacciosamente e i
gabbiani planano su cumuli di immondizia, simbolo del degrado
della metropoli partenopea. L’uomo si è isolato dal mondo dopo
la partenza del fratello per il Tibet, 10 anni prima, che ha segnato
anche l’abbandono delle sue ambizioni artistiche, visto che
i due fratelli al piano e al violino, formavano un duo musicale
di buona levatura. Il dialogo con i passeggeri spingerà Sergio a
ricostruire il passato e ad elaborare il lutto del fratello Alfredo,
tornando alla musica strumento per accedere ad un futuro piu’
felice.
“L’arte della felicità” presentato alla mostra di Venezia del 2013,
premiato a Londra al Raindance Film Festival ed unanimamente
apprezzato dalla critica, segna il primo esempio in Italia di
film d’animazione per adulti, genere che invece all’estero da
tempo riscuote ampia fortuna. L’opera, ideata e disegnata dal
fumettista italiano Alessandro Rak, e’ stata prodotta da Luciano
Stella, produttore che ha avuto il merito di creare attorno a
sè il laboratorio d’arte Mad, consentendo a giovani talenti in
erba, tutti napoletani, di esprimere con un lavoro collettivo, la
propria creatività nel campo dell’animazione, della musica e del
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documentario. Accanto al lavoro encomiabile degli animatori
del Mad che hanno coadiuvato Alessandro Rak a realizzare le
sue composizioni dal tratto sfumato, tali da richiamare alla
mente i disegni a matita, hanno partecipato all’impresa anche
vari musicisti napoletani del gruppo Mad, tra i quali Luca Di
Maio, con le sue ballate, Joe Barbieri autore di pezzi raffinati,
i 24 Grana con composizioni rock ed ancora le nuove voci
dei Foja, degli Enthusiastics e dei Guappecartò. Insomma una
factory artistica che promette proficui sviluppi in futuro.
La vicenda narrata nel film è fortemente intimista. Un uomo
dalle ambizioni artistiche di notevole livello, che vede i suoi sogni
spezzati nel momento in cui il fratello lo abbandona per recarsi
in Tibet alla ricerca, nel buddismo, di un equilibrio interiore.
Sergio di conseguenza si ripiega in sè stesso, acquisisce da uno
zio la licenza di tassista, lavoro quanto mai lontano dalle sue
mire artistiche e recide i contatti con il mondo esterno e con le
persone. Il taxi diventa il guscio in cui si rinchiude per evitare
ogni contatto. Ma la vita lasciata fuori dalla porta rientra dalla
finestra.
Spifferi di umanità e di realtà continuano ad insinuarsi nella
corazzata armatura di Sergio, portati dai passeggeri che
si introducono nel taxi facendo filtrare notizie altrimenti
inaccessibili. Così Sergio scopre che il fratello Alfredo è morto e
che la sua fuga in Tibet era stata originata proprio dal tentativo
di trovare nel buddismo il sostegno per affrontare la prova
estrema della malattia.
Tale notizia sconvolgente spinge il tassista a rivisitare il passato:
continui flashback di vita quotidiana ed artistica con Alfredo
riappariranno alla sua mente e alla fine di questo lungo percorso
a ritroso, Sergio ritroverà sè stesso, ricomporrà un rapporto
armonico con il fratello e tornerà alla musica, desideroso di
riaprirsi alla vita.
Il segreto di questa trasformazione riposa nel diverso
atteggiamento mentale del protagonista verso il prossimo,
con una piena disponibilità a comprendere le ragioni degli
altri e a provare compassione per le loro istanze. E chissà che
il film individui più in generale proprio nella compassione,
predicata dal Dalai Lama e declinata sul piano collettivo come
atteggiamento di reciproca solidarietà il segreto per assicurare
un avvenire felice anche alla città che con le sue immagini di
profondo degrado fa da sfondo al film.
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3 febbraio 2015
Make up
Blancanieves
Regia e Sceneggiatura: Pablo Berger; Soggetto: Fratelli
Grimm; Fotografia: Kiko de la Rica; Montaggio: Fernando
Franco; Musiche: Alfonso Villalonga; Costumi:Paco Delgado
e Sonia Capilla; Scenografia: Alain Bainee; Distribuzione:
Movies Inspired; Interpreti: Macarena Garcia, Maribel Verdù,
Angela Molina, Daniel Gimenez Cacho, Inma Cuesta, Sofia
Oria, Pere Ponce, Oriol Vila, Ramon Barea. Spagna-Francia
2012; Durata 104’
Siviglia, anni 20 del xx secolo. Il grande torero Antonio
Villalta resta paralizzato dopo il pauroso ferimento subito da
un toro nell’arena. Sua moglie muore di parto, mettendo alla
luce la piccola Carmencita. La subdola infermiera Encarna,
sposa lo sfortunato torero e allontana Carmencita, affidata
alla nonna, ex ballerina di flamenco. Alla sua morte, la
bimba torna nel palazzo del padre, ma è destinata a subire
le angherie e le mortificazioni della matrigna. Il padre, però,
inizia segretamente la figlia all’arte della tauromachia.
Encarna, spietatamente uccide il marito e fa condurre
Carmencita nel bosco, perchè sia soppressa. Una compagnia
di nani toreri, però, salva la ragazza, ribattezzandola
Biancaneve. La fanciulla mostrerà doti inaspettate di torera
e trionferà nelle arene di Spagna, finchè la perfida matrigna
non le farà mangiare la mela avvelenata.
Blancanieves è un film muto e in bianco e nero, diretto dal
regista spagnolo Pablo Berger, nel 2012, attraverso una sua
personale rilettura dell’immortale fiaba dei fratelli Grimm. È
indubitabile che il film sia stato avvantaggiato dal successo
planetario di The Artist, vincitore di più premi Oscar. Tuttavia
la pellicola di Berger è un’opera complessa, da decifrare su
più piani di lettura.
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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La favola dei Grimm viene accostata con un approccio
che accentuandone gli aspetti più oscuri e raccapriccianti
origina un racconto dark ben lontano dalla banale e buonista
edizione disneyana.
Il film è un omaggio sincero ed appassionato al cinema
europeo degli anni 20. Al muto, al bianco e nero,
all’espressionismo tedesco ( Berger ha dichiarato che la
prima idea gli è venuta dalla visione di un capolavoro di
Carl Theodor Dreyer). Le inquadrature, il montaggio- si
pensi al coinvolgente montaggio alternato adottato per
giustapporre il ferimento del torero Villalta con la morte sul
parto della sua donna- ed ancora i primi piani delle attrici
che sottolineano l’emozionante espressività di due donne di
rara bellezza e personalità come Maribel Verdù e la giovane
Macarena Garcia ed infine, l’entrata in scena dei nani, chiara
citazione dell’opera “Freaks” di Tod Browning, del 1932;
tutto è teso ad esaltare il cinema europeo di quell’epoca,
rimarcandone la vitalità e contrapponendolo al dispendio di
mezzi ed effetti speciali di cui fa abuso il cinema americano.
L’importanza della musica nel cinema è amplificata dal
silenzio degli attori.. I ritmi frenetici del flamenco e la
vivacità dei canti popolari spagnoli, accentuano i momenti
di maggiore pathos, creando un’inesauribile corrente di
coinvolgimento emotivo nell’animo dello spettatore.
Ma soprattutto, il film di Berger è un film sulla Spagna e su
una fase decisiva della sua storia., gli anni 20 che preludono
alla tragedia della guerra civile.
Biancaneve lascia il buio della foresta nera tedesca e si
trasferisce nella profonda Andalusia, terra di sole, di sangue
e di travolgenti passioni. Probabilmente l’ambientazione
della vicenda è in funzione della connotazione drammatica
che essa assume nel finale. La Biancaneve bergeriana non
è una favola consolatoria che dopo aver messo di fronte il
male e il bene approda ad una scontata e felice conclusione,
con l’arrivo del principe azzurro, pronto ad alitare la vita
sulla cerea ragazza.
Qui, Biancaneve, simbolo di una inesausta purezza in lotta
contro il male alla fine muore vittima della crudeltà più
efferata e viene portata in processione dal popolo, come
una eroina. L’accostamento alla dittatura franchista e al
conseguente annichilimento dell’ ingenuità di un popolo
pare naturale.
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10 febbraio 2015
Make up
Snowpiercer
Regia: Bong Joon-ho, Sceneggiatura: Bong Joon-Ho, Kelly
Masterson Montaggio: Steve M.Choe Musica. Marco Beltrami
Distribuzione: Koch Media Interpreti: Chris Evans, Jamie Bell,
John Hurt, Tilda Swinton, Octavia Spencer, Ed Harris,Ewan
Bremner, Alison Pill, Song Kang-Ho. Corea del Sud, U.S.A.
Durata: 126’
2031. La Terra per una catastrofe ambientale conseguente
al maldestro tentativo di raffreddamento della temperatura
terrestre, reso necessario dal crescente surriscaldamento
del pianeta, vive una fase di assoluta glaciazione, che pare
irreversibile. Su un treno rompighiaccio, che ripete all’infinito
il giro del mondo, hanno trovato posto i pochi sopravvissuti
al disastro. L’inventore del treno li ha suddivisi in un rigido
ordinamento sociale: i poveri, i derelitti, gli oppressi vivono
in condizioni miserrime negli scompartimenti di coda,
mentre le classi abbienti conducono una vita lussuosa nelle
vetture di testa. Gli sfruttati avviano una cruenta ribellione,
che dopo innumerevoli colpi di scena, porterà ad un finale
inaspettato.
Trasferta americana del grande regista sudcoreano Bong
Joon-Ho, capace con appena quattro film di stupire tutti, per
l’acutezza dello sguardo e la profondità dell’analisi sociale.
Se in passato i passaggi americani di altri registi coreani, tra
tutti Park Chan-Wook con “Stoker” e Kim Joe-Woon con “The
last stand”, non avevano pienamente convinto, viceversa
Bong pare aver superato brillantemente la prova del fuoco
holliwoodiana, con quest’ultima opera che prosegue
nel proficuo solco dei film precedenti, quali soprattutto
Memories of murder, Mother e The Host. Snowpiercer,
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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dimostra infatti come sia possibile coniugare gli ingredienti
tipici del blockbuster americano, la spettacolarità delle scene,
l’azione adrenalinica, gli effetti visivi e le sorprese narrative
con una riflessione profonda e lungimirante sulla società e
più in generale sui destini futuri dell’intera umanità.
Il racconto si sviluppa per gradi ed il passaggio da un vagone
all’altro del treno segna il succedersi dei capitoli. Così facendo
lo spettatore scopre progressivamente l’organizzazione della
società post-apocalittica. Dallo squallore delle vetture di
coda in cui una umanità reietta è costretta a condividere
un angusto spazio e un rivoltante scarso cibo gelatinoso, si
passa via via alle vetture successive in cui il tenore di vita
migliora progressivamente, fino a raggiungere le vetture di
testa in cui una categoria di persone spensierata e gaudente
trascorre le giornate tra fiumi di droga e di alcool, incurante
delle condizioni disumane di lavoro e di vita degli oppressi.
In una vettura è organizzata la scuola che anzichè svolgere
una funzione educativa ha lo scopo di attuare un radicale
lavaggio del cervello degli alunni, facendo credere loro che
il sistema vigente sia il migliore possibile, visto che fuori dal
treno non vi è traccia di vita.
Tuttavia, l’iniquità è così lapalissiana, che una ribellione
violenta allo status quo non può essere evitata. Essa non
avverrà nel segno di un sovvertimento di poteri tra le classi,
con la sostituzione dei ribelli ai vecchi detentori, ma si
tradurrà in una ecatombe, in cui nessuno sarà risparmiato,
tranne una donna ed un bambino e solo con la radicale
distruzione del microcosmo rappresentato dal treno, il nero
pessimismo che pervade l’intero film sarà squarciato dal
lieve baluginio della speranza di un mondo nuovo.
Come si vede, dunque, il regista coreano fingendo di creare
un prodotto di puro intrattenimento secondo i tradizionali
canoni del film di fantascienza, dell’ action-movie e forse
anche del movie-game, ci consengna un’opera dal possente
respiro sociologico, in cui denuncia i mali della società
odierna, generatrice di inevitabili conflitti e al contempo
indica una terapia radicale nell’annientamento e non nella
semplice riforma dell’ordine esistente, unica via per una
risolutiva palingenesi del genere umano.
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17 febbraio 2015
Nel nome del Padre
Padre vostro
Regia: Vinko Bresan; Sceneggiatura: Mate Matisic, Vinko
Bresan; Fotografia: Mirko Pivcevic; Montaggio: Sandra Botica;
Musiche: Mate Matisic; Scenografia: Damir Gabelica; Costumi:
Zeljka Franulovic; Interpreti: Kresimir Mikic, Niksa Butijer, Marija
Skaricic, Renne Gjoni, Inge Appelt, Senka Bulic, Zdenko Botic,
Niko Bresan, Lazar Ristovski, Marinko Prga, Ivan Brkic’, Ana
Maras, Ana Begic’, Stjepan Peric’, Gora Bogdan. Commedia;
Croazia, 2013; Durata: 93’
Il giovane Padre Fabijan approdato in un’isoletta della Dalmazia,
frustrato dalla popolarità dell’anziano parroco locale, è
desideroso di lasciare il segno nella storia dell’isola, nonché
di incoraggiare il “decorso della volontà divina”. Preoccupato
per il declino della natalità e convinto di comportarsi nella
maniera più corretta, dal momento che “anche il Papa è contro
l’uso dei contraccettivi”, inizia a bucare tutti i preservativi in
vendita sull’isola. Al lavoro del prete e dell’edicolante Peter,
che vende i condom nel suo chiosco, presto si aggiunge quello
del farmacista Martin, che somministra segretamente pillole
di vitamine invece di contraccettivi. Fioccano gravidanze
indesiderate e matrimoni riparatori ma, ben presto, l’azione del
religioso inizia a influenzare la vita degli abitanti dell’isola, con
conseguenze imprevedibili...
L’acuta e divertente commedia, spiritosa anche se non sempre
raffinata, ha già fatto incetta di premi, e non c’è da meravigliarsi
perché Vinko Brešan è l’uomo dei record del cinema croato:
Padre Vostro è il secondo incasso più alto nella storia del
cinema prodotto in Croazia, appena dopo l’opera prima dello
stesso regista. Brešan sceglie ancora una volta di mettere in
scena un problema sociale attraverso i codici della commedia,
il genere che più ritrae il suo modo di vedere il mondo. In linea
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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con il suo stile, costruisce un’opera graffiante e a tratti tragica,
attraverso l’uso del tipico humor balcanico che porta con sé un
gusto agrodolce.
In questo film l’autore affronta un tema molto sentito in
Croazia, quello del calo delle nascite. Per puntare i riflettori
sulla questione, Brešan sceglie la pièce teatrale dell’amico Mate
Matišić, con il quale scrive a quattro mani la sceneggiatura.
Il regista si spinge attraverso un difficile tema con un’iniziale
leggerezza che viene progressivamente scalzata dalla dura
realtà. Padre vostro è una commedia dove l’irriverenza si fa
dolenza e porta a galla alcuni aspetti del mondo clericale. Il
regista infatti, senza intenzione di giudicare la Chiesa, tanto da
aver voluto sul set due ex preti per evitare errori e incongruenze,
porta all’attenzione dello spettatore un lato buio e spesso
inesplorato del mondo cattolico.
Non un viaggio spirituale quindi, ma un’analisi di quello che
può succedere quando gli uomini giocano a fare Dio e cercano
di imporre il proprio volere sulle vite degli altri. Una storia che
invita il pubblico a riflettere, facendolo divertire allo stesso
tempo.
Ma descrivere Padre Vostro come una commedia sarebbe
riduttivo, ci sono infatti momenti intensamente drammatici,
dunque sarebbe più giusto definire il film una tragicommedia
dai toni surreali. Vinko Bresan rallenta il ritmo narrativo
rarefacendo ogni inquadratura, nessun dettaglio è lasciato
al caso, ogni composizione scenica è calibrata al millimetro,
anche perché la confezione sobria ed essenziale deve contenere
una sceneggiatura dal coraggio dirompente, che affronta
di petto, anche se ironicamente, temi incandescenti come il
conflitto etnico e religioso nell’ex Jugoslavia, le rivendicazioni
nazionalistiche croate, l’ipocrisia della Chiesa, i preti pedofili,
il controllo delle nascite, la misoginia e il patriarcato nelle
culture del Mediterraneo, la xenofobia e la non accettazione
dell’omosessualità.
Padre Vostro si prende anche un buon numero di libertà visive,
utilizzando stratagemmi cinematografici come gli sguardi in
camera, la manipolazione di luci e colori, con disinvoltura e
senza deformare la struttura narrativa portante. Il risultato è
una creazione filmica specifica e ben codificata, che nonostante
alcune lungaggini riesce a raccontare efficacemente una
storiella morale senza mai sconfinare nel moralismo.
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24 febbraio 2015
Nel nome del Padre
Stop the pounding heart
Regia: Roberto Minervini; Sceneggiatura: Roberto Minervini;
Produttore: Pulpa Entertainment; Ondarossa Film; Poliana
Productions; Houston Film Commission; Japage Investments;
Fotografia: Diego Romero; Scenografia: Riccardo Minervini;
Montaggio: Marie-Hélène Dozo; Suono: Thomas Gauder;
Ingrid Simon; Interpreti: Sara Carlson; Colby Trichell; Tim
Carlson; LeeAnne Carlson; Katarina Carlson; Christin Carlson;
Distribuzione: Biografilm Collection; Nazionalità: Belgio, Italia,
USA 2013; Durata: 98’
Sara ha pochi anni e tanti fratelli, vive in una fattoria del Texas
insieme ai genitori, allevatori di capre che educano tutti i figli
secondo i rigidi precetti della bibbia. La sua è una vita serena
e devota, passata ad accudire gli animali della fattoria, e a
mantenere corpo e mente puri in attesa di un uomo che la
prenda in moglie. L’incontro con Colby, allevatore di tori e
cowboy da rodeo, turba la quotidianità di Sara precipitandola
in una crisi profonda e portandola ad interrogarsi sui propri
valori morali.
L’opera a metà strada tra film e documentario, è passata quasi
del tutto inosservata ma ha raccolto consensi a Cannes e
al Festival di Torino vincendo poi il David di Donatello per il
miglior documentario 2014.
Capitolo conclusivo della trilogia sul Texas, Stop the Pounding
Heart, di Roberto Minervini, autore marchigiano ‘emigrato’
negli States, è un’esplorazione dell’adolescenza, dei rapporti tra
i sessi, tra religione e fede, valori familiari e sociali, nell’America
di oggi.
Come nei migliori romanzi di formazione, il film segue
l’evoluzione della sua protagonista verso l’età adulta. La giovane
protagonista, educata secondo i precetti dell’ortodossia biblica,
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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vive seguendo una decisa traiettoria e una vita già scritta
che ne ha fatto una buona cristiana. È a questo punto che il
regista inserisce Colby Trichell, local cowboy ed espediente
drammaturgico, che interromperà l’inerzia emotiva di Sara
confondendo i confini e tutte le nozioni fino a quel momento
appreso.
Immerso in una natura Malickiana, muta e osservatrice, Stop
the Pounding Heart racconta un sentimento intenso, casto e
silente, che non ha bisogno di dialoghi, col suo silenzio da film
muto che si dipana, all’interno delle sequenze, tra i primi piani e
le aperture sul paesaggio. Minervini scava nei volti ascoltando
i ‘battiti del cuore’ di Sara.
Un mondo paradossalmente chiuso quello della sterminata
provincia proletaria statunitense, in cui i ragazzi hanno
come unico divertimento giocare ai cowboys nei rodei e le
ragazze come solo orizzonte il matrimonio. Tutti devoti a Dio
e al secondo emendamento della Costituzione, quello che
garantisce il diritto inviolabile a possedere armi, maneggiate
da tutti con disinvoltura.
Un materiale umano e sociale, che sarebbe stato facile
adoperare come bersaglio di critica subordinata a convinzioni
ideologiche. Ma, come ricorda Deleuze, una critica concepita
unicamente come rappresentazione di conflitti, rimane
interna a un sistema rappresentativo precodificato e, quindi,
sostanzialmente inefficace.
Minervini non vuole avere a che fare con uno spettatore
passivo, controllato, assoggettato alla narrazione e soggiogato
da schemi predisposti, lo pone davanti a una visione che lo
obbliga a dimenticare le abitudini stereotipate del guardare. Il
regista sfugge dai cliché per cercare di ritrovare tutto quel che
non si vede nell’immagine, perché sottratto, o aggiunto, per
renderla “interessante”.
Vuole restituire un’immagine intera e senza metafora, che
mostri le cose in sé, nei propri eccessi d’orrore o di bellezza, nel
loro essere ingiustificabili, senza un’inquadratura giudicante,
un eccesso didascalico. Un’immersività trasmessaci per mezzo
dell’uso ininterrotto della macchina a mano, finalizzata alla
partecipazione. La regia si apre agli stimoli esterni, per poter
essere continuamente interagente con ciascun altro corpo con
cui condivide quello spazio e quel tempo comuni.
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3 marzo 2015
Nel nome del Padre
Station of the cross
Regia: Dietrich Brüggemann; Produttore: Jochen Laube;
Sceneggiatura: Dietrich Brüggemann; Anna Brüggemann;
Fotografia: Alexander Sass; Montaggio: Vincent Assmann;
Costumi: Bettina Marx; Interpreti: Lucie Aron; Michael
Kamp; Moritz Knapp; Birge Schade; Florian Stetter; Lea van
Acken; Franziska Weisz; Georg Wesch; Ramin Yazdani; Hanns
Zischler; Germania/Francia; 2014. Durata: 109’
Maria ha 14 anni. La sua famiglia è parte di una comunità
cattolica fondamentalista. Vive nel mondo moderno, ma il suo
cuore appartiene a Gesù. Vuole seguirlo, diventare una santa
e andare in paradiso. Così Maria passa attraverso 14 stazioni,
proprio come fece Gesù nel suo cammino verso il Golgota, e
alla fine raggiunge il suo obiettivo. Nemmeno Christian, un
ragazzo che incontra a scuola, può fermarla, anche se in un
altro mondo, avrebbero potuto diventare amici, o anche di più.
Maria è convinta che il peccato sia ovunque, in ogni parola,
in ogni uomo. In armonia con tutto ciò ha infatti preso una
decisione che non ha confessato ancora a nessuno.
Il lungometraggio diretto da Dietrich Brüggemann, presentato
in concorso al 64.mo Festival di Berlino, è scandito in diversi
capitoli, 14 tableaux che hanno come titolo le diverse stazioni
della via crucis, a cui corrispondono come indica il titolo. La
dichiarazione d’intenti è immediata. La famiglia dell’adolescente
è devota ad una organizzazione religiosa ortodossa che rinnega
il Concilio Vaticano II e rivendica una dimensione oscurantista
del cristianesimo. Il cinema ci ha raccontato spesso percorsi di
santità laica, cioè di protagonisti che decidono di intraprendere
un percorso faticoso, immolandosi in una sorta di purificazione
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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laica del proprio animo, che è sempre contigua a quella
religiosa. Dietrich Brüggemann compie il percorso opposto e
mostra apertamente quel brandello di vita della protagonista,
come un vero e proprio percorso di santificazione religiosa, con
l’obiettivo dichiarato fin dalla caratterizzazione bigotta della
famiglia, di smontare tutto questo. Colpisce dritto al cuore,
ci emoziona nel profondo non perché accenda i riflettori
sulla storia patetica di una ragazzina, ma per il modo diretto
di affondare le mani in una materia spinosa e delicata, senza
mai rinunciare al proprio punto di vista e ad una critica feroce.
L’opera si presenta come uno straordinario atto d’accusa contro
la violenza della religione, contro un certo modo di vivere la
religione. Senza toni urlati, con una distanza che non è mai
glaciale, il regista ci spinge a seguire il lento distacco da sé
stessa della protagonista, che rinuncia letteralmente a tutto,
nel nome di un pensiero religioso che ne ha permeato la vita
nel profondo. Non è un pamphlet politico, né un film a tesi, non
attacca la Chiesa come istituzione e non istruisce il pubblico
portandolo dalla propria parte, ma spinge a provare empatia
per Maria, mostrandoci con chiarezza le dinamiche che l’hanno
portata a scegliere un sacrificio troppo grande, disumano. La
regia di Brüggemann è di assoluto livello e riesce a valorizzare
appieno la profondità di una sceneggiatura dolorosamente
realistica. La macchina da presa è sempre statica, tranne in
tre momenti chiave della vicenda, quando il movimento nello
spazio della cinepresa serve a sottolineare i punti più tragici
del percorso della protagonista. Sebbene giri il suo Stations of
the Cross in piccoli quadri, con una forma quindi austera, che
mette in scena l’immobilismo umano e l’unica forza, l’ingenuità,
in grado di scoperchiarne la violenza orrenda, riesce lo stesso a
non rinunciare ad una forma peculiare di umorismo grottesco
e anche quando mostra la sua faccia più tragica, non riesce ad
evitare il ridicolo insito nella vita di ognuno. Il film sembra voler
spiazzare lo spettatore ad ogni stazione e, mentre lo conduce
su un percorso deduttivo abbastanza semplice, non rinuncia
ad instillare dubbi. Perché questo film colmo di insofferenza
per la religione, ci dice che il cinema non deve essere come la
fede, non deve vivere di dogmi e non deve convincere nessuno
delle proprie tesi; il regista non è un prete che evangelizza, ma
un uomo che racconta storie con l’obiettivo di mettere in crisi
quindi far riflettere lo spettatore.
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10 marzo 2015
Interni di famiglia
Gebo e l’ombra
Regia di Manoel de Oliveira. Sceneg: Manoel De Oliveira
Tratto dall’omonima pièce di Raul Brandão Interpreti: Michael
Lonsdale, Claudia Cardinale, Jeanne Moreau, Leonor Silveira,
Ricardo Trêpa, Luís Miguel Cintra Fotog: Renato Berta Mont:
Valérie Loiseleux Scen: Isabelle Girard Musica: Tiago Matos
Produzione: Portogallo/ Francia 2012 Durata: 95’
Nella casa del vecchio Gebo si ritrovano diversi amici per
discutere del mondo, un banchetto di quiete che potrebbe
durare all’infinito. Il ritorno inatteso di João, figlio di Gebo
che ha smarrito la retta via, sconvolge gli equilibri interni alla
famiglia e provocherà serie conseguenze.
A quasi 104 anni Manoel De Oliveira ci regala un’altra parabola
morale di grande impatto. L’occasione, stavolta, è l’adattamento
di un testo teatrale del 1923, Gebo et l’ombre, di Raul Brandão. de
Oliveira riunisce la diva Claudia Cardinale, alla prima esperienza
col maestro portoghese, la francese Jeanne Moreau, Michael
Lonsdale e le presenze fisse Luis Miguel Cintra e Leonor Silveira.
Michel Lonsdale interpreta con una palpabile, infinita tristezza
Gebo; intorno a lui girano tre donne variamente illuse: la moglie
Claudia Cardinale che vuole ignorare la verità sul figlio fuggito, la
nuora Leonor Silveira che ha un sesto senso che la aiuta a capire
la verità, la vicina Jeanne Moreau in visita ottocentesca. Un
gruppo di famiglia di terza età (meno Ricardo Trepa,) cui l’autore
affida un irrisolto quesito: Il dovere di un uomo è quello di essere
giusto e onesto o provare ad arricchirsi?”. L’anziano contabile
Gebo lavora con i numeri ma non riesce a “conteggiare” la
realtà, anzi matematicamente la occulta, nascondendo ai propri
famigliari il destino compromesso e la deriva illegale del figlio
Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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João. All’inizio il protagonista non parla. Gebo non vuole dire:
dall’incipit i personaggi parlano ma non comunicano, rimandano
il discorso, dicono il nulla. A invertire la rotta interviene l’ingresso
di João nell’abitazione, preceduto proprio dalla sua ombra (come
nella prima scena l’ombra lo accompagna fuori campo).L’arrivo è
l’occasione per innescare un incontro/ confronto/scontro dialettico
tra due concezioni diverse e inconciliabili. Da una parte la famiglia
che ha sempre lavorato, in povertà e umiltà, dall’altra il figlio che
coltiva la chimera del guadagno facile, vero e proprio lato oscuro
del nucleo. Ma la divisione è tutt’altro che schematica: Doroteia
accusa il marito di restare nella mediocrità, João si concede
un’ammissione di amore alla madre, che sotterraneamente
lo sostiene nella deviata impostazione ideologica/esistenziale.
La “scatola magica” dei soldi ammalia la figura di Candidinha
(nome antifrastico di un’amabile Jeanne Moreau), che la scruta
e la accarezza, configurandola come scrigno delle meraviglie
irraggiungibile per gli uomini (“Qui dentro c’è tutto”). De Oliveira
inquadra il crepuscolo degli uomini, dove verità e menzogna si
contagiano nell’ombra, dove avidità e povertà lottano invano; va
dritto al cuore della questione: il denaro. Film “da camera”, tutto
in una sera e in una notte. de Oliveira conosce benissimo il teatro
e lo usa come caso particolare dell’immagine, come scena che
si apre su un doppio fondo dal quale emerge il fantasma stesso
dell’immagine. (...) forse uno dei più grandi e lucidi film mai fatti
sulla fisica della proiezione. Sull’intuizione che le linee invisibili
che uniscono e dividono i corpi e la Storia, altro non sono che
il combustibile di un’intelaiatura forse indicibile, dove lo spazio
stesso divampa e sparisce in un sol colpo, e l’anima letteralmente
si immagina, come spesso accade con quella cosa che ancora
chiamiamo cinema.” (Lorenzo Esposito, ‘Il Manifesto’, 19 giugno
2014). Gebo e l’ombra non è dunque liquidabile nella restrittiva
categoria dell’oggetto teatrale: frequenta il teatro, certo, ma
proprio per questo gli stralci cinematografici raddoppiano
incidenza e valore assoluto. Nuova parabola morale, il film
propone un cinema estremo e coraggioso, dove la bolla astorica
del racconto ribadisce la sua radicalità intransigente e narrando
la malia del denaro, resta calato nel contemporaneo, si offre
come narratore ostinatamente ancorato al reale. “Nei miei film
sembra che non succeda niente, ma nel frattempo le cose
fondamentali succedono. Come spiegare la vita? La vita non
ha spiegazione, si dispiega” (Manoel de Oliveira).
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17 marzo 2015
Interni di famiglia
Ida
Regia: Paweł Pawlikowski; Sceneggiatura: Rebecca
Lenkiewicz, Paweł Pawlikowski; Fotografia Ryszard
Lenczewski, Lukasz Zal; Montaggio: Jaroslaw Kaminski;
Interpreti: Agata Trzebuchowska, Joanna Kulig, Dawid
Ogrodnik, Adam Szyszkowski. Polonia, Danimarca; Anno
2013. Durata: 80’
Polonia, 1962. Anna é una una giovane novizia rimasta
orfana in tenera età. Prima di prendere i voti, viene mandata
a Varsavia a conoscere sua zia: grazie a quest’ultima
scoprirà diversi segreti del suo passato e di quello dei suoi
genitori, scomparsi durante la seconda guerra mondiale.
Ida, quinto lungometraggio di Pawel Pawlikowski (autore
di My Summer of Love e del suggestivo La femme du
cinquiéme) , ci mostra una Polonia ancora non riconciliata
con il proprio recente passato e lo fa scegliendo per
protagonista una ventenne senza storia e senza identità;
un’identità che, pur non conoscendola, Ida sta per
sacrificare del tutto, dal momento che ha deciso di farsi
suora.
Prima di lasciarle prendere i voti, la madre superiora le
impone, però, di andare a conoscere la sua unica parente
ancora in vita, la zia Wanda (Agata Kulesza). La novizia
inizierà così un lungo percorso formativo che la porterà
in viaggio attraverso un paese martoriato dalle oscure
memorie del periodo bellico.
Due donne in viaggio alla scoperta delle verità del passato:
una giovanissima e l’altra matura, una piena di fede e l’altra
di dolore, una con la forza per affrontarlo, l’altra ormai
esausta. Non si conoscono, ma hanno lo stesso sangue. Ida
, con il suo sguardo intenso e severo, conoscerà il volto
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di sua madre in una vecchia fotografia, ne ritrova le ossa
sepolte nel bosco e imparerà ad amare Wanda, vittima
tormentata, ma anche carnefice.
Anna, l’orfana senza passato diventa Ida, una giovane
donna capace di scegliere per sé, lontana dalla silenziosa
protezione di un convento. Agnes Kulesza, Wanda, e Agnes
Trzebuchowska, Ida, danno vita a due personaggi intensi e
metaforici: anime ferite in una Polonia che ha nutrito in sé
cattolicesimo, antisemitismo e comunismo.
La regia di Pawel Pawlikowski ci riporta al desueto formato
dei 4/3, con una struttura a scene che si susseguono con
passaggi netti, senza alcuna fusione, con enfatizzata la
presenza del fuoricampo. Pawlikowsk lavora sulla misura e
sui silenzi, mette in scena la densità degli sguardi, il dolore
e la luce della forza interiore.
Crea il senso con creatività stilistica, fondendo modelli
classici, citazioni, e personali coniugazioni: il suo bianco e
nero, ricco di sfumature di grigio, che riconduce al cinema
nordico del secolo scorso, si accompagna alla rottura del
canone classico della composizione, con la scelta reiterata
di décadrage in cui le figure si ritagliano nel margine
inferiore dell’inquadratura, lasciando un ampio spazio
sopra le loro teste, quasi a creare, laicamente, un’estensione
entro cui si possa collocare tutto ciò che è altro dall’uomo,
ridimensionandone il peso.
Vincitore del premio della critica all’ultimo Festival di
Toronto, «Ida» è una pellicola di grande eleganza formale
nella creazione delle immagini e nell’accurata selezione di
brani di musica classica della colonna sonora. Film cupo
e sospeso che parla d’identità, d’amore e fede ma anche
di un paese, la Polonia ferita dalla persecuzione razziale
prima e delle purghe staliniane poi.
Un film che e che ha il pregio di accompagnarci con la
semplicità di una storia intima là dove il passato si stratifica.
Emozionante il finale, con Ida che avanza verso di noi e
verso la vita che si è scelta, con libertà e consapevolezza.
Miglior film al London Film Festival e Premio Fipresci al
Toronto International Film Festival.
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24 marzo 2015
Interni di famiglia
Il passato
Regia di Asghar Farhadi. Regia e Soggetto: Asghar Farhadi;
Sceneggiatura: Asghar Farhadi, Massoumeh Lahidji.
Interpreti: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Pauline
Burlet, Elyes Aguis. Fotografia: Mahmoud Kalari; Montaggio:
Juliette Welfling; Musiche: Evgueni Galperine, Youli Galperine.
Produzione: Memento Films Production Francia, Italia 2013.
Durata: 130’
Un marito, Ahmad, torna dall’Iran in Francia, incontra la ex
moglie, Marie, per firmare le carte del divorzio. In casa della ex
moglie convivono lui, lei, due figlie di lei avute da un precedente
marito che abita lontano, ma anche il nuovo amante di lei con
il figlio. Durante il breve soggiorno Ahmad ha modo di scoprire
la conflittualità esistente fra Marie e la figlia Lucie. Gli sforzi di
Ahmad per tentare di migliorare la situazione porteranno alla
scoperta di un segreto sepolto nel passato.
Storie di vite, di sentimenti, di dolore, “Il passato” di Asghar
Farhadi è un film complesso e sincero, vibrante nella sua
analisi psicologica, un perfetto mosaico di dettagli, colpi
di scena, insospettate rivelazioni e momenti pieni di
suspense, che spesso ci costringono a rivedere le nostre
considerazione e a ridisegnare il film. Un film che racconta
una storia avvincente che parla di temi che riguardano tutti,
che tutti abbiamo vissuto o che tutti potremmo vivere.
Un film, come da più parti è stato fatto notare, che è un
mix di thriller psicologico e di dramma familiare filmato
come un poliziesco. Un film che colpisce al cuore, prima
che alla testa. Dove rimangono impressi i piccoli gesti, le
parole, i dettagli, l’attenzione per i personaggi: il dialogo
muto dietro i vetri dell’aeroporto tra Marie e Amhad, di
cui non sentiamo le parole ma ne cogliamo pienamente
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il significato, emblema dell’incomunicabilità tra gli ex
coniugi; il parabrezza velato dall’acqua che continua a
cadere incessante e su cui, nonostante che i tergicristalli in
movimento continuino a spazzarla via, rimangono evidenti i
titoli del film; la medicazione che Amhad applica sul dito del
piccolo Fuad e che Samir poi rimuove, quasi un passaggio
di testimone tra i due uomini; la riparazione del tubo di
un lavandino che perde, contesa tra i due come senso di
affermazione sul territorio. Piccoli dettagli, particolari che ci
rivelano il malessere che attraversa i personaggi, sfumature
che li denudano nei loro risvolti emozionali. Farhadi intesse
una ragnatela complessa di vicende che innescano una serie
infinita di triangolazioni tra i personaggi, che annebbia il
giudizio e sfuma il contorno delle cose, fino a stravolgere
la nostra percezione dei fatti. Una ragnatela che svela una
varietà multiforme e sfuggente di verità, che non è mai
univoca e che spesso contraddice verità prima accertate.
La stessa Parigi è resa opaca dall’illuminazione scura della
fotografia di uno dei più importanti direttori della fotografia
irianiani, Mahmoud Kalari che, oltre ad aver collaborato con
Farhadi, ha lavorato anche con Abbas Kiarostami, Mohsen
Makhmalbaf e Jafar Panahidopo. Tutto è, dunque, incerto,
tutto può essere verità, tutto può essere menzogna; ognuno
ne possiede una parte, ognuno ne ha un frammento con cui
costruire il suo puzzle. L’effetto è sempre destabilizzante,
e insieme stranamente positivo, benefico. La ricerca svolta
dai protagonisti sui fatti che non conoscono, i modi in cui
cercano di nasconderli, e genericamente i confronti tra di
loro, sono spesso vicoli ciechi che di riflesso pongono lo
spettatore in una condizione scomoda, incapace com’è di
incolpare o favorire nessuno, messo com’è in riferimento
al buio, all’ignoto. Il passato che da il titolo all’opera non
è qualcosa di definito e inamovibile ma è una materia
flessibile che si ri-plasma ad ogni avvenimento, azione e
rivelazione del presente. Farhadi, come Assayas, non ricorre
all’espediente della semplificazione perché la semplificazione
è una bugia; in questo senso la famiglia, nucleo pulsante
della sua poetica, non è una unità ma una coesistenza di
individui carichi di tensioni differenti e spesso discordanti.
Il cinema di è Farhadi è quanto di più universale si possa
chiedere, non per quello che mostra, ma per la complessità
con cui lo mostra.
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31 marzo 2015
Interni di famiglia
I segreti di Osage County
Regia: John Wells; Sceneggiatura: Tracy Letts; Produttore:
Jean Doumanian, Fotografia:Adriano Goldman; Musiche:
Gustavo Santaolalla; Scenografia: Roshelle Berliner;
Interpreti: Meryl Streep, Julia Roberts, Ewan Mcgregor, Chris
Cooper; USA 2013; Durata: 130’
La famiglia Weston si riunisce per la scomparsa del capo
famiglia Beverly, riunione familiare non idilliaca, ritornano
a galla tutte le tensioni familiari più o meno sopite, tra
la madre e le figlie che hanno preso nel frattempo strade
diverse. Sullo sfondo di tutto c’è la sconfinato e deserto
paesaggio dell’Oklahoma.
Film con cast stellare con nomination a Meryl Streep, come
miglior attrice protagonista, e a Julia Roberts, attrice non
protagonista, agli oscar 2014 più altre nomination in altre
manifestazioni per le magistrali interpretazioni.
Lo sceneggiatore Tracy Letts traspone sul grande schermo la
sua commedia teatrale “Agosto, foto di famiglia” vincitrice
nel 2008 del premio Pulitzer.
Va detto però che il film non ha nulla di teatrale, nel senso
negativo del termine si intende, difatti il regista traduce
sullo schermo l’opera senza cadere nell’errore di trasformare
la commedia in semplice teatro al cinema.
Tracy Letts, nostra vecchia conoscenza per la sceneggiatura
di Killer Joe, ha dichiarato “so che c’è un’altra dimensione
nel film che non poteva esserci nel testo teatrale ed è Osage
County.
Vorrei portare il regista e la produzione a casa mia e
mostrare loro il paesaggio che ha un valore profondo per
me come persona che non ha solo scritto un testo ma una
sceneggiatura che è in qualche misura autobiografica.
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Il paesaggio stesso diviene personaggio”. Difatti tutti gli
esterni sono stati girati in Oklahoma, che con la sua calura
e i suoi ampi spazi deserti permea questo dramma familiare
in cui l’aridità dei comportamenti umani rispecchia quasi la
natura dei luoghi.
La storia ruota attorno al personaggio di Violet, Meryl
Streep, che ha una personalità difficile da definire che da
vittima può trasformarsi in carnefice in un battito di ciglia,
da donna tenera e arguta facilmente diviene verbalmente
violenta. A contrapporsi, suo malgrado, la figlia Barbara,
Julia Roberts, tesa come una corda di violino sul punto di
spezzarsi sotto i violenti colpi della madre. Lo scontro tra
le due personalità avrà il suo apice durante la riunione di
famiglia, per la scomparsa in circostanze misteriose del
capofamiglia Beverly.
Durante quest’incontro nella grande casa di famiglia,
incalzano i colpi di scena, i segreti e le verità taciute vengono
a galla spesso con devastante forza. In questo balletto di
rivelazioni e scontri c’è la minuziosa ma mai didascalica
descrizione dei personaggi implicati che il destino o le scelte
di vita hanno reso parenti.
Sembra quasi di rivedere “Parenti serpenti” di Monicelli che
in una delle sue commedie più nere era riuscito a ricostruire
le bassezze di cui si è capaci anche nei confronti dei propri
cari trasformandoci in vittime e carnefici. Come già detto il
tutto, su insistenza dello sceneggiatore che ha voluto come
per giustificare i comportamenti l’aridità dei sentimenti e
d’animo, avviene nella calura agostana del sud degli Stati
Uniti.
Le immagini del film completano quindi il racconto, come
per giustificarlo e a motivare gli atteggiamenti e le scelte
delle persone implicate nella storia di questa famiglia non
del tutto normale dando un valore aggiunto al testo teatrale.
Come accennato in precedenza il cast è stellare dove nei
ruoli maschili troviamo Ewan Mcgregor, Chris Cooper che in
questo caso sono da complemento alle donne del film, sono
infatti le interpreti femminili Meryl Streep e Julia Roberts ad
ammaliare con la loro interpretazione, reggono tutto il film
sul loro scontro, le si vede passare da un umore all’altro in
un batter di ciglio senza sbavature, viene allo scoperto tutta
la classe e la bravura delle due grandi attrici.
Va detto che probabilmente senza di loro il film sarebbe
stato diverso.
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Ciclo
Coming soon
L’ultimo ciclo di questa 47° rassegna 2014-2015 è come
consuetudine dedicata alle prime visioni. I titoli dei film
scelti saranno comunicati nel corso della rassegna. Il prezzo
della tessera include la proiezione di questo ciclo.
7 aprile 2015
Film anteprima
14 aprile 2015
Film anteprima
21 aprile 2015
Film anteprima
Schede a cura di
Claudio Scarpelli, Sara Scarpelli, Rosa Camera,
Sara Di Marco, Chiara Labate, Giampiero Logoteta,
Francesco Mancini e Stefano Ammendola.
Impaginazione e Progetto grafico
a cura di Saso Pippia
I materiali sono tratti da:
Rivista Cineforum, cinematografo.it,
mymovies.it, cineblog.it, cinefilos.it ,
filmup.it, comingsoon.it.
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