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Anno XI Numero 1 Gennaio - Febbraio 2010 CORTE DIPINTA PERIODICO DI INFORMAZIONE, CULTURA E TURISMO A CURA DELLA PRO LOCO CORBETTA PUNTI DI DISTRIBUZIONE: EDICOLE, CARTOLERIE, LIBRERIE - NEGOZI CHE ADERISCONO CON LA PUBBLICITÀ COMUNE E BIBLIOTECA - NEGOZI CHE ESPONGONO IL LOGO “PRO LOCO” UN CALOROSO... RINGRAZIAMENTO I n occasione della ricorrenza di S. Antonio Abate, festa del vigili del Fuoco Volontari di Corbetta, due pompieri del locale distaccamento di volontari hanno ricevuto, a nome dell’Amministrazione Comunale, dalle mani del Sindaco Ugo Parini, un attestato ed una medaglia d’oro quale riconoscimento e ringraziamento per la preziosa attività di soccorso svolta negli anni, a favore della comunità. Anche i colleghi del distaccamento hanno voluto omaggiare “i congedati” con un diploma ed un orologio personalizzato a ricordo del servizio prestato. Milano ed assegnato al distaccamento volontario di Corbetta, dove svolge la sua attività di soccorso sino al compimento del sessantesimo anno di età, limite massimo per la permanenza nel Corpo Nazionale. Nel 1986 è stato nominato capo squadra e nel 2000 capo reparto. Nel 2003 ha assunto la qualifica di capo distaccamento attività che lo ha coinvolto sino al “congedo”. Alex Redaelli C.S. Giuseppe Parmigiani La Redazione C.R. Ernestino Calati Nato a Corbetta il 29/07/1949, ha svolto la professione di tecnico presso una società di telefonia sino al pensionamento. Dopo aver prestato servizio militare nei vigili del fuoco in qualità di ausiliario, nel 1970 viene iscritto negli elenchi del personale volontario a servizio discontinuo del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, presso il Comando Provinciale di viene trasferito al distaccamento volontario di Corbetta e vi rimane in servizio attivo fi no al compimento del sessantesimo anno di età. Nel 2006 venne insignito della onorificenza di Cavaliere della Repubblica per meriti di servizio e nel 2008 è stato nominato capo squadra. Nato a Magenta il 3 settembre 1949, ha svolto, dal 1972 sino alla meritata pensione, la sua attività lavorativa presso il Comune di Magenta in qualità di messo notificatore. Nell’ottobre 1973 a seguito di domanda, viene iscritto negli elenchi del personale volontario a servizio discontinuo del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, presso il Comando Provinciale di Milano ed assegnato al distaccamento volontario di Magenta, dove svolge la sua attività di soccorso sino al luglio 2007 quando su sua richiesta, Coloro che vogliono fornire notizie, leggende o storie particolari da pubblicare sul periodico, ma anche per fornirci appunti o suggerimenti, possono contattare il Direttore, presso la sede della Pro Loco, tutti i sabati dalle ore 10,00 alle ore 11,00, previo appuntamento al 392.5755486. F argüj I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. E. Kant OMAGGIO N ella serata di mercoledì 25 novembre 2009, in Sala delle Colonne presso il municipio, si è ricordato Daniele Cucchiani, poeta e scrittore corbettese scomparso nel settembre 1998. Dopo il saluto del Sindaco Ugo Parini, la Vice-presidente della Pro Loco cittadina Jana Gipponi ha introdotto i lavori della serata, illustrando quanto L’Associazione faccia per non lasciare che cultura e tradizioni locali non si spengano. Da qui è nata l’idea, nel 1999, di un Premio Culturale intitolato allo scrittore, un premio e non un concorso, nel quale il dialetto è ben rappresentato negli elaborati degli alunni delle classi quinte della scuola elementare. È seguito l’intervento del Consigliere Regionale Francesco Prina il quale, oltre a ricordarne l’amicizia, ha motivato le ragioni del contributo concesso, alla Pro Loco, dalla Regione Lombardia per gli anni 2009-2010 per la realizzazione del Premio stesso. Il legame tra la poesia dialettale lombarda, specialmente del Porta, con la poesia del Cucchiani, è stata ampiamente illustrata dalla Proff. Loredana Vanzulli, Assessore alla Cultura del Comune di Corbetta. Secondo il suo parere le poesie dialettali dello scrittore possono, a ragione, essere inserite nelle pagine di un’antologia di “versi” milanesi, accanto a quelli di più celebri e ben A DANIELE CUCCHIANI Il tavolo dei relatori della serata. - Foto: G. Saracchi - conosciuti autori. L’intervento dell’Arch. Ermanno Ranzani si è rivolto agli aspetti letterari-compositivi delle poesie e degli scritti dialettali di Daniele, quale testimonianza del suo atavico amore per Corbetta, la “sua Curio”, come spesso la denomina nei suoi scritti. L’uso del dialetto ha proseguito Ranzani- l’ha costretto a ragionare sul valore delle parole e sul loro contenuto sematico. Questo concetto d’amore è stato sottolineato anche dalla moglie Sig. ra Maria Ferrari Bardile la quale ha parlato di Daniele quale uomo non interessato alla carriera e al denaro. Ha vissuto da intellettuale convinto che il dialetto rappresentasse la più antica forma espressiva del nostro territorio. La serata è stata allietata da Luisa Ghidoli che ha letto il teatrino all’albergo Croce Bianca, tratto dalle “leggende curiapictane” e le poesie “Prìmm amùr ”, “La ciocca”, “E canterò” tutte composizioni del Nostro concittadino. Infi ne, con la supervisione della maestra Ester Grassi, alcune ragazze, che hanno partecipato al premio, hanno letto alcune delle loro composizioni scritte nelle passate edizioni. Grande ilarità ha riscosso il componimento “Ho fatto un sogno” di Edoardo Vilbi, letto dalla moderatrice Giupponi. REDA RITRATTO, UN PÒ INEDITO, DANIELE CUCCHIANI N acque il 16 da lüj 1931 –IV ° di cinque figli–, fu chiamato Daniele per ricordare il fratellino morto il 16.9.1929. A lui ha dedicato una bellissima poesia affidata, per diversi anni, alla madre Esterina. Bimbo molto vivace, fu seguito con pazienza da Olga sino all’asilo. Curioso per natura, andava spesso a vedere le donne che lavoravano al fi latoio, annesso alla villa Olivares, per vedere e capire cosa facevano e per ascoltare delle fi abe, ricche di fantasia e di mistero, che un’operaia gli raccontava. Era la “sala della seta”, ovvero la Sala delle colonne “fàj da vultìtt e culòn” nell’attuale municipio cittadino, che Daniele descrive nella poesia “Al Filatoj”. Con gli amici si divertiva a giocare col teatrino di “magattèj e piguttòn”, inventando un mondo fantastico oltre la realtà, ben descritto nella composizione “Al tiatrin”. Di salute cagionevole, durante una lunga malattia, trovava conforto nelle favole che lo Zio Pinella “Al pansanigàtt” gli raccontava e che gli hanno insegnato a sognare. Curato dall’indimenticata Suor Michelina, a lei ha dedicato la poesia “Suor Michelina, Moniga e duttur”. Frequentò le scuole elementari di Corbetta, avendo per la prima maestra la Zia Giuditta che così descri- ve nella poesia “Al sillabàri”: “O zia Giüditta majstrinna bèlla, mòra, frésca, stàgna e zitèlla! […] Da tì mì hoo imprindüü a tignüü a mént al Léng, al Scrìv e i Sacramént; brüsé(v)i da la voeùja da savé da Tüscòss al parché e Tì, ta sé(v)a al mé Stravidée”. Completò poi la scuola dell’obbligo con la maestra Ballerini. Frequen- Pro Loco Corbetta Villa Pagani - Della Torre Piazza XXV Aprile, 4 Tel. 02.97486809 cell. 392.5755486 e-mail: prolococorbetta@gmail.com internet: www.prolococorbetta.altervista.org DI tò le scuole medie nel Collegio Arcivescovile di Saronno e il liceo nel Collegio Arcivescovile di Tradate. Si laureò in “Scienze politiche” all’Università Cattolica di Milano nel 1959. Lavorò all’Assicurazione Italiana e terminò la sua vita lavorativa come pubblicitario; fu il primo ad usare una donna nuda per reclamizzare un trattore. Da giovane si era dedicato alla pittura, usando colori forti, imitando la pittura astratta, realizzata in un modo particolare tutto suo. Da questa sua vena “artistica” nacque l’amicizia col Silvio Paulin, ovvero il Boemo 70. Amava leggere molto, compreso i libri che i genitori gli proibivano. Scrisse poesie e racconti in lingua. A cinquant’anni si mise s scrivere in dialetto milanese ma, come scrisse lui stesso “al sò-nò da-bón” il perché. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, si è trovato davanti un uomo “minuto, la barba bianca incolta ingiallita nei punti giusti, il cappello nero a tesa larga e l’immancabile papillon” che a passo lento, quasi incerto, camminava per il Corso Garibaldi. Nelle mani il giornale e la bozza dell’ultima fatica letteraria. REDA Tesseramento presso la sede Giorni ed orari di apertura al pubblico Martedì dalle 21,00 alle 23,30 Sabato dalle 10,00 alle 12,00 BEPPE FACCHINETTI, L’ETERNO FELICE B eppe Facchinetti è un personaggio molto conosciuto a Corbetta, per le sue eclettiche attività e per il suo modus vivendi. Originario di Calcio (BG), ove nasce nel 1947, da bambino si trasferisce coi genitori a Novara. Inizia a lavorare come fiorista in un negozio di Novara, restando impegnato per tre anni. Nel frattempo segue i corsi infiermeristici presso il college dell’Ospedale Fornaroli di Magenta. Diplomatosi venne assunto nello stesso ospedale, ed assegnato al reparto del Prof. Zanollo. All’attività ospedaliera alternava l’attività di modellista, con grande successo, per una grande pellicceria di Novara di proprietà di Nino Galli. Amareggiato per non aver potuto partecipare ad un corso ad Heidelberg, appende il camice bianco al chiodo, impegnandosi definitivamente nel campo della moda, collaborando, a Roma, con le maisons Sarli e Fontana. Approda a Corbetta, un paese che ama, come –tiene a precisare– ama la sua gente. Si produce in sfilate in Italia e all’estero, ottenendo ottimi successi. La sua specialità è il reinventare e il Durante una sfilata di Alta Moda Nel negozio di Corso Garibaldi rielaborare vecchie pellicce, trasformandole in “qualcosa” di nuovo e bello. Sue creazioni sono state pubblicate su riviste di moda quali Bazar e Vogue; come sono state ammirate, da persone di Corbetta, nella vetrina di uno store nella V° strada di New York. Tra le sue clienti vanta O, Vanoni, S. Milo e… molte altre personalità, oltre a case di moda. Varie sono state e sono i suoi inte- ressi, nei quali trasfonde il suo “genio creativo”. “Maestro in fiori” con addobbi per ricevimenti e cerimonie; ha “infiorato” Piazza del Duomo a Milano per il natale di due anni consecutivi sotto la supervisione della Soprintendenza ai Beni Culturali; ha promosso gli addobbi natalizi dei negozi commerciali sul Corso Garibaldi, riscuotendo grande successo. È stato costumista teatrale per vari spettacoli, collaborando con lo scenografo Giuseppe Arena nella trasmissione Piccoli Fans per la RAI. Ha rapporti con la Cooperativa del Sole e con l’Associazione ATLHA, entrambe operanti nel campo dell’handicap. Tra i suoi hobby c’è una collezione di circa 2.000 cappelli che spaziano dal 1890 agli anni ’50; una collezione di circa 1.000 “ex libris” datati ’800–’900. Ha ricevuto numerosi premi tra i quali la targa d’oro del Secolo XIX per costumi teatrali, quello “Simpatia” assegnatogli in Campidoglio (unitamente al Comandante della Polizia di Stato Parisi e alla “Sora Lella” –la sorella di Aldo Fabbrizzi–); quello per “miglior vetrinista” dal Addobbi natalizi di Piazza del Duomo -Milano- Circolo della Stampa di Milano; ma quello più bello –tiene a sottolineare–è la soddisfazione dei suoi clienti per la riuscita di un ricevimento o per una nuova pelliccia. Il suo negozio in Corso Garibaldi è di una bellezza ed eleganza che, tra fiori e pellicce, attira l’attenzione dei passanti, tanto da far invidia a quelli di Via Monte Napoleone a Milano. REDA Addobbi floreali nel Santuario Carrozza addobbata per una cerimonia nuziale Beppe con la modella Irina Al “giardinètt’ ” dal nost dialètt di Gepi Baroni “Al Gèp ’l so amis Leopoldo” E rano cresciuti insieme, legati da un affetto fraterno. Il Giuseppe Trezzi, detto affettuosamente “Gèp” e il Leopoldo Saracchi fin da piccoli passavano ogni momento libero della giornata insieme, s’intendevano a meraviglia e non litigavano mai. Avevano avuto però in sorte due culle diverse: per il Gèp una “scorba” in una modesta casa di contadini della Curta Sant’Antoni, per il Leopoldo Saracchi, invece, una culla imbottita e ornata di trine in Palazzo Manzoli nelle stanze che stavano sopra parte del “filatoj” di cui la sua famiglia era comproprietaria.ma quando stavano insieme le loro differenze sociali non esistevano: si volevano bene e basta e si difendevano a vicenda nelle normali, quotidiane baruffe tra i ragazzini della Piasa Granda. Erano complici nelle scorribande in campagna, nel saltare i fossi, nelle arrampicate sugli alberi e, qualche volta, nelle marachelle architettate a discapito della virginale, stizzosa, sofisticata signorina Manzoli che, quando esagerava nel tormentarli con le sue insistenti osservazioni, poteva correre il rischio magari di trovare la sua “pamela” di fine paglia di Firenze agganciata ad uno dei rami più alti degli alberi del giardino o addirittura poteva ritrovarsi a far da bersaglio, con le sue immacolate camicette di lino, al lancio di un pomodoro maturo tirato di nascosto da un cespuglio. L’unica cosa che li Gèp faceva un po’ discutere qualche volta stava nel fatto che il Leopoldo aveva, oltre alle due sorelle maggiori, una sorellina minore di lui di quattro anni, la Mariuccia, alla quale era legatissimo e che voleva sempre avere vicina. Così, nelle varie avventure giocose, i due amici a turno se la portavano “in spagaleta” ma il Gèp, quando diventava troppo lagnosa, ne contestava l’ingombrante presen- za. Erano i primi anni del ’900 e i loro giochi di ragazzi liberi, spensierati e birichini non lasciavano certo presagire l’ombra nera della Grande Guerra che a breve avrebbe sovrastato le loro esistenze. Continuarono per qualche anno a vivere le loro estati felici: il Gèp, a furia di capitomboli, imparò a inforcare la fiammante bicicletta con la quale il Leopoldo qualche volta arrivava a Milano per comprare un vassoio di paste golose che poi insieme ingollavano felici “da niscundon”. D’inverno, ad ogni Natale, Leopoldo sceglieva tra quelli ricevuti un giocattolo per farne dono al suo amico e gli preparava un sacco colmo di legna da ardere così pesante da non riuscire a trascinarlo perché fosse per la famiglia dell’amico davvero un caldo Natale. Poi, l’adolescenza li mise all’improvviso, ineluttabilmente di fronte ad una guerra sanguinosa e feroce e siccome erano due “ragazzi del 99” partirono per il fronte. Le loro speranze, le promesse d’aiuto, i patti e i progetti per un avvenire migliore, furono cancellati di colpo da una dannata giornata di combattimenti sul Monte Pertica da una pallottola nemica che fece il buio dentro e intorno ad un giovane tenentino diciassettenne di nome Leopoldo Saracchi. Rimase disperso per più di un anno e la sua famiglia e il suo amico non ebbero per così tanto tempo sue notizie finché un giorno non tornò a casa in una piccola bara di legno di pino. L’amico Gèp in sua assenza e per molto tempo ancora si era preso cura, quasi con religiosa attenzione, del suo cavallino e dei conigli d’angora che avevano allevato insieme. Il tempo passò, venne anche per il Gèp il tempo della maturità e della vecchiaia e agli inizi degli anni 60 mi ricordo di aver visto qualche volta in un cortile di via Diaz un vecchio stanco, seduto su una sedia, al quale si riempivano gli occhi di lacrime mute alla vista di mia madre, quella Mariuccia sorellina dell’amico di un tempo che tante “LA MILANO volte aveva portato sulle spalle. Solo l’anno scorso il Luciano Piroli, proprietario de “La Bottega del Caffè” sul Corso Garibaldi e nipote del Gèp, mi ha mostrato una vecchia foto del Leopoldo con scritte da sua madre, mia nonna, una foto che da quasi tre generazioni questa famiglia aveva conservato a testimonianza di un legame che non ha perso valore nel tempo. Leopoldo Questa è una storia vera, la storia di due vite riaffiorata dalle nebbie del passato ma non per questo meno importante e meno preziosa. DEL PADRE MURATORE” I l”Gamba de lègn” fischiava di buon ora e i badilanti pronti e forniti di “schiscètta” correvano verso la grande Milano. Quella Milano così affascinante agli occhi di bimbi, ben più importante per i grandi. Una bambina chiedeva a suo padre perché andava sempre a Milano ed egli le spiegava che andava perché c’era il “pane”. La bimba fu soddisfatta, ma non poteva ancora capire il significato di quelle parole, lei pensava a delle belle pagnotte appena sfornate e gli chiedeva di portargliene a casa un po’ e il padre l’accontentava portandole dei pezzetti avanzati e talvolta anche schiacciati, ma quel pane aveva un profumo inconfondibile: era il pane di Milano. Ed ogni sera al fischio del tram, per la bimba era un’immensa gioia attendere quel pezzo di pane che odorava di papà. In un giorno di festa egli portò la piccola a visitare la grande Milano, la bimba curiosava e si stupiva davanti a cose mai viste; il papà ci teneva a portarla anche sul cantiere del proprio lavoro, perché capisse il “sapore” di quel pane. Dopo una tappa nella tipica osteria per un boccone, ritornarono. Trascorse del tempo, gli anni si accumulavano, ma il ricordo di Milano era sempre vivo nella mente dell’anziano papà, le aveva regalato gli anni più forti. Un giorno la figlia, divenuta ormai donna, riordinò dei vecchi indumenti e i suoi occhi si posarono su una giacca sbiadita, frugò nelle tasche e….. briciole di pane secco le rimasero fra le mane; le porse al padre, ed egli guardandole si ricordò e si commosse. Di certo nelle tasche di ogni papà stanno nascoste altre specie di briciole, hanno tante storie da raccontare. Ognuna vivrà nel pane sincero. Luciana Cislaghi UNA “REALE” I L ’Italia è considerata una delle nazioni al mondo più ricche di tradizione culinaria che le proviene dalla commistione di culture diverse e dal palato raffi nato di tante “buone forchette” europee. Eppure pochi sanno che dietro la nascita dei popolarissimi grissini torinesi c’è una storia singolare che affonda le proprie radici nel passato e per fare questo faremo un breve excursus introduttivo. Siamo a Torino nell’estate del 1675 e da pochi giorni è ormai morto il duca Carlo Emanuele II di Savoia, stroncato a soli 41 anni di vita da una misteriosa malattia. La sua improvvisa scomparsa ha fatto si che la ragion di stato consentesse al figlio Vittorio Amedeo II di ascendere al trono a soli 9 anni di età sotto la reggenza della madre, Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours. A parte la giovane età, però, il piccolo duca aveva un grande difetto per l’epoca, ovvero una salute estremamente cagionevole che lo esponeva a frequenti influenze e che nel 1679 addirittura gli impedì di contrarre matrimonio con la principessa del Portogallo. Per lui si erano mobilitati tutti e addirittura si era predisposta l’esposizione della Sacra Sindone a Torino al fi ne di invocare l’intervento divino per ottenere la guarigione del piccolo principe, il quale era svogliato nell’appetito, soggetto ad una cattiva digestione e a problemi di stomaco. Fu in questo clima che la madre decise di convocare personalmente l’archiatra della corte di Torino, il dottor Teobaldo Pecchio il quale, dopo aver visitato il bambino si rese subito conto che il problema era da ricercarsi nella dieta. Vittorio Amedeo II, infatti, soffriva di gastroenterite batterica data da intossicazione del pane che assumeva quotidianamente, che all’epoca era prodotto con norme non propriamente igieniche e per di più veniva poco cotto rendendone la mollica poco GRISSINI RICETTA TORINESI digeribile. Fu per questo che il dottor Pecchio decise di rivolgersi al fornaio di corte, Antonio Brunero, perché trovasse una soluzione all’annosa questione. Fu così che nacquero i moderni grissini torinesi (il cui nome derivava dalla gheressa una tipica forma di pane allungato già in uso nella cucina locale) che per l’appunto sono di forma sottile, tradizionalmente stirati a mano o “rubatà” come dicono i piemontesi. La delizia giunse dunque al banchetto del duchino con grande apprezzamento da parte di tutta la corte, anche se la fama dei grissini non era destinata a rimanere confi nata entro le mura di Palazzo Carignano. Quando il 10 aprile 1684 Vittorio Amedeo II sposò la nipote di Luigi XIV, Anna Maria di Borbone-Orléans, venne organizzato nella reggia francese di Versailles un grande banchetto in onore dei novelli sposi e ovviamente il duca di Savoia fece provvista di una bella scorta di grissini da degustare durante le festività. Il re di Francia, che non aveva mai veduto una simile delizia da panificio, chiese subito al giovane Vittorio Amedeo di inviare presso la sua corte due panettieri per tentare di riprodurre anche per la sua corte i “petites batons de Turin”, ma l’impresa ebbe scarso successo. Vittorio Amedeo II iniziò così negli anni a migliorare il proprio problema grazie ai famosi grissini e ne divenne così goloso che durante le cacce organizzate presso la sua residenza estiva di Venaria Reale, egli era solito portare sulla sella del proprio destriero una cesta ricolma di bastoncini di pane. Fu grazie ai “miracolosi” grissini che la figura di Vittorio Amedeo II riuscirà a regnare divenendo una delle immagini storiche più gloriose dell’epoca barocca con un lungo governo che gli consentirà di regnare sino alla sua morte nel 1732, cambiando radicalmente il modo di condurre la politica della sua amministrazione e gettando le basi per la formazione del moderno stato piemontese, oltre ad accettare la sottomissione alle potenze stranieri quali Francia o Spagna, ma sempre rivendicando orgogliosamente l’indipendenza del proprio piccolo stato dalle vicine nazioni. Con queste premesse riuscirà poi a farsi conferire il titolo di re di Sardegna dal 1720, tramandandolo quindi ai propri successori. Come la fama di Vittorio Amedeo II, così anche nomea del grissino continuò a sopravvivere nei secoli e molti furono i suoi storici estimatori, primo tra i quali possiamo citare Napoleone Bonaparte che già all’inizio dell’Ottocento aveva sviluppato un servizio di corrieri speciali tra Parigi e Torino dedicato in prevalenza al trasporto dei grissini torinesi che egli sostituiva al comune pane per tentare di alleviare i dolori dell’ulcera che poi gli sarà fatale sul- “RAPSODIA l’isola di Sant’Elena. Sempre per rimanere nell’ambito sabaudo come non citare il re Carlo Felice di Savoia il quale era solito mangiarne a teatro mentre ascoltava concerti o seguiva le vicende delle opere liriche (anticipando in questo la tradizione dei moderni popcorn!) o sua zia Maria Felicita di Savoia la quale ebbe l’idea di farsi addirittura ritrarre da un pittore posando con un grissino, attirandosi il nomignolo appunto di “Principessa del grissino”. Andrea Balzarotti L’angolo della poesia Pioggia di primavera Scende allegra la pioggia di primavera batte forte sulla siepe di casa, si diverte; scende decisa sulla semina sugli arbusti in boccio. Scende allegra la pioggia di primavera batte forte sugli ombrelli colorati, si diverte; chi borbotta chi contento in cuor suo. Scende allegra la pioggia di primavera. Luciana Cislaghi O CORBETTINA” ggi mi è capitata tra le mani, anzi sotto gli occhi, una bellissima lirica scritta da Giovanni Marrani che è tratta dalla sua famosa “Rapsodia Garibaldina” e che il poeta pubblicò nel 1904. la lirica in questione, intensa, dolente, piena d’immagini stupende e intrisa di un pathos tutt’altro che retorico e melenso, è quella che descrive in particolare la morte di Anita Garibaldi, la compagna intrepida e fedele dell’Eroe dei Due Mondi e inizia con i famosi versi… E Annita muore”. Ecco, chissà perché, ma tante volte la nostra mente fa strane associazioni d’idee, a volte coerenti, a volte no ma io, non so come ho associato il tutto alla mia città a questa Corbetta mia amatissima che sta vivendo un momento di grande travaglio per i problemi che l’affliggono, primo tra tutti quello del commercio in crisi. E allora, parafrasando il marrani in una ipotetica “rapsodia Corbettina” si potrebbe dire “Corbetta muore!…”. Muore per tanti motivi, per l’ottusità si alcuni, per il disinteresse di molti, per l’inadeguatezza dei soliti noti, per la chiusura verso le aspirazioni di chi con fatica porta avanti un’attività nuotando, di questi tempi, in acque già torbide e profonde, di chi ha mantenuto il possesso di immobili nel Centro Storico col sacrificio e l’impegno di più generazioni e che ora non riesce a locarli se non ai soliti uffici, agenzie immobiliari, finanziarie, eccetera, eccetera che oscurano le vetrine e alla domenica offrono a chi percorre il Corso solo lo spettacolo desolante delle loro serrande chiuse. Non è così che si promuovono il progresso e la prosperità di una cittadina bella e storica come la nostra! E poi offende ancor più la perentorietà e l’inappellabilità di certe decisioni prese senza ascoltare i diretti interessati o quanto meno senza tentare di mediare con loro e avvalendosi di assemblee, tavole rotonde e consulte che, con tutto il rispetto, a volte riuniscono persone che, nonostante le buone intenzioni, hanno ben poco a che fare con i problemi in questione. Come cittadina, proprietaria di un immobile in pieno centro storico che, tra l’altro a breve, come sembra verrà blindata in casa sua dalla chiusura in toto del Corso con un gesto che personalmente considero una beffa per tutti, sono sfiduciata e confusa. Ma che volete aspettarvi da chi ha il coraggio di definire “riqualificazione” il fatto di aver ricoperto con uno strato di vecchio, banale, seppur economico asfalto il prezioso, esteticamente superiore porfido di due importanti arterie della nostra città!… Forse è davvero arrivato il momento di schiarirsi le idee e lavorare con coerenza ed efficace lungimiranza. G.B. C’ERA A UNA VOLTA IL ngelo fFausto Coppi nasce da una famiglia patriarcale di contadini in quel di Castellania il 15 settembre 1919. Non volendo seguire le orme paterne, viene mandato a Novi presso Ettore Merlano per imparare il mestiere di salumiere. È in questo periodo che, facendo le consegne con un biciclettone chiamato tri-fusì (tre fucili), si appassiona al ciclismo e il Manuale del perfetto ciclista, scritto da Eberardo Pavesi, gli svela tutti i segreti del perfetto corridore. Grazie alle 400 lire dello zio Fausto, capitano di mare, ed alle 170 di papà Domenico e del fratello Livio, compra una bicicletta Maino da corsa – 1935– con la quale si cimenta nelle prime gare ciclistiche, (prima gara vinta nel 1937 sul circuito della Boffalora), mettendosi in evidenza per le sue “doti” atletiche, merito anche dell’orbo Biagio Capanna che scopre in lui qualità fisiche eccezionali. Arriva il primo contratto –1940– con la “Legnano” capitanata da Bartali, con la quale vince il suo primo Giro d’Italia. Ha l’amarezza della morte del padre Domenico che lo seguiva, lo incoraggiava spesso col silenzio e gli sguardi. La guerra ormai incombe. L’Europa è in fiamme. Cavanna cerca in ogni modo di ritardare la partenza per le armi, escogitando il tentativo di stabilire il record dell’ora e… il 7.11.1942, sulla pista del Vigorelli a Milano, Coppi “CAMPIONISSIMO” batte il record del francese Archambaud portandolo a 45,840 Km. Nessuno si muove per trattenerlo in Italia come gli altri corridori che hanno ricevuto un trattamento di favore. Il 1.3.1942 il caporale Coppi del 38° Reggimento di Fanteria della Divisione Ravenna, parte per l’Africa, ma le sorti delle truppe dell’Asse sono disastrose. Il 13.4.1943 è catturato dagli inglesi e internato in un campo di concentramento. Resta prigioniero sino alla fine del ’44 quando viene rimpatriato nel campo di prigionia di Caserta. Nel campo il Maggiore Towel) gli permette di allenarsi, aggregandosi a Bartali, Leoni, Volpi e Ricci, con una bicicletta fornita dal fabbricante Nolli di Roma. La primavera del ’45 porta l’Italia alla liberazione e la fine della guerra. Coppi parte da Caserta in bicicletta e arriva a Castellania ove incontra il fratello Serse e la fidanzata Bruna Ciampolini, conosciuta a Villalvernia ove era sfollata Il 22.11.1945 convola a nozze con Bruna e l’11.11.1947 nasce la figlia Marina. Il 19.3.1946 riprende la stagione ciclistica gareggiando per la “Bianchi”, eterna rivale della Legnano, ottenendo anche l’ingaggio del fratello Serse, vincendo la Milano-Sanremo con 14 minuti di vantaggio sul francese Teisseire e 18 su Bartali. Il radiocronista Nicolò Carosio (la TV non c’era ancora) disorientato dal distacco ricorre ad un artificio “Primo Fausto Coppi… e in attesa degli altri concorrenti trasmettiamo musica da ballo”. Mario Ferretti invece così commentava: ”un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco celeste, il suo nome Fausto Coppi”. Con la sconfitta al Giro del ’46, perso per 47secondi, sembra che lo scopo di Fausto sia soltanto quello di battere Bartali, e ogni manifestazione è l’occasione buona per ottenere una rivincita su Gino, in una rivalità nata più per vendere giornali e biciclette. Nella realtà erano antagonisti nelle gare e amici nella vita privata. Nascono i primi dissapori con Bruna –1948– che non si attenuano nonostante la vittoria schiacciante nella Milano-Sanremo, umiliando Bartali che arriva secondo a 24 minuti. 1949: vittoria al Giro e vittoria al Tour; è il primo a vincerli entrambi. Da adesso sarà il Campionissimo, precedentemente attribuito solo a Girardengo. L’amarezza per Coppi, dopo tanti infortuni, arriva nel 1951 quando a Torino, nel Giro del Piemonte, muore Serse per una caduta. Vuole smettere, ma è proprio il suo “eterno rivale” che aveva perduto in un incidente di corsa –1936– il fratello Giulio, a convincerlo a continuare. Sembra finito, ma Capanna lo stimola predicendogli una grande annata che puntualmente arriva nel 1952, conquistando Giro e Tour. Nel 1953 vince a Lugano il Campionato del Mondo. Intanto i giornali pubblicano la foto con accanto Giulia Occhini maritata Locatelli, “La Dama Bianca”, con la quale ha una relazione segreta, che ora è diventata pubblica. È l’adulterio più famoso del secolo che lo porta alla separazione –1954– da Bruna e dalla figlia Marina; il processo con relativa condanna con la condizionale. Il 13 maggio 1955 a Buenos Aires nasce Angelo Fausto Maurizio I 1 2 5 2 4 5 3 2 4 1 3 1 1 5 3 3 3 1 2 3 che assumerà il cognome Coppi solo nel 1978 alla morte di Locatelli. Come ex rivali dovevano formare la squadra della San Pellegrino, quella delle acque minerali, con Bartali direttore sportivo e Coppi capitano. Il progetto non si attua. Nel dicembre del 1959, Fausto va in Alto Volta (attualmente Burkina Faso) per una gara ciclistica con –safari– con altri campioni (Anquetil, Geminiani, Rivière…), forse per allontanarsi da Giulia che gli ha cambiato la vita, gli ha allontanato tutte le amicizie, obbligandolo a ricevere gente a cui lui non ha nulla da dire. Ritorna febbricitante “è influenza di stagione” dicono i medici, invece è malaria che nessuno diagnostica. TRIONFI DI COPPI Campionato del Mondo (1953) Campionati del Mondo di inseguimento (1947 e 1949) Giri d’Italia (1940, 1947, 1949, 1952 e 1953) Tour de France (1949 e 1952) Campionati italiani (1942, 1947, 1949 e 1955) Tricolori di inseguimento (1940, 1941, 1942, 1947 e 1948) Milano-Sanremo (1946, 1948 e 1949) GP delle nazioni (1946 e 1947) Trofeo Baracchi (1953, 1954, 1955 e 1957) Coppa Bernocchi (1954) Valli Varesine (1941, 1948 e 1955) Parigi-Roubaix (1950) Freccia Vallona (1950) Giri di Lombardia (1946, 1947, 1948, 1949 e 1954) Giri dell’Emilia (1941, 1947 e 1948) Giri della Romagna (1946, 1947 e 1949) Giri del Veneto (1941, 1947 e 1949) Giro della Toscana (1941) Giri della Campania (1954 e 1955) GP di Lugano (1951, 1952 e 1956) Ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Tortona. Muore alle 8,45 del 2 gennaio 1960. È stato un grande. Ha inventato il gioco di squadra, stringendo accordi con gli avversari; ha studiato l’alimentazione e l’abbigliamento più adatto ad un corridore; ha fatto apportare modifiche alle bici per adattarle alla strade sterrate. In carriera ha vinto 166 corse in linea di cui 24 a cronometro, grazie anche ai suoi fedelissimi gregari: Ettore Milano, Andrea “Santino” Carrea, Riccardo Filippi, Aldo Leoni…; ha vinto 159 gare in pista di cui 84 prove d’inseguimento. REDA L’INVASORE VENUTO DALL’ORIENTE di Marco Saracchi L ’ailanto è un albero con chioma globosa, irregolare, di colore verde chiaro; ha tronco eretto, ramificato e la sua corteccia è di colore grigio-brunastra, ruvida, con striature più chiare negli esemplari adulti. Le foglie, lunghe fino a un metro e che cadono in autunno, sono composte da 13-33 foglioline lanceolate, hanno base asimmetrica e margine grossolanamente seghettato e in autunno assumono talora un’attraente colorazione rossa-dorata. I fiori, emessi in giugno-luglio, sono giallo verdastri raccolti in pannocchie erette posizionate all’apice dei rami, lunghe 15-20 cm. Fiori maschili e femminili tendono a svilupparsi su piante separate. I frutti sono delle samare lanceolate, alate, bruno rossastre, prodotte in abbondanza e vistosamente dalle chiome, vengono facilmente diffuse dal vento. Il nome di questa pianta ha due probabili origini; la prima dal francese “ail = aglio” e dal greco “anthòs = fiore” in riferimento allo sgradevole odore agliaceo emanato da fiori, foglie e corteccia quando vengono stropicciate. Odore non gradito anche dagli animali che evitano di cibarsi di parti di questa pianta. La seconda possibile origine del nome fa riferimento al vocabolo cinese “ailanto” che significa “albero del cielo” o “albero del paradiso”: in Cina l’ailanto è uno dei simboli dell’elevazione spirituale. Questa pianta appartiene alla famiglia delle Simarubaceae; il genere Ailanthus comprende 8-10 specie delle quali solo tre sono state attivamente considerate dalle attività dell’uomo: A. altissima (o A. glandulosa), detto anche “albero del sole”, “sommacco persiano”, “ailanto della Cina” o “toccacielo” (che comprende le varietà pendulifolia dal bel fogliame ricadente ed erythrocarpa, dai frutti rossi) è il più diffuso nei nostri ambienti; A. giraldii con foglie lunghissime, di colore verde scuro sulla pagina superiore e verde chiaro su quella inferiore; A. vilmoriniana con fogliame verde-azzurro e provvista di aculei giallastri e ricurvi. Il legno di questa specie è molto chiaro, simile a quello del frassino, tenero e lavorabile nelle zone di origine viene impiegato per la costruzione di utensili e mobili, ha una buona resa in cellulosa ma nel complesso non viene utilizzato a livello industriale. Non è una pianta longeva e la sua vita media pare sia intorno a 40-50 anni. L’ailanto è un albero originario delle zone temperate dell’Asia e dell’Australia settentrionale. Nel 1751 fu portato per la prima volta nei giardini inlgesi come pianta ornamentale, si è rapidamente diffuso in Europa sia per la bellezza del fogliame sia perché caratterizzato da una elevata rapidità di crescita che ne fanno una pianta “comoda” per impianti rapidi e duraturi. La sua presenza nei nostri ambienti è dovuta anche al fatto che a metà settecento la bachicoltura stava subendo pesanti perdite a causa di una malattia che colpiva i bachi e tra i rimedi si pensò anche di sostituire il Bombix mori con un’altra farfalla, anch’essa produttrice di seta, la Samia cynthia (sfinge dell’ailanto) che si nutriva, appunto, delle foglie di ailanto anziché di quelle di gelso. Purtroppo le cose non andarono come previsto. L’insetto non si adattò molto alle condizioni climatiche europee e le rese in seta non furono paragonabili a quelle del baco comunemente allevato e quindi l’esperimento venne abbandonato. Entrambe le specie coinvolte sono state lasciate a se stanti: la farfalla svolazza ancora oggi (non frequentemente) nei nostri campi, l’ailanto è diventato una delle specie arboree più infestanti e preoccupanti del nostro territorio. Esso cresce in maniera incontrollata, invade spazi incolti o con insufficiente manutenzione, “scaccia” le specie autoctone e le sostituisce, una volta insediato in un ambiente è difficilmente eliminabile. L’ailanto è così “invadente” e “infestante” che se ne sconsiglia la diffusione ad opera dell’uomo e la sua messa a dimora: queste attenzioni sono state recepite anche dai “regolamenti del verde” adottati da svariati Enti che gestiscono il territorio e che prevedono, addirittura, piani di bonifica ad hoc per la sua rimozione. I motivi di questa “insistente” presenza sono diversi. In primo luogo i frutti trasportati dal vento consentono una celere colonizzazione di nuove porzioni di terra; la germinazione dei semi è veloce e le giovani plantule crescono rapidamente formando densi popolamenti in grado di ombreggiare fortemente il suolo, impedendo in questo modo la crescita delle specie spontanee, spesso meno aggressive. Le altre specie vegetali vengono ostacolate nella loro crescita anche per mezzo di sostanze tossiche prodotte dalle radici e diffuse nel suolo. In aggiunta lunghissimi stoloni (fusti) sotterranei, lunghi fino a 30 metri, ne assicurano la riproduzione vegetativa: da essi si originano piante figlie anche solo spezzando o incidendo debolmente la radice. Come se non bastasse è estremamente difficile estirpare completamente l’apparato radicale dell’ailanto dal terreno: basta lasciare anche un solo frammento di radice per veder ricomparire una nuova pianta nella stagione successiva. L’ailanto è un albero molto rustico e poco esigente, non necessita di molta acqua per crescere e può svilupparsi in terreni poveri e sassosi. Sopporta bene sia le alte sia le basse temperature. Essendo una specie non originaria del nostro Paese da noi non ha trovato parassiti e/o insetti in grado di attaccarla, quindi la sua vegetazione non viene ostacolata. Anche la resistenza agli agenti inquinanti è molto elevata e perciò neppure ambienti poco salubri ne sfrenano lo sviluppo. Tutte queste caratteristiche hanno fatto si che in passato questa specie venisse impiegata negli ambienti più difficili. Ailanti sono stati impiegati per costituire viali stradali e aree verdi a pronto effetto, per consolidare sponde franose e poco adatte alla crescita di alberi. A questo proposito può essere citata l’usanza di impiantare ailanti su sponde e fronti di cave: ombra per gli operai e terreno consolidato in breve tempo. Le radici dell’ailanto hanno una elevata capacità di penetrazione e si infi ltrano nelle fessure: così vengono facilmente rovinate le pavimentazioni e provocate lesioni in fondamenta e muri, compromettendo la stabilità di manufatti e vecchi edifici. La storia dell’ailanto nel nostro continente quindi è un ottimo esempio di una catena di errori ed omissioni nel contesto della gestione di un sistema complesso che nel caso specifico è l’ambiente naturale. Mancanza di conoscenze di base sui soggetti implicati, assenza di valutazioni sull’eventuale impatto ambientale, prevalenza del concetto di “verde tutto e subito” sulle scelte più caute e ponderate. Nel ‘700 è stata quindi sganciata una “bomba ecologica” parzialmente giustificata dall’ignoranza (nel vero senso della parola): non è stata la prima, non è stata l’unica, ne sono seguite altre: possono essere evitate le prossime? Il pittore naif Henri Rousseau, detto “Le douanier ” (1844-1910), era solito raffigurare tra gli ailanti le sue tigri e la fauna esotica dei suoi sogni, in isole lontane: come verrà raffigurato l’ambiente che ci circonderà nel prossimo futuro? UN E FALÒ PER ’ il 17 di gennaio: cala la notte, il buio si illumina a festa e, qua e là nelle campagne, grandi falò alzano le loro fiamme verso il cielo. Viandanti infreddoliti fanno ressa davanti ad un pentolone che emana un invitante aroma di vin brulè, per spostarsi poi - velocemente - verso un focherello dove aspettano di essere mangiate invitanti salamelle: è la festa di Sant’Antonio Abate che qui da noi, come in tantissime altre località italiane (e non solo), si ripete da secoli ogni anno. Dei festeggiamenti in onore di questo Santo ci parla anche il grande Goethe, in una nota posta sul suo diario nel lontano 17 gennaio 1787. Anticamente, ben prima dell’avvento della religione cristiana, presso gli antichi Romani e i Celti erano molti i riti che si susseguivano ad iniziare dal solstizio d’inverno fino all’equinozio di primavera. Questi riti, mediante l’accensione di fuochi, erano finalizzati non solo a purificare uomini, animali e campi coltivati, ma soprattutto ad ingraziarsi le divinità. Con l’avvento del Cristianesimo il rituale pagano della purificazione fu ereditato dalla nuova religione, insieme alla consuetudine di benedire gli animali nello spiazzo antistante la chiesa dedicata a Sant’Antonio Abate. Le leggende che si narrano sulla figura di questo Santo sono davvero tante e per soddisfare la mia – e spero anche la Vostra – curiosità, ho provato ad indagare un po’ più a fondo sulla sua figura. Antonio nacque in Egitto, nel villaggio di Coma (l’attuale Qumans) verso il 250 d.c. da una agiata famiglia cristiana di agricoltori. Verso i 18-20 anni rimase orfano, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare. Divise l’eredità con la sorella e, in ottemperanza all’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, si ritirò, per vivere da eremita, in una tomba in montagna. Scoperto dai SANT’ANTONIO ABATE suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi affluivano presso gli anacoreti per ricevere consiglio, aiuto e consolazione, Antonio si spostò più lontano, verso il Mar Rosso. Nel 305 creò una comunità nel Fayum e successivamente un’altra nel Pispir, iniziando così il monachesimo e dettando le prime regole. Trascorse gli ultimi anni della sua lunghissima vita nella Tebaide, accogliendo presso di sé due monaci che lo accudirono fino alla sua morte, avvenuta il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto. Nel 561, quando il suo sepolcro vienne scoperto, le reliquie iniziano a viaggiare da Alessandria a Costantinopoli fino ad arrivare nell’IX secolo in Francia a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore. In questa chiesa cominciarono ad affluire folle di malati, soprattutto quelli affetti dal morbo conosciuto come “ignis sacer” per il bruciore che provocava. Si costruì un ospedale e il papa accordò il privilegio di allevare maiali: i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade e nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Il loro grasso veniva usato per curare il morbo che venne chiamato “il male di Sant’Antonio” e poi “fuoco di Sant’Antonio” (herpes zoster): è per questo motivo che il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano; poi, per estensione, il Santo divenne patrono di tutti gli animali domestici e da stalla e venne assunto come patrono anche da quanti lavoravano con il fuoco, come i pompieri, non solo perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base ad un leggenda popolare. Questa leggenda narra che S. Antonio si recò all’inferno, per contendere al diavolo l’anima di alcuni morti e, mentre il suo maialino sgaiattolato dentro creava scompiglio, lui accese col fuoco infernale il suo bastone e lo portò fuori (insieme al maialino recuperato) e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna, tradizione che, dopo millenni, si perpetua ancora oggi, anche a Corbetta. Il nostro falò, acceso in via Vespucci, ha attirato molte persone, provenienti anche dalla città dove alcune tradizioni non hanno avuto la possibilità di sopravvivere a causa dell’urbanizzazione: quasi 60 lt di vin brulè e 300 salamelle non sono bastati a soddisfare tutti gli avventori che si sono avvicendati ai quali, il qualità di rappresentante della Pro Loco, voglio porgere un elogio per la dimostrazione di civiltà ed educazione dimostrata. Al termine dell’evento non abbiamo trovato gettato per terra neppure un bicchiere: sono stati tutti accumulati ordinatamente su un tavolino! Vedere per credere! Un ringraziamento, inoltre, a tutti coloro che hanno dedicato il loro tempo alla riuscita della manifestazione. JANA MUSICA P ASSORDANTE rego vuol ballare con me? Così cantava Adriano Celentano e così anch’io volevo unirmi al popolo danzante con il desiderio di ritrovare il piacere, assieme alla mia dama, di una bella serata immersi nella musica. Oggi troviamo grandi complessi composti da tre settori di danze: latino-americano, liscio, discoteca. Abbiamo tre tipi di ballo, ma con una sola tonalità: la musica al volume massimo, tanto da mettere in seria difficoltà il nostro povero udito. All’inizio abbiamo sperato che la tonalità nel liscio e del latino-americano venisse moderata, ma rimase solamente un sogno. Così, visto che niente cambiava, con uno sguardo d’intesa e in un attimo ci trovammo felici avvolti dal prezioso silenzio notturno, dando il nostro addio definitivo alle multisale assordanti. La nostra Italia è famosa nel mondo per la grande musica composta dai nostri grandi autori e tantissime sono le canzoni stupende ballabili, anche moderne. Ma in queste tre piste abbiamo udito solo suoni fastidiosi per le nostre orecchie. Non solo non si riesce ad ascoltare buona musica, ma anche il desiderio di scambiare un dialogo diventa impossibile. Ecco come una società riesce a distruggere e stravolgere il nostro divertimento. Se l’arte musicale non viene coltivata e valorizzata, qualcosa di negativo bisogna trovare al suo posto, che ci tenga “com- pagnia”… Una volta distrutti i divertimenti veri, non resta che ricorrere a sostanze in grado di alterare la nostra psiche come l’alcool e la droga. Lo dimostrano gli alti consumi attuali, rendendo anche “difficile” il ritorno a casa… e qui inizia, purtroppo, un’altra musica... A me, però, mancano quelle vecchie e sane balere, dove si esibiva anche il grande Giorgio Gaber. Proprio a due passi da Corbetta, cantando la dolcissima e melodica canzone: “non arrossire”… Walter Angeli Errata corrige Sul Curia Picta n° 5/2009 nell’articolo “Gli anni ruggenti del calcio” per errore è stato pubblicato “Burloni, intenditore” anziché “Burloni, intenditore”. Ce ne scusiamo con l’autore e con i nostri lettori. Cogliamo l’occasione per pubblicare la “vignetta” che, per ragioni di spazio, non è stato possibile inserire nell’originario articolo. LA C arissimi lettori, inizio con l’augurarvi un Buon Anno! Dato che la maggior parte dei miei articoli trattano delle feste, in questo racconterò di quella dei Vigili del Fuoco del distaccamento di Corbetta, celebrata il 17 gennaio. Sabato alle ore 17,30 tutti i pompieri si sono ritrovati presso il santuario della Beata Vergine dei Miracoli per la benedizione dei mezzi, offrendo, presso la sede della caserma in via Repubblica, un aperitivo di benvenuto. Per l’occasione erano presenti alcuni “colleghi” provenienti da Martigny; Nunzio Linguaglossa capo distaccamento della caserma sita in provincia di Catania; il noto fotografo cittadino G. Saracchi per le foto di rito. Domenica 17 gennaio dalle ore 9,30 i pompieri hanno avuto il piacere di accogliere presso il distaccamento, oltre agli ospiti già citati, i Vigili delle caserme di Pieve Emanuele e di Magenta, i volontari della Croce Bianca e Azzurra di Magenta, la FESTA DEI POMPIERI Croce Verde di Corna- Foto: A. Magistrelli redo, la Protezione Civile di Bareggio e Vittuone, nonché i rappresentanti dei Carabinieri di Corbetta e Bareggio e delle Fiamme Gialle di Magenta. Il ritrovo che ha dato avvio al corteo era in P.zza I° maggio, da lì tutti i Vigili con i mezzi si sono diretti verso la Pzza del Popolo dove sono stati accolti dalle note del Corpo Filarmonico “G. Donizetti”. Alla festa si è associata la Messa dedicata proprio ai Vigili del fuoco. Nel discorso del Sindaco Ugo Parini dopo una breve cronologia relativa alla storia del distaccamento di Corbetta, ha elogiato l’attività che i volontari svolgono con grande passione e dedizione in qualunque ora del giorno e Foto: G. Masperi della notte, per portare aiuto a coloro che si trovano in difficoltà. Gli invitati si sono poi ritrovati presso la scuola elementare “Aldo Moro” per un pranzo e la consegna dei riconoscimenti a Tutte le Associazioni presenti e al Dott. Pietro Tatarella, Responsabile Regione Lombardia della Protezione Civile. Il Sig. Nunzio Linguaglossa nel discorso di ringraziamento ha rivolto un particolare grazie a M. Balzarotti e Ciceri per il gemellaggio svoltosi nel mese di giugno del 2009. Alcuni premi sono stati consegnati a Ernestino Calati e Giuseppe Parmigiani che lasciano il Corpo dei Vigili del Fuoco per raggiunti limiti di età. Nella stessa occasione è stato nominato “Capo Ufficiale di Distaccamento” il Caposquadra Maurizio Beretta. Chiara Ragusa Ai Collaboratori Lettere, articoli, informazioni, notizie, etc. vanno inviate a: * Redazione Curia Picta: Villa Pagani - Della Torre Piazza XXV Aprile, 4 Corbetta (MI) Cell. 392.5755486 e-mail. redazione@visitacorbetta.com web. http://curiapicta.visitacorbetta.com * Per la vostra pubblicità: Pro Loco Corbetta 348.3269386 Chiuso Chiusoin inredazione redazioneilil10/02/2009 2/02/2010 Curia Picta * Direttore responsabile: Redaelli Luciano * Segretaria di redazione: Ragusa Chiara * Redazione: Balzarotti Andrea, Baroni Gepi, Granatelli Fabio, Saia A. 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