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A P R I L 2 0 1 N. 4 5 € 5 , 0 E 4 0 0 GO GREEN! Sam Baron Mario Bellini Yves Béhar Josh Bitelli Gregg Buchbinder Stephen Burks Mario Cucinella Rosario Dawson and Abrima Erwiah Louis Albert De Broglie Peter Fink Adrian Grenier Sir Nicholas Grimshaw Nendo Andrea Paternoster Snøhetta Josh Tetrick Ken Yeang Sir David Chipperfield 0450_UV_1404_COVER_CHIPPERFIELD [PT].indd 1 03/04/14 17.33 Quasi un ricercatore sul campo più che un designer, Josh Bitelli. Il giovane creativo britannico, apprezzato in patria e all’estero, è un artista a tutto tondo che gioca con la sperimentazione per creare opere d’arte inattese, originali, curiose. Come le panchine, le sedie, i mobili e i vasi modellati usando l’asfalto e la pittura gialla della segnaletica stradale. La particolarità? Quasi tutte le opere sono fatte in-situ, nei cantieri stradali, con la collaborazione degli operai che nel frattempo asfaltano strade e marciapiedi. Un’arte post-industriale che lo ha reso uno dei giovani talenti più interessanti del Regno Unito. Simon Castets e Hans Ulrich Obrist/89plus: Hai dichiarato di essere interessato a creare interposizioni all’interno di sistemi stabili, per discutere come e perché sono fatte le cose e generare così una sorta di “attivismo”. Ti vedi più un attivista per l’ambiente o un artista per l’ambiente? Esiste una differenza? Josh Bitelli: «Di fatto accetto la condizione di attivista, qualunque cosa significhi, ma anche quella di antropologo o scrittore o esperto; una distinzione importante da fare è che sono contento di alternarmi tra i diversi ruoli. Stringo amicizia con le persone nei vari luoghi per mettere insieme un cast o un set di attori per racconti metà reali e metà di finzione, nei quali sono nello stesso tempo il progettista e l’estraneo. Ho realizzato una serie di oggetti in asfalto e vernice per segnaletica nell’ambito di un intervento di lavori stradali. Il momento in cui le strade stesse avevano bisogno di essere riparate ha fornito l’occasione per costruire monumenti alla complessa rete stradale. Mi interessano molto le implicazioni di questo tipo di lavoro, che nasce direttamente dall’infrastruttura e dalla capacità di commerciare, per la fornitura di merci, e parla al romanticismo del potere liberatorio delle strade. Queste persone sono una forza apparentemente invisibile, eppure non hanno attorno a sé i muri di una fabbrica a protezione del loro lavoro. (segue a pag. 141) (Total look Louis Vuitton. Scarpe Dior Homme. Fashion assistants Amanda Arber, Lezley Anne Nabiryo e Jennifer Earnest. Groomer Larry King@Streeters. Fashion editor Rose Forde) 0450_UV_1404_BITELLI [PT].indd 118-119 MATERIALI inusuali per creare un’arte postindustriale. Questa la peculiarità del giovane inglese che fa parte del progetto “89 plus” delle Serpentine Galleries di Londra Modern language Josh Bitelli by PHILIPP MUELLER text by SIMON CASTETS AND HANS ULRICH OBRIST www.vogue.it/uomo-vogue/people-stars 04/04/14 16:55 Indirizzi/Segue STYLE/EARTHFUL TONES ANTONIO MARRAS + PIQUADRO www.piquadro.com DIADORA HERITAGE BY THE EDITOR heritage.diadora.com www.theeditor.it GANT www.gant.com GUCCI www.gucci.com HOGAN www.hogan.com NEROGIARDINI www.nerogiardini.it PZERO www.pirellipzero.com TOM FORD EYEWEAR www.marcolin.com VALENTINO GARAVANI www.valentino.com FACTORY OF MAKERS by Elisabetta Claudio ALESSANDRO DELL’ACQUA MENSWEAR www.alessandrodellacqua.com DIKTAT www.diktat-italia.com ERMENEGILDO ZEGNA COUTURE www.zegna.com GUESS BY MARCIANO www.guessbymarciano.it HERMÈS www.hermes.com HERNO www.herno.it IURI www.iurionline.com MANUEL RITZ www.manuelritz.com PEUTEREY www.peuterey.it PHILIPP PLEIN www.philipp-plein.com PORSCHE DESIGN www.porsche-design.com SISLEY www.sisley.com SUN68 www.sun68.com VERSACE www.versace.com NENDO CONNECTING THE DOTS by Guido Harari COS www.cosstores.com GREGG BUCHBINDER THE ICONIC AND SUSTAINABLE CHAIRS by Rainer Hosch DIESEL www.diesel.com DOLCE & GABBANA www.dolcegabbana.com EMECO www.emeco.net GIORGIO ARMANI www.armani.com RAY-BAN www.ray-ban.com CONVERSE CHUCK TAYLOR ALL STAR www.converse.com VALENTINO www.valentino.com LOUIS ALBERT DE BROGLIE LE PRINCE JARDINIER by Nathalie Tufenkjian AZZARO www.azzaroparis.com CERRUTI 1881 PARIS www.cerruti.com LE PRINCE JARDINIER www.princejardinier.fr PETER FINK THE VISIONARY by Philipp Mueller BOSS www.hugoboss.com CUTLER AND GROSS www.cutlerandgross.com DOLCE & GABBANA EYEWEAR www.luxottica.com ERMENEGILDO ZEGNA COUTURE www.zegna.com FALKE www.falke.com GRACE AND THORN FLOWERS www.graceandthorn.com GRENSON www.grenson.co.uk MARWOOD www.marwoodlondon.co.uk MR. HARE www.mrhare.com PORTS 1961 www.ports1961.com Z ZEGNA www.zegna.com THE NEW EGG BY JOSH TETRICK by Alison Dyer PHILIPP PLEIN www.philipp-plein.com STEPHEN BURKS by Peter Ash Lee ARPENTEUR www.arpenteur.tv COMMON PROJECTS www.commonprojects.com DRIES VAN NOTEN www.driesvannoten.be EMPORIO ARMANI www.armani.com HENRIK VIBSKOV www.henrikvibskov.com MISSONI www.missoni.com MR.KIM BY EUGENIA KIM www.eugeniakim.com ROBERTO CAVALLI www.robertocavalli.com SAINT LAURENT PARIS www.safilo.com SUPERGA www.superga.com THE GREAT FROG www.thegreatfroglondon.com ADRIAN GRENIER by David Needleman ROSARIO DAWSON AND ABRIMA ERWIAH EMPOWER THROUGH COMMERCE by Simon Cave BALENCIAGA www.balenciaga.com BOTTEGA VENETA www.bottegaveneta.com CERRUTI 1881 PARIS www.cerruti.com CALZEDONIA www.calzedonia.it DOLCE & GABBANA www.dolcegabbana.com ERMENEGILDO ZEGNA COUTURE www.zegna.com 140 0450_UV_1404_INDIRIZZI [PT].indd 140-141 FAIRCHILD BALDWIN www.fairchildbaldwin.com FASHION RISING www.fashionrisingcollection.com GIUSEPPE ZANOTTI DESIGN www.giuseppezanottidesign.com RALPH LAUREN www.ralphlauren.com SAINT LAURENT BY HEDI SLIMANE www.ysl.com TALLIA ORANGE www.talliaorange.com JOSH BITELLI MODERN LANGUAGE by Philipp Mueller DIOR HOMME www.dior.com LOUIS VUITTON www.louisvuitton.com SNØHETTA PEAK PERFORMANCE by Philippe Vogelenzang BOTTEGA VENETA www.bottegaveneta.com CHURCH’S www.church-footwear.com CORTIGIANI www.cortigiani.it GIORGIO ARMANI www.armani.com SALVATORE FERRAGAMO www.ferragamo.com TINO COSMA www.tinocosma.it XACUS www.xacus.com MARIO BELLINI by Stefano Galuzzi PRADA www.prada.com YVES BÉHAR PRODUCTS WATER HEALTH by Shayne Laverdière CALVIN KLEIN COLLECTION www.calvinklein.com JAWBONE www.jawbone.com PRADA www.prada.com SAM BARON SHAPE OF IDEAS by Lorenzo Bringheli CHURCH’S www.church-footwear.com DIOR HOMME www.dior.com ERMENEGILDO ZEGNA COUTURE www.zegna.com GUCCI www.gucci.com RAY-BAN www.ray-ban.com SISLEY www.sisley.com ANDREA PATERNOSTER AND THE BEES by Marco Pietracupa AGLINI www.aglini.com HOGAN REBEL www.hoganrebel.com MASSIMO REBECCHI www.massimorebecchi.it PAUL SMITH www.paulsmith.co.uk CONNECTING THE DOTS NENDO di Angela Rui (segue da pag. 80) nel processo creativo che viene messo in atto, più che nella condizione formale degli oggetti. E in quanto alla loro produzione, Oki ci rende una chiave di lettura che dovrebbe far riflettere i nostri distretti produttivi (che sebbene rappresentino ancora l’eccellenza lamentano mancanza di ossigeno in un mondo globalizzato) secondo cui «la gente vive in un mondo più veloce e ha bisogno di più idee, cerca sempre qualcosa di nuovo, non ogni anno ma ogni giorno. Non dico che dovremmo disegnare una sedia al giorno, dico che vanno trovate nuove strade e nuovi modi di fare design». E probabilmente è questa la ragione per cui Nendo, nato e noto come product designer, oggi collabora con diversi fashion brands, come Cos, Tods, Camper e molti altri. «I ritmi sono davvero serratissimi, loro lavorano su collezioni intere che sono presentate due volte all’anno, sia per l’uomo sia per la donna. Reagiscono molto velocemente». Sebbene anche quest’anno la presenza di Nendo durante il Salone del Mobile sarà importante, la novità più attesa è lo spazio che ha curato per il brand svedese Cos (di proprietà del gruppo H&M) allo Spazio Erbe nel cuore di Brera, un felice sodalizio. Inizialmente concentrato più sull’allestimento dello spazio, il progetto si è evoluto grazie al dialogo che è nato tra le parti, e ha trovato nella camicia bianca, pezzo icona di Cos, il materiale costruttivo ideale per dare vita a una grande installazione che si trova al piano terra dello spazio. E che si fa testimone di quel metodo Nendo (semplicità = immediatezza) grazie al quale arredo, spazio e moda si nutrono vicendevolmente. «Quasi tutti i prodotti che saranno esposti non toccheranno lo spazio; allestiremo probabilmente un paio di pareti, ma non ci sarà quasi alcuna costruzione all’interno». Forse per la sua capacità trasformista e interpretativa, forse per la sua immagine piuttosto effimera in termini di comunicazione o, forse, per la capacità di portare l’estetica a sublimare i nostri sogni quotidiani, Oki Sato trae dalla moda la capacità di raccontare le persone e di conseguenza il mondo degli oggetti che ruota loro attorno, per via immediata e sofisticata. «Arriva dalla strada, è vicina al suolo, e questo è uno stimolo potente per noi progettisti». In quanto a “nuovi campi da esplorare”, racconta divertito di essere al lavoro su un programma radiofonico per JWave, emittente radio di Tokyo, dove da aprile ogni domenica, verso sera e per un’ora, si discute di progetto. Non bastano più gli oggetti per fare design. Essere buoni designer significa produrre anche senza utilizzo di materia: «Abbiamo disegnato il format e il logo del programma, selezionato la musica da trasmettere e stilato la scaletta degli ospiti; è un nuovo modo per esplorare fino a dove la progettazione può arrivare, raccontare quanto possa essere divertente, e quanto sia linkata alle nostre vite». THE ICONIC AND SUSTAINABLE CHAIRS GREGG BUCHBINDER di Francesco Spampinato (segue da pag. 84) maestri. Sottsass aveva 90 anni quando ha realizzato la Nine-0. Konstantin Grcic è un perfezionista, ma è stato un bene avere una scadenza», sorride. «Con Gehry, invece, abbiamo fatto tanti cambiamenti prima di arrivare al risultato finale». Nel 2012 Starck progetta un’altra sedia per Emeco, la Broom, composta al 90% di rifiuti industriali. La definisce “una dichiarazione politica”, e aggiunge: «L’ecologia non è un problema, è un dovere. La sedia diventa un movimento che porta alla conversazione». Buchbinder concorda: «Nel 2010 Emeco ha realizzato con Coca-Cola una Navy Chair composta da 111 bottiglie di plastica riciclate. Con la Broom, in fibra di legno post-industriale e rifiuti di polipropilene, abbiamo nuovamente spinto l’industria alla conversazione sulla responsabilità ambientale». Nonostante la versatilità dell’alluminio, il futuro di Emeco resterà legato alla produzione di sedie. «Penso che ci sia qualcosa di molto speciale in una sedia», riflette il produttore. «È uno spazio personale, un luogo di riposo». Di certo la sua produzio- ne resterà all’insegna del riciclo. «Il rapporto tra sostenibilità e design è nel nostro Dna. Cercheremo di ridurre al massimo i rifiuti e integrare quanto più possibile materiale riciclato e rigenerato». THE VISIONARY PETER FINK di Stefania Cubello (segue da pag. 101) pionieristici come il Car Free London e lo Irwell River Park per la riqualificazione del waterfront di Manchester. Ma l’opera per cui è noto in tutto il mondo è il Northala Fields Park, il più grande parco contemporaneo di Londra, un’icona, con le quattro colline a forma conica diventate un cult per tutti i paesaggisti. «Quello che manca è l’empatia. Fra le persone in generale, preoccupati come siamo ad affermare noi stessi a discapito degli altri. Manca coesione sociale. Lo stesso avviene con gli architetti. Molti costruiscono con poca responsabilità nei confronti della comunità, senza pensare veramente alle esigenze dei cittadini, degli utenti finali. Sulla base di questa considerazione ho elaborato la mia idea di progettazione multidisciplinare e partecipata. Un esempio è il metodo di lavoro impiegato per il Northala Fields Park, per cui avevo incoraggiato le persone a partecipare in prima persona al progetto, chiedendo loro di proporre la propria raffigurazione del paesaggio, le proprie esigenze; per esempio c’era chi desiderava avere un posto dove pescare, chi dove andare in bicicletta. Il progetto si è definito progressivamente. Noto invece che molto spesso gli architetti faticano a cambiare l’idea iniziale del loro progetto, piuttosto sprecano molto tempo per cercare di giustificarla. Noi abbiamo bisogno di formare relazioni con le persone», afferma. Fra gli architetti paesaggisti di riferimento, Fink ne cita uno soltanto, Frederick Law Olmsted. «Quando progettò Central Park, New York non era la metropoli che è oggi. Però si sforzò di immaginare come sarebbe stata nel giro di un secolo, si chiese di cosa avrebbe avuto bisogno la gente. Oggi sarebbe impossibile pensare Manhattan senza Central Park, così come sarebbe impossibile realizzare lo stesso progetto su uno dei terreni dal valore immobiliare più alto del pianeta». Fra i prossimi lavori, uno in particolare gli sta molto a cuore: il progetto su larga scala di un parco giochi che sta sviluppando per una scuola speciale, che accoglie bambini con particolari necessità. «Sto creando un paesaggio che li faccia sentire liberi e allo stesso tempo protetti, al sicuro, dove possano esplorare la loro fisicità, giocare insieme». MARIO CUCINELLA di Sasha Carnevali (segue da pag. 111) concreti, con lo scopo di fare da tramite tecnico tra pubblico e privato. In questo lo studio Mario Cucinella Architects si è ampiamente allenato per anni in Italia con la costruzione di diversi edifici e la riqualificazione di vaste aree urbane e periferiche: che si tratti di Accra, in Ghana, o di Guastalla in provincia di Reggio Emilia, sempre partendo dallo studio del tragitto del sole e della direzione dei venti. JOSH BITELLI di Simon Castets Hans Ulrich Obrist (segue da pag. 118) Mi sono avvicinato pericolosamente al diventare uno dei miei personaggi quando gli operai stradali mi hanno offerto un lavoro; in un’altra occasione sono stato invitato a soggiornare al Faslane Peace Camp, ma ho cortesemente rifiutato entrambi gli inviti. La capacità di mantenere la distanza è fondamentale: se il mio coinvolgimento diventasse eccessivo tradirei il mio diritto alla contraddizione». SCHUO/89plus: Come vedi il rapporto tra la pratica artistica e la sostenibilità? Di quale entità è il ruolo giocato dalla sostenibilità nel tuo lavoro? J.B.: «Un’economia sostenibile non è quella che taglia gli investimenti nella ricerca e sviluppo, né quella che incoraggia un’incessante competitività, concedendo potere alle istituzioni finanziarie attraverso la deregulation, la direzione in cui sembra andare la politica di David Cameron. È interessante notare come la sostenibilità sia una serie di formule fortemente sponsorizzate che nei casi più brutali sono collegate all’industria e alle infrastrutture e fondamentalmente ci vengono rivendute come legittimazione per le nostre stesse attività. In questo caso la sostenibilità diventa un utopistico foglio di calcolo che rappresentiamo sui pannelli isolanti. La sostenibilità è una protagonista interessante nella formulazione dei marchi e nell’imposizione di principi morali, perciò ha parecchio a che fare con il mio lavoro». SCHUO/89plus: È possibile una “creatività sostenibile”? In che modo? J.B.: «Spero che il mio lavoro possa essere sostenibile; mi sto proprio concentrando per cercare di capire come potrei raggiungere questo risultato. Sono in procinto di trasferirmi in uno studio molto più grande; è un rischio che mi assumo con gioia, oltretutto necessario per il progetto che spero di poter attuare l’anno prossimo. Devo ancora lavorare un po’ per guadagnare di più, ma mi auguro che presto non sarà più necessario». SCHUO/89plus: Il tuo lavoro ha a che fare con la produzione quotidiana, trascurata, e spesso ti ritrovi a creare opere in scenari industriali, come cave, cantieri edili, ferrovie. Cosa ti porta su questi scenari industriali? Cosa li rende una fonte di ispirazione così importante per il tuo lavoro? J.B.: «Sono scenari che mi attraggono per una serie di motivi. Descrivono il modo in cui le vite delle persone vengono plasmate dall’imposizione di un’infrastruttura e come la cultura dei luoghi si forma, si fa instabile e viene distrutta. I luoghi di lavoro collegano le infrastrutture alle risorse e quindi ai materiali – un rapporto non sempre facile. Poi ci troviamo davanti le infrastrutture di supporto, quelle che esistono per essere al servizio degli altri. Le linee ferroviarie ne sono un buon esempio; c’è un romanticismo cinematografico attorno alla rappresentazione delle ferrovie e al potere del viaggio, ma c’è anche da considerare come esse si riflettano e manipolino la cultura. Ho letto parecchio sullo sviluppo delle infrastrutture per la mobilità e il relativo effetto sulla società e la cultura. Un tempo, per esempio, ogni paese o città aveva il proprio fuso orario, cosa problematica per chi prendeva treni a lunga percorrenza che attraversavano un intero paese, perciò è stato introdotto il Gmt fino a una nuova versione del tempo. Il mio interesse per la corologia e la tensione tra l’infrastruttura imposta e l’architettura sembra manifestarsi nelle linee ferroviarie e in altre zone di confine o di mezzo; luoghi che sono costantemente in stato di flusso o non sono necessariamente considerati luoghi in se stessi». SCHUO/89plus: Lavori spesso con materiali e utensili associati alla produzione di massa – pietra, asfalto, acciaio inossidabile –, eppure ogni tua opera è unica, e ogni oggetto ha una storia da raccontare. Puoi parlarci del tuo uso dei materiali? J.B.: «La materialità diventa uno strumento per intrecciare i luoghi con gli avvenimenti e le persone con l’attività. Nel senso più onesto della cosa, il linguaggio dei materiali descrive la provenienza degli oggetti e sovrintende al modo in cui le cose devono essere fatte e alla loro apparenza. Quando manipoliamo queste regole, l’artificio e la finzione diventano elementi importanti nella poetica di questi racconti». SCHUO/89plus: Per la “89plus Marathon” alle Serpentine Galleries, l’anno scorso, hai esposto uno straordinario tavolo in asfalto, il primo oggetto tra i tuoi lavori che non avevi realizzato personalmente e che avrebbe dovuto essere parte di un’edizione di cinquanta esemplari. Di solito il processo di realizzazione ti coinvolge moltissimo. Perché questo progetto era diverso? E in che modo affidare la produzione all’esterno ha influito sul tuo rapporto con l’opera? Come ha detto Martino Gamper, tu sei uno che fa e che pensa. In quale rapporto sono, per te, il processo del fare e quello del pensare? J.B.: «Più o meno cinquanta e cinquanta, il numero deve ancora essere stabilito. Quell’oggetto mi piace molto perché è diventato un’azione che si ripete; ho chiesto a un costruttore di tetti di impiegare una considerevole parte del suo anno nella realizzazione di mobili in asfalto. Ho una bellissima fotografia di due enormi armadi e due tavoli nel retro del suo furgone prima della loro consegna dall’altra parte di Londra. Voglio davvero vedere come i sistemi di 141 04/04/14 15.47 Segue/English produzione possano essere ridefiniti, e questo progetto è molto importante nel contesto della sostenibilità perché va testando questo tipo di rovesciamento rispetto agli aspetti economici: sopravvivrà o fallirà. Non ho tempo di mettermi a lavorare nella mia stessa produzione, ma mi piace potermi permettere di offrire a un costruttore di tetti un po’ di lavoro in un momento di magra, oltre a una variazione sul tipo di lavoro che ha svolto per sessant’anni; e credo che gli oggetti gli piacciano, non me lo aspettavo! È stato un processo molto lento, gli oggetti non sono ancora in vendita ma sono molto emozionato per essere stato capace di abbandonare il controllo e lasciare che il sistema girasse autonomamente. Ma ho realizzato i prototipi, ne ho fatti molti. Il processo decisionale che interviene mentre si fa è molto importante; non riesco a vedermi capace di uscire completamente di scena, e questo non solo perché sviluppo processi piuttosto sperimentali». SCHUO/89plus: L’anno scorso sei stato “in residenza” a Cove Park, una zona rurale sulla costa occidentale della Scozia di straordinaria bellezza, eppure posta tra Coulport, luogo di stoccaggio per le testate nucleari della nazione, e Helensburgh, una cittadina la cui spiaggia nel 2002 è stata dichiarata la più inquinata della Scozia. Puoi dirci di questa esperienza e di come l’indagine su queste questioni ambientali abbia plasmato la tua opera? J.B.: «Il Clyde è un luogo davvero carico di passato; ha fama di essere la baia più isolata della Gran Bretagna e si sentono storie sorprendenti di ingegneri che dopo la guerra vi sono stati tenuti in isolamento mentre sviluppavano tecnologie per l’estrazione di petrolio da pozzi segreti. Sul Clyde è stato girato qualche film di propaganda per rendere più romantica l’industria dei cantieri navali in piena espansione e la condizione dei singoli lavoratori. “Sweet sixteen” di Ken Loach è stato girato nei dintorni e mostra gli effetti dirompenti di una politica aggressiva sulle generazioni successive della classe operaia. Adesso l’unica attività cantieristica navale in questa zona è quella militare della Bae Systems e la manutenzione della flotta nucleare della Gran Bretagna, sottomarini di cui si riferisce continuamente, come per l’Hms Tireless, la fuoriuscita di radiazioni. La base militare è circondata da ostriche, che filtrano le radiazioni e altri inquinanti e sono utilizzate come cartina di tornasole per le impurità. Le ostriche sono una forma purissima di carbonato di calcio; da queste ostriche avvelenate ho ricavato un blocco di cemento e ne ho fatto una serie di vasi». SCHUO/89plus: Che tipo di vincoli ambientali deve affrontare il tuo lavoro? Cosa faresti se i vincoli non esistessero? J.B.: «Confini, prodotti farmaceutici, miniere...». SCHUO/89plus: Ci racconti dei tuoi progetti in corso? J.B.: «Sto per cominciare a realizzare una serie di segnali stradali stampati e poi incisi con l’acido solforico contenuto nelle batterie delle automobili. L’acido che crea la differenza di potenziale nella batteria sarà filtrato su pannelli in alluminio e l’energia del potenziale sarà impiegata per erodere e rimuovere le immagini stampate sulla superficie del metallo. Potrebbero essere esposti come oggetti provvisti di una qualità architettonica, e credo che la batteria danneggiata potrebbe rimanere a far parte del lavoro». SCHUO/89plus: Chi sono i tuoi eroi, i tuoi mentori, i tuoi guru? J.B.: «Roberto Bolaño, Tschumi, Chomsky. Lucia Pietroiusti mi ha prestato “C” di Tom McCarthy, sono a circa metà del libro e credo che anche McCarthy potrebbe essere un buon candidato per entrare nella lista». SCHUO/89plus: Puoi dirci di più sui progetti che ancora non hai potuto realizzare? Utopie? Sogni? Progetti censurati? O, nelle parole di Doris Lessing, progetti autocensurati che non osi intraprendere? Progetti troppo costosi da realizzare? Troppo grandi o troppo piccoli? Progetti dimenticati? J.B.: «Una volta, mentre guidavo attraverso gli sterminati paesaggi a nord di Marrakech, la strada mi portò vicino a una città ricoperta da una spessa coltre di polvere e nebbia. Nel suolo era stato scavato un tunnel ferroviario e il materiale di scarto era stato inviato in superficie su un nastro trasportatore, for- mando una montagna che continuava a crescere e stava diventando di gran lunga la cosa più grossa della città. Ai piedi del nastro, le pareti di una costruzione in lamiera ondulata erano scoppiate e la polvere che ne era filtrata all’esterno pareva adesso farle da sostegno. Nell’allontanarsi dalla città diventava difficile capire dove fosse la cima della montagna, poiché l’intera città era immersa in una spessa nebbia verticale. La sua geologia aerea si coagulava in nodi che conducevano verso la città e via da essa. Da allora ho immaginato come sarebbe stato avere una scena del genere al centro di Londra, diciamo a Trafalgar Square, inghiottita completamente da una montagna floscia, fatta di polvere di pietra di Portland». SCHUO/89plus: Qual è la tua opera più piccola? J.B.: «Ho fatto un remake del saluto alle navi di Baldessari, l’unica differenza è che io saluto e auguro buona fortuna ai camion in procinto di partire dal complesso industriale di Park Royal. È piuttosto piccolo, ne è stata scattata un’immagine che però non ho ancora». SCHUO/89plus: Lavori con altri artisti qualche volta? J.B.: «Felix Melia e io abbiamo appena finito la prima versione di un’opera che attualmente si intitola “Place of dead roads”. Si tratta di un film e di una serie di sculture che abbiamo realizzato ed esposto a Marrakech agli inizi di quest’anno. Il risultato principale è il processo da cui il lavoro si è evoluto; le manifestazioni fisiche in sé possono essere rifatte o ripetute poiché il progetto è cresciuto innanzitutto a partire dall’amicizia e poi da molti anni di conversazioni. È stato un periodo di lavoro molto intenso, ci alzavamo quasi sempre ben prima dell’alba e guidavamo un macchina in affitto nel caos della Medina con grandi sculture di metallo legate al tetto, guidando dall’officina di carpenteria dove erano state realizzate fino al vasto entroterra dove abbiamo girato il film. Le sculture o gli oggetti di scena sono barriere in acciaio o archi realizzati con il medesimo linguaggio del tipo di costruzioni che alimenta la città. Uno di essi è diventato uno schermo su cui abbiamo proiettato il film in un cinema dismesso usando un generatore a petrolio come alimentatore e come colonna sonora. Abbiamo girato il film in un paesaggio apparentemente arido popolato di scheletri architettonici, tabelloni vuoti o scoloriti, muri di mattoni di fango erosi, la promessa non mantenuta di un percorso di F1 e le montagne dell’Atlante. Due uomini percorrevano strade e piste sterrate su una moto reggendo una bandiera fatta con un telone trasparente. Il telone, esso stesso uno schermo, deformava e distorceva questo paesaggio mentre tratteggiava la colonna d’aria attraverso la quale si muoveva. Trovammo un modo di usare il valore rappresentativo di quel luogo per un’esplorazione dei racconti romantici che stavano attorno al movimento e alla mobilità sociale. Speriamo di poter rifare il lavoro facendo diventare le sculture schermi architettonici che ospitino una versione multicanale del film mentre assorbono e irraggiano luce allo stesso tempo». SCHUO/89plus: Fai parte di un gruppo di artisti, di un movimento? J.B.: «Ho dei buoni amici e ci aiutiamo; dare sostegno alle strutture è fondamentale, spesso i progetti non sono realizzabili senza una rete di competenze, di braccia di riserva e di saggezza. Non ho mai trovato motivo per etichettare le pratiche di lavoro di un linguaggio come questo». SCHUO/89plus: Fai dei sogni? J.B.: «I sogni sono particolarmente importanti, a patto che ci assicuriamo di non leggere troppo Jung. Andare fuori di testa è facilissimo. L’analisi dei sogni è una cosa delicata e tutti siamo esposti all’imposizione del simbolismo altrui su noi stessi. Va reso merito a Jung quando afferma che ogni persona è molto diversa e merita ricerche personalizzate prima di intraprendere l’analisi, eppure è ancora difficile dissociare le sue idee e la sua analisi dai nostri stessi sogni. Io tendo a fare sogni ricorrenti per circa un mese, potrei elencartene alcuni, e un lettore potrebbe riversare le immagini in un sito web, e il sito web inventerebbe una nuova persona a partire da quei dati». SCHUO/89plus: Ci racconti di una mostra che ti ha ispirato? 142 0450_UV_1404_INDIRIZZI [PT].indd 142-143 J.B.: «Qualche anno fa ho visto una mostra degli Artangel in cui Catherine Yass ha convinto un equilibrista a camminare su una corda tesa tra due enormi palazzi di Glasgow. Fece dietrofront a metà strada. La mostra si teneva in un edificio che ha l’aspetto di un faro proprio di fronte al Kings Cross International, un sito di importanti lavori di sviluppo urbano. Mentre me ne andavo, entrai in una sala riunioni vuota che non faceva parte dello spazio della mostra, con i muri rivestiti di poster raffiguranti rendering architettonici, informazioni e previsioni sul futuro della zona di Kings Cross – edifici a molti piani, una piazza con una fontana, il tutto ben prima che fossero cominciati i lavori di riqualificazione della zona. Un confronto straordinario di due generazioni di edilizia popolare, il tentativo compiuto da qualcuno di governare questi spazi e i grotteschi strumenti di marketing che vendono potenziale». SCHUO/89plus: Politica e arte sono mescolate? J.B.: «Sono inscindibili». PEAK PERFORMANCE SNØHETTA di Michele Fossi (segue da pag. 122) “sostenibili” edifici che non sono affatto CO2-neutrali, perché ci si dimentica a bella posta di includere nel computo delle emissioni l’energia consumata per produrre i materiali di costruzione, la cosiddetta “embodied energy”: per risolvere questa contraddizione, e aprire la strada a una nuova generazione di edifici davvero a impatto zero, Snøhetta sta lavorando a un progetto sull’isola di Brattørkaia, a Trondheim, in Norvegia, che prevede la costruzione di edifici sostenibili “di nuova generazione” a sezione triangolare – un’estetica insolita, determinata da considerazioni bioclimatiche – in grado non solo di produrre più energia di quanta ne consumino, ma anche di risultare CO2-neutrali dopo sessant’anni dalla loro costruzione. Sarebbe sbagliato però, come sottolinea Thorsen, restringere la “sostenibilità” alla sola sfera ecologica. «Esiste anche una sostenibilità di natura sociale, psicologica. Troppo spesso gli architetti dimenticano che i loro edifici avranno un forte impatto sulla salute mentale e fisica di chi li abiterà, e che questo a sua volta si ripercuoterà sulla percezione che la società ha del proprio ambiente. Con inevitabili ricadute sulla causa ecologica». Condizione necessaria perché l’architettura aiuti per davvero gli individui a ristabilire l’equilibrio perduto con se stessi e con la natura è che essa abbandoni l’approccio cattedratico e “top-down” caro a molte archi-star, che prevede nella norma fruitori passivi. «Per noi è fondamentale che chi entra in un nostro edificio sia messo nella condizione di effettuare delle “scoperte” sullo spazio che sta visitando in maniera autonoma», spiega Dykers. «Per la nuova ala del San Francisco Museum of Modern Art, la cui costruzione verrà ultimata nel 2016, abbiamo predisposto per esempio una serie di squarci di visuale sulla città con prospettive insolite, che inducono il visitatore a maturare un nuovo rapporto con un paesaggio urbano che magari dava per scontato. Una scala monumentale oscurerà inoltre gli ascensori, così da invitare i visitatori del museo a fare del moto e ribadire il nesso tra equilibrio psichico e fisico. L’architettura può contribuire al raggiungimento di entrambi». «Analogamente, nella Biblioteca di Alessandria», conclude Thorsen, «opportune aperture sull’esterno fanno sì che la vista del mare non abbandoni mai chi risale i piani dell’edificio. I meno distratti vengono così messi nella condizione di fare, da soli, una constatazione tutt’altro che banale, e se vogliamo poetica: che la linea dell’orizzonte segue il nostro movimento, ponendosi immancabilmente all’altezza dei nostri occhi». SIR NICHOLAS GRIMSHAW di Florinda Fiamma (segue da pag. 131) preferito è il British Pavilion al World Expo di Siviglia del 1992, creato per adattarsi a un clima molto caldo, attraverso tendoni in grado di temperare l’ambiente con poco dispendio di energie». Un centinaio i progetti firmati Grimshaw: Wimbledon Master Plan, Southern Cross Station di Melbourne, Cutty Sark a Londra, Queens Museum di New York, il recentissimo aeroporto di Pulkovo: «Volevamo una struttura che riflettesse il carattere di San Pietroburgo. E abbiamo subito capito che i suoi abitanti detestano la neve! Abbiamo costruito un terrazzo invertito che contenesse la neve e riflettesse la poca luce solare attraverso delle lame dorate inserite nel lato inferiore dei lucernai». Luce dove il sole è debolissimo, refrigerio nei climi torridi, è l’idea di non sprecare denaro ed energia in materiali. «Un nostro sforzo costante è quello di costruire in modo sostenibile: le strutture di legno sono totalmente rinnovabili, per esempio. La pelle di un edificio dovrebbe essere in grado di reagire al contesto in cui si trova, in termini di luce e ombra, di riparo, tenendo conto delle condizioni estreme del tempo. Quando la gente vede una struttura deve vedere qualcosa di vivo, qualcosa che ha un significato». Prossimi progetti? Un nucleo residenziale a New York, Via Verde, sostenibile ed economico, «dove usiamo materiali riciclati, un’isola verde nella città», un museo d’arte contemporanea a Istanbul e il Fulton Street Transit Center, un’area di Ground Zero che verrà completata quest’estate e ha «un immenso occhio di vetro che filtra la luce naturale fino alle fondamenta dell’edificio». ANDREA PATERNOSTER AND THE BEES di Laura Lazzaroni (segue da pag. 137) possibile e ho quasi avuto uno shock anafilattico: da allora non sento niente». Dall’alto l’alveare sembra una massa brulicante di corpi che si muovono come uno solo. Un super-organismo, appunto, “operoso”. Improvvisamente dal tappo di cera di una delle celle esagonali fa capolino una zampetta: in pochi secondi nasce un’ape, il manto scuro, le ali quasi sproporzionate rispetto al corpo ancora piccolo. «Le api non sono aggressive per natura: a differenza delle vespe sono “vegetariane” e si limitano a difendere il territorio. Sono gli unici animali che mentre si nutrono non brucano, non strappano: prendono qualcosa che è dato loro e nel far ciò fecondano, e dunque danno la vita, in maniera pacifica». Le api danno vita, ma fino a che punto lo facciano è ignorato dai più. Impollinando rendono possibile il 76% della produzione alimentare europea. Eppure dal 2007 la loro popolazione mondiale ha subito un declino, con alcuni paesi colpiti più duramente di altri (tra cui l’Italia, che è tra i principali produttori di miele), tanto da portare il parlamento di Bruxelles ad approvare nel 2010 una risoluzione che ne riconosce i diritti e aumenta lo stanziamento di fondi dedicati alla ricerca sulle possibili cause della loro moria. «Le api sono sentinelle dello stato di salute ambientale del pianeta. Se stanno male è, tra gli altri motivi, per l’uso indiscriminato di sostanze chimiche, per la pressione dell’urbanizzazione e le mutazioni del clima, per la diffusione della monocoltura intensiva: in Argentina, con l’allargamento a macchia d’olio delle coltivazioni di soia, la produzione di miele è crollata da 80 milioni di tonnellate a poco più di 50. È giunto il momento», conclude Paternoster, «che noi uomini realizziamo qual è la nostra responsabilità». DAVID CHIPPERFIELD KING OF GREAT PROJECTS by Stefania Cubello With his youthful features and a resemblance to another architect – of sound, however – named Brian Eno, what is most striking about David Chipperfield when you first meet him are those bright blue eyes with their intense gaze and childlike curiosity on the face of a 60-year-old man. They teach us that life is a glass that should always be seen as half full. That positive outlook is also reflected in his youthful style and casual demeanor when he welcomes me in his London studio on the 12th floor of a building from the 1960s that faces Waterloo Station next to the London Eye and the futuristic architecture that over the past two decades has transformed Bankside and the skyline along the Thames River into an amusement park for the super rich. And most of all, it is reflected in his work. At an age when most people start to slow down, this British architect – the director of the last International Architecture Exhibition of the Venice Biennial – is busier than ever. His offices in London, Berlin, Milan and Shanghai employ over 260 people. On the list of current projects around the world, he mentions the reorganization of the Royal Academy of Arts in London; the remodeling of the Neue Nationalgalerie in Berlin, which was the last great project in 1968 by Ludwig Mies van der Rohe, a luminary of modern architecture, and of the James Simon Gallery that will complete the Museum Island; and expansion of the Kunsthaus in Zurich, which was built in the early 20th century by Swiss architect Karl Moser, and of the Fine Arts Museum of Rheims. Unlike many famous stars, the architectural projects of David Chipperfield, who was knighted by the Queen in 2010, are strikingly beautiful and brilliant yet never have that shock factor. They are “an internal experience”: not only with the space, but with the location and its history. His vision captures the purpose of architecture: its social function. «An architect can even be brilliant, but designing a project must be done collectively. You have to focus on the needs of the community and requirements tied to the territory and its history. Unfortunately, planning has become less important today. Generally speaking, I’d say that our cities are not designed well and the quality of the architecture isn’t as good as it was forty years ago. Take Italy in the fifties and sixties, for instance: the overall architecture, with buildings by Gardella or Gio Ponti, was fantastic. It was an incredible moment. Italy was an example for architecture, not only for design and fashion. Today, everything has been lost. But I believe that this is a universal problem not of architects, but of politicians and society. Today’s architects are asked to design museums, train stations, homes or buildings, but in most cases the client does not want something architectural, but commercial. Moreover, with the financial crisis, I hope that in the future they will pay more attention to building more significant buildings for the benefit of society, and not only for profit. And the environmental factor must always play a greater role in the design. In general, we’re certainly making better use of energy and insulating materials. There is much more awareness: everyone asks architects for sustainable construction. Better use of energy is common knowledge and feasible, but that isn’t the problem. Are we truly building in a sustainable way? Are we using city buildings in a sustainable way? Do we need to construct new buildings or is it better to renovate existing ones? Is it right to build in certain areas? Do we make collective decisions? Do we build in places with a good transport system, or do we construct good transportation? I don’t think we’re making progress in this direction. We must deal with a society that is full of contradictions. We realize that for the good of our planet we must consume less. On the other hand, however, our consumerist economy encourages us to consume more». A master of solid elegance, David Chipperfield’s sophisticated, understated style – which reflects the principle of Le Corbusier in which “architecture is the masterly, correct and magnificent play of masses brought together in light” – can be seen in his latest projects: the Jumex Museum, inaugurated last November in Mexico City; the new wing of SLAM, the museum of contemporary art in St. Louis, Missouri; and the Museum of Cultures in the former Ansaldo factory located in the design area of Milan, which is finally about to make its debut. «Rather than minimalism, I’m more interested in purity of form and simplifying complex problems». Born on a farm in the Devon countryside, Chipperfield wanted to become a veterinarian when he was young («I soon discovered that medicine wasn’t for me»), but his talent for creativity and design led him, thanks to the advice of an art teacher, to attend and graduate from the Architectural Association School of Architecture in London. He worked with Norman Foster and Richard Rogers before he established (in 1984) the David Chipperfield Architects studio, which also has an office in Italy today. His most significant projects are the River & Rowing Museum in Henley, the Anchorage Museum of History and Art in Alaska, the Museum of Modern Literature in Marbach, Germany, the Cittadella del- la Giustizia in Barcelona, The Hepworth Wakefield gallery in Yorkshire, and the iconic Neues Museum in Berlin. But his eclecticism is also expressed through the boutiques he designed for Dolce & Gabbana, for the Maison Valentino in Paris, Milan, Beverly Hills and New York, and, at the beginning of his career, for Japanese fashion designer Issey Miyake, or through his projects for FontanaArte and Alessi. When he isn’t in another part of the world inaugurating a new museum or adding to his many trophies and awards, which include the Praemium Imperiale (2013) from the Japan Art Association and the Royal Gold Medal (2011) of the Royal Institute of British Architects, the appointment as Commander of the British Empire (CBE) and Knight of the United Kingdom, Galicia «with its extraordinary, pristine, uncontaminated nature», is the place where Sir David Chipperfield loves to relax with his wife, a splendid woman of Argentine origin. THE ICONIC AND SUSTAINABLE CHAIRS GREGG BUCHBINDER by Francesco Spampinato When people talk about design and sustainability, his name is always mentioned. Gregg Buchbinder is CEO of Emeco, a small company in Hanover, Pennsylvania, that was established by Wilton Carlyle Dinges in 1944 and is famous for its production of a U.S. design icon: the 1006 aluminum chair. Created on commission for the U.S. government and better known as the Navy Chair, it was used aboard Navy ships during World War II, and later in schools, hospitals and prisons. Buchbinder proudly remembers that when Ettore Sottsass, with whom Emeco made one of his last projects, was asked what object in his apartment he would have wanted to have designed, he said the Navy Chair. Its generic shape, its indestructibility, its plain surface and retro-industrial dimensions make this chair a classic: one of those anonymous objects that we’ve used countless times without noticing. It takes two weeks, 77 work phases, and 12 welded parts to make one, and that process has never changed since 1944. «The human factor is fundamental», says Buchbinder. «Each welder makes his own sort of seam. The person who mills or polishes it exerts a different pressure. Each chair is made by hand and is one of a kind». Another benefit of Emeco chairs is the fact that 80% of the chair is made of recycled material, of which half is post-consumer, meaning that it comes from materials in circulation. «Seventy-five percent of the aluminum produced in the U.S. since 1800 is still in use», continues Buchbinder. «It is recovered through urban recycling and then it goes to the foundry where the impurities are removed». The other half is composed of pre-consumer scraps. «Emeco produces aluminum scraps that are then recycled», he confirms. «Producing aluminum requires much energy, but you just need 5% to recycle it». The “problem”, if there is such a thing, is that once you buy these chairs, they last forever. That is why government orders, after a certain period of time, dropped drastically. Gregg’s father Jay A. Buchbinder, who bought Emeco in 1979 when the company was going bankrupt, immediately understood that manufacturing and materials were the secret of the company. Gregg, who succeeded his father in 1998, focuses on eco-sustainable production. «What I learned as a surfer taught me to appreciate the environment», he says. «Today I’m proud to talk about the recycled content in our chairs and our constant attempts to reuse aluminum scrap metal». “Buchbinder” in German means “bookbinder” and in some ways, Gregg’s work is just as valuable: he gives shape to ideas and makes them accessible to a broad audience. «I work with designers during the chair design, prototype and production phases», he says. «I think the process is more similar to that of a publisher, however, which encourages the writer prior to the publication of the book. Like a publishing house, Emeco makes things that last». Philippe Starck played a fundamental role in the evolution of Emeco. «He was the first to bring the Navy Chair, which until then was an industrial product, into the world of design», says Buchbinder. In 1990 he used it in the remodeling proj- 143 04/04/14 15.47 English ect of Paramount Hotel, the radical-chic destination in the heart of New York’s Times Square. In 2000 he designed a chair for Hudson Hotel, which was Emeco’s first partnership with a designer. After Starck, Emeco produced the chairs of some of the most important architects and designers of our day such as Frank Gehry, Norman Foster, Ettore Sottsass, Jean Nouvel and Konstantin Grcic. «I’m honored to have worked with these masters. Sottsass was 90 when he made the Nine-0. Konstantin Grcic is a perfectionist, but it was good having a deadline», he smiles. «With Gehry, on the other hand, we made several changes before we reached the final result». In 2012 Starck designed another chair for Emeco – the Broom –, 90% of which is made of industrial waste products. He calls it a “political statement” and adds, «Ecology isn’t a problem: it’s a duty. The chair became a movement that makes people talk about the issue». Buchbinder agrees. «In 2010 Emeco and Coca-Cola co-designed a Navy Chair made of 111 recycled plastic bottles. With the Broom, made of post-industrial wood fiber and recycled polypropylene, we once again made industry address the issue of environmental responsibility», he says. Despite the versatility of aluminum, Emeco’s future will remain tied to the production of chairs. «I think there’s something very special in a chair», he says. «It’s personal space and a place for resting». His production will certainly remain tied to recycling. «The relationship between sustainability and design is in our DNA. We will try to greatly reduce waste and to integrate recycled and regenerated materials as much as possible». KEN YEANG by Michele Fossi He’s considered one of the founding fathers of sustainable architecture and, in particular, of “vertical green urbanism”, which specializes in building skyscrapers with low environmental impact, in terms of aesthetics and resource consumption. In his book “Design with Nature”, which has been the Bible of eco-architects around the world since 1995, Ken Yeang from Malaysia was one of the first people to indicate the need for a new construction method able to restore the balance lost between modern cities and nature. Rejecting the synthetic, artificial, “inorganic” aesthetics of conventional buildings, the “green skyscrapers” designed by Hamzah &Yeang, his firm based in Kuala Lumpur, were conceived to blend with the surrounding landscape. Think of the “Solaris” skyscraper of Singapore known for its “linear park”, a 1.5 km long strip of greenery that winds around the entire building like a snake or the “Spire Edge Tower”, another skyscraper currently under construction in Manesar (Haryana, India) which is entirely covered in greenery, from the walls to the stairs and its roof gardens. It would be limiting to consider the vegetation in his projects as being purely ornamental. «Our objective is not to simply construct buildings, but to create genuine ecosystems that blend with the surrounding environment. The various plant species that we use are strictly local and studied to achieve precise objectives in terms of biodiversity protection», explains Yeang, who thinks of himself as «an ecologist who loves architecture». «Before we design a building, we try to understand what local flora and fauna could benefit from these spaces. The result is a matrix that allows us to keep our eye on our objectives to support biodiversity and to establish the right conditions so that these different habitats survive over time». The other great mainstay of Yeang’s philosophy is bioclimatic architecture: the shape and various components of the building are designed to better respond to environmental input to cut energy consumption and reduce the need for resources. The “Roof-Roof House” (his first bioclimatic building in Kuala Lumpur, where he still lives) has curved two roofs that only let in the tepid rays of morning sun, not the hot rays of the afternoon. They also direct the breeze so it cools the building and reduces the need for polluting air conditioners. «Of course, our architecture, which aims at creating “living” buildings with a bioclimatic balance with the surrounding nature, is regional in character», underlines Yeang. «A “man-made ecosystem” must reflect the natural environment in which it is situated. Average temperatures with just 1 or 2 degrees centigrade in difference can require very different types of architectural solutions». THE VISIONARY PETER FINK by Stefania Cubello «Environmental and social sustainability are fundamental factors more than every today in the urban planning, and thus in the very life of a city, especially in the light of the whirlwind speed at which cities are growing world-wide, from Europe to Asia and South America. It is only through a method of interdisciplinary and integrated work between the various professional skills – of the designers with economists, artists, sociologists, agronomists and politicians – and with the active participation of the community and citizens that it will be possible to respect a sustainable agenda and effect any truly green actions». The words are those of a British landscapist, Peter Fink, one of the most important and innovative of his kind in the world and one of the founders of the FoRM group, but they break sadly against the towers and modern skyscrapers that have descended like aliens, transforming Canary Wharf in the past few years into a little Manhattan and one of Europe’s leading financial hubs. It would be a miracle today to find even a trace of Dicken’s London in this district, which from the 17th century was part of London’s former East End docks, characterised by the Isle of Dogs and banks of the Thames, where Fink now has his home and studio. The revival of the port area, which was depressed back in the 1960s, dates back to the Thatcher years. The old warehouses have been taken over by arrogant management centres, banks, financial institutions and the headquarters of newspapers like the Independent. «When I first moved here with my family and two children in the early 1970s, a long time before the regeneration of the area began, the port was still full of merchant ships from every corner of the globe, their holds full of goods. It was great to live there and see the Thames busy with sails; it was international. It was an area in which ended up refugees and immigrants, as well as those who didn’t want to live in an apartment in the City, and today it takes in families and even “high-profile” Londoners who want to live close to the river». Born in London, Fink grew up in Czechoslovakia, where he studied engineering («I would liked to have done something more creative, but it was the easiest university faculty to join”) and then returned to the UK in 1969. Here, Fink graduated first in visual arts from the St. Martins School of Art, and then in philosophy from University College, London. In 1996, he created the Art2Architecture group, concentrating on projects combining art, urban planning, lighting design and ecology in concert with architects, artists and designers, while in 2006 he founded FoRM Associates, which works on urban planing. And a year ago, he set up Studio Fink, with which the landscapist develops artistic projects in urban contexts. His innovative vision of adopting an interdisciplinary and participatory working method aimed at activating synergies between the world of design and ecology emerged at the outset of his career, when he was already promoting the idea that artists should be working outside art galleries and the museums system. Fink’s eclectic opus includes projects that have won awards and recognition throughout the world, such as the architectural lighting of One Canada Square Tower, the icon of the new skyline of Canary Wharf and second in height only to Renzo Piano’s Shard. Other works include the kinetic Three Graces sculpture at Pasadena, the Mersey Wave Gateway at Liverpool, and pioneering projects like CarFree London and the Irwell River Park for the regeneration of the waterfront in Manchester. However, the project that has made him famous throughout the world is the Northala Fields Park, the largest modern park in London, an icon, with the four conical hills that have become a cult for all landscapists. «What is missing is empathy. Between people in general, as we have become so preoccupied about affirming ourselves at the cost of others. There is a 144 0450_UV_1404_INDIRIZZI [PT].indd 144-145 lack of social cohesion. The same happens with architects. Many build with little responsibility with regard to the community, without truly thinking of the needs of the citizens, of the final users. It is on the basis of this consideration that I developed my multidisciplinary and participatory idea of planning. One example is the working method used for the Northala Fields Park, in which I encouraged people to participate personally in the project, asking them to propose their own view of the landscape, their own needs; for example, there were those who wanted somewhere to fish, and others who wanted to be able to go cycling. The project was defined progressively. But I note that often architects find it hard to change the initial idea of their project; instead, they waste a lot of time trying to justify it. We need to form relations with people», he declared. Fink mentions only one architect as a source of reference for him: Frederick Law Olmsted. «When he designed Central Park, New York was not the metropolis it is today. But he made the effort to imagine how it would be after a century, and asked himself what people might need then. It would be impossible today to imagine Manhattan without Central Park, just as it would be impossible to realise the same project today on one of the most valuable plots of land on the planet». Of his forthcoming projects, there is one in particular that he is keen on: the large-scale project for a playground that he is working on for a special-needs school. «I’m creating a landscape that makes them feel free and at the same time protected, safe, where they can explore their physicality, and play together». JOSH BITELLI MODERN LANGUAGE by Simon Castets Hans Ulrich Obrist Josh Bitelli is more of a researcher on site than a designer. The young British artist – who is appreciated at home and abroad – loves to experiment and create surprising, original, and curious works of art. His benches, seats, furniture and vases are molded from asphalt and painted with yellow paint used for road lines. What makes his work so unusual? Everything is done at road construction sites with the help of workers who are asphalting roads and sidewalks. This post-industrial art has made Josh one of the most interesting young talents in the United Kingdom. SCHUO/89plus: You have said that you’re interested in creating interjections into established systems, to discuss how and why things are made and to generate a sort of “activism”. Do you see yourself as an environmental activist? Or an environmental artist? Is there a difference? Josh Bitelli: Indeed I assume the status of an activist, whatever that may be, but also of an anthropologist or a writer or an expert; one important distinction is that I am happy to shift between roles. I befriend people in places as a way of assembling a cast or set of actors for semi-real, semi-fictitious narratives of which I am at once the engineer and the alien. I made a set of objects aside a road works event, in asphalt and line paint. The moment that the roads themselves needed fixing became the provider for monuments to the complex road network. I am very interested in the implications of this kind of labour, as it is a job that has sprung directly from infrastructure and the ability to trade, for the provision of goods, and speaks to the romanticism of the liberating power of roads. These people are a seemingly invisible force, yet they are without factory walls to shield their process. I tread dangerously close to becoming one of my characters; the road workers offered me a job, and on another occasion I was invited to stay at the Faslane Peace Camp but kindly declined both. My ability to keep a distance is crucial, for if I were to become too involved I would retract my right to self-contradiction. SCHUO/89plus: How do you see your art practice engaging with sustainability? How big of a role does sustainability play in your work? Jb: A sustainable economy is not one that cuts investment in Research and Development and not one that encourages indefatigable competitiveness; giving financial institutions power by deregulation, seemingly David Cameron’s premier policy. Sus- tainability is an interestingly and intensely branded set of formulas that in the most brutal instance are plugged into industry and infrastructure and essentially sold back to us as ratification for our own activities. In this case, sustainability becomes a utopic spreadsheet that we render onto insulation panels. Sustainability is an interesting protagonist in the formulation of brands and the imposition of morals, it therefore has much to do with my work. SCHUO/89plus: Is “sustainable creativity” possible? How? Jb: I hope my practice can be sustainable; I am just starting to figure out how I might be able to achieve that. I am just about to move into a far larger studio; it is a risk that I am happy to take and one that is necessary for the work that I hope to be making this coming year. I still have to do a few days a week in a money job but hope that won’t be necessary soon. SCHUO/89plus: Your work is concerned with everyday, overlooked production, and you often find yourself creating work in quite industrial settings, such as quarries, masonries and railways. What draws you to these industrial settings? What makes them such a great source of inspiration for your work? Jb: These industrial settings are attractive for a number of reasons: they describe how peoples’ lives are shaped by the imposition of infrastructure, how cultures of places are formed, become unstable and are destroyed. Places of labour relate infrastructure to resources and therefore to materials; sometimes not an easy relationship. Then we are faced with the supportive infrastructures, those that only exist to service others. Railway lines are a good example because there is a filmic romanticism surrounding the depiction of the railways and the power of travel, but we must also consider how they reflect upon and manipulate culture. I’ve read a lot about the growth of mobility infrastructure and its effects on society and culture. For example, each village or town used to have its own time zone, which was problematic for people taking long trains across a country, so GMT was established and onwards to a new version of time. My interest in chorology and the tension of imposed infrastructure and architecture seems to manifest itself in railway lines and other liminal or in-between places; places that are constantly in flux or are not necessarily considered places unto themselves. SCHUO/89plus: You often work with materials and tools associated with mass production – stone, asphalt, stanless steel – yet each of your works is unique, and every object has a narrative. Can you talk about your use of materials? Jb: Materiality becomes a tool to weave places with events and people with activity. In the most sincere sense, the language of materials describes the provenance of objects and governs how things should be made and how they look. When we manipulate these norms, trickery and fiction become important elements in the poetics of these narratives. SCHUO/89plus: For the 89plus Marathon at the Serpentine Galleries last year, you showed an incredible asphalt table, which was the first object in your practice that you hadn’t made yourself, and was to be part of an edition of 50 tables. Usually you’re very connected to the process of making. Why was this project different? And how did outsourcing the production affect your relationship with the work? As Martino Gamper has said, you are a maker and a thinker. How do these processes of making and thinking relate for you? Jb: Fifty or so – the final number still has to be decided. I really like that object because it is to become a repetitive action. I have asked a roofer to spend a considerable portion of his year making furniture in asphalt. I’ve got a great photograph of two massive cabinets and two tables on the back of his pick-up truck just about to be delivered to the other side of London. I really want to see how systems of production can be redefined, and this project is very important in the context of sustainability because it is testing this kind of subversion with economics – it will either survive or fail. I don’t have the time to put myself into my own production line, but I like being able to afford a roofer some rainy day work, and a distortion of the kind of labour he has being doing for 60 years, and I think he likes the objects, which I didn’t expect! It has been a very slow process, and the objects still aren’t up for sale, but I’m very excited to be able to usurp myself and let the system run autonomously. I did make the prototypes – lots of them. The kind of decision making that happens while making is very important, so I can’t see myself being able to remove myself entirely, and this isn’t just because I develop quite experimental processes. SCHUO/89plus: Last year you undertook a residency in Cove Park, an incredibly beautiful, rural area on Scotland’s West coast, yet located between Coulport, the storage place for the nation’s nuclear warheads, and Helensburgh, a small town whose beach was named the most polluted in Scotland in 2002. Can you tell us about your residency and how investigating these environmental issues has shaped your work? Jb: The Clyde is a really loaded place. People have thought it the most secluded bay in the UK and you hear amazing stories – post-war engineers were hidden away to develop technologies for extracting oil from secret wells. There were a few propaganda films shot on the Clyde to romanticise the flourishing shipbuilding industry and the status of the singular worker. Ken Loach’s Sweet Sixteen is shot nearby and shows the disruptive effects of turbulent politics on later generations of the working class. Now the only shipbuilding in this area is BAE Systems’ military activities and the maintenance of the UK’s nuclear fleet, submarines like HMS Tireless that are continually reported to leak radiation. Oysters encircle the military base, filtering radiation and other pollutants, and are used as litmus to test for impurities. Oysters are a very pure form of calcium carbonate and I burnt a batch of cement from these tainted oysters and made a set of urns. SCHUO/89plus: What kind of environmental constraints does your work face? If there were no environmental constraints, what would you make? Jb: Borders, pharmaceuticals, mines... SCHUO/89plus: Can you tell us about the projects you’re working on now? Jb: I am about to start making a set of signposts that are prints etched away at with car battery acid. The acid that creates the potential difference in the battery will be seeped onto aluminum panels, and the potential energy is expended in eating and removing the surface images printed onto the metal. They might be shown as objects with an architectural quality to them. I think the damaged car battery might stay attached to the work. SCHUO/89plus: Who are your heroes? Mentors? Gurus? Jb: Roberto Bolano, Tschumi, Chomsky. Lucia Pietroiusti lent me C by Tom McCarthy, I’m about half way through & think he might make the cut. SCHUO/89plus: Can you tell us more about projects you have not yet been able to realise? Utopias? Dreams? Censored projects? Or as Doris Lessing says Self Censored projects that you did not dare to do? Projects that were too expensive to realize? Too big or too small to be realise? Forgotten projects? Jb: When driving through the enormous landscapes North of Marrakech, the road approached a town that had been given over to a thick dust-fog. A railway tunnel had been dug into the ground and the residual material sent up a conveyor belt and tipped onto a growing mountain, by far the largest thing in the town. At the foot of the conveyor, a building in corrugated steel had burst its walls and white dust that had filtered out from within the building now appeared to be supporting it. When driving away from the town it became hard to decipher where the tip of the mountain was as the whole town was given over to a thick vertical fog. Its airborne geology collected in nodes leading up to and away from the town. I’ve since imagined what it might be like to have a scene like this in Central London, say Trafalgar square, engulfing its entirety in a loose mountain of Portland stone dust. SCHUO/89plus: What is your smallest work? Jb: I made a remake of Baldessari’s waving goodbye to boats, except I was bidding farewell and good luck to lorries leaving Park Royal Industrial estate. It’s pretty small, a photograph was taken but I don’t even have it yet. SCHUO/89plus: Do you sometimes work collaboratively? Jb: Felix Melia and I have just finished the first version of a work that is currently titled Place of Dead Roads. It is a film and a set of sculptures that we made and exhibited in Marrakech earlier this year. The process from which the work evolved is the main outcome, the physical manifestations themselves can be remade or repeated, as the project grew firstly from friendship and then from many years of conversations. It was a very intense period of work; we were up well before dawn most days and navigated a rental car through the chaos of the medina with large metal sculptures tethered to the roof, driving from the metal workshop where they were made to a vast hinterland where we shot the film. The sculptures or props are steel barriers or screens or archways that are made with a similar language to the kinds of construction that fuels the city. One of them became a screen onto which we projected the film in a disused cinema using a petrol generator as the power supply and the soundtrack. We shot the film in a seemingly arid landscape of architectural skeletons, empty or ashen billboards, eroding mud brick walls, the incomplete promise of a F1 racetrack and the Atlas Mountains. Two men drove a moped up and down roads and dirt tracks holding a flag made from a transparent dustsheet. The dustsheet, a screen itself, warped and distorted this landscape while sketching the column of air through which it moved. We found a way of using the representational value of that place for an exploration of the romantic narratives surrounding movement and social mobility. We hope to remake the work with the sculptures becoming architectural screens that host a multi-channeled version of the film while soaking up and radiating light at the same time. SCHUO/89plus: Are you part a group of artists? A movement? Jb: I have good friends and we help each other out, support structures are crucial, often projects can’t happen without a network of skills and spare hands and wisdom. I’ve never found reason to brand working practices of a similar language. SCHUO/89plus: Do you have dreams? Jb: Dreams are especially important, but we must make sure not to read too much Jung. It’s so easy to freak yourself out. Dream analysis is a fragile thing and we are all susceptible to imposing other people’s symbolism onto ourselves. To his credit, Jung does say that each person is very different and deserves personalised research before analysis can be made, but it is still really hard to disassociate his ideas and analysis from your own dreams. I tend to have reoccurring dreams that last for a month or so, I could reel a few off to you, and one reader might plug the imagery into a website, and the website would fabricate me a whole new person out of data. SCHUO/89plus: Tell us about an exhibition that inspired you? Jb: I saw an artangel show some years ago where Catherine Yass had a tightrope walker attempt a line between two council estates in Glasgow. He turned around half way. The show was in a building that looks like a lighthouse just opposite Kings Cross International, a site of major redevelopment work. As I was leaving, I walked into an empty meeting room that wasn’t part of the show. The walls were lined with posters of architectural renders, information and promises of the future of the Kings Cross area, high rise housing, a square with a water fountain; this was well before all of the redevelopment work in the area had begun. Quite an amazing juxtaposition of two generations of social housing, one man’s attempt to navigate these spaces and the grotesque marketing tools that sell potential. SCHUO/89plus: Do politics and art mingle? Jb: They are inseparable. YVES BÉHAR PRODUCTS WATER HEALTH by Michele Fossi «I believe that over the next 20 years, every industry and every manufacturing plant in general will have 145 04/04/14 15.48