i più bravi d`Italia
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i più bravi d`Italia
Domenica l’inchiesta Sushi economy, storia del cibo global La di DOMENICA 8 LUGLIO 2007 FEDERICO RAMPINI la memoria Repubblica Il secolo sovietico nelle foto Izvestia LEONARDO COEN I più bravi d’Italia Ecco i ragazzi selezionati dalla Normale di Pisa Ritratto di una élite FOTO ALFREDO FALVO/CONTRASTO generazionale che sarà la futura classe dirigente MICHELE SMARGIASSI Q CORTONA ualche volta Andrea Mariello soffre la sindrome da fratello del figliol prodigo. «Prenda quello che ha tre o quattro debiti: l’ultimo mese di scuola si decide a studiare, si spacca la testa, agguanta il sei. E gli fanno festa, gli regalano il motorino. A me invece dicono “bravo” ed è finita lì». In effetti, Andrea è svantaggiato. Lui non può migliorare i suoi voti. Ha la media del dieci. Vuol dire che ha dieci in tutte le materie, compresa ginnastica. E ce l’ha per il quarto anno scolastico consecutivo. Al liceo classico di Gallipoli. Dove naturalmente è una specie di celebrità, diciamo così. «Sì, quello che mi chiama secchione c’è sempre, ma che m’importa? Mica sono un secchione, io. Studio solo dalle tre alle sette e mezza, poi gioco a calcetto o vado in bici». Qui a Cortona, comunque, Andrea si gode finalmente le gioie dell’omologazione. Sul grande scalone del palazzo comunale medievale, tra i suoi centocinque coetanei in posa per la foto ricordo, il più scarso ha tutti otto in pagella. (segue nelle pagine successive) SALVATORE SETTIS cultura C Censura a Brancati, le carte segrete entralità della conoscenza, qualità delle competenze, primato del talento e del merito: non è una sorpresa, anche con la presidenza portoghese della Comunità europea (inaugurata in questi giorni) ritornano le identiche parole d’ordine che abbiamo sentito ripetere da Angela Merkel nel semestre di presidenza tedesca. L’Europa del futuro non può perdere la sfida degli altri paesi e continenti, dagli Stati Uniti all’India, dal Giappone alla Cina: e per competere con essi deve saper cogliere il momento opportuno (cioè oggi, e non domani), e affrettarsi a promuovere la conoscenza e l’innovazione, e dunque a individuare i suoi migliori talenti, favorendo rapide carriere in posizioni di responsabilità per i giovani più brillanti. Solo così l’Europa potrà aspirare alla leadership sul fronte dei grandi problemi d’attualità, dal controllo del clima all’equità nell’assistenza medica, dalla lotta contro la fame alla promozione delle energie “pulite”, alla diffusione dell’istruzione nei paesi a sviluppo stagnante. (segue nelle pagine successive) SIMONETTA FIORI la lettura Il romanzo giovanile di Cortázar JULIO CORTÁZAR spettacoli Dalì e il cinema, il sogno infranto NATALIA ASPESI Repubblica Nazionale 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2007 ra GuidoSFSaANDRIA LE CITTÀ A EO CLASSICO IC L A L O .6 SCU MEDIA 9 la copertina ugnoli DanilaO BVArL DI TARO (POR) TIFIC ORG CITTÀ B A LICEO SCIEN SCUOL MEDIA 9.1 Storto AntonCeAlMloPOBASSO ICO odà BiancFaIRLENZE CITTÀ SCIENTIFICO LICEO L SCUO A MEDIA 9.0 CITTÀ EO SCIENTIF LIC SCUOLA MEDIA 8.8 Sono i cinquecento diciottenni più bravi d’Italia, selezionati dalla Normale di Pisa. Li abbiamo incontrati per tracciare l’identikit di una futura classe dirigente che crede molto poco alle regole e alle dinamiche della società che dovrebbe guidare La sfida dei ragazzi dell’89 MICHELE SMARGIASSI (segue dalla copertina) a maggioranza galleggia sulla media del nove. Crema scolastica superiore, distillato di pagelle pregiate. La Normale di Pisa se li è fatti segnalare dai presidi, i più bravi d’Italia della classe 1989, nati quando cadevano muri e illusioni. Sono i più brillanti tra quelli che hanno appena finito la quarta superiore. Erano quasi duemila: i normalisti hanno scremato ancora, pesando curriculum e auto-presentazioni. Sono scesi a cinquecento. Cerchio ristretto. Le beautiful mind di un’annata, una vendemmia speciale, da non sciupare. Non li vuole arruolare per forza, la nostra scuola d’élite più prestigiosa: se vorranno, fra un anno faranno domanda per entrare nel solenne edificio dove studiarono Carducci e Rubbia, Fermi e Ciampi, altrimenti sceglieranno altri atenei. Questa convocazione estiva, che si ripete da trent’anni, è un servizio al paese: cerca di far sì che il talento non si disperda nell’ambiente, non si smarrisca nel labirinto dell’università italiana, che i più bravi abbiano un suggerimento per scegliere consapevolmente il loro futuro di studio. “Corso di orientamento pre-universitario”: in realtà è una settimana da shock intellettuale, terapia d’urto mentale, full-immersion senza respiratore nel clima degli studi d’eccellenza: lezione sulla produzione energetica, a seguire analisi del dilemma in filosofia morale, di seguito le basi molecola- L ri della chiralità (ascoltare per capire cos’è), poi ancora le controversie religiose nel Novecento... Una scuola di sopravvivenza intellettuale. «Andate pure a pranzo», crolla esausto uno con la maglietta Impossible is nothing, «io devo dormire un’oretta...». Nei chiostri del convento di Sant’Agostino, il professor Mario Vietri, astrofisico, accoglie così i primi cento: «Voi siete la futura classe dirigente di questo paese». Risatine represse. Imbarazzo. «A diciott’anni è una responsabilità un po’ eccessiva», obietta Sofia, media nove e mezzo al classico di Palermo. «E chi dev’essere allora? Totti? La sua fidanzata?», Vietri è inflessibile. Sembra quasi che qui si allevi una stirpe speciale, Alessia di Foggia s’inalbera: «Non mi va questa cosa della classe dirigente, è classista, appunto». «Non mi sento di un genere diverso dagli altri», l’appoggia Vanessa di Noci, Bari. No, infatti, almeno a primo sguardo non sembrano di un’altra razza. Forse un po’ meno chiassosi di una gita scolastica standard, girano per la cittadina medievale passando inosservati. Magliette dei gruppi rock, jeans, brufoli, minigonne, iPod, collanine, all-star, zainetti: look generazionale adeguato. Forse un tasso leggermente più alto di occhiali. Piercing, scarsi ma non assenti. E soprattutto belle facce da teenager, nessun colorito verdastro da nerd interfacciato al computer ventiquattr’ore al dì. «Impegno sì, morire sui libri no». Dove stia il segreto di quelle performance, neanche loro sanno dirlo. «A me basta stare attenta a scuola». Ringraziate il Cielo, il Destino, la Natura, il vostro Musto MariaÀnAnVaELLINO ICO CITT CIENTIF LICEO S .1 A L O U SC MEDIA 9 carattere? «La mamma», prova una brunetta, arrossendo. Conta avere una buona famiglia alle spalle? «Sì ma non per i soldi». Piccolo sondaggio sul mestiere dei papà e delle mamme: medici, professionisti, dirigenti, commercianti; meno gli insegnanti e gli impiegati. Una barriera sociale al successo scolastico come quella che denunciava don Milani c’è ancora, ma complicata da nuove variabili. «Buona famiglia è quella che ti fa da filtro», spiega Danila di Borgotaro, «che non ti piazza davanti alla tivù a tre anni, non ti mette in mano il gameboya cinque e il cellulare a otto». Mamme consapevoli, ok, è questo tutto quel che avete in comune? Ci pensano: «La curiosità per il mondo». Federica di Trento lo dice con autoironia: «Siamo quelli che alzano sempre la mano quando il prof chiede “ci sono domande?”». Un po’ poco, forse, per spiegare il talento, come lo chiamano qui in Normale senza farsi scrupoli. Talento è una definizione impegnativa. Esigente. Nella parabola evangelica significa dono, ma anche dovere. Infatti sembra quasi una chiamata alle armi del pensiero, questa naja intellettuale di Cortona. Obbediranno? Si schermiscono. «È quel che si attendono da noi, questo si vede», medita Fabio di Bagheria, «ma chi ha detto che siamo quelli giusti? Una buona media non è di per sé prova dell’intelligenza». Non in queste scuole, almeno. Mica tanto teneri, i sapientini, con quelle che stanno frequentando loro. «La preparazione scolastica conta meno del cinquanta per cento», calcola Luca. Benedetta è impietosa: «Professori sessantot- olfi NicolaVERRiONA CITTÀ SCIENTIFICO A LICEO 9.0 L O U SC MEDIA tini sfiduciati, avevano ideali, ora hanno delusioni e ci comunicano sfiducia». Alessia ha «incontrato più prof sbagliati che giusti». Almeno uno, però, brilla in ciascuna storia personale, spesso è stato l’incontro giusto, quello che ha fatto scattare la molla segreta che trasforma uno studente vivace in una mente. Ma è difficile far miracoli coi fichi secchi. «La mia scuola è desolante, non c’è neanche un laboratorio», Annarita di Bari si sente «un’autodidatta. Cerco bibliografie, seguo conferenze, al pomeriggio m’infilo di straforo nelle aule dell’università». Una scuola sofferente forse sforna anche giudizi non così attendibili, e il professor Vietri lo sa bene: «Alla prova d’ingresso in Normale partecipano solo diplomati alla maturità con cento centesimi. Un terzo di loro lascia il foglio in bianco». La docimologia è una scienza imperfetta e applicata in modo diseguale sul territorio nazionale. La scuola premia, ma la scuola sa anche soffocare il talento: «Chissà quanti ragazzi stanno facendo un mestiere che non è il loro», si chiede David Regazzoni, che era uno come loro cinque anni fa, adesso si laurea, e sa che la sua sfida è appena cominciata. E allora, questi ragazzi pieni di medaglie scolastiche sono davvero i migliori? «Lo siamo, ma all’interno del sistema di riferimento dato, che è la scuola», ammette Luca di Arcore, non sa che facoltà scegliere ma ha un linguaggio da fisico teorico. «Abbiamo più che altro il talento di capire cosa la scuola richiede per darci un buon voto», sdrammatizza Andrea di Trieste. «La pagella brillante dice solo che hai propensione a studiare», in- ni ia CrucAiRaCHE r a m a n n A VA M IVITANO SICO CITTÀ C A LICEO CLAS SCUOL MEDIA 9.4 siste Massimo. «Siamo solo i meglio adattati», sintetizza infine Danila con scatto darwiniano. Chiara di Trento ha lo sguardo altrove, sta pensando a qualcuno: «Ho un amico che è un genio, è più capace di me. La scuola non gli piace, potrebbe fare tutto, s’accontenta del sei. E lui qui non c’è». Modestia? No, prudenza. “Primi a scuola ultimi nella vita”, questa è la vecchia scusa dei poltroni, si sa. Ma che sia più vero “primi a scuola e anche nella vita” non lo garantisce nessuno. «Ci sarà sempre il raccomandato che ti sorpassa». O quello che fa un mucchio di soldi vendendo auto usate, molto più del tuo stipendio da luminare della fisica, anche se prendeva quattro in trigonometria. La meritocrazia, allora? «Ma dov’è?», sbottano. A scuola c’è, voi ne siete la prova. «Ma non si trasmette fuori», lo garantisce Chiara del Visconti di Roma, liceo blasonato. I vostri genitori, almeno, saranno contenti. «Sì, ma ormai danno per scontato che andiamo bene a scuola, come se fosse automatico». Ma spesso sono proprio gli adulti, i parenti, gli amici di famiglia i primi a disincentivare: «Dicono “ma divertiti un po’, non studiare così tanto, ti perdi gli anni migliori della vita”», sospira Chiara (l’ennesima, questa è di Lucca). O anche peggio: «Prendi matematica? Vai a fare la fame», s’è sentita apostrofare Elisa di Tortona. Il sospetto, diavolo tentatore, è che non abbiano poi tutti i torti, «se quel che ci aspetta dopo la laurea sono anni di precariato intellettuale, allora le nostre belle pagelle a cosa servono? Sarà triste». Questo spiega perché i genietti quando provano a entrare so o Dal MI) a r d n a s s e Al NE (V TÀ THIE ICO CIT LASS LICEO C A L O U .0 C S MEDIA 9 Repubblica Nazionale DOMENICA 8 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 everberi AndreTaÀRBRESCIA ICO ani MicheÀlaLEZNO rino Luca LTeOvRINO EO CITTÀ SSICO EUROP LA C O E IC L .8 SCUOLA MEDIA 9 CITT ECNICO ITUTO T T IS A L .2 SCUO MEDIA 9 CIT CIENTIF LICEO S SCUOLA MEDIA 9.5 soli GloriaACNCoONA CITTÀ SCIENTIFICO LICEO L SCUO A MEDIA 9.3 LE FACCE Nelle foto di queste pagine alcuni dei ragazzi selezionati dalla Normale di Pisa come “i più bravi d’Italia” e invitati a Cortona per uno stage pre-universitario. In copertina, una foto di gruppo degli stagisti Talento e merito, questi fantasmi SALVATORE SETTIS FOTO ALFREDO FALVO/CONTRASTO alla Normale puntano alle facoltà difficili e astratte, matematica, fisica, perché un matematico e un fisico che escono dalla Normale hanno un futuro, ma se poi non ci riescono allora ripiegano su ingegneria o medicina o giurisprudenza, perché bisogna pur puntare a uno stipendio. Comunque, meritocrazia, ammettiamo pure. «Ma chi è che decide cos’è il merito? Chi la nomina una classe dirigente?», chiede Fabio il siciliano e sa che non c’è una vera risposta. «La classe dirigente italiana ha bisogno delle nostre capacità?», è quasi beffarda Gloria di Camerata Picena, «a giudicare da chi è adesso classe dirigente, non direi». I politici? Smorfie. Anche quelli che ci stanno, che accettano la sfida, come Margherita di Alessandria, mica pensano di fare carriera in parlamento: «Per me classe dirigente non è la testa, ma la spina dorsale di un paese». Del resto quella del politico non è una vocazione che possa meritare l’impegno di una vita di studi: «I politici sono come i pannolini, vanno cambiati spesso e per lo stesso motivo», Andrea, quello con tutti dieci, ride alla sua stessa battuta, «l’ho sentita in un film, ma è giustissima». Nella vita futura si vedono primari, fisici nucleari, giornalisti. Ma a diciott’anni si può anche essere più romantici: «Realizzarsi non è per forza raggiungere i vertici», «Successo è non avere rimpianti», «Successo è non annoiarsi mai», all’Andrea di Trieste basterebbe «aprire una biblioteca con cioccolateria, sono due modi per addolcire un po’ il mondo». Non è che non abbiano ambizioni. È che temono la anzetti AgnesITeTÀLASTI O C LASSIC LICEO C A L O U .8 C S MEDIA 8 (segue dalla copertina) olo così, mettendo a fuoco valori e buone pratiche e diffondendole nel mondo grazie a una società in espansione, potremo meritarci la qualità della vita che desideriamo per noi stessi. Il traguardo della “strategia di Lisbona” avviata nel marzo 2000 è di fare dell’Unione europea l’economia più dinamica e più competitiva del mondo, perché basata sulla conoscenza. È sempre più improbabile che ci riusciremo, come allora si progettò, entro il 2010: ma è sempre più necessario farlo, e prestissimo. Se siamo indietro (se, in particolare, il contributo italiano non è stato finora brillante) è per scarsezza di finanziamenti, ma non solo. L’ostacolo più pesante è l’insufficiente riconoscimento del talento e del merito, che nel nostro Paese è a rischio per il pesante equivoco, di un populismo un po’ sgangherato, secondo cui la “meritocrazia”, o l’individuazione e la promozione di élites, sarebbero “di destra”. Nulla di più stolto. Il talento è una risorsa che per sua natura è distribuita equamente a prescindere dall’età, dal sesso, dal luogo o dalla famiglia d’origine. Non c’è nulla di più democratico della meritocrazia: cioè di un sistema che riesca a scovare il talento dove c’è, a premiarlo e a promuoverlo: perché è dal talento congiunto col merito (cioè con la capacità di accumulare e confrontare saperi, di riflettere criticamente, di produrre innovazione) che nasce quella conoscenza dinamica dei problemi della natura, della scienza e della società che produce sviluppo, genera occupazione, fonda e sostiene l’iniziativa e la leadership sui grandi problemi del futuro. Lo riconosce la Costituzione, quando afferma (articolo 34) che «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»; articolo, questo, che va letto in sintonia con l’articolo 3, secondo il quale la Repubblica garantisce S ariello AndreÀaGM LI ALLIPO ICO CITT CIENTIF LICEO S 10 A L O U SC MEDIA «il pieno sviluppo della persona umana» rimuovendo «gli ostacoli di ordine economico e sociale». Viceversa, serpeggia ancora in Italia una “meritofobia” suicida e senza futuro: quasi che promuovere il merito voglia dire perpetuare i privilegi delle classi dirigenti, e non sia, al contrario, lo snodo essenziale per rinnovare le classi dirigenti. Promozioni in base all’anzianità, meccanismi di ope legis mascherati da lotta al precariato, furberie accademiche intese a privilegiare non i migliori ma i locali: queste e altre pestilenze affliggono il mondo della ricerca e dell’università in Italia. La sola ricetta per sconfiggerle è puntare esclusivamente sul talento, sulla qualità degli studi, sul merito più alto e più garantito secondo standard internazionali. Promuovere il merito dei migliori non è affatto incoerente con la difesa del diritto allo studio per tutti, ma la generalizzazione del diritto allo studio universitario non deve comportare appiattimento della qualità; al contrario, le punte d’eccellenza devono essere promosse anche perché fanno da traino all’intero sistema. Scuole come la Normale di Parigi e la Normale di Pisa, che hanno nel proprio codice genetico l’individuazione del talento e la sua coltivazione mediante l’alta qualità degli studi, sono (è vero), incubatori delle élites del futuro: ma questa meritocrazia è essenziale alla democrazia, garantisce il progresso della società, assicura lo sviluppo basato sulla conoscenza e sull’innovazione, in Italia e in Europa. Ma i normaliens di Parigi hanno riconoscimenti ufficiali, sanciti dallo Stato, ben più chiari e netti dei normalisti di Pisa: nel contesto di un’Europa che cresce, che dà alla competizione delle conoscenze un ruolo tanto grande nel disegnare l’agenda del futuro, non sarebbe ora di porre rimedio a questa differenza? Non sarebbe ora di produrre un provvedimento di sistema sulle Scuole “d’eccellenza” italiane, a cominciare dalla Normale che è di gran lunga la più antica (farà duecento anni nel 2010)? icca ChiarÀaPBArRMA TICO CITT INGUIS LICEO L .2 A L O U SC MEDIA 9 fregatura dopo le illusioni. «Magari diventerò davvero classe dirigente, ma di quale paese?»: è sarcastica, Benedetta di Pisa, o forse rassegnata, comunque ha già le valigie pronte. Intellighenzia takeaway, sapere già in formato esportazione: questo dice l’esperienza post-universitaria dei loro fratelli maggiori. Ma per adesso, è una favola bellissima. Verso sera le lezioni cattedratiche si sciolgono in crocchi peripatetici attorno ai relatori sotto i portici del vecchio chiostro, con la carriera accidentata di Sant’Agostino dipinta nelle lunette. «C’è un rapporto tra materia oscura e antimateria?», «Ma il dilemma etico indecidibile non è una contraddizione in filosofia morale?», d’accordo, questi ragazzi quasi-Normali hanno una marcia in più. Stasera, sul parapetto della rotonda che sbircia da lontano il Trasimeno giocheranno a recitarsi a memoria i film di Pieraccioni, di Verdone, di Troisi, festival di dialetti e risate da bambini. Ma adesso i ragazzi dell’89 allenano i muscoli del ragionamento a costo di sfinirsi, bevono tutto quel che possono, riempiono i serbatoi della mente fino all’orlo, ne avranno bisogno per la traversata del deserto dell’anti-meritocrazia. Premiati da una scuola delle cui capacità di valutare dubitano, lusingati da una società delle cui promesse non si fidano, cercano un posto nel mondo, e contano solo su se stessi. Se partono con un po’ di vantaggio, se arriveranno, forse il merito sarà tutto loro. Poi, magari, in un’altra Italia, il premio Nobel lo prenderebbe l’amico geniale di Chiara, quello che s’accontenta del sei. ante H) o Di SM c s e c RE (C n a r F A AL A ICO CAVILL IF NT RAN CITTÀ F LA LICEO SCIE U .4 9 SC O IA D E M Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2007 l’inchiesta Si chiama Tsukiji, è l’antico mercato ittico di Tokyo ed è il motore della forma attualmente più avanzata di “globalizzazione dal basso”: il successo senza frontiere delle strisce di tonno crudo adagiate sugli involtini di riso bollito. Una storia che comincia nella notte dei tempi e che oggi è un argomento studiato nei libri di economia Consumi vincenti Sushi, il miracolo del cibo ubiquo FEDERICO RAMPINI S TOKYO e immaginiamo che esistano le cabine di regìa della globalizzazione pensiamo a Wall Street o alla Banca Mondiale; ai colossi multimediali di New York e agli studios di Hollywood; alle grandi agenzie di Londra che dominano pubblicità e marketing. In questo elenco manca un luogo essenziale: Tsukiji, il mercato del pesce di Tokyo. Da qui viene governato uno dei consumi universali che rendono il pianeta sempre più omogeneo. Il sushi, striscia di pesce crudo adagiato su un involtino di riso bollito, sfida l’hamburger e la pizza per la sua ubiquità universale, ha conquistato San Francisco e Milano, Berlino e Rio de Janeiro. Il sushi è un esempio singolare di globalizzazione “dal basso”, perché dietro la sua diffusione non c’è la potente pianificazione di multinazionali come MacDonald, Coca Cola o Pizza Hut. Il suo trionfo sono affezionati vivendo a Nashville, nel Tennessee, dove non c’è un solo ristorante francese o italiano che sia decente, ma i sushi-bar sono ottimi». A Hermosa Beach è stata aperta la California Sushi Academy per rispondere a un bisogno impellente: non ci sono abbastanza cuochi per tutti i sushi-bar che si aprono negli Stati Uniti, e l’Immigration Service non rilascia le Green Card a ritmo sufficiente per importare cuochi nipponici. La storia di come il sushi ha espugnato i nostri palati è sorprendente perfino per i giapponesi. Il mercato di Tsukiji, istituzione fondamentale per sfamare gli abitanti di Tokyo, non sembrava destinato a diventare l’epicentro di un business mondiale. Ai visitatori occidentali più intrepidi le guide turistiche ne consigliavano la visita — con sveglia alle quattro del mattino — per penetrare in uno dei luoghi misteriosi dove si custodiscono le tradizioni del Sol Levante. Situato nel centro della capitale, a pochi isolati dal quartiere dello shopping Ginza, Tsukiji ha origini che risalgono all’inizio del Diciassette- Il primo “salto” è all’inizio dei Settanta, quando i cargo-jet giapponesi scaricano negli Usa tecnologia a buon mercato e tornano ricolmi del tonno dell’Atlantico si sposa con le nuove tendenze salutiste del Ventunesimo secolo. Le top model di Brera e i giovani cervelli della Google nella Silicon Valley disdegnano il fast-food americano, il consumo di hamburger scivola inesorabilmente verso ceti mediobassi. Il pesce crudo invece fa sognare chi ha l’ossessione di cellulite e colesterolo, i frequentatori di fitness, i cultori dell’eterna giovinezza. Il costume del sushi si è imposto vincendo le nostre resistenze culturali più profonde; ha cancellato in noi la memoria ancestrale di epoche in cui la cottura del pesce era di rigore per esigenze igienico-sanitarie. Jay McInerney, scrittore e gourmet americano, ricorda quanto è stato rapido il cambiamento nella sua esperienza personale: «La prima volta che provai il sushi a Tokyo nel 1977 mi consideravo un intrepido avventuriero culinario. Se mai fossi sopravvissuto, mi dicevo, sarei tornato in America a raccontare una storia incredibile, che avevo mangiato del pesce crudo su palline di riso. Un giorno, chissà, lo avrei detto ai miei figli. Quando tornai negli Stati Uniti due anni dopo c’erano sushi-bar in tutta Manhattan. I miei figli oggi lo mangiano tre o quattro volte a settimana. Ci si simo secolo. Da trecento anni, ogni giorno e in tutte le stagioni, molto prima delle luci dell’alba lungo i moli del fiume Sumida attraccano i barconi dei pescatori, e folle di mercanti si accalcano per gareggiare nelle aste competitive, agitando le mani nei gesti arcani di un codice cifrato noto solo a loro. Ma oggi questo antico bazar affronta una rivoluzione. Non è bastato che i cinquantamila commercianti che lo popolano adottassero i laptop computer e le comunicazioni satellitari, non è bastato che i loro broker imparassero a gestire ordini in quattro continenti, a spostare capitali sui conti correnti di banche off-shore: ben presto il Tsukiji dovrà traslocare vicino all’aeroporto intercontinentale di Narita per poter svolgere meglio i suoi compiti di istituzione multinazionale, arbitro e mediatore di un traffico globale. Theodore Bestor, antropologo di Harvard, si dedica da anni a studiare questo fenomeno e generazioni di studenti preparano tesi di dottorato sulle sue analisi del mercato Tsukiji. Il reporter Sasha Issenberg ha pubblicato un saggio intitolato The Sushi Economy: l’odissea di un pesce crudo come metafora della globalizzazione. Edo-mae nigiri, quello che banalmente chiamiamo sushi, è l’ultimo stadio di evoluzione di un alimento le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Per secoli in tutta l’Asia il pesce fu conservato infilandolo nel riso bollito e sigillandolo in una giara. Al chiuso gli zuccheri del riso fermentavano e l’alcol serviva da disinfettante contro il rapido deperimento. Alla fine di questo trattamento il riso andava buttato via perché era diventato acido e aveva un gusto orribile: secondo una fonte giapponese del Dodicesimo secolo sapeva di «vomito di ubriaco». Quattro secoli fa l’inconveniente viene risolto dai giapponesi con l’invenzione dell’aceto di riso. Dall’inizio dell’Ottocento il sushi si diffonde come un cibo semplice e a buon mercato, servito ai lavoratori da venditori ambulanti. L’aggiunta della salsa di soya serve a riprodurre l’acidità della ricetta più antica. Con il terremoto di Tokyo del 1923, e l’esodo di cuochi verso il resto del Paese, il sushi entra nella dieta nazionale. Bisogna aspettare il miracolo economico del Ha un problema, però. I suoi Boeing 747 decollano da Narita verso gli Stati Uniti stracolmi di apparecchiature Canon e Sony, orologi e calcolatrici e macchine fotografiche. Al ritorno gli stessi Jumbo Jet volano desolatamente vuoti. L’industria americana in crisi non riesce a produrre quasi nulla che si possa vendere sul mercato giapponese. Con uno squilibrio che ricorda il rapporto Cina-Usa di oggi, il deficit commerciale americano verso il Giappone si gonfia di anno in anno. È il “pericolo asiatico” nella versione anni Settanta, quando il deputato John Dingell del Michigan dichiara: «C’è una sola ragione per cui le nostre case automobilistiche sono in crisi, è tutta colpa di quei piccoli uomini gialli». La Jal recluta dei manager nel Nordamerica con una missione: trovare qualcosa, qualsiasi cosa, che si possa importare in Giappone per riempire le stive dei suoi Jumbo Jet quando tornano a casa. Secondo la ricostruzione di Sasha Issenberg è un oscuro impiegato canadese della compagnia aerea, Wayne MacAlpine, Da allora il prezzo dei “pinna blu” è cresciuto del diecimila per cento: una performance che sta mettendo a rischio la sopravvivenza stessa della specie dopoguerra perché il palato sempre più esigente e il crescente potere d’acquisto della middle class giapponese selezionino il nuovo “re” del sushi: è il kuromaguro, il favorito tra le infinite possibili variazioni di pesci e frutti di mare e alghe offerti nei sushi-bar. Thunnus thynnus per gli ittiologi, “pinna blu” in inglese, per noi tonno comune. Un po’ grasso ma ben digeribile, energetico e ricco di proteine, il pranzo ideale per manager indaffarati nella conquista del mondo. Essendo la prelibatezza più ricercata, le riserve di banchi di tonno si assottigliano molto rapidamente nelle acque nipponiche durante gli anni Sessanta e Settanta. È a quel punto che si apre il primo ciclo della globalizzazione del sushi, che attraversa le grandi sfide tra superpotenze dell’economia mondiale. All’inizio degli anni Settanta il Sol Levante macina successi industriali travolgenti. In poco tempo il made in Japan invade tutti i mercati, comincia con l’acciaio e i cantieri navali, poi si impone nell’automobile, nell’elettronica, nell’ottica di precisione. La Japan Airlines (Jal) in quell’epoca diventa il numero uno mondiale nel trasporto aereo di cargo merci. ad aver risolto l’equazione nel 1971 mettendo in moto uno sconvolgimento mondiale dei commerci. Sulla costa atlantica del Canada MacAlpine scopre che la pesca del tonno viene praticata a scopi esclusivamente sportivi: il prezzo di mercato è così basso che i pescatori locali si fanno fotografare con i loro trofei poi buttano i tonni nelle discariche (e gli tocca pure pagare una tassa). Così scatta la logica implacabile della domanda e dell’offerta e si apre l’èra del “pesce volante”. Grazie ai progressi nella velocità di trasporto nonché nella tecnologia di refrigerazione, i Jumbo della Jal tornano in patria carichi di tonni. Mentre i conglomerati finanziari del Sol Levante si comprano il Rockefeller Center e i campi di golf sulla Pebble Beach in California, i rudi pescatori del Maine sono gli unici che riescono a invadere il Giappone con una merce americana. Nel frattempo un geniale ristoratore ha presentato all’Expo Universale di Osaka (1970) l’innovazione del “nastro acquatico” dove le barchette cariche di sushi sfilano davanti ai clienti che si servono da soli: è un adattamento della catena di montaggio, per ottimizzare la velocità di servizio e la produttività Repubblica Nazionale DOMENICA 8 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 LA FILIERA DEL TONNO FOTO CORBIS Nelle foto di queste pagine una sequenza delle attività che si svolgono all’alba di ogni giornata nello storico mercato del pesce Tsukiji, al centro di Tokyo. I tonni vengono scaricati, pesati e messi all’asta dai cinquantamila operatori del mercato, che nel prossimo futuro dovrà trasferirsi vicino all’aeroporto internazionale per guadagnare spazio e migliorare tempistica ed efficienza del cuoco; è anche un curioso presagio del toyotismo, la rivoluzione industriale dei flussi continui che metterà in ginocchio l’industria d’Occidente. La tappa successiva vede ancora per protagoniste le stesse multinazionali nipponiche che dominano i mercati americani. Moltiplicano le loro filiali sulla West Coast, creando così tante nuove Japan-town dove i manager non esitano a mettere sulla nota-spese aziendale pranzi da cento dollari a testa a base di “pinna blu”. Questa testa di ponte lanciata dal sushi in America incrocia una nuova tendenza californiana. È il “fenomeno” Alice Waters, la creatrice del ristorante Chez Panisse a Berkeley, un’antesignana di Carlo Petrini e del suo movimento Slow Food. La Waters affonda le radici nella cultura hippy, attacca l’industrializzazione del cibo, prende le distanze anche dalla cucina francese troppo grassa, propone una gastronomia naturale. L’ideologia della Waters — si può star bene mangiando cose squisite — è molto più gradevole delle diete dimagranti che la del tonno si impenna del diecimila per cento, una performance che nessuno hedge fund riuscirà a eguagliare. Tsukiji diventa un iperspazio, luogo virtuale dove si fissano prezzi di partite di tonno scambiate all’istante in tutti gli angoli del pianeta. Issenberg fa entrare negli annali della sushi-story l’agghiacciante reazione di un broker davanti alle prime immagini dell’attacco alle Twin Towers l’11 settembre 2001: «Bastardi, c’è del tonno su uno di quegli aerei!». E dopo lo tsunami che devasta l’isola di Phuket nel dicembre 2004, quando l’aeroporto dell’isola è intasato di aerei coi soccorsi umanitari, il primo jet che decolla alla volta degli Stati Uniti è carico di tonno fresco thailandese. I broker globali del sushi battono Onu e Croce rossa. La caccia al tonno impazzisce, se ne pescano oltre sessantamila tonnellate all’anno, gli ambientalisti temono per la sopravvivenza della specie e l’equilibrio dell’ecosistema. Una dozzina di nazioni concordano un “disarmo controllato” con l’obiettivo di ridurre del venti per Ora la moda del pesce crudo ha fatto breccia nei due grandi mercati del futuro: dilaga nelle metropoli cinesi e anche l’India si allinea inaugurando un “tre stelle” sushi a Mumbai Weight Watchers propone a quei tempi. Su questo terreno propizio il sushi dilaga all’improvviso. Viene raccomandato autorevolmente dai dietologi californiani per prevenire le malattie cardiovascolari. A Hollywood Richard Dreyfus inaugura l’abitudine del sushi “take-away”, consegnato in vassoio agli attori sui set durante le riprese dei film. In pochi anni lo star-system se ne impadronisce. Robert De Niro lancia una joint venture con lo chef Nobu Matsuhisa, che vanta tra i clienti affezionati Bill Clinton e Céline Dion. “Nobu” diventa l’equivalente dei tre stelle Michelin nella ristorazione sushi: dopo Los Angeles apre a Manhattan, Las Vegas, Malibu, Aspen, Paradise Island nelle Bahamas. A Milano è Armani a inaugurare il ristorante Nobu nei suoi locali. L’effetto di emulazione è irresistibile, partito dalla fascia alta il sushi si espande in ogni direzione. In poco tempo nella città meneghina, capitale italiana della moda e della finanza, diventa più facile trovare un sushi-bar che un risotto al salto o una cassoeula. Il mercato di Tsukiji, termometro sensibile, registra l’ascesa forsennata dei prezzi: dagli anni Settanta a oggi il prezzo cento la pesca, ma è dubbio che il limite sarà rispettato. A Tokyo l’inquietudine su possibili penurie genera ondate di panico, si diffondono leggende metropolitane su partite di carne di cervo spacciate per tonno (è il titolo d’apertura di un telegiornale recente). La nuova sensibilità ambientalista sul surriscaldamento climatico rimette in discussione un traffico mondiale di pesce crudo movimentato dal kerosene dei jet. Il grande magazzino londinese Marks&Spencer, per educare il pubblico ad acquistare alimenti locali, introduce l’etichetta con l’immagine di un aeroplano per segnalare i prodotti importati da grandi distanze. Ma la marcia del sushi come emblema della globalizzazione procede senza freni. La moda ha ormai fatto breccia anche nei due mercati del futuro. Nelle grandi metropoli della Cina è stata introdotta, come in America, dai manager delle multinazionali nipponiche, e ormai è onnipresente. In India lo chef Masaharu Morimoto inaugura un “tre stelle” sushi a Mumbai. Dopotutto, se gli indù non mangiano il manzo e i musulmani non toccano il maiale, al tonno crudo si scopre un’altra virtù: la dieta alternativa allo scontro di civiltà. Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2007 la memoria Il quotidiano russo festeggia il novantesimo compleanno con una mostra delle immagini migliori tratte dal suo archivio Secolo sovietico Guerre e rivoluzioni, vertici politici e parate militari, eroi del lavoro e dello spazio. Ma a sorpresa emergono una serie di scatti dove, accanto ai leader inossidabili, una mano ignota ha cancellato il volto dei dignitari caduti in disgrazia Le foto proibite delle Izvestia LEONARDO COEN E MOSCA ra l’aprile del 1961. Doveva fotografare Krusciov che baciava sulla bocca Gagarin, l’eroe del cosmo, appena rientrato dal primo volo orbitale di un uomo attorno alla Terra. Gliel’aveva ordinato Alexsei Ivanovic Agiubei, direttore delle Izvestia, nonché deputato al Soviet Supremo e soprattutto intoccabile genero di Krusciov. «Che significa?», gli rispose Serghej Smirnov, il fotoreporter più famoso dell’epoca. «Significa che dovrai seguire passo per passo Gagarin, dall’aeroporto al Cremlino. Vedrai che al momento opportuno Nikita lo bacerà in bocca. Stai tranquillo: so per certo che succederà. E tu sarai lì, testimone di un gesto che tutti i russi vorrebbero fare e che noi avremo immortalato sulla nostra prima pagina. Guai se quelli della Pravda ci precederanno. Non sopporto quei baciapile del partito. Ti mando un elicottero che ti porterà sulla Piazza Rossa». «Non ce n’è bisogno. Mi basta un’auto e il permesso di entrare al Cremlino». «Kharasciò», tagliò corto Agiubei. Avrebbe umiliato ancora una volta i rivali della paludata e governativa Pravda, l’organo ufficiale del Comitato centrale del Pcus. Con la sua brillante direzione — spregiudicata nel contesto del regime sovietico — sfruttando la parentela, Agiubei aveva ritagliato per le Izvestia(«Le notizie») pezzettini di autonomia: il giornale era diventato popolare perché aveva svecchiato l’informazione, dedicando spazio ai reportage di costume, alle corrispondenze dalle capitali occidentali; perché vi si coglievano velate critiche IDENTITÀ CENSURATE/1 contro l’ottusità burocraFOTO 1. Lenin, dopo l’attentato tica; e perché pubblicavaalla fabbrica Mikhelson di Mosca no le fotografie migliori. nel 1918, tiene il comizio Fu uno sforzo epocale. per l’anniversario della Rivoluzione La censura dell’occhiuto di ottobre. La faccia “cancellata” potere vigilava implacanell’angolo destro della foto bile. Lo imponeva, del repotrebbe essere sto, l’incessante turnover quella di Lev Trotskij. L’altro volto, delle purghe. Il ritocco era che si intravede dietro a Lenin, delicata pratica quotidiapuò essere quello di Varlam na. Compagni di lotta e di Avanessov, commissario partito finivano in disgradella CeKà zia: subito si provvedeva a FOTO 2. Mikhail Kalinin accoglie cancellarli dalle foto. il presidente del parlamento cinese Tratti di penna sulle aniSun-Fo in visita per le trattative me morte della politica. su Ciang Kai Shek, il leader Come al funerale di Makdella Cina del Kuomintang sim Gorkij nella Piazza La persona “cancellata” Rossa. In una celebre fodalla censura potrebbe essere to-regime si vedono in Nikolaj Ezhov, allora prima linea Stalin, Molocommissario del Nkvd, artefice tov, Krusciov, Kaganovidella severa ondata repressiva ch, Voroscilov. C’erano del 1937 e poi assassinato pure Lavrentij Beria, allora onnipotente commissario del Nkvd, e i suoi vice. Sino al 1953. Dopo, la foto venne «aggiornata». Beria e i suoi liquidati due volte. In vita. E in foto. Si vede che Gorkij sollecitava associazioni pericolose. Infatti, in un’altra immagine, lo vediamo con Romain Rolland, ospite al campeggio dei giovani pionieri Artek, in Crimea. C’era anche Aleksandr Kossarev, battezzato dai compagni «onestà e morale». Leader del Komsomol sovietico dell’Associazione dei giovani comunisti finì calunniato, deportato nel gulag e fucilato il 23 febbraio 1939. L’amico Gorkij lo chiamava affettuosamente Sasha. Il suo «errore politico» consistette nell’aver sposato la figlia di un «nemico» personale di Stalin. Risultato: faccia raschiata, per renderla irriconoscibile. Tutti sapevano di queste pratiche, inaugurate fin dai tempi della Rivoluzione d’Ottobre. Lev Trotskij ne è stata la vittima per eccellenza: certe volte in modo grossolano, come al primo comizio di Lenin dopo l’attentato alla fabbrica Mikhelson di Mosca del 1918. Era lì, ascoltava il leader della rivoluzione. La Storia ritoccata da Stalin lo negò. Punito, in quella stessa foto, Varlam Avanessov, commissario della CeKa, la polizia segreta. Quando Mikhail Kalinin, (formale capo dell’Unione sovietica, in qualità di presidente del Soviet Supremo) accolse il presidente del parlamento cinese Sun-Fo, c’erano in ballo importantissime trattative con Ciang Kai Shek, il leader del Kuomintang. Un ruolo non secondario lo ebbe Nikolaj Ezhov, commissario del Nkvd, colui che scatenò una severa ondata di purghe nel 1937. Finì fucilato pochi anni dopo. E le sue immagini furono accuratamente «purgate». Degno contrappasso. Ardua impresa «riflettere sulle cose del Paese ed inquadrarle — anche con una semplice macchina fotografica — da un’ottica non sempre gradita agli occhi del potere», commenta Rosa Nezhina, una delle responsabili dell’immenso archivio fotografico di Izvestia. Si lavorava ingessati dalle perverse logiche di regime. Salvo occasioni eccezionali. Come il giorno di Gagarin: «La sola cosa che contava era non fallire. Fu il “servizio” più difficile della mia carriera. Sapevo che questa foto sarebbe rimasta per sempre nella storia e nella memoria della Russia», 1 2 3 4 LA MOSTRA La mostra fotografica Fumo di patria - Ventesimo secolo, inaugurata al Museo di Storia Contemporanea di Mosca, toccherà quest’estate le principali città russe ed è dedicata al novantesimo anniversario dell’Izvestia, il più antico dei quotidiani russi in vendita dal febbraio del 1917. In rassegna sono esposti, per la prima volta, anche documenti e foto che all’epoca non potevano essere pubblicati sul giornale ricorda Serghej Smirnov. E così fu. «Dissi all’autista di aspettarmi col motore acceso sotto San Basilio, nella Piazza Rossa. Il bacio di Krusciov a Gagarin ci fu. E c’ero pure io. Corsi al giornale: mancava solo la mia foto. Tempo un’ora ed ero già di ritorno con le prime copie fresche d’inchiostro. Le consegnai a Krusciov e a Gagarin. Poi li fotografai mentre insieme leggevano Izvestia con la foto del bacio in prima pagina». Smirnov oggi ha ottantatré anni. È rimasto il fotoreporter più famoso di Russia. Sta sulla breccia da sessantadue anni, quarantanove li ha spesi per Izvestia, il più vecchio dei quotidiani russi: esce da novant’anni, dal fatidico 1917, quando nacque come portavoce dei menscevichi e degli «s.r.», ossia i socialisti rivoluzionari. Sono mesi che Izvestia celebra l’anniversario perché «quella che è passata attraverso le nostre pagine è la nostra vita. Grazie ad esse non è caduta in oblìo. Il giornale può dire con coraggio che è sempre stato con il suo popolo. Là, dove è capitato il nostro popolo, per sfortuna. O per fortuna». La vita di Sergej è la metafora di tutto ciò. È sopravvissuto alla spaventosa carneficina della Seconda guerra mondiale, la Grande guerra patriottica; è passato indenne lungo i tornanti insidiosi dei cambi di potere al Cremlino; ha sopportato il crollo dell’Urss, il caos post-sovietico, l’irruzione del consumismo sfrenato, il dilagare impunito della criminalità, l’oligarchismo; è stato in Afghanistan quando le truppe russe lo invasero e in Cecenia, guerra sporca che la povera Anna Politovskaja descrisse come il luogo del «disonore russo». È appena rientrato da una mega operazione anti-bracconaggio della polizia nel Mar Caspio, giusto in tempo per essere premiato alla mostra fotografica Fumo di Patria-Ventesimo IDENTITÀ CENSURATE/2 Secolo, al Museo di Storia FOTO 3..Maksim Gorkij con Romain Contemporanea di Mo- Rolland, ospiti al campeggio di giovani pionieri Artek, sca, che si è chiusa ieri. Molte, di quelle cento in Crimea. Nella foto è stato stupende immagini, sono “cancellato” il volto di Aleksandr sue: «Ho cominciato in Kossarev, leader del Komsomol guerra. Ero pilota durante sovietico (l’associazione dei giovani l’assedio di Leningrado. comunisti) soprannominato Sorvolavo e fotografavo le dai compagni “onestà e morale” linee tedesche col mio Morì per fucilazione nei gulag piccolo ricognitore di Stalin il 23 febbraio 1939 Yakovlev. Un giorno mi Il suo “errore politico” fu l’aver presentai alla Tass. Fui as- sposato la figlia di un “nemico” sunto un’ora dopo quel personale di Stalin colloquio. Mi misero in FOTO 4. I funerali di Maksim Gorkij una mano la tessera del nella Piazza Rossa del Cremlino razionamento, nell’altra In prima fila si riconoscono il pass del fotografo». Di Stalin, Molotov, Khrusciov, quella guerra, l’immagi- Kaganovich, Voroscilov nario occidentale conser- “Cancellati” dalla censura va la memoria dei film di Lavrentij Beria, l’allora Hollywood e delle foto Li- onnipotente commissario fe. I russi stanno risco- della Nkvd, e i suoi vice prendo soltanto adesso il «minimalismo bellico», dopo i lavaggi del cervello a base di trionfalismo e grandiosità. Dagli archivi emergono immagini antiretoriche. L’universo degli individui. Foto spesso scartate, la più ipocrita delle censure. Perché trattavano guerre viste dalla retrovia, più che dalle prime linee. Volti e risvolti di una Storia messa da parte. La sigaretta di traverso tra le labbra d’un fante sorridente, per esempio: «Fumiamocela compagni, una per una, così un po’ amaro, un po’ col nodo in gola, gustiamo il fumo della patria», era il ritornello di una famosissima canzone d’allora. Nikolaj Petrov, Dmitri Debanov, Vladimir Mussinov, Pavel Troshkin, Anatolij Shurikhin, Gheorghij Zelma, Samarij Gurarij, Dmitri Baltermants, Alexandr Sekretarev, i fotografi di Izvestia, chissà quante volte l’hanno fischiettata mentre documentavano servitù e grandezza della vita militare senza ricorrere al filtro dell’ideologia o alle istruzioni della propaganda. Persino i giganteschi e gloriosi cantieri del socialismo offrono spunti di mirabile arte fotografica, senza l’alito pesante del regime onnipresente. La guerra civile e fratricida appare per quella che è stata. La tragedia dei contadini nell’epoca delle collettivizzazioni forzate è documentata impietosamente. Le foto della Grande guerra patriottica svelano le atroci sofferenze della popolazione civile. E le visite degli ospiti illustri dell’Urss mostrano aspetti più «umani». Che Guevara e Krusciov che si apprestano a sbronzarsi: lo promette il notevole schieramento delle bottiglie maliziosamente ritratte con loro. Fanno pendant con l’orsacchiotto — l’animale totem della Russia — che un maldestro Fidel Castro colbaccato tenta di portare a spasso. Sino alla terribile mimesi di Breznev. Foto dopo foto l’invecchiamento devastante sembra quella dell’Urss. L’ultima visita all’estero, a Bonn, lo tradisce spietatamente: gli occhi vacui, assenti, preannunciano la fine. Altri occhi, invece, raccontano l’oggi. Quelli di Putin. Occhiali scuri da 007, lasciano trapelare lo sguardo di sottecchi di un uomo sempre in guardia, che non si fida mai di nessuno. Ma che sa bene quello che vuole. Repubblica Nazionale DOMENICA 8 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 GLI OPERAI Due operai siderurgici in pausa dal lavoro, la foto è degli anni Venti GLI INCURSORI Tute da neve e scarpe pesanti per gli incursori russi in azione nel 1939/’40 I CARRISTI Due carristi russi durante la Seconda guerra mondiale IL SOLDATO Il corpo di un soldato ucciso dai nemici durante la Seconda guerra mondiale IL FÜHRER Adolf Hitler sfila in auto con i suoi generali per le strade di Berlino IL COSMONAUTA Il russo Jurij Aleksejevic Gagarin dopo l’impresa nello spazio nell’aprile del 1961 LA PARATA Missili in parata sulla Piazza Rossa a Mosca negli anni Settanta IL LÌDER MAXIMO Fidel Castro mentre porta al guinzaglio un orsetto. Unione Sovietica 1963 Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2007 la storia Nel 1821 Esprit Blanche aprì a Parigi una casa di cura per malattie mentali. La frequentarono Alexandre Dumas, Jules Verne, Eugène Delacroix; ci si ricoverarono Gerard de Nerval e Guy de Maupassant. Un avamposto delle tesi freudiane e un laboratorio sulla “luce nera”, ovvero l’intreccio delle “sorelle sfortunate: arte e follia” La clinica che inventò l’analisi D UMBERTO GALIMBERTI ell’anima s’era detto tutto: che era buona o cattiva, mortale o immortale, che poteva salvarsi o dannarsi, conoscere la verità o cadere nell’errore. Elevata a dimora di Dio, la si trovava nei discorsi degli amanti, a garanzia che il desiderio non era solo desiderio di corpi. Il suo compito era nobilitare tutto ciò che nell’uomo “senz’anima” sarebbe apparso poco nobile. Fu nel Settecento che si prese a pensare una cosa impensata: che l’anima potesse ammalarsi e richiedere medici dell’anima. Nacque la psichiatriae con essa la medicalizzazione (iatria) dell’anima. L’ipotesi psichiatrica tolse all’anima un po’ della sua aureola e soprattutto ridusse la sua distanza dal corpo. Se l’anima poteva ammalarsi, dov’era più quella differenza tra anima e corpo che dall’antichità al Settecento e oltre aveva prodotto tante visioni gratificanti e compensatorie del destino umano? Un secolo dopo nacquero la psicologia, studio scientifico dell’anima consegnato alle ipotesi e alle verifiche di laboratorio, e subito dopo la psicoanalisi per “sciogliere (in greco: analyo) con la parola i nodi dell’anima. Tra l’anima e la parola ci fu sempre una profonda parentela. Fu infatti il linguaggio (e non l’amore) ad affascinare l’anima, che da allora si produsse in tutte le parole che, dalle più semplici alle più complesse, compongono quel concerto dell’anima che si chiama arte, poesia, narrazione, letteratura, in una parola cultura. E uomini ci cultura — come Gerard de Nerval e Guy de Maupassant per farsi curare, Alfred de Vigny, Hector Berlioz, Eugène Delacroix, Alexandre Dumas come visitatori e saltuari frequentatori, Jules Verne e Ernest Renan come padri angosciati per la salute mentale dei loro figli — ritroviamo ne La Maison du docteur Blanche. Una casa di cura privata per malattie mentali aperta a Parigi da Esprit Blanche (17961852) e diretta, dopo la sua morte dal figlio Emile (1920-1893), i quali, ai terribili metodi di contenzione in uso all’epoca, sostituirono l’ascolto dei pazienti e quella cura con la parola che, nel secolo successivo, diverranno le forme terapeutiche adottate dalla psicoanalisi e dalla psichiatria fenomenologica. Ma La casa del dottor Blanche, non era solo un luogo di cura, era anche un luogo di osservazione per studiare da un lato i rapporti tra ragione e follia e dall’altro i legami segreti che legano la follia alla creatività. A promuovere questo tipo di ricerca era la persuasione che la follia è una condizione umana presente in noi come lo è la ragione. E una società, che per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, in realtà incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Come diceva Franco Basaglia: «Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere che è poi quella di far diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato». Non era questo l’intento di Philippe Pinel (1745-1826) che nel 1793 inaugurò a Parigi il primo manicomio, liberando i folli dalle prigioni, in base al principio che il folle non può essere equiparato al delinquente. Con questo atto di nascita la psichiatria si presenta come scienza della liberazione dell’uomo. Ma fu un attimo, perché il folle, liberato dalle prigioni, fu subito rinchiuso in un’altra prigione che si chiamerà manicomio. Da quel giorno incomincerà il calvario del folle e la fortuna della psichiatria. Se infatti passiamo in rassegna la storia della psichiatria vediamo emergere i nomi di grandi psichiatri, mentre dei folli esistono solo etichette: isteria, astenia, mania, depressione, schizofrenia. Ma la depressione, la mania, la schizofrenia sono davvero “malattie” come l’ulcera, l’epatite virale, il cancro? O il modo d’essere schizofrenico è così diverso da individuo a individuo e così dipendente dalla storia personale di ciascuno da non consentire di rubricare storie e sintomi così diversi sotto un’unica denominazione? A partire da queste considerazioni, Esprit ed Emile Blanche, che possiamo considerare discepoli ideali di Pinel, si avvicinano alla sofferenza psichica non come a una malattia, ma come alla storia potenziale di chiunque che, da un giorno all’altro, può trovarsi in una deriva di pensieri, sensazioni e sentimenti, i quali, sconnessi, affogano in quella luce nera e così poco rassicurante che, con un nome che oscilla tra il poetico, il geniale e il patologico, siamo soliti chiamare “follia” che, come vuole la bella immagine di Clemens Brentano, è «la sorella sfortunata della poesia». C’è infatti una creatività sempre incistata nella follia, c’è un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente abitiamo, c’è un desiderio di espandere IL FONDATORE Sotto, una lettera di de Nerval a Emile Blanche e in basso, Esprit Blanche A destra nella foto grande, Casa Blanche orizzonti fino alla vertigine del senza-confine, c’è la perla della conchiglia, come vuole l’immagine di Jaspers là dove scrive che: «Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi di una malattia, è al di là dell’opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita». Conosciamo la follia in due accezioni: come il contrario della ragione e come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione follia. Nella prima accezione la follia ci è nota: essa nasce dalle procedure d’esclusione che scaturiscono da quel sistema di regole in cui la ragione consiste. Dove c’è regola c’è deroga, e la storia della follia, raccontata dalla psichiatria, è la storia di queste deroghe. Ma c’è una follia che non è deroga, per la semplice ragione che viene prima delle regole e delle deroghe. Di essa non c’è sapere, perché ogni sapere appartiene all’ordine della ragione, che può mettere in scena il suo discorso tranquillo solo quando la violenza è stata cacciata dalla scena, quando la parola è data alla soluzione del conflitto, non alla sua esplosione, alla sua minaccia. A conoscere questa follia non è la psichiatria ma la creazione artistica che, di fronte al cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, sa da quale fondo esso si è liberato, e perciò non chiude l’abisso del caos, non ignora la terribile apertura verso la fonte opaca e buia che chiama in causa il fondamento stesso della razionalità, perché sa che è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in maniera non oracolare e non enigmatica. Sono parole dettate da forze terribili perché, come nell’Empedocle di Hölderlin, insorgenti con la potenza incontenibile del vulcano che scaraventa il suo fuoco verso il cielo, affinché non si dimentichi che l’ordine della terra ha la durata di un giorno. Un giorno lucido, che tenta di far dimenticare quella luce nera e così poco naturale, da cui in ogni istante ci difendiamo per non precipitare nelle tenebre dell’insensatezza. Eppure c’è chi si fa testimone di questa insensatezza per portarla alle sue espressioni più alte. Costui sacrifica la sua mente e mette la sua parola al servizio del nonsenso. Precipizio di tutti gli ordini logici, massima vertigine, congedo del buon senso e delle sue ordinate parole. Per questo, scrive Jaspers nel sue considerazioni psicopatologiche sulla follia di Hölderlin: «Nel caso dei poeti la questione della follia si pone altrimenti: ora il pericolo minaccia lo stesso poeta, ne può essere schiacciato, mentre il suo compito è proprio quello di trasmettere agli uomini, con la sua opera, ciò che di mortale vi è nel divino, già da lui assimilato e reso inoffensivo». Due ancelle giungono soccorrevoli intorno all’abisso che si è appena spalancato: la psichiatria con il suo catalogo di nomi, a proposito dei quali vale sempre il monito di Kant: «C’è un genere di medici, i medici della mente, che ogni volta che trovano un nome, pensano di aver conosciuto una malattia», e la creazione artistica che non dispone di nomi perché, abitando da sempre l’abisso, ne conosce l’insondabilità. Qui la pato-logia raggiunge la sua essenza, che non è da cercare nella malattia, ma in quel patire (pathos) che si fa parola (loghia). Se non accediamo a questa parola, che è “straniera” perché è “estranea” alla ragione, non sapremo più nulla di Dio e degli dèi e resteremo indecisi nei loro confronti, non sapremo morire perché più non intenderemo la nostra condizione di “mortali”, non conosceremo il dolore se non nella forma dell’impedimento e della disperazione, non sapremo parlare se non in modo sempre più tecnico e impersonale, per cui finiremo con l’abitare il “chiuso” di un mondo popolato da uomini che conoscono un solo linguaggio, con cui danno titoli ai loro discorsi e regole alle loro azioni, le quali, oramai sorde al richiamo dell’“Aperto”, come vuole l’espressione di Rilke, presiedono solo il recinto chiuso della sicurezza. Se, come Heidegger ci ricorda, la ragione è l’ambito rac-chiuso nella previsione del pensiero che calcola, allora la folliaè la condizione dove è possibile arrischiare nell’Aperto, dis-chiuso del pensiero che dispone le cose in relazioni che oltrepassano il recinto delimitato del calcolo e chiamano in gioco i mortali e i divini, il cielo e la terra? Di questo sono capaci quei folli che già Platone segnalava “abitati dal dio”. E allora qui si scorge il nesso tra follia e creazione artistica, naturalmente con il sacrificio dell’artista, il quale, con la sua catastrofe biografica, segnala la condizione che è la vita come assenza di protezione, da cui noi ci difendiamo non oltrepassando il recinto chiuso della nostra ragione, che abbiamo edificato come rimedio all’angoscia. Qui la psichiatria si ritira rossa di vergogna, mentre accanto alla follia resta l’arte come espressione sintomatologica della condizione umana. “Sin-tomo” è parola greca che vuol dire “co-incidenza”. Quello che forse abbiamo ancora il timore di capire è perché, nelle loro espressioni più alte, arte e follia coincidono, perché accadono insieme. Repubblica Nazionale DOMENICA 8 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Jules Verne Alexandre Dumas Il creatore del Nautilus, preoccupato per la salute mentale del figlio Michel, si rivolse a Blanche che lo visitò ma non lo ricoverò Il grande romanziere frequentava Casa Blanche per osservare il comportamento dei pazienti Guy de Maupassant Edouard Manet La malattia mentale lo colpì a quarant’anni Scrisse: “La morte è imminente e io sono pazzo” Un altro grande frequentatore di Casa Blanche, anche se il professore non amava lo stile impressionista I segreti del dottor Blanche AMBRA SOMASCHINI Hector Berlioz Il dottor Blanche amava la compagnia dei musicisti Conobbe il librettista in gioventù e la loro amicizia durò tutta la vita to proprio Blanche a incoraggiare Nerval a scrivere i a vostra casa è un palazzo incantato». Gèsuoi sogni prefigurando così il metodo chiave della rard de Nerval descrive così la casa di cura psicoanalisi». per malati di mente fondata da Esprit BlanBlanche studiava il rapporto tra arte e follia? che nel 1821 a Passy, un luogo-mito per la Parigi in«Per lui l’arte era diventata un mezzo terapeutico tellettuale dell’Ottocento. Laure Murat racconta per curare la follia. Maupassant, ad esempio, era inquesto posto speciale e i suoi casi di follia celebre ne teressato al potenziale poetico dell'isteria ma nello La casa del dottor Blanche, storia di un luogo di cura e stesso tempo temeva il potere distruttivo deldei suoi ospiti, da Nerval a Maupassant(Il Mela follia, l’annullamento del pensiero». langolo, 441 pagine, 25 euro). «Ho avviato una Che cosa l’ha appassionata di più durante ricerca - spiega l'autrice - e ho trovato i registri la sua ricerca? dei pazienti in una clinica vicino Parigi. La cli«Le mie scoperte. Emile Blanche, il figlio di nica aveva riscattato gli archivi di Blanche che Esprit, diceva che i dossier medici non esistedescrivevano i casi di Maupassant, Van Gogh, vano più, che erano stati bruciati su richiesta di Gounod. In quei testi c’era una miniera». suo padre. Non ci credevo, una legge imponeCome le è venuto in mente un libro del geva a tutte le case di cura di conservare i registri nere? Folli celebri ospitati in una clinica «alcon date, ricoveri, dimissioni, diagnosi. Alla fiternativa» che, osserva Mauro Mancia nelne li ho trovati: i discendenti del dottor Blanche l'introduzione, «anticipò la psicoanalisi». COPERTINA avevano donato la corrispondenza dei loro avi «Avevo i documenti. È stato un amico a sugLa casa all’Institut de France, centinaia di lettere, Dugerirmi: “Ma perché non butti giù qualcosa su del dottor mas, Verne, Monet, Renoir, Degas». questa casa di cura di cui non si sa nulla?”». Blanche Un caso unico in Europa all’inizio dell’OtGèrard de Nerval ha annotato nei suoi tactocento? cuini: «Ho paura di essere in una clinica di sa«Ci furono altri esperimenti del genere in Inghilvi e che i pazzi siano fuori». Era così la villa del dottor terra. Ma soltanto il dottor Blanche riuscì ad accoBlanche? gliere i personaggi dell'epoca. Le sue rette però erano «Si avvicinava più a una pensione famigliare che a molto care e Charles Baudelaire non fu ricoverato un ricovero psichiatrico, il metodo terapeutico era proprio per questo motivo. La madre si rifiutò di sborbasato sulla parola e sulla comprensione, un «metosare tutti quei soldi per Passy». do morale» come lo chiamava Esprit Blanche. Era sta- «L Gerard de Nerval Del poeta morto suicida Dumas disse: “In lui c’erano due uomini, quello sensato guardava agire il pazzo” Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2007 “Un’aria di sacrestia invade il paese”, denunciò lo scrittore quando tra il 1951 e il ’52 si mise il veto su “La governante”, centrata su un amore lesbico, come “opera contraria alla morale”. La decisione fu di Giulio Andreotti. Le carte che pubblichiamo raccontano gli inediti della vicenda LA FINESTRA DEL PAPA Uno dei tagli sul copione della “Governante” proposto da Nicola De Pirro, allora presidente della Commissione Censura. È una scena successiva all’accusa di lesbismo della governante Caterina alla servetta Jana. Il padrone di casa, Leopoldo Platania: In Sicilia Jana era un angelo «e qui, a pochi passi da San Pietro», con «la luce della finestra del Papa» che arriva in casa, questa piccola canaglia si comporta in questo modo... Il riferimento al Pontefice è cassato.Il copione coi tagli sarà pubblicato a cura di Sonia Gentili sul “Bollettino di italianistica” diretto da Alberto Asor Rosa OMNIA MUNDA MUNDIS Qui si misurano censore e censurato. Brancati fa dire a un personaggio: «La moralità italiana consiste tutta nell’istituire la censura. Non solo non vogliono leggere o andare a teatro, ma vogliono essere sicuri che nelle commedie che non vedono e nei libri che non leggono non ci sia nessuna delle cose che essi fanno tutto il giorno...». Il censore annota: «Non sembra opportuno tagliare il pezzo, quasi riconoscendo che è offensivo, accusando il colpo. Omnia munda mundis». La commedia storta e i suoi censori N SIMONETTA FIORI on ci si poteva riferire al Pontefice né parlare di omosessualità, tanto meno se di specie femminile. Ma neanche i cedimenti carnali o i palpeggi rigorosamente «etero» erano ammessi in quell’Italia pudibonda dei primi anni Cinquanta, che vietava con disinvoltura Machiavelli e Brecht e non esitò a bocciare La governante di Brancati, perché «scabrosa» e «contraria alla morale». Un paese lunarmente distante dall’attuale, ancora contadino e ammaccato dalla guerra, ma neppure così diverso nella pruderie sessuale e nel diffuso ossequio alle gerarchie sante. «Un’aria di sacrestia invade il paese», denunciò ferito lo scrittore. «Dopo il nero fascista il nero prete», ripete oggi la moglie Anna Proclemer, mentre insieme alla figlia Antonia sfoglia per la prima volta le carte dei censori, ora affiorate dall’Archivio Centrale dello Stato grazie alla tesi di laurea di Barbara Rossi. Dopo oltre mezzo secolo, le eredi Brancati possono finalmente leggere il copione teatrale con i tagli proposti dall’allora Ufficio Censura, mesta prosecuzione in democrazia della burocrazia fascista, oltre ai documenti ufficiali e ufficiosi con cui tra il dicembre del 1951 e il marzo del 1952 fu negato il nullaosta al capolavoro teatrale dedicato da Vitaliano alla sua Annina. «Sì, fu una dichiarazione d’amore», dice la Proclemer. «Brancati aveva sempre nutrito sentimenti ambivalenti nei Anna Proclemer racconta: “Quel testo teatrale? Una dichiarazione d’amore” “Per me volle scrivere il personaggio di Caterina ma non lo vide in scena” Normale di Pisa METTERE IN GIOCO IL SAPERE PER GIUNGERE ALL’INVENZIONE SCUOLA NORMALE SUPERIORE Pisa SUL PALCO Gianrico Tedeschi e Anna Proclemer ne La Governante nel 1965 Sono on-line i bandi per i concorsi di ammissione al corso ordinario e al Phd della Scuola Normale Superiore. Per informazioni consultare il sito www.sns.it confronti del mio lavoro d’attrice, che per lui significava lontananza e abbandono. Per me volle il personaggio di Caterina, che non riuscì a vedere in scena. La governante poté essere rappresentata solo nel 1965, undici anni dopo la sua morte». Prima di entrare nelle ovattate stanze di via Veneto dove, in quel dicembre del 1951, operavano solerti i funzionari della Commissione consultiva per la Censura teatrale, occorrerà rievocare la «licenziosa» storia narrata da Brancati, incentrata più sulla calunnia che sull’amore tra due donne. A reggere la scena è infatti l’accusa di lesbismo rivolta da una governante giovane e charmeuse, Caterina, a una selvatica cameriera siciliana, Jana, entrambe al servizio del vecchio Leopoldo Platania. Indignazione e scandalo provocano la cacciata della «innocente» Jana, mentre poi si scopre che l’omosessualità è «stortura» della sola Caterina, la quale sconterà nel suicidio la propria «terribile colpa». «Se c’è un difetto della commedia è proprio nel suo moralismo», commenta oggi la Proclemer, che confessa essere stata lei l’ispiratrice della storia. «Nel 1948 avevo scritto a mio marito dell’inquietante colloquio avuto con la governante di nostra figlia, una puericultrice riservata e casta, quasi una monaca. Fu questa austera signorina ad accusare una mia antica domestica di essere un po’ «storta», insomma viziosa. Nella commedia c’è una scena che ricalca quasi parola per parola il dialogo della mia lettera. Nella realtà l’episodio non ebbe seguito. Nella fantasia di Brancati invece rimase per tre anni in incubazione, mescolandosi ad altri umori e a temi a lui cari». Nell’opera finita, di «contrario alla morale» non c’è nulla, come notava Brancati stupefatto dalla censura: «La morale che vige nella commedia è quella provinciale del vecchio Leopoldo. E la peccatrice finisce con l’uccidersi. Qual è il principio sovvertitore che viene enunciato nella commedia?». Per dare una risposta alle legittime inquietudini dello scrittore occorrerà ritornare in quell’elegante palazzo di via Veneto, che ospita nel dicembre del Repubblica Nazionale DOMENICA 8 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 IN BIANCO E NERO Nel disegno, Vitaliano Brancati visto da Tullio Pericoli; più in basso, lo scrittore e Anna Proclemer in una foto giovanile L’AMMISSIONE DELLA COLPA È una delle scene chiave della commedia, Caterina chiede scusa a Leopoldo perché è lesbica. «Non le ho mentito, le giuro - fuorché in un punto... C’è questo nella mia vita. Io ho letto dei libri che mi giustificavano. Erano libri di grandi scrittori. Ma non sono riusciti a ottenere da me che io mi perdonassi». Qui il censore non ha dubbi: cassare. Poi però Caterina aggiunge: «Non mi sono perdonata mai. Ho la religione di ciò che è naturale e comune a tutti. E forse per questo il mio diavolo ha avuto tanto potere su di me». Il censore: «Da notare come in questa scena c’è tutta la sconfessione che Caterina fa della sua vita di errore». Ma alla fine prevarrà il taglio, come s’evince dall’appunto di Nicola De Pirro indirizzato ad Andreotti nel marzo 1952 ori 1951 «i più perfetti mandatari dell’odio per la cultura» (copyright Brancati). Intorno a un tavolo — sotto la presidenza di Nicola De Pirro, direttore generale dello Spettacolo — siedono i membri della Commissione Censura: Zuccaro dalla Pubblica Istruzione, Gerlini dagli Interni, De Leone dal Lavoro. Alla riunione non partecipa Libero Bigiaretti, probabilmente il solo che ne capisca. Il parere negativo sulla commedia, «tutta impostata sull’equivoco personaggio di un’anormale», raccoglie quasi l’unanimità. Una donna «storta» non ha diritto di esistere sui palcoscenici nazionali. Bocciata. L’autorità ministeriale che deve ratificare il divieto è un democristiano poco più che trentenne: Giulio Andreotti. «Nel suo volto c’è come una implorazione d’indulgenza, ma può essere anche un modo troppo disinvolto di chiedere scusa per quello che penserà e dirà», lo ritrae Brancati con accenti profetici. Ricopre la carica di Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Direzione generale dello Spettacolo: il numero uno, in sostanza, della censura. Trattandosi di Andreotti, annusa da lontano l’odore della miccia nascosta nel copione di uno dei maggiori scrittori italiani. Per mettersi al riparo, chiede un parere a Giuseppe Sala, direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia. Arte o non arte? Scomodando un po’ a sproposito Aristotele, l’erudito Sala sembra non avere dubbi: «La scabrosità del tema non è redenta da catarsi artistica» e in fondo l’opera, omologandosi «al consueto genere delle commedie infarcite di anomalie sessuali», ispira «compassione e ammirazione per tutte le lesbiche ». Si vieti, per carità. Il 26 gennaio del 1952 Andreotti dà disposizione di comunicare a Brancati che il visto è stato negato. «È stata proibita La governante!», griderà Brancati alla sua bambina Antonia, la quale ancora oggi sorride: «Gli risposi “ma che dici papà?” pensando alla mia tata». Lo scrittore non si dà per vinto. Già colpito negli anni Trenta dalla censura fascista, s’infuria da- RECITAL ALL’ETNAFEST DI CATANIA Nel centenario della nascita si celebra un “anno brancatiano” il cui primo evento è Viaggio attraverso Brancati, un inedito recital con letture di Anna Proclemer e la partecipazione di Antonia Brancati (Catania, 24 luglio alle 21 all’Anfiteatro del Centro Culturale Le Ciminiere). Il recital si tiene nel quadro dell’Etnafest di Catania 2007, nel cui calendario spicca anche, il 21 luglio, il concerto dei Bajofondo Tango Club con Gustavo Santaolalla, oscar per le colonne sonore de I segreti di Brokeback Mountain e di Babel ANDREOTTI FIRMA A sinistra il documento, datato 26 gennaio 1952, con cui Giulio Andreotti, allora sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, Direzione generale dello Spettacolo, dà disposizione di comunicare a Brancati che la sua commedia non andrà in scena. Già colpito negli anni Trenta dalla censura fascista, lo scrittore s'infuria davanti alla nuova "dittatura clericale” Nel marzo De Pirro tenta una strada più morbida, proponendo dei tagli al copione. Ma Andreotti annota: «Mi pare proprio una materia indigeribile». Brancati muore nel 1954. La governante andrà in scena nel 1965 vanti alla nuova «dittatura clericale». Annuncia di voler scrivere per il Mondoun pamphlet di denuncia contro quel «partito di erotomani» che è lo scudocrociato. Lo viene a sapere anche De Pirro, il presidente della Commissione Censura, che nel marzo del 1952 avverte Andreotti suggerendo una strada più morbida, «numerosi tagli che alleggeriscano situazioni troppo evidenti e particolari crudezze»: così la commedia potrebbe essere autorizzata. «Mi pare proprio una materia indigeribile...», replica Andreotti. Neppure con i tagli — sui turbamenti della carne, sui riferimenti innocenti al Papa, sugli sguardi sospetti di erotismo omosessuale — La governante può essere ospitata sui palcoscenici. Esplode il caso. Brancati reagisce al divieto con un saggio che diventerà proverbiale: Ritorno alla censura. Può essere rivelatore che né il prudente Valentino Bompiani né l’impegnato Giulio Einaudi accettano di pubblicare il testo. Si fa avanti il giovane Vito Laterza, che ospita il saggio insieme a La governante nei “Libri del Tempo”. In una lettera a Brancati, Visconti confessa di non essere sorpreso: lui, quell’Italia medioevale, la conosce bene. Ma l’ambiente teatrale non è fatto di leoni: alla lettura del copione, un mugugno increspa le labbra di Orazio Costa, un mito per la scena italiana. Nel 1954 Brancati muore senza aver mai visto i suoi personaggi in scena. Due anni più tardi, nell’ottobre del 1956, ci riproveranno la Proclemer e Giorgio Albertazzi. Anche questa volta la censura è implacabile: «Commedia morbosa». L’Italia non è cambiata. «Scrissi una lettera a De Pirro per convincerlo», rievoca oggi la Proclemer, «ma non servì a nulla». Il verdetto in poco si discosta dalla precedente bocciatura: «Contraria alla morale e offensiva nei confronti dei principi costitutivi della famiglia». Censurata. Accadeva il secolo scorso, ma è come se la trama del discorso arrivasse fino a oggi. Lo dice bene Brancati: «L’Italia non si stanca mai d’essere un paese arretrato. Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur di rimanere vecchio». Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2007 la lettura Baires a rovescio Un gruppo di artisti nel loro universo surreale, fatto di giochi di parole, spiritismo, quadri metafisici È il romanzo giovanile di uno dei più grandi scrittori argentini che ora Voland pubblica in Italia. Anticipiamo il primo capitolo in cui si racconta di un poeta di nome Jorge e che non solo per questo assomiglia a Borges Il realismo magico nel tempo perduto JULIO CORTÁZAR arlo di un tempo distante e ormai cinerario, quando eravamo in tanti e vivevamo come racconto qui, poco per gli altri e quasi tutto per i miei giorni festivi che riempio instancabilmente di parole. L’arancia si apre in spicchi traslucidi che alzo al sole di una lampada per vedere tra la linfa il globulo scuro dei semi. Da uno degli spicchi escono i Vigil, ora sto con loro e con gli altri nella casa di Villa del Parque dove giocavamo a vivere. Jorge si dedicava all’introspezione, recitava poesie automatiche di inconfutabile bellezza. Allungato sul tavolo da disegno, i capelli tra fogli canson e carboncino, mormorava tra sé le melopee preliminari che lo facevano cadere in trance. — Sta oliando la bicicletta — mi disse Marta che allora prediligeva le immagini forti. — Vieni a vedere questa meraviglia. Mi avvicinai alla vetrata che dava a ovest. Dietro una tenda da sole a righe arancione e blu c’era il paesaggio agreste, ma qualcuno aveva fatto un buco rettangolare da dove entrava il sole delle quattro mescolato a brandelli di figure e di nubi. — Guarda qui, è un Poussin favoloso. Non era affatto un Poussin, piuttosto un Rousseau, però la luce del pomeriggio, il caldo, qualcosa in quel frammento d’esterno che si stagliava attraverso la tenda, gli davano un’importanza a cui non si poteva sfuggire. Chinandomi verso l’angolo dove Marta mi esortava a guardare, capii la ragione della sua meraviglia. In un prato non troppo distante, proprio accanto alla facoltà di agraria, una gran quantità di mucche pascolava in pieno sole, bianche e nere, in perfetta simmetria. Avevano qualcosa del mosaico e del quadro vivente, un balletto idiota di figure lentissime e ostinate; la distanza impediva di distinguerne i movimenti, ma osservando con attenzione si vedeva cambiare a poco a poco la forma dell’insieme, la costellazione bovina. — È fantastico che sedici mucche riescano a stare in questo buchetto — disse Marta — Conosco già la storia della prospettiva, ecc. Con un dito si copre il sole, e bla bla bla. Ma se ti fidi soltanto dei tuoi occhi, per un attimo soltanto dei tuoi occhi, e vedi quella decalcomania purissima laggiù, tutto è perfetto: il prato verde le mucche nere e bianche, due vicine, altre più in là, tre in fila e ritagliate; la cosa fantastica è l’irrealtà di queste figure che sembrano tanto una cartolina illustrata. — La cornice del buco permette l’illusione — dissi. — Quando torna Renato possiamo chiedergli di dipingerlo. Realismo magico, sedici mucche che celebrano la nascita di Venere in un torrido pomeriggio. — Il titolo va bene, senza contare che sarebbe l’unico modo per convincere Renato a dipingere qualcosa che vediamo anche noi. Anche se il quadro che sta facendo adesso è piuttosto fotografico. — Be’, sì. Ma fotografato da un marziano o visto attraverso l’occhio sfaccettato di una mosca. Immàginati come deve essere fotografare la realtà attraverso l’occhio di una mosca. — Preferisco le mie mucchette. Guardale ancora, Insetto, guardale ancora. Peccato che Jorge stia dormendo, sarebbe bello fargliele vedere. Sapevo quello che sarebbe successo. Jorge mosse un braccio con uno scatto nervoso, sollevandosi a metà dal tavolo di Renato. Era un po’ pallido, guardava fisso sua sorella. — Ascolta, sciocca, ce l’ho già. Ascoltate tutti e due, ora comincia. La parola è menta, tutto nasce da lì, lo vedo ma non so cosa diventerà. Adesso aspettate, l’ombra della menta fra le labbra, l’origine segreta di cer- P In questa terra di vini corposi la geografia è colma di sapori rossi e aurei, mosti piccanti di San Juan, bottiglie di Bianco di Cuyo te bevande centellinate sotto luci fumose, a volte tornano come parole e si aggregano al ricordo per non lasciarlo andare solo sotto le antiche lune. («Bella poesia» mi disse Marta all’orecchio mentre scriveva velocissima.) Tutto questo è vano, l’importante permane nell’atteggiamento sobrio degli edifici e delle nuvole basse; nondimeno fa parte di vite già depositate sul fondo di bicchieri vuoti, con impronte di labbra sul bordo dove il pulviscolo dell’alba si decanta infinito. È così che ricordo un anice secco e penetrante bevuto in una casa di calle Paysandú; un aloja tracannato per il caldo torrido di Tucumán e una granatina fior di fuoco in un caffè letterario di Mendoza. In questa terra di vini corposi la geografia è colma di sapori rossi e aurei, mosti piccanti di San Juan, bottiglie di Bianco di Cuyo e breve gloria nelle altissime botti dei leggendari Súter. Questo vino è una lumaca andina, quello, una notte insonne trascorsa a tracannarne fiumi, e il più amaro e umile, il vino sfuso da bottega su strade sterrate e salici ormai altissimi, ai margini di Buenos Aires dove la noia chiama la sete. Jorge si interruppe per respirare rumorosamente, fece una strana smorfia con la bocca. — È giusto anche essere inclini alla diafana miseria dell’acquavite, che… Merda, non non riesco ad andare avanti. Si tirò su ansimando. Il colore gli tornava in viso, ma non ancora del tutto. Si gettò su una sedia. — Troppo spettacolo per così poco — mi disse Marta. — Sembra un catalogo di Arizu. Mi sono piaciute di più quelle di ieri sera, gli sono uscite improvvise e perfette. Le hai sentite, Insetto? — No. — Si intitolano Poesie con orsi pigri. — Ogni orso avrà il suo orologio — dissi con malizia. — Ci sono anche plagi automatici. — E cos’è un plagio, me lo sai dire? Bisogna analizzare l’idea del plagio all’origine. Non vedi le mie mucche? Una plagia l’altra, sedici plagi in bianco e nero; il risultato, una stupenda cartolina stile idiota. Un capolavoro. — Marta, Marta… — canticchiai io, attaccando M’appari. Ma Jorge la guardava fisso, scomponendola in pezzi; ricordo che rimase un intero secondo a osservarle la Repubblica Nazionale DOMENICA 8 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 ILLUSTRAZIONE DI GIPI IL LIBRO Si intitola Divertimento, è il primo romanzo di Julio Cortázar, pubblicato dopo la sua morte nel 1986 Ora il libro (nella foto la copertina disegnata da Alberto Lecaldano) viene pubblicato da Voland e uscirà il 13 luglio. A Buenos Aires, durante il “Carnaval” del 1949, un gruppo di ragazzi trascorre il proprio tempo in un atelier tra poesie, dipinti e sedute spiritiche raccontate da “Insetto”, la voce narrante fibbia della cintura. — L’hai trascritto Marta? Che cos’era? — Un trattato di enologia, tesoro mio. Ma conosci l’accordo, non lo leggerai fino a domani. Le straccia, Insetto; gliele do e lui trova che non sono abbastanza geniali e le distrugge. — Il pennello del silenzio scrive per te la parola figlia di puttana — disse Jorge pensieroso. — E ora mi dedicherò alle diagonali, al mate amaro, a decifrare il comportamento delle coccinelle. — Ottimo materiale — gli dissi con la mia più sottile ironia. — È curioso come voi automatici lavoriate con tanto impegno per la prossima esibizione. — Oliano la bicicletta — disse Marta. — La ginnastica del cuore si compone di numerosi movimenti oscillatori e di sussulti — osservò Jorge, guardandomi e sorridendo. — Bene, basta poesia. — Era davvero capace di uscire dalla trance e ricomporsi in un attimo. Fece un paio di piegamenti e si avvicinò alla vetrata. — Cosa farneticavate a proposito di mucche? — guardò il pezzetto di paesaggio si fece serio. — C’è qualcosa lì. Costellazione bovina, placca microscopica, pulci pezzate domestiche. Di tutto. Avevi ragione Marta, è una cartolina bellissima. La mandiamo a zio Tomás? “Con i nostri più cari saluti da questi splendidi prati, i Vigil”. — Gli piacciono i versi. Meglio uno dei tuoi. — Va bene. “Da questi splendidi prati, i tuoi nipoti affezionati”. — Eccellente, si vede che hai talento, audacia. Senti, posso avanzare un sospetto? — Sì. La risposta è no. — Jorge, hai appena finito di dettarmi questa poesia. — Tu l’hai trascritta perché ne avevi voglia, nonostante i nostri accordi. — Non fare lo stupido — mormorò Marta, andandosi a sedere sul vecchio sofà di Renato. — Sai benissimo quello che voglio dirti. Quella poesia era già stata composta. — Guardò con la coda dell’occhio le pagine. — In questa terra di vini corposi… Non dici mai cose così, a meno che non le pensi. Jorge mi guardò facendo una smorfia. — Che iattura, le sorelle intelligenti. Tu sei la mia scrivana, per ogni poesia che mi trascrivi al volo io ti do quello che abbiamo concordato. Va bene, lo ammetto, una parte era già stata masticata. Le faccio prima di È così che ricordo un anice secco e penetrante bevuto in una casa di calle Paysandù: un aloja tracannato per il caldo torrido di Tucumàn addormentarmi, frasi sciolte, mescolate con i fosfeni e i dormiveglia. Per dopo devo determinare il tutto, mettere in moto. Andiamo a fare il caffè, Insetto? Il cucinino era accanto all’atelier. Sentivamo Marta canticchiare mentre versavamo l’acqua, Jorge contava le cucchiaiate di caffè e le gettava in un fazzoletto che serviva da filtro. — Renato è una vera bestia — disse mostrandomi il fazzoletto. — È capace di ripetere le immortali gesta di don Luis Molla, farmacista. Entrambi salmodiammo in coro: — Il farmacista don Luis Molla Si lavava l’uccello in un’ampolla. Ma la moglie, che più tonta non c’è, con l’acqua dell’ampolla fece il caffè. E dopo una maestosa pausa: — Morale: Non dire mai questa a bere non me la dài — Abbiamo cantato magnificamente — disse Jorge. — Hai sentito, Marta? — Bella coppia di sporcaccioni, tu e Insetto. Per me un caffè doppio. Scrivana esaurita necessita bombole ossigeno da somministrarsi tramite soccorsi Reuter. — Quando arriveremo a uno stile simile? — mormorò Jorge, versando serio il caffè. — Guarda l’economia, perfino la bellezza di certe strutture. Funziona benissimo: Scrivana esaurita necessita bombole ossigeno. Noi Vigil siamo intelligenti. Io, per esempio, mi sono accorto che Renato è mezzo matto da una settimana. — Renato è un po’ più matto di una settimana fa — corressi. — Renato è matto — disse Marta da fuori. — Ha questo vantaggio su voi due, che siete semplicemente stupidi. La poesia di Jorge è poesia stupida e finirà per imporsi. Bisogna coltivare la stupidità. Manifesto dei Vigil, creature d’eccezione. — Eccezione l’Africano — rise Jorge. — Giunto a Capua, Annibale si dedicò a una vita dissoluta. Gli ozi di Capua, li chiamano. Traduci questo nel tuo stile, Marta. — Annibale raggiunge Capua scopo dissolutezza. — Cinque parole, tariffa ridotta. Il nostro caro e defunto padre, don Leonardo Nuri, avrà forse lavorato alle poste? Pensava a un telegramma la notte in cui ti ha concepita? — Io penso a Renato — disse Marta. — Io penso che Renato è triste, che non arriva, che mi piace il suo quadro. Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2007 Ci provò in tutti i modi: all’inizio con Buñuel poi con Hitchcock, Pasolini, Fellini. Cercò di portare sullo schermo le sue visioni, ma fu un fiasco. L’ossessione di sfondare in un’arte non sua durò fino alla morte. Ora la Modern Tate Gallery dedica una mostra a questa sconfitta Un poste r del film Babaou o del ’32 , un dise gno di H arpo Ma rx e H Dalì che ritrae il c omico (’ 37). E LONDRA ollywood allora era a caccia di talenti europei, possibilmente noti per sregolatezze e trasgressioni, di rinomato temperamento artistico e in grado di attirare l’interesse mondano e mediatico del nuovo pubblico di massa. Con quei baffi sottili e ridicolmente lunghi, gli occhi neri luciferini, i capelli unti, una compagna di origine russa che continuava ad andare a letto con l’ex marito, il poeta surrealista-comunista Paul Eluard, Salvador Dalì, che vantava anche la fama di surrealista tra i più intemperanti, parve subito una preda di massima commerciabilità alla sempre più potente industria del cinema americano. L’artista catalano aveva già scandalizzato il mondo — e il settimanale Timenel 1936 gli aveva dedicato una copertina — oltre che con i suoi dipinti e le sue stravaganze, anche con due film, passati per sempre alla storia del cinema, girati assieme all’allora amico Luis Buñuel. Venerati e anche scopiazzati tuttora da maestri dell’horror come George Romero e Eli Roth, entusiasmarono i giovani intellettuali di allora, mai sazi di spaventi rivoluzionari e anti-artistica spazzatura, con la celebre nauseante scena del globo oculare lacerato da una rasoiata (Un chien andalou, 24 minuti muti, 1929) e con la scandalosa sequenza delle figure che ricordano Cristo impegnate in orge sadiche (L’age d’or, 63 minuti, 1930). Quest’ultimo film fu ritirato dagli schermi dopo solo sei giorni per manifesta blasfemia e i suoi nobili e miti finanziatori, i visconti d’avanguardia Charles e MarieLaure de Noailles, rischiarono la scomunica. Un chien andalou aveva di colpo dato una sulfurea celebrità ai suoi giovani autori, ma portò invece sfortuna agli interpreti: il protagonista, Pierre Batcheff, morì a ventiquattro anni, nel 1932, per un’overdose di Veronal, mentre la ragazza dall’occhio cinerasoiato, nel 1954, in stile con il film, si cosparse di benzina e si diede fuoco. I curatori di mostre, soggiogati dal fascino pasticcione e mercantile di Dalì, stanno tuttora trascinando le celebrazioni del centenario della sua nascita, avvenuta il 4 maggio 1904 nella catalana Figueras: essendo ormai stato esposto anche il più piccolo frammento dell’opera dell’artista e dei suoi affezionati falsari, la Tate Modern dedica una grandiosa mostra (sedici sale), a Dalì & Film, interessante soprattutto per il modo in cui viene esaltato il legame tra le opere pittoriche dell’artista e il suo lavoro per il cinema; quella cosiddetta settima arte che non volle prenderlo sul serio, allettandolo, usandolo, piegandolo agli standard di una industria giustamente legata al profitto, e soprattutto mandandolo elegantemente a quel paese. Dal conflitto con il cinema, che lui considerava anti-artistico e perciò surrealisticamente importante, il baffuto stregone uscì sconfitto: a parte i due film giovanili (lui aveva venticinque anni, Buñuel, che iniziò da lì la sua magnifica carriera di regista, trenta), non restano che frammenti rimaneggiati da altri, sceneggiature respinte, bozzetti mai realizzati, idee inascoltate, scritti dementi e anche ritratti propiziatori di personaggi che non se ne lasciarono sedurre. Nel dopoguerra Dalì ritrasse il produttore Jack Warner con enorme cane (1951), invano, perché lui respinse la proposta di realizzare un documentario dal suo libro 50 segreti dei magici mestieri;né maggior successo ebbe quello sdoppiato di Laurence Oliver (1955), bello al naturale e nasone nel ruolo di Riccardo III; sicché il meno servile e più dalidiano resta l’opera intitolata Shirley Temple, il più giovane mostro sacro del cinema in cui il viso fotografato Il sogno infranto del mago dei sogni NATALIA ASPESI una sce na di Spellb ound (’4 4) della celebre piccina ha un pipistrello tra i capelli e si propaga in un corpo rosso da sfinge tra ossa e teschi umani. Era il 1939 e la piccola diva ormai undicenne stava PIC Un’immCOLA ICONA scivolando verso la nemica adolescenza ag Templeine di Shirley e la sua alienazione non poteva sfuggire del 193 all’artista che nello stesso anno aveva 0 composto con foto e pennelli il ritratto intitolato Piccino bulgaro mentre mangia un topo, che pende sanguinante dalla rosea bocca. Anni prima, già ossessionato dalle esagerazioni hollywoodiane, aveva dipinto La faccia di Mae West che può essere usata come appartamento surrealista: bocca come divano, naso come conSHIR solle, occhi come quadretti, capelli come La sfin LEY TEMPLE tendaggi. bambin ge dedicata a ll a prod Dalì continuava a scrivere e disegnare igio (19 a 39) progetti di film surrealisti (La capra igienica, Cinque minuti a proposito del surrealismo, Contro la famiglia, Babaouo, I misteri surrealisti di New York) quindi improponibili a qualsiasi produttore sano di mente. Ma lui e Gala, anche per ragioni finanziarie, volevano assolutamente infiltrarsi con la loro celebrità trasgressiva tra i grandi di Hollywood che, a OCCHIO La parte i baffi di Adolphe Menjou e le estadi Un C scena shoc k hien an si della Garbo, aveva, secondo il pittore, dalou (1 tre pilastri surrealisti: Harpo Marx (Ani929) mal Crackers), Cecil B. De Mille (Cleopatra) e Walt Disney (Silly Symphonies). «Incontrai Harpo per la prima volta nel suo giardino, era nudo, con una corona di rose in testa, al centro di una foresta di arpe (almeno cinquecento). Come novella Leda, accarezzava uno splendido cigno bianco nutrendolo con una statua SPELLB della Venere di Milo fatta di formaggio OUND Uno stu che grattugiava sulle corde dell’arpa più per il fi dio di Dalì lm del vicina…». Spesso il surrealismo di Dalì, e 1944 non solo il suo, rasenta la scempiaggine, come in questo saggio del 1937. Non fu per scempiaggine invece che andò a monte la sua prima collaborazione con il cinema americano. Gli era stata affidata la sequenza del sogno del drammatico Moontide, (Ondata d’amore), con Jean Gabin e Ida Lupino, regia dell’imS sequenza eliminata. Il resto migrato antinazista Fritz Lang, poi sostiUna scURREALISTA en del sogno si rivelò, e non per tuito da Archie Mayo. La lavorazione coAndalo a di Un Chien responsabilità di Dalì, per minciò il 24 novembre 1941, e tredici u di Bu ñuel niente emozionante, e fu riorgiorni dopo gli Stati Uniti entrarono in ganizzato senza l’intervento guerra. Non solo l’industria del cinema dell’artista: i titoli di testa del era chiamata a collaborare alla futura film, uscito negli Stati Uniti nel vittoria con film di massimo ottimismo, febbraio del 1945, descrivono le e quindi Moontide andava rimanegscene oniriche come «basate su giato, ma si scoprì anche che il veneradisegni di Salvador Dalì». to artista aveva simpatie fasciste e che All’infaticabile maestro andò nel febbraio del ‘34 Breton e altri surbuca anche con il suo amato Direalisti lo avevano espulso dal loro ANTIGR A Un altro VITÀ sney, che pure lo aveva invitato a gruppo perché si era macchiato «riper il fi studio di Da collaborare con un episodio di sei petutamente di atti controrivolulm Spe lì llbound minuti che doveva combinare imzionari allo scopo di magnificare il magini vere e disegni animati, e ispifascismo hitleriano». rarsi alla canzone messicana DestiMa “Avida Dollars”, come l’ano. Secondo l’artista stesso, il film veva soprannominato Breton doveva essere «il tentativo di iniziare anagrammando il suo nome, il pubblico al surrealismo, più facilcontinuava ad essere una ecmente della pittura e della parola scritcentrica celebrità, e fu Alfred ta». Di quel progetto, non andato in Hitchcock a volergli affidare la porto, rimangono dipinti e disegni molsequenza del sogno in SpelIR to arzigogolati (figura femminile con lubound, (Io ti salverò), in cui la Disegn IDI od mache al posto delle scarpe e carrozzina psichiatra Ingrid Bergman si per Sp ellboun el set con neonato al posto della testa, fanciulinnamora dell’impostore e d del 1 9 4 5 la nuda che esce da una conchiglia e si trasmemorato forse assassino scina sul bordo di una specie di pozzo da Gregory Peck. Per una somcui sporgono i soliti globi oculari dalidiama allora ingente, Dalì preni). Dieci anni dopo, nel 1957, Disney e parò quattro sequenze moglie raggiunsero Gala e marito nella molto freudian-surrealiloro casa di Port Lligat in Spagna, dove si ste, spaventando il parsidiscusse di un altro film basato su Don monioso produttore Chisciotte, ma anche di questo non se ne Selznick. La scena del parlò più. ballo prevedeva coppie SIR OLIV IER L I baffi diventavano sempre più lunghi immobili minacciate nel Ric aurence Oliv cardo II ie e sottili, i capelli sempre più radi e sporda quindici pianoforti I e visto r chi, Gala, costringendolo a sposarla, sospesi sulle loro teste, da Dalì sempre più esosa; si accavallavano soe il produttore usò per lenni mostre a lui dedicate, appariva alla i piano dei modellini Sorbona per una conferenza dentro una e, per rispettare le Roll’s Royce bianca riempita di cavolfioproporzioni, per le ri, si inventava la conversione al «misticicoppie scelse quasmo nucleare», veniva ricevuto da Pio ranta nani. Il risulXII, omaggiava il dittatore Franco, nella tato fu orribile e la Repubblica Nazionale DOMENICA 8 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Dalì e il cinema sua vita entravano prima Nanita, così nasona da essere da lui chiamata Louis XIV, poi Amanda Lear cui confidava: «Solo una duchessa può provocarmi un’erezione». Ma il cinema continuava ad evitarlo. Ci fu attorno agli anni Cinquanta il rischio che riuscisse a realizzare La Carretilla de carne(La carriola di carne): protagonista doveva essere Anna Magnani, secondo lui entusiasta nel ruolo di figlia muta di uno zoppo moribondo sistemato su una carriola, che lei difende agitan- do una croce e rifiutando tutti gli uomini che la insidiano. Ci furono altri tentativi filmici, importunando anche Federico Fellini e Pierpaolo Pasolini, per cui disegnò senza completarlo un manifesto per Salò. Impiegò otto anni per non finire Storia prodigiosa della merlettaia e del rinoceronte, con Robert Descharnes che lo filmava mentre lui avanti e indietro dal Louvre, asseriva di voler copiare la celebre Merlettaiadi Vermeer che, diventando uno “Studio critico-paranoico” del quadro, mostrava solo corna convergenti di rinoceronte. A parte sue collaborazioni con la televisione, il suo ultimo tentativo con il cinema avvenne nel 1982, l’anno della morte della quasi novantenne Gala. Gli era venuta la nostalgia di Buñuel, l’amico con cui aveva fatto i suoi due celebri e unici film e con cui non si parlava da più di quarant’anni: da quando, nel 1939, avaro come sempre, gli aveva rifiutato un prestito in un momento di assoluto biso- gno. Gli mandò un paio di telegrammi, ricordandogli le lettere inviate ogni dieci anni a cui Buñuel non aveva mai risposto e proponendogli di fare ancora un film insieme, un filmino intitolato Piccolo diavolo. Questa volta il vecchio regista gli rispose, ma per declinare l’invito avendo abbandonato il cinema da cinque anni. Commosso, l’anno dopo Dalì chiese al regista spagnolo Revenga di riprenderlo mentre, stanchissimo, cantava La filla del marxantin catalano per stanare l’amico dalla sua reclusione. Il corto non fu spedito e Buñuel morì poco dopo. Anche per Dalì era ormai troppo tardi: quell’anno lui dipinse il suo ultimo quadro, Coda di rondine, e uscì il profumo col suo nome. Le gallerie di tutto il mondo venivano invase da montagne di falsi e lui, forse il più celebre dei surrealisti, si spegneva nel gennaio del 1989 col rimpianto, dicono, di non essere riuscito a conquistare Hollywood. 50° Festival dei Due Mondi di Spoleto FONDAZIONE SIGMA-TAU XIX edizione 2007 Il genere (femminile)... e il numero (digitale) LA SCIENZA NELL’ERA DELLA SUA COMUNICAZIONE DIGITALE (a cura di Moebius, www.moebiusonline.eu). Incontri non-stop con i viaggiatori nella Rete, coordina Federico Pedrocchi SABATO 14 LUGLIO 2007 ore 10.30 IMMERSIONI NELLA RETE: IN VIAGGIO NEL “DEEP WEB” in compagnia di Federico Pedrocchi COME SI VIVE IN UNA METROPOLI VIRTUALE, SECOND LIFE? in compagnia di Mario Gerosa YOU TUBE E LA SCIENZA: NUOVI CONTENUTI, NUOVI FORMAT in compagnia di Barbara Gallavotti e … alle ore18.30 la performance musicale e teatrale "Star Trek, in cammino verso le stelle" con la Compagnia della Gru Spoleto, Chiostro San Nicolò Per tutto il periodo del 50° Festival dei Due Mondi di Spoleto, a SPOLETOSCIENZA 2007 sarà visitabile, presso il Chiostro di San Nicolo’ la mostra “Nobel negati alle Donne di Scienza”, a cura di Lorenza Accusani. DOMENICA 15 LUGLIO 2007 ore 10.30 STRANE SIGLE S’AVANZANO: GPS E CRS4 con Pietro Zanarini SOUNDSCAPE, O COME INSERIRE SUONI NELL’AMBIENTE con Andrea Minidio ASTRONOMIA ON LINE con Maurizio Melis PALINSESTI MULTIMEDIALI, LA SCIENZA IN BBC con Sylvie Coyaud, via Skype L’IMMENSA POTENZA DELLA GRID con Barbara Gallavotti H3G OVVERO NON SOLO CELLULARI MA INTERNET-TV con Alessandro Floris WIKI, LA COMUNICAZIONE È PER TUTTI UN ATTO DI FORUM con Susanna Sancassani MATEMATICA E PIXEL con la redazione di “Per la tangente” BUCHI NERI E SIMULAZIONI DELLO SPAZIO PROFONDO con Albino Carbognani LA RETE E LE DIGITAL LIBRARIES con Fabio Di Giammarco Info: Fondazione Sigma-Tau - Viale Shakespeare 47 - 00144 Roma - tel 065926443 www.fondazionesigmatau.it Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i sapori Profumo di mare DOMENICA 8 LUGLIO 2007 Dalla Svezia alla Sicilia e alla Sardegna, passando per il Belgio e le altre coste italiane, luglio e agosto pullulano di sagre e feste dedicate a scampi, astici, aragoste. Un tempo considerati cibo da ricchi, oggi - crudi o cotti - sono di casa nelle nostre cucine Con qualche problema per la salute di Madre Terra Crostacei Cannocchia Detta anche pannocchia o cicala di mare, è biancogrigiastra con riflessi rosa. Lunga fino a 20 cm, vive in gallerie che scava sul fondale Ha carne profumatissima, ma va consumata fresca Granchio Il nome identifica vari crostacei decapodi dalla camminata laterale, con solida corazza e due pinze potenti. Possono essere di mare, di fiume, di terra. Nel mare di Barents vive il Reale rosso di Norvegia, di grandi dimensioni e carni squisite Gambero Ha corpo diviso in due parti (anteriore con testa e torace, posteriore, ovvero l’addome, segmentato) e vanta varietà diverse Tra le più pregiate, il rosso (o imperiale), la mazzancolla, il gamberone Molto delicata la carne di quello d’acqua dolce Scampo Della stessa famiglia dell’astice, ma di colore rosaaranciato, ha corpo allungato, carapace robusto, chele sottili, coda a ventaglio. Il maschio arriva a 25 centimetri di lunghezza. Quando è freschissimo, ha carne fragrante e soave, perfetta per le tartare Granseola O grancevola (Maja squinado), è un granchio con il corpo a forma di cuore e il carapace spinoso Amatissimo in Veneto e in Bretagna per la sua polpa, si fa maledire dai cuochi per la difficoltà nel pulirlo e l’alta percentuale di scarto uattro passi da granchio, ordinava il bambino più grande. E i piccoli, obbedienti e ridenti, si spostavano un po’ di lato e un po’ all’indietro, mimando l’incedere sghembo dei mini-cingolati marini. Una volta cresciuti, abbiamo imparato a conoscerli a tavola, membri golosi della famiglia dei crostacei, che celebriamo in queste settimane da una parte all’altra d’Europa. Luglio e agosto sono percorsi da sagre e feste con un itinerario ghiotto che parte dalla Svezia (gamberi), scende verso il Belgio (astici) e corre lungo tutte le nostre coste, fino a Sicilia (gamberoni) e Sardegna (aragoste). Dicono i marinai che i crostacei pescati durante il chiaro di luna sono più pieni e gustosi. Sarà vero? Difficile verificare. Li addentiamo senza sapere se arrivano da notti luminose o albe livide. Ci dispiacciamo per una cannocchia con sotto il carapace niente, godiamo per la soave carnalità di un gambero polposo. Ci affidiamo alla clemenza (e alla sapienzialità) del cuoco, del venditore, del pescatore raggiunto sul molo al rientro dal mare. Sotto quella corazza da burberi dei fondali, gamberi e soci nascondono corpi morbidi, suadenti, irresistibili. A patto, però, di saperli trattare coi guanti bianchi. Altrimenti, si vendicano, diventando insipidi, stopposi, banali. Stretti tra l’etichetta di cibo da ricchi, le preparazioni ampollose e l’incubo del colesterolo (ma brioche e sardine sott’olio sono ben peggio), abbiamo oscillato per anni tra l’aragosta Thermidor (ipersalsata e gratinata) e i gamberetti con la rucola. Oggi che i crostacei sono diventati di casa, o quasi, nelle nostre cucine come nei menù di locali anche poco convenzionali, cominciamo a preoccuparci di qualità e preparazioni più rispettose di tanta bontà. A partire dai “crudi”, che l’Italia dell’interno ha introiettato dalla tradizione marinara e dalle gastronomie orientali. Lontano dalle padelle, bastano pochi accorgimenti — togliere il filamento scuro in gamberi e scampi (a meno di pescarli e mangiarli nel giro di qualche ora), limitare al minimo le marinature, accompagnare (a parte) con emulsioni delicate — per LICIA GRANELLO regalarsi un piatto elegante e lieve. Ma sulla scia del “mai più senza” di tavole e menù, dilagano i guai legati all’insostenibilità degli allevamenti. Nel suo libro bello e terribile Non c’è sull’etichetta, la giornalista inglese Felicity Lawrence elenca i disastri della gambericoltura, che in molti paesi asiatici sta sostituendo le tradizionali coltivazioni di riso: inquinamento, malattie, debito pubblico, espropriazione illegale, lavoro minorile. In quanto al degrado ambientale, dallo tsunami del 2004 agli uragani più recenti è stato accertato che i danni peggiori si sono concentrati dove le difese naturali delle coste, a partire dalle foreste di mangrovie, sono state azzerate per lasciare spazio agli allevamenti di gamberi. Come risolvere le contraddizioni tra palato e salute di Madre Terra? Per esempio, scegliendo italiano. E non certo per nazionalismo ottuso. Tante le conseguenze virtuose della filiera corta: diminuzione dell’impatto di trasporti planetari e produzioni forzate, incoraggiamento a diminuire l’addizione di conservanti e coloranti (dai bisolfiti all’ossido di carbonio), diffusione di una “cultura crostacea” allargata a tipologie diverse. Bisogna imparare a leggere le etichette — e pretendere che siano complete —, aguzzare vista e olfatto al momento della scelta: odore sano di mare, colori netti ma non artefatti, consistenza turgida. E poi, dulcis in fundo, dimenticare forchetta e coltello. I crostacei sono creature rustiche, da affrontare a mani nude, esercitando la golosa, rumorosa arte del risucchio per teste e chele. Possibilmente con un ampio tovagliolo a portata di mano. Q LA RICETTA La bisque è una squisita salsa di carapaci di crostacei, con cui si accompagnano diverse preparazioni di pesce. Le corazze vanno schiacciate e tostate con poco olio e sale grosso, perché così rilasciano l'albumina, proteina con capacità di "legare" i piatti Dopo venti minuti, si aggiungono carota, sedano, pomodoro e cipolla a pezzetti, con vino bianco o cognac. Una volta evaporato l'alcol, acqua a coprire e altri venti minuti di cottura. Poi frullare ad alta velocità o filtrare schiacciando A piacere aggiungere prezzemolo, curry, zafferano Corpi irresistibili sotto la corazza 71 le calorie in 100 gr di gamberi 8 kg il peso massimo di un’aragosta 81 le specie di crostacei nel Tirreno Repubblica Nazionale DOMENICA 8 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 Chioggia (Ve) itinerari Straordinario conoscitore della fauna marina, Nando Fiorentini è stata l’anima della cooperativa dei pescatori di Orbetello Trasferitosi per amore a Bra, dove ha aperto una pescheria, oggi dirige il reparto ittico del supermercato-culto “Eataly”, a Torino Pesaro Mazara del Vallo (Tp) La “piccola Venezia” raccontata da Carlo Goldoni nelle Baruffe chiozzotte ospita uno dei porti pescherecci più importanti dell’Adriatico In laguna, oltre alle moleche, a fine estate si pescano le masanete, femmine di granchio ricche di uova Affacciata sull’Adriatico, la città natale di Gioacchino Rossini offre un’originale fusione culinaria di Marche e Romagna Tra i piatti tradizionali di pesce spiccano i garagoli, crostacei saltati con olio, aglio, rosmarino, pepe e finocchio selvatico Affacciata sul mare alla foce del fiume Màzaro e distante meno di 200 km dalle coste tunisine, vanta uno dei più importanti e noti porti pescherecci italiani, con una flotta che dà lavoro a oltre quattromila pescatori Pregiatissima la pesca di gamberi e scampi DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE HOTEL GRANDE ITALIA Rione S.Andrea 597 Tel. 041.400515 Camera doppia da 116 euro, colazione inclusa AGRITURISMO BADIA Strada della Torraccia 20 0721.405730 Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa GRETA HOTEL Via Bessarione 107 Tel. 0923.653889 Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE OSTERIA DA PENZO Calle Larga Bersaglio 526 Tel. 041.400992 Chiuso martedì, menù da 35 euro DA ALCEO (con camere) Via Panoramica Ardizio 121 Tel. 072.151360 Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 50 euro RISTORANTE DEL PESCATORE Via Castelvetrano 191 Tel. 0923.947580 Chiuso lunedì, menù da 40 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE COOPESCA Calle S.Andrea 292 Tel. 041.400220 PESCHERIA PANTANO Via Rossi 80 Tel. 0721.410019 PESCHERIA MUNICIPIO Piazza Scalo Tel. 0923.941604 Moleca O moeca, termine dialettale che identifica il granchio della laguna veneta (Carcinus aestuarii) nel periodo della muta, quando perde il carapace rimanendo nudo e quindi tenerissimo È protetto da un Presidio Slow Food Aragosta La regina dei crostacei è presente nel Mediterraneo con due varietà: Mauritanicus, di un bel rosso vivo maculato, e Regius, dalle sfumature verdastre. Ha ben tredici appendici – tra apparato locomotore, antenne e occhi – coda a ventaglio, ma nessuna chela Astice Ha corpo corazzato, due chele diseguali e potenti, torace liscio, colore azzurro intenso, striato di bianco-giallo. Vive in profondità (fino a 100 metri) e può raggiungere i 70 centimetri di lunghezza Si pesca in tutto l’Adriatico ‘‘ Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera, arrivarono stanchi morti all'osteria del Gambero Rosso Da Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi I segreti dello chef-patron di un ristorante di culto, nei cui piatti gamberi e mazzancolle sono protagonisti E per cuocerli, niente acqua e molto fuoco FULVIO PIERANGELINI on i crostacei ho un rapporto di passione lungo quanto la storia del mio ristorante. Quando con Emanuela, mia moglie, decidemmo di aprire un locale, questo locale, piccolo, luminoso, affacciato sulla spiaggia di San Vincenzo, facemmo finta che fosse una barca. In quel momento, l’Italia della ristorazione era piena di Gamberi Rossi. In ogni paese, vicino o lontano dal mare, c’era almeno un’osteria con questo nome. Noi lo trovammo e come omaggio a Pinocchio lo mantenemmo. Non eravamo sicuri di voler continuare a chiamarla così, la nostra barca sulla spiaggia. Qualche anno dopo l’apertura, era il 1981, pensammo anche di cambiare, di ribattezzarla semplicemente Pierangelini. Ma a quel punto eravamo già abbastanza conosciuti, forse non aveva tanto senso, forse era troppo tardi. E rimanemmo Gambero Rosso. Il giornale arrivò anni dopo, la televisione ancora più avanti. Ma il mio rapporto coi crostacei non si esaurisce certo qui. Anche nel mio piattofeticcio il protagonista è un crostaceo, il gambero, anzi la mazzancolla, le meravigliose mazzancolle che vivono nel mare davanti alle nostre finestre. La passatina di ceci con gamberi è quella che è anche grazie alla soave gentilezza del gambero, alla sua polpa duttile, facile da declinare, pronta ai miei giochi. Un tempo, preparavo un riso dolce agli scampi, dove al di là del loro profumo esisteva solo quello dell’alloro. Il risotto è sdegnoso come una ragazza che sa di essere bella. Lo preparo solo se so di potergli dedicare tutta la mia cura. E il crudo? È stato protagonista di un chaud-froidcon il Sanpietro, ma era fin troppo facile. Odio i parvenus della cucina che presentano il crudo di crostacei senza cambiare loro forma, come tanti cadaverini… Lo so, in Giappone lo vogliono così, quasi ancora palpitante. Ma quello è una sorta di rito pagano che non appartiene alla nostra cultura. Io rifiuto l’idea di mettere nel piatto un animale con la sua forma anatomica. Trovo che sia una volgare mancanza di educazione e di rispetto. C A proposito di rispetto. Ho aspettato a parlare di aragoste. Troppo facile. Diciamo crostacei e pensiamo aragosta. La regina che occupa la scena. Ci scandalizziamo di fronte a chi la butta viva nell’acqua bollente. Lo trovo demagogico, populista, senza contare l’errore tecnico della bollitura… Io credo che per fare il cuoco si debba il massimo del rispetto e dell’amore nei confronti delle creature che ogni giorno sacrifichiamo per trasmettere gioia e sapori ai nostri piatti. Dico creature e penso ai maiali, alle galline, ai pesci, ma anche alle patate e alle carote. Che nascono, appassiscono, e quindi sono vita. Io le rispetto tutte, le creature, animali o vegetali che siano. I pesci mi piace immortalarli nel freddo o lavorarli un attimo dopo la pesca. Comunque, mai bollita un’aragosta: sono contrario alle preparazioni canoniche che obbediscono alle leggi della falsa opulenza. Peggio ancora se parliamo di astice. Lessandolo, il risultato sarà una consistenza di caucciù e un odore di stallatico. L’homard è il re, non ammette scorciatoie. Non vuole essere riscaldato, guai, si offende. Non ha bisogno d’acqua ma di fuoco, come un dio guerriero: la coda s’arrostisce, così, appoggiata sul carapace. Poi, a fuoco spento, si appoggia sul fondo della padella la parte morbida. Invece le chele, di consistenza più muscolosa, si brasano qualche minuto in poca acqua e olio. Il massimo è trovarli quando fanno la muta. Il loro corallo è color blu notte, che in cottura diventa un rosso entusiasmante. Esibisce i colori più profondi, quelli del mare, impossibili da riprodurre. Ma io amo anche il gambero bianco, e la cicala, e il batti-batti, faccia da astice ma senza chele, come un delizioso rospetto, e il gobbetto, con le sue uova blu sulla pancia. Lo penso crudo, in tartare, con profumo di lime, polvere di banana e una piccola riga d’olio. Cum grano salis, naturalmente. Fulvio Pierangelini è lo chef-patron del ristorante Gambero Rosso di San Vincenzo (Livorno) Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2007 le tendenze Un materiale che compie un secolo, delizia del business globale che ne sforna Trend di stagione cento milioni di tonnellate all’anno, croce degli ambientalisti che temono la sua indistruttibilità. E ora icona della moda che inonda il mercato di zoccoli, abiti, gioielli, accessori ma anche gadget tecnologici plasmati con le resine industriali PICNIC EN ROSE Un picnic formato Moët Chandon. Una borsa che contiene quattro flute e una cuvée magnum di Rosé Imperial SPAGHETTATA IN PIEDI SPESA TRASPARENTE Mangiare in piedi tra onde e spruzzi si può. Per una spaghettata fuori dagli schemi il divertente e innovativo piatto DOC’spag di Gallina Matta Borsa di Furla in crystal trasparente con manici colorati È una shopping bag salva-spruzzi ottima anche per i rigidi controlli in aeroporto PARTITE IN ACQUA Dall’accoppiata Marcel Wanders e Puma una collezione quasi unica: solo sette pezzi per giocare a pallone con stile La regina della spiaggia IRENE MARIA SCALISE gni anno, solo in Italia, se ne producono circa due milioni di tonnellate. Nel resto del mondo più di cento milioni. È la regina della società moderna. Icona incontrastata della rivoluzione del vivere “pratico”; ma anche flagello dei più accaniti ambientalisti: la plastica. Dei cento milioni di tonnellate generati a ritmo continuo la maggior parte si materializza in sacchetti per la spesa, contenitori e bottiglie. Il sette per cento è riciclato. Ma non tutti sanno che una minima parte ha una destinazione più glamour. C’è infatti un’anima chic anche per la plastica. Ed eccola apparire, soprattutto in quest’estate 2007, come sfacciata protagonista di abiti, gioielli, scarpe e accessori. E non è certo la prima volta. Uno dei miti dell’haute couture, lo stilista francese Paco Rabanne, le ha spianato la strada negli anni Sessanta. Se pur, anche allora, tra mille scandali e proteste. Coco Chanel fu lapidaria: «Questo non è un sarto ma un metallurgico». Ma intanto il suo vestito a dischetti di plastica, indossato da Audrey Hepburn, è ancora oggi in bella mostra al Metropolitan Museum di New York. E dopo di lui tanti altri. Stilisti e designer indaffarati a disegnare borsette, trousse, abiti e bigiotteria. Un lungo e lucido itinerario fatto di celluloide, bakelite, lucite e tutti quei materiali che hanno anticipato la plastica moderna. Fino ad arrivare al trionfo di quest’anno. Il Science Museum di Londra le ha anche dedicato una mostra: Plasticity, 100 Years of Making Plastic (fino a gennaio 2009). Anche se, in realtà, il compleanno di questa disinvolta e spesso coloratissima signora è piuttosto discusso. Nel 1907 nasceva infatti ufficialmente, non la generica plastica, ma la bachelite. Celebrazioni a parte, quella della plastica è stata una vita di alterne fortune. In alcuni momenti è stata ignorata e considerata un materiale povero. Quindi la sua indistruttibilità O INGUAINATE Plastica in tre colori per questo completo di Marni La linea è sobria ma il materiale inedito Per un look decisamente diverso dal solito le si è rivoltata contro trasformandola in nemica dell’ambiente. Ora torna in auge grazie all’aspetto fashion. Un esempio per tutti: i coloratissimi zoccoli di plastica con i buchi. Adorati dallo streetlife. Amati dai giovanissimi e non solo. Approdati in America già dallo scorso anno, ora sono arrivati anche in Europa. Ed è un autentico boom. I più famosi sono i Crocs ma ci sono anche Lofu e Puma. In termini tecnici sono uno zoccolo in crosite, una resina brevettata a cellula chiusa. Il quotidiano inglese The Times ha ironizzato: «Le scarpe più brutte mai create, eppure hanno avuto l’approvazione dell’industria della moda». E loro, incuranti delle critiche, calpestano l’arroventato asfalto di Hollywood ai piedi di star come Jack Nicholson, Isabella Rossellini e Matt Damon. Sotto forma di zoccolo, ma non solo, la plastica scende naturalmente in spiaggia. Senza limiti di fantasia: occhiali da sole dalle montature fluo, giacche resistenti agli schizzi, borse in grado di sostenere traversate in barca a vela, cuffie che promettono di proteggere anche l’ultimo ciuffo di capelli, abiti griffati dai coutourier. Non mancano i gioielli. Perché la plastica, nobilitata dall’abbinamento con metalli pregiati o semplicemente da un design originale, offre soluzioni inaspettate anche nel lusso. Basti pensare a un paio di Diamond Flip-Flops (Moszkito) in vendita al prezzo di ventimila dollari, quasi quindicimila euro per delle ciabatte di pura plastica abbinata ad altrettanto puri diamanti. E anche la tecnologia si adegua: telefonini, iPod e macchine fotografiche sono tutti rivisitati nel materiale dell’anno. Un discorso a parte meritano gli accessori. Borse e cinture, se plastificate, diventano immediatamente cool. Piacciono anche alle giovanissime che riscoprono, come un tempo le loro mamme, il piacere dell’accessorio da spiaggia. Perché, ancora una volta, tutto ritorna. LUNA ROSSA Giacca e pantalone in cirè rosso vivo di Prada. Ricorda tanto le vele di Luna Rossa Per spiaggia o da barca DONNA DI POLSO Bracciale in plastica trasparente della linea di accessori di Jean Paul Gaultier. Per chi non rinuncia al vezzo di un gioiello anche in mezzo al mare Repubblica Nazionale DOMENICA 8 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 te et m io a nc ss ra ca le a e re o so lo rin di o u a Il c int ov e. re c pr t ta t i a es en ut r l’ a m min e p r o tu e e E zat nza o or R z o i LA al br an a o te SO h re l’ab egn tiv rin ran s A c s u d e t ol a nt a OR wa salto tica at Il ci il qu ne co S ri as n r . e be te o n in pl i I g a ri a ra in GN na cm olo . V se BA e u i Lo ari c ente elle I D m d v ar e n POro co o ET ile in asp nch M i r TE lleg log onib ica t a a A oro p st a m l’ dis pla ggi è in ia è sp in e ton en m r to o il on ES le ate est ’ l l de in ma om g in rpe sca lle ue i. Q d i i ac lor co a te d os p o pr e cs Cro fu Lo e à, l citt n i e ch an ne e b no van o on os ed e Sp e sat en p e nt me iva s u l esc gli co li s g r pe ID AC CHEEEEESE! Batte tutte le digitali più tecnologiche l’intramontabile usa e getta in plastica di Kodak a prova di schizzi e di sabbia CHIACCHIERE E FITNESS VITA A COLORI Antispruzzo e antisabbia, il Nokia 5500 Sport Music Edition è ideale per chi vuole tenersi in forma Un personal trainer mobile che controlla i progressi in allenamento Chic alla Pucci: la cintura in pura plastica con bordi colorati. È perfetta per nobilitare pareo o copricostume SUONO SICURO Gli altoparlanti di Muji si possono collegare a un cd player o all’iPod. Una salda guarnizione di gomma assicura contro l’acqua SALVARE LA MUSICA Portare l’iPod al mare rischiando? La soluzione è DryPod, la cover che lo rende impermeabile Amata, odiata, comunque onnipresente: un’invenzione che ha cambiato il mondo Da cheap a chic, la lunga marcia dei polimeri LAURA LAURENZI ccoci sulla spiaggia, sotto l’ombrellone. Guardiamoci attorno, a cominciare da noi stessi. Siamo letteralmente coperti di plastica, tutto quello che tocchiamo e quello che usiamo, tutto quanto è di plastica. Non solo gli oggetti più banali e tipicamente marini — le pinne, la maschera subacquea, il materassino che galleggia, la palla — ma anche tutto il resto. I sandali infradito, o per chi è più alla moda gli zoccoli Crocs uguali a quelli di Bush, gli occhiali da sole, l’orologio, il costume da bagno, il tubetto delle creme, il cellulare, la macchina fotografica che va sott’acqua, l’iPod, il walkman, la bottiglia di minerale. Siamo seduti su una sdraio che qualche anno fa sarebbe stata di legno e di elegante tela, ma oggi è di plastica. Andremo forse a fare il bagno al largo su un pattino, che oggi si chiama pedalò ed è diventato molto più leggero: anche lui una volta era di legno, oggi è di qualche misteriosa resina riconducibile all’immensa famiglia delle plastiche. Siamo assediati — ma forse anche confortati — dal materiale più duttile (e inquinante) del pianeta, capace di stupefacenti performance ma anche antipaticamente plebeo, seriale, ordinario. È andato molto di moda disprezzare la plastica, fare crociate passatiste, arricciare il naso, rimpiangere i bei tempi andati, quelli dei cestini da picnic coi piatti di coccio e degli zoccoli tipo Forte dei Marmi rigorosamente in legno. Tutto il resto sembrava fare schifo: omologazione per le masse, appiattimento del gusto, quantità a sfavore della qualità. Anche in senso traslato: dire di qualcosa o di qualcuno «è di plastica» implicava una connotazione fortemente negativa. Anni di plastica, per esempio: a evocare il vuoto, la mancanza di spessore e di cultura. Facce (labbra, nasi, zigomi, seni) di plastica poi non ne parliamo: facce finte, di plastica come quelle delle bambole, e insieme come quelle ritoccate in serie dai chirurghi (plastici appunto). E MOSAICO DA INDOSSARE Abito in dischetti di plastica di una giovane artista australiana, Liana Kabel I suoi lavori sono esposti al museo cittadino di Brisbane Fortunatamente è arrivata la riabilitazione. E anche la nobilitazione, a opera di grandi architetti e di idoli del design. La tanto bistrattata plastica è riuscita a diventare materiale per leggerissimi oggetti di culto. Mantenendo la sua serialità. L’estate è la stagione in cui la plastica dispiega tutte le sue possibilità, i suoi impieghi e le sue forme, ad azzerare ogni snobismo e a capovolgere i luoghi comuni. Plastica è chic, va ostentata, è persino retrò. È da cent’anni che ci circonda, ci facilita, ci alleggerisce, ci aiuta. Un big bang di polimeri sintetici cominciato in sordina, nel 1907, quando negli Usa il chimico belga Leo Baekeland dalla condensazione del fenolo e della formaldeide inventò un polimero resinoso chiamato bakelite, la prima plastica completamente sintetica prodotta su scala industriale. Un’invenzione che ha cambiato il mondo, rivoluzionando i campi più diversi, dall’abbigliamento alla tecnologia avanzata: un’invasione di prodotti di massa accessibili a tutti (o quasi), dalla biro al rasoio, dalla pellicola per avvolgere gli alimenti al televisore, dai collant alla carta di credito al sangue sintetico. Il problema, si sa, è lo smaltimento, se è vero che ci vogliono duecento anni per distruggere un banale sacchetto della spesa. Considerando che ogni anno solo in Europa ne vengono consumati e gettati via cento miliardi, possiamo immaginarci l’immenso immondezzaio di oggetti di scarto che durano in eterno. Il rampollo di una delle famiglie più ricche del mondo, David de Rothschild, con una zattera fatta solo di bottiglie di plastica cercherà quest’estate di attraversare il Pacifico lungo le correnti che trasportano i rifiuti da un continente all’altro. Chilometri di spazzatura galleggiante. Chissà che l’ultimo dei banchieri non riesca, con questa sua sortita mediatica, a farci riflettere su quanto sprechiamo, buttiamo, sporchiamo senza neanche accorgercene. Probabilmente no. RETRÓ Giacchino in plastica effetto retró di Malo Per un tuffo direttamente negli anni Sessanta Abbinato al calzoncino mini diventa subito d’attualità Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 LUGLIO 2007 l’incontro È cambiata molto dallo strip tease casalingo di “9 settimane e ½” A 53 anni la bionda-bella-sciocca, cui Hollywood aveva già scritto tutti i copioni, ha provato a ribellarsi e ha perso, ha sofferto un divorzio difficile, ha trovato un equilibrio “Certe cose le fai perché gli anni sono quelli giusti per fregartene e restare pulita e leggera Poi sbagliare diventa arrogante e occorre ricordare che domani non è mai un altro giorno ma quello che resta dell’oggi” Sempreverdi Kim Basinger hiara e dritta, peso intorno ai cinquanta chili forse, un corpo appuntito contro il vestito leggero di seta blu, «è di Vera Wang», taglio anni Trenta. Braccia e ginocchia scoperte, rami asciutti infilzati per sostenere l’abito. Kim Basinger non sembra proprio la sexy bomb di 9 settimane e ½. Qualcosa si è prosciugato, ingentilito, calmato. È molto bella, più di allora. Anziché ormoni, acqua melanconica negli occhi azzurri, guardano davvero. La prima cosa che dice: «Bisogna ridere, fa bene, porta bene». La seconda: «Bere acqua, fare esercizio, una vita sana». Strizza la bottiglietta di minerale, aggiunge: «Naturalmente, contano anche altre cose: l’energia dentro, la tua differenza». La sua è essere questa ragazza di cinquantatré anni che dà schiaffi al tempo. Che ha tolto carne e sensualità ai muscoli, ci ha messo pace e dolcezza. Rivale storica di Sharon Stone, ma più provinciale e in senso buono, al posto di borchie e Basic Instinct, fragole e seduzione casalinghe. L’estetica erotica degli anni Ottanta declinata in una più prudente nuova giovinezza, non proprio pensierosa, ma riflessiva sì. Una 50something come si dice adesso, la vita che ricomincia da un altro inizio. Spostato più avanti, ma è da lì che il panorama diventa limpido. Ex modella da Eileen Ford a mille dollari al giorno, lei però voleva fare l’attrice e quando ci è riuscita ad arrivare a Hollywood non è mai stata abbastanza premiata dalla fortuna. Qualche titolo noto: Mai dire mai, debutto nel grande cinema, Fool for Love di Robert Altman, Batman e Final Therapy. Memorabile 9 settimane e 1/2, quello spogliarello su musica di Joe teratura. Beh, solo pregiudizi. E poi lei ha molte storie nel sangue, antenati tedeschi, svedesi, indiani Cherokee, irlandesi. Una trama fitta di parole diverse. Le piccole rughe attorno agli occhi sono una spugna per lo sguardo liquido. Segni dolci, non ferite. Ha una maniera orgogliosa di mostrarle, non se ne vergogna, non risulta che siano state manipolate con ritocchi. «Non ho niente contro la chirurgia estetica, la bellezza però è un sentire». Meglio così, perché adesso servono quelle impronte degli anni: la Lancaster l’ha scelta per lanciare una linea di prodotti per la pelle antietà, lei con il suo viso attraversato dall’esperienza. Così com’è, senza finzioni, con le tracce di quello che è passato, questa nuova femminilità più sedata e matura e piena, come succede a un certo punto. «Lo slogan della campagna mi piace: aggiungi vita all’età, non il contrario». Beve altra minerale, «questo è un segreto. Ne ho altri». Ce li dica. «Mangiare bene, io sono vegetariana anche se adoro il pesce, il sushi in particolare, Non è semplice liberarsi dell’immagine che altri decidono per te, degli stereotipi che ti si conficcano nel profondo e diventano la tua identità FOTO UFFICIO STAMPA LANCASTER C LOS ANGELES Cocker rimasto nelle fantasie private di molte coppie. Lei lo sa che quella scena non ha mai smesso di ripetersi nelle nostre memorie, la penombra, il sudore, il ghiaccio, come se tutto fosse ancora qui a sciogliersi e a bruciare. «Sono felice che abbia contribuito a risolvere molte noie coniugali». Risponde da analista, sociologa, non da diva di quegli anni di lussi e abbondanze, da femmina rigogliosa e allegramente superflua. È che la disegnavano così, come direbbe Jessica Rabbit. «Non è semplice liberarsi dall’immagine che altri decidono per te, dagli stereotipi che si conficcano profondi. Finiscono per diventare la tua identità. Hollywood non ha un principio generale, delle regole fisse. Si comporta come il mercato, è il mercato, funziona secondo quello che si vende». E lei vendeva bene, un prodotto da vetrina. Un altro film da antologia, L. A. Confidential di Curtis Hanson, bianco e nero laccati, thriller noir filosofico, prova di qualità insomma. Le è valso l’Oscar come migliore attrice non protagonista e un Golden Globe, se li meritava, interpretava una Veronica Lake evanescente, signora del mistero, sangue refrigerato e secco. Ma sotto si capiva che era pronto a bollire, arrossire. Molti ruoli mediocri dopo e qualche flop, una brutta vicenda per Boxing Helenache non ha voluto più fare («istigava alla violenza sulle donne») e come penale una multa da otto milioni di dollari. Ha venduto Braselton per pagare, il paese di 450 abitanti che si era comprata per venti milioni in Georgia sognando di farne una piccola Hollywood. Poi la mamma di Eminem in 8 Mile, si disse allora che c’era stata una svolta, l’erotismo epurato in scorbutica e ammaccata maternità. Prima, in mezzo e poi, testimonial di calze e orologi, un divorzio difficile da Alec Baldwin e una figlia da lui, Ireland, oggi dodicenne. «Ne ho passate come tutti nella vita. Sono stata più fortunata di molti altri. Ridere, crede ci sia una strada migliore? La fede, certo: Dio e delle gran risate». Lo dimostra subito, incarna con quel poco di corpo che c’è la tesi: il riso le sale su dai fianchi stretti verso le braccia magre e il collo bianco, stringe i pugni, sul polso sinistro una vena si gonfia e sposta il braccialetto di argento sottile, l’unico gioiello addosso. I sandali di vernice nera, tacchi medi, pattinano come quelli di una bambina sulla moquette. L’ex sensualona si diverte, urla «I love it, I love it so much» e non è importante chi stia amando, ma che abbia quella voglia dentro. La testa svolazza e non trova più appigli quando parla della figlia e dei suoi anni da ragazza in Georgia, «ah quanto mi piaceva la musica e mi piace, tutta la musica, classica, country, rock, sono storie infinite le canzoni, un racconto delle cose delicato eppure che cuoce il cuore, mi fanno lo stesso effetto gli scrittori del sud, Faulkner e gli altri, Capote, Flannery O’Connor». La ragazza dello shampoo Breck che parla di let- faccio esercizio ogni giorno, ho un personal trainer. Una vita sana insomma. Però non è solo questo che serve». Cos’altro. «Se hai rancore, rabbia, invidia, cattivi pensieri: tutto torna su, addosso, si vede. Per questo credo nel perdono, perché abbellisce il futuro». Non parla di Alec, non vuole. Ma si capisce che lì c’è stato dolore, c’è stata una speranza interrotta. Lo ha incontrato sul set di Bella, bionda... e dice sempre sì nel ‘91, lo ha sposato due anni dopo, dichiarò che aveva trovato la serenità e per una ex ragazza di provincia con problemi di timidezza e agorafobia lui rappresentava il compagno comprensivo e finalmente non nemico. Poi tutto a rotoli. Sciupato l’amore, fallito il tentativo di far inciampare il destino preparato per lei: bionda bella sciocca, alla Marilyn. Si ribellò, fu emarginata. «Le nuove generazioni sono molto sofisticate, tecnologiche, leggere. Sentono che tutto è possibile, se lo prendono. Per me e quelle della mia età è stato diverso, non un dramma perché questo non posso dirlo, ma più faticoso sì, per conquistarti una credibilità o una carezza dovevi dimostrare cento volte il tuo valore». Anche adesso le donne hanno il fiato corto, il lavoro, i figli e se non riescono a tenere tutto qualcosa devono mollare, la società non le aiuta e persistono molte riserve. In Italia l’argomento è molto sentito. «Lo è dappertutto, le donne sono molto intelligenti, hanno incarichi importanti nelle aziende e nella politica e insieme sono il centro delle relazioni sociali e affettive, crescono figli e mandano avanti la baracca. Tutto a costo di compromessi e rinunce, più di quelli richiesti agli uomini, e questo è ormai insopportabile. I paesi del Mediterraneo sono molto sensibili a questi temi, in realtà riguardano tutti. Lo sviluppo dipende dalle opportunità che si daranno alle donne di crescere e realizzare i loro scopi. Altrimenti non è pensabile una società giusta, magari anche più libera». In Italia si discute molto anche del significato sociale e culturale da attribuire alla famiglia, se il concetto tradizionale funzioni ancora, se le unioni alternative a quella del matrimonio siano da considerare alla pari, se per caso un tasso di natalità tra i più bassi in Europa ci stia segnalando qualcosa. «La famiglia è un nodo centrale, lo è sempre stato e lo rimarrà. Non vedo qual è la differenza, le relazioni tra due uomini o tra due donne che condividono un progetto si scontrano con gli stessi problemi e le stesse stanchezze di qualsiasi altra coppia, tirare su un figlio è una scommessa difficile e spaventosa per chiunque abbia coscienza. Ci vorrebbe un’accoglienza illuminata, invece alle signore si richiede l’irrealtà della perfezione. Mi piacerebbe una società solidale più che una vita glamour». Che mamma è lei, che consigli dà a Ireland. «Consigli? Già la vedo molto autonoma e indipendente nei giudizi, ama essere amata questo sì, ma per il resto ha una consapevolezza di sé molto sviluppata, forte, espressiva. Rispetta gli animali e in questo deve aver imparato da me, ha un senso della giustizia e della lealtà, ma come tutti commetterà errori, conoscendo le conseguenze delle proprie azioni». Le ha mai chiesto dei suoi trascorsi da modella per Playboy? «Sa che gli esseri umani sono soggetti ai peccati. E ai ripensamenti». Si è pentita, allora. «No, dico che certe cose le fai perché succedono e perché gli anni sono quelli giusti per fregartene e per rimanere puliti e leggeri. Poi le cose cambiano, e sbagliare diventa arrogante». Progetti? «While she was out, uscirà il prossimo anno, un thriller di una regista scozzese, Susan Montford, faccio la casalinga di periferia che si ritrova in una brutta vicenda, quattro balordi che mi minacciano e io devo sopravvivere con pochi semplici mezzi». Una metafora. «Io ho avuto chance. Ma sì, anche coraggio». Al dodicesimo piano del Four Seasons di Beverly Hills a Los Angeles, la suite della Basinger si trasforma nella stanza delle chiacchiere, confidenze e sorrisi, poco divismo. Entrano ed escono ragazze con i cambi d’abito per le sessioni fotografiche, chiedono se anche domani sarà di buon umore. È un pomeriggio fresco di giugno, fuori dalle finestre la brezza spettina le palme e si porta dietro una luce di cenere che impolvera il cielo, nei corridoi dell’albergo delle star la temperatura frizza verso il grado zero. Non è autunno, è un inizio d’estate lieve, strano e diverso, una stagione più sincera che scandalosa. Kim lo sa, 9 settimane e 1/2è un attimo, la vita è più lunga. Meglio non correre troppo in fretta, trattare con dolcezza le proprie illusioni. Si può essere selvaggi e melanconici, e avanzare con equilibrio. Domani non è mai un altro giorno, ma quello che resta dell’oggi. ‘‘ ALESSANDRA RETICO Repubblica Nazionale