La guerra infinita - Livio Senigalliesi Fotoreporter
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La guerra infinita - Livio Senigalliesi Fotoreporter
La guerra infinita Vietnam La guerra infinita Doan Cong Tinh La guerra infinita Van Sac Senza fine, dappertutto Avviso: le foto che partono dalla prossima pagina possono colpire i lettori più sensibili. È una formula di rito. Secondo noi colpiranno anche i lettori più insensibili, perché raccontano la storia di una guerra che non ha fine. La raccontano con le immagini di bambini nati deformi, cerebrolesi, senza occhi, senza braccia. Nati da pochi anni in Vietnam, vittime di guerra pure loro, a distanza di decenni dall’illusoria fine del conflitto. L’agent orange, un cocktail a base di diossina, sparso su fiumi e risaie – si cominciò nel 1961, fanno cinquant’anni esatti – non solo cancellò il verde delle foreste che proteggevano i vietcong, ma continua a inceppare i meccanismi del Dna e a spezzare vite umane. In un modo automatico e perverso l’ecocidio ha portato al genocidio. Era stata, quella in Vietnam, l’ultima guerra senza l’informazione embedded. La più documentata da giornalisti e fotografi. Mentre è il silenzio ad accompagnare le sofferenze dei bambini e delle loro famiglie. Abbiamo deciso di rompere quel silenzio. La realtà è questa. Orrenda, ma è questa. Tanto vale guardarla in faccia, nelle facce. Al diavolo il proverbio dell’occhio non vede cuore non duole. Vogliamo che l’occhio veda e che il cuore dolga. L’agent orange ha colpito anche chi lo spargeva, come leggerete nelle testimonianze che abbiamo raccolto da due ex militari Usa. E si studiano armi sempre più sofisticate: le mine fatte per essere raccolte dai bambini (i “pappagalli verdi” di Gino Strada), le bombe cosiddette intelligenti, le armi al fosforo, vietate ma usate lo stesso, in spregio a ogni convenzione. Armi che non uccidono, armi pensate per portare via un pezzo di corpo umano. Chi muore è seppellito, chi sopravvive e non è autosufficiente è un costo sociale. Tutte le guerre sono ignobili. Quelle lampo, quelle religiose, quelle preventive, quelle umanitarie. Sapete come la pensiamo, a E. E quelle che non finiscono mai e di cui non si parla mai? Ditelo voi, se siete arrivati in fondo a un inferno in bianco e nero. Non abbiamo censurato le foto (e so già che saremo criticati per questo) perché l’orrore non si maschera e perché sia sempre più difficile dire: io non lo sapevo. g.m. Gli anni del Vietnam «Mettiamoci d’accordo sul diciassettesimo». Vjaceslav Molotov, vecchio leone bolscevico e ministro degli Affari esteri sovietico, era uno che di patti scellerati se ne intendeva parecchio. Fu lui nel 1939 a sottoscrivere un accordo di non aggressione con la controparte nazista Joachim von Ribbentrop. Nel 1954 durante la conferenza di Ginevra di pacificazione tra i vietminh, i vincitori, e la Francia, gli sconfitti, si propose come mediatore dell’intesa che poneva fine alla colonizzazione francese in atto dal 1883. Dopo 74 giorni di lavori senza esito, la Repubblica popolare cinese si fece avanti con il suo diplomatico più raffinato, Chu En-lai. Ministro degli Esteri formatosi a Parigi, Chu, ideò con il rappresentante francese, Pierre Mendès France, una soluzione “onorevole” volta a evitare ogni possibile influenza statunitense nel Sudest asiatico. Mendès aveva di fronte Pham Van Dong, capo delegazione del Vietminh. Dopo aver concordato di dividere il Paese in due zone, le parti tentarono di tirare, come una coperta, il confine che avrebbe separato il Nord dal Sud. Dong, forte di una vittoria schiacciante, voleva che il confine fosse fissato al tredicesimo parallelo, il che avrebbe assicurato ai comunisti il controllo di due terzi del Paese. I presenti lo convinsero ad ac- cettare il sedicesimo. Ma non era ancora sufficiente per la Francia che voleva una demarcazione lungo il diciottesimo. Molotov propose allora il diciassettesimo. Ciò che avvenne in Vietnam dopo quella divisione è una storia scritta, letta, riletta e fatta di bugie, giochi di potere, di corruzione, di morte e di distruzione. Gli Stati Uniti penetrarono di fatto nel Sudest asiatico già durante gli anni Cinquanta quando la temperatura politica dentro e fuori il Paese era segnata dalle teorie del senatore Joseph McCarthy e dalla sua caccia ai comunisti. Il presidente democratico Harry Truman cominciò ad aiutare con enormi forniture militari le forze militari francesi nella guerra contro Ho Chi Minh e il suo generale Vo Nguyen Giap. L’azione era ispirata dalla “teoria del domino”, secondo la quale se l’Indocina fosse caduta in mano ai comunisti, anche gli altri Paesi del Sudest asiatico avrebbero fatto la stessa fine. L’amministrazione repubblicana di Dwight Eisenhower continuò a evitare un attacco diretto contro il Vietnam, fuori da un’azione concertata con gli alleati. Nel 1960 alla Casa Bianca s’insediò il giovane presidente democratico John Fitzgerald Kennedy, specialista di politica estera e persuaso dall’idea che la Nuova frontiera, da lui ideata, do- Arancio indelebile testo e foto di Livio Senigalliesi [buenavista] 30 aprile 1975: le truppe nordvietnamite entrano a Saigon. Finisce così la guerra del Vietnam. Ma non per tutti. Sono quattro milioni le persone che subiscono gli effetti dell’agent orange, il defoliante alla diossina che l’aeronautica Usa riversò lungo il confine con il Laos e la Cambogia. Ancora oggi loro, i loro figli, come i reduci, devono convivere con gravi patologie. E chiedono giustizia di Erri De Luca foto Nicolas Henry 55 La guerra infinita vesse passare dal contenimento del comunismo in Sudamerica e nel Sudest asiatico. Kennedy guardava con apprensione alla formazione del Fronte nazionale di Liberazione del Vietnam del Sud, che venne soprannominato Vietcong, “comunista vietnamita”. I vietcong sposarono con tutte le forze quella causa di liberazione che i loro padri avevano portato avanti combattendo, e vincendo, per i quindici anni precedenti non solo contro la Francia, ma anche contro il Giappone che aveva occupato l’Indocina durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1960 i vietcong iniziarono a mobilitare la popolazione contadina contro lo strapotere di Ngo Dinh Diem, uomo fantoccio degli Stati Uniti che, insieme al fratello Ngo Dinh Nhu, varò riforme ultrapuritane e di stampo cattolico che provocarono diverse reazioni nelle frange più progressiste della popolazione e che avevano come bersaglio i buddisti, a partire dai monaci. La mattina dell’11 giugno uno di loro, Quang Duc, 66 anni, si diede fuoco in pieno centro a Saigon. Gli Stati Uniti si convinsero allora a rovesciare il governo vietnamita, attraverso un piano che vide coinvolti l’ambasciatore Usa a Saigon, Henry Cabot Lodge, i generali di Diem ribelli e l’agente della Cia, Lucien Conein. Il primo novembre i generali deposero e uccisero i fratelli Diem dopo che questi si erano arresi. Tre settimane dopo, il presidente Kennedy fu assassinato mentre sfilava lungo le strade di Dallas a bordo della sua Lincoln. Era il 22 novembre 1963. Lindon B. Johnson, a differenza del suo predecessore, non era avvezzo agli affari di politica estera. Il suo sogno era quello di continuare il New Deal di Franklin Delano Roosevelt con la sua Great Society: un piano di riforme per la giustizia sociale e l’uguaglianza economica e razziale. In Vietnam Johnson confermò l’appoggio di Washington al nuovo governo golpista, sperando di poter così chiudere la guerra in breve tempo. Sul fronte opposto Ho Chi Minh cercò, nel 1963, l’aiuto della Cina di Mao Tze Dong e dell’Unione sovietica di Nikita Kruscev che però non voleva uno scontro più ampio che potesse compromettere il disgelo con gli Stati Uniti. Preso atto della posizione sovietica, i nordvietnamiti si spostarono sull’asse cinese. La Repubblica popolare inviò armi e rifornimenti ai nordvietnamiti attraverso il Sentiero di Ho Chi Minh, una strada che passava attraverso il Laos meridionale e la Cambogia nordorientale. Questa ramificazione di percorsi nella giungla fu il vero punto debole degli Stati Uniti che fin dal 1961 cercarono di distruggerla con le incursioni chimiche delle operazioni Ranch Hand. All’inizio del 1964 il generale sudvietnamita Nguyen Khan rovesciò la giunta militare responsabile della caduta di Diem. Gli Usa in quel periodo versavano al Vietnam due milioni di dollari al giorno. Nel 1964 si iniziò a parlare di americanizzazione della guerra. Nguyen Van Lahn giace da ventidue anni su una stuoia in una stanza buia come una caverna e dalla sua bocca spalancata escono urla che lacerano il silenzio. Gli hanno legato le mani con uno straccio per evitare che si graffi e la madre Le Thi Mit lo accarezza cercando in ogni modo di calmarlo. Siamo nel folto della giungla, nel villaggio di Cam Nghia, provincia di Quang Tri, appena a sud della Zona demilitarizzata che durante la guerra divideva il Vietnam del Nord da quello del Sud. Ci si arriva percorrendo una strada di terra rossa che si arrampica tra le colline coperte da una vegetazione lussureggiante. Abbandonato il fuoristrada si prosegue a piedi. Il sole e la natura circostante rendono la passeggiata gradevole, ma giunti alla meta la situazione diventa di colpo angosciante. Nguyen Van Lahn ha un fratello più piccolo, Van Truong di sedici anni, che striscia verso la soglia della baracca e guarda atterrito gli estranei che hanno invaso la sua solitudine domestica. Porta sempre una mano sugli occhi, come se non volesse vedere e continua a rivoltarsi su se stesso senza trovare pace. La guerra del Vietnam si è conclusa nel 1975 ma i fratelli Nguyen, nati dopo la fine del conflitto, ne sono ancora vittime. La malattia mentale da cui sono afflitti e le deformità fisiche sono conseguenza dell’agent orange, l’erbicida dall’alto contenuto di diossina che gli aerei statunitensi hanno nebulizzato tra il 1961 e il 1971 sul delta del Mekong e nella zona degli Altopiani centrali ai confini con il Laos. 57 La guerra infinita I controversi episodi che si verificarono nel Golfo del Tonchino, durante l’estate di quell’anno, diedero a Johnson l’opportunità di penetrare in forze in Indocina. Il 3 agosto i cacciatorpedinieri statunitensi Maddox e C. Turner Joy stavano perlustrando il Golfo del Tonchino quando entrarono in un banco di nebbia che mandò in tilt i loro strumenti di bordo. Credendo di essere attaccati da imbarcazioni nemiche, iniziarono a sparare siluri. Il Maddox non aveva fatto alcun “effettivo avvistamento” scrisse nel suo rapporto il comandante del cacciatorpediniere, William Herrik. Johnson, però, aveva già ordinato sessantaquattro incursioni contro le basi di pattugliamento marino del Vietnam del Nord. Successivamente il presidente tentò di ottenere l’appoggio unanime del Congresso, ma Wayne Morse, senatore dell’Oregon, ed Ernest Gruening, senatore dell’Alaska, si rifiutarono di appoggiare la risoluzione del Tonchino che, in pratica, concedeva a Johnson il potere di fare la guerra. Dopo la sua rielezione, il 3 novembre 1964, e dopo una serie di attacchi dei vietcong, Johnson diede avvio alle operazioni Flaming Dart e Rolling Thunder: un centinaio di aeroplani bombardarono un deposito di munizioni nordvietnamita. I raid, che sarebbero dovuti durare otto settimane, si prolungarono fino al novembre del 1968. I B-52 devastarono il Nord del Paese con un milione di tonnellate di esplosivo: il triplo rispetto a quelle sganciate in Asia, Africa ed Europa durante il secondo conflitto mondiale. La mattina dell’8 marzo 1965, tremila e cinquecento marines sbarcarono a Danang, con lo scopo di sorvegliare la più grande base aerea statunitense in Vietnam. Questo primo aumento di truppe, insieme a tutto il piano degli Usa, non fu rivelato pubblicamente. Era una delle tante bugie che Johnson propinò al popolo americano durante il conflitto. A giugno inviò altri quarantamila soldati e chiese uno stanziamento di 700 milioni di dollari per la guerra. L’11 maggio il regime di Khan fu ribaltato da Nguyen Van Ky e Nguyen Van Thieu. William Westmoreland, comandante delle forze di combattimento americane in Vietnam, chiese a Washington altre centomilamila unità come “rimedio temporaneo” agli attacchi. Il 28 luglio, dopo un lungo giro di consultazioni con le più alte personalità della politica statunitense il presidente comunicò alla nazione: «Ho chiesto al comandante, generale Westmoreland, che cosa gli servisse per far fronte a questa crescente aggressione. Me lo ha detto. E noi soddisfaremo le sue necessità. Non possiamo essere sconfitti con la forza delle armi. Rimarremo in Vietnam». Era l’inizio dell’escalation. La tattica di Westmoreland era divisa in tre fasi: proteggere le basi aeree e logistiche americane vicino a Saigon, dare avvio a operazioni di Search and Destroy per schiacciare il nemico e, infine, rastrellare gli ultimi comunisti Quarantacinque milioni di litri di una miscela altamente tossica furono usati per defoliare le foreste lungo il Sentiero di Ho Chi Minh, rifugio dei Vietcong. Lo scopo dell’operazione Ranch Hand era quello di distruggere la coltre verde della foresta con i diserbanti, individuare il nemico e colpirlo dall’alto con bombe sganciate dai B-52. Le Thi Mit, madre dei fratelli Nguyen, ha cinquantotto anni e un volto distrutto da una vita fatta di dolore e povertà. Ricorda i tempi della guerra: «Gli aerei passa- vano più volte spargendo una nuvola giallastra dall’odore acre. Ci sentivamo soffocare. Gli occhi lacrimavano. Dopo alcuni giorni le foglie degli alberi iniziavano a cadere. Nessuno ci aveva avvisato della pericolosità della sostanza e per anni abbiamo continuato a bere l’acqua dei pozzi e a mangiare i prodotti della terra. Si trattava di sopravvivere». Alla fine della guerra i coniugi Nguyen ebbero un figlio, Van Phu. Morì all’età di quattro anni a causa delle malformazioni. Poi arrivarono i suoi fratelli, anche loro malati. Stessi sintomi. La loro mente è distrutta. Non parlano, non sentono. Non possono stare né seduti né in piedi. Non chiedono mai nulla, nemmeno da mangiare. Dice Le Thi Mit: «Viviamo di un piccolo sussidio mensile del governo. Mio marito Van Loc lavora nei campi e così riusciamo a mangiare. I ragazzi li imbocco, uno dopo l’altro. Così da più di vent’anni. Ma questa non è vita. Vi ringrazio di essere venuti. È necessario che tutto il mondo sappia». 59 La guerra infinita rimasti, per vincere la guerra. La missione Usa in Vietnam si dotò di tutti i vantaggi possibili, a partire dalle costruzioni logistiche fino alle armi dei soldati che venivano consegnate in lotti da un milione di tonnellate al mese. Le armi più criticate furono le bombe a grappolo, quelle al fosforo e quelle al napalm. Queste ultime bruciavano vivi coloro che ne venivano esposti. L’immagine di Kim Puch – oggi ambasciatrice per la pace dell’Unesco – che, ancora bambina, correva nuda per le strade del suo villaggio bombardato nel 1972 con il corpo devastato dal napalm, è una delle più emblematiche della guerra. Nel maggio del 1966, il dittatore Ky attuò una dura repressione dei buddisti in tutto il Paese: dieci tra monaci e monache si immolarono per la causa. Johnson si dimostrò meno tollerante e obbligò Ky a indire elezioni e a promulgare una Costituzione. Thieu diventò presidente e Ky, in virtù di un accordo segreto, fu nominato suo vice. Anche i comunisti ebbero problemi, dissidi sulle tattiche da adottare in combattimento con l’alleato cinese. I nordvietnamiti spingevano per la grande soluzione, Mao consigliava loro di continuare con la guerriglia. Con il progredire della guerra, molti soldati statunitensi cominciarono a manifestare un sentimento di ripulsa nei confronti dell’impegno militare in Indocina. Alcuni di loro parteciparono a missioni di estrema crudeltà contro i civili. Quella più tristemente nota è il cosiddetto massacro di My Lai che si consumò il 16 marzo del 1968 e provocò l’uccisione indiscriminata di almeno 340 civili, fra i quali anche anziani, donne e bambini. Il tenente William Calley Jr., responsabile del plotone d’attacco, fu processato e condannato all’ergastolo. Dopo una duplice riduzione di pena, il presidente Nixon gli concesse gli arresti domiciliari. All’inizio del 1966 Johnson aumentò le truppe a duecentomila unità, provocando accese proteste da parte degli studenti contro la leva obbligatoria. Due giovani si diedero fuoco davanti al Pentagono e alla sede delle Nazioni unite. Quell’anno la guerra costò 21 miliardi di dollari. Per farvi fronte Johnson ricorse a un aumento delle tasse, una mossa che pagò in termini di consenso: il 46 per cento degli statunitensi considerava ora la guerra un “errore”. Il 31 gennaio del 1968, approfittando di una tregua concessa durante il Tet, il capodanno lunare, le forze nordvietnamite e vietcong attaccarono contemporaneamente, e con estrema ferocia, oltre cento centri abitati in tutto il Vietnam del Sud. Hué fu occupata dai vietcong per venticinque giorni e devastata. Il colpo più indigesto per l’establishment statunitense fu l’attacco all’ambasciata americana di Saigon da parte di quarantamila vietcong, nel corso del quale persero la vita quattro soldati statunitensi. La lotta per la riconquista della capitale fu spietata. In quella circostanza il generale Nguyen Ngoc Loan, capo della Il dramma dei fratelli Nguyen non è purtroppo un caso isolato. I numeri sono impressionanti. Secondo le stime diffuse dalla Croce rossa vietnamita sono quattro milioni le persone che dal termine del conflitto subiscono gli effetti dell’agent orange. Cinquecentomila sono i casi più gravi che vengono curati in centri specializzati come il Tu Du Hospital di Ho Chi Minh City, una struttura moderna costruita agli inizi degli anni Novanta. Nel Peace Village, il reparto specializzato nella cura delle vittime della diossina, operano tre medici e ventiquattro infermiere specializzate. Il 90 per cento dei bambini affetti vengono abbandonati alla nascita dalle famiglie e passano tutta la vita nell’ospedale. Per i casi più gravi non c’è speranza di miglioramento e sono condannati a una lunga degenza. Per gli altri si tenta un recupero che permetta loro di vivere una vita quasi normale e di svolgere un lavoro. Miss Truong Thi Ten, una delle infermiere specializzate con maggior esperienza, ci guida alla visita del reparto iniziando da una sorta di dark room dove vengono conservati in flaconi di formalina i feti nati morti o deceduti subito dopo la nascita a causa delle gravi malformazioni. Abbiamo davanti agli occhi una terribile galleria degli orrori che mostra la gravità del problema, ciò che il mondo non dovrebbe o non vorrebbe mai sapere: una strage silenziosa che continua dagli anni Settanta e che miete ogni anno migliaia di vittime innocenti che non hanno nulla a che fare con la guerra combattuta dai loro padri o dai nonni più di quaranta anni fa. Girando tra le corsie s’incontrano bambini di ogni età. Vengono dalle aree del delta del Mekong, dalla provincia di Kontum e dalle altre province ai confini con Laos e Cambogia. Recenti prelievi effettuati sulla popolazione delle 61 La guerra infinita polizia nazionale vietnamita, uccise a sangue freddo, con una pistolettata in testa un prigioniero che i suoi uomini avevano portato al suo cospetto. La scena immortalata dal fotografo della Associated Press, Eddie Adams, e ripresa dalla telecamera dell’operatore vietnamita della Nbc, Vo Suu, fece il giro del mondo. Le opinioni sull’operato del presidente precipitarono. A differenza del 1963, quando otto americani su dieci lo sostenevano, ora Johnson aveva l’appoggio di tre americani su dieci. Fin dall’inizio della sua amministrazione il leader democratico optò per la politica della “sincerità ridotta al minimo”: i reali esiti del conflitto dovevano essere nascosti al popolo per non creare agitazione. Con la popolarità ai minimi storici il presidente preparò il suo discorso più duro: «Non accetterò la candidatura del mio partito per un altro mandato come vostro presidente». Una disfatta su tutti i fronti di un presidente che aveva ancora schierati nel Sudest asiatico cinquecentocinquantamila soldati. Intanto la diplomazia statunitense era riuscita a dare avvio alla prima conferenza di pace a Parigi, che si aprì ufficialmente il 10 maggio 1968. Gli Stati Uniti volevano il ritiro totale delle truppe comuniste dal Sud, mentre Hanoi voleva un nuovo governo a Saigon in cui fossero presenti anche i vietcong. Il 5 novembre 1968, Richard Nixon viene eletto presidente. Dopo l’insediamento cercò subito l’approccio diplomatico con Urss e Cina anche se, dall’altra parte, non disdegnò l’uso di sistemi più eccentrici come la famosa “teoria del pazzo” che consisteva nel far credere ai nordvietnamiti, allo scopo di intimorirli, di essere pronto anche ad azioni estreme pur di vincere la guerra. Per sbloccare una situazione ormai in stallo da mesi il presidente ideò con il consigliere per la Sicurezza nazionale, Henry Kissinger, un piano di attacchi sulla Cambogia allo scopo di neutralizzare le basi nordvietnamite. Il 17 marzo del 1969 fu avviata l’operazione Menu che sarebbe durata per i successivi quattordici mesi. Nixon e Kissinger la tennero coperta da una totale segretezza: avevano attaccato un Paese neutrale. L’intrigo fu svelato a maggio dal New York Times e gettò parecchio discredito sull’amministrazione. Nixon puntava ora sulla nuova teoria della vietnamizzazione del conflitto. Sotto gli auspici di una progressiva deescalation, il 4 agosto le parti si incontrarono di nuovo a Parigi ma Ho Chi Minh diede una risposta negativa alle offerte di Nixon. Fu il suo ultimo “freddo rifiuto”. Il leader comunista si spense il 2 settembre all’età di settantanove anni. La sera del 30 aprile 1970, Nixon informò il Paese dei bombardamenti segreti sui santuari comunisti in Cambogia. Violente manifestazioni scoppiarono in tutti gli Stati Uniti. Alla Kent State University dell’Ohio il governatore James Rhodes fece intervenire la guardia nazionale che il 4 maggio del 1970, sparò sulla zone affette, sulle vittime, sugli animali e nella falda acquifera confermano che la concentrazione di diossina continua a essere altissima. A causa del disastro ecologico, la contaminazione continua anche ai nostri giorni attraverso il ciclo alimentare. La diossina, assunta attraverso il cibo o il latte materno, entra in circolo, raggiunge gli organi bersaglio e provoca tumori o alterazioni del Dna, una catena di infinite sofferenze dal devastante impatto sociale. Nguyen Duc e Viet giunsero al Tu Du Hospital appena nati, ventiquattro anni fa. I due gemelli provenivano dal distretto di Sa Thay, provincia di Kontum, uno dei luoghi più contaminati dal micidiale erbicida. Uniti all’altezza della pelvi – un bacino, due gambe, un pene – all’età di otto anni vennero operati e divisi. Duc ebbe un destino favorevole. Grazie alle cure superò gli handicap fisici, riuscì a studiare e a inserirsi nello staff dell’ospedale. Il fratello Viet tutt’ora vegeta letteralmente nel letto, curato dalle infermiere e dalla madre Lam Thi di cinquantadue anni. Nell’aula adibita allo studio incontro una giovane che scrive con il piede: Pham Thi Thuy Linh, ha dodici anni ed è nata senza braccia. Scrive e lavora al computer usando i piedi. Ha una scrittura molto ordinata, bellissima. Se si troveranno i soldi per le protesi il suo futuro sarà diverso. La catastrofe ambientale e sociale è ancora evidente in alcune aree rurali altamente inquinate dalla diossina come la Valle di A-Luoi, a ovest di Hué, nei pressi della frontiera con il Laos. 63 La guerra infinita folla uccidendo quattro studenti. L’episodio infiammò il Paese: studenti e insegnanti scioperarono e oltre centomila manifestanti marciarono su Washington. Anche l’élite culturale dimostrò in modi diversi il suo disprezzo nei confronti di Nixon. Lo scrittore Arthur Miller, invitato alla Casa Bianca, declinò con un telegramma in cui scrisse: “Quando i fucili sparano, le arti muoiono”. Meno per il sottile ci andò Grace Slick, cantante dei Jefferson Airplane che, durante un ricevimento al palazzo presidenziale, tentò di sciogliere, senza riuscirci, 600 microgrammi di Lsd nel tè del presidente: «Un Nixon sotto acido avrebbe sicuramente preso decisioni più intelligenti», disse l’artista. Nixon sapeva di dover velocizzare le intese per la firma di un accordo. Kissinger incontrò per la prima volta Le Duc Tho a Parigi il 21 gennaio 1970 senza Thieu che venne sempre tagliato fuori dai meeting. Mentre era impegnato ad appoggiare le forze sudvietnamite che tentavano di distruggere il sentiero di Ho Chi Minh in Laos, Nixon fu colpito dallo scandalo. A partire dal 13 giugno 1971 il New York Times iniziò a pubblicare i Pentagon Papers, documenti segreti che svelavano la vera faccia della guerra. Il presidente ordinò indagini, illecite, su Daniel Ellsberg, funzionario della Difesa sospettato di aver passato le carte al quotidiano. Gli “idraulici”, la squadra investigativa di Nixon, ampliarono le indagini fino a raggiungere il comitato nazionale del partito democratico nel complesso edilizio del Watergate. Nell’ottobre del 1972 Nixon, preoccupato per l’esito delle future elezioni, decise di accettare la proposta di Le Duc Tho: sarebbe stato firmato un cessate il fuoco, che prevedeva il ritiro delle truppe americane, lo scambio dei prigionieri e altre questioni militari. I problemi del Vietnam li avrebbero risolti i vietnamiti. Kissinger doveva convincere Thieu ad accettare l’accordo, ma il generale si lasciò prendere dal panico. Nixon era ancora dell’idea di non voltargli le spalle e, forte della rielezione di novembre, dispose l’operazione Linebacker 2, tremila incursioni aeree in undici giorni, con quarantamila tonnellate di bombe sganciate: 1.623 civili morti fra Hanoi e Haipong. Quello fu l’ultimo, insensato, attacco. Il 27 gennaio del 1973 Nixon firmò gli accordi di pace che non erano variati di una sola virgola rispetto a ottobre. Si sarebbe ritirato dopo la liberazione dei quattrocento prigionieri ancora in mano ai vietcong. Dopo il disimpegno statunitense, le forze comuniste iniziarono la campagna di Ho Chi Minh, che si chiuse con la presa di Saigon il 30 aprile 1975. In quelle ore, gli statunitensi lasciarono per sempre il Sudest asiatico a bordo degli ultimi elicotteri in partenza dalla capitale. La polvere che ricadde a terra dopo il loro passaggio, coprì i corpi di cinquantottomila soldati statunitensi e oltre tre milioni di vittime vietnamite. Antonio Marafioti L’agent orange è l’erbicida che gli Stati Uniti impiegarono tra il 1961 e il 1971 per portare avanti la campagna Ranch Hand: un programma di irrorazione delle foreste del Vietnam condotta dagli aerei C-123 Provider e dagli elicotteri UH-1 Iroquois. Veniva chiamato così perché sui barili da 55 galloni dentro i quali veniva trasportato – neri e senza alcuna scritta che ne rivelasse il contenuto – era presente una striscia arancione di 7 centimetri di spessore. Il suo uso in Vietnam aveva l’obiettivo di defoliare i luoghi di combattimento per privare i vietcong della copertura naturale dei boschi e delle foreste. L’uso dell’erbicida ha causato pesanti danni fisici alla popolazione vietnamita e agli stessi soldati statunitensi. L’agent orange è, infatti, una miscela di due componenti chimici: l’acido diclorofenossiacetico e il triclorofenossiacetico. Nella produzione dell’agent orange viene usata anche la diossina. È quest’ultimo elemento che rende il prodotto altamente dannoso per l’uomo. Diversi studi condotti dal 1970 fino a oggi hanno dimostrato che l’esposizione all’erbicida può provocare gravi disturbi. Il Dipartimento Usa per gli Affari dei veterani li ha riassunti nell’elenco delle malattie che si presume siano relative all’esposizione all’agent orange/diossina. Tra le patologie ci sono la cloracne, il linfoma non-Hodgkin, il sarcoma dei tessuti molli, i tumori alle vie respiratorie, il cancro alla prostata, il diabete di tipo 2 e la leucemia linfatica cronica. Oltre ai danni diretti, i ricercatori hanno rilevato la possibilità di spina bifida sui figli dei maschi contagiati. Per i figli delle donne esposte si aggiunge il rischio di contrarre altre diciotto malattie. Tra il 1961 e il 1971 i velivoli statunitensi irrorarono il 10 per cento della superficie del Vietnam del Sud con circa 75 milioni di litri di 15 tipi di erbicidi differenti. L’agent orange fu il più usato: 45 milioni di litri furono spruzzati su 3.181 villaggi. Diversi studi scientifici dimostrano che furono esposti all’erbicida dai 2 milioni 100mila ai 4 milioni 800mila cittadini vietnamiti. Per saperne di più: www.vn-agentorange.com, www.vava.org Queste immagini Venti scatti documentano le terribili conseguenze sulla popolazione civile del defoliante alla diossina nebulizzato dall’aviazione Usa lungo il Sentiero di Ho Chi Minh durante il conflitto con il Vietnam. Le conseguenze della guerra chimica di ieri per pensare criticamente ai danni irreparabili causati all’uomo e alla natura dalle guerre attuali. Le immagini sono disponibili in pannelli per esposizioni. Per richiederle: contatti@liviosenigalliesi.com Qui la vita degli abitanti – gruppi minoritari di etnia Pa Co – è molto difficile. Un grande cartello all’entrata del villaggio di Dong Son ricorda il pericolo di contaminazione: vietato coltivare e bere l’acqua dei pozzi. «È proibito portare anche gli animali al pascolo. Viviamo del solo contributo dello Stato», dice Quynh Bay, un ex combattente. «Questa è una zona maledetta, non c’è futuro. Dai tempi della guerra la terra è malata e ogni famiglia ha almeno un bambino disabile». Sua figlia, la piccola Ho Thi Nga, di sette anni, non parla, non sente, si regge a mala pena sulle gambe. A Bien Hoa, centinaia di chilometri più a sud, stessa situazione, stessa sofferenza. Da qui partivano gli aerei statunitensi impegnati nell’operazione Ranch Hand. Tutta l’area è tuttora pesantemente contaminata. Così pure il vicino Lago di Dong Nai dove gli aerei scaricavano i residui di erbicidi rimasti nei serbatoi al termine di ogni missione. Ed i risultati li si può constatare visitando il locale Centro per i bambini vittime della diossina. Su una popolazione di cinquecentomila abitanti ci sono mille vittime di gravi malformazioni e lesioni cerebrali irreversibili. Il costo umano, sociale ed economico è altissimo. Per le famiglie, dove i figli sono visti come forza-lavoro, dover mantenere tre o quattro bimbi gravemente malati e non autosufficienti è insostenibile. A questo segue il dramma dell’abbandono delle stesse vittime e l’emarginazione sociale. Il Vietnam è un Paese in forte espansione economica. Guarda al mercato internazionale e al futuro, ma deve fare i conti con questa pesante eredità. Di fronte all’ampiezza del disastro, la questione di fondo resta quella delle responsabilità. Una svolta si è avuta 65 La guerra infinita Dieci anni di diossina Per le vittime dell’agent orange il governo degli Stati Uniti non ha mai previsto indennizzi. Il primo febbraio del 1973, durante i negoziati di pace con il governo di Hanoi, il presidente americano, Richard Nixon, scrisse una lettera segreta al primo ministro nordvietnamita Pham Van Dong promettendo tre miliardi 250 milioni di dollari ripartiti in cinque anni per la ricostruzione del Paese e l’assistenza alla popolazione. Washington non versò mai quella cifra. Gli unici fondi usciti dalle casse dello Stato sono stati quelli previsti dal bilancio federale nel 2007 e nel 2009: in entrambi i casi il Congresso ha approvato una spesa di tre milioni di dollari per le operazioni di bonifica e assistenza sanitaria, per la sola area di Danang. Neanche un dollaro, invece, è stato stanziato dagli Usa per risarcire le vittime, dirette e indirette, della contaminazione. Il governo vietnamita ha invece avviato un programma di assistenza per i contagiati. Un comitato formato da rappresentanti del ministero della Salute e da quelli del Lavoro, degli Invalidi di guerra e degli Affari Sociali valuta periodicamente l’ammissibilità di alcuni soggetti a un programma di indennizzo da 300mila dong vietnamiti (20 dollari) al mese. La spesa annuale di questo piano varia dai 500 milioni al miliardo e 200 milioni di dollari. Da esso sono esclusi gli ex combattenti dell’esercito di Saigon. Nel 2004 la Vietnam Association for Victims of Agent Orange/ Dioxine (Vava) guidò una class action legale contro la Dow Chemical, una delle aziende produttrici dell’erbicida. Il 10 marzo del 2005 il Tribunale di New York rigettò la domanda sostenendo, tra l’altro, che l’uso degli erbicidi non costituiva una violazione al diritto internazionale perché non veniva impiegato come un veleno contro le persone. Anche il ricorso in appello e quello alla Corte Suprema ebbero esito negativo. Negli Stati Uniti, invece, era andata meglio a un gruppo di veterani che vent’anni prima, nel 1984, avevano citato in giudizio le aziende produttrici che si accordarono poi per un pagamento extragiudiziale di 180 milioni di dollari. È l’unico risarcimento che i veterani abbiano ottenuto. Il 6 febbraio 1991, il Congresso aveva approvato l’Agent Orange Act, una legislazione che ha posto le basi dell’assistenza sanitaria ai reduci da parte del dipartimento degli Affari dei veterani. Una relazione del 2009 stilata per i membri del Congresso ha appurato che sono le Ong, le associazioni private e le fondazioni, i maggiori finanziatori di progetti rivolti alle vittime dell’agent orange in Vietnam. Il maggior contribuente in tal senso è la Ford Foundation che, tra fondi propri e raccolti da altre associazioni, ha devoluto alla causa 18 milioni 600mila dollari tra il 2008 e il 2009. Il 25 luglio scorso Bob Filner, deputato democratico della California, ha presentato il Victims of Agent Orange Act, un disegno di legge che punta al riconoscimento dell’assistenza sanitaria a tutte le vittime del contagio. La proposta prevede che “il termine ‘vittime’ comprenda qualsiasi persona che sia un cittadino vietnamita, vietnamita-americano, o veterano degli Stati Uniti, che è stato esposto all’agent orange, o i discendenti di questa persona, e chi ha una malattia o una disabilità associata a tale esposizione”. con la creazione ad Hanoi, il 10 gennaio 2004, della Vietnam Association for Victims of Agent Orange/Dioxine. Non appena creata, l’associazione delle vittime ha presentato alla Corte di giustizia del distretto di New York una querela contro le trentasei imprese che hanno fabbricato il composto chimico per l’esercito americano. Tra le società, le più note sono Monsanto e Dow Chemical. Le motivazioni giuridiche sono molte: violazioni delle leggi internazionali, crimini di guerra, fabbricazione di prodotti pericolosi, danni sia involontari sia intenzionali, arricchimento abusivo. I querelanti richiedono danni e interessi per le lesioni personali subite, i morti, le nascite di bambini malformati e anche per la necessaria decontaminazione dell’ambiente. Per ora il ricorso, esaminato unicamente dal punto di vista dell’ammissibilità, è stato rigettato dal tribunale statunitense. I querelanti hanno subito presentato ricorso in appello, perché il loro obiettivo è non solo ottenere riparazione per le sofferenze subite, ma anche vedere la comunità internazionale, e in particolare gli Stati Uniti, riparare a una scandalosa dimenticanza della storia “ufficiale”. Ancora oggi, pochissimi fra i turisti che si recano al Museo della guerra americana di Ho Chi Minh City sanno che quei due feti deformi sotto formalina, nella teca circondata dalle foto in bianco e nero di Larry Burrows, non fanno parte di un passato da archiviare con i suoi orrori, ma del presente. h 67 La guerra infinita Quei crimini mai ammessi Dai tubi del suo elicottero spruzzava l’erbicida senza sapere cosa fosse. Al ritorno dalla guerra un cancro, l’indifferenza, nessun indennizzo. Un veterano racconta Quali ripercussioni psicologiche ha avuto su di lei la guerra? «Oltre al cancro, mi è stata diagnosticata una violenta forma di Post-traumatic Stress Disorder (Ptsd – Disturbo post-traumatico da stress). Avevo sempre fortissime emicranie e in passato ho avuto problemi di stress mentale, di gestione della rabbia e mi sentivo sempre sotto pressione». a terapie per gli attacchi di panico e a un trattamento intensivo per i miei polmoni. Nel 1987 ho imparato la meditazione buddista in Birmania e Thailandia. Una scelta che mi ha portato a vivere come un monaco e a riprendere in mano la mia vita. Oggi riesco a respirare meglio e a fare i miei esercizi spirituali». di Antonio Marafioti Ralph Steele ha conosciuto l’orrore della guerra in Vietnam a diciannove anni. Infanzia e adolescenza a Pawley’s Island, South Carolina, nel 1968 è stato ˜ Tàu, qualche arruolato nell’esercito e spedito a Vung chilometro a nord di Long Thanh, dove ha prestato servizio nel campo aereo di Bearcat. Per un anno ha lavorato sugli elicotteri che irroravano di agent orange le foreste del Vietnam del Sud. Questo gli ha provocato infermità fisiche e mentali che è riuscito a superare solo in parte. Oggi, a sessantun’anni, insegna meditazione Theravada. Che tipo di problemi le ha provocato il contatto con l’agent orange? «Al mio ritorno dal Vietnam mi è stata diagnosticata una neoplasia che, fortunatamente, si è rivelata benigna. Ho avuto anche problemi ai polmoni e bronchiti molto violente. Ma tutto questo nel mio dossier medico di fine servizio è stato fatto ricadere sotto la voce ‘disabilità’. Qui negli Stati Uniti difficilmente vengono diagnosticate malattie correlate all’esposizione all’agent orange. Nel mio caso avrebbero dovuto scriverlo perché io con quella merda ho avuto a che fare ogni giorno per un anno intero della mia vita: durante la guerra ero stato assegnato al servizio di volo sugli elicotteri. Nei primi sei mesi ero addetto alla riparazione delle apparecchiature di navigazione. Poi ho iniziato a volare come artigliere. Una delle mie missioni era spruzzare l’agent orange sulla vegetazione». Dopo si è ammalato? «Ho iniziato ad avere problemi ai polmoni, non riuscivo più a respirare. In ospedale mi hanno detto che era solo asma. Ho accettato la diagnosi, ma quattro anni fa ho rischiato di morire per un blocco respiratorio. Sono stato ricoverato all’unità di terapia d’emergenza dove mi hanno salvato, ma dove hanno ignorato il problema. Così ho fatto tutto da solo. Sono stato per un mese in India: lì mi hanno sottoposto La sua dipendenza dall’eroina era collegata al Ptsd? «Sì. I miei problemi con l’eroina sono cominciati in Vietnam, in realtà. Al fronte molti miei compagni facevano uso di droga e iniziai anche io. Al mio ritorno a casa ero giovane e stressato, la droga era la mia cura. Dovevo calmare i nervi e l’eroina mi aiutava quotidianamente a non impazzire e a evitare di uccidere qualcuno. È stato un processo molto intenso: vivere negli Stati Uniti una volta tornato dal Vietnam non era una cosa facile. Essere un soldato, e in più di colore, a quel tempo significava non essere accettati. Oggi la gente accoglie a braccia aperte le persone che tornano dalle nuove guerre. Quando tornavamo noi le braccia erano conserte. Dal momento in cui partivi, venivi considerato parte di quella guerra. Al ritorno ero disperato e troppo piccolo per affogare i miei dolori nell’alcol. Sono rientrato in patria a vent’anni e qui l’età minima per bere è ventun’anni. Ero abbastanza maturo per andare in guerra, ma non abbastanza per entrare in un bar e farmi un drink. C’erano tante tensioni ed erano tutte diverse l’una dall’altra. Per superarle ho iniziato a drogarmi». Il governo ha mai riconosciuto la sua malattia? «Ragioni politiche non permettono di diagnosticare le malattie legate all’agent orange. C’è un reparto speciale in ogni ospedale al quale ci si può rivolgere per sapere se si è affetti dai sintomi legati all’esposizione. Io ci sono stato, era un labirinto burocratico. Prima mi hanno fatto compilare tanti moduli e poi mi hanno affidato a un avvocato che ha cercato di capire se avessero potuto accettarmi come un veterano colpito dall’agent orange. In altre parole i signori della guerra hanno l’ultima parola in merito. Puoi essere a un passo dalla morte, avere tumori di diversa natura ma, allo stesso tempo, nessuna possibilità che ti venga riscontrato un problema collegato al contatto con l’erbicida». Lei, quindi, non ha mai ricevuto alcun indennizzo per le sue infermità. «Non per quelle provocate dal contatto con l’agent orange. Nei primi anni Settanta ci volevano liquidare con una somma così piccola che ho deciso di non accettarla, per far sì che andasse a quei veterani con problemi ancora più gravi dei miei. Ho cercato di farcela da solo perché il governo non ha ancora fatto nulla per me. Ultimamente ho letto che il dipartimento per gli Affari dei veterani potrebbe iniziare a curare e a risarcire chi è stato colpito dall’agent orange, ma finora non è accaduto». Molti hanno denunciato un forte razzismo nei confronti dei soldati di colore in Vietnam. Lei lo ha subito? «Assolutamente sì. Nonostante la mia fosse un’unità piccola – quindi meno esposta alle differenze di razza – fra bianchi e neri non correva buon sangue. Noi non piacevamo a loro e loro non ci piacevano, ma indossavamo la stessa uniforme e quando la tensione cresceva lavoravamo insieme perché nessuno voleva morire. Eravamo un corpo speciale composto da statunitensi e australiani e ognuno di noi vedeva nell’altro solo un soldato. Alcune volte però si verificavano episodi molto crudi come quello di un soldato del Mississippi che credeva che i neri avessero la coda e ogni volta che ne vedeva uno uscire dalla doccia scoppiava in un pianto a dirotto. Non avevo mai visto niente del genere in vita mia». Lo scorso luglio un deputato della California, Bob Filner, ha presentato un disegno di legge che prevede una copertura sanitaria e sussidi per tutte le vittime dell’agent orange, compresi i civili vietnamiti. Pensa che verrà approvato dal Congresso? «È molto difficile. In realtà un senatore repubblicano dell’Oklahoma si è già messo di traverso al progetto per bloccarlo. Secondo me il governo continua a proteggere tutte quelle industrie che hanno prodotto il disserbante per la guerra in Vietnam: a partire da Dow Chemical e Monsanto». Voi soldati eravate messi al corrente di cosa fosse la sostanza che spargevate dagli elicotteri? «Assolutamente no. Ci mettevano sugli UH-1 (nella foto in alto, ndr) e ci dicevano di spruzzare questo liquido dai tubi. Nessuno ci ha mai detto cosa fosse quella sostanza, né che fosse chimica, tanto meno come proteggerci. Abbiamo preso atto Come è stato tornare a casa? «Sono tornato quasi un anno dopo il congedo dall’esercito. Il razzismo era radicato in tutto il Paese. L’unica mia protezione erano i miei diritti. autore sconosciuto 69 Ne ero consapevole e sono riuscito a proteggermi. Molti altri ragazzi però non ne sono stati capaci. Laggiù, in quell’inferno, il comandante non sosteneva i suoi soldati, anzi li spingeva a superare quella linea che divide la ragione dalla pazzia. Finché non perdevano il controllo e, con esso, tutto il resto. Quando non era la guerra, era quell’ufficiale che ci tormentava. Non so come quell’uomo riuscisse a tornare a casa dalla moglie e dormire sonni tranquilli. Era così arrabbiato e malvagio. Alcuni, dopo, hanno perso le mogli e i figli perché tornati dal fronte erano psicologicamente a pezzi. Ecco perché sono uscito dall’esercito nel dicembre del 1970. Per cercare di mantenere una stabilità ed evitare di impazzire». Si è mai chiesto per cosa stesse combattendo? «Sicuramente stavo combattendo per il mio Paese. Quando sei un ragazzo di diciannove anni, nel Paese di qualcun altro e guardi la bandiera del tuo di Paese, pensi che sia l’unica cosa alla quale riesci a essere legato. Non hai nient’altro a cui fare riferimento. Guardare quella bandiera tiene alta la tua motivazione e l’amore profondo per la tua nazione. Poi, quando torni, trovi altre persone che cercano di umiliarti in tutti i modi, a volte solo per il colore della tua pelle». Qual è il suo peggior ricordo della guerra? «Aver perso tanti amici in una piccola guerra che non ho mai capito cosa fosse veramente». Durante il suo primo anno di guerra, il 1968, si è consumato il massacro di My Lai. Almeno 347 innocenti sono stati uccisi da uomini dell’esercito statunitense. Che cosa ha pensato quando l’ha saputo? «In guerra capitano tanti episodi del genere. Come veterano credo di riuscire a capire e sostenere l’ufficiale che diede quel comando. Perché so che può aver vissuto dei momenti molto duri e non importa che abbia commesso una leggerezza. Era un soldato. Non si possono capire veramente situazioni come quelle senza averle vissute in prima persona. Ognuno può pensare ciò che vuole, ma chi non è stato un soldato in guerra non sa cosa essa sia. Ci sono molte azioni durante le quali gente innocente viene uccisa. E questo è vergognoso. Vengono commessi tanti errori e se scorri le pagine dei libri di storia ne vedrai tante. I militari di oggi, paragonati a quelli del Vietnam, sono addestrati a uccidere esseri umani in modo molto più preciso di quanto lo fossimo noi. Sono diventati delle macchine di morte implacabili. Noi eravamo addestrati per colpire al corpo, oggi si addestra per sparare in faccia». Pensa ancora a quei momenti o li ha rimossi? «Vanno e vengono, ma non sono più intensi come lo erano durante quel periodo. Sono diventate come nuvole nel cielo». Mi descrive la guerra in poche parole? «Un errore orribile e una vacca da mungere. In quegli anni nel nostro Paese poche persone hanno fatto un sacco di soldi». c La guerra infinita Il soldato ignaro di ciò che facevamo solo dopo alcuni mesi, quando vedevamo che foreste immense e tutta la vegetazione che avevamo infestato mesi prima erano andate completamente distrutte. È un ricordo molto triste». Un diabete da cui non è guarito, un figlio disabile precocemente scomparso e i ricordi che non se ne vanno. Dopo il Vietnam Dan Shea è diventato un artista e un militante di Veterans for Peace di Antonio Marafioti L’uomo nella foto qui sopra si chiama Dan Shea, è stato in Vietnam meno di tre mesi, da agosto a ottobre del 1968. Artigliere dei Marines, è stato spedito a diciannove anni nel Sudest asiatico dall’accademia di reclutamento di Portland, Oregon. Il resto del suo servizio lo ha prestato nella base di Subic Bay, Filippine, dove era incaricato di sorvegliare i bunker delle armi dell’esercito. Venne trasferito lì dopo che, nel corso di una missione Search and Destroy, aveva contratto la jungle rot, un’ulcera tropicale che lo colpì ai piedi impedendogli di camminare. Contagiato dall’agent orange, ha perso amici, un figlio e la fiducia nel suo Paese. Oggi è un artista e membro del direttivo dell’associazione Veterans for Peace. Che cosa ha causato sulla sua salute l’agent orange? È stato risarcito? «Mi sono ammalato di diabete di tipo 2 e il dipartimento per gli Affari dei veterani mi ha riconosciuto il 10 per cento di invalidità causata dall’erbicida e il 40 per cento per il Post-traumatic Stress Disorder (Ptsd – Disturbo Post-traumatico da Stress)». Qualcuno dei suoi parenti ha avuto problemi legati all’agent orange? «Il 16 dicembre 1977 è come se la guerra mi avesse raggiunto ancora, a casa mia. Mio figlio Casey è nato con vari difetti di nascita: palatoschisi, una malattia cardiaca congenita, addome a prugna e, subito dopo il parto, ha avuto un attacco cardiaco che ha richiesto un ricovero d’emergenza. Sapevamo tutti che questi problemi erano legati all’agent orange, ma ovunque ci rivolgessimo continuavano a negarlo e ancora lo fanno. Casey ha subìto un intervento chirurgico, riuscitissimo, per la palatoschisi, ma sapevamo che avrebbe dovuto affrontare ancora l’operazione più importante, quella al cuore. Mio figlio era affetto dalla tetralogia di Fallot, nota anche come “sindrome del bambino blu”. Il suo cuore non riusciva più Quali effetti ha avuto il Ptsd su di lei? «Mi creda, la maggior parte degli effetti sto ancora cercando di scoprirli con l’aiuto del mio psicologo. Ho sofferto di rabbia e depressione. Determinate circostanze possono rendere il mio Ptsd ancora peggiore: a volte è una canzone, altre volte la notizia di un soldato statunitense ucciso al fronte o i rapporti sulla morte di civili innocenti, di bambini, in Afghanistan e Iraq. Per anni mi sono rifiutato di parlare della guerra, volevo solo riprendermi la mia vita. Se mi guardo indietro, però, posso vedere tutti i segni del Ptsd. Basta ripensare a quei giorni: quando sono stato mandato nelle Filippine, un mio amico, il sergente Frank Garcia, è stato rispedito in Vietnam ed è stato ucciso, a pochi giorni dal congedo. Quasi contemporaneamente ricevetti una lettera in cui mi si avvisava che mio fratello Michael, che aveva preso il mio posto a Danang, era stato ferito e rimpatriato in camicia di forza. Iniziai a bere più del solito. Mi volevano rispedire al fronte ma mi sono rifiutato, dopo mi hanno obbligato a imbarcarmi su una nave dove ho avuto uno scontro verbale con il mio nuovo comandante. Non me ne fregava più un cazzo e continuavo a non fare nulla di ciò che mi veniva detto. Sono stato fortunato a uscire dai Marines con quelle che loro chiamano ‘onorevoli condizioni’». a ossigenare i globuli rossi e le sue gambe erano colpite da spasmi sempre più dolorosi che non gli permettevano neanche di giocare con la sorella. È rimasto sotto i ferri per dieci ore, durante l’operazione il suo cervello ha avuto un blocco di ossigenazione e mio figlio, che allora aveva quattro anni, è andato in coma per sette lunghe settimane. Siamo stati accanto al suo letto ogni giorno, per leggergli le storie. Abbiamo sperato in un miracolo, ma il 25 febbraio 1981 gli hanno staccato il respiratore e lo hanno messo fra le braccia di mia moglie che poi lo ha dato a me. L’ho stretto al mio petto, il suo piccolo corpo era così freddo. Ha fatto un respiro profondo, era il suo ultimo respiro. È morto fra le mie braccia. I periodi successivi della mia vita sono stati un incubo, ogni giorno pensavo al suicidio, ero vicino alla follia. L’amore di mia moglie e di mia figlia Harmony mi ha salvato». È sicuro che le condizioni cliniche di suo figlio fossero legate all’agent orange? «Anche se il dipartimento per gli Affari dei veterani non accetta che le patologie come quelle di Casey siano provocate dall’erbicida, ci sono molte storie di reduci che hanno avuto figli nati con problemi gravissimi e che sono morti. C’è un libro che racconta diversi episodi: Waiting for an Army to Die: The Tragedy of Agent Orange, di Fred A. Wilcox». Una volta congedato come ha vissuto? «Agli inizi del mio matrimonio ero sempre ubriaco, scoppiavo a urlare contro mia moglie e le lanciavo oggetti. Mi sentivo semplicemente perso e tramortito; avevo visto la guerra ma a casa, con la mia famiglia e gli amici, sembrava che nulla fosse cambiato. Non riuscivo a dormire. Mi svegliavo sempre e controllavo l’appartamento, le porte, le finestre. Sognavo di morire perché ricevevo tante chiamate dal fronte, pensavo di essere stato ferito. I miei sogni erano l’inferno. Quando Casey e Harmony sono entrati nella mia vita, sono diventato un uomo e un marito migliore. La mia esistenza era solo per i miei figli. Poi Casey è morto e la guerra è tornata a tormentarmi e non se n’è mai più andata». Lo scorso luglio un deputato della California, Bob Filner, ha presentato un disegno di legge che prevede una copertura sanitaria e sussidi per tutte le vittime dell’agent orange, compresi i civili vietnamiti. Pensa che verrà approvato dal Congresso? «C’è sempre speranza finché teniamo alta la pressione sui governanti, anche se non ho grande stima di loro. Si tratta di vedere se il nostro governo punterà a far passare la legge, come una buona mossa di pubbliche relazioni, per far sbiadire dalla coscienza dell’America la vera tragica storia della guerra in Vietnam. Non ci fermeremo finché non riconosceranno le vittime e le risarciranno. I miei colleghi hanno lavorato tanto nella preparazione di questo progetto e hanno grandi speranze, ma ci vorranno ancora molti sforzi». Era al corrente che il vostro esercito usasse sostanze dannose per l’uomo? «Vedevo la pila di barilotti nel campo base, ma non sapevo che contenessero un prodotto chimico. Sono sicuro che i nostri comandanti a Washington conoscessero la verità, ma i soldati sapevano solo che ciò che spruzzavano serviva a distruggere l’erbaccia. La maggior parte, se non tutti, non In che senso? «Nel 1991 George Bush senior ha cominciato a bombardare l’Iraq di Saddam Hussein e qualcosa dentro di me si è rotto. Si sono attivati ricordi, emozioni, timori, rabbia e depressione. Le notti erano più insonni perché ricominciavo a sognare la guerra, il Vietnam e il Medio Oriente. Pensavo a un’altra generazione di vittime, finché non ho incontrato Veteran for Peace, e ho trovato gente che capiva che cosa stessi passando. Non mi sentivo più solo, Von Anh Khanh 71 La guerra infinita Ho perso l’innocenza avrebbe neanche immaginato quanto tossica fosse la diossina per gli esseri umani e per gli animali, né avrebbe potuto intuire gli effetti futuri su se stessi, sui propri bambini e sull’ecosistema del Vietnam». Quando i reduci tornavano a casa erano spesso ignorati e addirittura odiati dalla gente. Molti, riferendosi ai vostri mali, vi gridavano: «Ve la siete cercata». Ricorda momenti del genere? «Personalmente non ricordo alcuna animosità. Al mio ritorno ho incontrato i pacifisti che mi hanno chiesto di partecipare alle discussioni sulla guerra. Erano sempre rispettosi e ascoltavano attentamente tutto ciò che avevo da dire. Solo dopo la prima guerra del Golfo ho saputo di conflitti tra veterani e dimostranti che li apostrofavano come “killer di bambini”. Soltanto quando ho cominciato a criticare la guerra sono stato attaccato dalla destra, alcuni di loro erano veterani ma la maggior parte erano ideologi ignoranti che mi davano del traditore solo perché parlavo di pace. Non avrei mai potuto prendere sul serio quegli idioti». La domanda più comune che si sono fatti i veterani del Vietnam è: «Per cosa abbiamo combattuto?». Se l’è fatta anche lei? «Io mi ero già fatto un’idea: per me eravamo andati laggiù, per i politici, uomini anziani desiderosi di sbandierare il loro machismo e alimentare i profitti di un’economia di guerra. L’ho imparato in Vietnam dai miei commilitoni che continuavano a dirmi di dimenticare tutto: una guerra per il Paese, mamma e papà, la torta di mele e la bandiera americana. “Fuck that shit!”, dicevano. “Spariamo, ci sparano, stiamo semplicemente provando a sopravvivere e proteggerci l’un l’altro, hai afferrato? Lo stesso vale per i vietnamiti”. Mi dicevano che quel Paese era dei vietnamiti e che loro lo stavano difendendo e che, per questo motivo, dai corridoi del potere ci avevano mandato in guerra. “Fuck’em all”. Fuck era parte del vocabolario di tutti, la prima e l’ultima parola di ogni frase». C’è un ricordo della guerra che proprio non riesce a dimenticare? «Cambiano continuamente. I ricordi della guerra sono nascosti dietro molti strati: escono negli incubi e svaniscono alla luce del giorno. Non so se sia peggiore il ricordo del sibilo della pallottola di un cecchino che mi è passata tanto vicino da bruciare la lanugine sul mio collo, o l’urlo del ragazzo della squadra seguente che poi se l’è beccata in pieno collo. Ero choccato mentre tagliavamo gli alberi nella giungla per permettere al medevac, il nostro elicottero, di portarlo via con un ponte aereo. Non ho mai saputo il suo nome, né se fosse morto. Che dire, poi, del colpo di mortaio che è esploso a pochi metri dai miei piedi, o quando durante una missione Search and Destroy in un villaggio ho sentito esplosioni di mine e urla di uomini scatenarsi l’una dopo l’altra? Non sono le cose che ricordo che mi spaventano, sono le cose che non ricordo». La guerra infinita non ero pazzo, quello stress era una reazione normale alla guerra, una cosa che accade ai soldati che hanno combattuto e conosciuto il tradimento, che hanno visto i loro compagni uccisi da un altro essere umano, o un altro essere umano ucciso da un proprio compagno». Ha ucciso qualcuno? «Ecco appunto, questo non lo ricordo. E mi terrorizza». Ricorda qualcosa del massacro di My Lai. Che cosa ha pensato quando ha appreso la verità? «Ho sentito parlare di My Lai molto dopo la fine del conflitto. Ricordo che piansi e mi chiesi come qualcuno potesse commettere un simile crimine. Però non avevo ancora perso tutta la mia speranza nell’umanità: qualcuno lì si era rifiutato di uccidere uomini, donne e bambini innocenti. Come Hugh Thompson Jr., il pilota dell’elicottero che aveva deciso di risparmiare i civili. È una vergogna che soltanto William Calley sia stato condannato, mentre i ranghi superiori del Pentagono e della Casa Bianca che hanno dato gli ordini, sono sfuggiti alla giustizia». Dopo l’esperienza al fronte un soldato si fa un’idea degli uomini al potere. Vorrei conoscere la sua: John Fitzgerald Kennedy «Cattolico». Lindon B. Johnson «Codardo». Richard Nixon «Bugiardo». Ho Chi Minh «Liberatore». William Westmoreland «Pazzo». Chi sono i veterani? «Una famiglia». Che cosa pensa di aver perso in guerra? «Ho perso mio fratello Michael, il mio amico Frank Garcia, ho perso mio figlio Casey, ho perso la mia innocenza e la fede nel mio Paese. In una certa misura ho perso me stesso, non sono la stessa persona, non posso godere della vita come se niente fosse accaduto e stia ancora accadendo. Non mi sono mai sentito liberato dalla guerra perché non l’abbiamo fermata e la cultura della violenza continua a pervadere le nostre vite. È come se avessimo perso la nostra democrazia (ammesso che l’abbiamo mai realmente avuta) per un gruppo di criminali». Pensa ancora al Vietnam? «Ogni giorno. Ancora faccio difficoltà a dormire e anche se penso di essere riuscito a domare la mia rabbia, temo sempre che qualcosa dentro di me possa rompersi e riportare a galla tutto quell’inferno». La guerra in tre parole? «Morte, distruzione e pazzia». e Doan Cong Tinh Tutti i Vietnam di domani La Bosnia, Falluja, Gaza. Uranio impoverito, fosforo bianco, bombe Dime. I teatri di guerra, le armi “nuove”, i loro effetti a lungo termine: «È tutto sotto i nostri occhi», dice Massimo Zucchetti, docente al Politecnico di Torino Non è la prima, non sarà l’ultima. La scia di morte, di malattie incurabili e malformazioni infantili lasciata in eredità dall’agent orange alla popolazione del Vietnam, non è la sola testimonianza degli effetti dell’uso delle “armi sporche” in un conflitto. La ricerca non si è mai fermata, anzi, ha ottenuto ingenti fondi da parte di molti governi interessati a sviluppare armamenti che presentano due caratteristiche “vantaggiose”: massimizzano la forza distruttrice e riducono il rischio di perdite dei propri soldati, sempre problematiche rispetto all’opinione pubblica. I nuovi Vietnam sono sotto i nostri occhi. Secondo Massimo Zucchetti, ordinario di Impianti nucleari al Politecnico di Torino, del Comitato scienziate e scienziati contro la guerra, «l’inizio di tutto è stata la guerra in Iraq del 1991. Gli Stati Uniti impiegarono l’uranio impoverito, che riscosse un enorme successo: i carri armati iracheni venivano distrutti con praticamente zero perdite da parte dell’esercito Usa». I proiettili all’uranio sfondano le corazze e incendiano il 73 di Alberto Tundo Duong Thanh Phong bersaglio, ma hanno come “effetto collaterale” la contaminazione del territorio con polveri radioattive. Che probabilmente sono state sparse anche in Somalia, durante la missione Restore Hope, primi anni Novanta, in Bosnia nel 1995 e in Kosovo nel 1999. Le conseguenze in ogni teatro sono state identiche. «In Bosnia e Kosovo, però – precisa lo studioso – i tumori e le malformazioni registrate sono state provocate dal bombardamento di impianti chimici e raffinerie e dal conseguente spargimento sul terreno delle sostanze cancerogene conservate all’interno». Le evidenze epidemiologiche e statistiche e gli studi scientifici testimoniano che, in Iraq, i principali danni, diretti e indiretti, sono stati causati dall’uranio impoverito. Per Zucchetti, «il crollo della sanità, dell’alimentazione, delle condizioni di vita hanno riportato il Paese all’Ottocento e quindi è chiaro che la popolazione si ammali e muoia più facilmente. L’uranio però lascia delle “impronte digitali”, cioè causa tipi di linfomi, leucemie e malformazioni riconoscibili. I dati parlano di patologie due, tre, quattro, cinque volte superiori rispetto alla media». Non solo: l’uranio impoverito è un agente mutageno, che cioè modifica il Dna delle persone esposte alle sue radiazioni. «Ci si ammala direttamente se gli agenti mutageni modificano il Dna delle cellule somatiche e allora si sviluppano tumori particolari come quello di Hodgkin e non Hodgkin. Se invece modificano quello delle cellule che usiamo per riprodurci, allora nasceranno bambini malformati». Tragedie simili sono comuni in un’altra città irachena, diventata suo malgrado il nuovo simbolo degli “effetti collaterali” della modernità bellica: Falluja. Il fosforo bianco non è considerato un’arma chimica, perché so- litamente viene usato in campo aperto come tracciante ma lo diventa se è impiegato come arma d’offesa. «Le vittime si riconoscono per le terribili ustioni che riportano pur avendo i vestiti ancora integri, perché ha la capacità di essere aggressivo verso i tessuti molli», sintetizza Zucchetti. Il fosforo esplode in una nuvola e non lascia scampo a chiunque si trovi nel raggio di un centinaio di metri: può sciogliere un corpo fino alle ossa. Recentemente, si è scoperto essere anche mutageno, al pari dell’uranio impoverito. È stato usato dall’esercito Usa in Iraq, da quello russo in Cecenia, ma anche dagli israeliani durante l’operazione Piombo Fuso lanciata nella Striscia di Gaza nel dicembre 2008. Tra Cisgiordania, Gaza e il Libano, l’esercito israeliano ha testato un altro tipo di arma sviluppata dai centri di ricerca degli Stati Uniti, la bomba Dime (Dense Inert Metal Explosive). Questi ordigni hanno una specie di guscio esterno fatto di polvere di tungsteno che con la detonazione si polverizza, formando una nuvola densa che va a contenere l’esplosione. «Proprio per questo effetto contenimento è stata presentata come un’arma “umanitaria”, perché dovrebbe limitare i danni inferti alla popolazione civile. Peccato che queste bombe vengano lanciate in maniera casuale e abbiano una forza dirompente, causando il distacco degli arti e ferite davvero poco umanitarie». Ma soprattutto lasciano polveri di tungsteno che entrano nei tessuti e si depositano sulle piante e sul terreno. È stato detto che, a differenza dell’uranio impoverito, non sono radioattive. È vero: sono cancerogene. O L’altro Vietnam La guerra immortalata dall’altro lato del fronte. Gli scatti in queste pagine, i cui diritti sono stati concessi da Vietnam News Agency, svelano il punto di vista dei fotografi nordvietnamiti nelle zone di conflitto. Foto che documentano gli sforzi, i sacrifici e l’ostinazione dell’esercito di Hanoi contro l’avversario statunitense dal delta del Mekong fino alle zone più tortuose del Sentiero di Ho Chi Minh. Le immagini sono raccolte nel volume fotografico L’altro Vietnam, edito in Italia da National Geographic, Edizioni White Star.