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00202046
Anno XXII - Numero 1 - Gennaio 2016 - Direzione e Redazione: Strada 1, Palazzo F6 - 20090 Milanofiori Assago (Mi)
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
2016
IL MENSILE DELLA PICCOLA E MEDIA IMPRESA
1
• Disciplina dei rimborsi dell’Imposta sul Valore Aggiunto
• Iscrizione in bilancio di avviamento acquisito a titolo
oneroso: implicazioni contabili e fiscali
• Rivalutazione immobili “in eccesso”: le regole
civilistiche e fiscali
• Rimborsi chilometrici corrisposti ai lavoratori:
trattamento fiscale
• Internazionalizzazione: le strategie
• Cruscotti di controllo aziendale - La “Balanced Scorecard”
• Il “Business Model Canvas”: un nuovo strumento per
sviluppare l’impresa
• Il prezzo: valore percepito dai clienti e profittabilità
• Criteri da applicare per la scelta degli investimenti
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
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SOMMARIO
AMMINISTRAZIONE
Disciplina dei rimborsi dell’Imposta sul Valore
Aggiunto
di Roberta Bianchi...........................................................................................................................
5
Iscrizione in bilancio di avviamento acquisito a titolo
oneroso: implicazioni contabili e fiscali
di Luca Di Penta ..............................................................................................................................
14
Rivalutazione immobili “in eccesso”: le regole
civilistiche e fiscali
di Corrado Fenici .............................................................................................................................
22
Rimborsi chilometrici corrisposti ai lavoratori:
trattamento fiscale
di Antonio Veneruso ......................................................................................................................
FINANZA & CREDITO
Internazionalizzazione: le strategie
di Gabriele Toma ............................................................. ..............................................................
CONTROLLO
DI GESTIONE
27
31
Cruscotti di controllo aziendale - La “Balanced
Scorecard”
di Amedeo De Luca ........................................................... ...........................................................
40
Il “Business Model Canvas”: un nuovo strumento
per sviluppare l’impresa
di Antonio Ferrandina ......................................................... ..........................................................
45
Il prezzo: valore percepito dai clienti e profittabilità
di Marco Orlandi.............................................................. ...............................................................
50
Criteri da applicare per la scelta degli investimenti
di Teresa Tardia ............................................................... ...............................................................
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n. 1/2016
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IVA
Disciplina dei rimborsi
dell’Imposta sul Valore Aggiunto
di Roberta Bianchi - Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili
Per quanto attiene la disciplina dei rimborsi IVA l’Agenzia delle entrate aveva emanato la
circolare n. 32/E del 30 dicembre 2014 nella quale erano stati forniti i primi chiarimenti in
merito alla nuova disciplina dei rimborsi dell’IVA di cui all’art. 38-bis del D.P.R. 26 ottobre
1972, n. 633, come sostituito dall’art. 13, comma 1, del D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175
ma il 27 ottobre 2015 ha fornito ulteriori chiarimenti nella circolare n. 35/E su alcune
questioni interpretative sollevate successivamente all’emanazione della citata circolare e
nello specifico:
Chiarimenti
1) termini per la presentazione della dichiarazione integrativa a seconda che venga variata la
modalità di utilizzo del credito o apposto il solo visto di conformità/sottoscrizione alternativa;
2) dichiarazione sostitutiva: come procedere nel caso di omissione della compilazione;
3) dichiarazione sostitutiva - Cessioni di azioni o quote infragruppo - art. 38-bis, comma 3,
lett. b) del D.P.R. n. 633/1972;
4) avvisi di accertamento relativi all’imposta di registro e all’imposta sostitutiva;
5) accertamenti definiti mediante accertamento con adesione o conciliazione giudiziale;
6) calcolo degli interessi ai fini dell’ammontare da garantire nel modello di cauzioni in titoli
di Stato per garantire il rimborso dell’IVA;
7) Mod. TR presentato per anni d’imposta antecedenti il 2015;
8) possibilità di inviare un nuovo Mod. TR dopo la scadenza del termine di presentazione
per modificare i dati presenti nel quadro TD;
9) dichiarazione sostitutiva con riferimento al presupposto di cui all’art. 30, lett. e) del D.P.R.
n. 633/1972 (rappresentante fiscale);
10) garanzia per compensazioni IVA di gruppo.
Per quanto attiene il punto 1) l’Agenzia delle entrate rileva che come chiarito con circolare
n. 32/E del 31 dicembre 2014, la nuova formulazione dell’art. 38-bis del D.P.R. n. 633/1972
elimina l’obbligo generalizzato di prestare la garanzia per ottenere l’esecuzione del rimborso
IVA. A decorrere dal 13 dicembre 2014 viene, infatti, riconosciuta al contribuente la possibilità
di ottenere i rimborsi di importo superiore a 15.000 euro presentando, in alternativa alla
garanzia, ai sensi del comma 6, una dichiarazione annuale o un’istanza trimestrale munita di
visto di conformità, o sottoscrizione alternativa, e una dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà attestante la sussistenza dei requisiti patrimoniali stabiliti dalla norma.
Tanto premesso, nei casi:
– apposizione del visto di conformità sulla dichiarazione con la quale viene chiesto il rimborso;
– revoca in tutto o in parte dell’importo originariamente chiesto a rimborso;
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– incremento dell’importo chiesto a rimborso e proporzionale riduzione dell’importo
chiesto in compensazione o detrazione è possibile presentare la dichiarazione integrativa
entro i termini previsti dall’art. 2, comma 8-bis del D.P.R. n. 322/1998, ossia entro il termine
di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo.
In particolare, si osserva quanto segue:
a) nel caso in cui la mancata apposizione del visto di conformità o della sottoscrizione
alternativa sia stata frutto di errore o di omissione, al fine di applicare la nuova disciplina
dell’art. 38-bis del D.P.R. n. 633/1972, è possibile correggere l’errore o l’omissione
mediante presentazione di una dichiarazione integrativa.
Tuttavia, per i rimborsi chiesti prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate all’art.
38-bis ma non ancora eseguiti a quella data, laddove sia ormai decorso il termine fissato dal
citato art. 2, comma 8-bis, per la rettifica della dichiarazione, la conformità della dichiarazione originaria potrà essere attestata anche mediante presentazione di un’autonoma
attestazione, rilasciata ai sensi dell’art. 35 del D.Lgs. n. 241/1997, da un professionista
abilitato. Con tale procedura è possibile regolarizzare anche la mancata apposizione del
visto di conformità alla dichiarazione relativa all’anno d’imposta 2013, i cui termini di
rettifica sono scaduti al 30 settembre 2015;
b) e c) la possibilità di variare la scelta di utilizzo del credito IVA originariamente effettuata
dal contribuente, è stata, invece, affrontata in alcuni documenti di prassi che si sono
succeduti nel tempo.
Con circolare n. 17/E/2011 è stato chiarito che, in caso di mancata prestazione della garanzia,
il contribuente può rettificare la richiesta di rimborso presentando, entro il termine di
presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, una dichiarazione
integrativa, al fine di indicare il medesimo credito (o parte di esso) come eccedenza da
utilizzare in detrazione o compensazione (variazione del Quadro VX).
Successivamente, con circolare n. 25/E/2012, è stato preso in considerazione il disallineamento tra la disciplina delle imposte sul reddito e la disciplina IVA, verificatosi a
seguito dell’introduzione nell’art. 2 del D.P.R. n. 322/1998 del comma 8-ter. Tale
disposizione prevede, infatti, che le dichiarazione dei redditi e dell’IRAP possano essere
integrate dai contribuenti per modificare la originaria richiesta di rimborso “esclusivamente
per la scelta della compensazione, sempreché il rimborso stesso non sia stato già erogato
anche in parte, mediante dichiarazione da presentare entro 120 giorni dalla scadenza del
termine”.
Con il sopracitato documento di prassi è stato, dunque, chiarito che, in analogia a quanto
disposto per le imposte sul reddito e per l’IRAP, può essere revocata in tutto o in parte la
richiesta di rimborso IVA al fine di utilizzare il credito in compensazione, mediante presentazione di una dichiarazione integrativa entro il termine di presentazione della dichiarazione
relativa all’anno d’imposta successivo.
Tale indirizzo interpretativo, che, ai fini IVA, riconduce la rettifica in argomento nell’ambito
della dichiarazione integrativa da presentarsi entro i termini ordinari previsti dal comma 8-bis,
trova conferma nella recente ordinanza n. 15180 del 2 luglio 2014 della Corte di cassazione,
secondo cui il carattere innovativo dell’art. 7, comma 2, lett. i), del D.L. n. 70/2011,
“consente… di affermare che prima dell’introduzione di tale meccanismo non fosse possibile
modificare l’oggetto della domanda di rimborso, se non nei limiti di cui allo stesso D.P.R.
n. 322/1998, art. 2, commi 8 e 8-bis, che disciplina espressamente le modalità per la
presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle
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attività produttive e all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi della Legge 23 dicembre 1996,
n. 662, art. 3, comma 136”.
In coerenza con tale argomentazione, il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle
entrate del 28 gennaio 20111, nel dare attuazione all’art. 38-bis, al paragrafo 1.3 ha disposto,
con riferimento ai rimborsi in conto fiscale, che “La rettifica della somma richiesta a rimborso in
conto fiscale avviene mediante presentazione di una dichiarazione annuale dell’imposta sul
valore aggiunto o di una dichiarazione unificata integrativa.”.
Tale principio, che riconduce nell’ambito della dichiarazione integrativa la possibilità di
modificare la scelta relativa alle modalità di restituzione del credito IVA, è applicabile, per
le ragioni sopra esposte, anche al caso in cui la rettifica si riferisca ad un rimborso chiesto
mediante procedura ordinaria.
Da ultimo, si rileva che la Corte di cassazione, nel sottolineare la rilevanza, in materia di
esecuzione dei rimborsi IVA, degli atti regolamentari dell’Amministrazione finanziaria, ha
osservato che “la facoltà di revoca della scelta di utilizzo del credito operata dal contribuente
non risulta espressamente disciplinata ex lege (art. 30 e 38-bis del D.P.R. n. 633/1972),
trattandosi di aspetto attinente alle modalità esecutive delle forme di impiego del credito
d’imposta che le norme di legge demandano alla disciplina regolamentare od amministrativa” è, pertanto, necessario verificare “se - eventualmente - detta facoltà riceva riconoscimento e regolamentazione nelle fonti normative secondarie o nelle c.d. ‘norme interne’ adottate con atti amministrativi di natura organizzativa - volte a conformare le attività
procedimentali degli Uffici finanziari.”.
A tale categoria di atti, rilevanti ai fini delle modalità della richiesta di restituzione del credito,
appartiene il citato Provvedimento del 28 gennaio 2011, sopra citato, che dà attuazione
all’art. 38-bis, stabilendo le ulteriori modalità ed i termini per l’esecuzione dei rimborsi.
Ne consegue che, laddove il contribuente voglia modificare l’originaria domanda di restituzione, deve presentare una dichiarazione integrativa, ai sensi del citato art. 2, comma 8-bis, del
D.P.R. n. 322/1998, sia che voglia ridurre l’ammontare del credito chiesto a rimborso, come
chiarito con la citata circolare n. 25/2012, sia che voglia chiedere un rimborso maggiore di
quello indicato in dichiarazione. Con riferimento alla richiesta di un maggior rimborso si
devono, pertanto, intendere superate le indicazioni fornite con la circolare n. 32/E/2014 e
con circolare n. 6/E del 19 febbraio 2015, nelle quali era stato affermato che, laddove il
contribuente avesse voluto chiedere a rimborso un ammontare più alto rispetto a quello
originariamente richiesto, avrebbe dovuto presentare una dichiarazione integrativa, eventualmente munita di visto, entro i 90 giorni dalla scadenza della presentazione della
dichiarazione.
Per quanto attiene il punto 2) invece l’Agenzia rileva che l’art. 38-bis del D.P.R. n. 633/1972,
come recentemente modificato dal D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, prevede al comma 3
che “alla dichiarazione o istanza è allegata una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, a
norma dell’art. 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445”.
Pertanto - fermo restando quanto già chiarito con la circolare n. 32/E del 2014 paragrafo
2.5.2. con riferimento alle istanze di rimborso pregresse - a differenza di quanto avveniva ai fini
della presentazione dell’attestazione di “virtuosità” ai sensi della previgente normativa, non si
ritiene possibile la presentazione di detta dichiarazione sostitutiva in un momento successivo
alla dichiarazione/istanza.
La dichiarazione sostitutiva potrà essere prodotta successivamente, secondo le modalità
previste dai modelli dichiarativi, solo qualora venga presentata una dichiarazione correttiva/
integrativa.
In riferimento al punto 3) la circolare esplica che tra i requisiti necessari ai fini dell’erogazione
dei rimborsi IVA senza la prestazione della garanzia, il comma 3 dell’art. 38-bis del D.P.R.
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n. 633/1972 richiede che non risultino cedute, se la richiesta di rimborso è presentata
da società di capitali non quotate nei mercati regolamentati, nell’anno precedente la
richiesta, azioni o quote della società stessa per un ammontare superiore al 50% del capitale
sociale.
A tale riguardo è irrilevante la circostanza che il soggetto ceda le azioni o quote nell’ambito
dello stesso gruppo, in quanto il requisito della solidità patrimoniale previsto dalla norma
verrebbe comunque meno in capo al soggetto richiedente.
Pertanto, la presenza di cessioni che superino l’anzidetta percentuale anche nell’ambito dello
stesso gruppo implica l’assenza del requisito richiesto dall’art. 38-bis, comma 3, lett. b), con la
conseguenza che il contribuente sarà tenuto alla prestazione della garanzia ai fini dell’erogazione del rimborso.
In riferimento al punto 4 viene rilevato che l’art. 38-bis, comma 4, lett. b), prevede che sono
eseguiti previa prestazione della garanzia “i rimborsi di ammontare superiore a 15.000 euro
quando richiesti…
b) da soggetti passivi ai quali, nei due anni antecedenti la richiesta di rimborso, sono stati
notificati avvisi di accertamento o di rettifica da cui risulti, per ciascun anno, una differenza tra
gli importi accertati e quelli dell’imposta dovuta o del credito dichiarato superiore:
1) al 10 per cento degli importi dichiarati se questi non superano 150.000 euro;
2) al 5 per cento degli importi dichiarati se questi superano 150.000 euro ma non superano
1.500.000 euro;
3) all’1 per cento degli importi dichiarati, o comunque a 150.000 euro, se gli importi dichiarati
superano 1.500.000 euro”.
Nel caso in cui le imposte siano dovute non in base alla dichiarazione bensı̀ ad un atto, come
accade per l’imposta di registro, per determinare la differenza tra l’imposta dichiarata e
l’imposta accertata è necessario fare riferimento ai dati riportati nell’atto stesso, calcolando la
differenza tra l’imposta complessiva che risulta dovuta in base all’atto, considerata pari a zero
in ipotesi di omessa registrazione, e la maggiore imposta accertata.
Inoltre nel quesito posto in merito a questo punto 4 si chiedeva, al fine di verificare se, ai sensi
dell’art. 38-bis comma 4, lett. b) del D.P.R. n. 633/1972, l’esecuzione del rimborso è
subordinata alla presentazione della garanzia, come calcolare, la differenza tra imposta dichiarata e imposta accertata nel caso in cui l’avviso di accertamento abbia ad oggetto il recupero
dell’imposta sostitutiva ovvero dell’imposta relativa al reddito soggetto a tassazione separata.
L’Ufficio risponde che in caso di accertamento avente ad oggetto il recupero dell’imposta
sostitutiva, ovvero dell’imposta soggetta a tassazione separata, la verifica dei presupposti che
rendono necessaria la prestazione della garanzia ai fini dell’esecuzione del rimborso, deve
essere effettuata con riferimento all’imposta oggetto di recupero, tenuto conto dell’autonoma
determinazione delle basi imponibili su cui sono calcolate le diverse imposte.
Tuttavia, qualora la rettifica comporti l’attrazione a tassazione ordinaria del reddito originariamente sottoposto ad imposta sostitutiva o a tassazione separata, la verifica deve essere
effettuata con riferimento all’imposta complessivamente dovuta, calcolata sulla base imponibile oggetto di rettifica e, pertanto, il raffronto deve tener conto di quanto già dichiarato dal
contribuente anche titolo di imposta sostituiva o di tassazione separata.
Relativamente al punto 5) viene segnalato che con la circolare n. 32/2014 era stato chiarito
che “nel computo degli atti da considerare al fine del calcolo degli importi accertati si deve
tener conto di tutti quelli notificati nei due anni antecedenti la richiesta di rimborso,
prescindendo dall’esito degli stessi, con eccezione degli atti annullati in autotutela o oggetto
di sentenze favorevoli al contribuente passate in giudicato”. Al medesimo fine, occorre tenere
conto anche degli importi definiti attraverso gli strumenti deflattivi del contenzioso, che
rideterminando la misura dei tributi dovuti, rendono definitiva la pretesa erariale.
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Ne consegue che ai fini della verifica di cui trattasi, laddove la pretesa erariale risulti
rideterminata per effetto di accertamento con adesione, di conciliazione giudiziale o
reclamo/mediazione, anche successivamente all’istanza di rimborso, il raffronto tra l’imposta
dichiarata e quella accertata deve essere effettuato con riferimento agli importi rideterminati e
non a quelli originariamente accertati.
Per quanto poi attiene la rilevanza o meno, ai fini dell’applicazione dell’art. 38-bis, comma 4,
lett. b) dei seguenti atti:
• atti di adesione che non presuppongono la notifica di un avviso di accertamento;
• inviti, di cui all’art. 5, comma 1-bis del D.Lgs. n. 218/1997, notificati ma non ancora
“accettati” dal contribuente, nel caso in cui l’Ufficio si scosta dalle risultanze del PVC, e,
rideterminando la pretesa, dà la possibilità al contribuente di accettare l’invito versando,
almeno 15 giorni prima della data fissata per il contraddittorio, le somme dovute con le
sanzioni ridotte a 1/6;
• adesione al PVC ai sensi all’art. 5-bis dello stesso Decreto legislativo, in base alla quale
sono ancora dovute delle somme a seguito del pagamento rateale.
Nella circolare si segnala che l’art. 1, comma 637, lett. c), n. 1.2) della Legge 23 dicembre
2014, n. 190 ha abrogato, a decorrere dal 1˚ gennaio 2015, l’art. 5 comma 1-bis e l’art. 5-bis
del D.Lgs. n. 218/1997. Tali norme, tuttavia, ai sensi del successivo comma 638 “continuano
ad applicarsi agli inviti al contraddittorio in materia di imposte sui redditi, di Imposta sul Valore
Aggiunto e di altre imposte indirette, notificati entro il 31 dicembre 2015, e le disposizioni di
cui all’art. 5-bis dello stesso Decreto legislativo n. 218 del 1997 continuano ad applicarsi ai
processi verbali di constatazione in materia di imposte sui redditi e di Imposta sul Valore
Aggiunto consegnati entro la stessa data.”.
Le suddette disposizioni prevedono, rispettivamente, che il contribuente possa aderire ai
contenuti dell’invito al contraddittorio inviato dall’Ufficio competente, ovvero ai contenuti del
processo verbale di costatazione, laddove i rilievi mossi non siano suscettibili di ulteriori
approfondimenti. Ambedue le possibilità di aderire alla pretesa erariale non presuppongono
la preventiva notifica di un avviso di accertamento.
Tanto premesso, la scrivente è dell’avviso che nel caso in cui il contribuente aderisca alla
proposta dell’Ufficio, ovvero ai rilievi mossi nel processo verbale di constatazione, prima della
notifica di un avviso di accertamento, il perfezionamento dell’adesione sia equiparabile alla
notifica dell’avviso di accertamento, in quanto atto idoneo a quantificare e definire nel suo
esatto ammontare la pretesa erariale.
In merito al punto 6) comunica che in considerazione dell’accelerazione in atto nel processo
di erogazione dei rimborsi, e coerentemente con la ratio delle disposizioni in materia di
rimborsi IVA contenute nel D.Lgs. n. 175/2014, dirette a contrarre le tempistiche e a ridurre i
costi per l’esecuzione dei rimborsi, si è ritenuto opportuno modificare l’indirizzo espresso
nella circolare n. 32/E del 2014 in merito al computo degli interessi da considerare ai fini del
calcolo dell’ammontare garantito.
Nel modello approvato con Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 26
giugno 2015, infatti, gli interessi relativi al ritardo nell’esecuzione dei rimborsi in procedura
semplificata non rilevano ai fini dell’ammontare da garantire.
Nel citato Provvedimento di approvazione del modello è stato precisato, pertanto, che “deve
ritenersi aggiornato il paragrafo 2.4 della circolare n. 32/E del 30 dicembre 2014 relativamente alla determinazione dell’importo da garantire alla luce delle novità contenute nell’art.
14 del Decreto legislativo n. 175 del 2014”.
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Per quanto attiene invece il punto 7 relativo al quesito sul Mod. TR presentato per anni
d’imposta antecedenti il 2015 si fa presente che la presentazione della dichiarazione annuale
relativa ad anni d’imposta fino al 2014, contenente l’indicazione dei rimborsi trimestrali già
presentati, munita di visto di conformità o di sottoscrizione alternativa, assolve alle condizioni
di esonero dalla produzione della garanzia previste dal nuovo art. 38-bis del D.P.R. 26 ottobre
1972, n. 633 e consente, pertanto, l’erogazione del rimborso IVA trimestrale senza la
presentazione della garanzia.
Oltre al visto di conformità o alla sottoscrizione alternativa, l’art. 38-bis prevede che alle
dichiarazioni o istanze venga allegata una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
attestante i requisiti patrimoniali e contributivi.
Per i rimborsi trimestrali presentati per gli anni di imposta antecedenti il 2014, in presenza dei
requisiti e delle condizioni previste per la presentazione della dichiarazione sostitutiva, e
sempre che non sussistano le condizioni soggettive di rischio indicate nel comma 4 del nuovo
art. 38-bis, la suddetta dichiarazione sostitutiva deve essere presentata all’Ufficio o all’Agente
della riscossione competente, allegando la fotocopia del documento d’identità del soggetto
legittimato a sottoscriverla.
In particolare, ad integrazione di quanto già chiarito con la citata circolare, si precisa che,
esclusivamente con riferimento al periodo transitorio, i requisiti e le condizioni previste per la
presentazione della dichiarazione sostitutiva, nonché l’assenza delle condizioni soggettive di
rischio, andranno valutate con riferimento alla situazione attuale del contribuente alla data di
presentazione della dichiarazione integrativa munita del visto di conformità.
Qualora la presentazione di una dichiarazione integrativa non sia necessaria, perché la
dichiarazione originaria è già stata presentata con il visto di conformità, le predette condizioni
andranno verificate alla data di presentazione della sola dichiarazione sostitutiva di atto
notorio. La medesima data rileverà anche quando la presentazione della dichiarazione
integrativa non sia più consentita per scadenza del termine fissato dall’art. 2, comma
8-bis, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322; in questo caso la conformità della dichiarazione
originaria potrà essere attestata mediante presentazione di un’autonoma attestazione,
rilasciata ai sensi dell’art. 35 del D.Lgs. n. 241/1997 da un professionista abilitato.
I rimborsi trimestrali richiesti per l’anno d’imposta 2014, invece, potranno essere erogati
senza presentazione della garanzia laddove il modello di dichiarazione annuale contenga il
visto di conformità o la sottoscrizione alternativa, nonché la dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà.
Gli interessi, eventualmente sospesi per la mancata consegna della garanzia, riprendono a
decorrere dalla data di presentazione della dichiarazione annuale completa di visto di
conformità o di sottoscrizione alternativa e di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, o
dalla data di presentazione della dichiarazione sostitutiva in caso di istanze trimestrali relative
ad anni d’imposta antecedenti il 2014.
In merito al punto 8 ci si interroga se il contribuente possa presentare un successivo Mod. TR,
dopo la scadenza prevista, per correggere il quadro TD del precedente modello inviato
tempestivamente, per motivi diversi rispetto alle ipotesi indicate dalla risoluzione n. 99/E
dell’11 novembre 2014.
L’Agenzia segnala che, come chiarito dalla risoluzione n. 99/E del 2014, il contribuente può
variare la modalità di utilizzo del credito infrannuale presentando un nuovo Mod. TR anche
oltre i termini di scadenza previsti dall’art. 8 del D.P.R. 14 ottobre 1999, n. 542, purché prima
dell’invio della dichiarazione annuale IVA relativa allo stesso periodo d’imposta.
La modifica del Mod. TR tempestivamente presentato non può essere esercitata nel caso in
cui l’Ufficio abbia già validato la disposizione di pagamento o nel caso in cui il credito sia stato
già utilizzato in compensazione.
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Con la stessa modalità e con gli stessi limiti temporali previsti dalla citata risoluzione, si
ritiene che possano essere corrette o integrate anche le indicazioni rese con riguardo al
presupposto per ottenere il rimborso, nonché alla richiesta di esonero dalla presentazione
della garanzia o alla sussistenza dei requisiti per accedere all’erogazione prioritaria, non
eseguite o eseguite non correttamente all’interno del quadro TD del Mod. TR tempestivamente presentato.
Nel caso di richiesta di esonero dall’obbligo di prestare garanzia, il nuovo Mod. TR dovrà recare
il visto di conformità o la sottoscrizione alternativa e la dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà attestante i requisiti patrimoniali e contributivi.
Sul punto si precisa che, la presentazione di un Mod. TR recante il visto di conformità o la
sottoscrizione alternativa e la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma privo del campo
3 del rigo TD8 denominato “Esonero garanzia” compilato con il codice “1”, non preclude
l’erogazione del rimborso senza presentazione della garanzia, in assenza delle condizioni di
rischio di cui al comma 4 dell’art. 38-bis del D.P.R n. 633/1972. In tal caso, pertanto, non è
necessario presentare un nuovo Mod. TR.
Con riferimento alla possibilità concessa ai contribuenti di poter modificare anche oltre i
termini un Mod. TR presentato tempestivamente, si pone la questione della modalità di
calcolo degli interessi.
In base alla normativa vigente di riferimento (art. 1 del D.M. 23 luglio 1975, come sostituito
dal D.M. 15 febbraio 1979, e art. 1, comma 16, del D.L. 30 dicembre 1991, n. 417), gli
interessi per i rimborsi infrannuali, richiesti con il Mod. TR entro la fine del mese successivo al
trimestre, decorrono dal giorno 20 del secondo mese successivo al trimestre di riferimento.
Considerato che con la risoluzione n. 99/E del 2014 e con la presente circolare è stata
concessa la possibilità di presentare un nuovo Mod. TR anche oltre i termini previsti, al fine di
ricostituire il margine temporale che il legislatore ha riconosciuto agli Uffici per l’esecuzione
dei rimborsi tempestivamente presentati, gli interessi decorrono dal giorno 20 del mese
successivo alla data di presentazione della nuova istanza.
Sul punto n. 9 l’art. 38-bis, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, dispone che l’esecuzione dei
rimborsi di ammontare superiore a 15.000 euro è subordinata alla presentazione della
dichiarazione o dell’istanza da cui emerge il credito richiesto a rimborso, munita del visto di
conformità o della sottoscrizione alternativa di cui all’art. 10, comma 7, primo e secondo
periodo, del D.L. n. 78/2009. Alla dichiarazione o all’istanza deve essere allegata una
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, disciplinata dall’art. 47 del D.P.R. n. 445/
2000, che attesti la consistenza patrimoniale del richiedente.
Sotto il profilo soggettivo, la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui al citato art.
47, è disciplinata dall’art. 3 del medesimo Decreto, ai sensi del quale “1. Le disposizioni
del presente testo Unico si applicano ai cittadini italiani e dell’Unione Europea, alle
persone giuridiche, alle società di persone, alle Pubbliche amministrazioni e agli enti,
alle associazioni e ai comitati aventi sede legale in Italia o in uno dei Paesi dell’Unione
Europea.
2. I cittadini di Stati non appartenenti all’Unione regolarmente soggiornanti in Italia, possono
utilizzare le dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 limitatamente agli stati, alle qualità
personali e ai fatti certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici italiani.
3. Al di fuori dei casi previsti al comma 2, i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione
autorizzati a soggiornare nel territorio dello Stato possono utilizzare le dichiarazioni
sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 nei casi in cui la produzione delle stesse avvenga in
applicazione di convenzioni internazionali fra l’Italia ed il Paese di provenienza del
dichiarante.
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4. Al di fuori dei casi di cui ai commi 2 e 3 gli stati, le qualità personali e i fatti, sono documentati
mediante certificati o attestazioni rilasciati dalla competente autorità dello Stato estero,
corredati di traduzione in lingua italiana autenticata dall’autorità consolare italiana che ne
attesta la conformità all’originale, dopo aver ammonito l’interessato sulle conseguenze penali
della produzione di atti o documenti non veritieri.”.
Ne consegue che, in caso di richiesta di rimborso presentata dal rappresentante fiscale, la
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, relativa alla consistenza patrimoniale del soggetto
titolare del credito chiesto a rimborso, deve essere presentata:
a) dal rappresentate fiscale secondo le regole ordinarie nel caso in cui il soggetto titolare del
credito sia residente nell’Unione Europea, ovvero nel caso in cui sia residente in uno Stato
non appartenente all’Unione Europea, quando la produzione della dichiarazione sostitutiva avvenga in applicazione di convenzioni internazionali tra l’Italia e il Paese di
provenienza;
b) in tutti gli altri casi la solidità patrimoniale del soggetto titolare del credito ai fini del rispetto
delle condizioni prescritte dall’art. 38-bis, comma 3, lett. a), b) e c) del D.P.R. n. 633/1972,
può essere attestata mediante la procedura prevista dal comma 4 del citato art. 3 del D.P.R.
n. 445/2000. Si ritiene, infatti, che l’esonero dalla garanzia, ammesso dal comma 5 del
richiamato art. 38-bis, non pregiudichi le ragioni erariali quando le condizioni che consentono il rimborso siano attestate attraverso un iter amministrativo formalmente diverso ma
sostanzialmente analogo a quello previsto dal comma 3 dell’art. 38-bis. Ciò in quanto il
procedimento previsto dell’art. 3, comma 4, del D.P.R. n. 445/2000 garantisce comunque
la certezza pubblica, consentendo all’Amministrazione finanziaria forme di controllo
analoghe a quelle esercitabili sulle dichiarazioni rese in Italia da contribuenti residenti.
Resta inteso che la verifica dell’assenza delle condizioni soggettive di rischio indicate nel
comma 4 del nuovo art. 38-bis sarà operata dall’Ufficio in relazione all’attività svolta in Italia.
Infine l’Agenzia si esprime anche sul tema della Garanzia per compensazioni IVA di gruppo
segnalando che le disposizioni contenute nel novellato art. 38-bis del D.P.R. n. 633/1972, in
materia di garanzie, trovano applicazione anche nell’ambito della liquidazione dell’IVA di
gruppo, in forza del rinvio al citato articolo contenuto nell’art. 6, comma 3, del D.M. delle
Finanze 13 dicembre 1979, n. 11065. Il suddetto art. 6, infatti, nel disporre lo specifico
obbligo di prestazione di garanzia per le eccedenze di credito risultanti dalla dichiarazione
annuale dell’ente o società controllante ovvero delle società controllate, compensate in tutto
o in parte con somme che avrebbero dovuto essere versate dalle altre società controllate o
dall’ente o società controllante, prevede, altresı̀, che a tal fine si applicano le disposizioni
dell’art. 38-bis.
Pertanto, tutti gli adempimenti previsti dall’art. 38-bis per l’ottenimento dei rimborsi IVA,
compresa la prestazione delle garanzie se dovuta, si applicano anche alle compensazioni
nell’ambito dell’IVA di gruppo, nelle medesime forme.
Inoltre, ai fini della determinazione dell’importo oggetto della garanzia o della assunzione
diretta dell’obbligazione, di cui all’art. 38-bis, si applica la franchigia di cui all’art. 21 del D.M.
delle Finanze 28 dicembre 1993, n. 567, anche alle eccedenze di credito compensate
nell’ambito della liquidazione IVA di gruppo, nei medesimi limiti previsti per i rimborsi in
procedura semplificata, ovvero fino all’importo massimo annuale di cui all’art. 34, comma 1,
della Legge n. 388/2000, attualmente determinato in 700.000 euro.
Pertanto, nelle ipotesi in cui nell’ambito della liquidazione IVA di gruppo la compensazione
debba essere assistita da garanzia, la stessa può riferirsi all’importo eccedente la franchigia in
commento, se spettante. L’ammontare non garantito, non può comunque eccedere
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l’importo massimo annuale di 700.000 euro. Ai fini del calcolo della franchigia, il conto fiscale
cui fa riferimento l’art. 21 del D.M. n. 567/1993 è quello della società titolare del credito
compensato nella liquidazione IVA di gruppo.
Qualora le società aderenti all’IVA di gruppo abbiano applicato la franchigia per un importo
superiore al limite di cui all’art. 34, comma 1, della Legge 23 dicembre 2000, n. 388, l’Ufficio
procede all’emanazione dell’atto di recupero di cui all’art. 1, comma 421, della Legge 30
dicembre 2004, n. 311, per la parte eccedente non garantita salvo che il contribuente
provveda a prestare o integrare la garanzia, nelle forme previste.
In considerazione del richiamo esplicito all’art. 21 del D.M. del 28 dicembre 1993, n. 567,
contenuto nello schema di “Assunzione di obbligazione di pagamento” di cui alla circolare 22
giugno 1998, n. 164, senza il limite previsto per i rimborsi in procedura semplificata, si rende
applicabile l’art. 10, comma 2, della Legge 27 luglio 2000, n. 212, secondo cui è esclusa
l’irrogazione di sanzioni e la richiesta di interessi al contribuente, qualora “si sia conformato a
indicazioni contenute in atti dell’Amministrazione finanziaria”.
Laddove, infine, a seguito dei chiarimenti resi con questa circolare, le garanzie di cui all’art.
38-bis, comma 6, risultino obbligatorie, l’Ufficio le richiederà in sede di liquidazione del
rimborso ovvero, nel caso di compensazione, procederà all’emanazione dell’atto di recupero
di cui all’art. 1, comma 421, della Legge 30 dicembre 2004, n. 311, salvo che il contribuente
provveda a prestare la garanzia, nelle forme previste. Anche in tale evenienza, considerata
l’incertezza della norma, si rende applicabile il citato art. 10, secondo cui è esclusa l’irrogazione di sanzioni e la richiesta di interessi al contribuente.
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Il caso
Iscrizione in bilancio di
avviamento acquisito a titolo
oneroso: implicazioni contabili
e fiscali
di Luca Di Penta - Dottore commercialista, revisore legale dei conti e giornalista pubblicista
Alfa S.p.A., che ha un fatturato di euro 4.500.000, un Patrimonio Netto di euro 800.000 e 35
dipendenti acquista, nel corso del 2015, l’azienda Beta, avente fondate aspettative di redditi
futuri superiori al settore in cui opera: il valore dell’avviamento acquisito a titolo oneroso è pari
a euro 200.000, documentato da apposita perizia allegata al contratto di compravendita
redatto da notaio.
L’operazione è esclusa da IVA ai sensi dell’art. 2, n. 3, lett. b) e, per il principio di alternatività, la
componente avviamento, indicata separatamente in contratto, è soggetta a Imposta di
Registro (Tavola 1), per un ammontare di euro 6.000.L’imposta non ha attinenza con
l’avviamento, in quanto la prima può essere rappresentata in bilancio come un costo sospeso,
la seconda rappresenta la propensione di Beta a produrre reddito. Pertanto l’importo di euro
6.000 può trovare spazio nella voce B) I.7 Altre Immobilizzazioni Immateriali e ammortizzato
tanto civilisticamente quanto fiscalmente nelle stesse modalità e orizzonte temporale
dell’avviamento. L’Agenzia delle Entrate utilizza un criterio matematico per quantificare
l’avviamento presunto, vale a dire prendendo quale riferimento la media dei ricavi di Beta
nel triennio antecedente l’operazione e moltiplicandola per la percentuale di redditività
nell’esercizio in cui si pone in essere l’acquisto d’azienda.
Tavola 1 - La stima di congruità ai fini dell’Imposta di Registro dell’avviamento
Beta
Anno
14
Reddito
Ricavi
2012
€ 75.000
€ 1.200.000
2013
€ 100.000
€ 1.150.000
2014
€ 150.000
€ 1.600.000
2015
€ 100.000
€ 1.200.000
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% redditività 2015
8,33%
Reddito
€ 109.722
Moltiplicatore
3
Avviamento stimato dall’Agenzia delle entrate
€ 321.875
Un’eventuale rettifica dell’avviamento da parte dell’Agenzia delle entrate è quantificabile
quindi in euro 121.875 e in una richiesta di Imposta di Registro pari a euro 3.656 oltre a
sanzioni e interessi.
È probabile un ricorso da parte del Legale Rappresentante di Alfa, ove questi potrà fornire al
giudice la relazione di stima del perito che motiva il valore in atti.
L’Assemblea ordinaria di Alfa S.p.A. delibera l’iscrizione nello Stato Patrimoniale dell’avviamento, ai sensi dell’art. 2426, comma 6, c.c., con il consenso del Collegio Sindacale; il valore
sarà ammortizzato in 5 anni.
Si ricorda che, per effetto delle modifiche intervenute con il D.Lgs. n. 139 del 18 agosto 2015,
a decorrere dal 1 gennaio 2016, l’avviamento è ammortizzato sistematicamente in base alla
sua vita utile o, qualora non sia possibile prevederla, in 10 anni al massimo.
L’avviamento conseguito a titolo oneroso per l’acquisizione di Beta viene rilevato in bilancio
ed in Unico Società di capitali.
Tavola 2 - Rilevazione dell’avviamento nel bilancio 2015, in UNICO 2016 SC, accensione
della fiscalità anticipata
Stato Patrimoniale
Attivo
B) Immobilizzazioni
I-Immateriali
5) Avviamento
160.000
C) Attivo circolante
II-Crediti
5-ter) Imposte anticipate
9.071
Totale
9.071
Conto Economico
10) Ammortamenti e svalutazioni
a) Ammortamento delle immobilizzazioni immateriali
40.000
22) Imposte correnti, differite e anticipate
b) Imposte anticipate
(9.071)
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Mod. UNICO SC
1
RF21
28.889
3
28.889
Mod. IRAP
IC48
28.889
La differenza temporanea d’imposta è destinata a riassorbirsi quando, a partire dal periodo
d’imposta 2020, si apporterà in UNICO SC e nella dichiarazione IRAP al quadro IC una
variazione in diminuzione di euro 11.111 con una riduzione del credito per imposte anticipate pari a euro 3.489.
Si ricorda che, ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs. n. 139/2015, a partire dal 1˚ gennaio 2016 è stata
estesa la possibilità di ammortizzare l’avviamento, con il consenso del Collegio Sindacale, in
un orizzonte temporale di 10 anni.
La rilevazione dell’avviamento nella valutazione di azienda
Il valore di stima autonoma dell’avviamento ha particolare attinenza al metodo misto di
valutazione d’azienda, inteso a determinare il valore corrente del Patrimonio Netto e dei flussi
di reddito superiori a quelli derivanti dall’impiego ordinario di capitale di rischio e finanziario;
quest’ultimo profitto derivante dagli investimenti si può stimare in base a quello ottenuto dalle
aziende che operano nel medesimo settore.
Per quanto riguarda invece la valutazione dell’azienda, si può prendere come riferimento la
somma V=K+A ove K è il Capitale Netto opportunamente rettificato e A è l’avviamento,
derivante da extra-reddito futuro prodotto dall’azienda per suoi specifici punti di forza.
Nelle PMI il valore A deve tenere conto di un periodo di produzione del Reddito Netto ridotto,
vista la difficoltà delle stime future, in un orizzonte di 5 anni.
Il valore del Patrimonio Netto Rettificato viene privato dell’eventuale avviamento a titolo
oneroso, in quanto il sovra-reddito che esprime va a confluire in A, delle spese di impianto e
ampliamento; i leasing vanno valutati con metodo finanziario, considerando i relativi beni di
proprietà e il valore attuale dei canoni e dell’eventuale riscatto, se probabile; le rimanenze
vanno valutate ai prezzi di mercato dei beni e i debiti delle banche oltre l’anno computando i
costi totali attualizzati. Dall’individuazione dei suddetti dati A può essere espresso dalla
suddetta formula:
A = (Rn-iK) aØ5i’
dove i e i’ differiscono in quanto il primo, tasso di rendimento del capitale, esprime il tasso
redditività globale del cluster, omogeneo per settore di attività e dimensioni, di aziende dove è
inclusa Alfa S.p.A., mentre i’ è un tasso di remunerazione del capitale di rischio risultante dalla
sommatoria del tasso di rendimento dei BTP più un premio di rischio derivante dall’investimento in partecipazioni quotate nella Borsa Italiana e desumibile da apposite tavole
statistiche.
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Tavola 3 - I metodi di valutazione con individuazione dell’avviamento in una società di
capitali di piccole dimensioni
Tipologia
Metodo di stima
Descrizione
Particolarità
Limiti
Stima autonoma
dell’avviamento
attraverso la quantificazione
del
Reddito
Netto
prospettico
A=(Rn-iK)aØni’
V=K+ A
Dove V è il valore
dell’azienda che
tiene conto di V,
valore del Capitale
Netto Rettificato
ottenuto dalla valutazione dei beni di
proprietà e intangibili, nonché delle
obbligazioni verso
terzi;
l’altro
addendo A è costituito dal Capitale
Economico derivante dall’attualizzazione in un
orizzonte di 5 anni
del sovra-reddito
potenziale dell’azienda rispetto a
quelle del settore
Si stima il valore
incrementale del
Capitale
Economico
rispetto ai redditi
conseguiti
nel
tempo da aziende
del settore e di analoghe dimensioni
dato un certo orizzonte temporale.
Nel caso in cui
l’azienda in esame
dovesse prevedere
perdite, sarà molto
probabile un badwill, e la necessità
di stimarle per tutti i
futuri esercizi per
cui si potrebbero
subire
Nel caso in cui la
stima di perdite
diventi irreversibile
il Capitale Netto dell’impresa potrebbe
ridursi a quello di
stralcio, cosı̀ definito
quando la sua
assemblea delibera
la sua liquidazione.
In tal caso la rilevazione contabile sarà
l’accantonamento a
Fondo Rischi delle
svalutazioni
dei
beni aziendali.
Infatti il badwill ridimensiona sempre i
fattori immateriali
che concorrono al
calcolo di K (plusvalori latenti).
A volte K può essere
sovradimensionato,
in quanto non sono
mai state rivalutate
immobilizzazioni e
partecipazioni;
il
Reddito Netto prospettico può invece
essere sottodimensionato, a causa dell’opzione fatta dagli
amministratori
di
rivalutazione
dei
beni; in tali casi è
opportuno scegliere
per un metodo di
valutazione classico,
quale quello patrimoniale complesso
o reddituale
I principali limiti del
metodo si ravvisano alla determinazione di un
badwill, in quanto,
sebbene
il
Patrimonio Netto
Rettificato si riduca,
allo stesso tempo
rimane un suo
valore intrinseco
derivante
dalla
consistenza
dei
singoli
beni
aziendali.
Un altro limite è
costituito dall’assunzione dei valori
in modo statico, in
quanto si assume
che i redditi dell’impresa saranno tutti
distribuiti.
Per le S.p.A. di piccole dimensioni
l’erogazione di dividendi ha incidenza
minoritaria sul reddito, per cui nel
valore
del
Patrimonio Netto
rettificato
bisognerà tener conto
dell’accantonamento a riserva nel
tempo, per la differenza tra reddito
prospettico e normale,
dell’aumento nella loro
stima dovuto a
maggior capacità
d’investimento
Stima attraverso la Valore incremen- Tale criterio si basa Se la rivalutazione Il metodo si focaquantificazione e tale
delle su un metodo non è in grado di far lizza
solo
sul
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rivalutazione con- immobilizzazioni=
trollata dei cespiti å Delta B) Stato
Patrimoniale-maggiori
ammortamenti+Re munerazione prodotta
dal
cespiteni]Øni
Dove:
Delta B) Stato
Patrimoniale è il
totale della rivalutazione delle immobilizzazioni, n è la
durata utile del
cespite e i il tasso
normale reddituale
di attualizzazione.
Se il margine è
positivo, la rivalutazione dei singoli
cespiti è integrale
misto patrimoniale
reddituale adatto
alle imprese in cui
il fattore dei cespiti
è predominante a
causa della natura
dell’attività
fronte a tali costi
futuri
i
cespiti
saranno
rivalutati
solo proporzionalmente all’incidenza
del reddito atteso
misurato dalla rivalutazione dei beni
rispetto ai maggiori
ammortamenti
e
alla remunerazione
attesa dai primi.
Occorre, nell’implementazione di tale
metodo, scorporare
dalla
remunerazione per i soci
quella
derivante
dalla
remunerazione
dell’attivo
circolante
capitale fisso, e può
essere adottato a
condizione
che
non superi il valore
corrente di mercato dei cespiti
Il trattamento contabile dell’avviamento
L’avviamento è il valore iscritto nell’Attivo dello Stato Patrimoniale derivante dalla differenza
tra il prezzo pagato per l’acquisto di un’azienda e il valore corrente delle sue singole
attività e passività.
Nel caso in cui il corrispettivo viene stabilito globalmente bisognerà stimare correttamente i
valori correnti dei suoi elementi attivi e passivi, al fine di calcolare l’avviamento.
Il principio contabile OIC 24 elenca i requisiti affinché possa essere iscritto avviamento nello
Stato Patrimoniale:
OIC 24
1) l’avviamento deve essere acquisito a titolo oneroso, e iscritto con il consenso del
Collegio Sindacale, se esistente;
2) deve essere espressivo di un costo la cui competenza è differita nel tempo;
3) il suddetto costo deve essere recuperabile, vale a dire suscettibile di generare ricavi negli
esercizi futuri.
L’avviamento non può considerarsi un bene immateriale a se stante, ma una qualità
dell’azienda intesa nel suo complesso.
L’ammortamento dell’avviamento avviene con criterio sistematico per un periodo massimo
di 5 esercizi (10 dal 2016), a meno che le caratteristiche o la particolare situazione in cui si
trova la società faccia ragionevolmente presumere una sua più lunga durata; ciò può accadere
quando, ad esempio, l’attività dell’azienda richieda tempi più dilatati per l’entrata in un regime
normale di produzione e vendita, ovvero quando i prodotti offerti, dopo il loro sviluppo,
richiedano un lungo periodo di attesa per ottenere l’autorizzazione a essere messi in
commercio.
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Un periodo più lungo di ammortamento, o un ammortamento con criterio diverso, ad
esempio per quote proporzionalmente crescenti, devono essere adeguatamente motivati
e descritti in Nota Integrativa.
Il trattamento fiscale dell’avviamento
L’art. 103, comma 3, del T.U.I.R. prescrive che le quote di ammortamento del valore di
avviamento iscritto nell’attivo del bilancio sono deducibili in misura non superiore a un
diciottesimo del valore stesso. Ciò significa che l’avviamento, iscritto in bilancio secondo
corretti criteri contabili, potrà essere ammortizzato in un orizzonte temporale superiore ai 18
anni. La risoluzione Agenzia delle entrate n. 154/2004 tratta del trattamento dell’avviamento
in caso di conguagli versati dall’acquirente o, al contrario, di rimborsi: in fase di assestamento
al bilancio, sarà necessario variare il valore residuo dell’ammortamento, e calcolarlo in base
alla sua durata residua.
L’Agenzia delle entrate precisa che, quando il valore dell’avviamento a titolo oneroso sia
determinabile sulla base del contratto di alienazione di azienda o suo ramo, esso può essere
iscritto nell’attivo dello Stato Patrimoniale alla voce B. I.5), e deducibile per quote ai sensi
dell’art. 103, comma 3 del T.U.I.R. Nel caso in cui è previsto un conguaglio negli anni
successivi al dante causa, anch’esso è fiscalmente riconosciuto e sarà deducibile sommandolo al valore residuo preesistente.
Tavola 4 - La deducibilità dell’avviamento acquisito a titolo oneroso a seguito di conguagli o
rimborsi ricevuti
Anno di
acquisizione
2013
Anno di
acquisizione
2012
Avviamento
€ 1.500
Avviamento
€ 1.500
Data
conguaglio
Importo
conguaglio
€ 250
2014
Data rimborso
2013
Importo
rimborso
€ 100
Valore residuo
2014
Ammortamento 2015
€ 1.569
€ 98
Valore residuo
2014
Ammortamento 2015
€ 1.162
€ 77
Naturalmente l’avviamento acquisito a titolo oneroso, ammortizzandosi ai fini civilistici per un
massimo di 5 anni, provoca differenze temporanee d’imposta, causando l’accensione della
fiscalità anticipata.
La sentenza Cass. n. 22506 depositata il 4 novembre 2015
L’Imposta di Registro sull’avviamento, nel caso in cui nell’atto di trasferimento di azienda o di
suo ramo, sia separatamente indicato, è pari al 3%.In base alla circolare Agenzia delle entrate
n. 235/1997 l’Ufficio applica la presunzione semplice per cui il suo valore deve essere
calcolato in base agli elementi emergenti dagli studi di settori o, in mancanza, dalla percentuale di redditività sulla media dei ricavi nel triennio antecedente l’operazione, il tutto
moltiplicato per 3. Il valore è moltiplicato per 2 in caso di inizio di attività successivo all’inizio
del triennio di osservazione, in caso di durata residua del contratto di locazione della sede
operativa inferiore a 1 anno, o in caso di mancato esercizio dell’attività per almeno 183 giorni
nell’anno antecedente l’operazione. In caso di ricorso la stima corretta dell’avviamento in base
a perizia di parte può ribaltare la presunzione e orientare di conseguenza una sentenza
motivata della Commissione tributaria.
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Il modus operandi degli Uffici dell’Agenzia delle entrate è criticabile, in quanto, contravvenendo alla migliore dottrina sulle valutazioni d’azienda, non tiene conto tanto dei plusvalori
latenti dei valori dell’Attivo dello Stato Patrimoniale, quanto dei redditi prospettici superiori al
rendimento normale del capitale; si rileva anche che il reddito utilizzato è già incorporato in
parte nei beni sociali che lo producono e per cui si paga l’Imposta di Registro.
In tale contesto la sentenza n. 22506, depositata il 4 novembre 2015, va oltre e fissa principi
che, si spera, siano aggiornati con una decisione del Collegio preso a Sezioni Riunite, al fine di
mettere un punto fermo sull’argomento.
La fattispecie riguarda la cessione di una testata giornalistica in perdita strutturale, in cui il
marchio e l’avviamento sono stati valutati al prezzo simbolico di 1 lira; l’Ufficio del Registro di
Roma aveva ripreso la base imponibile dell’operazione, quantificandola in circa L.
20.000.000.000, argomentando sulla base di un tasso di redditività sui ricavi conseguiti
del 16% a una capitalizzazione del 20%; si rileva, senza contare che la testata giornalistica era
in perdita, che questi parametri erano talmente alti che non potevano rispecchiare fedelmente l’effettiva situazione economica dell’azienda.
Nel corso dei vari dibattimenti che si sono succeduti nel tempo le Commissioni tributarie
avevano decretato che l’avviamento era stato computato 2 volte, in quanto era stato indicato
nella Situazione Patrimoniale contenuta nell’atto di cessione e nel calcolo aritmetico formalizzato dall’Ufficio.
La Cassazione, accogliendo due punti sollevati dall’Agenzia delle entrate, rileva che la
Commissione tributaria centrale non poteva disconoscere, in quanto qualità intrinseca
dell’azienda, un avviamento, a causa dell’avere sostenuto perdite nei precedenti esercizi.
Infatti, in base alle precedenti sentenze della Suprema Corte, si devono scindere le perdite,
che riguardano l’ordinario svolgimento dell’attività d’impresa, dall’azienda, elemento diverso
dalla prima e che può racchiudere un reddito latente in condizioni ordinarie; difatti le perdite
possono sorgere nel particolare andamento della gestione, a causa di interessi passivi elevati,
perdite su crediti, sopravvenienze passive.
In conclusione, la Corte di cassazione rinvia la decisione definitiva alla Commissione, che si
dovrà attenere scrupolosamente a questo principio giurisprudenziale “In tema di Imposta di
Registro, l’esistenza dell’avviamento non può escludersi solo a causa di sostenere perdite
precedenti e successive”.
Conclusioni
Come già rilevato dalla sentenza n. 2702 del 25 febbraio 2002, la sussistenza di preesistenti
perdite non pregiudica la possibilità che un’azienda oggetto di conferimento o cessione non
abbia incorporato l’avviamento. Tecnicamente la base imponibile ai fini dell’Imposta di
Registro si calcola prima di tutto valutando i componenti dell’attivo patrimoniale e, in tale
fase, l’avviamento non può escludersi solo per l’esistenza o il particolare ammontare delle
perdite, in quanto qualità intangibile insita nel complesso aziendale. Successivamente sarà
possibile detrarre le passività ai singoli elementi dell’Attivo patrimoniale proporzionalmente al
valore di quest’ultimi. Tuttavia le parti che hanno posto in essere la compravendita di
un’azienda o ramo di azienda possono motivare anche con stima peritale allegata al relativo
contratto come è stato valutato l’avviamento, in quanto potrebbero esserci fattori rilevanti
quali l’obsolescenza dei prodotti a causa delle innovazioni apportate dalla concorrenza ovvero
uno squilibrio della Posizione Finanziaria Netta che potrebbero fondatamente indurre gli
istituti di credito a ridimensionare i fidi concessi, pertanto i redditi conseguiti nel triennio
antecedente non rispecchierebbero una situazione economica aggiornata dell’azienda.
Si rileva anche che, nel corso della valutazione dell’avviamento a fine esercizio, il valore
effettivo può essere inferiore a quello residuo al netto degli ammortamenti. In casi rilevanti, o
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causati da circostanze eccezionali, contabilmente si valuterà una sua svalutazione. Tale
svalutazione non sarà immediatamente deducibile, ma ai fini IRES si dedurrà una quota di
svalutazione che trova capienza, sommata al minor ammortamento civilistico, nel valore
massimo annuo di deduzione dell’ammortamento, e ai fini IRAP, parimenti, sussisterà una
deduzione derivante dalla minore quota di ammortamento fiscale e una variazione in
diminuzione che va a coprire la differenza tra l’ammontare massimo dell’ammortamento
dell’avviamento previsto dal T.U.I.R. e la prima. Diverso è il caso in cui si sceglie di ammortizzare l’avviamento a valori inferiori rispetto all’aliquota massima, in quanto il maggior valore
residuo potrà essere recuperato solo in sede di cessione d’azienda.
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IRES
Rivalutazione immobili
“in eccesso”: le regole
civilistiche e fiscali
di Corrado Fenici - Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili
La facoltà di rivalutare i beni immobili in base alle disposizioni del D.L. n. 185/2008 ha
rappresentato un’interessante opportunità per molte società sia per migliorare i valori
patrimoniali e, in casi di soggetti con forti perdite, evitare interventi sul capitale, sia per
adeguare alla realtà del mercato i valori fiscali degli immobili ad un costo piuttosto basso.
Non sono, tuttavia, rari i casi in cui questa scelta si è successivamente rivelata un boomerang.
La combinazione negativa della stagnazione del mercato immobiliare e dei valori fiscali elevati
attribuiti agli immobili rivalutati ha avuto effetti negativi con riguardo alla disciplina delle
società non operative, in particolare dal 2013, periodo d’imposta dal quale i maggiori valori
fiscalmente riconosciuti degli immobili entravano nel calcolo del test di operatività.
In presenza di valori degli immobili troppo elevati è quindi lecito chiedersi come procedere
per “annullare” gli effetti della rivalutazione ripristinando il valore originario degli immobili.
La questione va affrontata sotto il duplice aspetto civilistico e fiscale.
L’aspetto civilistico
Dal punto di vista civilistico, la norma di riferimento è l’art. 2426, n. 3, c.c. che prevede che:
“l’immobilizzazione che, alla data della chiusura dell’esercizio, risulti durevolmente di valore
inferiore a quello determinato secondo i nn. 1) e 2) [ossia il costo d’acquisto o di produzione]
deve essere iscritta a tale minore valore; questo non può essere mantenuto nei successivi
bilanci se sono venuti meno i motivi della rettifica effettuata”.
Ma cosa ha inteso il legislatore con il termine “valore”?
Sui dubbi di interpretazione della norma civilistica intervengono i principi contabili, in
particolare l’OIC 9 chiarisce che al termine dell’esercizio (o ad ogni data di chiusura del
bilancio) occorre effettuare un’apposita valutazione che abbia lo scopo di verificare se si sono
manifestati indicatori di perdite durevoli di valore. Lo stesso principio contabile riporta l’elenco
degli indicatori che, come minimo, devono essere esaminati per riscontrare l’esistenza della
perdita durevole:
• il valore di mercato è diminuito significativamente durante l’esercizio, più di quanto si
prevedeva sarebbe accaduto con il passare del tempo o con l’uso normale dell’attività in
oggetto;
• durante l’esercizio si sono verificate, o si verificheranno nel futuro prossimo, variazioni
significative con effetto negativo per la società nell’ambiente tecnologico, di mercato,
economico o normativo in cui la società opera o nel mercato cui un’attività è rivolta;
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• nel corso dell’esercizio sono aumentati i tassi di interesse di mercato o altri tassi di
rendimento degli investimenti, ed è probabile che tali incrementi condizionino il tasso di
attualizzazione utilizzato nel calcolo del valore d’uso di un’attività e riducano il valore equo;
• il valore contabile delle attività nette della società è superiore al loro valore equo stimato
della società;
• l’obsolescenza o il deterioramento fisico di un’attività risulta evidente;
• nel corso dell’esercizio si sono verificati significativi cambiamenti con effetto negativo
sulla società, oppure si suppone che si verificheranno nel prossimo futuro, nella misura o
nel modo in cui un’attività viene utilizzata o ci si attende sarà utilizzata.
Qualora le fattispecie previste dagli indicatori si fossero manifestate, occorre, prima di
svalutare, effettuare un ulteriore controllo, ovvero accertare se il valore recuperabile dell’immobilizzazione, determinato sulla base della capacità di ammortamento dei futuri esercizi, sia
almeno pari al suo valore di iscrizione in bilancio. Se gli ammortamenti relativi al cespite sono
tali da determinare una perdita complessiva negli esercizi futuri in cui l’immobilizzazione è
utilizzata, la svalutazione è obbligatoria.
Con riguardo a beni iscritti tra le immobilizzazioni che erano stati in precedenza rivalutati, il
principio contabile OIC 16 stabilisce che la perdita di valore acquisisce rilevanza solo se viene
considerata “durevole”.
In tal caso, si ha l’obbligo di procedere alla svalutazione, con contropartita a conto
economico.
Vediamo uno schema riassuntivo.
OIC 16
Immobilizzazioni
materiali
Rivalutazione
Paragrafo 69:
OIC9
Svalutazioni
per Definizioni
perdite durevoli di Paragrafo 3:
valore delle
immobilizzazioni
materiali e
immateriali
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Se la legge speciale stabilisce che la
rivalutazione di un bene immateriale
debba essere effettuata in base a
parametri prestabiliti e l’adozione di
tali parametri comporta l’iscrizione di
un valore rivalutato che negli esercizi
successivi risulti eccedente il valore
recuperabile, il valore rivalutato è conseguentemente svalutato con rilevazione della perdita durevole a conto
economico se non disposto diversamente dalla legge.
Perdita durevole di valore
Si definisce perdita durevole di valore
la diminuzione di valore che rende il
valore recuperabile di un’immobilizzazione, determinato in una prospettiva di lungo termine, inferiore
rispetto al suo valore netto contabile.
Valore recuperabile
Si definisce valore recuperabile di
un’attività o di un’unità generatrice
di flussi di cassa il maggiore tra il
suo valore d’uso e il suo valore
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equo (fair value), al netto dei costi di
vendita.
Valore d’uso
Si definisce valore d’uso il valore
attuale dei flussi di cassa attesi da
un’attività o da un’unità generatrice
di flussi di cassa.
Valore equo (fair value)
Il valore equo (fair value) è l’ammontare ottenibile dalla vendita di un’attività in una transazione ordinaria tra
operatori di mercato alla data di
valutazione.
Vediamo cosa comporta contabilmente quest’obbligo di svalutazione.
All’atto della rivalutazione, per incrementare il valore contabile netto era possibile contabilmente modificare in alternativa:
– il solo valore lordo, lasciando inalterato il fondo ammortamento (con conseguente
aumento delle quote di ammortamento annue ed allungamento del periodo di
ammortamento);
– il solo fondo ammortamento, lasciando inalterato il valore lordo (per mantenere le quote
di ammortamento inalterate, e sempre allungando il periodo di ammortamento);
– sia il valore lordo che il fondo ammortamento (in modo da mantenere inalterato il periodo
di ammortamento, con cambiamento, però delle quote di ammortamento annue).
Il saldo attivo di rivalutazione doveva venire imputato direttamente a patrimonio netto (non
transitando da conto economico) e poteva essere attribuito a capitale sociale oppure iscritto
in una specifica riserva del patrimonio netto.
Per fare un esempio, supponiamo sia stata effettuata la rivalutazione di un immobile per euro
100.000 (rivalutando il solo valore lordo), scegliendo di conferirle rilevanza fiscale. La scrittura
contabile è la seguente:
Immobili
a
100.000
Diversi
Riserva di rivalutazione
97.000
Debiti tributari per imposta sostitutiva
3.000
Una volta constatato l’obbligo di svalutazione, ad esempio per tutto il valore della precedente
rivalutazione, si dovrà procedere con la seguente scrittura contabile:
Svalutazione immobili
a
Immobili
100.000
100.000
(CE B10.c)
La perdita (non realizzata) per la svalutazione va quindi rilevata a conto economico in base al
disposto sopra citato dell’OIC 16, non va ridotta la riserva di rivalutazione.
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Il trattamento ai fini IRES
Le svalutazioni del valore delle immobilizzazioni, ai sensi dell’art. 101, comma 1, T.U.I.R., non
rappresentano un costo fiscalmente deducibile nell’anno di imputazione contabile, in quanto
si tratta di minusvalenze non realizzate.
Pertanto tali svalutazioni rilevate civilisticamente dovranno essere riprese a tassazione in
sede di determinazione del reddito d’impresa.
Quando, allora, la perdita di valore transitata a conto economico a titolo di svalutazione e
(momentaneamente) non dedotta assumerà rilevanza ai fini fiscali?
La risposta “fiscale” a questa domanda è che il costo di un’immobilizzazione deve partecipare
alla determinazione del reddito d’impresa per quote annuali stabilite dal Decreto ministeriale
del 31 dicembre 1988. Se l’impresa deducesse l’intera perdita di valore nell’anno dell’imputazione contabile, non farebbe altro che “accelerare” l’ammortamento fiscale del costo del
bene, “concentrando” indebitamente (dal punto di vista fiscale ma anche civilistico) nell’esercizio di imputazione contabile una quota maggiore di tale costo.
Variazioni in
diminuzione
In sostanza, durante il periodo di ammortamento del bene, è possibile apportare delle
variazioni in diminuzione in sede di dichiarazione per la parte del maggior ammortamento
fiscale risultante dall’applicazione dei coefficienti tabellari (Decreto 31 dicembre 1988) al
valore fiscale più alto di quello civilistico.
Questo modus operandi è stato chiarito dall’Agenzia delle entrate con vari interventi di prassi.
Per tutti citiamo, ai fini IRES, la risoluzione n. 98/E del 19 dicembre 2013 e, ai fini IRAP, la
circolare n. 26/E del 20 giugno 2012.
Vediamo l’applicazione pratica di questo metodo utilizzando il dato dell’esempio di cui sopra.
Ipotizziamo un immobile acquistato nel 1996 per un prezzo equivalente a 100.000 euro,
rivalutato nel 2008 a 200.000 euro con riconoscimento fiscale del maggior valore nel 2013 e
poi svalutato nel 2015 a 100.000 euro. Per semplicità espositiva, supponiamo che con la
svalutazione sia variata anche la vita utile del bene, in modo tale che rimanga sempre valida
l’aliquota di ammortamento del 3%. A seguito della svalutazione, l’ammortamento fiscale si
continua ad effettuare sul valore ante svalutazione, operando delle variazioni in diminuzione
in dichiarazione dei redditi. Il risultato è che la svalutazione di 100.000 euro verrà recuperata
fiscalmente tramite i maggiori ammortamenti fiscali, fino al riallineamento dei valori civilistico
e fiscale dell’immobile.
Costo
Rivalutaz.
d’acquisto
Svalutaz.
fiscale
100.000,00
Ammortam.
Riconos.
200.000,00
100.000,00
2036
2037
totali
1996
2008
2013
2014
2015
3.000,00
6.000,00
6.000,00
6.000,00
3.000,00
3.000,00
3.000,00
6.000,00
6.000,00
6.000,00
6.000,00
5.000,00
200.000,00
-3.000,00
-6.000,00
-5.000,00
100.000,00
100.000,00
Civ.
Ammortam.
Fisc.
Variaz in dich
3.000,00
Fondo civ
3.000,00
42.000,00
72.000,00
78.000,00
81.000,00
100.000,00
100.000,00
Fondo fisc
3.000,00
39.000,00
57.000,00
63.000,00
69.000,00
195.000,00
200.000,00
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Il trattamento ai fini IRAP
L’art. 5 del D.Lgs. n. 446/1997 esclude espressamente la deducibilità dall’IRAP della voce
B10) lett. c) del conto economico, riferita alle svalutazioni delle immobilizzazioni materiali.
Concorrono invece a formare la base imponibile IRAP gli ammortamenti delle immobilizzazioni materiali di cui alla voce B10) lett. b) del conto economico.
Di fatto l’effetto è lo stesso che per la base imponibile IRES, ossia a seguito dell’indeducibilità
della svalutazione si crea un disallineamento tra il valore civilistico (più basso) e il valore fiscale
(più alto) del bene.
Anche qui si pone quindi il problema di individuare il momento in cui il costo non dedotto,
transitato a conto economico a titolo di svalutazione, assume rilevanza ai fini IRAP. L’Agenzia
delle entrate ha fornito alcuni chiarimenti con la circolare n. 26/E del 20 giugno 2012.
Vanno innanzitutto distinte due casisitiche:
Casi
– beni acquisiti prima del 1˚ gennaio 2008 (data di entrata in vigore dell’attuale disciplina
IRAP) e che a tale data presentavano un disallineamento tra il valore civile e il valore fiscale;
– beni acquisiti dal 1˚ gennaio 2008 oppure beni acquisiti prima e che a tale data non
presentavano alcun disallineamento tra il valore civile e quello fiscale.
Nel primo caso, i maggiori valori fiscali sono deducibili dall’imponibile IRAP attraverso
variazioni in diminuzione a partire dall’esercizio successivo a quello in cui si conclude
l’ammortamento contabile, nei limiti dell’importo derivante dall’applicazione dei coefficienti tabellari previsti dal Decreto 31 dicembre 1988). In pratica trovano ancora applicazione
le regole vigenti con la precedente disciplina IRAP e viene consentito effettuare le variazioni in
diminuzione operate ai fini IRES per recuperare la svalutazione non dedotta.
Nel secondo caso, il disallineamento tra il valore civile e quello fiscale che si genera a seguito
della svalutazione fiscalmente non rilevante si riassorbe attraverso variazioni in diminuzione
da effettuarsi in dichiarazione nel corso del processo di ammortamento del bene,
applicando il criterio di ammortamento utilizzato in sede civilistica, ossia ripartendo il valore
fiscale del bene (più alto perché al lordo della svalutazione) sulla base della vita utile residua
del bene stesso. Questa precisazione deriva dal fatto le regole IRES attuali sono “sganciate”
dalle regole IRAP con la conseguente impossibilità di utilizzare, ai fini della determinazione
delle quote di ammortamento rilevanti per l’IRAP, i coefficienti previsti dal Decreto 31
dicembre 1988.
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Imposte sul reddito
Rimborsi chilometrici
corrisposti ai lavoratori:
trattamento fiscale
di Antonio Veneruso - Pubblicista e fiscalista d’impresa
Il lavoratore dipendente sovente si reca in “trasferta” su incarico e nell’interesse dell’azienda
utilizzando come mezzo di trasporto la propria personale autovettura, previo rimborso delle
spese relative ai chilometri percorsi, determinato sulla scorta delle tabelle ACI previste per
quel veicolo (ma in genere calcolato in base a tariffe interne all’azienda inferiori a quelle ACI).
Al riguardo, si segnala che l’Agenzia delle entrate è recentemente intervenuta sulla tematica
con la risoluzione 30 ottobre 2015, n. 92/E, introducendo particolari chiarimenti sulla
modalità di calcolo ai fini dell’esenzione fiscale del rimborso in parola.
Definizione di “trasferta”
Come è ormai prassi consolidata, per trasferta s’intende l’attività lavorativa svolta dal dipendente occasionalmente e temporaneamente nell’esclusivo interesse dell’impresa al di fuori
del territorio del Comune ove di regola la stessa ha sede ovvero, in presenza di più sedi/unità
locali, della sede in cui lo stesso svolge le normale mansioni. Per gli amministratori, invece,
titolari di reddito assimilato a quello di lavoro dipendente, laddove non risulta specificatamente
individuata la sede di lavoro nell’atto di nomina, il concetto di trasferta è da intendersi ai
trasferimenti al di fuori del Comune del loro domicilio fiscale, cosı̀ come chiarito dalla circolare
26 gennaio 2001, n. 7/E e ribadito dalla successiva n. 58 /E del 18 giugno 2001.
Disciplina fiscale della trasferta
L’art. 51, comma 5, T.U.I.R., disciplina specificatamente le trasferte del dipendente per
motivi di lavoro stabilendone le relative modalità con cui le indennità e i rimborsi spese
concorrono o meno alla formazione del reddito di lavoro dipendente.
Giova ricordare che le indennità o i rimborsi spese, anche a piè di lista, per trasferte nell’ambito
del territorio comunale ove è stata fissata la sede di lavoro, ad eccezione dei rimborsi delle
spese di trasporto (taxi, mezzi pubblici, ecc., escluso mezzi di trasporto del dipendente)
risultanti da documenti emessi dal vettore concorrono a formare il reddito del dipendente.
Trasferta fuori dal territorio comunale
Come meglio si dirà in prosieguo, il richiamato art. 51, comma 5, T.U.I.R. prevede che non
concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente le indennità percepite per
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trasferte fuori dalla sede di lavoro fino ad un importo max giornaliero di euro 46,48 (euro
77,47 per l’estero), al netto delle spese di viaggio e trasporto. In ipotesi di rimborso a piè di
lista delle spese di alloggio, ovvero di vitto o di alloggio o di alloggio o vitto fornito gratuitamente, il limite è ridotto di un terzo. Tale limite max è invece ridotto di due terzi in caso di
rimborso sia delle spese di alloggio che di quelle di vitto.
Per la stessa trasferta, la scelta di uno dei predetti sistemi di rimborso è vincolante per
l’intera durata, significando che non è consentito adottare diverse tipologie di calcolo in
caso di una stessa trasferta con durata di più giorni.
In sostanza, la norma fiscale ammette per le trasferte la facoltà di adottare uno dei tre seguenti
metodi di rimborso.
Indennità forfetaria
Le indennità forfetarie sono escluse dall’imponibile del percipiente, sia esso dipendente o
collaboratore, nei limiti giornalieri di cui sopra, al netto delle spese di viaggio e trasporto, anche
sotto forma di indennità chilometrica. Tali ultime spese sono esenti da tassazione quando
siano rimborsate analiticamente sulla scorta di idonei giustificativi emessi dal vettore (ferrovie,
aerei, ecc.) da allegare alla “nota spese” o della spettante indennità chilometrica se il
dipendente è stato autorizzato ad utilizzare la propria autovettura.
Per la quantificazione di tale ultima indennità, di cui si è occupata la richiamata risoluzione n.
92/E/2015, l’importo da rimborsare non dovrà comunque eccedere quello risultante
dall’applicazione delle tabelle tariffarie ACI previste per quel veicolo o similari.
Ogni altra indennità di trasferta eccedente i limiti in discorso avrà piena rilevanza reddituale in
capo al dipendente.
Rimborso analitico
Con il rimborso analitico il datore di lavoro provvede a rimborsare in modo dettagliato le spese
sostenute durante la trasferta, sempre al di fuori del territorio comunale ove è dichiarata la
sede di lavoro, sulla base di idonea documentazione giustificativa esibita dal lavoratore.
Pertanto, in tal caso i rimborsi analitici delle spese di vitto e alloggio, delle spese di viaggio,
anche sotto forma di indennità chilometrica, e di trasporto non concorrono in nessun caso a
formare il reddito del dipendente.
Analogamente, non concorrono a formare il reddito del dipendente, l’eventuale corresponsione di altre spese sostenute durante la trasferta ad esempio per la lavanderia, per telefonate,
il parcheggio, le mance, i giornali e cosı̀ via, anche se non documentabili, purché analiticamente attestate dal dipendente nella nota spese e di importo complessivo non superiore a
euro 15,49 al giorno per trasferte in Italia (euro 25,82 per l’estero). La R.M. 17 febbraio 1982,
n. 9/512 ha ritenuto che tali spese possono essere considerate sufficientemente documentate sulla base di dichiarazioni del dipendente.
Rimborso misto
Tale ipotesi si configura quando unitamente al rimborso analitico delle spese di vitto e alloggio
venga corrisposta anche l’indennità di trasferta. La disposizione in rassegna prevede che in
caso di rimborso analitico delle spese di vitto o di alloggio, ma non di entrambe, l’indennità di
trasferta giornaliera esente da tassazione (euro 46,48 ovvero euro 77,47 per l’estero) si
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riduca di un terzo. Qualora, invece, vengano rimborsate sia le spese di vitto che di alloggio
oppure quando il vitto e l’alloggio è fornito gratuitamente dal datore di lavoro, la predetta
quota esente da tassazione deve essere ridotta di due terzi.
Anche l’adozione di questo metodo di rimborso comporta, comunque, che i rimborsi spese
relativi a spese di viaggio e trasporto ivi inclusa l’indennità chilometrica, non rilevano ai fini
della determinazione del reddito del percipiente ovviamente se supportati da idonea
documentazione, mentre ogni ulteriore rimborso in aggiunta ai predetti è da assoggettare
a tassazione.
Documentazione
Ai fini operativi, il lavoratore/collaboratore per ottenere il rimborso delle spese di trasferta
dovrà presentare apposita nota spese recante l’indicazione della data e della località in cui è
stato comandato a svolgere l’attività lavorativa nell’interesse aziendale. A tale documento,
firmato dal dipendente/collaboratore e dal responsabile che ne ha disposto la trasferta, anche
ai fini di attestarne l’effettivo svolgimento della medesima e, quindi, del reale sostenimento
degli oneri in esso indicati, devono essere allegati tutti i relativi documenti giustificativi, come
fatture, scontrini, ricevute, biglietti aerei, di taxi e di treno.
Le spese di vitto e alloggio possono essere comprovate oltre che dall’ordinaria fattura anche
da ricevuta fiscale integrata a cura dell’emittente con i dati identificativi del cliente ovvero dal c.
d. scontrino fiscale parlante, cioè riportante oltre alle indicazioni del servizio reso anche del
codice fiscale del dipendente fruitore del servizio.
Le spese afferenti ai viaggi effettuati con i predetti mezzi pubblici devono essere documentate
dai relativi titoli (rectius biglietti). Nel caso in cui il dipendente/collaboratore utilizzi per la
trasferta la propria autovettura, come anticipato in precedenza, l’importo da rimborsare non
può superare quello risultante dall’applicazione delle tabelle ACI, avuto riguardo alla percorrenza, al tipo di automezzo usato dal dipendente e al costo chilometrico ricostruito secondo il
tipo di autovettura. Detti elementi dovranno risultare dalla documentazione interna conservata dal datore di lavoro, cosı̀ come da ultimo ricordato dalla R.M. n. 36/E/2015 che ci occupa.
Risoluzione 30 ottobre 2015, n. 36/E
L’Agenzia delle entrate con la risoluzione n. 36/2015, ha fornito chiarimenti proprio in merito
alla modalità di calcolo dei rimborsi chilometrici al dipendente/collaboratore in trasferta che
incidono sostanzialmente sul relativo trattamento fiscale.
Più in dettaglio, il caso di specie ha riguardato l’ipotesi in cui per raggiungere la località di
trasferta il lavoratore inizi il tragitto alternativamente:
a) con partenza dal proprio domicilio;
b) con partenza dalla sede di lavoro.
Per la descritta fattispecie l’Amministrazione finanziaria ha individuato un doppio regime di
tassazione proprio a seconda che il tragitto sia minore o maggiore rispetto a quello calcolato
partendo dalla sede di lavoro.
Esenzione fiscale
In sostanza, l’esenzione fiscale (e contributiva) del rimborso chilometrico sarà integralmente riconosciuta soltanto qualora la partenza della trasferta dalla propria abitazione
determini una percorrenza inferiore rispetto alla partenza dalla sede di lavoro.
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AMMINISTRAZIONE
Al contrario, l’esenzione fiscale (e contributiva) del rimborso chilometrico sarà limitata
qualora la partenza della trasferta dalla propria abitazione comporti una distanza chilometrica
superiore, con conseguente tassazione della sola quota eccedente riferibile alla predetta
maggiore distanza.
Le conclusioni cui perviene l’Agenzia delle entrate, seppur corrette da un punto di vista
prettamente tecnico, in effetti non tengono conto che l’eventuale minimo vantaggio
conseguito dal lavoratore è meramente accidentale e, quindi, rappresenta un “accessorio
fortuito”, atteso che la trasferta, cui è direttamente connesso il rimborso in parola, è in ogni
caso svolta nell’esclusivo interesse e su disposizione unilaterale del datore di lavoro che la
dispone, cosı̀ come si ricava dalla sentenza della Corte di cassazione del 25 ottobre 2001,
n. 13193.
A parere di chi scrive, quindi, si ritiene che alla luce di tale conclusione pro-Fisco ne potrebbero
derivare effetti negativi sull’organizzazione aziendale attraverso un disincentivo nelle trasferte
dell’uso dell’autovettura privata, che spesso ne rappresenta il mezzo di trasporto più
funzionale allo scopo, verso altri mezzi di trasporto pubblici o privati, magari con maggiori
oneri, ancorché deducibili, in capo al datore di lavoro.
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PMI
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FINANZA & CREDITO
Transazioni commerciali
Internazionalizzazione:
le strategie
di Gabriele Toma
Le analisi evidenziano ormai da alcuni trimestri come le imprese che operano con i mercati
esteri siano in grado di affrontare meglio la crisi, con fatturati e margini economici in relativa
crescita e con una certa propensione all’innovazione ed a realizzare investimenti; in alcuni
comparti, addirittura, pare lo stiano facendo meglio dei loro diretti competitori europei.
Questo processo di internazionalizzazione è supportato sia dalla crescita (in volume)
delle esportazioni (di chi già vendeva all’estero), sia dall’aumento del numero
complessivo delle aziende che producono e vendono sui mercati esteri (le imprese
italiane, nel complesso, si posizionano con una quota di mercato stabilmente attorno
all’ottavo posto a livello mondiale): le rilevazioni dell’ISTAT di settembre scorso, hanno in
proposito evidenziato pur con luci ed ombre che, rispetto allo stesso periodo dell’anno
precedente, le esportazioni dell’Italia sono aumentate del 4,2% e che il surplus commerciale risulta di poco meno di 2,5 miliardi di euro (era di circa 1,9 miliardi a settembre
2014).
Tavola 1- Interscambio commerciale dell’Italia (fonte ISTAT, valori in milioni di euro)
2012
2013
2014
Export Italia
390.182
390.233
398.870
Variazione %
3,8
0
2,2
Import Italia
380.292
361.002
356.939
Variazione %
-5,3
-5,1
-1,1
Interscambio
complessivo
770.474
751.235
755.809
Variazione %
-0,9
-2,5
0,6
Saldi
9.890
29.231
41.931
19.341
12.700
Variazione assoluta 35.413
rispetto al periodo
precedente
PMI
Gen-Set
2014
294.968
Gen-Set
2015
307.278
4,2
267.523
277.335
3,7
562.491
584.613
3,9
27.445
29.943
2.498
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FINANZA & CREDITO
L’ISTAT ha sottolineato inoltre come la crescita congiunturale dell’export a ottobre 2015 sia da
ritenersi imputabile principalmente all’aumento delle vendite verso mercati extra-UE (che
rappresentano oltre il 45% delle vendite all’estero), come Stati Uniti (+ 22%), India
(+13,4%), Giappone (+2,4% a fronte di una sostanziale stabilità delle vendite dall’inizio
dell’anno), e Cina (+1,8%) che registra una contenuta inversione di tendenza rispetto ai primi
dieci mesi del 2015.
Tavola 2 - Esportazioni con i Paesi extra-UE - ottobre 2015 (fonte ISTAT, valori in milioni di
euro)
Paesi e aree geo
economiche
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Esportazioni
Quote % (a)
Variazioni tendenziali perc.
Ott. 15
Gen.-Ott.15
Ott. 14
Gen.-Ott.14
Paesi europei non UE
11,8
-6,5
-4,9
Russia
2,4
-20,6
-27,5
Svizzera
4,8
-3,2
1,9
Turchia
2,4
-8,6
5,0
Africa settentrionale
3,5
-11,3
-6,8
Altri Paesi africani
1,6
-36,3
-5,9
America settentrionale
8,2
3,6
21,6
Stati Uniti
7,5
3,3
22,0
America centro-meridionale 3,5
-18,7
-0,2
Medio Oriente
5,0
1,4
9,3
Altri Paesi asiatici
9,8
2,8
3,2
Cina
2,6
1,8
-0,5
Giappone
1,3
2,4
-0,1
India
0,8
14,0
13,4
Oceania e altri territori
1,8
-6,2
1,1
OPEC
5,7
-11,6
0,0
MERCOSUR
1,7
-33,9
-12,1
EDA
3,8
-4,9
2,7
ASEAN
1,8
-7,7
-2,6
Totale
45,1
-4,5
3,7
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FINANZA & CREDITO
Particolarmente reattive si sono dimostrate le vendite di autoveicoli (+30,4%), di articoli
sportivi, di macchine automatiche, di giochi, di strumenti musicali, di preziosi, di strumenti
medici (+8,7%) e di computer, apparecchi elettronici e ottici (+8,6%).
Vendite italiane
all’estero
Partendo dal dato importante rappresentato dalle vendite italiane all’estero, è necessario
sottolineare come si debbano inquadrare sotto il concetto di “internazionalizzazione” delle
PMI, non solo le relazioni di export commerciale, ma l’insieme di tutte quelle decisioni ed
azioni che rendono più presenti e competitive le imprese italiane all’estero: negli ultimi anni
sono infatti andati a delinearsi molteplici profili di imprese che hanno relazioni con l’estero,
caratterizzate per differenti gradi di intensità di interazione col mercato e di investimento di
risorse, che vedono come modelli estremi, l’esportazione di prodotti e la creazione di una
presenza produttiva e commerciale stabile in un differente Paese.
Obiettivi
Gli obiettivi direttamente riscontrabili sono essenzialmente quelli di conquistare progressivamente quote di mercato per aumentare il “fatturato” (le vendite dipendono sia dalla
competitività dell’azienda stessa, sia dalla dimensione del mercato a cui essa si rivolge, sia
dalla vicinanza fisica ad esso: in questa maniera si consente all’impresa di allargare la propria
base di affari), diversificare i rischi (si riduce la dipendenza dell’azienda da un unico mercato,
consentendole di superare eventuali periodi di recessione), sviluppare economie di scala
(l’attività all’estero cessa di essere una parte marginale dell’attività complessiva dell’impresa,
questa intraprende un processo di crescita in termini di dimensioni, supportato dalla crescita
della base di mercato, che le consente di accedere a nuove risorse finanziare e di sfruttare i
vantaggi legati alla dimensione) e, nel caso della delocalizzazione, ridurre sensibilmente i costi
della produzione e della commercializzazione per massimizzare i profitti (quando l’entità
delle vendite aggiuntive ottenibili sul mercato estero è tale da non incidere significativamente
sui costi fissi, tali vendite incrementeranno la redditività complessiva dell’impresa).
Vi sono anche ricadute indirette che scaturiscono da questo tipo di esperienza e delle quali
beneficia tutta l’impresa, come ad esempio aprire l’organizzazione aziendale a nuove idee ed
a nuove esperienze (essere attivi su mercati differenti consente di venire a contatto con realtà
nuove, diversi modi di operare e nuove idee di successo che possono essere recepite e
utilizzate sia sul mercato italiano, sia sugli altri mercati di riferimento), reagire attivamente ai
processi di globalizzazione (uscire dai confini nazionali aiuta le aziende a costruirsi i mezzi
finanziari e le competenze manageriali, per competere con i concorrenti stranieri anche sul
mercato domestico) ed accrescere la propria competitività sul mercato domestico (l’esperienza, le competenze e le risorse acquisite, andranno a costituire un vantaggio competitivo
importante nei confronti di quelle aziende che limitano la loro area di attività al solo mercato
italiano).
Livelli differenti di internazionalizzazione
Esportazione
Non rappresenta una vera e propria strategia di internazionalizzazione, ma una strategia
commerciale che si rivolge a mercati differenti da quelli domestici. Ha però una sua rilevanza
nell’avvicinare le imprese alla decisione di penetrare un mercato estero con una presenza
stabile di tipo commercial-distributiva inizialmente e di tipo manifatturiera in divenire.
Possiamo distinguere due modalità di esportazioni, quelle indirette e quelle dirette.
Nel primo caso, l’azienda produttrice non interviene direttamente nel governare le vendite su
un mercato estero (Paese o area geografica), ma utilizza strutture di trading o agenti
indipendenti che propongono i prodotti al mercato di competenza. Si tratta della strategia
di internazionalizzazione più blanda, poiché richiede bassissimi investimenti ma nello stesso
tempo con una connotazione molto labile per il brand ed il prodotto aziendale. Il principale
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punto di debolezza è rappresentato dalla assenza di un rapporto diretto tra produttore e
consumatore (e mercato di sbocco), utile ad acquisire conoscenze importanti per essere
meno vulnerabili rispetto ai competitor, ed al canale distributivo che potrebbe facilmente
mettere in difficoltà l’esportatore.
Le esportazioni dirette sono invece quelle nelle quali l’impresa produttrice è impegnata con
una propria rete distributiva e di vendita a servire il mercato estero. Si tratta sicuramente di una
scelta che comporta impegni economici ed organizzativi maggiori (creazione forza vendita in
loco, coordinamento delle vendite, organizzazione e gestione delle piattaforme logistiche,
maggiori rischi commerciali e di credito, ecc.) ma presenta anche importanti vantaggi in
termini di flessibilità e di conoscenza delle tendenze e delle aspettative del mercato di sbocco,
utili per programmare in maniera più efficace le attività aziendali.
“Licensing”
Si tratta di una strategia indirettamente finalizzata all’internazionalizzazione (contro il pagamento di un prezzo, viene concessa ad una azienda locale la possibilità di produrre su licenza i
propri prodotti e servizi su un determinato mercato): non è necessario per l’azienda italiana
entrare direttamente in contatto con il mercato estero, ma attraverso questa forma contrattuale, può avviare un processo di penetrazione commerciale e di acquisizione di informazioni
utili per passare ad un livello più spinto e diretto di presenza sul mercato straniero.
“Partnership”
commerciali
Sono gli strumenti per attuare una politica di internazionalizzazione mediamente impegnativa, attraverso la condivisione di strategie ed investimenti tra più imprese accomunate
dall’obiettivo comune di entrare su un mercato (o su un Paese) estero. Tra i più comuni
modelli ci sono i “consorzi all’esportazione”, che nascono appunto per realizzare attività
congiunte all’estero (missioni commerciali, partecipazione a fiere, gestione di piattaforme
logistiche, azioni di marketing, ecc.), con la suddivisione dei costi necessari e per facilitare le
vendite sui mercati obiettivo delle imprese consorziate. La partecipazione a questo tipo di
consorzio è particolarmente interessante per chi si affaccia per la prima volta ad un mercato
straniero e non ha intenzione di investirvi risorse importanti: le aspettative che frequentemente si associano a queste partnership vengono però spesso deluse per la difficoltà di
coordinamento tra i molti soggetti coinvolti e la bassa propensione alla collaborazione delle
imprese tra loro “concorrenti”.
Costituzione di
filiali
In questa maniera si prende la decisione importante di realizzare una presenza stabile e
duratura su un mercato estero: può avvenire sia con la creazione ex novo di una unità locale,
sia con l’acquisizione di una realtà già operativa su quel mercato. Nel primo caso, gli
investimenti richiesti sono più rilevanti, necessitando di maggiori risorse sia nella fase di
predisposizione dell’operazione (analisi della legislazione locale, individuazione logistica,
creazione delle relazioni, ecc.), sia nella fase di avvio e gestione (reperimento delle risorse
umane, conoscenza del mercato e dei clienti, ecc.), mentre nel secondo caso, molto spesso
l’entità che si acquisisce è già conosciuta e sperimentata per precedenti rapporti di agenzia o
contatti di collaborazione, per cui i costi di avvio sono assenti o molto contenuti. Queste
strategie di internazionalizzazione, a fronte di investimenti rilevanti in termini economici e di
coordinamento con la “casa madre”, permettono nel medio periodo l’acquisizione di una
solida conoscenza del mercato estero (del Paese e dell’area geografica di riferimento) e la
conseguenza costruzione di una posizione stabile a difesa del proprio prodotto e business.
Costituzione di
società miste
È quella più spinta tra le forme di presenza diretta su un mercato straniero: in questo modo
una azienda italiana partecipa nel capitale di una impresa estera assieme ad un socio di quel
Paese, con un investimento duraturo e stabile. La scelta di costituire una joint venture può
essere generata sia da valutazioni di convenienza nel coinvolgimento diretto di imprenditori
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locali (vantaggi fiscali, vantaggi commerciali od organizzativi), ecc.), sia dalla necessità
imposta dalla legislazione locale (superamento barriere all’entrata, contenimento dei dazi
all’importazione, ecc.).
Esistono differenti formulazioni di società miste, influenzate dalle normative dei singoli Paesi:
tra le più diffuse possiamo ricordare le contractual joint venture (collaborazione contrattuale
tra soggetti responsabili delle obbligazioni della società limitatamente per la quota individualmente sottoscritta), le equity joint venture (società nella quale la responsabilità di ogni
socio è limitata alla propria quota di capitale sociale), e le wholly foreign owned enterprise
(società con propria personalità giuridica e costituita da più soci stranieri).
Con livelli di flessibilità ed investimento differenti in funzione della modalità scelta, il successo
dell’ingresso di una azienda sui mercati stranieri è condizionato dall’interazione di variabili che
possibilmente vanno governate per ridurre l’alea d’impresa ed i rischi connessi all’internazionalizzazione. Conquistare quote di mercato è difficile, richiede costanza, tenacia e investimenti costanti: occorre raccogliere informazioni, attivare contatti, prevedere spese di
viaggio nei Paesi esteri, eventualmente adattare i prodotti e i servizi offerti alle esigenze
dei mercati locali.
La pianificazione, a qualsiasi livello ci si voglia spingere nell’internazionalizzazione, è quindi
necessaria per utilizzare al meglio le risorse e le energie che saranno necessarie e per
prepararsi ad entrare in maniera attiva su nuovi mercati.
I rischi dell’internazionalizzazione per una impresa
Il “piano export” deve analizzare tutti i rischi e delineare strategie di difesa sia preventivamente
che in risposta al verificarsi degli eventi. Le categorie di rischio sono fondamentalmente cinque:
Categorie
di rischio
– rischi d’impresa: sono quelli che caratterizzano ogni attività imprenditoriale e che
rappresentano l’alea per l’imprenditore. Sui mercati esteri sono aggravati dalla minore
conoscenza del mercato, dei concorrenti e, della distribuzione, e dalla posizione di
sostanziale svantaggio che l’azienda si trova a dover affrontare nella fase iniziale del
processo di internazionalizzazione;
– rischi commerciali: sono quelli che derivano dall’approccio con clienti nuovi e dalla
possibilità da loro espressa di non ottemperare al pagamento dei loro debiti commerciali. Si
tratta di un elemento perturbante connesso strettamente all’attività commerciale e fortemente influenzato dalla maggiore scarsità di informazione e conoscenza della clientela
possibile verso clienti e mercati nuovi;
– rischi economici: derivano dall’andamento della domanda sui mercati internazionali,
alcuni dei quali sono caratterizzati da un alto grado di incertezza e di volatilità, che possono
portare a improvvisi e importanti eventi di contrazione;
– rischi monetari (o di cambio): sono connessi alla valuta di regolamento dei pagamenti,
che potrebbe essere differente dall’euro. In presenza di dilazioni di pagamento significative,
l’azienda potrebbe trovarsi esposta al rischio di riduzione di valore della transazione dovuto
alla svalutazione della moneta estera rispetto all’euro;
– rischi politici: sono quelli che derivano dalle scelte in tema economico dagli Stati sovrani
nei quali ci si trova ad operare. Manovre protezionistiche improvvise, innalzamento dei dazi,
svalutazione della moneta, ad esempio, sono tutt’altro che infrequenti e possono rappresentare una importante causa di perdita economica per le imprese.
Per alcuni di questi rischi esistono tecniche e strumenti di attuazione che è opportuno valutare
ed utilizzare a difesa dell’impresa, come l’assicurazione del credito commerciale, la copertura
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del rischio di tasso e di cambio o l’assicurazione sui rischi politici, o utilizzando modalità di
pagamento destinate a mitigare la rischiosità degli incassi.
Per prima cosa, è necessario analizzare le variabili interne all’impresa in grado di influenzare la
scelta strategica: volendo raggrupparle per categorie, possiamo parlare degli obiettivi, dell’entità dell’investimento, del livello di coinvolgimento che si intendono sostenere, delle
competenze (tecnologiche ed umane) possedute e del livello di rischio che si è disposti ad
assumere.
Assieme alle variabili interne, la stessa analisi va fatta anche su quelle esterne, pure capaci di
influenzare l’andamento dell’investimento ed il raggiungimento del successo economico: si
tratta principalmente delle caratteristiche del mercato (vincoli giuridici, barriere all’entrata,
maturità, presenza di competitor, ecc.), di quelle normative (legislazione societaria, fiscale, sul
lavoro, ecc. in grado di indirizzare le scelte su una strategia più o meno flessibile in termini di
intensità di investimento) e di quelle logistiche e dei trasporti. Indirizzare il proprio all’estero è
quindi complesso come intraprendere una nuova attività d’impresa (con impiego di risorse
proporzionale alle dimensioni che si vogliono attribuire al business). L’attività di internazionalizzazione va quindi pianificata sempre nel migliore dei modi.
Si inizia nell’ottica di una utile corretta gestione aziendale, con la predisposizione di un
“piano di export”, fondamentale anche per l’accesso al credito e ai finanziamenti.
Il secondo livello di analisi, si diceva in precedenza, è quello che riguarda le risorse interne e
la struttura aziendale per valutarne la coerenza agli obiettivi di internazionalizzazione posti
nel piano: a questo punto è obbligatorio domandarsi se le competenze e le esperienze del
capitale umano, le capacità di marketing, quelle organizzative, commerciali, amministrative e
tecniche sono all’altezza dei nuovi compiti richiesti con l’ingresso su un mercato nuovo e
differente da quello nel quale fino ad oggi si è operato. È assolutamente fondamentale fare un
check-up per conoscere con precisione quale sia il proprio livello di capacità ad affrontare il
progetto e di quali risorse ci debba dotare prima di iniziare.
Si passa successivamente all’analisi delle risorse finanziarie stimando con un businessplan, i costi di avvio (e prospettici) dell’iniziativa, le previsione di ricavo a medio termine e le
fonti di finanziamento. Non è di poca importanza questa attività poiché investimenti importanti e concentrati in breve tempo producono risultati nel medio periodo e con rischi spesso
elevati.
“Check-up” di autovalutazione delle variabili interne da parte di una
impresa che vuole intraprendere un percorso di internazionalizzazione
1 – Risorse umane
• Cercare la condivisione del progetto di internazionalizzazione da parte della proprietà e
del management.
• Investire sullo sviluppo delle competenze necessarie alla gestione dei mercati esteri.
• Investire per preparare l’azienda al commercio internazionale.
• Censire le risorse interne per individuare i collaboratori dotati delle necessarie doti di
professionalità, flessibilità, capacità di adattamento, apertura mentale, capacità di osservazione ed entusiasmo.
• Svolgere un audit organizzativo per conoscere il livello di efficienza e reattività delle
funzioni aziendali nella partecipazione al progetto di internazionalizzazione.
• Individuare le responsabilità nella gestione e nello sviluppo del progetto, assegnando
competenze e poteri per l’ottenimento dei risultati attesi (ad esempio ad un “Export
manager”).
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• Sviluppare la conoscenza delle lingue straniere (è fondamentale l’inglese) da parte delle
persone coinvolte.
• Sviluppare la conoscenza informatica in azienda.
• Individuare le competenze da acquisire attraverso risorse in outsourcing o attraverso
nuove assunzioni.
2 – Analisi di marketing
• Analizzare le ragioni del proprio successo imprenditoriale sul mercato nel quale si opera,
per adattarle a quelle del mercato nel quale si vuole entrare.
• Analizzare le caratteristiche e le esigenze dei propri clienti.
• Analizzare e strutturare le informazioni commerciali provenienti dai clienti e dalle loro
esperienze di acquisto.
• Analizzare le statistiche sulla qualità del proprio credito commerciale.
• Analizzare la concorrenza diretta presente sul mercato domestico e sul mercato estero.
• Analizzare la propria struttura distributiva e commerciale.
• Definire budget di vendita, stabilire momenti di feedback e di revisione, definire iniziative
di incentivazione.
• Valutare strategie di personalizzazione del prodotto e dell’offerta commerciale sulle
richieste del cliente.
• Predisporre documentazione tecnica, materiale illustrativo e pubblicitario in inglese e
nella lingua del Paese di destinazione.
• Disporre di un proprio sito internet in inglese e in altre lingue.
3 – Risorse finanziarie
• Valutare dettagliatamente e approfonditamente le risorse necessarie alla realizzazione
del progetto di internazionalizzazione.
• Stabilire quanto sarà finanziato con risorse proprie e quanto con risorse di debito.
• Valutare, per la quota di finanziamento, la forma tecnica, la durata, e l’eventuale costo
sostenibile.
• Definire le politiche di copertura dei rischi finanziari, politici e commerciali legati ai mercati
esteri.
• Individuare le controparti in grado di gestire gli aspetti legali e fiscali del progetto di
internazionalizzazione.
• Valutare il livello di protezione della propria proprietà intellettuale sui mercati esteri.
4 – Risorse tecniche
• Valutare la rispondenza dei propri prodotti alla normativa vigente nel Paese di sbocco e
quanto sono aderenti alle aspettative della clientela.
• Analizzare il costo degli interventi sul prodotto e sul processo produttivo per apportare
modifiche al prodotto, se indispensabili.
• Valutare l’incidenza dei maggiori tempi di trasporto e stoccaggio sul mantenimento della
qualità dei prodotti e sulla necessità di differenziare il packaging.
• Valutare l’esistenza della documentazione tecnica e della etichettatura richiesta nel Paese
di sbocco o necessità di predisporla.
• Prevedere la necessità di personale in loco per l’assemblaggio del prodotto o per prestare
assistenza tecnica.
• Analizzare la capacità degli impianti produttivi nel fare fronte, in tempi brevi ed a costi
marginali ragionevoli, alla possibilità di un incremento di fatturato per le vendite per l’export.
Dopo essersi “presi le proprie misure”, l’azienda deve immaginare in quali Paesi indirizzare il
proprio business. Per fare questo è di fondamentale importanza conoscere i propri punti di
forza (prodotto, design, tecnologia, moda, ecc.), le caratteristiche dei propri clienti e i punti di
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debolezza dei concorrenti, e progettare l’ingresso su nuovi mercati dove replicare le proprie
best practice.
In questo tipo di analisi è necessario conoscere per ogni area geografica di interesse, ad
esempio, il contesto politico, economico, culturale, la politica fiscale, la presenza o meno di
barriere tariffarie e di dazi all’importazione, le tendenze e le prospettive di sviluppo, l’adesione
ad accordi commerciali di libero scambio, unioni doganali o accordi regionali: è in altre parole
necessario avere una “scheda Paese” precisa di ogni mercato di sbocco e l’insieme di queste
informazioni va correlato a ciascuna variabile per arrivare a stilare una graduatoria che
definisca l’attrattività dei Paesi in base alle aspettative di successo del proprio progetto di
internazionalizzazione.
È questa la fase nella quale deve essere definita una robusta strategia competitiva in grado
di indirizzare le scelte dell’impresa all’estero: dopo avere scelto il segmento di mercato nel
quale posizionarsi e le modalità di presenza commerciale, bisogna individuare i partners con i
quali definire la collaborazione (agenti, trading company, soci in joint venture, ecc.), stringere
con loro rapporti di collaborazione, decidere le politiche di prezzo, le condizioni di vendita e di
pagamento e le strategie di comunicazione, distribuzione e di sviluppo. Si tratta di una fase che
se affrontata con superficialità può influenzare l’esito del processo di internazionalizzazione e
può comportare gravi perdite di denaro.
Bisogna intervenire sull’organizzazione interna dell’azienda per accrescere la sponsorship
da parte della proprietà e del management, necessaria per dare autorevolezza al processo di
“innovazione” che si avvia e per ottenere il giusto coinvolgimento da parte di tutte le funzioni
aziendali e di tutti i soggetti che collaborano con l’impresa. È estremamente importante, poi,
che l’andamento del progetto sia monitorato in modo continuo e costante per potere sempre
essere correttamente indirizzato, se necessario, con azioni correttive.
Nel piano strategico devono entrare anche le valutazioni di tipo finanziario, ovvero rivolte
al reperimento delle fonti di finanziamento da impiegare per gli investimenti necessari, in
base al livello di penetrazione commerciale che si vuole raggiungere, e alla scelta degli
strumenti di gestione dei crediti commerciali che si genereranno con le esportazioni o con le
vendite (su un mercato nuovo rispetto a quello domestico).
È fondamentale scegliere i mezzi di pagamento più efficaci per attenuare i rischi commerciali, che in alcuni Paesi sono molto alti, e condizioni di pagamento che costituiscono, in
particolare in Paesi con un limitato sviluppo del sistema creditizio, una leva di marketing che
può risultare fondamentale.
La determinazione delle politiche distributive sono ugualmente importanti per il successo
finale, in particolare se non si possiede una propria piattaforma sul Paese. La logistica ed i
trasporti sono determinanti per il successo di un’attività, sia nella fase della vendita, sia per
tutte le attività di assistenza, manutenzione e garanzia: esse rappresentano sicuramente un
vantaggio competitivo (in quanto sono un servizio per il cliente), ma nel contempo possono
divenire un costo rilevante a causa della distanza, della presenza di criticità infrastrutturali in
loco o del rischio di danneggiamento e deperimento della merce prima della consegna. Non
vanno poi sottovalutati i maggiori oneri di vendita derivanti per la produzione di materiale
commerciale ad hoc (richieste d’offerta, offerte, conferme, contratti, cataloghi, listini, ecc.) e di
documentazione legale (prodotta da dogane, spedizionieri, banche, assicuratori, ecc.).
Il piano di marketing è uno strumento di discussione e di guida verso l’internazionalizzazione:
per essere efficace deve contenere anche percorsi alternativi a quello principale, per condurre
l’impresa comunque verso l’obiettivo proposto, al verificarsi di imprevisti. Occorre individuare
gli elementi che, con maggiore probabilità, possono provocare situazioni inaspettate e
impreviste che possono compromettere il perseguimento degli obiettivi stabiliti e individuare
contingency plan che consentano di far fronte a tali eventualità. In esso devono essere
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analizzati i punti sensibili del piano (trigger points), le contromisure ed i prospetti economico
finanziari alternativi alla soluzione standard.
In conclusione, per rispondere alle nuove sfide poste dall’evoluzione della globalizzazione, le
PMI devono assolutamente valutare e cogliere le opportunità offerte dai cambiamenti del
contesto economico internazionale: con le proprie eccellenza, le imprese italiane possono
giocare un ruolo di primo piano sui mercati mondiali, ma per farlo devono puntare
decisamente sull’internazionalizzazione in maniera strategica ed organizzata.
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CONTROLLO DI GESTIONE
Pianificazione aziendale
Cruscotti di controllo aziendale La “Balanced Scorecard”
di Amedeo De Luca
Introduzione
È indubbia la necessità, per la moderna impresa, di conoscere i fattori critici del suo
funzionamento e la dinamica delle relazioni con clienti, fornitori e concorrenti.
All’impresa occorre un sistema di misurazione delle performance, affinché possa essere
governata in modo razionale ed efficace.
Necessita, inoltre, che i suoi processi decisionali si basino su un insieme di misure delle sue
prestazione, accuratamente progettate e sistematicamente elaborate, in quanto nessun
indicatore è in grado - da solo - di misurare in modo completo l’influenza dei fattori sulle
performance aziendali.
Il controllo e la valutazione di dette performance assumono oggi per l’impresa un’importanza
vitale nel raggiungimento dei suoi obiettivi di competitività e di profittabilità.
Tale valutazione consente al management di:
• controllare in itinere la gestione dell’azienda;
• intraprendere eventuali misure correttive;
• pianificare le future scelte aziendali.
In questa prospettiva è unanimamente riconosciuta l’importanza della Balanced
Scorecard (BSC), “sistema di indicatori” (cruscotto o dashboard) che monitora la gestione
e la dinamica aziendale.
La BSC è uno dei modelli più diffusi a livello internazionale; essa:
La BSC
• ha il pregio dell’estrema semplicità e concettuale;
• si presta bene ad essere implementato nelle PMI.
Il cruscotto di indicatori di “performance”: multidimensionalità
della BSC
Gli indicatori economici e finanziari (metrics) di performance sono alla base della gestione
dell’azienda e del monitoraggio dei risultati delle sue strategie.
In questo contesto, il cruscotto delle performance si rivela un importante strumento di
supporto decisionale, a vari livelli di responsabilità.
In una prospettiva di business intelligence, il cruscotto fornisce al decision maker analisi,
report e modelli predittivi di ottimizzazione, integrando ed elaborando i dati acquisiti dai vari
sistemi aziendali.
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La possibilità di trattare gli indicatori del cruscotto consente al management di quantificare i
rischi ed i benefici economici sottostanti alle decisioni aziendali.
La BSC è uno strumento che collega e “bilancia” gli indicatori di performance, allo scopo di
conoscere in anticipo i riflessi di una determinata azione sulla gestione aziendale. Essa
permette di connettere gli obiettivi operativi a breve termine a quelli strategici di lungo
termine. La metodologia considera un insieme organizzato di indicatori che - integrati consentono una valutazione globale dei risultati aziendali. Essa consente di esplorare i fattori
critici del funzionamento dell’impresa e la dinamica delle relazioni con clienti, fornitori e
concorrenti.
Lo strumento si caratterizza per il suo orientamento alla gestione futura dell’impresa (senza
trascurare le passate performance), monitorando gli obiettivi aziendali all’interno di un
sistema integrato, nel quale convergono strategie, reporting direzionale e performance manageriali.
La BSC analizza i risultati dall’azienda secondo quattro dimensioni o prospettive
(Tavola 1):
1) la prospettiva della performance economico-finanziaria: mette in relazione i risultati
ottenuti dall’azienda con le aspettative di profitto degli azionisti;
2) la prospettiva del cliente: orientamento dell’attività aziendale alla soddisfazione della
clientela, allo scopo di differenziarsi dalla concorrenza;
3) la prospettiva della gestione dei processi, mirata all’individuazione dei fattori critici di
successo per la soddisfazione dei clienti e degli azionisti e - di conseguenza - delle azioni di
miglioramento atte a raggiungere gli obiettivi dei vari livelli aziendali;
4) la prospettiva di sviluppo futuro, connessa all’innovazione di processo e all’apprendimento (in termini di capacità e competenze del personale, di motivazione, di responsabilizzazione e coinvolgimento dello stesso), che consentono uno sviluppo globale
dell’organizzazione.
Tavola 1 - Le quattro prospettive della Balanced Scorecard
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Testando periodicamente le relazioni causa-effetto, il management individua i drivers della
performance ed è in grado di:
• controllare il raggiungimento dei risultati aziendali da parte dell’azienda;
• valutare la reale efficacia delle strategie dell’impresa.
La “Balanced Scorecard” e le PMI
Nell’ambito del controllo di gestione aziendale, si assiste oggi al passaggio dall’approccio
contabile classico ad un approccio - strutturato e tempestivo - di monitoraggio delle
performance dell’impresa.
La BSC, nata come un sistema di controllo diagnostico, atta a fornire ai manager una
valutazione complessiva della performance dell’azienda, presenta le caratteristiche tipiche di
un sistema di controllo interattivo.
Rispetto alle grandi imprese, le PMI presentano le seguenti caratteristiche:
Per le PMI
• hanno strutture organizzative semplici, in cui il proprietario-imprenditore interviene in
genere pesantemente nella vita aziendale;
• registrano pochi livelli manageriali e scarsa delega decisionale (il processo di decision
making è accentrato nelle mani del proprietario-imprenditore);
• hanno risorse umane, finanziarie e di tempo scarse;
• operano su mercati di ridotte dimensioni;
• hanno strategie informali;
• presentano una scarsa standardizzazione e formalizzazione dei comportamenti aziendali: con logiche di gestione orientate al breve termine e scarso ricorso a strumenti di
pianificazione;
• percepiscono i sistemi di misurazione come fonte di rigidità e poco utili per la risoluzione
dei problemi organizzati;
• hanno un orientamento tecnico-produttivo (l’eccellenza tecnica del prodotto è considerata un fattore determinante per il successo dell’organizzazione);
• presentano un inadeguato utilizzo di strumenti informatici per la gestione dell’informazione; utilizzano in modo insufficiente strumenti di Business Intelligence per la raccolta
e la elaborazione dei dati;
• localizzano principalmente l’aspetto finanziario e operativo del business; raramente si
interessano alle misurazioni di altre aree di performance.
La mancanza di adeguate risorse rappresenta il maggiore ostacolo all’implementazione della
BSC nelle PMI, strumento da esse poco conosciuto.
Unitamente all’inadeguatezza delle risorse, i manager delle PMI non hanno le competenze e
la formazione necessaria per implementare modelli manageriali complessi.
Essendo spesso assente un’adeguata cultura manageriale, nelle PMI strumenti manageriali
quali il BSC non sono considerati importanti.
Pur con i limiti sopra elencati, la BSC può essere applicata con successo nelle PMI, se adattata
alle peculiari caratteristiche di queste aziende e se sono seguiti nella sua implementazione
(Tavola 2) i criteri di seguito indicati:
• le PMI che intendono adottare la BSC devono evitare di costruire modelli complessi, con
elevato numero di indicatori;
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• le misure di performance devono essere semplici e sintetiche, riportate graficamente e
visualizzate in modo efficace, al fine di consentire ai manager di interpretare le stesse in
modo veloce;
• le procedure da seguire per raccogliere ed elaborare i dati devono essere chiaramente
definite e non devono risultare onerose.
Tavola 2 - Fasi ed azioni da attuare per l’implementazione della BSC nelle PMI
Fasi
Azioni
1) Identificazione
del piano strategico
Il piano deve coinvolgere l’intero management ed individuare le
azioni strategiche. Obiettivo: ottenere il consenso all’interno
dell’azienda
2) Costituzione di
un comitato di
pianificazione
Il comitato formula gli obiettivi da inserire nelle prospettive della BSC
3) Feedback
Tramite la comunicazione della BSC all’interno dell’azienda il comitato raccoglie commenti ed opinioni sulla BSC stessa
4) Revisione
della BSC
Sulla base del feedback ricavato il comitato migliora la BSC
5) Comunicazione
della nuova BSC
Il comitato comunica la nuova BSC all’intero personale dell’azienda.
A ciascun membro del Personale è richiesto di organizzare la
propria BSC
6) Revisione
Il comitato controlla nuovamente la BSC e rivede sia la BSC globale
che quella del Personale
7) Stesura del piano Sulla base della BSC il comitato formula il piano strategico di 5 anni
strategico di 5 anni
8) Controllo
Si controllano trimestralmente i progressi individuali e dell’azienda
9) Validazione
Sulla base delle BSC personali di ogni dipendente il comitato valuta
le prestazioni dei soggetti e fornisce consigli per migliorare le stesse
10) Revisione
Dopo 5 anni il comitato valuta nuovamente la BSC globale
Fonte: Ecofin Consulting, con adattamenti
Benefici della BSC per le PMI
I maggiori benefici ricercati dalle PMI, nell’utilizzo della BSC, sono i seguenti:
• miglioramento del processo decisionale;
• coordinamento delle attività dell’organizzazione;
• monitoraggio della performance.
La BSC permette di pervenire ad un maggiore coordinamento dei processi e delle attività
tra le varie unità aziendali, consentendo una migliore pianificazione del lavoro.
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Da varie ricerche, condotte in diversi Paesi europei, emerge che un migliore allineamento tra
obiettivi strategici e azioni è considerato il principale beneficio atteso dall’utilizzo della BSC.
In sintesi, la BSC:
• conferisce nuove opportunità di creazione di valore alle PMI;
• assicura supporto al management nell’identificazione e nell’integrazione degli obiettivi
(finanziarie non) dell’azienda, mirati alla creazione di valore aggiunto e alla soddisfazione
della clientela;
• è uno strumento flessibile, in grado di adattarsi alle diverse realtà aziendali;
• è unico per ogni azienda e consente di formulare strategie ad hoc, che riducono i costi e
massimizzano i ricavi.
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Business Plan
Il “Business Model Canvas”:
un nuovo strumento
per sviluppare l’impresa
di Antonio Ferrandina - www.piano-marketing.blogspot.it
Premessa
Un imprenditore che voglia lanciare una nuova iniziativa o implementare altre attività
commerciali, industriali o di servizi, può avvertire la necessità di uno studio preliminare per
valutare la fattibilità di mercato, tecnologica, economica e finanziaria della sua idea.
La redazione di un business plan risulta però impegnativo, soprattutto se l’imprenditore vuole
solo “mettere su carta” un quadro generale della propria iniziativa.
Tale quadro generale si definisce Business Model e il suo studio permette di decidere con
precisione che tipo di attività si vuole svolgere, per quali clienti, i canali per raggiungere il
mercato, come fidelizzare le relazioni, acquisire le risorse critiche, le attività necessarie,
contattare i partner da inserire nel processo, gestire le fonti di ricavo e di costo che si
genereranno. In definitiva, il Business Model spiega come l’azienda crea, fornisce e acquista
valore, mentre il Business Plan descrive che cosa, quanto tempo e quante risorse serviranno
per mettere in pratica il Business Model.
Il “Business Model Canvas”
Per comprendere e rappresentare il modello di business si possono impiegare diversi sistemi;
fra questi il Business Model Canvas1, che permette di rappresentare gli elementi fondamentali dell’idea di impresa, su un unico foglio di carta A4. È pertanto uno strumento indicato
proprio per le PMI, propedeutico allo sviluppo di un vero e proprio piano di fattibilità.
Può essere costruito attraverso i seguenti nove blocchi che permettono una visione sintetica
di tutto il modello (Figura 1):
1
Il Business Model Canvas è trattato nel libro Creare modelli di Business, di Alexander Osterwalder, FAG, 2012.
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Figura 1 - Il Business Model Canvas
Value Proposition (Valore Offerto): Quale “valore” viene proposto ai clienti? Per quale bisogno,
necessità, problema si vuole proporre una soluzione? Quale prodotto/servizio o gamma dei
medesimi prodotti e servizi creiamo per ogni segmento di clienti?
Customers Segments (Segmenti di Clientela): I differenti gruppi di persone e aziende che la
start-up intende raggiungere e servire. Chi può usufruire del valore che si crea?
Customer Relationships (Relazioni con i Clienti): Il tipo di relazioni che l’azienda stabilisce con i
diversi gruppi di clienti. Quale tipo di rapporto si può generare e coltivare nel tempo con ogni
segmento?
Distribution Channels (Canali di Distribuzione): I canali attraverso i quali veicolare la proposta
di valore nel modo più efficace, rapido, facile, meno costoso e più innovativo. Attraverso quali
mezzi, strumenti, solchi, alternativi rispetto ad altri prodotti e servizi similari o concorrenti si può
raggiungere il mercato?
Key Activities (Attività-Chiave): Le attività più importanti per creare la value proposition
dell’azienda. Quali sono le attività che danno forma e sostanza alla proposta di valore (es.
qualità percepita del prodotto o servizio, velocità di consegna, facilità nei pagamenti, gestione on
line dell’help-desk, numero verde per risolvere i problemi, informazioni aggiornate su disponibilità prodotti)?
Key Resources (Risorse-Chiave): Le risorse che sono necessarie per produrre valore. Esse sono
fondamentali per sostenere e supportare il business. Quali sono le competenze professionali,
personali, fisiche, di tempo e finanziarie essenziali?
Key Partners (Partners Chiave): Chi sono i partner (tecnologici, commerciali) vitali per avviare e
sviluppare il progetto?
Costs (Costi): Area che mostra dove si originano i costi. Quali costi sono fissi, quali variabili, quali
economie di scala si possono creare?
Revenue Streams (Flussi di Ricavi): Da dove ci si aspetta che arrivino i ricavi per ogni segmento
di clientela. Sono frutto di vendite, di royalties da partnership o altro?
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Un caso aziendale
Consigliamo altamente ai nuovi imprenditori e alle start-up di attivare questo processo di
analisi molto interessante ed immediato per valutare il modello di business, prima di passare
alla redazione di un business plan.
Per vedere come funziona in pratica il modello, che richiede un solo foglio di carta ovvero un
cartellone sul quale inserire post it colorati, proponiamo un caso aziendale di una start up che
ha deciso di analizzare il proprio business con il Canvas.
L’obiettivo è quello di realizzare una piattaforma informatica per utilizzare tutte le possibilità
commerciali offerte dalla rete web, per far incontrare la domanda e l’offerta nel settore della
gastronomia e dei prodotti alimentari di alta gamma.
Realizzare un luogo virtuale nel quale le imprese, i professionisti del settore e i clienti privati
possano incontrarsi.
In questo senso l’azienda si porrà come intermediario virtuale fra imprese del settore (B2B) e
imprese e domanda di mercato B2C (aziende non del settore e privati)
In base a tali chiavi di lettura, la società ha analizzato il proprio business utilizzando i 9 blocchi
del Canvas e creando la cornice generale del business (Tavola 2):
Value Proposition (Valore Offerto): La Piattaforma ideata e gestita dalla società esprimerà
diverse offerte di valore. Questi in sintesi i vantaggi per le imprese e gli operatori in genere:
1) raggiungere nuovi clienti e sviluppare il volume d’affari;
2) acquistare prodotti/servizi a condizioni vantaggiose;
3) ricercare con maggiore facilità nuovi fornitori e partner;
4) ridurre i costi e i tempi di transazione.
Per i clienti privati invece la piattaforma consentirà di:
1) avere a disposizione maggiori informazioni sulle possibilità offerte dalle imprese
operanti nel settore;
2) selezionare concrete e vantaggiose occasioni commerciali.
Customers Segments (Segmenti di Clientela): I differenti gruppi di persone e aziende che
la startup intende raggiungere e servire sono i seguenti:
1) imprese e professionisti del settore agroalimentare, commercio prodotti alimentari e
ristorazione, interessati a servirsi della Piattaforma per promuovere le proprie prestazioni e
servizi nei confronti di operatori e privati (B2B e B2C);
2) imprese produttrici e Venditrici di Prodotti settore agroalimentare e ristorazione attratti
dalla Piattaforma per promuovere le vendite dei propri prodotti a favore di operatori e
privati;
3) privati che ricerchino le migliori combinazioni prezzo/prodotto/servizio.
Customer Relationships (Relazioni con i Clienti): Per assicurarsi il successo commerciale
occorre identificare il tipo di relazione che vogliamo creare con i segmenti di clientela. Ci sono
varie forme di relazioni con i clienti che metteremo in piedi:
1) Assistente personale: interazione clienti-azienda. Tale assistenza viene eseguita sia
durante le vendite, dopo la vendita, specialmente in sede di acquisizione dei primi
importanti clienti aziende.
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2) Self Service: interazione indiretta tra l’azienda e i clienti. Qui l’organizzazione fornisce gli
strumenti necessari ai clienti per servirsi da soli in modo semplice ed efficace; quindi la
piattaforma aziendale dovrà permettere in modo agevole sia per i privati sia per gli operatori
di consultare le pagine web, iscriversi, inserire i prodotti/servizi, gestire il carrello degli
acquisti, ecc.
3) Community: una comunità che permette un’interazione diretta tra i diversi clienti e
l’azienda. La piattaforma produce uno scenario in cui la conoscenza può essere condivisa e
i problemi risolti anche tra i clienti.
4) Co-creazione: ingresso diretto del cliente nel risultato finale dei prodotti/servizi
dell’azienda attraverso la formulazione dei preventivi on line, l’acquisto prodotti, il rating
assegnato dai clienti, l’opportunità di fornire di contenuto le newsletter, il blog e i forum.
Distribution Channels (Canali di Distribuzione): Nel nostro caso utilizzeremo un mix di
canali on line e off-line. Anche se, a regime, quando il sito sarà ben noto e posizionato, la
maggior parte delle acquisizioni avverrà sul web, riteniamo che in prima battuta, e soprattutto
per gli operatori e aziende più importanti, sia molto utile ed efficace un’attività promozionale
svolta da un addetto commerciale, una presenza pubblicitaria nelle fiere di settore, e anche
pubblicità di carattere tradizionale. In dettaglio, i canali saranno:
– Addetto Promozione/Commerciale;
– Google, Facebook, Linkedin Advertising;
– Posizionamento Organico;
– Pubblicità Off-Line.
Revenue Streams (Flussi di Ricavi): Nel nostro modello i ricavi saranno generati da:
– canone di abbonamento da parte delle aziende, professionisti, che vendono
prodotti e servizi; in particolare, per le aziende che vogliono esporre una vetrina di prodotti
più ampia, potranno essere applicati canoni di abbonamento maggiori;
– commissioni di intermediazione: solo per le aziende che producono e vendono
prodotti fisici.
– advertising: il fatturato è generato dai proventi derivanti dalla pubblicità di altri prodotti/
servizi esterni al nostro network.
Key Activities (Attività-Chiave): Le attività più importanti per erogare la value proposition
dell’azienda saranno:
– lo Sviluppo piattaforma Web;
– l’Attività di Web Marketing.
Key Resources (Risorse-Chiave): Le risorse che sono necessarie per creare valore per il
cliente saranno:
– la Piattaforma Web;
– gli Sviluppatori;
– la creazione di un Brand, anche rispetto alla concorrenza.
Costs (Costi): I principali costi, in accordo con le tipologie di servizio, le attività e risorse critiche
si addenseranno nelle seguenti aree:
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– Piattaforma Web;
– Web Marketing;
– Addetto Commerciale;
– Eventi;
– Staff redazione;
– Gestione amministrativa.
Figura 2 - Esempio di Business Model Canvas
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Processi di business
Il prezzo: valore percepito
dai clienti e profittabilità
di Marco Orlandi - Dottore commercialista-revisore legale
Le quattro componenti del “marketing mix” e i fattori rilevanti
nelle strategie di prezzo
La politica di prezzo rappresenta una delle quattro componenti del c.d. marketing mix o
delle 4P:
a) prodotto (o politica del prodotto);
b) prezzo (o politica di prezzo);
c) promozione (o politica di comunicazione);
d) punto di vendita (o politica di distribuzione).
Non è sufficiente, infatti, costruire e fabbricare un prodotto e un servizio valido sotto il profilo
qualitativo e adeguato alle esigenze dei consumatori, o della clientela, ma è necessario
adottare una strategia di prezzo che consenta di influenzare la domanda e il comportamento
d’acquisto dei possibili utenti finali dei beni prodotti dall’impresa.
Attraverso la strategia di prezzo l’azienda si pone, in particolare, l’obiettivo di raggiungere la
massimizzazione dei volumi di vendita, dei profitti e l’incremento della quota di mercato.
Uno dei fattori determinanti nella fissazione del prezzo di vendita è dato dal costo del
prodotto, perché, ovviamente, non è possibile applicare prezzi inferiori al costo di produzione,
se non per periodi limitati di tempo, a scopo promozionale e di sviluppo delle quote di mercato.
Nell’individuazione del prezzo di vendita dei prodotti si devono, però, tenere in considerazione i modelli di comportamento d’acquisto dei consumatori, o dei clienti obiettivo (ossia le
loro caratteristiche personali, culturali, sociali, psicologiche), il processo di decisione dell’acquirente e i fattori che lo influenzano, posto che ogni prodotto ha un valore percepito per i
clienti diverso e l’applicazione di un prezzo troppo alto può far perdere vendite, ridurre la
customer satisfaction, che è influenzata dal rapporto prezzo/qualità, ad esclusivo vantaggio
dei concorrenti.
La determinazione del prezzo di vendita dei prodotti è, quindi, condizionata da numerosi
fattori, di origine sia interna che esterna, quali in particolare, per citarne solo alcuni:
I fattori che
determinano
il prezzo
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– dalla struttura dei costi di produzione (diretti e indiretti, fissi e variabili) e dalla qualità del
prodotto;
– dalle caratteristiche della domanda di mercato, dal valore percepito e dalle esigenze dei
clienti, dal grado di elasticità della domanda rispetto al prezzo applicato. Più la domanda è
elastica, più è sensibile alle variazione di prezzo, sia in aumento che in diminuzione (il cliente,
in questi casi, diventa più “volatile” e meno fedele al prodotto); ne consegue che la domanda
è elastica se le quantità vendute aumentano significativamente alla diminuzione dei
prezzi, oppure diminuiscono in misura rilevante per effetto dell’aumento dei prezzi. Più
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precisamente, l’elasticità della domanda rispetto ai prezzi, elaborata dall’economista Léon
Walras, indica la variazione percentuale della domanda di un singolo prodotto (o quantità
venduta) rispetto ad una variazione percentuale del prezzo dello stesso prodotto;
– dalla realtà di mercato, dalla segmentazione, dalla tipologia e dal numero di utilizzatori
che, a seconda della diversa natura dei prodotti e servizi erogati, possono essere numericamente pochi (ad es. per i beni strumentali durevoli aventi caratteristiche tecnologiche
avanzate) oppure parecchi (come nel caso di prodotti alimentari di largo consumo);
– dalla tipologia di prodotto (beni di consumo, materie prime, beni intermedi o
semilavorati, beni strumentali o durevoli);
– dalle tendenze di mercato, da fattori di moda, dal comportamento, dai gusti e dalle
motivazioni d’acquisto dei consumatori (più o meno influenzabili, o suggestionabili, ad es.,
dalla pubblicità o da fattori di imitazione di soggetti leader);
– dalle varie fasi di ciclo di vita del prodotto (fase di lancio, sviluppo, maturità, declino);
– dal contesto socio-culturale-economico del mercato di riferimento o di sbocco;
– dalle risorse finanziarie a disposizione dell’impresa;
– dalle politiche e dall’offerta di prodotti simili da parte dei concorrenti;
– dal grado di differenziazione dei prodotti rispetto alla concorrenza;
– dalla forza del brand e dell’immagine aziendale;
– dalle relazioni sviluppate con i clienti;
– dagli obiettivi di sviluppo e crescita prefissati a livello strategico e di business plan;
– dalla forza della rete di vendita e dei canali distributivi utilizzati;
– dalla comunicazione esterna e dalle campagne pubblicitarie adottate dall’impresa.
La politica di prezzo, per essere efficace, deve tenere in considerazione congiuntamente
diversi fattori, tra cui uno dei più importanti è rappresentato dalla soddisfazione finale del
cliente, che è spinto soprattutto ad acquistare prodotti di buona qualità ad un prezzo ritenuto
conveniente in rapporto al valore percepito.
La componente prezzo rappresenta, quindi, un fattore indubbiamente rilevante del piano di
marketing, perché deve essere correttamente calibrato e manovrato al fine di non deprimere
ulteriormente i fatturati aziendali, soprattutto in tempi di ipercompetitività in mercati sempre
più globalizzati.
Il piano di marketing mix, nelle sue diverse componenti distintive, se ben progettato, gestito e
strutturato nelle sue varie fasi procedurali, migliora l’offerta di prodotto attraverso la focalizzazione dell’impresa sui bisogni e i desideri dei clienti target, attraverso il soddisfacimento
delle loro esigenze, tra loro differenziate, a seguito di un corretto posizionamento dell’offerta
di prodotto stessa nei segmenti di mercato tra loro eterogenei.
Tavola 1 - Le quattro leve del marketing mix (o delle 4P)
PRODOTTO - SERVIZI
PREZZO
IL MARKETING MIX
PROMOZIONE/
COMUNICAZIONE
PUNTO DI VENDITA/
DISTRIBUZIONE
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I metodi di determinazione del prezzo in base ai costi:
il “markup pricing” e l’analisi “Activity Based Costing” (ABC)
Le imprese determinano i costi dei prodotti secondo la metodologia del full costing,
sommando ai costi diretti di produzione (ad es. per materie prime, manodopera e altri
costi industriali) i costi comuni, o indiretti, identificando i costi reali attribuibili a ciascun
prodotto, o a ciascuna commessa (nel caso di aziende che lavorino per singoli clienti su
specifica ordinazione), mediante l’Activity Based Costing (ABC), che è un metodo di
imputazione dei costi indiretti fondato sulla specifica relazione con le attività legate a ciascun
prodotto o cliente.
Alla contabilità dei costi tradizionale è, pertanto, utile e necessario affiancare la tecnica
dell’Activity Based Costing, o ABC, che prende in considerazione i processi aziendali nella
loro totalità, al fine di comprendere i rapporti esistenti tra i vari input ed output di una singola
azienda e incrementare, al contempo, la produttività e l’impiego efficiente delle risorse
aziendali; l’ABC si ispira ai principi della “produzione snella e flessibile” (o della c.d. lean
production).
Costi indiretti
I costi indiretti coinvolti nell’ABC riguardano i costi comuni industriali, i costi comuni commerciali e i costi comuni amministrativi; questa metodologia di controllo dei costi si propone
di individuare gli input improduttivi, gli sprechi aziendali e le eventuali sovrapposizioni di
risorse finanziarie, umane, o materiali, attraverso un’analisi congiunta di diverse aree, processi
e unità produttive, in una visione integrata e dinamica delle diverse attività a cui si associano i
costi oggetto di ripartizione basata sull’individuazione dei cost driver (o determinanti di costo)
di ogni singola attività di supporto, o ausiliaria. L’ABC considera, pertanto, tutte le attività svolte
nell’azienda, in una accezione aziendalistica unitaria, mediante la quale tutti i costi indiretti
devono essere imputati ai prodotti per determinare in modo preciso e attendibile il costo
complessivo (o pieno) di produzione; cosı̀ agendo si individuano, al contempo, le attività che
creano valore per l’impresa, migliorandone la competitività, tramite la scomposizione in
attività essenziali e fondamentali dei diversi processi produttivi e gestionali.
Mediante un approccio corretto e adeguato di determinazione e di controllo dei costi di
produzione, nella loro componente sia variabile che fissa, si può definire il prezzo minimo di
vendita che corrisponde al costo totale, al di sotto del quale si lavora in perdita, mentre al di
sopra del quale si realizza un margine di profitto e un cash flow positivo.
Per la determinazione del prezzo di vendita il metodo più agevole ed elementare è quello del
costo totale, detto anche del markup pricing, in base al quale si aggiunge un margine
percentuale di ricarico prefissato al costo del prodotto o della commessa. Tuttavia, tale
metodo di definizione del prezzo non tiene conto dei prezzi della concorrenza e delle
caratteristiche della domanda di mercato, nelle sue varie componenti e sfaccettature, e
non sempre rappresenta il prezzo di vendita ideale o più vantaggioso per l’azienda, perché
potrebbe non garantire un livello di vendite adeguato o in linea con le previsioni di budget.
Gli altri metodi di determinazione del prezzo
Il metodo del profitto (o del prezzo) obiettivo, del valore percepito, dei prezzi
correnti e delle tre “C”
Vi sono, tuttavia, altri metodi di determinazione del prezzo di vendita, quali il metodo del
profitto (o del prezzo) obiettivo, del valore percepito, dei prezzi correnti e il c.d. metodo delle
tre “C”, che si fondano su politiche di marketing più sofisticate ed evolute rispetto a quella
analizzata nel paragrafo precedente, che rimane pur sempre valida e imprescindibile per
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qualsiasi impresa, in quanto prende in considerazione i costi di produzione, nelle sue varie
componenti, fisse e variabili (il costo del prodotto rappresenta, infatti, il prezzo minimo al di
sotto del quale non si può scendere).
Metodo del
profitto
In particolare, con il metodo del profitto (o del prezzo) obiettivo si calcola, sulla base delle
vendite previste e dei relativi costi unitari di produzione (fissi e variabili), il prezzo unitario di
vendita dei singoli prodotti, che permettono di conseguire il profitto prefissato, sia in termini
percentuali unitari che complessivi. Nel calcolo del profitto (o del prezzo) obiettivo si
determina, inoltre, per ogni singolo prodotto, il punto di pareggio o il break even point,
che esprime il livello di produzione che consente di coprire i costi complessivi di produzione
(dato dalla somma di costi fissi e di costi variabili) con i ricavi totali derivanti dalla vendita dei
prodotti, che è dato dalla seguente formula:
Il break even point (il punto di pareggio tra ricavi totali e costi totali)
q = CF / (p - cv)
dove:
CF = totale costi fissi imputabili al prodotto;
p = prezzo di vendita unitario di prodotto;
q = quantità prodotte o volume di produzione.
Il punto di pareggio o di equilibrio, in cui i ricavi totali sono uguali ai costi totali, è dato dal
rapporto tra l’importo totale dei costi fissi e la differenza tra prezzo di vendita del prodotto e
costo variabile unitario, che rappresenta il margine di contribuzione unitario.
Metodo del valore
percepito
Viceversa, con il metodo del valore percepito, il parametro di riferimento nella formazione
del prezzo di vendita è rappresentato dall’importanza che ha il prodotto per il cliente o il
consumatore finale; si fissa, di conseguenza, un prezzo che sia il più possibile corrispondente
al valore che il bene stesso ha per il cliente. Un prezzo troppo alto rispetto all’offerta di valore
percepita dai clienti potrebbe compromettere i volumi di vendita finali e intaccare la redditività
aziendale, perché potrebbe comportare una perdita di clienti.
Il prezzo è, infatti, una variabile che necessita di un continuo controllo, soprattutto nel caso in
cui l’offerta di valore percepita dai clienti su alcuni prodotti dell’impresa non sia elevata e
corrispondente al prezzo applicato; in questa particolare situazione di mercato, occorre
rivedere e modificare velocemente il prezzo applicato, per non creare insoddisfazione nei
clienti, dai quali dipendono le vendite aziendali. Per incrementare il valore percepito dai clienti
sull’offerta di prodotto dell’azienda si deve rafforzare l’immagine aziendale e il suo brand, oltre
alla qualità dei prodotti, cercando di sviluppare il più possibile le relazioni con i clienti e la
customer satisfaction, attraverso l’individuazione di un corretto posizionamento dei prodotti,
che è sempre frutto di un adeguato processo di segmentazione del mercato, dei consumatori
e degli utilizzatori finali.
Modello delle
tre “C”
Con il c.d. modello delle tre “C”, infine, il prezzo di vendita viene determinato osservando
più parametri simultaneamente, o contemporaneamente, che sono dati, in particolare, dal
costo del prodotto, dalla domanda dei clienti e dai prezzi applicati dai concorrenti diretti;
normalmente il costo del prodotto, in questa scala di valori, rappresenta il prezzo minimo di
vendita, i prezzi dei concorrenti costituiscono un utile parametro di comparazione e raffronto,
mentre il prezzo massimo applicabile è individuato dal valore percepito dai clienti dei propri
prodotti.
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Se l’impresa è leader di mercato potrebbe anche applicare e stabilire prezzi superiori rispetto a
quelli dei concorrenti diretti, anche se è sempre opportuno posizionare il prezzo di vendita
finale su livelli non eccessivamente discordanti rispetto a prodotti omogenei, in termini
qualitativi, di imprese concorrenti operanti sul mercato, per non perdere competitività.
Con il metodo dei prezzi correnti, infine, l’impresa fonda essenzialmente la sua politica di
prezzo sui prezzi dei concorrenti, in concreto allineandosi e conformandosi ad aziende leader
di mercato, o nel caso di prodotti fungibili indifferenziati (come, ad es., petrolio, metalli,
prodotti agricoli) a mercuriali di settore, adottando in tal modo un comportamento da
follower1.
Tavola 2 - Il modello delle tre “C”
Costo del prodotto:
prezzo minimo di vendita
Strategia del prezzo di
vendita:
il modello delle tre
Concorrenza:
prezzo applicato da altre
imprese concorrenti
(valore utile di riferimento)
Clienti e domanda di
mercato:
valore percepito dai clienti
La politica di prezzo (o di “pricing”) e la “customer satisfaction”
La politica di prezzo rappresenta, come anzidetto, una leva del c.d. marketing mix, la cui
determinazione è influenzata da diversi elementi chiave, interni ed esterni all’azienda stessa.
A livello interno, indubbiamente, esercita un’importanza preminente la struttura dei costi, che
è formata da una componente fissa e da una variabile.
Ipotizzata una certa quantità venduta per singolo prodotto, si determina e si ricerca la
combinazione più conveniente tra prezzo e quantità venduta, tenendo conto dell’andamento
dei propri costi medi unitari di produzione al variare dei volumi di vendita, che tendono di
solito a ridursi all’aumentare delle quantità prodotte e vendute (per effetto di una migliore
copertura dei costi fissi).
Per alcune aziende, infatti, l’applicazione di prezzi troppo alti riduce il volume delle vendite;
tutto accade sovente quando i prodotti non si differenziano di molto rispetto a quelli offerti
della concorrenza, l’impresa non ha un marchio forte o una chiara leadership di mercato, i
piani di marketing e il sistema delle relazioni con il cliente non sono idonei a creare un
posizionamento di primo piano, o vincente, sul mercato.
In ogni caso è fondamentale recuperare efficienza, in quanto attraverso la riduzione dei costi
medi unitari di produzione si può procedere ad una eventuale diminuzione dei prezzi di
vendita, divenendo, di conseguenza, più competitivi per effetto dell’aumento dei volumi
complessivi di vendita tramite la leva prezzo. La riduzione dei costi medi unitari di produzione,
mantenendo invariati i prezzi di vendita dei prodotti, porta ad un incremento dei margini di
contribuzione unitari e ad una maggiore copertura dei costi fissi di struttura.
1
Per un eventuale approfondimento delle tematiche aziendali connesse allo sviluppo dei piani di marketing e delle
politiche di prezzo, vedi il seguente libro, uscito alla fine del mese di luglio 2015: M. Orlandi, Come diventare Manager
Imprenditori, pag. 209 ss., Collana Innovative Management, IPSOA Editore – Milano, 2015.
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Tavola n. 3 - Confronto tra ricavi di vendita e costi totali di produzione (con varie ipotesi di
quantità prodotte, in base alle vendite realizzate o previste):
Quantità
prodotte
(volumi di
produzione)
Ricavi di vendita
Prezzo unitario di vendita
Ricavi totali
Costi di produzione
Costo
unitario
medio
Utile lordo
(differenza tra
Costo totale di
Ricavi totali
produzione
e Costi totali)
Ipotesi a):
29,00
115.300 unità
3.343.700 23,20
2.674.960
Ipotesi b)
27,00
126.550 unità
3.416.850 21,33
2.699.311,50 euro
717.538,50
Ipotesi c)
98.000 unità
3.038.000 25,11
2.460.780,00 euro
577.220,00
31,00
euro
668.740,00
Dal prospetto di cui sopra si desume che per l’impresa è più conveniente sotto il profilo
economico la soluzione b), perché, rispetto alle altre due ipotesi, a fronte di un incremento dei
volumi complessivi di vendita del prodotto, derivanti da una modesta riduzione a livello
percentuale del prezzo unitario di vendita, si ottiene in proporzione una maggiore diminuzione percentuale dei costi unitari medi di produzione. Ne discende una maggiore copertura
dei costi fissi per l’effetto congiunto dell’aumento delle vendite realizzate e dei margini di
contribuzione unitari.
Nella determinazione delle strategie di prezzo è necessario soprattutto valutare il mantenimento e lo sviluppo delle quote di mercato, difendendo la redditività aziendale e i margini di
profitto; la politica di prezzo di solito viene differenziata anche in base al ciclo di vita del
prodotto, e non solo secondo l’ottica del cliente obiettivo.
L’andamento dei volumi di vendita per singolo prodotto nel corso del tempo è, infatti variabile,
sia in relazione al proprio ciclo di vita, sia in base alle caratteristiche intrinseche del prodotto; vi
sono, infatti, alcuni prodotti per i quali si manifestano volumi costanti o anche crescenti di ricavi
con il decorrere del tempo (ad es. per prodotti dolciari, come cioccolatini, biscotti o caramelle di
note marche), mentre altri sono soggetti ad un rapido declino, con prevalenza soprattutto della
fase di introduzione e sviluppo (come, per es., il settore dei telefoni cellulari, o degli smartphone,
i quali sono caratterizzati da un’elevata tecnologia software, con continue modifiche sia sotto il
profilo tecnico-informatico sia nel design, per fattori legati anche a tendenze di moda).
È di fondamentale importanza analizzare il processo decisionale che porta il consumatore ad
acquistare un determinato bene o servizio ed il relativo coinvolgimento psicologico (che può
essere elevato, intermedio o scarso); assumono, quindi, un ruolo preminente le informazioni
di marketing assunte in fase di pre-acquisto, essendo l’offerta di prodotto diversa e segmentata in base alle differenti aspettative ed esigenze del consumatore-cliente finale.
In ogni caso è importante analizzare attentamente i flussi di vendita generati da ciascun prodotto,
al fine di individuare le eventuali modifiche da apportare ai prodotti e individuare la politica di
prezzo più idonea e corretta per la crescita e il consolidamento dell’azienda sul mercato.
Le imprese di minori dimensioni hanno il più delle volte una metodologia e un’organizzazione
di marketing piuttosto elementare, o rudimentale, di solito determinano per “tentativi” i livelli
di produzione e adeguano successivamente i prezzi alle quantità prodotte e ai costi del
prodotto, cercando di massimizzare gli utili e i profitti; cosı̀ facendo, l’impresa, però, rinuncia a
costruire nel tempo una politica di prezzo, perché, in concreto, subisce il cambiamento e non
lo sa gestire tramite la creazione e lo sviluppo di un marketing relazionale con i clienti, che
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consentirebbe, invece, di riconoscere nel prodotto posto in vendita un determinato valore e
renderlo cosı̀ meno condizionabile o influenzabile da variazioni di prezzo in aumento, seppur
entro certi limiti.
Occorre, pertanto, realizzare un piano di marketing bilanciato, osservare in profondità i clienti
obiettivo, per offrire, conseguentemente, un prodotto e un servizio conforme alle loro
esigenze e necessità, ottimizzando e migliorando continuamente la customer satisfaction,
anche a livello di prezzo, che rappresenta una leva fondamentale del marketing mix.
L’impresa si deve, quindi, immedesimare nel cliente, concentrandosi e orientandosi sulle sue
esigenze, in quanto i processi di crescita aziendale richiedono la capacità di soddisfare i
bisogni dei clienti e di riuscire, nel contempo, a commercializzare i prodotti e i servizi aziendali
creando un’offerta di prodotto adeguata e conforme alle caratteristiche della domanda e alla
situazione economica congiunturale.
È, quindi, opportuno adottare una determinazione del prezzo basata sul valore (detta value
pricing), offrendo prodotti a un prezzo congruo tenuto conto della loro qualità, per acquisire
un maggior numero di clienti interessati al valore o ad un’offerta di qualità, più che a un prezzo
basso; su questo fronte sono, quindi, necessarie delle riorganizzazioni interne dell’attività
d’impresa dirette a ridurre i costi di prodotto, a massimizzare l’efficienza, tenendo, però,
sempre alta la qualità dei prodotti, che rappresentano il fulcro e il perno fondamentale della
customer satisfaction.
Confrontando di continuo i risultati ottenuti dai prodotti, in termini di vendite e di margini di
contribuzione industriale, si valuta l’andamento del ciclo di vita di ogni singolo prodotto;
quando, dopo la fase di introduzione e sviluppo, i costi incrementali per unità di prodotto
raggiungono i ricavi supplementari (o incrementali), un prodotto entra nella fase di declino e
diviene superato o obsoleto. Raggiunto questo punto, o si migliora significativamente il
prodotto con un’innovazione radicale, oppure è opportuno abbandonare l’articolo, perché
genera solamente perdite e cash flow negativi.
È utile, pertanto, analizzare i margini di contribuzione industriale per ciascun prodotto e linea di
prodotto, suddividendoli per area o segmento di mercato, come evidenziato nella tabella
sotto indicata:
Tavola n. 4 - Matrice prodotti-mercati-margini di contribuzione industriali per prodotto e per
linea di prodotto
Linea di
prodotto A
Margine di
contribuzione
industriale da
mercato Alfa
P1
P2
P3
Totale MCI
per area di mercato e per linea
di prodotto
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Margine di
contribuzione
industriale da
Mercato Beta
Margine di
contribuzione
industriale da
mercato
Gamma
Totale
M.C.I.
per singolo
prodotto
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Investimenti
Criteri da applicare per la scelta
degli investimenti
di Teresa Tardia - Consulenza e formazione
Per le aziende investire è quasi un obbligo ed è un modo con cui si perseguono percorsi di
cambiamento nell’ambito produttivo e operativo. Le scelte di investimento devono essere
pianificate e devono essere attentamente valutate per comprenderne la reale capacità di
generare i benefici attesi. Le tecniche possono essere molteplici alcune sono di derivazione
contabile, altre sono state prese in prestito dalla finanza aziendale.
In questo articolo si vogliono proporre alcuni semplici strumenti e tecniche di analisi ai
responsabili amministrativi per aiutarli nella scelta del miglior investimento. Si tratta di
tecniche di calcolo che sono ampiamente utilizzate nelle aziende dalle più semplici alle
più complesse.
Ogni investimento deve tener conto di alcuni elementi base su cui valutare la portata
dell’intervento di investimento aziendale che può essere quella dei flussi netti generati,
oppure della distribuzione dei flussi nel tempo o del valore finanziario nel tempo
Nessuno di questi tre approcci esclude l’altro: possono essere analizzati singolarmente
oppure integrati al fine di ottenere una analisi più particolareggiata e completa.
La valutazione
Il responsabile amministrativo deve valutare sia la convenienza economica che la sostenibilità finanziaria al fine di definire in modo adeguato il capital budgeting, ossia la
modalità con cui si procede alla valutazione del livello di convenienza dell’investimento.
I criteri che analizzeranno in una azienda tipo in ambito contabile amministrativo sono quelli
del Tasso di Rendimento Medio o TRM, il periodo di recupero e il discounted cash flow, il
Valore Attuale Netto (VAN) e il Tasso Interno di Rendimento (TIR).
In primis dobbiamo definire cos’è un investimento. Nelle aziende gli investimenti sono
tipicamente quelli in beni strumentali, ma possono anche essere in valori intangibili. Si tratta
generalmente di investimenti in macchine produttive, impianti, capannoni, e più in generale
in immobilizzazioni che danno la loro utilità per più anni e che dal punto di vista contabile sono
ripartiti su più anni attraverso l’applicazione del calcolo dell’ammortamento. Gli investimenti
intervengono sulla capacità produttiva dell’impresa e pertanto devono essere attentamente
valutari con opportuni criteri al fine di prendere la decisione migliore in termini di opportunità e
di convenienza.
La dimensione della convenienza economica riguarda la capacità dell’investimento di creare
ricchezza e di assorbire l’investimento effettuato. La sostenibilità economica riguarda invece
la capacità di sostenere l’investimento in funzione della capacità aggiuntiva allocata e se si fa
fronte all’investimento stesso con propri capitali e/o è necessario ricorre a terzi in funzione
delle previsione dei flussi generati.
Appare pertanto chiaro che il tasso di rendimento contabile, non può essere l’unica
misura presa in considerazione per valutare un investimento. Dal punto di vista contabile un
investimento rientra tra le immobilizzazioni e genera una uscita per la sua acquisizione. Le
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immobilizzazioni partecipano attraverso l’ammortamento, che è un procedimento tecnico
contabile, alla generazione dei costi su più anni che vengono immediatamente detratti dai
ricavi di periodo. Pertanto il tasso di rendimento contabile è in funzione dei criteri scelti dagli
amministratori per il processo di ammortamento del bene attraverso la definizione del ciclo di
vita della immobilizzazione e della relativa percentuale di ammortamento.
Appare pertanto chiaro che non sempre è agevole la scelta degli investimenti o dell’investimento adeguato in termini di flussi di cassa e di valore investito. Quando si procede nella
definizione di un investimento, se vi sono più progetti, spesso capita che non tutti possono
essere approvati, pertanto è necessario mettere in campo dei criteri al fine di evidenziare
quello economicamente e finanziariamente più conveniente.
In base alle finalità che perseguono, gli investimenti possono essere vincolanti, concorrenti e indipendenti. Indipendentemente dai criteri proposti, la scelta finale deve essere
prospettica in funzione della capacità dell’impresa di generare ricchezza e favorire lo sviluppo,
l’ammodernamento e l’ampiamento della propria capacità produttiva.
I criteri utilizzati
I criteri utilizzati per valutare gli investimenti si basano o sui risultati economici che
l’investimento potrà generare in termini di ricavi e dei costi incrementali rispetto alla
produzione attuale o originaria oppure sui flussi di cassa, in termini di stima delle entrate
o delle uscite che il progetto è in grado di generare. In particolare, i flussi devono essere
monetari e differenziali nel senso che devono essere legati al progetto, devono essere al netto
delle imposte e al lordo degli eventuali oneri finanziari.
In particolare, quando si fa riferimento ai flussi incrementali di risorse si fa esplicito
richiamo ai flussi di reddito e ai flussi di cassa che l’iniziativa è in grado di generare.
In questi casi si analizza anche la distribuzione temporale dei flussi, si prendono in
considerazione i flussi monetari netti, e si considerano anche quelli che generano i flussi
monetari netti più vicini al momento dell’investimento considerando l’orizzonte temporale,
perché si ricostituisce prima l’orizzonte temporale di riferimento in termini di liquidità.
Infine si analizza il valore finanziato del tempo, ossia la somma disponibile al momento
attuale dato che il valore futuro è diverso rispetto a quello attuale.
Il Tasso di Rendimento Medio
Si definisce Tasso di Rendimento Medio o TRM il rapporto tra il reddito medio differenziale e il
valore dell’investimento medio differenziale in un periodo specifico.
Se il risultato che emerge è un Tasso di Rendimento Medio superiore a un tasso che
chiameremo soglia (cut off rate), l’iniziativa dell’investimento è positiva e pertanto potrà
essere realizzata, in caso negativo va rifiutata.
Il cut off rate si identifica analizzando investimenti che hanno lo stesso livello di rischio di
quello che si prende in considerazione nel caso specifico. A tale proposito si riporta un
esempio (Tavola 1) esemplificatore dei calcoli che devono essere eseguiti.
Tavola 1 - Tasso di Rendimento Medio
Anno 1
Anno 3
Anno 4
Anno 5
Anno 6
Unità aggiuntive
4.800
5.000
5.700
6.000
6.500
7.000
Ricavi differenziali
144.000
150.000
171.000
180.000
195.000
210.000
Costi differenziali
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Anno 2
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Variabili
48.000
50.000
57.000
60.000
65.000
70.000
Fissi aggiuntivi
12.000
12.000
12.000
12.000
12.000
12.000
Ammortamenti
60.000
60.000
60.000
60.000
60.000
60.000
Reddito lord
differenziale
24.000
28.000
42.000
48.000
58.000
68.000
-Imposto 30%
7.200
8.400
12.600
14.400
17.400
20.400
Reddito netto
differenziale
16.800
19.600
29.400
33.600
40.600
47.600
Reddito netto differenziale 31 267
Investimento medio180.000
TRM (31 267/180.000)x100 = 17% se il valore è superiore al cut off rate il progetto viene
accettato
Il periodo di recupero
Si identifica con il periodo di recupero il tempo necessario per generare i flussi di cassa positivi
relativi a un investimento che è oggetto di analisi.
Anche in questo caso l’investimento dovrà essere realizzato entro uno specifico periodo che
sarà chiamato cut off period, con questo metodo si identificano i flussi positivi o negativi; si
somma anche l’esborso iniziale che rientra nel calcolo e si osserva in quale momento il segno
dei flussi di cassa diventa positivo. Se il payback period è inferiore al periodo di tempo fissato
per il rientro dell’investimento, allora viene accettato. A tale proposito nella Tavola 2 si riporta
una esemplificazione.
Tavola 2 - Calcolo del periodo di recupero
Anni
Flussi di cassa
Flussi di cassa cumulati
0
-360.000
-360.000
1
86.400
-273.600
2
147.600
-12.6000
3
162.600
36.600
4
176.400
213.000
5
189.000
402.000
6
204.000
606.000
7
254000
860000
162.600: 12 = 36.600: x
Da cui x = 2,701107011
0, 701107011 x 30 = 21,03 giorni
Ossia il periodo di recupero è di
3 anni 2 mesi e 21 giorni
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Il Valore Attuale Netto
Il VAN o Valore Attuale Netto corrisponde alla somma di tuti i flussi positivi o negativi attualizzati
generati, confrontandoli con l’investimento inziale.
Il progetto di investimento diventa conveniente quando il totale dei flussi di cassa è uguale o
superiore a quello iniziale e il VAN deve essere > 0.
Va anche scelto accuratamente il tasso che si applica che deve essere superiore al tasso degli
investimenti applicatore nel settore in cui l’impresa opera ed è inserita. Va osservato che il
tasso scelto deve essere in funzione del ciclo di vita dell’impresa.
Nella pratica aziendale circa il 75% delle imprese italiane utilizza il calcolo del VAN per
prendere in considerazione l’opportunità di effettuare l’investimento.
In sintesi si deve prendere come riferimento il tasso che si applicherebbe con investimenti o
progetti simili in termini di durata e di rischiosità.
Se l’investimento è a basso rischio il tasso di riferimento è quello dei titoli di Stato, che sono
considerati un impiego sicuro. Negli altri casi quando si rileva che vi è un rischio più elevato si
aggiungono alcuni punti percentuali al tasso dei titoli di stato come premio per il rischio. Si
riporta nella tavola 3 una esemplificazione.
Tavola 3 - Calcolo del VAN nella ipotesi del tasso del 7,5%
Flussi di cassa
Tasso di attualizzazione
(1+0,075)-t
Flussi di cassa
attualizzati
-360.000
1
-360.000
75.000
0,930233
69.767
75.000
0,865333
64.900
75.000
0,804961
60.372
75.000
0,748801
56.160
75.000
0,696559
52.242
75.000
0,647962
48.597
75.000
0,602755
45.207
VAN
37.245
Tasso Interno di Rendimento
Il Tasso Interno di Rendimento è quel taso che rende pari a uguale a 0 il VAN di un progetto di
investimento, ossia rende uguali i flussi in uscita e in entrata di un investimento.
L’investimento viene accolto se il tasso di rendimento del progetto o dell’investimento è
uguale o maggiore al tasso di rendimento di altri progetti.
Conclusioni
Tutti i criteri che sono stati esplicitati in questo articolo vanno considerati nella scelta di un
investimento. Applicare un criterio non esclude l’altro sia di quelli di derivazione prettamente
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contabile che si quelli derivati dalla finanza aziendale. Va sottolineato che l’applicazione del
VAN o del TIR portano allo stesso risultato. Tuttavia affidarsi unicamente a un solo metodo non
sarebbe opportuno poiché ad esempio calcolare unicamente il cut off period o il cut off rate
significa non considerare i difetti che tale approccio mette in evidenza. L’insieme di tutti questi
indicatori fornisce una indicazione sulla bontà dell’investimento e sulla capacità di generare
reddito.
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