la Primavera di Koudelka

Transcription

la Primavera di Koudelka
Domenica
l’attualità
Il Campidoglio, colle del potere
La
di
DOMENICA 27 APRILE 2008
ANDREA CARANDINI e FILIPPO CECCARELLI
la società
Repubblica
Bambini-contadini a lezione di orto
MAURIZIO CROSETTI e CARLO PETRINI
Praga ’68
la Primavera
di Koudelka
A quarant’anni
dall’invasione dei carri
armati sovietici un libro
raccoglie lo straordinario
reportage del grande fotografo
ceco. Ecco le immagini mai viste
FOTO JOSEF KOUDELKA / MAGNUM / CONTRASTO
che costarono al loro autore
vent’anni di esilio
MARIO CALABRESI
«I
cultura
BERNARDO VALLI
NEW YORK
l telefono squilla alle quattro del mattino; rispondo; un’amica grida: “Sono arrivati i russi”.
Penso ad uno scherzo e abbasso. Suona una seconda volta, non ci credo e riattacco di nuovo. Alla terza telefonata la voce urla: “Apri la finestra e ascolta”. Mi alzo, metto la testa fuori per due minuti e sento il rumore degli aerei militari. Capisco che sta succedendo qualcosa. Mi vesto in
fretta, prendo la macchina fotografica e tutte le pellicole che mi
sono rimaste, ero tornato il giorno prima dalla Romania dov’ero stato a fotografare gli zingari. Scendo in strada, comincia appena ad albeggiare, istintivamente mi dirigo verso la sede della
radio, a meno di un quarto d’ora da casa. I russi erano andati alla radio anche nel 1945. Ma allora erano venuti per liberarci».
(segue nelle pagine successive)
E
PARIGI
rano circa le tre, nella notte tra martedì 20 e mercoledì 21 agosto 1968, quando i praghesi furono svegliati da un rumore grave e forte, sempre più intenso.
Un brontolio sordo. Sulle loro teste si muoveva il ponte aereo più importante organizzato nel cuore dell’Europa dalla
Seconda guerra mondiale. Vibravano le vetrine di piazza San Venceslao, lunga come un ippodromo e dominata dall’imponente
Museo nazionale che poche ore dopo sarebbe stato scalfito dai
proiettili dell’Armata Rossa. Quello che sembrava un interminabile tuono echeggiava nei cortili dei solenni palazzi di Mala Strana, ai piedi del Castello di Hradcany. E investiva le facciate liberty
allineate sulla Moldava e sulla stravagante via Parigi, tra il fiume e
il ghetto defunto.
(segue nelle pagine successive)
L’occhio, il re dei simboli
DANIELE DEL GIUDICE
la lettura
Quando Lawrence incontrò Tolkien
STEFANO MALATESTA e WU MING 4
spettacoli
Il ritorno delle canzoni ribelli
EDMONDO BERSELLI e SILVANA MAZZOCCHI
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 APRILE 2008
la copertina
LA GENTE CANTA L’INNO NAZIONALE DAVANTI AL PALAZZO DEL COMITATO CENTRALE DEL PARTITO COMUNISTA CECOSLOVACCO
LA REAZIONE DELLA FOLLA ALL’ARRIVO DEI BLINDATI
È l’alba del 21 agosto 1968
A Josef Koudelka telefona un’amica:
“Sono arrivati i russi”
Un fotografo contro i tank
MARIO CALABRESI
(segue dalla copertina)
«L
a prima cosa che vedo è un automobile
d’epoca con il tetto
scoperto che suona
senza sosta il clacson
per svegliare la città,
a bordo ci sono tre ragazzi e una ragazza con una bandiera ceca. Gridano la
stessa frase che ho sentito al telefono: “I
russi sono arrivati”».
La foto della macchina in corsa, che
percorre Avenue Stalin, è la prima che
Josef Koudelka, trent’anni, scatta quel
21 agosto del 1968. La prima di duecento rullini. La prima di uno dei più grandi reportage della storia della fotografia: la testimonianza della repressione
della Primavera di Praga nel sangue.
Duecento pellicole che costeranno al
suo autore vent’anni di esilio.
Sono passati quarant’anni, Koudelka è diventato uno dei più famosi fotografi del mondo, ha la barba e i capelli bianchi, occhialini rotondi, tiene tra
le mani la prima copia del libro che raccoglie molte delle foto inedite di quei
giorni. Uscirà in otto paesi d’Europa alla fine di aprile e negli Stati Uniti quest’estate. Lo sfoglia con cura, come fosse cosa viva, è un pezzo della sua vita e
si accende in continuazione mentre lo
racconta. Siamo nella stanza dei fotografi nella sede dell’agenzia Magnum,
nel quartiere di Chelsea a New York.
Due tavoli, due sedie, una catasta di libri e fogli sparsi ovunque. Ci si aspetterebbe un luogo grandioso e autocelebrativo come sede dell’agenzia che raccoglie l’elite dei fotografi, invece sembra la redazione di una rivista di provincia, se non fosse che le ragazze riordinano gli scatti di Cartier-Bresson e
stanno rimettendo a posto le immagini
di Martin Luther King mentre pronuncia il suo discorso più noto: «I Have a
Dream», Washington 1963.
Josef Koudelka parlerà senza sosta
per novanta minuti, alternando tre lingue: inglese, spagnolo e italiano. È normale per un uomo che non ha mai avuto una casa, o meglio che non si è mai
sentito a casa in nessun luogo.
«La ragazza che mi ha svegliato si
chiama Marie Lakatošova, lavorava in
una rivista di teatro, suo padre era un
grande musicista gitano. Ci sentiamo
ancora: le porterò il libro non appena
torno a Praga. Se sono stato il primo ad
arrivare, lo devo a lei».
Raggiunge la sede della Radio che i
russi non ci sono ancora. «Erano atterrati all’aeroporto e stavano muovendo
verso il centro con dei veicoli leggeri,
solo più tardi sarebbero apparsi i blin-
LA GENTE OSSERVA L’ARRIVO DELL’ARMATA DI OCCUPAZIONE
dati e i carri armati». Una piccola folla
riesce ad anticipare i soldati del Patto di
Varsavia e blocca l’accesso alla Radio:
«I soldati all’inizio erano confusi e disorientati, non sapevano dove fossero,
erano sorpresi che non li volessimo.
Erano giovani come me e ho pensato
che vivevamo sotto lo stesso sistema e
un giorno poteva toccarmi la stessa
sorte: trovarmi su un blindato da qualche parte a Varsavia o a Budapest». Li si
vede che fumano, discutono e scrutano
i volti delle persone nelle strade e sentono ripetere lo slogan: «Vai a casa, o
Ivan, ti aspetta Natasha».
Le foto sono sfocate, mosse, frutto
della poca luce e della concitazione. «La
gente non li lasciava passare, li inseguiva, riuscì a fermarli, intanto la folla cresceva». Koudelka mette a fuoco l’uomo
che dirige l’operazione, poi si arrampica sul blindato e comincia a scattare immagini della popolazione: «Le foto diventano come un film, in cui la storia
adesso è vista dal punto di vista opposto, con lo sguardo di un soldato russo.
Sono stato fortunato che non mi hanno
fatto niente, ma all’inizio c’era grande
confusione e nessuno era preparato».
Koudelka racconta soltanto quello
che ricorda con certezza, e prima di
parlare controlla il libro: «Sono passati
quarant’anni e non ti puoi fidare della
memoria, ma delle foto sì, ti puoi fida-
re». E le foto in bianco e nero mostrano
la sproporzione tra i carri armati del
Patto di Varsavia e quelle che la Pravda
il 21 agosto definiva «le forze controrivoluzionarie che minacciano l’ordine
socialista». Ma si vedono soltanto ragazzi che gridano, anziani che si mettono le mani sulla bocca, donne che piangono, persone che cantano l’inno nazionale e una scritta tracciata con il gessetto sul muro: «Russi, tornate a casa».
Poi i paracadutisti occupano la Radio
e per farsi strada i blindati sparano i primi colpi. Una donna viene schiacciata
dai cingoli. Ci sono sparatorie. Arrivano le notizie dei primi morti. Le foto
scandiscono ogni attimo. Bruciano automobili e il cielo si riempie di fumo.
Gruppi di giovani disegnano svastiche
sui carri armati, poi li attaccano. Alcuni
prendono fuoco. Un vecchio con il basco e la cartella di pelle tira un sampietrino. La sera gli incendi bruciano alcuni palazzi già distrutti dai proiettili. Poi
arriva il coprifuoco. Koudelka entra in
una casa accanto alla sede della Radio e
trova alcuni cadaveri, un ragazzo con
gli occhi spalancati e il sangue che cola
dal naso. Per tre giorni testimonia la repressione, i funerali delle vittime, la
protesta che si fa sempre più silenziosa.
Qualcuno ha l’idea di distruggere la segnaletica: scompaiono improvvisamente i nomi delle vie e delle piazze, i
numeri civici, perfino le targhette sui
citofoni, la città diventa anonima. Praga è una città morta per gli ospiti indesiderati e il motto diventa: «Il postino
trova l’indirizzo, il bastardo no».
«Il secondo giorno i russi mi hanno
visto che fotografavo i tank da una finestra, hanno pensato che ero un cecchino e allora sono entrati nel palazzo per
venirmi a prendere. Mi sono salvato
scappando dai tetti ma prima ho consegnato tutti i rullini a un ragazzo perché li mettesse in salvo». Koudelka
scatta senza sosta ma non sviluppa nulla, non c’è tempo, comincerà a farlo solo un mese dopo. Quando tornerà dal
ragazzo per recuperare le pellicole scoprirà che quello le ha mandate a Vienna a Radio Free Europe. «Mi arrabbiai.
Non volevo, non mi interessava. Fotografavo per me stesso e per la memoria,
non per un giornale, non avevo scattato per pubblicare».
«Non ho mai fatto foto d’attualità,
prima dell’agosto del 1968 mi ero occupato solo di zingari e teatro, dopo avrei
fotografato solo paesaggi e persone.
Non mi sono mai interessate le news,
non avevo mai visto Life o Paris Match,
ma penso di essermi comportato bene.
Quella mattina quando sono stato svegliato mi sono trovato davanti a qualcosa più grande di me. Era una situazione straordinaria, in cui non c’era
QUARTIERE DELLA CITTÀ VECCHIA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 APRILE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
SGUARDI TRA I SOLDATI SOVIETICI E LE RAGAZZE DI PRAGA
Comincia così, nelle strade di Praga
invasa, uno dei più grandi reportage
della storia della fotografia
zio cercando di non tradirmi. Dovevo
tornare a casa e non potevo rischiare. Ma
il giorno dopo riuscii a contattare l’Agenzia Magnum e loro ebbero l’idea di farmi
una lettera con cui mi invitavano a fotografare gli zingari dell’Europa occidentale». Tornò a Praga, dove grazie a un amico al ministero della Cultura riuscì ad
avere il permesso di espatriare per tre
mesi.
Lasciò la Cecoslovacchia il 20 maggio
del 1970. «Me ne sono andato perché avevo paura che la polizia scoprisse che ero
io l’anonimo fotografo praghese. Non
avevo voglia di finire in galera e sarebbe
successo perché le mie immagini sono la
testimonianza di quello che è successo,
sconfessavano le falsificazioni, mostravano i morti, smentivano il racconto di
quanto fossero contenti i cechi nel vedere arrivare i russi. Ci sono le foto delle persone uccise in mezzo alla strada e quello
proprio non andava bene».
Koudelka era l’unico fotografo che
non si nascondeva: «Correvo da una parte all’altra, volevo testimoniare tutto,
non restare fermo in un solo posto. Mi
mettevo davanti ai russi e cominciavo a
scattare, gli amici mi dicevano che sarei
stato ammazzato, i soldati pensavano
che fossi pazzo o particolarmente coraggioso. Ma il coraggio è un’altra cosa, è
quello che hanno avuto quei sette russi
che sono andati sulla Piazza Rossa per
IL PRIMO SCATTO
Josef Koudelka quel 21 agosto
1968 aveva trent’anni
L’immagine qui sopra fu la prima
che fermò quella mattina, subito
dopo essere uscito di casa
«La prima cosa che vedo racconta oggi - è un’automobile
d’epoca col tetto scoperto
che suona senza sosta
il clacson per svegliare la città
Sopra tre ragazzi e una ragazza
con la bandiera ceca. Gridano:
“I russi sono arrivati”»
Nella foto di copertina
i primi carri armati sovietici
a piazza Venceslao
protestare per l’invasione della Cecoslovacchia. Dopo tre minuti li hanno arrestati e alcuni si sono fatti sette anni di galera. Uno di loro molto tempo dopo ha
detto: “Ne è valsa la pena: quei tre minuti sono stati gli unici nella mia vita in cui
mi sono sentito libero”».
Koudelka avrebbe rivisto Praga soltanto nel 1991 quando i genitori erano
già morti: «Mio padre aveva capito che
non sarei tornato, era bastato che gli dicessi: “Ho fotografato i russi”, e a lui fu
chiaro tutto. Faceva il sarto, cuciva le
uniformi, mi guardò e mi disse: “Se fossi giovane, io me ne andrei”. Partii per
la Camargue per fotografare i gitani.
Novanta giorni dopo avrei chiesto asilo politico a Londra».
Koudelka era diventato un uomo libero, le foto invece sarebbero rimaste senza padre, anonime, per altri quattordici
anni per evitare guai alla famiglia. La dedica del libro recita: «Ai miei genitori che
non hanno mai visto queste fotografie».
«Ci siamo incontrati una sola volta, a Parigi nel 1977: avevano avuto il permesso
di uscire per qualche giorno ed erano venuti a trovarmi. Avevo pubblicato da un
paio di anni il libro sugli zingari e glielo regalai con una dedica molto lunga e affettuosa. Ma quando sono partiti il libro era
rimasto sul tavolo. Mio padre si giustificò
dicendo che era troppo pesante, la verità
è che vivevano nella paura e quella pote-
va essere la prova che il fotografo ero io».
L’esilio ha lasciato il segno e cambiato una vita: «Oggi vivo dove sono: una
settimana fa ero in Spagna, ieri a Parigi,
adesso per sei settimane negli Stati
Uniti. Per quindici anni non ho pagato
un affitto, ho due abitazioni, una nel
centro di Praga e una nella periferia di
Parigi, però non sono case ma luoghi di
lavoro dove c’è un grande tavolo e tutto quello che mi serve».
«L’esilio però ti fa due regali: il primo
è che ti costringe a costruirti una nuova
vita e ti dà la possibilità di farlo in un ambiente nuovo dove nessuno ti conosce e
ha pregiudizi su di te; il secondo è che
quando torni a vedere il tuo Paese lo fai
con occhi diversi. Nel 1991 a Praga è stato formidabile: ogni mattina mi svegliavo prestissimo e cominciavo a camminare per guardare più cose possibile.
Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io
viaggio per non diventare cieco».
Josef Koudelka ha un figlio di tredici
anni che vive a Torino. «Quando ho visto che disegnava gli aerei come facevo
io da ragazzo mi sono commosso e mi è
venuto da pensare che l’invasione mi
ha regalato una cosa bellissima: se non
fossero arrivati i russi, io non sarei scappato e questo mio figlio non esisterebbero. La prima copia di questo libro
sarà per lui».
FOTO JOSEF KOUDELKA / MAGNUM / CONTRASTO
tempo di ragionare, ma quella era la
mia vita, la mia storia, il mio Paese, il
mio problema».
Due settimane dopo riesce ad andare
a Vienna — «avevo un passaporto ottenuto durante la Primavera di Praga» —
recupera le foto e se le riporta a casa. Solo un mese più tardi, dopo averle stampate, si farà convincere da un’amica a
darne cinque a Eugene Ostroff, curatore
dello Smithsonian di Washington che le
porterà al presidente di Magnum Eliott
Erwitt. Gli fanno sapere che vogliono i negativi: «Non avevo nessuna voglia di consegnare tutto il mio lavoro ad altri, ma la
mia amica, che era la critica d’arte Anna
Farova, mi convinse che erano delle persone serie. I negativi arrivarono in America nella valigia di un medico che era venuto a Praga per un congresso». Per anni
rimasero anonime, sul retro delle stampe nell’archivio di Magnum c’è un timbro con scritto: «Photograph by P.P». P.P.
significa fotografo praghese, poi solo nel
1984, a penna, è stato aggiunto il nome.
«Ho visto le mie foto pubblicate a Londra nel primo anniversario dell’invasione, nell’agosto del 1969. Era una domenica, ero a Londra per seguire e fotografare un gruppo teatrale del mio Paese.
Uno di loro comprò il Sunday Times e cominciò a sfogliarlo, io riconobbi i miei
scatti, l’emozione era grandissima ma
non potevo dire niente. Rimasi in silen-
EDIFICI DISTRUTTI DAI PROIETTILI E DAGLI INCENDI SU VIALE VINOHRADSKÁ
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 APRILE 2008
la copertina
SULLA STRADA PER HLOUBETIN
UN SOLDATO CANCELLA LE SVASTICHE DAL SUO BLINDATO
L’invasione sovietica schiacciò
il tentativo di rinnovare
il sistema comunista dall’interno
La Primavera insanguinata
BERNARDO VALLI
(segue dalla copertina)
orse faceva fremere anche i
moschettieri di terracotta appollaiati su un tetto di via Parigi, come se dovessero proteggere dall’alto l’indimenticabile cimitero ebraico che è li
a due passi. In quelle ore la preziosa
città mitteleuropea, resa ancor più romantica, evanescente dalla ventennale trascuratezza del regime, era un antico, magico lampadario di cristallo,
sbrecciato e polveroso, scrollato da
una forza misteriosa, senz’altro infida.
Provati dalle emozioni delle ultime
settimane, non pochi praghesi, i meno
decisi, si rigirarono nel letto e cercarono di riaddormentarsi. Era evidente
che la capitale era sorvolata da ondate
di aerei a bassa quota, ma per loro doveva trattarsi di una manovra. Era comodo pensarlo. E non mancavano gli
spunti che potevano rassicurare. La
controversa, contrastata Primavera di
Praga, il processo di rinnovamento comunista iniziato (o accelerato) il 5 gennaio con la nomina del riformatore
Alexander Dubcek alla testa del partito, al posto dell’ortodosso Antonin Novotny, era arrivata al 204esimo giorno.
F
E le minacce sembravano per il momento sospese se non proprio svanite
del tutto. Il vertice di Bratislava del 3
agosto aveva fatto tirare un sospiro di
sollievo. Riuniti a congresso, come un
tribunale di ultima istanza, i capi di cinque Paesi comunisti (Urss, Bulgaria,
Germania orientale, Ungheria e Polonia) avevano emesso una sentenza in
apparenza assolutoria: avevano dato
l’impressione di tollerare l’esperimento cecoslovacco e di non volerlo
schiacciare come era accaduto dodici
anni prima con lo scisma ungherese. A
una sola condizione: che esso confermasse la sottomissione totale al Patto
di Varsavia, ossia all’alleanza militare
comunista, dominata dai sovietici.
Questa condizione annessa all’apparente assoluzione creava un’equazione irrisolvibile. Quindi esplosiva.
Bratislava aveva acceso una breve illusione. Alla stessa ora, mentre i praghesi meno sensibili si agitavano nei loro
letti infastiditi e impensieriti dal passaggio degli aerei, Dubcek e i suoi compagni venivano catturati dai paracadutisti sovietici nella sede del Comitato
centrale. Dopo le cinque, quel mattino
di mercoledì 21 agosto, al rumore del
ponte aereo se ne aggiunsero altri più
allarmanti. All’Hotel Esplanade, all’angolo di piazza San Venceslao, un
CON LA BANDIERA CECOSLOVACCA CONTRO I CARRI ARMATI
giornalista straniero non ancora del
tutto emerso dal sonno pensò a un
martello pneumatico in funzione nei
paraggi. Ma a quell’ora non potevano
esserci lavori stradali in corso.
Quei tonfi ritmati, lenti erano quelli
di una mitragliatrice pesante, attutiti
dalla distanza. Quando il cronista assonnato si affacciò sulla piazza San
Venceslao scoprì che era affollata come in un giorno di festa. La gente era
tanta che traboccava nelle strade adiacenti. C’erano molte bandiere. Bandiere ceche di tutte le dimensioni, sventolate dalle automobili, appese alle finestre, in testa a cortei che si incrociavano, diretti verso il Museo, all’estremità
alta della piazza, o nella direzione opposta, verso il fiume.
Si avvertiva una disperata esaltazione. I giovani, ragazzi e ragazze, ma anche gli anziani, uomini e donne, tutti a
mani nude, avevano voglia di confrontarsi con gli invasori.
La maggioranza dei praghesi non si
era illusa. Era saltata giù dal letto. Non
era stata tanto ottimista da pensare a
una manovra militare. L’invasione era
un incubo che accompagnava il Paese
da mesi. Il tuono nella notte d’agosto già
un po’ autunnale non aveva lasciato
dubbi: l’invasione era cominciata. E subito masse di praghesi si erano rovescia-
te per le strade, prima ancora dell’alba,
mentre si accendevano sparatorie sulle
due sponde del fiume, e nella parte alta,
verso Hradcany. Più che scontri armati
erano spari sovietici di intimidazione.
Non era la resistenza delle milizie del
partito o dell’esercito nazionale che poteva fermare l’invasore.
La storia e la cultura hanno insegnato a un piccolo Paese ritagliato tra imperi prepotenti, dei quali non può contrastare la forza, quali sono le forme di
resistenza consentitegli dalla ragione:
l’ironia, il sarcasmo, il dialogo, la polemica. Armi spuntate quando prevale la
violenza, ma che salvano la dignità e lasciano tracce ricche di sviluppi nell’attesa di tempi migliori.
Piazza San Venceslao era diventato il
punto di raccolta dei manifestanti. Era
in quelle ore il cuore di Praga. Clacson
e voci esasperate rimbalzavano tra gli
edifici dell’ampia spianata rettangolare, mentre le finestre via via si illuminavano, avvertendo che ormai tutti
avevano abbandonato i loro letti, e con
i letti l’illusione. Gli Ilyushin erano ormai ben visibili nel cielo, stanati dalle
prime luci. E all’alba la gente scagliava
le sue maledizioni alzando lo sguardo.
Alcuni accompagnavano le imprecazioni con degli sputi.
L’Armata Rossa si era impossessata
della città «con la rapidità di una piovra
che stende i tentacoli» (si leggerà più
tardi in uno dei tanti racconti anonimi
di quelle ore). I russi erano sul Ponte
Carlo, davanti a San Nicola, sulla piazza della Città Vecchia, davanti al monumento di Jan Hus, il teologo riformista bruciato vivo (nel Quattrocento), al
quale un praghese avrebbe poi bendato gli occhi affinché non vedesse quello spettacolo vergognoso. I carri armati, i T55 e i più moderni T62, si aggiravano per la città con le torrette chiuse,
senza che gli equipaggi mostrassero le
facce, subendo gli insulti e gli sputi della folla. Non reagivano neppure quando alcuni giovani, rassicurati da quell’inerzia, si arrampicavano sui carri e
sventolavano la bandiere cecoslovacche, come se esibissero un trofeo di
guerra catturato a mani nude. L’Armata Rossa aveva l’ordine di evitare il più
possibile l’uso delle armi. Ma qualche
comandante perse le staffe o ricevette
l’ordine di reagire. Tre autoblindo
aprirono il fuoco, prendendo di infilata piazza San Venceslao. Scaricarono le
loro mitragliatrici, tenendo però alto il
tiro, mirando al primo piano del Museo
nazionale. Anche quello era un fuoco
di intimidazione ma sul selciato, quando la piazza si vuotò, c’erano tracce di
sangue.
UNO STUDENTE E UN CARRISTA
Repubblica Nazionale
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
VIA MÁNESOVA NEL QUARTIERE DI VINOHRADY
Ma la fine di quel mondo cominciò
proprio allora: vent’anni dopo
le idee di Praga riaffioreranno a Mosca
pitati. I loro padri, nel ‘45, avevano avuto un’accoglienza diversa. Le donne di
Praga li avevano presi sottobraccio,
strappandoli dai ranghi, mentre sfilavano vincitori per le strade appena
sgombrate dalle truppe naziste sconfitte.
Neppure un quarto di secolo dopo le
ragazze cecoslovacche chiamavano i
figli o i nipoti dei liberatori di un tempo
con lo stesso nome. Per loro erano tutti
«Ivan» senza distinzione. Affibbiavano
a tutti lo stesso nome, come se fossero
stati fabbricati in serie, uguali, ubbidienti. Non individui, ma elementi senza identità di un’unica massa umana.
La Primavera di Praga era stata un
tentativo di recuperare gli individui,
schiacciati da un collettivismo inefficace e umiliante. Quegli «Ivan», spesso
inconsapevoli, cancellavano con i loro
carri armati quel tentativo, quella speranza, quell’illusione. Gli storici ci dicono che la fine del mondo comunista
è cominciata nell’agosto 1968 a Praga.
Altri risalgono alla Budapest del ‘56. È
un fatto che per evitare il contagio politico, o la depressione, i soldati russi
vennero spesso sostituiti, durante l’invasione della Cecoslovacchia. E le idee
della Primavera di Praga sarebbero
riaffiorate a Mosca, vent’anni dopo, e
avrebbero contribuito all’autoaffon-
IL LIBRO
Invasione. Praga 68 è pubblicato
da Contrasto Editore e sarà
in libreria entro fine aprile
(296 pagine, 249 foto in bianco
e nero, 40 euro). Per la prima
volta, a quarant’anni esatti
da quel drammatico momento
storico, viene raccolta
e mostrata per intero
la straordinaria documentazione
fotografica dell’invasione
sovietica in Cecoslovacchia
realizzata da Josef Koudelka
È stato lo stesso Koudelka,
oggi uno dei più celebri fotografi
del mondo, a curare il volume
damento, al suicidio, dell’Unione Sovietica. Le armi spuntate dei giovani
cechi sulla piazza San Venceslao, il sarcasmo, l’ironia, la polemica, servirono
poco nell’agosto ‘68. Ma fa piacere
pensare che abbiano poi dato dei frutti, proprio nel cuore dell’impero degli
«Ivan», favorendone il crollo.
Stupito che l’avvenimento fosse ufficialmente ignorato, dieci anni fa, trovandomi a Praga per il trentesimo anniversario dell’invasione, scrissi che
dopo essere stata condannata e sepolta nel 1968 dall’Unione Sovietica, la Primavera di Praga era stata condannata e
sepolta nel 1993 dal Parlamento ceco liberamente eletto. L’Urss aveva usato i
carri armati. La democrazia ceca usava
una legge. In quest’ultima, nella legge
ceca, si definiva senza distinzione il periodo dal 1948 al novembre 1989, vale a
dire gli anni in cui il Paese fu governato
dal partito comunista, una fase durante la quale la società fu violentata da
un’organizzazione criminale. Nel presentare questa legge un esponente del
governo aveva precisato che neppure i
promotori dell’effimera Primavera,
durata 204 giorni, potevano sfuggire a
quel giudizio. Anche loro erano stati in
definitiva guardiani del campo di concentramento: guardiani buoni rispetto
ai loro predecessori e ai loro successo-
ri, ma pur sempre guardiani.
Ricavai questa scarna, un po’ brutale, interpretazione dell’atteggiamento
cecoclovacco ufficiale nei confronti
della Primavera dal discorso del filosofo Karel Kosic, un coraggioso intellettuale e protagonista della Primavera, che mi aveva aiutato a capire gli avvenimenti nella Praga del ‘68, prima e
durante l’occupazione sovietica. E che
per me era stato anche un amico. Un
amico per il quale avevo una grande
ammirazione. Adesso, nella Praga democratica, il giudizio sulla Primavera
sta cambiando. È cambiato, poiché si
valuta la Primavera con rispettosa attenzione. Era tempo. Karel Kosic e tanti suoi amici lo meritavano da un pezzo.
In quei mesi del ‘68 facevo la spola
tra Parigi e Praga. Seguivo il Maggio
francese e la Primavera cecoslovacca.
Sulla diversità dei due avvenimenti simultanei vale la pena citare la laconica
analisi di Milan Kundera (nella prefazione a Miracolo in Boemia di Josef Skvorecky). Tra l’altro Milan Kundera,
non comunista, era un amico di Karel
Kosic, filosofo critico marxista. Per
Kundera, dunque, sulle rive della Senna ci fu un’esplosione di lirismo rivoluzionario, mentre sulle rive della Moldava ci fu l’esplosione di uno scetticismo postrivoluzionario.
FOTO JOSEF KOUDELKA / MAGNUM / CONTRASTO
La folla si disperse nelle strade vicine
inseguita dall’odore aspro di polvere e
di grasso bruciato e dai frammenti di
pietra strappati dalla facciata del Museo. Al panico, alle urla di paura, alle
imprecazioni, segui un silenzio non
tanto lungo. Poi la gente riempì di nuovo la piazza occupata dai carri armati.
E lentamente si spalancò una scena destinata a durare alcuni giorni.
Giovani e anziani, uomini e donne,
inermi, avevano accerchiato i carri armati, dai quali adesso spuntavano le
facce stralunate di soldati per lo più imberbi. I cecoslovacchi parlavano il russo. L’avevano imparato a scuola. Era la
lingua obbligatoria. La lingua dell’impero. La lingua dei liberatori del ‘45 diventati invasori nel ‘68. Più di vent’anni dopo la lingua imperiale serviva a
polemizzare con i nuovi occupanti, a
insultarli; a invitarli a tornare a casa, ad
andarsene al più presto. C’era chi
strappava la tessera del partito davanti
ai cingoli e gettava i frammenti in faccia agli ufficiali che spuntavano a mezzo busto dalla torretta. Le ragazze boeme dicevano, senza sorridere: «Ritornate dalle vostre Natasha, con noi non
combinerete mai niente. Neanche se ci
minacciate con i vostri cannoni».
I sovietici erano esterrefatti. Non
tutti sapevano in che Paese fossero ca-
VIALE VINOHRADSKÁ. I SOLDATI ABBANDONANO UN CARRO ARMATO IN FIAMME
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 APRILE 2008
l’attualità
I romani eleggono oggi
il loro primo cittadino
Simboli
La posta in gioco
è l’altura che Goethe
chiamò “secondo Olimpo”
e che è sopravvissuta
a duemila anni di storia
Campidoglio
il colle del potere
«P
FILIPPO CECCARELLI
PALAZZO
NUOVO
Medaglia
di papa
Innocenzo X
(1644-55)
con la facciata
di Palazzo
Nuovo
erdona, l’eccelso / monte del
Campidoglio è un secondo
Olimpo per te», canta Goethe. E
dunque la tentazione rimane
costante nei secoli di ascendere
agli dei; o se si preferisce, la tentazione di salire sul tetto primigenio del comando.
La rocca di tutto il mondo, dall’antichità immemore a queste ultime elezioncine municipali che
il tempo lunghissimo del colle rende perfino trascurabili.
Perché poi, davvero: nessun altro luogo al mondo più del Campidoglio raccoglie e condensa i segni del potere, la sua gloria e le male arti per conservarlo, i privilegi, le minacce, gli incantesimi, le
malinconie, le liturgie, le devastazioni. È un fatto
visivo, cognitivo: basta attraversare il piazzale, salire le scale del Palazzo Senatorio, buttare un occhio nell’aula Giulio Cesare, affacciarsi dal balconcino dell’ufficio del Sindaco. Basta farsi un giretto, con una guida in mano. Qui si tenne un banchetto-monstre, lì montarono un enorme teatro.
Lo stomaco e la fantasia del popolo, l’origine stessa della società. Su quel muro, con gli stemmi delle corporazioni, prendono vita gli interessi organizzati. In certe occasioni, per volontà superiore
quella fontana buttava vino: e bianco, e rosso. La
gente si faceva sotto a cazzotti, immaginarsi la scenetta.
Attorno a quel leone di pietra si comminavano le pene; sotto quest’altra
scultura si esponevano le vittime alla gogna. Qui venne incoronato Petrarca, dietro quell’angolo fu rotolato e trascinato il cadavere di Cola di Rienzo, «grasso era orribilemente — lo descrive la potentissima Cronica dell’Anonimo —
bianco como latte insanguinato.
Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo
vacca a maciello». E lì l’appesero, due
giorni e una notte, come diligentemente specificato.
E vabbé: tutto si ridimensiona lassù. Rutelli, già
«sindaco col motorino», e Alemanno, che è la seconda volta che ci prova. Era la mattina del 21 settembre 1870, poche ore dopo la breccia di Porta
Pia, quando il giovane cronista Edmondo De Amicis vide in quell’angolo dei bersaglieri che amabilmente chiacchieravano con frati zoccolanti della
chiesa dell’Aracoeli: «Ci fosse stato un fotografo!»,
annota il futuro autore di Cuore con profetica video-ispirazione. Su quella scalinata, poco più in
giù, nell’aprile del 1926 una signora irlandese un
po’ pazzerella, Violet Gibson, si parò dinanzi a
Mussolini, appena uscito da un congresso medico, e gli sparò; solo che lui in quel momento si era
girato per fare il saluto romano e la revolverata, rivolta alla tempia, gli sbucciò la cartilagine del naso. E allora tornò, il Duce, dai medici: «Signori, vengo a mettermi sotto la vostra cura professionale».
Un concentrato di simboli del dominio. Attentati, pacificazioni, rituali di trionfo e di sottomissione, festività e scannamenti, in Campidoglio,
ebbrezze, rapine, estrazioni del lotto, notti bianche e notti in bianco per la paura, epidemie, statue
parlanti, firme e ri-firme di trattati europei, poster
di sequestrati, campane strappate a eretici viterbesi, civette augurali fin sotto lo zoccolo del caval-
lo di Marco Aurelio, impronte di angeli, visioni.
Questa è di Giuseppe Mazzini: «Di mezzo all’immenso, vi sorgerà davanti allo sguardo, come faro
in oceano, un segno di lontana grandezza. Piegate
il ginocchio e adorate: là batte il core d’Italia: là posa eternamente solenne, Roma. E quel punto saliente è il Campidoglio del Mondo Cristiano. E a
pochi passi sta il Campidoglio del Mondo Pagano.
E quei due mondi giacenti aspettano un terzo
Mondo, più vasto e sublime dei due, che s’elabora
fra le potenti rovine».
Rovine sull’abisso della storia. Le pecore a brucare l’erba sulle pendici di Monte Caprino, poi bonificato dai gay e poi ancora tosato per la Costituzione Europea, esordio del “Veltrusconi”. Ora
affollato, ora deserto, a lungo incerto, il Campidoglio, tra il rimanere una fortezza e il reinventarsi come luogo civico, suprema magistratura, Senatus.
Le torri merlate che vanno e vengono, il continuo
sommovimento di muraglioni e ponti levatoi, il
Tabularium a un certo punto trasformato in deposito di sale. Poi Michelangelo. Un guizzo di soluzione che per geometrica volontà pontificale restituisce al luogo il volto grandioso e sereno dell’epoca nuova. Ma per secoli si continua a scavare, a riportare alla luce il passato, con l’inesorabile avversione dei poveracci, come lascia capire la retriva
intemerata di uno sfaticatissimo “cariolante” belliano: «Mo’ s’ariscava ar Campidojo; e, amico, / già
so’ du’ vorte o tre che cianno provo. / Ma io, pe’ parte mia, poco me movo, / perch’io nun so più io
quanno fatico. / E lo sapete voi cosa ve dico/ de tutti ‘sti frantumi ch’hanno trovo? / Che manneno a
fa’ fotte er monno novo, / pe’ le cojonerie del monno antico! / Ve pare un ber procede da cristiani /
d’empì de ‘ste pietracce ogni cantone? / perché
addosso ce piscino li cani? / Inzomma, er ZantoPadre è un gran cojone / a da’ retta a ‘sti arcoggioli
romani / ch’arinegheno Cristo pe’ Nerone».
E comunque di nuovo l’archeologia, o rabbiosa
«arcoggiolia», torna talmente indietro da rivelare
ancora una volta l’essenza oscura e arcaica del potere, fino allo stordimento, fino alla resa, perché
sull’Olimpo tutto sembra o forse tutto è troppo per
tutti quelli che più o meno fortunosamente vi arrivano. Sono gli effetti beffardi della storia, gli scherzetti di Roma che, unica città al mondo, può concedersi il lusso di allineare uno dopo l’altro, senza
troppe distinzioni, caporioni, senatori, governatori, sindaci. E su quel colle alto sulla città, ma isolato, li abbandona alla memoria e insieme all’oblio: estenuati nobili papalini, liberali ardenti di
patriottismo, operosi massoni alla Nathan, e poi
fascisti inutilmente risoluti, quindi principi che
dopo i disastri, i lutti, i bombardamenti, non possono che aprire le finestre e rivolgersi alla cittadinanza allargando le braccia: «Volemose bene».
È il Campidoglio, ormai, del secolo scorso. Piccola cosa. I pallidi democristiani, Cioccetti a Rebecchini, poi divenuti rubicondi e sensibili assai a
una certa rendita edilizia. Il “Gattone” Petrucci, la
“Volpe argentata” Darida. E il freddo storico Argan, i comunisti come Petroselli che sul colle di lavoro si sfiancano fino a morirne, e Vetere, anagrammato “Tevere”; e poi ancora i dc, “Pennacchione” Signorello, “er Monaco” sbardelliano
Giubilo, i pranzi nella Protomoteca, “Ajo ojo e
Campidojo”, il socialista di rito andreottiano Carraro, quante storie. Primo e secondo Rutelli, Veltroni uno e due, e ora comunque: perdona, l’eccelso monte è davvero un secondo Olimpo, ma per
tutti e per nessuno.
LA SCALINATA
IL CORTILE
LA PIAZZA
IL MARC’AURELIO
LA LUPA
Nella foto in alto a sinistra,
un particolare
della balaustra
della scalinata
di Palazzo Senatorio
La scalinata fu aggiunta
da Michelangelo
al preesistente edificio
In alto a destra, il cortile
di Palazzo dei Conservatori,
sul lato destro della piazza
del Campidoglio
(per chi sale dalla scalinata)
Il palazzo fu ultimato
nel1568 sui disegni
di Michelangelo
Al centro della pagina
(e nella stampa sulla destra)
il celebre disegno
michelangiolesco
per piazza del Campidoglio
Il Buonarroti però
non riuscì a vedere
ultimato il suo capolavoro
In basso a sinistra
e al centro, due particolari
della statua di Marco
Aurelio in bronzo dorato
al centro della piazza
Questo originale è oggi
spostato all’interno
dei Musei Capitolini
Qui accanto a destra,
un particolare della Lupa
capitolina custodita
nel Palazzo dei Conservatori
Gli storici dell’arte
discutono se si tratti
di un’opera etrusca
oppure medioevale
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 APRILE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
Sul Palatino risiedettero
i re e poi gli imperatori
Serviva un’altra sommità
per rappresentare
la “cosa pubblica”:
è lì che nacque l’idea
di interesse generale
Quassù abitava
il dio dei cittadini
P
ANDREA CARANDINI
er fare Roma serviva un abitato non
solamente unito ma retto da un potere centrale: il re e la cittadella benedetta e inviolabile del Palatino.
Serviva un abitato diviso in rioni dove ospitare un popolo: i Quirites nelle curiae, protetti dal Quirinus venerato sul Quirinale. Serviva un luogo centrale e neutrale in
cui il potere “primario” del re potesse confrontarsi con quelli “secondari” degli aristocratici e
del popolo uniti in assemblea: il Forum e il Comitium, che erano al di fuori di ogni curia. Serviva un dio civico ospitato su una altura, anch’essa al di sopra di ogni parte: Giove Feretrio
sul Campidoglio. Serviva un’altra altura da cui
osservare il volo degli uccelli, espressione di
Giove: l’Arx (altra cima del Campidoglio, dove è
l’Ara Coeli) con l’osservatorio o auguraculum
protetto da Giunone. La città era dunque fatta
di parti (l’insieme di curiae, il Palatino inaugurato) e di parti al di sopra delle parti (il Foro e il
Campidoglio/Arce), come Washington nel
neutrale Columbia District.
Giove presiedeva allora un “triumvirato” di
cui facevano parte Marte, dio del Lupercale (ai
piedi del Palatino verso l’Aventino), generatore
e protettore di re, e Quirino, protettore del popolo articolato in rioni. Vi è dunque una triade
topografica oltre che teologica, ché il Palatino
rappresentava i montes (“rione Monti”), il Quirinale il collis (“il colle più alto”) e il Foro-Capidoglio/Arce la “cosa pubblica” dei Romani. Qui
nasce l’idea di “interesse generale”.
Questo Giove era rappresentato da una pietra
(lapis) custodita in una capanna posta ai piedi
di una quercia sacra, cui Romolo aveva appeso
le armi di Acrone di Caenina (La Rustica?), monito ai poteri signorili nelle campagne che non
intendevano assoggettarsi al sovrano: all’origine della città-stato vi è il sangue.
La guerra era allora attività stagionale e,
quando a fine estate i cittadini armati tornavano in città, il re deponeva le spoglie del nemico
al lapis del Campidoglio: era l’ovatio. La pietra
sacra sanciva anche il giuramento (iusiurandum). Con essa si uccideva una scrofa a monito
dello spergiuro, destinato al fulmine di Giove.
Era un modo di dare prevedibilità al futuro che
venne chiamato ius. Sul Campidoglio è stato inventato il diritto, nel Foro la politica, sul Palatino il potere sovrano, da Romolo a Augusto.
Sul Campidoglio era venerato anche un masso sacro a Terminus, dio delle inamovibili pietre di confine, garanzia delle proprietà pubbliche e private. Simboleggiava il centro dell’agro,
il cui limite era segnato da un altro culto allo
stesso dio, all’Acqua Acetosa. Terminus era anche il dio della fine dell’anno. Sul Campidoglio
si osservavano le fasi della luna che regolavano
il tempo festivo organizzato in un calendario di
dieci mesi: quanto la gravidanza di una donna,
più una ventina di giorni di sterilità dopo parto,
che era il natale dei Romani, prima di diventare
IL SINDACO
La stanza
del sindaco
di Roma
evidenziata
nel profilo
di Campidoglio
e Foro Romano,
tratto
da Monumenti
d’Italia- Le piazze,
edito dall’Istituto
Geografico
De Agostini
negli stessi giorni il natale di Cristo. Il calendario era presieduto da Giove che proteggeva le idi
al culmine del ciclo lunare, e da Giunone che
proteggeva le calende, all’inizio del ciclo lunare. Giunone aveva un suo luogo di culto sull’Arce e davanti al suo tempio c’era l’osservatorio
del volo degli uccelli da cui si dominava l’urbs e
l’ager.
Questa è la prima Roma, da Romolo a Anco
Marcio. Venne poi Tarquinio Prisco, grande signore cosmopolita (greco-etrusco-romano).
Diede inizio a una rivoluzione antiaristocratica, che Servio Tullio — suo bastardo? — porterà
a termine: servo della dimora regia fattosi tiranno per sconfiggere la fronda gentilizia e farsi
amare dal popolo. Fu lui a ideare agli inizi del Sesto secolo avanti Cristo un nuovo Giove sul
Campidoglio.
Non più il triumviro divino, ma un Giove ottimo e massimo, che con le donne di casa — Giunone e Minerva — dominava ogni altro dio, un
tiranno divino buono il cui rappresentante in
terra era il tiranno buono umano... Per lui, non
una capannetta, ma un tempio colossale, dove
terminavano i trionfi (ma si continuò a giurare
a Giove Feretrio). Tarquinio riuscì solo a cominciare i lavori, ma la statua di Giove in terracotta, prima statua di culto in forma umana,
venne subito realizzata, per cui venne costruito
sul Quirinale un tempietto (Capitolium Vetus)
per ospitare la statua durante i lavori.
Completò il tempio Tarquinio il Superbo, tiranno cattivo presto cacciato da Roma, dove i patrizi riguadagnarono il terreno perduto, fondarono la Repubblica e
dedicarono il tempio trasformandolo in simbolo della res
publica liberata dai re. Il calendario acquisì allora due mesi:
gennaio e febbraio, ma dicembre è ancora l’ultimo mese pur
alludendo ai dieci mesi del calendario primitivo.
Chiunque si rechi nel Palazzo dei
Conservatori può osservare le fondazioni immani del tempio capitolino: uno dei maggiori del Mediterraneo, manifestazione della
grande Roma dei Tarquini. Dovrebbero andarci anche gli storici antichi che ritengono ancora
che Roma sia nata come città al tempo dei Taurini e non in quello di Romolo. Si accorgeranno
che nel Sesto secolo Roma non è neonata ma
florida ragazza.
Faranno concorrenza a questo Giove l’ApolloSole di Augusto sul Palatino e il Cristo di Costantino venerato in periferia. Così Roma è tramontata,
ma il Campidoglio guadagnato alla democrazia è
ancora parte ineliminabile della nostra identità: la
cosa pubblica e il conseguente interesse generale.
Roma è ancora da raccontare e, se non la narriamo, i turisti sciameranno verso le “città proibite”, contrario esatto della “città aperta” per eccellenza, miscuglio di latini, sabini, etruschi. Ma per
raccontare Roma all’altezza dei tempi occorre
smettere di guardare indietro, alla cartapesta delle passate dittature, e progettare una storia seria e
comunicativa guardando in avanti, preparando il
futuro. Teatro-portale di questo racconto deve essere il Museo della città previsto nell’edificio in
fondo al Circo Massimo. Riusciremo nei prossimi
anni a realizzarlo?
PALAZZO
SENATORIO
Medaglia
di papa
Gregorio XIII
(1572-1585)
con la facciata
di Palazzo
Senatorio
N
10
9
2
1
3
4
7
5
11
13 12
15 14
6
16 17
18
21
20
22 19
8
SESTO SECOLO AVANTI CRISTO
La pianta descrive il Campidoglio del Sesto secolo a. C.,
all’epoca dei Tarquini
1 Iuppiter Optimus Maximus, aedes; 2 Terminus, ara;
3 Casa Romuli?; 4 Iuppiter Feretrius, aedes?; 5 Curia Calabra;
6 Porta Pandana/Saturnia; 7 Vieiovis, ara?; 8 Auguraculum;
9 Iuno, aedes; 10 Porta Fontinalis?; 11 Carcer; 12 Tullianum;
13 Scalae Gemoniae; 14 Saturnus, ara; 15 Clivus Capitolinus;
16 Sepulchrum Tarpeiae?; 17 Saturnus, aedes;
18 Vicus Iugarius; 19 Sepulchrum et ara Carmentae;
20 Porta Carmentalis; 21 Centum gradus; 22 Mura
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 APRILE 2008
la società
Esperimenti
Sono finiti i tempi del fagiolo nel cotone. Ora in cento
scuole elementari si coltiva sul serio. Grazie a maestre
che hanno studiato con Slow Food, nonni entusiasti
e soprattutto piccoli ma già informatissimi ambientalisti
I bambini-contadini
a lezione nell’orto
MAURIZIO CROSETTI
«S
SAN MAURO TORINESE
enti, la pimpinella sa di
melone». Marika fa la
quinta elementare e nella
sua scuola c’è un orto. Si
china verso la pianta, la accarezza e poi si annusa la mano. Infine, la allunga verso un naso un po’ scettico. Però sì, la pimpinella sa di
melone, e anche un po’ di anguria. «Invece la
maggiorana sa di chewing-gum». Proprio.
Dopo la rotonda con la fontana c’è un semaforo, poi si svolta a sinistra e lì sta la scuola “Giorgio Catti”, una costruzione bassa che
custodisce un segreto pieno di piante, erbe,
frutti, fiori. C’è la serra. C’è il campo delle coccinelle. C’è l’orto dei semplici. E ci sono quelli di prima elementare che armeggiano con
gli annaffiatoi accanto ad alberelli più alti di
loro. I più grandi, uomini e donne di anni
dieci, aiutano e spiegano. «Maestra, che insetto è? È po’ verde». La maestra Maria Grazia Vincoletto, che di campagna non sapeva niente ma ha studiato con Slow Food all’Università di Pollenzo e
adesso è “formatrice”,
insomma una maestra col bollino blu, risponde: «Direi un
coccinellide. A occhio, un Cryptolaemus Montrouzieri».
Ecco, appunto.
La scuola che non
t’aspetti invece c’è.
E non sta a lontananze geografiche
siderali, e neppure
nei migliori mondi
possibili, la Svezia, la Svizzera.
Non rincorre le
tre “i”, accontentandosi di qualche “p”, passione, pazienza, e
di qualche “a”,
ascolto, amore.
Il progetto si
chiama “Orto
in condotta”. L’idea è di Slow Food, perché insegnare
a coltivare significa anche imparare a mangiare, fare la spesa, conoscere la propria bocca e la propria pancia, oltre al profumo di un
giacinto.
Gli orti scolastici sono un’invenzione
americana. La prima a pensarci fu Alice Waters, a metà degli anni Novanta, in California:
studiò per i bambini un nuovo metodo di
I DISEGNI
I disegni delle pagine
sono dei bambini della I B,
II A e B, e V B
della scuola elementare
“Giorgio Catti”,
San Mauro Torinese
educazione alimentare, basato sull’attività
pratica nell’orto e sullo studio e la trasformazione dei prodotti in cucina. Ogni scuola, un
pezzo di terra. Lezioni di piante, fiori, frutti e
cibo. Le mani nelle zolle, per imparare
senza quasi accorgersene. Nacque il progetto The Edible Schoolyards, in Italia dal
2003: dire che ha messo radici è persino
troppo facile. Oggi gli orti scolastici sono
più di cento e coinvolgono quattromila
bambini, oltre ai loro insegnanti, ai genitori e ai nonni (un motore fortissimo della faccenda, vedrete perché). Il Piemonte è la regione italiana con il maggior numero di
“scuole verdi”: trentatré. E la città di San
Mauro Torinese è stata tra le prime a crederci. Risultato: quattro scuole elementari e una
dell’infanzia, sette orti, seicento bambini e
ventuno volontari: tre papà, due mamme e il
resto nonni come Alberto, Martino, Felice,
Rocco e Luigi, eccoli qui insieme ai nipoti e alle maestre. «Facciamo i lavori più pesanti,
zappiamo, prepariamo la baracca degli attrezzi, aiutiamo a piantare». Martino ha lavorato nei campi fino a diciotto anni, in provincia di Treviso. Poi l’emigrazione e la fabbrica, con l’orto sempre nel cuore. «Un
pezzetto di terra l’abbiamo tutti, a casa o
da qualche parte in paese», racconta Felice. «È bello fare le cose con i bambini: di
noi si fidano. E noi abbiamo la memoria
dei nostri padri e dei nostri nonni».
I bambini vanno nell’orto nell’intervallo. «Ma solo chi vuole, non è obbligatorio, chi preferisce va a giocare», dice la maestra Maria Grazia,
che i nonni hanno appena definito
“un trattore”. «Però, quando c’è da
seminare, bisogna muoversi, darsi da fare tutti. Tra poco è ora di insalate, ravanelli e carote». Sara,
anche lei di quinta, vuole proprio raccontare la storia della
salvia. «Un giorno ci siamo accorti che le piante erano piene
di parassiti, però l’intervallo
era già finito e non c’era tempo per fare niente. Dopo
qualche giorno abbiamo visto che le coccinelle si erano mangiate tutti i parassiti». È il principio della coltivazione biologica:
niente chimica, le piante
proteggono le altre
piante. «Nel campo
delle fragole, il frutto tipico di San Mauro, abbiamo messo anche l’aglio e la cipolla che rilasciano sostanze antibiotiche
naturali e proteggono i frutti. Si chiama con-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 APRILE 2008
sociazione». Sara ha detto proprio così: rilasciano sostanze antibiotiche naturali. E poi,
consociazione.
«All’inizio, l’idea era quella vecchia del fagiolo nel barattolo con il cotone: vedere come cresce. Poi si è spalancato un mondo», dice la maestra che intanto convoca “gli ecologisti”. «Cioè la squadra dei bambini che puliscono e raccolgono le schifezze». Per seminare si segue il calendario lunare biodinamico, appoggiato sulla cattedra insieme agli
altri libri e quaderni. Dietro la porta si allarga
una nuvola di profumi un po’ stordenti, lì
dietro ci sono le erbe aromatiche. Su un cartello c’è scritto a pennarello “Hortus Conclusus”. Perché, incalza Riccardo, nel Medioevo si chiamava proprio così. Accanto a ogni
pianta c’è una targhetta con le notizie scaricate da Internet. E i nomi sembrano una filastrocca antica: liquirizia, cedrina, santoreggia, calendula, tanaceto, tagete («che puzza
molto e tiene lontani i nemici!»), erba di San
Pietro («ottima per le frittate»), ruta, rabarbaro, pimpinella («si trita ed è buonissima
come salsa sui formaggi molli, poi aiuta nella mancanza di appetito»), dragoncello, lavanda. I bambini più grandi stanno giocando con quelli di prima, sembra mosca cieca
ma non è: li bendano, e gli mettono sotto il
naso le erbe da indovinare dal profumo. «Il
gioco degli odori piace molto», conferma la
maestra Enrica Valabrega. «A parte basilico,
origano e rosmarino, è difficile che un ragazzino del 2008 ne riconosca altre con l’olfatto.
A volte, andiamo a trovare gli anziani della
casa di riposo di Sambuy, qui vicino. È stato
commovente vedere una donna cieca che
annusava le erbe, aiutata dai bambini».
Insieme ai nonni, hanno costruito anche
la compostiera. Lo racconta Valentina, quinta B: «È fatta a strati. Sopra si mettono i rifiuti
organici, noi li portiamo anche da casa, abbiamo spiegato ai nostri genitori che è importante. Lo strato in fondo è quello della terra concimata che si chiama “compost” e si
ottiene più o meno in otto mesi. Noi non
usiamo né concimi chimici né pesticidi,
mai». Riccardo “arieggia” il terreno sforacchiandolo con la punta di un forcone della
sua taglia: «Così respira e diventa più fertile.
Poi ci mettiamo della paglia sopra, in modo
che non si indurisca».
Tra una visita al vecchio mulino e un laboratorio di cucina, dove si fanno il pane e la pasta insieme alle nonne, si è realizzato pure il
miracolo estremo: bambini che mangiano la
verdura! Giorgia rivela di avere detto alla sua
mamma che i broccoli della mensa sono più
buoni di quelli di casa. «Abbiamo imparato a
mangiare la frutta e la verdura di stagione,
che è più gustosa e costa meno, e soprattut-
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Così riaffiora la terra
nei giardini di cemento
CARLO PETRINI
n una scuola di un quartiere ispanico di San Francisco un mattino fui accolto da un’orda di bambini che mi trascinò nel vasto cortile dell’istituto, dove dominava il cemento. In un angolo, strappato al parcheggio dei professori, occhieggiava un fazzoletto di terra rigoglioso: piante di mais, pomodori, legumi, insalate e anche fiori. Tutto coltivato da quei piccoli simpatici studenti.
L’entusiasmo che avevano nel mostrarmi i frutti del loro lavoro mi
lasciò di stucco: oltretutto il contesto era molto povero, la zona era
di quelle dove non vorresti trovarti solo di notte a passeggio.
Un bambino che coltiva un piccolo orto, insieme ai suoi coetanei, oggi sembra un miracolo. Non soltanto in un quartiere difficile di San Francisco. È una forma di educazione rivoluzionaria.
Perché ribalta il concetto di “somministrazione” dell’insegnamento e perché riavvicina intimamente ai ritmi della Natura, all’interno di contesti urbani in cui questa conoscenza è quasi del
tutto sparita da almeno un paio di generazioni. Le ripercussioni di
questo distacco traumatico, sull’alimentazione e sulla coscienza
ecologica di milioni di persone, sembrerebbero irrecuperabili.
Invece con un semplice pezzetto di terra si può realizzare qualcosa di efficace, e i risultati sono sorprendenti: la capacità dei bambini di assorbire conoscenza attraverso la semplice pratica, attraverso piccole scoperte quotidiane che fanno con i loro sensi, è
qualcosa che in età matura diventa difficile. Le giovani generazioni sono il terreno più fertile su cui seminare un rinnovato sapere
nei confronti del cibo e del territorio.
Lo scambio di conoscenze intergenerazionale, l’impiego di volontari pensionati all’interno di questi progetti è poi un altro valore aggiunto. Si trasmette così una sensibilità destinata a sparire perché molti genitori, non per colpa loro, non sono più in grado di insegnare ai loro figli. E qui si realizza un altro piccolo miracolo, perché i bambini portano in famiglia quanto appreso a
scuola, diventano dei piccoli moderni gastronomi, che sanno
scegliere il loro cibo in funzione della qualità e del rispetto della
Natura.
Che i programmi ministeriali trascurino così tanto l’alimentazione e la conoscenza diretta della Natura rimane un mistero: forse rispecchiano ancora la sensibilità di un tempo in cui la campagna e il mestiere del contadino dovevano essere accantonati
nel nome della modernità, quasi fossero un peccato originale di
povertà e di pochezza culturale. Quel tempo è finito, e dobbiamo
ringraziare tutti quegli insegnanti, quei genitori e quei nonni che
si impegnano con passione in qualcosa che riuscirà realmente a
cambiare l’approccio di tanti futuri cittadini al cibo, e quindi anche alla Terra su cui vivono. Un rispetto sacrale, che nasce dall’intima conoscenza, dal contatto diretto: dire che in questo caso
i libri servono a poco non è facile retorica, è una “comoda verità”
che spero moltiplichi gli orti scolatici in tutta Italia.
I
to è locale. Se viaggia poco, inquina poco perché non la devono trasportare i camion». A
proposito: è anche successo che i ragazzini
della scuola “Catti” si siano accorti che in
mensa veniva servita acqua minerale umbra. «Con tutta l’acqua che abbiamo in Piemonte! E allora hanno chiesto di cambiare
fornitori. Sono tremendi, leggono tutte le etichette», dice la maestra-trattore. «Insieme
all’insegnante di matematica abbiamo fatto
un lavoro sulle distanze che percorrono i cibi e sui costi che variano secondo i periodi
dell’anno. Così i bambini imparano un po’ di
statistica, di geografia e magari suggeriscono
alle famiglie come si dovrebbe fare la spesa».
Zappano, strappano le erbacce, annaffiano («solo la terra e mai la pianta»), spingono
la carriola, ascoltano i nonni, aiutano i più
piccoli. Ma cos’è, il paradiso dell’educazione? La vera riforma della scuola, magari?
«Noi vogliamo solo conoscere. I bambini
prendono le erbe, le fanno seccare, le plastificano tra due fogli trasparenti e poi
scrivono la loro ricerca». Tutto semplice, sporcandosi le scarpe e le mani. E
quelle stesse erbe le macinano, le mettono nei sacchetti e poi le vendono al mercatino: con il ricavato si comprano le cose
utili all’orto, per esempio il sangue di bue
secco che è un ottimo concime, oppure il “litotamnio”, una polvere di alghe coralline:
«Soffoca i pidocchietti», spiega Marika. «Invece l’euforbia è repellente, tiene lontani i topi e le talpe». Secondo miracolo, dopo quello della verdura nel piatto: topi e vermi non
fanno schifo ai bambini. Anzi, Riccardo ha
piazzato sotto il naso della maestra un bastoncino dove un bel millepiedi arancione fa
il contorsionista. «Prendere in mano le bestioline e osservarle, questo è davvero educativo. Abbiamo anche girato un piccolo film
sui lombrichi».
E poi naturalmente si mangia. L’anno
scorso, con sette enormi zucche hanno preparato il risotto per tutta la scuola. Nell’orto
ci sono quattro varietà di peperoncini, vicino
a fiori all’apparenza gentili («però attenzione, il mughetto è velenoso!») e alle piante da
frutto messe lì dai nonni: un melograno, un
fico, tre varietà di meli antichi della Valgrana
e quattro ciliegi donati dal sindaco di Pecetto. Uno scambio culturale niente male: a Pecetto, il paese delle ciliegie, San Mauro ha
risposto con le sue favolose fragole. Le
stesse che cresceranno nel campo
della scuola: ora sono un tappeto di
fiori bianchi, ma tra poco diventeranno rosse e succose. Sul loro
destino vigila, sotto il sole tiepido di aprile, uno spaventapasseri vestito da sposa.
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Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 APRILE 2008
CULTURA*
Occhio
l’
Quel cuore che guarda
e ci fa conoscere il mondo
DANIELE DEL GIUDICE
guardo penetrante, un tempo, non era un modo di dire, ma
corrispondeva, per esempio in Marsilio Ficino e nei neoplatonici, all’idea che dall’occhio di chi guardava si dipartisse qualcosa che raggiungeva l’occhio del guardato, o
della guardata, lo toccava, lo colpiva, lo impressionava, lo
penetrava. Per questo, forse, le figure femminili in Dante e
Petrarca tengono gli occhi bassi, non soltanto per pudore o riserbo
della propria “anima”, ma per non essere penetrate da ciò che muove dall’occhio altrui, preservando così un’ulteriore verginità. Il vedere non è dunque sempre vissuto come un atto incorporeo, né come
una mancata relazione fisica con l’oggetto della visione. Piuttosto
l’occhio governa e fa premio su tutte le percezioni, concentra tutto
con un solo organo e un solo senso, escludendo gli altri. Nel nostro
tempo il vedere, più che un atto, è diventato una azione, talvolta la nostra azione principale, spesso merce e lavoro: non si è mai guardato
tanto e visto tanto, e mai così forte è stata l’illusione che non esista più
alcun mistero, alcun invisibile.
Quando c’è l’immagine, non c’è la cosa. È un’eventualità che la filosofia stoica conosceva perfettamente, sebbene ritenesse che la cosa o la persona si fossero momentaneamente allontanate. Oggi, al
contrario, le cose sembrano sparite sempre più, ed è l’immagine che
è diventata indubbiamente cosa, oggetto di mestiere e di commercio.
È difficile dire se tutto questo vedere consumi l’occhio. È possibile
però che consumi i sentimenti. Le nostre emozioni davanti alle immagini, così come le opinioni che ci formiamo all’istante e poi lasciamo subito cadere, si accendono e bruciano in un attimo, totalmente
intransitive, e incontrollabili come una salivazione. Non so da quando, ma le immagini hanno preso a scorrere come una specie di ritmo
visivo, un ritmo di sottofondo, o meglio di rumore visivo di fondo, seguendo in questo il destino che fu già della musica e dell’ascolto. Vedere è un’azione, e ci sono le buone azioni e le cattive azioni. Cos’è un
“buon” vedere? E cosa un “cattivo” vedere? Non posso pensare che
dipenda dall’oggetto della visione; l’osceno, credo, non esiste, non c’è
nulla di avverso, nulla che si “ponga contro” il nostro occhio. Dipende da noi, dal nostro modo di vedere che resta segreto, una questione
del tutto privata.
sped. abb. post. - comma 26 - art. 2 legge 549/95
Maggio 2008 - N° 1
S
A differenza delle altre azioni, non c’è nessuno a cui dobbiamo rendere conto del nostro occhio che vede, nessuno (se non un oculista, il
quale tuttavia non cura l’anima e giudica solo in termini di metropia)
che possa domandare: il suo occhio com’è? lei come vede? Per costruire un sentimento del vedere — poiché di questo si tratta — non c’è autorità di insegnamento né ci sono prove da superare, non precetti né
consigli. Eppure è solo un sentimento del vedere, un cuore che guarda, che può redimere, se non noi stessi almeno le immagini che il nostro occhio percepisce.
René Guénon nel suo Simboli della scienza sacra dedica un paragrafo all’occhio che vede tutto, nel capitolo sul simbolismo del cuore.
Uno dei simboli comuni al cristianesimo e alla massoneria, ricorda, è
il triangolo nel quale è inscritto il Tetragramma ebraico oppure lo iod
che può esserne considerato un’abbreviazione, sorta di “terzo occhio”, né destro né sinistro, un occhio frontale come quello di Shiva,
né solare né lunare, corrispondente al fuoco, il cui sguardo riduce tutto in cenere perché esprime il presente senza dimensioni, cioè la simultaneità, e così distrugge ogni manifestazione.
L’occhio unico e senza palpebra è il simbolo dell’essenza della conoscenza divina. L’occhio unico del ciclope indica al contrario una
condizione subumana. Come subumana è la condizione di Argo, Argo Panoptes, «che tutto vede», gigante con un solo grande occhio secondo alcuni miti, ma secondo altri con quattro, due davanti e due dietro, e secondo altri ancora con cento occhi (dormiva chiudendone cinquanta per volta) oppure con un’infinità di occhi disseminati sull’intero corpo, che non si chiudevano mai tutti insieme, una vigilanza rivolta esclusivamente all’esterno. Di una persona molto accorta i Greci dicevano che era un Argo oppure che aveva più occhi di Argo.
L’occhio umano è un simbolo universale di conoscenza, l’apertura degli occhi è un rito di apertura alla conoscenza, un rito di iniziazione. Ma l’occhio ha colpito l’immaginario comune innanzitutto per la sua forma ovale e per la sua condizione di luogo
aperto/chiuso, da cui qualcosa può entrare e qualcosa può uscire.
Nella lingua italiana l’occhio ha infinite declinazioni. Oltre che l’organo della vista e l’apparato visivo o anche la capacità di leggere bene, vuol dire, ad esempio, il foro aperto in una porta o una parete per
spiare di nascosto, oppure la toppa della serratura, oppure i buchi
nella mollica del pane ben lievitato, o ancora, in architettura, ogni
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Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 APRILE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
IN LIBRERIA
Uscirà nella seconda metà di maggio nella collana Nuova Cultura
di Bollati Boringhieri il libro di Waldemar Deonna Il simbolismo dell’occhio
(a cura di Sabrina Stroppa, Introduzione di Carlo Ossola, 352 pagine, 35 euro)
Si tratta di uno straordinario percorso erudito che ricostruisce il ricchissimo
uso simbolico che dall’antichità è stato fatto dell’occhio, nella cultura,
nell’arte e nelle religioni (l’occhio è stato infatti usato per significare la divinità)
L’archeologo svizzero Waldemar Deonna (1880-1959) studiò
alla scuola francese di Atene. Dal 1920 al 1955 fu professore di archeologia
a Ginevra. Nel 1932 fondò la rivista Genava. Dal 1922 fu inoltre direttore
del Museo di arte e di storia e del Museo archeologico di Ginevra
e dal 1950 diresse la nuova Biblioteca di arte e di archeologia
Le Symbolisme de l’oeil fu pubblicato postumo nel 1965 a Parigi
Ha rappresentato la divinità e la conoscenza; è una metafora,
un simbolo, un’ossessione. Mentre il libro di un famoso archeologo,
per la prima volta tradotto, ci trasporta attraverso i millenni
per ripercorrere l’uso culturale che è stato fatto
di questo meraviglioso organo del nostro corpo,
uno scrittore ci invita a sperimentare “il sentimento del vedere”
apertura circolare o ellittica. Anche le chiazze naturali sulle piume,
il pelo o la pelle di certi animali si chiamano occhi, come le macchie
azzurre sulla coda del pavone, e anche le macchie evidenti sulla superficie di marmi o pietre. Occhi sono i dischi del capolino di una
margherita o di un girasole, o i cerchi su una superficie liquida agitata. Alcune cose escono dagli occhi, e qualcuno può andare per occhio, cioè colare a picco con la sua nave.
L’occhio pineale è l’ossessione di Georges Bataille. Come lui stesso
ricorda nella Critica dell’occhio, quest’idea risale al 1927 e risponde
probabilmente alla sua concezione anale, cioè notturna, del disco solare. Scrive: «Mi raffiguravo l’occhio in cima al cranio come un orribile vulcano in eruzione, proprio con il carattere losco e comico che si
attribuisce al di dietro e alle sue escrezioni. Ora l’occhio è senza alcun
dubbio il simbolo del sole abbagliante, e quello che io immaginavo in
cima al mio cranio era necessariamente infuocato, essendo votato alla contemplazione del sole al sommo del suo splendore». Scrive ancora: «Io non esitavo a pensare seriamente alla possibilità che quest’occhio straordinario finisse per farsi strada attraverso la parete ossea della testa, perché credevo necessario che dopo un lungo periodo di servilità gli esseri umani avessero un occhio speciale per il sole
(mentre i due occhi che sono nelle orbite se ne allontanano con una
specie di ostinazione stupida). Non ero pazzo ma davo senza dubbio
eccessiva importanza alla necessità di uscire in una maniera o nell’altra dai limiti della nostra esperienza umana […]».
Buono o malvagio, qualunque sia il sentimento del suo vedere, l’occhio è sempre oggetto di acute inquietudini e suscita comunque emozioni contrastanti. Ancora Bataille, scrive che non c’è nulla di più seducente dell’occhio, nulla di più attraente nel corpo degli uomini e
degli animali, e in questo appealè simile al filo della lama. D’altra parte, la seduzione estrema è al limite dell’orrore, ed è forse quello che ha
ispirato Salvador Dalì e Luis Buñuel nel film Chien andalou, dove un
rasoio incideva l’occhio di una donna giovane e affascinante sotto lo
sguardo di un uomo, ammirato fino alla follia, che tiene in mano un
cucchiaino da caffè e improvvisamente ha voglia di prendersi un occhio nel cucchiaino. Voglia piuttosto singolare per un occidentale la
cui cultura gli impedisce di mangiare l’occhio dei buoi, degli agnelli o
dei maiali. È golosità cannibale, secondo l’espressione di Robert
Louis Stevenson. Nessuno di noi morderebbe mai un occhio.
Ci sono quelli che non danno troppa importanza all’occhio e al
suo vedere, e preferiscono sentire. Era appunto il caso di Stevenson
nella sua ultima e appassionata discussione letteraria. Quando l’amico Henry James gli lamentò di non vedere nulla nel romanzo Catriona — «ho l’impressione di trovarmi in presenza di voci nell’oscurità, voci tanto più distinte e vivaci […] quanto lo sguardo resta
occultato» — Stevenson gli rispose con una frase memorabile:
«Ascolto le persone parlare e le sento agire, il racconto mi sembra
questo. I miei due obbiettivi possono essere descritti così: 1. guerra
all’aggettivo e 2. morte al nervo ottico». Secondo Stevenson «la letteratura è scritta per e da due sensi: una specie di orecchio interno,
lesto a percepire melodie silenti, e l’occhio che — semplicemente —
guida la penna e decifra la frase stampata. Ebbene, proprio come vi
sono rime per l’occhio, così noterete che esistono assonanze e allitterazioni».
E poi ci sono quelli che preferiscono l’assenza dell’occhio, come
José Saramago che ha scritto uno dei suoi migliori romanzi, Cecità,
straordinaria metafora di una perdita del vedere nei nostri tempi.
Quanto all’“occhio della coscienza”, poco prima di morire, nel 1847,
l’illustratore fantastico e caricaturista francese Jean-Ignace-Isidore Gérard, detto Grandville, sognò quest’occhio ossessionante e lugubre, occhio vivente e totalmente vigile. Lo raccontò in Crime et expiation, e Victor Hugo lo riprese.
L’aspetto assolutamente negativo dello sguardo invidioso, pieno
di cattive intenzioni, l’occhio malevolo, cioè il malocchio, mal d’occhio, è ancora molto vivo nella cultura mediterranea. Ci sarebbero
occhi particolarmente pericolosi, come quelli delle donne anziane,
ma anche delle vipere o dei gechi, perché l’intero mondo animato
partecipa di questa presa di potere su altro e altri. E particolarmente sensibili al malocchio sarebbero i bambini, le puerpere, il latte, il
grano ma anche cavalli, cani e il bestiame in generale, perché il malocchio può uccidere gli animali. Come difendersi dal malocchio:
con veli che nascondono allo sguardo, fumigazioni profumate, ferro rosso, sale, corni, mezzelune, ferri di cavallo, mani di Fatima.
Per la posizione nel corpo, e nella preminenza sulle percezioni del
nostro mondo, l’occhio, il suo simbolo, la sua parola stessa si adeguano all’infinito: occhio del ciclone, occhiolino, occhiello, occhio
di bue, occhio di gatto, locuzioni tutte riguardanti tutt’altro.
Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia
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Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Anticipazioni
DOMENICA 27 APRILE 2008
Oxford, 1919. La guerra è finita, i reduci tornano a casa
a ricucire le proprie vite. Tra loro, un esperto di miti
nordici che sta scrivendo la sua Grande opera
“Piacere, Lawrence”. “Tolkien”
L
WU MING 4
a pista si perdeva tra i ghiacci. Il mostro cercava il suo
elemento. Scovarlo era
un’impresa degna di
Beowulf e degli impavidi
Geati. Per metà cavallo e per
metà balena, con zanne affilate come
spade, l’essere poteva muoversi a piacimento nell’oceano e sulla terraferma.
Gli antichi inglesi lo chiamavano Horschael. Il nome aveva raggiunto l’isola
sulle navi vichinghe. Hrosshvalr o Rosmhvar, lo appellavano i norreni: il cavallo marino, la balena anfibia. Per scovarlo bisognava riattraversare il mare del
Nord fino a toccare i fiordi norvegesi, dove di solito si nascondeva. Lassù si poteva avvistare il suo nero dorso frangere i
flutti. L’animale fuggiva sentendo il battere dei remi sull’acqua; nuotava verso il
circolo polare, dove la banchisa avrebbe
bloccato la chiglia delle navi baleniere.
Sulla vetta del mondo i lapponi lo chiamavano Morsa, animale sacro da rispettare e temere. Ma l’inseguimento si spingeva ancora oltre, doppiava il Capo Nord
e raggiungeva la terra dei finni. Nella loro lingua la chimera zannuta era detta
Mursu. Sulle rocce piatte, ormai spossata, attendeva il colpo dell’eroe, che dalla
prua scagliava l’arpione e la trafiggeva
spaccandole il cuore.
La penna centrò il portamatite e lo ribaltò sul tavolo. Il rumore fece voltare
tutti. L’occhiata del professor Bradley
solcò la stanza fino a inchiodare il responsabile. Ronald si affrettò a raccogliere i lapis e si rimise al lavoro. La luce
del pomeriggio iniziava a calare.
Guardò l’orologio: un quarto alle quattro. Aveva impiegato troppo tempo per
l’etimologia della parola walrus, tricheco. L’aveva inseguito fino al Polo Nord.
Del resto si era dilungato perfino su
waggle, agitare, e già paventava le infinite accezioni di want, volere. Una distesa
di foglietti fitti di appunti ricopriva la
scrivania. La maggior parte erano attraversati da serpentine o già accartocciati. Ipotesi, tentativi di battere piste sconosciute. Per il tricheco ne aveva azzardate ben sei. Serviva a sopportare la noia
di quel lavoro compilativo.
Bradley invece aveva fretta, le ultime
lettere del Dizionario dovevano essere
pronte entro un anno. Si era già dovuto
aspettare anche troppo: che finisse la
guerra, «che la civiltà della parola riprendesse il sopravvento sulla barbarie delle
armi», che la squadra di lavoro venisse ricomposta colmando le defezioni inflitte
dal Kaiser. Ronald era lì per quello. E perché, nonostante la lentezza, era bravo.
Bradley lo sapeva. Pochi tra i giovani collaboratori padroneggiavano le lingue
nordiche come lui. Inoltre era lì perché lo
pagavano: con una famiglia a carico, c’era poco da essere schizzinosi.
Ronald amava le parole, ma in un modo privato e peculiare. Erano arcani,
enigmi da risolvere, contenevano storie, abbracciavano secoli e continenti.
Ogni parola ne suggeriva altre, forse mai
pronunciate, ma del tutto plausibili, ancora più dense di significati e rimandi,
quindi più vere. Ma tra quelle pareti non
ci si poteva spingere troppo in là, vigeva
un limite invalicabile. Nell’ottica dei
fondatori, l’Oxford English Dictionary
doveva essere la pietra miliare della civiltà britannica, la summa di ciò che si
era detto in inglese e di come lo si era det-
to dall’alba dei tempi all’evo moderno.
La fantasia restava fuori dalla porta.
«Parole, parole, parole» era la citazione preferita da Bradley, la ripeteva talmente spesso che a volte non se ne accorgeva nemmeno, lo faceva sovrappensiero, tra sé e sé. Ronald detestava
Shakespeare. Trovava incredibile
quante occorrenze gli spettassero, come se avesse voluto usare tutti i vocaboli possibili. Un vero usurpatore della lingua, vorace e ingordo.
Qualcuno iniziò ad alzarsi e accomiatarsi con sobri cenni di saluto. Il grigiore
delle mansioni contagiava i costumi.
Parlare a bassa voce, muoversi il minimo
indispensabile. Ronald si era adattato.
Uscì dalla vecchia sede del museo,
concessa ai compilatori del Dizionario
per portare a termine la grande opera.
Broad Street era ancora sgombra dal via
vai di toghe e colletti inamidati che in capo a un’ora l’avrebbero riempita. La percorse fino all’angolo e si diresse verso casa. All’incrocio successivo si fermò a contemplare il nuovo palazzo dell’Ashmolean, che biancheggiava sul lato di Beaumont Street. La scalinata, le linee neo-
classiche dell’edificio, il frontone sorretto da quattro colonne ioniche, ogni dettaglio magnificava la gloria di chi, grazie
alla propria fama, aveva convinto l’università a trasferirvi il museo. Sir Arthur
Evans non si sarebbe accontentato di
niente di meno per contenere i ninnoli di
re Minosse che aveva portato alla luce
con tanta cura. Archeologi e classicisti regnavano sovrani nella Nuova Arcadia
Oxoniense. Per loro si costruivano palazzi. I filologi dovevano accontentarsi degli
edifici dismessi.
Fu proprio al museo che si diresse. Da
qualche tempo aveva preso quell’abitudine, una deviazione prima di tornare a
casa, un innocuo segreto. A quell’ora le
sale erano deserte, mancava poco alla
chiusura. All’ingresso il custode lo salutò portandosi la mano alla visiera. Per
qualche oscura ragione lo credeva un
artigliere suo commilitone e per questo
gli concedeva di trattenersi qualche minuto fuori orario. Ronald era stato nei
Lancashire Fusiliers, ma non si era mai
presentata l’occasione di smentire
quell’uomo, quindi poteva indulgere
nell’equivoco senza sentirsi in colpa.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 APRILE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
Finché un giorno piomba all’università l’uomo
che ha guidato la rivolta araba per Sua Maestà
È “Stella del mattino”, il nuovo libro di Wu Ming 4
Eroe schivo
o attore vanesio?
STEFANO MALATESTA
l vero caso di T.E. Lawrence non è nato al tempo
delle sue imprese in Arabia, durante la Prima
guerra mondiale, ma quasi trent’anni dopo, nel
1955, con la biografia di Richard Aldington, un piccolo monumento di perfidia letteraria. Aldington
aveva cominciato a scrivere queste stroncature ai
danni dell’altro Lawrence, D.H., e poi di Norman
Douglas suscitando polemiche e malumori. Ma
quando apparve in libreria, Lawrence of Arabia. A
Biografy Enquiry, l’indignazione salì alta nei cieli fino alle eccelse cime dell’establishment inglese. Fino a quel momento i suoi innumerevoli estimatori,
tra cui Winston Churchill, erano riusciti a impedire
che dubbi e perplessità sulle imprese in Medio
Oriente superassero un certo limite o venissero
troppo alla scoperto. Per tutti o quasi tutti Lawrence era un eroe-martire, dotato in egual misura di capacità guerrigliere e di nobile spiritualità, tradito alla fine dal suo stesso governo che si era servito di lui
per ingannare le tribù hashemite dell’Arabia, promettendo loro quello che era già stato diviso tra
Francia e Inghilterra con l’accordo Sykes-Picot.
Come inviato dei servizi segreti inglesi presso la
corte hashemita, aveva avuto un notevole successo,
spingendo le tribù arabe a ribellarsi al vassallaggio
ottomano. La sua quasi copia conforme, il capitano
Shakespeare, mandato sempre dagli inglesi presso
Ibn Saud, carismatico e spietato capo dei Wahabiti,
tradizionali rivali degli Hashemiti, era stato meno
fortunato, rimanendo ucciso durante uno dei primi
scontri, mentre Lawrence aveva conquistato Aqaba, fatto saltare alcuni treni e dato fastidio alle guarnigioni turche.
Durante la Prima guerra mondiale c’erano stati
altri giovani ufficiali che avevano combattuto con
temerarietà e compiuto audaci imprese, anche dall’altra parte della barricata: Erwin Rommell, la futura volpe del deserto, con poco più di cento uomini a
Caporetto aveva catturato l’intera brigata Salerno
ed era stato portato in trionfo sulle spalle dei soldati italiani che non volevano più combattere. In Tanzania, il maggiore Von Lettow Vorbeck, oggi ritenuto dal Pentagono il più grande tattico della guerriglia
che ci sia mai stato, con tredicimila ascari per cinque
anni aveva preso in giro oltre duecentocinquantamila soldati anglo-indiani riuscendo a batterli in
tutti gli scontri e a non farsi mai prendere. Se Lawrence diventò così famoso da oscurare qualsiasi altra fama guerresca dell’epoca fu perché gli inglesi videro nelle sue imprese una forma di riscatto per una
guerra spaventosa, che non aveva avuto nulla di glorioso, condotta per quasi cinque anni sul fronte occidentale da comandanti spesso incompetenti e anche imbecilli. Il fronte orientale, teatro delle operazioni di Lawrence, aveva contato molto poco nella
strategia globale dell’Inghilterra, scesa in campo
per battere la Germania. Ma l’epopea araba con tutto il suo contorno romantico, sembrava creata apposta per dimenticare le trincee della Somme.
A questo mito Lawrence aveva dato più di una
mano: diciamo pure, ne aveva scritto soggetto e sceneggiatura, fingendo di essere un tipo schivo e nello stesso tempo assicurandosi la copertura dei giornalisti. Queste e altre contraddizioni erano state rilevate, ma al tempo stesso rimosse, fino al libro di Aldington, certamente non un membro della confraternita “Fate bene fratelli”. Il ritratto che veniva fuori dalla sua inchiesta biografica era esattamente
l’opposto di quello tramandato dalla vulgata: un
personaggio sempre in maschera e dunque impossibile da definire, un attore consumato e estremamente vanitoso, un raccontatore di balle formidabile quando c’era da mettersi in mostra. In particolare la storia della presa di Damasco, così come era
stata raccontata nel suo libro I sette pilastri della saggezza (e riportata come verità indiscussa anche dai
cinque autori paracinesi della Stella del mattino), da
parte dei leggendari beduini Howeitat guidati dallo
stesso Lawrence e dal loro capo Auda abu Tayi, temibile capo arabo, era pura invenzione. A sconfiggere i Turchi erano stati gli australiani, fermati all’ultimo momento da Allemby, che aveva preferito
per chiare ragioni politiche che fossero degli arabi e
dei musulmani ad entrare per primi a Damasco (così come nella Seconda guerra mondiale Eisenhower
fermò gli americani, che già stavano distribuendo
caramelle Life savers e cioccolata lungo i viali della
periferia di Parigi, accogliendo la richiesta di De
Gaulle di fare entrare per prime le truppe francesi
nel giorno della liberazione della loro capitale).
E se era vero che l’accordo Sykes-Picot era un pasticcio infernale, che peserà in modo totalmente negativo su tutte le future vicende mediorientali, gli
uomini dei governi inglesi non erano stati imbecilli
fino al punto di promettere qualcosa che non potevano nemmeno far finta di mantenere. Il loro disegno, assolutamente classico nella tradizione dell’impero, era quello della “Indirect rule”, con la creazione di stati arabi solo in apparenza indipendenti,
che avrebbero preso l’imbeccata da loro o dai francesi. Un fatto di cui Lawrence doveva aver avuto sicuramente conoscenza, per poter calibrare i rapporti con gli Hashemiti. Quanto a Feisal, il “magnifico” ed esangue principe dai nobilissimi intenti, interpretato stupendamente nel film su Lawrence da
Alec Guinness, era un tipo sufficientemente degradato e lontano dalla leggiadra miniatura disegnata
da Lawrence ne I Sette pilastriper dirigere un governo corrotto e incapace quando venne nominato dagli inglesi re dell’Iraq, arrivando a far uccidere nel
1924 un suo rivale politico, Taufiq al-Khalid.
Aldington era ancora più devastante nell’accurata descrizione del carattere proteiforme, diciamo
così, dell’eroe che aveva finto tutta la vita di detestare la pubblicità e l’eccessiva esposizione delle sue vicende. Ma che ogni giorno andava in casa dei suoi
biografi, gente del calibro di Robert Graves e di Liddle Hart, il migliore storico militare del secolo, a rivedere le bozze, a correggerle di sua mano, arrivando
al punto di riscrivere interi capitoli. Da allora parlare di lui è diventato molto difficile, perché ci si muove su terreni paludosi e su sabbie mobili, con pochi
punti fermi e sicuri. E con la poco simpatica sensazione di stare scrivendo delle agiografie quando ci
sono delle cose in positivo e di essere accusati di denigrazione alla prima nota negativa.
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
I
Superò le collezioni minoiche e filò al
piano di sopra.
Quando entrò nella sala sentì una sottile emozione solleticargli la nuca. L’illuminazione degli espositori era l’unica
fonte di luce rimasta. La grande teca ottagonale dominava il centro della stanza. Da lontano era già un bel colpo d’occhio vederli disposti sul piano inclinato,
quasi a formare una freccia puntata verso l’alto. Anelli. Forme e dimensioni erano le più svariate. Angeli e dragoni, croci
e stemmi, perle e pietre preziose. Erano
appartenuti a papi, vescovi, principi italiani. Cerchi che racchiudevano patti tra
gli uomini, vincoli di potere, il senso di
una fede immortale. Alcuni suggellavano un vincolo coniugale sopravvissuto
agli stessi amanti, e forse celavano motti
incisi all’interno.
Sfiorò il vetro col naso per osservarli
meglio. La fascetta d’oro che portava al
dito era ben poca cosa davanti a quello
sfarzo. Pensò a Edith, a quanto l’amava.
Si sentì in colpa e gli venne voglia di correre a casa.
Voltandosi trasalì e quasi urtò la teca.
C’era qualcuno sulla soglia, una sagoma
illuminata a malapena. Un piccolo essere, anche più basso di lui, con una grossa
testa. Gli ricordò l’illustrazione di un goblin su un libro di favole di quando era
bambino. Rabbrividì, proprio come allora davanti a quella pagina.
«Domando scusa — disse l’uomo minuto — Credevo non ci fosse più nessuno». Si avvicinò a passi piccoli e delicati.
Ronald lo osservò sbirciare oltre il vetro.
Aveva occhi di un azzurro intenso che
catturavano la luce.
«Provo spesso a immaginare chi li portava al dito». Sembrava alludere a un discorso iniziato da tempo. Ecco uno che
condivideva il suo segreto.
«Uomini che reggevano il peso del potere» disse Ronald.
Per un attimo l’altro parve incupirsi,
ancora sovrappensiero. «Chissà se tutti
ne erano all’altezza».
«Immagino di no. Il potere corrompe
— Ronald diede un colpetto di tosse —
Credo che il museo sia chiuso».
«Oh, non sono un visitatore — rispose
l’altro, gli occhi sulla collezione di anelli
— E nemmeno un ladro» ammiccò.
«Avevo un appuntamento con il diret-
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Si intitola Stella
del mattino
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di Wu Ming 4,
uno dei membri
del collettivo
Wu Ming
Il romanzo
mescola
vite e ricordi
di personaggi
storici
come Lawrence
d’Arabia,
J.R.R. Tolkien
e Robert Graves
all’indomani
del primo
conflitto mondiale
In libreria
il 29 aprile
tore. Lei viene qui spesso?».
«No — mentì Ronald — Lei sì?».
«Ci venivo prima della guerra. Mi perdoni, — disse mostrando la mano destra
bendata e porgendo la sinistra — Mi
chiamo Lawrence».
Ronald si adattò.
«Tolkien».
* * *
«Hai fatto tardi. La cena si è freddata».
Ronald poggiò la valigetta sulla sedia
nell’ingresso, baciò la moglie e lasciò che
gli sfilasse il soprabito.
«Scusa. Mi hanno trattenuto».
Il piccolo John gli corse incontro rischiando di inciampare e pretese d’essere preso in braccio. Il suo riso infantile
tolse a Ronald l’aria trasognata che si era
portato dietro dalla sala degli anelli.
Scherzò per qualche minuto con il figlio,
poi sedette a tavola. Di fronte a lui, Edith
lo osservò mangiare in silenzio. Parlò
soltanto quando ebbe finito.
«Vuoi dirmi che ti è successo?».
(© 2008 by Wu Ming 4. Published
by arrangement with Agenzia
Letteraria Roberto Santachiara)
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 APRILE 2008
SPETTACOLI
Nella memoria di chi era ragazzo allora, la colonna
sonora del Sessantotto è una chitarra che accompagna
strofe incendiarie oppure tributi commossi
al “comandante Che Guevara”. In realtà, l’anno comincia con la “lacrima
al vento” di Adamo e prosegue con Mino Reitano, Maurizio dei New Dada...
Nuovi libri e cd in uscita aiutano a rimettere i ricordi nella giusta prospettiva
Canzoni
ribelli
Paolo Pietrangeli
Che roba contessa,
all’industria di Aldo
han fatto uno sciopero
quei quattro ignoranti;
volevano avere i salari
aumentati, gridavano, pensi,
di esser sfruttati [...]
Compagni dai campi
e dalle officine prendete
la falce, portate il martello,
scendete giù in piazza,
picchiate con quello [...]
Da CONTESSA
Una contessa e 44 gatti
EDMONDO BERSELLI
rima di dire che il Sessantotto è stato un’esplosione di libertà e creatività, di immaginazione e fantasia, di questo e di quello, e che la società a quel tempo si diede
una mossa, e che nacquero fermenti e
si svilupparono tendenze, bisogna fare
mente locale e controllare a puntino i
documenti. Tecnica di San Tommaso,
metterci il dito. Quindi si può prendere
con una certa fiducia il libro di Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti, Avant
Pop ’68, titolo difficile da pronunciare
davanti a qualsiasi libraio, che sta per
uscire in questi giorni per la Rizzoli Bur,
con il sottotitolo fortunatamente più
evocativo che recita Canzoni indimenticabili di un anno che non è mai finito.
La fiducia deriva dal fatto che la coppia di autori composta da Bertoncelli e
Zanetti è un marchio di fabbrica eccellente: basta non lasciarsi fuorviare dal
vecchio ricordo di Bertoncelli motteggiato ai tempi dei tempi da Francesco
Guccini (per ritorsione dopo una recensione ispida) in una delle strofe dell’Avvelenata («tanto ci sarà sempre, lo
sapete, un musico fallito, un pio, un
teorete, un Bertoncelli, un prete, a sparare cazzate »), e considerarne soltanto
la lunga carriera di critico, collezionista
e musicofilo; e poi avere presente per
benino la vicenda di agitprop culturale
di Zanetti, animatore della rivista online Rockol (www. rockol. it), ma soprattutto inventore di iniziative pazzesche
come le canzoni di Battisti-Panella eseguite in una bellissima forma oratoriale, e come il concerto battistiano per le
172 bande che in tutta Italia eseguirono
contemporaneamente La canzone del
sole, a sette anni giusti dalla scomparsa
del «maestro solitario».
È sufficiente quindi aprire il libro di
Bertoncelli e Zanetti per accorgersi che
per parlare decorosamente delle canzoni del Sessantotto, e magari degli «anni Sessantotto» (come cita Anna Bravo
nel suo recentissimo e serissimo saggio
laterziano sulla cultura dell’anno fatale, A colpi di cuore), occorre in primo
luogo spogliarsi dei pregiudizi e di
un’intera fila di luoghi comuni. Almeno
per quanto riguarda le canzoni popolari, infatti, il Sessantotto ci ha messo
molto tempo a ingranare. Se si scorrono
le classifiche della hit parade di allora, si
deve prendere nota di un elenco che comincia con Affida una lacrima al vento
P
di Salvatore Adamo, il languoroso italobelga emigrato nel 1947 da Comiso di
Ragusa, e di cui si favoleggiò a lungo sui
rotocalchi un flirt presunto con Paola
Ruffo di Calabria, alias Paola di Liegi,
cioè la bionda e affascinante cognata di
Baldovino e attuale regina. Lui le dedicò
una canzone, Dolce Paola, in cui dopo
qualche apprezzamento alla sua dimensione regale («mi offrì il suo sguardo… nella sua maestà»), le rivolgeva apprezzamenti dal lato ornitologico (rive-
lando che in lei «ho visto in verità una
colomba fragile»).
Vola colomba, insomma, parole
d’antan. E difatti il Sessantotto ci mette
un po’ a farsi sentire. Le top ten sono
tutto un tripudio di Fausto Leali, con il
dramma da zio Tom di Angeli negri,
«Pittore, ti voglio parlare, mentre dipingi un altare», e giù a scendere con i
Camaleonti, Mino Reitano che aveva
un cuore che ti amava tanto, Adriano
Celentano, Don Backy che aveva litiga-
to con Celentano, Marisa Sannia, Gianni Morandi, Maurizio ex New Dada
(quello di Cinque minuti e poi, con l’aereo che si porta via per sempre la ragazza e lui quasi piange, praticamente singhiozza, esulcerato com’è per la perdita della morosa, e piange comunque
molto meglio e con più credibilità che
non nella tarda versione di Claudio Baglioni). E poi Sylvie Vartan, Dalida, Dino, Franco IV e Franco I che scrivevano
«t’amo sulla sabbia», Giuliano e i Not-
turni, la bambola di Patty Pravo, l’angelo blu dell’Equipe 84, «che se fischio
torna giù», e tutti gli altri, famosi e dimenticati, italiani e stranieri, i Pooh di
Piccola Katy (che pure risale alla fine
dell’anno precedente) e gli Iron Butterfly dell’irripetibile In-A-Gadda-Da-Vida. Fino a Vengo anch’io, di Enzo Jannacci, che forse contende ad Azzurro il
titolo di inno nazionale del Sessantotto
all’italiana.
Il merito di Bertoncelli e Zanetti è di
avere preferito la documentazione, anche quando è un pochino paranoica,
alla teoria astratta. Bertoncelli si è occupato della natura più o meno politica della musica di allora: e allora è il caso di aggiungere che al volume è allegato un cd che documenta «l’“altra” canzone di quel periodo, quella dei circoli
operai, delle sezioni, delle prime manifestazioni, quella diffusa principalmente per via orale con rari sbocchi e riscontri discografici» (il disco, prodotto
da Ala Bianca di Toni Verona, comprende fra gli altri brani di Giovanna
Marini, Sergio Liberovici, Fausto Amodei, tratti dal repertorio dei Dischi del
Sole, un giacimento culturale depositato nell’archivio sonoro dell’Istituto
Ernesto De Martino).
Ma sarebbe un fraintendimento limitare la musica del Sessantotto a quell’insieme di canzoni o inni che vanno da
Contessa di Paolo Pietrangeli a Hasta
siempre! (Comandante Che Guevara) di
Carlos Puebla. E difatti per riequilibrare l’operazione c’è la minuziosa ricostruzione di Zanetti, tutta dedicata alla
più spudorata canzone commerciale, e
soprattutto una formidabile enciclopedia di 68 canzoni più una: quest’ultima,
vedi caso, è Quarantaquattro gatti, inno nazionale degli infanti d’Italia, «l’unica vera canzone di protesta del 1968
che abbia avuto davvero un successo
duraturo», con il suo resoconto di
un’assemblea di rivendicazione di «diritti felini». Per la cronaca, la canzone,
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 APRILE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
IL LIBRO
La colonna sonora del ’68
tra canzoni militanti
e non solo. È Avant Pop
’68 di Riccardo Bertoncelli
e Franco Zanetti in uscita
il 30 aprile per Rizzoli
(392 pagine, 17,50 euro)
Sono sessantanove
schede di dischi
di quell’anno magico
da pezzi leggeri come
Tu che m’hai preso
il cuor a quelli impegnati
come Contessa
Con il libro un cd con dieci
canzoni di protesta
Ivan Della Mea quarant’anni dopo
La musica “color terra”
della nostra generazione
SILVANA MAZZOCCHI
C
LA COPERTINA
La copertina
del doppio cd
È finito il 68?,
in uscita
il 23 maggio
per Ala Bianca
REPUBBLICA.IT
Da oggi
su Repubblica.it
si possono
ascoltare
le canzoni
ribelli del ’68:
da Contessa
ad Hasta Siempre
Nello speciale
multimediale
testimonianze
e video
dei protagonisti,
da Paolo
Pietrangeli
a Ivan Della Mea
scritta dal musicista modenese Pippo
Casarini, venne presentata allo Zecchino d’orodalla udinese-goriziana Barbara Ferigo, quattro anni e mezzo, e superò altre canzoni epocali, Il torero Camomillo e Il valzer del moscerino, eseguita dalla precocissima star Cristina
D’Avena (come si vede erano tempi in
cui la musica per bambini non scherzava, se è vero che pochi mesi dopo fu addirittura Mina a interpretare Quarantaquattro gatti in un duetto con il pupazzo Provolino).
Ecco, se si vuole sapere come sono
nate quelle canzoni che fanno parte di
un frammento mitologizzato di storia
patria, vale la pena di leggere, golosamente, tutte le curiosità citate in questo
sublime repertorio. Maniacali annotazioni, frutto di archivi fantastici, che
raccontano tutte le cover, i titoli, le versioni, le date, i precedenti, e segnalano
tutte le curiosità, sottolineano tutto ciò
che si sa e si credeva di sapere sui Rokes,
su Jimmy Fontana, su De Andrè, sui
Moody Blues, ma sempre aggiungendo
con insolenza filologica un particolare
sconosciuto, un indizio in più, un elemento che era sfuggito finora.
Si possono così trovare “voci” deliranti come la seguente, ripresa da documenti d’epoca (l’Enciclopedia dei
cantanti e delle canzoni di Tullio Barbato, De Vecchi Editore, 1969): «Capellone barbuto dell’ultima leva, che ha da
poco abbracciato l’attività di cantante
in senso professionale, ottenendo buoni risultati con vari complessi e incidendo il suo primo disco con la Jolly. Pieno
di belle speranze, è convinto di percorrere molta strada con i suoi stivaletti.
Dicono che lo meriterebbe. Il suo genere è il folk». Per chi non l’avesse riconosciuto, si parla di Franco Battiato, segnalato anche come esecutore della
versione italiana di Rain and Tearsdegli
Aphrodites Child. Che dire? In effetti se
n’è fatta di strada, dal Sessantotto a La
cura, stivaletti o no.
LA MOSTRA
Le immagini che illustrano
queste pagine sono manifesti
politici torinesi in mostra
per tutto il mese di maggio
al Circolo dei lettori di Torino
(via Bogino, 9). L’esposizione
è un’appendice
de L’arte per la strada.
I manifesti del Maggio
Francese. In mostra
fino al 6 maggio 92 manifesti
e bozzetti originali
della collezione Antonio Ricci,
un quinto dell’intera
produzione realizzata
nel maggio del ’68, suddivisa
in due parti: i manifesti
prodotti dall’Atelier populaire,
le opere di quindici artisti
di fama come Pietro Cascella
e Jean Ipoustéguy
antava già nel 1967, nell’Università di Trento occupata dagli studenti, quando manifestava per i condannati a morte spagnoli garrotati dai tribunali fascisti di
Franco e partecipava a Firenze alle veglie nella chiesa dell’Isolotto di don Mazzi, dove intonava Hasta siempre. Era la vigilia del ’68, una stagione alimentata da sogni impossibili e
da passioni assolute, anticamera di delusioni e di degenerazioni. Ma anche irripetibile ventata di rinnovamento culturale. Ivan Della Mea, classe 1940, animatore e memoria dei
Dischi del Sole, affollata colonna sonora di quell’anno formidabile, lasciò allora il laboratorio del Nuovo Canzoniere
Italiano per vivere full time la politica e l’impegno, «in vista
della rivoluzione». Canzoni pensate e interpretate con Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Paolo Ciarchi, Pino Masi,
Alfredo Mandelli e tanti altri. Come Due, tre, molti Vietnam,
scritta di ritorno da Cuba dove erano andati tutti insieme, invitati da Fidel Castro. «Da noi il Vietnam era la scuola, era la
fabbrica, erano le carceri, era l’amore».
Quarant’anni dopo Ivan Della Mea, presidente dell’Istituto della canzone popolare Ernesto De Martino, ha avuto l’idea di restituire l’ennesima vita a trenta fra i brani più famosi del tempo che fu. E il 23 maggio escono per Ala Bianca, l’azienda indipendente con distribuzione Warner che da
trent’anni rappresenta un po’ «la cultura della musica», due
cd dal titolo provocatoriamente retorico, È finito il 68?, con
un libretto ricco di ricordi e con la copertina illustrata per
l’occasione da Vauro: un eskimo (il giaccone divisa dell’epoca) avvolto in una sciarpa rossa volante. Una raccolta completa, ragionata e illustrata delle stesse canzoni che, in numero più ridotto, accompagnano, ancora con la collaborazione di Ala Bianca, altri due tra i tanti libri in uscita per il celebratissimo quarantennale del ’68: Avant Pop, per Rizzoli, e
un volume, ancora senza titolo, che Feltrinelli manderà in libreria alla fine del mese prossimo.
Della Mea assicura che «il ’68 è tutt’altro che finito». O meglio, secondo lui, sopravvive la sua essenza
«poiché le tematiche affrontate allora sono
presenti ancora oggi». Canzoni sopravvissute
per quattro decenni e mai andate definitivamente in sonno. Longseller dice lui, «che non
si sono mai del tutto fermate e che ancora vengono scoperte, da una generazione all’altra».
Brani, come scrive nella prefazione Stefano
Arrighetti, «dove c’è tutto quello che ci dovrebbe essere»: la cronaca e le date delle manifestazioni, gli studenti e gli operai, Cuba e il
Vietnam, la Fiat e l’emigrazione (che all’epoca
era nostra, dal Sud al Nord), i manifesti politici e le storie personali. Da Contessa, a La ballata della Fiat, da Valle Giulia a Io so che un giorno, fino a Cara moglie e a tante altre.
«Era giusto promuovere un’iniziativa speciale per celebrare una data che non vuol dire
soltanto dodici mesi. Il ’68 è il poco che c’è stato prima e il molto che c’è stato dopo. Perché, se è vero che
non ci fu la rivoluzione ingenuamente pensata, certamente
c’è stato un grande cambiamento del costume che ha prodotto effetti importantissimi. Il ’68 ha cambiato la famiglia e
il rapporto tra l’uomo la società e tra le donne e la società. Da
quel seme, negli anni successivi, sono venute le grandi battaglie democratiche per la legge sull’aborto e sul divorzio e
tante altre conquiste. E le nostre canzoni hanno raccontato
tutto questo. Alcune sono diventate manifesti, altre dei veri
e propri simboli. E poi ancora adesso rappresentano quasi
un certificato di esistenza in vita di certi valori che oggi non
ci sono più, ma per motivi simili a quelli che noi, all’epoca,
abbiamo messo nei nostri brani».
Tra delusione e rimpianto. Ivan Della Mea tornò nel Nuovo Canzoniere Italiano nel 1971, subito dopo aver abbandonato Lotta continua. E «ci si scontra a muso duro, ma ci si ritrova». Quando muore il suo amico Gianni Buoso, scrive:
«…qualcosa abbiamo fatto, / sì per capire, / che questo cantare color terra vuol dire creare. / E anche vivere».
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 APRILE 2008
i sapori
Gusto primavera
La leggenda vuole che i piccoli frutti rossi e profumati siano nati
dalle lacrime sparse da Venere sulla tomba dell’amato Adone
Questa origine passionale ha lasciato il segno e da sempre,
al di là del fatto che sono sani e buoni, vengono considerati
afrodisiaci. Ma attenzione a quelli “palestrati”, imbottiti di chimica
Risotto
Al cioccolato
Bavarese
Marmellata
Gelato
Base classica – cipolla, burro,
olio – riso fatto brillare e sfumato
con vino bianco e brodo
A pochi minuti da fine cottura,
si aggiungono (piano) le fragole
a tocchetti, il vino bianco
in cui sono state marinate,
e pochi cucchiai di panna
Ricetta golosa e ineccepibile
per i nutrizionisti (33 calorie
per fragola, vitamine e acidi
grassi polinsaturi). Prevede
di tuffare i frutti nel cioccolato
amaro al 70 per cento, sciolto
a bagnomaria. Posare su carta
oleata e raffreddare in frigo
A 250 grammi di fragole, frullate
con zucchero, limone e scorza,
si aggiungono quattro fogli
di colla di pesce ammollata
e sciolta e mezzo litro di panna
Poi riposo in frigo. Versione
alleggerita: fruttosio e yogurt
invece di zucchero e panna
Lavate delicatamente senza
lasciarle a bagno, asciugate
senza tagliarle, irrorate di limone
o fatte riposare con un baccello
di vaniglia, le fragole devono
cuocere piano con lo zucchero
(metà del peso della frutta)
fino alla densità voluta
Versione senza gelatiera:
le fragole (250 grammi, lavate,
asciugate e ridotte a purea)
vengono spolverate di zucchero
a velo (100 grammi) e passate
al colino. Aggiungere un limone
e 200 grammi di panna. Riposo
in freezer, girare ogni venti minuti
itinerari
Lino Scarallo è il talentuoso cuoco di Palazzo
Petrucci, ristorante che si trova nel quattrocentesco
edificio di piazza San Domenico Maggiore, cuore
di Napoli. Tra i suoi piatti migliori: la millefoglie
croccante al cioccolato con fragoline di bosco
Martello (Bz)
Lagosanto (Fe) Nemi (Rm)
Borgo suggestivo nel cuore
della Val Martello (laterale
della Val Venosta), vanta
un microclima mite e asciutto,
ideale per la coltura di fragole
grandi con dolcezza e profumo
da fragoline. Festa dedicata
l’ultimo week end di giugno
Tra il bosco della Mesola
e i Lidi Ferraresi, è la patria
botanica della fragaria:
qui si coltiva il 90 per cento
delle piante di fragola prodotte
in Italia. Dal 17 al 25 maggio
celebrazione con menù,
laboratori e degustazioni
Le lacrime di Venere
trasformate in cuoricini rossi
dal sangue di Adone: ecco
la mitica storia delle fragoline
coltivate sul lago, davanti
a Genzano. Qui le “fragolare”
sfilano con i loro cesti la prima
domenica di giugno
Il “cibo delle fate”
da sempre galeotto
LICIA GRANELLO
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
HOTEL BERGFRIEDEN
Meiern 84
Tel. 0473-744516
Doppia da 50 euro
colazione inclusa
LOCANDA IL VARANO
Via Valle Oppio 6, Marozzo
Tel.0533-949135
Doppia da 75 euro
colazione inclusa
IL PORTICO FIORITO
Via del Tempio di Diana
Tel. 340-7633560
Doppia da 100 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
KUPPELRAIN (con camere)
Piazza Stazione 16, Maragno
Tel. 0473-624103
Chiuso domenica e lunedì
a pranzo, menù da 47 euro
TRATTORIA PAVANI
Borgo Dei Fiocinini 13
Tel. 0533-900069
Chiuso martedì sera
menù da 25 euro
LA GROTTA
Via Belardi 31
Tel. 06-9364224
Chiuso mercoledì
menù da 33 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
AGRICOLA COOP. MEG
Transacqua 249
Tel. 0473-744700
AZ. AGRICOLA FRANCHINA
Via Franchina 7
Località S. Maria Codifiume
Tel. 0532-725365
AGRITURISMO AGROPOLIS
Via S. Gennaro 2, Genzano
Tel. 06-9370335
«L
a fragola, che cresce sotto l’ortica, rappresenta l’eccezione più bella alla
regola, poiché innocenza e fragranza sono i suoi nomi. Essa è cibo da fate». La regola a cui Shakespeare cercava di sottrarre il suo frutto preferito
condannava le piante ad assorbire il bene e il male dall’ambiente in cui vivevano. Eppure, perfino sotto l’erba che urtica e punge — a sua volta ampiamente riabilitata dalla cucina popolare e d’autore — i rossi cuoricini
polposi conservavano il loro fascino allegro.
Furono i Romani a battezzarla con il nome fragrans, per imprigionarne idealmente il profumo inebriante. Soprattutto, però, già allora la fragola era considerata un frutto afrodisiaco.
A sancirne l’irresistibile eroticità, la sua stessa origine: si diceva fosse nata dalle lacrime versate da Venere, dea dell’amore, sulla tomba dell’innamorato Adone. Una malia che ha attraversato intatta i secoli, supportata dalla forma a cuore e dal colore rosso acceso.
In effetti, c’è stato anche un tempo in cui la fragola ha dismesso i panni maliardi per essere assunta come medicina dei sentimenti: nel Medioevo, ribattezzata “frutto cuore”, veniva
prescritta agli amanti disperati, in quanto cibo capace di placare le passioni d’amore. Una
parentesi virtuosa spazzata via dal regno del Re Sole. Furono i suoi giardinieri ad addomesticare la fragola, reimpiantando le piantine selvatiche nelle aiuole di Versailles, e le sue dame a
restituirla a un ruolo irresistibilmente cocotte: durante le feste di corte, affondare il cucchiaino nelle coppe cosparse di zucchero e panna era invito inequivocabile al cavaliere prescelto.
Una virtù galeotta mai sconfessata, tanto che nel film-simbolo del nuovo erotismo patinato
anni Ottanta, Nove settimane e mezzo, il regista Adrian Lyne mise le fragole al centro di una
delle scene bollenti tra Mickey Rourke e Kim Basinger.
Ma, se l’abbinamento fragole&champagne resiste impavido in tutti i manuali di seduzione, anche dal punto di vista nutrizionale il “frutto cuore” non scherza: incrementa la riserva
alcalina dell’organismo, regala vitamine e antiossidanti, vanta proprietà dissetanti, diuretiche, antiuriche, antinfiammatorie, depurative, lenisce il bruciore delle scottature, rende vellutata la pelle. Il tutto, con un carico calorico risibile (a patto di essere mangiata nature).
Una messe di virtù azzerate dalle coltivazioni intensive e destagionalizzate. La produzio-
Fragole
Gli appuntamenti
130mila
Le tonnellate
di fragole prodotte
ogni anno in Italia
Esplode nel prossimo fine settimana
il tempo delle fragole. Si comincia a Cassibile (Siracusa),
ad Arborea (Oristano), e a Capezzano Pianore, in Versilia,
con tre succosi appuntamenti “farciti” di ricette a cielo aperto,
degustazioni, mostre-mercato, menù monodedicati
Bisognerà invece aspettare fine maggio per gustare il week end
della fragola biologica a Cesena e quello (imperdibile!)
che celebra la fragola con panna, a Reggello, Firenze
ne intensiva in serra e le forzature hi-tech per renderle grandi, gonfie, rosse, pronte in qualsiasi momento dell’anno, trasformano le fragole in piccoli, malsani assemblaggi di chimica,
lontani anni luce dalla magia incontaminata del «cibo per fate» cantato da Shakespeare. Scoprire i frutti bionici, per fortuna è semplice: basta chiudere gli occhi e ricordare. Perché il profumo di fragola rappresenta una sorta di imprinting sensoriale, come il pane buono appena
sfornato o il caffè che gorgoglia piano nella moka: non c’è limone, vino, panna, zabaione che
possano restituire profumo e sapore alle imitazioni-Big Jim.
Allora, meglio evitare le fragole palestrate e scegliere le produzioni naturali, biologiche, privilegiando quelle piccine e sode, dolcissime. Sapendo che la resistenza in frigo è (giustamente) poca cosa: un paio di giorni, allargando il contenuto del cestino su un panno poi coperto,
lavando rapidamente, togliendo la rosetta di foglie con una piccola torsione, aggiungendo il
condimento all’ultimo momento per evitare che cuociano, smarrendo il meglio di sé.
Agli itinerari tracciati dalle sagre che si inseguono dagli inizi di maggio, aggiungete una gita tra Maletto, alle falde dell’Etna, e Ribera (sede di presidio Slow Food), Sciacca e Marsala,
terre di fragoline odorose. Se invece soffrite di orticaria, pazientate un paio di settimane: il
tempo delle ciliegie sta per arrivare.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 APRILE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
Di campo
Tante le varietà della fragaria
comune: al sud Chandler,
Pajaro, Tudla e Miranda, mentre
al nord si coltivano Idea,
Marmolada, Elsanta, Cesena
Tra le straniere, la Chiloensis,
di origine sudamericana,
e l’americana Virginiana
tiche e credo più probabile che di queste si trattasse, al banel 1655 la regina Cristina di Svezia scese in Italia dichetto di Mantova del 1655.
retta a Roma, dopo essersi convertita al cattolicesiPiuttosto, facciamo mente alla data: 27 novembre. Assomo e avere abdicato al trono. Il 27 novembre fece
lutamente fuori stagione. Con un colpo così, il cuoco dei
pausa a Mantova, alla corte dei Gonzaga, dove fu festeggiaGonzaga aveva già conquistato l’ospite illustre. Carni prelita con un grande banchetto allestito da Bartolomeo Stefabate e succulente preparazioni sarebbero seguite, ma il sucni, uno dei più celebri cuochi del tempo. Di quel banchetto
cesso del banchetto era in partenza assicurato. All’epoca,
sappiamo tutto perché lo stesso Stefani lo raccontò, sette
come già nel Medioevo, e poi nell’età rinascimentale, offrianni dopo, in appendice a un suo libro di ricette intitolato
re cibi “fuori stagione” dava prestigio al padrone di casa (coL’arte di ben cucinare. Lo raccontò con orgoglio, come uno
me lo stesso Stefani ama precisare, commentando le sue
dei momenti più alti della sua luminosa carriera.
scelte gastronomiche). E questo, nonostante fosse chiaro a
Nella lunga lista di vivande che furono presentate in queltutti che «il frutto non è buon’fuor di stagione», come dicela occasione, una attira subito la nostra attenzione. In aperva un proverbio cinquecentesco.
tura furono servite «fraghe», ossia fragole, «lavate con vino
Ma se il frutto non è buono, che imbianco servite con zuccaro sopra». Un
porta? Non si mangia solo per piacepiatto semplicissimo dunque, pur se
re. La tavola del principe serve anziarricchito da piccole sculture in zuctutto a mostrare ricchezza, potere, cachero, un vero must della tavola bapacità di mettere insieme risorse e inrocca. Sculture in tema: «Nel circuito
gredienti non scontati. In un mondo
dell’ala del piatto, conchiglie fatte di
in cui osservare la stagionalità dei prozuccaro empite delle stesse fraghe,
dotti era normale, anzi d’obbligo, non
tramezate con uccelletti fatti di pasta
farlo era un segno di distinzione.
di marzapane, che sembravano voler
In questo desiderio antico di inbeccare dette fraghe».
frangere i ritmi stagionali, sentiti coNon stupiscano le fragole con zucme una costrizione “contadina”, è
chero e marzapane servite in apertuMASSIMO MONTANARI
forse la radice di certi comportamenra: la cucina seicentesca, sulla scia di
ti attuali, non più elitari ma di massa.
quella rinascimentale, amava il dolce
Solo che, oggi, le ragioni del prestigio non valgono più: mana tutto pasto e metteva zucchero dappertutto. Quanto alle
giar fragole nella stagione fredda non è più un privilegio rifragole, è difficile dire se fossero coltivate o selvatiche. All’eservato a pochi. Democraticamente parlando, ciò non sapoca di Stefani erano già cominciati gli esperimenti di inrebbe così negativo, se non si accompagnasse a una perdicrocio tra le fragoline selvatiche (le sole conosciute nel Meta collettiva della cultura della stagionalità, minata dai ritmi
dioevo) e nuove specie venute dall’America. Da questi indell’industria e dai circuiti del commercio alimentare. Procroci nacquero vari tipi di «fragole grosse», come quelle che
prio quella cultura — paradossalmente — dava un senso alil giardiniere di re Luigi XIV, Jean de la Quintinie, selezionò
l’infrazione di Stefani. Recuperarla come valore forte e ponei giardini di Versailles sul finire del secolo. Ma siamo apsitivo, rovesciando il paradigma del lusso alimentare, sarà
pena agli inizi di una storia (quella dei fragoloni) che si sviuna piccola rivoluzione culturale, a vantaggio anche del nolupperà solo in epoca successiva, dal Sette-Ottocento in
stro piacere. Perché «il frutto non è buon’fuor di stagione».
poi. Il gusto seicentesco era ancora legato alle fragole selva-
N
Selvatica
La fragaria più ambita e preziosa
si chiama vesca, è originaria
di Europa settentrionale
e Siberia, cresce in boschi,
radure e ripe erbose, fino a 1800
sul livello del mare. Minuta
e profumata, le sue foglioline
si usano per tisane rinfrescanti
Di bosco
Dalla specie selvatica originaria
sono state selezionate varietà
coltivabili, che fruttificano
sia all’aperto che in serra,
garantendo (almeno in parte)
fragranza e profumo. In Trentino
il periodo della raccolta
dura da giugno a settembre
Piatto da regina
le “fraghe
fuor di stagione”
A cuore
Tra le varietà coltivate, il falso
frutto (i frutti veri sono i semini
gialli nella polpa rossa, detti
acheni) più romantico è quello
della Gorella, cuoriforme
Ma esistono anche forme
oblunghe, come la Belrubi,
e la rotonda Pocahontas
Rifiorente
Merito di questa numerosa
famiglia botanica
se la fruttificazione di varietà
dal calibro piccolo e medio
continua da primavera a inizio
autunno. Le unifere, invece,
regalano falsi frutti grandi e pieni,
ma maturano solo in autunno
Repubblica Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
le tendenze
Moda e memoria
GIACOMO
CASANOVA
Di eleganza
e fascino
proverbiale
lo scrittore
e avventuriero
veneziano (17251798) possedeva
molti panciotti
ricamati
finemente
DOMENICA 27 APRILE 2008
Torna in auge il panciotto che un tempo definiva lo stile
maschile e che oggi, a sorpresa, si riconverte in seducente
dettaglio femminile. In seta, jeans o tessuto tecnologico
compare in passerella (e in vetrina) sotto giacche dal taglio
rigoroso o più audacemente indossato a pelle. Perfetto
sia da giorno che da sera, non teme neppure l’ostacolo dell’età
era una volta, tanti tanti anni fa, il classico gilet da uomo. Un pezzo da intenditori, realizzato con sobri tessuti manageriali, come flanelle e gessati. O con stoffe
di sportiva eleganza britannica come tweed e pie de
poule. Si trattava di un capo tradizionale, simbolo di
un vestire vecchio stile, ormai caduto in disuso salvo
qualche rara eccezione. Nelle boutique non se ne trovavano quasi più.
E chi voleva indossarlo era costretto a comprarlo nei negozi vintage o a
farselo fare dal sarto.
Poi, improvvisamente, tutto è cambiato. E il gilet è tornato sotto i riflettori. Indossato per le strade di Londra, Parigi e New York da attrici e top model, come Kate Moss e Sienna Miller, che ne hanno fatto quasi un’uniforme. Rivisitato e corretto in versione moderna dai grandi della moda che, in
un batter d’occhio, lo hanno trasformato da capo d’abbigliamento per uomini all’antica in gadget di seduzione per femmine all’ultima moda. «Cre-
C’
Gilet
L’eleganza senza maniche
JACARANDA CARACCIOLO FALCK
CHARLIE
CHAPLIN
Nei panni
di Charlot
l’attore
rese celebre
il gilet nero
in versione
“indigente”
indossandolo
sotto la giacchetta
stretta e logora
JOHN
TRAVOLTA
Nel film La febbre
del sabato sera
del 1977
il divo John
è Tony Manero
e sfoggia gilet
candidi o scuri
scatenandosi
sulla pista
da ballo
do che la novità più interessante del nuovo gilet sia che,
da elemento maschile tradizionale utilizzato nei completi più classici, si è trasformato in un oggetto sensuale e
iperfemminile», spiega la stilista Anna Molinari che, nella sua collezione estiva, ha introdotto diverse varianti sull’indumento. A cominciare da un modello tricotato alla
Lolita da portare a pelle sopra gli hot pants.
Ecco allora che, all’inizio della primavera 2008, quella
giacca senza maniche nata alla fine del Seicento come indumento elegante è tornata a far parlare di sé. Certo non è la
prima volta che il waistcoat, come lo chiamano gli inglesi, torna in auge. Accadde già negli anni Settanta del secolo scorso,
quando gli hippy lo recuperarono come capo simbolo della loro generazione, in alternativa alla giacca, considerata più noiosa e borghese. Di jeans o fatto all’uncinetto, di pelle o in versione
patchwork, il gilet dei figli dei fiori si portava di giorno come di sera, in spiaggia o in discoteca, con gli hot pants o con i pantaloni dello smoking. Missoni lo realizzò in maglia zigzag, Yves Saint Laurent
in gabardine beige. I Beatles lo indossarono, con camicia bianca e
cravatta nera, sui palchi di mezzo mondo. Mentre il giovane John Travolta ne fece il simbolo del suo disco-style.
Attenzione però, il gilet dell’estate 2008 è molto diverso dal suo antenato rivoluzionario di quarant’anni fa. Di trasgressivo, infatti, ha poco o
nulla. Anzi. Nell’immaginario dei più importanti stilisti, da Valentino a
Giorgio Armani, da Anna Molinari a Karl Lagerfeld, è il nuovo indumento
elegante per eccellenza. Utilizzato di giorno sulla pelle nuda al posto di camicie e t-shirt. E la sera in sostituzione di top e giacchini per dare un tocco
di ironia agli abiti più eleganti. Un esempio? La versione in lana verde, melange, con scollo profondo, proposta da Miuccia Prada. Una variante quasi sportiva che si indossa però insieme alla lunga gonna da ballo a fiori. Un
leitmotiv riproposto anche sulla passerella di Louis Vuitton, dove il designer Marc Jacobs ha scelto di abbinare il suo gilet gessato, da indossare rigorosamente senza nulla sotto, con una gonna di tulle viola lunga fino ai
piedi. «Non c’è dubbio: il gilet di oggi è l’elemento giusto per sdrammatizzare un incontro formale», aggiunge Molinari, «o per esprimere tutta la
propria femminilità in un’occasione informale».
MACHO MAN
FORMATO MAXI
Molto macho
il modello
bicolore,
con colletto
a giacca, firmato
Emporio Armani
Da portare semi
sbottonato sopra
la semplice
canotta grigia
Maxi lunghezza
per il modello
a due bottoni
di Max Mara
Di pelle nera
si indossa
senza
assolutamente
nulla sotto
Effetto shock
FORMATO MICRO
W LE BORCHIE
È realizzato in lino
naturale fresco
e giovanile
il micro gilet
da giorno
di Gas. Attillato
in vita e dotato
di taschine laterali
Si abbina bene
al pantalone ecru
La maison
Etro rilancia
lo stile hippy
con un bolerino
di pelle nero
tempestato
di mini borchie
Prezioso
e aggressivo
da vera guerriera
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 APRILE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
OLTRE IL CLASSICO
SERATA SPECIALE
Cotone grigio ferro con interno
in raso della stessa tonalità
per il modello super classico
proposto da Benetton
È perfetto da indossare
con camicia e jeans, ma anche
sulla pelle abbronzata
C’è una nuova idea
look per una serata
speciale: il gilet
di paillettes blu elettrico
firmato Moncler
Fa parte
della collezione
Gamma Rouge,
ha bottoni d’oro,
bordo smerlato
e colletto di raso
BELLI E DANNATI
Ispirazione “belli
e dannati” alla James
Dean (versione 2008)
per l’intramontabile
gilet in pelle con due
tasche frontali e zip
Di Marlboro classic,
finisce in guardaroba
come un indumento
che non teme l’usura
delle mode
Dalla corte di Francia al grande schermo
una carriera abbottonata e trasversale
LAURA LAURENZI
a davvero molte anime il gilet. Già se lo chiami panciotto ha qualcosa di vecchio,
molto ancien régime, gli manca solo l’orologio a cipolla nel taschino: assieme al cappotto di cammello fa subito commendatore. Ma fortunatamente è stato svecchiato e sdrammatizzato, diventando un capo per tutte le stagioni, anche quelle politiche. Come dimenticare i gilet floreali degli hippy, quelli folk da ambientalista, o il gilet femminista e androgino, se portato da una donna, in stile Ultimo tango a Parigi? Il panciotto fa quasi sempre parte di una maschera: può essere quella di Totò, ma soprattutto, in versione indigente, quella di Charlot almeno quanto il bastone di canna ricurvo. Ma c’è anche il gilet
del riflusso, del disimpegno: quello sfoggiato in discoteca da John Travolta nella Febbre
del sabato sera.
Quanti gilet ci sfilano sotto gli occhi in fotografie soltanto in bianco e nero: quello, impeccabile, color perla portato sotto il tight dall’avvocato Agnelli, con un’orchidea all’occhiello, il giorno delle nozze con Marella Caracciolo a Strasburgo. Il panciotto di Edward
G. Robinson, siamo nel 1944, ne La fiamma del peccato di Billy Wilder. I gilet perfetti del
duca di Windsor, sempre e immancabilmente con l’ultimo bottone slacciato, e quelli, ironico-british, di David Niven con piccoli revers, i panciotti dandy del conte Nuvoletti. È l’unico capo di abbigliamento maschile in cui agli uomini era concesso qualche capriccio,
qualche civetteria, qualche licenza poetica. Ma poi è arrivata la deregulation e il gilet si è
deformato e trasformato, ha saputo diventare una scalcagnata marsina come su Rino Gaetano, o una tavolozza multipla di colori e disegni come su Renzo Arbore che i panciotti,
non solo quelli di Fausto Sarli, li colleziona a decine.
Primi arrivarono i futuristi, a usare il gilet come tazebao se non come terreno di provocazione. Un nome per tutti: quello di Balla. Fra le opere di Depero più cariche di significato ci sono proprio i Gilet Futuristi ideati per gli artisti del movimento, in stoffe variopinte
a colori violenti e ardite geometrie di arabeschi. È a inserti rossi, gialli e arancione quello
per Marinetti del 1923, è addirittura a pesci blu quello per Azari. Quadri di Cezanne, di Degas, di Modigliani raffigurano giovani uomini in gilet, spesso l’unica pennellata di colore
forte sulla tela.
Il gilet è un indumento trasversale: alle classi sociali e alle latitudini. Lo porta, nero, il
picciotto siciliano con la coppola, e lo porta il banchiere della City con il suo gessato da
conservatore. Indossava il panciotto con rara eleganza nonostante il fisico poco longilineo Winston Churchill e lo indossano squadre di cacciatori, pescatori, operai specializzati, elettricisti, cameramen che utilizzano il gilet, meglio se multitasche, come indumento da lavoro.
Classico o stravagante, decorativo o soltanto utile, dinamico o passatista. Oggi il gilet,
che spesso con termine avvilente si chiama smanicato, può essere tecnico, tattico, autoriscaldato a batteria, fluorescente: molto lontano da quell’esempio di eleganza dettato da
un gigante della vanità come Lord Brummell, consigliere e amico del sovrano reggente
Giorgio IV, principe del Galles. E fu proprio un principe del Galles, quello che sarebbe diventato re Edoardo VII, a dettare la moda dell’ultimo bottone slacciato, cui ancora oggi si
uniformano e si sottomettono tutti gli uomini convinti di essere eleganti. Lui lo fece però
perché il giro vita cresceva, e i chili di troppo gli impedivano di chiudersi il gilet fino in fondo.
Pure Gabriele D’Annunzio, anche quando era soltanto il Duca Minimo, pseudonimo
con cui firmava le sue cronache mondane, aveva una predilezione per i panciotti, meglio
se candidi. Quando nel 1895 si imbarca sul panfilo “Fantasia” di Edoardo Scarfoglio per
una crociera in Grecia, annota meticolosamente i capi di vestiario che chiude in valigia:
oltre al tight, allo smoking e a tre abiti sportivi, ben sei gilet bianchi.
Oggi il gilet, nato in Francia sotto il regno di Luigi XVI quando alle giacche sparirono le
maniche e gli uomini di corte riempirono il nuovo indumento di ricami e applicazioni incredibilmente lussuosi, è diventato anche un capo femminile. Victoria Beckham lo porta
a pelle, sul seno nudo, rubandolo al guardaroba del marito. Alicia Keys è andata in tournée
in jeans Armani e panciotto di coccodrillo. Kate Moss lo usa su svolazzanti camicie maschili oversize portate fuori dai pantaloni. Deregulation, dicevamo: la vera eleganza è un
miraggio sparito.
H
FUTURISMO
Panciotto Futurista
(1923) con tarsie
in panni di lana
di diversi colori
di Fortunato
Depero. Fa parte
della collezione
Baccoli. A destra,
Panciotto
di Tina Strumia
ideato da Depero
per Tina Strumia
nel 1924. Si trova
oggi al museo
dell’Aeronautica
“Gianni Caproni”
di Trento
Accanto,
Liza Minnelli
in Cabaret
del 1972
NUDE LOOK
EFFETTO PITONE
FOTO EYEDEA
La griffe Ferrè
sceglie di giocare
con i materiali
e lancia
un modello in pelle
senza bottoni
effetto pitone
Si chiude solo
con un gancio
davanti
Sembra uscito
dal guardaroba
di Al Capone
il doppiopetto
gessato
della collezione
donna di Dior
Da indossare
nude look
ma con i pantaloni
BON TON
RAGAZZACCI
In versione
cardigan il gilet
di maglia
nei toni del verde
proposto
da Prada. Lungo
fino a metà
coscia si porta
con i pantaloni
a zampa
Torna di moda
il tradizionale
panciotto
da uomo doppio
bottone. Versace
lo propone
ai “ragazzacci”
Da indossare
sopra la T-shirt
bianca
Repubblica Nazionale
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 APRILE 2008
l’incontro
Adesso per il grande pubblico
è l’incarnazione del “capo dei capi”
della mafia. La sua interpretazione
è stata un’impresa da mutante:
nella realtà l’attore palermitano
è un trentatreenne mite,
misurato e sorridente
Gli si riconosce
un solo vizio maturo:
una voglia di teatro
che lo fa stare sempre
in movimento. Mette
un valore al di sopra
di tutti gli altri: “Non rinuncerei
mai all’indipendenza, rifiuto
i pregiudizi e l’ordine imposto”
Volti da fiction
Claudio Gioè
n Cesare Lombroso dei
nostri giorni, o un Desmond Morris che tanto
ha studiato e teorizzato il
rapporto tra gesti, fisionomia e comunicazione degli esseri umani, farebbero
carte false per indagare a fondo le ragioni
che hanno spinto otto-dieci milioni di
italiani ad associare, a identificare naturalmente Totò Riina, solido e tragico boss
corleonese della mafia (milleduecento
morti sulla coscienza), con l’oggi trentatreenne Claudio Gioè, l’attore palermitano mite, misurato e sottile, volto flemmaticamente sorridente, interprete apprezzatissimo della parte del re ombra di
Cosa Nostra nella fiction Il capo dei capi
che i registi Enzo Monteleone e Alexis
Sweet e gli sceneggiatori Bises, Fava e
Starnone (romanzando un libro di D’Avanzo e Bolzoni) hanno condotto a un
memorabile successo di share, di gradimenti e di clamori polemici su Canale 5.
Un anno fa Gioè s’è sottoposto all’impegno di modellare il proprio corpo e le
proprie espressioni ricostruendo minuziosamente la parabola della vita di Riina
dai suoi venticinque ai suoi sessantatré
anni. Un’impresa da mutante, da museo
siciliano live delle cere, da faustiano interprete delle altrui età dell’uomo. E
quando te lo trovi davanti, questo giovane artista che ha somatizzato in tv quasi
quaranta stagioni della Mente del Male,
avendo già alle spalle le esperienze da
sindacalista ne I cento passi e da operaio
ne La meglio gioventù, film entrambi di
Marco Tullio Giordana, reduce anche dal
successo personale a teatro delle voci date al mondo catanese delittuoso e offeso
de L’istruttoria di Claudio Fava, quando
sei a tu per tu con lui t’accorgi d’avere a
che fare con un ragazzo, una specie di fool
isolano, un giovanotto di taglia adolescenziale.
L’unico vizio maturo che nei primi mi-
nuti gli scorgi negli occhi è una voglia di
teatro. Quella ce l’ha nel sangue. E in fondo, l’anno scorso, non ha fatto altro, davanti alle telecamere, che teatralizzare
scientificamente, antropologicamente e
mimeticamente un personaggio non
scritto, una figura reale, potente, temibile, oggi sotto chiave a scontare quasi una
ventina di ergastoli. «Ho studiato a lungo
come Riina si muoveva, che sguardo aveva, come “recitava” davanti ai giudici,
ogni sua mezza occhiata, ogni suo mezzo tono, ogni sua ruvida piega culturale,
il modo in cui non riusciva a stare seduto
sulla sedia in aula, il suo atteggiamento
sempre impassibile che però tradiva l’istinto di saltare al collo ai pentiti (agghiacciò il tribunale, quel suo sussurrare
“Ma statti zitto” al pentito Gaspare Mutolo, suo autista), e insomma m’ha interessato l’uomo, la sagoma, i suoi limiti, le
contrazioni, l’uso delle mani e in particolare del pollice, come girava la testa, come reagiva alle descrizioni feroci dei crimini con l’acido, dei delitti messi a segno
con le proprie mani dopo aver magari offerto un pranzo alla vittima, e ho spiato la
sua rabbia animalesca sotto le apparenze di una prossemica inalterabile, quando si schermiva, quando i testimoni gli
davano del lei, il vossia, rispondendo a un
cerimoniale scopertamente mafioso».
E come ogni attore di antica tradizione, il giovane Gioè s’è sottoposto, per incarnare le varie età del Capo dei capi, a un
meticoloso, paziente, anatomico lavoro
di trucco. «Il problema dell’assumere i
tratti più attempati del Riina sessantenne sono stati risolti con una protesi che
mi irrobustiva di una trentina di chili, ma
anche certi abiti suggerivano una postura, un andamento, una mentalità da soggetto molto vissuto, e io ho contribuito
agendo con restrizioni delle articolazioni, riducendo la gestualità, economizzando le occhiate. Perché più il suo potere era accresciuto, più in proporzione inversa lui si muoveva di meno, più emetteva segnali con un solo minimo cenno,
con un’essenza di cenno».
Fatalità vuole che quest’attore depositario dell’immagine del più temuto e
spietato degli uomini della mafia abbia
avuto una vocazione infantile liliale, e
una crescita artistica con tutti i crismi.
«Avevo sette-otto anni quando mia nonna mi regalò un registratore a cassette, e
lì mi venne, per gioco, d’inventare un radiodramma dove facevo vari personaggi,
varie voci, suscitando gran divertimento
in famiglia. La mia prima performance
pubblica fu a sedici anni, al liceo, dove interpretai un fruttivendolo dei mercati di
Palermo, una figura comica a tu per tu
con Goethe. Poi, quando ero già iscritto a
Lettere classiche, mi convinsi a fare un
tentativo con l’Accademia d’arte drammatica, dove per provino portai Ricorda
con rabbiacon inflessioni siciliane, e Mario Ferrero vide in me la passione, e con
mia sorpresa fui ammesso, frequentando poi tutti e tre gli anni».
Ma non tarda a tirar fuori una certa irrequietezza, una certa vena indipenden-
te. «Buttai giù una riscrittura di Edipo che
realizzai a Palermo, Edipo e controedipo
ispirato a Laforgue e a Carmelo Bene,
operazione strana ma il pubblico s’entusiasmava, s’emozionava. Subito dopo
Lavia mi chiamò all’Eliseo per Il gioco delle parti con Orsini: una tournée di sei mesi, io in scena ogni sera tre minuti, un’esperienza di disciplina che fruttò un po’
di crisi depressiva ma anche un serio apprendistato di meticolosità e reiterazione. E ancora una volta, alla ricerca di
un’opportunità tutta mia, appena finito
Pirandello costruii da me uno spettacolo, Historia von Doctor Johannes Faustus,
un patchwork dall’opera dei pupi su Faust, fino a Thomas Mann, passando per
Nietzsche, per Marlowe e ovviamente
per Goethe».
Teatralmente non stava mai fermo, e
su commissione riscrisse un’Ifigenia
(«era un divertissement alla Coward»)
ma gli venne in mente anche Caligola Night Live gettandone su carta la traccia
mentre era di turno sulle ambulanze di
Palermo dove espletò il servizio militare
civile. Però intanto incrociò anche il cinema, nel 1998, prendendo parte con Tilda Swinton, musa di Derek Jarman, a The
Mille coincidenze
mi hanno portato
a fare Riina in tv
Ma io non vedo
la differenza
tra Riina e il delirio
d’onnipotenza
di un Riccardo III
o di un Caligola
FOTO GRAZIA NERI
U
ROMA
Protagonists di Luca Guadagnino, che
andò alla rassegna collaterale del Festival
di Venezia. «Ma la vera visibilità l’ottenni
nel ruolo di un intellettuale impegnato
nel sociale, amico di Peppino Impastato,
in Cento passi di Giordana, un film potentissimo che alla sua presentazione mi
commosse».
Nel frattempo s’era trasferito a Roma,
e ci fu l’altro nuovo salto di popolarità fatto in televisione nei panni dell’operaio licenziato de La meglio gioventù, cui segue, dopo il film Passato prossimo, una
piccola parte in Paolo Borsellino di Tavarelli. «Dato che reputo la rabbia intima un
grande veicolo creativo, ho ripreso in
mano il Caligola Night Liveche era un triplo salto mortale nato con la lettura di Camus, e mi sono organizzato, l’ho interpretato riducendo tutto a un solo personaggio. Mi venne a vedere Valsecchi, che
poi doveva produrre Il capo dei capi, e mi
propose un provino».
In teatro si concretizza intanto, due
anni fa, l’impresa che ha rappresentato
una svolta, il corrispettivo scenico di
quel balzo in avanti di Gioè nel grande e
nel piccolo schermo. «Mi chiamò il regista Ninni Bruschetta, per far parte de L’istruttoria, oratorio civile fondato sui
verbali delle testimonianze al processo
per la morte di Giuseppe Fava, su testo
del figlio Claudio. Mentre provavamo
L’istruttoria commentai con una frasaccia incredula lo sceneggiato su Riina cui
m’aveva accennato Valsecchi, e il caso
volle che Claudio Fava, lì presente (già
co-autore dei Cento passi), mi rispondesse che era coinvolto anche lui nell’impresa sull’ultimo dei Corleonesi.
Capii che i destini si incrociavano sempre di più. Tant’è che ad Alexis Sweet,
co-regista scritturato per Il capo dei capi, piacque il mio Caligola, e l’altro coregista, Monteleone, aveva apprezzato
molto la mia prova a teatro ne L’istruttoria. Insomma una serie di coincidenze,
di cui la prima e la più decisiva è l’essere
siciliano, m’hanno portato dritto dritto
a fare Riina. Temevo il ridicolo, e invece
sono stato preso tanto sul serio da suscitare anche un mucchio di riserve sulla
popolarità toccata a un mostro freddo e
assetato di potere (con l’aggravante della leggenda d’essere piaciuto a Riina
stesso). Ma io non vedo la differenza tra
Riina e il delirio d’onnipotenza di un
Riccardo III, o di un Caligola».
Ora però Gioè se la dovrà vedere con un
mito più vertiginoso, e universale. Da
mente e killer malvagio per la certezza del
primato nella Cupola, passerà ai panni
del più sofferto e tragico dei personaggi
del dubbio. Ancora diretto da Bruschetta, debutterà come Amleto nel gennaio
2009 a Messina. «Per il Principe di Danimarca non ci sarà alcuna trasformazione
fisica. Un’apparente analogia potrebbe
stare nel fatto che lo vediamo come personaggio negativo, ma Amleto è sicuramente un folle, e in alcune scene il gioco
teatrale volge molto in commedia, per
poi fare i conti con intoppi del pensiero,
coi conflitti dell’uomo moderno la cui fe-
de e le cui conoscenze s’infrangono con
una solitudine assoluta, un confine che
porta alla morte». Non ci si aspetti un Amleto di cadenze isolane. «Tutt’al più Bruschetta potrebbe volerne fare un villain».
E ha già un quadro fitto di altri programmi in cantiere, Gioè: potrebbe replicare con Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea la recente intensa lettura-spettacolo Col ferro e col fuoco tratta dall’articolo di Ezio Mauro sul caso Thyssen; vorrebbe lavorare con registi coetanei come
Beniamino Catena; dovrebbe essere vice
questore della mobile nella fiction Squadra antimafia; e avrà a che fare con un
commissario in un film noir di Alessandro Piva tratto dal romanzo Henrydi Giovanni Mastrangelo. Lui parla volentieri
di lavoro, ma è misurato con tutto ciò che
riguarda la sfera personale. Ovvero: cordiale, sì, ma imperturbabile. La famiglia?
«La vedo per le feste comandate». Emozioni? «Mi suggestiona la capacità di reagire di fronte alla presunta mancanza di
speranza». I maestri che hanno influito
su di lei uomo e attore? «Ho avuto a cuore Salvo Randone, Turi Ferro e Leo de Berardinis, ho stravisto per Carmelo, sono
un cultore di Petrolini». Cosa legge? «Saggi d’economia, di fisica, di cibernetica e di
genetica». Il carattere? «Ero intollerante,
ma ora passo dall’indisciplina alla determinazione, e poi alla tenerezza». Senso
dell’umorismo? «Prediligo il gioco fatto
con tutto se stesso piuttosto che lo scherzo di testa». I valori? «Non rinuncerei mai
all’indipendenza». L’origine palermitana? «So che, come ogni siciliano, ho forse
un secondo o terzo grado di parentela
con qualche associato alla mafia». Il
mondo dei sentimenti? «Nella donna
cerco sintonia, e intelligenza fisica. Ho
una fidanzata danzatrice». Scelte ecologiche? «Guido un’auto ibrida». Amori e
odi? «Adoro le scarpe basse, Gadda, Calvino, Caravaggio, Brahms, Mozart, Bernini, l’analogico. Rifiuto i pregiudizi, l’ordine imposto, Kant, l’arte contemporanea, i conflitti tra opposti, Picasso, il digitale, Pollock».
‘‘
RODOLFO DI GIAMMARCO
Repubblica Nazionale