ricerca in psicoterapia research in psychotherapy

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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
http://www.researchinpsychotherapy.net
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RICERCA IN PSICOTERAPIA
RESEARCH IN PSYCHOTHERAPY:
PSYCHOPATHOLOGY, PROCESS
AND OUTCOME
Rivista della Sezione Italiana della
Society for Psychotherapy Research
Volume 13, Numero 2 - Dicembre 2010
P
S
R
Italia
RICERCA
IN
PSICOTERAPIA
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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Volume 13 – Numero 2
Dicembre 2010
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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RICERCA IN PSICOTERAPIA
RESEARCH IN PSYCHOTHERAPY:
PSYCHOPATHOLOGY,
PROCESS AND OUTCOME
ISSN: 1592 – 8543
EDITORE: SPR ITALIA (P. IVA 06491871007)
Foro Buonaparte 57, 20121 Milano
Tel/Fax: 02/36554099
e-mail: spr.italia@gmail.com
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RICERCA IN PSICOTERAPIA
RESEARCH IN PSYCHOTHERAPY:
PSYCHOPATHOLOGY, PROCESS AND OUTCOME
Rivista semestrale della SPR-Italia Sezione italiana
della Society for Psychotherapy Research
Editors-in-chief
Adriana Lis
Università degli Studi di Padova
Nino Dazzi
"Sapienza" Università di Roma
Co-editors
Giancarlo Dimaggio
Terzo Centro, Roma
Emilio Fava
Università degli Studi di Milano
Vittorio Lingiardi
"Sapienza" Università di Roma
Gianluca Lo Coco
Università degli Studi di Palermo
Giovanni M. Ruggiero
Studi Cognitivi, Milano
Sergio Salvatore
Università del Salento
Sandra Sassaroli
Studi Cognitivi
Past President SPR-Italia
Salvatore Freni
Università degli Studi di Milano
Girolamo Lo Verso
Università degli Studi di Palermo
Antonio Semerari
Terzo Centro, Roma
Nino Dazzi
"Sapienza" Università di Roma
Scientific Board
Stefano Blasi, Università degli Studi di Urbino
Rino Capo, Associazione di Psicologia Cognitiva, Roma
Antonino Carcione, Terzo Centro, Roma
Giovanni Castellini, Scuola Cognitiva Firenze
Livia Colle, Università Politecnico di Torino
Antonello Colli, Università degli Studi di Urbino
Martina Conte, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Francesco De Bei, "Sapienza" Università di Roma
Alessandra De Coro, "Sapienza" Università di Roma
Franco Del Corno, Università della Valle d'Aosta, Associazione
per la Ricerca in Psicologia Clinica, Milano
Rocco Diego, Università degli Studi di Padova
Santo Di Nuovo, Università degli Studi di Catania
Francesca Fiore, Studi Cognitivi, Milano
Francesco Gazzillo, "Sapienza" Università di Roma
Omar Gelo, Università del Salento
Adam Horvath, Simon Fraser, University, Vancouver, Canada
Marco Innamorati, Università degli Studi di Bari
Paul H. Lysaker, Indiana University, Roudebush VA Medical
Center, Indianapolis, USA
Marzio Maglietta, Scuola Cognitiva Firenze
Francesco Mancini, Associazione di Psicologia Cognitiva,
Roma
Paolo Migone, Università di Parma
Giuseppe Nicolò, Terzo Centro, Roma
Osmano Oasi, Università Cattolica, Milano
Katerine Osatuke, National Center for Organization
Development, Cincinnati, USA
Piero Porcelli, Università di Bari
Claudia Prestano, Università degli Studi di Messina
Michele Procacci, Terzo Centro, Roma
Giuseppe Romano, Associazione di Psicologia Cognitiva, Roma
Silvia Salcuni, Università degli Studi di Padova
Diego Sarracino, Università degli Studi di Milano Bicocca
Hans Schadee, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Annamaria Speranza, "Sapienza" Università di Roma
Stijn Vanheule, Ghent University, Belgio
Marta Vigorelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Riccardo Williams, "Sapienza" Università di Roma
Alessandro Zennaro, Università della Valle d'Aosta
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INDICE
Editoriale
Nino Dazzi
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La ricerca in psicoterapia: il contributo del Gruppo di lavoro della
Cattedra di Psicologia Dinamica (base) della Seconda Università di Napoli
Giorgio Caviglia, Raffaella Perrella, Walter Sapuppo, Nadia Del Villano
32
Memories and Futures. Storia e sviluppi di un gruppo di ricerca italiano:
dagli studi di efficacia alle analisi delle resistenze al cambiamento
Emilio Fava, Pablo Zuglian, Dario Ferrario, Daria Taino, Martina Conte, Francesca Cadeo
53
La ricerca in psicoterapia di gruppo: Alcuni risultati e future direzioni di
ricerca. Group therapy research: current issues and future directions
Salvatore Gullo, Gianluca Lo Coco, Claudia Prestano, Francesca Giannone, Girolamo Lo Verso
78
Diagnosi e valutazione della personalità, alleanza terapeutica e scambio
clinico nella ricerca in psicoterapia
Vittorio Lingiardi, Francesco Gazzillo, Antonello Colli, Francesco De Bei, Annalisa Tanzilli,
Mariagrazia Di Giuseppe, Nicola Nardelli, Chiara Caristo, Valeria Condino, Daniela Gentile,
Nino Dazzi
97
La valutazione degli esiti e del processo nelle psicoterapie offerte dai
Centri di Salute Mentale e da un Centro di Psicologia clinica universitario
Alessandra De Coro,
Adriana Matarrese
Silvia Andreassi, Rachele Mariani, Elisabetta Iberni, Valeria Crisafulli,
125
Problemi metodologici nello studio del processo psicoterapico e nella
valutazione dell’attaccamento e del rischio psicopatologico in
adolescenza
Riccardo Williams, Davide Belluardo, Fiorella Fantini, Valentina Postorino, Francesca Ortu
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Filoni di ricerca in psicoterapia nella Facoltà di Psicologia dell’Università
di Padova
Adriana Lis, Marco Sambin, Emilia Ferruzza, Cristina Marogna, Diego Rocco, Silvia Salcuni
169
Il ragionamento nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo
Francesco Mancini, Amelia Gangemi
192
Le disfunzioni metacognitive nei disturbi di personalità: Una review delle
ricerche del III Centro di Psicoterapia Cognitiva
Raffaele Popolo, Antonio Semerari, Antonino Carcione, Donatella Fiore, Giuseppe Nicolò, Laura
Conti, Roberto Pedone, Michele Procacci, Stefania d’Angerio, Giancarlo Dimaggio
218
La psicoterapia come scambio comunicativo. Prospettive di ricerca sul
processo clinico
Sergio Salvatore, Alessandro Gennaro, Andrea Auletta, Rossano Grassi, Stefano Manzo,
Mariangela Nitti, Ahmed Al-Radaideh, Marco Tonti, Nicoletta Aloia, Grazio Monteforte, Omar Gelo
242
Ricerca multistrumentale in psicoterapia, valutazione in psicosomatica e
nei servizi psichiatrici: gruppo di ricerca coordinato da Marta Vigorelli
Marta Vigorelli
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Editoriale
Nino Dazzi
L’uscita di quest’ultimo numero di Ricerca in Psicoterapia, a
quindici anni dalla fondazione della sezione italiana della Society
for Psychotherapy Research (SPR Italia), è una buona occasione
per fare il punto della situazione sulla ricerca in psicoterapia nel
nostro paese, e i lavori presentati in questo numero sono di fatto
una rassegna degli studi principali dei maggiori filoni di ricerca
portati avanti in questi anni dai gruppi italiani del settore.
Questi lavori possono essere raggruppati in tre macrodomini:
1)
ricerche
relative
alle
caratteristiche
delle
diverse
psicopatologie, 2) ricerche su processo ed esito delle psicoterapie
e 3) ricerche sulle terapie condotte nei servizi pubblici.
Nelle pagine che seguono cercherò di evidenziare i contributi
più originali prodotti da questi gruppi e le loro principali
collaborazioni con gruppi di ricerca attivi a livello internazionale.
Ricerche sulla psicopatologia
Le sindromi cliniche più indagate dai gruppi di ricerca italiani
sono
il
disturbo
ossessivo
compulsivo,
i
disturbi
del
comportamento alimentare, i disturbi di personalità e i cosiddetti
disturbi psicosomatici.
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Rispetto al disturbo ossessivo compulsivo, i contributi di
maggiore rilievo sono stati elaborati dal gruppo di Francesco
Mancini, che si è dedicato, in collaborazione con Paul Johnson
Laird, all’analisi puntuale del ragionamento ossessivo, detto
anche
semidialettico
e
prudenziale;
la
persona
ossessiva
“focalizza l’ipotesi di pericolo, in quanto teme di essere accusata
di aver determinato il pericolo stesso. Cerca la falsificazione
dell’ipotesi di pericolo perché vuole difendersi dall’accusa e
dunque vuole contestarla. Usa standard molto elevati per
valutare la portata della falsificazione perché ritiene, by default,
che il giudizio sarà severo, nel senso che terrà conto solo della
possibilità che lei sia colpevole e non che sia innocente […] per
difendersi da possibili imputazioni e sottrarsi quindi al rischio di
essere oggetto di espressioni aggressive e critiche sprezzanti,
esamina tutte le possibilità di pericolo, e cerca di dimostrarle
tutte false, con certezza assoluta, cioè al di là di ogni ragionevole
dubbio […] la nostra ipotesi è dunque che lo stato mentale
dell’ossessivo
sia
caratterizzato
dal
timore
di
colpa
per
irresponsabilità” (pp. 206-207). Il gruppo di Mancini ha quindi
distinto un senso di colpa altruistico, che si concentra sui
possibili danni arrecati agli altri da una propria azione, da un
senso di colpa ontologico, che deriva dalla trasgressione di una
norma morale o dell’ordine naturale delle cose e sarebbe tipico
dei pazienti ossessivi (Mancini & Gangemi, 2004; Gangemi &
Mancini, 2007; Gangemi, Mancini, & Johnson-Laird, 2010).
Le caratteristiche della personalità e della cognizione dei
pazienti con disturbi del comportamento alimentare (DCA) e dei
pazienti obesi sono state oggetto di ricerca da parte dei gruppi di
Sandra Sassaroli, Giorgio Caviglia, Emilio Fava e Cinzia
Masserini, e Vittorio Lingiardi.
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Il primo gruppo ha messo in evidenza il ruolo di controllo,
criticismo, perfezionismo patologico e rimuginio nei DCA,
approfondendo in particolar modo i correlati cerebrali del
rimuginio e il ruolo patogeno del perfezionismo, ed elaborando
un protocollo empiricamente validato per il trattamento di questi
disturbi (Sassaroli, Gallucci, & Ruggiero, 2008; Sassaroli,
Romero, Ruggiero, & Frost, 2008; Sassaroli, Apparigliato,
Bertelli, Boccalari, Fiore, Lamela, Scarone, & Ruggiero, 2010).
Sempre a questo gruppo dobbiamo poi una serie di ricerche sui
fattori metacognitivi e il pensiero desiderante nelle dipendenze
patologiche e nei disturbi del controllo degli impulsi (Spada,
Caselli, & Wells, 2009; Caselli Ferretti, Leoni, Rebecchi, Rovetto,
& Spada, 2010a; Caselli, Bortolai, Leoni, Rovetto, & Spada,
2010b; Caselli & Spada, in press), oltre che uno studio
approfondito della “night eating syndrome” che gli è valso un
invito agli incontri preliminari per l’introduzione di questo
disturbo nel DSM-V (Vinai, Cardetti, Carpegna, Ferrato, Vallauri,
Masante, Sassaroli, Ruggiero, Scarone, Bertelli, Bidone, Busetto,
& Sampietro, 2009).
Il gruppo diretto da Giorgio Caviglia è impegnato da alcuni
anni nell’analisi empirica del contributo della dissociazione e
dell’alessitimia ai DCA, e nello studio delle caratteristiche
psicologiche di pazienti obesi (Caviglia, Perrella, La Marra, &
Giannini, 2006; La Marra, Sapuppo, & Caviglia, 2009; La Marra,
Sapuppo, Chieffi, & Caviglia, 2010); il gruppo di ricerca diretto
da Emilio Fava e Cinzia Masserini ha avviato una ricerca tesa a
valutare le caratteristiche psicodinamiche tipiche dei pazienti
con DCA e le loro implicazioni terapeutiche per mezzo della
seconda versione della Diagnosi Psicodinamica Operazionalizzata
(OPD-2; OPD Task Force, 2006), la cui edizione italiana è stata
curata dagli stessi autori in collaborazione con il Prof. Cierpka di
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Heidelberg e la Task Force internazionale dell’OPD (Fava,
Zuglian, Taino, & Di Genova, 2009).
Il gruppo diretto da Vittorio Lingiardi, invece, si è concentrato
sulla relazione tra stili di personalità e DCA e ha replicato e
approfondito uno studio statunitense teso a delineare i sottotipi
di personalità di adolescenti anoressiche con la Shedler-Westen
Assessment Procedure 200-A (SWAP-200 A; Westen, Shedler,
Durrett,
Glass,
(perfezionistico/ad
&
Martens,
alto
2003).
Di
funzionamento,
ogni
sottotipo
disregolato
e
ipercontrollato) ha quindi indagato le caratteristiche dell’identità,
gli affetti prevalenti, gli stili di regolazione delle emozioni e le loro
implicazioni per la psicoterapia (Gazzillo, Lingiardi, Peloso,
Giordani, Vesco, Filippucci, & Zanna, submitted).
Anche il gruppo coordinato da Francesca Ortu si è dedicato
allo
studio
della
diagnosi
dei
disturbi
di
personalità
in
adolescenza con la SWAP, confrontando le caratteristiche della
diagnosi SWAP standard con quelle della diagnosi SWAP
clinico/prototipica secondo i fattori di personalità empiricamente
derivati con questo strumento. Sempre a questo gruppo
dobbiamo poi una serie di studi sulla relazione tra modelli di
attaccamento in adolescenza, funzionamento difensivo, attività
referenziale, funzione riflessiva e sistemi motivazionali. In
particolare, una ricerca condotta con il sistema dei Profilo
d’Interazione
Genitore-Adolescente
(PIGA;
Lyons-Ruth,
Hennigshausen, & Holmes, 2003; Lyos-Ruth, Yellin, Melnick, &
Atwood, 2005) e il sistema AIMIT per la valutazione dei sistemi
motivazionali basata su trascritti di sedute (Liotti & Monticelli,
2008) ha messo in evidenza come “anche nella popolazione
italiana studiata la qualità delle interazioni fra genitore e
adolescente impegnati nella soluzione del compito decisionale
mostra
una
correlazione
positiva
con
la
categoria
di
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attaccamento del genitore e al tempo stesso si rivela più capace
della sola categoria di attaccamento del genitore di predire la
categoria di attaccamento dell’adolescente (Williams, Ardito,
Ortu, & Dazzi, 2008). Questo dato è stato inoltre confermato da
un
altro
studio
dell’attaccamento
che
evidenziava
rispetto
alla
la
forte
modalità
predittività
di
gestione
dell’aggressività fra genitore bambino” (p. 162).
I
clinici di Terzo Centro di Psicoterapia Congitiva, in
collaborazione
con
il
gruppo
di
Lysaker,
hanno
invece
approfondito il ruolo della metacognizione e dei suoi diversi
sottofattori nella patogenesi di diversi disturbi di personalità e
della schizofrenia (Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò, &
Procacci, 2007, Carcione, Dimaggio, Fiore, Nicolò, Procacci,
Semerari, & Pedone, 2008; Dimaggio Carcione, Nicolò, Conti,
Fiore, Pedone, Popolo, Procacci, & Semerari, 2009; Lysaker,
Dimaggio, Buck, Carcione, Procacci, Davis, & Nicolò, 2010;
Semerari,
Cucchi,
Dimaggio,
Cavadini,
Carcione,
Bottelli,
Siccardi, D’Angerio, Pedone, Ronchi, Maffei, & Smeraldi, 2010;
Semerari, Dimaggio, Cucchi, Cavadini,
D’Angerio, Battelli,
Siccardi, Ronchi, Maffei, & Smeraldi, 2010). Da un primo
modello secondo il quale la metacognizione era considerata un
costrutto quadrifattoriale, studi recenti sembrano sostenere un
modello a due fattori, uno relativo alla Teoria della Mente (in cui
rientrano le capacità di decentramento e differenziazione) e uno
relativo all’Autoriflessività (in cui ricadono monitoraggio e
integrazione).
Anche il gruppo coordinato da Vittorio Lingiardi ha dato
contributi importanti alla diagnosi e alla comprensione dei
disturbi della personalità curando la versione italiana della
Shedler
Westen
Assessment
Procedure
per
adulti
e
per
adolescenti (SWAP-200 e SWAP-200 A; Westen & Shedler,
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1999a, 1999b; Westen, Shedler, & Lingiardi, 2003) e del
Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM; PDM Task Force,
2006). Sempre a questo gruppo si deve l’applicazione della SWAP
alla ricerca su processo ed esito delle psicoterapie, di cui
parleremo in seguito, e la costruzione e validazione di alcuni
strumenti empirici per la valutazione della diagnostica di
personalità per gli adulti del PDM.
Infine, il gruppo coordinato da Marta Vigorelli ha approfondito
i problemi connessi alla valutazione e al trattamento dei
cosiddetti disturbi psicosomatici, e ha elaborato una Scala di
Focalizzazione/Intelligenza Somatica (Scognamiglio, Zoccarato,
Vigorelli, Gallucci, & Zerbini, 2008) tesa a superare i limiti di
strumenti analoghi già esistenti come la Toronto Alexitymia
Scale-20 (TAS-20; Bagby, Parker, & Taylor, 1994a, 1994b).
Ricerche su processo ed esito delle psicoterapie
Rispetto all’ambito specifico della ricerca su processo ed esito
delle psicoterapie, i gruppi italiani si sono distinti per varie
collaborazioni
internazionali
finalizzate
alla
costruzione,
validazione e implementazione di vari strumenti utili alla
valutazione dei trascritti di sedute di psicoterapia.
Il gruppo condotto da Vittorio Lingiardi, in collaborazione con
Jonathan Shedler prima e con Sherwood Waldron poi, ha
pubblicato due lavori in cui la SWAP viene utilizzata, assieme
alla Defense Mechanism Rating Scale (DMRS; Perry, 1990) e alle
Analytic Process Scales (APS; Waldron, Scharf, Hurst, Firestein, &
Burton, 2004a; Waldron, Scharf, Crouse, Firestein, Burton, &
Hurst, 2004b), per valutare processo ed esito delle psicoterapie
di due pazienti con disturbi della personalità. Questi studi
hanno confermato il dato, già presente in letteratura, che una
buona psicoterapia psicoanalitica è in grado di modificare
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l’assetto di personalità e lo stile difensivo dei pazienti, e che il
fattore terapeutico più efficace è la qualità delle comunicazioni
del
terapeuta,
(chiarificazioni,
al
di
là
dei
tipi
interpretazioni,
specifici
interventi
di
intervento
di
sostegno,
comunicazioni su difese, conflitti, transfert, etc.). La qualità delle
comunicazioni del terapeuta, a sua volta, sembra favorita dalla
produttività delle comunicazioni del paziente, delineando così un
circolo
comunicativo
virtuoso
indice
sintonizzazione tra paziente e terapeuta
di
una
buona
(Lingiardi, Shedler, &
Gazzillo, 2006; Lingiardi, Gazzillo, & Waldron, 2010).
Sempre a questo gruppo, in collaborazione con Cristopher
Perry, dobbiamo poi la validazione della versione italiana della
DMRS e la costruzione di una sua versione Q sort per utilizzo
clinico (Lingiardi, Lonati, Fossati, Vanzulli, & Maffei, 1999;
Perry, Di Giuseppe, Petraglia, Janzen, & Lingiardi, submitted); la
costruzione
di
un
sistema
Q
sort
per
la
valutazione
dell’attaccamento paziente-terapeuta sulla base dei trascritti
delle sedute, il Patient-Therapist Attachment Q-sort (PTA Q-sort;
De Bei, Lingiardi, & Miccoli, 2007), che è stato utilizzato per
monitorare l’andamento della relazione terapeutica in un caso
singolo e per indagare la relazione tra attaccamento pazienteterapeuta e alleanza terapeutica; la traduzione e validazione
della
versione
italiana
dello
Psychotherapy
Relationship
Questionnaire (PRQ; Bradley, Heim, & Westen, 2005; Tanzilli,
Colli, De Bei, & Lingiardi, 2010), del Countertransference
Questionnaire (CTQ; Betan, Heim, Conklin, & Westen, 2005;
Tanzilli, Colli, & Lingiardi, 2009) e dello Psychotherapy Process
Q- set (Jones, 1985, 2000; Colli & Gazzillo, 2006; Lingiardi &
Dazzi, 2008). Infine, Colli e Lingiardi hanno elaborato uno
strumento di valutazione dei processi di costruzione e rottura
dell’allenza terapeutica sulla base dei trascritti di sedute, la
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Collaborative Interactions Scale (CIS; Colli & Lingiardi, 2009) e
hanno
progettato
una
serie
di
ricerche
tese
a
indagare
empiricamente la relazione tra alleanza, diagnosi di personalità,
meccanismi di difesa, tipologie di interventi del terapeuta e
attività referenziale.
È invece al gruppo di Allessandra De Coro che dobbiamo, in
collaborazione con Wilma Bucci, la validazione della versione
italiana della Referential Activity (RA; Bucci, 1995, 1997, 1999;
Bucci & Kabasakalian-McKay, 1992) e la costruzione di alcuni
dizionari computerizzati per il suo scoring su materiale in lingua
italiana:
l’Italian
Weighted
Referential
Activity
Dictionary
(IWRAD; Maskit, 2004; De Coro. Lang, Del Corno, Parolin,
Matarrese, Piscitelli, Iberni, & Basile, 2004), il dizionario delle
parole riflessive (IREF; Mariani, 2009); il dizionario della
disfluenza (IDF; Bonfanti, Campanelli, Cilimberti, Golia, &
Papini, 2008); il dizionario degli affetti positivi, negativi e parole
con
peso
affettivo
ma
non
connotate
positivamente
o
negativamente (IAFF; Rivolta, Mariani, & Tagini, 2009) e il
dizionario senso-somatico (ISS; Mariani, 2009). Mentre al gruppo
di Padova coordinato da Diego Rocco dobbiamo l’applicazione
della RA e del suo indice di Speech Rate, ai trascritti di sedute di
psicoterapia; le loro ricerche hanno messo in evidenza che “le
fluttuazioni
di
velocità
di
eloquio
sono
significativamente
correlate con le qualità espressive contenute nel linguaggio
(Rocco, 2005), e che i due attori della scena clinica sono
reciprocamente sensibili non solo ai contenuti della produzione
verbale, ma anche alle caratteristiche paraverbali della stessa
(Rocco, 2008). Sempre al gruppo coordinato da Alessandra De
Coro dobbiamo infine una serie di ricerche finalizzate alla
validazione della versione italiana dell’Inventory of Personality
Organization (Lenzenweger, Clarkin, Kernberg, & Foelsch, 2001)
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e del Coherence Q- Sort (Beijersbergen, Bakermans-Kranenburg,
& Van Ijzendoorn, 2006) e l’applicazione di questi strumenti ad
alcune ricerche su processo ed esito delle psicoterapie.
Il gruppo di ricerca coordinato da Francesca Ortu ha invece
approfondito lo studio del Core Conflict Relationship Theme
(CCRT; Luborsky, 1990), proponendo di applicarlo a unità
narrative più comprensive di quelle proposte dal sistema di
codifica originale e modificando la griglia di scoring dei wish
secondo il modello dei sistemi motivazionali di Lichtenberg
(1989; Lichtenberg, Lachmann, & Fosshage, 1996). Questo
gruppo ha inoltre indagato empiricamente la relazione tra CCRT,
alleanza terapeutica, attività referenziale e meccanismi di difesa.
Il gruppo dell’Università di Lecce coordinato da Sergio
Salvatore è partito da una concezione socio-costruttivista della
relazione
terapeutica,
influenzata
dalla
teoria
dei
sistemi
dinamici, per costruire e validare tre strumenti per la valutazione
del processo terapeutico, il Descoursive Flow Analysis (DFA;
Gennaro, Al-Radaideh, Gelo, Manzo, Nitti, & Salvatore, 2010;
Salvatore, Grasso, & Tancredi, 2004; Salvatore, Valsiner,
Travers-Simon, &
Gennaro, 2010a, 2010b), che permette
un’analisi dei processi di generazione e mutamento di senso che
caratterizzano lo scambio discorsivo terapeutico; il Grid of the
Models of Interpretation (GMI; Auletta, 2010; Auletta & Salvatore,
2008; Auletta, Salvatore, Metrangolo, Monteforte, Pace, &
Puglisi, submitted) per l’analisi degli interventi del terapeuta, e il
metodo di analisi semantica delle narrazioni chiamato Dynamic
Mapping of the Ctructure of Content in Clinical Settings (DMSC;
Salvatore, Gennaro, Auletta, Grassi, & Rocco, submitted). Anche
questo
gruppo
ha
stabilito
una
serie
di
collaborazioni
internazionali con ricercatori come Gonçalves e Tschacher.
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Una delle peculiarità dei gruppi italiani che si occupano di
ricerca in psicoterapia è poi quella di prediligere l’analisi
multistrumentale e intensiva di single case. Da segnalare, in
questo senso, i numerosi lavori del gruppo di Padova condotto
da Adriana Lis (Lis, Salcuni, Zini, Genovese, Di Riso, & Zonca,
2005; Di Riso, Salcuni, Laghezza, Marogna, & Lis, 2009; Lis,
Mazzeschi, Di Riso, & Salcuni, in press), che hanno indagato
varie psicoterapie dinamiche di sostegno per mezzo di strumenti
come la SWAP (Westen, Shedler, & Lingiardi, 2003), la DMRS
(Perry, 1990), la CIS (Colli & Lingiardi, 2009), la Scala del
Funzionamento Riflessivo (SFR; Fonagy, Target, & Gergely, 2000)
e la Scala di Valutazione della Metacognizione (SVaM; Carcione,
Falcone, Magnolfi, & Manaresi, 1997), lo strumento costruito dai
ricercatori del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva per la
valutazione basata sui trascritti delle capacità metacognitive.
Sempre a questo gruppo si deve poi l’implementazione del
Collaborative Assessment (CA; Fisher, 2000; Finn, 2006) e studi
sull’applicazione alla ricerca in psicoterapia di strumenti come la
Symptom Check List – 90 (SCL-90; Derogatis, 1977), il Millon
Clinical Multiaxial Inventory (MCMI; Millon, 1983a, 1983b, 1987,
1997a,1997b), il Rorschach, l’Adult Attachment Interview (AAI;
George, Kaplan, & Main, 1985) e l’Adult Attachment Projective
Picture System (AAP; George, West, & Pettem, 1999).
Il
gruppo
coordinato
da
Marco
Sambin,
infine,
in
collaborazione con l’Università di Ulm, ha avviato un complesso
progetto di ricerca teso a valutare “i correlati neurali dei pattern
linguistici che caratterizzano le quattro fasi del Modello dei Cicli
Terapeutici (TCM), derivato dalla Resonating Mind Theory di
Mergenthaler (Mergenthaler, 2008; Benelli, Messina, Viviani,
Mergenthaler, Walter, Sambin, & Buchheim, 2010)” (p. 183).
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Menzione a parte merita poi la ricerca sui gruppi terapeutici di
matrice psicoanalitica, settore ancora poco esplorato dal punto
di vista empirico a cui alcuni gruppi italiani hanno dato
contributi importanti. Basti citare i lavori del gruppo di Palermo
coordinato da Girolamo Lo Verso, che oltre ad aver elaborato
una riflessione sistematica sui problemi teorici e metodologici
connessi alla valutazione di processo ed esito delle psicoterapie
di gruppo a lungo termine, ha anche condotto alcuni studi
empirici sui gruppi psicodinamici per pazienti con disturbi del
comportamento alimentare e per soggetti con disturbo di panico
(Di Nuovo & Lo Verso, 2005; Prestano, Lo Coco, Gullo, & Lo
Verso, 2008), e sta attualmente svolgendo ricerche empiriche
tese a indagare quali sono i fattori mutativi del setting gruppale
e le caratteristiche psicologiche dei pazienti che permettono di
beneficiare di una terapia di gruppo (Lo Coco, Salerno, Gullo,
Prestano 2010; Lo Coco, Gullo, Prestano, Cicero, 2010; Lo Coco,
Gullo, Salerno, Iacoponelli, 2010; Prestano, Cicero, Gullo, Alcuri,
Lo Coco, & Carcione, 2009).
Il gruppo di ricerca dell’Università di Padova, coordinato dalle
professoresse Ferruzza e Marogna è invece impegnato nella
costruzione di strumenti empirici utili alla valutazione di
processo ed esito delle psicoterapie di gruppo: una versione per
gruppi della CIS (Marogna, 2009), che permetterà di valutare i
processi di costruzione e rottura dell’alleanza in questo tipo di
setting, una Scala di Misura dell’Autoconsapevolezza (SMAC;
Silvestri, Lalli, Mannarini, Ferruzza, Nuzzaci, Furin, Lucidi, &
Rapazzini, 2008) e una Description of Individual in Group (DIG;
Silvestri & Ferruzza, in progress), strumento teso alla rilevazione
delle “specifiche modalità relazionali dell’individuo nel contesto
di un gruppo di psicoterapia, in relazione al funzionamento del
gruppo nella sua globalità” (p. 181).
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La ricerca sulle psicoterapie condotte nei servizi pubblici
Tre sono i gruppi italiani che si sono occupati finora con
maggiore continuità di questo ambito specifico della ricerca in
psicoterapia: quello di Milano, coordinato da Emilio Fava e
Cinzia Masserini, quello diretto da Marta Vigorelli e quello di
Alessandra De Coro.
I lavori di Fava e Masserini si sono serviti di strumenti come la
Stuctural Assessment of Social Behavior (SASB; Benjamin, 1974)
e l’Operationalized Psychodynamic Diagnostic system (OPD; OPD
Task Force, 2006) per indagare i cambiamenti cui i pazienti in
psicoterapia presso servizi pubblici vanno incontro, e per
indagare le principali cause degli elevati tassi di drop-out
riscontrati
in
questi
setting.
Tra
i
fattori
terapeutici
maggiormente approfonditi da questo gruppo vi è la cosiddetta
relazione reale tra paziente e terapeuta (Gelso, 2002) e i risultati
dei loro studi indicano la valenza antiterapeutica di alcuni moti
problematici caratterizzati da un atteggiamento interpersonale di
aggressività e controllo benevolo o neutro per quanto riguarda il
terapeuta, e risposte avversive di aggressività, sottomissione
neutra e ostile o evitamento, da parte del paziente. In secondo
luogo, sembra che la qualità e l’andamento nel tempo degli
introietti siano diversi nei pazienti good outcome versus poor
outcome. “I pazienti ad esito positivo mostrano un incremento
della capacità di prendersi cura di sé e una diminuzione di
modalità biasimanti e aggressive verso il sé, i pazienti ad esito
insoddisfacente mostrano, invece, un livello elevato e stabile nel
tempo di moti auto-biasimanti e trascuranti e assenza di moti di
accudimento di sé nell’arco di tempo considerato” (p. 62).
Sempre
questo
valutazione
gruppo
chiamato
ha
poi
costruito
un
modello
di
Verbal and Enactive Representations
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Analysis (VERA), che implementa le concezioni teoriche di Sasso
(2009)
e
si
psicoanalisi,
propone
come
permettendo
ponte
di
tra
infant
avanzare
research
alcune
e
ipotesi
neurologiche sull’impatto esercitato sul cervello del bambino
dall’elaborazione dell'interazione materna, su come la madre
possa modificarla e su come questo processo si replichi
nell’interazione tra paziente e terapeuta. Fava e collaboratori
hanno anche elaborato un modello, denominato Empirically
Supported Multi-instrumental Supervision (ESMS), che permette
di condurre supervisioni di casi clinici nei servizi pubblici
appoggiandosi ai dati ottenuti per mezzo di stumenti empirici
che valutano alcuni fattori dal valore terapeutico comprovato
(come OPD-2, CIS, SASB, RA).
Il gruppo coordinato da Marta Vigorelli si è invece servito di
due strumenti di valutazione della qualità delle psicoterapie nei
servizi pubblici e della loro efficacia clinica: l’HoNOS (Lora, Bai,
& Bianchi 2001)1 e il Community Functioning Questionnaire
(CFQ-28; Vigorelli, Zanolini, Belfontali, Tatti, Buratti, & Peri, 2008;
Vigorelli, 2010), pensato specificamente per la valutazione del
funzionamento delle comunità terapeutiche.
Il gruppo coordinato da Alessandra De Coro, infine, in
collaborazione con due ASL di Roma, ha avviato tre progetti di
valutazione di processo ed esito delle terapie condotte nei servizi
pubblici servendosi di strumenti di valutazione degli interventi
terapeutici,
dell’alleanza
terapeutica,
dei
sintomi,
dei
meccanismi di difesa, dei modelli di attaccamento e degli stili di
personalità: la versione italiana curata da Gherardo Amadei
della Psychotherapy Periodical Rating Scale (PPRS) utilizzata
all’Anna Freud Center per valutare il lavoro svolto nelle sedute, il
1
L’Health of the Nation Outcome Scales è stata creata in Gran Bretagna dal gruppo di lavoro
di Wing e Co. su richiesta del Ministero della Sanità al fine di valutare il disagio iniziale e il
miglioramento nelle varie fasi dei trattamenti effettuati nei Servizi Pubblici.
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Working Alliance Inventory (WAI; Horvath & Greenberg, 1989), la
SCL-90, il Response Evaluation Misure-71 (REM-71; Steiner,
Araujo, & Koopman, 2001), il Coping Orientation to Problems
Experienced (COPE; Carver, Scheier, & Weintraub, 1989), la AAI
(Main & Goldwyn, 1998; Main, Kaplan, & Cassidy 1985) e la
SWAP (Westen, Shedler, & Lingiardi, 2003). Nella ricerca sulle
terapie dei pazienti gravi, cioè di organizzazione borderline o
psicotica, questo gruppo ha utilizzato anche l’Inventory of
Personality Organization (Lenzenweger, Clarkin, Kernberg, &
Foelsch 2001), il Big Five Questionnaire (Caprara, Gentilomo,
Barbaranelli, & Giorgi, 1993), l’OPD (Gruppo OPD, 1996/2001) e
la Psychological Well-Beeing Scale (Ryff, 1995).
Alla luce di questa sintetica rassegna dei contributi, credo di
poter dire che la ricerca in psicoterapia in Italia si sia
contraddistinta da una parte per la sua capacità di riprendere,
approfondire e raffinare filoni di ricerca internazionali, basti
pensare ai lavori del gruppo di Lingiardi sulla SWAP, sulle APS e
sull’allaenza terapeutica, o a quelli sulla RA dei gruppi di
Alessandra De Coro e Diego Rocco e sul CCRT di Francesca
Ortu, e dall’altra per aver dato vita a una serie di strumenti e di
filoni
di
ricerca
innovativi
che
hanno
trovato,
e
spero
continueranno a trovare, risonanza internazionale. Segnalo, in
tal senso, i contributi del Terzo Centro di Psicologia Cognitiva di
Roma, che ha approfondito dal punto di vista teorico ed empirico
la valutazione della funzione metacognitiva, il suo ruolo in vari
disturbi di Asse I e II e le sue implicazioni terapeutiche. E la
concettualizzazione
della
psicoterapia
come
declinazione
specifica dello scambio comunicativo proposta dal gruppo di
Sergio Salvatore, che si sta dedicando alla costruzione e
all’applicazione
di
sofisticati
strumenti
di
valutazione
processo terapeutico sulla base dei trascritti di sedute.
del
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Un altro filone importante è quello della ricerca su processo ed
esito delle psicoterapie condotte nei servizi pubblici; i gruppi
coordinati da De Coro, Fava e Masserini hanno infatti avviato
una serie di collaborazioni con le istituzioni pubbliche tese a
sviluppare modelli di supervisione e intervento clinico che
possano beneficiare dei dati ricavati dalla ricerca empirica. Se il
lavoro di ricerca permette infatti ai professionisti che lavorano
nei servizi di monitorare l’efficacia degli interventi, il lavoro
svolto dai clinici in queste istituzioni permette ai ricercatori
italiani di sviluppare programmi e strumenti di ricerca sempre
più “institution tailored” e sempre più utili alla clinica come “si
presenta in natura”. E non vi è dubbio che tutti gli sforzi tesi a
rafforzare il dialogo e lo scambio reciproco tra università e servizi
territoriali e competenza clinica e di ricerca debbano essere
sempre più valorizzati e sostenuti.
Questo
punto
mi
permette
di
sottolineare
un’altra
caratteristica specifica della ricerca italiana sulla psicoterapia:
mi riferisco alla costante attenzione dedicata alla esigenze di
clinici e pazienti nel rispetto dei vincoli metodologici e di
verificabilità della scienza empirica. Il lavoro dei gruppi italiani
impegnati in questa impresa si caratterizza infatti per un solido
radicamento nella clinica “as usual” e per un interesse specifico
per le ricadute cliniche delle ricerche empiriche. Questa
particolare sensibilità ha fatto sì che nel nostro paese molti
gruppi si siano dedicati ad approfondite ricerche “single case” su
terapie condotte in setting naturalistici, e allo studio di
strumenti e metodologie di ricerca applicabili in contesti
complessi come quelli dei servizi pubblici.
Un ultimo ambito a cui la ricerca italiana ha dato contributi
significativi è poi quello della chiarificazione e ridefinizione
teorica ed empirica dei fattori terapeutici di dimostrata efficacia.
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Mi riferisco in primo luogo al costrutto di “alleanza”, la cui bontà
come predittore dell’outcome delle psicoterapie è comprovata da
numerose ricerche ma il cui significato si è dilatato a tal punto
da minarne la consistenza, tanto che possiamo definirlo un
“concetto ombrello” (Horvath, 2006; Horvath & Symonds, 2002;
Lingiardi, 2002). Proprio rispetto all’alleanza, le ricerche del
gruppo di Vittorio Lingiardi hanno messo in evidenza come si
tratti di un costrutto complesso influenzato da molteplici fattori
interconnessi: dalle dinamiche di transfert, controtransfert ai
processi di regolazione affettiva reciproca, dai modelli di
attaccamento agli stili di personalità di paziente e terapeuta,
dalla funzione riflessiva ai meccanismi di difesa e alla qualità
delle comunicazioni che hanno luogo nella stanza di terapia.
In conclusione, credo che la ricerca italiana in psicoterapia nei
prossimi anni dovrà affrontare due compiti importanti: in primo
luogo, quello di definire con maggiore chiarezza il senso dei suoi
costrutti teorici di base (alleanza, transfert, relazione reale,
controtransfert, qualità degli interventi, etc.) tenendo conto delle
evidenze empiriche; in secondo luogo, quello di colmare lo iato
che ancora divide la ricerca sulla psicopatologia dalla ricerca su
processo ed esito delle psicoterapie. Auspico, in altri termini, che
i gruppi italiani inizino a progettare ricerche tese a verificare
quali sono i fattori terapeutici efficaci nel trattamento di specifici
disturbi, e che le ipotesi sviluppate e messe alla prova delle
indagini empiriche si basino su ricerche ad hoc relative ai fattori
specifici che contribuiscono allo sviluppo e al mantenimento dei
diversi quadri psicopatologici. Si tratta quindi di cercare risposte
alle domande relative a quali dimensioni e funzioni psichiche
siano connesse ai diversi quadri psicopatologici e a quali fattori
della psicoterapia riescano a incidere su queste dimensioni e
funzioni. Non ci dovremo più chiedere soltanto quale terapia sia
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efficace con quale paziente e con quale disturbo, ma quali fattori
terapeutici siano efficaci con quali dimensioni psichiche rilevanti
per quali disturbi. È una sfida ambiziosa, ma è tempo che venga
recepita.
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La ricerca in psicoterapia: il contributo del Gruppo di
lavoro della Cattedra di Psicologia Dinamica (base) della
Seconda Università di Napoli
Giorgio Caviglia,1 Raffaella Perrella,2 Walter Sapuppo,3
Nadia Del Villano4
Sommario
Lo scopo del presente lavoro è quello di illustrare i contributi passati e gli
attuali interessi del Gruppo di ricerca della Cattedra di “Psicologia Dinamica”
(corso di base) della Facoltà di Psicologia della Seconda Università di Napoli,
nonché di presentare e argomentare le pubblicazioni scaturite negli ultimi
anni dalle quelle ricerche.
I lavori si inseriscono nelle aree relative alla Teoria dell’ Attaccamento, alla
valutazione psicologica, allo studio della psicopatologia connessa ai Disturbi
del Comportamento Alimentare, alla ricerca in psicoterapia “single case”.
Parole chiave
Disturbi del comportamento alimentare, teoria dell’attaccamento, ricerca in
psicoterapia, psicopatologia
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Professore Associato, Dipartimento di Psicologia, Facoltà di Psicologia, S.U.N.,
2 Assegnista di Ricerca, Professore a contratto, Facoltà di Scienze della Formazione,
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, 3Docente contrattista, Facoltà di
Psicologia, S.U.N., Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC-Napoli, 4Dottorando di
Ricerca, Dipartimento di Scienze Pedagogiche, Università degli Studi di Bari
Corrispondenza: Prof. Giorgio Caviglia, Dipartimento di Psicologia, Facoltà di
Psicologia, S.U.N., via Vivaldi 43 -81100- Caserta (CE)
E-mail: giorgio.caviglia@unina2.it
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Introduzione
La Cattedra di “Psicologia Dinamica” (corso di base) della Facoltà di
Psicologia della Seconda Università di Napoli si occupa da diversi anni
di ricerca in psicoterapia e in particolare della ricaduta teorica (rispetto
ai costrutti e ai modelli) e clinica (rispetto alle tecniche collegate a una
teoria) dei risultati della ricerca empirica. Il Referente e Coordinatore è il
Prof. Giorgio Caviglia, Professore Associato confermato di “Psicologia
Dinamica”. Collaboratori a ricerche specifiche sono stati, negli anni,
Raffaella Perrella, Walter Sapuppo, Nadia Del Villano, Sara Bisogno,
Claudia Cecere, Domenico Nardiello, Marco La Marra, Emanuele Del
Castello, Barbara Fiocco, Adriana Solla. I collaboratori sono tutti
Psicologi che hanno diverse qualifiche (Professori a contratto, dirigente
psicologo della ASL, Dottori di Ricerca e dottorandi, consulenti di
Tribunale,
di
aziende
e
di
studi
privati)
e
specializzazioni
(in
Psicoterapia Psicoanalitica, Psicodinamica, Lacaniana, Relazionale,
Cognitivo-Comportamentale e in Psicodiagnostica). La Sede del Gruppo
di ricerca è presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, Facoltà di
Psicologia, Dipartimento di Psicologia.
La ricerche portate avanti dalla Cattedra, hanno sempre avuto come
obiettivo quello di proporre una loro successiva ricaduta sia sulle teorie
a cui si riferivano e da cui derivavano, sia a livello dell’intervento clinico.
Nella bibliografia finale verranno riportati tutti i lavori, relativi alle
diverse aree, sviluppati nel tempo dagli appartenenti al Gruppo di
ricerca. I lavori prodotti verranno divisi, per chiarezza espositiva, come
detto, in cinque filoni. Abbiamo deciso di raggruppare gli ambiti di
ricerca del nostro Gruppo di lavoro nelle seguenti cinque aree principali:
1) Disturbi del Comportamento Alimentare (la tematica più recente);
2) teoria dell’Attaccamento applicata all’ambito scolastico e clinico;
3) nonché come riflessione storica, teorica e clinica;
4) ricerca in psicoterapia “single case”;
5) trauma e psicopatologia;
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6) ambito psicodiagnostico e della valutazione psicologica.
Vediamo, a seguire, in maniera più dettagliata, le aree specifiche, le
cui citazioni sono inserite, come già detto, tutte insieme, nella
bibliografia finale.
1) Disturbi del Comportamento Alimentare e obesità
Per quanto concerne i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA),
attualmente il Gruppo è impegnato sia nella ricerca, all’interno di
campioni clinici, di relazioni tra tali disturbi, fenomeni dissociativi e
difficoltà relative all’espressione delle emozioni (alessitimia) (Caviglia,
2009), che nella valutazione dell’obesità come “disturbo mentale” e/o
comportamentale.
Inizialmente il Gruppo era indirizzato a campioni particolari, che
abbiamo ritenuto avrebbero potuto essere “a rischio” di DCA, per
l’estrema attenzione e valore dati all’immagine corporea (Caviglia,
Perrella, Bisogno, & La Marra, 2006; La Marra, Bisogno, Perrella, &
Caviglia, 2006; La Marra, Perrella, Bisogno, & Caviglia, 2006), quali gli
operatori dello spettacolo.
E’ stato successivamente studiato un campione di adolescenti
campani (Caviglia, Perrella, La Marra, & Giannini 2006), rispetto ai
fenomeni e alle difficoltà summenzionate, ottenendo risultati positivi
che non disconfermano i dati riportati della letteratura internazionale;
in seguito, in uno studio pubblicato sul Volume 12 (Numero 1/2,
Novembre-Dicembre 2009) di “Ricerca in Psicoterapia” (La Marra,
Sapuppo, & Caviglia, 2009b), sono state valutate le relazioni che
intercorrono tra i risultati ottenuti all’ Eating Disorder Inventory-2 (EDI2; Garner, 1991), alla Dissociative Experiences Scale (DES; Bernstein &
Putnam, 1986) e alla Scala Alessitimica Romana (SAR; Baiocco,
Giannini, & Laghi, 2005) in un campione di 53 pazienti adulti con
diagnosi di Disturbo del Comportamento Alimentare (14 con diagnosi di
Anoressia Nervosa, 15 con Bulimia Nervosa, 12 con DCA Non Altrimenti
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Specificato e 12 con Disturbo da Alimentazione Incontrollata). I dati
emersi dalla nostra ricerca, ancora una volta, non disconfermano le
relazioni riportate in letteratura tra i Disturbi del Comportamento
Alimentare, i fenomeni dissociativi e l’alessitimia (cfr. anche: Caviglia,
Bisogno, Perrella, & La Marra, 2006; La Marra, Piombino, Messina,
Perrella, Chieffi, Mangoni di Santo Stefano, & Caviglia, 2006).
Attualmente il Gruppo è impegnato, oltre che nell’ampliamento del
campione, anche nel reclutamento di soggetti gravemente obesi per
valutare eventuali caratteristiche discriminanti. A tal proposito, dopo
un’attenta
disamina
dei
maggiori
contributi
teorici
riguardo
al
significato e all’etiopatogenesi dell’obesità, sono stati condotti altri studi
volti a comprendere gli aspetti psicopatologici comunemente associati ai
DCA
(dissociazione,
alessitimia)
di
immagine
un gruppo
di
corporea,
abitudini
561 soggetti
alimentari
adolescenti
e
campani
rispettivamente ripartiti nelle diverse categorie (normopeso, sovrappeso
e obesi) definite dall’ Indice di Massa Corporea (IMC o BMI, Body Mass
Index) e senza diagnosi di DCA. Dai risultati emersi dal nostro studio
(La Marra, Sapuppo, & Caviglia, 2009a) si evince come alcune delle
dimensioni psicologiche comunemente associate ai DCA, quali l’impulso
alla
magrezza,
la
mancanza
di
consapevolezza
enterocettiva,
l’insoddisfazione per il corpo, la mancanza di empatia, l’insicurezza
sociale, le eccessive preoccupazioni per il proprio aspetto fisico, il
controllo compulsivo dell’aspetto fisico, l’inadeguatezza, la sfiducia
interpersonale e l’insoddisfazione per le parti corporee che vedono
coinvolte la testa e il tronco, siano in grado di spiegare una porzione
consistente della varianza del BMI di un gruppo di soggetti ai quali non
è stato diagnosticato alcun disturbo alimentare secondo i criteri
diagnostici del DSM IV-TR. A queste, seppur in misura minore, si
associano l’autodirezionalità, la tendenza ad un’alimentazione non
corretta e l’incapacità di gestire il comportamento alimentare. Si
escludono dall’equazione, quindi, perché il criterio statistico adottato
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non evidenzia una probabilità associata statisticamente significativa, i
tratti temperamentali indagati secondo il modello di Cloninger, la
presenza di esperienze dissociative e le dimensioni chiave che
definiscono il costrutto dell’Alessitimia e ampiamente documentate in
letteratura come profondamente associate ai DCA (cfr. anche: La Marra,
Sapuppo, Messina, Mangoni di S. Stefano, Chieffi, & Caviglia, 2009; La
Marra, Sapuppo, & Caviglia, 2010; La Marra, Sapuppo, Chieffi, &
Caviglia, 2010).
Tutti
gli
studi
vanno
inquadrati
all’interno
di
una
cornice
teorico/clinica che vede la lettura prospettica multidimensionale dei
DCA come il miglior approccio, sia dal punto di vista della spiegazione
eziopatogenetica, che del mantenimento del disturbo, che dell’intervento
terapeutico (cfr. Caviglia & Cecere, 2007).
2) Teoria dell’ Attaccamento
a) Contributi riguardo lo sviluppo sociale, emotivo e cognitivo
Per quanto concerne l’attaccamento, il nostro Gruppo è stato ed è
impegnato su diversi fronti di ricerca, tutti derivanti da continuativi
interessi e riflessioni teoriche (Brisch, 2005; Caviglia, 2003; Caviglia,
2005; Caviglia & Bisogno, 2008; Del Villano & Bisogno, 2009).
Particolare attenzione è stata rivolta al ruolo che l’attaccamento madrebambino e quello educatrice-bambino giocano nello sviluppo dei
bambini e, allo stesso tempo, alle variabili che influenzano la qualità di
tale legame (Cassibba & Caviglia, 2000; Caviglia, Cassibba, & Coppola,
2000). Dai nostri studi si evidenzia, inoltre, che le madri classificate
come “sicure” (attraverso l’utilizzo dell’ Adult Attachment Interview;
George, Kaplan, & Main, 1985) hanno bambini che manifestano
maggiori competenze socio-emotive (valutate con la Socio-Emotional
Dimension Scale; SEDS, Hutton & Roberts, 1986), se paragonati a
bambini figli di madri “insicure” (Caviglia, Solla, & Dazzi, 2003). Inoltre,
sia
la
sensibilità
dell’educatrice,
che
la
qualità
delle
strutture
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istituzionali (scuole elementari e asili nido), sembrano costituire un
terreno ideale per lo sviluppo di un attaccamento sicuro del bambino
(Caviglia & Pili, 2001). Per valutare i costrutti implicati, sono stati
utilizzati diversi strumenti:
- il Maternal Behaviour Q-set (Pederson & Moran, 1995), un test
composto da 90 item ciascuno dei quali descrive un comportamento
specifico dell’educatrice in risposta a segnali specifici del bambino;
- l’Attachment Q-set (Waters & Deane, 1985), un test composto da 90
item che descrive un comportamento specifico di attaccamento del
bambino nei confronti dell’educatrice;
- la SVANI (Scala per la Valutazione dell’asilo nido; Harms, Cryer, &
Clifford, 1990), una scala formata da 37 item che fornisce un quadro
complessivo della qualità del servizio offerto della struttura presa in
considerazione.
Negli ultimi 3 anni, l’attività di ricerca della Cattedra si è focalizzata
sulle relazioni tra Memoria di Lavoro (Working Memory, WM), stile di
attaccamento
e
apprendimento/rendimento
scolastico.
Come
ampiamente affermato in letteratura, il processo di apprendimento
coinvolge sia numerose abilità cognitive – quali attenzione, memoria,
linguaggio – che competenze relazionali-sociali. Numerose ricerche
evidenziano una marcata associazione tra deficit della Memoria di
Lavoro (ML) e disturbi dell’apprendimento nei bambini. Numerosi studi
rilevano che le abilità della ML influiscono, in particolar modo,
sull’apprendimento del linguaggio scritto e dell’aritmetica.
Sulla
base
degli
dell’Attaccamento
è
studi
effettuati
possibile
nell’ambito
evidenziare
che
della
bambini
Teoria
con
un
attaccamento sicuro con il proprio caregiver e/o con il/la proprio/a
insegnante,
dimostrano
migliori
capacità
nell’espressione
e
riconoscimento emotivo, nel comportamento prosociale, nelle attività
ludico-cognitive, nell’acquisizione di concetti base, nell’adattamento
scolastico e nello sviluppo linguistico-espressivo.
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Inizialmente è stata valutata empiricamente la presenza di relazioni
significative tra i risultati ottenuti in una serie di prove cognitive quantificanti la ML - e il rendimento scolastico, rispecchianti la qualità
del livello di apprendimento raggiunto (Caviglia, La Marra, Sapuppo, &
Perrella, 2010).
Inoltre, per sottoporre ad analisi correlazionale i risultati ottenuti al test
con il rendimento scolastico, sono state rilevate le valutazioni degli
insegnanti rispetto agli insegnamenti di Italiano e Matematica di 89 dei
nostri 100 soggetti reclutati. Gli 11 soggetti esclusi non rispettano i
criteri di inclusione dello studio, a causa della frequentazione della
scuola dell’infanzia dove non è presente, come nella scuola primaria, la
valutazione numerica decimale (Legge 169/2008). Tuttavia i soggetti più
piccoli sono stati inclusi nello studio per l’adattamento italiano.
A oggi (La Marra, Perrella, Marciano, Cecere, Intoccia, Ciccarelli, Del
Villano, Bisogno, & Caviglia, 2009; Del Villano, Sapuppo, Cecere, La
Marra, Perrella, Marciano, Intoccia, & Caviglia, 2010), ai fini di una più
approfondita indagine, sono stati somministrati i seguenti test:
- Test di Valutazione Linguistica (TVL) (Cianchetti & Sannio Fancello,
2007), allo scopo di quantificare il livello evolutivo complessivo del
bambino, nonché di evidenziare eventuali differenze e/o anomalie
nell’evoluzione delle varie componenti ed espressioni linguistiche;
- Separation Anxiety Test (SAT) nella versione “famiglia” (Attili, 2001) e
“scuola” (Liverta Sempio, Marchetti, & Leccio, 2001). Un test semiproiettivo basato su una serie di figure che rappresentano scene di
separazione tra un bambino/bambina e i suoi genitori e tra un
bambino/bambina e la sua insegnante. Si ipotizza che queste scene
attivino le rappresentazioni del bambino legate all’attaccamento,
permettendo di classificarle.
Dall’elaborazione dei dati raccolti attraverso la somministrazione del
TVL è emerso, in linea generale, un corretto sviluppo linguistico e
l’assenza di significativi deficit linguistici. I punteggi ponderati emersi
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dal nostro campione sono compresi da 3.5 a 9.4 (M 7.3) e DS 0.20.
Attualmente gli autori sono impegnati nell’elaborazione dei dati relativi
alla valutazione dei Modelli Operativi Interni attraverso il SAT.
b) Contributi riguardo tematiche generali e cliniche
L’interesse per la Teoria dell’Attaccamento si è esplicato sia a livello di
riflessione teorica, che di ricaduta clinica (Brisch, 2005; Caviglia, 2003;
Caviglia, 2005; Caviglia & Bisogno, 2008). Per rendere operativa
l’applicazione della Teoria a livello di ricerca, tre membri del Gruppo
hanno partecipato ai Corsi dell’ “Official Adult Attachment Training
Institute”, che si sono tenuti a Roma, in diversi anni e hanno superato i
“reliability testing” previsti (30 casi in Inglese), con esito “full pass”
(categorie F, Ds, E, U) e giudizio “highly reliable”. L’Attaccamento è stato
dunque utilizzato come chiave di lettura teorica, nello sviluppo normale
e patologico, e come strumento di ricerca.
In un primo momento, particolare attenzione è stata rivolta alle pazienti
agorafobiche rispetto alle quali è stato evidenziato come lo “stato della
mente” rilevato attraverso l’AAI sia statisticamente identificabile come
un attaccamento di tipo “insicuro” (Caviglia, Del Castello, & Curcio,
2001; Caviglia, Del Castello, & Fiocco, 2001; Caviglia, Del Castello, &
Fiocco, 2002), dato che non disconferma l’intuizione di Bowlby (1973).
Inoltre è emerso, altro dato interessante della nostra ricerca, che anche
i partner delle donne agorafobiche risultavano “insicuri” all’ AAI, in
maniera statisticamente significativa, dato che non disconferma l’ipotesi
di Liotti e Guidano (1976).
Successivamente, l’interesse si è spostato sulla correlazione fra
traumi infantili, attaccamento adulto e Attività Referenziale, misurata
con lo strumento DAAP (Dizionario Ponderato dell’Attività Referenziale)
(Tagini, Pazzagli, Caviglia, & Dazzi, 2007; Tagini, Pazzagli, Caviglia,
Pravato, De Coro, & Dazzi, 2009). I risultati della ricerca, condotta su 4
soggetti (appartenenti a un campione più ampio di 65 studenti) i cui
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trascritti erano stati siglati con la AAI, il DAAP e il Childhood Trauma
Questionnaire
(CTQ),
hanno
mostrato
numerose
e
significative
attivazione sub-simboliche dell’AR, in concomitanza di eventi narrativi
in cui venivano riportati i maltrattamenti e i traumi subiti.
Altro significativo campo di ricerca clinico con l’Attaccamento, è stata
l’applicazione dell’AAI ai “Figli della Shoà” (Caviglia, Gangi, & Fiocco,
2002; Caviglia & Fiocco, 2003; Caviglia, Fiocco & Fullone, 2003;
Caviglia, Fiocco, Solla & Dazzi, 2004; Caviglia, Fiocco, & Dazzi, 2004;
Caviglia & Bisogno, 2009), cioè la seconda generazione dei figli dei
sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Lo scopo della ricerca e dei
lavori scaturiti era quello di indagare quale contributo la prospettiva
dell’attaccamento poteva portare alla comprensione della trasmissione
intergenerazionale del trauma della Shoà. In particolare, l’ipotesi era di
studiare come e se la dissociazione, l’absorbtion, i comportamenti
spaventati/spaventanti (Lyons-Ruth & Atwood, 1997) dei Genitori
vittime
dell’Olocausto,
potessero
rappresentare
l’equivalente
operazionalizzato dell’ “ombra dell’Olocausto” (Moses, 1993) sui Figli. Il
campione era costituito da 26 ebrei italiani, i cui genitori erano tornati
dai campi di sterminio e 26 ebrei italiani, comparabili per età, sesso e
livello socio-economico-culturale, i cui genitori erano sopravvissuti allo
sterminio nazista, senza essere stati rinchiusi nei campi. Non sono
risultate differenze significative fra il gruppo sperimentale e il gruppo di
controllo.
Ma
significativamente
sebbene
il
gruppo
“traumatizzato”
sperimentale
(elemento
inatteso),
non
fosse
entrambi
i
gruppi mostravano una distribuzione delle categorie dell’AAI, diverse
dalla
distribuzione
“normale”
(van
IJzendoorn
&
Bakermans-
Kranenburg, 1996); inoltre, il gruppo sperimentale differiva solamente
un po’, per la frequenza della categoria “Dismissing”, forse dovuta
all’atteggiamento ritirato, duro e autosufficiente del Genitore, magari
inconsciamente attuato anche per difendere il Figlio dal proprio trauma
(che, infatti, non viene “automaticamente” trasmesso).
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Infine, l’ultimo campo di interesse di questo ambito di ricerca (l’AAI)
ha come obiettivo di costruire un ponte, ponendo a confronto tre metodi
diversi di “raccontare la propria vita”, per attivare una riflessione
comune, fra tre differenti campi d’indagine, quali la ricerca psicologicoclinica, la psicoterapia e la ricerca pedagogico-didattico (Caviglia, Del
Villano, & Sapuppo, 2010). Tale obiettivo vuole essere conseguito
individuando ed evidenziando i punti di contatto e accostando tre
metodologie di applicazione empirica, quali il Metodo NarrativoAutobiografico con adulti, l’Adult Attachment Interview (AAI) e la
procedura di indagine psicoterapeutico-cognitiva denominata ABC.
Scopo di questo lavoro è anche quello di evidenziare l’importanza della
“narrazione di Sé”, ai fini di un eventuale cambiamento (sia all’interno
di un contesto psicoterapeutico, che quotidiano – lavorativo, familiare,
etc.).
Attraverso
le
narrazioni,
infatti,
sia
nell’intervista
sull’Attaccamento, che nel racconto autobiografico, che nei protocolli
ABC, il soggetto può collocare le sue azioni e i suoi pensieri in uno
specifico tempo e in uno specifico spazio, e inscrivere se stesso in un
rapporto di causa ed effetto o reciprocità con altre azioni, altri eventi ed
altre persone, dando modo al comportamento passato di assumere un
senso e un significato nuovi. In questo modo, operando una riflessione
“meta”, il soggetto può giungere a una maggiore conoscenza di se stesso
e dei suoi modi di essere e di sentire.
3) Ricerca in psicoterapia
Relativamente all’area della “Ricerca in Psicoterapia” il Gruppo,
focalizzando il proprio interesse sulle ricerche single-case (Caviglia,
Scafuto, Solla, & Semerari, 2003; Perrella, D’Amore, La Marra, &
Caviglia, 2005), si è occupato – e si occupa – della valutazione del
processo e della valutazione dell’esito (note in letteratura come process
research e outcome research) attraverso lo studio di percorsi e/o
interventi
psicoterapeutici
realizzati
con
pazienti
con
specifiche
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patologie o
deficit (Andreassi, Cascioli, Caviglia, De Coro, Lingiardi,
Ortu, Pazzagli, Piscicelli, Williams, & Dazzi, 2000; Caviglia, Scafuto,
Perrella, & Semerari, 2006).
Si suole, infatti, distinguere la ricerca in psicoterapia in due differenti
settori: l’outcome research (ricerca sul risultato) – che fa riferimento alla
ricerca sugli esiti del trattamento, misurabile al termine della terapia
stessa (in termini di differenze tra lo stato pre e post-terapia valutate
con determinati strumenti standardizzati) – e il process research (ricerca
sul processo) che riguarda, invece, la ricerca sui vari aspetti del
“processo” della terapia, i quali possono essere misurati anche mentre
essa è in corso e indipendentemente dal risultato. In questo ambito di
ricerca si inserisce l’Attività Referenziale (AR) (Bucci, 1997; Caviglia &
De Coro, 2000; De Coro, Ortu, Caviglia, Andreassi, Pazzagli, Mariani,
Visconti, Bonfanti, Bucci, & Maskit, 2004), che si può definire come
l’attività del sistema delle connessioni referenziali tra sub-simbolico,
rappresentazioni simboliche verbali e non verbali, e come queste
connessioni si riflettono nello stile del linguaggio. Le misure dell’Attività
Referenziale valutano il grado in cui chi parla, o chi scrive, è capace di
tradurre
tali
esperienze
in
parole,
così
da
evocare
esperienze
corrispondenti nell’ascoltatore o nel lettore. Il livello di AR presenta una
variabilità sia di stato che di tratto, indica cioè, cambiamenti in uno
stesso soggetto nel corso del tempo, in funzione di eventi esterni o
interni, o differenze interindividuali più stabili (De Coro & Caviglia,
2000; Caviglia, 2001). Date queste premesse, in questo contesto teorico
la psicopatologia può essere ricondotta alla disconnessione tra i sistemi
di elaborazione delle informazioni e alla dissociazione degli schemi
emotivi (Caviglia & Del Villano, 2010). Tali variazioni sono state rilevate
all’interno della terapia mettendo a punto un metodo empirico per la
valutazione
dell’Attività
Referenziale.
L’AR
può
essere
misurata
attraverso il metodo manuale applicato da giudici che hanno seguito un
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training
di
addestramento,
o
attraverso
i
più
recenti
metodi
computerizzati (cfr. nel §2b il DAAP).
Nel campo della ricerca in psicoterapia, il Gruppo si è focalizzato
anche
sullo
studio
del
costrutto
della
metacognizione
–
operazionalizzato e valutato attraverso la Scala di Valutazione della
Metacognizione (S.Va.M.) (Carcione, Falcone, Magnolfi, & Manaresi,
1997) – che risulta essere un utile ponte di raccordo fra le diverse
concettualizzazioni che cercano di spiegare l’eziopatogenesi del Disturbo
Borderline di Personalità (DBP) (Caviglia, Iuliano, & Perrella, 2005).
Partendo dallo studio di diversi approcci teorici che mirano alla
comprensione della genesi del disturbo borderline (Caviglia, Iuliano, &
Perrella,
2005),
e
all’
individuazione
dei
conseguenti
interventi
psicoterapeutici possibili, attraverso il costrutto della meta cognizione,
ci siamo posti (Caviglia, Solla, Scafuto, & Semerari, 2003; Caviglia,
Scafuto, Perrella, & Semerari, 2006) l’obiettivo di analizzare se esista
una tipologia di deficit metacognitivo specifica del disturbo borderline di
personalità e se si rilevi un incremento metacognitivo nel corso di una
psicoterapia, tale da essere indicativo del grado d’efficacia della
psicoterapia stessa.
Dall’analisi delle frequenze rilevate, abbiamo osservato- attraverso
uno studio sul processo psicoterapeutico di un single-case – un
miglioramento delle funzioni metacognitive progressivo e globale, che
non disconferma l’ipotesi di partenza. Nello specifico accade che la
caratterizzazione,
ossia
la
capacità
di
discriminare
tra
loro
le
componenti cognitive ed emotive dei propri stati interni, è positiva e
costante in tutte le sedute esaminate; la reversibilità del pensiero ha
valori deficitari nelle sedute iniziali e assume valori crescenti in quelle
mediane, fino a raggiungere il picco positivo nelle ultime sedute; il
riconoscimento dei limiti del pensiero segue invece un andamento
crescente lineare; la relazione tra variabili, funzione del monitoraggio
meta cognitivo, ha sempre valori positivi, tuttavia anch’essa migliora
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nelle sedute centrali, per poi restare costante nelle ultime; le funzioni
dell’integrazione, da che erano molto basse, seguono lo stesso
incremento positivo nel corso dello svolgersi della psicoterapia.
4) Trauma e psicopatologia
Il Coordinatore del Gruppo di ricerca si è da tempo concentrato sulla
letteratura internazionale, che evidenzia prove empiriche sempre più
numerose che confermano come esperienze traumatiche di abuso o
maltrattamento infantile siano frequentemente associate a patologie
accomunate
da
deficit
nella
modulazione
delle
emozioni
e
nell’integrazione del Sé (Caviglia, 1998; Tagini, Pazzagli, Caviglia, De
Coro, & Dazzi, 2008). La sofferenza emotiva indotta da avvenimenti
traumatici non è, però, necessariamente legata alla dissociazione nei
bambini, se questi avvenimenti si verificano all’esterno del contesto
delle relazioni familiari. Il conflitto si manifesta, attraverso un
comportamento disorganizzato, quando il bambino, subendo abusi e
maltrattamenti dalle figure genitoriali, adotta strategie incoerenti e
disfunzionali, espressione di rappresentazioni contraddittorie e non
integrate del Sé e della figura di attaccamento. Gli studi longitudinali
esposti dimostrano come la teoria dell’attaccamento offra una chiave
interpretativa della relazione tra trauma e psicopatologia, dimostrando
l’importanza delle relazioni di attaccamento, come fattore di rischio o
protezione nella costruzione del sé laddove il maltrattamento, nelle sue
diverse espressioni, rappresenta un trauma evolutivo (Caviglia, Perrella,
La Marra, & Bisogno, 2007).
Un altro lavoro a cui ha partecipato un membro del gruppo, ha
studiato la dissociazione e il trauma in una paziente di 24 anni,
sottoposta a psicoterapia a orientamento analitico, a cui sono stati
somministrati l’AAI, l’OPD (Diagnosi Psicodinamica Operazionalizzata) e
la SWAP-200. All’inizio della psicoterapia, la narrazione della perdita
della
nonna
materna
mostrava
aspetti
dissociativi
nell’uso
del
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linguaggio, mentre il lavoro di psicoterapia ha aumentato il processo
referenziale, portando alla riconnessione dei diversi sistemi di codifica
sub-simbolici e simbolici (De Coro, Caviglia, Giannini, Iberni, &
Mariani, 2008).
Negli ultimi anni, la riflessione del Gruppo sul trauma si è orientata
verso la Psicologia delle emergenze (Caviglia & Nardiello, 2009;
Nardiello, La Marra, Fedeli, & Del Villano, 2009; Nardiello, Perrella, La
Marra, Sapuppo, Bisogno, & Caviglia, 2009; Nardiello, Pinto, &
Sapuppo, 2009), come campo clinico dentro il quale andare a studiare i
rapporti tra eventi traumatici e disturbi psichici. Il Gruppo di lavoro
specifico sulla ricerca in Psicologia delle Emergenze è impegnato
nell’elaborazione di modelli e procedure di intervento nell’ambito della
prevenzione primaria e secondaria dei disturbi post-traumatici, anche
grazie alla collaborazione diretta con l’Ordine degli Psicologi della
Regione Campania che, con il Corpo Militare della Croce Rossa Italiana,
organizza e espleta seminari e corsi di formazione, diretti a Psicologi e a
personale di soccorso coinvolto nella gestione delle emergenze. Tale
attività, fornendo conoscenze teoriche e operative in contesti di
emergenza,
rappresenta
il
primario
elemento
preventivo
di
problematiche derivanti dall'incontro con il trauma. Il personale formato
è seguito prima e dopo le operazioni in emergenza per il monitoraggio
delle loro dinamiche psichiche legate all'evento e per la raccolta di
informazioni e dati per la ricerca. La finalità è quella di proporre, alle
organizzazioni che si interessano di emergenza, un più efficace piano
d'intervento per l'ambito del supporto clinico e psicologico di vittime,
soccorritori e tecnici impegnati nel contesto delle catastrofi.
5) Ambito psicodiagnostico
Il
Gruppo
di
ricerca
si
occupa
dei
reattivi
psicodiagnostici
maggiormente diffusi (Rorschach, DAP, WAIS, MMPI), che permettono
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allo Psicologo di orientarsi verso un determinato inquadramento
diagnostico. Il tentativo è quello di verificare le convergenze di indici di
strumenti diversi, al fine di apportare un contributo nella comprensione
e valutazione di soggetti normali e/o patologici, anche nelle procedure
di
assessment
richieste
a
livello
istituzionale
(ASL,
Tribunali,
Dipartimenti di medicina legale, etc.). Il clinico ha a disposizione una
serie di strumenti per la diagnosi, che vanno dalle scale di valutazione
in psichiatria ai test proiettivi. Il loro utilizzo è subordinato all’analisi
della domanda, al colloquio clinico, alla situazione diagnostica, al
contesto, alla committenza e al quesito posto dall’utente a livello
collusivo. Il tentativo del Gruppo (Caviglia, 2005; Caviglia & Del
Castello, 2003; Caviglia & Pinto, 2009; La Marra, 2006) è stato quello di
coniugare
intervento
clinico
e
riflessione
teorica,
mostrando
praticamente l’applicazione, in casi clinici reali, di approcci valutativi di
analisi della domanda e testologici. Inoltre, per quanto concerne la
depressione (Perrella, 2006), il Gruppo di ricerca ha approfondito lo
studio teorico e l’utilizzo di diversi test per valutare tale patologia
nell’infanzia e nell’adolescenza. Sono stati trattati il Test dell’ansia e
della depressione nell’infanzia e nell’adolescenza (TAD; Newcomer,
Barenbaum, & Bryant, 1995), il Children’s Depression Inventory (CDI;
Kovacs, 1988) e la Children’s Depression Scale (CDS; Lang & Tisherm,
1978). Tra i reattivi utilizzati per effettuare diagnosi di depressione nei
soggetti adulti sono stati utilizzati il Beck Depression Inventory (BDI;
Beck, Ward, Mendelson, Mock, & Erbaugh, 1961), la Hamilton
Depression Rating Scale (HDRS o HAM-D; Hamilton, 1960), la SelfRating Depression Scale (SDS; Zung, 1965). In altri lavori, sono stati
utilizzati strumenti specifici per la diagnosi psicologica nell’alcolismo
(Aurilio, Palmisciano, & Caviglia, 2004), quali il MALT, il MAST, il CAGE
(Ewing, 1984) e si è affrontata la riflessioni sul problema della “doppia
diagnosi” (Caviglia, La Marra, & Bonifacio, 2006).
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Abstract
The purpose of this article is to illustrate the current interests of our italian
Research Group link with the course of “Dynamic Psychology” (basic) of the
Faculty of Psychology at 2nd University of Neaples and the works published in
recent years resulting from these investigations. The works are placed in areas
related to Attachment Theory, psychological assessment, study of
psychopathology related to Eating Disorders and psychotherapy research
“single case”.
Keywords
Eating
disorders,
psychopathology
attachment
theory,
psychotherapy
research,
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Memories and Futures. Storia e sviluppi di un gruppo
di ricerca italiano: dagli studi di efficacia alle analisi
delle resistenze al cambiamento
Emilio Fava,1,2 Pablo Zuglian,1 Dario Ferrario,1,2 Daria Taino,1,2
Martina Conte,2 Francesca Cadeo1
Sommario
L’obiettivo di questo articolo è di riassumere brevemente come si sia formato
e sviluppato il nostro gruppo di ricerca e quali indirizzi di ricerca abbia preso
nel corso degli anni. Tale fine risponde all’esigenza condivisa di una maggiore
collaborazione e integrazione tra i vari gruppi che si sviluppi anche al di fuori
dei contatti stimolanti, ma purtroppo sporadici, che avvengono ai congressi,
sia nazionali che internazionali, in modo da aprire eventuali nuove strade di
condivisione di percorsi di ricerca comune. Siamo convinti che la conoscenza
reciproca sia la “via regia” alla costruzione di nuovi progetti e alla realizzazione
di quelle conoscenze scientifiche per cui la nostra Società è nata.
Parole chiave
Efficacia dei trattamenti, relazione terapeutica, diagnosi psicodinamica,
resistenze al cambiamento, diagnosi dimensionale, formazione
-----------------------------------------------------------------------------------------------1
Università degli Studi di Milano – S.C. Psichiatria 4, A.O. Niguarda Ca’ Granda,
Milano. 2 Associazione Gruppo Zoe, per la formazione e lo studio su la qualità e
l’efficacia delle cure psichiche, Milano.
Referente: Emilio Fava
Corrispondenza: Emilio Fava
E-mail: emilio.fava@unimi.it
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Introduzione
Il gruppo milanese SPR nacque nel 1987, presso l’Istituto di Clinica
Psichiatrica dell’ Università degli Studi di Milano a opera di Salvatore
Freni ed Emilio Fava. Furono presi contatti con i gruppi di ricerca
stranieri e in particolare con il gruppo di Ulm (Thöma e Kachele) e con il
gruppo di Luborsky negli Stati Uniti. Iniziò così un lavoro di traduzione
e diffusione di alcuni testi base per la ricerca come ad esempio il
“Trattato di terapia psicoanalitica” (Thöma & Kachele, 1985), il “Manuale
di psicoterapia supportivo-espressiva” (Luborsky, 1984) e “Capire il
transfert” (Luborsky & Crits-Cristoph, 1990),
manuale del metodo
CCRT di cui venne valutata l’affidabilità nel contesto italiano. In quel
periodo iniziò il lavoro di traduzione e validazione di alcune scale di
valutazione multidimensionale degli esiti come la HSRS (Luborsky,
1962; Freni, Azzone, Gaburri, & Gigli, 1998), dell’alleanza di lavoro
come l’HA (Luborsky, 1976; Verga, 1999) e dei meccanismi di difesa
(Perry, 1991), oltre all’utilizzo del metodo CCRT per la prima volta.
L’obiettivo principale del gruppo era quello di sperimentare la possibilità
di
operazionalizzare
alcuni
costrutti
fondamentali
del
pensiero
psicoanalitico, e di individuarne le potenzialità euristiche e gli ambiti di
applicazione, in un contesto tendenzialmente diffidente se non ostile.
Il lavoro svolto in quegli anni, in collaborazione con i vari gruppi di
ricerca nati nel frattempo in Italia, portò all’organizzazione del primo
congresso di SPR Italia a Cernobbio nel 1996 e all’elezione di Salvatore
Freni come primo presidente della sezione italiana della Società di
Ricerca in Psicoterapia e direttore della rivista Ricerca in Psicoterapia
(1998).
Nel 1994 si costituì presso la Clinica Psichiatrica dell’Università degli
Studi di Milano ad Affori un secondo gruppo, coordinato da Emilio Fava
e Cinzia Masserini, che pur continuando le ricerche sul processo
terapeutico utilizzando i metodi CCRT (Fava, 1995; Masserini, Fava,
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Arduini, Borghetti, Calini, Corbellini, Ferri, Fontolan, Gatta, Mazzariol,
Pazzi, Spoletini, & Pazzaglia, 1998) e SASB (Benjamin, 1974; Capelli,
Fava, Taglietti, Aliprandi, Arduini, Freni, Schadee, & Vigorelli, 2005;
Fava & Vigorelli, 2006), iniziò a occuparsi anche di studi di efficacia,
utilizzando metodi quantitativi e qualitativi. Questi studi hanno portato
alla pubblicazione di alcuni articoli riguardanti l’esito delle psicoterapie
(Fava,
Pazzi,
Arduini,
Masserini,
Lammoglia,
Lomazzi,
Landra,
Pazzaglia, & Carta, 2000; Osimo, Merlo, Arduini, Landra, Fava,
Masserini, Carta, & Pazzaglia, 1998; Rozzi, Rozzi, Fava, Lazzari,
Baruhk,
& Fontolan, 1997; Ferrari, Pinzi, Camarda, & Roustayan,
2005), le interruzioni non concordate di trattamento (Masserini et al.,
1998; Fava, Masserini, Borghetti, Camarda, Fontolan, & Duca, 2001) e
la formazione degli psichiatri e il loro punto vista sulla cura nei servizi
pubblici di salute mentale (Ba, Fava, & Carta, 1992; Fava, 2004;
Lomazzi, Fava, Landra, D’Angelo, Lammoglia, Pazzi, Calini, Arduini,
Barattini, & Carta, 1997)
confluiti poi nel libro “Efficacia delle
psicoterapie nel servizio pubblico” (Fava & Masserini, 2002) e in
successivi lavori (Fava & Masserini, 2006). Gli studi sull’efficacia dei
trattamenti rispondevano alla domanda su quali trattamenti andassero
praticati nei Servizi Pubblici, in un contesto in cui si imponeva una loro
razionalizzazione sulla base di dati sul’evidenza dei risultati terapeutici.
Questo orientamento, nel contesto di una esigenza di integrazione degli
interventi da attuare nei servizi psichiatrici e nella pratica clinica,
rimane uno dei principali punti di interesse del gruppo della Clinica
Psichiatrica Universitaria.
La ricerca sugli esiti dei trattamenti ha portato, nel 2000, alla
collaborazione con il gruppo di Marta Vigorelli (Università di MilanoBicocca), che si stava occupando di valutazione dell’efficacia nei Servizi
Pubblici (utilizzando il metodo HONoS) rispondendo alla richiesta di
valutazione di qualità dei servizi che stava emergendo in quel periodo e
che si è sempre più sentita nei servizi di salute mentale in Italia.
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Il problema della valutazione degli esiti e della valutazione della
qualità dei trattamenti implica lo studio delle cause dei fallimenti
terapeutici anche nei casi di trattamenti di provata efficacia. Per questo
è nata anche una collaborazione con il gruppo Bicocca volta allo studio
dell’andamento della relazione terapeutica in pazienti poor outcome
utilizzando il metodo SASB. Inoltre è stato sviluppato e applicato un
sistema di valutazione della qualità dei trattamenti utilizzando alcuni
strumenti utilizzati per l’analisi dei single-case (ESMS).
Dal 2004, sempre all’interno della Clinica Psichiatria Universitaria –
S.C. Psichiatria 4 A.O. Niguarda, si è sviluppato un nuovo filone di
studio orientato alla diagnostica psicodinamica che partendo dalle
ricerche sulla OPD (Diagnosi Psicodinamica Operazionalizzata; OPD
Task Force, 1996, 2006) si muove verso lo studio della dimensionalità
nella
diagnostica
psicodinamica,
per
comprendere
i
processi
psicoterapeutici e permettere la personalizzazione dei trattamenti,
fattore di provata efficacia. Dal 2007 nasce la collaborazione con M.
Cierpka di Heidelberg ed il gruppo di lavoro OPD internazionale, che ha
portato al lavoro di traduzione e di cura dell’edizione italiana della
seconda versione del manuale OPD, trasformato in manuale per la
diagnosi e la pianificazione del trattamento.
Dal gruppo di ricerca su OPD si è costituita, allargandosi anche ad
altri progetti, nel 2009 l’Associazione “Gruppo Zoe – per la formazione e
lo studio sulla qualità e l’efficacia delle cure psichiche” che si sta
occupando delle applicazioni cliniche dei risultati ottenuti dalla ricerca
empirica in psicoterapia.
Attualmente è nato un gruppo di lavoro in collaborazione con la
Sigmund Freud University di Vienna (O. Gelo) per un’analisi qualitativa
dei colloqui diagnostici, usando le interviste OPD raccolte in Italia.
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Linee di ricerca
Relazione terapeutica, resistenze ed esito dei trattamenti2
Il problema delle resistenze al cambiamento, anche nel caso di terapie
di provata efficacia, è una delle frontiere più attuali della ricerca
(Benjamin, 2004; Beutler, Moleiro, & Taleb, 2001; Beutler, Rocco,
Moleiro, & Talebi, 2001; Beutler, Harwood, Michelson, Song, & Holman,
2011; Castonguay & Beutler, 2005). Inoltre è stata posta come priorità
per la ricerca (Norcross, 2001) la necessità di comprendere come i
fattori terapeutici di provata efficacia interagiscano con i meccanismi
che regolano il cambiamento terapeutico.
Il termine resistenza applicato al comportamento del paziente
implica la difficoltà o il rifiuto di cooperare o di cambiare. Essa è stata
considerata sia uno stato, che un tratto durevole. In psicoanalisi il
termine resistenza veniva considerato l’espressione di una lotta interna
difensiva contro la sofferenza o l’angoscia, che indirettamente rallentava
il lavoro di comprensione/interpretazione, cui veniva attribuito il ruolo
di fattore terapeutico principale. In psicologia sociale lo stesso termine
veniva definito come “condizione della mente attivata da una minaccia
alla propria libertà, che motiva l’individuo a ripristinare la libertà
minacciata” (Brehm & Brehm, 1981). In generale la ricerca afferma che
la resistenza del
paziente, indipendentemente dalle sue origini,
impedisce il raggiungimento degli obiettivi terapeutici (Beutler, Clarkin,
& Bongar, 2000) e gli psicoterapeuti dovrebbero essere incoraggiati a
produrre meno resistenza possibile.
Secondo una prospettiva recente che coniuga la dimensione clinica
della teoria dell’attaccamento e la teoria intersoggettiva (Wallin, 2007),
la resistenza avrebbe quasi sempre anche un significato interpersonale
e potrebbe essere vista come il risultato della collusione tra paziente e
2
Gruppo costituito da D. Ferraio, D. Taino, E. Fava, F. Cadeo, H. Schadee, M. Conte, G. Sasso.
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terapeuta per assicurarsi che non accada nulla di nuovo o di
minaccioso.
Detto
in
modo
diverso,
la
resistenza
del
paziente
all’esperienza – esperienza di ciò che si percepisce come sofferenza
emotiva insopportabile – sarebbe collegata alla paura di scarso aiuto da
parte del terapeuta (sfiducia). La proposta è allora quella di vedere la
resistenza come una comunicazione su aspetti dell’esperienza del
paziente difficili da tollerare e difficili da tradurre in parole. In questa
prospettiva, i pazienti cercherebbero di trasmettere in modo indiretto o
di evocare nel terapeuta, ciò che da soli non riescono a sopportare.
Noi
abbiamo
considerato
la
relazione
interpersonale
reale,
nell’accezione di Gelso, come variabile d’ efficacia, e i processi
introiettivi, intesi come processi che permettono l’acquisizione di nuove
rappresentazioni e capacità in seguito al trattamento, come meccanismo
di cambiamento.
Per relazione reale si intende un rapporto realistico e non deformato,
ma piuttosto caratterizzato dall’incontro di due persone nella realtà
attuale,
la
quale
implica
la
partecipazione
di
entrambe
e
il
riconoscimento che ognuna viene modificata dall’altra all’interno di
questo processo (Gelso, 2002). Gelso (2004, 2009) propone inoltre di
definirla come costituita da due elementi: realismo e genuinità, dove il
realismo riguarda l’esperienza dell’altro (il terapeuta) in quanto persona
reale, e la genuinità la capacità del terapeuta di essere veramente quello
che è, contrapposto all’essere falso o inautentico. Gelso propone due
ulteriori
dimensioni
(sub-elementi):
la
valenza
della
relazione
interpersonale (positività versus negatività) e la magnitudo, cioè
l’ampiezza della relazione reale che esiste. In ultima analisi la relazione
reale, in questa concezione, ha poco a che fare sia con l’alleanza di
lavoro che con gli aspetti difensivi e proiettivi del paziente sul terapeuta
e viceversa (transfert e controtransfert). Essa inizia al momento del
primo contatto e opera silenziosamente per tutta la durata della terapia.
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Dati gli obiettivi prefissati si è deciso di utilizzare il modello SASB
(Structural Analysis of Social Behavior; Benjamin, 1974, 1993) in
quanto
uno
dei
più
sofisticati
strumenti
che
consentono
di
operazionalizzare questi costrutti (Benjamin, 2004; Fava & Vigorelli,
2006). Tale metodo
permette infatti di valutare le transazioni
comunicative tra paziente e terapeuta in sedute registrate, ma anche di
valutare i moti relazionali verso il sé, cioè come l’individuo tratta se
stesso, nella evoluzione della terapia (introiezione di nuove capacità e
attitudini).
È stata quindi necessaria una prima fase di validazione del modello e
di addestramento al metodo tra i ricercatori, fino al raggiungimento di
una buona affidabilità intergiudici e intragiudice (0.72< k <0.88),
ripetuta più volte nel corso del programma di ricerca.
Sono stati analizzati i trascritti di sedute appartenenti a 10 coppie di
pazienti (con stessa diagnosi DSM-IV-TR, APA, 2000), ciascuna delle
quali trattata dallo stesso terapeuta, con esiti opposti (valutati a 0, 6 e
12 mesi attraverso la somministrazione dell’SCL-90-R e di una scala
Likert compilata dal clinico): dieci soggetti ad esito positivo, e dieci
soggetti ad esito insoddisfacente,
(che hanno beneficiato poco o per
nulla del trattamento psicoterapeutico). Tutti i soggetti inclusi nello
studio hanno completato almeno un anno di terapia a differente
orientamento (a orientamento psicoanalitico o cognitivo), a una seduta
la settimana. Per ogni paziente sono state valutate nel primo anno di
psicoterapia due sedute a 0, 4, 8 e 12 mesi; gli unici criteri di
esclusione erano l’età inferiore ai 18 anni e la presenza di ritardo
mentale.
Il lavoro di ricerca si è focalizzato sulla valutazione del legame tra il
processo terapeutico, valutato in termini di dinamiche interpersonali tra
terapeuta e paziente, e l’esito dei trattamenti al fine di evidenziare
eventuali differenze tra i trattamenti a esito positivo e quelli a esito
insoddisfacente. Più in dettaglio il primo obiettivo della ricerca è stato
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quello di individuare specifici stili interpersonali (che definiscono
l’atteggiamento relazionale dei terapeuti e dei pazienti) nei due gruppi
d’esito e ricostruire le dinamiche processuali che si verificano tra i
membri
della
coppia.
Sono
stati
così
individuati
dei
“moti
problematici”3, caratterizzati da un atteggiamento interpersonale di
aggressività e controllo benevolo o neutro per quanto riguarda il
terapeuta e risposte avversive di aggressività, sottomissione neutra e
ostile o evitamento, da parte del paziente.
Ciò è risultato essere in linea con quanto evidenziato in letteratura
(Henry, 1996; Henry, Schacht, & Strupp, 1986; Henry & Schacht, 1994;
Henry & Strupp, 1994; Hilliard, Henry, & Strupp, 2000; Nelson, 2004),
rispetto al potere predittivo del livello di ostilità/aggressività sull’esito
delle psicoterapie. Nel nostro campione, pur evidenziandosi un minor
numero di moti caratterizzati da ostilità, la differenza fra i due gruppi
d’esito è statisticamente significativa.
Alcuni
studi
hanno
rilevato
un
ruolo
tendenzialmente
controproducente di una modalità terapeutica di intervento direttiva,
individuando come fattore discriminante tra terapie a esito differente
una scarsa alleanza terapeutica e a un alto livello di controllo da parte
del terapeuta (Svartberg & Stiles, 1991; Horvath & Greenberg, 1994;
Hilliard et al., 2000; Horvath, 2009).
Una differenza, rispetto a questi dati, è che nel nostro campione i
livelli di controllo da parte del terapeuta non differenziano le terapie
good-outcome da quelle poor-outcome, a un primo livello di analisi
descrittivo (analisi delle frequenze). Si è quindi proceduto con un’
3
Con la definizione “moti problematici” si fa riferimento a quei movimenti
interpersonali sia del terapeuta che del paziente caratterizzati da ostilità positiva e
livelli di controllo variabile (rose 6, 7 e 8 del modello SASB) e a quelli posti alle polarità
estreme dell’asse Interdipendenza (rose 1 e 5 del modello). L’insieme di questi
movimenti interpersonali di tipo intransitivo è stato definito “moti problematici” in
quanto precedenti ricerche (Alpher, 1991; Henry, 1996; Henry et al., 1986; Henry &
Strupp, 1994; Hilliard et al., 2000; Nelson, 2004), hanno evidenziato come essi siano
prognostici di esiti negativi.
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analisi sequenziale, a due transizioni, per valutare in quale misura
l’intervento del terapeuta determini la risposta del paziente e viceversa,
in linea con la recente pubblicazione di Von der Lippe (Von der Lippe,
Monsen, Rønnestad, & Eilertsen, 2008). La domanda clinica in questo
senso è “che cosa ha fatto scattare la risposta avversiva e quale forma
essa ha preso: antagonismo, ritiro o tutte e due?”. I primi risultati
(Capelli et al., 2005; Marchesi, Vigorelli, Schadee, Fava, & Capelli,
2007), si sono avvalsi di tre delle dieci coppie del campione complessivo
e hanno evidenziato come modalità relazionali di ritiro, resistenza o
difficoltà a seguire il terapeuta inducano in quest’ultimo l’incremento di
un comportamento controllante. Sul campione complessivo le analisi
confermano questa modalità interpersonale e mostrano come nel
gruppo delle terapie a esito insoddisfacente, il terapeuta gestisca i moti
connotati da sottomissione ostile con percentuali significativamente
maggiori di controllo biasimante, assenti invece nel gruppo a esito
positivo. I moti di presa di distanza inducono inoltre nel clinico un
incremento sempre maggiore di dosi di controllo sia dal punto di vista
quantitativo che del livello di ostilità. Parallelamente, appare come i
moti di controllo, anche benevoli, da parte del terapeuta stimolino nei
pazienti poor outcome livelli di resistenza maggiori, individuabili nei moti
di presa di distanza, sottomissione ostile e inversione del focus
relazionale.
La ricerca fin qui condotta ci ha portato ad avere delle informazioni
abbastanza precise su quali stili e quali dinamiche interpersonali
caratterizzano le terapie a esito insoddisfacente; il gruppo si è quindi
domandato: “cosa può aver facilitato o ostacolato il cambiamento?”. La
nostra attenzione si è così focalizzata sullo studio della reciproca
influenza tra la relazione reale e i meccanismi del cambiamento, in
particolare tra la resistenza alla terapia e i meccanismi di tipo
introiettivo.
Riferendoci
alla
tradizione
psicoanalitica,
abbiamo
considerato con il termine introiezione l’apprendimento di nuove
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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modalità di rappresentazione, di gestione di sé e della relazione con
l’altro. La ricerca in questo campo ha dimostrato che l’interiorizzazione
in strutture intrapsichiche del processo interpersonale che si attua in
terapia è correlato all’esito dell’intervento (Fossi, 2003).
Questa ultima fase del nostro lavoro si è quindi concentrata sulla
valutazione degli introietti4, attraverso una analisi statistica descrittiva
delle frequenze e del loro andamento nel tempo. I risultati evidenziano
come la qualità e l’andamento nel tempo degli introietti siano
considerevolmente e precocemente, nell’anno considerato, differenti nei
due gruppi di esito. I pazienti a esito positivo mostrano un incremento
della capacità di prendersi cura di sé e una diminuzione di modalità
biasimanti e aggressive verso il sé, i pazienti a esito insoddisfacente
mostrano, invece, un livello elevato e stabile nel tempo di moti autobiasimanti e trascuranti e assenza di moti di accudimento di sé
nell’arco di tempo considerato. Tali risultati sono statisticamente
significativi nelle analisi caso per caso, per diciannove pazienti su venti,
dimostrando un alto valore predittivo.
L’esperienza con un terapeuta che “si prende cura” e le successive
possibili introiezioni, sembrano quindi facilitare nel paziente quel
processo di cambiamento che si verifica nelle terapia a esito positivo;
questo invece non si verifica, perlomeno nei tempi considerati dalla
ricerca, nei casi a esito più sfavorevole. In questi casi precocemente è
individuabile un atteggiamento “evitante” da parte del paziente non
indotto dal terapeuta, ma che induce nel terapeuta atteggiamenti
controllanti sia benevoli che neutri e talvolta aggressivi. Questo
atteggiamento tende a modificarsi poco nel primo anno di terapia e
sembra inibire i processi introiettivi di cambiamento. Le prospettive di
questo filone di ricerca riguardano ora le possibili strategie per superare
questo handicap.
4
Per un ulteriore approfondimento del concetto di introietto, e le modalità con cui esso
viene valutato nel colloquio clinico, si rimanda ai lavori di Benjamin (2004, 2005).
63
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Sempre
nella
prospettiva
di
individuare
come
funzionano
i
meccanismi collegati ai cambiamenti terapeutici e le possibili forme di
resistenza, stiamo sviluppando uno strumento che permetta di valutare
le oscillazioni introiettive e proiettive che caratterizzano gli scambi
interpersonali e i loro livelli di complementarietà, sul modello della
Infant Research.
Il modello VERA (Verbal and Enactive Representations Analysis) che
operazionalizza le concezioni teoriche di G. Sasso (Sasso, 2009), si
propone come "ponte" tra Infant Research e Psicoanalisi, e permette di
avanzare alcune ipotesi neurologiche su come si regoli nel cervello del
bambino l’elaborazione dell'interazione materna, su come la madre
possa modificarla e su come questo processo si replichi nell’interazione
tra paziente e terapeuta.
Si parte dalla constatazione che, alla nascita, sono già mature
alcune zone cerebrali che assicurano la comunicazione tra il cervello e
l’ambiente. Il bambino si organizza assumendo, dunque, come vertice il
proprio
organismo
e
avendo
come
fondamento
l’esperienza
propriocettiva e senso-motoria, che rimane pertanto a sostegno della
successiva integrazione sottocorticale-corticale. Emerge, qui, l’attività di
un complesso sistema senso-motorio.
Il presupposto di VERA è che il processo di sintonizzazione possa
formarsi proprio perché i sistemi nervosi del bambino e della madre
posseggono
una
"oscillazione
autonoma"
fronto-occipitale,
le
cui
caratteristiche intrinseche permettono l'inaugurarsi e la regolazione
della sintonizzazione. Gradualmente, infatti, l'oscillazione produce
opportuni flussi nervosi che vanno dalle aree sensoriali-percettive verso
le aree motorie, in modo da vincolare i pattern sensoriali in sviluppo alle
corrispondenti risposte motorie e, viceversa, produce flussi dalle aree
motorie verso quelle sensoriali, affinché i programmi motori innati
possano
vincolarsi
alle
informazioni
percettive
riconoscere e interagire con l'oggetto materno.
necessarie
per
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Chiaramente, la dinamica, dopo la nascita, non è più autonoma ma
viene influenzata dall'apporto sensoriale materno.
Assumendo
inoltre
(Sasso,
2009)
che
il
linguaggio
sia
una
specializzazione del reticolo senso-motorio e dunque che vi sia una
continuità tra il dominio implicito e quello riflessivo-verbale accomunati
dalla intenzionalità comunicativa, lo strumento VERA è in grado di
cogliere il contesto non verbale del linguaggio (BCPSG, 2008) a partire
dai trascritti delle sedute e cogliere “i micro-cambiamenti momento per
momento dell’interazione transfert-controtransfert”, in particolare negli
enactment, a partire dalla valutazione delle narrative (rappresentazioni
verbali) e dalla dinamica comunicativa Proiettiva-Introiettiva terapeutapaziente (enactive representations).
Sviluppo della diagnostica dimensionale e OPD 25
Provenendo da una Clinica Psichiatrica Universitaria, luogo in cui si
cerca di coniugare efficacemente la ricerca con la formazione e l’attività
clinica, questo gruppo è nato dall’esigenza di utilizzare una metodologia
diagnostica che fosse più vicina alla realtà clinica del paziente che ci
troviamo di fronte piuttosto che alla ateoreticità della diagnostica
nosografico-descrittiva psichiatrica classica.
La scelta di utilizzare come sistema diagnostico OPD (Diagnosi
Psicodinamica Operazionalizzata; OPD Task Force, 1996), e in seguito la
possibilità di poter tradurre e curare l’edizione italiana della seconda
versione di OPD (OPD-2; OPD Task Force, 2006), è avvenuta per il
suddetto motivo. Rispondeva, quindi, alle nostre esigenze cliniche e,
come abbiamo scoperto meglio in seguito, anche alle esigenze di
formazione nell’ambito della psicoterapia e della clinica psicodinamica
5
Gruppo costituito da P. Zuglian, M. Magni, E. Fava, M.L. Zuccarino, D. Ferrario, A.
Testa, M.E. Pagliari, M. Greco, F. Cadeo, T. Monea, G. Mentasti, D. Taino, L.
Primerano, L. Varischio, P. Cafagna, P. Bondi, S. Crispino.
65
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(la valutazione dei conflitti intrapsichici, del livello di interazione
strutturale, dei pattern relazionali disfunzionali ripetitivi).
OPD-2
è
uno
strumento
diagnostico
multiassiale
di
matrice
psicodinamica e con numerosi riferimenti anche alle teorie cognitive e ai
risultati della ricerca empirica in psicoterapia. È costituito da 5 assi che
nomineremo brevemente (per una descrizione più completa si veda
Zuglian, Papini, Conte, Fava, & Ferrari, in press):
1. esperienza di malattia e presupposti per il trattamento;
2. relazioni interpersonali;
3. conflitti intrapsichici;
4. struttura;
5. disturbi mentali e psicosomatici.
Parallelamente abbiamo imparato come questo strumento potesse
essere utilizzato anche per fornire una diagnostica dimensionale in
grado di evidenziare dei fattori comuni tra le variabili che potessero
fornirci ancora più agilmente delle informazioni diagnostiche, quindi in
qualche modo riassuntive, del funzionamento del paziente anche in
senso trasversale agli assi dello strumento OPD (possibilità quindi di
una doppia lettura dello strumento sia in senso longitudinale, asse per
asse, che trasversale, interasse).
Le prime ricerche (Conte, Ferrari, Fava, Papini, Zuglian, Tajani,
Fiorina, Magni, Maramieri, Primerano, & Freni, 2007; Ferrari, Papini,
Zuglian, Conte, Fava, Tajani, Fiorina, Magni, Maramieri, Primerano, &
Freni, 2007) si sono quindi mosse per osservare le possibili dimensioni
di funzionamento OPD in un campione di pazienti psichiatrici,
eterogeneo per diagnosi sia in Asse I che in Asse II del DSM-IV TR. In
seguito a quei risultati preliminari, abbiamo deciso di occuparci
specificamente di un campione di pazienti omogeneo per diagnosi in
Asse I, ma estremamente eterogeneo per decorso, risposta ai trattamenti
e prognosi, in cui dalla letteratura non emergono dei trattamenti efficaci
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secondo gli attuali standard della ricerca, cosa in realtà molto diversa
dall’esperienza dei clinici, di vari orientamenti, che si occupano
specificamente di questi disturbi. La scelta è così caduta sui Disturbi
del Comportamento Alimentare (DCA), disturbi caratterizzati da un
elevatissimo tasso di crossover diagnostico tra i disturbi (Anoressia
Nervosa e Bulimia Nervosa) e anche tra i sottotipi diagnostici (Restrittivi
e con Condotte di eliminazione), che arriva secondo alcune ricerche fino
al 65%. Questo dato ci indica la necessità di un assessment diagnostico
che sia differente da quello attualmente in uso (che viene giudicato
inadeguato anche da coloro che l’hanno formulato e che stanno
purtroppo riproponendo anche nella V edizione del DSM, APA DSM-V
Development, on line).
Abbiamo scelto un campione di pazienti afferenti a un servizio di
nutrizione clinica che usualmente non prevede una valutazione e un
percorso psicoterapico. Questo è rilevante perché il campione risulta
così maggiormente variegato dal punto di vista delle idee alla base della
malattia e delle motivazioni alla cura (Asse I OPD). Ogni dimensione,
attraverso il calcolo dei factor score derivanti dall’analisi fattoriale, può
essere successivamente valutata sul singolo caso permettendoci di
studiare attentamente l’esito e il follow-up di queste pazienti, le quali
vengono indirizzate a differenti trattamenti sulla base del giudizio
clinico e permettendoci in tal modo di mantenere la struttura
naturalistica dello studio. Le dimensioni deriveranno da un’analisi
fattoriale che sarà effettuata su 300 casi, numero minimo per avere dei
risultati che siano robusti dal punto di vista della significatività
statistica. Attualmente i risultati preliminari derivano da un’analisi
effettuata su di un campione decisamente meno numeroso, 50 casi, ma
attraverso l’utilizzo del metodo dei fattori principali abbiamo cercato di
aumentare la significatività di tali dati in quanto abbiamo eliminato la
varianza intergruppo ed esaminato solamente quella intragruppo.
L’analisi fattoriale viene quindi effettuata prima sull’Asse I di OPD in
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modo da trovare le dimensioni inerenti la personalizzazione (Lambert,
2001; Fava, Zuglian, Taino, & Di Genova, 2009) del trattamento
(indicazioni e costruzione dell’alleanza terapeutica) e successivamente
viene effettuata una nuova analisi tra queste dimensioni trovate e gli
assi dei conflitti intrapsichici e della struttura.
In seguito alla valutazione dell’esito e del follow-up cercheremo,
attraverso una regressione multipla, di valutare l’esistenza di eventuali
predittori di esito sia sotto forma di variabili OPD, sia sotto forma di
dimensioni OPD, inoltre sarà interessante valutare se e come le
dimensioni precedentemente osservate cambieranno nel corso del
tempo e come questo cambiamento sarà collegato a esiti differenti e
aspetti diversi dell’esito del trattamento (ad esempio, giudizio clinico,
valutazione sintomatologica, valutazione nutrizionistica, etc.).
Un ulteriore sviluppo della nostra analisi riguarda l’influenza dei
disturbi di personalità sulle dimensioni osservate dei
DCA. In
particolare
differenze
siamo
andati
a
osservare
la
presenza
di
significative tra le dimensioni OPD riscontrabili (che possono essere
riscontrate nei DCA) e i disturbi di personalità. Abbiamo utilizzato
inizialmente la diagnostica DSM in Asse II come primo step per arrivare
a utilizzare anche qui la diagnostica dimensionale (ad esempio, SWAP200, Westen & Shedler, 1999a, 1999b) arrivando a ipotizzare l’esistenza
di dimensioni a spiegazione singola, cioè non influenzate dal disturbo di
personalità ma solo dal DCA, e di dimensioni a spiegazione multipla per
cui
parte
della
varianza
della
dimensione
deriva
direttamente
dall’assetto personologico del paziente.
Concludendo, la diagnosi e l’assessment psicodinamico di cui ci
stiamo occupando, risulta essere un ausilio particolarmente utile non
solo alla pratica clinica e alla formazione, ma anche alla ricerca sull’
origine e sulla comprensione dei disturbi gravi,difficilmente trattabili,
aumentando le possibilità di trattamento futuro di tali disturbi e di
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valutare eventuali caratteristiche evolutivamente significative in tali
disturbi.
Valutazione dei fattori terapeutici efficaci nel monitoraggio di
trattamenti psicoterapici e psico-sociali e loro implicazioni nei
percorsi formativi6
Il problema dell’utilità clinica della conoscenza dei risultati della
ricerca può sembrare da un lato automatico e quasi ovvio, dall’altro
tutto da dimostrare. Un altro aspetto del problema riguarda le modalità
con cui questo passaggio può avvenire nei diversi contesti e in
particolare nei Servizi Pubblici di Salute Mentale. Si tratta di valutare,
cioè, la fattibilità e l’efficacia di un sistema di formazione basato sull’uso
clinico e formativo di alcuni strumenti comunemente usati nella ricerca.
Questo gruppo ha preso spunto dalle conclusioni della 29a Task
Force della APA (Norcross, 2001) sui fattori terapeutici di provata o
probabile efficacia. La revisione della letteratura empirica sviluppata da
questo gruppo, ha evidenziato il ruolo dei fattori terapeutici “aspecifici”
e una serie di variabili, relative alla relazione terapeutica, strettamente
correlata ai risultati.
Nel costruire il nostro modello (Fava, Ferrario, Sanna, Taino, &
Tajani, in press), denominato Empirically Supported Multi-instrumental
Supervision (ESMS), abbiamo da un lato cercato di sviluppare un
sistema di valutazione il più semplice possibile, che prendesse in
considerazione i fattori terapeutici di provata o probabile efficacia e
dall’altro un metodo per lavorare insieme ai clinici. Il primo passo è
stato definire le variabili cliniche da considerare e, successivamente,
sono stati scelti gli strumenti più adatti a valutare i fattori terapeutici
ritenuti fondamentali. Nella scelta degli strumenti per valutare i
6
Gruppo costituito da E. Fava, A. Ferrari, M. Conte, S.P. Papini, D. Ferrario, D. Taino,
M. Tajani, B. Sanna.
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trattamenti e l’effetto dell’esperienza formativa abbiamo utilizzato i
seguenti criteri:
a) l’esclusione
di
questionari
self
report,
troppo
connessi
al
funzionamento consapevole e dipendenti dalle aspettative (Williams,
1994; Sitzia & Wood, 1997). Nei questionari viene infatti considerata
la percezione che i soggetti hanno di ciò che sta avvenendo. Nelle
analisi delle registrazioni dei colloqui, al contrario, è considerato ciò
che avviene realmente nella relazione terapeuta-paziente in modo
documentabile;
b) sono stati scelti strumenti che individuano in modo specifico i
costrutti che si collegano a fattori terapeutici di documentata efficacia
(OPD-2, CCRT-SAI, IVAT-2, SASB, RA).
Nel nostro caso è stato fondamentale considerare le procedure e le
modalità del funzionamento del lavoro di gruppo. L’elemento di novità
non è stata infatti l’idea di applicare diversi strumenti di ricerca a un
singolo caso, bensì la loro applicazione in ambito clinico con obiettivi di
formazione e valutazione di qualità.
La modalità di lavoro prevede un incontro preliminare con gli
operatori interessati, orientato a comprendere le loro motivazioni, a
spiegare la natura del progetto e a sviluppare il loro interesse nei
confronti dello stesso. Successivamente ci sono stati alcuni incontri di
tipo illustrativo sui fattori terapeutici empiricamente supportati, sugli
strumenti di valutazione e sul rapporto tra gli uni e gli altri. L’attenzione
in
questa
fase
era
focalizzata
sull’acquisizione
del
concetto
di
operazionalizzazione, intesa come abilità di comprendere in modo
flessibile la funzione di segnale-indicatore del dato di ricerca rispetto
alla realtà clinica.
Nella fase successiva più casi clinici, valutati come problematici,
sono stati analizzati da sottogruppi misti di clinici e ricercatori; i
risultati sono stati poi discussi prima separatamente e poi nell’insieme.
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Si è ritenuto, infine, necessario rivalutare il caso clinico dopo un certo
periodo di tempo, focalizzando l’attenzione sui processi di cambiamento
indotti dalla revisione operazionalizzata.
Brevemente descriveremo le conclusioni e le ipotesi ulteriori a cui il
gruppo è giunto:
1. La prima osservazione fondamentale riguarda la possibilità di
condurre
una
incontrovertibili.
discussione
Winnicott
clinica
(1941)
fondata
su
alcuni
osservava
che
la
dati
difficoltà
principale nelle discussioni cliniche è il mettersi d’accordo sul
significato di ciò che viene osservato. Ciò che viene osservato, nelle
discussioni
cliniche
tradizionali,
viene
infatti
frequentemente
“piegato”, nel senso di adattato a sostenere ipotesi precostituite.
Anche quando si procede attraverso l’analisi di registrati (il che
costituisce comunque un significativo passo avanti) è facile che gli
eventi osservati vengano interpretati in modo funzionale a un’ ipotesi
precostituita.
2. Al contrario l’utilizzo di strumenti permette di definire in modo molto
chiaro e specifico alcuni eventi (fatti) clinici. Il fatto di poter contare
su questa specie di “base solida”, empiricamente fondata, non
impedisce tuttavia ai clinici di integrare queste informazioni con altre
che nascono dalla loro esperienza o sensibilità. Questo procedimento
non sembra creare problemi di coerenza rispetto alle tecniche e agli
approcci teorici dei terapeuti e facilita la comunicazione tra
orientamenti diversi in termini propositivi (probabilmente terapeuti
rigidamente identificati con il proprio modello non sono disponibili ad
entrare in un gruppo di questo tipo).
3. L’applicazione
esplicitamente
del
modello
possibili
errori
ESMS
o
permette
difetti
nella
di
individuare
conduzione
del
trattamento (rotture e assenza di riparazioni nell’alleanza terapeutica,
agiti controtransferali, stili relazionali incompatibili, incompletezza o
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inadeguatezza della comprensione di alcuni aspetti del problema) e di
offrire indicazioni per la loro risoluzione. È inoltre possibile, e
parimenti importante, il riconoscimento di ciò che viene fatto bene
rinforzando in tal modo la fiducia del terapeuta nel trattamento
effettuato.
4. Nonostante la marcata laboriosità del lavoro svolto, questo non ha
avuto effetti negativi sulla accettabilità e quindi sulla fattibilità del
progetto, probabilmente corrispondendo agli interessi dei clinici (è
stato per questo scelto un modulo non intensivo). Nessuno dei
partecipanti al gruppo, dopo i primi incontri informativi, lo ha
abbandonato e vi è stata, inoltre, una richiesta di proseguire anche
dopo la conclusione prevista del progetto. È possibile ipotizzare che il
training sugli strumenti, che prevede una certa durata e intensità,
lasci tracce permanenti nel loro stile di lavoro, maggiori di quelle
prodotte da incontri puramente informativi.
5. È necessario che chi conduce il gruppo abbia anche competenze ed
esperienza clinica, soprattutto per poter integrare linguaggi in origine
diversi anche se ampiamente traducibili e integrabili. Inoltre, il fatto
che gli “errori” appaiano in modo piuttosto evidente implica una
buona coesione del gruppo, quindi che ci sia un ambiente con un
basso livello di criticismo per potersi mettere, per quanto possibile, in
discussione.
6. Vorremmo infine sottolineare come in questo modo si sviluppi una
partecipazione e una riappropriazione da parte dei clinici di quel
sapere che sempre più facilmente viene delegato ad agenzie non
sempre disinteressate (eufemisticamente) e non sempre realmente
competenti, che vorrebbero relegare i clinici nel ruolo di esecutori
passivi e acritici. Cosa, questa, che non può non produrre (Brehm &
Brehm, 1981) fenomeni di rifiuto dei percorsi valutativi oppure
fenomeni di dipendenza passiva dalle informazioni, con conseguente
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ulteriore burocratizzazione dei servizi, diminuzione delle competenza
clinica e della qualità dei trattamenti.
L’ulteriore sviluppo di questa esperienza, già in atto in altre strutture
socio-sanitarie, implica la valutazione dell’efficacia di questo tipo di
percorso formativo. Date le motivazioni precedentemente esposte
riguardo i limiti dei questionari autosomministrati in questo tipo di
lavoro l’ipotesi di lavoro che seguiremo riguarda lo sviluppo di vignette
cliniche da sottoporre ai partecipanti, e a un gruppo di controllo, prima
e dopo la formazione, che saranno utilizzate come partenza per la
misurazione della formazione acquisita.
Bibliografia
Alpher, V.C. (1991). Interpersonal process in psychotherapy: application to a
case study of conflict in the therapeutic relationship. Psychotherapy, 28,
550-562.
American Psychiatric Association (2001). Diagnostic and Statistical Manual of
Mental Disorders (4rd. ed. Text Revision). American Psychiatric Association:
Washington DC (Tr. it. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali
(4rd. ed. Text Revision), Masson, Milano 2004.
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Psicodinamica Operazionalizzata. Presupposti teorici, descrizione del
sistema e applicazioni dello strumento. Psichiatria di comunità.
Abstract
The article aim is to briefly describe how our workgroup was born and
developed and which research lines we’ve taken over the years. This aim
responds to the shared need and intention of a greater collaboration and
integration among different Italian workgroups and to the possibility that this
could happen beyond the stimulant, but unfortunately sporadic, contacts that
can be established during the national or the international meetings. In this
way we could create new ways of research projects sharing. We strongly
believe that mutual knowledge is the “main street” for the development of new
research projects and for the realization of that scientific knowledge for which
our Society was born.
Keywords
Efficacy and effectiveness, therapeutic relationship, psychodynamic diagnosis,
change resistance, dimensional diagnosis, psychotherapeutic training.
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La ricerca in psicoterapia di gruppo:
Alcuni risultati e future direzioni di ricerca
Salvatore Gullo,1 Gianluca Lo Coco,1 Claudia Prestano,2
Francesca Giannone,1 Girolamo Lo Verso1
Sommario
Questo articolo prova a esaminare alcuni risultati principali nella ricerca
sulla terapia di gruppo, così come le direzioni future di ricerca in questo
ambito. Sono stati esaminati i risultati degli studi raccolti dal gruppo di
ricerca del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Palermo. In particolare,
in questo articolo vengono esaminate le questioni teoriche e metodologiche
sulla psicoterapia di gruppo, l’efficacia clinica della terapia di gruppo con
diverse popolazioni cliniche (disturbi alimentari, disturbi d’ansia) e la relazione
tra caratteristiche del paziente, variabili di processo (clima e alleanza di
gruppo) e l’esito della terapia. Complessivamente, da questa rassegna emerge
come siano presenti alcuni studi italiani che testimoniano l’efficacia clinica
della psicoterapia di gruppo, anche se sarà necessaria maggiore ricerca
sull’analisi dei meccanismi sottostanti di cambiamento nei gruppi, soprattutto
nelle terapie a lungo termine.
Parole chiave Psicoterapia di gruppo, efficacia della terapia di gruppo, gruppi
monosintomatici, psicoterapia di gruppo a lungo termine
---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------1
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Palermo,
Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Messina.
2
Facoltà di
Corrispondenza: Salvatore Gullo, Dipartimento di Psicologia, Università degli
Studi di Palermo, Viale delle Scienze, Edificio 15, 90128 Palermo, Italy.
E-mail: salvo.gullo@unipa.it
Tel: +39 091 23897725.
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Introduzione
Nella pratica clinica degli ultimi anni il gruppo è sempre più
utilizzato come strumento di cura, soprattutto nei servizi pubblici dove
spesso, in ragione del vantaggioso rapporto costi-benefici, diventa la
soluzione privilegiata, se non l’unica praticabile, per far fronte
all’ingente domanda di cura. Costantini (2000) ha sottolineato come la
psicoterapia di gruppo, di breve durata o a tempo limitato, rappresenti
un’ottima strategia di razionalizzazione dell’attività sanitaria pubblica
erogata, proprio in ragione dell’economia di tempi e spazi che consente.
Recenti studi e ricerche di tipo metanalitico hanno dimostrato
l’efficacia delle terapie di gruppo con differenti tipologie di pazienti, ad
esempio con disturbi legati all’abuso di sostanze, ai disturbi dell’umore,
ai disturbi da attacchi di panico e/o agorafobici, alla bulimia nervosa e
ai disturbi di personalità (Burlingame, MacKenzie, & Strauss, 2004).
L’efficacia dimostrata dalla ricerca, congiuntamente all’efficienza del
format di gruppo, garantiscono un ottimo motivo per un utilizzo sempre
più esteso di queste terapie nella cura della salute mentale.
Più limitate, all’interno del vasto panorama empirico che attesta
l’efficacia delle terapie di gruppo (e le candida a “trattamento elettivo”
del prossimo futuro), sono le evidenze empiriche relative a una
sottocategoria
di
queste:
le
psicoterapie
di
gruppo
psicodinamicamente orientate (Lo Coco, Prestano, & Lo Verso, 2008).
Se a queste, poi, aggiungiamo la dimensione del lungo periodo, la
letteratura empirica, diventa veramente “una questione di nicchia”.
Eppure, è importante, anche all’interno della logica del managed care,
mettere in evidenza che gli esiti ottenuti dalle psicoterapie di gruppo
psicodinamicamente orientate e di lungo periodo, sembrano ottenere
risultati maggiormente persistenti (alle indagini di follow up) rispetto a
quelli ottenuti con i trattamenti brevi e/o individuali; inoltre, in alcuni
casi è stato documentato che tali esiti tendono ad aumentare nel tempo
(si veda, Di Nuovo & Lo Verso, 2005; Lorentezen & Høglend, 2004;
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Wilberg, Karterud, Pedersen, Urnes, Irion, Brabrand, Haavaldsen,
Leirvåg, Johnsen, Andreasen, & Stubbhaug, 2003).
La limitata presenza di ricerche sulle terapie di gruppo è legata non
solo alla grande varietà dei modelli gruppali, ma anche a una serie di
difficoltà metodologiche che si incontrano nello strutturare disegni di
ricerca capaci di tenere conto della complessità delle variabili in esame
e della loro difficile operazionalizzazione. A queste difficoltà, su cui ci
soffermeremo più avanti, si aggiunge la storica diffidenza dei clinici nei
confronti di ricerche ritenute invasive rispetto ai propri setting di lavoro,
minacciose nei confronti dell’intimità della situazione analitica e,
spesso, con risultati poco fruibili e utilizzabili.
L’ambito della valutazione delle psicoterapie si scontra con limiti
precisi, dovuti soprattutto alla difficoltà di destreggiarsi tra due opposte
esigenze: da una parte la correttezza metodologica, che porta spesso a
eccessive semplificazioni e riduzionismi, e dall’altra la necessità di
accogliere e comprendere la complessità della situazione clinica (Dazzi,
Lingiardi, & Colli, 2006).
Oggi tuttavia, assistiamo a un reciproco, crescente interesse tra
ricercatori e clinici, e, in ambito gruppale, a un aumento dell’attenzione
per i gruppi psicodinamici, anche long term, e anche semiaperti (rolling
groups), che sono molto diffusi, in particolare in Europa, e in crescente
affermazione anche nel resto del mondo, per il loro uso vantaggioso,
soprattutto nell’ambito di interventi in Comunità Terapeutiche, Unità
Ospedaliere, Programmi di trattamento in day-hospital in Istituzioni per
la Salute Mentale (Tasca, Ramsay, Corace, Illing, Bone, Bissada, &
Balfour 2010).7
1
In queste situazioni, infatti, la modalità semi-aperta, ha il vantaggio di by-passare il lavoro “oneroso” e
intensivo della creazione di nuovi gruppi, introducendo un nuovo membro, quando si determina un vuoto,
per un paziente che “droppa”, o semplicemente conclude il trattamento.
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Questioni metodologiche
La ricerca in psicoterapia di gruppo utilizza da decenni dispositivi
metodologici che si sono nel tempo sofisticati e notevolmente articolati.
All’interno di differenti categorie di studio che caratterizzano questo
settore, abbiamo ormai una grande varietà di strumenti e metodologie
utilizzate per indagare il fenomeno in questione. Esistono, tuttavia,
numerosi problemi ancora aperti e irrisolti. Essi derivano dall’intrinseca
complessità del dispositivo terapeutico gruppale che si traduce in una
analoga complessità sul piano metodologico (Gullo, Lo Verso, &
Coppola, 2010).
Riguardo agli strumenti, possiamo affermare che dopo una fase
iniziale di implementazione e di moltiplicazione degli strumenti, su
diversi costrutti relativi al processo del gruppo (misure self-report,
metodologie centrate sull’analisi delle interazioni terapeutiche a partire
da osservazioni,
videoregistrazioni o dai trascritti delle sedute
terapeutiche), la tendenza attuale è quella di utilizzare un corpus
ristretto ma più attendibile di misure (vedi ad esempio, la Core Battery
proposta da Burlingame, Strauss, & Hwang, 2008) che hanno
dimostrato
di
possedere
buone
caratteristiche.
Tale
tendenza
permetterà un maggiore confronto tra i risultati emersi dalle diverse
ricerche.
Altre questioni riguardano la molteplicità di setting che il dispositivo
gruppale consente. Si pensi ai gruppi aperti (rolling groups) dove è molto
problematico riferirsi a un “livello di gruppo” in quanto questo può
variare da una seduta all’altra, rendendo poco rappresentativo riportare
i risultati in termini di percezione media dei membri del gruppo.
Un’altra questione recentemente evidenziata dai ricercatori riguarda
la dipendenza dei dati all’interno dei gruppi; infatti, le osservazioni
raccolte per un singolo paziente non possono essere considerate
indipendenti da quelle degli altri membri del gruppo e dal gruppo nel
suo insieme. I membri di gruppo possono reciprocamente influenzare i
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propri comportamenti e il modo di fare esperienza dell’altro, tramite
l’imitazione,
l’apprendimento
interpersonale,
il
rispecchiamento;
i
membri di un gruppo condividono uno stesso terapeuta che ha
un’influenza importante nel modo di vivere la terapia da parte dei
singoli pazienti. Un gruppo molto coeso può fare sentire i membri molto
vicini l’uno all’altro, favorendo il loro reciproco supporto.
Se da un punto di vista clinico ciò può essere considerato un fattore
curativo indispensabile e rappresenta un elemento chiave della
psicoterapia di gruppo (Lo Coco & Lo Verso, 2006; Yalom & Leszcz,
2009), sul versante della ricerca empirica ciò comporta notevoli
difficoltà, poiché le osservazioni raccolte per ogni singolo paziente
possono essere, anche sostanzialmente, influenzate da quelle degli altri
(effetto di dipendenza delle osservazioni). La struttura che questi dati
assumono viene solitamente denominata nested poiché le osservazioni
dei singoli pazienti sono raggruppate all’interno dei diversi gruppi
esaminati. Nel caso di studi longitudinali, con rilevazioni ripetute nel
tempo, la struttura di tali dati si complessifica ulteriormente venendo a
determinare dati nested su tre livelli: osservazioni ripetute, soggetti,
gruppi.
In accordo con quanto sottolineato da altri Autori (Kenny, Mannetti,
Pierro, Livi, & Kashy, 2002) tale effetto di dipendenza può anche essere
negativo, ad esempio il comportamento di un membro del gruppo può
influenzare
un
altro
membro
spingendolo
ad
assumere
un
comportamento opposto. In ogni caso questo tipo di influenza genera
osservazioni che non possono essere considerate indipendenti e che
violano dunque un assunto di base dell’analisi inferenziale. Baldwin,
Stice, & Rohde (2008) hanno evidenziano che gli studi che non tengono
conto della dipendenza tra membri possono vedere sovrastimata
l’efficacia della terapia di gruppo.
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Elaborazione teorica e ricerca empirica
Contributi teorici
In Italia, storicamente, la ricerca sui gruppi si è sviluppata
prevalentemente sul piano teorico-clinico, concedendo sicuramente
minore attenzione alla ricerca empirica. Ancora oggi non sono molti i
contributi di ricerca specificamente focalizzati sulla terapia di gruppo e
ben
poche
evidenze
sono
state
raccolte
al
fine
di
supportare
empiricamente la validità del gruppo come dispositivo terapeutico (Gullo
& Lo Verso, 2008).
Uno dei principali contributi che l’elaborazione teorica di matrice
“gruppale” ha apportato, sta nell’aver approfondito il concetto di campo,
la dimensione relazionale e la nascita relazionale della vita psichica e
della psicopatologia (Giannone, Ferraro, & Lo Verso, 2011; Lo Coco & Lo
Verso, 2006). In chiave epistemologica, l’esperienza clinico-gruppale ha
contribuito a sviluppare l’ottica della complessità, la fondazione
intersoggettiva del lavoro di cura, la questione del rapporto io-altro in
psicoterapia, la centralità della presenza del terapeuta nel campo
relazionale di cura, come persona, e non solo come apparato di pensieri
o tecniche (Ceruti & Lo Verso, 1998). Non solo contro-transfert o
interventi paramedicali, ma anche co-transfert, e cioè, quello che di sé
stesso il terapeuta mette nella relazione e che appartiene a lui e alla sua
storia psichica, negli specifici contesti in cui la relazione terapeutica ha
luogo (campo con-transferale) (Di Maria & Giannone, 1998; Giannone &
Lo Verso, 1998a, 1998b).
Su un piano più teorico-metodologico e più immediatamente
riferibile alle esigenze della ricerca empirica, tenendo in considerazione
la molteplicità delle variabili in gioco nel campo gruppale sono state
sviluppate delle griglie di osservazione che rappresentano un valido
metodo per aiutare a esplicitare cosa si fa, perché lo si fa, con quali
parametri, scopi e rischi. Si tratta di inquadramenti di carattere
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essenzialmente qualitativo, di strumenti “per pensare”, che creano una
possibilità di confronto, aumentando la trasparenza professionale e la
‘parlabilità’ scientifica del lavoro terapeutico. Le griglie consentono di
allenarsi a concepire l’esperienza gruppale visualizzando meglio i singoli
aspetti del campo, mettendoli in connessione tra loro e con il contesto in
cui si svolgono; esse ci aiutano a concettualizzare e organizzare in
termini più rigorosi e confrontabili l’intervento clinico stesso (Di Nuovo,
Giannone, & Di Blasi, 1998; Giannone & Lo Verso, 1998a, 1998b).
Utilizzate insieme a strumenti di rilevazione di definite variabili di esito
e di processo, le griglie possono essere strumenti utili per mettere a
fuoco
quali
fattori
intervengano
positivamente
nel
facilitare
la
guarigione del paziente, e le possibili connessioni esito–processo.
L’esplicitazione dei parametri che definiscono e connotano i diversi tipi
di gruppo (Di Maria & Lo Verso, 2002) ha infine avviato un importante
lavoro di riflessione sul riconoscimento delle specifiche competenze del
terapeuta di gruppo, focalizzando l’importanza del costituire setting
gruppali adeguati alla patologia del paziente e al contesto in cui viene
praticata, e sulle differenti modalità di conduzione proprie dei diversi
format di gruppo (Lo Verso & Di Blasi, in press).
Lavori empirici sui gruppi terapeutici
Gli studi d’esito da noi condotti sui gruppi terapeutici hanno
riguardato, sino ad oggi, esclusivamente l’effectiveness di questi
trattamenti, vale a dire l’esito ottenuto nella pratica clinica. Presentiamo
di seguito alcuni contributi relativi all’efficacia clinica, come vedremo
variamente intesa e misurata, di psicoterapie gruppo. Si tratta di
esperienze molto differenti tra loro: gruppi di terapia analitica per
pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), gruppi ad
orientamento gruppoanalitico per pazienti con Disturbi di Panico (DAP),
e gruppi inseriti in dispositivi multimodali di cura.
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Gruppi monosintomatici per DCA
La terapia cognitivo-comportamentale di gruppo (Group-Cognitive
Behavioral Therapy; G-CBT) e il trattamento di gruppo interpersonale
(Interpersonal Group Psychotherapy; IGP) sono ampiamente utilizzati e
raccomandati nelle linee guida per la cura dei disturbi alimentari
(McKisack & Waller, 1997; Wilfley, Stein, Borman, Spurrell, Cohen,
Saelens, Zoler Dounchis, Frank, Wilson, & Fairburn, 1993). In
particolare, l’efficacia dei gruppi CBT si rivela nel trattamento della
bulimia nervosa (Burlingame, Mackenzie, & Strauss, 2004). Bisogna
però tenere presente che circa il 41% dei pazienti sottoposti a G-CBT e il
38% di quelli trattati con IGP continuano a presentare sintomi
alimentari dopo un anno dalla fine del trattamento (Wilfley, Welch,
Stein, Spurrel, Cohen, & Saelens, 2002). Recentemente, è stata studiata
un’altra modalità manualizzata di trattamento di gruppo per i pazienti
con
Binge
interpersonale
Eating
di
Disorder
gruppo
(BED),
la
terapia
psicodinamica
(Group-Psychodynamic
Interpersonal
Psychotherapy; G-PIP), che mira a lavorare sugli schemi relazionali
disfunzionali del paziente che rinforzano i propri modelli operativi
interni, per arrivare a una riduzione del bisogno di abbuffarsi come
risposta a tali problemi (Tasca, Balfour, Ritchie, & Bissada, 2006;
Tasca, Balfour, Kerri, & Bissada, 2007).
Poca è invece la ricerca sull’effectiveness e sul processo terapeutico
nei gruppi psicodinamici ed analitici a lungo termine con pazienti DCA.
Alcuni studi basati su campioni ristretti hanno però mostrato come il
trattamento
gruppoanalitico
sembra
ridurre
i
comportamenti
sintomatologici delle pazienti con BED (Ciano, Rocco, Angarano, Biasin,
& Balestrieri, 2002) e bulimia (Valbak, 2001).
Relativamente all’effectiveness della terapia di gruppo a lungo
termine con pazienti con Disturbo del Comportamento Alimentare, il
nostro gruppo di ricerca ha iniziato a lavorare quindici anni fa su tali
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trattamenti, all’interno del progetto nazionale Val.Ter coordinato da
Santo Di Nuovo e Girolamo Lo Verso (Di Nuovo, Lo Verso, Giannone, &
Di Blasi, 1998), iniziando a produrre dei dati a sostegno dei benefici a
lungo termine che pazienti con diagnosi di anoressia e bulimia nervosa
sembrano ottenere in seguito al trattamento in gruppi analitici (Di
Nuovo & Lo Verso, 2005). I risultati evidenziavano complessivamente
che i pazienti ottenevano dei cambiamenti significativi nel livello
d’adattamento interpersonale, nello stile difensivo e nel funzionamento
relazionale, mostrando come il lavoro terapeutico analitico e a lungo
termine
agisse
su
dimensioni
più
ampie
della
sola
remissione
sintomatica (Giannone, Di Blasi, Giordano, Lo Coco, & Lo Verso, 2005)
e si mantenesse, spesso consolidandosi nel follow-up.
Un secondo studio (Prestano, Lo Coco, Gullo, & Lo Verso, 2008),
effettuato longitudinalmente su un gruppo terapeutico a orientamento
gruppoanalitico per pazienti di sesso femminile con AN e BN (età media
di 17 anni), sembra confermare l’effectiveness di tale terapia, anche se
pazienti con diagnosi di anoressia e bulimia nervosa rispondono in
maniera differente al trattamento. Mentre a livello di cambiamento sul
malessere
generale
si
è
riscontrato
un
decremento
sensibile
e
significativo sin dall’inizio della terapia, il trend relativo ai sintomi
alimentari ha avuto un andamento differenziato tra pazienti AN e BN. In
particolare, mentre la media dei punteggi sintomatici delle pazienti AN
mostrava un trend significativamente decrescente nel corso della
terapia, la media dei punteggi sintomatici delle pazienti BN invece
mostrava un trend irregolare sin dall’inizio della terapia, con un lieve
cambiamento
positivo
alla
fine
del
trattamento,
anche
se
non
significativo. Anche la scala Bulimia dell’EDI-2 (Garner, 2005) non ha
mostrato un cambiamento significativo tra pre- e post-terapia. I dati
relativi al processo di gruppo mostrano che le pazienti anoressiche
hanno riportato valori maggiori nel livello di alleanza di gruppo e nel
coinvolgimento al trattamento rispetto alle pazienti bulimiche.
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È interessante notare come i primi risultati di altri due studi, svolti
presso
un
servizio
pubblico,
che
hanno
valutato
più
gruppi
psicodinamici a lungo termine con pazienti con diagnosi di AN e BN
confermano tale differenza di outcome tra pazienti anoressiche e
bulimiche (Lo Coco, Salerno, Gullo, & Prestano, 2010; Lo Coco, Gullo,
Prestano, & Cicero, 2010). Attualmente stiamo quindi studiando, sia in
prospettiva qualitativa, tramite i trascritti delle sedute di psicoterapia
(Prestano, Cicero, Gullo, Alcuri, Lo Coco, & Carcione, 2009), che
quantitativa (tramite scale su alleanza e coesione di gruppo), quali
variabili possano essere moderatori (ad esempio, stili di personalità,
livello di problemi interpersonali) o mediatori (alleanza, coesione) del
cambiamento ottenuto dalle pazienti.
Quali pazienti possono essere più indicati per il gruppo?
Purtroppo, gran parte delle ricerche che si propongono di verificare
l’efficacia di terapie di gruppo con pazienti DCA, misurano generalmente
solo il cambiamento sintomatologico alimentare; è nostra opinione che
sarebbe invece importante utilizzare un insieme di misure adeguato alla
valutazione dei cambiamenti quantitativi e qualitativi nel funzionamento
psicologico di questi pazienti, a partire dalla proposta della Core-Battery
Revised nella ricerca sui gruppi dell’American Group Psychotherapy
Association (Burlingame, Strauss, & Hwang, 2008). Inoltre, una
valutazione iniziale dei pazienti (e una conseguente selezione per il
gruppo) che tenga conto di aspetti caratterologici e di personalità di
queste pazienti potrebbe aiutare a comprendere meglio i soggetti a
rischio di drop-out dal trattamento. Un indicatore di tale esigenza
proviene, ad esempio, dall’Istituto Nazionale per la Salute Mentale
statunitense che ha concluso che i manuali CBT per il trattamento dei
DCA potrebbero essere arricchiti includendo un focus sui temi
interpersonali e familiari per la disregolazione affettiva.
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Abbiamo
rilevato
come
la
valutazione
diagnostica
(in
senso
dimensionale più che categoriale) dei pazienti con disturbi alimentari
che vengono selezionati per partecipare ai gruppi terapeutici sia ancora
molto limitata. Soprattutto relativamente ai gruppi psicodinamici e
analitici, l’assessment iniziale riportato in gran parte delle ricerche è
focalizzato su aspetti sintomatici alimentari, senza valutare alcune
funzioni psicologiche centrali al fine di partecipare a un gruppo
terapeutico: quali sono i problemi interpersonali di queste pazienti?
Quali modalità relazionali mettono in atto con gli altri individui? Che
stili di personalità sono associati ai vari disturbi alimentari e come
questi favoriscono (o meno) il cambiamento all’interno di un gruppo
terapeutico?
Una linea di ricerca che stiamo seguendo proverà a fornire delle
evidenze su questi aspetti, provando a identificare l’associazione tra stili
e disturbi di personalità di pazienti con disturbi alimentari e capacità di
trarre beneficio dai trattamenti di gruppo. In questo senso, verranno
utilizzati strumenti quali la SWAP-200 (Westen, Shedler, & Lingiardi,
2003), il MCMI-III (Zennaro, Ferracuti, Lang, & Sanavio, 2008), l’IIP-32
(Horowitz, Alden, Wiggins, & Pincus, 2000), l’EDI-3 (Garner, 2005), per
favorire un assessment iniziale in grado di tenere conto di diverse
variabili e diverse prospettive di valutazione (ad esempio, tramite
strumenti self-report e clinician-report).
Abbiamo finora effettuato degli studi su pazienti sia obesi che con
BED che richiedono un trattamento terapeutico, vista la crescente
richiesta di soggetti con queste problematiche alimentari nei servizi
negli ultimi anni. Come confermato in letteratura, abbiamo trovato che i
soggetti obesi BED hanno un quadro psicopatologico più grave di
soggetti obesi senza comportamenti binge. Da un punto di vista
interpersonale (tramite l’IIP-32), inoltre, i soggetti obesi BED sembrano
presentare
problemi
legati
all’inibizione
sociale,
alla
freddezza
interpersonale, alla sottomissione e all’anassertività. Un secondo studio
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su soggetti obesi treatment-seeking ha mostrato che la relazione tra
comportamenti binge e problemi interpersonali sembra essere mediata
dal ruolo dell’autostima personale, notoriamente deficitaria in questi
pazienti (Lo Coco, Gullo, Salerno, & Iacoponelli, 2010).
Gruppi monosintomatici per DAP
Negli
ultimi
anni
il
nostro
studio
sui
gruppi
psicodinamici
monosintomatici si è esteso anche a pazienti affetti da disturbo di
panico (DAP). Un recente lavoro (Thione Bosio, Prestano, Gullo,
Tagliarini, Minetti, & Serra, 2009) confrontava l’esito e il processo di un
gruppo omogeneo per pazienti DAP con un gruppo eterogeneo per tipo
di diagnosi, condotto con lo stesso modello terapeutico.
Lo studio intendeva verificare l’efficacia terapeutica e il follow-up del
trattamento ed esaminare la correlazione tra esito e alleanza terapeutica
nel gruppo. Riassumendo complessivamente i risultati del gruppo con
pazienti DAP, si può evidenziare come in termini medi il gruppo abbia
ottenuto un miglioramento: tutte le scale somministrate concordano nel
rilevare tale cambiamento anche se con intensità e tempi differenti. Al
termine del trattamento si rilevavano miglioramenti significativi sul
livello
della
qualità
della
vita,
sul
livello
di
ansia
e
nel
ridimensionamento di alcuni tratti di personalità patologici (border e
negativistici). Il livello di salute complessivo e gli altri aspetti della
qualità di vita presentavano miglioramenti meno marcati. In termini di
cambiamento
individuale
tre
pazienti
su
sei
riportavano
un
cambiamento clinicamente significativo (Clinical Significance; CS) e
attendibile (Reliable Change Index; RCI) e un paziente raggiungeva solo
il criterio RCI. Al follow-up i risultati confermavano il miglioramento
rispetto
all’inizio,
ma
con
minore
entità
rispetto
alla
fine
del
trattamento. In termini individuali due pazienti su sei ottenevano
entrambi i criteri (CS e RCI), mentre altri due mostravano un
miglioramento
statisticamente
ma
non
clinicamente
attendibile.
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Relativamente all’associazione tra esito e processo tutti gli aspetti
dell’alleanza risultavano associati all’esito, e in particolare risultava
maggiormente associata all’outcome positivo della terapia la qualità
dell’alleanza nelle fasi iniziali e intermedie del trattamento (Thione
Bosio, Prestano, Gullo, Tagliarini, Minetti, & Serra, 2009).
Gruppi con format diversi
In anni recenti lo studio della psicoterapia di gruppo ha cominciato a
essere rivolto anche alle terapie lungo termine, attraverso studi
longitudinali. Al di là delle conoscenze acquisite sui gruppi a brevissimo
termine, o a tempo determinato di breve durata, l’attenzione dei
ricercatori si è rivolta a comprendere se e come funzionano i gruppi a
lungo termine, che peraltro risultano ampiamente diffusi nel contesto
privato. Si tratta soprattutto di gruppi psicodinamici che possono avere
una durata prefissata o meno, in quest’ultimo caso si definiscono semiaperti poiché prevedono l’inserimento di nuovi membri oltre che la
fuoriuscita di quei soggetti che completano il loro percorso terapeutico.
Data la complessità e la lunghezza delle ricerche, anche a livello
internazionale esistono finora pochi studi pubblicati, in massima parte
condotti da Lorentzen & Høglend (2004).
Uno studio single-case su un gruppo semi-aperto di lungo termine è
stato recentemente condotto dal nostro gruppo di ricerca con la finalità
di indagare specificamente gli aspetti ciclici del processo in questo
format. In particolare, lo studio si proponeva di indagare come le
variazione nella composizione del gruppo (nuove immissioni, drop-outs,
dimissioni) modificano il campo gruppale e influenzano l’andamento del
processo e l’esito del trattamento. Inoltre, si proponeva di verificare
l’outcome e il cambiamento raggiunto dai pazienti durante il periodo di
studio (un anno e mezzo) e di analizzare l’associazione tra esito e
processo.
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I risultati, relativi a 9 pazienti, hanno mostrato che 6 pazienti hanno
ottenuto
cambiamenti
significativi
nelle
scale
di
esito,
valutati
attraverso i criteri del RCI e della CS (Jacobson & Truax, 1991).
Si è rilevato inoltre che i pazienti che riportavano risultati migliori
erano quelli che mantenevano una presenza costante e assidua lungo il
percorso e anche durante il periodo caratterizzato da un elevato numero
di nuovi inserimenti e dimissioni.
Segmentando il trattamento in tre fasi in relazione alla stabilità del
campo gruppale, si è evidenziato inoltre che proprio nel suddetto
periodo
(seconda
fase)
l’alleanza
mostrava
un’intensità
minore
confrontata con il livello di alleanza dello stesso gruppo rilevato nella
prima e terza fase, contraddistinte da una maggiore stabilità del setting
(minori ingressi e uscite), mentre la coesione si manteneva più alta in
tutt’e tre le fasi, mostrando una più forte correlazione con gli esiti
(Giannone, Gullo, Ferraro, Barone, & Gargano, 2010).
Un altro interessante filone di studi che ha recentemente preso avvio
è invece rivolto allo studio di un format terapeutico gruppale che sta
cominciando a diffondendosi nell’ambito dei servizi pubblici. Si tratta di
gruppi che procedono per cicli terapeutici, ovvero di gruppi della durata
di un anno, generalmente chiusi, composti sia da pazienti che iniziano il
loro percorso terapeutico sia da pazienti che proseguono il loro percorso
avendo già negli anni precedenti partecipato a questo tipo di gruppi. La
ricerca, che finora ha studiato solo un gruppo rivolto a giovani pazienti
con disturbi di personalità ed è ancora in corso d’opera, mira
principalmente a indagare quali sono gli aspetti della psicoterapia di
gruppo ritenuti più efficaci da chi ha già compiuto un percorso di
gruppo, e ad analizzare quanto e come questi aspetti influenzano la
motivazione alla terapia – e alla terapia di gruppo in particolare – in
questi soggetti. Associando tali risultati all’esito e al processo dei gruppi
la ricerca si propone come fine ultimo di individuare quali aspetti,
rilevati al momento della costituzione del gruppo, rappresentano degli
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indicatori o dei predittori della possibilità di lavorare proficuamente in
gruppo piuttosto che della possibilità di abbandonare la terapia o
ottenere risultati non positivi.
Un ulteriore ambito di ricerca è rappresentato dallo studio dei gruppi
condotti all’interno di strutture residenziali, destinate a pazienti
psichiatrici o ad adolescenti. In particolare gli studi in questo settore si
sono concentrati sul processo dei gruppi, analizzando lo sviluppo
temporale del clima di gruppo e le associazioni con gli interventi operati
dal conduttore. I risultati più interessanti hanno evidenziato la
correlazione tra il numero di interventi interpretativi e di connessione
realizzati dal conduttore e la qualità coinvolgente del clima percepito dai
partecipanti.
Conclusioni e future linee di ricerca
L’aumento progressivo del numero di ricerche, la produzione di nuovi
lavori e la crescente attenzione che questo settore di ricerca incontra,
soprattutto da parte degli psicoterapeuti che operano nei servizi e della
clinica gruppale, rappresentano segnali che inducono a pensare che
sebbene nel nostro paese non vi sia ancora un sistema di ricerche
adeguato, esiste tuttavia una tradizione di studi certamente breve, ma
pronta ad ampliarsi.
In quest’ottica, diviene sempre più importante concentrare gli studi
sul legame tra processo ed esito psicoterapeutico, soprattutto riguardo
le
terapie
psicodinamiche
e
psicoanalitiche
di
gruppo.
Questi
trattamenti, molto complessi e poco operazionalizzabili, pongono ancora
degli interrogativi cruciali per la ricerca quali: quali sono i principali
elementi del processo terapeutico che si attivano in tali terapie? Che
ruolo gioca il fattore temporale (nei trattamenti a lungo termine) rispetto
all’esito e allo sviluppo del processo? Quali tipologie di pazienti
ottengono maggiori benefici da queste psicoterapie?
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Per rispondere a tali questioni diventa essenziale costruire anche in
Italia un ampio network di ricerca che permetta di condividere e
confrontare le esperienze e i risultati condotti nel territorio nazionale e
di giungere in prospettiva a un corpus di strumenti e metodologie
condivise.
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Group therapy research:
Current issues and future directions
Abstract
The goal of this article was to examine some core findings in group therapy
studies, as well as the future directions of research in this field. The results of
the studies collected at the Department of Psychology of the University of
Palermo were reviewed. Specifically, theoretical and methodological issues on
group psychotherapy, effectiveness of group treatment with different clinical
population (i.e., eating disorders, anxiety disorders), and relationships among
patient’s characteristics, process variables (i.e., group climate and alliance)
and the therapy outcome were examined. In sum, this review showed that
although some Italian studies had demonstrated the effectiveness of group
psychotherapy, more research is needed to analyse the underlying
mechanisms of change in group treatments, and specifically in long-term
therapies.
Key words
Group psychotherapy, effectiveness of group psychotherapy, homogeneous
group therapy, long-term group therapy
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Diagnosi e valutazione della personalità,
alleanza terapeutica e scambio clinico
nella ricerca in psicoterapia
Vittorio Lingiardi,1 Francesco Gazzillo,1 Antonello Colli,2
Francesco De Bei,1 Annalisa Tanzilli,1 Mariagrazia Di Giuseppe,1
Nicola Nardelli,1 Chiara Caristo,1 Valeria Condino,1 Daniela Gentile,1
Nino Dazzi1
Sommario
Questo contributo si propone di fornire una breve rassegna delle principali
linee di ricerca seguite negli ultimi anni dal gruppo coordinato da Vittorio
Lingiardi. Tra queste, ci soffermeremo in particolare su: a) valutazione e
diagnosi della personalità con SWAP-200 e PDM (Psychodynamic Diagnostic
Manual); b) sviluppo e validazione di strumenti clinician-report per
operazionalizare l’uso del PDM; c) valutazione dei meccanismi di difesa e degli
stili difensivi mediante DMRS e sua versione Q sort; d) studio del processo e
della relazione terapeutica (alleanza terapeutica, rotture e riparazioni
dell’alleanza, transfert, controtransfert); in particolare, in quest’area di ricerca,
ci siamo impegnati nello sviluppo e validazione di nuovi strumenti per la
valutazione dei processi di rottura e riparazione dell’alleanza (Collaborative
Interaction Scale) e della qualità dell’attaccamento tra paziente e terapeuta
(Patient-Therapist Attachment Q Sort); d) sviluppo della ricerca clinica e
applicativa sui temi dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale e
dell’omofobia sociale e interiorizzata.
Parole chiave
Diagnosi e valutazione della personalità, meccanisimi di difesa, processo,
alleanza terapeutica, orientamento sessuale e omofobia.
--------------------------------------------------------------------------------------------------------1 Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Facoltà di Medicina e Psicologia,
“Sapienza”, Università di Roma, 2 Dipartimento di Scienze dell’Uomo, Università
degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
Corrispondenza: Vittorio Lingiardi
E-mail: vittorio.lingiardi@uniroma1.it
Tel.: 06 49917559
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Introduzione
Il nostro approccio alla “ricerca in psicoterapia” può essere riassunto
in pochi concetti essenziali: che la ricerca sia utile alla clinica, che la
clinica sia capace di riflettere su se stessa a partire dai risultati della
ricerca, che si rivolga la stessa attenzione alla complessità dei concetti
e dei fenomeni e all’affidabilità empirica della loro operazionalizzazione,
che si nutra fiducia in numeri e tabelle, ma senza idealizzarli, che si
dia una considerazione privilegiata alle ricerche basate sui trascritti
delle sedute e che si usino poche gergalità.
Le nostre linee di ricerca possono essere così raggruppate: 1)
valutazione e diagnosi della personalità; 2) relazione terapeutica e sue
componenti
(alleanza
terapeutica,
transfert,
controtransfert);
3)
attaccamento e psicoterapia; 4) valutazione dei meccanismi di difesa; 5)
orientamento sessuale, omofobia, identità di genere e psicoterapia.
In questa breve rassegna sull’attività di ricerca del nostro gruppo
faremo riferimento prevalentemente alla produzione scientifica degli
ultimi anni. Abbiamo deciso di riportare in forma narrativa i risultati
delle nostre ricerche, rimandando ai singoli lavori il lettore interessato
a informazioni più specifiche sulle tecniche di analisi utilizzate e i dati
numerici (informazioni aggiornate e complete sulle attività di ricerca
del nostro gruppo sono consultabili sul sito: http://www.pcrlab.org/).
Valutazione e diagnosi della personalità
Dopo una rassegna critica dei principali modelli della personalità e
dei suoi disturbi (Lingiardi, 2004), in particolare da una prospettiva
psicodinamica e bio-psico-sociale, abbiamo cercato di individuare uno
strumento di valutazione della personalità che fosse al tempo stesso
empiricamente
affidabile
e
clinicamente
utile,
che
superasse
i
principali limiti dell’Asse II del DSM-IV-TR (APA, 2000) e che potesse
essere utilizzato anche nelle ricerche su processo e outcome delle
psicoterapie.
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Abbiamo riscontrato questi requisiti nella Shedler-Westen Assessment
Procedure-200,
un
Q-sort
clinical-report
composto
da
200
item
descrittivi delle principali caratteristiche della personalità normale e
patologica (Gazzillo, 2006, 2009; Lingiardi & Gazzillo, 2002, 2010;
Westen & Shedler, 1999a, 1999b; Westen, Shedler, & Lingiardi, 2003).
La SWAP-200 permette di elaborare una diagnosi categoriale e
dimensionale degli stili/disturbi di personalità che segue la nosografia
dell’Asse II del DSM-IV (fattori PD) e una tassonomia empiricamente
derivata degli stili di personalità (fattori Q), una valutazione delle risorse
e una formulazione del caso sistematica e patient-tailored. A differenza
degli strumenti self-report, la SWAP-200 valorizza le capacità di
osservazione e inferenza dei clinici, disciplinandole per mezzo di
metologie statistiche adeguate e senza interferire nella relazione
terapeuta-paziente.
Abbiamo tradotto in italiano la SWAP-200, versioni adulti e
adolescenti (per quest’ultima vedi: Westen, Shedler, Durrett, Glass, &
Martens, 2003), e costruito un programma computerizzato per lo
scoring (Westen et al., 2003).
Dal punto di vista applicativo, ci siamo concentrati sull’impiego della
SWAP-200 nella valutazione di processo e outcome delle psicoterapie
per mezzo dell’analisi dei trascritti di sedute di casi singoli: in un primo
lavoro pubblicato sul Journal of Personality Assessment (Lingiardi,
Shedler, & Gazzillo, 2006) abbiamo illustrato come la SWAP-200
permetta di valutare in modo dettagliato, qualitativo e quantitativo, i
cambiamenti dell’assetto della personalità nel corso di una psicoterapia
analitica. In un lavoro più recente, apparso su Psychoanalytic
Psychology (Lingiardi, Gazzillo, & Waldron, 2010), abbiamo invece
analizzato processo e outcome di una psicoterapia psicoanalitica
servendoci di SWAP-200, Defense Mechanism Rating Scale (DMRS;
Perry, 1990) e Analytic Process Scales (APS; Waldron, Scharf, Hurst,
Firestein, & Burton, 2004) per la valutazione delle comunicazioni di
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paziente e terapeuta. I risultati di questa ricerca sembrano confermare
alcuni dati presenti in letteratura (Waldron, Scharf, Hurst et al., 2004;
Waldron, Scharf, Crouse, Firestein, Burton, & Hurst, 2004; Waldron &
Helm, 2005): una terapia di successo aumenta le capacità di buon
funzionamento della personalità del paziente, riduce i tratti di
personalità patologici e matura complessivamente lo stile difensivo.
Questo studio sembra anche supportare l’ipotesi secondo cui le attività
analitiche nucleari (chiarificazioni e interpretazioni di difese, conflitti e
transfert) e la qualità delle comunicazioni del terapeuta (intesa come
adeguatezza del tipo e del contenuto dell’intervento, a cui aggiungere
tatto, timing e linguaggio con cui viene comunicato) sono i fattori che
maggiormente favoriscono il cambiamento della personalità nelle
terapie analitiche.
Attualmente, siamo impegnati nella stesura di un lavoro di
valutazione del processo di una psicoterapia dinamica ai cui trascritti
sono state applicate SWAP-200, Attività Referenziale (RA; Bucci &
Kabasakalian-Mckay, 1992) e DMRS (per una versione preliminare,
vedi Gazzillo, Mariani, Lingiardi, & Bucci, 2009).
In una ricerca empirica condotta su 102 adolescenti con disturbi del
comportamento alimentare (DCA), abbiamo utilizzato la SWAP-200 per
identificare i sottotipi di personalità empiricamente rilevabili nei
pazienti con queste diagnosi. In linea con le ricerche di ThompsonBrenner
e
Westen
(Thompson-Brenner,
Eddy,
Franko,
Dorer,
Vashchenko, Kass, & Herzog, 2008; Thompson-Brenner & Westen,
2005), abbiamo identificato tre sottotipi di personalità: uno stile di alto
funzionamento/perfezionistico, uno emotivamente disregolato e uno
iper-coartato. Abbiamo quindi indagato le caratteristiche relative
all’identità e allo stile di regolazione degli affetti di ciascuno di questi
sottotipi e rilevato come il livello di gravità della presentazione clinica
dei pazienti con DCA sia direttamente correlato all’intensità dello stile
disregolato e inversamente correlato a quello di alto funzionamento
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(Gazzillo, Lingiardi, Peloso, Giordani, Vesco, Filippucci, & Zanna,
submitted). Attualmente, in collaborazione con il SERT della ASL di
Bergamo,
stiamo
conducendo
uno
studio
finalizzato
alla
sottotipizzazione della personalità di pazienti con addiction.
In ultimo, con i colleghi del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di
Roma abbiamo avviato un progetto di ricerca teso a indagare la
relazione tra patologia di personalità (valutata con la SWAP-200;
Westen
et
al.,
Psychotherapy
2003),
pattern
Relationship
transferali
Questionnaire
(identificati
(PRQ);
Westen,
con
il
2000;
Bradley, Heim, & Westen, 2005) e pattern controtransferali (identificati
con il Countertransference Questionnaire (CTQ); Zittel, Conklin, &
Westen, 2003; Betan, Heim, Conklin, & Westen, 2005).
In linea con le ipotesi formulate, è emerso che il transfert
evitante/contro-dipendente e il controtransfert distaccato sembrano
buoni predittori dei disturbi di personalità del cluster A; il transfert
arrabbiato/rivendicativo/recriminativo
e
il
controtransfert
sopraffatto/disorganizzato sembrano buoni predittori dei disturbi del
cluster
B;
il
transfert
ansioso/preoccupato
e
il
controtransfert
genitoriale sembrano buoni predittori dei disturbi del cluster C.
Questi risultati suggeriscono che le modalità con cui pazienti e
terapeuti interagiscono presentano caratteristiche riconducibili alla
personalità del paziente e tendono a ripetersi secondo pattern coerenti
e prevedibili (Tanzilli, Carcione, Dimaggio, Lingiardi, & Semerari,
2010).
Nel 2008, con Franco Del Corno, abbiamo curato la versione italiana
del Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM Task Force, 2006), il
primo manuale multiassiale, catagoriale, dimensionale e prototipico
pensato per guidare il clinico in una valutazione dinamica completa
della personalità, del funzionamento mentale e della sintomatologia
(incluso il senso soggettivo dei sintomi) di pazienti adulti, adolescenti e
bambini. Per validare empiricamente la tassonomia dei disturbi di
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personalità del PDM e permettere una loro valutazione rapida e
affidabile abbiamo costruito i Prototipi Diagnostici Psicodinamici (PDP;
Gazzillo, Lingiardi, & Cordero di Montezemolo, 2008), una rating scale
clinician-report dei diversi disturbi di personalità del PDM. La
validazione dei PDP, condotta su 173 soggetti adulti in cura presso i
servizi pubblici di salute mentale, ha dimostrato buoni livelli di validità
di facciata, attendibilità, validità concordante, discriminante e di
criterio (Gazzillo, Lingiardi, & Del Corno, in preparazione). Siamo
impegnati nell’elaborazione di un modello di formulazione dei casi
clinici basato sugli item dei PDP e nella costruzione di un programma
computerizzato per la valutazione della personalità con questo
strumento, che nella sua ultima versione (Gazzillo & Lingiardi, 2010)
indaga anche le preoccupazioni principali e le credenze patogene dei
pazienti, prima valutate per mezzo di due questionari ad hoc.
L’attenzione alla diagnosi e la promozione di una cultura diagnostica
propedeutica alle opzioni di trattamento, ci ha portato a curare, su
commissione dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, il primo testo italiano
di rassegna critica dei principali modelli e strumenti diagnostici di
ambito psicologico-clinico: La diagnosi in psicologia clinica (Dazzi,
Lingiardi, & Gazzillo, 2009; vedi anche Barron & Lingiardi, 2005;
Lingiardi, 2009; Lingiardi & Codazzi, 2009; Lingiardi & Tanzilli, 2011).
Relazione terapeutica e sue componenti: alleanza, transfert,
controtransfert
Il volume L’alleanza terapeutica (Lingiardi, 2002), rassegna storicocritica delle principali definizioni teoriche e operazionalizzazioni
empiriche del costrutto, inaugura in Italia una prolifica linea di ricerca,
concettuale ed empirica, su questo “fattore aspecifico”, tra i più
correlati all’outcome delle psicoterapie (Horvath & Bedi, 2002;
Lingiardi, 2006a; Wampold, 2001). La prima ricerca che abbiamo
svolto in quest’ambito si è concentrata sullo studio della relazione tra
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disturbi di personalità e alleanza terapeutica (Lingiardi, Filippucci, &
Baiocco, 2005). In questo lavoro abbiamo potuto osservare come (a) la
forza dell’alleanza terapeutica nelle fasi iniziali del trattamento fosse un
buon predittore rispetto al drop out; (b) i pazienti del cluster A
mostrino particolari difficoltà nello stabilire un’alleanza terapeutica; (c)
i terapeuti con pazienti del cluster B tendano a valutare negativamente
l’alleanza e, infine, (d) le valutazioni dell’alleanza fatte dai terapeuti
risultino in media più basse di quelle fatte dai pazienti.
All’interno di una riflessione, anche critica, sulla “genericità” del
costrutto “alleanza terapeutica”, la nostra attenzione si è quindi
spostata sullo studio della costruzione dell’alleanza nel corso del
processo terapeutico (Ackermann & Hilsenroth, 2001, 2003) e sulla
concettualizzazione di Safran e Muran secondo cui l’alleanza può
essere intensa come processo di negoziazione intersoggettiva tra
paziente
e
terapeuta
caratterizzato
dall’alternarsi
di
rotture
e
riparazioni (Lingiardi, 2008, in press; Lingiardi & Colli, 2010; Safran &
Muran, 2000). A partire da questo modello abbiamo costruito l’Indice di
Valutazione dell’Alleanza Terapeutica (IVAT; Colli & Lingiardi, 2002,
2007a, 2007b), che permette di valutare i processi di rottura e
riparazione dell’alleanza a partire dall’analisi dei trascritti di sedute
secondo la prospettiva di un osservatore esterno e attraverso una
metodologia
microanalitica.
Lo
studio
di
validazione
dell’ultima
versione di questo strumento, la Collaborative Interaction Scale (CIS), è
stata pubblicato su Psychotherapy Research (Colli & Lingiardi, 2009a).
Con l’IVAT/CIS abbiamo studiato il rapporto tra processi di rottura e
riparazione dell’alleanza terapeutica e variabili come: l’adjustment ratio
degli interventi del terapeuta rispetto al funzionamento difensivo del
paziente (Colli & Lingiardi, 2006), il controtransfert (Lingiardi & Colli,
2008), gli interventi del terapeuta (Lingiardi, Tanzilli, & Colli, 2008), la
diagnosi di personalità e i meccanismi di difesa (Lingiardi, Colli, &
Gazzillo, 2007), l’attività referenziale (Colli, Mariani, D’Angelo, &
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Lingiardi, 2009; Condino, Colli, Mariani, & De Coro, 2009) e i Sistemi
Motivazionali Interpersonali valutati attraverso il metodo AIMIT (Liotti &
Monticelli, 2008; Colli, Gentile, Fassone, Ivaldi, Lingiardi, & Liotti,
2010; Gentile, Colli, Fassone, Ivaldi, & Liotti, 2009). Attualmente siamo
impegnati nello sviluppo di una nuova versione user-friendly della CIS
e nello studio della relazione tra rotture/riparazioni dell’alleanza e
funzionamento riflessivo (Colli, Guardati, & Pratesi, 2010).
Nel tentativo di integrare lo studio dei fattori relazionali aspecifici
delle psicoterapie con quello dei fattori specifici, abbiamo indagato il
rapporto tra alleanza, pattern d’interazione terapeutica e profondità
dell’elaborazione (Lingiardi, Colli, Gentile, & Tanzilli, submitted). In
questa ricerca, condotta con lo Psychotherapy Process Q-set (PQS;
Jones, 1985, 2000; Colli & Gazzillo, 2006; Lingiardi & Dazzi, 2008),
abbiamo potuto rilevare due pattern d’interazione specifici legati
all’outcome
delle
terapeutica
intesa
sedute:
come
un
pattern
“base
che
sicura”
descrive
(vedi
anche
un’alleanza
paragrafo
successivo), e un pattern che descrive un coinvolgimento attivo della
coppia paziente-terapeuta nella regolazione della relazione nel qui e
ora.
Abbiamo quindi avviato una serie di ricerche con l’obiettivo di
ampliare lo studio del processo terapeutico ad altre variabili relazionali,
come le comunicazioni di paziente e terapeuta, il transfert e il
controtransfert, la personalità e lo stile difensivo. In particolare, una
ricerca ha previsto l’applicazione delle Analytic Process Scales (APS;
Waldron, Scharf, Hurst et al., 2004), insieme con la SWAP-200 e la
DMRS, a 42 sedute di tre psicoterapie psicoanalitiche. I risultati di
questa ricerca, presentati al convegno internazionale della Society for
Psychotherapy Research svoltosi a Madison (Wisconsin) nel 2007
(Gazzillo & Lingiardi, 2007), confermano i risultati di una precedente
ricerca condotta negli Stati Uniti con le APS (Waldron, Scharf, Hurst et
al., 2004, Waldron, Scharf, Crouse et al., 2004): la produttività delle
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comunicazioni del paziente correla con le sue capacità di buon
funzionamento psicologico valutate con la SWAP-200 e con il livello di
maturità delle difese valutato con la DMRS, ed è rafforzata dalle attività
analitiche nucleari del terapeuta e della qualità dei suoi interventi.
Per poterci affidare a una valutazione empirica del controtransfert e
del transfert, abbiamo costruito un sistema Q sort per la valutazione
dell’esperienza
relazionale
del
terapeuta
Countertransference
Assessment Q sort (CTA-Q sort; Colli & Prestano, 2006; Colli &
Lingiardi, 2009b) e validato la versione italiana di due strumenti
clinician-report: il Psychotherapy Relationship Questionnaire (PRQ;
Bradley, Heim, & Westen, 2005; Tanzilli, Colli, De Bei, & Lingiardi,
2010) e il Countertransference Questionnaire (CTQ; Betan, Heim, Zittel
Conklin, & Westen, 2005; Tanzilli, Colli, & Lingiardi, 2009).
La validazione del CTA-Q sort è stata effettuata all’interno di una
ricerca nazionale, condotta con un gruppo di colleghi impegnati nei
servizi pubblici e in studi privati, sullo studio dei pattern di esperienza
transferale e controtransferale in relazione al livello di funzionamento e
allo stile di personalità dei pazienti (Colli & Lingiardi, 2009b; Colli,
Lingiardi, & Gruppo ASP, submitted). Questo studio ci ha permesso di
costruire
alcuni
prototipi
dell’esperienza
controtransferale
nel
trattamento di pazienti con disturbi di personalità e abbiamo potuto
osservare, in accordo con la letteratura internazionale (Rossberg,
Karterud, Pedersen, & Friis, 2007; Schwartz, Smith, & Chopko, 2007),
una
stretta
relazione
tra
livello
sintomatologico
e
intensità
dell’esperienza controtransferale dei terapeuti nonché la presenza di
pattern di risposta dei terapeuti in relazione a specifici disturbi di
personalità (Colli & Lingiardi, 2009b; Colli, Marchegiani, & Lingiardi,
2010; Lingiardi, 2008, in press).
Abbiamo valutato stabilità fattoriale, affidabilità e validità di
costrutto delle versioni italiane del CTQ (trad. it. De Bei & Lingiardi,
2006a; Tanzilli et al., 2009) e del PRQ (trad. it. De Bei, Lingiardi,
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2006b; Tanzilli et al., 2010). L’analisi fattoriale preliminare da noi
eseguita su 160 CTQ mostra una struttura differente da quella rilevata
dalle ricerche americane (Betan et al., 2005); abbiamo infatti
individuato 5 fattori di controtransfert: positivo, impotente/frustrato,
speciale/ipercoinvolto,
sopraffatto/disorganizzato,
distaccato/non
coinvolto. Per testare l’applicabilità clinica della versione italiana di
questo strumento è stata esaminata la relazione tra i 5 fattori del
controtransfert e i fattori PD e Q della SWAP-200. In linea con le ipotesi
di partenza, i disturbi del cluster A sembrano associati a un
controtransfert distaccato; i disturbi del cluster B ai controtransfert
impotente/frustrato e sopraffatto/disorganizzato e i disturbi del cluster
C al controtransfert speciale/ipercoinvolto.
Per
valutare
la
validità
convergente
sono
state
esaminate
le
correlazioni tra i 5 pattern controtransferali e le valutazioni dei trascritti
di sedute di 14 coppie paziente-terapeuta condotte con lo Psychotherapy
Process Q-set (PQS; Jones, 1985, 2000) e il Working Alliance Inventory–
Observer Form (WAI-O; Horvath, 1981, 1982; Horvath & Greenberg,
1989): i dati hanno messo in evidenza come i fattori del controtransfert
ipercoinvolto, distaccato e disorganizzato sembrino associati a una
scarsa qualità dell’alleanza terapeutica. Rispetto alle variabili del
processo
terapeutico,
invece,
la
presenza
di
un
pattern
controtransferale positivo si associa a un legame di fiducia e intimità col
paziente (Tanzilli et al., 2009).
Per quanto riguarda il Psychotherapy Relationship Questionnaire,
l’analisi fattoriale eseguita su 180 protocolli ha prodotto una soluzione
a 4 fattori differente da quella identificata dal gruppo di Westen
(Bradley et al., 2005): sicuro-impegnato, arrabbiato/ostile, evitante,
ansioso/preoccupato.
Queste
dimensioni
transferali
presentano
elementi di sovrapposizione con gli stili di attaccamento identificabili
attraverso la Adult Attachment Interview (AAI; Main, Kaplan, & Cassidy,
1985). Anche in questo studio, per testare la validità e l’applicabilità
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clinica della versione italiana del PRQ è stata indagata la relazione tra i
4 fattori transferali e i disturbi della personalità alla SWAP-200 (sia in
fattori PD, sia in fattori Q). In accordo con le ipotesi formulate, i
disturbi del cluster A sono risultati associati positivamente al transfert
evitante/controdipendente
e
negativamente
al
transfert
sicuro/impeganto; i disturbi del cluster B positivamente al transfert
arrabbiato/ostile e negativamente al transfert sicuro/impegnato; i
disturbi del cluster C positivamente al transfert ansioso/preoccupato e
negativamente al transfert evitante/controdipendente.
Per valutare la validità convergente del PRQ sono state misurate le
correlazioni tra i pattern transferali e le valutazioni dei trascritti di
sedute di 20 coppie paziente-terapeuta condotte con il PQS di Jones
(1985, 2000) e il WAI-O di Horvath (Horvath, 1981, 1982; Horvath &
Greenberg, 1989). I risultati preliminari di questa ricerca evidenziano
come i fattori transferali ostile ed evitante siano associati a una bassa
qualità dell’alleanza terapeutica, mentre il transfert positivo si associa
a caratteristiche qualitativamente positive dell’interazione terapeutica,
come la sua capacità del paziente di impegnarsi nel lavoro terapeutico,
di essere introspettivo e di esplorare i propri pensieri e sentimenti
(Gentile & Tanzilli, 2008; Lingiardi et al., submitted; Tanzilli et al.,
2010).
Attaccamento e psicoterapia
Le numerose ricerche che si sono occupate di estendere alla
relazione terapeutica i risultati degli studi sull’attaccamento adulto
(Obegi & Berant, 2008; Slade, 2008; Steele & Steele, 2008) ci hanno
portato ad approfondire, da un punto di vista teorico e empirico, il
rapporto tra questo costrutto e l’alleanza terapeutica, il transfert e il
controtransfert (De Bei, Colli, & Lingiardi, 2007; Lingiardi, 2002;
Lingiardi & De Bei, 2005, 2007) senza per questo tralasciare una
riflessione sul tema, più ampio, del setting terapeutico (vedi Lingiardi &
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De Bei, 2008; Lingiardi & De Bei, in press).
In più occasioni abbiamo sottolineato l’utilità di un ampliamento del
concetto di alleanza in termini di “base sicura” (De Bei et al., 2007;
Lingiardi & De Bei, 2005, 2007). Lo studio micro-processuale della
relazione terapeutica ha infatti messo in evidenza come l’alleanza
rappresenti un costrutto sovraordinato che deriva dall’integrazione di
numerose
variabili
riconducibili
alle
dimensioni
transferale/controtransferale e relative alla relazione reale. Se si
concepisce il transfert come ricapitolazione delle modalità relazionali
del paziente (sicure o insicure), e i processi controtransferali come il
risultato dell’incontro tra le caratteristiche della personalità del
terapeuta e le particolari modalità relazionali del paziente, l’alleanza
può essere compresa come risultante dell’incontro tra questi fattori e la
dimensione reale e operativa della relazione terapeutica. Ciò consente
di mettere in evidenza come l’alleanza, una volta concepita come base
sicura, possa rappresentare un ponte tra costrutti apparentemente
lontani.
Sul piano valutativo, al fine indagare il modo in cui l’attaccamento
influenza l’outcome della psicoterapia (De Bei, 2006) abbiamo costruito
uno strumento che permette di indagare l’attaccamento pazienteterapeuta a partire da trascritti delle sedute. Il Patient-Therapist
Attachment Q- sort (PTA Q- sort; De Bei, Lingiardi, & Miccoli, 2007) è
uno strumento costruito con il preciso intento di studiare gli aspetti
processuali delle dinamiche di attaccamento. I
primi studi di
validazione che abbiamo condotto hanno dato risultati incoraggianti
dimostrando che lo strumento possiede un’affidabilità soddisfacente
(De Bei, Lingiardi, & Miccoli, 2008). Attualmente, il nostro gruppo di
ricerca è impegnato a valutare la validità di costrutto del PTA Q- sort
con altre misure dell’attaccamento adulto (AAI) e a costruirne una
versione informatizzata.
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Sul piano empirico, l’impiego del PTA Q- sort ci ha consentito di
verificare alcune ipotesi presenti in letteratura sulla relazione tra
attaccamento paziente-terapeuta e outcome del trattamento (Meyer &
Pilkonis, 2001; Speranza, 2006). A questo scopo abbiamo indagato il
rapporto tra la qualità dell’attaccamento paziente-terapeuta (De Bei,
Lingiardi, & Miccoli, 2007), l’alleanza (con il Working Alliance Inventory,
WAI; Horvath, 1981, 1982; Horvath & Greenberg, 1989) e le
caratteristiche dell’interazione tra clinico e paziente (attraverso lo
Psychotherapy Process Q-set, PQS; Jones, 1985, 2000). Questo studio,
condotto su un campione di circa 40 sedute di psicoterapia a
orientamento psicodinamico, sembra mostrare che l’attaccamento non
è una variabile in grado di influenzare direttamente l’alleanza, ma
alcuni fattori che, a loro volta, incidono sull’alleanza (De Bei, Tanzilli,
Miccoli, & Lingiardi, 2009). In sintesi, le modalità di interazione
associate
ai
singoli
pattern
di
attaccamento
paziente-terapeuta
sembrano catturare stili di interazione globali capaci di influenzare gli
aspetti più tecnici dell’intervento mediando fattori aspecifici e specifici
(Norcross, 2002; vedi anche Castonguay & Butler, 2006).
Abbiamo applicato il PTA Q sort allo studio di un caso singolo, così
da indagare un’ipotesi da poco presente in letteratura: alcuni studi che
hanno utilizzato l’AAI come misura di outcome (Diamond, Clarkin,
Stovall-Mcclough, Levy, Foelsch, Levine, & Yeomans, 2003) hanno
rilevato che un sottogruppo di pazienti borderline, nel corso del primo
anno
di
psicoterapia,
passavano
da
stati
della
mente
disorganizzati/insicuri a stati non classificabili; mostravano, cioè,
quello che poteva essere intepretato come un peggioramento. Si è
tuttavia ipotizzato (Speranza, 2006) che questo dato rifletta una
“rottura” delle precedenti strategie insicure che nel prosieguo della
terapia può condurre allo sviluppo di modalità di relazione più sicure.
Lo studio che abbiamo condotto su una psicoterapia psicodinamica
della durata di due anni ha indicato di fatto un andamento a
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“campana” delle misure di attaccamento, con un aumento delle
caratteristiche di insicurezza nella fase intermedia della terapia a cui fa
seguito, nella fase finale, un incremento della sicurezza. Questo dato,
certo non generalizzabile, sembra muoversi in accordo con l’ipotesi per
cui un’acquisizione di strategie più sicure nel corso di una psicoterapia
possa passare attraverso una “rottura” delle precedenti strategie
insicure (De Bei, Lingiardi, & Miccoli, 2008).
La possibilità di monitorare in senso dimensionale l’andamento delle
diverse strategie di attaccamento (preoccupate, distanzianti e sicure) ci
ha consentito di evidenziare come esse possano essere lette in termini
di modalità di regolazione degli affetti. Nello studio single case
sopracitato abbiamo infatti rilevato una brusca diminuzione del fattore
distanziante e un concomitante incremento del fattore preoccupato
nella fase intermedia della terapia e un ritorno a livelli precedenti di
distanziamento, ma inseriti nel contesto di una maggior sicurezza e di
una
minore
preoccupazione,
nella
fase
finale.
Se
si
leggono
distanziamento e preoccupazione come una iper-regolazione (il primo) e
una ipo-regolazione (il secondo) delle emozioni, l’andamento evidenziato
può essere descritto nei termini dell’acquisizione di una modalità più
funzionale di regolazione degli affetti.
Questi
risultati
ci
hanno
spinto
ad
approfondire
lo
studio
dell’attaccamento paziente-terapeuta estendendolo ad altre variabili
processuali (per esempio, i meccanismi di difesa; De Bei & Tanzilli,
2010) e ad avviare una riflessione concettuale e teorica sull’impiego
clinico di questa variabile (Dazzi & De Bei, 2010).
La valutazione dei meccanismi di difesa
Il nostro interesse per questo costrutto nasce con la scrittura di un
volume di rassegna sistematica dei principali modelli teorici e
strumenti empirici per la valutazione dei meccanismi di difesa
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(Lingiardi, 2006b; Lingiardi & Madeddu, 2002), contenente tra l’altro la
versione italiana della Defense Mechanism Rating Scale (DMRS; Perry,
1991), da noi validata su un campione di pazienti con disturbi di
personalità (Lingiardi, Lonati, Fossati, Vanzulli, & Maffei, 1999). La
DMRS è stata impiegata in molte ricerche italiane su processo e
outcome delle psicoterapie di pazienti adulti (vedi paragrafi 1 e 2).
Un altro strumento per la valutazione dei meccanismi di difesa da
noi tradotto e validato è il Defense Style Questionnaire (DSQ; San
Martini, Roma, Sarti, Lingiardi, & Bond, 2004), strumento self-report
per la valutazione dei meccanismi di difesa costruito negli anni Ottanta
da Michael Bond (Bond, 1986).
Al fine di estendere i benefici della valutazione dei meccanismi di
difesa anche al lavoro clinico, dove spesso risulta difficoltoso applicare
le complesse procedure di rating proposte dagli strumenti più utilizzati
(Cramer, 2007; Perry, 1991) abbiamo realizzato, in collaborazione con
il gruppo di ricerca di Perry, un nuovo sistema di valutazione ispirato
alla DMRS, ma di più facile somministrazione e codifica, adatto sia per
scopi clinici che di ricerca (Perry, Di Giuseppe, Petraglia, Janzen, &
Lingiardi, submitted): il DMRS Q-sort version (DMRS-Q). Il DMRS-Q è
composto da 150 item relativi a 30 meccanismi di difesa organizzati
gerarchicamente in 7 livelli di adattività/maturità. Al valutatore si
chiede di organizzare le 150 affermazioni all’interno di 7 ranghi di
descrittività secondo una distribuzione fissa, in modo da ottenere un
quadro preciso di quali manifestazioni difensive possano essere
considerate caratterizzanti un determinato individuo. Disponendo di 5
item per ogni singolo meccanismo di difesa, ognuno dei quali sottolinea
un particolare aspetto funzionale e modalità espressiva della difesa
sottostante, il Q-sort è in grado di catturare le caratteristiche dello stile
difensivo sia qualitativamente, tracciando un Defensive Profile, sia
quantitativamente, attraverso i punteggi per singola difesa, livello
difensivo e punteggio di maturità difensiva globale (Overall Defensive
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Functioning – ODF). L’intera procedura di codifica e interpretazione dei
risultati è facilitata da un software appositamente ideato (Di Giuseppe,
2009).
Tenendo conto del fatto che l’adolescenza può essere considerata l'età
in cui si stabilizzano i pattern cognitivi, affettivi e comportamentali che
andranno a formare la personalità adulta, abbiamo deciso di affrontare
in modo empirico anche lo studio dei meccanismi di difesa in soggetti
adolescenti.
Molti
studi
sulla
relazione
tra
stile
difensivo
e
caratteristiche di personalità hanno mostrato come il ricorso a difese
mature si associ a benessere fisico e psicologico, mentre meccanismi di
difesa meno adattivi e immaturi siano tipici dei soggetti con disturbi di
personalità (Perry, Lingiardi, & Ianni, 1999; Bond & Perry, 2004;
Vaillant, 1992). Sulla scorta dei risultati emersi dagli studi con la
SWAP-200 (vedi anche paragrafo 1), abbiamo rilevato l’opportunità di
indagare la relazione tra meccanismi di difesa e caratteristiche di
personalità in adolescenza, evidenziandone gli aspetti di continuità e
discontinuità con i risultati ottenuti in campioni di adulti (Vaillant &
Drake, 1985; Lingiardi, Lonati, Fossati, Vanzulli, & Maffei, 1999;
Cramer, 1999) e verificando la validità e attendibilità di metodi empirici
per la loro valutazione (come la DMRS e il DMRS-Q) anche su
popolazioni in età evolutiva (Di Giuseppe, Ianni, Gazzillo, & Lingiardi,
2009).
Abbiamo quindi condotto una ricerca su 42 soggetti di età compresa
tra i 14 e i 18 anni in trattamento presso servizi pubblici per la
prevenzione delle problematiche psicologiche e sociali dell’età evolutiva.
La valutazione della personalità è stata effettuata con la SWAP-200-A a
partire dai trascritti dall’Intervista Clinica e Diagnostica (CDI; Westen &
Muderrisoglu, 2003), di cui abbiamo elaborato una versione per
adolescenti (Gazzillo, 2006), sui quali è stata applicata anche la DMRS
e la sua versione Q-sort (Di Giuseppe, Perry, Petraglia, Janzen, &
Lingiardi, 2010).
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I primi risultati di questo studio mostrano che alcuni stili di
personalità, in particolare quelli del Cluster B, si manifestano già in
adolescenza con caratteristiche simili a quelle riscontrabili negli adulti.
Inoltre, l’associazione con particolari meccanismi di difesa lascerebbe
intuire che anche in adolescenza esiste una certa continuità tra i
pattern difensivi e i disturbi di personalità, che solo più tardi si
manifestano in forma stabile e strutturata (per una trattazione più
specifica del problema della diagnosi di personalità in adolescenza, vedi
Lingiardi, 2009; Lingiardi & Codazzi, 2009, Lingiardi & Maffei, 2009).
Orientamento sessuale, omofobia, identità di genere e psicoterapia
Partendo
dallo
studio
dell’omofobia
sociale
e
interiorizzata
(Lingiardi, 1992, 2007a, 2007b; Lingiardi & Drescher, 2003; Lingiardi,
Falanga, & D’Augelli, 2005) abbiamo messo a punto due strumenti per
la sua misurazione. In particolare, il questionario autosomministrato
Measure of Internalized Sexual Stigma for Lesbians and Gay men
(MISS-LG; Lingiardi, Baiocco, & Nardelli, submitted; Nardelli, Baiocco,
Rollè, & Brustia, 2010) ci ha permesso di verificare l’ipotesi per cui
l’omofobia interiorizzata sarebbe scomponibile in tre dimensioni:
individuale, sociale, sessuale/diadica. Comprendere e poter disporre di
un
valido
strumento
per
misurare
il
costrutto
dell’omofobia
interiorizzata è a nostro parere di estrema importanza nella ricerca e
nelle psicoterapie con pazienti gay e lesbiche, spesso soggetti a un
particolare tipo di stress – di cui l’omofobia interiorizzata fa parte – il
minority stress (Lingiardi, 2007b; Meyer, 1995, 2003).
Abbiamo quindi messo in relazione l’omofobia interiorizzata e il
minority
stress
con
altri
costrutti
d’interesse
clinico,
quali
la
dissociazione e l’attaccamento. Più in dettaglio, i nostri studi sembrano
indicare che alti livelli di omofobia interiorizzata predicono un maggior
ricorso a strategie difensive di tipo dissociativo nelle persone gay e
lesbiche (Lingiardi, Nardelli, Baiocco, & Rollè, 2010; Nardelli, Baiocco,
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Rollè, & Brustia, 2009). Per quanto riguarda l’attaccamento, i risultati
indicano che alti livelli di omofobia interiorizzata si presentano spesso
in associazione agli stili insicuri distanziante e timoroso (Feeney,
Noller, & Hanrahan, 1994; Fossati, Feeney, Donati, Donini, Novella,
Bagnato, Acquarini, & Maffei, 2003), a loro volta buoni predittori di
omofobia interiorizzata (Lingiardi, Caristo, & De Bei, submitted).
Sempre in quest’area di ricerca, è in corso uno studio volto a
comprendere il ruolo di queste dimensioni nelle famiglie omoparentali.
Data la centralità della dissociazione e dell’attaccamento nella pratica
clinica, è nostro interesse approfondirne le implicazioni nel campo
psicoterapeutico (Sherry, 2007).
Le nostre ricerche si sono poi focalizzate sugli effetti determinati
dall’omofobia del terapeuta, e sugli effetti delle terapie volte a
“convertire” l’omosessualità in eterosessualità (dette talvolta “terapie
riparative”). Partendo da uno studio sugli atteggiamenti psicoanalitici
verso le omosessualità, vincitore nel 2004 del Ralph Roughton American
Psychoanalytic Association Paper Award (Lingiardi & Capozzi, 2004),
insieme agli Ordini degli Psicologi della Campania, del Lazio e del
Piemonte abbiamo avviato una ricerca analoga rivolta agli psicologi. A
tal fine, abbiamo costruito un questionario ad hoc, l’APO (Atteggiamenti
degli Psicologi verso le Omosessualità; Lingiardi & Nardelli, 2010) per
studiare la relazione tra gli atteggiamenti degli psicologi verso le
omosessualità e variabili quali il percorso formativo, il modello teorico
di riferimento, l’esperienza clinica con pazienti omosessuali, etc.
Nel corso degli ultimi anni abbiamo avviato un filone di ricerca
sulle
caratteristiche
di
personalità
dei
pazienti
con
Disturbo
dell’Identità di Genere (DIG). I nostri studi si sono focalizzati sul
rapporto tra DIG, personalità e attaccamento (Lingiardi, De Bei, &
Covelli, 2009; De Bei, Covelli, Chianura, 2008) evidenzando la presenza
di un numero di soggetti con DIG e attaccamento sicuro equiparabile a
quello dei campioni non clinici, ma con una netta prevalenza di
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esperienze di abuso (fisico e/o sessuale) e perdite traumatiche
nell’infanzia. Sul piano della personalità, i nostri dati hanno messo in
evidenza
la
presenza
di
una
generale
difficoltà
a
livello
di
funzionamento sociale, interpersonale e affettivo tuttavia non inseribile
in un quadro psicopatologico definito. Un dato che, con molta
probabilità,
riflette
l’influenza
delle
esperienze
di
stigma
e
discriminazione sociale sul funzionamento psichico e relazionale di
questi soggetti (Zucker, 2005).
Conclusioni
Crediamo che le ricerche elencate e in parte descritte in questo
contributo riflettano la nostra visione della psicoterapia come relazione
tra soggetti i cui esiti dipendono da fattori molteplici e complessi,
specifici e aspecifici, che possono facilitare o ostacolare la crescita
psicologica e il processo terapeutico. Le nostre riflessioni e applicazioni
sui temi teorici e metodologici della ricerca in psicoterapia ha dato vita
al primo manuale italiano in questo campo: La ricerca in psicoterapia.
Modelli e strumenti (Dazzi, Lingiardi, & Colli, 2006), patrocinato da SPR
Italia e SPR International, introdotto dal Past President John Clarkin, e
scritto in colloborazione con alcuni tra i principali gruppi di ricerca
italiani.
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Abstract
The aim of this paper is to present an overview on the main research area
of our group, coordinated by Vittorio Lingiardi. In particular we will focus on:
a) personality diagnosis and assessment with SWAP-200 and PDM
(Psychodynamic Diagnostic Manual); b) development and validation of PDM
operazionalized clinician reports; c) assessment of defense mechanisms and
defensive styles by DMRS and its Q sort version; d) the study of
psychotherapy process and therapeutic relationship (i.e., therapeutic alliance,
alliance ruptures and resolutions, transference, countertransference); in
particular we developed a new measures for the assessment of ruptures and
resolutions (the Collaborative Interaction Scale), and the quality of attachment
between patient and therapist (the Patient-Therapist Attachment Q Sort); d) the
development of clinical and empirical research on gender identity, sexual
orientation, social and internalized homophobia.
Keywords
Diagnosis and assessment of personality, defense mechanisms, process
research, therapeutic alliance, sexual orientation and homophobia
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La valutazione degli esiti e del processo
nelle psicoterapie offerte dai Centri di Salute Mentale e
da un Centro di Psicologia Clinica universitario
Alessandra De Coro,1 Silvia Andreassi,1 Rachele Mariani,1
Elisabetta Iberni,1 Valeria Crisafulli,1 Adriana Matarrese1
Sommario
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di presentare i principali risultati emersi
dalla valutazione empirica di esiti e di processo nelle psicoterapie condotte in
contesti istituzionali. In una prima parte sono riassunti metodi e risultati di un
progetto longitudinale articolato – che ha incluso un intervento di formazione e
restituzione - svolto in collaborazione fra l’Università “Sapienza” e i Centri di
Salute Mentale di una ASL romana. Successivamente sono illustrati gli studi
condotti dal gruppo di ricerca sul cambiamento terapeutico e sul processo
applicando strumenti di indagine basati sulle narrative alle sedute di
psicoterapia presso un Centro Clinico Universitario. I principali obiettivi delle
ricerche svolte sono rivolti al miglioramento dei servizi, all’auto-monitoraggio
degli psicoterapeuti e all’elaborazione di un modello teorico che incentivi
l’efficacia terapeutica.
Parole chiave
Psicoterapie istituzionali, valutazione esiti, ricerca sul processo, narrative,
disturbi di personalità
-------------------------------------------------------------------------------------------1 Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, “Sapienza” Università di Roma
Corrispondenza: Alessandra De Coro
E-mail: Alessandra.decoro@uniroma1.i
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Il lavoro del gruppo nei Centri di Salute Mentale
Il gruppo di ricerca formato dalle Autrici, presso il Dipartimento di
Psicologia dinamica e clinica dell’Università di Roma “La Sapienza”, ha
orientato dal 2002 il proprio lavoro di ricerca sull’efficacia delle
psicoterapie nei servizi pubblici perseguendo tre obiettivi principali: in
primo luogo, quello di introdurre dei protocolli di ricerca fondati su una
metodologia adatta al funzionamento dei servizi e il più possibile
condivisa dai professionisti (psicologi e psichiatri) che erogano in prima
persona la psicoterapia; in secondo luogo, quello di individuare
strumenti finalizzati alla diagnosi funzionale e di personalità nella
prospettiva psicodinamica, che risultassero al tempo stesso user friendly
per i pazienti e per i clinici e sufficientemente “oggettivanti” da
permettere una valutazione attendibile del cambiamento terapeutico; in
terzo luogo, l’obiettivo di mettere a punto strumenti di valutazione del
processo che, accanto alla funzione di automonitoraggio da parte del
terapeuta, promuovessero una riflessione più approfondita sulla natura
stessa dei processi mentali attivati nel dialogo psicoterapeutico.
La metodologia di ricerca per la valutazione delle psicoterapie nei
contesti istituzionali
La ricerca empirica sulla efficacia delle psicoterapie all’interno dei
servizi pubblici riflette un cambiamento graduale nella cultura inerente
la pratica clinica, avvenuto in concomitanza al progresso e allo sviluppo
della metodologia scientifica in senso stretto. Nel 1999 le “Norme per la
Razionalizzazione
del
Servizio
Sanitario
Nazionale”,
confermando
l’impostazione di precedenti decreti, enfatizzavano l’importanza della
funzione di verifica della qualità e di revisione dei risultati. Rispetto al
settore
delle
psicoterapie,
l’applicazione
di
queste
normative
ha
sollecitato una maggiore sinergia tra diversi attori istituzionali, come, da
un lato, il Ministero della Sanità, le Regioni e i Dipartimenti di Salute
Mentale e, dall’altro lato,
gli
organi tecnico-scientifici, afferenti
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rispettivamente alle ASL e alle Università o ad altri enti di ricerca. Le
attività di ricerca del gruppo, in riferimento al primo obiettivo indicato,
hanno cercato di supportare il cambiamento organizzativo e culturale di
alcune ASL di Roma (in particolare la Rm B, coinvolta con due CSM, e
poi, più estesamente, la Rm A, con cui è tuttora in corso una
convenzione
di
ricerca),
attraverso
l’impostazione
di
progetti
di
valutazione dell’efficacia dei trattamenti: tali progetti hanno sempre
presentato caratteristiche di ricerca di tipo “ecologico” o “naturalistico”,
non raggiungendo gli standard richiesti dal paradigma epistemologico
dell’Evidence Based Mental Health
(De Coro & Andreassi, 2004). La
ricerca sull’efficacia nei contesti istituzionali presenta infatti problemi
insormontabili rispetto all’esigenza di standardizzare le situazioni
osservate, come per esempio: l’eterogeneità dell’utenza; la natura
variabile e non prefissata della durata dei trattamenti; la comorbidità e
la frequenza di doppie diagnosi; la molteplicità dei percorsi formativi dei
clinici e le diverse tecniche d’intervento, spesso cucite “su misura”
rispetto alle specificità dei pazienti e del setting istituzionale. Pur nella
consapevolezza
dei
limiti
di
questa
metodologia
e
della
reale
generalizzabilità dei risultati (Dazzi, 2006), la nostra pianificazione degli
interventi di valutazione delle psicoterapie ha cercato di bilanciare in
maniera ottimale le esigenze di minore intrusività della ricerca nel lavoro
clinico con l’esigenza di utilizzare misure quantitative e ripetute nel
tempo.
Un primo progetto di ricerca biennale in collaborazione con l’ASL Roma
B è stato incentrato sull’uso di questionari self-report, somministrati sia
ai pazienti che ai terapeuti, con ritmo semestrale. Al terapeuta era
richiesta la diagnosi clinica secondo l’ICD-9 e la compilazione della PRS
(Scala di Valutazione Periodica dell'intervento psicoterapeutico, adattata
in italiano da Gherardo Amadei); al paziente la compilazione di un
questionario sulla frequenza e intensità dei sintomi presenti nelle ultime
due settimane (SCL-90) e, dopo un anno, la valutazione della propria
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soddisfazione
per
l’intervento
ricevuto
(ROS-SC:
Scala
Romana
Autocompilata sulla Opinione del paziente); entrambi, infine, dovevano
monitorare la relazione reciproca compilando la WAI, una scala per
l’alleanza terapeutica (De Bei, 2006). L’esperienza di questo primo
progetto ha evidenziato alcuni limiti della metodologia scelta e le
difficoltà della valutazione delle psicoterapie nei servizi, malgrado la
volonterosa collaborazione dei colleghi terapeuti e l’impegno messo dal
nostro gruppo nella stesura di report semestrali indirizzati ai clinici per il
monitoraggio dei singoli casi8. La presenza di frequenti drop-out, infatti,
ha ridotto la numerosità del gruppo di psicoterapie studiato fino a un
anno (25 su 40 soggetti inclusi nello studio); l’applicazione della PRS a
tanta distanza di tempo risultava poco utilizzabile per il monitoraggio del
processo. Dati interessanti erano invece quelli sull’alleanza terapeutica,
che indicava una buona capacità predittiva rispetto all'esito della
psicoterapia, in termini di modificazione del quadro sintomatologico e di
soddisfazione del paziente rispetto al servizio: in particolare, la qualità
della
relazione
riferita
dal
terapeuta
nella
WAI
risultava
significativamente correlata con aggravamenti e miglioramenti segnalati
dal paziente sulla SCL-90 (Matarrese, 2007).
Contemporaneamente, per migliorare la sensibilità della diagnosi
iniziale, il gruppo ha lavorato all’adattamento italiano dell’OPD (Diagnosi
Psicodinamica Operazionalizzata: Gruppo OPD, 1996-2001; Task Force
OPD, 2006), uno strumento per la valutazione in termini strutturali e
relazionali dei colloqui clinici, pubblicato nel 2001 in Germania da un
gruppo di clinici e di ricercatori tedeschi: Gruppo OPD, 2001).9 In
particolare, uno studio sulla convergenza fra OPD e diagnosi clinica,
condotto in collaborazione con un centro privato di Milano, ha
8 Si ringraziano il primario psichiatra, prof. Antonello Correale, e i dottori Vincenzo
Scala e Giuseppe Di Leone, per aver promosso il progetto e mantenuto attiva la
collaborazione dei colleghi psicoterapeuti.
9 Nel 2006 è uscita una seconda versione, modificata per migliorarne le caratteristiche
psicometriche e la validità clinica. Dal 2009, questa edizione è disponibile in lingua
italiana, a cura di Martina Conte, Emilio Fava e coll., per i tipi della Franco Angeli.
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evidenziato che l’asse struttura dell’OPD riesce a cogliere l’organizzazione
della struttura psichica e che si riscontrano convergenze con alcune
valutazioni del test di Rorschach (De Coro, Lang, Del Corno, Parolin,
Matarrese, Piscicelli, Iberni, & Basile, 2004). L’OPD ha mostrato anche
buone potenzialità per essere utilizzato nell’ambito di un assessment
finalizzato alla diagnosi funzionale ed alla pianificazione di trattamenti
ad hoc per diversi gruppi di pazienti (Iberni, Vicari, Tagini, & Pazzagli,
2004).
Nel 2007 è stato firmato un accordo di cooperazione con la ASL Rm A
per un progetto di ricerca sulla valutazione del processo e dell’esito delle
psicoterapie, esteso a cinque Centri di Salute Mentale, creando una
sinergia con il Dipartimento universitario.
Sulla base delle lessons learnt della precedente esperienza, il protocollo
di questa valutazione ha incrementato l’uso di strumenti più articolati e
ricchi
di
l’Intervista
informazioni
sul
sull’attaccamento
piano
adulto
dell’osservazione
rivolta
alla/al
clinica,
come
paziente
(cfr.
Speranza, 2006) e la SWAP-200 (cfr. Gazzillo, 2006) somministrata
alla/al terapeuta dopo la fase dei colloqui iniziali; entrambe le
somministrazioni sono ripetute dopo un anno.
Il gruppo di pazienti
inclusi nella ricerca sono coloro che dopo essere stati valutati con una
diagnosi psichiatrica e con il livello di funzionamento globale (VGF),
decidono di iniziare una psicoterapia (individuale o di gruppo), sia in
combinazione con un trattamento farmacologico che senza; sono esclusi
i soggetti che hanno avuto diagnosi di tossicodipendenza e che
presentano disturbi di tipo organico (Iberni, Crisafulli, & De Coro, 2007).
Ai terapeuti è stata richiesta anche la compilazione della PRS una volta
al mese, per avere maggiori possibilità di riscontrare variazioni di
processo, mentre i pazienti compilano tre questionari carta e matita: la
Symptom
Check
List-90-Revised
(SCL-90-R:
Derogatis,
1977);
la
Response Evaluation Misure-71 (REM-71; Steiner, Araujo, Koopman,
2001; Lingiardi, 2006); il Coping Orientation to Problems Experienced
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(COPE; Carver, C. S., Scheier, M. F., & Weintraub, J. K., 1989) che
valuta gli stili di adattamento e le strategie per fare fronte allo stress. Le
rilevazioni di questi dati vengono ripetute a sei mesi, mentre l’AAI e la
SWAP-200 vengono somministrate nuovamente solo dopo un anno. I
trattamenti brevi (entro i 6 mesi) e i casi di drop out vengono ricontattati
per un follow-up dopo un anno dall’inizio della terapia per la
somministrazione degli strumenti della Fase 4 (dopo un anno).
Attualmente la ricerca include 41 pazienti che afferiscono a tre Centri
di
salute
mentale
della
ASL
Roma
A
e
7
terapeuti
diversi,
prevalentemente con orientamento psicodinamico.10 La diagnosi clinica
risulta, nel 35,3 % dei casi, quella di Disturbo dell’Umore e nel 13,7% di
Disturbo di Adattamento o Postraumatico da Stress. Sul totale, in 14
casi si è riscontrato un drop out prima dei sei mesi di terapia; 15
psicoterapie hanno superato i sei mesi di terapia e 9 hanno superato un
anno: solamente 3 pazienti, finora, hanno concluso in modo concordato
la terapia. I primi risultati emersi dalle due somministrazioni dei self
report (SCL-90, REM-71 e COPE), in prima valutazione e dopo sei mesi
di trattamento, non mostrano nessun cambiamento significativo.
Rispetto
alla
valutazione
dello
stato
della
mente
relativo
all’attaccamento, alla prima AAI il 46% dei pazienti mostra una
disorganizzazione, mentre fra gli altri prevalgono i soggetti Sicuri
(F=25%), poi gli Invischiati (18%) e infine i Distanzianti, che sono in
percentuale inferiore alla distribuzione nelle popolazioni normali (7%
contro i dati normativi che si aggirano intorno al 18-20%). Il gruppo dei
soggetti “Drop Out” si distingue per un maggior ricorso al meccanismo di
difesa della Fantasia, per un uso maggiore di Meccanismi Evasivi e per
tratti Narcisistici significativamente più marcati rispetto agli altri
soggetti. I pazienti con uno stato della mente Sicuro usano più
intensamente meccanismi di difesa
10
Evasivi rispetto agli Insicuri, che
Si ringraziano il primario psichiatra, Prof. Giorgio Campoli, che ha avviato e
sostenuto l’iniziativa e gli psicologi clinici dott. Ennio Fusco, dott. Giuseppe Mancini e
dott.ssa Leonella Magagnini, che, in quanto referenti dei rispettivi Distretti, hanno
collaborato attivamente alla ricerca in tutte le sue diverse fasi.
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mostrano dei tratti di personalità Antisociale significativamente più
marcati dei Sicuri. Anche le strategie di coping sembrano distribuirsi
diversamente
in
relazione
ai
diversi
stati
della
mente
relativi
all’attaccamento.
Per quanto riguarda la diagnosi di disturbo di personalità effettuata
con la SWAP-200, sembra che i soggetti con una diagnosi
accertata
facciano maggiormente uso di sostanze rispetto a coloro che non hanno
ricevuto una diagnosi di personalità. I pazienti con tratti schizoidi e
schizotipici ricorrono più frequentemente fra coloro che sono classificati
non risolti/disorganizzati all’AAI.
Secondo questi dati descrittivi, le variabili Attaccamento e Disturbo di
Personalità risultano associate alla continuità della terapia e sembrano
offrire una particolare utilità nella pianificazione del trattamento per la
valutazione dei modelli relazionali del paziente. Analogamente alla prima
esperienza, la verifica dell’esito e del cambiamento dei pazienti dipende
essenzialmente dalla durata del trattamento oltre i 6 mesi. Rispetto al
cambiamento
terapeutico,
la
ricerca
ha
permesso
di
valutare
qualitativamente 9 casi, che hanno migliorato non solo i sintomi
manifesti, ma anche le strategie di coping, il grado di funzionamento
globale e la disorganizzazione dell’attaccamento. L’esiguità del numero,
tuttavia, non ha ancora consentito di trattare statisticamente i risultati
in modo soddisfacente.
Nello stesso progetto è stato introdotto recentemente anche uno studio
rivolto alla valutazione dei pazienti gravi, utenti delle strutture che
accolgono pazienti con diagnosi di schizofrenia e altre forme psicotiche.
L’obiettivo ultimo è quello di monitorare l’efficacia degli interventi di
riabilitazione psico-sociale, ma la prima fase è stata dedicata alla
valutazione psicodinamica multi- dimensionale, includendo l’utilizzo
dell’OPD (in forma di questionario rivolto agli operatori che lavorano nel
Centro diurno), e la somministrazione di tre questionari al paziente,
rivolti a rilevare la sintomatologia (SCL-90-R), i tratti del carattere (BFQ:
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Big Five Questionnaire, adattato da Caprara, Barbaranelli, Borgogni, &
Perugini,
1993),
il
grado
di
compromissione
dell’organizzazione
strutturale della personalità (IPO: Inventory of Personality Organization,
Kernberg & Clarkin, 1995, non ancora validato in Italia) e infine le
risorse del paziente, misurate attraverso un questionario sul benessere
percepito (PWB: Psychological Well-Being Scales, adattato da Ruini,
Ottolini, Rafanelli, Tossani, Ryff, & Fava (2003). Fino a questo momento
15 utenti hanno partecipato alla ricerca, pazienti di un Centro Diurno
della Roma A che frequentano in media da 5 anni il servizio che hanno
ricevuto una diagnosi di schizofrenia o altra forma psicotica. Il lavoro sta
proseguendo in una Comunità Terapeutica.
La diagnosi strutturale e la validazione dell’Inventory of Personality
Organization
L’Inventory of Personality Organization (IPO; Kernberg & Clarkin,1995)
è un self-report che permette di misurare l’organizzazione strutturale
della personalità del soggetto e di iscriverla, sulla base della sua
compromissione, ad un livello nevrotico, borderline o psicotico. E’ uno
strumento che permette di implementare il colloquio clinico-strutturale
di Kernberg (1984) e di effettuare
uno screening iniziale sulla
popolazione clinica, che possa aiutare a distinguere ed identificare i casi
più compromessi da quelli che lo sono di meno, in modo poco oneroso.
Obiettivo è quello di dare un’adeguata indicazione di trattamento nei
contesti in cui la domanda è copiosa e le risorse sono limitate. Nella sua
forma originale l’IPO conta 155 item divisi nei cinque criteri strutturali:
Diffusione d’Identità, Difese Primitive, Esame di Realtà; Aggressività e
qualità delle Relazioni Interpersonali; la forma abbreviata (l’unica
attualmente pubblicata e validata da Lenzeweger, Clarkin, Kernberg, &
Foelschet, 2001) considera solo le prime tre dimensioni riportate,
attraverso 57 item. Le tre scale misurano quanto un paziente presenti
un’ identità diffusa, quanto utilizzi difese primitive e quanto sia
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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compromesso il suo esame di realtà. Dall’analisi delle tre dimensioni si
possono identificare le tre categorie strutturali nevrotica, borderline e
psicotica.
Il lavoro svolto mira all’adattamento italiano dell’IPO, attraverso la
valutazione delle caratteristiche psicometriche dello strumento tradotto e
applicato alla popolazione italiana (Crisafulli, in preparazione). Dai primi
risultati su un campione non clinico di 470 soggetti è risultata una
nuova struttura fattoriale: le scale sono sempre tre, ma gli item si
suddividono in modo differente dalla struttura originaria. Dal contenuto
degli item abbiamo definito i tre nuovi fattori: Distorsione dell’immagine
di sé, Distorsione dell’immagine dell’altro e Distorsione della realtà. La
nuova struttura è stata analizzata, parallelamente a quella originaria per
determinarne le caratteristiche di validità e attendibilità. Dai primi dati
emerge che entrambe mostrano buone qualità psicometriche. Per
approfondire lo studio dello strumento stiamo raccogliendo anche un
campione della popolazione clinica italiana: suddivisa in soggetti con
disturbi o sindromi psicologiche non psicotiche, soggetti con disturbi di
alcolismo o tossicodipendenza e soggetti con diagnosi di schizofrenia o
altre forme psicotiche. Abbiamo un gruppo di 64 soggetti che stiamo
implementando. Dalle analisi su questo primo campione ci risulta che la
struttura originaria dell’IPO, meglio di quella nuova emersa dall’analisi
dei risultati del gruppo italiano, discrimina i soggetti clinici da quelli non
clinici e i soggetti psicotici da quelli non psicotici; di questi ultimi il
fattore più discriminante è proprio l’esame di realtà.
Nonostante
lo
studio
sia
ancora
incompleto,
i
primi
risultati
confermano le buone capacità psicometriche dell’IPO, rilevate già dai
lavori americani, anche rispetto a soggetti italiani. I dati mostrano e
confermano le basi del costrutto teorico di riferimento, il modello della
struttura di personalità di Kernberg, evidenziando come sia importante
accanto ad una valutazione categoriale o dimensionale anche quella
strutturale affinché i dati empirici possano avere anche rilievo clinico.
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Strumenti per una valutazione delle narrative
Nell’ambito di uno studio sul processo intrapreso sulle psicoterapie
individuali ad orientamento psicodinamico condotte presso il Centro
clinico del Dipartimento universitario, con l’ausilio di audio-registrazioni
delle sedute, sono stati adattati alla lingua italiana nuovi strumenti di
valutazione, rilevanti per il monitoraggio dei micro-cambiamenti nel
corso del processo e utili ad una riflessione sulla natura degli scambi
verbali e non verbali che si verificano in psicoterapia.
La coerenza narrativa come parametro del cambiamento dei modelli
operativi interni di attaccamento
La ricerca sulla coerenza narrativa come parametro utile alla
valutazione e misurazione della sicurezza dello stato della mente rispetto
all’attaccamento adulto è stata sviluppata sin dall’inizio degli anni ’90
(Muscetta, Dazzi, De Coro, Ortu, & Speranza, 1999). L’esigenza di
sviluppare
una
nuova
misura
dimensionale
per
la
valutazione
dell’attaccamento adulto è stata sollevata recentemente da alcuni autori
che hanno evidenziato le lacune metodologiche ed il loro impatto sulla
concettualizzazione teorica dell’attaccamento del sistema categoriale
(Roisman, Fraley, & Belsky, 2007). Il Coherence Q-Sort (Beijersbergen,
Bakermans-Kranenburg, & Van Ijzendoorn, 2006) è uno strumento
composto da 72 items, che operazionalizza la scala della coerenza del
trascritto considerata fondamentale per l’attribuzione dello stato della
mente relativo all’attaccamento negli adulti. La validazione italiana di
questo strumento ha mostrato una sostanziale capacità di discriminare i
trascritti sicuri da quelli insicuri (Iberni, 2010). Da circa trent’anni
l’Adult Attachment Interview (AAI) (George, Kaplan, & Main, 1985) è lo
strumento preferenziale per la valutazione dell’attaccamento adulto, che
utilizzate il complesso sistema di codifica tradizionale poi aggiornato
(Main & Goldwyn, 1998; Main, Hesse & Goldwyn, 2008). Inizialmente il
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sistema di scoring e di classificazione era basato sulla distinzione fra le
tre categorie di attaccamento infantile misurate nella Strange Situation,
ponendo enfasi sul concetto di flessibilità attentiva, intesa come capacità
di presentare le proprie esperienze di attaccamento passate e presenti e
di valutarne la loro influenza sul proprio sviluppo in maniera fluida e
spontanea. La sicurezza dell’attaccamento, tradotta in termini di
flessibilità attentiva, vede all’opposto due forme di rigidità nel focalizzare
l’attenzione: la prima distanziante, in cui il discorso si allontana dalle
esperienze passate e dalle relazioni di attaccamento; la seconda
preoccupata/
invischiante,
in
cui
il
focus
sulle
esperienze
di
attaccamento è persistente ma confuso, ridondante e di difficile
comprensione. Questi pattern di risposta possono essere tradotti in
pattern di organizzazione del discorso a partire dalla teoria del linguista
Grice (1975), che ha introdotto il concetto di Principio di Cooperazione
dei parlanti secondo l’accordo implicito di rispettare quattro massime o
principi generali: Qualità, Quantità, Rilevanza e Stile.
Il Coherence Q-sort è uno strumento applicabile nella valutazione del
cambiamento
dei
modelli
operativi
interni
durante
e
dopo
la
psicoterapia. I risultati di precedenti ricerche avevano già illustrato le
potenzialità della coerenza narrativa per la valutazione del cambiamento
durante e dopo il trattamento psicoterapeutico: in particolare alcuni
studi italiani che hanno applicato in ambito clinico le massime griciane
della coerenza (Muscetta et al., 1999). I risultati empirici della ricerca
condotta sulle AAI dei pazienti della ASL Roma A hanno messo in luce
come, più che il cambiamento della categoria dell’attaccamento, sia
interessante il cambiamento dimensionale della coerenza narrativa
(Iberni, 2010). Il fatto che la coerenza distingua gruppi clinici e non
clinici e costituisca il parametro più predittivo del cambiamento degli
stati mentali relativi all’attaccamento durante la psicoterapia è stato
confermato da diversi studi (Diamond, Clarkin Levine, Levy, Foelsch, &
Yeomans, 1999; Fonagy, Gergely, Jurist & Target 2002).
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Attività Referenziale e dizionari IWRAD
Un altro studio sul processo terapeutico è stato condotto da diversi
anni con l’applicazione della valutazione dell’Attività Referenziale,
costrutto derivato dalla Teoria del Codice Multiplo di Wilma Bucci
(1997), che integra ricerca empirica e lavoro clinico. La ricerca in
psicoterapia basata sulla valutazione dell’Attività Referenziale in Italia
nasce alla fine degli anni ‘90, grazie alla traduzione del metodo manuale
di siglatura della variabile che ne ha permesso l’applicazione e la
diffusione (De Coro & Caviglia, 2000). Alcuni anni dopo, gli indirizzi di
ricerca proposti dall’ideatrice del metodo hanno direzionato la ricerca
verso la costruzione di un metodo di più facile applicazione, rendendo la
valutazione
della
variabile
Attività
Referenziale
una
codifica
informatizzata. In Italia, quindi, il gruppo di ricerca coordinato dalla
Prof.ssa De Coro, dal 2004 ha collaborato con l’Adelphi University allo
sviluppo delle misure computerizzate in lingua italiana. Attualmente
sono state sviluppate in italiano le medesime misure prodotte da Bucci e
Maskit in lingua inglese. Il primo dizionario prodotto è stato quello
dell’IWRAD, Italian Weighted Referential Activity Dictionary (Maskit,
2004; De Coro, Ortu, Caviglia, Andreassi, Pazzagli, Mariani, Visconti,
Bonfanti, Bucci & Maskit, 2004) unico nella sua metodologia di
costruzione, che consente di attribuire ad ogni parola appartenente al
dizionario uno specifico peso ponderato. Questa procedura ha permesso
di costruire un dizionario con una vasta copertura del linguaggio
parlato, in media del 98% delle parole espresse in un qualsiasi scambio
comunicativo. Più recenti sono i dizionari di analisi del testo che possono
essere applicati contemporaneamente all’IWRAD e che riguardano: il
dizionario delle parole riflessive (IREF- Mariani, 2009); il dizionario della
difluenza (IDF - Bonfanti, Campanelli, Cilimberti, Golia, & Papini, 2008);
il dizionario degli affetti positivi, negativi e parole con peso affettivo ma
non connotate positivamente o negativamente (IAFF - Rivolta, Mariani, &
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Tagini 2009); infine il dizionario senso-somatico (ISS - Mariani, 2009). La
facilità di applicazione delle misure computerizzate ai testi trascritti ha
consentito una rapida applicazione di queste misure in diversi ambiti,
consentendo uno sviluppo della ricerca sul processo referenziale in
relazione ad altri costrutti teorici, nonché il suo ambito storico ossia la
ricerca sul processo in psicoterapia. Anche rispetto a quest’ultimo è
stato possibile poter analizzare con più semplicità interi percorsi di
psicoterapia di più anni, consentendo una valutazione del processo
referenziale in un ottica di macro-processo terapeutico. I risultati emersi
(Mariani, 2009) dall’applicazione di tre dizionari computerizzati - IWRAD,
IREF e IDF - su tre macro processi terapeutici della durata di due anni,
rilevano la presenza di macro cicli referenziali trasversalmente alle
sedute, comportando un aumento di capacità del paziente di connettere
emozioni al tessuto narrativo. Un ulteriore risultato emerge dalla
possibilità di analizzare le sedute grazie all’applicazione del dizionario
IWRAD (Attività Referenziale) e IREF (Parole Riflessive). La combinazione
di queste due misure consente di individuare un indice di covariazione
utile a distinguere sedute proficue, nelle quali il paziente è in grado di
raccontare
e
riflettere
sulla
propria
esperienza,
e
sedute
più
disorganizzate nelle quali l’attivazione emozionale blocca il processo di
simbolizzazione.
L’utilizzo delle misure linguistiche per l’analisi del macroprocesso
terapeutico ha consentito lo sviluppo di un altro filone di ricerca che
consente di incrociare misure sul processo e misure sull’outcome. Lo
studio di Mariani, Gazzillo, Lingiardi e Bucci (2009) propone un’analisi
pilota che integra misure di valutazione della personalità SWAP (Westen
& Shedler, 2000; Lingiardi, Shedler, & Gazzillo, 2006) e misure
linguistiche del processo referenziale in un caso singolo. Lo studio si
basa sull’analisi di una psicoterapia a orientamento psicodinamico, dove
sono state applicate tre misure linguistiche computerizzate: Attività
Referenziale (IWRAD), Parole Riflessive (IREF) e Disfluenza (IDF). Sono
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state individuate delle fasi di cambiamento e per ogni fase la paziente è
stata valutata con la SWAP. Sono state estratte 4 sedute consecutive per
fase e ogni fase è stata siglata in modo random da due valutatori della
SWAP. I risultati mostrano che, per ognuna di queste fasi, è possibile
individuare cambiamenti significativi nel profilo di personalità valutato
con la SWAP.
Un’altra area di indagine, sempre all’interno dello studio sul processo
terapeutico, è l’esplorazione della relazione tra narrazione e alleanza
terapeutica. Nello studio di Colli, Mariani, Condino, Lingiardi e De Coro
(2009) si esplora il rapporto tra il processo referenziale (Bucci, 1997) e i
processi di rottura e di riparazione dell’alleanza terapeutica secondo il
modello teorico clinico descritto da Safran e Muran (2000). In
particolare, è stata indagata la relazione tra le misure linguistiche del
processo referenziale, quali la scala dell’Attività Referenziale (IWRAD),
delle parole Riflessive (IREF), della Disfluenza (IDF),e degli Affetti (IAFFP
e
IAFFN),
e
i
processi
di
rottura
dell’alleanza
di
Ritiro
e
di
Confrontazione. Le analisi sono state compiute su di un campione di 12
sedute audioregistrate, scelte all’interno di un campione più ampio, in
quanto caratterizzate dalla presenza di riferimenti espliciti alla relazione
terapeutica. La valutazione dei processi di rottura e riparazione
dell’alleanza terapeutica è stata effettuata attraverso la Collaborative
Interaction Scale (Colli & Lingiardi, 2009). I risultati evidenziano come i
processi
collaborativi
sono
risultati
correlati
significativamente
e
positivamente alla misura delle parole Riflessive e dell’espressione degli
Affetti negativi. Mentre marker di rottura di Confrontazione sono risultati
correlati in modo significativo e diretto ai valori della Disfluenza e
all’espressione di Affetti negativi e negativamente alla scala delle parole
Riflessive. Le rotture di ritiro sono risultate correlate negativamente
all’espressione di Affetti di tipo negativo e positivamente alla Disfluenza.
Ciò indica una convergenza tra i due costrutti e l’importanza di mettere
in relazione i processi di rottura in relazione ai processi di negoziazione
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intersoggettiva tra paziente e terapeuta, sia in relazione ai processi di
disconnessione emozionale emersa dalla narrazione.
La possibilità di incrociare i risultati ottenuti con le misure linguistiche
con altre misure di indagine sul processo ha portato recentemente ad
uno studio single case, una psicoterapia breve, sul quale vengono
applicate diversi strumenti di analisi delle narrazioni. I risultati,
presentati al convegno 2010 dell’SPR Italia nel panel proposto da Rocco,
Mariani, De Bei, Colli, e De Coro “Analisi multidimensionale del processo
in una psicoterapia dinamica breve”, hanno evidenziato come sia
possibile utilizzare misure sul processo terapeutico anche a psicoterapie
brevi, riuscendo a mettere in evidenza diversi aspetti del cambiamento,
grazie alla specificità dei diversi strumenti nella lettura dei trascritti.
Infine parallelamente allo studio del processo in psicoterapia, lo studio
del processo referenziale e della capacità soggettiva di integrare nel
tessuto
simbolico
i
propri
affetti
sta
espandendosi
verso
studi
correlazionali che esplorano come la variabile Attività Referenziale possa
essere anche utilizzata come una variabile di tratto soggettivo e come
questa possa essere posta in relazione ad altre misure di funzionamento
strutturale del soggetto. In particolare, sono state applicate per la prima
volta misure linguistiche del processo referenziale alle narrazioni di
bambini in età dello sviluppo (Mariani, Pazzagli, Crisafulli, & De Coro,
2010)
cercando di esplorare la relazione tra variazioni delle capacità
linguistiche nei bambini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni e il
rapporto tra narrazione e attivazione del sistema motivazionale di
attaccamento. L’obiettivo è quello di approfondire la valutazione delle
narrative in relazione alle capacità del bambino di esprimere le emozioni
e di verificare se la relazione di attaccamento faciliti, o viceversa ostacoli
nei casi di insicurezza, lo sviluppo dell’abilità di elicitare affetti e di
attivare una capacità referenziale. Lo scopo del lavoro, quindi, è
verificare se i bambini con attaccamento sicuro presentino una maggiore
abilità nell’integrare gli affetti nel processo narrativo rispetto ai bambini
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con attaccamento insicuro, all’interno di un campione non clinico. Sono
state per tanto raccolte e trascritte 100 narrazioni eliticitate dalle tavole
proiettive del SAT (Klagsbrun & Bowlby, 1976). Sui trascritti delle
narrative sono state applicate diverse misure linguistiche dell’Attività
Referenziale come: Attività Referenziale (IWRAD), Dizionari Affetti (IAFF),
Parole Riflessive (IREF), Disfluenza (IDF). I risultati mostrano una
differenza significativa tra bambini con attaccamento sicuro ed insicuro
nella capacità di esprimere affetti e nell’abilità di narrare l’esperienza
integrando le emozioni nel tessuto narrativo.
Riflessioni conclusive
I filoni di ricerca qui sommariamente illustrati fanno riferimento ad un
comune denominatore, la ricerca empirica in psicoterapia, che si può a
sua volta articolare in alcune linee guida che hanno ispirato il nostro
lavoro:
a) l’esigenza di costruire progetti per la verifica dell’outcome che
rispettino la natura variegata dell’esperienza clinica e della pratica
“reale” della psicoterapia nei servizi pubblici: a questo scopo sono
stati inclusi nella valutazione pazienti diversi e diversi tipi di
psicoterapie, ed una gran parte del lavoro è stata diretta alla
restituzione delle valutazioni sia ai pazienti che ai terapeuti con
modalità di volta in volta concordate con i clinici, rispettando
tradizioni e sensibilità specifiche dei diversi servizi;
b) l’uso di batterie multi-strumentali per raggiungere una maggiore
validità della misurazione grazie alla convergenza degli indicatori: in
particolare, l’introduzione di valutazioni da parte dei clinici accanto
alle auto-valutazioni dei pazienti si è rivelata la scelta migliore per
una maggiore validità clinica dei dati e per una riflessione sulla
natura relazionale del lavoro psicoterapeutico;
c) la messa a punto di strumenti per la valutazione iniziale del paziente
che riflettano la complessità delle situazioni cliniche e permettano la
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replicabilità della misurazione in fasi successive del trattamento e
alla fine della psicoterapia; la validazione di strumenti self-report, più
veloci nella somministrazione e certamente più attendibili nella
misura, è stata affiancata dall’adattamento italiano di strumenti
molto complessi per lo studio del processo, basati sulla micro-analisi
delle
narrative,
come
il
dizionario
computerizzato
dell’attività
referenziale e il Q-sort per la valutazione della coerenza narrativa: tali
strumenti,
meno
attendibili
dei
questionari,
risultano
però
incrementare la validità di costrutto e quindi l’interpretazione del
significato clinico dei risultati ottenuti.
Fra i limiti delle ricerche riportate, segnaliamo in particolare la
lentezza del processo di raccolta dei dati nei servizi pubblici e le difficoltà
di compliance da parte dei terapeuti nel compilare i questionari loro
richiesti, per la mole di lavoro routinario che spesso distoglie i clinici dei
centri di salute mentale dal dedicare del tempo alla ricerca ed alla
riflessione sul proprio lavoro. D’altra parte, l’entusiasmo con cui tutti i
terapeuti (o quasi) dei diversi servizi coinvolti hanno accolto l’iniziativa
induce a riporre speranze nella possibilità di estendere la cultura della
ricerca nei Centri di salute mentale, affinando metodi e procedure così
da ridurne l’impatto per il tempo degli operatori clinici: la sinergia con
l’università sembra dare promettenti auspici in questa direzione, perché
una parte del lavoro di raccolta dei dati può essere svolto da tirocinanti,
laureandi o dottorandi con un raccordo centralizzato, pur nel rispetto
delle specifiche esigenze di funzionamento dei diversi servizi.
Si può concludere ricordando che, mentre gli obiettivi che si poneva la
ricerca in psicoterapia nella sua fase iniziale erano identificati
soprattutto con la validazione di specifiche tecniche per la cura di
specifici disturbi, i risultati ottenuti grazie ai progressi della ricerca in
questo settore hanno contribuito ad orientare i clinici verso la scelta di
modelli integrati di intervento e a spingere i ricercatori a focalizzare
l’attenzione sui fattori comuni del cambiamento terapeutico. Le ipotesi
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relative ai fattori responsabili del cambiamento, pur nella difficoltà di
rispondere in modo empirico ad una domanda così complessa, vertono
oggi
sempre
più
sulle
qualità
della
relazione
terapeutica:
più
precisamente, la qualità e l’efficacia degli interventi, in qualsiasi forma
tecnica siano espressi, è da valutarsi in relazione alla capacità del
terapeuta di cogliere il focus tematico e di approfondirne la discussione
(Colli & Gazzillo, 2006). A questo scopo, la valutazione iniziale necessita
di un’articolazione complessa, utilizzando strumenti che permettano di
accostare, alla valutazione oggettiva e comparata della psicopatologia,
delle ipotesi circa l’organizzazione strutturale della personalità del
paziente e le sue specifiche vulnerabilità rispetto alle relazioni
interpersonali. A nostro avviso, l’introduzione del registratore nelle
psicoterapie offerte dai servizi pubblici – ovviamente nel rispetto della
privacy di paziente e terapeuta – potrebbero implementare al meglio la
valutazione del cambiamento terapeutico con la valutazione del
processo attraverso il quale il cambiamento è stato raggiunto.
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Abstract
The aim of this work is to show the main results of a series of studies about
empirical assessment of outcome and process in Public Services
psychotherapies. In the first part are summarized methods and results of a
complex longitudinal research project – which included formation of and
restitution to the clinical operators - carried out by “Sapienza” University
together with the Mental Health Services of a territorial unit of Public Health in
Rome. Some research studies focused on therapeutic change and process will
follow, through narrative empirical instruments applied to psychotherapies in a
Clinical University Centre. The studies here set out are mainly addressed to an
improvement of clinical services, to self-monitoring of psychotherapists and to
the construction of a theoretic model which may enhance therapeutic
effectiveness.
Key words
Psychotherapies in public institutions, outcome assessment, process research,
narratives, personality disorders
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Problemi metodologici nello studio del processo
psicoterapico e nella valutazione dell’attaccamento e
del rischio psicopatologico in adolescenza
Riccardo Williams,1 Davide Belluardo,1 Fiorella Fantini,1 Valentina Postorino,1
Francesca Ortu1
Sommario
Il gruppo di ricerca che attualmente opera presso il Dipartimento di
Psicologia Dinamica e Clinica, ha orientato il proprio lavoro fondamentalmente
attorno a due tematiche: lo studio multidimensionale del processo terapeutico
(in una prospettiva tanto empirica quanto di ricerca concettuale); la rilevanza
della teoria dell’attaccamento e dei sistemi motivazionali per la comprensione
dello sviluppo della patologia di personalità e delle sue manifestazioni nel
contesto clinico, con particolare riferimento all'adolescenza.
Parole chiave
Processo, CCRT, adolescenza, teoria dell'attaccamento, sistemi motivazionali
---------------------------------------------------------------------------------------------------------1 “Sapienza” Università di Roma
Corrispondenza: Riccardo Williams
E-mail: riccardo.williams@uniroma1.it
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Il
nostro
gruppo
di
ricerca
ha
orientato
il
proprio
lavoro
fondamentalmente attorno a due tematiche: la ricerca in psicoterapia
(in una prospettiva tanto empirica quanto di ricerca concettuale) e gli
sviluppi della teoria dell’attaccamento, approfondendo in particolare le
problematiche legate alla valutazione clinica del rischio psicopatologico
in adolescenza. Ne presentiamo una sintetica rassegna.
Ricerca in psicoterapia
Le
ricerche
essenzialmente
condotte
metodologici
in
quest’ambito
della
riguardano
valutazione
del
aspetti
processo
in
psicoterapia e hanno utilizzato come strumento privilegiato il CCRT di
Luborsky per lo studio del processo psicoterapico e, in particolare, per
una valutazione empirica dei principali paradigmi di transfert e delle
variazioni di tali paradigmi nel corso di trattamenti psicoterapeutici.
Il metodo del CCRT (Luborsky & Crits-Christoph, 1990), che mira a
inferire i “contenuti mentali inconsci” del paziente analizzandone i
significati cognitivi e affettivi così come emergono nel corso del lavoro
terapeutico, permette di dare una valutazione empirica delle narrative
dei pazienti in termini di episodi relazionali, in cui vengono identificati i
principali desideri, bisogni e intenzioni del parlante, le risposte dell’altro
e le risposte del sé; esso si presenta come uno strumento notevolmente
flessibile
capace
di
monitorare
l’evoluzione
di
alcuni
processi
intrapsichici del paziente (Dazzi, De Coro, Ortu, Andreassi, Cundari,
Ostuni, Petruccelli, & Sergi, 1998b).
Negli studi preliminari, volti a indagare le proprietà psicometriche
dello strumento su campioni di soggetti italiani in psicoterapia, abbiamo
proposto una modifica del CCRT consistente nell’ampliamento dei criteri
di inclusione utilizzati da Luborsky, così da cogliere elementi di
rilevanza clinica contenuti nelle comunicazioni del paziente non
considerate nel metodo classico. In questi primi lavori, concentrati sulla
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individuazione dell’unità di analisi e presentati ai convegni SPR (Ortu,
Cascioli, & Pazzagli, Piscicelli, Williams, & Dazzi, 2001; Ortu, Lingiardi,
Pazzagli, Williams, & Dazzi, 2001; Williams, Ortu, Lingiardi, & Dazzi,
2004) ci siamo interrogati sull’utilità di utilizzare sia narrative
relazionali con un indice di completezza basso, inferiore a quello
classicamente utilizzato, sia racconti di interazione con partner non
umani. Abbiamo inoltre sottolineato la necessità di prestare attenzione
alla formulazione linguistica delle categorie e ne abbiamo dato
un’esemplificazione clinica. Un successivo lavoro ha studiato la
riorganizzazione delle categorie che definiscono la componente Wish del
CCRT (W) in funzione della teoria dei sistemi motivazionali di
Lichtenberg (1989). Approfondendo un lavoro di De Coro, Andreassi e
Dazzi (2001), che introduceva nella W nuove categorie (in particolare
relative all’area della sessualità) e proponeva una riformulazione e
riorganizzazione delle categorie dei Wish nei termini di sistemi
motivazionali che si rivelava capace di discriminare tra le diverse
categorie diagnostiche, abbiamo valutato la validità del nuovo sistema
applicandolo all’analisi del materiale pubblicato da Lichtenberg in “Lo
scambio clinico” (Lichtenberg, Lachmann, & Fosshage, 1996). Questo
lavoro ha fatto emergere un sostanziale accordo fra il quadro
motivazionale descritto dallo strumento e la formulazione clinica
proposta da Lichtenberg (1989; Lichtenberg, Lachmann, & Fosshage
1996), accordo che può essere letto come un’indicazione della validità
dello strumento proposto.
A partire poi dall’ipotesi che significativi spostamenti nei paradigmi
dominanti di transfert siano precondizioni e indicatori di cambiamenti
psichici strutturali, abbiamo condotto diversi lavori unendo al CCRT
altri strumenti capaci di cogliere diversi fattori importanti per lo studio
del processo (per esempio, alleanza terapeutica, stile difensivo). In
collaborazione con i gruppi di ricerca di Lingiardi e De Coro abbiamo
studiato le caratteristiche delle narrative prodotte dal paziente in
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psicoterapia utilizzando il metodo del CCRT (Luborsky & Crits-Cristoph,
1990), la Referential Activity (RA) di Wilma Bucci (1997a, 1997b) - che
valuta la misura in cui l’esperienza emotiva “è attiva nella mente di chi
parla, catturandone le oscillazioni e valutandone l’efficacia nello
scambio verbale tra paziente e terapeuta” – e la Defence Mechanism
Rating Scale (DMRS) di Christopher Perry (1990; cfr. Lingiardi &
Madeddu, 2002).
Questo tipo di lavoro mirava a un’elaborazione metodologica capace di
monitorare lo sviluppo del processo lungo dimensioni differenti: i
contenuti tematici delle narrative del paziente e le variazioni nello stile
comunicativo come fluttuazioni nelle connessioni referenziali. Per
esempio, in un lavoro (Williams, Ortu, Lingiardi, & Dazzi, 2004),
l’applicazione del CCRT e della RA all’analisi dei primi due anni del
trattamento di una giovane donna con diagnosi di Disturbo Narcisistico
di
Personalità,
ha
mostrato
come
strumenti
molteplici
offrano
informazioni su aspetti differenti del processo terapeutico e dunque
un’analisi maggiormente dettagliata e critica del processo stesso,
colgano differenti livelli di funzionamento e prestino attenzione alla
relazione
complementare
intrapsichica,
in
tra
quanto
le
dimensioni
dimensioni
interpersonale
fondanti
il
e
processo
psicoterapeutico stesso.
Successivamente, in collaborazione con il gruppo coordinato da
Lingiardi, abbiamo avviato una linea di ricerca sul cambiamento clinico,
focalizzandoci
sullo
studio
dell’alleanza
terapeutica
intesa
come
dimensione emergente nel campo intersoggettivo che si viene a stabilire
tra paziente e terapeuta e che, per questa sua natura, presenta un
carattere
ciclico
in
cui
si
succedono
fasi
critiche
e
continue
ristrutturazioni (Colli & Lingiardi, 2001, 2002). Abbiamo così condotto
alcuni lavori di ricerca mirati a valutare: 1) l’andamento dell’alleanza
rispetto alle organizzazioni difensive e agli schemi relazionali in pazienti
appartenenti a diverse categorie diagnostiche (Ortu, Williams, & Dazzi,
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2004); 2) l’andamento dell’alleanza rispetto al processo nelle due terapie
esaminate (Williams, Saracino, Traverso, Ortu, & Dazzi, 2005). In questi
lavori per la valutazione dell’alleanza terapeutica abbiamo utilizzato
l’IVAT (Indice di Valutazione dell’Alleanza Terapeutica, oggi CIS –
Collaborative Interactions Scale; Colli & Lingiardi, 2009), che permette
di
identificare,
sulla
base
dei
punteggi
assegnati
(da
giudici
indipendenti) alle scale dello strumento, gli indicatori – diretti e indiretti
– di rottura dell’alleanza terapeutica da parte del paziente e gli
interventi di ricomposizione della stessa da parte del terapeuta (Colli &
Lingiardi, 2001, 2002, 2009).
Per quanto riguarda la valutazione multidimensionale del processo
(Ortu et al., 2002), abbiamo continuato a riferirci a costrutti elaborati
nell’ambito della tradizione di ricerca sulle psicoterapie psicodinamiche:
il CCRT di Luborsky, la DMRS di Perry e la RA della Bucci. Gli
strumenti citati sono stati applicati per la valutazione di due
psicoterapie omogenee rispetto alla seguenti variabili: a) tipologia del
trattamento (psicoterapia psicodinamica con frequenza bisettimanale),
b) organizzazione di personalità del paziente e del terapeuta, ma diverse
rispetto all’esito (drop out vs a termine). Per le siglature sono stati
utilizzati trascritti estratti, per entrambe le terapie, da tre fasi
successive dei trattamenti. I risultati di questo lavoro (Ortu et al., 2002)
ci hanno incoraggiato a concludere che il metodo consente una
valutazione della rilevanza delle dimensioni processuali considerate ai
fini dello stabilirsi e dell’evolversi dell’alleanza terapeutica nel corso
della seduta; inoltre offrivano dati utili per analizzare l’intreccio fra la
qualità
della
relazione
intersoggettiva,
così
come
desunta
dalla
valutazione dell’alleanza terapeutica, e le tre dimensioni del processo,
considerate singolarmente e nel loro insieme. In un successivo lavoro ci
siamo focalizzati sul ruolo dell’alleanza terapeutica nello sviluppo del
processo terapeutico e del cambiamento clinico, con l’obiettivo di
identificare i fattori che influenzano la formazione e l’evoluzione
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dell’alleanza, prestando particolare attenzione alla tecnica adottata dal
clinico nelle terapie con pazienti borderline. Abbiamo così applicato a
trascritti audioregistrati di sedute, estratti da tre fasi successive di
psicoterapie psicodinamiche di due pazienti diagnosticati con la SWAP200 (Westen, Shedler, & Lingiardi, 2003):
- una scala per la valutazione degli interventi del terapeuta, derivata
dalla classificazione proposta da Horowitz (cfr. Williams et al., 2004)
a partire dal continuum supportivo–espressivo;
- una scala per riconoscere e quantificare
l’alternarsi di rotture e
riparazioni dell’alleanza terapeutica (IVAT; Colli & Lingiardi, 2002).
I risultati ottenuti hanno permesso una valutazione qualitativa della
complessa relazione tra alleanza e strategia terapeutica, confermando
da un lato la relazione tra interventi
supportivi e buona qualità
dell’alleanza, in particolare nelle fasi iniziali della terapia, e dall’altra la
necessità
di
riconsiderare
la
distinzione
classica
tra
interventi
supportivi ed espressivi, data la difficoltà di isolare chiaramente i due
tipi di interventi.
Più
di
recente,
abbiamo
spostato
la
nostra
attenzione
sulla
valutazione clinica in adolescenza, e sui problemi metodologici da essa
sollevati. In questa prospettiva, abbiamo condotto uno studio mirato a
confrontare la sensibilità clinica e la validità discriminante di due
metodi di valutazione della patologia di personalità in adolescenza,
confrontando la procedura standard della SWAP-200 con la valutazione
per prototipi, al fine di verificare la validità di costrutto e la validità
convergente e discriminante del metodo di valutazione SWAP-200-A per
prototipi della patologia di personalità in adolescenza. I risultati ottenuti
(Williams, Ferrara, Aloi, Gazzillo, & 2009) ci hanno permesso di
sostenere che la valutazione per prototipi SWAP-200-A conserva lo
stesso potere discriminante della procedura standard rispetto ai criteri
di validazione ovvero: a) corrispondenza con i criteri dell’Asse II del
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DSM-IV-TR (APA, 2000), b) previsione di comportamenti adattativi e
disadattativi nelle diverse aree di funzionamento e nell’adattamento
complessivo, c) concordanza con i profili sintomatici dei pazienti. La
procedura per prototipi sembra tuttavia essere meno sensibile rispetto
alla procedura standard nel cogliere alcune differenze all’interno del
cluster B, soprattutto per quanto riguarda la disregolazione emotiva e lo
stile antisociale-psicopatico (Williams, Aloi, Di Chio, Ortu, & Lingiardi,
2008; Williams et al., 2009).
Valutazione
clinica
in
adolescenza
alla
luce
della
teoria
dell’attaccamento
La teoria dell’attaccamento ha fornito una cornice di comprensione
fondamentale per la valutazione del rischio psicopatologico e per i
processi adattativi nelle diverse fasi del ciclo di vita.
Gli studi in questo ambito hanno messo in luce che l’insicurezza
dell’attaccamento costituisce un fattore di vulnerabilità per lo sviluppo
di diverse condizioni psicopatologiche (Sroufe, 2005). Dopo avere
identificato la relazione specifica tra i diversi modelli di attaccamento e
le
singole
condizioni
psicopatologiche,
lo
sforzo
degli
autori
è
attualmente rivolto all’impiego delle valutazioni dell’attaccamento nel
contesto clinico (Steele & Steele, 2010).
A
tal
proposito
l’applicazione
degli
strumenti
di
valutazione
dell’attaccamento al contesto clinico dell’adolescenza ha mostrato
diversi tipi di problemi (Barone & Del Corno, 2007). Tali problemi
riguardano prevalentemente la relativa inadeguatezza degli strumenti di
valutazione
dell’attaccamento
nel
cogliere
alcune
caratteristiche
essenziali dello sviluppo affettivo e sociale dell’adolescente. In parte, tale
difficoltà risulta da un modello delle differenze individuali che è molto
proficuo in termini di ricerca empirica, ma non sembra fornire
indicazioni sufficientemente specifiche per la comprensione dei processi
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nelle diverse condizioni psicopatologiche e nelle applicazioni ai casi
singoli.
Il lavoro di ricerca del gruppo, concentrato negli ultimi anni sulla
valutazione clinica in adolescenza, si è sempre rivolto alla teoria
dell’attaccamento come cornice teorica di riferimento. Il gruppo ha cioè
preso le mosse dallo studio della stabilità ed evoluzione degli schemi
cognitivo-affettivi delle relazioni familiari (modelli di attaccamento,
secondo la teorizzazione di Bowlby e la metodologia di Ainsworth e
Main). In questo senso, come testimoniato da diverse comunicazioni a
convegni e pubblicazioni, il lavoro di ricerca condotto in collaborazione
con Dazzi
e De Coro è consistito in uno studio analitico delle
caratteristiche formali – con specifico riferimento alla dimensione della
Coerenza del Trascritto – dell’Adult Attachment Interview di Main e
Goldwin (1998). Questo sforzo di ricerca ha portato a identificare due
fattori principali (“informazione confusa e ridondante”, Incoerenza di
tipo E, e “informazione incompleta e contraddittoria”, Incoerenza di tipo
D) responsabili delle specifiche violazioni di coerenza capaci di
discriminare le interviste dei soggetti sicuri da quelle degli insicuri (De
Coro, Ortu, Speranza, Andreassi, & Pazzagli, 2003).
Utilizzando anche in quest’ambito una strategia di ricerca rivelatasi
fruttuosa rispetto alla valutazione del processo in psicoterapia, abbiamo
approfondito lo studio delle caratteristiche formali dell’Intervista
sull’Attaccamento mediante il metodo dell’Attività Referenziale di Wilma
Bucci (1997a, 1997b), la Defense Mechanisms Rating Scale di
Christopher Perry (1990; cfr., Lingiardi & Madeddu, 2002) e la Scala
della Funzione Riflessiva di Fonagy, Steele, Steele, & Target (1998).
Questa strategia di analisi ci ha permesso di identificare differenti
modalità di esclusione difensiva, caratteristiche dei diversi stati della
mente rispetto all’attaccamento. Questa impostazione generale consente
di valutare con maggiore accuratezza la rilevanza che i processi
dell'attaccamento hanno per lo svolgimento del processo terapeutico,
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così come studiato alla luce dei costrutti più tipicamente impiegati nello
studio sui micro-processi.
Abbiamo d’altra parte approfondito le implicazioni cliniche della teoria
dell’attaccamento mettendo a punto un metodo di valutazione del
processo psicoterapeutico basato sull’individuazione, nelle trascrizioni
parola per parola di alcune sedute psicoterapeutiche, degli indici della
coerenza conversazionale utilizzati nella valutazione della A.A.I. di Main
e Goldwin (1998).
Un
ulteriore
approfondimento
di
ricerca
portato
avanti
in
collaborazione con Anna Maria Speranza ha riguardato lo studio della
validità convergente fra l’intervista sull’attaccamento (AAI) e alcuni
strumenti self-report di valutazione dell’attaccamento nell’adulto con
l’obiettivo di approfondire l’analisi dei costrutti e delle metodologie di
indagine e di rispondere ai quesiti relativi alla relazione tra i diversi
strumenti e alla loro convergenza o divergenza. Più di recente,
riprendendo precedenti spunti di ricerca (ad esempio uno studio della
corrispondenza fra categoria di attaccamento e il CCRT in coppie di
amici) abbiamo utilizzato il CCRT come strumento capace di cogliere
aspetti rilevanti della dinamica adolescente- genitore. In un lavoro del
2009 (Ortu, Guidi, & Fantini, 2009) e volto a studiare il funzionamento
sociale in adolescenza, abbiamo ad esempio utilizzato il CCRT per
studiare
la
relazione
tra
schemi
schemi
relazionali
disadattivi
dell’adolescente (definiti nei termini di in termini di rigidità/flessibilità
così come riflessa dalla pervasività del CCRT) e quelli del genitore. Il
CCRT, ottenuto sulla base dell’intervista RAP (Relationship Anecdotes
Paradigms; Luborsky, 1978) – una intervista appositamente costruita
per sollecitare la narrazione di episodi relazionali – somministrata a 35
adolescenti e alle loro madri, è stato utilizzato per porre in luce
l’influenza dei modelli relazionali genitoriali sui modelli emergenti in
adolescenza.
Il confronto dei modelli relazionali tra i due gruppi ha messo in luce
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che il carattere disadattivo dello schema relazionale del genitore
influenza il funzionamento attuale dell’adolescente. Alla luce di queste
considerazioni preliminari di carattere metodologico e utilizzando la
teoria dell’Attaccamento come sfondo, abbiamo iniziato, anche in
collaborazione con altri gruppi di ricerca, una serie di studi per la
valutazione del rischio psicopatologico e per i processi adattativi nelle
diverse fasi del ciclo di vita.
Sulla
base
dei
dati
di
ricerca
che
indicano
nell’insicurezza
dell’attaccamento un fattore di rischio per lo sviluppo di diverse
condizioni psicopatologiche, abbiamo rivolto così la nostra attenzione
alle
problematiche
sollevate
dall’applicazione
degli
strumenti
di
valutazione dell’attaccamento al contesto clinico dell’adolescenza. In
buona parte, tali problemi riguardano la relativa inadeguatezza di tali
strumenti di valutazione nel cogliere alcune caratteristiche essenziali
dello sviluppo affettivo e sociale dell’adolescente. A tale inadeguatezza si
somma poi l’esigenza clinica di calibrare l’intervento secondo le
caratteristiche di questa fase evolutiva.
Rispetto all’adolescenza, gli studi empirici hanno inoltre evidenziato
una sostanziale difficoltà a rintracciare quella continuità temporale dei
modelli di attaccamento che è alla base della prospettiva evolutiva per
primo delineata da John Bowlby. In diversi studi è stato messo in luce
che, se si tiene conto della classificazione tradizionale dei modelli di
attaccamento (e cioè alla classificazione ottenute in base alla Strange
Situation
e
all’Adult
Attachment
Interview,
AAI)
le
valutazioni
complessive di campioni di adolescenti presentano diverse peculiarità.
Le classificazioni degli adolescenti si presentano cioè scarsamente
correlate tanto alle classificazioni AAI degli adulti quanto a quelle dei
bambini di 12-18 mesi alla Strange Situation: negli adolescenti la
percentuale dei sicuri tende a diminuire in favore dei distanzianti che in
questa
fase
sembrano
essere
sovrarappresentati
(Main,
1991;
Ammaniti, van Ijzendorn, Speranza, & Tambelli, 2000; Sroufe, 2005).
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D’altro
canto,
gli
studi
longitudinali
che
valutano
la
stabilità
dall’infanzia all’età adulta delle classificazioni dell’attaccamento dei
singoli soggetti mettono in luce che classificazioni ottenute alla Strange
Situation a 12 o 18 mesi consentono, rispetto alle valutazioni effettuate
in
adolescenza
con
l’AICA
(Attachment
Interview
in Child
and
Adolescent; Ammaniti, Candelori, & De Coro, 1990; Ammaniti et al.
2000) un adattamento dell’AAI per l’età adolescenziale, una migliore
previsione della classificazione all’AAI in età adulta, configurando un
vero e proprio gap nella valutazione dell’attaccamento in questa fascia
di età ed evidenziando un quadro evolutivo di continuità a singhiozzo
fra le diverse fasi del ciclo di vita.
Nel tentativo di rispondere agli interrogativi sollevati da questi dati,
abbiamo tenuto conto del fatto che gli studi longitudinali evidenziano
come il potere predittivo delle valutazioni effettuate nel corso dello
sviluppo aumenti (e questo vale anche per l’adolescenza) se la
valutazione dell’attaccamento in ciascun periodo evolutivo tiene conto
non solo delle capacità acquisite, ma anche di quelle in via di
acquisizione (dell’effetto delle esperienze precedenti sulle relazioni
attuali ma anche dell’effetto delle nuove esperienze su quelle future). In
adolescenza inoltre la predittività (e quindi la stabilità) delle valutazioni
della qualità dell’attaccamento aumenta se vengono impiegate misure di
tipo misto, ovvero, sia di tipo rappresentazionale che comportamentale
(Sroufe, 2005).
La letteratura più recente, in particolare, sottolinea l’importanza della
dimensione interattiva soprattutto nel rapporto genitore-adolescente.
Prendendo spunto dalle precedenti problematiche evidenziate dalla
ricerca empirica sull’attaccamento in adolescenza e dalle necessità di
una possibile applicazione al contesto clinico dell’adolescenza, ci siamo
così posti due obiettivi essenziali:
- trovare un sistema di valutazione dell’attaccamento che sia omogeneo
al costrutto elaborato da John Bowlby e Mary Ainsworth e, al tempo
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stesso, sia in grado di cogliere le evoluzioni nei domini cognitivo,
motivazionale e sociale tipiche dell’adolescenza;
- verificare che questo sistema sia in grado di evidenziare le specifiche
relazioni
tra
sviluppo
dell’attaccamento,
psicopatologia
e
organizzazione della personalità in questa fase del ciclo di vita.
Una prima fase del lavoro è dunque consistita nella identificazione degli
strumenti di valutazione. Tenendo conto che uno strumento di
valutazione ottimale deve:
- essere capace di cogliere il compito evolutivo e funzionamento specifico
della fase - e cioè nel caso dell’adolescente gli aspetti essenziali del
processo di organizzazione di una nuova rappresentazione di “Sé
come agente” e di regolazione autonoma rispetto al proprio pensiero
(ricerca dell’autonomia) all’interno di uno scambio interattivo con il/i
genitore/i;
- essere sensibile ai contesti d’interazione - e cioè capace di offrire una
valutazione
complessiva
dell’attaccamento
aderente
a
ciò
che
l’adolescente effettivamente fa nei diversi contesti, in particolare di
quello familiare, e di come adolescente e genitore apprendono a
regolare mutuamente i propri stati affettivi e le proprie prospettive
mentali;
- permettere l’integrazione di misure osservative e rappresentazionali;
- cogliere in particolare l’interazione con altri sistemi motivazionali
interpersonali;
- evidenziare aspetti rilevanti per la psicopatologia (attaccamento
disorganizzato).
In vista di una valutazione degli schemi relazionali disadattativi
abbiamo individuato nel sistema PIGA (Profilo d’Interazione GenitoreAdolescente; Lyons-Ruth, Hennigshausen, & Holmes, 2003) uno
strumento capace di soddisfare queste diverse esigenze. Il sistema PIGA
-
sviluppato
nel
corso
di
un
importante
studio
longitudinale
multicentrico condotto su un gruppo di bambini valutati in momenti
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diversi dello sviluppo, dalla prima infanzia all’età giovane adulta costituisce una griglia di osservazione specifica per studiare l’evoluzione
dei
comportamenti
disorganizzati
nel
corso
dello
sviluppo.
In
particolare, esso costituisce il primo approccio metodologico allo studio
delle strategie di tipo controlling che costituiscono l’evoluzione tipica
dell’attaccamento disorganizzato nel corso dello sviluppo (Lyons-Ruth &
Jacobvitz 1999). Rispetto agli studi che tipicamente si rivolgono
all’Adult Attachment Interview (AAI) o al suo
adattamento per
l’adolescenza (AICA; Ammaniti, Candelori et al., 1990; Ammaniti, van
Ijzendoorn et al., 2000), il sistema PIGA fa riferimento non solo a misure
rappresentazionali
dell’attaccamento,
ma
anche
a
osservazioni
comportamentali di tipo interattivo. Questo sistema prevede una
valutazione complessa che si fonda sull’analisi della videoregistrazione
dell’interazione genitore-adolescente e porta a classificare le strategie
interattive secondo dimensioni coerenti con quelle definite dalla Strange
Situation
e
dell’Adult
Attachment
Interview.
Questo
sistema
di
valutazione ci è parso cioè capace di cogliere, alla luce dei compiti
evolutivi
dello
funzionamento
specifico
della
fase adolescenziale,
l’equilibrio tra attaccamento ed esplorazione. I dati emersi da un lavoro
preliminare di tipo metodologico, che aveva l’obiettivo di esplorare la
validità del sistema PIGA, ci hanno permesso di sostenere che questo
sistema offre: 1) una visione più integrata e adeguata alla fase dello
sviluppo dell’attaccamento in adolescenza rispetto alla sola misura
rappresentazionale
fornita
dall’applicazione
dell’AICA
(equivalente
dell’AAI per l’adolescente); 2) una visione più accurata rispetto alla
riorganizzazione dei sistemi motivazionali tipica dell’adolescenza; 3) la
possibilità di cogliere in modo clinicamente accurato e significativo le
modalità disadadattive dell’adolescente, con particolare riferimento
all’evoluzione
in
questa
fase
delle
strategie
controlling
tipiche
dell’attaccamento disoganizzato.
I dati confortanti di questo primo lavoro ci hanno incoraggiato a
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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proseguire in questa linea di ricerca. In un successivo lavoro (Manaresi,
Williams,
&
Cotugno,
2008),
volto a
esplorare
il
rapporto
tra
attaccamento e psicopatologia in adolescenza, svolto in collaborazione
con i colleghi Manaresi e Cotugno del centro clinico ASTREA di Roma,
abbiamo così affiancato al sistema PIGA un ulteriore strumento, l’AIMIT
(Analisi degli Indicatori delle Motivazioni Interpersonali nei Trascritti)
messo a punto da Liotti e collaboratori (Liotti & Monticelli, 2008;
Gruppo per lo studio delle motivazioni interpersonali in psicoterapia,
2008) che mira a fornire una analisi degli indicatori delle motivazioni
interpersonali nei trascritti – per mettere in luce le motivazioni
interpersonali sottese agli scambi interattivi e comunicativi genitore–
adolescente. In questo recente lavoro (Manaresi, Williams, & Cotugno,
2008) abbiamo dunque utilizzato il sistema PIGA e il sistema AIMIT per
lo studio delle interazioni genitore–adolescente in due campioni di
adolescenti, il primo costituito 16 diadi adolescente-genitore provenienti
da una popolazione a basso rischio psicosociale e il secondo costituito
da 27 diadi provenienti da una popolazione clinica di pazienti
diagnosticati con disturbi di personalità. Utilizzando questi due
strumenti, abbiamo valutato una situazione interattiva semistrutturata,
in cui adolescente e genitore vengono chiamati a confrontarsi su
specifiche tematiche-stimolo offerte da un operatore non coinvolto nel
processo terapeutico. La procedura utilizzata è costituita da 6 episodi,
della durata di 5 minuti ciascuno, introdotti da “indicazioni di
discussione” che costituiscono stimoli stressanti di intensità crescente.
Le
interazioni
così
stimolate,
vengono
audio-videoregistrate
e
successivamente trascritte verbatim. Dopo la prima sequenza di
discussione libera non focalizzata, il genitore viene sottoposto all’Adult
Attachment Interview, mentre all’adolescente viene somministrata
l’AICA. Le due interviste vengono audioregistrate e valutate utilizzando il
sistema di codifica di Main e Goldwyn (1998).
In analogia con la metodologia che informa la Strange Situation, la
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nostra procedura osservativa è costituita da una sequenza prestabilita
di situazioni indotte da
stimoli fase-specifici, in grado di attivare il
sistema di attaccamento-accudimento nell’interazione genitore-figlio.
Una
volta
effettuata
la
videoregistrazione
dell’interazione
semistrutturata, i dialoghi sono stati trascritti e analizzati secondo il
metodo AIMIT. Le videoregistrazioni sono state valutate secondo le
dimensioni PIGA sopra descritte. Le due valutazioni sono state
effettuate in cieco da codificatori esperti dei due sistemi. I dati così
raccolti hanno costruito un quadro sovrapponibile a quello ottenuto da
Lyons-Ruth e collaboratori (2003), e cioè anche nella popolazione
italiana studiata la qualità delle interazioni fra genitore e adolescente
impegnati
nella
soluzione
del
compito
decisionale
mostra
una
correlazione positiva con la categoria di attaccamento del genitore e al
tempo stesso si rivela più capace della categoria di attaccamento del
genitore di predire la categoria di attaccamento dell’adolescente
(Williams, Ardito, Ortu, & Dazzi 2008). Questo dato è stato inoltre
confermato da un altro studio che evidenziava la forte predittività
dell’attaccamento rispetto alla modalità di gestione dell’aggressività fra
genitore e adolescente, modalità che si presenta come funzionale nelle
diadi con attaccamento sicuro e disfunzionali, con una marcata
tendenza al passaggio all’atto – nella forma di vere e proprie aggressioni
(fisiche o verbali) – nelle diadi insicure o disorganizzate (Williams, 2007;
Williams, Aloi et al., 2008; Williams, Ardito et al., 2008).
Questa seconda modalità si presenta come fortemente ricorrente nel
gruppo costituito da adolescenti con disturbi gravi di personalità
(Williams, 2007; Williams, Aloi, Di Chio, Ortu, & Lingiardi, 2008;
Manaresi, Williams, & Cotugno, 2008). L’analisi delle interazioni PIGA
di questi giovani pazienti ha consentito di evidenziare la prevalenza
delle interazioni traumatiche descritte dalla Lyons-Ruth attraverso le
tipologie dei profili disorganizzati del sistema PIGA e ci ha condotti a
ipotizzare come la disorganizzazione dell’attaccamento in adolescenza
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sia riconducibile alla impossibilità, in particolare per un adolescente
segnato da una storia di traumi infantili (come gli adolescenti del nostro
campione clinico) di conciliare le spinte all’acquisizione della nuova
identità adolescenziale, di nuovi legami e nuove modalità di rapporto
con i bisogni di attaccamento. Nel caso dell’attaccamento disorganizzato
l’adolescente sembra sperimentare il percorso di differenziazione
psicologica, che costituisce uno dei compiti evolutivi di questa fase
evolutiva, come un attacco all’altro o come una rottura insanabile del
legame. La plausibilità di questo tipo di interpretazione sembra essere
confermata dal confronto tra i dati ottenuti dal sistema PIGA e dalla
valutazione dei sistemi motivazionali fornita dal sistema AIMIT. Da tale
confronto emerge con chiarezza che tanto la qualità dell’attaccamento
del
genitore,
valutata
mediante
l’AAI,
quanto
la
valutazione
dell’interazione adolescente-genitore, effettuata attraverso il PIGA, sono
fortemente predittive di strategie di tipo controlling caratterizzate
dall’attivazione pervasiva e disarmonica del sistema motivazionale di
rango in luogo di quello dell’attaccamento e dell’accudimento.
I futuri sviluppi di questa prospettiva di ricerca saranno rivolti ad
approfondire maggiormente lo studio: a) della congruenza tra le
valutazioni dell’attaccamento in adolescenza effettuate attraverso il
sistema PIGA con lo sviluppo delle relazioni oggettuali così come
analizzato nella prospettiva empirica messa a punto da Drew Westen
con il metodo SCORS (1991b, 1996) e b) della capacità del sistema PIGA
e del sistema AIMIT di cogliere le differenze cliniche più rilevanti tra
gruppi di disturbi di personalità del cluster A e del cluster B.
Conclusioni
Il lavoro del gruppo di ricerca ha seguito delle linee distinte che si
rivolgono a due aspetti di stretta rilevanza per lo studio empirico della
psicoterapia: la comprensione dei diversi fattori che concorrono
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all'evoluzione
del
processo
nella
prospettiva
psicodinamica;
l'identificazione delle caratteristiche dell'organizzazione dei processi
dell'attaccamento che presentano maggiore salienza per lo sviluppo
della patologia di personalità e degli schemi relazionali disadattativi nel
contesto della psicoterapia.
Per quanto concerne gli studi sul processo, le nostre ricerche hanno
consentito di evidenziare la complessità delle interazioni tra i diversi
fattori
che
favoriscono
od
ostacolano
l'evoluzione
del
processo
terapeutico. In particolare, è stato possibile evidenziare che la
valutazione accurata del cambiamento clinico non può essere realizzata
attraverso un unico costrutto clinico. Le diverse dimensioni prese in
esame dai diversi strumenti di valutazione del cambiamento presentano
solo un grado relativo di omogeneità. Così, ad esempio, l'evoluzione
degli schemi relazionali disadattativi non va di pari passo con
l'evoluzione delle organizzazioni dei meccanismi di difesa nell'ambito del
processo terapeutico. Se si raffrontano le evoluzioni di queste singole
dimensioni cliniche nel corso di una terapia con altri indicatori
dell'efficacia del processo (ad es., l'alleanza terapeutica) o con l'outcome
della terapia stessa si perviene a conclusioni parziali e talora errate. Più
proficuo sembra un approccio di valutazione multi-dimensionale che
consenta di valutare l'andamento del processo attraverso le specifiche
interazioni che i singoli fattori mostrano nelle diverse fasi del
trattamento.
Per quanto concerne lo studio delle valutazioni dell'attaccamento, i
risultati ottenuti consentono una prima ridefinizione delle classificazioni
tradizionali
dell'attaccamento
alla
luce
di
alcune
dimensioni
di
particolare rilievo per la psicoterapia. Con riferimento all'ambito della
patologia adolescenziale, è stato in particolare possibile costruire uno
strumento di valutazione che sia ancorato al costrutto originario di
attaccamento e che mostri, al tempo stesso, l'intreccio tra l'evoluzione di
questo sistema con le vicissitudini evolutive e motivazionali tipiche di
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questa fase. In particolare, è stato possibile specificare quali aspetti del
modello
disorganizzato
dell'attaccamento
si
presentano
in
modo
ricorrente e distintivo nelle organizzazioni patologiche della personalità.
Come evidenziato dall'applicazione di questo approccio ad alcuni casi
clinici, tale impostazione suggerisce una linea interpretativa che a
partire dalle valutazioni dell'attaccamento consente di formulare delle
previsioni circa le modalità e i contenuti attraverso cui gli schemi
disadattativi di origine traumatica si manifestano nel contesto clinico.
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interventions in the treatment of a borderline patient. Paper presented at the
2nd Joint Meeting of the SPR European and UK Chapters, Lausanne,
Switzerland.
Abstract
Our research group, currently operating at the Department of Dynamic and
Clinic Psychology, have mainly focused on two topics: the study on therapeutic
process (in the perspectives of both empirical and conceptual research); the
relevance of attachment theory for the understanding of abnormal personality
development and its manifestations within the clinical context, with specific
reference to adolescence.
Key words
Process, CCRT, adolescence, attachment theory, motivational systems
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Filoni di ricerca in psicoterapia nella Facoltà
di Psicologia dell’Università di Padova
Adriana Lis,1 Marco Sambin,2 Emilia Ferruzza,1
Cristina Marogna,2 Diego Rocco,2 Silvia Salcuni1
Sommario
Il moltiplicarsi di proposte di intervento psicologico e la crescente richiesta
da parte degli utenti e delle istituzioni di cura di misurare efficacy ed
effectiveness delle psicoterapie, rende necessaria una valutazione empirica dei
modelli di intervento applicati, attraverso lo studio di ciò che avviene in
psicoterapia e dei relativi meccanismi di cambiamento e azione. Scopo del
presente lavoro è introdurre il lettore ai diversi disegni di ricerca per la
valutazione empirica della psicoterapia nel complesso contesto di alcuni servizi
Universitari dell’Ateneo Patavino. L’interesse sarà posto sui diversi progetti e
strumenti per la valutazione dell’esito, dei macro e dei micro processi di
cambiamento di terapie ad indirizzo psicodinamico, caso singolo e di gruppo,
anche in relazione alle neuroscienze.
Parole chiave
Ricerca in psicoterapia, ricerca esito-processo, caso singolo, gruppo, istituzioni
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------1
2
Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della
Socializzazione c/o LIRIPAC, via Belzoni 80, 35140 Padova.
Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Psicologia Applicata c/o LIRIPAC,
via Belzoni 80, 35140 Padova.
Corrispondenza: Adriana Lis
E-mail: adriana.lis@unipd.it
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Introduzione
Il moltiplicarsi di proposte di intervento psicologico e la crescente
richiesta da parte degli utenti e delle istituzioni di cura di misurare
efficacy ed effectiveness delle psicoterapie, rende necessaria una
valutazione empirica dei modelli di intervento applicati attraverso lo
studio di ciò che avviene in psicoterapia (analisi del processo) e dei
relativi meccanismi di cambiamento e azione (analisi processo-esito).
Scopo del presente lavoro è introdurre il lettore ai diversi disegni di
ricerca per la valutazione empirica della psicoterapia, nel complesso
contesto di alcuni servizi Universitari dell’Ateneo Patavino. L’interesse
sarà posto sui diversi progetti e strumenti per la valutazione dell’esito,
dei macro e dei micro processi di cambiamento di terapie a indirizzo
psicodinamico, caso singolo e di gruppo, anche in relazione alle
neuroscienze.
Analisi processo-esito con disegno su caso singolo11
L’attività di ricerca di questo gruppo si concentra sullo studio
processo-esito di casi singoli, sviluppandosi in più progetti, alcuni dei
quali classicamente rivolti al corso della psicoterapia, altri più specifici
per il periodo di consultazione. Per tutti i progetti la valutazione si basa
sulle registrazioni e le trascrizioni verbatim delle sedute.
Un primo filone di ricerca, si basa sullo studio del processo-esito di
psicoterapie a orientamento psicodinamico, generalmente di sostegno,
della durata di circa 2 anni e mezzo, interamente audioregistrate e
trascritte verbatim, con pazienti adulti e giovani adulti afferenti
principalmente a un servizio di consulenza psicologica per studenti
1 Il gruppo di ricerca è coordinato dalla Prof.ssa Lis. Sono componenti del gruppo:
Silvia Salcuni (PhD, Ricercatore M-Psi/07), Daniela Di Riso (PhD), Daphne Chessa
(PhD student), Elisa del Vecchio (PhD student).
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universitari12, e minorenni, afferenti principalmente al Laboratorio
Selma Fraiberg, le cui problematiche vanno dai disturbi di personalità,
ai disturbi affettivi. In particolare la valutazione dei singoli pazienti
prevede lo studio degli andamenti dei meccanismi di difesa del paziente
e del terapeuta (ad esempio, Defense Mechanism Rating Scale – DMRS;
Perry, 1990), del tipo di interventi del terapeuta (Psychodynamic
Intervention Rating Scale – PIRS; Cooper & Bond, 1992), dell’alleanza
terapeutica (Collaborative Interactions Scale – CIS; Colli & Lingiardi,
2009), della capacità di mentalizzazione (ad esempio, Self Reflection
Functioning – SRF; Fonagy, Target, & Gergely, 2000; Scala di
Valutazione della Metacognizione – SVaM; Carcione, Falcone, Magnolfi,
& Manaresi, 1997), del cambiamento dei temi relazionali (asse II della
Diagnosi Psicodinamica Operazionalizzata – OPD; Gruppo di Lavoro
OPD, 1996/1998/2001), e delle correlazioni reciproche tra queste
dimensioni. L’equipe raccoglie da anni importanti dati di ricerca sul
processo-esito, e ha ormai a sua disposizione un ricco archivio di
psicoterapie psicodinamicamente orientate, interamente audioregistrate
e trascritte, che renderanno possibile studi di tipo meta-analitico. I dati
fin ora elaborati (Lis, Mazzeschi, Di Riso, & Salcuni, in press; Di Riso,
Salcuni, Laghezza, Marogna, & Lis, 2009; Lis, Mazzeschi, Salcuni, &
Rondanini, 2007; Mazzeschi, Di Riso, Napoli, & Bonucci, 2007; Lis,
Salcuni, & Zini, 2007; Mazzeschi, Di Riso, Napoli, & Bonucci, 2007; Lis,
Salcuni, Zini, Genovese, Di Riso, & Zonca, 2005; Lis, Zennaro, Calvo,
Salcuni, & Parolin, 2003) mostrano importanti correlazioni tra il tipo di
interventi attuati dai terapeuti, il tempo della terapia, la maturazione
del livello globale delle difese del paziente e la diminuzione della
sintomatologia psichiatrica iniziale; fattore modulatore del cambiamento
risulta essere la qualità dell’alleanza terapeutica.
2
SAP-SCP
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Nell’ambito della ricerca empirica in psicoterapia, spesso è emersa
l’esigenza e l’ utilità di possedere un elenco di variabili e di valori critici
il cui andamento fosse utile a livello di progettazione e prognosi della
terapia (Bihlar & Carlsson, 2000; Lis, Salcuni, & Parolin, 2004). Un
altro importante filone di lavoro di questo gruppo di ricerca riguarda lo
studio dell’esito, tramite l’uso di strumenti somministrati in fase
diagnostica e alla conclusione della psicoterapia caso singolo. Il filone di
ricerca si è rivolto allo studio dettagliato di strumenti utili a questo
scopo, comprendendo sia metodi descrittivi per l’identificazione di
aspetti sintomatologici (ad esempio, SCL-90-R; Derogatis, Rickles, &
Rock, 1976), sia strumenti classici per l’assessment psicologico (ad
esempio, Millon Clinical Multiaxial Inventory – MCMI; Millon, 1997;
Shelder-Westen Assessment Procedure – SWAP-200; Westen, Shelder, &
Lingiardi, 2003; Rorschach Comprehensive System – RCS; Exner, 1991,
1993; Adult Attachment Interview – AAI; George, Kaplan, & Main, 1984,
1985, 1996; Adult Attachment Projective – AAP; George, Pettem, &
West, 1996, 2008). Base teorica di questo tipo di studi è la validazione
di un tipo di assessment, che guidi la successiva presa in carico e
l’impostazione delle linee guida per la terapia, definito “multi-method”,
in contrapposizione al “mono-method assessment” (Mattlar, 2003). È
interessante che questo modo di procedere del clinico venga ad
acquisire attualmente, dei supporti empirici derivati da lavori di metaanalisi e da concetti quali quelli di validità incrementale, aprendo così la
strada a un approccio utile anche nell’ambito della valutazione empirica
della psicoterapia e quindi anche degli interventi di counseling (Gacono,
Loving, & Bodholt, 2001; Meyer, Finn, Eyde, Kay, Moreland, Dies, et al.,
2001; Meyer, Finn, Eyde, Kubiszin, & Moreland, 1998; Mattlar, 2003). I
risultati relativi all’applicazione empirica e alla misurazione della
complessità diagnostica del multi method assessment, comprovano che
l’uso di più tecniche di indagine con specificità in parte diverse, in parte
sovrapponibili, porta a un incremento della validità concorrente e
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divergente. I risultati del presente filone di ricerca sugli esiti delle
psicoterapie analizzate indicano modificazioni e miglioramenti nei
pattern relazionali, e in particolare un miglioramento nella capacità dei
soggetti di riflettere e ri-raccontare la loro storia relazionale, una
migliore modulazione e verbalizzazione degli affetti e un calo del disagio
soggettivo percepito (Lis, Mazzeschi, Di Riso, & Salcuni, in press;
Marogna, Salcuni, & Chessa, 2010).
Per quanto riguarda lo studio della consultazione, il gruppo si è
occupato di impostare e valutare empiricamente gli effetti “terapeutici”
di un nuovo modello di assessment, il Collaborative Assessment (CA;
Finn, 2003; Fischer & Kamphuis, 2006), che si differenzia da quello
tradizionale poiché pone il momento diagnostico – condotto con
specifiche modalità "collaborative" – in una prospettiva di cambiamento,
evidenziando come i pazienti traggono benefici durante la consultazione
se ricevono un feedback empatico e collaborativo sui risultati dei
colloqui e altri strumenti a loro somministrati (Finn, 2003; Finn &
Tonsager, 1992; Finn & Fischer, 1997). Il CA si basa su tre punti
cardine: collaborazione, individualizzazione e flessibilità. Il paziente è
visto come un protagonista attivo delle operazioni di assessment e la
stesura e condivisione di un report finale del soggetto (lettera scritta), è
teorizzato come atto terapeutico, che genera effetti psicologici misurabili
in termini di livello di stress, motivazione, autostima, efficacia
dell'intervento. Nonostante il modello sia stato supportato da diversi
risultati, i lavori pubblicati si situano soprattutto a livello di studi
clinici. Il progetto si rivolge al confronto tra effetti dell’assessment
tradizionale e dell’assessment collaborativo su due gruppi di pazienti
giovani adulti, assegnati random a una delle due metodologie valutative.
Il gruppo CA è stato valutato attraverso una batteria di test flessibile,
creata "ad hoc" per ogni singolo paziente e per la problematica
presentata. Un secondo gruppo, di controllo, è stato valutato con una
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batteria
fissa
di strumenti
Personality Inventory-II
(ad
esempio,
Minnesota Multiphasic
– MMPI-II; Hataway &
McKinley,
1989;
Rorschach Comprehensive System – RCS; Exner, 1991, 1993). L’analisi
delle narrative dei pazienti e dei terapeuti nelle due condizioni,
confrontando i primi colloqui con quelli di restituzione (Lis, Mazzeschi,
Di Riso, Salcuni, & Rondanini, 2007; Mazzeschi, Di Riso, Napoli, &
Bonucci, 2007), mostra che il CA contribuisce a ridurre il pattern
difensivo dei pazienti (Finn & Tonsager, 1997; Marogna, Salcuni, &
Chessa, 2010) e porta a un aumento graduale della confidenza nel
processo di aiuto da parte del paziente nei confronti del clinico
(Rozensky, Sweet, & Tovian, 1997), con una maggiore flessibilità nella
relazione,
evidenziata
da
un
migliore
andamento
dell’alleanza
terapeutica (Colli & Lingiardi, 2009) e una migliore capacità dello
scambio clinico di generare senso (Salvatore, Gelo, Gennaro, Manzo, &
Al-Radaideh, 2010).
Lo studio della microprocessualità dello scambio clinico13
L’attività di ricerca di questo gruppo si concentra sullo studio del caso
singolo, sviluppandosi in più progetti che hanno in comune l’interesse
per l’approfondimento dei microprocessi che compongono il processo
psicoterapeutico.
Le ricerche vengono condotte analizzando le
registrazioni e le trascrizioni verbatim di sedute di psicoterapia a
orientamento psicodinamico sia a breve che a lungo termine, con
pazienti adulti e con giovani adulti, le cui problematiche vanno dai
disturbi di personalità ai disturbi d’ansia. Nei lavori viene privilegiata
una lettura della relazione clinica che trova ispirazione nei modelli
psicoanalitici a orientamento relazionale (Aron, 1996; Atwood &
3
Il gruppo di ricerca è coordinato dal Prof. Rocco e ne è componente il Dott. Andrea
Montorsi (Psicologo).
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Stolorow, 1992), i quali sottolineano come la situazione clinica sia
imprescindibilmente
influenzata
dalle
sue
caratteristiche
intersoggettive; il processo terapeutico viene quindi principalmente
considerato come una situazione in cui è presente un influenzamento
reciproco che, senza soluzione di continuità, genera il processo
terapeutico
(e
i
sottostanti
microprocessi).
Dal
punto
di
vista
metodologico i lavori di ricerca hanno preso spunto da una parte, dagli
studi sull’Attività Referenziale (RA; Bucci, 1985, 1997, 1999; Bucci &
Kabasakalian-McKay, 1992) sviluppati a partire dalla Teoria del Codice
Multiplo (TCM), utilizzandone sia la versione con siglatura manuale che,
in collaborazione con l’Università di Roma “Sapienza”, la versione con i
dizionari computerizzati (Mariani, Rocco, & De Coro, 2010; Rocco,
Mariani,
Montorsi,
&
Zermiani,
2010);
dall’altra,
hanno
tratto
ispirazione dalle recenti prospettive di ricerca derivanti dall’Infant
Research, che sottolineano il ruolo della comunicazione implicita nello
sviluppo della relazione tra bambino e caregiver (Beebe & Lachmann,
2002; Meltzoff, 1985, 1990).
Con la RA, Bucci ha reso possibile l’analisi della produzione verbale di
paziente e terapeuta non solo in termini di contenuto ma anche di
“qualità espressive”, evidenziando come il linguaggio utilizzato riesca a
costruire nessi fra l’esperienza sensoriale, le emozioni e il pensiero
espresso attraverso le parole (De Coro & Mariani, 2006). Il gruppo di
lavoro analizza e sviluppa, dal punto di vista della ricerca empirica,
l’analisi dei “codici verbali subsimbolici” che “possono essere connessi
al linguaggio simbolico, ma non lo sono necessariamente, e possono
anche trasportare informazione comunicativa nei propri canali” (Bucci,
1997; tr. it. 1999, p. 170). Ciò si è esplicato nello sviluppo di una
metodologia di analisi del processo psicoterapeutico che studia la
presenza degli aspetti paraverbali, con particolare attenzione alla
velocità di eloquio (Speech Rate, SR). Attraverso l’utilizzo di specifici
software derivati dagli studi sulla fonetica, la metodologia ha permesso
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di raccogliere importanti informazioni sullo sviluppo del processo clinico
derivate dalle velocità di eloquio e dalle loro fluttuazioni. Il filone di
ricerca relativo a RA e SR ha preso due direzioni: da un parte è stata
analizzata la relazione tra le variazioni della velocità dell’eloquio del
paziente e le caratteristiche espressive della sua produzione verbale;
dall’altra la relazione che, in diversi colloqui ed in diversi momenti di
uno stesso colloquio, è presente tra la velocità di eloquio del paziente e
quella del terapeuta. Dalla prima direzione è emerso che le fluttuazioni
di velocità di eloquio sono significativamente correlate con le qualità
espressive contenute nel linguaggio (Rocco, 2005), mentre dalla
seconda, nella quale viene investigata l’analisi dell’influenzamento
reciproco tra paziente e terapeuta, si è evidenziato come i due attori
della scena clinica siano reciprocamente sensibili non solo ai contenuti
della produzione verbale, ma anche alle caratteristiche paraverbali della
stessa (Rocco, 2008). Questo dato, anch’esso confortato dal punto di
vista statistico, è stato letto alla luce delle ricerche provenienti
dall’ambito dell’Infant Research, nelle quali è stata riscontrata, anche
nella
diade
madre-bambino,
questa
attitudine
alla
rilevazione
inconsapevole delle caratteristiche della comunicazione implicita (Beebe
& Lachmann, 2002).
Un ambito specifico al quale RA e SR sono applicati, aggiungendo altri
strumenti di valutazione del processo, è relativo al confronto tra
psicoterapie dinamiche a breve vs a lungo termine. In letteratura
(Flegheneimer, 1986; Davanloo, 1987) è presente un ricco dibattito sulla
diversa qualità degli outcome nei due tipi di intervento, e sul processo
che porta a un certo risultato. Focus di questi studi è individuare la
relazione tra azione terapeutica e tempo della terapia, rispondendo alle
seguenti domande: su quale struttura e con che velocità prende forma il
processo in una terapia a breve termine? E rispetto a una terapia
cosiddetta lunga quali differenze si evidenziano? L’obiettivo è lo stesso o
si
tratta
di
un
diverso
obiettivo
terapeutico?
Gli
strumenti
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operazionalizzati presenti in letteratura che vengono utilizzati in questo
progetto, confrontandone i risultati dal punto di vista della loro
convergenza, sono: il CCRT (Luborsky & Crits- Christoph, 1990), la
DMRS (Perry, 1990), la SWAP-200 (Westen, Shedler, & Lingiardi, 2003),
il PQS (Jones, 2000), i test al terapeuta di Weiss (Weiss, 1993), la CIS
(Colli & Lingiardi, 2009). Anche in questo ambito i risultati sono
promettenti (De Bei, Rocco, & Montorsi, 2010): applicando a percorsi a
breve termine strumenti di ricerca concepiti per analizzare il processo
delle psicoterapie a lungo termine, emergono specificità che ci si augura
possano chiarire il paradosso di esiti positivi che vengano ottenuti in
tempi a volte molto brevi.
Il gruppo di ricerca sui fenomeni gruppali14
Il gruppo di ricerca in psicoterapia sui fenomeni gruppali, cerca di
individuare le variabili che rendono analizzabili a livello empirico i
costrutti psicologici che stanno alla base dei processi gruppali (Bion,
1961; Foulkes, 1975; Kaës, 1976; Yalom, 1975). Fare ricerca in
psicoterapia di gruppo significa di per sé confrontarsi con un corpus
complesso, una “totalità dinamica” (Lewin, 1943), che per poter essere
compresa e soprattutto utilizzata, ha bisogno di diversi vertici
osservativi che reciprocamente si aiutino in modo sinergico. Grazie
all’integrazione di varie discipline che hanno come oggetto di studio il
gruppo, è stato possibile cogliere numerosi aspetti e sfumature di
questo fenomeno così rilevante nell’ambito della psicologia clinica. Sono
presenti tuttavia diverse difficoltà epistemologiche nel considerare il
gruppo oggetto di indagine psicologica, poiché l’atteggiamento degli
4
Questa linea di ricerca riguarda il gruppo coordinato dalla prof.ssa Ferruzza e dalla
dott.ssa Marogna. Sono componenti del gruppo: Ivan Ambrosiano (Psicologo,
Psicoterapeuta), Floriana Caccamo (Psicologa), Ilaria Locati (Psicologa, Psicoterapeuta),
Luca Romagnoli (Psicologo Specializzando), Angelo Silvestri (PhD, Psichiatra,
Psicoterapeuta).
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individui verso il gruppo è generalmente di un suo disconoscimento
come realtà (Anzieu & Martin, 1986). Il gruppo, infatti, viene visto come
un sollievo dalle angosce della vita individuale e come possibilità per
risolvere diverse situazioni conflittuali (la condivisione come risorsa), ma
nello stesso tempo, come elemento che comprime, che costringe, obbliga
e genera fantasie di frantumazione e insicurezza (l’essere insieme come
limite della propria individualità). La ricerca empirica ha studiato
elementi processuali tipici del gruppo quali coesione, clima di gruppo,
alleanza terapeutica e empatia; tali variabili sono state associate
generalmente a un esito positivo della terapia e a minori tassi di dropout (Burlingame, Fuhriman, & Johnson, 2004). Nonostante tali
costrutti presentino aspetti caratterizzanti specifici, la ricerca mostra
forti sovrapposizioni e interrelazioni tra questi (Johnson et al., 2005).
Oggi è divenuto sempre più centrale poter stabilire il ruolo che giocano
tali fattori processuali e terapeutici nel facilitare il miglioramento nei
singoli pazienti.
L’attività del presente gruppo di ricerca prende in analisi psicoterapie di
gruppo per pazienti adulti e giovani adulti, sia a tempo limitato
(Costantini, 2000) sia a lungo termine sia con gruppi omogenei che non,
cercando di integrare gli studi relativi all’outcome dei pazienti e i fattori
relazionali che permettono il loro cambiamento. Pur mantenendo una
matrice comune nell’interesse all’analisi delle dinamiche di gruppo sia
in termini qualitativi che quantitativi, le ricerche coordinate dal
presente gruppo si differenziano per le metodologie utilizzate.
Un filone si occupa di correlare process e outcome, osservando quale
risultato in termini di cambiamento, in qualsiasi direzione, derivi
dall’uso di una determinata competenza psicoterapeutica (Locati,
Marogna, Caccamo, Romagnoli, & Ferruzza, 2010; Marogna, 2009;
Marogna, Marchiori, Romagnoli, & Tirimagni, 2009). Diviene così
necessario cercare le variabili più importanti nel produrre cambiamenti,
le variabili che aumentano l’efficacia e l’efficienza del processo
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psicoterapeutico (Di Nuovo, Lo Verso, Di Blasi, & Giannone, 1998). La
valutazione delle psicoterapie si basa sulle registrazioni e le trascrizioni
verbatim di sedute, di soggetti adulti, e prevede l’utilizzo di diversi
strumenti quali: la CIS (Colli & Lingiardi, 2009) in una versione
specifica per i gruppi (Marogna, 2009) il CCRT (Luborsky & CritsChristoph, 1990), la DMRS (Perry, 1990).
Un nuovo filone di ricerca si sta rivolgendo all'analisi del processo
psicoterapeutico, con l’obiettivo specifico di valutare la presenza dei
fattori
terapeutici:
vengono
somministrati
alcuni
questionari
di
valutazione dell’attività di gruppo sia ai pazienti sia ai terapeuti, quali il
GCQ (MacKenzie, 1983) e il questionario sulla valutazione dei fattori
terapeutici aspecifici e specifici delle terapie di gruppo (FAT.A.S-G).
Quest’ultimo
strumento
è
stato
creato
con
l’intenzione
di
operazionalizzare e misurare la presenza dei fattori terapeutici gruppali
proposti da Yalom (1975), verificando la presenza di eventuali
dimensioni globali sottostanti a tali costrutti e l’influenza della tecnica
di conduzione utilizzata sull’andamento delle relazioni infragruppo. Tali
risultati sono in parte evidenziati da precedenti studi fattoriali sulle
variabili del processo di gruppo, che hanno estrapolato un numero
ridotto di dimensioni globali sottostanti l'insieme delle variabili di
processo (Sexton, 1993; Johnson et al., 2005; Kivlinghan, Multon, &
Brossart, 1996). Un’ulteriore ipotesi è che l’andamento dei fattori non
risulti influenzato dalle caratteristiche degli individui, quali età e genere
e che vari invece a seconda della diagnosi dei pazienti e delle diverse
tipologie di problemi che raccolgono i partecipanti in gruppi omogenei in
relazione a tali problematiche.
Un ulteriore filone di ricerca riguarda lo studio della complessa
interrelazione
individuo-gruppo.
Tale
filone
parte
dal
concetto
ampiamente discusso e accettato nella letteratura teorica sui gruppi
(Vanni & Sacchi, 1992; Neri, 2002; Kaës, 2009) che le manifestazioni
individuali, espresse nel piccolo gruppo interattivo, siano condizionate
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dalla dimensione gruppale; tale concetto teorico origina dall’esperienza
clinica, ove si osservano modalità di relazionarsi e di presentare aspetti
di sé, anche molto diversi, in gruppi e contesti differenti (Ferruzza,
Nicolini, & Ambrosiano, 2006; Silvestri, Lucidi, Lena, & Ferruzza, 2007).
L’interesse attuale è rivolto in particolare allo studio del costrutto di
“autoconsapevolezza” o “consapevolezza di sé” come specifico indicatore
esito-processo del lavoro clinico, attraverso la costruzione della Scala di
Misura dell'Auto-Consapevolezza (SMAC; Silvestri, Lalli, Mannarini,
Ferruzza, Nuzzaci, Furin, Lucidi, & Rapazzini, 2008). È inoltre in corso
di preparazione un altro strumento per rilevare le specifiche modalità
relazionali dell’individuo nel contesto di un gruppo di psicoterapia, in
relazione
al
funzionamento
del
gruppo
nella
sua
globalità:
la
Description of Individual in Group (DIG).
Integrazione tra psicodinamica e neuroscienze: ricerca processoesito15
Il gruppo è attivo nella ricerca concettuale ed empirica volta alla
valutazione delle psicoterapie, al confronto tra modelli di intervento
psicoterapeutico e all’integrazione tra psicodinamica e neuroscienze.
Dal momento che gli sviluppi della ricerca in psicoterapia si orientano
con crescente interesse all’integrazione della psicologia clinica, della
psicopatologia
prospettiva
e
dei
offerta
diversi
dalle
approcci
della
psicoterapia
neuroscienze,
appare
con
la
rilevante
l’approfondimento dei correlati neurali sottostanti al funzionamento
mentale (Kandel, 2005).
A livello concettuale, la ricerca mira a definire un modello complesso
del
cambiamento
psicoterapeutico
che
tenga
conto
anche
dei
5 Il gruppo di ricerca è guidato dal Prof. Marco Sambin. Sono componenti del gruppo:
Enrico Benelli (PhD), Irene Messina (PhD student), in collaborazione con Arianna
Palmieri (PhD) e Roberto Viviani (PhD, Università di Ulm, Germania).
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cambiamenti a livello cerebrale. Un punto fondamentale di questo
modello è la definizione del concetto di regolazione emozionale
automatica. Attualmente, le teorie sul cambiamento psicoterapeutico
esistenti in neuroscienze si basano sui modelli dual process che
distinguono tra processi automatici, involontari, con origine esogena
(bottom up), e processi controllati, volontari, che hanno origine
endogena (top down) (Barrett, Tugade, & Engle, 2004). La psicoterapia
agirebbe favorendo lo sviluppo di maggiori capacità di regolazione
emozionale, che secondo i modelli dual process possono essere descritte
come forme di elaborazione delle informazioni emozionali che, invece di
essere guidate dalle informazioni sensoriali (processi automatici),
dipendono dall’intervento di processi volontari (controllati) volti alla
regolazione dello stato emozionale (DeRubeis, Siegle, & Hollon, 2008). Il
concetto di regolazione emozionale automatica amplia questo modello
classico, contemplando anche processi di regolazione che pur avendo
origine endogena non vengono messi in atto consapevolmente dal
soggetto, come ad esempio i meccanismi di difesa.
A livello empirico, il gruppo si occupa della conduzione di esperimenti
in fMRI per lo studio della regolazione emozionale e il cambiamento in
psicoterapia.
In un primo studio (Benelli, Mergenthaler, Walter, Sambin, Messina,
& Viviani, 2010) si sono indagati i correlati neurali dei pattern
linguistici che caratterizzano le quattro fasi del Modello dei Cicli
Terapeutici
(TCM),
derivato
dalla
Resonating
Mind
Theory
di
Mergenthaler (Mergenthaler, 2008). Secondo questo modello nel corso
della
psicoterapia
è
possibile
osservare
il
susseguirsi
di
fasi
caratterizzate dalla presenza di peculiari pattern linguistici dati
dall’alternanza di alto e basso tono emozionale, e alta e bassa astrazione
del linguaggio. Particolare importanza è stata attribuita a una fase del
ciclo terapeutico denominata “connecting” nella quale si ha la presenza
contemporanea di alta astrazione e alto tono emozionale. Attraverso
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l’esposizione a stimoli verbali corrispondenti alle diverse fasi del TCM è
risultato che la presenza contemporanea di alto tono emozionale e alta
astrazione è correlata a una maggiore attivazione di aree responsabili
delle funzioni di recupero e selezione di memorie, fondamentali nei
processi di rielaborazione di memorie personali che avvengono nel corso
della psicoterapia. In un secondo lavoro sono state valutate le differenze
individuali nella tendenza all’evitamento, definito come una forma
automatica di regolazione emozionale. La tendenza all’evitamento è
stata valutata attraverso il conteggio delle parole emozionali usate dai
soggetti nel descrivere storie che durante l’esperimento fMRI erano state
presentate sia in versione emozionale che in versione neutra. È stata
riscontrata
una
correlazione
significativa
tra
la
modulazione
di
deattivazioni di aree coinvolte in processi emozionali durante la lettura
delle storie a contenuto emozionale, e la tendenza dei soggetti a evitare i
contenuti emozionali delle storie stesse.
Attualmente il gruppo è impegnato nelle fasi preliminari di un nuovo
progetto che prevede la valutazione degli effetti della psicoterapia
psicodinamica breve nel funzionamento cerebrale di un gruppo di
pazienti depressi, confrontanti con gruppo di pazienti in lista d’attesa e
con un gruppo di controllo di soggetti non clinici. Si verificheranno gli
effetti della psicoterapia sul funzionamento di aree cerebrali coinvolte
nella regolazione emozionale. Il disegno sperimentale prevede una
condizione di regolazione emozionale automatica e una condizione di
regolazione emozionale volontaria. Inoltre il cambiamento verrà valutato
anche attraverso l’utilizzo di strumenti di valutazione clinica quali la
Defense Mechanism Rating Scale (DMRS; Perry, 1990; Lingiardi, 2006),
il Core Conflictual Relationship Theme Method (CCRT; Luborsky, 1977)
e Therapeutic Cycle Model (TCM; Mergenthaler, 2008).
Altri progetti di studi di neuroimmagine in corso di svolgimento
riguardano la ricerca concettuale e la verifica di ipotesi sulle differenze
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individuali nella regolazione emozionale automatica anche attraverso lo
studio di gruppi di pazienti.
Conclusioni
Nel complesso un aspetto che a nostro avviso emerge, al punto da
essere considerato caratterizzante, dai progetti presentati dai gruppi di
ricerca padovani, concerne la molteplicità delle prospettive nelle quali
viene declinata la ricerca in psicoterapia. Si passa infatti dallo studio
della relazione tra processo e risultati nel single-case a quello dei
microprocessi, dallo studio dei fenomeni gruppali al contributo delle
neuroscienze, dall’interesse per la psicoterapia a quello per la
consultazione.
Altro aspetto caratterizzante ci sembra essere lo sviluppo di disegni di
ricerca originali, reso possibile dall’utilizzo di un’ampia gamma di
strumenti alcuni dei quali, risultando trasversali ai diversi gruppi, di
fatto
costituiscono
un
filo
conduttore
anche
tra
aree
che
apparentemente possono sembrare disgiunte.
Infine comune denominatore ai progetti di ricerca presentati sono da
una parte l’intento di operare un’attenta analisi delle basi teoriche solo
a partire dalle quali si ritiene possa essere fatta, nel tempo, una ricerca
con alti standard qualitativi, dall’altra il desiderio di integrare la clinica
di matrice psicodinamica/psicoanalitica con una modalità di fare
ricerca empirica che, nel rispetto del setting, consenta di ottenere dati
validi, fedeli e sensibili agli accadimenti clinici.
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Behavioural Disorders. Ginevra: WHO.
Abstract
Empirical evaluation of psychotherapy models of intervention are more and
more requested because of the increasing proliferation of different proposals
for psychological intervention and the growing demand from users and
institutions of care, to measure efficacy and effectiveness of psychotherapy.
The study of what happens in psychotherapies and what are psychotherapy
mechanisms of action and change is useful and necessary. The purpose of this
paper is to introduce the reader to the various research designs for empirical
evaluation
of
psychotherapy,
in
the
complex
environment
of
some
psychological Services belonging to the University of Padua. The interest will
be on different projects and tools, used to evaluate the outcome, the macro
and micro processes of change in psychodynamic therapy, both for individual
and group cases, and also in relation to neuroscience.
Key words
Psychotherapy research, process-outcome research, single case, group,
institution
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Il ragionamento nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo
Francesco Mancini1 e Amelia Gangemi1,2
Abstract
In questo articolo riassumiamo alcuni risultati di un filone di ricerca
realizzato nell’ambito della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) –
Associazione di Psicologia Cognitiva (APC), dedicato principalmente alla
spiegazione del disturbo ossessivo compulsivo, vale a dire alla identificazione
degli scopi e delle rappresentazioni che regolano la attività ossessivocompulsiva e in particolare il ragionamento ossessivo. I risultati di queste
ricerche si sono rivelati interessanti, però, anche per la spiegazione di alcuni
altri problemi della psicologia clinica e della psicologia generale, quali ad
esempio la natura del senso di colpa, l’influenza degli stati emotivi ed
intenzionali sui processi cognitivi, in particolare dell’influenza della colpa sul
ragionamento e sulle decisioni e del contributo di tale influenza al
mantenimento della patologia, cioè alla spiegazione del paradosso nevrotico, e
infine, i rapporti tra razionalità e patologia.
Parole chiave
Disturbo ossessivo-compulsivo, ragionamento, scopi, emozioni, colpa
---------------------------------------------------------------------------------------1
Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) – Associazione di Psicologia Cognitiva (APC),
Roma, 2 Dipartimento di Scienze Cognitive, Università di Messina
Referente: Francesco Mancini
Corrispondenza: Francesco Mancini - Studio di Psicoterapia Cognitiva APC-SPC
Viale Castro Pretorio 116, II Piano int. 5, 000185 - Roma
E-mail: mancini@apc.it
Tel.: 06.44704193
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Introduzione
Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) ha un interesse speciale per
gli psicologi cognitivisti e gli psicoterapeuti per diverse ragioni. La prima
questione sollevata da ossessioni e compulsioni è la loro stessa natura:
si tratta dell’espressione di un danno neurale, della conseguenza di un
deficit cognitivo, della risultante di condizionamenti classici e operanti
o, piuttosto, di un’attività finalizzata al raggiungimento di scopi e alla
soluzione di problemi? Il cognitivismo clinico attualmente propende per
questa seconda possibilità che, a sua volta, solleva un altro problema
fondamentale, e cioè la definizione dei determinanti cognitivi dell’attività
ossessiva: quali scopi e quali rappresentazioni la regolano? Come
vedremo nel paragrafo che segue, per rispondere a questa domanda
abbiamo preso in esame un tipico caso di DOC.
Il ragionamento tipo Maria
Come è noto, la ruminazione ossessiva consiste in una particolare
forma di ragionamento che è esemplificata dal complesso processo
mentale che ha portato ad esempio una paziente ossessiva, Maria, a
evitare sistematicamente di toccare i giornali per paura di trovarvi la
foto di un malato di AIDS. Maria temeva, infatti, di contrarre l’AIDS,
attraverso il contatto con la foto di un malato.
Il primo problema che ci siamo posti è stato identificare e descrivere i
passi del ragionamento che avevano portato Maria a svelare, una a una,
tutte le possibili vie di contagio che congiungevano il tocco della foto con
il contagio. Abbiamo in particolare provato a fornire una sorta di ricetta
di
questo
ragionamento,
identificandone
i
passi
essenziali
e
caratteristici. La ricostruzione del ragionamento di Maria, vale a dire
della ricetta del suo ragionamento, è stata fatta in collaborazione con
Johnson-Laird e appare in una serie di più ampi contributi (Johnson-
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Laird, Mancini, & Gangemi, 2006; Mancini, Gangemi, & Johnson-Laird,
2007). Il tutto era iniziato un giorno, di diversi anni prima, in cui Maria
aveva acquistato un rotocalco e, sfogliandolo, aveva trovato la fotografia
di un famoso attore americano, Rock Hudson, già morente di AIDS:
“Oddio, toccare questa foto mi fa impressione, come se stessi toccando
davvero il malato, … e se mi fossi contagiata? Sarebbe terribile, che
sbadata sono stata, ma potevo stare più attenta
No, ma che sto pensando! È assurdo!
Però come posso esserne così sicura?!
Il fotografo è stato vicino a Rock Hudson, infatti la foto è un primo
piano.
Si ma l’AIDS mica si contagia con la vicinanza, ci deve essere un
contatto intimo. Già, ma io che ne so se c’è stato un contatto intimo? Il
fotografo
stesso
poteva
essere
omosessuale.
In
effetti
sembra
improbabile che ci sia stata della intimità in una stanza d’ospedale e
con un malato grave, ma non c’ero lì e come posso escluderlo dunque?
Il fotografo, essendo certamente un professionista, ha sviluppato il
rullino e stampato le foto per conto proprio e potrebbe averli
contaminati, infatti potrebbe non essersi lavato le mani dopo un
rapporto sessuale o avere un taglio sulle mani da cui è uscito del
sangue che, appunto, ha contaminato le foto e i negativi. Ma anche se
avesse contaminato i negativi e le foto, i virus poi muoiono! Già, ma
alcuni potrebbero essere sopravvissuti, in fondo è una questione
statistica, non posso essere certa che tutti, proprio tutti, siano morti
dunque non posso escludere che alcuni siano sopravvissuti. I negativi e
le foto potrebbero essere stati contaminati ed essere rimasti con virus
vitali sopra quando sono stati presi in consegna da un tipografo il quale
si può essere contaminato a sua volta. Anche in questo caso mi sembra
assurdo ma in effetti non posso mica essere sicura che tutti i virus
siano morti o che il fotografo in qualche modo non si sia contagiato.
Quindi il tipografo potrebbe essersi contaminato o contagiato a sua
volta. Se così fosse allora non si potrebbe escludere che possa aver
contaminato la rotativa e perciò anche le copie del giornale, fra le quali
la copia che ora ho in mano. Toccandola posso essermi contaminata io
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stessa e avere dei virus sulle mie mani o addirittura potrei essermi
contagiata. Del resto chi mi dice con certezza che non è così? Riconosco
che è improbabile anche implausibile, forse proprio assurdo, ma
è
proprio del tutto impossibile?”
A partire da questo resoconto abbiamo identificato e descritto i passi
del ragionamento di Maria, dandone una sorta di ricetta. Maria dopo
aver valutato il tocco del giornale, con la foto, contaminante, in modo
del tutto intuitivo e impressivo (“Oddio, toccare questa foto mi fa
impressione, come se stessi toccando davvero il malato …”) attiva una
sensazione emotiva di disgusto e paura che le suggerisce l’ipotesi di un
contagio e da il via al ragionamento, che prevede i seguenti passaggi:
1. la focalizzazione dell’ipotesi di pericolo, nonostante, spesso, sia
implausibile per lo stesso paziente, almeno inizialmente. “… e se mi
fossi contagiata?”. A essa segue,
2. un commento critico alla ipotesi di contagio: “No, ma che sto
pensando! È assurdo!”.
3. Una valutazione in termini di insufficienza della forza critica del
commento rassicurante, per il ricorso a standard molto elevati: “ Però
come posso esserne così sicura?! “.
Per escludere ogni possibilità di pericolo e dunque di contagio, Maria
cerca di immaginare nuove possibilità di pericolo al fine di escluderle
una a una. Il ragionamento riparte quindi dal primo passaggio con:
1bis. La focalizzazione di una nuova possibilità di pericolo: “Il fotografo è
stato vicino a RH, infatti la foto è un primo piano”, e continua con
gli step successivi:
2bis. La ricerca della falsificazione dell’ipotesi di pericolo: “Si ma l’AIDS
mica si contagia con la vicinanza, ci deve essere un contatto
intimo“.
3bis. La valutazione in termini di insufficienza della forza critica del
commento rassicurante: “Già, ma io che ne so che non c’è stato un
contatto intimo?”.
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Il ragionamento prosegue tornando ricorsivamente sugli stessi
passaggi:
1tris. Si focalizza una nuova possibilità di pericolo: “Il fotografo stesso
poteva essere omosessuale”
2tris. Se ne cerca di nuovo la falsificazione: “In effetti sembra
improbabile che ci sia stata della intimità in una stanza d’ospedale
e con un malato grave”.
3tris. Si valuta insufficiente la forza critica del commento rassicurante:
“ma non c’ero lì e come posso escluderlo dunque?”
E così via …
Sembra che la paziente cerchi di immaginare ogni possibilità di
contagio e poi cerchi di falsificarle una per una, tutte, ma è disposta a
rigettare l’ipotesi di pericolo solo a condizione che ne sia certa la
impossibilità. In breve, sembra voler dimostrare, al di là di ogni
ragionevole dubbio, che il pericolo non sussiste. Il risultato paradossale,
però, è che partendo da una credenza soggettivamente implausibile la
paziente finisce col vedere un numero sempre più alto di possibilità di
pericolo e dunque le è sempre più difficile abbandonarla e sempre più
naturale darle credito.
Il ragionamento tipo Maria è caratteristico del disturbo ossessivocompulsivo
Successivamente ci siamo chiesti se effettivamente i passi da noi
identificati, studiando il ragionamento di Maria, possano generare
ragionamenti tipici degli ossessivi. In una ricerca, presentata nello
stesso lavoro sopra citato (Johnson-Laird, Mancini, & Gangemi, 2006),
abbiamo dimostrato che effettivamente il ragionamento di Maria è
caratteristico degli ossessivi nel senso che è una condizione sufficiente
affinché i clinici pongano diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo. In
particolare, abbiamo dimostrato che, seguendo la ricetta, si producono
ragionamenti che gli psichiatri, con grande facilità, riconoscono come
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tipici del DOC e ciò indipendentemente dal contenuto. Ragionamenti
formalmente simili a quello tipo Maria ma con ipotesi di pericolo
tipicamente
ipocondriache,
paranoiche,
tipo
disturbo
d’ansia
generalizzato (GAD) o fobie specifiche sono diagnosticati come DOC
(83% dei trials). Al contrario, non vengono diagnosticati come DOC, ma
come altri disturbi d’ansia (97% dei trials), di solito GAD, ragionamenti
esclusivamente confirmatori (tipo Better Safe than Sorry) (vedi: Smeets,
de Jong, & Mayer, 2000; De Jong, Haenen, Schmidt, & Mayer, 1998;
Mancini & Gangemi, 2004a; Mancini & Gangemi, 2006), cioè orientati
solo verso la ricerca di esempi capaci di confermare l’ipotesi di pericolo,
laddove il pericolo paventato è tipicamente ossessivo. È interessante
notare che gli psichiatri che hanno partecipato alla ricerca non avevano
alcuna conoscenza del modello cognitivista del DOC. Gli psichiatri non
sono stati inoltre in grado di esplicitare ciò che ai loro occhi rendeva
diversi i ragionamenti ossessivi dagli altri.
Vediamo due esempi. Il primo ha un contenuto non ossessivo, ma
paranoico. Il secondo ha invece un contenuto tipicamente ossessivo. Per
entrambi i contenuti si hanno due versioni, in una il ragionamento è
costruito seguendo la ricetta del ragionamento tipo Maria, e, nell’altra,
seguendo invece i passi tipici di un ragionamento esclusivamente
confirmatorio tipo Better Safe than Sorry.
Contenuto non ossessivo paranoico, ragionamento confirmatorio
“Appena sono entrato in aula ho visto gli studenti che parlottavano fra
loro, tra i loro bisbigli quasi impercettibili ho sentito la parola finocchio.
Hai visto come ridacchiavano ieri alla lezione e in corridoio mentre
passavo! Uno di loro poi l’altro giorno, era seduto in prima fila proprio
davanti a me, stavo per iniziare la lezione, e lui si è rivolto al compagno
accanto parlando con voce effeminata. Si sa che gli studenti sono crudeli
verso gli insegnanti e amano divertirsi alle loro spalle, mi ricordo che
quando ero al liceo c’era un professore, probabilmente omosessuale, e i
miei compagni ed io stesso ci siamo divertiti per anni alle sue spalle, lo
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sfottevamo e mi ricordo come lo deridevano i miei compagni appena lui
girava le spalle.
Certo che mi sfottono!”
Contenuto non ossessivo paranoico, ragionamento tipo Maria
“E se i miei studenti mi sfottono? Certo non ho prove però magari mi
sfottono dietro le spalle senza che io me ne accorga. Ma che ragione
dovrebbero avere di perdere il loro tempo con me? Si ma succede che gli
studenti siano crudeli verso gli insegnanti e amino divertirsi alle loro
spalle, mi ricordo che quando ero al liceo c’era un professore,
probabilmente omosessuale, e i miei compagni e io stesso ci siamo
divertiti per anni alle sue spalle, lo sfottevamo e mi ricordo come lo
deridevano i miei compagni appena lui girava le spalle. Si ma me ne sarei
accorto! In effetti però l’altra settimana ne ho visto un gruppetto che
ridacchiava fra loro mentre stavo entrando in aula. Ma potevano
ridacchiare per tante altre ragioni, magari per una barzelletta. Ma mica
posso esserne sicuro, in effetti che ragioni ho per escludere questa
possibilità, può essere che non mi stessero sfottendo quella volta ma
possono averlo fatto senza che io me ne accorgessi, quando ero distratto e
sovrapensiero o forse adesso semplicemente non ricordo bene”.
Contenuto ossessivo, ragionamento confirmatorio
“Sono appena uscito di casa e mi viene in mente che potrei aver
lasciato il gas aperto, come mi è già successo un’altra volta e come è
successo a quella famiglia di Foligno che ho visto ieri sera al telegiornale,
a me l’altra volta non è successo nulla ma a loro gli è scoppiata la casa.
Poveretti sono finiti in un ospizio di beneficenza! Un mese fa poi l’uomo
che viene a controllare il contatore si è pure tanto raccomandato di fare
attenzione perché diceva che in questo periodo, non ho capito per quale
ragione tecnica, la società del gas manda un gas che è particolarmente
infiammabile e privo di odore, così è anche possibile che i vicini non si
accorgono di una eventuale perdita. Ma sì, dai, è meglio tornare a
controllare tanto sono in anticipo e poi approfitto e prendo pure l’ombrello
che sta cominciando a piovere”.
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Contenuto ossessivo, ragionamento tipo Maria
“Sono appena uscito di casa e mi viene in mente che potrei aver
lasciato il gas aperto. Mi ricordo di averlo chiuso e di averlo controllato
ma non ne sono del tutto sicuro, e se mi stessi confondendo con il
controllo che ho fatto l’altro giorno? Il gas potrebbe uscire! Lo so che
esistono le valvole di sicurezza ma non sono mica sicure al 100% e poi
basta una piccola scintilla per far scoppiare tutto. Si è vero che penso di
rientrare fra 20 minuti ma potrebbero essere sufficienti per uno scoppio.
E se scoppia la mia casa potrebbe essere distrutto anche l’intero palazzo
e anche quelli intorno, potrebbero morire decine di persone. Certo le
catastrofi sono rare ma questa è possibile. Meglio tornare a controllare,
anche se arriverò in ritardo a questo appuntamento e quasi certamente
perderò un’occasione di lavoro d’oro, ma non posso mica correre il rischio
di aver fatto scoppiare il gas!”.
Scopi e credenze alla base dell’attività ossessivo-compulsiva
Con un secondo gruppo di ricerche abbiamo poi cercato di rispondere
alla domanda: perché gli ossessivi ragionano in questo modo? Più
precisamente ci siamo posti la questione: quali scopi e quali credenze
debbono essere attive affinché si abbia un ragionamento come quello
tipo Maria?
Prima di rispondere a questa domanda occorre però fare una
premessa. Una vasta letteratura dimostra che il ragionamento è in
generale
uno
strumento
al
servizio
degli
scopi
e
dei
bisogni
dell’individuo e non dell’accuratezza o della verità (si veda Friederich,
1993; Trope & Lieberman, 1996), come vorrebbero invece le teorie
normative del ragionamento, quali la logica mentale o la teoria della
massima utilità attesa.
A prima vista si potrebbe ipotizzare che Maria ragiona in questo
modo, perché teme il contagio dell’AIDS e che quindi il ragionamento
tipo Maria sia finalizzato a prevenire, neutralizzare e contrastare la
minaccia. In effetti, l’ipotesi di pericolo è focalizzata, ma, in questo caso,
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dovremmo avere un ragionamento prudenziale, confirmatorio del tipo
Better Safe than Sorry (cfr. Smeets, de Jong, & Mayer, 2000; de Jong,
Haenen, Schmidt, & Mayer, 1998; Mancini & Gangemi, 2004a; Mancini
& Gangemi, 2006) e dunque la ricerca di conferme dell’ipotesi di
pericolo e, semmai, della falsificazione della ipotesi di sicurezza, ma non
certo il tentativo di falsificazione della ipotesi di pericolo. Quale
prudenza, infatti, potrebbe nascondersi dietro il tentativo di rigettare
l’ipotesi di pericolo? Chi, per una qualsiasi ragione teme una minaccia
non si espone al rischio di rigettare erroneamente una ipotesi di
pericolo. L’anticipazione di un pericolo, se c’è lo scopo di prevenirlo o
neutralizzarlo, implica un ragionamento esclusivamente confirmatorio,
decisamente differente dunque da quello tipo Maria, caratterizzato
invece da tentativi di falsificazione dell’ipotesi di pericolo. Alla base del
ragionamento tipo Maria non vi può essere quindi il semplice timore del
contagio.
In secondo luogo si potrebbe ipotizzare che Maria abbia lo scopo di
tranquillizzarsi, e dunque di neutralizzare l’impressione del pericolo, ad
esempio perché teme di investire ingiustificatamente nella prevenzione
di un pericolo implausibile e dunque di esporsi a sacrifici e privazioni
inutili (“non posso mica rovinarmi la vita per un’idea così assurda!”). Se
fosse attivo un siffatto scopo allora dovremmo osservare un Wishful
Thinking: Maria dovrebbe ricercare la falsificazione dell’ipotesi di
pericolo ma, allora, perché dopo aver trovato la falsificazione dell’ipotesi
di pericolo Maria si chiede se può essere sicura della falsificazione
raggiunta e, spesso, rispondendosi negativamente, cerca e trova nuove
possibilità di pericolo?
In entrambi i casi non si spiega l’alternanza degli argomenti a favore e
contro l’ipotesi negativa che caratterizza il ragionamento tipo Maria.
Per rendere conto di questa alternanza propria di questo tipo di
ragionamento si potrebbe ipotizzare la presenza sia del timore del
contagio, e dunque dello scopo prudenziale di evitare errori di omissione
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della ipotesi di pericolo, sia dello scopo, inverso, di tranquillizzarsi, e
dunque
dello
scopo
di
evitare
errori
di
omissione
dell’ipotesi
rassicurante.
Si potrebbe quindi supporre che il ragionamento tipo Maria sia
semplicemente un ragionamento dialettico, simile a quello di un giudice
che considera alternativamente e sistematicamente la possibilità che
l’imputato sia colpevole e che sia innocente, guidato tanto dal timore di
condannare un innocente quanto dal timore inverso di assolvere un
colpevole. Per minimizzare il rischio di entrambi gli errori si impegna in
un ragionamento dialettico che sarà tanto più accurato e che tenderà
alla certezza tanto più quanto più i due timori saranno elevati e
similmente intensi. Si potrebbe oltretutto sospettare che anche i
pazienti
con
altre
diagnosi,
messi
nelle
condizioni
di
riflettere
criticamente sui propri timori, produrrebbero lo stesso tipo di
ragionamento, e sostenere che, molto semplicemente, i pazienti
ossessivi indulgono più di altri pazienti con disturbi d’ansia, in
ragionamenti dialettici. In una ricerca (Mancini, Serrani, & Gangemi,
2007) abbiamo però dimostrato che così non è. I pazienti ansiosi ma
non ossessivi, spinti a ragionare dialetticamente sui propri timori, con
la tecnica delle due seggiole (la tecnica consiste semplicemente nel
chiedere al paziente di sedersi su una seggiola e argomentare a favore
dell’idea di pericolo e poi di sedersi su una altra seggiola e argomentare
contro l’idea di pericolo), usano una dialettica diversa da quella tipo
Maria. Costruiscono, infatti, un modello mentale sia della ipotesi di
pericolo sia di quella di sicurezza, pesano in modo analogo le prove a
favore della tesi e della antitesi e non si preoccupano, in modo
sbilanciato, di escludere con certezza la sola possibilità del pericolo.
Inoltre, tendono, nei giorni successivi, sull’onda della riflessione
dialettica, a modificare le proprie credenze di pericolo, e, infine, le
credenze di pericolo non sono soggettivamente implausibili.
Vediamo un esempio:
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T: Bene, ora siediti sulla seggiola B e prova a dirmi le ragioni che
sostengono invece possibilità non catastrofiche, cioè che gli altri,
vedendoti arrivare, non pensino di te che sei una ridicola.
P: (seggiola B) Allora, potrebbero pensare che comunque sono una
persona che si veste sempre con semplicità, che si veste come gli viene in
mente, che non segue le mode, potranno cioè pensare che è un valore il
fatto che uno non segue le mode. Poi diranno che sono una persona
coraggiosa perché “anche se non sa guidare la macchina però è venuta
su al buio per le salite”, potrebbero vedere cioè la cosa come un segno di
determinazione. Poi, penseranno che in fondo sono una persona che si è
data da fare perché ha costruito con i suoi guadagni quel poco che ha,
quella macchina “scaleccia” che ha. Poi, potrebbero dire che è andata sì
dalla psichiatra, però è una persona coraggiosa perché ha superato
anche queste prove. Sì, che non ha una grande rilevanza sociale però
vive onestamente, ha anche degli impegni, che è fissata a difendere le
rovine archeologiche…………che vivo non proprio da parassita, da
mollusco…………..no non sono proprio un mollusco!
Abbiamo quindi concluso che il ragionamento tipo Maria, per queste
ragioni, non è un ragionamento dialettico. Non è infatti diagnostico, in
quanto non presuppone una rappresentazione ricca e articolata sia dell’
ipotesi di pericolo, sia di quella di sicurezza. Maria ha al contrario una
rappresentazione ricca e articolata soltanto della possibilità del pericolo.
In secondo luogo il ragionamento di Maria è fortemente asimmetrico nel
senso che usa standard molto elevati solo quando si tratta di valutare le
falsificazioni della ipotesi di pericolo. Maria è disposta a rigettare
l’ipotesi di pericolo solo a condizione che sia dimostrata impossibile.
Mentre per rigettare l’ipotesi di sicurezza le basta molto meno, è
sufficiente
un
controesempio.
Il
ragionamento
dialettico
presupporrebbe, al contrario, il ricorso a standard, che possono essere
più o meno elevati, ma sostanzialmente simmetrici. Infine, nel
ragionamento tipo Maria, almeno inizialmente, troviamo che l’ipotesi di
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pericolo è soggettivamente implausibile. Nel ragionamento dialettico,
invece, entrambe le ipotesi sono plausibili.
In definitiva sembra che Maria sia orientata esclusivamente o
prevalentemente verso il pericolo, prenda in considerazione tutte le
possibilità di pericolo, anche quelle per lei implausibili, e cerchi di
dimostrale tutte false ma con certezza assoluta. Possiamo quindi
concludere che il ragionamento tipo Maria, per queste ragioni, è un
ragionamento che da ora in poi definiremo semi-dialettico.
Il timore di colpa per irresponsabilità
La domanda a questo punto è: perché Maria ricorre ad un
ragionamento semi-dialettico?
La nostra ipotesi è che il vero timore di Maria non sia il contagio
quanto, piuttosto, l’essere responsabile di essersi contagiata. Maria
teme di doversi accusare domani di non aver previsto/prevenuto il
contagio, oggi. Il fulcro del problema ossessivo di Maria non riguarda la
salvaguardia della propria salute ma, piuttosto, è un problema morale,
evitare una accusa meritata di colpa. Un aneddoto illustra il punto.
Maria un giorno dovette cambiar casa. Si affidò, per il trasloco, a una
ditta che le fece trovare tutti gli oggetti della vecchia casa nella nuova.
Quando Maria mise piede nel nuovo appartamento, fu assalita dal
panico. Tutto, ma proprio tutto, mobili, vestiti, suppellettili, utensili da
cucina, biancheria era stato toccato dai trasportatori. Tutto, dunque,
poteva essere stato contaminato ed essere a sua volta fonte di contagio.
Nell'arco di pochi istanti (molti di meno di quelli normalmente richiesti
dalla naturale estinzione della risposta d'ansia) realizzò che la possibile
diffusione
della
praticamente
contaminazione
inutile
decontaminazione.
A
e
era
talmente
superfluo
seguito
di
questa
vasta
qualunque
da
rendere
tentativo
considerazione
Maria
di
si
tranquillizzò completamente. Se si ritiene che la sua ansia fosse
collegata alla previsione di contrarre l’AIDS allora la rassicurazione di
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Maria appare paradossale, infatti, la scoperta d’essere impotente di
fronte a una minaccia avrebbe dovuto tradursi in un aumento dell’ansia
non nella sua scomparsa. Il paradosso si risolve se si assume che la
vera ragione dell’ansia di Maria non fosse il contagio dell’AIDS ma
piuttosto la responsabilità di evitare il contagio. Nel momento in cui si
rese conto che la possibilità del contagio non dipendeva da lei, allora
non se ne sentì più responsabile e dunque l’ansia scomparve,
nonostante si percepisse più esposta al pericolo. Il problema di Maria
non era tanto il contagio in sé, quanto, piuttosto, il timore di essere
imputabile di non aver prevenuto il contagio, di doversi incolpare
domani per essere stata sbadatamente imprudente oggi.
Ma come si arriva dal timore di essere accusato al ragionamento di
Maria?
- Maria focalizza l’ipotesi di pericolo perché teme di essere accusata di
aver determinato il pericolo stesso.
- Cerca la falsificazione dell’ipotesi di pericolo perché vuole difendersi
dall’accusa e dunque vuole contestarla.
- Usa standard molto elevati per valutare la portata della falsificazione
perché ritiene, by default, che il giudizio sarà severo, nel senso che
terrà conto solo della possibilità che lei sia colpevole e non che sia
innocente.
- L’imputazione è implausibile per Maria, ma Maria non ritiene
implausibile di poter essere accusata di essersi causata l’AIDS per
sbadataggine.
Maria, quindi, per difendersi da possibili imputazioni e sottrarsi al
rischio di essere oggetto di espressioni aggressive, critiche e sprezzanti,
esamina tutte le possibilità di pericolo, cerca di dimostrarle tutte false,
con certezza assoluta, cioè al di là di ogni ragionevole dubbio. Esistono
pertanto due vincoli che rendono ragione della persistenza del
ragionamento e della difficoltà a rigettare ipotesi di pericolo implausibili:
da una parte infatti per Maria è inaccettabile ammettere di aver corso il
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rischio di contagiarsi, e dall’altra cerca di dimostrare, al di là di ogni
ragionevole dubbio, che qualunque possibilità di contagio sia del tutto
impossibile.
Evidenze a favore dell’ipotesi che gli ossessivi focalizzano le ipotesi
di pericolo per evitare una colpa per irresponsabilità
Che prove abbiamo che lo scopo alla base del ragionamento ossessivo
sia quello di sottrarsi all’accusa di aver determinato il pericolo e dunque
alla colpa di averlo causato?
Con un terzo gruppo di ricerche abbiamo cercato di rispondere a
questa domanda. In particolare, con una prima indagine clinica, ci
siamo proposti di identificare gli scopi perseguiti con l’attività ossessiva
da un gruppo di pazienti giunto alla nostra osservazione (Mancini,
Perdighe, Serrani, & Gangemi, 2009). Tale indagine ci ha consentito di
dimostrare che i pazienti ossessivi valutano gli eventi attivanti come
principalmente minacciosi per lo scopo di prevenire delle colpe e per lo
scopo di prevenire la contaminazione da sostanze disgustose. La stretta
relazione psicologica che esiste fra colpa e disgusto è intuitiva, spesso il
lessico della colpa e quello del disgusto coincidono, ed è stata indagata
sperimentalmente da Zhong e Liljenquist (2006), i quali hanno
dimostrato quello che hanno denominato effetto Lady Macbeth:
contaminazione morale e contaminazione corporea vanno a braccetto
tanto che lavarsi implica una riduzione del senso di colpa.
Una serie di studi suggerisce inoltre che i pazienti ossessivi siano
particolarmente sensibili ad accuse e a critiche sprezzanti che
potrebbero far seguito a loro colpe o mancanze. Ad esempio, Ehntholt,
Salkovskis e Rimes (1999) hanno dimostrato che i pazienti con disturbo
ossessivo compulsivo, molto più dei pazienti con altri disturbi d’ansia e
di soggetti di controllo non ansiosi, riferiscono il timore che gli altri
possano considerarli in modo completamente negativo e, in particolare,
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che possano provare disgusto e disprezzo nei loro confronti, qualora
fossero responsabili di danni o di problemi.
Con una seconda ricerca abbiamo quindi dimostrato che gli ossessivi
sono effettivamente molto sensibili alle accuse e alle critiche sprezzanti
che possono seguire a possibili colpe (Mancini, Perdighe, Serrani, &
Gangemi, 2006). In particolare, in questa ricerca abbiamo verificato che
i pazienti ossessivi, rispetto a pazienti con altri disturbi d’ansia: 1)
tendono a percepire come più avversive le espressioni di rabbia,
disgusto e disprezzo se le immaginano dirette verso di se, 2) tendono a
immaginare che se si verificasse ciò che ossessivamente temono allora
sarebbero esposti a una siffatta espressione, 3) ricordano di essere stati
esposti a una tale espressione nel passato più spesso degli altri
pazienti, e 4) tendono a interpretare come sprezzanti le espressioni
neutre o che manifestano altre emozioni.
Riteniamo dunque che Maria ricorra al ragionamento ossessivo,
perché focalizza l’ipotesi di pericolo, in quanto teme di essere accusata
di aver determinato il pericolo stesso. Cerca la falsificazione dell’ipotesi
di pericolo perché vuole difendersi dall’accusa e dunque vuole
contestarla. Usa standard molto elevati per valutare la portata della
falsificazione perché ritiene, by default, che il giudizio sarà severo, nel
senso che terrà conto solo della possibilità che lei sia colpevole e non
che sia innocente. L’imputazione è implausibile per Maria, ma Maria
non ritiene implausibile di poter essere accusata di essersi causata
l’AIDS per sbadataggine.
In sintesi, Maria, per difendersi da possibili imputazioni e sottrarsi
quindi al rischio di essere oggetto di espressioni aggressive e critiche
sprezzanti, esamina tutte le possibilità di pericolo, e cerca di
dimostrarle tutte false, con certezza assoluta, cioè al di là di ogni
ragionevole dubbio.
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L’influenza del timore di colpa per irresponsabilità sui processi
cognitivi
In linea con parte della letteratura cognitivista (ad esempio: Mancini
& Gangemi, 2004b; Niler & Beck, 1989; Rachman, 1993; van Oppen &
Arntz, 1994), la nostra ipotesi è dunque che lo stato mentale
dell’ossessivo sia caratterizzato dal timore di colpa per irresponsabilità.
Tale tesi è però in contrasto con un’altra parte significativa della
letteratura cognitivista, in particolare con studiosi quali Salkovskis,
secondo cui la mente dell’ossessivo è invece caratterizzata da uno
spiccato senso di responsabilità (inflated responsibility). Ai nostri occhi,
infatti, l’ipotesi di Salkovskis è poco convincente. Ad esempio, se come
sostiene Salkovskis, gli ossessivi ritengono di avere il potere cruciale di
prevenire un esito negativo di cui si sentono responsabili, allora non si
spiega perché si sentano tanto minacciati dalla possibilità di eventi
negativi. Per questa e altre ragioni abbiamo dimostrato, ricorrendo a un
piano argomentativo razionale e non empirico, che lo stato mentale del
paziente ossessivo deve essere di timore di colpa (Mancini & Gangemi,
2004b). Abbiamo poi dimostrato con un esperimento che, inducendo in
soggetti
tratti
dalla
popolazione
generale,
un
elevato
senso
di
responsabilità relativo all’esito di un compito, tali soggetti eseguivano il
compito in modo “ossessivo” e, soprattutto, abbiamo dimostrato che tale
effetto era significativamente maggiore se si induceva il timore di colpa
per irresponsabilità. (Mancini, D'Olimpio, & Cieri, 2004).
Il passo successivo è consistito in una serie di esperimenti tesi a
studiare il modo in cui il timore di colpa per irresponsabilità influenza i
processi cognitivi. La nostra ipotesi era che per evitare di essere
accusati di aver agito colpevolmente gli ossessivi focalizzano le ipotesi di
pericolo e, soprattutto, di colpevolezza. In particolare, con una prima
serie di sperimentali, abbiamo indagato specificamente in che modo la
manipolazione del timore di colpa influenzi i processi cognitivi superiori
quali la modalità di controllo delle ipotesi, il ragionamento decisionale, e
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il ragionamento emozionale. Queste ricerche hanno portato a dei
risultati
interessanti
anche
per
la
psicologia
generale
e,
specificatamente, per il problema del rapporto tra processi cognitivi,
motivazioni e emozioni ma anche per la psicologia clinica, e non solo per
i pazienti DOC. Infatti, come si vedrà, l’influenza del timore di colpa sui
processi cognitivi è tale da confermare e rafforzare, in un circolo vizioso,
le credenze che sostengono il senso di colpa e quindi da implicarne una
particolare resistenza al cambiamento.
In particolare, con alcuni studi abbiamo dimostrato che l’induzione di
un forte timore di colpa influenza, in soggetti non clinici, le modalità di
controllo delle ipotesi, in un modo peculiare, definito prudenziale
(Gangemi, Balbo, Bocchi, Carriero, Filippi, Lelli, Mansutti, Mariconti,
Moscardini, Olivieri, Re, Setti, Soldani, & Mancini, 2003; Mancini &
Gangemi, 2004a, 2004b). Nel modo prudenziale i soggetti focalizzano
l’ipotesi peggiore o di pericolo; ricercano la conferma dell’ipotesi peggiore
e la disconferma dell’ipotesi più favorevole; in caso di disconferma
dell’ipotesi peggiore continuano il processo di controllo, vale a dire che
richiedono molte più prove per rigettare l’ipotesi peggiore che per
mantenerla e questo probabilmente perché temono più l’errore di
omissione delle credenze peggiori che l’errore di commissione.
L’emozione di colpa può funzionare anche da informazione rilevante
nella valutazione della minaccia (ragionamento emozionale) (Gangemi,
Mancini, & van den Hout, 2007). Se ci si sente in colpa, infatti, si tende
a sovrastimare la probabilità e la gravità attribuita ad eventi della cui
prevenzione ci si sente responsabili. Questo effetto è evidente in soggetti
con alta colpa di tratto ed è verosimilmente mediato dal fatto che il
senso di colpa di stato venga appunto utilizzato quale informazione
sulla realtà esterna. “Se mi sento in colpa allora si verificherà l’evento
che sono tenuto a prevenire”. Ne consegue che saranno privilegiate
decisioni
che
imprudenza.
riducono
la
possibilità
di
commettere
peccati
di
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Ancora, il senso di colpa orienta verso scelte certe o rischiose a
seconda di quale delle opzioni è più in grado di ristabilire la giustizia
(Gangemi, Bussolon, Rossi, Ruozzi, Tomba, & Mancini, 2010). Anche in
questo caso, il risultato finale è che il senso di colpa implica preferenza
per scelte che sono più consone al desiderio di moralità.
Inoltre, abbiamo dimostrato che se a soggetti tratti dalla popolazione
generale, veniva indotto uno stato emozionale di colpa, allora questi
soggetti: 1) focalizzavano l’ipotesi di pericolo, anche se implicita, e cioè
scarsamente o per nulla suggerita dal problema decisionale loro
presentato, 2) trascuravano del tutto l’ipotesi di sicurezza ben
esplicitata nel problema, e 3) decidevano sulla base della ipotesi di
pericolo implicita focalizzata (Gangemi & Mancini, 2007). Al contrario, i
soggetti in cui era stato indotto uno stato emozionale di rabbia o
nessuno stato emozionale, in accordo con il focussing effect (Jones,
Frisch, Yurak, & Kim, 1998; Legrenzi, Girotto, & Johnson-Laird, 1993)
focalizzavano l’ipotesi resa esplicita dalla formulazione del problema, e
trascuravano quasi del tutto quelle implicite, prendendo poi decisioni
sulla base dell’ipotesi esplicita.
Infine, con una ricerca, svolta sempre in collaborazione con JohnsonLaird (Johnson-Laird, Mancini, & Gangemi, 2006), abbiamo dimostrato
che i soggetti con una forte attitudine a esperire ossessioni e
compulsioni, se posti di fronte ad una storia con contenuto di colpa,
diventano più bravi degli altri gruppi a inferire a) le possibilità in cui
erano colpevoli, e b) le impossibilità in cui erano invece innocenti.
Questi risultati ci hanno peraltro consentito di concludere che le
inferenze dei soggetti con una propensione a sviluppare un disturbo
ossessivo-compulsivo sono razionali e, come risultato di prolungate
ruminazioni, gli stessi soggetti diventano ragionatori esperti nei loro
domini sintomatici. Tale effetto scompare infatti se gli stessi soggetti
ragionano con contenuti neutri o rilevanti per altre patologie. Questo
stesso risultato lo abbiamo inoltre ottenuto in una recentissima ricerca
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sul ragionamento sillogistico, svolta sempre in collaborazione con
Johnson-Laird, ma con soggetti depressi con contenuti depressivi e con
soggetti fobici con contenuti fobico (Gangemi, Mancini, & JohnsonLaird, 2010). Abbiamo dimostrato che entrambi i gruppi di pazienti
ragionano in modo formalmente più corretto dei soggetti senza disturbi,
ma solo nei loro domini sintomatici.
Il senso di colpa deontologico e il senso di colpa altruistico
Ma quale colpa temono gli ossessivi? In linea con una vasta
letteratura (cfr. Lopatcka & Rachman, 1995; Shafran, 1997) sembra
infatti possibile affermare che si preoccupino più di non aver commesso
errori
colpevoli
e
di
non
meritare
accuse,
piuttosto
che
delle
conseguenze dell’errore sugli altri, e quindi della sofferenza degli altri.
Questa osservazione clinica suggerisce l’esistenza in tutte le persone di
due sensi di colpa diversi: il senso di colpa deontologico e il senso di
colpa altruistico (Mancini, 2008), sebbene essi siano abitualmente
compresenti
nella
maggior
parte
delle
colpe
che
le
persone
sperimentano nella loro vita quotidiana. Il senso di colpa deontologico,
dipende dal riconoscimento di aver trasgredito una norma morale, o di
aver interferito con l’ordine naturale. Provoca un senso di indegnità e
un dialogo interno del tipo “Come ho potuto fare una roba del genere!?”.
Lo si prova anche se non si è danneggiato o offeso nessun’altra persona,
come ad esempio nel caso dei peccati religiosi o di tipo sessuale, o dei
peccati legati alla manipolazione arbitraria della natura (ad esempio
l’eutanasia). Il freno morale che si percepisce in questo caso è il
risultato di una norma deontologia intuitiva “not play God” (Sunstein,
2005). Nella colpa deontologica può dunque non esservi una vittima
(vedi incesto consenziente tra fratelli adulti e al sicuro da rischi di
procreazione) e lo scopo dell’azione può addirittura essere a favore della
vittima
(vedi
eutanasia).
L’aspetto
fondamentale
è rappresentato
dall’assunzione di aver violato una norma morale intuitiva. Il senso di
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colpa altruistico dipende invece dal non aver tenuto conto della
sofferenza altrui, dal non aver condiviso le proprie fortune con chi è più
sfortunato, o dal non aver partecipato alle sofferenze degli altri. Deriva
in altre parole dalla convinzione di non aver agito in modo altruistico. È
caratterizzato da dolore per la vittima, e il dialogo interno è del tipo
“Poveretto! Quanto soffre! Cosa potrei fare per aiutarlo?!”. Nella colpa
altruistica è quindi sempre presente una vittima che soffre, ma può non
esservi la violazione di norme morali.
Tre ricerche hanno contribuito a dimostrare l’esistenza distinta dei
due sensi di colpa. In una prima ricerca (Basile & Mancini, in
preparazione) è stato dimostrato che è possibile attivare separatamente
i due sensi di colpa esponendo i soggetti a espressioni facciali diverse,
(ad esempio, di rabbia o tristezza, prese dal repertorio di Ekman, 1996),
e a frasi tipiche connesse ai due tipi di colpa, che rinforzavano le
immagini
Macaluso,
presentate.
Caltagirone,
In
una
seconda
Frackowiack,
&
ricerca
Bozzali,
(Basile,
2011)
Mancini,
è
stato
dimostrato che all’attivazione dei due sensi di colpa corrisponde
l’attivazione di diversi circuiti neurali. In particolare, il senso di colpa
deontologico è sotteso dall’attivazione dell’insula, che notoriamente
media anche l’esperienza del disgusto, mentre il senso di colpa
altruistico è sotteso dalla attivazione delle aree cerebrali normalmente
coinvolte in compiti di teoria della mente (ad esempio, le aree del solco
temporale superiore della corteccia prefrontale mediana).
Ancora, in una terza ricerca (Mancini & Gangemi, 2010a) si è
dimostrato che il senso di colpa deontologico implica effettivamente il
rispetto del principio morale Not play God. In questo studio abbiamo
utilizzato i dilemmi del vagoncino (o dilemmi del trolley), spesso
impiegati per indagare le valutazioni morali. Immaginiamo che un
vagoncino proceda a tutta birra fuori controllo, ci rendiamo conto che se
esso procede nella sua corsa allora inevitabilmente ucciderà cinque
operai che lavorano sui binari più avanti. Abbiamo però la possibilità di
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deviare il vagoncino muovendo uno scambio. In questo modo esso
imboccherebbe un altro binario dove vi è un masso che può senz’altro
fermare il vagoncino. Appoggiato al masso vi è però una persona
addormentata che certamente verrà uccisa nello scontro tra il vagoncino
ed il masso. Riteniamo moralmente permesso azionare lo scambio e
deviare il vagoncino? (scelta consequenzialista). O preferiamo che il
vagoncino proceda nella sua corsa? (scelta omissiva). Ricorrendo a
simili dilemmi, abbiamo visto che l’induzione del senso di colpa
deontologico spinge i soggetti a preferire le scelte omissive, cioè le scelte
che non comportano una interferenza con il corso naturale degli eventi,
nel rispetto del principio Not play God. L’induzione del senso di colpa
altruistico spinge invece i soggetti a preferire le scelte consequenzialiste,
cioè le scelte che minimizzano il numero delle vittime o il danno, nel
rispetto del principio della minimizzazione della sofferenza altrui.
Una volta dimostrata l’esistenza dei due sensi di colpa, che prove
abbiamo del fatto che i pazienti ossessivi siano effettivamente più
sensibili alla colpa deontologica, piuttosto che alla colpa altruistica?
Evidenze a favore di tale tesi arrivano da un recentissimo studio
condotto con due gruppi di pazienti (con DOC vs. con altri disturbi
d’ansia) e un gruppo di soggetti normali, (Mancini & Gangemi, in
preparazione). In questo studio, utilizzando nuovamente i dilemmi
morali, abbiamo dimostrato che i pazienti ossessivi, rispetto agli altri
pazienti e ai soggetti non clinici, risolvono i dilemmi morali preferendo le
scelte omissive, e dunque le scelte che implicano il rispetto del principio
deontologico Not play God, piuttosto che le scelte consequenzialiste, che
implicano invece il rispetto del principio altruistico della minimizzazione
del numero delle vittime.
Conclusioni
In generale, le ricerche svolte in questi anni e fin qui presentate ci
consentono di concludere, in primo luogo, che i pazienti ossessivi
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sviluppano una peculiare modalità di ragionamento, da noi definita
semi-dialettica. Tale ragionamento prevede che il paziente ossessivo
focalizzi
l’ipotesi
peggiore,
per
poi
procedere
cercandone
alternativamente le conferme e le disconferme. Sembra esistano due
vincoli che rendono ragione della persistenza del ragionamento e della
difficoltà che il paziente incontra nel rigettare ipotesi di pericolo,
sebbene, almeno all’inizio, appaiano a lui stesso implausibili: da una
parte infatti appare inaccettabile ammettere di essersi esposti al
pericolo, e dall’altra vi è il tentativo di dimostrarsi, al di là di ogni
ragionevole dubbio, che qualunque possibilità di pericolo sia del tutto
impossibile.
In secondo luogo, abbiamo dimostrato che questa peculiare strategia
di ragionamento dipende dallo scopo minacciato, e che in particolare,
alla base del ragionamento ossessivo, vi è lo scopo di sottrarsi all’accusa
di aver determinato il pericolo stesso e dunque alla colpa di averlo
causato.
In terzo luogo, abbiamo avvalorato l’ipotesi che la colpa temuta dagli
ossessivi sia di tipo deontologico (legata al riconoscimento di aver
trasgredito una norma morale, o di aver interferito con l’ordine
naturale), più che di tipo altruistico (dovuta, al riconoscimento di non
aver tenuto conto della sofferenza altrui, dal non aver condiviso le
proprie fortune con chi è più sfortunato, o dal non aver partecipato alle
sofferenze degli altri). In linea con una vasta letteratura sembra infatti
possibile affermare che i pazienti ossessivi si preoccupino più di non
aver commesso errori colpevoli e di non meritare accuse, piuttosto che
delle conseguenze dell’errore sugli altri, e quindi della sofferenza degli
altri.
Infine, a partire da una serie di evidenze empiriche, abbiamo mostrato
come le inferenze dei pazienti ossessivi siano razionali e, come risultato
di prolungate ruminazioni, gli stessi pazienti diventino ragionatori
esperti nei loro domini sintomatici.
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Il filone di ricerca che abbiamo sviluppato in questi anni, e del quale
abbiamo qui riportato i risultati che ci sembrano più interessanti, ha
portato dunque a un avanzamento della conoscenza in quattro
direzioni, due di interesse strettamente clinico e due di interesse
generale. Innanzitutto la comprensione del disturbo ossessivo, in
particolare degli scopi che regolano la attività ossessiva e dunque degli
stati mentali ed emotivi caratteristici dei pazienti ossessivi e del loro
modo di ragionare. In secondo luogo la dimostrazione che i pazienti, nei
domini sintomatici, compiono meno errori logici di loro stessi in alti
domini e dei non pazienti. Due risultati complessivi sono invece di
interesse per la psicologia generale, in primo luogo, la dimostrazione
della esistenza di due sensi di colpa diversi e dunque di due morali
distinte e, in secondo luogo, le influenze del senso di colpa sui processi
cognitivi.
Dal punto di vista di strategia della ricerca in psicologia clinica, la
nostra impressione è che fondare lo studio dei processi psicopatologici
sulle conoscenze di psicologia generale possa essere assai vantaggioso.
Ciò appare ancor più evidente se si considera quanto i modelli della
sofferenza psicopatologica utilizzati dagli psicoterapeuti tendano a
essere autoreferenziali. Una delle conseguenze del mancato ricorso alla
psicologia generale è che si attribuisca a meccanismi psicologici del
tutto normali e universali la capacità di essere causa di patologia. Un
esempio di realizzazione di questo rischio sono i ben noti errori cognitivi
di
Beck
(1976).
Nel
senso
comune
e
anche
nella
letteratura
specialistica, in particolare quella cognitivista clinica, è molto diffusa
infatti l’idea che alla base dei disturbi psicopatologici, o almeno di
alcuni di essi, vi siano una serie di sistematici errori cognitivi. I disturbi
d’ansia e dell’umore si caratterizzerebbero infatti per la presenza di
alcune importanti distorsioni cognitive, cioè ragionamenti erronei che si
qualificano per il fatto di discostarsi dalle teorie normative del
ragionamento e che, per questo, causano, rafforzano e mantengono le
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assunzioni
patogene,
le
stesse
che
sottendono
la
sofferenza
psicopatologica. Diversi dati suggeriscono, però, che il ragionamento nei
casi patologici non segua regole diverse da quelle che segue in
chiunque. Come dimostrato dai nostri risultati, anzi, i pazienti
ragionano in modo formalmente più corretto dei soggetti senza disturbi
psicopatologici, ma solo nei loro domini sintomatici. Ciò sembra
dipendere dal fatto che, con il tempo, i pazienti diventano esperti nel
dominio critico e di conseguenza più abili nel costruire modelli mentali
della situazione problematica.
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Abstract
In this paper we review the main research made by Scuola di Psicoterapia
Cognitiva (SPC) – Associazione di Psicologia Cognitiva (APC), aimed at a deeper
explanation of the Obsessive Compulsive Disorder, that is to identify the goals
and representations which rule obsessive behaviours and specifically the
obsessive reasoning. The results are interesting also for the comprehension
of other important problems of clinical and general psychology, such as the
nature of the sense of guilt, the influence of emotional and motivational states
on cognitive processes, the influence of guilt emotion on reasoning and the
contribution of this influence to the maintenance of the pathology, that is the
explanation of the neurotic paradox, and the relations between rationality and
psychopathology.
Keywords
Obsessive compulsive disorder, reasoning, goals, emotions, guilt
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Le disfunzioni metacognitive nei disturbi di personalità:
Una review delle ricerche del
III Centro di Psicoterapia Cognitiva
Raffaele Popolo,1 Antonio Semerari,1 Antonino Carcione,1
Donatella Fiore,1 Giuseppe Nicolò,1 Laura Conti,1 Roberto Pedone,1
Michele Procacci,1 Stefania d’Angerio1 e Giancarlo Dimaggio1
Sommario
Dagli anni ’90, il III Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma si è
impegnato nell’attività clinica e di ricerca sul trattamento di pazienti gravi e
difficili da trattare. In questo lavoro verranno analizzati alcuni tra i più
importanti lavori pubblicati dal Gruppo in questo ambito. Si tratta di ricerche
sul processo terapeutico condotte a partire dall’osservazione clinica secondo
cui la presenza di specifici malfunzionamenti metacognitivi ostacolerebbe la
costruzione della rappresentazione degli stati mentali propri e altrui; la
regolazione
della
relazione
terapeutica
potrebbe
migliorare
tali
malfunzionamenti rendendo così possibili gli interventi sugli aspetti
sintomatici del paziente. Sono state portate, quindi, prove sufficienti a
sostenere che la metacognizione sia una grandezza composta da sottofunzioni
distinte semi-indipendenti. Altri studi del Gruppo hanno mostrato poi come la
realtà clinica del paziente grave sia influenzata in modo diverso dalla presenza
di specifici malfunzionamenti metacognitivi.
Parole chiave
Metacognizione, disturbi di personalità, ricerche di processo
---------------------------------------------------------------------------------------------------------1
Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva, Roma – Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC)
Corrispondenza: Raffaele Popolo E-mail: popolo.r@libero.it
Tel.: 0644233878 – Cell: 3398627604
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Introduzione
A metà degli anni ’90 un gruppo di colleghi si trovava a discutere
con passione di casi clinici nell’aula del proprio training formativo in
psicoterapia cognitiva; si parlava non di terapie di successo, ma di
pazienti difficili che a differenza di altri sembravano non essere in grado
di ragionare in termini di stati mentali: pazienti complessi che
rendevano ancor più difficile la relazione terapeutica. Tale confronto è
stato poi spostato dall’aula di lezione al campo della ricerca: nasce così
a Roma il Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva. Un legame nato
intorno allo stimolo portato loro dai pazienti gravi, pazienti che non
rispondevano prontamente ai protocolli cognitivi standard, e che
lasciavano per questo nei terapeuti molte domande (oltre che molti
problemi!). Le difficoltà incontrate nel trattamento di questi pazienti
hanno spinto gli autori ad analizzare i complessi fenomeni che
caratterizzano la relazione terapeutica. Questi pazienti avevano difficoltà
a riconoscere i propri pensieri ed emozioni, ad attribuire senso alle
parole del terapeuta e quindi a reagire in modo adeguato ai suoi
interventi. Al tempo stesso, il terapeuta tendeva a volte ad agire in modo
disfunzionale con questi pazienti, mosso da emozioni che incidono
negativamente sulla qualità della relazione.
Gli autori hanno quindi iniziato a registrare e trascrivere le sedute di
psicoterapia e a effettuare la supervisione direttamente sul materiale
clinico raccolto. Dallo studio dei trascritti raccolti è emerso che spesso i
pazienti con disturbi di personalità presentano difficoltà costanti in
specifiche
funzioni
metacognitive.
Per
funzioni
metacognitive
si
intendono tutte quelle abilità che consentono alle persone di attribuire e
riconoscere stati mentali in sé e negli altri a partire da espressioni
facciali, stati somatici, comportamenti e azioni; di riflettere e ragionare
sugli stati mentali e di utilizzare le informazioni sugli stati mentali per
decidere, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e
padroneggiare la sofferenza soggettiva (Carcione, Semerari, Nicolò,
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Pedone, Popolo, Conti,
Fiore, Procacci, & Dimaggio, 2010). Tali
osservazioni hanno spinto gli autori a cercare un modo per affrontare
questo problema, seguendo un percorso in parte già tracciato da Fonagy
(1991) o Frith (1992); essi ritenevano infatti che buone capacità
metacognitive fossero necessarie per una terapia efficace, e che in caso
di una loro carenza andassero promosse affinché la terapia potesse aver
successo (Semerari, 1999).
La Scala di Valutazione della Metacognizione – SVaM
Il lavoro del III Centro si è quindi concentrato a creare e validare uno
strumento di ricerca che fosse in grado di misurare le funzioni
metacognitive nel corso di una psicoterapia. Alla base dello strumento vi
erano due ipotesi formulate sulla base della discussione clinica di casi
singoli. La prima, a differenza di quanto sostenuto da altri autori (Ryle
& Kerr, 2002; Fonagy, Gergely, Jurist, & Target, 2002; Sperber, 2000),
assumeva che la metacognizione fosse un sistema composto da diversi
sotto-sistemi in interazione tra loro e che il malfunzionamento
metacognitivo non fosse quindi omogeneo da paziente a paziente
(Semerari, Carcione, Dimaggio, Falcone, Nicolò, Procacci, & Alleva,
2003;
Semerari,
Carcione,
Dimaggio,
Nicolò,
&
Procacci,
2007;
Dimaggio & Lysaker, 2010). Alcuni pazienti avevano gravi difficoltà nel
tradurre lo stato somatico in linguaggio affettivo (“ho come una morsa
allo stomaco costante”) e a spiegare le cause e le motivazioni delle
proprie azioni (“oggi sono stato di pessimo umore, sarà la luna ostile”),
altri invece erano incapaci di distinguere una fantasia disturbante (“i
colleghi mi perseguitano”) dalla realtà delle cose. La seconda ipotesi era
che i diversi tipi di danno metacognitivo influenzassero in modo diverso
il quadro clinico e la relazione terapeutica. Ad esempio, pazienti con
difficoltà nel riconoscimento delle emozioni e dei pensieri tendono al
ritiro dalle relazioni e, nelle loro terapie, vi sono frequenti momenti di
distacco nella relazione terapeutica; altri pazienti che presentano
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difficoltà a riflettere su pensieri ed emozioni in modo integrato tendono
invece a sviluppare relazioni caotiche e coinvolgenti tanto nella vita
quanto nella relazione col terapeuta. In sintesi, l’idea era che la
metacognizione fosse costituita da un insieme di processi ad un tempo
collegati concettualmente, ma semi-indipendenti, ovvero che potessero
essere funzionanti o danneggiati in modo relativamente autonomo l’uno
dall’altro.
In precedenza erano stati sviluppati diversi strumenti atti a valutare
la metacognizione, differenti tra loro per proprietà psicometriche e
oggetto d’indagine. Tra questi, ad esempio, prove di laboratorio che
valutare valutavano vari aspetti della Teoria della Mente, dalla capacità
di cogliere che gli altri possono avere convinzioni differenti dalle proprie
alla comprensione delle metafore o dell’ironia (vedi ad esempio Perner &
Wimmer,
1985).
Altri
strumenti,
invece,
erano
questionari
autosomministrati che consentivano un rapido studio di un gran
numero
di
pazienti:
tra
questi,
ad
esempio,
il
Meta-Cognition
Questionnaire (Cartwright-Hatton & Wells, 1997) che indagava le
convinzioni metacognitive dei pazienti; oppure la TAS–20 utilizzata per
valutare la capacità del soggetto di descrivere le proprie emozioni
(Bagby,
Parker,
&
Taylor,
1994a,
1994b).
Questi
strumenti
presentavano però, a nostro avviso, alcuni limiti nell’applicazione alla
ricerca in psicoterapia. Le valutazioni venivano fatte su prove effettuate
in un contesto rassicurante come quello di uno studio, diverso da quello
reale dove invece la sintomatologia si esprime; i risultati ottenuti
potrebbero allora non descrivere fedelmente quel funzionamento che il
paziente
avrebbe
nelle
situazioni
problematiche,
sottoposto
alla
pressione di emozioni negative, visto che le abilità metarappresentative
risentono del clima interpersonale. In particolare, i questionari non
fornivano informazioni circa il funzionamento del paziente. Per poter
rispondere è necessario avere una comprensione dello scopo specifico
della domanda, un accesso chiaro alle proprie rappresentazioni, l’abilità
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di costruire una rappresentazione nuova che integri in modo fluido i
propri contenuti con quelli della domanda: abilità strettamente
metacognitive, non necessariamente funzionanti in un paziente. Gli
autori
hanno
allora
elaborato
la
Scala
di
Valutazione
della
Metacognizione (SVaM; Carcione, Falcone, Magnolfi, & Manaresi, 1997;
Semerari et al., 2003), disegnata per valutare gli aspetti metacognitivi a
partire dalla verbalizzazione dei pazienti nel corso delle sedute di
psicoterapia. Gli scopi erano quelli di identificare le disfunzioni nella
metacognizione presenti nei pazienti, valutare se esse differissero da
paziente a paziente e se i trattamenti di successo fossero collegati a un
loro miglioramento. Si voleva poi investigare se alcuni aspetti della
disfunzione fossero più facilmente influenzati dal trattamento (in alcune
categorie di pazienti), a differenza di altri più resistenti, che assumono
vera e propria caratteristica di deficit.
La SVaM è divisa in tre sezioni che si riferiscono rispettivamente alle
abilità di: Autoriflessività, che comprende le operazioni di conoscenza
dei propri stati mentali; Comprensione della mente altrui, che riguarda
le operazioni di conoscenza degli stati mentali altrui (tra queste si
segnala in particolare il Decentramento, ovvero la capacità di descrivere
gli stati mentali altrui a prescindere dal proprio punto di vista o
coinvolgimento nella relazione); Mastery, che riguarda le strategie con
cui il soggetto tenta di fronteggiare la sofferenza psicologica e i problemi
interpersonali. Ogni sezione, a sua volta, comprende poi varie
sottofunzioni. La SVaM può essere applicata a trascritti di seduta o a
interviste che stimolano la rievocazione di brani o racconti; vengono
siglati successi e fallimenti del paziente in relazione a ciascuna
funzione. La rilevazione è organizzata per ciascuna seduta e i dati
rilevati sono le frequenze degli eventi manifestatisi. Attualmente negli
studi in corso la modalità di attribuzione dei punteggi è cambiata e si
valutano brani più estesi di discorso, ad esempio un terzo di seduta o
un’intera Adult Attachment Interview. Ciascuna sottofunzione viene
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siglata come ingaggiata o meno all’interno del brano; nel caso che sia
utilizzata, viene valutata con una scala Likert da 1 a 5 a seconda della
articolazione con cui la persona esprime la sottofunzione in questione
(Carcione et al., 2010).
La SVaM, applicata esclusivamente a ricerche single case e quindi
con i limiti propri di tale metodologia, ci ha permesso di identificare
precisi indicatori di processo e di esito in psicoterapia, di delineare
specifici profili metacognitivi caratteristici di determinati disturbi di
personalità. Tale strumento si è mostrato efficace nella ricerca in
psicoterapia in quanto ha il vantaggio di basarsi sulla trascrizione di
sedute audio-registrate rendendo il materiale stesso verificabile. È stato
possibile poi trattare i dati in modo statistico permettendo così di
confrontare i dati emersi con quelli riportati dalla letteratura, per
tradurli poi in pratica clinica.
La SVaM: gli studi principali
Nella prima fase della ricerca gli autori hanno cercato di portare un
contributo
alla
comprensione
dell’architettura
del
funzionamento
metacognitivo, questo a partire dall’analisi di sedute effettuate con la
SVaM (Semerari et al., 2003). La conferma dell’esistenza di sottofunzioni parzialmente indipendenti capaci di influenza reciproca,
avrebbe
condizionato
i
modelli
di
trattamento
in
quanto
una
psicoterapia, per aver successo, avrebbe dovuto puntare ad affrontare o
le sottofunzioni più compromesse o quelle che generavano effetti
negativi a palla di neve sugli altri elementi del sistema metacognitivo. In
un primo lavoro (Semerari et al., 2003) è stato analizzato un campione
di circa 100 sedute di due pazienti aventi una diversa diagnosi di
disturbo di personalità (un caso con disturbo borderline e l’altro con
disturbo narcisistico). La valutazione, effettuata con la SVaM, ha
portato dati a favore dell’ipotesi modulare: in entrambi i pazienti
ciascuna funzione presentava un grado differente di compromissione e
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un andamento nel tempo diverso. I due pazienti avevano disfunzioni
nettamente
differenti:
nel
paziente
borderline,
si
osservava
un
malfunzionamento significativo dell’autoriflessività nella differenziazione
(capacità di distinguere tra diversi tipi di rappresentazioni e tra
rappresentazione e realtà) e nell’integrazione (abilità di riflettere sugli
stati mentali e sui contenuti dell’esperienza soggettiva in modo da
costruire una visione integrata di sé); il paziente narcisista mostrava
invece,
sempre
nell’autoriflessività,
difficoltà
nell’identificazione
(capacità di descrivere i propri pensieri ed emozioni) e nella relazione tra
variabili (capacità di descrivere le cause che generano un’emozione, un
pensiero, un comportamento). Tale osservazione ha portato a effettuare
altri studi single case, in particolare nei disturbi di personalità, per
verificare l’ipotesi dell’esistenza di un profilo prototipico metacognitivo
per ciascun disturbo; studi questi che hanno permesso di verificare
contestualmente la validità degli strumenti di valutazione elaborati dal
Gruppo di ricerca, promovendo una loro costante revisione sulla base
dei dati progressivamente raccolti.
Inizialmente sono stati studiati i disturbi di personalità presentati
dai pazienti che afferivano direttamente al Centro. Uno studio single
case condotto su di un paziente affetto da Disturbo Paranoide di
Personalità
ha
permesso
di
approfondire
il
ruolo
svolto
dal
malfunzionamento metacognitivo nella genesi e nel mantenimento dei
diversi disturbi (Nicolò, Centenero, Nobile, & Porcari, 2002). Il paziente
analizzato
presentava
un
profilo
metacognitivo
caratterizzato
da
malfunzionamenti nel decentramento e nella differenziazione. È stata
poi utilizzata la Griglia degli Stati Problematici (Semerari et al., 2003b),
strumento che consente l'individuazione dei singoli componenti (temi di
pensiero,
emozioni,
sensazioni
somatiche)
degli
stati
mentali
problematici di un paziente a partire dalle sue narrazioni; questa ha
permesso di identificare gli elementi di contenuto caratteristici del
paziente paranoide analizzato: i temi prevalenti erano il senso di
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Costrizione e la Minaccia, mentre le emozioni più rilevanti in questo
paziente erano quelle di Paura-Ansia, più della Rabbia che, pur essendo
presente, non era pervasiva e intensissima. L'andamento delle funzioni
metacognitive era correlato a quello degli stati mentali problematici; il
miglioramento delle funzioni metacognitive era poi correlato al successo
del trattamento. A un follow up dopo 5 anni dalla fine della terapia il
paziente non mostrava più un disturbo paranoideo di personalità
pienamente espresso: il miglioramento delle funzioni metacognitive,
soprattutto di decentramento e di differenziazione, ha permesso al
paziente di gestire più efficacemente quel tratto di sospettosità,
diffidenza, e di chiusura sociale che ha continuato a esperire.
Questo e altri studi single case effettuati nella fase iniziale della
ricerca hanno prodotto numerosi dati clinicamente rilevanti che
andavano
a
sostenere
un’ipotesi
originale
di
architettura
della
metacognizione; tale ipotesi aveva il valore di partire dall’esperienza
clinica e per questo era facilmente condivisibile con altri colleghi. A
partire da ciò gli autori si sono interrogati circa l’esistenza di
malfunzionamenti metacognitivi nucleari comuni a diversi pazienti con
lo stesso disturbo, e che caratterizzano quindi il disturbo rispetto ad
altri, pur nel rispetto dell’idea che ciascun individuo presenta un
proprio funzionamento che può mostrare numerose differenze rispetto
ad altri pazienti con la stessa diagnosi. Semerari e collaboratori (2005)
hanno allora analizzato le sedute del primo anno di terapia di 4 pazienti
con disturbo borderline di personalità utilizzando la SVaM. I risultati
ottenuti, in linea con la letteratura (Fonagy, 1991; Dimaggio &
Semerari, 2001, 2004; Liotti, 2002; Perris & Skagerlind, 1998; Ryle,
1997) confermavano la presenza di un malfunzionamento metacognitivo
in questi pazienti; non si trattava però di una compromissione globale
dell’abilità, ma solo di specifiche sottofunzioni. I 4 pazienti, infatti,
mostravano una difficoltà a integrare aspetti della propria esperienza,
così come avevano già osservato alcuni autori (Kernberg, 1975; Clarkin,
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Yeomans & Kernberg, 1999; Ryle, 1997; Liotti, 2002; Dimaggio &
Semerari, 2004); tendevano poi a non essere in grado a differenziare tra
fantasia e realtà e a considerare le proprie rappresentazioni come un
riflesso fedele della realtà, coerentemente con l’ipotesi di Fonagy &
Target (1996) secondo cui i pazienti borderline hanno la tendenza a
perdere la loro abilità di distinguere tra fantasia e realtà. Da questa
ricerca sembrava emergere un profilo prototipico del disturbo borderline
caratterizzato da un malfunzionamento delle sottofunzioni autoriflessive
dell’integrazione e della differenziazione. Ciascun paziente presentava
poi
propri
malfunzionamenti
metacognitivi
che
si
andavano
ad
aggiungere a quelli descritti precedentemente (come ad esempio nel
monitoraggio in uno dei casi) e che non rappresentavano quindi tratti
nucleari del disturbo. Il comportamento di ciascuna funzione non si
manteneva poi sempre costante nel tempo. Se consideriamo, ad
esempio, la funzione integrazione si è visto che questa, ad eccezione di
un caso, poteva passare da momenti in cui era molto compromessa ad
altri in cui funzionava meglio; la valutazione qualitativa del trascritto
delle
sedute
mostrava
come
l’andamento
oscillatorio
del
malfunzionamento era legato a fattori esterni, eventi di vita contestuali
e a variabili relazionali e intersoggettive.
Questo studio sostiene l’idea di un malfunzionamento metacognitivo
che interessa sottofunzioni specifiche e che si mantiene a lungo nel
tempo; da qui l’ipotesi che nei disturbi “meno gravi” la presenza di un
malfunzionamento metacognitivo non sia un fattore nucleare come nei
disturbi di personalità, ma si possa presentare in determinati contesti
problematici contribuendo all’espressione sintomatologica del disturbo.
Diversi autori sostengono infatti che la metacognizione sia solo
marginalmente compromessa in pazienti con disturbi “nevrotici”, come
ad esempio nella depressione (Honkalampi, Hintikka, Antikainen,
Lehtonen, & Viinamäki, 2001; Inoue, Tonooka, Yamada, & Kanba,
2004; Inoue, Yamada, & Kanba, 2006); questi pazienti presenterebbero
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invece
una
maggiore
compromissione
della
capacità
di
padroneggiamento dei problemi psicologici (Carcione, Dimaggio, Fiore,
Nicolò, Procacci, Semerari, & Pedone, 2008). Al fine di verificare tale
ipotesi, gli autori hanno valutato la metacognizione in una paziente con
diagnosi di depressione usando anche in questo caso la SVaM (Carcione
et
al.,
2008).
La
paziente
ha
mostrato
solo
minimi
fallimenti
metacognitivi, rilevati in particolare nella fase iniziale della terapia;
aveva invece difficoltà a padroneggiare i propri stati problematici, dato
sostenuto dai fallimenti nella mastery osservati. Queste difficoltà, a
differenza di quanto visto nei pazienti con disturbo di personalità,
miglioravano rapidamente nel corso del trattamento parallelamente al
miglioramento del quadro depressivo.
Riassumendo, le funzioni metacognitive possono essere danneggiate
indipendentemente l’una dall’altra e con un grado di compromissione
differente nei diversi disturbi. Possono essere funzionanti ma fallire a
seguito dell’attivazione emotiva o nell’ambito di situazioni relazionali
problematiche, come accade nei disturbi d’ansia o dell’umore; oppure il
danneggiamento di queste funzioni può essere più strutturale e
costituire un tratto specifico della persona stessa, comportando una
compromissione del funzionamento psicosociale, come si osserva nei
disturbi di personalità. Diversi pazienti con disturbo di personalità
presentavano ciascuno un proprio profilo metacognitivo (Dimaggio &
Semerari, 2003; Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò, & Procacci,
2007; Dimaggio, Carcione, Petrilli, Procacci, Semerari, & Nicolò, 2005;
Semerari et al., 2003); si è cercato allora di porre a confronto
l’andamento delle singole funzioni nei diversi disturbi di personalità, al
fine di valutarne il possibile andamento differente.
In un successivo lavoro Dimaggio et al. (2007) hanno valutato il
funzionamento
metacognitivo
di
4
pazienti,
due
con
disturbo
narcisistico e due con disturbo evitante di personalità. Tre dei quattro
pazienti valutati (i due pazienti narcisisti e il paziente evitante che
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presentava tratti schizoidi) mostravano difficoltà nel definire i propri
stati interni così come a metterli in relazione a fattori psicologici o del
contesto;
era
presente
solo
una
modesta
compromissione
dell’integrazione, funzione che migliorava in tutti alla fine del primo
anno
di
terapia.
L’andamento
delle
sottofunzioni
relative
all’autoriflessività era quindi differente rispetto, ad esempio, a quello
rilevato nel campione di quattro pazienti borderline studiati da Semerari
et al. (2005); nessuno di questi ultimi pazienti presentava infatti un
malfunzionamento dell’identificazione o della sottofunzione relazione tra
variabili. I pazienti con disturbo borderline mostravano invece una
grave compromissione nella differenziazione e nell’integrazione; in
particolare, quest’ultima appariva pervasiva e duratura, tanto che solo
un paziente borderline mostrava un miglioramento della funzione alla
fine del primo anno di terapia. Il confronto tra profili metacognitivi di
differenti disturbi ha evidenziato, in questo caso, la presenza di specifici
malfunzionamenti nell’autoriflessività, che sembrano essere quindi
tratti nucleari dei diversi disturbi (Semerari, 1999). Questa rilevazione,
non solo portava dati a conferma di un’ipotesi modulare della
metacognizione, ma sottolineava l’opportunità di verificare l’andamento
delle altre funzioni metacognitive nei diversi disturbi di personalità; tra
queste, in particolare il decentramento, funzione che clinicamente
appare compromessa in numerosi pazienti.
Un numero crescente di dati sostiene l’idea che la difficoltà a
comprendere gli stati mentali altrui sia una dimensione comune che
sottende i disturbi di personalità; la difficoltà a comprendere gli altri, a
“mettersi nei loro panni”, è stata descritta nei disturbi di personalità
(Krueger, Skodol, Livesley, Shrout, & Huang, 2007; Dimaggio et al.,
2007) così come nei loro familiari (Guttman & Laporte, 2002). Dimaggio,
Carcione, Nicolò, Conti, Fiore, Pedone, Popolo, Procacci, & Semerari
(2009) hanno allora analizzato le prime 16 sedute di un campione di 14
pazienti con disturbo di personalità per valutare la loro capacità a
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comprendere la mente degli altri e in particolare l’andamento del
decentramento. Il campione era costituito da pazienti con disturbo
borderline, narcisistico, paranoide, evitante, ossessivo compulsivo e
dipendente di personalità. Nel complesso, dai dati è emerso che i
pazienti analizzati avevano tutti difficoltà ad assumere la prospettiva
dell'altro nel corso delle relazioni, ad aver chiaro che gli altri agiscono
mossi da motivazioni proprie indipendentemente dal rapporto che
possono avere in quel momento con loro. Fallivano quindi nel
decentrare mentre, al contrario, erano capaci a cogliere i pensieri e le
emozioni altrui, ovvero a comprendere la mente degli altri, funzione
questa solo occasionalmente danneggiata. I pazienti con disturbo di
personalità
apparivano
malfunzionamento
del
allora
generalmente
decentramento,
tranne
in
egocentrici;
il
pochi
si
casi,
manteneva nell’arco di tempo osservato. La compromissione del
decentramento sembra essere un tratto che accomuna i diversi disturbi
di personalità studiati, un danneggiamento stabile e apparentemente
grave che necessita di tempo per essere modificato. La tendenza a
essere egocentrici in maniera patologica rende problematiche le
dinamiche relazionali; possiamo ipotizzare che un buon accesso ai
propri stati interni e una corretta comprensione della mente altrui
metta a disposizione della persona quelle informazioni necessarie a
padroneggiare al meglio le situazioni di difficoltà e sofferenza. I
fallimenti descritti nell’autoriflessività così come nel decentramento,
porterebbero allora i pazienti a ricorrere a strategie disfunzionali di
gestione degli stati problematici.
Al fine di verificare questa ipotesi clinica, Carcione e collaboratori
(2010) hanno valutato l’abilità di padroneggiare gli stati mentali
problematici e l’andamento di tale capacità nel corso della terapia in 14
pazienti con disturbo di personalità (borderline, narcisistico, evitante,
dipendente, ossessivo-compulsivo, paranoide). Il campione di pazienti
valutato ha mostrato complessivamente una difficoltà significativa a
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ricorrere a strategie di padroneggiamento che richiedevano capacità
sofisticate di comprensione degli stati mentali e usarli a fini di problem
solving, quali regolare l’attenzione cosciente o utilizzare la conoscenza
degli stati mentali propri e altrui per regolare problemi interpersonali;
tale difficoltà non diminuiva rapidamente nell’arco di tempo analizzato
(le prime 16 sedute). L'utilizzo della scala della mastery della SVaM, che
distingue le diverse strategie in categorie separate secondo una
complessità crescente delle operazioni metacognitive implicate, ha
permesso poi di verificare come il malfunzionamento della mastery non
fosse omogeneo tra i pazienti (Semerari et al., 2007), ma che alcuni
mostravano maggiori difficoltà ad affrontare i problemi rispetto ad altri,
utilizzando ciascuno strategie di padroneggiamento differenti. Da un
punto di vista qualitativo i pazienti si distinguevano sia nel tipo di
strategia che tendevano ad usare più frequentemente, sia nel tipo di
strategia che usavano più efficacemente. Complessivamente, le strategie
utilizzate con maggior efficacia all’inizio del trattamento erano quelle
che richiedevano una minima conoscenza degli stati mentali; queste
consistevano
in
interventi
concreti,
essenzialmente
di
tipo
comportamentale, che venivano attuati sulla situazione in corso, come
evitare consapevolmente una situazione temuta. Nelle fasi precoci di
terapia si poteva osservare un lieve miglioramento della mastery, ma in
gran parte dei casi analizzati il problema persisteva; questo dato lascia
supporre che la terapia dei disturbi di personalità richieda un lungo
periodo per produrre cambiamenti duraturi nelle abilità di mastery: per
poter utilizzare strategie di mastery di livello superiore, il paziente
dovrebbe infatti avere un buon accesso ai propri stati interni così come
una buona capacità di leggere la mente altrui.
Riassumendo, la SVaM si è dimostrata uno strumento efficace in
studi di processo per valutare in modo intensivo il funzionamento
metacognitivo dei pazienti in trattamento psicoterapeutico all’interno di
protocolli di ricerca single case. Ha permesso di raccogliere dati a
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sostegno di un’ipotesi modulare del funzionamento metacognitivo e di
seguire il differente andamento delle singole funzioni nei diversi pazienti
con disturbi di personalità. Il decentramento e le strategie di mastery
sembrano essere compromesse in tutti questi pazienti, anche se con un
grado di gravità del danneggiamento differente in ciascuno. La
compromissione di specifiche sottofunzioni dell’autoriflessività sembra
invece caratterizzare, e quindi distinguere tra loro, i diversi disturbi di
personalità.
L’Intervista per la Valutazione della Metacognizione — IVaM
Per poter generalizzare tali osservazioni era necessario estendere i
progetti di ricerca a campioni di pazienti più numerosi rispetto a quelli
analizzati finora; per questo motivo si è resa necessaria la costruzione di
uno strumento di valutazione del funzionamento metacognitivo più
agile, in grado di valutare rapidamente un più ampio numero di
persone. La SVaM richiede infatti un notevole dispendio di tempo: nella
formazione dei valutatori a utilizzare uno strumento concettualmente
complesso; nella trascrizione fedele delle sedute audioregistrate; nelle
valutazione stessa, effettuata su un numero elevato di sedute. Il gruppo
ha sviluppato allora l’Intervista per la Valutazione della Metacognizione
– IVaM (Semerari, d’Angerio, Popolo, Cucchi, Ronchi, Maffei, Dimaggio,
Nicoló,
&
Carcione,
2008),
che
consente
la
valutazione
della
metacognizione di un soggetto nel corso di un colloquio a sé stante,
ripetibile
semestralmente
un’intervista
per
semistrutturata,
successive
che
ha
lo
valutazioni.
scopo
di
L’IVaM
è
sollecitare
nell’intervistato e di valutare le sue abilità metacognitive; è composta da
cinque parti: uno stimolo iniziale, e quattro serie di domande.
Inizialmente si cerca di stimolare la produzione di una narrativa da
parte dell’intervistato, racconto a partire dal quale vengono indagate le
varie funzioni metacognitive; a tale scopo viene chiesto al paziente di
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descrivere l’episodio psicologicamente più difficile occorso negli ultimi
sei
mesi.
Successivamente
elicitare/valutare
in
vengono
successione
le
poste
delle
funzioni
domande
per
metacognitive
del
monitoraggio, differenziazione, integrazione e decentramento; non è
stata considerata in questa prima versione dell’intervista l’area della
mastery. Si tratta di domande predefinite, che in caso di difficoltà da
parte dell’intervistato, possono essere ripetute o riformulate in modo da
chiarirne
il
senso.
Questo
strumento
presenta
quindi
delle
caratteristiche che lo rendono più adeguato, ad esempio, a studi di esito
in quanto permette lo studio di un più ampio numero di persone; si
potrebbero così generalizzare le osservazioni ottenute sui diversi
disturbi, ma anche approfondire lo studio sull’architettura della
metacognizione in campioni significativi di pazienti e di soggetti non
clinici.
L’IVaM: gli studi principali
L’IVaM è stata somministrata a 172 individui sani (Semerari, Cucchi,
Dimaggio, Cavadini, Carcione, Bottelli, Siccardi, d’Angerio, Pedone,
Ronchi, Maffei, & Smeraldi, 2010) al fine di valutare, una volta raggiunta
una buona inter-rater reliability, la validità di costrutto dello strumento
elaborato a partire dalle quattro differenti funzioni metacognitive
descritte. Dall’analisi fattoriale sono emersi due fattori: il primo include
le capacità di mantenere una distanza critica dalle proprie convinzioni e
di essere in grado di vedere il mondo dalla prospettiva dell’altro; il
secondo fattore comprende invece le capacità del soggetto di riconoscere
i propri stati interni, di integrarli in una rappresentazione coerente di sé
e di distinguere differenti tipi di rappresentazioni (ad esempio fantasia e
realtà). Questi risultati hanno delle implicazioni importanti sulla teoria
della metacognizione. Nel complesso confermano infatti come le abilità
che consentono di riflettere su di sé siano distinte da quelle che
permettono di ragionare sugli altri. Il decentramento si aggrega infatti
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con alcuni aspetti della differenziazione, quelli relativi alla distanza
critica, funzioni queste che richiedono al soggetto di assumere una
posizione altra di osservazione. Nel secondo fattore troviamo invece le
capacità di monitoraggio che, insieme a quelle che consentono di
riconoscere la natura delle proprie rappresentazioni, si aggregano alle
capacità di integrazione: questo in linea con l’idea che per avere una
rappresentazione coerente di sé è necessario avere una corretta
rappresentazione della propria esperienza. L’IVaM si è allora mostrata
efficace nel sollecitare le funzioni metacognitive nei soggetti indagati e di
distinguere tra processi di ragionamento relativi al sé e agli altri. Sono
state allora studiate le proprietà di validità convergente dei due fattori
emersi (Semerari, Dimaggio, Cucchi, Cavadini, d’Angerio, Battelli,
Siccardi, Ronchi, Maffei, & Smeraldi, 2010); il fattore che include il
monitoraggio degli stati interni è stato correlato con il costrutto
dell’alessitimia misurato dalla Toronto Alexithymia Scale (Bagby et al.,
1994a, 1994b), il secondo invece con prove cognitive di teoria della
mente. Nello stesso studio si è cercato di valutare, su un campione di
124 soggetti sani, se le funzioni metacognitive fossero correlate a tratti di
personalità sottostanti; è stato valutato allora il narcisismo utilizzando il
Narcissistic Personality Inventory (NPI; Raskin & Hall, 1979; Raskin &
Terry, 1988). È emerso, coerentemente con le ipotesi cliniche (Dimaggio,
Semerari, Falcone, Nicolò, Carcione, & Procacci, 2002; Dimaggio,
Semerari, Carcione, Nicolò, & Procacci, 2007), che il monitoraggio
correlava con tratti di narcisismo covert.
Conclusioni
Il III Centro è sorto ed è, in parte, rimasto un gruppo di clinici che
inizialmente non avevano una formazione specifica nella ricerca e
questo dato si rifletteva nei limiti metologici dei nostri lavori. L’impianto
delle nostre ricerche era estremamente “time consuming” e adatto allo
studio, sia pure particolareggiato, di pochi casi. Prese singolarmente,
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queste ricerche più che corroborare le ipotesi (theory-testing) potevano
raffinarle (theory-building, si veda Stiles, 2006 per una distinzione tra i
due tipi di ricerca) e valutarne la successiva estendibilità a campioni più
ampi. Solo negli ultimi lavori l’esperienza acquisita col tempo e la
collaborazione con ricercatori più esperti ci ha permesso di dimostrare
la validità di costrutto e la validità convergente degli strumenti utilizzati,
in particolare con ricerche effettuate nell’area della schizofrenia
(Lysaker,
Carcione,
Dimaggio,
Johannesen,
Nicolò,
Procacci,
&
Semerari, 2005; Lysaker, Dimaggio, Buck, Carcione, & Nicolò, 2007;
Lysaker, Dimaggio, Buck, Carcione, Procacci, Davis, & Nicolò 2010;
Lysaker, Shea, Buck, Dimaggio, Nicolò, Procacci, Salvatore, & Rand,
2010). Recenti lavori di analisi fattoriale applicata all’IVaM ci hanno
permesso di iniziare a verificare le ipotesi formulate già negli anni ’90 su
quali fossero le diverse sottofunzioni metacognitive e sulle loro possibili
correlazioni.
Se le consideriamo complessivamente, queste ricerche ci permettono
oggi di trarre alcune precise conclusioni circa le ipotesi iniziali.
Innanzitutto, riteniamo di aver portato prove sufficienti per sostenere la
polifunzionalità della metacognizione. Mettiamo a confronto l’ipotesi
olistica secondo cui la metacognizione è una grandezza unidimensionale
descrivibile in termini di alta, media, bassa metacognizione con l’ipotesi
polifunzionale, secondo cui è costituita da funzioni qualitativamente
distinte; se anche in pochi casi, pazienti diversi sono danneggiati in
funzioni diverse, questo rilievo dimostra che l’ipotesi monodimensionale
è falsa. Ad esempio, possiamo avere un paziente abile nel descrivere i
propri stati interni ma che non riesce ad assumere distanza critica dalle
sue credenze e a riconoscerle come una rappresentazione del mondo
che può essere falsa; un altro paziente può invece ammettere
l’opinabilità delle sue credenze ma non essere in grado di descrivere le
proprie rappresentazioni: la capacità di descrivere le rappresentazioni e
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la consapevolezza della loro natura soggettiva e opinabile non sono
allora la stessa cosa.
Al tempo dei nostri primi lavori era difficile persino spiegare questo
concetto.
Oggi
dati
provenienti
dalla
social
psychology
e
dalle
neuroscienze convergono verso una descrizione della metacognizione nei
termini di una funzione composta da abilità distinte (vedi Dimaggio &
Lysaker, 2010). Naturalmente, dimostrare che la metacognizione sia
una grandezza composta da sottofunzioni distinte non significa
dimostrare che queste siano esattamente quelle che abbiamo ipotizzato
e che sono rappresentate nella struttura della SVaM e dell’IVaM. Da
questo punto di vista, le analisi fattoriali applicate all’IVaM vanno nella
direzione di un modello a due fattori. Il primo fattore può essere definito
di Teoria della Mente (ToM) e
include la tendenza a spiegare il
comportamento attribuendo agli altri delle credenze e la consapevolezza
che le credenze, comprese le proprie, sono rappresentazioni interne del
mondo che possono essere false (ovvero non corrispondenti al mondo
esterno). Tali caratteristiche confluiscono in un fattore dell’IVaM
costituito dal decentramento (capacità di comprendere la mente altrui
mettendosi nella prospettiva dell’altro) e dalla differenziazione (capacità
di distinguere tra rappresentazione interna e mondo esterno). Il secondo
fattore, che può essere definito dell’Autoriflessività, è costituito dal
monitoraggio e dall’integrazione ovvero dalla capacità di riconoscere
pensieri ed emozioni e dalla capacità di riflettere in modo integrato.
Questi risultati correggono in parte alcune ipotesi iniziali sostenute nei
lavori teorici del centro: quella che collocava la differenziazione
all’interno dell’autoriflessività, e l’ipotesi di una marcata distinzione tra
monitoraggio e integrazione. Un possibile modello a due fattori della
metacognizione osservabile nella popolazione generale non esclude però
la possibilità di considerare le sottofunzioni semi-indipendenti; anche le
funzioni associate in un fattore possono avere un andamento diverso
nella popolazione clinica. Se riprendiamo ad esempio i dati relativi alla
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correlazione tra basso monitoraggio, alessitimia e narcisismo covert
(Semerari, Dimaggio et al., 2010), possiamo osservare come pazienti
narcisisti covert tendano a evitare le relazioni, a differenza invece dei
pazienti borderline che stabiliscono invece relazioni instabili e intense.
Ipotizziamo allora che i fattori descrivono funzioni che operano in modo
associato ma che possono disgiungersi in determinate situazioni
cliniche.
Infine, se confermato da ulteriori ricerche, il modello a due fattori
può
avere
importanti
implicazioni
terapeutiche.
Ad
esempio,
l’associazione tra decentramento e differenziazione descrive quell’abilità
metarappresentativa che consente di formarsi una rappresentazione
delle proprie idee come visti da una terza persona: un osservatore
“interno” nel caso della differenziazione (“penso questo ma se mi metto
in un’altra prospettiva mi rendo conto che posso sbagliare”); un
osservatore “esterno” nel caso del decentramento ("Mi mancano di
attenzione, ma se esco dalla mia prospettiva e guardo il mondo con i
loro occhi, mi rendo conto che sono pieni di problemi da affrontare e
non potrebbero prestarmi l'attenzione che desidero"). Se si vuole aiutare
un paziente ad assumere distanza critica da una propria credenza, non
è necessario allora sollecitare operazioni autoriflessive per incrementare
tale funzionamento. Può essere più utile formulare interventi che
vadano a sollecitare in alcuni casi la differenziazione, in altri che
incoraggino il paziente ad assumere la prospettiva degli altri, tutto
questo in relazione al funzionamento specifico del paziente.
Resta da discutere la rilevanza clinica della distinzione delle
sottofunzioni: disturbi in diverse funzioni metacognitive contribuiscono
a creare diverse realtà cliniche e, se sì,, in che senso? Le ricerche
condotte su soggetti schizofrenici da Lysaker, in parte anche con la
nostra collaborazione, hanno evidenziato come la realtà clinica sia
influenzata in modo diverso dallo specifico profilo metacognitivo del
paziente. È stato infatti dimostrato che la metacognizione, correlata
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anche se parzialmente indipendente con la neurocognizione (Lysaker et
al., 2005, 2007) e la funzione esecutiva (Lysaker, Warman, Dimaggio,
Procacci, LaRocco, Clark, Dike, & Nicolò, 2008), contribuisce a spiegare
lo scarso funzionamento sociale dei pazienti (Lysaker, Shea et al.,
2010). Inoltre è emerso nel corso di un trial clinico che avere capacità di
assumere distanza critica (differenziazione) dalle proprie credenze è il
crinale superato il quale si predice un migliore funzionamento in
termini di outcome lavorativo (Lysaker et al., 2010). Tali dati di
psicopatologia, uniti alla formalizzazione di modelli per promuovere
progressivamente
la
metacognizione
nei
disturbi
di
personalità
(Dimaggio et al., 2010; Dimaggio et al., in stampa), hanno portato nella
schizofrenia alla recente proposta di modelli di trattamento che
prevedono di promuovere prima le funzioni metarappresentative più
basiche dove esse fossero carenti, e solo successivamente quelle a
complessità crescente (Lysaker, Shea et al., 2010).
L’obiettivo negli anni futuri è aumentare ricerche cross-sectional nei
disturbi di personalità, creare valori normativi che distinguano tra livelli
metacognitivi
adattivi
e
patologici
e
valutare
in
che
modo
la
metacognizione sia compromessa in una serie di altri disturbi, quali
disturbi post-traumatici, depressione o altri disturbi di asse I.
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a review of the principal researches of the Third Centre
of Cognitive Psychotherapy in Rome
Abstract
Since mid 90’s the Third Centre of Cognitive Psychotherapy in Rome has
been interested in the research and treatment of severe and difficult to treat
patients;. In this work we analyze some of the most important publications
on this issue. These are researches on the therapeutic process led by the
clinical observation which suggests that some specific metacognitive
dysfunctions impede the recognition of own and others mental states; the
regulation of the therapeutic alliance could enhance these dysfunctions
making possible the interventions on the symptomatic aspects of the patient.
There are sufficient proofs supporting that metacognition is composed of
different half-independent subfunctions. Other studies of the group showed
how the clinical reality of the serious patient is influenced by the presence of
specific metacognitive dysfunctions.
Keywords
Metacognition, personality disorder, process research
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La psicoterapia come scambio comunicativo.
Prospettive di ricerca sul processo clinico
Sergio Salvatore,1 Alessandro Gennaro,1 Andrea Auletta,1 Rossano
Grassi,1 Stefano Manzo,1 Mariangela Nitti,1 Ahmed Al-Radaideh,1 Marco
Tonti,1 Nicoletta Aloia,1 Grazio Monteforte,1 Omar Gelo1
Sommario
Il lavoro illustra le 3 linee di lavoro nell’ambito della process research su cui
si concentra l'interesse degli autori: a) l’analisi concettuale delle premesse
teoriche e metodologiche che fondano la ricerca sullo scambio clinico; b) la
definizione di un modello generale del processo clinico; c) lo sviluppo di
strategie di analisi dello scambio clinico coerenti con tale modello generale.
Ciascuna linea di sviluppo viene presentata e discussa in ragione dei suoi
presupposti concettuali, di alcuni dei risultati rilevanti che ha prodotto, così
come delle prospettive future a essa associata.
Parole chiave
Ricerca di processo, teoria dei sistemi dinamici, idiografico-nomotetico,
abduzione, analisi testuale, Discursive Flow Analysis
-----------------------------------------------------------------------------------------------1
Università del Salento
Corrispondenza: Sergio Salvatore
E-mail: sergio.salvatore@unisalento.it
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Introduzione
La process research è in fase di transizione. Un numero crescente di
ricercatori, consapevoli dei limiti concettuali e metodologici degli
impianti di ricerca tradizionali, sono impegnati nello sviluppo di
proposte innovative, tanto sul piano della teoria che dei modelli di
analisi. Questi movimenti testimoniano la vitalità dell’ambito di ricerca;
essi tuttavia non sembrano essere giunti a un punto di maturazione
tale da permettere l’emergere di una nuova prospettiva, capace di
ricostruire su basi rinnovate la ricerca clinica sul processo terapeutico.
Il nostro gruppo di ricerca si inserisce in questa fase di transizione,
con tre linee di ricerca. In primo luogo, l’analisi concettuale delle
premesse teoriche e metodologiche che fondano la ricerca sullo scambio
clinico. In secondo luogo, la definizione di un modello generale del
processo clinico. In terzo luogo, lo sviluppo di strategie di analisi dello
scambio clinico coerenti con tale modello generale.
Questo lavoro si propone di passare in rassegna queste tre linee di
ricerca, illustrandone i presupposti concettuali, i principali risultati e le
prospettive verso le quali si indirizzano.
Analisi concettuale della ricerca di processo
La process research ha prodotto, e continua a produrre, una massa
imponente di risultati empirici, frutto di una varietà di approcci (studi
single case, analisi cliniche intensive, studi naturalistici, etc.) e strategie
di
analisi
(applicazione
di
strumenti
standardizzati,
approcci
ermeneutici, analisi del discorso, etc.). Un simile patrimonio di dati non
sembra tuttavia offrire risposte soddisfacenti agli interrogativi generali
che ne motivano la produzione, vale a dire: perché e come la
psicoterapia funziona.
Diversi ricercatori — alcuni già diversi anni fa — hanno evidenziato
una serie di criticità concettuali e metodologiche cui attribuire simile
situazione di debolezza euristica (Greenberg, 1991; Laurenceau, Hayes,
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& Feldman, 2007; Russel, 1994; Stiles & Shapiro, 1994). Queste analisi
hanno il merito di aver chiarito come lo sviluppo della process research
non passi per il solo accumulo di dati e per la definizione di procedure
di analisi sempre più sofisticate. È necessario anche un ripensamento
dei presupposti paradigmatici taciti che fondano, regolano e al
contempo vincolano la produzione empirica e l’interpretazione dei
risultati. La ricerca di processo necessita, in altri termini, di uno sforzo
di analisi concettuale che permetta ai ricercatori di ridefinire gli
interrogativi che la guidano (Dazzi, Lingiardi, & Colli, 2006).
In questa direzione, alcuni di noi hanno focalizzato la propria
attenzione su alcune questioni di fondo — la definizione dell’oggetto, la
teoria del significato di riferimento, il problema della generalizzazione —
usualmente assunte per default — la cui esplicitazione ed elaborazione
concettuale è invece a nostro modo di vedere essenziale per uscire dalle
secche dell’empirismo acefalo in cui molta della process research — e
più in generale della psicologia empirica (cfr. Smedslund, 1987) — si
ritrova (Salvatore, 2006a). Dedichiamo a ciascuna di queste questioni
uno dei successivi sottoparagrafi.
Che cosa è il “processo terapeutico”? Lo statuto concettuale dell’oggetto di
analisi
Due persone stanno giocando alla roulette su due diversi tavoli. La
prima ha raggiunto il casinò per riprendersi da un congresso di ricerca
in psicoterapia alquanto noioso. L’altra è un giocatore professionista,
che fa delle vincite al tavolo verde la fonte del proprio reddito.
Come è facile constatare, i due giocatori sono portatori di scopi molti
diversi e tale differenza si rifletterà nelle rispettive modalità di gioco
(organizzazione delle puntate, livelli di attenzione, reazioni al risultato,
etc.). Sarebbe tuttavia inverosimile concludere che anche il meccanismo
di funzionamento del gioco vari, in ragione della differenza tra gli scopi
dei due giocatori.
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In realtà l’esempio mette in evidenza una prospettiva ampiamente
condivisa nell’ambito della process research. I ricercatori di questo
campo, infatti, tendono in modo tanto implicito quanto tendenzialmente
unanime, a considerare il processo terapeutico come un oggetto
specifico, dotato di un proprio modo di operare, distinto da altre forme
di relazione umana, da comprendere nei termini della definizione di un
modello peculiare del suo funzionamento. A ben guardare, questa
prospettiva sostiene che una determinata forma di relazione umana
acquista una specifica modalità di funzionamento in ragione degli scopi
— ad esempio la psicoterapia — che la motivano.
Alcuni di noi hanno approfondito in una serie di lavori le implicazioni
epistemologiche e teoriche connesse a simile impostazione (Salvatore,
2006a; Salvatore & Valsiner, 2006, 2009; Salvatore, Valsiner, Strouth,
& Clegg, 2009; Salvatore, Valsiner, Travers Simon, & Gennaro, 2010a,
2010b), evidenziando i problemi che derivano — per la ricerca clinica, e
più in generale per la psicologia — dall’adesione alla definizione di senso
comune dei fenomeni assunti a oggetto di investigazione. A tali lavori
rimandiamo per un approfondimento di questa linea di argomentazione,
che in questa sede, per ovvi motivi di spazio, ci limitiamo a richiamare
nei termini di un paradosso: se gli scopi socialmente definiti che
motivano e orientano una determinata forma di relazione umana fossero
in grado di configurarne il funzionamento, sarebbe allora necessario
pensare a un’area di studi e ricerche distinta per ciascuna pratica
socialmente definita. Dovremmo ad esempio avere teorie relative a:
andare in pizzeria, visitare un museo, partecipare alle riunioni
condominiali, implicarsi in una relazione sentimentale, giocare a golf,
andare allo stadio, e così via. Certo, si potrebbe obiettare che non tutti
questi processi sono rilevanti al punto da giustificare un settore di
ricerca dedicato. Ma tale obiezione complicherebbe ancora di più la
faccenda, in quanto, senza negare il carattere modello-specifico del
fenomeno, implicherebbe, in aggiunta, che sia la gerarchia dei valori e
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degli interessi socialmente definiti a dettare l’agenda di ciò che va
considerato meritevole di interesse scientifico.
Secondo la nostra tesi, la messa in discussione della specificità del
processo psicoterapeutico non riduce, ma amplifica le possibilità
euristiche della process research. Secondo questa prospettiva, il
processo clinico si declina come manifestazione locale di un oggetto
generale: lo scambio comunicativo (Salvatore, 2006a; Salvatore, in
press). Questa concezione si basa su una distinzione tra la dinamica di
un determinato oggetto e il processo che la invera (Salvatore & Valsiner,
2010). La dinamica ha a che fare con il modo in cui funziona l’oggetto.
In quanto tale, essa segue una modalità atemporale ed invariante — si
ripete sempre uguale a se stessa; conseguentemente, si presta a essere
modellizzata in termini di regole astoriche ed universali. D’altra parte, lo
scambio comunicativo si realizza necessariamente entro specifici
contesti socio-culturali, che qualificano gli scopi, dunque le condizioni e
i vincoli di felicità dello scambio comunicativo. Tali condizioni e vincoli
definiscono i termini entro, e attraverso i quali, la dinamica della
comunicazione si invera. La stessa dinamica dà dunque luogo a
processi diversi, in ragione dei parametri contingenti che definiscono le
modalità del suo inveramento.
L’analogia con la fisica torna utile per illustrare il punto. Tale scienza
si occupa di oggetti generalizzati, astratti dal loro contenuto empirico
contingente — ad esempio: l’attrazione gravitazionale. Il modo del
funzionamento (nei termini da noi sopra adottati: la dinamica) di tali
oggetti è modellizzato nei termini di leggi universali invarianti — ad
esempio, la teoria della relatività generale. Anche se la dinamica è
invariante, essa dà luogo a processi tra loro molto diversi, in ragione
delle condizioni di campo (nei termini da noi sopra adottati: in ragione
dei parametri contingenti) in gioco. La traiettoria di un proiettile, lo
slalom tra i paletti dello sciatore, il volo di un uccello, l’orbita di un
pianeta e così via, sono esempi di fenomeni che riflettono la stessa
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fondamentale dinamica e al contempo si qualificano come processi
diversi, in ragione dei parametri che intervengono nel loro inveramento.
I diversi processi possono essere studiati localmente, vale a dire in
ragione del loro contenuto empirico contingente. Ciò è quanto fanno
discipline come la balistica, l’astronomia, l’idraulica, che si occupano di
specifici campi fenomenici. Tuttavia, il funzionamento di tali campi
fenomenici è sempre e comunque il riflesso della stessa dinamica
generale. Il che equivale a dire che la traiettoria di un proiettile non è
un oggetto che segue regole proprie e idiosincratiche rispetto alla
traiettoria di uno sci. Ciò che rende tali processi diversi, lo ribadiamo,
sono i parametri di campo. Conseguentemente, l’analisi della traiettoria
del proiettile non può prescindere dalla comprensione della dinamica
che qualifica il proiettile in quanto istanza dell’oggetto generalizzato
“massa”. Il che in altri termini significa che la modellizzazione della
dinamica generale definisce il fondamento concettuale ed euristico per
lo studio dei processi locali.
Quanto sopra detto porta a concludere che la psicoterapia è uno dei
possibili processi che invera la comunicazione umana in ragione di
parametri derivati in parte dal contesto culturale e istituzionale (il
format professionale, il valore socialmente definito degli scopi, le forme
organizzative) e in parte della teoria clinica (i parametri tecnici). Tali
parametri rendono la psicoterapia una versione particolare dell’oggetto
scambio comunicativo, differenziabile dalle infinite altre versioni dello
stesso oggetto — corteggiamento, scrivere articoli scientifici, partecipare
a una riunione, educare i figli, etc. La psicoterapia funziona in un certo
modo non in quanto è un oggetto dotato di una propria modalità di
funzionamento, ma perché riflette, in ragione di specifici parametri di
campo,
la
Comprendere
dinamica
la
fondamentale
psicoterapia,
di
della
comunicazione
conseguenza,
richiede:
umana.
a)
la
modellizzazione di tale dinamica; b) la comprensione dei parametri di
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campo che la inverano; c) la descrizione dell’organizzazione del processo
che deriva da tale inveramento.
La distinzione dinamica/processo e la tesi della non autonomia della
psicoterapia non è una questione da delegare alla discussione filosofica.
Al contrario, è immediatamente rilevante per la process research in
quanto da essa derivano implicazioni cogenti di ordine concettuale e
metodologico. Ci limitiamo di seguito a richiamare, in estrema sintesi,
due di queste implicazioni. In primo luogo, tale tesi implica che i
meccanismi che rendono clinicamente rilevante lo scambio clinico siano
gli stessi che sottendono le altre forme di comunicazione umana. Ciò
equivale a dire che la risposta all’interrogativo del perché un
determinato aspetto del processo terapeutico (ad esempio, la durata del
trattamento, una caratteristica del paziente, una modalità di intervento
del terapeuta, la qualità della relazione, etc.) incide nel modo in cui
incide, vada ricercata nel modo con cui lo scambio comunicativo, in
quanto tale, funziona.
Per inciso, quanto appena detto implica una rivisitazione della
classica distinzione tra fattori aspecifici e specifici. In definitiva, gli
aspetti del processo che incidono sul trattamento — siano essi prescritti
o meno dalla tecnica — funzionano comunque in ragione di meccanismi
fondamentali. Ciò significa reinterpretare l‘opposizione specifico-non
specifico nei termini della coppia specifico-generale.
In secondo luogo, dal punto di vista metodologico, la tesi proposta
suggerisce la possibilità di una più estesa e sistematica adozione di
metodi e strumenti di analisi elaborati in domini di ricerca diversi dalla
clinica.
Quale concezione del significato?
Il processo terapeutico è una situazione di scambio comunicativo. Per
chi come noi concepisce la relazione terapeutica in chiave dialogica
(Gennaro & Salvatore, 2010), lo scambio comunicativo è la sostanza
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stessa del processo clinico. Tuttavia, anche chi non condivide questa
concezione non dovrebbe avere difficoltà a riconoscere nello scambio
comunicativo il vettore del fattore clinico — vale a dire il veicolo di ciò
che rende terapeutica la psicoterapia. In definitiva, il terapeuta opera
nei termini di atti (linguistici, ma non solo) che possono avere una
qualche incidenza sul paziente nella misura in cui quest’ultimo in
qualche modo li raccoglie e interpreta nella loro dimensione di eventi
comunicativi (Austin, 1962).
Quest’ordine di considerazioni ha spinto alcuni di noi ad approfondire
la concezione del significato che si assume, generalmente in modo
implicito, a fondamento del modo con cui si intende lo scambio
comunicativo e dunque il processo terapeutico. Tale sforzo si muove su
un piano generale e fondativo, dunque trasversale a una pluralità di
domini di ricerca (per quanto più strettamente riferibile agli interessi di
chi scrive: la ricerca clinica, ma anche la teoria generale della mente,
l’analisi
psicosociale
del
comportamento
economico,
dei
setting
formativi, organizzativi e socio-istituzionali; cfr. Forges Davanzati, Potì,
& Salvatore, 2008; Salvatore, in press; Salvatore, Forges Davanzati,
Potì, & Ruggeri 2009; Salvatore & Freda, 2010; Salvatore, Freda,
Ligorio, Iannaccone, Rubino, Scotto di Carlo, Bastianoni, & Gentile,
2003; Salvatore, Tebaldi, & Potì, 2006/2009; Salvatore & Venuleo,
2008; Salvatore & Zittoun, in press; Venuleo & Salvatore, 2008).
Obiettivo centrale e qualificante di questa linea di ricerca è lo
sviluppo e validazione empirica di una teoria dinamica del significato e
della significazione (sensemaking). Tale modello si discosta dalla visione
di senso comune, condivisa comunque anche da molta ricerca
psicologica e psicologico clinica, che assume i significati come entità
statiche, invarianti, proprietà fisse e discrete che si applicano agli
oggetti rappresentati. Una pluralità di sviluppi del pensiero psicologico
contemporaneo, in particolare i riscontri prodotti da un’ampia gamma
di teorizzazioni che possiamo far rientrare entro la cornice concettuale
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del socio-costruttivismo (cfr. inter alia Bruner, 1990; Cole 1996; Gergen,
1999; Edwards & Potter, 1992; Valsiner & Rosa, 2007), hanno
evidenziato la necessità di centrare l’analisi dei processi psicologici
sull'attività interpretativa degli attori, processo entro e per mezzo del
quale il significato
viene co-costruito, piuttosto che
meramente
applicato. Il socio-costruttivismo ha messo in discussione la visione dei
significati come entità fisse dell’universo simbolico, opponendo a essa
l’idea secondo la quale essi non preesistono allo scambio sociale e
comunicativo, ma sono costruiti e continuamente ridefiniti attraverso e
in funzione di tale scambio. I significati sono un prodotto contingente
della negoziazione intersoggettiva; tali negoziazioni, d’altra parte,
piuttosto che rispondere esclusivamente a regole astratte, sono esse
stesse atti sociali, orientati e organizzati da intenti pragmatici e retorici
di regolazione dello scambio sociale.
In altra sede (Forges Davanzati et al., 2008; Salvatore, Forges
Davanzati
et
al.,
2009)
alcuni
di
noi
hanno
discusso
alcune
caratteristiche del significato che il modello sopra accennato porta a
evidenziare. Le richiamiamo brevemente di seguito, segnalando di volta
in volta le implicazioni per la clinica.
Contestualità. Il sensemaking non è il prodotto di operazioni mentali
chiuse e concluse entro la testa degli individui. Al contrario, esso è un
processo intrinsecamente sociale, che si dispiega entro e attraverso lo
scambio comunicativo. Le strutture semantiche (i frame, gli schemi
mentali, i copioni di azione, le matrici decisionali) che organizzano il
funzionamento mentale non vanno intese in senso kantiano — cioè
come forme a priori inscritte nella struttura della mente degli esseri
umani; piuttosto, esse vanno concepite come prodotti storici, artefatti
simbolici che la cultura di un determinato gruppo sociale configura e
mette a disposizione dei propri membri (Cole, 1996). Dal punto di vista
clinico, ciò significa che quanto accade entro il processo terapeutico va
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considerato sempre e comunque in ragione del contesto socio-simbolico
in cui si inscrive, piuttosto che espressione immanente di una mente
isolata e in se stessa autonoma.
Situatività. I significati non risiedono in una sorta di universo
ubiquitario, dal quale condizionano i pensieri e i discorsi delle persone.
Al contrario, sulla scorta della lezione di Wittgenstein (1958), siamo in
condizione di riconoscere come essi si definiscano attraverso il modo
con cui le persone usano i segni — dunque, in definitiva: del modo con
cui agiscono (Harrè & Gillet, 1994). Ciò vuol dire che i significati vanno
considerati
come
circolarmente
connessi
alle
circostanze
della
comunicazione e dell'agire. I significati, da un lato, permettono agli
attori di comunicare e agire; dall’altro, sono sistematicamente e
ricorsivamente ridefiniti da tale agire e comunicare. È in questo senso
che parliamo di situatività dei significati ai discorsi: per evidenziare
come i modelli simbolici non preesistono alla comunicazione ed
all'azione, ma sono proprietà emergenti di tali processi (Salvatore,
Tebaldi, & Potì, 2006/2009; Salvatore & Freda, 2010), precipitato delle
forme situate di regolazione dello scambio sociale (Gergen, 1999;
Grasso, Salvatore, & Guido 2004; Salvatore, Ligorio, & De Freanchis,
2005). Il riconoscimento del carattere situato del significato ha una
conseguenza rilevante sul piano clinico e della process research. Le
strutture di significato sovraordinate (frame) che regolano il pensiero si
definiscono localmente, cioè all'interno ed attraverso le dinamiche
micro-sociali
in
cui
vengono
utilizzate.
Conseguentemente,
per
comprendere il senso di ciò che accade e viene comunicato entro il
processo clinico non ci si può limitare a prendere in considerazione le
singole unità della comunicazione, come se fossero entità in sè
significative; va tenuto necessariamente in conto il qui ed ora della
dinamica micro-sociale che sostanzia lo scambio clinico. È
questo il
principio metodologico dell'indessicalità della comunicazione (Salvatore,
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Gennaro, Grassi, Manzo, Melgiovanni, Mossi, Olive, & Serio, 2007). Tale
principio afferma che il significato di un atto – nel nostro caso, di un
atto prodotto entro il processo clinico – può assumere una pluralità di
significati, diversificati in ragione del contesto intersoggettivo ove si
esercita; ad esempio, la stessa frase può risultare in un'offesa, una
affermazione priva di senso, un apprezzamento - in ragione delle
circostanze discorsive e relazionali entro cui è prodotta.
Pragmaticità. Il modo di pensare non è mai un’operazione neutrale; al
contrario, è sempre e comunque un atto sociale, animato da una
qualche forma (comunicativa, espressiva, argomentata che sia) di
intenzionalità. In altri termini, il modo con cui gli attori danno
significato all’esperienza è una delle leve fondamentali attraverso cui
essi salvaguardano e promuovono reciprocamente le proprie prospettive,
versioni del mondo, sistemi di interessi; in ultima istanza, il proprio
ancoraggio identitario. Il che significa che le persone quando pensano e
discutono non si limitano ad applicare schemi di significato in modo
asettico, orientate da criteri di verità ciechi rispetto alle conseguenze. Al
contrario, esse organizzano i pensieri, adottano strategie retoriche,
assumono posizionamenti discorsivi ed intraprendono percorsi di
costruzione di senso per accreditare/affermare un punto di vista,
dunque per regolare lo scambio sociale in cui sono inscritti. In questo
senso, pensare e parlare sono atti intrinsecamente sociali. Da ciò
consegue una fondamentale implicazione euristica e metodologica: la
necessità di considerare la dimensione pragmatica del significato.
Aspetto per certi versi ovvio, ma non sempre tenuto in debito conto
entro la process research, dove è ancora prevalente il focus esclusivo
sulla componente semantica e/o sintattica del linguaggio (Manzo,
2010).
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Modalità
di
costruzione
della
conoscenza.
Il
problema
della
generalizzazione
Il processo terapeutico è per definizione un evento singolare, che vede
implicate due (o più) persone per un periodo di tempo più o meno lungo.
Lo studio scientifico, d'altra parte, richiede che le conoscenze relative ai
singoli fatti travalichino i confini della singolarità in modo da rendersi
generalizzabili.
Questa dialettica tra unicità e generalità è stata affrontata da alcuni
di noi nei termini di una rilettura critica della classica opposizione
nomotetico-idiografico (Salvatore, 2006b; Salvatore & Valsiner, 2009;
Salvatore, Valsiner, Strout, & Clegg,, 2009; Salvatore, Valsiner, TraversSimon, & Gennaro, 2010a, 2010b; si veda anche Molenaar & Valsiner,
2009). Secondo l'originaria tesi di Windelband (1904/1998; cfr. anche
Lamiell, 2003), i due termini sono in rapporto di complementarietà,
piuttosto che di opposizione, come invece generalmente si ritiene. Data
la loro natura dinamica (intesa come dipendenza temporale) e
contestuale, gli oggetti psicologici sono singolari, nel senso che la
relazione tra il loro modo di funzionare e le occorrenze fenomeniche nei
termini delle quali tale modo si esprime, è mediata dalla contingenza
delle condizioni di campo. Conseguentemente, la psicologia scientifica
non può che essere idiografica, nel senso che non può che prendere in
considerazione fenomeni unici e irreversibili (su questo punto, si veda
anche Toomela, 2009, 2010). Allo stesso tempo, tuttavia, gli obiettivi di
qualsiasi disciplina scientifica, dunque anche della psicologia, sono
necessariamente nomotetici, volti cioè a costruire conoscenze generali,
che trascendano l’ambito fenomenico specifico entro cui sono elaborate.
Il problema che dunque si pone alla psicologia, e quindi alla ricerca di
processo, è quale modello logico di generalizzazione sia coerente con la
natura idiografica del suo oggetto. In una serie di lavori recenti
(Salvatore & Valsiner, 2009, 2010) si è argomentato in favore della
abduzione quale fondamentale forma della conoscenza psicologica.
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Secondo la tesi proposta, l'unicità degli oggetti psicologici invalida la
possibilità di fondare su base induttiva la generalizzazione, vale a dire
in termini di accumulo di occorrenze empiriche provenienti da una
pluralità di casi individuali (Peirce parla dell'induzione nei termini di
acquisizione di una abitudine: se un evento occorre n volte, allora se ne
induce che si tratta di una regolarità che ci si abitua a considerare
valida anche in futuro). Infatti, se i casi individuali sono per definizione
incommensurabili, se ne deve inevitabilmente concludere l'impossibilità
di assimilare tra loro le occorrenze relative a casi differenti. Questo
stesso principio è stato concettualizzato in chiave psicometrica da
Molenaar (2004; Molenaar & Valsiner, 2009), nei termini del carattere
non ergodico dei processi psicologici (su questo punto si rimanda a
Salvatore, 2006b).
L'alternativa alla generalizzazione induttiva è l'abduzione (Di Nuovo,
2010).
La
generalizzazione
fondata
su
tale
logica
parte,
come
l'induzione, dal dato, ma si orienta alla costruzione di un modello teorico
locale, vale a dire un modello che interpreta (abbraccia in una totalità,
secondo l'immagine di Peirce) le occorrenze fenomeniche del caso. Il
modello teorico locale viene prodotto in ragione, ed entro i vincoli della
teoria generale che guida l'investigazione abduttiva. È la relazione tra
teoria locale e teoria generale a essere oggetto della generalizzazione. Ciò
equivale a dire che la generalizzazione abduttiva concerne la costruzione
di un modello locale che rifletta la teoria generale e sia allo stesso tempo
sufficientemente astratto (cioè non espresso in termini dipendenti dal
contenuto empirico contingente al singolo caso16), per poter interpretare
(abbracciare in una totalità) una pluralità di casi.
16
Si prenda come esempio il caso di un processo caratterizzato dalle occorrenze: a, b, b, a, b, b, b, a, b, b,
b, b, a. Il contenuto empirico di tale processo è unico per definizione, per cui non sarebbe possibile
generalizzazione se fosse tale contenuto a essere assunto come oggetto di analisi. Al contrario, il pattern
che caratterizza la relazione a-b può essere studiato oltre il (ma non indipendentemente dal) suo contenuto
empirico — ad esempio come tendenza del secondo elemento della diade (b) ad aumentare la propria
incidenza nel tempo. Ora, questo modello — che può anche essere formalizzato — è una mappatura
astratta del caso, una sua rappresentazione priva di contenuto empirico. In questo modo diviene possibile
creare una generalizzazione tra diversi casi attraverso un’operazione di astrazione — ad esempio si potrà
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Approfondiamo brevemente quanto fin qui detto. Si consideri una
serie C di casi (1, 2, 3, ..., n). Si assuma ix come l’insieme di occorrenze
espresse dal singolo caso. La generalizzazione induttiva definisce
l’insieme (IC) degli insiemi di occorrenze, ix relativi ad ogni esemplare
della serie C, che sono (secondo gli standard e i presupposti
dell'osservatore) descrittivamente tra loro simili. L'insieme IC è preso
come indicativo della regola generale, valida per ogni caso di C.
Al contrario, nel caso della generalizzazione abduttiva, l’insieme i1
(vale a dire: le occorrenze empiriche espresse dal caso 1 vengono
modellizzate in quanto espressione di un fenomeno singolare e
irripetibile, dunque non assimilabili alle occorrenze del caso 2.
Conseguentemente, non si procede alla costituzione di IC, ma si assume
come base dati i1. La modellizzazione delle occorrenze i1 genera il
modello locale L1. Per inciso, L1 è sviluppato a partire, in ragione ed
entro i vincoli di una teoria generale (TC). Il modello L1 viene
successivamente utilizzato per interpretare le occorrenze i2, vale a dire
le occorrenze espresse dal caso 2. In tale processo interpretativo, L1
viene inevitabilmente sottoposto ad astrazione, al fine di contemplare la
specificità locale del nuovo caso. Ciò lo trasforma nel modello L(1,2): un
modello più generale di L1 che, senza perdere la valenza di interpretante
della relazione tra TC e i1, sarà allo stesso tempo in grado di interpretare
anche i2. Nella misura in cui L(1,2) si mantiene compatibile con TC, allora
esso
può
essere
considerato
un’estensione
generalizzata
di
L1.
L’applicazione ricorsiva di tale procedura abduttiva alla successione di
casi C (1, 2…n) produrrà il modello L(1,
2, ..n)
, che costituirà il modello
locale generalizzato, dotato del livello di astrazione necessario per
interpretare la specificità della serie dei singoli casi.17
La differenza fondamentale tra induzione e abduzione, in sintesi, sta
nel fatto che la prima punta a rilevare ciò che è comune tra i casi,
dire che il caso che evidenzia il pattern m, n, n, m, n, n, n, m, n, n, n, n, m, pur avendo contenuto empirico
differente, segue lo stesso modello di funzionamento del primo caso.
17
Un esempio di modalità di ricerca che richiama questa procedura logica è dato dalla Task Analysis (cfr.
Pascual-Leone, Greenberg & Pascual-Leone, 2009).
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mentre la seconda ricerca il potenziamento della teoria attraverso
l’accomodamento
della
stessa,
alimentato
dal
confronto
con
la
variabilità locale dei singoli casi.
Un esempio può aiutare a illustrare la differenza tra i due modelli di
conoscenza
sopra
richiamati.
Prendiamo
in
considerazione
due
ricercatori interessati a studiare la relazione tra l’andamento della
sintomatologia e gli interventi del terapeuta. Poniamo ora che il primo
ricercatore, Indut, segua la logica induttiva. Indut prende in esame il
caso, da un lato verificando la presenza di interventi del terapeuta
(poniamo, per semplicità, la frequenza degli interventi per seduta),
dall’altro rilevando il livello di sintomatologia in determinati punti
temporali (ad esempio, al termine di ogni seduta). Immaginiamo che
Indut riscontri che il livello della sintomatologia sia minore nelle sedute
dove si registra un numero più elevato di interventi del terapeuta. A
questo punto, Indut passa a studiare una successione di ulteriori casi,
trovando nella maggior parte delle circostanze (o in tutte, la differenza è
qui irrilevante) risultati che considera tra loro simili e che dunque
assimila nella seguente rappresentazione: “Nei casi analizzati ho
osservato sistematicamente che quando aumenta la frequenza degli
interventi del terapeuta diminuisce il livello di sintomatologia”. Avendo
accumulato un numero consistente di osservazioni che ribadiscono tale
associazione, Indut si sente legittimato (è indotto) a concludere che la
relazione tra la frequenza degli interventi del terapeuta e la riduzione
della sintomatologia sia una regola universale, valevole nella totalità dei
casi. Indut ha operato così una generalizzazione induttiva. Per dirla nei
termini sopra utilizzati, Indut ha estratto dai casi dell’insieme C
l’insieme ridondante di occorrenze ix (andamento sintomatologia e
frequenza interventi) presenti in tutti (o la maggior parte) dei casi C, e
ha generalizzato IC, dando a tale insieme il valore di rappresentazione di
una legge valida per la generalità dei casi: S = f(Int), che mappa la
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Sintomatologia (S) come funzione della frequenza degli Interventi (Int)
del terapeuta.
Da quanto sopra osservato se ne ricava che la generalizzazione
induttiva è una forma di conoscenza estensionale: una conoscenza che
consiste nella possibilità di ampliare il numero di casi per i quali si
considera valida una affermazione ricavata da — e originariamente
riferibile a — un numero ristretto di casi.
Poniamo ora che Abdut, il secondo ricercatore, segua la logica
abduttiva. Abdut assume come riferimento una teoria generale (TC), che
precede (e dunque guida) l’osservazione empirica. Poniamo che Abdut
sia una intersoggettivista e che dunque, assumendo la contingenza
della mente del paziente alla relazione clinica, abbracci la teoria
generale S = f(R): il livello della sintomatologia S è una funzione della
relazione R che si instaura tra paziente e terapeuta. Come si può
osservare, il punto di partenza di Abdut è il punto di arrivo di Indut: la
teoria generale (la TC da cui parte Adbut è tuttavia più astratta di quella
a cui giunge Indut). Sulla scorta della TC di riferimento, Abdut avvia
l’analisi, prendendo in esame il caso 1. La TC la guida tanto nella
selezione delle occorrenze pertinenti — la frequenza di interventi del
terapeuta e il livello della sintomatologia — che nella modellizzazione
delle relazioni tra esse. Abdut è così in condizione di formulare un
modello interpretativo (L1) del caso: S = f(Int). Vale la pena evidenziare
che tale modello, per quanto non differisca nel suo contenuto dal
risultato dell’analisi di Indut, è prettamente locale, vale a dire è relativo
e di validità circoscritta al caso 1: è una forma di conoscenza
idiografica. Abdut procede nella sua analisi esaminando il caso 2,
impegnandosi a interpretarlo nei termini del modello locale (L1), così
come precedentemente definito. Nel caso di 2, tuttavia, Abdut osserva
un pattern che non si presta a essere assimilato a L1: in un certo
numero, limitato, di sedute la maggiore frequenza degli interventi si
associa a un incremento, piuttosto che a una riduzione del livello della
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sintomatologia. Tenendo conto dell’insieme delle occorrenze esaminate,
questo pattern rappresenta un dato marginale, un’eccezione; ma è
proprio su di esso che Abdut si concentra, “costringendosi” ad
accomodare L1 in modo che tale modello sia in grado di “abbracciare”
anche il pattern apparentemente divergente. Analizzando le occorrenze
nella loro totalità, Abdut giunge così a formulare un nuovo modello
locale L(1,2), più generale del primo, in grado di interpretare 2 e allo
stesso tempo di offrire una reinterpretazione del caso 1. Poniamo che
tale modello sia S = F(Intrel): il livello della sintomatologia dipende dalla
proporzione di interventi del terapeuta rispetto agli atti linguistici
prodotti dal paziente (Intrel). Come si può osservare, il modello L(1,2) si
colloca a un livello di astrazione maggiore di L1, nel senso che: a)
concerne
un
pattern
maggiormente
distante
dal
dato
empirico
contingente (ad esempio, lo stesso valore di Int può corrispondere a due
valori di Intrel differenti e viceversa); b) si traduce nella selezione di un
aspetto maggiormente circoscritto, frutto di un incremento del livello di
selezione degli elementi ritenuti pertinenti (sul concetto di astrazione
come pertinentizzazione si rimanda a Bühler (1934/1990); si veda
anche Salvatore & Valsiner, 2009). Abdut passa dunque al terzo caso, e
poi ai successivi, di volta in volta accomodando il modello locale in
ragione dei pattern divergenti. Ciò fino a quando il modello locale non
risulti
sufficientemente
interpretativo
dei
generalizzato
successivi
casi
da
senza
offrirsi
come
necessità
di
criterio
ulteriori
accomodamenti. Parallelamente, a mano a mano che il modello locale si
generalizza e acquista progressivi livelli di astrazione, esso sottopone a
“pressione”
la
generalizzato,
teoria
generale.
dunque,
lavora
Lo
come
sviluppo
fattore
del
di
modello
locale
validazione
o
di
ridefinizione della teoria generale, a seconda se quest’ultima sia in
grado
di
“reggere”
la
pressione
o
si
renda
necessario
il
suo
accomodamento. Possiamo così concludere che se la generalizzazione
induttiva è una forma di conoscenza estensionale, la generalizzazione
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abduttiva ne è il contraltare intensionale: una forma di conoscenza
consistente nel progressivo sviluppo (articolazione/astrazione) della
teoria.
Anche in questo caso vale la pena evidenziare, sia pure in estrema
sintesi, alcune implicazioni che rendono la discussione intorno
all’abduzione di immediato interesse per la ricerca clinica. In primo
luogo, la logica abduttiva restituisce il primato alla teoria sull’empiria;
ciò senza tuttavia negare il valore dei dati, dunque della ricerca
empirica. Al contrario, la ricerca empirica viene valorizzata come volano
della costruzione teorica. Quanto sopra detto dovrebbe aver reso
evidente, infatti, come la generalizzazione abduttiva sia guidata dalla
teoria. Secondo tale modello, la conoscenza è un processo ricorsivo di
sviluppo della teoria, precipitato dello sforzo sistematico di fondare
interpretazioni locali di fenomeni (dunque di dati).
In secondo luogo, la logica abduttiva sollecita una strategia (e una
cultura) di ricerca per certi versi opposta a quella canonica, basata sulla
induzione. Lo sviluppo abduttivo della teoria richiede di mettere in
tensione la valenza euristica della teoria. Conseguentemente, la scelta
dei fenomeni da studiare si indirizza in ragione della ricerca dell’evento
marginale, del dato divergente e sorprendente, quello che mette in
discussione l’interpretazione acquisita, costringendo il ricercatore a
rimodulare, rielaborare, astrarre la teoria. Insomma, i casi marginali
che la logica induttiva considera rumore ostacolante la ricerca di
regolarità, sono dalla logica abduttiva valorizzati come la fonte primaria
di conoscenza.
Infine, la logica abduttiva rende evidente l’utilità in psicologia di
pervenire a modalità di formalizzazione della conoscenza. Se la
generalizzazione si esprime, secondo questa logica, nella progressiva
astrazione del modello, allora è evidente che i linguaggi formalizzati si
offrono come un utile strumento di sviluppo della teoria psicologica.
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Per una teoria generale del processo
In precedenti lavori alcuni di noi hanno evidenziato la necessità di
distinguere due diversi obiettivi e focus di analisi: la ricerca nel processo
versus la ricerca sul processo (Manzo, 2010; Salvatore, 2006b;
Salvatore, Gelo, Gennaro, & Manzo, 2009). Il primo tipo di ricerca si
focalizza su specifiche dimensioni-costrutti ritenuti rilevanti dal punto
di vista clinico (ad esempio: l’alleanza terapeutica, gli interventi del
terapeuta, i meccanismi di difesa, il funzionamento metacognitivo). Il
processo, secondo questa prospettiva, è il contenitore entro cui tali
variabili si dispiegano. In definitiva, in quanto tale, il processo clinico
non costituisce l’oggetto di analisi di questo tipo di ricerca, quanto il
suo presupposto: lo scenario entro e grazie al quale la dimensionecostrutto target opera. Il secondo tipo di processo riflette un diverso, più
generale, obiettivo: lo sviluppo di una teoria del processo clinico, inteso
come un fenomeno in sé, da modellizzare nella sua globalità (Salvatore,
Mossi, & Gennaro, 2007). Simile teoria concerne interrogativi del tipo:
in che cosa consiste lo scambio clinico? Come funziona? In che cosa
consiste il cambiamento clinico? Quale dinamica lo sostanzia? Quali
sono i vettori e i regolatori di tale dinamica?
In realtà, non sono molti i ricercatori che si sono proposti di definire
una teoria generale del processo in grado di dare risposta a tale ordine
di questioni (ad esempio, Mergenthaler, 1996; Bucci, 1997; Gonçalves,
Matos, & Santos, 2009). Ciò per certi versi è comprensibile: la ricerca
sul processo è impresa complicata; data la pluralità delle forme e dei
modelli psicoterapeutici, tale tipo di ricerca richiede l’elaborazione di
modelli astratti generalizzati, tuttavia in grado di non disperdere la
specificità del fatto clinico. D’altra parte, la definizione di una teoria
generale del processo clinico è una priorità per la process research, che
ha necessità di riferirsi a una cornice meta-teorica in grado di orientare
e rendere reciprocamente commensurabili le analisi focalizzate sugli
aspetti specifici dello scambio clinico.
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Sulla base di tali considerazioni, il nostro gruppo di ricerca si è in
questi anni impegnato nella elaborazione e validazione di un modello
generale del processo terapeutico (Gennaro, Al-Radaideh, Gelo, Manzo,
Nitti & Salvatore, 2010; Salvatore, Gelo, Gennaro, & Manzo, 2009),
basato
su
una
concezione
della
mente
di
matrice
dialogica
e
culturalista: il Two Stage Semiotic Model (TSSM).
Il Two Stage Semiotic Model (TSSM)
Il TSSM si basa su un postulato fondamentale e su tre assunti
derivati da tale postulato.
Postulato
fondamentale.
La
psicoterapia
come
dinamica
di
sensemaking. Lo scambio clinico è una dinamica intersoggettiva di
costruzione di significato, finalizzata a modificare le modalità affettive e
cognitive utilizzate dal paziente nell’interpretare le sue esperienze. I
pazienti arrivano in psicoterapia dispiegando un sistema più o meno
rigido di assunti dichiarativi e procedurali (concezioni di sé e degli altri,
schemi affettivi, modalità metacognitive, strategie relazionali e di
attaccamento,
piani
inconsci,
etc)
che
fungono
da
significati
sovraordinati, vale a dire da premesse di senso che regolano
l’interpretazione
dell’esperienza
(Valsiner,
2007).
Tali
assunti
rappresentano la fonte del problema che spinge in psicoterapia; allo
stesso tempo essi sono la base e al contempo il vincolo all’attività di
sensemaking. I sintomi, così come i conflitti intrapsichici e relazionali,
sono concepibili come il sostrato e/o la conseguenza di tali significati
sovraordinati. In ultima analisi, i significati sovraordinati sono il motivo,
l’oggetto e l’obiettivo — così come il mediatore — della psicoterapia.
Assunto 1: Articolazione in due fasi. In un primo momento della
psicoterapia il dialogo clinico
(dunque l’incontro con un sistema di
assunti altro, definito dal setting clinico) funge da limite al sistema di
assunti del paziente. Se così non fosse il paziente non potrebbe che
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generalizzare le proprie modalità interpretative dell’esperienza alla
relazione con il terapeuta, e così facendo riprodurre in modo assoluto
all’interno del setting clinico quegli elementi critici per trattare i quali lo
stesso setting clinico è stato disposto. Ciò comprometterebbe la capacità
del dialogo clinico di introdurre aspetti innovativi nell’attività di
sensemaking. Ad esempio, un paziente paranoico che considera l’altro
pericoloso per default, avrebbe poche possibilità di usufruire della
psicoterapia se, assimilando completamente il setting allo schema
paranoico, fosse totalmente e assolutamente convinto che il terapeuta
intenda danneggiarlo. In questa prospettiva, quindi, la prima fase dello
scambio clinico si configura come un processo fondamentalmente
decostruttivo, in cui il dialogo terapeutico funge da limite esterno
all’attività regolativa dei significati sovraordinati (prevalentemente
problematici) del paziente (Salvatore & Valsiner, 2006).
L’indebolimento dei significati sovraordinati risultante dalla prima
fase dello scambio clinico apre a un secondo momento, di tipo
costruttivo, caratterizzato dall’elaborazione di nuovi assunti da parte del
paziente. In questa seconda fase il dialogo paziente–terapeuta ha la
possibilità
di
precipitare
nella
costruzione
di
nuovi
significati
sovraordinati, che possano fungere da regolatori innovativi nell’attività
di sensemaking.
Ovviamente, le due fasi non sono totalmente separabili; tuttavia, a un
livello macro-analitico, è possibile, in una psicoterapia a esito positivo,
distinguere tra un primo momento caratterizzato da un processo di
decostruzione e un secondo momento caratterizzato da un processo
costruttivo, dove l’attività clinica funge da sostegno e impulso
all’esplorazione, da parte del paziente, di nuovi significati.
Assunto 2: Non linearità del processo terapeutico. L’articolazione
bifasica prospettata dal primo assunto del TSSM implica che lo scambio
clinico svolge funzioni differenti in momenti differenti del processo
clinico (fase decostruttiva e fase costruttiva). Conseguentemente, a
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differenza di quanto implicato nella visione tradizionale del processo
terapeutico, la dinamica di sensemaking non segue un andamento
lineare nel corso della psicoterapia: il sensemaking ha a che fare con il
cambiamento di pattern di funzionamento, piuttosto che con un
cambiamento cumulativo di elementi discreti tra loro indipendenti [sulla
non linearità del processo clinico si veda, ad esempio, Russel (1994)].
Assunto 3: Quasi periodicità del sensemaking. Questo terzo assunto
ha a che fare con il meccanismo micro-semiotico che istanzia la
dinamica di sensemaking. In linea con la visione non lineare del
processo clinico (Lauro-Grotto, Salvatore, Gennaro, & Gelo, 2009), il
TSSM assume un meccanismo quasi-periodico alla base dello scambio
comunicativo. Tale meccanismo si qualifica per un andamento a
strappi, simile al battito cardiaco, caratterizzato da momenti basici,
rappresentativi del funzionamento del sistema di assunti del paziente,
che vengono interrotti da momenti circoscritti di “irruzione” di
variabilità
semiotica,
ovverossia
di
ricombinazione
tra
i
diversi
significati.
Evidenze relative al TSSM
Il nostro gruppo ha sviluppato un metodo di analisi del processo
clinico coerente con il TSSM: il Discourse Flow Analysis (DFA),
utilizzandolo nell’analisi di una successione di casi, secondo il modello
della generalizzazione abduttiva descritto in precedenza. Rinviamo al
prossimo paragrafo per la presentazione del metodo e l’illustrazione di
alcuni risultati ottenuti tramite il suo uso. Qui ci limitiamo ad
anticipare che i riscontri fin qui ottenuti si prestano ad essere
interpretati nei termini del modello teorico, in questo modo offrendosi
come elementi a sostegno della validità di costrutto del TSSM. In
particolare:
a) Per ciascuno dei casi analizzati, l’andamento dell’incidenza dei
significati sovraordinati segue una curva a U. Tale traiettoria è
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interpretabile alla luce del TSMM, come successione di una fase
decostruttiva, quando lo scambio clinico opera in modo da ridurre i
significati sovraordinati di cui è portatore il paziente, seguita da una
fase costruttiva, quando la psicoterapia si caratterizza per la
capacità di sviluppare nuovi significati.
b) le analisi dei casi evidenziano come alle due fasi previste dal TSMM
corrispondano pattern di funzionamento differenti. Ad esempio,
svariate correlazioni tra le variabili rilevanti si modificano — sia in
termini di entità che di direzione — nel passaggio da una fase
all’altra.
c) Le analisi hanno messo in evidenza un andamento a strappi della
dinamica di sensemaking. Questo tipo di andamento è interpretabile
in ragione del terzo assunto del TSSM secondo il quale il
sensemaking procede secondo un meccanismo caratterizzato dalla
irruzione di momenti circoscritti di innovazione semiotica.
Questioni di metodo
Tra i ricercatori sta progressivamente diffondendosi la consapevolezza
circa la necessità di tenere maggiormente in conto la complessità del
processo clinico (Dazzi, 2006; Grasso, 2010).18 Tale consapevolezza sta
18
In realtà il tema non è per nulla nuovo. Circa un quarto di secolo fa, Stiles e Shapiro (1994, pag. 37)
proposero un critica radicale del paradigma di ricerca tradizionale che assimilava la ricerca in psicoterapia
alla ricerca in campo farmacologico. Gli autori chiamarono tale assimilazione “drug metaphor”,
descrivendola nei termini seguenti. “[…] Un paradigma investigativo […] [che] guarda alla psicoterapia
come un composto di principi attivi forniti dal terapeuta al paziente […] Tali supposti ingredienti attivi
sono componenti di un processo — tecniche terapeutiche come l’interpretazione, la confrontazione , la
riflessione, la self disclosure, la focalizzazione sulle emozioni, lo sforzo per dare supporto, o (più
astrattamente) l’empatia, il calore o la genuinità. Se un componente è un ingrediente attivo allora una sua
forte somministrazione è ritenuta un portare verso un esito positivo, in caso contrario l’ingrediente viene
ritenuto inerte [...]” (ndr. traduzione nostra).
La drug metaphor è un esempio classico di processo lineare, molecolare e additivo. In linea con tale
prospettiva: a) processo ed esito sono distinguibili, giacchè il primo causa il secondo; b) gli ingredienti
del processo sono elementi conosciuti, sostanziali, isolabili, alla stregua di elementi discreti che vengono
via via implementati in linea con procedure tecniche indipendenti e che hanno sempre lo stesso effetto sul
paziente, nel corso del processo (Stiles & Shapiro, 1994).
Questi assunti rappresentano un modello chiaramente ipersemplificato di psicoterapia, che scotomizza la
natura contestuale, olistica, contingente e non lineare del setting clinico. Lo scambio clinico è
caratterizzato da un numero elevato di fattori, molto superiore al numero di aspetti che la ricerca in
psicoterapia è in grado di isolare (cfr. Contestualità, cfr. Bickhard, 2009). Inoltre, ciò che è rilevante non
sono gli elementi in se stessi, ma la loro interazione, ovvero il modo in cui lavorano come parte di un
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facendo emergere una domanda di strategie e metodi di analisi
innovativi, in grado di sostituire gli approcci tradizionalmente adottati,
implicanti una visione statica, molecolare e lineare dello scambio
clinico. Il nostro gruppo di ricerca si propone di contribuire a questa
prospettiva di innovazione metodologica. Tre sono in particolare le linee
di ricerca, tra loro inevitabilmente intrecciate, che stiamo in questa
direzione percorrendo.
In primo luogo, in una serie di lavori di rassegna (Gelo & Salvatore,
submitted;; Lauro-Grotto, Salvatore, Gennaro, & Gelo, 2009; Salvatore,
Lauro-Grotto,
Gennaro,
&
Gelo,
2008;
Salvatore,
Lauro-Grotto,
Gennaro, & Gelo, 2009; Salvatore & Tschacher, submitted) e di analisi
empiriche (Gennaro, Al-Radaideh, Gelo, Manzo, Nitti, & Salvatore, 2010;
Salvatore, Gennaro, Auletta, Grassi, & Rocco, submitted; Auletta,
Salvatore, Metrangolo, Monteforte, Pace, & Puglisi, submitted), abbiamo
proposto argomenti, esempi e dati a favore della Teoria dei Sistemi
Dinamici come fonte di metodologie maggiormente coerenti con la
natura di campo dello scambio clinico. In secondo luogo, stiamo
lavorando allo sviluppo di sistemi automatici di analisi dei trascritti di
seduta (Nitti, Ciavolino, Salvatore, & Gennaro, 2010; Salvatore,
Gennaro, Auletta, et al., submitted; Salvatore, Gennaro, Auletta, Tonti,
et al., submitted). In terzo luogo, la concezione dinamica e contestuale
del processo clinico delineata nelle pagine precedenti si è tradotta in un
metodo di analisi — il DFA (Discourse Flow Analysis) — volto a
permetterne la validazione.
tutto (Olismo, cfr. Valsiner, 2007; Salvatore & Valsiner, in press). Di conseguenza nessun elemento può
essere pensato come portatore di una valenza clinica invariante. Piuttosto, il suo impatto sul processo è
mediato dal campo, inteso come l’insieme delle co-occorrenze di elementi (Non linearità; cfr. Barkham,
Stiles, & Shapiro, 1993). Inoltre l’idea di ingredienti tecnici implementati dal processo, ma
indipendentemente dal processo, contrasta con l’ovvia osservazione clinica che il paziente non è soltanto
il bersaglio ricettivo dell’azione del terapeuta ma anche un agente che a sua volta stimola l’azione del
terapeuta (Contingenza, cfr. Goncalves, Ribeiro, Matos, Santos, & Mendes, 2010). Infine come il dibattito
sull’alleanza terapeutica evidenzia (Colli & Lingiardi, 2009), l’unidirezionalità del legame tra processo ed
esito non è più sostenibile: processo ed esito si associano in modo circolare — il primo causa ed è causato
dal secondo (Circolarità; Greenberg & Pinsof, 1986).
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Proprietà dello scambio clinico e nuove strategie di analisi
Il punto di partenza della nostra argomentazione è il riconoscimento
della valenza di campo del significato (Salvatore, in press). Come già
osservato, diversi approcci nel campo della psicologia, della semiotica,
della linguistica, della filosofia hanno evidenziato come il significato sia
un processo dinamico e situato che si snoda attraverso l’uso delle
parole (e altri segni), piuttosto che una qualità invariante inerente i
segni (inter alia, Andersen, 2001). Le parole acquistano significato in
funzione delle specifiche circostanze socio-discorsive in cui vengono
prodotte. Il riconoscimento del carattere di campo del significato ci ha
portato a evidenziare due proprietà fondamentali dello scambio clinico
— la sistematicità e la dinamicità — e a derivare da esse altrettante
basilari indicazioni metodologiche: studiare le configurazioni; analizzare
le sequenze.
Sistematicità. Il significato dei segni dipende dal modo in cui vengono
utilizzati, da come si combinano con altri segni, all’interno delle
circostanze discorsive (Greenberg & Pinsof, 1986; Harré & Gillett, 1994;
Fornari, 1979). In questa prospettiva ciò che diviene rilevante non è
tanto
l’occorrenza
dei
segni,
quanto
la
loro
relazione.
Freud
(1900/1953) ha già sottolineato questo aspetto mettendo in guardia dal
fornire interpretazioni semplicistiche dei simboli del sogno in termini di
corrispondenza uno a uno tra simbolo e significato (ad esempio, sigaro =
pene). Similmente, il sensemaking è una attività di sistema in cui
l’intera rete di relazioni tra elementi è diversa dalla loro composizione
additiva: i significati sono come elementi chimici che producono entità
diverse in ragione di piccole modifiche nella loro combinazione (Grassi,
2008).
Dinamicità. Sottolineare la valenza sistemica del sensemaking implica
sottolinearne anche la sua natura intrinsecamente dinamica, ovvero la
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sua dipendenza temporale. Il linguaggio è per sua natura sequenziale; le
relazioni tra i segni linguistici sono necessariamente relazioni temporali.
Il tempo non è solamente il contenitore all’interno del quale il significato
si dispiega; esso esercita un ruolo costitutivo nella costruzione del
significato (Lauro-Grotto, Salvatore, Gennaro, & Gelo, 2009; Nitti,
Ciavolino,
Salvatore,
&
Gennaro,
2010;
Salvatore,
Lauro-Grotto,
Gennaro, & Gelo, 2009). Il sensemaking non ha a che fare solo con ciò
che è detto e con come è detto; ma anche con quando ciò che è detto è
detto, ovverossia prima o dopo che cosa. Si prendano ad esempio le
seguenti affermazioni, che potrebbero caratterizzare la produzione
narrativa di due ipotetici pazienti:
Paziente 1
“Quando perdo al gioco mi arrabbio molto e desidero essere aiutato da uno
psicoterapeuta”
Paziente 2
“Quando desidero essere aiutato da uno psicoterapeuta mi arrabbio molto e
perdo al gioco”
Le due frasi sono composte dalle stesse parole e sul piano del
contenuto sono identiche; eppure il loro significato è notevolmente
diverso, in ragione dell’ordine con cui le parole compaiono: mentre la
prima frase riferisce del bisogno di supporto terapeutico associato
all’esperienza di gioco, la seconda connota il gioco come dimensione di
acting out, reattiva al riconoscimento del desiderio di aiuto.
Studiare le configurazioni. La natura sistemica del sensemaking porta a
spostare il focus delle analisi dalle occorrenze di categorie discrete di
significato alla loro combinazione in termini di pattern (von Eye, Mum,
& Mair, 2009; Greenberg, 1994; Matos, Santos, Gonçalves, & Martins,
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2009; Salvatore, Lauro-Grotto, Gennaro,
& Gelo, 2009; Salvatore,
Tebaldi, & Potì, 2006/2009). Prendiamo ad esempio la presenza di tre
categorie semantiche: a, b, e c, che occorrono rispettivamente 3, 5, e 2
volte. Se il nostro studio si limitasse all’analisi della loro distribuzione
concluderemmo che a e b sono le più frequenti. Ciò tuttavia non
necessariamente implica che queste categorie siano le più rilevanti.
L’analisi del loro ruolo, infatti, richiede una mappatura di come le
categorie si combinano l’una con l’altra. Ed è facile osservare come la
stessa distribuzione complessiva possa corrispondere a una pluralità di
scenari di combinazione (ad esempio, scenario 1: a-a-b-b, c-c-a, b-b-b;
scenario 2: a-a-a-b, -b-b-b, b-c-c), dunque a una pluralità di significati
globali.
Analizzare le sequenze (di configurazioni). La dipendenza temporale del
sensemaking porta a focalizzare l’analisi sui pattern diacronici, oltre che
sincronici, di combinazione dei contenuti. Ciò significa porre attenzione
alle transizioni tra i significati: quale contenuto segue o precede quale,
con quale probabilità e in ragione di quali condizioni elicitanti. La
transizione assume la funzione metodologica di marcatore della
dinamica di sensemaking.
Diversi lavori del nostro gruppo di ricerca hanno adottato modalità di
analisi ispirate ai due criteri metodologici appena richiamati. Ad
esempio, Nitti e colleghi (2010) hanno utilizzato una procedura
integrante l’analisi markoviana delle sequenze (cfr. anche Salvatore,
Gennaro, Grassi, Manzo, Melgiovanni, Mossi, Olive, & Serio, 2007;
Salvatore, Lauro-Grotto, Gennaro, & Gelo, 2009) e l’implementazione di
una rete neurale; così facendo sono stati in grado di distinguere sedute
clinicamente positive versus sedute non positive — così definite sulla
base di un criterio clinico indipendente. Salvatore, Tebaldi e Potì
(2006/2009) hanno adottato un metodo di analisi basato sullo studio
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della dimensionalità dello spazio delle fasi19 utilizzato per rappresentare
l’andamento nel tempo della variabilità lessicale caratterizzante lo
scambio comunicativo durante una psicoterapia. In particolare, gli
autori hanno riscontrato come la dimensionalità dello spazio si riduca
drasticamente nel periodo immediatamente successivo all’inizio della
psicoterapia, per poi conservare un andamento stabile fino al termine
della terapia. Tale risultato è stato interpretato come indicativo
dell’emergenza e successivo mantenimento di una cornice di senso
condivisa entro lo scambio clinico, espressione di un accordo discorsivo
tra terapeuta e paziente, che si riflette nella riduzione della libertà di
associazione tra le parole (per un’analisi simile, basata sul riferimento
teorico-metodologico
alla
sinergetica,
si
veda
Gelo,
Ramseyer,
Mergenthaler, & Tschacher, 2008).
Santos, Gonçalves, Matos e Salvatore (2009) hanno studiato la
dinamica del cambiamento nelle narrazioni di una paziente, attraverso
una
procedura
di
analisi
multidimensionale
(Analisi
delle
Corrispondenze e Analisi dei Cluster) volta a estrapolare configurazioni
narrative
indicative
di
momenti
di
cambiamento
nelle
modalità
discorsive del paziente (gli Innovative Moments secondo la terminologia
del metodo utilizzato, cfr. Gonçalves, Ribeiro, Matos, Santos, & Mendes,
2010). In questo modo l’analisi è andata oltre la mera rilevazione
dell’incidenza delle singole categorie narrative, per concentrarsi sulla
identificazione di combinazioni di occorrenze e sulla loro evoluzione
lungo l’arco temporale del processo terapeutico analizzato.
Recentemente, Gelo & Salvatore (submitted) e Salvatore & Tschacher
(submitted) hanno presentato una serie di strategie di analisi ispirate
alla Teoria dei Sistemi Dinamici [analisi di Montecarlo, differenza mobile
19
Lo spazio delle fasi è lo spazio ciascun punto del quale rappresenta uno e un solo stato del sistema
descritto. Ad esempio, un punto di uno spazio delle fasi a due dimensioni, descriverà uno stato del
sistema nei termini delle coordinate di tale punto. In generale, lo spazio delle fasi ha una dimensionalità
corrispondente ai gradi di libertà del sistema che descrive. Ad esempio, se un corpo si muove
esclusivamente su un piano, serviranno due dimensioni per descrivere la sua traiettoria; se invece si
muove in uno spazio tridimensionale, serviranno tre dimensioni. La dimensionalità dello spazio delle fasi
è dunque un indicatore della variabilità del comportamento dei sistema.
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(Salvatore, Serio, & Manzo, 2006); modellizzazione delle traiettorie;
studio delle probabilità di transizione; analisi univariata dei trend
(Molenaar & Valsiner, 2009)], argomentandole sul piano teorico-clinico
ed illustrandole con esempi tratti da una varietà di ricerche.
Infine, Gelo e Salvatore (submitted), hanno discusso dati clinici e di
ricerca
che evidenziano
il carattere dinamico, disomogeneo, non
lineare, discontinuo e multi-direzionale del cambiamento terapeutico. Il
riconoscimento di tali caratteristiche comporta la necessità di ripensare
criticamente molti degli assunti che sono attualmente alla base della
ricerca in psicoterapia, così come di sviluppare strategie di analisi
focalizzate sullo studio intensivo dei casi.
L’analisi dei trascritti
Una delle fondamentali fonti della ricerca di processo è data dalle
trascrizioni delle sedute. Lo sviluppo della process research passa
dunque inevitabilmente per il potenziamento della validità e efficienza
dei modelli e delle procedure di analisi testuale. In ragione di questa
prospettiva,
stiamo
lavorando
alla
validazione
di
un
metodo
automatizzato di analisi del contenuto dei trascritti di seduta (Nitti,
Ciavolino, Salvatore, & Gennaro, 2010; Salvatore, Gennaro, Auletta,
Tonti, & Nitti, submitted)
A oggi i metodi automatizzati nella ricerca clinica sono pochi e limitati
all’analisi della dimensione lessicale. Si tratta di metodi che implicano
una concezione a-contestuale del significato, in ragione della quale ogni
segno (una parola, una frase) viene associato a un set prefissato di
parametri di valore, implementato tramite algoritmi automatizzati (ad
esempio, si veda il TCM, Merghentaler, 1996). La contestualità del
significato rende evidentemente poco praticabile l’estensione di tale
strategia metodologica al piano semantico, la cui analisi, almeno nel
campo clinico, è rimasta così affidata al lavoro interpretativo del
ricercatore.
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Il ricorso al giudizio umano solleva tuttavia problemi organizzativi e
metrici non indifferenti. Da un lato, nonostante l’assoggettamento del
giudizio umano a regole di codifica estensibili e sistematiche, l’inferenza
dei rater rimane comunque soggetta a una irriducibile valenza
soggettiva. In conseguenza di ciò, i metodi per l’analisi semantica
soffrono di bassi livelli di attendibilità, vincolo che riduce non
marginalmente la loro capacità di rivelare relazioni significative. Non
meno importante, l’analisi di contenuto è solitamente molto laboriosa:
richiede tempo e risorse umane. E ciò rappresenta un ulteriore ostacolo
all’applicazione dei metodi semantici allo studio del processo clinico.
Diversi criteri sono stati proposti per rispondere ai problemi che pone
l’uso di tali metodi. Molti sforzi sono stati fatti per definire regole di
codifica chiare e specifiche, che vincolino i giudici all’uso di procedure
di validazione consensuale (Lutz & Hill, 2009; Lambert, 2004); tuttavia,
dato il livello di inferenza implicato in tali metodi, queste soluzioni non
possono essere pienamente risolutive; esse, inoltre, rendono l’uso di
metodi di analisi semantica ancora più dispendiosi.
La Automated Co-occurrence Analysis for Semantic Mapping (ACASM)
Sulla base di quest’ordine di considerazioni abbiamo deciso di avviare
un programma di lavoro finalizzato a sviluppare una procedura
automatizzata di analisi semantica (ACASM), in grado di ridurre il ruolo
giocato dall’inferenza umana; ma allo stesso tempo in grado di prendere
in considerazione la dimensione contestuale del significato, dunque la
sua indessicalità. Il nostro gruppo di ricerca è solo all’inizio di questo
programma. Di seguito, richiamiamo brevemente la logica alla base del
metodo sviluppato e i primi incoraggianti risultati di validazione ottenuti
(Salvatore, Gennaro, Auletta, Tonti, & Nitti, submitted)
L’Automated Co-occurrence Analysis for Semantic Mapping (ACASM) è
un adattamento al campo della ricerca clinica di un modello di analisi
testuale elaborato nel campo della statistica lessicale e già utilizzato in
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altri ambiti della ricerca psico-sociale (Carli & Paniccia, 2002; Lancia,
2002). Il metodo si focalizza sulle co-occorrenze di parole, ovvero sul
modo con cui le parole si combinano tra loro nelle unità di analisi in cui
il testo viene scomposto (solitamente frasi o gruppi di frasi). La cooccorrenza di parole viene utilizzata quale espressione di un criterio di
somiglianza per la clusterizzazione delle unità di analisi. In altre parole,
le unità di analisi vengono ricomposte in cluster in base alle cooccorrenze di parole: le unità di analisi che tendono a contenere le
stesse co-occorrenze di parole vengono considerate simili e quindi
raggruppate.
L’idea alla base del metodo assume che un insieme di co-occorrenze
determina uno specifico nucleo tematico; quindi, le unità che hanno un
certo insieme di parole co-occorrenti condividono lo stesso nucleo
tematico. In questo modo la procedura di analisi è in grado di fornire un
livello di rappresentazione semantica del testo che codifica ogni unità di
analisi nei termini di un determinato nucleo tematico.
L’ACASM si basa su algoritmi invarianti operazionalizzati da specifici
software (Alceste, T-LAB). In particolare noi utilizziamo la procedura
implementata da T-LAB (Lancia, 2002), nella versione T-LAB_PRO_XL2.
Gli algoritmi implementano le diverse fasi del metodo nel seguente
modo:
1)
Segmentazione del testo in unità di contesto (sostanzialmente
equivalenti alle frasi).
2)
Costruzione del vocabolario delle unità lessicali presenti nel testo.
3)
Rappresentazione digitale del testo, nei termini della matrice
avente in riga le unità di contesto, in colonna le unità lessicali,
nella cella ij-esima il valore 0/1 indicativo della presenza/assenza
della unità lessicale della colonna j-esima nella unità di contesto
della riga i-esima.
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4)
Analisi multidimensionale volta alla definizione di cluster di cooccorrenze
di
unità
lessicali
(e
delle
unità
di
contesto
corrispondenti a tali co-occorenze).
5)
Il lavoro interpretativo del ricercatore si focalizza su tali cluster e si
dedica alla individuazione del nucleo tematico di cui ciascun
cluster è, secondo la logica del metodo, marcatore.
È opportuno notare come la ACASM sia un metodo bottom up di
analisi del contenuto: esso infatti non parte da un repertorio prestabilito
di contenuti tematici in base ai quali vengono classificate le unità di
testo; piuttosto, il repertorio di contenuti che funge da sistema di
codifica è prodotto dal’analisi stessa, come risultato dell’identificazione
di insiemi di parole co-occorrenti presenti nel testo. Da un punto di
vista concettuale, il riferimento alle parole co-occorrenti all’interno della
stessa unità di analisi può essere considerato un modo per prendere in
considerazione la dimensione contestuale del significato, nella sua
componente intratestuale.
La validazione di ACASM ha adottato un impianto di analisi ispirato
al criterio di Turing. Si è assunto che sarebbe stato possibile
considerare valido il metodo automatizzato di codifica del contenuto,
nella misura in cui i risultati della sua applicazione non fossero risultati
distinguibili da quelli prodotti da codificatori umani. Il confronto tra
ACASM e giudici esperti è avvenuto sui trascritti di una psicoterapia
(Gennaro & Salvatore, in press; Salvatore, Gennaro, Auletta, Tonti, &
Nitti, submitted). Conformemente alle aspettative, i risultati hanno
evidenziato come la ACASM produca una mappatura del contenuto
tematico dei trascritti delle sedute di psicoterapia non differenziabile da
quella prodotta da giudici indipendenti e ciechi.
Il DFA: la mappatura della dinamica dello scambio clinico
Da alcuni anni (Gennaro, 2008; Gennaro, Melgiovanni, & Serio,
2007; Gennaro, Al-Radaideh, Gelo, Manzo, Nitti, & Salvatore, 2010;
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Nitti, Ciavolino, Salvatore, & Gennaro, 2010; Salvatore, Grasso, &
Tancredi, 2004; Salvatore, Gennaro, Manzo, Melgiovanni, & Serio,
2007; Gennaro et al., 2010; Salvatore, Gennaro, Lis, Di Riso, Laghezza,
& Sbabo, 2006) siamo impegnati nello sviluppo di un metodo di analisi
del processo terapeutico in termini di dinamica discorsiva (Discursive
Flow Analysis, originariamente denominato RIFLUD: Rivelatore dei
Flussi Discorsivi). Tale metodo riflette i principi teorici e metodologici
(ricerca
sul
processo,
approccio
contestuale
e
dinamico,
generalizzazione abduttiva) che abbiamo illustrato nella prima parte di
questo scritto. Potremmo dire che, coerentemente con la logica di
generalizzazione abduttiva, l’elaborazione di tali principi ha alimentato
ed al contempo è stata alimentata dal progressivo sviluppo del metodo e
dal suo uso nell’analisi di casi di psicoterapia.
Il DFA si inscrive nella cornice teorica del TSSM, che qualifica la
psicoterapia quale dinamica tesa alla produzione di innovazione
semiotica. Il DFA adotta una procedura di analisi semi-automatizzata
che
combina
tecniche
di
analisi
del
testo
e
di
multidimensionale. Sulla base di tale procedura, il DFA
statistica
identifica i
principali significati attivi nel discorso tra paziente e terapeuta e mappa
la struttura e la dinamica della loro combinazione. Più in particolare, il
DFA descrive la dinamica delle interconnessioni tra i significati attivi
nello scambio clinico in termini di Rete Discorsiva. La Rete Discorsiva
può essere analizzata sia quantitativamente che qualitativamente.
L’analisi
quantitativa
si
basa
su
una
serie
di
indici
(Attività,
Connettività, Nodi sovraordinati) che permettono di stimare la forza
dinamica della rete (la sua capacità di generare significati innovativi),
così come la sua struttura (il livello e la natura delle connessioni tra i
significati attivi nel flusso discorsivo). L’analisi qualitativa concerne
l’interpretazione clinica del contenuto dei significati corrispondenti ai
nodi della rete (Gennaro, 2008).
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Il DFA è stato applicato all’analisi di casi di psicoterapia di diversa
lunghezza e diverso orientamento, con lo scopo di studiarne la validità,
sia di costrutto, sia relativa a un criterio. Per quanto riguarda la validità
di costrutto, gli indici dinamici e strutturali del metodo si sono mostrati
capaci di offrire una rappresentazione dello scambio comunicativo tra
paziente e terapeuta sensata dal punto di vista clinico e coerente con il
TSSM, che ne costituisce la cornice concettuale. Per quanto riguarda la
validità di criterio, i risultati principali sono così sintetizzabili:
a) Salvatore, Gennaro, Grassi e colleghi (2007) hanno applicato il DFA
a una psicoterapia a esito positivo (caso di Katja; Dimaggio &
Semerari, 2001; Dimaggio, 2007) di 124 sedute. Gli indici del DFA
risultano correlare con gli indici
IVAT (Indice di Valutazione
dell’Alleanza Terapeutica; cfr. Colli & Lingiardi, 2002) e con alcune
delle scale della DMRS (Defense Mechanism Rating Scale; Perry,
1990) — per l’applicazione di ambedue gli strumenti al caso Katja si
veda Lingiardi, Colli, & Gazzillo, 2007). Tali correlazioni sono state
interpretate come un elemento a riscontro della capacità del DFA di
cogliere specifici andamenti clinici (alleanza terapeutica e modifica
dei pattern difensivi).
b) Un successivo lavoro, basato sull’analisi di un caso di psicoterapia
breve (caso di Lisa, 15 sedute; Gennaro, Melgiovanni, & Serio, 2007)
ha verificato la capacità del DFA di discriminare tra le sedute
ritenute clinicamente positive e non positive — definite tali sulla
base di un criterio esterno indipendente: la presenza o l’assenza di
un ciclo terapeutico individuato attraverso il TCM (Merghentaler,
1996). L’interpretazione degli indici del DFA in termini di pattern ha
permesso di discriminare tra le due categorie di sedute con una
percentuale di successo del 100%.
c) Gennaro, Gonçalves, Mendes, Ribeiro e Salvatore (in press) in uno
studio di convergenza tra il DFA e l’Innovative Moment Coding
System (IMCS; Goncalves, Ribeiro, Matos, Santos, & Mendes, 2010)
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hanno trovato una forte correlazione tra le caratteristiche formali e
funzionali dello scambio clinico, così come misurate dal DFA, e il
contenuto
delle
narrazioni,
così
come
interpretato
alla
luce
dell’IMCS.
Prospettive
Nelle pagine precedenti abbiamo illustrato le principali linee di ricerca
sul processo psicoterapeutico che ci hanno visto impegnati nell’ultimo
lustro. Come è ovvio che sia, il nostro è un percorso in fieri. Ogni passo
in avanti è foriero di ulteriori sollecitazioni e aperture: tre sono le
principali aree sulle quali stiamo attualmente concentrando la nostra
attenzione.
Sul piano teorico, alcuni di noi sono impegnati nell’approfondimento
della linea di pensiero che ruota intorno alla generalizzazione abduttiva,
nella prospettiva di fondare su tale modello di costruzione della
conoscenza una rivisitazione in chiave idiografica della psicologia,
dunque della psicologia clinica e della ricerca in psicoterapia (Salvatore,
Gennaro, & Valsiner, 2011).
Sul piano metodologico, riteniamo strategico il radicamento entro il
campo della ricerca di processo della logica, dei modelli e degli
strumenti di analisi derivanti dalla Teoria dei Sistemi Dinamici. Non si
tratta di importare procedure di analisi e tecnicalità mutuate da altri
campi, ma di sviluppare modelli dinamici coerenti con la natura dei
fenomeni clinici (Salvatore & Tschacher, submitted; Gelo, Ramseyer,
Mergenthaler, & Tschacher, 2008).
Infine, una parte rilevante dei nostri sforzi è indirizzata all’ulteriore
sviluppo e validazione delle strategie di ricerca su cui abbiamo lavorato
negli ultimi anni. Richiamiamo di seguito brevemente i programmi di
lavoro su cui stiamo investendo.
1. Il primo è rappresentato dal DFA. Stiamo progettando una serie di
ulteriori studi di casi, in ragione dei seguenti scopi:
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a) testare ulteriormente la validità di costrutto e convergente del
metodo, in relazione ad altri metodi di analisi e nel contesto di
una varietà di psicoterapie, terapeuti, pazienti, setting, esiti,
caratteristiche del processo;
b) approfondire il significato clinico del metodo, analizzando il
contenuto clinico associato agli andamenti degli indici dinamici e
strutturali definiti dal metodo;
c) usare il DFA per differenziare gli aspetti della costruzione
intersoggettiva del significato che operano come dimensioni
costitutive dello scambio clinico rispetto agli aspetti che si
caratterizzano come specifici — gli aspetti, cioè, che riflettono le
caratteristiche associate alla efficacia ed efficienza del processo,
e/o ad un tipo o altro di psicoterapia, così come agli aspetti
contingenti e particolari dei diversi casi.
2. Il secondo programma di lavoro, avviato di recente, è l’elaborazione
di un sistema di codifica degli interventi interpretativi del terapeuta:
il GMI – Grid of Models of Interpretation (Auletta, 2010; Auletta &
Salvatore, 2008; Auletta, Salvatore, Metrangolo, Monteforte, Pace, &
Puglisi, submitted). Il nostro scopo è di pervenire a uno strumento di
analisi focalizzato sulla funzione di regolazione dei processi di
significazione esercitata dal terapeuta. Per questa ragione, il GMI è
stato pensato come uno strumento trasversale ai diversi modelli di
psicoterapia, complementare al DFA: attraverso di esso contiamo di
rilevare
il
ruolo
dell’attività
regolativa
(di
negoziazione
e
di
elaborazione dei significati) che il terapeuta esercita sulla dinamica
dello scambio clinico.
Dal punto di vista metodologico, il GMI adotta un impianto
coerente con l’approccio generale discusso nei precedenti paragrafi.
La codifica si articola su 5 dimensioni (Contenuto dell’attività
interpretativa, Dominio della attività interpretativa, Orientamento
temporale, Orientamento spaziale, Forma), ciascuna organizzata in
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modalità specifiche mutuamente escludentesi (il Contenuto si articola
nelle modalità: Rappresentazione, Difese, Impulsi, Meccanismo di
funzionamento, Affetti, Motivazione; il Dominio si articola nelle
modalità: Intrapsichico – Relazionale; Orientamento temporale in:
Presente, Passato, dal Presente al Passato, dal Passato al Presente;
Orientamento Spaziale in: Interno ed Esterno al setting; Forma in:
Assertiva, Soggettiva, Dimostrativa). Il GMI, dunque, non prende in
esame l’intervento interpretativo del terapeuta in modo globale. Al
contrario, esso opera analiticamente, focalizzandosi su 5 aspetti
paralleli, ognuno dei quali preso in considerazione in quanto
riconosciuto
come
una
specifica
dimensione/caratteristica
dell’interpretazione. Successivamente, tramite una procedura di
analisi multidimensionale, il GMI estrapola i pattern nei termini dei
quali le diverse modalità si combinano nella concreta attività
interpretativa sottoposta a investigazione.
Tale procedura presenta due vantaggi. In primo luogo, potenzia
l’attendibilità della codifica, come conseguenza della specificità e del
basso livello di inferenza implicato nella applicazione di ciascuna
dimensione. In secondo luogo, questo tipo di approccio, grazie alla
sua logica bottom-up permette di evitare il ricorso a griglie
predefinite, pensate indipendentemente dal caso analizzato. Grazie a
queste caratteristiche metodologiche, il GMI sembra essere in grado
di
offrire
una
descrizione
del
processo
psicoterapeutico
(specificamente, del processo interpretativo) sensibile al contesto dello
scambio clinico (Greenberg & Pinsof, 1986; Jones, Parke, & Pulos,
1992; Lauro-Grotto, Salvatore, Gennaro, & Gelo, 2009; PascualLeone, Greenberg & Pascual-Leone, 2009).
Un primo studio ha applicato il GMI a 4 psicoterapie, 2 a indirizzo
cognitivo e 2 a indirizzo psicodinamico (Auletta, 2010; Auletta,
Salvatore, Metrangolo, Monteforte, Pace, & Puglisi, submitted). I
risultati ottenuti depongono in favore dell’attendibilità e della validità
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di costrutto del metodo. Il GMI ha messo in luce un livello
soddisfacente
di
accordo
tra
giudici
esperti,
non
influenzato
dall’orientamento della terapia. Inoltre, le dimensioni e le categorie
che costituiscono il sistema di codifica si sono dimostrate in grado di
descrivere
in
maniera
efficace
le
caratteristiche
dell’attività
interpretativa del terapeuta. Infine, sia a livello di singole categorie
sia a livello di pattern aggregati, il GMI si è mostrato in grado di
discriminare le psicoterapie analizzate in base al loro orientamento
teorico e secondo criteri significativi da un punto di vista clinico.
3. Il terzo programma riguarda lo sviluppo di un metodo di analisi
semantica delle narrazioni del paziente — il DMSC (Dynamic Mapping
of the Structures of Content in Clinical Settings (Salvatore, Gennaro,
Auletta, Grassi, & Rocco, submitted). Tale metodo si focalizza su un
livello generalizzato di significato concernente gli aspetti di base che
organizzano le narrative (ad esempio, narrative relative al sé vs
narrative relative ad altro da sé). Questa scelta è stata dettata da due
fondamentali
ragioni:
da
un
lato, per
ridurre
la
dipendenza
dell’analisi dagli aspetti contingenti della comunicazione; dall’altro,
anche in questo caso per fare del DMSC uno strumento trasversale ai
diversi modelli di psicoterapia.
Il DMSC viene applicato da giudici ai trascritti delle sedute di
psicoterapia e, secondo la stessa strategia metodologica del GMI
(analisi dei pattern), è finalizzato a identificare le combinazioni
(definite Pattern di contenuto) delle categorie che caratterizzano le
narrative del paziente. Inoltre, coerentemente con le indicazioni
metodologiche derivanti dalla Teoria dei Sistemi Dinamici, il DMSC
non considera i pattern in sé, ma le loro transizioni: la probabilità che
un determinato Pattern di contenuto succeda a un altro Pattern di
contenuto.
Una prima ricerca (Salvatore, Gennaro, Auletta, Grassi, & Rocco,
submitted) ha applicato il DMSC ad un campione di 13 sedute
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estratte casualmente dalle 124 sedute del caso di Katja. I risultati di
tale studio offrono sostegno alla validità di costrutto del metodo. In
linea con il modello teorico su cui esso si basa, è stato riscontrato
come: a) il DMSC delinea una rappresentazione significativa delle
narrative del paziente in termini di Pattern di contenuto; b) alcune
probabilità di transizione tra i pattern di contenuto (vale a dire la
probabilità che ad un determinato pattern segua un certo altro
pattern) sono associate in modo significativo alla qualità clinica delle
sedute (definita indipendentemente sulla base di un criterio esterno).
Attraverso il DMSC intendiamo analizzare il contributo del paziente
alla costruzione del dialogo terapeutico. Nelle nostre intenzioni il
DMSC integra il repertorio degli strumenti grazie ai quali sviluppare
un’analisi del processo terapeutico coerente con il quadro teorico
definito dal TSSM. Riteniamo che l’applicazione congiunta del DFA,
del GMI e del DMSC ci metterà nelle condizioni di analizzare il
rapporto di reciproca regolazione tra la dinamica intersoggettiva di
costruzione
di
senso
e
le
operazioni
discorsive
prodotte
dai
partecipanti a tale dinamica (paziente e terapeuta).
Bibliografia
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Random Sounds – A Factor Analytic Model. Journal of Quantitative
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Università del Salento, Lecce.
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Abstract
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The paper presents the three main lines of work on the process research the
Authors' interest is focused on: a) the conceptual analysis of the theoretical
and methodological assumptions grounding the research in the field; b) the
definition of a general model of the clinical process; c) the development of
strategies of analysis of the clinical exchange consistent with that general
model. The conceptual framework, the main results and the future directions
of each line are discussed.
Keywords
Process research, theory of dynamic systems, idiographic science, abduction,
textual analysis, Discursive Flow Analys
Ricerca multistrumentale in psicoterapia, valutazione
in psicosomatica e nei servizi psichiatrici:
gruppo di ricerca coordinato da Marta Vigorelli
Marta Vigorelli1
Sommario
Il nostro gruppo di ricerca è nato nel 2001, nel contesto degli insegnamenti
esterni all'Università di Milano-Bicocca: “Valutazione dell’efficacia in
psicoterapia” e “Interventi psicologici nel servizio pubblico”. Inizialmente era
formato da me, Mariangela Villa e Riccardo Scognamiglio per quanto
riguardava le ricerche sull’outcome in area clinica; da me, Valentina Stirone e
Ilaria Peri per gli interventi nei centri di salute e nelle comunità terapeutiche.
Le aree di ricerca che abbiamo approfondito in questi anni sono state: 1) La
valutazione multi-strumentale del processo psicoterapeutico in “single cases”;
2) Alessitimia e psicosomatica: ricerca che ha portato allo sviluppo della scala
di intelligenza emotiva (Scognamiglio, 2008, 2009); 3) Contributo alla
validazione di nuove tecniche psicoterapeutiche, in particolare l’EMDR; 4)
Monitoraggio del percorso clinico degli interventi nelle istituzioni (DSM e
comunità terapeutica): ricerca che ha portato alla costruzione del Community
Functioning Questionnaire, CFQ-28 image (Vigorelli, Zanolini, Belfontali, Tatti,
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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Buratti, & Peri, 2008).
Parole chiave
Efficacia dei trattamenti,
psicosomatica, istituzioni
valutazione
multistrumentale,
single
case,
-----------------------------------------------------------------------------------------------1
Università di Milano-Bicocca
Corrispondenza: Marta Vigorelli
E-mail: marta.vigorelli@libero.it
Introduzione
Il nostro gruppo di ricerca è di recente formazione ed è stato composto
inizialmente da me, Riccardo Scognamiglio e Mariangela Villa: dopo una
ventennale esperienza di clinici con formazione
psicoanalitica su
un’ampia gamma di psicopatologie (in particolare psicosi, disturbi di
personalità e psicosomatosi) e con funzioni di formazione di allievi in
training, abbiamo sentito l’esigenza di approfondire anche la validazione
di quanto andavamo realizzando in campo clinico, con buoni risultati,
ma anche con grandi difficoltà nell’approccio ai pazienti gravi;
sentivamo anche l’importanza di trasmettere agli allievi strumenti di
ricerca che consentissero di osservare e partecipare al processo
psicoterapeutico in un modo più oggettivo rispetto alla tradizionale e
pur efficace “narrazione dei casi clinici”.
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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Il gruppo è nato nel 2001 nel contesto degli insegnamenti esterni
presso l’Università di Milano-Bicocca, Valutazione dell’efficacia in
psicoterapia parallelamente alla collaborazione con Emilio Fava presso il
Centro di Psicoterapia della clinica universitaria diretto da Salvatore
Freni
e
con
l’Istituto
di
psicosomatica
Integrata
di
Riccardo
Scognamiglio. Attraverso il lavoro delle tesi di laurea è iniziata una
feconda collaborazione con due statistici della Facoltà di Psicologia:
Hans Schadee e Marcello Gallucci. Come soci della Society of
Psychoterapy Research e inizialmente anche dell’Associazione Italiana di
Psicologia abbiamo avviato significative collaborazioni con Vittorio
Lingiardi e Antonello Colli, con Pokorny, Mergenthaler, Omar Gelo,
Wilma Bucci e Rachele Mariani e recentemente con Diego Sarracino e il
gruppo di Alessandro Zennaro. L’occasione è stata la partecipazione ai
congressi nazionali:
con l’AIP a Bari nel 2003, Aosta 2004, Cagliari
2005, con la SPR Milano 2003, San Benedetto del Tronto 2005, Reggio
Calabria 2006, Modena 2008, Perugia 2010 e ad alcuni congressi
internazionali (Roma 2004, Edimburgo 2006, Barcellona 2008) e a
quelli europei di Ginevra 2007 e Bolzano 2009. In seguito abbiamo
pubblicato alcuni dei nostri lavori sulla Rivista Ricerca in Psicoterapia e
Psichiatria di Comunità e il volume Laboratorio didattico per la ricerca in
Psicoterapia con la Libreria Raffaello Cortina (2009b) che riassume
pienamente la nostra ottica di lavoro e gran parte delle ricerche
scaturite dalla collaborazione con i numerosi laureandi che si sono
appassionati a questo tipo di interesse (continuato poi nelle scuole di
specializzazione in psicoterapia a orientamento, per lo più cognitivo e
psicodinamico) in particolare: Maria Aliprandi, Elisa Buratti, Laura
Capelli, Susanna Conserva, Hanna Fischer, Elisa Fogliato, Laura
Marchesi, Cristina Mastronardi, Ylaria Peri, Filippo Rapisarda, Marta
Sala, Valentina Stirone, Francesca Trussoni.
Nel contesto dell’insegnamento Interventi psicologici nei servizi pubblici
socio-sanitari presso l’Università Milano-Bicocca è scaturito un altro
289
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filone
di
ricerca
orientato
alla
valutazione
dell’out-come
e
alla
valutazione dell’appropriatezza degli interventi nei Centri di Salute
Mentale
e
nelle
Comunità
terapeutiche
pubbliche
o
private
convenzionate. Le collaborazioni più significative e continuative sono
state con il DSM di Milano Niguarda, di Roma B, e di Messina e con
alcuni epidemiologi della SIEP: Antonio Lora e Arcadio Erlicher. Le aree
di ricerca che abbiamo approfondito sono state:
1) valutazione
multistrumentale
dei
processi
psicoterapeutici
con
ricerche su “single case”;
2) area alessitimia e psicosomatica (Scala dell’intelligenza emotiva,
Scognamiglio, 2008, 2009);
3) contributo alla validazione di nuove tecniche psicoterapeutiche in
particolare l’EMDR (Eye Movement Desensitizazion and Reprocessing);
4) ricerche per monitorare l’andamento clinico degli interventi nelle
istituzioni
(Centri
di
salute
Mentale
pubblici
e
Comunità
terapeutiche).
1) Valutazione multistrumentale dei processi psicoterapeutici con
ricerche su “single case”
Finalità: individuare indicatori nella coppia psicoterapeuta-paziente,
che aiutino a cogliere aspetti predittivi di buono o negativo esito con la
lente di ingrandimento sul microprocesso, soprattutto con pazienti
“difficili”.
Metodi e strumenti: parallelamente allo studio su casi singoli,
attraverso i quali abbiamo contribuito alla validazione dell’IVAT di Colli
e Lingiardi (2002; oggi Collaborative Interactions Scale – CIS; Colli &
Lingiardi, 2009a) per la valutazione
dell’alleanza terapeutica (Villa,
Colli, Vigorelli, Cirillo, Manzoni, Schadee, & Lingiardi, 2005; Villa, Colli,
Manzoni, Schadee, Vigorelli, & Lingiardi, 2006; Villa, Porta, Schadee,
Colli, Manzoni, Rapisarda, & Vigorelli, 2006) e del Countertransference
Assessement Q-sort (CTA Q sort; Colli e Lingiardi, 2009b; Colli &
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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Prestano, 2006) che valuta il controtransfert del terapeuta, nonché alla
collaborazione con il gruppo di Emilio Fava su SASB fino al 2006
(Aliprandi, Sala, Taglietti, & Conserva, 2006; Aliprandi, Vigorelli, Sala,
Fava, & Schadee, 2006; Capelli, Fava, Taglietti, Aliprandi, Arduini,
Freni, Schadee, & Vigorelli, 2005; Capelli, 2006; Fava & Vigorelli, 2006;
Vigorelli, 2006; Marchesi, 2006; Marchesi, Vigorelli, Schadee, Fava, &
Capelli, 2007) il nostro interesse si è orientato alla valutazione
multistrumentale del processo, a partire dall’ottica del trattamento “su
misura del paziente” (Roth & Fonagy, 1996); questo perché, in accordo
con le riflessioni condotte in questi ultimi anni sul funzionamento della
relazione terapeutica e sulla valutazione dell’efficacia attraverso l’analisi
del processo-esito (Norcross & Hill, 2004; Lambert & Ogles, 2004;
Dazzi, Lingiardi, & Colli, 2006; Lingiardi & De Bei, 2007; Fava, 2007),
riteniamo che la valutazione dell’esito e del processo debba essere il più
possibile
aderente
all’esperienza
reale
e
multidimensionale,
considerando i risultati da diversi punti di vista e per un periodo di
tempo sufficientemente lungo (Fava, 2007).
Studio pilota
Siamo partiti da un caso “esemplare” di schizofrenia paranoide, un
trattamento integrato che ci ha permesso, innanzitutto, di individuare i
limiti degli strumenti di ricerca più utilizzati nell’applicazione alla
psicosi (Vigorelli, Scognamiglio, Villa, Corona, & Traini, 2003b; Vigorelli,
Scognamiglio, Villa, Corona, Traini, Fogliato, & Schadee, 2004). Solo il
modello RA di Bucci ha consentito, infatti, una rilevazione del processo
sin
dall’inizio,
quella
che,
generalmente,
corrisponde
alla
fase
francamente psicotica (Vigorelli, Fogliato, Traini, Scognamiglio, Villa, &
Corona, 2004). Il DMRS invece, si è dimostrato utilizzabile con
attendibilità solo quando inizia un primo miglioramento: si è aperta
quindi la discussione relativa alla mancanza di un cluster per le difese
psicotiche nella Rating Scale di Perry, tema di ricerca di notevole
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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interesse messo in campo da Lingiardi e Madeddu nel loro volume su “I
meccanismi di difesa” (Lingiardi & Madeddu, 2002) e solo in parte
esplorato dal gruppo di ricerca di Freni a Milano (Freni, Azzone,
Bartoccetti, Molinari, Piasentin, Verga, & Viganò, 1998). A questo
proposito attendiamo e sosteniamo il gruppo di ricerca di Lingiardi che
con Maria Grazia Di Giuseppe, sta promuovendo questa possibile
amplificazione della griglia di Perry.
Inoltre, poiché la comunicazione dei pazienti psicotici è spesso
frammentata, iterativa e manca di un sufficiente numero di episodi
relazionali, anche il CCRT è risultato applicabile solo in fase conclusiva.
Partendo da questo e da un altro caso di psicosi con disturbo delirante,
abbiamo
quindi
realizzato
l’adeguamento
di
uno
strumento
di
valutazione di processo utilizzabile per la comunicazione specifica di
pazienti psicotici e con gravi disturbi di personalità, con l’ampliamento
del CCRT- LU (CCRT- LU- RM; Sala, Vigorelli, Schadee, Williams, Ortu,
& Brenna, 2005; Sala, Vigorelli, Fava, Aliprandi, & Schadee, 2006;
Sala, Vigorelli, Schadee, Williams, Ortu, & Aliprandi 2006; Sala,
Vigorelli, Pokorny, & Vicari 2006; Sala & Vigorelli, 2008).
In riferimento alla valutazione del processo trasformativo realizzato
nella psicoterapia a lungo termine con esito positivo del caso di
Candida, l’analisi
multistrumentale ha previsto l’applicazione
a 5
trascritti tratti da 5 differenti fasi del trattamento dei seguenti
strumenti: la DMRS (Perry, 1990) per la valutazione dell’evoluzione delle
difese; il CCRT (Luborsky, 1977), il CCRT-LU (Albani, Kächele, Pokorny,
Modica, & Sacchi, 2003; Scognamiglio, Vigorelli, Villa, Corona, & Traini,
2005) e la nuova versione per le patologie gravi CCRT-LU-RM (Sala &
Vigorelli, 2008) per la valutazione del cambiamento del tema relazionale
centrale e dei pattern d’interazione disfunzionali, degli oggetti ed episodi
relazionali; l’IVAT (Colli & Lingiardi, 2002) per valutare il cambiamento
dell’alleanza di lavoro nella coppia e lo stile di rottura della paziente e i
tipi di risoluzione del terapeuta, l’AR (Bucci, 1995) per valutare la
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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progressiva integrazione che si realizza nel corso del trattamento tra
livelli inizialmente dissociati nella paziente (subsimbolici, simbolici non
verbali e verbali).
Risultati: l’analisi con gli strumenti utilizzati ha consentito di delineare
la
corrispondenza
in
parallelo
tra
il
miglioramento complessivo
sintomatologico, cognitivo e relazionale della paziente nel percorso
clinico e il cambiamento in alcune aree della personalità e nella
relazione terapeutica attraverso la valutazione di strumenti empirici. Le
correlazioni cliniche più evidenti sono tra l’evoluzione delle difese, il
cambiamento di pervasività del CCRT nelle varie fasi del processo
terapeutico con il passaggio da Cluster disarmonici a Cluster più
armonici, l’incremento dell’Attività Referenziale, dell’alleanza terapeutica
e la risoluzione dei sintomi psicotici, mentre a una scarsità di episodi e
di oggetti relazionali corrisponde una prevalenza di difese psicotiche,
l’indice minimo di RA e i punteggi più bassi nell’HSRS e l’Indice di
Gravità più alto nella SCL-90-R nella prima fase del trattamento.
La corrispondenza tra questi indici parrebbe mantenersi sincronica
soprattutto nella fase critico-intensiva e nelle due fasi finali, segnalando
nella paziente un aumento delle capacità autoregolative, riflessive e
integrative, che le hanno consentito il complessivo miglioramento sul
piano sintomatico e adattativo, dovuto soprattutto alla trasformazione
delle modalità relazionali esperite nella relazione duale, evidenziata
soprattutto dalla nuova versione del CCRT-LU-RM e dalla scala IVAT.
a) Partendo dall’ipotesi che nel corso della psicoterapia si dovrebbe
modificare l’assetto difensivo, con una riduzione delle difese primitive
e una comparsa o aumento delle difese più mature, si è osservata
un’importante modificazione dalla prima fase della psicoterapia,
caratterizzata da una massiccia presenza di difese primitive: il 38% di
difese
psicotiche
(proiezione
delirante
allucinatoria,depersonalizzazione,
frammentazione,
congelamento
persecutoria,
distorsione
motorio),
il
23%
proiezione
psicotica,
di
difese
di
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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disregolazione
(acting,
ipocondriasi,
aggressione
passiva,
ritiro
nell’apatia), il 31% di difese Borderline (scissione dell’immagine del se
e dell’oggetto, identificazione proiettiva, dissociazione maggiore) e un
8% di Diniego, a una fase finale che vede l’incremento graduale delle
difese
mature
(autoaffermazione,
auto-osservazione,
affiliazione,
sublimazione, altruismo, anticipazione, umorismo) che nella fase
finale raggiungono la significativa presenza del 78% e l’assenza di
difese psicotiche.
b) Partendo dall’ipotesi che il tema relazionale centrale e le interazioni
disfunzionali
si
dovrebbero
modificare
passando
da
cluster
disarmonici a cluster armonici, con un aumento degli episodi e degli
oggetti relazionali, dalla
valutazione del CCRT totale di tutte le
sedute di questo caso è emerso il modello relazionale conflittuale
tipico di questa paziente: il desiderio di essere vicina agli altri, il
sentite l’Altro rifiutante e distante e la delusione, la rabbia e la
depressione che ne consegue. E questo risultato è in linea con la
ricerca realizzata da Freni et al. (1998) sul rapporto tra CCRT e
quadri psicopatologici; infatti il CCRT della paziente è coerente con i
temi relazionali conflittuali più pervasivi nel gruppo diagnostico degli
psicotici. Nella fase finale questo tema si trasforma nel desiderio di
essere rispettata, nel riconoscere gli altri disposti ad aiutare e in un
vissuto del Sé di sentirsi a proprio agio. Inoltre aumentano sia gli
oggetti che gli episodi relazionali. Con l’analisi più approfondita del
CCRT-LU-RM
i
cambiamenti
a
livello
dei
desideri
partono
inizialmente dal voler amare e sentirsi bene all’essere autodeterminata
nella fase finale. Interessante l’analisi delle Risposte del Sé, indice di
miglioramento terapeutico: in fase iniziale la paziente risponde
principalmente con l’allontanamento, il rifiuto, mentre in fase finale
invece i cluster dominanti sono (amare e sentirsi bene) e (essere
autodeterminata), in linea con il desiderio finale e quindi egosintonici.
Per quanto riguarda le Risposte dell’Altro, troviamo una situazione
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più sfaccettata, soprattutto in fase iniziale, data la diversa natura
delle relazioni che la paziente riporta in seduta. In fase critico
intensiva, cioè in un momento di ristrutturazione interna importante,
la paziente descrive tutti gli oggetti relazionali utilizzando cluster
fortemente disarmonici (I essere inaffidabile, J rifiutare, K dominare e
L far arrabbiare qualcuno, attaccare, allontanarsi) mentre in fase
finale, quando la ristrutturazione interna è in via di definizione,
utilizza solo i cluster armonici (A interessarsi e dedicarsi a, B
sostenere, C amare e sentirsi bene, D essere autodeterminato).
c) Partendo
dall’ipotesi
che
l’alleanza terapeutica alla
fine
della
psicoterapia dovrebbe essere positiva, bilanciando i processi di
rottura, anche in questo caso si è rilevato che l’andamento
complessivo dell’alleanza manifesta un decremento, sia di marker di
rottura, che di risoluzione da parte del terapeuta. Questo si spiega
ipotizzando che, il trascorrere del tempo e della terapia abbiano
portato miglioramenti, evidenziati anche dall’affievolirsi graduale degli
attacchi rivolti alla terapia e alla terapeuta, tanto che nelle ultime
sedute non è stato rinvenuto alcun marker di rottura dell’alleanza
terapeutica.
Questi
valori
confermano
i
risultati
presenti
in
letteratura sull’andamento dell’alleanza (Safran, Crocker, Mcmain, &
Murray,
1990;
Horvath
&
Greenberg,
1994):
un
progressivo
peggioramento durante le fasi centrali della terapia, a cui fa seguito
una ripresa positiva nella relazione durante l’ultima parte del
trattamento.
d) Partendo dall’ipotesi che i processi integrativi dovrebbero aumentare
nel corso della psicoterapia e la presenza di residui dissociativi a fine
trattamento dovrebbe segnalare aree di vulnerabilità da monitorare
anche dopo la fine del percorso per evitare rischi di ricadute, in
questo studio è risultato che la crescita dei punteggi dell’Attività
Referenziale nelle sedute, indicative delle diverse fasi del trattamento,
sembra segnalare una maggiore integrazione fra i codici sub-simbolici
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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e
simbolici
che
precedentemente
confusione
e
permette
una
disconnesse
dalle
difese
rielaborazione
dagli
stati
dissociative,
di
che
delle
emozioni
frammentazione,
caratterizzano
la
personalità e la comunicazione psicotica. Il linguaggio dei trascritti
infatti, nelle ultime fasi diventa
più evocativo, chiaro, preciso,
immaginifico. Al contempo i decrementi improvvisi in due unità nelle
fasi finali della psicoterapia in relazione a temi quali il lutto per la
morte del padre e del compagno idealizzato e il commiato dalla
psicoterapeuta segnalano un movimento dissociativo tra il livello
subsimbolico e il simbolico della comunicazione; ciò fa supporre la
persistenza di un nucleo dissociato e un’area di vulnerabilità
connessa alla fine del trattamento, da monitorare con incontri
periodici di verifica e di supporto.
In seguito abbiamo applicato questa metodologia ai trascritti di sedute
di alcuni pazienti borderline (Lo Verde, Gelo, Mariani, Sarracino, &
Vigorelli, 2010; Lo Verde, Gelo, Mariani, Sarracino, & Vigorelli, in press)
e ad un caso con Disturbo d’Ansia Non Altrimenti Specificato sull’Asse I
del DSM (Vigorelli, Golia, Schadee, Zani, Giannopoulos, & Villa, 2009). I
risultati
hanno
confermato
l’utilità
del
metodo,
attraverso
la
complessità che le sfaccettature dei singoli modelli hanno messo a
fuoco; ci hanno permesso, inoltre, di elaborare nuove idee sulla
relazione tra i vari aspetti del processo terapeutico e di esplorare sin
dall’inizio, nell’interazione terapeuta-paziente, l’intreccio tra possibili
indicatori predittivi di esito e aspetti che rivelano resistenze al
cambiamento,
disfunzionali:
intese
tutto
come
questo
ripetizioni
con
la
di
finalità
modelli
di
relazionali
focalizzare
il
più
efficacemente possibile gli interventi e monitorare il processo (Vigorelli &
Villa, 2006; Vigorelli & Villa, 2010a, 2010b).
Prospettive: dopo queste prime ricerche che confermano l’efficacia di
questa metodologia e la sua utilità per la didattica anche degli allievi in
training
di
psicoterapia,
sarà
ovviamente
opportuno
proseguire
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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applicandola prospetticamente ad un maggior numero di casi. Sarà
inoltre necessario utilizzare, come già abbiamo iniziato a fare, strumenti
sia
auto
che
etero-somministrati,
che
si
possano
integrare
quantitativamente, vale a dire creando un database che contenga le
variabili relative alle codifiche dei trascritti tramite tutti gli strumenti.
È nostro intento inoltre far nascere all’interno dell’IdF della Società
Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica, un gruppo ricerca su questo
tema; un primo nucleo si è formato con Gianfranco Marano e Laura
Capelli portando un contributo finalizzato alla costruzione di uno
strumento Q-Sort per esercitare gli allievi a formulare possibili modalità
di intervento del terapeuta e criteri di validazione dello stesso,
presentato alla recente Giornata di studio SPR Italia “La clinica fa bene
alla ricerca quanto la ricerca fa bene alla clinica” a Urbino.
2) Area alessitimia e psicosomatica
La collaborazione con il gruppo di ricerca dell’Istituto di Psicosomatica
Integrata (IPSI-UNIMIB) nasce nel 2001 con ricerche single-case,
concentrandosi particolarmente su area cliniche di confine (borderline,
comorbilità, psicosomatica) in cui il sistema simbolico del linguaggio
verbale e della rappresentazione psichica non riesce del tutto ad
arginare, legare, significare il dolore psichico o quello di un corpo
malato, disabitato da un'implicazione soggettiva. Dopo i convegni SPR di
Milano e AIP di Bari del 2003 (Vigorelli, Scognamiglio Villa, Corona,
Schadee, & Fogliato, 2003b, 2003a), nei convegni SPR del 2004 e 2005
a Roma, Losanna e San Benedetto del Tronto presentammo il work in
progress di una ricerca single-case di paziente alessitimico affetto da
Sclerosi Multipla (Scognamiglio, 2003; Vigorelli, Scognamiglio, Villa,
Corona, & Traini, 2004a, 2004b; Vigorelli Scognamiglio, Villa, Corona,
Porcelli, & Traini, 2004) che metteva particolarmente in evidenza le
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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prospettive di effectivness di un particolare modello di psicoterapia
psicosomatica integrata a mediazione corporea sperimentato per anni
presso il nostro Istituto (Scognamiglio, 2005), applicabile ai quadri
clinici con gravi comorbidità.
Nel 2005, a partire da un'insoddisfazione clinica rispetto alla
definizione quantitativa di alessitimia che forniva la TAS-20, abbiamo
dato il via a un impegnativo disegno di ricerca che voleva approfondire
la specificità qualitativa del rapporto che il paziente organico intrattiene
col corpo e con l'espressione emozionale. Nella nostra esperienza clinica
in ambito psicosomatico, questo tipo di pazienti, percepisce le
sensazioni fisiologiche come entità
non correlate a processi di
rappresentazione psichica e la focalizzazione sulla fenomenologia
somatica sembra, a volte, essere l'unica via d'uscita dallo stato di
confusione fra segnali interni di natura viscerale e quelli emozionali.
Nasceva così l’ipotesi di un nuovo costrutto di “Intelligenza Somatica”
che indagasse i livelli di competenza
metacognitiva sui fenomeni del
corpo, in rapporto sia all’attività referenziale che a quella riflessiva. La
prospettiva era di creare uno strumento di assessment nella diagnosi
psicosomatica
capace
di
orientare
il
paziente
verso
approcci
psicoterapeutici integrati, in grado di includere la dimensione del corpo
come agente terapeutico trasformativi (Scognamiglio, Fisher, Vigorelli, &
Flebus, 2006a, 2006b, 2006c).
I dati incoraggianti della prima fase di questa ricerca sono stati
presentati nel 2006 ai congressi di Edimburgo (SPR-International) e di
Cesena (GRP – Gruppo per la Ricerca in Psicosomatica, affiliato
all’International College of Psychosomatic Medicine), relativamente a un
primo campione composto da un gruppo di pazienti con disturbi
alimentari, uno con Sclerosi Multipla e uno con pazienti affetti da
quadri misti di somatizzazione, ma in trattamento psicoterapeutico
secondo il modello integrato dell’Istituto di Psicosomatica Integrata. I
risultati hanno evidenziato come il tratto alessitimico, pur essendo il
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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denominatore comune, presentasse diverse modalità qualitative nei
differenti campioni. Abbiamo, infine, potuto verificare come nonostante
la procedura di autosomministrazione del questionario valutativo, la
qualità della percezione corporea correlata all’alessitimia fosse più
accessibile alla valutazione testologica, aggirando così la principale
aporia della TAS-20: che il paziente alessitimico possieda quella
metacognizione
sui
processi
emotivi
necessaria
a
rispondere
veridicamente agli stessi item che ne dovrebbero invece verificare il
deficit (Scognamiglio, Zerbini, Zoccarato, Vigorelli, & Gallucci, 2008;
Scognamiglio, Zoccarato, Vigorelli, & Gallucci, 2008; Scognamiglio,
Zerbini, Schiavolin, Zoccarato, Vigorelli, & Gallucci, 2008). Per dare
forza e rigore metodologico alla stessa ricerca, nella seconda fase,
presentata a convegni SPR a Barcellona e a Modena nel 2008, abbiamo
proceduto a una “ripetizione sistematica” con l'allargamento del
campione clinico a pazienti con disturbo d'ansia, con depressione e
dipendenza da alcool. Dalla terza fase, presentata ai congressi
internazionali di Torino (ICPM – International College of Psychosomatic
Medicine) e Bolzano (SPR) nel 2009, abbiamo creato una nuova Scala di
Focalizzazione/Intelligenza Somatica, arricchendo progressivamente il
campione, che oggi ha superato i 2000 casi (Scognamiglio, Zoccarato,
Vigorelli, Gallucci, & Zerbini, 2008; Scognamiglio, 2009). Un quarto e
ultimo step, tuttora in progress, riguarda uno specifico disegno di
ricerca sull’applicazione della Scala sperimentale in ambito preventivo
in adolescenza, indagando i rapporti fra “competenza corporea e
aggressività”, presentato al convegno internazionale della SEPI (Society
for the Exploration of Psychotherapy Integration) di Firenze nel 2010.
3)
Contributo
alla
validazione
dell’EMDR
(Eye
Movement
Desensitizazion and Reprocessing) per la cura del PTSD
L’interesse per le più recenti tecniche per la cura del PTSD, che si
manifesta a seguito di disastri collettivi o di traumi individuali
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cumulativi per abuso o maltrattamento, ci ha sollecitato a specializzarci
nella psicoterapia con EMDR e a condurre alcuni studi di validazione su
campioni diversi: 1) 22 bambini vittime del terremoto di S. Giuliano in
Molise del 2002, con reazioni postraumatiche trattati con EMDR e
valutati in 5 tempi con SCID-I; 2) 30 bambini vittime dell’incidente di
Stroppiana del 2007, con diagnosi di PTSD, trattati con EMDR e
valutati in 4 tempi con follow up (SCID-I, CROPS, CDC) con
superamento della sindrome; 3) single case: valutazione dell’efficacia del
trattamento cognitivo comportamentale (12 sedute) con EMDR su un
disturbo Post Traumatico da Stress in un’adolescente di 15 anni,
conseguente a un trauma da abuso e indagine sulla correlazione tra il
decremento dei sintomi e l’aumento dei livelli di cortisolo urinario; 4)
valutazione dell’alleanza terapeutica in un trattamento cognitivocostruttivista
confrontato con un caso trattato EMDR (Riberto,
Fernandez, & Vigorelli, 2007).
Risultati e prospettive: i risultati della ricerca che abbiamo presentato
in parte in un simposio al Congresso SPR Italia di Modena del 2008 “Il
modello psicotraumatologico: un ponte tra indicatori neurobiologici e
psicoterapia” confermano l’ipotesi iniziale di efficacia dell’EMDR nel
trattamento del PTSD, che si traduce in miglioramenti non solo in
termini di modificazioni psicologiche, ma anche neurobiologiche. Questi
risultati vanno ad aggiungersi a quelli di numerosi altri studi a
conferma della evidence-based (Vigorelli, Mastronardi, & Fernandez,
2008).
4) Ricerche nei contesti dei Servizi psichiatrici pubblici e nelle
Residenzialità terapeutiche
“L’epoca
dell’autovalutazione
delle
esperienze
psichiatriche
è
definitivamente tramontata ” (La Salvia & Ruggeri, 2005) e la
valutazione degli interventi è una necessità ormai sottolineata da diversi
autori (Roth & Fonagy, 1996). Complessa e indubbiamente difficile, la
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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valutazione di interventi offerti dai Servizi di Salute Mentale pubblici sta
diventando una pratica importante, soprattutto in seguito al processo di
aziendalizzazione
ospedali
in
dell’area
aziende
ridimensionamento
delle
sanitaria
e
ospedaliere
risorse,
ma
della
che
trasformazione
ha
anche
comportato
un
impegno
degli
un
nella
promozione dell’utilizzo di interventi di cura efficaci. Se nel passaggio
dal Welfare State al Welfare Community, il motto pare essere “Tutto a
tutti coloro che hanno bisogno, ma solo ciò che è efficace”(Lg 29/1999),
d’altro canto l’introduzione di questa pratica nei servizi, già oberati dal
carico del lavoro clinico e burocratico, è un’operazione delicata che esige
una metodologia in grado di aiutare gli operatori a superare le
resistenze e i vissuti persecutori
per considerarla
invece un’utile
opportunità di riflessione: per conoscere i risultati e conferire valore a
quello che si fa, per migliorare la qualità della cura e infine per
apprendere e applicare innovazione (Vigorelli, 2005).
Pur riconoscendo i punti di forza di una valutazione informale, i
risultati di queste valutazioni intuitive sono difficilmente giustificabili
se, dal livello duale della relazione terapeutica, devono essere portati nel
gruppo di lavoro o confrontati con quelli di altri tipi di intervento. Le
funzioni di una valutazione strutturata infatti sono quelle di trasferire
su un piano esplicito ciò che normalmente viene realizzato in modo
implicito, utilizzando un linguaggio comune che consenta a tutti i
membri dello stesso gruppo di lavoro di comunicare sullo stesso
fenomeno in modo comprensibile, lasciando una traccia condivisa del
lavoro fatto per chi sarà chiamato in causa successivamente nel
processo di cura. Si propongono inoltre come filtro che struttura la
relazione e il progetto terapeutico-riabilitativo, come possibilità di
integrazione tra clinica e programma riabilitativo e come protezione dal
rischio di cronicità dovuto al ripetersi di pratiche obsolete (Fava &
Masserini, 2002).
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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Studi longitudinali nei DSM
Diverse ricerche sono state realizzate in tre Dipartimenti di Salute
Mentale (Niguarda di Milano, RM/B di Roma, DSM di Messina) che
seguono un modello bio-psico-sociale con interventi diversificati e scelti
a seconda dei bisogni del singolo paziente; sono state pensate dal
gruppo di lavoro come mezzi per introdurre gradualmente in modo
ecologico la valutazione degli interventi clinici nella prassi del lavoro
reale (effectiveness) di routine nei Servizi. Fondamentale è stato il
coinvolgimento di tutti gli attori del processo valutativo, dai vertici
aziendali, agli staff e a tutti i vari gruppi di operatori dei CSM, per la
scelta degli obiettivi, del campione e dei referenti interni del progetto.
Finalità: Promuovere una cultura comune e una prassi condivisa tra
tutti gli operatori rispetto alla valutazione dell'efficacia e dell'efficienza
degli interventi. Avviare un processo di valutazione continua (ROA) degli
interventi
del
Servizio.
Acquisire
e
utilizzare
uno
strumento
standardizzato e validato - HoNOS - per rilevare l'esito dei trattamenti.
In particolare: verificare il miglioramento dei pazienti del campione;
verificare l’appropriatezza dei trattamenti in rapporto alla gravità della
diagnosi dei pazienti; possibilità di applicare HoNOS come predittore
delle risorse (numero di operatori e tipologia di interventi); per una
riflessione sui fattori terapeutici e i modelli clinici utilizzati.
I disegni di ricerca sono stati proposti in modo da essere vissuti come
meno
intrusivi
possibili,
secondo
una
ottica
naturalistica
e
longitudinale. Inizialmente il gruppo ha proposto ricerche con un
singolo
strumento
(HONOS),20
successivamente,
familiarizzando
i
Servizi alla ricerca, è stato possibile ampliare l’ambito degli studi
raccogliendo altri indicatori secondo un criterio multidimensionale
(psicopatologia, disabilità sociale, bisogni di cura, qualità della cura,
soddisfazione
20
verso
i
Servizi,
carico
familiare)
e
multiassiale,
Health of the Nation Outcome Scales, creata in Gran Bretagna dal gruppo di lavoro di
Wing e Co. su richiesta del Ministero della Sanità al fine di valutare il disagio iniziale e
il miglioramento nelle varie fasi dei trattamenti effettuati nei Servizi.
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introducendo altri strumenti che prendessero in considerazione punti
di vista diversi rispetto a quello dell’operatore (DASII, QPF, ROQ).
In particolare:
1. Un primo studio longitudinale in 3 tempi (14 mesi) è stato effettuato
nei Servizi di salute mentale dell’A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda
allo scopo di contribuire alla validazione della versione italiana della
scala HoNOS (Lora, Bai, Bianchi, Bolongaro, Civenti, Erlicher,
Maresca, Monzani, Panetta, Von Morgen, Rossi, Torri, & Morosini,
2001) e sensibilizzare gli operatori circa l’importanza di una
valutazione standardizzata degli esiti. Per quanto concerne la
validazione della scala (ANOVA, regressione logistica e correlazione di
Pearson), l’analisi fattoriale e correlazionale ha rilevato una struttura
a 4 fattori in T0 e a 2 in T1eT2, una buona affidabilità e coerenza
interna, una buona sensibilità al cambiamento, confermando gli
studi sulla sua applicabilità alla pratica clinica. Quanto ai risultati
sul miglioramento (criterio clinicamente significativo di 7 punti) dei
pazienti (campione = 263): i pazienti migliorati corrispondono al
45,3% del campione in T2 (n=216). In particolare: i pazienti con
disturbo affettivo e con disturbo di personalità registrano le
percentuali più alte di miglioramento (decremento medio della scala
3,01) rispetto ai pazienti schizofrenici (decremento medio della scala
1.5).
I
pazienti
che
mostrano
un
più
netto
miglioramento
appartengono alle categorie diagnostiche con spettro affettivo e
disturbi di personalità. Inoltre i soggetti che lavorano, che sono in
possesso di un diploma superiore e che vivono con la famiglia
acquisita rivelano un più significativo miglioramento. La presenza di
2 operatori nel progetto integrato è associata ad un più consistente
miglioramento (Buratti, Vigorelli, Gallucci, Morganti, Schiavolin, &
Peri, 2006).
2.
Altri due studi longitudinali in 3 tempi e un follow up a due anni,
sono stati implementati in un Centro di Salute Mentale di Roma B:
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a) considerando un campione di 118 pazienti gravi in carico, con
ANOVA-one way, sono stati analizzati: il rapporto tra la gravità
rilevata da HoNOS e la diagnosi ICD-9-CM: convergenza tra i due
strumenti; il rapporto tra gravità HoNOS e tipologie degli interventi
utilizzati dal CSM (Colloquio psichiatrico, Colloquio psicologico,
Psicoterapia, Farmacoterapia, Visite domiciliari, Riabilitazione,
Inserimento in CD, Inserimento in
Strutture Residenziali) per
valutare una la distribuzione delle risorse e infine il miglioramento
dei pazienti in un anno. I risultati hanno rilevato la convergenza
tra HoNOS e ICD-9, un uso appropriato degli interventi in rapporto
alla specificità e gravità della diagnosi e
un miglioramento dei
pazienti con un decremento significativo di 5.9. Con il Reliable
Change Index è stato riscontrato che al Tempo 2 il 22,8% dei
soggetti è migliorato, il 76,1% è rimasto stabile e l’1,1% è
peggiorato. Tra l’assessment e il follow up invece il 19,8% dei
pazienti del campione è migliorato e l’8,2% è rimasto stabile. Tra
l’assessment e il follow up invece il 19,8% dei pazienti del
campione è migliorato e l’8,2% è rimasto stabile. Per quanto
concerne la riflessione sul modello intervento, i punti critici sono
relativi
alla
riabilitazione
in
strutture
residenziali
e
al
coinvolgimento dei familiari, mentre i punti di forza del servizio
rilevati sono stati: la buona organizzazione ambulatoriale e lo
spazio dato alla psicoterapia. Tra il T0 e il follow up infatti emerge
un miglioramento più lineare e continuo per i pazienti che seguono
la psicoterapia rispetto a quelli che non la seguono che presentano
invece un andamento di tipo quadratico, dopo un iniziale netto
miglioramento c’è un minore decremento del punteggio totale
HoNOS che si innalza addirittura al follow up; i pazienti che
seguono la psicoterapia risultano quindi migliorare di più rispetto
a quelli che non la seguono ma nel più lungo periodo (Correale,
Vigorelli, Criconia, Bacigalupi, Schlosser, Cinciripini, Conte, &
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Stirone,
2005;
Vigorelli,
Correale,
Conte,
Stirone,
Criconia,
Bacigalupi, Schlosser, & Cinciripini, 2006; Correale, Vigorelli,
Criconia, & Stirone, 2007).
b) Considerando un campione di 127 primi colloqui condotti nell’arco
di un anno di tempo, per inquadrare più puntualmente le tipologie
diagnostiche all’assessment e i drop out,
i disturbi diagnostici
risultati prevalenti sono stati quelli di tipo ansioso-depressivo. In
particolare: il Disturbo distimico (codice ICD-9 300.4) rappresenta
il 30% del totale; il Disturbo d’ansia non altrimenti specificato
(300,0), pari al 12%; i Disturbi di personalità, pari all’11% (301); la
Schizofrenia (295), pari all’8%. Per il drop-out: il 42% è drop-out,
ha abbandonato la terapia in modo non concordato (dato che
rientra nella media internazionale che è dal 42-60%). Tra questi è
rilevante la percentuale assoluta che non torna dopo il primo
colloquio (22%); il 31% è ancora in trattamento dopo 18 mesi; il
16% ha sospeso il trattamento concordandolo con l’operatore di
riferimento; l’11% ha dovuto abbandonare il trattamento per motivi
indipendenti dalla sua volontà o ha previsto il proseguimento
dell’intervento in un’altra sede. Tra le variabili che si ipotizza
possano influenzare l’interruzione risulta significativo solo la
variabile “nucleo familiare attuale” (‫א‬²(5)=13,321 p.<0,05) e “figli”
(‫א‬²(2)=6,152 p.<0,05). In particolare sembra che vivere con la
famiglia d’origine sia più correlato alla probabilità di abbandono
della terapia rispetto a vivere con un proprio nucleo familiare;
mentre la presenza di figli sembra più correlato al proseguimento
della
terapia.
Miglioramento
pazienti:
vi
è
una
differenza
significativa tra la gravità rilevata al tempo 0 e la gravità del tempo
1 (‫א‬²(6)=14,821 p.<0,05), nella direzione di un netto miglioramento
alla seconda rilevazione. Infatti nessun paziente peggiora, il 37.5%
rimane stabile e il restante 62.5% migliora (Vigorelli, Correale,
Criconia, Bolzoni, Stirone, & Schlosser, 2008; Vigorelli, 2009a).
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3.
Successivamente una serie di studi ha coinvolto tutti i C.P.S. del
D.S.M. dell’A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda nell’ambito della
introduzione di uno strumento che permettesse la formalizzazione del
Piano di Trattamento Individuale (P.T.I.) in cui HoNOS è usata per
l’assessment, la decisione del tipo di intervento e il monitoraggio
dell’efficacia di questo (Manfrè, Simoncini, Scordari, Segato, Vigorelli,
& Re, 2009). In questa ricerca con un campione iniziale di 1243
pazienti, sono stati valutati diversi aspetti: tipo di intervento previsti
(consulenza, assunzione in cura, presa in carico) i trattamenti
effettuati
(farmacoterapia,
psicoterapia,
inserimento
lavorativo,
coinvolgimenti dei familiari, etc.) l’esito dell’intervento (rivalutazione a
6 mesi in caso di presa in carico e assunzione in cura), il drop-out, i
costi, il ruolo del case-manager, l’ impatto sul lavoro degli operatori.
Risultati:
a) una tendenza a prendersi maggiormente cura dei pazienti con il
passare del tempo;
b) un miglioramento statisticamente e clinicamente significativo dei
punteggi di gravità (che però non raggiunge il criterio clinico di 7
punti);
c) l’efficacia dei trattamenti sul lungo periodo;
d) uno sbilanciamento medico-infermieristico dei trattamenti erogati:
i trattamenti psicologici, sociali, riabilitativi e di coinvolgimento dei
familiari risultano infatti ancora in numero troppo esiguo;
e) scarsità di risorse a disposizione dei Servizi di Salute Mentale: dai
dati presentati emerge una realtà in cui l’importanza della
relazione paziente-operatore e l’estrema complessità dei bisogni di
cura dei pazienti psichiatrici sembrano essere passati in secondo
piano rispetto alle necessità di riduzione delle spese di gestione nel
DSM.
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f) Predominanza della figura professionale e delle prestazioni dei
medici psichiatri, quindi dell’approccio biologico-farmacologico ai
disturbi mentali con interventi “monoprofessionali”
g) Scarsa presenza di psicologi/psicoterapeuti nei servizi psichiatrici,
nonostante la psicoterapia si dimostri in grado di apportare
cambiamenti maggiori e più costanti nel tempo rispetto al solo uso
dei farmaci.
Per quanto riguarda l’analisi dei costi, lo studio è stato circoscritto
all’analisi dei costi - efficacia cioè il rapporto che intercorre tra il costo
di un intervento, espresso in termini monetari e i risultati conseguiti.
Per stimare i costi delle prestazioni è stato impiegato un metodo di
natura top down, in base al quale i costi di periodo delle strutture sono
stati ripartiti sulle prestazioni, ponderate secondo un sistema di pesi
relativi. Si è quindi calcolato il tutto, grazie ai dati ottenuti direttamente
dall’ufficio Programmazione e Controllo di Gestione dell’Ospedale
Niguarda Ca’ Granda, ponendo in relazione il tempo medio con il costo
standard. Gli interventi considerati sono 18 e le tariffe ottenute vanno
da un minimo relativo alla farmacoterapia (senza il costo del farmaco) al
ricovero ospedaliero, il più costoso perché comporta un insieme
complesso
di
più
prestazioni.
Risultati:
tra
le
diverse
variabili
considerate (diagnosi, gravità, variabili socio-demografiche, programma
di cura, offerta delle strutture, percorso assistenziale) l’unica variabile
correlata ai costi è il tipo di percorso terapeutico (territoriale-ospedalierosemiresidenziale-residenziale)
seguito
dal
paziente
nell’anno
di
trattamento, che nel caso del campione di 1243 pazienti è per l’80%
territoriale.
Per quanto riguarda la valutazione del drop-out, all’interno del DSM di
Milano, i pazienti drop-out dal servizio dopo un intervallo osservazionale
di un anno dal primo colloquio, sono il 19%, prevalentemente di genere
femminile, con una diagnosi di sindrome affettiva o disturbo di
personalità, in particolare il Disturbo Borderline di Personalità. Queste
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variabili sono risultate dei fattori predittivi il drop-out. L’80% dei
pazienti drop-out dal servizio si trova in una fase di trattamento già
avviato, di assunzione in cura, mentre il 16% è preso in carico dal
servizio grazie a un intervento di tipo integrato dal punto di vista
clinico, sociale e riabilitativo. Sembrerebbe che i pazienti presi in carico
(i gravi) abbiano meno possibilità di interrompere le cure, grazie al
trattamento integrato ricevuto. In particolare il basso numero di
pazienti drop-out con una diagnosi di psicosi o Schizofrenia per cui è
prevista una presa in carico multi professionale, costituisce un
eccellente risultato auspicabile anche nei casi di pazienti con un
disturbo di personalità maggiormente a rischio. Dal confronto tra i due
gruppi di pazienti, “drop-out” e “non drop-out”, si evidenzia una
differenza statisticamente significativa: i pazienti “non drop-out”, infatti,
avrebbero dei punteggi alla scala HoNOS maggiormente gravi, in
particolare negli items che valutano i problemi cognitivi, problemi
relazionali e difficoltà nella disponibilità di risorse per attività lavorative
e ricreative. Più in generale all’inizio del percorso di cura i pazienti “non
drop-out” hanno un livello maggiore di gravità della patologia rispetto ai
pazienti che abbandonano il servizio per tutti gli items della scala. Da
un’intervista semi-strutturata (costruita per la ricerca) somministrata a
45
dei
110
drop-out,
emerge
che
la
motivazione
principale
dell’abbandono del trattamento è un generale miglioramento della
sintomatologia
del
un’insoddisfazione
per
paziente
il
autoriferita
trattamento
clinico
(40%),
seguita
ricevuto
(27%),
da
in
particolare per l’esclusivo trattamento farmacologico non associato a dei
colloqui psicologici o psicoterapeutici. E’ possibile quindi ipotizzare la
presenza di due differenti profili di pazienti che abbandonano il
trattamento: la prima tipologia di pazienti è rappresentata da soggetti
con diagnosi caratterizzate da sintomi meno eclatanti ma più stabili e
pervasivi, come ad esempio i disturbi di personalità, eventualmente in
comorbidità con l’utilizzo di sostanze psicoattive (doppia diagnosi).
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Questi pazienti, proprio in merito a un livello iniziale di sintomatologia
inferiore rispetto ad altre tipologie di soggetti, riescono a stabilire
un’iniziale alleanza con il servizio (confermata dall’ alta percentuale di
soggetti con un profilo di assunzione in cura); tuttavia la stabilità e la
pervasività della sintomatologia presentata, dopo un certo periodo di
trattamento soprattutto costituito dal solo intervento psicofarmacologico
e da colloqui psichiatrici, porta a un aumento dell’insoddisfazione di
questi pazienti. Un’ipotesi è che non trovando un trattamento
appropriato alla complessità della patologia, come ad esempio per il
Disturbo Borderline di Personalità (BPD) per cui una psicoterapia è
fortemente indicata (dato confermato dalla bassa percentuale di colloqui
psicoterapici effettuati nei diversi CPS), questi soggetti abbandonino
senza preavviso il CPS. Una seconda tipologia di paziente drop-out è
rappresentata da soggetti che manifestano sintomatologie più eclatanti
ma circoscritte a specifici ambiti di funzionamento; inoltre questi
sintomi risultano più facilmente trattabili attraverso interventi di tipo
somatico. Questi pazienti, che ad esempio sviluppano un episodio
depressivo maggiore o sintomatologie di tipo ansioso e che ricevono
interventi
clinici
di
tipo
psicofarmacologico,
più
frequentemente
percepiscono un miglioramento soggettivo della sintomatologia e,
ritenendo
di
non
aver
bisogno
di
ulteriore
aiuto,
decidono
di
abbandonare il Servizio. È comunque possibile che, sottovalutando le
possibili ricadute ed equiparando il disagio psichico al solo aspetto
sintomatologico, questi soggetti siano altamente vulnerabili a successivi
disadattamenti. In questo caso la possibilità di ricontattare i pazienti
successivamente al drop-out per somministrare un’intervista semistrutturata consente di avere a disposizione anche questi dati (Vigorelli,
Gallucci Buratti, Foglia, Merlino, Moschetti, Peri, Segato, & Simoncini,
in press).
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In Sicilia (DSM di Messina) è stata realizzata una valutazione
multistrumentale di un campione di 288 schizofrenici, che oltre alla
valutazione
della
gravità
del
quadro
psicopatologico,
sociale
e
comportamentale del paziente (misurata con HoNOS) ha preso in
considerazione il punto di vista del paziente sul proprio livello di
disabilità; il livello di soddisfazione dei pazienti rispetto a qualità
professionale degli operatori, informazioni ricevute e ambiente fisico
delle strutture; il livello di carico familiare determinato dalla patologia
del paziente (somministrato ai familiari del paziente).
Considerando il miglioramento complessivo dopo 12 mesi: l’analisi
della varianza fatta su HoNOS considerando come fattore within il
TEMPO (F [2,440] = 36,978, p = 0,000) mostra un miglioramento
complessivo, che non raggiunge però il criterio clinico (7 punti sul
punteggio totale) che per la schizofrenia richiederebbe un range
temporale più ampio. Per quanto riguarda la riproducibilità del
miglioramento (RCI=8,92) è stato possibile calcolare che a T2 l’8,8% dei
pazienti è migliorato, l’89,4% è rimasto stabile, l’1,8% è peggiorato.
L’analisi della varianza a misure ripetute mostra un aumento
statisticamente significativo
dei punteggi della scala ROQ (F [1,223] =
12.418, p= 0.001), i cui valori medi passano da 87.61 in T0 a 90.10 in
T2. I pazienti risultano perciò più soddisfatti. Il QPF rileva una
diminuzione globale del carico familiare che si esprime sia nei termini di
una diminuzione del carico, sia nell’aumento delle risorse personali ed
emotive dei parenti del paziente.
Viene
confermata
che
la
peculiarità
dell’intervento
di
questo
dipartimento è l’attenzione alla rete sociale in cui è inserito il paziente:
infatti la presenza di interventi lavorativi e l’inserimento nelle Comunità
ad alta intensità riabilitativa STAR, risultano discriminanti per il
miglioramento
del
paziente.
incongruenze
nella
scelta
Le
degli
analisi
mostrano
interventi,
che
inoltre
alcune
suggeriscono
di
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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potenziare la valutazione iniziale dei pazienti e la conseguente scelta “su
misura”dei progetti terapeutici, tra cui l’introduzione della psicoterapia
indicata dalle linee guida (SNLG) (Giovannetti, Grossi, Vigorelli,
Fogliato, Palermo, Gennaro, & Motta, 2008; Giovannetti, Vigorelli,
Grossi, Gallucci, Gennaro, & Motta, 2009).
Un ulteriore studio denominato HoNOS-3 pianificato dagli autori che
per primi hanno introdotto lo strumento in ambito italiano (Lora, Bai,
Bianchi, Bolongaro, Civenti, Erlicher, Maresca, Monzani, Panetta, Von
Morgen, Rossi, Torri, & Morosini, 2001) ha coinvolto Dieci Dipartimenti di
Salute Mentale (Regione Lombardia: U.O. Psichiatria 47 A.O. Niguarda
Ca’ Granda di Milano, U.O. Psichiatria di Saronno e U.O. Psichiatria di
Busto Arsizio; Campania: ASL Caserta 2 “Aversa” e ASL Napoli 1
U.O.S.M. Distretti 48 e 50; Emilia Romagna: DSM di Imola; Molise: DSM
ASL 3 ”Centro Molise”; Toscana: DSM Zona Aretina ASL n. 8 di Arezzo)
con l’obiettivo di estenderne l’uso su un più ambio territorio e
individuare percorsi di cura standardizzabili legati a gravità e costi degli
interventi analizzando un ampio campione di differenti D.S.M. Italiani.
L’analisi ha considerato 2163 casi, utilizzando ANOVA a misure ripetute
con
fattore
within
DELL’ARRUOLAMENTO
TEMPO
(la
e
divisione
fattore
nelle
between
classi
GRAVITÀ
subclinici,
lievi,
moderatamente gravi, molto gravi è stata effettuata seguendo i criteri
proposti da Arrighi (Arrighi, Baj, Bezzi, Cavazza, Civenti, Di Maio,
Erlicher, Farinazzo, Lora, Mapelli, Miragoli, Monzani, Panetta, Ravasio,
Von Morghen, & Torri, 2002) e fattore between PERCORSO. I percorsi
individuati sono 4: CSM, SPDC, RES (residenziale) e SEMIRES
(semiresidenziale) e infine fattore between PERCORSO e fattore between
CLASSI DI COSTO). Risultati: si osserva una importante differenza di
gravità tra i pazienti del campione, così come il loro miglioramento si
differenzia in base ad essa: più marcato per i pazienti “gravi”. Se a
questo dato affianchiamo i risultati relativi al miglioramento differenziato
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Ricerca in Psicoterapia / Research in Psychotherapy 2010; 2 (13): 286-321
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per percorso di cura e per costi si conclude che non vi è una differenza
significativa nel miglioramento dei pazienti assegnati a diversi percorsi,
sia perché partono da livelli di gravità differenti, sia perché è ipotizzabile
una corretta assegnazione al percorso di cura specifico a seconda della
gravità che permette un miglioramento dei soggetti indipendentemente
dal percorso. Conseguentemente a questo si osserva un maggior impiego
di risorse (individuate in costi specifici) per i pazienti più gravi, che,
plausibilmente grazie a questo, migliorano in modo significativo e
importante nel corso dell’anno di studio. Una nota di riflessione può
essere fatta sul peggioramento, se pur lieve, della classe subclinici. Tale
dato può essere letto secondo due differenti punti di vista. Il primo
relativo allo strumento di misurazione che è poco sensibile a cogliere le
differenze e i cambiamenti per i punteggi più bassi (ovvero le situazioni
di minor gravità). Il secondo relativo al lavoro dei servizi di salute
mentale pubblici spesso orientati al trattamento della psicopatologia
grave e mancanti delle risorse necessarie per svolgere anche un lavoro
sulla patologia meno grave e orientata alla prevenzione e promozione
della salute individuale (Stirone, Vigorelli, Conte, Erlicher, & Lora, 2008;
Stirone, Vigorelli, Conte, Erlicher, & Lora, 2009).
Risultati e prospettive: le ricerche hanno portato ad interessanti risultati
che hanno costituito spunto di discussione e riflessione nei diversi DSM.
Si è stimolato il bisogno di valutazione del lavoro svolto quotidianamente
nei Servizi pubblici di Salute Mentale in vista del miglioramento e del
cambiamento di alcune prassi cliniche e organizzative. Importante è
sottolineare come nei Servizi implicati negli studi, che hanno ricevuto
restituzioni del lavoro svolto e spazi di riflessione sugli aspetti di criticità
emersi, ci sia stato un proseguimento dell’utilizzo degli strumenti
introdotti e talvolta un ampliamento del contesto di utilizzo della
valutazione, talora anche in ambienti tendenzialmente restii alla
valutazione da parte di ricercatori esterni (vedi OPG). Per i risultati
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specifici di ogni ricerca si rimanda alla lettura delle specifiche
pubblicazioni.
Studio sulla valutazione delle residenzialità terapeutiche
Dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici nel 2000, la realtà delle
strutture residenziali finalizzate ad accogliere in modo intensivo pazienti
con disturbi mentali caratterizzati da maggiori livelli di gravità clinica o
disabilità, è aumentata in Italia in modo esponenziale (De Girolamo,
Picardi, Santone, Semisa, & Morosini, 2004). Nonostante il rapido
sviluppo della rete di strutture, il loro costo e la rilevanza clinicoistituzionale anche a livello internazionale pochi sono gli studi che ne
hanno valutato l’efficacia (Lees, Manning, & Rowling, 1999). Anche
nell’ambito
della
metodologia
comunitaria,
nonostante
esistano
sperimentazioni significative che documentano l’efficacia di questo
intervento di cura, la crescita quantitativa non è stata accompagnata da
una riflessione metodologica sistematica. La comunità terapeutica infatti
è ancora caratterizzata da culture organizzative e cliniche diverse e
contrastanti, tecniche poco definite e utilizzate con discrezionalità,
procedure non validate in cui la qualità dipende in larga misura dagli
investimenti e dalla sensibilità delle persone che lo erogano (Olivetti
Manoukian, 1998).
Premesso che l’effetto terapeutico di una CT dipende da diversi fattori
e che la sua efficacia a livello di cambiamento è sia intrapsichico, che
comportamentale, che le CT hanno molti obiettivi che mutano con il
tempo di cui l’esito è solo uno di questi, è sconsigliabile fare ricerche
comparative tra istituzioni tradizionali e CT. Può essere invece utile:
1) confrontare un gran numero di CT così da evidenziale relazioni tra
variabili (durata permanenza, patologia dell’utenza, etc.);
2) studiare singoli aspetti che contribuiscono a creare un ambiente
terapeutico
(lavoro
in
gruppo,
leadership,
processi
di
responsabilizzazione,contatto con i familiari, con l’esterno ecc. e
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influenza sulla terapia dei pazienti) livello di competizione o
cooperazione fra gli operatori, etc.;
3) mettere a fuoco la caratteristiche dei pazienti che maggiormente
rispondono alla terapia di CT e definire che cosa sia miglioramento.
Partendo
residenziali
dall’esperienza
per
pazienti
di
clinici
psicotici,
impegnati
borderline
e
nei
trattamenti
adolescenti,
in
collaborazione con Mito&Realtà, associazione per le comunità e
residenzialità terapeutiche, è stata avviata una riflessione sui fattori
terapeutici che caratterizzano il metodo comunitario e sugli principali
indicatori del suo funzionamento: la capacità di lavorare in gruppo, la
leadership e i processi di responsabilizzazione (Vigorelli, 2010). A questo
scopo è stato costruito un questionario in corso di validazione il
Community Functioning Questionnaire CFQ-28 image (Vigorelli et al.,
2008; Stirone, Azzolina, Bescapè, Vigorelli, & Gallucci, 2010) composto
da 28 Item con affermazioni da valutare secondo una scala Likert a 6
punti, e un disegno che rappresenti la riunione di équipe e le
caratteristiche che definiscono meglio le CT e gli operatori che hanno
compilato il questionario. Campione: 27 Comunità Terapeutiche del
centro-nord Italia pubbliche, private, miste e private convenzionate con
diversi livelli di protezione e collocazione ambientale, differente tipologia
di ospiti e di modelli teorici. Risultati: dall’analisi fattoriale, effettuata ai
fini della validazione, trova spazio una soluzione a 3 fattori. La varianza
spiegata dai 3 fattori estratti corrisponde al 51% della varianza totale.
Nella valutazione della coerenza interna è stata trovata un’elevata
coerenza (alpha di Cronbach 0.95) per il fattore 1: Capacità di lavoro in
gruppo e adeguatezza della leadership; Fattore 2: clima emotivo
negativo
dell’équipe
(alpha
di
Cronbach
0.74)
Fattore
3:
responsabilizzazione rispetto agli ospiti (alpha di Cronbach 0.81). I 299
disegni sono stati valutati da 3 giudici indipendenti a partire da alcuni
binomi (es: cooperazione/agonismo, strutturazione/confusione, senso
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di appartenenza/isolamento ecc.). Conclusioni e prospettive: Il CFQ-28 I
si prospetta come strumento in grado di valutare il funzionamento delle
Comunità Terapeutiche, distinguendo quelle che possiedono migliori
capacità di lavoro in gruppo e una leadership più adeguata, il cui clima
emotivo è prevalentemente positivo e che attuano migliori processi di
responsabilizzazione rispetto agli ospiti, da quelle che risultano essere
più disfunzionali riguardo questi aspetti. Relativamente ai disegni, il
campione risulta troppo ristretto per poter giungere a considerazioni
generalizzabili, inoltre è necessaria una revisione dei binomi. Nel
proseguo sarà necessario un allargamento del campione nelle CT di
altre regioni, in particolare del centro-sud Italia. Il gruppo di lavoro che
proseguirà la ricerca è composto da Marta Vigorelli, Valentina Stirone,
Ylaria Peri, Samuele Moschetti, Marcello Gallucci.
Bibliografia
Albani, C., Kächele, H., Pokorny, D., Modica, C., & Sacchi, M.C. (2003).
Modello relazionale e conflitti relazionali. Psicoterapia, 27, 7–18.
Aliprandi, M., Sala, M., Taglietti, S., & Conserva, S. (2006). Esemplificazioni di
valutazione multistrumentale del processo psicoterapeutico. Relazione
presentata alle due giornate di studio sulla Ricerca in Psicoterapia e in
Psichiatria Dinamica organizzate dall’Unità di Psichiatria e Psicoterapia del
Dipartimento di Salute Mentale-Struttura Complessa di Psichiatria 4, DSM
Niguarda, Milano.
Aliprandi, M., Vigorelli, M., Sala. M., Fava, E., & Schadee, H. (Settembre
2006). Utilizzare la valutazione empirica per fornire indicazioni al terapeuta.
Studio di un single case con un paziente non-responder. Poster presentato al
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Abstract
Our research group was born in 2001, in the context of the external
teachings at the university of Milano-Bicocca: “Evaluation of effectiveness in
psychotherapy” and “Psychological interventions in the public services”. It was
initially formed by me, Riccardo Scognamiglio e Mariangela Villa for researches
on process outcomes in the clinical area; me, Valentina Stirone and Ilaria Peri
for the interventions in Centers of Mental Health and in Therapeutic
Communities. The areas of research that we have deepened are: 1) Multi-
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Alexithymya and psychosomatic: research that brought to the development of
the Emotional Intelligence Scale, (Scognamiglio, 2008, 2009); 3) Contribution
to the validation of new psychotherapeutic tecniques, in particular EMDR; 4)
Surveillance of the clinical course of interventions in institutions (DSM and
Therapeutic Community): research that brought to the building of the
Community Functioning Questionnaire CFQ-28 image (Vigorelli, Zanolini,
Belfontali, Tatti, Buratti, & Peri, 2008).
Keywords
Efficacy
research,
multistrumentale
psychosomatics, institutions
evaluation,
single
case,