LUSÉRN:in an stroach ista gest…

Transcription

LUSÉRN:in an stroach ista gest…
Linea di confine nel XII secolo
Linea di confine nel XV secolo
Annessione di loc. Brusolada al Principato di Trento (1556)
1
Viabilità principale:
1.
Strada Imperiale Vicenza - Trento (assetto del 1226)
2.
Valsuganese (strada militare o commerciale di ep. romana)
3.
Diramazioni interne in direzione Pergine - Trento
Strada della Val d’Assa (assetto del XVI secolo)
1
Collegamenti:
a
Tracciati antichi:
a
a
a
Valichi:
Ponti:
Castelli:
1.
Strada di Campregheri
2.
Strada di Centa
3.
Vecio Lanzin
4.
Novo Lanzin o Strada della Val Caretta (fine XVII secolo)
5.
Strada delle Casare o di Folgaria
6.
Menador di Caldonazzo o di Val Scura
7.
Menador di Levico o del Rio Bianco
8.
Strada del Rio Torto
9.
Strada della Val Tora
10.
Strada della Cingéla
a.
della Covela di Centa: b. viabilità interna a Lavarone:
c.
la via d’alpeggio di Porta Manazzo
a.
Oltresommo (Folgaria):
b.
Passo Cost (Lavarone)
c.
Porta Manazzo (Vallesella)
a. Vattaro; b. Cueli (Folgaria); c. Casotto; d. Val Tora
a. Vattaro; b. Brenta; c. Tenna; d. Torre dei Sicconi;
e. Selva
1
Punti di guardia:
1. Maso Murari (Calceranica); 2. Covela di Centa;
3. Carbonare; 4. Covolo di Rio Malo (Lavarone);
5. Covolo delle Campane (Rio Torto);
6. Castello (Ciechi - solo toponimo);
7. Bischofswache (Lavarone - solo toponimo)
1
I dazi nel XVII secolo:
1. Casa della Decima (Caldonazzo, centro di giurisdizione);
2. Campregheri; 3. Dazio (Lavarone); 4. Casotto;
5. Inghiaie (Levico - con annessa quarantena per il bestiame)
a
I
A
Stanghe, catene:
a. Lanzin (Lavarone); b. Val Caretta (XVII secolo);
c. al Termine; d. al Bisele
Ovili consortili:
I. Lanzin; II. Carbonare; III. Piccoli
Ospitali:
A.
Brancafora (X secolo)
B.
Lavarone (XIII secolo?)
C.
Monterovere (XV secolo)
a cura di / hrsg. von
MANUELA MIORELLI
LUSÉRN: in an stroach ista gest…
LUSERNA: c’era una volta…
CENTRO DOCUMENTAZIONE LUSERNA O.N.L.U.S.
tratto dal libro
DIE DEUTSCHE SPRACHINSEL LUSERN
di Josef Bacher
DOKUMENTATIONSZENTRUM LUSERN
Traduzioni dal tedesco a cura di Claudia Manica
Traduzioni dal cimbro e consulenza linguistica a cura di
Maria Luisa Nicolussi Golo
dello Sportello linguistico del Comune di Luserna
Andrea Nicolussi Golo Mu
Immagini dei racconti e di copertina realizzate da Walter Codato
© CENTRO DOCUMENTAZIONE LUSERNA O.N.L.U.S.
DOKUMENTATIONSZENTRUM LUSERN
Via Trento, 6 - 38040 Luserna/Lusern (TN)
Tel. ++39 0464 789638 - Fax ++39 0464 788214
e-mail: luserna@tin.it - www.lusern.it
1a edizione: 2006
Illustrazione di copertina: Walter Codato
ISBN 978-88-88197-10-4
La pubblicazione di questo libro è stata resa possibile grazie al contributo dello Stato (Legge 482 del 15
dicembre 1999) e della Provincia Autonoma di Trento (Legge 4 del 30 agosto 1999).
Die Herausgabe dieser Publikation wurde durch die Finanzierung der Autonomen Region Trentino-Südtirol
– Assessorat für die Beziehungen zu den Sprachminderheiten – ermöglicht.
INDICE / INHALTSVERZEICHNIS
Vorkhöt / Prefazione. Luigi Nicolussi Castellan
Premessa. L’Autore
I.
......................................................
.................................................................................................................................................
pag.
9
pag. 11
Posizione e caratteristiche di Luserna .......................................................... pag. 13
II. Aspetti storici ................................................................................................................................................ pag. 21
III. I lusernesi e la loro abitazione,
il cibo e il modo di vivere
...................................................................................
pag. 43
Alcune ricette tipiche di Luserna ................................................................................................ pag. 59
Il ruolo della donna ........................................................................................................................................ pag. 61
.......................................................
pag. 71
........................................................................................................
pag. 87
IV. Diritto, tradizioni e credenze popolari
V. Fiabe, leggende, storielle
Il rapporto tra sacro e profano ......................................................................................................... pag. 141
Le forze della natura ..................................................................................................................................... pag. 154
Le figure dell’immaginario ................................................................................................................... pag. 180
Bibliografia e sitografia
............................................................................................................................
pag. 243
VORKHÖT
In lem von an lånt mak ’s vürkhemmen ke a mentsch lasst hintar eppas vo
soinar arbat bo da no hundartar djar spetar khinnt gehaltet guat.
Ummandar vo disan laüt is dar faff Josef Bacher bo da is gest atz Lusérn in
di djardar 1893-1899, un bo da ’s djar 1905 hat ausgedrukht in Innsbruck in
libar “Die deutsche Sprachinsel Lusern”.
Dar hat kontart bia ’s ista gest ’s lem dise djar.
Zo maga schaung vürsnen möchtma gedenkhan bas da is gest vorånahì. As
bar schaung å bia sber sa håm’s gehat ünsarne altn mabar schetzan mearar bas
bar håm est un haltnas gesengt von Gott dar Hear.
Dar Josef Bacher hat o augesribet bas da di altn håm kontart in khindar
sidar hundartar un hundartar djardar. Assar er nètt hebat’s getånt, beratnda
gånt vorlort vil stordje bo da gedenkhan di baitn zaitn un zoang bia da ünsar
kultur hat zo tüana pin fölkar von nord vodar Europa.
Disar libar is khent ausgedrukht bidar atz taütsch vo dar Universität Wien in
djar 1975, un di stördjela alumma soin khent ausgedrukht von “Circolo Culturale
M. Gandhi” vo Lusérn, pit dar hilfe von prof. Alfonso Bellotto un von ünsarn
djungen Fulvio Gasperi, Diego Paolaz un Giancarlo Moro as bi biar, atz belesch
und in zimbar von sim kamöündar, in djar 1978 pin titl “I racconti di Luserna”.
Dise zboa libadar soin ausgerift un soinda khummane mear zo khoava.
Dar Dokumentationszentrum hat sa gemacht di ausstellung “Lusérn 1905”.
Est drukhtar aus vor das earst mal atz beles bas da hat augesribet ünsar faff Don
Josef Bacher vo bia ’s ista gest ’s lem atz Lusérn vor hundar djar.
’S khemmenda ausgedrukht o, as bi biar und atz beles, alle di stördjela vo
dise djar.
Dar kamou vo Lusérn hat hergerichtet, ausgenump vo dise stördjela, ’s staigele vo djese djar bo da gevallt asó vil in famildje pin khindarn. Nå in begele
khemmenda gelek tafln in drai zungen, as bi biar, beles un taütsch, un khemmenda gemacht in ståmm von vaüchtn, dar peer, dar bolf, das basilisko, un a so vürsanen.
Bas da hat gemacht dar faff Josef Bacher bart khemmen gedenkht no vor vil
un vil djardar.
Imen khöbar: vorgellt’s Gott, liabar don Josef Bacher!
Dar Bürgermaistar
Luigi - Luis Nicolussi Castellan
PREFAZIONE
Nella vita di una comunità può avvenire che l’opera di una persona venga
considerata valida anche dopo centinaia di anni.
Una di queste persone è Josef Bacher, che è stato parroco di Luserna-Lusérn
negli anni 1893-1899 e che nell’anno 1905 ha dato alle stampe in Innsbruck il
libro “Die deutsche Sprachinsel Lusern” (trad.: L’isola linguistica tedesca di
Luserna), nel quale ha descritto la vita di quel periodo.
Per guardare verso il futuro è necessario ricordare cosa c’è stato nel passato.
Se teniamo conto di quanto difficile fosse la vita dei nostri antenati, possiamo apprezzare di più quello che ora abbiamo e considerarci fortunati, benedetti da Dio.
Josef Bacher ha anche messo per iscritto quanto i nostri antenati raccontavano
ai bambini da molti secoli. Se non lo avesse fatto lui sarebbero andati persi molti
racconti che testimoniano il nostro substrato culturale comune con le popolazioni del nord Europa.
Il libro di Bacher è stato ristampato dall’Università di Vienna nel 1975 ed i
soli racconti sono stati stampati dal “Circolo Culturale M. Gandhi” di Luserna
a cura del Prof. Alfonso Bellotto e con la collaborazione dei nostri giovani di
allora Fulvio Gasperi, Diego Paolaz e Giancarlo Moro, in italiano e nel cimbro
di Luserna-Lusérn e dei Sette Comuni Vicentini nel 1978 con il titolo “I racconti di Luserna”.
Entrambe queste pubblicazioni sono completamente esaurite e quindi non
più reperibili in commercio.
Prendendo spunto da questo libro il Centro Documentazione Luserna nel
2005 ha allestito la mostra “Luserna 1905 - Emozioni da un’epoca passata”. Ora
pubblica per la prima volta in italiano la descrizione della vita di Luserna di un
secolo fa, preziosa testimonianza del parroco don Josef Bacher. Vengono anche
pubblicati nel cimbro di Luserna ed in italiano tutti i racconti tramandatici.
Prendendo riferimento da questi racconti il Comune di Luserna-Lusérn ha
avviato l’allestimento del “Sentiero cimbro dell’immaginario”, che constatiamo
piace tanto alle famiglie con bambini.
Lungo il percorso sono state o saranno poste bacheche con tabelle con il
testo trilingue cimbro, italiano e tedesco con disegni che illustrano alcune nostre
leggende o racconti e realizzate in tronchi di abete delle sculture dell’orso, del
lupo, del drago ecc.
L’opera di Josef Bacher sarà ricordata ancora per tantissimi anni.
A lui diciamo «Grazie di cuore, che Dio ti ricompensi, caro parroco don Josef
Bacher».
Il Sindaco
Luigi Nicolussi Castellan
PREMESSA
Questo libro nasce, ed è giustificato, dall’attenzione con cui oggi si guarda
al popolo, alla sua cultura, ai suoi costumi e alla sua lingua, nonché da una comparazione con il Dizionario del dialetto cimbro lusernese di J. Zingerle.
I miei sei anni di permanenza a Luserna hanno rappresentato per me la migliore opportunità per conoscere a fondo i suoi abitanti: il linguaggio parlato è suonato sin dal primo giorno così gradevole al mio orecchio che ho voluto farlo mio.
Così, con l’aiuto di Ursula Gasperi, mi sono dedicato alla traduzione della breve
storia biblica del dott. Schuster e del piccolo catechismo cimbro e ho messo per
iscritto fiabe e leggende in cimbro. Le mie relazioni con la comunità del luogo si
sono svolte per la maggior parte nel dialetto lusernese, tanto che ben presto sono
stato in grado di utilizzarlo anche in pratica nella scuola privata italiana.
Debbo molto, per il mio libro, anche al preside pro-tempore della scuola tedesca di Trento, H. Matthäus Nicolussi, che al tempo dei suoi studi a Innsbruck
è stato il garante di Zingerle. Preziose informazioni e/o contributi mi sono stati inoltre forniti da Christian Nikolussi, curato di Vadena, dal Prof. Dr. Nessier
di Bressanone, dal Prof. Univ. Dr. Haus v. Voltelini di Innsbruck, da Maria e
Josefa Gasperi e Luise Frick di Luserna.
Oltre alle persone sopra citate, vorrei esprimere un grazie particolare ai professori universitari Dr. J. E. Wackernell e Dr. J. Schatz di Innsbruck per la loro
preziosa collaborazione e i loro consigli. Per l’impostazione grammaticale ho preso a modello il valido libro di Schatz “Il dialetto di Imst”, attraverso il quale ho
avuto anche accesso ai lavori di Lessiak e ad altri ausili letterari, ma dal quale ho
tratto in particolare spunti per la rappresentazione fonetica del dialetto 1.
Un grato pensiero lo dedico anche allo scomparso Prof. Dr. K. Weinhold di
Berlino, che ha pubblicato i miei primi tentativi sulla sua “Zeitschrift für
Volkskunde”. Il Prof. Dr. A. Braudl di Berlino, che ho conosciuto tramite il mio
conterraneo J. Sigmund, parroco di St. Nikolaus (Innsbruck), mi ha messo in
contatto con Weinhold e Wackernell. A tutti il mio più sentito grazie per
l’interesse dimostrato al mio lavoro e l’amichevole supporto prestatomi.
Il mio desiderio è che quest’opera sia considerata il lavoro di un profano che
ha fatto del suo meglio, con onestà, per fornire informazioni affidabili sull’argomento trattato; mi auguro che il libro si faccia molti amici tra il popolo tedesco,
cui è dedicato con animo sincero.
Fennberg, maggio 1903
L’Autore
In questo libro, la grafia fonetica si basa, ovviamente, soprattutto sul Lusernese; di
conseguenza, non è previsto alcun segno proprio che si avvicini, ad esempio, alla ö
velturuisches ö.
1
I
POSIZIONE E CARATTERISTICHE DI LUSERNA
Posizione e caratteristiche di Luserna
15
’S lånt vo Lusérn vintze at 1.333 metre hoach von mer, zbischnen di hoachebene
vo Folgràit un Lavròu un da sel vo Schlege. Lusérn is at n’an pon obar in Astetal.
Biane bait, zuar in Vesan, ista ’s Bisele pitn Obarhaüsar, di Untarhaüsar
un di haüsar von Galen.
Da Trento si giunge in Valsugana con la ferrovia, passando per Pergine.
Poco dopo Pergine la strada ferrata, che si estende proprio sul ciglio del bel lago di Caldonazzo (nella lingua di Luserna Kalnétsch), giunge fino alla località
omonima. La stazione di questo paese, che si presenta bene, è capolinea per i
comuni Centa (Tschint), Lavarone (Lavròu), per le frazioni Nosselari (Haslpch)
e San Sebastiano (Sambastiò), per il comune di Luserna (Lusérn) e per i due comuni ancora austriaci della Val d’Astico: Brancafora o Pedemonte (lus. Tàl) e
Casotto.
Una buona carrozzabile 1 con molti tornanti porta da Caldonazzo in direzione sud, su per la montagna ripida fino a Lavarone. La strada è costeggiata
da una profonda gola attraversata dal torrente Centa (di Tschint) che confluisce nel Brenta ad est di Caldonazzo. Al di qua della gola si scorgono il villaggio e i masi sparsi di Centa. A 1171 m di altezza la strada giunge ad un ripiano collinoso sul quale si allarga il comune di Lavarone con le sue numerose
frazioni. Questa terrazza forma lo spartiacque tra il Centa e l’Astico, che scorrendo verso sudest costituisce per un tratto breve (fino a Casotto) il confine
nazionale con l’Italia.
Da Lavarone una carrozzabile per lo più piana, ben tenuta, passa per
Capella, una frazione di Lavarone, e si inoltra in una breve valletta laterale della Val d’Astico. Dopo un’ora e mezza, al principio di detta valletta attraverso la
quale il piccolo torrente Riotorto scorre verso l’Astico, la strada gira, portandosi sull’altro versante della valle e verso Luserna. La strada traccia dunque un
percorso biforcato.
Viandanti e viaggiatori a cavallo possono accorciare di molto la via da
Caldonazzo a Luserna, camminando lungo la riva destra del Brenta, partendo
da Caldonazzo ai piedi delle alte montagne, finché dopo 20 o 30 minuti vedono di fronte la città di Levico (Léve). Pur essendo il punto iniziale della salita
tutto coperto da frane e detriti sicché da lontano non è facile scorgere il sentiero, lo si trova tuttavia nel modo più semplice continuando a camminare per un
breve tratto nel greto di un piccolo torrente che fluisce verso il Brenta, precipitando dalla montagna attraverso profonde gole. La mulattiera (it. menadòr,
lus. Laas), che sale con numerosi tornanti più o meno ripidi, non offre in estate protezione dal sole cocente ed è d’inverno pericolosa a causa delle valanghe,
dato che il monte è privo di una fitta copertura boscosa. La mulattiera è comunque consigliabile per la bella vista panoramica sul fondovalle di Levico -
1
Si confronti la cartina che si trova in seconda di copertina.
16
Luserna: c’era una volta
Caldonazzo fino a Pergine. I laghi di Caldonazzo e Levico accolgono
l’osservatore con aspetto scintillante e gentile, dalle loro rive si protraggono in
successione multicolore prati, campi e vigneti su per i terrazzamenti, custodendo nel loro mezzo villaggi chiusi e masi sparsi. L’orizzonte viene delimitato dalle vette dell’alta montagna le cui cime si ergono sobrie e maestose verso le nuvole.
Dopo un’ora e mezza di salita, la mulattiera tende verso una sella boscosa e
imbocca, al di là di essa nel punto d’origine della valletta del Riotorto già menzionata, la strada che proprio lì presenta la menzionata curva biforcata. Nelle vicinanze si trova anche l’osteria rustica Monterovere (lus. Monterùf). Qui si dirama una strada ad est verso l’osteria Vezzena (Vesan), la quale, in posizione
isolata tra le alpi omonime, è al contempo stazione di confine della guardia di
finanza imperial-regia. L’altra strada sopra toccata, che porta da Monterovere in
direzione sud verso Luserna, è stata costruita in tempi più recenti. Il dislivello
di 75 m è così ben diviso sul tratto lungo 5 km, che rimane impercettibile. Dopo
un cammino di tre quarti d’ora si scorge a destra della strada la frazione Tètsch
(it. Tezze) facente parte di Luserna, che rimane un po’ in disparte, e ben presto
si intravede Luserna stessa. Nei pressi del villaggio (accanto al cimitero nuovo 2)
termina la comoda strada piana e si sale al paese su un sentiero di montagna
accidentato.
Luserna è situata a 1333 m s.l.m., pressappoco sullo stesso meridiano di
Innsbruck. La montagna che sale ripida dalla Val d’Astico è caratterizzata qui
da un piccolo declivio sul quale si innalza il villaggio che con la frazione Tetsch
conta 126 case e che ha, in base all’ultimo censimento (1900), 915 abitanti con
diritto di residenza, tra cui 14 italiani. Il censimento ufficiale indica come popolazione presente 754 tedeschi e 14 italiani. All’entrata vi è la chiesa. Da qui
parte una stradina con pavimentazione grezza in direzione nord, fiancheggiata da case su entrambi i lati. Questa parte del villaggio viene chiamata Ek ed i
suoi abitanti de Ekar. Un’altra stradina fiancheggia il lato lungo della chiesa verso est, ma gira a sudest subito dietro la chiesa. Anch’essa è pavimentata grossolanamente, con case rade al suo inizio; ma ben presto le case diventano più
fitte e formano, oltre alla via principale, varie viuzze laterali. La piazza, da dove queste si diramano, si chiama Pil e l’estremità della via principale a sudest
dar Plètz.
2
Gli abitanti di Luserna non hanno sempre avuto la loro chiesa; fino al 1711, infatti i
fedeli erano obbligati a recarsi nella chiesa di Brancafora sia per accedere alle funzioni
domenicali, sia per ottenere e registrare battesimi, matrimoni e sepolture. La prima chiesa fu costruita all’inizio dell’attuale Piazza Marconi e fu consacrata nel 1715. Al curato
non era tuttavia permesso di battezzare e dare sepoltura ai morti perché mancavano ancora il battistero ed il cimitero. Nel 1745 fu finalmente accolta la richiesta per la costruzione del primo cimitero, nell’area adiacente la chiesa. Negli anni 1880-1884, poiché gli
spazi erano diventati insufficienti per le sepolture, venne costruito il nuovo cimitero, a cui
si riferisce il Bacher, all’inizio del paese. Si confronti anche pag. 35. Fonte: “Luserna racconta… 7”.
Posizione e caratteristiche di Luserna
17
Il piccolo declivio su cui si erge il paese di Luserna lascia poco spazio ai campi. Solo una minima parte di essi godono di una posizione pressoché piana, alcuni si estendono su alture collinose o ondulate, la maggior parte invece copre
i pendii della montagna che dal paese cala direttamente nella Val d’Astico o dietro al paese sale verso nord e nordest.
I lusernesi devono far economia con ogni pezzetto di suolo per strappare alla magra terra pressoché un quarto del loro fabbisogno alimentare. Chi si sposta dal paese sulla Pràch situata a sudest dello stesso, vede su creste brulle e
perfino rocciose che separano le forre che scendono verso la Val d’Astico, innumerevoli campicelli, sui quali la terra è spesso stata trasportata faticosamente
da lontano. Predisposti a terrazze uno sopra l’altro, i campi sono attraversati da
numerosi muretti, in cui si è investito un considerevole capitale di lavoro.
Anche i prati sono frazionati ed offrono, essendo il loro numero esiguo, solo per
poche bestie il foraggio necessario per l’inverno, benché i lusernesi coltivassero i loro campi in modo molto razionale. Anche i pascoli sono troppo piccoli e
troppo poco numerosi. La situazione non è migliore per quanto riguarda la legna. Anche se singoli privati possiedono alcuni pendii con qualche albero, non
si tratta di boschi degni di menzione da cui ricavare annualmente la legna necessaria senza creare danno. Il bosco comunale basta ancora meno per l’intera
popolazione, dato che l’amministrazione in parte deve coprire il fabbisogno
nel bilancio comunale dalla vendita di legno commerciale. Una volta invece
ricche foreste coprivano i lati nord ed est del monte che si erge dietro a Luserna
e il pendio verso la Val d’Astico, sicché allora i lusernesi, che inoltre erano molto meno numerosi di oggi, non sapevano cosa fosse la mancanza di legna.
Adesso questi posti sono brulli e cosparsi di numerose pietre calcaree, tra le
quali si vede solo erba rada. Così i lusernesi sono costretti a scavare tronchi
d’albero o a raccogliere fascine e rami secchi nei boschi comunali e in quelli vicini. Se nei boschi vicini si procede ad un consistente abbattimento di alberi,
allora il comune acquista la legna di scarto e la cede per pochi soldi alle singole famiglie. Finora si è tentato in tre punti il rimboschimento di zone brulle;
non è tuttavia possibile andare molto oltre per non compromettere il pascolo
delle capre.
La similitudine con i comuni delle zone carsiche, che risulta da quanto detto finora, si nota ancora di più nella mancanza d’acqua. Non si trovano per niente acque correnti nelle vicinanze di Luserna. Quanto occorre per bere e cucinare viene fornito da un’unica fontana che serve l’intero paese e spesso anche la
frazione di Tetsch. È vero che in tempi recenti è stata costruita una seconda fontana, l’“Andreas Hofer-Brunnen”, vicino all’estremità sudest del paese 3, ma
prende l’acqua comunque dalla stessa conduttura della fontana principale ed è
3
Stando alla ricostruzione dell’Associazione culturale “Kulturverein Lusérn”, tale fontana
si trovava nella piccola piazzetta sul bivio tra via Cima Nora e vicolo Castellani. Fu costruita alla fine dell’800 e servì gli abitanti della zona fino agli anni Trenta, quando fu demolita a causa della scarsa funzionalità. Fonte “Luserna racconta… 4”.
18
Luserna: c’era una volta
alimentata solo se quella riceve acqua in abbondanza. Basta tuttavia un poco di
siccità e la fontana principale si affievolisce ben presto e addirittura smette di
funzionare, cedendo solo, gorgogliante, acqua a singhiozzo. In tali tempi di
emergenza bisogna ricorrere a cisterne che, murate con pietre scolpite, trattengono in profondità l’acqua raccolta in periodi di pioggia.
Fanno parte di Luserna anche alcune malghe di Vezzena, nel loro complesso chiamate Bisele, che si trovano a ¾ d’ora sopra il paese in una conca valliva e
sono una meta preferita per le gite dei lusernesi.
Posizione e caratteristiche di Luserna
Figura 1: Veduta di Luserna
Fonte: Archivio Centro Documentazione Luserna.
19
II
ASPETTI STORICI
Aspetti storici
23
Di earstn laüt bo da håm gelebet at’n pèrge vo Lusérn soin da gerift
vor draitausankh djar, no in ta’ vo haüt di slakkn bo ma ummar
vent gedenkhanas di arbat bo sa håm gemacht.
In di djardar tausankh, laüt von Taütschlånt soin khent zo leba at di perng
zuar Schlege un obar Bern, spetar diese laüt soin khent gerüaft von Vescovo
vo Tria, Friedrich von Wangen zo arbata at di ünsar perng. Pitn djardar
zbischnen di Etsch un in Brenta, soinda khent z’ soina lai laüt bo da håm
geredet a taütscha zung. Vor zboahundart djar soinda no gest zbuanzekhtausankh
laüt bo da håm no geredet disa alta taütscha zung.
In ta’ vo haüt disa zung is no lente lai ats Lusérn, un in di famildje
von Lusernar bo da lem aus von lånt.
A. L’estensione storica delle attuali colonie tedesche
Luserna, nonché i comuni tedeschi del Tirolo italiano (Welschtirol) e dell’alta Italia formano oggi isole linguistiche, i cui abitanti vengono chiamati “cimbri” dagli italiani del regno (presumibilmente come derivazione da
“Zimmermann” = carpentiere, nell‘etimologia popolare). Già nel XII secolo i
poeti decantavano Vicenza quale “Cymbria”, e dal XIV secolo questo nome
eroico dava filo da torcere agli studiosi italiani, generando le più azzardate
supposizioni sulla sua origine. Si cercava di far passare i “cimbri” per discendenti di vari gruppi o orde straniere, diventati famosi o malfamati nella storia
dell’Italia. Così si sviluppavano 7 opinioni sull’origine di questi tedeschi.
Venivano considerati 1) Reti, Celti-Teutoni, 2) Cimbri, 3) Tigurini provenienti
dalla Svizzera, 4) Alemanni, 5) Unni, 6) Goti, 7) coloni tedeschi di data successiva. Bergmann (Jahrb. d. Lit. 1847, Anzeigebl. p. 17) suggerisce come ottava
ipotesi che questi tedeschi sarebbero arrivati nei monti vicentini dalla zona di
Pergine dopo il 1166. Sarebbe anche plausibile la teoria che queste isole linguistiche tedesche siano resti di longobardi non italianizzati, avendo dimostrato W. Bruckner “D. Spr. d. Longob.” p. 13 s. che la lingua longobarda «attorno all’anno 1000 non era una lingua morta»; Brugier (Nationall. p. 3)
avrebbe dedotto da “Deutsche Mundarten” di Frommann che la lingua longobarda ormai continuerebbe «solo nelle isole linguistiche tedesche nel Tirolo
italiano e nel Veneto». La lingua di questi tedeschi tuttavia non conferma tale
ipotesi. Le due parole lus. barba 4 e brikù prese dal longobardo esistono anche
nella lingua italiana.
4
Nell’edizione originale del testo del Bacher “Die deutsche Sprachinsel Lusern” era compreso anche un dizionario di lingua cimbra: in tale testo i termini barba e brikù vengono tradotti rispettivamente con fratello del padre o della madre e con briccone.
24
Luserna: c’era una volta
Tra coloro che si sono occupati di ricerche sulle odierne isole linguistiche tedesche nell’alta Italia va menzionata anche una illustre personalità, cioè
l’arciduca Giovanni. Di lui scrive Kotzebue nelle sue “Erinnerungen” 1805, III,
p. 287: «Nella zona di Verona ha svolto ricerche storiche sui misteriosi villaggi
(chiamati sette comuni) che fanno derivare la loro origine fiabesca ancora dai
cimbri e nei quali si parla un tedesco antichissimo. L’arciduca pensa di aver scoperto che gli abitanti di questi villaggi siano stati trasferiti in quelle zone ai tempi di Federico Barbarossa. Ha raccolto un vocabolario della loro lingua che naturalmente dev’essere di immenso interesse per il linguista e lo studioso
dell’antichità. Comunicherà sia il vocabolario, sia i risultati dei suoi esami storici al nostro Johannes Müller, che onora chiamandolo suo amico».
Per una derivazione immediata da antiche tribù tedesche non possono essere considerate le ipotesi 1 - 6, come fanno intendere gli odierni dialetti di
questi tedeschi. Già Schmeller (in Bergmann loc. cit.) dice: «Quello che la lingua dei 7 e 13 comuni ecc. ha di antico, non risale in alcun modo a tempi precedenti lo stato in cui si trovava la lingua tedesca complessiva in quel periodo (XII - XIII secolo)». Non è chiaro che cosa Schmeller intendesse per “lingua
tedesca complessiva” di allora; vedi al riguardo Paul Mhd. Gr. § 4. Il dialetto
di Luserna e quello cimbro si rifanno spesso nel loro sviluppo, nei singoli suoni, negli idiomatismi ad altri dialetti della Germania meridionale, specialmente ai dialetti tirolesi, il che vale ancora di più per la Valle dei Mocheni. Tale
concordanza tuttavia non sarebbe pensabile se queste isole linguistiche, il cui
sviluppo si era concluso ai tempi dell’antico alto-tedesco o addirittura ai tempi precedenti l’antico alto-tedesco, si fossero sviluppate autonomamente. Se
ne può dedurre che le attuali enclavi tedesche devono essere state una volta in
diretto collegamento con l’intero corpo tedesco. Questa supposizione viene
avallata dalla saga tedesca che nomina varie zone, ora italiane, come territorio tedesco. Nella leggenda di Ortnit molto spesso viene nominato il “Garten”
(= Garda) e il “Gartensee” (lago di Garda). Qui Ortnit, re di “Lamparten”
(= Lombardia) aveva il suo castello, qui ricevette l’armatura luminosa, qui festeggiò l’incoronazione della regina Sidrat che aveva sposato. I giovani draghi
portati in questo luogo per vendetta erano stati allevati in una grotta sopra
Trento (secondo l’attuale leggenda popolare, presso Mezzocorona o Vadena;
vedi Schneller, Südtirol Landsch. p. 3 ss.). Il “Garten” ritorna in altre leggende; cfr. la leggenda di re Laurino, del Wormser Rosengarten e di Teodorico.
L’ultima cita ad esempio anche “Bern” (= Verona) e “Raben” (= Ravenna) nell’alta Italia.
All’immediato aggancio storico delle odierne isole linguistiche all’intero corpo tedesco ha già fatto riferimento Bergmann (loc. cit. p. 9 ss.), mentre la questione è stata trattata più dettagliatamente da Attlmayr (Ferdzs. quaderno XII e XIII),
e ampiamente documentata; l’autore si basa per lo più sui numerosi nomi di località, di campo, di maso e di persone, per cui risulta che la zona di Lavarone,
San Sebastiano e Centa, Vattaro, Calceranica e Costagnedo una volta era area
linguistica tedesca, come pure Caldonazzo. Della parrocchia di Calceranica sussiste tuttora un documento tedesco di cessione dell’anno 1446, dove per
Aspetti storici
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“Calceranica” sta il nome di “Plaiff” che corrisponde esattamente all’attuale denominazione di questa località nel dialetto di Luserna 5. A Centa si trova ancora
un fascicolo di fatture ecclesiastiche tedesche, come mi ha assicurato Don Carlo
Rossi, ex curato di Centa. In Val dei Mocheni si sa che ci sono ancora 5 località
in cui si parla il tedesco, e anche a Vignola (Walzurg) l’idioma tedesco non è del
tutto scomparso.
Anche più addentro nella Valsugana si trovano tracce tedesche della lingua
tedesca di una volta: ad esempio a Selva (Zilf), Roncegno (Rotschài), Torcegno,
Borgo (Burge) e Telve. Una precisa documentazione in merito, con nomi tedeschi di masi e di famiglia, ci perviene da J. Patigler (Ferdinzs. 28 p. 79).
Sicuramente hanno origine tedesca gli abitanti di Piné che confinano con l’area
fluviale dell’Avisio. Una volta questa località veniva costeggiata da una strada
che da Pergine, passando per il dosso della montagna, raggiungeva Lavis.
Anche il paese di Lavis era tedesco, si chiamava Navis, anche Nevis (la gente di
Faogna lo chiama ancora oggi nèvas) e faceva parte dell’ufficio circondariale di
Bolzano. L’Avisio, sulla sponda del quale si trova Lavis, attorno al 1500 costituiva ancora il confine tra le zone linguistiche tedesca e italiana in Tirolo. Paigler
(p. 75) cita un passaggio dal Diarium di Massarelli (p. 134) che afferma espressamente che sull’Avisio l’italiano termina del tutto, mentre dall’Avisio fino a
Verona e Vicenza si parla in parte tedesco, in parte italiano. Concorda ancora
Goethe (“Viaggio in Italia” 11 settembre 1786): «Qui mi trovo dunque a Roveredo,
dove la lingua si spartisce; più sopra si alternano ancora il tedesco e l’italiano». Anche
per Trento Patigler svolge delle ricerche sulla base di un reclamo dei tedeschi lì
residenti e dei comuni nel distretto urbano e scopre che ancora attorno al 1500
approssimativamente un quarto della popolazione di questa città sarebbe stata
tedesca. È risaputo che nel prologo al Concilio di Trento la città viene chiamata
«sentina Italorum et Germanorum». Si può con buona ragione affermare che
perfino rappresentazioni teatrali tedesche di religiosità popolare, in grande stile, si siano svolte a Trento ancora nel XVI sec., il che è certo per Cavalese (Cafless)
in Val di Fiemme (cfr. Wackernell, Altdeutsche Passionsspiele p. IX s.). Sotto
Trento i comuni tedeschi si estendevano dai monti della Val d’Adige sinistra fin
giù in pianura, come Folgaria (Folgràit), Terragnolo (Laim) e Vallarsa (Attlmayr
p. 92 ss.).
Per quanto riguarda l’estensione storica della lingua tedesca nell’alta Italia,
Attlmayr scoprì in base al ricco materiale che l’ex direttore di posta austriaco
J. G. Widter gli mise a disposizione a Vicenza, che si parlava tedesco non solo nei
7 e 13 comuni (presso Vicenza e Verona), ma anche sulle propaggini meridionali dei monti tra Verona e Bassano, nella Val d’Astico e addirittura nella pianura
oltre Vicenza. Come documentazione cita il manoscritto di un conte Caldogno
Il Bacher annota: «Il documento è stato trovato dall’uomo di fiducia della tedesca
Schulvereinsgruppe Frankfurt a. M., dott. Lotz, a S. Sebastiano e acquistato per se stesso.
A Luserna egli lo diede da leggere al maestro Sim. Nicolussi, al quale devo
l’informazione».
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Luserna: c’era una volta
del 1598, che dovette viaggiare in queste zone e riferire al doge Grimani sulla capacità militare della stessa. Si legge in questo testo: «Gli abitanti dell’intera montagna vicentina parlano il tedesco, benché molti di loro comprendessero anche
l’italiano, e non sarebbero passati ancora molti decenni da quando una parte di
questi Cimbri o Goti, perfino in vicinanza della città (Vicenza), avrebbe abbandonato la loro madrelingua». Per “abitanti della montagna vicentina” non si intendono comunque solo i 7 Comuni, ma anche le valli Chiampo, Trissino (adesso Val d’Agno) con Recoaro, i cui abitanti egli chiama espressamente “tedeschi”.
Secondo la sua relazione erano tedeschi anche i contadini delle valli “de’ Conti”
e “dei Signori”, di Torrebelvicino e Enna, e indica come tedeschi anche gli abitanti di Lavarone e Brancafora sulle sorgenti dell’Astico. Sono noti, quale zona
linguistica tedesca storica, anche i 13 Comuni Veronesi. Di questi, il manoscritto di Tecini dell’anno 1821 (cfr. Attlmayr XII, p. 118 ss.) poteva ormai menzionare solo tre località di lingua tedesca.
È importante l’osservazione di Attlmayr che nell’intera zona finora discussa, né nel presente né nella storia o anche solo in una tradizione popolare vi si
riscontri la pur minima traccia di un’enclave di origine italiana, latina o comunque non tedesca: «un fatto sul quale io che abito da anni ai piedi di queste montagne, ho sempre cercato di avere notizie quante più possibili, ottenendo solo la
conferma che ovunque, ad esempio anche nella piccola valle laterale Ronchi
presso Ala – come mi ha assicurato solo di recente un sacerdote di quella zona
– siano presenti tracce documentabili della lingua tedesca, sicché la coabitazione compatta di soli ceppi tedeschi in un’area così vasta fa di per sé supporre che
ci sia stata un’epoca in cui i tedeschi vi si trovassero anche oltre il piede di queste montagne nelle contigue valli e pianure» (loc. cit. XIII, 11 ss.).
Widter prova nelle sue note per la località Monte di Malo, e così indirettamente per Malo stessa che si trova tutta in pianura, che qui una volta dominava la lingua tedesca; un documento del 1388 menziona come causa della separazione ecclesiale delle due località la diversità della lingua, che a Monte di Malo
era quella tedesca. Allo stesso risultato giunge Widter grazie ai nomi di famiglia
e di campo lì usuali, che aveva raccolto prevalentemente dai registri tributari.
Anche del comune di Recoaro, Widter cita, a centinaia, nomi tedeschi di campi
e di bosco (Attlmayr XIII, 12 s.).
Infine vorrei citare ancora un passaggio di Tecini (Attlmayr XIII, 121 s.): «Ma
non solo le località menzionate veronesi, vicentine e tirolesi utilizzavano in tempi remoti, come ancora oggi, la lingua tedesca, ma è anche probabile che l’intera
alta Valsugana con Piné, una parte di Fiemme e le località in vicinanza di Trento
sulla sinistra dell’Adige siano state tedesche, dato che gli antichi nomi dei campi, delle acque, dei monti, delle località e delle famiglie sono in gran parte tedeschi e uno dei monti, vicinissimo alla città (Trento) situato tra est e nord, viene
ancora oggi chiamato il “Calisberg”. Che fino al XIII sec. il borgo di Pergine, allora chiamato, dal vicino torrente Fersina, “Ferzen” o “Persen”, e in tutti i paesi circostanti la lingua comune fosse il tedesco… lo dimostrano i nomi interamente tedeschi dei campi, dei paesi e di quasi ogni singolo maso, come appaiono
nei documenti latini del XVI sec., accanto a cui però si trovano anche documen-
Aspetti storici
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ti in lingua tedesca di quell’epoca, e lo stesso vale per la parrocchia di
Calceranica tra Pergine e Lavarone».
È una documentazione estremamente importante dell’estensione storica della lingua tedesca nell’alta Italia, in un primo momento nelle diocesi di Vicenza
e Padova, l’elenco dei curati di queste zone. Esso è stato preso dai relativi archivi vescovili (pubblicato da Padre Maccà nella sua “Storia del territorio vicentino”) e spazia dalla fine del XIV all’inizio del XVI sec. (reso noto per estratti da
Attlm. XIII, 15 ss., e per intero da A. Bass “Deutsche Sprachinseln” ecc. p. 87 ss.).
Ne ricaviamo che anche a sud ed est di Vicenza la lingua tedesca era in uso ancora nel XV sec. Molto significativo come prova per l’estensione storica della
zona linguistica tedesca in alta Italia, in particolare presso Padova, è il fatto che
dal 647 al 1123 su 38 vescovi a Padova 22 vengono espressamente chiamati ultramontani o franchi (Attlm. 42). A ciò si aggiunge l’opera storica di Bonato che
(I, 172) sottolinea il fatto che ogni chiesa madre dei 7 Comuni (ad eccezione di
St. Maria di Arsiè) si trova nella pianura circostante dell’alta Italia, che dunque
i 7 Comuni in origine erano solo chiese filiali. Così, perfino l’attuale parrocchia
tirolese Brancafora, accanto a Rotzo, Roana, Asiago, Gallio, Chiuppan, Cogolo,
Pedescala, San Pietro, faceva parte della chiesa madre Caltrano. Le altre chiese
madre dei 7 Comuni erano Breganze, Merostica, Campese, Arsiè (o Arsedo).
Questi dati che Bonato ricavò dall’archivio vescovile di Padova, sono inconfutabili. Dunque anche Rotzo, Asiago e Gallio erano in origine solo chiese filiali,
e le loro chiese madre si trovano al di fuori della zona dotata di privilegi dei 7
Comuni, eccetto la sola Campese. Ne deduciamo che i 7 Comuni siano stati colonizzati partendo dalla pianura. E questo basta per presupporre che al tempo
della colonizzazione si parlasse ancora tedesco nella pianura dell’alta Italia.
Analogo è il rapporto ecclesiale nei tedeschi del Sudtirolo, Calceranica era ad
esempio la chiesa madre per Lavarone, Centa, Vigolo e Vattaro; Pieve di Lizzana
per le valli Vallarsa e Terragnolo, Volano per Folgaria e le sue filiali attuali (Attlm.
21 ss.); da Pergine dipendono attualmente ancora, quali filiali, tutti i posti da curato del decanato. L’appartenenza di Luserna alla parrocchia di Brancafora verrà menzionata ancora una volta più avanti, p. 25 s 6. Lo stesso rapporto con certe
chiese madre originali, che sussiste nei 7 Comuni e nelle enclavi tedesche del
Tirolo italiano, si ha senza dubbio anche nei 13 Comuni veronesi.
Dalle note di Widter risulta che vi sarebbero ancora tante tracce tedesche di
questo tipo, che fornirebbero materiale a sufficienza per il ricercatore, nelle province venete, come pure nella zona di Vicenza specialmente verso Bassano
(Attlm. 41). Si trovano ad esempio tali tracce della lingua tedesca a Fontaniva
presso Cittadella, a Godego, Riése, Valla, Longhere, Rolle, Falze, Covolo, Canal
di Brenta, inoltre nella Provincia di Padova: Cervarese sul Bacchiglione, nelle
vicinanze del Montegaldella, presso Teolo, nei Colli Euganei, e più giù verso
Monselice; anche presso Feltre e Belluno si incontrano fino ai tempi nostri residui perduranti della lingua tedesca a Rocca, cioè nelle frazioni Avedino e
6
In questa versione, a pagina 35.
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Luserna: c’era una volta
Dagonera facenti parte di Rocca, nella valle di Agordo (vicino al tir. BuchensteinLivinallongo). Nomi tedeschi di monti si protraggono oltre, fin dentro nel
Bellunese. Fanno altrettanto parte della zona linguistica tedesca le località situate a nord di Udine, Sappada (con 13 frazioni) e Sauris. Riguardo alla parrocchia
di Zahre (altro nome per Sauris) ricordo un libricino stampato di poesie nel dialetto tedesco della zona: “Liëdlan in der Zahrer Sproche vame Priëster Ferdinand
Polentarutti, gedrucket za Beidn (= Udine) 1890”, con la dedica «Ime Pforrheare van
der Zahre Monsignor Georg Plozzer in seine guldan jubljohr vünva im Avost
MDCCCXC de do Liëdlan in seindar Donkborkat und vrade oupfert der Priëster
Ferdinand Polentarutti».
Colonie tedesche si trovano anche nel Piemonte (in Val Formazza; Pommat
fino a Foppiano, Unterwald). Il dott. Aristide Baragiola indica nel suo libro
“Il canto popolare a Bosco o Guriu, colonia tedesca nel cantone Ticino 1891” di
queste colonie tedesche il numero degli abitanti dopo il censimento del 1885,
con le seguenti cifre: Val Lesa 2453 cioè Gressoney la Trinité 160, Gressoney St.
Jean 720, Issime-Gabi 1573 (nel comune di Issime è compreso anche Gabi, di cui
solo 3 frazioni – Niel o Nelli, Pontetrenta e Zerta – parlano tedesco); Val Sesia
1929 cioè Alagna 643, Rima S. Giuseppe in Val Sermenta 252, Rimella in Val
Nastalone 1034; Val d’Anza 765 in Macugnaga (nella frazione di Pestarena il tedesco è ormai scomparso, a Burca si sta estinguendo); Val d’Ossola 780, cioè
Formazza (Val Formazza o Pommat 577, Salecchio o Saley (Val Devera) 80,
Agaro o Ager (Val d’Antigorio) 123. Queste enclavi contavano dunque nel 1885
complessivamente 5927 tedeschi.
Cento anni fa si parlava ancora il tedesco a Ornavasso (Baragiola fa derivare questo toponimo da “Ort-am-Wasser” - paese sull’acqua) poco distante dalla sponda occidentale del Lago Maggiore. Baragiola cita inoltre dall’opera storica di Bianchetti (vol. II, 275) che nel 1392 una commissione incaricata di seguire
in Val d’Ossola i rilevamenti per la costruzione del duomo di Milano, riferisce
quanto segue: «Videtur quod ad praesens sit emenda a teutonicis de Ornavaxio cuncta quantitas marmoris quam ad praesens habent et habebunt pro bono mercato, videlicet pro tertio minore pretio quam constat marmor de Fontana». Secondo lo stesso
Bianchetti, Baragiola riporta ancora varie notizie su Ornavasso, tra l’altro che
qui la lingua tedesca non dominava solo nei rapporti della popolazione, ma
anche nel confessionale e nella predica fino al 1771. Nel 1839 solo pochi anziani parlavano il tedesco. Per “Ornavasso” si scriveva anche “Urlivaschen,
Urnavasch, Urnäschen”, sulle carte geografiche a volte “Urnafas”. Riguardo al
periodo dell’arrivo di questi tedeschi, Bianchetti è relativamente sicuro di poter
indicare il VI sec. dopo Cristo.
Di Gressoney dice il Baragiola che questa località si sarebbe conservata il carattere tedesco più delle altre enclavi tedesche in Piemonte, che i gressonesi sarebbero ben fieri della loro nazionalità, mentre gli altri tedeschi in Piemonte cercherebbero piuttosto di nasconderla nei contatti con estranei. Tedesca fino al
midollo è anche Formazza i cui statuti del 1486 non concedevano ad estranei
l’accoglienza nel Comune, a meno che non tutta la popolazione si fosse espressa a favore.
Aspetti storici
29
Baragiola, dal cui libro (p. 11 - 18) sono tratte queste osservazioni sui tedeschi del Piemonte, li chiama “Walliser”. La loro lingua è molto simile a quella di
Gurin, nel cui dialetto Baragiola riporta una novella del Boccaccio. Le vocali lunghe non sono dittongate, il diminutivo termina in -li ed anche per il resto si trovano molte similitudini con i dialetti in Svizzera. Si notano in modo particolare
le vocali piene a, o, u, i in sillaba atona. Ne faccio menzione per il fatto che un
uomo dei 7 Comuni che aveva frequentato queste enclavi tedesche del Piemonte,
mi riferiva che lì avrebbe sentito parlare il “cimbro” e che avrebbe ben capito lo
scambio di osservazioni tra queste persone, mentre sembrava che loro non se ne
rendessero conto, considerandolo un estraneo. Si vede dunque con quanta prudenza occorre accogliere le assicurazioni di queste persone quando affermano
che il loro dialetto sia uguale o assomigli a una o ad un’altra parlata. A quest’uomo comunque era bastato sentir parlare tedesco e capire singole parole per considerare “cimbro” il dialetto che sentiva.
Gli insediamenti dei tedeschi in Piemonte forse non sono sempre stati colonie; è diversa però la situazione dei tedeschi nelle montagne e nelle valli tra
l’Adige e Verona fino a Bassano. Una volta essi erano sicuramente uniti tra di
loro come zona linguistica chiusa e abbastanza estesa, e per di più erano agganciati al corpo complessivo tedesco che si estendeva per l’intera valle
dell’Adige del Tirolo e penetrava anche la Valsugana. Presumibilmente erano
molto numerosi anche i tedeschi ad est di Bassano fin verso l’Adriatico.
Pertanto non sembra aver esagerato lo studioso padovano Antonio Loschi che
viveva attorno al 1400 e che definiva se stesso un “cimbro”, quando affermava che nella preistoria i “Cimbri” (cioè i tedeschi) si «estendevano dall’Adige
fino all’Adriatico».
A causa del regredire della lingua tedesca da Lavis fino a Salorno e del progressivo estinguersi della stessa nella Valle dell’Adige sotto Trento, in
Valsugana, nella pianura dell’alta Italia, gli attuali resti della zona linguistica
una volta così estesa appaiono staccati dal corpo complessivo e si presentano
ora come insediamenti disseminati, come colonie. La loro storia tuttavia va considerata congiunta a quella globale dell’elemento tedesco in Italia, specialmente in alta Italia. Questo ci offre la base per il seguito della nostra ricerca che riguarda i ceppi a cui appartenevano i tedeschi dell’alta Italia e a cui va
ricondotta l’origine degli attuali gruppi residui, insediati sulla sponda destra
del Brenta.
B. Ceppi
Menzioneremo in un breve riassunto storico i popoli tedeschi il cui intervento nella storia dell’Italia è stato di effetto duraturo per l’alta Italia. Orde che
attraversavano l’Italia solo temporaneamente, come i Cimbri e Teutoni, gli Unni,
Vandali ecc., pertanto non verranno presi in considerazione in questo luogo.
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Luserna: c’era una volta
Gli insediamenti dei tedeschi in Italia sembrano aver inizio con la decadenza
dell’impero romano d’Occidente. Le truppe mercenarie tedesche in Italia,
Rugi, Eruli, Sciri e Turcilingi, chiedevano almeno un terzo delle terre italiane.
Quando questo venne negato a loro dal generale Oreste, padre dell’ultimo imperatore romano d’Occidente Romolo Augustolo, lo sciro Odoacre promise ai
suoi compagni di attuare le loro richieste se lo avessero sostenuto nell’ascesa
al potere. Odoacre vinse Oreste e lo fece decapitare a Piacenza nel 476. Odoacre
venne dunque proclamato capo dalle truppe mercenarie tedesche, mentre
Romolo Augustolo venne deposto. Il senato a Roma, senza opporre resistenza, acconsentì a tutte le richieste dei tedeschi con l’attribuzione di un terzo
delle terre italiane. Tuttavia, tali possedimenti tedeschi durarono poco, dato
che “in breve tempo questi beni erano sperperati, venduti, di nuovo nelle mani degli italiani” (Weiß, Weltgesch., III, 613 s.). Comunque non erano del tutto prive di significato queste acquisizioni, per l’insediamento permanente dei
tedeschi in Italia, formando almeno il primo anello della catena degli insediamenti tedeschi.
Qualche anno più tardi, il re ostrogoto Teodorico condusse i suoi Goti in
Italia, vinse Odoacre nel 489 sull’Isonzo, lo fece giustiziare dopo la presa della
città fortificata di Ravenna nel 493, e fondò il regno degli Ostrogoti in Italia, che
però sarebbe durato solo 60 anni. Quando dopo la battaglia, con esito infelice per
i Goti, nei pressi del Vesuvio (552) le loro rimanenti truppe eroiche ebbero libera condotta, 1000 dei loro guerrieri raggiunsero Papia, molti si rifugiarono nell’odierna Uri, altri in Tirolo dove la zona di Merano non di rado veniva chiamata la terra degli Amelungi. Che ai tempi dell’Impero degli Ostrogoti in Italia vi
fossero già insediati altri tedeschi, risulta da un passaggio nel panegirico del vescovo Enodio di Pavia (+ 516): «Quid quod a te Alemanniae generalitas intra
Italiae terminos sine detrimento Romanae possessionis inclusa est, cui evenit
habere regem, postquam meruit perdidisse. Facta est latialis custos imperii semper nostrorum populatione grassata. Cui feliciter cessit fugisse patriam suam,
nam sic adepta est soli nostri epulentiam, adquisita est iis, quae noverit ligonibus tellus adquiescere» (in Bergmann loc. cit. vol. 120, Anzbl. p. 6).
Dall’espressione “cui evenit habere regem, postquam meruit perdidisse” si può
forse arguire che questi Alemanni siano gli stessi di cui il re degli Ostrogoti
Teodorico scrive, tra l’altro, al re dei Franchi, con cui si congratula per la sua
grande vittoria sugli Alemanni: «Estote illis remissi, qui nostris finibus celantur
exterriti. Memorabilis triumphus est, Alamannum acerrimum sic expavisse, ut
Tibi eum cogas de vitae munere supplicare. Sufficiat illum regem cum gentis
suae superbia cecidisse» (Bergmann p. 5). Il re degli Alemanni cadde nella battaglia qui menzionata. Weiß (642) ipotizza che i profughi alemanni si fossero insediati nei Grigioni e nell’alta valle dell’Inn. Egli cita anche Eunodii Paneg.
p. 975, ma allora si dovrebbe considerare un’esagerazione retorica le parole
“nam sic adepta est soli nostri epulentiam”, qualora fossero riferite ai Grigioni
e all’alta valle dell’Inn.
Verso la fine dell’impero ostrogoto in Italia si menzionano lì, cioè in zona
veneta, anche i Franchi. Cfr. il passaggio in Procopii bell. Gothic. lib. IV cap. 24
Aspetti storici
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(edit. Venet. 1729, Tom. II 226) Bergmann p. 7: «Paulo ante Francorum Rex
Theodebertus morbo obierat (+ 547), cum sibi multo negotio tributaria fecisset
nonnulla Liguriae loca, Alpes Cottias, agrique Veneti partem maximam. Etenim
Franci, arrepta belli, quo Romani Gothique erant impliciti, opportunitate, sine
discrimine ditionem suam iis locis auxerunt, de quibus illi pugnabant.
Venetorum pauca oppida Gothis supererant: nam Romani maritima, Franci caetera occuparant».
Lo stesso storiografo indica anche Svevi residenti in Italia (Bergmann loc.
cit.): «Liburnis proxima est Istria, deinde regio Venetorum ad Ravennam urbem
porrecta. Atque hi sunt maris accoloe, supra quos Siscii et Suabi, non illi, qui
Francis parent, sed ab iis diversi, interiores terrae tractus obtinent».
Per breve tempo l’Italia, dopo la caduta del regno ostrogoto, era una provincia romana d’Oriente. Poi nacque un nuovo impero tedesco nell’alta Italia, il regno dei Longobardi (568 - 774). Quando i Longobardi ariani si convertirono al
cattolicesimo, venne a cadere la barriera principale che prima aveva separato
questo popolo dagli italiani cattolici. Il mescolamento che si ebbe ora, dei
Longobardi con gli italiani, portò anche al passaggio graduale della lingua longobarda a quella latina. Dapprima l’idioma latino dominava quello longobardo
nel meridione, dove gli insediamenti tedeschi non erano più così fitti come nel
nord dell’Italia. Bruckner (Die Sprache d. Longob. 13 s.) fa risalire il calo della
lingua tedesca, per le parti meridionali del regno longobardo, alla seconda metà del X sec., mentre indica per la scomparsa completa della stessa con certezza
il periodo dopo il 1000.
Il legame tra la casa regnante longobarda con quella bavarese nell’alta Italia
deve aver portato anche ad un influsso bavarese. Dall’anno 653 in poi troviamo
bavaresi della parentela di Teodolinda quali re dei Longobardi; ad esempio
Ariperto, i suoi figli Gundeperto e Bertarido, poi Cuniberto. Liudeperto, il figlio di Cuniberto, venne assassinato. Ausprando, seguace del Liudeperto ucciso, ottenne dalla corte bavarese truppe ausiliari contro l’assassino, e giunse al potere che nel 713 passò a suo figlio, il valoroso Liutprando.
Sebbene in seguito al cambio di religione dei Longobardi fosse facilitato il
mescolamento con gli italiani, i primi conservarono tuttavia alcuni privilegi.
Questi, nonché il loro diritto nazionale, venivano lasciati ai Longobardi perfino
quando essi dovettero sottomettersi a Carlo Magno e riconoscerlo loro re (774).
Solo quando i Longobardi nel 776 si ribellarono al dominio franco, Carlo sciolse la loro costituzione dell’impero, suddivise i ducati longobardi in piccole contee, introdusse la costituzione franca dei pagi e collocò Franchi a guarnigione nei
punti più strategici. Carlo avrà effettuato anche qui spostamenti di massa, come
nel caso dei Sassoni e Slavi? Sembra che fosse sua consuetidine prendere tale
misura, e di fatto Dalpozzo (Memorie storiche p. 45) cita da Leben Karls des
Großen 7 di Eginhart un trasferimento forzato di numerosi Sassoni con mogli e
figli in Francia e in Italia, al che nel 804 seguì una seconda deportazione di 10.000
7
“Vita di Carlo Magno” di Eginardo.
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Luserna: c’era una volta
elementi ribelli. È facile immaginare uno scambio reciproco in questi spostamenti di massa.
Rientra ancora nel periodo del regno carolingio in Italia un atto di donazione del vescovo padovano Rorius o Rorigo, che donava i suoi possedimenti in base alla legge salica. Questo documento (datato 2 maggio 874) presenta numerosi nomi tedeschi di servi della gleba di entrambi i sessi, nonché testimoni per lo
più con nomi tedeschi (Bergm. p. 6 s.).
Per il X sec. sono documentati anche nella valle del Brenta (presso Bassano)
tedeschi liberi. In base ad un documento, l’imperatore Berengario del Friuli donava al vescovo padovano Sibico nel 917 il paese di Solane (ora Solagna sul
Brenta, a nord di Bassano): «Nos … pretaxatas vias publicas iuris regni nostri
pertinentes de Comitatu Tarvisianense iuxta Ecclesiam Beatissime Justine virginis non longe a fluvio Brenta valle nuncupate Solane … seu omnem terram iuris regni in predicta valle adjacentem de quibus libet Comitatibus tam in territorio Cenedense ad nostram iurisdictionem pertinentem, nec non et omnem
iudiciariam potestatem tam Germanorum quam aliorum hominum, qui nunc
in predicta valle Solane habitant aut habitaturi sunt, cum bannis et redditibus
sancte nostre regie potestati pertinentibus, per hoc nostrum regale preceptum eidem Episcopo sancte Pataviensis Eccilsiae suppliciter offerimus et perdonamus
ad de iure nostro concedimus …» (Bergm. p. 8).
Dal 919 al 1024 in Germania regnavano re e imperatori del casato sassone.
L’Italia, con le sue agitazioni, diede filo da torcere a questi principi. Il re (successivamente imperatore) Ottone I si trasferì in Italia nel 951, liberò la principessa
Adelaide che aveva lasciato Ivrea per fuggire da Berengario II, assunse il titolo
“re dei Longobardi”, separò Friuli e la Marca Veronese dall’Italia e li unì alla
Germania. Dapprima entrambe le marche andarono al duca Enrico di Baviera,
nel 995 vennero unificate con il ducato di Carinzia di nuova costituzione e rimasero con lo stesso per 200 anni.
Che il numero dei tedeschi in Italia nell’XI sec. non fosse insignificante lo si
evince dal fatto che sotto l’imperatore Corrado II i romani chiesero l’equiparazione con i tedeschi. A questo movimento si unirono anche piccoli vassalli
che pretendevano l’ereditarietà feudale, e artigiani che volevano far parte dell’amministrazione cittadina di Milano, era lì infatti il focolaio di questo movimento. L’associazione, inizialmente segreta, dei malcontenti ben presto si ribellò apertamente all’arcivescovo di Milano, Eriberto, sconfiggendolo in una aperta
battaglia campale. Come Corrado II, pure i re ed imperatori tedeschi dei casati
sassone, franco e degli Hohenstaufen avevano spesso motivo per spostamenti in
Italia, dato che soggiaceva al loro dominio. Così occuparono con dei tedeschi le
posizioni strategiche. Tutto ciò portava a rafforzarvi l’elemento tedesco e a mantenere un costante, diretto collegamento con la Germania. Per citare un esempio,
un Ezelo (Hezilo), figlio di un certo Arpone, si trasferì con Corrado II in Italia e
vi si stabilì. Visse secondo la legge salica ed ottenne Bassano e dintorni come
feudo. Già suo figlio ottenne che questo feudo diventasse ereditario e presto la
famiglia degli Ezzelini raggiunse grande potere; gli Ezzelini rivestirono cariche
di podestà a Vicenza, Treviso e Verona, Ezzelino III era vicario imperiale nella
Aspetti storici
33
Marca Trevigiana. I suoi possedimenti comprendevano oltre che Bassano anche
Padova, Vicenza, Verona, Brescia e Trento. Si attorniava di tedeschi come guardie del corpo. Tale Ezzelino tuttavia era malfamato a causa della sua crudeltà.
Morì nel 1236 (Bergm. p. 10 s.).
Anche nella zona degli odierni 7 Comuni si trovavano possedimenti ezzeliniani. Dopo il declino dei loro signori, questi beni e masi vennero venduti il
5 maggio 1261 dalla città di Vicenza. Begmann (p. 13) cita un documento in cui
viene definita con maggiore precisione la posizione degli ex possedimenti ezzeliniani nella zona degli attuali 7 Comuni. Vi vengono menzionati, oltre ai villaggi Roana e de Roccio (Roana e Rotzo), anche nomi di montagna come mons
Menatii (in it. ora Manazzo, nella parlata di Luserna Manétsch), Costa (lus. Kost),
Portula o de Costa, m. Portule, m. Varine, m. Campi-rosati.
Dal declino degli Ezzelini, nell’alta Italia sorsero città come Vicenza, che scacciò le truppe mercenarie di Ezzelino, Verona, dove Martino della Scala ottenne
la carica di podestà e gli Scaligeri presto assunsero un ruolo importante. Il potere imperiale tedesco diminuisce sempre di più e accanto a Vicenza e Verona
sorgono presto nell’alta Italia altri staterelli, la lingua italiana sviluppa una particolare forza di espansione: è vicina l’epoca di Dante, Petrarca e Boccaccio, con
il suo apporto alla letteratura e lingua italiana. A causa dell’ascesa della lingua
italiana diminuiva invece sempre di più la rilevanza del tedesco, la lingua si ritirò sempre di più in zone isolate ed aspre, in montagna, dove in parte, come ad
esempio nella zona dei 7 Comuni, si trovavano già da tempo degli insediamenti. Già in un documento del 1085 è menzionata la località di Fugia (ora Fozza),
un documento del 1175 parla della gente di Rotzo. I 7 Comuni devono già essere stati abbastanza popolosi ai tempi della loro appartenenza a Verona (1297 1387), dato che ottennero privilegi propri, che sicuramente non erano dovuti
solo alla bontà dei signori veronesi o alla loro compassione con la popolazione
povera, ma erano intesi a garantire una fedele e affidabile guardia ai confini.
Intorno alla metà del XIV sec. la lingua tedesca nell’alta Italia era già stata
spinta in zone così isolate che la loro presenza «in un angolo dell’Italia» veniva
considerato «un fenomeno curioso» (Dalpozzo p. 1) dagli studiosi italiani.
Da questi cenni storici si evince che i tedeschi dell’alta Italia appartenevano a vari ceppi; dunque anche nella lingua si deve aver avuto una simile mescolanza. Si aggiunsero poi influenze latine, sicché i dialetti tedeschi a sud del
Brenta e ad est dell‘Adige risultano oggi un dialetto speciale, che alcuni definiscono longobardo (Frommann in Brugier), altri alemanno (Zingerle “Lus. Wb.”
p. 4), gotico (A. Schiber in Zs. d. deutsch. und österr. Alpenvereins 1902 s.).
Schmeller e Bergmann sembrano inclini a far rientrare questi dialetti tra quelli
bavaresi, opinione sostenuta fermamente da Attlmayr, e occorre avvalorare
questa ipotesi per motivi linguistici; solo il criterio linguistico offre certezza in
tali casi di dubbio: i dialetti sono per tutta la loro base bavaresi, per cui anche
i loro portatori originari lo devono essere stati. Per cui vanno presi in considerazione prevalentemente i coloni bavaresi. Già dalla panoramica storica si vede che la Baviera, specialmente dai tempi di Ottone I, aveva raggiunto un’influenza duratura sui tedeschi nell’alta Italia e sul territorio di Trento. Perciò
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Luserna: c’era una volta
Attlmayr presuppone che «gli immigranti bavaresi (nel Tirolo) avranno fatto un
passo in più, oltre Salorno e Lavis, e avranno occupato i promontori meridionali dei monti sulla sponda orientale dell’Adige» (XII, p. 117). Rimane comunque incerto se tale immigrazione sia avvenuta solo verso la fine del XII sec. dai
dintorni di Pergine, come ipotizza Bergm. (loc. cit. vol. 120 p. 16). L’odierna differenza della pronuncia (Cap. VI) nella zona tra la sponda destra del Brenta e
quella sinistra dell’Adige da una parte e i dintorni di Pergine d’altra parte, rende dubbia la supposizione di una così tarda immigrazione. Nel contesto è particolarmente importante la pronuncia del suono “a”, che nel Bavarese (cfr. ad
esempio Schatz, D. Ma. von Imst p. 47, e Kauffmann, Deutsch. Gramm. p. 40)
già nel XII sec. si è ristretto in ƍ. Dato che negli altri mutamenti fonetici germanici (seconda rotazione consonantica del germanico, dittongazione) il meridione era avanti, si può presupporre analogamente la restrizione della “a” nelle zone meridionali, dove sussiste oggi, come è il caso nei dintorni di Pergine (å con
metafonesi “a”). Immigranti di questa zona avrebbero dunque verso la fine del
XII sec. portato almeno il germe di tale sviluppo. A Luserna invece, e a sud del
Brenta si è conservata la “a” pura (con comune metafonesi “e”).
C. Luserna
Nella questione dell’appartenenza nazionale occorreva mettere in relazione
Luserna con le altre tracce tedesche nell’alta Italia, ponendola così su una base
storica più ampia. Ma anche sulla storia specifica dell’insediamento di questo
paese non si trova niente di certo, plausibile, benché fosse un insediamento relativamente giovane. Nel XVII sec. appaiono su quest’altura singole famiglie,
stando ai registri anagrafici della parrocchia di Brancafora dalla quale Luserna
si rese indipendente solo nell’agosto del 1904. I registri risalgono al 1617; allora
Luserna non aveva ancora una chiesa e un curato proprio ed era una frazione del
comune di Lavarone. Una leggenda popolare, menzionata anche da Zingerle
(Lus. Wörterb. p. 2), riferisce che un uomo di Lavarone di nome Nikolaus si sarebbe recato ogni estate sui suoi pascoli alpini di Luserna; lì avrebbe inizialmente costruito una stalla per il bestiame e un’abitazione rudimentale per sé e i suoi.
Avrebbe con il tempo abitato questa costruzione provvisoria anche d’inverno.
I discendenti di tale Nikolaus sarebbero stati chiamati Nicolussi. Attualmente la
maggior parte delle famiglie di Luserna (più di 160) portano questo cognome;
a ciò si aggiungono ca. altre 25 famiglie Gasperi e 6 Pedrazza.
Non c’è motivo per dubitare del fatto che Luserna sia stata colonizzata partendo da Lavarone, dato che fin verso la fine del XVIII sec. Lavarone e Luserna
formavano un unico comune; inoltre una delle molte frazioni di Lavarone porta il nome Nicolussi, un’altra Gasperi. Ma proprio questo suggerisce che i primi coloni di Luserna abbiano portato i loro cognomi già da Lavarone. Dato che
complessivamente si riscontrano a Luserna solo i 3 cognomi sopra indicati, oc-
Aspetti storici
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corre aiutarsi con nomignoli o soprannomi per identificare una persona con
precisione. Questo serve di più per i Nicolussi, poi anche per i Gasperi; i
Pedrazza non hanno soprannomi, almeno nessuno che venga utilizzato anche
in via ufficiale. Un tale nomignolo o soprannome è tra l’altro Khnap e in forma
diminutiva Kneple (it. Caneppele). A Lavarone troviamo ugualmente
“Caneppele”, ma come nome della casa. In questo sembra si possa ravvisare un
cenno all’attività mineraria di una volta, infatti una conca valliva presso
Luserna viene chiamata Milegrua (it. Millegrobe), e nei dintorni di Luserna si
trovano singole scorie di metallo; anche alcune leggende sembrano poggiarsi
sul ricordo dell’attività estrattiva, ad esempio schnaidarla (V, 29). Se vi è una relazione tra la tentata attività mineraria con l’insediamento di Luserna oppure
se essa veniva già svolta prima, da Lavarone, non è possibile dirlo per mancanza di notizie certe. Del resto si interpreta il nome di milegrua(b)m anche come “Milchgruben” (cfr. lus. mile nel linguaggio infantile di solito milch = latte).
Definire quest’alpe, consistente di svariate conche simili a fosse, “fosse del latte” per l’attività casearia sarebbe anche più naturale che derivare il nome dalla
composizione dell’italiano “mille” con il tedesco “grua(b)m”. Sul nome
di casa “Pedrazza” la tradizione popolare afferma che derivi da una famiglia che
sarebbe immigrata dopo i primi coloni di Luserna, dal Laimtal (it. Terragnolo).
Questo però viene contraddetto da un’iscrizione nel registro dei battezzati di
Luserna (Tom. I) del 9 settembre 1763, dove appare un battezzato quale
“Joannes, filius Petri quondam Christiani de Gasperis dicti Pedrazza». Una volta era diffuso un quarto nome di casa a Luserna, cioè “Osele”, che a Lavarone
esiste ancora come nome di frazione.
Come già menzionato, i lusernesi per molto tempo non avevano una chiesa o un loro curato. Dovevano recarsi nella lontana chiesa parrocchiale di
Brancafora scendendo per un sentiero ripido, dissestato, e portare giù anche i
morti; altrettanto difficile e d’inverno spesso pericoloso era il percorso lungo
per matrimoni e battesimi. Perciò è comprensibile che i lusernesi cercassero di
ottenere una loro chiesa con un curato stabile. Dall’ordinariato vescovile di
Padova ottennero il 20 agosto 1711 il permesso di costruire una chiesa che venne inaugurata, ultimata la costruzione, il 7 ottobre 1715. Solo nel 1745 raggiunsero l’istituzione di una curazia con residenza stabile; i registri dei battezzati di
Luserna iniziano il 13 luglio 1745, quale curato in carica appare Simon à via
(Straßer), un nome che si riscontra nella Val d’Astico e viene scritto Strazzer in
italiano. La chiesa finora utilizzata presto si rivelò piccola. Venne dunque ampliata e subito accanto venne ubicato il cimitero dal lato est fino al lato sud. La
chiesa e il cimitero vennero consacrati il 7 ottobre 1782 da Adami, parroco a
Brancafora, con autorizzazione vescovile. Il curato di allora, Giacomo
Valzorgher (anche un nome che si riscontra nella Val d’Astico) iscrisse in lingua
italiana l’atto di consacrazione nel registro dei battezzati. Pare strano che già allora venne dato al semplice parroco di Brancafora il titolo altosonante di “arciprete”. Con la parrocchia di Brancafora e la curazia di Casotto, Luserna fece
parte della diocesi di Padova fino agli anni ottanta del XVIII sec. Ricordano
ancora questa appartenenza i due patroni ecclesiali a Luserna, Sant’Antonio di
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Luserna: c’era una volta
Padova e Santa Giustina, inoltre il giorno della consacrazione, che tutte e due
le volte cadde sul giorno commemorativo di Santa Giustina (7 ottobre).
Lavarone tuttavia, alla quale Luserna era subordinata politicamente, ma non ecclesiasticamente, con quasi l’intera Valsugana faceva parte della diocesi di
Feltre, dunque addirittura di un ambito ecclesiastico diverso da quello di
Luserna.
Da quando i lusernesi ottennero una loro chiesa ed un curato si ebbero svariati litigi con i parroci di Brancafora che ribadivano con energia i loro diritti
parrocchiali perfino in casi in cui non erano più fondati a causa della curatia
propria istituita a Luserna; i superiori ecclesiali più di una volta si videro costretti ad intervenire: così il 17 maggio 1745, il 16 aprile e l’8 giugno 1748; il curato in questi casi stava dalla parte dei lusernesi. Perfino oggi alcune diatribe
non sono ancora appianate, anche se i parroci di Brancafora hanno dovuto ridurre sempre di più le loro pretese nel corso del tempo.
Nel 1780, Luserna divenne indipendente dal comune di Lavarone, con
l’assegnazione di una parte molto esigua del terreno comunale finora gestito in
comune. Allora, la popolazione di Luserna deve dunque essere stata di numero ancora molto ridotto; oggi, visto il rapporto tra gli abitanti dei due comuni,
Luserna avrebbe diritto ad un terzo dell’intero terreno comunale.
I curati svolsero il loro incarico a Luserna senza riguardo alla lingua della popolazione. Benché singoli comprendessero e parlassero il dialetto di
Luserna, nella chiesa e nella scuola tuttavia veniva usato esclusivamente
l’italiano. Questo lo ribadisce oggigiorno spesso e volentieri il gruppetto dei
locali schierati con gli italiani, quando si tratta di tuonare contro la “brutale
oppressione della popolazione operata dai tedeschi” e contro la “germanizzazione”. Nel 1862 infine venne a Luserna, come curato, un sacerdote tedesco,
Franz Zuchristian, oriundo di Oltradige presso Bolzano. Quanto si meravigliò
di trovare nel suo attuale posto da pastore un dialetto tedesco (prima, fino al
1857, era stato curato a Faogna di Sotto, poi beneficiario a Magrè). Pubblicò
questa “scoperta” su vari giornali, in modo molto approfondito sul “Boten f.
Tirol und Vorarlberg”. In seguito, a Pasqua del 1866, visitarono l’isola linguistica il prof. dott. Ignaz Zingerle, raccoglitore appassionato di tradizioni popolari in Tirolo, e Chr. Schneller, allora professore di liceo a Rovereto, in seguito ispettore scolastico regionale di Innsbruck, che si era reso benemerito
della raccolta e pubblicazione di fiabe e leggende del Tirolo italiano nonché
delle ricerche sull’onomastica tirolese. Di conseguenza, Luserna veniva provvista di libri scolastici tedeschi. Già il 4 maggio 1866 la scuola che fino ad allora era stata italiana veniva trasformata in tedesca. Dato che in precedenza
i curati, e fino al momento indicato anche il curato Zuchristian erano contemporaneamente maestri presso la scuola elementare italiana, non si poneva per
la trasformazione il problema dell’insegnante; Zuchristian continuò ora la sua
attività come insegnante tedesco, occupandosi delle classi superiori, mentre
nella classe inferiore era in parte impegnata la sua governante, Elisabeth
Spieß del Burgraviato, e in parte un dotato allievo della classe superiore.
L’innovazione non incontrò alcuna obiezione nella rappresentanza comuna-
Aspetti storici
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le, che si dichiarò anzi espressamente a favore, come del resto tutta la popolazione. Purtroppo questa serenità e unanimità non durarono molto a lungo
poiché nell’estate del 1878 arrivò a Luserna quale vicario un modenese che fece propaganda contro la scuola tedesca. In questa, il maestro a quel tempo
non era più il curato Zuchristian, ma un giovane di Luserna, Simon Nicolussi,
che nel frattempo aveva frequentato l’istituto magistrale ad Innsbruck ed era
stato chiamato come insegnante nella sua terra, dove è tuttora attivo in questa funzione. L’agitatore italiano avvicinò anche questo giovane insegnante,
chiedendogli di aiutarlo a rimuovere il curato Zuchristian dal suo posto.
Senz’altro si sarebbe poi dovuta togliere la scuola tedesca; l’insegnante avrebbe comunque potuto assumersi la scuola italiana e qualora lui, il vicario, fosse diventato curato, avrebbe saputo trovare i mezzi e le vie per ricompensarlo del suo aiuto. Ma l’insegnante rifiutò indignato tali pretese sconvenienti e
ben preso il vicario sparì da Luserna in seguito all’intervento del capitanato
di Borgo.
Il curato Zuchristian, che aveva un occhio aperto per le esigenze della popolazione povera di Luserna, ottenne con i suoi sforzi assidui che nel 1882 venisse istituita una scuola di merletti di tombolo e che questa nuova fonte di reddito tornasse a beneficio dei lusernesi. Solo che il fermento, una volta portato tra
il popolo, aveva ormai plagiato alcuni elementi malcontenti e arrivisti come ce
ne sono ovunque, e nell’autunno del 1883 si fecero notare le conseguenze della
loro attività sediziosa; poiché da quell’anno si ebbe una netta separazione in due
parti, cioè i sostenitori della scuola tedesca (i tedeschi) e i loro avversari (italiani). La lotta tra queste parti veniva spesso e volentieri condotta in modo assai
astioso, sfociando non di rado in avversità personali che minavano gravemente la pace dell’isolato comune di montagna, sicché gli animi agitati fino ad oggi
non hanno trovato pace.
Non occorre trattare ampiamente quello che si presuppone sia la molla di
questo movimento antitedesco a Luserna, dopo che il seme vi era stato impiantato nel 1878. Basti menzionare che l’attuale guida degli italiani a Luserna,
alla nascita della scuola tedesca, aveva imparato con diligenza la lingua tedesca colta, e la parla bene. Quest’uomo venne una volta mandato dal comune
a Trento, per una questione importante. Al rientro era completamente cambiato. Ora ad un tratto si vergognava della sua stessa madrelingua, vietava la lingua tedesca nella sua famiglia e introdusse l’italiano come lingua corrente. Da
quel momento sviluppò una frenetica attività per danneggiare la causa tedesca. Quando gli italiani nel 1884 riuscirono alle elezioni comunali di ingannare il partito tedesco e di compilare il numero decisivo di schede elettorali a loro favore, la causa tedesca sembrava sconfitta. La rappresentanza comunale
italiana si impegnava con ogni mezzo per eliminare la lingua tedesca quale
lingua di insegnamento, cioè per abolire la scuola tedesca. Con massime come
«per le esigenze del paese occorre soprattutto la lingua italiana, quella tedesca
è invece utile solo in secondo luogo specie per i ragazzi, mentre per le ragazze
è superflua», i nuovi potenti del comune cercavano di guadagnare il popolo
per i loro veri obiettivi, nascondendo però il piano effettivo. Lo stesso anno
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Luserna: c’era una volta
(17 dicembre 1884), la rappresentanza comunale presentò un’istanza riguardante la scuola tedesca al consiglio scolastico provinciale. In essa si afferma che
nei dintorni di Luserna si parlerebbe e si comprenderebbe solo l’italiano, che
l’italiano sarebbe anche la lingua delle autorità, e poi da tempo immemorabile anche la lingua locale della chiesa; il dialetto di Luserna sarebbe stato usato sempre solo in secondo luogo; si ammette che in questo “dialetto rozzo” si
incontrerebbe qualche radice derivante dal tedesco, prevarrebbero tuttavia le
radici italiane. Il dialetto sarebbe inoltre privo di ogni regola grammaticale,
per cui non capace di sviluppo, e ostacolerebbe addirittura lo studio del tedesco; non si desidererebbe comunque aprire dibattiti linguistici. La scuola tedesca non avrebbe riportato fino a quel momento neanche un minimo successo.
I ragazzi, a scuola ultimata, non comprenderebbero né il tedesco, né l’italiano;
ne risulterebbe un imbarbarimento religioso e morale, qualche ragazzo, a scuola ultimata, non saprebbe neanche le preghiere più importanti. Il comune pregherebbe dunque che nelle classi superiori sia dei ragazzi che delle ragazze
venissero impiegati docenti che fossero qualificati per la lingua italiana e che
avessero l’impegno di insegnare questa lingua ogni giorno per un’ora e mezza, inoltre che la catechesi venisse impartita solo in italiano. Nel caso questa
richiesta non fosse accolta, i rappresentanti comunali chiederebbero l’autorizzazione di istituire con fondi comunali una classe superiore rispettivamente per i ragazzi e per le ragazze, con l’italiano come lingua d’insegnamento; per
contro il comune dovrebbe essere esonerato da ogni contributo per la scuola
tedesca.
In merito a questo giudizio sul dialetto di Luserna cfr. infra il capitolo VI, in
particolare i testi dialettali. Nella menzionata istanza si fa anche valere contro la
scuola tedesca il fatto che i ragazzi non comprendono le spiegazioni tedesche
della catechesi. Per mia esperienza personale di sei anni, posso affermare che è
vero il contrario: nella scuola tedesca le spiegazioni della catechesi sono meno
faticose che in qualche scuola di montagna del Tirolo tedesco; invece non si approda a nulla nella scuola di Luserna con le spiegazioni italiane di catechesi nelle classi inferiori; anche la maestra italiana doveva utilizzare la sua conoscenza
linguistica del tedesco per spiegare ai piccoli i concetti con questo mezzo. Tali
esagerazioni nell’istanza, lo sminuire della propria madrelingua a spese della
verità, privilegiando l’idioma italiano straniero, dimostra quanto ci si sforzi a
trovare una parvenza di prova; ma chi prova troppo, non prova nulla.
In questo anno 1884, Luserna vide tre curati; Franz Zuchristian, che nell’inverno si dimise dall’incarico per motivi di età, poi Giuseppe Fruet, che vi rimase fino all’autunno. A lui seguì Joh. Bapt. Detomas fino all’anno 1886. Era di nazionalità italiana, ma aveva una perfetta padronanza anche del tedesco. Era un
uomo calmo, mite, per cui la sua posizione a Luserna in questo periodo movimentato era motivo di grande imbarazzo per lui.
Oltre che alla scuola tedesca, agli italiani era invisa anche la scuola dei merletti di tombolo; era un’istituzione tedesca, per la popolazione un beneficio e
per questo atta a destare viva la simpatia della popolazione per i tedeschi. Gli
elementi dominanti della rappresentanza comunale cercavano pertanto di ren-
Aspetti storici
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dere impossibile l’esistenza di questo istituto a Luserna, creando varie difficoltà. I tedeschi, in primo posto David Nicolussi Castellan, si impegnavano energicamente a favore dello stesso. Così si ebbero nuove liti e perfino un processo
che si protraeva nel tempo.
Così, la rappresentanza comunale filoitaliana aveva fatto tentativi per raggiungere le sue mete, ma senza ottenere un granché. Nel frattempo si avvicinava sempre di più il momento di nuove elezioni comunali (27 novembre 1887).
Entrambi i partiti dovevano ora prepararsi all’evento e mobilitare tutte le forze
disponibili. Il culmine dell’attività si ebbe nella notte precedente il giorno delle
elezioni. Dato che i filoitaliani erano al timone, erano in vantaggio nei confronti dei tedeschi, avevano influenza decisiva nella nomina dei membri della commissione elettorale, nella stesura delle liste ecc. Il maestro Simon Nicolussi studiava molto attentamente la legge elettorale per impedire eventuali irregolarità
ed evitare un annullamento delle elezioni previste. In questo modo si diffondeva una rigida disciplina tra gli elettori e un vivo interesse come forse si riscontra raramente in comuni di campagna. A Luserna era risaputo che gli italiani
tentavano di comprare voti, il che dimostra i loro sforzi per salvare il loro stato
patrimoniale. Il curato era allora Johann Steck, ora parroco a Magrè e consigliere provinciale, che di recente, sotto uno pseudonimo (Hans Etschwin), ha sorpreso gli amanti della bella letteratura con la poesia epica “Säben” (Sabiona). Egli
dovette reclamare il suo diritto al voto dato che era stato ignorato nelle liste elettorali. L’elezione portò alla vittoria dei tedeschi; il rapporto dei voti era il seguente:
Corpo
elettorale
Aventi diritto
Voti espressi
al voto
Tedesco
Italiano
III
148
74
40
34
II
35
19
11
8
I
12
6
6
-
Va aggiunto che l’elezione si svolse in un periodo in cui molti erano assenti
perché impegnati in lavori altrove (vedi capitolo III). Alcuni di essi vennero ben
chiamati anche da distanze considerevoli, ma non si poteva pretendere un tale
sacrificio da tutti; ci si accontentava dell’attenzione per raggiungere una maggioranza di voti. Ma sebbene modesta, questa vittoria suscitò grande giubilo tra
i tedeschi, veniva continuamente commentata e festeggiata in allegria, con del
vino.
Alle seguenti votazioni (1890) gli italiani parteciparono solo nel terzo corpo
elettorale, ma senza successo; nell’anno 1893 e nelle elezioni che seguirono 6 anni dopo (11 gennaio 1900) non fecero nemmeno più un tentativo. Invece, si rivolsero all’associazione scolastica italiana “Pro patria”, raccolsero firme e gliele
inoltravano con la preghiera di una scuola italiana. La Pro patria invitò poi, con
articoli su alcuni giornali e con manifesti enormi ovunque, la popolazione al
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Luserna: c’era una volta
sostegno del Comune di Luserna italiano (!), gravemente minacciato dalle tendenze di germanizzazione. La petizione alla Pro patria sarebbe stata firmata da
56 capi famiglia, la Pro patria stessa indica il numero con «ben 60», che «hanno
oltre 90 ragazzi in età scolastica» (ricorso della Pro patria contro il Comune di
Luserna 24 nov. 1889). Più avanti faremo luce sulla faccenda dei “ben 60” capi
famiglia e “90 ragazzi in età scolastica”. L’appello ebbe successo; nel Tirolo italiano veniva considerato una questione d’onore soccorrere il Comune di Luserna
“italiano” minacciato. Intanto si acquistò terreno edificabile a Luserna, e il 6 agosto 1889 la Pro patria presentò una richiesta di licenza edilizia. Sulla storia seguente fino all’apertura della scuola italiana dispongo di oltre 50 pratiche, in
base alle quali vorrei brevemente delineare il seguito. La rappresentanza comunale ora tedesca non aveva fretta di evadere la richiesta edile e cercava piuttosto di sventare il progetto della Pro patria. Questa però nella sua impazienza
non poteva aspettare l’evasione della sua richiesta edile e voleva invece iniziare subito la costruzione. Il 31 agosto 1889 era indetto come giorno di festa per la
posa della prima pietra. Allo scopo si riunirono a Luserna numerosi signori e signore di Rovereto, Calliano, Trento, Borgo e Lavarone. Di mattino presto, colpi
di mortaretto annunciarono la giornata di festa; ma il giubilo venne soffocato
sul nascere; i tiratori dovevano immediatamente presentarsi nella cancelleria
del comune dove vennero messe a verbale le loro dichiarazioni e venne notificato un decreto ai due capi degli italiani, che vietava la costruzione, pena un’ammenda di 100 fiorini, anche se la costruzione consistesse solo nella posa della
prima pietra. I due destinatari di questo decreto si degnavano ora di presentare una richiesta scritta, ma invano. In assenza del sindaco, i provvedimenti erano stati presi dall’insegnante e segretario comunale S. Nicolussi che nel frattempo aveva fatto avvisare il sindaco David Nicolussi-Castellan che si tratteneva
nel “Wiesele”. Il sindaco giunse con Jakob Nicolussi-Galeno, ed entrambi si recarono immediatamente nella cancelleria del comune. Lì ben presto si presentarono alcuni partecipanti alla festa chiedendo il permesso per la posa della prima pietra e per la relativa festa. Il sindaco sottopose loro il decreto penale
ricevuto. Volevano contrattare ma il sindaco dichiarò che non avrebbe ribassato la multa comminata neanche di un centesimo. Minacciavano di prendere di
mira il sindaco su tutti i giornali, al che egli rispose tranquillo: «O, non mi fa
proprio niente; sono talmente abituato a ciò che ci rimango male quando non
succede». Ora la delegazione ne ebbe abbastanza; al loro ritiro, uno esclamò rabbioso: «Questo qua è il diavolo, non si ottiene niente». La festa era terminata.
Il 12 novembre 1889 infine, il comune diede risposta negativa alla richiesta
edile, e in lingua tedesca. La Pro patria vi fece ricorso, ed ora si susseguirono vari scritti di autorità, tentativi di giustificazione da parte del comune; tra l’altro
al comune venne ordinato (6 dicembre 1889) dalla giunta provinciale di comunicare con le autorità e comuni del Tirolo italiano in lingua italiana. Si era ben
capito che la questione edile veniva ritardata di proposito dal comune; perciò il
20 gennaio 1890 veniva comminata una pena pecuniaria di 20 fiorini al sindaco
David Nicolussi-Castellan. I motivi e le obiezioni presentate dal comune contro
la costruzione venivano definite insufficienti e irrilevanti; tuttavia non c’era ver-
Aspetti storici
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so per convincere il comune a rilasciare la licenza edilizia. Perciò la giunta provinciale stessa il 28 febbraio 1890 evase infine la petizione della Pro patria a suo
favore. Due mesi dopo venne anche presa la decisione sulla questione linguistica di Luserna dalla suprema corte amministrativa, dopo che il comune aveva
presentato ricorso (1 febbraio 1890) contro l’ordine sopra menzionato della giunta provinciale. Con la sentenza di questa istanza suprema venne confermato il
provvedimento della giunta provinciale in merito all’evasione tedesca della richiesta della Pro patria, ma sospeso il suo ordine generale di evadere le pratiche
per il Tirolo italiano solo in lingua italiana. A quanto pare, questa decisione soddisfece entrambe le parti a Luserna: il comune era contento di aver raggiunto almeno qualche cosa, mentre gli avversari pensavano di aver vinto la questione
principale. L’edificio scolastico italiano venne iniziato subito dopo l’arrivo
della licenza edilizia; ma anche per i tedeschi non erano più adeguate le aule
scolastiche utilizzate fino a quel momento. Trovarono nell’Allg. Deutscher
Schulverein un benefattore generoso che donava i mezzi per la costruzione di
una nuova scuola e per la gestione di un asilo.
A metà di aprile venne inaugurata la scuola privata italiana nella quale entrarono 27 ragazzi in età scolastica. Negli anni seguenti questo numero aumentò a 46, poi diminuì, e calò a 24 nel 1904. Quale divario tra queste cifre rispetto
ai “90 ragazzi” che i sopra menzionati “ben 60” capi famiglia pretendevano di
avere! A Luserna si trovavano anche membri paganti della “Lega Nazionale”
(erede della “Pro patria”), ed era noto che il loro numero non raggiungeva nemmeno due dozzine, che di questi quasi la metà erano bambini in età scolastica e
ancora più giovani, uno addirittura in culla, che anche questi bambini nella Lega
Nazionale venivano chiamati, come gli adulti, “signor” e “signora”, che non tutti i membri sapevano di questa appartenenza alla Lega. Evidentemente tale manovra doveva far sembrare più alto il numero dei filoitaliani di quanto non lo
fosse in realtà. Si presume che la situazione sia analoga per i “ben 60” capi famiglia.
Mentre si lavorava ancora al nuovo edificio scolastico tedesco, avvenne
l’inaugurazione dell’asilo tedesco (nel maggio 1893). Era provvisoriamente sistemato in un’ampia sala dell’appartamento degli insegnanti; quale prima maestra vi operava la signorina Mathilde Andrè (ora sposata v. Unterrichter). A lei
toccava il compito gravoso di abituare i piccoli a questa novità e di educarli per
la scuola. Lo assolveva brillantemente, con piena soddisfazione degli ispettori
scolastici distrettuali e con la gioia dei genitori; perfino gli avversari riconobbero apertamente la sua bravura. Ancora adesso i lusernesi conservano un buon
ricordo di lei. Anche le sue succeditrici si adoperavano per i bambini con zelo e
abilità.
Il 15 ottobre 1894 si poté occupare il nuovo edificio scolastico tedesco. Con i
suoi muri spessi si presenta come una fortezza; a piano terra contiene due sale
spaziose ed alte per l’asilo, al primo piano due aule e al secondo piano due appartamenti separati per le insegnanti della scuole elementare e dell’asilo. Nella
scuola elementare hanno operato per alcuni anni varie insegnanti, ma nessuna
si è guadagnata, per amore per la professione, per l’abilità nell’insegnamento e
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Luserna: c’era una volta
per una lunga perseveranza nell’importante posizione, il rispetto dei lusernesi
quanto la signorina Luise Frick che è ancora lì attiva. La frequenza della scuola
tedesca può essere considerata buona, nonostante la presenza della scuola italiana di opposizione. Il numero degli alunni dal 1893 non era mai sotto i cento.
Attualmente (1904) ognuna delle due classi conta più di 60 ragazzi.
Come risulta da quanto detto, specialmente David Nicolussi-Castellan si è
sempre dimostrato, nei tempi tormentati delle lotte nazionali, un difensore della causa tedesca. Nel 1887 per la fiducia della popolazione era stato posto alla
guida del comune. Solo su suo espresso desiderio impellente di potersi dedicare per qualche tempo di più alle faccende domestiche, si giunse nel 1893 alla decisione di cambiare il sindaco, scegliendo Jakob Nikolussi-Galeno, una figura
imponente, l’immagine di un uomo pieno di forza, un carattere retto, aperto.
Egli diede alla sua osteria il nome del suo eroe preferito Andreas Hofer. Troppo
presto la morte lo portò via. Il suo successore nella carica era Joh. Bapt.
Nicolussi-Paulaz, che purtroppo, a causa delle circostanze, per buona parte dell’anno non poteva soffermarsi a Luserna e dunque poteva occuparsi delle vicende comunali solo a periodi. Gli subentrò il molto giovane, ma abile Max
Nicolussi-Galeno, figlio del summenzionato Jakob, dal carattere onesto e con
una cultura che si trova raramente nei paesi di montagna. Alla sua morte precoce in seguito a disgrazia veniva pianto dappertutto. Gli succedette di nuovo
il grande maestro David Nicolussi-Castellan nelle cui mani è ancora oggi la direzione del comune.
Un avvenimento festoso nella storia più recente di Luserna è stata l’illustre
visita dell’arciduca Eugenio il 27 luglio 1903. Quasi cento anni fa l’arciduca
Giovanni aveva visitato Schlege (Asiago) “cimbro”, ed ora anche Luserna si pregia di aver ricevuto tra le sue mura, con grande entusiasmo e festosamente, un
membro della casa imperiale.
III
I LUSERNESI E LA LORO ABITAZIONE,
IL CIBO E IL MODO DI VIVERE
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
A. Costituzione fisica e costume tradizionale
45
8
Ats Lusérn das alt gerüsta is gånt vorlort, ma boast bia ’s is gest gemacht umbrom ’s
issas khent au kontar.
Dar Bacher khüt ke in di seln djar di månnen soin hèrta gest um di bèlt zo arbata un
asó håmsa augenump ’s gerüsta von åndarn laüt un di baibar håmen au-gevlikt
selbart di konsött pit gekhovaz geplettra, åna mear zo machas selbar in haus.
I lusernesi sono generalmente di alta statura e hanno muscoli ben sviluppati. Anche nel sesso femminile non di rado si incontrano persone alte, tuttavia prevale tra di loro la statura media. Raramente si trovano comunque persone piccole. La carnagione del viso è fresca, bianca e rosea, anche fino ad
un’età avanzata. Qua e là appaiono facce robuste, di colorito scuro, che vengono chiamati dar schwarz sia che si tratti di uomini o di donne (dunque con
l’articolo maschile; salta agli occhi il o, mentre uno si aspetterebbe, come in
altre parole, la “a” del medio alto tedesco). I capelli sono per lo più di un biondo scuro, meno spesso neri e più raramente ancora castani; capelli di un biondo chiaro o rosso acceso si trovano solo in singoli casi tra gli adulti. I bambini tuttavia sono in principio per lo più di un biondo dorato, ma già nell’età
scolastica i capelli diventano un poco alla volta più scuri. Gli occhi sono prevalentemente grigi scuri, in un numero significativo di lusernesi anche “neri” (come si definisce normalmente questo colore scuro degli occhi), l’ideale
di bellezza dei lusernesi; inoltre ci sono, in quantità decrescente, occhi castani, di color castano-ocra (grelate) e grigi-blu, raramente si trovano occhi di un
bel blu. Sono molteplici anche le combinazioni tra il colore degli occhi e quello dei capelli. Vi sono persone biondo-scure dagli occhi neri, nere dagli occhi
blu-grigi, castani scuri e neri. Il naso è in genere dritto, di lunghezza media,
raramente curvo. Non si incontrano spesso nasini schiacciati. La bocca è comunemente di media grandezza; una bocca grande è considerata un’eccezione alla regola che viene notata e grossolanamente chiamata mumpft troge (boccata trogolo). È abbastanza rara anche una bocca piccola. Le labbra non hanno
niente che dia nell’occhio, sono né carnose né sottili, e neppure si nota una
particolare sporgenza degli zigomi o della mascella. I denti sono dritti e relativamente in asse gli uni sopra gli altri. Il viso è per lo più ovale, raramente
tondo. Data la costituzione robusta, non di rado vengono dichiarati abili tutti i giovani alla visita di leva. Non si hanno persone deformi o malaticce. Una
8
Il Bacher descrive con ricchezza di particolari l’aspetto fisico e le caratteristiche degli abitanti di Luserna, fatto questo che non deve stupire in quanto all’epoca discipline come
l’antropometria e gli studi sui legami fra caratteristiche fisiche e comportamentali (si pensi alle opere di C. Lombroso e A. Bertillon) godevano di notevole seguito all’interno della comunità scientifica.
46
Luserna: c’era una volta
volta sposate, le ragazze di norma invecchiano rapidamente, il che è probabilmente dovuto – oltre al duro lavoro, all’alimentazione povera e ai molteplici pensieri – anche al lungo allattamento dei bambini che dura fino al quarto anno di età.
Figura 2: David Nicolussi Castellan.
Fonte: “Die deutsche Sprachinsel Lusern”.
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
47
L’immagine raffigura è un esempio per il tipo di volto maschile; il tipo
femminile è mostrato più avanti nell’immagine con il costume tradizionale, a pag. 41 9.
Benché Luserna fosse molto isolata, non si è conservato l’antico abbigliamento. Nel sesso maschile è stata soprattutto l’attività lavorativa all’estero che
ha comportato la modifica; la maggior parte dell’anno i lusernesi devono soffermarsi in terre lontane e preferiscono procurarsi lì un abbigliamento che non si
distingua dagli altri e che poi, per fare economia, viene indossato anche a casa.
Tuttavia, non pochi lusernesi andavano forse fieri di questi vestiti ritenuti migliori e più eleganti. Le donne venivano influenzate dai dintorni immediati nonché dal fiorire delle fabbriche. Trovavano che le stoffe di fabbrica erano meno costose e più piacevoli di quelle prodotte in casa. Ma alla maggiore raffinatezza
delle stoffe non si addiceva più il taglio di una volta, sicché il costume antico è
tramontato ormai più di una generazione fa. Come era fatto, lo sappiamo dalla
tradizione orale, nel sesso femminile anche da rimanenze di pezzi di vestiario
che tuttavia ben presto scompariranno del tutto. Io riferisco quanto ho potuto
apprendere in merito dai racconti della gente.
Gli uomini portavano pantaloni corti, ogni tanto anche in pelle, un gilet rosso (korpét), una giacca con lunghi lembi nella parte posteriore, lunghe calze bianche fin sopra il ginocchio e scarpe con fibbia di domenica, scarpe di legno invece nei giorni feriali. Per coprire il capo usavano un largo capello nero o
portavano il berretto a punta (hås) con lunga nappa. I pantaloni venivano lavorati in lino colorato, il gilet in velluto rosso, la giacca in mezza lana (lana con filato colorato intessuto).
Il costume femminile non era invece così semplice. Nelle donne, già il copricapo richiedeva maggiore cura. Le donne di Luserna portavano 4 - 5 trecce, di
cui 2 - 3 dietro e 2 davanti. Da un orecchio, passando per la sommità del capo,
fino all’altro orecchio tiravano la scriminatura a forma di mezzo cerchio. Le trecce anteriori venivano portate all’indietro e fissate sulla parte posteriore della testa con spilloni, dopodiché vi venivano avvolte attorno le trecce posteriori di
modo che coprissero possibilmente l’intera nuca, mentre in tal modo da davanti la capigliatura si presentava liscia, pettinata indietro. Qua e là ancora oggi alcune donne anziane di Luserna portano i capelli in questo modo. Sulle trecce veniva posto il fiok (nappa), che però era un semplice nastro in seta, l’argenteo
zitrar (il “tremolante”), due palline più grandi di piselli su fili metallici a forma
di spirale; egualmente argentee erano le koraretschje (forcelle a forma di spada)
fissate incrociate, lo steft (perno) e il kotschu (goccia), cioè due sfere della grandezza di ciliege, collegate da un asse lungo ca. 10 cm. La gonna una volta veniva confezionata dalle donne di Luserna nel modo seguente: cucivano una polák
(corpetto) al quale fissavano le maniche per mezzo di cordicelle; così risultavano tante piccole patte attorno al braccio. Il seno veniva coperto con una vürplez
(pettorina) ricamata, come la portano ancora oggi le donne del Ticino. Le don-
9
In questa versione del testo, l’immagine si trova a pagina 49.
48
Luserna: c’era una volta
ne sposate avevano attorno al collo un bavero bianco che arrivava a coprire le
spalle. Sotto le pieghe della gonna era fissata la boldù per rendere la gonna ampia ed indicare fianchi formosi. Le boldù erano cuscinetti riempiti con trucioli.
Il grembiule (s’vürta) era rosso, fatto di filato cambrì. I piedi venivano coperti
da calze bianche e scarpe basse. Questo era l’abbigliamento della domenica.
Durante la settimana le donne di Luserna portavano una gonna di filato tinto nero e il grembiule di filaccia filata. Ai piedi portavano scarpe di legno o feltro e
in testa un fazzoletto color scuro.
Il bavero, negli uomini, era cucito sulla camicia; nella parte anteriore si eseguivano su entrambi i lati 2 - 3 piccole cuciture. Le camicie delle donne venivano fatte di lino grezzo e ornate al collo e alle maniche con pizzo bianco. – Per il
ballo le ragazze si presentavano in gonna rossa, chiamata valèsch. – Il vestitino
dei bambini era una camicia bianca, con sopra una gonnellina anch’essa bianca,
tenuta da nastri a mo’ di bretelle.
L’abbigliamento maschile, dopo l’abbandono del costume antico, è lo stesso
di quello borghese-cittadino di altre località, ma segue di più il gusto tedesco
che quello del Tirolo italiano. Nelle donne il costume successivo non era più caratteristico come quello vecchio, ma conservava ancora qualche peculiarità. La
capigliatura, fino a 30, 40 anni fa, era rimasta come sopra descritta. Le strette
maniche della giacchettina presentavano fitte pieghe cucite dalla spalla fino al
gomito. La giacchettina poggiava stretta in vita. Le gonne erano ampie, i grembiuli larghi e lunghi. Durante la settimana si portavano gonne fatte di filato di
bioccoli di lino, prodotto in casa 10; per la combinazione fine dei colori naturali
rosso e blu avevano un delicato aspetto mélange. Le giacche comunque, anche
quelle dei giorni feriali, venivano fatte di stoffa comprata. Il colore dell’abbigliamento domenicale era in prevalenza grigio e marrone. Fino a metà degli anni ottanta del secolo passato le donne e le ragazze, in estate, andavano a messa in maniche di camicia.
La coltivazione del lino non è praticata a Luserna, nonostante le condizioni climatiche
lo consentirebbero. Ai tempi del Bacher, comunque, la situazione era diversa e questa coltura era parte integrante dell’economia del paese.
In passato, infatti, come racconta Hans Nicolussi Castellan nel suo scritto “Luserna: la perduta isola linguistica”, la povera gente non poteva comprarsi la stoffa a causa della carenza
di denaro, perciò per confezionare i vestiti, utilizzava i mezzi di cui disponeva. Le donne
tosavano e filavano la lana, disponibile per la presenza di pecore, per creare tessuti per
vestiti e coperte; mentre per ottenere la tela per lenzuola, asciugamani e camicie coltivavano il lino che veniva poi filato in fili sottili. La “mezzla”, tessuto forte e durevole, veniva ricavata dalla tessitura di fili di lino e lana.
10
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
Figura 3: Donna di Luserna in costume tradizionale.
(Signorina Marie Gasperi, attualmente maestra a Proves).
Gli elementi non corrispondenti alla descrizione fanno parte di una moda
successiva, ma non ancora del presente.
Fonte: “Die deutsche Sprachinsel Lusern”.
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50
Luserna: c’era una volta
L’attuale costume delle donne di Luserna è in uso da ca. 30 - 40 anni. Si
utilizza ormai solo stoffa acquistata. Le gonne e le bluse sono per lo più di colore blu scuro, verde scuro e nero, raramente grigio. Le persone anziane portano ancora le giacchette corte fino in vita che negli abiti della domenica vengono fissate alla gonna, mentre durante la settimana vengono portate sciolte
e lasciate aperte davanti. Il polak (corpetto) viene usato comunemente nei giorni feriali, nei giorni di festa invece, tra le ragazze più giovani, cede il posto al
bustino. Anche in altri casi le ragazze più giovani seguono la moda più attentamente rispetto alle loro coetanee di campagna nel Tirolo tedesco. I grembiuli per i giorni di festa e di lavoro diventavano nuovamente stretti e corti. Il copricapo, per i giorni di festa e di lavoro, è sempre un fazzoletto colorato; solo
le ragazze più giovani si presentano in chiesa di domenica per lo più senza
niente in testa. Come calzatura le donne usano nei giorni di lavoro gli zokln 11
(scarpe di legno), zapedje (babbucce) e fötsch (scarpe di feltro). Gli uomini portano sempre le scarpe, le donne e le ragazze invece solo nei giorni di festa. Si
scorgono ancora qua e là le ciocche sopra l’orecchio legate alla capigliatura
più antica: girate a forma di disco, sembravano piccoli nidi e vengono chiamate menala. Non sono più di moda le due ciocche civettuole in fronte, che
venivano attorcigliate a mo’ di corno e per questo erano chiamate horn (corno);
le ragazze invece si accontentano ora di due trecce che vengono fissate dietro
alla testa. Nei giorni di festa portano al collo fettucce di color chiaro (rosso,
blu, bianco, marrone, nero vellutato, più raramente verde), a volte anche cordicelle di capelli con crocette. Di rado si vedono sottili catenine di oro e argento. Sono rari negli uomini gli orecchini, tanto più frequentemente si vedono
nelle donne e ragazze, ma sono comunque semplici, a differenza dai grandi
orecchini penduli, ornati di corallo rosso, delle italiane. Si usa comunemente
la spilla; è tuttavia un’eccezione se qualche ragazza ne porta 2, addirittura 3 (al
collo e più in basso, sul petto).
Ai matrimoni la sposa non porta né il grembiule bianco né la coroncina come si usa nel Tirolo tedesco, ma abiti neri; solo il grembiule tibet in genere è blu.
Non ci si preoccupa dunque più dei vecchi spraüch (detti) secondo cui porta sfortuna il color nero nel giorno del matrimonio. I foulard, di seta e relativamente
grandi, sono di colore vivace. Da alcuni anni la sposa a volte porta anche un
grembiule nero ornato con pizzo di seta, più raramente di lana, oppure rinuncia del tutto al grembiule e al foulard se non sembrano più adeguati al taglio
moderno dei vestiti.
Gli zoccoli venivano prodotti in casa dagli uomini che da un pezzo di legno duro costruivano la suola, su cui veniva inchiodata la “überschüa” in pelle. La parte inferiore della suola era provvista di chiodi di ferro perché si conservassero a lungo.
11
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
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B. L’abitazione
Di earstn haüsar vo Lusérn soin gest au-gemacht pit holtz
un di tecchar gedekht pit prettar.
’S lånt is khent herta gröasar un laise laise di haüsar soin khent
augemacht nützante herta meara khnot in platz von holz.
Chi arriva a Luserna sulla strada di Monterovere, incontra per prima la chiesa. È dedicata a Sant’Antonio di Padova, ma non può proprio essere chiamata
l’orgoglio dei lusernesi per via del suo aspetto fatiscente, specie dall’esterno dà
un’impressione molto povera 12. La torre è coperta da una mezza cupola. La cupola intera, che si trovava sopra la stessa, negli anni novanta del secolo scorso
è stata strappata da una violenta tempesta e scaraventata in strada.
La chiesa è costruita in stile pressoché romanico, porta sopra la navata una
volta a botte massiccia e sopra il presbiterio una di gran lunga più debole. Le finestre, poste molto in alto e piccole, hanno la forma di un rettangolo posizionato in verticale, il cui lato superiore si apre a forma di arco a tutto sesto. L’interno
si presenta disadorno e nudo. L’altare principale comprende solo la mensa e il
tabernacolo di bella lavorazione in pietra e lucidato con cura per cui prende
l’aspetto di marmo levigato con vene colorate. Su entrambi i lati del tabernacolo sono approntati tramezzi in legno, dipinti grossolanamente, per nascondere
dallo sguardo dei presenti il presbiterio che si trova dietro all’altare. In fondo del
presbiterio è appesa al muro l’ancona. Il tabernacolo e le tre acquasantiere non
si addicono al resto dell’arredamento della chiesa. Del tabernacolo riferisce
la tradizione orale che sia arrivato a Luserna come dono della chiesa di
Sant’Antonio di Padova. Si presume analoga la provenienza delle acquasantiere. La chiesa ha un solo altare laterale, cioè all’estremità orientale della bassa navata laterale. L’ancona qui è una statua in legno dell’Immacolata posta in una
nicchia del muro.
Le case più vecchie per la maggior parte sono costruite raggruppate. Hanno
marcati lati lunghi e lati cuspidali, e portano un tetto a due spioventi. Se isolati, i lati cuspidali sono murati fin su al comignolo. L’ingresso si trova sul lato
lungo che è sempre rivolto verso la strada 13. Per lo più però si può parlare di la-
12
Il Bacher annota: «Dato che la chiesa è anche troppo piccola, attualmente si stanno facendo preparativi per una nuova costruzione in stile gotico».
13
Nel testo “La casa villereccia delle Colonie Tedesche Veneto-Trentine”, Aristide Baragiola
sostiene che Luserna non differisca molto dai villaggi trentini e che presenti i tratti tipici dello Strassendorf, «cioè un villaggio con due file di case, fiancheggianti una strada» anche se «in
origine non doveva essere uno Strassendorf […] infatti le vecchie case sono fabbricate a
gruppi, l’uno dall’altro discosti, fra i quali si sono mano mano interpolate le successive costruzioni, in modo da formare col tempo un vero e proprio Strassendorf».
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Luserna: c’era una volta
to lungo solo nel senso che due o più parti abitative danno dall’esterno
l’impressione di una casa. L’usanza di separare una casa ereditata dal padre in
più parti abitative, con ingressi separati, si è conservata fino ad oggi. Se per
esempio due fratelli ereditano dal padre una sola camera (Stube), anche questa
viene divisa con un muro, e colui a cui per sorte tocca la parte senza ingresso ricava immediatamente una porta nel muro per cui abita con la sua famiglia separato dal fratello. Per questo e in seguito a aggiunte di fabbricati, non di rado
la forma originale della casa è stata notevolmente modificata. Nelle case a due
piani a volte la cucina situata al primo piano dev’essere usata anche dagli abitanti del secondo piano. D’altro canto sembra che più case siano state anche effettivamente costruite una attaccata all’altra: presentano lati cuspidali nelle estremità libere, hanno tetti a due spioventi, si distinguono però una dall’altra
marcatamente per l’altezza ineguale, per la sporgenza o la rientranza dei muri
principali rispetto a quelli della casa contigua.
Come abitazione serve spesso anche il pianoterra, che è generalmente un
vano coperto da una volta, chiamato rovólt. Sostituisce qualche volta, nelle
vecchie case, la cucina, il soggiorno (Stube) e la camera da letto con un unico
vano; qua e la il rovólt ha ben anche una stanza aggiuntiva, rare volte più di
una. Se lo spazio lo permette, il primo piano presenta oltre alla cucina anche
una “Stube” – che però serve pure da camera da letto –, e a volte una o più camere.
5
3
a
2
1
4
6
DA UNO SCHIZZO DEL MAESTRO S. NICOLUSSI
1. Kurt (corte) - 2. Slafhüt (capanna per dormire) - a. Biòsan (dal sing. Biòs giaciglio)
3. Vaür-Khesar (casara del fuoco o cucina) - 4. Milch-Hüt (capanna del latte)
5. Khes-Khesar (casara del cacio) - 6. Stiar-Stal (stalla del toro).
Figura 4: Schema della casa tipica di Luserna
Fonte: Aristide Baragiola "La casa villereccia delle Colonie Tedesche Veneto-Trentine”.
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
53
Le case più recenti 14 hanno una pianta quasi quadrata. Considerando lato lungo il lato della casa che scorre parallela al corto comignolo, si può dire
che sul lato cuspidale i muri non raggiungono, come nelle case vecchie, il colmo, ma fanno posto in alto, dove iniziano gli spioventi, ad una cuspide triangolare, che con la punta tocca l’estremità del comignolo accorciato. Raramente
questi triangoli del tetto sono più corti degli spioventi e di conseguenza i lati cuspidali murati in su fin sopra l’inizio del tetto. Come materiale si usa per
lo più legno nella costruzione dei tetti. Nelle case più vecchie, le scandole sono ancora sovrapposte a mo’ di scaglie e appesantite con pietre, in quelle più
recenti il tetto ha un aspetto più liscio, le scandole in legno vengono inchiodate in fila. A volte si usano come materiale di copertura anche piastre informi di pietra, come escono dalle cave; mancano del tutto tetti di mattone o paglia 15.
Se non basta lo spezzettamento dei vani abitativi, occorre mettersi a costruire una casa nuova. Questa viene progettata molto più grande di quanto serva al
presente, e si erigono i muri principali, che si cerca di coprire con un tetto al più
presto possibile. In un primo momento viene sistemato e arredato solo lo spazio strettamente necessario, ad esempio il pianoterra e una parte del primo piano, mentre ad esempio il secondo piano o più viene lasciato come costruzione
grezza. Se i figli del proprietario, crescendo, hanno bisogno di più spazio o suddividono la casa tra di loro come eredità, spetta a loro sistemare l’abitazione.
Come nelle case vecchie, a volte anche in quelle nuove l’ingresso non dà direttamente in cucina; più spesso comunque il pianoterra viene separato con un corridoio in due file di vani.
Anche le stalle si trovano per lo più al pianoterra della casa abitativa, a volte
si tratta di edifici separati in cui viene poi conservato il foraggio nei vani sopra
la stalla. Altrimenti si usa come spazio per le provviste di fieno, legna e simili, la
soffitta (di tetsch). Vi si arriva attraverso un’apertura simile ad una porta, sopra
l’ingresso della casa, oppure si sale dalla cucina su una håntstiage (scala) attraverso un buco predisposto nel soffitto che a volte deve servire anche da camino; viene chiuso con il robálz (asse di copertura). Attraverso questa apertura le provviste vengono trasportate in soffitta e all’occorrenza portate giù un po’ alla volta.
A pianoterra si trovano anche le poche cantine per il vino.
Dall’esterno, solo pochissime case hanno una copertura di malta, perciò gli
edifici si presentano per lo più come costruzione grezza 16. A ciò contrastano a volte
14
Aristide Baragiola racconta di aver visitato Luserna in due diverse occasioni, nel 1893 e
nel 1905. Egli sottolinea come «in dodici anni quel paesello alpestre (886 abitanti) […] non
ha subito nessun cambiamento nell’edilizia rustica».
15
A causa di un devastante incendio scoppiato il 9 agosto 1911 che danneggiò gran parte
dell’abitato, le caratteristiche scandole in larice ampiamente utilizzate a Luserna per il rivestimento dei tetti vennero progressivamente abbandonate a favore di rivestimenti in lamiera zincata, più resistenti al fuoco.
16
A causa della scarsità di acqua e sabbia, nonché della povertà degli abitanti, solo poche
case erano state intonacate.
54
Luserna: c’era una volta
elegantemente le scale in pietra lavorate con cura e precisione17. A Luserna non
mancano le pietre, a differenza da sabbia di qualità, da cui deriva l’aspetto delle
case. In molti casi comunque la copertura con malta e intonaco non servirebbe
dato che il fumo può uscire solo dalla porta d’ingresso, sporcando notevolmente
di fuliggine il lato esterno. Sul lato nord delle case si tralasciano completamente
le finestre di modo che d’inverno non possa entrare il vento freddo da nord.
La stanza di gran lunga più importante all’interno della case è la cucina,
chiamata comunemente haus dai lusernesi. Laddove non è entrata nelle
abitazioni la moderna cucina economica, il focolare è spesso costituito solo da una buca poco profonda nel pavimento. In presenza di un camino, il
focolare è leggermente rialzato e sopra
lo stesso si scorge un’enorme cappa (di
nap), che a volte è murata, ma più
spesso solo formata con travi in legno
(trem) come il soffitto della cucina, e
coperta da uno strato di fuliggine duro e lucente. Sulle travi del soffitto si
Figura 5: Scala di Luserna.
inchiodano delle assi, e il soffitto è
pronto. Spesso però i trem sono muniti con tavole (kantineln) poste di traverso, sulle quali vengono gettati poi pietre, ghiaia e simili per riempire gli
interstizi. Il soffitto preparato in questo modo tiene più caldo ed è meno
incendiabile, dato che viene rivestito
con malta nella parte inferiore.
Sopra il focolare pende dal soffitto
una forte catena di ferro (di hel) con
grandi anelli e due ganci forti, uno per
appendere il paiolo, l’altro può essere
inserito negli anelli più in alto o più in
basso. Attorno al focolare sono predisposte delle panche in legno per potersi
Figura 6: Tipico focolare di Luserna.
A Luserna è sempre stata fiorente l’attività della lavorazione della pietra, al punto che
gli scalpellini del paese erano molto ricercati anche altrove in quanto abili intagliatori.
Ancora oggi un retaggio di questa attività sopravvive nello stemma comunale, che raffigura una punta e un martello da scalpellino incrociati. Inoltre per le vie del paese è tuttora possibile vedere alcune testimonianze del lavoro di questi artigiani come ad esempio
la scala in pietra di via Roma.
17
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
55
scaldare comodamente. La cucina viene comunque usata molto come luogo di ritrovo, qui si lavora a maglia, a tombolo, si cuce, si lavora a uncinetto, qui il padre
di famiglia ripara i vari utensili o ne crea dei nuovi, qui scalpella scarpe di legno,
si cimenta nella produzione di botti di legno, costruisce rocche, gabbie dei polli,
slittini e culle, questo è il luogo per il filò nonché per fare la politica del paese, qui
si tratta, si loda, si critica, si condanna qualcheduno, si presentano scuse, qui si formano rapporti che possono avere una grande rilevanza per tutta la vita. Si, la cucina è il vano più importante della casa, è la casa (haus) nel senso vero e proprio.
Fa parte del suo arredamento lo
scaffale per le stoviglie (di stel), che accanto ai piatti ecc. porta in alto anche i
grandi paioli in rame (di feachtkhesldar), ma nasconde sotto i kazadreln (secchi in rame per l’acqua) e i zikln (contenitori per l’acqua in legno, simili a
tinozze). Questi ultimi vengono per lo
più costruiti nei Sette Comuni e provvisti di ornamenti bizzarri in lamiera
stagnata. Entrambi i tipi di contenitori
d’acqua vengono portati, com’è usanza tra gli italiani, con un ziklstà (bastone) poggiato sulla spalla, uno davanti,
uno dietro. Sotto i kazadreln e zikln stanFigura 7: La cucina.
no sul pavimento le pentole e sono appoggiati i khesldar (paioli in rame più piccoli), la cui parte interna rossa brillante
è rivolta verso l’osservatore. Nel khesl si cucina la pult (polenta), la patatan pult
(polenta di patate) e il petarlång (mosa di patate), si bolle i plètschan vor di sboi (cibo per maiali) o anche patate allo stesso scopo. Accanto ai khesldar appoggiano i
ramila (pentolini molto piccoli in rame) in cui si cucina i geschabata bröde o qualche altro süple (minestrina). I rari paioli in ferro vengono solo usati per scaldare
l’acqua per le pulizie ecc. Nei pfånen si prepara il caffè e si abbrustolisce la carne.
Anche i ula von kraut (vasi per cavolo) trovano posto qui, come i bassi tetschela fittili in cui si arrostisce carne o funghi o si cucina türtla (piccole torte). I löfl (cucchiai), perù (forchette) e messardar (coltelli), chiamati anche posan, vengono o messi insieme in un cestino oppure inseriti dietro listelli di legno fissati ad un’asse, i
cucchiai sopra, le forchette in mezzo e i coltelli nella fila più bassa. Inoltre si trova a volte in cucina anche un tavolo, nonché il schrai e un khast, nel quale vengono conservati bottiglie, bicchieri e alcuni attrezzi come tenaglie, trapani, martelli e simili; non manca nemmeno la kaponara (gabbia dei polli).
Nella Stube la cosa più vistosa è sempre una grande, larga loter (lettiera) che
nelle Stube piccole lasciava poco spazio ad altro 18. Al di sotto si trova una se-
Il Bacher fa notare che «nella vicina Italia si trova spesso lettiere molto più larghe ancora, che offrirebbero comodamente spazio a 4 persone per dormire».
18
56
Luserna: c’era una volta
conda lettiera (loterle), che scorre su rulli di legno (rödela) e viene in caso di bisogno estratto dalla parte dei piedi, sotto la grande lettiera. Il loterle serve per lo
più ai bambini come giaciglio, a volte anche alle ragazze adulte. Quando il loterle è inserito sotto il lotar ha l’aspetto di un grande cassone costruito grossolanamente in legno. Sono contrapposte la parte della testa e dei piedi delle due lettiere. Nella Stube si trovano inoltre un tavolo rettangolare e alcune sedie di
paglia; non sono usuali sedie in legno. La stufa è per lo più di argilla, più raramente vengono usate fornelle, ciò soprattutto quando il fumo dalla cucina economica viene condotto tramite tubi in lamiera nella stufa, dove deve attraversare i vari reparti e estendersi ovunque prima di poter evadere. Dove si cucina
molto o dove si cuoce il cibo per gli animali basta un siffatto riscaldamento, altrimenti stufe di questo tipo possono essere scaldate come quelle normali.
Raramente si trovano panche attorno alla stufa. Inoltre nella Stube si trova per
lo più la lade, una cassa in legno con copertura. Un pezzo d’arredamento caratteristico è il maur-khast a base triangolare, che è fatto su misura per un angolo
della Stube e la riempie come prisma trilaterale. In esso si conserva lo zucchero,
il caffè, s’ sekhla von salz nonché l’olio combustibile e da tavola. Anche il schrai è
più spesso nella Stube che in cucina. Assomiglia abbastanza alla lade, ma è più
alto e contiene due o tre reparti per la farina di frumento e mais, nonché per il
riso, mentre la lade ha un vano unico per biancheria, vestiti, lettere e documenti; in essa vengono custoditi anche i soldi. A volte si trova nella Stube un khast in
di maur, cioè una nicchia nel muro, chiudibile con porticine in legno, a volte rivestita con tavole in legno. Viene usato come il maurkhast.
Non si trovano a Luserna Stube rivestite con pannelli in legno; sono rare anche le tavole con piano ribaltabile, mentre entrambi sono usuali in molte Stube
contadine del Tirolo tedesco. A Luserna sono appesi ai muri nudi, che spesso
hanno perso da tempo il loro intonaco bianco, diversi santini, corone, medaglie,
fotografie e vari soprammobili, nonché lavori d’intreccio degli allievi dell’asilo
tedesco. Non manca neanche l’acquasantiera nella Stube e a volte si scorge perfino un orologio da parete.
Le camere, che durante il giorno rimangono quasi isolate dalla vita casalinga, sono arredate in maniera molto povera e servono inoltre spesso come magazzino per oggetti di ogni tipo e per alimentari che non si possono tenere in cucina e nella Stube. Abbiamo già parlato innanzi della soffitta e del suo utilizzo,
come pure dei vani a pianoterra quando servono da abitazione, cantina e stalla;
inoltre vengono utilizzati per la conservazione di lettiera e di attrezzi per i lavori campestri, come pure di patate, crauti e altre verdure.
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
57
C. L’alimentazione
’ S geessa von lusernar is gest arm, sa håm gest bas sa håm gehat: pult, patatn,
patatanapult, gerst, virtzan, khes, sbem, ecc.
Per quanto riguarda il cibo, i lusernesi si accontentano di poco. Hanno in comune (come una gran parte della Valle dell’Adige tedesca) con il Sudtirolo italiano e con
l’Italia superiore il cibo principale, la pult 19 (polenta). Come mostrano i suppellettili della cucina e certi modi di dire (gewinnen sa di pult), questo cibo è entrato da molto tempo nelle case dei lusernesi. In generale si distingue nella preparazione e nel
tipo del cibo un periodo antico e uno più recente. Già i vecchi lusernesi consideravano la pult il pasto principale. Si procuravano la farina di mais dal untarlånt (Italia).
I contorni consistevano in formaggio e Zieger (formaggio di capra), d’inverno venivano consumati in aggiunta crauti, in primavera
cumino dei prati bollito in acqua e condito con
schmalz (burro), in estate insalata o virzan (verza),
in autunno indivia, rafani, rape rosse, sedano o
cavolo rosso. Per merenda il cibo era lo stesso. Di
sera veniva portata in tavola la patatan pult (polenta di patate) o dar petarlång o riso con patate,
anche passata nonché di patatan o sürchana korschentz (torta di patate, torta di mais) e minestra
d’orzo. Per preparare la patatan pult si pelano patate crude che vengono fatte bollire; poi vengono
mescolate metà e metà con farina di frumento e di
Figura 8: La polenta.
mais e il tutto viene ben lavorato con il schmökar
(pezzo di legno a forma di clava). Per cucinare il petarlång si fanno bollire in acqua
patate sbucciate, si aggiunge latte e si mette nella miscela farina bagnata, che viene
sbriciolata tra le dita. Il tutto viene mescolato ben bene con il pultnstek (bollero) o il
tarel (frullino). Ris on patatn (riso con patate): patate crude venivano pelate, tagliate
a pezzi e bollite in acqua; vi si aggiungeva riso e latte o burro. I vecchi lusernesi cuocevano la purea di farina di mais come si usa ancora oggi altrove, solo che una volta si aggiungeva alla pappa una manciata di crauti. Da patatan korschentz: patate lesse venivano pelate, mescolate con farina di mais e il tutto veniva impastato. Poi si
formava una torta tonda, alta circa tre dita, e la si cuoceva in cenere rovente. Da sürchan korschentz: farina di mais veniva sbattuta con acqua e fritta in olio. Da korschentz
bet’n (con) gevroratn patatn (gelate): in primavera si raccoglievano le patate rimaste
sui campi dall’autunno, le si impastava con farina di frumento e si cuoceva la mi-
19
Per le ricette si veda la pagina 59.
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Luserna: c’era una volta
scela come la torta di mais. La minestra d’orzo (’s manestar): si mette chicchi d’orzo
e acqua in una grande pentola sul fuoco; quando l’acqua si è ridotta per la cottura,
la minestra viene salata e condita con latte o burro. A volte si cuoceva anche la tscharent, chiamata das geèsa von schevar (cibo dei pastori): metà di una pult cotta si lasciava in pentola, aggiungendo un litro di formaggio caprino liquido; si cuoceva
l’insieme ulteriormente, versandovi poi del burro fuso. Se un cacciatore portava a
casa della selvaggina, veniva arrostita patatan pult. Non conoscevano il caffè; lo bevono solo da circa cinquant’anni, e adesso aniaglas (ogni) waibe drai ülela (tazze). Ai
malati veniva dato brobosà (minestra di farina soffritta) con farina di mais e cumino. Contro il mal di pancia dei bambini si usava acqua con l’aggiunta di sale e pepe. La maggior parte dei cibi sopra menzionati sono in uso ancora oggi, cioè di pult,
di patatan pult, dar petarlång, ris on patatn, s muas (adesso tuttavia senza crauti), di patatana korschentz e (ma solo raramente) di korschentz. Al cibo per malati sopra indicato si aggiunge oggi anche l’inevitabile caffè nero. Dei tempi più recenti sono: di geschabata bröde (minestra): all’acqua bollente si aggiunge un po’ di burro e pane
gschabats (grattugiato). Di frigolöt o tanjöln: si fa bollire acqua (mescolata con latte o
condita con burro); poi fruglt ma drin (si sbriciola con le dita, facendola cadere nel liquido) farina bagnata e si mescola bene il tutto. Di makarü on di bigln: si aggiungono
makarü (maccheroni) o bigln (pasta più piccola) in acqua salata bollente. Poi si fa colare l’acqua e si röastet drau, cioè si aggiunge formaggio grattugiato o pezzetti di acciughe e si versa sul tutto burro fuso caldo o olio cotto. Di lasanjetn (pasta da minestra) vengono cotte in acqua e condite con un po’ di latte (minestra); oppure viene
scolata e röastet drau schmalz (arrostita con strutto); poi si dice: ma est sa trkhan. Al petarlång si aggiungono oggi ancora fagioli verdi. Di patatan njokn: patate pelate vengono bollite, scolate, schiacciate con il schmökar, mescolate con farina di frumento e
impastate bene. Dall’impasto si formano gnocchetti e si mettono in acqua bollente;
poi vengono scolati e si rostet drau formaggio o pezzetti di acciughe. I boazan njockn
vengono preparate come sempre, kanödl e khrapfan sono rari. Dar turt (torta) viene
preparata nei giorni di grande festa: si mescola farina di frumento con latte, uova,
burro, salumi, uva passa e mandorle dolci e si cuoce la miscela nel batzina (catino).
Infine khrazt ma drau zükar cioè si sminuzza zucchero e con esso si cosparge dar turt
che normalmente viene mangiata fredda. I contorni sono oggigiorno più vari rispetto ad una volta. Si usa oltre a formaggio, formaggio di capra e cavolo anche carne,
salumi, latte, uova e molti generi di funghi. Gli ultimi vengono abbrustoliti freschi
con burro, o meglio con olio, e conditi con salvia, aglio o cipolla. A qualche tipo di
fungo (brisan e pfafsbem) viene tolta la pellicina, nei brigalde e pfafsbem viene levato
il pet (parte inferiore, lamellare del cappello) schnozege (mucilagginoso). I röatling
vengono solo spennellati con burro o olio, conditi con sale e pepe e semplicemente
arrostiti alla griglia, mentre gli altri vengono abbrustoliti in un vaso fittile. Luserna
è ben provvista di pane. Dato che si trova un panettiere nel villaggio, è possibile trovare ogni giorno pane bianco fresco. Talvolta viene cotto in forno anche pane di patate (miscela di farina e patate ben schiacciate). Quattro osterie coprono sufficientemente il fabbisogno di bevande. In primo luogo viene offerto vino e acquavite; in
estate si ottiene anche birra, cioè in bottiglia sempre, alla spina invece solo nei giorni festivi. Purtroppo, anche a Luserna si beve eccessivamente.
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
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Alcune ricette tipiche di Luserna
DI PATATANA PULT - LA POLENTA DI PATATE
Sbucciate alcune patate, tagliatele e mettetele in un paiolo. Aggiungete l’acqua
necessaria per coprirle e lasciatele bollire fino a cottura ultimata.
A questo punto schiacchiate le patate, aggiungete sale e farina bianca, in modo da
ottenere un impasto morbido e piuttosto denso. Cuocete l’impasto sul fuoco
medio per circa 30 minuti, continuando a mescolare.
A cottura ultimata, versate la polenta di patate sul tagliere e tagliatela e servitela
come una polenta tradizionale.
Si accompagna molto bene con carni in umido, selvaggina e formaggio.
DI PATATANA KORSCHENTZ - LA FOCACCIA DI PATATE
Lessate le patate senza sbucciarle. A cottura ultimata sbucciatele e
schiacciatele. Lasciatele raffreddare e poi aggiungete un pizzico di sale, latte, un
uovo o due, a seconda della quantità di patate, ed infine della farina. A piacere
potete aggiungere dell’uvetta oppure dei fichi.
Lavorate bene l’impasto, fino a renderlo omogeneo. e poi versatelo in una padella
bassa e larga dove avrete già versato dell’olio. Stendetelo in modo uniforme e lasciate
cuocere a fuoco molto lento. Quando la focaccia sarà dorata da una parte, giratela
dall’altra. A fine cottura, toglietela dalla padella e lasciatela raffreddare.
Servitela tagliata a fettine spolverizzate con dello zucchero semolato.
DAR PETERLÅNG - LA “MOSA” DI PATATE
Lessate alcune patate, sbucciate e tagliate a pezzi.
Quando le patate saranno cotte, salatele e schiacciatele direttamente nella
pentola.
Aggiungete poi latte e farina e mescolate molto bene il composto. Cuocete per
circa mezz’ora, continuando a mescolare per evitare che si attacchi alla pentola.
A fine cottura, versate il preparato nei piatti, aggiungete un po’ di latte e servite.
DAR KAVRITZ - IL SUGO BIANCO
Sciogliete un po’ di burro in un tegame e aggiungete alcuni cucchiai di farina bianca,
mescolate e lasciate imbrunire per qualche istante.
Aggiustate di sale e aggiungete poi dell’acqua per ottenere il sugo.
A piacere potete aggiungere dei pezzetti di lucanica che andranno lasciati cuocere
per circa 30 minuti.
Questo sugo accompagna molto bene una fetta di polenta.
60
Luserna: c’era una volta
D. Condotta di vita e attività lavorativa
Dar perge vo Lusérn is vil gedekht pit balt, ma vent vaürchtn
un lerch, biane puachan un åndre elbar.
Di månnen bo da soin gestånt zo arbata ats Lusérn soin gest dar tislar, dar schmidt,
dar maurar, dar suastar un dar khesrar.
Di laüt bo da håm gehat khüa håm getrak di milch mòrgas un abas
in kasel in platz zoa zo macha khes un schmaltz.
Ats Lusérn ista herta khent gearbatet fin at das lest töale earde. Di lusernar håm herta gebist bo ‘s berat gest pessar haltn etzan un bo setzan patatn.
Di baibar håm eppas gebunt giananate au zo lesa sbem
un pern in balt bosa håm vorkoaft ka Tria.
Di lusernar soin gest herta å-gehenkh dar earde umbrom di earde hatten get zo leba.
Ats Lusérn biane laüt håm gehat khüa, di meararstn håm gehat goas;
vo disan vichar håmsa gevånk milch un håm gemacht khes.
‘S holz meara genützt is gest das sel vo dar vaürcht, sa håm gemacht vlekhan, türn un
vestarn, pitn lerch håmsa gemacht prettar un pit dar pirch in pirchanpesom.
L’attività dei lusernesi consiste nei
lavori sui pochi piccoli campi e prati,
nonché nell’approvvigionamento della
legna necessaria. Essendo i campi molto limitati in rapporto al numero degli
abitanti, sarebbe un nonnulla per i lusernesi lavorarli; ma il ricavato garantirebbe il sostentamento per appena tre
mesi scarsi. Perciò la maggior parte degli uomini va a cercare reddito altrove,
nelle costruzioni stradali e ferroviarie,
nelle opere di regolazione dei fiumi e simili. I lusernesi sono molto abili, soprattutto nella costruzione di muri a
secco, ma accettano di lavorare solo per
un alto compenso giornaliero; quello
che preferiscono è assumere l’incarico
per un qualunque tratto, con l’esecuzione di un determinato lavoro dalla A
Figura 9: Pietra lavorata.
alla Z. Hanno molta esperienza per valutare correttamente una simile impresa, preventivare gli ostacoli e le difficoltà,
calcolare i costi per l’approvvigionamento del materiale per la costruzione ecc.
Ne risulta normalmente un bel guadagno e qualche abitante di Luserna è riuscito in questo modo a crearsi una ragguardevole situazione patrimoniale.
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
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Il ruolo della donna
La famiglia alpina, sebbene comunemente definita di tipo patriarcale, si è sempre
caratterizzata per una forte autonomia femminile soprattutto per ciò che riguarda
la trasmissione dei saperi.
Annamaria Bongiorno descrive il ruolo della donna nella famiglia contadina, caratteristica del Trentino di inizio Novecento. Al fine di delineare un quadro nel quale
sia possibile collocare anche la situazione delle donne di di Luserna, si riportano di
seguito alcuni passi tratti dal suo scritto “La donna nella cultura contadina all’inizio
del secolo”.
«La famiglia tradizionale trentina costituiva un’unità sociale, economica e morale;
era ordinata al fine primario della procreazione della prole e perseguiva anche uno
scopo economico immediato con l’immissione, nella compagine familiare, di
forza lavoro sempre necessaria nell’economia contadina di allora. Al momento
del matrimonio, la sposa entrava a far parte del nucleo familiare del marito;
entrambi continuavano a dipendere economicamente e moralmente dal capo
famiglia […]
La famiglia era quindi saldamente nelle mani dell’uomo […] La posizione della donna
era quindi di subordinazione all’uomo, ma tale sottomissione non derivava che
raramente da una forma di vera oppressione. Essa costituiva piuttosto l’espressione
di un comportamento usuale, e anche la religione cristiana, con il suo insegnamento
tradizionale, sanciva l’autorità del padre di famiglia sulla moglie e sui figli e considerava l’autorità sul nucleo familiare una specie di monarchia di diritto divino.
La vita all’interno della famiglia patriarcale poteva essere amara e pesante per una
donna, come testimonia anche la curiosa giaculatoria diffusissima nel Trentino, che
veniva altercalata alle decine del rosario quotidiano:
Quelle figlie e quelle spose
che sono tanto tormentate,
Signore Dio, voi che le amate,
liberatele per pietà.
Tuttavia, la severità che dominava nei rapporti all’interno del gruppo, il rispetto e
la soggezione agli anziani frenavano ogni sentimento di rivolta, e sopportazione e
rassegnazione diventavano norma per l’intera esistenza. Anche nella vita sociale e
comunitaria la donna non godeva gli stessi diritti degli uomini […] non poteva
disporre dei beni familiari né decidere di acquisire o di vendere, anche in assenza
del marito.
62
Luserna: c’era una volta
Solo divenuta anziana, la donna acquistava all’interno della sua famiglia quell’“autorevolezza” che non aveva mai conosciuto durante il resto della sua vita.
Dirigeva l’attività domestica delle figlie e delle nuore, dava pareri sullo svolgimento
del lavoro agricolo, anche maschile, assumeva davanti alla nuova generazione il ruolo
di guida e maestra, interprete fedele dei valori e delle tradizioni. […]
Non esistevano momenti inattivi (il concetto di tempo libero era sconosciuto) ed
il riposo consisteva nel cambio di attività […]
Durante i filò invernali si filava lana, lino, canapa, si faceva la calza; le donne sferruzzavano continuamente e portavano spesso con loro i ferri da calza infilati fra i
legacci del grembiule […]
Quando gli uomini erano assenti dal paese per l’emigrazione, nelle famiglie contadine tutti i lavori agricoli erano necessariamente compito delle donne e dei
ragazzi rimasti […] liberando forza lavoro, dava la possibilità all’uomo di cercare
forma integrative di reddito e di eseguire lavori stagionali che andavano al di là
dell’economia agricola familiare.
Ma anche quando gli uomini erano presenti, un certo numero di incombenze
erano di spettanza femminile […]
Ma era soprattutto l’epoca della fienagione che richiedeva l’aiuto costante e
fattivo delle donne nei prati […]
Ma l’ambito di lavoro della donna era, prima di tutto, la casa, di cui la cucina era il
locale più importante e il centro della vita familiare […]
Alla madre spettava la parte più importante nell’allevamento e nell’educazione del
piccolo: pur dedicandosi alle sue incombenze abituali, essa si occupava costantemente di lui […]
Le vicine si frequentavano con assiduità, si scambiavano favori, chiedevano consiglio l’una all’altra, chiacchieravano sulla soglia di casa o in quei luoghi di riunione
femminile che erano la fontana e il lavatoio. In occasione di parti, malattie, decessi,
venivano a dare una mano […]».
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
63
Verso Ognissanti questi lavoratori
forestieri iniziano a tornare ai loro paesi, per Natale sono generalmente a
casa. Lì vi sono normalmente dei lavoretti di riparazione da eseguire nell’abitazione, da sistemare muretti di delimitazione dei campi laddove sono
crollati e lavori simili. Gli uomini rientrati a casa tuttavia partecipano poco
ai lavori agricoli veri e propri; vogliono trovare anche tempo per riposare;
Figura 10: Il tombolo.
certo che questo non di rado avviene
in un modo che nuoce a loro e alle loro famiglie. Verso Pasqua partono di nuovo
in cerca di lavoro. I lavori sui piccoli campi e prati spetta quasi esclusivamente
alle donne e ragazze. Queste devono zappare per smuovere il terreno, dato che
l’aratro non può essere impiegato per mancanza di bestie da tiro e spesso anche
per la posizione del campicello. Dalla fine di maggio fino a metà giugno occorre
mettere le patate e da quel momento i campi richiedono lavoro per tutta l’estate.
Inoltre vanno coltivati i prati. In pennen (come un piccolo cestone da carro) il letame viene portato sui campi; le lusernesi lo fanno posando la penn su una spalla e tenendola con la mano. Solo la mietitura non viene eseguita dalle donne, che
allo scopo prendono braccianti, per lo più dalla vicina Italia. Le donne e ragazze
portano a casa il fieno in grandi teli (lailachar). Si misura le dimensioni di un prato in base al numero dei fardelli di fieno: un tot di lailacharn höbe. Per aumentare
la scorta di fieno per l’inverno, le lusernesi tagliano nelle laitn 20, spesso nei punti difficilmente accessibili, erba e la seccano. Di tanto in tanto portano a casa, in
spalla, legna secca in fascine; se da qualche parte ne è stata approntata in quantità maggiore, la trasportano a casa d’inverno con la slitta. Ai lavori sui campi
partecipano anche quei pochi uomini che sono vecchi e malaticci o che riescono
a sopravvivere a malapena non avendo un reddito per lavori svolti fuori regione, infine quelli che vogliono godersi i loro risparmi tranquillamente a casa.
I campi vengono coltivati quasi esclusivamente a patate, raramente anche a
orzo in piccola quantità, in alcuni orti particolari a khabas (cavoli rossi). I prati
sono tenuti bene. Allo scopo si usa, oltre al letame ordinario, comunemente anche concime artificiale. Il raccolto è relativamente abbondante. I pascoli invece
sono molto magri. Viene portato troppo bestiame al pascolo, dato che le lusernesi prendono in consegna durante l’estate anche mucche da latte dalla
Valsugana per l’alpeggio. Per il loro utilizzo pagano da 15 a 50 corone, in base
alla qualità della mucca. Se sono fortunate ricavano qualcosa dalla produzione
di formaggio. Tuttavia le donne di Luserna, nella valutazione del guadagno,
non conteggiano il foraggio e la fatica per una mucca altrui. È molto basso il nu-
20
Si tratta di una località ad est del paese; per individuarne la posizione si veda la cartina
seguente, dove la località è indicata col nome di Leiten.
64
Luserna: c’era una volta
mero effettivo di capi di bestiame di Luserna. A parte poche mucche e qualche
mulo si trovano solo capre in quantità maggiore. Molti lusernesi tentano anche
l’allevamento di maiali, il che però è sempre rischioso per il pericolo della peste
suina che spesso dilaga nel Vicentino e viene portata sulle alpi di Vezzena nelle immediate vicinanze di Luserna. Luserna non ha buoi e cavalli; ma ogni famiglia possiede galline, con derivanti motivi sufficienti per litigi e rancori 21.
Le uova formano una modesta fonte di entrata delle lusernesi per l’approvvigionamento di cianfrusaglie; in estate vengono spesso date ai malgari in cambio di pecore. Sono una rarità a Luserna le oche, anatre e colombe.
Figura 11: Mappa catastale (1856)
Fonte: Archivio del Catasto della Regione Autonoma Trentino Alto Adige.
21
Le galline, infatti, venivano lasciate libere di razzolare, sconfinando spesso nei terreni
altrui.
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
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Figura 12: Distribuzione dei terreni.
Fonte: Cesare Battisti “Guida dell’altopiano di Folgaria e Lavarone”, Il Comitato Femminile della Lega Nazionale
di Rovereto, Trento, 1909.
Una fonte di guadagno non insignificante delle lusernesi sono in autunno i
funghi commestibili che vengono raccolti e offerti al mercato in città (per lo più
a Trento) 22; in parte si tagliano anche i funghi raccolti in fette sottili che vengono lasciate seccare al sole, per essere utilizzate in un secondo momento. Le ragazze frequentano specialmente nel periodo invernale la scuola di tombolo e
trovano con ciò una entrata non splendida ma almeno accettabile; purtroppo lascia a desiderare la richiesta dato che si preferiscono i pizzi economici fatti a
macchina ai pizzi solidi fatti a mano23.
22
Le donne, con le gerle sulle spalle ed i cesti pieni di funghi, partivano di notte e, percorrendo la strada del Menador, si recavano a Caldonazzo dove potevano prendere il treno
per arrivare al mercato a Trento.
23
L’esecuzione dei merletti a fuselli è stata portata in Italia nel XVI secolo dalle suore benedettine proveniente Cluny (Francia). A Luserna era molto radicata la lavorazione del
pizzo e del merletto fino alla prima metà del Novecento, quando i tragici eventi storici
(l’incendio di parte del paese del 1911, la Prima guerra mondiale, l’episodio delle opzioni, l’emigrazione dal paese), portarono ad un graduale abbandono di questa tradizionale
lavorazione. A partire dal 1996, grazie all’impegno del Kulturinstitut Lusérn - Istituto
Cimbro, questa attività tradizionale è stata ripresa recuperando anche, per quanto possibile, parte dei disegni tipici locali.
Per la lavorazione del pizzo al tombolo occorre: un tombolo, i fuselli, il filato, gli spilli ed
il disegno.
Il tombolo è un cilindro imbottito di segatura ricoperto di stoffa sul quale viene appuntato il disegno del pizzo da eseguire. I fuselli, sui quali viene avvolto il filato, sono di legno
tornito ed hanno la forma di un piccolo fuso con la capocchia alla quale si fissa il filo. Il filato può essere di lino oppure cotone. Gli spilli devono essere dotati di una capocchia in
quanto servono a fermare gli intrecci. Per ogni pizzo a fuselli occorre lo schema esatto del
disegno del pizzo che si vuole eseguire. Il lavoro dei fuselli consta di due movimenti: girare ed intrecciare. Con questi due movimenti si ottengono mezzi punti e punti interi eseguiti con le più svariate combinazioni (tratto da pannelli illustrativi Istituto Cimbro).
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Luserna: c’era una volta
Dato che a Luserna non si semina grano e non vi si trova un mulino, occorre procurare la farina da lontano. Perciò i pochi proprietari di muli svolgono
una importante attività lavorativa, trasportando giorno per giorno generi alimentari ed altri prodotti da Caldonazzo a Luserna verso un corrispettivo di 3 4 heller 24 al chilogrammo.
In famiglia prevale ancora in un certo senso una situazione patriarcale.
Fintanto è in vita il padre di famiglia, rimane lui il capofamiglia. Anche se i figli hanno già famiglie proprie, vivono nella stessa casa, mangiano alla stessa tavola, e le singole famiglie si suddividono i lavori necessari. Se però il padre è
morto, i figli e le figlie suddividono la proprietà paterna, anche la casa. Alle ragazze viene data la stessa parte dei loro fratelli, ma con la limitazione che in caso di loro matrimonio vengano liquidate con la legittima.
I ragazzi si sposano normalmente quando sono passati gli anni di coscrizione o del militare25. Se le ragazze hanno superato i 24 o 25 anni di età lasciano
perdere la speranza di sposarsi, raramente comunque si sposano sotto i 20 anni. I matrimoni vengono contratti quasi sempre tra la popolazione locale. La moglie si rivolge al marito con “Voi”, lui invece le dà del “tu”; così anche in Val dei
Mocheni. Le mamme allattano sempre i loro figli da sole; quando viene a mancare la madre, un’altra donna prende in cura il bambino. Solo in aggiunta il lattante viene nutrito con latte di mucca allungato.
Per la lunga mancanza degli uomini, l’educazione dei figli spetta quasi esclusivamente alle madri. Queste viziano spesso troppo i bambini piccoli; ma quando i giovani sono un po’ cresciuti, la madre non riesce più a
tenerli a bada. «Ad un bambino piccolo bisogna dare di tutto quanto esso
vede che viene mangiato; altrimenti gli sanguina il cuore». «Se lo si lascia
solo guardare senza dargli da assaggiare, il cuore ne soffre», recitano alcuni detti di Luserna, e la condiscendenza viene estesa pressappoco a tutto
quanto il bambino chiede, il che costa caro più tardi. Avvengono raramente punizioni corporali, nemmeno in caso di sgarbatezza dei bambini nei
confronti della madre e di altri atti di grave maleducazione, o non vengono applicati nel modo giusto. Per contro, tuttavia, la madre esterna la sua
rabbia brontolando, sgridando e bestemmiando, a volte con espressioni addirittura volgari, mentre il bambino impara anche troppo facilmente a ripetere quanto ha sentito, non appena si presenta l’occasione, anche nei confronti della madre.
24
Il termine “heller” indica una moneta, introdotta nell’impero austro-ungarico nel 1892,
il cui valore era pari ad 1/100 di Corona austrica.
Per dare un’idea del valore di questa moneta, si consideri che nel 1892 1 grammo d’oro valeva 3,28 Corone.
25
Le liste di leva dell’esercito austro-ungarico potevano includere cittadini dai 18 ai 36 anni, anche se generalmente venivano arruolati i giovani fra i 20 e i 26 anni. Tuttavia in caso di particolare necessità questi criteri potevano cambiare, come avvenne durante la
Prima guerra mondiale; nel 1914 infatti l’età di coscrizione venne anticipata a 20 anni, nel
1916 a 18 anni e nel 1917 a 17 anni.
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
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Lo stato di salute lascia molto a desiderare a Luserna, nonostante l’altitudine
con la sua aria di montagna rinvigorente. La causa sarà probabilmente la ristrettezza delle abitazioni e l’uso frequente di caffè nero senza latte e pane. Per questo dilagano a Luserna epidemie (tifo, difterite, polmonite) nonché malattie nervose (isteria, ballo di san Vito e altre). Manca un medico comunale; occorre
chiamare il medico di caso in caso, a volte addirittura dalla vicina Italia. Ogni visita del dottore costa al comune 20 corone e ad ogni richiedente 40 heller. Le
spese annue del comune per il medico oscillano tra poco più e poco meno di
800 corone, da cui si vede all’incirca quanto spesso Luserna ha bisogno del dottore.
I lusernesi sono molto coscienziosi ed instancabili nella cura dei malati. In caso di grave malessere si tenta una cura con vari rimedi casalinghi, tra cui non
manca sicuramente mai il caffè nero. Se la malattia diventa più preoccupante, si
trasferisce il malato nel grande letto della Stube, chiunque lo occupi abitualmente; perfino ai bambini viene concesso il lettone dei genitori come letto di degenza. Il malato viene poi assistito con dedizione e abnegazione, si fanno dire le
preghiere in chiesa per lui, si mandano candele o olio per tener accesi lumi sull’altare di Maria per il benessere della persona sofferente. Tutto il villaggio si informa delle condizioni di un ammalato grave, si ha un animato traffico di visitatori intenti a fare coraggio all’ammalato quanto meglio possono, che gli
dimostrano la loro partecipazione o danno il cambio ai famigliari nella cura del
malato. Questi, su insistenti solleciti, si mettono a riposare nel loterle sotto il letto dell’infermo per trovare un po’ di sonno che manca loro da tempo. Quanto
più grave si presenta il decorso della malattia, tanto più aumenta la partecipazione generale. Il moribondo viene tempestato con domande quali «khent ar me?
Ber pinne?» (Mi riconoscete? Chi sono?) Gli viene fatto coraggio: «vörchtetas nicht,
Gott’ar Hear bart as helvan on ünsar liabe vrau o – as ar anka höart bea vil, Gott’ar
Hear hat patirt no mearar au ats kraütz» (anche se provate molto dolore, il buon Dio
ha sofferto di più [lassù] sulla croce!). I visitatori vogliono portarsi a casa la certezza di aver contribuito alla consolazione dell’anima del malato. Ma viene addirittura invasa la stanza al suono lamentoso della piccola campana dalla torre
vicina, che annuncia la lotta contro la morte. Allora a volte, con dolore violento, la donna finora così dolce, amorevole, che cura l’ammalato, lancia il ristoro
dello stesso, che aveva tenuto pronto (caffè nero, limonata ecc.) contro il muro
assieme alla ciotola che va in pezzi.
Così come si chiama l’aiuto dall’alto in caso di malattie serie, così l’atteggiamento profondamente religioso del popolo si manifesta sempre e dappertutto con chiarezza e in modo convincente; perfino gli uomini abituati a girare
il mondo si conservano una grande fedeltà alla loro religione, cioè quella cattolico-romana. Cosa lodevole nei lusernesi è anche la pietà nei confronti dei defunti, le “anime del Purgatorio”. Nella notte tra Ognissanti e il giorno dei morti le
tombe ornate vengono illuminate con candele e lucerne. I lusernesi donano tanto per le messe dei defunti durante tutto l’anno, ma in modo particolarmente generoso nei due giorni di commemorazione appena citati. Si usano molto anche
le veglie in chiesa nonché private per le anime dei defunti. Quando i lusernesi
68
Luserna: c’era una volta
tornano a casa dopo una giornata di fatiche, mangiano in fretta la cena parca e
si recano in chiesa per il vespro. Se il singolo è oppresso da qualche fardello o la
comunità ha un desiderio particolare, come ad esempio la preghiera per condizioni favorevoli del tempo, allora si cerca di essere esauditi con l’aiuto di funzioni, messe, processioni e simili.
Anche dal punto di vista morale Luserna merita lode. Da oltre 16 anni non
è nato alcun figlio illegittimo. Se qua e là c’è stato qualche passo falso, allora si
è fatto seguire il matrimonio sicché i genitori già molto tempo prima che nascesse il bambino erano una coppia sposata. In generale va lodata nei lusernesi anche la loro onestà, schiettezza e rettitudine. Essi vanno fieri di onorare la fiducia in loro riposta e di vivere onesti e giusti. Come dappertutto vi sono anche qui
delle singole eccezioni; solo che tra gli uomini aumenta l’avidità di piaceri; essa si manifesta nella predilezione per il vino e l’acquavite e diventa in qualche
famiglia rilevante causa di povertà. È molto diffusa anche la cattiva abitudine di
bestemmiare. Le espressioni usate sono senza eccezione italiane; anche nel sesso femminile ricorrono imprecazioni rozze e parolacce. Mi è stato riferito più
volte che questa grossolana abitudine ha avuto inizio dal tempo in cui gli uomini di Luserna trovavano lavoro nelle costruzioni in alta Italia; ma i lusernesi hanno contatto con gli italiani anche nei lavori in terra tedesca. Già Dalpozzo
(p. 211) lamenta che i suoi compaesani dei Sette Comuni hanno il vizio delle bestemmie: «Sebbene la nostra gente in contatto con gli italiani avesse in parte raffinato i suoi modi, ha tuttavia perso non poco della vecchia, originaria semplicità e innocenza. Hanno … preso dei vizi che prima tra loro erano molto rari o
addirittura sconosciuti. Tra essi faccio rientrare un certo tipo di bestemmie e altre parolacce e espressioni sconvenienti la solita abitudine di giuramenti non
necessari».
I lusernesi amano molto la loro terra; gli uomini vi tornano tutti gli anni,
quando il tempo non favorisce più la loro attività lavorativa; e quando uno si
ammala in terra straniera, torna sicuramente a casa se ci riesce ancora; perché lì
trova la cura, l‘aria, sì, tutto molto meglio rispetto ad altrove, lì spera di trovare
un rinvigorimento e una guarigione più rapida. Delle ragazze solo raramente
una decide di assumere servizio al di fuori di Luserna, poiché non trovano da
nessuna parte un’altra Luserna.
La stessa fedeltà e considerazione conservano i lusernesi nei confronti del
loro dialetto, cioè la madrelingua, sicché la stessa viene usata esclusivamente
come lingua corrente in tutte le famiglie, con una sola eccezione. La situazione,
a questo riguardo, è molto più sconsolante tra i Siebenberger (abitanti dei Sette
Comuni). Dalpozzo lamenta nelle sue “Memorie” (p. 76): … «Eppure, chi lo crederebbe! in un angolo dei Sette Comuni, dove, considerata la situazione, la lingua tedesca potrebbe conservarsi più pura e più a lungo rispetto ad altri luoghi,
gli abitanti da qualche tempo sono stati aizzati nella loro fantasia tanto da odiare la loro lingua, la disprezzano e si vergognano di essa, come se fosse un disonore, una vergogna usarla. E non basta: proibiscono ai loro figli di appropriarsene e ai visitatori di parlarla nelle loro case, per cancellarla e sradicarla. Non è
questa una durezza barbara ed inaudita, disdegnare la lingua che hanno suc-
I lusernesi e la loro abitazione, il cibo e il modo di vivere
69
chiato con il latte materno, che i loro avi hanno tenuto cara, che caratterizza la
nostra nazione privilegiata e la distingue dai popoli vicini?».
Una caratteristica positiva del lusernesi è anche l’ospitalità. Danno tutto per
rendere piacevole ad un estraneo il soggiorno a Luserna e si rallegrano se dimostra partecipazione e predilezione per il loro povero paese. La prima cosa offerta ad un visitatore è di nuovo il caffè nero, poi comunque quanto di meglio
c’è. Se qualcuno arriva in una casa all’ora di pranzo, viene subito invitato a parteciparvi, e non è per niente una pura formalità ma si è davvero contenti quando l’ospite mangia di gusto.
I lusernesi sono gioviali, allegri, vivaci e anche curiosi, molto ricettivi alle
percezioni esteriori, sensoriali. Se una coppia si reca in canonica per il fidanzamento, giovani e vecchi formano un corteo numeroso, si attende in piazza il ritorno dei fidanzati, e si sale anche su oggetti rialzati per poter scorgere ancora
dalla finestra la coppia di sposi in canonica.
I lusernesi ci tengono molto alla battuta pronta e all’umorismo di botta e risposta. Fanno a gara nell’uso di termini, il senso dei quali va indovinato. Chi è
abile in questo è “is a schnabl, e”, chi non comprende siffatto modo di parlare è
“is a stokh“. Sarebbe un grande dispiacere per una ragazza se uno le dicesse che
il suo pual (amato) è a stokh, piange e si dispera per una tale diceria. Un sacerdote ha preso in giro, ma in modo per niente offensivo, in piazza una ragazza
in presenza di altra gente. La ragazza punzecchiata ha risposto in modo pungente: «håm di pfafan o di raude - kraztas» (Hanno la rogna anche i sacerdoti? - Si gratti!). I lusernesi si distinguono per il loro senso pratico. Dimostrano abilità non
solo nei lavori pubblici, ma anche nel commercio e traffico, nei loro lavori in casa. L’obiettivo principale è la praticità e comodità, mentre trascurano, specie nelle loro costruzioni, l’armoniosità e l’aspetto piacevole.
Quanta importanza abbia per i lusernesi la scuola, viene reso evidente sufficientemente dalle lotte accanite per la stessa. Durante la stagione aspra si può
definire buona la frequenza scolastica; in primavera comunque, quando gli uomini sono già partiti per trovare un reddito e le madri sono tutto il giorno occupate con il lavoro sui campi, specialmente le ragazze servono per badare ai fratelli più giovani, e allora la frequenza regolare della scuola a volte si ottiene solo
con la pressione da parte delle autorità. Gli alunni sono svegli e imparano facilmente. Non è difficile per loro rendere la materia studiata con parole proprie, la
grammatica e l’ortografia possono essere trattate più facilmente con i ragazzi di
Luserna che non in qualche comune di montagna del Tirolo tedesco, come pure altre materie in cui occorre riflettere ed impegnare il cervello. Sono invece
meno predisposti per imparare qualcosa a memoria. Nella scuola italiana però,
nelle prime classi, agli insegnanti spetta un compito arduo, a causa della totale
mancanza di conoscenza della lingua italiana, qui bisogna ricorrere ancora alla
lingua tedesca; solo nelle superiori gli studenti sono in grado di seguire
l’esposizione in italiano dell’insegnante.
Così i lusernesi vivono in un’altitudine isolata. In abitazioni e condizioni povere, si accontentano di cibo semplice, sono comunque una razza fresca e forte.
Le donne e ragazze adempiono, instancabili, al lavoro nella loro terra, mentre gli
70
Luserna: c’era una volta
uomini si spostano in cerca di reddito, per poi tornare nella loro amata terra, alla vita familiare patriarcale. Sono un popolo vivace, allegro, molto ricettivo alle
percezioni sensoriali, accanto a qualche lato d’ombra, come l’alcolismo e le bestemmie, si rende evidente in loro anche qualche caratteristica bella, quale la
profonda fede religiosa, la pietà nei confronti dei defunti, la seria moralità,
l’eccezionale partecipazione alle sofferenze e sfortune del prossimo, ospitalità e
un carattere retto, aperto. Hanno prevalentemente senso pratico, sono spiritosi
e comunque un popolo di grandi doti mentali, e vigoroso. È vero che lo spirito
del tempo ha influito sul loro costume tradizionale, ma conservano caparbiamente, fino al giorno d’oggi, la loro madrelingua.
IV.
DIRITTO, TRADIZIONI E CREDENZE POPOLARI
Diritto, tradizioni e credenze popolari
73
Possiamo dire poco sulla costituzione e sul diritto. Il comune è troppo giovane perché si siano potuti conservare usanze e consuetudini di diritto come
in una terra dalla storia antica. Non ci è dato sapere se al momento della colonizzazione fossero ancora in uso determinate usanze di diritto.
Il nome di campagna at di Lint 26 potrebbe eventualmente indicare che una
volta vi erano presenti alberi di tiglio, che nelle consuetudini di diritto tedesco detengono notoriamente un ruolo importante 27.
Era più facile la conservazione di tali usanze tra i tedeschi dei Sette
Comuni, dato che sotto gli Scaligeri e Visconti prima e sotto la repubblica di
Venezia poi detenevano una posizione speciale nell’esercizio delle antichi
consuetudini, mentre nel Sudtirolo con crescente italianizzazione i resti dei tedeschi venivano sempre più isolati e fortemente influenzati, come nella lingua così anche negli usi e costumi. In tal modo si affievolirono le ultime tracce delle antiche consuetudini di diritto.
In caso di discordie i lusernesi si rivolgono al comune o al curato. Se una
mediazione non va a buon fine, è la procura di Levico l’autorità competente dei
lusernesi. Politicamente il comune sottostà al capitano distrettuale di Borgo.
Per incentivare interessi comuni sono anche stati istituite associazioni private: ad esempio una mutua assicurazione per il possesso di bestiame e un consorzio caseario, entrambi con statuti propri. Il comune come tale ha tuttavia gli stessi diritti e doveri come ogni altro comune in Tirolo.
A. Tradizioni di festa
A differenza dalle consuetudini di diritto si sono conservate meglio certe
usanze di momenti importanti della vita e di determinati periodi.
1. Il battesimo. La levatrice adorna il bambino, va con i padrini (e con il padre, se si trova a casa 28) in canonica per farlo registrare, poi in chiesa per il battesimo. Questo normalmente si celebra un giorno dopo la nascita.
Al ritorno, la madre deve baciare la mano al padrino e salutarlo dandogli
del “Voi”.
Successivamente ci si siede a tavola. Otto giorni dopo, il padrino invia alla
puerpera una cesta di pane e un bel pezzo di burro; lo stesso dono viene porta-
Si tratta dei prati ubicati sotto la via Roma, verso viale Trento. Per un’esatta ubicazione,
si consulti la cartina della Toponomastica di Luserna.
27
Bacher si riferisce probabilmente all’amministrazione della giustizia che, in tempi passati, veniva svolta sotto le fronde degli alberi di tiglio, detti appunto anche “alberi del giudizio”.
28
Era infatti piuttosto diffusa fra gli uomini di Luserna l’emigrazione in cerca di lavoro, che
li portava a stare lontano da casa anche per molti mesi consecutivi.
26
74
Luserna: c’era una volta
to pochi giorni dopo dalla madrina. Se i padrini sono benestanti, mettono invece soldi dentro le fasce del bambino.
2. Il matrimonio. La sposa dona allo sposo la camicia nuziale e lui le dà il
grembiule della sposa, le scarpe e il fazzoletto da collo. Nel giorno delle nozze, al mattino presto, gli sposi si recano in chiesa per la confessione e la comunione. Dopo, ognuno torna a casa sua. Alle 9, quando è ora di andare alla cerimonia nuziale, lo sposo con gli invitati va a prendere la sposa a casa sua. La
madre della sposa dà ad entrambi l’acqua santa e il corteo si sposta verso la
chiesa. Durante la cerimonia e nelle parti principali della messa alcuni tiratori di pistola rimangono in piazza davanti alla chiesa 29 e sparano; nel farlo, dirigono le canne dentro la porta della chiesa. Al ritorno dalla chiesa il corteo nuziale incontra uno “steccato” eretto allo scopo, che il testimone della sposa
deve spostare per liberare la via.
Per intanto ci si sposta, per il pranzo nuziale, nella casa della sposa, rimanendovi fin verso le 3 del pomeriggio, dopo di che ci si reca alla casa dello
sposo. Secondo un’antica usanza, la sposa scoppia in lacrime all’addio dai
suoi, mentre il corteo si mette in movimento. Giunti alla casa dello sposo, la
sposa deve passare dalla porta prima degli altri.
Sulla soglia trova una scopa, che deve alzare e appoggiare da qualche parte; deve anche baciare tutti gli abitanti della casa. In seguito ci si siede per il
secondo pranzo nuziale, dopo si canta e si beve; si rimane in allegria fino a
notte fonda.
Quando gli ospiti se ne sono andati, gli sposini fanno ancora visita ai parenti della sposa prima di coricarsi. Le prime settimane dopo le nozze si chiamano khutarwochan 30 (settimane delle risate). Se si sposa un vedovo o una vedova, i bambini e anche alcune ragazze adulte fanno un baccano assordante
con pentole ecc. finché ricevono una parte del pranzo nuziale 31.
3. Morte e funerale. Quando qualcuno muore, i suoi parenti sono alle
(molto) traure e lo khlagn (piangono). La salma viene vestita con l’abito più
bello del morto e posta su una lade. Allora si dice: haüt is af di vlekh da[r] …
(oggi il o la … sta sull’asse …). Durante la giornata, la gente del paese pas-
29
Originariamente la chiesa di Luserna si trovava nella piazza del paese, e solo a seguito
degli eventi della Prima guerra mondiale ne è stata edificata un’altra nell’attuale collocazione.
30
Luna di miele.
31
Si tratta molto probabilmente di una variante locale dello Charivari: è mettere in piazza
con canzoni licenziose unioni matrimoniali non consoni e si associa alla nostra ciabra o
chiassata. Fare baccano con tamburi e coperchi ed ogni altro oggetto rumoroso per schernire una nuova coppia, viene fatto di notte in cima alla collina o in vasto territorio poco
distante dalla casa dove riposano i novelli sposi. Occorre dire che questa pratica usata da
allegre compagnie di giovani andava a sottolineare matrimoni non approvati dalla gente
(vedovo che sposa una giovinetta) ma non si prefiggeva solo di impedire che quella notte il matrimonio venisse consumato, disturbando lo sposo, soprattutto si desiderava che
lo sposo disturbato elargisse loro un compenso tale da poter finire la nottata nelle taverne del posto.
Diritto, tradizioni e credenze popolari
75
sa di tanto in tanto per “dare” al defunto l’acqua santa. La sera si riuniscono numerosi in casa del morto, vegliano e pregano tutta la notte, con piccole interruzioni; a mezzanotte e al mattino ricevono da mangiare, o almeno
caffè nero. Quando la salma viene prelevata per il funerale, i superstiti (ma
solo quelli femminili) piangono il morto con smodati lamenti e strilli e non
si stancano di elogiare i pregi del defunto. Una madre, ad esempio, piange
così la sua bambina:
“O liabes måi khin, liabes engele, gea an gotsnam, o katinele, liabes måi khin! On
bo bart e gian z’ sega mai khin? O liabes måi schümas khin! On bia barte tüan i åna måi
khin?!”
Questa melodia è tipica per tutti i lamenti funebri.
Una donna piange suo marito: “O liabar måi tone, vita måina! On bet an armen woas dar hat hintargelat, liabar måi tone! O liabar måi tone, bia barte tüan
t’zügla di khindar?! O liabar måi tone khent me zo nema” – lamento di una figlia maritata per sua madre: “o liaba måi momma! Dar sait herta gebest a so
mechte guat, on bal dar me sait khent zo wenna, hat ar mar herta epas geprenk
miar on måinen khindar o; dar hat herta gehat groase gadjofan on sötn schümas
linnes hertz, o liaba måi måmma!”
Come si vede, i canti funebri ricordano nel ritmo e nella melodia molto il
campanò (carillon). Per l’usanza (anche antico alto-tedesco) cfr. Hauffen,
Gottschee p. 88; altre usanze riguardanti i morti sono menzionate più avanti
(v. credenze popolari p. 67, in questa versione p. 76).
76
Luserna: c’era una volta
4. Capodanno. Nella notte di capodanno i ragazzi girano, sparano con pistole, suonano la fisarmonica, cantano e schiamazzano, per “scroccare” una
mancia alla gente. La mattina di capodanno i ragazzi vanno in gruppi di casa in
casa per “mendicare” la balamån 32 (regalo). Ricevono magari qualche quattrino
o frutta o un po’ del maiale macellato. La püalen (amata) dona al pual un tüachle (fazzoletto bianco).
5. Il giorno prima dell’Epifania ragazzi a gruppi di tre si spostano cantando,
di casa in casa con una stella su un’asta. A volte imitano gli abiti dei tre Magi e
uno si tinge il viso di nero. Ricevono farina o un pezzo di carne di maiale.
Appena terminato il giro, preparano in qualche casa, con la farina raccolta, una
grande pult, arrostiscono anche la carne di maiale, mangiando spesso appena a
mezzanotte di tschoi (cena). Dividono fra di loro i resti per il giorno seguente. Alla
festa stessa ci sono di nuovo i bambini che fanno il giro per “mendicare” la boganat (dono dell’Epifania) 33.
6. In carnevale ci si nasconde la faccia con fazzoletti e si gira con svariati travestimenti di casa in casa. È raro che allo scopo vengano usate maschere. Per
Pasqua, pentecoste e altri periodi festivi non ci sono usanze particolari. Verranno
menzionati più avanti Santa Lucia (per San Nicolò) e il “rogo di marzo”
(v. Volksglaube 5, a, p. 81 34).
B. Credenze popolari
35
Karl Weinhold ha sottolineato che le credenze popolari non sono né cristiane
né pagane, ma una proliferazione: «Nel paganesimo germanico erano presenti
superstizioni e magia, separati e ostili rispetto alla vera religione del popolo e alla messa riconosciuta. È sempre stato così ovunque ed è così ancora oggi. La superstizione non è legata ad una nazione o ad una precisa religione, ma è un’espressione comune dell’uomo» (Ztschr. f. Volksk. I, p. 6). Mogk d’altro canto
ravvisa in queste concezioni religiose basse del popolo e nelle usanze collegate,
uno strato di religione più antica (Paul Grdr. III “Mythologie”). Ad ogni modo,
occorre molta prudenza nel far risalire tali usanze e credenze ad un livello culturale basso, più antico; specialmente in passato si tendeva a considerare una rima-
32
Questa usanza è ancora oggi praticata, sotto forma di mancia in denaro che i bambini ricevono dai parenti.
33
Anche questa consuetudine si è modificata; oggi sono i bambini che vanno di casa in casa cantando una canzone tradizionale vestiti da Magi e ricevendo in cambio dolciumi e denaro.
34
La pagina corrispondente è pagina 82.
35
In questo paragrafo il Bacher intende fornire una chiave di lettura trasversale dei temi
presenti nei racconti riportati più avanti. A questa prima analisi si affianca quella contenuta nelle schede di approfondimento presenti nella sezione dei racconti.
Diritto, tradizioni e credenze popolari
77
nenza dell’antico paganesimo germanico, le opinioni e usanze esistenti a fianco
di una religione riconosciuta; Kauffmann comunque sottolinea nel commento al
libro “Der deutsche Volksaberglaube der Gegenwart” di Wuttke-Mayer con enfasi, che tali abitudini praticate accanto al cristianesimo sono in genere resti di
convinzioni religiose del medioevo e che quelle radicate nel paganesimo germanico sono eccezioni (Ztschr. f. dtsch. Philologie XXXV, 91). Anche i cenni seguenti sul paganesimo germanico sono intesi più ad offrire paragoni con esso che non
una immediata derivazione dallo stesso. Aderisco all’impostazione fornita da
Mogk (loc. cit.).
1. L’animismo. L’anima può apparire quale fantasma (“Das verstorbene
Nöbele 36” Cap. V n. 34), quale persona e animale (serpente), cfr. “Das verbannte
Mädchen 37” n. 12, o solo sotto parvenza di animale (corvi), cfr. “Das JakominenLoch 38” n. 20. Sotto parvenza di uomo, i morti si presentano con gli stessi abiti indossati da vivi (“Nöbele”). All’animismo germanico è legato l’auspicio attribuito
a certi animali, immaginando (secondo Mogk) che l’anima del defunto continui a
vivere in tali animali. Vogliamo qui solo evidenziare il nome d’animale das bil vraüle (termine lus. per la donnola): per un approfondimento v. p. 83 s. 39). Il motivo per
la riapparizione di un defunto è spesso una colpa non espiata (“Das verbannte
Mädchen” n. 12). Il Nöbele trovò pace solo nel momento in cui venivano offerte
messe per la sua salvezza. Anche secondo alcune credenze dei lusernesi deve vivere da fantasma chi da vivo ha spostato cippi confinari; Mogk vede in ciò una
commistione di cristianesimo e paganesimo germanico.
Nessuno osa tornare di notte da solo da un defunto presso il quale aveva
vegliato (pregato); l’anima del morto verrebbe con lui. – Il morto non può andare in cielo se rimangono soldi nei vestiti che aveva portato da vivo. – Se si fa
pendere bassa, o del tutto, la catena sopra il focolare senza usarla, si bruciano così le anime del Purgatorio. – L’usanza di seppellire i defunti con le scarpe, secondo Dalpozzo “Mem.” p. 233 è ancora presente nei Sette Comuni, ma si estende
solo su persone assassinate e su donne morte nel puerperio. – I banchetti funebri, ai quali partecipa secondo una comune credenza l’anima del defunto, non
sono più in uso a Luserna; tuttavia la tradizione di distribuire pane (una volta
era polenta) a tutti i partecipanti al corteo funebre, va probabilmente interpretato come residuo del vecchio banchetto funebre.
Gli spiriti maligni appaiono sotto forma di fuoco: fiammelle all’aperto sono
diavoli, un fuoco che arde in lontananza è l’ork maligno. – Secondo Mogk non è
possibile stabilire se la diceria che i bambini neonati vengono tirati fuori da un
contenitore d’acqua sia basato sull’animismo. Una volta si ritenevano animate
anche le piante. Un ricordo ne è il hakhtme au in zöllela 40 (Cap. V. n. 3).
Trad. it. “Il povero Nöbele”.
Trad. it. “La ragazza condannata”.
38
Trad. it. “La voragine di Giacomino”.
39
La pagina corrispondente è pagina 83.
40
Trad. it. “Spaccatemi in pezzi grandi, non in pezzi piccoli!”.
36
37
78
Luserna: c’era una volta
È preminente nell’animismo di Luserna l’idea della trut. Si tratta di uno spirito opprimente, simile ad una strega, che tormenta i dormienti. L’anima di una
persona che è una trut lascia il corpo vivente sotto forma di un bombo (n. 31 41)
e cerca una vittima da tormentare esercitando pressione e succhiandone il sangue. Se si riesce a domare la trut in qualche modo, la sua anima si trasforma in
una pagliuzza o in un cavallo (n. 30 42) o in un gatto (n. 32 43). Diventa una trut
ogni bambino al cui battesimo non è stato pregato il credo nella forma dovuta.
Quale spirito opprimente si nomina, nella credenza popolare, anche lo
“Schrattele”. A Luserna comunque ne è scomparso il ricordo; dato che la charatl
o schratl è oggigiorno il nome di una piccola falena, la cui apparizione una volta probabilmente veniva messa in relazione agli spiriti opprimenti.
Mogk fa rientare le streghe tra le creature di origine spirituale, perché dopo
la loro morte continuavano le loro attività come spiriti, poi perché certe donne
avevano il potere di separare anche da vive l’anima dal corpo, il che per Luserna
può essere desunto dal contatto tra strega e Trut. Se si vuole catturare una Trut,
ci si rivolge a lei direttamente con le parole du boheksats baibe. Il terzo motivo per
cui le streghe vengono contate come esseri animati è la loro capacità di trasformazione che a Luserna vale anche nel caso di mescolamento fra strega e Trut. Per
il resto i lusernesi immaginano le streghe come esseri umani, che grazie al diavolo hanno un potere sovrumano. La loro attività si estende in primo luogo,
come quello dello stregone, sulla gestione delle condizioni meteorologiche; possono far ammalare e far morire bambini (n. 24 44), scambiarli (n. 25 45) e rapirli
(n. 26 46), creano le epidemie tra il bestiame (n. 2347) e creano danno di vario altro
tipo. Il nemico maggiore delle streghe e della loro magia malvagia è il cristianesimo con le consacrazioni e benedizioni usuali nel rito cattolico romano (cfr. più
avanti “mezzi di protezione” p. 85 s 48).
«Le streghe», così afferma Heyl (“Volkssagen aus Tirol”, nota I, 46) «ricordano i profetici, soccorrevoli “Idisen” (“Disen”) degli antichi germanici che avevano i loro luoghi di culto dove facevano scorrere nel calderone il sangue delle vittime macellate, lo bollivano e mescolavano, dopodiché danzavano attorno
alle alte fiamme del focolare. Già nei tempi più remoti si chiamavano queste
donne con conoscenze di magia ‘Hagedisen’ (cioè Haindisen), Hagezusen, da
cui deriva il nostro termine ‘Hexe’ (strega). Dopo l’introduzione del cristianesimo queste veggenti o donne sagge si ritirarono nella solitudine delle foreste
e vi rimanevano a lungo, godendo di alto prestigio. Le si cercava nel buio del
Trad. it. “Una ragazza vampiro”.
Trad. it. “La vampira”.
43
Trad. it. “La fidanzata respinta perché vampira”.
44
Trad. it. “Il bimbo stregato”.
45
Trad. it. “Il bambino sostituito”.
46
Trad. it. “La bambina abbandonata dalle streghe”.
47
Trad. it. “La strega vecchia e la strega giovane”.
48
La pagina corrispondente è pagina 85.
41
42
Diritto, tradizioni e credenze popolari
79
bosco per ottenere consigli; festeggiavano le feste tradizionali con sacrifici e
danze. Più tardi, quando il cristianesimo aveva respinto del tutto le credenze
pagane, gli Dei venivano abbassati a diavoli e le Idisen a creature diaboliche,
divenendo i sacri luoghi di culto posti di ritrovo delle streghe e degli spiriti
maligni. Già in glosse più vecchie si trova dunque Eumenide germanizzato con
la parola hazosa, una contrazione di hagezusa, termine con cui in tempi pagani
si chiamava presumibilmente la sacerdotessa. Ancora oggi una donna poco ordinata viene chiamata con il termine spregiativo ‘Zusl’». Anche nel dialetto di
Luserna si hanno la parola ingiuriosa zusl e più spesso ancora zosa 49. Così si
spiega la netta divergenza che il popolo conserva tra streghe e cristianesimo. La
credenza nelle donne malvagie può dunque essere considerata un residuo – tenacemente conservato dal popolo, derivante almeno in via indiretta dal vecchio paganesimo –, con qualche modifica fatta nel medioevo e all’inizio dell’età moderna. Le vecchie maghe pagane perdettero il loro prestigio a causa della
religione cristiana, lasciarono tuttavia timori superstiziosi che sopravvivono
nel popolo fino ad oggi. Come le Idisen bollivano e mescolavano il sangue sacrificale in un calderone, anche le streghe rimestano con un cucchiaio il contenuto di un pentolino, mormorando al contempo una determinata formula
(n. 23). Questo le permette di salire alle nuvole attraverso il camino, e di fare il
tempo (loc. cit.). Il calderone viene ricordato forse dall’usanza esistente a
Luserna fino ai tempi recenti, di poggiare calderoni all’aperto, in caso di temporali forti, girandoli con l’apertura verso il basso. – Le giovani streghe imparano la magia dalle vecchie (n. 23).
Anche la Perchtega (Berchta), o Pertega, viene indicata tra gli spiriti animati.
Quando tuona si dice che sta sciacquando le sue botti, e conserva anche in tinozze d’acqua i bambini non ancora nati, sul pendio assolato della montagna kan üaschan. Non le viene attribuito alcun altro ruolo.
2. Gli elfi. Anch’essi hanno la loro origine nella convinzione che l’anima continui a vivere; ma non si intromettono nelle vicende degli uomini, come invece
gli spiriti animati. Fanno parte delle creature degli elfi innanzitutto i folletti. È vero che non sono più conosciuti a Luserna, ma un loro ricordo dovrebbe celarsi
nella parola in lingua luserna wichtl (tromba d’aria). Nell’antichità germanica ci si
immaginava come vento l’anima che diparte dal corpo, considerando il vento
quale espressione vitale dell’anima, quale segno della sua presenza. Prätorius
(“Weltbeschreibung” 277) nomina come fatto strano una tromba d’aria perdurata per giorni interi attorno alla tomba di un morto; così gli spiriti volano nell’aria
sotto forma di vento (n. 4). Fanno parte degli elfi anche gli gnomi, che però non
sono presenti nelle leggende di Luserna; solo il Sambinelo, uno spirito del bosco
che trae in inganno, potrebbe essere paragonabile a loro in base alla descrizione fatta nelle leggende popolari (n. 33 50). - A ciò si aggiungono i geni della casa. A loro è
subentrato nella tradizione di Luserna il diavolo che deve portare soldi
49
50
Tale termine è tuttora in uso e assume un connotato negativo.
Trad. it. “Il salbanello”.
80
Luserna: c’era una volta
come contropartita per l’acquisto dell’anima (n. 1551). Sono elfi anche i selegen
(n. 11 52), il cacciatore feroce, che insegue signorine selvaggie (n. 35 53) e il bil mån (uomo selvaggio) mangia-uomini con la baibe (donna selvaggia) (n. 37 54), nei quali
però non è particolarmente evidente il lato sovrumano.
3. I demoni. Per questi, gli anziani intendevano creature assomiglianti all’uomo per natura e occupazione, ma erano immensamente più potenti. Sono
nati dalla personificazione della natura magnifica e degli elementi. Un ricordo
se n’è conservato a Luserna, quando il vento viene definito mån åna pluat. È curioso anche il termine in cimbro di khua von djenaro per il vento caldo di gennaio.
Troviamo una traccia della natura demoniaca, della rabbia che infuria e travolge, dello sfrenato imperversare anche nel cacciatore feroce. Nei paesi tedeschi,
questo caporione della tregenda infernale porta spesso nomi che ricordano
Odino. In tal caso probabilmente non si intende la divinità venerata da tempo,
ma il demone Odino, il cui nome corrisponde vistosamente a quello del dio del
paganesimo antico, ma rappresenta al massimo una sua parte o attività molto
subordinata, sicché non si può vedere in questa leggenda un residuo della vera
antica venerazione di Odino. Del resto, le leggende di Luserna non contengono
cenni sull’aspetto del cacciatore feroce, come ad esempio in Zingerle “Sagen”,
dove viene descritto in n. 2 quale gigante con un occhio solo, in n. 3 avvolto in
un mantello bianco e senza testa. Il nome del cacciatore feroce in Zingerle
“Sagen” è 3 Lorg, 4 Ourk, che con Norg risalgono al rom. Orco. Nel dialetto di
Luserna, l’ork viene tenuto distinto dal cacciatore feroce. L’ork nel dialetto di
Luserna si presenta sotto un’immagine infuocata (a mudl vaür), e può anche, come le creature animate, trasformarsi in figure diverse; l’uomo, che tornava dal
Bisele, pensava, vedendo il mostro scuro, informe, di trovarsi di fronte l’ork
(n. 4455); quando di notte la luce della luna o il fiacco lume delle stelle fa per magia uscire varie figure fantastiche dalle radici e dai tronchi degli alberi, perfino
dalle ombre delle incavature più grandi e più piccole, allora non ci vuole molto
per scoprirvi l’ork, e ad una persona che rientra a casa tardi, nella notte fonda,
si chiede – benché per lo più scherzosamente – se ha incontrato l’ork. L’ork porta solo danno e disgrazia, mai alcunché di buono. Dalpozzo “Memorie” p. 15 lo
annovera tra gli gnomi, il che però non è possibile secondo le concezioni di
Luserna.
4. Le divinità germaniche vere e proprie. La religione cristiana, nella lotta
contro il paganesimo, si è rivolta soprattutto contro la venerazione degli Dei veri e propri. Gli semidei e innumerevoli altre creature sovrumane venivano probabilmente considerate meno pericolose e liquidate in parte con qualche riferimento agli spiriti buoni e maligni della bibbia, agli angeli e diavoli. Si veda ad
Trad. it. “L’uomo che vendette l’anima al diavolo”.
Trad. it. “La matassa della donnetta beata”.
53
Trad. it. “Jakl Hoal”.
54
Trad. it. “Il selvaggio e la selvaggia”.
55
Trad. it. “L’orco”.
51
52
Diritto, tradizioni e credenze popolari
81
esempio la fiaba-leggenda di muatar, bo da hat geschwant sai khin (n. 9 56) in cui il
bambino vola, come un engele, nell’aria, con un gruppetto di altri angeli, e la
credenza che i fuochi fatui rappresentino diavoli. Il cristianesimo comunque
non sopportava le usanze legate al culto degli semidei e altre creature sovrumane e si scagliava in particolar modo contro l’osservazione pagana di certi animali e tempi, senza riuscire tuttavia fino ad oggi a soffocare del tutto la spinta dell’uomo verso il misterioso e verso la scoperta del futuro ecc. Non si sono quasi
conservati a Luserna ricordi di antiche divinità. I nomi di due giorni della settimana ne sono gli unici residui: Il erta 57 (secondo Mogk da Er o Ear per un antico *Tiwaz) e il vraita 58 (dall’antica dea germanica Frîja). Da menzionare anche
una collina a Recoaro, chiamata Freyek, la parola luserna oastarn 59 (dall’antica
dea della primavera austrô), che è identica al nome della relativa festa usato in
tutta la Germania, inoltre il nome di campo cimbro ostersteela e il nome di contrada contrada ostera nei Sette Comuni (v. Dalpozzo “Memorie”, 145, 148, 167).
5. Culto. Si tratta sicuramente di un vago ricordo del culto degli alberi quando nella leggenda di Luserna il legno esprime ad un boscaiolo il desiderio di
come essere trattato (n. 3). Mogk è del parere che il culto degli alberi (del bosco,
del monte e delle sorgenti) affondi prevalentemente le sue radici nel culto dei
morti, ma in parte fosse anche venerazione delle anime, dei demoni e degli dei.
Il racconto luserno citato rende evidente che ci si immaginava il legno animato.
Come mostra la fine, non si considerava tuttavia questo essere animato quale
stato ideale, ad esempio di un’era aurea, bensì quale stato contro l’ordine naturale, e addirittura come maledizione, come incubo che pesava sulla natura. Solo
dopo che il Concilio di Trento aveva benedetto l’intera natura animata e inanimata è scomparso questo sortilegio; il legno non parla più, ha perciò smesso di
celare in sé anime irrequiete.
Nella Germania settentrionale il livello dell’acqua indicava come sarebbe
stato il raccolto del grano; similmente il sea (palude) di Monterovere indica in
primavera con un livello basso dell’acqua che la pult sarà a buon mercato, con
un livello alto che sarà cara. Non vi sono altre credenze od usanze dei lusernesi legati ai laghi o alle sorgenti da usare per un raffronto con il culto germanico
antico delle sorgenti.
Sono inoltre rilevanti per la tradizione popolare derivata dal culto germanico antico i periodi di festa, l’oracolo e la magia.
a) Periodi di festa. San Nicolò e Knecht Ruprecht (figura che accompagna il
santo), che Mogk mette in relazione al Julfest (festa di solstizio d’inverno), a
Luserna, come nel Tirolo italiano, hanno ceduto il posto a Santa Lucia. Anche qui
i bambini, come nel giorno di San Nicolò nelle aree tedesche, ricevono doni graditi e dolcetti da Santa Lucia. Saranno più abbondanti, se i bambini tengono pron-
Trad. it. “La madre che piangeva il bambino morto”.
Martedì.
58
Venerdì.
59
Si tratta del nome cimbro della Pasqua.
56
57
82
Luserna: c’era una volta
to un po’ di cruschello per il mussètle 60 di Santa Lucia, come succede nelle zone
tedesche per l’asino di San Nicolò. I giorni commemorativi dei due santi sono
molto vicini anche come data: il 6 dic. San Nicolò, il 13 dic. Santa Lucia. – In febbraio si festeggiava nel nord il Góiblót, che Mogk interpreta come festa per il ritorno del sole. Negli ultimi 3 giorni di febbraio, i giovani di Luserna girano con
sonagli e altri strumenti chiassosi per le vie del paese chiamando merz! o marzo!
L’ultimo di febbraio, all’imbrunire, viene acceso un gran fuoco su una collina un
po’ distante dal paese; si dice che vorprennen in martzo, mettono al rogo marzo.
b) Oracolo. Dall’osservazione di un oggetto i sacerdoti germanici antichi e le
“donne sagge” predicevano il futuro, allorquando vi era un’occasione importante che interessava il popolo intero, in caso di eventi meno rilevanti chiunque
eseguiva la divinazione. Gli oggetti più svariati venivano usati per vaticinare e
come mezzi per l’osservazione di una volontà superiore. Se ne sono conservate
a Luserna le tracce seguenti:
1) L’incontro con certe persone in certi momenti, le fattezze di parti del corpo
umano. Se il primo incontro al mattino è con una vecchia, allora il cacciatore per
tutto il giorno non sarà fortunato; analogamente, un giovane sarà infelice in
amore per tutto l’anno, se nel giorno di capodanno incontra per prima una vecchia. Se l’alluce di una donna è più piccolo del dito seguente, sarà presto vedova. Tintinnio nelle orecchie significa maldicenze o elogi da parte di qualcuno,
a seconda che si tratti dell’orecchio sinistro o destro. Il dorso della mano piegato a pala indica avarizia, capelli tagliati e asportati con il pettine danno origine
a mal di pancia, se gettati via; le macchiette bianche sulle unghie delle dita significano bugie. Gli occhi aperti di una salma annunciano una morte imminente.
2) Vari episodi ed attività, anche vestiti e oggetti d’uso comune, danno adito a
premonizioni e conclusioni per il futuro. Schioccando le dita, la ragazza conosce il numero dei suoi ammiratori; due innamorati che fanno da compari
ad un battesimo, si lasceranno più avanti. Lavare in un giorno di pioggia fa
presagire alla ragazza il cattivo umore dell’amato; se una ragazza, lavando,
sparge tanta acqua, allora il futuro sposo sarà un bevitore; se ad una donna,
mentre lava, si stacca la fede, significa che perderà il marito per annegamento. Chi dei due sposini spegne la luce nella prima notte, morirà per primo. Un
cucchiaio caduto significa cibo immeritato, un pezzo di pane caduto sta per
la riluttanza di chi lo dà. Bambini che cantano sono l’avviso di un decesso
imminente; di 13 persone ad un banchetto nuziale, una ne morirà nel corso
dell’anno. Se il malato tira di qua e di là la coperta è l’annuncio della sua morte imminente. Se la sposa scivola il giorno delle nozze, deve aspettarsi sfortuna. Il rosario favorisce l’armonia tra amanti, dato che di pet pintet 61. Se il nastro del grembiule o della calza si scioglie da solo, la ragazza sa che l’amato
la pensa. Un coltello tra innamorati significa discordia, visto che il mesar
60
61
Asinello.
Lett. “il rosario lega”.
Diritto, tradizioni e credenze popolari
83
hakht 62. Se una ragazza cammina per la strada, con l’orlo del vestito girato,
l’amato è arrabbiato; se si scopa per terra, in direzione di un ragazzo o una ragazza, slitta per quell’anno il matrimonio. Se ad una ragazza stanno bene gli
anelli alle dita, avrà un marito brutto e viceversa. Lo stoppino della lucerna
significa una lettera, quando il fuoco scoppietta preannuncia una visita, un
quadro caduto dal muro sta per un decesso imminente, crocette formatesi a
caso con pagliuzze, ramoscelli ecc. disseminati, indicano disgrazia e morte. Se
il cassone del letto degli sposi è girato con l’estremità dei piedi verso la porta, uno dei due muore entro l’anno. Luce ardente chiara, accesa per un defunto, comunica la sua sorte fortunata. Se le donne si mettono la gonna alla rovescia, verrà un temporale. Cullare una culla vuota comporta la malattia del
bambino che poi vi verrà messo dentro, il misurare la grandezza di un bambino gli impedisce la crescita, ugualmente il passare sopra il bambino. Un
abito nero nel giorno delle nozze significa sfortuna per la sposa 63. Sogni di
lettere, di una processione con candele, porta male o annuncia una disgrazia.
3) Analogamente, anche animali e piante offrono un presagio per il futuro:
L’incontro con una lepre al mattino predice disgrazia al viandante; annunciano
anche decessi imminenti il miagolio di gatti in amore, l’ululare e guardare in basso dei cani, un sogno di cavalli o maiali, lo schiamazzare notturno o il gracidare
delle galline, il richiamo della civetta; uccelli bianchi nei sogni fanno presagire la
morte di un bambino. Se a primavera si sente per la prima volta il canto del cucù e si hanno con se soldi, allora questi non mancheranno per tutta l’estate. Il cucù svela anche ai giovani alla loro domanda gridata, quanti anni passeranno ancora fino al loro matrimonio: quante volte il cucù canta dopo la domanda posta,
tanti anni occorrerà aspettare, e se non canta per niente, allora il matrimonio si farà o lo stesso anno o mai più. Le rondini sono uccellini sacri, il loro nido porta fortuna alla casa. La vista di un millepiedi e il sogno di pidocchi promettono soldi.
Sognare cavalli può significare anche lettere, lo stesso vale per l’avvicinarsi di
una piccola falena; il verso della quaglia predice il prezzo degli alimentari: quante volte la quaglia canta: dekh di hüt, tante trü (moneta d’argento) verrà a costare
uno staio di farina nello stesso anno. Il canto del fringuello in autunno indica neve, la rondine con il volo basso annuncia pioggia. Di un animale molto feroce
narra la seguente leggenda: s oa von hå. Als hundart djar lek dar hå an oa pluatet ’s
aus. Aus disan oa khint a baselisko. As da dar baselisko sik das earst a mentsch, ditza
möch stèrn. Sick ’s mentsch das earst an basilisko, möchtar skloppm.
Il quadrifoglio porta fortuna, il nocciolo indica la quantità di neve che cadrà. (Sull’aglio v. sotto 4).
4) Anche il tempo diede motivo per ipotizzare una volontà superiore. Il primo
martedì dopo una luna nuova non è adatto per concimare i prati. In una
Lett. “il coltello taglia”.
A quanto riferisce lo stesso Bacher, comunque (vedi p. 50), questa credenza è in seguito venuta meno e in tempi a lui più vicini le spose indossano un abito nero, mentre le usanze antiche e
gli abiti tradizionali sono scomparsi già da una generazione nel momento in cui egli scrive.
62
63
84
Luserna: c’era una volta
casa, dalla quale nel giorno di venerdì viene portato via un defunto per il
funerale, lo stesso anno seguiranno altri due morti. Se si tagliano le unghie
di venerdì, più tardi suppureranno. Se si semina l’insalata di venerdì, non
crescerà; il venerdì è anche di cattivo auspicio per l’inizio di un lavoro e di
un mese; chi ride molto di venerdì, piange di domenica e viceversa. Aglio,
mangiato il giorno della conversione di San Paolo, protegge dal morso di
serpente, brina per l’Annunciazione significa la propria incolumità per un
anno intero, pioggia per l’Ascensione di Gesù Criso annuncia 40 giorni piovosi di seguito, nella domenica di pentecoste significa un cattivo raccolto.
Tempo bello per San Gallo durerà fino a Natale. La caccia nel giorno di
Natale porta buona caccia per un anno intero, la partecipazione a tre messe
nello stesso giorno promette protezione dai lampi, il giorno della settimana
che cade a Natale è adatto per seminare le verdure. L’ultima domenica di
carnevale bisogna pettinare i capelli e tagliarne le punte, allora cresceranno
più folti. Il giovedì santo e il sabato santo occorre strofinarsi gli occhi al suono del gloria, per avere garantita la salute. Il venerdì santo non si devono
pettinare i capelli per non dare un dispiacere al Signore.
5) Anche gli astri, di cui il sole e la luna rappresentano gli occhi di Dio, hanno
un significato. La luna è abitata da un omino e una donnina, è il luogo in cui
è stato confinato il Linsendieb (ladro di lenticchie, n. 13 64) e che viene messo più di altri in relazione alla crescita delle piante e al buon andamento delle attività umane. La luna indica il tempo. Luna piena o luna crescente non
sono favorevoli alla semina, alla fienagione, per abbattere alberi nonché per
iniziare a fare il bucato, sono invece indicate per tagliare i capelli; il primo
quarto non è adatto per piantare l’insalata. La cometa porta punizione, sfortuna o guerra se la sua luce è rossiccia; ma se la luce è bianca, allora è di
buon auspicio. La via lattea è dar bege, bo da trak (porta, conduce) ka ruam
(Roma); se è chiaramente visibile, arriverà pioggia.
c) Magia. Nei Germani erano soprattutto le donne, ma a volte anche gli uomini a dedicarsi alla magia. A Luserna la magia si è fusa con il concetto di stregoneria. Presunti streghe e stregoni vengono guardati con timidezza. La magia consisteva nei Germani in certi segni che diventavano efficaci con l’aggiunta della
formula magica. Nelle leggende di Luserna si riscontra come segno il pentolino fittile, in cui si fa girare un cucchiaio di ferro. La formula magica è indicata al n. 27 65,
da cui risulta che allora ci si immaginava anche un unguento delle streghe, benché lo stesso non viene menzionato da nessuna parte. Solo in presenza di un unguento della strega l’onto, bisonto (unto, unto due volte) acquista un senso e spiega anche nel modo più semplice il far girare un cucchiaio di ferro nel pentolino.
Stranamente, la formula magica si è conservata presso i lusernesi in lingua italiana. Si trova solo un cenno ad una formula magica o di sortilegio al n. 24, nel termine “murmeln” (mormorare). – La magia veniva usata dai vecchi in vari modi,
64
65
Trad. it. “L’uomo che si vede sulla luna”.
Trad. it. “Il vecchio stregone”.
Diritto, tradizioni e credenze popolari
85
sia per aiutare gli uomini sia per danneggiarli. Nel primo caso si applicava la magia per guarire le persone da malattie, rendere invulnerabile il fisico o assistere la
persona in pericolo ed emergenza, e salvarla laddove l’aiuto umano secondo la
legge naturale delle cose o non è possibile o lo è solo andando oltre le forze naturali. Di questa magia benefica però nella concezione dei lusernesi non vi è quasi
traccia. È vero che al n. 23 un bue è stato salvato dalla giovane strega, ma questo
può valere solo come beneficio apparente, dato che il bue era stato stregato in precedenza, e dopo la morte della giovane strega l’animale misterioso è anche scomparso assieme alla vecchia. Piuttosto si potrebbe intravedere un ricordo di magia
benefica nella credenza di far sparire verruche con un filo, o nel rivolgersi ad un
ciarlatano in modo credulo e fiducioso. Per il resto i lusernesi oggi considerano di
malafede e dannosi la magia e i maghi, i quali si sono dunque fusi del tutto con le
streghe e gli stregoni. Nella leggenda n. 28 66 l’idea della magia (cioè stregoneria)
si è curiosamente mescolata alla fede nelle consacrazioni e benedizioni ecclesiali.
Il concetto di un effetto dannoso della magia non si è sviluppato solo con il
tempo, ma esisteva già nell’antichità germanica accanto alla sua valutazione positiva. La disgrazia, la malasorte, di cui si era colpiti, la si ascriveva alla magia
nera; non di rado i maghi e le maghe avranno, in uno stato di eccitazione e con
sete di vendetta, minacciato qualche disgrazia, per cui, se questa alla fine si verificava effettivamente, veniva ricondotta alla sola magia. Perciò si incontra nell’antichità germanica accanto al rispetto riverente per i maghi anche disprezzo
e ripugnanza. L’avversione veniva sicuramente alimentata dal cristianesimo.
C’è da meravigliarsi dunque se il ribrezzo di fronte ai negromanti ebbe il sopravvento e regnava infine incontestato in luoghi come Luserna?
Contro la magia nera occorreva trovare efficaci rimedi. Alcuni si sono conservati anche a Luserna in certe usanze: una coppia appena sposata deve ad
esempio passare sopra una scopa per essere immune contro sortilegio. Sopra
una tomba aperta vanno posti incrociati badile e zappa per proteggerla dalla
vasta influenza delle streghe. In caso di tempesta si bruciano rami d’ulivo benedetti, visto che le streghe non sopportano il fumo di oggetti sacri. Un altro rimedio efficace sono le campane di chiesa benedette; il loro batacchio diventa pericoloso per le streghe che fanno il buono e il cattivo tempo, le ferisce, le batte giù
dalle nuvole, evitando il danno che le malvagie avevano in mente. Una fidanzata deve guardarsi bene dall’uscire di notte da sola, poiché verrebbe stregata.
La tendenza di proteggere i giovani dalle insidie morali era probabilmente la
causa per il sorgere di questa credenza. Anche altre misure comportamentali
danno l’impressione di essere fondate su intenti pedagogici, ad esempio l’avviso
che un segno di croce fatto con la sinistra significa litigi, che la Madonna non può
vedere bambini non lavati; esorta alla pulizia e prudenza il detto: i vestiti non
lavati di un defunto comportano un nuovo decesso; dalla cura dedicata al focolare scaturisce l’ammonimento di non far pendere bassa la hel (catena) quando
non viene utilizzata; ma il popolo prende alla lettera anche tradizioni di questo
66
Trad. it. “I due decani”.
86
Luserna: c’era una volta
tipo. Quanto forte fosse radicato ancora nell’anno 1900 la credenza del pericolo
di sortilegio, che corrono le puerpere, lo si ricava da quanto segue: da khlua hat
gehat an pua. On in an tage hat sa gemöcht gian in stal z’ sega von vich., ombrom dar
soi mån is vortgebest. On se hatar genump s baigebasar on is-e-se gesenk. Denna hat
hatzesan genump a bötzle in di gadjof, denna hat s’ ar gelek um a groasa pet on is gånt
in stal pa dar nacht, on dar bilesch hat se nètt gewank 67. Di notte vi è il pericolo soprattutto per i bambini di essere stregati, perfino la loro biancheria assorbe la
magia negativa e la trasmette al bambino. – Quando però si dice ai bambini che
un bimbo che salta dentro l’arcobaleno si trasforma in ragazzina e viceversa,
probabilmente si intende esprimere scherzosamente l’impossibilità di tale impresa. Le cose stanno diversamente con l’usanza di gettare un dente caduto sopra la testa, o di inserirlo o lanciarlo in un buco di topo, invitando il topo a portare presto un nuovo dente. Questa abitudine potrebbe essere connessa ad una
vecchia credenza, ad una convinzione un tempo chiara e precisa.
Trad. it. «la giovane ebbe un bambino. Un giorno devette recarsi nella stalla per occuparsi delle bestie, poiché il marito era assente. Prese l’acqua santa e si fece il segno della croce. Ne riempì anche una bottiglietta e se la mise in tasca. Poi mise al collo un grosso rosario e si recò nella stalla durante la notte, e il sortilegio non la colpì».
67
V.
FIABE, LEGGENDE, STORIELLE
Fiabe, leggende, storielle
89
A. Fiabe, leggende e storielle
PREMESSA AI RACCONTI
Josef Bacher ha raccolto i quarantasette racconti che vengono proposti di seguito. In alcuni casi ha aggiunto qualche nota, precisando però che «Dato che gli
aiuti che ho a disposizione per le comparazioni e i riscontri sulle fiabe lusernesi sono
piuttosto scarsi, mi devo limitare a qualche breve accenno».
Le note originarie, ove presenti, sono state inserite nel relativo racconto.
Tematiche presenti nei racconti
• DIO - SANTI - ANGELI: 1, 2, 9, 10
• NATURA (animali, piante, etc.): 3, 4, 5, 13, 14a, 14d, 16, 19, 36, 41
• LUSERNA - ABITANTI: 6, 8, 11, 14, 16, 17, 39, 40, 44, 45, 46, 47
• CHIESA - CAMPANE: 7, 8, 14b, 14c, 14e
• RELIGIONE: 3, 9, 20
• STREGHE - STREGONI: 7, 8, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 35
• CALAMITÀ NATURALI: 5, 6, 7, 8, 18, 28, 38
• BAMBINI - MAMME: 2, 9, 17, 22
• DIAVOLO: 11, 15, 21
• DEFUNTI - ANIME: 2, 12, 20, 34
• UOMINI E DONNE SELVATICI: 11, 17, 33, 37
• VAMPIRI: 30, 31, 32
90
Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 1
Bruno Schweizer 68 riporta un racconto simile,
ma riguardante la località di Allgäu in Baviera.
Gott dar Hear un dar
khèrn boimarn
Il Signore Gesù
e l’acino d’uva
Bàlda Gott dar Hear no is gebest af
disa bèlt, ìssar gånt a vert gesotzt zo ross
nå in an bege. Bal dar is gebest a baila vür,
hattar gesek danìdar an khèrn boimarn.
Dar is argesotzt un hatten augelest,
un hatten gèst. Ditza hattars getånt zoa
to lìrnanas üs, as bar nèt lassan gian nicht
umme nicht vo alln in sàchandar bo das
schikht Gott dar Hear.
Quando il Signore era ancora a
questo mondo, andò a cavallo lungo
una strada. Dopo un po’ vide per terra un acino d’uva. Scese da cavallo, lo
raccolse e lo mangiò. Fece questo per
insegnarci che niente di tutto ciò che il
Signore Iddio ci manda deve essere
trascurato, per nessun motivo.
68
Schweizer Bruno, Concetti cristiani nelle credenze dei cimbri, Edizioni Taucias Gareida,
Giazza - Verona, 1989.
92
Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 2
Mauro Neri 69, nel suo libro “Donne e bambine nelle leggende del Trentino”,
racconta una leggenda originaria della Val Lagarina che riporta lo stesso titolo di
questo racconto. La trama è la stessa, con qualche differenza nei dettagli. Nel
commento al racconto, la madre di San Pietro viene descritta come una donna
egoista: «Puoi anche essere la madre di San Pietro, e grazie a questa condizione
vantaggiosa può esserti perfino offerta quest’ultima chance che ad altri non è
concessa, ma se non fai ammenda al tuo egoismo, a nulla varranno le suppliche e
le misere preghiere che saprai recitare. L’inferno ti accoglierà due volte!».
Di muatar vo san Piaro
La madre di S. Pietro
Di muatar vo san Piaro is gebest a
schaüla znichts baibe, bo da nia hatt getånt nicht guats, un hatt hèrta gevluacht
un gestritet pit alln.
A vert ìsse gebest kan pach zo bèscha
tschovölln, un dà ìssar inkånt ’s gras vonan tschovöll. Si hats bahémme geböllt
vången, ma si is neméar gebest guat, un
alóra hatse khött:
«Gea hì, i ópfarde in armen sealn!»
Bal se is gestorbet, Gott dar Hear
hatse geschikht kan taüvl.
In san Piaro hatsen getånt ånt zo bissa sai muatar kan taüvl, un dar hatt sovl
gepittet Gott ’n Hearn àssarse nemm au
in hümbl, fin àsta Gott dar Hear hatt
khött:
«Gea un nimm ’s gras von sèll tschovöll un, àsto pist guat zo zìagase auvar
darmìtt, möse khemmen in hümbl pit
diar».
Asó hattar getånt san Piaro. Dar hatt
genump ’s grass von tschovöll un hats gerekht nidar kan taüvl.
Sai muatar is geloft bahémme un ìssese drinn gehenk. San Piaro hatt ågeheft
zo zìagase au.
La madre di San Pietro era una
donna molto cattiva, che non faceva
mai nulla di buono e che invece bestemmiava continuamente e litigava
con tutti.
Una volta andò al fiume per lavare delle cipolle e il gambo di una di
queste le sfuggì di mano. Tentò subito di pigliarlo, ma non ne fu capace.
Allora disse: «Vattene, va, ti offro alle
anime dei defunti!»
Quando morì, il Signore la mandò
dal diavolo.
A San Pietro dispiacque molto sapere che sua madre era finita all’inferno e supplicò così tanto il Signore di
accoglierla in cielo, che infine il
Signore disse:
«Va a prendere quel gambo di cipolla e se riesci a tirarla su dall’inferno con quello, allora potrà venire in
cielo con te».
San Pietro fece così. Prese il gambo di cipolla e lo protese verso l’inferno. Sua madre corse ad attaccarvisi e San Pietro cominciò a tirare. Ma
quando le altre anime che stavano
70
Neri Mauro, Donne e bambine nelle leggende del Trentino, AlcionEdizioni, Trento, 2008.
Bacher annota: «Reperibile con qualche piccola differenza in Schneller‚ Märchen und
Sagen aus Wälschtirol (Fiabe e leggende del Trentino), n. 4».
69
70
94
Luserna: c’era una volta
Ma bàlda di åndarn håm gesek asó,
sòinsa alle geloft zo héngase drinn se o.
Ma di muatar vo san Piaro hatt håntgelek z’ straita un zo vluacha un zo kenka, un hatt khött:
«Geat vort, geat vort, plaibet sèm eråndre maladìrate, mai Piaro zìagetme au
mi alumma un nèt aüchåndre o».
Ma a fòrtza zo kenka un zo zèrra ista
darrìst ’s grass, un si is bidar gevallt nidar
kan taüvl.
«Sìsto, – hattar khött Gott dar Hear
– as ma bill khemmen in hümbl, möchtmasen pròpio gebinnen».
all’inferno videro cosa stava accadendo, accorsero pure loro ad aggrapparsi al gambo di cipolla. La madre di
San Pietro però cominciò a litigare, a
bestemmiare e a tirar calci, gridando:
«Andate via, andate via, restate là
voialtri maledetti, il mio Pietro tira sù
me soltanto e non voialtri». Ma a forza di tirare e di dar calci, il gambo di
cipolla si strappò e la donna precipitò
nuovamente all’inferno.
«Vedi» disse allora il Signore «che
se si vuole salire in cielo, bisogna proprio meritarselo».
Fiabe, leggende, storielle
95
Racconto nr. 3 (immagine pag. 96)
Hàkhtme au in zöllela,
un nèt in schaitla!
Spaccatemi in pezzi
grandi, non in pezzi
piccoli !
71
Vor vil vil djar, bàlda no alls hatt geredet, di vichar, ’s gegrés un di khnotn o,
a månn is gånt zo hakha au holtz.
Dar hatt genump a stemble un hats
gelek affn hakhstokh. Bal dar hatt gehöachart di hakh zo böllas khliam, ’s temble
hatt ågeheft zo reda.
Dar månn hatt augehaltet di hakh un
ìssese nidar gepükht zo lüsna bas da ’s
stemble khütt. In a bàilele hats bidar ågeheft un hatt khött:
«Hàkhtme au in zöllela, un nèt in
schaitla!»
Un bal sa denna håm gemacht in
Sakro Koncilio vo Tria, håmsa gebaiget ’s
gehültz un di khnotn un ’s vich un, vo sèm
å, hats nicht mear geredet ne ’s holtz, ne
di khnotn, ne ’s vich.
Molti, molti anni fa, quando ancora tutte le creature parlavano, gli animali, le piante e perfino le pietre, un
uomo si recò a spaccare legna.
Aveva preso un piccolo tronco e lo
aveva collocato sul ceppo. Quando
sollevò la scure per spaccarlo, il tronco cominciò a parlare.
L’uomo trattenne la scure e si chinò a sentire che cosa il tronco dicesse.
Poco dopo, il pezzo di legno ricominciò a parlare e disse: «Spaccatemi
in pezzi grandi, non in pezzi piccoli!»
Quando poi ci fu il sacro Concilio
di Trento (1545 - 1563) le piante, le pietre e gli animali vennero benedetti e
da allora in poi non parlarono più né
piante, né pietre, né bestie.
In cimbro esistono due vocaboli distinti per indicare “pezzi grandi”, “zöllela”, “pezzi
piccoli”, “schaitla”.
71
Fiabe, leggende, storielle
97
Racconto nr. 4 (immagine pag. 98)
Dar schavar un dar visch
Il pastore e il pesce
A schavar hatt gehüatet soine öm
nåmp in mer.
’S is gebest khalt un er hatt gevrort.
Dar hatt gesüacht a platt zo macha
drau a vaürle zo bèrmase, umbrómm attemìtt in gras hattars nèt ågeböllt züntn,
zoa nèt zo vorprénnas.
Dar hatt gevuntet a schümmas
slèchts plettle un sèm hattar ågezüntet ’s
vaür un hatse zuargebèrmp. Ma alls in an
stroach gìtsen an schüttlar un schüttlten
imen un alle soine öm inn in mer, bo sa
soin dartrùnkht.
Dar arm schavar hatt ågehatt gemacht ’s vaür affn rukkn vonan groasan
groasan visch un, bàlda disar hatt gehöart
di hitz, hattarse geschüttlt, un disar
schüttlar is gebest dar toat von schavar
un vo soin öm.
Un pastore custodiva le sue pecore presso il mare. Faceva freddo ed
egli si sentiva gelare, così decise di
cercare una pietra liscia dove accendere un piccolo fuoco per riscaldarsi,
poiché non lo voleva accendere in
mezzo all’erba per non bruciarla.
Trovò una bella pietra liscia, vi accese sopra il fuoco e rimase a scaldarsi. Ma tutto ad un tratto ci fu uno
scossone, che mandò lui e le sue pecore a cadere in mare, dove annegarono tutti.
Il povero pastore aveva acceso il
fuoco sul dorso di un enorme pesce e
quando il pesce sentì il calore del fuoco si scosse e quello scossone segnò la
morte del pastore e delle sue pecore.
Fiabe, leggende, storielle
99
Racconto nr. 5 (immagine pag. 100)
Di mèrla
La merla
Di mèrla is gebest a schüandar baisar
vogl, un ats achtunzbuantzekh von djenàro hatse khött:
«Est vörteme neméar von bintar un
von vrost, umbrómm da létzarste zait is
vort».
Un ats noünunzbuantzekh, draitzekh
un unundraitzekh ìsta khent a schaüladar
bint un a schaüladar vrost, un si hatt neméar gebisst bia zo tüana zo bohüatase
von vrost. Un si is gånt au affn khemmech un is sèm gestånt alle drai di tage.
Un bal se is ausgeflatart von khemmech,
ìsse gebest alla sbartz a be dar ruaz, un
asó ìsse no in ta’ vo haüt o … Un dise drai
lestn tage von djenàro hóastmase no hèrta di tage vo dar mèrla.
La merla era un uccello bianco
molto bello ed il 28 di gennaio si era
permessa di dire:
«Ora non ho più paura dell’inverno e del gelo, perché il tempo peggiore è già passato!»
Ma il 29, il 30 ed il 31 di gennaio
arrivò un vento così forte e un freddo
così intenso, che la merla non seppe
più come fare per ripararsi dal gelo.
Decise allora di accovacciarsi sopra
un tetto, vicino ad un camino, dove rimase tutti e tre quei giorni. Quando
finalmente volò via dal camino, la
merla era diventata nera come la fuliggine e tale rimase, anche al giorno
d’oggi… E questi tre ultimi giorni di
gennaio, da allora, si chiamano “i
giorni della merla”.
Fiabe, leggende, storielle 101
Racconto nr. 6
Di pèsta, odar bia
di Lusérnar håm getånt
zo khemma zo bissa
béda la pèsta no is bait
vort von lånt
Dise djar ìsta gebest khent la pèsta.
Si is gebest ummar in alle di lentar umenùm Lusérn un di Lusérnar soin gebest
alle in a vort, umbrómm sa håm gemuant, se khint sèm o.
Sa héttatn gearn gebisst bi se is pall
nåmp un, habante gehöart khön ke bo da
is la pèsta darvàulta ’s proat o, ìssen
khent in sint zo nemma na stång zo stekha drau zboa pröatla un zo lùanase au,
au affn Sbånt. Sa håm khött:
«Àsta is la pèsta in air au affn Sbånt,
’s proat darvàult un asó sébar bia un
bas». Asó håmsa getånt.
Sa håm genump a långa stång un håmse getrakk au affn Sbånt; dóm håmsa gemacht a loch in di earde un håm augeluant
di stång drau pitn zboa pröatla. Getånt àssas håm gehatt, sòinsa bidar khent huam.
Zboa drai tage darnå sòinsa bidar gekheart zo giana au z’ sega bi ’s steat pitn
proat. Bal sa håm ausgehatt gegrabet di
stång un håm argenump ’s proat, håmsa
gesek ke das halbe proat in zuar Vésan is
gebest vaul àspe a sbåmm, un das åndar
halbe auvar zuar Lusérn is no gebest guat.
Asó håmsa gesek ke la pèsta is gebest
khent fin sèm.
Sa håm augelek zboa åndre pröatla
un in an étlane tage sòinsa bidar gånt z’
sega.
Cosa fecero i luserni
per sapere se la peste
era ancora lontana
dal loro paese
72
In quegli anni c’era la peste. Essa
aveva raggiunto tutti i paesi attorno a
Luserna.
In questo paese gli abitanti erano
spaventati perché pensavano che presto o tardi la malattia sarebbe arrivata anche da loro e desideravano sapere se fosse già vicina.
Per riuscire in questo, poiché avevano sentito dire che dove arriva la
peste si guasta perfino il pane, venne
loro in mente di prendere una pertica
e di infilare ad una delle estremità
due pezzi di pane e di piantarla poi
sullo Sbånt sopra Luserna. Essi dissero: «Se sullo Sbånt c’è la peste nell’aria, il pane si guasterà e noi sapremo
già come andrà».
Così fecero: presero una lunga
pertica e la portarono su allo Sbånt;
lassù scavarono una buca in terra e vi
piantarono la pertica coi due pezzi di
pane. Poi, tornarono a casa.
Due o tre giorni dopo risalirono a
vedere che cosa ne fosse del pane.
Quando ebbero levato la pertica e
preso il pane, videro che nella metà
verso il Vezzena il pane era guasto come un fungo e che nella metà verso
Luserna era ancora buono. Così si resero conto che la peste era giunta proprio fin là.
72
Bacher annota: «Come qui l’aria appestata guasta il pane, in Val Martello faceva diventare completamente rossa la biancheria fresca di bucato [Heyl, Volkssagen (Leggende
popolari) 497]».
102 Luserna: c’era una volta
Disa vert is no gebest alls guat ’s proat, un di laüt soin gekheart alle luste bodrùm in lånt, umbrómm sa håm gesek ke
la pèsta is bidar vortgebest, åna zo tüananen khumman schade.
Misero sopra la pertica due altri
pezzi di pane e dopo alcuni giorni tornarono a vedere. Questa volta il pane
era tutto sano ed essi tornarono felici
e contenti al paese, perché avevano
constatato che la peste si era già allontanata senza far loro alcun danno.
104 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 7
Dar striù vo Sam Bastiå
Lo stregone
di San Sebastiano
73
In an stroach ista khent a striù vo
Sam Bastiå zo böllas machan schaurn. Un
baldar is gebest hér, obar ’s lånt vo
Lusérn, hattar gevånk an stroach pitn
khlèchl vo dar groasan klokk in an schinkh
un is dartschotet un is gestånt tschotat
fin assar is gestorbet.
Una volta arrivò uno stregone da
S. Sebastiano con l’intenzione di suscitare tempesta e grandine sopra il
paese. Ma quando fu sopra Luserna,
il batacchio della campana grande lo
colpì ad una gamba ed il colpo fu così forte che lo stregone restò storpiato
e zoppo finché visse.
73
Bacher annota: «Come nelle leggende tirolesi per uccidere le streghe si sparano pallottole benedette [Zingerle, Sagen (Leggende) 791], nell’immaginario lusernese il suono delle
campane è un pericolo per streghe e magi».
106 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 8
’S klökkle
vo sant’Antóne
La Campanella
di sant’Antonio
’S klökkle vo sant Antóne ats Lusérn,
odar dar tschintschinnàvano, is gebaiget
vor das schaüla bèttar.
In an stroach håmsas gelaütet bal ’s
hatt geschaurt, un balamån hats gètt an
stroach pitn khlèchl in khopf vonar stria
un hatse gemèkket von bolkhnen abe. Un
vo darsèlln vert aus ìsse neméar gånt zo
macha ’s bèttar.
Il tintinnabolo di Luserna, chiamato anche Campanella di sant’Antonio, è stata benedetta per annunciare il cattivo tempo.
Una volta la suonarono mentre
grandinava e all’improvviso il batacchio della campanella colpì in testa
una strega e la fece cadere dalle nubi.
Da quella volta in poi la strega non
andò più in giro a provocare il cattivo
tempo.
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Bacher annota: «Come nelle leggende tirolesi per uccidere le streghe si sparano pallottole benedette [Zingerle, Sagen (Leggende) 791], nell’immaginario lusernese il suono delle
campane è un pericolo per streghe e magi».
108 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 9
Questo racconto ricorda la favola dei Fratelli Grimm intitolata
“La camicina da morto”. Anche in questo caso, la trama è la stessa,
variano solamente alcuni dettagli.
Di muatar bo da hatt
geschuant sai khinn
La madre che piangeva
il bambino morto
A muatar hatt gehatt a schümmas
djunges khindle. Disan khinn hatsen geböllt an groasan bol.
Ma umbrómm se hats gehaltet kar za
gearn, Gott dar Hear hatsar genump.
In an tage ’s khinn is darkhrånkht un
is palle khent zo stiana letz. Aniaglana
medisì bo da di muatar hatt gebisst, un
bo se hatt gemuant, se mögaten tüan bol,
hatsesen nidargètt, ma khùmmana hatt
éppas geholft. Von an tage aff den åndar
’s khinn is khent zo stiana hèrta letzar.
Bal da di muatar hatt gesek asó, hatse geschikht zo rüava in doktùr. Ma darsèll is gebest vort bait, un vor dar is
khent, ’s khinn is gestorbet.
Dar armen muatar hatsar getånt ånt
àssar sai gestorbet ’s khinn, àsta di laüt
håm gemuant ke di khint narrat. Tage un
nacht hatse nèt åndarst getånt bas gegaült un gegaült.
Si hatt nèt gèsst un nèt getrunkht un,
bal sa soin khent zo nemma ’s khinn un
håms gelek in paur zo tràgas zo bogràba,
Una madre aveva un bel figlioletto che amava molto. Ma proprio perché gli voleva troppo bene, il Signore
Iddio glielo tolse. Un giorno il bambino si ammalò e in breve tempo stette
molto male. La madre gli fece prendere ogni medicina che conosceva e che
riteneva potesse fargli bene, ma nessuna di esse gli giovò. Di giorno in
giorno il bambino andò peggiorando,
tanto che la madre mandò a chiamare
il dottore.
Il dottore però abitava molto lontano e quando arrivò, il piccolo era
già morto. La povera madre si addolorò talmente per la morte della sua
creatura, che la gente ebbe l’impressione che impazzisse. Non faceva altro che piangere e piangere, giorno e
notte. Non mangiava e non beveva e,
quando vennero a prendere il figliolo
e lo misero nella bara per portarlo a
seppellire, svenne e tutti credettero
che anche lei stesse per morire.
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Bacher annota: «Un’analoga leggenda arrivò nel maggio 1885 all’orecchio di K. Weinhold
zu Kolbnitz (Slesia): una madre aveva visto in sogno il proprio figlio avvolto in una camicia completamente bagnata. Ma il sogno non era servito a niente, perché “la donna non
riesce ancora a tranquillizzarsi” [Zeitschrift für Volkskunde (Rivista di cultura popolare)
IV, 456]. In merito, Weinhold osserva: “Si tratta di un riflesso della credenza, ampiamente diffusa, del rimpianto che toglie la pace ai morti nella tomba; cfr. J. Grimm, Deutsche
Mythologie (Mitologia tedesca) 5. 884, W. Müller e Scharubach, Niedersächsische Sagen
(Leggende della Bassa Sassonia) n. 133 con le note di Schulenburg, Wendische Sagen
(Leggende sorabe), pag. 237 e seg., Rochholz, Deutscher Glaube und Brauch (Credenze e usi
tedeschi) 1, pag. 207 e seg.” Nella leggenda lusernese, il cupo sconforto viene infine cancellato dall’insegnamento dell’evla, vinto dall’amore per il figlio e illuminato dal sentimento religioso, dalla devota speranza nella vita eterna».
110 Luserna: c’era una volta
ìsse darlàichtet, un di laüt håm gemuant
ke si stirbet si o.
Gestorbet ìsse bol nèt, ma in biane
tage ìsse khent ploach as be di èsch un
magar as be a schipf.
Di åndarn baibar soin khent un håmar
zuar geredet un håm khött, si schöll nèt
sovl buanen un nèt soin asó traure, ’s
khinn is in hümbl, bo ’s steat pezzar as aff
disarn bèlt.
Ma si hatt nicht geböllt höarn. Si hatt
hèrta gehatt ’s vürta au aff di oang zo
trükhnanar di zeacharn.
In an mal hatsese nidargelek un is hìintslaft un is gånt in an intrùam. Si ìssese
intrùamp ke si sik a khutta éngela, bo da
flatarn in air, un bait hintar densèllnen
ummas bo da nå is geflatart alùmma.
Bal se is darbékht, hatse nèt gebisst
bas ar bill muanen, disar intrùam, un is
gebest traure as be vorå.
D’åndar nacht ìssese bidar intrùamp
asó. Disa vert hatse gesek vo baitum a
khutta éngela bo da soin khent hèrta
nempar, un bàlda dise soin gebest vürgeflatart alle genoatn, a baila nå ista khent
flàtrane ummas alùmma. Bàlsar is gebest
nidar nåmp, alls in an stroach hatses darkhénnt un hatt gesek, ’s is sai khinn.
«Liabes mai khinn, – hatse gesriget –
umbrómm flàtarsto hintarnå asó alùmma un nèt pitn åndarn?»
«Sékar nèt, liaba mai måma, – hats
khött ’s éngele – moine vedarn soin alle
nass von aürn zeacharn? Gaültme neméar, àssar böllt àsse möge flatarn pitn åndarn!»
Khött àsses hatt gehatt, is bidar geflatart nå den åndarn.
Un von sèll tage vort, di muatar hatt
neméar gegaült das toat khinn.
Non morì, ma in pochi giorni si fece pallida come la cenere e magra come uno stecco da siepe. Le altre donne andarono da lei, le parlarono, le
dissero che non doveva piangere e
che non doveva lasciarsi prendere
dalla tristezza a quel modo, perché il
figlio era in cielo, dove stava meglio
che a questo mondo. Ma la donna non
voleva ascoltare nessun discorso; si
portava in continuazione il grembiule agli occhi per asciugarsi le lacrime.
Una sera si coricò e quando fu addormentata, cominciò a sognare. Sognò
di vedere una schiera di angeli che
volavano in cielo e, in distanza, dietro
ad essi, uno che li seguiva volando
tutto solo. Quando si svegliò, non
seppe spiegarsi che cosa significasse
il sogno e rimase triste come prima.
La notte successiva sognò ancora
come nella precedente. Questa volta
cominciò a vedere da lontano una
schiera di angeli che le venivano sempre più vicino e, dopo che le furono
passati davanti tutti uniti in volo, ne
giunse uno tutto solo. Quando quest’ultimo le fu vicino, improvvisamente lo riconobbe e vide che era suo
figlio. «Caro bambino mio!» gridò
«Perché voli tutto solo dietro agli altri e non assieme a loro?»
«Non vedi, mamma mia cara?»
disse l’angioletto «Le mie piume delle mie ali sono tutte umide per le tue
lacrime. Non piangermi più, se vuoi
che io voli con loro!»
Detto questo, egli riprese a volare
dietro agli altri angeli. Da quel giorno
in poi la madre non pianse più il suo
bimbo morto.
Fiabe, leggende, storielle 111
Racconto nr. 10
Bia da auszalt Gott
dar Hear
Come ripaga
il Signore Iddio
In an stroach ìsta gebest an armar
månn, bo da hatt geàrbatet un gespart
vil, un pit alln soin geàrbata un gespàra
ìssar nia gebest guat zo leganen eppas in
di hent.
Balamån hattar gehöart khön ke bas
ma laiget in Gott ’n Hearn, gìttars bodrùm hundart vert mearar. Un disar
månn is gånt in di khirch un bàlda is
khent dar mesnar zo lesa au di opfar, hattar gedjukht alls sai gèlt bo dar hatt gehatt, nidar in sekhl un in alls, bas ar hatt
gehatt is gebest a tòlar un hatt gemuant
ke Gott’ar Hear in biane zait héttaten
gètt bodrùm hundart tölar.
’S djar darnå hattar gesek, disar
månn, ke di hundart tölar khemmen nia,
un er hatt augevånk in bege un is gånt zo
süacha Gott ’n Hearn zo màchanen gem
’s gèlt.
Bal ’s is gebest nacht ìssar gerift kanan haus, mearar toat bas lente vo müade, un is inngekheart un hatt gevorst di
hérbege.
Di laüt von haus håmsen gètt, un lai
håmsen gètt di tschoi un intånto àssar
hatt gèsst, håmsen gevorst z’ sega bo dar
geat. Un er ìssese nèt gehaltet vorpórget
un hatsen khött.
C’era una volta un pover’uomo
che aveva molto lavorato e risparmiato nella sua vita, ma nonostante i
suoi sforzi, non era riuscito a mettere
niente da parte. Egli sentì dire che
quello che noi prestiamo al Signore,
il Signore ce lo ritorna cento volte.
Andò in chiesa e nel momento in cui
il sagrestano passò a raccogliere le offerte buttò nella borsa tutto ciò che
aveva, vale a dire un tallero, e nel farlo pensò che dopo breve tempo il
Signore gli avrebbe reso cento talleri.
Un anno dopo quell’uomo, avendo constatato che i cento talleri tardavano a venire, si mise in cammino e
andò a cercare il Signore per indurlo a
rendergli il denaro.
Quando fu notte ed era mezzo
morto dalla stanchezza, giunse ad
una casa, entrò e chiese ospitalità. La
gente di quella casa lo accolse di buon
grado e gli preparò anche la cena e,
quando egli ebbe mangiato, gli chiese
incuriosita dove stesse andando. Egli
non si rifiutò di rivelarlo e lo spiegò.
Allora quelli aggiunsero: «Se incontri il Signore puoi chiedergli qualche cosa anche per noi: vedi, noi ab-
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Bacher annota: «Zingerle Lus. Wb. Luserner Weiber (Donne di Luserna), App. 2. - Richiami
alla prima parte di questa fiaba si trovano in Grimm, Märchen (Fiabe) 165: Hans vuole catturare l’uccello, il nostro uomo vuole arrivare a Dio; Hans chiederà consiglio in tre importanti questioni, lo stesso farà il nostro uomo; e Hans riceverà in cambio dei doni, come il nostro uomo. - Cfr. lerner Grimm, Märchen 29, nella quale il fortunato protagonista, costretto
a recarsi dal diavolo per prendere tre capelli d’oro, potrà risolvere tre importanti problemi
e si guadagnerà in cambio ricchi tesori. I tre consigli del Signore del Giardino al nostro uomo trovano il loro riscontro nella Geschichte von den drei guten Lehren (Storia dei tre buoni consigli) nella raccolta di fiabe siciliane di Laura Gonzenbach, glossata da R. Köhler e pubblicata da J. Bolte nella Zeitschrift für Volkskunde VI, pag. 169 e seg.)».
112 Luserna: c’era una volta
Alóra håmsa khött di laüt:
«Àsten vinnst Gott ’n Hearn, mögasto lai vorsan eppas vor üs o?
Biar håm dà ünsar tochtar un mòrng
bératsese boràtet, un invétze haüt ìssese
darkhrånkht, un est ìssar vürkhent asó
drai vert ummana nå dar åndarn: ’s is sovl
àspesese nèt schöllat boràtn. Un alóra du
pitt in Gott ’n Hearn àssarse lass boràtn,
ünsar diarn».
Dar månn hatsen vorhóast un denna
håmsen gelek t’ slava.
In ta’ darnå ìssar augestånt un is gånt
nå soine bege.
A baila zait spetar asta is gest gånt
oine di sunn ìssar gerift kanan åndarn
haus un sèm ìssar inngekheart un hatt
gevorst di hérbege. Un di laüt håmsen
gètt un denna håmsen gevorst z’ sega bo
dar geat. Un er hatsen khött; un alóra dar
bakå hatt khött:
«Bèn, àsten vinnst Gott ’n Hearn,
mögasto vorsan eppas vor üs o? Biar håm
dà disan gart, un est is étlane djar àsta
neméar khemmen khummane boimarn.
Vorsch in Gott ’n Hearn z’ sega umbrómm ’s khémmenda khummane mear». Dar månn hatsen vorhóast un is gånt
t’ slava. In ta’ darnå ìssar augestånt in aldar vrüa un is gånt nå soine beng.
Bal ’s is gebest nacht, ìssar gerift kanan haus bo da soin gebest zboa prüadar, un sèm ìssar inngekheart un hatt gevorst di hérbege. Un di zboa prüadar
håmsen gètt un lai håmsen gekhocht eppas z’ èssa; un denna håmsen gevorst z’
sega bo dar hatt in sint to giana. Un er
hatsen khött; un alóra håmsen khött dise zboa prüadar:
«Ditza o gevàlltas; bar pìttnde, àsten
vinnst Gott ’n Hearn, vorsen z’ sega umbrómm bar håm asó vil vert zo bruntla biar zboa prüadar, un z’ sega bia bar mögatn tüan zo khémmansan draus a pissle
gerècht pittanåndar».
biamo una figliola e domani avrebbe
dovuto maritarsi. Invece oggi si è ammalata e questo le è già accaduto tre
volte di seguito. È come se fosse stabilito che non deve prender marito. Per
questo prega il Signore Iddio di lasciarla maritare». L’uomo promise di
farlo, poi essi gli diedero un posto dove dormire.
Il giorno dopo egli si alzò e riprese il suo cammino.
Poco dopo il tramonto arrivò ad
un’altra casa, entrò e chiese ospitalità.
Anche quella gente lo accolse e poi
volle sapere dove stesse andando.
Egli lo raccontò ed essi allora gli dissero: «Bene, se incontri il Signore
Iddio puoi chiedergli qualche cosa anche per noi: noi abbiamo un vigneto
che da alcuni anni non dà più uva.
Fatti dire dal Signore perché non ne
dà più». L’uomo promise di chiederlo
e poi andò a dormire.
Il giorno dopo si alzò per tempo e
si rimise in cammino.
Quando fu notte arrivò ad una casa abitata da due fratelli ed entrò e
chiese ospitalità. I due fratelli lo accolsero e gli prepararono qualche cosa
da mangiare. Poi gli chiesero dove andava ed egli spiegò dove. Allora essi
dissero:
«Questa è una cosa buona anche
per noi; ti preghiamo, se incontri il
Signore Iddio chiedigli perché mai
noi due fratelli dobbiamo litigare in
continuazione, e come dovremmo fare per venirne fuori un po’ meglio entrambi». L’uomo promise di chiederlo
e poi andò a letto a dormire.
La mattina successiva si alzò all’alba e si rimise in cammino. Quando
ebbe fatto un paio d’ore di strada incontrò un vecchione coi capelli bianchi come la neve e una lunga barba
114 Luserna: c’era una volta
Dar månn hatsen vorhóast un denna
ìssarse gelek in pett t’ slava.
In ta’ darnå ìssar augestånt in khemman dar takh, un hatt darbist in bege un
is gånt. Bal dar hatt gehatt gemacht a par
urn bege, hattar bokhent an altn altn
månn pitn haar bais asbe dar schnea un
pit an langen grisaten part. Un disar alt
månn hatten gevorst z’ sega bo dar geat,
un er hatten khött:
«I gea zo süacha Gott ’n Hearn, zo léganen in sint mai gèlt». «Guat, – hattar
khött disar alt månn – est pìsto gånt genùmma, umbrómm i pìn’s I Gott dar
Hear».
Alóra dar månn is gevallt zo khnia un
hatt khött:
«Bèn, àssar sait Iar Gott dar Hear, i
pìttas àssamar gètt moine hundart tölar». Un Gott ’ar Hear hatt khött:
«Bèn, stea au un gea huam, un vörte
nicht, umbrómm vor do pist huam, hàsto
mearar als hundart vert sovl bas do mar
hast geliget».
Un alóra dar arm månn hatten khött
Vergellt’s Gott un hatt geböllt khearn bodrùm. Un alls in an stroach ìssen khent in
sint bas da böllatn di laüt bo den håm gehatt gètt di hérbege. Un alóra hattarsen
khött in Gott dar Hear. Un Gott dar Hear
hatten khött bassaren hatt gehatt zo
khöda.
Un dar månn hatt gevånk in bege un
is gekheart bodrùm.
Bal dar is gebest bidar kan zboa prüadar, håmsen lai gevorst z’ sega bédaren
sà hatt gevuntet Gott ’n Hearn, un z’ sega bassaren hatt khött von imenåndarn.
Un dar månn hatt khött:
«Ja, ja, i hånnen gevuntet, un von aüchåndarn hattar khött ke dar hatt hèrta
zo bruntla, umbrómm ùmmadar bill nèt
lassan rècht in åndar. Un vo densèll is
pessar àssar geat aus alùmma un àsta anigladar tüa vor imen sèlbart».
grigia. Quel vecchio volle sapere dove
stesse andando. Egli rispose: «Vado a
cercare il Signore Iddio per ricordargli il mio denaro».
«Bene» fece quel vecchio «allora
hai già camminato abbastanza, perché
sono io il Signore Iddio».
All’udire questo l’uomo cadde in
ginocchio e disse: «Bene, se siete Voi
il Signore Iddio, vi prego di rendermi
i miei cento talleri».
E il Signore rispose: «Alzati, torna
a casa e non temere, perché prima che
tu arrivi a casa riavrai più che centuplicato ciò che mi prestasti».
L’uomo ringraziò e stava già per
tornarsene, ma improvvisamente ricordò le richieste di quelle persone
che lo avevano ospitato e riferì tutto
al Signore, e il Signore gli disse ciò che
aveva da rispondere. Allora l’uomo
prese la via del ritorno.
Quando fu nuovamente dai due
fratelli, essi gli chiesero subito se aveva già incontrato il Signore Iddio e
che cosa aveva detto per loro. L’uomo
rispose:
«Sì, sì, l’ho già incontrato e di voi
ha detto che avrete sempre da litigare,
perché ciascuno di voi non vuol cedere di fronte all’altro, e perciò meglio
che vi separiate e che ciascuno faccia
per conto suo». «Sì, sì» gli risposero i
due fratelli, «questo lo avremmo già
fatto noi, soltanto siamo troppo poveri, non avendo altro che questa casa».
«Eh sì» disse allora l’uomo, «ma
lasciatemi prima finire ciò che mi resta da dirvi: il Signore Iddio vi ordina
di spaccare il focolare e il resto verrà
da sé».
Allora quei due fratelli andarono
subito a spezzare il focolare e nel
mezzo di esso trovarono un gran
paiolo pieno di marenghi.
Fiabe, leggende, storielle 115
«Ja, ja, – håmsa khött di prüadar –
ditza héttatbars getånt vor est, ma bar
soin karza arm un håm nicht åndarst bas
ditza haus».
«E ja, – hattar khött dar månn – làttme earst rivan zo reda. Dar hatt khött,
Gott dar Hear, àssar nidarslakk in heart,
un das åndar khint alùmma».
Un alóra dise zboa prüadar soin lai
gånt un håm abegemèkket in heart, un
attimìtt in heart håmsa gevuntet an groasan khezzl voll pit marénge.
Bàlda di prüadar håm gesek asó, sòinsa gebest alle luste un håm gevånk in
månn um in hals un håmen gekhüsst un
denna håmsen gètt sovl gèlt àspe dar is
gebest guat zo traga. Un denna håmsen
gètt eppas z’ èssa un håmen gelatt gian
nå soine bege.
Dar månn hatt genump ’s gèlt un
hatt khött «Vorgèllt ’s Gott» un is gånt.
Bal dar is gebest kan haus von sèlln
von gart, ìssar inngekheart. Un sèm håmsen lai gevorst z’ sega bidar hatt gevuntet
Gott ’n Hearn un z’ sega bassaren hatt
khött. Un dar månn hatt khött:
«Gott dar Hear làttas khön: Bùndartas
nèt asó àsta in aür gart khemmen khuane åndre boimarn, umbróm dise djar ìsta
lai gebest a khlùmmandar zou um in gart
un anìagladar armar månn, bo da is vürpasàrt, hatt gemök inngelången zo némmanen a zèkkele boimarn zo darléschanen in durst. Un est hattar gemacht a
söllana hoacha maur, àsta njånka möng
gian di vögela zo khóstanar a khörndle.
Un fin àssar eråndre sait asó znicht pitn
laüt, bàrte i soin znicht pit aüchåndarn,
un bal dar eråndre sait guat, bàrte i o
soin guat pit aüchåndarn un bàrtas baing
aürn rem». Di laüt håm darkhennt soine
velar un håm gevorst vorzàing Gott ’n
Hearn. Un in månn håmsen gètt z’ èssa
un zo trinkha, un denna håmsen eppas
geschenkht. Un dar månn hatt audarbist
Quando i due fratelli videro ciò,
furono così felici e contenti che gettarono le braccia al collo dell’uomo e lo
baciarono. Poi gli diedero tanto denaro quanto ne poteva portare e anche
qualche cosa da mangiare. Infine lo
lasciarono andare per la sua strada.
L’uomo prese il denaro, ringraziò e se
ne andò.
Giunto alla casa di quelli del vigneto, entrò, ed essi gli chiesero se
aveva incontrato il Signore Iddio e
che cosa gli aveva detto per loro. E
l’uomo rispose:
«Il Signore Iddio mi ordina di dirvi: Non meravigliatevi se nel vostro
vigneto non matura più uva, perché
un tempo c’era solo una piccola siepe
intorno e ogni poveraccio che passava di là poteva arrivare a prendersi un
grappolo per spegnere la sete. Ora invece vi avete costruito un muro così
alto che nemmeno gli uccelli vi possono più andare ad assaggiare un acino. E fintanto che voi sarete così cattivi con la gente anch’io sarò cattivo
con voi, e quando voi sarete buoni cogli altri, anch’io sarò buono con voi e
benedirò le vostre viti».
Quelli riconobbero il loro errore
e chiesero perdono al Signore e all’uomo diedero da mangiare e da bere e poi gli regalarono anche qualche
cosa.
L’uomo si rimise in cammino e
raggiunse la casa dove era stato ospitato la prima notte. Arrivato che fu,
gridò dalla porta:
«L’ho incontrato, sapete, il Signore
Iddio!». E vistolo, quelli lo salutarono
e vollero sapere che cosa il Signore
avesse detto per loro. E l’uomo disse:
«Ha detto di chiedervi se non ricordate più che la vostra figliola voi
l’avevate promessa a Lui quando era
116 Luserna: c’era una volta
in bege un is gånt zuar in haus bo dar is
gebest zo hérbega da earst nacht.
Bal dar sèm is gerift, hattaren lai gehoket pa tür inn:
«I hånnen gevuntet, béstar, Gott ’n
Hearn». Bàlsen håm gesek, håmsen gegrüast un håmen gevorst z’ sega bas da
hatt khött Gott dar Hear vo imenåndarn.
Un dar månn hatt khött:
«Dar hatt khött àssas vors z’ sega bédaras neméar gedenkht ke aür tochtar
hattarsen vorhóast Imen no bal se is gebest a khlummas khinn. Un asó àssar
böllt àsta Gott dar Hear baige aür haus
un àssar lass gesunt aüchåndre un aür
tochtar o, möchtar neméar süachan zo
böllase boràtn».
Un alóra di laüt håm darkhennt ke sa
håm gevelt, un håm gevorst vorzàing
Gott ’n Hearn, un håm neméar gesüacht
zo boràta di tochtar.
In månn håmsen geschenkht a bolta
pissle gèlt, un er hats genump un hatt
khött «Vorgèllt ‘s Gott»; un is no gestånt
a drai tage sèm pit imenåndarn, un sèm
hattars gezélt, ‘s gèlt bo dar hatt gehatt,
un hatt gesek ke Gott dar Hear, in tòlar
bo daren hatt geliget, hattarsen gezalt
bodrùm mearar bas tausankh vert, nèt
hundart vert alùmma.
’S gèlt bo dar hatt gehatt, hattars getoalt, un halbes hattars geschikht huam in
soin laüt, un das åndar halbe hattars gehaltet vor imen, umbróm dar hatt gehatt
lust zo giana ummar z’ sega aus di bèlt.
In an tage ìssar gerift vorå in an
schümman groasan gart, un issese augeluant nåmp in gattar, z’ schauga in in disan gart voll pit schümmane roasan un
schümmane djunge èlbarla. Balamån hattar gesek in gértnar, bo da hatt kalmàrt
dise schümmane èlbarla; un disar gértnar
hatt getånt asó letz, ke dar månn hatt gemöcht åhevan zo lacha starch fin àssar
hatt gemök.
ancora piccolissima. Così se volete
che il Signore Iddio benedica la vostra
casa e conservi sani voi e anche vostra
figlia, non dovete più tentare di darle
marito.
Sentito questo, essi riconobbero di
aver peccato e chiesero perdono al
Signore e non cercarono più di maritare la figliola. All’uomo regalarono
un po’ di denaro ed egli lo accettò, li
ringraziò e restò ancora due o tre giorni con loro.
Là contò il denaro che aveva e
si accorse che per il tallero che egli
aveva prestato al Signore Iddio, il
Signore gli aveva reso più di mille volte tanto, non cento volte solamente.
Il denaro che aveva lo divise e una
metà la mandò a casa ai suoi e l’altra
metà la tenne per sé, poiché aveva
grande voglia di andarsene in giro a
vedere il mondo.
Un giorno arrivò dov’era un bel
giardino grande; e si avvicinò al cancello per guardar dentro a quel giardino pieno di bei fiori e di belle piante giovani.
Vide il giardiniere che stava innestando quelle belle piante, ma il giardiniere faceva così male il suo lavoro
che l’uomo non poté fare a meno di ridere a crepapelle. Il padrone del giardino era poco lontano e andò a vedere chi fosse che rideva a quel modo, si
avvicinò al cancello e vide l’uomo e
gli chiese perché ridesse tanto.
L’uomo rispose: «Rido a vedere
quel giardiniere che fa così male gli
innesti sulle piante».
Il padrone gli chiese allora se egli
sapeva far meglio e l’uomo disse: «Eh
sì, sarebbe proprio una vergogna se,
essendo vecchio come il cucco, non
sapessi fare meglio di quello là».
Fiabe, leggende, storielle 117
Dar hear von gart is gebest biane bait
vort un is gånt z’ sega ber ’s is bo da asó
lacht; un is gånt nåmp in gattar un hatt
sèm gesek in månn un hatten gevorst z’
sega umbrómm dar lacht asó. Un dar
månn hatt khött:
«I lach asó z’ sega sèm in sell gértnar
tüan asó letz zo kalmàra di sèlln èlbarla».
Dar hear hatten gevorst z’ sega bédar
khånt pessar er. Un dar månn hatt khött:
«E ja, ’s berat bol a schånt soin alt àspe
dar kuko in balt un nèt khånen tüan pessar bas dar sèll».
«Bèn, – hattar khött dar hear – àsto
pist asó bravat, ai lai iar in gart un lass
seng bas do pist guat zo tüana» … un hatt
offe getånt in gattar.
Dar månn hatsen nèt gelatt schaffan
zboa vert, dar is lai inngånt un hatt genump ’s mézzar un hatt getånt as be ’s
geat getånt.
Dar hear hatt zuar geschauget un
hatt gesek, dar tüat asó schümma, un er
hatten gevorst z’ sega bédar bill plaim
sèm pit imen zo macha in gértnar.
«Ja, ja, – hattar khött dar månn –
umbrómm nèt? Àssarmar gètt guat lem
un assarme zalt garècht, plàibe dà i o».
Dar hear hatten vorhóast zo geba bas
es is rècht, un dar månn is gestånt sèm
zo àrbata in gart.
Dar månn is gebest sovl bravat un furbat, un hatt getånt asó garècht, ke dar
gart, in a par djar, is gebest vil vil schümmanar bas vorå, un dar hear, bal dar hatt
gesek asó, ìssar gebest kuntént un luste un
hatt gehaltet soin gértnar alle tage liabar.
Dar månn ìssese gevuntet asó garecht sèm, in sèll gart, z’ sega ’s geat alls
vürsnen un ke dar hear hàlteten asó gearn, ke ’s sòinda vortgånt di bochan sovl
àspe di urn, un nia ìssen nèt khent in sint
ne sai huamat, ne soine laüt.
In an tage ìssarse gelek sèm in Schatn
vonan öpflpuam zo rasta, un balamån ìs-
«Bene», concluse il padrone «se
sei così bravo, entra nel giardino e fa
vedere che cosa sai fare». E aprì il cancello.
L’uomo non se lo fece dire due
volte, entrò subito, prese il coltello e
fece l’innesto come andava fatto.
Il padrone restò a guardare e vide
che sapeva fare proprio bene e allora
gli chiese se volesse rimanere presso
di lui come giardiniere.
«Sì, sì,» disse l’uomo «perché no?
Se mi date da mangiare a sufficienza,
e mi pagate con giustizia, rimango anch’io».
Il padrone promise di dargli quello che era giusto e l’uomo rimase là a
lavorare nel giardino. E fu così bravo e
accorto e fece tutto così bene, che in un
paio d’anni il giardino diventò molto
più bello di prima e il padrone, visto
questo, fu contentissimo e si affezionò
a quell’uomo ogni giorno di più.
Anche l’uomo si trovava bene laggiù, nel vedere che tutto progrediva e
che il padrone gli voleva bene, al punto che le settimane per lui passarono
come ore, tanto da dimenticarsi sia
della sua terra che della sua famiglia.
Ma un giorno, stesosi a riposare all’ombra d’un melo, fu preso da un così forte desiderio di tornare a casa a
vedere i suoi da non riuscire più a
trattenersi.
Si alzò e andò dal padrone e gli
disse che voleva tornare a casa e che
lo pregava di dargli quanto già aveva
guadagnato.
Il padrone fu proprio sorpreso di
udire questo e non voleva lasciarlo
partire, poiché temeva di non trovare
più un giardiniere così bravo. Ma
l’uomo non si lasciò smuovere dal suo
proposito e ripeté che voleva andare
a casa.
118 Luserna: c’era una volta
sen åkhent a lust zo giana huam z’ sega
vo soin laüt un is neméar gebest guat zo
darhàltase. Dar is augestånt un is gånt
kan hear un hatt khött ke dar bill gian
huam un ke dar pìtteten àssaren gebe bas
dar hatt gehatt gebunt.
Dar hear is aldar darstånt zo höara
asó un hatten nèt geböllt lassan vortgian, umbrómm dar hatse gevörtet, neméar zo venna an söttan bràvatn månn. Ma
dar månn hatse nèt gelatt vorkhéarn un
hatt khött ke er bill gian huam.
Un alóra dar hear hatt khött:
«Bèn, bàldo propio bill gian, gea in
Gottsnåm, un zo zàlade, gìbedar nicht,
ma i lìrndar drai sachandar: bàldo vinnst
zboa beng, an altn un an naüng, gea hèrta nå in alt, ditza is ummas; bàldo pist in
a frémeges haus, vorsch nia z’ sega umbrómm sa tüan ditza odar dassèll, est
soinsa zboa; schau’ bol au un tüa nicht
bàldo pist vil zorne, est sòinsa drai».
Dar månn hatten pensàrt: «Ditza is
bol eppas bo dar mar gitt zo zàlame». Un
lai ìssar gånt zo màchanen zuar sai geplèttra; un bal dar is gebest verte, issar
gånt zo grüasa in hear un zo làssanen
l’addio. Un alóra dar hear hatten gètt an
turt un hatt khött:
«Sea, zoa àstode gedenkhst vo miar
gìbedar disan turt, un schauge: hàkhen
nèt au fin àsto nèt hast in lùstegarste minùt vo alln doin lem».
Dar månn hatt genump in turt un
hatt khött «Vorgèlt’s Gott», un is gånt
nå soine beng.
Bal dar is gebest a pissle vort von
haus, hatten gevånk a schümmana karòtz
un drinn ìsta gebest a hear. Dar hear hatt
gerüaft in månn un hatt khött àssar au
sitz er o. Un er is augesotzt.
Bal sa soin gebest a pissle vürsnen,
dar bege ìssese getoalt: sèm ìsta gebest
an altar un a naügar bege. Un in månn,
bal dar hatt gesek asó, sòinen khent in
Allora il padrone disse: «Ebbene,
se vuoi proprio andartene, va’ in nome di Dio, ma in pagamento non ti do
nulla, solo ti insegno tre cose. Quando
trovi due strade, una vecchia e una
nuova, va sempre per la strada vecchia: questa è la prima. Quando sei in
casa d’altri, non chiedere mai perché
fanno questo o fanno quello: questa è
la seconda. Guardati bene dal far
qualche cosa quando sei molto adirato: questa è la terza».
L’uomo pensò fra sé: «È già qualche cosa che mi dà in pagamento»;
andò a preparare la sua roba e quando ebbe finito tornò a salutare il padrone e a dargli l’addio.
Allora il padrone gli presentò una
torta e gli disse:
«Ecco, affinché ti ricordi di me ti do
questa torta, ma bada di non tagliarla
fino a quando non sarà giunto il momento più felice di tutta la tua vita».
L’uomo prese la torta, ringraziò e
partì.
Quando fu un po’ lontano dalla
casa, lo raggiunse una bella carrozza
con un signore. L’uomo lo chiamò e
gli disse che poteva salire anche lui,
ed egli accettò. Ma poco più avanti il
sentiero si divideva in due strade, una
vecchia e una nuova. Visto ciò gli vennero a mente le parole del padrone e
chiese al signore di lasciarlo scendere.
Il cocchiere fermò il cavallo, e
l’uomo scese e andò per la strada vecchia, mentre la carrozza andò per la
nuova.
Egli proseguì per un tratto e poi le
due strade si ricongiunsero, e poco
lontano di là c’era una locanda.
L’uomo entrò e chiese se era passata
una carrozza. L’oste non l’aveva vista,
ma proprio mentre stavano parlando
passò un cavallo solo, e allora anda-
Fiabe, leggende, storielle 119
sint di bort von patrù. Un er alóra hatt
gepittet in hear àssaren lass abesitzan.
Dar rössnar hatt augehaltet ’s ross, un dar
månn is abegesotzt un is gånt pa den alt
bege, un di karòtz is gånt pan naüge.
Dar månn is gånt an tòkko vür un di
zboa beng sòinse gevuntet pitanåndar, un
sèm biane bait vorånahì ìsta gebest a
birthaus. Dar månn is inngekheart un hatt
gevorst z’ sega béda is vürpassàrt a karòtz. Ma dar birt hatt nicht gehatt gebarnt. Un lai as be sa håm geredet, ìsta
vürpassàrt a ross alùmma, un alóra sòinsa gånt z’ sega un håm gevuntet in hear
affn bege halbe toat: di diap soin vürgesprunk dar karòtz un håm getöatet in kutschar un håm gestolt alls bas da hatt gehatt dar hear, un in hear håmsen gevast
pit ströach un håmen gelatt sèm affn bege un soin vonkånt.
Dar månn, bal dar hatt gesek asó,
hattar ringratziàrt Gott ’n Hearn un hatt
audarbist un is gånt nå soine beng.
In khemman di nacht ìssar gerift
kanan haus un is inngekheart un hatt
gevorst di hérbege un sèm håmsasen
gètt.
Bal dar is gebest in di khåmmar, ìssar
gånt ats vestar un hatt gesek arm un hent
un schinkh von laüt. Un lai hattar geböllt
vorsan z’ sega bas es bill muanen. Un alóra ìssen khent in sint bas en hatt khött sai
patrù, un hatt dardrukht di bort at di
zung. Un denna ìssarse gelek in pett z’
slava.
Ma dar is nèt gebest guat zo spèrra di
oang.
In ta’ darnå ìssar augestånt in aldar
vrüa un is gånt kan birt un hatt gevorst
bas ar is schulle. Un dar birt hatsen khött,
un lai hattaren gevorst z’ sega bésen nèt
hatt gebundart z’ sega di sèlln tökkla von
laüt nidar in hóf, un z’ sega umbrómm
dar hatt nèt gevorst baz es bill muanen.
Un alóra dar månn hatt khött:
rono a vedere e trovarono il signore
sulla strada mezzo morto. I ladri avevano assalito la carrozza, ammazzato
il cocchiere, derubato il signore di
ogni cosa e, riempitolo di botte, lo
avevano lasciato sulla via ed erano
scomparsi. L’uomo, quando ebbe visto questo, ringraziò il Signore Iddio e
ripartì per la sua strada.
Giunta la notte, arrivò a una casa,
entrò e chiese ospitalità, e gli abitanti
lo accolsero. Però, entrato in camera,
andò alla finestra e guardando giù nel
cortile vide braccia, mani e gambe
d’uomo. Subito volle chiedere il perché di tutto questo, ma gli venne in
mente ciò che gli aveva detto il suo
padrone e trattenne le parole sulla lingua. Poi si mise a letto per dormire,
però non riuscì a chiudere occhio. Il
giorno dopo si alzò per tempo, andò
dall’oste e chiese quanto gli doveva.
L’oste glielo disse, ma volle anche
sapere come mai non era stato preso
da curiosità alla vista di quei pezzi
giù nel cortile e perché non ne aveva
chiesto una spiegazione.
Allora l’uomo rispose: «Oh, anche
se vedo qualche cosa di strano non ci
faccio caso, e poi non sono abituato a
chiedere spiegazione di ciò che non
mi riguarda».
«Tu hai indovinato», gli disse
l’oste «perché se avessi chiesto spiegazioni avresti dovuto lasciarvi un
pezzo anche tu».
L’uomo ringraziò il Signore Iddio
e si propose di seguire sempre i consigli del suo padrone; si mise in istrada
e andò verso casa camminando più
svelto degli altri giorni, perché quel
giorno aveva proprio deciso di arrivarci.
Al calare della notte arrivò al suo
paese, entrò in una taverna che si tro-
120 Luserna: c’era una volta
«O, béde ånka sige épparéppas, màchemarsan nicht draus, un denna pìnne
nèt gebónt zo vorsa aff eppas bo da mar
nèt ågeat».
«Du hast bol darràtet, – hattar khött
dar birt – umbrómm bido hettast gevorst
héttasto du o gemöcht da lassan a tökkle». Un dar månn hatt ringratziàrt Gott
’n Hearn un hatten vürgenump zo volga
hèrta soin patrù. Denna hattar gevånk in
bege un is gånt zuar huamat, un is gånt
vil bahémmegar bas di åndarn tang, umbrómm in sèll tage hattar gehatt in sint
zo riva huam.
In khemman di nacht ìssar gerift in
sai lånt un is inngekheart in a birthaus, bo
da is gebest sèm vor soin haus, un sèm
hattaren gemacht gem eppas z’ èssa. Bal
dar hatt gehatt gèst, ìssarse gesotzt
nåmp in an vestar un hatt geschauget
durch zuar soin haus, un hatt gesek gian
an djungen faff in in sai haus, un sai baibe ìssen khent inkéng un hatten gètt di
hånt un hatten gevånk um in hals her un
hatten gekhüsst, un is gebest alla luste zo
sega disan faff.
Dar månn hatt zuar geschauget un
hatten parìrt a pissle karza schaüla vor sai
baibe zo tüana asó pitnan faff, un ìssese
darzürnt un hatt geböllt gian huam zo zala sai baibe pitnar karge ströach zo tüana
asó pitnan faff.
Alls in an stroach ìssen khent in sint
bas en hatt khött dar patrù un alóra ìssarse no darhaltet un hatt gevorst z’ sega ber ’s is dar sèll faff, un alóra håmsen
khött ke ’s is dar sun vo dar sèlln bìttova,
bo dar vort is gånt sai månn vor a khutta
djar un is neméar gekheart bodrùm. Un
est dar pua hatt gerift zo lirna un mòrng
khüttar da earst miss un das gåntz lånt is
luste.
Alls in an stroach håmsa ågevånk zo
laüta alle di klokkn un zo schiasa di mortér, zo heva å in vairta.
vava giusto davanti a casa e là si fece
dare qualche cosa da mangiare.
Quando ebbe mangiato, si sedette
presso una finestra e guardò fuori
verso la sua abitazione e vide un giovane prete entrarvi e sua moglie andargli incontro e dargli la mano e buttargli le braccia al collo e baciarlo,
tutta contenta di vedere quel prete.
L’uomo stette a guardare e gli parve sconveniente da parte di sua moglie che si comportasse così verso un
prete e si adirò al punto di voler andare subito a casa a ripagare la moglie
con un carico di botte per essersi comportata in tal modo con un sacerdote.
Improvvisamente però gli tornò in
mente quanto gli aveva detto il padrone e allora si trattenne e, invece,
chiese chi fosse quel prete.
Gli risposero che era il figlio di
quella vedova e che il marito di lei se
ne era andato molti anni prima, senza
più ritornare. Ora il ragazzo aveva finito di studiare e domani avrebbe celebrato la prima messa e tutto il paese
era in festa per questo.
All’udire ciò il pover’uomo si sentì salire un nodo alla gola per la commozione, tanto che faticò a trattenere
le lagrime, e ringraziò il Signore Iddio
che aveva così predisposto.
Il giorno dopo ci fu la prima messa del figlio e, finita la messa, tutti gli
invitati entrarono nella taverna pel
pranzo. Anche l’uomo era là seduto a
un tavolo, ma nessuno lo aveva riconosciuto. Finito il pranzo, la gente cominciò a gridare: «Che viva a lungo e
felice il nuovo prete e anche sua madre con lui».
Allora l’uomo si alzò e gridò con
quanto fiato aveva:
«E il padre del nuovo pretino, lo
dimenticate voi? Nessuno mi ricono-
Fiabe, leggende, storielle 121
Dar arm månn, zo höara asó, ìs gebest asó auvorkhnüpflt, àssar hatt gehatt
zo tüana zo darhalta di zeacharn, un hatt
ringratziàrt Gott ’n Hearn àssar hatt alls
asó hergerichtet.
In ta’ darnå ìsta gebest da earst miss
von fèffle un, bàlda is gebest verte di
miss, alle di invidàratn soin gånt in birthaus z’ èssa in vormas. Dar månn is gebest er o sèm gesotzt kanan tisch, un niamat hatten gekhennt.
Bal sa soin gebest verte pitn vormas,
håmda ågeheft di laüt zo hoka un zo khöda: «As da lebe vil un guat dar naüge faff
un sai muatar» un alóra ista augestånt
dar frémege månn un hatt gehoket fin
àssar hatt gemök, un hatt khött: «un dar
vatar von naüge faff, plàibetar vorgèsst
dar sèll? Khénntme niamat mi?
Khénnstome nèt, liabes mai baibe?
Khénntarme nèt, liabe moine khindar?»
Alóra håmsen gekhennt un håm khött:
«O liabar mai månn!» … un «o liabar mai
vatar!» … un soin gebest vil mearar luste
bas vorå, un sòinse gevånk um in hals anåndar un sòinse gekhüsst. Un denna dar
vatar hatt khött:
«Disa is sichar da peste ur bo de hån
in mai gåntzes lem, un est möche volng
main patrù» un is gånt un hatt genump
in turt un hatten getoalt. Un invétze bas
z’ soina eppas z’ èssa, sòinda lai gebest
ploas marénge. Un alle di laüt bo da ’s
håm gesek, soin darstånt.
Un dar månn hatt gekheart di oang
au zuar in hümbl un hatt gepetet, un denna hattar khött: «Sékar? Asó zalta Gott
dar Hear bas m’en laiget Imen!»
sce? Non mi riconosci tu, moglie mia?
Non mi riconoscete voi, figlioli miei?»
E lo riconobbero e gli dissero: «O mio
caro marito, o mio caro padre», e furono tutti molto più felici di prima e si
abbracciarono e si baciarono.
Allora l’uomo disse: «Questo è
proprio il momento migliore di tutta
la mia vita, e adesso devo ubbidire al
mio padrone» e andò a prendere la
torta e la tagliò. Ma invece di esserci
qualche cosa da mangiare, c’era solo
un po’ di crosta intorno e dentro tanti marenghi.
E tutti quelli che videro ciò restarono meravigliati.
Allora l’uomo alzò gli occhi al cielo e pregò, e poi disse:
«Vedete? Così ripaga il Signore
Iddio per ciò che gli prestiamo!»
122 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 11
Schweizer 77 commenta così questa fiaba: «Il termine deriva da “darsel åndar”
(jeder andere) cioè ogni altro. La povera mendicante che ha ricevuto dei doni dalle
“donne beate” viene sospettata da una vecchia di aver ricevuto il misterioso filo
da Selander. “Selbander” significa propriamente “zu zweien” cioè sdoppiarsi.
Sembra che qui ci sia in ballo pure l’idea della bilocazione – come si dice di alcuni
maghi – i quali possono apparire contemporaneamente in più luoghi».
Un’altra possibile interpretazione è possibile traducendo “darsel åndar”
come “quell’altro”; in sostanza raffigurando il diavolo come l’estraneo
e il diverso per eccellenza.
Dar stre von
sélege baible
La matassa
della donnetta beata
Dise djar ìsta gebest an armes altes
baible, bo da neméar is gebest guat zo
gebìnnanen z’ èssa. Un vo densèl hats
ummar gemöcht gian zo pèttla.
In an tage hatsen genump an stèkh
in di hent un an lern sakh aff di aksln
un is gånt nidar in di Dross in Astetal
zo vórsanen a pissle mel. Bal ’s is
gebest nidar untar in Lèrchovl, hats
gehatt an hummar, as neméar hatt gemök gian vürsnen, un issese nidargesotzt zo rasta.
Balamån hats gehöart stinkhan na
vrisches proat, un alóra hats khött:
«O béde i o hettat a pissle vrisches
proat zo darléschamar in hummar!» Alls
in an stroach ìssen zuar gånt a séleges
baible un hatten gerekht a vrisches pröatle un hatt khött:
«Sea, lustats sboi, dà gìbedar diar o
ummas a pröatle» … un lai is vonkånt bahémme àspe a plitzegar. Das arm baible
Molti anni fa c’era una povera
vecchia che non era più capace di
guadagnarsi da vivere. Così era stata
costretta a mendicare. Un giorno
prese un bastone e un sacco vuoto
sulle spalle e scese nella Dross in
Valdastico, a chiedere qua e là un po’
di farina.
Giunta sotto al Lèrchovel ebbe
tanta fame da non riuscire ad andare
avanti e si fermò a riposare. Poco dopo sentì arrivare profumo di pane fresco e allora disse: «Oh se anch’io avessi un po’ di pane fresco per calmare la
fame!»
Improvvisamente le si presentò
davanti una donnetta beata (abitante
dei boschi e prati alpestri) che le porse un pane fresco e le disse: «Prendi,
maiale goloso, un pane lo do anche a
te…» e nello stesso momento sparì come un lampo.
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Schweizer Bruno, Concetti cristiani nelle credenze dei cimbri, Edizioni Taucias Gareida,
Giazza - Verona, 1989.
78
Bacher annota: «Una Saliga (donna selvatica) (ibid. 196) porta del pane alla moglie di un
contadino (Zingerle, Sagen, pag. 53). Le balle di stoffa della leggenda lusernese le ritroviamo nella “biancheria candida di bucato” (ib. 64, 2); gli infiniti Zwirnknäuel e simili li
ritroviamo molto spesso, ad esempio in Zingerle, Sagen, pagg. 63, 70, 168, 197 e in Heyl,
pag. 403».
124 Luserna: c’era una volta
hats genump un hats gèst, un denna is
gånt bidar vürsnen pa pèrge nidar, fin as
is gerift in tal. Ma nidar in di Dross sòinda gebest znichte laüt un håmen nicht
gètt, un no darpai, bal ‘s is gebest in gånts
tage ummar zo pèttla, abas hats njånka
gevuntet di hérbege un hatt gemöcht slavan aus ats vèlt, un sèm is halbes gestorbet vo vrost.
Is, bal ’s hatt gesek asó, hatsen pensàrt:
«’s zàltmar nèt di müa zo plaiba dà
ka disan znichtn laüt» … Un hatt audarbist un is khent zuar huamat. Bal ’s is gebest pa pèrge auvar, ìssese hergekheart
dar untar bint un is khent schaüla khalt,
un das arm baible hatt gehatt zo tüana
pit alln in soin zo darbérase von vrost,
umbrómm sai rüst is gebest alla darzèrrt
un darhottart, un lai bérats furse gestorbet vo hummar, bi’s nèt hebat gehatt
gèst ’s pröatle von sélege baible.
Bal ’s is gebest auvar untar in
Lèrchovl, ìssese nidargesotzt zo rasta un
sèm hats gesek etlan lode loimat aus pa
bas zo ploacha, un is alóra hatt khött:
«o béde i o hettat an söllan lode loimat zo màchamar a drai barme foatn, i
vriarat sichar nèt asó, àspede vriar zo haba å ditza darhótrate geplèttra».
Alls in an stroach ista khent das sélege baible bóden hatt gehatt gètt ’s pröatle, pit an stre garn in di hent un hatt
khött:
«Sea disan stre garn, nakhattz dinkh!
Dar bàrtse nia rivan fin àsto nèt bill du;
un vo densèll schau bol au un khü nia: –
O bédo berast gerift» … un lai das sélege
baible is vorsbùntet.
Das arm baible hatt genump in stre
un is khent alls luste zuar huamat. Bal ’s
is gebest humman, hats gelek in stre affn
bindl un hatt ågevånk zo binta abe garn
un hatt sovl gebuntet, fin as hatt gehatt
genumma khnaül zo macha an groasan
La povera donna lo prese, lo mangiò e poi si rimise in cammino giù per
il monte fino a che giunse a valle. Ma
giù nella Dross c’era della gente dal
cuore duro che non le diede niente.
Infine, dopo essere stata tutto il giorno a mendicare, quando fu sera non
trovò nemmeno alloggio e dovette
dormire all’aperto e quasi morì di
freddo. Allora, visto come andavano
le cose, disse fra sé: «Non vale la pena
di rimanere in mezzo a questa gente
cattiva…» e si rimise in cammino verso casa.
Mentre saliva il monte, il vento da
valle cambiò, si fece improvvisamente freddo e la povera donna non sapeva più che cosa fare per ripararsi dal
freddo, essendo il suo abito tutto consumato e lacero, senza dire che sarebbe anche morta di fame se non avesse
già mangiato il pane della donnetta
beata.
Quando si trovò su, sotto al
Lèrchovel, si sedette a riposare e là vide delle intere pezze di tela stese sull’erba ad imbiancare, ed allora esclamò: «Oh, se anch’io avessi una pezza
di tela come queste per farmi qualche
camicia, certamente non avrei tanto
freddo come ora, con questi stracci indosso!». Improvvisamente le si presentò la donnetta beata che le aveva
dato il pane, con una matassa di filo
in mano, e le disse: «Prendi questa
matassa di filo, piccolo verme nudo:
questa non finirà finché non lo vorrai
tu; bada solamente a non dire mai:
“Oh, se tu fossi almeno finita!”». E
immediatamente la donnetta beata
sparì. La poveretta prese la matassa e
tutta contenta fece ritorno al paese.
Quando fu a casa, mise la matassa
sull’arcolaio e cominciò a dipanare filo e ne dipanò tanto da avere proprio
Fiabe, leggende, storielle 125
lode loimat. Denna hats getrakk di khnaül kan bebar, un darsèll hatten gemacht
di loimat. Zo zala in bebar hats gehatt
khumma gèlt un is hatten gelatt sovl loimat vor sai arbat, un von sèll tage vort ’s
baible hatt hèrta gebuntet bal ’s hatt geböllt, un dar bebar hatt hèrta gehatt zo
tüana vor is.
Pitn earst lode ìssese gerüstet, un
denna hats ågevånk zo vorkhóava di loimat in åndarn laüt un pitn gèlt bó’s hatt
gevånk, hatsen gekhoaft alls bas es hatt
gehatt mångl.
Di laüt, bal sa håm gesek asó un håm
nèt gebisst bo das baible hernimp sovl
garn, håmsa ågevånk zo obarkhödas; ma
letzes håmsa khummas gemök khön, un
lai ’s baible hatsanen nicht drausgemacht
un hatse gelatt ren alls bas sa håm geböllt.
In an stroach ’s baible hatt gehatt eppas zo börtla pitnan znichtn baibe un ditza znicht baibe hatt khött:
«Sbaige du alta hèks, bar bìssans alle
ke ’s garn prìnktars darsèllåndar», un asó
vort, … un håm gestritet a baila.
Bal da ’s baible is gebest stüfo un saur
zo straita, hats darbist in bege un is gånt
huam un hatt bidar ågevånk zo binta.
Balamång ìssese eppas darrüdet dar stre,
un ’s baible ìssese darzürnt un hatt khött:
«Vorvlìksatar stre, bédo berast almånko palle gerift!»
Alls in an stroach ista vorsbùntet dar
stre un alla di loimat bo da is gebest gemacht pit söllan garn, alls ’s gèlt bósen
hatt zuar gehatt gelek, un di rüst bo ’s
hatt ågehatt o, … un is geplibet sèm affnan stual nakhant, un alóra is gebest no
ermar bas vorå.
i gomitoli che occorrevano per fare
una gran pezza di tela. Poi portò i gomitoli dal tessitore e questi le tessé la
tela. Non aveva però denaro per pagare e così gli cedette tanta tela quanto era l’importo del lavoro.
Da quel giorno la poveretta dipanò ogni qual volta voleva farlo e il tessitore ebbe sempre da lavorare per lei.
Con la prima pezza si vestì, poi cominciò a vendere la tela agli altri e col
denaro che ricevette si comprò tutto
ciò che le faceva bisogno.
Quando la gente se ne accorse,
senza sapere da dove la vecchia potesse avere tanto filo, cominciò ad
avanzare sospetti. Nessuno però poteva dire niente di male riguardo a lei,
e quindi lei non ci fece caso e li lasciò
dire tutto ciò che volevano.
Improvvisamente però ebbe da litigare con una donna cattiva e questa
le disse: «Sta zitta, vecchia strega, lo
sappiamo tutte che il filo te lo porta il
diavolo!» e altro ancora… e continuarono a litigare. Quando la poveretta
fu stufa di litigare, tornò a casa e là ricominciò a dipanare. Ma la matassa si
aggrovigliò un po’ e la donnetta incollerita disse: «Maledetta matassa, se
fossi almeno finita presto!»
In un momento la matassa sparì e
sparì tutta la tela che era stata fatta
con quel filo, sparì tutto il denaro che
aveva accumulato, sparì anche l’abito
che indossava ed ella rimase là nuda
su uno scanno e si trovò ancora più
povera di prima.
126 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 12
Da kondanàrate diarn
La ragazza condannata
Vor vil vil djar ìsta gebest a diarn nidar in haus von Polètz un is gebest sovl
schüa, ke vil puam håmse geböllt håm
vor baibe; ma si hatsan nia geböllt bissan
zo boràtase un vo densèll hatse hèrta
vortgetribet alle di puam.
In an tage ìsse sèm gebest alùmma in
haus un hatt gevlikht. Balamån ìsta gånt a
schüandar pua pa tür ìn un hatse gegrüast. Si hatten ågeschauget un hatt gesek,
’s is a sölla schümmadar, un hatten gegrüast si o un hatt khött àssarse sitz. Dar pua
ìssese nidargesotzt un hatt ågevånk zo reda un hatt geredet asó schümma un asó
guat ke dar diarn hattarar ågeheft zo gevalla.
Von sèll tage vür dar pua is gånt vil
vert zo vénnase un di diarn hatten gesek
alle tage liabar un hatt ågeheft zo böllanen bol.
In an mal ìssar gånt un hatt darkhennt ke di diarn hàlteten gearn, un er
hattar gevorst z’ sega bisen haltet gearn
un z’ sega bisen nimp, un si is gebest alla
luste un hatt khött vo ja. Dar pua hatt
ausgezoget a schümmas gevringart von
vingar un hatsar gètt, un di diarn hats genump un hats inngelek si, un hatt vorhóast in pua zo tràgas hèrta in sèll vingar fin
as se lebet. Biane zait spetar dar pua is
darkhrånkht un is gestorbet. Da arm dìarn, bal se hatt gesek ke sai pua is toat, ìs
gebest vil traure. Ma a par djar spetar
Tanti anni fa, c’era una ragazza
giù dai Paolàz così bella che molti giovani l’avrebbero voluta come moglie;
ma lei non voleva proprio saperne di
sposarsi e per questo motivo li aveva
sempre respinti tutti.
Un giorno si trovò sola in casa, intenta a rammendare. A un certo punto si presentò alla porta un giovane e
la salutò. Lei lo guardò e vide che era
proprio un bel ragazzo, ricambiò il saluto e lo invitò a sedere. Il giovane si
sedette e i due iniziarono a parlare in
modo così piacevole che la ragazza
iniziò a provare simpatia per il giovane. Da quel giorno in poi il giovane
andò molte volte a farle visita e lei lo
vide ogni volta più volentieri e gli si
affezionò. Una sera, nell’occasione di
una visita, egli capì che la ragazza gli
voleva bene e volle domandarle se ciò
era vero e se avrebbe accettato di sposarlo: ella ne fu molto contenta e gli
rispose di sì. Allora il ragazzo si tolse
dal dito un bell’anello, glielo presentò, ed ella lo prese, se lo infilò e promise che lo avrebbe tenuto al dito per
tutta la vita.
Poco tempo dopo, però, il giovane si ammalò e morì.
La poveretta ne fu profondamente addolorata. Ma un paio d’anni dopo iniziò a scacciare quella sua tristez-
79
Bacher annota: «Cfr. Heyl, pagg. 628, 95 e 632, 98; Zingerle, Sagen, pagg. 656-659, 258;
inoltre in Die weiße Frau (La dama bianca) in Schlesinger Sagen (Leggende slesiane) di K.
Weinhold (Zeitschrift für Volkskunde IV, pag. 452) e in Graumännlein und weiße Frau
(Omino grigio e dama bianca) dello stesso autore (ib. VII, 445). La redenzione va a buon
fine in Heyl, pag. 495, i. 1:3. Oltre ai rimandi in Zingerle Lus. Wb. App. IV, cfr. le fiabe di
Schnellers etc., gruppo VII, 5, pag. 220 e seg».
79
128 Luserna: c’era una volta
hatse ågeheft zo traiba hì un denna hatse auzgenump ’s gevringart un hats lugàrt
in in an khast, un hatt pensàrt:
«Bèn, sà àzzarmar is gestorbet darsèll
pual, est bìllemar süachan an åndarn» …
un asó hatse getånt.
Si is gånt zo tåntza un, ummar bobràll
bo da is gebest eppas lusteges, hattmase
gevuntet, un di puam håm bidar ågeheft
zo gianase zo venna.
Balamång ìssese darkhrånkht un is
gestorbet åna zo lega å ’s gevringart bo
dar hatt gehatt gètt dar pual. Un vo densèll hatse nèt gemök gian in hümbl un is
khent kondanàrt in in tal von Djau, sèm in
an groasan balt.
A khutta djar spetar ista gånt a pua
von Kanér in pa disan balt nå in gebilt.
Dar is ummargånt sichar an gåntzan tage
åna zo venna nicht, un is hèrta gånt in,
betar in pa balt, un is gerift kanar kuvl, un
in in disa kuvl hattar gesek a schümmana
diarn.
Dar pua is darsrakht un is gekheart
bodrùm hìntarnvürbest. Un si hatten gerüaft, pìttante, un hatt khött:
«Mai liabar pua, vörte nicht vo miar,
i tüadar nicht, umbrómm di hatte dà gevüart Gott dar Hear».
Alóra dar pua ìssar gånt zuar nåmp un
hatse ågeschauget un hatten parìrt asó
schümma, ke er hatt gehatt gesek khumma schümmanars. Un bi mearar dar hatse ågeschauget, bi schümmanar si ìssen
vürkhent. Un di diarn hatt ågevånk zo reda un hatt khött:
«Est, mai liabar pua, is hundart djar
àsse pin dà zo paita be da khint ummandar zo hélvamar; un du, àsto billst, pìst
darsèll bo da mar möge helvan. I – hatse
khött – pin dà zbischnen in hümbl un dar
höll, un àsto du pist guat zo tüana bàssedar khüde, géade gerade in hümbl; un àsto nèt pist guat zo tüana alls àspes bill
soin getånt, möche gian kan taüvl vor
za e infine si tolse l’anello e lo ripose
in un armadio, dicendo fra sé: «Bene,
se è morto questo mio fidanzato, ora
voglio cercarmene un altro…» e così
fece.
Andò a ballare e dovunque ci fosse dell’allegria là si trovava sempre
anche lei, ed i giovani tornarono a farle la corte. Ma anche lei si ammalò e
morì senza essersi rimessa al dito
l’anello che le aveva dato il fidanzato.
Per questo motivo non poté andare in
paradiso e fu condannata a restare
nella valle di Jau, in mezzo a un gran
bosco.
Molti molti anni dopo un ragazzo
della famiglia Canèr arrivò in quel bosco cacciando selvaggina. Aveva camminato quasi un giorno intero senza
aver trovato niente ed si era inoltrato
sempre più nel bosco finché giunse a
una caverna. Dentro la caverna vide
una bellissima ragazza. A quella vista
si spaventò e fece qualche passo indietro, ma la ragazza lo supplicò:
«Mio caro, non aver paura di me, io
non ti faccio niente di male, perché è il
Signore Iddio che ti ha mandato».
Allora lui le si avvicinò, la osservò e pensò che al mondo non aveva
visto nessuna creatura così bella;
quanto più la guardava, tanto più bella gli sembrava.
La ragazza ricominciò a parlare e
disse: «Adesso, mio caro, ho già passato cento anni qua ad aspettare che
qualcuno venga a liberarmi». Poi aggiunse «Io mi trovo tra il paradiso e
l’inferno e, se tu sei capace di fare ciò
che ti dico, andrò dritta in paradiso;
ma se tu invece non sei capace di fare
tutto come deve essere fatto, allora
dovrò andare all’inferno per sempre…» e cominciò a piangere disperatamente.
Fiabe, leggende, storielle 129
hèrta»… un hatt ågevånk zo gaüla fin as
se hatt gehatt atn.
Dar pua, bal dar hatt gehöart asó,
hattaren gelatt ånt tüan di diarn, un hatt
gesbert vorå Gott ’n Hearn un alln in
Hàilegen zo tüana alls bas se khütt, un
hatse gepittet àssen khöde bas ar hatt zo
tüana. Un si hatt khött:
«Bèn, gea huam un gea nidar in haus
von Polètz un gea au in di khåmmar bóde pin gestånt fin àsse pin gebest lènte».
Tüa offe in sèll groas khast; sèm bàrsto
vennen a khlummas skèttele, un drinn sòinda drai gevringartar. Nimm das sèll bo
da drau hatt di sèlln zboa bort un pìnts
affnan lången stèkh un ai bidar bodrùm
in in balt. Bàldede sige khemmen, khìmmedar enkéng; ma i khimm nèt àspede
pin est, ma i khimm àspe a schaüladar
burm. Ma du darsràkh nicht un vörte nèt:
rékhmar lai zuar in stèkh àsse möge gelången zo lèkha pittar zung umme ’z gevringart un àsto du nèt geast hìntarnvürbest, asse rif zo möga lèkhan umme ’s
gevringart, i khimm bidar a schümmana
diarn un denna géade lai in hümbl; un du
barst håm geglükh hèrta fin àsto lebest.
Ma àsse nèt möge gelången zo lèkha ’s
gevringart, i bart hèrta plaim a burm un
lai möche gian kan taüvl vor hèrta».
Dar pua hatsar bidar vorhóast zo tüana alls bas da bill soin getånt; un denna
hattar gevånk in bege un is khent zuar
huamat. Bal dar is gerift huam, ìssar gånt
in di khåmmar vo dar diarn un hatt offegetånt in khast, hatt genump ’s skèttele
un hatt auvargenump ‘s gevringart un
denna ìssar gekheart bodrùm in in balt un
hatt gehakht a långa héslana ruat un hatt
drinn gestékht ’s gevringart, un denna ìssar gånt vürsnen in pa balt, fin as ar is gebest nåmp dar kuvl.
Balamång hattaren gesek zuarkhemmen an schaülan groasan burm, assar
hatt gemacht di vort.
Il giovane fu preso da compassione per la ragazza e giurò davanti al
Signore Iddio e a tutti i santi che era
disposto a fare tutto ciò che diceva e
la pregò subito di dirgli che cosa dovesse fare. Lei allora disse: «Bene, torna in paese e vai alla casa dei Paolàz,
sali nella camera che fu mia, apri
l’armadio grande: là troverai una piccola scatola, dentro ci saranno tre
anelli. Prendi quello che porta incise
due lettere, legalo a una lunga asta e
poi torna nel bosco. Quando ti vedrò
venire, io ti verrò incontro; però non
verrò così come sono adesso, verrò
nelle forme di un pauroso serpente.
Tu non spaventarti e non aver paura
di me: solo porgimi l’asta perché io
possa arrivare a leccare l’anello colla
lingua; e se tu non arretrerai, se io arriverò a leccare l’anello, tornerò ad essere una bella ragazza e quindi andrò
in paradiso e tu avrai sempre fortuna
finché vivrai. Ma se io non arriverò a
leccare l’anello, resterò per sempre
serpente e dovrò andarmene all’inferno».
Il giovane le promise ancora che
avrebbe fatto tutto ciò che doveva
essere fatto, poi si mise in cammino e
rientrò in paese.
Giuntovi, salì nella camera della
ragazza, aprì l’armadio, prese la scatola e vi tolse l’anello, poi tornò verso
il bosco, tagliò una bacchetta lunga di
nocciòlo e vi infilò l’anello, quindi
proseguì nel bosco fino a che giunse
presso la caverna.
Là vide venirgli incontro un orribile serpente, tanto grande da far paura. E il giovane si spaventò veramente, ma gli tornò a mente ciò che gli
aveva detto la ragazza e andò avanti
deciso. Quando fu abbastanza vicino
al serpente, allungò l’asta con l’anello.
130 Luserna: c’era una volta
Un dar pua is darsràkht starch, ma dà
ìssen khent in sint bas d’en hatt gehatt
khött di diarn, un er is gånt vürsnen alls
uas. Un bal dar is gebest nåmp genumma, hattaren gerékht zuar in stèkh, drau
pitn gevringart.
Alls in an stroach in pua ìssen åkhent
alls a gezittra vo züntrest zöbrest un issese hintargezoget drai tritt. Dar burm ìssen någånt un hatt bidar geböllt lèkhan
un ista nèt gelånk, umbrómm dar pua is
bidar hintargezoget drai tritt.
Drai vert hattar provàrt dar burm un
nia ìssarda nèt gelånk, un alóra hattar gespibet vaür un hatt geböaket un gelürnt
un is vorsbùndet von oang von pua. Dar
pua is gekheart bodrùm un is gebest hèrta traure fin as ar is gestorbet.
All’improvviso però il giovane fu preso da un gran tremito dalla testa ai
piedi e fece tre passi indietro. Il serpente lo seguì tentando sempre di leccare l’anello, ma senza arrivarci, perché il ragazzo aveva fatto altri tre
passi indietro. Tre volte il serpente
provò e mai vi riuscì, allora sputò fuoco e gemette e ruggì e poi scomparve
dalla vista del giovane. Questi tornò
a casa, ma restò sempre triste finché
visse.
Fiabe, leggende, storielle 131
Racconto nr. 13 (immagine pag. 132)
Dar månn au in må
L’uomo che si vede
sulla luna
80
In an stroach ista gebest a månn aus
affnan akhar z’ sega di lisan, un hatt gesek ke di lisan von åndarn laüt soin vil
schümmanar bas di soin. Un er ìssese
dartzürnt z’ sega asó un hatten pensàrt
bia dar mögat tüan zo haba er o söllane
schümmane lisan, un denna ìssar gekheart bodrùm huam.
Gianante huam ìssen khent in sint ke
dar må is groas un abas laüchtetar asó
schümma ke dar hettat gemak gian z’
stolanar söllane schümmane lisan. Un
asó hattar getånt.
Bal ’s is gebest her spet pa dar nacht,
ìssar gånt aus ats vèlt bo da soin gebest
di schümman lisan un hatt geschauget
uminùm un hatt niamat gesek, un hatt
khött:
«Bèn, da sìkkme niamat, umbrómm i
pin muatresch alùmma, bàldamar nèt
zuarschauget dar må; un von må vörteme nicht, umbrómmn darsèll mömar
nicht tüan».
Un denna ìssarse nidargehukht un
hatt ausgezèrrt lisan.
Bàldarar hatt gehatt an arvl voll, hattarse geböllt trang huam. Alls in an stroach ìsta khent dar må un hatt genump in
månn un hatten getrakk au in hümbl pit
imen, … un bàlda dar må is groas, sekma
no hèrta in månn au in må pitn lisan untar in arm.
Una volta un uomo si recò in uno
dei suoi campi allo scopo di vedere se
crescevano le lenticchie; si accorse però che quelle degli altri erano molto
più belle delle sue. Fu preso dall’invidia e si mise a pensare come potesse
fare per avere anche lui così belle lenticchie e con quel pensiero nella mente tornò a casa.
Camminando gli venne a mente
che era tempo di luna piena e che di
notte la luna sarebbe stata bella splendente ed egli avrebbe potuto andare a
rubare le lenticchie negli altri campi.
E così fece.
Quando si fece notte fonda uscì e
andò nel campo, dove si trovavano le
lenticchie, guardò intorno e non vide
nessuno e allora disse: «Bene, sono solo e nessuno mi vede, se non la luna,
ma della luna non mi preoccupo, perché non può farmi nulla di male».
Allora si mise rannicchiato a
strappare lenticchie.
Quando ne ebbe una bracciata
piena pensò di portarsele a casa. Ma
all’improvviso arrivò la luna, prese
l’uomo e se lo portò su nel cielo… e
nelle notti di luna piena, possiamo ancora vedere l’uomo sulla luna colle
lenticchie sotto il braccio.
80
Bacher annota: «Oltre ai rimandi in Zingerle Lus. Wb. App. IV, cfr. le fiabe di Schnellers
etc., gruppo VII, 5, pag. 220 e seg».
Fiabe, leggende, storielle 133
Racconto nr. 14
De Kogùlar
I Cogollesi
Dise djar ìsta gebest a lentle laüt, bo
da soin gebest asó stokhatt un hintar, as
ma möcht lachan no in ta’ vo haüt zo höara betta genarra sa håm augetånt.
Èkko a drai stördjela:
a) In an stroach di Kogùlar håm augemacht a khirch, un bal sa håm gehatt
gerift di skattl, håmsa nèt gebisst aff bela sait zo macha in altar. Un alóra håmsa
gevånk an bubo un håmen molàrt.
In in di khirch ìsta gebest an alts
mendle zo peta, un dar bubo is gånt un
ìssese gelatt affn khopf von mendle, un
alóra ìsta gånt an åndarar månn un hatt
gedjukht a håmpfola khalch affn khopf in
mendle. ’Z mendle ìssese darzürnt un
hatt geböllt slang in månn, un alóra sòinda zuargesprunk alle di Kogùlar un håm
getöatet ’s mendle, «umbròm», håmsa
khött, «dar bubo iz a hàileges vich, un bódase is gelatt dar bubo da earst bòtta,
sèm möchtma machan in altàr». Un denna håmsa bogràbet ’s mendle in platz bo
’s is gebest gekhnonk zo peta. Au ats grap
håmsada drau gemacht in altar.
b) An åndra bòtta ìssen khent in sint
in Kogùlar, ke sai kampanìl is karza
khlumma un åna zo gébanen z’ èssa mökar nèt baksan. Un alóra håmsa getöatet
vil sboi un oksan un håm getrakk alls ’s
vlaisch au ats tach von kampanìl. Un zoa
z’ sega biavl dar khint gröasar, håmsa genump a lode loimat un håmse ågehenk
pit an ent au in khraütz von kampanìl, un
das åndar ent is gelånk abe aff di earde.
Ma dar mesnar is gebest a fùrbatar månn
un pa dar nacht ìssar gånt un hatt ge-
Un tempo esisteva un intero paese di gente così stolta e così sprovveduta, che nell’udire le stramberie che
combinavano i suoi abitanti si ride ancora al giorno d’oggi.
Ecco appunto alcune di queste
storie:
a) Una volta i Cogollesi costruirono una chiesa, ma quando ebbero finito la struttura perimetrale non seppero più da che lato fare l’altare. Allora
pigliarono un calabrone, lo portarono
dentro la chiesa e qui lo lasciarono
andare. Dentro la chiesa si trovava anche un povero vecchio intento a pregare. Il calabrone volò e andò a posarsi sulla testa del vecchio; allora un
uomo gli andò vicino e gli buttò una
manciata di calce in testa. Il poveretto
si adirò e volle colpirlo, ma tutti i
Cogollesi si gettarono addosso al vecchio e lo uccisero, «Perché», dissero,
«il calabrone è un essere sacro e dove
è andato a posarsi per la prima volta,
là deve essere costruito l’altare». Poi
seppellirono il vecchio nel luogo stesso dove era rimasto inginocchiato a
pregare e sopra la tomba del vecchio
innalzarono l’altare.
81
b) Un’altra volta i Cogollesi pensarono che il loro campanile fosse
troppo piccolo e che senza dargli da
mangiare non potesse crescere. Allora
ammazzarono molti maiali e buoi e
portarono tutta quella carne sul tetto
del campanile. Per vedere quanto cre-
81
Bacher annota: «Cfr. i rimandi a Schneller in Zingerle Lus. Wb., App. V. (Le Burle dei
Karauner)».
134 Luserna: c’era una volta
nump au ’s vlaisch un hats getrakk humman. Un denna ìssar gånt un hatt abegehakht an tòkko loimat un hatt getrakk
huam dasèll o. In ta’ darnå di Kogùlar
soin gånt in aldar vrüa z’ sega biavl dar is
khent gröasar dar kampanil, un bal sa
håm gesek ke ’s ent vo dar loimat is au
asó hoach, håmsa khött:
«Schauget, biavl dar is khent gröasar
ünsar kampanìl est assar hatt gèst!»
Denna sòinsa gånt au affn kampanìl
z’ sega biavl vlaisch dar hatt gèsst. Un bal
sa håm gesek ke ’s ménglta sovl vlaisch,
sòinsa gebest alle luste zo sega ke dar
kampanìl is gebest asó hummare.
Dar mesnar is gånt alle nècht zo
nemma soin toal vlaisch un loimat, fin àsta no is gebest a khlumma tökkle un
khumman åndars vlaisch.
Bal da di Kogùlar håm gesek asó,
håmsa bidar getrakk vlaisch affn kampanìl un håm bidar ågehenk an lode loimat.
Dar mesnar is gebest aldar luste z’ sega
ke di laüt soin asó hintar, un is gånt alle
nècht zo nemma soin toal vlaisch un loimat, finamài àsta di Kogùlar neméar håm
gehatt ne vlaisch ne loimat zo lega affn
kampanìl, un àssa håm gemuant ke dar
kampanìl is groas genùmma.
c) Bal da ’s tach von kampanìl von
Kogùlar is gebest alt, hats ågevånk zo
darvàula un zo bàksada drau ’s gras.
Un di Kogùlar håmen pensàrt ke ’s is
a toata sünt zo lassa hìdèrrn a sölla
schümmas vuatar. Un se håm gevånk an
oks un håmen ågehenk a strikh umm’ in
hals un håmen gezoget au ats tach von
kampanìl. Un bàlsen håm gehatt palle zöbrest, dar oks is gebest palle toat un hatt
auvargerekht a långa zung. Di Kogùlar
soin gebest alle luste un håm khött:
«Schauge, schauge, dar bill sà gelången zo vrèssa ’s gras!» Un bal sa håm gehatt in oks au zöbrest, håmsa gesek ke
dar is toat.
scesse, presero una striscia di panno e
legarono uno dei capi sulla croce del
campanile, lasciando pendere l’altro
capo fino a toccare terra. Il sacrestano,
però, era un uomo furbo e di notte andò a prendere una buona parte della
carne e se la portò a casa. Poi andò a
tagliarsi un pezzo della stoffa e portò
a casa anche quella. Il giorno dopo
i Cogollesi andarono a controllare
quanto fosse cresciuto il campanile e
appena notarono che l’estremità del
panno non toccava terra, dissero:
«Guardate quanto è cresciuto il nostro
campanile, adesso che ha mangiato!»
Poi salirono sul campanile per vedere quanta carne avesse divorato e
appena notarono quanta ne mancava,
furono tutti contenti nel constatare
che il campanile avesse tanta fame. Il
sacrestano andava tutte le notti a
prendere la sua parte di carne e di
stoffa, fino a quando rimase solo un
piccolo pezzo di panno e più niente di
carne. Quando i Cogollesi se ne resero conto, portarono ancora carne in cima al campanile e appesero una nuova striscia di panno. Il sacrestano, da
parte sua, fu tutto contento nel vedere che quella gente era così sprovveduta e andò tutte le notti a prendersi
la parte di carne e di stoffa, fino a
quando essi non ebbero più né carne,
né panno da mettere sul campanile e
pensarono che il campanile fosse diventato grande abbastanza.
c) Il tetto del campanile dei
Cogollesi era talmente vecchio che
cominciò a marcire e l’erba vi crebbe
sopra. I Cogollesi pensarono allora
che fosse un vero peccato lasciar seccare un foraggio così bello. Presero un
bue, gli misero una corda al collo e
lo issarono sul tetto del campanile.
136 Luserna: c’era una volta
d) In an stroach ìsta gebest a kogùlar
aus ats vèlt zo snaida khorn. Un bal ’s
hatt gelaütet mittartage hattaren gelek
di sichl affn hals un denna hattaren genump a par garm vor arm un is gånt
huam z’ èssa in vormas. Bal dar is gebest
huam, hattar gedjukht di garm danìdar
un denna hattar gevånk ’s helbe vo dar
sichl un hatt gezoget. Un bal dar hatt gesek ke di sichl bill nèt khemmen, ìssarse
darzürnt un hatt khött:
«Pait, vorvlùachta sichl, àsto nèt bill
khemmen, màchede khemmen i!» … un
hatt gètt an starchan zukh pan helbe vo
dar sichl un issen hìgehakht in khopf
alùmma, un dar khopf is gerodlt pa haus
aus. Un vo densèll tage å di Kogùlar håm
hèrta genützt an aal zo snaida ’s khorn,
un neméar di sichl.
e) An åndra vert ìsta gebest a Kogùlar
bo da hatt gehatt an esl. Un in an tage ìssar gånt in stall, disar kogùlar, zo bölla
trenkhan in esl, un dar esl hatt nèt geböllt.
Dar Kogùlar is darsrakht z’ sega ke
dar esl bill nèt trinkhan, un is gånt un hatt
zuargerüaft di åndarn kogùlar z’ sega
in esl un zo vorsa z’ sega béda niamat
boast, bia zo tüana zo macha trinkhan ’s
vich.
Niamat hatzanen nèt vorstånt, un
balamång håmsa khött ke dar esl is bohèkst, un håm geböllt töatn in esl. Ma dar
månn, in esl, hattaren nèt geböllt töatn,
un hatt khött ke dar paitet zo töatanen
in ta’ darnå.
A bàilele spetar ista zuargånt an alts
baible von an åndarn lånt un hatt sèm gesek a söllana khutta laüt, un is hatt gevorst z’ sega bàsta da is naüges. Un di
Kogùlar håmsen khött.
Un ditza baible is gånt au aff di tetsch
von månn un hatt genump a vürta höbe
un hatsen getrakk in esl. un dar esl hats
gevrèst. Un denna ’s baible hatten ge-
Quando, però, il bue stava arrivando
in cima, era quasi morto, con la lunga
lingua a penzoloni. Nel vederlo così i
Cogollesi furono contenti e dissero:
«Guarda, guarda, vuole arrivare a
mangiare l’erba!» Ma quando il bue
fu in cima al campanile, si accorsero
che era già stecchito.
d) Una volta un Cogollese era nel
suo campo a falciare il grano. Quando
suonò mezzogiorno si mise il falcetto
sul collo, si prese un paio di covoni
per braccio e andò a casa a mangiare.
Giunto a casa gettò a terra i covoni,
poi afferrò il manico del falcetto e tirò.
Ma visto che l’attrezzo non si muoveva, si adirò e disse: «Aspetta, maledetto, se non vuoi venire tu, ti farò venire io!…» e diede uno strattone così
forte al manico del falcetto, che si tagliò dritto la testa e questa andò a rotolare per la casa. Da quel giorno in
poi i Cogollesi adoperarono sempre la
lesina per tagliare il grano, e non più
il falcetto.
e) Un’altra volta c’era un Cogollese
che possedeva un asino. Un giorno
questo cogollese andò nella stalla per
abbeverare l’asino, ma l’asino non
volle bere. L’uomo si spaventò nel vedere che l’asino non voleva bere e andò a chiamare gli altri cogollesi, perché venissero a vedere l’asino e chiese
se qualcuno sapesse come fare per far
bere la bestia. Nessuno se ne intendeva e arrivarono a dire che l’asino era
stregato e volevano ammazzarlo. Ma
l’uomo non volle ammazzare l’asino
e disse che avrebbe aspettato il giorno dopo per ammazzarlo. Un po’ più
tardi arrivò una vecchia di un altro
paese e vide là riunita tutta quella
gente e chiese che cosa c’era di nuovo.
Fiabe, leggende, storielle 137
trakk zo trinkha, un dar esl hatt getrunkht
o. Un alóra hats khött, ’s baible:
«Sékars est, bas ar hatt dar esl, un
hàltets a mint, un vor dar en gètt zo trinkha in vich, gètten zo vrèssa»
f) Di Kogùlar soin gebest starch un
bravat, ma lai sòinsa gebest hùmmrege
laüt o, un soin nia gebest guat zo haba in
pauch voll.
In an tage di kamòumånnen håm
gehaltet konsìldjo z’ sega, bia sa mögatn
tüan z’ èssa a bòtta genumma alle pittanåndar. Un balamång håmsas ausgemacht: insèll tage asó un asó böllbar èssan genumma.
Dar tage is khent. Un alóra sòinsa
gånt alle pitnåndar nåmp in an groasan
prunn bo da drinn is gebest vil bassar un
sèm håmsada drinn gedjukht vil sürcha
mel. Denna håmsa ågehenk an pua panan soal un håmen molàrt nidar in prunn,
assar aumisch di pult.
Di åndarn kogùlar soin gestånt sèm
affn bege zo paita bo da darsèll in prunn
rüaf zoa àssa gian z’ èssa. Ma darsèll
in prunn hatt nèt gerüaft. Alóra håmsa
nidarmolàrt an åndarn un håm bidar gepitet. Darsèll hatt o nèt gerüaft, un alóra
håmsa no nidarmolàrt umman, un darsèll
hatse o neméar gelatt höarn.
Alóra ìssen khent in sint, insèlln bo da
håm gepitet, ke disèlln nidar in prunn èssanen di pult vor earst, vor sa rüavan in
åndarn, un alóra ummandar nå den åndar
soinsa gesprunk alle nidar in prunn. Un vo
densèll tage her sòinda neméar gebest
khùmmane Kogùlar.
I cogollesi le raccontarono dell’asino.
Allora la donna salì dritta sulla rimessa di quell’uomo, prese un grembiule
pieno’ di fieno e lo portò all’asino.
L’asino lo mangiò. Poi la donna gli
portò da bere e l’asino bevve. Allora
disse: «Lo vedete adesso che cosa aveva l’asino; ebbene, tenetelo a mente e
prima di dar da bere alle bestie, date
loro da mangiare!».
f) I Cogollesi erano forti e bravi,
ma erano anche gente che amava
mangiare e che non riusciva mai ad
avere la pancia piena.
Un giorno gli uomini appartenenti alla Regola del Comune tennero
consiglio per vedere come riuscire a
mangiare una volta e a sufficienza tutti insieme. Decisero, quindi, che un tal
giorno dovessero mangiare a sufficienza. Il giorno prestabilito arrrivò.
Allora si recarono tutti insieme ad un
grande pozzo, dentro al quale c’era
molta acqua. Dentro a quel pozzo versarono molta farina di granturco. Poi
legarono un giovane a una corda e lo
calarono nel pozzo perché rimescolasse la polenta. Nel frattempo, gli altri
rimasero sulla strada ad aspettare che
quello dentro al pozzo li chiamasse.
Ma quello dentro al pozzo non li chiamò. Allora ne calarono giù un altro e
aspettarono ancora. Ma anche questo
non chiamò, e così ne calarono ancora
uno, ma anche quest’ultimo non si fece più sentire. Al che balenò alla mente di quanti stavano aspettando sulla
strada che, prima di mettersi a chiamare, quelli giù nel pozzo stessero già
mangiando. Così, uno dopo l’altro,
saltarono tutti giù nel pozzo. Da quel
giorno non ci furono più Cogollesi al
mondo.
138 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 15
Nel suo testo “Concetti cristiani nelle credenze dei Cimbri”, Schweizer 82
commenta così questa fiaba: «Nel racconto non c’è nulla dell’uso cristiano
di esorcizzare il diavolo per la preghiera, segni di croce o benedizioni, ma il
diavolo rimane fedele alla parola data. […] nell’insieme questo diavolo non
è un demonio in senso cristiano e forse non si sbaglia se nel racconto si vede
la sopravvivenza di un mito precristiano degli dei. Ciò potrebbe andar bene
per i particolari. Ad es. il vestirsi della vecchia con piume richiama fortemente
il mito della camicia di piume di Frigg-Freyja». Egli in sostanza vedrebbe
una sopravvivenza di miti germanici, e farebbe riferimento al magico indumento
della dea nordica che le permetteva di trasformarsi in uccello e di entrare
nel regno dei morti: un parallelo piuttosto calzante.
Dar månn bo da
hatt vorkhoaft di seal
in taüvl
In an stroach ista gebeest a djungar
månn bo da nèt hatt gehatt lust zo arbata, un zo giana zo pèttla hattarse geschemp. Un vor dassel hattar nèt gebisst,
bia zo tüana zo gebinnanen z’ èssa. un in
an mal hattar gerüaft in taüvl, assaren
preng gèlt.
Un dar taüvl is khent un hatten geprenk an sakh voll gèlt un hatt khött:
«Da hånnedar geprenk an sakh voll
gèlt, ma umme ditza gelt bille håm dai
seal un lassde no da zbuanzekh djar un
denna khimme zo nemmase».
Disar arm månn hatt genump ’s gelt
von taüvl un is gebest allar luste zo habas.
L’uomo che vendette
l’anima al diavolo
83
C’era una volta un giovane che
non aveva voglia di lavorare e si vergognava di mendicare. Perciò non
sapeva come guadagnarsi il pane.
Una sera invocò il diavolo perché gli
portasse del denaro. Il diavolo arrivò, gli portò un sacco di denaro e disse: «Ecco, ti ho portato un sacco pieno di denaro, però in compenso
voglio la tua anima. Ti lascio ancora
venti anni, dopo però verrò a prendermela».
Il poveraccio prese il denaro del
diavolo e fu contento di averlo. Ma
quando, molto presto, furono passati i venti anni, egli cominciò ad aver
paura del diavolo e a vivere retta-
82
Schweizer Bruno, Concetti cristiani nelle credenze dei Cimbri, Edizioni Taucias Gareida,
Giazza - Verona, 1989.
83
Bacher annota: “Il diavolo che concede del denaro a condizione che dopo un certo tempo si diventi di sua proprietà si ritrova anche in Grimm, Märchen, 125. Tale condizione
viene tolta se si riesce a rispondere a un indovinello (Grimm, Märchen 55; Zingerle,
Märchen 1 e 36; Schneller, Märchen 55); cfr. Anche il trattato “Tom Tit Tot” di Polivka
(Zeitschrift für Volkskunde X, 254 if.). Come la Vecchia della fiaba lusernese, anche in
Grimm, Märchen, 46 la Sposa assume l’aspetto di un uccello; cfr. in meritro le note di
Grimm al punto III. Da notare che la soluzione dell’indovinello non viene trovata per caso, ma cercata».
Fiabe, leggende, storielle 139
Bal da palle aus soin gebest di zbuanzekh djar dar arm månn hatt å geheft zo
vörtase von taüvl, un alora hattar å gevånk zo tüana garècht.
In an mal issar gånt in di khirch un
hatt gepittet ünsar liaba Belamåmma zo
helvanen: denna issar gånt humman.
Bal dar is gebest humman, issen zuar
gånt dar taüvl un hatt khött: «I sige ke ’s
tüatar ånt zo habamar vorkhoaft dai seal, ma lüsan, ’s ista no ummas bo dar mage helvan: i lassdar no zait sim tage, un
denna khimme un asto boast biavl bégela ’s soinda in moin gart, alora schenkhedar alIs ’s gèlt bo de dar hån gètt, un lassdar dai seal o».
Dar månn is gebest allar luste zo höara asó, un hatt khött vo dja.
Bal da vort soin gebest drai tang, dar
månn hatt bidar ågeheft zo vörtase, ombrom dar hatt nèt gebisst bia zo tüana zo
giana in gart von taüvl zo zela di beng.
Balamång issar gånt pa bege von lånt
aus un hatt bokhent an alts baibe. Un da
mente. Una volta si recò in chiesa e
pregò la Madonna di aiutarlo; poi
tornò a casa. Ma quando fu a casa,
arrivò il diavolo e gli disse: «Vedo
che ti dispiace avermi venduto l’anima; però ascolta: ti lascio altri sette
giorni di tempo, poi tornerò e se saprai dirmi quanti sentieri ci sono nel
mio giardino, io ti regalerò tutto il
denaro che ti ho dato e ti lascerò anche l’anima».
Passati però tre giorni, l’uomo cominciò nuovamente ad aver paura,
perché non sapeva come riuscire a penetrare nel giardino del diavolo per
contarne i sentieri. Mentre percorreva
la strada del villaggio incontrò una
vecchia. La vecchia si accorse che era
angustiato e gli chiese che cosa avesse. L’uomo le raccontò tutto.
«Su, via!» disse la vecchia «Se
non hai altro motivo per essere triste,
sta tranquillo e lascia a me il compito di contare i sentieri». L’uomo se ne
140 Luserna: c’era una volta
alt hatsen ågekhennt ke dar hatt éppas bo
den geat létz, un hatten gevorst z’ sega
bassar hatt, un dar månn hatsar khött.
«Bèn, bèn, – hatse khött da alt – bal
do nicht åndarst hast z’ soina traure, alora vörte nicht un lassme tüan mi, zo zela
di beng».
Denna dar månn is gånt huam un da
alt is o gånt bo se hatt gehatt zo giana.
Bal ’s is gebest abas, in khemman di
nacht, da alt is gånt zo khoavanar a pissle piigl un denna isse gånt humman, hatt
òffe gehakht di ziach von pétt, issese bopiglt vo züntrest zöbrest, un denna issese
gebéglt drin in di vedarn von pétt.
Bal se is auvarkhent von védarn, hattma nèt darkhennt bi ’s is gest a vogl odar
bas vor a vich un asó isse gånt in gart von
taüvl. A baila spetar ista zuar gånt dar taüvl un hatt å geschmekht ditza dinkh un
hatt khött:
«In moin gart soinda noünunnoüntzekh bégela un i pin gånt hintar un vür
vil vért, ma a sötta schaülas sachan hånnes bol nia gesek». Un denna issarse umgedreent un hatt khött kan gértnar:
«Sauge da, ditza dinkh bille nèt astomars å rüarst; lasses gian hintar un vür bo
’s bill, un tüaden nèt létzes»! – Un denna
dar taüvl is gånt nå soine béng un dar
gértnar is gånt nå soinar arbat.
Bi sa soin vort gebest peade, da alt is
gånt krablane zuar in gattar von gart un
denna isse augestånt un is gånt humman.
Da humman hatse gevuntet in månn,
bo da is gebest sèm zo paita, z’ sega bi se
hatt éppas getånt. Un si alora hatten
khött di börtar bo da soin vonkånt in taüvl, un er is humman gånt aldar luste. Bal
da aus soin gebest di sim tang, dar taüvl is
khent un hatt gevorst in månn z’ sega bi
dar boast biavl beng ’s soinda in gart, un
dar månn hats gebisst un hatsen khött.
Alora dar taüvl issese darzürnt un hatt
vorvlüacht in månn un das schaüla dinkh,
andò a casa, mentre anche la vecchia
se ne andò dove aveva da andare.
Ma la sera, proprio sul calar della
notte, la vecchia andò a comprare del
vischio e, giunta a casa, tagliò la federa del materasso di piume, si unse
col vischio da capo a piedi e poi si
rotolò nelle piume del letto. Come si
alzò dalle piume, non era possibile
capire se fosse un uccello o quale
altro animale; in quelle condizioni
si recò nel giardino del diavolo.
Dopo un po’ vi giunse anche il diavolo, annusò quella bestia e disse:
«Nel mio giardino ci sono 99 sentieri
e io li ho percorsi avanti e indietro
molte volte, ma una simile bestiaccia non l’avevo ancora vista». Poi si
volse verso il giardiniere e gli disse:
«Guarda, questa bestia non me la devi toccare; lasciala andare avanti e indietro dove vuole e non farle del male!».
Detto questo, il diavolo andò per
la sua strada e il giardiniere al suo lavoro.
Non appena entrambi si furono
allontanati, la vecchia andò strisciando fino al cancello. Giuntavi, si
alzò in piedi e tornò a casa. Là trovò
l’uomo che l’aspettava per sentire se
aveva già fatto qualche cosa. Allora
gli riferì le parole che erano sfuggite
al diavolo, ed egli se ne andò contento a casa. Quando i sette giorni furono passati, il diavolo venne e chiese
all’uomo se sapesse dirgli quanti sentieri ci fossero nel suo giardino. Egli
lo sapeva e glielo disse. Allora il diavolo si adirò e maledì l’uomo e quella brutta bestia che era stata nel suo
giardino. Però non servì a nulla perché l’uomo gli aveva detto esattamente quanti sentieri c’erano nel
giardino. Il diavolo si allontanò ur-
Fiabe, leggende, storielle 141
bo da is gebest in soin gart; ma ’s hatten
nicht mear geholft, ombrom dar mån hatsen khött djüst biavl beng ’s soinda in
gart. Un dar taüvl is vort gånt lürnane un
hatse nimmar mear gelatt seng von
månn. Un dar månn hatt genützt ’s gèlt
bo dar no hatt gehatt, un hatt getånt garècht un hatt gehelft dar altn un is auvarkhent a guatar bravatar månn.
lando e non si fece più vedere da lui;
l’uomo però adoperò il denaro che
gli era rimasto, visse onestamente,
aiutò la vecchia e diventò buono e
bravo.
Il rapporto fra sacro e profano
La distinzione fra “sacro” e “profano” può partire dalla definizione che ne diede nel 1912 il sociologo francese Emile Durkheim: «Sacro è ciò che viene protetto da divieti e tabù». In sostanza quelle componenti dell’esistenza che non possono rientrare sotto il controllo umano (le forze naturali, la morte, ecc.) vengono
circondate da una serie di norme e proibizioni che servono sia a limitarne l’influenza
sulla vita della comunità che a esorcizzare la paura che esse suscitano. Esse inoltre, venendo trasmesse soprattutto per via orale da una generazione all’altra, favoriscono il proliferare di pratiche simboliche e rituali magici volti a regolare il rapporto con la natura; questo è ancora più vero nel caso delle comunità montane, per
loro stessa natura fortemente condizionate da elementi come le condizioni climatiche e la scarsità di risorse e quindi più bisognose di ricorrere a forme di difesa collettiva. Si vengono pertanto a creare dei sistemi di credenze che forniscono stabilità in contrapposizione all’apparente irrazionalità del mondo naturale (Annibale
Salsa, 1998).
Proprio questa vicinanza con il “sacro” crea un bisogno di familiarità con esso,
che si manifesta frequentemente nei racconti popolari: in essi i protagonisti sovrannaturali vengono spesso descritti con caratteristiche molto “umane”, siano essi personaggi positivi come i santi e Dio stesso, oppure negativi come il diavolo. Ad
esempio nel racconto n. 10 il Signore viene descritto come “un vecchione coi capelli bianchi come la neve e una lunga barba grigia”, e il protagonista della storia
parla direttamente con lui chiedendogli di restituirgli del denaro; San Pietro appare come un figlio preoccupato per la madre (racconto n. 2), e il diavolo pur prendendo l’anima di un uomo in cambio di denaro si dimostra alquanto rispettoso
della propria parola e abbastanza ingenuo da farsi ingannare (cfr. nota al racconto
n. 15).
Anche i proverbi e i detti popolari dimostrano questo rapporto di familiarità col
diavolo, mentre figure come quelle degli angeli sono molto meno presenti: ciò si
può forse imputare al fatto che, mentre il primo riassumeva in sé elementi precristiani, questi ultimi vennero percepiti come un elemento innovativo del cristianesimo. Inoltre sembra radicata la credenza che le anime ascese al paradiso diventassero angeli a loro volta (vedi racconto n. 9).
142 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 16
Schweizer 84 evidenzia le analogie fra questo racconto e altri,
tra cui anche quello celebre de “I tre porcellini”.
Di drai Marìala
Le tre Marielle
In ar bòtta sòinda gebest drai sbéstarla, bo da håm gehatt toat vatar un
muatar, un håm gehatt vil schulln, bóden
hintar håm gelatt soine laüt bal sa soin
gestorbet. Balamång disèlln, bo da håm
gehatt zo haba ’s gèlt, håms geböllt håm,
un di armen khindar, gèlt håmsa khummas gehatt; sa håm gehatt a pissle geplèttra von haus un ’s haus bo sa drinn
soin gebest, un håmen gètt dassèll, in
schullmånnen. Denna håmsa khött dise
armen khindar: «Bia bàrtpar tüan est åna
haus?» «Vörtparas nèt!» – hats khött das
éltarste – «Gott dar Hear bàrtas helvan;
est géabar géabar übar di bèlt zo süachanas an platz zo giana z’ stiana»… un
håm audarbìst un soin gånt.
In khemman di nacht sòinsa gerift in
an balt, un in disan balt sòinsase vorlórt
un håm neméar gebisst aft bela sait zo giana, un alóra håmsa khött:
«Guat, est stéabar dà un màchanas au
a haüsle»… un asó håmsa getånt. Sa håm
zuargetrakk raisar un håmen augemacht a
haüsle, un denna håmsen hìgehakht ’s
haar un håm gemacht drai baite zöpf un
pitn zöpf håmsa gedekht ’s haüsle.
Denna ìsta inngånt das éltarste sbéstarle z’ sega bì’s is groas genumma, ’s
haüsle, vor alle drai, un bàls in is gebest,
hats zuargespèrrt ’s türle un hatt nèt inngelatt gian di åndarn; un se håm audarbìst un soin gånt pa balt in, gaülane.
C’erano una volta tre sorelline che
restarono sole poiché i genitori erano
morti e morendo avevano lasciato anche molti debiti da pagare. Non passò
molto tempo che i creditori pretesero
di essere pagati. Le poverette però
non avevano denaro, avevano solo
poche cose e la casetta dove abitavano. Così consegnarono tutto e poi dissero: «Che cosa faremo noi ora senza
casa?», «Non dobbiamo aver paura»
rispose la sorella maggiore «perché il
buon Dio ci aiuterà. Intanto andiamo
via dal paese e cerchiamo un luogo
dove abitare». Detto questo, partirono.
Quando giunse la notte arrivarono in un bosco. Là si perdettero e non
seppero più in quale direzione andare. Allora dissero: «Bene, restiamo
qua e costruiamoci una casetta!»
Radunarono dei rami e si fecero
una casa. Poi si tagliarono i capelli, ne
fecero tre larghe trecce e con queste
coprirono la casetta. La sorella maggiore entrò per vedere se era grande
abbastanza per tutte e tre, ma quando
fu dentro, chiuse la porticina e non lasciò più entrare le altre.
Queste si rimisero allora in cammino e, piangendo, s’inoltrarono nel
bosco. Dopo un po’ incontrarono un
uomo con un carico di tavole. L’uomo
85
84
Schweizer Bruno, Le credenze dei Cimbri nelle forze della natura, Edizioni Taucias Gareida,
Giazza - Verona, 1984.
85
Bacher annota: «Cfr. Schneller, fiaba n. 42, Die drei Gänse (Le tre oche). Qui l’orso equivale al leone in Grimm, Märchen 68, che conosce tutto ciò che è nascosto e segreto».
144 Luserna: c’era una volta
A baila zait darnå håmsa bokhént an
månn au pitnar purde vlekhan un darsèll
hatten gevorst z’ sega bas sa håm, as sa
gaüln asó, un se håmsen khött.
«E bèn, – hattar khött dar månn. –
Dassèll is nicht; vor ummas màches au i ’s
haüsle, un vor das åndar bàrta tüan Gott
dar Hear»… un lai disar månn hatt ågeheft
zo màchas au, un hats gedekht pit vlekhan,
un denna ista inngånt das mittar diarnle
un hatt gespèrrt ’s türle, un alóra das djüngarste is sèm gestånt alùmna un hatt audarbìst un is gånt pa balt in, gaülane.
Bàls is gebest an tòkko vür, hats bokhént an månn au pitnar karge aisan, un
disar månn hatten gevorst z’ sega bàsses
hatt, un is hatten khött bàssen håm getånt di zboa sbéstarla.
«E bèn, – hattar khött dar månn, –
sbaige un gaül nèt! I màchdar i au a haüsle», un lai hattaren augemacht an aisras
haüsle un hatsen gedekht pit àisrane
plattn, un denna hattaren gemacht drai
àisrane negl un hatt khött:
«Nimm dise drai negl, un est gea in
in haüsle un spèrr di tür un tüa offe niamat; un àsta àpparùmmas bill innkhemmen per fòrtza, glüan di negl un rékhsen
aus un dassel bart stian lai toat». Un denna dar månn is gånt. In sèll balt, bo da
soin gebest di drai diarndla, ìsta gebest
an altar peer, bo da hèrta hatt gebisst alls
bas da is vürkhent in balt, un er is partìrt
un is gånt zo süacha das earst haüsle un
hats gevuntet, un alóra hattar gerüaft in
diarndle un hatt khött:
«Ho, Marìale, tüamar offe!» Un ’s diarndle hatt khött: «Nå, nå, i tüadar nèt
offe» … un alóra hattar khött, dar peer:
«Bèn, àstomar nèt offetüast pitn
guatn, tüastomar offe pitn znichtn… un
lai ìssar gånt au ats tach un hats offegeprocht un is nidargånt un hatt gevrèsst
’s diarndle, un denna issar gekheart bodrùm. ’S mal darnå ìssar bidar gånt zo sü-
volle sapere perché stessero piangendo ed esse raccontarono l’accaduto.
«Ebbene» fece l’uomo «non temete:
per una farò io la casetta e per l’altra
provvede il buon Dio». L’uomo cominciò subito a costruirla e alla fine la
coprì di tavole. Poi la seconda sorella
entrò e chiuse la porticina.
La più giovane rimase sola, riprese il cammino e, piangendo, s’inoltrò
ancora nel bosco. Poco dopo incontrò
un uomo con un carico di ferro.
L’uomo chiese che cosa avesse, ed ella raccontò che cosa le avevano fatto
le sorelle. «Non temere!» disse l’uomo
«Taci e smetti di piangere: adesso ti
costruirò io una casetta». In poco tempo le costruì una casetta di ferro che
infine coprì di piastre di ferro, poi
preparò tre chiodi di ferro e disse:
«Prendi adesso questi chiodi, entra
nella casetta, chiudi la porta e non
aprire a nessuno, e se qualcuno vuole
entrare per forza, arroventa i chiodi,
spingili fuori, e quello resterà morto».
Detto questo, l’uomo se ne andò.
Nello stesso bosco, nel quale si
trovavano le tre Marielle, c’era anche
un vecchio orso che sapeva sempre
tutto ciò che accadeva nel bosco.
L’orso si mise in cammino e andò a
cercare la prima casetta. Quando la
trovò, chiamò la bambina e le disse:
«Oh Mariella, aprimi!…» E la bambina: «No, no, non ti apro!»
Allora l’orso disse ancora: «Bene,
se non mi apri tu con le buone, aprirò
io con le cattive!…» Salì sul tetto, lo
ruppe ed entrò… e divorò la bambina. Poi se ne andò.
La sera dopo partì alla ricerca della seconda casetta e quando la trovò
chiamò la bambina e disse: «Oh
Mariella, presto, aprimi!» «No!» rispose la bambina «Io non ti apro!»
Fiabe, leggende, storielle 145
acha das åndar haüsle un hats gevuntet
un hatt gerüaft in diarndle un hatt khött:
«Ho, Marìale, bahémme ai! Tüamar
offe!». «Nå» hats respùndart ’s diarndle – I tüadar nèt offe». «Bèn, – hattar
khött – àstomar nèt offetüast pitn
guatn, tüastomar offe pitn znichtn» …
un is gånt ats tach un hatt augezèrrt di
prettar un is nidargånt un hats gevrèsst
un denna ìssar gånt bodrùm. In tage darnå ìssar ausgånt zo süacha ’s haüsle von
djüngarste sbéstarle un hats gevuntet,
un bal dar hatt gesek ke ’s is gebest a
söllas starches, ìssar darsràkht, un denna
hattar gerüaft in diarndle un hatt khött:
«Ho Marìale, ai, tüamar offe!»
«Nå, nå, – hats respùndart ’s diarndle – i tüa offe niamat».
«Bèn, – hattar khött dar peer – i
boas an akhar puan, ai, bar gìanse zo
nemma!»
«Nå, – hats respùndart ’s diarndle –
haüt khìmme nèt, ma mòrng géabar».
«Bèn, – hattar khött dar peer –
mòrng géabar».
«Ma géabar palle?» – hats gevorst ’s
diarndle.
«Di achte» – hattar khött dar peer.
«Un bo ìssar dar akhar?» – hats no
gevorst ’s diarndle.
«Sèm asó un asó» – hattar respùndart dar peer, un hatten khött bo da is dar
akhar. «Guat, gea est, – hatten khött ’s
diarndle – un mòrng di achte ai!» … Un
dar peer is gånt.
In tage darnå ’s diarndle is augestånt
di sèkse un is gånt zo nemma di puan; un
bal da is gerift dar peer zo rüavanen, hatsen ausgelacht un hatt khött vo hintar
dar tür:
«Gea, gea du peer, i pin darnå z’ èssamar di puan».
Un dar per alóra hatt khött:
«Bèn, i boas an akhar bille ram; ai bahémme, bar gìanse zo nemma!»
«Bene…» fece l’orso «…Se non mi
apri tu con le buone, aprirò io con le
cattive!…» In un attimo salì sul tetto,
strappò le tavole, entrò e divorò la
bambina. Poi si allontanò.
Il giorno successivo uscì a cercare
la casetta della sorella più giovane e
la trovò. Ma quando vide quanto la
casa era robusta, si spaventò, chiamò
la bambina e le disse: «Oh Mariella,
presto aprimi!» «No, no» rispose
la bambina «non apro a nessuno».
«Bene» disse l’orso «io conosco un
campo di fave, vieni, andiamo a coglierle!»
«No» rispose la bambina «oggi
non vengo, andremo domani». «Bene»
fece l’orso «andremo domani». «Ma a
che ora andremo?» chiese la bambina.
«Alle otto» rispose l’orso. «E dov’è il
campo?» volle sapere ancora la bambina. L’orso le spiegò dove si trovava
il campo. «Bene, ora vattene» disse la
bambina «e domani vieni alle otto!»
L’orso andò.
Il giorno dopo la bambina si alzò
alle sei e andò a prendere le fave e
quando arrivò l’orso, lo derise e disse: «Va, va, orso, io le sto già mangiando, le fave». Allora l’orso fece: «Bene,
io conosco un campo di carote selvatiche: vieni subito, andiamo a levarle!» «No, oggi no» rispose la bambina
«andremo domani». «Bene» fece
l’orso «domani ci andremo alle sette».
«Sì» disse la bambina «ma dov’è il
campo?» L’orso le disse dov’era il
campo. «Bene» fece la bambina «domani cerca di essere qui alle sette!»
L’orso se ne andò. Il giorno successivo
la bambina si alzò alle cinque e andò
nel campo a levare le carote. Era appena tornata a casa, quando giunse
l’orso a chiamarla. «Oh, oh» rise la
bambina «oggi sei arrivato presto, ma
146 Luserna: c’era una volta
«Nå, haüt nèt, – hats khött ’s diarndle – ma mòrng géabar».
«Bèn, – hattar khött dar peer – bar
gian di sìbane mòrng». «Ja, – hats khött
’s diarndle – ma khümar bo da is dar
akhar». «Sèm asó un asó» – hattar khött
dar peer, … un hatten khött bo da is dar
akhar. «Guat, – hats khött ’s diarndle –
un mòrng di sìbane ai!» … Un alóra dar
peer is vortgånt. In tage darnå ’s diarndle is augestånt di vünve un is gånt zuar in
akhar zo nemma di billn ram, un apena as
is gebest bodrùm pitn ram, ìsta gånt dar
peer un hatt gerüaft in diarndle.
«Haha, – hats khött ’s diarndle –
haüt pìsto bol khent palle ma du pist
khent haüt o kartza speet: i pin darnå zo
siadase i di ram».
Alóra dar peer hatt khött:
«Guat, ma i boas an akhar tschükkn;
ai’, bar gìanse to nemma!
Nå, nå, – hats khött ’s diarndle – haüt nèt, mòrng khìmme; ma du möchstmar khön bo dar is disar akhar».
«Nå, nå – hattar khött dar peer – i
khüdars nèt». «Bèn, – hats khött ’s diarndle – ombrùmm du boast khummane
tschükkn».
«Ja, – hattar respùndart dar peer – sa
soin sèm asó un asó» … un hatzen gelirnt
… «un mòrng – hattar khött dar peer –
stéabar au in aldar vrüa un gìanse zo
nemma».
«Ja, – hats khött ’s diarndle – gea est,
un mòrng ai!»
In tage darnå ’s diarndle is augestånt
vor in tak un is gånt au zo lesa di
tschükkn; un dar peer is o augestånt in aldar vrüa un is gånt kan haüsle un hatten
gerüaft un hatt khött:
«Ho Marìale, ai, bar gian zo nemma
di tschükkn». Ma ’s Marìale is nonet gebest bidrùm. «Ha, haüt palle vìnnede» –
hattar pensàrt dar peer; un is gånt aus
zuar in akhar.
ancora troppo tardi. Io sto già cuocendo le carote». Allora l’orso disse:
«Bene, ma io conosco un campo di
zucche, vieni, andiamo a prenderle!»
«No, no» rispose la bambina «oggi no,
verrò domani; ma devi dirmi dov’è il
campo». «No» rispose l’orso «non te
lo dico». «Bene» fece la bambina «non
lo dici perché non lo sai». «Certo che
lo so» rispose l’orso e poi le indicò dove si trovava il campo. «E domani»
continuò «andremo per tempo a cogliere le zucche!» «Sì» disse la bambina «adesso vattene e torna domani».
Il giorno dopo la bambina si alzò
prima dell’alba e andò a cogliere le
zucche. Ma anche l’orso si alzò per
tempo, andò alla casetta e chiamò:
«Oh Mariella, vieni, andiamo a prendere le zucche» Ma Mariella non era
ancora tornata.
«Ah, oggi ti trovo di buon’ora»
disse l’orso, e andò nel campo.
Quando vi giunse, la bambina lo scorse, cercò con l’occhio la zucca più
grossa e vi si nascose dentro.
Arrivato presso il campo, l’orso
non la vide, prese allora la zucca più
grossa e con questa tornò alla casetta;
qui salì sul tetto e disse: «Questa volta non mi scappi, perché quando arriverai a casa, salterò giù e ti prenderò».
Dopo aver detto questo si stese sul
tetto e si addormentò. La bambina era
sempre dentro alla zucca e, quando lo
sentì russare, uscì piano piano, entrò
in casa e chiuse la porta a chiave. Al
chiudersi della porta, l’orso si svegliò,
udì la bambina in casa e si adirò:
«Non importa che tu sia già dentro,
uscirai, io ho qui una bella zucca da
mangiare…» e così dicendo capovolse la zucca e vide il buco. Allora capì
che era stato lui stesso a portare a casa la bambina.
Fiabe, leggende, storielle 147
Bal dar palle is gest gerift in akhar, ’s
diarndle hatten gebarnt, ’s hatt auzgeholt
da gröasarste tschükk un ìssese lugàrt in
drinn. Dar peer is khent un hats nèt gesek in akhar un s gånt un hatt augenump
da gröazarste tschükk un pit disarn ìssar
gekheart bodrùm kan haüsle un is gånt
au ats tach un hatt khött:
«Disa bòtta vonkéastomar nèt, ombróm bal do khist zo giana in in haüsle,
sprìnge nidar un darbìste».
Denna ìssarse nidargelek un is inslàft.
’S diarndle intånto is no hèrta gebest in
drinn in di tschükk, un bal ’s hatt gehöart
in peer snarchln, is khent laise laise aus vo
dar tschükk, is gånt in in haüsle un hatt geslosst di tür; un slóssante di tür dar peer is
darbékht un hatt gehöart ’s diarndle in in
haüsle un ssese darzürnt. «’S is nicht, àsto
ånka pist in; du barst auvarkhemmen o …
I hån dà a schümmana tschükk z’ èssa» –
un lai hattar gekheart uminùm di tschükk
un hatt gesek ’s loch, un alóra hattar darkhénnt ke ’s diarndle hattars huamgeprenk
er. Intånto ’s diarndle hatt ågezüntet ’s vaür un hatt geglüant di negl un denna hatsese gestekht au pa tach un hatse gemacht gian gerade in pauch von peer, un
dar peer hatt gètt a drai lürnar, is gevallt
abe von tach un is krapàrt. ’S diarndle alóra is khent aus von haüsle un hatt abe gezoget di haut in peer un denna is gånt in di
statt zo vorkhóavase. Nå di bege hats bokhént in månn bóden hatt augemacht ’s
haüsle, un darsèll hatten gevorst z’ sega bo
’s geat, un is hatsen khött, un dar månn is
gånt alóra pitn diarndle un hatten gehelft
zo vorkhóava di haut. Denna hattars gevüart in rècht kan djùditze, un sèm håmsen
gètt an hauf gèlt, in kunto as hatt getöatet in peer; un denna is gånt pitn månn un
is hèrta geplibet pit imen fin as is gestorbet.
Ma, quella, acceso il fuoco, arroventò i chiodi e li sporse dal tetto dritti nel ventre dell’orso. Questi emise
due o tre bramiti, cadde dal tetto e
morì. Così lei uscì dalla casetta e lo
scuoiò. Poi si recò a vendere la pelle.
Per via incontrò l’uomo che le
aveva costruito la casa, ed egli le chiese dove stesse andando. Ella gli spiegò tutto. Allora l’uomo l’accompagnò
e la aiutò a vendere la pelle; la condusse poi dal giudice, che le diede un
premio in denaro per avere ucciso
l’orso. Infine la bambina andò ad abitare con l’uomo e restò con lui finché
visse.
148 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 17
Tüsele Marusele
Tüsele Marisele
Vor zaitn ìsta gebest an armes khinn,
bo da hatt gehatt toat in vatar un di muatar un hatt gehoast Tüsele Marüsele.
Ditza khinn is ummargånt zo pèttla zoa
nèt zo stèrba vo hummar.
In an tage is gånt in pa balt un hatt
gevuntet ’s haus vo dar «liabe nona», a
billes baibe.
Is is inngånt zo vorsa eppas z’ èssa, un
da «liabe nona» hats inngespèrrt in sai
haüsle. ’S Tüsele Marüsele is khent stüfo
un saur zo stiana inngespèrrt un alóra
hats gerüaft dar «liam nona» un hatt
khött «Liaba nona, tüamar offe!» Un da
«liabe nona» hatt khött:
«Ziage pan pentle, ’s geat offe!»
’S Tüsele Marüsele hatt geböllt offetüan un is nèt gebest guat un is hatt bidar
gerüaft:
«Liaba nona, tüamar offe, i hån löat z’
schaisa».
Un da «liabe nona» hatt khött:
«Schais in di hånt un djukh in di
bånt!»
’S Tüsele Marüsele hatt bidar gerüaft:
«Nå, liaba nona, i pìtte, tüamar offe!»
Un alóra da «liabe nona» hatt offegetånt un hats ågehenk pan pan kübele un hats molàrt nidar obar a véstarle; denna da «liabe nona» hatt
khött:
«Hasto geschist»? «No a pìssle».
«Hasto geschist?»
«No a kégele».
C’era una volta una povera bambina alla quale erano morti sia il padre che la madre e si chiamava Tüsele
Marisele.
Questa bambina andava in giro a
mendicare per non morire di fame.
Un giorno si addentrò nel bosco e raggiunse la casa della “cara nonna”, una
donna selvaggia. Entrò e chiese qualche cosa da mangiare, ma la “cara
nonna” approfittò per rinchiuderla in
casa. Ad un certo punto Tüsele
Marisele fu però stufa di trovarsi rinchiusa e cominciò a chiamare: «Cara
nonna, aprimi!…» E la “cara nonna”
di risposta: «Tira la cordicella e si
aprirà». Tüsele Marisele tentò di aprire, ma non ci riuscì. Allora riprese a
chiamare: «Cara nonna, aprimi, ho bisogno di fare la cacca!…» E la “cara
nonna”: «Falla in mano e buttala sul
muro!» Tüsele Marisele disse ancora:
«No, cara nonna, ti prego, aprimi!»
Allora la “cara nonna” aprì, legò
la bambina ad una fune e la calò fuori da una finestrella. Poco dopo la
“cara nonna” cominciò: «Hai finito?»
«Ancora un po’», «Hai finito?», «Ancora un pochino», «Allora, hai terminato?», «Sì, cara nonna, ora tirami
sù!» Intanto Tüsele Marisele aveva
appeso un pezzo di legno al suo posto e si era dileguata.
La “cara nonna” tira, tira… e tirò
sù il pezzo di legno. Quando vide il
86
86
Bacher annota: «La cara nonnina, vale a dire “das wild waibe”, aveva intenzione di ingrassare il bambino e mangiarselo. La fiaba appartiene quindi, insieme alla n. 37, al gruppo
Hansel-Gretel. Se ne trovano reminiscenze in Zingerle, Sagen, 44, 181, 193. La fuga del tüsele
Marusele ricorda la conclusione della leggenda dell’uomo selvaggio in Zingerle, Sagen, 193».
Fiabe, leggende, storielle 149
«Hasto geschist?»
«Ja, liaba nona, zìame au est!»
Intånto ’s Tüsele Marüsele hatt ågehenk a stökhle un is vonkånt. Da «liabe
nona» ziaget un ziaget un ziaget au ’s
stökhle.
Bàlda da «liabe nona» hatt gesek in
stokh, ìssese darzürnt un ìssen någeloaft;
ma ’s Tüsele Marüsele is sa gebest vort
aus in a groasa bis, bo da is gebest ’s höbe in di schöbar, un is gånt in untar das
khlümmanarste schöbarle.
Da «liabe nona» is gånt un hatt umgedjukht alle di groasan schöbar un hatt
khött:
«Àsto nèt pist untar in groas, njånka
untar in khlumma, àsto nèt pist untar in
groas, njånka untar in in khlumma»…
hatt umgedjukht alle di groasan schöbar
un in khlumma hatsen gelàtt vest.
Bal se hatt gesek ke si vìnnts nèt, ìsse bidar gånt bodrùm huam zo léganar å
di schua, ombróm si hatt ågehatt di
zokkln.
legno si adirò e uscì a rincorrere
Tüsele Marisele. Ma la bambina era
già lontana, in un grande prato, dove
il fieno era raccolto in mucchi, ed andò appunto a nascondersi sotto il
mucchio più piccolo. La “cara nonna”
arrivò là e rovesciò tutti i mucchi
grandi, dicendo: «Se non sei sotto
quello grande, non sei nemmeno sotto quello piccolo» e rovesciò tutti i
mucchi, meno quello più piccolo, che
lasciò intatto. Visto che non la trovava, tornò a casa a infilarsi le scarpe,
perché era uscita con gli zoccoli.
Intanto Tüsele Marisele spuntò da
sotto al mucchio di fieno e raggiunse
il fiume. Là c’erano le donne a lavare.
Ella corse a nascondersi sotto l’ampia
veste di una lavandaia robusta e vi si
era appena nascosta, quando arrivò
correndo la “cara nonna”, la quale
chiese «Non avete visto la piccola
Tüsele Marisele?» «Sì», fecero le donne «l’abbiamo vista». «Dov’è andata?»
150 Luserna: c’era una volta
Intånto ’s Tüsele Marüsele is khent
aus von schöbarle un is gånt kan pach;
sèm sòinda gebest di baibar bo da håm
gebèst, un ’s Tüsele Marüsele is gånt in
untar di kunsött vonar groasan bèscharen.
Nèt bol àsta ’s Tüsele Marüsele is gebest logàrt, ìsta gånt da «liabe nona» un
hatt gevorst:
«Hattar nèt gesek ’s Tüsele Marüsele?»
«Ja, – håmsa khött di baibar – bar
håms gesek».
«Bo is gånt»? – hatse gevorst da «liabe nona». «Ja, – håmsa khött di baibar –
’s is passàrt in pach».
«Bia hats getånt»? – hatse gevorst
da «liabe nona»; un di baibar håm khött:
«’S hatt gesbunk un gesprunk un is
übargesprunk…»
Un da «liabe nona» is gånt, hatt gesbunk un gesprunk un is drinngesprunk; un
alóra ’s Tüsele Marüsele is auvarkhent vo
untar di kunsött von baibar un hatt khött:
«Lè, lè liaba nona, du hàstme geböllt
vrèssan mi, un anvétze est pìsto gånt du
zo trinkha: trinkh, trinkh in pauch voll!»
Ma da «liabe nona» hatt nicht mear
gehöart, umbrómm si is gebest schümma
dartrunkht, un ’s Tüsele Marüsele, as nèt
is toat, lebet no.
insistette la “cara nonna”. «Oltre il
fiume» le risposero. «Come ha fatto?»
volle sapere la “cara nonna”. E le donne dissero: «Ha preso le misure, poi è
saltata ed è saltata oltre il fiume».
Allora anche la “cara nonna” prese le misure e saltò, ma saltò proprio
in mezzo al fiume.
Così Tüsele Marisele uscì di sotto
alle gonne delle lavandaie e canterellando disse: «La, la, cara nonna, tu volevi divorarmi e invece sei andata a
bere: bevi, bevi pure fino a riempirti
la pancia!»
Ma la “cara nonna” non sentiva
già più, perché era annegata, e Tüsele
Marisele, se ai nostri giorni non è già
morta, vive ancora.
Fiabe, leggende, storielle 151
Racconto nr. 18
Kavortzio
Cavorzio
Bas bill’s muanen ’s bòrt Kavortzio?
Nå, moine laüt, i boases sèlbart nèt,
ma i boas ke Kavortzio hatta gehoast a
statt, bo da is gebest sèm, bo da is est dar
sea vo Ka1nètsch, sèm zbischnen Persan
un Plaif, Kalnètsch un in pèrgle vo San
Valentin, un höart bia ’s is vür khent as
da est sèm ista dar sea!
Vor a par hundart djar ista gebest an
armar månn bo da ummar is gånt zo
pèttla, un is gånt in disa statt zo vorsa éppas zo leba. Dar hatt ågeheft züntrest dar
statt un is gånt fin zöbrest hèrta vorsane
éppas z’ èssa, ma niamat hatten nicht
gètt; un bal dar is gerift zöbrest, issar gånt
fin in das lést haus un sèm hattar gevuntet an arma bittova pit soin sun, un sèm
hattar bidar gevorst éppas z’ èssa, ma das
arm baibe hatt nicht åndarst gehatt, bas
a pissle proat z’ èssa di tchòi on si hats
getoalt pitn arm månn; on bal dar hatt
gehatt gèsst hattar khött: «Vorgellt’s
Gott» on denna hattar khött:
«Höart laüt, i möchas éppas khön:
hòinta nacht barta khemmen a schaülas
bèttar, ma eråndre schauget nèt aus, né
pa tür, né pa vestar ombrom se nò bartas khemmen zuar éppas létzes»! … un
denna hattar gètt di «guata nacht un is
gånt. Balamån an ur dopo khent di nacht,
hats ågeheft zo plitzega un zo tondra un
zo renga bia as hatt gemök. Dat pua hatt
geschauget pa vestar aus un alora issen
gånt a richom in pa’nan oage un hatten
darpluntet dassèl oage; on alora issen
khent in sint bas da hatt khött dar månn,
Che cosa significa Cavorzio?
No, amici cari, non lo so neppure
io. So soltanto che Cavorzio era il nome di una città che si trovava là dove
ora si trova il lago, tra Pergine,
Calceranica, Caldonazzo e il colle di
San Valentino.
Ed ora sentite in seguito a quale
avvenimento oggi esiste un lago nello
stesso luogo…
Un paio di secoli fa un pover’uomo andava in giro a mendicare e giunse in questa città per trovare qualche
cosa da mangiare. Egli cominciò dalla
parte bassa dell’abitato e andò avanti
mendicando fino a quella più alta, ma
nessuno gli diede niente. Quando
giunse nella parte più alta della città,
entrò nell’ultima casa e vi trovò una
vedova con un figlio. Chiese da mangiare, e la vedova, che non aveva altro
che un po’ di pane per cena, lo condivise col mendicante.
Quando egli ebbe finito di mangiare, ringraziò e poi disse ancora:
«Sentite, buona gente, ho una cosa da
dirvi: questa notte ci sarà un brutto
uragano, Voi però non dovete guardar fuori, né dalla porta, ne dalla finestra, altrimenti vi arriverà addosso
qualche brutto malanno».
Detto questo, diede la buona notte e se ne andò. Circa un’ora dopo il
calar delle tenebre cominciò a lampeggiare forte, poi a tuonare e quindi
a piovere oltre ogni misura. Il ragazzo
87
87
Bacher annota: «Alcuni tratti di questa leggenda si ritrovano nelle leggende di Zingerle
legate a certi laghi; ad esempio il tema della punizione per durezza di cuore verso i poveri
(nn. 230, 231, 234, 631, 639)».
152 Luserna: c’era una volta
un is vort-gekheart von vestar un is gånt
z’ slava, er un sai muatar o.
Das mòrgas, in ta’ darnå, bal sa soin
au gestånt håmsa gesek nicht åndars bas
bassar un nicht mear vo dar statt bas di
khirch un ’s haus alùmma, bo sa drin
soin gebest se åndre. Un in ta’ vo haüt ista no hèrta dar sea vo Kalnètsch sèm, bo
da vor zboahundart djar ista gebest di
statt vo Kavortzio.
guardò fuori dalla finestra, ma si sentì trafiggere un occhio come da un
succhiello al punto da restarne accecato. Gli vennero allora in mente le
parole di quell’uomo e si scostò dalla
finestra pieno di paura. Il ragazzo e la
madre andarono quindi a letto.
Al mattino seguente, quando si alzarono, non videro che acqua ed acqua intorno e, della città, niente più
che la chiesa e la loro casa. E ancora
oggi il lago di Caldonazzo si trova nel
luogo dove duecento anni fa era la città di Cavorzio.
Fiabe, leggende, storielle 153
Racconto nr. 19
Dar balt von puachan
Il bosco di faggi
88
(dar puachbalt)
Vor hundart un vüchtzekh djar aus
ats Lavrou ista gebest a vatar bo da hatt
gehatt zboa sünn.
Dise zboa sünn soin gebest bravat, sa
håm gearbatet di gåntzan tage af’n akhar
un håm geholft soin vatar das meararste
bo sa håm gemök. Balamån dar vatar is
darkhrånkht un is gestorbet; ma vor dar is
gestorbet, hattar gemacht testamént un
hatt gelatt alls soi geplèttra soin zboa
sünn, assasen toaln attimitt un assas
némmen halbe vor umman, aus lassante
in balt pit puachan, bo dar hatt gehatt nidar untar di khirch. Insèl, hattar khött, assarsen halt dar sun bo dasen gebinnt. Di
armen puam håm asó ausgetoalt das
guat un alls das åndar geplèttra, aus bas
in balt.
Pitn balt håmsa nèt gebisst bia zo
tüana. Alora soinsa gånt kan djùditze un
håm gevorst z’ sega bia sa håm zo tüana;
un darsèl hatt o’ nèt gebisst bia zo lirnase, un asó soinsa gekheart bidar huam.
Nå de bege håmsa khött:
«Est geabar huam, un huam as bar
soin, slaifparas a messar vor umman un
morng, balda au-steat di sunn, geabar aus
in balt un hévan å z’ straita un zo djukha
au an åndar, un bér da gebinnt, mage
haltn in balt, un asó håmsa getånt»: da
soin gånt huam un håmen geslaift a messar vor umman, un denna soinsa gånt z’
slava.
In tage darnå soinsa augestånt zo giana z’ straita, ma balsa soin gerift nåmp in
Centocinquanta anni fa, a Lavarone, viveva un vecchio padre con
due figli. I due ragazzi erano bravi e
lavoravano tutto il giorno nel campo,
aiutando il padre quanto fosse loro
possibile.
A poco a poco, però, questi si ammalò e poi morì, ma prima di morire
fece testamento e lasciò ogni cosa ai
figli con l’obbligo di dividere il tutto
in parti uguali perché ciascuno avesse
giusto la metà, con l’unica eccezione
del bosco di faggi che egli possedeva
e che si trovava a sud della chiesa.
Aveva stabilito che questo bosco andasse al figliolo che se lo fosse meritato. I poveri ragazzi si divisero ogni altra cosa in parti uguali, lasciando
fuori solo il bosco. Con questo non sapevano proprio come fare. Perciò andarono in tribunale e chiesero consiglio al giudice, ma neppure il giudice
seppe dare loro un consiglio. Tornando a casa, lungo la strada dissero allora «Adesso andiamo a casa e affiliamo un coltello ciascuno e domattina
presto, all’alzarsi del sole, andremo
nel bosco a batterci col coltello, ed
il vincitore avrà il bosco di faggi».
Arrivarono a casa, affilarono i propri
coltelli e dopo si coricarono.
Il giorno successivo si alzarono all’alba per andare a battersi, ma quando giunsero nei pressi del bosco, trovarono un lago dove prima c’era il
bosco.
Bacher annota: «Cfr. Schneller, Märchen (Fiabe) ecc., pag. 232, Analogie anche con altre
leggende legate ai laghi di ambientazione tirolese, ad es. in Zingerle, Sagen, 224, 641, in
Heyl, Volkssagen, pag. 91, 92 ecc.».
88
154 Luserna: c’era una volta
balt, soinsa darstånt, ombrom, invétze
bas zo soinada dar balt, ista gebest a sea;
un alora di puam håm nicht mear gestritet pitnåndarn un håm gelatt in sea in
Kamou vo Lavrou.
Um sèm dar sea ista no in ta’ vo
haüt o, un drin soinda di visch, un bal da
di vischar gian zo vischa, zèrte vért ziangsa no’ hèrta auvar, a tiabas a bòtta, a puachas rais.
Così non ebbero bisogno di battersi e decisero di lasciare il lago al
Comune di Lavarone. Quel lago esiste ancora oggi e dentro vi si trovano
dei pesci, come in ogni altro lago.
Quando i pescatori vanno a pescare,
però, ora qua ora là pescano anche dei
rami di faggio.
Le forze della natura
All’interno dei racconti, dei detti e dei proverbi cimbri abbondano i riferimenti agli
animali. Un ottimo esempio riguarda la figura dell’orso, che nei racconti e nelle fiabe cimbre assume vari significati: oltre a possedere conoscenze riguardanti i cambiamenti del tempo e delle stagioni (Schweizer 1984, pag. 148), rappresenta tutta la varietà di rapporti che l’uomo può avere con il mondo naturale: nella fiaba
delle tre Marie (n. 16), ad esempio, esso rappresenta un pericolo, tuttavia, grazie alle sue conoscenze, permette alla piccola protagonista della storia di ottenere informazioni importanti riguardo a fonti di nutrimento (nello specifico, l’ubicazione
di campi di fave, carote e zucche). Esso viene tenuto a bada da una casa e ucciso
con dei chiodi arroventati, entrambi fatti di ferro; questo dettaglio potrebbe simboleggiare il potere dell’ingegno umano di dominare la natura.
La natura è capace di improvvisi mutamenti e grandi catastrofi, ed ha un ruolo di
primaria importanza in molti racconti: ecco quindi rappresentata la peste che si
avvicina a Luserna, contro cui gli abitanti non possono far altro che cercare di misurarne l’avanzata tramite dei pezzi di pane; addirittura interi boschi e villaggi possono sparire nel giro di una notte, sommersi dalle acque di un lago. Tuttavia alcuni dei fenomeni naturali sono in realtà alla portata del controllo dell’uomo, in
particolare quelli atmosferici. Sono soprattutto le figure maggiormente associate
al sovrannaturale (sacerdoti, streghe e stregoni) ad avere la capacità di far grandinare a comando o di portare il maltempo sul paese. Esistono poi alcuni luoghi che
più di altri suscitano paura o generano credenze e superstizioni: le grotte, i crepacci e le voragini oltre a rappresentare un esempio tipico di luogo nascosto e misterioso, sono anche uno dei tramiti tra questo mondo e quello sotterraneo dei morti. In alcuni precipizi venivano gettati i corpi dei morti che non potevano essere
sepolti in terra consacrata (racconto n. 20), in alcune grotte si potevano rinvenire
dei tesori (n. 29) mentre in un’altra viveva Frau Pertega, una figura femminile che
portava i neonati alle madri.
156 Luserna: c’era una volta
Racconto n. 20
Schweizer 89 sostiene che «il citato Jakominenloch non si trova
sulla carta 1:25.000, ma si apre vicino alla “Malga Tanzer”».
’s Djakominenloch
odar ’s loch von Djakomii
Bi dar boast, vor acht tage pinne gebest ka Slege un höart, liabe moine laüt,
bas i hån gehöart khön.
Balde palle pin gebest aft’s Kamporùf pinneme nidar gesotzt zo rasta un
sèm soinda zuar khent zboa alte baibla
un soinse nidar gesòtzt se o un i hån
ågeheft zo réda von schümman béldar,
bo da soin af di sèln saitn, un alora dise
zboa baibla håm ågeheft zo kontara au
se o:
«Ja, ja, – håmsa khött – ’s soin bol
schümmane béldar, ma schaülane löchar
o». I, zo höara asó, pinne gebest kuriòsat
un han någevorst, un alora dise baibla
håm köht:
«Höart, durch nåmp Gelle ista a
groasar balt un af de mitt disan balt ista
’s Djakominenloch un in ditza loch djukhansa nidar alle di laüt bo da, dopo bograbet, nèt möng stian in da gebaigate earde».
I, balde hån gehöart asó, hånnese
ausgelacht un hån khött:
«In moi lånt bograbarse alle di laüt
bal sa soin toat, ma auvar von grap hånne nonet gehöart khön as da sai khent niamat».
Alora dise baibar håmar khött asó:
«Ja, liabes moi mentsch ’s is asó, dar
La voragine
di Giacomino
90
Otto giorni fa, come sapete, andai
ad Asiago. Sentite un po’, mia buona
gente, che cosa sentii dire.
Quando arrivai a Camporovere
mi fermai per riposare e due vecchiette vennero a sedersi accanto a me. Io
cominciai a parlare dei bei boschi che
coprivano le pendici intorno e le due
donne dissero: «Sì, sì, proprio dei bei
boschi, ma anche delle brutte voragini». Sentendo questo discorso, fui curioso di sapere di che cosa stessero
parlando ed esse cominciarono a raccontare.
«Sentite, là, presso Gallio c’è un
gran bosco e nel mezzo di quel bosco
c’è la “Voragine di Giacomino” e in
quella voragine vengono gettati tutti
coloro che dopo la sepoltura non possono restare in terra consacrata».
A sentire questo risi di loro e dissi: «Al mio paese seppelliamo tutti
quando sono morti, ma non ho mai
sentito che nessuno sia mai risalito
dalla fossa».
Allora le donne replicarono: «Sì,
caro, è proprio così, lo potete credere!
Noi ricordiamo che ne siano stati portati due o tre». Io allora chiesi: «Ma
89
Schweizer Bruno, Le credenze dei Cimbri nelle forze della natura, Edizioni Taucias Gareida,
Giazza - Verona, 1984.
90
Bacher annota: «“Nella zona di Rein la montagna delle streghe è il Pleschkogel, il cattivo ha l’aspetto di un uomo grande e grosso e selvaggio… quest’uomo pretende che coloro che gli si offrono rinneghino tutto ciò che è sacro… essi volano via dal Pleschkogel in
forma di corvi e caproni, avvolti da nera nebbia, e oltrepassando Graz arrivano al
Wildenberg”… (Zeitschrift für Volkskunde VII, 246)».
Fiabe, leggende, storielle 157
mök’s gloam, un pa ünsarn gedenkhan
håmsar getrakk schüa zboa, drai».
I alora hån khött:
«Un bia boastar eråndre ke ditza odar
dassèl möge nèt stian in da gebaigate
éarde?». Se håm khött asó:
«Di laüt khemmen alle bograbet un
disèln, bo da nèt möng stian in da gebaigate éarde, in tage darnå venntmase bidar obar di éarde on alora lassansase sèm
fin abas pa dar nacht, un dopo khinta dar
faff pit viar starche månnen un nemmen
in paur un trangen vort un lengen nidar
hundart mètre vor sa rivan kan loch.
Gelék nidar assa håm in paur, khemmenda obar a khutta tachln, odar a khutta khree un gem au khear in paur un alls
in an stroach ista vort dar paur nidar pa
loch. Ren törta niamat von sèln bo da
soin sèm, ombrom asda épparummandar
redet, géatsen abe létz: in ’ar bòtta håm-
come potete sapere quale morto non
possa rimanere nella terra consacrata?» Allora mi spiegarono: «I morti
vengono tutti portati alla sepoltura
ma quelli che non possono restare in
terra consacrata, il giorno seguente
sono ritrovati sopra terra. Vengono lasciati dove si trovano fino al calar della notte quando un prete e quattro uomini robusti prendono la cassa e la
portano a cento metri dalla voragine.
Quando depositano la bara, arriva
una schiera di cornacchie o di corvi,
che danno una spinta alla cassa e in
attimo questa scompare dentro alla
voragine.
Raccontare dei morti che sono stati portati alla voragine non è permesso, perché, se qualcuno ne parla, gli
capita qualche malanno. Una volta vi
portarono una donna ed uno ebbe
158 Luserna: c’era una volta
sa getrakk a baibe un ummadar hatt geböllt machan lachan di åndarn un hatt
gehoket: “Ho hopp”! Alora soinda khent
pa loch auvar a khutta khre on soinen nå
geflatart. Bi da nèt sèm bérat ghebeest
dar faff pitn åndarn månnen zo helvanen,
hettatnsen sichar darhakht in khopf pitn
soin schnèkk».
l’idea di far ridere gridando “ho
hopp!” Ma in un momento dalla voragine salì una schiera di corvi che gli
volarono addosso e, se non ci fossero
stati il prete e gli altri uomini ad aiutarlo, gli avrebbero certamente spaccato la testa col becco».
Fiabe, leggende, storielle 159
Racconto nr. 21
’S loch von gelt
Il buco del danaro
Au obar ’s lånt vo Lusérn soinda di
beldar von Lavròunar on sèm ista a toko
balt bo dase rüaft dar Kklapf, un afte di
mitt disan balt ista a loch bo da hoast “’s
loch von gèlt».
a)Vor vil, vil djar soinda gebest étlane mang atn platz vo Venéde zo halta a
réde in laüt un sèm håmsa khött ke bén
da khint a kriage di raichan laüt bogram
’s gèlt untar di éarde un denna vonkiansa aus von lånt, un assa nèt stian getöatet von soldan, assa no khearn bodrùm
in 1ånt, vennensas bidar; ma assa nemear håm glükh zo keara bodrùm, ‘s gèlt
géat in taüvl, un dar taüvl, bal ’s is hundart djar assar ’s hatt, léktar ’s in di sunn
zo sünna; ma dar last’s nèt seng in laüt
ke ’s is gèlt, a bòtta zoagetars bia a zümmale salàt, a bòtta bia an hauf schoatln,
odar aspe an albar gedekht pit roasan.
Un ber da sèm is zo heva un zo traga
vort bas da dar taüvl zoaget, vor disan
ista alls gèlt bo da is lugart sèm in sèl
platz. On lai håmsa aukontart in laüt ke
’s ista a loch in an balt von Kamòu vo
Lavrou, obar ’s lånt vo Lusérn, bo da is
bograbet a hauf gèlt un ats vüchtzane
odar sechtzane von ludjo dar taüvl lek’s
aus in di sunn zo sünna. Sèm in platz vo
Venéde soinda gebest vil laüt zo lüsna
un tortemitt in laüt bo da håm gelüsant
soinda gebest zboa månnen, bo da alle
di djar soin khent zo pèrge pit soin vich
in Milegrùam, un håm’s gehöart un lai
håmsa gebisst bo da is ditza loch; un se
soin khent zo pèrge in sèl summar o un
ats vüchtzane un sechtzane von ludjo
Sopra l’abitato di Luserna si
stendono i boschi del Comune di
Lavarone e là c’è un tratto di bosco
che si chiama Khlapf e in mezzo ad
esso un buco o caverna, che si chiama
“buco del denaro”.
a) Molti anni fa, nella piazza di
Venezia, arrivarono dei maghi che
parlarono con la gente e dissero che
ogni qual volta che arriva una guerra,
i ricchi nascondono il loro denaro sotterra e fuggono dal paese e, se non
vengono uccisi dai soldati e se possono tornare al loro paese, lo ritrovano;
ma se invece non hanno più la fortuna di tornare, il denaro va al diavolo e
il diavolo, passati cento anni, lo espone al sole ad asciugare. Questi, però,
non lascia capire che si tratta di denaro, lo mostra una volta sotto forma di
una cesta di insalata, una volta come
un mucchio di trucioli, o anche come
un albero coperto di fiori. Chi si trova
sul posto e raccoglie e porta via ciò
che il diavolo mette in mostra, questi
avrà il denaro ivi nascosto. I maghi
raccontarono anche che c’è un buco in
un bosco di Lavarone, sopra Luserna,
nel quale è sepolta una quantità di denaro e il 15 e 16 di luglio il diavolo lo
espone al sole ad asciugare.
Nella piazza di Venezia c’era molta gente che ascoltava e c’erano anche due uomini che andavano tutti
gli anni col bestiame alla malga
Millegrobbe. Essi sentirono le parole
e subito capirono dove si trovava
91
91
Bacher annota: «Nelle leggende tirolesi ricorre spesso l’immagine del “fiorire del tesoro”
(v. Zingerle, Sagen, 515, 531, 539, 541, Heyl, Volkssagen, 8. 633 ecc.)».
160 Luserna: c’era una volta
håmsa gehüatet vor in gåntz tage umme ditza loch hér.
Balamån ats sechtzane abas ista hérkhent a schaüla bèttar, plitzegar, tondrar,
schaur un bint un reng as ’s hatt gemacht
di vort … ma se åndre soin geplibet no
vùrsnen zo hüata.
An lesten ista khent pa loch auvar a
zümmale salat, un se håm’s gevånk un
soin gånt vort. Sa soin neånka gånt mear
zuar in khésarn, sa håm hintar gelatt ’s
vich un ’s geplèttra bo sa nå håm gehatt,
un soin geloft huam pittar zumma, un da
hùam di zumma salat is lai khent ploases
gèlt, ke sa håmsan gehatt genumma vor
se åndre un håmsan hintar gelatt an hauf
vor soine khindar o; un vor ditza ’s loch
bo da fin alora hatt gehoast “’s loch von
Khlapf” est khint’s gerüaft “’s loch von
gèlt”.
b) As pi da kontarn di altn, vor djar
soinda gånt nidar pa disar tiavan höl, nidar pa éarde zboa puam zoa z’ sega bia ’s
schauget aus.
Sa håmen nå genump a lantèrn un,
an toko nidar, håmsa gevuntet di pumandar vo toatn laüt un vo toats vich, un sa
soin nå gånt nidarbart, un bal sa soin gebest an schümman tòkko tiavar, issen
darlest ’s liacht. Sa håm auvargenump in
vaürkhnòt un ’s zuntar un ’s vaüraisandle zo zünta ’s liacht, ma sa soin nèt gebest guat: ’S liacht hatt nemear gheböllt
prinnen un sa soin nemear gebest guat zo
ziaga in atn vo dar tüf bo da is gebest sèm
untar, on alora soinsa gekheart bidrùm
au, åna zo haba gevuntet khumma gèlt,
un hån khött ke nimmar mear åndarst
bartnsa nèt gian nidar in loch von gèlt.
c) In ar bòtta soinda gånt drai diarnen un a pua àu in Millegrùam na radikn.
Dar pua is gebest dar Paul Paulaz un di diarnen soin gebest ’s Mariale von Draiznar,
di Ursula von Zètt un dar Teresì’ von
Mentsch. Bal sa sin gerift ka dar hülbe
quel buco e poi, nell’estate, salirono
in malga e il 15 e il 16 di luglio restarono a guardare il buco per tutto il
giorno.
La sera del 16 luglio ci fu un uragano con lampi, tuoni, grandine, vento e pioggia da far paura… e, nonostante il cattivo tempo, essi rimasero
là di guardia. Alla fine salì dalla cavità una cesta di insalata, i due uomini
la pigliarono e scapparono via. Non
andarono nemmeno alle casare, abbandonarono il bestiame e la roba che
avevano là, per correre a casa con la
cesta e, giunti a casa, quella cesta di
insalata si trasformò in denaro, tanto
denaro che ne ebbero a sufficienza per
sé e ne lasciarono poi un mucchio in
eredità ai figlioli.
Per questo fatto quella caverna
che si chiamava “buco del Khlapf” si
chiama ora “buco del denaro”.
b) Come raccontano i vecchi, anni
fa due giovani scesero per questo buco sotto terra giusto per vedere come
fosse là dentro. Essi presero una lanterna e, dopo esser scesi per un buon
tratto, trovarono delle ossa umane e
delle ossa di animali; scesero ancora
per un altro tratto, ma quando furono
più giù, il lume si spense, estrassero
allora la pietra focaia, l’esca e l’acciarino per riaccendere il lume, ma non
vi riuscirono. Il lume non voleva più
ardere e anche loro non potevano più
respirare per le esalazioni che c’erano.
Allora risalirono senza aver trovato il
denaro e giurarono di non tornare
mai più là sotto.
c) Una volta tre ragazze e un giovane salirono sui pascoli di Millegrobbe in cerca di tarassachi. Il ragazzo era Paolo Paolaz, le ragazze erano
162 Luserna: c’era una volta
von Pontàrn, òdar von Sbånt, bia ma billar khön, soinsase ausgetoalt: dar pua un
a diarn, dar Paul un di Ursula, soin gånt
durch zuar in Sbånt, un di åndarn zboa diarnen soin gånt af di sait von Schrotn.
Laise laise ista hér-khent a schümmas
labes rengle von långes un dise zboa diarndla soinse gezoget untar a vaücht.
Balamån håmsa gehöart an groasan
tondrar un lai håmsa gesek a schaülas
loch sèm nåmp imenåndarn, un ditza loch
håmsa’s nia gehatt gesek vorånahi.
Da soin gånt durch nåmp z’ sega bas
vor a loch ’s is. Alls in an stroach håmsa
gehöart an krèk, on lai nidar züntrest in
loch håmsa gesek a schümmas naüges
zümmale vol salat, un se håm geschauget hintar un vür, z’ sega be sa soin guat
zo giana nidar zo nemma di zumma, ma
da soin nèt gebest guat. Alora soinsa gånt
z’ sega bi sa vennen di åndarn zboa, un
håmse gevuntet atn Sbånt. Sèm håmsen
kontart bassa håm gesek ün gehöart on
lai håmsa augevånk alle pittanåndar zo
giana z’ sega un zo nemma au di zumma
salàt. Ma ben sa soin gebest bidrùm in in
di Schrotn, håmsa gesüacht hii un her, ma
né ’s loch, né di zumma, né di salat håmsase nemear gevuntet. Denna soinsa
khent humman un håm’s kontart in soinen, un an altar månn hats gehöart un
alora hattar khött ke sèm untar ista ’s
gèlt von taüvl un in sèl tage hattar’s gelék aus zo sünna, un assa hettatn genump
di zumma vor sa soin vort gekheart, hébatnsa gehatt ’s gèlt; ma est dar taüvl
hatt ’s bidar genump bodrùm.
Ditza is sutzédart vor sechtzekh djar
ka långes un ummas von sèln diarndla, ’s
Mariale von Draiznar, lebet no, in djar
1900, un is ’s Mariale von Polèz, un hattmar’s kontart no in tage vo haüt bia ’s is
geschéget.
Mariella Draizner, Orsola Zètt e
Teresina Mantc.
Quando arrivarono alla pozza
della Pontara o dello Sbånt, come preferite dire, si divisero. Paolo e Orsola
si diressero verso lo Sbånt, le altre due
ragazze verso gli Schrotten.
Piano piano cominciò una tiepida
pioggerella primaverile e le due ragazze si ripararono sotto un albero.
All’improvviso udirono un forte tuono e subito scorsero non lontano un
brutto buco che non avevano notato
prima. Andarono a vedere di che cosa
si trattasse. In quel momento udirono
uno schianto e in fondo alla cavità videro una bella cesta nuova piena di insalata. Guardarono qua e là di dove
potessero scendere a prendere la cesta,
ma scendere non era possibile. Allora
andarono a rintracciare gli altri due e
li trovarono sullo Sbånt. Le ragazze
raccontarono ciò che avevano visto e
udito e tutti insieme tornarono sul posto per vedere come arrivare a prendere la cesta di insalata. Arrivarono
agli Schrotten, cercarono di qua e di là,
ma la cesta d’insalata non la trovarono
più. Alla fine se ne tornarono a casa e
raccontarono tutto ai familiari.
Un vecchio intese il discorso e disse che là sotto c’era il denaro del diavolo e che in quel giorno il diavolo
lo aveva esposto alla luce del sole
per asciugarlo e se le due ragazze
avessero preso la cesta prima di allontanarsi dal luogo, avrebbero avuto il
denaro per loro, ma oramai se lo era
ripreso il diavolo.
Questo avvenne sessant’anni fa,
in primavera, e Mariella Draizner,
una delle ragazze, vive ancora oggi
(nell’anno 1900) ed è ora Mariella
Paolaz: lei mi ha raccontato proprio
oggi come si svolsero le cose.
Fiabe, leggende, storielle 163
Racconto nr. 22
Dar Peatar schupf
In an stroach soinda gebest zboa püabla vo Kalnètch, bo da håm gehatt toat
di muatar, un dar vatar is gekheart zo boratase. Di stiafmuatar is gebest a znichta
un hatt getånt vil létzes in khindar.
In an tage dise khindar soin vonkånt
un soin khent pa Laas auvar un bal sa
soin gebest zöbrest, håmsa gevuntet a
tiaves loch, un nidar pa disan loch ista
gebest a groasar lèrch, un se soinse getzoget in untar disan lèrch un soin sèm gestånt drai tage.
Balamån håmsa gehatt an schaülan
hummar, assa nemear håm gemak.
«Bèn», håmsa khött dise khindar, «’S is
péssar asbar stèrm vo hummar bas zo giana huam».
Ma dar hummar is hèrta khent mearar, un das djung hatt khött: «’S is péssar
asbar springen nidar da, bas zo stèrba vo
hummar».
«Ja, – hats khött das alt – springbar
nidar, ma spring du vorå ombrom se nò
springsto nèt».
«Bèn» hats khött das djung «i hån da
a söale: est hengbaras å, poade pittanåndar, un du springst vorå un ziagestme nå
mi o».
Un asó håmsa getånt, un bal ’s is gebest zo springa, hats khött das alt:
«Peatar schupf!» un das djung hatt
gespèrt di oagn un hatt gètt an schupf in
prüadarle, un soin gesprunk poade pittanådar pa loch nidar; ma toat soinsa nèt
gestånt.
Bal da di Kalnètchar håm gebarnt ke
da veln di khindar, soìnsase gånt zo süacha un håmse gevuntet züntrest in loch,
92
Il crepaccio
che chiamano
«Pietro dà una spinta»
Una volta vivevano a Caldonazzo
due bambini ai quali era morta la
mamma. Dopo la morte della madre
però, il padre non aveva tardato a risposarsi. La matrigna era cattiva e
maltrattava i bambini.
Un giorno i piccoli scapparono di
casa e si incamminarono su per il
Menador 92; ma quando si trovarono in
cima, incontrarono un crepaccio profondo nel quale era cresciuto un grosso
larice. Essi rimasero sotto al larice tre
giorni. Piano piano però venne loro fame, tanta fame da non poterla più sopportare. «Bene», dissero i bambini, «però è meglio morire di fame, piuttosto
che tornare a casa». Ma la fame crebbe
ancora e il più giovane disse all’altro:
«Meglio saltar giù nel crepaccio che restar qua a morire di fame». «Sì», rispose il fratello maggiore «saltiamo giù;
ma salta tu prima, se no tu poi non salti!». «Bene», disse allora il più giovane,
«io ho qua una funicella: ci leghiamo
insieme alla corda, tu davanti e io dietro, e, saltando, tirerai giù anche me».
Così fecero e al momento di saltare il
più grande disse: «Pietro dà una spinta!». Allora il più giovane chiuse gli
occhi e diede una spinta al fratellino e
insieme precipitarono in quella spaccatura. Però, non morirono per questa
caduta. Nel frattempo, quando quelli
di Caldonazzo si accorsero che i bambini mancavano da casa, cominciarono a
Si tratta della strada che collega Levico con Monterovere.
164 Luserna: c’era una volta
un sèm di khindar håmen khött bassa
håm khött, un denna soinsa gestorbet.
Un von sèl tage, dassèl loch, håmsa’s
hèrta gerüaft «dar Peatar schupf».
cercarli ed infine li trovarono dentro a
quel crepaccio. Là i bambini diedero la
loro spiegazione poi morirono. Da
quel giorno la spaccatura sopra il
Menador, verso Caldonazzo, venne
chiamata “Pietro dà una spinta”.
Fiabe, leggende, storielle 165
Racconto nr. 23
Da alt un da djung stria
Vor hundart djar ìsta gebest an alta
un alle håm khött ke ’s is a stria. In sai
haus ìsseda gebest alùmma, un nidar nå
soin haus ìsta gebest ’s haus vo soin sun.
Disar sun hatt gehatt a djunges diarndle,
un ditza diarndle is hèrta gånt t’ slava ka
soinar nóna. Balamån in a mal ’s diarndle hatt gebarnt ke di nóna is augestånt un
is gånt aus in di khuchl, denna ìsta herkhent a schaülas bèttar, un bal ’s nå hatt
gelatt, di nóna is gånt bodrùm in in di in
di stube, un asó is gebest vil vert pa dar
nacht.
Un in ar bòtta ’s diarndle hatse bidar
gehöart austian, un is augestånt is o, un
ìssar någånt aus in di khuchl, un sèm hats
gesek ke in, untar in héart, ìsta a loch un
in in ditza loch sòinda gebest a khutta üllela. Di nóna is zuargånt un hatt gemist
pitnan aisran löffl nidar in a üllele, un lai
hats gehöart àspe a gebruntla un denna
hats nicht mear gesek.
Alóra is o is gånt nåmp un hatt genump in aisran löffl un hatt gemist nidar
in hévandle bo da hatt gemist di nóna, un
denna is khent geheft un is gånt pa
khemmech au in di bolkhnen. Denna ìsta
herkhent a schaüla bèttar, un bal ’s nå
hatt gelatt, hats gevuntet di nóna un
denna sòinsa gekheart bodrùrn pitanåndar un soin gånt pa khemmech nidar.
‘’S diarndle hatse gesek löade zo haba getånt asó eppas, ma di nóna hats hìgesböaget, un denna hatses abe gelirnt
zo macha di stria.
In an tage, in vatar von diarndle, ìssen darkrånkht an oks un er hatt gerüaft
La strega vecchia
e la strega giovane
93
Cento anni fa viveva una vecchia
da tutti ritenuta una strega.
Lei viveva sola ma a pochi passi
da lei viveva suo figlio. Il figlio aveva
una bambina che ogni sera andava a
dormire dalla nonna.
Una sera, capitò che la bambina
vide la nonna alzarsi e andarsene in
cucina. Quando la nonna fu di là
scoppiò un brutto temporale, e soltanto quando il temporale fu passato, la
nonna ricomparve in cucina. Questo
stesso fatto accadde più volte nelle sere seguenti.
Finché una sera la bambina, che
aveva udito la nonna alzarsi, si alzò
piano piano e la seguì, e seguendola
poté vedere che sotto al focolare c’era
un buco e dentro a quel buco c’erano
una quantità di pentole e pentoline.
La nonna si accostò a quel buco e mescolò con un cucchiaio di ferro dentro
a una pentolina di terracotta: subito la
bambina sentì un borbottare e poi non
vide più nulla.
Allora si avvicinò anche lei al focolare, prese il cucchiaio di ferro e andò a mescolare dentro allo stesso pentolino di terracotta, e si sentì sollevare
in aria e portare sù per il camino e sù
fino alle nuvole. Poi scoppiò il temporale e quando questo finì la bambina
ritrovò la nonna e con lei ridiscese in
casa per il camino.
La piccola si sentì colpevole per
ciò che aveva fatto, ma la nonna la
93
Bacher annota: «Cfr. le leggende sulle streghe, ad es. Zingerle, Sagen, 714-717, Heyl
ecc.».
Fiabe, leggende, storielle 167
in vetrenàrio un a par månnen bódasanen
ausvorstìan nå in vich, un khùmmadar
hatt nèt darkhennt bas vor an béata ’s
hatta dar oks.
Dar vatar hatsen khött in diarndle, un
is hatt khött:
«E, ditza is nicht, i péssren bol i in
oks» … un is khent au in haus vo dar nóna, un dar oks is lai gebest gesunt.
Alóra dar vatar hats nå gevorst z’ sega bia ’s hatt getånt zo pessra in oks, un
’s diarndle hatsen khött, bia ’s hatt getånt. Dar vatar is darsrakht un is gånt zo
kuntàras in faff un hatt khött ke dar ségats liabar toat sai khinn, bas zo bissa ke
’s is a stria.
Un alóra dar faff hatt khött:
«Ja, a schaülas sachan is bol, un àstos bill machan stèrm, lìrnede i, bia du
hast zo tüana: est khìmme i zo pàichtas
un zo borìchtas, un du intånto boróat an
khessl voll labes bassar, un denna màchbaren an hakh in an zearn un denna lébars nidar in das labe bassar, un sèm stìrbets pitnan süasan toat».
Un asó håmsa getånt, un ’s diarndle
is gestorbet. Denna sòinsa gånt z’ sega vo
dar nóna un håmse neméar gevuntet, ne
si ne in oks in stall, un nimmarmeråndarst
håmsa nèt gesek, ne di nóna ne in oks.
tranquillizzò e le insegnò l’arte della
stregoneria.
Un giorno il padre della bambina
ebbe un bue ammalato e chiamò il veterinario e un paio di uomini che se ne
intendevano di animali, ma nessuno
riuscì a capire di che male soffriva il
bue. Egli raccontò la cosa alla figliola
e la piccola disse: «Non è niente, te lo
guarisco io il bue!» e andò dalla nonna e il bue guarì poco dopo.
Il padre allora volle sapere come
aveva fatto a guarire il bue, e la bambina glielo spiegò. Ma egli si spaventò e andò a raccontare il fatto al prete
e, riferita ogni cosa, aggiunse che preferiva vedere la sua figliola morta,
piuttosto che sapere che era una piccola strega. Il prete disse: «Sì, è veramente una brutta cosa e, se vuoi farla
morire, ti insegno io come devi fare:
adesso vengo a confessarla e comunicarla e tu intanto prepara una pentola di acqua tiepida, poi le faremo una
scalfittura a un dito del piede e la
metteremo giù nell’acqua tiepida: là
morirà di una morte dolce».
Così fecero, e la bambina morì. Poi
andarono a cercare la nonna, ma non
trovarono più né la nonna, né il bue
nella stalla, e da quel giorno la gente
del paese non vide più né la nonna, né
il bue.
168 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 24
A striarats khinn
Il bimbo stregato
Ma hatt gegloabet, un gloabet no haüt, vonan baibe bo da is gånt zo pèttla, ke
zo làssas vortgian ena nicht zo gébanen
vàllta aus eppas letzes in haus,un di laüt
kontàrns no haüt. Das sèll is vürkhent
asó:
in an sunta, bàlda da groas miss is
gest ågeheft, ditza baibe is gånt in a haus
un hatt dà gevuntet a baibe pitnan djungen khinn. Si hatt gevorst eppas, as se
hèrta hatt getånt, ma ’s baibe hattar
nicht gemök gem, ombróm soine sbegar
håm gehatt vortgetrakk alle di slüssln.
Bàlsar hatt khött ditza, ìsse gånt zorne un
is gånt mùrmlane aus pa tür. Vort asse is
gest, hatta ågeheft t’sraiga ’s khinn un zo
rìdlase au vo béata.
D’arm muatar hatse propio gesek loade, si is neméar gebest guat zo sböagas
hì. Si hatse provàrt alle, ma alls hatt nicht
gehelft. ’S khinn is gestorbet a par tage
darnå un di laüt håm gètt di schult in baibe un håm khött ke ’s is gebest a stria.
Un dòpo àsta is ausgevallt dassèll sachan, bi se ånka khemmat hundart vert
af an tage, alle di hundart vert gébatnsar
bas se vorst, ombróm imenåndarn nìmpsen niamat aus von khopf ke ’s khinn is
gestorbet pen dar stria.
La gente credeva e crede ancora
oggi alla storia che si racconta di una
vecchia mendicante. Se la lasciavano
andare, si diceva, senza farle l’elemosina, poteva capitare qualche grave
malanno a chi abitava quella casa.
Una storia, questa, che si sente ripetere ancor oggi.
Il fatto si svolse così. Una domenica, mentre era già cominciata la messa solenne, la mendicante entrò in una
casa dove trovò una donna con un
bambino piccolo. La mendicante chiese l’elemosina come faceva sempre,
ma quella donna (che era rimasta sola in casa) non poté darle niente, perché le sue cognate avevano portato
con loro tutte le chiavi. Quando disse
questo, la mendicante andò in collera
e uscì dalla porta brontolando.
Era appena uscita, quando il bambino cominciò a piangere e a contorcersi per un male sopravvenuto. La
povera madre si considerò presto perduta, perché non riuscì più a calmarlo. Le provò tutte, ma nulla più giovò:
in un paio di giorni il bimbo morì e la
gente attribuì la colpa alla mendicante, sostenendo che era una strega. E
dal giorno in cui accadde questo fatto,
se la mendicante, oppure ogni altra
come lei, fosse passata anche cento
volte nella stessa giornata a chiedere
l’elemosina, tutte cento le volte le
avrebbero dato ciò che domandava,
poiché nessuno poteva più levare loro dalla mente l’idea che quel bambino fosse morto ad opera della strega.
170 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 25
’S gebekslate khinn
Il bambino sostituito
Sèm in a lånt ista gebest a baible bo
da is gånt in an tage aus ats vèlt zo arbata un hattar nå genump das djüngarste
khinn, bo se hatt gehatt lai in di biage.
Gerift aftn akhar, hatse nidar-gelék di biage un hatt håntgelék z’ arbata.
Si is hèrta gånt vürsnen arbatante un
hatt nemear umgeschauget z’ sega bas
da tüat ’s khinn. Bal se hatt gehatt gerift,
isse gånt bidrùm un hatt geschauget von
khinn. Ma dar srakh bo se hatt gevånk is
gebest groas, vénnante an ådars khinn,
ombrom såi khinn is gebest ummas von
Là, in uno di quei paesi, un giorno
una donna si recò presso il proprio
campo a lavorare e prese con sé il
bambino più piccolo che aveva, direttamente con la culla. Quando arrivò
al campo, depose la culla e cominciò il
lavoro e continuò poi a lavorare senza
più voltarsi a guardare che cosa facesse il bambino. Quando finì, tornò dal
piccolo, ma fu davvero grande lo spavento nel trovarne un altro al posto
del suo, perché il suo era uno dei più
belli del paese e quello che aveva tro-
94
Bacher annota: «Cfr. Zingerle, Sagen, 661».
94
Fiabe, leggende, storielle 171
schümmanarstn von lånt, un dassèl, bo se
hatt gevuntet in di biage, is gebest a
schaülas assen hatt neånka mear gelicht,
ma humman hatses gemöcht trang alls
ummas. Ma si is no gebest mearar löadef,
ombrom si hatt darkhennt ke ’s khinn is
gest plint o.
Si, un alle di laüt, håm gegloabet un
gloam no haüt ke ’s hatsar ar getaust a
stria aus in di èkhar.
vato nella culla era invece tanto brutto da non assomigliargli neppure: a
lei però non restò altro che portarselo
a casa. E la sua tristezza crebbe ancora di più quando si accorse che era anche cieco.
Quella donna e tutti con lei credettero e credono ancora oggi che sul
campo sia stata una strega a sostituirglielo.
172 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 26
Da geventzrate
von strian
Di khindar soin gebest sèm alle pittanåndar un dar barba Tita hatten àukontart a stördjele un di tånte Berbele is sèm
gebest si o’ … un est billemar nemmen
insèl darmüa zo khödasas aüch.
In ar bòtta nidar ka Leve ista gebest
an alts baibe un hatt genump a khinn vo
soin sun un is gånt aus in di èkhar zo
nemma a drai teng, un bal ’s is gebest aus
ats vèlt, ditza baibe hatt gelék ’s khinn
sèm afna zail von patatn un is gånt in pa
akhar zo nemma abe di teng.
Balamån hatse gehöart an sroa un si
is khent bahémme bidrùm z’ sega von
khinn, ma si hats nemear gevuntet aft
khummana sait.
Alora hatse darbist in bege un is gånt
dahùam mearar toat bas lente von srakh
un hatt kontart soin sun bas da is vür
khent. Un dar sun hatt darbist in bege un
is gånt in Kamu zo pitta assen helvan zo
giana zo süacha ’s khinn.
In biane zait, alle di laüt vo Leve
soin gebest ummar zo süacha: a toal
soin gånt pa èkhar, a toal pa béldar, un
a toal soin gånt in pa sea zo vischa; ma
alle håm gemöcht khearn bidrùm åna
khinn.
In ta’ darnå soinsa bidar gånt zo
süacha’s, ma niamat hats nèt gevuntet.
Drai tage håmsa’s gesüacht un an lestn
håmsa geschauget au atn pèrge in fronte
un håm’s gesek drin in a sluaf; ma zo
giana zuar zo nemmas, soinsa nèt gebest
guat.
La bambina
abbandonata
dalle streghe
95
I piccoli erano tutti là riuniti e lo
zio Tita raccontò loro una storia. Fra i
bambini c’era anche zia Berbele, che
in seguito mi riferì ogni cosa. E, adesso, proverò io a ripetere il racconto
per voi.
C’era una volta, giù a Levico, una
vecchia che, presa la bambina di suo
figlio, era andata nel campo per raccogliere fagiolini. Giunta nel campo
aveva deposto la piccola in un solco
di patate ed era andata poi avanti
spiccando fagiolini. Dopo un po’ udì
un grido, andò a vedere la bambina,
ma non la ritrovò più in nessun luogo. Alla fine si rimise in cammino e
tornò a casa, più morta che viva per
lo spavento, e corse a raccontare al figlio ciò che era accaduto. Il figlio allora andò subito al Comune a chiedere
che lo aiutassero a cercare la sua piccola.
In un momento, tutta la gente di
Levico fu in giro a cercare: una parte
s’incamminò attraverso i campi, una
parte nei boschi e una ancora andò a
cercare nelle acque del lago: ma tutti
dovettero tornarsene a mani vuote.
Il giorno dopo andarono ancora a
cercare, ma nessuno trovò la bambina. Per tre giorni cercarono e alla fine
guardarono sù verso la parete del
monte “di fronte” e la scorsero là,
dentro a una fessura: ma raggiungerla
95
Bacher annota: «Reminiscenze della leggenda in Zingerle 28, e anche di una leggenda slesiana (Zeitschrift für Volkskunde IV, 454)».
174 Luserna: c’era una volta
Alora soinsa gånt nidar ka Leve un
håm genump kubln un soin gånt au obar
disarn steel un håm ågepuntet an månn
un håmen nidar molart, un er hatt genump ’s khinn in an arm, denna hattar
gètt an zukh in di kubl un di sèln, bo da
soin gebest àu aft da obar sait, håmen
augezoget. Un baldar au is gebest, håmsa gevorst ’s khinn, z’ sega berdas hatt
vort getrakk, un ’s khinn hatt khött:
«’S ista khent a schümmana vrau un
hattme ingemudlt in a schümmana dekh
un hattme getrakk au in da sèl steel, bo
dar me hatt gevuntet»… Un di laüt håm
gevorst vürsnen bassen hatt gètt z’ èssa,
un ’s khinn hatt khött:
«Si hattmar gètt güllans proat un
öpfl».
un alora håmsa darbist in bege un soin khent humman pitn khinn. Di laüt però håmen alle pensart ke ’s soins gebest
di strie bo das vort håm getrakk, un von
sèl tage håmsa’s alle gerüaft «da gevéntzrate von strian».
fin lassù era impossibile. Allora tornarono a Levico a prendere delle corde e
poi salirono in cima al monte, giusto
sopra la parte rocciosa, legarono un
uomo alla corda e lo calarono lungo
la parete. Egli riuscì a prendere la piccola in braccio, poi diede uno strattone alla corda e quelli che erano in alto lo tirarono sù.
Quando arrivarono in cima, chiesero tutti alla bambina chi l’aveva
portata via e lei rispose: «Venne una
bella signora, mi avvolse in una bella
coperta e mi portò sù sulle rocce dove
voi mi avete trovata».
Domandarono ancora che cosa le
aveva dato da mangiare, e lei disse:
«Mi diede pane d’oro e mele».
Ripresero poi la via verso casa, ma
la gente pensò che erano state le streghe a portarsi via la bambina e da
quel giorno la chiamarono “la piccola
abbandonata dalle streghe”.
Fiabe, leggende, storielle 175
Racconto nr. 27
Dar alt striu’
Il vecchio stregone
In ar bòtta soinda gebest a månn un
a baibe, bo da håm gehatt a diarndle.
Dise drai laüt soin gelebet pittanåndar as pi drai éngldar.
Denna ista gestorbet dar månn un
hatt hintar gelatt di bittova pittar tochtar. Dise zboa laüt soin o gelebet as pi di
guatn laüt.
In an mal issen gånt zuar a schaüladar
loskatar altar månn un hatten gevorst
herbege, disan zboa laüt.
«Ja», håmsa khött dise zboa laüt
«bar bartnas leng éppas aftna sait».
Denna håmsen gètt éppas z’ èssa un
denna håmsen gelék au in a khåmmar z’
slava.
In tage darnå dar månn is augestånt
un is gånt ummar pa béldar zo lesa au gegres, un bal ’s is khent nacht, issar bidar
khent z’ slava, un asó hattar getånt éttlane tage umman nå in åndar. Pittar zait di
zboa laüt soin khent stüfo zo haba sèm
disan alt månn un in an abas di muatar
hatten khött:
«Est, moi mentsch, möchtaras süachan an åndarn quartiaro, ombrom di
khåmmar nützese i selbart».
Un alora dar månn hattar khött:
«Guat, est pinne vérte i o; i gea vort,
ma vor de gea, khümar bassedar pin
schulle vor disa zait, bo do mar hast get z’
slava».
«Nicht», hats khött ’s baibe, «i bill
nicht».
Un alora dar månn hatt khött:
«Guat, ma éppas möchedar gem alls
C’erano una volta un uomo e una
donna con una figlioletta, tre persone
che vivevano insieme come tre angeli. Poi morì il padre, lasciando la vedova con la figlioletta. Anche loro due
vissero come la buona gente.
Una sera si presentò da loro un
brutto vecchio guercio per chiedere
alloggio.
«Sì», dissero le due donne «in
qualche luogo vi metteremo».
Gli diedero intanto qualche cosa
da mangiare e poi lo condussero in
una camera a dormire. Il giorno dopo
quell’uomo si alzò e andò in giro per
i boschi a raccogliere erbe, ma al sopraggiungere della notte tornò ancora
a dormire da loro e così fece per giorni e giorni, uno dopo l’altro.
Col passare del tempo le due donne si infastidirono di aver in casa il
vecchio e una sera la madre gli disse:
«Ora, mio caro, dovrete cercarvi un
altro alloggio, perché quella camera
occorre proprio a me».
L’uomo disse: «Bene, anch’io ho
finito e me ne vado, ma prima di partire dimmi che cosa ti devo per tutto il
tempo che mi hai ospitato». «Niente»,
rispose la donna «non voglio niente».
Allora l’uomo disse: «Bene, ma qualche cosa ti devo pur dare…» e le presentò un pentolino di terracotta, dicendo: «Prendi questo pentolino e
quando vorrai far venire un temporale, piglia un cucchiaio di ferro e rime-
96
96
Bacher annota: «Un carrettiere con un cavallo zoppo, in Zingerle, Sagen, 70. Spesso nelle
leggende tirolesi la morte di persone vicine è annunciata in questo modo (Zingerle 70-72,
77, 79, 81, Heyl 403, Schneller 210, 4 e 212, 7».
176 Luserna: c’era una volta
ummas» … un hattar gètt a kréadas üllele, un hatt khött:
«Sea ditza üllele, un baldo bill asta
zuar khemm a schaülas bèttar, nimm an
aisarn löffl un misch pit disan nidar in de
ulla un khü:
Onto bisonto
Soto tèra skonto;
Varda de no tokar
Né de qua, né de là!
Frrr au pa khemmech …»
Un lai disar månn is gånt au pa khemmech, un se håmen nimmar mear åndarst
gesek. Di tochtar intånto asta is vürkhent
ditza, isse vort gebest un bal se is khent
humman, di muatar hatsar khött. Di diarn is darsrakht zo höara asó, ma da alt
is gebest alla luste zo haba di ulla. A drai
djar spetar di diarn issese boratet un hatt
genump in sun von an birt.
In an tage disa spusa is gebest kan
héart zo khocha in vormas. Da ista khent
a rössnar pit an tchotatn ross un hattar
sta col cucchiaio nel pentolino pronunciando le parole:
Onto bisonto
Sòto tèra scònto,
Varda de no tocàr
Né de qua, né de là Frrr via pal camin…»
Nello stesso momento l’uomo
sparì sù per il camino e non lo videro
poi mai più.
Mentre accadeva questo la figlia
era lontana e quando tornò, la madre
le riferì ogni cosa.
La ragazza si spaventò nel sentire
la cosa, ma la vecchia fu contenta di
possedere la pentolina.
Dopo circa tre anni la ragazza si
sposò con il figlio di un oste. Un giorno questa sposina si trovava al focolare per preparare il pranzo, quando
arrivò un carrettiere con un cavallo
zoppicante che le chiese da bere e che
poi le raccontò che era stato preso dal-
Fiabe, leggende, storielle 177
gevorst zo trinkha, on denna hattar khött,
ke dar is asó darsrakht khemmante au
pan lest stikhlate bége, ombrom dar hatt
gehöart hokn au in air on khön:
«Ho, månn pitn sèl dartchotate ross,
khüdar dom, darsèln schümman spusa in
lånt, ke di Pitza-Patza is toat in Haag».
’S baibe is khent ploach a be di maur,
ombrom di Pitza-Patza is gebest soi muatar, un hatt lai gebèkslt ’s vürta un is
gånt z’ sega bida soi muatar is da hùmman. Ma si hatt gevuntet ’s haus ler un di
ulla von alt hatsese gevuntet au aftn héart un nidar nå dar ulla ista gebest dar
aisran löffl, un sèm hatse darkhennt ke di
muatar is gånt pa khemmech au, un si
hatt augevånk un is gånt in Haag un sèm
hatse gevuntet soi muatar toat; un dassèl
is gebest dar gebinn bo sa håm gehatt zo
geba di herbege in sèl schaüla loskate alt
månn; ombrom invétze bas z’ soina a
månn as pi alle di åndarn, issar gebest a
striù.
97
lo spavento sull’ultima rampa del
sentiero, perché gli era stato gridato
dall’alto: «Oh, uomo con quel cavallo
zoppo, dì alla bella sposina della taverna sù in paese, che la Pizza-Pazza
è nel Lanzì 97 morta».
La giovane sposa si fece pallida
come la parete all’udire questo, perché la Pizza-Pazza era sua madre. Si
tolse subito il grembiule e corse a vedere se sua madre era a casa. Ma trovò la casa vuota, mentre la pentolina
del vecchio era sopra il focolare e vicino ad essa anche il cucchiaio di ferro.
Da questo capì che sua madre se ne
era andata su per il camino. Lasciò la
casa e corse al Lanzì e là giunta, trovò
sua madre morta.
Questo era stato il grande guadagno che le due donne avevano fatto
accogliendo e ospitando quel brutto
vecchio guercio, il quale invece che
essere un uomo come tutti gli altri, era
uno stregone.
Ci si riferisce alla vecchia strada del Lanzino che da Caldonazzo saliva verso Lavarone.
178 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 28
Di poadn dekåne
I due decani
Dar dekåno vo Leve is gånt in an stroach zo venna in dekåno vo Pèrsan. Sèm
håmsa gerédet von bèttar un dar dekåno
vo Leve hatt khött, ke dar is guat zo macha hér khemmen a schaüla bèttar, un
dar sèl vo Persan hatt khött ke er , assar
bill, issar guat zo machas schaurn alls in
soin hof.
Dat dekåno vo Leve hats nèt geböllt
gloam un is gånt humman.
Dar dekåno vo Persan hatt khött denna kan mesnar:
«Schauge, das earst bölkhnendle bo
du sist, aimar lai zo rüava!» Khurtza zait
dopo issar gånt dar mesnar zo rüavanen,
ombrom ’s hatt ågeheft zo gehilbase. Dar
dekåno is gånt ats vestar pitn libar in de
hént un hatt gesek khemmen zuar a
schaüla bèttar. Alora hattaren umgelék di
stòla un hatt ågeheft zo baiga ’s bèttar.
A fortza zo baiga hattar gesbitzt as bia an
oa. Dar schaur is khent, ’s hatt parirt ke
’s billda valln di bèlt, un bal’s nå hatt gehatt gelatt, hattar geschikht in mesnar z’
sega bo da is gevallt dar schaur.
Dar mesnar hatt gevuntet in schaur
alln in hof, un drin attimitt in dekåno vo
Leve toat.
Il decano di Levico andò una volta a trovare il decano di Pergine e là
insieme parlarono del tempo. Il decano di Levico disse che era capace di
provocare un temporale e quello di
Pergine disse che egli, se avesse voluto, era capace di far grandinare e far
cadere la grandine tutta nel suo piazzale. Il decano di Levico non gli volle
credere e tornò a casa.
Il decano di Pergine disse al sacrestano: «Sta attento, alla prima nuvola
che vedi corri subito a chiamarmi».
Poco dopo il sacrestano andò a
chiamarlo perché aveva cominciato
ad annuvolarsi. Il decano, allora, corse alla finestra con il suo libro aperto
nelle mani e vide avvicinarsi un temporale. Indossò subito la stola e cominciò a benedire il temporale e a forza di benedire sudò come un uovo.
La grandine venne, anzi pareva
che con essa volesse cadere il mondo
intero, e, quando cessò, il decano mandò il suo sacrestano a vedere dove era
caduta. Il sacrestano trovò che era caduta tutta nel piazzale della chiesa,
ma là in mezzo alla grandine c’era anche il decano di Levico morto.
98
Bacher annota: «Heyl S. 415 ff».
98
180 Luserna: c’era una volta
Le figure dell’immaginario
Da sempre lo stretto contatto dei popoli alpini con l’ambiente naturale, determinato dalla necessità di sopravvivenza in condizioni spesso sfavorevoli, ha spinto gli
abitanti delle zone montane a sviluppare un’attenzione estrema verso tutti i fenomeni improvvisi e mutevoli che le caratterizzano. Una tale simbiosi fra natura e
uomo ha spinto quest’ultimo a spiegare gli eventi incontrollabili che costituivano
una presenza costante della sua esistenza attraverso la creazione di figure dell’immaginario, come per esempio mostri, spiriti, uomini selvatici, streghe e vampiri.
I più importanti agenti del sovrannaturale presenti nei racconti cimbri, vale a dire
le streghe e gli stregoni, condividono in tutte le storie che li riguardano alcune caratteristiche distintive. Innanzitutto possiedono la capacità di volare; essi tuttavia
non si affidano alla classica scopa, ma volano soprattutto sbattendo un cucchiaio
di ferro in un tegame posto sopra un focolare (racconti nn. 23 e 27). Con gli stessi strumenti spesso generano temporali e maltempo, un potere che dal punto di vista simbolico viene considerato sempre in negativo (a riprova di questo, l’unico
racconto in cui i temporali non sono scatenati da streghe ma da due decani, si conclude drammaticamente con la morte di uno di essi, come nel racconto n. 28); tuttavia in alcuni casi le streghe agiscono anche aiutando gli altri, per esempio curando bestie malate. A streghe e stregoni viene riconosciuta la capacità di scagliare
maledizioni in grado di far ammalare e morire le persone (racconto n. 24). In generale comunque queste figure di chiara origine precristiana vengono raffigurate
come antagoniste, e spesso la loro sconfitta per mezzo della Chiesa: che si tratti dei
consigli di un sacerdote esperto, o del colpo inflitto dal batacchio di una campana
benedetta (racconti nn. 7, 8, 23), l’intervento divino risulta sempre risolutivo. Altri
elementi che confermano l’origine pagana delle streghe è l’attribuzione di comportamenti che nella tradizione celtica e germanica erano caratteristici del popolo fatato, come il rapimento o la sostituzione dei neonati e dei bambini (racconti nn.
25 e 26).
Il fenomeno del vampirismo, nei racconti di Luserna, vede come protagoniste esclusivamente le donne. Inoltre pur succhiando il sangue degli uomini, le vampire non
sono delle defunte che tornano a cibarsi dei vivi, ma persone in carne ed ossa. Le
loro vittime vengono sopraffatte da una sensazione di paralisi e soffocamento, e
gradualmente perdono le forze al punto da non riuscire a reggersi in piedi. In realtà però questi uomini vengono assaliti dalle vampire in forma di spirito: esse infatti sono in grado di abbandonare temporaneamente il proprio corpo fisico, che rimane inerte e insensibile, e spesso la loro anima è visibile in forma di calabrone o
gatto. Essa inoltre ha la facoltà di mutare forma.Tutti questi elementi ricordano fortemente il mito delle succubi, spiriti che tormentano in sonno gli uomini. In nessun caso si accenna al fatto che le vampire debbano essere distrutte, né tantomeno esorcizzate in alcun modo; nel caso di una vampira sposata con un fabbro, egli
Fiabe, leggende, storielle 181
si limita ad imporre la propria autorità e a farle promettere solennemente di non
succhiare più il sangue a nessuno. Questo permette di comprendere come probabilmente la figura della vampira sia una metafora per indicare le donne adultere,
colpevoli di infrangere l’equilibrio sociale.
Nel suo testo “Le credenze dei cimbri nelle facoltà soprannaturali dell’uomo”
Schweizer sostiene che «la sua anima abbandona il corpo per succhiare il sangue
ad altri umani, durante l’uscita giace come morta, non sente né prova nulla. Ma
l’anima può essere vista da terzi casualmente presenti, o dal vampirizzato stesso.
È rappresentata come uno stelo di paglia, un calabrone, un gatto, un cavallo, una
lucertola.[…] Per il vampirizzato è di grande importanza scoprire la persona della
vampira assalitrice, perché, appena sa chi è, quella non ha più alcun potere su di lui
ed egli può ottenerne soddisfazioni sotto minaccia di gravi sanzioni».
182 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 29
’S snàidrarle
Il sartorello
In an stroach ista gånt a püable von
Mütz in pa pèrng na povòi. Bal ’s is gebest
in aft’n Kostesì sòinen zuargånt zboa
månnen un håms gevorst z’ sega bés boast bo da is di Ròkka Tåmpf un ditza püable hatt khött:
«Ja, ja, liabe moine månnen, i bóases
bol; khent pit miar, i zóasas». Un alóra dise zboa månnen soin gånt pitn püable, un
bal sa soin gebest nåmp dar Ròkka, håmsa gehöart alls a gelürna, àssen håm gemöcht schoppn di oarn zoa nèt zo khemma surdat. Un bàlda nå hatt gelatt ’s
gelürna, håmsa khött di månnen:
«Gea est, snàidrarle, gea vórånahì, un
zóagas di Ròkka est». Un ’s püable is gånt
vórånahì un is gånt in pa Ròkka, un di
månnen sòinen någånt.
Bal sa soin gebest in attemìtt dar
Ròkka sòinsa neméar gebest guat zo giana vürsnen, ombróm attemìtt håmsa gevuntet an hauf slakkn, un alóra dise månnen håm khött kan püable:
«Bèn, snàidrarle, est is genùmma, betar in géabar nèt; est nìmmdar au épparùmmana vo disan slakkn!» Un ’s püable
hatt ågeheft zo lacha un hatt khött: «O
némpsas nor eråndre di khnotn; i bill
khummane, i gea est». Un alóra di månnen håmen gètt a sbåntzega un vünf
slakkn, un håm khött:
Una volta un ragazzo della famiglia Moz andò sù alle malghe in cerca
di ricotta. Giunto alla malga Costesìn,
gli si accostarono due uomini per
chiedergli se sapeva dove si trovasse
la “Rocca Tampf”. Il ragazzo rispose:
«Sì, sì, cari, lo so. Venite con me e vi
indicherò il luogo».
I due andarono con lui. Quando
furono presso la Rocca, udirono una
forte esplosione, così forte che dovettero tapparsi le orecchie per non diventare sordi. Quando il rumore cessò, i due dissero al ragazzo: «Adesso
va, sartorello, va avanti e mostraci la
Rocca»!
Il ragazzino andò avanti, dentro
alla caverna, e gli uomini lo seguirono. Ma giunti circa a metà della caverna, non poterono più proseguire, perché a quel punto c’era un mucchio di
schegge. Allora dissero al ragazzo:
«Bene, sartorello, a noi basta così,
oltre non andiamo. Tu prenditi pure
un po’ di queste schegge!» Egli cominciò a ridere e disse: «Oh, prendetevele
voi quelle pietre, io non ne voglio.
Io torno a casa». Allora quegli uomini
gli misero in mano una svanzica
d’argento 100 e cinque schegge, e dissero: «Bene, adesso va pure, sartorello».
99
Bacher annota: «Il carbone si trasforma in metallo nobile: Zingerle 197, 328, 541-543;
Heyl S. 35, 39; 256-257, 515, S2 620, 86».
100
La svanzica era una moneta d’argento da 20 kreuzer in uso nell’impero austriaco e quindi anche nei territori italiani come il Regno Lombardo Veneto e anche diffusa in altre zone d’Italia. Il nome deriva dalla italianizzazione del tedesco zwanzig ovvero venti. La
svanzica, equivalente alla lira austriaca, divenne la moneta più comune nel Regno
Lombardo Veneto a partire dal 1823, quando ne fu aumentato il cambio legale da 86 a 87
centesimi italiani, e questo ne provocò un maggiore afflusso dalle altre provincie dell’impero austriaco.
99
184 Luserna: c’era una volta
«Bèn gea est, snàidrarle!» Denna ’s
püable hatse någevorst zo bissa ombróm
sa khön «snàidrarle», un di månnen håmen respùndart:
«Gea, gea, du barst khemmen a snàidrarle».
’S püable iz auvarkhent vo dar Ròkka
un is gånt durch, hintar a vaücht, zo
schauga zuar, z’ sega bas da tüan di månnen, un sèm hats gesek ke sa håm augenump an sakh voll slakkn vor umman un
soin gånt. Alóra ’s püable is gånt humman is o.
Bal’s is gebest humman, hats auvargenump di slakkn zo zóagase soin laüt un
invétze bas z’ soina slakkn, sòins gebest
vünf tölar.
Denna sòinda hìgånt a drai, viar djar
un guate laüt håm gehélft in püable pitnan pissle gèlt, un alóra ’s püable is gånt
zo lirna zo macha in snaidar; un vo sèm
sòinda auvarkhent di Snàidarla, bo da no
soin in in ta’ vo haüt ats Lusérn.
Il ragazzino chiese allora perché lo
avevano chiamato “sartorello”, ed essi gli risposero: «Va, va, tu diventerai
un sarto!»
Allora uscì dalla caverna, ma andò a nascondersi dietro ad un abete,
per vedere che cosa facessero. E vide
che presero un sacco per ciascuno di
quelle schegge e poi si allontanarono.
Allora andò a casa anche lui e quando
arrivò a casa estrasse le cinque schegge per mostrarle ai suoi. Ma non erano più schegge, erano cinque talleri.
Passarono quattro o cinque anni e
qualche buona persona gli venne in
aiuto con un po’ di denaro. Così il
giovane poté andare ad imparare
il mestiere del sarto e da questo figlio della famiglia Moz discesero gli
Schnaidarle, “sartorelli”, che ancora
ai nostri giorni vivono a Luserna.
Fiabe, leggende, storielle 185
Racconto nr. 30
Di trut
La vampira
In an stroach ista gebest a djunges
naüges par spusan, un in an mal soinsa
gånt z’ slava un, in pétt assa soin gebest,
håmsa gehöart gian laise laise pa stube
in, un alls in an stroach dar spus is nemear gebest guat né to mövrase, né zo réda,
un hatt ågeheft zo khraista. Di spusa hatsan gebarnt un hatten gètt an schupf un
asó er hatse bidar gemök rüarn un hatt
bidar gemak redn, un hatt khött ke, bal sa
håm gehöart gian pa stube in, alls in an
stroach issen gesprunk éppas aftn laip, un
denna issar nemear gebest guat né zo
mövrase né zo réda un, bals’en hatt gètt
in schupf, is bidar vort gånt, dassèl sber
sachan bo dar hatt gehatt aftn laip. Di
spusa hatt gelüsant un hatt neånka si gebisst basses is dassèl.
In tage darnå soinsa augestånt dise
zboa laüt un denna håmsasar khött dar
muatar von spus, un si hatt håntgelék zo
lacha un hatt khött ke ’s is di trut. Abas,
balsa soin gånt t’ slava is bidar vürkhent
as bi ’s mal in ta’ vorå, un asó is sutzédart étlane tage, un dar spus is hèrta khent
z’ stiana létzar, ombrom di trut hatten
getutslt ’s pluat.
In an mal dar spus, invétze bas zo giana t’ slava, issarse augeluant nå dar tür
vo dar stube pit an kavitz von ross in de
hent, un di spusa is gånt in pétt.
Balamån hattarse gehöart gian, di
trut, pa stiage au, un er, bal se is gebest
C’era una volta una giovane coppia di sposi. Una sera andarono a dormire, ma appena furono a letto sentirono qualche cosa entrare piano piano
nella stanza e all’improvviso lo sposo
non riuscì più né a muoversi, né a
parlare, e cominciò a mugolare.
La sposa se ne accorse e lo scosse;
allora egli tornò a muoversi e a parlare e disse che quando avevano sentito
quei passi nella stanza, qualche cosa
gli era balzato addosso all’improvviso
e non era più riuscito né a muoversi,
né a parlare. Poi, invece, quando lei lo
aveva scosso, quella cosa che gli pesava addosso se ne era andata.
La sposa lo ascoltò, ma neppure
lei sapeva di che cosa si trattasse.
Il giorno dopo i due si alzarono e
raccontarono l’accaduto alla madre
dello sposo: la madre cominciò a ridere e spiegò che si trattava della vampira. Le sere seguenti, quando i due
giovani sposi si coricavano, accadde
loro la stessa cosa. Inoltre, lo sposo si
sentiva sempre più indebolito e privo
di forze, perché la vampira gli succhiava il sangue.
Una sera però lo sposo, invece di
mettersi a dormire, si appoggiò alla
porta della stanza con una cavezza da
cavallo nelle mani, mentre la sposa si
era coricata come al solito.
101
101
Bacher annota: «Zingerle 184, 817, Schneller 12, 3, Heyl 288, 106, 289, 107, 430-431, nonché Laura Weinhold, Schlesische Sagen (Leggende slesiane) 5, 6 (Zeitschrift für Volkskunde
VII, 103-104). L’imbrigliamento e la trasformazione della vampira in un cavallo che poi viene ferrato è nota anche a Paznaun (v. Hauser n. 19. Anche la conclusione, nella quale il cavallo ferrato si rivela essere la moglie del fabbro, coincide esattamente con la versione lusernese); cfr. anche Heyl 5, 37, 46».
186 Luserna: c’era una volta
atte tür, hattarar vürgelék di kavitz,
on di trut is gånt in di kavitz un is khent
a ross. Un alora dar spus is gånt zo rüava in schmitt zo boslaga di vüas von
ross.
Dar schmitt is augestånt von pétt un
is gånt un hats boslak, un denna issar bidar gånt huam un sem hattar gevuntet
soi baibe in pétt bo da hatt gebéabet vo
béata ombrom ’s is gebest si di trut; un
lai as pi dar hatt gehatt ingemèkket di
negl in di vüas von ross, soinda gebest ingemèkket di negl in di hént un in di vüas
vo soin baibe.
Bal dar hatt gesek asó, dar schmitt is
gekheart bidrùm kan spus, un hatten gepittet, assaren las ausziang di negl von
ross, ombrom senò soi baibe möcht
stèrm vo beata in di hént un in di vüas.
Asó håmsa darkhennt ber ’s is di trut, un
dar schmitt hatt gemöcht vorhoasan in
spus zo straita zuar soin baibe zoa as nemear gea zo tutslanen ’s pluat.
Poco dopo, l’uomo udì la vampira
salire le scale e quando quella fu sulla porta della stanza, egli le mise addosso la cavezza. Con la cavezza sul
capo la vampira si tramutò in cavallo.
Lo sposo, allora, andò di corsa a
chiamare il fabbro per far mettere i
ferri al cavallo. Il fabbro si alzò da letto e corse a ferrare il cavallo.
Quando ebbe finito, tornò a casa,
ma, trovò sua moglie nel letto che gemeva di dolore, perché era lei la vampira ed egli, avendo conficcato i chiodi negli zoccoli del cavallo, li aveva
conficcati nelle mani e nei piedi di sua
moglie.
Quando egli si rese conto di quello che era accaduto, tornò di corsa
dallo sposo e lo pregò di lasciargli
estrarre quei chiodi dagli zoccoli del
cavallo, perché, in caso contrario, sua
moglie sarebbe morta per il dolore
che provava alle mani e ai piedi.
Fiabe, leggende, storielle 187
Denna hattaren aus gelatt ziang di
negl von ross un hatt vorzaiget; dar
schmitt is gånt humman un hatt ingemèkket an nagl in di maur un hatt khött
kan baibe, bal se hatt lust zo tutchla in de
laüt, asse géa zo tutchla in nagl, un asó
hatse getånt un is nimmar mear åndarst
gånt zo tutchla in spus.
In questo modo, riuscirono a scoprire la vera identità della vampira ed
il fabbro dovette promettere allo sposo che si sarebbe imposto alla moglie
e che le avrebbe proibito di andare ancora a succhiargli il sangue. Dopo essersi accordati in tal modo, lo sposo
permise al fabbro di togliere i chiodi
al cavallo e così quindi anche alla moglie del fabbro che perdonò per
l’accaduto. Il fabbro tornò a casa e
conficcò uno dei chiodi nel muro e poi
disse alla moglie che ogni qualvolta
fosse stata presa dal desiderio di andare a succhiare il sangue alla gente,
andasse invece a succhiare quel chiodo. La donna fece così e non si recò
mai più da quello sposo a succhiargli
il sangue.
188 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 31
A diarn bo da
is gebest a trut
In ar bòtta soinda gånt zboa diarnen
von an pèrge nidar, zo giana in a tal ka nar
mül zo nemmanen a karge mel. Balsa
soin gebest ka dar mül, håmsa gekhoaft ’s
mel, un denna håmsa’s augenump un
soin gekheart bidrum. Balsa soìn gebest
aft ’z halbe in perge, håmsa nidar gelék di
karge zo rasta un ummana is intslaft un
lai issar khent a bubo pa maul auvar, un
denna isse sèm gestånt as pi a toata. Da
åndar diarn, bal se hatt gesek asó, isse
darsrakht un hatt ågevånk to schüttla un
zo rüava dar intslavatn; ma da intslavate
issese nèt gemövart, ombrom si hatt nicht
gehöart. A pissle spetar issar bidar gånt
dar bubo in maul un pa hals nidar, un denna isse darbékht. Alora da åndar diarn hatse ghevorst z’ sega bas-vor-an béata si
hatt, asse sèm is gebest a söllana baila as
be a toata, un dasèl bo da is gebest intslaft, hatt khött: «Bèn, i khüdar ’s, ma i pitte, khü ka niamat nicht: i pin a trut un balde pin gebest intslaft, pinne vortgebest zo
tutsla ’s pluat von an månn au in ünsar
lånt». Da åndar diarn hattar vorhoast zo
khöda nicht ka niamat, un denna soinsa
khent huam. A drai djar spetar dise zboa
diarnen håm gehatt éppas to khöda pitn’åndar, un alora hatsesar khött sèm, bo
da soin gebest a khutta laüt, un hatt
khött: «Sbaige du un khü nèt au in åndarn
ombrom as ma bill khön as pi ’s is, du pist
a trut». Un alora da åndar is vort gekheart gaülane un hatt nimmar mear gestritet pit niamat.
Una ragazza vampiro
102
Una volta due ragazze di una
malga scesero a valle per fare rifornimento di farina presso un mulino.
Arrivate al mulino, comprarono la farina e poi presero la via del ritorno.
Quando furono a metà strada deposero il carico per riposare e una di
loro si addormentò e poco dopo un
calabrone le uscì dalla bocca e la ragazza rimase a terra come fosse morta. L’altra giovane si spaventò nel vederla in quelle condizioni e cominciò
a scuoterla e chiamarla, ma la ragazza
addormentata non si mosse, perché
non sentiva nulla. Passato poco tempo, quel calabrone le ritornò in bocca
e le scese nella gola. La ragazza si svegliò. La compagna volle allora sapere
di cosa soffrisse per rimanere tutto
quel tempo come morta, e la ragazza
le spiegò: «Bene, te lo dirò, ma ti prego di non farlo sapere a nessuno: io
sono una vampira e quando mi addormentai, andai a succhiare il sangue di un uomo sù al nostro paese».
La compagna promise di non riferire
la cosa a nessuno, e insieme tornarono
alla malga. Tre o quattro anni dopo le
due ragazze ebbero motivo di litigare
davanti a tanta gente e furono dette
queste parole: «Taci e non insultare gli
altri, perché, se vogliamo dire la verità, tu sei una vampira!». Allora la giovane se ne andò piangendo e da quel
giorno non litigò più con nessuno.
Bacher annota: «Nelle “Schlesische Sagen” di Laura Weinhold (Zeitschrift für
Volkskunde Vii, 104) è un topolino bianco, che esce alla mezzanotte e al battere della prima ora sparisce di nuovo nella tana».
102
190 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 32
Di püalen bo da is a trut
La fidanzata respinta
perché vampira
103
In ar bòtta ista gebest a pua un a diarn, zboa püal. Dise zboa laüt håmse gehaltet gearn anåndar. Balamån dar pua
hatt ågevånk zo giana ummanåndar pitn
tschelln in di åndarn haüsar, un in an mal
issar gånt in a haus, un sèm håmsen au
khött létzes vo soindar püalen, un in tage
darnå issar gånt zo vénna disa diarn, un si
hatten gevorst z’ sega bo dar is gebest alla disa zait bo dar se nemear is gebest zo
venna. Un dar pua hatsar khött, un lai hattar khött ke hoint is das lest mal bo dar se
geat zo vénna, ombrom er billse nèt.
C’erano una volta due giovani innamorati che si volevano bene. Con
l’andare del tempo il ragazzo andò in
giro cogli amici e passò qualche sera
in casa di altra gente. Una sera capitò
in una casa dove qualcuno sparlò della sua fidanzata. Il giorno dopo si recò da lei ed ella volle sapere dove era
stato tutto quel tempo in cui non era
più andato a trovarla. Il giovane glielo disse, ma aggiunse anche che quella era l’ultima sera in cui le faceva
103
Bacher annota: «Le streghe (a Luserna anche le Truten) sono rappresentate spesso come gatti, v. Zingerle 740 e il liwof. processo alle streghe in Stiria (Zeitschrift für Volkskunde
Vii, 249), nonché Schneller 244, 61».
Fiabe, leggende, storielle 191
Dar diarn hatsar åntgetånt un hatt
ågevånk to gaüla, un hatt khött:
«Bèn géa, ma i bartar’s machan
zaln!» Un dar pua is augestånt un is gånt
vort.
In tage darnå datz abas dar pua is
gånt t’ slava au afna tetsch un balamån
hattar gehöart gian eppas pa håntstiage
au un pa tetsch in, un alls in an stroach
issar nemear gebest guat zo mövrase, un
asó issen vürkhent an étlan mal, fin as da
disar pua nemear is gebest guat zo giana
ummar vo létz bo dar is gestånt.
In an mal issen khent in sint ke ’s möge soin di trut, bo den géat zo tutsla ’s
pluat un in tage darnå hattar genump an
håmmar un is gånt au af de tetsch un issese augeluant nå dar tür. Balamån hattar
gehöart gian pa stiage au laise, laise, un
er hatt geschauget un hatt gesek ke ’s is
a khatz. Balse is gebest zöbrest, hattarar
gètt an stroach afn khopf pitn håmmar,
un disa khatz hatt gètt an schaülan
sgnånklar un is gevallt obar di stiage abe.
In tage darnå dar pua is khent vo dar
tetsch abe un hatt bokhent soi püalen
pitn khopf augepuntet, un alora hattar
gesek ber ’s is di trut, un hats gesek gearn,
assarar hatt gehatt gètt di zumma.
visita, perché non la voleva più. La ragazza si rattristò e cominciò a piangere e poi disse: «Va pure, ma ti ripagherò!» Egli si alzò e se ne andò.
Il giorno dopo, fattasi notte, egli
andò a dormire nel sotto-tetto e là, poco dopo, sentì dei passi lungo la scala
e dentro al fienile e poi tutto all’improvviso non fu più capace di muoversi. Questo gli accadde più di una
sera, fino al punto di non riuscire più
ad andare in giro per le strade a causa della debolezza in cui era caduto.
Una sera pensò che si poteva trattare della vampira che venisse a succhiargli il sangue e il giorno seguente
si munì di un martello. La sera salì nel
fienile e là restò ad attendere appoggiato all’entrata. Dopo qualche minuto sentì qualcuno salire le scale piano
piano, guardò e vide che era un gatto. Quando l’animale giunse in cima,
gli diede un colpo in testa con il martello. Il gatto miagolò forte e cadde
giù per la scala.
Al mattino seguente il giovane
scese dal fienile e incontrò la fidanzata con il capo fasciato e quindi capì
che era lei la vampira e fu contento di
averlo potuto constatare perché l’aveva già lasciata.
192 Luserna: c’era una volta
Racconto n. 33
Descritto nei racconti come un piccolo omino che confonde i viandanti
dei boschi e li fa perdere nella nebbia, il Sambinélo sembra possedere i caratteri
tipici delle genti fatate dei boschi propri delle leggende nordiche, una sorta di
folletto dispettoso cui vengono anche attribuiti gli episodi di temporanea
irrazionalità degli abitanti di Luserna: in questo senso quindi “seguire i passi del
Sambinélo” significa simbolicamente perdere la via della razionalità, tanto da
non riuscire più a far ritorno a casa. Solamente quando le sue vittime vengono
ritrovate, esse riacquistano padronanza di sé: ritrovano, non solo
geograficamente ma anche in senso sociale, i propri punti di riferimento.
Dar Sambinelo
Il Salbanello
a) In an tage ista gebest dikh dar nebl.
A baibe is gånt na holtz in sèl tage in in di
Löchar von Kamoubalt. Di laüt håmsen
khött, vor ’s is gånt, nètt zo giana, ke haüt ista dar nebl in di earde un ke ’s mage
gian zo vorlur.
Ma is hatt niamat ausgelüsant un is
gånt alls ummas.
In as’s is gebest in balt, hatsen gemacht ‘s holtz un denna hats augenump
di karge.
Alls in an stroach hats gesek a mendle, gerüstet roat, vorå imen, bo den hatt
gemacht mòtto assen gea nå.
’S baible issen hèrta nå gånt un ’s
méndle, invétze baz zo vüara’s garade,
hats es gevüart hèrta tiavar in pa balt, fin
as da ’s baibe hatt nemear gebisst bo ’s
is, un asó hats es ummar gevüart viaruntzbuanzekh urn hèrta pittar karge afn
rukkn.
In tage darnå soinda gånt di laüt zo
süacha’s, un håm’s gevuntet in kan trögla von Predsòndo hèrta pittar karge afn
rukkn. Alora hatsen kontart bas ’s issen
vürkhent un di laüt håm khött:
a) Un giorno c’era una fitta nebbia
e una donna andò a far legna nella zona dei Löchar (bosco del Comune).
Tutti le avevano detto di non andarci, perché c’era la nebbia ed era
molto facile perdersi. Ma lei non
ascoltò nessuno e partì egualmente.
Quando fu nel bosco fece legna e
poi se la caricò sulle spalle per tornare a casa. Improvvisamente vide un
omino vestito di rosso che le camminava davanti e l’omino le fece segno
di seguirlo, mostrando di volerla guidare. La donna lo seguì e seguì, ma
invece di condurla verso l’uscita del
bosco, egli la portò sempre più nel fitto del bosco, finché la donna non seppe più dove si trovasse. La fece girare
così per 24 ore, sempre col carico sulle spalle. Il giorno dopo la gente del
paese andò a cercarla e alla fine la trovò presso i “Trögla”, ancora col carico
sulle spalle.
Lei raccontò che cosa le era accaduto e la gente concluse: «Se è così,
hai seguito i passi del Salbanello!».
104
Bacher annota: «Questo spirito dei boschi commette a Luserna gli stessi atti maligni riportati da Schneller 5, 214 (sotto) in Folgaria, quindi non tocca, almeno nel contenuto principale, la leggenda conservata a Ronchi presso Borgo (Schneller, pag. 213, 214). Inganno
perpetrato dagli spiriti, v. anche Zingerle 424. 427, 471».
104
194 Luserna: c’era una volta
«Ja, alora pisto gebest in de tritt von
Sambinèlo».
b) Vor a vüchtza, sechtza djar ista
vürkhent dassèl in an mån o vo Lusérn.
Dar sèl is gebest dar arm Nòkh.
Dar is gånt in pa Frattn von Kåmp na
sbemm.
Abas håmsen gepitet dahùam, ma er
is nimmar mear gerift zuar.
Soine laüt håm pensart ke dar bart
soin ingekheart appar afna sait. In tage
darnå issar bidar nèt khent, un alora håmsa gemacht laütn alle di klokkn zoa as da
gian vil laüt zo süachanen.
Sa håmen gevuntet au in Gaso nåmp
in ar hülbe allar insemenirt, un da sèl hülbe trak no haüt in nåm «di hülbe von
Nòkh», on di laüt khön ke darsèl o is gebest in di tritt von Sambinèlo.
c)Vor a vüchtza djar ista vürkhent das
gelaichege in an månn vo Lusérn. Disar is
gebest dar arm Nòkh.
Da håmen gerüaft Nòkh, imen un alle soine laüt, ombrom da håm nèt gekhånt khön «gnòkkn» asbe di åndarn laüt: da håm hèrta khött «nòkhan, nòkh».
Asó di åndarn Lusérnar håmse gherüaft
«di Nökh».
Dar arm Nòkh un sai sbéstar, dar Katì,
soin gebest in in Gaso zo macha holtz.
Bal’s is gebest palle nacht, dar Katì hatt
khött:
«Est, Menno, geade humman zo khocha di tschoi, un du stea nèt dà no vil
lång, ma ai palle da hùam!»
Un dar månn hatt khött:
«Ja, ja, i bart khemmen palle». Dar
Katì hatt genump a pissle holtz, is gånt
huam un hatt boroatet di tschoi.
Dar Menno denna hatt genump ’s
zümmale bo sa drin håm gehatt in vormas, hatt drin gelék a par schaitar un is
gånt er o. Ma bo dar is gånt, issar gånt.
Balda hatt ågeheft di nacht, dar Katì
hatt gesek ke ’s ista nonet zuar gest dar
b) Quindici o sedici anni fa questo accadde anche ad un uomo di
Luserna, il defunto Nokh. Era andato
in cerca di funghi alle “fratte” del
Cåmp. A sera lo aspettavano a casa,
ma egli non arrivò. I suoi pensarono
che si fosse rifugiato da qualche parte, ma nemmeno il giorno seguente
fece ritorno.
Allora i familiari fecero suonare le
campane affinché la gente aiutasse
nelle ricerche. Lo trovarono, infine,
nei pressi della malga Gazo (Valmorta)
tutto stordito vicino ad una pozza.
Quella pozza viene ancora chiamata “la pozza del Nokh” e la gente dice che anche lui abbia seguito i passi
del Salbanello.
c) Il povero (defunto) Nòkh e sua
sorella Catina si trovavano alla malga
Gazo per far legna. Come si fece notte la sorella disse: «Adesso, Menico, io
vado a casa a preparare la cena; tu
non restare qua a lungo, ma torna a
casa presto!». Egli rispose: «Sì, sì, vengo subito».
Catina prese un po’ di legna, andò a casa e preparò la cena. Poco dopo anche Menico prese il cesto nel
quale avevano portato la colazione, vi
mise dentro qualche pezzo di legno e
partì. Ma che direzione abbia preso,
nessuno lo seppe. Quando giunse la
notte, Catina si rese conto che Menico
non era ancora di ritorno e andò dai
parenti a informarli ed essi partirono
per andare a cercarlo.
Camminarono tutta la notte, lo
chiamarono, spararono anche dei colpi di fucile, ma non riuscirono a trovarlo. Quando fece giorno tornarono
a casa e fecero suonare le campane
perché tutta la gente del paese andasse a cercarlo. Si misero in cammino in
Fiabe, leggende, storielle 195
Menno un is gånt ka soin paréntn zo khönanen ke dar iz nonet huam von balt. Sa
håm augevånk un soinen gånt zo süacha.
Sa soin gånt ummar da gåntz nacht, da
håm gerüaft un geschosst pitn sklòpp, ma
da håmen nèt gevuntet. Balda hatt ågeheft dar tage soinsa khent huam un håm
gemacht laütn alle di khlokkn, zoa as da
di laüt gianen zo süacha.
Di meararstn soinse gelék afn bege
un bal ’s is gest bidar nacht, håmsen gevuntet in in Gaso pitnar gabl in di hént
nåmp in ar hülbe bo da er hatt gehatt
ausgegrabet vor djar. Di laüt alora håmen
gevorst bo dar ummar is gebest da gåntz
nacht un in gåntz tage. Er hatten khött ke
dar is gebest af di tèchar vo Sam Piaro in
Astetal, zo slava, un in khearan bidrùm
hattar gevuntet aft di bis von Krodjar a
gabl un hatse genump pit imen, ombrom
dar hatt gehatt vort zo vénna in ork.
Di laüt håm alle gelacht un håm
khött ke dar is gebest af di tritt von
Sambinèlo.
molti e, solo al calar delle tenebre, lo
ritrovarono nei pascoli della malga
Gazo, con una forca in mano, vicino
ad una pozza d’acqua che egli stesso
anni prima aveva scavato. Allora vollero sapere dove fosse stato tutta la
notte e tutto il giorno. Egli raccontò
che era andato a dormire sui tetti di
San Pietro (in Val d’Astico) e che, tornando, aveva trovato una forca sui
prati della malga Krojar e l’aveva presa con sé, perché aveva avuto paura
di incontrare l’orco. Tutti risero e dissero che aveva seguito il Salbanello,
che si era fatto gioco di lui.
196 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 34
Das arm Nöbele
Il povero Nöbele
In an stroach soinda gebest zboa müatar. Poade håm gehatt a khutta khindar,
un in an sunta håmsa gelatt dahùmman
di zboa éltarstn diarndla kan khìndar bo
sa håm gehatt in di biage, un se soin gånt
ka miss.
Di diarndla, invétze bas zo stiana sèm
kan khindar, soin gånt aus aftn bege z’
spila. Un sèm, nåmp in bege bo sa håm
gespilt, ista gebest a vestar vo dar stube
von ar åndarn famildja, un dise diarndla
soin gånt un soin gekhrablt pa aisandar
von vestar au un håm geschauget in in di
stube.
Balamån håmsa gesek a khlumas
tschotats méndle, pitn har ka pèrge, pitnar khurtzan pruach un pit baisan hosan
un pitnan roatn korpéttle, gian nidar un
au pa stube, pitnan haspl in di hént, un
bal ’s is gebest nåmp in vestar, hats ågelacht di diarndla. Dise diarndla håm zuar
geschauget in méndle, fin as da palle
soin khent di müatar vo miss. Balamån
soinen khent in sint di khindar un soin
gånt da huam.
Un balda soin khent di müatar vo
miss, håmsen khött bas sa håm gesek, un
di müatar håm’s khött in åndarn laüt, un
di åndarn håm khött ke ’s is gebest das
arm Nöbele, ombrom, bal ’s is gebest
toat, is gebest ågerüstet asó.
Di laüt bo da soin gestånt in haus bo
sa håm gesek ’s Nöbele, håm’s nèt geböllt gloabm. In an mal però, issese nidar
gelék t’ slava a tochtar von patrù un a
spusa, un di tochtar is lai intslaft un di
spusa hatt gepetet.
C’erano una volta due madri, ciascuna delle quali aveva una schiera di
bambini.
Una domenica le due donne lasciarono a casa le loro figlie maggiori
ad accudire i bambini che avevano ancora nella culla ed andarono a messa.
Le ragazze, però, invece di restare
vicino ai bambini, uscirono in strada a
giocare. Su quella stessa strada, si
apriva anche la finestra della stanza
di un’altra famiglia. Le due ragazze si
arrampicarono alla inferriata della finestra e spiarono dentro la stanza.
Ad un tratto videro un omino minuscolo coi capelli irti, i calzoni corti,
le calze bianche e un corpetto rosso, e
questo omino andava su e giù per la
stanza zoppicando, con un aspo in
mano e, quando si trovò davanti alla
finestra, fece una smorfia alle ragazze. Esse restarono là a guardarlo fino
a quando le madri tornarono dalla
messa. Allora si ricordarono dei piccoli che avrebbero dovuto sorvegliare e rientrarono di corsa in casa.
Giunte le madri, le ragazze raccontarono loro ciò che avevano visto e
le madri lo raccontarono poi ad altri
del paese e questi dissero che si trattava certamente del defunto Nöbele,
poiché, quando era morto, lo avevano vestito in quel modo.
La famiglia che abitava nella casa
nella quale era stato visto il Nöbele,
non volle credere al fatto. Ma una sera, in quella stessa stanza, si coricaro-
105
Bacher annota: «Uno spirito tira la coperta (Zingerle 462) e trascina con la forza il dormiente fuori dal suo giaciglio III. 461)».
105
198 Luserna: c’era una volta
Balamån hatse gehöart gian pa stube
au an månn un si hatt geschauget un
hatt gesek si o’ ditza méndle, un si hattar augedékht in khopf, un ’s mendle is
gånt un hattar getzoget pan lailachar un
si hatt gerüaft in vatar vo soin spus, assar gea z’ sega ber da sèm is, un dar vatar is gånt z’ sega un’ baldar is gebest af
di tür vo dar stube, ’s Nöbele is gesprunk
obar ’s pett hii un hatt ghevånk in khopf
vo dar tochtar un hatse getzòget obar ’s
pétt nidar.
Un di diarn hatt gètt an sroa, un ’s
Nöbele is lai vorschvuntet.
Aus zuar in långes dar patrù von haus
is gånt zo pèrge in Bisele, er un alle soine
laüt, aus bas soi tochtar un di spusa.
Balamån in an mal håmsa bidar gehöart epparummas gian pa stube au, un
se håm geschauget un håm bidar gesek ’s
Nöbele, un se håmen untargedékht in
khopf. Un alora ’s Nöbele hatt gètt drai
nistln pitn haspl dar spusa, un denna is
gånt.
In tage darnå soinsa augestånt dise
zboa laüt, un di spusa hatt darbist in bége un is gånt zo pèrge un hatsar khött soinar nóna, un soi nóna hatsen khött in patru, un er hatt gevånk in bége un is khent
in lånt un is gånt kan faff un hatten khött
alls bas da is vürkhent soin laüt, un lai
hattar geschafft drai missan vor ’s
Nöbele, un von sèl tage vort håmsa’s nemear gesek.
no una delle figlie del padrone e sua
cognata e, mentre la ragazza si addormentò subito, la sposa rimase sveglia,
continuando a pregare. All’improvviso sentì un uomo camminare nella
stanza e poi scorse anche lei quell’omino. Si coprì la testa con le coperte,
ma l’omino andò a tirarle le lenzuola.
Allora chiamò il padre del suo sposo,
perché venisse a vedere chi ci fosse
nella stanza. Ma, quando il suocero
giunse sulla porta, il Nöbele saltò oltre il letto, afferrò la testa della ragazza che dormiva e la tirò giù dal letto.
La giovane emise un grido e in quel
momento egli sparì.
A primavera iniziata il padrone se
ne andò in malga su al Bisele con tutta la famiglia, tranne quella figlia e la
nuora che avevano visto il Nöbele.
Una sera, le due donne udirono
nuovamente dei passi nella loro camera e videro una seconda volta il
Nöbele. A quella vista si coprirono la
testa. Allora egli diede tre colpi con
l’aspo alla sposa e se ne andò.
Il mattino dopo le due si alzarono
e la sposa volle subito andare sù alla
malga e là raccontò l’accaduto alla
suocera, la quale riferì ogni particolare al marito. Il padrone allora partì,
scese in paese e andò dal prete. Al
prete raccontò tutto ciò che era accaduto ai suoi, poi ordinò tre messe per
il povero Nöbele e da quel giorno in
poi nessuno più lo vide.
Fiabe, leggende, storielle 199
Racconto nr. 35
Dar Jakl Hoal
Jakl Hoal
Dise djar ista gebest an armes baible
nidar ka Maséttn, bo da nicht hatt gehatt
zo leba; ’s hatt nicht gehatt né z’ èssa, né
zo trinkha. In an stroach hats gehöart
khön ke durch in di Graselait ista dar Jakl
Hòal un dar sèl hatt alla darsort. Un ditza baible in an mal is gånt aus af de tür
von soi haus on hatt gerüaft:
«Hoo, Jakl HòaI, pringmar miar o moi
toal!» … un denna is gånt t’ slava. In tage darnå is augestånt un hatt gevuntet a
halbes baibe augehénk in di tür. Ditza baible is darsrakht un hatt nèt gebisst bises
hatt zo traga in in soi haus, òdar bas es
hatt zo tüana; un alora is gånt aus ats
Lavråu zo vorsa in faff z’ sega bas es hatt
zo tüana.
Un dar faff hatt khött asó:
«Géa humman un hoint, bal ’s is
nacht, lege in hunt in haus, di khatz aftn
héart un in pesom hintar dar tür, un denna rüaven bidar un khü:
“Hoo, Jakl Hòal, ai’, nimmdar doi toal!” … on denna gea un lede nìdar in pétt,
ma intslaf nèt, stéa bachant in pet un lai,
lüsan z’ sega bas da geschéget».
… Un asó hats getånt ditza arm baibe.
Balamån bal ’s is gebest palle das umma in di nacht, issta khent dar Jakl Hòal
un hatt khött:
«’s is bol asto hast in hunt in haus, di
khattz af on héart un in pesom hintar dar
tür, se no böllasto bol seng bassedar tüanat».
… Un denna hattar genump soi halbes baibe un is gånt. Das arm baible hatt
Anni fa, c’era una povera donna
giù ai Masetti, che non aveva nulla per
vivere, né da mangiare, né da bere.
Una volta sentì dire che al di là
della vallata, sulla Gras-laita, c’era
Jakl Hòal che invece aveva ogni ben
di Dio e una sera questa poveretta
uscì sulla porta di casa e gridò: «O,
Jakl Hòal voglio anch’io di quel ben
di Dio!…» e, detto questo, rientrò in
casa e andò a dormire.
Il giorno dopo si alzò e trovò una
mezza femmina appesa alla porta di
casa. La poveretta si spaventò a quella vista e non seppe se portarsi in casa quella roba, o che cosa aveva da
farne e… decise di recarsi a Lavarone
per chiedere al prete che cosa dovesse
fare.
Il prete le disse: «Va a casa e questa sera, al cadere della notte, metti il
cane in cucina, il gatto sul focolare e
la scopa dietro alla porta, poi chiama
di nuovo Jakl Hòal e digli: “O Jakl
Hòal non voglio la tua mercanzia, ripassa la valle e portala via!…” e poi
mettiti a letto, ma bada di non addormentarti, resta invece a vegliare e pregare mentre stai in ascolto di quello
che succederà fuori».
La poveretta tornò a casa e fece
come le aveva consigliato il prete. E
quando fu l’una di notte arrivò Jakl
Hòal e disse: «Bene per te che hai
messo il cane in cucina, il gatto sul focolare e la scopa dietro alla porta; altrimenti avresti ben visto ciò che sta-
106
106
Bacher annota: «Cfr. Zingerle 4, 19, 50, 80, 174-180, Heyl 409, Ss-so, Schneller 205-206,
3, 209, 1-2; lo stesso si racconta della signora Berchta (Zingerle 32)».
200 Luserna: c’era una volta
gepetet un gebacht un gelüsant da gåntz
nacht, un hatt gehöart alls bas ar hatt
khött un bas dar hatt getånt. Mòrgas is
augestånt, ma ’s is gebest mearar toat
bas lente vo dar vort bo ’s hatt gehatt, un
hatt khött:
«Nimmar mear åndarst barte nèt rüavan in Jakl Hòal!»
vo per farti…» e prese la sua mezza
femmina e andò via.
La poveretta pregò e vegliò tutta
notte e stette in ascolto e sentì tutto
ciò che Jakl Hòal disse e fece. Al mattino si alzò, ma era più morta che viva per la paura che l’aveva presa e
disse: «Mai, mai più invocherò Jakl
Hòal per tutta la mia vita!»
Fiabe, leggende, storielle 201
Racconto nr. 36
Si tratta di una rivisitazione della fiaba di “Cappuccetto Rosso”.
Da alt in in balt
La vecchia del bosco
In an stroach ìsta gebest an alts baibe in in an balt, is un sai tochtar.
Balamång ista gånt dar sun von saltàro in pa disan balt zo helva soin vatar, un
hatt gesek di tochtar vo disan altn, un er
ìssar zuargånt un hatt ågeheft zo reda pit
disarn diarn.
Disa diarn is gebest a schümmana un
in sun von saltàro hatsen gevallt.
Un disar pua hatse gevorst z’ sega bésen nimp, un si hatt khött vo ja, un dar
pua is khent bodrùm huam aldar luste un
hatt khött soin laüt ke dar nimp disa diarn.
Soine laüt soin gebest alle luste se o
un håm khött ke se séngs gearn.
In tage darnå dar pua un sai vatar
håm gevånk in bege un soin gånt zo nemma di diarn un håmse gevüart humman,
un denna dar pua hatse gemèchlt.
Dise laüt håm geböllt as da khemm
di muatar vo dar diarn o huam, ma si hatt
nèt geböllt khemmen, un alóra håmsase
sèm gelatt.
Dar saltàro is gånt alle tage in pa balt
un is hèrta zuargekheart z’ sega vo dar
altn, un lai hattarar hèrta getrakk alls bas
se hatt gehatt mångl.
A djar dòpo boràtet, dise zboa laüt
soin khent zo haba a diarndle. Sa soin gebest alle luste zo haba ditza diarndle.
Denna soinda vortgånt ettlane djar
un ditza diarndle is khent groas un bravat un hatt ågeheft zo giana atìabas a
C’era una volta una vecchia che
viveva nel bosco con sua figlia. Un
giorno, il figlio del saltario 108 si recò
nel bosco per aiutare il padre ed incontrò la figlia di quella vecchia, le si
avvicinò e cominciò a parlare con lei.
La ragazza era bella e piacque al figlio
del saltario.
Il giovane le chiese se l’avrebbe
sposato ed ella rispose di sì. Allora
egli tornò a casa tutto contento e riferì ai suoi che avrebbe preso in moglie
quella ragazza. I suoi furono molto
contenti e dissero che l’avrebbero conosciuta volentieri. Il giorno dopo il
giovane e il padre partirono e andarono a prendere la ragazza; la condussero a casa e poi furono celebrate le
nozze.
La famiglia dello sposo avrebbe
desiderato che, assieme alla figlia,
scendesse in paese e venisse in casa
anche la madre, ma la vecchia non
volle andare, e la lasciarono quindi
nel bosco. Il saltario girava tutti i giorni nel bosco e andava sempre ad informarsi della vecchia e le portava ciò
di cui aveva bisogno.
Passato un anno, i due sposi ebbero una bambina e ne furono molto
contenti. Poi trascorsero alcuni anni e
la bambina si fece grande e brava e
cominciò ad andare di quando in
quando a trovare la nonna nel bosco.
107
Bacher annota: «Nella fiaba lusernese manca il colloquio tra la fanciulla e il lupo (orco)
lungo il tragitto che porta a casa della nonna che compare in Grimm, Märchen, 26 e in
Schneller (n. 6)».
108
Guardiaboschi.
107
202 Luserna: c’era una volta
vert zo venna di nóna in in balt. In an sunta dar saltàro is nèt gånt in pa balt, un
alóra di spusa hatt khött kan diarndle:
«Sea ditza zümmale geplèttra un
tràgs dar nóna in in balt!»
’S diarndle hatt genump ’s zümmale
un is gånt.
Bal ’s is gebest in nåmp in haüsle,
hats gemèkket, un di nóna hatten offegetånt un denna isse gånt in pett t’ slava,
un ’s diarndle hatten genump an stual un
issese gesotzt durch nåmp in pett un hatt
ågeschauget di nóna un hatt khött:
«O liaba mai nóna, bet långe zenn
dar hatt!»
Un si hatt khött:
«Vo eltom, mai khinn!» Un ’s diarndle:
«O liaba mai nóna, bet groase oang
dar hatt!»
Un si hatt khött:
«Vo eltom, mai khinn!» Un ’s diarndle no:
Una domenica il saltario non andò nel bosco e così la sposa disse alla
figliola: «Prendi questo cesto di roba
e va a portarlo alla nonna nel bosco!»
La figliola prese il cesto e andò.
Quando giunse alla casetta, bussò e la
nonna le aprì, ma si rimise subito nel
letto. Allora la ragazzina prese uno
sgabello e si sedette accanto al letto e
osservò la nonna e le disse: «Oh cara
nonna, che denti lunghi avete…» e la
nonna di risposta: «È per via della
vecchiaia, bambina mia». E la bambina disse ancora: «Oh cara nonna, che
occhi grandi avete…» e la nonna rispose: «È per via della vecchiaia,
bambina mia». «Oh cara nonna, che
bocca grande avete!…» e la nonna: «È
per via della vecchiaia, bambina
mia… vieni, tu sei mia, vieni, tu sei
mia!»… e la nonna inghiottì la bambina con zoccoli e tutto quanto perché
invece della nonna, dentro al letto
Fiabe, leggende, storielle 203
«O liaba mai nóna, bet a groases
maul dar hatt!»
Un si hatt khött:
«Vo eltom, mai khinn … ai, du pist
moi, ai, du pist moi!» … Un di nóna hatt
gesluntet ’s khinn pit gelbarla un alls …
ma, invétze bas z’ soina gebest di nóna in
in pett, is gebest dar bolf, bo da hatt gehatt gesek ’s diarndle gian pitn zümmale,
un er ìssen gånt vorå zoa zo vrèssa di nóna un ’s khinn o, un am earstn hattar gevrèsst di nóna, un denna, bal ’s sèm is gerift, hattar gevrèsst ’s diarndle o.
Di laüt von khinn, abas, håmsen pensàrt ke ’s slaft in ka dar nóna, un håmen
nicht vürgenump; un in tage darnå dar
saltàro is augestånt in aldar vrüa un is
gånt in pa balt gerade zuar kan haus, z’
sega von khinn, un hatt offe gevuntet di
tür un er is lai ingånt un hatt geschauget
un hatt gesek in bolf in in pett.
Alóra ìssar aldar darsrakht; ma das
earst bo dar hatt getånt, hattar genump
sai sbèrt un hatt hìgehakht in khopf in
bolf. Denna hattaren auvargezoget von
pett zo öadeganen aus.
Balamån hattar gehöart rüavan:
«Tùat laise!» … Un hatt nèt gebisst
vo bo da khint ditza geréda. Un hatt ågevånk zo hakha nidar pa pauch von bolf zo
tüananen offe, un bal dar hatt gehatt a
loch, sìkar ’s khinn, un er hakht un hakht,
fin àssar hatt gehatt ’s loch groas genùmma, un denna hattar auvargenump ’s
khinn no lente un gesunt. Denna hattar
genump ’s khinn affn arm un is gånt huam un hatt kontàrt alls, bas da is gescheget; un denna håmsa gemacht an guatn
vormas un håm gèst un getrunkht, un àssa nèt soin stüfo z’ èssa un zo trinkha, èssansa un trìnkhansa no.
c’era il lupo, che aveva visto nel bosco giungere la bambina col cesto ed
era corso avanti con l’intenzione di divorare la nonna e la bambina insieme.
E così aveva fatto, prima aveva divorato la nonna, e poi, all’arrivo della
bambina, aveva divorato anche lei.
Quella sera, non avendola vista
arrivare a casa, i suoi pensarono che
fosse rimasta a dormire dalla nonna
e non si allarmarono; ma il giorno
dopo il saltario si alzò per tempo e andò nel bosco diretto alla casetta della
vecchia per chiedere della bambina.
Trovò la porta aperta ed entrò, guardò
intorno e vide il lupo ancora a letto.
Allora si spaventò; però la prima cosa
che fece fu di prendere la sua spada e
tagliare la testa al lupo. Poi lo tirò fuori dal letto per sventrarlo. In quel momento si sentì dire: «Andate piano…»
ma non si rese conto da dove venivano le parole. Egli cominciò a tagliare il
ventre con l’intenzione di aprirlo e,
fatto un buco, vide la bambina. Allora
tagliò e tagliò finché il buco fu grande
abbastanza ed estrasse la creatura sana e salva. Poi si prese la bambina in
braccio e andò a casa e raccontò tutto
ciò che era accaduto. Alla fine prepararono un pranzo e mangiarono e
bevvero e, se non sono ancora stufi di
mangiare e di bere, sono ancora tutti
là a mangiare e a bere.
204 Luserna: c’era una volta
Racconto n. 37
Un curioso miscuglio di elementi provenienti probabilmente dalle fiabe
di “Hänsel e Gretel”, “Pollicino” e “Giacomino ed il fagiolo magico”.
Dar bill månn
un das bill baibe
Il selvaggio
e la selvaggia
In an stroach ista gebest a månn un a
baibe bo da håm gehatt zboa khindar, a
püable un a diarndle. Balamång ’s baibe is
gestorbet un dar månn is gekheart zo boratase. Das naüge baibe is gebest guat pitn
khindar a gåntzes djar. Denna hatse gekhoaft si o ummas a khinn un denna hatse gevånk z’ soina znicht pitn zboa åndarn
khindar un hatt hèrta khött kan månn assarse vort traibe, soine zboa khindar. Ma
dar månn hattar nia geböllt volng, ombrom di khindar hattarse gehaltet géarn.
In an tage dar månn is gånt in aldar
vrüa aus aft’s vèlt un, vort assar is gebest,
hatse gètt a sèkhle èsch vor uman in
khindar un hatten khött:
«Géat est in pa balt na holtz, ma
geat senante di èsch un denna, in khearan
bidrùm, khent hèrta nå dar èsch» … Un
asó håmsa getånt di khindar.
Di stiafmuatar hatt geschikht di khindar in pa balt, zoa assdase vrèss éppar a
gebilt; un invétze di khindar soin gånt un
khent huam.
Un abas, balda soin gerift huam di
khindar, issese dartzürnt di stiafmuatar
un hatse gemacht gian z’ slava åna tschoi.
In tage darnå dar vatar is bidar gånt aft’s
vèlt, un disa znicht stiafmuatar hatten nå
gètt a sèkhle saltz in khindar un hattse bidar geschikht na holtz.
Di khindar soin gånt seenante ’s saltz
un soin gånt bait, in pa balt, un balsa håm
C’erano una volta un uomo e una
donna che avevano avuto due figli,
un bambino e una bambina. Ma accadde che la donna morì, e l’uomo si
risposò. La nuova moglie fu buona
coi due bambini per un anno intero.
Poi ebbe anche lei un figlio e, come
nacque il bambino, cominciò ad essere cattiva cogli altri due e a dire al marito di mandarli via. Ma il marito non
le diede mai ascolto perché egli voleva molto bene alle sue creature.
Un giorno il padre si recò di buon’ora nel campo e quando fu lontano,
la matrigna consegnò a ciascuno dei
due piccoli un sacchetto di cenere e
disse: «Partite adesso e andate nel bosco per legna, ma, camminando, spargete la cenere a terra e per il ritorno
seguite la traccia della cenere».
La matrigna aveva mandato i
bambini nel bosco perché avrebbe desiderato che qualche belva se li mangiasse. Invece i due piccoli andarono
e tornarono. A sera però, quando arrivarono a casa, la matrigna si adirò e li
fece andare a letto senza cena. Il giorno dopo il padre tornò nel campo e la
cattiva matrigna diede ai bambini un
sacchetto di sale ciascuno e li mandò
nel bosco per legna. Essi camminarono seminando il sale e andarono molto avanti nel bosco e quando ebbero
109
Bacher annota: «In alcuni tratti (il cannibale, il fiammifero), la fiaba lusernese si avvicina di più a Zingerle (fiaba 11, pag. 138) che all’“Hänsel und Gretel” di Grimm n. 15 (v. anche ib. III, 15)».
109
Fiabe, leggende, storielle 205
gehatt genumma holtz, håmsa nemear
gevuntet in bége zo kheara bidrùm, ombrom ’s is gebest nass von tau un ’s saltz
is gest zorgånt.
Alora di armen khindar håm nemear
gebisst bo zo giana, un invétze bas zo
khemma zuar huamat, soinsa gånt betar
in pa balt. Balamån håmsa gesek a haüsle un soin zuar gånt un håm gemèkket, ün
denna ista auvarkhent das bill baibe un
hatt khött:
«O liabe moine khindar, bo mai saitar
khent! Asta zuar khint dar bill månn, vrisstaras».
Di armen khindar håm khött:
«Asta sai bas da Gott’ar Hèar bill;
biar hoint, assaras da lasst, steabar da».
«Bèn, hats khött das bill baibe, i haltas dà, ma eråndre möcht gian in untar ’s
pétt un stian stille un sbaing».
«Ja, ja» håmsa khött di khindar. Un
das bill baibe hatten gett éppas z’ èssa,
un denna hatsese gemacht gian in untar
di lùter.
raccolto abbastanza legna, non trovarono più la strada del ritorno, perché
il terreno era umido per la rugiada e il
sale si era sciolto. Allora i poveri piccoli non seppero più che direzione
prendere e invece di tornare a casa, si
inoltrarono sempre di più nel bosco.
Alla fine videro una casetta abitata e
andarono a bussare. Venne sulla porta la selvaggia e disse loro: «Oh miei
cari bambini, dove mai siete capitati!
Se mio marito viene a casa, vi mangia…» e i poveri bambini di risposta:
«Sia come vuole il Signore Iddio, se
voi ce lo permettete, questa sera noi
resteremo qua». «Bene», disse allora
la selvaggia «io vi tengo, ma voi dovete mettervi sotto alla lettiera e stare
fermi e zitti». «Sì, sì» rassicurarono i
bambini. Poi la selvaggia diede loro
qualche cosa da mangiare e alla fine li
fece andare sotto alla cassa del letto.
Ma non passò molto e arrivò il marito e cominciò a fiutare: «Faìn, Faìn,
206 Luserna: c’era una volta
Balamån issta khent dar bill månn
un hatt geschmékht: «Mf, mf, dà stinkht’s na christna vlaisch da stinkht’s na
christna vlaisch; bem hasto in haus, baibe?»
«Niamat». Hats khött das bill baibe;
sbaige, èss un trinkh, un denna gea t’ slava!»
Ma dar bill månn hats nèt geböllt gloabm un hatt bidar ågevånk zo schmékha;
un alora das bill baibe hatten zuar gestritet un hatten gemacht gian z’ slava. Ma
dar bill månn is nèt gebest guat t’ slava
un hatt gevorst das bill baibe un hatt
khött:
«Khümar baibe, bas da asó stinkht na
christna vlaisch!»
«Ja». Hats khött das bill baibe: «I
khüdar’s, asto mar vorhoast nicht zo tüana». «Ja». Hattar khött dar bill månn: «I
vorhoas, ke i tüa nicht». Un alora das bill
baibe hatsen khött.
«Djüsto gerècht“. Hattar khött dar
bill månn: «’S diarndle haltbar’s vor massérle, un ’s püable zo vöastra».
Asó håmsa getånt; ’s diarndle hatt
gehélft in bill baibe in dar arbat von haus,
un ’s püable håmsa’s gelék in stall zo
mésta.
In an tage hattar khött dar bill månn:
«Est, baibe, möchtma gian z’ sega bida ’s püable is voast genumma» … Un ’s
diarndle hats gehöart un is gånt vorå nidar in stall un hatsen khött in püable un
lai hatsen gètt a sprüssele, un hatt khött:
«Rékhen aus ’s sprüssele, in bill
månn!».
Un asó hats getånt an éttlane tage ’s
püable, balda ìs gånt dar bill månn z’ sega bi ’s is voast, invétze bas zo rékhanen
aus ’s vingarle, hatsen aus gerékht ’s
sprüssele. Balamån hats vorlort ’s sprùssele un balda is gånt dar bill månn, hatsen
aus gemucht rékhan ’s vingarle un alora
dar bill månn hatt khött:
qua c’è odor di cristianìn, qua c’è odor
di cristianìn; chi hai in casa, femmina?». «Nessuno», fece sua moglie «tu
mangia e bevi e poi va a dormire!»
Ma il selvaggio non volle credere e ricominciò a fiutare. Allora la donna lo
sgridò e lo fece andare a letto, ma egli
non riusciva a dormire e alla fine rivolto alla moglie, fece: «Tu devi dirmi, femmina, che cosa tieni in casa
che puzza tanto di cristianìn!» Sì»,
disse la donna «te lo dirò, se mi prometti di non far niente». «Va bene, te
lo prometto, non farò niente», rispose
il selvaggio. Allora lo informò di ogni
cosa. «Proprio bene così», disse il selvaggio «la piccola la teniamo per servizi come massara, il piccolo invece lo
metteremo giù nella stalla a ingrassare». Così fecero. La bambina dovette
aiutare la selvaggia nei lavori di casa
e il bambino fu chiuso nel buio della
stalla ad ingrassare. Un giorno il selvaggio disse: «Oramai, femmina, possiamo andare a vedere se il porcellino
è abbastanza grasso!» La bambina
sentì queste parole e corse giù in stalla prima di loro a riferire la cosa al fratellino e gli portò uno stecco e disse:
«Porgi lo stecco al selvaggio invece
del tuo dito!» Il bambino fece così, per
più giorni, ogni volta che il selvaggio
scendeva a vedere quanto grasso era
diventato: invece di allungargli il dito
gli porgeva lo stecco. Ma avvenne che
perse lo stecco e quando il selvaggio
tornò, gli dovette porgere il dito, e allora quello fece: «Oh bene così, adesso sei grasso abbastanza…» e tornò sù
dalla donna e disse: «Adesso, femmina, il porcellino è grasso abbastanza.
Domani andrò a chiamare i compari e
mentre io sarò via, tu fa mettere sul
fuoco un paiolo d’acqua e falla bollire,
ma a spaccare la legna fa venir su
Fiabe, leggende, storielle 207
«Oh, asó bol, est pisto voast genùmma»… un is gånt au kan bill baibe un hatt
khött:
«Est, baibe, ’s püable is voast genùmma; morng geade zo nemma ’s gevatarlaüt, un du, intånto asse vort pin, mach
übar léng in khéssl vol pit bassar, un boroat di prüa; ma mach auvar khemmen ’s
püable zo hakha au ’s holtz». Un asó
håmsa getånt. Bal ’s auvar is gebest ’s püable, das bill baibe hatten gètt di hakh un
hatten getzoaget di ést un hatt khött as
s’es àuhakh khluma, khluma; ma ‘s püable
hatt gehatt khumman hakh stokh, un alora hats khött kan bill baibe:
«Schauget dà, bia tüan åna hakh
stokh?» … un das bill baibe is gånt un issese nidar gepükht zo lirna’s, un ’s püable
hattar hiigehakht in khopf, un denna hats
genump in laip un hatten gelék in khéssl
zo siada, on in khopf hatsen gelék in pétt
un hatten zuar gedekht garècht, un denna di zboa khìndar håmen genump a pissle gèlt un soin vonkånt.
A pissle spetar issta zuar gånt dar bill
månn un ’s gevatarlaüt un håm niamat
gevuntet in haus un håm gesek ke ’s
vlaisch in khéssl is gesòtet, un se håm
ågevånk z’ essa un håm gèsst das bill baibe åna zo bissa bassa èssan.
Balamån issen auvar khent a hånt in
pitn gevringart, un alora håmsa gesek
bassa håm gèsst.
Dar bill månn is darsrakht un lai dartzürnt ün hatt gebòllt nå loavan in khindar, ma di åndarn håmen nèt gelasst gian.
Intånto di khindar soin gerift huam un
håm gevuntet toat un bograbet di stiafmuatar, un alora soinsa gestånt sèm pit
soin vatar. Dar bill månn un ’s gevatarlaüt håm gegaült das bill baibe un denna
håmsa bograbet in khopf un ’s gevatarlaüt is gånt huam; on dar bill månn is no
hèrta in in balt, ma dar is khent guat un
vrisst khummane åndre khindar mear.
il porcellino stesso!». Così fecero.
Quando il piccolo salì, la selvaggia gli
diede la scure e gli mostrò i rami da
ridurre a pezzi, raccomandandogli di
tagliarli corti; non c’era però un ceppo
dove fare il lavoro e il ragazzino disse
alla donna: «Guardate qua, come si
può spaccare la legna senza un ceppo?». Allora la donna gli andò vicino
e si curvò a terra per insegnargli come doveva fare. In quel momento il
ragazzo con un colpo le staccò la testa, poi sollevò il corpo e lo mise nel
paiolo a bollire, mentre la testa andò a
posarla nel letto, aggiustando per bene le coperte. Fatto questo, i due bambini presero un po’ di denaro e se ne
andarono. Non era passato molto
tempo che arrivò il selvaggio coi compari: essi non trovarono nessuno in
casa, ma videro che la carne nel paiolo era cotta e perciò cominciarono a
mangiare e… mangiarono la donna
senza sapere che cosa mangiavano. A
un certo punto, dalla pentola, presero
una mano con un anello al dito e allora capirono che cosa stessero mangiando. Il selvaggio fu prima preso da
terrore, poi montò su tutte le furie e
avrebbe voluto correre dietro ai bambini, ma gli altri non lo lasciarono andare. Intanto i bambini erano giunti
alla loro casa e scoprirono che la matrigna era morta e sepolta, così restarono là col padre. Il selvaggio, invece,
e i suoi compari piansero la selvaggia
morta e ne portarono a seppellire la
testa, poi i compari se ne andarono a
casa ed egli rimase a vivere nel bosco,
ma si fece buono e non ne mangiò più
bambini.
208 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 38
’S gepittete bassar
L’acqua implorata
Vor djar ista gebest a schaülana dürr
un ’s vich aft di pèrng hatt nemear gevuntet bassar zo trinkha, ombrom di
hülbm soin gebest alle getrükhant.
In an tage ista gerift afn Kåmp a belesches baible z’ sega vo soin vich un hatt
gesek, ’s is a söttana schaülana dürr, un
issese nidar gekhnonk au nå in an khnót
un hatt ågevånk zo peta un hatt sovl gepittet un gepetet fin asda å hatt gevånk
zo khemma bassar pa khnót auvar, un
von sèl tage å ista hèrta khent bassar aftn
konfì zbischnen in Kåmp un in Viètz un,
sai di dürr bia groas se bill, sèm bassar
khintasanda hèrta un ìsdasan hèrta.
Anni fa, si verificò una grande siccità ed il bestiame delle malghe non
trovava più acqua da bere, poiché le
pozze erano tutte asciutte. Un giorno
arrivò alla malga Campo una italiana
che voleva controllare le sue bestie.
Ella vide che grande siccità c’era.
Allora si inginocchiò presso un sasso
e cominciò a pregare e pregò e implorò fino a quando da quel sasso scaturì improvvisamente dell’acqua. Da
quel giorno al confine tra le due malghe Campo e Vièz c’è sempre acqua,
anzi per quanto la siccità sia grande,
là zampilla sempre acqua e mai si
esaurisce.
Fiabe, leggende, storielle 209
Racconto nr. 39
Dar vluach
vo dar muatar
La maledizione
della madre
Vor sintzekh djar soinda gebest zboa
boratate laüt ats Lusérn, bo da håm gehatt an sun alùmma. Disar pua is gearn
gånt pa balt in, nå in gebilt. Sai muatar
hats nèt gesek gearn assar hèrta ummar
gea zo vorspila di zait.
In an tage hattar genump bidar soin
sklopp un soin hunt zo giana in pa balt.
Sai muatar issese dartzürnt un hatten
vorvluacht. Si hatt khött:
«Gea, dar hunt bart soin doi faff un
dar sklopp bart soin doi khértz!» Dar pua
is gånt in balt un hatt gevuntet an has. Er
is gånt nå disan has, is gånt aus dèllant
Monterùf un hatt gevånk in bége von
Laas. Sai tschell hatten gerüaft un hatt
khött:
«Khear ùm!» … un er hatt khött:
«I billen nå gian, ombrom ’s is a has
bo da hatt an roatn tschupf afn khopf.
Dar tschell is gekheart bodrum, un er
is gånt nidar af di gler vo Kalnètsch. Sèm
hattar vorlort in has un is gekheart bodrùm un is khent ats Monterùf spet pa
dar nacht.
Sèm ista gebest a hütt bosa håm vorkhoaft proat un boi pan summar, pan bintar invetze ista gebest niamat gestånt.
Sèm hattar geböllt machan ’s vaür pitn
vaüraisn, vaürkhnot un zuntar, un is nèt
gebest guat zo zünta’s å’. Denna pitn
sklopp hattar geschosst in stroa bo da
sèm is gebest, un ’s stroa hatt o nèt geböllt vången vaür. Dar arm pua is khent
pa balt iar zuar huam, ma baldar is gebest
afft’s halbe in bege, zbischnen Monterùf
Cinquanta anni fa, a Luserna,
c’erano un uomo e una donna che
avevano un solo figlio. Questo figlio
andava volentieri nel bosco a cacciare.
Sua madre però non vedeva di buon
occhio che il giovane sciupasse il suo
tempo andando in giro.
Un giorno il ragazzo prese il fucile ed il cane per recarsi ancora una
volta nel bosco, ma la madre si adirò
e gli mandò una maledizione. Gli disse: «Va pure, il cane ti farà da prete e
il fucile da candela funebre!» Il giovane andò nel bosco assieme ad un amico. Là vide una lepre e la seguì finché
si ritrovò oltre Monterovere e di là imboccò la strada del Laas 110. L’amico lo
chiamò invitandolo a tornare, ma egli
rispose: «Voglio seguirla, perché è
una lepre con un ciuffo rossiccio sulla
testa». L’amico tornò indietro; egli invece scese sulle ghiaie del Canalone
di Caldonazzo. Là perse di vista la lepre e si avviò quindi per fare ritorno,
ma arrivò a Monterovere quando era
già notte.
A Monterovere c’era una locanda,
dove vendevano pane e vino durante
l’estate, ma dove, d’inverno, non restava più nessuno. Egli tentò di accendersi il fuoco servendosi di acciarino,
pietra focaia ed esca, ma non riuscì a
farlo. Col fucile sparò nella paglia che
aveva trovato, però nemmeno la paglia volle prender fuoco. Allora il povero giovane si avviò lungo la strada
110
L’odierna strada del Menador.
Fiabe, leggende, storielle 211
un Maséttn, hattar gehummart un gevrort un is gebest müade un is nemear
gebest guat zo khemma innbart. Denna
issarse nidar gelék.
In tage darnå ista gånt ummandar
von soin vraüntn pa Laas nidar. Gianante
aus pa balt hattar gevuntet in pua toat.
Aft ummana na sait ista gebest dar hunt
un af d’åndar sait hattar gehatt soin
sklopp.
Soi muatar hatt boll gehoket un gekhlaget un gegaült, balse hatt darvert ke
dar pua is toat; sèm hatsen nicht mear
gehelft, un asó hatse darkhennt bia bait
dar is gånt soi vluach.
che portava in paese, ma quando fu a
metà del percorso tra Monterovere e
Luserna, preso dalla fame, dal freddo
e dalla stanchezza, non fu più capace
di proseguire e si stese a terra.
Il giorno dopo uno dei suoi parenti doveva raggiungere il Laas per
scendere a Caldonazzo e, mentre attraversava quel tratto di bosco, trovò
il ragazzo morto.
Sua madre strillò tanto e si lamentò e pianse, quando le fu detto che il
figlio era morto, ma tutto ciò non le
servì più a nulla, se non a capire
quanto lontana era arrivata la sua maledizione.
212 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 40
Di frantzesan
in in Vesan
In di djar bo da dar Napoldjù hatt geböllt gian übar allarn di bèlt, ista gebest a
famildja vo Kasòtto in Vésan zo macha di
birtn.
In an taghe soinda gånt a khutta sóldan vo Napoldjù zo giana zuar Leve.
Balsa soin gebest in Vésan håmsa geböllt håm z’ èssa un zo trinkha.
Di birtn håm nèt gehatt zo gebanen
bassa håm geböllt.
Vo densèl di soldan soinse darzürnt
un håm khött:
«Bar bartn khearn bidrum zo grüasanas».
Denna soinsa gånt.
In tage darnå soindarar gekheart bidrùm zbölve un soin gånt in Vésan.
Ats halbe in Levegar Laas håmsa bokhent in khnècht pit zboa khindar bo dar
I francesi in Vezzena
Negli anni durante i quali Napoleone percorse il mondo intero, una
famiglia di Casotto, in Val d’Astico,
si trovava in Vezzena a condurre
l’osteria. Un giorno, transitò di là un
reparto di soldati di Napoleone diretto a Levico. Quando furono in
Vezzena, i francesi pretesero da mangiare e da bere. Gli osti però non disponevano di tutto ciò che venne loro richiesto e questo mandò in collera
i soldati, che dissero: «Torneremo
un’altra volta a salutarvi!» Poi se ne
andarono.
Il giorno dopo dodici di loro tornarono nel Vezzena.
A metà della strada del Menador
incontrarono il servo dell’osteria con
due bambini, diretti a Levico per frequentare la scuola.
Fiabe, leggende, storielle 213
hatt gevüart ka Leve zo giana ka schual.
Kan sèl håmsa khött:
«Du hasts darratet zo giana vort».
In Vésan ista gebest dar alt birt un da
alt, a boratatar sun un sai vrau, a djunges
khinn un a diarn vo zbuanzekh djar, a zagoinar in pétt krånkh un a schüsslar vo
Lusérn, ’s Paüle Draitzane.
Das earst bo sa håm getånt di franzésan bal sa sèm soin gerift, soinsen gemacht gem z’ èssa un zo trinkha. Denna
håmsa gevånk in sun von birt, håmen gevüart au in a khåmmar un håmen gepuntet di hént aft’n rukkn, un denna håmsen
augehenk.
Denna håmsa gevånk in alt un di diarn un di vrau von sun un håmse argestocht. In Draitzane, in schüsslar, håmsen
gespèrrt in in a khemmarle un håm khött:
«Du plaibe sèm!»
Denna håmsa gevånk da alt un håmse gezóget pa stiage nidar in tiaf khèldar:
sèm hatsen gemöcht zóang ’s gèlt, un
denna håmsase getöatet pitnan hültzran
slégl.
Dar schaffar von soldan hatt gemacht
glüanen in òvan zo djukha drin das
khlumma khinn vo drai månat, zo vorprenna.
Ummandar von sèln zbölve hatt gesek ditza khinn, bo den hatt asó ågelacht,
un er hatt khött:
«Latmars miar ditza khinn!» Un dar
schaffar hatt khött:
«Ja, bar lassandars, asto bill gian du
in soin platz in in óvan».
Balda dar soldado hatt gehöart asó,
hattar ingelatt djukhan ’s khinn.
Das lést hàmsa getöatet in zagòinar.
Dar Lusérnar, bo da is gebest gespèrrt
in in khemmarle, hatt gehöart alls. Baldar
hatt gehöart da soin in di khåmmar von
zagòinar, hattar offe gezèrrt di tür un is
auvar khent laise laise un hatt genump
sai zumma aft’n rukkn un is vonkånt.
Al servo dissero: «Tu l’hai indovinata allontanandoti da casa».
In Vezzena erano rimasti il vecchio padrone e la vecchia, un figlio
sposato e sua moglie con un figlioletto e una ragazza di venti anni, uno
zingaro a letto ammalato e uno stovigliaio girovago di Luserna, il Paoletto
Draizane.
La prima cosa che i francesi fecero, quando arrivarono, fu di chiedere
da mangiare e da bere. Poi presero il
figlio dell’oste, lo fecero salire in una
camera da letto, gli legarono le mani
dietro la schiena e lo impiccarono.
Presero poi il vecchio, la ragazza e la
moglie del figlio impiccato e li accoltellarono. Il Draizane, lo stovigliaio di
Luserna, lo rinchiusero in una stanzetta e gli ordinarono di restare là
dentro. Presero la vecchia e la trascinarono giù per la scala, nel profondo
della cantina: là dovette mostrare dov’era nascosto il danaro, poi anche lei
venne uccisa con una mazza di legno.
Il capo dei soldati fece quindi accendere la stufa per buttarvi il piccolo di tre mesi a bruciare. Uno dei dodici, però, vide il bambino che gli
sorrideva e disse: «Lasciate a me quel
bambino!» Ma il capo gli rispose: «Sì,
te lo lasciamo… Se tu prendi il suo
posto nella stufa». Sentito questo, il
soldato lasciò che uccidessero il bambino.
L’ultimo ad essere ucciso fu lo zingaro.
Intanto il lusernese, che era stato
rinchiuso nella stanzetta, aveva udito
tutto e, quando sentì che i soldati stavano arrivando nella stanza dello zingaro, aprì a forza la porta e piano piano uscì, si caricò la cesta sulle spalle e
scomparve. Giunto nella parte più alta del Vezzena, si voltò a guardare in-
214 Luserna: c’era una volta
Baldar is gebest aft’s ék von Vésan, hattar hintar geschauget un hatt gesek ’s
haus prennen. Denna issar khent in Bisele
un hatt khött in laüt bassar hatt gesek un
gehöart.Baldar is gerift in Bisele, issar
draukhent zo haba sai zumma aft’n rukkn:
vorå hattar, von srakh un vo dar vórt, nèt
gebisst zo haba di zumma.
In tage darnå soinda ingånt di Lusérnar un håm gevuntet alls vorprennt. Dar
khnècht von Vésan is ó gekheart bidrum
vo Leve un hatt gevuntet alls vorprennt.
Denna issar gånt un hats khött in kapitåno von soldan; dar sèl hatt någevórst bele ’s soinda vort gebest in sèl tage un hatse gevuntet alle zbölve, un dar sèl bo da
hatt geböllt haltn ’s khinn, hatten khött
alls bia ’s is gebest un bas sa håm getånt.
Bal da dar kapitåno hatt darvert alls,
hattarse gemacht au héngen alle zbölve.
dietro e vide la casa già in fiamme.
Poi raggiunse il Bisele e raccontò ciò
che aveva visto e udito. Si accorse di
avere ancora la sua cesta sulle spalle,
mentre prima, sia per la paura che per
lo spavento, non si era neppure reso
conto di averla con sé.
Il giorno dopo i lusernesi si recarono in Vezzena e trovarono tutto
bruciato. Giunse anche il servo di ritorno da Levico. Poi egli tornò a
Levico a riferire ogni cosa al capitano
di quei soldati; il capitano indagò riguardo a chi si era allontanato in quel
preciso giorno e così li scoprì tutti. Il
soldato che aveva voluto salvare il
bambino spiegò come si erano svolte
le cose e ciò che avevano fatto.
Quando il capitano seppe tutto
con esattezza, li fece impiccare tutti e
dodici.
Fiabe, leggende, storielle 215
Racconto nr. 41
Dar pua bo da nå
hatt gedjukht
in akslstekh in per
Vor vüchzekh, sechzekh djar soinda
gebest a viar månnen vo Lusérn zo bèksla di hültzran hüttn aft ’n an bélesen
perng. Se håm gemöcht nemmen ’s gehültz von altn hüttn zo tragas aft ’n an
åndarn platz zo macha au di khesarn vo
naügum. Di månnen soin khent alle mal
z’ slava in Bisele un datz mòrgas soinsa
augestånt un soin gånt zo macha sai arbat.
In an mörgan soinsa augestånt zo giana zo arbata. A djungar pua in di zbuanzekh djar is gånt vorånahi singane un visplane. Di åndarn håmen nå gehóket:
«Christ, schauge, ’s khinta dar per,
schauge, ’s khinta dar per!» Er hatt nèt
gehöart un is gånt vürsnen singane. Di
åndarn håm bidar gesriget. Denna hattaren gesek er ó: dar is lai gånt zo bölla vången in per zbischnen in arm un haltnen zo
paita bo da zuarrivan di åndarn pit ’n an
pail zo töata in per.
Atz halbe in bége zbischnen in khesarn håmsa augehatt gerichtet a holtz zo
léga drau di purde zoa zo rasta. Baldar is
gebest sèm, dar pua issese gevuntet ats
ummandar sait vo dar rast, un dar per af
da åndarn. Dar pua hatt ågeschauget in
per, un dar per is augekheart panar
stikhln lait, un dar pua hatten nå gedjukht
in akslstèkh un hatt darbist in per in de
hintarn schinkh. Dar per issese a pissle
umgekheart un hatt ågeschauget in pua
un denna issar gånt vürsnen au pa lait un
is gånt óbar ’s ék in; bén dar is gebest in
zalt in ék, issar bidar gekheart bodrùm aft’s ék un hatt geschauget bidar hér zuar in
pua. Drai vért hattar gemacht dar per
Il giovane che lanciò
il bastone dietro all’orso
Cinquanta o sessant’anni fa, alcuni uomini di Luserna erano impegnati a spostare le casàre di legno di una
malga italiana. Dovevano prendere il
legname di quelle vecchie e portarlo
in un altro luogo, dove rifare le casàre daccapo.
Tutte le sere quegli uomini venivano a dormire nel Bisele e al mattino
si alzavano e andavano al loro lavoro.
Una mattina si erano alzati e stavano andando al lavoro. Il giovane di
vent’anni camminava avanti agli altri
cantando e zufolando. A un certo
punto gli altri uomini gli gridarono:
«Cristiano, sta attento, l’orso si avvicina, sta attento, l’orso si avvicina!» Egli
non sentì e proseguì cantando. Gli gridarono ancora; allora vide anche lui
l’orso. Si mosse però subito per andare a pigliarlo, pensando di prenderlo
colle braccia e trattenerlo fino a quando fossero arrivati gli altri colla scure
per ammazzarlo.
A metà strada tra le casare vecchie
e quelle nuove, gli uomini avevano
piantato un tronco, sul quale posavano il carico durante le soste. Quando
fu là, il giovane si trovò da un lato di
quel legno e l’orso dall’altro. Il ragazzo guardò l’orso e l’animale si girò e
prese a salire una costa ripida; il giovane gli lanciò dietro il bastone che gli
serviva a spartire il peso del carico
sulle spalle e colpì l’orso sulle cosce
posteriori. L’orso si voltò a metà, fissò
il giovane e poi proseguì la sua salita
e giunse in cima al dosso. Quando fu
al di là del dosso, tornò sui suoi passi
Fiabe, leggende, storielle 217
dassèl spil, un denna hattar gevånk
in balt un hatt hånt gelék zo lürna asó
schaüla, assar hatt gemacht zittarn alle
di béldar. Dar pua, bo dase vorå nèt hatt
gevörtet, in höaran in per is khent zo
darkhenna bas da is a per.
e si fermò a guardar giù verso il giovane. Per tre volte ripeté questo gioco, poi prese deciso la via del bosco e
cominciò a bramire e bramì così forte
da far tremare i boschi intorno.
Allora il giovane, che prima non
aveva avuto paura, a sentirlo bramire
a quel modo, capì che cosa era un orso.
218 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 42
Dar per un dar vinkh
L’orso e il fringuello
A djungar per is gånt in pan an balt,
gaülane un lürnane. Denna hatten gehöart a vinkh un dar sèl hatten gerüaft un
hatt khött:
«Bas hasto, asto asó lürnst un asó gaülst, liabar mai per?»
Un dar per hatt khött:
«I hån vorlort mai måmma un i vång
khuan åndra milch».
«E, bas is dassèl?» Hatten khött dar
vinkh. «I hån o nia khuana gevånk milch
un lebe alls ummas».
«E» hatten khött dar per, «Vinkh,
vinkh, ma khéntars å in di schinkh, du
hast gepappet khuana milch» !
Un giovane orso era entrato nel
bosco piangendo e ruggendo. Un fringuello lo udì, lo chiamò e gli chiese:
«Che cosa hai orso mio caro, che piangi e ruggisci così forte?»
L’orso gli rispose: «Ho perduto la
mamma e non potrò più avere un
goccio di latte».
«Eh, che significa questo!?», gli
chiese il fringuello, «neppure io ebbi
mai del latte, eppure vivo egualmente».
«Oh sì, fringuello, fringuello»,
obiettò l’orso «ma lo si vede bene dalle tue gambette che tu non hai mai
avuto un goccio di latte!»
Fiabe, leggende, storielle 219
Racconto nr. 43
’S khinn un dar burm
Il bambino e il serpente
In ar bòtta ista gebest a muatar pitn
an khinn vo zboa djar nidar in di rovölt
von Polèz; un in an mal hatsen gètt a
höltzrans schüssele, drin pit pult un
milch, disan khinn un hats gelék aus aft’n bége z’ èssa, ditza khinn. Un balamån
di muatar hats gehöart ren ’s khinn, un si
hatt gelüsant un hatt gehöart dise bort:
«Papp àu gnöllela o, nèt alla mila!»
… un lai hats gedjukht pitn löffl aft’n
khopf von burm … un di muatar hatt geschauget un is darsrakt un is gånt un hatt
genump ’s khinn un hats nimmar mear
gesotzt aft’n bége z’ èssa.
Una volta, giù al piano terra dei
Paolaz, vivevano una mamma ed il
suo bambino di due anni. Una sera la
madre diede al piccolo una ciotola
piena di polenta e latte e lo mise a
mangiare seduto in prossimità della
strada. Non era passato molto tempo
quando la madre udì il bambino parlare, stette ad ascoltare e sentì queste
parole: «Mangia anche i bocconi di
polenta, non soltanto il latte!»
Dopo di che il bambino picchiò
col cucchiaio sulla testa del serpente.
La mamma rimase a guardare e si
spaventò, poi andò e prese in braccio
il piccolo, ma da quel giorno non lo
mise mai più a mangiare sulla strada.
111
Bacher annota: «Zingerle 564».
111
220 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 44
Dar ork
L’orco
Vor éttlane djar pan summar, soinda
gebest viar månnen in in Bisele zo mena
’s höbe.
Balamån, in gianan òine di sunn, in
drai håm genump di sengest af di aksl un
soin khent auvar huam. Vor sa soin partirt zo khemma huam, håmsa gerüaft in
åndar un håm gevorst z’ sega be dar khint
un er hatt khött:
«Nå nonet, am earstn bille rivan» …
un di åndarn alora håm darbist in bége un
soin khent humman.
Dar åndar hatt gerift di arbat spet un
baldar is gebest vérte hattar a pissle gerastet un denna issar partirt un is khent
auvar von Bisele er o; ma ’s is aromài ge-
Anni fa, d’estate, c’erano quattro
uomini nel Bisele impegnati a falciare
l’erba.
Ad un certo punto, tramontato il
sole, tre di essi si posero la falce sulle
spalle per tornare a casa. Prima di andarsene, però, chiamarono il quarto e
gli chiesero se voleva partire con loro;
ma questi rispose: «No, non ancora,
prima voglio finire». I tre si misero allora in cammino e andarono a casa.
Il quarto terminò tardi e, quando
ebbe finito, riposò un po’, poi si mise
in cammino anche lui per tornare a
casa; ma era oramai notte e si era fatto così buio da non riuscire più a ve-
112
Bacher annota: «Per la denominazione orco cfr. Schneller 218 e seg., Heyl 616, 83,
Zingerle 2, 3 e le numerose leggende sugli orchi in Zingerle e in Heyl B. Lieder».
112
Fiabe, leggende, storielle 221
best spet pa dar nacht un is gebest tunkl,
assarda nicht hatt gesek. Un disar månn
is khent graivane un baldar is gebest ka
dar hülbe von Kraütz hattar gevuntet in
ork on darsèl hatten nèt geböllt lassan
vür gian un alora dar månn hatt genump
soi méssar un hatten gètt sim stich in ork
un denna hattar genump di khear au zuar in grisate termar un is gerift humman
squase toat vo srak. Huam assar is gebest
hattar khött soin laüt bassen is vür khent.
In tage darnå håm augevånk a drai
månnen un soin gånt z’ sega bis is bar ke
dar hatt abegestocht in ork; ma balsa
soin gebest ka dar hülbe von Kraütz håmsen gemöcht haltn in pauch zo lacha ombrom dar månn hatt gehatt gètt sim stich
in an grisatn khnot un vo densèl tage å,
insèl månn, håmsen hèrta khött “dar
ork”.
dere. Procedeva a tastoni e quando si
trovò alla pozza della croce, incontrò
l’orco e questi non volle lasciarlo passare.
Allora l’uomo tirò fuori il suo coltello e assestò sette colpi all’orco; poi
si volse e cominciò a salire verso il
masso grigio che segnava il confine e
arrivò a casa quasi morto dallo spavento. Giunto a casa, raccontò ai suoi
ciò che gli era capitato.
Il giorno dopo, però, alcuni uomini di Luserna si incamminarono e andarono a vedere se era vero che aveva
accoltellato l’orco; ma quando furono
alla pozza della croce si dovettero tenere il ventre dalle risa, perché le sette coltellate le aveva date ad un masso grigio. Da quel giorno in poi
quell’uomo venne chiamato da tutti
“l’orco”.
222 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 45
Dar schavar untar
di trupfan
Il pastore che dorme
anche sotto i goccioloni
Vor djar ista gebest a schavar in in
Obar Bisele pit soin öm. In an mal issar
khent abe kan diarnen von Untar Bisele
zo puala. Sèm hattar aukontart in diarnen
ke er hatt an ringen slaf; astase ummas
rüart, issar lai bachant; un di diarnen
håmsen nèt geböllt gloam un håmen ausgelacht.
Vort assar is gebest, håmsasen ausgerédet in fra sé zo provara z’ sega bis is
bar odar nèt.
Ma möcht bissan ke di khüdjrar un di
schevar slavan nèt in di khesar, ma sa
håm klummane hüttla, augemacht pit
holtz un untar soinda zboa långe stången,
as ma möge hévan ’s hüttle un trangs bo
ma bill.
In in a söllas hatta geslaft dar schavar o. In an mal, dopo òine di sunn, hatta
Anni fa c’era nel Bisele di Sopra
un pastore colle sue pecore.
Una sera scese al Bisele di Sotto
per andare a filò. Là raccontò alle ragazze che aveva il sonno leggero e
che se il vicino si muoveva, egli si
svegliava. Le ragazze non gli credettero e anzi lo derisero. Quando poi se
ne fu andato si accordarono per metterlo alla prova in modo da verificare
se quello che aveva raccontato era vero o no.
Occorre sapere che i vaccari e i pastori non dormono nelle casàre, ma
possiedono delle capanne in legno
dotate di un paio di stanghe inserite
sotto la base, in modo da poter sollevare la capanna stessa e portarla dove
il pastore vuole.
Fiabe, leggende, storielle 223
geschaint schümma dar må, un di diarnen von Untar Bisele håm audarbist un
soin gånt au afn pèrge von Obar Bisele un
håm gevånk di hütt drin pitn schavar un
håmse getrakk nidar in tal vo dar Tuvar, a
halba ur vort von pèrge, un håmse gelék
untar di trupfan bo da khemmen von
krötz abe.
Dar schavar hatt no hèrta geslaft. Ats
mòrgas, bals is khent tak, dar schavar is
darbekht un hatt gehöart di trupfan ats
tach von hüttle un hatt gemuant, ’s renk.
A pissle spetar hattar gesek laüchtn di
sunn in pa slüaf vo dar hütt, un alora hattar offe getånt di tür un hatt geschauget
bo da is di sunn un hatt gesek ke ’s is palle mittartage un lai hattar gesek bo dar
is.
Alora hattar gelatt sèm di öm zo hüata in åndarn schevar un hatt augevånk
un is gånt humman un is nimmar mear
åndarst khent in Bisele.
Una sera, tramontato il sole, la luna cominciò a splendere limpida e le
ragazze del Bisele di Sotto si misero in
cammino, arrivarono alla malga del
Bisele di Sopra, presero la capanna col
pastore dentro e la portarono giù nella valle della Tuvar, una mezz’ora di
strada dalla malga stessa e, giuntevi,
la posarono giusto sotto alle gocce che
cadevano dalle rocce. Il pastore continuò a dormire.
La mattina dopo, fattosi giorno,
egli si svegliò e sentì le gocce cadere
sul tetto della capanna, ciò che gli fece credere che stesse piovendo. Un
po’ più tardi però vide splendere il sole attraverso le fessure della capanna.
Spalancò la porta, guardò a che punto era giunto il sole e si accorse che era
quasi mezzogiorno, non solo, ma capì
anche dove si trovava. Allora lasciò le
pecore in custodia agli altri pastori e
se ne andò a casa, deciso a non venire
mai più nel Bisele.
224 Luserna: c’era una volta
Racconto nr. 46
Dar lustege pua
au afn perge Kostalta
Il giovane burlone
della malga Costalta
Dar sèl lustege pua, bo da hatt gehatt
zo tüana pitn per in afn belese pèrge, in
an summar issar gebest als khüdjrar au in
Kostalta; ditza is gebest in djar sekhsundraizek (1836), dassèl djar, da in de
nåmpn lentar ista gebest dar kolèra.
In an morgan ista zuagånt a kropf vo
Leve z’ sega vonar khua un er issar zuar
gånt, disarn khua, zo vorsa bisar geat, z’
sega bise vint zo vrèssa, besar gem saltz,
bisase haltn gearn un bisen git vil milch
un asó vort.
Dar lustege pua hatten gesek un hatten ausgelüsant bassar hatt khött ka disarn khua, un hatt gemuant, dar månn is
narrat. Denna dar månn is gånt zuar dar
khesar un dar pua issen gånt inkéng un
hatt khött:
«Du möchst bissan, ’s issas khent geschaft as bar håm zo roacha alle de laüt
bo da khemmen ar in di khesar, zoa zo
bohüatanas vo disan letz beata bo da
ummar is, ombrom da kan üsåndarn ista
nonet khuanar».
Un dar kropf hatten gevorst z’ sega
besa no håm geroacht åndre o, un dar
pua hatt khött vo dja; un dar kropf alora
hatt khött:
«Bassar hatt getånt pitn åndarn, tüat
pit miar o».
Denna dar pua hatten in gevüart in di
khesar, hatten ågehénk pitn soal um in
laip, hatt gedjukht ’s soal obar a holtz bo
da is gebest au in khemmech, un hatt gezoget in kropf au in khemmech un hatten
ågepuntet au hoach. Denna hattar ingetrakk grümmane tesan un hatt gemacht
’s vaür.
Vo disan tesan ista augånt a schaüladar stinkhatar roach.
Lo stesso giovane burlone che
aveva avuto a che fare con l’orso,
su alla malga italiana, una estate si
trovava come vaccaro alla malga
Costalta. Il fatto accadde nel 1886,
l’anno nel quale ci fu il colera nelle località intorno a Luserna.
Una mattina arrivò in malga un
gozzuto di Levico per aver notizie di
una sua mucca e si avvicinò alla bestia, le chiese come stava, se trovava
da mangiare, se le davano il sale, se la
trattavano bene e se faceva molto latte e così via. Il giovane burlone lo vide e ascoltò quanto andava dicendo
alla mucca e pensò che si trattasse di
un pazzo.
L’uomo poi andò verso la casara e
il giovane gli andò incontro e gli disse: «Devi sapere che abbiamo avuto
ordine di affumicare tutti coloro che
arrivano alla casara allo scopo di proteggerci dalla epidemia che infesta i
paesi qui intorno, dal momento che la
malattia non è ancora arrivata qui da
noi».
L’uomo di Levico chiese se già
avevano affumicato altre persone, e il
giovane rispose di sì. Allora quello fece: «Ciò che avete fatto agli altri, fatelo anche a me».
Così il giovane lo condusse dentro
alla casara, lo appese con una corda a
una trave che passava sotto al camino, lo sollevò e lo sospese in alto.
Poi portò dentro rami verdi d’abete e accese il fuoco. Da quei rami salì un fumo nero che nessuno poteva
tollerare. L’uomo cominciò a tossire, a
imprecare e scalciare finché arrivò a
226 Luserna: c’era una volta
Dar månn hatt hånt gelék zo gorgla
un zo kénka un hatt vorprocht ’s soal un
is gevallt ar af di mitt von vaür.
Alls in an stroach issar gesprunk zo
vuasan un pa tür aus loavane, un hatt geböllt vonkian; un dar lustege pua issen
någeloft disan månn, assarse auhalt un
assar khear bodrùm, dar gitten z’ èssa; un
dar levegar hatt khött, er kheart nemear
bidrum fin in di khesar, un dar pua hatten gemöcht trang z’ èssa aus af di étz’.
rompere la fune e cadde nel mezzo
del fuoco. Con un balzo fu in piedi,
corse alla porta e scappò. Il giovane
burlone gli corse dietro, lo pregò di
fermarsi e tornare dentro, perché voleva dargli da mangiare, ma il levighese rispose che non sarebbe tornato
mai più dentro alla casàra. Così il giovane gli dovette portare da mangiare
fuori nel pascolo.
Fiabe, leggende, storielle 227
Racconto nr. 47
Di bolf
I lupi
a) In an stroach soinda gebest zboa
prüadar: ummandar hatt gemacht in saltaro, un dar åndar is gestånt dahùam zo
macha in bakå.
In an tage ista huam khent dar saltaro vrüadar bas di åndarn mal un hatt
khött in prüadar ke dar hatt gesek hundart bölf un dar djung pruadar hatsen nèt
geböllt gloam un hatt khött:
«Nå, nå, i gloadars nèt». «Bèn, – hattar khött dar saltaro: «Alora soinsa gebest noünzekh».
«Noünzekh soinsa o nèt gebest» –
hattar khött dar djung».
«Alora, – hattar khött dar saltaro, –
soinsa gebest achtzekh».
«Achtzekh o nèt» – hattar khött dar
djung… un dar saltaro hatt hèrta khött
zene mindar, fin assar hatt khött:
«Bèn, alora barts soin gebest uandar».
«neånka umman hasto nèt gesek» –
hattar khött dar djung.
«Bèn, – hattar khött dar saltaro, alora barts soin gebest a stokh» … on vo
densèl tage å, ìn sèln zboa prüadar, hamsen hèrta khött «di bölf».
b) Disan zboa prüadar issen khent in
sint zo boratase, un asó soinsa gånt zo puala un soin gånt péade ka ’nar diarn, un si
hatse genump in vorhoasom alle péade,
un alora dise zboa puam håm nèt gebisst
bia zo tüana un håm khött in fra séåndre:
«Bèn, biar méchlnse péade, bar håm
genumma pit ummas a baibe in ünsar
haus. Est geabar kan faff un khönen assarsas lass méchln» … un se soin gånt kan
faff; ma dar faff hatsen nèt gelatt méchln,
un se soin gånt zo pitta in Véskovo, assarsen lass méchln.
Dar éltarste hatten genump di schua
C’erano una volta due fratelli: uno
di essi faceva il guardaboschi comunale e l’altro era rimasto a casa a lavorare la terra.
Una sera, il saltaro tornò a casa
più presto delle altre sere e andò a dire al fratello che aveva visto un centinaio di lupi. Il giovane non gli volle
credere e gli rispose: «Niente affatto,
non ti credo». «Bene», fece il saltaro,
«allora saranno stati novanta». «Neppure novanta» disse il giovane. «Allora», replicò il saltaro, «erano ottanta». «Nemmeno ottanta» rispose il
giovane.
Il saltaro continuò a proporre ogni
volta dieci capi in meno fino a quando disse: «Bene, allora sarà stato uno
solo».
«Tu non ne hai visto nemmeno
uno!», concluse il giovane. «Bene»,
disse il saltaro «allora sarà stato solo
un ceppo». Da quel giorno in poi quei
due fratelli furono chiamati «i lupi».
A questi due fratelli venne in
mente di sposarsi e andarono a cercare una ragazza, ma andarono dalla
stessa ragazza e questa promise di
sposare entrambi, per cui i due fratelli non seppero più come fare e, parlando insieme, finirono col dire:
«Bene, la sposeremo tutti e due, ci
basta una donna a casa nostra.
Adesso andremo dal prete e gli diremo di darle la dispensa per fare doppio matrimonio…» e andarono dal
parroco. Ma il parroco non diede il
consenso. Allora andarono a chiedere
al Vescovo il consenso per il matrimonio.
Il maggiore si pose le scarpe sulle
228 Luserna: c’era una volta
atti aksln, dar djung hatten ågelék di gélbarn. Balsa soin gebest vor in palatz von
Veskovo, dar eltarste is in-gånt in palàtz
zo giana gerade vorå in Veskovo, un dar
djung is gestånt sèm af di tür. Baldar is
gebest vorå dar tür vo dar khåmmar von
Veskovo, dar alt, dar sèl bo da sèm is gebest zo hüata, hatten nèt geböllt lassan
in gian, un er hatt sovl getånt, fin assaren
hatt gelatt gian. Balda dar Veskovo hatt
gesek disan månn, hattaren gevorst z’ sega bassar tüat pitn schua au af di aksln,
un er hatt khött:
«Di schua légese å balde géa vorå
den noblischen laüt»
… un dat Veskovo hatten gevorst z’
sega bassar bill, un er alora hatt khött:
«Sirgum et in sergum sergum» … un
dar Veskovo is darsrakt un hatt khött ka
den sèln bo da sèm soin gebeest:
«Vånkten un vüarten vort in sèl arm
månn!» … un se håmen gevüart abe aftn
bége.
Sèm ista gebest dar djung pruadar zo
paita, un er hatten gevorst:
«Bia is dar abe gånt, pruadar?» «’S is
mar gånt létz, i håns augenump karza
hoach; géada, ma nimms nèt au asó hoach».
Un alora ista gånt dar djung un baldar
is gebest vorå in Veskovo, issarse nidar
gekhnonk un hatt khött:
«’Zelénza dábit, miserère nobis», …
un dar Veskovo hatt ågeheft zo lacha un
hatt khött:
«Géa, géa, armar månn, du o» … un
dar månn is augestånt un is khent züntrest dar stiage, un sèm hattar gevuntet
in pruadar, un darsèl hatten gevorst z’ sega, bia’s is gånt.
«Guat, guat, – hattar khött – géabar
est» … un håm audarbist un soin khent
zuar huamat.
113
Zoccoli di legno.
spalle e il più giovane infilò le “ghelbare” di legno 113.
Arrivati davanti al palazzo vescovile, il maggiore entrò, deciso ad arrivare davanti al Vescovo, mentre suo
fratello restò ad aspettare presso il
portone. Il maggiore giunse dinanzi
alla porta della stanza del Vescovo,
ma il vecchio che stava di guardia non
voleva lasciarlo passare. Il saltaro, però, tanto fece e tanto disse, che alla fine il vecchio lo lasciò entrare.
Quando il Vescovo si trovò davanti quell’uomo, gli chiese che cosa faceva con le scarpe sulle spalle. Egli rispose: «Le scarpe le metto quando ho
da presentarmi a nobili signori». Il
Vescovo chiese che cosa volesse ed allora disse: «Sirgum et in sergum sergum…» ma il Vescovo si spaventò e
ordinò alle guardie: «Prendetelo e
portatelo via, quel poveraccio!…» e
quelle lo presero e lo condussero subito giù in strada. Là stava il fratello lo
stava aspettando e gli chiese: «Come è
andata, fratello?» «Mi è andata male,
perché l’ho presa troppo alta; va tu,
ma non partire così dall’alto!» Allora
il giovane andò e, quando fu davanti
al Vescovo, si inginocchiò e fece:
«Zeléza dabit, miserere nobis…» ma
il Vescovo cominciò subito a ridere e
disse: «Va, poveraccio, va anche tu!»
Il giovane si alzò e scese le scale e raggiunse il fratello che aspettava all’entrata del palazzo, curioso di sentire
come fosse andata. «Bene, bene», disse il giovane «adesso andiamo…» e
partirono di là e fecero ritorno a casa.
Giunti a casa, prepararono tutto
ciò che occorreva per le nozze e poi
scesero a valle a prendere un otre di
vino.
Fiabe, leggende, storielle 229
Huam assa soin gebest, håmsa boroatet alls bas da bill soin, zo boratase, un
denna soinsa gånt nidar in taal zo nemma
a vessle boi.
Balsa håm gehatt in boi, hattar khött
dar djung: «Est du pruadar nimm in boi
un géa, umbròm i much no gian kan ünsarn laüt zo invidarase a notze» … un dar
éltarste hatt augenump ’s vass un is
khent huam.
Baldar is gebest aft ’s halbe von beghe, hattar nidargelék ’s vessle zo rasta un
lai zo giana abe a bege zo lassa nidar di
pruach.
Baldar is gebest abe a beghe, hattar
gesek an mudl pa bege nidar, loavane …
un er, darbist in bege, is geloft auvar pa
bege, ombrom dar hatt gemuant, ’s is dar
bolf, un invétze is gebest ’s vass von boi.
Dar pua, baldar is gebest humman, issar
darlaichtet un is gestorbet vo srak; un
alora di laüt håmen getrakk au af di
tetsch zoa assar stea vrisch un assar nèt
stinkh.
Quando ebbero il vino, il più giovane disse al fratello: «Va tu a casa col
vino, perché io devo ancora andare
dai parenti per invitarli a nozze». Il
più vecchio si caricò dell’otre e partì.
Aveva percorso metà strada, quando mise a terra il carico per riposarsi.
Lasciò l’otre e scese sotto la strada,
perché aveva bisogno di slacciarsi i
calzoni. Ma di là tutto ad un tratto vide un grosso involto scendere per la
strada e, credendo che si trattasse del
lupo, si alzò e partì di corsa in direzione opposta. Non si trattava però del
lupo, ma soltanto dell’otre di vino.
Il saltaro correndo, arrivò a casa,
ma appena arrivato svenne e poi morì dallo spavento avuto.
I vicini provvidero subito a portarlo su nel fienile perché restasse al
fresco e non puzzasse.
Qualche momento più tardi il fratello più giovane, percorrendo la stessa strada, incontrò l’otre che ancora
230 Luserna: c’era una volta
A pissle spetar ista nå khent dar
djung un hatt bokhent ’s vass pa beghe
nidar khuglane, un er hatt genump au in
palge un is khent humman. Baldar is gebest humman, hattar gevorst von pruadar, un di laüt håmen khött, dar is toat.
Alora hattar ågevånk zo gaüla, zoa zo
macha seng in laüt ke dar tüaten ånt, un
invétze hattars gesek géarn, ombrom asó
issen geplibet di spusa imen alumma.
Un in tage, bo da soin khent di parent
z’ sega in hoasat, håmsa earst bograbet
in saltaro, un denna dar djung pruadar
hatten gekhocht a guata tschoi.
scendeva rotolando. Lo prese e lo
portò a casa. Giunto a casa, chiese del
fratello e i vicini gli dissero che era
morto.
Allora egli cominciò a piangere
per mostrare agli altri il suo dispiacere, mentre in realtà non gli dispiaceva
affatto che il fratello fosse morto, perché così la sposa restava a lui solo.
Il giorno in cui giunsero i parenti
per le nozze, insieme provvidero prima a seppellire il saltaro e poi il giovane preparò loro una buona cena.
Fiabe, leggende, storielle 231
I luoghi citati nei racconti
Luogo
n. racconto
Sbånt
(6)
Vezzena
(6)
S. Sebastiano
(7)
Dross in Valdastico
(11)
Lèrchovel
(11)
giù dai Paolàz (Hof)
(12)
Valle di Jau (Malghe sui Marcai) (12)
Cogollo
(14)
Cavorzio
(18)
Bosco di faggi (Lago di Lavarone) (19)
Voragine di Giacomino
(20)
Khlapf
(21)
Buco del denaro
(21)
Millegrobbe
(21)
Pozza della Pontara o dello Sbånt (21)
Schrotten
(21)
Caldonazzo
(22)
Menador
(22)
Pietro dà una spinta
(22)
Levico
(26)
Lanzì
(27)
Levico
(28)
Pergine
(28)
Malga Costesìn
(29)
Rocca Tampf
(29)
Löchar (bosco del Comune)
(33)
Trögla
(33)
Fratte del Camp
(33)
Malga Gazo
(33)
Pozza del Nokh
(33)
San Pietro (in Val d’Astico)
(33)
Malga Krojar
(33)
Bisele
(34)
Masetti
(35)
Gras-laita
(35)
Lavarone
(35)
Malga Campo
(38)
Malga Vièz
(38)
Monterovere
(39)
Laas
(39)
Vezzena
(40)
Bisele
(41)
giù dai Paolàz (Hof)
(43)
Pozza della croce
(44)
Bisele di Sopra
(45)
Bisele di Sotto
(45)
Valle della Tuvar
(45)
Malga Costalta
(46)
232 Luserna: c’era una volta
B. Canti
A causa dell’influenza dell’ambiente italiano, a Luserna sono infine completamente caduti nell’oblio i canti liturgici e profani. Di quelli liturgici posso solo citare alcuni passaggi che i vecchi lusernesi recitano a modo di preghiera. Per il rispetto per loro, come formule di preghiera antiche, si sono conservati fino ai giorni
nostri, ma con il tempo alcune parole e loro forme, come il preterito 114, sono diventate incomprensibili ai lusernesi; perciò la storpiatura e la commistione. Del canto
popolare profano non si è conservato nulla tranne alcuni ritornelli dei bambini.
I.
o muatar templ sakh!…
’s khemen drai engl von hümbl ar
On khö(d)n: bas tüat ar da,
as ar so traure sait?
Bölt ar nètt traure sain?
Di fazegen ju(d)n
Håm geslak mai hailiges khin
bet an fatzegen dorn,
pet an fatzegen zorn
on darpai higetrak
be d’i venat anuaneges mentsch
vo disarn bèlt,
bölat e ’s kherzan
bet huameschar khertz
on alle di lestn soine ta’
bölnt e salbart soin darnå 115.
Nota. Si legge in 1: timpl oppure in timpl. Si accordano i primi 4 versi di una canzone che ho registrato a Faogna da persone anziane:
haint ischt (t)i hailige såns-tignocht,
wou maria in templ vocht.
Dr templ wor ir milt unt sias. –
’s khimp an enl, der si griast.
114
Il preterito (praeteritum) in tedesco si usa per le narrazioni riferite a fatti avvenuti in un
passato distante nel tempo di tipo letterario e corrisponde all’incirca all’imperfetto e al
passato remoto in italiano.
115
Ecco qui riportata la traduzione del Bellotto:
«O Madre dolorosa, racconta!…/Scendono tre angeli dal Cielo/
E dicono: – Che fate voi qua / Così tristi? – / – Perché non dobbiamo esser tristi? / Quei
Giudei detestabili / Han coronato la mia creatura santa / Di orribili spine, / L’han colpita
con indicibile rabbia / E poi l’hanno portata via. / Se trovassi una sola persona / Di questo
mondo, / Le metterei intorno / Tutti i nostri fiori, / Le accenderei intorno / Mille candele
/ E nei suoi ultimi giorni / Vorrei io stessa restarle accanto».
Conte, canti, giochi e detti 233
5 - 9 formano, in Tratters Gesangbuch, la terza strofa della canzone quaresimale: “Als Jesus in den Garten ging” (Quando Gesù andò nel giardino). - Per 11 - 16
rinvio a Bone, cantata “Die Schmerzenswoche” (La settimana della passione), di
cui manca la fine che ho appreso sempre a Faogna da una persona anziana:
het i nur oa mentsch, der mier en guldnen fotrunser
die gånza mortewoch,
ten wolit i’s pelonen,
ten wolit i ererzn
mit himlischen kherzn.
Il frammento I ricorda in parte vecchie lamentazioni mariane documentate in
Tirolo già nel XVI sec. (Altdeutsche Passionsspiele aus Tirol, ed. Wackernell 145
ss.). Lo stesso vale per i frammenti seguenti:
II
Traur-gepet vo dar armen muam agata.
1. bo da hat gewandart ünsar liabar hear
bobral durch s fremega lant,
bo da hat gejöschart bar dar khamt,
bo bar gianatan ka sa-peatar
/: bet saindar etlan stean:/
2. etla etla khunegla von aldar belt dar tröasele –
hast do nia gesek in almechtage got?
Ja, ja bar håm en gesek nechta spet
Durch valschan ju(d)n hausan gian,
/: bet pluatan übarstian:/
3. o dürana khrua!
On di khrua, bo böl ar sa tragn?
Dar trug se bol au af an perge…
4. on tiava lant on hoache pergn
on an åndars khraüz in soindar hånt
on gem in sen onar alle di lant,
finamai bo da möge gerekharn
bet aürndar laim hailigen hånt 116.
Bellotto traduce «Dove andò vagando il nostro Signore / Lontano per terra straniera, /
Dov’era… egli andò, / Perché noi andassimo ci recassimo da San Pietro / Con tutte le
sue… / Più d’un re d’ogni parte del mondo… / Hai mai visto il Signore onnipotente? /
Sì, sì, lo vedemmo l’altra notte / Per i quartieri dei Giudei falsi passare / segnato di sangue
/ O irta corona! / Ma la corona dove vuole portarla? / Egli la portò fin sopra al monte /
Per valli profonde e alti monti / Con un’altra croce in mano / A dar la benedizione a tutte
le terre, / Fin dove essa giungerà / Colla vostra santa mano».
116
234 Luserna: c’era una volta
Per questo frammento cfr. un canto pasquale in uso nei Sette Comuni (Cimbr.
Wb. v. Schmeller-Bergmann p. 136).
Ba (wo) banderte d’unzar Vrau,
ba bandarte in vrömede land?
Un hat den Jesus nindart dorvant.
Habetar nindar geseghet?
Den liborsten Sun den main?
Un den halgosten Gott den main?
Ich sagten bul nechtent spete
Vor Juden-haus aufgheen,
un vor Juden-haus aufgheen.
Baz trigar af sainar haüte?
A croana un a Kreüza,
a croana un a Kreüza.
Ba trigar z’ halghe Kreüze?
Ear trigez auf den pergh –
Bittan muatar groaz ar het!
Ba trigar num de croana?
Ear trighese in de stat –
Bittan paine ear nun hat gat.
Muter auf, Vrau mutter!
Lacetach nicht vordrissen
Un lacetach nicht vordrissen.
Dar hümmel raich ist eüre,
de paine da ist bul main,
un de paine da ist bul main.
Baz schiket Gott zo koofen?
An rosa un an verban plut,
An rosa un an verban plut.
In lesten von sain zaiten
Se’ tüünt bul ime ganuc,
un dort allar belte ganuc 117.
Bellotto traduce «Dove andò a finire la nostra Signora? / Dove andò a finire in terre
Straniere? / Non l’avete incontrato in alcun luogo, Gesù / Il carissimo Figlio mio? / Il
santo Signore mio? / Io lo vidi bene a notte tarda / Presentarsi là davanti alle case dei
Giudei, / Davanti alle case dei Giudei. / Che cosa portava su di sé? / Una corona e una
croce, / Una corona e una croce. / Dove portò la croce santa? / La portò sopra al monte.
/ Che gran sofferenza la sua! / E dove portò la corona? / La portò attraverso la città – Che
gran sofferenza fu la sua! / Fatevi coraggio, Madre santa! / Oh non scoraggiatevi, Non
perdetevi d’animo. / Il regno del Cielo è ora vostro, / Ma quella sofferenza è mia, / Quella
sofferenza è mia. / Che manda a prendere il Signore? / Un fiore e un…Un fiore e un… /
Nei suoi ultimi momenti / Quelli bastano, bastano per Lui, / E (bastano) per tutto il mondo».
117
Conte, canti, giochi e detti 235
Ritornelli dei bambini
1. Ninna nanna
Pitele pautele
Gea ka mül
Pringmar a pröatle
Miar on main khin! 118
2. Ninna nanna
Ninenå mai popele bar bölnen sian a kokele
On vermsen schüa schüa roat on grüa 119
3. Canto da gioco
Nidar un au, duch on her
Pisto narat to valla at de gleer
Variante: Schau bool aut o valla atte geer! 120
4. Canto da gioco
Ringa renga, pult on tosela
De khatz in gart, dar hunt in schatn.
Bem böllbar boratn? Mariale von Seela.
Bem böllbar’s gem? In Lenz von mel121.
5. I bambini piccoli cantano:
Pater noster hemmarle
De muatar is in khemmarle,
dar vatar is in haüsle,
hattar gevånk a lenteges maüsle,
hatten gètt a löffele bassar,
hats es nètt geböllt håm;
hattaren gètt a löffele boi,
is khent trunkhant as be a sboi 122
118
Bellotto traduce «Pìtale pàutale, / va al mulino; / porta un pane per me / e uno pel mio
piccino!”.
119
Bellotto traduce «Ninna-na, bimbo mio, andiamo a cuocer un ovetto / e poi a pingerlo
per benino, tutto bello, rosso e verde».
120
Bellotto traduce «Su e giù, là e qua - ma sei matto a cadere sulla ghiaia… colla variante:
sta bene attento di non cadere sulla ghiaia».
121
Bellotto traduce «Ringa re/la / polenta e tosella / il gatto nell’orto / il cane sotto al
filare. / Chi vogliamo maritare? / La Mariella dei Sella. / A chi la vogliamo dare? / Al
povero mugnaio (colla variante: rita raita, polenta e tosaita, ecc.».
122
Bellotto traduce «Pater noster martellino, / La tua mamma è in cameretta, / Il papà
dentro alla casetta / Dove ha preso un topolino: / Gli volea dare un goccio d’acqua, /
nemmé / lo volle bere; / Gli diè allora un cucchiaìn di vino: / È ancora ubriaco come un
porcellino».
236 Luserna: c’era una volta
6. I bambini affamati cantano:
(basato sul recitativo del n. 5)
O måma moina
Bas gètta’mar tschoina?
De khell af de nas
Bo is mai töale?
Gevresst di khatz
Bu is di khatz!
In untar’n dar ovan
Bu is dar ovan?
Abe geslak ’s slegele
Bu is ’s slegele?
Vorprennt ’s vaür
Bu is ’s vaür?
Darlest ’s bassar
Bu is ’s bassar?
Getrunkht ’s öksle
Bu is ’s öksle?
Au af’n Khrodjar,
Zo nemma an bang odjar vor’n faff 123
7. Quando i bambini insistono con gli altri perché cedano a loro una cosa, dicono:
Rümbl rümbl
Ber da eppas git, geat in hümbl;
Raübl raübl,
ber da nicht git, geat kan taüvl 124
8
Pitta grela hoast mai henn,
alle morgan auf de penn.
Krumpa horna hoast mai khua
alle morgan au af de Puach
Rita raita hoast mai ross,
alle morgan geat’s ka post 125.
Bellotto traduce «O mamma mia, / che mi date per cena? / - Il ramaiolo sul naso. / Dov’è la mia parte? / - (L’ha) mangiata il gatto. / - Dov’è il gatto? / - Sotto la stufa. / Dov’è la stufa? / - (L’ha) demolita la mazza. / - Dov’è la mazza? / - (L’ha) bruciata / l fuoco. / - Dov’è il fuoco? / - (L’ha) spento l’acqua. / - Dov’è l’acqua? / - (L’ha) bevuta il bue.
/ - Dov’è il bue? / - Su a malga Krojar, / a prender un carro d’ova pel pievano».
124
Bellotto traduce «Cielo, Cielo, / Chi qualche cosa dà, vada in Cielo. / Diavolo, / Chi nulla dà, vada al diavolo».
125
Bellotto traduce «Ho una gallina, si chiama Ascola, / Ogni mattina la fo salir in bascola. / Ho una vacca, “Corno storto”, / Al mattin per tempo la mando al prato morto. / Ho
anche un cavallo e ogni mattino / Rita-raita fa servizio di postino».
123
Conte, canti, giochi e detti 237
C. Giochi
Non vi sono giochi popolari di particolare rilievo. I giorni feriali sono caratterizzati da duro lavoro e le domeniche dall’esigenza di riposare. Questo vale
prevalentemente per le donne su cui gravano in più i doveri domestici e la cura dei bambini. Le ragazze più giovani fanno magari una piccola passeggiata
con le amiche, in estate si recano anche nelle malghe dei pascoli più vicini per
mangiare lì a maren (merenda) formaggio fresco di capra con pane. Gli uomini
si concedono un bicchierino mentre si intrattengono al gioco delle carte. È di antica usanza il treset ma nei tempi più recenti sono stati introdotti anche alcuni
giochi alle carte come sono diffusi nel Tirolo tedesco, ad esempio il “Watten 126”.
Tra i giochi di movimento è molto amato il botschjaspil (le bocce), assai diffuso
anche nel Tirolo tedesco, dato che offre divertimento e parecchio svago all’aperto. Consiste essenzialmente in questo: i giocatori si dividono in due gruppi.
Come traguardo viene lanciata una palla molto piccola, dar balì o dar klùa. Tutti
i partecipanti cercano a turno di avvicinarsi a questa meta più che possibile,
cioè finché hanno superato (“abgelegt”) la palla avversaria lanciata inizialmente; poi tocca alla controparte avvicinarsi ancora di più all’obiettivo eccetera.
Alla palla più vicina al klùa viene assegnato un punt (punto), se la seconda più
vicina è una palla avversaria, rimane invariato il punt; se invece le due palle
più vicine appartengono allo stesso gruppo, vengono assegnati due pünt, in caso di tre palle si contano sei punti, per quattro palle dello stesso gruppo più vicine al klùa, otto pünt. Non si gioca con più di quattro palle per ogni gruppo,
dunque 8 complessivamente, oltre al klùa. È facile che nel gioco una palla avversaria venga spinta via o che il klùa si sposta, e allora di colpo la situazione
cambia. Dato che non si avrebbe tutto questo effetto con una palla che semplicemente si avvicina rotolando, si gioca dunque contro una palla avversaria o il
klùa, colpendolo con la propria palla per allontanare e superare quella avversaria. Si vede che il gioco non è solo vario, ma anche avvincente e richiede ampio
movimento fisico, avendo così una marcia in più rispetto al gioco dei birilli e
perfino rispetto al Croquet.
I bambini hanno una scelta più vasta nei loro giochi. A prescindere dall’influenza dell’asilo tedesco, voglio solo citare gli essenziali giochi antichi dei bambini, con i quali i giovani di Luserna acquistano familiarità presto e facilmente.
1. ùas vò meron on das ondar vò peston 127
Ciascuno dei bambini partecipanti al gioco poggia entrambi i pugni sopra
quelli degli altri. Uno dei bambini però mette un solo pugno sopra gli altri,
Il Watten è un popolare gioco di carte assai diffuso in Alto Adige, ma anche in Austria
e Baviera, dove però viene giocato con regole leggermente diverse e con numerose varianti
locali.
127
Lett. “uno del meron e l’altro del peston”.
126
238 Luserna: c’era una volta
mentre con la mano libera dà pizzicotti alle nocelle del polso dei giocatori e alle sue, esclamando: “ùas vò meron on da sondar vò pestoìn, on wer da lat segn das
earst de sen, ziag en das recht öarle”. Chi ride per primo, viene tirato per un orecchio.
2. dar esl geat 128
Ogni bambino tira un solco nel prato. Uno dei partecipanti viene poi bendato. Ora un bambino indica una volta uno, una volta un’altro solco, pronunciando le parole “L’asino cammina.” “Lascialo andare,” risponde il bambino con gli
occhi bendati, e avanti così per un po’. Quando si stanca del suo ruolo, chiama:
“Lascialo lì”, e il bastoncino deve rimanere in quel determinato solco. Ora i bambini chiedono: “Quante botte?” e quello bendato esprime un numero oppure dice: “Nessuna”. La sentenza viene poi eseguita sul bambino di cui è il solco in
questione.
3. ’s wesle 129
I bambini pongono per terra una zolla erbosa tonda, e a uguale distanza attorno la stessa ognuno inserisce in terra un bastoncino. Poi uno dopo l’altro
prende un coltello, lo butta per terra, misura la distanza dal suo bastoncino e lo
inserisce in terra dove si trova la punta del coltello. Facendo così, i giocatori si
avvicinano sempre di più al wesle e chi raggiunge per primo il suo centro lo nasconde da qualche parte. Chi è il più distante dalla meta nel frattempo è stato
bendato. Ora gli viene tolta la benda e deve cercare la zolla nascosta. Poi il gioco ricomincia da capo.
4. dar pimpar on 5 s vorporgsrle 130
Dar is da dar herbest! De khröpof as sa bimmen, biar Lusernar sembln semplüambla on machan in pimpar nidar in brööl. Asó, bestar, hattar khöt mai pua, komare. Ma
i gisen bol i in pimpar. Dar nimp no au in toat darmit. I khü nètt ’s vorporgarle, ombrom,
balsa’s machan, zelnsa aus insel, bo da möchte süachan, de åndarn vorpogn se, on bal
soin gevuntet alle, is bidar dassel.
Ma pam pimpar is alls schlantz. Bas khöttarsanas Iar, komare? Ja, i muanat, komare, de tenz un sprüng tüanatn en nètt bea, naa; jüsto ’s is pa dar nacht, magatn sa no
tümbl obar de hunt-schlur nidar; l’è ke ’s is da manat-schai. Dar khöt bool Iar vo’n manat-schai on vo’n getüana guat, ma sa loavan sovl a be sa beratn geschosst aus pa’nan
kanu, sovl diseln bo da vonkian, a be dar vångar. Diseln plödar håm herz zo springa drai
urn vor sa nålassan. Eh, dar möcht nètt segn obrall das letz, komare; sa loavan, sa loavan diese khindar, sa rastn bol o. vor jaar hattar-en gemacht Iar o’ in pimpar; d’ar bar-
Lett. “l’asino cammina”.
Lett. “la zolla”.
130
Trad. it. “a nascondersi e a nascondino”.
Il Bacher commenta: «Presento in dialetto questo eccezionale colloquio tra due donne di
Luserna (della signorina Marie Gasperi)».
128
129
Conte, canti, giochi e detti 239
tetas bol nò gedenkhan bia ma tüat. Eh ja ja, sa zeln aus in vångar denna loavansa vorånahi, on dar vångar af ta hintar sait her fin assarse hat gevånk alle. Ja, ma eppas hattar vorgesst, komare; bal da de springarla soin müade, hokn-sa: “rast!” On rastn sovl a
be sa bölln se. Ah, komare, ’s soin nètt alle Orsolin on Filomen bo da loavan vümf vert
ume da untar khesar, on no denna khearn sa bodrum af’n Sbånt åna zo rasta a minut.
Bas khöttar au, liabes mai mentsch, diseln zboa diarnla håm getånt a söttas? Diseln
zboa zusln, ja; khöttar est, komare, dar pua nimpen au in toat, as ar macht in pimpar?
Lasten springhen, eh! ’S is pessar assar ummar tontz, bas as ar berat tschotat. Ma ja ja,
dar vorsteatsanas pessar, bas I, komare; as da mai pua nor spring in Gotts-nåm!
Un altro gioco dell’acchiapparsi viene chiamato làresch o bandolaresch dai
bambini. Chi viene preso deve fermarsi sul colpo.
Per il resto i bambini giocano con monetine di rame, bottoni e biglie. Queste
le creano spesso da soli usando un sasso molto morbido che instancabilmente
strofinano, spesso per ore, contro un cubetto di pietra dura, finché un po’ alla
volta diventa più liscio e approssimativamente tondo. Certo che tali biglie sono
molto più grandi di quelle che si trovano in commercio.
D. Alcuni detti
1. Quando i bambini piangono molto, le donne dicono: eh lassese gaüln e lasese
gaüln, ke intånto as sa gaüln, kreschart en ’s hèrtz 131.
- Quando il bambino ha rotto una scodella, la madre dice: est schöpfedar’s
aus in a gelbar das dåi muas 132.
- Quando una ragazza va in pellegrinaggio a Piné, si dice che ci va “zo paita-n ara n pual 133” (amato).
- Quando due innamorati sono eccessivamente dolci l’uno con l’altra, più
avanti sarà una storia acida: s gelèkha geat in gedrèkha 134.
- Il ragazzo dice alla sua ragazza, prima di essere chiamato alle armi: nimm
au ditza schümma stekhle on drau pit drai viar kartn; on vor bar as boratn, drai djar
vort soldà! 135
- Nel periodo del fidanzamento si diventa halbe narrat 136; sposa allegra, moglie triste e viceversa.
Trad. lett. “Eh, lasciali piangere, che finché piangono gli cresce il cuore”.
Trad. lett. “D’ora in avanti la tua pappa te la verserò dentro ad uno zoccolo”.
133
Trad. lett. “per chiedere la grazia di un innamorato”.
134
Bellotto traduce «ogni leziosità è destinata a finire nel fango».
135
Trad. lett. “prendi questo bel bastoncino con tre quattro fogli di carta sopra, perché prima
che noi ci possiamo sposare, resterò certamente lontano due o tre anni come militare”.
136
Trad. lett. “mezzi pazzi”.
131
132
240 Luserna: c’era una volta
2. a spaibar saibar at disa belt 137 – dassel mentch sem is stokhat aspe di mitanacht 138. – dar hat getrunkt nidar di hirndar, dar is allar vorlort 139.
- Quando qualcuno finge si dice: diza mentch macht in ’s helbe140.
- Quando qualcuno non vuole parlare si dice: ’s hat in mühl (mulo), oppure “è andato a Rotzo per fagioli” oppure “ha venduto la lingua al macellaio”.
- Quando qualcuno viene a sapere di maldicenze sul proprio conto dice: ber
da khüt nå moin rukn, redet pit moin ars 141.
- Di un bugiardo si dice che paga per questo il brevetto ka Rovráit (Rovereto).
- Per il “ladro” si usano le seguenti espressioni: “Quando ci arriva non usa
la scala”; “dove ha gli occhi ha pure le mani”; “dove ci arriva non è maldestro”;
“allunga cinque e ritira sei”; “ha le unghie lunghe”.
- Chi ha fatto cose invano o è stato truffato hat getretzt (preso in giro) in esl
geschelt in tschörk 142.
- Della frode e delle fandonie si dice: “ditza is a ster bo da halter drai
kwartn 143”.
- Ad un fanfarone si risponde: “i boas biavl roach da ziaget dåi khemmerch 144”.
- Per dispiacere o commozione: “i hån a vorkhnüpflatz hertz, bede berat guat, zo
precha aus in gegaüla tüanat’s mar bol 145”.
- Di un magro si dice: “dar sel sem slak vaür af s muas 146”.
- Di uno che non vuole invecchiare si dice “asto nètt alt bil khemmem, machde djung hengen! 147”.
Di uno che sta bene si dice: “dar hat in ars di kretschan 148” (che sarebbe “la
ghiandaia”). Il capestrato hat di schwaila haüt, ombrom dar hat di khugl 149.
- Se uno vuole impedire ad un altro di appoggiarsi a lui, dice: “i hån vorkoaft
in sadl zoa nètt zo macha in esl 150”.
- Se un altz mentch 151 si reca fuori paese per uno svago si dice: “e, latas gian; a
bota ats djar scherzanda di altn khüa o”. – arbat hat se san di hosan vol – as ma bil ge-
Trad. lett. “siamo uno sputo a questo mondo”.
Trad. lett. “quella persona è stupida come la mezzanotte”.
139
Trad. lett. “si è bevuto anche le cervella è completamente perso”.
140
Trad. lett. “quello là sta preparandosi un manico”.
141
Trad. lett. “chi parla dietro le mie spalle parla col mio sedere”.
142
Bellotto traduce «l’asino sbucciandogli il torsolo del cavolo».
143
Bellotto traduce «ecco uno staio che tiene appena tre quarti».
144
Trad. lett. “so benissimo quanto fumo tira al tuo camino”.
145
Trad. lett. “ho un tal groppo al cuore che, se mi riuscisse di rompere in pianto, mi farebbe bene”.
146
Bellotto traduce «quello là fa scintille sopra un piatto di mosa».
147
Trad. lett. “se non vuoi invecchiare, fatti impiccare da giovani”.
148
Bellotto traduce «ha le giandaie nel sedere».
149
Trad. lett. “oggi avrà i porcellini, perché ha la sbornia”.
150
Trad. lett. “ho venduto la sella per non fare l’asino”.
151
Trad. lett. “persona anziana”.
137
138
Conte, canti, giochi e detti 241
binnen di pult, möcht-ma lirnen zo pükha in rukn. – dar geat un khint aspe ’s schmaltz 152
- Se le lavandaie hanno fretta di fare il loro lavoro dicono: “an drukh on an
schmukh on a vert ume ’s loch, is vudar di boch 153”.
- Chi non ha voglia di fare un lavoro urgente dice: “Lasciamo stare adesso;
c’è più tempo di vita.”
- Di uno sfaticato si dice che ha una schiena troppo dritta, che ha inghiottito una sbarra di ferro.
- Una donna prodiga schupltda mearar vort pitn vürta, bas da invüart dar mån
pitn bagn 154.
- bas da git di taup, gipt de ganz o 155.
- bal da di khua khuana milch mear git s khalbe spentse alumma 156.
- tretn af dasel von khoasar 157 porta scarpe consumate.
- di A hat an mån, di B in sem da soin alle abegespunt von umman rokhsta (La A fa
qualcosa e la B deve compensare). da sain ale abegespunt von uan rokhsta 157.
- Las gian ’s bassar nå soin bege! (non ti impicciare).
- legen di pfaif in sack on gian 159.
- dar hat en nidar .
- gemacht.
- leng di milch (buttare acqua sul fuoco).
- traurn nå in ars (fingere tristezza).
3. Regole per la previsione del tempo e proverbi contadini
Il vento tedesco (superiore, settentrionale) porta bel tempo, il vento belese (inferiore, meridionale) pioggia. Il bint von hoachmorgan (est) porta neve in autunno,
il bint von gertsea on dar sel von Spitz vo Tonetsch (Tonezza) pioggia. Il düabint caldo
soffia per lo più in djenaro (gennaio), di ora (vento dalla costa) in lenz (marzo), abrel,
moje on halbm in prachar (giugno). – Quando i bambini girano in gruppi cantando,
viene da piovere. – La calura porta fulmini. – Quando tuona, cascano le lumache.
Se la dürr precede il schnit (agosto), porta danno; ma dopo questo mese non più.
L’arcobaleno al mattino significa pioggia, alla sera bel tempo. Quando in primavera tuona verso Ferrara c’è da aspettarsi un anno fertile. Se tuona prima della
pioggia, è difficile che arrivi il temporale; invece occorre rifugiarsi in casa veloce
se tuona solo a pioggia iniziata. Dalle condizioni del tempo nelle fasi lunari in
Bellotto traduce «eh, lasciatelo andare, che una volta all’anno si mettono a far salti anche le
vacche vecchie» «di lavoro ne ha piene le calze» «se si vuol guadagnarsi la fetta di polenta, si
deve imparare a piegar la schiena» «va e viene in continuazione come il burro nella zangola».
153
Bellotto traduce «una strizzata e un’alzata e una volta girata la tana, sei già fuori di settimana».
154
Bellotto traduce «spreca più roba lei col grembiule indosso, che non ne porti a casa il
marito col carro».
155
Bellotto traduce «chi ti dà la colomba, generalmente ti fornisce anche il becchime».
156
Bellotto traduce «quando la vacca non fa più latte, il vitello si svezza da sé».
157
Bellotto traduce «camminare con le scarpe del kaiser».
158
Bellotto traduce «sono fatti tutti con lana della stessa rocca».
159
Bellotto traduce «riporre le pive nel sacco ed andarsene».
152
242 Luserna: c’era una volta
marzo si può prevedere il tempo delle stagioni seguenti. Il tempo nei primi 5 giorni di aprile fa prevedere 50 giorni simili. Se in autunno per tre giorni di seguito si
ha roi (brina leggera), ci sarà bel tempo per un mese. Se d’inverno la terra è molto ghiacciata, ci sarà un anno buono, e una primavera bagnata significa molto fieno; pioggia di marzo e aprile fa ad ogni modo bene ai campi. Neve e acqua è tutto sterco per i prati. Il periodo migliore per piantare patate è verso la fine di maggio
e inizio di giugno. Quando si sentono le campane di Lavarone sarà bel tempo;
quando invece si sentono i sonagli di Tonezza, arriva pioggia. Quando si avvicinano nuvole accumulate dal vento per la raüt (nordovest), arriva grandine o siccità. Quando in primavera l’acqua scende per il baiskhnot (sudest), tra 8 giorni il
kåmp (est) sarà libero dalla neve. Non bisogna fidarsi del tempo mite precoce nel
periodo invernale. L’orso insegna la giusta prudenza: in ta’ dela zeriola khint dar per
auvar vo dar höl z’ sega, bia da is ’s bèttar. As ’s is guat khüt-ar: “nå den guat khint das
letz”, on kheart bobrum on geat tchlava. on as is letzes bettar, as geat bint un schnea,
khüt-ar: “nå den letz khint das guat”on geat nemear in in di höl 160.
Il merlo ha fatto un’amara esperienza con l’instabilità dei giorni invernali
miti, e il ricordo grava su di lui fino ad oggi (p. 84, n. 5 161).
Chi l’ultimo finzta 162 di gennaio non inforna il potschin (torta di cenere), non vive più a lungo. – dar fintzta in haus, di boch is aus 163, ma quando non c’è più niente
da mangiare, si ha ancora da pensare per tre giorni. – Ci sono pochi sabati all’anno in cui non si vede il sole. Piove solo tre sabati all’anno. – Attorno a San
Valentino si rompe il ghiaccio sul lago di Caldonazzo; allora l’inverno è passato
per gli uomini a metà e per il bestiame per due terzi. – san paul konvers kheart di
burtz zuar dar khersch 164. – da san khatrai boase nètt, bi de möge soin; ma da Sant’Andrea
pin e da gemist pit schnea, on di wainècht-nècht pin e da i on als måine khnecht 165.
4. Indovinello
I boas a dinkh on a dinkh, bo d’en herta nå-trak ’s haus. – I boas a dinkh on a dinkh,
on be mear ma nempsan vort, be gröasar ’s khint. – I boas a dinkh on a dinkh, on as sa
’s ågraivan, khennen ’s di plintn å. – I boas viar sbestarn, bo da hèrta nåloavan anåndar,
on soinse nia guat zo vånga. – I hån an draivuas: lege drau in zboavuas, khint dar viarvuas on trakhmar vort in zboavuas on lat mar sem in draivuas.
Bellotto traduce «Il giorno della Seriola l’orso esce dalla tana per vedere come è il tempo e se è buono, dice: “Dopo il buono viene il cattivo” … e rientra nella tana e si rimette
a dormire; ma se è cattivo tempo, con vento e neve, allora dice: “Dopo il cattivo viene il
buono” … e non rientra più nella tana».
161
Trad. it. “La merla”.
162
Giovedì.
163
Quando arriva giovedì, la settimana è già terminata.
164
Bellotto traduce «Il giorno della conversione di San Paolo (25 gennaio) già la radice
provvede per (guarda alle) ciliegie».
165
Bellotto traduce «a Santa Caterina (29 aprile) non so se potrò esserci (il freddo?); ma per
sant’Andrea (30 novembre) arriverò senz’altro pieno di neve e per le notti del santo Natale
verrò io e verrà pure tutta la mia gente».
160
Bibliografia 243
Bibliografia
Neri Mauro, Donne e bambine nelle leggende del Trentino, AlcionEdizioni, Trento, 2008.
Schweizer Bruno, Concetti cristiani nelle credenze dei cimbri, Edizioni Taucias Gareida, Giazza
- Verona, 1989.
Schweizer Bruno, Le credenze dei Cimbri nelle forze della natura, Edizioni Taucias Gareida,
Giazza - Verona, 1984.
AAvv, Luserna racconta… 7, Associazione Kulturale “Kulturverein Lusérn”, Luserna Trento, 1999.
AAvv, Luserna racconta… 4, Associazione Kulturale “Kulturverein Lusérn”, Luserna Trento, 1996.
Bellotto Alfonso, I Racconti di Luserna in “cimbro” e italiano, Circolo Culturale M. Gandhi
di Luserna - Istituto di Cultura Cimbra A. Dal Pozzo di Roana, Vicenza, 1978.
Baragiola Aristide, La casa villereccia delle Colonie Tedesche Veneto-Trentine, Comunità
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Nicolussi Castellan Hans, Luserna: la perduta isola linguistica, in Bertoldi, Maria Beatrice,
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Sitografia
www.grimmstories.com
www.museostorico.tn.it
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ALDO FORRER, ADOLFO NICOLUSSI ZATTA, Biar Soin Cimbarn - Storie degli Altipiani
(canzoni degli Altipiani, per metà in Cimbro/Lieder der Hochebenen, zur Hälfte
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HEINZ VON LICHEM (a cura di, Hrsg.), Per non dimenticare: Luserna e gli Altipiani nella prima guerra mondiale: foto e documenti della collezione Lichem e del Centro
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Dokumentationszentrums Lusern, MediaDom e Centro Documentazione
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CHRISTIAN PREZZI, Partir bisogna - Economia e storia di Luserna tra Ottocento e
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CORALE POLIFONICA CIMBRA, Lusern: Canti/Lieder (Testi in italiano, tedesco e cimbro/ Texte auf italienisch, deutsch und zimbrisch), Luserna, 2002 con/mit CD
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von Gelt Antica fiaba cimbra - Altes zimbrisches Märchen Cimbro/italiano/tedesco
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GIACOBBE NICOLUSSI PAOLAZ, Daz Hailege Petle - Il Santo Rosario, Milano, 2006
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Finito di stampare nel mese di settembre 2006
da Publistampa Arti Grafiche - Pergine Valsugana (TN)