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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 NUMERO 501 Cult La copertina. Autofiction, chi si scrive addosso Straparlando. Lanza Tomasi e i fantasmi del Gattopardo La poesia. De Musset, il dandy rimasto senza amore TRUFFAUT DURANTE LE RIPRESE DI “LE DUE INGLESI” (1971) / © RAYMOND DEPARDON / MAGNUM PHOTOS/CONTRASTO Archivio Truffaut M A R IO SERENELLI NI F RA NÇOI S TRUF F A UT PARIGI RIMA d’ingaggiarmi, aveva già abbozzato il mio «P “profilo” di quattordicenne», ricorda Jean-Pierre Léaud: «E ha presente la foto infilata nella lettera in cui mi candidavo per i Quattrocento colpi? Sul retro François aveva scritto: “Bellino ma un po’ femminile”». L’attore-feticcio di Truffaut, che ha oggi settant’anni, accetta di farci da guida virtuale alla mostra che Serge Toubiana, direttore della Cinémathèque Française di Parigi, dedica (fino al 25 gennaio) al regista scomparso il 21 ottobre di trent’anni fa. Altra guida d’eccezione l’amica d’una vita, oggi ottantaseienne, Jeanne Moreau, ventisette anni di complicità e due film insieme (Jules e Jim e La sposa in nero, oltre all’apparizione nei Quattrocento colpi): «Ogni volta che ci vedevamo, François mi ascoltava e restava muto: tornato a casa, mi scriveva subito una lettera. Le conversazioni con lui erano fatte della mia voce e dei suoi scritti». Un modo di archiviare i pensieri, memorizzare e incorniciare momenti di vita. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN OMAGGIO DI STEVEN SPIELBERG A Parigi una grande mostra celebra il regista della Nouvelle Vague Jeanne Moreau e Jean-Pierre Léaud ci raccontano l’uomo “più metodico del mondo” ARO Signor Hitchcock, prima di tutto faccio appello ai suoi ricordi. Qualche anno fa ero un giornalista di cinema quando alla fine del 1954 sono venuto con l’amico Claude Chabrol a intervistarla negli Studi Saint-Maurice, dove dirigeva la postsincronizzazione di Caccia al ladro. Lei ci aveva chiesto di andare ad aspettarla al bar degli Studi: è stato allora che, per l’emozione di aver visto quindici volte di seguito un girato che mostrava in un canotto Brigitte Auber e Cary Grant, siamo caduti, Chabrol e io, nella piscinetta gelata del cortile degli Studi. Molto amabilmente, lei ha accettato di rinviare l’intervista, che poi ha avuto luogo la sera stessa nel suo albergo. In seguito, ogni volta che lei è passato da Parigi, ho avuto il piacere di incontrarla con Odette Ferry, e l’anno dopo lei m’ha anche detto : «Penso a voi due ogni volta che vedo del ghiaccio in un bicchiere di whisky». C SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON LA RISPOSTA DI ALFRED HITCHCOCK L’immagine. Quell’insegna è un capolavoro. L’inedito. “Mio papà Kurt Vonnegut e quei suoi scarabocchi non così male” Spettacoli. Una vita da Tomas Milian: “Altro che Monnezza” L’incontro. Il teatro come manicomio, le follie di Angélica Liddell la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 La copertina. François Truffaut Lettere, appunti, liste di titoli, note sugli attori, persino i biglietti dei film visti da ragazzino. Il regista dei “Quattrocento colpi” non buttava via niente Ecco il suo incredibile archivio La mia droga si chiama cinema <SEGUE DALLA COPERTINA MA R IO SERENELLI NI A MOSTRA PARIGINA è strapiena di lettere a registi, attrici, produttori, scrittori. Lettere su lettere, inesausto internet cartaceo, permanente faccia a faccia con le persone desiderate. A volte, lettere di lettere, come quella inviata a tredici anni all’amico Robert Lachenay: «Hai ricevuto le mie tre lettere?». E giù l’elenco. Da bambino e adolescente con la sua fame di cinema tempesta di richieste le rubriche di posta dei giornali per informarsi su film, registi, filmografie complete (quando ancora il concetto di filmografia era vago e la parola non appariva nel vocabolario): notizie e recensioni che andranno a nutrire i suoi proverbiali dossiers bleus, muraglia cinefila di classificatori, enciclopedia del grande schermo in foglietti volanti. Fin dal primo lungometraggio, la catalogazione è d’una minuzia sorprendente. L’appunto sul retro della foto, evocato da Léaud, diventa una mini-diagnosi nella fiche n.3 dei ragazzini provinati, con un apprezzamento sulla lettera («è ben scritta, semplice, netta»), l’aggiunta a penna, «intelligente» e, sotto, la promozione: «Antoine» (accanto, cancellato, «o René»), cine-battesimo di quel Doinel cui delegherà il suo più intimo io. Il puntiglio dell’appunto, del promemoria, della schedatura — abitudine metodica, che ha finito per produrre l’archivio più sterminato e ordinato della Cinémathèque — fa ora da testo a fronte dei suoi film, quasi un pre-cinema in forma di diario quotidiano. La mostra riporta così alla luce, nutrendo d’uno sguardo nuovo, il profilo Truffaut. La pignoleria di chi non vuol lasciare nulla d’inesplorato l’induce a stillicidi di titoli possibili prima della scelta definitiva, per La camera verde o per I quattrocento colpi (una ventina d’alternative, toletta, poi la fase-escargots, solo ed esclusitra cui il già godardiano Les petits soldats). vamente escargots… Ho vissuto quegli invi«Uomo d’una metodicità in alcuni casi esa- ti come una persecuzione: ma sono stati ansperante», ricorda la Moreau: «Si era con- che l’occasione di continui scambi culturali. vinto che mi spettava un risarcimento per le Lui mi ha avvicinato alla letteratura giappopene sofferte l’anno prima sul set di La not- nese, io a quella anglosassone». Da quegli inte: lui non amava il cinema di Antonioni, tan- contri e dalla passione per la lettura erano rito che in Jules e Jim ha inserito una parodia nati gli uomini-libro nel film Fahrenheit 451, dell’antonionismo. E così, per mesi, una vol- tratto dalla storia di Ray Bradbury, capaci di ta alla settimana, m’invitava a pranzo: sem- archiviare nella loro memoria un intero ropre lo stesso ristorante, in rue du Colisée, al- manzo. Truffaut per primo era un uomo-lila stessa ora, lo stesso giorno della settima- bro, devoto al testo e all’autore (il suo Balna. E lui, sempre lo stesso piatto! O meglio, zac…), ma anche uomo-cinema, pronto a staperiodicamente lo stesso: c’è stata la fase-co- gliuzzare e ricomporre le pagine più amate, miscelandole a appunti, spunti e notizie di cronaca, ingombri autobiografici, facendone insomma quella poltiglia d’autore che si chiama film. Il suo lavoro, per tutta la vita, è stato un anelito di registrazione e archivio, disciolto, in fasi successive, nella precoce vocazione cinèfila, poi nella pratica di critico e infine nell’esposizione in prima persona, come regista, attore, produttore. L’archivio Truffaut, dall’infanzia alla morte, al cuore della mostra raduna gli archivi del cuore: cinematografici, letterari, sentimentali. Pratiche classificatorie, ossessioni alfabetiche, calamitate dalla vita quotidiana e privata, a © EREDI PIERRE ZUCCA L 32 la Repubblica DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 Monsieur Hitchcock, sono quello che cadde in piscina con Chabrol 33 Incontri ravvicinati tra selvaggi <SEGUE DALLA COPERTINA STE V E N SP I E L BE RG F R AN Ç O I S T R U F F AU T ER Incontri ravvicinati del terzo tipo, già in fase di sceneggiatura avevo modellato il personaggio dello scienziato Claude Lacombe su François Truffaut. Mi sentivo vicino a lui per uno stesso sentimento dell’infanzia. Avevo visto Il ragazzo selvaggio, mi aveva impressionato la sua interpretazione del dottore, insieme all’idea sottesa nel film: voi volete entrare nel mondo e il mondo vi tiene alla larga, vi respinge. Per questo lo vedevo come tramite ideale tra alieni e terrestri. Non avevo ancora visto altri suoi lavori, non sapevo se lui conoscesse i miei. Ma per me era il perfetto uomo-bambino, il personaggio da me scritto. E a mia volta mi sentivo un po’ anch’io un ragazzo selvaggio. Quando ci siamo conosciuti abbiamo scoperto di essere tutti e due ragazzi selvaggi. Alla mia proposta d’ingaggio, mi aveva chiesto il copione. Dopo pochi giorni ho ricevuto un telegramma : «Che tipo di guardaroba è stato previsto per me?». Il suo modo di rispondere sì. All’epoca stava lavorando a Gli anni in tasca : io gli ho trovato il titolo per la distribuzione in America, Money Pocket. Anche per me come per lui il cinema è stato più importante della vita. Poi è nato il mio primo figlio e per me è diventata importante anche la vita. (Testo raccolto da Mario Serenellini) P N ALTR’ANNO, mi ha invitato a U venire qualche giorno a New York per seguire le riprese de Il ladro, ma ho dovuto declinare l’invito, perché, qualche mese dopo Chabrol, ho a mia volta affrontato la regia. Ho girato tre film, di cui il primo, I quattrocento colpi, ha avuto, credo, una certa eco a Hollywood. L’ultimo, Jules e Jim, è attualmente in sala a New York. Vengo all’oggetto di questa lettera. Nel corso delle mie discussioni con giornalisti stranieri e soprattutto a New York, mi sono reso conto che ci si è fatta spesso un’idea un po’ superficiale del suo lavoro (…) © DR Caro Signor Truffaut, La sua lettera mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. Quanto le sono grato di ricevere un tale omaggio da parte sua. Sto ancora girando Gli uccelli: ne avrò fino al 15 luglio. Dopo, dovrò cominciare il montaggio, che mi terrà occupato qualche settimana. Credo che aspetterò la conclusione delle riprese de Gli uccelli. Dopo di che mi metterò in contatto con lei, con l’idea di incontrarci verso fine agosto. Grazie ancora per la sua lettera deliziosa. Con sincera amicizia, cordialmente suo Alfred Hitchcock © RIPRODUZIONE RISERVATA UT UFFA DI TR / ERE ULT RUA © DR © JE © RIPRODUZIONE RISERVATA HITCHCOCK E SPIELBERG AN G © ANDRÉ DINO / DR (Traduzione dal francese di Mario Serenellini) Dalla lettera a Alfred Hitchcock del 2 giugno 1962 : Truffaut chiede al regista inglese un’intervista. Nel ’66 diventerà il fondamentale Hitchcock-Truffaut IN ALTO LA LETTERA A ALFRED HITCHCOCK E SOTTO IL TELEGRAMMA IN RISPOSTA. I DUE NEL 1973. QUI A SINISTRA TRUFFAUT INSIEME A SPIELBERG NEL 1976 DURANTE LE RIPRESE DI “INCONTRI RAVVICINATI DEL TERZO TIPO” JEAN-PIERRE LÉAUD © MARILOU PAROLINI NELLA FOTO GRANDE L’ATTORE CHE A QUINDICI ANNI INTERPRETÒ ANTOINE DOINEL NE “I QUATTROCENTO COLPI” DEL 1959 (IL FILM RESTERÀ NELLE SALE ITALIANE FINO A FINE MESE, RESTAURATO DALLA CINETECA DI BOLOGNA). SOTTO UNA LETTERA DI LÉAUD A TRUFFAUT: “SIGNORE, MIO PADRE LE HA TELEFONATO SABATO. MI PIACEREBBE MOLTO PARTECIPARE AL SUO FILM. SPERO CHE MI CHIAMERÀ PER UN PROVINO”. E ACCANTO PROVE DI TITOLO PER IL FILM. SOTTO ANCORA TRUFFAUT E LÉAUD SUL SET DI “NON DRAMMATIZZIAMO...” (1970). TUTTE LE FOTO E I DOCUMENTI SONO TRATTI DAL CATALOGO FLAMMARION PER LA MOSTRA ORGANIZZATA DALLA CINÉMATEQUE FRANCAISE A PARIGI DALL’8 OTTOBRE 2014 AL 25 GENNAIO 2015 JEANNE MOREAU L’ATTRICE NE “LA SPOSA IN NERO” (’68). A DESTRA, BIGLIETTI DEL CINEMA CONSERVATI DA TRUFFAUT RAGAZZINO E LA SCENEGGIATURA DI “JULES E JIM” (’62) sua volta risucchiata ciclicamente nei film, dove si ripetono in analoghe situazioni e si richiamano tra loro, identici, i dialoghi, costanti sintagmi del suo cinema: il “lasciarsi o impazzire” di L’uomo che amava le donne e La signora della porta accanto, o BelmondoDeneuve in La mia droga si chiama Julie e, dieci anni dopo (e dopo l’innamoramento folle per Catherine Deneuve), DepardieuDeneuve in L’ultimo Metro: «La tua bellezza è una sofferenza», «Ieri dicevi che è una gioia», «È una gioia e una sofferenza». Il cinema di Truffaut, deposito sempre aggiornato d’un archivio d’amori che rincorro- no il suo “doppio” Antoine Doinel in L’amore fugge e la sua controfigura in L’uomo che amava le donne, si costruisce anche su una meno conosciuta tenacia documentaria: «Per Non drammatizziamo... è solo questione di corna, dove ho un banchetto di fiori che mi applico a ricolorare» ricorda Léaud «François aveva condotto un’inchiesta capillare tra i fioristi e le imprese americane basate in Francia. Senza rinunciare alle informazioni d’occasione, come per la scena della bagarre in cortile: nata direttamente da un aneddoto raccontato dal titolare d’un bristrot vicino». Ancora Léaud: «Prenda Baci ru- bati, dove m’improvviso detective privato. Per rendere più credibile il personaggio e le scene nell’Agenzia Blady gli sceneggiatori Bernard Revon e Claude de Givray hanno trascorso la primavera del ‘67 a catturare fatti di cronaca e a setacciare la Duby Detective, assistendo a riunioni dell’agenzia e sottomettendo a dodici ore d’intervista il patron, Albert Duchenne, divenuto poi collaboratore alla sceneggiatura». Nel Truffaut rivelato dal suo archivio è una solida, quasi spietata documentazione a far da impalcatura segreta alle trame di meravigliosa finzione del suo cinema e allo RTV-LA EFFE DOMANI IN RNEWS (ORE 13.45 E 19.45, CANALE 50 DEL DT E 139 DI SKY) MARIO SERENELLINI RACCONTA TRUFFAUT scavo del cinema altrui, come nell’esemplare Hitchbook del ‘66, di cui, nella spiritosa allocuzione del ’79 all’American Film Institute di Los Angeles, parla come di «un libro di cucina, raccolta di ricette per cuocere a puntino spettacolo e spettatori». È l’idea d’un cinema che ha nei dati d’archivio il puntello e il trampolino per liberarsi delle imperfezioni quotidiane: archivio finale e irriconoscibile di tutti i veri, minuscoli archivi di cui è disseminato. Vale per il cinema come per l’esistenza: «La nostra vita è un muro», scriveva a Isabelle Adjani: «Ogni film ne è una pietra». © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 34 FOTO DI LOUISE FILI DA “GRAFICA DELLA STRADA”, PRINCETON ARCHITECTURAL PRESS L’immagine.On the road Dal Liberty al neon anni ’70, le scritte dei negozi sono piccoli capolavori ormai quasi perduti. Una designer americana li ha raccolti in un libro FILIPPO CECCARELLI L O SCORRERE DEL TEMPO purifica lo sguardo e al tempo stesso nobilita tutto ciò su cui di proposito o accidentalmente si posa. Così sarebbe bellissimo se quelle schifezze grafiche che si vedono oggi sui negozi e i cartelloni pubblicitari, sulle targhe o le indicazioni stradali diventassero un domani piacevoli a guardarsi, eleganti, rappresentative del genius loci, meritevoli di appassionata attenzione perfino al di là dell’oceano. Questa specie di speranza estetica, e magari anche un po’ civica, germoglia dopo aver sfogliato con crescente emozione Grafica della strada. The signs of Italy di Louise Fili. Studiosa e art director di fama, lei si definisce «italophile», in realtà non è solo di origini italiane, ma soprattutto così innamorata dell’Italia da confessare che il colpo di fulmine l’afferrò nel suo primo viaggio, a sedici anni, e per sempre, davanti al marchio, invero rimarchevole, dei Baci Perugina. E ogni anno vola qui, gira per mercatini e librerie dell’usato, colleziona lattine, cartoline, etichette e anche quelle meravigliose carte con cui tuttora in Sicilia si rivestono le arance. Per anni Fili ha girato le città italiane (Torino, Bologna, Lucca, Roma le preferite) fotografando, tra mille difficoltà di traffico e malumori, ogni genere di insegne. Questo libro di immagini è perciò un tributo d’amore, tanto inaspettato perché le sue scelte restituiscono a chi qui è nato, ma non ha più occhi per vederli, autentici tesori solo nostri, stupendi svolazzi di lettere sulla pietra, preziosi sbalzi di ferro battuto, rifiniture lignee degne di grandi artisti, foglie d’oro di meravigliosa leggerezza, fregi sorprendenti, animali, conchiglie, draghi, stemmi, medaglie, come pure creazioni di austera e miracolosa semplicità. Segni, sogni, lettere e numeri di fattura unica e irripetibile, ormai, eco visiva di un tempo in cui le botteghe avevano nomi e funzioni antiche: “Beccheria”, “Mesticheria”, “Aguzzeria del cavallo”, “Cordami”, “Mescita”, “Albergo diurno”. Una sorta di cimitero segnaletico di mestieri scomparsi e di merci perdute, misteriose, vietate: “Arrotino”, “Carni avicunicole”, “Sbigoli”, “Storini per finestra”, “Frattaglie”, “Zerbini”, “Elixir”, “Armi”, “Pantofole”, “Coca boliviana”, “Si riammagliano calze”. L’umile Italia e frugale, variopinte visioni di un paese contadino — “Sementi”, “Cereali” — ma anche eclettico, neoclassico, capriccioso; un panorama che da un lato si riveste di Liberty, dall’altro non smette mai di dedi- L’Italia insegna la Repubblica DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 carsi all’essenziale. Per cui la storia visiva del paesaggio urbano s’intreccia con quella del potere, il suo stile, i suoi materiali. Il fascismo improvvisa una classicità romana su misura, adora i mosaici in bianco e nero e del tutto ignaro dell’effetto bagno pubblico li impone agli impianti sportivi e alle stazioni ferroviarie. Lunghe frecce appuntite, littoriade diffusa, scritte prescrittive, spesso a vuoto. Il razionalismo ingrossa i caratteri, squadra le lettere, ma sulle pollerie, sui negozi di vini e oli o su quelli di calzature il colpo d’occhio è fantastico. Quando arriva il neon, l’Italia è già ripartita ed è forse il tempo più felice perché vario nella sua nuova e curiosa libertà. Storici ristoranti testimoniano del benessere a portata, l’artigianato come una via felice che esprime insieme uno slancio e un’identità. Poi succede qualcosa. Ecco le macchine, ecco la grafica computerizzata. E sarà anche inevitabile, ma si rompe un incanto, scompare una meraviglia, si consuma una tradizione, si incrina un’estetica. Forse ha a che fare con quello che Pasolini, profeta di sciagure abbastanza veritiere, designava «sviluppo senza progresso». Sta di fatto che le merci non sono più quotidiane o periodiche necessità, nel giro di un ventennio finiscono per vivere di vita propria. I caratteri tipografici, i colori, i fondali, le stesse indicazioni sembrano di colpo uguali. L’omologazione è disumana, tanto più prepotente quanto meno percepita come un rullo compressore che insieme alle latterie, alle mercerie e alle legatorie di libri andava schiacciando anche la sobrietà dei numeri, la ricerca di equilibrio, il calore, l’inventiva, il senso di un lavoro L’arredo urbano e l’internet point A LE S S A N D R O ME N D I N I GUARDARE queste stratificazioni urbane di scritte, insegne, materiali dal mosaico alla lamiera al vetro opalescente davanti al neon, bisogna ammetterlo: la qualità estetica ed emotiva di queste cose la contemporaneità non l’ha più saputa dare. L’arredo urbano, anche di grandi designer, rispetto a questa abilità artigiana ha sempre qualcosa di insufficiente. Quello che probabilmente ha perso è la radice nel gusto della decorazione barocca, che è senso dello spazio. Da quello risulta una descrittività che è quasi un romanzo: la vita nel tabacchino, dal barbiere, nel bagno diurno. Senza rinunciare a esprimere, a differenza delle odierne grafiche da brividi di internet point, massaggi o paninerie, una dignità estetica che allude a una qualità dell’interno, nei legni di una vecchia farmacia o drogheria. Da parte sua, il design contemporaneo, che pure ha conquistato gli interni delle case, con strade e piazze non ce l’ha fatta. Perché quando si è cimentato con l’arredo urbano si è affidato più agli oggetti (panchine, pensiline) che allo spazio. Un vizio funzionalista tedesco venuto dalla Bauhaus, direi, non superato nemmeno quando il postmodernismo, per contrastarlo, si è riappropriato di un gergo più accattivante. L’eccezione? Le vetrine dei grandi negozi del lusso: anche oggi “fatte a mano”, più raffinate di molti musei e certo con più soldi a disposizione. (Testo raccolto da Maurizio Bono) A © RIPRODUZIONE RISERVATA 35 e in fondo di una civiltà. Non è solo una faccenda di nostalgia, né di furbo recupero del vintage. Il piccolo grande museo a cielo aperto di Louise Fili si ferma negli anni ’70. Con il che volendo misurare il vuoto di bellezza arrecato dai segni del consumo basta soffermarsi su quanto faticosamente ha fin qui resistito sulle vie d’Italia in termini di premura individuale, sincerità di intenti ed efficacia del messaggio. Così come basta scorgere i cieli azzurri dietro i cartelli degli stabilimenti balneari per cogliere un’atmosfera che è e per fortuna resta solo italiana. Basta confrontare le botteghe di una città o dell’altra per capire che la differenza è vitalità. Basta soffermarsi sulle insegne-fantasma, veri e propri ectoplasmi murali, scritte logore e semi cancellate che annunciavano qualcosa che non c’è più, come se il loro disuso facesse meglio risaltare la superba umiltà fra intonaci scrostati, macchie d’umido, ombre di fumo, abbagli di plastica. Perché le insegne, queste della Grafica della strada, non rispecchiano solo la storia sociale o estetica, ma nascondono e insieme trasmettono potenza e poesia. Si pensi alla “T” bianca su campo blu dei Tabacchi, con lo stellone; oppure alla candida colomba che sembra essersi posata su una cartoleria “con fabbrica di registri all’insegna del Palombo”. Come ogni bel libro d’immagini se ne consiglia l’osservazione insieme a qualcuno. Da soli, il rischio del rimpianto nuoce allo sguardo. E se nel passato, in realtà, c’è anche il futuro, non è detto che rassegnarsi al brutto sia l’unica via di fuga. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 36 L’inedito. Altrui mestieri Lo scrittore americano amava anche dipingere. Ma sua figlia Nanette, pittrice, non lo prese mai sul serio Almeno fino al giorno in cui non ritrovò questi vecchi ritratti fatti apposta per lei LE IMMAGINI IN QUESTA PAGINA, “AUTORITRATTO” E ACCANTO UNO SCHIZZO “SENZA TITOLO”. NELL’ALTRA, DALL’ALTO IN SENSO ORARIO: “AUTORITRATTO” E “AUTORITRATTO 16 FEBBRARIO 1985”. A SEGUIRE TUTTI GLI ALTRI DIPINTI ESEGUITI DA KURT VONNEGUT TRA IL 1985 E IL 1987 NON HANNO NÉ TITOLO NÉ DATA. LE IMMAGINI SONO TRATTE DA “KURT VONNEGUT DRAWINGS” PUBBLICATO NEGLI USA DA MONACELLI PRESS/RANDOM HOUSE. IN BASSO, A DESTRA, ALCUNI AFORISMI DELLO SCRITTORE Gli scarabocchi di papà Vonnegut GABRIELE PANTUCCI UANDO NON SCRIVE SCARABOCCHIA”. Nanette oggi si rammarica d’averlo ripetuto ogni volta che le chiedevano cosa facesse suo padre. Aveva cominciato a usare questo tipo di risposta da bambina, senza alcuna intenzione denigratoria. Poi, con gli anni, avendo studiato arte ed essendo diventata un’artista professionista forse quello sbrigativo modo di dire aveva iniziato a assumere una sfumatura lievemente critica, o almeno un carattere di condiscendenza. Suo padre, Kurt Vonnegut, era uno scrittore famoso: addirittura uno dei più importanti e influenti scrittori americani contemporanei. Era naturale che lei — pittrice per davvero — non potesse prendere in seria considerazione i soggetti con cui lui riempiva ogni pezzo di carta nei momenti in cui si voleva solo rilassare. Del resto Vonnegut stesso osservò, all’apice della carriera, che disegnava soltanto per reagire all’oppressione che gli procurava lo scrivere. E suo figlio Mark ce lo confermò, quando raccolse e pubblicò gli scritti rimasti inediti alla morte del padre nel 2007: «Per lui lo scrivere era un esercizio spirituale». La prosa di Kurt Vonnegut, che ammiriamo per immediatezza, freschezza, ironia e spontaneità, era il risultato di uno scrivere e riscrivere più volte finché COURTESY OF MONACELLI PRESS+ ‘‘Q non avesse trovato la versione perfetta. E dunque, per tornare agli “scarabocchi”, se l’autore stesso interpretava i suoi disegni come sfoghi per rilassarsi, era naturale che Nanette non li considerasse al di sopra di una camomilla. Lo chiamava “lo scarabocchione” (the doodler) e intorno alla metà degli anni Novanta addirittura gli suggerì di bruciare tutti quei fogli di carta che gli riempivano i cassetti di casa. Fu allora che suo padre le spedì due pacchi di dimensioni scarsamente maneggiabili. In Nanette l’aspettativa d’una sorpresa si dileguò con la stessa rapidità con cui scema l’attesa di una vincita alla lotteria dopo che il numero è stato annunziato: contenevano disegni e soltanto disegni. Non ebbe neppure il tempo di aprire completamente quei grossi pacchi. «Con i bambini che strillavano perché volevano o non volevano qualcosa ebbi soltanto il tempo di metterli da parte... Li avrei guardati poi, con calma, quando si fossero addormentati». I piccini si svegliarono e addormentarono parecchie volte, passarono gli la Repubblica DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 37 Quando, come e perché uno dei più grandi scrittori del ’900 mi mandò una mail LU C A R A S T E LLO NA VOLTA NELLA VITA mi sono sentito membro di una comunità virtuale, e membro orgoglioso benché si trattasse di una comunità che evidentemente accetta gente come me. È stato quando ho ricevuto una e-mail da Kurt Vonnegut. Com’era possibile che uno dei più grandi scrittori del Novecento, l’autore di quel Mattatoio n.5 che al momento buono mi porterò nella decina di libri da tenere sull’isola deserta, l’uomo che pur di raccontare l’orrore dei bombardamenti su Dresda si fece rapire dagli alieni del pianeta Tralfamador, addirittura ex pompiere volontario e presidente della Società degli Umanisti Americani, rispondesse al messaggio di uno sconosciuto che pone una domanda banale? Ovviamente non credevo ai miei occhi e ho anche pensato a uno scherzo tralfamadoriano, ma l’evidenza era contro di me: a scrivere era proprio lui. Una quindicina d’anni fa stavo lavorando a un romanzo in cui il protagonista per rievocare il passato e orientarsi nel caos della memoria usa come traccia (come le briciole di Pollicino nel bosco) certe storie di fantascienza psichedelica pubblicate negli anni ‘70 nella collana Urania. Fra queste la più folle, intitolata Venere sulla conchiglia, che raccontava l’odissea di un hippy alla guida di un’astronave fallomorfa dopo il nuovo diluvio universale, era firmata Kilgore Trout. Da adolescente non lo sapevo, ma Kilgore Trout è uno dei personaggi-chiave ricorrenti proprio nei romanzi di Vonnegut, a partire da La colazione dei campioni. Ora ero diventato un fan dello scrittore americano e per non scrivere spropositi provai a mandare la mia domanda all’indirizzo riportato sul suo sito: era davvero lui l’autore sotto pseudonimo di Venere? Rispose con grande cortesia ed estrema semplicità: il libro non era opera sua ma del suo amico Philip J. Farmer che con il nome di fantasia aveva voluto omaggiarlo, e Vonnegut mi ringraziava per il tempo «perso» a leggere le sue opere. Non gli scrissi più, se non per ringraziarlo a mia volta, e per fortuna non gli dissi nulla di quel mio orgoglio da membro di comunità virtuale (da qualche parte, in qualche server, browser o comediavolo, c’erano ormai entrambi i nostri indirizzi), perché sarei rimasto gelato da uno dei suoi aforismi, che scoprii solo dopo la sua morte: “Le comunità virtuali non costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti per danzare. Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui sulla Terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti”. Anche l’aforisma fu una scoperta fulminante, purtroppo postuma e voglio comportarmi proprio come probabilmente avrebbe fatto lui, sempre generoso con i suoi lettori, accumulandone qui di seguito un paio di altri, formidabili: “Per favore, un po’ meno di amore e un po’ più di dignità”, “Consiglio all’aspirante scrittore: abbi pietà del tuo lettore”, “Non preoccupatevi del futuro. Oppure, preoccupatevene, ma sapendo che tanto è un gesto inutile. Non vi aiuterà più di quanto masticare un chewing gum vi possa aiutare a risolvere un problema di algebra”, “Fate ogni giorno qualcosa che vi spaventi”. E poi quello che trovai inciso sopra il disegno di una lapide tombale, l’ultima volta che mi collegai al suo sito che stava per essere tolto dalla Rete: “La vita non è la maniera di trattare un animale”. Così è la vita. Così (anche) era Vonnegut. U © RIPRODUZIONE RISERVATA ENTRAMBE LE MIE FIGLIE FANNO QUADRI E POI LI VENDONO MA IN REALTÀ LI VORREBBERO TENERE SEMPRE CON SÉ. È UN TERZO INCOMODO A COSTRINGERLE A OFFRIRLI IN ADOZIONE GLI UOMINI SONO ANIMALI FATTI PER DANZARE. QUANT’È BELLO ALZARSI, USCIRE DI CASA. SIAMO QUI SULLA TERRA PER ANDARE IN GIRO A CAZZEGGIARE. NON DATE RETTA A CHI DICE ALTRIMENTI anni e Nanette si dimenticò completamente di quei pacchi ingombranti e semiaperti che aveva messo sopra uno scaffale. Suo padre le aveva persino telefonato per chiederle con discrezione se fossero arrivati, ma non aveva spinto oltre la sua curiosità. A posteriori potremmo dire che teneva a un giudizio della figlia, ma che non s’azzardava a darlo a vedere. Così su quei pacchi s’accumularono con gli anni parecchi altri pacchi e oggetti, tutti assai poco importanti per la vita di Nanette e dei suoi familiari. Soltanto dopo la morte del padre li aprì, si mise alla scrivania e finalmente trasalì. Non erano i soliti scarabocchi ma disegni, ne vedete una selezione in queste pagine. Agli occhi esperti di Nanette apparvero sì come «labirinti capricciosi in stile minimalista caratterizzati da una sinuosità serpeggiante» ma anche «dotati d’una policromia e qualità che affascinano». Dopo di lei furono visti da molti altri addetti ai lavori, e tutti concordano nei loro giudizi positivi. C’è chi vi ha voluto ravvisare le metafore di certi romanzi labirin- tici di Vonnegut, mentre le influenze cubiste, di Miró e di Calder, sono evidenti. I centoquarantacinque disegni sono ora pubblicati in un volume da Monacelli/Random House con un saggio di Peter Reed e uno della figlia Nanette. Reed — professore emerito di lingua e letteratura Inglese alla University of Minnesota e grande esperto di Vonnegut — ha stabilito che furono tutti eseguiti tra il 1985 ed il 1987. Se è vero che diversi lavori grafici dell’autore di Mattatoio n. 5 erano già apparsi in due mostre (alle quali lo scrittore partecipò con grande riluttanza, e lo invitavano solo perché il suo nome era d’aiuto agli amici galleristi) va detto pure che i lavori emersi dallo scaffale delle cianfrusaglie di Nanette sono di gran lunga superiori. È possibile, le chiediamo, che suo padre non si sia dedicato al disegno e alla pittura con gli stessi risultati anche in altri momenti della sua vita e non solo nell’arco di quei due anni? «Possibilissimo — risponde lei — ma ha idea di quanto tempo mi ci vorrà per scoprirli?». © RIPRODUZIONE RISERVATA NON PREOCCUPATEVI DEL FUTURO. OPPURE PREOCCUPATEVENE. MA È COME MASTICARE UN CHEWING GUM SPERANDO CHE VI AIUTI A RISOLVERE UN PROBLEMA DI ALGEBRA SBEVAZZATE INNOCUE SONO QUELLE CHE FANNO I BAMBINI QUANDO PER ORE SI UBRIACANO DI QUALCHE FENOMENO. OSSERVANDO L’ACQUA O LA NEVE O IL FANGO O I SASSI O I COLORI... la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 38 Spettacoli. In anteprima “Ho cominciato a recitare a dodici anni, mio padre si era appena sparato davanti a me” Autobiografia di Tomas Milian, l’attore che preferì passare per trucido MA R IA PIA FUSCO «N ON AMO LE CELEBRAZIONI, ma sono molto contento, il Marc’Aurelio per me è come un Oscar». Così Tomas Milian commenta il premio alla carriera che riceverà al Festival di Roma dove sarà anche protagonista di una master-class. E poi Roma è un richiamo irresistibile, «la considero mia, mi ha accolto, mi ha dato il successo, mi ha dato Er Monnezza». Trattato dalla critica con stizzita sufficienza, il trucido ispettore Nico Giraldi, protagonista del cinema poliziesco diretto da Umberto Lenzi e poi da Sergio Corbucci, campione di incassi nella seconda metà dei Settanta, oggi personaggio di culto, ha significato per Milian uno dei momenti di maggiore popolarità nella sua tormentata carriera, un’alternanza di alti e bassi, scelte impreviste e improvvise, come se il suo carattere inquieto, segnato forse dal trauma infantile del suicidio del padre, lo spingesse a una sfida continua con se stesso. Una carriera ricca la sua, varia, importante, prova di un attore di razza, formatosi all’Actor’s Studio, arrivato dall’off Broadway al festival di Spoleto a recitare Cocteau, Il poeta e la musa, con la regia di Zeffirelli, interprete di cinema di autori come Bolognini, Visconti, Pasolini, Zurlini, Lizzani, Lattuada. Di colpo si lancia nell’ondata degli spaghetti western e il successo dei suoi arruffati personaggi esplode, ma sfuma quando il genere tramonta. Non dimentica il cinema alto — Identificazione di una donna con Antonioni o La luna con IL LIBRO IL TESTO E LE FOTO PUBBLICATI IN QUESTE PAGINE SONO TRATTI DA “MONNEZZA AMORE MIO” DI TOMAS MILIAN (CON MANLIO GOMARASCA) IN LIBRERIA PER RIZZOLI (297 PAGINE, 18,50 EURO). MILIAN RITIRERÀ IL PREMIO ALLA CARRIERA AL FESTIVAL DI ROMA GIOVEDÌ 16 OTTOBRE Tra Bombolo e Gabo Marquez quante sorprese sotto la barba Bertolucci — ma a riportarlo al clamore del successo è l’ispettore Monnezza, un personaggio che non poteva essere più lontano da lui. «Sono timido, borghese, educato a un linguaggio rispettoso. Confesso che per sentirmi a mio agio con Nico mi sono messo a bere, ho esagerato, ne sono uscito con fatica», diceva negli anni Ottanta, quando prese la decisione di lasciare l’Italia dopo trentacinque anni. Oggi, a ottantadue, doppia cittadinanza americana e italiana, vive a Miami, con continue incursioni nel cinema di Hollywood, ancora attore per Stone, Redford, Pollack, Spielberg, Soderbergh, Ferrara. Nella sua autobiografia da poco in libreria, cruda e sferzante come una battuta del Monnezza, ripercorre impietoso la sua incredibile storia di incontri (come quello col Nobel “Gabo” Marquez, ma anche con Fellini, Hopper, Orson Welles), trionfi, capricci, sprechi, intuizioni (le battute del maresciallo Giraldi se le scriveva da solo) ed eccessi privati (cocaina, alcol, donne, uomini). E chi non lo sapesse può scoprire che, oltre al Monnezza, c’è tanto, tanto altro. Un personaggio e un artista infinitamente più complesso, poliedrico e profondo di quello che il grande pubblico, quello che senza barba e tuta blu addosso nemmeno lo riconosce, possa immaginare. Milian è l’attore forse più ingiustamente ignorato dalle istituzioni del cinema internazionale, il premio di Roma lo compensa solo in parte. Glielo consegnerà Sergio Castellitto, che lo ha già scritturato per il suo prossimo film, Nessuno si salva da solo, dal romanzo di Margaret Mazzantini. L’inizio di un’ulteriore carriera italiana? Chissà. © RIPRODUZIONE RISERVATA Lamia vita non è solo Monnezza la Repubblica DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 39 METAMORFOSI 1. IN “BOCCACCIO ’70” DI LUCHINO VISCONTI (1962) 2. NE “I DELFINI” DI FRANCESCO MASELLI (1964) 3. IN “THE BOUNTY KILLER” DI EUGENIO MARTIN (1966) 4. NE “L’AMORE CONIUGALE” DI DACIA MARAINI (1970) 5. IN “LA VITTIMA DESIGNATA” DI MAURIZIO LUCIDI (1971) 6. IN “HAVANA” DI SIDNEY POLLACK CON ROBERT REDFORD (1990) 7. IN “REVENGE” DI TONY SCOTT (1990) 8. IN “AMISTAD” DI STEVEN SPIELBERG (1997) 9. CON GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ A MILANO (1974) 10. IN “TRAFFIC” DI STEVEN SODERBERGH (2000) 11. IN “ROMA NUDA” DI GIUSEPPE FERRARA (2010). NELL’IMMAGINE GRANDE A CENTRO PAGINA LA LOCANDINA DI “SQUADRA ANTIFURTO” (1976) 1 4 5 TOMAS MILIAN OMÁS Roberto Rodriguez-Varona y Estrada detto Tomín, cioè mio padre, era un ufficiale dell’esercito che durante il colpo di Stato di Batista, nel settembre del 1933, quando io avevo solo sei mesi, resistette barricato nell’Hotel Nacional per più di una settimana. Alla fine lo catturarono e lo rinchiusero nella fortezza La Cabaña, dove, per disperazione, tentò di tagliarsi la gola. Per fortuna sua non ci riuscì. Appena rimarginata la ferita, sua zia Carmen Jimenez, una persona molto influente a L’Avana, vedova di uno dei più rispettati intellettuali del Paese e rettore dell’Università de L’Avana, José (Pepe) Cadenas, intervenne perché mio padre fosse trasferito in una clinica privata per malattie nervose. Avevo quattro anni quando mi portarono a visitarlo la prima volta. Da ufficiale mio padre diventò allevatore. Aveva due di tutto, come nell’Arca di Noè: gallo e gallina, vacca e toro, cavallo e cavalla, coniglia e coniglio, figlio e figlia. Mio padre era il capo dell’esercito più piccolo del mondo che contava un solo soldato, io, e instaurò una ferrea disciplina militare... anche violenta. Era il capodanno del 1945. Avevo dodici anni. Ci stavamo preparando per andare a fare colazione a casa dei nonni materni. Prima di uscire mio padre, seduto su una poltrona, mi fece un gesto, battendo una mano sulla gamba, perché mi sedessi con lui. Mettendomi un braccio intorno alla vita mi disse: «Tommy... sono molto stanco e voglio che diventi un “bravo uomo”, così potrai aver cu- a mia moglie una dedica sulla sua copia di ra di tua madre e di tua sorella». Non capivo quel- Cent’anni di solitudine: «A Rita, la Reina de los lo che diceva ed ero sorpreso da quell’inaspetta- Moros y de los Cristianos». Del film che mi aveva to gesto d’affetto. Il primo di sempre. Pensai: proposto si parlò soltanto all’ora dei saluti. «La «Questi sono i buoni propositi per l’anno nuovo, mia agente ti chiamerà tra tre giorni» mi disse. ma domani...». Arrivati a casa dei nonni, i miei ge- «Tomas, pensaci bene». Se avessi detto di sì, lanitori si chiusero in camera da letto. Eliana e io ci sciandomi persuadere dal prestigio del messagsedemmo a tavola insieme al resto della famiglia. gero, sarei stato amato per sempre dalla sinistra Dopo qualche minuto, vidi mia madre passare italiana. Se invece avessi detto di no, il mio campiangendo attraverso il patio interno che porta- mino cinematografico sarebbe stato ancora più va alle cucine. Domandai: «Por qué mami està llo- difficile perché mi sarei giocato tutti i registi mirando?». Senza aspettare risposta né chiedere gliori, quelli di sinistra. Al Premio Nobel dissi propermesso, mi alzai e andai verso la stanza dove prio questo. Siccome i western erano passati di c’era mio padre. «Papi?». Silenzio. «Papiii?!?». moda in Italia, non potevo allontanarmi da qui. Nessuna risposta. Piano piano aprii la porta e lo Dovevo fare un film di cassetta per provare a tevidi sdraiato sul letto con indosso l’uniforme mi- nere alto il nome. Se fossi andato in Colombia, tra litare e i sempiterni occhiali da sole. In mano ave- una cosa e l’altra, sarebbero passati almeno due va la sua pistola d’acciaio con la canna puntata anni e la gente si sarebbe scordata di me, il che verso il cuore. BANG! avrebbe danneggiato anche loro e il loro film. In Sentii una caterva di sentimenti e pensieri con- pratica, gli stavo facendo un favore. trastanti. Ricordo, però, che nessuno fu di dolore. Mi sentivo come il protagonista di quei film weLA PIRA GALEAZZO Dopo il successo di Milano odia, nel 1976 Lustern che vedevo al cinema. Mia madre e le persone che erano a tavola tentarono di entrare nel- ciano Martino mi offrì di lavorare di nuovo con la stanza, ma io ostruivo loro il passaggio perché Lenzi in Roma a mano armata. C’era una scena in quello era il mio film arrivato al duello finale tra il cui, uscito di prigione, mi fermavo a fare benzina buono e il cattivo. Chi era il buono? Chi il cattivo? e, siccome non avevo i soldi per pagare, scappavo Non avevo tempo di pensarci e mi misi a correre sgommando. Sentivo che mancava qualcosa, ci verso il telefono per chiamare la madre di mio pa- voleva una frase a effetto da dire al benzinaio che dre. Tirai su la cornetta e feci il numero di fretta. rendesse la battuta più incisiva. Così pensai a una Occupato. Lasciai cadere la cornetta, ma il modo parola che facesse rima con «’azzo» e trovai la soin cui cadde non mi convinceva: «L’ho lasciata ca- luzione. «Ecco fatto. So’ cinquecento, dotto’». dere male! Questo gesto non è vero, non è il gesto «Come te chiami te?». «La Pira Galeazzo». «A La di un figlio che ha appena visto suo padre sparar- Pira Galeazzo, siccome nun c’ho una lira, t’attacsi al cuore. Questo gesto è falso! Sto facendo finta chi ar cazzo». Il giorno della prima, all’Adriano di di soffrire». Ripresi la cornetta e la lasciai ricade- Roma, andai apposta per sentire la reazione del re cercando di farlo meglio, ma mi venne peggio pubblico a quella «battuta del cazzo». Se fosse anperché ero già cosciente del gesto. Stavo recitan- data come credevo avremmo vinto. Quando ardo. E da quell’istante recitare, per me, è diventa- rivò il momento, il boato del pubblico fu strepitoso, quasi un coro da stadio. Quella battuta mi aprì to l’equivalente di mentire, ingannare. la strada. Sul set recitavo in romanesco perché volevo vivere questo essere romano, come avrei voUN NOBEL A CASA MIA A Milano conobbi Gabriel García Márquez che luto viverlo nella vita reale. Essere romano mi era di passaggio in città. Andammo insieme al ri- proteggeva il cuore e il cervello, perché un romastorante a gustare un’enorme «orecchia di ele- no non si lascerebbe mai andare a piagnistei penfante», in compagnia di un’amica giornalista che sando, per dirne una, che il padre gli si è suicidaera già stata avvisata che non volevo né foto né ar- to davanti agli occhi quando aveva dodici anni. ticoli su quell’incontro: non mi è mai piaciuto far- Un romano, piuttosto, si farebbe una canna. Le mi pubblicità alla faccia di una celebrità. Tre gior- idiosincrasie e le passioni dei romani, il fatalismo ni dopo fu García Márquez stesso a dirmi che un e la generosità, l’arguzia e la saggezza erano il suo amico voleva farci un servizio fotografico as- mio scudo per la vita. Che gli altri film del Monsieme. Accettai perché la richiesta arrivava da nezza fossero più o meno riusciti a me importava lui. La sera dopo, Gabo e io camminavamo per poco, quel che contava era che piacessero al pubpiazza Duomo, bubbolando dal freddo, ognuno blico. Ciò che mi interessava era diventare, traimmerso nel rispettivo eskimo, come due gran- mite er Monnezza, membro di un popolo che chi caraibici dentro al carapace. Mi parlò di un sdrammatizzava le tragedie con il sorriso, che atfilm diretto da un suo amico che si sarebbe dovu- traverso il potere della risata esorcizzava i propri to girare nelle montagne colombiane e mi offrì la demoni. Lui mi faceva da corazza contro la vita e parte principale. Nel cinema, quando qualcuno ti il dolore. A Cuba avevo avuto un’infanzia segnaoffre un lavoro senza passare dall’agente, signi- ta dall’assenza d’amore di mia madre e dal colpo fica che ti vuole gratis o quasi. Non gli domandai di pistola di mio padre, ma a Roma riuscii a riemse il biglietto aereo sarebbe stato di prima classe pire quel vuoto esistenziale con i sentimenti di un perché era sottinteso che si trattava di un film di personaggio che era diverso da me, migliore di sinistra, regista di sinistra, intermediario di sini- me. A me Tomas non piace, mentre Monnezza sì. stra. Siccome però lui era un Premio Nobel gli dis- Tomas è vulnerabile, ingenuo, timido. Monnezza si che non potevo dargli una risposta subito. L’in- è coraggioso, saggio, estroverso. L’unica cosa che domani Márquez sarebbe partito per Roma e, sic- abbiamo in comune è il senso dello humour. come dovevo andarci anch’io per finire le riprese Per conservarlo così com’era, ho preferito laa Cinecittà, lo invitai a mangiare da me. Rita ci fe- sciare Roma, in modo da poter invecchiare lontace moros y cristianos, un piatto tipico cubano a ba- no, mentre lui sarebbe rimasto sempre lì giovase di fagioli neri e riso bianco accompagnati da ne, gagliardo ed eterno come la città che gli ha dapezzi di maiale, banane fritte e insalata di avoca- to i natali. do. Un mangiarino leggero, insomma, che valse © RIPRODUZIONE RISERVATA T 2 3 6 7 8 ESSERE ROMANO MI PROTEGGEVA IL CUORE E IL CERVELLO, PERCHÉ UN ROMANO NON SI LASCEREBBE MAI ANDARE A PIAGNISTEI. A ME TOMAS NON PIACE, MENTRE MONNEZZA SÌ. TOMAS È VULNERABILE, INGENUO, TIMIDO. MONNEZZA È CORAGGIOSO, SAGGIO, ESTROVERSO. PER CONSERVARLO COSÌ COM’ERA HO PREFERITO LASCIARE ROMA IN MODO DA POTER INVECCHIARE LONTANO, MENTRE LUI SAREBBE RIMASTO SEMPRE LÌ. GIOVANE, GAGLIARDO ED ETERNO COME LA CITTÀ CHE LO HA FATTO NASCERE 9 10 11 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 Next. Do it yourself Dieci piccole invenzioni Chi sono gli artigiani digitali che stanno cambiando il nostro futuro BRUCE ST ER L I NG HI SONO I MAKERS? Sono i nuovi meccanici, i nuovi artigiani. Sono quelli che fanno le cose, per esempio quelle che vedete qui. Ma sono anche un movimento controculturale che nasce in California. Sono il “do it yourself”, il “fai da te” della cultura hacker a cui si rivolge il mensile Make. Make nasce da un editore californiano, Tim O’Reilly, che con la sua casa editrice O’Reilly Media pubblica da oltre trent’anni riviste di tecnologia. Il suo primo best seller è stato una guida a Internet. Quando Internet comincia a espandersi è il primo a pubblicare guide ad argomenti arcani quali l’HTML, Java, Linux e così via. Tim O’Reilly ha un genio straordinario per diffondere trend tecnologici. Make all’inizio era solo una rivista quadrimestrale rivolta agli attivisti di Internet che però da subito organizzava eventi e vendeva speciali “maker tool” elettronici. Era un nuovo modello di business che trovò inaspettatamente un’ampia ed entusiastica nuova audience. Inoltre, Make assomigliava di più a un vero movimento piuttosto che a una semplice rivista tanto che nel 2006 organizza un evento che chiama “Maker Faire”: avrà un successo enorme diffondendosi in tutto il mondo, dalla California a Tokyo fino a Roma e da lì partiranno anche molti nuovi business come Adafruit, Makerbot o l’italiana Arduino. Oggi è ormai chiaro che la promessa fallita della prosperità globale non potrà rivivere mai più. Quantomeno nelle modalità a cui si pensava prima della crisi. Inoltre il World Wide Web sta soffrendo di un processo di trasformazione con mostri megacorporate come Apple, Google, Facebook, Microsoft e Amazon. Insomma, sono tempi bui. E però gli esempi che invitano alla speranza non mancano. Uno arriva proprio dall’Italia che ha saputo rispondere al fast food in stile McDonald’s con il movimento dello slow food. Ecco, l’equazione è: slow food sta a McDonald’s come i makers stanno a Apple, o a Google. Dunque ora la porta è aperta, e il grande successo della Maker Faire di Roma (un altro esempio che viene dall’Italia) lo dimostra. Ma non è detto che tutti riescano a entrare. Voglio dire: siamo pronti ad abbandonare ciò che abbiamo per vivere davvero come «makers»? E che cosa succederà dopo? Una terza rivoluzione industriale? Oppure quella dei makers si rivelerà essere solo un’altra passeggera moda californiana? Nessuno lo sa. Ogni anno tuttavia, questo movimento sembra diventare sempre più importante. C ILLUSTRAZIONE DI HARRY CAMPBELL © RIPRODUZIONE RISERVATA SIAMO AGLI ALBORI DI UNA NUOVA ERA: UNA RIVOLUZIONE IN CUI MILIONI DI PERSONE POTRANNO PRODURRE DA SÉ QUELLO DI CUI HANNO BISOGNO. È LA DEMOCRATIZZAZIONE DELLA MANIFATTURA E L’INIZIO DI UN LUNGO VIAGGIO PER RIPENSARE I MODELLI PRODUTTIVI JEREMY RIFKIN ALLA MAKER FAIRE, ROMA 2014 40 la Repubblica DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 L’UMANOIDE INMOOV È UN ROBOT STAMPATO IN 3D TOTALMENTE OPEN SOURCE, COSÌ CHE PUÒ ESSERE REPLICATO DA CHIUNQUE. È IN GRADO DI RIPRODURRE I MOVIMENTI UMANI CON GRANDE NATURALEZZA. IL SUO INVENTORE È GAEL LANGEVIN, SCULTORE E CREATIVO FRANCESE, MA AL PROGETTO ORMAI LAVORA UNA COMMUNITY DI ESPERTI, TRA CUI L’ITALIANO ALESSANDRO DIDONNA WWW.INMOOV.FR 41 La “Maker Faire” di Roma 2014 è stata un successo Da lì e non solo con un guru dell’hi tech abbiamo scelto i prodotti più belli IL CARICABATTERIE LIMOR FRIED È UNA DONNA INGEGNERE DAI CAPELLI ROSA SHOCKING, CREATRICE DELLE ADAFRUIT INDUSTRIES, UN’AZIENDA CHE VENDE CONGEGNI ELETTRONICI BIZZARRI TIPO QUESTO PICCOLO MA UTILISSIMO CARICABATTERIE PER IPHONE WWW.ADAFRUIT.COM LA LAMPADA MODULARE IL LEGO HI-TECH LA PIZZA DELL’ASTRONAUTA UNA CASA DA STAMPARE CON DRAGON LA LAMPADA TE LA FAI COME VUOI TU ASSEMBLANDO MODULI TRIANGOLARI CON LUCI LED CHE POSSONO ESSERE PROGRAMMATE E REGOLATE A DISTANZA GRAZIE A UNA APP DEDICATA. DRAGON E LA SORELLA CROMATICA (UNO SPEAKER LUMINOSO) SONO STATE PROGETTATE DALLO STUDIO ITALIANO DI INDUSTRIAL DESIGN HABITS. WWW.DIGITALHABITS.IT AYAH BDEIR CON IL SUO SITO LITTLEBITS STA TRASFORMANDO L’ELETTRONICA IN UNA RISORSA CHE QUALUNQUE DESIGNER PUÒ USARE: SEMPLICE COME ASSEMBLARE DEI LEGO, OGNI MATTONE SVOLGE UNA SPECIFICA FUNZIONE WWW.LITTLEBITS.CC LA NASA HA DATO UN FINANZIAMENTO DI 125.000 DOLLARI A ANJAN CONTRACTOR, INGEGNERE MECCANICO, FONDATORE DELLA SMRC, AZIENDA SPECIALIZZATA NELLO “STAMPAGGIO” DI CIBO CHE HA PRESENTATO IL PROGETTO PER UNA PERFETTA PIZZA IN 3D: COME IL REPLICATOR DI “STAR TREK” WWW.SYSTEMSANDMATERIALS.COM IL SOGNO DI MASSIMO MORETTI È DI COSTRUIRE UNA STAMPANTE 3D DI DIECI METRI IN GRADO DI STAMPARE CASE IN ARGILLA: SI CHIAMA PROGETTO WASP E ALLA MAKER FAIRE DI ROMA È STATO PRESENTATO UN MODELLO DI CINQUE METRI WWW.WASPROJECT.IT LA TURBINA UN TEAM ITALIANO HA PRODOTTO VENTOLONE, LA TURBINA OPEN SOURCE CHE PURIFICA L’ACQUA E PRODUCE ENERGIA EOLICA. GIÀ TESTATO IN ALCUNI PAESI IN VIA DI SVILUPPO, FA CAPO ALLA ONLUS SOLARE COLLETTIVO WWW.OPENVENTOLONE.COM IL BASTONE A SENSORI SAFEWALK È UN BASTONE INTELLIGENTE PER PERSONE NON VEDENTI CREATO DA MATTEO MARINO CHE RIESCE A IDENTIFICARE OSTACOLI E IRREGOLARITÀ DEL TERRENO GRAZIE A DEI SENSORI. LA BATTERIA DURA CINQUE ORE. WWW.SAFEWALK.IT UN SITO PER INVENTORI IL ROBOTTINO IL COSIDDETTO UOVO DI COLOMBO: BEN KAUFMAN HA CREATO QUIRKY, UN SITO DOVE GLI INVENTORI POSSONO METTERE IN VENDITA LE LORO OPERE DI INGEGNO. A DECRETARNE IL SUCCESSO È IL PUBBLICO STESSO WWW.QUIRKY.COM CREATO DA DUE GIOVANI STUDENTI INDIANI, EMISRO È UN PICCOLO AUTOMA CAPACE DI SGUSCIARE NELLE AREE PIÙ DIFFICILI E IRRAGGIUNGIBILI. I ROBOT POSSONO ANCHE COMUNICARE TRA LORO E RICONOSCERE ALCUNI GESTI DELLE PERSONE, IN MODO DA CAPIRE COME SI SENTONO WWW.MAITREYANAIK.WORDPRESS.COM LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 42 Sapori. Post industriali USARE PESTICIDI È PIÙ DIFFICILE SE SI È I PRIMI A MANGIARE CIÒ CHE SI PRODUCE. ECCO PERCHÉ LE PICCOLE AZIENDE DANNO SEMPRE PIÙ FIDUCIA AI CONSUMATORI. E IL MESTIERE DEL CONTADINO RIACQUISTA DIGNITÀ. È AGLI UNI E AGLI ALTRI CHE QUEST’ANNO SARÀ DEDICATO “TERRA MADRE” La vecchia fattoria. Frutta, verdure e salumi è l’ora degli star farmers LICIA GRANELLO OME SI CAMBIA. Un tempo, chi non voleva studiare veniva spedito a imparare la cucina, e di chi non sapeva fare il suo lavoro si diceva, “braccia strappate all’agricoltura”. L’avvento dell’era degli starchef ha scombinato la classifica dei mestieri più ambiti. Tra poco sarà il tempo di pizzaioli e bartender, che già fanno capolino nei congressi e in televisione. Poi sarà il turno degli star farmers, che hanno contribuito a innalzare in modo vertiginoso il livello della ristorazione, grazie a frutta e verdura dal gusto intatto, piccoli gioielli di profumo e sapore. In realtà, il mondo della cucina è assai più faticoso e complesso, e l’agricoltura famigliare lo testimonia da millenni, condannata com’è a sopportare gran parte del peso di nutrire il pianeta. Schiacciate dai potentati dell’agroindustria, vessate da norme e codicilli creati ad arte per ridurle a rassegnazione e silenzio, le famiglie contadine resistono indomite, pur se ridotte nei numeri e negli spazi. Negli ultimi tempi, però, complice una crisi economica senza fine, il mestiere dell’agricoltore ha ricominciato a essere riconosciuto in termini di dignità e peso, un’inversione di tendenza che vale lauree e master. Se fino a ieri, quella della campagna verso la città era una migrazione senza ritorno — si andava in città a studiare, trovare un lavoro e viverci — oggi la strada viene percorsa sempre più spesso a doppio senso. E in campagna ci si torna a vivere con una coscienza diversa, fatta di integrazione tra saperi tradizionali e nuove informazioni. Non è facile, essere agricoltori in miniatura. Perché significa rinunciare ai vantaggi della serializzazione e prendere su di sé fino in fondo la responsabilità di ciò che si produce. Usare pesticidi e fungicidi con leggerezza è più difficile, se si è i primi a mangiare ciò che si coltiva. Avere cura della terra diventa il passaporto della salute dei propri figli che vivono dello stesso lavoro e negli stessi luoghi. La stagionalità e i tempi della terra diventano la forma stessa del lavoro e non intralci da bypassare forzando e truccando. Le malattie delle piante si guariscono rendendole più forti, proprio come indicano le nuove conoscenze mediche di psiconeuroimmunologia. La terra ricambia con produzioni sane e buone, gonfie di sa- C L’appuntamento Al Lingotto di Torino dal 23 al 27 ottobre la decima edizione del biennale Salone del Gusto e Terra Madre (che quest’anno festeggia i dieci anni di attività). In programma laboratori, conferenze, percorsi didattici, scuole di cucina e i prodotti di oltre 400 comunità del cibo in arrivo da cento nazioni Il fenomeno L’Onu ha dichiarato il 2014 anno internazionale dell’agricoltura famigliare Ben 350 associazioni e 60 paesi si sono impegnati a censire queste micro-imprese (il 94 per cento ha a disposizione meno di cinque ettari) e analizzare il fenomeno, che coinvolge 500 milioni di famiglie Il libro Dal 15 ottobre in libreria la nuova Guida ai Presidi Slow Food (Slow Food Editori, 14,50 euro), bibbia delle 243 produzioni censite e protette dall’associazione, molte declinate anche in termini di ospitalità e buon cibo presso le famiglie dei produttori: 384 pagine di schede e consigli pore invece che di acqua e chimica. Le testimonianze virtuose, fino a pochi anni fa rare e bollate di bizzarria, oggi si moltiplicano e la rete le fa viaggiare tra i continenti, dalle mucche felici che l’ecochef Dan Barber alleva nella super fattoria didattica di Blue Hill, a nord di New York (guadagnandosi il plauso pubblico del presidente Obama), a quelle della famiglia Masera, che alle porte di Torino ha deciso di estirpare il mais per seminare erba medica e favino. Risultato: le mucche sono così contente di brucare all’aria aperta, che in stalla non ci rientrano nemmeno per dormire e fanno un latte strepitoso, nettamente meno allergenizzante di quello prodotto negli allevamenti-catena di montaggio. Tutto questo e molto altro troverete nelle storie di Via Campesina, l’organizzazione di agroecologia che difende i diritti delle comunità contadine di tutto il mondo. Addentate un pezzo di Fontina d’alpeggio e ringraziate il dio dei pascoli liberi. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 8 Quel grande orticello che salverà il mondo prodotti e produttori La ricetta CA RL O P E TRI NI Formaggio, castagne e zucca per il mio riso d’autunno INGRED IALONE NANO GRUMOLO DELLE ABBADESSE; 10 DI SALE MARINO DI CERVIA; 20 G. DI FORMAGGIO FATULÌ AFFETTATO ; CAPPERI PICCOLI DI SALINA; 20 DI FORMAGGIO BAGOSS GRATTUGIAT 4 FOGLIEDIVERZA; 20 G. DIFAGIOLICANNELLINI DENTEDI MORTODI ACERRA; 20 G. CARCIOFO VIOLETTO DI SANT’ERASMO; 20 G. DI MORTADELLA ; DI CREMA DI CASTAGNE; 20 G. DI ZUCCA; 10 DI PAPACELLA NAPOLETANA SOTTO ACE DI EXTRAVERG IORI EDULI PERLACREMADICASTAGNE: 500 G. DICASTAGNE BOLLITE ESGUSCIAT EZZO LITRO DI BRODO VEGETALE; 4 FOGLIE DI ALLORO; 50 C LIO DI ALLORO ; 1 PIZZICO DI SALE IENTI: 160 G. DI RISO V G. G. O; 5 G. 20 G. G. TO; 10 CL. INE ; F E; M L. DI O er prima cosa, cubettare la mortadella e tagliare la papacella, poi sbollentare le foglie di verza, raffreddarle e spezzettarle. Intanto, cuocere i fagioli dopo averli lavati, scolare e raffreddare. Cuocere anche la zucca e tagliare a cubettini. Pulire i carciofi e cuocerli in acqua acidulata con qualche goccia di limone, raffreddarli e tagliarli a spicchietti. Cuocere al dente il riso e condirlo con la crema di castagne tiepida, poi aggiungere gli altri ingredienti, e per ultimi i formaggi, rifinire con i fiori eduli e l’extravergine all’alloro. La crema di castagne rimasta, suddivisa in ciotoline con poca verza saltata e un’acciuga, è un delizioso accompagnamento all’aperitivo. P 43 LO CHEF VITTORIO FUSARI È UNO DEI PIÙ COLTI E SENSIBILI CUOCHI ITALIANI CHE DA SEMPRE DIFENDE L’AGRICOLTURA FAMIGLIARE. QUESTA RICETTA SARÀ PRESENTATA AL “SALONE DEL GUSTO E TERRA MADRE” Pasta Olio Solo grani italiani, acqua di sorgente ed essiccazione lentissima per i maccheroni prodotti nel pastificio storico, appena ristrutturato, da Giovanni e Ada Assante, con la figlia Maria Elena Marino Gabrielloni ha costruito il suo frantoio a metà anni ’50. Le nipoti Elisabetta e Gabriella hanno abbinato la raccolta manuale agli impianti con azoto per preservare i profumi GERARDO DI NOLA VIA ROMA 25 GRAGNANO (NA) TEL. 081-8743652 GABRIELLONI FRANTOIO OLEARIO VIA MONTEFIORE RECANATI (MC) TEL. 0733-852498 Mozzarella Mortadella A pochi km dalle sorgenti della Ferrarelle, la famiglia Cozzolino (fornitrice del Quirinale da anni) alleva bufale allo stato semibrado. Solo erba e fieno, lavorazione a latte crudo Ha quasi un secolo di vita il salumificio della famiglia Palmieri. Per la “Favola”, niente conservanti chimici (un mese di conservabilità), cotenna naturale e cottura a vapore LA FENICE VIA VADO PIANO PRESENZANO (CE) TEL. 0823-989372 SALUMIFICIO PALMIERI VIA CANALETTO 6 A SAN PROSPERO (MO) TEL. 059-908829 Carne Biscotti Marco Martini guida la terza generazione della storica famiglia di Boves, la cui macelleria è aperta dal 1929. In vendita, solo tagli di animali allevati nei pascoli della zona Garzone della bottega di Antonio Mattei, Ernesto Pandolfini gli subentrò nel 1908. I nipoti ancora producono i Biscotti di Prato con solo farina, uova, zucchero, mandorle e pinoli MARTINI BOTTEGA DELLE CARNI VIA ROMA BOVES (CN) TEL. 0171-380207 BISCOTTIFICIO ANTONIO MATTEI VIA BETTINO RICASOLI 20 PRATO TEL. 0574-25756 Parmigiano Reggiano Farina Figli d’arte (i genitori aprirono l’attività nel 1953) i fratelli Gennari gestiscono l’intera filiera produttiva, dai campi alle cagliate, con lunghe stagionature Quattro generazioni di molitori alle spalle dei fratelli Drago e del moderno impianto dove vengono macinate a pietra farine biologiche da varietà di grani antichi CASEIFICIO GENNARI VIA VARRA SUPERIORE 14/A COLLECCHIO (PR) TEL. 0521-805947 MOLINI DEL PONTE VIA GIUSEPPE PARINI 29 CASTELVETRANO (TP) TEL. 0924-904162 I NSIEME alla tutela della biodiversità, declinata con il progetto dell’Arca del Gusto su cui caricare migliaia di prodotti in via d’estinzione, l’edizione 2014 del Salone internazionale del Gusto e Terra Madre sposa l’Anno internazionale della Fao dedicato all’agricoltura famigliare. È, del resto, la cosa più naturale che potesse avvenire, visto che la quasi totalità dei produttori, espositori del Salone e degli appartenenti alle comunità del cibo di Terra Madre sono fieri rappresentanti di questo modo di coltivare e allevare a cui ci aggrappiamo per garantire la sovranità alimentare a tutti i popoli. L’agricoltura famigliare di contadini che lavorano per la propria autosussistenza e che dunque consumano i propri prodotti non operando soltanto in ottica commerciale, rappresenta l’80 per cento degli agricoltori del mondo. Nelle zone rurali più a rischio povertà e malnutrizione, situate in Africa, Asia, America Latina e Medio Oriente, questa forma secolare di presidio della terra costituisce una risorsa insostituibile per migliorare la propria condizione e, in alcuni casi, evitare la sciagura della fame. È necessario fornire tutto il supporto, economico, culturale e politico, a questi contadini. Ho avuto la fortuna di conoscerne tanti, di andarli anche a trovare a casa loro. In India, in Kenya, in Brasile, ma anche negli Stati Uniti o nella stessa Italia, dalle Langhe ai Nebrodi: l’agricoltura famigliare è ovunque perché ovunque ci sono uomini e donne che si prendono cura della propria piccola porzione di Terra. Questa forma di coltivare, che potrà apparire ad alcuni residuale o arcaica, in realtà nutre ancora il pianeta e può fornire strumenti di grande modernità. Con il progetto di realizzare diecimila orti in Africa si è compreso per esempio quanto un semplice appezzamento dedicato ai bisogni delle famiglie, delle scuole, delle piccole comunità possa invertire il destino di queste persone. Torno con la mente a Bunanimi, in Uganda, quando in un contesto molto problematico ho visto come l’orto in una scuola elementare possa rinvigorire anche le coltivazioni famigliari tutto intorno, e ridare concreta speranza a un’intera comunità. O all’India invece, dove nello stato di Meghalaya, per la piccola comunità di Khweng, l’approssimarsi dell’autunno porta con sé un’aria di gioia e festa. I campi sono pieni di riso pronto per essere raccolto e le acque si animano dei movimenti dei pesci. È il tempo in cui ogni famiglia celebra la fertilità della propria terra. Qui infatti si producono più di dieci varietà di riso, frutta e verdura e sono circa quindici le specie di pesci disponibili tutto l’anno. Insieme al Comitato Italiano per le Agricolture contadine e tante altre organizzazioni, Slow Food, con numerose iniziative al Salone del Gusto e Terra Madre cercherà di coinvolgere tutti a seminare il cambiamento attraverso il sostegno e la pratica dell’agricoltura famigliare. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 44 L’incontro. Trasgressive Angélica Liddell ANN A B AND ET T I N I ZAGABRIA N ESSUNO È COME LEI. Nessuno tanto elegante da violentare lo spettato- re con grida, violenza, dolore senza dar fastidio al gusto. Nessuno tanto audace da mescolare Shakespeare con il fango, l’amore con lo stupro, senza essere volgare. Nessuno tanto matto da essere così attirato dalle zone più profonde dell’animo, più buie, e guardare in quel caos senza spavento. «Ciò che gli altri chiamano lato oscuro della vita ai miei occhi è lo splendore, una terribile bellissima luce. La luce proviene dalle tenebre. Si muore nella corruzione si resuscita nella gloria, come dice San Paolo». Ecco Angélica Liddell, scrittrice, poetessa, regista, performer spagnola: critici e pubblico hanno riconosciuto da tempo il valore del suo teatro ansiogeno, antinarrativo, astratto, inadatto alle grandi folle, immancabile nei festival, spettacoli che folgorano o innervosiscono, entusiasmano o sono solo desolanti, dall’esordio nell’88 con Greta vuole suicidarsi, e poi Dolorosa nel ‘94, Cane morto in tintoria: i forti, El año de Ricardo rabbiosa parodia del potere. Perfomance che sembrano ring dove prendere a pugni i muri delle nostre maschere, per guardare il peggio e il ridicolo della coscienza. «Io e il pubblico siamo fatti della stessa merda. Il mondo là fuori non mi interessa, mi interessa la vita emotiva, quello che succede quando chiudiamo la porta della nostra stanza», dice terrorizzante, seduta immobile, come rannicchiata, in una austera sedia nel foyer del regale Teatro Comunale di Zagabria dove è andata in scena. A vederla così, sembra una ragazza del ‘66 col viso buono, bello, gli occhi spaesati della malinconia; piccina, esile, molto distinta in camicia e pantaloni neri («mi piacciono i bei vestiti e la seta» confesserà a un certo punto). Ci pensa lei a mettersi in una dimensione immaginaria: «Sono uno di quei patetici personaggi de Le particelle elementari di Houellebecq, una di quelle donne brutte e vecchie che nessuno vuole». Vive a Madrid. La MI PIACE LA LETTERATURA CHE NON HA UCCISO DIO I MIEI ULTIMI LAVORI SONO PREGHIERE CON TUTTO IL FERVORE CHE MI DÀ IL FATTO DI NON CREDERE LA MIA FEDE NASCE DAL BISOGNO DI DIO, NON DALLA SUA ESISTENZA sua casa è un piccolo studio dove lavora, in genere, sul pavimento. «Ma preferisco gli alberghi, preferisco la terra di nessuno». Ha un telefono cellulare che non usa. «Comunico meglio per iscritto. E posso stare giorni senza dire una parola e senza vedere nessuno». Cammina molto. Anche quattro, cinque ore al giorno. Sempre lo stesso percorso. «Se lo cambio mi vengono gli attacchi di ansia o l’agorafobia». Parla dolcemente, come staccata dalla vita: «Mi identifico di più con uno psicopatico che con Gandhi», dice con serenità. «In Canada mi spiegarono che il mondo interiore degli psicopatici e dei poeti è identi- una donna possa disturbare e frastornare un uomo al punto tale da portarlo a commettere un atto violento come lo stupro. Tarquinio, il personaggio maschile, non è un criminale, è un uomo innamorato, che riconosce la bellezza e il pericolo dell’essere attratto da essa, ma non c’è nulla che provoca più dolore del desiderio e dell’amore non corrisposto». Si porterà addosso l’ira delle donne che lottano contro la violenza maschile. «Non mi interessa la morale, ma l’animo umano che è fatto di fango e costole rotte. Io non sono femminista. Penso che l’odio verso mia madre mi ha fatto diventare misogina. O semplicemente sono realista. Io trovo che il “comunemente femminile” sia ripugnante esattamente come il “comunemente maschile”. Non mi interessa il mondo delle donne, mi interessa il mondo di persone eccezionali. Riconoscere qualcuno nella moltitudine. Il Capitano Achab». Anche lei ha percorso i suoi viaggi ossessivi. Per esempio da bambina a Figueras, la città di Salvador Dalì dove è nata. «Mio padre era un militare. Ho vissuto tra suore e soldati, armi e crocifissi completamente isolata dalla società e con una madre convinta che non ero del tutto normale. A cinque anni mi portò da uno psichiatra, con la minaccia di internarmi... Alla fine non so dire se il mio disturbo di personalità sia genetico o semplicemente il prodotto di un’infanzia di merda». Di quel periodo ricorda nitidamente i libri: «Ho letto così tanto che mi era stato proibito leggere almeno di notte. E allora io coprivo la fessura della porta della mia camera con un asciugamano per non far vedere ai miei genitori la luce accesa mentre leggevo. In casa mia i libri si compravano per decorare gli scaffali, i libri del Reader’s Digest, Steinbeck, Carson McCullers, molta letteratura nord americana o cose come La campagna di Napoleone in Egitto o la biografia di Maria Antonietta. Napoleone era il mio idolo e anche di Maria Antonietta mi affascinava il fatto che le tagliarono la testa. Mi piacevano anche le riviste pornografiche. A nove anni mettevo in scena dei giochi pornografici riveduti da me in chiave poetica. Scrissi Soledad e le monache chiamarono i miei genitori molto allarmati. Dal momento che anche oggi non scrivo d’altro, sono quasi quarant’anni che parlo delle stesse cose». Ha un progetto su Gesualdo, uno sullo scrittore Henry Darger e uno su Emily IO NON SONO FEMMINISTA, ANZI, FORSE MISOGINA. NON MI INTERESSA IL MONDO DELLE DONNE. MI INTERESSA IL MONDO DI PERSONE ECCEZIONALI. MI INTERESSA IL CAPITANO ACHAB Dickinson, continua a leggere tanto e a vedere tanti film. I suoi prediletti To the Wonder di Malick, Il colore del melograno di Paradzanov, Luci d’inverno di Bergman e tra i libri, Moby Dick, Winesburg, Ohio, la novella di Faulkner Absalom, Absalom!, e poi La lettera scarlatta, la Bibbia, Mishima. «Mi piace la letteratura che non ha ucciso Dio. I miei ultimi lavori sono preghiere con tutto il fervore che mi dà il fatto di non credere. La mia fede nasce dal bisogno di Dio, non dalla sua esistenza. Quando la speranza scompare completamente bisogna credere. E penso che i miei lavori in futuro andranno in quella direzione». Politicamente dice di essere «anarchica paradossale». Che vuol dire? «Essere consapevoli del bene e del male senza bisogno di una ideologia o di un governo. Il fatto di vivere in una società ignorante e decerebrata è un paradosso impossibile da risolvere. Quando incontro qualcuno malvagio o mediocre, penso, santo cielo, questa persona vota, partecipa alla democrazia. Che democrazia è questa, una società composta di cittadini ignoranti, malvagi, vili?». Il vero nome di Angélica è González. «Sono diventata Liddell il giorno in cui ho visto un ritratto di Alice Liddell in un libro fotografico di Julia Margaret Cameron. Avevo circa ventitré anni. Ho visto la bambina dei racconti di Lewis Carroll e sono rimasta scioccata perché eravamo uguali. Ho sempre voluto essere un’altra persona. Quell’Alice dal ritratto mi diceva che potevo essere io. E l’idea che Lewis Carroll potesse aver scritto un libro su di me mi riempiva di gioia. Una delle mie più grandi fantasie è che qualcuno scriva un libro pensando a me e se è un sacerdote meglio ancora. Mi piacciono gli amori difficili». Non è sposata, non è fidanzata, non ha figli, né famiglia. «Dicono che sono una misantropa. È vero. Per una come me la cosa più difficile è risolvere il conflitto tra la necessità di essere soli e il bisogno di essere amate». FOTO: IVO VAN DER BENT HO VISSUTO TRA SUORE E SOLDATI, ARMI E CROCIFISSI A CINQUE ANNI MIA MADRE MI PORTÒ DA UNO PSICHIATRA CON LA MINACCIA DI INTERNARMI NON SO DIRE SE IL MIO DISTURBO DI PERSONALITÀ SIA GENETICO O SIA DOVUTO ALLA MIA INFANZIA DI MERDA Può stare giorni senza dire una parola e senza vedere nessuno, “comunico meglio per iscritto”. Ha una casa a Madrid ma preferisce gli alberghi, “sono la terra di nessuno”. Regista, scrittrice, poetessa, performer, nei suoi spettacoli ansiogeni e antinarrativi mescola Shakespeare con il fango, l’amore con lo stupro. “Mi identifico più con uno psicopatico che con Gandhi, il teatro è il mio personale manicomio: follia sotto controllo, co. Ma nel mondo esterno lo traducono in modi diversi. Lo psicopatico diventa il poeta scrive. Così si potrebbe dire che il mio mondo interiore è psicopatico ma non ha bisogno di uccidere qualcuno, perché può scrivere. Il teatro sotto tonnellate di controllo”. La assassino, è il mio personale manicomio. Il teatro è follia sotto controllo, sotto tonnellate di controllo». Si capisce perché Roma e Modena hanno atteso con trepidazione l’arrivo suo sua più grande fantasia? “Che edella sua compagnia, Atra Bilis Teatro (il nome indica in spagnolo uno dei quattro umori di Ippocrate, la bile nera corrispondente alla malinconia). Al Romaeuropa festival, Angélica ha portato Tandy al Teatro Argentina, un nuovo laqualcuno scriva un libro pensan- voro che è «una elegia di amore, melanconia, pazzia e destino», dal romanzo Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson su una solitaria bambina che si fa chiaTandy dopo una profezia e del suo bisogno di amore, della disillusione e del do a me. Se è un sacerdote meglio mare dolore. Il 16 e 17 ottobre, al festival “Vie” di Modena porterà invece You are my destiny — Lo stupro di Lucrezia da Shakespeare, presentato in forma di studio alla Biennale del 2013 che la incoronò con il Leone d’Argento: vi esplora il femancora. Adoro le storie difficili”. minicidio e il dolore che provoca il desiderio. «Voglio capire perché la bellezza di © RIPRODUZIONE RISERVATA