La guerra infinita - Livio Senigalliesi Fotoreporter

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La guerra infinita - Livio Senigalliesi Fotoreporter
La guerra infinita
Vietnam
La guerra
infinita
Doan Cong Tinh
La guerra infinita
Van Sac
Senza fine, dappertutto
Avviso: le foto che partono dalla prossima pagina possono colpire i lettori più sensibili.
È una formula di rito. Secondo noi colpiranno anche i lettori più insensibili, perché raccontano la storia
di una guerra che non ha fine. La raccontano con le immagini di bambini nati deformi, cerebrolesi, senza
occhi, senza braccia. Nati da pochi anni in Vietnam, vittime di guerra pure loro, a distanza di decenni
dall’illusoria fine del conflitto. L’agent orange, un cocktail a base di diossina, sparso su fiumi e risaie
– si cominciò nel 1961, fanno cinquant’anni esatti – non solo cancellò il verde delle foreste che proteggevano
i vietcong, ma continua a inceppare i meccanismi del Dna e a spezzare vite umane. In un modo automatico
e perverso l’ecocidio ha portato al genocidio. Era stata, quella in Vietnam, l’ultima guerra senza
l’informazione embedded. La più documentata da giornalisti e fotografi. Mentre è il silenzio ad accompagnare
le sofferenze dei bambini e delle loro famiglie. Abbiamo deciso di rompere quel silenzio. La realtà è questa.
Orrenda, ma è questa. Tanto vale guardarla in faccia, nelle facce. Al diavolo il proverbio dell’occhio non vede
cuore non duole. Vogliamo che l’occhio veda e che il cuore dolga. L’agent orange ha colpito anche
chi lo spargeva, come leggerete nelle testimonianze che abbiamo raccolto da due ex militari Usa.
E si studiano armi sempre più sofisticate: le mine fatte per essere raccolte dai bambini (i “pappagalli verdi”
di Gino Strada), le bombe cosiddette intelligenti, le armi al fosforo, vietate ma usate lo stesso, in spregio
a ogni convenzione. Armi che non uccidono, armi pensate per portare via un pezzo di corpo umano.
Chi muore è seppellito, chi sopravvive e non è autosufficiente è un costo sociale. Tutte le guerre sono
ignobili. Quelle lampo, quelle religiose, quelle preventive, quelle umanitarie. Sapete come la pensiamo, a E.
E quelle che non finiscono mai e di cui non si parla mai? Ditelo voi, se siete arrivati in fondo a un inferno
in bianco e nero. Non abbiamo censurato le foto (e so già che saremo criticati per questo) perché l’orrore
non si maschera e perché sia sempre più difficile dire: io non lo sapevo.
g.m.
Gli anni del Vietnam
«Mettiamoci d’accordo sul diciassettesimo». Vjaceslav Molotov, vecchio leone bolscevico e ministro
degli Affari esteri sovietico, era uno che di patti
scellerati se ne intendeva parecchio. Fu lui nel 1939
a sottoscrivere un accordo di non aggressione con
la controparte nazista Joachim von Ribbentrop. Nel
1954 durante la conferenza di Ginevra di pacificazione tra i vietminh, i vincitori, e la Francia, gli
sconfitti, si propose come mediatore dell’intesa che
poneva fine alla colonizzazione francese in atto dal
1883. Dopo 74 giorni di lavori senza esito, la Repubblica popolare cinese si fece avanti con il suo
diplomatico più raffinato, Chu En-lai. Ministro degli
Esteri formatosi a Parigi, Chu, ideò con il rappresentante francese, Pierre Mendès France, una soluzione
“onorevole” volta a evitare ogni possibile influenza statunitense nel Sudest asiatico. Mendès aveva
di fronte Pham Van Dong, capo delegazione del
Vietminh. Dopo aver concordato di dividere il Paese
in due zone, le parti tentarono di tirare, come una
coperta, il confine che avrebbe separato il Nord dal
Sud. Dong, forte di una vittoria schiacciante, voleva
che il confine fosse fissato al tredicesimo parallelo,
il che avrebbe assicurato ai comunisti il controllo di
due terzi del Paese. I presenti lo convinsero ad ac-
cettare il sedicesimo. Ma non era ancora sufficiente
per la Francia che voleva una demarcazione lungo
il diciottesimo. Molotov propose allora il diciassettesimo. Ciò che avvenne in Vietnam dopo quella
divisione è una storia scritta, letta, riletta e fatta di
bugie, giochi di potere, di corruzione, di morte e
di distruzione. Gli Stati Uniti penetrarono di fatto
nel Sudest asiatico già durante gli anni Cinquanta quando la temperatura politica dentro e fuori il
Paese era segnata dalle teorie del senatore Joseph
McCarthy e dalla sua caccia ai comunisti. Il presidente democratico Harry Truman cominciò ad
aiutare con enormi forniture militari le forze militari
francesi nella guerra contro Ho Chi Minh e il suo
generale Vo Nguyen Giap. L’azione era ispirata
dalla “teoria del domino”, secondo la quale se l’Indocina fosse caduta in mano ai comunisti, anche gli
altri Paesi del Sudest asiatico avrebbero fatto la stessa fine. L’amministrazione repubblicana di Dwight
Eisenhower continuò a evitare un attacco diretto
contro il Vietnam, fuori da un’azione concertata con
gli alleati. Nel 1960 alla Casa Bianca s’insediò il
giovane presidente democratico John Fitzgerald
Kennedy, specialista di politica estera e persuaso
dall’idea che la Nuova frontiera, da lui ideata, do-
Arancio
indelebile
testo e foto
di Livio Senigalliesi
[buenavista]
30 aprile 1975: le truppe nordvietnamite entrano a Saigon. Finisce così la guerra
del Vietnam. Ma non per tutti. Sono quattro milioni le persone che subiscono gli effetti
dell’agent orange, il defoliante alla diossina che l’aeronautica Usa riversò lungo
il confine con il Laos e la Cambogia. Ancora oggi loro, i loro figli, come i reduci,
devono convivere con gravi patologie. E chiedono giustizia
di
Erri De Luca
foto
Nicolas Henry
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vesse passare dal contenimento del comunismo
in Sudamerica e nel Sudest asiatico. Kennedy
guardava con apprensione alla formazione
del Fronte nazionale di Liberazione del Vietnam del Sud, che venne soprannominato
Vietcong, “comunista vietnamita”. I vietcong
sposarono con tutte le forze quella causa di
liberazione che i loro padri avevano portato
avanti combattendo, e vincendo, per i quindici
anni precedenti non solo contro la Francia, ma
anche contro il Giappone che aveva occupato
l’Indocina durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1960 i vietcong iniziarono a mobilitare
la popolazione contadina contro lo strapotere
di Ngo Dinh Diem, uomo fantoccio degli
Stati Uniti che, insieme al fratello Ngo Dinh
Nhu, varò riforme ultrapuritane e di stampo
cattolico che provocarono diverse reazioni nelle frange più progressiste della popolazione e
che avevano come bersaglio i buddisti, a partire dai monaci. La mattina dell’11 giugno uno
di loro, Quang Duc, 66 anni, si diede fuoco in
pieno centro a Saigon. Gli Stati Uniti si convinsero allora a rovesciare il governo vietnamita,
attraverso un piano che vide coinvolti l’ambasciatore Usa a Saigon, Henry Cabot Lodge, i
generali di Diem ribelli e l’agente della Cia,
Lucien Conein. Il primo novembre i generali
deposero e uccisero i fratelli Diem dopo che
questi si erano arresi. Tre settimane dopo, il
presidente Kennedy fu assassinato mentre sfilava lungo le strade di Dallas a bordo della sua
Lincoln. Era il 22 novembre 1963.
Lindon B. Johnson, a differenza del suo
predecessore, non era avvezzo agli affari di
politica estera. Il suo sogno era quello di continuare il New Deal di Franklin Delano Roosevelt
con la sua Great Society: un piano di riforme
per la giustizia sociale e l’uguaglianza economica e razziale. In Vietnam Johnson confermò
l’appoggio di Washington al nuovo governo
golpista, sperando di poter così chiudere la
guerra in breve tempo. Sul fronte opposto Ho
Chi Minh cercò, nel 1963, l’aiuto della Cina
di Mao Tze Dong e dell’Unione sovietica di
Nikita Kruscev che però non voleva uno
scontro più ampio che potesse compromettere
il disgelo con gli Stati Uniti. Preso atto della
posizione sovietica, i nordvietnamiti si spostarono sull’asse cinese.
La Repubblica popolare inviò armi e rifornimenti ai nordvietnamiti attraverso il Sentiero di
Ho Chi Minh, una strada che passava attraverso il Laos meridionale e la Cambogia nordorientale. Questa ramificazione di percorsi nella
giungla fu il vero punto debole degli Stati Uniti
che fin dal 1961 cercarono di distruggerla con
le incursioni chimiche delle operazioni Ranch
Hand. All’inizio del 1964 il generale sudvietnamita Nguyen Khan rovesciò la giunta militare responsabile della caduta di Diem. Gli Usa
in quel periodo versavano al Vietnam due milioni di dollari al giorno. Nel 1964 si iniziò a
parlare di americanizzazione della guerra.
Nguyen Van Lahn giace da ventidue anni su una stuoia in una stanza buia come una caverna e dalla sua
bocca spalancata escono urla che lacerano il silenzio.
Gli hanno legato le mani con uno straccio per evitare
che si graffi e la madre Le Thi Mit lo accarezza cercando in ogni modo di calmarlo.
Siamo nel folto della giungla, nel villaggio di Cam
Nghia, provincia di Quang Tri, appena a sud della
Zona demilitarizzata che durante la guerra divideva
il Vietnam del Nord da quello del Sud. Ci si arriva
percorrendo una strada di terra rossa che si arrampica tra le colline coperte da una vegetazione lussureggiante. Abbandonato il fuoristrada si prosegue a
piedi. Il sole e la natura circostante rendono la passeggiata gradevole, ma giunti alla meta la situazione
diventa di colpo angosciante.
Nguyen Van Lahn ha un fratello più piccolo, Van
Truong di sedici anni, che striscia verso la soglia della
baracca e guarda atterrito gli estranei che hanno invaso
la sua solitudine domestica. Porta sempre una mano
sugli occhi, come se non volesse vedere e continua a
rivoltarsi su se stesso senza trovare pace.
La guerra del Vietnam si è conclusa nel 1975 ma i fratelli Nguyen, nati dopo la fine del conflitto, ne sono
ancora vittime. La malattia mentale da cui sono afflitti e le deformità fisiche sono conseguenza dell’agent
orange, l’erbicida dall’alto contenuto di diossina che
gli aerei statunitensi hanno nebulizzato tra il 1961 e il
1971 sul delta del Mekong e nella zona degli Altopiani
centrali ai confini con il Laos.
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I controversi episodi che si verificarono nel Golfo del Tonchino, durante l’estate di quell’anno,
diedero a Johnson l’opportunità di penetrare in
forze in Indocina. Il 3 agosto i cacciatorpedinieri statunitensi Maddox e C. Turner Joy stavano perlustrando il Golfo del Tonchino quando
entrarono in un banco di nebbia che mandò
in tilt i loro strumenti di bordo. Credendo di
essere attaccati da imbarcazioni nemiche, iniziarono a sparare siluri. Il Maddox non aveva
fatto alcun “effettivo avvistamento” scrisse nel
suo rapporto il comandante del cacciatorpediniere, William Herrik. Johnson, però, aveva
già ordinato sessantaquattro incursioni contro
le basi di pattugliamento marino del Vietnam
del Nord. Successivamente il presidente tentò
di ottenere l’appoggio unanime del Congresso, ma Wayne Morse, senatore dell’Oregon,
ed Ernest Gruening, senatore dell’Alaska, si
rifiutarono di appoggiare la risoluzione del
Tonchino che, in pratica, concedeva a Johnson il potere di fare la guerra.
Dopo la sua rielezione, il 3 novembre 1964,
e dopo una serie di attacchi dei vietcong,
Johnson diede avvio alle operazioni Flaming
Dart e Rolling Thunder: un centinaio di aeroplani bombardarono un deposito di munizioni
nordvietnamita. I raid, che sarebbero dovuti
durare otto settimane, si prolungarono fino
al novembre del 1968. I B-52 devastarono il
Nord del Paese con un milione di tonnellate di
esplosivo: il triplo rispetto a quelle sganciate
in Asia, Africa ed Europa durante il secondo
conflitto mondiale. La mattina dell’8 marzo
1965, tremila e cinquecento marines sbarcarono a Danang, con lo scopo di sorvegliare
la più grande base aerea statunitense in Vietnam. Questo primo aumento di truppe, insieme a tutto il piano degli Usa, non fu rivelato
pubblicamente. Era una delle tante bugie che
Johnson propinò al popolo americano durante
il conflitto. A giugno inviò altri quarantamila
soldati e chiese uno stanziamento di 700 milioni di dollari per la guerra. L’11 maggio il
regime di Khan fu ribaltato da Nguyen Van Ky
e Nguyen Van Thieu.
William Westmoreland, comandante delle
forze di combattimento americane in Vietnam,
chiese a Washington altre centomilamila unità
come “rimedio temporaneo” agli attacchi. Il 28
luglio, dopo un lungo giro di consultazioni con
le più alte personalità della politica statunitense
il presidente comunicò alla nazione: «Ho chiesto al comandante, generale Westmoreland,
che cosa gli servisse per far fronte a questa
crescente aggressione. Me lo ha detto. E noi
soddisfaremo le sue necessità. Non possiamo
essere sconfitti con la forza delle armi. Rimarremo in Vietnam». Era l’inizio dell’escalation.
La tattica di Westmoreland era divisa in tre
fasi: proteggere le basi aeree e logistiche americane vicino a Saigon, dare avvio a operazioni di Search and Destroy per schiacciare il
nemico e, infine, rastrellare gli ultimi comunisti
Quarantacinque milioni di litri di una miscela altamente tossica furono usati per defoliare le foreste lungo il Sentiero di Ho Chi Minh, rifugio dei
Vietcong. Lo scopo dell’operazione Ranch Hand era
quello di distruggere la coltre verde della foresta con
i diserbanti, individuare il nemico e colpirlo dall’alto
con bombe sganciate dai B-52.
Le Thi Mit, madre dei fratelli Nguyen, ha cinquantotto
anni e un volto distrutto da una vita fatta di dolore e
povertà. Ricorda i tempi della guerra: «Gli aerei passa-
vano più volte spargendo una nuvola giallastra dall’odore acre. Ci sentivamo soffocare. Gli occhi lacrimavano. Dopo alcuni giorni le foglie degli alberi iniziavano
a cadere. Nessuno ci aveva avvisato della pericolosità
della sostanza e per anni abbiamo continuato a bere
l’acqua dei pozzi e a mangiare i prodotti della terra. Si
trattava di sopravvivere».
Alla fine della guerra i coniugi Nguyen ebbero un
figlio, Van Phu. Morì all’età di quattro anni a causa delle malformazioni. Poi arrivarono i suoi fratelli,
anche loro malati. Stessi sintomi. La loro mente è
distrutta. Non parlano, non sentono. Non possono
stare né seduti né in piedi. Non chiedono mai nulla,
nemmeno da mangiare.
Dice Le Thi Mit: «Viviamo di un piccolo sussidio mensile del governo. Mio marito Van Loc lavora nei campi
e così riusciamo a mangiare. I ragazzi li imbocco, uno
dopo l’altro. Così da più di vent’anni. Ma questa non
è vita. Vi ringrazio di essere venuti. È necessario che
tutto il mondo sappia».
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rimasti, per vincere la guerra. La missione Usa
in Vietnam si dotò di tutti i vantaggi possibili,
a partire dalle costruzioni logistiche fino alle
armi dei soldati che venivano consegnate in
lotti da un milione di tonnellate al mese. Le
armi più criticate furono le bombe a grappolo,
quelle al fosforo e quelle al napalm. Queste
ultime bruciavano vivi coloro che ne venivano esposti. L’immagine di Kim Puch – oggi
ambasciatrice per la pace dell’Unesco – che,
ancora bambina, correva nuda per le strade
del suo villaggio bombardato nel 1972 con il
corpo devastato dal napalm, è una delle più
emblematiche della guerra.
Nel maggio del 1966, il dittatore Ky attuò una
dura repressione dei buddisti in tutto il Paese:
dieci tra monaci e monache si immolarono per
la causa. Johnson si dimostrò meno tollerante
e obbligò Ky a indire elezioni e a promulgare
una Costituzione. Thieu diventò presidente e
Ky, in virtù di un accordo segreto, fu nominato
suo vice. Anche i comunisti ebbero problemi,
dissidi sulle tattiche da adottare in combattimento con l’alleato cinese. I nordvietnamiti
spingevano per la grande soluzione, Mao consigliava loro di continuare con la guerriglia.
Con il progredire della guerra, molti soldati
statunitensi cominciarono a manifestare un sentimento di ripulsa nei confronti dell’impegno
militare in Indocina. Alcuni di loro parteciparono a missioni di estrema crudeltà contro i civili.
Quella più tristemente nota è il cosiddetto massacro di My Lai che si consumò il 16 marzo
del 1968 e provocò l’uccisione indiscriminata
di almeno 340 civili, fra i quali anche anziani, donne e bambini. Il tenente William Calley
Jr., responsabile del plotone d’attacco, fu processato e condannato all’ergastolo. Dopo una
duplice riduzione di pena, il presidente Nixon
gli concesse gli arresti domiciliari.
All’inizio del 1966 Johnson aumentò le truppe a duecentomila unità, provocando accese
proteste da parte degli studenti contro la leva
obbligatoria. Due giovani si diedero fuoco davanti al Pentagono e alla sede delle Nazioni
unite. Quell’anno la guerra costò 21 miliardi
di dollari. Per farvi fronte Johnson ricorse a un
aumento delle tasse, una mossa che pagò in
termini di consenso: il 46 per cento degli statunitensi considerava ora la guerra un “errore”.
Il 31 gennaio del 1968, approfittando di
una tregua concessa durante il Tet, il capodanno lunare, le forze nordvietnamite e vietcong attaccarono contemporaneamente, e con
estrema ferocia, oltre cento centri abitati in
tutto il Vietnam del Sud. Hué fu occupata dai
vietcong per venticinque giorni e devastata. Il
colpo più indigesto per l’establishment statunitense fu l’attacco all’ambasciata americana di
Saigon da parte di quarantamila vietcong, nel
corso del quale persero la vita quattro soldati
statunitensi. La lotta per la riconquista della
capitale fu spietata. In quella circostanza il
generale Nguyen Ngoc Loan, capo della
Il dramma dei fratelli Nguyen non è purtroppo un
caso isolato. I numeri sono impressionanti. Secondo
le stime diffuse dalla Croce rossa vietnamita sono
quattro milioni le persone che dal termine del conflitto subiscono gli effetti dell’agent orange. Cinquecentomila sono i casi più gravi che vengono curati
in centri specializzati come il Tu Du Hospital di Ho
Chi Minh City, una struttura moderna costruita agli
inizi degli anni Novanta.
Nel Peace Village, il reparto specializzato nella cura
delle vittime della diossina, operano tre medici e ventiquattro infermiere specializzate.
Il 90 per cento dei bambini affetti vengono abbandonati alla nascita dalle famiglie e passano tutta la vita
nell’ospedale. Per i casi più gravi non c’è speranza di
miglioramento e sono condannati a una lunga degenza.
Per gli altri si tenta un recupero che permetta loro di
vivere una vita quasi normale e di svolgere un lavoro.
Miss Truong Thi Ten, una delle infermiere specializzate con maggior esperienza, ci guida alla visita
del reparto iniziando da una sorta di dark room dove
vengono conservati in flaconi di formalina i feti nati
morti o deceduti subito dopo la nascita a causa delle
gravi malformazioni.
Abbiamo davanti agli occhi una terribile galleria degli
orrori che mostra la gravità del problema, ciò che il
mondo non dovrebbe o non vorrebbe mai sapere: una
strage silenziosa che continua dagli anni Settanta e che
miete ogni anno migliaia di vittime innocenti che non
hanno nulla a che fare con la guerra combattuta dai
loro padri o dai nonni più di quaranta anni fa.
Girando tra le corsie s’incontrano bambini di ogni
età. Vengono dalle aree del delta del Mekong, dalla
provincia di Kontum e dalle altre province ai confini
con Laos e Cambogia.
Recenti prelievi effettuati sulla popolazione delle
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polizia nazionale vietnamita, uccise a sangue
freddo, con una pistolettata in testa un prigioniero che i suoi uomini avevano portato al suo
cospetto. La scena immortalata dal fotografo
della Associated Press, Eddie Adams, e ripresa dalla telecamera dell’operatore vietnamita
della Nbc, Vo Suu, fece il giro del mondo.
Le opinioni sull’operato del presidente precipitarono. A differenza del 1963, quando otto
americani su dieci lo sostenevano, ora Johnson
aveva l’appoggio di tre americani su dieci.
Fin dall’inizio della sua amministrazione il
leader democratico optò per la politica della
“sincerità ridotta al minimo”: i reali esiti del
conflitto dovevano essere nascosti al popolo
per non creare agitazione. Con la popolarità
ai minimi storici il presidente preparò il suo
discorso più duro: «Non accetterò la candidatura del mio partito per un altro mandato come
vostro presidente». Una disfatta su tutti i fronti
di un presidente che aveva ancora schierati
nel Sudest asiatico cinquecentocinquantamila
soldati. Intanto la diplomazia statunitense era
riuscita a dare avvio alla prima conferenza di
pace a Parigi, che si aprì ufficialmente il 10
maggio 1968. Gli Stati Uniti volevano il ritiro
totale delle truppe comuniste dal Sud, mentre
Hanoi voleva un nuovo governo a Saigon in
cui fossero presenti anche i vietcong. Il 5 novembre 1968, Richard Nixon viene eletto
presidente. Dopo l’insediamento cercò subito
l’approccio diplomatico con Urss e Cina anche se, dall’altra parte, non disdegnò l’uso di
sistemi più eccentrici come la famosa “teoria
del pazzo” che consisteva nel far credere ai
nordvietnamiti, allo scopo di intimorirli, di essere pronto anche ad azioni estreme pur di
vincere la guerra. Per sbloccare una situazione ormai in stallo da mesi il presidente ideò
con il consigliere per la Sicurezza nazionale,
Henry Kissinger, un piano di attacchi sulla
Cambogia allo scopo di neutralizzare le basi
nordvietnamite. Il 17 marzo del 1969 fu avviata l’operazione Menu che sarebbe durata per
i successivi quattordici mesi. Nixon e Kissinger
la tennero coperta da una totale segretezza:
avevano attaccato un Paese neutrale. L’intrigo fu svelato a maggio dal New York Times
e gettò parecchio discredito sull’amministrazione. Nixon puntava ora sulla nuova teoria
della vietnamizzazione del conflitto. Sotto
gli auspici di una progressiva deescalation,
il 4 agosto le parti si incontrarono di nuovo
a Parigi ma Ho Chi Minh diede una risposta
negativa alle offerte di Nixon. Fu il suo ultimo
“freddo rifiuto”. Il leader comunista si spense il 2 settembre all’età di settantanove anni.
La sera del 30 aprile 1970, Nixon informò il
Paese dei bombardamenti segreti sui santuari
comunisti in Cambogia. Violente manifestazioni scoppiarono in tutti gli Stati Uniti. Alla Kent
State University dell’Ohio il governatore
James Rhodes fece intervenire la guardia nazionale che il 4 maggio del 1970, sparò sulla
zone affette, sulle vittime, sugli animali e nella falda
acquifera confermano che la concentrazione di diossina continua a essere altissima. A causa del disastro
ecologico, la contaminazione continua anche ai nostri giorni attraverso il ciclo alimentare. La diossina,
assunta attraverso il cibo o il latte materno, entra in
circolo, raggiunge gli organi bersaglio e provoca tumori o alterazioni del Dna, una catena di infinite
sofferenze dal devastante impatto sociale.
Nguyen Duc e Viet giunsero al Tu Du Hospital appena
nati, ventiquattro anni fa. I due gemelli provenivano
dal distretto di Sa Thay, provincia di Kontum, uno dei
luoghi più contaminati dal micidiale erbicida.
Uniti all’altezza della pelvi – un bacino, due gambe,
un pene – all’età di otto anni vennero operati e divisi.
Duc ebbe un destino favorevole. Grazie alle cure superò gli handicap fisici, riuscì a studiare e a inserirsi
nello staff dell’ospedale. Il fratello Viet tutt’ora vegeta
letteralmente nel letto, curato dalle infermiere e dalla
madre Lam Thi di cinquantadue anni.
Nell’aula adibita allo studio incontro una giovane
che scrive con il piede: Pham Thi Thuy Linh, ha
dodici anni ed è nata senza braccia. Scrive e lavora
al computer usando i piedi. Ha una scrittura molto
ordinata, bellissima. Se si troveranno i soldi per le
protesi il suo futuro sarà diverso.
La catastrofe ambientale e sociale è ancora evidente in
alcune aree rurali altamente inquinate dalla diossina
come la Valle di A-Luoi, a ovest di Hué, nei pressi
della frontiera con il Laos.
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folla uccidendo quattro studenti. L’episodio infiammò il Paese: studenti e insegnanti scioperarono e oltre centomila manifestanti marciarono
su Washington. Anche l’élite culturale dimostrò
in modi diversi il suo disprezzo nei confronti di
Nixon. Lo scrittore Arthur Miller, invitato alla
Casa Bianca, declinò con un telegramma in cui
scrisse: “Quando i fucili sparano, le arti muoiono”. Meno per il sottile ci andò Grace Slick,
cantante dei Jefferson Airplane che, durante un
ricevimento al palazzo presidenziale, tentò di
sciogliere, senza riuscirci, 600 microgrammi
di Lsd nel tè del presidente: «Un Nixon sotto
acido avrebbe sicuramente preso decisioni più
intelligenti», disse l’artista.
Nixon sapeva di dover velocizzare le intese
per la firma di un accordo. Kissinger incontrò
per la prima volta Le Duc Tho a Parigi il 21
gennaio 1970 senza Thieu che venne sempre
tagliato fuori dai meeting. Mentre era impegnato ad appoggiare le forze sudvietnamite che
tentavano di distruggere il sentiero di Ho Chi
Minh in Laos, Nixon fu colpito dallo scandalo.
A partire dal 13 giugno 1971 il New York
Times iniziò a pubblicare i Pentagon Papers,
documenti segreti che svelavano la vera faccia della guerra. Il presidente ordinò indagini,
illecite, su Daniel Ellsberg, funzionario della
Difesa sospettato di aver passato le carte al
quotidiano. Gli “idraulici”, la squadra investigativa di Nixon, ampliarono le indagini fino a
raggiungere il comitato nazionale del partito
democratico nel complesso edilizio del Watergate. Nell’ottobre del 1972 Nixon, preoccupato per l’esito delle future elezioni, decise
di accettare la proposta di Le Duc Tho: sarebbe
stato firmato un cessate il fuoco, che prevedeva
il ritiro delle truppe americane, lo scambio dei
prigionieri e altre questioni militari. I problemi
del Vietnam li avrebbero risolti i vietnamiti. Kissinger doveva convincere Thieu ad accettare
l’accordo, ma il generale si lasciò prendere
dal panico. Nixon era ancora dell’idea di non
voltargli le spalle e, forte della rielezione di
novembre, dispose l’operazione Linebacker 2,
tremila incursioni aeree in undici giorni, con
quarantamila tonnellate di bombe sganciate:
1.623 civili morti fra Hanoi e Haipong. Quello
fu l’ultimo, insensato, attacco. Il 27 gennaio
del 1973 Nixon firmò gli accordi di pace che
non erano variati di una sola virgola rispetto a
ottobre. Si sarebbe ritirato dopo la liberazione
dei quattrocento prigionieri ancora in mano ai
vietcong. Dopo il disimpegno statunitense, le
forze comuniste iniziarono la campagna di Ho
Chi Minh, che si chiuse con la presa di Saigon
il 30 aprile 1975. In quelle ore, gli statunitensi lasciarono per sempre il Sudest asiatico
a bordo degli ultimi elicotteri in partenza dalla
capitale. La polvere che ricadde a terra dopo
il loro passaggio, coprì i corpi di cinquantottomila soldati statunitensi e oltre tre milioni di
vittime vietnamite.
Antonio Marafioti
L’agent orange è l’erbicida che gli Stati Uniti impiegarono
tra il 1961 e il 1971 per portare avanti la campagna Ranch Hand:
un programma di irrorazione delle foreste del Vietnam condotta
dagli aerei C-123 Provider e dagli elicotteri UH-1 Iroquois.
Veniva chiamato così perché sui barili da 55 galloni dentro i quali
veniva trasportato – neri e senza alcuna scritta che ne rivelasse
il contenuto – era presente una striscia arancione di 7 centimetri
di spessore. Il suo uso in Vietnam aveva l’obiettivo di defoliare
i luoghi di combattimento per privare i vietcong della copertura
naturale dei boschi e delle foreste. L’uso dell’erbicida ha causato
pesanti danni fisici alla popolazione vietnamita e agli stessi
soldati statunitensi. L’agent orange è, infatti, una miscela
di due componenti chimici: l’acido diclorofenossiacetico
e il triclorofenossiacetico. Nella produzione dell’agent orange viene
usata anche la diossina. È quest’ultimo elemento che rende
il prodotto altamente dannoso per l’uomo. Diversi studi condotti
dal 1970 fino a oggi hanno dimostrato che l’esposizione all’erbicida
può provocare gravi disturbi. Il Dipartimento Usa per gli Affari
dei veterani li ha riassunti nell’elenco delle malattie che si presume
siano relative all’esposizione all’agent orange/diossina.
Tra le patologie ci sono la cloracne, il linfoma non-Hodgkin,
il sarcoma dei tessuti molli, i tumori alle vie respiratorie, il cancro
alla prostata, il diabete di tipo 2 e la leucemia linfatica cronica.
Oltre ai danni diretti, i ricercatori hanno rilevato la possibilità
di spina bifida sui figli dei maschi contagiati. Per i figli delle donne
esposte si aggiunge il rischio di contrarre altre diciotto malattie.
Tra il 1961 e il 1971 i velivoli statunitensi irrorarono il 10 per cento
della superficie del Vietnam del Sud con circa 75 milioni di litri
di 15 tipi di erbicidi differenti. L’agent orange fu il più usato:
45 milioni di litri furono spruzzati su 3.181 villaggi. Diversi studi
scientifici dimostrano che furono esposti all’erbicida dai 2 milioni
100mila ai 4 milioni 800mila cittadini vietnamiti.
Per saperne di più: www.vn-agentorange.com, www.vava.org
Queste immagini
Venti scatti documentano le terribili conseguenze sulla popolazione
civile del defoliante alla diossina nebulizzato dall’aviazione Usa
lungo il Sentiero di Ho Chi Minh durante il conflitto con il Vietnam.
Le conseguenze della guerra chimica di ieri per pensare criticamente
ai danni irreparabili causati all’uomo e alla natura dalle guerre
attuali. Le immagini sono disponibili in pannelli per esposizioni.
Per richiederle: contatti@liviosenigalliesi.com
Qui la vita degli abitanti – gruppi minoritari di etnia
Pa Co – è molto difficile. Un grande cartello all’entrata
del villaggio di Dong Son ricorda il pericolo di contaminazione: vietato coltivare e bere l’acqua dei pozzi.
«È proibito portare anche gli animali al pascolo. Viviamo del solo contributo dello Stato», dice Quynh Bay,
un ex combattente. «Questa è una zona maledetta, non
c’è futuro. Dai tempi della guerra la terra è malata e
ogni famiglia ha almeno un bambino disabile». Sua
figlia, la piccola Ho Thi Nga, di sette anni, non parla,
non sente, si regge a mala pena sulle gambe.
A Bien Hoa, centinaia di chilometri più a sud, stessa
situazione, stessa sofferenza.
Da qui partivano gli aerei statunitensi impegnati nell’operazione Ranch Hand. Tutta l’area è tuttora pesantemente contaminata. Così pure il vicino Lago di Dong
Nai dove gli aerei scaricavano i residui di erbicidi rimasti nei serbatoi al termine di ogni missione. Ed i risultati li si può constatare visitando il locale Centro per i
bambini vittime della diossina. Su una popolazione di
cinquecentomila abitanti ci sono mille vittime di gravi
malformazioni e lesioni cerebrali irreversibili.
Il costo umano, sociale ed economico è altissimo. Per
le famiglie, dove i figli sono visti come forza-lavoro,
dover mantenere tre o quattro bimbi gravemente malati e non autosufficienti è insostenibile. A questo
segue il dramma dell’abbandono delle stesse vittime
e l’emarginazione sociale.
Il Vietnam è un Paese in forte espansione economica.
Guarda al mercato internazionale e al futuro, ma deve
fare i conti con questa pesante eredità.
Di fronte all’ampiezza del disastro, la questione di fondo
resta quella delle responsabilità. Una svolta si è avuta
65
La guerra infinita
Dieci anni di diossina
Per le vittime dell’agent orange il governo degli Stati Uniti
non ha mai previsto indennizzi. Il primo febbraio del 1973, durante
i negoziati di pace con il governo di Hanoi, il presidente americano,
Richard Nixon, scrisse una lettera segreta al primo ministro
nordvietnamita Pham Van Dong promettendo tre miliardi 250
milioni di dollari ripartiti in cinque anni per la ricostruzione del Paese
e l’assistenza alla popolazione. Washington non versò mai
quella cifra. Gli unici fondi usciti dalle casse dello Stato sono stati
quelli previsti dal bilancio federale nel 2007 e nel 2009: in entrambi
i casi il Congresso ha approvato una spesa di tre milioni di dollari
per le operazioni di bonifica e assistenza sanitaria, per la sola area
di Danang. Neanche un dollaro, invece, è stato stanziato dagli Usa
per risarcire le vittime, dirette e indirette, della contaminazione.
Il governo vietnamita ha invece avviato un programma di assistenza
per i contagiati. Un comitato formato da rappresentanti
del ministero della Salute e da quelli del Lavoro, degli Invalidi
di guerra e degli Affari Sociali valuta periodicamente l’ammissibilità
di alcuni soggetti a un programma di indennizzo da 300mila dong
vietnamiti (20 dollari) al mese. La spesa annuale di questo piano
varia dai 500 milioni al miliardo e 200 milioni di dollari.
Da esso sono esclusi gli ex combattenti dell’esercito di Saigon.
Nel 2004 la Vietnam Association for Victims of Agent Orange/
Dioxine (Vava) guidò una class action legale contro la Dow Chemical,
una delle aziende produttrici dell’erbicida.
Il 10 marzo del 2005 il Tribunale di New York rigettò la domanda
sostenendo, tra l’altro, che l’uso degli erbicidi non costituiva
una violazione al diritto internazionale perché non veniva impiegato
come un veleno contro le persone. Anche il ricorso in appello
e quello alla Corte Suprema ebbero esito negativo. Negli Stati Uniti,
invece, era andata meglio a un gruppo di veterani che vent’anni
prima, nel 1984, avevano citato in giudizio le aziende produttrici
che si accordarono poi per un pagamento extragiudiziale
di 180 milioni di dollari. È l’unico risarcimento che i veterani abbiano
ottenuto. Il 6 febbraio 1991, il Congresso aveva approvato l’Agent
Orange Act, una legislazione che ha posto le basi dell’assistenza
sanitaria ai reduci da parte del dipartimento degli Affari
dei veterani. Una relazione del 2009 stilata per i membri
del Congresso ha appurato che sono le Ong, le associazioni private
e le fondazioni, i maggiori finanziatori di progetti rivolti
alle vittime dell’agent orange in Vietnam. Il maggior contribuente
in tal senso è la Ford Foundation che, tra fondi propri e raccolti
da altre associazioni, ha devoluto alla causa 18 milioni 600mila
dollari tra il 2008 e il 2009. Il 25 luglio scorso Bob Filner, deputato
democratico della California, ha presentato il Victims of Agent
Orange Act, un disegno di legge che punta al riconoscimento
dell’assistenza sanitaria a tutte le vittime del contagio. La proposta
prevede che “il termine ‘vittime’ comprenda qualsiasi persona
che sia un cittadino vietnamita, vietnamita-americano,
o veterano degli Stati Uniti, che è stato esposto all’agent orange,
o i discendenti di questa persona, e chi ha una malattia
o una disabilità associata a tale esposizione”.
con la creazione ad Hanoi, il 10 gennaio 2004, della
Vietnam Association for Victims of Agent Orange/Dioxine. Non appena creata, l’associazione delle vittime ha
presentato alla Corte di giustizia del distretto di New
York una querela contro le trentasei imprese che hanno
fabbricato il composto chimico per l’esercito americano.
Tra le società, le più note sono Monsanto e Dow Chemical. Le motivazioni giuridiche sono molte: violazioni delle leggi internazionali, crimini di guerra, fabbricazione di prodotti pericolosi, danni sia involontari sia
intenzionali, arricchimento abusivo. I querelanti richiedono danni e interessi per le lesioni personali subite, i
morti, le nascite di bambini malformati e anche per la
necessaria decontaminazione dell’ambiente.
Per ora il ricorso, esaminato unicamente dal punto di
vista dell’ammissibilità, è stato rigettato dal tribunale
statunitense. I querelanti hanno subito presentato ricorso in appello, perché il loro obiettivo è non solo
ottenere riparazione per le sofferenze subite, ma anche
vedere la comunità internazionale, e in particolare gli
Stati Uniti, riparare a una scandalosa dimenticanza della storia “ufficiale”. Ancora oggi, pochissimi fra i turisti
che si recano al Museo della guerra americana di Ho
Chi Minh City sanno che quei due feti deformi sotto
formalina, nella teca circondata dalle foto in bianco e
nero di Larry Burrows, non fanno parte di un passato
da archiviare con i suoi orrori, ma del presente.
h
67
La guerra infinita
Quei crimini mai ammessi
Dai tubi del suo elicottero spruzzava l’erbicida senza sapere cosa fosse. Al ritorno
dalla guerra un cancro, l’indifferenza, nessun indennizzo. Un veterano racconta
Quali ripercussioni psicologiche
ha avuto su di lei la guerra?
«Oltre al cancro, mi è stata diagnosticata una violenta
forma di Post-traumatic Stress Disorder (Ptsd – Disturbo
post-traumatico da stress). Avevo sempre fortissime
emicranie e in passato ho avuto problemi di stress
mentale, di gestione della rabbia e mi sentivo sempre
sotto pressione».
a terapie per gli attacchi di panico e a un trattamento
intensivo per i miei polmoni. Nel 1987 ho imparato
la meditazione buddista in Birmania e Thailandia.
Una scelta che mi ha portato a vivere come un monaco
e a riprendere in mano la mia vita. Oggi riesco
a respirare meglio e a fare i miei esercizi spirituali».
di
Antonio Marafioti
Ralph Steele ha conosciuto l’orrore della guerra in
Vietnam a diciannove anni. Infanzia e adolescenza
a Pawley’s Island, South Carolina, nel 1968 è stato
˜ Tàu, qualche
arruolato nell’esercito e spedito a Vung
chilometro a nord di Long Thanh, dove ha prestato
servizio nel campo aereo di Bearcat. Per un anno
ha lavorato sugli elicotteri che irroravano di agent
orange le foreste del Vietnam del Sud.
Questo gli ha provocato infermità fisiche e mentali
che è riuscito a superare solo in parte.
Oggi, a sessantun’anni, insegna meditazione Theravada.
Che tipo di problemi le ha provocato il contatto
con l’agent orange?
«Al mio ritorno dal Vietnam mi è stata diagnosticata
una neoplasia che, fortunatamente, si è rivelata
benigna. Ho avuto anche problemi ai polmoni
e bronchiti molto violente. Ma tutto questo
nel mio dossier medico di fine servizio è stato fatto
ricadere sotto la voce ‘disabilità’. Qui negli Stati
Uniti difficilmente vengono diagnosticate malattie
correlate all’esposizione all’agent orange. Nel mio caso
avrebbero dovuto scriverlo perché io con quella merda
ho avuto a che fare ogni giorno per un anno intero
della mia vita: durante la guerra ero stato assegnato
al servizio di volo sugli elicotteri. Nei primi sei mesi
ero addetto alla riparazione delle apparecchiature
di navigazione. Poi ho iniziato a volare come artigliere.
Una delle mie missioni era spruzzare l’agent orange
sulla vegetazione».
Dopo si è ammalato?
«Ho iniziato ad avere problemi ai polmoni, non
riuscivo più a respirare. In ospedale mi hanno detto
che era solo asma. Ho accettato la diagnosi, ma
quattro anni fa ho rischiato di morire per un blocco
respiratorio. Sono stato ricoverato all’unità di terapia
d’emergenza dove mi hanno salvato, ma dove hanno
ignorato il problema. Così ho fatto tutto da solo. Sono
stato per un mese in India: lì mi hanno sottoposto
La sua dipendenza dall’eroina era collegata al Ptsd?
«Sì. I miei problemi con l’eroina sono cominciati in
Vietnam, in realtà. Al fronte molti miei compagni
facevano uso di droga e iniziai anche io. Al mio
ritorno a casa ero giovane e stressato, la droga era
la mia cura. Dovevo calmare i nervi e l’eroina mi
aiutava quotidianamente a non impazzire e a evitare
di uccidere qualcuno. È stato un processo molto intenso:
vivere negli Stati Uniti una volta tornato dal Vietnam
non era una cosa facile. Essere un soldato, e in più
di colore, a quel tempo significava non essere accettati.
Oggi la gente accoglie a braccia aperte le persone che
tornano dalle nuove guerre. Quando tornavamo noi
le braccia erano conserte. Dal momento in cui partivi,
venivi considerato parte di quella guerra.
Al ritorno ero disperato e troppo piccolo per affogare
i miei dolori nell’alcol. Sono rientrato in patria
a vent’anni e qui l’età minima per bere è ventun’anni.
Ero abbastanza maturo per andare in guerra, ma non
abbastanza per entrare in un bar e farmi un drink.
C’erano tante tensioni ed erano tutte diverse
l’una dall’altra. Per superarle ho iniziato a drogarmi».
Il governo ha mai riconosciuto la sua malattia?
«Ragioni politiche non permettono di diagnosticare
le malattie legate all’agent orange. C’è un reparto
speciale in ogni ospedale al quale ci si può
rivolgere per sapere se si è affetti dai sintomi legati
all’esposizione. Io ci sono stato, era un labirinto
burocratico. Prima mi hanno fatto compilare tanti
moduli e poi mi hanno affidato a un avvocato che
ha cercato di capire se avessero potuto accettarmi
come un veterano colpito dall’agent orange.
In altre parole i signori della guerra hanno l’ultima
parola in merito. Puoi essere a un passo dalla morte,
avere tumori di diversa natura ma, allo stesso tempo,
nessuna possibilità che ti venga riscontrato
un problema collegato al contatto con l’erbicida».
Lei, quindi, non ha mai ricevuto alcun indennizzo
per le sue infermità.
«Non per quelle provocate dal contatto con l’agent
orange. Nei primi anni Settanta ci volevano liquidare
con una somma così piccola che ho deciso di non
accettarla, per far sì che andasse a quei veterani
con problemi ancora più gravi dei miei. Ho cercato
di farcela da solo perché il governo non ha ancora
fatto nulla per me. Ultimamente ho letto che
il dipartimento per gli Affari dei veterani potrebbe
iniziare a curare e a risarcire chi è stato colpito
dall’agent orange, ma finora non è accaduto».
Molti hanno denunciato un forte razzismo nei confronti
dei soldati di colore in Vietnam. Lei lo ha subito?
«Assolutamente sì. Nonostante la mia fosse un’unità
piccola – quindi meno esposta alle differenze
di razza – fra bianchi e neri non correva buon sangue.
Noi non piacevamo a loro e loro non ci piacevano,
ma indossavamo la stessa uniforme e quando
la tensione cresceva lavoravamo insieme perché
nessuno voleva morire. Eravamo un corpo speciale
composto da statunitensi e australiani e ognuno di noi
vedeva nell’altro solo un soldato. Alcune volte però
si verificavano episodi molto crudi come quello
di un soldato del Mississippi che credeva che i neri
avessero la coda e ogni volta che ne vedeva uno uscire
dalla doccia scoppiava in un pianto a dirotto.
Non avevo mai visto niente del genere in vita mia».
Lo scorso luglio un deputato della California, Bob Filner,
ha presentato un disegno di legge che prevede
una copertura sanitaria e sussidi per tutte le vittime
dell’agent orange, compresi i civili vietnamiti.
Pensa che verrà approvato dal Congresso?
«È molto difficile. In realtà un senatore repubblicano
dell’Oklahoma si è già messo di traverso al progetto
per bloccarlo. Secondo me il governo continua
a proteggere tutte quelle industrie che hanno prodotto
il disserbante per la guerra in Vietnam: a partire
da Dow Chemical e Monsanto».
Voi soldati eravate messi al corrente di cosa fosse
la sostanza che spargevate dagli elicotteri?
«Assolutamente no. Ci mettevano sugli UH-1
(nella foto in alto, ndr) e ci dicevano di spruzzare
questo liquido dai tubi. Nessuno ci ha mai detto
cosa fosse quella sostanza, né che fosse chimica,
tanto meno come proteggerci. Abbiamo preso atto
Come è stato tornare a casa?
«Sono tornato quasi un anno dopo il congedo
dall’esercito. Il razzismo era radicato in tutto il Paese.
L’unica mia protezione erano i miei diritti.
autore sconosciuto
69
Ne ero consapevole e sono riuscito a proteggermi.
Molti altri ragazzi però non ne sono stati capaci.
Laggiù, in quell’inferno, il comandante non sosteneva
i suoi soldati, anzi li spingeva a superare quella
linea che divide la ragione dalla pazzia. Finché non
perdevano il controllo e, con esso, tutto il resto.
Quando non era la guerra, era quell’ufficiale che
ci tormentava. Non so come quell’uomo riuscisse
a tornare a casa dalla moglie e dormire sonni tranquilli.
Era così arrabbiato e malvagio. Alcuni, dopo, hanno
perso le mogli e i figli perché tornati dal fronte erano
psicologicamente a pezzi. Ecco perché sono uscito
dall’esercito nel dicembre del 1970. Per cercare
di mantenere una stabilità ed evitare di impazzire».
Si è mai chiesto per cosa stesse combattendo?
«Sicuramente stavo combattendo per il mio Paese.
Quando sei un ragazzo di diciannove anni, nel Paese
di qualcun altro e guardi la bandiera del tuo di Paese,
pensi che sia l’unica cosa alla quale riesci a essere
legato. Non hai nient’altro a cui fare riferimento.
Guardare quella bandiera tiene alta la tua motivazione
e l’amore profondo per la tua nazione. Poi, quando
torni, trovi altre persone che cercano di umiliarti
in tutti i modi, a volte solo per il colore della tua pelle».
Qual è il suo peggior ricordo della guerra?
«Aver perso tanti amici in una piccola guerra che non
ho mai capito cosa fosse veramente».
Durante il suo primo anno di guerra, il 1968, si è
consumato il massacro di My Lai. Almeno 347 innocenti
sono stati uccisi da uomini dell’esercito statunitense.
Che cosa ha pensato quando l’ha saputo?
«In guerra capitano tanti episodi del genere. Come
veterano credo di riuscire a capire e sostenere l’ufficiale
che diede quel comando. Perché so che può aver
vissuto dei momenti molto duri e non importa che
abbia commesso una leggerezza. Era un soldato.
Non si possono capire veramente situazioni come
quelle senza averle vissute in prima persona.
Ognuno può pensare ciò che vuole, ma chi non è
stato un soldato in guerra non sa cosa essa sia.
Ci sono molte azioni durante le quali gente innocente
viene uccisa. E questo è vergognoso. Vengono
commessi tanti errori e se scorri le pagine dei libri
di storia ne vedrai tante. I militari di oggi, paragonati
a quelli del Vietnam, sono addestrati a uccidere esseri
umani in modo molto più preciso di quanto
lo fossimo noi. Sono diventati delle macchine
di morte implacabili. Noi eravamo addestrati per
colpire al corpo, oggi si addestra per sparare in faccia».
Pensa ancora a quei momenti o li ha rimossi?
«Vanno e vengono, ma non sono più intensi come
lo erano durante quel periodo. Sono diventate come
nuvole nel cielo».
Mi descrive la guerra in poche parole?
«Un errore orribile e una vacca da mungere.
In quegli anni nel nostro Paese poche persone hanno
fatto un sacco di soldi».
c
La guerra infinita
Il soldato ignaro
di ciò che facevamo solo dopo alcuni mesi, quando
vedevamo che foreste immense e tutta la vegetazione
che avevamo infestato mesi prima erano andate
completamente distrutte. È un ricordo molto triste».
Un diabete da cui non è guarito, un figlio disabile precocemente scomparso e i ricordi
che non se ne vanno. Dopo il Vietnam Dan Shea è diventato un artista e un militante
di Veterans for Peace
di
Antonio Marafioti
L’uomo nella foto qui sopra si chiama Dan Shea,
è stato in Vietnam meno di tre mesi, da agosto
a ottobre del 1968. Artigliere dei Marines, è stato
spedito a diciannove anni nel Sudest asiatico
dall’accademia di reclutamento di Portland, Oregon.
Il resto del suo servizio lo ha prestato nella base
di Subic Bay, Filippine, dove era incaricato di sorvegliare
i bunker delle armi dell’esercito. Venne trasferito lì dopo
che, nel corso di una missione Search and Destroy,
aveva contratto la jungle rot, un’ulcera tropicale che lo
colpì ai piedi impedendogli di camminare. Contagiato
dall’agent orange, ha perso amici, un figlio e la fiducia
nel suo Paese. Oggi è un artista e membro del direttivo
dell’associazione Veterans for Peace.
Che cosa ha causato sulla sua salute l’agent orange?
È stato risarcito?
«Mi sono ammalato di diabete di tipo 2 e il dipartimento
per gli Affari dei veterani mi ha riconosciuto
il 10 per cento di invalidità causata dall’erbicida
e il 40 per cento per il Post-traumatic Stress Disorder
(Ptsd – Disturbo Post-traumatico da Stress)».
Qualcuno dei suoi parenti ha avuto problemi
legati all’agent orange?
«Il 16 dicembre 1977 è come se la guerra mi avesse
raggiunto ancora, a casa mia. Mio figlio Casey è nato
con vari difetti di nascita: palatoschisi, una malattia
cardiaca congenita, addome a prugna e, subito dopo
il parto, ha avuto un attacco cardiaco che ha richiesto
un ricovero d’emergenza. Sapevamo tutti che questi
problemi erano legati all’agent orange, ma ovunque
ci rivolgessimo continuavano a negarlo e ancora
lo fanno. Casey ha subìto un intervento chirurgico,
riuscitissimo, per la palatoschisi, ma sapevamo che
avrebbe dovuto affrontare ancora l’operazione più
importante, quella al cuore. Mio figlio era affetto
dalla tetralogia di Fallot, nota anche come “sindrome
del bambino blu”. Il suo cuore non riusciva più
Quali effetti ha avuto il Ptsd su di lei?
«Mi creda, la maggior parte degli effetti sto ancora
cercando di scoprirli con l’aiuto del mio psicologo.
Ho sofferto di rabbia e depressione. Determinate
circostanze possono rendere il mio Ptsd ancora
peggiore: a volte è una canzone, altre volte la notizia
di un soldato statunitense ucciso al fronte
o i rapporti sulla morte di civili innocenti,
di bambini, in Afghanistan e Iraq. Per anni
mi sono rifiutato di parlare della guerra, volevo solo
riprendermi la mia vita. Se mi guardo indietro, però,
posso vedere tutti i segni del Ptsd. Basta ripensare
a quei giorni: quando sono stato mandato nelle
Filippine, un mio amico, il sergente Frank Garcia,
è stato rispedito in Vietnam ed è stato ucciso, a pochi
giorni dal congedo. Quasi contemporaneamente
ricevetti una lettera in cui mi si avvisava che mio
fratello Michael, che aveva preso il mio posto
a Danang, era stato ferito e rimpatriato in camicia
di forza. Iniziai a bere più del solito. Mi volevano
rispedire al fronte ma mi sono rifiutato, dopo
mi hanno obbligato a imbarcarmi su una nave dove
ho avuto uno scontro verbale con il mio nuovo
comandante. Non me ne fregava più un cazzo
e continuavo a non fare nulla di ciò che mi veniva
detto. Sono stato fortunato a uscire dai Marines
con quelle che loro chiamano ‘onorevoli condizioni’».
a ossigenare i globuli rossi e le sue gambe erano
colpite da spasmi sempre più dolorosi che non
gli permettevano neanche di giocare con la sorella.
È rimasto sotto i ferri per dieci ore, durante
l’operazione il suo cervello ha avuto un blocco
di ossigenazione e mio figlio, che allora aveva quattro
anni, è andato in coma per sette lunghe settimane.
Siamo stati accanto al suo letto ogni giorno, per
leggergli le storie. Abbiamo sperato in un miracolo,
ma il 25 febbraio 1981 gli hanno staccato
il respiratore e lo hanno messo fra le braccia di mia
moglie che poi lo ha dato a me. L’ho stretto al mio
petto, il suo piccolo corpo era così freddo. Ha fatto
un respiro profondo, era il suo ultimo respiro.
È morto fra le mie braccia. I periodi successivi
della mia vita sono stati un incubo, ogni giorno
pensavo al suicidio, ero vicino alla follia. L’amore
di mia moglie e di mia figlia Harmony mi ha salvato».
È sicuro che le condizioni cliniche di suo figlio
fossero legate all’agent orange?
«Anche se il dipartimento per gli Affari dei veterani
non accetta che le patologie come quelle di Casey
siano provocate dall’erbicida, ci sono molte storie
di reduci che hanno avuto figli nati con problemi
gravissimi e che sono morti. C’è un libro che
racconta diversi episodi: Waiting for an Army to Die:
The Tragedy of Agent Orange, di Fred A. Wilcox».
Una volta congedato come ha vissuto?
«Agli inizi del mio matrimonio ero sempre ubriaco,
scoppiavo a urlare contro mia moglie e le lanciavo
oggetti. Mi sentivo semplicemente perso e tramortito;
avevo visto la guerra ma a casa, con la mia famiglia
e gli amici, sembrava che nulla fosse cambiato.
Non riuscivo a dormire. Mi svegliavo sempre
e controllavo l’appartamento, le porte, le finestre.
Sognavo di morire perché ricevevo tante chiamate
dal fronte, pensavo di essere stato ferito. I miei sogni
erano l’inferno. Quando Casey e Harmony sono
entrati nella mia vita, sono diventato un uomo
e un marito migliore. La mia esistenza era solo
per i miei figli. Poi Casey è morto e la guerra
è tornata a tormentarmi e non se n’è mai più andata».
Lo scorso luglio un deputato della California,
Bob Filner, ha presentato un disegno di legge
che prevede una copertura sanitaria e sussidi
per tutte le vittime dell’agent orange, compresi i civili
vietnamiti. Pensa che verrà approvato dal Congresso?
«C’è sempre speranza finché teniamo alta
la pressione sui governanti, anche se non ho grande
stima di loro. Si tratta di vedere se il nostro governo
punterà a far passare la legge, come una buona
mossa di pubbliche relazioni, per far sbiadire
dalla coscienza dell’America la vera tragica storia
della guerra in Vietnam. Non ci fermeremo finché
non riconosceranno le vittime e le risarciranno.
I miei colleghi hanno lavorato tanto nella
preparazione di questo progetto e hanno grandi
speranze, ma ci vorranno ancora molti sforzi».
Era al corrente che il vostro esercito usasse
sostanze dannose per l’uomo?
«Vedevo la pila di barilotti nel campo base, ma non
sapevo che contenessero un prodotto chimico.
Sono sicuro che i nostri comandanti a Washington
conoscessero la verità, ma i soldati sapevano solo
che ciò che spruzzavano serviva a distruggere
l’erbaccia. La maggior parte, se non tutti, non
In che senso?
«Nel 1991 George Bush senior ha cominciato
a bombardare l’Iraq di Saddam Hussein e qualcosa
dentro di me si è rotto. Si sono attivati ricordi,
emozioni, timori, rabbia e depressione. Le notti erano
più insonni perché ricominciavo a sognare la guerra,
il Vietnam e il Medio Oriente. Pensavo a un’altra
generazione di vittime, finché non ho incontrato
Veteran for Peace, e ho trovato gente che capiva
che cosa stessi passando. Non mi sentivo più solo,
Von Anh Khanh
71
La guerra infinita
Ho perso l’innocenza
avrebbe neanche immaginato quanto tossica fosse
la diossina per gli esseri umani e per gli animali,
né avrebbe potuto intuire gli effetti futuri su se stessi,
sui propri bambini e sull’ecosistema del Vietnam».
Quando i reduci tornavano a casa erano spesso ignorati
e addirittura odiati dalla gente. Molti, riferendosi
ai vostri mali, vi gridavano: «Ve la siete cercata».
Ricorda momenti del genere?
«Personalmente non ricordo alcuna animosità.
Al mio ritorno ho incontrato i pacifisti che mi hanno
chiesto di partecipare alle discussioni sulla guerra.
Erano sempre rispettosi e ascoltavano attentamente
tutto ciò che avevo da dire. Solo dopo la prima
guerra del Golfo ho saputo di conflitti tra veterani
e dimostranti che li apostrofavano come “killer
di bambini”. Soltanto quando ho cominciato
a criticare la guerra sono stato attaccato dalla destra,
alcuni di loro erano veterani ma la maggior parte
erano ideologi ignoranti che mi davano del traditore
solo perché parlavo di pace. Non avrei mai potuto
prendere sul serio quegli idioti».
La domanda più comune che si sono fatti i veterani
del Vietnam è: «Per cosa abbiamo combattuto?».
Se l’è fatta anche lei?
«Io mi ero già fatto un’idea: per me eravamo andati
laggiù, per i politici, uomini anziani desiderosi
di sbandierare il loro machismo e alimentare i profitti
di un’economia di guerra. L’ho imparato in Vietnam
dai miei commilitoni che continuavano a dirmi
di dimenticare tutto: una guerra per il Paese, mamma
e papà, la torta di mele e la bandiera americana.
“Fuck that shit!”, dicevano. “Spariamo, ci sparano, stiamo
semplicemente provando a sopravvivere e proteggerci
l’un l’altro, hai afferrato? Lo stesso vale per i vietnamiti”.
Mi dicevano che quel Paese era dei vietnamiti e che
loro lo stavano difendendo e che, per questo motivo,
dai corridoi del potere ci avevano mandato in guerra.
“Fuck’em all”. Fuck era parte del vocabolario di tutti,
la prima e l’ultima parola di ogni frase».
C’è un ricordo della guerra che proprio non riesce
a dimenticare?
«Cambiano continuamente. I ricordi della guerra
sono nascosti dietro molti strati: escono negli incubi
e svaniscono alla luce del giorno. Non so se sia
peggiore il ricordo del sibilo della pallottola
di un cecchino che mi è passata tanto vicino
da bruciare la lanugine sul mio collo, o l’urlo
del ragazzo della squadra seguente che poi se
l’è beccata in pieno collo. Ero choccato mentre
tagliavamo gli alberi nella giungla per permettere
al medevac, il nostro elicottero, di portarlo via con
un ponte aereo. Non ho mai saputo il suo nome,
né se fosse morto. Che dire, poi, del colpo
di mortaio che è esploso a pochi metri dai miei piedi,
o quando durante una missione Search and Destroy
in un villaggio ho sentito esplosioni di mine e urla
di uomini scatenarsi l’una dopo l’altra? Non sono
le cose che ricordo che mi spaventano, sono le cose
che non ricordo».
La guerra infinita
non ero pazzo, quello stress era una reazione normale
alla guerra, una cosa che accade ai soldati che hanno
combattuto e conosciuto il tradimento, che hanno visto
i loro compagni uccisi da un altro essere umano, o un
altro essere umano ucciso da un proprio compagno».
Ha ucciso qualcuno?
«Ecco appunto, questo non lo ricordo. E mi
terrorizza».
Ricorda qualcosa del massacro di My Lai.
Che cosa ha pensato quando ha appreso la verità?
«Ho sentito parlare di My Lai molto dopo la fine
del conflitto. Ricordo che piansi e mi chiesi come
qualcuno potesse commettere un simile crimine.
Però non avevo ancora perso tutta la mia speranza
nell’umanità: qualcuno lì si era rifiutato di uccidere
uomini, donne e bambini innocenti. Come Hugh
Thompson Jr., il pilota dell’elicottero che aveva deciso
di risparmiare i civili. È una vergogna che soltanto
William Calley sia stato condannato, mentre i ranghi
superiori del Pentagono e della Casa Bianca che hanno
dato gli ordini, sono sfuggiti alla giustizia».
Dopo l’esperienza al fronte un soldato si fa un’idea
degli uomini al potere. Vorrei conoscere la sua:
John Fitzgerald Kennedy
«Cattolico».
Lindon B. Johnson
«Codardo».
Richard Nixon
«Bugiardo».
Ho Chi Minh
«Liberatore».
William Westmoreland
«Pazzo».
Chi sono i veterani?
«Una famiglia».
Che cosa pensa di aver perso in guerra?
«Ho perso mio fratello Michael, il mio amico Frank
Garcia, ho perso mio figlio Casey, ho perso la mia
innocenza e la fede nel mio Paese. In una certa misura
ho perso me stesso, non sono la stessa persona, non
posso godere della vita come se niente fosse accaduto
e stia ancora accadendo. Non mi sono mai sentito
liberato dalla guerra perché non l’abbiamo fermata
e la cultura della violenza continua a pervadere
le nostre vite. È come se avessimo perso la nostra
democrazia (ammesso che l’abbiamo mai realmente
avuta) per un gruppo di criminali».
Pensa ancora al Vietnam?
«Ogni giorno. Ancora faccio difficoltà a dormire
e anche se penso di essere riuscito a domare la mia
rabbia, temo sempre che qualcosa dentro di me possa
rompersi e riportare a galla tutto quell’inferno».
La guerra in tre parole?
«Morte, distruzione e pazzia».
e
Doan Cong Tinh
Tutti i Vietnam di domani
La Bosnia, Falluja, Gaza. Uranio impoverito, fosforo bianco, bombe Dime. I teatri di
guerra, le armi “nuove”, i loro effetti a lungo termine: «È tutto sotto i nostri occhi»,
dice Massimo Zucchetti, docente al Politecnico di Torino
Non è la prima, non sarà l’ultima. La scia di morte, di
malattie incurabili e malformazioni infantili lasciata in
eredità dall’agent orange alla popolazione del Vietnam,
non è la sola testimonianza degli effetti dell’uso delle
“armi sporche” in un conflitto. La ricerca non si è mai
fermata, anzi, ha ottenuto ingenti fondi da parte di
molti governi interessati a sviluppare armamenti che
presentano due caratteristiche “vantaggiose”: massimizzano la forza distruttrice e riducono il rischio di perdite
dei propri soldati, sempre problematiche rispetto all’opinione pubblica. I nuovi Vietnam sono sotto i nostri
occhi. Secondo Massimo Zucchetti, ordinario di Impianti nucleari al Politecnico di Torino, del Comitato
scienziate e scienziati contro la guerra, «l’inizio di tutto
è stata la guerra in Iraq del 1991. Gli Stati Uniti impiegarono l’uranio impoverito, che riscosse un enorme
successo: i carri armati iracheni venivano distrutti con
praticamente zero perdite da parte dell’esercito Usa». I
proiettili all’uranio sfondano le corazze e incendiano il
73
di
Alberto Tundo
Duong Thanh Phong
bersaglio, ma hanno come “effetto collaterale” la contaminazione del territorio con polveri radioattive. Che
probabilmente sono state sparse anche in Somalia, durante la missione Restore Hope, primi anni Novanta, in
Bosnia nel 1995 e in Kosovo nel 1999. Le conseguenze
in ogni teatro sono state identiche.
«In Bosnia e Kosovo, però – precisa lo studioso – i tumori e le malformazioni registrate sono state provocate
dal bombardamento di impianti chimici e raffinerie
e dal conseguente spargimento sul terreno delle sostanze cancerogene conservate all’interno». Le evidenze epidemiologiche e statistiche e gli studi scientifici
testimoniano che, in Iraq, i principali danni, diretti
e indiretti, sono stati causati dall’uranio impoverito.
Per Zucchetti, «il crollo della sanità, dell’alimentazione, delle condizioni di vita hanno riportato il Paese
all’Ottocento e quindi è chiaro che la popolazione si
ammali e muoia più facilmente. L’uranio però lascia
delle “impronte digitali”, cioè causa tipi di linfomi,
leucemie e malformazioni riconoscibili. I dati parlano
di patologie due, tre, quattro, cinque volte superiori
rispetto alla media». Non solo: l’uranio impoverito è
un agente mutageno, che cioè modifica il Dna delle
persone esposte alle sue radiazioni. «Ci si ammala direttamente se gli agenti mutageni modificano il Dna
delle cellule somatiche e allora si sviluppano tumori
particolari come quello di Hodgkin e non Hodgkin.
Se invece modificano quello delle cellule che usiamo
per riprodurci, allora nasceranno bambini malformati».
Tragedie simili sono comuni in un’altra città irachena,
diventata suo malgrado il nuovo simbolo degli “effetti
collaterali” della modernità bellica: Falluja. Il fosforo
bianco non è considerato un’arma chimica, perché so-
litamente viene usato in campo aperto come tracciante
ma lo diventa se è impiegato come arma d’offesa. «Le
vittime si riconoscono per le terribili ustioni che riportano pur avendo i vestiti ancora integri, perché ha
la capacità di essere aggressivo verso i tessuti molli»,
sintetizza Zucchetti. Il fosforo esplode in una nuvola
e non lascia scampo a chiunque si trovi nel raggio di
un centinaio di metri: può sciogliere un corpo fino
alle ossa. Recentemente, si è scoperto essere anche mutageno, al pari dell’uranio impoverito. È stato usato
dall’esercito Usa in Iraq, da quello russo in Cecenia,
ma anche dagli israeliani durante l’operazione Piombo
Fuso lanciata nella Striscia di Gaza nel dicembre 2008.
Tra Cisgiordania, Gaza e il Libano, l’esercito israeliano
ha testato un altro tipo di arma sviluppata dai centri di
ricerca degli Stati Uniti, la bomba Dime (Dense Inert
Metal Explosive). Questi ordigni hanno una specie di
guscio esterno fatto di polvere di tungsteno che con la
detonazione si polverizza, formando una nuvola densa
che va a contenere l’esplosione. «Proprio per questo
effetto contenimento è stata presentata come un’arma
“umanitaria”, perché dovrebbe limitare i danni inferti
alla popolazione civile. Peccato che queste bombe vengano lanciate in maniera casuale e abbiano una forza
dirompente, causando il distacco degli arti e ferite davvero poco umanitarie». Ma soprattutto lasciano polveri
di tungsteno che entrano nei tessuti e si depositano
sulle piante e sul terreno. È stato detto che, a differenza
dell’uranio impoverito, non sono radioattive. È vero:
sono cancerogene.
O
L’altro
Vietnam
La guerra immortalata
dall’altro lato del fronte.
Gli scatti in queste pagine,
i cui diritti sono stati concessi
da Vietnam News Agency,
svelano il punto di vista
dei fotografi nordvietnamiti
nelle zone di conflitto. Foto
che documentano gli sforzi,
i sacrifici e l’ostinazione
dell’esercito di Hanoi contro
l’avversario statunitense
dal delta del Mekong fino
alle zone più tortuose
del Sentiero di Ho Chi Minh.
Le immagini sono raccolte
nel volume fotografico L’altro
Vietnam, edito in Italia
da National Geographic,
Edizioni White Star.