Marzo 2005 - Ordine dei Giornalisti

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Marzo 2005 - Ordine dei Giornalisti
Ordine
Anno XXXV
n. 3 Marzo 2005
Direzione e redazione
Via A. da Recanate, 1
20124 Milano
Telefono: 02 67 71 37 1
Telefax: 02 66 71 61 94
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dei
giornalisti
della
Lombardia
Poste Italiane SpA
Sped.abb.post. Dl n. 353/2003
(conv. in L. 27/2/2004 n. 46)
art. 1 (comma 2).
Filiale di Milano
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
INPGI
SCONFITTA
PER
L’ISTITUTO
VINCE LA LINEA SOSTENUTA
DA ANNI DALL’ORDINE
DELLA LOMBARDIA
Tribunale civile di Milano:
ai giornalisti iscritti all’Inpgi
spetta la “libertà di cumulo”
tra pensione e redditi da lavoro
L’Inpgi deve osservare le stesse regole dell’Inps in
tema di libertà di cumulo: questo è il significato di una
sentenza del Tribunale civile di Milano depositata ilo
10 febbraio.Queste le valutazioni di Franco Abruzzo:
“L’applicazione ai giornalisti dipendenti di un regime in
materia di cumulo così diverso in senso peggiorativo da
quello previsto per i lavoratori comuni configura una
disparità di trattamento che il principio di coordinamento –
sancito dal punto 4 dell’articolo 76 della legge n. 388/2000
– appare diretto a prevenire. La sentenza rispecchia i principi affermati dalla sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale sulla libertà di cumulo nell’ambito della cassa
dei ragionieri. Da Milano parte un segnale forte: l’Inpgi è
con le spalle al muro, perché non può negare ai propri
iscritti quei trattamenti (come la libertà di cumulo) che
sono riconosciuti dall’Inps.
L’uguaglianza è un valore costituzionale inviolabile, fondamentale e intangibile”.
A PAG. 2
Ministeri del Lavoro
e dell’Economia:
il bilancio dell’Inpgi
“tende al peggioramento”
Roma, 2 febbraio 2005. Dal 3 gennaio sul tavolo del
presidente dell’Istituto c’è una lettera firmata dal direttore
generale del Ministero del Lavoro, Maria Teresa Ferraro,
che scrive anche per conto del Ministero dell’Economia. In
breve, secondo i due Ministeri, il bilancio dell’Inpgi “tende al
peggioramento”. Sono necessari “interventi con urgenti e
incisive misure sulle contribuzioni e/o sulle prestazioni”. In
sostanza bisogna tagliare le pensioni e aumentare i contributi versati dalle aziende oppure bisogna tagliare le pensioni o alternativamente aumentare i contributi.
Le scelte sono ineludibili. Non c’è una terza via.
IL TESTO DELLA LETTERA DEL DIRETTORE GENERALE DEL MINISTERO DEL LAVORO A PAG. 3
L’Assemblea degli
iscritti giovedì
24 marzo 2005
“Oro”
a 21
colleghi
per
50 anni
di Albo
Milano, 15 febbraio 2005.
Sono 21 i colleghi (14 professionisti e 7 pubblicisti) che
quest’anno compiono i 50
anni di iscrizione negli elenchi dell’Albo. Riceveranno la
medaglia d’oro dell’Ordine
della Lombardia in occasione
dell’assemblea annuale degli
iscritti che si terrà giovedì 24
marzo (h 15) al Circolo della
Stampa.
A PAGINA 8
LE INTERVISTE
Comunicato dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Accolta la richiesta di danni della Sandrelli per le foto rubate
Bando per il XV biennio (2005 - 2007)
dell’Istituto “Carlo De Martino”
per la Formazione al Giornalismo.
Le iscrizioni dal 1° marzo al 30 giugno
2005 aperte anche ai cittadini
comunitari. La tassa annuale di
frequenza è di 50 euro, che va versata
interamente alla Regione Lombardia.
Illecito
pubblicare
abusivamente
foto di
un’attrice
La Scuola in 28 anni di vita ha creato
563 giornalisti professionisti
(tra questi: 35 direttori, 22 addetti
stampa, 4 vicedirettori, 77 capiredattori,
42 inviati o corrispondenti dall’estero, 88
capiservizio, 2 segretari di redazione,
193 redattori ordinari,
19 cococo e 6 “vari”).
Giornalisti si diventa
a Milano,
capitale dell’editoria
Milano, 15 febbraio 2005. Sono aperte dal
1° marzo fino al 30 giugno 2005 le iscrizioni al
concorso di ammissione al XV biennio (20052007) dell’Istituto “Carlo De Martino” per la
Formazione al Giornalismo (Ifg).
Il corso, sostitutivo del praticantato tradizionale, è promosso dall’Ordine dei giornalisti della
Lombardia in collaborazione con la Regione
Lombardia. L’Ifg è il centro di formazione
professionale gestito dall’Associazione “Walter Tobagi” per la formazione al giornalismo.
Al termine dei due anni di corso, e superato
l’esame di Stato, gli allievi-praticanti verranno
iscritti all’elenco professionisti dell’Albo dei
giornalisti. Al termine del biennio i praticanti
affronteranno un esame interno finale, scritto
e orale. Della Commissione giudicatrice
(nominata dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia d’intesa con la direzione dell’Istituto) farà parte anche un rappresentante della Regione Lombardia.
La direzione della scuola, tenendo conto dei
risultati dell’esame finale, rilascerà un certificato di frequenza e profitto.
La prova, propedeutica all’esame di Stato,
condiziona il rilascio, da parte del presidente
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia,
del certificato di fine praticantato.
L’Ifg, scuola di eccellenza europea, cerca 40 giovani
laureati, determinati, con un ottimo curriculum
di studi e che sappiano cogliere le nuove
opportunità della professione giornalistica
Il testo del bando nelle pagine centrali
ORDINE
3
2005
Roma, 19 gennaio 2005. La pubblicazione non autorizzata di foto di
un’attrice tratte da un film è illecita
e dà diritto al risarcimento dei danni
per lesione del diritto all’immagine.
Lo ha stabilito la prima sezione civile della Corte di cassazione (sentenza n. 22513/2004) accogliendo il
ricorso di Stefania Sandrelli (nella
foto) contro un noto settimanale per
soli uomini che aveva pubblicato,
senza il consenso dell’attrice, foto
tratte dal film La chiave. La Corte di appello di Roma aveva
infatti escluso il diritto al risarcimento sulla base del fatto che
l’attrice aveva rifiutato di consentire alla pubblicazione, dimostrando, secondo i giudici di merito, la volontà di abbandonare il proprio diritto.
La Suprema corte ha invece ribaltato il ragionamento dei
giudici dell’appello, ricordando che “chiunque pubblichi abusivamente il ritratto di una persona nota per finalità commerciali, è tenuto al risarcimento del danno, la cui liquidazione deve
essere effettuata tenendo conto anzitutto delle ragioni della
notorietà di cui si tratta, soprattutto se questa è connessa alla
attività artistica del soggetto leso, alla quale si collega normalmente lo sfruttamento esclusivo della immagine stessa”.
SOMMARIO
Incontri
Tettamanzi: “No alla moltiplicazione della chiacchiera
e del pettegolezzo”
Professione La nuova Carta dei Doveri dell’informazione economica
pag. 4
pag. 15
Diffamazione, la fretta non giustifica la pubblicazione
di una notizia non vera
pag. 15
Premi
A Ugo Tramballi l’Oscar degli inviati
pag. 16
Intervento
L’italiano invaso da 9mila anglicismi
pag. 17
Ordine
Dai compensi negati per le collaborazioni
(articoli, uffici stampa) fino al riconoscimento
del diritto d’autore disinvoltamente violato
pag. 18
Dibattito
Quando “i cari colleghi assunti” diventano kapò
pag. 19
Mostre
1944, la democrazia italiana riparte dal Sud
Tesi di laurea Leonardo Sciascia, uno scrittore in redazione
La storia
Ordine
pag. 22
pag. 26
Le stragi degli anni Venti. Quando il terrorismo colpiva Milano pag. 32
La sala del Consiglio dedicata a Nino Nutrizio
pag. 34
La Libreria di Tabloid
pag. 35
1
Segue dalla prima pagina
Tribunale civile di Milano:
INPGI ai giornalisti iscritti all’istituto
spetta la “libertà di cumulo”
tra pensione e redditi da lavoro
Milano, 10 febbraio 2005. L’Inpgi deve osservare le stesse
regole dell’Inps in tema di libertà di cumulo, come prescrive
l’articolo 76 (punto 4) della legge 23 dicembre 2000 n. 388,
in forza del quale “le forme previdenziali gestite dall’Inpgi
devono essere coordinate con le norme che regolano il
regime delle prestazioni e dei contributi delle forme di previdenza sociale obbligatoria, sia generali che sostitutive”.
Questo è il significato di una sentenza, firmata dal giudice
del lavoro R. Punto del tribunale di Milano e depositata oggi
in cancelleria, che ha accolto le ragioni del giornalista E.C.,
difeso dall’avvocato Patrizia Sordellini.
Il giudice ha depositato il dispositivo della sentenza, che
dice: “Il tribunale di Milano, disattesa ogni altra domanda ed
eccezione, dichiara che il regime di incumulabilità tra
pensioni e redditi di lavoro applicato al ricorrente è in
contrasto con l’articolo 76 legge n. 388/2000, condanna il
convenuto (Inpgi, ndr.) a restituire quanto al periodo
pregresso gli importi decurtati dal trattamento pensionistico”. Il giudice ha dichiarato compensate le spese di giudizio (data la novità della causa).
In sintesi, la controversia verteva sulla legittimità del
comportamento dell’Inpgi che, a partire dal gennaio 2002,
ha applicato nei confronti del giornalista/ricorrente, un trattamento in materia di cumulo oggettivamente peggiorativo
rispetto a quello previsto dalla disciplina comune. Più precisamente, anziché applicare per il periodo da gennaio 2002
a dicembre 2002, una trattenuta nella sola misura del 30%
sul rateo mensile di pensione dovuto in conformità all’art.
72 (2° comma) della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (c.d.
Finanziaria 2001) nonché consentire per il periodo successivo il pieno cumulo fra rateo pensionistico e reddito da
lavoro dipendente – secondo quanto previsto dall’articolo
44 della legge 27 dicembre 2002 n. 289 (c.d. Finanziaria
2003) – l’ente previdenziale ha operato, all’inizio, una
decurtazione del rateo pensionistico spettante al ricorrente
nella misura del 50%, applicando l’articolo 15 del proprio
Regolamento approvato con D.M. 24 luglio 1995 e, successivamente, ha azzerato l’erogazione del trattamento
pensionistico.
Di fronte alla richiesta del giornalista di corrispondere
quanto illegittimamente trattenuto nel periodo pregresso,
nonché di usufruire per il tempo futuro del medesimo trattamento previsto dalla disciplina comune in materia, l’Inpgi si
è fatta scudo dietro l’autonomia che, a suo dire, le riconoscerebbe in materia l’articolo 44 (comma 7 della legge del
27 dicembre 2002 n. 289), laddove prevede che “gli enti
previdenziali privatizzati possono applicare le disposizioni
di cui al presente articolo nel rispetto dei principi di autonomia previsti dal decreto legislativo 30 giugno 1994”.
Ad avviso di questa difesa, la difesa della convenuta si rivela destituita di ogni fondamento anche alla luce dell’attuale
dato positivo.
Queste le valutazioni di Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia: “L’applicazione ai giornalisti dipendenti di un regime in materia di cumulo così
diverso in senso peggiorativo da quello previsto per i lavoratori comuni configura una disparità di trattamento che il
principio di coordinamento – sancito dal punto 4 dell’artico-
lo 76 della legge n. 388/2000 – appare diretto a prevenire.
La sentenza rispecchia i principi affermati dalla sentenza n.
437/2002 della Corte costituzionale sulla libertà di cumulo
nell’ambito della cassa dei ragionieri. Da Milano parte un
segnale forte: l’Inpgi è con le spalle al muro, perché non
può negare ai propri iscritti quei trattamenti (come la libertà
di cumulo) che sono riconosciuti dall’Inps. L’uguaglianza è
un valore costituzionale inviolabile, fondamentale e intangibile”.
La sentenza n. 437/2002 della Corte costituzionale è
eloquente: “È, infatti, da osservare anzitutto che il perseguimento dell’obiettivo tendenziale dell’equilibrio di bilancio
non può essere assicurato da parte degli enti previdenziali
delle categorie professionali – e, in particolare, da parte
della Cassa di previdenza a favore dei ragionieri e periti
commerciali – con il ricorso ad una normativa che, trattando in modo ingiustificatamente diverso situazioni sostanzialmente uguali, si traduce in una violazione dell’articolo 3
della Costituzione.
L’iscrizione ad albi o elenchi per lo svolgimento di determinate attività è, infatti, prescritta a tutela della collettività ed
in particolare di coloro che dell’opera degli iscritti intendono
avvalersi. In secondo luogo, si rileva che le norme concernenti il cumulo tra reddito da lavoro e prestazione previdenziale presuppongono la liceità dell’esercizio dell’attività
lavorativa da parte del pensionato ed operano quindi su un
piano diverso ed in un momento successivo a quelle del
tipo della disposizione censurata, finalizzate ad impedirne
lo svolgimento”.
Due delibere del Consiglio d’amministrazione
Sì al superbonus,
cumulo sino a 8.509 euro
Roma, 10 febbraio 2005. Sì al superbonus,
mentre resta invariato il tetto al cumulo tra
pensione e redditi di lavoro autonomo.
Lo ha deliberato oggi il Consiglio di amministrazione dell’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei
giornalisti italiani: le deliberazioni saranno
portate alla ratifica dei ministeri vigilanti.
Prima di assumere una decisione sul superbonus, l’Inpgi - spiega una nota - ha dovuto far
accertare attraverso una valutazione attuariale
se, adottando la regola del bonus, potesse
essere messa a rischio la stabilità dell’Ente.
‘’Lo studio - sostiene l’Inpgi - ha evidenziato gli
aspetti positivi del recepimento del decreto, e,
di conseguenza, il Cda ha deliberato di estendere agli iscritti all’Inpgi il diritto di richiedere
l’applicazione del superbonus’’. In particolare,
secondo l’istituto, ‘’è emerso che nel periodo
2005-2010 la spesa previdenziale si ridurrebbe di 72 milioni a fronte di una riduzione di
entrate contributive pari a 27 milioni (saldo attivo di 45 milioni).
Dal 2011 al 2032 la spesa aumenterebbe
leggermente, ma sarebbe ampiamente
compensata, con notevole vantaggio, dalla
crescita del patrimonio, realizzata nel periodo
di applicazione del bonus’’.
‘’Nell’approvare il recepimento della norma, il
Consiglio di amministrazione dell’Inpgi - continua l’ente a proposito del superbonus - ha
anche tenuto conto del forte aumento dei
pensionamenti di anzianità verificatosi negli
ultimi due mesi a causa dell’iniziativa assunta
da varie aziende, le quali hanno stimolato le
dimissioni di giornalisti con diritto alla pensione, offrendo loro consistenti buonuscite.
Ciò minacciava di diminuire sostanzialmente,
rispetto al passato, le entrate contributive,
aumentando contemporaneamente la spesa
previdenziale.
Un doppio danno che il bonus potrà ridurre
efficacemente’’.
Quanto alla seconda delibera, che riguarda il
cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo, l’Inpgi spiega che ‘’nel maggio 2004 il
Consiglio di amministrazione dell’Inpgi recepì
un accordo tra la Fnsi e la Fieg, con il quale
veniva elevato a 13.000 euro annui il massimale dei redditi cumulabili con la pensione. Il
ministero dell’Economia, ricevendo la delibera,
richiese tuttavia una verifica la quale dimostrasse che ciò non avrebbe rischiato di creare
danno alla stabilità dei bilanci futuri dell’Ente.
Lo studio attuariale non è stato in grado di dare
questa sicurezza e quindi il Consiglio di amministrazione dell’Inpgi ha confermato oggi il
precedente tetto riferito al 2001 di 7.746 euro,
che a suo tempo era stato già oggetto di valutazione positiva da parte del ministero dell’Economia.
Ad oggi il massimale è stato comunque rivalutato, anno dopo anno, per effetto delle aliquote
di perequazione nelle seguenti misure: 2001,
euro 7.746,85; 2002, euro 7.956,02; 2003,
euro 8.146,96; 2004, euro 8.350,64; 2005,
euro 8.509,30’’.
(ANSA)
Appello
a Siniscalco
e Maroni
“L’Inpgi continua a violare il principio
costituzionale dell’uguaglianza,
limitando il diritto alla libertà
di cumulo. Qualcuno deve pur
dire la verità ai giovani giornalisti”
Milano, 10 febbraio 2005. Appello di Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, ai ministri
dell’Economia e del Lavoro, Domenico Siniscalco e Roberto
Maroni: “Oggi il Consiglio di amministrazione dell’Inpgi ha
approvato due delibere: una che estende il superbonus
anche ai giornalisti e la seconda, che limita il diritto alla libertà
di cumulo pensione-redditi da lavoro, fissata negli articoli 72
della legge n. 388/2000 e 44 (comma 7) della legge n.
289/2002.
I giornalisti possono cumulare fino a 8.509 euro. Con questa
seconda delibera, il Consiglio d’amministrazione dell’Istituto
ha violato ancora una volta e clamorosamente l’articolo 3
della Costituzione (uguaglianza) e la sentenza n. 437/2002
della Corte costituzionale. Proprio oggi il Tribunale del lavoro
di Milano ha sancito che l’Inpgi deve comportarsi come l’Inps, in tema di libertà di cumulo, nel rispetto del punto 4
dell’articolo 76 della legge n. 388/2000. L’Inpgi è l’unica cassa
sostitutiva dell’Inps. Se è una cassa deve comportarsi come
le casse degli avvocati e dei ragionieri, costrette dalla Corte
costituzionale a riconoscere la libertà di cumulo ai propri
iscritti; se è sostitutiva dell’Inps deve comportarsi come l’Inps. Non c’è una terza via. Signori ministri, attenti! I vertici
dell’Inpgi vi diranno che la Fondazione non ha soldi; che le
perizie attuariali del prof. Gismondi non consigliano di appli-
2
care la libertà di cumulo; che il direttore generale del ministero del Lavoro, Maria Teresa Ferraro, ha suonato l’allarme sul
futuro dell’Istituto. Se è così, l’Inpgi deve tornare pubblico
come era fino al 1995, applicando le regole dell’Inps
(40x2=80%) e non l’assurda quanto splendida regola che
parifica 30 anni di versamenti all’Inpgi ai 40 dell’Inps. L’Inpgi
per fare 80% moltiplica 30x2,66. Il coefficiente del 2,66 è un
lusso che un piccolo gruppo sociale, qual è quello dei giornalisti professionisti, non può più, purtroppo, permettersi.
Signori ministri, intervenite, è un vostro dovere, è un vostro
obbligo giuridico. Qualcuno deve pur dire la verità ai giovani
giornalisti. Io mi assumo le mie responsabilità”.
ORDINE
3
2005
Segue dalla prima pagina
Ministeri del Lavoro
INPGI e dell’Economia:
il bilancio dell’ente
“tende al peggioramento”
Questo il testo della lettera della dott.ssa Ferraro:
OGGETTO: Bilancio tecnico al 31/12/2003
della gestione principale dell’Inpgi
È stato analizzato il bilancio tecnico della gestione principale di codesto Istituto, trasmesso con nota n. 262 del 27
settembre 2004, per il parere di competenza. La situazione gestionale dell’Istituto, che, in base alle risultanze del
bilancio consuntivo, chiude l’esercizio 2003 con un avanzo di 63,775 milioni di euro ed un patrimonio netto pari a
1.122,828 milioni di euro, evidenzia, tuttavia, alcuni
segnali negativi, di cui non si può non tener conto:
■ la rallentata crescita dei contributi (da + 6,06% nel 2002
a + 5,14% nel 2003);
■ l’incremento della spesa previdenziale (da + 4,32% nel
2002 a + 5,12% nel 2003).
La flessione delle entrate contributive, nonostante la serie
di interventi che hanno interessato sia la base contributiva (ingresso nell’Inpgi nel 2001 dei giornalisti pubblicisti
con contratto di lavoro subordinato), sia l’aliquota Ivs (1%
in più dal 01/01/2005) è principalmente dovuta ai nuovi
rapporti di lavoro che, pur in crescita, non riescono a
costituire il gettito contributivo necessario per il pagamento delle pensioni in essere. L’incremento della spesa
pensionistica, che costituisce il 90,2% delle entrate contributive, è da imputare, oltre alla perequazione di legge
(2,4% nel 2003), ai seguenti fattori:
■ incremento del numero di trattamenti pensionistici;
■ maggior importo delle nuove pensioni rispetto a quelle
cessate;
■ passaggio da trattamenti ridotti ad interi;
■ liquidazione dei supplementi di pensione;
■ incremento delle retribuzioni per il calcolo della media
pensionabile;
■ onere dei prepensionamenti a totale carico dell’Inpgi
(pari a 18,4 mln di euro).
Nonostante la contribuzione Ivs abbia fatto registrare un
trend in crescita (4,85 in più rispetto al 2002), nel 2003
sono cresciute anche le prestazioni Ivs, con una percentuale del 5,12% rispetto all’anno precedente, con conseguente disallineamento che, se dovesse divenire sistematico, farebbe registrare un peggioramento progressivo
della gestione.
Analizzando i flussi di contributi e prestazioni per l’esercizio 2003, emerge che il 91,5% delle contribuzioni totali
proviene dalla gestione Ivs, mentre il 95,4% delle prestazioni totali è costituito da prestazioni Ivs, che assorbono,
quindi, circa il 4% dei finanziamenti destinati alle altre
prestazioni (disoccupazione, tbc etc.).
Dall’analisi del bilancio tecnico al 31/12/2000, già si
evidenziava uno squilibrio a partire dal 2020. Di conseguenza, questo ministero aveva richiesto l’adozione di
idonei provvedimenti correttivi sul versante delle prestazioni e/o contribuzioni.
Il disavanzo gestionale è stato nuovamente confermato
dal bilancio tecnico attuariale al 31/12/2003, che anticipa
il punto di criticità nel 2018 con un saldo previdenziale,
cioè la differenza tra contributi e prestazioni, già negativo
nel 2017, non rispettando neanche l’arco temporale di
quindici anni previsto dall’art. 3, comma 12, della legge
335/95. Nel 2029 il patrimonio non copre più le prestazioni correnti e si azzera nel 2034.
L’aumento dell’1% dell’aliquota Ivs, che dal 1° gennaio
2005 si attesta al 28,97%, non è sufficiente ad assicurare
l’equilibrio e risulta, comunque, inferiore a quella del Fpld
che, al 01/01/2004 come aliquota contributiva ordinaria
applica il 32,70% (23,81% a carico del datore di lavoro e
8,89% a carico del lavoratore).
Pertanto, la rilevata tendenza al peggioramento della
gestione previdenziale rende ineludibile come, peraltro,
sottolineato dal covigilante ministero dell’Economia e
Finanze, la necessità di intervenire con urgenti ed incisive
misure sulle contribuzioni e/o sulle prestazioni, ai sensi
del richiamato art. 3, comma 12, della legge n. 335/95.
IL DIRETTORE GENERALE
(dott.ssa Maria Teresa FERRARO)
Ed ora mano alla riforma
previdenziale dei giornalisti
di Ezio Chiodini
“…Pertanto, la rilevata tendenza al peggioramento della gestione previdenziale rende
ineludibile come, peraltro sottolineato dal
covigilante ministero dell’Economia e Finanze, la necessità di intervenire con urgenti ed
incisive misure sulle contribuzioni e/o sulle
prestazioni, ai sensi del richiamato art. 3,
comma 12, della legge n.335/95”.
Parole della dottoressa Maria Teresa Ferrraro, direttore generale per le politiche previdenziali del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Parole scritte a conclusione
della lettera ricevuta dell’Inpgi il 3 gennaio
scorso, lettera con quale la Ferraro, cioè il
ministero del Lavoro e delle Politiche sociali
ha espresso il proprio parere (anche a nome
del ministero dell’Economia) sul bilancio
tecnico al 31 dicembre 2003 dell’Istituto di
previdenza dei giornalisti.
Insomma, anche la Ferraro ne è convinta:
l’Istituto non gode affatto di buona salute.
Anzi! E, forse non lo sa, ma dopo aver fatto
preoccupanti affermazioni sul futuro dell’istituto la Ferrario sarà anch’essa iscritta d’ufficio a quel club dei corvi che, secondo autorevoli esponenti dell’Inpgi, godrebbero nel
vedere il nostro istituto trasformato in cadavere.
Ma lasciamo stare i corvi, e lasciamo stare
anche i becchini e gli imbonitori e occupiamoci, invece, del nostro istituto. Per dire che
anche la Ferraro (vedere la lettera integrale
pubblicata qui sopra) giunge a conclusioni
ormai sottoscritte da molti: così com’è la
gestione dell’Inpgi non può più andare avanti. Bisogna mettere mano, e subito, ai conti,
perché prevedendo un saldo già negativo
nel 2017 “non si rispetta neanche l’arco
temporale di quindici anni previsto dall’art.3,
comma 12, della legge 335/95…”. E “l’aumento dell’1% dell’aliquota Ivs (cioè quanto
si paga sullo stipendio lordo a fini previdenziali, ndr), che dal primo gennaio si attesta
al 28,97%, non è sufficiente ad assicurare
l’equilibrio e risulta, comunque, inferiore a
quella del Fpdl (cioè il fondo di previdenza
dei lavoratori dipendenti che fa capo all’Inps,
ndr) che come aliquota contributiva ordinaria applica il 32,70% (23,81% a carico del
datore di lavoro e 8.89% a carico del lavoratore)”.
C’è poco da aggiungere a quanto scritto
chiaramente dalla Ferraro. Casomai c’è
molto da riflettere. Anche sull’intervento di
Pierluigi Franz (consigliere dell’Inpgi) apparso sull’ultimo numero di Ordine Tabloid. In
quell’intervento Franz scrive, fra l’altro, che
“nei prossimi mesi l’Inpgi dovrà pronunciarsi
su una serie di importanti questioni molto
attesa dalla categoria: superbonus, correzione del divieto di cumulo pensione/lavoro,
riforma delle pensioni, probabile aumento
del costo dei contributi volontari figurativi,
revisione del meccanismo di adeguamento
dei vitalizi…”
Insomma, nei prossimi mesi si metterà mano
alla riforma previdenziale dell’Inpgi.
Ma “chi” vi metterà mano? E in quale contesto? Può una riforma del genere essere
partorita soltanto ed esclusivamente da un
consiglio di amministrazione, può essere il
risultato di una mediazione fra poteri diversi?
E quali poteri? O deve essere, invece, una
riforma che si ispiri a principi e poteri di
equità, di trasparenza e di democrazia, una
riforma dibattuta e fatta propria dai giornalisti
iscritti all’Inpgi? La risposta, a nostro giudizio, è ovvia. E allora, occhio alla riforma, ma
anche a come verrà gestita e proposta.
Età pensionabile a 65 anni (maschi) e a 60 anni (donne)
dall’1.1.2007 (5mila giovani già con il contributivo)
Dal 1° gennaio 2001 i giornalisti conseguono la pensione di
vecchiaia a 65 anni e le giornaliste a 60 anni (con un minimo
di 20 anni di contributi). La pensione di vecchiaia anticipata
(quest’anno scatta per chi ha 63 anni e 30 anni di contributi)
scomparirà alla fine del 2006. Dal primo gennaio 2007, quindi, i giornalisti andranno in pensione tutti a 65 anni (se
maschi) e a 60 (se donne).
ORDINE
3
2005
Ai giovani giornalisti assunti per la prima volta dopo il 25
luglio 1998 (sono oltre 5mila, un terzo dei giornalisti attivi) si
applica già il calcolo contributivo con il risultato che gli stessi percepiranno una pensione inferiore del 22-24 per cento
rispetto a quelle erogate oggi ai colleghi meno giovani.
Nessuno dice che se le cose dovessero andare male (faccio
scongiuri), lo Stato garantirà il diritto alla pensione (ma non
il quantum) e darà ai giornalisti Inpgi soltanto l’assegno
sociale (meno di 500 euro al mese). Perché dobbiamo correre simili paurosi rischi?
Perché non riflettere sulla necessità di ritornare al pubblico
e al “come eravamo” fino al 1995? L’Inpgi non ammette la
pericolosità attuale dei bilanci (incassiamo 100 e spendiamo 92).
3
IL CARDINALE HA INCONTRATO IL 29 GENNAIO GLI ALLIEVI PRATICANTI DELLE TRE SCUOLE DI GIORNALISMO DI
A sinistra: il cardinale Dionigi Tettamanzi durante l’incontro con giornalisti e studenti
delle scuole di giornalismo in occasione della festa di san Francesco di Sales. Qui sopra,
da sinistra: il prof. Ruggero Eugeni, in rappresentanza della direzione della scuola di
giornalismo dell’Università Cattolica; Gigi Speroni, direttore dell’Istituto di formazione al
giornalismo Carlo De Martino; l’arcivescovo di Milano, card. Dionigi Tettamanzi; il prof.
Angelo Agostini, direttore della scuola di giornalismo allo Iulm, don Gianni Zappa. Nella
foto in basso il cardinale con il presidente Franco Abruzzo.
(foto ITL/mariga)
Tettamanzi: “No alla moltiplicazione
direttore dell’Istituto De Martino, a ricordare
come il tempo trascorso nelle aule debba
“avere non solo una valenza formativa, ma
anche una valenza sociale”: la crescita
professionale non deve essere disgiunta da
un arricchimento personale, interiore. Non a
caso, lo slogan di Carlo De Martino era
proprio “formare i giornalisti di domani”.
Argomentazioni che hanno trovato il consenso di Ruggero Eugeni, intervenuto in rappresentanza della Cattolica: “La nostra scuola –
ha detto – cerca di coniugare la fedeltà al
progetto culturale della Chiesa con la sua
natura di bottega redazionale”. Mentre Angelo Agostini, direttore del master in giornalismo allo Iulm, ha sottolineato la “vocazione
sperimentale” della più giovane tra le scuole
di giornalismo milanesi.
di Emanuele Buzzi e Daniele Lorenzetti
Milano, 29 gennaio 2005. Raccontare la
verità, anche quando essa ci sfugge o non
piace, raccontare la verità anche se si è
circondati da retaggi di ipocrisia e scelte di
comodo: questo dovrebbe essere il lavoro
del giornalista. Non un imperativo categorico, ma un assioma che a volte viene trascurato o dimenticato. Sono passati i tempi in cui
Balzac sosteneva che “se la stampa non
esistesse, bisognerebbe non inventarla, ma
ormai c’è e noi ci viviamo”: oggigiorno l’informazione è una necessità, una necessità su
cui riflettere. Lo ha fatto con gli allievi e i
docenti delle scuole di giornalismo di Milano
– Istituto Carlo De Martino, Cattolica e Iulm
– il cardinale e arcivescovo Dionigi Tettamanzi. L’incontro, organizzato in occasione della
festa del patrono dei giornalisti san Francesco di Sales e dedicato a “passione e coraggio della verità”, si è tenuto al seminario arcivescovile di Milano.
La “lectio”
del
cardinale
La lezione
dell’Arcivescovo
Saluto ciascuno di voi con viva cordialità. E vi ringrazio
perché avete accolto l’invito a questo incontro, in occasione
della festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti.
In particolare saluto gli studenti e i docenti delle tre scuole di
giornalismo presenti a Milano. Sono grato ai direttori e ai loro
rappresentanti per avermi delineato, sia pure brevemente, la
fisionomia, le caratteristiche e le finalità delle singole scuole.
Ho potuto così cogliere come le vostre scuole non si limitano
ad una istruzione giornalistica di carattere tecnico, cioè –
potremmo dire – non si limitano ad insegnare a “fare” i giornalisti, ma si impegnano anche e soprattutto a far nascere e
crescere negli studenti il senso di responsabilità di “essere”
giornalisti.
Mi pare, questo, un tratto importante, anzi decisivo di una
valida e seria scuola di giornalismo. Sono convinto che per
“fare” il giornalista sia del tutto necessario “essere” giornalista! Secondo l’antica massima: agere sequitur esse.
Questa mia conversazione familiare desidera avere, come
primi e privilegiati interlocutori, voi studenti e docenti delle
scuole milanesi di giornalismo. Amo però pensare che le
riflessioni che condivido con voi possano essere di qualche
interesse e utilità anche per chi, ormai da tempo, esercita la
professione di operatore dei media.
Francesco di Sales:
un giornalista esemplare
anche per il nostro tempo
A mo’ di introduzione, non posso tralasciare di spendere una
parola sul santo di cui in questi giorni la Chiesa ha fatto
memoria. È Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, che nel
1923 è stato proclamato patrono dei giornalisti e degli scrittori per una evidente “affinità” del santo con queste categorie
di persone.
Anch’egli, infatti, ha coltivato l’arte del giornalismo e della
stampa. L’ha fatto come era possibile ai suoi tempi: siamo
negli anni del millecinque-seicento (è morto, a 56 anni, nel
1622); e l’ha fatto attraverso una fittissima corrispondenza e
una serie di lettere ai fedeli della sua diocesi, lettere che poi
diventavano fogli stampati e largamente diffusi.
Nella sua opera “giornalistica” – se così possiamo esprimerci – ci sono dei tratti di particolare interesse. Così la sua
4
La “lectio” del cardinale è stata preceduta da
una breve introduzione dei rappresentanti
delle tre scuole. È stato proprio Gigi Speroni,
Più che
«fare»
i giornalisti,
bisogna
«essere»...
“Più che «fare» i giornalisti, bisogna «essere» giornalisti” – ha fatto eco Tettamanzi: se
comunicare vuol dire donare qualcosa di noi
agli altri, “nel vostro caso significa contribuire
a far crescere la comprensione della realtà
in cui si vive”. Insomma, bisogna essere
obiettivi, senza per questo dirsi neutrali. Anzi.
Proprio il fatto di essere al servizio dell’uomo, di essere un mezzo per comprendere
“Per essere giornalisti auten
singolare capacità di armonizzare la limpidità e il vigore
dell’annuncio della verità con la bontà e la soavità del suo
animo: una linea, questa, da attribuirsi non solo al suo temperamento, ma anche alla disciplina da lui continuamente coltivata e dimostrata soprattutto nei dibattiti e nelle contese con
i protestanti del suo tempo. Così ancora il suo desiderio di
arrivare a tutti e la sua capacità effettiva di raggiungere il più
largo numero di persone, come pure l’impegno a diffondere
“il messaggio” evangelico e umano anche nelle situazioni più
complesse e difficili. Era estremamente abile nell’esprimersi
in modo chiaro, così da essere compreso da tutti. E, infine, la
sua ferma determinazione a servire la verità con passione e
con coraggio.
Questi e altri motivi hanno indotto il papa Pio XI a proclamare san Francesco di Sales quale patrono dei giornalisti e, in
tal modo, a proporlo agli operatori della comunicazione
sociale come esempio e aiuto.
Ed è proprio pensando alla figura e all’azione di questo santo
che ho scelto come argomento della nostra riflessione e del
nostro dialogo un argomento, forse arduo ma assolutamente
essenziale per il vostro “essere” giornalisti: la passione e il
coraggio della verità.
Il bene primario
della comunicazione
e la verità
Penso che il punto di partenza della nostra riflessione debba
essere la consapevolezza che l’informazione-comunicazione
è per tutti noi un bene primario: per le singole persone e per
l’intera società. Vorrei citare un documento della Conferenza
episcopale italiana, che offre gli orientamenti pastorali per
questo primo decennio del 2000, dal titolo Comunicare il
Vangelo in un mondo che cambia. Al numero 39 leggo: “La
possibilità di comunicare in modo nuovo e diffuso è un bene
di tutta l’umanità e come tale va promosso e tutelato. Quanto
più potenti sono i mezzi di comunicazione tanto più deve
essere forte la coscienza etica di chi in essi opera e di che
ne usufruisce. È necessario pertanto che la comunicazione
sociale non sia considerata solo in termini economici o di
potere, ma resti e si sviluppi nel quadro dei beni di primaria
importanza per il futuro dell’umanità”.
Ma perché l’informazione-comunicazione è un bene primario
per tutti noi? Perché l’essere informati significa esprimere e
vivere una dimensione essenziale della persona: la dimensione della relazionalità. Certo la persona è persona per la
sua “razionalità”, ma non meno per la sua “relazionalità”,
ossia per la sua capacità e realtà di entrare in rapporto con
gli altri e con l’intera realtà. Ora i media, come efficacemente
è stato scritto, sono “il biglietto di ingresso di ogni uomo e di
ogni donna alla moderna piazza di mercato dove si esprimono pubblicamente i pensieri, dove si scambiano le idee,
vengono fatte circolare le notizie e vengono trasmesse e ricevute le informazioni di ogni genere” (Giovanni Paolo II,
Messaggio per la 26° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 1992).
Proprio così: è con l’informazione che noi entriamo in relazione con i più diversi fatti ed eventi che accadono; con i
pensieri, i progetti, i sentimenti, le scelte e le azioni, in una
parola con la vita degli altri; con le situazioni economiche,
sociali, politiche del momento storico che stiamo vivendo;
con le diverse culture che alimentano, mediante il dialogo o
lo scontro, le interpretazioni e le decisioni in atto tra le persone, i gruppi, i popoli.
E tutto questo incrociarsi di informazioni che rendono così
viva e vivace quella che abbiamo ora chiamata “la moderna
piazza di mercato” diviene una “provocazione”, un’occasione
– cercata o, comunque, data – che chiede di essere assunta
responsabilmente, un appello cioè a partecipare attivamente
– in rapporto alle proprie risorse e nei propri ambienti di vita
– ai processi che orientano e ultimamente decidono i percorsi della cultura, della convivenza civile, della politica, della
storia.
In questo senso, l’informazione deve dirsi un bisogno, al
quale non si può rinunciare, analogamente al cibo d’ogni
giorno. Ma come è necessario che il cibo da noi assunto
quotidianamente sia buono, non ci faccia male, anzi ci dia
l’energia indispensabile per svolgere il nostro lavoro e tutte le
altre nostre attività, così è necessario che l’informazione che
riceviamo e che offriamo sia buona, ci permetta cioè di
possedere tutti gli elementi corretti necessari per conoscere
e per capire la realtà in cui viviamo, in ordine poi a divenire
protagonisti responsabili della crescita umana integrale di
ciascuno di noi e di noi tutti insieme.
Questo significa che la comunicazione non può avere altro
obiettivo che quello di servire l’uomo e di contribuire, in
ORDINE
3
2005
MILANO (CON I LORO DIRETTORI)
Milano, 29 gennaio 2005. A
tu per tu con il lato oscuro
della notizia, con le insidie
della spettacolarizzazione e
del pressappochismo, malattia ricorrente del giornalismo.
È stato un incontro senza
convenevoli, quello con l’arcivescovo di Milano.
Che ha mirato dritto al cuore
del problema. Il cardinale
Tettamanzi non si è accontentato di una semplice lezione, ma ha voluto rispondere
a viso aperto alle domande
dei cronisti e degli studenti
presenti al Seminario Arcivescovile, in omaggio a un principio (e un consiglio) da tenere stretto: “Un buon comunicatore è chi sa prima di tutto
ascoltare attentamente”.
Spazio al microfono, dunque,
per un botta e risposta con
l’uditorio sullo stato di salute
del mestiere. Chiede Alberto
Comuzzi, presidente dall’Unione cattolica della stampa
italiana: “L’arcivescovo di Milano è soddisfatto di come la
comunità dei credenti viene
raffigurata nella grande stampa?” Da Tettamanzi nessuna
concessione alla polemica o
alle lamentele, ma parole
chiare sì: “Un certo grado di
semplificazione è inevitabile
– è la riflessione dell’arcivescovo – talora tuttavia diventa voluta. Basti pensare alla
catalogazione dei vescovi per
tendenza politiche. Si dice:
“Un buon comunicatore
è chi sa
prima di tutto ascoltare
attentamente”
questo è di destra, quello di
sinistra… Questi schemi sono già inadeguati nelle organizzazioni umane, e a maggior ragione lo sono per una
realtà spirituale come la
Chiesa!”.
Certo, i principi dell’etica
sono ardui da rispettare nel
lavoro quotidiano, quando la
pressione dei capi si fa
spasmodica e la coscienza
vacilla. Tanto più in una realtà
editoriale dove il potere,
come ha sottolineato l’inviato
di Repubblica, Carlo Brambilla, è concentrato nelle mani
di pochi. “Cosa fare quando
non si può far bene? Dire di
no al direttore?” si è chiesta a
nome di tanti una cronista in
sala. “Non voglio cercare un
alibi – ha replicato Tettamanzi – ma il compito di applicare questi criteri alle situazioni
concrete spetta a ciascuno di
voi. La risposta forse si può
trovare meglio facendosi
forza in gruppo”.
Inevitabile poi un cenno all’attualità più stretta, quando un
praticante dello Iulm, Martino
Cello, ha allargato la discussione a un tema scottante,
alla vigilia dei referendum
sulla procreazione assistita:
“Con quali criteri giudicare la
comunicazione nel campo
della bioetica?”. “Mi dà fastidio questa immediata e
costante contrapposizione tra
laici e cattolici – ha risposto
Tettamanzi – quando l’argo-
mento che si dibatte è essenzialmente umano. Ci sono
tante bioetiche e tutte dipendono dalla concezione che
uno ha dell’uomo”.
Già, la questione antropologica. Chiedetevi chi è l’uomo
e avrete la risposta, suggerisce Tettamanzi. E per farlo
non serve necessariamente
la fede, “poiché è la stessa
ragione – soggiunge con
forza suggestiva – a porsi
sulla soglia del mistero”. Il
sasso, insomma, è lanciato:
non è detto che basti per
trovare un accordo sui valori,
ma certo è un bel viatico per
una discussione aperta e
civile.
e.b. d.l.
della chiacchiera e del pettegolezzo”
ciò che ci circonda, rende necessarie le
opinioni, perché “il giornalista non può limitarsi ad essere un burocrate della comunicazione”. Ecco allora che ci si trova di fronte un
terreno ostico, dove è facile scivolare, cadere nella spettacolarizzazione della notizia o
in una pericolosa sovrapposizione tra il
proprio pensiero e la verità dei fatti. Bisogna
quindi sapere distinguere la verità dall’opinione, sapersi mettere al servizio degli altri.
Tettamanzi traccia la linea di confine su cui
orientarsi, una linea sottile, fondata sull’etica:
“La verità, nel nostro caso, altro non è che
l’uomo stesso. Sì, l’uomo stesso, ma l’uomo
quale è nella sua struttura essenziale, nei
suoi dinamismi più profondi e nelle sue
intrinseche finalità: ossia l’uomo come essere intelligente e libero, chiamato ad essere
«con» e a vivere «per» gli altri”.
... è facile
In un mondo dominato dalle frivolezze è facicadere
le, tuttavia, cadere in tentazione. Tettamanzi
in tentazione si scaglia contro quel tipo di giornalismo che
produce solo “la moltiplicazione della chiacchiera e del pettegolezzo, la ricerca ossessiva dello scoop, la tendenza a omologare tutto
e a sostituire ciò che è rilevante e utile con
ciò che è pura e vuota curiosità”, un giornali-
smo “destinato a creare emozioni più che ad
aiutare le persone a pensare, a capire, a
discernere”. È una presa d’atto sicura, decisa, schietta, anche se i toni sono paterni e
affabili. Una sirena d’allarme contro i rischi
che si affacciano numerosi in una professione che vive a stretto contatto con interessi
politico-economici. Non bisogna cedere alle
lusinghe, né “rassegnarsi di fronte a un sistema troppo grande e potente”, né “ricercare
cinicamente il successo personale e la carriera con qualunque mezzo e ad ogni costo”.
Asservirsi al sistema economico e commerciale “fino a diventarne per molti spetti dipendenti” equivale all’annullamento della dimensione etica e umana del giornalista.
... il detto
latino “agere
sequitur
esse”
In sala i giovani sono attentissimi, c’è chi
prende appunti e chi annuisce. Tettamanzi
ricorda il detto latino “agere sequitur esse”,
ciò che facciamo, ciò che siamo è sempre
una conseguenza di ciò che siamo. In fondo,
voler comunicare, fornire cibo per la mente, è
una “vocazione”, che va incoraggiata e accresciuta, ricordandoci che il nostro fine e il
centro della nostra attività sono “le persone
concrete”. È necessario, quindi, “coltivare
dentro di sé i valori che sono a fondamento
della propria umanità e dell’umanità degli
altri”.
È un messaggio di speranza, una speranza
tangibile, concreta che sembra trasparire
dallo sguardo del cardinale, un plauso “ad
esercitare una vigilante funzione critica”,
essendo consci che non sarà semplice farlo.
Etica e umanità sono parole che risuonano
dure anche a chi dovrebbe averle nel proprio
Dna come patrimonio, sono valori offuscati
dalla realtà contemporanea, concetti che
richiedono, appunto, “coraggio e passione”.
... esorta a
non piegarsi
di fronte alle
difficoltà...
Tettamanzi esorta a non piegarsi di fronte alle
difficoltà e ricorda le parole di Giovanni Battista Montini in un incontro nella tipografia del
quotidiano L’Italia di 50 anni fa: oggi come
allora è fondamentale “avere la carità della
verità. Bisogna amare quelli a cui si rivolge la
parola; amare nel dono, nell’offerta di qualche cosa di vero”. Un suggerimento che trova
eco nelle coscienze di chi in sala applaude e
si avvia, cappotto sulle spalle, verso un futuro
pieno di incognite. Fuori il freddo punge le
ossa e scava in profondità, così come l’appello del cardinale penetra negli animi di chi
vuole affrontare con passione, coraggio,
dignità e verità il proprio domani.
tici la passione e il coraggio della verità”
misura non certo piccola ma determinante, a creare le
condizioni perché l’uomo diventi sempre più uomo, ossia
sempre più maturo nella coscienza della sua dignità personale e sempre più responsabile nell’uso della sua libertà:
ORDINE
3
2005
una libertà che, per essere veramente e pienamente
umana, comporta in definitiva che l’uomo viva come essere
“con” gli altri, anzi come essere “per” gli altri. In altri termini,
una libertà che coincide con la responsabilità stessa come
dono di sé agli altri, e dunque apertura a tutti, comunione e
solidarietà con tutti, “compassione” – nel senso più nobile
della parola – e “servizio” nel senso più esaltante e impegnativo del termine.
Ora la consapevolezza di questo obiettivo – servire l’uomo
perché diventi sempre più uomo – ha come suo primo sbocco l’impegno a non gettare nel mucchio qualsiasi comunicazione, più radicalmente a non confondere la verità con qualsiasi opinione, bensì a riconoscere e onorare i valori della
verità e del bene, e dunque del rispetto della dignità personale di tutti e di ciascuno, come valori costitutivi del proprio
essere operatori della comunicazione sociale.
Da quanto abbiamo detto risulta che la questione della verità
è centrale e decisiva per una comunicazione umana e
umanizzante, ossia posta al servizio dell’uomo. C’è solo –
ma è un punto capitale, questo – da non pensare in modo
astratto la verità, come qualcosa di lontano o di estraneo alla
nostra vita, ma da pensare in modo concreto, concretissimo:
la verità, nel nostro caso, altro non è che l’uomo stesso. Sì,
l’uomo stesso, ma l’uomo quale è nella sua struttura essenziale, nei suoi dinamismi più profondi e nelle sue intrinseche
finalità: ossia l’uomo come essere intelligente e libero, chiamato ad essere “con” e a vivere “per” gli altri.
In questo senso si può e si deve distinguere tra verità e
opinione. Penso che la nostra riflessione e la nostra stessa esperienza di vita ci fanno sottoscrivere quanto dice il
recente Direttorio della Cei Comunicazione e missione: “Se
il rapporto con l’altro si riduce al semplice sovrapporsi di
pareri e sensazioni individuali, la relazione sarà il luogo
non della ricerca della verità, ma del confronto-scontro
delle opinioni o peggio ancora della prevaricazione e della
manipolazione.
Alla ricerca della verità si sostituisce un percorso ambiguo
e strumentale che conduce a una sorta di ‘moltiplicazione
delle verità’ o ad un azzeramento del riferimento alla verità.
Ne sortiranno visioni del mondo e della vita legate sempre
più a opinioni e sondaggi, del tutto relativi o imposti a colpi
di maggioranza. Così la verità rischia di finire confinata
nell’ambito della coscienza individuale e di essere esclusa
dall’arena sociale e politica” (n. 22).
L’attuale sistema
della comunicazione mediatica
e la tensione etica
Nel contesto socio-culturale ora detto, diventano inevitabili
alcuni interrogativi: il sistema della comunicazione mediatica,
così come oggi è organizzata, ci aiuta o ci ostacola nel coltivare la passione e il coraggio della verità?
Fino a che punto si può essere condizionati da un sistema
che è in perenne movimento, che si configura come sempre
più frenetico, che consuma in pochissimo tempo quanto
produce, che accende ed alimenta l’ansia spasmodica di
dare la notizia per primi, perché la prima notizia è comunque
sempre quella vincente?
All’immagine popolare – e per certi versi romantica – del giornalista che viaggia, che fotografa, osserva, si informa, conosce, verifica, riflette e poi – finalmente – comunica i risultati
della sua paziente e laboriosa ricerca, si è sostituita quella
dello stare in redazione, legati ad una sedia davanti al monitor, a leggere e a “cucinare” notizie di agenzia, a vedere cosa
succede alla televisione, diventata ormai sempre più il luogo
dove vengono “dettati” gli argomenti da comunicare e da
sottolineare.
Come sappiamo, questa trasformazione è la conseguenza
dello straordinario sviluppo tecnologico, che ha creato e
incessantemente crea nuovi e sempre più veloci sistemi di
comunicazione e, insieme, ha realizzato e continua a realizzare strumenti mediatici sempre più potenti e ovunque diffusi.
Noi non siamo né ottimisti né pessimisti a priori e ad oltranza. Siamo, semplicemente, realisti. Ora, da una parte, questo
sviluppo rappresenta una grande opportunità e i nuovi mezzi
costituiscono una preziosa risorsa: permettono, tra l’altro, di
allargare la cerchia delle conoscenze, di favorire l’incontro e
il dialogo con persone lontane o lontanissime e dalle più
diverse culture, di sviluppare la consapevolezza di una interdipendenza che lega uomini e popoli. Ma, dall’altra parte,
questo stesso sviluppo e questi stessi nuovi mezzi presentano non pochi rischi e possono aprire derive problematiche.
E non è mistero per nessuno che simili rischi e derive problesegue
5
Il cardinale ha incontrato il 29 gennaio gli allievi praticanti delle tre scuole di giornalismo di Milano (con i loro direttori)
Tettamanzi: “No alla moltiplicazione
della chiacchiera
e del pettegolezzo”
“Per essere giornalisti
autentici la passione
e il coraggio della verità”
matiche si fanno particolarmente evidenti e inquietanti quando le tecnologie e i processi di comunicazione sociale si
collegano sempre di più con il sistema economico e commerciale, fino a diventarne per molti aspetti dipendenti.
Al riguardo leggo nel citato Direttorio della Cei: “Il vorticoso
aumento degli investimenti e degli introiti conduce alla creazione di gruppi oligopolistici, con il rischio che condizionino
la visione e l’interpretazione della realtà, proponendo modelli distorti dell’esistenza umana, della famiglia e della società”
(n. 8).
Davanti a questa deriva è possibile e di fatto si dà una perdita di tensione etica: una perdita che in non pochi casi risulta
essere, più propriamente, una cancellazione dei valori e delle
esigenze etiche, cioè umane. È in riferimento ai media
sempre più sofisticati, ma anche sottoposti a pressioni
economiche e politiche, che il Direttorio Cei già citato scrive:
“Così la questione etica si fa sempre più attuale e sentita.
Non si tratta solo di vincolare i media a regole che tutelino in
particolare i soggetti meno garantiti e le categorie più marginali. In agguato sono nuove e pesanti forme di alienazione,
che possono condurre alla reificazione dell’uomo, ossia alla
riduzione della persona a cosa, a oggetto, a merce. Occorre
stabilire regole precise per l’uso degli strumenti e più ancora
per definirne le responsabilità sociali. L’etica si erige pertanto
a via per l’umanizzazione di processi altrimenti destinati a
provocare conseguenze fortemente negative, sul piano
personale, relazionale e sciale” (n. 87).
Il rischio della perdita di tensione etica diventa per i giornalisti una vera e propria sfida etica che devono saper affrontare. Nessuno è esente dalle tentazioni. E nel campo dei media
le tentazioni sono, tra le altre, quella di rassegnarsi di fronte
a un sistema troppo grande e potente e quella di ricercare
cinicamente il successo personale e la carriera con qualunque mezzo e ad ogni costo, in particolare asservendosi al
sistema che appare vincente perché più ricco.
Le conseguenze della perdita della tensione etica sono
numerose e diverse. Mi limito a segnalare soltanto quella che
sembra la più evidente, cioè l’assecondare o il cedere totalmente alla spettacolarizzazione dei media. Questi, allora, più
che comunicare per informare, producono lo “spettacolo”
della comunicazione con l’obiettivo di vendere e di guadagnare sempre più.
Da qui la moltiplicazione della chiacchiera e del pettegolezzo, la ricerca ossessiva dello scoop, la tendenza a omologare tutto e a sostituire ciò che è rilevante e utile con ciò che è
pura e vuota curiosità. Da qui, ancora, un linguaggio forzato,
destinato a creare emozioni più che ad aiutare le persone a
pensare, a capire, a discernere. Da qui, infine, il moltiplicarsi
inarrestabile di parole, di suoni, di immagini che rendono difficilissimi, se non quasi impossibili, un ascolto attento e una
comprensione razionale del tema trattato, salvo poi archiviarlo in un attimo come se non esistesse più, per passare allegramente ad altro.
Le persone
come vere protagoniste
dei media
Certamente il sistema della comunicazione sociale, nel quale
opererete o già operate, si presenta oggi particolarmente
difficile. Tuttavia bisogna riconoscere che i veri protagonisti
sono, e devono continuare ad essere, le persone concrete, i
comunicatori appunto; così come bisogna riconoscere che la
qualità “vera” e “buona” della comunicazione dipende sempre
dalle persone. “I mezzi di comunicazione sociale non fanno
nulla da soli. Sono strumenti, mezzi utilizzati nel modo in cui
le persone scelgono di utilizzarli” (Etica nelle comunicazioni
sociali, 4).
Ci troviamo in un sistema che non si è costituito da sé, ma
che, comunque, è in larga parte il risultato di concrete azioni
umane, cioè di scelte libere operate da esseri pensanti, che
si pongono precisi obiettivi e che attivamente li perseguono.
Per questo, come in ogni altro settore, anche nell’ambito dei
media occorre operare a partire da un progetto di “vita
buona, un progetto cioè che si basa sulla “verità dell’uomo”,
o meglio sulla “verità che è l’uomo stesso”. Un progetto che
mette a fondamento quei valori e quelle esigenze che sono
scolpiti indelebilmente dentro la struttura dinamica e finalistica dell’uomo, che definiscono il contenuto della inviolabile
dignità personale propria e altrui, che costituiscono l’ispirazione di senso delle proprie scelte e delle proprie azioni.
Prima ancora, dunque, di ricercare e di individuare i criteri
per applicare la dimensione etica all’esercizio della professione; prima ancora di elaborare dei codici deontologici per
gli operatori dei media, è necessario coltivare dentro di sé i
valori che sono a fondamento della propria umanità e dell’umanità di tutti gli altri.
E questo significa, certamente, allargare gli spazi del proprio
6
crescere in umanità; significa coltivare una interiorità e,
oserei dire, una spiritualità che ci spinga alla ricerca della
verità come insopprimibile aspirazione e, insieme, come
prima obbligazione del nostro essere uomini.
Tutti gli uomini, dunque, sono chiamati a questa cura della
interiorità, perché tutti sono chiamati alla ricerca della verità.
Sono una cura e una ricerca assolutamente indispensabili
affinché il nostro agire non sia in balia del caos o del caso,
ma sia l’espressione coerente del nostro essere intelligente
e libero. Una simile cura e ricerca sono tanto più necessarie
quanto più l’esercizio della propria attività professionale
avviene in un ambito di forte responsabilità per le conseguenze derivanti dalle proprie scelte e azioni e per la particolare complessità dovuta all’intrecciarsi di interessi diversi.
In questo senso, sono convinto che un operatore dei media
che non vuole essere asservito o schiacciato da un sistema
complesso, potente e pieno di insidie come quello della
comunicazione sociale, deve fortemente coltivare la propria
personalità morale e spirituale, deve continuamente far
crescere la propria umanità nell’esercizio quotidiano delle
sue responsabilità e dei suoi doveri, deve ricercare ciò che è
vero, giusto, buono, bello.
In fondo, buon giornalista può essere chi, anzitutto, è uomo
maturo, interiormente ricco, equilibrato e colto. Del resto la
vostra, per sua natura, è una professione che non può non
coinvolgere la totalità – più precisamente la “totalità unificata”
– della persona. Voi non offrite semplicemente una penna:
voi offrite la vostra intelligenza. Non mettete a disposizione
semplicemente qualche cosa di voi: mettete a disposizione i
vostri pensieri, le vostre emozioni, il vostro modo di vedere e
di interpretare la realtà.
Si potrebbe dire che quella del giornalista, prima di essere
una professione tra le altre, è una vera “vocazione”, cioè un
mettere a disposizione se stessi per il bene degli altri, dove
l’interesse principale è contribuire a far crescere la retta
comprensione della realtà in cui si vive, come passo necessario per vivere poi una vera libertà nelle scelte e nei comportamenti dell’esistenza quotidiana.
La passione e il coraggio della verità sono parte essenziale
della crescita integrale della persona: sono, dunque, da coltivarsi da tutti noi, anzitutto in noi stessi.
Frutti ed esigenze
della passione
per la verità
Non è difficile, a questo punto, avvertire che cosa di bello e
di entusiasmante può derivare al giornalista quando, nell’esercizio della sua professione, è animato da una interiore
passione per la verità.
Ne deriva, anzitutto, un concreto impegno per la “obiettività”.
“Parlare di obiettività non significa pensare che il compito del
giornalista sia quello di scrivere in modo assolutamente e
radicalmente neutrale rispetto a qualsiasi asse di valori,
come invece la formulazione letterale di alcuni codici deontologici porterebbe a pensare”. Il giornalista è sempre un
mediatore che sceglie, seleziona, sottolinea secondo il suo
punto di vista. Ma finalizza questa sua attività a nessun altro
interesse che non sia il vero bene degli altri.
Suo obiettivo ultimo da perseguire è cercare di far diventare
migliore l’uomo, cioè più maturo spiritualmente, più cosciente della sua eccelsa dignità personale, più libero e responsabile, più giusto e più solidale.
Il comunicare non può ridursi a una vuota formalità. Deve
partire dalla percezione di un bene, almeno dalla convinzione che è un bene divulgare una certa notizia in un determinato modo, e che non può non fare riferimento ai valori di cui
si è convinti. La correttezza dell’informazione non è, quindi,
data da un’asettica neutralità – cosa peraltro impossibile –,
ma dalla trasparenza del proprio punto di vista e dalla
prospettiva a partire dalla quale si seleziona e si trasmette la
notizia.
In secondo luogo, ne deriva l’impegno ad esercitare una vigilante funzione critica in vista del vero bene delle persone cui
ci si rivolge. La vigilanza critica rappresenta un’essenziale
esigenza dell’etica, chiamata a riconoscere, a rispettare e a
promuovere la verità e il bene.
Di nuovo vorrei citare il Direttorio della Cei, là dove scrive:
“Gli operatori dei media possono a volte servirsi del loro potere per personalizzare indebitamente la comunicazione, sostituendosi al messaggio. Tale deriva può determinare una
certa dipendenza dell’utente, la cui autonomia di giudizio e
di scelta può essere compromessa. ‘Per questo è dovere di
coscienza per tutti i comunicatori […] procurarsi una seria
competenza in materia; dovere tanto più grave quanto più
grande è l’influenza del comunicare, per motivo del suo ufficio, sulla qualità della comunicazione’ (Communio et progressio 15). Le buone intenzioni non garantiscono di per sé una
buona informazione; le notizie vanno date con competenza
professionale, nel rispetto pieno e profondo della verità.
Questo accade spesso, soprattutto in riferimento allo stesso
fondamentale diritto alla vita, per il quale ‘la coscienza morale, sia individuale che sociale, è oggi sottoposta, anche per
l’influsso invadente di molti strumenti della comunicazione
sociale, a un pericolo gravissimo e mortale: quello della
confusione tra il bene e il male’ (Evangelium vitae, 24)” (n.
88).
Il giornalista non può limitarsi ad essere un burocrate della
comunicazione. Sì, va bene discutere paritariamente nei
media; ma a patto che ciò avvenga nel rispetto di chi legge o
ascolta: questi non è certamente aiutato quando, per esempio, deve assistere non a dibattiti pacati e istruttivi ma a litigi
confusi e nient’affatto dignitosi.
Infine, ne deriva lo stimolo ad una presenza nell’ambiente
dei media e ad un esercizio della professione che assumano
i contorni della testimonianza. Ciò significa un impegno quotidiano che tenga presenti nel lavoro tutto l’orizzonte dei valori
e i riflessi che le nostre scelte hanno sui singoli e sulla
società, e non soltanto una correttezza immediata, asettica e
formale nel seguire le procedure che i codici impongono
come limiti.
È proprio in questa linea della testimonianza che ho volutamente usato i termini di “passione” e di “coraggio” della verità.
Infatti, sono termini coinvolgenti, termini che lasciano trasparire la non rassegnazione e la disponibilità concreta a pagare di persona, perché la coerenza con la propria dignità e il
rispetto e l’onore – anzi la venerazione – dovuti all’eguale
dignità delle persone cui ci si rivolge non hanno prezzo.
Conclusione:
la carità
della verità
Desidero concludere con una specie di esortazione, nel
segno di una grande speranza che ripongo in tutti voi e di un
sincero affetto che nutro per voi. Sono sicuro che volete
impegnarvi seriamente nella professione giornalistica, che
volete non solo “fare” i giornalisti ma “essere” giornalisti. Per
questo sento di dovervi chiedere di nutrire un’autentica
passione per la verità e di avere un instancabile coraggio di
ricercarla e di perseguirla, anzitutto in voi stessi.
Di conseguenza, dovete sentirvi impegnati a diventare
sempre più attenti ascoltatori e sottili osservatori delle persone e dei fatti. Il buon comunicatore sa, per prima cosa, ascoltare attentamente. E sa vedere e scrutare, anche di là dall’immagine che immediatamente si propone.
L’esercizio della vostra professione potrà apparirvi oggi meno
creativa, perché più dipendente dalla tecnica. Ma sta proprio
qui il vostro protagonismo: tocca a voi dar vita ad un esercizio della professione che sia ripieno di autentica umanità;
dipende da voi imprimere solchi e tracce di voi stessi – della
vostra umanità - nel vostro lavoro e nella vostra fatica quotidiana.
Più che l’esattezza matematica dei dettagli, fate trasparire la
vostra volontà comunicativa, e la vostra intelligenza più che
la diligenza meccanica. Chi legge o chi ascolta si accorge
subito se il comunicatore è coinvolto con la sua “passione”,
oppure se opera solo per “dovere” o addirittura per una
“necessità” cui non può sottrarsi.
Un’ultima citazione – è storica, e come tale può suscitare
l’interesse dei giornalisti – la prendo da un discorso rivolto ai
giornalisti, durante la messa in occasione della festa di san
Francesco di Sales celebrata a mezzanotte nella tipografica
del quotidiano L’Italia, dall’allora arcivescovo di Milano monsignor Giovanni Battista Montini, dopo pochi giorni dal suo
ingresso nella nostra città.
Così diceva il 31 gennaio 1955: “Cerchiamo di dare alla
professione, non già una semplice caratteristica direi tecnica,
puramente improntata alla fretta, alla genialità, alla curiosità,
alla attualità, ma siamo dei finalisti, cioè della gente che
pensa dove arrivano le parole, che effetto hanno, che cosa
producono. E allora il messaggio di san Francesco di Sales
non sarà inutile a noi. Egli insegna che bisogna avere soprattutto la carità della verità. Bisogna amare quelli a cui si rivolge la parola; amare nel dono, nell’offerta di qualche cosa di
vero; vero perché si è sentito, vero perché si è studiato”.
E ancora: “San Francesco di Sales dice in altre sue pagine
che bisogna conoscere assai le cose prima di scrivere. E non
so se questa sia norma di tutti i giornalisti. Ma in ogni caso
diciamo che tutta questa onestà di pensiero e di parola deve
essere sempre presente al nostro spirito nell’esercizio della
nostra sublime professione di diffusori di notizie e di idee;
soprattutto ci deve premere di fare sempre del bene ai nostri
concittadini”.
+ Dionigi card. Tettamanzi
ORDINE
3
2005
Nuova condanna per l’editore Caltagirone
Lo ha stabilito il giudice del tribunale del lavoro
“Quotidiano”: il giudice ordina Tribunale di Roma alla Rai:
“Santoro torni al suo posto”
il reintegro di Roberto Guido
Lecce, 28 gennaio 2005. È “inefficace” il licenziamento di Roberto Guido, vicepresidente
vicario dell’Assostampa di Puglia, il sindacato
dei giornalisti, reintegrato nel suo posto di lavoro al Nuovo Quotidiano di Puglia. Lo ha stabilito il Tribunale di Lecce (giudice del lavoro Silvana Botrugno) con una sentenza che ha disposto “l’immediato reintegro del ricorrente nel
posto di lavoro occupato al momento del licenziamento”, condannando altresì la società Alfa
editoriale (del gruppo Caltagirone) al risarcimento del danno con il pagamento dell’intera
retribuzione dal momento del licenziamento ad
oggi e alla regolarizzazione della posizione
assicurativa e previdenziale.
Il licenziamento, datato 7 marzo 2002, fu adottato con strumentali e infondati pretesti nei
confronti di Guido, “colpevole” soltanto di aver
preteso fin dal ‘98 (insieme ad altri nove giornalisti) di essere regolarmente reintegrato in
servizio, nel suo posto di lavoro, secondo quanto disposto dalla magistratura fin dal dicembre
‘98 (ordine di reintegro confermato dalla Corte
d’appello-Sezione Lavoro proprio alcuni giorni
fa). Guido si è scontrato con l’ingiustificabile
ostinazione dell’editore Caltagirone a non voler
applicare le sentenze della magistratura, con il
conseguente atteggiamento vessatorio. La
vertenza ha origine nell’anomala vendita della
Stampa
specializzata:
150 milioni
di copie
distribuite
in un anno
testata con la parallela ristrutturazione selvaggia di Quotidiano che prevedeva l’espulsione di
otto professionisti dalla redazione con la liquidazione di ogni esperienza sindacale.
“Questa sentenza”, afferma Felice Salvati,
presidente dell’Assostampa di Puglia, “indica
senza ombra di dubbio come il collega Roberto
Guido sia stato ingiustamente licenziato da un
editore che ha tentato in tutti i modi di sbarazzarsi del sindacato, usando fin dal ‘98 l’arma
della contrattazione individuale per dividere e
dominare la redazione con l’obiettivo di eludere
e depotenziare disinvoltamente lo stesso
contratto collettivo”. “Nell’attesa di conoscere le
motivazioni della sentenza”, aggiunge Salvati,
“il reintegro ristabilisce un quadro di legalità e di
rispetto delle regole che può aprire la strada ad
un sereno e corretto confronto sindacale, archiviando una volta per tutte quella pagina nera
del giornalismo pugliese in cui si è consumata
una catena di vessazioni verso quei colleghi
che hanno sempre messo al primo posto i principi di solidarietà e di autonomia, gli unici in
grado di garantire ai cittadini un sistema
dell’informazione maturo e indipendente”.
Roberto Guido è patrocinato in giudizio dagli
avvocati Domenico D’Amati del Foro di Roma,
Giuseppe Giordano del Foro di Brindisi e Nicola De Pietro del Foro di Lecce.
Milano, 1 febbraio 2005. Sono 150 milioni (60% del totale dei
fascicoli prodotti) le copie della stampa specializzata, tecnica e
professionale, distribuita via posta in un anno. Il dato emerge dal
monitoraggio svolto dall’Associazione nazionale editoria periodica
e specializzata (Anes) per misurare il peso dei vari canali di distribuzione delle pubblicazioni associate, in particolare quelle postali. I
fascicoli prodotti dagli Associati Anes sono in totale 250 milioni. Il
peso medio ponderato per copia è pari a 300 grammi. Tenendo
conto della ripartizione territoriale i dati registrati sono i seguenti:
Nord Ovest 37,4%, Nord Est 24,5%, Centro 17,5%, Sud 14,3%,
Isole 6,2%. La Lombardia ha un’ incidenza sul sistema nazionale
del 26%, comportando la distribuzione sul territorio della regione di
circa 39 milioni di copie. Segue il Veneto, che pesa per il 10%. Nord
Ovest e Nord Est fanno registrare una movimentazione complessiva di 92.899.592 di copie, pari al 62% del totale. A margine dell’esposizione dei dati, Giuseppe Nardella, presidente dell’Anes, ha
dichiarato: “La stampa tecnica specializzata si sta sempre più rivelando sia uno strumento di comunicazione privilegiato per la Pmi
sia di formazione per le nuove generazioni in procinto di entrare nel
mondo del lavoro”. A questo proposito Nardella auspica “una
sempre maggiore diffusione di questa tipologia editoriale nella
scuola media superiore italiana. Esempi di integrazione tra mondo
del lavoro e scuola - conclude il presidente di Anes - sono frequenti nei Paesi europei a noi vicini: in Francia la stampa di questo tipo
dal 1970 è largamente diffusa presso le scuole, i centri di formazione, le biblioteche sia pubbliche sia private”.
(ANSA)
Roma, 26 gennaio 2005. La Rai deve reintegrare Michele Santoro: lo ha stabilito il
giudice del tribunale del lavoro di Roma,
Billi. Secondo quanto indicato dal giudice
nel dispositivo, la Rai è tenuta a reintegrare Santoro nelle funzioni svolte prima
dell’interruzione del rapporto e dunque per
la conduzione di programmi di approfondimento in prima e/o seconda serata.
Secondo il giudice Stefania Billi, Santoro
deve essere reintegrato al lavoro «come
realizzatore e conduttore di programmi
televisivi di approfondimento dell’informazione di attualità di prima serata, di
programmi di reportage di seconda serata,
in particolare Sciuscià Edizione Straordinaria e Sciuscià, come si legge nel dispositivo della sentenza, cioè nelle mansioni
esercitate «fino alla stagione televisiva
2001/2002».
La Rai deve anche pagare al giornalista un
risarcimento da 1,5 milioni di euro (fra
risarcimento del danno, restituzione dei
quattro giorni di sospensione dal lavoro nel
2002 e della decurtazione dello stipendio,
anche questa dal 2002, con i relativi interessi.
L’azienda è tenuta anche a pubblicare il
dispositivo della sentenza su Corriere della
Convenzione
con Alitalia:
sconti fino
al 30
per cento.
Basta
la tessera
dell’Ordine
Sera, Repubblica e Stampa entro dieci
giorni dalla pubblicazione e pagare le
spese processuali.
La vicenda Santoro mette a nudo una
realtà “sommersa”. “A inizio 2004, ha
dichiarato Roberto Natale segretario
dell’Usigrai, le cause intentate dai precari
in attesa di assunzione erano circa 60: la
stima degli stessi uffici Rai era di una
percentuale dell’80% di ‘soccombenza’ per
l’azienda, cioè 50 su 60. E sempre secondo le stime aziendali, ciascuna causa
persa valeva 250 milioni delle vecchie lire,
per un totale di 12 miliardi e mezzo di
vecchie lire’’.
Inoltre, ha detto ancora Natale, su 30
assunzioni disposte nel 2004, 14, cioè
quasi la metà, sono state effettuate su
decisione della magistratura, cosa mai
capitata prima nella storia dell’azienda’’.
Anche sul versante Inpgi, ha aggiunto il
segretario della Fnsi Paolo Serventi
Longhi, la situazione non migliora: “Si
calcola che ammonti a oltre un milione e
mezzo di euro la violazione contributiva da
parte della Rai, e a oltre 10-15 milioni di
euro quella accumulata dall’azienda negli
ultimi due o tre anni’’.
(ANSA)
Roma, 9 febbraio 2005. L’Ordine nazionale dei giornalisti ha
stipulato una convenzione con l’Alitalia. L’accordo (validità
2005) riguarda i voli nazionali del Gruppo, escluso il collegamento Roma-Cagliari-Roma. Tutti gli iscritti all’Ordine dei
giornalisti (previa esibizione del tesserino rinnovato per l’anno in corso) potranno usufruire delle seguenti condizioni:
1) Sconto del 20 per cento sulla tariffa piena Alitalia per i
viaggi di tipo OW (viaggi di sola andata). Tale tariffa è identificabile con il codice BPSN, prenotabile in classe B, con la
possibilità di cambio di prenotazione senza pagamento della
penale;
2) Sconto del 30 per cento sulla tariffa piena Alitalia per i
viaggi di tipo OW (viaggi di sola andata) e per quelli di tipo
RT (andata e ritorno). Tali tariffe sono identificabili con i codici MPSOWN e MPSRTN, prenotabili in classe M, con la
possibilità di cambio di prenotazione senza pagamento della
penale (rimborso non consentito, passaggio alla tariffa
economica piena in classe Y).
I biglietti a tariffa scontata potranno essere acquistati presso
tutte le agenzie di viaggi in Italia e presso le biglietterie sociali Alitalia. Per le prenotazioni sono attivi due numeri “riservati”: 0665648 (per chi telefona da Roma) oppure 848865648
(per chi telefona da fuori Roma). Si può accedere al servizio
dal lunedì al venerdì, dalle ore 9.00 alle 19.00.
(g.c.)
Sesta edizione
Il premio Neos-Porsche Italia a Gianni Minà
Comunicazione sociale
il premio speciale
a Toni Capuozzo (Tg5)
Milano, 15 febbraio 2005. In occasione della Borsa
internazionale del turismo, i giornalisti di Neos hanno
premiato Gianni Minà.
Partner ufficiale del premio Neos è Porsche Italia.
Il premio Neos-Porsche Italia viene assegnato ogni anno
(in occasione della Bit, Borsa italiana turismo) a un giornalista che si sia distinto per il suo lavoro, la sua professionalità, la sua integrità nel campo del giornalismo. Il premio
ha per tema i viaggi e la conoscenza del mondo. La giuria
del premio è composta dal Consiglio direttivo di Neos–giornalisti di viaggio associati. Il Consiglio, presieduto da
Massimo Pacifico, è composto da altri sei giornalisti
operanti nel settore viaggi. Il premio è giunto quest’anno
alla sesta edizione
Gianni Minà è stato per quarant’anni uno dei più stimati
inviati speciali della Rai, ed ha raccontato, con reportages
e inchieste, le realtà sociali e culturali degli Stati Uniti e
dell’America Latina. Da ricordare, fra gli altri, Storie del
jazz, e Facce piene di pugni (la storia della boxe).
Nel 1987 ha realizzato uno storico documentario intervistando per 16 ore il presidente cubano Fidel Castro. Tre
anni dopo, nel 1990, lo ha incontrato nuovamente per un
approfondimento dopo il tramonto del comunismo. Tra i suoi
lavori più famosi: Muhammad Alì, una storia americana;
Fidel racconta il Che; Il Che 30 anni dopo; Marcos: “Aqui
estamos”, sulla lunga marcia degli insorti zapatisti attraverso il Messico (realizzato in collaborazione con Manuel
Vazquez Montalban); Rigoberta Menchù, una donna Maya
per la pace; Diego Maradona: “Non sarò mai un uomo
comune” e C’era una volta il cinema: Sergio Leone e i suoi
Milano, 7 febbraio 2005. Il giornalismo che si occupa
degli ultimi, di emarginazione, dei fenomeni economici e
sociali che, in sordina, cambiano l’Italia, è stato premiato
oggi a Milano. Il riconoscimento, Premio giornalismo per il
sociale, assegnato per il terzo anno per iniziativa di Sodalitas, ha voluto ricordare anche Enzo Baldoni e Maria
Grazia Cutuli, due giornalisti uccisi che affrontavano il loro
lavoro con umanità e professionalità.
Tra i 600 articoli inviati, la giuria ha scelto i vincitori divisi
per sezione.
Per la categoria Stampa e Web è stato premiato Emiliano
Fittipaldi (Corriere della Sera) per la serie di inchieste
‘Profondo Italia’, con le quali è stato descritto il fenomeno
delle nuove povertà.
Per la categoria Radio e Tv il premio è andato a Lorenzo
Montersoli (Verissimo/Tg5) per il servizio ‘Neo capolarato
a Milano’. Segnalazione speciale a Gabriella Simoni per il
servizio trasmesso da Lucignolo-Italia1, ‘San Valentino’.
Per la sezione Giovani giornalisti è stata premiata Antonia
Casini (Resto del Carlino, Il Giorno, La Nazione), per il
servizio sui bambini abbandonati in Italia.
Il Premio speciale è andato all’inviato del Tg5 Toni Capuozzo. Prima della consegna dei premi il tema della comunicazione sociale è stato discusso in una tavola rotonda,
presieduta dal presidente di Sodalitas Federico Falck, con
Paolo Anselmi (Eurisko), Aldo Bonomi (Communitas), Enrico Deaglio (Diario), Xavier Jacobelli (Il Giorno), Cristina
Parodi (Verissimo), Dario di Vico (Corriere della Sera) e
Don Gianni Zappa (Arcidiocesi Milano).
(ANSA)
ORDINE
3
2005
film, un documentario dove oltre al regista, intervengono
tra gli altri Clint Eastwood, Robert De Niro, Claudia Cardinale ed Ennio Morricone. Nel 1982 Sandro Pertini gli ha
consegnato il premio Saint Vincent di giornalismo. Nel 2004
ha vinto il premio Flaiano, il premio Vittorini, e con il filmdocumentario In Viaggio con Che Guevara il festival di
Montreal e il Nastro d’argento, il riconoscimento dei critici
cinematografici italiani. Attualmente è direttore della rivista
trimestrale di geopolitica Latinoamerica e della collana
Continente Desaparecido per la casa editrice Sperling &
Kupfer. Fra i suoi libri pubblicati in molti paesi del mondo
ricordiamo Fidel, Un continente desaparecido, Marcos e
l’insurrezione zapatista (con Jaime Avilés), Il Papa e Fidel,
e Un mondo migliore è possibile, tutti editi in Italia da Sperling & Kupfer.
Neos-giornalisti di viaggio associati è stata fondata nel
1998.L’acronimo si rifà ai quattro punti cardinali, che a loro
volta rappresentano simbolicamente il campo d’azione dei
soci. Giornalisti di redazione delle più importanti riviste di
viaggio italiane e straniere, fotografi e freelance che viaggiano e documentano in maniera professionale le loro
esperienze. I giornalisti premiati nelle precedenti edizioni
sono stati:
2000: Fosco Maraini, fotografo, scrittore e noto orientalista
2001: Walter Bonatti, giornalista, esploratore e alpinista
2002: Folco Quilici, scrittore, documentarista, fotografo
2003: Ettore Mo, inviato speciale del Corriere della Sera
2004: William L. Allen, direttore National Geographic
7
Assemblea
24 marzo 2005
Professionisti
Medaglia
d’oro
Milano, 15 febbraio 2005. Sono 21 i colleghi (14
professionisti e 7 pubblicisti) che quest’anno compiono
i 50 anni di iscrizione negli elenchi dell’Albo. Riceveranno la medaglia d’oro dell’Ordine della Lombardia in
occasione dell’assemblea annuale degli iscritti che si
terrà giovedì 24 marzo (h 15) al Circolo della Stampa.
Ed ecco i loro nomi:
PROFESSIONISTI
Liana Bortolon, Adone Carapezzi, Giovanni Cesareo,
Emilio Fede, Nicolino Fudoli, Mario Lodi, Gualtiero
Mantelli, Armando Mariotto, Enrico Morati, Gaetano
Neri, Mario Pancera, Andreina Araldi Pinotti, Luigi
Pizzinelli.
PUBBLICISTI
Giancarlo Armuzzi, Ermanno Comizio, Mario Conter,
Antonio Dorsa, Emilio Mariano, Alcide Paolini, Pasquale Scardillo.
Nel corso dell’assemblea verranno premiati anche i
vincitori del “Concorso Tesi di laurea sul giornalismo”.
All’ordine del giorno dell’assemblea degli iscritti all’Albo
figura l’approvazione del bilancio preventivo 2005 e del
conto consuntivo 2004.
Ventu
EMILIO FEDE
«Il bravo giornalista
non possiede l’orologio»
di Silvia Bernasconi
L’appuntamento è al Casinò di Campione
d’Italia. Ma al tavolo verde non si avvicina
nemmeno. Si dice abbia smesso. “Continuo a
essere un giocatore d’azzardo nella vita, nel
lavoro, nelle amicizie, in politica”. Emilio Fede
sorride. Al suo fianco la statuaria Teodora
Rutigliano, sua ultima scoperta televisiva.
Elegante, abbronzatissimo dopo le vacanze
alle Maldive dove è scampato alla furia dello
tsunami – “anche quella è stata questione di
fortuna”, precisa – comincia a ripercorrere i
suoi cinquanta anni di giornalismo. Una vita.
“Nel giornalismo ci sono nato, ragazzino racconta - e non dimentico mai da dove vengo
né la fatica fatta per arrivare. Non dimentico
quando mi improvvisavo cronista in Sicilia, né
i primi anni di lavoro gratuito e di sacrifici. Ci
sono voluti cinque anni perché firmassi il mio
primo articolo, solo con la sigla naturalmente”. E adesso? “Più di ogni altra cosa mi sento
ancora un inviato. Sono soddisfatto, fiero di
essere protagonista dell’informazione e ho
tanto entusiasmo, così come ho iniziato all’età
di quattordici anni. Ogni mattina quando mi
alzo, mi sembra il primo giorno”.
Eppure ne ha fatta di strada dal primo giorno.
Trentatré anni di Rai, sedici di Mediaset, sette
libri pubblicati e un ottavo in cantiere. “Ma i
conti non facciamoli!”, scherza. Assunto alla
Rai come conduttore a contratto nel 1954, agli
esordi della televisione italiana, dal 1961
diventa giornalista fisso del telegiornale.
Ricorda i servizi di cronaca, le inchieste per il
settimanale Rai Tv7, gli otto anni come inviato
speciale in Africa, il primo telegiornale a colori
e i cinque anni di conduzione del Tg1, che ha
poi diretto dall’aprile 1981 all’agosto 1983. Da
mamma Rai si dimette nel 1987. Dopo un
breve passaggio al notiziario di ReteA, l’ap-
prodo in Fininvest. E l’incontro con Silvio
Berlusconi. “Berlusconi per me è la famiglia,
gli amici, tutto. Quindi mi sento a casa”,
confessa. Del resto la sua devozione incondizionata per Berlusconi il fido Emilio – o “Emilio
Fido”, come l’hanno soprannominato le male
lingue – non l’ha mai nascosta, anzi l’ha sottolineata e ostentata a tal punto da costruirsi il
personaggio di servitore fedele. Senza mai un
ripensamento, almeno non davanti alle telecamere.
“L’informazione Fininvest è nata con me”,
continua. E ricorda l’ideazione di Studio Aperto su Italia1 che poi ha fatto da modello ai
programmi di informazione delle tre reti. La
soddisfazione più grande è stata la copertura
della prima guerra del Golfo nel 1991, quando
ha dato per primo le notizie dell’attacco aereo
americano su Bagdad e della cattura dei due
piloti italiani Bellini e Cocciolone. L’emozione
più forte quando il papa lo ha ricevuto nella
sua cappella privata, il 23 dicembre 1981. “Da
quel momento ho imparato a essere un po’
meno presuntuoso e meno egoista, a rispettare di più i colleghi”.
Direttore del Tg4 dal 1992, Emilio Fede è in
onda ogni sera alle 19 dallo studio di Cologno
Monzese. Ed è proprio qui che, a dispetto di
ogni regola del giornalismo anglosassone, ha
coniato una formula personalissima – e altrettanto contestata – di notiziario che coniuga
fatti e opinioni, informazione e spettacolo. Il
Fede-conduttore accompagna le notizie con
commenti, le condisce con sguardi eloquenti
e gesti vistosi, si rivolge al pubblico a casa,
apostrofa i colleghi in redazione e gli operatori in studio. Un’identificazione totale, senza
riserve.
Se non fosse al Tg4 dove sarebbe? “Al Tg4!”,
risponde senza indugio. Poi ci ripensa. Vorreb-
GAETANO NERI
1955
2005
«Così funzionavano
i quotidiani del pomeriggio»
di Silvia Ortoncelli
Attraversare piazza Cavour, sgattaiolare
dentro la redazione prima del Corriere
lombardo, poi della Notte, scendere le scale
che portano al fracasso e alla concitazione
della tipografia, stanzoni enormi dove, con la
composizione a caldo, più di seicento operai
impaginavano il giornale, respirando vapori di
piombo. Per trentatré anni, dal 1952 al 1985,
Gaetano Neri, un settantaseienne esile, dai
modi affabili e discreti, ha confezionato i quotidiani del pomeriggio: “era un giornalismo d’urgenza, con frequenti ribattute”, racconta con
un filo di voce. Quando Neri entra per la prima
volta come impaginatore al Corriere lombardo, nel 1952, in piazza Cavour “c’erano
sempre parcheggiate soltanto tre auto e una
moto”. Una sorta di filo rosso lega la sua
personale interpretazione del giornalismo a
quella piazza, che ancor oggi ospita il Palazzo dell’informazione: “Mi piaceva moltissimo
lavorare in tipografia, dove si stava gomito a
gomito con personaggi straordinari”.
Dalle viscere de Il Corriere lombardo, dal
1966 assorbito dalla Notte, Neri ha vissuto
tutte le fasi dell’impaginazione, dalla composizione a caldo, a piombo, a quella a freddo per
passare infine all’attuale sistema informatico:
be andare lontano, magari in Africa, quel
continente che gli è rimasto dentro per “il
senso di libertà, i suoi colori e l’atmosfera”.
L’Africa che già conosceva da bambino,
essendo vissuto ad Addis Abeba con la famiglia fino al 1942, e che ha riscoperto da inviato. A questo punto non può mancare una
battuta su “Sciupone l’Africano”, il soprannome che si è conquistato inviando alla Rai non
solo reportage, ma anche note spese chilometriche. Emilio Fede sta al gioco e rincara la
dose: “Se è per questo, mi chiamavano anche
ammogliato speciale al posto di inviato”. E il
riferimento è a Diana De Feo, figlia dell’allora
vicepresidente della Rai Italo De Feo, che ha
sposato nel 1964 a dalla quale ha avuto due
figlie, Simona e Sveva. “Non ero l’unico però
ad avere soprannomi divertenti – corre ai ripari – Lubrano era diventato il banale di Suez e
Zavoli il D’Annunzio mortuario o il lotto continuo perché continuava a comprare appezzamenti di terreno”.
Insieme all’Africa il ricordo va anche ai pericoli scampati. “Ho rischiato più volte ma ho
sempre riportato a casa la vita. Da inviato in
Africa sono saltato su una mina. Questa
medaglia d’oro vorrei dedicarla alla memoria
dei colleghi caduti, in particolare a Ilaria Alpi e
Maria Grazia Cutuli”.
Quali sono secondo Emilio Fede le doti per
essere un buon giornalista? “Non deve possedere l’orologio – risponde – perché il giornalismo è come un rapporto con una donna che
si ama. Quando chiama alle tre di notte, tu
corri anche in pigiama”. Un’ultima cosa: “Guai
a tentare di restare alla ribalta. È importante
capire qual è il momento giusto per dire arrivederci”. E non si capisce se lo dica come una
frecciatina indirizzata a qualche collega o
come ammonimento rivolto a se stesso.
“Quegli oltre seicento operai, corpulenti e
sporchi di piombo, diventarono degli asettici
farmacisti in camice bianco. Ed oggi, nei locali che per quarant’anni hanno ospitato le rotative dei giornali, c’è un centro fitness”.
Da quando è in pensione, Gaetano Neri scrive e dipinge.
Ha già pubblicato cinque libri, quasi tutti presso l’editore “Marcos y Marcos”. Si tratta di
raccolte di racconti brevissimi: una serie di
fermi immagine sulle piccole idiosincrasie
della quotidianità, descritti in chiave fantastica
e ironica. Due gocce di Oblion, il micro
racconto che dà il nome ad un libriccino edito
in proprio e del quale Neri ha realizzato anche
le illustrazioni (otto xilografie) descrive la serata di Piero e Luisa, impiegati in un ufficio
governativo in una città “come le altre” dove
non si può camminare per le strade e i negozi
restano aperti solo se c’è polizia. Per alleggerire il peso della giornata, i due decidono di
andare al cinema: i film proiettati sono tutti
assai noti e c’è sempre qualcuno che conosce a memoria l’intera pellicola; a costoro “un
inserviente depone sulla lingua due gocce di
Oblion, il film diventa come nuovo e finalmente si può ricominciare”.
E la prosa di Neri, aggraziata e surreale,
sembra proprio voler sgravare il grigiore e il
peso della quotidianità.
gente, vi erano quadri di artisti che aveva
segnalato. Per Grazia Liana Bortolon ha scritto
per più di trent’anni: inizialmente rievocazioni di
pittori dell’800, poi ricostruzioni di artisti del
primo ‘900, infine di artisti contemporanei.
Liana Bortolon ha 82 anni ora, ma il portamento, lo sguardo e il sorriso rivelano un guizzo
giovane. «Si parlava sempre di uomini, io iniziai
a parlare di donne: di Felicita Frai prima, di
Federica Galli poi e delle sue vedute di Venezia». Liana Bortolon si lascia andare ai ricordi:
a ogni città associa uno o più artisti. A Roma
Mario Mafai e la moglie, ancora agitati per la
nascita della loro nipote, figlia di Giulia. A Torino
Francesco Casorati e Enrico Paolucci e
quest’ultimo ad iniziarla ai club della città. «Man
Ray me lo ricordo vecchissimo, nella sua stamperia a firmare litografie. Io avevo con me una
Polaroid nuova e non sapevo come usarla.
Vedendomi impacciata, mi venne incontro e
fece da sé le foto», ricorda col sorriso.
Liana Bortolon racconta divertita anche l’incontro con Marc Chagall nella cappella di Vence.
«Noi giornalisti eravamo come segregati.
Quando finalmente ebbi modo di parlare con
Chagall, gli chiesi quanti quadri avesse dipinto.
Lui rispose con un’allusione pungente a Picasso : “Beaucoup de moins du peintre espa-
gnol”». Infine ricorda il suo «grande amico»
Massimo Campigli e di quando, anni dopo la
sua morte, il figlio Nicola trovò, sepolti in fondo
ad uno dei suoi cassetti che nessuno aveva
mai aperto prima, un centinaio di fogli in carta
velina. «Vi era scritta la sua vita, complessa,
affascinante e triste. Da quel manoscritto e dai
miei appunti nacque Campigli e il suo segreto,
la biografia critica più nutrita che abbia mai
scritto». Liana Bortolon, infatti, di monografie
ne ha scritte molte: su Raffaello, Tiziano,
Leonardo, Carriera, Morlotti, Sassu, Gentilini,
Guidi e altri.
Ai ricordi degli artisti si alternano flash di avventure: un viaggio nel deserto dei Gobi, in Mongolia – «prati immensi, ciclamini che nascevano
tra lo sterco di cavalli» – e di quando, appena
ventenne, prese parte alla Resistenza “bianca”
a Feltre, portando in bicicletta rifornimenti ai
partigiani. Dei soggiorni in America, ricorda gli
artisti della West Coast e «un albergo vittoriano
solo per signore nella 57a strada di New York».
Dà l’impressione di essersi molto «divertita» in
questi cinquant’anni e più di giornalismo,
«seppure – precisa – non siano mancati i lati
seri». «Ho sempre lavorato con grande entusiasmo. Ho incontrato tantissimi artisti e, riguardo ad alcuni, sono stata un po’ pioniera. Mi è
LIANA BORTOLON
Il coraggio di scrivere d’arte
su un settimanale femminile
di Rosalba Castelletti
«Questo da dieci anni è il mio mondo»: Liana
Bortolon vive con un gatto a Milano in una
villetta a schiera a due piani lontana dal caos
cittadino. È stato il giardino dal verde traboccante a convincerla a lasciare la mansarda in
piazza Oberdan dove aveva vissuto per
trent’anni. Liana Bortolon è nata a Feltre, in
provincia di Belluno. A Milano si è trasferita per
conseguire la laurea in lettere moderne. Ed è
stato proprio all’Università Cattolica che ha
iniziato ad apprendere i primi rudimenti del
giornalismo, lavorando come segretaria editoriale e redattrice di Vita e pensiero a fianco di
padre Agostino Gemelli. «Mi occupavo della
correzione delle bozze – spiega. Prendevo
contatti con autori e editori. Talora scrivevo
8
anche articoli letterari. Ma continuavo sempre
a mirare ai giornali». E così nel 1957 arriva al
settimanale Gente come critica d’arte. Poi nel
1959 lascia definitivamente l’Università per scrivere, sempre d’arte, su Grazia. «L’idea di scrivere c’era sempre stata. Anche quella di dipingere. Da bambina prendevo lezioni di disegno.
Scrivendo di artisti, ho unito il desiderio di scrivere e di dipingere».
Scrivere d’arte in un settimanale femminile fu
coraggioso: «Nessuno parlava d’arte allora. Io
dovevo fare critica d’arte sì, ma in maniera
semplice. Dovevo legare cultura e divulgazione. L’intuizione critica c’era. Eppure, quando
una giovane scrisse una tesi su di me, si trovò
a sfidare l’ostilità della critica ufficiale contro la
divulgazione». La pagina di critica d’arte su
Grazia fu ad ogni modo un «successo» confermato dal fatto che, nelle case di amici e della
ORDINE
3
2005
uno penne d’oro
GIANFRANCO CARMIGNANO
ADONE CARAPEZZI
«Esperienze troppo numerose Quanti campioni
per un solo mosaico»
al suo microfono
di Emanuele Buzzi
di Simone Battaggia
Ad ascoltare le sue esperienze storia per
storia, anno dopo anno, si ha l’impressione di
raccogliere la testimonianza di tante persone
diverse. Tessere che sembrano troppo numerose per appartenere a un solo mosaico. Una
vita segnata dal giornalismo, quella di Gianfranco Carmignano: dai quotidiani all’agenzia,
dai periodici alla radio. “È una passione che
avevo nel sangue fin da bambino” – spiega –
“e che è poi proseguita all’università”. Una
carriera iniziata nel 1946, nella sua Milano,
come collaboratore sulle pagine sportive del
Corriere lombardo, e non ancora conclusa.
Una carriera influenzata – almeno un po’ – da
suo padre, giornalista da cui ha ereditato
l’amore per la notizia. Intrecci di famiglia, che
lo spingono a lavorare oggi, a quasi settantotto anni con sua moglie: “Ora come ora, nonostante sia andato in pensione sedici anni fa,
sono proprietario e direttore di due bimestrali
Private label in Europe e I quaderni della
distribuzione, due pubblicazioni di carattere
economico”.
D’altronde, la passione per i temi di natura
economica – su cui ha scritto anche alcuni
volumi, oltre ai libri Sulla stampa e Come
nasce il giornale – è uno dei fili conduttori che
ha accompagnato Carmignano in oltre
cinquant’anni di professione. Proprio mezzo
secolo fa, è tra i fondatori dell’agenzia di stampa Mercurius, ma l’avventura dura poco: “Mi
diverto a cambiare lavoro, trovo molto stimolante confrontarsi sempre con sfide e argomenti nuovi. Il rischio è elevato, ma almeno
hai la sensazione di creare qualcosa di tuo, di
lasciare una traccia”. Impegnandosi sempre
con abnegazione e costanza.
Segue le orme di famiglia e viene assunto
come caporedattore a Idea nazionale – dove
suo padre aveva lavorato qualche decennio
prima –, tuttavia anche qui rimane solo poco
tempo. Così, nel ‘60 approda in Rizzoli, poi in
poco più di un decennio è la volta di Mondadori, del mensile Espansione, di Staff. In
seguito è direttore di Manager e Uomo più, un
maschile ante litteram. Nel frattempo, parallelamente alla girandola di testate (che
comprende anche Obiettivo Marca, Market
espresso, Radio Kelly e Il nuovo milanese),
Carmignano diventa una colonna portante
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia: per
dodici anni ne è consigliere.
Vive da protagonista una stagione di grandi
cambiamenti. Qui incontra Carlo De Martino –
che ricorda come “un ottimo giornalista, ma
anche una persona con una carica contagio-
La medaglia non la vuole, per motivi personali e familiari. Dice che è un riconoscimento alla salute e che, in cinquant’anni, premi
non ne ha mai ricevuti, al contrario di tanti
altri colleghi meno famosi e popolari di lui.
Della sua esperienza giornalistica però
Adone Carapezzi parla volentieri, ed è uno
spasso ascoltarlo mentre saltella da un
ricordo all’altro, spizzica aneddoti, descrive
i grandi campioni che sono passati davanti
al suo microfono dall’inizio degli anni
Cinquanta.
Per decenni Carapezzi è stato redattore e
inviato della redazione sportiva del giornale
radio Rai. “Feci il concorso nel 1946. Ricordo che all’epoca l’esame consisteva anche
nel raccogliere interviste in piazza Duomo.
Iniziai come collaboratore, ma venni assunto solo il 1° ottobre 1955. Ero un cane sciolto, e per ottenere il praticantato bisognava
essere in quota”.
È esistito anche un “caso Carapezzi”: la Rai
e l’interessato chiedevano il praticantato, la
Sottocommisione per la tenuta dell’Albo
(che era presso il sindacato: l’Ordine non
esisteva) non lo concedeva soprattutto per
mancanza della “quota” (un praticante ogni
10 redattori). Carapezzi aveva frequentato il
suo corso di capocenturia negli Arditi
distruttori della Regia aeronautica a Guidonia (“dove conobbi Gianni Brera, che era
della Folgore e faceva già il giornalista”). Il
problema comunque si risolse nel 1954,
quando si liberò un posto grazie all’assunzione come professionista di Paolo Valenti.
A pensarci bene, la storia recente dello
sport italiano non è passata soltanto davanti al microfono di Carapezzi, ma anche al
suo fianco. “Ho lavorato con Adriano De
Zan, Sandro Ciotti, Nando Martellini, Piero
Angela. Dividevo il mio ufficio di corso
Sempione con Beppe Viola”. Con questa
nobile compagnia, Carapezzi girava l’Italia
e raccontava i grandi personaggi sportivi
sa, senza dubbio il professionista che stimo di
più”, si batte per facilitare l’accesso alla
professione (cercando di riconoscere nei
giusti casi la validità del praticantato d’ufficio),
fa parte della commissione per il contratto di
lavoro, chiede con insistenza la creazione di
una scuola legata all’Ordine. Quella scuola è
oggi l’Istituto Carlo De Martino: “Sono felice
che sia dedicata a lui: non potevano fare scelta più opportuna. A mio avviso è la scuola
migliore in Italia”.
Nuovi flash, nuove polaroid della memoria: un
giornalista non vive solo di carriera e di battaglie, cambia piglio quando rammenta gli anni
trascorsi a Scienze politiche in Cattolica (dove
era redattore del giornale Libro e moschetto
dei gruppi universitari fascisti), le sue avventure come azzurro di hockey nei primissimi anni
Cinquanta. Ma il suo percorso gli sembra
segnato da sempre: “Sono nato direttore”,
sostiene. E si lascia trasportare dagli aneddoti, come quando progettava con Gaetano Afeltra un quotidiano che poi non ha mai visto la
luce. Il treno di memorie passa veloce come
lui, sempre iperattivo, sfuggente. Gli impegni
del futuro lo attendono, la nostalgia riservata
al passato è già scemata. Altri tempi, tempi in
cui i giornali non erano sovraffollati come al
giorno d’oggi, anche se – afferma Carmignano – “Ora si sta meglio, sono i giovani che
vogliono tutto subito. Alla mia epoca si lavorava per anni senza avere un contratto decente”.
Una cosa, comunque, accomuna le nostre
generazioni, quella “passione” per la notizia
che ha accompagnato Carmignano per tutta
la vita, un fuoco che ancora arde, che lega chi
sente veramente questa professione, la
speranza di essere testimoni preziosi dei
nostri giorni.
1955
2005
del suo tempo. “Ho intervistato Villoresi e
Ascari alla Mille Miglia, Coppi e Bartali al
Tour de France, ho seguito la trasferta del
Milano basket in Russia, nel 1948, quando
c’era Stalin e nessuna squadra era ancora
entrata in Unione Sovietica”. Qual è stato lo
sportivo che l’ha colpita di più? “Fausto
Coppi. Era leggermente gobbo, con le spallucce strette, il torace a punta. Sembrava
fatto per la bici. Quando mi capitò di parlargli, mi fece una grande impressione”.
Dopo più di tre decenni, l’esperienza alla
Rai finì, e male. Nel 1982 Carapezzi passò
a Tele Montecarlo. “Sono stati gli anni più
belli. Facevo telecronache di sci, ippica, fui
inviato al Tour de France. Quando andavo
nel Principato mi facevano dormire nell’hotel della Callas e di Onassis. E mi diedero
anche una “carta d’oro” per entrare al
Casinò gratis”.
Cinquant’anni di avventure sportive, esperienze di tutti i tipi che suscitano ammirazione e invidia. Un bagaglio sufficiente per dare
uno sguardo allo sport di oggi, ai suoi personaggi e alle sue manie, e di confrontarlo con
quello di ieri. “Oggi ci sono ciclisti e calciatori che parlano come laureati, mentre ai miei
tempi c’era solo il dialetto. E poi le loro parole erano sincere, essenziali. Dopo una partita del Milan, chiesi a Nordhal di raccontarmi
una sua rete. “Semplice. Preso palla, guardato porta, tirato, fatto gol”. Quante cose
sono cambiate, in cinquant’anni.
NICOLA FUDOLI
Il turismo e i viaggi
nel “Giornale” di Montanelli
di Anna Bernasconi De Luca
sempre piaciuto seminare. Sono portata a
cominciare le cose e poi ad abbandonarle. O
andare avanti. Si può chiamare in molti modi. E
intanto – aggiunge – gli anni sono passati e mi
sono ritrovata sola con tutte le mie cose che
non avrei mai dato via. Poi ho capito che la vita
mi avrebbe portato a separarmene e c’è stato
un ripensamento. Ho donato 3791 volumi alla
biblioteca dell’Università Cattolica di Milano, a
Feltre regalerò 30 quadri ad olio ed opere su
carta». La biblioteca è nel pianterreno. Gli scaffali, in seguito alla donazione, sono oramai
semi vuoti. Al centro della stanza, uno scrittoio
e sopra una macchina per scrivere.
ORDINE
3
2005
Della sua lunga carriera giornalistica che lo
ha portato a viaggiare per tutto il mondo,
sono due i momenti che Nicola Fudoli definisce «esaltanti». Innanzitutto, l’esperienza
alla Gazzetta del Sud come responsabile
della redazione all’inizio degli anni Sessanta. «Tempi in cui Aldo Moro era segretario
della Democrazia cristiana e là, in provincia,
la Dc stava tentando l’apertura a sinistra». E
tempi in cui questo professionista nato a
Ciminà (Reggio Calabria) si trovava a «interpretare il pensiero dei lettori, esponendosi
politicamente», fino a dover lasciare il giornale che ha segnato il suo esordio.
Quindi la “chiamata” a Milano, quella «irresistibile e irrinunciabile» per uno che è «nato
giornalista»: quella a lavorare con e accanto
a Indro Montanelli nella fondazione del Giornale, nel 1954. Al «giornale dei giornalisti»,
Fudoli ha svolto incarichi agli Esteri, prima
di diventare responsabile del settore “Turismo e Viaggi”. Anni di lavoro intenso, dei
quali ricorda le serate dopo la chiusura,
quando tutta la redazione si raccoglieva in
cerchio attorno al maestro «per ascoltare i
suoi racconti, pendendo dalle sue labbra».
Tra quelli che Montanelli chiamava i suoi
«ragazzi», c’erano «Bettiza, Vergani, Corradi, Zapulli…».
Quindi la pensione nell’87 e la decisione, dal
momento che per lui «il giornalismo è un
hobby», di creare il Centro del Turismo di
Milano, dove si occupa delle pubblicazioni.
L’avvento del computer non ha trovato
impreparato Fudoli, che oggi dirige anche la
rivista telematica www.ViaggiVacanze.info e
dal suo terminale in zona Loreto collabora
al periodico Chi, come redattore della rubrica dedicata al turismo.
9
Assemblea
24 marzo 2005
Professionisti
Medaglia
d’oro
Ventuno penne
ENRICO MORATI
MARIO PANCERA
«Oggi si oscura tutto,
compresa la satira»
«Ma oggi la televisione
è tutta uguale»
di Andrea Fanì
di Valeria Morselli
All’entrata di casa una scultura nera, in
metallo, con molte sporgenze: «Per appendere cappotti», mi dice. Lo faccio. Il salotto è
pieno di quadri, la luce del mattino li accarezza, penetrando nella stanza da due grandi finestre. «Arte e libri sono le mie passioni», dice Mario Pancera: in tutto ne ha scritti
17. «Il giornalismo mi ha dato la precisione
e i tempi giusti per i miei libri. E il mestiere di
scrittore mi ha insegnato il rigore della ricerca». È in uscita l’ultimo lavoro, Primo
Mazzolari e “Adesso”. 1949-1951; ne ha già
in cantiere un altro, titolo provvisorio, Le
donne di Marx.
Pancera non si è mai fermato: neanche ora,
dopo 50 anni di carriera. Con quel carattere
forte che sale dalle parole e dagli occhi. Mette
soggezione, anche. Ha in mano una matita.
La gira tra le dita e racconta. Da Bozzolo, nel
mantovano, dove è nato nel 1930, si è trasferito a Milano nel ‘45. «Al liceo mi piacevano le
parole, la scrittura».
Infatti comincia con un racconto. «Nel 1947 lo
mando al Popolo, quotidiano della Democrazia Cristiana, direttore Vittorio Chesi. Pensavo
lo buttassero. Finì in terza pagina. Poi mi
hanno commissionato racconti gialli». Anno
1950, dal giallo «alla cronaca giudiziaria. Mi
dividevo tra la redazione e gli studi alla Cattolica. Pagato a righe. Colleghi più anziani mi
facevano firmare qualche pezzo non mio. Per
arrotondare». Nel ‘53 il «fattaccio»: «Dovevo
diventare praticante. Invece il mio posto fu
preso da un altro. Lui aveva la tessera. Io
no…».
Un anno si può aspettare. Praticante dal ‘54,
professionista dal ‘55. Nell’organo ufficiale
della DC: «Nessuna pressione, in cronaca.
Andavo in questura, nei tribunali. Mi sono
occupato anche del processo a Giovanni
Guareschi». Guareschi e la sua satira. Oggi la
satira la oscurano: «Oggi oscurano tutto. Non
che ci sia censura, ma i giornali mi sembrano
più grigi, scritti male».
Pancera professionista negli anni del boom
economico e della televisione: «Lo sviluppo
economico permise agli editori di aprire nuove
testate. La tv? Era presa con leggerezza, le
pagine degli spettacoli parlavano soprattutto
di teatro». I giornalisti televisivi? «Nessuno li
invidiava. Io collaborai ad una sceneggiatura.
Potevo entrare in quel mondo, ma presi un’altra strada». L’altra strada porta a La Notte di
Nino Nutrizio. «Era il ‘57. Il Popolo stava chiudendo; io, che non ho mai saputo chiedere
aumenti, coglievo tutte le opportunità. Alla
Notte facevo prima e terza pagina. Non ero di
destra, come Nutrizio: per un po’ mi tennero
d’occhio, imparando a fidarsi. Curavo anche
una pagina d’inchieste. Belle e utili». E delle
inchieste di oggi cosa pensa? «Sono leggere,
forse fatte più cercando in archivio che indagando».
Usciva il primo libro, Gino Bartali. La mia
storia, scritto con Ginettaccio, «uomo di bontà
unica, ma di cui molti approfittavano». Con
una famiglia a carico, i soldi non erano mai
troppi, lavorare era importante. Nel ‘62 lo chiama Rusconi per un posto a Gente: lui accetta,
il rotocalco era in espansione e insidiava le
vendite di Oggi, targato Rizzoli.
Passano sei anni e «viene da me Benedetto
Mosca, di Oggi. Mi dice che Carraro, braccio
destro di Rizzoli, vuole incontrarmi. All’appuntamento Carraro mi presenta un foglio con
l’accordo fatto. Rusconi non la prese bene, ma
io avevo bisogno di garanzie, e Rizzoli ne
dava. Una volta volammo a Parigi a prendere
delle foto arrivate dalla Colombia. Impaginammo sull’aereo privato del cumenda. All’atterraggio avevamo il menabò fatto».
Dieci mesi e arriva la nomina a redattore capo
di Annabella. «Mai scritto di moda, prima. Mi
occupavo di musica, pittura, scultura. Ma era
una sfida, accettai».
Nel frattempo altri libri e una carriera solida.
Gli incarichi si susseguono, Famiglia Cristiana, la rubrica Dizionarietto su Amica, e, nel
“Oh signor, cosa le racconto adesso?”, mi ha
chiesto. “Facile, 50 anni di giornalismo”, ho
risposto. È iniziato così il mio colloquio con
Enrico Morati. Ed è difficile credere che un
giornalista per passione come lui, che ha
iniziato la sua brillante carriera a 14 anni
correggendo le bozze de L’Azione Giovanile (il
quindicinale dell’Azione Cattolica che rifletteva
le posizioni e gli impegni dei giovani), non
abbia nulla da dire. Forse vuole proteggere i
suoi ricordi da “questo giornalismo che cambia
e che speriamo si salvi”, come dice lui stesso.
Ma alla fine inizia a parlare ed è un fiume in
piena: memorie che si conservano intatte
nonostante le sfumature del tempo, memorie
di un giovane cronista, diventato poi segretario
di redazione in Rai, che ha fatto dell’amore per
la verità il suo cavallo di battaglia.
E inizia lontano il suo racconto. Nel 1952 quando approda, già dal primo giorno giorno, a La
Notte. Lì ha modo di imparare la professione
sotto la guida del direttore e maestro Nino
Nutrizio, per il quale prova ancora un sentimento di profonda riconoscenza e stima.
Passa quasi subito alla cronaca giudiziaria,
dove rimane per 10 anni. “La giudiziaria è stata
una grande scuola. Entrare a Palazzo di Giustizia in quegli anni mi ha permesso di capire
cos’era Milano attraverso i processi civili”, spiega. Si è occupato, infatti, di due grandi scandali dell’epoca: “il processo dell’Oro di Dongo”
e il “processo Fenaroli”. “Il primo, ricorda, è
stato molto faticoso. Mi sono salvato perché
essendo inviato di un giornale del pomeriggio,
a metà dovevo uscire a dettare il pezzo. Per
fortuna il collega Passanisi mi ha messo a
disposizione i fascicoli dell’istruttoria”. In quel
periodo ha fatto anche alcuni scoop, ad esempio quello su Bartali. Girava voce allora che il
prode ciclista non stesse molto bene. Nessun
cronista ha dato credito a queste voci, eccetto
Morati: “a giorni Bartali sarà operato per un
blocco intestinale”, ha scritto. Ed è stato così.
Ma lo smacco più grande la redazione de La
Notte lo ha rifilato proprio al Corriere. Il caso è
la “rapina di via Osoppo”. La Notte a quel
tempo usciva ancora alle 17 del pomeriggio.
Alle 13 arriva la notizia dell’arresto dei colpevoli. E mentre la redazione del quotidiano
pomeridiano presidiava la telescrivente (l’antenata dell’Ansa odierna) al Corriere erano tutti
fuori per pranzo. Risultato: La Notte uscì con il
titolo dell’arresto, spiazzando la concorrenza.
Un grande colpo frutto dello spirito di coesione
che c’era nella redazione e che ci ha permesso di sopravvivere così a lungo. La Notte era
nato per vivere 5 mesi, alla fine ha compiuto
25 anni, ha commentato Enrico Morati. Altro
capitolo è il trascorso a L’Italia, dove è rimasto
10
‘72, il Corriere d’Informazione: «C’erano De
Bortoli e Feltri, molto promettenti. Io facevo le
pagine culturali». Sei anni, e nel ‘78 è ancora
Mosca a chiamarlo, stavolta alla Domenica
del Corriere. Giornale glorioso, ma in calo: «La
direzione di Maurizio Costanzo fu un errore.
Bravissimo in tv, ma con la Domenica sbagliò.
Voleva fare un settimanale per “la mia portinaia”, diceva. La qualità ne risentì. Il giornale
non si è più ripreso».
Nel 1984 è a Salve, pochi mesi: il richiamo
delle vecchie passioni, quadri e sculture, è
troppo forte. Arte è il posto ideale. «Undici
anni, dall’84 al ‘95, come direttore, fino a che
sono andato in pensione».
Pancera, però, di stare fermo non ha intenzione. «Cominciai a collaborare con La
Repubblica, poi Il Giornale». È storia di oggi.
«Un giorno vado alla Stampa, qui a Milano.
Propongo al capo della redazione cultura
una rubrica sul rapporto tra arte e mercati.
Ci accordiamo sul taglio: avrei parlato di
opere e prezzi. Il compenso? Diciannove
euro ad articolo». Come uno che ha appena
cominciato…
1955
2005
6 anni. “Una parentesi non molto felice. Sono
passato lì quando è diventato direttore Lazzati. Ma mi sono trovato in grande difficoltà: quasi
non riuscivo a scrivere”. In queste poche parole il riassunto dell’esperienza.
Poi è arrivata la Rai. Un matrimonio durato ben
21 anni. Prima all’Ufficio stampa con Dino
Salvatore Beretta, poi come segretario di redazione e, negli ultimi tre anni, alla rubrica “Azienda Italia”, un programma di venti minuti dedicato al lavoro visto dall’interno. Come segretario
di redazione ha portato avanti due battaglie
molto importanti: la prima sul piano umano,
cercando di migliorare i rapporti giornalistitecnici, la seconda sul piano professionale per
far diventare giornalisti anche gli operatori. A
quel periodo sono legati ricordi divertenti. Per
esempio, quando un operatore, Mario Sacchi,
impegnato nelle riprese di una gru che sollevava una bomba aerea inesplosa, ha avuto un
sussulto di paura quando improvvisamente è
caduto l’ordigno. Fortunatamente inesploso,
per la seconda volta. Per due anni è stato
anche direttore del Gazzettino Padano. “Un’esperienza bellissima, andavamo in giro con
delle macchine scassate con enormi cassoni
dietro che servivano da ripetitori”, ricorda.
Una vita giornalistica, insomma, a tutto tondo
nella carta stampata, nella radio e in tv. Con
tre punti fermi: ricerca della verità, rispetto per
gli altri e passione. Un’esperienza cinquantennale che oggi gli fa dire, con un po’ di amarezza, che “la tv di allora era molto più culturale,
forse più scolastica, ma oggi è tutta uguale. Un
tempo si diceva che la radio era la sorella cieca
della tv. Oggi dico che la tv è una radio che si
vede”.
ARMANDO MARIOTTO
«Tecnica ed economia
le passioni di una vita»
di Andrea Celauro
Nato a Milano nel febbraio del 1931, Armando Mariotto ha seguito fin da giovane le
orme di papà Igino: messa in tasca la laurea
in giurisprudenza, infatti, si è dedicato a
quella che è stata la passione della sua vita,
il giornalismo.
L’odore d’inchiostro e il ticchettio della
macchina per scrivere, irresistibile per chi
cresce a pane e quotidiani, lo spinge a farsi
le ossa, ancora ventenne, al giornale La
Patria, dove rimane per ventiquattro mesi.
Poi la svolta, nella Milano della riconversione delle fabbriche, della Rinascente e della
Lambretta: nel 1954, Armando Mariotto
entra in forze al Corrierone. È qui che
trascorre i canonici diciotto mesi di praticantato ed è qui che, passato tra le file dei
professionisti nel ‘55, affina la tecnica per
altri due anni, fino all’estate del ‘57. Negli
anni successivi, Mariotto non si fa mancare
nulla: interviste ai campioni dello sport per
le sue collaborazioni con i settimanali sportivi, inchieste di cronaca nera per Gente e
pubbliche relazioni per la Sipra e per il
Mercato internazionale del tessile (Mitam).
E mentre nel Belpaese esplode il boom
economico, dalle colonne del mensile Quattrosoldi - dove rimane per sei anni, tra il ‘62
e il ‘68, come redattore e caposervizio ORDINE
3
2005
d’oro
GIOVANNI CESAREO
GUALTIERO MANTELLI
Un’esperienza multiforme,
Una vita da manovratore
«ma in fondo resto un cronista» alla scrivania dell’Unità
di Eleonora Barbieri
di Palmira Mancuso
“Alla fine, sono rimasto un cronista: ciò che più
mi piace è scrivere e, soprattutto, riuscire a
guardare i fatti, raccoglierli e analizzarli. Insomma, fare inchieste, in senso lato”. Così Giovanni
Cesareo dichiara la sua passione per il giornalismo, rimasta viva e predominante fra le numerose attività della sua movimentata carriera. Dal
teatro, suo primo amore, alla letteratura, dalla
critica televisiva alle questioni scientifiche, dalle
battaglie sociali allo studio e all’insegnamento
della sociologia delle comunicazioni di massa,
passando per l’impegno politico e la pubblicazione di numerosi libri: attività diverse, accomunate dall’appassionata e inesauribile curiosità
per le cose, i fatti, il mondo.
Le radici di Giovanni Cesareo sono in Sicilia, a
Palermo, dove nasce nel 1926. Ma il lavoro è a
Roma, dove si trasferisce all’età di tredici anni,
e a Milano. A diciotto anni si trova nella capitale:
è il 1944 e, con l’arrivo degli americani, inizia a
lavorare, dapprima come guida, quindi come
traduttore e, infine, come capoufficio per l’Organizzazione dei profughi. L’anno successivo, con
la fine della guerra, si iscrive a Filosofia e, in
Università, partecipa a un gruppo teatrale. È
così che il suo primo lavoro, Dolore, viene
messo in scena.
Nel 1948 l’iscrizione al Pci e le prime collaborazioni con la terza pagina dell’Unità. “Studiare,
prima o poi, si rivela sempre utile”: così l’inglese gli apre il mondo della letteratura americana. L’anno successivo è costretto a lasciare
l’occupazione presso l’Organizzazione dei
profughi: l’affissione illegale di alcuni manifesti
promossi dal Pci (“Le mani di Scelba grondano
sangue”) gli costa cinque mesi di carcere a
Regina Coeli.
Nel 1950, grazie a una sostituzione estiva,
diventa praticante all’Unità, dove si occupa di
critica teatrale. La svolta è nel 1953, quando è
chiamato a riorganizzare, da capocronista, la
redazione della cronaca di Roma. “Ero terrorizzato”, racconta. Ma, da allora, la passione è
rimasta, intatta, insieme alla tentazione, mai
sopita, di seguire sempre la propria strada, la
propria curiosità. Così, quando, nel 1957, viene
assegnato alla sezione politica del quotidiano,
decide di lasciare l’Unità per Noi donne, settimanale dell’Unione donne italiane. “Fu un’esperienza bellissima: lavoravo come inviato, scrivevo reportage, conducevo inchieste”. Un periodo
intenso, che, nel 1963, sfocia in un libro, La
condizione femminile.
Nel 1961 torna all’Unità, come critico televisivo
per la redazione milanese e come inviato per il
settimanale Vie nuove. Lasciata la rivista, fino al
1975 si occupa esclusivamente di spettacoli
presso la redazione romana. Continua a collaborare come critico televisivo anche dopo le
Due caffè di fila e poco più di un’ora per
ripercorrere una vita trascorsa all’Unità.
Gualtiero Mantelli, Walter (ma solo per gli
amici), è di quei giornalisti concreti ed
intellettualmente vivaci che fanno un giornale. Non è una “firma”, non è stato un
“grande inviato”, ma la sua carriera si è
sviluppata dietro una scrivania, a coordinare, decidere, mandare avanti la
“macchina”.
Prima la responsabilità di firmare il giornale, dai primi anni 60, poi la condirezione con Aniello Coppola, un’amicizia durata fino agli ultimi anni di vita del giornalista che fu anche direttore di Paese Sera.
E tante avventure umane e professionali,
consumate tra pacchetti di sigarette,
telefoni che squillano e l’ultima ribattuta.
«Mi piaceva fare il giornale, vederlo prendere forma, seguirne le fasi dal menabò
alla prima copia ancora calda, appena
uscita dalla rotativa». Dietro gli occhiali
spessi, lo sguardo è quello soddisfatto di
chi rifarebbe tutto con la stessa passione.
Quella che lo ha portato, ancora ragazzino, a fare il “cronista del porto”, a cercare
le notizie “in quell’aria spessa, carica di
sale, gonfia di odori” della Genova di
Fabrizio De Andrè. «È tra quei moli che ho
imparato a scrivere – dice, come a sottolineare che il giornalismo non è cosa da
manuali – e quando l’Unità di Genova
chiuse e mi chiesero di fare una scelta,
decisi di andare a Milano, di lavorare nel
cuore del giornale, occupandomi delle
pagine della Liguria».
Dalla redazione di piazza Cavour lo sguardo era rivolto all’Italia intera, quella degli
anni delle grandi lotte sindacali, degli
scontri tra studenti e polizia, delle Br. Anni
di polemiche nel Partito comunista di
Berlinguer, da cui gli “ingraisti” Pintor e
Rossanda presero le distanze lasciando
l’Unità per fondare il Manifesto. Gualtiero
Mantelli anche allora era in redazione, a
seguire gli avvenimenti, a costruire pagina per pagina il giornale, a coordinare il
lavoro degli inviati. Come quando chiamò
Tina Merlin, chiedendole di raggiungere il
Vajont, che c’era stata una frana: fu la
prima vera inchiesta sul disastro annunciato. «Io non sono stato sui luoghi dei fatti
– continua Mantelli – ma la partecipazione era la stessa: il contatto costante con
gli inviati, il susseguirsi di notizie, le foto
da impaginare. Una frenesia diversa, ma
era quella che volevo sentire».
Partecipazione, dunque. E responsabilità.
Perché un giornale è fatto anche di uomi-
dimissioni dal quotidiano del Pci, nel 1969. Da
quell’anno inizia anche a dedicarsi a nuove
iniziative: Sé, supplemento ‘ecologico’ della rivista Abitare, che rende vivo insieme a un gruppo di intellettuali milanesi; un nuovo libro, Anatomia del potere televisivo; lo studio e l’attenzione
verso le comunicazioni di massa, con la promozione delle ‘unità di base’, gruppi legati a scuole, fabbriche e quartieri che facevano comunicazione insieme alle prime radio libere.
Lasciato Sé, nel 1974 passa a Sapere, insieme a Giulio Maccacaro, con cui conduce
numerose campagne di denuncia, come quella contro il nucleare e contro il disastro di Seveso e, alla fine degli anni ‘70, comincia l’esperienza di Ikon, rivista trimestrale dell’Istituto
Gemelli. Nuovi contrasti, con l’editore di Sapere e con la direzione dell’Istituto, insieme all’abbandono del Pci nel 1981, portano alla fondazione di una nuova rivista, Se – Scienza esperienza, alle collaborazioni alle trasmissioni di
Rai Educational, Mediamente e Parlato semplice, e all’attenzione sempre crescente per il
mondo dello spettacolo, con la fondazione del
Festival Teleconfronto di Chianciano e del Myst
Fest di Cattolica.
L’ultima sfida è quella dell’insegnamento, con la
cattedra di Sociologia delle comunicazioni di
massa, prima all’Università di Torino e, poi, alla
facoltà di Design del Politecnico di Milano. Un
impegno appena lasciato, quello al Politecnico:
“Sarò ancora presente solo per l’ultima sessione di esami”. I progetti, però, non mancano:
“Vorrei scrivere ancora qualcosa, forse sulla
comunicazione”. O forse… “Forse vorrei tornare
alle origini e scrivere un libro di racconti su quel
primo anno degli americani a Roma”.
ni come Mantelli, che all’Unità ha svolto i
ruoli più diversi, girando dagli interni alle
cronache, alla politica. Ogni giorno alle 11
la prima riunione di redazione «e il pacco
dei giornali sullo zerbino di casa già alle
sette... perché bisognava aver letto tutto
prima d’incontrarsi».
Poi un rapporto privilegiato con i lettori: la
rubrica delle lettere, per un decennio, dal
1980 al 1990. Ma anche l’idea, ripresa da
altre testate, di una rubrica settimanale:
“Leggi e contratti”. «Avevo pensato di
creare uno spazio per parlare e cercare di
risolvere i problemi di lavoro. Un esperimento riuscito, che ha avuto successo
grazie anche alla rete di esperti che avevo
messo in piedi per rispondere ai lettori.
Ricordo in particolare Massimo D’Antona,
che spesso coinvolgevo per le questioni di
diritto del lavoro».
Dopo la pensione, difficile per il vulcanico
Gualtiero Mantelli troncare i rapporti con il
“suo” giornale. Ed anche all’Unità non
vogliono fare a meno della sua esperienza e della sua capacità organizzativa.
Però adesso, da collaboratore, si dedica
alle sue passioni: i libri. Così, per un altro
decennio, fino al 2000, Mantelli resta
ancora al giornale, in quella squadra di
professionisti che è stata, accanto alla
famiglia, la sua vita. «Mi piaceva fare scrivere gli altri, scegliere chi far scrivere. E
poi sono stato felice di contribuire all’inserto sulla lettura, perché ho anche avuto
modo di conoscere da vicino letterati e
critici che stimavo e stimo, in un rapporto
di collaborazione reciproca».
ANDREINA AIRALDI PINOTTI
Quando la famiglia
conta più della professione
Armando Mariotto mostra agli italiani cosa
fare della loro nuova agiatezza. È l’era del
turismo di massa e della corsa al frigorifero:
dalle inchieste sulla pulizia dei mari a quelle
sugli alimenti, gli elettrodomestici e il settore
tessile, sono molti i temi curati da Mariotto
per la rivista dell’editrice Domus.
E l’interesse per la tecnica e l’economia lo
accompagna anche nella successiva esperienza al mensile economico-finanziario
Espansione della Mondadori. Qui inizia da
redattore, ma diventa ben presto caposervizio e poi redattore capo, grazie ai lavori d’inchiesta e alle interviste ai “grandi nomi” del
settore tessile, meccanico, turistico e
alimentare.
ORDINE
3
2005
di Giuseppe Maria Cieri
“Ho sempre amato questo modo di lavorare,
questo modo di vivere, questa professione”.
Andreina Airaldi Pinotti ha ottantatré anni, e
ricorda con calore e nostalgia la sua vita da
giornalista, forse abbandonata troppo
presto.
Nata il 5 novembre del 1921 a Porretta
Terme, in provincia di Bologna, Pinotti sviluppa la passione per questa professione fin
da giovane. Dopo una prima esperienza a
Brescia, la svolta avviene nel 1946, quando
viene assunta come praticante presso la
redazione milanese del quotidiano l’Unità,
allora organo del Partito Comunista Italiano.
Dopo i diciotto mesi di praticantato arriva il
contratto a tempo indeterminato. Vi resterà
fino al 1962, quando si apre per lei la seconda svolta della sua vita: la nascita della figlia,
quando ormai aveva 41 anni. Da qui la scelta di lasciare la vita di redazione, per dedicarsi completamente alla sua piccola.
Ma l’amore per il giornalismo non la ha mai
abbandonata. L’ha coltivato dentro di sé,
continuando a studiare e a informarsi, e
dedicandosi, quando poteva, a scrivere
qualche articolo. E ancora oggi, a ottantatré
anni, ha vivo il ricordo di una vita che avrebbe voluto continuasse, a cui ha dovuto rinunciare per metterne al mondo un’altra.
11
Assemblea
24 marzo 2005
Professionisti
Medaglia
d’oro
Ventuno penne
MARIO LODI
nei piani dell’editore doveva essere «la
rifondazione del giornale». E non c’è dubbio
che lo fu. Il passaggio dalle 10.500 copie
alle 20 mila in pochi anni, lo spostamento
dalla vecchia alla nuova e attuale sede di
via Tamagno, l’ammodernamento della tipografia, tra le prime in Italia a passare dalla
lavorazione a caldo delle linotypes a quella
a freddo. Ma soprattutto gli anni della
concorrenza tra il ‘73 e il ‘76, la sfida lanciata dalla nuova testata varesina Il Giornale
omonima di quella che da lì a poco fonderà
Indro Montanelli. Primo e unico vero tentativo nella storia della stampa varesina di
spodestare la Prealpina dal monopolio
dell’informazione sul territorio. «La sfida era
lanciata e la raccogliemmo facendo squadra».
I suoi occhi si illuminano ricordando quegli
anni. Ossessione e obiettivo delle giornate in
redazione era «dare il “buco ai rivali”». E ogni
volta che ci si riusciva «era festa grande». E
i motivi per stappare bottiglie non mancavano: nel 1976 Il Giornale chiude, la sfida
raccolta è vinta. «Ci sorresse in quegli anni
l’amicizia: ricordo notti in cui quei “bravi
fioeu”, finita una lunga giornata di lavoro, si
fermavano a giocare a carte con i tipografi
tirando le quattro o le cinque del mattino».
Amarcord di un giornalismo passione e vita
che Lodi racconta nel suo ultimo articolo
apparso sulla Prealpina il 24 dicembre 2003.
Esattamente vent’anni dopo essere andato
in pensione. Come editori a Cattaneo erano
succeduti, negli anni, Stefano Ferrario prima
(«la sua filantropia lasciò segni tangibili nella
provincia di Varese») e il nipote Roberto
Ferrario poi (oggi editore e direttore del giornale).
Nel 1983, quando Lodi varcò per l’ultima
volta le porte di via Tamagno la città
mormorò. Lodi non vuole ritornare a quelle
polemiche, solo una precisazione: «Nessuno
mi ha cacciato, fui io ad andarmene».
Lasciato il giornalismo attivo, è il senso civico a occupare oggi le sue giornate. Impossibile elencare ogni attività che ha svolto parallelamente al giornalismo e che continua a
svolgere ancora oggi, a riposo solo per la
stampa. Impossibile elencare ogni riconoscimento, premio od onorificenza che la città gli
ha consegnato in questi anni con un senso
di gratitudine. «Per due volte ebbi l’occasione di poter andare a lavorare per testate
nazionali. Rifiutai. Per tre volte mi proposero
di candidarmi a deputato: rifiutai, dicendo
che servivo più al territorio, alla Prealpina
che a Roma».
Le uniche volte in cui Mario Lodi disse di no
alla gente. Ma non c’è nessun rimpianto nei
ricordi di chi considera, «senza nessun
campanilismo», lo squarcio paesaggistico
prealpino del Monte Rosa che si specchia
sul Lago di Varese «uno degli scenari più
belli al mondo».
ressava più il rapporto cordiale e affettuoso
con le persone che la firma».
Un’allusione basta, ed ecco il profluvio di ricordi e aneddoti: i quattro anni passati con Dino
Buzzati. «Penetrante con lo sguardo prima
ancora che con le domande», lo scolpisce.
«Era lui a tirar fuori l’idea che reggeva ogni
numero del settimanale. Molto signorile, una
sensibilità rara. Un giorno mi affidò il suo bulldog, Napoleone II. Voleva sbarazzarsene. Lo
incontrai tempo dopo. “Sai, - mi disse - io ho
una colpa, quella di non averti chiesto come
sta Napoleone II”. “È morto”, risposi. Si alzò di
scatto e se ne andò via». Si ferma. Riprende.
Racconta qualche altro episodio, meno curioso e più riservato. «Ma anche Vergani mi ha
dato tanto – devia poi il corso della nostalgia.
– Di quella razza non ne esistono più. Mi diceva “Pizzinelli, chieda, chieda sempre. A chiedere si ottiene”. E che dire di Afeltra, un uomo
dal rigore del tutto particolare. Sapeva sgridare ma non umiliare, era prepotente al punto
giusto, in un modo che gli permetteva di ottenere il meglio dagli altri». C’è spazio anche
per le opere didascaliche, esito di una naturale propensione per la storia. «Soprattutto la
storia d’Italia e dell’Ottocento. Con Leonardo
Vergani ho curato il volume antologico per il
centenario della nascita di Eleonora Duse,
edito da Martello. Ho scritto Robespierre per
la collana I grandi della storia di Mondatori. Tra
il 1965 e il 1969, con il collega Bartolomeo
Pieggi, ho preparato i cinque album poi riuniti
nel volume Cara Domenica, documento storico cronistico sui primi cinquant’anni del ventesimo secolo. Per conto del circolo Alessandro
Volta ho curato Ottant’anni del circolo A. Volta
in ottant’anni di vita milanese, 1963, aggiornata e riedita vent’anni più tardi con il titolo Il
centenario».
Oggi Pizzinelli svolge ricerche bibliografiche
su commissione. Appena può, nel fine settimana, va a prendere una boccata d’ossigeno
nella sua casa di Palazzago, provincia di
Bergamo. Ha smesso di andare a cavallo e
basta coi giornali. Corriere sottobraccio, superata la soglia di casa divora l’editoriale, Claudio Magris per la cultura e la Latella per la politica. Ma di collaborare ancora non se ne parla.
«Mi sembrerebbe di strappare qualcosa ai
giovani». Incompatibile con i principi di un
uomo che ha due vanti: «Non aver mai preso
querele ed essermi sempre comportato in
modo corretto e onesto. Non ho mai dato spallate, non ho intralciato la carriera di nessuno,
e mi sono dedicato a una continua e intensa
attività sindacale, in difesa dei diritti altrui. Per
vent’anni consecutivi sono stato eletto
membro del comitato di redazione del Corriere. Nell’ambito delle strutture e degli organismi di categoria, ho fatto parte del collegio dei
Probiviri della Lombardia e della Federazione
nazionale della stampa come consigliere
dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Dal 1975
al 2001 sono stato revisore dei conti della
Casagit e attualmente, per il terzo mandato,
sono presidente del Collegio dei sindaci
dell’associazione lombarda giornalisti».
Giornalismo uguale carta stampata, anche
ora e più di ieri, quando la tv, che si affacciava
intaccando i periodici con il culto dell’immagine, non rappresentava ancora un’insidia riconosciuta. Lui, che i cinquant’anni di tv li ha
seguiti tutti, è ingeneroso. «Soporifera. Dal
punto di vista informativo, immediata ma scarsa». E ha una certezza che rincuora. «Non
potrà mai soppiantare il giornale».
Una vita alla Prealpina
senza mai dire no a nessuno
di Davide Cionfrini
Quando i ricordi di un giornalista sono storia
di un territorio. «Ho sempre amato la mia
città, profondamente e intimamente». Un
sentimento che si accompagna «all’infatuazione per un mestiere» che Mario Lodi ha
svolto per 35 anni nel quotidiano di Varese la
Prealpina. Non si può comprendere il personaggio senza tenere presente questi due
legami ai quali ha dedicato un’intera vita.
Classe 1919, Mario Lodi è stato per 24 anni
(dal 1960 al 1983) direttore del quotidiano
varesino.
Seduto alla scrivania del piccolo studio di
casa, il racconto della sua carriera si lega
alla storia di una città di cui ha descritto le
piccole vicende di cronaca e narrato i grandi
fatti salienti che l’hanno cambiata. Sin dal
1945 quando Lodi, al rientro dalla guerra
combattuta sul fronte croato, abbandona la
strada tracciata dai suoi studi che lo hanno
portato al diploma di geometra. Quella che
lui stesso definisce una «vera e propria
passione per la scrittura» lo spinge a collaborare per il settimanale varesino Il Mattocco di cui diverrà redattore prima e direttore
poi, solo per qualche settimana, però.
Nel 1948 l’attrazione per il prestigio della
Prealpina lo porta al salto di qualità. Diventa collaboratore esterno del quotidiano.
Sono gli anni d’oro dello sport varesino: il
ciclismo, il calcio, la squadra di basket che
cresce creando le basi per i successi degli
Anni ‘60 e ‘70. Questi gli avvenimenti che
Lodi racconta non solo sulle pagine del
giornale varesino. Anche lo Stadio di Bologna, Tutto Sport e la Gazzetta dello Sport si
avvalgono delle sue corrispondenze ai piedi
del Monte Rosa.
L’assunzione arriva nel 1953. Lodi diventa
praticante alla Prealpina e nel 1955 professionista. Proprietaria della testata è la
Società editoriale varesina allora presieduta da Achille Cattaneo che nel 1959 gli
propone di fondare l’edizione del lunedì.
«Mi è sempre dispiaciuto dire di no alla
gente». Così s’imbarca in quell’avventura
che porta a compimento il 16 novembre del
1959 con la prima uscita. Il successo è subito premiato e a fine anno è designato come
direttore responsabile del quotidiano. Il
primo ricordo di quello che è indiscutibilmente il momento più importante della sua
carriera non è per lui. L’arrivismo cede il
posto al sentimento e alla riconoscenza che
Lodi tutt’oggi, a oltre 40 anni di distanza,
ancora prova per Mario Gandini il direttore
di cui prese il posto ufficiosamente all’inizio
del 1960. La memoria va a quando «Cattaneo ebbe un riguardo particolare verso
Gandini, che compiva 70 anni il primo
gennaio. Mi disse “lasciamogli la firma del
giornale anche per questo giorno”». E a
Mario Lodi dà fastidio dire di no alla gente
così «iniziai il lavoro di direttore il 2 gennaio,
firmando il giornale del 3». Un battesimo di
fuoco per Lodi, che iniziò la sua avventura
alla direzione proprio nel giorno in cui morì
Fausto Coppi «mio coetaneo e idolo fin da
quando ero ragazzo». Comincia quella che
LUIGI PIZZINELLI
Il carabiniere mancato che
lavorò con Buzzati e Vergani
di Sara Bracchetti
Ci sono persone che aiutano il caso a trasformarsi in passione. A lui la sorte ha dato il carisma fascinoso di Dino Buzzati, «la persona
che forse mi ha lasciato di più, assieme a Orio
Vergani». Luigi Pizzinelli, 87 anni e 37 vissuti
alla scrivania dell’editoriale Corriere della
Sera, non scansa la verità. Ammette che, da
ragazzo, al giornalismo nemmeno pensava.
«Dovevo diventare ufficiale dei carabinieri»,
rivela anzi, accennando ai «cinque anni in
guerra rubati agli studi universitari». Accadde
poi che «tornai a casa in licenza e incontrai
Vincenzo Gibelli, mio vecchio amico e all’epoca presidente del Comitato di liberazione del
Corriere della Sera. “Carabiniere?” mi disse.
“No, tu vieni qui”. Presi congedo dall’esercito il
1°ottobre 1945. Il 1°febbraio 1946 entrai al
Corriere».
Ieri una fortunosa coincidenza, oggi «una
malattia: esco alle sette per comprarlo». Il
Corriere, presto preferito alle ambizioni di
carriera accademica, capace di contagiare
senza colpo ferire idee e abitudini. Nel bene,
nel male. «Ho visto mio figlio quando ormai
aveva tredici anni», sorride, sottintesi i turni di
notte in redazione che, una volta sposato e
padre, gli intralciarono una vita familiare
normale. Rimpianta, ma non al punto da
premetterla a un lavoro fatto di persone
amiche prima ancora che di nomi illustri.
Lungo il suo percorso professionale, non scarseggiarono. «Dal 1954 al 1959 fui anche
segretario dello scrittore Orio Vergani, modello ineguagliabile di giornalismo e persona di
grandissima umanità. Poi venni chiamato da
Gaetano Afeltra, indimenticabile maestro al
Corriere d’Informazione. E nel 1960 Dino
Buzzati, vicedirettore della Domenica del
Corriere, mi volle accanto a sé come redatto-
12
re di quella prestigiosa testata. La prima televisione degli italiani, la definì Enzo Biagi.
Vendeva un milione di copie ogni settimana, il
suo segno distintivo era una copertina a colori che arrivava dove i fotografi non erano arrivati. Ci sono rimasto fino alla pensione, nel
1983, lavorando sotto la direzione di Zucconi,
Nascimbeni, Bertoldi e Antonio Terzi».
Tanto lavoro di cucina. Una rubrica tutta sua,
“Fatti e parole”, gestita per quattordici anni.
Articoli di vario genere e perfino qualche servizio redatto all’estero. «Sono stato in Russia,
Inghilterra, nel ‘69 andai a Sarajevo - elenca
pescando a caso nella memoria - Quando ero
fuori Milano, però, stavo come sulle spine. La
verità è che io l’inviato non lo volevo fare».
E pensare che l’offerta non mancò. «Me lo
propose Zucconi. È che sono troppo scrupoloso, ogni volta in cui mi trovavo a compilare
la nota spese mi sentivo in debito. A viaggiare
con i soldi degli altri, senza poter decidere
liberamente dove andare e che cosa vedere,
finisce che non si gusta più niente». Ma lui,
che si fa modesto e schermisce con pudore
al momento di annotare i meriti, non si pente
della rinuncia. «Io sono pago del mio lavoro
redazionale», dice. Non invidia il fratello,
Corrado, che l’inviato l’ha fatto sul serio, alla
Nazione e al Resto del Carlino. «Il primo giornalista a entrare da solo in Cina, nel 1956», fa
di lui sfoggio orgoglioso. «A me invece inte-
1955
2005
ORDINE
3
2005
d’oro
GIANCARLO ARMUZZI
Assemblea
24 marzo 2005
Pubblicisti
Medaglia
d’oro
MARIO CONTER
Medico per passione,
Come condensare in trenta righe
giornalista (sportivo) per caso le emozioni di un concerto
di Elisa Costanzo
di Gabriella Persiani
“Tutto è nato da una grande passione, che è
un po’ anche una malattia: l’Inter”. Giancarlo
Armuzzi è nato a Milano nel 1931. Deve la
sua carriera di giornalista sportivo soprattutto
al caso. “Mia madre era molto amica della
figlia del generale Pozzani, allora presidente
dell’Inter. Così, fin da ragazzino, sedevo in
tribuna all’Arena vicino a lui”. Ma viene la
guerra e le cose si complicano. Dal febbraio al
giugno 1944 Armuzzi entra nel collegio dei
rosminiani per evitare di perdere l’anno scolastico. La passione del calcio torna a farsi sentire. Viene a sapere che due squadre disputano il torneo del collegio e giocano in cortile
durante il pranzo. Armuzzi si offre per fare la
cronaca delle partite e dopo pochi giorni è la
star del collegio.
Finita la guerra, nel 1949 si iscrive all’Università: dermatologia. “Già mio padre era dermatologo, era logico che lo facessi anch’io”. Ma è
il 1952 l’anno decisivo: suo padre viene a
sapere da un suo paziente redattore alla
Gazzetta dello Sport che Gianni Brera sta
cercando giovani. Armuzzi si presenta alla
Gazzetta e subito viene messo alla prova:
raccontare una partita a Corsico. Quando arriva, la confusione è tanta e non riesce neanche a vedere il campo. Allora azzarda: torna
indietro, si informa dei risultati e si inventa tutta
la cronaca. Un successo che gli apre le porte
del giornale: Brera si complimenta con lui e gli
chiede di collaborare tutte le domeniche
pomeriggio.
Qualche anno dopo, tramite alcuni amici,
passa a Milan-Inter, settimanale sportivo dedicato interamente alle due squadre milanesi
che quando usciva, di lunedì, superava nelle
vendite anche il Corriere della Sera. Qui scrive cronache più importanti e per circa sei
mesi diventa anche direttore. “Ero appena
laureato in medicina. La domenica stavo al
giornale tutto il giorno, fino alle sette del
lunedì. Poi tornavo a casa, prendevo un
cappuccino e alle otto andavo in clinica”.
Nel 1954 passa al Corriere lombardo, che
condivideva la tipografia con Milan-Inter e
l’Unità. Qui trascorre tutte le domeniche,
passa a seguire le squadre della serie A e
rimane in tipografia fino a notte inoltrata, fra
proto e linotipisti. Il lavoro gli piace, ma gli
impegni universitari alla fine hanno la meglio.
Musica e giornalismo, le passioni a cui
Mario Conter, pubblicista bresciano, ha
dedicato tutta la sua vita. Fino ad oggi,
alla soglia dei 50 anni di iscrizione all’Ordine. Volendo parlare per immagini, a due
oggetti si può ricondurre la sua esistenza:
una bacchetta da direttore d’orchestra e
una penna da critico musicale per il quotidiano della sua città.
Appena diciottenne, diplomato maestro
elementare e pianista al Conservatorio
della sua città, “l’attrazione per la scrittura” lo porta ad esordire nel mondo del
giornalismo: “I tempi erano diversi – ci
racconta la figlia Fulvia Conter, musicista
e giornalista come il padre, il quale per
alcuni problemi di salute ha demandato a
lei l’incarico di “raccontare” il Conter giornalista – c’erano poche manifestazioni
musicali, ma cercavano giovani culturalmente e musicalmente preparati e veloci
che seguissero la stagione lirica bresciana. Così mio padre iniziò la sua carriera
nel mondo dell’informazione”.
Perché “veloci”? “Bisognava consegnare il
pezzo subito dopo aver assistito allo spettacolo, con le emozioni ancora dentro. Via,
di corsa in redazione, entro mezzanotte,
per dare al proto i foglietti scritti a mano,
che venivano stampati al torchio uno per
uno.
Questo il ricordo che ha mio padre dei
suoi primi passi al Giornale di Brescia,
con cui dal 1952 collabora per la pagina
degli spettacoli”. Non solo sul giornale
cittadino della “leonessa d’Italia”, il
Maestro Mario Conter ha pubblicato le
sue critiche e recensioni, ma anche su
vari periodici: dal 1954 come corrispondente de La Scala, rivista dell’Opera di
Milano, oltre che sul quotidiano milanese
L’Italia, nella pagina bresciana, dal 1946
al 1952.
“Ma il suo cruccio, giornalisticamente
parlando – continua Fulvia Conter – è
stato sempre quello di pesare ogni vocabolo, ogni aggettivo nel tentativo di
condensare le emozioni di un concerto in
30 righe, perché sentiva grande la responsabilità di poter esaltare o rovinare la
carriera di un musicista, soprattutto di un
giovane esordiente. Perché ai giovani ha
sempre tenuto”. E a dimostrarlo ci sono i
40 anni spesi nell’insegnamento al conservatorio di Brescia, fino al 1985, anno
della pensione.
I tempi bui della seconda guerra mondiale
e l’internamento in Svizzera non hanno
piegato la forte tempra di Conter, che tra il
1947 e il 1948 ha dato vita, con la moglie
Lydia, ad un duo pianistico con il quale ha
girato il mondo fino al 1985, raccogliendo
successi e il plauso internazionale.
Nel 1970 il Maestro fonda i “Cameristi
lombardi”, che, da direttore d’orchestra,
porta a suonare in importanti sedi italiane
e in tournée in Svizzera, Belgio, Francia,
Spagna, Turchia, Giappone, Hong Kong
fino a New York e Mosca. Presiede a
tutt’oggi la Fondazione Romano Romanini
di Brescia, nata nel 1976 con lo scopo di
organizzare il concorso biennale per violino “Città di Brescia” e che programma
corsi di alto perfezionamento per vari strumenti e stagioni di concerti.
Una carriera artistica da sempre intensa,
dunque, coronata di successi che, però,
non ha mai distolto il Maestro dall’amore
per la carta stampata, ancora vivo dopo
cinquant’anni.
cia una panoramica della musica da film ed è
stato un lavoro pionieristico, il primo nel suo
genere in Italia, per scrivere il quale ho usato
libri stranieri e un archivio che mi sono costruito negli anni. Un altro libro cui sono molto
legato è il Dizionario dei musicisti, che è stato
presentato alla Mostra del Cinema di Venezia
l’anno scorso».
Mezzo secolo passato a scrivere di cinema e
teatro offre a Comuzio uno speciale punto
d’osservazione su come si sia trasformata la
pagina degli spettacoli sui giornali. «È cambiato tutto», dice subito. E poi spiega: «Una volta
le recensioni erano puntuali e uscivano
sempre il giorno dopo una prima visione.
Erano collocate in una posizione importante e
lo spazio era quello che voleva il critico. Oggi
in quasi tutti i giornali le recensioni sono
conglobate in un’unica pagina, gli si dà scarsa
importanza, si stringono, si asciugano. Questo
essere spinti un po’ ai margini è una cosa di
cui si lamentano tanti critici autorevoli».
Ma non è solo il modo di raccontare il cinema
sui giornali che delude Comuzio. È il cinema
contemporaneo a non essere all’altezza dei
capolavori del passato. «Ci sono ancora lavori
seri, ma in mezzo all’invasione degli effetti
speciali. Ormai siamo al cinema di riporto, al
post-moderno. I generi vengono ripresi e rimescolati: l’horror diventa politico, il mystery
diventa avventuroso, il western drammatico, il
musical horror e così via».
Nel cinema moderno, pressato dalle promozioni pubblicitarie e influenzato da logiche
commerciali, il ruolo del critico viene sempre
più ridimensionato. Una volta invece era diverso: «Spesso i lettori decidevano se andare al
cinema in base alla recensione e alla fiducia
nel critico. Anche pensando che se il tale
aveva definito bello un film, era meglio non
andarlo a vedere».
“Era il 1962 e ho deciso di prendere la libera
docenza. Ho dovuto dire addio a malincuore
al giornalismo sportivo perché mi sono trovato presto a lavorare anche la domenica”. Ma
la penna non l’ha messa nel cassetto.
Dagli anni Sessanta fino a poco tempo fa è
passato a rispondere periodicamente alle
lettrici di Oggi, Annabella e Marie Claire che
gli chiedevano consigli sulla salute della
pelle. Oggi continua a esercitare la professione e aspetta di ricevere un riconoscimento per i 50 anni di carriera anche dall’Ordine
dei medici. Ma non si è mai pentito della sua
scelta? “No. Il giornalismo sportivo mi piaceva per la creatività della scrittura e la frenesia della domenica sera. Adoravo lavorare
fisicamente sul giornale e cambiare i titoli.
Ma l’ho sempre vissuto come un gioco. Non
avrebbe potuto diventare una professione. Il
lavoro è una cosa seria”.
Detto fuori dai denti, oggi Armuzzi ringrazia il
giornalismo sportivo anche per un altro motivo: i soldi. “Negli anni cinquanta come assistente straordinario all’Università prendevo
40mila lire al mese. Senza lo stipendio da
giornalista – che superava abbondantemente
quello da ricercatore – non avrei potuto
comprarmi il primo appartamento in via Morosini e forse neanche sposarmi”.
ERMANNO COMUZIO
Mezzo secolo passato
a scrivere di cinema e teatro
di Cristiano Dell’Oste
«Andavo a teatro e lo spettacolo spesso finiva
a mezzanotte… Scrivevo il pezzo la sera stessa e lo passavo alla tipografia». C’è un po’ di
nostalgia nelle parole di Ermanno Comuzio,
81 anni, bergamasco, saggista e critico cinematografico e teatrale. «Ricordo il lavoro al
tavolo dei tipografi… Se l’articolo era lungo io
gli dicevo dove tagliare e loro toglievano i blocchetti di piombo con le pinze. Se era corto
scrivevo le frasi da aggiungere e le dettavo al
linotipista. Adesso collaboro ancora, ma
mando i miei articoli con l’email».
Era un altro mondo, un altro giornalismo. E
forse non tutte le innovazioni tecnologiche
l’hanno cambiato in meglio. «Al giorno d’oggi
si è perso il contatto diretto con la fucina del
giornale. Una volta il lavoro era più avventuroso. Quando ero inviato alla Mostra del Cinema di Venezia, subito dopo la proiezione del
film telefonavo in redazione e dettavo l’articolo, così, sul tamburo. È un periodo che ricordo
ORDINE
3
2005
con affetto e rimpiango i tempi in cui lavoravo
per un giornale di provincia. Ma oggi non so
se lo rifarei».
La carriera di Comuzio è cominciata nel 1953
al Giornale di Bergamo, per il quale ha curato
la rubrica dedicata a cinema e teatro fino al
1983. Poi è passato a Bergamo Oggi e di
nuovo al Giornale di Bergamo. Oggi collabora
con la pagina che Il Giorno dedica alla cronaca bergamasca.
La passione per la musica e il cinema è il filo
conduttore intorno al quale si snoda la sua
attività di giornalista. Una passione antica e
intrecciata alle origini familiari. «In casa avevo
dei musicisti, mio padre e mio zio si sono
sempre occupati di musica e teatro e io ho
cominciato a seguirla fin da ragazzo».
Iscritto nel 1955 all’Albo dei pubblicisti, ha
scritto numerosi saggi e curato voci di enciclopedia e dizionari specializzati. Tra i tanti libri
che ha scritto ne ricorda due su tutti. «Quello
che ha richiesto più lavoro è stato Colonna
sonora – Dizionario ragionato dei musicisti
cinematografici, pubblicato nel 1980, che trac-
13
Assemblea
24 marzo 2005
Pubblicisti
Medaglia
d’oro
PASQUALE SCARDILLO
«Fu Andreotti a suggerirmi
l’almanacco del calcio»
ANTONIO DORSA
L’avvocato con il terrore
della routine redazionale
di Roberta Marilli
di Tiziana Cauli
Ogni domenica da più di trent’anni un uomo
attraversa la soglia del palazzo del Corriere
della Sera in via Solferino. Sale al terzo
piano, alla redazione dello Sport, siede a
una scrivania e sintonizza la sua radiolina
su “Tutto il calcio minuto per minuto”. Dopo
alcuni minuti, alle voci dei telecronisti inviati
negli stadi di serie A, si aggiunge il suono
inconfondibile del ticchettio di una macchina per scrivere. Quell’uomo è Pasquale
Scardillo. Pubblicista per scelta “Per non
perdere l’entusiasmo” - spiega fiero. Nato a
Napoli il 25 gennaio del 1931, Scardillo non
è un collaboratore come gli altri. Chiedete
di lui anche all’ultimo arrivato in via Solferino e vi risponderà: “Pasquale? E chi non lo
conosce?”
Entusiasmo è la parola giusta per definire il
sentimento che lega Scardillo al giornalismo sin dal 1948, quando iniziò come
correttore di bozze e impaginatore al
Corriere del Giorno a Taranto, città nella
quale ha vissuto per molti anni. Grazie alla
sua intraprendenza riuscì a diventare in
poco tempo corrispondente sportivo dalla
perla del Golfo per almeno una quindicina
di testate, tra le quali il Corriere lombardo,
Sportsud (fondato e diretto da Gino Palumbo), Lo stadio di Roma, il Guerin Sportivo e
Milan-Inter.
Nel 1957 avviene l’incontro che cambierà il
corso della sua vita; conosce, infatti, Sergio
Turone, caporedattore del Guerin Sportivo
che è a Taranto al seguito del Giro d’Italia e
che gli consiglia di trasferirsi al Nord per
avere maggiori opportunità: “Dopo cinque
giorni dal mio arrivo a Milano – racconta
Scardillo - mi ritrovai a seguire la partita di
serie B Simmenthal Monza-Milano per il
Corriere lombardo. Vinsero i padroni di casa
per uno a zero; ricordo ancora il titolo del
servizio: La Simmenthal inscatola il delfino
tarantino. Intanto viene assunto alla Rizzoli
come impiegato tecnico e impaginatore
dove rimarrà per 25 anni, fino al 1984. Ma
non ha mai pensato di abbandonare quello
Quando lui iniziò a lavorare in Rai “la televisione esisteva soltanto nella testa di Mike
Bongiorno”: Ci tiene a puntualizzarlo Antonio
Dorsa, avvocato e pubblicista, nato lo stesso
anno del celebre conduttore, il 1924. Sugli
schermi non è mai apparso, e nessuno ha mai
ascoltato la sua voce in radio. “Lavoravo all’ufficio stampa e propaganda”, spiega, ricordando gli anni della sua vita trascorsi a Roma,
dov’era arrivato per fare il giornalista quando
ancora non aveva le idee chiare sul suo futuro.
Si laureò in legge nel 1948, con una tesi sulla
“sovranità popolare” discussa all’Università di
Napoli. E iniziò presto a lavorare al Popolo,
dopo essersi trasferito nella capitale per una
serie di coincidenze, prima fra tutte un’amicizia nella redazione del quotidiano della Dc,
dove lui si occupò per sei anni di cronaca bianca. Che nello specifico, per usare le sue parole, significava “scrivere semplicemente i resoconti di congressi e assemblee”.
Niente di entusiasmante, tanto che fra i colleghi di allora Dorsa ne ricorda tanti che facevano i giornalisti soltanto per poter entrare gratis
in ristoranti e sale da ballo. E anche adesso,
assicura, quella categoria esiste. “Avvicinarsi a
questo mestiere se si ha dentro il desiderio di
affermarsi va bene. Ma se uno vuole fare il
giornalista per entrare in discoteca senza
pagare. Allora è un altro discorso”. Anche
perché, continua, “quando ho iniziato io non
c’era nessuno, adesso i giovani aspiranti sono
una folla”. Sono trascorsi cinquant’anni da
quando Antonio Dorsa si iscrisse all’Ordine dei
giornalisti. A Roma, ma lui è calabrese, di Civita, in provincia di Cosenza, e presto sarebbe
approdato a Milano.”Dopo l’assunzione in Rai,
negli anni Sessanta, iniziai a lavorare all’ufficio
stampa della Montecatini-Edison, poi mi destinarono al servizio fiscale”. Perché il campo in
cui Dorsa è più esperto, e che gli avrebbe
permesso di aprire uno studio legale ancora
attivo nel capoluogo lombardo, è senza dubbio
quello tributario. Conserva gelosamente, nella
libreria del suo ufficio, due volumi pubblicati nei
primi anni Settanta. Commento e interpretazio-
che, confessa, è sempre stato per lui non
un lavoro, ma un diletto. Continua a collaborare così, con vari giornali: Milan-Inter,
La Notte, L’Italia e Football, il mensile finanziato da Angelo Moratti del quale diviene
anche segretario di redazione.
Nel 1968 Scardillo inizia a collaborare con
la redazione sportiva del Corriere della
Sera guidata da Gino Palumbo. E, con il
successivo passaggio di Palumbo alla
Gazzetta dello Sport nel 1976, avvia il suo
sodalizio anche con la “rosea”. Intanto
pubblica, insieme a Pericle Fratelli, Il libro
azzurro del calcio italiano. Un successo,
visto che le 80mila copie della prima edizione vanno esaurite in poco tempo. L’idea di
questo almanacco, fonte autorevole ancora
oggi per cronisti e appassionati, però, non
fu sua: “Avevo cominciato a scrivere una
storia della nazionale azzurra a puntate –
racconta Scardillo – sulla rivista Concretezza, fondata e diretta da Giulio Andreotti. Fu
proprio il sette volte presidente del Consiglio e senatore a vita a suggerirmi di raccogliere tutto il materiale pubblicato in un volume”.
EMILIO MARIANO
ALCIDE PAOLINI
Mezzo secolo tra libri,
riviste ed archivi
Critico di lettere e arte
ma anche romanziere
di Beatrice Nencha
di Luigi dell’Olio
Una vita spesa tra libri, riviste, archivi ed
epistolari. È stata inesauribile, in questi oltre
50 anni di carriera, la passione intellettuale di
Emilio Mariano, critico letterario e giornalista
pubblicista dal 1954. Una vita attraversata da
un filo rosso, l’amore per l’opera di Gabriele
d’Annunzio, che da ossessione si è tramutato
in destino. Quando sposa una nipote del Vate,
incontrata proprio sui gradini del Vittoriale
degli italiani a Gardone Riviera. La magionerifugio dove il poeta pescarese visse dal ‘21 al
‘38 e di cui Mariano è stato sovrintendente dal
1956 oltre che presidente della Fondazione.
Laureato in Lettere e filosofia alla Statale di
Milano, Mariano ha collaborato a riviste prestigiose come Nuova Antologia e ha diretto I
quaderni dannunziani. Nel suo curriculum
figurano numerose pubblicazioni: un volume
su Riccardo Zandonai, direttore d’orchestra
del primo Novecento , la raccolta Italia dei
poeti, oltre ad aver tradotto per il teatro Maria
Stuarda di Schiller e aver curato il carteggio
tra il Vate e Badoglio.
Autore per la neonata tv del programma
“Incontri con la poesia”, Mariano è stato
anche un infaticabile promotore di conferenze
Scrittore, giornalista e autore di soggetti letterari. La carriera di Alcide Paolini si è snodata
attraverso molteplici generi artistici. Nato a
Udine nel 1928, ha iniziato l’attività letteraria
come poeta nel 1952. Tra le sue collaborazioni, Comunità, Belfagor, La fiera letteraria, Il
Giorno e Corriere della sera con inchieste,
articoli di critica letteraria e d’arte, racconti e
note di costume.
A 30 anni ha fondato e diretto a Udine la rivista di cultura e poesia La situazione che per
quattro anni svolse un’opera di mediazione tra
scrittori di diverse tendenze.
Quindi nel 1965 si è trasferito a Milano, dove
risiede tuttora. Ha esordito come romanziere
nel 1967 con Controveglia, cui sono seguiti
Verbale d’amore (1969), Lezione di tiro
(1971), La gatta (1974), Paura di Anna (1976),
La bellezza (1979), L’eterna finzione (1983),
La donna del nemico (1985), Una strana
signora (1993), Il paese del cuore (1994). Ha
pubblicato anche un libro di sociologia letteraria, La mistificazione (Milano 1961), ed alcuni
volumi per bambini e ragazzi tra cui Pablo e il
cane Dik- Dik (1979) e Il paese abbandonato
(1980, Premio Monza).
14
ne di una legge non ancora in vigore che avrebbe presto introdotto nel sistema fiscale italiano
la cosiddetta imposta sul valore aggiunto. “Non
mi sono divertito molto a scriverli”, precisa, “ma
sono stato il primo esperto di Iva in Italia”.
Da allora Antonio Dorsa, iscritto all’albo degli
avvocati, ha sempre esercitato la professione
legale, alternandola, nel tempo libero, a qualche collaborazione giornalistica. “Alla fine degli
anni Settanta diventai consulente fiscale gratuito dell’Associazione stampa. Lo facevo come
favore ai colleghi con problemi fiscali”.
Ma non ha rimpianti, Dorsa, per non aver optato per la professione giornalistica. “Avrei fatto il
giornalista a tempo pieno soltanto ad una
condizione: di non essere compresso dall’ingranaggio redazionale”. Oltre che per leggi
dello stato per il sistema tributario Dorsa
maturò presto un’altra passione, quella per i
romanzi gialli. Che leggeva, e pubblicava. “Scrivevo per la pagina dei gialli del giovedì. Ho
anche pubblicato alcuni volumetti. Poi hanno
iniziato ad arrivarmi delle telefonate della redazione che mi chiedevano di trattare certi
soggetti…Insomma, delle richieste, e allora ho
interrotto”.
tra cui un convegno dedicato al suo professore di germanistica, Vincenzo Errante . Frutto
di un lavoro di approfondimento durato cinque
anniMariano ha in preparazione un corposo
volume su Il fuoco. Il romanzo autobiografico
con cui d’Annunzio ha consegnato ai posteri
la descrizione della sua tempestosa storia
d’amore con una delle donne più fatali del
Novecento, Eleonora Duse.
È stato direttore della collana di narrativa per
ragazzi di Mondatori, casa editrice con cui
ancora collabora. Dal 1994 è editorialista per il
Messaggero veneto: fino al 1999 con la rubrica letteraria “Detto e fatto” e attualmente come
notista politca. Nel 1962 ha ottenuto il premio
Prove-Rapallo con una raccolta di poesie,
mentre nel 1989 ha ricevuto il Premio Friûl
Aquila d’oro come romanziere.
ORDINE
3
2005
Delibera
del Consiglio
nazionale
La nuova Carta dei Doveri
dell’informazione economica
Roma, 8 febbraio 2005. C’ è una nuova Carta dei doveri per
i giornalisti dell’informazione economica e finanziaria. L’ha
approvata il Consiglio nazionale nella riunione odierna. Il
testo integra ed amplifica le norme in materia già contenute
nella Carta del 1993.
A suggerire l’ ampliamento è stata la circostanza che il Parlamento sta per approvare definitivamente la Direttiva Ue sul
market abuse cioè sulla turbativa di mercato prodotta dalla
diffusione,dolosa o colposa, di notizie che tendano ad alterare l’andamento delle quotazioni di borsa o a nascondere
situazioni di dissesto come è accaduto per Cirio e Parmalat.
La normativa (se dovesse passare così com’è prevista oggi)
non solo infliggerebbe severe sanzioni penali ma delegherebbe alla Consob il compito di comminare ai giornalisti
pesantissime multe da 20mila a 5 milioni di euro. Così la
Commissione per la Borsa assumerebbe il compito di
controllore dei giornalisti economici e finanziari sostituendo,
in pratica, l’Ordine.
La normativa comunitaria stabilisce, però, la competenza
deontologica ordinistica in presenza di specifiche e rigorose
norme di autoregolamentazione. Da qui la necessità della
nuova Carta approvata oggi.
Le nuove regole sono fin d’ora vincolanti per tutti i giornalisti.
Si invitano però i comitati di redazione e i direttori ad aprire
un tavolo di confronto sui temi della trasparenza con l’obiettivo di arrivare all’ approvazione di un codice di autoregolamentazione interno che adatti eventualmente la Carta appena approvata alle peculiarità della testata e ne allarghi la
portata ad altri temi come la trasparenza sull’ assetto proprietario nonché dei principali inserzionisti pubblicitari. Obiettivo
principale di tale confronto è quello di ottenere la pubblicazione degli azionisti di controllo nella gerenza del giornale e
in modo adeguato nel settore audiovisivo.
L’ Ordine resta in attesa di eventuali deliberazioni adottate
dalle assemblee di redazione e auspica un ampio dibattito
tra tutti i colleghi sui temi della trasparenza e della correttezza dell’ informazione.
HachetteRusconi:
accordo.
Cigs per 21
giornalisti,
ma c’è impegno
a reinserirli
iniziative pubblicitarie incompatibili con la credibilità
e autonomia professionale. Sono consentite, invece,
a titolo gratuito, analoghe iniziative volte a fini sociali, umanitari, culturali, religiosi, artistici, sindacali o
comunque prive di carattere speculativo.
Ecco la nuova carta dei doveri dell’informazione economica
1
Il giornalista riferisce correttamente, cioè senza alterazioni e omissioni che ne alterino il vero significato,
le informazioni di cui dispone, soprattutto se già
diffuse dalle agenzie di stampa o comunque di
dominio pubblico. L’obbligo sussiste anche quando
la notizia riguardi il suo editore o il referente politico
o economico dell’organo di stampa.
2
Non si può subordinare in alcun caso al profitto
personale o di terzi le informazioni economiche e
finanziarie di cui si sia venuti a conoscenza nell’ambito della propria attività professionale né si può
turbare l’andamento del mercato diffondendo fatti o
circostanze utili ai propri interessi.
3
Il giornalista non può scrivere articoli che contengano valutazioni relative ad azioni o altri strumenti
finanziari sul cui andamento borsistico abbia in
qualunque modo un interesse finanziario, né può
vendere o acquisire titoli di cui si stia occupando
professionalmente nell’ambito suddetto o debba
occuparsene a breve termine.
4
Il giornalista rifiuta pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, vacanze gratuite, regali, facilitazioni o
prebende da privati o enti pubblici che possano
condizionare il suo lavoro e la sua autonomia o
ledere la sua credibilità e dignità professionale.
5
Il giornalista non assume incarichi e responsabilità
in contrasto con l’esercizio autonomo della professione, né può prestare nome, voce e immagine per
Milano, 10 febbraio 2005. Ieri all’alba è
stato siglato l’accordo per risolvere l’emergenza occupazionale in Hachette-Rusconi
determinata dalla decisione dell’azienda di
chiudere quattro testate: Donna, Vitality, Il
nostro budget e Photo. Dopo quasi due mesi
di trattative, l’intesa raggiunta tra il Cdr di
Hachette-Rusconi, affiancato dall’Associazione lombarda dei giornalisti e dalla Fnsi, e
la casa editrice, assistita dalla Fieg, prevede
l’apertura dall’1° marzo della cassa integrazione per 21 giornalisti, rispetto ai 33 previsti
dall’azienda, e un meccanismo articolato di
interventi per garantire il reinserimento dei
colleghi nelle altre testate del gruppo
Hachette-Rusconi.
Le misure definite nell’accordo partono dal
blocco del turn-over, che impone all’azienda
di richiamare i giornalisti in Cigs per qualsiasi esigenza occupazionale, e prevedono, tra
le altre cose: incentivi per i colleghi con i
requisiti per accedere alla pensione di
anzianità o di vecchiaia e loro automatica
sostituzione con giornalisti in Cigs; possibilità di trasformare il rapporto di lavoro da
tempo pieno a parziale, oppure da articolo 1
ad articolo 2, con conseguente riassorbimento dei colleghi in Cigs; sostituzione
temporanea con giornalisti in Cigs per
assenza per maternità o per lo smaltimento
di ferie arretrate; sospensione dell’esclusiva
per i colleghi in Cigs, che potranno così
collaborare con giornali esterni al gruppo
Hachette-Rusconi; un’integrazione economica per i giornalisti che dovessero restare in
Cigs per più di 6 mesi.
L’Associazione lombarda dei giornalisti “esprime forte solidarietà ai 21 colleghi che entreranno in cassa integrazione, ma si dice altresì
convinta che il meccanismo di interventi
concordati con Hachette-Rusconi sarà capace
di garantire, con l’impegno e la determinazione di tutti, dal sindacato ai singoli colleghi, così
come dell’azienda e dei direttori di testata, il
rapido riassorbimento all’interno del gruppo di
tutti i giornalisti collocati in Cigs”.
6
Il giornalista, tanto più se ha responsabilità direttive,
deve assicurare un adeguato standard di trasparenza sulla proprietà editoriale del giornale e sull’identità e gli eventuali interessi di cui siano portatori i
suoi analisti e commentatori esterni in relazione allo
specifico argomento dell’articolo. In particolare va
ricordato al lettore chi è l’editore del giornale quando un articolo tratti problemi economici e finanziari
che direttamente lo riguardino o possano in qualche
modo favorirlo o danneggiarlo.
7
Nel caso di articoli che contengano raccomandazioni d’investimento elaborate dallo stesso giornale
va espressamente indicata l’identità dell’autore
della raccomandazione (sia esso un giornalista
interno o un collaboratore esterno). Occorre inoltre,
nel rispetto delle norme deontologiche già in vigore
sulla affidabilità e sulla pubblicità delle fonti, che per
tutte le proiezioni, le previsioni e gli obiettivi di prezzo di un titolo siano chiaramente indicate le principali metodologie e ipotesi elaborate nel formularle
e utilizzarle.
8
La presentazione degli studi degli analisti deve
avvenire assicurando una piena informazione sull’identità degli autori e deve rispettare nella sostanza
il contenuto delle ricerche. In caso di una significativa difformità occorre farne oggetto di segnalazione
ai lettori.
Emilia
Romagna
applica
a 20
giornalisti
il contratto
Fnsi-Fieg
Bologna, 4 febbraio 2005. Da
questo mese oltre venti giornalisti, che svolgono la loro attività
nelle strutture di informazione
della Regione Emilia-Romagna,
sono transitati dal contratto di
lavoro per il personale delle
Regioni e delle Autonomie locali
a quello giornalistico, sottoscritto
dalla Fnsi e dalla Fieg. Il sindacato dei giornalisti dell’Emilia-Romagna ha espresso soddisfazione per la decisione della Regione, assunta anche nel quadro
della legge 150 del 2000, e nel
contempo si augura che analogo
provvedimento venga presto
assunto da altre regioni, a partire
dalla Toscana, dove un provvedimento analogo a quello dell’Emilia Romagna è stato bloccato
mentre sembrava in dirittura d’arrivo.
(AGI)
CASSAZIONE PENALE (SEZ. V, 9 NOVEMBRE 2004, N. 48095)
Diffamazione, la fretta non giustifica
la pubblicazione di una notizia non vera
“ll diritto di cronaca tutelato dal vigente ordinamento esige la rigorosa osservanza di
precisi limiti che hanno fondamento nell’ordinamento stesso e nell’etica deontologica professionale. Il giornalista non può disinvoltamente e indiscriminatamente
trasmettere la notizia a lui pervenuta senza verificare - attraverso l’esame e il controllo delle fonti di informazione - la loro rispondenza al vero; né ripararsi dietro l’esigenza di una rapida divulgazione della notizia, perché se non è in grado - a ragione della
ristrettezza dei tempi - di compiere ogni accertamento atto a fugare ogni dubbio o
incertezza in ordine alla verità sostanziale del fatto deve semplicemente astenersi dal
divulgare la notizia, e non può trasmetterla al pubblico con il rischio di una sua eventuale non rispondenza al vero”.
Milano, 22 gennaio 2005. La fretta non
giustifica la pubblicazione di una notizia non
vera e, quindi, diffamatoria. Questo principio
è stato fissato dalla V sezione penale della
Cassazione. Nella sentenza si legge:
“Con l’impugnata sentenza è stata confermata la dichiarazione di colpevolezza di
(omissis) in ordine al reato di cui agli artt. 57595 Cp, contestatogli “per non aver impedito,
nella qualità di direttore responsabile del
quotidiano (omissis), che con la pubblicazione, in data (omissis) di un articolo dal titolo
(omissis), venisse offesa la reputazione di
(omissis) indicato, contrariamente al vero,
come persona denunciata in passato per
ricettazione”. Ricorre per Cassazione il difenORDINE
3
2005
sore dell’imputato proponendo un unico
mezzo di annullamento col quale denuncia
violazione di legge in relazione all’art. 51 Cp.
Dalla sua illustrazione si evince che, col
mezzo, si addebita alla Corte di merito di non
avere considerato che non può configurarsi
un omesso controllo su fatti e circostanze
(nella specie, il riferimento alla denuncia di
ricettazione) assolutamente secondari alla
notizia principale (quella, vera, dell’incendio
doloso). E si aggiunge che il concetto di
verità oggettiva deve tener conto della peculiare natura dell’attività giornalistica ed in
particolare della necessaria rapidità nell’acquisizione, verifica e divulgazione della notizia. I riassunti profili di censura devono esse-
re respinti. Il primo è inammissibile. Propone
infatti una questione non prospettata nelle
fasi di merito. Che è peraltro manifestamente
infondata. La giurisprudenza di questa Corte
ha avuto modo di affermare che i dati superflui, non unificanti, ovvero secondari, cioè
incapaci da soli di immutare, alterare, modificare la verità oggettiva della notizia, non
possono essere presi in considerazione, per
ritenere valicati i limiti dell’esercizio del diritto
di informazione ed escludere l’operatività
della causa di giustificazione di cui all’art. 51
c.p., anche in termini di putatività ex art. 59,
u.c., c.p. Ma il richiamo a siffatto principio si
palesa del tutto incongruo e non pertinente
con riferimento al caso di specie, in ordine al
quale l’elemento asseritamente secondario
non riguarda l’essenza e la sostanza della
notizia ritenuta principale, ma se ne distacca
completamente risolvendosi nell’aggiunta di
un distinto dato del tutto autonomo ed anzi
eccentrico, ed inoltre dotato (come non
contestato) di sicura valenza offensiva, ove
si tenga conto che la tutela della reputazione
non può venir meno neppure nei confronti di
coloro che abbiano eventualmente già subito
un certo discredito. Quanto all’altro aspetto,
occorre ricordare che il diritto di cronaca
tutelato dal vigente ordinamento esige la
rigorosa osservanza di precisi limiti che
hanno fondamento nell’ordinamento stesso
e nell’etica deontologica professionale.
Il giornalista non può disinvoltamente e indiscriminatamente trasmettere la notizia a lui
pervenuta senza verificare - attraverso l’esame e il controllo delle fonti di informazione la loro rispondenza al vero; né ripararsi dietro
l’esigenza di una rapida divulgazione della
notizia, perché se non è in grado - a ragione
della ristrettezza dei tempi - di compiere ogni
accertamento atto a fugare ogni dubbio o
incertezza in ordine alla verità sostanziale
del fatto deve semplicemente astenersi dal
divulgare la notizia, e non può trasmetterla
al pubblico con il rischio di una sua eventuale non rispondenza al vero.
Di cui la infondatezza della centra in esame.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 14 dicembre
2004”.
15
XXIV EDIZIONE DEL PREMIO NAZIONALE
“MAX DAVID” PATROCINATO DALLA PROVINCIA DI MILANO
Ecco i “numeri”
del Pulitzer
italiano
Il premio Max David nasce in Versilia nel 1980, per iniziativa del poeta e pittore Vittorio Grotti,
sotto l’egida della Fondazione Lorenzo Viani, in collaborazione con la Rai e con il contributo di
Linda David Locatelli, vedova di Max David, il grande inviato (oltre 40 anni di servizio, dei quali
25 al Corriere della Sera) originario di Cervia, nato nel 1908 e morto nel 1980. Riservato agli
inviati speciali, è particolarmente ambito e prestigioso, tanto da essere citato come il Pulitzer
italiano.
Il primo riconoscimento è assegnato, da una giuria di cento giornalisti, a Lucio Lami. Nel
1982, scomparso Grotti, Linda David chiede a Lami di garantire la vita del premio, che quello
stesso anno si decide di trasferire a Cervia. Nel 1984, secondo, e definitivo, trasferimento nel
capoluogo lombardo, dove il premio viene tuttora celebrato, con il patrocinio e il contributo
della Provincia di Milano. È emanazione dell’Associazione Max David per il giornalismo,
presieduta da Lucio Lami, mentre il vicepresidente è Max Victor David, figlio del giornalista.
Nelle passate edizioni, i vincitori sono stati: Lucio Lami, Ettore Mo, Piero Accolti, Bernardo
Valli, Franco Ferrari, Piero Benetazzo, Frane Barbieri, Vittorio Zucconi, Mimmo Candito,
Egisto Corradi (alla memoria), Lucia Annunziata, Vittorio Dell’Uva, Paolo Rumiz, Antonio
Ferrari, Valerio Pellizzari, A. Pasolini Zanelli, Carmen Lasorella, Renzo Cianfanelli, Renata
Pisu, Giovanni Porzio, Toni Capuozzo, Guido Rampoldi.
Da sinistra: Alberto Mattioli (vicepresidente della Provincia di Milano), Ugo Tramballi
(vincitore del premio Max David 2004 e inviato de Il Sole 24 ore), Ettore Mo (componente
della giuria e decano degli inviati speciali), Ferruccio De Bortoli (direttore de Il Sole 24 ore).
Da 22 anni
nei punti “caldi”
del mondo
Consegna del premio Max David: (da sinistra) Ettore Mo (seduto), Max Victor David (figlio
di Max David), Ugo Tramballi (vincitore), Alberto Mattioli (vicepresidente della Provincia
di Milano), Lucio Lami (presidente del Comitato del premio), Sergio Zavoli (seduto)
presidente della giuria.
Ugo Tramballi nasce a Milano il 19 febbraio 1954.
Nel 1976 entra a il Giornale di Indro Montanelli come cronista nelle pagine milanesi; nel 1983
diventa inviato, soprattutto per il Medio Oriente, l’India, il Pakistan, l’Afghanistan e il Sudafrica; dal 1987 al ‘91 è corrispondente a Mosca.
Nel 1991 passa a Il Sole 24 Ore. In qualità di inviato e commentatore di questioni internazionali, segue il processo di pace israelo-palestinese e l’Intifada; la Russia nell’era Eltsin; la fine
dell’apartheid e la transizione democratica in Sudafrica; la crisi balcanica; le riforme economiche indiane; la crescita della Cina e il passaggio di poteri a Hong Kong; la crisi asiatica e l’impatto della globalizzazione sulle politiche mondiali; la politica estera delle amministrazioni
Clinton e Bush; le crisi del Golfo e il confronto fra Occidente e Mondo Arabo.
È membro dell’Istituto Affari internazionali di Roma e del Centro per la pace in Medio Oriente
a Milano.
Ha scritto i libri: Dentro l’India, Pagus, 1988; Quando finirà l’inverno: la Russia di Eltsin, Il Sole
24 Ore Libri, 1999; L’ulivo e le pietre, sul conflitto israelo-palestinese, Marco Tropea, 2002.
A Ugo Tramballi l’Oscar degli inviati
di Patrizia Pedrazzini
“A Ugo Tramballi per il suo impegno di inviato speciale, costante e attento, grazie al
quale ha fornito ai lettori del suo giornale
resoconti puntuali ed ineccepibili sul confronto tra Occidente e mondo arabo, sulle vicende del Golfo e sull’impatto della globalizzazione sulla politica internazionale”. Questa la
motivazione con la quale il giornalista de Il
Sole 24 Ore Ugo Tramballi ha ricevuto, la
sera del 28 gennaio a Milano, il “Max David”,
il prestigioso premio nazionale per l’inviato
speciale, giunto quest’anno alla sua XXIV
edizione.
Considerato il “Pulitzer” italiano, dichiaratamente apolitico, assegnato da una giuria
composta in prevalenza da inviati, molti dei
quali ex vincitori, il premio, patrocinato dalla
Provincia di Milano, è stato consegnato nel
corso dell’annuale cerimonia all’Excelsior
Hotel Gallia, alla presenza di autorità civili e
militari, di rappresentanti diplomatici, di esponenti della letteratura italiana, dell’arte e delle
tradizioni milanesi. Oltre che, naturalmente,
del giornalismo, anche se, quest’anno, sono
È di casa, il giornalismo, nella famiglia
Tramballi. Prima il nonno Ugo, poi il padre
Gualtiero (La Notte, Epoca, il Giornale di
Bergamo, del quale fu direttore) e lo zio
Giulio (Italia, quindi Avvenire). Adesso
ancora Ugo. E siamo alla terza generazione. Solo che il vincitore della XXIV edizione del premio Max David ha anche sposato una giornalista (Raffaela Carretta, vicedirettore di io donna) e ha due figli maschi,
di 16 e 10 anni. Che anche loro finiscano
per subire il fascino del mestiere?
Mah! È presto per dirlo. Certo, hanno interessi classici che rischiano di portarli su
questa strada. Ma, sinceramente, non ho
fatto e non farò nulla per incentivarli. Credo
che a un certo punto sia giusto cambiare.
Con loro saremmo alla quarta generazione:
un po’ eccessivo. E poi, in verità, si ha paura
che i figli non riescano bene come siamo
riusciti noi, mentre per loro si desidera il
massimo. Mio padre non mi ha mai incentivato proprio per questo.
Come sei arrivato al giornalismo?
Non per passione, direi piuttosto per caso.
16
stati numerosi gli inviati che non hanno potuto partecipare, trattenuti a Baghdad dalle
recenti elezioni.
Aprendo la serata, il presidente dell’Associazione Max David (e primo insignito, nel 1980’81, del premio) Lucio Lami, affiancato dal
vice-presidente Max Victor David, figlio del
grande giornalista, non ha mancato di sottolineare il tributo di sangue che questo
mestiere continua a pagare. “Il 2004 – ha
detto – è stato l’anno record dei non ritorni.
129 inviati sono rimasti sul campo o sono
stati assassinati in servizio: quattro in Africa,
dieci in Europa e negli ex Paesi sovietici, 26
in America Latina, 35 in Asia e nel Pacifico,
54 in Medio Oriente, compreso il nostro Enzo
Baldoni”. Di qui il particolare valore di questo
premio: “Riconoscere il merito di chi, per
testimoniare la realtà, ha accettato una
professione che, nel migliore dei casi, è difficile, delicata e pregna di responsabilità e, nel
peggiore, è di grande fatica e molto rischiosa”.
Un mestiere duro e pericoloso, quello dell’inviato, ma non solo: un mestiere che sta
anche vivendo tempi difficili. Lo ha rimarcato
il presidente onorario della giuria Sergio
Zavoli che, dopo aver riconosciuto il contributo dato a questa categoria professionale,
negli ultimi dieci anni, dalle donne, ha
evidenziato come vada scomparendo, oggi,
la figura classica dell’inviato, e come questo
rappresenti un “segno di precarietà di una
grande professione, sul cui futuro non si può
dire niente di certo”. Anche se, ha poi
aggiunto, proprio “la velocità dell’informazione quotidiana, e la scarsissima traccia che
lascia, fa sì che la figura dell’inviato speciale
diventi ancora più importante”.
Inviati speciali. “Professionisti che cercano
risposte laddove è difficile o addirittura pericoloso fare domande”: così li ha definiti, nel
suo intervento, il vicepresidente della Provincia di Milano, Alberto Mattioli, il quale ha
voluto anche ringraziare, nell’occasione, il
presidente dell’Ordine dei giornalisti della
Lombardia Franco Abruzzo e il direttore della
Scuola di giornalismo Gigi Speroni, entrambi
presenti alla cerimonia. “Un sentito grazie –
ha detto – a Franco Abruzzo, che governa
con instancabile generosità e saggezza l’Ordine e che, con altrettanta disponibilità, si
dedica a trasferire entusiasmo e disciplina ai
molti giovani attratti da un mestiere tanto
“Senza libertà di stampa,
questo mestiere muore”
Pensavo, allora, alla carriera diplomatica,
ma volevo rendermi autonomo presto, e la
strada non era delle più brevi. Mi sarebbe
anche piaciuto pilotare gli aerei, ma all’Accademia di Aeronautica militare era tutta
ingegneria, e io in matematica non sono mai
stato un asso. Così, visto che mio padre era
giornalista, l’ho fatto anch’io. Ma solo dopo i
primi tre-quattro anni ho capito di avere i
numeri per riuscire. È stato allora che mi
sono innamorato del mestiere. Prima mi
piaceva e basta. Mi piaceva il tipo di vita che
facevo, le uscite sui fatti di nera con l’autista, gli orari impossibili. Ricordo ancora il
primo morto, un suicida alla Stazione
Centrale: non sapevo che, poi, ne avrei visti
tanti. Ho amato il giornalismo e, soprattutto,
ho fatto mia la lezione di mio padre, che mi
ha insegnato ad avere rispetto per questo
mestiere, e a pretendere che gli altri l’abbiano per noi che lo facciamo.
Un reportage che ricordi in modo particolare.
Tantissimi. Il periodo nel quale sono stato
corrispondente a Mosca negli anni della
Perestrojka: è stato straordinario vedere lo
svegliarsi di un popolo da sempre paralizzato. E l’avventura di Nelson Mandela. E il
contatto continuo e quotidiano con israeliani
e palestinesi, dai rappresentanti politici alla
gente comune.
Quello dell’inviato è un mestiere ad alto
rischio. Sarà capitato anche a te di
vedertela brutta.
affascinante quanto difficile e delicato”. “E a
Gigi Speroni che, con grande serietà e rigore, dirige una Scuola di giornalismo che la
sua fatica consente di confermare tra le più
autorevoli e rinomate, non solo di Milano o
della Lombardia, ma dell’intero Paese”.
Fra i numerosi partecipanti alla cerimonia di
premiazione, anche il professor Ermanno
Arslan, sovrintendente del Castello Sforzesco; il presidente de il Giornale Gian Galeazzo Biazzi Vergani; Francesco Saverio Borrelli, già procuratore generale della Repubblica
di Milano; il pittore Mario Donizetti; il sovrintendente alla Scala Carlo Fontana; il comandante della Regione Carabinieri Lombardia,
generale Antonio Girone; il comandante del
Presidio militare, generale Roberto Jacomino; il console di Francia Renaud Levy; il
console della Federazione russa Alexander
Nurizade; il direttore de Il Sole 24 Ore
Ferruccio de Bortoli; l’editorialista de il Giornale Mario Cervi; l’editorialista del Corriere
della Sera, ed ex direttore, Piero Ostellino.
Oltre a due studenti del master in giornalismo che Lucio Lami tiene all’Università
Cattolica del Sacro Cuore, “premiati” dal loro
docente con due inviti alla serata.
Tante volte, ma preferisco non parlarne. La
paura mi accompagna sempre, ritengo che
sia sano avere paura, solo gli stupidi non ce
l’hanno. Prudenza? No, quella no. Si va
avanti, ci si muove con paura e, direi, con
una fatalistica imprudenza. Non si può fare
diversamente.
Hai posto l’accento, ritirando il premio,
sul problema della libertà di stampa, e
hai detto che, senza libertà di stampa, il
mestiere dell’inviato muore.
Certo. Il “politicamente corretto” è una
contraddizione in termini con questo lavoro.
Non puoi fare l’inviato, scrivere, raccontare
da inviato, tenendo conto di questo o di quel
limite imposto da questa o da quella linea
politica. All’estero? No. Nei Paesi anglosassoni, in Francia, in Germania, c’è molta più
autonomia. Un esempio. In occasione delle
elezioni americane la Fox, che è la televisione più vicina a Bush, due giorni prima del
voto uscì con la notizia che un sondaggio
dava vincitore Kerry. Non so se in Italia, in
una situazione analoga, sarebbe accaduta
la stessa cosa.
ORDINE
3
2005
I N T E R V E N T O
Proposta: l’Ordine dei giornalisti costituisca un gruppo di lavoro
per segnalare i casi più macroscopici di abuso linguistico
“
Usate a proposito e a sproposito, le parole stanno
perdendo gran parte del loro significato. I termini
enfatici, come esclusivo, speciale, eccezionale,
strepitoso, storico e così via esclamando, a furia
di essere abusati perdono la loro forza e, se si
vuole effettivamente enfatizzare, bisogna fare
come quella marca di yogurt che offre puro
pleasure, perché il piacere e il gusto non sono più
sufficienti ad esprimere il concetto che si intende
vendere”
“
Perché questo intervento non rimanga uno
sterile pianto, mi permetto di proporre all’Ordine
l’istituzione di un ristretto gruppo di lavoro che
segnali direttamente ai direttori e ai colleghi
interessati i più macroscopici casi di abuso
linguistico, suggerisca le correzioni e, magari
su questo stesso giornale, con una rubrichina
di pochissime righe, faccia delle proposte
concrete, alternative all’inarrestabile pressione
di neoanglicismi”
L’italiano invaso da 9mila anglicismi
di Michele di Pisa
el 2000 in tutto il mondo si parlavano
circa 6.700 lingue. Oggi dovrebbero
essere un centinaio meno, se è vero,
come sostiene l’Unesco, che ne muore una
ogni due settimane. Il 60% delle lingue sono
parlate da meno del 4% della popolazione
mondiale e sono a rischio di estinzione. L’italiano, per nostra fortuna, non fa parte di
questo gruppo, ma a volte si ha la sensazione che stiamo facendo di tutto per fare perdere alla nostra lingua quella massa critica che
le impedisce di collassare nel giro di pochi
decenni.
La maggior parte delle lingue muore insieme
alle comunità che le parlano. Nel caso dell’italiano, invece, il rischio è la permeazione,
l’annacquamento, come un buon vino che
diventa acqua e in essa si annulla a furia di
allungarlo.
Nuovi anglicismi, ogni anno, entrano nella
nostra lingua; alcune per arricchirla a fronte
di prodotti prima inesistenti, altri semplicemente per sostituire termini comuni non più
alla moda.
In totale le voci del Dizionario delle parole
straniere di Tullio De Mauro sono 10.650,
inglesi nell’82,5% dei casi. “Poca cosa”, assicura il professor De Mauro, per il quale 8.800
parole inglesi non rappresentano un rischio.
Non la pensava così, invece, Arrigo Castellani, scomparso lo scorso giugno, il quale già
in un saggio del 1987 manifestava una seria
preoccupazione per lo stato di salute della
nostra lingua.
Affermare che quasi 9.000 anglicismi non
costituiscano un pericolo ha senso e non ha
senso. Dal punto di vista statistico, indubbiamente, su un corpus di 800.000 tra lemmi ed
accezioni, quanti ne registra il dizionario della
Treccani, rappresentano una percentuale
sopportabile. Ma, se li riferiamo ad un universo più ristretto possono destare delle preoccupazioni. L’italiano medio, ad esempio, non
usa più di 2.000 parole, per cui quello che
bisognerebbe vedere è quanti di tali anglicismi sono o stiano per entrare nel linguaggio
quotidiano.
N
lcuni anni fa, con alcuni collaboratori
d’una mia rivista d’informatica, ho lavorato a costruire un dizionario di correzione ortografica per gli utenti del sistema
operativo libero Linux. Per frullare le parole
necessarie abbiamo messo in un computer
tutti gli articoli pubblicati in anno dal Corriere
della Sera e da tre grandi settimanali disponibili in rete, oltre ad un migliaio di libri variamente assortiti. Ne è venuto fuori, fra l’altro,
che il vocabolario usato dalle quattro testate
prese in considerazione era di circa 6.000
parole, di cui 1.400 verbi. Purtroppo allora
non ho pensato di conteggiare gli anglicismi.
Ma è in rapporto a queste 6.000 parole che
gli 8.800 termini inglesi potrebbero essere
preoccupanti.
A
Non potendo ripetere l’operazione fatta alcuni anni fa (che ha impegnato per un bel po’ di
mesi un paio di persone), ultimamente ho
provato a contare le parole inglesi presenti
nei titoli del Corriere e nelle pubblicità tv di
prima serata. Nulla di scientifico. Ma i risultati
possono rappresentare un’indicazione.
Su una media quotidiana di 150 titoli, 11
contenevano almeno un termine inglese. Il
rapporto però saliva a 4 su 18 nelle pagine
degli spettacoli. Con gli applausi, ad esempio, che diventano regolarmente “ovation” e
debbono essere necessariamente “standing”,
anche se gli spettatori sono quattro gatti e
rimangono comodamente stravaccati nelle
loro poltrone. (Chissà se i colleghi che non
sanno resistere all’impellenza di aggregarsi a
queste mode ricordano che “ovation” viene
dagli ovini che gli antichi romani sacrificavano in onore del trionfatore.)
Neanche nei titoli di Ordine-Tabloid mancano
gli anglicismi.
n Tv, con riferimento alle sole emittenti
nazionali, e con l’esclusione di Videomusic
e Rete A, l’8% dei titoli delle trasmissioni
sono in inglese o contengono termini inglesi;
il 30% dei film in programmazione nelle sale
durante gli ultimi tre mesi del 2004 sono o
contengono termini americani, mentre 6 titoli
su 10 delle canzonette mandate in onda dalle
tv per giovani sono totalmente in inglese.
Non parliamo della pubblicità, in particolare
quella tv. Su 40 messaggi di prima serata, ne
ho contato almeno 3 totalmente in inglese, 10
con sottofondo di canzoni inglesi e 15 con
almeno una parola in questa lingua, in particolare nella frase conclusiva, il cosiddetto
payoff. Mi ha colpito in particolare la pubblicità di uno yogurt che prometteva del puro
“pleasure”, come se il consumatore l’equivalente italiano “gusto” o “piacere” non l’avrebbe capito.
Ma torniamo ai giornali.
Dei tre lanci importanti effettuati ultimamente
dalla Mondadori, tanto per non fare nomi,
due, Vanity Fair e Flair, hanno una testata
inglese. Non dovrei essere io a strapparmi le
vesti. La prima testata che ho lanciato, nel ‘75
si chiamava (e si chiama ancora) Data Manager. Poi ne ho lanciato altre due con termini
inglesi. Ma già tra il 1982 e l’83 avvertivo l’esigenza di un Dizionario dell’informatica inglese-italiano che ho avuto il piacere di firmare
assieme ad altri due pionieri di questa materia. Molti termini oggi correnti li coniammo o li
ufficializzammo in quell’occasione: così
“cartella” per “file”, “chiocciola” per il simbolo
@. Numerose altre nostre proposte sono
cadute nel vuoto o sono state superate da
proposte migliori. Ma quelli erano anche anni
particolari. I giornali si riferivano al computer
col termine “cervellone” e una delle più prestigiose firme del giornalismo italiano bacchettava la mania di chiamare “hardware” il pentolame e “software” la biancheria (sic!). Certamente avremmo dovuto fare come i francesi
che hanno inventato il “materiel” e il “logiciel”,
I
ma non abbiamo avuto abbastanza coraggio.
In Francia, però, questo compito se l’era
assunto il governo, mentre da noi, in particolare in questi ultimi anni, imperversano le
authority, i ticket, il welfare, la devolution…
Sembriamo tutti orfani dell’inglese. O ci
vergogniamo delle nostre radici.
Se, in un paese che non innova, il linguaggio
tecnico e specialistico arriva di peso dagli
Usa, non dovrebbe essere così quando si
tratta di moda o di pettegolezzi femminili.
Indubbiamente gli uomini del marketing
avranno avuto le loro brave ragioni, ma testate come Vanity Fair (chiedo scusa ai colleghi
che ci lavorano: desidero solo fare un esempio) per il lettore sono un danno doppio. Da
un lato, perché inquinano la lingua italiana;
dall’altro perché imbarbariscono le conoscenze d’inglese degli italiani. Nella pubblicità televisiva fatta a questa testata, la pronuncia era
un ibrido (Vànity Féar) che non potrà mai
consentire all’italiano medio di capire un
americano che si riferisce all’equivalente Usa
pronunciando “Væn’ri Fèa:”. Nell’ascoltatore,
infatti, si crea un vissuto di suoni estremamente diseducativo ai fini della comprensione dell’inglese parlato. Molti italiani conoscono bene l’inglese scritto, ma non riescono a
sostenere una conversazione proprio perché
c’è uno iato tra il parlato che si aspettano di
sentire e quello dell’interlocutore.
Prendiamo un altro termine che incontriamo
quasi quotidianamente: report (ma lo stesso
vale per express, control, e così via). In Rai
c’è anche un’ottima trasmissione giornalistica
che si chiama Report. Bene. Quando ci si
limita a scriverlo, nessun problema. Sta al
lettore sapere come si legge e, se non lo sa,
peggio per lui. Il problema sorge per i colleghi
delle radio o della tv. Per i quali la pronuncia
corrente è “réport”, senza che a nessuno
venga il sospetto che magari un inglese o un
americano possa leggere “r’pòrt”. E così
(i)xprèss, kantròl, ecc. E ancora Sciumàkhær
(che però è tedesco, ma fa lo stesso), invece
dello Sciùmacher che imperversa tra i cronisti sportivi.
Quello delle sdrucciole, in effetti è una vera
iattura. In quanto ad accenti sembra che l’italiano si stia lentamente magiarizzando. Le
parole piane e quelle tronche non sono più di
moda. Tutto va sdrucciolato sulla terzultima.
urante la guerra del Kossovo, era difficile ascoltare qualcuno che pronunciasse Kossòvo. Tutti Kòssovo, perché
suona meglio. Eppure la pronuncia sdrucciola corrisponde a quella serba e implicitamente, in bocca ad un politico o un diplomatico,
vale a riconoscere il diritto dei serbi su quella
regione, così come l’accento piano di Kossòvo, essendo quello albanese, equivale a
sostenere le rivendicazioni autonomistiche di
questo popolo. Quand’ero ragazzo parlavo
anche albanese, perciò preferisco Kossòvo.
Come se non bastasse, c’è l’usura, la banalizzazione della lingua. Usate a proposito e a
sproposito, le parole stanno perdendo gran
D
parte del loro significato. I termini enfatici,
come esclusivo, speciale, eccezionale, strepitoso, storico e così via esclamando, a furia
di essere abusati perdono la loro forza e, se
si vuole effettivamente enfatizzare, bisogna
fare come quella marca di yogurt che offre
puro “pleasure”, perché il piacere e il gusto
non sono più sufficienti ad esprimere il
concetto che si intende vendere. Per evitare
di pensare che ciò valga solo per i pubblicitari, prendiamo un esempio tipico del linguaggio giornalistico.
Negli anni ‘60, due fatti avevano colpito fortemente l’opinione pubblica: la conquista della
cima (o vertice) del K2 e l’incontro di due
vertici della politica mondiale, i 2 K, ossia
Kennedy e Krusciov. Il loro fu il primo vertice
di cui ricordo avere letto sui giornali. Poi i
vertici si sono via via abbassati, e oggi sulle
pagine di cronaca quotidianamente si registrano vertici tra sindaco e prefetto, tra maresciallo dei carabinieri e comandante dei vigili
urbani, tra capo degli accalappiacani e
funzionario del canile municipale. Anche
questo è un modo per fare morire una lingua.
Non si tratta di evoluzione linguistica, perché
la gente non partecipa a questo processo: lo
subisce soltanto.
Infine la grammatica. In edicola oggi tutto è in
vendita a “soli” due, tre, quattro o cinque euro
(prima erano a “sole” quattro mila lire, ecc.).
ossibile che non ci si ricordi che gli
avverbi non vanno declinati? Sì, forse
l’italiano non morirà. Ma se indeboliamo
fortemente la lingua che è la nostra materia
prima, come potremo difendere i livelli di
occupazione, quando in un’Italia totalmente
anglofona la percentuale delle copie di giornali e riviste fatte e stampate in Inghilterra o
negli Usa supererà quella di produzione
italiana?
È già quanto sta succedendo con la stampa
medica, un tempo fiorente, e con quella
scientifica in genere. Nessun ricercatore
italiano che si rispetti e scopra un’acqua un
po’ meno tiepida di quelle che conosciamo si
sogna di darne l’annuncio sulle riviste italiane. Tutte le nuove scoperte debbono prima
essere proposte (in inglese) alle varie Nature, Science, JAMA, BMJ, e così via. Alle
testate italiane resta solo l’onore di pubblicare i risultati delle ben più modeste ri-sperimentazioni cliniche ponsorizzate o caldeggiate dalle case farmaceutiche.
Chi vuole un aggiornamento di prima mano
deve abbonarsi alle pubblicazioni inglesi.
Vent’anni fa non era così.
Perché questo intervento non rimanga uno
sterile pianto, mi permetto di proporre all’Ordine l’istituzione di un ristretto gruppo di lavoro che segnali direttamente ai direttori e ai
colleghi interessati i più macroscopici casi di
abuso linguistico, suggerisca le correzioni e,
magari su questo stesso giornale, con una
rubrichina di pochissime righe, faccia delle
proposte concrete, alternative all’inarrestabile
pressione di neoanglicismi.
P
UGIS: IL VERTICE DEI GIORNALISTI SCIENTIFICI
Paola De Paoli confermata presidente
Milano, 25 gennaio 2005. L’Unione dei giornalisti italiani scientifici (Ugis), che raccoglie oltre 150 giornalisti che scrivono di scienza e tecnologia, ha attribuito le cariche per il triennio 2005-2007
nell’ambito del nuovo Consiglio direttivo, eletto dall’assemblea di
fine 2004. Confermata Paola De Paoli alla presidenza (carica che
ricopre dal 1984), il Consiglio direttivo ha nominato vice-presidenti
Giovanni Anzidei e Adriana Bazzi. Giorgio Santocanale è il nuovo
segretario-tesoriere. Il Consiglio è completato da Furio Reggente
e Isabella Vannutelli, consiglieri. Presidente del Collegio dei probiviri è stato confermato Giuseppe Prunai, cui si affiancano Luca
Ottenziali e Adriana Giannini. Eugenio Sorrentino è il nuovo presidente del Collegio dei sindaci revisori, coadiuvato da Emanuele
ORDINE
3
2005
Vinassa de Regny e Carlo Di Nardo come sindaci effettivi, mentre
Alberto Pieri e Gabriella Fiecchi sono supplenti.
Paola De Paoli ha così sintetizzato la visione che guida l’Ugis, a
commento dell’attività 2004 e in preparazione dei programmi di
quest’anno: “Le finalità istituzionali dell’Ugis sono uscite rafforzate,
nel 2004, anche a livello internazionale grazie all’interscambio con
le associazioni dei giornalisti scientifici di altri Paesi. È una conferma che solamente attraverso la collaborazione e la comunanza
tra colleghi si può favorire l’aggiornamento professionale mediante incontri, promossi e organizzati dall’Ugis, con scienziati e tecnologi. Notiamo, inoltre, un particolare impegno dei più giovani tra i
giornalisti scientifici italiani nell’approfondire i temi e allargare i
contatti necessari al loro lavoro quotidiano, che – però – non
sempre viene adeguatamente ricompensato”.
L’Ugis, costituita nel 1966 con Giancarlo Masini primo presidente,
ha lo scopo di stimolare la divulgazione scientifica attraverso i
media italiani, curando l’aggiornamento professionale dei soci
attraverso seminari, giornate di studio, incontri con scienziati e
ricercatori in tutto il mondo. Fa parte dell’Eusja (European union of
science journalist associations, con sede a Strasburgo) di cui è tra
i fondatori.
Per ulteriori informazioni: Dario Andriolo, segreteria tecnica Ugis,
corso Sempione 39, 20145 Milano, tel. 02 33611607, fax 02
3314505, e-mail: ugis@agenpress.com; www.ugis.it
17
di Annamaria Delle Torri
Bilancio positivo
dell’assistenza legale
dell’Ordine:
numerose le sentenze ottenute
- che fanno giurisprudenza a favore dei giornalisti
Maggiori garanzie per i free lance, più certezze, dal punto di vista giuridico, per chi collabora a
quotidiani e periodici. Ora gli editori che non pagano hanno meno possibilità di farla franca. Il
servizio istituito cinque anni fa dall’Ordine della Lombardia (su iniziativa del suo presidente e del
Consiglio regionale e gestito dall’avvocato Luisella Nicosia) per fornire assistenza legale gratuita ai propri iscritti, al fine di recuperare i crediti professionali e di far rispettare dagli editori le
tariffe professionali, approvate annualmente dal Consiglio nazionale, ha dato rilevanti frutti, sia
per quanto riguarda le somme effettivamente riscosse, grazie all’azione promossa in sede giudiziale, sia soprattutto per quanto riguarda – ed è questo un aspetto di rilevante importanza – l’affermazione di una linea di giurisprudenza sempre più consolidata.
Tra le tante sentenze pronunciate in questi anni a favore di molti colleghi (abbiamo riferito il
mese scorso della decisione del giudice milanese che ha condannato Il Mattino di Napoli a
“saldare il conto” con una giornalista alla quale aveva negato il compenso per le proprie collaborazioni), le più significative riguardano l’accoglimento del principio di legge previsto dall’art.
2225 e seguenti del nostro Codice civile, in base al quale, in assenza di accordo diverso, vanno
applicate alle prestazioni giornalistiche le tariffe professionali, senza possibilità per il giudice di
negarle, se non con adeguata motivazione. Circostanza importante, destinata, nel lungo periodo, a scoraggiare comportamenti di arbitrio e di unilateralità nella determinazione ex post dei
compensi, così diffusa tra editori e committenti a danno e a scapito della professionalità dei
giornalisti che operano come liberi professionisti.
Dai compensi negati per le collaborazioni
fino al riconoscimento del diritto d’autore
Gli editori che non pagano hanno ora meno possibilità di farla franca. Affermato il principio di legge della legittimità delle tariffe profes
Ufficio stampa
per aspirante deputato
europeo
Vediamole, nella loro specificità, alcune di
queste sentenze. Si riferiscono, in prevalenza, all’affermazione del diritto (e delle
buone ragioni) dei giornalisti ad ottenere il
giusto compenso per la pubblicazione di
articoli, redatti su commissione, da editori
insolventi.
Ma riguardano anche un più ampio ventaglio della collaborazione giornalistica, dalla
esecuzione di servizi fotografici alla organizzazione e alla pratica gestione di uffici
stampa.
A quest’ultimo proposito merita attenzione
una pronuncia del Tribunale di Milano, a
favore del giornalista P.C., che si era indirizzato al servizio legale dell’Ordine, per
rivendicare un credito professionale maturato nei confronti di R.L., candidato alle
elezioni europee del 1999 che si era rivolto al giornalista incaricandolo di costituire
un ufficio stampa per sostenere e promuovere la sua campagna elettorale.
A conclusione del proprio lavoro, non
avendo ricevuto il compenso spettantigli
(da liquidarsi, secondo previo accordo
verbale con il committente, alle tariffe
professionali in vigore), P.C. inviava al
candidato-committente la propria notula,
già liquidata dall’Ordine di appartenenza,
per la complessiva somma di lire
15.300.000. Ma si vedeva negare il pagamento.
Rivoltosi al servizio legale dell’Ordine della
Lombardia, inviava regolare diffida al debitore.
Ma anche questo sollecito cadeva nel
vuoto.
Con il patrocinio dell’avvocato Luisella
Nicosia, il giornalista ricorreva allora al
giudice per ottenere ingiunzione di pagamento. Notificato il provvedimento, lo stesso veniva opposto e si instaurava regolare
giudizio di merito al fine di accertare l’effettività delle prestazioni rese e la fondatezza della domanda riconvenzionale di
danni svolta dalla controparte in sede di
cognizione. Il candidato-committente, infatti, in sede di opposizione, non solo sosteneva di non aver mai conferito alcun incarico professionale a P.C. in qualità di
responsabile dell’ufficio stampa, ma addirittura negava di avere mai chiesto a P.C.
di svolgere qualsivoglia altra attività di
natura giornalistica.
E rivendicava la pretesa gratuità delle
prestazioni rese dal giornalista.
Questi - stando alla versione del candidato-committente - avrebbe svolto un semplice ruolo di segreteria, dichiarandosi disposto a rinunciare ad ogni compenso in
denaro in cambio di un non bene precisato vantaggio indiretto conseguibile in caso
di successo elettorale del signor R.L..
Il candidato chiedeva, inoltre, il riconoscimento e la liquidazione a suo favore di un
risarcimento del danno, provocato, a suo
dire, dal comportamento tenuto dal giornalista durante il suo rapporto di collaborazione.
18
Costituitosi in giudizio il giornalista, contestate tutte le eccezioni di controparte, insisteva nella conferma del decreto opposto,
rilevando di aver svolto un complesso di
attività strettamente connesse alla propria
qualifica di giornalista e quanto al compenso ribadendo di aver agito in via monitoria
secondo il parere di congruità liquidatogli
dall’Ordine, ai sensi degli articoli 2225 e
2233 Codice civile. In sede istruttoria venivano assunte prove orali, dalle quali emergevano l’assoluta infondatezza di qualsivoglia eccezione difensiva del debitore (e
tanto meno della pretesa richiesta di
danni) e l’effettività del conferimento
dell’incarico professionale e dell’esecuzione dello stesso.
All’esito del giudizio, il Tribunale di Milano
riconosceva provato il credito del giornalista, ritenendo insussistente qualsivoglia
dubbio in ordine al conferimento dell’incarico da parte di R.L. a P.C. di responsabile
dell’ufficio stampa, sia per le prove testimoniali assunte, sia per le emergenze
documentali in atti.
È stato dimostrato - secondo il giudice che il giornalista, nei mesi di svolgimento
dell’incarico professionale, si recava quotidianamente nell’ufficio elettorale del candidato, seguendo lo stesso a tutti gli incontri
di promozione e presentazione, occupandosi del sito internet, preparando i comunicati stampa.
A giudizio del Tribunale, “tutta l’attività
sopra elencata rientra sicuramente
nell’ambito di competenza propria del giornalista professionista e come tale va
remunerata se non vi sono diversi accordi
tra le parti, secondo quanto previsto
dall’art. 2235 c.c. sulla base della tariffa
professionale”.
Il giudice ha altresì chiarito che “in atti vi è
la liquidazione e di qui il vaglio di conformità da parte dell’Ordine dei giornalisti,
quindi poiché parte opponente si è limitata a contestare genericamente il quantum
senza alcuna specifica contestazione, si
ritiene che non vi siano ragioni per discostarsi dalla valutazione già effettuata
dall’Ordine professionale, alla quale anche
il giudice è tenuto, salvo una manifesta
incongruità della liquidazione, che peraltro
non emerge”, condannando pertanto il
debitore al pagamento a favore del giornalista della somma di euro 5.846,00 (decurtata dalla parcella una minima somma
relativa a rimborsi spese già percepiti),
oltre contributo previdenziale Inpgi, Iva,
ritenuta d’acconto ed interessi legali dal
12.07.1999 al saldo, rigettando in toto la
domanda riconvenzionale proposta da
R.L. (Trib. Milano n. 8532/02).
La sentenza - è utile precisarlo - risulta
importante, per la stessa particolare attività svolta dal giornalista, relativa a prestazioni di ufficio stampa, spesso oggetto di
contestazioni in sede giudiziale e di non
sempre facile dimostrazione per la loro
stessa peculiarità.
Direttore
responsabile
di rivista
Sulla stessa linea, una sentenza del Giudice
di pace di Monza, che ha riconosciuto il
credito di un giornalista, che aveva prestato
la propria attività in via occasionale come
direttore responsabile di una rivista (Percorsi italiani, edita a Firenze), per l’uscita di un
numero della stessa. Il giornalista W.S.,
dopo aver terminato il proprio lavoro, regolarmente data alle stampe la rivista, si vedeva contestare dall’editore la parcella, con
l’arbitraria pretesa di ridurre il compenso già
concordato e liquidato dall’Ordine professionale. W.S. decideva perciò di rivolgersi al
servizio legale dell’Ordine della Lombardia.
Veniva richiesto a Percorsi Italiani il pagamento di quanto dovuto al giornalista e, alla
scadenza infruttuosa del termine indicato,
veniva richiesto, con l’assistenza dell’avvocato Luisella Nicosia, il decreto ingiuntivo di
pagamento per la somma di 1.579,19 euro
nei confronti dell’editore fiorentino, il quale si
opponeva eccependo preliminarmente il
difetto di competenza territoriale del giudice
adito in quanto, a suo dire, l’incarico era
stato conferito e doveva essere eseguito in
Firenze, sede legale della pubblicazione.
Inoltre l’editore sosteneva che, non essendo
stato pattuito il luogo di pagamento della
prestazione, questa dovesse, per consuetudine, essere attribuita a Firenze.
Nel merito il debitore sosteneva l’infondatezza del credito di W.S. per pretese manchevolezze nell’esecuzione dell’incarico assegnatogli. Secondo la difesa dell’editore, infatti, W.S. non avrebbe adempiuto alle obbligazioni contrattualmente assunte in qualità di
direttore responsabile; per ciò non avrebbe
avuto diritto ad alcun compenso. Costituitosi
in giudizio il giornalista contestava le istanze
avversarie e ne chiedeva il rigetto, con
conseguente conferma del decreto ingiuntivo. Il giudice, ritenuta la propria competenza
territoriale (essendo da intendersi quale
luogo di esecuzione del pagamento il domicilio del creditore ex art. 1182 c.c., nel caso
di specie Monza, appunto), accoglieva
l’istanza di provvisoria esecuzione, non
essendo l’opposizione fondata su prova
scritta né di facile soluzione. All’esito del
giudizio, il Giudice di pace riteneva “destituita da ogni fondamento la tesi sostenuta
dalla rivista Percorsi Italiani; infatti dalla
documentazione prodotta e dalle testimonianze rese in istruttoria si ha la conferma
che W.S. ha svolto regolarmente il proprio
incarico di direttore responsabile della rivista Percorsi Italiani, provvedendo altresì alla
revisione degli articoli pubblicati sulla rivista,
come hanno confermato i testi escussi.
E non risulta che tale sua attività sia stata in
alcun modo limitata od ostacolata dalla
circostanza di essere stata eseguita prevalentemente a Milano; “tale circostanza,
dedotta dalla opponente, è da ritenersi ininfluente perché il giornalista ha svolto ugualmente il lavoro affidatogli”. Tutto ciò ha portato alla conferma del decreto opposto, con il
rigetto dell’opposizione infondata e la conseguente condanna dell’editore al pagamento
di quanto dovuto al giornalista, come da sua
parcella (Giudice di pace di Monza n.
3210/02). Ancora una volta, abbiamo
dunque assistito al rigetto di eccezioni pretestuose sull’attività di un giornalista, svolte al
solo fine di sottrarsi a un pagamento dovuto
e di opporsi giudizialmente con ogni mezzo
al riconoscimento del credito professionale
maturato dal professionista.
Diritto d’autore:
perde Rti
(Fininvest-Mediaset)
Di altro genere, seppure sempre annoverata tra le sentenze rese in forza di un
giudizio radicato grazie al patrocinio fornito ai propri iscritti dall’Ordine della
Lombardia e con l’assistenza dell’avvocato Luisella Nicosia, è la pronuncia di
condanna a carico della convenuta Rti
Spa (Fininvest-Mediaset) e del terzo chiamato A. D., resa dal Tribunale di Monza,
in merito a un risarcimento del danno per
illegittimo utilizzo di opera dell’ingegno
altrui. Nel caso di specie, il giornalista P.
D., esperto disegnatore e vignettista, rilevava l’indebita utilizzazione di proprie illustrazioni nell’ambito di un programma
trasmesso su Canale 5. Si trattava di una
serie di immagini realizzate dal giornalista, che vanta un ampio curriculum
professionale, per un inserto commissionato da una rivista di altro editore. P.D.,
constatato l’uso arbitrario e non autorizzato del proprio lavoro, citava in giudizio
Rti, chiedendo la condanna della stessa
al risarcimento del danno e assumendo
che si trattava di opere dell’ingegno ai
sensi della L. 633/41, utilizzate in palese
violazione del dettato normativo, non
essendo mai stato chiesto il consenso
dell’autore, né essendo tantomeno citato
il suo nome nel corso della trasmissione,
né il titolo dell’opera da cui erano state
tratte le illustrazioni. Il fatto, che doveva
ritenersi lesivo del diritto d’autore, non
poteva giustificarsi con finalità asseritamente culturali, in quanto Canale 5 è una
rete televisiva commerciale e nell’ambito
del programma che aveva utilizzato le illustrazioni erano anche stati inseriti spot
pubblicitari relativi a prodotti strettamente
connessi alle immagini di P.D.. Le sei illustrazioni indebitamente utilizzate erano
state valutate dall’Ordine regionale dei
giornalisti quali disegni originalissimi,
sotto il profilo della creatività, della novità
ORDINE
3
2005
D
I
B
A
T
T
I
T
O
Quando
“i cari colleghi assunti”
diventano kapò
di Anna Mannucci
(articoli, uffici stampa)
disinvoltamente violato
ssionali approvate annualmente dal Consiglio nazionale dell’Ordine
e dell’impatto sul lettore ed era stato ritenuto congruo un compenso di lire
2.000.000 lorde cadauna. Rti, chiedendo,
dal canto suo, il rigetto delle domande
attoree, sollecitava la chiamata in causa
di A.D.P., l’autore del programma, che
aveva scelto le immagini e i disegni da
mandare in onda, secondo un contratto
che legava autore ed emittente. Il terzo
chiamato si costituiva in giudizio, chiedendo a sua volta il rigetto delle domande nei
suoi confronti, assumendo di aver consegnato già quindici giorni prima della
messa in onda le immagini alla responsabile del programma, affinché ne valutasse
la correttezza per la messa in onda. Sulla
base delle risultanze istruttorie, documentali e testimoniali, il Tribunale di Monza
giudicava fondata la domanda dell’attore,
“ritenendo ravvisabile la violazione del
diritto morale d’autore, che sussiste
anche dopo la cessione del diritto di utilizzazione economica dell’opera (nel caso di
specie ceduto genericamente - a detta del
giudicante - all’editore terzo estraneo al
giudizio) e attribuisce il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a
qualsiasi deformazione, mutilazione,
modificazione o ad ogni atto a danno
dell’opera stessa che possano essere di
pregiudizio all’onore e alla reputazione
dell’autore”.
La visione della videocassetta con la registrazione della trasmissione, effettuata
nel contraddittorio delle parti, ha consentito infatti di verificare che, durante la
trasmissione, erano state mostrate le illustrazioni prodotte dall’attore, “senza alcun
riferimento né all’autore, né alla pubblica-
zione dalla quale erano state tratte, né
tantomeno potendosi invocare la libera
riproducibilità delle immagini, per finalità
di critica, insegnamento, discussione, non
ravvisabili nel programma in oggetto”. Il
Tribunale ha quindi riconosciuto la lesività
ai danni della reputazione dell’autore del
contesto in cui sono state trasmesse le
immagini, che non ha alcun connotato
scientifico. “Nel caso di specie, era palese la mancata menzione dell’autore e
dell’opera da cui erano state tratte le illustrazioni, circostanza facilmente verificabile dalla convenuta Rti con un minimo di
diligenza, il che già la esponeva a responsabilità, non essendo tale comportamento consentito nemmeno nei casi di libera
utilizzazione dell’opera ai sensi dell’art.
70 L. autore”. “Passando alla liquidazione
dei danni, non può prescindersi da una
valutazione equitativa, che deve tener
conto del fatto che la trasmissione delle
illustrazioni è stata brevissima e che il
pregiudizio alla reputazione dell’attore è
per ciò stesso limitato, avvertito sicuramente dall’autore ma senza affetti nella
generalità dei consociati.
Per tali motivi, si condanna RTI a pagare
a P.D. la somma di lire 6.000.000, oltre
interessi legali dalla data del fatto al saldo
effettivo. Quanto al terzo, lo stesso deve
essere condannato a pagare a RTI le
somme che la stessa dovrà pagare in
esecuzione della sentenza, trattandosi di
rapporto contrattuale che legava le parti,
per il cui inadempimento agli obblighi il
terzo chiamato non ha fornito la prova
liberatoria richiesta”.
(Trib. Monza 2983/02).
Ufficio
stampa
Zetesis
Per tornare al tema degli uffici stampa, è
certamente importante una recente pronuncia del Tribunale di Milano a favore di L.M.,
giornalista che ha prestato attività di consulenza (con incarico di ufficio stampa e
rapporti con i media) per una società - Zetesis. com Spa - sulla base di un contratto
regolarmente siglato tra le parti.
Le prestazioni che contemplavano un impegno per il professionista per un anno solare
in realtà si sono interrotte prima della
scadenza, per l’intervenuta dichiarazione di
messa in liquidazione volontaria della
società. In tale caso, il giornalista, assistito
dall’avvocato Luisella Nicosia, ha chiesto in
via giudiziale la condanna di Zetesis.com
S.p.a. al pagamento delle proprie notule
relative ai mesi di lavoro, nonché il riconoscimento, a titolo di danno per il mancato
guadagno, di quanto ancora contrattualmente previsto fino alla scadenza del
contratto.
All’esito del giudizio, il Tribunale, ritenuta
provata la fondatezza della pretesa creditoria azionata mediante la produzione in giudizio del contratto di conferimento dell’incarico di responsabile dell’ufficio stampa e l’avvenuto espletamento delle prestazioni
ORDINE
3
2005
pattuite dal gennaio al settembre 2001,
anche per quanto dichiarato dai testimoni,
condannava la società convenuta al pagamento di quanto dovuto per i mesi di attività
(15.893,65 euro), oltre alla corresponsione
degli interessi legali dalle singole scadenze
al saldo effettivo.
La Zetesis com S.p.a veniva altresì condannata al pagamento, a favore dell’attore, della
somma di 8.521,54 euro, quale importo
dovuto per gli ulteriori tre mesi di vigenza del
contratto.
Anche in questo caso venivano riconosciuti,
in aggiunta, gli interessi legali dalla messa
in mora al saldo effettivo, ritenendo che
“poiché il contratto contemplava una naturale scadenza al dicembre 2001 ed un corrispettivo complessivo, da pagarsi con
scadenza mensile, si deve affermare la non
recedibilità ad nutum dal rapporto per mero
arbitrio del committente, con conseguente
suo obbligo di provvedere al pagamento del
corrispettivo dovuto per l’intero periodo.
Nella specie, ritenuto applicabile l’art. 2237
c.c. (trattandosi dell’impegno a fornire non
un’opera bensì una prestazione professionale) deve ritenersi che le parti abbiano
pattiziamente derogato alla facoltà di reces-
Come sono cattivi gli editori! È uno dei
temi centrali delle lamentele e delle rivendicazioni sindacali dei giornalisti, spesso
associato alla indifferenza del governo e
all’ingiustizia del mondo. Raramente ci si
chiede come si comportano i giornalisti
verso gli altri giornalisti. Le lamentele
contro gli editori e il mondo talvolta coprono la mancanza di senso di responsabilità
e la pavidità dei giornalisti garantiti, quelli
assunti.
Non sto parlando di
eroismo o di sacrificarsi per gli altri ma di un
minimo di correttezza,
che infatti alcuni hanno, senza perdere il
posto e nessuna conseguenza drammatica
sulla carriera.
Io sono una freelance,
professionista, faccio
questo lavoro da tanto
tempo, per decine di
testate, ho frequentato
e sono stata anche al
desk di molte redazioni. Insisto a dire che il
90% dei problemi dei
freelance sono causati
dai cari colleghi giornalisti assunti. Un capo
con un minimo di
senso di responsabilità
permette una vita
professionale e umana
decente. Un capo scorretto – a questo punto
un kapò – rende la vita
indecente. Per quel
che riguarda i compensi, la dignità, la valorizzazione delle competenze e così via.
Esempi: partiamo da
un argomento a cui
tutti sono molto sensibili, il borderò. Ci sono
quelli che ti danno il
minimo e quelli che ti
danno dieci euro in più
(si parla di cifre miserevoli, a cui l’editore è totalmente indifferente). Ci sono quelli che si dimenticano di
“segnare” l’articolo pubblicato, ci sono
quelli che dicono “ma io credevo che tu
avessi un contratto e dunque non ti mettevo a pagamento i singoli pezzi”. Ci sono
quelli che ti pagano anche i pezzi non
pubblicati, se accettati, e quelli che non lo
fanno. Con lo stesso editore, nella stessa
testata.
Dunque, la colpa non è dell’editore e del
destino cinico e baro.
Un esempio che mi sta particolarmente a
cuore: le idee rubate. Ci sono capi che
ripetutamente si appropriano delle idee dei
freelance e fanno fare l’articolo a qualcun
altro. Senza pagarle, ovviamente, e spes-
so senza neanche avvisare, così c’è
anche l’umiliazione del freelance che si
presenta a fare l’intervista e si sente dire
“È già venuto un suo collega”. Come reagire? Facile rispondere di non proporre più
idee, le idee dovrebbero essere il senso
del lavoro del freelance.
Stupido rispondere di fare causa, è come
consigliare di non lavorare più. Se si litiga
e si va in causa con una testata non si
lavora più per tutto il
gruppo e le consociate
e tutti gli altri giornali
che in qualche modo
hanno legami con la
proprietà o gli azionisti
o chissà chi. E se poi il
capo con cui litighi
passa a un altro giornale, sei rovinato anche lì.
Un/a freelance dovrebbe valere per le sue
idee, per l’originalità e
le qualità delle sue
proposte, per le sue
competenze, specializzazioni ecc.
Invece siamo considerati alla stregua dei
braccianti di una volta,
usati perché costiamo
poco e non possiamo
avere nessuna pretesa, altrimenti il giorno
dopo rimaniamo sulla
piazza, a offrire le nostre braccia ma nessuno ci prende. Troppo
spesso siamo dei “vù
cumprà”, offriamo merce a basso prezzo, che
sia scadente o di qualità fa poca differenza.
Troppo spesso siamo
ridotti a riempire gli
spazi tra le pubblicità.
E qui potremmo trovare un collegamento
con i colleghi garantiti:
la qualità del nostro
lavoro, per cui bisognerebbe lottare molto più che per gli scatti di
anzianità o il buono mensa. Una massa di
precari impossibilitati a dire di no, costretti
a non avere senso critico o perlomeno a
non esprimerlo, obbligati a stare con la
schiena piegata per poter sopravvivere,
rischia di diventare un enorme problema
per la libertà di informazione e forse, a
dirla grossa, per la libertà.
I cari colleghi assunti, i Cdr (esiste un cdr,
uno, che si sia informato, non dico che
abbia fatto qualcosa, della situazione dei
freelance?) dovrebbero cominciare a
preoccuparsi dei freelance, se non per
solidarietà, per salvaguardare il diritto
generale di fare buona informazione e il
diritto dei cittadini a essere informati.
“
I redattori,
non
gli editori,
umiliano
spesso
i freelance
e si
appropriano
anche
delle loro
idee
e proposte
“
so ad nutum riconosciuto al cliente, con
conseguente impossibilità di sciogliersi dal
vincolo contrattuale sino alla pattuita
scadenza, salvo il sopravvenire di giusta
causa (nella specie non allegata) (Trib. di
Milano, n.8864/04).
La pronuncia del giudice milanese risulta
particolarmente importante - anche in
questo caso - in quanto ribadisce una linea
già più volte fatta propria dalla Corte di
Cassazione che consolida un fondamentale
principio giuridico.
Secondo questo indirizzo interpretativo,
infatti, il professionista che spende tutte le
proprie energie lavorative a favore di un
unico cliente di particolare rilievo o di un
numero ristretto di clienti, trascurando altre
occasioni di reddito, attende giustamente in
cambio la certezza di un conveniente periodo di lavoro, che non venga meno, improvvisamente, per scelta unilaterale del committente, privandolo di colpo di ogni risorsa.
La definizione di un termine nel contratto di
collaborazione, in buona sostanza, basta a
derogare dalla facoltà di recesso di cui
all’art. 2237 c.c., senza bisogno di un ulteriore patto espresso ed univoco in proposito
(vedi Cassazione n. 9701/96).
19
REGIONE LOMBARDIA - ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA Bando per il XV biennio
(2005-2007)
dell’«Istituto
Carlo De Martino
per la Formazione al Giornalismo»
La Scuola in 28 anni di vita ha creato
563 giornalisti professionisti (tra questi: 35 direttori,
22 addetti stampa, 4 vicedirettori, 77 capiredattori,
42 inviati o corrispondenti dall’estero, 88 capiservizio,
2 segretari di redazione, 193 redattori ordinari, 19 cococo e 6 “vari”…)
Giornalisti si diventa a Milano, capitale
L’Ifg, scuola di eccellenza europea, cerca 40 giovani laureati, determinati,
di studi e che sappiano cogliere le nuove opportunità della professione
Bando di concorso XV biennio 2005-2007
È bandito il concorso di ammissione al XV biennio di formazione al giornalismo con l’attribuzione della qualifica di “praticante
giornalista” ai sensi di legge, secondo le norme qui di seguito esposte.
I posti a concorso per il biennio 2005-2007 sono fissati in 40.
Sono ammessi al concorso i cittadini italiani e dell’Unione europea (questi ultimi con perfetta conoscenza della lingua italiana)
in possesso almeno di diploma di laurea triennale (direttiva 89/48/Cee) e nati dal 1° gennaio 1975. I diplomi di laurea devono
essere riconosciuti dalla Repubblica italiana.
Le domande d’iscrizione, corredate di copia del titolo di studio e della ricevuta di versamento della tassa d’iscrizione, debbono pervenire all’Ifg a partire dal 1° marzo e non oltre il 30 giugno 2005.
NOTIZIE PRELIMINARI
Norme sulla
professione
giornalistica
1
La legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti prescrive, per diventare giornalisti professionisti, una prova di idoneità professionale equivalente all’esame di Stato (di cui all’articolo 33, V
comma, della Costituzione). Per accedere a tale esame la
procedura consiste nell’essere assunti da un’azienda editoriale
(o frequentare una scuola di giornalismo o un master biennale
universitario in giornalismo riconosciuti dall’Ordine nazionale) e
svolgere diciotto mesi di praticantato.
L’esame di idoneità professionale è organizzato dal Consiglio
nazionale dell’Ordine ed è affidato ad una Commissione
formata da due magistrati e cinque giornalisti. Si svolge a
Roma in due sessioni annuali (primavera e autunno) e
comprende prove scritte e una prova orale.
Superato l’esame, il praticante, a sua domanda, viene iscritto nell’elenco professionisti dell’Albo.
- Associazione
2 L’Afg
“Walter Tobagi”
per la Formazione
al Giornalismo
L’Associazione “Walter Tobagi” per la formazione al giornalismo (Afg) gestisce l’Istituto “Carlo De Martino” per la formazione al giornalismo (Ifg) il cui corso biennale di studi è
parificato allo svolgimento del praticantato tradizionale.
L’Afg è un’istituzione riconosciuta dalla Regione Lombardia (con delibera della Giunta Regionale n. 11854 del
4/10/1977 a norma della legge regionale del 16/6/1975 sulla
formazione professionale). È inoltre accreditata presso la
Regione Lombardia per la formazione professionale e certificata secondo la norma ISO 9001:2000.
Il corso dell’Ifg, di livello universitario, è stato promosso
dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia con delibera
del 27/11/1974.
L’Afg è un ente privato senza scopo di lucro, che trae la
maggior parte dei mezzi di finanziamento da un contributo
annuale della Regione Lombardia (ai sensi della legge
regionale n. 95/80) nell’ambito della politica per la formazione professionale.
L’Afg è sostenuto economicamente anche dal Consiglio
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia.
Gli allievi partecipano, nel corso del biennio, a concorsi per
borse di studio interne ed esterne.
3
L’Ifg - Istituto
“Carlo De Martino”
per la Formazione
al Giornalismo
Obiettivo dell’Ifg è la preparazione di giornalisti polivalenti
della carta stampata, delle agenzie di stampa, della televisione, della radio, dell’informazione on line e degli uffici stampa,
non disgiunta dal progressivo avviamento alle specializzazioni classiche della professione.
Gli allievi, in quanto redattori nelle testate-laboratorio
edite dall’Ifg, sono iscritti nel Registro dei praticanti per
cui, ottenuto l’attestato di compiuto praticantato al termine
del biennio, possono sostenere l’esame di Stato per l’accesso alla professione di giornalista (salvo le eventuali inadempienze previste dal Regolamento interno dell’Ifg sulla base
delle regole stabilite dalla legge regionale n. 95/1980 e accertate dalla direzione dell’Istituto).
Il rapporto dell’allievo con l’Ifg cessa al termine del biennio.
I programmi di studio e le esercitazioni pratiche sono elaborati dal direttore, giornalista professionista d’intesa con la
Commissione didattica e sono approvati dal Consiglio di
presidenza dell’Afg, nel rispetto del “Quadro di indirizzi per il
riconoscimento delle strutture di formazione al giornalismo”
emanato il 17 aprile 2002 dal Consiglio nazionale dell’Ordine
dei giornalisti.
Il corpo docente è formato da giornalisti professionisti
con almeno 10 anni di iscrizione all’Albo, da docenti
universitari ed esperti della comunicazione e delle altre
Questo bando, il modulo di iscrizione e altre informazioni sono disponibili sui siti:
discipline inserite nel programma.
4L’Ifg.
Il corso di studi
DISCIPLINE TEORICHE ED ESERCITAZIONI
Il XV biennio di formazione al giornalismo dell’Ifg avrà
inizio nel mese di novembre 2005 e terminerà nell’ottobre 2007 con l’ammissione alla sessione autunnale dell’
esame di Stato.
I posti a disposizione sono 40.
La frequenza degli allievi è obbligatoria e a tempo pieno.
Ogni assenza va giustificata per iscritto. Un numero di
assenze superiore al 25% comporta l’esclusione dal corso.
Il calendario delle lezioni viene stabilito dalla Direzione in
base al programma didattico.
Il programma di studi mira ad armonizzare la specifica formazione professionale dell’allievo con il completamento della
sua preparazione culturale attraverso cicli di lezioni, corsi e
seminari a livello universitario.
Aspetti qualificanti del programma sono le sistematiche
esercitazioni pratiche con l’uso di aggiornate attrezzature dell’editoria informatica, di uno studio di registrazione radiofonico e di supporti televisivi.
L’Ifg dispone di un sistema editoriale integrato in grado di
garantire la gestione dell’intero ciclo produttivo di qualsiasi
pubblicazione quotidiana, periodica e monografica.
Ogni allievo ha in dote una postazione informatica basata su
computer dell’ultima generazione con collegamenti internet
in fibra ottica e risorse condivise per l’archiviazione e la stampa. Può inoltre utilizzare postazioni dedicate per il montaggio
video e il montaggio radio.
Alle esercitazioni pratiche si aggiungono lezioni e seminari
su materie ritenute particolarmente utili ai fini della professione.
Il XV biennio porrà attenzione anche alle tecniche e alla
gestione degli uffici stampa, settore che si prospetta come
promettente fonte di occupazione.
Al termine del biennio, gli allievi potranno partecipare, gratuitamente, al corso di preparazione all’esame di Stato organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia.
Nel corso del biennio, in osservanza anche delle indicazioni
del Consiglio nazionale dell’Ordine e delle norme che presiedono al funzionamento dell’Istituto, sono impartite lezioni
teoriche di base o di approfondimento, nelle seguenti aree
disciplinari:
- Giornalistica (istituzioni professionali, deontologia-privacy,
analisi critica e comparata dei media, tecniche professionali,
modelli redazionali, sistemi editoriali, tecniche di gestione
degli uffici stampa; infografica e photo-editor).
- Grafica, Informatica e innovazione (architettura dell’informazione; design dell’informazione; produzione, selezione e
trattamento delle immagini; comunicazione visiva; strumenti
e tecnologie dell’informazione visiva; storia dell’informazione
visiva; tecniche avanzate di informatica applicata al giornalismo; teorie e tecniche del fotogiornalismo e del videogiornalismo; comunicazione multimediale; tecnologie dell’immagine
digitale).
- Linguistica (tecniche dei linguaggi del giornale quotidiano
e del periodico, delle agenzie di stampa, del web e degli uffici stampa. Tecniche del linguaggio televisivo, radiofonico e
fotografico; semiotica del testo scritto e visivo).
- lingue straniere (conoscenza funzionale di inglese e
spagnolo).
- Storica (storia del giornalismo e delle comunicazioni di
massa. Elementi di storia moderna e contemporanea).
www.odg.mi.it
20
www.ifg.mi.it
- Geografia politica ed economica, globalizzazione e relazioni internazionali.
ORDINE
3
2005
ASSOCIAZIONE “WALTER TOBAGI” PER LA FORMAZIONE AL GIORNALISMO
Le iscrizioni dal 1° marzo al 30
giugno 2005 aperte anche ai
cittadini comunitari. La tassa
annuale di frequenza è di 50 euro,
che va versata interamente alla
Regione Lombardia
MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE AL CONCORSO
PER L’AMMISSIONE AL XV BIENNIO (2005-2007)
L’allievo svolge periodi di tirocinio concordati dalla Direzione
con le testate giornalistiche.
dell’editoria
, con un ottimo curriculum
giornalistica
- Giuridica (elementi di diritto costituzionale, di diritto comunitario, di diritto del giornalismo e dell’editoria, di diritto penale e
di procedura penale, di diritto amministrativo con riguardo
anche al ruolo delle autorità indipendenti, di diritto privato).
- Sociologica-psicologica (elementi di scienza dell’opinione pubblica e dei sondaggi; di sociologia della comunicazione; di psicologia della comunicazione).
- Economica-finanziaria (elementi di economia politica,
storia economica, marketing, economia dei media e delle
imprese editoriali, diritto pubblico dell’economia, mercato del
risparmio e degli investimenti familiari con riguardo particolare al mercato borsistico, dei fondi di investimento e della
gestione del risparmio).
- Sindacale (con attenzione particolare al contratto e al sistema previdenziale/previdenziale complementare/assistenziale
integrativo sanitario dei giornalisti).
Gli allievi dovranno affrontare un esame al termine di ogni
singola materia in base a un calendario stabilito dalla Direzione. I singoli esami verranno annotati nel libretto personale
dello studente.
Gli esami potranno essere ripetuti, in caso di bocciatura, a
distanza di un mese.
La preparazione degli allievi/praticanti verrà valutata, ogni
mese, dai rispettivi tutor.
Al termine del primo e del secondo anno agli allievi verrà rilasciato un certificato di frequenza con l’attestato del superamento delle materie del programma.
Al termine del biennio i praticanti affronteranno un esame
finale, scritto e orale. Della Commissione giudicatrice (nominata dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
d’intesa con la direzione dell’Istituto) farà parte anche un
rappresentante della Regione Lombardia. La direzione della
scuola, tenendo conto dei risultati dell’esame finale, rilascerà
un certificato di frequenza e profitto. La prova, propedeutica
all’esame di Stato, condiziona il rilascio, da parte del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, del certificato di fine praticantato.
PRATICA GIORNALISTICA
Momento fondamentale delle esercitazioni pratiche professionali è il lavoro di redazione per le testate-laboratorio.
Le testate laboratorio dell’Ifg
Ifg Tabloid – inserto del mensile Ordine Tabloid, organo del
Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Milano Ore 13 – quotidiano d’informazione del pomeriggio a
diffusione locale
Ifg Notizie – agenzia quotidiana del pomeriggio di servizi
giornalistici, inchieste e attualità, diffusa fra 45 testate nazionali e locali.
Speciale Video – servizi televisivi realizzati in proprio e
trasmessi da canali regionali.
Speciale Fm – testata radiofonica di notiziari, inchieste e
servizi, forniti a emittenti private.
Ifg on line – quotidiano telematico che comprende anche la
versione on line di tutte le altre testate.
.
È prevista la realizzazione di inchieste televisive con strutture dell’Ifg e con la collaborazione di esperti del settore e di
emittenti nazionali e regionali.
Gli stages
Strumento formativo importante è anche la pratica guidata
(stage). Nel biennio gli stages esterni (regolati dalla legge n.
196/1997) dovranno avere durata complessiva non inferiore
a sei mesi, come stabilito dal Quadro di indirizzi dell’Ordine
nazionale dei giornalisti.
ORDINE
3
2005
1. Requisiti
per l’iscrizione al concorso
Le iscrizioni al concorso di ammissione al XV biennio sono
aperte dal 1° marzo al 30 giugno 2005.
I candidati che intendono iscriversi al concorso devono essere nati a partire dal 1° gennaio 1975.
I candidati devono essere cittadini italiani o di uno stato
membro dell’Unione europea (per questi ultimi è obbligatoria
la perfetta conoscenza della lingua italiana, che sarà accertata dall’Ifg nel corso delle prove di ammissione).
Può presentare domanda di ammissione chi, al 30 giugno
2005, è in possesso almeno di diploma di laurea triennale.
Saranno accettate sub condicione anche le domande dei
candidati che prevedono il superamento dell’esame di
laurea entro il 31 luglio 2005. In questo caso, il certificato rilasciato dall’Università che accerta il conseguimento del diploma di laurea, dovrà essere inviato alla segreteria tassativamente entro il 18 agosto 2005. Per la data
di spedizione fa fede il timbro postale.
Le lauree conseguite all’estero saranno riconosciute
valide solo se risulteranno conformi alle norme italiane.
2. Modalità
di iscrizione al concorso
Per partecipare al concorso è necessario ritirare il bando e il
modulo di iscrizione (o richiederne l’invio per posta allegando 6 euro in francobolli). In alternativa il bando e il modulo di
iscrizione sono disponibili nei siti www.ifg.mi.it oppure
www.odg.mi.it.
Dopo aver preso visione del bando di concorso e compilato il
modulo di iscrizione in tutte le sue parti:
- spedire il modulo, esclusivamente per via postale, entro
il 30 giugno 2005 (fa fede il timbro postale), allegando:
a) fotocopia del titolo di studio (non saranno accettati titoli di
studio prodotti in originale);
b) ricevuta di versamento sul c/c postale n° 10519205, intestato a: Associazione Formazione Giornalismo - via Fabio
Filzi, 17 - 20124 Milano di 150 (centocinquanta) euro per
spese postali e di segreteria, non rimborsabili;
c) eventuali attestati di frequenza ad altri corsi (con preferenza per lingue straniere e informatica);
d) per i pubblicisti, fotocopia della tessera di iscrizione all’Ordine.
L’ammissione sarà deliberata da un’apposita Commissione
di selezione presieduta da un giornalista professionista e
nominata dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della
Lombardia.
Chi collabora a giornali e riviste, a radio e tv potrà allegare
documentazione del lavoro svolto e certificazione di legge
dei compensi percepiti per tale lavoro. La Commissione di
selezione terrà conto delle collaborazioni a condizione che si
tratti di testate registrate il cui direttore sia giornalista professionista (o pubblicista).
N.B. - Non sarà ritenuta valida la produzione di documenti successiva al 30 giugno 2005 salvo quanto previsto per i laureandi di luglio 2005 (vedi pagina 13). Tutti i
documenti presentati diventano di proprietà dell’Ifg e
non saranno restituiti.
Il mancato invio del documento o dell’attestazione
comprovante il diploma di laurea o il mancato versamento della tassa d’iscrizione, escluderanno i candidati
dalla partecipazione al concorso di ammissione.
3. L’ammissione
alle prove di selezione
La Commissione di selezione, il cui giudizio è insindacabile,
effettua la verifica dei titoli e dei requisiti soggettivi, quali risultano dal modulo d’iscrizione e dai documenti presentati e
convoca per iscritto i candidati ammessi
spese d’esame, non rimborsabili anche se il candidato non
dovesse concludere la prova scritta.
Le prove scritte si svolgeranno in un’unica giornata e consistono in:
a) un tema-articolo su argomenti d’attualità (politica interna ed
estera, cultura, costume, economia, cronaca, spettacoli, sport),
scelto tra quelli proposti dalla Commissione. Tale articolo non
deve superare le 60 righe (da 60 battute ciascuna);
b) un test di domande su argomenti di attualità;
c) la sintesi di un articolo o di un servizio giornalistico (contenuta in un massimo di 20 righe, da 60 battute ciascuna).
Gli elaborati dovranno essere rigorosamente anonimi. Le
generalità del candidato andranno in busta piccola inserita
nella busta grande con gli elaborati. Ogni segno che permetta l’identificazione del candidato ne comporterà l’esclusione. Per quanto non espressamente indicato valgono le
norme sancite dal Dpr n. 115/1965 e dal Dpr n. 487/1994.
La Commissione di selezione attribuisce ad ogni prova scritta un punteggio. La somma delle tre prove determina il
punteggio complessivo.
Solo a questo punto verranno aperte le buste contenenti i
nomi dei candidati per poter stabilire la graduatoria.
I primi 90 candidati della graduatoria saranno convocati
per sostenere la prova orale (che è pubblica) nella sede
dell’Ifg (via Fabio Filzi, 17 – Milano).
Le prove scritte e orali sono soggette alle norme previste dalla legge 241/1990 sulla trasparenza.
Le prove orali
di selezione
L’esame orale consiste in un colloquio tendente ad accertare le
attitudini complessive alla professione giornalistica, il grado di
cultura generale del candidato e la sua attenzione per i problemi
dell’attualità politica, economica, sociale e culturale nelle loro
dimensioni storiche, nonché il grado di conoscenza dell’ inglese.
In base al risultato delle prove scritte e dell’orale, la Commissione compilerà una graduatoria degli idonei, che verrà resa
pubblica. Alla formazione della graduatoria delle prove scritte
concorrerà anche il punteggio complessivo acquisito dal
candidato secondo le valutazioni della tabella che segue:
Seconda laurea
12 punti
Pubblicisti
4 punti
Collaborazioni giornalistiche
(senza iscrizione all’Albo)
per una durata inferiore ai due anni
2 punti
GLI AMMESSI
AL XV BIENNIO
I primi 40 candidati in graduatoria saranno ammessi a
frequentare il XV biennio dell’Ifg.
Valgono, comunque, per quanto applicabili, le regole fissate
dagli articoli dal 47 al 54 del Dpr n. 115 del 1965 (e successive modificazioni) per l’esame di giornalista professionista,
nonché dagli articoli dall’11 al 15 del Dpr 487/1994 sui
concorsi pubblici.
ADEMPIMENTI PRELIMINARI
DEGLI AMMESSI AL XV BIENNIO
1 - Periodo di prova
È previsto un periodo di prova della durata di 3 mesi, al
termine del quale il Consiglio di Presidenza dell’Afg, su
proposta della Direzione dell’Istituto, può escludere il candidato ritenuto inidoneo o che abbia violato lo spirito e la lettera del Regolamento interno dell’Ifg, e della legge regionale
n. 95/80. In queste ipotesi e nel caso di dimissioni volontarie,
subentreranno i primi esclusi della graduatoria.
Le prove scritte di selezione
2 - Tassa di iscrizione
Il candidato ammesso alle prove scritte, che si svolgeranno
entro la prima quindicina di settembre 2005, sarà convocato
a Milano per sostenere gli esami, nel giorno e nella sede indicati nella lettera di convocazione.
Il candidato potrà affrontare la prova scrivendo a mano (con
grafia leggibile, meglio se in stampatello) o con una macchina per scrivere meccanica.
Dovrà inoltre esibile la lettera di convocazione e presentare
la ricevuta di versamento sul c/c postale n 10519205 intestato a: Associazione Formazione Giornalismo – via Fabio Filzi
17 – 20124 Milano di ulteriori 200 (duecento) euro per
All’atto di iscrizione al corso l’allievo dovrà presentare la ricevuta del versamento di 50 (cinquanta) euro (salvo modifiche
della Regione Lombardia) direttamente alla Regione Lombardia su bollettino di c/c postale n. 25981200 intestato a:
Tesoreria Regione Lombardia gestita dalla Banca Intesa 20154 Milano
Tale importo è dovuto da ciascun allievo in adempimento alla
delibera della Giunta regionale n. 12510 del 9/9/1986.
21 (25)
DAL CONGRESSO DI BARI DEI CLN AL 1° CONVEGNO MERIDIONALISTA
M
O
S
T
R
A
La mostra documentaria
“Dal Congresso di Bari dei Cln
al 1° Convegno meridionalista” è stata
inaugurata lo scorso 11 febbraio a Bari
e sarà ospitata nella sede dell’Archivio
di Stato (via Demetrio Manin, 3)
fino al prossimo 15 aprile
L’evento è stato curato dall’Istituto
pugliese per la storia dell’antifascismo
e dell’Italia contemporanea (Ipsaic),
dall’Archivio di Stato di Bari,
dall’Ordine dei giornalisti
della Puglia e dalla Biblioteca
del Consiglio regionale
Orario d’apertura:
9-12 (tutti i giorni),
15-17 (lunedì e mercoledì);
info tel: 080-5023546;
ingresso libero
1944, la democrazia italiana
di Massimiliano Ancona
Due eventi storici in un anno. Un anno, il
1944, in cui a Bari si scandì la storia d’Italia e
del Mezzogiorno. Poco più di dieci mesi (dalla
fine di gennaio del ‘44 ai primi giorni di dicembre dello stesso anno) in cui il capoluogo
pugliese diventò prima centro di riferimento
della vita politica, culturale, editoriale e amministrativa del Regno del Sud, poi la sede per
rilanciare l’attualità della cosiddetta “questione meridionale”. Sono i temi della mostra
documentaria “Dal Congresso di Bari dei Cln
al 1° Convegno meridionalista”, organizzata
a Bari per celebrare il 60° anniversario della
liberazione e inaugurata lo scorso 11 febbraio
da Oscar Luigi Scalfaro, senatore della
Repubblica e presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione
in Italia (Insmli).
La “questione istituzionale”
e il passaggio alla Repubblica
Il 28 e il 29 gennaio di 61 anni or sono, infatti,
il teatro Piccinni di Bari ospitò il congresso dei
Comitati di liberazione nazionale (Cln) - il
primo nell’Europa affrancata dal giogo nazifascista -, che affrontò la fino ad allora inedita
“questione istituzionale”, poi “risolta” due anni
e mezzo più tardi dal referendum del 2
giugno 1946 che avrebbe sancito il passaggio dalla monarchia alla repubblica. Il
congresso fu inaugurato dall’orazione di
Benedetto Croce e vi partecipò - tra gli altri il conte Carlo Sforza, che sarebbe stato ministro degli Esteri con Alcide De Gasperi. A
Bari si confrontarono i maggiori esponenti
sindacali, come quelli della Confederazione
generale del lavoro (Cgl), ricostituitasi grazie
all’appoggio del Cln barese, e dei gruppi politici antifascisti: da quelli del Partito d’azione,
composto dalle correnti liberal-socialista
(Tommaso Fiore, Guido Calogero, Domenico
Loizzi, Aldo Capitini e Michele Cifarelli, che fu
tra i principali promotori del Congresso) a
quelli di Giustizia e Libertà (Vincenzo Calace,
Michele Partipilo, presidente dell’Ordine dei
giornalisti di Puglia e caporedattore centrale della Gazzetta del Mezzogiorno è tra gli
organizzatori della mostra “Dal Congresso
di Bari dei Cln al 1° Convegno meridionalista”. L’ha voluta, insieme allo storico Vito
Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia
contemporanea (Ipsaic), per celebrare il
60° anniversario della liberazione e ricordare quanto avvenne a Bari tra il gennaio e
il dicembre 1944.
Presidente Partipilo, perché questa
mostra?
«Questa mostra rappresenta un po’ la
continuazione di quella organizzata l’anno
scorso (“Le prime voci dell’Italia libera”,
ndr). Non solo per ricordare quei due eventi così importanti (il Congresso dei Cln e il
primo Convegno meridionalista, ndr). Ma
anche, anzi soprattutto, per ridare dignità
storica a un periodo fondamentale nella
storia del Mezzogiorno. Storia che, nonostante i libri di testo non la riportino, non
può assolutamente essere definita minore.
L’abbiamo voluta anche per restituire visibilità e dignità storica agli uomini che orga-
22 (26)
altro promotore del congresso, nonché reduce da una decennale persecuzione fascista
vissuta tra carcere e confino). Ma furono
presenti anche i comunisti, che raccolsero
adesioni fra gli operai, raggiungendo i 12.000
iscritti in pochi mesi, i socialisti italiani di unità
proletaria (Psiup) e i liberali di Benedetto
Croce (Giuseppe Laterza, figlio di Giovanni,
fondatore della omonima casa editrice),
senza dimenticare i demoliberali, schierati su
posizioni filomonarchiche, e la Democrazia
cristiana - per la quale era già attivo un giovane di origine salentina, Aldo Moro - e nel cui
ambito si distinse Natale Lojacono, futuro
sindaco di Bari. Il Congresso del gennaio
1944, come scrisse Cifarelli, «assolse la decisiva funzione di convogliare le energie politiche più sane e moderne verso la soluzione
pacifica della questione istituzionale», legittimando la propria presenza sul piano interno
e internazionale.
Tanto che “Radio Londra” lo definì «il più
importante avvenimento nella politica internazionale italiana dopo la caduta di Mussolini», il New York Times ne pubblicò la mozione finale e il Times di Londra ne evidenziò la
richiesta secondo cui «presupposto innegabile della ricostruzione morale e materiale
italiana è l’abdicazione immediata del re,
responsabile delle sciagure del Paese».
“Gli Stati Uniti lasciano ogni
decisione al popolo italiano”
Mentre il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, riconoscendone le conclusioni,
disse che «gli Stati Uniti sono ora [...] fermamente determinati a lasciare ogni decisione
al popolo italiano». Il Congresso dei Cln svoltosi a Bari il 28 e il 29 gennaio 1944 fu quindi
un evento fondamentale nella storia dell’Italia
(nuova) che stava nascendo. Eppure risulta
quasi assente nelle analisi e nel dibattito
storiografico nazionale.
Proprio come il primo Convegno meridionalista del dopoguerra che, neanche dieci mesi
dopo, il 3 dicembre 1944, si svolse nel capoluogo pugliese. «Questa mattina s’inaugura,
Partipilo: “Vogliamo
recuperare la memoria”
alle ore 10 precise, nella sala consiliare del
Municipio l’annunciato convegno di studi sui
problemi del Mezzogiorno»: così La Gazzetta del Mezzogiorno annunciò l’inizio dei lavori che sarebbero stati inaugurati da Adolfo
Omodeo e che avrebbero avuto in programma – fra i tanti – gli interventi del sindaco
Natale Lojacono, di Vittore Fiore (figlio di
Tommaso), di Giuseppe Papalia, del già citato Cifarelli. E poi di Mario Dilio oltre che di
Guido Dorso, Manlio Rossi-Doria, Federico
Comandini e Filippo Caracciolo.
Dalla riforma agraria
a quella della giustizia
«A Bari in occasione di quel convegno – ha
detto lo storico Vito Antonio Leuzzi, direttore
dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (Ipsaic),
nonché tra i maggiori curatori della mostra –
vennero gettate le basi per molte delle tappe
successive che riguardarono l’Italia e il
Mezzogiorno. Si impostarono i problemi della
questione meridionale, del risanamento che
portò al piano Marshall, ma anche alla riforma agraria, a quella della giustizia, al voto
delle donne e al referendum istituzionale».
Ancora una volta, dunque, Bari fu la sede di
un avvenimento storico. «Enorme e importante è il materiale documentario di rilievo
nazionale di cui ci siamo serviti per ricostruire e illustrare questa sorta di storia minore –
ha detto ancora Vito Antonio Leuzzi –. Si tratta di giornali, radiogiornali, atti di convegni,
documenti relativi alla ricostruzione dei partiti
che forniscono uno spaccato della Bari del
secondo dopoguerra. La città era disastrata,
quasi tutto l’apparato produttivo era stato per
anni requisito dagli alleati. La stessa casa
editrice Laterza non pubblicò gli atti del
convegno perché la sua sede fu requisita
dagli angloamericani fino al 1946.
Nonostante le enormi difficoltà e la scarsa
attenzione che a livello nazionale le veniva
rivolta, la Puglia ha dato un grande apporto
alla ricostruzione nazionale».
Un apporto dimenticato dai libri di storia.
nizzarono il Congresso dei Cln e il primo
Convegno meridionalista in una città come
Bari, che troppo spesso perde la memoria
di se stessa».
In che misura la mostra è o può essere
utile ai giornalisti?
«È importante sottolineare il ruolo che i
quotidiani ebbero allora e debbono avere
oggi. All’epoca dettero notizia del Convegno meridionalista per evidenziare la ricostruzione, il tentativo di mettere in piedi il
Paese e porre all’attenzione nazionale il
problema del Mezzogiorno.
Senza dimenticare che proprio a Bari, in
seguito all’armistizio, cominciarono a stamparsi i primi giornali nuovamente liberi dopo
il ventennio fascista. Dalla Gazzetta del
Mezzogiorno – che non sospese mai le
pubblicazioni – a L’Italia libera, da Civiltà
proletaria a l’Unità, senza dimenticare la
Rassegna del Popolo, Il Risveglio e l’Avanti!. Adesso i giornali devono ridare dignità e
pubblicità a quegli eventi. Bisogna riconoscere all’informazione il merito di aver
saputo veicolare notizie che altrimenti non
avremmo mai letto».
M. An.
ORDINE
3
2005
A sinistra: il teatro la mattina dell’apertura
del Congresso. Qui sotto, un carabiniere
presidia l’edificio di Radio Bari.
riparte dal Sud
il 1° agosto 1943. A Caltanissetta
viene pubblicato il primo giornale
dell’Italia liberata dal fascismo: si
chiama La Sicilia ed è poco più che un
foglietto stampato con mezzi di fortuna.
Qualche giorno dopo (6 agosto) a Palermo va a ruba un altro giornale: Sicilia
liberata. Sono queste le prime realtà
della stampa italiana – cui si aggiunge
Radio Palermo –, la cui libertà era stata
soffocata da venti anni di regime. Così,
seguendo l’avanzata da sud delle truppe angloamericane, pian piano anche in
altre città e in altre regioni tornano a
esserci realtà editoriali, peraltro sotto il
controllo del Psychological warfare
branch (Pwb). Mentre La Sicilia dura
pochi mesi, Sicilia liberata – con due
pagine e una colonna stampata in inglese – prosegue le pubblicazioni fino al
giugno 1944. A Catania e a Messina,
ultime città della Sicilia a essere liberata, compaiono poco dopo la metà di
agosto e sempre sotto il controllo alleato del Pwb, il Corriere di Sicilia (vecchia
testata prefascista) e Movimento di Sicilia libera che ha vita breve.
È
nche perché dal 23 ottobre del ‘43
viene stampato per tre volte alla
settimana il Notiziario di Messina.
Nel frattempo, però, anche la Calabria è
stata affrancata dal regime fascista. Il 10
settembre a Reggio Calabria viene
pubblicato il quotidiano Calabria libera,
diretto da un intraprendente comunista,
Carlo La Cava. A Catanzaro, invece, dal
27 ottobre compare La Nuova Calabria
con il concorso di tutti i partiti, dal comunista al monarchico. Mentre il 22 novembre trova spazio Il Corriere di Calabria,
diretto da Franco Cipriani e di ispirazione cattolica e liberale. A quest’ultimo
giornale, come al succitato Calabria
libera, il governatore alleato ritira l’autorizzazione alla pubblicazione per le
continue beghe politiche in un periodo
in cui le operazioni belliche continuano
e sono ancora vicine, concedendola al
democristiano Voce della Calabria.
A
on il successo nella battaglia
seguita allo sbarco di Salerno (8
settembre ‘43), il territorio italiano liberato comprende – oltre a Sicilia
e Calabria – anche Basilicata, quasi
tutta la Campania e la Puglia, quattro
province della quale (Brindisi, dove è
scappato re Vittorio Emanuele III, Bari,
Taranto e Lecce) compongono il Regno
del Sud. Proprio a Bari, nonostante gli
scontri e la confusione seguiti alla
caduta del regime (25 luglio) e all’armistizio (8 settembre), il quotidiano La
Gazzetta del Mezzogiorno è riuscito a
non interrompere le pubblicazioni
neanche per un giorno, unico caso in
Italia. Diventa così il giornale più diffuso nel Regno del Sud. Oltre che l’organo ufficiale del governo Badoglio, che
ha sede nella vicina Brindisi. Ma il suo
direttore, Luigi De Secly, pur seguendo
una linea moderata, che si ispira a
Benedetto Croce, mantiene buoni
rapporti con vari esponenti antifascisti
che sono molto polemici nei riguardi
del capo del governo. Quasi contemporaneamente e almeno sino alla metà di
febbraio 1944, Radio Bari – pur essen-
C
ORDINE
3
2005
La stampa
italiana
nelle regioni
meridionali
dopo
l’8 settembre
do sotto il controllo del Pwb – resta
l’unica radio davvero “libera” dell’Italia,
contando sull’impegno profuso – tra gli
altri – dal magistrato Michele Cifarelli
che con il suo programma “L’Italia
combatte” propone un laboratorio di
idee e contribusce alla rinascita delle
istituzioni.
Da ricordare è anche la vicenda del
settimanale Il Secondo Risorgimento di
Vittore Fiore (figlio di Tommaso). L’autorizzazione concessa dal Pwb è bloccata
dal prefetto di Bari (ispirato da Badoglio), perché il direttore della testata
aveva avanzato una richiesta di modifica del nome del settimanale (da Il
Secondo Risorgimento a Il Nuovo Risorgimento). Nonostante l’intervento del
responsabile dello stesso Pwb, che in
una nota al prefetto sollecita la comunicazione agli interessati dell’avvenuta
autorizzazione (marzo ‘44), il settimanale compare solo dopo un paio di mesi
(giugno ‘44).
iprendono le pubblicazioni, intanto, anche in Sardegna. L’Unione
sarda di Cagliari ricompare il 14
novembre 1943 aprendosi a tutte le
forze antifasciste. Mentre L’Isola di
Sassari, pur aprendo le sue colonne alle
diverse tendenze (vi collaborano – tra gli
altri – Mario Berlinguer e Antonio
Segni), resta soprattutto il portavoce del
ceto moderato e conservatore.
Ma, secondo, quanto scritto da Paolo
Murialdi, giornalista e storico dell’informazione, «la prima voce che interpreta
più coerentemente i temi dell’antifascismo e della lotta per il ritorno alla libertà
si leva a Napoli, dove il 4 ottobre 1943,
subito dopo la cacciata dei tedeschi e
l’arrivo degli angloamericani […] esce Il
Risorgimento».
Una creatura, come ha scritto Salvatore
Rea «un po’ degli Alleati, volti a intavolare un colloquio con gli italiani, un po’
del Comitato di liberazione nazionale,
che al Governo militare alleato fece
comprendere la necessità di una nuova
testata». Il Risorgimento si presenta con
un linguaggio nuovo e resta per otto
mesi l’unico quotidiano di Napoli. Vi
collabora – tra gli altri – lo storico Adolfo
Omodeo, membro del Partito d’azione
che presiederà il primo Convegno meridionalista svoltosi a Bari nel dicembre
‘44. Ma alle spalle del giornale c’è il filosofo Benedetto Croce.
R
opo la liberazione (4 giugno
1944), Roma si trova in un vortice
di iniziative editoriali. Da L’Unità a
l’Avanti!, da L’Italia libera a La Voce
repubblicana, senza dimenticare Il
Popolo, Risorgimento liberale, Ricostruzione e Il Tempo è un pullulare di pubblicazioni unite a Il Messaggero, al Giornale d’Italia e al Popolo di Roma. Le ultime tre testate con solerzia cambiano
orientamento dopo essere state fino al
giorno prima al servizio del feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante in
capo delle forze naziste in Italia, e dei
fascisti di Salò.
In questo clima, almeno in mezza Italia,
si ritrova la libertà. E si ricomincia a
esprimerla anche attraverso la stampa.
M. An.
D
23 (27)
I NOSTRI LUTTI
È morto
il giornalista
del Corriere:
dai fumetti
alle nuove
frontiere
della spiritualità
L’autore
delle
Piccole
porte
aveva
61 anni.
Un protagonista
della scena
culturale
arrivato
giovanissimo
in via
Solferino
Il giornalista
del Corriere
della Sera
Cesare Medail,
scomparso
il 5 gennaio
a Milano
(foto di
Gianluigi Colin).
Cesare Medail, l’intellettuale laico
che capiva la magia
di Giulia Borgese
Chi ha letto il libro di Cesare Medail, Le
piccole porte (edito da Corbaccio nel
febbraio dell’ anno scorso) deve essere
rimasto colpito dal lucido, rigoroso e insieme appassionato cammino spirituale che ne
è la trama. Vi si ritrova intatto l’amore di
Medail per la parola, sia scritta che parlata,
il piacere nel riferirci, appena tornato in
redazione dopo aver fatto una delle sue
mirabili interviste a tutto tondo (lo avevamo
ribattezzato Medaglione), ogni particolare
del personaggio che aveva incontrato,
dell’ambiente in cui viveva, perfino di che
cosa avevano mangiato a pranzo insieme...
Il parlare era per lui una specie di prova di
quello che subito avrebbe scritto, sulla sua
scrivania tutta piena di libri, di notes e
foglietti con numeri di telefono, con la sua
rara capacità di comunicare, di rendere
comprensibile, «giornalistico» nel senso
migliore, anche il pensiero meno semplice
di quei rappresentanti di ogni religione del
mondo quasi sempre perseguitati dall’ istituzione o relegati ai margini, che solo lui andava a scovare in qualche posto segreto.
Oggi, inevitabilmente, questo libro singolare
diventa il suo testamento spirituale, e riprendendolo in mano, il finale che ci aveva turbato, adesso che lui ci ha lasciati assume un
altro significato: «Vorrei solo congedarmi
con un’immagine che mi corrisponde. In uno
degli angoli più incantevoli del Far West, vicino alla cittadina new age di Sedona (Arizona) ma lontano dai supermarket del melting
pot neospiritualista, in cima a uno sperone
di roccia rossa sorge la chiesa cattolica di
Holy Cross, progettata negli anni Trenta da
un’ architetta americana.
Si chiama così perché una gigantesca croce
affonda nella roccia [...] Il canto gregoriano
si diffonde a tutte le ore fra rupi, deserti e
foreste; ma non vi si celebrano funzioni
perché la chiesa è sempre aperta agli uomini di qualsiasi vocazione spirituale o religiosa. La Grande Croce abbraccia tutti, cristiani e non. E lì, confesso, mi sono trovato
benissimo». Non è stata una conversione, la
sua - ci teneva a spiegare - piuttosto il
percorso di un intellettuale laico, curioso e
aperto ai contenuti del libero pensiero spirituale. «Malgrado le guerre, i terrorismi, gli
egoismi nazionali che procurano sofferenza
e morte ai popoli derelitti, malgrado gli
oltraggi ecologici in nome del tornaconto
speculativo, io penso che dagli anni Settanta a oggi numerose persone stiano vivendo
quella che Elémire Zolla definisce “rinascenza religiosa”, anche fuori dalle grandi tradizioni. In diversi angoli del mondo sono
sempre di più quelli che hanno scoperto
dentro di sé una natura diversa, e la manifestano ripudiando gli idoli della guerra, del
potere, dei consumi, della brama di piacere
e di ricchezza».
Cesare Medail era approdato al Corriere
della Sera molto giovane (era nato nel 1943
vicino a Venezia dove la famiglia si era rifugiata durante la guerra in una grande villa
settecentesca) nei primi anni Settanta, al
settore culturale. In breve era diventato un
bravissimo artigiano del giornale: la scelta
degli argomenti da trattare, l’ organizzazione
del lavoro dei collaboratori, la titolazione arte difficile in cui era ineguagliabile -, la
ricerca delle immagini, tutto gli piaceva. Il
giornale era una parte importante della sua
“Cesare ci manca, ci manca terribilmente”
Il gesto più bello lo hanno compiuto, spontaneamente, i suoi lettori. Persone che negli
anni avevano imparato ad apprezzare Cesare Medail. Hanno preso carta e penna e
hanno scritto poche righe. Il senso era uno solo: “Ci mancherà”, “era diventato un amico”,
“ci fidavamo”: era proprio così.
Era così anche per noi, per i suoi amici e colleghi della redazione Cultura. Negli anni
Cesare aveva assunto un ruolo di guida, di punto di riferimento. Di legame con una tradizione carica di valori.
Era il collega cui chiedere un consiglio, la cortesia di rileggere il pezzo, di dirci francamente se andava bene. Cesare faceva tutto questo con grande generosità, con scrupolo e con serietà. Amava il suo mestiere più di ogni altra cosa al mondo. E questo atteggiamento finiva per contagiare tutti. Ci manca, ci manca terribilmente Cesare; manca agli
anziani come ai più giovani. E questo è raro, molto raro. Succede soltanto per pochi.
Antonio Troiano
Ennio Elena, cronista
e acuto epigrammista
di Oreste Pivetta
Ennio Elena ci ha lasciato. È morto nel cuore
della notte, il 3 febbraio scorso, nella sua casa
alla periferia di Milano. Era stato uno dei cronisti più attenti e brillanti dell’Unità, dal dopoguerra agli anni novanta, testimone e narratore di vicende grandi e piccole, di sentimenti e
di storie, presentate con uno scrupolo assoluto, con una documentazione attentissima, ma
anche con una scrittura di grande qualità. Era,
nelle pause del lavoro, un inesauribile inventore di epigrammi, molti dei quali finirono nelle
fortunate pagine di Tango prima e di Cuore
poi. Di un evento in particolare si era occupato: della tragica vicenda della diossina, la nube
tossica che si sprigionò da un reattore della
24 (28)
vita, come lo erano le cene con gli amici, i
lunghi viaggi con la moglie Claudia, sempre
fuori dalle rotte del turismo di massa, il riposo nella casetta sopra il lago Maggiore tra i
boschi dove si divertiva a fare lunghe
camminate in cerca di funghi, le visite a
Verona, la città in cui era cresciuto dall’adolescenza fino a quando era venuto a Milano
a fare il giornalista (apprendistato ad
Amica), per andare a trovare la madre.
Fin da ragazzo aveva scelto l’impegno civile, dapprima nei partiti borghesi come i liberali e i repubblicani dove «mi ritrovai sempre
all’ opposizione di sinistra, prima di andarmene in silenzio e senza mai sbattere la
porta», poi nei movimenti non violenti dei
radicali. Aveva scritto anche un’inchiestasaggio sui diritti civili nelle forze armate, di
ispirazione pacifista, Sotto le stellette,
pubblicato da Einaudi nel 1977, e aveva
fondato un periodico mensile, Arcana, dedicato al mistero e ai filoni spirituali emergenti
in quegli anni.
Tra i suoi primi interessi di giornalista, mai
abbandonati, ci sono senz’ altro i fumetti: da
Topolino ad Andrea Pazienza, da Tex Willer
a Charlie Brown, era un mondo che conosceva in ogni aspetto, anche, se così si può
dire, in profondità. Del resto tutto ciò che era
fantastico, strano, fuori dalle esperienze
multinazionale chimica Roche, nello stabilimento di Seveso. Ennio Elena si era dovuto
muovere tra silenzi e omertà, tra banali semplificazioni e occultamenti, riuscendo attraverso
una paziente ricerca di giorni e mesi a ricostruire il quadro completo (e delittuoso) di quella storia (che finì in un bel libro), sempre rivivendola dalla parte delle vittime, di quanti
erano stati espropriati della loro salute, di un
ambiente vivibile, persino delle loro case.
Proprio il tema della salute, legato inevitabilmente a quello della sanità, era diventato il suo
prediletto campo di lavoro e di ricerca. In
cronaca a Milano, attraverso le pagine del giornale, era riuscito a documentare lo stato della
sanità nel nostro paese, s’era occupato di
medicina del lavoro, s’era avvicinato, dopo
Seveso, ai grandi problemi dell’ecologia.
quotidiane lo affascinava: le Guerre stellari
di Lucas come E.T. e gli Incontri ravvicinati
del terzo tipo di Spielberg. E proprio la lunga
carriera di giornalista gli aveva permesso
incontri ravvicinati con i più grandi studiosi
del significato della vita umana. Tra questi lo
storico delle religioni Mircea Eliade, colui
che per primo lo aveva spinto a prendere in
mano le sacre scritture; Elémire Zolla,
l’esploratore delle tradizioni religiose ed
esperienze mistiche, di cui divenne amico e
un po’ anche discepolo; il filosofo Roger
Garaudy, già comunista poi marxista eretico, quindi cristiano e infine convertito all’Islam incontrato a Cordova insieme al grande teologo tedesco Hans Küng che la Chiesa aveva sospeso dall’ insegnamento; il biblista autodidatta Sergio Quinzio, tanto radicato nella fede cristiana quanto radicale nella
critica delle sue espressioni istituzionali; il
misterioso scrittore Carlos Castaneda,
famoso per aver raccontato al mondo «civile» la sua iniziazione alla stregoneria
dell’antico Messico, che viveva nascosto da
qualche parte a Los Angeles e si negava
qualsiasi contatto con i mass media; il priore
della comunità di Bose, padre Enzo Bianchi,
profeta di un rinato bisogno del sacro, di
esperienza del divino, che presto divenne
anche lui suo amico; e infine il vecchio
monaco buddista Thich Nhat Hanh, capo
spirituale della chiesa vietnamita, in esilio a
Bordeaux, che nel 1966 era andato fino alla
Casa Bianca per chiedere di aprire una
conferenza di pace e di smettere i bombardamenti: non fu ascoltato, ma molti veterani
sarebbero diventati suoi discepoli. Adesso
che Cesare non c’ è più, chi andrà a scovare
per noi questi personaggi così appartati
eppure fondamentali per la loro sapienza
spirituale, di cui tutti vorremmo conoscere la
parola? A noi che lo abbiamo avuto come
«compagno di banco» per una vita qui al
Corriere, mancherà tantissimo il collega
attento e pieno di interessi, l’ amico molto
buono e generoso, l’ intellettuale fine e sensibile, pronto sempre a condividere ogni azione volta a combattere violenze e volgarità.
(Corriere della Sera del 6 gennaio 2005)
Ennio Elena avrebbe compito settantotto anni
fra qualche mese. Era nato ad Alassio il 30
maggio 1927. Nel dopoguerra era diventato
funzionario della federazione comunista di
Savona. S’occupava di propaganda e, come
spesso capitava allora a chi si doveva appunto
occupare di propaganda, aveva iniziato a collaborare con l’Unità, come corrispondente.
Cominciò a lavorare più tardi a tempo pieno
per il giornale, alla redazione della pagina di
Savona. Conclusa quell’esperienza, accettò
nel 1960 il trasferimento a Milano.
Savona e la Liguria gli rimasero nel cuore e
nella parlata (oltre che nella fede calcististica,
sampdoriana). A Milano iniziò nel servizio
interni e passò quindi in cronaca, facendo
esperienza di questa città, della sua vicenda
politica e sociale, negli anni più intensi delle
lotte sindacali, delle contestazioni giovanili, poi
della strategia della tensione e del terrorismo,
delle giunte di sinistra.
Divenne di Milano un profondo conoscitore e
un acutissimo narratore. Alla pensione non
lasciò il giornalismo, continuò a scrivere, prestò
la sua cultura e la sua intelligenza al Triangolo
Rosso, la rivista dei deportati nei campi di sterminio nazisti.
ORDINE
3
2005
I NOSTRI LUTTI
Nel lontano1961
l’assunzione
prima al Corriere
d’Informazione,
per il rodaggio,
poi al Corrierone
Direttore
prima, nel 1976,
all’Eco di Padova
poi all’AltoAdige.
Finché
fu chiamato
alla guida
della Prealpina
Mino Durand
al ristorante
“Il Rigolo”
a Milano in
compagnia di
Franco Berutti
nel 1999 (foto
di Angelo
Mereu).
Mino Durand, il ritratto di «gambamatta»
è di quelli che scaldano il cuore
di Sandro Rizzi
Se dovessi fare un film sui vecchi cronisti
dell’era pre-elettronica lo ambienterei a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando
la nascita del Giorno (1956) ebbe sul Corriere l’effetto d’un secchio d’acqua gelida che
bruscamente interrompe la pennichella postprandiale. L’improvviso attacco d’un manipolo
di guastatori ben addestrati costrinse i sonnolenti e appagati strateghi di via Solferino a
reagire. Fu la stagione in cui il capocronista
Franco Di Bella scatenò i suoi assaltatori. Tutti
fuori a caccia i leg men, i cronisti «di gambe»,
per rifornire con i loro appunti i write men,
cronisti di penna, che ricomponevano il puzzle senza perdere un tassello.
Allora liceale, «battevo» commissariati ben
più provinciali, ma la lettura della cronaca
milanese del Corriere era per gli aspiranti giornalisti come una lezione quotidiana di quelle
scuole che in Italia sarebbero spuntate soltanto una ventina d’anni dopo.
Nel cast della sceneggiatura, uno degli interpreti con il nome in lettere maiuscole sarebbe
senz’altro Mino Durand, «il Mino» come si
annunciava al telefono.
Se n’è andato il 15 gennaio, a 68 anni, tradito
dal fegato a lungo bistrattato, ma il suo ricordo è di quelli che scaldano il cuore. Dai modi
un po’ rudi del suo «capo» aveva imparato a
scattare alla carica, con quel tanto di incoscienza che dà forza agli intrepidi. E quando,
qualche volta controvoglia, «capo» lo è diventato, per i suoi uomini si è sempre considerato
solo «il fratello» che sapeva infondere entusiasmo anche nei momenti più duri. Se strapazzava qualcuno, dieci minuti dopo se n’era
dimenticato e lo invitava a bere un whisky.
Come si inserisce in una trama che prevede
mobilissimi, agili reporter un ragazzo con una
gamba di legno? Mino non conosceva le
ipocrisie del «politically correct», si definiva
ridendo «gambamatta», e via a sfidare
concorrenti agguerriti ma forse un po’ meno
smaliziati. Saltava sulle macerie del Friuli
terremotato e ogni giorno aveva la storia più
vera, oltre alle anteprime sulle mosse dei
soccorritori. Sì, perché, come un mastino che
non molla mai la presa, s’era messo alle
costole di quello Zamberletti, varesino, che
sull’esperienza in Friuli avrebbe reinventato la
Protezione civile italiana. Divennero amici.
Al volante della sua «Daf» bordeaux adattata,
era un guidatore spericolato. Come spericolato era il suo personaggio di moderno
moschettiere: eleganza vistosa, raffinata,
mantellone a ruota, cachecol vaporoso,
lunghe sciarpe bianche, gemelli ai polsini,
bastone con pomolo d’avorio o d’argento.
Generoso anfitrione al ristorante (da Rigolo
aveva tavolo fisso, con l’arguto Franco Berutti,
Arnaldo Giuliani, cronista figlio d’arte, e il
giovane Angelo Mereu, artista dell’oro e della
fotografia) e in casa (quanti pranzi e cene ha
dovuto improvvisare, a tutte le ore, la moglie
Nora), prodigo di consigli con i giovani che
cominciavano la gavetta. Ricordando la sua
voglia di fare il mestiere.
Voglia di vivere, forza di volontà, ecco «il
Mino». Amava raccontare - come ha ricordato
sul Corriere Fabio Mantica, suo inseparabile
compagno nella Grande Cronaca - che da
piccolo, a 8 anni, dopo una caduta in cui
aveva battuto un ginocchio, un giorno l’avevano dato per spacciato e pietosamente ricoperto con un lenzuolo. Fu un medico, nel dargli
l’ultimo saluto, ad accorgersi che respirava
ancora. Lo restituì al mondo, ma ci volle una
battaglia di quattro anni in ospedale, con l’uso
di una delle prime dosi di penicillina in Italia,
per arrestare i danni irreversibili del virus che
aveva menomato la gamba ferita. «Vista la
situazione - racconta la figlia Giuliana, avvocato, che gli ha dato un nipotino (il figlio
maschio, Danilo, è allenatore di pallavolo) nonno Giulio, suo padre, direttore di banca, lo
iscrisse a ragioneria, nella loro Sanremo,
pensando che l’unico sbocco fosse un lavoro
sedentario in banca.
Ma è famoso il fatto che Mino, il nome vero
era Gerolamo, non ha mai saputo fare le addizioni e meno che meno conosceva le tabelline: la sua fortuna è stata la sua insegnante di
italiano che, ricambiato, lui ha adorato; i temi li
scriveva per tutta la classe e li passava...
Quando arrivavano i compiti in classe di mate-
matica incrociava le braccia ed attendeva
speranzoso... Il gioco ha funzionato per un po’,
ma poi lo hanno “sgamato”. Lui sognava solo
di fare il giornalista. Sognava solo il Corriere.
Esonerato dalle lezioni di educazione fisica,
correva a lavorare all’Eco della Riviera. E così
quando conobbe Enzo Grazzini, grande inviato del Corriere, che gli propose di partire con
lui non esitò. Doveva diplomarsi. Tramite amici
influenti riuscì a convincere il preside a non
bocciarlo (visto che la matematica era una
materia fondamentale)... giurandogli che non
avrebbe mai “esercitato” l’attività di ragioniere
e che non si sarebbe più fatto vedere. Si iscrisse a Economia e commercio a Genova, ma
non frequentò».
Grazzini era inviato del Corriere per varietà,
costume, festival e manifestazioni canore e
culturali. Mino gli si incollò al seguito, anonimo
portaborraccia: fiutava le notizie come un
segugio i tartufi e al momento in cui Grazzini si
metteva a scrivere lui gli aveva già fornito tutti
gli ingredienti, spezie comprese. Affabulatore
nato, ispirava fiducia, con lui tutti si confidavano. Ci vollero quattro anni, poi nel 1961 arrivò
l’assunzione (contemporaneamente a Roberto Gervaso): prima al Corriere d’Informazione,
per il rodaggio, poi al Corrierone. Ne è rimasto
orgoglioso per tutta la vita, mai dimenticando
la faticaccia: se ne vantava sempre, ma senza
spirito di rivalsa, senza alcun rancore. Anzi. Nel
‘68, nei giorni della contestazione all’università
uno dei capi gli offrì una laurea facile facile. Ne
ebbe uno sdegnoso rifiuto: «Al Corriere sono
arrivato senza essere dottore. Mi basta». Era
stimolato ad insegnare agli altri, e per farlo non
si tirava mai indietro, anche quando qualche
gallone appuntato sulla divisa glielo avrebbe
consentito.
In redazione era sempre di guardia notturna,
fino all’ultima chiusura, le 4. A quell’ora lo stanzone della cronaca era una sala da gioco, con
il vantaggio che, se succedeva qualcosa, il
pronto intervento era assicurato... senza
svegliare nessuno e senza pagare straordinari. A conclusione della giornata, spesso il gruppo si trasferiva in qualche ristorante per
nottambuli. Fino all’alba, e Mino non mancava.
Il Festival di Sanremo, per competenza terri-
toriale, rimase a lungo un servizio «suo» (nel
‘67 fu testimone della morte di Tenco). Lo
ricordo quando andava in giro per l’Italia (nel
1974, fu con Giampaolo Pansa, il primo a
comunicarci da Genova la liberazione del
giudice Sossi, rapito dalle Br). Negli anni di
piombo fu più volte minacciato: non rifiutò mai
un servizio. Così come era sempre pronto a
partire quando da Milano chiamava il capo
degli Interni: «Già che sei lì a Trento... perché
non vai a Trieste...?... Voglio il pezzo alle otto».
E alle otto: «Sono il Mino... passami gli stenografi». Qualche mugugno, mai un’impuntatura. Alla scuola Di Bella era «uso ad obbedir
tacendo», come i Carabinieri (e profonda era
la sua ammirazione per l’Arma, fonte preziosa
di notizie). Anche per sottrarlo alle minacce lo
«inviarono» a fare il direttore. Prima, nel 1976,
all’Eco di Padova, quotidiano creato e presto
sacrificato da Rizzoli per strategie editoriali,
poi lo lasciarono scegliere tra il Mattino di
Napoli e l’Alto Adige. Scelse quest’ultimo e si
conquistò una redazione sulle prime ostile.
Unica richiesta all’editore, la promessa di
tornare al Corriere. Tornò nell’84, capo degli
Interni. Ma continuava a invidiare gli uomini
che spediva sul campo.
Finché fu chiamato a Varese, dall’editore
Ferrario, alla guida della Prealpina. Accettò
con entusiasmo, ma scese piangendo lo
scalone del Corriere, che da più di vent’anni
era stato la sua vera casa. A due riprese, fra
baruffe e riconciliazioni con l’amico proprietario, rivitalizzò l’antico quotidiano (quante volte,
davanti a casi incerti, mi ha chiamato per
sentire cosa facevamo noi «in Solferino»):
quando un «fratello» andava a trovarlo, per
lavoro o per un saluto, gli si metteva a disposizione, memore delle ospitalità che da inviato
del Corriere aveva avuto nel suo peregrinare
nelle province.
Era un modo di sentirsi sempre corrierista, e
cronista. A Varese, una mattina, arrivando al
giornale, trovò in Cronaca due giovanissime
colleghe al computer: «Che cosa fate lì?
Fuori! fuori! andate in giro a cercare roba.
Ricordatevi che non siete impiegate del catasto».
Questo era «il Mino». Incapace di stare fermo.
Mirella Savà, un ricordo
su Tabloid come aveva chiesto
di Francesca Romana Mezzadri
Non è facile scriverle, ma queste quaranta
righe sono dedicate a mia nonna, Mirella Savà,
giornalista e donna meravigliosa, che si è
spenta improvvisamente lunedì 1° febbraio.
Da bambina, il pavimento della mia camera era
tappezzato di giornali. Erano la sua mazzetta,
e io li sfogliavo, li leggevo, ritagliavo scritte e
figure: erano il mio gioco preferito. Che si trattasse di una copia di Grazia o di Epoca, poco
cambiava: li divoravo letteralmente. È stato così
che la mia nonna giornalista (come mi è
sempre piaciuto chiamarla) mi ha trasferito
l’amore per una professione dalle mille facce,
tante quante quelle che lei ha esplorato nella
sua lunga carriera.Subito dopo la guerra, rimaORDINE
3
2005
sta sola con una bimba piccola, aveva iniziato
a scrivere novelle. Da lì al giornalismo, la strada è stata per lei naturale. Pubblicista dal 1956,
fu una precaria ante litteram, sempre combattiva e determinata nonostante già allora entrare
in una redazione e ottenere il praticantato non
fosse un’impresa facile: e infatti, divenne
professionista, con Carlo De Martino, solo nel
1974, quando era inviato di Grazia e girava il
mondo facendo interviste e reportage sempre
percorsi da una vena di curiosità, arguzia,
sensibilità, ironia.Tra le tappe della sua carriera, che più amava ricordare, le pubbliche relazioni tenute per Chatillon, La Castellana, Abital,
La Faini, il concorso di Miss Italia e tanti altri. E
poi, le collaborazioni con Grand Hotel e Stop
negli anni del boom dei settimanali popolari.
Ma anche quelle con Novella e Marie Claire, la
bella esperienza a Grazia e i lunghi anni in
redazione a Confidenze. Era una donna spiritosa e intelligente, come ricordano quanti le
sono stati vicini e hanno lavorato con lei. Per i
quali, ne sono sicura, è stata ben più di una
collega. Perché si è sempre prodigata per dare
una mano a chi ne aveva bisogno, e spesso
per trovare un posto o una collaborazione a chi
se lo meritava. In una lettera che abbiamo
trovato dopo la sua morte, mi chiedeva di far
pubblicare un suo ricordo su queste pagine: un
modo per salutare le tante persone incontrate
negli anni, e per accomiatarsi da un lavoro che
è stato la sua vita. Io lo faccio, con la malinconia e la tristezza di un momento per me difficile, ma con la gioia e la gratitudine per ciò che
mi ha insegnato, come giornalista ma, soprattutto, come donna.
25 (29)
T E S I
D I
L A U R E A
Università degli studi di Messina, facoltà di Lettere
e filosofia, corso di laurea in Lettere moderne.
Relatore prof. Lucrezia Lorenzini,
correlatore prof. Giuseppe Amoroso.
Anno accademico 2001-2002
di Palmira Mancuso
“Andare, osservare e raccontare” riassumono il cuore dell’attività giornalistica nella sua
immagine più romantica. Spinti da questa
innata esigenza diversi scrittori si cimentarono nel giornalismo, viaggiando come inviati
speciali tra rivoluzioni, guerre, morte e carestie. Sciascia, invece, non si spostò mai,
almeno idealmente, da Racalmuto, il suo
piccolo paese natale, sperduto nella profonda Sicilia, il luogo che più di ogni altro è stato
al centro delle sua esperienza narrativa, la
base da cui partiva e a cui puntualmente
faceva ritorno. Eppure, in questo microcosmo siciliano lui è stato un “inviato speciale”:
da lì ha osservato il mondo, ne ha raccontato la rivoluzione attraverso i suoi personaggi
più “eretici”, le guerre di mafia, la morte nelle
miniere di sale, le carestie di una terra povera e ingiusta, una “valle di zolfo e d’ulivi” dove
scorrono “acque gialle di fango / che i greci
dissero d’oro”.
Nel piccolo paese di Racalmuto, paese di
zolfatari e contadini, il giovane Leonardo Sciascia, che fin da piccolo dimostra la sua passione verso i libri e la lettura in genere, trova nel
“Circolo Unione” un luogo privilegiato da cui
osservare e decodificare la realtà. Nonostante l’asfittico ambiente piccolo-borghese, il
circolo concorre, con il cinematografo e con i
libri, alla formazione dello scrittore. È qui che
comincia il suo contatto con i giornali e lui
stesso, nelle parrocchie di Regalpetra, lo testimonia: “Il popolo lo chiama ancora circolo dei
nobili (o dei galantuomini dei civili dei don); i
soci lo chiamano semplicemente casino. È
situato sul corso, nel punto più centrale: consiste di una grande sala di conversazione, con
tappezzeria di color perso e poltrone di cuoio
scuro, una sala di lettura, tre sale da giuoco:
nella sala di lettura c’è la radio, quasi sempre
accesa, la possibilità di far profittevole lettura
è molto vaga: sul tavolo si trovano i quotidiani
Il Tempo di Roma e il Giornale di Sicilia; i settimanali Epoca, Oggi e La Domenica del
Corriere; le riviste L’Illustrazione italiana e Il
Ponte, quest’ultima rivista pochissimo e letta
e sdegnosamente tollerata vi si trova, in grazia
della concordia da cui il circolo prende nome,
per volontà di una diecina di giovani. Alla fine
di ogni anno c’è il tentativo di cassare l’abbonamento al Ponte dal bilancio, ma i giovani
stanno all’erta e ripresentano alla deputazione l’istanza del rinnovo; purché la concordia
non venga meno gli altri sopportano lo scandalo di una simile rivista”. Immaginiamo i
buoni borghesi riuniti al circolo, che leggono i
tipici giornali del moderatismo anni cinquanta,
ad esclusione della rivista Il Ponte, l’unico
abbonamento che Sciascia riesce a strappare agli amministratori, nel suo costante intento di modificare le pigrizie culturali dei soci, dei
quali osserva le miserie morali ed il conformismo.
Leonardo
Sciascia
GIORNALISTA
FUORI “ALBO”
Prima di analizzare l’esperienza di Sciascia
nelle singole testate, a cui abbiamo fatto riferimento, è bene ricordare anche l’esperienza nella redazione de Il Giornale di Sicilia,
con un aneddoto raccontato da Roberto
Ciuni, all’epoca direttore della testata palermitana, che ricorda “quel giornalista da
prima pagina” in un articolo scritto per
Malgrado Tutto in occasione del decimo
anniversario della morte dello scrittore racalmutese, e spiega come mai Sciascia, iscritto all’elenco dei praticanti dell’Ordine nazionale dei giornalisti (passo che precede
l’iscrizione all’elenco professionisti) rifiuta il
“tesserino” professionale. Al centro di tutto,
come sempre, “una questione di giustizia”…
“All’inizio del 1972 quasi ogni mattina passavo a prendere il caffè in casa di Leonardo
Sciascia, a Villa Sperlinga […] Di tanto in
tanto Sciascia mi scriveva delle noterelle
che pubblicavo in prima pagina, così come
Renato Guttuso mi illustrava gratis delle
pagine ricostruttive di storia dell’isola con
bellissimi disegni. Chiacchierando durante il
caffè, un giorno prendemmo l’argomento
Moravia: il Corriere della Sera l’aveva fatto
praticante. Per quanto uno scrittore italiano
avesse successo e guadagnasse bene, né i
romanzi, né alcun genere di saggistica (il
fenomeno Eco era ancora lontano), potevano dare la sicurezza del futuro che dava il
sistema giornalistico – dallo stipendio alla
previdenza e, infine, alla pensione. Se ne
parlava, da parte sua, con la naturale ritrosia a mettersi sul mercato editoriale, quindi
con la convinzione di non poter contare sui
redditi elevati nonostante le ottime vendite
dei libri, e, da parte mia, con la speranza di
replicare in Sicilia uno schema nobilmente
applicato a Milano dal Corriere della Sera:
quello dello scrittore assunto da un giornale
in pianta stabile per far soltanto lo scrittore,
non per inseguire notizie o impaginare. Lo
convinsi, la mia proposta fu accettata dagli
editori Pietro Pirri e Federico Ardizzone,
rappresentanti delle due anime proprietarie
del giornale, e firmai la lettera d’inizio del
praticantato. Sciascia volle impegnarsi in
una rubrica di prima pagina intitolata ai suoi
vecchi zii di Sicilia, quasi che adesso lo zio
fosse lui che la redigeva. E – ricordo – scrisse un fondino alla caduta del DC9 a Punta
Raisi che riprendeva il tema del ponte di
San Louis Rey. Piano piano s’accorse però
della differenza assai marcata tra la sua
posizione di privilegio – frequentava il giornale solo per portare un articolo, scriveva o
non scriveva a secondo dell’argomento e
26 (30)
della voglia – e quella dei redattori, soprattutto gli altri praticanti, costretti a fare fatiche
inaudite, cosa consueta nei giornali regionali, sui cumuli di lavoro da smaltire. Passati
un po’ di mesi mi disse che la cosa gli
sembrava ingiusta e il suo praticantato finì
così, con mio grande dispiacere.”
RECENSORE
DI TEATRO
PER L’ ESPRESSO
Ancora una parentesi nell’attività giornalistica di Sciascia, che dal novembre del 1978
al maggio 1983 fu anche recensore di teatro
per L’Espresso, alternandosi settimanalmente con la giovane redattrice Rita Cirio.
Venti in tutto gli articoli che ha scritto, dopo
aver accettato l’incarico con qualche
perplessità, affermando di cimentarsi in
questa attività “per verificare, dopo tanti
anni, se il mio amore al teatro, la mia passione per il teatro, ancora esiste o se oggettivamente il teatro che oggi si fa offre ragioni
a che resista e si rinnovi”. Probabilmente lo
scrittore, dopo le furiose polemiche seguite
alla pubblicazione dell’ Affaire Moro, considerò questo impegno come una buona
opportunità per dedicarsi ad “altra scrittura,
ad altro testo”.
INFLUENZA DEGLI
SCRITTORI-GIORNALISTI
AMERICANI
Negli Stati Uniti inizia una nuova stagione
per la comunicazione, soprattutto con
l’esperienza degli inviati sui fronti di guerra,
e la “moderna letteratura americana”
concorre alla formazione del giovane Sciascia.
La famiglia Sciascia, infatti, nel 1935 si
trasferisce a Caltanissetta per permettere ai
figli di studiare e Leonardo si iscrive all’Istituto Magistrale IX Maggio, dove incontra
figure decisive per la sua formazione, tra cui
anche Vitaliano Brancati, che insegna in
un’altra classe dello stesso istituto.
Sciascia lo spia e lo legge ogni settimana
sulle colonne di Omnibus, il celebre rotocalco di Longanesi, dove una pattuglia di
scrittori trentenni sapeva guardare altrove,
alla letteratura nordamericana, alla grande
letteratura memorialistica francese, alle
inquietudini e alle introspezioni della Mitteleuropea.
Una lira. Ma ne valeva la pena: Barilli e Savinio, gli articoli di Vittorini sugli scrittori ameri-
Sciascia fotografato da Ferdinando Scianna a Racalmuto, 1964.
cani, i racconti di Caldwell e Saroyan, di un
Giovanni Drogo che credo fosse Dino
Buzzati, certi rapporti sull’America di Moravia e De Chirico; e che delizia le lettere di
Brancati al direttore! “Caro direttore…” ed
era come se da quel tessuto di noia che era
la nostra vita di ogni giorno, improvvisamente balzasse nel fuoco una lente, che lo
ingrandiva e lo deformava, un particolare
della trama un nodo o una smagliatura.
Pensavo: così si deve scrivere, così voglio
scrivere.
Questo è anche il periodo della guerra in
Spagna, della scoperta dell’antifascismo,
delle letture di Faulkner, Caldwell, Steinbeck, Dos Passos ed Hemigway, che furono, questi ultimi in particolare per Sciascia,
modello di ardite sperimentazioni strutturali
e linguistiche.
Ed ancora Sciascia, in una pagina di Nero
su Nero, a proposito delle foto che gli inviati dei giornali americani e inglesi fecero
durante la campagna di Sicilia, nel 1943,
scrive: “Queste due fotografie dicono tutto.
E non ci sono soltanto il pastore, il paesano, i soldati che allegramente si arrendono:
ci siamo anche noi, ventenni, col mito
dell’America che non ci veniva dai parenti
e dagli amici (degli amici), ma dalle appassionate letture, cui Vittorini e Pavese ci
avevano avviato, di Faulkner, di
Hemingway, di Steinbeck, di Caldwell, di
Saroyan. Che ve ne sembra dell’America?
chiedeva il titolo di un libro di Saroyan
tradotto da Vittorini. La libertà, la democrazia, il new deal, la frontiera verso il mondo
nuovo – era la nostra risposta.”
Dunque, anche se in maniera indiretta, lo
stile di questi scrittori-giornalisti ha influenzato Sciascia, soprattutto nella sua tecnica
ORDINE
3
2005
Sono gli anni della seconda guerra mondiale, gli anni del diploma magistrale e del primo
impiego, nel 1941, presso il consorzio agrario di Racalmuto. In questo stesso anno
Sciascia viene ammesso ai corsi universitari
della facoltà di Magistero a Messina, con un
tema sul teatro dedicato all’opera di Wilder
Piccola Città. “Con l’Università ha chiuso
subito, ai primi deludenti esami. […] rimedia
un 18 in filosofia […] è bocciato in letteratura
italiana […] quando Sciascia sarà in fin di
vita e la facoltà di Lettere delibererà di assegnargli la laurea ad honorem in Lettere, lui
farà in tempo a dire: “Mi sarebbe piaciuto
averla in Legge” (la laurea honoris causa alla
memoria è stata conferita a Messina l’8
giugno 2000). Nel 1944 si sposa con Maria
Andronico e in questo periodo comincia a
pubblicare articoli politico-letterari sui giornali Vita Siciliana, Sicilia del Popolo e Unità.
“Sono testi che risentono molto dell’epoca in
cui furono scritti, connotati da un’intensa
aspirazione alla libertà e alla pace universale e lo stile del giovane Sciascia è ancora
debitore della prosa rondesca”. È il 1946
quando Leonardo Sciascia, spinto da un
sentimento di civile indignazione, invia un
articolo al Politecnico, la rivista diretta da Elio
Vittorini. L’articolo, che non sarà pubblicato
ma che verrà citato nella rubrica della posta,
è un primissimo esempio di come lo scrittore
creda nella forza del giornalismo e della
scrittura, della sua funzione pedagogica e
moralizzatrice; infatti, dalle righe dell’articolo
leggiamo: “Vorrei richiamare di più l’attenzione su quello che è l’isola: un verminaio di
reazione affannata a raccogliere nomenclatura nuova che mascheri i vecchi vizi”. Intanto da Racalmuto Leonardo Sciascia arriverà
a collaborare ad alcune tra le principali riviste letterarie del tempo (Nuovi Argomenti,
Letteratura, Nuova Corrente, Officina, Il
Ponte, Tempo Presente) con testi creativi o
recensioni e scriverà anche per Il Raccoglitore, l’inserto culturale del quotidiano La
Gazzetta di Parma, che all’epoca gode di un
certo prestigio.Nel 1949 è tra i fondatori della
rivista Galleria, stampata a Caltanissetta da
un suo omonimo, Salvatore Sciascia, che dal
1950 dirigerà fino alla morte, garantendosi la
collaborazione di prestigiosi scrittori e critici,
da Mario Guidotti a Luigi Russo, a Cesare
Zavattini. Nei decenni successivi la collaborazione dello scrittore con le riviste letterarie
si dirada, anche se da segnalare è la condirezione con Moravia ed Enzo Siciliano della
terza serie di Nuovi Argomenti, lasciando
spazio al suo impegno di “cronista” per i
quotidiani.
L’esperienza giornalistica di Sciascia, che
attraversa tutto l’arco della sua vita, per
semplicità d’esame, possiamo suddividerla in
quattro fasi, caratterizzate da quattro diverse
testate, anche se, come vedremo, l’autorevole
firma di Sciascia è richiesta e ospitata da più
giornali contemporaneamente:
1
L’Ora di Palermo, con cui ha iniziato a collaborare nel 1955 e dove ha curato una
rubrica, dal 1964 al 1968, che lui stesso ha scelto di chiamare semplicemente
“Quaderno”; questa esperienza sarà importante per il giovane scrittore che, in una
Sicilia dove la Democrazia Cristiana è partito di maggioranza assoluta, trova in questo
giornale d’opposizione, spazio per esprimere quel suo impegno civile, che poi culmina nella pubblicazione, nel 1961, del suo libro più famoso, Il giorno della Civetta, libro
da cui “sono nate tutte le antimafie”;
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Il Corriere della Sera, dove la sua collaborazione è alterna: dal 1969 al 1972,
quando alla direzione c’è Giovanni Spadolini, e poi, dopo qualche anno, sotto la
direzione di Piero Ottone, che ospita voci e istanze nuove, cambiando ruolo alla
figura del letterato, che dalla pagina tre si sposta in prima pagina; gli anni del
Corriere sono segnati da grandi tensioni sociali e politiche, a cui Sciascia partecipa in prima linea proprio dalle pagine del quotidiano milanese, da cui si allontana
“simbolicamente” il 10 gennaio 1987, giorno della pubblicazione dell’articolo sui
“professionisti dell’antimafia”, che dà inizio ad una delle polemiche più feroci nei
confronti di Sciascia, la cui fiducia nei giornali e nei giornalisti va via via diminuendo;
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4
La Stampa, con cui, nonostante suoi articoli compaiono già dal 1972, collabora in
maniera più intensa dopo aver rotto i ponti con il Corriere della Sera; questo periodo,
che coincide anche con gli ultimi anni della sua vita, vede Sciascia meno polemista,
più propenso a scrivere di letteratura, a parlare di Manzoni, a ricordare la lezione di
libertà lasciata da Brancati, a recensire testi inediti di Savinio…
Malgrado Tutto, che sancisce il ritorno alla dimensione paesana, a quella Racalmuto
che lo stava ancora aspettando e che ne voleva raccogliere l’eredità, attraverso un
piccolo periodico cittadino di commento e cultura, di cui Sciascia segue le sorti fin
dalla nascita e a cui collabora, affidando ai giornali locali il ruolo di opposizione concreta, in polemica con le testate nazionali di cui denuncia l’uniformità.
Uno scrittore in redazione
di realismo narrativo che appartiene alla sua
scrittura degli esordi, quando lo stesso scrittore sente il peso dei “latinucci” da cui ancora non riesce a staccarsi.
Ma se “tecnicamente” la vicenda americana
ha avuto un ruolo per la codificazione del
linguaggio giornalistico moderno e per la
sua interpretazione critica sicuramente è
molto lontana dall’esperienza dello scrittore
di Racalmuto, che sul giornalismo e sul
ruolo del giornalista aveva opinioni precise,
che non esitava a puntualizzare ogni qual
volta ne avesse l’occasione. Così, in un articolo del Corriere della Sera, datato 14 ottobre 1983, leggiamo che “lo scoprire altari ed
altarini dovrebbe essere funzione assidua di
coloro che hanno a che fare con la carta
stampata e con altri mezzi che comunicano
e formano opinione”. Sempre in un articolo
del 1983, pubblicato su l’Espresso il 20
febbraio, Sciascia ribadisce che tra i compiti
del giornalista c’è quello di saper leggere la
realtà, di capirla, di farne giudizio e che
“nell’ambito della carta stampata, di coloro
che vi lavorano, l’ignoranza – anche se c’è –
non è da ammettere, come non è ammessa
di fronte alle leggi”.
RADIO E TV:
MA LA COMUNICAZIONE
PER SCIASCIA
RESTA SCRITTA
Leonardo Sciascia ebbe la capacità, da
grande intellettuale qual era, di utilizzare con
facilità tutti i mezzi di comunicazione, se
questo rispondeva alla necessità di spingere sempre oltre il suo pensiero, rivolto, quasi
in maniera ossessionante, alla giustizia.
Prendiamo, ad esempio, la sua esperienza
a Radio Radicale e riportiamo una testimonianza di Valter Vecellio, allora direttore di
Notizie Radicali, che ricorda: “Si era tra il
1980 e il 1981. Le Brigate Rosse avevano
rapito il giudice Giovanni D’Urso; […] Sciascia, che pure era uno scrittore affermato, le
cui collaborazioni erano contese, in quell’occasione non trovò nessuno che fosse disposto a pubblicare i suoi scritti, i suoi appelli
diretti alle Br perché liberassero senza
condizioni D’Urso. E lui, pur così refrattario
a parlare davanti ad un microfono, veniva
alla Radio Radicale. Con quella sua voce un
pò roca, la cadenza lenta, si rivolgeva direttamente alle Br; in nome del diritto, della
ragione.”
È opportuno, dunque, analizzare il rapporto
che lo scrittore aveva con i mezzi di comunicazione diversi dalla carta stampata.
Dobbiamo constatare, infatti, che non era
certo un personaggio da talk show televisivo e le sue apparizioni in tv sono state veramente poche. Dalle parole della moglie
Maria Andronico, scopriamo addirittura che
ORDINE
3
2005
in casa Sciascia, in contrada “Noce” a
Racalmuto, non c’era neanche la televisione: “Leonardo non lo voleva qui. Mentre a
Palermo ne abbiamo uno che tanti anni fa ci
regalò il giornale L’Ora. Leonardo lo accendeva solo per seguire i telegiornali. Per le
dirette dedicate alle elezioni mostrava però
un grande interesse”.
Per Sciascia il mondo della comunicazione
era a senso unico: non poteva prescindere
dall’informazione, intesa soprattutto come
esperienza scritta. Del suo scetticismo nei
confronti della tv lo stesso Sciascia parla
con la solita ironia: “ Ai primi fasti della televisione, quando nelle famiglie e nei circoli
tutti – come ora – vi stavano attaccati, ma si
pensava per amore alla novità, ho sentito
questo giudizio di contadina saggezza: “la
televisione è come il porco; niente va perduto” – e cioè che come ogni parte del porco
viene consumata o utilizzata, così ogni cosa
che la televisione trasmette. E così continua
ad essere; e anche peggio se il cancelliere
Schmidt ha rivolto un discorso ai tedeschi
esortandoli a un digiuno televisivo di almeno un giorno la settimana. Mai preoccupazione di un uomo di governo è stata più
giusta. E dico di più: mai un uomo di governo si è preoccupato del declino d’intelligenza dei governati e dell’aumento del tasso di
stupidità, come lui nei confronti della televisione. […] E speriamo almeno che passi
anche questa del digiuno televisivo: tanto
necessario quanto, secondo il Corano, il non
mangiare carne di porco in Arabia.” Da
attento osservatore qual è sempre stato,
con questo scritto di trenta anni fa, Sciascia
si conferma profetico nel proporre un dibattito che oggi è all’ordine del giorno; del potere di assuefazione e di livellamento intellettuale della televisione lo scrittore aveva
addirittura una certa paura, di cui parla a
Davide Lajolo in Conversazione in una stanza chiusa, un libro-intervista che ripercorre
l’impegno civile e culturale dello scrittore e
dove, tra le tante cose, afferma: “La mia
paura è più della massa davanti ai televisori
che della massa sotto un dittatore. Le tirannie fanno sì che molti individui si sciolgano
dalla massa, ma i televisori no. E poi c’è la
parola. Massa. Far massa. In elettricità, mi
pare, non è niente di buono.”
Possiamo dedurre che i mezzi di informazione per Sciascia hanno essenzialmente una
valenza pedagogica, conoscitiva, priva di
intenti ricreativi, che sono invece, ma in
un’accezione positiva, nella scrittura.
Un’idea, quest’ultima, che l’autore siciliano
riprende da Montaigne (“non faccio nulla
senza gioia”), per cui il lavoro letterario equivale al dilettantismo, al fare le cose per diletto, con gioia.
“Per quanto amare, dolorose, angoscianti
siano le cose di cui si scrive, - dice Sciascia
- lo scrivere è sempre gioia, sempre “stato
di grazia”. O si è cattivi scrittori.”
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Leonardo Sciascia
e L’Ora
“Il L’Ora”, così lo chiamavano i palermitani,
era un quotidiano indipendente della sera.
Fu fondato nell’aprile del 1900 dalla famiglia
Florio, capofila di una nuova borghesia illuminata ed antiproibizionistica, che in esso
aveva trovato il proprio organo d’informazione. Aveva poi attraversato il fascismo, facendo viva opposizione, fino a quando aveva
potuto. La sua stagione di gloria ebbe inizio
nel dopoguerra, quando la Sicilia tornò a
rinascere, con l’autonomia regionale, la riforma agraria, la tentata industrializzazione.
Giornale dichiaratamente di sinistra, l’editore
era il Partito comunista italiano, L’Ora si fece
interprete di questo spirito di rinnovamento,
scegliendo di schierarsi contro la faccia
negativa di quello stesso rinnovamento: la
nuova mafia, il clientelismo, la nascita di
nuovi potentati economici che basavano le
proprie risorse sulla spesa regionale. Non fu
un’operazione semplice e la testata pagò a
caro prezzo la sua perseveranza nel denunciare piccoli e grandi scandali di una società
corrotta e di una politica collusa, non soltanto in termini di querele, che a decine e decine arrivavano in redazione a seguito delle
coraggiose inchieste che quotidianamente
venivano pubblicate, ma anche in termini di
sacrifici umani: L’Ora è il quotidiano che nella
storia della stampa italiana annovera il più
alto numero di giornalisti uccisi dalla mafia:
Mauro De Mauro, Cosimo Cristina e Giovanni Spampinato.
Il quotidiano di Palermo ha rappresentato
un’informazione di frontiera, che attraverso
le inchieste, i servizi, l’indagine, si è battuta
contro i poteri occulti, specie quelli mafiosi,
facendo del giornalismo uno strumento di
lotta politica.
La stagione più importante de L’Ora è legata
al nome di Vittorio Nisticò, direttore del quotidiano palermitano nel ventennio che va dal
1954 al 1975, un giornalista attentissimo e
autorevolissimo, che fece guadagnare alla
testata prestigio nazionale. In questo arco di
tempo sono stati tanti gli avvenimenti politici
e di cronaca puntualmente registrati dal
quotidiano d’opposizione: dal “milazzismo”
(l’operazione politica che estromise la DC dal
governo della Regione) all’uccisione del
procuratore capo Pietro Scaglione, dal
“sacco” edilizio dei Lima e dei Ciancimino al
sisma del Belice.
Quando nel 1958 uscì la sua prima grande
inchiesta sulla mafia, di questo fenomeno
cruento e inquinatore della politica nessun
media faceva cenno, giungendo pure a
negarne l’esistenza. E scrivere questa parola, a chiare lettere, sulle pagine del giornale,
provocò la reazione di Cosa Nostra, che
collocò una bomba tra la redazione e la tipografia. La risposta del quotidiano fu altrettanto chiara : “La mafia ci minaccia, l’inchiesta
continua”; vennero ripubblicate in un inserto
anche tutte le puntate precedenti. Questo
episodio portò il Presidente della Repubblica
Saragat a dichiarare che “ci voleva questo
attentato per capire che la mafia c’è”, dando
vita alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, che poi, malgrado i tentativi
di opposizione al disegno di legge istitutivo,
da parte di deputati e senatori della Democrazia Cristiana, che la reputarono “inutile,
offensiva e incostituzionale”, diventò permanente.
Insomma, L’Ora di Nisticò ha avuto anche
questo merito, quello cioè di portare a conoscenza dell’intera nazione che la mafia in
Sicilia c’era, ma che c’erano anche siciliani
disposti a combatterla.
Ma L’Ora non fu solo questo: la redazione
palermitana è stata anche un centro di cultura e di aggregazione intellettuale; basti
pensare non solo a Leonardo Sciascia, ma
anche a Michele Perriera, Gioacchino Lanza
Tomasi, Danilo Dolci, Giuliana Saladino,
Vincenzo Consolo, “scoperti” e apprezzati da
Nisticò prima che diventassero gli autori che
oggi conosciamo, e che arricchivano il giornale di tutti quei temi leggeri, ma non futili,
che riguardavano il mondo dell’arte e del
costume. Accanto a queste “penne” vi erano
anche i “pennelli” di Renato Guttuso e le
“matite” di Bruno Caruso, che spesso illustravano i fatti di cronaca più importanti.
L’Ora non esiste più, ma la sua lezione di
giornalismo continua ad essere presente,
attraverso molte “firme” sui più autorevoli
quotidiani nazionali, di giovani cresciuti nel
“laboratorio” giornalistico siciliano, come l’attuale direttore de La Stampa di Torino,
Marcello Sorgi, che ha scritto di come a
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T E S I
D I
L A U R E A
Leonardo Sciascia, uno
2
Leonardo Sciscia (foto di Giacomo Fotogramma)
caratterizzare l’identità del quotidiano era “il
mix di politici, intellettuali, artisti e scrittori
che si affacciavano nel pomeriggio…”.
Dell’ultima generazione di cronisti, formatisi
nella redazione del quotidiano siciliano, ricordiamo Gianni Riotta, Attilio Bolzoni, Antonio
Calabrò, Alberto Stabile, e Francesco La
Licata, solo per citare alcuni tra quelli più
conosciuti.
Ed è con orgoglio che, ricordando l’esperienza de L’Ora, La Licata, giornalista esperto di
storia della mafia, incontrato a Roma proprio
in occasione di questa mia ricerca, mi dice
come l’appartenenza a quel giornale “non
era questione di essere militanti; negli anni
‘70 essere contro la mafia era un dovere”. E
l’adesione al partito comunista, voleva dire
schierarsi contro il potere, soprattutto contro
il potere mafioso.
Erano gli anni in cui la Democrazia Cristiana
spadroneggiava e dove a Palermo “la parola
d’ordine nei confronti del giornale d’opposizione era ostracismo”, come ricorda il cronista - poeta Mario Farinella. “Fu in quell’atmosfera e a dispetto di quell’atmosfera che
Leonardo Sciascia cominciò a scrivere per
L’Ora. Era l’inizio di una collaborazione che
doveva durare per più di trent’anni, sino a
qualche ora prima della morte”.
Sulle pagine del quotidiano del 3 aprile 1965,
a chi gli chiedeva il perché di una così
convinta consuetudine con L’Ora, Sciascia
rispondeva scrivendo: “L’Ora sarà magari un
giornale comunista, ma è certo che mi dà
modo d’esprimere quello che penso con una
libertà che difficilmente troverei in altri giornali italiani. In quanto al mio essere di sinistra, indubbiamente lo sono: e senza sfumature”.
A proporre allo scrittore una collaborazione
regolare fu, all’inizio del 1955, l’allora neodirettore Vittorio Nisticò su indicazione di Gino
Cortese, l’intellettuale comunista nisseno,
che tanto aveva saputo influire sul giovane
Sciascia nella sua presa di coscienza antifascista. Brancati era appena morto e sarà lo
scrittore racalmutese a prendere il suo posto,
scrivendo di tutto, note critiche, ma anche
riflessioni culturali, politiche, inchieste e
reportage.
Riguardo alla data del primo articolo pubblicato da Sciascia esistono delle fonti discordanti tra loro, tranne che per l’anno di pubblicazione che resta il 1955. Così Matteo Collura, nel Maestro di Regalpetra, riferisce quella del 23 febbraio, dove Sciascia dedica una
nota letteraria al poeta dialettale catanese
del Settecento, Domenico Tempio; mentre
nella raccolta “Quaderno” di Leonardo Sciascia, pubblicata dalla Nuova Editrice Meridionale nella collana “Dalle pagine de L’Ora”,
l’Editore riferisce dello stesso articolo, ma
con la data del 25 febbraio. C’è poi la testimonianza di Vittorio Nisticò che sposta la
data al 24 marzo: si tratta ancora di una nota
letteraria, ma su un libro di Vittorio Fiore, Ero
nato sui mari del tonno.
Di certo, dunque, il 1955 segna l’inizio della
carriera giornalistica di Sciascia, ancora
praticamente sconosciuto (solo un anno
dopo avrebbe pubblicato Le Parrocchie di
Regalpetra) e segna anche l’inizio di un
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amichevole rapporto tra lo scrittore e il direttore del quotidiano siciliano.
Vittorio Nisticò in un libro recentemente
pubblicato da Sellerio, dove ripercorre i suoi
venti anni di direttore al L’Ora di Palermo,
ricorda così la nascita di questo duraturo e
proficuo rapporto: “Per conoscerlo e concordare la collaborazione ero andato a trovarlo
in una sua casetta di campagna nei pressi di
Racalmuto, in compagnia di un comune
amico, Gino Cortese, deputato comunista al
parlamento siciliano”. La presenza di Sciascia in redazione era sempre molto discreta
e rispecchiava la personalità sobria e riservata dello scrittore, che pareva “quasi timoroso di infastidire”. Scrive ancora Nisticò:
“Sciascia era per tutti noi – da me al cronista
più giovane – uno di casa: sempre pronto ad
intervenire anche nella cronaca diretta o nel
fuoco delle polemiche, con le sue riflessioni
stringenti e in più di un caso le sue ire, e
sempre con un rispetto puntiglioso della
puntualità. Insomma facendo alto giornalismo. E questo me lo rendeva, ce lo rendeva
particolarmente vicino”. Sarà per il giornale
palermitano che lo scrittore, a poche ore
dalla morte, dettò quello che può considerarsi la sua ultima riflessione pubblica, ovvero
la prefazione, richiestagli da tempo, per il
volumetto di scritti di Borgese apparso poi
nella collana “Dalle pagine dell’Ora”.
IL “QUADERNO”
DI SCIASCIA
Sciascia era ancora un intellettuale in crescita, quando entra a far parte della redazione
de L’Ora. Sebbene le sue doti indiscusse di
scrittore fossero già evidenti e certe scelte
ideologiche già ben chiare, il giornale palermitano fu una palestra dove far “pratica” e
“imparare a scrivere”, utilizzando un linguaggio sempre più giornalistico, più diretto, esercitando la sintesi, esplorando le tecniche di
realizzazione di un’inchiesta, osservando i
criteri necessari a fare indagine.
Dall’ottobre del 1964 al novembre del 1968
Sciascia tenne una rubrica, che volle chiamare Quaderno: quattro interventi al mese,
che, come nel suo stile, sono spunti di
conversazione, di polemiche, che gli vengono suggeriti dagli eventi politici, sociali, ma
anche dai fatti di cronaca.
“Il nome quaderno – scrive Vincenzo Consolo nella prefazione alla raccolta di questi
scritti – al di là della versione francese
“cahier” che in tanti altri sensi lo fa risuonare,
vogliamo credere alluda al pirandelliano
Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Ma
quaderno anche nel senso di diario, di lettere al direttore, come quelle che dal suo
volontario esilio inviava Brancati alla rivista
Omnibus”.
Il contenuto di questi interventi è vario, ma
comune a tutti è la sottile ironia, mediata
attraverso la citazione letteraria o storica.
Così notiamo che, quando Sciascia tratta
argomenti letterari sembra di leggere tra le
righe un ammonimento, un richiamo alla
realtà; quando commenta fatti di cronaca lo
fa alla luce della “verità” letteraria.
Il Corriere della Sera:
una stagione
di polemiche
È il 1969 quando Sciascia inizia a collaborare con il Corriere della Sera.
La sua fama di scrittore continua a crescere:
dopo il successo de Il giorno della civetta,
pubblicato nel 1961, esplora nuove strade
dando alle stampe nel 1963 un romanzo
storico, Il Consiglio d’Egitto, e nel 1964 un’inchiesta storica, fondata su documenti d’archivio, Morte dell’inquisitore. Nel 1966 Sciascia pubblica un’altra storia di mafia, un altro
fortunato romanzo poliziesco, A ciascuno il
suo, ispirato all’omicidio del commissario di
Pubblica Sicurezza agrigentino Cataldo
Tandoj (1960).
Questi sono gli anni in cui dalla dimensione
“siciliana” Sciascia approda a quella nazionale ed europea; rifiuta pubblicamente e
polemicamente l’etichetta di “mafiologo”,
allargando la sua riflessione alla realtà dell’Italia intera, alle sue tragiche contraddizioni.
Nel 1970, a quarantanove anni, Sciascia
abbandona la scuola e va in pensione, dedicandosi quindi a tempo pieno all’attività letteraria e giornalistica. Intanto già un anno
prima Giovanni Spadolini, nominato direttore
del Corriere della Sera, lo chiama tra i suoi
collaboratori e, ci fa sapere Matteo Collura,
“lui è orgoglioso di vedere la sua firma sul
giornale che aveva ospitato quelle di Borgese, Brancati, di Pirandello”. Per il Corriere,
dalla cui redazione viene accolto con gli
onori riservati ai grandi personaggi della
cultura, scrive elzeviri di grande interesse,
alcuni dei quali faranno parte de “La Corda
Pazza”, una raccolta di ventotto studi scritti
tra il 1963 e il 1970 dedicati a scrittori e cose
della Sicilia. Questo titolo è anche il titolo del
primo intervento di Sciascia pubblicato sul
Corriere della Sera il 4 febbraio 1969 e dedicato al barone Pietro Pisani, un uomo
“saggio al punto da riconoscersi folle, e
abbastanza folle da ritenersi tra i folli il più
saggio”, che dedica la sua esistenza a
rendere più umana l’istituzione manicomiale
della ottocentesca Real Casa dei Matti di
Palermo, e la cui concezione della vita “molto
si avvicina a precorrere quella di Pirandello”,
come scrive lo stesso Sciascia, che aggiunge: “In due battute pirandelliane si può infatti
riassumere la visione della vita, e il modo di
vivere e di operare, del barone Pisani: ‘Deve
sapere che abbiamo tutti come tre corde
d’orologio in testa. La seria, la civile, la
pazza’; ‘E via, sì, sono pazzo! Ma allora,
perdio, inginocchiatevi! Vi ordino di inginocchiarvi tutti davanti a me – così! E toccate tre
volte la terra con la fronte! Giù! Tutti, davanti
ai pazzi, si deve stare così!’. La prima è del
Berretto a sonagli, cioè di una commedia
precisamente localizzata e che assume e
scioglie il tema della “follia” nella tipicità della
vita siciliana, delle sue regole; la seconda
dell’Enrico IV, in cui il tema trascorre dal caso
clinico all’esistenza stessa”. Ancora una
testimonianza del rapporto con Pirandello e
con quel “pirandellismo di natura”, a cui Sciascia all’inizio della sua carriera cercava di
ribellarsi, come un adolescente si ribella al
padre.
Spadolini fu per tre anni direttore di Sciascia
fino al 1972, quando divenuto senatore nel
Partito Repubblicano Italiano venne allontanato dal giornale per volontà degli editori. Per
dimostrare la lealtà dello scrittore nei suoi
confronti, Spadolini dirà che “Sciascia, con
un’interpretazione di fedeltà ombrosa e rigorosa che era assolutamente di altri tempi,
lasciò via Solferino dopo la mia rottura col
quotidiano milanese e passò alla Stampa”.
In effetti Sciascia interrompe per qualche
anno la sua collaborazione non “per fedeltà”,
ma in segno di protesta per il modo in cui gli
editori lo avevano liquidato; “lo scrittore considerava Spadolini una sorta di “bigotto laico” scrive Matteo Collura - e il perché stava
proprio nel suo rapporto di collaborazione
con la testata da lui diretta. Ogni qual volta lo
scrittore faceva avere un suo articolo al
Corriere, Spadolini gli inviava un telegramma
per ringraziarlo. Un rituale che si era interrotto allorchè Sciascia aveva mandato un articolo dedicato ad un oscuro episodio avvenuto nella Sicilia del XVIII secolo: una macchia
nella storia, irta di inquietanti analogie con la
realtà politica e istituzionale di quei giorni. Lo
scritto si concludeva con un’amara riflessione
rivolta al presente, in cui lo Stato veniva definito “cadavere”. Una rosa per Matteo Lo
Vecchio s’intitolava quel racconto, che avrebbe costituito uno dei capitoletti della “Corda
Pazza”: giaceva il “cadavere dello Stato”, alla
fine dell’articolo, accanto a quello di uno sbirro, Matteo Lo Vecchio, emblematicamente
assassinato in nome di uno stato già decomposto. L’allusione a Spadolini non era piaciuta; e ne era rimasta come un’ombra nei suoi
rapporti con Sciascia, che pure con tanta
sollecitudine aveva invitato a collaborare con
il Corriere della Sera”.
DA OTTONE
ALLA P2
La collaborazione di Sciascia con il Corriere
subisce fasi alterne: si interrompe, come
abbiamo riportato, la prima volta nel 1972,
quando la firma dello scrittore si sposta su
La Stampa di Torino. Lungo gli anni settanta
e ottanta, poi, alternerà fasi di collaborazione esclusiva a uno dei due giornali a fasi in
cui distribuisce i suoi articoli fra l’uno e l’altro
quotidiano. E il passare da una testata giornalistica ad un’altra, da un editore ad un
altro, danno idea del carattere di Sciascia
che, evidentemente, sceglieva in assoluta
libertà, e non per ragioni economiche, di
pubblicare con un editore piuttosto che con
un altro.
Nuovo direttore del Corriere è dal 1972 Piero
Ottone, che in un certo senso apporta una
rivoluzione nel quotidiano milanese, all’insegna di un giornalismo liberale, senza conformismi e pregiudizi. Il nuovo corso procura
nuovi lettori di tendenze progressiste e
influenza altri quotidiani, come La Stampa e
Il Messaggero. Una novità fu senza dubbio il
nuovo ruolo degli intellettuali e scrittori che
dalla terza pagina passarono alla prima,
allargando il loro campo d’azione dagli
aspetti meramente culturali, alle vicende politiche e sociali del Paese. In questi anni Sciascia cura la rubrica “Nero su Nero”, che
successivamente diventerà un libro, costituito da pagine uscite sui giornali fra il 1969 e il
1979.
Nel luglio del 1974 Andrea Rizzoli acquista
il Corriere. Rizzoli si presenta come un
editore puro, moderno e aperto. Nel contempo però intesse buoni rapporti con i partiti
che contano. Il problema vero, comunque, è
il bisogno di soldi. Decisiva per il catastrofico futuro del gruppo è la scelta dell’espansione editoriale. La scelta si concretizza nel
potenziamento del Corriere, nell’acquisizione di testate, nei tentativi di inserirsi nel
campo televisivo. L’impero è basato sui deficit e sugli intrecci politici. Nel 1977 avviene
un’opera di ricapitalizzazione. Chi ha fornito
i soldi? Ottone si dimette nell’ottobre del
1977. Nuovo direttore è Franco Di Bella: la
sua scelta appare il segno della definitiva
chiusura di un ciclo liberale. Il 20 maggio
1981 il Presidente del Consiglio, Forlani,
rende pubblico l’elenco degli iscritti alla P2
trovato nell’archivio di Licio Gelli. Nell’elenco
compaiono 28 giornalisti e 4 editori, tra cui
Rizzoli. Di Bella deve lasciare il giornale,
Rizzoli vuole vendere, ma la guerra che si
scatena tra i vari partiti blocca diverse trattative. Per il salvataggio bisogna ricorrere
all’amministrazione controllata nell’ottobre
1982, che dura due anni.
Questo avvenimento segna l’inizio, in Sciascia, di una più profonda sfiducia nei giornali, dal momento che anche lui, come milioni
di Italiani, era rimasto colpito dalla consapevolezza di avere scritto liberamente su un
ORDINE
3
2005
scrittore in redazione
giornale controllato da una loggia massonica segreta, un quotidiano su cui aveva
anche potuto sostenere le sue idee sul caso
Moro, in dissenso dalla linea ufficiale del
giornale, che era quella della cosiddetta
“fermezza”.
Sciascia abbandona, dunque, il Corriere, così
come altri illustri collaboratori; tornerà a scrivere solo quando il giornale, in amministrazione controllata, sarà affidato alla direzione di
Alberto Cavallari, già inviato speciale.
“Quello di Sciascia fu un ritorno giustamente
enfatizzato dal giornale e che coincise significativamente con la pubblicazione dell’articolo sulle Anime morte e sul rileggere. Ma
questo tarlo dovette continuare a roderlo, se
Sciascia si pronunciò su questa vicenda solo
in un’inchiesta di Nuovi Argomenti, per invitare a considerare la scoperta della P2 come
un problema “prima che morale e politico, di
diritto”, distinguendo le responsabilità di Gelli
e dei vertici politici dell’operazione da quelle
dei comuni iscritti che credevano di essere
semplici massoni”.
NERO SU NERO:
UN VIAGGIO
TRA I NERI PENSIERI
DI SCIASCIA
Sciascia, pur affidando alle pagine dei quotidiani i suoi interventi, comincia a raccogliere
in volume gli articoli che ritiene più meritevoli di essere “salvati” dalla effimera durata
del giornale e della rivista e di essere
conservati in un libro. Dopo la pubblicazione
de La Corda Pazza, in cui risalta la dimensione saggistica di Sciascia, è la volta di
Nero su Nero, pubblicato da Einaudi; un
libro costituito da pagine uscite sui giornali
fra il 1969 e il 1979, il cui titolo si rifà alla
rubrica - diario che Sciascia ha tenuto sul
Corriere e che, successivamente, è diventato fondamentale per gli studiosi dello scrittore. Infatti, da questo “diario in pubblico” che
continua con accenti più pessimistici la
rubrica “Quaderno”, è possibile conoscere
ciò che Sciascia pensa dello scrivere, della
letteratura, dei giornali, ma anche della
realtà pubblica che lo circonda: l’Italia come
“paese senza verità” (come lui stesso lo ha
definito in una intervista rilasciata nel 1979
sul giornale Contro del 10 novembre) dal
caso del bandito Giuliano al sequestro di
Aldo Moro, che occupa gli ultimi interventi e
che verrà coraggiosamente affrontato nel
libro L’Affaire Moro.
Il titolo, alludendo alla “nera scrittura sulla
nera pagina della realtà”, fa riferimento al
pessimismo che in Sciascia, in questo
decennio, è sempre più evidente e di cui
spesso viene pubblicamente accusato; un
pessimismo che investe anche il mondo del
giornalismo, che Sciascia conosce ormai
molto da vicino. In effetti, se il caso Moro
aveva reso più amare le riflessioni dello
scrittore sulla libertà di stampa, era già
maturata nell’intellettuale la sfiducia nei
giornali, che risulta evidente alla lettura di
un articolo dedicato proprio a questo argomento: “La lettura dei giornali mi dà neri
pensieri. Neri pensieri sui giornali appunto,
sul giornalismo. I giornali mi si parano
davanti come un sipario. Più esattamente
come un velario, poiché qualcosa di quel
che si muove dietro, degli oggetti che ci
stanno, della scena che si prepara, la
lasciano intravedere. Solo che ci vuole un
occhio abituato, un occhio allenato. Non
acuto, chè non basta. Esperiente. Di un’esperienza che non tutti hanno. C’è poi,
impressionante l’uniformità. Qualche differenza nel riferire i fatti si può cogliere. Ma
raramente nel giudizio sui fatti. Parlo, naturalmente dei giornali più diffusi. Tra i piccoli
e meno diffusi, la valutazione dei fatti muta
da giornale a giornale. Dovremmo abituarci
a leggere i piccoli e meno diffusi e a trascurare quelli dalle alte tirature? Una indefinita
paura sembra attanagliare i giornali. La
paura di avere una linea, di assumere i fatti
in un giudizio preciso. È come la paura di
fare il giuoco di qualcuno o di qualcosa, di
mettere in discussione quel che è pericoloso discutere, in pericolo quel po’ di sicurezza cui ci si vuole aggrappare. E in realtà il
maggior pericolo sta appunto in questo:
nell’aver paura di un pericolo.” Il giudizio su
come viene gestita l’informazione in Italia si
farà ancora più severo, come vedremo,
negli ultimi interventi dello scrittore.
ORDINE
3
2005
“L’AMMIRAGLIA
DELLE POLEMICHE”:
SCIASCIA
E “I PROFESSIONISTI
DELL’ANTIMAFIA”
È sabato 10 gennaio del 1987 quando sulla
terza pagina del Corriere della Sera viene
pubblicato un articolo, a firma di Sciascia,
destinato a suscitare una delle polemiche
“più appassionate e dolorose del dopoguerra, l’ammiraglia delle polemiche”, il cui titolo
a sei colonne ha segnato un capitolo nella
storia della lotta alla mafia. Un titolo caustico: “I professionisti dell’antimafia” che da
quel momento in poi si affiancherà, a torto o
a ragione, al nome di Leonardo Sciascia. In
questo articolo lo scrittore commenta un
saggio sulla mafia nel ventennio fascista,
“pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino”,
scritto da un giovane ricercatore dell’Università di Oxford, Christopher Duggan, allievo
dello storico Denis Mack Smith, di cui nella
stessa pagina viene riportata l’introduzione
al volume chiamato appunto La mafia durante il fascismo. A creare il titolo, che diventa
un vero e proprio slogan, non è Sciascia, ma
il redattore culturale del Corriere della Sera
Cesare Medail.
Lo stile provocatorio dell’articolo è subito
chiaro fin dalle prime righe, in cui, come
peraltro raramente accade, Sciascia fa delle
“autocitazioni, da servire a coloro che hanno
corta memoria o/e lunga malafede e che
appartengono prevalentemente a quella
specie (molto diffusa in Italia) di persone
dedite all’eroismo che non costa nulla e che
i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono ‘eroi della sesta’”. Sembra quasi che
già sapesse Sciascia quale terremoto avrebbe scatenato con quello che stava per dire e
che, avvertiva i lettori, non poteva essere
inteso se non alla luce di quanto già lui stesso aveva dichiarato sui suoi libri, a partire da
Il giorno della civetta, in cui il capitano Bellodi, antesignano di tutti gli eroi antimafia, dal
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a
Giovanni Falcone, è già un martire che a
voce alta grida il suo amore per la Sicilia, una
terra su cui “si romperà la testa”. Un investigatore modernissimo, che indaga sui flussi
finanziari, sulle banche, sulla gestione degli
appalti; un uomo coraggioso che “per tradizione repubblicano, e per convinzione, faceva quello che in antico si diceva il mestiere
delle armi, e in un corpo di polizia, con la
fede di un uomo che ha partecipato a una
rivoluzione e dalla rivoluzione ha visto sorgere la legge: e questa legge che assicurava
libertà e giustizia, la legge della Repubblica,
serviva e faceva rispettare”. Ancora una volta
in Sciascia la letteratura si fa pagina di giornale e il giornalismo diventa letteratura dal
momento che essa è ormai la più assoluta
forma che la verità possa assumere.
Sciascia in questo articolo è più che mai un
“eretico”, un miscredente della sua stessa
fede, un intransigente nemico dei luoghi
comuni e del manierismo, anche nel caso
della lotta alla mafia. Non basta essere mafiosi o antimafiosi, troppo semplice per Sciascia
che al bianco e al nero preferisce sempre i
colori intermedi, le sfumature che hanno
bisogno di interpretazione, che suggeriscono
e non danno conferme o omologazioni. E ci
vuole coraggio a scrivere che esiste il rischio
di parlare troppo di mafia, di esibirsi in atteggiamenti antimafiosi, quando l’ammonimento
arriva da un “esperto”, da un “guru” diremmo
oggi, da un fautore della lotta all’omertà che
nell’interpretare i fatti di Cosa Nostra è stato
sempre chiamato in causa. Ma la libertà di
pensiero e il candore della coscienza si fanno
inchiostro e parole, e squarciano la pigrizia
mentale per stimolarne il ragionamento, la
ricerca, il dubbio. Sciascia, da buon maestro
elementare, accompagna i suoi alunni – lettori alla deduzione, che spesso, come in questo
articolo, diventa paradosso. E i passaggi
sono semplici, lineari e partono dai dati di
cronaca, dalla storia di cui bisogna far tesoro:
in questo caso dalla repressione del prefetto
Cesare Mori, un personaggio che Sciascia
ritrova anche nei suoi ricordi di ragazzo, un
fascista che, pur di ottenere l’ordine necessario, scendeva a patti con i “campieri”, “le guardie del feudo”, gli uomini che erano “prima
insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consenti-
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re l’efficienza e l’efficacia del patto”. E appare
chiaro come il pensiero di Sciascia si ribelli
all’idea di giustificare l’uso della violenza per
contrastare altra violenza, l’uso di una mafia
per contrastarne un’altra, e il suo ragionamento è logico: “l’innegabile successo delle
sue operazioni repressive […] nascondeva
anche il giuoco di una fazione fascista
conservatrice e di vasto richiamo contro altra
che approssimativamente si può dire
progressista e più debole. Sicché se ne può
concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere
incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma, perché
talmente innegabile appariva la restituzione
all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva
essere facilmente etichettato come “mafioso””. Fin qui c’è poco da scandalizzarsi, ma
qualcuno sarà sobbalzato sulla sedia alla
lettura del periodo che segue, in cui senza
mezzi termini viene spiegata la morale della
favola: “l’antimafia come strumento di potere.
Che può benissimo accadere anche in un
sistema democratico, retorica aiutando e
spirito critico mancando.” Lapidario Sciascia;
e in queste righe c’è già la provocazione dello
scrittore, che sta per fare un esempio a sostegno della sua tesi: se stesso. È lui che non
conforma il suo pensare al comune pensare,
è lui che in nome del diritto al dissenso
sceglie la via più difficile e più soggetta alla
cattiva interpretazione, denunciando l’esistenza di “avvisaglie” di come era sempre più
difficile andare contro chiunque si dichiarasse antimafioso: il rischio era quello di essere
considerato mafioso. Ed è proprio ciò che
avviene a Sciascia dopo aver scritto di come
“un sindaco che per sentimento o per calcolo
cominci ad esibirsi – in interviste televisive e
scolastiche, in convegni, conferenze e cortei
– come antimafioso: anche se dedicherà tutto
il suo tempo a queste esibizioni e non ne
troverà mai per occuparsi dei problemi del
paese o della città che amministra (che sono
tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua
che manca all’immondizia che abbonda), si
può considerare in una botte di ferro. Magari
qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e
dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio
comunale e nel suo partito, chi mai oserà
promuovere un voto di sfiducia, un’azione
che lo metta in minoranza e ne provochi la
sostituzione? Può darsi che alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere
marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli
che lo seguiranno.” Ancora più “scandaloso” il
suo esempio su come “ nulla vale di più, in
Sicilia, per far carriera nella magistratura, del
prender parte a processi di stampo mafioso”,
in cui Sciascia fa il nome di Paolo Borsellino
e riflette sulla sua nomina a Procuratore della
Repubblica a Marsala, nonostante ci fossero
candidati più anziani. È chiaro che è difficile
leggere queste righe alla luce di quanto
successe al giudice, ucciso dalla mafia nella
strage di via d’Amelio nel 1992, a pochi giorni dall’altro terribile assassinio del giudice
Falcone; ma questo articolo si deve leggere
senza quella “malafede”, di cui lo stesso Sciascia aveva non tanto timore, quanto una
rassegnata consapevolezza. Nei giorni
seguenti la pubblicazione del “pezzo”, su tutti
i quotidiani si leggono titoli che riferiscono
della polemica scoppiata frattanto tra lo scrittore e il coordinamento antimafia, “una polemica contro i suoi stessi figli, contro i rampolli
del Giorno della civetta e del capitano Bellodi
appunto: Sciascia contro gli sciasciani, la
voce contro la sua eco, l’originale contro la
copia”.
È sulle pagine dei giornali che si affrontano
“a colpi di penna” l’ “eretico” ed i suoi “inquisitori”, stimolando un dibattito nazionale che
poi trascenderà il contenuto dell’articolo per
focalizzare l’opinione sullo scrittore, che
verrà addirittura “collocato ai margini della
società civile” e definito “quaquaraquà”, che,
nella scala dei valori elencata da don Mariano Arena, nel Giorno della civetta, è il più
infimo degli uomini. Eppure, lo stesso Sciascia aveva dichiarato che sulla mafia e sul
modo di combatterla la pensava esattamente come “allora”, cioè come quando aveva
scritto Il giorno della civetta e A ciascuno il
suo. Ed è datata 16 gennaio 1987 “l’apertura” in prima pagina dal titolo “Perché siamo
con Sciascia”, dove l’intera redazione del
Corriere della Sera si schiera “contro i chierici dell’intolleranza” e dove tra le altre cose si
legge: «Di fatto, si rimprovera a Sciascia di
aver adempiuto alla sua funzione di uomo di
cultura, cioè di aver rimesso in discussione i
luoghi comuni, la retorica, che nascono,
all’interno della collettività civile, anche in
rapporto a iniziative rispettabilissime. E la
tecnica usata è quella di sempre: l’equiparazione dell’anticonformista al “nemico”. È una
vecchia storia che si ripete. […] Non ci
sorprende, dunque, che ci sia chi scrive di
non “riconoscerlo più” perché, in realtà, non
lo ha mai conosciuto. Sciascia è di un’altra
pasta rispetto ai suoi detrattori, ai chierici del
“pensiero totalizzante”. Per questo noi lo
amiamo oggi come lo abbiamo amato ieri.
Per essere chiari: lo Sciascia del Giorno
della civetta, di Todo Modo, e quello dell’articolo sull’antimafia.» Lo scontro verbale tra gli
schieramenti pro e contro l’articolo, e i
pesanti giudizi sul presunto disimpegno nella
lotta alla mafia lasceranno sempre una certa
amarezza nello scrittore, che tuttavia non
manca di commentare con quel distacco che
la sua pungente ironia gli consente.
Quando lo scrittore è ancora in vita (ricordiamo che morirà il 20 novembre 1989) avrà
modo di chiarire le sue ragioni con il procuratore di Marsala, e sarà lo stesso Borsellino
a parlare in difesa dello scrittore anche dopo
la sua scomparsa.
29 (33)
T E S I
3
D I
La stampa e la sfiducia
nei giornali: gli ultimi
anni di Sciascia
Gli articoli di Leonardo Sciascia appaiono
sulle pagine de La Stampa già negli anni ‘70,
ed è datato 7 aprile 1972 il primo articolo
apparso sulle pagine del quotidiano di Torino
dal titolo “Il sistema al guinzaglio”. I suoi interventi vengono pubblicati sempre in terza
pagina e le riflessioni letterarie sugli amati
Pirandello, Petrarca, Stendhal si alternano
alle ironiche osservazioni sulla politica e la
società, che trovano posto nella rubrica
“Taccuino”. Nel 1975 si registra la pubblicazione a puntate del “Giallo filosofico” di Ettore Majorana, dal 31 agosto al 7 settembre, a
cui seguirà un articolo dedicato al Premio
Nobel Eugenio Montale, pubblicato il 25 ottobre, per tornare a parlare di Majorana con un
articolo del 24 dicembre, con cui Sciascia
conclude la polemica sullo scienziato scomparso. Dal 1972 al 1978 compaiono su La
Stampa quarantotto articoli in tutto per una
collaborazione, che va via via facendosi
sempre meno intensa: ad esempio nel 1976
si registra un solo intervento.
I rapporti con La Stampa riprendono nel
1988, dopo cioè che Sciascia, reduce da una
stagione di polemiche iniziate con il sequestro di Aldo Moro e culminate con i violenti
attacchi seguiti all’articolo sull’antimafia, si
rende conto di come il Corriere, che prima si
era schierato pubblicamente a suo favore,
adesso, con il nuovo direttore Ugo Stille,
continua a pubblicare i suoi articoli solo
perché giornalisticamente fanno comodo.
Il 12 gennaio 1988 viene assassinato dalla
mafia l’ex sindaco di Palermo Giuseppe
Insalaco, ucciso da due sicari su una moto
nel centro di Palermo. Insalaco, che si era
dimesso dopo aver denunciato le pressioni
di un “comitato di affari” interessato ai grandi
appalti del Comune, è stato uno di quei
democristiani che, cercando di sottrarsi al
condizionamento mafioso, ha pagato prima
con la solitudine politica e poi con la morte, il
suo coraggio. “Si era pirandellianamente
calato nel piacere dell’onestà”, dirà Sciascia.
Questo omicidio, che ripropone una maggiore attenzione verso la politica siciliana e
impone una riflessione sul fronte della lotta
alla mafia, riporta sulle pagine dei giornali il
nome di Leonardo Sciascia, di cui si cerca
un parere, un’interpretazione dei fatti. A Sciascia, che in quegli anni comincia a soffrire
per la malattia che poi lo condurrà alla morte,
non piace essere considerato “un esperto” e
si concede poco ai giornali, ancora amareggiato per le ultime vicende con il Corriere
della Sera. Il 15 gennaio rilascia un intervista
al TG1, di cui i quotidiani riportano la notizia.
In questo periodo comincia a collaborare con
La Stampa di Torino Francesco La Licata,
allora giovane giornalista formatosi sulle
pagine de L’Ora di Palermo, che dal capoluogo siciliano segue l’inchiesta sull’omicidio
Insalaco e che propone al direttore di realizzare un’intervista a Leonardo Sciascia. È lui
stesso a raccontarmi i retroscena di quell’intervista, che segnerà l’inizio di un nuovo
rapporto con il quotidiano di Torino.
“Quando la proposi all’allora direttore Scardocchia, lui ne fu entusiasta, intravedendo la
possibilità di portare Sciascia alla Stampa” –
dice La Licata – “ Io sapevo quanto Sciascia
fosse deluso dai giornalisti, a cui non risparmiava ironia accusandoli di superficialità, e
per evitare equivoci, inviai per fax le domande a cui lui rispose scrivendo a macchina, e
aggiungendo qualche correzione a penna.
Anche il titolo è suo…”
Così nasce l’intervista, pubblicata martedì 2
febbraio 1988, dal titolo sciasciano “I polli di
Renzo nel pugno mafioso”: ancora una volta
una metafora manzoniana per rispondere
alla domanda di La Licata sull’insorgere di
un “patriottismo siculo”, di cui il giornalista
parla sottolineando che “i siciliani si offendono con Forattini, gli studenti se la prendono
con Sciascia, Nicolosi denuncia che la la
mafia è anche a Milano, in Borsa”. Così
risponde Sciascia: “Succede un po’ come ai
30 (34)
L A U R E A
polli di Renzo, nei Promessi Sposi. Persone
che di fatto stanno nella stessa barca – o
stretti nello stesso pugno, per stare nell’immagine manzoniana – provano un certo
gusto a beccarsi reciprocamente. Io questo
gusto non lo sento per nulla. In quanto all’antisicilianismo, e al conseguente risvegliarsi
del patriottismo siculo, credo che l’uno e l’altro, insieme, rappresentino una grande
remora”.
Questa intervista è l’ultima ad apparire su un
quotidiano ed è importante anche per cogliere lo stato d’animo dell’ “ultimo” Sciascia, un
uomo “condannato” a tormentarsi di continuo
per l’ingiustizia che vede intorno, a soffrire
per la morte violenta di tanti suoi conoscenti,
funzionari di polizia, giornalisti, magistrati,
politici; un uomo, che continua a ribadire,
ogni qualvolta gli è possibile, che non ha
mutato giudizio sulla mafia, sulla necessità
di combatterla e di darsi delle regole.
L’intervista ebbe anche il merito di servire da
occasione per “avvicinare” Sciascia al giornale.
Ciò che successe alcuni giorni dopo la
pubblicazione dell’intervista e che prelude a
quella che sarà l’ultima attività giornalistica
di Sciascia.
Di questi “ultimi articoli” ricordiamo, nel
marzo 1989, la polemica con lo storico
Luciano Canfora, a proposito dell’autenticità
di una lettera di Ruggero Grieco a Gramsci,
ma anche le recensioni di libri, di amici
(come Consolo, Bufalino, Lidia Storoni) o di
scrittori più giovani che sente affini (come
Giampaolo Rugarli, autore di La Troga).
E su La Stampa del 6 agosto 1988, Sciascia
risponde ad un attacco di Scalfari, che lo
aveva accusato di essere responsabile di un
calo di tensione nella lotta alla mafia. Lo
scrittore risponde con spietata e divertente
ironia, facendo del direttore di Repubblica un
nuovo Casanova in visita da Voltaire. Il titolo
dell’articolo è “Tradimenti e fedeltà” e si
conclude con questa frase: “Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della
prudenza, ma si è come si è.”
IL “GRANDE
GIORNALISTA”:
ULTIMO “SBERLEFFO”
DI SCIASCIA
AI “PROFESSIONISTI”
DELL’ INFORMAZIONE
“Rampante e schiumante come un purosangue capitato in una stalla di brocchi”: così
appare il Grande Giornalista, un ridicolo
personaggio nato dalla mente di Sciascia per
arricchire quella serie di profili umani, che
compongono quello che è stato definito “il
capolavoro testamentario” dello scrittore di
Racalmuto: Il cavaliere e la morte.
Quest’opera è una sotie, che Sciascia scrive, carta e penna in mano, durante un
soggiorno in Friuli, e che poi riscrive al suo
rientro in Sicilia, riducendola e sfoltendola di
molte pagine. In questo giallo sono presenti
tutti i temi cari a Sciascia, che in questa fase
della sua esistenza sente l’avvicinarsi della
morte e cerca di farla diventare un’esperienza narrabile. Innanzitutto c’è la figura del
Vice, al centro del racconto: quasi un alter
ego dello scrittore, “una figura di funzionario
un po’ arreso, malato, posto in uno stato di
subordinazione di fronte al Capo, di cui l’umbratile personaggio non condivide le abitudini poliziesche, i metodi bruschi e sbrigativi.
Entrambi tuttavia hanno menti simili, ‘adusate alla diffidenza, al sospetto, all’armar trappole di parole o a coglierne qualcuna che
poteva diventar trappola’”. Il Vice è anche un
disobbediente, che non segue gli ordini
imposti dal potere e continua ad indagare
sull’omicidio dell’influente avvocato Sandoz,
individuandone subito il colpevole nel poten-
Leonardo Sciascia, uno
tissimo industriale Aurispa, nonostante i
depistaggi del Commissario Capo che indaga solo sui terroristi, i famigerati “figli dell’ottantanove”.
A rendere credibile l’esistenza dei “figli
dell’ottantanove” concorrono senza dubbio i
giornalisti, che in questo racconto vengono
rappresentati come cronisti frenetici e dagli
sguardi avidi, “aggrumati” nel corridoio della
Questura, che non si muovono per sapere la
verità, ma aspettano che qualcuno gli dia “la
notizia”, la verità che il potere ha scelto di
diffondere. Anche questo verbo “aggrumati”
dà l’idea del disprezzo di Sciascia nei
confronti della categoria, evocando l’immagine del sangue che si rapprende in grumi, di
qualcosa che è “malato”, che è raffermo. E
poi ancora usa il termine “turba”, quasi a
suggerire gli ignavi danteschi, privi di ideali,
all’inseguimento perenne di una bandiera. E
per essere ancora più impietoso crea anche
il Grande Giornalista, una vera e propria caricatura, attraverso cui è esplicitata la disillusione dell’autore nella possibilità di trovare
verità nelle pagine dei giornali, anche quando questa verità esiste nella mente del giornalista. Infatti è solo questione di prezzo, dal
momento che anche essere un grande giornalista voleva semplicemente dire che “dai
suoi articoli, cui settimanalmente i moralisti
di nessuna morale si abbeveravano, gli era
venuta fama di duro, di implacabile; fama che
molto serviva ad alzarne il prezzo, per chi si
trovava nella necessità di comprare disattenzioni e silenzi”.
A mettere a nudo il Grande Giornalista, ad
umiliarlo tanto da farlo diventare “rosso di
collera” è la “candida” verità del Vice, che già
all’inizio del libro e delle indagini ha la chiave
per interpretare i fatti, quando chiede al
Capo se “i figli dell’ottantanove sono stati
creati per uccidere Sandoz o Sandoz è stato
ucciso per creare i figli dell’ottantanove”. Il
Grande Giornalista resta disorientato dalle
dichiarazioni ricevute “per amore di verità”
dal Vice, che, assunto ormai il ruolo di
“provocatore”, aggiunge con amara ironia:
“Domani, comunque, spero di poter leggere
un suo articolo con tutti i sospetti e i dubbi
che io, per opinione personale, le ho confermato”. Altrettanto amara, per il lettore, la
risposta del Grande Giornalista: “Lei sa bene
che non lo scriverò”.
Ma è nelle ultime battute di questo dialogo
che emerge, forte, la presenza di Sciascia:
non credo ci sia ironia, quando fa dire al Vice
di avere ancora “tanta fiducia nel genere
umano”. Mi sembra di risentire le parole
dette dallo scrittore a proposito della redimibilità della Sicilia e dei siciliani, della speranza che le cose possano cambiare. E la fede
nella scrittura, nel suo essere scrittore, né è
la prova. Le ultime parole del Vice al Grande
Giornalista, che gli rivolge “l’accusa” di “essere sulla stessa barca”, rappresentano uno
dei tanti momenti in cui al personaggio si
sovrappone l’immagine di Sciascia stesso:
“Non lo creda: sono già sbarcato su un’isola
deserta”. Lo scrittore è consapevole di aver
fatto una scelta di solitudine, lo ha sperimentato più volte nella sua vita: l’intellettuale è
sempre un uomo “solo”.
Dunque, la fiducia nel ruolo della stampa,
che ha caratterizzato l’inizio dell’attività di
Sciascia, tramonta abbastanza presto, già
all’epoca del sequestro di Aldo Moro fino a
scomparire del tutto alla fine della sua vita,
quando ebbe parole severissime nei
confronti dei giornali quotidiani, su cui pure
continuava a scrivere. Una testimonianza
sono, appunto, i suoi due ultimi lavori, in cui i
protagonisti confrontano la loro verità con
quella dei giornali e si sentono come impotenti, vittime di un potere capace di manovrare l’informazione.
A FUTURA MEMORIA
Sciascia sentiva l’avvicinarsi della morte e su
questo tema numerosi sono stati i critici e i
biografi, che hanno evidenziato come lo scrittore se da un lato aveva voglia di combattere,
di non cedere alla malattia, dall’altro aveva
rifiutato la “medicalizzazione”, accorgendosi
che era un’inutile illusione. La morte divenne il
suo unico pensiero, il pensiero: e i suoi due
ultimi racconti lo testimoniano. In Il cavaliere e
la morte, Sciascia, come ha scritto Ambroise,
“è un inquisitore della morte”, la affronta
cercando di trasformarla in un’esperienza
letteraria. In Una storia semplice, scritta nel
1989, nell’ultima estate della sua vita, affida al
prof. Franzò una battuta, un’ultima riflessione
sulla morte ormai incombente: “ad un certo
punto della vita non è la speranza l’ultima a
morire, ma il morire è l’ultima speranza”.
“L’appressamento della morte comporta
anche una riscoperta memoriale della propria
generazione, degli anni della formazione”
come suggerisce Traina: e in questo senso si
colloca la pubblicazione di Fatti diversi di
storia letteraria e civile, che raccoglie i testi
sull’arte, la letteratura, le figure storiche e i
luoghi più cari allo scrittore. Così i due versanti della pubblicistica sciasciana si dividono
nettamente e i testi di polemica civile e politica, compresi quelli su mafia e antimafia,
vengono raccolti e pubblicati in A futura
memoria (se la memoria ha un futuro), un
libro nato dalla consapevolezza dello scrittore
di quanto necessario sia ricordare, dal
momento che al potere la mancanza di
memoria fa sempre comodo.
È lo stesso Sciascia, nella introduzione, a
presentare il libro: “Questo libro raccoglie quel
che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi
delitti, certa amministrazione della giustizia e
sulla mafia. Spero venga letto con serenità.”
La raccolta si apre con un ricordo del magistrato Cesare Terranova, ucciso dalla mafia, e
si chiude con un ricordo del generale Renato
Candida, ucciso da un male incurabile, un
anno prima che lo stesso Sciascia morisse.
Ci sono anche gli articoli scritti in difesa di
Enzo Tortora, vittima dell’impunibile superficialità dei giudici e di un uso disinvolto del
“pentitismo”; una lunga analisi del suicidio del
banchiere Calvi, in cui Sciascia esclude il
coinvolgimento della mafia; gli articoli sul maxi
processo, le polemiche con Nando Dalla
Chiesa a proposito degli errori commessi dal
generale Dalla Chiesa, la difesa di Adriano
Sofri dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio Calabresi.
Questo libro non solo documenta le ultime
battaglie civili e politiche di Sciascia, ma testimonia il gusto della provocazione, che nello
scrittore non è mai mancato, fino a quel fatidico 20 novembre 1989, anzi, anche dopo, se
pensiamo all’epigrafe che ha chiesto si scrivesse sulla sua tomba: “Ce ne ricorderemo di
questo pianeta”.
A futura memoria è importante per diversi
motivi: intanto la scelta dello scrittore di eternare l’articolo di un giornale dandogli dignità
letteraria, non soltanto a favore di interventi
prettamente letterari, ma soprattutto, in
questo caso, di articoli che hanno toccato il
cuore delle vicende politiche e sociali dell’Italia degli ultimi quindici anni; è in questo ultimo libro, che Sciascia, avendo scelto uno ad
uno gli articoli da inserire, compie da letterato una scelta anche di “stile”: tutti gli articoli
parlano di giustizia o di ingiustizia, e, se si
pensa che per Sciascia “la letteratura è la più
assoluta forma che la verità possa assumere”, penso che pubblicando questi articoli,
rendendoli un libro, un luogo deposto alla
letteratura, abbia voluto legittimare la verità
di quelle pagine.
E a proposito della sua interpretazione di giornalismo, qua e là vi sono spunti di riflessione,
a partire dalla citazione di Bernanos “preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli”, che Sciascia utilizza come chiave di lettura
degli articoli raccolti, ribadendo ancora una
volta che è necessario dire la verità anche
quando è scomoda (“sono stanco di essere
frainteso, di essere accusato di “alleanze
oggettive” con questi o con quelli”, si legge in
un articolo su Il Globo del 24 luglio 1982).
Nelle pagine di A futura memoria è facile
scoprire che lo scrittore di Racalmuto aveva
un’ idea ben chiara di giornalismo, ormai in
aperta polemica con i “tanti che scrivono libri
o articoli che non sono in grado di leggere la
realtà, di capirla, di farne giudizio”, e puntualizzando che “nell’ambito della carta stampata, di coloro che vi lavorano, l’ignoranza –
anche se c’è – non è da ammettere, come
non è ammessa di fronte alle leggi”.
Ed ancora scrive: “lo scoprire altari e altarini
dovrebbe essere funzione assidua di coloro
che hanno a che fare con la carta stampata e
con altri mezzi che comunicano e fanno
opinione”.
C’è poi un articolo del 16 febbraio 1986,
pubblicato sul Corriere della Sera, in cui Sciascia osserva da fuori il lavoro dei cronisti
durante il maxi processo, ironizzando sul fatto
che “ci vorrà almeno un mese perché entri nel
vivo e ancora molti mesi perché l’istruttoria si
svolga nel dibattimento. Intanto, gli inviati dei
giornali non sanno che fare per animare i loro
resoconti, per colorirli, per dargli quella vivacità che i lettori si aspettano”.
ORDINE
3
2005
scrittore in redazione
Leonardo Sciscia (foto di Giacomo Fotogramma).
4
Sciascia e i ragazzi
di Malgradotutto
In definitiva, i giornali appaiono a Sciascia
come lo specchio del trasformismo, della
sottomissione al potere politico, dell’opportunismo: ma, lui confida ancora nella
memoria e nella possibilità che anche attraverso la realtà locale si possa realizzare
quella libertà di stampa che lui vede assente già dai tempi del caso Moro. E questa
speranza si concretizza nell’ultima fase
della sua vita, quando nel piccolo paese di
Racalmuto, a cui sempre è rimasto legato e
della cui vita è stato sempre partecipe,
nasce un giornalino, il cui nome Malgradotutto sarà definito dallo stesso Sciascia “il
più bel titolo che si sia mai stato trovato per
un giornale”.
“Era contento, Leonardo - scrive Gesualdo
Bufalino - perché quel titolo di giornale,
seppure non suggerito da lui, da lui, dalla
sua opera tutta, era in ogni caso ispirato.
Nel senso che, contro le insufficienze degli
uomini e la cecità della storia, riproponeva
un imperativo di lotta, rifiutava il disinteresse e la resa. In termini di ideologia, è quello
che si suol chiamare “l’ottimismo della
volontà” in contrapposizione a quel “pessimismo della ragione”, cui quotidianamente
le prime pagine dei giornali ci invitano.”
Nel suo amato paesino, quel “cuore” della
Sicilia che Sciascia ha cantato, un gruppo
di ragazzi raccoglie l’eredità “giornalistica”
dello scrittore, che non perse mai di vista il
mondo dei giovani, a cui si concedeva più
volentieri che ai critici o ai giornalisti affermati : basti pensare ai tanti incontri che
ebbe con gli studenti e nelle scuole, nel
corso della sua vita, soprattutto per parlare
di mafia, di legalità, di giustizia, forse nella
speranza che le future generazioni non
facessero gli errori delle precedenti. Questi
“ragazzi” sono Carmelo Arrostuto, Giancarlo Macaluso, Gaetano e Gigi Restivo, e
Gaetano Savatteri.
A raccontarmi della nascita di Malgradotutto è Gaetano Savatteri, oggi affermato giornalista e scrittore. A Roma, in una piccola
trattoria, un buon bicchiere di vino e il pesce
spada affumicato evocano i sapori della
Sicilia, ed è facile ricordare l’entusiasmo, la
sua adolescenza a Racalmuto, così fortemente segnata dalla presenza di Sciascia.
“Racalmuto è un paese con poco più di
diecimila abitanti, la cui ricchezza è tramontanta con il tramonto delle zolfare e delle
saline, su cui si reggeva l’economia. Noi
ragazzi sapevamo di Sciascia, leggevamo i
suoi libri, lo incrociavamo per strada… ed
era impressionante per noi ritrovare sulle
sue pagine la vita di ogni giorno…”
Gli chiedo come mai questo titolo, così
“sciasciano”… “malgradotutto” perché non
ci credevamo nemmeno noi, mentre ne
parlavamo sul treno che ci portava ogni
giorno da Racalmuto ad Agrigento, dove
sbrigavamo i nostri latinucci quotidiani…
avevamo sedici anni… che ne sapevamo
noi di giornali e giornalismo?!” - sorride
Gaetano Savatteri, ripensando forse a
quell’ingenua spavalderia di chi ha poca
età, quella stessa presunzione che però ti
fa uscire dalla noia e ti da la forza di
sognare.
Dunque, è la primavera del 1980 quando
l’idea del giornale prende corpo…
“In effetti, non sapevamo esattamente da
dove cominciare, ma sapevamo che “ci
voleva un giornale”, e lo mettemmo assieme raccogliendo poche idee, scopiazzando i temi che si dibattevano sui quotidiani,
rivolgendoci ai fratelli maggiori e ai cugini
più grandi per trovare qualche firma più
autorevole di noi. Poi, attraverso la mediazione di un genitore, riuscimmo a chiedere
un “pezzo” a quell’uomo silenzioso e riservato, che avevamo visto qualche volta in
piazza, che tutti chiamavano Nanà o “u
prufessuri”. Sapevamo chi era, avevamo
letto i suoi libri e chissà quanto ne avevamo capito allora…”
ORDINE
3
2005
Così chiedete a Sciascia di scrivere un articolo tutto per voi…
“Più che un articolo, eravamo tanto
abituati alle cose di scuola che gli “assegnammo” un tema: “L’uomo del sud”. Sciascia si mise a scrivere a mano, buttò giù
una cartellina che Giancarlo Macaluso
dovrebbe pure avere conservato da qualche parte. Ci spiegò che l’uomo del sud
non esiste. Ci sentimmo mortificati, forse
l’avevamo irritato con quella richiesta così
tassativa. E in risposta ne avevamo avuto
la demolizione. Ma ormai era fatta. Quello
era l’ultimo articolo per passare alle stampe.”
È nella Chiesa del Carmelo con l’aiuto di
padre Martorana che il ciclostile lavora
senza sosta per permettere ai ragazzi di
Malgradotutto di raggiungere la “tiratura”
di duecento copie, da vendere durante la
festa della Madonna del Monte, quando
la gente è in piazza. È il mese di luglio del
1980 e Racalmuto ha il suo “giornale”…
“Noi ci sentivamo davvero il centro del
mondo…Trovammo anche un direttore ed
un amico in Egidio Terrana, più grande di
noi, che è tuttora il responsabile della
pubblicazione del giornale. Un giornale che
nasceva dalle nostre chiacchiere, dalle
chiacchiere di un paese, dall’amore e dal
fuoco della discussione.”
Malgradotutto assieme a quella di Sciascia,
ha ospitato le firme di Bufalino, Consolo,
Collura, Di Grado…
“E ciascuno di noi ne ha portate altre, di
amici e colleghi che per una volta emigrano
dalle loro testate regionali e nazionali per
scrivere su un piccolo giornale di provincia.”
Un piccolo giornale di provincia, che pure
rappresenta la coscienza critica della comunità di Racalmuto. Un giornale, che ha
vissuto con il paese la lacerazione degli
affetti e delle vite quando la mafia a ripreso
a sparare…
“ Venti morti ammazzati in due anni, una
ferita ancora aperta nelle carni di Racalmuto. Malgradotutto ha dovuto raccontare
anche questo. E ha continuato a dire che
contro la mafia, anche ora che tutto sembra
tornato nel silenzio, bisogna tenere gli occhi
aperti.”
SCIASCIA E IL RUOLO
DEI GIORNALI LOCALI:
OPPOSIZIONE
CONCRETA
La capacità di indignarsi e di guardare con
attenzione alla giustizia: sono questi i “lasciti” di uno scrittore come Sciascia, che da
giornalista si è posto diverse questioni
etiche, affidando infine ai giornali locali il
ruolo di “opposizione concreta”.
E alle pagine di Malgradotutto Sciascia
consegna le sue ultime riflessioni sul giornalismo, su ciò che è, su ciò che vorrebbe
fosse. Un articolo, che raccoglie tutta l’esperienza nel campo della carta stampata, non
solo da cronista, ma anche da lettore e in
qualche occasione da protagonista.
Riporto integralmente il contenuto dell’articolo, sottolineando come una lettura attenta del brano permette di cogliere alcuni
aspetti della personalità dell’autore, la cui
sensibilità all’ingiustizia e alla mancanza di
verità si è formata proprio in un periodo in
cui era assente la libertà di stampa.
Anche questo articolo, così come tutti gli
scritti di Sciascia, siano essi libri o saggi o
interventi giornalistici, è un unicum dove si
ritrovano i principali elementi dell’opera
sciasciana: l’ironia, amara e pungente, la
storia, memoria e chiave per interpretare il
progredire del pensiero umano, la letteratura, verità e ragione, l’etica, la funzione
educatrice e moralizzatrice della scrittura e
del giornalismo.
Ecco il contenuto dell’articolo:
“Posso cominciare con un aneddoto che è piuttosto significativo: uno dei più intelligenti,
colti ed onesti giornalisti italiani, che si è trovato a dirigere uno dei più grandi giornali
(Mario Missiroli - Corriere della Sera, ndr) di questo paese, quando ci incontravamo
proprio nel tempo in cui dirigeva questo giornale, facendo delle considerazioni sulla situazione italiana o su situazioni particolari di questo paese, a conclusione delle sue considerazioni mi diceva sempre: “Ci vorrebbe un giornale”. Questo vuol dire che il giornale
che lui dirigeva non corrispondeva ai suoi intenti e non consentiva di dire quello che lui
voleva dire. A me - scrive Sciascia - questo pare molto significativo e credo che lo si
possa ripetere considerando la stampa nazionale: ci vorrebbe un giornale. Perché in
Italia col caso Moro in effetti la libertà di stampa è venuta a mancare : questa è una terribile e grave verità. Col caso Moro la stampa italiana si è uniformata; è un po’ diventata
come ai tempi di quello che è chiamato il “Minculpop”, per dire Ministero della Cultura
Popolare del tempo fascista quando si diramavano le veline e ogni giornale era tenuto a
rispettare quell’ordine. Le veline non ci sono state credo nemmeno durante il caso Moro;
però la stampa italiana ha acquistato una uniformità, un conformismo che ancora oggi
continua: prima uno che voleva farsi un’idea di una cosa acquistando tre o quattro giornali poteva farsela; oggi basta acquistarne uno; per non farsi l’idea, non per farsela.”
A rafforzare questa sua idea di uniformità della stampa Sciascia chiama in causa uno
scrittore da lui tanto amato, Borgese, suggerendo di leggere un libro (consiglio che dava
spessissimo a chiunque gli chiedesse suggerimenti di qualsivoglia natura):
“Voglio ricordare anche, per chi non lo conosce, che c’è un libro sul fascismo scritto da
un grande intellettuale italiano, Giuseppe Antonio Borgese, in cui tra l’altro è raccontata
come finì la libertà di stampa in Italia: non c’è stata nessuna legge che la facesse finire.
È finita automaticamente, per conformazione e conformismo. Questa è una considerazione preliminare : in Italia ci vuole un Giornale.”
Se fin qui Sciascia è il “pessimista della
ragione”, nelle parole successive si intravede un certo ottimismo, sulla funzione appunto, della stampa locale, a cui non manca di
dare suggerimenti:
“Per fortuna contemporaneamente a questa
carenza sono nate iniziative locali, che però
non possono sostituire la mancanza di una
grande stampa nazionale libera, non conformista, capace di passare al vaglio critico
tutto. Non la possono sostituire, però è già
qualcosa. L’importante – sottolinea Sciascia
– è che ogni giornale di questo tipo resti un
giornale locale; che non dia fondo ai problemi del mondo e della nazione, ma che osservi criticamente e onestamente la realtà locale. Che poi da ciò, tirando le somme, si può
anche estrarre una verità di più ampio respiro.”
Anche in queste righe, scritte soprattutto ai
“ragazzi di Malgradotutto” che a lui si rivolgevano per avere consigli e pareri, Sciascia
rimane fedele alla sua visione delle cose: la
conoscenza del microcosmo di Racalmuto
ha infatti permesso allo scrittore la conoscenza del macrocosmo siciliano e nazionale, facendo divenire la piccola realtà locale
una metafora della vita. Questo articolo
continua facendo riferimento al giornalismo
americano, alla figura dell’inviato in guerra,
che evidentemente ha suscitato interesse in
Sciascia fin da ragazzo, risolvendosi in una
idea “romantica” di giornalismo:
“Io ho citato spesso come esempio di giornalismo quello che, tra l’altro, racconta un
grande giornalista americano del New York
Times, Herbert Mathews, un uomo che si è
trovato sempre dalla parte giusta. […]
Mathews, che ha scritto una specie di
manuale attraverso il racconto della sua
esperienza, ha scritto un manuale del giornalismo, se così si può dire. E racconta un
episodio molto significativo per dire che cosa
è il giornalismo. Lui che si è trovato sempre
dalla parte giusta – continua Sciascia – si
trovò anche dalla parte della Repubblica
Spagnola: perché i giornali americani avevano inviati che stavano dalla parte di Franco e
inviati che stavano dalla parte della Repubblica. Mathews aveva una grande simpatia
per la causa repubblicana, ma comunque
faceva il suo mestiere di giornalista con
assoluto scrupolo. Un giorno i giornali che
avevano corrispondenti dalla parte di Franco, diedero la notizia che un paese, un piccolo paese spagnolo era stato occupato dalle
truppe franchiste. Mathews sapeva che non
era vero. Allora prese la macchina e andò in
quel paese e dall’ufficio telegrafico fece un
telegramma al New York Times per dimostrare che quel paese era ancora in mano ai
repubblicani. Quando uscì dall’ufficio telegrafico le avanguardie fasciste stavano entrando dall’altro capo della strada, però Mathews
dice: “Io ho smentito la notizia”. Perché il giornalismo è questo: è la verità del momento; a
quell’ora il paese non era ancora in mano ai
franchisti, un’ora dopo lo era, ma Mathews
smentì la notizia. Ecco, - continua Sciascia questo è il giornalismo praticato con oggettività, con serenità, con scrupolosità. Oggi
invece il giornalismo si pratica in un certo
modo, e specialmente in rapporto all’amministrazione della giustizia, che è una cosa su
cui si deve vigilare più intensamente e anche
a livello locale.”
L’articolo si conclude, focalizzando l’attenzione sui giornali locali: “ la carenza che ritrovo
nei giornali locali è questa: poca attenzione
all’amministrazione della giustizia e tanta
attenzione a episodi di sottocultura. Ci si
deve augurare che questi giornali siano
sempre più attenti ai fatti locali e facciano
“opposizione”: i giornali nazionali, i grandi
giornali e anche quelli medi, sono diventati
ingovernabili per la presenza e la compromissione partitica. I giornali locali dovrebbero fare opposizione seria sui fatti quotidiani,
sulle cose da fare, prendendo così il ruolo di
opposizione vera che in molte amministrazioni viene mancando. Opposizione quindi
non per principio, per il gusto di farla: ma
opposizione sulle cose concrete.”
Chiaro e senza fronzoli Sciascia ha detto
anche in questa occasione ciò che pensava,
tracciando infine una strada da percorrere a
quei “ragazzi” che avevano pensato di dar
vita al giornale del paese, che non fu mai
sottovalutato dallo scrittore, che, anzi, in quei
giovani vedeva avanzare il futuro di Racalmuto.
Questo articolo è forse l’intervento più appropriato per concludere questa ricerca su Sciascia e il giornalismo, dal momento che riassume l’opinione e l’esperienza dello scrittore
siciliano riguardo il mondo dell’informazione.
È quasi un “testamento spirituale” consegnato ai giovani del suo paese, che a distanza
di anni non hanno mai dimenticato i consigli
di Sciascia, un maestro che diceva di essere
stato in un certo senso un “pessimo
maestro”, “senza eccessiva vocazione”.
31 (35)
OLTRE ALLE BOMBE DEL 1969 ALTRE DUE VOLTE LA CITTÀ HA PIANTO DECINE
L A
S T O R I A
Prima del 12 dicembre 1969, la cieca violenza del terrorismo aveva ferito Milano altre due volte. Accadde negli
anni Venti. La prima nel 1921; la seconda nel 1928. Quella del 1921 è passata alla storia come la strage del Teatro
Diana; l’altra, del 1928, è nota come l’attentato alla Fiera.
I due atti criminosi provocarono quarantuno morti e centoventi feriti. Soltanto nel primo caso si riuscì ad acciuffare i responsabili. Quanto al misfatto della Fiera (com’è accaduto per piazza Fontana), gli autori non furono mai
individuati. In quest’ultimo caso, la rozzezza impiegata dagli inquirenti nella conduzione delle indagini, provocò la
Le stragi degli anni Venti. Quan
23 marzo 1921
di Enzo Magrì
Il programma al Teatro Diana era intenso la
sera del 23 marzo 1921. La compagnia
Daclee dava l’ultima rappresentazione di
Mazurca blu di Franz Lehar. A metà recita,
fra il secondo e il terzo atto dell’operetta, il
maestro Giuseppe Berrettoni, in onore del
quale era dedicata la serata, avrebbe diretto
una sinfonia. Alle 22,25 calò il sipario di velluto verde e i venti orchestrali si dispersero
nella sala per salutare amici e colleghi.
Quando, dieci minuti più tardi si sente il trillo
che richiamava tutti al proprio posto, la ripresa subisce un ritardo inaspettato. I professori minacciano uno sciopero per licenziamento d’un loro collega. Il maestro Berrettoni
deve usare tutta la sua influenza per convincere gli orchestrali a riprendere i loro posti.
Manca qualche minuto alle 23. Il sipario sta
per alzarsi quando il teatro è investito da uno
scoppio avvertito da gran parte della città.
Una potente bomba collocata in via Mascagni, provoca, lungo il lato destro della sala,
una vasta breccia fra la buca dell’orchestra e
le prime file delle poltrone. La deflagrazione
uccide all’istante diciassette persone fra
orchestrali e spettatori. Saliranno a ventuno
nei giorni successivi. I feriti sfiorano il centinaio. Lo scoppio provoca il crollo del grande
lampadario centrale ma lascia accese le luce
laterali che offrono l’immediata, tragica,
immagine della sala: poltrone rovesciate,
scheggiate o strappate dai loro posti, leggii
dell’orchestra contorti e sepolti fra i calcinacci caduti dal soffitto, corpi sfregiati e straziati.
Dalla via Mascagni, attraverso i telai senza
vetri delle finestre, è possibile scorgere le
quinte del palcoscenico e gli scenari lacerati
e tagliuzzati dalle schegge della bomba. Tra i
feriti leggeri c’è l’attrice Dina Galli che era
seduta su una poltrona di quarta fila accanto
alla figlia rimasta incolume. Quasi alla stessa
ora scoppia un altro ordigno sotto il muro di
cinta della centrale elettrica di via Gadio che
provoca solo danni materiali.
La strage è presa come pretesto da alcuni
squadristi per eseguire una spedizione punitiva contro la sede del giornale anarchico
Umanità Nova in via Goldoni e contro la
nuova redazione dell’Avanti in via san
Damiano. Una pattuglia di poliziotti posta a
presidio del giornale socialista blocca in
corso Manforte una carrozza con tre persone a bordo. Gli sconosciuti, scesi dal mezzo,
scappano inseguiti da un drappello di agenti
mentre il resto della pattuglia perquisisce la
vettura dove trova due rivoltelle ed alcune
bombe a mano. L’inseguimento dei fuggitivi
dà esiti inaspettati: uno di loro, che si è gettato nel naviglio asciutto, è bloccato dalle guardie. Si chiama Antonio Pietropaolo ed è uno
studente della Bocconi. Non è un fascista
bensì un anarchico che insieme con altri due
compagni di fede avrebbero dovuto incendiare la redazione dell’Avanti. Si scoprirà più
tardi che l’attentato al giornale socialista
faceva parte d’un piano terroristico anarchico la cui prima parte era stata già attuata con
la collocazione della bomba al Teatro Diana
e dell’altra alla centrale elettrica di via Gadio.
Nel volgere d’una settimana la polizia risolve
il caso e arresta gli autori della strage. Sono
Giuseppe Mariani, 23 anni di Mantova, un
frenatore delle Ferrovie, denunciato quale
disertore della guerra 1915-1918, Giuseppe
Boldrini, 23 anni, anche lui di Mantova (che
si proclamerà sempre innocente) ed Ettore
Aguggini, 25 anni di Brescia. Mariani e Aguggini, l’anno precedente avevano realizzato
altri due attentati senza vittime: uno al bar
Cova e l’altro in piazza Cavour. In carcere
finiscono altre quattordici persone accusate
di complicità con gli autori dei delitti del 23
marzo e di altre scelleratezze attuate nei
mesi precedenti. Le indagini accertano
inequivocabilmente che la bomba collocata
in via Mascagni dietro le mura del teatro non
era diretta a provocare la strage degli spetta-
32 (36)
tori che il Diana ospitava quella sera bensì
ad uccidere il questore Giovanni Gasti, ritenuto uno dei responsabili della lunga e
immotivata detenzione di tre anarchici: Errico Malatesta, Armando Borghi e Corrado
Quaglino. Quando Malatesta viene a conoscenza del massacro esprime “il suo sdegno
per il delitto esecrando che giova solo a chi
opprime i lavoratori e a chi perseguita il
nostro movimento”. L’attentato contribuirà
effettivamente a imprimere un forte impulso
al movimento fascista che l’anno successivo
conquisterà il potere con la marcia su Roma.
Tra i fondatori di Umanità nova, esponente
di punta dell’anarchismo italiano, Errico
Malatesta, era rientrato dall’Inghilterra il 24
dicembre 1919. Casertano, amico di Bakunin, era stato uno dei dirigenti della I Internazionale. Aveva fatto parte della banda del
Matese. Più volte arrestato, si era sovente
allontanato dall’Italia per non finire in galera
a causa della sua attività politica. Nel caoti-
socialista l’Avanti e l’albergo Diana, in via
Mascagni, nei pressi del teatro. Il più impegnativo di questi gesti avrebbe dovuto essere
quest’ultimo che aveva come obiettivo un
questore. Questi era Giovanni Gasti, un alessandrino considerato un funzionario inflessibile. Studioso di criminologia era ritenuto
dagli anarchici amico di Mussolini. In realtà
Gasti era una sorta di Javert, “l’uomo del
dovere” dei Miserabili. Egli infatti era stato
implacabile anche nei confronti del futuro
duce. Per la Direzione centrale della Polizia
aveva redatto un rapporto informativo sulla
vita del futuro duce alquanto sfavorevole: non
aveva trascurato di annotare nulla dei suoi
burrascosi trascorsi.
Il questore abita in un appartamento sopra
l’entrata dell’hotel Diana. La bomba per uccidere il poliziotto è preparata da Mariani e
Aguggini. Nel gruppo c’è anche una donna
Elena Melli che ha funzioni di collegamento.
L’ordigno esplosivo consiste in 160 candelot-
Attentato al Teatro Diana
(21 morti).
Responsabili in galera
Foto Olympia
L’obiettivo era il questore Giovanni Gasti, ritenuto uno dei responsabili
della lunga e immotivata detenzione di tre anarchici (Errico Malatesta,
Armando Borghi e Corrado Quaglino).
co dopoguerra, egli aveva assolto un ruolo
determinante alla guida del movimento
anarchico tanto da sollevare preoccupazioni nell’establishment italiano. Per questa
ragione, il 17 ottobre 1920 era stato arrestato a Milano insieme con i due compagni
di fede Borghi e Quaglino, redattori di
Umanità Nova.
Nonostante la mancanza d’un’imputazione
determinata, i tre sono tenuti nel carcere di
San Vittore. Per protesta contro l’illegale
misura che si protrae per cinque mesi, il 13
marzo i tre iniziano uno sciopero della fame.
In loro favore comincia in diverse parti d’Italia
una vasta agitazione con scioperi a Carrara,
Piombino, Valdarno e Liguria. Gli anarchici
milanesi, decidono di esprimere la loro solidarietà con i detenuti mettendo a segno una
terna d’attentati che hanno per obiettivo la
centrale elettrica di via Gladio, il giornale
ti di gelatina (una ventina di chili di materiale) sistemati in un cestone coperto di paglia
sopra la quale sarebbero state deposte alcu
ne bottiglie vuote.
Ancora il 21 marzo, gli attentatori sono indecisi sulle modalità con cui operare: dapprima
pensano di noleggiare un carretto a mano,
caricarvi il cesto, posteggiare il veicolo nella
stradina in cui s’affaccia l’Hotel sotto l’appartamento di Gasti, accendere la miccia e
scappare. L’altra soluzione è quella di portare la valigia con la bomba dentro la Questura, il più possibile vicino all’ufficio del funzionario e farla brillare. Passa la prima soluzione. Ma anziché in un cesto, l’esplosivo è
sistemato in una valigia.
L’hotel Diana faceva corpo con il teatro dal
quale era separato da una semplice parete.
La sera del 23 marzo, Mariani e Aguggini,
che hanno preparato la bomba a Mantova e
l’hanno portata a Milano affidandola a Boldrini, prelavano da quest’ultimo la valigia e la
portano in via Mascagni.
Secondo il piano l’ordigno avrebbe dovuto
essere collocato dietro la prima saracinesca
dell’hotel, quella più vicina al teatro, per far
saltare l’ala dell’albergo dove i tre credono vi
sia l’appartamento in cui alloggia Gasti.
Poiché sopraggiungono alcune persone,
Mariani, per liberarsi subito dell’esplosivo,
lascia il bagaglio dietro una porta che immette nella platea del teatro. Poco prima delle
23, il ferroviere innesca la miccia, scappa
insieme con l’Aguggini, raggiunge Boldrini
che se ne sta poco discosto (ma questi
negherà sempre d’essere stato presente alla
collocazione della bomba) e tutti e tre si
perdono nel buio.
La strage farà inorridire anche i suoi autori.
Boldrini, ripeto, si proclamerà sempre innocente. Dirà che egli, pur non negando la sua
fede anarchica, non aveva preso parte all’attentato, e che almeno quattro persone sapevano dove egli si trovasse al momento dello
scoppio dell’ordigno.
Faceva riferimento a testimoni che non nominava ma attendeva che sentissero il dovere
di presentarsi alla Giustizia. Gesto questo
che gli sconosciuti, ammesso che fossero
mai esistiti davvero, non fecero mai.
Il processo contro Mariani, Boldrini, Aguggini
e altri quattordici, cui fu imputata la strage
del teatro Diana, la collocazione della bomba
alla centrale elettrica di via Gadio, il mancato
attentato all’Avanti e le esplosioni di alcuni
ordigni avvenute l’anno precedente (tranne
quelle al Cova per le quali era stato condannato a 24 anni di carcere il ferroviere), fu
celebrato a Milano dal 9 al 31 maggio 1922.
Mariani fu condannato all’ergastolo, Boldrini
e Aguggini a trent’anni. A tutti gli altri furono
comminate pene dai sedici ai due anni di
carcere. Sinceramente pentito, il ferroviere
dopo la sentenza dichiarerà che al processo
avrebbe preferito avere come giurati i parenti delle vittime, “perché se lo avessero ritenuto giusto avrebbero potuto fare giustizia
sommaria”.
Sconterà venticinque anni di carcere. Entrato ventitreenne all’ergastolo di Santo Stefano di Ventotene, ne uscì quarantottenne nel
luglio del 1946 graziato dal presidente provvisorio della Repubblica, Enrico De Nicola.
Appena lasciato il carcere, dichiarò di “abiurare all’idea che il terrorismo possa essere
una necessità rivoluzionaria”. Si dichiarò
persuaso “del suo valore negativo tra i fattori
di lotta contro la società borghese e che
esso sta alla rivoluzione come il furto all’espropriazione”.
Poco dopo aver conquistata la libertà, scrisse un libro, Memorie di un ex terrorista, in cui
puntualizza alcuni aspetti dalla sua vicenda.
La strage del Diana fu uno di quegli eventi
che favorirono sicuramente l’ascesa del
fascismo. Furono in molti tra gli antifascisti
ad azzardare l’ipotesi che i terroristi fossero
stati addirittura “orientati” dalla polizia.
Questa per esempio è la convinzione del
prefatore del libro di Mariani; Gigi Damiani.
Scrisse: “Fu la polizia a condurre per mano
gli esacerbati terroristi fino davanti alle griglie
del teatro Diana”.
Onestamente Mariani però confessò: “Non
ho mai pensato, come sempre hanno fatto
alcuni miei compagni, in base ad elementi
che mi hanno detto positivi, fino a credere
possibile una revisione del processo, d’incolpare qualcuno che vicino a noi sapesse
manovraci tanto bene da farci credere che
avremmo colpito il questore e altre personalità e che invece ci facevano colpire delle
povere persone innocenti intente solo a
divertirsi”. Un fatto tuttavia è incontestabile.
Elena Melli, la donna che frequentava il gruppo anarchico e che prese parte attiva alla
preparazione degli attentati, non comparve
fra gli imputati del processo.
Non fu neppure denunciata. Fuggita in Sudamerica, di lei non si seppe mai più nulla.
ORDINE
3
2005
DI VITTIME
morte di due innocenti. Il primo morì nei giorni che seguirono l’atto criminale per le botte subite durante gli interrogatori: era
Romolo Tranquilli, fratello di Ignazio Silone. La seconda vittima fu un chimico milanese, Umberto Ceva. La polizia fascista lo
aveva fermato per un attentato dimostrativo che esponenti di G.L. avrebbero dovuto compiere nei primi mesi del 1930 e che l’avvocato Carlo Del Re, la “spia del regime” aveva denunciato all’Ovra. Forzando labili connessioni, il fascismo aveva tentato di
accollargli la strage della Fiera. Profondamente turbato da quel sospetto, il professionista si tolse la vita dopo aver lasciato una
nobile lettera alla moglie.
do il terrorismo colpiva Milano
12 aprile 1928
di Enzo Magrì
La mattina del 12 aprile 1928 Milano è pavesata di bandiere e di orifiamma. Vittorio Emanuele III deve recarsi ad inaugurare la IX Fiera.
Secondo il programma, il sovrano dovrebbe
giungere alla Campionaria alle 9,50 entrando
da piazzale Giulio Cesare. Per le consuete
precauzioni che la polizia adotta in queste
circostanze, l’orario d’arrivo del corteo è ritardato di cinque minuti. Quando scocca l’ora ufficiale della visita, nel piazzale esplode una
bomba che semina morte tra le decine di
persone in attesa di vedere il re: si conteranno
venti cittadini deceduti e oltre quaranta feriti.
Una bimba è mutilata; di una famiglia di cinque
persone resta un solo superstite; tutt’intorno c’è
morte e distruzione. Il regime si mobilita per la
caccia ai colpevoli. Il capo della polizia Arturo
Bocchini spedisce a Milano due suoi abili ispettori: Giuseppe Valenti e Francesco Nudi. Per le
leggi straordinarie del 25 novembre 1926, la
strage è di competenza del Tribunale speciale
per la difesa dello stato. Il nuovo organismo
rivendica a sé “l’onore” dell’istruttoria e si trasferisce a Milano. Nel capoluogo lombardo giunge
pure il sottosegretario agli Interni Michele Bianchi.
Mussolini invia un telegramma con il quale attribuisce la responsabilità agli antifascisti.
Contemporaneamente affida le indagini alla
Milizia ferroviaria e spedisce nel capoluogo
lombardo il capo di stato maggiore, console
Valerio Lucchini. L’incarico conferito alla massima carica del corpo speciale impegnato con
esercito e polizia al mantenimento dell’ordine
interno, è giustificato con il ritrovamento, avvenuto qualche giorno prima sotto i binari della
Milano-Piacenza, d’una bomba ad orologeria.
Agli inizi di aprile un ordigno era stato scoperto
nella cantina dell’arcivescovado mentre in
marzo un altro era esploso ai piedi del monumento a Napoleone III, collocato nel cortile del
Senato dove era stato lasciato anche uno scritto inneggiante alla libertà. Frammenti di
quest’ultima bomba e parti di quelle inesplose,
erano stati affidati a un perito, il generale d’artiglieria Alfredo Torretta che aveva trovato delle
analogie nella loro fabbricazione.
Sotto la guida della milizia, polizia e carabinieri
orientano le ricerche dei colpevoli verso comunisti, anarchici e repubblicani. La magistratura
dal canto suo incarica della perizia sulla bomba
di piazzale Giulio Cesare il tenente colonnello
Mario Grosso, perito balistico della sezione
staccata d’artiglieria di via Calatafimi. L’esperto
stabilisce che si tratta d’una bomba “detonante”, formata da una certa quantità di gelatina
racchiusa in un sottile involucro di tela cerata. Il
pacco era stato collocato nello spazio vuoto fra
un palo della luce e il suo basamento in ghisa:
vi era stato introdotto attraverso lo sportello di
facile apertura e di altrettanta facile chiusura e
appoggiato verso il lato del piazzale dove sorge
l’edificio con il civico numero 18.
L’esplosivo era collegato, attraverso un filo elettrico, a un congegno ad orologeria. Secondo
l’esperto, la carica del movimento a tempo non
poteva essere superiore alle dodici ore: il
convincimento fu comunque che quell’ordigno
dovesse essere stato infilato nel basamento del
palo attorno alle cinque del mattino.
Durante lo svolgimento delle indagini sono
fermate e rilasciate più di cinquecento persone. Lo zelo degli inquirenti nel volere trovare a
tutti i costi i colpevoli è così eccessivo da stravolgere le esistenze di parecchi innocenti. Uno
di questi è Romolo Tranquilli, il ventiseienne
fratello di Secondino Tranquilli, Ignazio Silone.
Romolo “è un giovane di sentimenti cattolici,
vagamente antifascista, più amante dello sport
che della politica”. Il fratello Secondo lo aveva
sistemato presso il don Orione, a Venezia, in
una casa per giovani artisti.Temendo che il suo
antifascismo avrebbe potuto nuocere al giovane congiunto, lo scrittore aveva deciso di
mandarlo in Svizzera. A portarlo fuori dall’Italia
era stato incaricato un amico di Silone, un
comunista che avrebbe dovuto incontrarlo sul
ORDINE
3
2005
lungolago di Como; il luogo dell’appuntamento
era stato segnato in una cartina.
Fermato dalla polizia, Romolo fu trasferito a
Milano. La piazza di Como antistante il lago,
luogo del rendez vous, fu scambiata dagli inquirenti per piazzale Giulio Cesare ed il giovane fu
sottoposto a brutali interrogatori. I suoi onesti,
insistiti, dinieghi furono presi per omertosi segni
di complicità con gli assassini. Picchiato con
sacchetti di sabbia “che non lasciavano tracce
estreme ma scardinavano l’interno”, riportò la
frattura d’una costola. Morì in carcere.
Delle cinquecentosessanta persone arrestate,
trecento sono subito rilasciate e soltanto due,
gli anarchici Gino Nibbi, originario di Massa e
Libero Molinari (il cui padre, anche lui anarchico, era un chimico di valore, amico di Errico
Malatesta) sono considerati implicati nell’attentato. Più che la scoperta dei colpevoli, l’indagine mette in luce le frizioni tra gli inquirenti che
si dividono tra duri e moderati. Guido Leto, alto
funzionario addetto ai servizi politici della dire-
mai di stimolare i suoi collaboratori affinché non
trascurassero nulla per far luce sull’attentato”.
Le stragi i cui autori restano sconosciuti scatenano (la storia del dopoguerra annovera parecchi esempi) ridde di ipotesi nelle quali l’uomo
della strada ha difficoltà ad orientarsi. La stessa cosa avvenne per l’attentato alla Fiera. Una
delle più accreditate fu quella che formulò
Cesare Rossi, prima addetto stampa di Mussolini quindi perseguitato e arrestato dal fascismo.
Raccontò che il vice questore di Milano Salvatore Haro, parlando dopo la Liberazione, della
strage con Luigi Gasparotto, deputato alla
Costituente, più volte ministro prima e dopo il
fascismo, se ne uscì con questa frase: “Cosa
vuole onorevole. Ad un certo punto ci siamo
dovuti fermare. Andando avanti ci saremmo
imbattuti nei fascisti, gente di Giampaoli”. Mario
Giampaoli, squadrista, era a quel tempo il
segretario federale di Milano.
A suffragare l’ipotesi che l’attentato potrebbe
essere stato eseguito dagli stessi fascisti (ma,
Attentato alla Fiera
(20 morti).
Impunito come piazza Fontana
Vittorio Emanuele III sfugge
alla bomba, perché è in ritardo
zione di Polizia e dal 1938 capo dell’Ovra, scrisse che “la polizia non si lasciò mai abbacinare
da inchieste fatte da altri organi dilettantistici più
o meno politici”.
Il poliziotto allude alla milizia, a Lucchini e al
procuratore generale del Tribunale speciale
Balzamo i quali ritenevano che esistessero le
prove per mandare subito davanti ai giudici
dello speciale organismo Nibbi e Molinari.
Contro questa tesi militava il capo della Polizia
Arturo Bocchini. Attraverso i suoi collaboratori
faceva presente la necessità che si procedesse almeno con il rito formale. Alla fine la spuntò
lui. Più tardi i due imputati furono assolti in
istruttoria.
Gli autori della strage di piazzale Giulio Cesare
non sono mai stati scoperti. “Il più grave cruccio di Bocchini” ricorda Leto nelle sue memorie” fu di non essere riuscito a vedere chiaro in
questo tragico episodio ed egli non si stancò
Foto Olympia
ripeto è una delle tante ipotesi) qualcuno ricorda un episodio alquanto misterioso avvenuto il
giorno dopo la strage di piazzale Giulio Cesare. In una caserma della Milizia di via Mario
Pagano si verificò un episodio oscuro: due militi furono uccisi e due rimasero feriti dalla pallottola accidentalmente sparata dal moschetto
d’un loro commilitone. Poiché risultava difficile
credere che una sola fucilata avesse potuto
colpire quattro persone, nacque la supposizione che quell’evento fosse in relazione con la
strage.
Nel 1930 si tentò di attribuire la responsabilità
dei morti della Fiera ad un gruppo di antifascisti
denunciato all’Ovra dalla “spia del regime”
Carlo Del Re. Questi, fingendosi contrario alla
dittatura, aveva indotto una schiera di persone
legata a G.L., a preparare alcuni attentati dimostrativi. Facevano parte della squadra Ernesto
Rossi, Riccardo Bauer, Ferruccio Parri e altre
ventuno persone tra le quali Umberto Ceva, un
chimico che, come scrisse Rossi, “mise a
disposizione della cospirazione la sua cultura
tecnica preparando tra l’altro nuove formule
d’inchiostro simpatico e di reagenti.
La scoperta nel dicembre del 1930 della cellula milanese di Giustizia e Libertà (nel comunicato della polizia compare per la prima volta
l’acronimo Ovra) che aveva congegnato un
paio di bombe per gli attentati dimostrativi sollecitati da Carlo del Re, non poteva non richiamare alla mente degli inquirenti la carneficina
di piazzale Giulio Cesare. Tanto più che tra gli
uomini che avevano avviato le prime indagini
nel 1928 c’era Francesco Nudi divenuto nel
frattempo capo della polizia politica milanese. Il
poliziotto era naturalmente a conoscenza delle
ipotesi formulate due anni prima.
L’occasione è troppo ghiotta perché Nudi se la
lasci sfuggire. Lui e il capo della polizia sono
sempre alla ricerca dei veri colpevoli della strage e ancora impegnati a fare vedere a quei
dilettanti della milizia ferroviaria che avevano
avuto torto. La dimostrazione di un’eventuale
compatibilità tra gli ordigni del 1928 e quelli
preparati da Umberto Ceva avrebbe permesso
all’uomo dell’Ovra di fare un colpo grosso. Nudi
affida al generale Alfredo Torretta la perizia sul
materiale infiammabile sequestrato nell’abitazione del chimico e di quell’altro che era stato
recuperato nelle acque d’una roggia. Qualche
mese più tardi, l’esito della perizia lo fa sobbalzare. In un capitolo dal titolo “Altri rilievi”, l’alto
ufficiale ricorda che negli attentati di Milano, e
“in particolare in quello di piazzale Giulio Cesare, si erano trovati congegni somiglianti”. Quindi rileva: “Mette però anche in evidenza un
insieme di circostanze e di analogie talmente
sorprendenti, anzi di identità tali, da far dubitare
che quei tristi ordigni, che miravano a colpire
cosi in alto e che causarono la morte di tante
innocenti persone, avessero un’origine comune con questi, ora repertati”.
Quel dubbio, esternato in una brutta frase dal
perito, offre al poliziotto l’occasione per puntare
i riflettori su Umberto Ceva lasciando per il
momento nell’ombra tutti gli altri accusati.
Secondo l’ispettore egli è il personaggio ideale
per compiere l’azzardoso esperimento di stabilire la connessione tra la terribile strage del 12
aprile 1928 e gli esponenti di G.L.
Ceva è un trentenne bruno, dal viso serio di
pensatore e dagli occhi cerchiati da un paio
d’occhiali a stanghetta. Al momento del suo
arresto è sereno, tranquillo. Se una pena lo
strugge è il pensiero della moglie Elena e dei
due figli, Edoardo di 4 anni e Michele di 8 mesi.
Tradotto a Roma come tutti gli altri, è confinato
in una cella del raggio dei detenuti politici. Poi il
presentimento d’un’ineluttabile sorte s’impadronisce di lui. Per logorarne la volontà e spegnerne la determinazione, il detenuto è lasciato in
isolamento. Il 4 dicembre, lo stesso giorno in
cui appare sulla stampa italiana il comunicato
dell’Ovra, il chimico subisce un duro interrogatorio. “Non ho compiuto altro atto all’infuori di
quelli che io stesso ho confessato, come ho già
esposto” dichiara.
Il 5 dicembre la moglie è convocata a Roma
per il primo colloquio. I due s’incontrano la
mattina del 7. Appena Elena Ceva vede entrare lo sposo nella stanza è colpita “da uno strano turbamento come di chi si trovi all’improvviso dinanzi a qualcuno che è ormai staccato
dalla terra, che sfiora appena con passo lieve”.
Il colloquio durò una quindicina di minuti. Il detenuto era presente e padrone di sé tanto da non
lasciarsi sopraffare dalla commozione. Nell’abbracciarlo, alla fine dell’incontro, la sposa gli
sussurrò all’orecchio che stesse tranquillo
“perché si sarebbe fatto il possibile per aiutarlo”. Egli la guardò “come se quelle parole non
avessero alcun significato per lui”. Lei afferrò le
mani del congiunto, lo guardò negli occhi,
mormorò: “Sempre cosi”. Lui rispose: “Va, va”.
Umberto Ceva si avvelenò la notte di Natale
del 1930. In una lettera all’ispettore Nudi scrisse: “Non ho fatto nulla, non ho visto nulla, non
ho saputo che altri abbia fatto del male a una
creatura umana”.
33 (37)
DELIBERAZIONE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA
La sala
del Consiglio
dedicata
a Nino Nutrizio
Milano, 25 gennaio 2005. Il Consiglio dell’OgL, nella
seduta di ieri, ha deliberato all’unanimità di dedicare la sala dove si riunisce, a Nino Nutrizio, il grande
giornalista di origine dalmata, che ha fondato e
diretto La Notte per 27 anni (dal 1952 al 1979). Nutrizio è stato uno dei più prestigiosi inquilini del Palazzo dei Giornali di via Antonio da Recanate 1, dove
oggi l’Ordine della Lombardia ha i suoi uffici.
Nel sito dell’OgL (www.odg.mi.it) la biografia di Nino
Nutrizio (a firma di Massimo Emanuelli) e un articolo di Michelangelo Bellinetti sulla storia dei giornali
dal 1950 in poi ospiti del palazzo di via Antonio da
Recanate, 1 (La Patria, Il Tempo, L’Italia, La Notte,
L’Avvenire, Gente, Guerin Sportivo).
Muscau: “Gli devo tutto.
Ha segnato la mia vita”
Caro Franco, sai che sono di poche parole,
visto anche il nostro passato, ma la tua e
vostra scelta mi ha commosso. Nino Nutrizio
ha segnato la mia vita: nel 1971 mi prese nel
suo giornale senza conoscermi. Accettò di
ricevermi (grazie alla sollecitazione di Mario
Bertoli, altro allevatore di giornalisti, strambo, ma ingiustamente dimenticato) solo per
aver scritto una lettera in cui spudoratamente chiedevo di fare il giornalista. Non avevo
la benché minima idea di che cosa fosse un
giornale. Non mi chiese che idee politiche
avessi (ero di sinistra) né che cosa sapessi
fare (niente!). Semplicemente mi accettò
perchè ero..sardo e con tanta voglia di lavorare. Assieme a me, lo stesso giorno, 1°
luglio 1971, cominciò la sua carriera Giorgio
Carbone. Allora a La Notte c’erano Vittorio
Feltri (che mi insegnò e tanto), Fernando
Mezzetti, Salvatore Scarpino, Arrigo Galli e
tanti altri fior di giornalista. Se oggi nella mia
carriera ho salito qualche gradino lo devo
esclusivamente a Nino Nutrizio. E pensare
che al primo colloquio litigammo, perfino,
proprio sulla Sardegna. «Dove avete
frequentato il liceo?», mi chiese, dandomi
del Voi, da signore e galantuomo vecchio
stampo.
«A Bosa», risposi.
«Sulla costa orientale della Sardegna,
vero?» ribatté.
«No, sulla costa occidentale», replicai - se
permette la mia isola la conosco bene».
«Anche io», rispose (all’epoca si mormorava
avesse una celebre amica in Costa Smeralda)
«Non come me» feci di rimando.
Si alzò con una bacchetta, la puntò sull’ampia carta geografica dell’Italia che aveva alle
spalle, cercò Bosa, la indicò e mi disse serio:
«Avete ragione, potete andare».
Era la fine del giugno 1971. Il colloquio era
finito. Il 1° luglio successivo varcai il portone
del palazzaccio di piazza Cavour. Assunto.
Grazie, Franco.
Costantino Muscau
Sulas: “Ero ragazzo
quando mi assunse”
Nino Nutrizio, mitico direttore de La Notte, è
stato un grande giornalista, un grandissimo
uomo e un vero signore. Ero un ragazzo
quando mi assunse alla Notte nel 1973, il
giorno in cui a Bergamo fu rapito Mirko
Panattoni e il Milan (di cui Nutrizio era tifoso)
perdeva lo scudetto a Verona. Per 12 anni ho
lavorato nella redazione di Bergamo, la città
dell’editore Carlo Pesenti. Mai un problema,
Ordine/Tabloid
ORDINE - TABLOID periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine
dei giornalisti della Lombardia
Poste Italiane SpA
Sped.abb.post.
Dl n. 353/2003
(conv. in L. 27/2/2004
n. 46)
art. 1 (comma 2).
Filiale di Milano
Anno XXXV Numero 3,
Marzo 2005
Direttore responsabile
FRANCO
ABRUZZO
Direzione,
redazione,
amministrazione
Via A. da Recanate, 1
20124 Milano
Centralino
Tel.
02 67 71 371
Fax
02 66 71 61 94
Consiglio dell’Ordine
dei giornalisti
della Lombardia
Franco Abruzzo
presidente;
Cosma Damiano
Nigro
vicepresidente;
Sergio D’Asnasch
consigliere
segretario;
Alberto Comuzzi
consigliere tesoriere.
Consiglieri:
Michele D’Elia,
Letizia Gonzales,
Laura Mulassano,
Paola Pastacaldi,
Brunello Tanzi
Collegio
dei revisori dei conti
Giacinto Sarubbi
(presidente),
Ezio Chiodini
e Marco Ventimiglia
Direttore dell’OgL
Elisabetta Graziani
Seg. di redazione
Teresa Risé
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Grafica Torri Srl
(coordinamento
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Marco Micci)
34 (38)
Stampa
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Registrazione
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del 26 maggio 1970
presso il Tribunale
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Testata iscritta
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La tiratura
di questo numero
è di 24.225 copie
Chiuso in redazione
il 21 febbraio 2005
Nino Nutrizio (secondo da destra) con un gruppo di colleghi a metà degli anni
Cinquanta al Circolo della Stampa di Milano.
mai una grana perchè il direttore era un Giornalista e un Signore. E che giornale che ci
faceva fare! Sono stati gli anni più belli, intensi e di enormi soddisfazioni. Che rimpianto
per quell’Uomo che ci dava del Voi, che incuteva soggezione e rispetto ma che trasudava Umanità. Finalmente qualcuno si è ricordato. Meglio tardi che mai. Complimenti al
presidente Abruzzo!
Giangavino Sulas
Di Grazia.
“Ammirevole decisione”
Caro presidente, ammirevole decisione: un
Fiumano, un Italiano!
Luca di Grazia
Lanza:
“Non ne sono contento”
Non ne sono contento: non posso dimenticare gli orrendi falsi che pubblicò sul suo
giornale su Valpreda e su Pinelli. È sempre
stato un giornalista “orrendamente” schierato. Sicuramente non verrò mai in quella sala
a lui dedicata.
Luciano Lanza
De Vidovich:
“Un amicizia dalmata”
Gentilissimo dottor Abruzzo,
con una certa commozione, leggo sull’ultimo numero di Tabloid le pagine dedicate a
Nino Nutrizio, il “mitico” direttore della
Notte, al quale ero legato da una amicizia
nata dalla stima che avevo per lui come
giornalista e dal fatto che provenivamo tutti
e due dalla Dalmazia, lui nato a Traù ed io
a Zara: da qui una più che modesta collaborazione, favorita allora dalla comune
amicizia con Umberto Frugiuele, direttore
dell’Eco della Stampa.
Fra i vari ricordi personali, mi piace ricordare
quello avuto con lui e con Frugiuele al Circolo della Stampa di Milano a metà degli anni
‘50, del quale conservo la fotografia (che
riproduciamo qui sopra, ndr) che mi pare
utile inviare a lei in copia: mi creda, non è per
un non esistente esibizionismo personale,
ma solo per aggiungere, un modesto contributo al ricordo dedicato a Nino Nutrizio dal
suo Ordine in occasione del trasferimento di
sede.
Gradisca i miei cordiali ed augurali saluti
Mario de Vidovich
4° “Premio giornalistico
Mauro Gavinelli”
BANDO DI CONCORSO
Il Gruppo Altomilanese giornalisti (Gag), istituito nel 1993,
con sede in Legnano, intende ricordare la figura di Mauro
Gavinelli, che fu tra i soci fondatori e il primo presidente del
Gag. A tale scopo, bandisce (con il sostegno del Comune di
Legnano e dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia) la
quarta edizione del “Premio giornalistico Mauro Gavinelli”.
REGOLAMENTO
art.1 - Il concorso premia il miglior articolo giornalistico,
pubblicato su un quotidiano o un periodico italiano, che
affronti un tema inerente l’attualità politica, economica, sociale, sportiva della Lombardia.
art. 2 - Il premio è riservato ad autori fino a 35 anni d’età
(compiuti entro il 21 marzo 2005), non necessariamente
iscritti all’Ordine dei giornalisti, nell’intento di valorizzare le
intuizioni e l’impegno di Mauro Gavinelli sulla formazione
professionale dei giovani colleghi e degli aspiranti giornalisti.
art. 3 - Il vincitore del premio riceverà la somma di euro 2.500
(duemilacinquecento).
art. 4 - L’iscrizione al concorso è gratuita.
art. 5 - Ogni concorrente può partecipare presentando un
solo articolo che sia stato pubblicato tra il 1° marzo 2004 e il
20 aprile 2005.
art. 6 - Non sono ammessi articoli già premiati in altri concorsi giornalistici.
art. 7 - Entro il 30 aprile 2005 ogni concorrente dovrà far
pervenire alla segreteria del premio – recapitata a mano o
servendosi del servizio postale (fa fede la data del timbro) –
una copia originale del giornale sul quale è stato pubblicato
l’articolo firmato o siglato, accompagnata da : a) una breve
domanda d’iscrizione al concorso redatta in carta semplice,
corredata dai dati anagrafici, dal curriculum vitae e dal recapito del concorrente; b) cinque fotocopie dello stesso articolo
con cui si intende concorrere al Premio. Copie originali dei
giornali e fotocopie inviate non saranno restituite.
art. 8 - La segreteria del premio, alla quale indirizzare
domanda d’iscrizione, articoli in concorso e relative fotocopie
è fissata nelle sede legale del Gag: presso Studio avvocato
Fabrizio Conti, via della Liberazione 13, 20025 Legnano (MI).
art. 9 - Ogni concorrente conserva la proprietà letteraria
dell’articolo in concorso.
art. 10 - La Giuria del concorso, che valuterà gli articoli giunti alla segreteria stabilendo il vincitore del premio, è composta da tre componenti del Consiglio direttivo del Gag fra cui il
presidente in carica, da componente della famiglia Gavinelli
– la quale finanzia l’iniziativa – e dal presidente dell’Ordine
dei giornalisti della Lombardia o da giornalista da questi indicato. Il giudizio della Giuria è insindacabile e inappellabile.
art.11 - La presidenza della Giuria è affidata al presidente
del Gag. La vice presidenza è ricoperta dal componente
designato dalla famiglia Gavinelli.
art. 12 - Tutti i partecipanti al concorso riceveranno l’invito
alla cerimonia di premiazione che si terrà entro la fine di
giugno 2005.
art. 13 - La partecipazione al Premio implica la piena accettazione delle norme contenute nel presente regolamento. La non
osservanza di quanto richiesto comporterà l’esclusione dal
concorso, senza che sia dovuta comunicazione al concorrente.
Ulteriori informazioni sul concorso
possono essere richieste telefonicamente
(347.4205085, Francesco Chiavarini)
ORDINE
3
2005
L A
Katia Ferri
Lavorare da casa
di Giacomo Ferrari
Fino a qualche anno fa il concetto di telelavoro era ancora
un po’ astratto. Tutti ne parlavano ma nessuno sapeva bene come e quando poteva
essere applicato nella pratica. C’erano soltanto dei tentativi, anche qualche esempio concreto, circoscritti però
ad attività particolari. Soprattutto non esisteva una normativa. Ebbene, nel giugno
del 2004 il telelavoro ha acquisito dignità giuridica.
Confindustria e sindacati (le
parti sociali anche in questo
caso hanno anticipato il legislatore) hanno siglato un accordo generale che, oltre a riconoscere ufficialmente la
nuova modalità professionale, ha regolamentato per la
prima volta la possibilità di
“lavorare da casa”. E proprio
questo slogan è il titolo del
volume, arrivato in libreria lo
scorso autunno, realizzato
con grande tempismo da
Katia Ferri, una giornalista
che da anni si occupa della
cosiddetta economia di servizio su testate specializzate
come Il Sole-24 ore, Investire, Banca & Finanza.
L’analisi della Ferri parte da
una constatazione: oggi in
Italia i lavoratori dipendenti
che si avvalgono della possibilità di fornire la propria opera a distanza sono almeno 50
mila. E addirittura 400 mila
sono i telelavoratori autonomi
o atipici. Chi lavora da casa
può distribuire il proprio tempo come vuole. Può insomma lavorare di sera o durante
il weekend: importante è infatti raggiungere l’obiettivo finale, cioè produrre una determinata quantità di documenti,
o altro, entro un tempo stabilito. L’azienda, da parte sua, risparmia in termini di spazi,
attrezzature e servizi per il
personale. Senza contare il
vantaggio “sociale” della riduzione della mobilità delle persone, con vantaggi per il traffico e per l’efficienza dei trasporti pubblici.
Insomma, il telelavoro ha
molti vantaggi. Uno solo l’aspetto negativo: negli uffici le
persone comunicano fra loro
costantemente, socializzano
e si scambiano opinioni ed
esperienze. Farlo attraverso il
telefono o l’e-mail non è la
stessa cosa…
Katia Ferri,
Lavorare da casa,
Sperling & Kupfer,
pagine 220, euro 13,50
L I B R E R I A
Fra i sei nuovi santi canonizzati il 16 maggio scorso ci sono quattro italiani: due sacerdoti, don Luigi Orione e don
Annibale di Francia, e due
donne lombarde, Paola
Elisabetta Cerioli e Gianna
Beretta Molla, medico pediatra, che a trentanove anni sacrificò la propria vita a quella
della creatura che portava in
grembo. Come dice il cardinale Tettamanzi nell’introduzione
al libro, quella di Gianna
Beretta Molla è l’esempio di
una vita “normale”. Nata nel
1922 a Magenta da famiglia
numerosa (tredici tra fratelli e
sorelle, tre dei quali presero i
voti), Gianna Beretta crebbe
in un clima di spiritualità francescana. Pur essendo di agiate condizioni economiche (il
padre, Alberto, era un importante dirigente del Cotonificio
Cantoni), i Beretta avevano
improntato la vita familiare alla
solidarietà sociale e a una
parsimonia operosa, di stampo lombardo. La madre,
Maria, confezionava da sé i
capi di vestiario per i figli, che
solo in quinta ginnasio avevano diritto all’abito “pulcro”,
un’usanza oggi scomparsa in
cui il rito di passaggio all’età
adulta era contrassegnato da
un vestito realizzato da un
buon sarto. Nel libro di GiuORDINE
3
2005
liana Pelucchi la biografia (non
agiografica, raccontata con
semplicità attraverso le parole
del marito e dei familiari) di
santa Gianna Beretta Molla è
anche occasione per rivivere
momenti di storia quotidiana
del secolo scorso.
Da ragazza, Gianna viveva felice nella sua bella famiglia
d’origine, in belle case fra
Magenta, Milano, Bergamo e
Genova, dove frequentò il liceo classico. Dopo i devastanti bombardamenti dell’agosto
1941, i Beretta lasciarono
Genova per stabilirsi nella casa dei nonni materni sul colle
di San Vigilio, a Bergamo.
Da studentessa liceale, Gianna Beretta era un punto di riferimento nei gruppi giovanili
dell’Azione Cattolica. Nel
1949 si laureò in Medicina a
Pavia, e meno di tre anni dopo
si specializzò in Pediatria. Suo
fratello Enrico, medico missionario, aveva ricevuto dal cardinale Schuster l’incarico presso una diocesi del Brasile. La
sorella Virginia, suora canossiana e anche lei medico, stava per partire per l’India.
A trentadue anni, Gianna
Beretta esercitava con entusiasmo la professione medica
nell’ambulatorio di Mesero,
presso Magenta. Per tutti i
suoi pazienti aveva una parola
di speranza, e spesso interveniva aiutandoli concretamente
in situazioni di necessità.
TA B L O I D
Gian Luigi Falabrino
Il design parla italiano
di Michele Giordano
Domus riveste un ruolo importante nella storia del
giornalismo italiano. Basti
pensare che l’intuizione di
investire in quell’impresa
editoriale promossa nel
1928 dall’architetto Gio
Ponti, l’autore del Pirellone,
fu di Gianni Mazzocchi che,
diciassette anni dopo, fonderà L’Europeo, quello di
Arrigo Benedetti, e, ventuno
anni dopo, Il Mondo di Mario
Pannunzio. La oggi settantasettenne rivista di architettura e design, oltre al primato
nella diffusione della nostra
cultura del costruire e dell’inventare nel mondo, dunque un primato decisamente giornalistico, può vantarne per lo meno un altro: aver
dato il nome a Domus Academy, anche se la scuola è
del tutto indipendente dalla
rivista e dalla casa editrice.
Domus Academy, se non fu
in senso stretto la prima
scuola italiana di design
(erano già nate, via via,
quella dell’Umanitaria; la
Politecnica del Design di
Nino Di Salvatore; l’Istituto
europeo del Design) fu certamente quella più ad ampio
Giuliana Pelucchi
L’amore più grande
di Olimpia Gargano
D I
respiro, soprattutto dal punto di vista della sua internazionalità.
Gian Luigi Falabrino, giornalista, già direttore delle riviste politico-culturali Diogene
e Mondo Nuovo e oggi docente di Storia della comunicazione visiva alla facoltà
di Architettura del Politecnico di Torino, di Teorie e
tecniche della comunicazione pubblicitaria al Dams
di Imperia e di Storia del
giornalismo all’Ifg Walter
Tobagi dell’Ordine lombardo, ha tracciato della Domus
Academy una storia ragionata in Il design parla italiano, libro edito, con traduzione in inglese a fronte, da
Scheiwiller.
Quel che si proponeva Domus Academy alla sua nascita, fortemente voluta da
Maria Grazia Mazzocchi
con Alessandro Mendini,
Valerio Castelli e Alessandro Guerriero, era, come
spiega Gillo Dorfles nella
prefazione, l’obiettivo di “colmare la lacuna esistente
nell’insegnamento del design - in tutte le diverse branchie di graphic, product, fashion design - a un livello didattico, peraltro, che fosse
decisamente post-universi-
tario (postgraduate), dunque che presupponesse la
presenza di una laurea ottenuta in una università italiana o straniera. Inoltre, fin
dalle origini, venne affiancato alla scuola un Centro ricerche (che dal 2004 ha
preso il nome di Darc), vennero organizzate importanti
mostre come Moda Italia:
creatività, impresa, tecnologia nel sistema italiano della
moda, che si tenne nel 1988
al Pier 88 di New York, esponendo i maggiori nomi dei
designer del settore made in
Italy come Armani, Biagiotti,
Fendi, Ferrè, Krizia, Missoni, Valentino e Versace.
Meritato e ambitissimo premio, nel 1994, Domus Academy ricevette il Compasso
d’Oro alla carriera offerto
dall’Adi, l’associazione per il
disegno industriale. E sono
centinaia i giovani che, usciti
da Domus Academy, hanno
fatto conoscere al mondo la
professionalità innovativa
del designer italiano.
Il libro di Falabrino ripercorre e sviscera le vivende della scuola e degli eventi di cui
fu protagonista, grazie anche alle testimonianze dei
protagonisti: fra gli altri,
Guido e Valerio Castelli,
Gianfranco Ferré, Alessandro Mendini. Segue
un’appendice con seminari,
conferenze, mostre, iniziative ideate da Domus Academy nei suoi oltre vent’anni
di attività culturale. I giovani
aspiranti designer interessati possono trarre ispirazioni
e informazioni sul sito
www.domusacademy.it.
Gian Luigi Falabrino,
Il design parla italiano.
Vent’anni di Domus
Academy,
Libri Scheiwiller,
Pagine 328, euro 30,00
Maria Martello
Intelligenza emotiva
e mediazione
di Franz Foti
Quando le restava tempo,
amava dipingere e suonare il
pianoforte. La sua vita scorreva serena, in attesa, diceva
lei, che Dio le facesse riconoscere la sua vocazione. Per
qualche tempo prese in considerazione l’idea di seguire la
via intrapresa dai suoi fratelli
missionari. Poi, l’incontro con
Pietro Molla, e l’intima certezza di sentirsi chiamata a essere moglie e madre cristiana.
Madre, Gianna Beretta Molla
lo fu fino all’estremo sacrificio
di sé, quando durante la sua
quarta gravidanza un grave
problema di salute la pose di
fronte alla scelta fra la propria
vita e quella del nascituro. “Se
devi decidere fra me ed il
bambino, non avere esitazioni: scegli - e te lo chiedo - il
bambino”, disse al marito pochi giorni prima del parto. Il 28
aprile 1962, una settimana
dopo aver dato alla luce una
bella
bambina,
Gianna
Beretta Molla si spegneva. La
sua immagine è diventata, in
Italia e nel mondo, simbolo di
maternità radiosa e tenace.
Giuliana Pelucchi,
L’amore più grande,
Paoline Editoriale Libri,
pagine 206, euro 11,00
Leggendo il lavoro di Maria
Martello potete essere certi
di imbattervi in un lavoro originale, che lascia poco spazio agli accostamenti con
Goleman. Qui l’intelligenza
emotiva si conficca nelle radici scoperte del vivere quotidiano, percorre i cunicoli
emotivi e razionali dell’agire
per poi risalire in superficie,
con una proposta di formazione capace di dare risposte
a molti interrogativi. Al centro
dello studio c’è, naturalmente, la vita con i suoi conflitti,
con i suoi bisogni di comprensione e di mediazione.
L’umanità è attraversata da
sentimenti. Taluni forti, altri
più deboli e non per questo
meno duraturi, meno presenti nell’animo di chi li nutre. Ma
in tutti gli ambiti dell’esistenza, delle relazioni umane, il
conflitto assorbe molta parte
delle energie degli uomini.
Forse si trascorre più tempo
nel confitto che nell’armonia.
Martello circoscrive tre ambiti
d’osservazione del conflitto, i
più importanti: la scuola, la famiglia e il luogo di lavoro. Ma
per gestire il conflitto bisogna
anzitutto saperlo riconoscere. E riconoscerlo significa
considerarlo nei modi e con i
tempi giusti, cogliere con intelligenza la conoscenza del
mondo dell’altro, precisare a
se stessi il senso profondo
del proprio agire sia nelle
azioni che nelle reazioni. Una
volta tracciati i confini del conflitto bisogna sviluppare l’arte
della mediazione per riportare le “parti” a riconsiderare le
reciproche ragioni e trovare
una via d’uscita che mantenga il loro “equilibrio emotivo”,
evitando di stabilire sconfitti e
vincitori. Per fare tutto ciò occorre però dispiegare una ragnatela emotivamente intelligente, capace di maturità
propria. E dunque necessita
un mediatore che abbia consapevolezza delle proprie
emozioni, che sappia classificarle e razionalizzarle, che
sia in grado di controllarle. In
questo modo si potrà essere
attenti alle emozioni degli altri. Se si è in grado di riconoscere il proprio malessere,
fissandone le coordinate
principali, si potrà accogliere
il malessere dell’altro. Il mediatore d’emozioni “è colui
che sta in mezzo come spazio partecipato, in cui si assume “questo e quello” per capire le ragioni delle parti, per
trovare le differenze e stimolare la ripresa della comunicazione interrotta cercando di
giungere alla risoluzione pacifica dei conflitti”. Secondo
Martello, bisogna riordinare e
ricollocare le situazioni entro
schemi razionali dopo averle
inquadrate e ridisegnate non
solo sulla base dei dati oggettivi, ma di quelli intuitivi. E
questo significa indagare tra
le pieghe dell’agire e del pensare, considerare con attenzione ciò che appare confuso
o poco comprensibile, dare
valore alle proprie reazioni
soggettive, non chiudersi nella ricerca di soluzioni esclusivamente razionali. Come si
perviene allo sviluppo dell’intelligenza emotiva e alla mediazione? Maria Martello è
perentoria: solo con la formazione! È a questo punto che
viene in evidenza il modello
umanistico proposto in questo lavoro che consiste nell’approfondire la propria formazione umana e professionale, nel rivedere ed elaborare i propri conflitti archiviati,
nello sviluppare le proprie capacità di relazione, nell’esercitazione dell’espressione
della propria intelligenza
emotiva. Si tratta di un volume che è rivolto a tutti coloro
che vogliono migliorare il proprio quotidiano, sentendo riconosciuta la propria dignità
e soddisfatto il bisogno di
condivisione e complicità.
Maria Martello.
Intelligenza emotiva
e mediazione.
Una proposta
di formazione,
Giuffrè Editore, euro 18,00
35 (39)
L A
L I B R E R I A
D I
TA B L O I D
Matteo Collura
In Sicilia
di Ottavio Rossani
Matteo Collura ci ha regalato, nel suo più recente libro,
un modo diverso di vedere la
Sicilia. È possibile perché ci
consegna lenti speciali fatte
di scrittura evocatrice, denunciante, smitizzante: sono
lenti paraboliche che permettono una visione d’insieme, ma in contemporanea
anche visioni singole, parziali, delimitate. Sono lenti
che ci inducono a viaggiare
in Sicilia dall’alto ma anche
dal basso, che ci concedono
di parlare con i presenti e
con gli assenti, con i contemporanei e con li trapassati. Queste lenti non attengono agli occhi ma alla mente: amplificano i pensieri, le
memorie, le opere d’arte, gli
eventi, i personaggi. Nel libro
In Sicilia lo scrittore-giornalista siciliano, che ormai da
30 anni è diventato “milanese”, con una lunga militanza
di giornalismo culturale al
Corriere della Sera, propone
un itinerario letterario/entomologico che disvela illumina i chiaroscuri dei siciliani e
della Sicilia, spiega le contraddizioni, motiva i rifiuti e
l’indifferenza, sfata luoghi
comuni, denuda il sistema
osseo su cui si innerva un
paesaggio perfettamente
aderente al carattere dei siciliani. Collura estrae da
questo viaggio l’essenza
stessa dei siciliani, come popolo invaso, conquistato,
stuprato, sottomesso, amministrato, visitato, apprezzato
o disprezzato. Insomma lo
scrittore fa da guida al lettore, ma non per un tour turistico, bensì per un’immersione
storica, letteraria, etnologica, archeologica, geografica.
Tutti questi aspetti non sono
in successione logica o cronologica o per capitoli. La
narrazione, che di questo si
tratta, è un tutt’uno di sentimenti, umori, ricordi, citazioni. In Sicilia è il libro “totale”,
connaturato alla nascita e al
primo vissuto, che prima o
poi ogni scrittore vorrebbe
scrivere. Il libro in cui l’autore
ritrova le origini, gli amici, i
maestri, i paesaggi, i sogni,
le delusioni. Alla fine di questa esplorazione a tutto tondo restano soprattutto i lampi della disperazione per
l’immutabilità delle cose e
dei comportamenti, resta la
sensazione e la convinzione
dell’ “irredimibilità” del paesaggio siciliano, già sanzionata da Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, che Matteo
Collura assume a paradigma per la comprensione dell’universo-Sicilia.
È proprio il paesaggio la
chiave di lettura. I siciliani vivono in un paesaggio che i
visitatori stranieri considera-
Lido Picarelli
Cetraro Nova
di Filippo Senatore
Il ritratto più efficace della piccola borghesia intellettuale del
Mezzogiorno viene disegnato
con fosche linee da Gaetano
Salvemini su La Voce del 3
gennaio 1909, rivista d’orientamento ostile a Giovanni Giolitti,
fondata nell’anno precedente
da Giuseppe Prezzolini. Forse
l’amarezza di Salvemini, storico e meridionalista pugliese, è
accentuata dalla perdita recente della moglie e dei figli sotto le
macerie del terremoto di
Messina. Giolitti, nel biennio
1909/1910, pur rimanendo nell’ombra come il più potente uomo politico di quegli anni, lascia la presidenza del Consiglio prima a Sydney Sonnino
e poi a Luigi Luzzatti.
Siamo in epoca di grandi mutamenti economici e sociali.
Decollo industriale, emigrazione, riordinamento del sistema
bancario e crescita del reddito
sino alla crisi del 1907.
Arrivano le leggi speciali per il
Mezzogiorno, la statizzazione
delle ferrovie, la conversione
della rendita, il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, la riforma scolastica Daneo-
36 (40)
Credaro e l’introduzione del
suffragio universale maschile.
Un riformismo, quello di Giolitti,
non privo di limiti e una politica
economica che avrebbero favorito l’industria protetta e la
grande proprietà terriera, tutelata dal dazio sul grano. Al riformismo empirico di Giolitti,
Sonnino contrappone un programma non privo d’aperture
sociali, attento ai problemi del
Mezzogiorno ed alle condizioni
delle classi rurali. Che cosa avviene in quel tempo a livello locale, in una piccola cittadina
meridionale?
Lido Picarelli, infaticabile cronista, ha scoperto la vita intensa,
ma breve di una rivista edita a
Cetraro, in provincia di Cosenza tra il 1909 e il 1910.Tre
giovani studenti universitari,
appartenenti alla borghesia cittadina decidono di fondare un
periodico, Cetraro Nova.
Non si tratta dei Cocò, figli di
papà sbeffeggiati da Salvemini
nel citato articolo de La Voce,
ma al contrario di una nuova
generazione che contesta, sia
pure in modo garbato e moderato il potere amministrativo del
municipio lanciando proposte
concrete per il miglioramento a
livello sociale del consorzio ci-
no di straordinaria bellezza
ma a loro è pressoché indifferente. Leonardo Sciascia a
questo proposito parla di “invisibilità dell’evidenza”.
Tomasi di Lampedusa, come già detto, definisce il
paesaggio siciliano “irredimibile”. E Collura dice: “Ho voluto verificare se è vero che
è ‘irredimibile’, e conclude:
“Sì è vero, esiste un legame
tra un determinato paesaggio e il carattere della gente
che lo anima. Ma non esiste,
non può esistere, un rapporto tra quel paesaggio e il
sentire morale di quella stessa gente. La Sicilia, ora so, in
questo non fa eccezione; e
se quel rapporto vi appare
connaturato è perché è stato
sistematicamente violentato,
corrotto, avvelenato dalla
storia. Ecco il perché di tanto
stravolgimento, di tanto oltraggio al paesaggio. Si illudono così di cambiare casa,
gli inquilini della storia, mentre è questo nostro tempo a
sfrattarli, togliendo loro una
consapevolezza di cui andare fieri, e nello stesso tempo,
di cui diffidare”.
Collura si mette in cammino
avendo addosso e negli occhi le percezioni già tramandate dai grandi scrittori che
in passato hanno visitato e
cercato di capire la Sicilia.
Uno su tutti: Goethe, per il
quale se si vuol capire qualcosa dell’Italia bisogna guar-
dare la Sicilia, nulla accade
in Italia che non sia già accaduta in Sicilia. Ma Collura
fonda la sua capacità d’indagine sulla percezione della
storia e dei comportamenti;
pertanto i riferimenti culturali
gli servono solo per sfatare
le stupidità, per denunciare
gli abusi, per stigmatizzare
le abbiezioni lungo i secoli.
Così sono presenti, in questo racconto che scopre le filigrane morali ed estetiche
dell’isola e dei suoi abitanti, i
numi tutelari della sua esperienza letteraria (Verga,
Pirandello, Brancati, Tomasi
di Lampedusa, Sciascia,
Vittorini, Calvino, Malaparte,
ecc.), e i luoghi che hanno
colpito la sua immaginazione: da Portella della Ginestra
alla Chiesa dei Cappuccini a
Palermo con le mummie appese in una mostra macabra
e sconvolgente; dalla cittàcapitale Palermo, “teatro di
teatri” come la Vucciria o
piazza Bellini, a Cassibile
con la sua storia dimenticata
di un problematico armistizio
con il successivo sbarco degli Alleati; dal manicomio di
Agrigento al sacco della
Valle dei templi. Collura ci
sorprende nella bellezza di
Iblea che stordisce, ma anche con la sottile e onnipresente invadenza delle targhe
e delle lapidi. Gli aspetti sono molti, i passaggi innumerevoli. Solo per fare tre
esempi: la storia di Cagliostro ripercorsa attraverso la
testimonianza di Goethe, la
vicenda del principe “mago”
Raniero Alliata, la battaglia
di Calatafimi e il trascurato
mausoleo.
Sotto a questo affresco,
viaggiano insieme allo scrittore, dall’inizio alla fine, la
bellezza del paesaggio co-
me metafora della morte, in
quanto la bellezza viene profanata soprattutto dal disinteresse della gente che abita
quel paesaggio e la questione etica degli “inquilini derlla
storia” che attendono “irredimibilmente” di essere sfrattati da quel paesaggio che
non vedono e che hanno comunque coartato.
Si leggano le intense pagine
narrative che riguardano gli
eucalipti come simboli di
morte. Scrive Collura: “È un
albero che ben si adatta a
questo clima, l’eucalipto, e
che cresce rapidamente, inibendo presso di sé la presenza di altre piante. Gli uccelli raramente vi nidificano,
per questo il suo già triste
aspetto è ancora più desolato. Non vi è vita negli eucalipti, al contrario – ed è un
paradosso constatarlo – dei
cimiteriali cipressi, vivi al loro
interno del frullare di molte
specie volatili.
Dimorano gli eucalipti, nella
desolata scarpata dove un
branco di assassini troncò la
vita del giudice Livatino; ed
eucalipti ho visto ergersi affranti in un giornio di luce livida tutt’intorno ai resti della
miniera di zolfo dove Giuseppe Sciascia si uccise; e
queste stesse dolenti piante
copiosamente costeggiano
la strada che conduce a
Portella della Ginestra”.
Singolare analisi letteraria,
ma proprio perciò molto reale, di una costante sul territorio dell’isola: dove c’è la morte c’è luce, anzi c’è una luce
eccessiva. Dove ci sono stati
aggressione, stupro, violazione, conquista, repressione, ricatto, delitto, ecco, c’è
sempre stata una luce accecante. Non si può disgiungere la luce della Sicilia dall’e-
vento di morte. E dove c’è
morte ci sono eucalipti.
La morte, la luce, l’ingiustizia, i personaggi “folli”.
Pirandello ha dato l’interpretazione autentica dei siciliani: quando non possono risolvere razionalmente i problemi trovano la via d’uscita
nella follia.
I siciliani amano allo stremo
la loro terra. E tuttavia non
vedono l’ora di abbandonarla, perché è l’unico modo di
salvarsi dalle storture, dalle
imposture, dalla violenza,
dalla mafia. Conclusione
pessimista, come d’altronde
era la visione del “Gattopardo” Tomasi di Lampedusa, ma che nasce da un
amore sconfinato dell’autore
per la sua terra e dal dispiacere di vedere l’immutabilità
delle cose. Il viaggio quindi si
conclude con l’ammissione
di questo grande amore ma
con la convinzione che si
tratta di un amore perduto,
impossibile, che fa parte di
sé ma è ormai fuori di sé. Un
lento e inesorabile abbandono di questa donna bella ma
infernale, che non sa mantenere le promesse. E la ragione di un simile viaggio
“estraniante”? Eccole: “Un
viaggio negli anni perduti, alla ricerca di un senso da dare allo sfacelo che mi si apre
davanti ogni qual volta, come fosse un bisogno dell’anima, mi predispongo a rivedere il mio modestissimo
aleph, quel luogo – dice
Borges – «dove senza confondersi si trovano tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli
angoli» “.
vile. Il limite dei tre studenti,
giornalisti dilettanti, è il soffermarsi verso una quotidianità locale non sempre riflesso di
problematiche sociali e politiche generali. Il merito è tuttavia
quello di affermare una voce
critica nuova in un contesto di
arretratezza e miseria della
Calabria di quegli anni che l’8
settembre 1905 viene colpita
da un terremoto con epicentro
a Monteleone Calabro, ma che
s’irradia in gran parte della regione. Morti, feriti e devastazione in una terra già colpita da alluvioni, malaria e dal mal governo del territorio. La stampa
nazionale dà rilievo all’evento,
lanciando comitati di soccorso
per raccogliere aiuti da portare
nelle zone del sisma. Il re
Vittorio Emanuele III accorre
sui luoghi della sciagura con
molti giornalisti al seguito compreso Luigi Barzini, mitico corrispondente del Corriere della
Sera, appena rientrato dal fronte della guerra russo-giapponese.
La legge 25 giugno 1906 stabilisce i provvedimenti a favore
della Calabria per le zone terremotate con l’avvio di opere
pubbliche edificative e ricostruttive.Alla piccola città di settemila anime, Cetraro, uno
sperone di roccia affacciato sul
Tirreno, spetta qualche briciola
per la bonifica di un fatiscente
borgo marinaro, l’edificazione
di nuove case per pescatori e il
completamento delle strade vicinali. La burocrazia parassitaria ed inefficiente, sia statale
sia locale, rallenta il corso delle
opere pubbliche. A parte la rife-
rita legge del 1906, i giovani
cetraresi non dicono nulla negli
articoli della rivista. Tacciono
sui presunti danni sismici riportati nell’area di Cetraro. Quello
che è incredibile è il silenzio totale sul più devastante e coevo
terremoto di Messina del 1908.
Sembrerebbe che i giovani
giornalisti abbiano una sorta di
senso di rimozione.
Le graziose elargizioni del governo al borgo cetrarese, colpito marginalmente dal terremoto, portano ad una sorta di
complice silenzio. Se si dovesse parlare delle zone più colpite, al piccolo campanile non
spettebbe alcun finanziamento, ma la politica giolittiana ha
bisogno di qualche elemosina
per ingraziarsi le popolazioni,
comunque colpite dall’arretratezza economica e culturale.
Le punzecchiature al notabile
del luogo esprimono il dissenso verso i politicanti.
I tre giovani giornalisti Francesco Aita, Attilio De Caro e Luigi
Losardo nel primo editoriale
del 16 aprile 1909, denunciano
l’arretratezza della propria regione rifiutando pietismi ed autocommiserazioni. C’è la consapevolezza e la condivisione
della denuncia salveminiana
che individua come male principale la classe dirigente locale, definita da coraggiosi cetraresi “accattoni nei crocicchi”
che sbarrano il passo “a quel
burbero benefico che sarebbe
lo Stato, per chiedergli l’elemosina di una legge speciale”. In
un altro corsivo si individuano
le ragioni verriane illuministe
della miseria. “La ricca Sviz-
zera era una regione poverissima, non aveva che giogaie aride e nevose, la nostra Lombardia era un pantano”. Tale
approccio non dimentica la lezione di Giustino Fortunato, altro grande meridionalista lucano il quale avverte di non trasformare la denuncia delle
condizioni di arretratezza del
Mezzogiorno in una lamentosa
giaculatoria scioccamente colpevolizzatrice e vittimistica. La
rivista calabrese individua nelle
cronache locali disservizi burocratici che portano a sprechi di
risorse e al rallentamento ulteriore di un timido sviluppo economico di un’area tagliata fuori,
nonostante la ferrovia e le potenzialità del trasporto marittimo.
Per non parlare delle strade
pubbliche incomplete che per
pochi metri tagliano fuori del sistema di sviluppo intere aree
interne. Sono questioni molto
attuali e i tre giovanotti pazientemente suggeriscono soluzioni di buon senso.
Altre descrizioni pittoresche ed
eventi minori, denunciano carenze igieniche, mancanza di
formazione del personale sanitario, la delazione anonima:
uno dei mali della giustizia e le
piccole lobby e le camarille di
paese.
Lido Picarelli riesce a decifrare
gli articoli con un’ampia annotazione storico-politica, valorizzando ed attualizzando il patrimonio di una memoria che va
preservata ed interpretata per
comprendere il presente. Una
lezione etica di giornalismo.
In questi brevi anni d’inizio se-
colo la rivista riesce ad autosovvenzionarsi con le inserzioni commerciali in aumento e
con l’apporto di un pubblico di
lettori non numeroso, ma assiduo.
Picarelli s’interroga senza esito
della rottura del sodalizio che
porta alla chiusura della rivista.
Il libro si conclude con un breve
cenno alla rivista concorrente
l’Aurora.
Al di là dei limiti, Cetraro Nova,
(reperibile solo nella biblioteca
cittadina: una rarità) fotografa
l’anelito e le speranze di quegli
anni di un popolo semplice che
vince gli stenti con la poesia dei
canti e dei balli senza perdere
di vista la cruda realtà.
“Si è levato subito un grido:
Viva Milano! Quando siamo
partiti, la popolazione è corsa
per una scorciatoia gridandoci
ancora:Viva Milano! come ultimo saluto. Per alcuni minuti
nessuno di noi ha potuto articolare parola, tanto la gola era
serrata dal pianto. E questi sono i calabresi dalla fama così
sinistra! E non vi è più buona
gente nel mondo... questo popolo che ha conservato nella
sua isolazione i più puri tesori
di virtù” (Luigi Barzini, da una
cronaca in prima pagina del
Corriere della Sera, 18 settembre 1905).
Matteo Collura,
In Sicilia, Longanesi 2004,
pagine 222, euro 14,00
Lido Picarelli,
Cetraro Nova.
Lettura critica
del periodico fondato
e redatto nel 1909 – 1910,
Amministrazione Comunale
e Pro Loco di Cetraro,
pagine 183
ORDINE
3
2005
L A
L I B R E R I A
Stefano Jesurum
Israele
nonostante tutto
di Vito Soavi
Il mio parroco, che è un eminente teologo, riteneva che
Ben Gurion fosse approdato
in Palestina nel 1946, quando, nella realtà, vi arrivò quarant’anni prima. Il Museo
Diocesano di Milano ha recentemente ospitato una mostra fotografica, titolata “Anima mundi “, un bellissimo reportage alla ricerca delle manifestazioni di fede e spiritualità delle religioni di tutto il
mondo, con una sorprendente lacuna: all’ebraismo è stata
dedicata una sola immagine,
ripresa nel cimitero di Venezia. Cito questi episodi per
evidenziare qunto la pubblica
opinione, a tutti i livelli, sia
tendenzialmente poco informata e poco sensibile alle secolari traversie del popolo
ebraico e quini facile “preda”
di chi si fa sentire di più, con
le grida e, purtroppo, con gli
attentati suicidi. Dove sono
realmente le ragioni e dove i
torti?
Stefano Jesurum tenta, con
molto equilibrio, di individuare
le realtà attraverso il resoconto di un suo recente viaggio
in Terra Santa, uscito in libreria con il titolo “Israele nonostante tutto”.
Prendendoci per meno ci accompagna nei sobborghi arabi di Gerusalemme, ci fa at-
traversare le strade affollate
di una modernissima Tel Aviv,
viaggiare nel deserto del
Neghev, “location” dei più celebri film westrn americani,
raggiungere sperduti kibbutz
dove la sabbia è stata miracolosamente trasformata in
terreno fertile, respirare un’aria diversa visitando i grandi
magazzini Ikea, frequentati
da arabi e mussulmani, fedeli
ed infedeli, pacifisti e nuovi
zeloti, fino a farci sostare davanti al “Muro invisibile”, la
moderna barriera che è diventata simbolo, a secondo
da dove la si guardi, di oppressione o di sicurezza.
Il racconto si sviluppa in trenta capitoli, in ognuno dei quali
vi è protagonista un personaggio, tessera di un vivacissimo mosaico che ritrae la
realtà di un paese rispettoso,
al di sopra di tutto, dei principi
della democrazia.
In questa carrellata speravo
di trovare un accenno a Nevè
Shalom Wahat As Salam, insediamento collocato fra
Gerusalemme e Tel Aviv, da
trent’anni convivenza, in pace e in armonia, di arabi ed
israeliani, e dove è sorta una
importante scuola che è meta sempre più ambita per i figli dei benpensanti cittadini di
Israele, ed anche al frequentatissimo Circolo dei Genitori
di Gaza, aperto a coloro che
hanno perso un figlio in guer-
D I
TA B L O I D
Benito Melchionna
Sul treno.
Muoversi nell’ambiente
Peccato che non si trovi in libreria, perché questo bel volume dedicato al treno e realizzato su iniziativa delle
Ferrovie Nord Milano si fa
leggere che è un piacere. Se
poi la lettura avviene giusto
durante un viaggio su strada
ferrata, come è capitato a chi
scrive, potrebbe quasi riconciliarci con quello che fra i
moderni mezzi di trasporto è
il più suggestivo ma - almeno
in Italia - non altrettanto soddisfacente quanto a puntualità e servizi.
Benito Melchionna, magistrato umanista, conosce il piacere del racconto, e lo esercita in questo suo nuovo saggio che è al tempo stesso
una storia di emozioni e ricordi collettivi legati all’esperienza del viaggio ferroviario, ripercorsa attraverso riferimenti che vanno dall’arte alla letteratura alla canzone d’autore (una per tutte, Azzurro di
Paolo Conte, portata al successo da Celentano, che se
esistesse un inno nazionale
del viaggiatore potrebbe essere la canzone ufficiale delle
ferrovie italiane).
Melchionna, Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Crema e docente
di Diritto dell’informatica alla
Statale di Milano, si occupa
per passione oltre che per
professione di tematiche ambientali e sviluppo sostenibile. In questa ottica, basandosi
su testi normativi e piani di intervento, l’autore evidenzia i
vantaggi del trasporto ferroviario rispetto a quello automobilistico e aereo: più sicurezza, meno danni all’ambiente (grazie a un minore livello di emissioni inquinanti).
Con adeguati interventi infrastrutturali, il trasporto ferroviario potrebbe inoltre contribuire a decongestionare un
traffico automobilistico ormai
ai limiti della paralisi (secondo previsioni ministeriali, senza adeguate strategie di intervento l’Italia rischia il blocco della mobilità entro il
2015).
Al suo primo apparire, il treno
suscitò reazioni sbigottite, se
non vero e proprio panico.
Basta ricordare il famoso episodio avvenuto durante la prima proiezione cinematografica dei fratelli Lumière, quando vedendo arrivare sullo
schermo una locomotiva metallica sbuffante di vapore gli
spettatori fuggirono terrorizzati credendo che il treno
piombasse nella sala.
“Cavallo d’acciaio”, lo chiamavano gli indigeni delle praterie americane che lo vedevano solcare sferragliando
orizzonti a perdita d’occhio.
In Italia il primo tronco ferro-
viario (8 chilometri sul tratto
Napoli - Portici) fu inaugurato
il 3 ottobre 1839 da Ferdinando II di Borbone.
Forte di una storia ormai bicentenaria, il treno punta dritto verso il futuro. Un futuro
che è già in corsa sui binari a
levitazione magnetica delle
ferrovie cinesi e giapponesi,
dove i treni “sospesi” a dieci
millimetri dal suolo possono
superare i 400 km orari. In
Europa il primato dell’alta velocità spetta alla Francia, dove i treni TGV, che già in alcuni tratti viaggiano a 300 km
l’ora, potrebbero sfiorare i
600 una volta risolti i problemi
relativi ai binari e alla linea di
alimentazione.
Entro breve tempo, il treno diventerà un mezzo di comunicazione sempre più “globale”,
visto che sono già in fase di
allestimento carrozze ferroviarie collegate a Internet via
satellite, per consentire al
passeggero di essere informato in tempo reale su quanto avviene in ogni parte del
mondo.
nuare, riteneva Mancini,
un’aspirazione dei socialisti
a diventare – nel lungo periodo – alternativi sia ai democristiani sia ai comunisti.
Egli era convinto – e lo dimostrò nella lunga esperienza
alla guida di ministeri di “peso” come Sanità, Lavori
Pubblici e Mezzogiorno a
partire dal 1963 e nella breve stagione (1970) durante
la quale fu segretario del Psi
– che un socialista con responsabilità di governo doveva dar prova di autentica
“discontinuità” rispetto alle
precedenti impostazioni, ai
suoi occhi moderate se non
conservatrici.
Lo spirito antiburocratico e la
forte attenzione all’Italia meridionale che caratterizzarono la sua presenza negli
esecutivi del centro-sinistra,
al di là delle critiche – talvolta fondate – che suscitarono,
vanno ricondotte a questa
impostazione.
A Nenni che gli chiedeva come mai si interessasse tanto
alla Calabria – ricorda il figlio
Pietro – Mancini rispose:
“Avrei potuto farlo meno, se
il Psi lo avesse fatto di più”.
E, ormai vecchio, nel Duemila affermava con toni autocritici: “La mia idea del socialismo parte sempre dalla
considerazione dei problemi
meridionali rispetto ai quali,
con l’eccezione di Rodolfo
Moranti, vi è stata, storicamente, un’azione inadeguata del Psi e dei suoi massimi
dirigenti”.
Una terza costante dell’impegno di Mancini è rappresentata dal deciso spirito garantista.
Per questo egli sposò con
foga le ragioni de l’Espresso
quando il settimanale romano denunciò lo scandalo
Sifar-De Lorenzo sino a
scontrarsi duramente con
Aldo Moro; per gli stessi motivi, molti anni più tardi, si
schierò in difesa di Enzo
Tortora e poi si batté apertamente per la concessione
della grazia ad Adriano
Sofri.
Mancini, del resto, fu tra i pri-
mi, nel mondo della sinistra,
a comprendere l’importanza
che, per la modernizzazione
civile del Paese, rivestivano
le battaglie per lo sviluppo
dei diritti civili, a cominciare
da quella in difesa della legge sul divorzio, al cui vittorioso esito contribuì non poco.
Il leader calabrese fu insomma un politico scomodo e,
per molti versi, dotato di vista lunga.
Figure come la sua mostrano perciò come sia superficiale l’approccio liquidatorio
con cui in tempi recenti è
stata, da tante parti, bollata
la politica del centro-sinistra.
Merito indubbio del piccolo
saggio che a Mancini ha dedicato il figlio è di contribuire
a un esame più attento di
questa lunga stagione di vita
italiana. Riflessione utile non
solo per la corretta comprensione storica ma anche per
meglio affrontare i problemi
che incombono, oggi, sul
Paese.
Pietro Mancini,
Giacomo Mancini,
mio padre,
Rubbettino Editore, 2004
pagine 109, euro 8,00
di Olimpia Gargano
ra, sia da parte israeliana che
da parte araba.
Come si legge nella presentazione che trova spazio nei
risguardi di copertina di questo libro, sorge alla fine, spontaneo, il desiderio di innalzare
un canto d’amore a questa
terra straordinaria, perchè in
chi ha avuta la sorte fortunata
di visitarla, come chi scrive
queste note, rimane per lei
una sottile penetrante nostalgia.
Così ho deciso che regalerò il
libro di Jesurum al mio parroco teologo, certo che lo gradirà, e forse anche al direttore
del Museo Diocesano.
Stefano Jesurum,
Israele nonostante tutto,
Longanesi & C. ottobre 2004,
pagine 196, euro 14,50
Benito Melchionna,
Sul treno.
Muoversi nell’ambiente,
Edito da M&B Publishing,
pagine 116, s.i.p.
Pietro Mancini
Giacomo Mancini,
mio padre
di Antonio Duva
Il 22 dicembre del 1966
Pietro Nenni annota nel suo
diario: “Giornata di intenso
lavoro al Consiglio dei ministri… Nel pomeriggio approvata la riforma urbanistica
proposta da Mancini. Fino
all’ultimo minuto c’è stata
una discussione minuziosa.
Per parecchi ministri si è trattato di un boccone amaro da
inghiottire, per Mancini di un
successo, anche se sarà attaccato da sinistra non meno
che da destra”.
Sono soltanto poche righe,
sufficienti tuttavia, per l’anziano leader socialista, a dare un’immagine incisiva dell’azione di Giacomo Mancini
e dei suoi motivi ispiratori: tenacia, concretezza e voglia
di affermazione, per sé certamente, ma anche per la
sua terra, la Calabria, e per il
suo partito, il Psi, ai cui ideali
Mancini fu sempre profondamente legato anche per ragioni familiari, in quanto figlio
di Pietro, uno dei padri fondatori del socialismo nel
Mezzogiorno.
ORDINE
3
2005
Ma dal passo del diario di
Nenni si coglie anche un altro elemento che accompagnò Mancini nel corso della
sua lunghissima battaglia
politica (dalla lotta antifascista sino ai primi anni del
nuovo secolo) : la capacità di
suscitare – come capita
spesso agli autentici riformisti – talvolta consensi ma anche feroci ostilità, come appunto rilevava Nenni, “a sinistra non meno che a destra”.
Questi tratti di fondo del leader socialista calabrese sono posti bene in luce da un
agile volume che il figlio
Pietro gli ha dedicato a due
anni dalla scomparsa, avvenuta nell’aprile 2002.
Il forte legame familiare, che
dà sapore all’intero volume
ed è del resto evidenziato sin
dal titolo, non va a detrimento
della chiarezza dell’analisi e
l’amor filiale non offusca la
professionalità dell’autore, lucido e sperimentato giornalista, per lunghi anni a Il
Giorno e da tempo alla Rai.
Il lettore si trova perciò di
fronte, più che a una biografia in senso stretto, a una
lunga inchiesta sul Mancini
politico del cui operato sono
ricordati, accanto ai numerosi successi, anche le sconfitte e i giorni amari che non
mancarono certo nel corso
di quasi sei decenni di continuo impegno.
“Non si tratta di un monumento all’uomo infallibile”,
ha giustamente osservato
Santino Salerno, presentando il libro di Pietro Mancini
nel quale sono infatti registrati anche “i momenti difficili dell’uomo di potere, fatto
bersaglio di numerose campagne scandalistiche”.
Un ritratto, insomma, a tutto
tondo dedicato a una figura
controversa e tuttavia sicuramente significativa dell’Italia
repubblicana.
Di Mancini colpiscono alcuni
tratti peculiari: in primo luogo
la sua fedeltà assoluta verso
il socialismo che spicca in un
mondo politico che, specie
nella fase di trapasso dalla
prima alla seconda Repubblica, si dette con larghezza
alla pratica del trasformismo.
Poi la sua visione della politica di centro-sinistra: l’alleanza con la Dc non avrebbe
dovuto in nessun caso atte-
37 (41)
L A
L I B R E R I A
D I
Claudio Stroppa
La città degli angeli.
Il sogno utopico di fra’
Gioacchino da Fiore
di Salvatore Angelo Oliverio
Il volume di Claudio Stroppa
si svolge lungo il tracciato del
pensiero utopico dal XIII al
XVII secolo, ma ha nel profetico messaggio dell’abate calabrese il focus tematico nel
quale più o meno direttamente vengono comparate le ispirazioni e i progetti delle proposte e dei movimenti utopici
europei. I capitoli dal terzo al
quinto sono dedicati al confronto fra sant’Agostino,
Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella.
Non c’è dubbio che l’abate di
Fiore si sia collegato ad
Agostino in molti aspetti della
sua teologia trinitaria, ma, come si evince dalla lettura del
libro di Stroppa, diverge nettamente da lui per quanto riguarda le sue linee di teologia della storia.
Come Agostino, Gioacchino
accetta la divisione in sette
tempi della storia della salvezza e rigetta l’interpretazione secolarizzata ed edonistica dei Millenaristi o Chiliasti,
che avevano prospettato il
millennio dell’Apocalisse di
Giovanni come un periodo finale di gioie mondane. Ma,
diversamente che per Agostino, che aveva individuato il
millennio apocalittico nel tempo della Chiesa a partire da
Costantino, per Gioacchino il
regno sabatico dell’Apocalisse è solo il settimo ed ultimo
tempo della storia, tempo di
pace fondata sulla giustizia,
di giustizia fondata sulla carità, di carità sostenuta dal
soffio potente dello Spirito
Santo che avrebbe fatto nuove tutte le cose.
La settima età o Età dello
Spirito, è per Gioacchino la
massima compenetrazione
possibile tra la città di Dio e la
città terrena che in Agostino
rimangono irriducibilmente
lontane e contrapposte. Nel
riportare all’interno della storia il tempo sabatico, che
Dario Fertilio
La morte rossa
di Gigi Speroni
L’orrore del XX secolo è timbrato da due sigle burocraticamente asettiche: GULAG
(Glavnoe Upravlenie LAGerei: “Amministrazione generale dei campi di lavoro” e SS
(Schutz Staffel: “Squadre di
difesa”).
Delle SS sappiamo, sono legate allo sterminio di sei milioni di ebrei annunciato da
Hitler nel 1935 con le leggi
antisemite, pianificato nel
1942 dalla “soluzione finale”,
rivelato al mondo nel 1945
durante il processo di
Norimberga ai responsabili di
quello che venne definito un
genocidio (da ghènos, razza,
popolo e caedère, uccidere).
Le date ci dicono che il primo genocidio riconosciuto e
denunciato dalle Nazioni
Unite come “un crimine contro l’umanità” fu programmato e realizzato in dieci anni e
venne conosciuto soltanto
quando le truppe anglo
americane e russe entrarono nel lager nazisti, scopren-
38 (42)
do una Shoah, un massacro
imprevisto e, come tale, di
un impatto psicologico inimmaginabile.
Non così avvenne per l’altro
orrore, anche lui timbrato da
una sigla asettica: Gulag.
Secondo Dario Fertilio il fatto
“si spiega con la diversità del
comunismo. Anziché esplodere con la violenza di un’epidemia, come il nazismo,
segue l’andamento di un’infezione latente, ideologica,
capace di distribuire la sue
vittime lungo percorsi tortuosi e imprevedibili”… “Qualcuno dice che i morti siano
stati ottantadue milioni, altri
duecento, se consideri tutti i
continenti e i periodi di guerra dalla rivoluzione d’ottobre
in poi … ma chi può saperne
veramente qualcosa? Non
c’è modo di mandare un
esperto di statistiche a contare le tombe. E poi, queste
cifre non sembrano credibili
per almeno due motivi. Il primo è che la dimensione dell’orrore genera un senso di
assuefazione, disgusta e disorienta. Se un crimine si ri-
TA B L O I D
Due libri
sul frate
calabrese
“di spirito
profetico
dotato”
Agostino aveva collocato fuori dalla storia e interpretato
come la Gerusalemme celeste, il messaggio di Gioacchino assume una forte carica utopica e politica che non
eserciterà un forte richiamo
su uomini e movimenti dell’utopismo europeo a partire
dalla corrente
dello spiritualismo frances c a n o .
Stroppa rileva la diversità dell’utopia di Campanella, che,
pur avendo
un fondamento
di teologia trinitaria,
è politicamente e socialmente strutturata.
Secondo Stroppa, la potenza della visione gioachimita di una società religiosa
riformata illustra le capacità
metamorfiche del tempo
escatologico e fa nascere la
coscienza di una Chiesa carnale e mondanizzata che
avrebbe poi provocato la reazione di Martin Lutero.
Claudio Stroppa,
La città degli angeli.
Il sogno utopico di fra’
Gioacchino da Fiore,
Rubbettino editore,
Soveria Mannelli, 2004
pete all’infinito, ai nostri occhi comincia a non apparire
più tanto un delitto, quanto
una fatalità storica e naturale. A ogni cosa si fa l’abitudine, persino all’orrore”…
Ma davvero la morte bruna,
quella di Auschwitz, non c’entra con la rossa, quella di
Kolyma? Le fosse senza nome di Treblinka hanno diritto
a un posto più alto, nella collina della memoria, rispetto a
quelle di Goli Otok?
Ritengo che questi concetti,
tratti dall’ultimo libro di Dario
Fertilio, La morte rossa, siano una delle più lucide e sintetiche diagnosi dello sterminio di massa avvenuto
nell’Unione Sovietica.
Secondo l’autore, se la diversità del comunismo “fa paura
è perché i suoi percorsi di
contagio cambiano: non si
propaga attraverso i regimi e i
partiti, ma può affidarsi a singoli intellettuali, poeti, idealisti, gruppi di amici, ambiziosi
e umili comprimari, personaggi corrotti e brava gente,
dilatandosi a volte per intere
generazioni. Così è diventato
parte dell’occidente, contaminando menti e anime”.
Fa paura soprattutto nel rivisitare quel comunismo che arrivò a stritolare gli stessi compagni di lotta: uomini e donne
che avevano creduto, combattuto, sofferto per un ideale, e alla fine di questo percorso di speranze, illusioni,
s’erano ritrovati vittime della
mostruosa macchina del po-
Gian Luca Potestà
Il tempo dell’Apocalisse.
Vita di
Gioacchino da Fiore
di Salvatore Angelo Oliverio
Il pensiero dell’abate calabrese fu in permanente movimento. Il lavoro cerca di seguirne da vicino l’evoluzione
dottrinale e di decifrare le ragioni profonde di essa. In
questa prospettiva il saggio
esamina l’intera sua produzione, disponendola in ordine
cronologico. Si tratta di un lavoro in gran parte nuovo per
le modalità attraverso cui è
stato realizzato e per gli esiti
cui perviene. Finora la datazione delle grandi opere,
composte in parte parallelamente, era nota solo a larghe
spanne. Il libro giunge invece
a scandirne con precisione le
diverse fasi compositive, connettendole all’evoluzione personale dell’autore e al mutare
delle sue idee e scelte istituzionali. Quanto alle opere minori, alcune di esse vanno
considerate come semplici
“contenitori” di testi composti
in fasi diverse e successivamente assemblati.
Restituendo le singole sezioni ai contesti originari, il libro
giunge a una ricostruzione
completa e coerente del percorso dell’’utore.
Dalla fine degli anni ‘80 l’abate calabrese diviene oggetto
di disparati attacchi. Innanzi
tutto da parte di un anziano e
pericoloso abate cistercense,
Goffredo di Auxerre, che
cercò di bollarlo come ebreo
mal convertito e di dare avvio
a un procedimento di condanna ecclesiastica nei suoi
confronti. Il tentativo abortì,
probabilmente per i sostegni
di cui Gioacchino poteva godere in curia e in ambienti
monastici italiani. In polemica
con i cistercensi transalpini,
egli annunciò allora apertamente l’imminente ritorno
della perfezione monastica
dalla Gallia all’Italia e in questo senso avviò un tentativo
di riforma monastica in
Calabria. Nel 1189 prendeva
così inizio sulla Sila Fiore
(“nuova Nazareth”), nel segno dell’eremitismo, del rigore e della povertà.
Nel frattempo l’abate entrava
in aperta polemica anche con
il maestro parigino Pietro
Cantore.
L’elezione di Innocenzo III
(1198) segnò una svolta di
notevole portata anche per
Gioacchino. Le posizioni del
papa, che del Cantore era
stato allievo diretto, si differenziavano da quelle da lui
difese negli anni precedenti
intorno a questioni di rilevanza strategica, quali l’atteggiamento da tenere nei confronti
dei tedeschi e nei confronti
degli ebrei. Gioacchino scris-
tere che avevano contribuito
a creare.
«In questa vita non è difficile
morire. Vivere è di gran lunga
più difficile» scrisse Vladimir
Majakovskij. Bolscevico entusiasta, oppresso dal controllo
del partito sulla cultura, il poeta s’uccise a 37 anni: nel
1930, all’alba tragica dei processi/farsa inventati da Stalin
per eliminare i concorrenti interni, condannati a morte immediata tramite fucilazione o
a morte lenta nei gulag, come
traditori, deviazionisti, spie…
Per non dimenticare quello
che è stato un orrore che,
unicamente inquadrato nei
grandi numeri genera assuefazione, fatalismo, Fertilio ha
percorso una strada giornalistica e pregnante, in quanto a
noi più vicina. Non ci parla
delle note vittime dello stalini-
smo, come Bucharin o
Rykov, ma della tragedia di
venti italiani misconosciuti.
Storie emblematiche di compagni che, dopo aver combattuto contro il fascismo,
una volta riparati in quello
che credevano il paradiso sovietico, vennero coinvolti dalle grandi purghe, costretti a
confessare colpe inesistenti,
allucinanti misfatti. O, rifugiati
in Jugoslavia, quando Tito si
staccò dal Cominform furono
eliminati con l’accusa di essere al servizio di Mosca. Ma
anche assassinati senza processo, punto e a capo. Ogni
vittima con un suo percorso
diverso, tutte la stessa, fatale
destinazione.
Sostiene Fertilio che quelle
che ha scelto sono “storie tutte vere. Nel senso che i luoghi, la maggior parte dei nomi e delle situazioni corrisponde a fatti precisi. Ma sono anche tutte false, dal momento che una storia non
puoi raccontarla basandoti
soltanto su un documento, altrimenti la tradisci. Bisogna
fare in modo che ognuna abbia una sua forma, tocchi un
suo culmine drammatico.
Altrimenti dopo tanti anni non
riuscirebbe ad attraversare il
muro dell’indifferenza e del
silenzio”.
Ed ecco, quindi, i venti racconti, ognuno con un taglio
particolare, alcuni brevi, un
semplice momento, altri più
descrittivi. Tutti emotivamente
coinvolgenti.
se infine un testamento a futura memoria (1200), in cui
proclamava di volersi sottomettere in tutto al giudizio
della Chiesa romana. Gli ultimi scritti, rivolti a una cerchia
limitata e ristretta di ascoltatori fidati, lasciano peraltro
trasparire una profonda presa di distanza da Innocenzo
III, denotando nell’anziano
abate un’attitudine velatamente critica nei confronti del
papa.
In conclusione, l’opera reinserisce Gioacchino nel vivo
delle vicende ecclesiasticopolitiche cui partecipò da protagonista, mostrandone i legami profondi e contraddittori
con i poteri ecclesiastici e civili dominanti in Italia nell’ultimo scorcio del secolo XII; e
fornisce una chiave per accedere alla piena comprensione del suo complesso universo dottrinale, della sua teologia simbolica e visiva, delle
sue proiezioni apocalittiche,
rivelandone gli intenti polemici e riformatori e la vastità degli orizzonti, aperti alla riconciliazione con l’Ebraismo e
dominati dalla duplice minaccia dell’eresia (catari, valdesi)
e dell’Islam.
Gian Luca Potestà,
Il tempo dell’Apocalisse.
Vita di Gioacchino
da Fiore,
Laterza editore,
Bari, 2004
Un consiglio molto personale: prima di leggerli credo valga la pena ripercorrere la
succinte biografie pubblicate
nelle ultime pagine per incorniciare, nel loro contesto più
globale, i drammi che hanno
vissuto i suoi protagonisti.
Ecco le storia di Ugo Citterio,
comunista sin al 1922, arrestato dai fascisti, riparato a
Parigi, poi in Unione Sovietica, combattente in Spagna,
ritornato a Mosca, arrestato
nel 1940 per trotzkismo, condannato a otto anni e spedito
in un lager dove morì tre anni
dopo. Di Pietro Renzi, nato a
Pola, militante rivoluzionario,
deportato dai nazisti, sopravvissuto all’inferno di Dachau
per finire nelle galere di Tito
con l’accusa di cominformismo, in realtà perché chiedeva rispetto per gli italiani che
vivevano nei territori passati
alla Jugoslavia. Il suo cadavere non venne mai trovato.
E via dicendo.
Che dire ancora? La morte
rossa è, nel contempo, un
saggio storico nella parte documentale e un’opera letteraria nei racconti dalla robusta,
appassionante scrittura. Un
libro che riesce ad attraversare, eccome, il muro dell’indifferenza e del silenzio.
Dario Fertilio, La morte
rossa. Storie di italiani
vittime del comunismo,
postfazione
di Frediano Sessi,
Marsilio, 2004, euro 17,00
ORDINE
3
2005
L A
L I B R E R I A
Censis-UCSI
Italiani & Media.
Le diete mediatiche
per gruppi e tribù
di Patrizia Pedrazzini
Italiani e mezzi di comunicazione. Un rapporto ormai
talmente stretto da essere
diventato quasi vitale. Se
infatti, allo stato attuale, i
media, nella loro accezione
più ampia – televisione, giornali, radio, libri, computer,
cellulare, Internet, Tv satellitare – costituiscono un
elemento base dell’ambiente
nel quale viviamo, avvicinarsi
a questo complesso e variegato universo, e fruirne,
consente, al di là dell’arricchimento informativo e culturale
che immediatamente ne deriva, di acquisire quelle capacità di orientamento cognitivo,
ma anche relazionale ed
emotivo, che ci permettono di
integrarci nel nostro contesto
sociale.
Questa la considerazione che
sta alla base del Secondo
rapporto sulla comunicazione, con il quale il Censis e
l’Ucsi, l’Unione cattolica della
stampa italiana, proseguono
il monitoraggio della diffusione e delle modalità d’impiego
dei maggiori media in Italia.
E che spiega il titolo del lavoro: Italiani & Media. Le diete
mediatiche per gruppi e tribù.
Ovvero: come solo variando
la nostra alimentazione possiamo essere sicuri di assumere tutti gli elementi nutritivi
dei quali abbiamo bisogno,
così solo attraverso il contatto
con i diversi mezzi di comunicazione, e con i relativi linguaggi, possiamo acquisire il
maggior numero di competenze e di conoscenze che i
media ci trasmettono. Di qui
la domanda: di che cosa si
nutrono, mediaticamente parlando, gli italiani?
Al quesito il Rapporto, realizzato in collaborazione con
Mondadori, Ordine dei giornalisti, Rai, Telecom e con la
partecipazione di Ansa e
Ansaweb, risponde con i
risultati di un’indagine condotta, nel 2002, su un campione di 1.150 italiani tra i 14
e gli 85 anni.
Una mole di questionari e di
interviste che ha consentito
l’elaborazione di 233 tabelle
e 20 grafici, di svelta ed esauriente lettura, per un volume
di 272 pagine. Ogni mezzo di
comunicazione (i giornali sono suddivisi in quotidiani,
settimanali e mensili) è stato
“fotografato” in tutte le possibili angolazioni di utilizzo, o
meno, da parte degli italiani:
dai luoghi ai momenti della
giornata, dagli argomenti alla
distribuzione per aree geografiche, per sesso, per età,
per titolo di studio.
Si apprende così, per esempio, che, in rapporto alle aree
geografiche, il genere televisivo più “gettonato” dagli italiani
Mino Fuccillo
Fenomenologia
di Bruno Vespa
di Emilio Pozzi
A tutta prima viene in mente
il titolo, analogo, di un saggio
dedicato a Mike Buongiorno,
il più incrollabile mito della
Tv, da Umberto Eco nel lontano 1961, che divenne emblema, attraverso il personaggio preso a modello, delle mutazioni di una certa società italiana di quegli anni.
Il richiamo, anche come metafora, è talmente scontato
che nelle prime pagine di
questo libro ci si imbatte in
una quasi letterale parafrasi
di quel saggio: il fenomeno
però, stavolta, è Bruno
Vespa. “Libera, modificata,
interpolata, aggiornata, parafrasi” la definisce Mino
Fuccillo che ha voluto giocare, (‘una licenza’ dice) ricalcando le orme di un testo e
un metodo di analisi. Sono
cinque pagine da andare a
leggere subito.
Poi però si ricomincia da capo e si va fino in fondo. L’idea
del gioco, in altro modo, ci
contagia. Prendiamo alcuni
ORDINE
3
2005
evidenziatori e ripassiamo il
testo, scomponendolo in
quattro filoni, ciascuno con
un colore: azzurro, giallo
arancione, verde.
Non uno quindi, ma quattro
libri: il primo, intriso di rabbia
repressa e di delusione,
esprime il giudizio critico
dell’autore sui fatti e i misfatti della storia italiana degli
ultimi decenni, il secondo
analizza il personaggio
Vespa, nell’humus del suo
impero televisivo, il terzo
analizza le fruttuose incursioni dell’onnipotente maggiordomo nel mondo della
carta stampata, il quarto infine esplora il paesaggio dei
mass-media e dei suoi abitanti (giornalisti, politici nell’incrocio dei poteri palesi e
occulti, senza risparmiare
aneddoti che riguardano il
quotidiano dove ha lavorato
per una ventina d’anni), con
qualche spolverata di consigli e di delucidazioni sui segreti del mestiere.
Queste “istruzioni per l’uso”
mi sono state suggerite anzitutto dalla lettura della sinte-
è il film (64,4%), seguito dai
telegiornali (55,1%) e dagli
eventi sportivi (24,7%), mentre la fiction si colloca all’ultimo posto della classifica, con
un modestissimo 4,9%.
E che, se gli argomenti preferiti dai lettori di quotidiani
rimangono, sempre a livello di
distribuzione geografica, la
cronaca nazionale (57,1%) e
i fatti di nera e locali (45,8%),
i settori sui quali si concentra
l’attenzione dei lettori di settimanali sono invece quello
televisivo, e più in generale
relativo
agli
spettacoli
(29,5%), quello attinente le
tematiche femminili (20,4%),
la moda (19,4%).
Quanto al “popolo mediatico”,
il Rapporto lo ha suddiviso in
cinque fasce, a seconda del
numero di media utilizzati.
Ecco allora i Marginali, pari al
9,1% della popolazione, e
fruitori di un solo mezzo di
comunicazione; i Poveri di
media (37,5%, due-tre media); i Consumatori medi
(36,3%, quattro-cinque media), gli Onnivori (14,8%, seisette media); i Pionieri (2,3%,
otto e più media).
Un intero capitolo dello studio
è poi dedicato al profilo del
futuro giornalista, così come
risulta da un’indagine condotta su un campione di 212
giovani che frequentano, o
hanno frequentato, una delle
sette scuole di giornalismo fra
tica e asprigna autobiografia
dell’autore, in quarta di copertina: “Una carriera accademica formato bonsai, una
ventina d’anni a Repubblica,
molto scrivendo e qualcosa
organizzando, una direzione
lampo de l’Unità, poi una
piccola radio e ora i quotidiani locali del gruppo l’Espresso”.
Se poi le collego al post
scriptum, decisamente amaro, con il quale si chiude il libro, mi pare che, a seconda
dei gusti e degli interessi
personali, l’intuizione di individuare i quattro percorsi
non sia inopportuna. Scrive
Fuccillo: “Qualcuno, ogni
tanto, conoscente o incontrato per caso per lavoro, mi
chiede perché io giornalista
non scriva più come prima.
La risposta, per quel poco
che conta e per quei pochi
cui interessa, è anche in
queste pagine, neanche tanto nascosta”.
In ognuno dei quattro filoni
indicati - questo è un altro
gioco da proporre al lettore si potrebbero contare i sassolini che Fuccillo si toglie
dalle scarpe (il plurale è
d’obbligo perché i sassolini
sono tanti. Se invece si volessero mescolare i colori
(ma non si otterrebbe comunque un consolante arcobaleno), senza pregiudizi, il
risultato può essere comunque intrigante. A prescindere, come diceva Totò.
Non intendo, a questo punto,
le nove riconosciute dall’Ordine nazionale, incluso l’istituto
Carlo De Martino di Milano.
Ne emerge che il nuovo
professionista ha fra i 25 e i
30 anni, è laureato e ha scelto di diventare giornalista per
vocazione, convinto che
questo mestiere, a volte tanto
criticato, possa offrire comunque soddisfazioni personali
ed essere ancora utile per la
società.
Che alla professione, oggi, si
avvicinano più le donne (il
53,8%) degli uomini; che il
90% è laureato, soprattutto in
Lettere (33,7%), Sociologia o
Scienze della comunicazione
(18,9%), Scienze politiche
(13,7%); che la maggioranza
(il 64,4%) ritiene le competenze acquisite prima del lavoro
giornalistico vero e proprio
“fondamentali per inserirsi
direttamente nel settore”.
E ancora: che la maggior
parte lavora nei quotidiani
(34,1%), nelle televisioni
(19,3%), nelle radio (16,5%),
mentre solo l’1,7% è occupato in un service; che i media
a stampa sono, per il 46,2%
di questi giovani, i più adatti a
veicolare un’efficace informazione, seguiti dalle televisioni
(41,9%), dalle radio (8,1%) e
solo da ultimo da Internet
(3,8%).
E, comunque, come afferma
il 41,6% degli intervistati, che
“il mestiere si impara essenzialmente sul campo”.
Censis-UCSI,
Secondo rapporto
sulla comunicazione,
Italiani & Media.
Le diete mediatiche
per gruppi e tribù,
Franco Angeli 2003,
pagine 272, euro 22,00
far il controcanto a Fuccillo.
Molti giudizi sono da condividere ed è gustoso leggerli
integralmente, senza rischiare di togliere loro sapore, riassumendoli.
Certo che, riflettendo su altri
episodi, avvenuti dopo la
pubblicazione del libro, verrebbe voglia di chiedere un
aggiornamento: la fenomenologia di Vespa, si arricchisce, si fa per dire, di altri clamorosi esempi, indicativi del
progressivo e inarrestabile
degrado della TV (specchio
della società, non dimenticatelo, ammoniscono i più).
Anche la fenomenologia sui
personaggi che hanno scandito i tempi della Tv (da
Buongiorno a Costanzo, dalla Carrà a Baudo, da Fiorello
a Vespa) si è svilita al punto
che, recentemente, Francesco Merlo ha usato il paludato termine, una volta usato ai piani alti della cultura,
per occuparsi delle sorelle
Lecciso, arrivate, guarda caso, ad essere protagoniste di
“Porta a Porta”.
Quando sarà pubblicata
questa nota c’è da augurarsi
che la loro effimera gloria si
sia già spenta e qualcuno
chieda “Lecciso, chi?”.
Mino Fuccillo,
Fenomenologia
di Bruno Vespa,
Nutrimenti, Roma,
pagine 220, euro 12,00
D I
TA B L O I D
Sergio Romano
Giovanni Gentile.
Un filosofo al potere
negli anni del regime
di Dario Fertilio
Un morto ingombrante, Giovanni Gentile: anche sessant’anni dopo quel 15 aprile
1944, quando venne assassinato dai gappisti davanti al
cancello della sua villa di
Montalto al Salviatino. Un
profilo problematico, il suo,
per qualunque ritrattista; e
una cornice ideologica difficile da trovare.Va inserito nella
galleria delle glorie culturali
italiane, è un filosofo da affiancare idealmente a Benedetto Croce? Oppure gli si
deve riservare il trattamento
peggiore, come un reprobo
fiancheggiatore della Repubblica sociale e di Mussolini?
O addirittura deve essere fatto sfilare simbolicamente tra i
maledetti del novecento, i
pensatori alla Céline, Pound
o Knut Hamsun, che non esitarono a schierarsi dalla parte sbagliata?
La biografia che gli dedica
Sergio Romano non tradisce
le aspettative dei tanti che
amano il suo stile, un certo
modo di fare storia: chiarendo molti dubbi, ma lasciando
aperta al lettore la via delle
deduzioni personali.
E cominciando con lo sgomberare il campo da uno dei
misteri italiani più antichi e inquietanti: l’identità, cioè, e il
movente dei suoi assassini.
Sergio Romano, pur ricordando le motivazioni di coloro che avvalorarono per molto tempo l’ipotesi di una vendetta fascista (Gentile infatti
si era dichiarato pubblicamente contrario agli eccessi
e alle torture commesse dai
repubblicani di Salò), attribuisce razionalmente la responsabilità ad ambienti comunisti, gli stessi che – manipolando una dichiarazione di
Concetto Marchesi – diffusero attraverso un volantino la
motivazione della “sentenza
di morte”. Gli assassini colpirono in lui un intellettuale
che, tentando di mostrare il
lato “umano” del fascismo e
appellandosi ai valori dell’onore e della fedeltà nazionale, poteva apparire un nemico più subdolo e pericoloso
dei macellai e torturatori in
camicia nera, come ad esempio quelli che obbedivano agli ordini di Mario Carità.
Tuttavia il cuore dell’argomentazione di Sergio Romano è più filosofica che storica: egli dimostra come Gentile sia “servito” involontariamente alla causa comunista,
e specificamente a Togliatti,
quando nel primo dopoguerra si trattò di raccogliere la
sua eredità.
Certi caratteri del suo insegnamento, a partire dall’attualismo, furono volti in filosofia della prassi; l’idea fascista dello Stato etico potrà trasformarsi, mutando di segno,
nel “partito nuovo” comunista; l’idea del filosofo militante genererà quella dell’intellettuale organico, teorizzato
anche da Gramsci. Persino
la suggestione del “ritorno a
Marx”, accompagnata dalle
sue riflessioni sull’umanesimo del lavoro, consentirà al
suo migliore allievo, Ugo
Spirito, di proclamarsi allo
stesso tempo comunista e
gentiliano. Se aggiungiamo a
questo innesto ideologico
spericolato la durezza dello
scritto con cui Togliatti commentò l’assassinio (in cui
chiamava Giovanni Gentile
“canaglia” aggiungendo che
era stato “giustiziato come
traditore della patria”), comprendiamo il senso inquietante di quella che presto sarebbe diventata l’”ideologia
italiana” del Pci togliattiano.
Si sarebbe trattato cioè di distruggere il magistero di
Gentile e Croce per meglio
recuperarne la lezione, offrendo agli intellettuali che ne
erano stati influenzati una
straordinaria via d’uscita verso il futuro. In questa spericolata, e in parte riuscita, lotta
per l’egemonia culturale comunista Sergio Romano individua il nocciolo del destino
filosofico di Giovanni Gentile.
Paradossale anche decenni
dopo la morte e fino ad oggi:
quando la destra lo adotta
nel suo pantheon senza seguirne gli insegnamenti,
mentre la sinistra marxista lo
aborre adottando però nella
sostanza il cuore del suo sistema concettuale.
Resta il disagio, che neppure
questa biografia riesce del
tutto a dissolvere, per un filosofo inesorabilmente inattuale, che si colloca però al centro delle polemiche culturali
per il modo in cui andò volontariamente, e con coraggio,
incontro alla rovina e alla
morte.
Oltretutto, quello stesso assassinio, il modo in cui fu
progettato, eseguito e rivendicato ricordano in modo inquietante e macabro il rituale
più tardi adottato, dietro a simili paraventi ideologici, dai
killer convinti di servire il “partito comunista combattente”.
Sergio Romano,
Giovanni Gentile.
Un filosofo al potere negli
anni del regime,
editore Rizzoli,
pagine 439, euro 19,00
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