Città e Storia
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Città &Storia La cifra della città Architetture ed economie in trasformazione 01 06 Città e Storia Redazione DONATELLA CALABI, IUAV CLAUDIA CONFORTI, Università di Roma «Tor Vergata» ALBERTO GROHMANN, Università di Perugia DEREK KEENE, University of London PAOLA LANARO, Università di Venezia BRIGITTE MARIN, École française de Rome LUCA MOCARELLI, Università di Milano «Bicocca» ROBERTA MORELLI, Università di Roma «Tor Vergata» LUCIA NUTI, Università di Pisa CARLOS SAMBRICIO, Universidad Politécnica, Madrid ROSA TAMBORRINO, Politecnico di Torino CARLO M. TRAVAGLINI, Università «Roma Tre» GUIDO ZUCCONI, IUAV Direttore CARLO M. TRAVAGLINI, Università «Roma Tre» Segreteria di redazione ANNA ROSA ANGIÒ-SABINA MITTIGA-CHIARA TRAVAGLINI Corrispondenti Scientifici MAURICE AYMARD, EHESS, Paris JEAN FRANÇOIS CHAUVARD, Université de Strasbourg MATTHEW DAVIES, Centre for Metropolitan History, London DIRK DE MEYER, Ghent University JOSEF EHMER, Universität Wien DAVID H. FRIEDMAN, MIT, Cambridge (Ma) BERNARD GAUTHIEZ, Université Lyon-III «Jean Moulin» ENRICO IACHELLO, Università di Catania HIDENOBU JINNAI, Hosei University, Tokyo MIGUEL ANGEL LADERO QUESADA, Univ. Complutense, Madrid DANIELE MANACORDA, Università «Roma Tre» ANGELA MARINO, Università de L’Aquila PAOLA PAVAN, Archivio Storico Capitolino, Roma WALTER ROSSA FERREIRA DA SILVA, Universidade de Coimbra ALISON SMITH, Wagner College, New York EUGENIO SONNINO, Università di Roma «La Sapienza» PETER STABEL, University of Antwerp ROSEMARY SWEET, Centre for Urban History, Leicester PAUL ZANKER, Scuola Normale Superiore, Pisa Sede Redazione: Laboratorio di Analisi Regionale, Dipartimento di Economia, Università «Roma Tre», via Ostiense, n. 139 – 00154 Roma – Tel.+39.06.57374016 Fax+39.06.57374030 - e-mail: lar@uniroma3.it Proposte di contributi, manoscritti e pubblicazioni per recensione vanno inviati a Carlo M. Travaglini, CROMA, via Ostiense 139 – 00154 Roma – e-mail: c.travaglini@uniroma3.it La rivista è pubblicata con il patrocinio e il sostegno di UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE CROMA DIPARTIMENTO DI ECONOMIA e con il patrocinio dell’ASSOCIAZIONE ITALIANA DI STORIA URBANA Abbonamenti Abbonamento annuo: Italia euro 45,00; Estero euro 55,00; Paesi emergenti euro 40,00; Sostenitore: euro 200,00 Abbonamento speciale per i soci AISU euro 30,00 Gli abbonamenti vanno sottoscritti a «CROMA-Università Roma Tre», via Ostiense, 139 – 00154 Roma tel 06.57374016 - fax 06.57374030 - e-mail lar@uniroma3.it I versamenti possono essere effettuati sul c/c n. 2178, CAB 03252, ABI 03002, Banca di Roma, filiale 638 Roma 108, intestato a «III USR CROMA», indicando sempre la causale. Per l’acquisto di singoli fascicoli ci si può rivolgere a «CROMA-Università Roma Tre», via Ostiense, 139 00154 Roma – tel 06.57374016 - fax 06.57374030 - e-mail lar@uniroma3.it Progetto grafico: Emiliano Martina I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. «Città e Storia» è in corso di registrazione presso il Tribunale di Roma. Il primo fascicolo esce come supplemento alla rivista «Roma moderna e contemporanea», 2005, n. 3-4, autorizzazione del Tribunale di Roma n. 668 del 19/12/1992. «Città e Storia» è stampata dalla tipografia Gimax, Via Valdambrini 22, 00058 Santa Marinella (RM). Città & Storia Anno I, n.1 gennaio-giugno 2006 SOMMARIO Città e Storia: il progetto................................................................................. pag. 3 M. RONCAYOLO, Plaidoyer pour une histoire de l’histoire urbaine...................... 7 » La cifra della città. Architetture ed economie in trasformazione a cura di Roberta Morelli e Maria Luisa Neri R. MORELLI - M.L. NERI, Introduzione..................................................................... pag. 15 S. DIONISI, Confraternite e rendita urbana: il San Salvatore e il Gonfalone di Roma tra XV e primo XVI secolo.............................................................................................. » 19 I. PUGLIA, Per la storia dei fedecommessi: il «Palazzo di Siena» dei Piccolomini (14501582).................................................................................................................. » 35 M. VAQUERO PIÑEIRO, Renta y transformación de las viviendas en Roma durante el siglo XVI......................................................................................................................... A. ROCA DE AMICIS, L’area di Santa Maria Maggiore all’epoca di Paolo V Borghese: canonici, privati e strategie di riqualificazione urbana.................................................... » 53 » 79 S. SCOGNAMIGLIO, Patrimoni e corporazioni a Napoli tra XVI e XVIII secolo. Proprietà, poteri e profitti nell’economia urbana europea di ancien régime.............................................. » 93 C. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare a Genova in antico regime: un fenomeno urbano dall’osservatorio dell’Albergo dei poveri (1656-1798)...................................................... » 115 S. CIRANNA, Della «principalissima industria della città di Roma». Case, botteghe, laboratori e studi degli artieri della pietra............................................................................ » 133 D. FELISINI, Forme e tendenze dell’investimento immobiliare nella Roma dell’Ottocento... » 157 R. CATINI, La nuova forma della Capitale: l’apertura del tunnel del Quirinale e il Palazzo del Drago......................................................................................................... » 167 A. CIUFFETTI, I Patrimoni immobiliari delle grandi industrie e lo sviluppo urbano. I casi di Piombino e Terni tra Otto e Novecento................................................................... » 181 M. SAVORRA La «città delle Generali»: investimenti, strategie e architetture ........................ » 191 A. DAMERI - S. GRON, La committenza della famiglia Borsalino: gli interventi in Alessandria » 207 M.S. POLETTO, Gli investimenti della società Reale Mutua a Torino. L’ intervento per la Torre Littoria............................................................................................................ » 229 Note e discussioni E. SORI, La città del tardo Rinascimento................................................................... C.M. TRAVAGLINI, A proposito dell’ Ara Pacis............................................................ G. ZUCCONI, I recenti progressi della local history italiana........................................ pag. 249 » 254 » 265 Schede a cura di: J.-L. ARNAUD, G. BONACCORSO, B. BONOMO, C. CALANDRA, A. CARACAUSI, S. GREMOLI, K. LELO, F. SALSANO. si parla di: C. ALTAVISTA, Lucca e Paolo Guinigi (1400-1430): la costruzione di una corte rinascimentale; D. CALABI, Storia della città.L’età contemporanea; M. CARBOGNINE. TURRI-G.M. VARANINI (a cura di), Una rete di città. Verona e l’area metropolitana Adige-Garda; N. CARDANO (a cura di), Esquilino e Castro Pretorio. Patrimonio storico-artistico e architettonico del Comune di Roma; J.-F. COULAIS-B. MARIN (a cura di), Rome. 2700 ans d’histoire, CD-Rom; A. KALC-E. NAVARRA (a cura di), Le popolazioni del mare: porti franchi, città, isole e villaggi costieri tra età moderna e contemporanea; D. KEENE-A. BURNS-A. SAINT (eds.), St Paul’s: the Cathedral Church of London, 6042004; N. MARCONI, Edificando Roma Barocca; A. L. PALAZZO (a cura di), Campagne urbane. Paesaggi in trasformazione nell’area romana; B. SECCHI, La città del ventesimo secolo; C.G. SEVERINO, Roma mosaico urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore; E. SVALDUZ (a cura di), L’ambizione di essere città. Piccoli, grandi centri nell’Italia rinascimentale; C.M. TRAVAGLINI (a cura di), Un patrimonio urbano tra memoria e progetti. Roma. L’area Ostiense-Testaccio; S. ZAGGIA (a cura di), Fare la città. Salvaguardia e manutenzione urbana a Venezia in età moderna. pag. 271 Convegni, seminari, mostre M. BARBOT - A. CARACAUSI, Andrea Palladio e la villa veneta da Petrarca a Carlo Scarpa L. NUTI, The 21th International Conference on the History of Cartography................. G. VERTECCHI, Seminario GIS................................................................................ pag. 285 » 288 » 291 Informazioni D. CALABI, La Conferenza 2006 della European Association for Urban History........... G.L. FONTANA, The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage S. PACE - R. TAMBORRINO, La città e le regole.......................................................... Abstracts traduzioni a cura di Susan Spafford Pubblicazioni ricevute pag. 293 » 295 » 298 CITTÀ E STORIA: IL PROGETTO L’idea di promuovere una nuova rivista dedicata alla storia urbana nasce dall’esigenza di creare un laboratorio di analisi, di discussione, di progettazione di nuove ricerche con un riferimento naturalmente privilegiato alla realtà italiana e a quella europea, e, al tempo stesso, con attenzione all’area del Mediterraneo, nonché, più in generale, al contesto internazionale, specie in una prospettiva di studi comparativi. Questa esigenza è maturata attraverso differenti esperienze di ricerca dei componenti della redazione ed è stata favorita, per molti di loro, sia dalla partecipazione alle attività della European Urban History Association, sia, in modo determinante, dalla nascita e dalla forte vitalità espressa dall’Associazione Italiana di Storia Urbana, fondata nel 2001. Decisivo è stato a livello europeo e nazionale l’incontro tra storici dell’architettura e storici dell’economia, storici generali e storici dell’arte, storici dell’ambiente e della letteratura, geografi e archeologi. La storia urbana, partendo da un’importante tradizione di studi nella quale metodologie e problemi hanno fatto privilegiare – a seconda dell’ambito di formazione – la storia delle pietre o quella degli uomini, è andata costruendo nell’ultimo trentennio – grazie anche al contributo di maestri come Marino Berengo, Alberto Caracciolo e Lucio Gambi e di iniziative importanti come la pubblicazione delle riviste «Storia Urbana» e «Storia della città» (quest’ultima spenta nel 1990), significativamente uscite entrambe nel 1976 – un suo spazio riconoscibile e riconosciuto che non è ancora però quello di un’autonoma area disciplinare. Si tratta di uno spazio che non può non fondarsi su approcci, metodologie, sensibilità diverse, prevalentemente multidisciplinari. Si sono allargati gli orizzonti della storia urbana, superando felicemente quella dicotomia tra storia dell’architettura e storia della città medievale che aveva segnato nell’esperienza italiana, in modo anche assai fruttuoso, tutta una lunga stagione di studi. «Città e Storia» lavorerà nel cantiere della storia urbana; non sarà una rivista che propone un modello né tanto meno una «scuola», sarà un’impresa collettiva che si dovrà contraddistinguere per grande apertura culturale e disponibilità al confronto tra gli storici urbani e quanti, da diversi punti di vista, studiano la città. Il progetto della rivista non può quindi che essere orientato su un arco diacronico ampio, dal Medioevo all’età contemporanea, con una forte attenzione alla stratificazione urbana, alle radici della forma urbis e al ruolo dell’archeologia nello studio di molti centri urbani contemporanei. 4 CITTÀ E STORIA: IL PROGETTO La scelta del titolo della rivista intende sia richiamare alcuni elementi ispiratori del progetto – e, in particolare, quello di una ricerca sulla città in tutta la sua affascinante complessità e, in sinergia con questo, quello di una storia a tutto campo, senza bisogno di aggettivi – sia ricollegarsi ad alcune esperienze maturate negli ultimi 4 anni prima con la pubblicazione dell’omonimo bollettino dell’AISU e poi, nell’estate del 2004, con l’uscita di una prima prova di stampa – il numero zero – in occasione del congresso AISU di Roma. L’attività editoriale sarà fondata su una programmazione di medio-lungo periodo ed organizzata per la produzione di fascicoli contraddistinti da un nucleo tematico dominante, al fine di proporre temi di ricerca e discussione e di consentire un coinvolgimento non casuale degli autori accogliendo o sollecitando contributi originali. Questo nucleo tematico costituirà, di regola, la parte caratterizzante di ogni fascicolo e sarà coordinato da uno o più curatori, anche esterni alla redazione. Questo orientamento è indispensabile per favorire la vitalità del periodico nel tempo, per valorizzare le competenze specialistiche ed assicurare un serio approccio multidisciplinare ai problemi. Accanto alla parte tematica vi saranno alcune rubriche: Note e discussioni, destinata ad ospitare rassegne, brevi saggi, interviste, tavole rotonde, discussioni di pubblicazioni e mostre, interventi anche su i problemi della ricerca, i processi formativi, il patrimonio e le politiche culturali; Istituzioni culturali, per la presentazioni di fonti per la ricerca e di iniziative culturali; Convegni seminari mostre, per resoconti di iniziative scientifiche e culturali; Informazioni, per offrire anticipazioni su convegni e seminari nazionali e internazionali in preparazione, su attività in itinere dell’AISU e di altre associazioni scientifiche, su progetti di ricerca, etc.; Schede, per dare conto in modo rapido e con un taglio prevalentemente informativo delle pubblicazioni più recenti (incluse le tesi di dottorato). Le rubriche – non sempre tutte necessariamente presenti in ogni fascicolo – costituiranno una parte quantitativamente minore ma ugualmente importante per una rivista che – sia pure con la forte limitazione costituita da una periodicità soltanto semestrale – ambisce ad essere presente nel dibattito culturale e vuole offrire un adeguato panorama informativo ai lettori. Infine, contiamo di poter riservare una piccola sezione di «Città e Storia» alla pubblicazione di saggi, in modo da assicurare uno spazio a nuove ricerche indipendentemente dal nucleo tematico di volta in volta dominante. La rivista sarà aperta alle più larghe collaborazioni sia per i progetti di sezioni monografiche sia per l’ampia serie delle rubriche, e in questo spirito nonché in coerenza con le linee generali del progetto ha anche assunto il criterio di pubblicare in lingua originale i contributi redatti in inglese, francese e spagnolo, come si può verificare già da questo primo fascicolo. Abbiamo anche discusso sull’opportunità di realizzare una pubblicazione a stampa o di intraprendere invece senza indugi la via suggestiva dell’editoria elettronica: la scelta in questo ambito è stata per la tradizione, anche se più costosa e faticosa sotto CITTÀ E STORIA: IL PROGETTO 5 molti profili. È prevalso il desiderio di avere in mano un libro, di poterlo leggere in quanto tale, di averlo a disposizione per consultarlo, sapendo che almeno il supporto cartaceo è sicuramente destinato a durare. La rivista sarà comunque disponibile anche su internet e gratuitamente, almeno per il primo anno. Gli obiettivi che ci siamo prefissati sono assai impegnativi; creare un laboratorio di ricerca e di discussione, praticare realmente un terreno di collaborazione multidisciplinare, confrontarsi con linguaggi e metodologie diversi costituiscono nell’insieme un percorso per tentare di afferrare l’anima della città e per operare un reale rinnovamento degli studi. «Città e Storia» è una rivista scientifica, ma auspichiamo vivamente che possa essere uno strumento di lavoro o un utile riferimento non solo per gli specialisti, gli studiosi o quanti si avvicinano a percorsi formativi di storia e di analisi urbana, ma anche per i tanti ricercatori, funzionari di soprintendenze, tecnici, professionisti che quotidianamente, in modi e forme diverse, si misurano con la realtà complessa, contraddittoria, vitale della città contemporanea. La cultura urbana e, soprattutto, il governo delle città hanno oggi una grande necessità di «conoscere» le città e di valorizzare i saperi che possono esprimere. *** PLAIDOYER POUR UNE HISTOIRE DE L’HISTOIRE URBAINE Si vous m’accueillez aujourd’hui, je le dois essentiellement au privilège de l’âge. C’est en effet en témoin que je m’exprime devant vous sur les rapports de la ville et du patrimoine. La question dont je pars est donc : est-ce que la ville en tant qu’objet réel, en tant que notion, en tant que série d’événements situés dans l’histoire, suscitant des interprétations différentes de ses formes, n’est pas un patrimoine, j’allais dire le patrimoine typique de nos sociétés ? Je fais porter ma réflexion sur l’étude de périodes quelque peu anciennes ; concernant les périodes directement contemporaines, vous êtes sans nul doute mieux informés que je ne le suis. Si nous voulons considérer la ville comme un patrimoine, il faudrait aussi tenir compte de l’histoire de l’histoire urbaine. Les formes de connaissance, les interprétations ne s’effacent pas au coup par coup comme si l’on perdait toute mémoire ; elles suivent une sorte d’itinéraire qu’il faut expliciter pour mieux saisir l’ampleur des nouveaux phénomènes qui nous feraient peut-être remettre en question la ville toute entière en tant que forme d’organisation de l’espace et institution et la reconnaître comme patrimoine vivant. Je viens de la géographie mais j’avais une vocation d’historien à l’origine. C’est en entrant à l’École Normale que, sans doute fatigué par l’histoire un peu répétitive des préparatoires, j’ai décidé de choisir la géographie. Je me suis laissé séduire parce que la géographie c’était pour moi, à ce moment là, partir de l’actualité. Cette discipline d’autre part était encore relativement neuve quand on s’intéressait à la ville. La géographie humaine la plus fructueuse était alors celle qui s’occupait du monde rural. Mon projet était de bénéficier de l’avance acquise en ce domaine et d’ailleurs aussi chez les historiens. Les deux noms de Marc Bloch et de Roger Dion sont indissociables dans ma pensée. Deux directions ressortaient dans ce contexte intellectuel portant sur les notions de culture matérielle et de temps. La notion de «culture matérielle» ou de «civilisation matérielle» (il y avait débat) m’intéressait moins comme champ particulier de pratiques que comme prise de distance à l’égard de l’action humaine. Il me semblait exister une dimension de l’histoire dans les objets eux-mêmes qui correspondait quelque peu à l’idée provocatrice de Durkheim lui-même : «étudier les hommes comme des choses». À travers les objets 8 MARCEL RONCAYOLO urbains et les pratiques qui correspondaient à ces objets, on a l’impression de juger les hommes d’après leurs œuvres comme le pensent certains théologiens. Mon premier intérêt était d’aboutir à une objectivation de la vie des hommes, témoin de leurs essais, de leurs actes, de leurs idées, de leurs constructions sociales. J’ai travaillé d’abord sur le cas de Marseille, ville à peu près contemporaine de Rome par sa fondation. Contrairement au grand discours qui se tenait à la fin du XIXe siècle quand on disait «les villes naissent, se développent et meurent», j’avais l’impression que ces villes étaient diablement plus résistantes que les hommes et même les sociétés. Le temps m’apparaissait alors au centre de la réflexion ; la ville, je la concevais comme porteuse d’expériences capables de subir des réinterprétations, des nouveaux usages, des représentations renouvelées. Le long terme n’était pas pour moi la reproduction à l’identique d’attitudes et d’objets. C’était en quelque sorte un long chemin parcouru. Il y a une citation, peut-être excessive dans sa rigueur, qui m’a toujours touché ; elle est tirée de Tristes tropiques (de Claude Lévi-Strauss) : «Tout paysage se présente d’abord comme un immense désordre qui laisse libre de choisir le sens qu’on veut lui donner. Mais, au-delà des spéculations agricoles, des accidents géographiques, des avatars de l’histoire et de la préhistoire, le sens auguste entre tous n’est-il pas celui qui précède et, dans une large mesure, explique les autres, cette ligne pâle et brouillée, cette différence souvent imperceptible dans la forme et la consistance des débris rocheux, témoignent que là où je vis aujourd’hui, un terrain aride, deux océans se sont jadis succédé.» Mais quels sont alors les commencements et où se trouvent les sens augustes de la ville ? On s’est souvent plaint que l’histoire urbaine emprunte trop naïvement les coupures classiques de l’histoire générale et enferme la réflexion sans véritable critique dans des périodes qui n’avaient peut-être pas beaucoup de sens de son point de vue. Ma recherche personnelle commence plus modestement au XVIIIe siècle. J’essayais d’en tirer alors les grandes fluctuations de l’histoire des villes. Je pensais, quitte à prendre quelques distances à l’égard d’un marxisme trop facile, dépasser les limites d’une chronologie trop simplifiée des modes de production. Trois thèses traitaient des rapports du temps et de la ville. La première valorisait la continuité ; c’était celle de Marcel Poëte. Cette continuité s’inspirait de l’image biologique. Poëte parlait de la jeunesse, de la vie adulte de Paris. Mais la mort ? Cette analogie était d’autant plus curieuse que Poète était moins historien de la forme urbaine que de la communauté urbaine. Sa pensée s’inspirait du vitalisme qui n’était pas de mon goût, sans doute parce que j’ai été formé à la philosophie au moment où Bergson régnait, et que par précaution je me méfiais de la mode. Le vitalisme appliqué au monde urbain n’allait pas de soi. En termes presque polémiques se définissait la position adverse, celle de Francastel, que les plus anciens parmi vous avaient appréciée. Celui-ci considérait que la ville était un lieu qui enregistrait toutes les attentes, les désirs, les manques aussi, des PLAIDOYER POUR UNE HISTOIRE DE L’HISTOIRE URBAINE 9 sociétés qui se succédaient. Par conséquent, Paris était formé de villes successives qui se recouvraient les unes les autres. Il fallait un travail analogue à celui des archéologues pour reconnaître les strates ou les traces d’organisations plus anciennes. C’était, somme toute, reprendre l’image classique du palimpseste. C’était alors une conception organique (rapports des formes et de la société) mais loin de la biologie. Cette formule avait déjà été adoptée par César Daly dans ses écrits de 1840 (Revue générale d’architecture). Chaque ville devait correspondre à la société dans laquelle elle était située et par laquelle elle était modelée. Le drame de Daly était, dans une société industrielle récente, d’attendre les styles urbanistiques et architecturaux qui lui conviendraient. Accordons à cette thèse son mérite essentiel : la fabrication et les usages de la ville ne sont pas indépendants des autres phénomènes sociaux. Il reste à savoir si la société peut être lue comme une réalité totalement acquise, évidente, ou comme un cursus jamais achevé, jamais entièrement synchrone dans ses parties. La troisième position hésitait entre les deux. Ce n’est pas étonnant dans la mesure où l’homme qui la représente est l’un des plus complexes qu’il m’ait été donné de lire. L’Italie avait semble-t-il repris sa lecture alors que la France à ce moment là l’ignorait quelque peu. Pour Maurice Halbwachs il y avait à la fois discontinuité et tendances plus longues. Par exemple le plan des artistes de Paris, dressé au début de la Révolution française, n’induisait pas, même s’il y avait des échos et des réutilisations, ce qui s’accomplissait dans un autre contexte sous le Second Empire. En même temps, dans son livre sur les expropriations (1909), il montrait que ce n’était pas les fluctuations de la politique ou des mouvements d’idées des architectes, des artistes, qui faisaient Paris, mais les tendances plus profondes de la ville, y compris dans ses changements sociaux. L’histoire urbaine n’était pas le résultat de régimes et de politiques qui s’empilaient. L’auteur rappelait que derrière ces phénomènes superficiels existait une ville qui était Paris. L’ambiguïté subsiste alors sur la notion même de tendances naturelles. Voilà quelles étaient mes références de départ. J’ai constitué mes curiosités, j’ai choisi les méthodes que je devais employer, par rapport à ces lectures. La problématique que l’on construit mérite d’être respectée quand vous faites des analyses concrètes. Changer de questions, répondre à une épistémologie renouvelée, cela signifie recommencer le travail de recherche des sources et des informations. En revanche, par rapport à la direction initiale, on peut apprécier les limites des présupposés dont on est parti. En contrepoint, j’étais très intéressé non seulement par les grandes tendances mais par le déroulement temporel de la fabrication de la ville. Je passais alors à des temps plus courts, ceux du déroulement des activités, des projets, des réalisations. On se trouvait tout à coup devant un jeu de temporalités différentes et de phénomènes qui n’étaient pas synchrones. Comparer l’haussmannisation parisienne et l’haussmannisation marseillaise me servait alors de terrain d’exercice. Il y a le temps du projet qui a ses rythmes propres, son incubation, son passage hors du monde purement idéel. 10 MARCEL RONCAYOLO Il y a le temps du chantier, le temps des financements (se procurer des crédits pour payer le chantier mais selon un amortissement qui s’étale sur un temps beaucoup plus long). La ville se construit à travers ces décalages. La réalisation en effet n’est pas chose simple entre les travaux de préparation et la commercialisation des produits. On peut considérer que l’haussmannisation n’a pas fait fiasco à Paris, mais si vous lisez Halbwachs, vous verrez que les terrains ont commencé à se vendre très cher dans le centre, là où des prédispositions (notamment l’emplacement) accéléraient la mise en valeur. En revanche, le rendement de l’investissement initial était beaucoup plus retardé quand il s’agissait de nouveaux quartiers comme par exemple la plaine Monceau, réellement appréciée vingt ans après le dessin de la trame. Ce qui explique, en partie, la crise des sociétés immobilières qui avaient participé à l’haussmannisation. Par conséquent, toute ville, même quand sa transformation exprime les tendances naturelles de l’époque, est dépendante du temps, souvent inachevée, et faite de ce fait d’inachèvements successifs. C’est ce qui fait le charme de la ville en fin de compte. Nous avons affaire à une création qui est en constant mouvement selon des rythmes variables, à un ensemble hétérogène qui n’est jamais totalement de son temps, ou plutôt dont seul l’usage fait l’actualité. Cette remise en question de la cohérence ne concerne pas seulement les formes urbaines, mais la conception même et l’emprise physique du phénomène urbain. C’est ainsi qu’à l’inverse de Braudel, je réintroduis la courte durée dans ma réflexion en pensant que la longue durée est parfois le produit de conjonctures courtes et très précises. Tel est à mon sens ce qui fonde la conscience du patrimoine. C’est-à-dire placer la ville dans la perspective d’une sorte d’itinéraire (points forts, points faibles, années d’incubation, d’attente et de bouleversement). L’histoire cyclique telle qu’elle se développe à la fin du XIXe siècle n’est plus celle d’un cycle qui se referme sur lui-même, de l’éternel retour, mais d’un mécanisme de changement. Après tout, s’il y a rupture épistémologique, c’est bien celle introduite par Condorcet sur les progrès de l’esprit humain, même si l’on en saisit aujourd’hui quelques perversités. Le patrimoine peut être considéré ainsi en tant que mémoire d’étapes, de points de repères, auxquels il faut trouver un sens aujourd’hui. Ce n’est pas une denrée que l’on met au frigidaire, c’est quelque chose que nous fabriquons nous-mêmes. Et ce que nous fabriquons aujourd’hui, quelle qu’en soit la valeur apparente, c’est le patrimoine de demain. Je trouve toujours quelque désordre intellectuel à considérer les implosions de barres ou de tours, même si cela s’impose pour des raisons sociales, comme une réussite technique. C’est en réalité une sorte d’exorcisme naïf et dangereux par rapport à la conception de l’itinéraire. Si l’on rasait tout, on perdrait le sens de notre histoire. A fortiori les habitants d’aujourd’hui perdraient le sens de leur propre histoire, située dans ces lieux. Telle est ma position à l’égard du temps ou plutôt des temps qui correspondent à des échelles très diverses. C’est comme cela que je suis redevenu historien en étant PLAIDOYER POUR UNE HISTOIRE DE L’HISTOIRE URBAINE 11 géographe. Et peut-être avec quelque provocation je me suis demandé dans un article des Annales, entre géographie et histoire, quelle était la science du temps, quelle était la science de l’espace. Sans doute ces raisons expliquent l’accueil que j’ai reçu des Italiens de la génération d’Argan et d’Aldo Rossi. En France en effet, je n’avais pas été en contact à l’origine avec l’architecture, et l’urbanisme était une discipline qui flottait entre la forme et les procédures, hésitant dans ses rapports avec les historiens, les géographes ou les sociologues. L’architecture suivait encore une tradition, celle des Beaux-Arts, c’està-dire dépendant d’une institution qui existait en dehors de l’Université. De même, les ingénieurs avaient leurs propres cadres. Les tentatives de rencontres étaient parfois déviées par l’utilitarisme ou l’idéologie. Des interactions sérieuses se sont néanmoins produites au-delà des traditions nationales. J’en prendrai trois exemples en ce qui concerne les rapports entre sciences humaines, architecture et urbanisme. La première manifestation, c’est l’importance accordée à l’archéologie du savoir telle qu’elle était définie notamment par l’œuvre éclatante de Michel Foucault. La seconde, c’est la lumière nouvellement portée sur l’habitant avec des notions d’appropriation et de participation. La troisième est liée à l’attention portée à la micro-histoire. Il se trouve que Giorgio Piccinato m’avait contacté alors que je faisais partie de la commission du CNRS pour discuter de la liaison entre recherche scientifique, architecture et urbanisme. J’ai alors insisté sur l’importance que prenait en France la lecture de Michel Foucault. Alors que le marxisme après 68 encaissait quelques coups, s’imposait le talent considérable de cet auteur nourri de philosophie, de psychanalyse et d’analyse critique des savoirs. Nos architectes se sont volontiers précipités dans ce courant qui a renouvelé les références de la réflexion. Vous connaissez en particulier les travaux de Huet sur les équipements du pouvoir. C’était en effet la notion de pouvoir qui retenait l’attention autour de ces manifestations : panoptique, contrôle social, relégation. Simplification peut-être de la pensée de Foucault avec le danger de trop réduire le savoir à son instrumentalisation sociale. Quel pouvoir d’autre part ? Le pouvoir médical n’était-il qu’une forme de prise en main des individus ? L’hygiène se transformait-elle en eugénisme ? L’urbanisme se limitait-il à l’ordre imposé à la société ? Cette lecture un peu réductrice négligeait une des dimensions de l’œuvre, la fragmentation des petits pouvoirs entre les hommes eux-mêmes. On ne pouvait ignorer un autre aspect de cette question : un certain pouvoir de l’habitant de base de s’approprier l’habitat même s’il n’en avait pas conçu la nature. C’était là le second thème du moment. C’est une étape dont je trouvais la contrepartie en Italie dans le grand mythe de l’époque qui avait peut-être moins intéressé le milieu des urbanistes français que celui des politiques et des administrateurs, le mythe de Bologne, et la pensée du «recupero»des espaces et des édifices anciens promis à de nouveaux usages. À Paris, l’affaire des Halles avait alerté l’opinion. On s’interrogeait 12 MARCEL RONCAYOLO alors sur la concertation : comment associer ce qui représente des pouvoirs ou des intérêts organisés et les habitants qui expriment parfois une attente mal identifiée. La double question de l’appropriation et de la participation au système de décision du «citoyen» est exprimée alors en France par les recherches de Henri Lefebvre et de Raymond et renouvelle sérieusement l’approche de la ville. Troisième point : la micro-histoire. Elle m’intéresse non seulement dans la mesure où elle a permis d’approfondir l’étude des comportements urbains, des itinéraires individuels, mais aussi d’atteindre cet habitant qu’on n’arrivait pas à saisir à travers les grandes vues synthétiques sur les classes et les pouvoirs. La micro-histoire aussi est importante dans la perspective du projet, elle met l’éclairage sur le jeu des acteurs de toutes sortes dans la prise de décision et l’exécution. Il s’agissait alors de faire basculer l’histoire urbaine vers une étude concrète des compétences et des rapports de force, la diffusion des pratiques, l’accueil des réalisations ; de comprendre ainsi les conditions réelles, non broyées par l’étude des agrégats, qui concernent les perceptions de la ville, l’apprentissage et l’anticipation dans la culture du territoire. Je clôturerai ces remarques sur cette idée que je répète : considérer l’histoire urbaine comme l’histoire d’un parcours, comme le Tour de France ou le Giro, avec des étapes de plat et des étapes de montagne. C’est dans cette conception du patrimoine comme élément du parcours que j’établis le lien, qu’il s’agisse à la fois de la place et du déplacement des habitants dans la ville, de la ville comme collectivité et comme ensemble de formes, de matérialités, en fin de compte d’effets de l’art. En ce domaine nous en savons assez peu parce qu’on est parti des grandes idées, des philosophies, des utopies, en les détachant trop souvent de leur contexte et en ne voyant pas leurs contractions, leurs côtés impurs, la demande plus pragmatique qu’elles pouvaient inspirer. Par exemple, la pensée des Fouriéristes et des promoteurs du phalanstère était héritée d’une réflexion sur les mauvaises conditions de vie des classes populaires telles qu’elles étaient transmises depuis la fin de l’Ancien Régime, plus qu’elles n’exprimaient une société industrielle tout à fait installée. Le choléra était plutôt pré-industriel que post-industriel. Je crois qu’il faut reconstituer les conditions exactes et non pas idéales dans lesquelles sont nées les grandes utopies, analyser leur rapport avec l’histoire réelle. C’est pour cela que la lecture du corpus dirigé par Daly a été l’un des points de départ de ma réflexion. La lecture de cette revue qui s’efforçait d’établir un pont entre architectes et ingénieurs traçait elle-même un parcours puisque sa publication commençait en 1840 et finissait au milieu des années 1880. Ainsi affleuraient dans leur succession historique tous les débats. Les principes perdaient leur a-temporalité. Il conviendrait donc de reconstituer l’histoire des regards sur la ville comme processus. On s’attachait trop à réhabiliter les temps forts qui semblaient eux-mêmes incertains. On parlait d’Haussmann, de Le Corbusier, et entre eux peu ou rien. Fort heureusement des équipes se sont intéressées aux phases intermédiaires et Donatella Calabi en a donné d’excellents exemples. PLAIDOYER POUR UNE HISTOIRE DE L’HISTOIRE URBAINE 13 Il y a aussi la récupération du temps qui précède l’haussmannisation, incubation lente en contrepoint des utopies, à partir d’origines variées, d’éléments hétéroclites dans une société censitaire, où, du moins en France, c’est la bourgeoisie libérale qui fait la ville. La cassure et la réaffirmation de l’action publique viennent ici moins d’un changement juridique ou même idéologique que de l’irruption des infrastructures : les chemins de fer en premier s’attaquent aussi bien au tissu urbain qu’aux représentations traditionnelles de la mobilité. De manière différente selon les pays, les rapports entre l’État, les collectivités territoriales, les grandes entreprises et le propriétaire foncier, aux facettes multiples, sont modifiés. Comment se fait alors et s’instrumentalise la notion d’intérêt public ? Comment s’interprète alors cet objectif que l’historien Georges Lefebvre attribuait au régime napoléonien «sanctionner le droit de la propriété, antérieur à la société» et affirmer la légitimité de l’intérêt public comme seule «limite au droit du propriétaire» ? Un élément parmi d’autres de l’histoire de l’histoire urbaine. Encore faut-il que cet essai sorte des simples contextes nationaux. L’histoire comparée reste un exercice difficile si l’on se contente de commenter des exemples extérieurs, sorte de bibliographie, et de les mettre en regard de ses propres connaissances concrètes sur telle ou telle expérience, période ou territoire. Il conviendrait aussi de tenir compte de l’originalité des regards. Et ceci en dépit du caractère très international du monde de l’urbanisme, lieu de communication et de transfert de modèles. Formes, représentations, actions, voilà ce qu’il faut atteindre pour rendre compte de la ville et de ses conceptions. D’autant plus que toute transformation, toute politique, toute vision d’urbanisme est une anticipation. L’éphémère peut évidemment durer longtemps. Mais l’imagination, à court ou à moyen terme, peut errer. Contrairement à la thèse d’Halbwachs, l’anticipation n’est pas forcément destinée à réussir et la spéculation encore moins. Ainsi se cumulent des projections qui ne sont pas nécessairement cohérentes mais qui marquent la ville dans sa longue durée. Pour en venir au cas très modeste que j’ai étudié, la rue Impériale devenue rue de la République à Marseille fut construite comme grande voie bourgeoise pour relier le centre de la ville au nouveau port. Elle ne le fut guère au départ et de moins en moins jusqu’à aujourd’hui. Pensons aussi à la dérive actuelle des grands ensembles (pas tous) qui accentue la contradiction entre le projet d’un nouvel urbanisme (même légitimé par un habitat populaire) et la réalité à laquelle il aboutit. Il faut donc constituer des corpus plus riches, plus continus, une observation qui scrute les temps plutôt que faire ressortir tel ou tel choix pour savoir qui avait raison. Ce sont les raisons concurrentes ou successives qu’il faut mettre en chaîne, un parcours qu’il faut reconstituer, même si le concept de ville semble à son tour nous fuir. Marcel Roncayolo La cifra della città. Architetture ed economie in trasformazione a cura di Roberta Morelli e Maria Luisa Neri INTRODUZIONE Questo primo volume della nuova rivista «Città e Storia» ospita alcuni contributi presentati al II Congresso dell’Associazione Italiana di Storia Urbana (AISU), dedicato a Patrimoni e trasformazioni urbane1. L’iniziativa si è svolta sotto il patrocinio di due università romane – Università Roma Tre e Roma Tor Vergata – e di altre istituzioni che in questi ultimi anni hanno contribuito al progresso e alla valorizzazione delle conoscenze nel campo della storia urbana: l’Associazione Italiana di Storia Urbana, l’Archivio Storico Capitolino, l’Ecole Française de Rome. Com’è nell’intento dell’associazione il congresso nazionale, a scadenza biennale, rappresenta l’occasione per un confronto allargato tra soci di diversi ambiti disciplinari, portatori di pensieri e metodologie rivolti allo studio della storia della città. Si tratta, come già nel I Convegno di Lecce (giugno 2002), di una partecipazione allargata che vuole lasciare spazio a studiosi di consolidata esperienza e a giovani che si aprono alla ricerca in questo campo d’indagine. L’occasione romana è stata preziosa. In essa sono stati proposti molteplici tagli di lettura, originali angolazioni interpretative, la possibilità di un dialogo diretto tra gli studiosi che hanno nella città il loro fulcro d’interesse. Soprattutto è stata offerta una variegata messe di fonti, spesso inedite, che consente alla comunità scientifica di affondare di nuovo il dente dell’aratro in terreni non certo vergini alla riflessione storiografica. L’accesso a nuove fonti è, infatti, utile per tentare ancora una volta, forse con sempre più matura consapevolezza, di tessere singoli episodi del divenire urbano sul doppio ordito della struttura economica e della sua restituzione in termini fisici (strade, architetture, decoro urbano). Solo un’ottica che tiene conto delle relazioni tra il substrato economico e il farsi della città può soddisfare un’aggiornata visione d’insieme. Le tre dense giornate di lavori sono state scandite sul doppio registro di sessioni di carattere generale e sessioni di approfondimento su aspetti particolari o realtà circoscritte. Così come suggerito da parte del comitato scientifico dell’AISU, programmaticamente i primi due numeri di questa rivista accolgono contributi provenienti dalle due tipologie. Il primo volume ospita i contributi delle due sessioni: Negoziazioni ed attori, coordinata da Mario Ascheri e Roberta Morelli, e Patrimoni immobiliari, rendite e trasformazioni urbane, coordinata da Maria Luisa Neri. 16 ROBERTA MORELLI - MARIA LUISA NERI Dai diversi saggi, ampiamente rivisti rispetto alla versione allora presentata, scaturisce uno scenario complesso, in cui interagiscono protagonisti individuali o collettivi che, in un gioco di scambi, acquisizioni e alienazioni, costruiscono, demoliscono, alterano e propongono nuove forme della città, nei suoi quartieri, nelle sue strade, nei suoi edifici. Difficile trovare una separazione netta fra diversi campi d’interesse, fra economia e architettura, fra investimenti e rendite, fra proprietà e usi. Far economia e trasformare fisicamente sono le voci di un dialogo perpetuo e imprescindibile, in cui è impossibile porre una netta linea di demarcazione. La pista da seguire per lo storico tout court è collocare l’incipit del fenomeno e testimoniare le singole tappe di un processo spesso secolare, in cui lo scavo documentario si affianca alla lettura del testo costruito. È quanto ci siamo proposte nel raccogliere un materiale apparentemente disomogeneo, per area geografica, per collocazione temporale, per metodo d’indagine, per approccio espositivo. L’organizzazione proposta rispetta una sequenza esclusivamente cronologica. A nostro avviso, la narrazione che ne scaturisce non dovrebbe costituire per il lettore un limite obbligato, ma piuttosto favorire una riflessione ampia e diacronica. Vantaggi ci sembrano venire proprio dal lasciare spazio a una visione ad ampio spettro, che permetta comparazioni e trovi similitudini o differenze, che valorizzi appieno l’originalità delle fonti proposte. Un modo plausibile di affrontare lo studio della città, un gene costitutivo di interpretazione del tema, che per la sua complessità richiede di spaziare liberamente in molteplici ambiti di studio. Il percorso si snoda dal tardo medioevo alla piena contemporaneità, con una casistica che ripropone, in contesti e in formule diverse, meccanismi di stretto colloquio fra istituzioni e territorio, fra ceti dominanti e realizzazioni urbane, fra vicende familiari e realtà costruita. Sono evidenti gli intrecci fra competenze diverse, volti a mettere in luce le onde lunghe dell’economia che guidano la gestione del territorio e ne provocano le scelte, inducendo cambiamenti nell’aspetto fisico, nelle presenze architettoniche, nel conseguente corredo di linguaggi e simboli. L’azione di enti, confraternite, corporazioni, banche, società, industrie, famiglie e imprese coinvolte nello sviluppo urbano costituisce un nodo critico fondamentale, ancora poco esplorato, nelle vicende della costruzione fisica delle città, non solo italiane. I processi attraverso i quali è avvenuto il controllo degli spazi e si è attuata la gestione delle modalità di sviluppo delle città non è, come noto, quasi mai ascrivibile alle istituzioni pubbliche preposte a tali interventi. Nella prassi edilizia e urbanistica di molte città, la proprietà o l’acquisizione di vasti patrimoni immobiliari da parte di privati ha rappresentato, infatti, una storia parallela a quella pubblica, ad essa fortemente intrecciata ma spesso più incisiva in termini quantitativi e qualitativi. Nel corso della storia il colore dominante dell’affresco che fuoriesce dalla realtà italiana, nelle sue varie componenti, è costituito dalla predominante presenza dell’azione del privato che muove le pedine dello scacchiere urbano. Questa interpretazione dei saggi scaturisce con forza e chiarezza da una prospet- INTRODUZIONE 17 tiva di lettura in cui particolare attenzione è stata posta, dai vari autori, alla ricostruzione dei processi trasformativi della consistenza edilizia di diversi patrimoni immobiliari. A questi si sono aggiunte riflessioni critiche sui modelli comportamentali in campo immobiliare, sulle prassi costruttive e imprenditoriali, sulle forme e sugli aspetti figurativi delle architetture. Lo sfondo delineato suggerisce ulteriori questioni come quelle della costruzione e/o delle proposte progettuali di nuovi servizi e innovativi modelli abitativi, alternativi a una tradizione consolidata. Essi sono legati talvolta a esperimenti di riforma sociale talaltra a necessità di riformularne le condizioni in termini di economia e convenienza, di opportunità e interessi. Le ricerche che si presentano – alcune concentrate su pochi anni significativi, altre su tempi di lunga durata – sono articolate in un vasto arco temporale e affrontano tutte il ruolo svolto dai detentori di patrimoni immobiliari nello sviluppo e nella trasformazione delle città italiane; ruolo interpretato non solo in termini economici o di rendita. I diversi contributi fanno interagire questi ultimi con variabili più prettamente politico-economiche, politico-sociali, culturali, speculative o di natura diversa, come quelle assistenziali o rappresentative. Tutto questo rende assai più complesso il quadro di riferimento nel quale inserire la questione, anche in relazione al gioco delle parti svolto dai singoli attori con altri poteri che hanno agito nelle città. Città differenti, grandi, medie e piccole del territorio centro-settentrionale italiano sono l’oggetto dei tredici saggi proposti: Napoli, Roma, Torino, Genova, Alessandria, Terni e Piombino. A queste possiamo aggiungere la città immaginaria delle Assicurazioni Generali, una città che ne contiene molte altre, estesa com’è in una più vasta geografia di territori e luoghi. Il volume ha in sé la potenzialità di stabilire confronti fra queste diverse aree geografiche italiane, fra micro-realtà urbane e metropoli, fra i molteplici attori di un processo trasformativo delle città che non solo ha innescato elementi determinanti del loro sviluppo fisico, ma anche prototipi architettonici e sociali ricchi di spunti per costruzioni future. Cinque parole chiave – negoziazioni, attori, patrimoni immobiliari, rendite, trasformazioni urbane – otto città, più figure presenti in una scena complessa e multidisciplinare che intreccia protagonisti, personaggi di secondo piano, comparse e ruoli di apparente passività, oltre che fattori di natura extraeconomica. Tante piccole tessere da ricomporre in un mosaico unitario. Problema di non facile soluzione, poiché le figure di cui si parla non sempre sono tra loro congruenti: confraternite, proprietà fondiarie, artigiani, famiglie nobiliari, nel caso di Roma; corporazioni a Napoli; una magistratura legata a dinastie cittadine, nel caso genovese; industrie di Stato, a Terni e Piombino; una società di assicurazioni, a Torino; un’impresa privata, ad Alessandria e un istituto finanziario per la città immaginaria di origine triestina. Attori diversi per ruolo istituzionale, tempi difformi, storie e realtà urbane che non sempre risultano omogenee: diversità che comportano conseguenze apparente- 18 ROBERTA MORELLI - MARIA LUISA NERI mente poco confrontabili, non solo in termini di rendita ma anche in quelli più specifici della configurazione delle trasformazioni fisiche delle città. Motivi e forme delle diverse strategie d’investimento, come della gestione del patrimonio immobiliare, sono comunque uniti da una stessa capacità: quella che dimostrano i diversi attori di sapersi inserire nelle maglie di un’endemica fragilità di governo delle amministrazioni locali. Una debolezza che ha consentito loro di proporsi sotto molteplici maschere. A Roma, la maschera è nel perpetuo dialogo tra città laica e centro religioso, e assume connotati particolari in relazione al flusso disomogeneo degli andamenti demografici e alla continuità nel suo ruolo di polo attrattivo. A Napoli si evidenzia la maschera della capacità innovativa di una capitale europea di antico regime in costante trasformazione; a Genova assume le vesti della camera di compensazione per sottrarre i beni all’erario pubblico; a Piombino e Terni, dove fa proprio anche il controllo dei suoli nella crescita urbana, è capace di polarizzare un confronto diretto con le amministrazioni locali. A Torino applica intenti più rappresentativi, in un forte intreccio fra rendita, forma e linguaggio; ad Alessandria, invece, ha la forma di un sostanziale equilibrio fra città, impresa e progettisti di valore, che consente di realizzare opere pubbliche e assistenziali di grado elevato, mentre più complessa è la vicenda della Città delle Generali, per la quale il capitale finanziario sembra essere usato come elemento coesivo della classe borghese. Logiche assistenziali, tornaconti aziendali, procedimenti amministrativi, prassi operative consolidate, molteplici interessi economici, incapacità delle amministrazioni comunali: tutte questioni che sostengono il legame fra negoziazioni e attori, fra patrimoni immobiliari, rendite e trasformazioni urbane. È evidente che, pur nelle molteplici vicende che hanno connotato i singoli insediamenti urbani, gli enti, gli istituti o le singole figure hanno tutti costituito un efficace volano per innescare, e spesso per condurre da protagonisti, la trasformazione delle città. Alla luce di tutto questo, non si può non aderire ad un alto richiamo che ci viene da uno dei primi studiosi di storia urbana – Alberto Caracciolo – che nella celebre introduzione al volume collettaneo Dalla città industriale alla città del capitalismo (1975) poneva un memento che suona ancora oggi di grande attualità: «Il rischio maggiore è quello di costruire una specie di storia su misura, in cui il fenomeno urbano viene quasi isolato e studiato per se stesso, senza relazione col mutare delle condizioni generali dello sviluppo storico e con le varie formazioni economico-sociali». Roberta Morelli - Maria Luisa Neri 1 Il Congresso AISU si è tenuto a Roma il 24-26 giugno 2004 nell’Università Roma Tre, Aula Magna Rettorato - Facoltà di Economia. CONFRATERNITE E RENDITA URBANA: IL SAN SALVATORE E IL GONFALONE DI ROMA TRA XV E PRIMO XVI SECOLO* Il risveglio del mercato immobiliare urbano nel primo Quattrocento: note introduttive All’inizio del XV secolo, il tessuto urbano di Roma era caratterizzato da alcuni nuclei urbanizzati, disposti in maniera discontinua all’interno dell’ampio circuito murario, e da silenziose lande disabitate segnate da rovine architettoniche, memoria degli antichi fasti. «Sembra che nei luoghi più popolosi manchi la salute alla gente. Ciò accade tanto a Campo de’ Fiori che al Campidoglio, entrambi grandi quartieri, ma anche in Piazza Giudea che è un grande borgo. Il resto della città è costituito da case sparse»1 osservava lo spagnolo Pero Tafur negli anni Trenta del secolo. Questa descrizione rifletteva una situazione cristallizzata da tempo2, ma alcuni superstiti documenti dell’epoca lasciano trapelare, al contrario, un certo movimento di popolazione e di capitali interno all’abitato, effetto di un nuovo modo di rapportarsi con lo spazio urbano. I primi impulsi per una messa in valore delle aree intramurali vennero da alcuni dinamici istituti religiosi. Lo evidenziano alcune ben note transazioni: nel 1423 la chiesa di S. Maria Nova, tra i principali attori dell’urbanizzazione duecentesca3, intuendo il valore degli investimenti urbani, decise di permutare con la nobile famiglia Astalli, ancora fortemente proiettata verso la campagna, la metà di un casale con tre case nel rione Ponte; ad una decisione analoga pervenne nel 1425 il capitolo di S. Giovanni che investì 2500 fiorini4, frutto della vendita di una parte del casale di Frascati, nell’acquisto di alcune case nei rioni Parione e Arenula5. I due enti avevano adottato una strategia moderna e rivoluzionaria per due ordini di motivi: 1) il fatto di aver indirizzato i propri investimenti non più verso la campagna ma verso lo spazio urbano; 2) la novità di aver selezionato, in anticipo rispetto alla creazione della nuova città rinascimentale, i luoghi migliori dove investire: i rioni del commercio e della finanza (Ponte, Parione e Arenula). Una altrettanto scrupolosa attenzione alle sollecitazioni offerte dal mercato degli immobili urbani dimostrarono le confraternite e gli ospedali6 cittadini, nelle cui fila sono presenti alcuni di quei mercanti-bovattieri che nel corso del Trecento si erano distinti tra gli elementi più attivi del sistema economico locale7. Se in un primo momento alcuni di questi enti si limitarono ad operare un numero crescente di investimenti nelle contrade cittadine, con il procedere del Quattrocento, essi predisposero una lenta ma progressiva scelta dei rioni verso cui 20 SILVIA DIONISI destinare le risorse. All’epoca del visitatore spagnolo l’entità di queste trasformazioni non aveva ancora adeguata visibilità, ma nel corso del cinquantennio successivo, grazie al crescente moto di migrazione interna, in senso prima centripeto poi centrifugo, e all’aumento della popolazione e della domanda di alloggio nelle contrade centrali, lo spazio intra muros poteva essere rappresentato con una serie di cerchi concentrici, progressivamente meno popolati procedendo dal centro verso la periferia8. L’intensificarsi di tali operazioni giunse a disegnare uno squilibrio zonale che fu la causa dello sviluppo di alcune aree e dell’arretratezza di altre. Alla fine del XV secolo la gerarchia rionale risultava così composta: i rioni Monti, Trevi, Campitelli, Ripa e Trastevere (il primo e l’ultimo con delle eccezioni)9 conservarono una fisionomia tradizionale nella conformazione degli edifici, nella distribuzione degli assi viari, così come nei valori demografici e nell’assetto sociale; i rioni Campomarzio, Colonna, Pigna, Sant’Eustachio e S. Angelo si configurarono come zone di transizione con forte possibilità di sviluppo per l’immediata vicinanza dei rioni Ponte, Parione e Arenula, i principali poli commerciali10 e politico-amministrativi, ove si concentrarono le aspettative di rendita di vecchi e nuovi ricchi. Altri due risultati vanno considerati a corollario del modello gerarchico ipotizzato: 1) la distinzione tra la Roma dei proprietari e quella degli affittuari; 2) la netta separazione tra la città dei romani e quella degli stranieri benestanti. Nei rioni più prossimi alle mura gli immobili erano ceduti in affitto a condizioni ancora vantaggiose, ma erano troppo distanti dal cuore degli affari cittadini e pertanto poco attraenti per la maggioranza dei potenziali affittuari; al contrario, proprio in considerazione della loro centralità, le unità immobiliari dell’ansa del Tevere erano immesse in un circuito di transazioni di alto livello. Abitare nei rioni centrali dovette essere piuttosto funzionale per quel variegato gruppo di immigrati che andò ad accrescere la popolazione di Roma di metà Quattrocento: segnatamente quei funzionari curiali, diplomatici e uomini di legge, operatori economici e finanziari di alto profilo che erano in grado di sostenere la domanda di immobili di pregio, di unità abitative da acquistare11 o abitare limitatamente al periodo di permanenza. Diversamente, la gran parte della popolazione locale, o dei forenses divenuti stanziali12, si preoccupò di possedere almeno un immobile in città, centrale o periferico a seconda degli interessi particolari e delle reali possibilità d’acquisto13. In questo contesto l’offerta di case in affitto si andò strutturando e potenziando, in risposta alla domanda di alloggio sempre più pressante e alle velleità di arricchimento dei singoli proprietari che, attraverso un progressivo affinamento delle condizioni contrattuali (tipico il passaggio dai contratti di lunga durata, a basso costo, a quelli di breve durata, di maggior valore), furono in grado di accrescere progressivamente il margine di rendita. Tale fenomeno si intensificò intorno agli anni Novanta del Quattrocento; la densità del costruito nelle aree centrali della città impose ai proprietari, di immobili e di suoli liberi, di optare per soluzioni ancora più innovative. Bisognava CONFRATERNITE E RENDITA URBANA 21 espandersi altrove, innalzare gli edifici che insistevano sulle strutture preesistenti, oppure valorizzare il costruito e quindi ristrutturare, frazionare, ripensare gli spazi interni14. I proprietari si adoperarono da un lato nella creazione di strutture sempre più adeguate a una domanda di alloggio fortemente diversificata, dall’altro nella conquista di aree vieppiù marginali, da inserire nella fascia urbana a più alta aspettativa di rendita15. Le conseguenze principali furono: 1) una verticalizzazione del costruito, il «passaggio dal blocco monofamiliare all’appartamento»16, l’accettazione del subaffitto17; 2) la messa in valore degli spazi semiperiferici con la costruzione di nuovi edifici nell’anello immediatamente circostante il saturo centro cittadino, in linea con le campagne edilizie pubbliche. Tale situazione si consolida in apertura del nuovo secolo. * * * La storiografia tradizionale ha rivolto scarsa attenzione alle dinamiche del mercato immobiliare romano di quegli anni; maggiore interesse ha suscitato il dibattito sulla trasformazione edilizia della città, sull’apertura dei grandi cantieri rinascimentali (dibattito animato soprattutto dagli storici dell’architettura)18; è stata data voce alla legislazione in materia edilizia e di decoro urbano nonché all’organizzazione ottimale dello spazio intramuraneo funzionale all’esercizio di attività produttive o all’affermazione ideologica dei gruppi sociali più influenti e delle nationes ospiti. Solo a titolo di sondaggio, e per periodi limitati, sono apparse notazioni sul mercato delle compravendite e sull’andamento degli affitti. Per l’età medievale rimangono esemplari le analisi di Étienne Hubert sui patrimoni ecclesistici; sollecitano riflessioni accurate gli interrogativi di Jean-Claude Maire Viguer così come le ricerche di Robert Montel a margine degli studi sui casali romani19. Si riconosce a Luciano Palermo il merito di aver fornito delle coordinate teoriche per affrontare la questione immobiliare: individuando una gerarchia di valori nello spazio urbano, egli enuclea i principi essenziali per la formazione della rendita cittadina20. Sono generalmente più numerosi gli studi per la piena età moderna, ove la documentazione si arricchisce quantitativamente e qualitativamente. Manuel Vaquero Piñeiro ha compiutamente realizzato la prima monografia dedicata alle strategie immobiliari urbane, studiando il ricco archivio del S. Giacomo degli Spagnoli nel Cinquecento21; ma la documentazione superstite negli archivi romani spinge in qualche caso a retrodatare sino al Quattrocento la presa di coscienza da parte dei romani del valore della rendita immobiliare, fenomeno anticipato dal clima di fiducia che la città tornò a vivere in seguito al rientro della curia pontificia da Avignone. Le prime tappe di tale processo trovano eco, per esempio, nel vissuto di due compagnie laicali, il S. Salvatore ad Sancta Sanctorum e il Gonfalone, che insieme ad alcuni enti religiosi proposero un nuovo modo di concepire e sfruttare lo spazio e gli edifici cittadini. 22 SILVIA DIONISI Confraternite e rendita urbana: le fonti Il San Salvatore ad Sancta Sanctorum e il Gonfalone si imposero nella Roma tardo medievale – ciascuno con le proprie caratteristiche – come grandi proprietari di immobili, in grado addirittura di prevedere i diversi spostamenti del baricentro cittadino. I due enti, per composizione sociale, possono considerarsi piuttosto rappresentativi della diffusa volontà dei romani abbienti di potenziare il mercato degli immobili urbani: al loro interno, infatti, al di là delle mere motivazioni devozionali e assistenziali, erano espressi gli interessi politico-economici di gran parte della società civile. Se la classe dirigente municipale si confondeva tra gli immatricolati del San Salvatore, il nuovo dinamico ceto artigianale22, anche di recente immigrazione, rappresentava la percentuale più ampia degli iscritti al Gonfalone23. Grazie alle ricche beneficenze di cui erano state sempre destinatarie, alle offerte pro anima e alle attente campagne di compravendita operate tra la fine del Trecento e il primo Quattrocento, le confraternite si trovarono ad essere proprietarie di un gran numero di unità immobiliari, dell’ordine di almeno un centinaio di unità. Tali istituzioni dimostrarono inoltre una notevole abilità nella messa a punto di efficienti uffici camerali, finalizzati alla gestione e al controllo dei movimenti di denaro in entrata ed uscita, capaci di produrre strumenti amministrativi progressivamente perfezionati, atti alla continua verifica della gestione finanziaria (dai primi inventari finalizzati alla visualizzazione quantitativa dei possedimenti ai libri catastali, ai libri di entrata e uscita, ai libri mastri)24. Per poter constatare il valore acquisito dalla rendita immobiliare urbana per i due enti è necessario spingersi fino al primo Quattrocento; la crescente mole documentaria, di natura seriale, di quegli anni consente un approccio sistematico alla questione, indispensabile per un analisi di lungo periodo25. L’archivio del San Salvatore conserva documentazione catastale dal 1410 fino alla metà del XVI secolo, con iati temporali compresi tra i cinque e i dieci anni. L’apparente discontinuità della documentazione non deve apparire come limite: i registri venivano puntualmente aggiornati e un sistema di rimandi interni consentiva di non perdere di vista alcun immobile; inoltre, le lacune cronologiche vengono in parte sanate con i protocolli notarili dei contratti di compravendita e di locazione e con le deliberazioni societarie, che forniscono preziosi dettagli anche sulle motivazioni che condussero alle scelte patrimoniali dei primi anni del Quattrocento e che talvolta trovano riscontro nei sintetici registri di contabilità. Con l’inizio del XVI secolo, quando la documentazione contabile si infittisce, diventa più facile sia avere una visione d’insieme dell’assetto patrimoniale nella sua globalità, sia ripercorrere la ‘storia’ di ogni singolo immobile. L’archivio del Gonfalone fornisce documentazione seriale più tarda rispetto alla precedente; la maggior parte di essa è disponibile dagli anni Cinquanta del XV secolo e si moltiplica in seguito alla fusione delle sei confraternite (1486) che diedero vita alla societas di fine Quattrocento. Anche se le fonti assumono importanza seriale soltanto dalla fine degli anni Ottanta, la natura della documentazione evidenzia immediatamente il funzionamento di un settore contabile molto ben organizzato e razionale, pro- CONFRATERNITE E RENDITA URBANA 23 va del valore attribuito alla gestione dei propri beni e del proprio capitale e testimonianza della crescente consapevolezza dei proprietari del valore da attribuire al bene-casa. L’arciconfraternita aveva beneficiato delle singole esperienze maturate da ogni gruppo associato e le aveva rielaborate in maniera compiuta. Nello statuto del 1495 gli obiettivi del gruppo dirigente appaiono chiaramente esplicitati: «Volendo con ogni diligentia non solo mantenere ma etiam augumentare le entrate della nostra compagnia […] per bono governo di tutte nostre entrate e robe», si stabilì che i possedimenti fossero enumerati secondo un rigoroso ordinamento «per alphabeto et numeri o regioni»26. D’altra parte, le due serie di libri di introitus et exitus, da una parte, e di libri catastali, dall’altra, rivelano dalla fine degli anni Ottanta una perfetta corrispondenza cronologica, che prosegue ininterrottamente fino al 1530 e oltre. Anche nel caso del Gonfalone gli strumenti notarili intervengono a chiarire l’atteggiamento societario nei primi anni di attività e ad integrare i dati della documentazione contabile. L’evidente sfasamento temporale fra i due archivi confraternali costituisce un limite apparente allo svolgimento dell’analisi. Il dispiegarsi delle fonti contribuisce a delineare l’andamento del mercato immobiliare tra il primo ventennio del Quattrocento e il primo trentennio del Cinquecento, oscillante tra antiche abitudini e nuovi obiettivi; al tempo stesso le fonti consentono di visualizzare sia le condizioni della realtà materiale cittadina sia il suo dinamismo interno, e di testare l’attenzione prestata alla realtà extraurbana. In questa ottica si è rivelato piuttosto utile ampliare l’indagine ai due anni successivi al sacco di Roma del 1527; nei registri contabili, ove trovano posto anche le amare considerazioni degli ufficiali della compagnia, si percepisce il disastro subito dalla città, che trova immediato riflesso nel crollo congiunturale del livello di rendita. È elemento comune la riduzione drastica degli affitti (1527-1528) e la vendita di numerose unità immobiliari (dal 1529). Strategie patrimoniali a confronto Entrambe le confraternite contribuirono attivamente alla strutturazione del mercato immobiliare urbano quattrocentesco e all’euforia edilizia del primo Cinquecento. Il San Salvatore rappresenta in maniera stringente l’approccio della vecchia classe dirigente locale alla questione immobiliare. Nel lungo periodo si coglie il passaggio da un istituto volto a fornire accoglienza e assistenza fisica e morale alle categorie più deboli, poste sotto l’egida del gruppo dirigente municipale romano, a uno dei più ricchi e dinamici enti cittadini, impegnato su più fronti, politicamente influente. Rispetto ad un patrimonio immobiliare originario disposto in ordine sparso entro tutta l’area urbanizzata, frutto del forte legame ideologico intessuto con la città, procedendo nel corso del Quattrocento la societas si affermò soprattutto nei rioni Monti, Ponte e Parione, privilegiando da un lato l’area prossima al suo centro operativo e all’ospedale maggiore in Laterano, dall’altro rafforzandosi nella zona dell’ansa del Tevere. Tale consolidamento divenne ancora più evidente sul finire del secolo. Come principale 24 SILVIA DIONISI referente delle alte schiere ecclesiastiche, il San Salvatore, senza spezzare il vincolo con la tradizione locale, fu in grado di rinnovarsi e di aprirsi alle esigenze della nuova Roma. Cardinali, vescovi, ambasciatori, letterati, uomini di legge si rivolgevano alla nota compagnia, per trovare alloggio negli ambiti rioni centrali, nei pressi dei palazzi pontifici, o nelle nascenti aree residenziali di Campo Marzio e Colonna. Dimore cardinalizie, fondachi, oltre a taverne e locande, creavano aspettative di rendita decisamente superiori rispetto alla media, dell’ordine di qualche centinaio di ducati annui. Non era azzardato pertanto vendere gli immobili meno fruttuosi per investire sulla qualità e la funzionalità degli edifici di pregio. Il flusso ininterrotto di donativi e lasciti testamentari giungeva a sostenere tali manovre e a fornire capitale sufficiente da destinare anche al mercato extraurbano. Nella diversificazione degli investimenti tra ricche dimore, sedi finanziarie e casali extraurbani, il San Salvatore si distingue come ente centrale/periferico esemplare, rappresentativo di quei gruppi economici in grado di fronteggiare l’avanzare della modernità. Il Gonfalone, rimasto a margine delle dinamiche politiche cittadine, si dimostrò più innovativo nella definizione della propria strategia immobiliare: in linea con le esigenze interne e con gli obiettivi di arricchimento già ricordati, la nuova societas indirizzò immediatamente i suoi interessi immobiliari nei rioni Ponte, Parione e Arenula, potenziando nel contempo l’influenza degli originari insediamenti ospedalieri nei rioni Colonna e Trastevere, in vista di un ulteriore espansione del centro cittadino. A differenza del San Salvatore, che con gli anni limitò i diritti di immatricolazione, il Gonfalone si aprì a tutti gli immigrati: agli artigiani e ai professionisti chiamati a prestare la loro opera nelle sue fabricae religiose e nella manutenzione degli edifici in possesso della compagnia, che ricevevano in cambio il diritto d’alloggio nel cuore della città commerciale; ai dotti umanisti e agli uomini di lettere, il cui sodalizio con la societas ampliava il consenso intorno alle attività promosse dai suoi membri. Le diverse anime confluite nella compagnia erano rimaste estranee alla corsa verso i casali extraurbani, pertanto disegnarono un organismo prettamente cittadino che lavorava nella città e per la città, che si procurava i beni primari attraverso normali vie di rifornimento o puntando ad un rapporto privilegiato con alcuni operatori commerciali. Un discorso analogo valeva per i beni non agricoli; il continuo dialogo intessuto con alcune categorie di produttori artigianali rendeva abbastanza agevole ed immediato il processo di acquisizione dei prodotti. Macellai, fornai, tavernieri contribuirono più di altri al consolidamento delle ricchezze societarie; muratori, falegnami, sarti e calzolai garantivano continuità nella manutenzione del parco immobiliare, nella fornitura di suppellettili e accessori alle strutture ospedaliere; speziali e orefici garantivano il diritto di poter usufruire in qualsiasi momento di denaro contante. Questa vocazione tutta cittadina si tradusse nell’intenso impegno profuso nell’organizzazione delle grandi manifestazioni cittadine e si concretizzò nel privilegiare gli investimenti nelle affollate aree centrali. Societas rappresentativa della forza CONFRATERNITE E RENDITA URBANA 25 lavoro operante a Roma, il Gonfalone investì gran parte delle sue risorse sugli immobili destinati all’accoglienza e all’approvvigionamento alimentare, ceduti a prezzi di favore o riscattabili dietro prestazione d’opera. La gestione del comparto immobiliare nei rioni centrali e nei rioni periferici: alcuni esempi Nel lungo periodo, pur nella diversità degli obiettivi, le curve della rendita immobiliare urbana che rappresentano le strategie di locazione delle due confraternite sono assimilabili tra loro. Tali curve riflettono d’altra parte l’andamento del sistema economico cittadino, registrando un’accelerazione del processo espansivo tra gli anni Sessanta del XV secolo fino al primo quindicennio del successivo, nonostante alcune cadute congiunturali, per attestarsi in una condizione di stabilità verso gli anni Venti del Cinquecento. Analogamente nel mercato immobiliare, dopo una fase segnata dalla rapida crescita nel numero e nel valore delle compravendite27, corrispondente alla presa di coscienza dell’importanza degli investimenti urbani, intorno agli anni Settanta-Ottanta si verifica una corsa agli affitti che ha il suo apice tra il decennio Novanta e il primo quindicennio del Cinquecento, quando si assiste ad un consistente aumento del saggio di rendita. Negli anni Venti si registra una stasi, un momento di stanchezza del mercato. Giunge il sacco di Roma a dimezzare la popolazione (si passa dai 60.000 ai 30.000 abitanti in meno di cinquanta anni), a frenare il processo espansivo già rallentato e a creare i presupposti per una successiva risalita dei valori. Già in apertura del Quattrocento il San Salvatore dimostrò di avere una discreta consapevolezza delle potenzialità insite nel patrimonio immobiliare urbano. Negli anni Dieci del secolo la società dichiarava di possedere 70 su 170 immobili nei rioni dell’ansa del Tevere dove si potevano trovare laboratori artigianali e postazioni commerciali28. Seguendo l’andamento della rendita urbana nel rione Ponte si possono leggere al meglio i risultati di tali investimenti (v. grafico 1). Sin dal primo Quattrocento la societas richiedeva affitti significativi per le botteghe e i banchi siti al pianterreno degli edifici del rione Ponte, in special modo per quelli della testata di Ponte e prospicienti il fiume. In un trentennio i dirigenti misero in atto un progetto specifico di insediamento nelle aree suscettibili di espansione in considerazione della vicinanza con il polo Vaticano. Tra gli anni Trenta e Quaranta circa 1/3 degli immobili societari si concentrava in quelle contrade; l’incertezza politica e il persistente stato di abbandono di alcune aree mantenevano su livelli contenuti i prezzi d’affitto del rione, ma sempre in evidenza rispetto al resto della città. D’altra parte il rione Ponte comprendeva la zona desolata di Borgo – ultra pontem29 – che incideva negativamente sulle entrate globali che pervenivano dagli immobili di zona. Già dagli inizi del secolo, tuttavia, il San Salvatore poteva vantare una serie di edifici che erano garanzia di entrate cospicue; in particolare il complesso di Tor di Nona: una «domus sive turrim cum orto et claustro»30 sita «in platea Castelli», donata da Giovanni Orsini nel 1395 e da allora affittata alla Camera Apostolica – per 26 SILVIA DIONISI farne la «prigione del Papa» (prigione apostolica) – per 24 ducati annui31. La quarta parte del fondaco – il «maior fundicus» di Ponte32 – e del banco ad essa annesso, affittata al fiorentino Guidetto de Monaldis, sita di fronte al canale di S. Pietro, e condivisa con la basilica di S. Pietro e con gli eredi di Blasio de Calvis, nel 1435 fruttava 25 ducati d’oro a ciascun proprietario. Grafico 1 - Introiti degli immobili ceduti in locazione dal San Salvatore e dal Gonfalone nel rione Ponte (1435-1525) 2000 1800 Affitti in ducati 1600 San Salvatore 1400 1200 100 800 Gonfalone 600 400 200 0 1435 1452 1475 1485 1495 1505 500 Anni 1509 1513 1517 1525 L’affitto rimase invariato fino agli anni Cinquanta33 per il banchiere fiorentino Antonio della Casa che dal 1438 ne aveva fatto la sede del banco omonimo, dopo aver gestito per tre anni la filiale romana del Banco Medici34. Al pianterreno di questo stabile altri locali erano affittati ad artigiani toscani (calzolai, pellicciai, sarti) dapprima per 6 ducati annui35, poi per 20 ducati. Al passaggio dagli anni Cinquanta e Sessanta l’affitto dello stabile tenuto dai della Casa aumentò del 50%36. Rispetto alle attese, motivate anche dall’indizione del giubileo del 1475, il livello di crescita negli anni Settanta fu contenuto. Il rione risentì fortemente della campagna di risanamento della testata di Ponte avviata da Sisto IV nel periodo 1475-1480. Passato il giubileo, il dissesto causato dai cantieri aperti determinò un’immediata caduta dei prezzi, tanto che nel 1480 i dirigenti della società lamentavano la «penuria temporum»37, aggravata dalla dispersione delle risorse per lo sgombero delle strade e la regolarizzazione degli edifici, oneri spettanti ai proprietari frontisti, insieme con le ordinarie spese di manutenzione edilizia. Nel 1482 una bottega rimase sfitta «propter reparationem in eam factam de mandato magistrorum»38. Passato questo periodo il rione assunse una fisionomia degna di una città capitale. L’assetto delle strade del grande commercio e della finanza venne reso più funzionale rispetto alle esigenze dei palazzi apostolici. Liberata la testata di Ponte dal tradizionale affollamento di botteghe e banchi che ne ostacolavano la viabilità, i nuovi fondachi e botteghe potevano aprirsi direttamente sul fiume. I frazionamenti e gli accorpamenti di più particelle all’interno delle unità CONFRATERNITE E RENDITA URBANA 27 immobiliari ne migliorarono l’abitabilità, giustificandone l’aumento del valore di mercato. Esemplare è la vicenda della «domus dello Lione», sita nei pressi di Tor di Nona, per metà appartenente alla compagnia del Salvatore e adattata ad osteria39. La bresciana Cecilia e Cozone suo marito, affittuari tra il 1481 e il primo semestre del 1489, pagavano 13 ducati annui, ma già dal secondo semestre di quell’anno il nuovo conduttore, Giovanni di Napoli, tornò a pagare gli originari 30 ducati, con la promessa di versarne altri 100 per le spese di manutenzione ordinaria40. Nel 1491 per affittare l’osteria servivano ormai 40 ducati annui, nonostante si trattasse di un contratto di lunga durata, che di norma prevedeva una contrazione del prezzo pari almeno al 20% rispetto ai contratti a breve termine. La stessa Camera Apostolica arrivò a versare 34 ducati annui per il complesso di Tor di Nona. Negli anni Novanta il livello della rendita crebbe ovunque a ritmo ininterrotto; anche le botteghe della via Retta di Ponte passarono da 22 a 32 ducati41nel giro di due anni42 (1491-1493). Procedendo verso il Cinquecento la zona rafforzò il suo carattere finanziario: andati via i della Casa ed effettuate ulteriori modifiche strutturali, nel 1508 il fondaco «posto tra due strade una che va alla Cancelleria e l’altra a Monte Giordano» venne affittato alla società formata da Arrigo Foccari e compagni «zecchieri». Costoro non erano altro che i banchieri Fugger di Augusta che per il primo piano dell’immobile dove dal 1505 «se fa la zecca»43 pagavano 56 ducati annui. Il momento critico coincise con gli anni Venti del secolo: nel 1523 messer Angelo Sauli, banchiere genovese, garantì una rivalutazione dell’edificio della Zecca offrendo 62 ducati e mezzo annui per un quindicennio44. Per alcune case lungo le vie Retta, Panico e Tor Sanguigna alcune cortigiane arrivarono a pagare tra 50 e 80 ducati annui, a seconda delle dimensioni e della tipologia dell’immobile45. Il cardinale de’ Grassi, uditore del tribunale della Sacra Rota, abitante in uno dei nuovi palazzi di pregio costruiti al margine settentrionale del rione Ponte, al confine con Campomarzio e Colonna, pagava 1000 ducati annui46. Questi risultati furono la prova del successo della strategia della societas del S. Salvatore: riduzione della quantità degli immobili di proprietà a vantaggio di una migliore cura delle dimore residenziali e della possibilità di costruire nelle aree di nuova espansione. Il Gonfalone si insediò nel rione Ponte qualche anno più tardi rispetto al S. Salvatore e godette immediatamente del risanamento sistino, conquistando quasi il monopolio delle taverne e delle osterie della zona. Una «casa acta ad taverna con contina, porticale e solaro» sita in contrada Panico fruttava 24 ducati già nel 1486, nel 1502 venne affittata a Bartolomeo alias Celluzzo «tavernaro» per 25 ducati47, a condizione che vi realizzasse le dovute riparazioni e un pozzo entro tre anni48; mediamente, le taverne e i macelli siti sulla stessa strada valevano 20 ducati annui. Ancora prima del Salvatore, il Gonfalone indirizzò la sua attenzione a Tor Sanguigna, verso il lato settentrionale di piazza Navona. Una domus a più piani sita presso il Bagno di S. Apollinare, nonostante il costo ancora contenuto, passò dai 4 ducati annui pagati da donna Sabella nel 1487 ai 10 richiesti a donna Brigida di Matteo barbiere nel 1491, con contratto alla terza generazione49. Era 28 SILVIA DIONISI sicuramente un prezzo di favore quello fatto ad Antonio, muratore fiorentino, che per una casa a Tor Sanguigna pagava 8 ducati annui, passati a 27 nel 1509, parallelamente alla valorizzazione dell’area. Il Cinquecento coincise con una vera e propria ‘euforia’ del mercato dei locali commerciali in rione Ponte. Nel 1514, un macello con casa attigua e «con un pezzo de scoperto de reto» in Panico venne ceduto per 65 ducati annui a due fratelli viterbesi, che affittarono per 21 ducati anche una casa e una stalla adiacente50. Con i lavori cinquecenteschi e la conquista delle aree semicentrali si enfatizzarono le già evidenti differenze con i rioni marginali (diversa densità di popolazione, diverse condizioni contrattuali, differenti aspettative di rendita, differenti tipologie di edificio); la situazione si riflette sul livello della rendita relativa al rione Ripa (v. grafico 2), il cui gettito totale si distanzia in maniera decisa da quello del rione Ponte. Grafico 2 - Introiti degli immobili ceduti in locazione dal San Salvatore e dal Gonfalone nel rione Ripa (1435-1525) 80 Affitti in ducati 70 60 San Salvatore 50 40 Gonfalone 30 20 10 0 1435 1452 1475 1485 1495 1505 1500 Anni 1509 1515 1517 1525 Rispetto al 1435 quando la società del San Salvatore possedeva 12 immobili in rione Ripa, soprattutto spazi adibiti a macello e centri di ospitalità, all’inizio del Cinquecento ne rimasero 2. La riduzione del parco immobiliare in zona si giustifica con la posizione periferica di quegli edifici rispetto al centro cittadino. All’inizio del Quattrocento l’identità rionale era dettata dalla posizione più defilata rispetto al nucleo abitato ma in stretto contatto con il fiume e con il mercato del Campidoglio. Divenuta luogo per eccellenza della lavorazione e della conservazione di prodotti alimentari, questa parte della città consentì al San Salvatore di garantirsi la propria autosufficienza. Nei macelli in particolare si concludeva il processo produttivo iniziato nei numerosi casali extraurbani di cui la società era proprietaria. Negli anni Trenta la «domus seu macellum cum grypta», collocata nel macello grande di Ripa, e l’hospitium nei pressi erano affittati per un costo addirittura superiore agli edifici del centro51, fino alla vendita avvenuta nel 145952. Con lo spostamento del mercato 29 CONFRATERNITE E RENDITA URBANA in piazza Navona (1477), quell’area rimase più isolata ed enfatizzò la sua posizione periferica compromettendo il suo valore di mercato. Il caso del rione Ripa può in qualche modo esemplificare il mutamento di prospettiva nelle strategie patrimoniali del San Salvatore: da un iniziale legame con la campagna, la società sposta il suo baricentro verso le contrade centrali spezzando temporaneamente il vincolo con le strutture produttive più tradizionali. Il Gonfalone ereditò dall’ospedale e dalla chiesa dell’Annunziata della via Oratoria, il più periferico complesso confluito nell’arciconfraternita, i 4 immobili siti nel rione Ripa53. Nel 1457 costavano 8 ducati annui i due pianterreni contigui adibiti a macello54, che nel 1493 vennero permutati con una casa affittata per 35 carlini (3 ducati e mezzo) a Michele Corso. Per 7 ducati d’oro annui era affittata una domus adibita a bottega «in quactro capora», che negli anni andò incontro a una riduzione di prezzo55. Gli investimenti del Gonfalone di fine secolo non toccarono in alcun modo questa parte della città che agli inizi del Cinquecento iniziò progressivamente a sparire dai catasti societari. Grafico 3 - La rendita immobiliare urbana del San Salvatore e del Gonfalone (1480-1529) Rendita in bolognini 250000 200000 San Salvatore 150000 Gonfalone 100000 50000 0 1480 1485 1490 1495 1500 1505 1510 1515 1520 Anni 1517 1525 1529 Cicli della rendita a confronto Dal confronto sistematico dei dati delle due compagnie per gli anni 1480-1529 si profila – in breve – la seguente dinamica (v. grafico 3): 1) Dopo una fase espansiva che non conosce soluzione di continuità, l’età di Sisto IV segna una contrazione negli introiti complessivi del San Salvatore, che si era già distinto per la fattiva campagna di acquisizione di immobili nel primo Quattrocento; segue una fase di incertezza che prosegue fino ai primi anni Novanta del XV secolo. L’arciconfraternita del Gonfalone, all’indomani della sua costituzione, può già contare sulla messa in valore delle contrade centrali e avvia in questi anni la sua affermazione. 2) Tra i secondi anni Novanta e il primo decennio del Cinquecento i proprietari in questione beneficiano del rinnovato assetto urbano, ridefinendo spazi, tempi e modi del mercato delle locazioni: si apre una fase di decollo. 30 SILVIA DIONISI 3) Nel periodo 1509-1523 il mercato subisce un’ulteriore accelerazione ed è contrassegnato da un’euforia che lascia presupporre l’inizio di una fase critica. 4) Il quadro si conclude con una fase di ripiegamento che anticipa e segue il sacco di Roma del 1527. Quali erano i vantaggi immediati di tali operazioni immobiliari? Da un approccio più analitico ai documenti emerge che la rendita delle due confraternite non si immobilizzava; entrambe utilizzavano le risorse in primo luogo per il mantenimento delle rispettive strutture e per l’esercizio delle attività assistenziali ed ospedaliere. L’incremento degli interventi di natura sociale contribuiva d’altra parte a tenere alto il livello dei finanziamenti e delle donazioni, permettendo una rapida circolazione di denaro e il mantenimento in attivo delle casse societarie. Questo meccanismo positivo si traduceva in un circolo virtuoso che coinvolgeva l’intera società cittadina ed equivaleva alla promozione generalizzata dello sviluppo urbano. Se il Gonfalone investiva i propri proventi in attività sociali di ampia risonanza e nell’organizzazione di grandi manifestazioni devozionali che avevano ampia eco all’interno della città (la maggior parte delle voci di spesa si riferisce all’organizzazione delle sacre rappresentazioni al Colosseo), anche il San Salvatore si distingueva per forza associativa e capacità organizzativa pur rimanendo legato ai possedimenti rurali, fonte primaria di sostentamento per la compagnia e per il suo ospedale. Entrambe le confraternite convogliavano la rimanente percentuale delle risorse a sostegno del patrimonio immobiliare, investendo laddove ci si aspettava di ricavare introiti con più facilità, provvedendo ad alienare, al contrario, i beni meno redditizi. I casi esaminati non pretendono di avere valore generale e di assurgere a modelli, ma possono valere come termine di confronto all’interno di una ampia casistica di situazioni da esaminare. In generale, tutti gli istituti religiosi e le solidarietà laicali si distinsero per l’entità del patrimonio immobiliare, e uno studio dettagliato della loro contabilità interna può costituire un punto di partenza essenziale per la ricostruzione del variegato assetto urbano e per fare luce sulla complessa realtà della Roma del primo Rinascimento. Silvia Dionisi * Il lavoro propone parte dei risultati della tesi di dottorato in Storia e Teoria dello Sviluppo Economico, discussa il 19 marzo 2003, presso la facoltà di Economia della LUISS di Roma, dal titolo: Sviluppo economico e rendita urbana. Il caso delle confraternite laicali romane del San Salvatore ad Sancta Sanctorum e del Gonfalone (1410-1529). 1 «Cosa singolare»: Roma nelle Andanças e viajes por diversas partes del mundo avidos di Pero Tafur, in M. VAQUERO PIÑEIRO, Viaggiatori spagnoli a Roma nel Rinascimento, Bologna, Patron, 2001, pp. 19-49: 35. 2 Sulla Roma tardo medievale, cfr. Alle origini della nuova Roma. Martino V, a cura di M. Chiabò, CONFRATERNITE E RENDITA URBANA 31 G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1992; Roma capitale (1447-1527), Atti del Seminario del Centro Internazionale di Studi sulla civiltà del Tardo Medioevo (San Miniato, 27-31 ottobre 1992) a cura di S. Gensini, Pisa, Pacini Editore, 1994; Roma medievale, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari, Laterza, 2001; Roma del Rinascimento, a cura di A. Pinelli, Roma-Bari, Laterza, 2001. 3 Sull’urbanizzazione medievale, cfr. É. HUBERT, Espace urbain et habitat à Rome du Xe et à la fin du XIIIe siècles, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1990. 4 Nel primo Quattrocento il fiorino era l’unità di conto dominante corrispondente a 2,7 libbre di denari provisini, il fiorino di conio corrispondeva a 45, poi a 47 soldi (sin dal 1426). Contemporaneamente entrò in circolazione il fiorino o ducato d’oro di Camera (100 pezzi per libbra d’oro) valutato ben 50 soldi ideali. Il ducato di Camera era diviso in bolognini romani (divisi a loro volta in 16 denari): 70 fino al 1447, poi 72 e 75, forse già dal 1475. Si faceva contemporaneamente riferimento a ducati “a 72 bolognini” e “a 75 bolognini”. Nella documentazione consultata dagli anni Novanta del XV secolo i ducati a 72 bolognini erano detti legieri, quelli a 75 erano detti largi. Il ducato papale o ducato corrente (96 pezzi per libbra) equivalente a 67 poi a 71 bolognini per ducato è meno menzionato nelle fonti esaminate. Nel primo ventennio del Cinquecento il fiorino valeva circa la metà del ducato; il mercato immobiliare di maggior pregio assiste all’affermazione del ducato di Camera d’oro in oro, equivalente a 10 carlini correnti o 10 carlini d’oro in oro. Il carlino corrente era equivalente al grosso, pari a 5 baiocchi (o 5 bolognini), l’altro, detto de papa equivaleva a 7,5 bolognini. Nel 1490 il ducato d’oro di Camera venne scambiato con 12 carlini e nel 1503 un ducato papale largo valeva 1 ducato leggero e 25 bolognini. Nel 1504 papa Giulio II ripristinò il vecchio rapporto di 1:10, frenando la tendenza inflativa. Da allora il ducato venne detto scudo e il carlino giulio. Il mercato riconobbe la circolazione una moneta buona o corrente e una moneta cosiddetta vecchia, nominalmente equivalenti, di fatto con valore intrinseco leggermente diverso in termini di metallo prezioso. Si ricordano gli importanti repertori: G. GARAMPI, Saggi di osservazioni sul valore delle antiche monete pontificie, Roma, Pagliarini, 1776; E. MARTINORI, La moneta, vocabolario generale, Roma, Istituto italiano di Numismatica, 1915. Le rimanenti notazioni si basano sulla contabilità ordinaria delle confraternite esaminate. 5 H. BROISE-J.-C. MAIRE VIGUEUR, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in Storia dell’Arte Italiana, Momenti di architettura, XII, a cura di F. Zeri, Torino, Einaudi, 1983, pp. 97-160: 113. 6 Ospedali e città. L’Italia del Centro-Nord, XIII-XVII secolo, a cura di A. J. Grieco e L. Sandri, Atti del Convegno Internazionale di studio tenuto dall’Istituto degli Innocenti e Villa I Tatti (Firenze, 27-28 aprile 1995), Firenze, Le lettere, 1998. 7 A. ESPOSITO, Men and woman in Roman confraternities in the fifteenth and sixteenth centuries: roles, functions, expectations, in The politics of ritual kinship, edited by N. Terpstra, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 82-97. 8 Sulla gerarchia degli spazi urbani, cfr. L. PALERMO, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani a Roma nel primo Cinquecento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medioevale, Atti della Session C23, Eleventh International Economic History Congress (Milano 12-16 settembre 1994), a cura di A. Grohmann, Napoli, ESI, 1994. 9 Il rione Monti beneficiava della presenza di un grande polo attrattivo quale era la basilica di S. Giovanni in Laterano; Trastevere godeva della vicinanza con il fiume e della contiguità con il Vaticano. 10 A. MODIGLIANI, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età Moderna, Roma, Roma nel Rinascimento, 1998. 11 D. STRANGIO-M. VAQUERO PIÑEIRO, Spazio urbano e dinamiche immobiliari a Roma nel Quattrocento: «la gabella dei contratti», in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, II: Funzioni urbane e tipologie edilizie, Olschki, Firenze, 2004, pp. 3-28, in particolare il paragrafo dedicato ai protagonisti. 12 Lo statuto di Roma stabiliva che per acquisire la cittadinanza gli stranieri dovessero possedere una casa e una vigna (C. RE, Statuti della città di Roma, Tipografia della Pace, Roma, 1880-1883, p. 274). 13 Sull’identità dei romani, cfr. I. LORI SANFILIPPO, La Roma dei Romani, Roma, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 2001. 14 A. M. CORBO, I contratti di locazione e il restauro delle case a Roma nei primi anni del secolo XV, 32 SILVIA DIONISI «Commentari», XVIII, 1967, 4, pp. 340-343. 15 Le precedenti ipotesi si spiegano alla luce della teoria della rendita differenziale enunciata da David Ricardo nei Principi di economia politica e dell’imposta (1817): la progressiva espansione verso terreni progressivamente marginali crea le condizioni per la formazione della rendita sui terreni inframarginali. Analogamente, nelle città il valore crescente delle aree centrali era conseguenza dell’urbanizzazione di quelle periferiche: il livello della rendita aumentava nelle prime proprio perché iniziava a formarsi rendita anche nelle aree progressivamente liberate dalla condizione di marginalità (semiperiferiche o semicentrali). Sulle leggi ricardiane della rendita, E. SCREPANTI- S. ZAMAGNI, Profilo di storia del pensiero economico, Roma, NIS, 1992, pp. 96-98. Per la lettura del testo ricardiano, D. RICARDO, Principi di economia politica e dell’imposta, in ID., Opere, a cura di P. L. Porta, 2 voll. Torino, Utet, 1986. 16 M. VAQUERO PIÑEIRO, Il patrimonio immobiliare di S. Giacomo degli Spagnoli tra la fine del ‘400 4 la seconda metà del ‘500, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CXII, 1989, pp. 269-293: 278. 17 G. CURCIO, I processi di trasformazione edilizia, in Un pontificato e una città: Sisto IV (1471-1484), Atti del Convegno (Roma, 3-7 dicembre 1984), Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1986, pp. 706-732. 18 V. FRANCHETTI PARDO, Storia dell’urbanistica dal Trecento al Quattrocento, Bari, Laterza, 1982; M. TAFURI, Roma instaurata. Strategie urbane e politiche pontificie nella Roma del primo ‘500, in Raffaello architetto, a cura di C. L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Milano, Electa, 1984, pp. 59-106. 19 É. HUBERT, Economie de la propriété immobiliére: les établissements religieux et leurs patrimoines au XIVe siècle, in Roma nei secoli XIII-XIV. Cinque saggi, a cura di E. Hubert, Roma, Viella, 1993, pp. 177-230. J.-C. MAIRE VIGUER, Introduction, in D’une ville à l’autre. Structures matérielles et organisation de l’espace urbain dans les villes européennes (XIIIe-XIVe siècle), a cura di J.-C. Maire Viguer, Roma, Ecole Française de Rome, 1989, pp. 1-14. R. MONTEL, Le “casale” de Boccea, d’apres les archives du chapitre de Saint-Pierre (fin XIVe-fin XVI siècle), in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Age-Temps Modernes», XCI, 1979, 2, pp. 593-617; ID., Le “casale” de Boccea, d’apres les archives du chapitre de Saint-Pierre (fin XIVe-fin XVI siècle), in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Age-Temps Modernes», XCVII, 1985, 2, pp. 605-726. 20 L. PALERMO, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani, cit. 21 È interessante ricordare il contributo degli storici dell’architettura anche per ciò che concerne la valorizzazione della documentazione archivistica di età moderna, cfr. R. FREGNA-S. POLITO, Fonti d’archivio per la storia edilizia di Roma. I libri delle case dal ‘500 al ‘700: forma ed esperienza della città, «Controspazio», III, 1971, 9, pp. 2-20 e IV, 1972, 7, pp. 2-28; R. FREGNA, La pietrificazione del denaro. Studi sulla proprietà urbana tra XVI e XVII secolo, Bologna, CLUEB, 1990. Studi approfonditi dedicati ad un singolo ente si devono a M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de Santiago de los Españoles de Roma entre los siglos XV y XVII, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1999. Una recente sintesi densa di dati quantitativi, M. VAQUERO PIÑEIRO, Auge urbano y renta inmobiliaria. El patrimonio de las iglesias españolas de Roma en el siglo XVI, in Fortuna y negocios: formación y gestión de los grandes patrimonios (siglos XVI-XX), a cura di H. Casado Alonso-R. Robledo-Hernández, Valladolid, Universidad de Valladolid, 2002, pp. 21-43. 22 P. PAVAN, Gli Statuti della società dei Raccomandati del Salvatore ad Sancta Snctorum, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CI, 1978, pp. 35-96. 23 A. ESPOSITO, Le “confraternite” del Gonfalone, in Le confraternite romane: esperienza religiosa, società, committenza artistica, a cura di L. Fiorani, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1984, pp. 91-126. 24 ID., Amministrare la devozione. Note dai libri sociali delle confraternite romane (secc. XV-XVI), in Il buon fedele. Le confraternite tra medioevo e prima età moderna, «Quaderni di Storia religiosa», 1998, 5, Verona, Cierre edizioni, pp. 194-223. 25 Per la Roma del tempo, la questione delle fonti è di centrale importanza; alcune considerazioni si trovano in M. VAQUERO PIÑEIRO, A proposito del reddito immobiliare urbano a Roma (1500-1527). Alcune considerazioni sulle fonti e primi approcci, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CXIII, 1990, pp. 189-207. 26 «De lo cathasto de le possessione de la compagnia», Cap. LXI, in A. ESPOSITO, Le confraternite del Gonfalone, cit., p. 133. CONFRATERNITE E RENDITA URBANA 33 D. STRANGIO-M. VAQUERO PIÑEIRO, Spazio urbano e dinamiche immobiliari, cit. ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, Ospedale SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, reg. 381. 29 Ivi, reg. 1007, c. 76r. 30 Ivi, reg. 375, c. 92r. 31 Ivi, reg. 1007, c. 76r.; la somma era pari a circa 1730 bolognini. 32 Ivi, reg. 375, c. 94r. 33 Ivi, reg. 1007, c. 77r. La somma era al 10% del valore di una casa. 34 M. CASSANDRO, Il libro Giallo di Ginevra della Compagnia fiorentina di Antonio della Casa e Simone Guadagni (1453-1454), Prato, Istituto di Storia economica “F. Datini”, 1976, p. 22. 35 Ivi, reg. 1007, c. 77r. 36 Ivi, reg. 378, c. 30r. 37 Ivi, reg. 382, c. 160. 38 Ivi, reg. 382, c. 148r. Particolarmente incisivo fu l’intervento dei maestri delle strade, magistratura ripristinata da Martino V nel 1525; C. SCACCIA SCARAFONI, L’antico statuto dei ‘magistri stratarum’ e altri documenti relativi a quella magistratura, «Archivio della Regia Società Romana di Storia Patria», L, 1927, pp. 239-308; O. VERDI, Maestri di edifici e maestri di strade a Roma nel secolo XV. Fonti e problemi, Roma, Roma nel Rinascimento, 1997. 39 L’altra metà apparteneva alla chiesa di S. Agostino (ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, Ospedale SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, reg. 933, c. 56). 40 Ivi, reg. 382, c. 160. 41 Ivi, reg. 382, c. 146v. 42 Ivi, reg. 382, c. 147r. 43 Ivi, reg. 979, c. 48v-49r. 44 Ivi, reg. 936, cc. 40, 282. 45 Così dagli anni Novanta del XV secolo, Ivi, reg. 934, cc. 25, 78, 127. 46 Ivi, reg. 935, cc. 63, 228. 47 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Arciconfr. Gonfalone, reg. 735, cc. 49v-50r. 48 Ivi, reg. 17, c. 26. 49 Ivi, reg. 735, cc. 57v-58r. 50 Ivi, reg. 742, cc. 15v-16r. 51 Ivi, reg. 1007, c. 105r. 52 Ivi, reg. 375, c. 138r. 53 Ivi, reg. 701, c.8r. 54 Ivi, reg. 1196, cc. 9r e 4v. 55 Ivi, reg. 735, cc. 108v-109r. 27 28 PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI IL «PALAZZO DI SIENA» DEI PICCOLOMINI (1450-1582) Introduzione Nel XVI secolo le trasformazioni urbane e le negoziazioni immobiliari furono profondamente influenzate dalle scelte delle grandi famiglie feudali che, mosse dall’obiettivo primario di conservare intatto o di accrescere il proprio patrimonio nel corso delle generazioni successive, posero in essere strategie e vincoli che spesso finirono col dare un’impronta specifica al tessuto urbanistico ed influirono largamente sull’andamento del mercato immobiliare cittadino. Nell’ambito di tali strategie, fu in particolare il «fedecommesso» a condurre ad un pressocché totale «congelamento» delle negoziazioni immobiliari. Il fedecommesso era un particolare istituto giuridico utilizzato diffusamente nel Cinquecento soprattutto dalle famiglie nobili, ma le cui origini risalivano al diritto romano. Esso consisteva in una clausola testamentaria attraverso la quale il testatore indicava rigidamente i passaggi successori di un bene fino ad una determinata generazione o in perpetuum, dichiarando tale bene inalienabile1. Il testante, in pratica, disponeva la trasmissione di un bene – o di un complesso di beni – ad un erede (fedecommissario), con l’obbligo, per quest’ultimo, al momento della propria morte, di «restituire» invariato lo stesso bene ad un altro fedecommissario, previamente individuato, con il divieto di alienarlo2. I diversi fedecommissari erano indicati minuziosamente per molte generazioni, «anche a distanza di cent’anni e più»3: fino al verificarsi della condizione che avrebbe aperto la strada alla sostituzione fedecommissaria, ciascuno di essi diventava proprietario del bene in questione, ma poiché, insieme al bene fedecommissato, ereditava anche il vincolo del fedecommesso, ciascuno di essi era «gravato» della restituzione del bene ai fedecommissari successivi – «che il primo disponente, il de cuius, aveva voluto indicare»4 –, con il divieto di alienarlo. Ciò che contava era solo la volontà del fondatore del fedecommesso: gli eredi rappresentavano dei semplici usufruttuari di un bene che erano obbligati a restituire al passaggio successivo senza averlo minimamente modificato5. Dal momento che accadeva spesso che gli aristocratici costituissero fedecommes- 36 ILARIA PUGLIA so sui palazzi di famiglia, appare evidente che il conseguente vincolo di inalienabilità, che veniva a gravare su tali palazzi, ne condizionasse la negoziazione. L’istituto del fedecommesso sopravvisse, nell’Europa occidentale, fino alla metà dell’Ottocento e, in molte zone dell’Europa orientale e meridionale, addirittura fino agli ultimi decenni del XX secolo, nonostante le forti limitazioni cui fu sottoposto, durante il Settecento, da parte dei governi. I motivi del persistere tanto a lungo di questa istituzione sono da ricercare nella straordinaria flessibilità grazie alla quale l’istituto, adattandosi perfettamente alle trasformazioni economiche e sociali verificatesi nel corso del tempo, assunse, a partire dal XVI secolo, caratteri e finalità profondamente diversi rispetto all’originario fedecommesso romano. Il fedecommesso nell’ambito del diritto romano Nell’ambito del diritto romano il fedecommesso non si presentava come un vero e proprio atto giuridico, ma piuttosto come «una preghiera rivolta all’erede o ad altro beneficiario mortis causa di fare, ad un terzo, una prestazione di carattere patrimoniale a nome del de cuius, prestazione traducentesi nell’obbligo di restituire ad altri ciò che si era ricevuto dal testatore»6: il disponente si rimetteva alla fides, cioè alla lealtà e alla coscienza del rogatus (da qui il nome di fidei commissum), che aveva però solamente un’obbligazione morale7. Si trattava, in particolare, di «un espediente creato dal bisogno dell’opera di una terza persona tra il disponente e il successore»8: non a caso, le prime manifestazioni di fedecommesso si ebbero a favore degli «incapaci», ovvero di quei soggetti che erano sforniti della testamentifactio passiva9. Non costituendo un vero e proprio atto giuridico, il fedecommesso non ne presentava neanche i caratteri formali: esso poteva sussistere in un testamento scritto, in un codicillo, in un «testamento orale fatto avanti a cinque testimoni, o preghiera rivolta segretamente all’amico»10 e, in caso di malattia grave del testante, persino «un semplice cenno poteva considerarsi come espediente adatto a far conoscere la propria volontà od il proprio desiderio»11. Il vincolo fedecommissario, inoltre, poteva avere qualunque contenuto e qualunque oggetto: «cose singole o intero patrimonio o quote parti di esso»12, cose appartenenti al testatore, all’erede o a qualsiasi altro fiduciario, «anco ‘fatti’ del fiduciario»13. La sua straordinaria diffusione fu dovuta proprio all’assenza di vincoli di forma e di contenuto. A partire dall’età augustea il fedecommesso cominciò ad acquisire tratti più propriamente giuridici. Spesso il fiduciario veniva meno al suo obbligo morale, violando il vincolo fedecommissario – «evitando di chiamare all’eredità i beneficiari del fedecommesso»14 –, perciò Augusto fu costretto a interporre l’autorità dei consoli per costringere il fiduciario, in via amministrativa, all’impegno assunto. Tale intervento divenne a poco a poco normale, fino ad arrivare alla creazione, a tale scopo, di uno speciale magistrato imperiale, il praetor fideicommissarius15: con la creazione di un magistrato permanente, il preesistente dovere morale venne PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI 37 trasformato in obbligo giuridico e ricevette, dunque, tutela legale. Veniva in tal modo a decadere l’originaria finalità del fedecommesso come strumento a tutela degli incapaci: non potendo costituire parte integrante di un atto giuridico, costoro risultavano esclusi in via definitiva dal fedecommesso nel momento in cui esso acquisiva caratteri legali. In epoca successiva, l’istituto subì alcune modifiche soprattutto con Vespasiano e Giustiniano e, nel corso dei secoli, adattò il suo mutamento ai lenti ma profondi cambiamenti che si verificarono nell’economia e nella società europea16: in particolare, di pari passo con il carattere sempre più feudale che andava acquistando la famiglia, anche il vecchio fedecommesso romano finì «per assimilare aspetti per l’appunto ‘feudali’»17. L’evoluzione del fedecommesso in età moderna In età moderna, in particolare, alla fattispecie classica di fedecommesso – il cui scopo originario, come ho detto, era conservare un bene a beneficio di coloro che al tempo della morte del testatore si fossero trovati in condizioni di indisponibilità a riceverlo – si aggiunse sempre più frequentemente l’imposizione dell’obbligo, all’erede, «di conservare i beni soggetti a fedecommesso in modo che, integri, passassero ai suoi discendenti secondo un ordine previsto dal testatore»18. Risulta subito evidente il diverso ruolo del fedecommissario nel fedecommesso di diritto romano e in quello cinquecentesco: nel primo caso, il fedecommissario era un semplice tramite, nel secondo era un erede vincolato alla conservazione dell’eredità19. La trasformazione dell’istituto avvenne attraverso una complessa opera di interpretazione delle fonti «nel quadro del modello giuridico mutuato dal diritto romano»20. Per secoli l’istituto aveva avuto una formulazione solo consuetudinaria, ovvero non sancita da norme scritte, da costituzioni o da provvedimenti sovrani: la «nascita» del nuovo fedecommesso fu il risultato dell’incontro tra queste consuetudini e l’applicazione pratica data ad esse dai notai negli atti di successione21. La diffusione del fedecommesso fu infatti dovuta alla crescente importanza acquisita dall’istituto nell’ambito delle strategie testamentarie poste in essere dai nobili, nel tentativo di trasmettere intatto il loro patrimonio alle generazioni successive, in modo da conservare «la potenza e il decoro»22. Nel suo lavoro sulle famiglie nobili del XVI secolo, Nino Tamassia affermava che «dicendo famiglia o Casa, si dice[va] anche patrimonio»23 ed infatti, in Italia – come del resto in tutta Europa –, la famiglia aristocratica era tenuta insieme dal fatto di condividere posizione economica e interessi politici: i suoi elementi coesivi non erano tanto i legami affettivi, quanto i reciproci interessi economici24. La famiglia nobile era «un’organizzazione sociale ed economica che agiva come tale soprattutto in occasione di matrimoni e di morti»25, ovvero di quelli che erano, a quei tempi, i due eventi fondamentali dell’esistenza di un individuo: come il matrimonio si confi- 38 ILARIA PUGLIA gurava come «il frutto della strategia economica e sociale di due gruppi familiari diversi»26, così la morte rappresentava «il momento in cui un’organizzazione familiare si frantumava per lasciare il passo a un nuovo tipo di aggregato domestico fondato su nuovi equilibri economici»27. Un tentativo di sistemazione giuridica del fedecommesso fu quello di Giovanni Battista De Luca28 che, alla fine del Seicento, analizzò l’istituto alla luce di duecento casi processuali raccolti sull’argomento. De Luca riconosceva nel fedecommesso una particolare tipologia di sostituzione ereditaria che definiva «obliqua», dal momento che i beneficiari dell’eredità non la ricevevano direttamente dal testatore, ma se la vedevano consegnare, ossia «restituire», dal fedecommissario precedente29. De Luca distingueva tra fedecommesso puro e condizionale. Il primo, risalente al diritto romano, era ormai desueto, mentre il fedecommesso condizionale rappresentava la forma più applicata nella prassi: esso era sottoposto alle condizioni indicate nel testamento per la restituzione dell’eredità30. Alla famiglia del fedecommesso condizionale appartenevano anche le primogeniture e i maggioraschi, che, solitamente usati come sinonimi del fedecommesso, se ne distinguevano però nettamente. Nell’ordine di successione primogeniturale si manifestava la preferenza per la linea primogenita, mentre il maggiorasco prevedeva il raggiungimento della maggiore età da parte dell’erede designato. Entrambi gli istituti venivano usati per le successioni nei feudi iure francorum, cioè indivisibili (individui), distinti da quelli iure longobardorum che erano invece divisibili (dividui) tra più eredi, per esempio tra più fratelli31. Le primogeniture e i maggioraschi si distinguevano dai fedecommessi perché in questi ultimi poteva non essere esplicita la preferenza primogeniturale o della maggiore età e l’ordine delle successioni poteva non essere così rigidamente prestabilito, ma variare secondo la volontà del testatore32. Nel corso del XVI secolo il sistema della primogenitura cominciò a diffondersi anche nei feudi iure longobardorum soprattutto perché, «essendo al feudo collegato un potere politico, il frazionamento conseguente alla divisione per successione avrebbe finito col rendere non esercitabile tale potere»33. L’indivisibilità diventò perciò principio fondamentale della successione. Per mantenere intatta la ricchezza immobiliare della famiglia occorreva prevedere l’inalienabilità dei beni feudali e un meccanismo successorio che ne impedisse la divisione. Si ricorse, perciò, al fedecommesso, vincolando «con atto volontario ciò che prima era vincolato per consuetudine»34. Ecco, dunque, il substrato feudale del fedecommesso cinquecentesco e il motivo per cui esso si diffuse soprattutto tra le famiglie nobili: ciò che veniva disposto attraverso i fedecommessi, e ancora di più attraverso primogeniture e maggioraschi, non era altro che la riproposizione delle regole del diritto successorio feudale35. I tre obiettivi della pianificazione familiare aristocratica erano: la continuità della PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI 39 linea maschile, l’integrità della proprietà ereditata e l’acquisizione di ulteriori proprietà o di utili alleanze politiche. Tali obiettivi erano comuni alle nobiltà di tutta Europa e, infatti, nonostante i diversi contesti sociali, politici e geografici, le élites nobiliari adottarono tutte, nella stessa epoca, con flessibilità, nel quadro dei loro costumi e delle loro tradizioni locali, pratiche identiche, che rispettarono poi in maniera rigorosa e che comprendevano, appunto, la costituzione di un lignaggio patrilineare, l’inalienabilità del patrimonio e l’accesso al matrimonio per un solo figlio (di norma il primogenito), con un particolare favore accordato ai matrimoni con famiglie ricche ed influenti. Lo sforzo che si imponeva era, ovunque, di inventare regole nuove o adattare le regole giuridiche esistenti al fine di evitare lo spezzettamento e la dispersione del patrimonio. In Italia non esistevano istituti finalizzati specificamente alla costituzione del patrimonio familiare inalienabile e, quindi, si fece ricorso ad una serie di meccanismi giuridici che, modificati dalla prassi, conseguivano il medesimo obiettivo finale di creare un patrimonio di famiglia intoccabile, inalienabile e, «almeno nella mente di chi lo costitui[va], eterno»36. L’originario fedecommesso romano venne in tal modo a trasformarsi nel «fedecommesso di famiglia», i cui caratteri distintivi erano: l’istituzione di più eredi possibili in relazione allo stesso bene; l’indicazione di un evento – la morte dell’erede – al verificarsi del quale veniva subordinata la sostituzione di un altro erede; la definizione di un ordine di successione previsto dal testatore, in base al quale ciascun erede doveva trasmettere il bene agli eredi successivi; l’obbligo, per ciascuno di essi, della conservazione del bene in vista del verificarsi della condizione per la restituzione; l’inalienabilità del bene stesso, dettata dalla volontà di conservarlo nell’ambito della famiglia o della sua discendenza37. L’aspetto più originale del fedecommesso cinquecentesco e la sua differenza principale rispetto al fedecommesso romano era proprio la generalizzazione del divieto di alienare. Mentre, in origine, tale divieto era stato posto solo sporadicamente, qualora fossero sussistite determinate circostanze di famiglia per cui il testatore sentiva il bisogno di «conservare i parenti in uno stato di benessere economico, di assicurare ad essi il frutto delle sue fatiche, di perpetuare l’unità giuridica ed economica delle proprie sostanze»38, adesso l’imposizione di tale divieto diventava prassi generalizzata. Ciò dimostra che l’istituto era ormai diventato lo strumento privilegiato di «conservazione» per coloro che, più degli altri, avvertivano il desiderio di far sentire il peso della propria volontà oltre la morte39, ovvero gli esponenti delle famiglie nobili. La condizione di inalienabilità si concretizzava nel divieto di vendere, donare, dare in pegno, obbligarsi, «locare ultra XXX annos, d’istituire eredi extra familiam, e di compiere qualsiasi atto capace di produrre una translatio dominii»40. Le eccezioni a tale divieto erano pochissime e limitate al caso in cui bisognasse costituire una dote, soddisfare una legittima, pagare debiti ereditari o fare una donatio propter nuptias41. Sviluppatosi come strategia testamentaria nobiliare, il fedecommesso si diffuse 40 ILARIA PUGLIA anche nei ceti non nobili in concomitanza, soprattutto, con la crescente importanza acquisita dalla proprietà immobiliare nell’economia italiana del tempo. La proprietà immobiliare, e i redditi che da essa derivavano, incidevano profondamente sullo status delle persone che ne godevano42. Così, mossi dal desiderio di aggiungere, ai vantaggi derivanti dalla loro posizione economica, gli attributi della nobiltà43, gli strati superiori delle classi mercantili diedero avvio ad un cospicuo disinvestimento nell’industria e nel commercio e all’immobilizzazione dei capitali ricavati nella proprietà fondiaria44: «l’imitazione di comportamenti nobiliari – come testare con fedecommesso –[era] il primo passo verso una percezione soggettiva di appartenenza alla nobiltà, prima ancora d’aver ottenuto riconoscimenti formali e patenti ufficiali»45. Nell’ambito della proprietà immobiliare, era soprattutto il palazzo di famiglia a rappresentare la consacrazione più visibile dell’ascesa sociale. Ciò era tanto più vero per l’aristocrazia che, non a caso, nel XVI secolo, istituì fedecommessi soprattutto sui palazzi. Ciò dimostra che l’istituto aveva una valenza economica non solo economica, ma soprattutto culturale: «[era] il passato degli avi e il prestigio della famiglia prima che il valore economico che il palazzo rappresenta[va] che bisogna[va] tramandare»46. Attraverso l’istituzione del fedecommesso, i nobili avevano la possibilità di conservare intatto un bene, quale appunto il palazzo, che era il primo indicatore della loro dignità sociale e, soprattutto, della loro coesione familiare: la sua vendita avrebbe comportato un’interruzione drastica della continuità e, quindi, il fallimento della strategia familiare47. La costruzione dei palazzi da parte delle famiglie nobili influiva notevolmente sulla fisionomia urbana: portava con sé la distruzione degli edifici fatiscenti e una sorta di bonifica del territorio circostante; rinnovava interi quartieri diffondendo un benefico influsso e migliorando l’urbanistica della città. La distribuzione delle famiglie nel tessuto cittadino attraverso la costruzione dei palazzi non era casuale: gli aristocratici erigevano i loro palazzi in luoghi centrali, di facile accesso e ben visibili allo sguardo ammirato del pubblico. Attraverso la costruzione dei palazzi ciascun nucleo familiare si costituiva un territorio perfettamente delimitato, i cui confini erano rappresentati dalle costruzioni satellite quasi obbligate, come chiese e cappelle. Si trattava di una scelta soprattutto politica, tesa a legittimare la presenza di una famiglia all’interno di un determinato quartiere. Porre fedecommesso su un palazzo e renderlo inalienabile significava, soprattutto, renderne immobile la negoziazione e, con essa, la destinazione urbana. Il fedecommesso dei Piccolomini sul «Palazzo di Siena» Nel tentativo di confermare la veridicità dei dati storiografici esistenti sull’argomento, ho rivolto la mia attenzione ad un esempio particolare di fedecommesso, avente ad oggetto una residenza nobiliare: quello posto dalla famiglia Piccolomini, una delle più PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI 41 cospicue Case feudali del XVI secolo, sul palazzo di famiglia sito in Roma («Palazzo di Siena»). Attraverso l’analisi dei documenti manoscritti appartenuti alla famiglia, conservati presso l’Archivio di Stato di Siena48, ho potuto ricostruire le vicende di tale Palazzo nel corso di circa un secolo, ritrovandovi gli aspetti più caratteristici del fedecommesso cinquecentesco e, in particolare, la finalità «conservativa» implicita nella proibizione di alienare, oltre che le frequenti violazioni di tale divieto. Originaria di Siena, nel XII secolo la famiglia Piccolomini, in un primo tempo, aveva costituito una discreta ricchezza attraverso le attività commerciali e bancarie e, successivamente, aveva orientato i suoi interessi verso la proprietà fondiaria, affermandosi come una delle principali famiglie senesi dell’epoca. L’espansione successiva delle sue attività e il conseguente arricchimento furono favoriti dall’ascesa al soglio pontificio, nel 1458, di Enea Silvio Piccolomini (Pio II): se fino a quella data, il referente dei Piccolomini era stata soprattutto la città di Siena ed il territorio circostante, adesso la fortuna della famiglia cominciò ad essere legata ad altri poteri – la Chiesa – ed a strategie di affermazione diverse da quelle tradizionali, che si concretizzarono soprattutto in accorte unioni matrimoniali, attraverso le quali i Piccolomini si imparentarono con le principali famiglie nobili dell’epoca, dando origine a ramificazioni in quasi tutta la penisola e accumulando un patrimonio abbastanza cospicuo da inserire la famiglia, a pieno titolo, tra le maggiori Case feudali del tempo. Il Palazzo che i Piccolomini possedevano a Roma si trovava nel centralissimo rione di Sant’Eustachio, uno dei più antichi della città49: una lunga e stretta striscia di territorio compresa tra i rioni Pigna, Sant’Angelo, Regola, Parione, Ponte, Campo Marzio e Colonna50. Le strade che ne segnavano i confini erano corso Rinascimento, piazza delle Cinque Lune, via del Pantheon, largo di Torre Argentina e le attuali piazza Sant’Andrea della Valle e piazza Madama51. Per questa sua centralità, moltissime famiglie nobili vi eressero i loro palazzi: Della Valle, Caffarelli, Medici, Lante, Cenci, Aldobrandini, Giustiniani e, appunto, Piccolomini. Non solo, nel rione esercitavano i loro affari diverse corporazioni di artigiani: Pianellari, Giubbonari, Canestrari, Chiavari, Sediari, Barbieri, Chiodaioli e Falegnami52. Il Palazzo dei Piccolomini era posto nella piazza che grazie alla loro presenza fu chiamata piazza di Siena, oggi piazza Sant’Andrea della Valle: da qui il nome di «Palazzo di Siena». Esso era stato fatto costruire, tra il 1470 ed il 1472, dal cardinale di Siena Francesco Tedeschini Piccolomini (papa Pio III)53, «tra la via pontificia ed il teatro di Pompeo»54, accanto alla chiesa di San Sebastiano55. Sono scarsissime le notizie che riguardano il Palazzo56: si trattava di un «turrito edificio»57 di forma quadrata, con un cortile nella parte posteriore, «in mezzo ad un portico tripartito e colonnato»58. Nel 1476 Francesco donò il «Palazzo di Siena» ai fratelli, Giacomo e Andrea, i quali se lo divisero in parti uguali. Su entrambe le metà del Palazzo fu posto fedecommesso: in entrambi i casi, esso si estendeva prima ai successori diretti, poi a rami collaterali del- 42 ILARIA PUGLIA la famiglia e poi all’intera Casa Piccolomini. Le scelte testamentarie dei membri delle grandi famiglie erano, infatti, influenzate da un’ampia concezione della parentela, per cui gli interessi patrimoniali in gioco non erano mai esclusivamente quelli della propria discendenza immediata, ma gli interessi della Casa nel suo complesso. Poiché ogni testamento poteva far sorgere situazioni conflittuali, le strategie successorie erano efficaci nella misura in cui riuscivano a realizzare un equilibrio tra le esigenze dei diversi rami di un Casato59: occorreva, dunque, prevedere la successione dei rami collaterali nel caso in cui si estinguesse il ramo primogeniturale, oppure la successione dell’intera Casa o anche, a volte, quella di famiglie alleate (generalmente attraverso il matrimonio delle figlie femmine), nel caso in cui si estinguessero tutti i rami maschili60. Nel capitolo numero 72 del suo testamento, rogato il 21 settembre 1507 dal notaio Bartolomeo Alfio da Monte Bondio61, Giacomo istituì un fedecommesso sulla metà del palazzo di sua appartenenza a favore dei figli, Silvio ed Enea e, qualora questi fossero morti senza discendenti legittimi o naturali, ai maschi primogeniti di suo fratello, Antonio Piccolomini, del ramo dei duchi di Amalfi e ancora, qualora Antonio non avesse avuto figli maschi, ad totam Domum et Progeniem Piccolomineam per lineam masculinam62, con il divieto espresso di alienare63. Per quanto riguarda, invece, la metà del Palazzo spettante ad Andrea, suo figlio Pierfrancesco, nel suo testamento, rogato l’8 settembre 1521 dal notaio senese Alessandro Pini64, istituì fedecommesso a favore dei fratelli Alessandro e Giovanni, e, in mancanza loro, a favore dei discendenti di Giacomo, già beneficiari dell’altra metà65. Nonostante il divieto di alienare posto da Giacomo sulla sua metà del Palazzo di Siena, suo figlio Enea la vendette, nel 1531, al cugino Giovanni, cardinale66. Le violazioni al vincolo dell’inalienabilità erano, in realtà, piuttosto frequenti: fino al momento in cui avrebbe dovuto restituire ad altri il bene oggetto di fedecommesso, ciascun erede poteva teoricamente disporne liberamente. I successivi fedecommissari non potevano rivendicare gli atti di disposizione, anche se implicavano l’uscita del bene dal patrimonio ereditario, poiché essi non vantavano un diritto vero e proprio ma soltanto una spes haereditatis67: le vertenze si sarebbero potute aprire soltanto con l’ulteriore passaggio successorio. Il fedecommesso, in effetti, provocava un’altissima litigiosità tra parenti, aprendo «la via giudiziale a una serie senza fine di questioni interpretative dei testamenti, su quel che il testatore aveva veramente voluto dire, questioni alla fine riconducibili al punto se si era voluto veramente istituire un fedecommesso oppure no»68. Nell’ambito di queste vertenze non esistevano regole generali e quindi veniva lasciato ampio spazio alle diverse interpretazioni della giurisprudenza e della dottrina. Era il giudice che, di volta in volta, caso per caso, era chiamato a scegliere la via per dirimere la controversia in esame. Se il giudice decideva di avere maggior riguardo verso l’erede, riconoscendo che l’onere di cui costui si trovava gravato gli inibiva la libera e piena disponibilità dei beni ereditati, allora procedeva a derogare al divieto PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI 43 di alienare, ratificando gli atti di disposizione posti in essere dal fedecommissario. Al contrario, se desiderava proteggere la famiglia, riconoscendo il ruolo di questa come portatrice di un interesse superiore rispetto a quello del singolo erede, allora il giudice estendeva la portata del fedecommesso, fino a ritenere nulli gli atti di disposizione del fedecommissario69. Nel caso del Palazzo di Siena, la vertenza apertasi in seguito alla vendita effettuata da Enea Piccolomini si concluse con la sentenza del cardinale di Carpi, del 23 marzo 154370, che decretava il suo annullamento e il ritorno della metà del Palazzo nell’originaria linea ereditaria, quella del primo testatore, Giacomo: essa spettò, così, al figlio di Enea, AntonMaria. Le vicende successive del Palazzo si complicarono dopo la morte di Pierfrancesco, di Alessandro e del cardinale Giovanni, poiché AntonMaria pretese tutta l’eredità del cardinale, senza alcuna distinzione tra i beni che erano appartenuti a Pierfrancesco, quelli che erano appartenuti ad Alessandro e i beni che erano stati dello stesso cardinale e, con essi, pretese tutto il Palazzo di Siena, vale a dire anche la metà che era appartenuta ad Andrea, poiché Pierfrancesco, nel suo fedecommesso, aveva previsto che, in mancanza dei fratelli, Giovanni e Alessandro, subentrassero nel vincolo i figli e i discendenti di Giacomo71. A questo punto si aprì una lite sull’eredità: da un lato, le sorelle del cardinale, Caterina, Vittoria e Montanina, insieme ai loro figli, pretendevano l’eredità del fratello e, dall’altro, Silvia Piccolomini, figlia di Pierfrancesco, chiedeva il supplemento della legittima nei beni di suo padre72. Con il compromesso di Paolo III – e la successiva sentenza del 1544, rogata dal notaio Giacomo Carrà73 – il Palazzo fu diviso in diciotto parti: si stabilì che le nove parti che costituivano la metà di Giacomo dovessero passare ai suoi eredi, mentre le altre nove, comprese nella metà di Andrea, dovessero essere divise tra AntonMaria (3 parti) – per essere stato sostituito e poi istituito erede di Pierfrancesco −, Silvia (1 parte e ½), Caterina (1 parte e ½), Montanina (1 parte e ½), Vittoria (1 parte e ½) e i loro figli – in quanto eredi del cardinale Giovanni e di Alessandro, entrambi fratelli di Pierfrancesco74. Con atto rogato il 9 dicembre 1544 dal notaio senese Ventura Cioni75, però, le sorelle del cardinale, Caterina, Vittoria, Montanina, e i rispettivi figli donarono a Silvia le parti del Palazzo di Roma in loro possesso, con la condizione che Silvia pagasse il debito esistente su esse. Silvia, dunque, si trovò con sei parti del Palazzo di Roma, mentre le altre dodici restavano di AntonMaria. Intanto, AntonMaria aveva accumulato dei debiti con Silvia, per l’amministrazione dell’eredità di Pierfrancesco76: egli pensò di estinguerli cedendo la sua parte del Palazzo77 a Silvia, a suo marito Innico Piccolomini d’Aragona del ramo dei duchi di Amalfi e ai loro figli maschi, e, in mancanza loro, ai figli e discendenti maschi in infinito del fratello di Innico, Giovanni, con la condizione che il Palazzo restasse nella linea dei primogeniti e che Innico pagasse 2.000 ducati in beni stabili provenientibus 44 ILARIA PUGLIA dictae Illustrissimae dominae Silviae da hereditate Illustrissimi Petri Francisci vigore suae legittimae78 e, infine, con la condizione che restasse valido il fedecommesso posto da Giacomo79. L’intero Palazzo di Roma perveniva, così, dopo tante vicissitudini, nelle mani di Innico e Silvia. Il suo valore complessivo era di 18.666 ducati80. Costanza, la loro unica figlia, lo ereditò per intero come erede universale. Priva di discendenza e oppressa dai debiti familiari, Costanza si fece monaca nel monastero della Sapienza di Napoli, distribuendo il suo patrimonio tra privati, enti ecclesiastici e luoghi pii. Il 6 giugno 1582, la duchessa di Amalfi donò il «Palazzo di Siena» ai Padri Teatini di San Silvestro di Roma, con il vincolo che questi, nonostante l’esistenza del fedecommesso, vi fabbricassero il collegio e la chiesa81. Il fedecommesso doveva comunque essere ben noto a Costanza: nello strumento di donazione ai Teatini si diceva infatti che, dal momento che alcuni Piccolomini pretendevano una parte del palazzo come fedecommissata a loro favore, Costanza, in caso di evitione e in caso fosse stato dichiarato che il Palazzo era fedecommissato, «cedeva a varie sue ragioni e faceva varie obbligazioni»82, che però non sono ulteriormente specificate. Estintasi la linea di Giacomo e quella dei duchi di Amalfi, la famiglia Piccolomini tentò per anni di recuperare il fedecommesso sul Palazzo. In particolare, i figli di AntonMaria − Scipione e Giacomo − provarono a fare annullare la donazione fatta dal padre ad Innico, adducendo come motivo che il fedecommesso ordinato da Giacomo proibiva qualsiasi tipo di alienazione e, quindi, l’accordo era viziato in partenza. Si è reperita, in particolare, una dettagliata esposizione dei fatti stilata dai Piccolomini e indirizzata al loro legale rappresentante, al cui «più savio e purgato sentimento per la verità» la famiglia dichiarava «voler omnimamente dipendere», nel ricevere un parere sulla possibilità o meno di intraprendere una causa in materia83. In essa, i Piccolomini sottolineavano, soprattutto, che Giacomo «avesse sopra il detto palazzo una speciale predilezione e che ne volesse la perpetua conservazione per lustro e decoro delle famiglie invitate»84, a riprova dell’importanza simbolica delle residenze nobiliari e della loro funzione rappresentativa. I Piccolomini, tuttavia, non poterono provare nulla con documenti autentici, perché possedevano solo «un antico foglio scritto non si sa da chi»85. Con la riorganizzazione urbanistica avvenuta sotto il pontificato di Sisto V86, nel 1590 il Palazzo di Siena fu abbattuto per allargare la via Papale e al suo posto, nel 1591, unendo anche le chiese di San Sebastiano e di San Ludovico, i Teatini cominciarono ad edificare la chiesa di Sant’Andrea, in onore del protettore di Amalfi87. A partire da quel momento, la piazza di Siena divenne piazza Sant’Andrea della Valle, anche con riguardo al maestoso Palazzo Della Valle, fatto costruire tra il 1517 ed il 1523 dal cardinale Andrea Della Valle. Da quanto detto finora, emerge un quadro del sistema dei fedecommessi di famiglia molto meno rigido e immobile di quanto ci abbiano tramandato i suoi critici settecenteschi: le soluzioni relative all’inalienabilità non erano univoche ma lasciate PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI 45 all’esame dei tribunali, che valutavano, caso per caso, se concedere o meno deroghe e dispense a tale vincolo. Le eventuali deroghe erano comunque «sempre accuratamente vagliate e controllate»88 e non si procedeva alla loro concessione o negazione se prima non erano stati «compiutamente esposti in narrativa i fatti e le cause della domanda»89 ed ascoltati «tutti i possibili ulteriori chiamati alla sostituzione fedecommissaria»90, che erano tenuti a prestare il loro assenso. I palazzi venivano a trovarsi immobilizzati e, con loro, la geografia urbana, per diversi anni, anche qualora uscissero dal fedecommesso familiare, proprio perché i tempi per le decisioni dei tribunali erano molto lunghi. Era però solo la negoziazione ad essere immobile poiché la storia dei palazzi appare, al contrario, molto movimentata e condizionata soprattutto dai comportamenti dell’aristocrazia. Le dimore venivano abbandonate, rioccupate, vendute, acquistate, abitate, abbandonate di nuovo e ricostruite. Tra il 1476 ed il 1582, il Palazzo di Siena cambiò 12 proprietari, alcuni dei quali tornati più volte e a distanza di anni, ma tutti della famiglia Piccolomini. Non era la vita dei palazzi e la loro storia, dunque, ad essere immobile, ciò che restava immobile erano i nomi dei proprietari: rami della stessa famiglia si susseguivano tra loro, evitando così l’alienazione del palazzo e dettando un ritmo serrato negli avvicendamenti, ma la negoziazione immobiliare e la geografia urbana restavano di fatto immutate per anni. Le critiche settecentesche e l’abolizione del fedecommesso L’inserimento definitivo del fedecommesso, in età moderna, tra gli istituti giuridici più adatti a garantire la conservazione del patrimonio familiare ha scatenato un ampio dibattito tra i giuristi. La dottrina prevalente ritiene che tale consacrazione sia avvenuta proprio a partire dal XV secolo, perché fu solo allora che in Italia si diffusero le idee e le pratiche giuridiche proprie della Spagna e che, prima di allora, l’istituto fosse, da noi, del tutto sconosciuto91. Altri giuristi, guidati dal Trifone, sostengono, invece, lo sviluppo autonomo del fedecommesso in Italia sin dal Medio Evo, sottolineando che, essendo riuscito ad «assorbire dall’ambiente giuridico tutti gli elementi capaci di produrre l’inalienabilità del patrimonio, la conservazione e la trasmissione dei beni attraverso la linea agnatizia maschile»92, esso aveva raggiunto «una costruzione logica ed un organismo corrispondente alla sua funzione economica e sociale e vi era riuscito senza che nessuna forza estranea e nuova fosse intervenuta ad accelerare la sua trasformazione»93. Alla luce di quanto emerso dalla lettura dei documenti relativi al fedecommesso dei Piccolomini sembrerebbe, in effetti, che la trasformazione dell’istituto nel corso del Cinquecento sia avvenuta in maniera piuttosto naturale, e che, più che da influenze esterne, essa fu condizionata dalle finalità dei soggetti che più degli altri vi facevano ricorso, ovvero i nobili, in linea, quindi, con quanto affermato da Trifone. Il fedecommesso si configura come un’innovazione tipica dell’età moderna, nata dalla rielaborazione, da parte della prassi notarile, di consuetudini successorie feudali che non avevano più nulla dell’antica legislazione romana. 46 ILARIA PUGLIA Una cosa è certa. La diffusione del fedecommesso nel XVI secolo fu dovuta soprattutto al fatto che l’istituto rappresentava una forma efficace di immobilizzazione e conservazione del patrimonio (e in particolare dei beni immobili) e costituiva, dunque, uno strumento giuridico a protezione dei valori socio-culturali prevalenti in quel momento storico, ovvero il prestigio sociale e la ricchezza immobiliare che ne era alla base94. Non a caso il fedecommesso si diffuse proprio quando cominciò a manifestarsi la decadenza delle famiglie feudali: agli ingenti debiti accumulati già durante il Cinquecento, si aggiunsero nel Seicento gli effetti dell’inflazione. Alla crescita vertiginosa delle spese si contrapponeva irrimediabilmente la stabilità delle rendite: il motivo della tenacia con cui si cominciò ad applicare un vincolo così stretto sui beni di famiglia fu il pericolo, per i nobili, di cadere in rovina. Quando, nel corso del Settecento, cominciarono a circolare nuove idee in campo economico e sociale, il fedecommesso divenne oggetto di aspre critiche da parte degli economisti riformatori. Il pensiero degli illuministi circa i fedecommessi meriterebbe una trattazione a parte, data l’abbondanza di materiale e di spunti di riflessione: in questa sede mi limiterò ad evidenziare le considerazioni che furono alla base della loro unanime condanna dell’istituto95. In primo luogo, nel fedecommesso si vedeva un ostacolo alla commerciabilità dei beni. L’enorme diffusione del suo utilizzo aveva comportato infatti, ad un certo punto, che la maggior parte degli immobili – ma anche delle terre feudali – si era trovata sottoposta a vincolo fedecommissario, e poiché tali immobili erano inalienabili e indivisibili, si era verificato un enorme danno per la circolazione dei beni e per la pubblica economia, danno aggravato dal fatto che gli istituiti, non avendo alcun interesse diretto all’eredità, non facevano nulla per apportare migliorie ai beni loro affidati96. Il fedecommesso, inoltre, costituiva un danno anche per gli eventuali creditori degli istituiti che, «per il fatto, da essi ignorato, che tali beni erano sottoposti a un vincolo rigidissimo»97, non potevano agire sui beni stessi. L’istituto era poi fonte di ingiustizie all’interno della stessa famiglia: essendo la trasmissione ordinata a vantaggio di uno solo dei membri della famiglia, si arrecava danno agli altri componenti della stessa, specialmente alle donne, sempre escluse da tali disposizioni.Infine, posto che, per essere forte, uno Stato necessitava di una «giusta popolazione»98, identificata con il «massimo possibile numero di cittadini»99, i fedecommessi rappresentavano una causa di diminuzione della popolazione poiché obbligavano i secondogeniti «privi di proprietà»100 a rimanere celibi: le primogeniture ed i fedecommessi, dunque, erano additati come «istituzioni fatte espressamente per diminuire nell’Europa il numero de’ proprietari e degli uomini»101. Più delle critiche degli economisti, fu l’intervento del potere statale a limitare la diffusione dei fedecommessi: l’azione di consolidamento del potere centrale si scontrava inevitabilmente con la libertà di istituzione e regolamentazione dei fedecommessi, principale manifestazione dell’autonomia decisionale delle famiglie aristocratiche nei confronti del potere statale. Fu per questo motivo che i principi illuminati PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI 47 si diedero da fare per limitarne l’uso il più possibile. In Toscana, con una legge del 22 giugno 1747, Francesco I di Lorena restrinse l’efficacia dei fedecommessi già esistenti a quattro gradi di successione e sottopose a diverse condizioni l’istituzione di nuovi102, mentre, nel 1789, Pietro Leopoldo sciolse i fedecommessi esistenti e proibì del tutto l’istituzione di nuovi vincoli103. In Lombardia, nello stesso anno, Maria Teresa stabilì «l’invalidità futura dei vincoli fedecommissari, restringendo l’efficacia di quelli in essere a due soli passaggi»104. Più blandi furono i provvedimenti adottati nel Regno di Napoli: nel 1666 il vicerè ridusse a quattro gradi i fedecommessi istituiti prima del 1598105, ma non pose alcun limite all’istituzione di nuove clausole fedecommissarie. Nel Regno di Sardegna, le Costituzioni sarde del 7 aprile 1770 restrinsero la validità dei fedecommessi a quattro gradi106, mentre nel 1797, Carlo Emanuele IV proibì l’istituzione di fedecommessi, limitando l’efficacia di quelli già esistenti a due soli gradi. In Piemonte, nel 1796, Giuseppe II «impose lo svincolo di tutti i beni soggetti a fedecommesso, e la loro conversione in capitali da depositare in pubbliche banche»107. L’Italia non si trovò dunque impreparata di fronte alla straordinaria spinta verso la modernizzazione della Rivoluzione francese che, nel 1792, decretò l’annullamento di tutti i fedecommessi esistenti108. L’abolizione del fedecommesso, come istituto giuridico, fu confermata dall’art. 896 del Codice Napoleonico, anche se, quando, nel 1806, l’Imperatore francese «ripristinò il diritto di primogenitura per ducati e feudi ereditari»109, nello stesso Codice venne inserita una norma che prevedeva la possibilità di stabilire fedecommessi. L’istituto tornò in vita con la Restaurazione: nel Lombardo-Veneto il Codice Civile Austriaco lo ammise «come modo ordinario di disposizione»110; nel Regno di Sardegna l’editto del 18 novembre 1814 eliminò la proibizione di istituire fedecommessi111; il Codice Albertino del 20 giugno 1837 consentì l’istituzione di maggioraschi112. Rimasero alcuni limiti solo nel Regno delle Due Sicilie, dove l’istituto «fu ammesso per il primo grado, mentre venne richiesta l’autorizzazione sovrana per l’istituzione dei maggioraschi»113, che potevano essere disposti solo dalle famiglie nobili114. Dopo l’unificazione, il Codice Italiano del 1865, all’art. 899, vietò qualunque disposizione con la quale l’erede o il legatario fosse gravato «con qualsivoglia espressione di conservare e restituire ad una terza persona»115. L’abolizione del fedecommesso era destinata a pesare gravemente sui destini futuri dei patrimoni nobiliari. Se è vero, infatti, che esso aveva costituito un limite alla negoziazione immobiliare, è anche vero che era stato un argine più o meno solido alla perdita delle proprietà familiari: nel momento in cui i nuovi eredi diventavano proprietari a pieno titolo, non esisteva più alcuna tutela giuridica all’alienabilità dei beni e si apriva la strada alla dispersione dei patrimoni. Ilaria Puglia 48 ILARIA PUGLIA 1 M.A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in Età Moderna, Napoli, Guida, 1988, p. 45, nota 76. 2 M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni. Fedecommessi e primogeniture a Roma nei secoli XVII e XVIII, Roma, Viella, 1999, p. 6. 3 Ibidem. 4 M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio: riflessioni sull’uso del fedecommesso in Lombardia tra Cinque e Seicento, «Archivio Storico Lombardo», CXV, 1989, VI, pp. 91-148: 103. 5 Il fedecommissario ha «una relazione solo transitoria e comunque precaria con i beni che in realtà non può tenere», Ivi, p. 132. 6 Ibidem. 7 M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, Roma, Imperium, s.d., p. 13. 8 R. TRIFONE, Il fedecommesso. Storia dell’Istituto in Italia, Napoli, Jovene, 1914, p. 1. 9 Ivi, p. 2. 10 Ivi, p. 14. 11 Ibidem. 12 C. FERRINI, Teoria generale dei legati e dei fedecommessi secondo il diritto romano con riguardo all’attuale giurisprudenza, Milano, Hoepli, 1889, p. 38. 13 Ibidem. 14 L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale del fedecommesso familiare, «La nuova critica», VII serie, 1971, quaderno 27-28, fascc. III-IV, pp. 143-176: 145. 15 M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., pp. 12-13. Nelle province, al contrario di quanto avvenne a Roma, la giurisdizione rimase di carattere amministrativo, senza mai assumere la forma giudiziaria, Ivi, p. 15. 16 N. LA MARCA, Primogeniture e fidecommissi, cit., p. 147. 17 Ibidem. 18 L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 146. 19 Ivi, p. 147. 20 Ibidem. 21 M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 75. Al fine di comprendere i caratteri e le cause di tale evoluzione si sono consultati, tra gli altri, i seguenti testi: M. AMELOTTI, Il testamento romano attraverso la prassi documentale, vol. I: Le forme classiche di testamento, Firenze, Le Monnier, 1966; G. BENEDETTI, Delle sostituzioni, in Commentario al diritto italiano della famiglia, vol. V, a cura di G. Cian e A. Trabucchi, Padova, Cedam, 1992, pp. 206-248; B. BIONDI, Successione testamentaria e donazioni, Milano, Giuffrè, 1955; B. BRUGI, Fedecommesso, in Digesto Italiano, vol. XI/I, Torino, Utet, 1895, pp. 598-600; ID., Istituzioni di diritto romano. Diritto privato giustinianeo, Torino, Utet, 1926; F. CICCAGLIONE, Il diritto successorio nella storia del diritto italiano, Torino, Utet, 1891; ID., Successione. Diritto intermedio, in Digesto italiano, vol. XXII/3, Torino, Utet, 1889-1897, pp. 371-382; F. CORTESE, Divieto di alienazione. Diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, vol. XIII, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 386-401; T. CUTURI, Dei fedecommessi e delle sostituzioni nel diritto civile italiano, Città di Castello, Lapi, 1889; L. DESANTI, La sostituzione fedecommissoria. Per un corso di esegesi delle fonti del diritto romano, Torino, Giappichelli, 1999; ID., Restitutionis post mortem onus. Il fedecommesso da restituirsi dopo la morte dell’onerato, Milano, Giuffrè, 2003; F. MILONE, Il fedecommesso romano nel suo svolgimento storico, Napoli, Trani, 1896; A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, Torino, Utet, 1893; A. PADOA SCHIOPPA, Sul fedecommesso nella Lombardia Teresiana, in Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa, a cura di A. De Maddalena, E. Rotelli, G. Barbarisi, vol. III: Istituzioni e società, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 807-826; L. RICCA, Fedecommesso, in Enciclopedia del diritto, vol. XVII, Milano, Giuffrè, 1986; L. TRIA, Il fedecommesso nella legislazione e nella dottrina dal XVI secolo ai giorni nostri, Milano, Giuffrè, 1945; G. VISMARA, L’unità della famiglia nella storia del diritto in Italia, in EAD., Scritti di storia giuridica, vol. V: La famiglia, Milano, Giuffrè, 1988, pp. 3-44; P. VOCI, Diritto ereditario romano, Milano, Giuffrè, 1963. 22 M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., p. 25. 23 N. TAMASSIA, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Milano-Palermo-Napoli, PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI 49 Sandron, 1910, p. 108. 24 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Torino, Einaudi, 1983, p. 125. 25 A. VILLONE, Contratti matrimoniali e testamenti in una zona di latifondo: Eboli a metà ‘600, «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Age - Temps Modernes», XCV, 1983, 1, pp. 225-298: 231. 26 Ivi, p. 230. 27 Ibidem. 28 G.B. DE LUCA, Theatrum veritatis et iustitiae, liber decimus de fideicommissis, primogenituris et maioratibus, Roma, Corbelletti, 1670. 29 M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 100. 30 Ivi, p. 101. 31 Ivi, p. 103. 32 Ivi, p. 102. 33 L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 149. 34 Ivi, p. 150. 35 M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 103. 36 M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio, cit., p. 103. 37 Ivi, p. 104. 38 R. TRIFONE, Il fedecommesso, cit., p. 7. 39 Ivi, pp. 8-9. 40 Ivi, p. 85. 41 Ibidem. La donatio propter nuptias era un particolare accordo con cui il marito riservava una parte del suo patrimonio alla donna qualora questa fosse rimasta vedova o in caso di divorzio. 42 L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 158. 43 Ivi, p. 154. 44 Ibidem. 45 M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 9. 46 M.A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità, cit., p. 46. 47 L. STONE-J.C. FAWTIER STONE, Una élite aperta? L’Inghilterra fra 1540 e 1880, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 63. 48 Il fondo più interessante e utile ai fini della ricerca si è rivelato la Consorteria Piccolomini, di cui sono stati consultati 47 dei complessivi 202 volumi, selezionati perché contenenti tutti documenti riferiti agli anni che si considerano. Si tratta per lo più di testamenti, inventari e atti notarili. Le consorterie erano dei consorzi attraverso cui le grandi famiglie cittadine che derivavano dallo stesso ceppo gestivano il patrimonio comune e indivisibile (palazzi, castelli, patronati su chiese e cappelle). La Consorteria Piccolomini fu istituita da Pio II nel 1459. 49 I rioni rappresentano, ancora oggi, la suddivisione del centro storico romano. Fu Augusto a decretare la ripartizione in 14 regiones (rioni) ciascuna dotata di propri poteri amministrativi, giuridici e militari. I 14 rioni storici erano: Monti, Trevi, Colonna, Campo Marzio, Ponte, Parione, Regola, Sant’Eustachio, Pigna, Campitelli, Sant’Angelo, Ripa, Trastevere e Borgo. Attualmente i rioni sono 22. Ai 14 originari si sono aggiunti: Esquilino, Ludovisi, Sallustiano, Castro Pretorio, Celio, Testaccio, San Saba e Prati. 50 I rioni e i quartieri di Roma, vol. III: Sant’Eustachio, Pigna e Campitelli, Roma, Newton & Compton, 1989, p. 579. 51 Ibidem. 52 Ibidem. 53 ARCHIVIO DI STATO DI SIENA (d’ora in poi ASS), Consorteria Piccolomini, b. 36, 6, c. 4r. 54 P. ADINOLFI, La via sacra o del Papa tra’l cerchio di Alessandro ed il teatro di Pompeo, Roma, Tipografia Monaldi, 1865, p. 67. 55 A. PROIA-P. ROMANO, Il rione S. Eustachio, Roma, Libreria Internazionale «Modernissima», 1937, p. 94. 56 Sui rioni e i palazzi di Roma cfr. tra gli altri: P. ADINOLFI, Roma nell’età di mezzo. Rione Campo Marzio. Rione S. Eustachio, Firenze, Le lettere-Licosa, 1938; G. BARACCONI, I rioni di Roma, Roma, 50 ILARIA PUGLIA Edizioni del Gattopardo, 1971; L. CALLARI, I palazzi di Roma e le case di importanza storica e artistica, Roma, Apollon, 1944; G. CARPANETO, I palazzi di Roma, Roma, Newton & Compton, 1991; Roma e lo studium urbis. Spazio urbano e cultura dal Quattro al Seicento, a cura di P. Cherubini, Roma, Quasar, 1989; D. GAVALLOTTI CAVALLERO, Palazzi di Roma: dal 14° al 20° secolo, Roma, Ner, 1989; V. GOLZIO, Palazzi romani dalla rinascita al neoclassico, Bologna, Cappelli, 1971; I. INSOLERA, Le città nella storia d’Italia: Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 1985; R. LANCIANI, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno alle collezioni romane di antichità, vol. IV: Dalla elezione di Pio V alla morte di Clemente VIII (7 gennaio 1566-3 marzo 1605), Roma, Loescher & Co., 1912; M. LUGLI, Urbanistica di Roma. Trenta planimetrie per trenta secoli di storia, Roma, Barali, 1998; Guide rionali di Roma, Rione VIII: S. Eustachio, parte I, a cura di C. Pericoli Ridolfini, Roma, Palombi, 1977; C. RENDINA, I palazzi di Roma: le principesche dimore, le splendide case e i pubblici edifici che hanno fatto da scenario alla vita della Città Eterna dal Medioevo ad oggi: un affascinante itinerario di arte e storia tra curiosità e misteri, nobili famiglie e famosi personaggi, vol. I, Roma, Periodici locali Newton, 1992-1993; P. TOMEI, L’architettura a Roma nel Quattrocento, Roma, Palombi, 1942; G. TORSELLI, Palazzi di Roma, Milano, Ceschina, 1965; G. VASI, Palazzi di Roma, Milano, Il Polifilo, 1993; C. VINCENTI MONTANARO, Palazzi e ville di Roma, Venezia, Arsenale, 1999; J.J. WINCKELMANN, Ville e palazzi di Roma, Roma, Quasar, 2000; L. ZEPPEGNO, I rioni di Roma, Roma, Newton & Compton, 1978. 57 A. PROIA-P. ROMANO, Il rione S. Eustachio, cit., p. 94. 58 P. ADINOLFI, La via sacra, cit., p. 68. 59 M.A. VISCEGLIA, Linee per uno studio unitario dei testamenti e dei contratti matrimoniali dell’aristocrazia feudale napoletana tra fine Quattrocento e Settecento, «Mélanges de l’École Française de Rome. Moyen Age - Temps Modernes», XCV, 1983, 1, pp. 393-470: 410. 60 M.A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità, cit., p. 13. 61 ASS, Consorteria Piccolomini, b. 24, 6, cc. 1r-17v. 62 Ivi, c. 8r. 63 Cum prohibitione non possint dictam domum vendere, hypothecare, neque quocumque alio quesito colore alienare, Ivi, c. 7v. 64 ASS, Notarile Antecosimiano, b. 1487, 527, cc. 1r-21v. 65 Ivi, cc. 13v/14r. 66 ASS, Consorteria Piccolomini, b. 36, 6, c. 4v. 67 M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio, cit., p. 138. 68 M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 94. 69 M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio, cit., p. 138. 70 ASS, Consorteria Piccolomini, b. 35, 7, c. 1v. 71 Ivi, b. 36, 6, cc. 5r-5v. 72 Ibidem. 73 Ivi, c. 6r. 74 Ivi, cc. 1v-2r. 75 Ivi, b. 37, cc. 6r-14r. 76 Ivi, b. 21, 1, c. 1r. 77 Con strumento rogato il 30 marzo 1544 dal notaio senese Giovanni Sersenese, Ivi, b. 36, 6, cc. 1r-11r. 78 Ivi, c. 5v. 79 Ibidem. 80 ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Monasteri Soppressi, b. 3208, 118, f. 1v. 81 ASS, Consorteria Piccolomini, b. 35, 10, cc. 10r-16v. Già la madre di Costanza, Silvia, in un codicillo rogato dal notaio napoletano Annibale Battinelli, aveva stabilito un legato di 3.000 scudi a favore dei Padri Teatini, Ivi, b. 36, 6, c. 3r. 82 Ivi, c. 8v. 83 Ivi, 1, cc. 1r-24r. 84 Ivi, f. 21r. 85 Ivi, 6, c. 9v. 86 Sisto V (Felice Peretti) fu papa dal 1585 al 1590. PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI 51 87 La costruzione della chiesa fu iniziata dal cardinale Alfonso Gesualdo su disegno di Pietro Paolo Olivieri e, dopo mutamenti e indecisioni, «seguitata dal cardinale Alessandro Montalto e poi terminata dal cardinale Francesco Peretti suo nipote» su disegno di Carlo Maderno (G. VASI, Indice istorico del gran prospetto di Roma, Napoli, Reale Stamperia, 1770, p. 193). 88 M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio, cit., p. 142. 89 Ibidem. 90 Ibidem. 91 M. CARAVALE, Fedecommesso. Diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, vol. XVII, Milano, Giuffrè, 1968, p. 114, nota 42. 92 R. TRIFONE, Il fedecommesso, cit., p. 155. 93 Ibidem. 94 L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 159. 95 Tutti i maggiori esponenti del pensiero settecentesco − Muratori, Galanti, Genovesi, Filangieri, Beccaria − furono impegnati nella critica al fedecommesso. Il primo ad occuparsene fu Lodovico Antonio Muratori, nel trattato Dei difetti della giurisprudenza, pubblicato nel 1742. 96 Dai beni affidati «il possessore temporaneo attende solo a spremere quel sugo che se ne può, senza mai spendere un ducato in migliorie», G.M. GALANTI, Della descrizione geografica delle Sicilie, edizione a cura di F. Assante e D. Demarco, vol. II, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969, vol. II, p. 153. 97 M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., p. 34. 98 A. GENOVESI, Lezioni di economia civile, Torino, Pomba, 1852, p. 29. 99 Ivi, p. 311. 100 G. FILANGIERI, La Scienza della Legislazione, Libro II: Delle leggi politiche ed economiche, Napoli, Stamperia Raimondiana, 1784, p. 50. 101 Ivi, p. 52. 102 In particolare li riservò ai soli nobili, cfr. M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 262. 103 R. TRIFONE, Fedecommesso. Diritto intermedio, in Novissimo Digesto Italiano, vol. VII, Torino, Utet, 1961, p. 205. 104 M. CARAVALE, Fedecommesso, cit., p. 114. 105 R. TRIFONE, Fedecommesso. Diritto intermedio, cit., p. 204. 106 L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 165. 107 R. TRIFONE, Fedecommesso. Diritto intermedio, cit., p. 204. 108 Con provvedimento dell’Assemblea legislativa del 25 agosto 1792 e poi della Convenzione il 14 novembre 1792, cfr. M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., p. 34. 109 Ibidem. 110 Ibidem. 111 L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 168. 112 M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., p. 34. 113 Ibidem. 114 N. LA MARCA, Primogeniture e fidecommissi, cit., p. 161, nota 37. 115 R. TRIFONE, Fedecommesso. Diritto intermedio, cit., p. 205. RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA DURANTE EL SIGLO XVI Abordar el estudio de la renta inmobiliaria en la Roma moderna1 supone adentrarse en un terreno historiográfico casi completamente intacto y esto porque la investigación histórica se ha ocupado muy de soslayo del tema del uso económico de las viviendas urbanas en las ciudades preindustriales2. Innegable las implicaciones artísticas implícitas a muchas construcciones, sobre todo las suntuosas residencias financiadas por los sectores sociales más acomodados3, pero al mismo tiempo no es menos evidente que todos los edificios, desde los elegantes palacios aristocráticos hasta las más humildes viviendas populares, podían adquirir un determinado valor de mercado, ora como riqueza productora de renta, ora como bien comercializable4. En el contexto de las ciudades europeas de la Edad Moderna5, caracterizadas por una tendencia demográfica ascendente6, el masivo arrendamiento de alojamientos de hecho llegó a ser un importante factor de distribución de la riqueza detrás del cual, en muchas ocasiones, subyacía un rígido control del suelo urbano para transformar éste en un decisivo factor de creación de beneficios. Aunque pocos numerosos, los trabajos dedicados al examen de los arrendamientos urbanos7 han subrayado la magnitud de un fenómeno que, sin distinción alguna, involucró a una gran parte de las ciudades europeas del Antiguo Régimen8. Desde esta perspectiva, no resulta incongruente decir que uno de los rasgos típicos de las ciudades modernas fue la generalización de los alquileres hasta el punto que éstos llegaron a ser un medio eficaz para la obtención de renta de matriz capitalista9. Un instrumento, en esencia, de acumulación de riqueza10 anclado en el medio urbano, subordinado, sin duda, a las tendencias generales de fondo11 pero al mismo tiempo, con un comportamiento diacrónico que funcionaba a modo de puntual indicador de las energías y capacidades propulsivas del sistema urbano12. A partir del siglo XV y con mayor intensidad durante el crecimiento demográfico del siglo XVI, en torno a la arquitectura civil se desplegó un amplio abanico de intereses13 y las viviendas generaron un intenso movimiento de dinero por medio de compraventas, 54 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO alquileres, préstamos y en medida no inferior, obras de restauración. Sin embargo y pese al reconocimiento unánime de la importancia de esta amplia serie de factores, constituye un dato cierto la lentitud con la cual esta ramificada realidad socioeconómica va siendo englobada en las síntesis propuestas para explicar las dinámicas de crecimiento de la economía europea entre la Baja Edad Media y la primera Edad Moderna. Esta paradójica situación ya ha sido motivo de comentario y aunque se hayan sugerido diferentes pautas interpretativas capaces de superar una injustificada exclusión14, de hecho todo lo concerniente con los patrimonios inmobiliarios y el papel que éstos, como expresión de un determinado uso del suelo urbano, jugaron en el ciclo económico preindustrial siguen constituyendo un aspecto historiográfico que tarda en hallar una adecuada respuesta. Para analizar algunos de los temas apenas indicados, en esta sede nos fijaremos en el caso concreto del patrimonio inmobiliario de la iglesia-hospital Santiago y San Ildefonso de los Españoles. Fundada a mediados del siglo XV en la central «piazza Navona» para asistir a los súbditos del reino de Castilla que llegaban o residían en Roma15, el establecimiento español a lo largo de los siglos XVI y XVII llegó a ser una de las instituciones religiosas más ricas y prestigiosas de la ciudad16 y ello gracias a la rigurosa explotación de una no muy extensa pero sí muy rentable base patrimonial compuesta a comienzos del siglo XVII por 79 casas y 39 tiendas17. Desde un primer momento, la actividad artística, social y asistencial de la iglesia-hospital fue la directa consecuencia de una política patrimonial capaz de garantizar continuas y saneanadas entradas por medio de un lucrativo uso de los arrendamientos18. Sin apoyos financieros por parte de los monarcas españoles y con un aporte de las donaciones o limosnas muy bajo, el destino de la iglesia-hospital castellana en Roma quedó supeditado a la capacidad de adaptar la gestión patrimonial a las condiciones que imponía el entorno ciudadano. Sin tardar, se creó un esquema presupuestario por el cual los administradores de Santiago de los Españoles destinaban parte de la renta inmobiliaria al gasto o al ahorro, pero al mismo tiempo no descuidaban la necesidad de mejorar la condición arquitectónica de los edificios, su principal y única fuente de entradas19. El resultado, puntualmente reflejado en los balances finales, es una trayectoria financiera ascendente durante el «largo siglo XVI», tendencia en larga parte consecuencia directa de dos pautas de gestión que veremos a continuación: la inversión en obras para aumentar el valor económico de los inmuebles y la búsqueda en todo momento de una oferta de alojamientos capaz de satisfacer una demanda de bienes de consumo –viviendas inclusive –cada vez más refinada. Aunque pueda parecer banal indicarlo, al ser una entidad religiosa subordinada al comportamiento de la renta inmobiliaria, entre la iglesia-hospital de Santiago de los Españoles y el contexto urbano cuajó una compleja compenetración y sincronía de movimientos. Por lo tanto, el patrimonio de esta institución constituye un excelente instrumento para sondear algunas de las características de fondo de la trayectoria socioeconómica de Roma entre los siglos XVI y XVII. 55 RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA La restauración de las viviendas : gastos y alquileres El primer libro de cuentas de Santiago de los Españoles20 en el que entre las voces que componían el gasto total figuran los «reparos de casas y materiales» es el correspondiente al 1571. A partir de este año su presencia será constante. Hasta esta fecha los gastos derivados de la conservación de los edificios aparecen incluidos entre los egresos generales, sin una específica separación o distinción. De ahí que el cambio en la forma de presentar las cuentas finales no se debe tanto a una simple cuestión de mera forma administrativa, sino que en realidad refleja la exigencia de tener que controlar con bastante eficacia el dinero destinado a financiar un premeditado y bien estudiado programa de recualificación inmobiliaria21. Por lo tanto siguiendo las pautas de conducta y las medidas adoptadas por los dirigentes de la institución castellana durante el último cuarto del siglo XVI es posible observar la estrecha relación existente entre la evolución de la renta patrimonial y la transformación del tejido urbano de Roma. Sin embargo antes de ilustrar algunos casos específicos de gran interés para nuestro tema de estudio conviene detenerse, aunque sea por un momento, a analizar el comportamiento diacrónico de los gastos ocasionados por las obras en las casas. Como testimonian el cuadro y el gráfico 1 desde 1571 hasta 1609 el descargo de las construcciones realizado por Santiago de los Españoles ascendió a un total de 38.652 escudos de moneda, es decir el 14,70% de los gastos globales acumulados durante este periodo y el 21,34% del volumen de los alquileres obtenidos. Si pasamos de las cifras absolutas al promedio anual, vemos que la congregación ibérica destinaba cada año algo más de 1000 escudos para mejorar la condición material de su riqueza inmobiliaria. La visita apostólica de 162422 refleja una situación en movimiento ya que si por un lado las reparaciones y la compra de materiales siguen absorbiendo el 13% del gasto anual, por otro los ingresos inmobiliarios destinados a este capítulo disminuyen al 13,3%. Gráfico 1- Evolución del gasto en obras: porcentaje sobre el gasto total 50 45 40 35 30 25 20 15 10 1608 1606 1604 1602 1600 1598 1596 1594 1592 1590 1588 1586 1584 1582 1580 1578 1576 0 1574 5 1572 % 56 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO Cuadro 1- Evolución del gasto en obras en las casas de Santiago de los Españoles (1571-1609) Año 1571 1572 1573 1574 1575 1576 1577 1578 1579 1580 1581 1582 1583 1584 1585 1586 1587 1588 1589 1590 1591 1592 1593 1594 1595 1596 1597 1598 1599 1600 1601 1602 1603 1604 1605 1606 1607 1608 1609 A 3463 3291 --5169 -6101 5456 4968 4901 7407 6193 6713 5733 5548 7117 6165 5572 6328 6859 6268 7052 5649 5437 7180 8526 5521 11443 9000 11248 8656 8896 9297 8921 8749 8099 -14139 8386 B 1436 983 --1393 -2361 2403 558 1109 2972 1628 939 510 2268 995 866 295 584 590 776 374 770 378 334 495 339 1878 3075 1226 1438 1591 1149 828 629 377 -656 449 C 41,46 29,86 --26,95 -38,69 44,04 11,23 22,62 40,12 26,28 13,98 8,89 40,88 13,98 14,04 5,29 9,22 8,61 12,38 5,31 13,63 6,95 4,65 5,81 6,14 16,41 34,16 10,89 16,61 17,88 12,35 9,28 7,18 4,65 -4,63 5,35 D 44,25 30,03 --40,06 -62,32 55,12 12,75 25,54 69,61 35,59 19,45 10,51 47,13 19,77 16,76 5,61 10,95 11,12 14,91 6,89 14,42 7,04 6,13 9,08 6,17 33,38 53,24 21,09 24,68 27,67 18,65 12,71 9,67 5,75 -9,93 7,05 Fuente: M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., pp. 133-134. A) Gasto total anual en escudos de moneda; B) Gasto anual en obras anual en escudos de moneda; C) % entre el gasto total y el gasto de obras; D) % entre el gasto de obras y los alquileres. RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA 57 Es decir si hacia los años setenta del siglo XVI una gran parte de los beneficios provenientes de los alquileres de las casas se utilizaba directamente para financiar las obras de conservación arquitectónica ordinaria y extraordinaria, a comienzos del siglo XVII un porcentaje cada vez más consistente de la renta proveniente de los alquileres se reserva a otras formas más rentables y seguras de utilizar el dinero, sobre todo la compra de títulos de deuda pública del estado. Se comprende de esta forma un vistoso descenso que nos permite comprender algunos de los cambios que se estaban produciendo en el mercado inmobiliario romano entre ambos siglos, un mercado que lentamente se estaba encaminando a vivir durante casi todo el siglo XVII una prolongada fase de inmovilismo23. Como todas las medias aritméticas, las que se acaban de presentar disimulan realidades muy dispares entre sí. De esta forma destacan las puntas máximas del periodo 1571-1585 y 1598-1603, frente a un evidente descenso para los años 1586-1597 y 1604-1609. Aun a costa de forzar los datos apenas indicados, semejante disparidad consiente distinguir dos fases de claro signo contrario: la primera correspondiente a grandes líneas con el pontificado de Gregorio XIII (1571-1585) caracterizada por considerables inversiones en el sector de la arquitectura civil y otra, de enfriamiento a medida que las restricciones presupuestarias y una mayor cautela administrativa se impusieron en la política patrimonial de Santiago de los Españoles. Si exceptuamos los picos de 1598-1603, cuando la celebración del Año Santo implicó un vistoso aumento de todas las voces que componían el gasto general, no es casual que los miembros de la congregación general del 25 de junio de 1606 deliberasen sobre la conveniencia de utilizar el dinero proveniente de la venta de un grupo de casas para comprar «lugares de montes no vacables de los mejores y mas seguros por no tener tanta hazienda en casas que se gasta mucho en reparos»24. Sin poder entrar en detalles, veamos cómo algunas grandes obras se sucedieron en el tiempo. Si a comienzos de 1576 se arregló parcialmente la casa de la «via della Scrofa», mucho mayor fue el esfuerzo presupuestario al hilo de la ampliación de los inmuebles localizados en «via del Pellegrino» durante el bienio 1577-1578: una inversión de más de 2000 escudos de moneda gracias a los cuales se fabricaron cinco nuevos alojamientos25. Las obras en las casas de la iglesia de Santiago de los Españoles de «via del Pellegrino» constituye uno de los ejemplos más claros de la estrecha relación existente entre evolución de la renta inmobiliaria y transformación física de la ciudad. La casa en la que vivía Agostino de Ferrara fue demolida y en su lugar se edificaron tres residencias unifamiliares verticales compuestas por una tienda en la planta baja y tres pisos de altura26. Para concluir este ambicioso proyecto de recomposición fue imprescindible utilizar algunas de las habitaciones de la casa colindante ocupada por los herederos de César de Alza quienes, pasados algunos meses abandonaron el resto del edificio y los administradores castellanos ya sin ningún tipo de impedimento se apresuraron a dividir en cuatro el espacio disponible. Tipológicamente las casas 58 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO obtenidas al final de estas obras seguían siendo profundas y de planta estrecha, pero aun así la intensiva y atenta programada ocupación del suelo urbano no tardó en dar los resultados esperados. Si hasta 1577 Santiago de los Españoles en el cruce entre la «piazza dei Cappellari» y la «via del Pellegrino» poseía 14 inmuebles equivalentes a una renta máxima de 760 escudos de moneda, desde 1578 el patrimonio en esta zona de la ciudad, desde siempre caracterizada por su vocación comercial y artesanal, ascendió a 19 propiedades con una renta mínima de 1207 escudos, un incremento bruto de un 60% en apenas dos años demostrando hasta que punto la acuciante necesidad de alojamiento por parte de los numerosos inmigrantes que llegaban a la ciudad estimulaba y garantizaba el éxito de tales operaciones inmobiliarias. Asimismo cuando en 1578 Juan Vélez, canónigo de la iglesia de Toledo, dejó libre la casa que ocupaba en la «piazza dei Satiri», la planta baja del edificio se dividió en tres tiendas independientes. Lo mismo ocurrió entre 1581 y 1584 cuando se separaron dos unidades de residencia de la «piazza Navona» para abrir cinco locales destinados a artesanos o comerciantes. En todos estas circunstancias, Santiago de los Españoles, multiplicando la oferta residencial, creaba las condiciones necesarias para capitalizar las inversiones patrimoniales realizadas y desde este punto de vista, no sólo se desprende el interés por salvaguardar la condición material de las fincas, sino que se miraba a incrementar la plusvalía del edificio, aunque ello comportase afrontar desembolsos de una cierta cuantía. Así, por ejemplo, en 1585 se sacaron de la caja donde guardaba el dinero líquido 2000 escudos para restaurar la casa de Juan de Solano localizada en la «piazza Navona»; antes de las obras, la casa producía una renta de 66 escudos de moneda, una vez ultimadas las mejoras, el alquiler pasó a 170 escudos de moneda, es decir un aumento nominal de casi 158% y la seguridad de cubrir los gastos realizados en el plazo de 12 años. Concluyen este ciclo de incisivas transformaciones impulsadas y subvencionadas por la institución castellana las construcciones de los años 1596-1599. En 1596 se empezaron a fabricar tres tiendas en el patio de la casa grande de la «piazza di Santa Chiara»; al final y aunque se había previsto utilizar 300 ó 400, el gasto fue de 1200 escudos de moneda. Los ejemplos hasta ahora propuestos se refieren al último cuarto del siglo XVI pero también a comienzos de la centuria se aprecia el mismo deseo de mejorar arquitectónicamente los edificios como requisito imprescindible para exigir alquileres mucho más altos. El 10 de octubre de 1525 los administradores de la iglesia-hospital concedieron a Cesare di Alexis, clérigo romano, doctor en ambos derechos y caballero de la Orden de San Pedro, una casa en el rione «Campo Marzio»27. El contrato prevé una cesión vitalicia y el pago de un alquiler anual de apenas siete ducados de oro, además de un gasto de otros 60 en obras de restauración. En la escritura de arrendamiento se describe con particular riqueza de detalles el pésimo estado de conservación del inmueble y como se indica en el documento, su irremediable destino a transformarse en pajar o en un montón de escombros si RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA 59 no se realizaba una urgente reforma. Sin embargo, dos meses más tarde, el clérigo romano con su familia ya vivía en dicha casa y las inversiones efectuadas, por encima de los 100 ducados, habían cambiado drásticamente la pésima situación inicial. El inquilino, utilizando su propio dinero, había construido una gran puerta de madera e hierro con peldaños en «peperino», había pavimentado las habitaciones internas, había arreglado las escaleras de madera y ladrillo ad usum modernum reduxit cum armariis et aliis commoditatibus, había instalado desagües para recoger la lluvia y las aguas residuales, había pintado y encalado varios cuartos, en definitiva, había demostrado tanto esmero y buen gusto en la tarea de rehabilitación que los administradores de la iglesia castellana, cuando realizaron una visita para verificar que se habían respetado las condiciones del contrato, no pudieron dejar de reconocer que la vivienda, gracias al tipo y la calidad de las mejoras introducidas, era a partir de ese momento idónea para cualquier curial. El encomio de los oficiales no se limita sólo a resaltar los detalles arquitectónicos de la operación, sino que conlleva un juicio también de carácter económico pues se calcula que los futuros inquilinos en vez de pagar un alquiler anual de apenas 7 ducado de oro, tendrían que desembolsar 26 taliter fiat meliorata. Aunque el caso de Cesare de Alexis constituya un buen ejemplo de un comportamiento muy difundido, no es el único que demuestra hasta que punto la transformación del caserío urbano también dependía de la voluntad de los inquilinos, sobre todo los de mayor poder adquisitivo, de ocupar viviendas cuya superficie fuese cada vez mayor. Desde este punto de vista otro episodio bastante elocuente es el protagonizado por Juan Bejel de Almansa, clérigo de Jaén y escritor de breves apostólicos. El 9 de septiembre de 1574 alquiló una casa y tres tiendas de la «via della Pace» por el precio de una renta anual de 80 escudos de moneda28. Sin embargo dos años más tarde solicitó a la congregación religiosa el permiso para realizar determinados trabajos y los oficiales de Santiago, oída la propuesta, aceptaron que el clérigo había tomado los cuatro inmuebles para vivir con mayor holgura puesto que la casa en cuestión «no sería para ser habitada de otro que de artesanos como primero era por su vejez e incomodidad». A causa de esta situación, el inquilino «en beneficio de la yglesia y comodidad suya» suguiere modificar completamente el inmueble para emparejarlo con los colindantes y de esta forma construir «una buena habitacion comoda a qualquier persona y de mucho provecho de lo que agora es». Los trabajos ascendieron a 500 escudos de moneda a cargo enteramente del inquilino. A finales del siglo XVI cuando se volvió a alquiler la propiedad de la «via della Pace», el arrendamiento ya ascendía a 100 escudos, un aumento del 20% respecto al imperante en 1574. Si ahora nos trasladamos a la cercana «piazza Navona» tampoco aquí el modo de razonar y de entender la gestión patrimonial cambia. Más bien se observa todo lo contrario, es decir se realiza una intensa actividad de transformación física de los edificios, a veces para aumentar el número de unidades de renta, en otras 60 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO circunstancias para obtener unidades de renta más espaciosas y por lo tanto más caras. Desde este punto de vista, cabe destacar como entre 1604 y 1614 varias casas de tradición medieval, largas y estrechas, fueron fundidas en un único cuerpo y la fachada principal fue elevada hasta alcanzar la altura de las demás casas de la iglesia. El resultado es una arquitectura civil homogénea a través de la cual la plaza adquiere su inconfundible semblante barroco. El ejemplo más elocuente de lo que se está diciendo es el del procurador Baltasar Bonadies29 quien el 3 de diciembre de 1599 pidió a la congregación que le fuese cedida la casa contigua al edificio religioso que ocupaba Fernando de Pesquera; de esta forma, uniéndola a la suya, podía construir otra de mucha mayor mole arquitectónica, casi un pequeño palacio en el corazón de la ciudad. La idea fue aceptada y el 13 de febrero de 1600 se firmó un acuerdo por el cual el nuevo inquilino, tras haber recibido el derecho de uso de dos casas y cuatro tiendas, se comprometía a pagar cada año una renta de 485 escudos de moneda y a desembolsar otros 1500 en obras. Al cabo de esta secuencia de construcciones de nueva planta, de restauraciones y de mejoras completas, muchas de ellas de no poca importancia presupuestaria, se debe admitir que el patrimonio inmobiliario de Santiago de los Españoles representa una fiel testimonianza del hondo movimiento de renovación y expansión que caracterizó Roma durante todo el siglo XVI. En ciertas ocasiones, el esfuerzo financiero no fue nada desdeñable, pero existía la certeza de que la presión demográfica y por siguiente la escasez relativa de alojamientos incrementarían el valor de los solares y actualizarían sin excesiva dificultad las entradas, sin excluir por ello la necesidad de adoptar una gestión de claro carácter especulativo y de practicar una agresiva política patrimonial incluso desembolsando gruesas sumas de dinero para cancelar en anticipo los contratos de larga duración30. Del análisis de los datos, emerge con fuerza la tendencia alcista del alquiler inmobiliario expresado en valores nominales. Sin embargo, detrás de esta afirmación que de por sí sintetiza la evolución de toda la capital del Estado de la Iglesia, se esconden procesos no perfectamente convergentes o que en función de la distinta velocidad de crecimiento, al final se tradujeron en un espacio urbano compartimentado en zonas de gran empuje y otras que, si bien al principio punteras, a la larga rezagaron y se distanciaron pasando a ser la parte arcaica del patrimonio. A finales del siglo XV si se exceptúan las casas del rione «Ponte», los alquileres más altos se localizaban en la «via del Pellegrino» y la alta concentración patrimonial en esta zona ocasionaba que fuera la zona que garantizaba una renta más abultada. Un siglo después la situación ya no es la misma pues el alquiler de la «via del Pellegrino» es igual o ligeramente inferior al de las plazas Navona y Santa Chiara. Se perfila pues a lo largo del Quinientos una distinta evolución por la cual el alquiler en las casas de la «via del Pellegrino», incluso siendo alto, creció a un ritmo mucho más lento que el de las viviendas de la «piazza Navona». Esta es la causa que explica por qué el crecimiento porcentual de toda la centuria alterò las posiciones de partida 61 RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA y en razón de ello se delinee un mapa de la ciudad del que se desprende una neta e insalvable fractura entre el núcleo patrimonial de origen medieval en la «via del Pellegrino» y la más moderna barroca «piazza Navona». Cuadro 2 - La renta inmobilaria de Santiago de los Españoles (1500-1609) Año Baiocchi Indice móvil Indice fijo 1500-09 72540 100% 100% 1510-19 89030 23% 23% 1520-29 104380 17% 44% 1530-39 111240 6% 53% 1540-49 178620 60% 146% 1550-59 226910 27% 213% 1560-69 266860 17% 268% 1570-79 366060 37% 405% 1580-89 487010 33% 572% 1590-99 533260 9% 636% 1600-09 628990 18% 768% Fuente: M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., p. 46. Sin embargo apenas concluido el primer cuarto del siglo XVII comenzaron a aflorar los problemas. El patrimonio inmobiliario dejó de crecer; las casas deshabitadas – come testimonian los viajeros del tiempo – eran cada vez más numerosas, y los inquilinos se demostraban reacios a emplear grandes sumas de dinero en la conservación arquitectónica de los edificios. Para la institución castellana, vinculada económicamente al flujo de las rentas inmobiliarias, se acercaban tiempos menos floridos. Así lo testimonia un informe de la segunda mitad del siglo XVII en el cual se reconoce que la institución religiosa carecía de recursos holgados y que había «otras necesidades más precisas en que emplear el dinero»; además se añade, demostrando una posición mucho más prudente, que una gran construcción «dava ocasion a presumir que estava la iglesia muy rica que la potencia, curiosidad o codicia podian entrar a examinar las rentas» y que el «fabricar siempre se comiença por poco y acava con doblados los gastos de los que dicen los architectos». Aunque se trata de un texto que refleja una actitud mucho más cauta resultan muy interesantes los argumentos que se barajan a la hora de indicar lo inoportuno de construir sin tener la adecuada cobertura financiera. ¿Hasta dónde la trayectoria del patrimonio de 62 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO Santiago de los Españoles constituye un caso aislado? Si bien falten estudios similares para otras grandes instituciones religiosas romanas31, es innegable que las decisiones adoptadas por los oficiales de la iglesia-hospital demuestran la palmaria y premeditada implicación en el proceso de expansión y de modernización urbana vivida por Roma entre los siglos XVI y XVII. Gráfico 2 - Renta inmobiliaria de Santiago de los Españoles (100 = 1500-1509) 900% 900% 800% 800% 700% 700% 600% 600% 500% 500% 400% 400% 300% 300% 200% 200% 100% 100% 0% 0% 1500-09 1510-19 1500-09 1510-19 1520-29 1520-29 1530-39 1530-39 1540-49 1540-49 1550-59 1550-59 1560-69 1560-69 1570-79 1570-79 1580-89 1580-89 1590-99 1590-99 1600-09 1600-09 Al margen del clásico modelo de rentistas absentista, Santiago de los Españoles no se limitó a aceptar pasivamente los beneficios que producía la coyuntura alcista, al contrario demostrando ser un propietario atento y responsable utilizó los instrumentos a su disposición – entre ellos los contratos de arrendamiento – para mantener y cuando era posible aumentar el margen de beneficio derivado de su patrimonio inmobiliario32. En tal sentido, además de utilizar los fondos ordinarios poseídos por la institución y de aplicar contratos que dejaban la responsabilidad de la realización de las obras a los inquilinos, la congregación castellana tampoco excluyó la eventualidad de solicitar préstamos para sufragar los gastos derivados de la conservación de los edificios. De esta forma, durante el último cuarto del siglo XVI se estipularon varios contratos gracias a los cuales la iglesia-hospital logró el dinero suficiente para cubrir presupuestariamente el arreglo o la edificación de nuevas casas. El método de crédito era el corriente en estas circunstancias, es decir el censo consignativo o hipotecario. El interés medio de los préstamos ad reparandum ronda el 7% y sumados todos los capitales obtenidos por esta vía, se alcanzó un tercio de los gastos constructivos acumulados durante el periodo 1571-1609. En definitiva, una gran parte de los préstamos solicitados por la institución religiosa no sirvieron para cancelar deudas y tanto menos para el embellecimiento del edificio religioso como mero gasto suntuario, más bien, todos los recursos, tanto RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA 63 ordinarios como extraordinarios, se destinaron a dinamizar la marcha ascendente de la renta inmobiliaria. La explotación de la riqueza inmobiliaria urbana, gracias a la cual la institución gozó de una absoluta estabilidad financiera hasta el momento de su disolución a mediados del siglo XIX33, monopolizaba gran parte de la actividad de los oficiales de la iglesia castellana cuyo norte era, en todo momento, aumentar el rendimiento del patrimonio para asegurar de esta forma unos recursos capaces de sostener y preservar la fama que la institución religiosa tenía en la sociedad romana. Una meta económica racional que trascendía de la pasiva postura de amasar bienes raíces provenientes de donaciones y legados o a lo sumo, conformarse con la amortización de alguna propiedad para luego inmovilizarla en improductivas cesiones vitalicias. A lo largo de todo el siglo XVI Santiago de los Españoles se demostró extraordinariamente permeable a los impulsos provenientes del contexto urbano para acomodar sin bruscas oscilaciones o reveses la marcha de su riqueza patrimonial a la situación económica general. Esta serie de factores implica que la gestión patrimonial de la institución española desembocó en una política intervencionista con ribetes de activo espíritu especulativo, sobre todo, por cuanto concierne la continua revisión de los importes de los alquileres y la reducción de la superficie de las parcelas para aumentar el número de unidades de renta disponibles. Focalicemos este dinámico comportamiento en un periodo de tiempo bien delimitado. Si con anterioridad al 1500 el crecimiento de las entradas se debió a la adquisición de un gran numero de casas, en el primer cuarto del siglo XVI, con un patrimonio ya consolidado, el modo de acceder al grueso de las rentas implicó un comportamiento diferente. Si en 1499 los ingresos inmobiliarios nominales ascendían a 776 ducados de carlinos, en 1527 eran de 1469 ducados. Durante el primer cuarto de siglo del Quinientos, Santiago de los Españolas compró poco más o menos de 10 unidades de renta que en 1527 producían una renta de 263 ducados. Los 1206 restantes provenían de las propiedades existentes ya en el inventario de finales del XV. En otras palabras, de los 1469 ducados de carlinos de 1527, el 18% dependía de las viviendas incorporadas entre 1500 y 1525, el 82% restante se debía al aumento de los alquileres de las propiedades ya poseídas a finales del siglo XV. Una actitud en pos del máximo beneficio que mucho dependía de la continua transformación de las características arquitectónicas de las viviendas, aspecto éste que en el caso específico de Santiago de los Españoles puede ser estudiado en detalle gracias a la existencia de una rica serie di visitas o inspecciones realizadas a lo largo del siglo XVI. Tipología y características arquitectónicas de las viviendas Si la documentación notarial medieval34 proporciona noticias bastante desilvanadas para un correcto conocimiento de la estructura interior y exterior de las casas, en 1530 los administradores Juan de Madrigal y Francisco del Rincón realizaron una 64 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO inspección de las casas que en dicho año poseía la iglesia castellana de Roma35. En total fueron visitadas 52 viviendas y de cada una de ella se realizó una pequeña descripción. Parece lógico pensar que la Visita de las casas de 1530 se efectuó para conocer el estado de conservación de los inmuebles tras el saqueo de 1527 y la riada del 1530, una de las peores sufridas por la ciudad. Aunque la masa de información no sea elevada, si la comparamos con las lacónicas anotaciones que los notarios incluían en los contratos de compraventa o arriendo, la inspección de 1530 constituye sin duda una fuente de gran interés para conocer el estudio de la arquitectura civil de Roma entre la Edad Media y el Renacimiento. Los inmuebles reciben el nombre de domus o domuscula, pero un tipo de alojamiento muy difundido es la domus cum apoteca (el 38% de las fincas), sobre todo en las zonas de la ciudad de mayor tradición comercial y artesanal (via del Pellegrino, piazza Navona, piazza dei Satiri). Según la fuente, el 42,8% de las viviendas recorridas posee dos pisos por encima de la planta baja; el 21,4% un solo piso; el 16,6% exclusivamente la planta terrena y el 14,3% tres pisos además de la planta baja. Los edificios más altos se localizan en la «piazza Navona» (dos o tres pisos), por su parte en la «via del Pellegrino», el otro gran núcleo patrimonial castellano en la ciudad, predominan las viviendas de un único nivel por encima de la planta baja. Superada la puerta de ingreso, el primer ambiente que se encuentra en la planta baja es el atrio donde normalmente está localizado el pozo y la pila para el agua; al fondo del solar suele haber un pequeño espacio descubierto, un huerto o algún local de servicio (establos, cocinas, pajares). A través de las escaleras se sube a la planta principal en la que destaca la existencia de una «sala» o de una «sala con camara» pero tampoco faltan viviendas con una «sala» y dos o más habitaciones. Estas pueden ir de una en las viviendas más modestas del rione «Campo Marzio» a las cinco o seis de las espaciosas casas de «piazza Navona». Un inmueble de la «via del Pellegrino», ocupado por un artesano, consta de una tienda en la planta baja y de dos habitaciones en el piso superior; a pocos metros de distancia, en la misma calle, otro menestral disponía de una sala y cuatro habitaciones. Por lo tanto si en la planta noble la fórmula más corriente es la de una sala y una habitación, en los pisos altos se tiende a reproducir este esquema con mucha mayor flexibilidad, el resultado es un espacio vertical mucho más dividido. Rematan las viviendas azoteas o terrazas descubiertas. En lo referente a los sistemas de conexión en horizontal, además del zaguán y el patio, hay sólo esporádicas menciones a corredores (anditi) que, a juzgar por los comentarios de los administradores, debían de ser espacios de circulación estrechos y poco iluminados. La siguiente visita, la de 155536, incluye una importante novedad que demuestra una creciente sensibilidad hacia la dimensión material de los edificios. En esta circunstancia las viviendas descritas son 72 y de cada una de ellas se indican las medidas del solar. Si éste conserva todavía la regularidad del lote medieval (largo RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA 65 y estrecho) se incluyen el largo y el ancho, pero si el edificio en planta presenta un perfil catastral irregular, es decir, con entrantes y salientes, entonces se especifican las dimensiones de todos los ambientes que componían la planta baja. Por esta y otras razones, se puede considerar el texto de 1555 un instrumento administrativo maduro que refleja un criterio rigurosamente racional a la hora de abordar el control de la dimensión arquitectónica del patrimonio inmobiliario. Realizando un cálculo medio, la superficie de los solares de la casas de Santiago de los Españoles es de 20,84 canne cuadradas, es decir 104,02 metros cuadrados37. Innecesario subrayar las abismales diferencias que se esconden detrás de este dato. Las dos viviendas más amplias, entre la «via dei Chiavari» y la «via del Crocefisso», ocupan respectivamente 146 y 137 canne cuadradas, pero en ambos casos se trata de fincas con amplios jardines traseros. Un poco por debajo se coloca el elegante palacio de la «piazza di San Luigi dei Francesi» (124 canne cuadradas) y en el extremo opuesto tenemos algunas pequeñas tiendas de la «via del Pellegrino» y de la «piazza di San Martinello» (3-4 canne cuadradas). Desde un punto de vista estadístico predominan las viviendas por debajo de las 20 canne cuadradas (el 70%); las que ocupaban entre 20 y 30 canne cuadradas son el 16,6%, mientras que las que están por encima de las 30 canne cuadradas son apenas el 10%. Desde un punto de vista topográfico, las casas de la «piazza Navona» miden 22,13 canne cuadradas (110,46 m2), las del rione «Ponte» 17,68 canne cuadradas (88,25 m2), las de la «via del Pellegrino» 11,48 canne cuadradas (57,30 m2) y las del rione «Campo Marzio» 11 canne cuadradas (54,65 m2). Si se considera que en la Roma medieval38 el lote gótico alcanzaba y superaba con facilidad los 100 m2, a tenor de los datos extrapolados se observan, en el tamaño del parcelario, los efectos de una llamativa densificación de la población en ciertos puntos neurálgicos del llamado «Barrio Renacentista». Al lado de parcelas regulares con muros medianeros rectilíneos perfectamente escuadrados y con una única sección longitudinal y transversal (figg. 1-2), hay otras con contornos perimetrales irregulares resultado de la yuxtaposición axial de habitaciones o espacios de desigual anchura que crean una planimetría quebrada con un continuo juego de encastres con los inmuebles colindantes. Es lo que sucede, por citar el caso más elocuente, en las casas de la «via del Pellegrino» cuyo desarrollo en profundidad se complica a medida que se alcanza el centro de la manzana. Aunque la tienda a la cabecera del lote imprima una notable dosis de uniformidad a la fachada principal, en realidad cada cédula de residencia practica una zonificación que no siempre se ajusta a los márgenes parcelarios primitivos pues los bordes de los solares se ensanchan o se estrechan según las necesidades de cada alojamiento y según la posibilidad de estirarse hasta ocupar los huecos libres existentes en el centro de la manzana (figg. 3-4) 39. El resultado es una saturación del suelo urbano que en las plantas altas conlleva un cada vez mayor «desorden» residencial40. De hecho, el concepto de bloque vertical, en las calles donde más alta era la densidad demográfica se fragmenta 66 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO Fig. 1. Casa de Santiago de los Españoles en via Tor di Nona (año 1680) RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA Fig. 2. Casa de Santiago de los Españoles en via dei Coronari (año 1680) 67 68 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO Fig. 3. Casa de Santiago de los Españoles en via del Pellegrino (año 1680) RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA Fig. 4. Casa de Santiago de los Españoles en via del Pellegrino (año 1680) 69 70 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO pues por la continua superposición de habitaciones ocupadas por diferentes núcleos familiares. Todavía no es correcto hablar de división de la propiedad en apartamentos pero el arrendamiento de un local comercial con una trastienda o un pequeño altillo desgajado de los pisos superiores comienza a erosionar la tradicional identificación entre parcela y núcleo familiar41. Desde este momento, los alojamientos altos ya no siempre coinciden con los inferiores en una única célula residencial y en las plantas bajas se encajan ambientes pertenecientes a las casas adyacentes. Nace de esta forma un hábitat urbano abigarrado, muy poco adecuado para las exigencias de la personas, sin embargo de extrema rentabilidad para el propietario que lo explota y lo ordena en función de sus específicos intereses. El segundo aspecto que destaca de la visita de 1555, también como consecuencia de la presión demográfica, es observar como los edificios han crecido en altura. Si en 1530 lo normal eran los edificios de uno o dos pisos por encima de la planta baja (el 74%), a mediados del siglo XVI la nota dominante la constituyen los edificios de dos y de tres pisos (el 72%). Donde mejor se aprecia este importante cambio es en la «via del Pellegrino» cuyas casas en el plazo de apenas veinte años pasan de ser de planta baja o de un solo piso (el 72,7%) a tener de dos a tres pisos por encima de la planta baja (el 73,3%). Una ciudad, cabe deducir a la luz de la visita de los administradores de Santiago de los Españoles, que ocupa todos los rincones posibles para fabricar una nueva habitación o un nuevo piso, en realidad para los propietarios inmobiliarios cualquier solución era válida, lo que contaba era adquirir nuevos inquilinos y rentabilizar al máximo el control del suelo edificado. Si desde un punto exterior la situación aparece en plena evolución, también por lo que se refiere a la división de los espacios interiores los cambios se comienzan a entrever. Lo usual sigue siendo la «sala cum camera», cuando una sala contiene más de tres habitaciones suele recibir el apelativo de «sala magna» o «sala amplia». Un aspecto que comienza a asomarse a mediados del siglo XVI es el aumento de los espacios de circulación y de las zonas de paso dentro de la vivienda. Las viviendas, desde este momento, adquieren mucha mayor intimidad y de aquí la proliferación de los pasillos. Las sucesivas inspecciones, tanto la de 1576 como la de 158142, se limitan a copiar la de 1555 anotando, si es necesario, los cambios realizados durante estos años. Por este motivo hay que remitirse a la visita realizada entre 1609 y 161043 la cual, por rigor y riqueza de detalles, ocupa un puesto destacado entre las fuentes archivísticas útiles para el estudio de las características de la arquitectura civil de Roma entre los siglos XVI y XVII. El códice contiene la descripción de 80 inmuebles pero esta cifra no da fe de la efectiva consistencia de la riqueza patrimonial de la iglesia castellana porque los numerosos locales comerciales situados en las plazas Navona, Santa Barbara, de la Pace no reciben una numeración propia. Es decir, aunque se alquilaban por su cuenta, las tiendas de las plantas bajas (denominadas de todas formas «membro di questa casa») no fueron inventariadas como unidades de residencia independientes. Por esta razón, RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA 71 sumando las tiendas el patrimonio de Santiago de los Españoles a comienzos del siglo XVII ascendía a unas 120 unidades de renta. En el curso de su realización los administradores del ente religioso tomaron cumplida nota de todo lo que veían y no quedó cuarto o ambiente que no fuera escrupulosamente medido. Se afinan las noticias sobre los sistema de iluminación y de calefacción; sobre los materiales y la forma de los techos, los suelos y las paredes; sobre las cocinas y las habitaciones. En definitiva un prolijo material que proporciona, creando no pocos problemas para un adecuado manejo, una cascada de cifras y de detalles. Los cambios más significativos se aprecian en las viviendas de la «piazza Navona» las cuales, concentradas en torno al edificio religioso, constituyen un válido ejemplo del consolidamiento de un tejido urbano de prestigio. Destinadas al alojamiento de cortesanos y funcionarios de la corte papal, las casas estaban emplazadas sobre grandes superficies y en general se abrían al espacio público de la plaza por medio de un frente de notables dimensiones que englobaba dos o más parcelas precedentes (figg. 5-6). Santiago de los Españoles al ser el propietario de casi toda la manzana podía planificar y realizar semejantes operaciones inmobiliarias sin ningún tipo de problemas, no debía, como a menudo sucedía en otras partes de la ciudad, entablar largos y costosos pleitos con los propietarios de las casas colindantes. De todas formas la integración parcelaria realizada en la «piazza Navona» posee evidentes y claras implicaciones sociales, lo que se trataba de hacer, favoreciendo la construcción de espaciosas viviendas era atraer a inquilinos con un alto poder adquisitivo; por su parte, en la cercana «via del Pellegrino», zona de alojamiento y trabajo para mucho artesanos, se prefirió mantener la estructura de las viviendas (profundas y estrechas), por esto ambos ejemplos demuestran hasta donde la renovación o conservación de la parte edificada de la ciudad dependían de los márgenes de beneficio que se querían crear; a este principio quedaban supeditados tanto el tipo como la función de los edificios. Es decir la trayectoria de Santiago de los Españoles demuestra como el tipo de vivienda cambia cuando su propietario, si las destinaba al alquiler, vislumbraba la posibilidad de exigir una renta más alta, en caso contrario no era imprescindible modificar la situación reinante. A este punto y una vez vista la evolución de la estructura arquitectónica en función de las posibilidades de obtener un mayor alquiler, un tema que no resulta tan fácil de resolver es aclarar la relación que existe entre el número de individuos que componen los núcleos familiares y la superficie de las viviendas que ocupan. Por lo que podemos conjeturar a partir de la información suministrada por los «Stati delle anime» de la parroquia de «San Lorenzo in Damaso», en cuyo caso se ha comenzado a conservar esta importante documentación de tipo demográfico a partir de finales del siglo XVI44, en 1595 había unos 10,7 habitantes en cada casa que Santiago de los Españoles tenía en la «via del Pellegrino», cuatro años después la cifra descendió a 7,07, reducción, que si bien tendría que ser adecuadamente explicada, en este caso específico consiente hipotizar que los inquilinos de los siglos XVI-XVII 72 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO Fig. 5. Casa de Santiago de los Españoles en Piazza Navona (año 1680) RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA Fig. 6. Casa de Santiago de los Españoles en Piazza Navona (año 1680) 73 74 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO tenían muchos menos problemas de espacio que los más reducidos núcleos familiares del siglo XVIII45. Las casas, incluso después de la realización de las obras, siguieron siendo cedidas en alquiler a una única familia, a lo sumo a dos cuando en la planta baja había una tienda, en contra, por ejemplo, de lo que ocurría en Florencia en donde, a finales del siglo XVI, muchas de las viviendas pertenecientes al hospital de «Santa Maria Nuova» poseían más de una cocina para así poderlas dividir por pisos entre varios inquilinos46. En Madrid a mediados del siglo XVII se llegó a tocar la cifra de 12,97 habitantes por vivienda47, dato que en Roma se alcanza sólo dos siglos más tarde48, lo que demuestra aun mejor que a finales del Quinientos y pese haber sido un periodo de intenso crecimiento de la población la situación en la capital del estado pontificio no se caracterizaba precisamente ni por el hacinamiento doméstico ni por la falta de espacio49, tanto si lo que se pretendía era construir nuevas casas como restaurar las ya existentes. Como acabamos de ver Santiago de los Españoles lo hizo con buenos resultados económicos en algunas de las zonas de mayor valor comercial de la ciudad, pero al mismo tiempo otros grandes propietarios religiosos promovieron una intensa labor de parcelización y edificación de las áreas libres al interno del perímetro amurallado50. En ambas circunstancias son instituciones eclesiásticas a pilotar el proceso de transformación física del tejido urbano, pero si en el caso de la iglesia castellana son directamente sus administradores a controlar todo el proceso (desde el proyecto hasta la realización material de las obras), en otras circunstancias, las menos arriesgadas, se opta por ceder los terrenos mediante contratos enfitéuticos a arquitectos y artesanos de la construcción los cuales gracias al pago de un censo cada vez más depreciado acceden al control de una buena parte del parque inmobiliario que luego proceden a vender o alquilar. Manuel Vaquero Piñeiro 1 En 1708 el 38,88 por ciento de las casas de alquiler existentes en Roma pertenecían a instituciones religiosas, C.M. TRAVAGLINI, La proprietà immobiliare a Roma agli inizi del Settecento, en Roma nel primo Settecento. Case, proprietari, strade, toponimi, «Archivi e Cultura», XXVIII, 1995, pp. 33-61. 2 El tema de los arrendamientos y de la renta urbana ha sido materia de estudio para la época contemporánea, cfr. Città e proprietà immobiliare in Italia negli ultimi due secoli, Milano, F. Angeli, 1981. Para la Edad Moderna es de reciente publicación, Proprietari e inquilini, a cura de F. Benfante, A. Savelli, «Quaderni Storici», XXXVIII, 2003, 2. 3 R.A. GOLDTHWAITE, La costruzione della Firenze rinascimentale. Una storia economica e sociale, Bologna, Il Mulino, 1984; ID., Il contesto economico del palazzo fiorentino nel Rinascimento. Investimento, cantiere, consumi, «Annali di architettura», II, 1990, pp. 53-58. 4 R. CURTO, Da un’idea convenzionale di valore al valore di rendimento: estimi e significati della proprietà urbana a Torino, 1850-1914, en Proprietà immobiliaria urbana fra Settecento e Ottocento: Torino, Genova, Lione, «Storia Urbana», XIX, 1995, 2, pp. 67-87. 5 M. BERENGO, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età moderna, Torino, Einaudi, 1999. RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA 75 J. DE VRIES, European Urbanization 1500-1800, London, Methuen and Co., 1984. E. POLEGGI-L. GROSSI BIANCHI, Dinamica della proprietà fondiaria e immobiliare a Genova fra ‘200 e ‘300, en Investimenti e civiltà urbana. Secoli XIII-XVIII, a cura de A. Guarducci, Firenze, Le Monnier, 1989, pp. 743-770; A. MONTI, Alle origini della borghesia urbana. La proprietà immobiliare a Bologna 1797-1810, Bologna, Il Mulino, 1985; ID., Investimenti edilizi e rete urbana in Italia fra Medioevo e antico regime: il caso di Bologna e della regione emiliana, en Persistenze feudali e autonomie comunicative in stati padani fra Cinque e Settecento, Bologna, CLUEB, 1985; M. FORNASARI, Uno spazio urbano d’Antico Regime: Bologna nel Cinquecento, «Storia Urbana», XIV, 1990, 1, pp. 3-31. 8 El 14% de las escrituras notariles romanas del siglo XVII se refieren a contratos de alquiler, R. AGO, Di cosa si può fare commercio: mercato e norme sociali nella Roma barocca, «Quaderni storici», XXXI, 1996, 1, pp. 113-134: 116. En el mismo siglo, en Milán sólo un 7-13% de la población era propietaria de la casa en la que vivía, S. D’AMICO, Le contrade e la città. Sistema produttivo e spazio urbano a Milano fra Cinque e Seicento, Milano, F. Angeli, 1994, p. 44; el porcentaje se reduce drásticamene en Madrid donde, en 1751, sólo el «3 por ciento de los vecinos tenía vivienda en propiedad, mientras que el 97 por ciento restante estaba integrado por inquilinos que no poseían un solo ladrillo», J.M. LOPEZ GARCIA, El henchimiento de Madrid. La capital de la Monarquía hispánica en los siglos XVII y XVIII, en Capitales y corte en la historia de España, Valladolid, Universidad de Valladolid, 2003, pp. 47-104 : 76. 9 L. MUMFORD, La città nella storia, 3 voll., Milano, Bompiani, 1991, pp. 517-523. No sería del todo correcto sostener que en la Europa preindustrial el alquiler de las viviendas estaba al margen de los mecanismos de mercado y que la necesidad de alojamientos se resolvía mediante vínculos de parentela o de solidariedad, P.H. HOBENBERG-L. HOLLEN LEES, La città europea dal Medioevo ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 313. 10 W. SOMBART, Il capitalismo moderno, Firenze, Vallecchi, 1925, pp. 187-194; A. ROSSI, L’architettura della città, Padova, Marsilio, 1966, p. 41. 11 S. ROUX, La casa nella storia, Roma, Viella, 1982, pp. 22-25 y 38-41. 12 L. PALERMO, Sviluppo economico e società preindustriali. Cicli, strutture e congiunture in Europa dal medioevo alla prima età moderna, Roma, 1998, pp. 404-408; ID., Espansione demografica e sviluppo economico a Roma nel Rinascimento, en Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura de E. Sonnino, Roma, Il Calamo, 1998, pp. 299-326. 13 Tra rendita e investimenti. Formazione e gestione dei patrimoni in Italia in età moderna e contemporanea, Atti del III Convegno Nazionale della Società Italiana degli Storici dell’Economia, (Bari, 22-23 novembre 1996), Bari, Cacucci, 1998. 14 A. DE MADDALENA, L’immobilizzazione della ricchezza nella Milano spagnola: moventi, esperienze, interpretazioni, «Annali di Storia Economica e Sociale», VI, 1965, pp. 39-72: 39. 15 J. FERNÁNDEZ ALONSO, Las Iglesias nacionales de España en Roma. Sus orígenes, «Anthologica Annua», IV, 1956, pp. 9-96; ID., Santiago de los Españoles de Roma en el siglo XVI, «Anthologica Annua», VI, 1958, pp. 9-122; M. VAQUERO PIÑEIRO, L’ospedale della nazione castigliana in Roma tra Medioevo e età moderna, «Roma moderna e contemporanea», I, 1993, 1, pp. 57-82. 16 Según la visita apostólica realizada en 1624 las entradas de Santiago de los Españoles ascendían a 11.019 escudos, la más alta de todas las instituciones religiosas extranjeras existentes en Roma, A. SERRA, Problemi dei beni ecclesiastici nella società preindustriale. Le confraternite di Roma moderna, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1983, p. 150. Para las ceremonias organizadas por Santiago de los Españolas en la piazza Navona, M.A. VISCEGLIA, La città rituale. Roma e le sue cerimonie in età moderna, Roma, Viella, 2002, pp. 209-212. 17 Cuando en 1708 las autoridades pontificias decidieron el pago de un impuesto proporcial a las casas alquiladas, Santiago de los Españoles ocupó el tercer puesto (575,84 escudos) sólo por detrás del Ospizio Apostolico dei Poveri Infermi y de la Arciconfraternita della Annunziata, C.M. TRAVAGLINI, La proprietà immobiliare, cit., p. 59. 18 M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de Santiago de los Españoles de Roma entre los siglos XV y XVII, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1999; ID., Auge urbano y renta inmobiliaria. El patrimonio de las iglesias españolas de Roma en el siglo XVI, en Fortuna y negocios. Formación y gestión de los grandes patrimonios (siglos XVI-XX), a cura de H. Casado Alonso, R. Robledo Hernández, 6 7 76 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO Valladolid, Universidad de Valladolid, 2002, pp. 21-43. 19 La única propiedad rural que poseía Santiago de los Españoles era una viña. 20 Para la documentación contable conservada en el actual archivo de los Establecimientos Españoles de Roma, VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., pp. 4-7. 21 Sobre el caso del hospital de San Giacomo degli Incurabili durante el siglo XVIII, E. PAPERETTI, Oneri e profitti di un patrimonio immobiliare: l’Arciospedale di San Giacomo degli Incurabili, en L’angelo e la città. La città nel Settecento, Roma, Palombi, 1988, pp. 87-94: 92-93. 22 A. SERRA, Problemi dei beni ecclesiastici nella società preindustriale, cit., Roma, 1983, pp. 174-175. 23 P. SCAVIZZI, Considerazioni sull’attività edilizia a Roma nella prima metà del XVII secolo, «Studi Storici», IX, 1968, 1, pp. 171-192. 24 M. VAQUERO PIÑEIRO, Las rentas y las casas, cit., p. 135. Parálisis en los gastos para la conservación material de las casas documentada también en la propiedad laica, M. BEVILACQUA, Il Monte dei Cenci. Una famiglia romana e il suo insediamento urbano tra medioevo ed età barocca, Roma, Gangemi, 1988, p. 78. 25 M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., p. 135. 26 Una de las principales características de la arquitectura doméstica era la enorme maleabilidad funcional de las viviendas y de las partes que la componían, E. CONCINA, Venezia nell’età moderna. Struttura e funzioni, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 186-187. 27 M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., p. 122. 28 Ivi, p. 123. 29 Ivi, pp. 124-125. 30 M. VAQUERO PIÑEIRO, Coyuntura urbana y gestión inmobiliaria en Roma a mediados del siglo XVI, en Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière dans le villes de France et d’Italie (XIIeXIXe siècles), Rome, Ecole Française de Rome, 1995, pp. 227-251: 247-251. 31 El caso de los patrimonios del hospital de San Giacomo degli Incurabili o del convento de San Silvestro in Capite confirma el fuerte crecimiento del último cuarto del siglo XVI y la brusca caída a partir de los años veinte del siglo XVII, R. FREGNA, La pietrificazione del denaro. Studi sulla proprietà urbana tra XVI e XVII secolo, Bologna, CLUEB, 1990, pp. 42-47. 32 Otras instituciones religiosas propietarias de patrimonios inmobiliarios mucho más numerosos no demostraron igual dinamismo de gestión, R. MONTEL, Le “casale” de Boccea d’après les archives du Chapitre de Saint-Pierre (fin XIVe-fin XVIe siècle), «Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen Age - Temps Modernes», XCI, 1979, 2, pp. 593-617. 33 Para una comparación con la situación predominante en otras ciudades italianas, A. PASTORE, Usi ed abusi nella gestione delle risorse (secoli XVI-XVII), en L’uso del denaro. Patrimoni e amministrazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia (secoli XV-XVIII), a cura de A. Pastore, M. Garbellotti, Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, «Quaderni», 55, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 17-40. 34 G. CURCIO, I processi di trasformazione edilizia, en Il rione Parione durante il pontificato di sistino: analisi di un’area campione, en Un pontificato ed una città: Sisto IV (1471-1484), Città del Vaticano, Scuola vaticana di paleografia, diplomatica e archivistica, 1986, pp. 706-732; E. HUBERT, Espace urbain et habitat à Rome. Du X siècle au XIII siècle, Ecole Française de Rome, Roma, 1990. 35 ARCHIVO ESTABLECIMIENTOS ESPAÑOLES EN ROMA (desde ahora AEER), n°72, pp. 26-29. También, VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., pp. 100-102. 36 AEER, n°1645. 37 Una canna cuadrada romana son 100 palmos cuadrados equivalentes a 4,991730 metros cuadrados; para las medidas usadas en Roma C.P. SCAVIZZI, Edilizia nei secoli XVII e XVIII a Roma. Ricerca per una storia delle tecniche, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1983, pp. 19-27. 38 E. HUBERT, Espace urbain, cit., p. 153; R. KRAUTHEIMER, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma, Edizioni dell’Eleante, 1980, p. 153. 39 El libro con las plantas de las casas fue realizado en 1680 por el arquitecto Giovanni Antonio de Rossi, AEER, n°190. 40 La política fiscal pontificia introducida en el siglo XVIII aceleró el proceso, E. PAPERETTI,I L’uso della casa: la dinamica dei tipi, en L’angelo e la città, cit., pp. 119-123. 41 También la documentación parroquial del siglo XVII refleja la progresiva disfunción entre núcleo RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA 77 familiar y bloque edificado, S. PASSIGLI, Gli stati delle anime: un contributo allo studio del tessuto urbano di Roma, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CXII, 1989, pp. 293-340. 42 AEER, n°1327b y 1644. 43 AEER, n°68. Para esto muy útil también el «Libro de las rentas y azienda de casas, censos y montes desta Iglesia (1617-1617)», Ivi, n°66. 44 Fonti per la storia della popolazione, vol. 1: Le fonti parrocchiali di Roma e del territorio vicariale, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1990, p. 53, (Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato, 59). 45 H. GROSS, Roma nel Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 74. 46 F. BENFANTE, Le proprietà urbane dell’ospedale di Santa Maria Nuova (Firenze, XVI-XVIII secolo), en Proprietari e Inquilini, cit., pp. 325-344: 329. 47 J.M. LOPEZ GARCIA, El henchimiento, cit., p. 50. 48 D. FELISINI, La mania del mattone. Investimenti immobiliari nella Roma dell’Ottocento, «Città e storia», 2004, numero speciale per il Congresso AISU, pp. 131-139. 49 Es cierto que sabemos muy poco sobre el subalquiler y de ahí que resulte imposible calcular cuantas de las habitaciones y locales en teoría alquilados a una única familia después eran cedidos por alquileres reales mucho más altos, R. FREGNA, La pietrificazione, cit., pp. 136-137. Hasta ahora podemos sólo formular conjeturas de un fenómeno muy difundido el cual, a causa del recurso a acuerdos orales, resulta muy difícil interceptar en las fuentes, R. AGO, Economia barocca. Mercato e istituzioni nella Roma del Seicento, Roma, Donzelli, 1998, pp. 169-171 y pp. 178-180. 50 R. FREGNA, La pietrificazione, cit., pp. 130-133. L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE: CANONICI, PRIVATI E STRATEGIE DI RIQUALIFICAZIONE URBANA* Come è noto, l’area attorno alla basilica di Santa Maria Maggiore è profondamente segnata dai lavori voluti da papa Sisto V (1585-1590) e realizzati da Domenico Fontana. L’obelisco e la cappella Sistina, la riconfigurazione del lato nord della piazza, con l’abbattimento di antiche chiese e irregolari isolati in funzione del nuovo perimetro della villa papale, il sistema di rettifili a completamento di via Merulana realizzata sotto Gregorio XIII, la «messa in isola» del complesso basilicale, con l’abbattimento di un’ala dell’antico Patriarchio liberiano, e gli ingenti sbancamenti di terreno determinarono in pochi anni un energico riassetto ancor oggi leggibile, nonostante i radicali mutamenti successivi all’unità d’Italia. Gli interventi dell’epoca di Paolo V Borghese (1605-1621), che pure tanto ha contribuito alla riqualificazione della basilica (fig. 1), non appaiono invece con altrettanta evidenza; tuttavia, ciò non è tanto imputabile al minore peso delle proposte, quanto a differenti modi operativi e finalità, che si rispecchiano anche nel maggiore coinvolgimento dei soggetti privati e istituzionali rispetto alle autocratiche scelte sistine. Certo, ci sono iniziative che si muovono per alcuni aspetti in continuità e con spirito di emulazione nei confronti dell’operato di Sisto V. Ad esempio, alcune fonti ci informano sulle intenzioni di Paolo V di realizzare altri grandi rettifili, anche se, al posto delle basiliche maggiori, le mete prescelte hanno una connotazione più legata alle esigenze pratiche della corte papale. Nel 1610 si parla della possibilità di collegare direttamente la basilica liberiana con il Quirinale e nel 1613 si ha notizia di un eventuale rettifilo, intermedio fra le vie Merulana e Felice, in direzione di Porta San Giovanni1. Se i due tratti stradali fossero stati realizzati, si sarebbe ottenuto un sistema in grado di collegare il nuovo palazzo papale alla volta dell’Appia e quindi delle residenze tuscolane: tuttavia tali idee erano destinate a restare sulla carta e le concrete scelte avrebbero seguito altri criteri. Anche un altro intervento sembra situarsi in una prospettiva di continuità. Per completare la regolarizzazione del lato nord di piazza Santa Maria Maggiore, iniziata 80 AUGUSTO ROCA DE AMICIS da Sisto V, viene abbattuto nel 1612 il lungo isolato di modeste abitazioni (fig. 2), in parte di proprietà dei canonici liberiani e in parte dei chierici e beneficiati, posto di fronte alla chiesa e all’ospedale di Sant’Antonio Abate2. Ma tale demolizione va anche considerata come complementare alla realizzazione del corpo di fabbrica a destra del portico della basilica, destinato alle sagrestie e agli ambienti per i canonici3. Si inaugura così un nuovo modo di operare, che verrà concluso solo alla metà del Settecento, dove residenze e spazi funzionali, prima decentrati nell’attiguo e frammentario aggregato suburbano, vengono riassorbiti nel blocco della rinnovata basilica posta in isola, oppure dislocati lungo il perimetro della piazza riconfigurata, in modo da unificare gli episodi eterogenei e le smagliature lasciate aperte dalle demolizioni sistine4. Il complesso di Sant’Antonio Abate, liberato dall’isolato antistante, si espande poi, lungo il nuovo filo della piazza, con una serie di case da affittare a fianco dell’ospedale. La veduta di Greuter, del 1618, registra con precisione tale fase costruttiva, all’epoca non ancora portata a compimento (fig. 1). Le «case nuove fabricate sopra la piazza di santa Maria Maggiore» risultano completate per l’Anno Santo 16255, con quattro botteghe, e le vedute della seconda metà del Seicento (fig. 3) mostrano che le abitazioni, adibite anche a granai, avevano subito una rifusione e si presentavano come un blocco unitario che connotava con forza il lato nord della piazza in prossimità della basilica. Se in questo episodio è quindi lecito leggere una maggiore attenzione a contemperare le differenti istanze di più parti in causa, tanto più rilevante è il peso dei soggetti privati nel definire l’area a sud della basilica, dove un ruolo determinante viene assunto dal canonico liberiano Odoardo Santarelli da Sassoferrato. Rappresentativa figura di un ceto ecclesiastico dalle solide competenze in fatto di pubblica amministrazione, Santarelli si era distinto nell’organizzare gli aiuti in occasione della grave piena del Tevere nel 1591, e all’epoca di Paolo V era divenuto segretario della congregazione De bono redimine, oltre ad avere un ruolo centrale nelle congregazioni sopra le acque di Romagna e sopra il Tevere6. Come canonico liberiano egli dette impulso alla realizzazione della cappella Paolina7, e più in generale si distinse, col suo spiccato senso pratico, nell’assicurare beni e rendite per la basilica. In uno scritto a lui attribuibile8, Santarelli, nell’evidenziare il particolare legame con Paolo V, elogia concisamente le benemerenze di papa Borghese per la basilica ricordando tre imprese. Anzitutto, com’è ovvio, egli menziona la costruzione della cappella Paolina e la colonna dedicata alla Vergine antistante la facciata. Va notata, a tale riguardo, la diversa incidenza urbana di questi episodi rispetto agli analoghi precedenti sistini: mentre la cappella di Domenico Fontana è un ‘a solo’ centrico e ben distinto, la Paolina, con i suoi annessi, fa corpo con il blocco basilicale e pone le premesse di una concezione unitaria dei prospetti laterali. Inoltre, mentre l’obelisco sistino è il traguardo assiale di Strada Felice, con il monumento mariano Maderno, secondo una più sottile strategia di «sorprese» visive, sperimenta un rapporto più concluso tra facciata e largo anti- L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE 81 Fig. 1. L’area di Santa Maria Maggiore all’epoca di Paolo V nella veduta di Matteo Greuter (1618) Fig. 2. Santa Maria Maggiore all’epoca di Sisto V in un affresco del Salone Sistino della Biblioteca Vaticana: a destra è visibile l’isolato di case appartenenti ai canonici e ai chierici della basilica, a sinistra il Patriarchio liberiano (da Santa Maria Maggiore a Roma, a cura di C. Pietrangeli, Firenze, Nardini Editore, 1988) 82 AUGUSTO ROCA DE AMICIS stante, ubicando la colonna proveniente dal Templum Pacis – una volta accantonata l’idea di farne la meta dell’irrealizzato rettifilo verso porta San Giovanni – in modo da non farla fuoriuscire dal filo sud della strada per Santa Croce. Di problematica interpretazione, ma rivelatoria di una particolare attenzione, è però la terza e ultima impresa paolina ricordata da Santarelli: l’acqua «condotta da lui in buona copia su questo Colle Esquilino […] per la commodità pubblica e per la privata di molti, che hanno preso animo di riempire la vicinanza delle case nuove, che da vent’anni in qua vi sono cresciute»9. È ben noto che l’Acqua Felice venne condotta in questa zona da Sisto V, eppure, nonostante l’indubbia forzatura encomiastica, anche questa affermazione è fondata. Sappiamo infatti che negli anni di Sisto V i lavori per l’acquedotto erano stati condotti con una fretta che aveva causato vari contrattempi, tra i quali una portata inferiore alle aspettative. Sin dal 1606 risulta che Girolamo Rainaldi venne incaricato, prima, di individuare «donde provvene il mancamento» dell’acqua, poi di realizzare una pianta dell’acquedotto «per sapere perpetuamente come camini», e infine, nel 1609, di procedere a vari accomodamenti, seguendo il nuovo rilievo10. Dopo questi lavori, alla fine del 1614 venne realizzata una nuova conduttura che, dal «Condotto Maestro» presso porta San Lorenzo, portò l’acqua alla fontana presso la colonna della Vergine11; una destinazione pubblica in grado di servire meglio l’urbanizzazione nelle vicinanze della basilica. Monsignor Lelio Biscia venne incaricato nel novembre del 1615 di provvedere alle concessioni ai privati del «ritorno» dell’acqua, immagazzinata in un’apposita «botticella nel piedestallo della colonna»12. Come ci riferisce in un’opera stampata il cugino Antonio Maria13, l’ingegno di Odoardo Santarelli è messo alla prova soprattutto dalla questione dell’antico Palazzo Patriarcale che, una volta distrutta da Sisto V l’ala di raccordo con la basilica, occupava, pur se in condizioni di estremo abbandono, il fronte sud della piazza girando per via dell’Olmata (fig. 2). Il palazzo venne acquisito dal cardinale Filippo Boncompagni, nipote di Gregorio XIII e arciprete della basilica, con l’impegno di restaurarlo e ospitarvi la Cappella musicale liberiana, assieme ad altre funzioni. Alla morte di Boncompagni divenne arciprete il cardinale Domenico Pinelli, che però, entrando in possesso del palazzo, non si ritenne vincolato dagli obblighi contratti dal predecessore, e così il Patriarchio continuò a fruttare un modesto introito quale deposito di granaglie, più le rendite dell’ampio orto, mentre il capitolo era tenuto a pagare le pigioni a «cantori, putti soprani e loro Maestri». Da qui una causa di Rota tra capitolo e arciprete, che si concluse il 15 marzo 1604 a favore dei canonici. Pinelli, non volendosi impegnare in spese eccessive, donò il palazzo a papa Clemente VIII, che alla fine lo restituì al capitolo. Una volta chiusa la complessa vertenza, restava il problema di come utilizzare un immobile di scarsa redditività e in condizioni degradate, ma per arrivare alla soluzione definitiva si dovette attendere fino al 1615, quando Santarelli pensò di dare in enfiteusi singole parti del palazzo per ristrutturarle, realizzandovi confortevoli abitazioni. Egli stesso dette l’esempio per L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE 83 primo, prendendo due stanze del palazzo, da cielo a terra, per ricavarne un palazzetto con giardino e fontana per conto di Aurelio Ridolfi, un orfano minorenne divenuto suo pupillo: la struttura rigorosamente modulare del Patriarchio favoriva questa singolare suddivisione ‘a fette’. A questo contratto ne seguirono altri consimili per il gentiluomo Ridolfo Roncalli e i canonici liberiani Lorenzo Amatorio e Pompeo Pasqualini. Gli spazi residenziali per i canonici, non sufficientemente garantiti dalle costruzioni annesse alla basilica, vengono così assicurati con questa innovativa forma di semiprivatizzazione. L’intero palazzo venne presto ridotto «in diverse habitationi con giardinetti e comodità bonissime da famiglia»; in questa fase iniziale le residenze appaiono di livello medio-alto, seguendo la tipologia del palazzetto e non della casa a schiera per artigiani (fig. 4). Ma perché, per arrivare a tale soluzione, dopo l’acquisizione del palazzo nel 1604, si dovettero aspettare ben dodici anni? L’autore della cronaca, Antonio Maria Santarelli, riferisce una causa non secondaria, ossia la scelta inequivocabile di Paolo V di eleggere il palazzo del Quirinale a effettiva residenza papale, spostando decisamente il baricentro della vita di corte, cosicché i curiali si vedono «quasi disloggiare dalle habitationi di Borgo, et altre parti simili estreme della città contrapposte à Monte Cavallo, per avvicinarsi quanto più si poteva alla Corte». Inoltre bisogna anche considerare gli effetti indotti dal migliorato servizio idrico. Nel 1615, come si è detto, il papa dispone, tramite monsignor Biscia, preposto agli acquedotti, di concedere il «ritorno» dell’acqua della fontana da poco ultimata ai residenti; e, difatti, l’anno successivo Santarelli ne ottiene un’oncia per la sua nuova abitazione, con una singolare modalità di pagamento: egli si era infatti impegnato a finanziare in cambio i lavori di sterro, eseguiti dall’architetto Gaspare De Vecchi, per regolarizzare la piazza fra la colonna e la chiesa di Sant’Antonio14. Ma bisogna aggiungere che la valorizzazione dell’area del Patriarchio liberiano, nella sua ritrovata vicinanza rispetto al palazzo papale, si inserisce in un fenomeno ancora più ampio di urbanizzazione del rione Monti avvenuta proprio in quegli anni, in un clima di stabilità economica e di crescita demografica. Un’urbanizzazione che, connettendosi all’area dei Pantani e attestandosi presso via Madonna dei Monti (l’Argiletum romano), popolata già per tutto il Medioevo, si avvicinava rapidamente all’altura della basilica liberiana. Nel 1610 viene aperta via Baccina, che procede parallelamente a via Madonna dei Monti. Intorno al 1614, entro un vasto appezzamento di terreno compreso tra via dei Serpenti e il Vico Patrizio, vengono tracciate via delle Carrette, via del Boschetto e via Cimarra; infine via Paradisi viene aperta nel 1615. Sono operazioni finalizzate all’immediata costruzione di case, dove gli interessi dei privati vengono mediati dai Maestri e Sottomaestri di strade che regolano i nuovi assi viari, e dove si verificano operazioni speculative di ridotta portata, con i proprietari che costruiscono piccoli quartieri di case da dare in affitto15. Ora, tutta l’operazione del capitolo liberiano è molto vicina a tale impostazione, e lo stesso Antonio Maria 84 AUGUSTO ROCA DE AMICIS Fig. 3. La piazza antistante alla basilica con le case di Sant’Antonio Abate nella veduta di Lievin Cruyl (particolare, Roma, Palazzo Braschi; da Santa Maria Maggiore, cit.) Fig. 4. Le case ricavate dal Patriarchio ristrutturato nella veduta di Lievin Cruyl (particolare, Roma, Palazzo Braschi; da Santa Maria Maggiore, cit.) L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE 85 Santarelli ne accenna, sia pure con una certa riluttanza, quando indica che Odoardo avrebbe badato solo ad aumentare le rendite della basilica, «se ben poi tutto questo augmento di case et habitationi hà portato secondariamente al Signor Giovanni Santarelli fratello di detto Monsignore anco utile di consideratione per lo smaltimento de’ siti propri contigui»16. Sappiamo che Giovanni era stato dapprima avviato alla carriera ecclesiastica assieme a Odoardo, poiché i Santarelli avevano pensato, secondo un consolidato schema di affermazione familiare, di affidare la continuità della discendenza a un terzo fratello, Paris, ma l’inaspettata morte di quest’ultimo aveva fatto tornare Giovanni allo stato laicale17. Nonostante l’excusatio di Antonio Maria, la documentazione indica che l’urbanizzazione nell’area del palazzo patriarcale è frutto dell’intesa tra esponenti ecclesiastici e secolari della famiglia Santarelli e dell’appoggio di Paolo V. Un’operazione dove corposi utili e interessi privati si contemperano con l’esigenza di dare maggiori rendite alla basilica e – fine non ultimo – di collegare senza più discontinuità il complesso liberiano all’abitato (fig. 5). Giovanni Santarelli risulta, almeno a partire dal 1608, possessore di un’ampia area compresa tra l’antico rettifilo del Vico Patrizio e via Suburra: le proprietà confinavano, verso il primo lato, con quelle di Santa Maria Maggiore e, verso il secondo, con quelle di Santa Prassede18. Ora, per quanto alcuni documenti, reperiti da Klaus Schwager, indichino che l’idea di ristrutturare il Patriarchio per farne abitazioni risaliva almeno al 1610 e che i primi lavori in tal senso erano stati realizzati tra il 1613 e il 161419, l’impressione è che la situazione si sblocchi e trovi una rapida accelerazione solo nel quadro di un più vasto disegno urbano, che vede il concorso dei proprietari vicini, sancito in un breve papale emesso il 6 aprile 161520. Da questo documento apprendiamo che l’intera zona viene pianificata unitariamente al fine di suddividere le proprietà del capitolo, pronte ad essere lottizzate, mediante due rettifili: il primo, in asse con la grande targa celebrativa all’esterno della cappella borghesiana, è la «strada dell’inscrittione», ovvero l’attuale via Paolina; il secondo, che stabilisce il confine tra l’area del capitolo e quella di Giovanni Santarelli, è via dei Quattro Cantoni, che istituiva un collegamento diretto fra il tratto conclusivo di via Panisperna e via Suburra. Anche due proprietari minori chiedono di poter acquisire alcune aree confinanti al fine di potervi costruire, in applicazione della bolla di Gregorio XIII Quae publice utilia; ma le loro richieste non vengono approvate, in quanto la collocazione dei loro terreni non consentiva di formare una chiara intelaiatura stradale21. L’apertura delle strade non comportò rilevanti demolizioni, ma l’occasione tornò utile per demolire un granaio all’incrocio fra via dei Quattro Cantoni e via Panisperna che aggettava rispetto al rettifilo sistino22. I nuovi tracciati implicano una suddivisione più razionale delle proprietà, e infatti il capitolo permuta una sua vigna vicina a San Lorenzo in Fonte, ossia presso le tenute di Giovanni Santarelli, con una vigna di quest’ultimo «contigua nell’horto di Palazzo Vecchio»23. Inoltre, a est di via dei Quattro Cantoni si apre, in quegli stessi Fig. 5. L’area di Santa Maria Maggiore all’epoca di Paolo V: A - via Graziosa; B - via dei Quattro Cantoni; C - via Paolina; D - via dell’Olmata; 1 - villa di Domenico Fedini, primo nucleo di villa Sforza; 2 - residenze di privati e canonici liberiani ricavate nelle strutture dell’antico Patriarchio; 3 - casa di Pietro Bernini; 4 - palazzo di Cesareo Montano e case d’affitto su via Paolina; 5 - prospetto esterno della Cappella Paolina di Santa Maria Maggiore; 6 - fontana e colonna mariana (in evidenza gli allineamenti della colonna); 7 - sagrestie e ambienti per i canonici aggiunti alla basilica; 8 - isolato dei canonici, chierici e beneficiati demolito; 9 - case nuove di Sant’Alberto all’Esquilino 86 AUGUSTO ROCA DE AMICIS L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE 87 anni, il tratto iniziale di via Graziosa, toponimo forse da ricondurre a una «Gratiosa di Raffaello» che compare come proprietaria di una casa nei terreni di Giovanni24. Va poi notato che con il sistema stradale di via Paolina e di via dei Quattro Cantoni risulta ammortizzato quel forte dislivello che non era stato preso in considerazione all’epoca di Sisto V nell’aprire via Panisperna, dove lo scosceso tratto in prossimità di Santa Maria Maggiore non favoriva la costruzione di abitazioni. Tra le prime licenze per costruire nelle pertinenze della basilica troviamo, il 14 ottobre 1614, quella per la casa di Pietro Bernini «scultore fiorentino», all’angolo con via Panisperna; anch’egli, nel 1620, avrebbe beneficiato dell’acqua condotta a Santa Maria Maggiore da Paolo V, ottenendone la concessione con l’obbligo di realizzare a proprie spese una fontanella pubblica25. Nel maggio del 1616 compare la prima licenza per costruire nella «strada che si è aperta di nuovo rincontro al palazzo del Sig. Ottavio Costa», ossia via dei Quattro Cantoni26. Infine, nel 1617 è documentata la realizzazione di alcune case che proseguono il filo del Patriarchio lungo via dell’Olmata, strada regolarizzata nel 1604, quando ai padri di Santa Prassede venne concesso di occupare suolo pubblico per recingere il proprio giardino lasciando 60 palmi di larghezza stradale27. L’operazione, considerata ora nella sua globalità, comporta quindi diversificate modalità di intervento da parte dei privati. Tornando nell’area dell’antico palazzo patriarcale troviamo, infatti, oltre ai contratti stipulati dagli stessi canonici, l’interessamento di un personaggio facoltoso, Cesareo Montano, segretario di alcuni Monti camerali e forse non estraneo alla “svolta” sancita dal breve del 1615. Questi prende in enfiteusi dapprima una parte dell’orto, poi altre zone, e realizza, in quello stesso 1615, un palazzo per sé accanto a quello di Pietro Bernini28; egli completa inoltre la sua iniziativa costruendo, a partire dal 1618, una serie di case adiacenti al palazzo, lungo via Paolina, da dare in affitto. Nota Antonio Maria Santarelli riguardo questa operazione che, nel quadro generale di accelerata crescita edilizia, Montano poté godere ben presto dei suoi immobili, realizzati «quasi a guisa di una Colonia di questa Basilica, perché insomma dove corre il denaro, si trova strada di camminar le fabbriche prosperamente nella Città di Roma»29. Il termine «colonia» non è tanto differente da quello usato, pochi anni prima, per una consimile operazione condotta dall’architetto Carlo Lambardi nelle vicinanze della Basilica di Massenzio, dove, come riporta il Baglione, «fabricò alcune case, e Contea le addimandava […] e ne ritraheva buona rendita»30. Nel complesso, i contratti di enfiteusi stipulati garantirono al capitolo liberiano 700 scudi annui al posto dei 50 riscossi in precedenza. Una licenza del 6 ottobre 1620 a un altro canonico liberiano, Domenico Fedini, nelle proprietà di Giovanni Santarelli, conclude idealmente questa prima fase di riqualificazione della zona, poiché si riferisce al primo nucleo della futura villa Sforza, voluta, come testimonia anche Fioravante Martinelli, da questo erudito ecclesiastico «intendentissimo» di architettura31 e posta a chiudere come meta visiva il rinnovato asse di via dell’Olmata. Va notato come la limitata scala di interventi qualificanti 88 AUGUSTO ROCA DE AMICIS Fig. 6. Via Paolina e la cappella papale oggi L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE 89 come questo – ma si pensi anche al sorvegliato rapporto tra il breve rettifilo di via Paolina e il fronte dell’omonima cappella papale (fig. 6) – introduca un nuovo tono rappresentativo, che non si riscontra nei prolungati cannocchiali prospettici sistini; un rapporto di reciproca commensurabilità tra ambiente urbano e monumento che, pur con altri esiti, si sarebbe rivelato un prezioso retaggio per le più mature realizzazioni della Roma barocca. In conclusione, con questa accorta politica di mediazioni, intese e interventi, le istituzioni e i privati agiscono entro una dimensione rappresentativa di scala più ridotta rispetto all’impatto impositivo del disegno sistino, ma molto più elastica e pratica. Inoltre, bisogna considerare che, mentre i rettifili di Sisto V restarono a lungo scarsamente costruiti, è solo ora e proprio con questo differente approccio che l’area della basilica liberiana viene saldata con l’abitato del rione Monti, e quindi col centro della città, in un continuum costruito; viene portata così a compimento quella secolare indicazione di strategia urbana che era stata perseguita, con sgravi ed esenzioni fiscali ma senza risultati tangibili, sin dalla lontana epoca di Nicolò V32. Ed è solo grazie a tale modo di procedere, poco appariscente quanto incisivo, che l’affermazione di Paolo V, nel suo breve del 1615 – «desideramus ut totus Mons […] et precipue loca d.ae Basilicae adiacentia, et viciniora habitationibus et habitatoribus quanto citius possibile frequententur» –, non è restata, come in precedenza, lettera morta. Augusto Roca De Amicis * Il presente saggio si inserisce in un progetto di ricerca, coordinato da chi scrive, sullo sviluppo urbano nella Roma di Paolo V Borghese. Ringrazio Fabrizio Di Marco e Marisa Tabarrini per le indicazioni documentarie, pertinenti alla ricerca, qui anticipate. J.A.F. ORBAAN, Documenti sul Barocco in Roma, «Società Romana di Storia Patria», 1920, p. 182 (25 dicembre 1610) per l’idea di un collegamento diretto tra la basilica e il Quirinale, e p. 230 (17 dicembre 1614) per una strada fra la colonna mariana e porta San Giovanni. 2 ARCHIVIO LIBERIANO, b. 413, int. 4, 3 giugno 1612. I chierici e beneficiati ricevono 550 scudi di indennizzo dal capitolo per «adempire il gettito già principiato con la demolitione delle case del Capitolo de S.ri Canonici di d.a Chiesa nell’Isola di case vicina al Portone dell’Ill.mo S. Card.le Montalto e dell’Hospedale di S. Antonio e per seguire la demolitione ancora delle case in essa isola spettanti alla Massa di dd.i Beneficiati e Chierici». 3 K. SCHWAGER, Die Architektonische Erneuerung von S. Maria Maggiore unter Paul V. Bauprogramm, Baugeschichte, Baugestalt und ihre Vorausszetungen, «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 20, 1983, pp. 241-311. 4 Per un’efficace sintesi, anche grafica, delle vicende della piazza vedi H. SCHLIMME, e La facciata d’ingresso di Santa Maria Maggiore da Gregorio XIII a Ferdinando Fuga, in Architettura: processualità e trasformazione, a cura di M. Caperna e G. Spagnesi (Atti del convegno internazionale di studi, Roma 1999), Roma, Bonsignori Editore, 2002, pp. 483-488. 5 Per le notizie su queste case cfr. ARCHIVIO DEGLI ANTONIANI DI ROMA, presso la Pontificia Accademia Ecclesiastica, vol. 22, ff. 55r-62. 1 90 AUGUSTO ROCA DE AMICIS 6 A.M. SANTARELLI, Memorie notabili della Basilica di Santa Maria Maggiore e di alcuni suoi Canonici nelli Pontificati di Clemente VIII. Leone XI. Paolo V. e Gregorio XV. SS. Mem., Roma, Francesco Cavalli, 1647. 7 Cfr. S. OSTROW, L’arte dei papi. La politica delle immagini nella Roma della Controriforma, Roma, Carocci, 2002, pp. 132-133. 8 A. FASCINA, Memorie de’ Benefattori antichi e moderni della Basilica di S. Maria Maggiore di Roma, Roma, Francesco Corbelletti, 1634. L’attribuzione del testo a Odoardo Santarelli è in A.M. SANTARELLI, Memorie, cit., pp. 13-14: Fascina avrebbe svolto solo un ruolo di prestanome. 9 A. FASCINA, Memorie, cit., p. 10. 10 ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (d’ora in poi ASR), Congregazione super viis, pontibus et fontibus, vol. 2, ff. 116v, 142v, 143v, 145v, 147r, 148r, 178r. 11 ASR, Notai del Tribunale Acque e Strade, vol. 44, ff. 783-784: «Adi 27 novembre 1614. Capitoli e patti da osservarsi dalli sottoscritti capomastri muratori per l’opera di muro del Condotto da farsi che cominciarà dal Condotto Maestro dell’Acqua felice et portarà l’acqua nella piazza di S.ta Maria Maggiore da farsi di tutta spesa robba et fattura delli Maestri per il prezzo che qui sotto sarà dichiarato secondo che da Architetto e Ministri deputati sopra di ciò gli sarà ordinato. Si caverà il fosso per d.o condotto nella strada che va a d.a porta di S. Lorenzo vicino al muro della vigna dell’Ill.mo S.re Card. le Montalto o in qualsivoglia altro luogo, che gli sarà ordinato». 12 ASR, Presidenza delle Strade, Instrumenti, vol. 29, f. 72r. Per la fontana vedi C. D’ONOFRIO, Le fontane di Roma, Roma, Romana Società Editrice, 1986, pp. 337-338, con bibliografia precedente. L’importanza della riserva d’acqua sotto la colonna è notata anche da L. ALLACCI, Romanae aedificationes curatae a Laelio Biscia S.R.E. Cardinale, a Leone Allatio conscriptae, Padova, Sardi, 1644, trascrizione in E. TARAMELLI, R. ALBERTAZZI, A. DRAGHI, Un documento sulla Roma di Paolo V, «Ricerche di Storia dell’Arte», 1976, 1-2, Il Seicento / documenti e interpretazioni, pp. 129-148: 135. 13 A.M. SANTARELLI, Memorie, cit. Per le notizie qui di seguito riportate cfr. pp. 46-61. Il rapporto di parentela tra l’autore del libro e il monsignore si è dedotto dalle evidenze interne al testo. L’autore afferma di raccontare le azioni dei canonici degli anni di Paolo V che gli «sono venute a memoria» (p. 110), e questo fa supporre che sia coetaneo di Odoardo. In tal caso, quando troviamo scritto che il monsignore, per recarsi a Città della Pieve e in Romagna, chiede di lasciare la reggenza di alcune Congregazioni al «Dottor Antonio Maria Santarelli suo cugino assai bene istruito e praticato in simili affari» (pp. 37-38), potremmo pensare a un’allusione autobiografica. 14 Cfr. ASR, Presidenza delle Strade, vol. 29, f. 72; e ASR, Notai del Tribunale Acque e Strade, vol. 47, f. 268, 4 febbraio 1616: «Prometto io Odoardo Santarelli … di far levare dalla piazza superiore di S.ta Maria Maggiore tra la colonna eretta da N. S.re et il sito di S.to Antonio sessanta canne di terra secondo sarà disegnato dal S.r Gasparo de Vecchi Architetto dep.o da Mons.r R.mo Biscia p. tutto il p.nte mese di febraro e q.ta promessa fu in pagamento di un’oncia di fontana fatta modernam.te in d.a piazza promettendo e p. la misura e per li livelli che doveran darsi in d.a Piazza in cavar d.a terra di starmene al d.o S.r Gaspare de Vecchi». 15 Vedi al riguardo A. ROCA DE AMICIS, I Pantani e La Suburra: forme della crescita a Roma tra XVI e XVII secolo, in Inediti di storia dell’urbanistica, a cura di M. Coppa, Roma, Gangemi Editore, 1993, pp. 101-145. 16 A.M. SANTARELLI, Memorie, cit., p. 24. 17 Ivi, p. 61. 18 A. ROCA DE AMICIS, I Pantani, cit., pp. 134-135. 19 K. SCHWAGER, Die Architektonische Erneuerung, cit., p. 264 e nota 126. 20 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Segreteria dei Brevi, vol. 523, f. 80 sgg. 21 Ivi, f. 77. 22 ASR, Presidenza delle Strade, Verbali delle Congregazioni, vol 8, f. 11v, 4 maggio 1616. 23 Ibidem. Cfr. anche ARCHIVIO LIBERIANO, b. 413 int. 3: se non si arriva al pareggio nella permuta, Santarelli deve pagare 15 scudi la canna. Il breve di Paolo V del 1615 viene inteso come valido anche per altre consimili operazioni; per cui «i canonici hanno fatto molte altre emfiteusi con utile grande della chiesa per l’augumento dell’entrate, et con ampliat.ne di fabriche, che con la frequenza degl’habitatori, et conseguentem.te della Chiesa porta la salubrità dell’aere». L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE 91 24 R. LANCIANI, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità. V. Dall’elezione di Paolo V alla morte di Innocenzo XII (16 maggio 1605-27 settembre 1700), Roma, Quasar, 1994, p. 79 per una licenza di scavo del marzo 1608 presso una casa di Giovanni Santarelli a via In Selci; cfr. per altri documenti A. ROCA DE AMICIS, I Pantani, cit., p. 136. 25 Vedi per questo episodio C. D’ONOFRIO, Roma vista da Roma, Roma, Liber, 1967, p. 122. Per la licenza edilizia concessa a Bernini vedi H. HIBBARD, Di alcune licenze rilasciate dai Maestri di Strade per opere di edificazione a Roma, «Bollettino d’Arte», LII, 1967, 2, pp. 99-117: 108 n. 74. 26 ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO (d’ora in poi ASC), Licenze dei Maestri di Strada, cred. IV, vol. 85, f. 158v. La documentazione indica che la residenza di Ottavio Costa, il facoltoso mercante e banchiere genovese noto anche per essere stato committente di Caravaggio, era contigua alla chiesa di Santa Lucia in Selci. 27 ASC, Licenze dei Maestri di Strada, cred. IV, vol. 83, f. 103v per la regolarizzazione di via dell’Olmata. La veduta di Greuter, che presenta a questa altezza un muro obliquo e una recinzione più avanzata può riferirsi proprio a tale riallineamento. 28 ASC, Licenze dei Maestri di Strada, cred. IV, vol. 85, f. 126r, licenza di edificare del primo ottobre 1615. Per le vicende successive del palazzo di Montano vedi C. PIETRANGELI, Il Palazzo Rospigliosi all’Esquilino, «Capitolium», 1966, 12, pp. 610-616. La contiguità tra il palazzo e la casa di Bernini è chiarita in C. D’ONOFRIO, Roma vista da Roma, cit., pp. 122-123; le case d’affitto sono indicate da A.M. SANTARELLI, Memorie, cit., p. 60. 29 Ibidem. 30 G. BAGLIONE, Le vite de’ pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII sino a tutto quello d’Urbano VIII (Roma, Edizione Manelsi, 1649), a cura di C. Gradara Pesci, Velletri, G. Zampetti, 1924, p. 166. P.L. TUCCI, L’area del Templum Pacis all’inizio del Seicento: dall’orto della Torre dei Conti alla “Contea”, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 124, 2001, pp. 211-276. 31 ASC, Licenze dei Maestri di Strada, cred. IV, vol. 86, f. 159r; il passo di Fioravante Martinelli su Fedini è in C. D’ONOFRIO, Roma nel Seicento, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 29-30. 32 Vedi C. BURROUGHS, From Signs to Design. Environmental Process and Reform in Early Renaissance Rome, Cambridge (Mass.)-London, The Mit Press, 1990, pp. 160-171. PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO. PROPRIETÀ, POTERI E PROFITTI NELL’ECONOMIA URBANA EUROPEA DI ANCIEN RÉGIME La storiografia sul sistema corporativo partenopeo ha da tempo messo in rilievo la netta chiusura delle corporazioni all’introduzione di forme di produzione più evolute. I regolamenti che disciplinavano minuziosamente l’attività produttiva aspiravano a ostacolare l’intraprendenza di quei mercanti-imprenditori che tentavano di organizzare la produzione al di fuori del rigido vincolismo corporativo1. Questo lavoro si propone di mostrare, invece, come in un altro settore della loro attività economica le organizzazioni corporative abbiano adottato un modus operandi di segno opposto, rivelando una inconsueta sensibilità imprenditoriale. Nell’amministrazione del loro patrimonio immobiliare prediligevano, infatti, delle strategie che, parafrasando Christian Topalov, assunsero sempre più i caratteri di una gestione capitalistica della proprietà2. Molteplici testimonianze metteranno in rilievo le politiche d’investimento seguite dai gruppi dirigenti delle corporazioni, politiche pianificate e lungimiranti, come quelle adottate dai principali operatori economici di antico regime. I gruppi professionali miravano infatti a incrementare, conservare e trasmettere il proprio patrimonio e ad avere rendite sufficienti per finanziare le attività corporative. Investivano così i propri capitali sul mercato immobiliare consapevoli che si trattava di un investimento anticiclico, poiché non risentiva, se non in modo marginale, delle congiunture negative; un investimento che dava l’opportunità di accedere facilmente al credito nei momenti di crisi, assicurava minori margini di rischio del mercato finanziario e offriva una rendita crescente. Le organizzazioni corporative avevano, dunque, ben compreso il valore del giro d’affari che ruotava attorno al mercato immobiliare partenopeo e, in diversi casi, gli investimenti fondiari divennero il core business della loro attività. D’altra parte l’esperienza napoletana non è molto lontana da quella di altri centri urbani europei, come Londra, Parigi e Venezia, dove il mercato immobiliare era altrettanto dinamico. Il confronto con altre realtà metropolitane è particolarmente utile non solo per 94 SONIA SCOGNAMIGLIO comparare i comportamenti economici dei gruppi professionali, ma anche per comprendere appieno la capacità attrattiva del mercato immobiliare urbano di ancien régime. Si è così scelto di sviluppare questo lavoro su due livelli. Il primo metterà in luce i motivi che determinarono lo sviluppo del mercato immobiliare nelle maggiori metropoli europee; il secondo livello d’indagine focalizzerà invece l’attenzione sull’esperienza napoletana e sulle strategie d’investimento di alcune tra le corporazioni più importanti della città. Gli immobili urbani: da alloggi a beni capitali L’importanza degli investimenti immobiliari nelle economie urbane dell’Europa moderna ha progressivamente attirato l’attenzione degli studiosi rendendo questo filone di ricerca uno dei campi d’indagine più interessanti e produttivi della storia urbana3. Fino agli anni Cinquanta del Novecento la maggior parte della storiografia aveva privilegiato l’analisi del mercato immobiliare contemporaneo. È infatti in epoca industriale che il valore e il numero delle transazioni e delle speculazioni immobiliari è cresciuto con un’intensità e una rilevanza senza precedenti4. A partire dagli anni Sessanta, invece, gli studiosi hanno mostrato un interesse crescente nel ricostruire la genesi di questo fenomeno, mettendo in luce quel «long processus de dissolution des rapports sociaux qui tenaient le logement à l’écart du marché a progressivament transformé ce bien en une marchandise et en un capital»5. Le indagini più recenti hanno rilevato che il processo di trasformazione degli immobili da semplici alloggi a beni capitali ha origini molto antiche. Esso inizia con la rinascita delle città mercantili dell’Europa medievale e si sviluppa parallelamente al passaggio dall’economia feudale al capitalismo, trovando il suo definitivo compimento nel XIX secolo. Nella definizione delle origini e dell’evoluzione di questa importante fase di transizione della storia urbana europea, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, lo studioso francese di origini bulgare, Topalov, ha individuato due momenti storici cruciali. Il primo si è sviluppato a partire dal tardo medioevo e coincide appunto con la formazione della propriètà urbana a seguito della lenta e progressiva dissoluzione della proprietà fondiaria feudale nei centri urbani. La graduale perdita dei diritti di occupazione gratuiti legati ai rapporti di dipendenza o di produzione feudale permise di disporre sempre più liberamente della proprietà urbana. In questa fase i terreni e gli immobili si trasformarono in beni relativamente commerciabili. Le grandi proprietà fondiarie scomparivano, i terreni venivano parcellizzati, venduti ed edificati e gli immobili erano modificati e dati in locazione. Fino a quel momento il trasferimento del diritto di proprietà era limitato alle forme tipiche del diritto feudale e di conseguenza la proprietà non era gestita, se non in qualche eccezionale caso, secondo una logica di profitto. Il secondo momento di rottura si verificò alla fine del XIV secolo, quando nei centri urbani più attivi e popolosi del vecchio continente i patrimoni urbani iniziarono a dare vita a rapporti capitalistici di proprietà. Tra questi il più importante è PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO 95 stato l’affitto a breve termine, la cui diffusione rappresenterebbe, infatti, il passaggio ad un sistema di rentiers nel quale gli immobili venivano utilizzati come beni capitali. Le attività edilizie e immobiliari divennero così forme sempre più vantaggiose d’investimento e di affari, nonché fonti sicure e redditizie di profitto; rappresentarono, quindi, uno strumento essenziale per la realizzazione delle strategie patrimoniali degli operatori economici di antico regime, contribuendo ad affinare le strutture giuridiche e sociali delle economie urbane6. Il recente ampliamento degli orizzonti storiografici ha dimostrato che non è semplice collocare in una precisa epoca il processo di trasformazione descritto da Topalov7. Esso varia da regione a regione e segue le fasi dello sviluppo socio-economico dei singoli centri urbani. Alcune recenti indagini hanno rilevato, infatti, che il ricorso all’affitto a breve termine era relativamente diffuso in numerosi centri del nord Europa già nel X secolo8. I documenti delle epoche successive offrono informazioni ancora più ricche e interessanti. Nella Firenze del XIV secolo, ad esempio, i mercanti più facoltosi erano soliti acquistare immobili e dare in fitto botteghe e abitazioni agli artigiani. Le locazioni erano effettuate oralmente e in genere duravano un anno, nel corso del quale il proprietario non poteva né procedere allo sfratto del locatario né modificare i termini dell’accordo. Nel contratto il proprietario e il locatario stabilivano che le spese straordinarie di riparazione dell’immobile erano a carico del primo, mentre quelle di manutenzione ordinaria restavano a carico del secondo9. Oltralpe, nell’attiva cittadina francese di Caen, a cavallo tra il XIV e il XV secolo, l’affitto di boutiques, ateliers, case e camere era all’ordine del giorno e solitamente durava fino a tre anni. Il mercato immobiliare era talmente sviluppato che i giuristi dell’epoca distinguevano chiaramente la rendita perpetua garantita dall’immobile e l’affitto che rappresentava il prezzo della locazione e variava secondo l’andamento del mercato10. A partire dal XVI secolo, in parallelo alla fase di espansione della popolazione urbana, il mercato immobiliare iniziò a mostrare un maggiore dinamismo e ad espandersi considerevolmente soprattutto nelle grandi capitali europee. Urbanizzazione e mercato immobiliare nelle capitali europee Nel 1682, Alexandre Le Maître pubblicò ad Amsterdam un trattato intitolato Métropolitée, ou de l’établissement des Villes capitales nel quale metteva in rilievo l’importanza del concetto di «popolazione» nello sviluppo urbano europeo. Egli individuò le tre funzioni essenziali delle capitali: essere la sede dell’autorità politica, il pivot di tutti gli scambi e, sul piano simbolico, rappresentare il valore e la forza dello Stato11. Com’è noto, il forte potere di attrazione esercitato dal carattere polifunzionale delle capitali indusse un’eccezionale concentrazione demografica. Tra il XVI e il XVIII secolo, Parigi, Napoli e Londra divennero le metropoli più grandi dell’Europa occidentale. L’accentramento politico ed economico e l’inarrestabile sviluppo demografico delle ca- 96 SONIA SCOGNAMIGLIO pitali fece emergere il problema dell’estensione smisurata dello spazio urbano12. Nel XVI secolo la popolazione parigina raggiunse i 250.000 abitanti13. Una delle conseguenze del continuo aumento della pressione demografica fu la crescita della domanda di immobili per uso residenziale e commerciale: una tendenza che dette luogo a un processo di parcellizzazione delle unità abitative. Gli appartamenti vennero suddivisi in piccole pièces di 22 metri quadrati. Sollecitati dalla incessante richiesta di abitazioni, i proprietari dei fondi urbani iniziarono a costruire gli immuebles de rapport, fabbricati pressoché identici agli immobili tradizionali, che erano costruiti in blocco, alti dai 4 ai 6 piani e locati per camera o, più raramente, per piani. Nel XVIII secolo si scatenò un silenzioso conflitto tra l’autorità politica e la lobby dei costruttori. L’amministrazione reale temeva infatti che l’allargamento dei confini della capitale e la continua edificazione dei suoli urbani potesse compromettere il controllo del territorio14. Tuttavia la maggior parte dei provvedimenti presi per limitare l’attività edilizia non ostacolò, se non marginalmente, lo sviluppo del redditizio giro d’affari che si era creato attorno al mercato immobiliare15. Tra il XVII e il XVIII secolo nella capitale francese si registrò un aumento considerevole del prezzo delle locazioni. Alcune indagini hanno rivelato che, tenuto conto della svalutazione monetaria, l’incremento dei fitti fu circa del 300 %. L’aumento dei canoni di affitto non era, però, accompagnato da un incremento proporzionale del potere di acquisto dei parigini. Esso, al contrario, si associava alla stagnazione o alla diminuzione del salario reale con evidenti conseguenze sulla qualità della vita delle fasce più modeste della popolazione16. Al di là della Manica, la situazione era molto simile. L’esplosione demografica londinese, che si verificò un po’ dopo quella parigina, a partire dalla fine del XVII continuando per tutto il XVIII secolo e oltre, non tardò a riverberarsi sulla domanda di alloggi17. I terreni venivano divisi in plots, erano venduti, edificati e, una volta terminati, i relativi fabbricati erano suddivisi in unità abitative più piccole e date in fitto. Se si osserva sul lungo periodo la variazione del valore dei fitti delle unità immobiliari nella zona centrale di Cheapside ci si accorge di un notevole aumento delle pigioni a partire dalla seconda metà del XVI secolo fino al Great Fire del 166618. A partire dal 1536 il panorama urbano cambiò completamente: in quell’anno Enrico VIII sciolse tutte le congregazioni ecclesiastiche, le quali rappresentavano i maggiori possidenti dei suoli urbani. La commercializzazione dei fondi ecclesiastici e la progressiva accumulazione di capitali, a seguito dell’espansione del commercio inglese, attivarono un ricco circuito d’affari attorno al mercato immobiliare della capitale19. Napoli: politica, edilizia e caos metropolitano Tra il XVI e il XVII secolo Napoli era, dopo Parigi, la città più popolosa d’Europa e la seconda metropoli del Mediterraneo, dopo Istanbul20. Anche se la prima numerazione dei fuochi della città di Napoli risale al 1505, la ricostruzione dello sviluppo delle PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO 97 cinta murarie suggerisce che dal XIV secolo ci sia stata una notevole estensione del perimetro urbano, che lascia intendere un già consistente sviluppo demografico. A partire dalla prima metà del XVI secolo la capitale aveva più di 200.000 abitanti. Nonostante le cicliche crisi demografiche che riequilibravano temporaneamente il rapporto tra popolazione e risorse e, quindi, quello tra popolazione e spazio urbano, Napoli cresceva disordinatamente all’interno della cinta muraria21. Così nel 1533, il vicerè Don Pedro da Toledo ordinò un nuovo ampliamento delle mura verso nord-ovest22. Il vicerè spagnolo incluse nel corpo della città due nuovi quartieri situati nella parte occidentale del Porto: Santo Spirito e San Giuseppe. La via Toledo divenne il centro del progetto di allargamento e di abbellimento della città. Tale strada collegava la parte più antica della capitale con il nuovo centro che gravitava intorno a Castel Nuovo, al Porto e al Palazzo del Vicerè − dove attualmente si trova il Palazzo Reale. Le zone di Sant’Elmo, di Santa Teresa, di Pizzofalcone e di via Toledo, comprese nei nuovi quartieri, furono scelte come residenza dalla nobiltà feudale che dalle province si trasferiva nella capitale, ormai il centro rappresentativo, politico e militare del Regno23. L’aristocrazia avviò cosi la costruzione di grandi e lussuosi palazzi, dei veri e propri monumenti che rappresentavano il prestigio e la potenza delle casate24. Le zone più antiche della città, quelle che sorgevano a oriente e dietro il Porto, vennero progressivamente occupate da numerosi ordini religiosi, la cui presenza a Napoli, a partire dal XVI secolo, si fece sempre più massiccia. La proliferazione delle «fabbriche religiose» alterò il tessuto edilizio urbano soffocando l’edilizia civile. Alla fine del Cinquecento si contavano più di 300 chiese e oltre 120 conventi: una vera e propria «cittadella sacra»25. Gli ordini religiosi più facoltosi tendevano ad accrescere il loro patrimonio fondiario e immobiliare: acquistavano terreni e palazzi, costruivano e ampliavano chiese e monasteri; edificavano imponenti complessi conventuali grazie al diritto di fare insula, un privilegio che permetteva loro di acquistare a basso prezzo gli edifici adiacenti ai conventi fino a realizzare un’isola delimitata da quattro strade. Uno dei complessi conventuali più estesi era quello dei gesuiti a San Severino, dove oggi si trova la chiesa del Gesù Nuovo. Il facoltoso ordine religioso acquisì un’area vastissima nel cuore della città. Il complesso aveva come confini Port’Alba, da un lato, e via San Sebastiano e via Cisterna dell’Olio, dall’altro26. Alla continua espansione urbana corrispose la graduale scomparsa degli appezzamenti rurali. Gli splendidi giardini e i variopinti orti che per lungo tempo avevano caratterizzato il paesaggio metropolitano vennero ridimensionati e rinchiusi nei nuovi edifici. Piccoli e luminosi giardini segreti incastonati nei cortili dei palazzi nobili e dei conventi si affacciavano nei vicoli più bui e stretti della città: una scenografia che ancora oggi non lascia indifferente lo sguardo dell’attento osservatore di passaggio. Nella seconda metà del Cinquecento l’equilibrio urbano della capitale cominciò a vacillare. Il progetto di allargamento e di abbellimento della città voluto da Don 98 SONIA SCOGNAMIGLIO Pedro da Toledo, aveva tralasciato importanti questioni urbanistiche. Gli interventi sull’assetto stradale e sulle attrezzature portuali non erano stati limitati che a qualche opera di abbellimento. E la spinosa questione della carenza di alloggi popolari era rimasta sostanzialmente irrisolta. Come a Parigi, la veloce e caotica espansione urbana iniziò a preoccupare le maggiori magistrature del Regno. Il Consiglio Collaterale temé che la capitale potesse diventare militarmente e politicamente incontrollabile. La mancanza di controllo della città avrebbe potuto compromettere non solo l’equilibrio socioeconomico urbano, ma trascinare con sé anche l’assetto politico dell’intero Regno. Le costruzioni fuori le mura indebolivano la capacità difensiva della città. Inoltre, la disordinata crescita interna avrebbe potuto rendere più difficile il controllo del territorio favorendo disordini popolari. Dal 1555 si assiste allora alla emanazione di numerose «prammatiche» volte a limitare la tumultuosa espansione spontanea della città. Questi provvedimenti imposero una serie di restrizioni che in pochi anni culminarono nel divieto di costruire da 30 canne dentro a 200 canne fuori le mura27, salvo una specifica autorizzazione rilasciata dall’autorità pubblica28. In realtà, la rigida politica vicereale non riuscì nel suo intento: nessun provvedimento intervenne sulla causa principale dell’accrescimento della città e cioè sul continuo flusso d’immigrati che affollava la capitale. La popolazione delle province si affollava sempre più nella metropoli per sfuggire alle angherie baronali e nella speranza di trovare un’occupazione che offrisse migliori condizioni lavorative. A Napoli era, inoltre, assicurato il privilegio di esenzione dal pagamento delle imposte dirette, accordato alla città da Carlo V29. Così, alla vigilia della peste del Seicento, la capitale era diventata, dopo Parigi, la più popolosa metropoli d’Europa, accogliendo circa 300.000 abitanti, ossia intorno al 10 % della popolazione dell’intero Regno. A causa dei divieti di costruzione, la città fu bloccata nel suo sviluppo spontaneo e cominciò così a espandersi verso l’alto, risolvendo verticalmente la strozzatura tra spazio urbano e popolazione. I palazzi di Napoli divennero i più alti del Vecchio Continente raggiungendo facilmente i cinque o sei piani. Il mercato immobiliare partenopeo tra espansioni e crisi L’asfissia del mercato immobiliare rappresentò un ulteriore grave problema della città. Una parte consistente della popolazione non riusciva a trovare un’abitazione adeguata al proprio reddito. La precaria situazione era nota alle principali istituzioni cittadine. Il Parlamento napoletano chiese più volte al Consiglio Collaterale di abolire il blocco delle costruzioni, denunciando come buona parte del popolo, pur avendo un lavoro, fosse costretta a vivere in alloggi di fortuna. La popolazione che viveva senza fissa dimora divenne ben presto «un elemento del paesaggio urbano di Napoli». Alla fine del Cinquecento, nella sola piazza del Mercato si contavano più di 150 baracche che di giorno fungevano da botteghe e di notte da giaciglio30. 99 PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO Legato alla carenza di alloggi di modeste dimensioni era il problema dell’aumento dei canoni di affitto. Fino alla vigilia della violenta ondata di pestilenza del XVII secolo, nella capitale si registrò un progressivo incremento delle pigioni31. Gli affitti dei bassi − che erano le abitazioni più modeste formate da misere stanze poste al pianterreno o negli scantinati dei palazzi − non costavano meno di 9 ducati all’anno, sia nella zona della Duchesca sia a San Giacomo degli Spagnoli, nella parte opposta della città (grafico 1)32. La domanda di questo tipo di alloggio proveniva soprattutto da piccoli artigiani e commercianti al dettaglio, poiché i bassi, avendo la porta d’ingresso sul livello strada, potevano essere utilizzati anche come punto vendita. Spesso i guadagni dei locatari erano talmente modesti da non consentire il pagamento di canoni così elevati. Nel 1601, ad esempio, un falegname percepiva un salario di 2 carlini al giorno. Con retribuzioni così esigue era difficile potersi permettere l’affitto di un alloggio confortevole e dignitoso o di una bottega di ampia quadratura. Grafico 1- Andamento dei canoni di alcuni bassi per uso abitazione situati in diverse zone di Napoli, tra XVII e XVIII, valori annuali medi in ducati e grana 12 10 8 6 4 2 Basso alla Duchessa Basso a San Giacomo agli spagnoli Basso a Santa Maria di Loreto Basso alla conceria del mercato 1800 1794 1789 1783 1777 1771 1765 1759 1753 1747 1741 1735 1716 1710 1704 1698 1692 1625 1619 1613 0 Fonte: Elaborazione delle rilevazioni compiute da E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 100105, tavole 1, 2, 3 e 4. L’osservazione dell’andamento dei canoni delle botteghe tra il 1640 e il 1805 permette di verificare da vicino la tendenza di lungo periodo del mercato immobiliare e, in particolare, delle residenze a uso commerciale (grafico 2). Le tre botteghe prese in esame erano situate alla Vicaria, nella zona più centrale della città, ed erano composte da un ambiente unico, posto sul fronte strada, e da una stanza separata o da un mezzanino (un piccolo soppalco) che potevano servire da magazzino o da giaciglio per la notte33. Nel decennio antecedente la crisi demografica il canone di locazione di queste botteghe era piuttosto alto, si aggirava infatti tra i 40 e i 50 ducati all’anno. 100 SONIA SCOGNAMIGLIO Le botteghe risultavano affittate ad alcuni rappresentanti facoltosi dei gruppi professionali più importanti della città: notai, sarti e barbieri. Grafico 2 - Andamento del canone di tre botteghe con camera o mezzanino, situate alla Vicaria, tra XVII e XVIII, valori in ducati 60 50 40 30 20 10 0 1640 1650 1660 1670 1680 1690 1700 1710 1720 1730. 1740 1750 1760 1770 1780 1790 1799 Bottega A Bottega C Bottega B Fonte: Elaborazione delle rilevazioni compiute da E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 126-129, tavola 28. Negli anni Cinquanta del XVII secolo, si registrarono le drammatiche conseguenze della pestilenza del 1656, che, com’è noto, provocò circa 150.000 vittime dimezzando la popolazione della capitale. Due delle tre botteghe rimasero a lungo sfitte: è facile immaginare l’interruzione delle attività commerciali o, peggio, la morte dei conduttori o dei locatari. L’impressionante crollo demografico riequilibrò il rapporto tra la popolazione e lo spazio urbano, ridimensionando anche i livelli dei fitti. Si raggiunse però un equilibrio temporaneo, destinato ben presto a sparire. Nei due decenni successivi si registrò una graduale ripresa che continuò con maggiore intensità per tutto il Settecento. Terminata la peste, infatti, il flusso d’immigrati riprese con maggiore intensità. Quando già il recupero demografico era iniziato, nel 1707, la popolazione raggiunse nuovamente i 200.000 abitanti e solo quattro lustri dopo, nel 1742, superò le 315.000 unità34. La nuova espansione demografica della capitale indusse il governo austriaco, che nel frattempo si era instaurato sottraendo agli spagnoli il Regno di Napoli, ad avviare una più attenta politica urbanistica. Furono emessi diversi provvedimenti che limitarono l’espansione dell’edilizia ecclesiastica, e fu abrogato il blocco sulle costruzioni. Tuttavia, neppure la politica austriaca riuscì a risolvere il problema dell’edilizia popolare. I fitti di case e botteghe continuarono, infatti, a crescere incidendo sempre più sui bilanci familiari (grafici 1, 2 e 3). Nel 1742, per paura di tumulti popolari, Carlo di Borbone sollecitò il tribunale della Vicaria affinché emanasse un provvedimento di blocco dei fitti. Quest’ultimo fu poi rinnovato continuamente per tutto il secolo, ma fu spesso ignorato dall’ingordigia dei padroni di case35. Nel corso del Settecento le pigioni delle abitazioni più 101 PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO modeste, come i bassi e quelle composte da una camera e da una camera con cucina, aumentarono costantemente. � x 1 Camera a San Giovanni a Carbonara 2 Camere con cucina alla Conceria al mercato 0 1805 1801 1797 1793 1789 1785 1781 1777 1773 1769 1765 1761 1757 1753 1749 1745 1741 1737 1733 1729 1725 18 17 16 15 14 13 12 11 10 9 8 7 6 5 1721 Grafico 3 - Andamento dei canoni di alcuni appartamenti di varia grandezza, situati in diverse zone di Napoli, tra XVII e XVIII, valori annuali medi in ducati 1 Camera con cucina al Mercato grande 3 Camere con cucina a Porta Capuana Fonte: Elaborazione delle rilevazioni compiute da E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 100105, tavole 1, 2, 3 e 4. Attori, negoziatori e management dei patrimoni immobiliari Il progressivo aumento dei fitti, dovuto alla continua crescita della domanda di alloggi e botteghe, attirò l’interesse degli operatori economici più attivi della capitale. I gruppi sociali interessati alle attività edilizie o immobiliari ricoprivano i posti più alti della gerarchia socio-economica della città: gli ordini religiosi, le famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, i grandi enti di assistenza, le organizzazioni corporative e i banchi pubblici. Proprio questi ultimi divennero i maggiori attori del mercato. I banchi napoletani furono fondati quasi tutti verso la fine del XVI secolo, quando alcuni tra i più antichi enti di assistenza e di beneficenza pubblica, dopo aver accumulato ingenti capitali, dettero vita a istituti di credito ad essi collegati. Si formarono così vere e proprie holding finanziarie, centri di potere inseriti attivamente nel circuito economico, finanziario e commerciale del Regno36. I banchi investivano i propri capitali nell’acquisto di titoli del debito pubblico, come le partite di arrendamento e di fiscali. Inizialmente il loro interesse verso il settore immobiliare fu piuttosto raro e casuale. Le prime acquisizioni di edifici avvennero verso la fine del XVI secolo, per lo più attraverso il recupero dei crediti di debitori insolventi. Nel Seicento i banchi iniziarono a compiere i primi investimenti immobiliari, ma fu solo tra gli anni Trenta e Quaranta del Settecento che intensificarono l’attività di acquisto di immobili, dando vita a un nuovo campo d’investimento. 102 SONIA SCOGNAMIGLIO Alla fine del secolo il loro patrimonio immobiliare divenne assai cospicuo. Il Banco dei Poveri e quello della Pietà furono gli istituti di credito più attivi: il valore delle proprietà del primo corrispondeva a non meno di 50.000 ducati, mentre quello del secondo era addirittura il doppio37. Nella stessa epoca, la corporazione dei «giudecchieri» − la corporazione dei rivenditori di abiti usati − aveva accumulato un patrimonio immobiliare valutato quasi 50.000 ducati, e la gestione delle 69 proprietà divenne il core business delle sue attività. Il confronto tra il valore del patrimonio immobiliare della corporazione napoletana con quello dei banchi pubblici mette in luce l’importanza economico-finanziaria dell’organizzazione associativa. Quello dell’arte dei «giudecchieri» non era un caso isolato. Le testimonianze raccolte consentono, infatti, di disegnare un quadro piuttosto completo della consistenza e della gestione del patrimonio immobiliare di alcune tra le più importanti organizzazioni corporative napoletane. Anche se la storiografia è ancora piuttosto esigua su questo specifico tema, diverse testimonianze confermano come in diverse regioni d’Europa le corporazioni avessero importanti interessi economici nel settore immobiliare. A Londra, ad esempio, nel XVII secolo la corporazione dei sarti possedeva numerose proprietà immobiliari, e fu proprio grazie ad alcune speculazioni immobiliari che diversi gruppi professionali londinesi riuscirono a mantenere il proprio prestigio sociale ed economico anche quando nel corso del XVIII secolo le strutture corporative avevano perduto autorità38. Alla fine del Settecento circa il 25 % delle entrate delle corporazioni censite nel Regno di Sardegna era assicurato da «beni stabili»39. Nella stessa epoca, a Venezia le attività immobiliari della corporazione della seta avevano lo scopo di assicurare l’alloggio agli adepti che non potevano permettersi di pagare il canone di affitto40. L’origine dei patrimoni: la corporazione dei «giudecchieri» Al contrario di quanto accadeva a Venezia, a Napoli gli interessi immobiliari delle corporazioni non avevano fini assistenziali, ma servivano esclusivamente ad accrescere le entrate. Inoltre, raramente le corporazioni compravano fondi da edificare o finanziavano la costruzione di immobili nuovi. Di solito si limitavano all’acquisto di edifici già esistenti, sui quali, poi, facevano periodicamente interventi di manutenzione, di ristrutturazione o di ampliamento. D’altra parte, come si è detto, la struttura del mercato fondiario e immobiliare partenopeo non lasciava ampia libertà di costruire nuovi fabbricati. Anche se per una città come Napoli è piuttosto difficile risalire ai proprietari originari dei suoli urbani, si può affermare che tra il Medioevo e la prima Età moderna i fondi appartenevano per lo più all’aristocrazia e alle istituzioni religiose41. Con la progressiva dissoluzione della proprietà feudale urbana, sul mercato s’inserirono nuove categorie d’investitori, come i banchi pubblici e le corporazioni. La maggior parte dei gruppi professionali ottenne il regio assenso solo alla fine del XVI secolo. PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO 103 Nei primi decenni della loro esistenza, le corporazioni non possedevano somme tali da poter investire in beni immobili, quindi impiegavano il denaro nell’acquisto di partite del debito pubblico. Il contatto con il mercato immobiliare avvenne fortuitamente grazie ad alcune acquisizioni ereditarie. Successivamente, sperimentati i vantaggi economico-finanziari offerti dalla gestione degli immobili, le organizzazioni corporative avviarono una vera e propria strategia d’investimento immobiliare. Quella dell’«arte dei giudecchieri» è una delle testimonianze più complete del processo formativo del patrimonio immobiliare delle corporazioni napoletane. Dalla fine del Cinquecento al momento dell’abolizione del sistema corporativo, avvenuto nel 1821, i «giudecchieri» acquisirono un patrimonio formato da 9 palazzi che valeva circa 50.000 ducati, e le 60 unità immobiliari in cui esso era diviso garantivano una rendita annuale pari a quasi 1.500 ducati42. La corporazione dei «giudecchieri» nel 1585 ottenne il regio assenso per esercitare l’attività di compravendita di «robbe vecchie e nuove di seta lana e lino». Nel XVII secolo, poi, si assicurò il permesso di poter scucire, rimodellare e cucire gli abiti usati. I «giudecchieri» inventarono, così, l’abito prêt a porter e monopolizzarono le crescenti quote di mercato che esprimevano una domanda medio-bassa43. A cavallo tra il Seicento e il Settecento, l’espansione del mercato dell’abbigliamento di seconda mano permise a questi piccoli commercianti di diventare facoltosi mercanti e, di conseguenza, arricchì le finanze della corporazione. I «giudecchieri» iniziarono a investire una parte consistente dei proventi del commercio nell’acquisto di immobili. Capitava poi che i mercanti che non avevano discendenti decidessero di donare o lasciare in eredità i propri beni alla corporazione. Si trattava di una consuetudine piuttosto diffusa: l’organizzazione corporativa era infatti il centro della vita professionale degl’individui e il perno attorno al quale ruotava tutta la loro esistenza. Non è un caso, quindi, che il 50 % del patrimonio immobiliare dell’arte fu acquisito grazie alle donazioni e alle eredità ricevute nel Seicento; mentre l’altro 50 % fu comprato con i capitali della corporazione per lo più nel Settecento (tabella 1). La prima proprietà fu acquisita nel 1618 per 6.330 ducati da Don Girolamo Gionta con un contratto di compravendita sottoscritto dal notaio Lanzillo di Napoli. Il palazzo era situato nel vico detto «della giudichella». Era un piccolo edificio di quattro piani ciascuno dei quali composto da una stanza e una cucina. Al piano terra del palazzo vi erano due botteghe di pertinenza dell’edificio. Il vicolo della «giudichella» era il centro della Giudecca o Giudeca, che – come in numerose città della penisola – era il ghetto degli ebrei. Questi ultimi già durante il Medioevo a Napoli avevano monopolizzato il mercato dell’usato44. A seguito della loro definitiva espulsione nel 1539, gli spazi commerciali lasciati vuoti dagli ebrei vennero occupati da altrettanto scaltri mercanti napoletani − i «giudecchieri» appunto − la maggior parte dei quali si specializzò nel commercio di abiti usati formando l’omonima corporazione. 104 SONIA SCOGNAMIGLIO Tra il 1619 e il 1626, entrarono nel patrimonio della corporazione tre palazzi e due botteghe grazie alle disposizioni testamentarie di alcuni adepti. Le botteghe si trovavano vicino alla chiesa sede della corporazione in vico San Giovanni in Corte, e furono lasciate in eredità nel 1619 dal maestro Aniello Mazziotti. L’anno successivo il maestro Marcello di Menna lasciò un palazzo di quattro piani in vico Sant’Agata nella zona degli Orefici. L’edificio era costituito da 8 appartamenti di varia grandezza e da una bottega «ad uso di forno» posta al pian terreno dello stabile. Il lascito più generoso fu compiuto nel 1626 dal maestro Giovanni Ettore Ferrara che donò un palazzo e ne lasciò in eredità un secondo qualche anno dopo. Tab. 1- Prospetto della proprietà immobiliare della corporazione dei giudecchieri, secoli XVII- XVIII Modalità di acquisizione Tipo d’immobile Caratteristiche delle unità immobiliari Rendita in ducati (nel 1820) XVII secolo Eredità d’Anzillo Palazzo di 4 piani 1 bottega 4 appartamenti 1 basso 136 XVII secolo Contratto di acquisto Palazzo di 4 piani 4 appartamenti 80 1618 Contratto di acquisto Palazzo di 4 piani 2 botteghe 4 appartamenti 114 1619 Eredità Maziotti Singole unità 2 botteghe 82 1620 Eredità di Manna Palazzo di 4 piani 1 basso 8 appartamenti 1 mezzanino 173 1626 Eredità Ferrara Palazzo di 5 piani 7 appartamenti 1 magazzino 255 1717 Contratto di acquisto 2 palazzi di 4 piani 4 botteghe 7 appartamenti 237 1768 Contratto di acquisto Palazzo di 3 piani 1 basso 14 appartamenti 256 Anno Fonte: ASNa, Ministero degli Interni, inv. II, F. 5197, fasc. 10, «Mappa dimostrativa de’ beni immobili, scritture, arredi sacri, suppellettili, et altri oggetti di pertinenza dell’abolita arte de’ giudecchieri, la cui delegazione era affidata alla sezione di Montecalvario», in «Atti dell’amministrazione stralci riuniti delle abolite Cappelle di arti e di mestieri, Relazione dell’intendente della provincia di Napoli del 1840». Le acquisizioni s’interruppero per circa un secolo proprio a cavallo della lunga crisi del Seicento, ma nel XVIII secolo ripresero in modo significativo. La corporazione, infatti, in poco più di cinquant’anni spese quasi 12.000 ducati nell’acquisto di beni immobili. Nel 1717 comprò dai fratelli Peccerillo quattro botteghe, di cui due situate nella centralissima strada di San Biagio ai Taffettari che si trovava di fronte al vicolo PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO 105 della «giudicchella», dove si trovavano le altre due botteghe dell’arte. Nello stesso vicolo furono poi acquistati altri sette appartamenti di diversa grandezza. La politica d’investimento continuò nel 1768, quando la corporazione acquistò ben 15 unità immobiliari nella zona degli Orefici, composte da bassi e da appartamenti di diversa grandezza. Con l’emanazione dei decreti di abolizione delle strutture corporative (1820-1821), i «giudecchieri» si resero conto che avrebbero perso l’ingente patrimonio che da diversi secoli apparteneva al loro gruppo professionale. Portarono, così, la questione dinanzi alle istituzioni cittadine avviando un intenso carteggio lungo circa vent’anni, dal 1822 al 1840. A conclusione della querelle, l’Intendente della provincia di Napoli decise che «Gli stessi individui riassumano la gestione [del patrimonio immobiliare] tenuta, provvisoriamente e, quasi, per esperimento, colla aggiunzione però d’un Sovrintendente in persona di Don Gaetano Navarro, per l’andamento regolare degli affari»45. La gestione del rischio: investimenti immobiliari e investimenti finanziari Le testimonianze offerte dalla corporazione dei «giudecchieri» lasciano intuire l’importanza del patrimonio immobiliare nella vita delle corporazioni, ma non permettono di confrontare il peso di questo investimento rispetto all’altra forma più diffusa d’impiego dei capitali in età moderna: l’acquisto di quote del debito pubblico. La scelta delle strategie patrimoniali è uno degli aspetti più interessanti poiché consente di comprendere la logica che animava i comportamenti delle corporazioni. Si è detto che quello immobiliare era un investimento a basso rischio e offriva al contempo numerosi vantaggi: da quello di accedere più facilmente al credito bancario, a quello di ottenere una rendita piuttosto elevata e crescente. Un ulteriore elemento che contribuì a rendere più attraente questo tipo di investimento era l’assenza di una politica fiscale che colpisse le case o le pigioni. Sembrerebbe infatti che solo in alcuni momenti storici il settore fosse colpito da imposte e ciò rese ancora più appetibile questa forma d’investimento. Alla fine del Settecento si fece però vivo il dibattito sul risanamento della finanza pubblica e, di conseguenza, fu presa in considerazione l’eventualità di creare un’imposta sulle case. Così, nel 1796, la decima colpì le rendite di qualsiasi natura, comprese quelle delle case, nella misura del 10 %46. A parte l’emergere alla fine del XVIII sec. di un’incidenza fiscale, l’unico disincentivo all’investimento immobiliare era rappresentato dalla necessità di possedere capitali piuttosto consistenti. L’investimento finanziario, pur presentando maggiori margini di rischio, permetteva, invece, di impiegare anche piccoli capitali47. Il primo elemento per risalire alle strategie finanziarie delle corporazioni napoletane è la ricostruzione delle loro relazioni con i banchi pubblici. Sin dalla fine del XVI secolo, esse stabilirono un rapporto di fiducia con gli istituti di credito. I primi regolamenti delle corporazioni imposero ai consoli di accendere un conto presso uno dei banchi, di solito quello la cui sede era più vicina alla corporazione. Essi avevano l’obbligo di depositare sul conto i contributi imposti agli adepti e riscossi 106 SONIA SCOGNAMIGLIO settimanalmente dai consoli. Raggiunta una certa cifra, di solito 100 ducati, i consoli erano autorizzati «a far di compere» in modo da non tenere i capitali improduttivi48. Chiaramente, con cifre così limitate, era possibile solamente acquistare quote di arrendamenti o di fiscali. Col passare del tempo, e probabilmente grazie alla progressiva accumulazione di cospicui capitali, le corporazioni iniziarono a preferire l’investimento immobiliare, rivolgendosi al mercato finanziario solo in via residuale. Questa tendenza è testimoniata dai documenti contabili di alcune corporazioni. L’analisi delle entrate della corporazione della lana mostra che a metà Settecento meno del 15 % delle rendite derivava da investimenti effettuati sul mercato mobiliare, mentre più dell’80 % proveniva dalle pigioni. I lanaioli possedevano, infatti, ben 75 unità immobiliari, che nel 1759 resero più di 1.500 ducati49. La propensione all’investimento immobiliare è confermata anche dalla politica adottata dalla piccola corporazione dei «coltrari di seta». I «coltrari» erano specializzati nella produzione di preziosi copriletto imbottiti di «bambace» e di tessuti utilizzati per rivestire le pareti degli appartamenti più lussuosi. In origine facevano parte della «nobil arte della seta», poi, nel corso del XVII secolo, con la progressiva divisione del lavoro e la decadenza della produzione serica, numerosi artigiani si specializzarono in particolari segmenti di mercato tessile. Si formarono così le corporazioni dei «banderari di seta», dei «tessitori di trine e passamaneria di seta» e dei «coltrari». Nel Settecento gli adepti della corporazione dei «coltrari» erano circa 80, e grazie alle loro contribuzioni la corporazione poté formare un piccolo patrimonio immobiliare. Le fonti riportano che nel 1755 l’arte era proprietaria di una bottega e di 4 appartamenti, le cui rendite assicuravano circa 50 ducati all’anno. In verità, non tutte le corporazioni sceglievano di investire i propri capitali nell’acquisto di beni immobili. La corporazione dei «pelletteri e degli scamosciatori» − gli artigiani che si occupavano di pulire e preparare le pelli da vendere ai calzolai e ai guantai − scelse di diversificare la propria politica d’investimento, dando la preferenza all’investimento finanziario. L’analisi del bilancio del 1744 mostra la netta prevalenza delle rendite derivanti da investimenti mobiliari (circa l’80 %). I consoli della corporazione decisero di affidare circa 1.000 ducati a specialisti del settore, rivolgendosi ai fratelli Coppola e ai reverendi padri Camaldolesi di Torre del Greco che abitualmente operavano sul mercato mobiliare. La scelta era giustificata dal fatto che i consoli avevano un rapporto personale e fiduciario con i loro intermediari50. I consoli non rinunciarono, però, a effettuare investimenti meno rischiosi. Così, nello stesso anno, acquistarono un appartamento e un forno con diritto di panificazione. Si trattò di un investimento di circa 1.000 ducati che assicurava una rendita di 84 ducati all’anno51. PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO 107 Rendite e costi di gestione del patrimonio immobiliare: la corporazione dei falegnami tra il 1762 e il 1772 I bilanci della corporazione dei falegnami costituiscono una delle fonti più ricche d’informazioni sulle attività corporative. I documenti contabili consentono, infatti, di verificare l’andamento delle entrate e delle uscite e, in particolare, di ricostruire i flussi relativi alla gestione degli immobili nel decennio compreso tra il 1762 e il 1772. Le fonti permettono, inoltre, di calcolare l’incidenza delle rendite immobiliari sul totale delle entrate e quella delle spese per la manutenzione degli immobili sul totale delle uscite52. La corporazione dei falegnami ottenne il regio assenso nel 1596 e divenne ben presto uno dei gruppi professionali più numerosi della città. Nel Settecento contava più di 600 immatricolati, specializzati nei vari segmenti dell’ampio mercato della lavorazione e del commercio del legno. Nella corporazione erano infatti compresi: i mestieri di «terra», dei «cassieri di noce», dei «trabaccari», degli «scrignari», dei «tornieri», dei «bottari», dei «baugliari», dei carrozzieri e degli ebanisti53. Tra il XVII e il XVIII secolo la corporazione divenne una delle più facoltose della città: le sue entrate si aggiravano, infatti, intorno ai 10.000 ducati all’anno. Nel biennio compreso tra il 1762 e il 1764, circa il 60 % delle entrate della corporazione era rappresentato da fitti; un investimento che assicurò ben 6.544 degli 11.090 ducati che rappresentavano il totale delle entrate54. Nel decennio successivo la corporazione registrò un aumento del 15 % delle rendite immobiliari. Le entrate passarono, infatti, da 6.544 ducati, nel 1762, a 7.485, nel 1772. In quell’anno il peso delle entrate derivanti dalle pigioni raggiunse l’80 % delle entrate della corporazione (grafico 4)55. Il settore immobiliare divenne così il core business della corporazione. Grafico 4 - Rendite della corporazione dei falegnami tra il 1761 e il 1772, valori in ducati 12000 11000 10000 9000 8000 7000 6000 1762-64 1764-66 Totale entrate 1766-68 1768-70 1770-72 di cui derivanti da locazioni Fonte: ASNa, Tribunale Misto, Processi, F. 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore contabile, anni 1672-1772». 108 SONIA SCOGNAMIGLIO L’evoluzione delle entrate offre anche l’opportunità di verificare la tenuta degli investimenti immobiliari durante un periodo di crisi. Il 1764 fu infatti un anno particolarmente difficile, a causa della carestia che colpì la capitale compromettendo l’equilibrio socioeconomico urbano56. Tra il 1762 e il 1766, anche se le entrate totali subirono una temporanea contrazione, l’andamento delle entrate derivanti dai fitti continuò a crescere (grafico 4). L’analisi delle spese della corporazione rivela alcuni interessanti aspetti della gestione delle proprietà immobiliari. Se è vero che le proprietà garantivano alla corporazione cospicue rendite, è pur vero che necessitavano di interventi ordinari e straordinari di mantenimento e di ristrutturazione. Oltre alle spese ordinarie, che ammontavano a circa 500 ducati all’anno, vi erano quelle straordinarie che impegnavano maggiormente le finanze dell’arte (grafico 5). Tra queste ultime, particolarmente rilevante è quella compiuta nel 1764 quando l’arte investì ben 950 ducati per la ristrutturazione del palazzo situato a «Porta grande». A distanza di qualche anno, tra il 1770 e il 1772, la corporazione spese altri 2.500 ducati per la manutenzione e l’abbellimento della chiesa di San Giuseppe Maggiore dove aveva sede l’arte (grafico 5)57. Grafico 5 - Spese effettuate dall’arte dei falegnami dal 1662 al 1772 12000 11000 10000 9000 8000 7000 6000 5000 4000 3000 2000 1000 0 1762-64 1764-66 1766-68 di cui spese ordinarie di fabbrica 1768-70 1770-72 Totale spese di cui spese straordinarie per il mantenimento degli immobili Fonte: ASNa, Tribunale Misto, Processi, F. 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore contabile, anni 1672-1772». Il costo per la ristrutturazione e l’abbellimento della chiesa fu particolarmente elevato e, dal momento che la chiesa non produceva alcuna rendita, era chiaro che la logica di questo tipo d’investimento era profondamente diversa da quella che abbiamo incontrato fino adesso. PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO 109 In genere, le spese sostenute per il mantenimento degli immobili seguivano una logica di profitto: accrescevano il valore dei beni riverberandosi positivamente sui livelli dei canoni d’affitto e, quindi, sulle rendite della corporazione. La chiesa, invece, non era di proprietà della corporazione. Pertanto, i capitali spesi per il mantenimento, la ristrutturazione e la decorazione dell’edificio sacro non incrementavano il valore del patrimonio dell’arte. La logica di questi investimenti rispondeva, quindi, più a un criterio di prestigio. Le chiese costituivano le sedi delle corporazioni ed erano l’espressione della loro posizione nella gerarchia dei gruppi professionali. La chiesa rappresentava, dunque, il monumento della corporazione; proprio come il palazzo residenziale dell’aristocrazia rappresentava il prestigio e la potenza della casata58. Non a caso le corporazioni più importanti cercavano di assicurarsi la propria sede nelle principali chiese della città. Ottenuta la sede più adeguata, esse non si esimevano dall’ingaggiare i migliori artigiani d’Europa. Un esercito di pittori, scultori, fabbri, intarsiatori, maestri d’ascia, «organai» e «apparatori» lavorava senza sosta per realizzare le migliori creazioni artistiche e donare alla chiesa uno splendore ineguagliabile. Struttura e topografia delle proprietà La chiesa della corporazione non solo rappresentava l’importanza del gruppo professionale, ma era anche il centro attorno al quale si distribuiva la rete delle proprietà immobiliari. La politica di acquisizione degli immobili privilegiava, infatti, i fabbricati che sorgevano accanto alla sede della corporazione, dove venivano ubicati gli enti di assistenza. Nel 1754, ad esempio, la corporazione dei calzolai acquistò l’immobile attiguo alla chiesa intitolata ai Santi protettori dell’arte, i santi Crispino e Crispiniano. Lo stabile venne ristrutturato e trasformato in conservatorio per accogliere e istruire le figlie dei maestri immatricolati che desideravano entrare in convento59. Le proprietà delle corporazioni si concentravano soprattutto nell’area più antica della città, che si sviluppava dietro il Porto e nella zona meridionale, dove si svolgeva la parte più rilevante dei traffici commerciali60. Grazie a questa politica di acquisizione, le corporazioni s’inserivano nel segmento di mercato più redditizio della città, rappresentato proprio dagli alloggi di piccole dimensioni che si trovavano nel cuore del centro urbano, e si assicuravano, inoltre, una presenza costante e ben radicata nel tessuto cittadino, accrescendo la loro autorità sul territorio. Dunque, non era un caso che più del 40 % delle proprietà della corporazione della lana fossero concentrate nella strada di San Biagio ai Taffettari, dove anche la corporazione dei «giudecchieri» aveva diverse proprietà. In quella strada, com’è noto, si svolgeva infatti gran parte del commercio dei tessuti. Nelle aree limitrofe si trovavano la chiesa, il conservatorio, il tribunale dell’arte e lo stabile che custodiva l’archivio della corporazione. Nella zona circostante San Biagio, poi, l’arte possedeva anche 8 botteghe di varia grandezza e ben 21 appartamenti. Uno di questi − composto da due camere e una cucina − era dato gratuitamente in uso al portinaio del conservatorio. 110 SONIA SCOGNAMIGLIO Un’altra consistente parte del patrimonio era concentrata nella strada del Lavinaro, dove si trovavano 11 bassi e 14 appartamenti. Le altre proprietà erano nella strada degli Armieri, dove la corporazione possedeva 3 botteghe e 3 appartamenti che rendevano 64 ducati all’anno, e nella strada di Santa Maria delle Grazie «all’orto del conte», dove aveva un basso e 5 appartamenti affittati per 67 ducati all’anno61. A Portanuova l’arte della lana possedeva un grande stabile utilizzato come carcere che di solito dava in affitto al tribunale della Vicaria, l’istituzione giudiziaria più importante della città. La parte più consistente degli investimenti riguardava l’acquisizione di appartamenti, bassi, botteghe e magazzini da dare in affitto. La corporazione della lana possedeva 75 unità immobiliari, 11 botteghe e 64 appartamenti. Il 15 % delle proprietà della corporazione dei «giudecchieri» era rappresentato da botteghe, mentre la restante e maggiore parte degli immobili era destinata ad uso residenziale. Gli appartamenti avevano grandezza diversa, ma non superavano mai le tre camere e cucina. La preferenza per le case più modeste, la cui domanda era composta prevalentemente da artigiani, rivela un altro importante aspetto della gestione patrimoniale corporativa. Le associazioni di mestiere avevano infatti individuato il settore più redditizio del mercato immobiliare partenopeo, quello appunto dell’edilizia popolare. L’acquisizione e la locazione di appartamenti di piccole dimensioni agevolava soprattutto il ceto artigiano e mercantile della città sempre in cerca di alloggi e botteghe. I conflitti: inquilini, e giurisdizioni corporative Un’ultima riflessione riguarda le strategie adottate dalle corporazioni nella scelta degli inquilini e la gestione delle controversie tra questi e le corporazioni. A questo proposito, però, i documenti a nostra disposizione sono ancora estremamente lacunosi. La maggior parte delle informazioni sugli inquilini si trovano nei contratti di locazione raccolti nei protocolli dei notai incaricati di redigerli. Quella notarile è una fonte ricchissima, ma ancora poco utilizzata, sia per le difficoltà d’individuare il notaio estensore dei contratti, sia per le note difficoltà di accesso e di lavoro negli archivi napoletani. Allo stato della ricerca, è, dunque, possibile solamente proporre qualche considerazione. La testimonianza più interessante sulla natura dei rapporti tra proprietari e inquilini è offerta dalla corporazione dei «coirari d’arte piccola della zabatteria»: gli artigiani che si occupavano di rifinire i cuoi accomodati dai «coirari d’arte grossa» e di confezionare i prodotti necessari per la realizzazione delle scarpe e di altri generi di abbigliamento. Si trattava di una corporazione piccola, ma che grazie alle proprie disponibilità economiche riuscì ad acquistare diversi immobili, tutti situati nella zona del mercato grande o nella strada della Zabatteria, dove si concentrava appunto l’attività degli adepti. Nella seconda metà del XVII secolo, Giuseppe Notarianno fu per circa un decennio il notaio del comparto conciario. Egli si occupava di redigere gli atti degli acquisti dei cuoi necessari alle numerose corporazioni coinvolte nell’attività della concia a Napoli. I suoi protocolli notarili offrono infatti un ampio ventaglio di notizie, tanto PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO 111 sull’attività commerciale delle corporazioni, quanto sulle relazioni private e familiari degli artigiani. Negli ultimi decenni del XVII sec., il Notaio lasciò la gestione degli affari dei conciatori napoletani dedicandosi a quella del patrimonio immobiliare del Banco di S. Eligio. Notarianno redasse così diversi contratti di locazione per conto della corporazione dei conciatori di arte piccola. D’accordo con il tesoriere che rappresentava la corporazione, il notaio, tra il 1680 e il 1683, stipulò 5 contratti di locazione. Gli inquilini erano adepti della corporazione o, comunque, maestri del comparto conciario e corrispondevano un canone estremamente elevato, pari a 20 ducati all’anno62. Ciò conferma la mancanza di un intento assistenziale nella gestione del patrimonio edilizio, effetto del dinamismo del mercato immobiliare napoletano che conferiva a tali investimenti una matrice affaristica e speculativa. In questo caso è, infatti, possibile escludere che le corporazioni concedessero gratuitamente le case ai maestri più poveri della corporazione, come, invece, accadeva in altre realtà urbane63. La locazione degli immobili agli artigiani del settore conciario risolveva alcuni importanti problemi. La corporazione poteva raccogliere con facilità le informazioni necessarie per la scelta dell’inquilino. La solvibilità dei conduttori era, infatti, l’anello debole dell’investimento immobiliare. Con fitti così elevati e salari che tendevano a essere stabili o a diminuire, spesso gli inquilini non riuscivano a pagare la pigione. Questa dinamica peggiorò nel corso del Settecento, quando i proprietari iniziarono ad aumentare anno dopo anno il prezzo delle locazioni. Il caos che si creava per le strade della città nei giorni intorno al 4 maggio, quando terminavano i contratti di locazione, era impressionante. Fra traslochi improvvisi, occupazioni abusive e sgomberi forzati, intere famiglie rimanevano senza casa e si stabilivano per strada. Il disagio sociale era diffusissimo e non di rado creava pericolosi disordini urbani64. Nel 1742, il tribunale della Vicaria emanò un bando nel tentativo di arginare il malessere popolare frenando «l’ingordigia dei proprietari». Questi ultimi non potevano sfrattare gli inquilini che erano in regola e neppure aumentare loro il canone nel corso del contratto. Il divieto riguardava non solo le case, ma anche le botteghe o le camere adoperate per l’attività professionale del conduttore. Tuttavia, l’applicazione del blocco dei fitti, confermata anno dopo anno nel corso del secolo, non fu rigorosa. Inoltre, essa limitava l’aumento dei fitti esclusivamente durante il contratto. Ciò voleva dire che i proprietari potevano aumentare il canone alla fine di ogni contratto e cioè ogni anno65. Se di norma nei rapporti tra inquilini e proprietari l’intervento della magistratura poteva garantire la tutela degli interessi delle parti più deboli, quando i proprietari erano le corporazioni la situazione si faceva più difficile. Com’è noto, le corporazioni avevano un proprio tribunale, così quando si creavano conflitti con gli inquilini esse istruivano le cause dinanzi alla propria autorità giudiziaria. In teoria le corporazioni non avrebbero potuto farlo: il tribunale domestico poteva infatti occuparsi solamente delle questioni interne, quelle in cui le parti coinvolte nella controversia erano iscritte 112 SONIA SCOGNAMIGLIO alla corporazione. Derogando questa regola e approfittando del caos amministrativo che regnava nelle istituzioni giudiziarie ordinarie, le corporazioni si arrogavano il diritto di celebrare i processi contro gli inquilini anche quando questi ultimi non appartenevano alla corporazione. Così gli inquilini erano costretti a subire le angherie delle corporazioni, che sempre più spesso approfittavano della loro funzione giurisdizionale. Non a caso nel 1750, l’«eletto della Piazza del Popolo» − uno dei sette eletti che presiedevano il Tribunale di San Lorenzo che si occupava dell’approvvigionamento annonario − denunciò al re la situazione e ottenne che al tribunale della Vicaria fossero assegnate tutte le cause riguardanti gli affitti e gli sfratti pendenti presso i tribunali delle corporazioni66. Sonia Scognamiglio Un ducato = 10 carlini = 100 grana. Cfr. A. MARTINI, Manuale di metrologia: ossia misure, pesi e monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i popoli, Roma, ERS, 1883, p. 399 e A.P. FAVARO Metrologia o sia trattato generale delle misure, de’ pesi e delle monete, Napoli, Gabinetto bibliografico e tipografico, 1826, p. 269. 2 Cfr. C. TOPALOV, Le logement en France, Histoire d’une merchandise impossible, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques de Paris, 1987, pp. 1-100. Sulla gestione capitalistica della proprietà cfr. anche i numerosi contributi contenuti nel volume Power, Profit and Urban land. Landownership in Medieval and early Modern Northen European Towns, E. Finn-Einar-G.A. Ersland (eds.), Aldershot, Scolar Press, 1996. 3 Cfr. E. FINN-EINAR-G.A. ERSLAND, Introduction, in Power, profit and urban land, cit., pp. 1-14. 4 Cfr. D. KEENE, Landlords, the property Market and Urban Development in Medieval England, in Power, profit and urban land, cit., pp. 93-119. 5 Cfr. C. TOPALOV, Le logement en France, cit., p. 35. 6 Ivi, pp. 29 e 65-100. 7 Cfr. E. FINN-EINAR-G.A. ERSLAND, Introduction, in Power, profit and urban land, cit., pp. 9-10. 8 Cfr. Tra gli altri D. KEENE, Landlords, the property Market and Urban Development in Medieval England, in Power, profit and urban land, cit., pp. 93-111; G.A. ERSLAND, The evolution of Land Rent in Late Medieval Bergen, in Power, profit and urban land, cit., pp. 61-69; R. RODGER, Feuding “Farming” and Scottish Urban Formi, c. 1600-1900, in Power, profit and urban land, cit., pp. 120-140; R. SANDBERG, Urban Landownership in Early Modern Sweden, in Power, profit and urban land, cit., pp. 179-193; S. HOOD, Throught the Gates: Power and Profit in an Irish Estate Town, in Power, profit and urban land, cit., pp. 244-269. 9 Cfr. A. SAPORI, Compagnie e mercanti di Firenze antica, Firenze, Giunti Barbera, 1955, pp. 305-352. 10 Cfr. C. TOPALOV, Le logement en France, cit., p. 67. 11 A. LE MAÎTRE, Métropolitée, ou de l’ètablissement des Villes capitales, de leur utilité passive et active, Amsterdam, 1682, document elettronique, Bibliotheque Nationale de France, Paris, reproduction NUMM, 6561. 12 Cfr. Histoire de l’Europe urbaine, vol. I: De l’Antiquité au XVIII siècle, genèse des villes européennes, a cura di J.L. Pinol, Paris, Seuil, 2003, pp. 602-603. 13 Cfr. R. MOUSNIER, Paris capitale au temps de Richelieu et de Mazarin, Paris, Pedone, 1978, [trad. it. Parigi capitale nell’epoca di Richelieu e Mazzarino, Bologna, Il Mulino, 1983]. 14 Cfr. D. ROCHE, Le Peuple de Paris. Essai sur la culture populaire au XVIII siècle, Paris, Aubier Montaigne, 1981, [trad. it. Il popolo di Parigi: cultura popolare e civiltà materiale alla vigilia della rivoluzione, Bologna, Il Mulino, 1986]; M. LE MOEL, L’architecture privée à Paris au Grand Siècle, Paris, Service des travaux historiques de la ville de Paris, 1990; J.P. BABELON, Demeures parisiennes sous Henri 1 PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO 113 IV et Louis XIII, Paris, Le temps, 1965. 15 Cfr. Histoire de l’Europe urbaine, vol. I: De l’Antiquité au XVIII siècle, cit., pp. 668-670. 16 C. TOPALOV, Le logement en France, cit., pp. 66-69. 17 M. REED, London and its Hinterland 1600-1800: the View from de Provinces, in Capital cities and their Hinterlands in Early Modern Europe, Aldershot, Scolar Press, 1996, pp. 51-86. 18 Cfr. D. KEENE, Landlords, the property Market and Urban Development in Medieval England, cit. 19 Lo sviluppo delle attività immobiliari in Inghilterra era poi favorito dall’impossibilità di investire i capitali nell’acquisto di quote del debito pubblico, al contrario di quanto accadeva nell’Europa continentale. 20 Cfr. tra tutti C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 al ‘800. Problemi di storia sociale e demografica, Napoli, Guida, 1974; G. GALASSO, Una Capitale dell’Impero, in Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI e XVII), Torino, Einaudi, 1994 e ID., Napoli Capitale. Identità politica e identità cittadina (1266-1860), Napoli, Electa, 1998; F. VENTURI, Napoli capitale nel pensiero dei riformatori illuministi, in Storia di Napoli, 10 voll., vol. VIII, Napoli, ESI, 1971, pp. 1-73. Sul rapporto tra la capitale e i centri urbani delle province cfr. Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, a cura di A. Musi, Napoli, ESI, 2000. 21 Cfr. P. LOPEZ, Napoli e la peste, 1464-1558, politica, istituzioni, problemi sanitari, Napoli, Jovane, 1989. 22 C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 al ‘800. Problemi di storia sociale e demografica, cit., pp. 3-4. 23 Cfr. G. PANE, Lo sviluppo urbanistico di Napoli nel Cinquecento, in Gli inizi della circolazione della cartamoneta e i banchi pubblici napoletani, a cura di L. De Rosa, Napoli, Fondazione Banco di Napoli, 2002, pp. 231-264. 24 Cfr. C. DE SETA, Cartografia della città di Napoli. Lineamenti dell’evoluzione urbana di Napoli, 3 voll., Napoli, ESI, 1969, vol. I, pp. 136-140; G. LABROT, Baroni in città. Residenze e comportamenti dell’aristocrazia napoletana. 1530-1734, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1979; ID., Palazzi Napoletani . Storie di nobili e cortigiani 1520-1750, Napoli, Electa, 1993; R. DE FUSCO, L’architettuta privata e pubblica a Napoli nel Cinquecento, in Gli inizi della circolazione della cartamoneta, cit., pp. 265-288. 25 Cfr. G. BRANCACCIO, Il Trono, la fede e l’altare. Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa nel Mezziogiorno Moderno, Napoli, ESI, 1996. 26 F. STRAZZULLO, Edilizia e Urbanistica a Napoli, dal ‘500 al ‘700, Napoli, Arturo Berisio, 1968, pp. 187-198. 27 La canna corrisponde a circa 2 metri. 28 C. DE SETA, Cartografia della città di Napoli, cit., pp. 145 sgg. 29 Cfr. C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 al ‘800. Problemi di storia sociale e demografica, cit., pp. 50-51 e 111-115. 30 Cfr. C. DE SETA, Cartografia della città di Napoli, cit., p. 166. 31 Cfr. F. STRAZZULLO, La peste del 1656 a Napoli, Il Fuidoro, 1957, pp. 7-16. 32 Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli nei secoli XVII e XVIII, Napoli, Droz, 1977, p. 86. 33 Ivi, pp. 127-130. 34 Cfr. C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 al ‘800. Problemi di storia sociale e demografica, cit., p. 133. 35 Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 92-99. 36 Cfr. tra gli altri L. DE ROSA, Gli inizi della circolazione della cartamoneta e i banchi pubblici napoletani, in Gli inizi della circolazione della cartamoneta, cit., pp. 437-459 e ID., Banchi pubblici, banchi privati e Monti di pietà a Napoli nei secoli XVI-XVIII, in Banchi pubblici, banchi privati e Monti di Pietà nell’Europa Preindustriale, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 1991, pp. 497-512; E. DE SIMONE, Il Banco della Pietà di Napoli 1734-1806, Napoli, ISTOB, 1974. 37 Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 77-79. 38 Cfr. D. KEENE, Landlords, the property Market and Urban Development in Medieval England, cit. 39 Cfr. G. DONEDDU, Il sistema delle corporazioni nella Sardegna della seconda età moderna, in Corporazioni e gruppi professionali nell’italia moderna, a cura di A. Guenzi, P. Massa, A.Moioli, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 201-216. 40 Cfr. M. DELLA VALENTINA, I tessitori di seta a Venezia nel Settecento, «Quaderni storici», 2003, 2, pp. 399-418. 114 SONIA SCOGNAMIGLIO 41 Sul tema dei proprietari originali dei suoli urbani cfr. le interessanti riflessioni di B.J. GRAHAM, The processes of Urban Improvement in Provincial Ireland e S. HOOD, Through the Gates: Power and Profit in an Irish Estate Town, in Power, profit and urban land, cit, pp. 218-270. 42 ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (d’ora in poi ASNa), Ministero degli Interni, II inv., Fascio 5197, fasc. 10, «Atti dell’amministrazione stralci riuniti delle Abolite cappelle d’arti e di mestieri. Relazione dell’Intendente della provincia di Napoli del 1840». 43 ASNa, Ministero degli Interni, II inv., Fascio 5197, fasc. 54, «Capitoli dell’arte di comprare, accomodare e vendere robbe vecchie e nuove, di seta lana e tela del 1589». Questo fascicolo è stato erroneamente inserito in quello che raccoglie le capitolazioni dell’arte della lana. 44 G. DORIA, Le strade di Napoli. Saggio di toponomastica storica, Napoli, R. Ricciardi, 1979, p. 235. 45 ASNa, Ministero degli Interni, II inv., Fascio 5197, fasc. 10, «Atti dell’amministrazione stralci riuniti delle Abolite cappelle d’arti e di mestieri. Relazione dell’Intendente della provincia di Napoli del 1840. Lettera del presidente del Consiglio generale degli ospizi cui competeva la gestione degli stralci riuniti delle cappelle abolite di arti e di mestieri». 46 Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 80-81. 47 Cfr. L. DE ROSA, Studi sugli arrendamenti del regno di Napoli. Aspetti della distribuzione della ricchezza mobiliare nel mezzogiorno continentale (1649-1806), Napoli, L’Arte Tipografica, 1958. 48 G. MUTO, Forme e contenuti economici dell’assistenza nel Mezzogiorno moderno: il caso di Napoli, in Timore e carità. I poveri nell’Italia moderna, a cura di G. Politi, M. Rosa, F. Della Peruta, «Annali delle Biblioteca statale e Libreria Civica di Cremona», 1982, pp. 237-258. 49 ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 25, fasc. IX, «Stato generale delle rendite della Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Miroballo del 1759». 50 ASNa, Cappellano Maggiore, Statuti di corporazioni, Fascio 1185, fasc. 10, «Relazione sulle entrate e sugli esiti dell’arte dei pelletteri e scamosciatori del 1744». 51 Ibidem. 52 ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore contabile, anni 1762-1772». 53 L. MASCILLI MIGLIORINI, Il sistema delle arti, Napoli, Guida, 1992, pag. 108. 54 ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore contabile, anni 1672-1772». 55 Ibidem. 56 cfr. E. ALIFANO, Il grano, il pane e la politica annonaria a Napoli nel Settecento, Napoli, ESI, 1996, pp. 177-200. 57 ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore contabile, anni 1672-1772». 58 Cfr. tutti i numerosi contributi raccolti in Tra rendita e investimenti, formazione e gestione dei grandi patrimoni in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di A. Vittorio e J.A. Davis, Bari, Cacucci editore, 1996, pp. 3-287; su questo specifico tema cfr. L. MOCARELLI, Ascesa sociale e investimenti immobiliari: la famiglia Clerici nella Milano del Sei-Settecento, «Quaderni storici», 2003, 2, pp. 419-436. 59 ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 14, fasc. I, «Chiesa dei Santi Crispino e Crispiniano del 1754». 60 C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 all’800, cit. 61 ASNa, Tribunale Misto, Processi, F. 25, fasc. IX, «Stato generale delle rendite della Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Miroballo del 1759». 62 ASNa, Sezione Militare, Notai del Seicento, Giuseppe Notarianno, 554, voll. 3-7-11, anni 16781683, «locatio domy, apotheca e camera». 63 Cfr. M. DELLA VALENTINA, I tessitori di seta a Venezia nel Settecento, cit. 64 Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 94-95. 65 Ibidem. 66 Ibidem. LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME UN FENOMENO URBANO DALL’OSSERVATORIO DELL’ALBERGO DEI POVERI (1656-1798)* Descrivere la gestione immobiliare di un’istituzione caritativa come l’Ufficio (o Magistrato) dei poveri di Genova tra Sei e Settecento significa delineare i comportamenti patrimoniali e le strategie insediative delle famiglie che ne erano tutrici, e definire con chiarezza la condizione urbana e abitativa della capitale in quegli anni. Lo studio sistematico delle unità edilizie possedute e amministrate da un ente dall’attività poliedrica quale fu l’Ufficio dei poveri – sorto con intenti assistenziali, ma salito alla ribalta della scena nazionale e internazionale grazie alla versatilità dei propri interessi finanziari – ha contribuito, infatti, a tracciare un quadro indicativo della complessa realtà dell’epoca, e ha creato l’occasione per rilevare alcuni aspetti ancora in ombra della cultura immobiliare genovese in Antico Regime. La storiografia impegnata nell’analisi urbana di Genova si è dedicata episodicamente al periodo qui preso in esame, trattando solo gli eventi ritenuti emblematici1. Questo contributo si colloca, dunque, come uno dei primi tentativi di indagine sistematica delle operazioni edilizie su grandi proprietà in funzione dello sviluppo urbano e architettonico coevo, e assume, nella sua configurazione, il carattere di un inventario di usi e valori, indicando i percorsi privilegiati da seguire in un’analisi futura2. Lo spaccato sulla proprietà urbana genovese che qui si offre contribuisce solo in parte a interpretare un modus vivendi appannaggio esclusivo delle classi al potere e delle istituzioni che in qualche modo le rappresentarono, alludendo ai temi che hanno maggiormente influenzato la mutevolezza immutabile di una città in crescita. Le trasformazioni urbane a Genova tra Sei e Settecento attraverso la documentazione prodotta dall’Ufficio dei poveri Nella vita collettiva europea il XVII secolo segnò una profonda crisi che, nella penisola italiana, si manifestò con la «rivoluzione dei prezzi» e con il depauperamento dei ceti a reddito fisso, facendo sentire i suoi effetti più immediati sulle diverse compagini sociali, già vittime del flagello delle epidemie di peste degli anni precedenti. Nelle aree direttamente legate al declino politico ed economico della Spagna (la Repubblica di 116 CLARA ALTAVISTA Genova sopra tutte) la situazione divenne instabile, fino a raggiungere l’immobilità di ogni forma di investimento con il ritiro dei capitali dalla partecipazione attiva sui mercati. Le bancarotte spagnole, tuttavia, non sollecitarono Genova ad uno sganciamento politico dal sistema di alleanze con la penisola iberica – al cui interno rimasero impiegati la maggior parte dei capitali genovesi – almeno fino al 1684, quando Luigi XIV di Francia ordinò il bombardamento navale della città e delle Riviere3. La distruzione fu imponente ed estesa, a tal punto che le fonti scritte del secolo successivo continuarono a rievocarne il ricordo in numerose transazioni immobiliari o nelle suppliche rivolte al Governo da parte di indigenti in cerca di sostegno economico4. L’area urbana maggiormente colpita fu quella corrispondente grosso modo al primo nucleo fortificato del IX secolo, già da tempo sovrappopolato (fig. 1). In questo clima tragico si aprì, in un moto di diffuso orgoglio patriottico, una stagione di grandi opere pubbliche, che qualificarono, sino alle soglie dell’età contemporanea, il paesaggio e l’immagine internazionale di Genova. Tra di esse vi sono la cinta muraria e i bastioni (1626-1632), il molo nuovo (1638-1644), i magazzini dell’Abbondanza e del Sale (1606- 1656), la Chiappa dell’olio con la Reba dei grani (1602-1638) e, non ultimo, l’Albergo dei poveri (1656-1698)5. Nell’arco di pochi decenni, la capitale riuscì ad organizzare le proprie strutture difensive e di approvvigionamento, ma la mole e la diffusa localizzazione di queste infrastrutture avrebbero ulteriormente ridotto l’elasticità interna della città, sulla quale gravavano ancora numerosi problemi di riqualificazione edilizia e urbana, tra cui quello di una più rapida circolazione stradale. La struttura viaria cittadina, infatti, si reggeva sugli antichi percorsi medievali, articolandosi lungo gli assi di penetrazione interna (via di San Bernardo, salita del Prione) e litoranea, l’antico carrubeus rectus (attuale via San Luca). In una città oppressa dalle piaghe dell’inurbamento, dove era ancora netto il contrasto tra i quartieri della nobiltà e quelli popolari, la parte più antica non fu la sola a soffrire per la mancata presenza di un sistema viario funzionale6. Escludendo i noti episodi delle strade Nuova (ante 1551-1562) e Balbi (1602-1610) – le uniche in cui coincisero l’idea di organizzazione urbana e la progettazione architettonica7 –, le soluzioni adottate fino ad allora in materia non giunsero a definire, nel loro complesso, una nuova forma di città (il cui ampliamento non oltrepassò mai la cinta muraria del XII secolo), risultando del tutto inadeguate rispetto all’aggravarsi dei problemi derivanti dall’inurbamento. I provvedimenti presi avevano avuto un’estensione limitata, consistendo essenzialmente nell’apertura e nella risistemazione di qualche piazza – più eccezionalmente nel tracciamento di una strada –, e l’esito di queste trasformazioni sull’articolazione interna del manufatto urbano − gestite dall’autorità in funzione del pubblico interesse − non aveva fatto altro che ingolfare gli antichi assi preferenziali. Nell’insieme degli interventi frammentari che avevano interessato il Cinquecento genovese solo alcuni avevano assunto un significato concreto, come il risanamento del tessuto viario convergente LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME 117 Fig.1. Modello o sia pianta di Genova, 1656, Genova, Collezione Topografica del Comune, inv. n. 210. Fig. 2. David Roberts, Town and Harbour of Genoa, 1822, Londra, British Museum, Department of Prints, 1948.2.5.4. A destra, in alto, la mole architettonica dell’Albergo dei poveri (da E. Poleggi, Paesaggio e Immagine di Genova, Genova 1982, p. 121) 118 CLARA ALTAVISTA verso Porta Soprana, con l’abbattimento di un’intera cortina edificata a Ponticello, o l’ampliamento dell’asse stradale di Soziglia, che univa, attraverso Luccoli, il Portello di accesso alla città dalla valle Scrivia al cuore economico di Banchi (1548-1596), o ancora il proseguimento, con il raddrizzamento del tratto già esistente, di via di Scurreria (in prossimità della cattedrale), con la volontà precisa, in questo più che in altri casi, di superare fisicamente i limiti posti dall’intricato assetto urbano medioevale. Si portarono avanti, inoltre, alcune interessanti proposte per l’aumento delle unità residenziali destinate alla popolazione di medio e basso reddito, che affollava gli edifici già fatiscenti del Mandraccio (presso il porto) e di Ponticello (ai piedi della collina di Castello). Tali propositi furono ripresi nella seconda metà del Seicento e coinvolsero la zona a monte di strada Nuova, compresa tra il baluardo di Santa Caterina e il Castelletto (1666), ma per diverse ragioni furono scartate o rinviate sine die (cfr. fig. 2). Nel corso del XVII secolo furono sviluppati ed eseguiti a Genova alcuni interessanti progetti di viabilità, come l’apertura di una carrettiera che dalla chiesa di San Domenico (demolita nell’Ottocento)8 congiungesse la città antica alla collina di Albaro; il tracciamento di una strada di collegamento tra palazzo Ducale e piazza Sarzano, per servire ai corsi ed alle processioni religiose (stradone di Sant’Agostino, 1687); l’unione delle strade Nuova e Balbi (avvenuta però solo a fine Settecento, via Nuovissima oggi Cairoli, 1778-1786). Tutti interventi che, alla luce di quanto era stato fatto precedentemente, si possono leggere come il tentativo di rendere concretamente unitario un programma viabilistico di più ampio respiro. Programma che proprio per la sua mancata unità continuava ad essere ancora del tutto teorico (cfr. fig 2). Già dalla fine del Cinquecento in sede di governo erano stati discussi interessanti progetti sul nuovo assetto urbano e architettonico della capitale, dibattiti che, nel corso del XVII e del XVIII secolo, si fecero via via più serrati. Le interpellanze non produssero però alcun esito significativo, lasciando, di fatto, Genova incapace di sopportare gli oneri di una metropoli di oltre 70.000 abitanti. Gli interventi pubblici seicenteschi avevano soprattutto l’obiettivo di rendere maggiormente fluido l’attraversamento interno della città murata del XII secolo, ma i pochi progetti realizzati si rivelarono incerti e frammentari soprattutto nella loro fase di attuazione. Nel tentativo di rendere più organico il quadro d’insieme, dalla seconda metà del Settecento si procedette alla definizione della struttura urbana, ma, paradossalmente, ancora attraverso interventi episodici. Vanno ricordati il completamento di strada Giulia, la carrettiera che consentiva la comunicazione con il Levante cittadino (1755, attuale via XX Settembre), la sistemazione ad anfiteatro della piazza dell’Acquaverde a chiusura di strada Balbi (1761), il rinnovo definitivo di alcune importanti infrastrutture come il Portofranco (1756 ca.), l’ampliamento del monumentale Ospedale di Pammatone (1758) e lo spostamento dei forni pubblici a Castelletto (1772, sopra strada Nuova). In questa inedita stagione di rinnovo, le grandi opere pubbliche sembrarono ac- LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME 119 quistare significato sopra ogni altra cosa, rappresentando il settore più attivo dell’edilizia cittadina; tuttavia, non meno ricchi apparvero i numerosi interventi privati. In un moto di diffuso adeguamento alle moderne esigenze residenziali, le nobili famiglie genovesi modificarono le proprie dimore, assoggettandole a nuove spazialità interne – spesso contenute entro lo stretto perimetro dei lotti medievali –, sull’onda di quei rinnovamenti che altrove stavano caratterizzando le maggiori capitali europee9. Lo spirito imprenditoriale che caratterizzò la società genovese tra Sei e Settecento fu definito da una politica edilizia disarticolata, finalizzata alla riqualificazione del patrimonio immobiliare esistente e a un parziale riordino del sistema viario. Il disegno di città che ne derivò non aggiunse nuovi elementi significativi alla complessa articolazione interna, evidenziando una dinamica urbana dai consolidati elementi strutturali, ma dalla incompiuta definizione generale. Il lento processo di trasformazione non impedì alle dinastie cittadine consolidate di ottenere proprio dall’attività edilizia un certo margine di profitto. Queste transazioni immobiliari, presupposto indispensabile di un possibile e concreto (decisamente nuovo) sviluppo urbano, coinvolsero le aree del cosiddetto «quadrilatero dorato» – fra la Ripa occidentale, verso il litorale cittadino; Vallechiara e strada Nuova (nelle aree di «espansione» cinquecentesca); palazzo Ducale e piazza Banchi (in ambiti urbani ormai del tutto consolidati) – e investirono in maniera meno tangibile le zone intorno alle quali aveva preso forma e si era sviluppata la stessa capitale, Sarzano e Castello su tutte10 (cfr. fig 2). Le residenze di prestigio Dal cuore economico di Banchi alla cattedrale di San Lorenzo si avviò una inesorabile opera di trasformazione interna, che, tuttavia, non riuscì a intaccare profondamente le dimore cittadine più rappresentative. Le modifiche furono meno traumatiche per i complessi architettonici il cui impianto planimetrico costituiva un blocco geometricamente definito all’interno del lotto urbano, e non coinvolsero gli edifici eretti ex novo nelle zone di recente urbanizzazione (come le strade Nuova e Balbi), o quelle residenze che, nonostante fossero già parte integrante dell’irregolare trama edilizia medievale, erano riuscite, non senza difficoltà, a conservare ancora un carattere autonomo rispetto al contesto (palazzi Sauli in piazza San Genesio e Spinola dei Marmi al Fonte Amoroso)11. A risentire maggiormente di questo processo di stratificazione interna furono soprattutto quelle residenze che, sorte accanto alle più celebri dimore nobiliari, avevano tentato con discreto successo di emularne i fasti o di assimilarne gli stili. L’impianto distributivo del palazzo genovese rese inoltre concretamente attuabile il frazionamento interno in appartamenti, nei quali poter accogliere anche coloro che non ne erano proprietari. L’alternanza di camere d’uso privato a stanze di vita collettiva, ripartite in tutti i piani maggiori, costituì una solida piattaforma di partenza per questo tipo di operazioni, le quali, avviate già a partire dalla prima metà del Seicento, 120 CLARA ALTAVISTA si palesarono in tutta la loro problematica soprattutto nel corso del secolo successivo12. Tale iniziativa non fu affatto disdegnata da coloro le cui dimore difficilmente si prestavano a una distinzione così netta! Inizialmente i contratti di locazione di questi appartamenti furono stipulati tra membri appartenenti al medesimo casato, come testimoniano le vicende delle celebri residenze degli Spinola Di Negro in Soziglia, Spinola in Vallechiara o Lomellini all’Annunziata13; e si giunse addirittura a definire una strategia insediativa anomala (o invece sintomatica dell’evolversi di una nuova realtà urbana?), che vide esponenti di illustri dinastie cittadine prendere in affitto appartamenti – o interi stabili – di proprietà altrui pur disponendo di un ingente e pregevole patrimonio edilizio (Cipriano Pallavicino affittò abitualmente il palazzo avito di Fossatello, così come Stefano Balbi cedette la sua celebre dimora posta lungo la strada omonima)14. È una circostanza, questa, dagli aspetti ancora insondati, che segnò l’avvio di un nuovo costume cittadino e rappresentò, senza ombra di dubbio, l’elemento unificatore nel passaggio dalla dinamica insediativa legata ai clan familiari degli antichi «alberghi» nobiliari all’organizzazione urbana basata sul valore fondiario e sulle rendite immobiliari15. L’apporto della classe media nel settore edilizio, oltre a favorire un nuovo regime economico – di cui la redazione del primo catasto urbano avrebbe costituito la legittimazione16–, contribuì ulteriormente all’esasperazione della parcellazione proprietaria e portò agli eccessi il criterio di ripartizione dello spazio urbano nel quale si organizzò17. La crisi economica, inoltre, se da un lato contribuì a scrivere l’ultimo capitolo della grande stagione edilizia genovese, dall’altro coincise con l’assottigliamento di numerosi patrimoni immobiliari. Nei secoli precedenti, infatti, l’oligarchia cittadina aveva definito la consistenza edilizia e la sua articolazione sul territorio, rallentando qualsiasi iniziativa di trasformazione radicale dell’assetto proprietario18. Questo immobilismo – che esternamente definì il manufatto urbano entro un perimetro storicamente determinato fino alle soglie dell’Ottocento – subì, già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, progressive accelerazioni nel modo di fruire gli spazi all’interno di un medesimo edificio. Analogamente a quanto accadde per le classi meno abbienti, anche i casati più prestigiosi si adattarono a una diversa organizzazione distributiva della propria residenza. Costretti inizialmente ad accogliere i cosiddetti «membri poveri» del proprio casato – offrendo loro parte delle proprie dimore a un canone di affitto simbolico –, i proprietari di questi stabili apprezzarono ben presto i vantaggi che la loro locazione (maggiorata) avrebbe procurato in un momento di congiuntura economica sfavorevole. Il passaggio da un legame familiare a un sodalizio finanziario – prima tra membri della stessa casta, poi anche tra esponenti di classi sociali diverse – caratterizzò gli ultimi anni del XVII secolo e si fece più intenso soprattutto in quello successivo. La presenza di un gruppo non omogeneo di proprietari e di una strutturazione articolata del patrimonio immobiliare diedero luogo a un sistema diversificato di contrattazioni, la forma più interessante delle quali è certamente quella della locazione perpetua. LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME 121 Applicata in Genova almeno dalla seconda metà del XII secolo, soprattutto da parte degli ordini monastici o dalle congregazioni religiose, l’enfiteusi fu originariamente intesa come un rapporto in forza al quale la proprietà del suolo era separata da quella dell’edificazione. Tale pratica, che consentiva al titolare dell’usufrutto enfiteutico (trasmissibile ereditariamente) il pieno godimento del fondo altrui a vita, a seconda, a terza generazione, in perpetuo, quasi sempre con l’obbligo di miglioramenti, nel corso del Seicento fu progressivamente assimilata a un normale contratto di vendita19. Questo sistema di locazione, caratterizzato dall’esiguo ammontare dei canoni corrisposti e spesso dal precario stato di conservazione degli immobili, non determinò per i proprietari immobiliari che lo adottarono – in un’epoca di grandi trasformazioni quale fu il Seicento genovese – la crescita della loro ricchezza finanziaria, anche se era applicato a residenze di proporzioni straordinarie collocate in ambiti urbani a dir poco prestigiosi. Il problema delle abitazioni per i ceti popolari Il fenomeno dell’inurbamento causò a Genova non pochi problemi, soprattutto nelle zone popolari del Molo e di Ponticello, dove il rapporto tra gli spazi costruiti e i vuoti urbani andava via via risolvendosi in favore dei primi. Questo processo di stratificazione, avviato nel corso del XVI secolo, ricevette ulteriori incentivi dal bombardamento francese, ma, nonostante la disponibilità di nuove aree – a seguito dei numerosi crolli registrati – aprisse nuovi orizzonti all’edificazione di residenze popolari, lasciò del tutto inalterate le condizioni delle classi meno abbienti. Queste, infatti, continuarono a vivere in condizioni malsane all’interno di veri e propri tuguri, negli angiporti del molo vecchio e della Ripa o immediatamente a ridosso di quelle che erano state alcune tra le residenze più rappresentative della città e che progressivamente erano state lasciate dagli antichi abitanti, i quali avevano preferito il fasto e l’agiatezza delle residenze collocate lungo le «strade nuove»20. Gli edifici destinati ad accogliere numerosi «fuochi»21 erano modeste case collettive (casamenti), articolate su diversi livelli, o piccole casupole dal precario equilibrio statico. Le prime, in prevalenza proprietà di enti religiosi o assistenziali, subirono modifiche di parcellazione e sopraelevazione tali da renderle, nel corso di pochi decenni, ingenti fonti di reddito; le seconde, piccole proprietà di altrettanto piccoli commercianti, furono date in locazione a una nuova classe di cittadini salariati, conservando nella destinazione d’uso del basamento quelle attività artigianali che avevano contribuito non poco a comporre l’ossatura portante dell’economia interna della città22. Se i «casamenti» erano collocati soprattutto nei «quartieri» della Malapaga, presso il Mandraccio, e di Castello, le abitazioni monofamiliari erano disseminate un po’ ovunque all’interno della città murata: dai margini delle infrastrutture portuali – tra i macelli delle Grazie e il Portofranco – al Borgo dei lanaioli (raso al suolo in epoca fascista, cfr. fig 2)23. Queste unità immobiliari già a partire dal XIV secolo avevano 122 CLARA ALTAVISTA iniziato ad ospitare più di un «fuoco», ma il processo di stratificazione si manifestò in tutta la sua drammaticità soprattutto tra Cinque e Seicento, allorquando il flusso della popolazione profuga dall’entroterra si fece più intenso e meno controllato. Il fenomeno, già di per sé devastante, fu tacitamente favorito da un articolato sistema contrattuale, che – tra le numerose clausole – consentiva al conduttore di subaffittare a sua completa discrezione l’intera unità immobiliare o parte di essa. Se da un lato, quindi, il proprietario tendeva a trarre il massimo profitto dal proprio patrimonio edilizio, parcellizzando quegli stabili che – per collocazione topografica o stato di conservazione – intendeva appigionare, dall’altro, l’affittuario dava in locazione alcune stanze della propria residenza, esasperando il processo di frazionamento24. Questo fenomeno si manifestò soprattutto nelle aree in cui il ricordo degli eventi bellici era reso più vivo dalla presenza di edifici fatiscenti, trasformati in dormitori o in ritrovi abituali per gli emarginati, spesso dati in locazione dagli stessi proprietari che, incuranti delle pressioni esercitate dal Magistrato dei Padri del Comune25, rinviavano l’esecuzione degli interventi di manutenzione più immediati. Accadde, pertanto, che i conduttori delle unità immobiliari contigue a queste abitazioni ne annettessero indiscriminatamente i resti, accelerando il dissesto statico già pericolosamente in atto e senza preoccuparsi di avvertire le autorità competenti né i legittimi possessori26. In materia di canoni di locazione, inoltre, non vigeva una precisa regolamentazione, cosicché la determinazione dei prezzi di queste residenze fatiscenti fu affidata all’arbitrio dei singoli proprietari. È probabile, tuttavia, che esistesse un tacito accordo tra i possessori di fondi stabili appartenenti a medesime aree urbane, perché la differenziazione dei costi non era sostanziale tra le diverse tipologie edilizie. Sebbene per oltre un secolo (1680-1785) il livello delle pigioni non subì rincari significativi, l’incremento di oltre il 25% dei canoni di locazione registrato nei primi anni Novanta del Seicento destabilizzò sensibilmente il budget di coloro il cui salario non consentiva il benché minimo squilibrio27. La scarsità di residenze per il ceto medio-basso aveva indotto gli imprenditori ad aumentare i canoni di locazione senza che la Repubblica potesse in alcun modo porvi un limite28. La questione, acuitasi a partire dalla seconda metà del Settecento, venne affrontata in sede dibattimentale da numerosi esponenti del governo cittadino, che avanzarono a riguardo interessanti proposizioni. Una di queste fu quella di annettere alla città gli antichi borghi di Levante: soluzione che non avrebbe completamente risolto il problema della scarsità degli alloggi, ma che avrebbe garantito un considerevole flusso di denaro nelle casse dello Stato grazie alle tasse esatte ai futuri nuovi cittadini29. L’iniziativa venne però usata solo come l’ennesimo pretesto per criticare l’inadeguatezza urbana di Genova e, come tale, non fu presa in seria considerazione. Una reale alternativa all’annessione dei suburbi levantini apparve, piuttosto, l’utilizzazione dei grandi complessi conventuali. Sfruttando uno stato di fatto – i grandi monasteri si stavano progressivamente spopolando – e sull’onda di quelle idee filo-francesi che in materia di manomorta si diffusero rapida- LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME 123 mente, alcuni Magnifici cittadini rilevarono la presenza di un numero considerevole di conventi pressoché disabitati, per i quali era possibile un sistematico processo di trasformazione architettonica in ricoveri per mendicanti e malati (in casi estremi in abitazioni per la popolazione indigente), attraverso un minimo investimento economico. Nonostante la soluzione venne accolta con entusiasmo, alcuni esponenti del governo paventarono le conseguenze politiche di questa operazione, rilevando i danni che l’impasse diplomatico con la Santa Sede avrebbe potuto procurare alla Repubblica. Il progetto si concluse pertanto con un nulla di fatto – così come d’altronde era avvenuto per le altre proposte che lo avevano preceduto –, ma in merito alla questione ancora a lungo si discusse in Senato, dove si giunse a suggerire l’emanazione di una legge che imponesse una tassa sui beni immobili di coloro i quali – per libera scelta o costrizione – vivevano fuori Genova, lasciando disabitate le proprie dimore30. L’istanza rimase sulla carta, ma se attuata avrebbe avuto il solo vantaggio di dare nuovo impulso ad un mercato immobiliare che non aveva bisogno di ulteriori incentivi, poiché trattava esclusivamente complessi architettonici gentilizi. In questo clima di programmazione urbana caotico e flessibile, apparvero una concreta soluzione al problema solo quei piccoli interventi che, celati dietro la bandiera del decoro e del risanamento pubblico, nascondevano ancora una volta questioni di interesse economico privato. Tra gli anni Novanta del XVII secolo ed i primi decenni di quello successivo, si avviò un lento – ma costante – processo di riqualificazione edilizia31. Il fenomeno si estese in misura diversa nell’aggregato urbano, saldandosi in quella linea di continuità con il passato che aveva visto l’affermarsi di alcuni sestieri a scapito di altri. L’impegno maggiore, infatti, non si rivolse a quelle operazioni urbane che, se realizzate su vasta scala, avrebbero consentito un’omogeneità spaziale e un’oggettiva risposta all’esigenza di nuove abitazioni. Non sorprende, quindi, se questo nuovo risveglio dell’iniziativa privata non riuscì a porre le basi di un sistematico riassetto del tessuto urbano laddove esso appariva maggiormente congestionato. Le suppliche rivolte al Senato della Repubblica (o, come delegato, all’Ufficio dei Poveri) e al Magistrato dei Padri del Comune riguardarono per lo più la ristrutturazione di alcune residenze di elevata rendita posizionale, che il bombardamento francese aveva mutilato e il cui stato fisico, se fosse rimasto tale, avrebbe pregiudicato l’immagine stessa della capitale. Non per questo, però, bisogna ritenere che la ricostruzione avesse investito solo le unità immobiliari più rappresentative, perché la maggior parte di queste dimore era collocata in zone densamente abitate: tra i rettilinei di strada Nuova e della sottostante via della Maddalena; all’interno del tessuto urbano più antico che dal Molo saliva, lungo la «Platealonga» (attuali via di San Bernardo e salita del Prione), verso la porta urbica di Sant’Andrea (o Soprana); presso la Precettoria di San Giovanni di Pré e nel fitto insediamento sviluppatosi intorno ai Trogoli di Santa Brigida (sopra via Balbi). La mancanza di un’autorità centrale, che controllasse le operazioni edilizie con sistematicità e fermezza, permise, da un lato, che molte di 124 CLARA ALTAVISTA queste residenze venissero trasformate radicalmente e, dall’altro, che alcune di loro serbassero solo all’interno del proprio perimetro i segni del cambiamento, conservando nei prospetti ancora un’immagine deturpata. Quest’opera di risanamento avvenne soprattutto attraverso la ricomposizione dei setti murari crollati, l’apertura di nuove comunicazioni tra i diversi ambienti, il cambiamento della destinazione d’uso di alcune stanze in locali di servizio. La natura degli interventi, che furono più frequenti nei vicoli di comunicazione interna a ridosso delle celebri dimore di strada Nuova (o di Luccoli), cambiò sostanzialmente se le unità immobiliari in oggetto erano collocate presso il Molo o alle pendici della collina di Castello. In queste aree la ricostruzione, avvenendo quasi senza soluzione di continuità, testimoniò più che altrove la partecipazione attiva della classe dirigente genovese ai processi di trasformazione edilizia su vasta scala. Fu proprio per questi ambiti urbani, infatti, che la Repubblica predispose un preciso programma di risanamento capillare, ma, nel corso del Seicento – come d’altronde per tutto il secolo successivo –, nessuno degli interventi pubblici promossi fu in grado di assolvere a un così oneroso impegno. Le modalità stesse di queste operazioni (che presupponevano ingenti lavori di sistematica demolizione) non poterono certo costituire un deterrente al fenomeno del sovraffollamento delle zone più antiche, e favorirono, ancora una volta, le classi di governo. L’interesse dell’iniziativa privata in materia di edilizia popolare, quindi, si rivolse principalmente ad interventi finalizzati ad incrementare in altezza le unità immobiliari già esistenti ed alla costruzione di nuovi edifici per abitazioni comuni. Queste operazioni coinvolsero in una minima percentuale anche quegli esponenti della piccola classe artigiana che inizialmente furono in grado di disporre delle somme necessarie alla ricostruzione, ma, appena questi non riuscirono più a sopportarne gli oneri, espletate le procedure protocollari, i Padri del Comune ne alienarono forzatamente gli immobili senza possibilità di proroghe32. Nei cantieri di ricostruzione il ricorso ad operatori capaci di organizzare le diverse fabbriche apparve sporadico. Negli ultimi decenni del XVII secolo la prassi di edificare previo consenso del Magistrato dei Padri del Comune sembrava essere caduta in disuso o, quanto meno, poco applicata33. Ancora alla fine del Settecento si registrarono crolli dovuti alla scorretta posa in opera dell’edificio, per la mancata presenza di un «capo d’opera» o di un architetto che fosse in grado di controllarne l’esecuzione e di prevedere gli squilibri statici in grado di compromettere non solo la stabilità dell’edificio in questione, ma anche quella degli edifici contigui. Frequenti furono i ricorsi di indennizzo avanzati da coloro che, risiedendo in prossimità di questi cantieri edilizi, ebbero le proprie abitazioni danneggiate34. Queste istanze – intensificatesi soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Seicento – disegnano un’esatta mappa delle aree urbane più sensibili al fenomeno: i sestieri popolari non furono le sole vittime designate di questo processo di decadimento edilizio, perché queste manifestazioni comparvero anche in zone residenziali e l’eco delle cause giudiziarie che le vedevano LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME 125 in oggetto si fece tanto più prolungato quanto più gli interventi di ricostruzione si avvicinarono alle proprietà dei maggiori clan cittadini. Le richieste di ristrutturazione degli stabili, mai fini a loro stesse, incentivarono proprio quei processi di trasformazione urbana, che – in forma eclatante oppure dimessa – caratterizzarono l’intera attività edilizia genovese tra i secoli XVII e XVIII. Solo negli antichi sestieri del Molo e della Maddalena la natura di questi interventi fu ancora legata a vere e proprie istanze di risanamento35. L’entità di queste operazioni fu spesso misurata dalla quantità degli «zetti» e dei «gettiti» che il cantiere depositò nell’immediato contesto e non provvide tempestivamente a rimuovere, contravvenendo a quanto disposto dalle leggi della Repubblica36. Tale abitudine, ancora viva alla fine del Settecento, si rivelò la causa principale dell’innalzamento dei fondali dello specchio d’acqua portuale, creando non pochi danni alle infrastrutture marittime ed alle attività commerciali a esse collegate; essa, inoltre, costituì un vero e proprio stimolo per coloro che, non potendo disporre di denaro sufficiente, si servirono di questi materiali da riporto per ristrutturare la propria dimora37. Le grandi opere pubbliche del XVII secolo, così come quelle private – meno appariscenti ma non meno significative –, non rappresentarono una stagione di risanamento tout court. Le soluzioni adottate si rivelarono una fonte di occasioni economiche appetibili soprattutto per coloro che, per discendenza o calcolo, possedevano le aree in cui le ricostruzioni costituivano un investimento sicuro. Questo diverso dinamismo immobiliare appare per lo più condizionato dai disegni che gli imprenditori cittadini ed alcune magistrature locali intesero tracciare, contribuendo in pochi anni a definire nuove consistenti entità patrimoniali e ad orientare lo stesso sviluppo urbano. Le trasformazioni urbane furono gestite essenzialmente dal Magistrato dei Padri del Comune, spesso in sinergia con il Senato e con l’Ufficio dei Poveri (istituito nel 1539)38. I membri di questi uffici furono quegli stessi attori che animarono la scena urbana e, come tali, non poterono delineare, attraverso il proprio atteggiamento pubblico, orientamenti dissimili da quelli che furono loro propri. Poiché gli ordinamenti di queste magistrature erano complessi solo in materia di gestione interna – sovente nemmeno in quella – i loro funzionari furono quasi sempre liberi di esprimere nel corso della loro carica il proprio personale giudizio, obbedendo quasi esclusivamente alle imposizioni che la logica e la morale (più spesso le sole ragioni dell’economia) del momento di volta in volta dettavano. L’attività esercitata dagli organismi dediti alla pubblica assistenza riuscì a collocarli direttamente in una posizione intermedia tra il governo della Repubblica e i privati cittadini, tra la «legittimità» collettiva ed il «libero arbitrio» individuale. Nel caso dell’Ufficio dei poveri, che ricoprì una posizione di primissimo piano, l’organo direttivo fu composto in prevalenza da membri dell’aristocrazia nel pieno dell’età matura, in attesa di essere trasferiti presso altre istituzioni cittadine (Magistrato del Sale, Coadiutori Camerali, Senato) o di essere inviati oltre i confini del Dominio per seguire la carriera diplomatica o militare39. 126 CLARA ALTAVISTA L’Ufficio dei poveri di Genova: attività e interessi di un ente a servizio della comunità In un contesto sociale così articolato quale fu quello genovese di fine Seicento, la costruzione di un complesso architettonico che accogliesse i disadattati sociali rappresentò un episodio eccezionale. L’Albergo dei poveri di Genova, fondato per ferma volontà di Gio. Francesco Granello, ma soprattutto grazie all’impegno e ai copiosi finanziamenti di Emanuele Brignole40, fu il primo edificio del genere in Italia a essere eretto ex novo; esso aveva i propri referenti stilistici nei coevi Hospice de Nôtre Dame de la Charité di Lione (1614-1616) e Hôtel Dieu di Parigi (1656)41. Sorto a baluardo di una sofferta quanto lunga riforma assistenziale, il poderoso corpo di fabbrica – articolato in quattro grandi corpi longitudinali dominati al centro da una chiesa a croce allungata – per la sua collocazione extra muros, sulle alture della valletta di Carbonara sopra strada Balbi, si costituì quale riferimento geografico cittadino per eccellenza: una posizione urbana di rilievo, così come tale fu il ruolo dell’istituzione che lo amministrò (fig. 3). Assistenza e politica ebbero nell’architettura dell’edificio un solido punto di confluenza, tanto che i genovesi non distinsero mai l’edificio dell’Albergo dall’istituzione repubblicana che in esso vi ebbe sede, l’Ufficio dei poveri42. Come delegato del Senato della Repubblica, il Magistrato dei poveri fu spesso chiamato a dirimere questioni inerenti il possesso di edifici anche di alto pregio architettonico e per questo assunse il ruolo di importante testa di ponte in numerose transazioni immobiliari. Questa sua funzione evidenzia in che modo l’attività urbana dell’Ufficio – più di quella di qualsiasi altra istituzione filantropica, come a esempio il Magistrato di Misericordia – fosse più determinante per la conservazione e lo sviluppo del patrimonio cittadino che non per il suo funzionamento. In quest’ottica occorre inquadrare alcune delle vertenze che dal Seicento in avanti interessarono gran parte della città e nelle quali prese parte attiva la stessa istituzione. Attraverso il suo intervento, infatti, l’Ufficio dei poveri contribuì a definire l’assetto proprietario, e fors’anche l’organizzazione spaziale, di alcuni tra i più celebri complessi architettonici cittadini di strada Nuova, quali il palazzo di Pantaleo Spinola (1564, opera di Bernardo Spazio, ora proprietà del Banco di Chiavari e della Riviera Ligure), il palazzo di Giambattista Spinola (1563, su disegno di Bernardino Cantone, ora Doria) e l’isola edilizia di Portanuova, in seguito annessa al più illustre palazzo Rosso (1671, su progetto dell’architetto Pietro Antonio Corradi), ma originariamente proprietà, per una parte, di Anton Giulio Brignole Sale (diplomatico e letterato di chiara fama) e, per la restante, dello scrittore-tipografo Gio. Domenico Peri, noto agli studiosi di economia per il suo celebre trattato43. Il demanio immobiliare La ricerca sulla conformazione degli stabili lasciati al Magistrato dei poveri ha evidenziato come, accanto alle rendite degli edifici di appartenenza – giunti per lo più attraverso legati testamentari o donazioni vere e proprie –, assunse progressivamente LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME 127 Fig. 3. Interventi urbani (secc. XVII-XVIII) sulla base del Modello del 1656 (elaborazione grafica C. Altavista) 128 CLARA ALTAVISTA Fig. 4. Movimento edilizio presso il Magistrato dei poveri (secc. XVII-XVIII) sulla base del Modello del 1656 (elaborazione grafica C. Altavista) LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME 129 valore l’entità degli interessi maturati sulle rendite degli immobili, di cui l’istituzione si occupò soprattutto come intermediaria negli arbitrati44. Dai registri ufficiali emerge che il Magistrato non possedette mai più di un centinaio di unità edilizie, riferibili a una gamma ben più ampia di oltre 400 edifici amministrati45. È stato infatti possibile stabilire che il numero delle proprietà attribuite all’Ufficio corrispondeva a quello delle unità immobiliari contraddistinte «dall’impronto» (marchio con il quale erano individuati anche i reclusi dell’Albergo!)46 e riconoscere, nei restanti edifici, le residenze che furono date all’istituzione come vitalizio per procacciarsi il ricovero presso il «rifugio» di Carbonara o quelle che, oggetto di contenzioso tra privati cittadini, furono amministrate dalla magistratura per tutto il periodo dell’arbitrato. Il nucleo patrimoniale originario, costituito per lo più da unità minime prive di pregio architettonico, si strutturava in tre diversi agglomerati, individuabili orientativamente nelle aree comprese tra la collina di Castello e la cattedrale di San Lorenzo, tra la chiesa di San Siro (prossima a via San Luca) e strada Nuova, e immediatamente a ridosso dell’asse di via Balbi. Le acquisizioni successive contribuirono a definire quest’articolazione, confermando, nelle strategie imprenditoriali dei donatori, una maggiore propensione a devolvere edifici posti in ambiti urbani «decentrati» rispetto all’attività edilizia di più ampio respiro (fig. 4). Molti complessi architettonici giunti all’istituzione si collocavano, infatti, in aree marginali. Si trattò spesso di intere insulæ nobiliari, le cui unità edilizie avrebbero potuto costituire sia la fonte di cospicue rendite sia la possibilità di espansione per gli edifici più prestigiosi che ne erano parte integrante; spesso furono veri e propri stralci di tessuto urbano che, posti al limite tra le aree delle realizzazioni concrete e quelle delle possibili attuazioni, contenevano in nuce il loro stesso ampliamento. L’identità tra espansione urbana e speculazione immobiliare su vasta scala fu in questi ambiti cittadini, tuttavia, scarsamente applicata, perché le realizzazioni edilizie di maggior esito economico avvennero proprio nelle aree dalle potenzialità di crescita già pienamente espresse. Quasi che la città fosse strutturata secondo due settori distinti, ma dai confini labili e imponderabili: quello della speculazione edilizia e quello della rappresentatività architettonica. L’amministrazione dell’Ufficio arricchì di significati nuovi le operazioni immobiliari nelle quali fu coinvolta, facendo intravedere in alcune residenze, apparentemente poco rilevanti, un efficacie strumento per il controllo e la gestione dello stesso sviluppo cittadino: si pensi, a esempio, alle trasformazioni del settore nord-occidentale avvenute nel corso del XIX secolo47. Il capitale edilizio amministrato Il corpus degli edifici giunti al Magistrato dei poveri era composto in prevalenza da edifici modesti, ma anche da residenze prestigiose, alcune delle quali poste nel novero delle dimore precettate per l’ospitalità ufficiale della Repubblica48. Questa diversità di tipi restituisce di riflesso lo spirito imprenditoriale di una classe cittadina attenta alle 130 CLARA ALTAVISTA potenzialità dell’attività edilizia in termini di sviluppo urbano. La collocazione degli stabili all’interno della capitale ha evidenziato come, entro la città murata, non esistessero aree subordinate rispetto ad altre. È altresì emerso come la comparsa di alcuni fenomeni (cessioni pro tempore) si espresse negli ambiti urbani in cui il processo di espansione era ancora in via di sviluppo (i borghi di Ponticello, San Tommaso e Santo Stefano) e in tessuti edilizi già consolidati (Molo e Castello). In queste aree il decentramento dalla politica urbana della capitale non escluse un’attività di tipo speculativo, mentre nelle zone concentrate a ovest (Campo, Fossatello, Soziglia, Portanuova e Luccoli) la pratica edilizia seguì una logica diversificata (cfr. fig. 4). L’individuazione di una dozzina di celebri palazzi cittadini, giunti come «donazione» o sotto fedecommesso (troppo presto alienati), ha rivelato chiaramente una realtà immobiliare non solo legata alle vicende individuali dei singoli proprietari, ma estensibile all’intera condizione urbana. L’uso dell’istituzione quale «camera di compensazione», entro cui custodire il proprio bene per sottrarlo all’Erario pubblico o a complesse vertenze giudiziarie, indusse molti nobili genovesi a «devolvere» all’Ufficio dei poveri alcune prestigiose residenze. Grazie al ruolo di commissario straordinario nella gestione di questi ingenti patrimoni immobiliari, il Magistrato «possedette», anche se per breve tempo, dimore come il palazzo di Babilano e Cipriano Pallavicino sulla piazza Fossatello (emulo di palazzo Caprini a Roma) e quello di Gio. Domenico Spinola in Vallechiara, presso l’odierna piazza della Nunziata (del quale si era persa memoria perché annesso al contiguo palazzo Lomellini Patrone)49: residenze site in ambiti urbani altamente rappresentativi, ma che ben presto divennero esterne alle nuove linee di sviluppo urbano dirette verso il settore orientale della capitale50. Clara Altavista * Parte di questo scritto è già stata pubblicata nel saggio L’Albergo dei poveri a Genova: proprietà immobiliare e sviluppo urbano in Antico Regime (1656-1798), «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n. s., XXXIX (CXIII), 1999, I, pp. 493-529. In questa sede è stato dato maggiore spazio all’analisi di quella documentazione che, rinvenuta presso l’Albergo dei poveri e integrata con quella reperita in altri fondi cittadini (Archivio Doria e Fondo Famiglie dell’Archivio di Stato), ha consentito di tracciare un quadro generale della situazione urbana tra XVII e XVIII secolo. Per quanto attiene direttamente l’istituzione caritativa e la gestione del suo patrimonio immobiliare si rinvia alla lettura dello studio sopra menzionato.Abbreviazioni: Archivio di Stato di Genova = ASG; Archivio Storico del Comune di Genova = ASCG. 1 Tra gli studi generali resta ancora insuperato il lavoro di L. GROSSI BIANCHI - E. POLEGGI, Una città portuale del medioevo. Genova nei secoli X-XVI, Genova, Sagep, 1979; tra i pochi studi monografici si ricorda il bel volume di C. DI BIASE, Strada Balbi a Genova. Residenza aristocratica e città, Genova, Sagep, 1993. 2 Cfr. E. POLEGGI, Genova (Napoli e Roma). Case, piazze, botteghe, in Fabbriche, piazze, mercati. La città italiana nel Rinascimento, a cura di D. Calabi, Roma, Officina, 1997, p. 57. LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME 131 C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova, Torino, UTET, 1986, pp. 267 sgg. E. POLEGGI, Carte francesi e porti italiani del Seicento, Genova, Sagep, 1991, p. 54. 5 E. POLEGGI, Genova. Ritratto di una città, Genova, Sagep, 1990, pp. 107 sgg. 6 Cfr. E. POLEGGI - F. CARACENI, Genova e Strada Nuova, in Storia dell’arte italiana, Momenti di architettura, XII, a cura di F. Zeri, Torino, Einaudi, 1983, pp. 301-361: 301-309. 7 E. POLEGGI, Strada Nuova. Una lottizzazione del ’500 a Genova, Genova, Sagep, 1968 e DI BIASE, Strada Balbi a Genova, cit. 8 Al suo posto sorgono ora i complessi architettonici del teatro Carlo Felice e dell’Accademia Ligustica di Belle Arti. 9 E. DE NEGRI, La repubblica di Genova, in Storia dell’architettura italiana. Il Seicento, a cura di A. Scotti Tosini, Milano, Electa, 2003, pp. 496-509. 10 Per l’edilizia residenziale si rinvia a C. ALTAVISTA, Genealogie proprietarie e sistemi risidenziali, in Una reggia repubblicana. Atlante dei palazzi di Genova 1576-1664, a cura di E. Poleggi, Torino, Allemandi, 1998, pp. 41-45. 11 C. ALTAVISTA, Peter Paul Rubens’s Palazzi di Genova: built Architecture and drawn Reality, in The reception of P.P. Rubens’s Palazzi di Genova during the 17th Century in Europe: Questions and problems, P. Lombaerde (ed.), Turnhaut, Brepols, 2002, pp. 37-50. 12 E. POLEGGI, Un documento di cultura abitativa, in Rubens e Genova, catalogo della mostra, (Genova, palazzo Ducale, 18 dicembre 1977-12 febbraio 1978), a cura di G. Biavati, I.M. Botto, G. Doria et al., Genova, Sagep, 1977, pp. 85-122 e C. ALTAVISTA, Ricerca del barocco a Genova. Il palazzo di Gerolamo de Marini in un capitolato inedito di Bartolomeo Bianco, «Arte Lombarda», n.s., 144, 2005, 2, pp. 54-63. 13 ARCHIVIO DELL’ALBERGO DEI POVERI, Eredità Maria Giovanna Spinola di Negro Rocca, filza unica, documenti relativi al periodo 1640-1673. Per le vicende di palazzo Spinola in Vallechiara si veda C. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare a Genova in Antico Regime. Un fenomeno urbano dall’osservatorio dell’Albergo dei poveri, Tesi di laurea (Università di Genova), 1996, pp. 184-191; per quelle di palazzo Lomellini cfr. Palazzo Lomellini Patrone, a cura di E. Poleggi, Genova, Tormena, 1995. 14 G. PASSADORE - V. MORTOLA, Il sistema dei rolli a Genova. Il palazzo di Babilano Pallavicini e la piazza di Fossatello, Tesi di laurea (Università di Genova), 1995; per le vicende inedite cfr. C. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare, cit., pp. 208-220. 15 Sugli «alberghi» nobiliari cfr. E. GRENDI, Profilo storico degli alberghi genovesi, in ID., La repubblica aristocratica dei genovesi, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 49-102. 16 Cfr. R. ZANGHERI, Catasti e storia della proprietà terriera, Torino, Einaudi, 1980 e S. TINTORI, Piano e pianificatori dall’età napoleonica ad oggi, Milano, Franco Angeli, 1989. 17 A. MONTI, Alle origini della borghesia urbana. La proprietà immobiliare a Bologna 1797-1810, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 39. 18 G. DORIA, L’opulenza ostentata nel declino di una città, in ID., Nobiltà e investimenti a Genova in Età moderna, Genova, Istituto di Storia Economica, 1995, pp. 287-298. 19 Cfr. R. FREGNA, La pietrificazione del denaro. Studi sulla proprietà urbana tra XVI e XVII secolo, Bologna, Clueb, 1990. 20 ASG, Archivio Segreto, Ricordi del Minor Consiglio, filza 1646, intervento di Giorgio Doria (9.II.1795). 21 G. FELLONI, Popolazioni e case nel 1531-35, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», IV, 1964, pp. 303-324. 22 ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause, Atti diversi e Instrumentorum (secc. XVII e XVIII). 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 L’ex istituzione medioevale dei Salvatores portus et Moduli (1270), magistratura che curava la formazione e il rispetto delle norme in materia edilizia. 26 ASCG, Magistrato dei poveri, Atti di cause (secc. XVII-XIX). 27 G. GIACCHERO, Economia e società del Settecento genovese, Genova, Sagep, 1981, p. 387. 28 ASG, Archivio Segreto, Ricordi del Minor Consiglio, filza 1646, interventi di Niccolò de Mari (13. VII.1791) e Gio. Batta Brignole (11.XII.1792). 3 4 132 CLARA ALTAVISTA Ivi, intervento di Domenico Invrea (12.VI.1771). Ivi, interventi di Stefano Lomellini q. Carlo (12.VI.1747) e di Giulio Spinola (10.III.1788). 31 ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause e Atti diversi (secc. XVII-XIX). 32 Cfr. E. POLEGGI - P. CEVINI, Le città nella storia d’Italia. Genova, Roma-Bari, Laterza, 1989. 33 ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause (secc. XVII-XIX). 34 ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause e Instrumentorum (secc. XVII e XVIII). 35 Quanto accadde nell’area di Castello è ben documentato in N. DE MARI, Edilizia da reddito a Genova dopo il 1684: l’area di Castello e il ruolo dei Ricca nella ricostruzione della città (1690 ca.-1740 ca.), «Palladio», VIII, 1995, 15, pp. 77-90. 36 Dal luglio del 1531, con ricorrenza periodica, il Magistrato dei Padri del Comune emanò decreti regolamentanti l’attività edile attraverso la precisazione delle modalità di prelievo, di trasporto e di scarico dei detriti. Cfr. A. BOATO, Leggi e decreti edili, in Argomenti di architettura genovese tra XVI e XVII secolo, a cura di F. D’Angelo, Genova, Istituto di progettazione architettonica, 1995, pp. 45-51. 37 ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause, filza 17, doc. senza numero del 6 agosto 1697 e filza 22, doc. 81 del maggio 1723, dai quali si evince che tali fenomeni furono spesso all’origine di diverbi tra le parti interessate. 38 Istituzione voluta per iniziativa del senatore Leonardo Cattaneo, cfr. G. BANCHERO, Genova e le due Riviere, Genova, Pellas, 1846, p. 247. 39 G. DE FERRARI, Storia della nobiltà di Genova, estratto dal «Giornale Araldico», XXV, 2-7, 1898. 40 Cfr. E. PARMA ARMANI, Genesi e realizzazione di un reclusorio seicentesco. L’Albergo dei poveri a Genova, «Studi di storia delle arti», Genova, Istituto di Storia dell’Arte, 1978. 41 E. MOLTENI, L’Albergo dei poveri di Genova, in A. GUERRA - E. MOLTENI - P. NICOLOSO, Il trionfo della miseria. Gli Alberghi dei poveri di Genova, Palermo, Napoli, Milano, Electa, 1995, pp. 17-77. 42 E. PARMA ARMANI, Pauperismo e beneficenza a Genova: documenti per l’Albergo dei Poveri, «Quaderni Franzoniani», I, 1988, 2, pp. 69-180. 43 C. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare, cit., pp. 245-254 (palazzo di Giambattista Spinola); pp. 255-268 (palazzo di Pantaleo Spinola) e C. ALTAVISTA, Le case di Gio. Domenico Peri nell’ampliamento di palazzo Rosso a Genova: un esempio di pianificazione urbana di lunga durata, Genova, POLIS, 1999. Sul ruolo di Brignole Sale si veda Anton Giulio Brignole Sale. I due anelli simili, a cura di R. Gallo Tommasinelli, Genova, Sagep, 1980 e bibliografia citata; su Peri cfr. M. MAIRA, Gio. Domenico Peri, scrittore, tipografo, uomo d’affari nella Genova del Seicento, «La Berio», XXVI, 1986, 3, pp. 3-71. 44 ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause, Atti diversi e Instrumentorum (secc. XVII e XVIII). 45 La ricerca ha individuato un corpus di 429 unità immobiliari pervenute all’Ufficio (o Magistrato) dei Poveri sotto diverse forme (donativo, fedecommesso, «pro tempore»…), cfr. ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause, Atti diversi e Instrumentorum (secc. XVII e XVIII). 46 Nonostante un’accurata ricerca, non è stato possibile venire a conoscenza della reale composizione figurativa dell’«impronto». È ragionevole ipotizzare che, per quanto riguarda gli edifici, il marchio coincidesse con il numero progressivo attraverso il quale furono registrate le unità immobiliari di proprietà dell’Ufficio dei Poveri. 47 E. POLEGGI - P. CEVINI, Le città nella storia, cit., p. 142. 48 C. ALTAVISTA, Genealogie proprietarie, cit., pp. 41-45. 49 La consultazione del materiale prodotto dall’Ufficio dei poveri di Genova ha consentito di riscrivere alcune pagine importanti della storia proprietaria ed architettonica di numerose residenze nobiliari cittadine, capitoli finora rimasti incompleti o in alcuni casi sconosciuti, cfr. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare, cit., pp. 208-220 (palazzo di Babilano e Cipriano Pallavicino); pp. 195-207 (palazzo di Gio. Domenico Spinola); per l’annessione a palazzo Lomellini Patrone si veda Palazzo Lomellini, cit. 50 Cfr. C. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare, cit., pp. 85-116. 29 30 DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» CASE, BOTTEGHE, LABORATORI E STUDI DEGLI ARTIERI DELLA PIETRA In quella sorta di vademecum «di tutti i pittori, scultori, architetti, miniatori, incisori in gemme e in rame, scultori in metallo e mosaicisti aggiunti agli scalpellini pietrari perlari ed altri artefici e finalmente i negozi di antichità e di stampe esistenti in Roma», compilato da Enrico De Keller, membro dell’Accademia Romana di Archeologia, e pubblicato nel 1824 e nel 18301, l’autore precisò di aver inserito nella sua guida per una maggiore comodità de’ Viaggiatori, anche una lista delle Arti inferiori, e dei negozj, che hanno qualche relazione coll’Arte del Disegno, e da cui ordinariamente i Forestieri si provvedono di quegli oggetti, che come memorie portano ai paesi loro: dir voglio Statue, Bassirilievi, Colonne, Urne, Vasi Figurine, e Lampade di bronzo, di marmo e di terra fatte alla foggia delle antiche, o copiate dalle medesime in belle pietre di ogni specie, Paste, Impronte, Medaglie, e simili, come anche le cose antiche. Pochi anni dopo, il marchese Giuseppe Melchiorri, nella Nuova guida metodica di Roma e suoi contorni, pubblicata a Roma nel 1834, sottolineò l’aspetto economico di quelle «arti» propriamente romane rivolte ai forestieri, facendo notare ai suoi lettori «come la parte principalissima dell’industria della città consiste nei lavori di oggetti di belle arti, cioè nelle forme plastiche, scajole, musaici, lavori in bronzo, camei in conchiglia, lavori di pietre e marmi di ogni genere nelli quali generi sorpassa qualunque altra città»2. Tale imprenscindibile risorsa economica, documentata già dagli Études statistiques sur Rome3 del prefetto della Roma napoleonica Camille de Tournon, risulta, poi, periodicamente certificata dallo stesso ministero del Commercio, Belle Arti, Industria, Agricoltura e Lavori Pubblici che, ancora nel 1860, comunicò nel «Giornale di Roma» di aver compilato uno specchio dimostrativo delle licenze da esso rilasciate durante l’anno 1859 per l’estrazione dalla città di Roma di oggetti di belle arti antichi e moderni, a seconda delle stime fattane dagli assessori della Pittura e della Scultura. Da questo specchio risulta che nel testè decorso anno si è fatto luogo ad estrazione di pitture antiche per la somma di scudi 15.136,50 e moderne per la somma di scudi 133.588,95 e di sculture antiche per l’ammontare di scudi 1.690 e moderne per scudi 229.955. La totalità delle somme è pertanto di scudi 380.370,45, nel che si ha una splendida prova del molto lavoro che ai nostri artisti fu commesso dagli stranieri e dall’ingente vantaggio che da questo solo ramo di commercio ritrae annualmente la nostra capitale4. 134 SIMONETTA CIRANNA La licenza di esportazione all’estero degli «oggetti di belle arti antichi e moderni» costituiva, attraverso il dazio imposto sul valore economico del pezzo, una fonte di introito vitale per lo Stato pontificio; per tale ragione, la determinazione del prezzo del bene da parte degli «assessori» era oggetto di controversie e, anche, di «sconti» e deroghe concessi dallo stesso ministro del commercio. Esplicativa, in tal senso, è la documentazione intercorsa tra il commissario di antichità Pietro Ercole Visconti e lo scrittore Pietro Sterbini, ministro del Commercio e dei Lavori Pubblici negli anni della Repubblica romana (1848-1849). Nel gennaio 1849, Visconti, nell’esprimere al ministro il suo parere circa il trasferimento all’estero di due colonne di marmo africano lunghe palmi 14 e del diametro di palmi 2, dichiarò che esse benché «non di primo ordine, essendo fra le rare e concorrendovi la mole, potrebbe forse convenire al governo l’acquisto»5. Tale suggerimento non ebbe, però, successo. Infatti, pochi giorni dopo, esattamente il 20 gennaio 1849, Visconti firmò la relazione della Commissione Consultiva, costituita da Luigi Canina e dallo scultore Giuseppe Fabris, stilata dopo aver visto, presso la bottega dello scalpellino Giuseppe Leonardi6, le colonne di breccia africana che dovevano essere trasferite all’estero dai signori Plowden e Cholmely. La commissione benché concordasse con la stima di Visconti pari a scudi 600, ridusse il valore a quello della sola pietra antica, cioè a scudi 300, poiché la lavorazione era «opera moderna». Su tale cifra andava applicato il dazio pari al 20%7. La riduzione del prezzo stimato non soddisfò, tuttavia, Leonardi, lo scalpellino che aveva lavorato e venduto le colonne ai due stranieri, il quale, per controbattere il prezzo giudicato da Visconti e quindi l’oneroso dazio, il 28 marzo 1849 scrisse al ministro: Giuseppe Leonardi dovendo spedire all’Estero di [sic! due] colonnette di marmo Africano deve pagare il dazio assegnato per l’estrazione dei marmi antichi. Ordinata la stima di questa dal Ministero dei pubblici lavori, molto più del merito reale. Ed è perciò che l’oratore rimette a Voi Cittadino Ministro una stima delle colonne suddette fatta da persona conosciuta per onestà, e che si è moltissimo applicato allo Studio dei marmi antichi, e moderni onde vogliate prenderla in considerazione cosicché riconosciuta giusta vogliate su questa basare il Dazio di sopra indicato8. La perizia cui si riferisce Leonardi fu compilata dall’architetto Fortunato Desantis, il quale sottoscrisse una valutazione dei due fusti pari a scudi 86 come «giusto prezzo che possa assegnarsi alli due massi di affricano ridotti a colonne»9. La replica pignola del commissario Visconti a tale controperizia appare assolutamente eloquente; Visconti, dopo aver riassunto l’intera vicenda al ministro, ribadì la sua stima finale di scudi 300, aggiungendo però che «se il Ministro, onde favorire questa specie d’industria e di commercio nazionale, inclinasse in via di grazia a limitare anche dopo tale mia stima il dazio da pagarsi, può usare la via di grazia, come altre volte si è fatto in eguali circostanze; potrebbe ridurre la percezione del dazio medesimo sui due terzi dell’estimo, cioè su scudi duecento. Tale è il mio sentimento»10. Ed infatti a tale agevolazione si ricorse, come conferma l’appunto sul retro dello stesso documento che riporta in data 20 agosto: «si ammette il pagamento di soli scudi trenta in via di grazia». DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 135 I meccanismi connessi a «questa specie d’industria e di commercio nazionale» rimangono sostanzialmente immutati nelle temperie politiche, che coinvolsero il governo di Roma nella prima metà dell’Ottocento. Anzi, le ripetute crisi economiche in cui si vennero a trovare la città e lo Stato Pontificio, a partire dall’occupazione napoleonica, contribuirono a stabilizzare topograficamente tale «sistema produttivo» nei luoghi in cui questa sorta di variegato mercato delle pietre e dell’antico e i diversi attori che vi partecipavano si erano storicamente insediati. Precisamente, la liquidazione del debito pubblico imposta da Napoleone, con decreto imperiale emesso dal palazzo di Trianon il 5 agosto 1810, e la conseguente messa all’incanto dei beni di proprietà degli enti religiosi soppressi, nonché, successivamente, la vendita dei patrimoni di enti ecclesiastici e luoghi pii agli affittuari ed enfiteuti, varata il 16 agosto 1832 da Gregorio XVI e reiterata da Pio IX il 9 marzo 1848, accrebbero il mercato immobiliare romano e consentirono ai locatari o enfiteuti un accesso privilegiato all’acquisto. In particolare, gli scalpellini, i petrari, gli scultori e gli antiquari, stabilmente insediati in alcune aree specifiche della città, poterono acquistare, anche grazie alla già accertata disponibilità economica garantita dal loro mestiere, gli immobili dove risiedevano o gli studi e le botteghe dove esercitavano la loro professione. Paradigmatico, in tal senso, appare l’andamento delle proprietà immobiliari nella zona compresa tra piazza di Spagna, il Tevere e piazza del Popolo, sempre più caratterizzata nel corso del Settecento e dell’Ottocento, almeno fino alla Roma di Pio IX, dalla presenza di botteghe, studi e laboratori di scultori, artisti, artigiani e antiquari, specializzati in larga parte nella lavorazione delle pietre e dei marmi, nonché nella loro commercializzazione. Circa la concentrazione in tale zona, della «principalissima industria della città», nella già citata Nuova guida Melchiorri raccomandava a chiunque amatore le collezioni di antichità ed arti del sig. Ignazio Vescovali (piazza di Spagna) e del sig. Capranesi (a San Carlo al Corso), delle quali la prima particolarmente è così ricca d’ogni genere d’oggetti antichi in marmo, bronzi, pietre, terre cotte, gemme, medaglie, ecc. da poter essa sola formare un nobile museo per qualunque città. Oltre a ciò la facilità ed onestà di trovarsi presso quest’onesto negoziante, rendono il suo studio il più frequentato di tutti. Sono del pari da notarsi i studi delle impronte delle gemme in smalto d’ogni colore o scaiola. La bella imitazione delle gemme antiche e moderne, rendono più piacevole così lo studio degl’intagli. Le più notabili fabbriche sono quelle dei Dies (uno in via della Croce, l’altro in via Condotti) quella di Tommaso Cades (via del Corso num. 456) e quella di Bartolom. Paoletti (piazza di Spagna n. 49). Oltre di queste lavorazioni è ancora stimabile quella che si fà da Francesco Sibilio (piazza di Spagna num. 92) dove si fanno dei lavori di commesso con li vetri o paste antiche, che riescono di sommo pregio e bellezza11. «L’utilissimo libretto del Keller», come suggerito da Melchiorri stesso, rappresenta una fonte più dettagliata che conferma la specificità della comunità residente e operante nel quartiere di Campo Marzio. In effetti, anche un riscontro rapido dei nomi degli artisti, artigiani e antiquari registrati nella guida di Keller, integrato, solo parzialmente, da quelli apparsi negli almanacchi12 romani o, occasionalmente, nel 136 SIMONETTA CIRANNA «Giornale di Roma», fornisce un elenco importante di mosaicisti, pietrari, scalpellini, negozi di pietre e belle arti come pure di scultori13 distribuiti lungo le vie del Babuino, della Frezza, Condotti, della Croce, del Clementino, dei Greci, del Corso e piazza di Spagna, per citare i toponimi più ricorrenti. Il presente studio14 prende in esame le condizioni di possesso e di uso, le caratteristiche tipologiche e le trasformazioni architettoniche, di alcuni locali, compresi in detta area, legati al lavoro e alla residenza di tre diverse categorie di lavoratori della pietra: quella del «pietraro», cioè di politor di pietre preziose15, nella figura di Francesco Sibilio (1784-1859), quella dello scultore, nella persona di Filippo Albacini (1777-1858), figlio del più famoso Carlo, e quella dello scalpellino, nella persona di Tommaso Della Moda (?-1854). Per ricostruire le condizioni di possesso dei rispettivi locali a uso residenziale, di laboratorio o studio e di bottega atta alla vendita, una fonte archivistica importante è rappresentata dai testamenti e dagli inventari redatti alla morte dei tre artisti; attraverso di essi è, infatti, possibile percorrere a ritroso le vicende legate alle proprietà immobiliari. Tali documenti, sempre accompagnati da stime redatte con precisione scrupolosa dai periti prescelti dai curatori testamentari, rappresentano, poi, delle fonti generose di notizie, in grado di fornire, nel caso specifico, alcuni indirizzi utili per nuovi approfondimenti sulla cultura artistica romana della prima metà dell’Ottocento. Francesco Sibilio. La casa, la bottega e il laboratorio di pietraro La precisa e prolungata descrizione, nella guida di Melchiorri del 1834, del negozio e dell’attività di Francesco Sibilio in piazza di Spagna 92 testimonia l’accertata notorietà, negli anni Trenta, dell’abile pietraro16 nella zona e fuori di essa. Melchiorri si sofferma, in particolar modo, sulla notevole maestria dei «lavori di commesso con li vetri o paste antiche» esposti da Sibilio. Quasi certamente, fu proprio l’eccezionale perizia nel lavorare le pietre a far guadagnare celebrità all’artigiano e a rendere famoso il suo negozio in piazza di Spagna. Già nel 1810, anno in cui per la prima volta risulta attestata la sua attività e la sua residenza nella piazza, egli ottenne una medaglia d’argento al concorso ed «esposizione generale di tutti i prodotti delle arti, del disegno e dell’industria de’ romani dipartimenti», organizzati dalla Consulta straordinaria in occasione dei festeggiamenti per l’onomastico dell’imperatore Napoleone17. A portarlo all’ambito riconoscimento contribuì, proprio, la marcata preziosità delle lavorazioni dei pezzi da lui esibiti, descritti come: «una tazza, e piattino di serpentino condotto da esso per il primo ad una sottigliezza, che li rende diafani, ed eguali al tempo stesso a prova di compasso. Tre scattole di porporino sottilissime a prova come sopra. Tre agorai di porporino a figure diverse. Due fili di malachite per collana di donne. Uno baccellato orizzontalmente di nuova maniera, e l’altro tondo. Ordegno di ferro da esso perfezionato per eseguire lo smidollamento, e il sottosquadro dei piccoli vasi di pietra»18. DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 137 L’ammirazione per la tecnica squisita di Sibilio si divulgò ulteriormente, nel 1830, attraverso le pagine introduttive della popolare guida di Keller, il quale, tra gli «oggetti degni di considerazione», descrisse con ammirazione l’esposizione nel negozio del pietraro romano di «quattro colonne di 12 palmi per il defunto Commendatore Demidoff, nelle quali gareggiava il valore della materia col pregio della esecuzione. Erano queste di malachita composte i fusti con tale artificio, che sembravano affatto saldi, ed intieri, come di un sol masso, coi capitelli, e le basi di bronzo dorato, e facevano la più vaga, e magnifica comparsa»19. La bottega e la casa di piazza di Spagna 92, occupate da Sibilio fino alla sua morte nel 1859, non erano di sua proprietà. I due ambienti, illustrati nell’inventario20 solo in funzione degli oggetti stimati21, erano intimamente connessi tra di loro da una scaletta interna: al piano terreno era ubicato il negozio con un retrobottega e una cantina sottostante; al piano mezzanino una camera, con una sola finestra sulla piazza di Spagna, una retrocamera e un sottoscala. Sempre dall’inventario, si apprende che, dal 1854 al 1857, Sibilio pagò per tali locali un affitto annuo pari a scudi 120 a Enrico Serny, proprietario anche dell’immobile prospiciente, posto sempre sulla piazza e confinante con il fabbricato di proprietà dello scultore Filippo Albacini22. Fino al 1811, il palazzo ove ricadevano il negozio e la casa dell’artigiano era appartenuto al monastero di San Silvestro in Capite, nel cui catasto del 1725 risultano raffigurati sia il fronte dell’edificio, in cui sono incluse le due unità, sia la pianta della bottega23. Il 30 aprile del 1811 l’intero immobile, posto ai numeri civici 92-99 di piazza di Spagna e 1-4 di via della Croce, allora composto di due piani, magazzini e sette botteghe, venne aggiudicato al pubblico incanto per 51.000 franchi al senatore Alessandro Bonaccorsi24. Il fabbricato era stato espropriato al monastero di San Silvestro in conseguenza del decreto dell’imperatore Napoleone del 5 agosto 1810. In tale provvedimento Napoleone stabilì, tra l’altro, le norme dirette a regolare la liquidazione del debito pubblico degli Stati romani aggregati all’Impero, ponendo all’incanto immobili provenienti dalle corporazioni religiose. È questo il primo atto che consentirà la graduale conquista, nella zona di Roma esaminata, degli spazi della residenza e del lavoro da parte degli artigiani, a vario grado e titolo, delle pietre antiche, moderne e preziose. È probabile che il senatore Bonaccorsi, per far fronte all’impegnativa spesa, abbia costituito una società con il conte Giuseppe Archinto25, il quale fino al 1824 risulta proprietario, assieme ai fratelli Carlo e Pietro Torti, della porzione del palazzo corrispondente ai civici 92 e 93, costituita di dodici vani al primo piano, quattordici al secondo e undici al terzo26. Al 1824 risale l’acquisto di tale porzione immobiliare da parte di Antonio Serny, sicuro antenato di Enrico, committente delle «migliorie» all’architettura del fabbricato progettate dall’architetto Pelucchi27. Enrico stesso, tra il 1863 ed il 1865, pochi anni dopo la morte di Sibilio, ampliò e restaurò ulteriormente l’intero caseggiato (dal civico 92 al 99), con un progetto approvato dall’architetto Luigi Poletti dell’Accademia di San Luca28. 138 SIMONETTA CIRANNA Fig. 1. Particolare di piazza di Spagna tratto dalla pianta prospettica di Giovanni Maggi (1625) edita da Paolo Maupin e Carlo Losi nel 1774, dove sono raffigurati i due fabbricati successivamente occupati da Sibilio e da Albacini DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 139 Fig. 2. Pianta del piano terreno del fabbricato di piazza di Spagna 92 nel 1725. Il locale, poi occupato dalla bottega di Sibilio, è quello rappresentato a sinistra dell’androne (ASR, Clarisse S. Silvestro in Capite, Catasti, b. 5049/4) 140 SIMONETTA CIRANNA Almeno dall’età di 26 anni, quindi, Sibilio occupava una posizione strategica nella città di Roma per l’esercizio del suo mestiere. La collocazione vantaggiosa del negozio sulla piazza doveva compensare, evidentemente, la modestia dell’alloggio soprastante, nel quale Sibilio continuò a risiedere anche dopo l’acquisto del vicino palazzetto in via della Croce 13 e 14, avvenuto nel 182929. È certo, inoltre, che nel 1824, con il passaggio ad Antonio Serny della proprietà, Sibilio aveva rischiato di essere sfrattato, come conferma la lettera inviata dal pietraro alla residenza fiorentina del suo influente mecenate russo Nikolaj Nikiti Demidoff (S. Pietroburgo 1773 - Firenze 1828)30. Scriveva l’artigiano al suo protettore nel novembre del 1824: Eccellenza, obbligato di provedermi di una nuova abitazione volendo il Padrone della casa che abito disporne altrimenti, ho preso in affitto un appartamentino nel Palazzo Poniatoski; ma siccome a motivo dell’anno Santo posso ancora restare nella vecchia abitazione tutto il prossimo anno così sono stato consigliato di amobiliare il detto Appartamentino per uso di forestieri. Questo appartamentino composto di sei camere di una piccola cucina, decentemente ammobiliato, con comodo di rimessa quasi tutto esposto a mezzo giorno lo pongo sotto la valida Protezione di Vostra Eccellenza acciò si voglia degnare d’indirizzarmi qualche forestiere di sua conoscenza, e liberarmi così dal pericolo di soccombere sotto l’onerosa spesa di scudi 170 per la pigione oltre la forte spesa incontrata per ammobigliarlo31. Sibilio, poi, riuscì a conservare il suo alloggio grazie al blocco dei fitti e degli sfratti decretato da Leone XII, in prospettiva del notevole afflusso di pellegrini previsto per il Giubileo del 1825 e in considerazione di una offerta di abitazioni onerosa oltreché carente in qualità e quantità; blocco che venne prorogato più volte negli anni successivi sempre in conseguenza della bassa offerta di nuovi alloggi32. D’altra parte, anche le migliorie condotte sul fabbricato prima da Antonio e più tardi da Enrico Serny si avvalsero di esenzioni fiscali emanate dai pontefici proprio per stimolare la crescita dell’edilizia privata33. Benché dall’epistolario tra Sibilio e Demidoff emerga più volte il problema dell’onere dell’affitto34, è certo che negli anni Venti l’artigiano poteva fruire di un’apprezzabile liquidità, dato che, oltre la spesa di acquisto del palazzo di via della Croce, pari a scudi 1.200, egli sostenne una radicale e onerosa ristrutturazione dell’edificio, prevista e stimata già al momento della vendita, e realizzata nei mesi successivi35. Come l’edificio di piazza di Spagna dove aveva sede il negozio e la casa di Sibilio, anche questo palazzetto, composto di tre piani, bottega, cantina e cortile con vasche e acqua perenne, era stato di proprietà del monastero di San Silvestro in Capite fino al 1811 allorché, in virtù del citato decreto napoleonico, fu aggiudicata al signor Lelio Rospigliosi per franchi 10.755,7936. In tale fabbricato, a pochi passi dal suo negozio, Sibilio installò al piano terreno, con affaccio su via della Croce al civico 13, e in parte del primo piano, la sua bottegalaboratorio, dove gli spazi, oltreché per le diverse lavorazioni e relativi arnesi, erano pure occupati da una notevole quantità di pietre, come ben appare nell’inventario dei marmi affidato all’esperto scalpellino Giuseppe Leonardi37. La descrizione, la stima38 e DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 141 le planimetrie allegate all’inventario chiariscono l’articolazione degli spazi del lavoro, disposti su un lotto lungo e stretto con un solo fronte sulla strada e due piccoli cortiletti interni. Una configurazione che risulta tuttora sostanzialmente invariata. Circa gli appartamenti posti ai tre piani superiori, accessibili dal portone al civico 14, da quello del primo piano Sibilio continuò a riscuotere un affitto fino al 185939, mentre quelli posti al secondo e terzo livello egli li destinò a dote delle due giovani figlie40. A due anni dalla morte di Sibilio, il «Giornale di Roma» del 4 aprile 1861 ancora reclamizzava: «nella officina di Pietre antiche rarissime del Negozio Francesco Sibilio in via della Croce n. 13, si vendono le famose stampe in più fogli della magnifica Roma incise dal Vasi, e le stampe che esprimono la grande piazza del Vaticano, la facciata della Basilica e il di lei interno. Questa opera che da per se si raccomanda per lo intrinseco di lei merito non ha bisogno di elogio. Già in Roma ebbero un grande esito. La Roma si paga scudi quattro, e scudi tre le stampe del Vaticano»41. Filippo Albacini. La casa e gli studi di scultura Nel «Giornale di Roma» del 5 marzo 1859 apparve l’avviso per «li signori amatori di belle arti» relativo alla prima vendita particolare volontaria alla pubblica auzione degli effetti ereditari appartenenti alla bona memoria professore Filippo Cav. Albacini, da eseguirsi giovedì 10 marzo 1859 alle ore 11 antimeridiane nei locali terreni della casa in piazza di Spagna n. 14. Detta vendita comprenderà oggetti di scultura antichi e moderni, cioè busti, statue, torsi gruppi, bassorilievi, urne cinerarie e frammenti, non che rocci di colonna in pietre colorate, lastre massicce ed impellicciate di varie pietre ancora orientali antiche, quattro rarissime colonnette di alabastro violetto fiorito, le quali sono uniche per pregio e bellezza, mostre da caminetto di ricercato disegno ed esecuzione e tutt’altro come meglio verrà descritto nel catalogo a stampa che sarà distribuito al pubblico a principiare da lunedì 7 mese suddetto dal perito Giovanni Martinetti nel suo negozio di mobilia sulla piazza di S. Agostino n. 13, il tutto da rilasciarsi al migliore offerente, ed a pronti contanti con l’osservanza de’ consueti regolamenti42. Filippo, nato il 14 febbraio 1777, era figlio del più celebre scultore Carlo, dal quale aveva appreso l’arte dello scolpire praticandola, tuttavia, in tono minore forse in ragione, come suggerisce il necrologio43, della ricchezza ereditata dal padre stesso. Filippo muore il 17 febbraio 1858, e nel suo testamento44 nomina erede universale del suo ingente patrimonio l’Accademia di San Luca, di cui egli era stato orgogliosamente membro sin dalla primavera del 181145. In tale patrimonio ricadevano, anche, «tutti gli oggetti d’arte esistenti nei studi e magazzini e consistenti in statue, marmi, la statua dell’Achille da me eseguita e non ultimata, gessi, ed altro meno gli stigli, dei quali ho di sopra disposto a favore del mio pronipote Achille, verranno inventariati, e come la mia Erede li anderà vendendo ne rinvestirà le somme ritratte per erogarne la rendita [...] al vantaggio della Gioventù Romana Artista di Scultura»46. I marmi indicati nell’avviso di vendita pubblicato nel «Giornale di Roma» provenivano, quindi, dagli studi di scultura che Filippo aveva in affitto al vicolo dei Greci, 142 SIMONETTA CIRANNA Figg. 3-4. Piante del piano terreno e del primo piano del fabbricato di Sibilio in via della Croce 13-14 (ASR, Trenta Notai Capitolini, Uff. 32, dicembre 1859, allegato alla Lett. Q) DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» Fig. 5. L’edificio di via della Croce (foto dell’autrice, 2005) 143 144 SIMONETTA CIRANNA mentre il locale dove vennero traslocati per essere esposti e liquidati ricadeva nel fabbricato di piazza di Spagna di proprietà dello scultore stesso. A chiarire il perché di questo spostamento, nonché a raffigurare un quadro vivace dell’interesse suscitato dalla vendita dei marmi e dell’atmosfera che circondava culturalmente e «fisicamente» i luoghi di tale esercizio, è la relazione del 10 agosto 1861 inviata ad Antonio Sarti, presidente dell’Accademia di San Luca, dall’economo Ferdinando Cavalleri47. Cavalleri, nel presentare per la prima volta all’Accademia l’andamento di una gestione di tre anni (1858-1860) dell’eredità Albacini, descrisse, tra le altre cose, l’evoluzione positiva delle vendite dei marmi e delle pietre di proprietà dello scultore. In particolare egli scrisse: ognuno sa che il Locale di proprietà del Collegio Greco ove presso che tutti si contenevano i nominati oggetti doveva essersi tolto ad epoca vicinissima, fu quindi giudicato necessario per quanto noi si pregasse onde ottenere maggior proroga dell’affitto già pressoché esaurito dall’Albacini, di sgombrare tali ambienti, e non avendone altri in pronto, come ancora per risparmio delle spese enormi di trasporto si giudicò di venire tosto ad una vendita particolare il che però ebbe luogo senza la pubblicità degli annunzi, ciò nonostante appena si seppe l’essersi posto da noi mano ad una tal vendita i cui prezzi si disse non so con qual fondamento essere favolosamente minimi, che una turba di acquirenti accorse per farne l’acquisto o la scelta, in tale congiuntura che da Massaio mi viddi subitamente trasformato in bottegaio. Confesso che tutt’altro che piacevoli furono le mie riflessioni, e seduto talvolta sopra una di quelli antichi frammenti posto in quel vasto magazzino per vendersi, mi sembrò di rappresentare Mario assiso sulle rovine di Cartagine. Ma lasciando a parte le tristi riflessioni consoliamoci nel vedere che questi furono i giorni più proficui alla Amministrazione accademica poiché i compratori ed amatori affluivano, la nostra bottega aveva preso buon avviamento, ed io non ebbi poco da fare col sol ausilio che mi venne accordato dal bidello Fallani di regolare la distribuzione degl’oggetti secondo la stima più alta desunta dall’inventario, e di riportarne l’incasso e la nota in registri improvvisati al momento e come meglio si poteva48. Come il padre Carlo, Filippo esercitò la sua professione in parte di quei locali, prossimi alla chiesa di Sant’Atanasio sulla via del Babuino, appartenenti alla più ampia proprietà del Collegio Greco, che usava affittarli proprio agli scultori49. Dall’inventario50 dei beni ereditari di Filippo, si desume che egli occupava con i suoi marmi e attrezzi di scultore tre immobili di proprietà del Collegio Greco. Il primo viene descritto come studio di scultura, o magazzino, sito in via dei Greci n. 3 e composto: di 3 ambienti, cantine sottostanti, aventi l’ingresso dal Vicolo dei Greci n. 4, e giardino annesso con entrata dal civico 46. Da questo giardino si poteva accedere anche agli altri due atelier di scultore, sempre di proprietà del Collegio Greco, aventi l’ingresso principale sulla via degli Incurabili al civico 7. Questi ultimi erano costituiti da uno studio grande e da un secondo laboratorio contiguo al precedente, tenuto in subaffitto dallo scultore Giovanni Battista Lombardi. Circa l’entità degli affitti corrisposti da Filippo al Collegio alcune indicazioni possono trarsi, ancora una volta, dall’inventario, dove il loro ammontare risulta registrato tra le passività ereditarie: «dovuti al Collegio Greco per pigioni di Studj dal Primo Gennaro a tutto il 17 Febraro prossimo passato scudi trè, e Baj. novantaquattro e DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 145 mezzo (e) dovuti come sopra per pigione dei magazzeni posti al Vicolo de’ Greci N°3 dal Primo Gennaro a tutto il diciasette Febraro sudetto scudi trè, e Baj. Dieci»51. Non è certo che Filippo occupasse proprio gli stessi locali che, circa 40 anni prima, il padre Carlo locava dallo stesso collegio. La descrizione degli studi di Carlo, inserita nella perizia redatta dall’architetto Tommaso Zappati, allegata all’atto di divisione52 delle sue proprietà tra i figli Nicola e Filippo Albacini del 30 luglio 1814, lascia piuttosto ipotizzare che Filippo conservasse solo una parte dei locali utilizzati dal padre, oppure, che il suo studio fosse solo confinante con quello paterno53. Scrisse Zappati: recatomi finalmente nelli due studi di scultura, spettanti al Venerabile Collegio Greco, e ritenuti in affitto dal ridetto defunto [Carlo] ho trovato questi sebbene fra loro divisi uniti bensì da una interna communicazione in oggi socchiusa da muro. Ambedue restano dai lati della Venerabile Chiesa di S. Atanasio, annesse al Collegio suddetto, il primo ha la porta d’ingresso dalla parte dell’Arco dé Greci, l’altro tanto dalla parte del ridetto vicolo dell’Arco, che verso il vicolo dell’Orsoline [S. Cecilia]. Il primo viene segnato nelli due ingressi colli num.ri 47 e 48, ed è composto di un sito da strada suddiviso da tramezzo, che ne forma due, un Cortiletto con un altro studiolo, ed un tetto che ne copre una porzione di detto Cortile, e sua fontana con acqua perenne, il tutto in buono stato con buoni tetti, muri maestri, e sufficienti finestroni […] L’altro studio, poi, che ha il suo ingresso principale dal Vicolo delle Orsoline, resta sotto li numeri 5 e 6, contiene un Ingresso per il passo de’ sassi grossi, un Cortile, ove resta il passo dal Vicolo dell’Arco, e n. 4 stanze a tetto per comodo di studio di buona forma, buoni materiali, ed ottima luce, essendovi ancora la fontana nel Cortile, ove esiste il Casotto per il Luogo commodo, ed uno stanzino per li ferri, ed attrezzi necessari alla Professione54. La continuità dell’esercizio dell’arte scultorea tra Carlo e Filippo Albacini, nei locali del Collegio Greco prossimi a via del Babuino, così ricostruita, si riscontra egualmente per l’alloggio utilizzato dai due scultori come proprio domicilio. Nel 1858, anno della morte, Filippo risiedeva al terzo piano dell’edificio sito al civico 13 di piazza di Spagna, di fronte alla bottega e alla casa di Francesco Sibilio, nella qualità di proprietario dell’intero stabile. Il fabbricato era formato da: un piano terreno, due piani superiori con rispettivi appartamenti dati in locazione, un terzo e un quarto piano (occupato dalle soffitte e forse in parte abitabile) dove viveva lo scultore con la moglie Rosa Gigli; quest’ultima, alla morte del coniuge, continuò a risiedervi in qualità di usufruttuaria. Circa le condizioni in cui versava l’edificio nel 1858, lo stesso Filippo segnala nel suo testamento: «la mia casa in piazza di Spagna segnata col numero tredici, essendo mancante di solidi fondamenti dalla parte della piazza, giacché dalla parte di S. Bastianello sono stati ben rinforzati in anni indietro, qualora non si pensava da me non vedendone bisogno per ora, li rinforzerà la mia Erede qualora a parere dei Periti ne conoscerà la necessità ed a questo oggetto nei sotterranei della medesima casa troverà già preveduti dei materiali a questo fine»55. La necessità di intervenire sulle fondamenta dell’edificio era, quasi certamente, legata alle continue trasformazioni e sopraelevazioni subite dal fabbricato sin dall’adolescenza di Filippo. Infatti, egli viveva in quella casa dall’età di sette anni, ovvero dal 1784, allorché 146 SIMONETTA CIRANNA «volendo il Venerabile Monastero di Santa Maria Maddalena delle Convertite [al Corso] dare in enfiteusi una casa di sua proprietà situata in piazza di Spagna, si presentò ad acquistarne il dominio utile un Carlo Albacini, lavoratore di marmi, onesto padre di famiglia, e che avendo tratto dà suoi lavori qualche capitale di denaro, cercava collocarlo in uno di tali rinvestimenti sicuri e vantaggiosi»56. Gli economi del monastero, allora proprietario, malgrado il tentativo di Carlo di garantirsi la casa in enfiteusi perpetua e transitoria ad quoscumque, avevano rigidamente rispettato la regola di accordarla in enfiteusi alla terza generazione mascolina a un canone annuo di scudi 150. Nell’atto enfiteutico, stipulato il 16 agosto 178457, il fabbricato risulta composto da un piano terreno e da due piani superiori, e precisamente da «due Appartamenti [ciascuno su un piano], bottega ad uso di Barbiere, con mezzanini superiori, tre stanze terrene con stalla, rimessa ed altri annessi, [...] fa angolo nella strada che porta a S. Sebastianello confinante da un lato con i Beni del medesimo Ven. Monastero delle Convertite, dall’altro la Piazza, e da altri due lati li beni del Ven. Conservatorio della SS. Trinità nel Monte Pincio, salvi altri». L’affermazione professionale di Carlo, la possibilità di un lungo possesso, nonché l’obbligo alla manutenzione dell’edificio, spinsero lo scultore a risanare le condizioni complessive del palazzo e a soprelevarlo di un piano. Proprio in questo terzo piano aggiunto egli fissò la sua dimora, concentrando su di esso il massimo impegno economico con l’introduzione di finiture di maggior pregio. La riprova dell’introduzione di tali migliorie è data dalla descrizione di tutte le unità componenti l’edificio inserita nella stima, redatta dal perito architetto Zappati alla morte di Carlo (1813), e nell’atto di divisione58 delle proprietà del valente scultore, datato 30 luglio 1814. La fabbrica resta di cantone al vicolo detto di S. Bastianello, ed è composta di un Piano terreno con Cantine sotto, tre Piani superiori ed un sotto tetto parte del quale abitabile. Il Piano terreno è di una Bottega ad uso di Barbiere sul cantone con piccolo Coridore addietro il tutto a volta sotto il n. 12 al num. 13 vi è l’Ingresso principale, al n. 14 una stalletta con piccolo Cortile, ov’è il Pozzo commune a tutti li Piani, al n. 15 una Rimessa, ambedue annessa al primo Piano, e sotto il num. 16 altra Rimessa ritenuta dal defunto. Nel Coridore d’ingresso alla sinistra esiste una Porta con scala che discende nella Cantina, la prima delle quali con Lavatore commune a tutti li Piani con acqua vergine di trevi, una tinozza murata e la fornacella per la bugata. Appresso la medesima Porta vi è la scala, e quindi un sottoscala a commodo del secondo Piano, e d’incontro altri due siti, che vanno uniti al terzo Piano dove abitava il defunto. Il primo piano è composto di una Scala, la quale mediante una Porta, e mignano59 mette in Cucina e per mezzo di altra Porta passa a n. 5 stanze in facciata con telari, lastre, e Persiane alle finestre, e quindi ad un Coridore, e stanza addietro tramezzata ed alla Cucina. Il secondo Piano è consimile a quello di sotto. Il terzo parimenti è lo stesso, ma con tutte Ringhiere alle finestre in facciata e nella retrostanza prossimi alla Cucina vi è un mignano tutto coperto ov’esiste il luogo e di fianco la Porta d’ingresso vi sono due piccoli Camerini per Dispenza. Al di sopra vi è il Sottotetto, la di cui parte anteriore verso la Piazza è di varie soffitte pratticabili, e nella parte posteriore vi sono tre Camere abitabili, con scala di legno chiusa che serve alla Loggia coperta. La scala che ascende a tutti li piani è con scalini di peperino di buona forma, e commodo. Lo stato di essa Casa in genere è buono, ma bisognoso di vari acconcimi, come sono il DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 147 Piattamento de Credenzimi del Barbiere, la muratura di alcune crepaccie al primo Piano, il Ristauro delli telari delle finestre, e Persiane in detto, e nel secondo Piano con altri piccoli acconcimi, a riserva del terzo Piano, il quale è meritato in maniera, che non ha bisogno di alcuna cosa avendo buoni telari, Persiane, mattonati di quadri, soglie di marmo alle Porte, Pila di marmo allo sciacquatore di Cucina, Solari, e Soffitti di tela dipinti il tutto in ottimo stato. Nel 1814 l’immobile di piazza di Spagna, goduto in enfiteusi da Carlo, andò in eredità a Filippo, il quale provvide, negli anni immediatamente successivi, a eseguire una radicale e costosa ristrutturazione, cioè: «dispose l’edificio a tutte quelle comodità della vita che l’uso delle moderne abitazioni richiede; lo ridusse quale il vediamo al presente [1819], uno dei bei casamenti che adornano la bellissima piazza di Spagna, con una fronte su la piazza medesima, con l’altra rivolta su la via che mena a S. Bastianello»60. Tenuto conto della consistenza delle spese sostenute, Filippo richiese al monastero delle agostiniane di San Giacomo e Santa Maria Maddalena delle Convertite alla Longara, allora proprietario, una forma di rimborso, che venne a concretizzarsi, con atto stipulato il 23 novembre 1819, nella conversione del titolo di Filippo sul fabbricato da enfiteusi a terza generazione a enfiteusi perpetua transitoria ad quoscumque, con l’aumento del canone di soli scudi 5 annui61. L’ottenimento della piena proprietà del fabbricato da parte di Filippo fu una conseguenza del chirografo pontificio emanato da Gregorio XVI il 28 luglio 1832. La gravità del bilancio dello stato, acuita anche dai moti del 1831, indusse il papa a procedere a un’espropriazione di rendite degli enti religiosi «ai quali per antica tradizione il Papa era uso rivolgersi per sovvenire a necessità di liquidità urgenti, quando le circostanze politiche rendevano improponibile l’introduzione di nuove forme di tassazione»62; più esattamente: «persistendo tuttora il bisogno di occorrere con istraordinarie risorse, allo sbilancio, che presentano le spese dello Stato, e della conservazione dell’ordine pubblico dopo di avere maturamente ponderato le varie proposizioni che nella sua saviezza ci ha presentato la congregazione di revisione ci siamo indotti a prescrivere, ed ordinare di nostro moto proprio, e colla pienezza di nostra autorità, siccome colla presente cedola a voi prescriviamo, ed ordiniamo la vendita, e alienazione di Fondi Rustici ed Urbani spettanti alla nostra Camera, come altresì l’Affrancazione de Canoni alla stessa nostra Camera appartenenti [...] l’Affrancazione dè Canoni e Livelli de Luoghi Pii e Pubblici Stabilimenti debba essere come vogliamo che sia limitata e ristretta ai Luoghi Pii e Publici Stabilimenti di Roma e sua Comarca»63. Il chirografo e il successivo regolamento del 12 agosto 1832, quindi, autorizzavano il Commissario generale della Reverenda Camera Apostolica, Angelo Maria Vannini, il quale esercitava le funzioni di Tesoriere, a «ricevere le istanze dei debitori di Canoni, e Livelli spettanti ai Luoghi Pii, e Pubblici stabilimenti di Roma, e sua Comarca che bramassero procedere all’affrancazione dei medesimi, per esserne erogato il prezzo a vantaggio della Reverenda Camera Apostolica»64. Filippo, e come lui altri artisti e scalpellini collocati nella stessa area, non si lasciò 148 SIMONETTA CIRANNA sfuggire l’occasione propizia di arricchire il proprio patrimonio con un immobile dalla posizione urbana così pregevole e funzionale alla sua attività. Nell’atto65 stipulato l’11 gennaio del 1833, secondo una modulistica prestampata, il valore dell’immobile risulta stimato sulla base del canone annuo perpetuo, fino allora corrisposto da Filippo al monastero, uguale a scudi 155; cioè, più esattamente, «alla ragione di Scudi 100 per ogni Scudi Cinque di rendita annua che forma la somma complessiva di Scudi Tremila Cento cui uniti Centocinquantacinque, che costituiscono la Vigesima di esso Capitale a riguardo del Laudemio66, e del diretto dominio altri Scudi Venticinque spontaneamente aumentati dal sudetto sig. Filippo Albacini formano in tutto il prezzo convenuto per l’affrancazione del ripetuto Canone ed acquisto di diretto dominio in Scudi Tremiladuecento’ottanta». Tommaso Della Moda. La casa e la bottega di scalpellino Lo scalpellino Tommaso Della Moda, al momento della sua morte, avvenuta il 26 giugno 1854, aveva la sua abitazione al secondo piano del fabbricato di via delle Colonnette n. 20, di cui era interamente proprietario, e la bottega-magazzino, in affitto, alla Passeggiata nuova di Ripetta n. 13. Negli anni Quaranta egli conduceva un negozio di belle arti in via della Croce n. 25, dove era infatti segnalato come «pietraro» nell’Almanacco67 del 1842, e nel Manuale68 del 1845. Che Della Moda unisse alla professione di scalpellino quella di esperto conoscitore di marmi e pietre antichi risulta confermato dall’incarico, ricevuto dalla Confraternita di San Lorenzo in Lucina nel 1834, di stimare ai fini di vendita «una Colonnetta di Pietra così detta Occhio di Pavone, ossia Lumachella, che era piantata al ridosso di un angolo della gradinata dell’Oratorio in via Belsiana per difesa dei gradini dagli urti dei Carri»69. Oltre a ciò, egli doveva possedere una notevole abilità nella lavorazione dei marmi e delle pietre, sia nella scala architettonica, cioè come scalpellino, sia nella piccola scala, ossia come «pietraro», nella creazione di oggetti in mosaico e pietre dure e tenere. Circa la prima, e principale, attività di scalpellino, a confermare la particolare precisione di Della Moda è la sua presenza in uno dei più importanti cantieri romani della prima metà dell’Ottocento, quello della ricostruzione della basilica di San Paolo fuori le Mura, nei cui documenti il suo nome compare più volte citato nell’esecuzione di pavimenti e, in particolare, nella delicatissima operazione di impellicciatura delle colonne70. L’attività di Della Moda quale squisito esecutore di oggetti di arredo e di piccoli gingilli, realizzati per essere venduti ai turisti più o meno facoltosi, appare, invece, avvalorata dal lunghissimo elenco di tali manufatti, conservati nella casa e nel laboratorio, contenuto nell’inventario, compilato con acribia per la stima dal mastro scalpellino Alessandro Banchini, avente negozio in via Vittoria 24. Fra i più diversi articoli eseguiti in variegate e lucenti materie preziose, in mosaico, micromosaico, in conchiglia, spiccano numerosi dejuner, cioè piccoli tavoli tondi o rettangolari con in- DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 149 seriti nei piani mosaici o «campionari» di pietre antiche e moderne, sopracarte, bracciali, tabacchiere, spille e riproduzioni in piccolo di monumenti romani; tra queste ultime ne compare una probabilmente identica al «delizioso modellino della tomba degli Scipioni in rosso antico», sorteggiato da Mery Berry nella festa a sorpresa organizzata, il 5 febbraio 1822, da Madame Thérèse d’Appony, moglie dell’ambasciatore austriaco Anton Rudolf Appony (1782-1852), nella sua casa a palazzo di Venezia71. Della Moda mantenne il suo negozio in via della Croce, cioè a pochi passi dal laboratorio di Sibilio al civico 13, almeno sino alla fine del 1851; infatti, nel suo testamento, datato al 2 novembre di tale anno, egli dispose di donare allo scalpellino e nipote Camillo Scagnoli, figlio della sorella Maria, tutti gli oggetti d’arte presenti in tale bottega «ossia il Magazzeno che tengo in affitto in via della Croce n. 25»72. È probabile, tuttavia, che, già in quell’anno, lo scalpellino stesse valutando di lasciare tale attività prevedendo, sempre nel testamento, che, se al momento della sua morte egli avesse già chiuso il suo negozio, al nipote sarebbero andati in eredità scudi 2000. In effetti, tra i primi mesi del 1852 e gli inizi del 1854, come conferma l’inventario dei suoi beni, Della Moda cedette il negozio in via della Croce, trasferendo il suo laboratorio-magazzino nella bottega, composta da un «locale interno, laboratorio, cortile e locali annessi», posta al civico 13 della Passeggiata nuova di Ripetta, probabilmente d’angolo con via della Penna 1373. Forse, proprio a causa di questo trasferimento, al momento della stesura dell’inventario Della Moda aveva esposte in via del Babuino n. 134 nel negozio di Luigi Moglia, uno dei più celebri artisti del mosaico, diverse sue creazioni, tra le quali «una cornice dorata con mosaico sul fondo di lavagna lunga palmo 1 1/6 colla veduta della Piazza di S. Pietro in Vaticano [...] altro quadro simile con mosaico rappresentante il Foro Romano [...] altro mosaico simile con veduta del Colosseo [...] altro simile con veduta del Pantheon»; e, assieme a questi, numerosi «intagli in conchiglia di diverse forme e grandezze con argomenti sagri e profani». Se Della Moda non giunse mai a diventare proprietario di una sua bottega, egli, però, riuscì ad acquistare, nel 1848, il fabbricato di via delle Colonnette 19-20 (a pochi metri da quello che era stato lo studio di Canova), al cui secondo piano, sin dal 1838, aveva stabilito la sua dimora. Dal 1838, esattamente dal 21 dicembre, e per circa 10 anni lo scalpellino aveva usufruito della casa in enfiteusi a terza generazione, per l’annuo canone di scudi 31, in virtù di un atto stipulato con le Monache Dame Francesi del Sagro Cuore di Gesù a Monte Pincio, allora proprietarie74. Dall’atto enfiteutico si apprende che le monache non erano interessate a tenere l’abitazione «a proprio conto in vista dei forti ristauri, di cui la medesima abbisogna» e che, per tale ragione, «divisarono di formarne rinuovamente un contratto di enfiteusi, al quale effetto dietro le ricerche, e diligenze fatte all’oggetto, rinvennero il Signor Tommaso Della Moda, il quale si esibì pronto di prendere detta casa in enfiteusi, a terza generazione mascolina, e femminina di pagare i canoni arretrati, e l’annuo perpetuo canone di scudi trentuno 150 SIMONETTA CIRANNA libero da qualunque peso, o ritenzione, di farsi in esso fondo tanti miglioramenti, e ristauri non minori di scudi trecento». Della Moda, allora domiciliato al civico 23 della stessa via, per ottenere la casa, «composta di due piani, di due camere, e cucina per cadauno, di due camere nel Pianterreno, e cantina, confinante da un lato con i Beni della Casa D’Este, dall’altro con i Beni delli signori eredi Antonelli via pubblica», si era pertanto impegnato: a lasciare il bene dopo la terza generazione mascolina o femminina; a realizzare «entro il termine di anni due, tanti miglioramenti ed acconcimi non minori del valore di scudi trecento a tutte sue spese, senza poter pretenderne buonifico, o defalco di sorte alcuna», e, ancora, a mantenere «in buono stato durante la terza generazione chiamata in detta concessione, con farvi tutti quei ristauri, riparazioni ed acconcimi, di cui detta casa abbisogna»75. Nel 1848 Della Moda riuscì a convertire il contratto enfiteutico in piena proprietà grazie al provvedimento di espropriazione voluto da Pio IX, sul modello di quello emanato da Gregorio XVI il 28 luglio 1832, di cui aveva beneficiato, tra gli altri, Filippo Albacini nell’acquisto del fabbricato di piazza di Spagna. Il provvedimento di Pio IX, notificato dal tesoriere generale in data 9 marzo 1848, oltre alla necessità di sopperire a una concreta carenza finanziaria dell’erario, intendeva colpire la persistenza della manomorta ecclesiastica nello Stato Pontificio. Il processo verbale di affrancazione del canone e vendita della casa all’enfiteuta, Tommaso Della Moda, venne redatto dal Ministero delle Finanze il 14 ottobre del 184876. Una stima e una descrizione rigorosa del fabbricato vennero eseguite pochi mesi dopo, esattamente nel febbraio del 1849, dall’architetto Virginio Vespignani, il quale indicò l’edificio come formato da un piano terreno con ingresso dal civico 19, composto di due camere e una cantina sottostante, e da due piani superiori, serviti da un corpo scala con accesso dal civico 20. Il primo piano consisteva di due camere, una cucina e due ingressi; il secondo piano di due camere, una cucina, una camera al terzo piano e una soffitta. A quest’ultimo appartamento erano pure annessi un locale terreno con cortiletto e una cantina. Il tutto si trovava in un buono stato di manutenzione e la valutazione complessiva fu calcolata da Vespignani pari a scudi 2.386 e baj 8077. Proprio nel secondo, e più ampio, appartamento Della Moda fissò la sua abitazione, la quale comprendeva pure altre tre camere, tenute in affitto, poste al civico 23 della stessa via, forse le stesse dove lo scalpellino aveva vissuto prima di trasferirsi nel vicino fabbricato78. Le diverse modalità con cui i tre maestri - Sibilio, Albacini e Della Moda -, appartenenti a categorie professionali contigue della lavorazione del marmo e, più in generale, delle pietre, riuscirono a impiantare e, via via, a consolidare le loro attività e residenze nell’area compresa tra piazza di Spagna, piazza del Popolo e il Tevere, restituiscono un campionario significativo di un processo di qualificazione di una zona di DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 151 Roma, sempre più ambita e privilegiata dagli artieri della pietra, sia per la presenza di artisti e viaggiatori forestieri, che entravano nella città dalla Porta del Popolo bramosi di conoscere o acquistare opere antiche e moderne, più o meno costose e raffinate, sia per la facilità di approvvigionamento della materia prima, data la vicinanza del Tevere e del porto di Ripetta. Simonetta Ciranna 1 E. DE KELLER, Elenco di tutti i pittori, scultori, architetti, miniatori, incisori in gemme e in rame, scultori in metallo e mosaicisti aggiunti agli scalpellini pietrari perlari ed altri artefici e finalmente i negozi di antichità e di stampe esistenti in Roma l’anno 1824, Roma, Francesco Bourlie, 1824, edizione riveduta Roma, Mercurj e Robaglia, 1830, in particolare pp. 45-50. 2 G. MELCHIORRI, Nuova guida metodica di Roma e suoi contorni, Roma, 1834, p. 661. Sucessivamente, lo stesso autore pubblicherà in collaborazione G. MELCHIORRI-F. MERCURJ, Guida metodica di Roma e suoi contorni opera arricchita di quattro grandi piante e quaranta tavole incise in rame rappresentanti i principali monumenti della città, Roma, Tipografia Tiberina, 1856. 3 P.C. DE TOURNON, Études statistiques sur Rome et la partie occidentale des états romains, III voll., Paris, Librairie de Firmin Didot frères, 1855. 4 Nel «Giornale di Roma», 1860, n. 4, 5 Gennaio, p. 13. 5 ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (ASR), Camerlengato, parte 2°, b. 292, f. 16. Lettera del 17 gennaio 1849. 6 S. CIRANNA, Francesco Sibilio un petrajo dell’Ottocento. La bottega, la casa, l’attività e l’inventario del 1859, in Studi Romani I, «Antologia di Belle Arti»,, n.s., nn. 67-70, 2004 (ma 2005), pp. 146-167 (in memoria di Maurizio Fagiolo Dell’Arco e Stefano Susinno) 7 ASR, Camerlengato, parte 2°, b. 292, f. 16. Relazione del 20 gennaio 1849 e modulo di licenza. 8 Ivi, lettera del 28 marzo 1849 firmata dallo scalpellino Leopardi. 9 Ivi, perizia dell’architetto Fortunato Desantis del 26 marzo 1849. 10 Ivi. La lettera è dell’11 aprile 1849. La licenza è spedita il 20 agosto. 11 G. MELCHIORRI, Nuova guida, cit., p. 661. Circa le personalità citate da questo autore: su Ignazio Vescovali, che aveva il suo negozio al civico 20 di piazza di Spagna, cfr. T. CECCARINI, A. UNCINI, Antiquari a Roma nel primo Ottocento: Ignazio e Luigi Vescovali, «Bollettino Monumenti, Musei e gallerie pontificie», X, 1990, pp. 115-144; su Capranesi, sicuramente Francesco, cfr. S. BRUSINI, Francesco Capranesi e il mercato antiquario a Roma nella prima metà dell’Ottocento, «Bollettino D’Arte», 108, 1999, pp. 89-106; sulle lavorazioni in cammeo, pietre dure e tenere cfr. L. PIRZIO BIROLI STEFANELLI, Del cammeo e dell’incisione in pietre dure e tenere nella Roma del XIX secolo, in Arte e artigianato nella Roma di Belli, a cura di L. Biancini e F. Onorati, Roma, Editore Colombo, 1998, pp. 13-24; su Sibilio cfr. S. CIRANNA, Francesco Sibilio un petrajo, cit. 12 In particolare si fa riferimento a: Almanacco letterario, scientifico, giudiziario, commerciale, teatrale ecc. ecc. ossia grande raccolta di circa 10000 indirizzi, ed altre interessanti notizie dell’interno di Roma, Roma, Tipografia de’ Classici, 1842; Almanacco Romano ossia Raccolta dei primari dignitari e funzionari della corte romana d’indirizzi e notizie di pubblici e privati stabilimenti, dei professori di scienze, lettere ed arti, dei commercianti, artisti ecc. ecc. pel 1855, anno I, Roma, tipografia Chiassi, 1855. 13 Cfr. C. PIVA, La casa-bottega di Bartolomeo Cavaceppi: un laboratorio di restauro delle antichità che voleva diventare un’accademia, «Ricerche di Storia dell’Arte», 70, 2000, pp. 5-20. 14 S. CIRANNA, Marmi antichi colorati nell’architettura romana dell’Ottocento. Dallo scavo al cantiere, in «Materiali e Strutture. Problemi di conservazione», n.s., a. II, nn. 3-4, 2005, pp. 6-2915 F. CORSI, Delle Pietre Antiche, Roma, tipografia di Gaetano Puccinelli, 18453, p. 58. 16 Con il termine pietraro, scrive Keller, «si chiama chi pulisce e lavora pietre preziose per anelli e 152 SIMONETTA CIRANNA collane, taglia e abbozza i massi, onde renderli atti alla lavorazione degli Incisori per camei o intagli, e dà l’ultima mano al pulimento delle così dette paste, lavora scatole di marmi teneri e duri, di lave, di porporina e venturina. Questi sono due smalti, il primo di colore sanguigno rosso, l’altro di colore bruno punteggiato densamente di scagliette d’oro, il che lo rende vago e pregievole. Il Pietraro vuota ancora l’interno de’ vasi in pietre durissime come il diaspro ed altri». E. DE KELLER, Elenco di tutti i pittori, cit., pp. 47-48. 17 Il decreto venne pubblicato nel «Giornale del Campidoglio», 1810, n. 96, 21 Luglio, p. 383. L’elenco dei premiati apparve, invece, nel «Giornale del Campidoglio» del 3 settembre dello stesso anno. 18 Catalogo de’ prodotti delle arti belle, e di tutte le arti, e manifatture di necessità, di comodo, e di lusso degli Stati Romani esposti in Roma nel Palazzo Maggiore del Campidoglio in occasione del giorno onomastico di Napoleone I Imperatore de’ Francesi, Re d’Italia, e Protettore della Confederazione del Reno, ec.ec. ec., Roma, presso Luigi Perego Salvioni, piazza di Sant’Ignazio n. 153, s.d., ma l’esposizione fu tenuta nel 1810. Va rilevato che in questo opuscolo la posizione di Sibilio è al civico 91 di piazza di Spagna, anziché 92 come risulterà sempre riportato negli anni e nei documenti successivi. 19 E. DE KELLER, Elenco di tutti i pittori, cit., pp. 16-17. 20 ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO (ASC), Atti Urbani, sez. XL, tomo 207, Notaio Filippo Maria Ciccolini. 21 La trascrizione dell’inventario è riportata in S. CIRANNA, Francesco Sibilio, cit., Appendice. 22 Nell’inventario di Filippo la casa di piazza di Spagna 13 e 14 viene indicata come «confinante da più parti con i fratelli Serny». Cfr. n. 50. 23 ASR, Clarisse S. Silvestro in Capite, Catasti, b. 5049/4, Catasto di tutte le Case del Ven. Monastero e Monache di San Silvestro in Capite sua chiesa e fondazione obblighi pesi e privilegj che godono le medesime composto da Giuseppe Bianchi Archivista L’Anno MDCCXXV. La bottega-casa del civico 92 corrisponde a una parte della casa descritta al n. X. Nella pianta del piano terreno, alla sinistra del portone, è rappresentata la bottega con scaletta interna e la stanza retrostante (probabilmente il retrobottega). La didascalia della figura cita, poi, la cantina sottostante e il mezzanino superiore, di cui mancano le planimetrie. 24 ASR, Debito Pubblico, vol. 489, p. 62. Processo verbale n. 28 congresso del 1° maggio 1811 aggiudicazione del 30 aprile. 25 Ivi, p. 69. 26 ASR, Cancelleria del Censo di Roma, Serie II Catasto Urbano Catastini fabbricati 1824, reg. 1, p. 120. 27 ASR, Disegni e Piante, coll. I, c. 81, n. 314, 24 agosto 1824. I disegni sono due: il primo riproduce il «Prospetto attuale della Casa posta sulla Piazza di Spagna già spettante alla famiglia Archinto ed acquistata da Giovanni Dies firmato dall’Architetto Pelucchj»; il secondo riguarda il «Prospetto della Casa posta a Piazza di Spagna, e suoi miglioramenti da farsi nella medesima da Antonio Serny afferente all’acquisto a forma della bolla di Gregorio XIII firmato dall’architetto Pelucchj». Quest’ultimo è riprodotto in L. SALERNO, Piazza di Spagna, Napoli, 1967, fig. 221. 28 ASC, Titolo 54, Piazza di Spagna 92-99 prot. 4393, anno 1863. Il fascicolo contiene due disegni corrispondenti solo ai prospetti prima e dopo i lavori previsti. 29 ASC, Atti Urbani, sez. X, prot. 110, notaio Filippo Apolloni successore di Filippo Pellegrini, atto del 3 gennaio 1829. Lo stesso atto è in ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 11, gennaio 1829. In realtà, il fabbricato di via della Croce fu acquistato, da Clemenza e Francesca Rospigliosi, da Giuseppe Salviucci, fratello di Anna seconda moglie di Sibilio. Il 7 agosto del 1829, però, lo stesso notaio stipulò una «ricognizione di buona fede fatta dall’Illustrissimo Signor Giuseppe Salviucci a favore del signor Francesco Sibilio» attestante che «l’acquisto sebbene fatto dal signor Salviucci in di lui proprio e particolar nome, la verità peraltro fu ed è che il medesimo spetta e liberamente appartiene al signor Francesco Sibilio, evendone il medesimo signor Sibilio sborsato il denaro al detto signor Salviucci», in ASC, Atti Urbani, sez. X, prot. 111. 30 Sui Demidoff cfr. da ultimo I Demidoff a Firenze e in Toscana, a cura di L. Tonini, Atti Convegno Pratolino (14-15 giugno 1991), Firenze, Olschki, 1996. Sul rapporto tra il mecenate e Sibilio e sul citato carteggio vedi S. CIRANNA, Francesco Sibilio, cit. 31 In ARCHIVIO DI STATO RUSSO PER GLI ATTI ANTICHI DI MOSCA (Russkij Gosudarstvennyj Archiv DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 153 Drevnych Aktov, RGADA), fondo 1267, filza 2, fascicolo 400, cc. 8-9. 32 Cfr. D. FELISINI, La mania del mattone. Investimenti immobiliari nella Roma dell’Ottocento, «Citta e Storia», 2004, numero speciale per il congresso AISU di Roma, pp. 131-139, in particolare p. 136. 33 Cfr. M.L. NERI, Abitare a Roma. Intervento statale e iniziativa privata nell’edilizia residenziale (1826-1846), in Roma fra la Restaurazione e l’elezione di Pio IX. Amministrazione, economia, società e cultura, a cura di A.L. Bonella, A. Pompeo, M.I. Venzo, Atti del Convegno di Studi dell’Archivio di Stato di Roma - CROMA (Roma, 30 novembre-2 dicembre 1995), Roma-Freiburg-Wien, Herder, 1997, pp. 293-327. 34 Cfr. S. CIRANNA, Gli spazi del lavoro, cit., pp. 126-127. 35 Nel gennaio del 1829, il costo dei restauri era stato stimato dall’architetto Giacomo Palazzi per un valore di scudi 590. L’intervento di ristrutturazione eseguito da Sibilio è ricordato nell’atto del 23 settembre 1835, di assegnazione di dote a una delle sue due figlie, dove si riporta «possiede il Signor Sibilio qui in Roma una casa da lui stesso rifabbricata posta in via della Croce n. 13 e 14 di tre piani, oltre il piano terreno, stabile acquistato e rifabbricato». In ASC, Atti Urbani, sez. XL, prot. 158, cit. 36 ASR, Debito Pubblico, vol. 489 (Processi verbali, 1811). Processo verbale n. 55, Congresso del 20 giugno 1811, aggiudicazioni del 19 giugno 1811, pp. 181-185. A p. 182 «7°. Casa nel Rione Campo Marzo, Via della Croce N. 13 e 14, composta di 3 Piani e Bottega, proveniente dal Monastero di S. Silvestro in Capite, posta all’incanto ex officio per fr. 3.521,20, prodotti come sopra, la quale, estinta la 12° candela, è stata aggiudicata al Sig. Lelio Rospigliosi per fr. 10.755,79». 37 Leonardi assunse l’incarico appena conclusa la complessa stima dei marmi dell’eredità dello scultore Filippo Albacini, cfr. S. CIRANNA, Francesco Sibilio, cit. 38 Stima eseguita dall’architetto camerale del ministero delle Finanze il romano Sigismondo Ferretti, domiciliato in via delle Stimmate 24. 39 Dalla descrizione nell’inventario del 1859, l’appartamento del primo piano risulta locato da Leodato Minelli, a eccezione dell’ultimo ambiente, collegato al sottostante laboratorio di Sibilio tramite una piccola scala a chiocciola. 40 Le due figlie Maria Luisa e Mariangela erano nate dal primo matrimonio di Sibilio con Clementina Bancalari. Nel 1831 Maria Luisa sposò il dottore fisico Andrea Bancalari, e ricevette in dote il secondo piano del fabbricato. Nel 1835 Maria Angela sposò il mosaicista Costantino Rinaldi, figlio di Gioacchino, e ottenne in dote il terzo piano e le soffitte. In ASC, Atti Urbani, sez. XL, prot. 158, notaio Filippo Ciccolini. 41 «Giornale di Roma», 1861, n. 76, 4 aprile, p. 304. 42 «Giornale di Roma», 1859, n. 52, 5 marzo, p. 208. 43 ARCHIVIO ACCADEMIA DI SAN LUCA (AASL), Registro delle Congregazioni di Belle Arti, vol. 118, n. 49, Congregazione generale del 26 febbraio 1858. 44 Copia del testamento è conservato in ASC, Atti Urbani, sez. XXI, prot. 208, Notaio Domenico Bartoli, 17 febbraio 1858 apertura di testamento di Filippo Albacini morto il 17 febbraio 1858. Il testamento era stato consegnato il 26 dicembre 1857. 45 Interessante è la lettera del mosaicista Vincenzo Raffaelli inviata il 1° maggio 1851 da San Pietroburgo, dove questi aveva realizzato uno stabilimento di mosaici, al suo amico Filippo (chiamato affettuosamente Pippo) per dissuaderlo dal proposito, evidentemente già maturato, di lasciare la sua eredità all’Accademia di San Luca anziché ai suoi nipoti, AASL, Registro delle Congregazioni di Belle Arti, vol. 165, n. 3. 46 Per volontà testamentaria di Filippo, le rendite provenienti dall’eredità dovevano sostenere l’istituzione del concorso triennale di scultura intitolato «Concorso Albacini» riservato ai soli scultori romani di genitori romani, e (in deficienza di questi) italiani. 47 Ivi, vol. 121, fasc. 66. 48 Ibidem. 49 Cfr. ad esempio The Artistical Directory or Guide to the Studios of the Italian and Foreign Painters and Sculptors Resident in Roma to which are added the principal Mosaicists and Shell-engravers, Rome, ed. Bonfigli, 1856; G. BRANCADORO, Notizie riguardanti le accademie di scienze ed arti esistenti a Roma. Coll’elenco dei Pittori, Scultori, Architetti compilata ad uso degli Stranieri, e degli amatori delle Belle Arti, Roma, s.i.t., 1834; C. PIVA, La casa-bottega di Bartolomeo Cavaceppi, cit. 154 SIMONETTA CIRANNA 50 ASC, Atti Urbani, sez. XXI, vol. 208, Notaio Domenico Bartoli, Inventario iniziato il 27 febbraio e chiuso il 15 maggio 1858. 51 Ibidem. Tra le passività sono anche registrate le somme consegnate anticipatamente a Filippo dai signori Lombardi e Bravo per il subaffitto di alcuni locali degli studi stessi, e precisamente «dall’Inquilino dello Studio nel vicolo degli Incurabili N° 7 Sig.r Bombardi [sic!, Lombardi] per subaffitto del detto Studio dal Diciotto Febraro sudetto a tutto Giugno prossimo, scudi venticinque, e Bajocchi Ottantasei, e mezzo [e] Id. dal Sig.e Cav.r Bravo per pigione anticipata dell’altro Studio posto nel sudetto vicolo N° 6 scudi due e Bajocchi cinquantatrè, e mezzo». 52 ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 15, luglio 1814, f. 89r e sgg. 53 La mancanza di planimetrie allegate alle descrizioni e le successive trasformazioni degli isolati interessati rendono difficile un preciso riscontro. 54 ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 15, luglio 1814, cit. 55 ASC, Atti Urbani, sez. XXI, vol. 208, apertura di testamento in data 17 febbraio 1858. 56 AASL, Registro delle Congregazioni di Belle Arti, busta 176, n. 6, fascicolo inerente la causa «Eccellentissimo Tribunale Civile di Roma. Secondo Turno. Romana di enfiteusi per la Insigne Pontificia Accademia di S. Luca quale erede della ch. Mem. Filippo Albacini contro i Sig. Alfredo ed Achille Albacini, e Silvia Basilico ved. Albacini qual di loro madre tutrice e curatrice, ed altri consorti della lite, Roma 1858». Il fabbricato era pervenuto al monastero dall’eredità del fu Ponzio Boratello a seguito di testamento rogato per gli atti del notaio capitolino Trucca il 9 luglio 1591. 57 Notaio Silvestro Monti. 58 ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 15, luglio 1814, f. 89r e sgg. 59 Con questo nome si chiamavano a Roma i balconi esterni delle abitazioni e, in particolare, quelli che davano verso il cortile. 60 La descrizione, successiva alla morte di Filippo, è tratta da AASL, Registro delle Congregazioni di Belle Arti, busta 176, n. 6, causa tra l’Accademia di San Luca e gli eredi di Filippo Albacini. 61 Ivi. L’atto è del notaio capitolino Poggioli. 62 L’amministrazione del debito pubblico nelle province romane (1830-1880). Inventario, a cura di M.G. Pastura Ruggiero, Roma, Tipografia L’Economica, 1991, p. 27. 63 ASR, Camerale I, Chirografi Pontifici, serie C, b. 288, ff. 48r-51v, e ff. 190r-200r, il notaio è Filippo Apollonj Segretario di Camera dal 1831 al 1832. 64 Questa formula è tratta dall’atto stipulato da Filippo Albacini, vedi infra. 65 ASR, Notai della Reverenda Camera Apostolica, vol. 105 (1833), ff. 346r-353v. 66 Il termine, di origine medievale, indica la tassa di rinnovamento di tutte le concessioni di fondi a lunga durata. 67 Cfr. Almanacco letterario, cit., p. 327. 68 Manuale artistico e archeologico ossia raccolta di notizie ed indirizzi riguardanti i stabilimenti, professori d’ogni genere, artisti e negozianti residenti in Roma, Roma, Tipografia A. Monaldi, 1845, p. 81. In Almanacco Romano, cit., Tommaso (morto nel 1854) è riportato tra gli scalpellini a Ripa del Fiume 15. 69 ASR, Camerlengato, parte II, titolo IV, b. 209, fasc. 1342. Cfr. inoltre S. CIRANNA, Marmi antichi colorati, cit. 70 O. NOËL - E. PALLOTTINO, Luigi Poletti, in Maestà di Roma da Napoleone all’Unità d’Italia, Catalogo della mostra (Roma 7 marzo-29 giugno), Milano, Electa, 2003, scheda X.3.9, p. 494; E. PALLOTTINO, Luigi Poletti, Ivi, scheda X.3.10, pp. 494-495. Dall’inventario dei beni ereditari redatto alla morte di Tommaso Della Moda, si evince che, ancora dopo la sua scomparsa, pagamenti per l’attività da lui svolta come scalpellino nella basilica di San Paolo e per i Sacri Palazzi Apostolici furono eseguiti a favore della figlia Marianna. Essi riguardavano «archi di marmo nella Basilica di S. Paolo da pagarsi da quella Commissione. Verifica di tutte le colonne e pilastri di granito della medesima Basilica da pagarsi come sopra. Restauro di una bagnarola di porta santa pel Museo Vaticano, dai SS. Palazzi Apostolici. Altri piccoli lavori pei Musei Vaticani, e Lateranense da pagarsi come sopra. Lavori incominciati prima della morte, e continuati dall’Eredità. N. Venti sgabbelloni di marmo e loro zoccoli di bardiglio pel Laterano da pagarsi dai SS. Palazzi Apostolici. Restauro di quattro colonnette di pavonazzetto pure pel Laterano da pagarsi dai SS. Palazzi Apostolici. Restauro della grande bagnarola di alabastro per Museo Vaticano, DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA» 155 da pagarsi come sopra». In ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio I, giugno 1854, Filippo Bacchetti Notaro, l’inventario è ai ff. 237r-417v. 71 Mary Berry un’inglese in Italia. Diari e corrispondenza dal 1783 al 1823. Arte, personagi e società, a cura di B. Riccio, Roma, Ugo Bonzi Editore s.r.l., 2000, pp. 271-272. 72 ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio I, giugno 1854, Filippo Bacchetti Notaro. Il testamento è allegato ai ff. 132r-142v. 73 Nell’inventario lo studio appare infatti riferito anche a questo secondo indirizzo. 74 ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 33, Notaio Antonio Sartorj atto del 21 dicembre 1838, ff. 557r-567v. La via dove ricade l’immobile è riportata come via delle Colonnelle anziché Colonnette. 75 Ibidem. 76 Tra i documenti allegati all’inventario risulta infatti riportata al n. 9: «Copia autentica del Processo Verbale di Affrancazione del Canone gravante la suddetta Casa redatto dal Ministero delle Finanze nel giorno 14 Ottobre 1848 a cui rimangono uniti gli atti preparatori riguardanti l’affrancazione». L’entità del campione è inoltre confermata in ASR, Fondo Debito Pubblico, pacco 2859, «Registro d’iscrizione delle partite per i canoni di congregazioni e luoghi pii liquidati a norma della notificazione 9 marzo 1848», n. 141 Monastero del Sagro Cuore alla Trinità dei Monti «Rendita annua di 32:93.7 che 31 derivante dall’affrancazione del canone già dovuto da Tommaso Della Moda sopra la casa in via delle Colonnette N. 19 e 20, e 1:93.7 per accessori. Registro degli aumenti». 77 ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 1, atto del 13 febbraio 1849, Notaio Filippo Bacchetti. 78 Le tre camere appartenevano alla famiglia D’Este. Questo appartamento, per volontà testamentaria, fu lasciato in uso da Della Moda alla moglie Casilde Moreschi, compreso delle 3 camere in affitto. Per tali ambienti gli eredi universali, cioè i nipoti Alessandro e Tito Monachesi figli di Marianna Della Moda, dovevano continuare a pagare l’affitto, tenuto conto che «a pagare la suddetta corrisposta non solo bastano, ma sopravanzano le pigioni del primo piano della Casa, che a me appartiene, e perciò agli eredi miei non può essere pesante questa mia disposizione», cfr. l’inventario di Tommaso Della Moda citato a n. 70. FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO Nel 1836 il milanese Carlo Cattaneo scriveva: «le dovizie raccolte fra le incertezze e le cure della vita industriosa [tendono] a riposarsi nella sicurezza e nella spensieratezza della proprietà fondiaria»1. Settant’anni dopo, all’inizio del nuovo secolo, in un’Italia ormai unificata, Francesco Saverio Nitti rilevava a sua volta «la grande scarsezza di valori mobiliari in tutta Italia […] In nessuna regione italiana i valori mobiliari sorpassano gli immobiliari, quando viceversa li sorpassano in tutti i paesi ricchi»2. Con lucido scoraggiamento l’uomo politico lucano sottolineava la preponderanza dei valori immobiliari nella composizione dei patrimoni della borghesia italiana e la sua limitata propensione al rischio. Tali elementi, secondo Nitti, erano alla base del ritardo dell’economia nazionale rispetto alle tendenze in atto nei maggiori Paesi europei. Da punti di vista molto diversi, dunque, i due uomini politici mettevano in luce una caratteristica tuttora riconoscibile dei ceti possidenti italiani, ossia la marcata e durevole preferenza per l’investimento immobiliare, indipendentemente dall’origine e dalla localizzazione territoriale dei capitali presi in esame. La tabella seguente − composta sulla base di dati ricavati da atti successori del primo ventennio post-unitario3 − mostra infatti una tendenza sostanzialmente omogenea a livello nazionale, sia pure con qualche significativa peculiarità: Tab. 1 - Composizione percentuale dei patrimoni in otto città italiane 1862-82 Città Immobili urbani Proprietà fondiarie Collocamenti finanziari Altro Totale Torino 1862-73 20 51 23 6 100 Milano 1871 14 48 31 7 100 Piacenza 1876-1879 12 69 15 4 100 Lucca 1876-79 18 57 22 3 100 Firenze 1862-82 17 44 28 11 100 Napoli 1876 38 26 28 8 100 Benevento 1876-79 15 40 31 14 100 Catanzaro 1876-79 24 51 19 6 100 158 DANIELA FELISINI Taluni dati sono di immediata leggibilità, pur senza volersi addentrare nella storia dei singoli centri: le percentuali di Torino, ad esempio, si riferiscono alla fase di incertezza e di crisi economica che colpisce la città piemontese dopo la perdita dello status di capitale e prima della sua trasformazione in polo industriale4. A Napoli la proporzione fra i beni fondiari urbani e quelli cosiddetti’rustici’ appare inversa rispetto a quella di altri grandi centri italiani, e questa si presenta come una caratteristica ricorrente nella storia della città, anche prima del boom edilizio legato alla legge per il «Risanamento» del 18845. Nel complesso, al di là di queste notazioni specifiche, la tabella conferma l’elemento comune alle osservazioni di Cattaneo e di Nitti: in essa spicca infatti la quota preponderante dei valori immobiliari sui patrimoni esaminati e, all’interno di questo dato, si distingue la consistente percentuale rappresentata dalle proprietà urbane. La casa dunque non solo si abita, ma si possiede. È un bene, e come tale si acquista, si vende, si trasmette, si affitta. Tutte queste azioni danno consistenza e spessore ad un mercato regolato da leggi economiche e da istituti giuridici, ma anche delle consuetudini dei gruppi sociali che compongono la popolazione cittadina e da aspirazioni e proiezioni individuali. L’insieme di questi fattori determina le pratiche di funzionamento proprie del mercato stesso. Ma come si configura questo mercato nella Roma dell’Ottocento? Quali ne sono gli andamenti più rilevanti e le modalità distintive? In questo articolo si vuole offrire qualche spunto di riflessione sugli elementi che contribuirono a determinare forme e tendenze dell’investimento immobiliare nella Roma pontificia, tenendo ben presente la coesistenza e l’intreccio talvolta inscindibile di fattori di natura economica ed extraeconomica. Ci si soffermerà sugli andamenti demografici, su alcune fondamentali trasformazioni istituzionali e sulle loro conseguenze; si farà cenno alle strategie sociali dei gruppi dirigenti cittadini; infine, si approfondiranno i fattori di natura più squisitamente economica. Negli anni fra il 1810 e il 1870 la popolazione di Roma aumenta continuamente, come mostra il grafico 16. Le statistiche asseverano la realtà di una Roma’attrattiva’, polo di immigrazione per tutto il secolo, con la persistenza di un flusso migratorio prevalentemente maschile, a conferma di tendenze già rilevate in periodi precedenti7. Il censimento del 1853 registrava 168.367 abitanti, distribuiti in 38.167 famiglie, a fronte di 14.684 case (non era specificato il numero dei vani). Dai calcoli risultavano dunque in media 2,6 famiglie per ogni casa e 4,6 abitanti per famiglia e ciò significava circa 12 abitanti per casa. Sul totale censito, inoltre, poco più di 30.000 persone provenivano da altre province dello Stato pontificio e quasi 17.000 erano gli stranieri, vale a dire che circa il 28% della popolazione non era stabile8. Il numero degli «artisti forestieri» presenti a Roma, ad esempio, continuò a crescere sino alla metà dell’Ottocento, pur in una fase di ridimensionamento delle valenze del Grand Tour d’Italie9. 159 FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE 300.000 3.000 250.000 2.000 1.000 200.000 0 150.000 -1.000 100.000 -2.000 50.000 - -3.000 1800 1805 1810 1815 1820 1825 1830 1835 1840 1845 1850 1855 1860 1865 1870 1875 ABITANTI SALDO NATURALE ABITANTI Grafico 1 – Popolazione di Roma 1800-1875 -4.000 ANNI Si tratta di poche cifre, ma sufficienti a darci l’idea di una domanda di alloggi sostenuta dall’aumento della popolazione, con un turnover reso più intenso dalla consistente quota di abitanti non stabilmente residenti nella Capitale. Questi alimentavano un vivace regime dell’affitto e del subaffitto di appartamenti e locali ammobiliati, di porzioni di grandi dimore frazionate in abitazioni più modeste, che in molti casi costitutiva la principale fonte di reddito per i ceti medi cittadini10. Come vedremo, gli affitti, dagli anni Venti sottoposti ad una regolamentazione che ne vincolava l’entità, divennero ben presto oggetto di transazioni in deroga, alimentando un sostanzioso mercato che oggi si definirebbe sommerso. Ma dove abitavano le circa 37.000 famiglie che vivevano a Roma nei decenni centrali dell’Ottocento? Nel 1869-70 si calcolava vi fossero nella città circa 163.000 ambienti abitabili11. Una rilevazione statistica ci offre dati dettagliati, sulla base dei quali abbiamo calcolato densità edilizie ed abitative, presentate nella seguente tabella 212. Accanto agli andamenti demografici, importantissime nella movimentazione del mercato immobiliare furono le trasformazioni politico-istituzionali e le loro conseguenze. Un primo esempio si può cogliere negli anni di presenza francese nella Capitale: tra il 1798 e il 1814 le vendite delle proprietà dei luoghi pii portarono ad una notevole mobilitazione di risorse verso il settore immobiliare. Anche se tali transazioni furono in parte annullate nella prima e nella seconda restaurazione, esse aprirono la strada ad importanti iniziative edilizie, e giunsero a condizionare alcune direttrici di sviluppo urbanistico. Ancora più visibili furono gli effetti sul mercato immobiliare degli avvenimenti del 1870, non solo dopo la proclamazione di Roma come capitale del nuovo Regno ma anche durante la fase di «attesa», si può dire di lunga preparazione di tale evento. Si è parlato di Roma come di «una città che si muove»: ebbene il movimento ricevet- 160 DANIELA FELISINI te un deciso impulso proprio dalle prospettive di mutamento politico-istituzionale aperte dal processo di unificazione italiana. Durante l’ultimo decennio dello Stato Pontificio, negli anni 1862-1871, a Roma si registrarono, infatti, oltre 1.700 transazioni immobiliari, per un valore nominale di circa 50 milioni di lire dell’epoca13. Tab. 2 - Popolazione e densità abitativa dei rioni di Roma, 1871 Distribuzione popolaz. per rioni % Densità rione Densità fabbricati Famiglie 1846 ab./1000 mq ab./1000 mq n. Superficie totale Superficie fabbricata Sup. fabb. /sup. tot. Abitanti mq. mq. % n. 4.318.490 838.400 19,4 35.940 13,5 16,3 8,3 42,9 5.961 Trevi 720.340 233.570 32,5 14.751 8,6 6,7 20,5 63,1 3.504 Colonna 597.940 231.710 38,8 13.569 7,1 6,2 22,7 58,6 2.096 Campo Marzio 817.300 422.050 51,7 24.729 12,1 11,3 30,3 58,6 4.621 Ponte 335.290 189.600 56,7 23.504 9,5 10,7 70,1 124,0 4.271 Parione 186.970 129.930 69,5 14.125 6,2 6,4 75,5 108,7 2.432 Regola 312.700 175.380 55,9 16.360 6,8 7,4 52,3 93,3 4.525 S. Eustachio 179.210 137.940 77,1 8.687 4,3 3,9 48,5 63,0 1.760 Pigna 212.920 153.690 72,3 7.071 4,1 3,2 33,2 46,0 1.282 1.318.930 241.870 18,3 8.934 5,1 4,1 6,8 36,9 1.833 117.850 81.810 69,5 8.282 2,0 3,8 70,2 101,2 605 Ripa 2.529.960 140.800 5,6 5.221 2,9 2,4 2,1 37,1 1.513 Trastevere 1.851.790 556.270 30,0 26.025 11,9 11,8 14,1 46,8 5.306 Borgo 613.640 296.560 48,4 12.410 5,9 5,8 20,2 41,8 2.806 Totale 14.113.150 3.829.580 27,1 219.608 100 100 15,6 57,3 42.515 Rioni Monti Campitelli S. Angelo 1871 Questo importo costituiva ben più della metà dell’estimo urbano nominale complessivo, di 86 milioni di lire, che elevava (secondo il ragguaglio tra valore nominale e valore reale calcolato in 408 lire per ogni 100) il patrimonio immobiliare romano ad una consistenza effettiva di circa 350 milioni di lire14. Ciò significava che una porzione assai significativa dei 4.500 proprietari di immobili censiti a Roma nel decennio aveva ritenuto opportuno proporsi sul mercato immobiliare, per cogliere le FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE 161 opportunità che sembravano profilarsi nello scenario cittadino. In questa fase di dinamismo intervennero istituti di credito e finanziari: per la Cassa di Risparmio di Roma la partecipazione ad una società per l’edilizia popolare sorta nel 1868 si presentava come il fiore all’occhiello di un ben più vasto reticolo di impieghi, legati all’attesa di una Roma italiana. Pure Alessandro Torlonia, dopo aver liquidato il suo Banco nel 1863, si dedicò, oltre che all’impresa del Fucino, a nuovi investimenti, estendendo la sua azione nel settore immobiliare15. Nuove società immobiliari si costituirono, mentre si animava il dibattito sulle direzioni dell’espansione urbana e su le modalità e gli ambiti di intervento delle autorità16. Evidente era pure la convergenza dei capitali stranieri verso il settore dei servizi collettivi urbani, destinato ad un prevedibile, notevole sviluppo17. Dopo il 1870 il mercato immobiliare di Roma e del suo circondario fu influenzato in misura decisiva da provvedimenti come l’alienazione dei beni ecclesiastici, le modifiche degli istituti giuridici che regolavano le successioni, le revisioni dei catasti ed il nuovo regime fiscale adottato nei confronti della proprietà urbana. Si trattava di novità fondamentali, che avrebbero avuto effetti durevoli sul mercato immobiliare romano, meritevoli di studi sistematici. Un breve cenno si può riservare, in questa sede, alle considerazioni di natura sociale, che nelle transazioni riguardanti la casa sono embricate a criteri di valutazione prettamente individuali. Nella conoscenza del mercato immobiliare, infatti, non può essere d’aiuto la categoria paretiana dell’ophelos, ossia «l’indipendenza da ogni considerazione sul piacere psichico conesso all’acquisto»18. Come è stato posto in luce in studi autorevoli, i soggetti implicati nelle transazioni sono immessi in costruzioni simboliche che ‘fanno’ il valore della casa; i postulati classici della domanda e dell’offerta diventano un’astrazione illusoria di fronte ad un mercato che è il prodotto di una costruzione sociale19. Le dinamiche della Roma ottocentesca mostrano, ad esempio, tutta l’importanza delle scelte di imparentamento, con cui si intendono non solo le alleanze matrimoniali delle casate maggiori, ma anche i più modesti patti nuziali tra famiglie delle classi medie, del cosiddetto «generone». La storiografia più attenta ci ha messi in guardia dallo stabilire troppo rigide e fuorvianti demarcazioni fra ceti e gruppi per quanto riguarda le strategie sociali20. In tal senso una fonte particolarmente utile è rappresentata dai fondi notarili, che consentono di conoscere i dettagli di transazioni di diversa entità, visualizzando il mercato immobiliare come una rete di scambi. Un fattore importante nel determinare l’afflusso di capitali in direzione delle costruzioni o ristrutturazioni di edifici era anche la valenza annessa alla visibilità sociale della casata ed alle sue scelte di auto-rappresentazione21. Questa valeva soprattutto per grandi acquisti e costruzioni di palazzi, ville, etc., si trattava cioè di un mercato di nicchia, ma in cui le transazioni erano relativamente frequenti soprattutto in periodi di intensa trasformazione, come la già descritta fase di presenza francese a Roma. In quegli anni, oltre che dalle alienazioni dei patrimoni fondiari ecclesiastici e 162 DANIELA FELISINI doganali di cui si è detto, le necessità finanziarie spingono molti grandi famiglie del patriziato − colpite da imposizioni straordinarie, dal calo delle rendite e dalla perdita di valore dei titoli pubblici − a porre in vendita le loro proprietà urbane, mettendo in moto un mercato di beni di grande valore. Le proprietà sarebbero state oggetto di ristrutturazioni e cambi di destinazione, anche in connessione con una progressiva modifica delle condizioni abitative urbane «strettamente legata ai valori d’uso e di riconoscibilità di una residenza borghese […] plurifamiliare»22. Come vedremo poco oltre, infatti, la domanda di alloggi oltre ad aumentare si andava diversificando. Da ultimo si vogliono richiamare i criteri di natura più squisitamente economica, come quelli legati alla redditività dell’investimento e al margine di rischio ad esso associato. Dopo il periodo francese a Roma − così come in altre città italiane, ad esempio Milano − gli affitti erano notevolmente aumentati, tanto che una delle istanze popolari più frequenti era quella per il ribasso «de’ quella porca de’ piggione», secondo la colorita espressione di Giuseppe Gioachino Belli23. Nel 1824, in una situazione di notevole pressione, caratterizzata da offerta insufficiente, da inadeguatezza sia quantitativa sia qualitativa delle abitazioni e dalla previsione del grande afflusso di visitatori attesi per il Giubileo dell’anno seguente, Leone XII cercò di contenerne gli effetti più negativi e stabilì il blocco dei fitti e degli sfratti. Negli anni successivi il provvedimento venne più volte prorogato (nel 1826, 1829, 1832, 1835, 1837, 1838, 1842), poiché si constatatò che la domanda di alloggi non trovava equilibrata risposta a causa della stasi edilizia24. Nella Roma affollata e immutabile di Stendhal25 si costruiva poco, e ciò rafforzava una delle distorsioni tipiche del mercato immobiliare, e in generale di tutti i mercati sottoposti ad una molteplicità di preferenze di natura extraeconomica, ossia il difficile incontro fra domanda e offerta. Il governo romano cercò dunque di stimolare l’edilizia privata e stabilì ampie esenzioni fiscali per chi procedeva a nuove costruzioni o alla manutenzione straordinaria e «migliorativa» di quelle esistenti, accrescendo il numero di vani disponibili. I dati rilevati mostrano che tale misura fu ampiamente utilizzata dagli operatori: un esempio fra tutti è l’intervento effettuato sin dalla seconda metà degli anni Trenta da Marino Torlonia nell’area fra via Condotti, via Borgognona, via Mario de’ Fiori e via Bocca di Leone, che si inseriva nelle norme di riqualificazione urbana prescritte nel 1824-182626. Nel 1837 Marino acquistò Palazzo Nuñez, progettato nel 1659 da Giovanni Antonio De Rossi, passato dai Nuñez a Luciano Bonaparte, principe di Canino, e da questi al fratello minore Gerolamo, già re di Westfalia, il quale lo cedette, insieme ad una serie di casamenti contigui, per la somma complessiva di 94.000 scudi (di cui 70.000 circa per il palazzo, 10.000 per gli oggetti d’arte ed il mobilio in esso contenuti e 14.000 per gli altri edifici)27. L’architetto Antonio Sarti procedette ad un’opera di abbellimento degli interni del palazzo, eletto a residenza di quel ramo della famiglia Torlonia, e venne quindi incaricato della progettazione e ristrutturazione dell’intero isolato in via Borgognona, composto di case a due e FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE 163 tre piani destinate alla locazione. L’area sottoposta a risistemazione fu ampliata con successivi acquisti, e l’intervento avrebbe rappresentato «un vero e proprio modello di edilizia residenziale d’affitto […] imitato per tutto l’Ottocento»28. Le operazioni immobiliari effettuate da Marino Torlonia negli anni Trenta si rivelarono, dunque, investimenti assai fruttuosi con rendimenti elevatissimi, perché andavano incontro alla crescente domanda di alloggi espressa in quegli anni dalla società romana ed ai suoi mutamenti qualitativi. Malgrado simili vantaggiose operazioni, le nuove costruzioni erano comunque insufficienti a ridare fiato al mercato immobiliare, caratterizzato da una peristente asimmetria tra domanda e offerta e turbato dai pesanti effetti del regime degli affitti «bloccati». Quest’ultimo comportava, peraltro, numerose eccezioni e veniva largamente eluso, tanto che nel 1835 si ritenne necessario sollecitare «corporazioni ecclesiastiche, luoghi pii, e possidenti di case» affinché non apportassero ulteriori aumenti alle pigioni «giunte da qualche tempo ad un saggio molto elevato». Pochi anni dopo, nel 1838 un provvedimento escluse dal blocco gli affitti superiori ai 40 scudi annui. In una simile situazione, caratterizzata da forti pressioni quantitative e da mutamenti qualitativi sul fronte della domanda, di un’offerta che stentava ad adeguarsi, di contraddittori interventi normativi, l’investimento immobiliare poteva dunque avere una redditività consistente, non solo in caso di rivendita del bene, ma anche dal punto di vista degli affitti. Di ciò abbiamo conferma indiretta nel «Regolamento operativo del Banco Torlonia» del 183429, che prevedeva l’erogazione di credito a fronte della cessione da parte del cliente di «Fitti rustici ed urbani» di cui era titolare. Questi figuravano, infatti, al primo posto fra le garanzie richieste per la concessione di anticipazioni, la cui durata era limitata a tre anni, con precise indicazioni contrattuali: «la descrizione dei singoli stabili, dei quali ne vengono cedute le corrisposte, le annate di fitto anticipatamente pagate, l’interesse pattuito sull’anticipazione, l’epoca in cui scade la cessione». Tali dati potrebbero risultare preziosi per ricerche di storia urbana, ma in proposito le fonti conservate non sono dettagliate come si vorrebbe. La documentazione disponibile ci dice comunque che negli anni Venti-Quaranta del secolo il reddito annuo per un proprietario, ufficialmente fissato ad un dodicesimo dell’estimo catastale dell’immobile (8,3%), oscillava in realtà da poco più del 2% ad oltre il 10% del valore di mercato dello stesso, sempre consistentemente superiore al primo, ancor più per le botteghe che per gli stabili d’abitazione30. Un confronto con i rendimenti medi di altre tipologie di impiego dei capitali, come i depositi fruttiferi presso istituti bancari, quale la Cassa di Risparmio di Roma, oppure i titoli pubblici, va tutto a vantaggio dell’investimento immobiliare, che aveva caratteristiche assai differenti, ma presentava contenuti di rischio comparabili. Ciò vale a maggior ragione se consideriamo gli interessi sui titoli emessi sui mercati europei: mai superiori al 5-6% nella prima metà dell’Ottocento, questi infatti andarono calando nel corso del secolo, mentre gli affitti a Roma ebbero una sostenuta tendenza 164 DANIELA FELISINI al rialzo per tutto il ventennio 1850-1870 (addirittura raddoppiati o triplicati nel caso delle botteghe), con una vera e propria impennata dopo il 187131. Questi dati ci consentono di confermare la convenienza economica dell’investimento immobiliare, in un mercato in grado di adattarsi agli effetti distorsivi di misure, come quella del blocco degli affitti o la cessione in enfiteusi perpetua anziché in proprietà, tese a tutelare le fasce più deboli della popolazione cittadina, sia pur con esiti contraddittori. Questi spunti possono essere utili per individuare la pluralità di motivazioni, embricate fra di loro e non facilmente distinguibili, che muovevano il mercato immobiliare romano nell’Ottocento. L’osservazione di quest’ultimo porta a riflettere sulla complessità di un’istituzione − quella del mercato − a lungo considerata oggetto di meccanismi automatici di regolazione, mentre le più recenti ricerche storiche e teorizzazioni economiche guardano piuttosto al ruolo degli «attori», alle specificità locali, alla molteplicità dei fattori che contribuiscono a modellarlo nel tempo. Daniela Felisini 1 C. CATTANEO, Interdizioni israelitiche, Milano, 1836, edizione curata da L. Ambrosoli, Torino, Einaudi, 1987, p. 72. 2 F.S. NITTI, La ricchezza dell’Italia, «Atti del Regio Istituto d’Incoraggiamento di Napoli», serie IV, vol. I, Napoli, Società cooperativa tipografica, 1904, pp. 105-268. 3 La tabella è frutto della rielaborazione dei dati presentati da A.M. BANTI, Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Roma, Donzelli, 1996, p. 67, il quale ha a sua volta utilizzato i dati degli studi di A.L. Cardoza, S. Licini, R. Romanelli, P. Macry, A. D’Argenio, D.L. Caglioti. 4 Sull’argomento vedi: V. COMOLI MANDRACCI, Torino, Roma-Bari, Laterza, 1989; La capitale per uno Stato: Torino, studi di storia urbanistica, a cura di V. Comoli Mandracci, Torino, Ceud, 1983. 5 Sull’argomento vedi: C. DE SETA, Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1986; G. ALISIO, Napoli e il risanamento: recupero di una struttura urbana, Napoli, Banco di Napoli, 1980; Napoli: contributo allo studio della città, a cura della Società pel Risanamento di Napoli nel settantesimo anno della sua fondazione, 3 voll., Napoli, L’arte tipografica, 1960. 6 Il grafico è stato elaborato sulla base dei dati riportati da P. CASTIGLIONI, Della popolazione di Roma dalle origini ai nostri tempi, Roma, Tip. Elzeviriana, 1878. 7 Sull’argomento vedi: Popolazione e società. Roma dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma, Il Calamo, 1999. 8 MINISTERO DI AGRICOLTURA E COMMERCIO. DIREZIONE CENTRALE DELLA STATISTICA, Statistica della popolazione dello Stato Pontificio nell’anno 1853, Roma, Tipografia della R.C.A., 1857. 9 Sul tema vedi: E. GARMS-J. GARMS, Mito e realtà di Roma nella cultura europea. Viaggi e idea, immagine e immaginazione, in Storia d’Italia, Annali, 5, Il Paesaggio, a cura di C. De Seta, Torino, Einaudi, 1982, pp. 561-662: pp. 624 sgg. 10 F. BARTOCCINI, Roma nell’Ottocento, Bologna, Cappelli, 1988, pp. 208-210. 11 Il dato è riportato da P. DELLA SETA-R. DELLA SETA, I suoli di Roma, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 15. FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE 165 12 La tabella è stata costruita elaborando i dati riportati in DIREZIONE GENERALE DELLA STATISTICA, Notizie sulle condizioni edilizie e demografiche della città di Roma e di alcune altre grandi città italiane ed estere nel 1871, Roma, Tip. Eredi Botta, 1889, e i dati contenuti negli «Stati delle Anime» citati da G. FRIZ, La popolazione di Roma dal 1770 al 1900, «Archivio Economico dell’Unificazione Italiana», Roma, Edindustria, 1974. 13 L’importo era pari a circa 9,3 milioni di scudi, secondo il cambio 1 scudo pontificio = 5,37 lire nuove d’Italia. 14 REGNO D’ITALIA, Statistica finanziaria pel 1871. Prospetti e tavole grafiche, Roma, 1872, pp. 112113 e 118-119. 15 Su questa fase devo rinviare a D. FELISINI, Il denaro di S. Pietro. Finanze pubbliche e finanze private nello Stato Pontificio dell’ultimo decennio, in Lo Stato del Lazio 1860-1870, a cura di F. Bartoccini-D. Strangio, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1997, pp.189-229. 16 Una ricostruzione del dibattito si trova in A. CARACCIOLO, Roma capitale, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 75-104. Spunti interessanti per uno studio con approccio comparativo possono venire dalla ricerca di M. LESCURE, Les banques, l’Etat et le marché immobilier en France à l’époque contemporaine 1820-1940, Paris, Ehess, 1982. 17 Sulle trasformazioni edilizie legate ai servizi, in particolare a quelli di trasporto, vedi I. INSOLERA, Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 381-386. 18 V. Pareto (1848-1923) propose tale concetto nel Corso di economia politica (seguito nel 1906 dal Manuale di economia politica) pubblicato nel 1897-98, frutto delle lezioni svolte a Losanna, dove dal 1894 era stato chiamato da Leon Walras a succedergli nella cattedra di economia politica. 19 P. BOURDIEU, Les structures sociales de l’économie, Paris, Seuil, 2000, pp. 18 sgg. 20 Vedi, ad esempio, in tal senso C. CAPRA, Nobili, notabili, élites: dal’modello’ francese al caso italiano, «Quaderni Storici», XXXVII, 1978, 1, pp. 12-42. 21 Questa complessa relazione è ben messa in luce da G. NENCI nel saggio Aristocrazia romana tra ‘800 ‘900. I Rospigliosi, Quaderni di «Proposte e Ricerche», n. 30, Ancona, 2004. 22 M.L. NERI, Abitare a Roma. Intervento statale e iniziativa privata nell’edilizia residenziale (1826-1846), con appendice curata da I. Salvagni, in Roma fra la Restaurazione e l’elezione di Pio IX. Amministrazione, economia, società e cultura, Atti del convegno di studi ASR - CROMA (Roma, 30 novembre-2 dicembre 1995), a cura di A.L. Bonella-A. Pompeo-M.I. Venzo, Roma-Wien, Herder, 1997, pp. 293-327: 314. 23 Sulle vicende residenziali del poeta, in quanto esponente del ceto medio romano, vedi S. REBECCHINI, G.G. Belli e le sue dimore, Roma, Palombi, 1970. 24 Il provvedimento del 1829 recitava espressamente che «non si è potuto ottenere ancora quella moltiplicazione di luoghi abitabili, e di botteghe che è necessaria per equilibrarne il numero al preciso bisogno degli abitanti, specialmente de’ poveri», vedi Notificazione del Segretario di Stato del 28 aprile 1829, ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, Collezione Bandi, b. 196. 25 Numerosi sono i riferimenti che in tal senso troviamo nelle sue Promenades dans Rome, éditions établie et annotée par V. Del Litto, Paris, Gallimard, 1997. 26 Per poter godere dell’esenzione fiscale i proprietari erano tenuti a far approvare i progetti di costruzione, ristrutturazione o sopraelevazione da parte di tre architetti a loro scelta fra gli Accademici di San Luca. Ciò si prestò a committenze e sodalizi, come pure ad accordi e frodi, vedi M.L. NERI, Abitare a Roma, cit., pp. 293-327. 27 ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 4, notaio Calvaresi, 1837, vol. 646. 28 M.L. NERI, Abitare, cit., p. 306. 29 Vedi il «Regolamento amministrativo dell’azienda bancaria», 1834, ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, Archivio Torlonia, b. 266, s. fasc. 5. 30 Contratti con clienti, Ivi. 31 Vedi i dati riportati in Appendice da G. FRIZ, Consumi, tenore di vita e prezzi a Roma dal 1770 al 1900, «Archivio Economico dell’Unificazione Italiana», Roma, Edindustria, 1980, p. 471. LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE: L’APERTURA DEL TUNNEL DEL QUIRINALE E IL PALAZZO DEL DRAGO Questo studio si è avvalso del materiale documentario e iconografico ancora inedito del Fondo Ufficio V-Piano Regolatore dell’Archivio Storico Capitolino riguardante il prolungamento della via dei Due Macelli, la realizzazione del tunnel e l’assetto degli spazi urbani antistanti. Si è ritenuto di trattare alcuni aspetti e questioni inerenti la sistemazione dell’accesso Nord del traforo, ed in particolare il palazzo del Drago, subito interessato da una parziale demolizione a seguito dei lavori; le vicende relative alla sua ridefinizione, strettamente connessa a quella, incerta e dibattuta, del proprio intorno urbano, offrono in tal senso uno strumento di lettura non privo di interesse, anche in relazione alle controversie tra le parti che un tale stato di cose ebbe inevitabilmente a causare. ***** La direttrice di espansione verso Est è stata fatta risalire ad un orientamento antagonista «a tratti risorgente nella lunga vicenda urbana di Roma, e carico, fin dall’alto medioevo di un preciso significato ideologico»1. Dagli interventi urbani posti in essere da Sisto V alle operazioni fondiarie di mons. Francesco Saverio de Merode, la scelta di indirizzare l’espansione urbana lungo l’asse Esquilino-Viminale trova ulteriore attuazione nella collocazione della stazione ferroviaria di Termini. Con l’avvento del governo sabaudo, sarà Quintino Sella a proporre per la nuova Roma un’analoga ipotesi di sviluppo in direzione opposta al Vaticano2. La necessità di collegare agevolmente il centro urbano ai nuovi quartieri, alla quale in generale si fece fronte con una strategia urbana basata essenzialmente sul ricorso agli sventramenti e sul conseguente «adeguamento» dell’esistente, impose una scelta di tipo diverso per ciò che riguardava il tracciato viario che, in prolungamento della via dei Due Macelli, avrebbe dovuto connettere la città storica con la via Nazionale e quindi con gli insediamenti di piazza Vittorio e dell’Esquilino. La principale difficoltà stava nella particolare conformazione altimetrica dei suoli: «La via del Babuino», affermava Alessandro Viviani nella relazione descrittiva che accompagnava il Piano 168 RAFFAELLA CATINI Regolatore del 1873, «giunta alla via traversa del Tritone è giocoforza devii dal suo andamento e salga con pendenze sensibili e lunghe, se si voglion raggiungere i nuovi quartieri e la stazione»3. In quest’ottica, la realizzazione di un tunnel al di sotto dei giardini del Quirinale avrebbe costituito una soluzione costruttiva realmente efficace ed economicamente vantaggiosa, senza contare il carattere di modernità dell’opera, all’avanguardia dal punto di vista tecnologico e strutturale e dunque tanto più degna di una capitale. Di ciò appare assolutamente persuaso il Viviani, il quale si fa promotore del tunnel in quella stessa relazione, portando l’esempio della galleria realizzata da Adam Clark sotto la collina della Fortezza a Buda4, evidenziandone i vantaggi e i costi contenuti: Si prolunghi […] in linea perfettamente retta, e si trafori per soli duecento metri il colle Quirinale al disotto del giardino reale, e si raggiungerà quasi in piano la valle del Viminale e la via Nazionale, e poco più oltre il prolungamento della via Strozzi. Il rettifilo di due chilometri che ne risulterebbe sarebbe la più felice soluzione di quante ne siano state immaginate per collegare nel modo più diretto e più breve la parte più nobile della vecchia città colla nuova e colla stazione. Né deve spaventare l’idea di un breve tunnel, che l’esempio non ha pregio o difetto di novità, e la spesa ne sarebbe mite assai più che non si pensi. I tunnels in condizioni più difficili e col loro rivestimento murario costano circa 1000 lire a metro corrente; si raddoppi pure questa spesa per più ampia sezione, per lusso di prospetti e di interna costruzione, non spenderemo forse che quattrocento mila lire; mezzo milione nel pessimo dei casi5. Il risparmio sulle opere da eseguirsi sarebbe stato considerevole, concludeva Viviani, anche qualora si fosse voluto dotare il tunnel di «ampi lucernari nel sovrapposto giardino»6. Nonostante non avessero avuto seguito in termini attuativi7, gli indirizzi dettati dal piano del 1873 costituirono un riferimento imprescindibile, in una situazione di vacatio legis, sia per le iniziative dei privati sia per quelle dello stesso Comune: il tunnel sotto il Quirinale fu riproposto tra le grandi opere pubbliche di più urgente attuazione dal piano del 1883. Presentato dal Viviani con notevole ritardo rispetto alla scadenza indicata dalla convenzione tra lo Stato ed il Comune di Roma del 14 novembre 1880 − poi divenuta legge n. 209 del 14 aprile 1881 −, il primo Piano Regolatore di Roma capitale prevedeva infatti sia lo sventramento della via del Tritone, limitatamente al tratto superiore da piazza Barberini all’incrocio con la via dei Due Macelli, sia il prolungamento di quest’ultima ed il traforo: veniva evidentemente ritenuto opportuno privilegiare per le ragioni sopra citate, per ciò che riguarda i tempi di attuazione, non tanto il collegamento con piazza Colonna, quanto quello con la via Nazionale e i nuovi insediamenti di piazza Vittorio e dell’Esquilino. Caratteristica di quest’opera fortemente voluta dall’amministrazione comunale fu una palese mancanza di attenzione nei confronti dell’intorno urbano, tant’è che il problema della sistemazione degli accessi del traforo, ed in specie dell’imbocco Nord, si pose in tutta la sua gravità ed urgenza ad opera compiuta: un’arteria pensata per LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE 169 convogliare un traffico veicolare e pedonale intenso, inserita in un contesto urbano a scala differente e, di fatto, ancora impreparato in termini strutturali e funzionali. L’area interessata dalla costruzione del tunnel relativamente all’ingresso Nord è delimitata da via dei Giardini – già del Giardino Papale – , via in Arcione e via Rasella, «che salendo agiatamente conduce al grandioso palazzo Barberini» ed era «adorna di graziose case»8. Il palazzo del Drago, già Gentili, era situato dirimpetto alla chiesa di San Nicola in Arcione, nella quale si custodivano le spoglie di Ridolfino Venuti, demolita tra il 1907 e il 1908 ancora nell’ambito dei lavori di sistemazione della zona. Nel 1872 il piano nobile del palazzo aveva ospitato la sede del famoso Circolo nazionale, inaugurato nel mese di febbraio di quello stesso anno, «brillante centro di attività ricreative (per lo più balli e concerti) che fu oggetto di grandi consensi nella Roma postunitaria e si trasferì in seguito nel palazzo dei Sabini in via delle Muratte, e poi in piazza Colonna, sopra il portico di Veio»9. Il decreto prefettizio di espropriazione della porzione del palazzo interessata dai lavori porta la data del 27 aprile 1900 (fig. 1); la presa in possesso dei beni avvenne il successivo 21 maggio. Nel verbale redatto in quell’occasione è contenuta una dettagliata descrizione dello stabile espropriato, dalla quale è possibile evincere che il pianterreno era stato adibito a rimessa ed esposizione di vetture di tal Coccia Nicola e che al secondo piano mons. Pietro Crostarosa aveva istituito una scuola privata femminile. Il palazzo non costituiva la residenza del principe, il quale dimorava nella residenza al numero 20 di via delle Quattro Fontane. Cesare Rebecchini, procuratore comunale, rendeva noto all’Ufficio legale l’avvenuta asportazione di infissi ed altri oggetti10: la cosa appare significativa alla luce dei rapporti mai idilliaci tra Filippo del Drago e l’amministrazione capitolina. La demolizione ebbe termine entro la prima metà dell’agosto del 1900: in una lettera del 14 del mese indirizzata al sindaco di Roma, Filippo del Drago chiedeva che l’area ormai libera venisse esplorata, considerata «la grande probabilità di rinvenimento di oggetti d’importanza artistica e archeologica, che ho fondata fiducia potersi rinvenire in quella località»11. L’amministrazione glissò sulla richiesta del principe, ravvisando nelle sue parole un tentativo di vendere «il sol d’agosto»; di lì a poco acconsentì, peraltro, a restituirgli un relitto d’area già espropriata per rendere possibile l’allineamento del prospetto sulla nuova arteria ricostruendo «una fronte decorosa». Riconsegna che non sarebbe evidentemente potuta avvenire in tempi brevi poiché l’area era di fatto occupata dal cantiere del tunnel. Avendo avuto rassicurazioni dall’assessore Antonio Teso riguardo ai tempi ormai imminenti dello smantellamento del cantiere − il traforo, intitolato ad Umberto I, fu inaugurato nel settembre 1901 −, il 26 di settembre 1901 Filippo del Drago sottoscrisse un atto di conciliazione col Comune di Roma, nel quale però, a motivo dell’assenza dell’assessore, non veniva fissato il termine per la restituzione del terreno. Trascorso inutilmente il mese di ottobre, alla lettera di sollecito di Filippo del Drago 170 RAFFAELLA CATINI del 12 novembre12 seguì una seccatissima nota di risposta da parte del sindaco, nella quale quest’ultimo ricordava che soltanto in fine di settembre era stato stipulato il contratto per la conciliazione dell’indennità di espropriazione parziale del suo palazzo in via in Arcione: «Ella parimenti non deve aver dimenticato che all’art. 2 fu stabilito, che la zona d’area, lungo il confine della residua sua proprietà, le sarà consegnata in epoca da fissarsi d’accordo fra il Comune e la S.V.»13. Non solo: alla replica del principe che rammentava i precisi accordi presi con l’assessore Teso, questo rispose negando di aver mai indicato alcun termine preciso in merito alla consegna14. Nel novembre 1901 il principe decise di inoltrare comunque una richiesta di licenza: il progetto, redatto da Giovanni Battista Giovenale, consisteva nel completamento dell’edificio «mediante la costruzione di due nuovi prospetti: uno sul prolungamento di via Due Macelli e l’altro sulla via dei Giardini»15. L’altezza del fabbricato sarebbe rimasta invariata sulla via in Arcione, eccetto che per il cornicione esistente posto al di sotto dell’attico, da ricostruirsi a coronamento dell’edificio. L’istanza venne approvata, salvo la medesima condizione riportata nell’atto di conciliazione, e cioè che la licenza non sarebbe potuta essere rilasciata «fino a quando non sia stabilita fra il Comune ed il Principe l’epoca nella quale si potrà consegnare una lista di terreno in prolungamento di via Due Macelli per fare il prospetto sulla nuova strada»16. Nel mese di febbraio 1902, all’ennesima richiesta − con tanto di minaccia di ricorrere in giudizio − da parte del principe in ordine alla restituzione del relitto d’area, il sindaco Prospero Colonna rispose di aver già informato Giovanni Battista Giovenale di aver dato disposizioni all’impresa Spadari al fine di effettuare lo sgombero entro un mese da scadere al 20 marzo prossimo; e ciò perché egli possa compiere i lavori necessari all’accesso dei suoi carri e dei materiali fra la via del Tritone e l’ingresso del tunnel. Unica riserva convenuta col predetto sig. Giovenale che vale per l’E.V. e per l’impresario, è stata quella di tollerare qualche breve indugio alla consegna della zona di terreno su indicata, se le piogge fossero così persistenti da occasionare qualche interruzione nell’eseguire i su indicati lavori17. Trascorso anche questo termine, Filippo del Drago ricorse, come promesso, alle vie legali con una citazione, cui il Comune, dopo alcune perplessità, rispose dichiarando la propria disponibilità ad un accordo per una risoluzione bonaria della vicenda18. Le ragioni di una simile titubanza da parte dell’amministrazione erano evidentemente connesse alla grande incertezza riguardo alla sistemazione degli accessi del traforo, divenuta, a lavori compiuti, una questione indifferibile. E l’incertezza era tale che, mentre proseguivano le trattative per definire la vertenza col principe del Drago, l’Ufficio tecnico comunale andava redigendo un nuovo progetto di sistemazione dell’accesso Nord del traforo nel quale erano previste nuove espropriazioni, tra cui quella di un’ulteriore porzione del palazzo del Drago: in luogo della piazza a forma di imbuto del primo progetto, sulla scorta del quale si era peraltro dato luogo agli sventramenti, la nuova ipotesi di sistemazione prevedeva uno spazio rettangolare LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE 171 Fig. 1. Secondo la prima stesura del progetto, sulla scorta della quale si era dato inizio alle demolizioni, il prolungamento della via dei Due Macelli prevedeva la realizzazione di una piazza trapezoidale antistante l’accesso Nord del traforo. La planimetria mostra in sovrapposizione il nuovo tracciato viario e gli edifici da demolirsi (ASCR, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47 fasc. 1) Fig. 2. La sistemazione dell’ingresso Nord secondo il successivo progetto, approvato nel dicembre 1902 (ASCR, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47 fasc. 1) 172 RAFFAELLA CATINI della larghezza di trentasei metri, delimitato sulla sinistra dal fronte del noto palazzo − ulteriormente modificato in ragione delle nuove demolizioni e ricostruito con sette campate di portici per uso pubblico al pianterreno − e sul lato opposto da un nuovo edificio del tutto simmetrico. La 182a proposta presentata nel corso della seduta segreta del Consiglio comunale del 5 dicembre 1902 aveva per argomento la messa a punto di un programma per l’esecuzione di alcune opere di Piano Regolatore, in conformità delle leggi 20 luglio 1890 e 7 luglio 1902, tra le quali la sistemazione dell’accesso Nord al traforo: Punto di partenza per la determinazione di siffatto programma era necessariamente il bisogno di provvedere a che importanti e costose opere pubbliche, già eseguite o prossime a compiersi, fossero poste a contatto del maggior traffico e avessero accessi facili e degni, sia per evitare pericolosi agglomeramenti di veicoli e pedoni in vie ristrette e tortuose, sia perché non avessero a rimanere in deplorevole e dannoso isolamento. Quindi, il bisogno immediato di provvedere innanzitutto agli accessi del traforo Umberto I dal lato settentrionale. L’avvenuto ravvicinamento, per mezzo del Traforo stesso, delle vallate del Campo Marzio con le alture del Viminale, del Quirinale e dell’Esquilino renderà talmente intenso il traffico che non solo ragioni di estetica edilizia, ma stringenti esigenze d’ordine pubblico impongono fin d’ora di provvedere a che le provenienze ascendenti e discendenti del quadrivio si raccolgano in un conveniente centro, che prospetta appunto l’ingresso del traforo.Ciò non basta, però. Per la piazza Barberini scendono dai quartieri Sallustiano, Ludovisi e Castro Pretorio all’ingresso del traforo alcune vie, la maggiore delle quali, quella cioè che a tutt’oggi ha rappresentato la principale arteria del movimento, è la parte superiore di via del Tritone, stretta, disagiata, insufficiente. […] Soccorrono altre vie minori, quali quelle degli Avignonesi, Rasella, dei Giardini, in pessime condizioni edilizie sotto tutti i rapporti. Lo sbocco di queste vie minori sul piazzale che si dovrebbe formare all’ingresso del traforo, offrirebbe, come offre al presente, tanto indecente spettacolo, che la dignità della città non lo può permettere […] mentre è nel tempo stesso una assoluta necessità dare sfogo alle correnti dei passanti per altra arteria di maggiore importanza, che non sia il troppo modesto tratto superiore di via del Tritone. Si affaccia naturale il pensiero d’ampliare il predetto tratto superiore di via del Tritone sino all’incontro del piazzale da costruirsi per l’ingresso al traforo Umberto I. Il nuovo tratto, costituito in ampiezza capace di sostenere il traffico delle provenienze discendenti dai quartieri alti, e moderato nelle sue pendenze, sarebbe il necessario complemento dell’opera pubblica tanto attesa dalla cittadinanza e tanto degnamente riuscita19. Il progetto, redatto dall’Ufficio tecnico municipale e approvato nel corso di quella stessa seduta consiliare, prevedeva l’allargamento fino a venti metri di sezione del tratto superiore della via del Tritone, da piazza Barberini fino all’intersezione col prolungamento della via Due Macelli, così che la strada veniva a perdere ogni continuità assiale con la via dell’Angelo Custode che discendeva verso piazza Colonna. La nuova via dei Serviti, larga diciotto metri, sarebbe stata invece traslata parallelamente al proprio asse al di sopra di un isolato perché potesse collegarsi direttamente all’invaso della piazza antistante il tunnel (fig. 2). Null’altro appariva trapelare riguardo alla definizione di quello spazio architettonico: nel gennaio 1903, a pochi giorni dall’approvazione del progetto, l’ingegner Giulio Ceas, rilevando la evidente mancanza di uno studio per conferire una «dispo- LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE 173 sizione architettonica» all’insieme «tale da potere ottenere punti di vista e decorazioni artistiche»20, pubblicò una proposta di sistemazione dell’incrocio di via del Tritone con la via del Traforo, nella quale, aumentando l’entità delle espropriazioni, veniva prevista una piazza circolare di cinquantaquattro metri di diametro, delimitata da edifici dagli angoli stondati e coronati da timpani circolari, nella quale andava a confluire anche la nota via Nuova, più volte proposta, di sezione pari alla rinnovata via del Tritone, che avrebbe consentito un collegamento diretto con la via del Lavatore e con la piazza di Trevi. Di per sé «decorosa», la piazza sarebbe potuta risultare, a giudizio del Ceas, ancor più «imponente ed armoniosa» smussando maggiormente gli angoli degli edifici e portando il diametro a settanta metri, ciò che avrebbe però necessariamente implicato un superamento dei limiti di spesa (fig. 3-4). La proposta del Ceas rimase inascoltata; pur oggettivamente lacunoso, il progetto elaborato dal Comune vene ritenuto sufficientemente definito nelle sue linee principali da consentire di risolvere la vertenza col principe del Drago. Nel corso delle trattative, il principe aveva fatto sapere di essere disposto a chiudere la vicenda dietro corresponsione di una rendita pari a duemilaseicentoquarantacinque lire mensili (a decorrere dal mese di marzo 1902 fino alla data della definitiva consegna dell’area), a titolo di indennizzo per il mancato reddito, computata in base al guadagno che si sarebbe potuto avere affittando le diciassette camere sulle vie principali e sulla via dei Giardini «in ragione di 40 lire mensili ciascuna»21. Ritenuto l’importo assolutamente eccessivo, il Comune nella persona dello stesso Alessandro Viviani22 diede incarico a Gualtiero Aureli, architetto ingegnere in servizio presso l’Ufficio V, di effettuare una stima ed elaborare una controproposta. La valutazione dell’Aureli stabilì che la rendita non potesse stimarsi in alcun caso superiore alle milleseicento lire mensili23; poiché il principe aveva dichiarato di poter abbassare «di un solo decimo la sua pretesa»24, il Comune si disse disposto ad arrivare ad una somma non maggiore di duemila lire mensili. La proposta fu approvata a grande maggioranza dal Consiglio comunale nella seduta del 16 gennaio 1903; il successivo 23 marzo venne stipulato l’atto di liquidazione di danni e interessi tra il Comune di Roma e don Filippo del Drago, a seguito del quale il principe avrebbe ricevuto un’indennità pari a duemila lire mensili a decorrere dal 20 marzo 1902 «da proseguire fino alla effettiva e materiale consegna dell’area retroceduta a Sua Eccellenza − oltre il rimborso della differenza d’interesse sopra la somma di £. 29.305 e cent. 75 depositata alla banca d’Italia a garanzia della ricostruzione sull’area retroceduta»25. Soddisfatto il principe, non restava al Comune che provvedere tempestivamente al fine di restituire l’area e porre fine al pagamento di una somma così rilevante. Nella seduta consiliare del 20 maggio veniva formalmente istituita una commissione, composta da Marco Ceselli, Vittorio Scialoja, Giovanni Antonio Vanni ed Enrico Rasponi, «con l’incarico di studiare e sottoporre all’on. Giunta una proposta concreta per definire la questione del Drago»26. Fig. 3. G. CEAS, Sistemazione in Roma dell’incrocio di via del Tritone con via del Traforo, via Nuova etc.; planimetria d’insieme, gennaio 1903. 174 RAFFAELLA CATINI LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE 175 Fig. 4. G. CEAS, Sistemazione in Roma dell’incrocio di via del Tritone con via del Traforo, via Nuova etc., veduta prospettica. Fig. 5. Planimetria dell’area di accesso al tunnel. La tinta più scura evidenzia il relitto d’area triangolare concessa al principe del Drago a seguito della conciliazione sottoscritta col Comune di Roma nel 1905 (ASCR, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1). 176 RAFFAELLA CATINI Il 13 luglio il Ministero dei Lavori Pubblici, nell’accordare il visto per il pagamento dell’indennità, osservava come sembrassero «eccezionalmente onerose le condizioni pattuite con la convenzione 23 marzo 1903 fra cotesto Municipio ed il principe del Drago […]. Credesi perciò opportuno richiamare sulla cosa l’attenzione di cotesto Onorevole Municipio acciò voglia cercar modo di far cessare al più presto possibile quell’onere gravosissimo, sia affrettando la consegna dell’area in discorso, sia sollecitando quegli altri provvedimenti da cui dipendesse la definitiva sistemazione di quella località»27. In una nota dell’8 di agosto28 l’assessore Vanni dava disposizioni affinché venisse calcolato con esattezza il corrispettivo di esproprio relativamente al secondo progetto approvato; chiedeva inoltre di eseguire l’identico calcolo considerando un’ipotetica rinuncia ai portici ed un restringimento della piazza di accesso. I calcoli dimostrarono che la soluzione meno gravosa sarebbe stata quella di procedere all’esproprio totale del palazzo, tanto più che ai costi dell’operazione sarebbe stato possibile detrarre il valore dell’area di risulta, di proprietà dell’amministrazione; unico neo una certa complessità della procedura, a causa della quale il Comune sarebbe stato tenuto a corrispondere l’indennità ancora per un lungo tempo. Rilevava lo stesso Vanni in un promemoria per l’ing. Rodolfo Bonfiglietti: la piccola area per cui tale indennizzo viene corrisposto sarebbe pronta per la riconsegna al principe; ma tale riconsegna non farebbe che aggravare la posizione del Comune quando dovesse procedere a nuovi espropri, perché il principe si affretterebbe medio tempore a ricostruire su la predetta area. Ora essendo un onere di £. 24000 all’anno ben gravoso; non vedendosi quando potrà cessare se si prosegue l’idea di nuovi progetti che comunque tocchino ancora il palazzo del Drago; né potendosi permettere la continuazione di tale anormalissimo stato di cose […] l’unico partito che finanziariamente s’impone è quello di tornare al primitivo progetto di sistemazione del largo avanti al Traforo, con quelle secondarie varianti che l’ufficio reputasse opportune29. Il 19 settembre 1903 ebbe luogo la riconsegna del relitto d’area a Filippo del Drago; il 28 dello stesso mese il principe presentò una richiesta di autorizzazione per eseguire il restauro e il completamento del proprio palazzo, «già approvata da cotesta Amministrazione comunale in data 4 dicembre 1901»30. La licenza gli venne rilasciata «con dichiarazione che il Comune dopo la regolare pubblicazione del piano di massima, ha richiesto il Regio Decreto per causa di pubblica utilità, e per conseguenza nella detta futura espropriazione non si terrà conto del maggior valore derivante da nuove costruzioni a termini dell’art. 43 L. 25.VI.1865 n. 2359»31, ciò che equivaleva, di fatto, ad interdire al principe la facoltà di portare a compimento il fronte del palazzo. Il fatto indusse don Filippo a pretendere che l’erogazione dell’indennità in suo favore da parte del Comune dovesse seguitare fino a quando non gli fosse stato rilasciato un permesso incondizionato di costruire: di conseguenza, l’amministrazione si sentì in dovere di prendere alfine una decisione riguardo alla soluzione da adottarsi in merito alla sistemazione dell’area. LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE 177 Il 28 dicembre 1903 la commissione edilizia e consultiva tenne un sopralluogo presso l’accesso Nord del tunnel, presenti Prospero Colonna, sindaco di Roma, l’avv. Vanni e l’ing. Ceselli, assessori rispettivamente al Piano Regolatore e all’Ufficio V e già membri della nota commissione, e i consiglieri Augusto Torlonia, Luigi Boncompagni, Alberto Galli, Francesco Salimei, Archimede Tranzi, Giovanni Battista Giovenale, Giuseppe Tomassetti, Gaetano Koch, Francesco Settimi, Carlo Tenerani, Pompeo Coltellacci e l’ing. Rodolfo Bonfiglietti, in seguito a capo dell’Ufficio tecnico capitolino, in qualità di funzionario dell’Ufficio del Piano Regolatore. Colonna illustrò una nuova ipotesi di sistemazione dell’area, redatta a modifica del progetto approvato nel 1902, giudicato eccessivamente oneroso anche per la notevole entità delle espropriazioni da effettuarsi, consistente nella strada in prolungamento della via Due Macelli, colla larghezza di m. 20,00, con una strombatura nel tratto tra la via in Arcione e il frontone del Traforo, e nella soppressione della via nuova larga m. 18 parallela all’attuale via dei Serviti, sostituita da questa via allargata a m. 10. Nell’incrocio della via del Tritone colla via Nuova sarà costituito un largo arrotondando gli angoli dei nuovi isolati. Tutto ciò anche per non pregiudicare la eventualità dell’allargamento del tronco inferiore della via del Tritone, che insieme con l’arretramento degli angoli Tritone-Due Macelli e Tritone-Capo le Case, potrà rimandarsi a tempo migliore32. Inutile dire che la soluzione progettuale illustrata non prevedeva nuove espropriazioni rispetto alla prima stesura e non interessava in alcun modo il palazzo del Drago. La commissione lì riunita approvò la proposta, apportandovi delle modifiche non sostanziali; il 15 gennaio 1904 il Consiglio approvò la variante al progetto del 190233. La controversia col principe venne definitivamente chiusa con un nuovo atto di transazione (il terzo), approvato dal Consiglio comunale nel novembre 1905, con il quale il principe avrebbe ricevuto una somma a corpo di centomila lire a saldo dei danni, oltre ad una nuova area di 83 metri quadrati «sul nuovo allineamento della via in prolungamento dei Due Macelli»34, e questa come prezzo per l’espropriazione di due piccole case, sempre di proprietà del Drago, situate rispettivamente in via del Macelletto e in via della Palma a Tor di Nona (fig. 5). La transazione stabilì ancora che il fabbricato da costruirsi sul nuovo allineamento avrebbe avuto un «risvolto» di diciassette metri sulla via dei Giardini35. L’8 giugno 1906 Filippo del Drago presentò domanda per il rilascio della licenza per l’ampliamento e la modifica del proprio palazzo: il progetto allegato comprendeva le sole planimetrie, redatte come di consueto da Giovanni Battista Giovenale, «restando fermi i prospetti e la sezione del progetto antico già approvato»36. Successivamente si diede inizio ad una nuova serie di demolizioni per la sistemazione dell’accesso al tunnel, tra le quali, nel 1908, quella della chiesa di San Nicola in Arcione antistante il palazzo del Drago. Il Piano Regolatore di Edmondo Sanjust di Teulada (1909) e quello del 1931 non contempleranno interventi di carattere puntuale sull’area, interessata solo mar- 178 RAFFAELLA CATINI ginalmente dal progetto di sventramento per la realizzazione della trasversale TreviTritone37. Compiuta la nuova via del Tritone, gli edifici dell’hotel Select e dei magazzini Old England, dagli angoli caratteristicamente smussati, andarono a delimitarne l’intersezione con il segmento viario antistante l’ingresso al traforo. Raffaella Catini M. MANIERI ELIA, Roma capitale: strategie urbane e uso delle memorie, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità a oggi. Il Lazio, a cura di A. Caracciolo, Torino, Einaudi, 1991, pp. 513-557: 516. 2 «Due grandi ministeri, secondo il modello ripreso da Quintino Sella, vengono subito dislocati su tale direttrice: quello delle Finanze e poi quello della Guerra; inoltre è previsto (ma non sarà realizzato) l’Archivio di Stato a piazza Vittorio e si attiva un importante concorso per il palazzo delle Esposizioni a via Nazionale, che sarà vinto da Pio Piacentini; infine, si realizzerà il Teatro dell’Opera; mentre alcuni ministeri si collocano fuori Porta Pia. Anche se non esiste un progetto complessivo, insomma, ci si sta orientando – coerentemente con un naturale recupero di valori «alternativi» e dinamizzanti rispetto alla tradizione conservatrice di stampo curiale – verso un modello direzionale nel quale possano pienamente svilupparsi le tre grandi attività a cui la grande capitale laica deve votarsi: la scienza, la cultura e la politica». Ibidem. 3 A. VIVIANI, Relazione al Piano Regolatore della città di Roma, Roma, Cecchini, 1873, p. 13. 4 Inaugurato nel 1856, il tunnel, lungo trecentocinquanta metri, va a congiungersi in linea retta col ponte sul Danubio detto delle Catene che collega i due nuclei urbani di Buda e Pest. 5 A. VIVIANI, Relazione, cit., p. 13. 6 Ivi, p. 14. 7 Pur avendo avuto l’approvazione da parte del Consiglio comunale «con un po’ di emendamenti e modifiche non sostanziali» (I. INSOLERA, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino, Einaudi, 1971, p. 40), il piano vide bloccare il proprio iter sotto la Giunta Venturi, non fu mai sottoposto al vaglio del governo e, pertanto, non divenne mai legge. 8 A. RUFINI, Dizionario etimologico-storico delle strade, piazze, borghi e vicoli della città di Roma compilato da A.R., Roma, Tipografia della R.C.A. presso i Salviucci, 1847, ristampa anastatica, Roma, Multigrafica, 1977, p. 198. 9 Guide Rionali di Roma. Trevi, parte V, a cura di A. Negro, Roma, Palombi, 1992, p. 185. 10 Lettera di C. Rebecchini all’assessore dell’Ufficio legale del Comune di Roma, 28 maggio 1900. ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO (d’ora in poi ASC), Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1. 11 Lettera di Filippo del Drago al Sindaco di Roma, 14 agosto 1900, ASC, Ivi. Relativamente alle affermazioni del principe circa l’esistenza di preesistenze archeologiche nel sottosuolo del palazzo, va detto che pochi anni dopo (1906), nel corso dei lavori per la costruzione di un muro di cinta, «vennero ritrovati diversi ambienti di un edificio romano orientati verso i giardini del Quirinale, fra cui una stanza con pavimento musivo a disegni geometrici in bianco e nero» (Guide Rionali di Roma. Trevi, cit., p. 22). 12 Lettera di Filippo del Drago al Sindaco di Roma, 12 novembre 1901, ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1. 13 Lettera di Prospero Colonna in risposta a don Filippo del Drago, 23 novembre 1901, Ivi. 14 Cfr. le lettere di Filippo del Drago (26 novembre 1901) e dell’assessore Antonio Teso (7 dicembre 1901), Ivi. 15 ASC, Ispettorato Edilizio, prot. n. 1909 del 4 dicembre 1901. 16 Cfr. il verbale della Commissione edilizia capitolina riunitasi il 4 dicembre 1901, estratto n. 8 (ASC, Verbali della Commissione Edilizia, ad annum). 17 Lettera di Prospero Colonna a don Filippo del Drago, 24 febbraio 1902 (ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1. 18 Cfr. la deliberazione di Giunta n. 53 del 9 luglio 1902 (ASC, Atti della Giunta Municipale, ad annum). 1 LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE 179 19 Cfr. Atti del Consiglio comunale di Roma. Sessione ordinaria autunnale. Verbale della seduta segreta del 5 dicembre 1902, 182a proposta, pp. 381 sgg. (ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1). 20 G. CEAS, Sistemazione in Roma dell’incrocio di via del Tritone, via Nuova, via del Traforo etc. senza aggravio delle finanze municipali, Roma, Battisti, 1903, p. 2. 21 Cfr. il verbale della Giunta municipale capitolina del 6 agosto 1902 estratto n. 89 (ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1). 22 Lettera di A. Viviani all’ing. arch. Gualtiero Aureli, 4 luglio 1902. Ivi. 23 Cfr. la relazione del 9 luglio 1902, Ivi. 24 Cfr. il «Promemoria pel Congresso di Giunta» del giorno 6 agosto 1902. Ivi. 25 «Copia autentica liquidazione di danni e interessi fra il Comune di Roma e don Filippo del Drago», Atto notaio F. Guidi, rep. 21853 del 23 marzo 1903. Ivi. 26 Cfr. il verbale delle deliberazioni di Giunta del 20 maggio 1903, estratto n. 20. Ivi. 27 Cfr. la comunicazione della Direzione generale ponti e strade del Ministero dei Lavori Pubblici, avente ad oggetto le anticipazioni governative per gli accessi al traforo, 13 luglio 1903. Ivi. 28 Ivi. 29 Promemoria urgentissimo di Giovanni Antonio Vanni per l’ing. Bonfiglietti, s.d. (agosto-settembre 1903). Ivi. 30 Ivi. 31 Ivi. 32 «SPQR. Verbale della commissione edilizia e consultiva tenutasi all’imbocco del tunnel presso la via in Arcione il 28 dicembre 1903 alle ore 10 1/2». ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 24. 33 Cfr. lo stampato della 336a proposta al Consiglio comunale di Roma nella seduta straordinaria autunnale del 15 gennaio 1904, avente ad oggetto la modificazione al progetto di sistemazione delle vie d’accesso all’imbocco Nord del traforo (ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1). 34 Transazione col sig. Principe Don Filippo Del Drago per la sistemazione del palazzo in via in Arcione, e per l’espropriazione della casa ai vicoli del Macelletto e della Palma, in Atti del Consiglio comunale di Roma, 1905, pp. 187 sgg. 35 Il Regolamento edilizio del Comune di Roma del 1866 consentiva, nel caso di edifici in angolo tra due concorrenti strade di diversa ampiezza, il cosiddetto «diritto di risvolto» con l’altezza massima del fabbricato per una lunghezza non maggiore di dieci metri sulla via di minor sezione. Cfr. G.B. FLORIO, Raccolta completa di regolamenti edilizi e norme di edilità riguardanti la città di Roma dal 1864 ad oggi, Roma, Tipografia S.A.I.G.E., 1931, p. 26. 36 Cfr. la domanda di rilascio di licenza a firma di Filippo del Drago, 8 giugno 1906. ASC, Titolo 54, prot. 55663/1906. 37 È del 1935 un’ipotesi di sistemazione del largo del Tritone redatta da V. Civico e R. Lavagnino, i quali propongono l’allargamento di via degli Avignonesi sul fronte destro − così da creare uno svaso che avrebbe consentito una migliore visuale di palazzo Barberini − e di via dei Serviti. Cfr. in proposito V. CIVICO-R. LAVAGNINO, Per una migliore sistemazione delle zone centrali di Roma. L’allargamento di via degli Avignonesi e la sistemazione del largo Tritone, «Urbanistica», IV, 1935, 4, pp. 257-263. I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO SVILUPPO URBANO. I CASI DI PIOMBINO E TERNI TRA OTTO E NOVECENTO* Due centri urbani per un modello di città industriale I casi di Piombino e di Terni, nell’Italia di fine Ottocento e nell’ambito del sistema urbano nazionale, rappresentano un peculiare modello di sviluppo cittadino. In queste realtà, le prime trasformazioni si devono direttamente all’insediamento di grandi complessi industriali, che alterano, nell’immediato, equilibri plurisecolari. Più in generale, infatti, nel modello di sviluppo urbano italiano, i fattori, che per primi intervengono a modificare gli assetti delle città, non sono riconducibili ai processi di industrializzazione, bensì ad un contesto più ampio, caratterizzato da situazioni e fenomeni diversi, che investono sia lo spazio esterno sia quello interno ai tessuti urbani: la necessità di unificare la penisola dal punto di vista delle infrastrutture (la rete ferroviaria e stradale, il sistema portuale); l’esigenza di riutilizzare i vecchi edifici di istituzioni ed enti religiosi per accogliere le nuove funzioni burocratiche, amministrative e militari dei centri urbani; l’urgenza di abbattere le cinte murarie medievali che limitano l’espansione delle città; l’opportunità di individuare spazi rappresentativi e di varare un’edilizia monumentale a forte carattere simbolico (a Milano la galleria Vittorio Emanuele e il cimitero Monumentale); l’esigenza di innescare i primi processi di risanamento e di modernizzazione (realizzazione di acquedotti, fognature, sistemi di illuminazione e di trasporto). In questo quadro dominato dalla presenza di un fitto reticolo urbano, che negli ultimi decenni dell’Ottocento si presenta ben strutturato e definito e la cui formazione rimanda ad un percorso di lunga durata dal carattere plurisecolare, lo sviluppo industriale, nei processi di trasformazione urbana, interviene soltanto in un secondo momento1. I casi di Terni e Piombino, nel complesso isolati nel panorama italiano, anche se le loro vicende sono simili a quelle di La Spezia2, Brescia3, Mestre4 o Sesto San Giovanni5, si caratterizzano, invece, per due dati. Innanzitutto, in queste località il processo di industrializzazione, quasi sempre guidato dall’esterno e dall’alto, con l’intervento diretto dello Stato, rappresenta, in assoluto, il fattore che precocemente 182 AUGUSTO CIUFFETTI innesca le prime trasformazioni, intervenendo accanto a tutti gli altri agenti del cambiamento. Il secondo dato è la dimensione stessa di questi centri, posti ai margini del reticolo urbano italiano. Lo sviluppo industriale si realizza, quindi, in piccole città dal carattere esclusivamente rurale, prive di rilevanti funzioni economiche ed amministrative. Le conseguenze sono di duplice natura. In primo luogo, l’impatto prodotto dall’industrializzazione: esso è particolarmente forte, in grado di alterare profondamente ogni equilibrio, non solo dal punto di vista urbanistico, ma anche sotto il profilo ambientale e sociale. Il risultato, collocabile all’interno del dibattito sulle conseguenze e sulle ricadute dei processi di industrializzazione, è il rapido deterioramento delle condizioni igieniche e sanitarie degli spazi cittadini. Per effetto dell’elevato tasso migratorio, alla saturazione del tessuto urbano esistente, caratterizzato dal sovraffollamento, corrisponde una crescita della città disordinata e priva di un’effettiva pianificazione. Pur con le dovute differenze, in queste piccole realtà si riproduce il modello di sviluppo tipico di Manchester: centri che in breve tempo arrivano a configurarsi come delle vere città, partendo dalla dimensione del villaggio o del borgo. Il secondo dato è il ruolo centrale che in questi processi si trovano a svolgere, inevitabilmente, le grandi società industriali, con i loro vasti patrimoni immobiliari. Gli stessi imprenditori sono pronti a guidare e influenzare i percorsi di crescita e di sviluppo, collocandosi accanto agli amministratori pubblici6. Scenari e protagonisti dello sviluppo urbano Il primo dato che accomuna Terni e Piombino è la macroscopica presenza degli insediamenti industriali, in grado di sovrastare i vecchi centri abitati, ancora chiusi, alla fine dell’Ottocento, all’interno delle cinte murarie medievali. Lo spazio occupato dal tessuto cittadino è minore rispetto a quello che accoglie il polo produttivo. Lo sviluppo industriale di Piombino si realizza negli ultimi decenni del secolo, con l’impianto di stabilimenti siderurgici che sfruttano le materie prime provenienti dalle miniere di ferro dell’isola d’Elba e della Maremma. Le prime fabbriche e ferriere vengono aperte tra il 1860 e il 1870, ma è soltanto nel 1892 che viene inaugurato uno dei più importanti stabilimenti della città: la Magona d’Italia. L’azienda raggiunge il suo assetto definitivo tra il 1903 e il 1926, dopo l’ultimazione degli impianti, avvenuta nel 1909. Nel 1897, invece, viene fondata la Società degli Altiforni e Fonderie di Piombino, successivamente assorbita dalla Società ILVA, i cui impianti vengono completati nei primi anni del Novecento7. Grazie alla sua posizione strategica e all’enorme disponibilità di risorse idriche, il processo di industrializzazione di Terni viene definitivamente avviato alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento. Nel 1881 inizia la sua attività la Fabbrica d’Armi, mentre tra il 1884 e il 1886 vengono installate ed aperte le acciaierie della Società degli Alti Forni, Fonderie ed Acciaierie di Terni. Accanto a queste imprese, sorgono altre importanti aziende, come lo Jutificio Centurini aperto nel 1886, le Officine Bosco I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO SVILUPPO URBANO 183 inaugurate nel 1890 e il Lanificio Gruber in funzione dal 1870. Nel 1886 viene costituita la Società Valnerina, che gestisce il servizio di pubblica illuminazione, dopo un breve periodo di attività nel settore metallurgico. Tra il 1896 e il 1901, la Società Italiana per il Carburo di Calcio, Acetilene ed atri Gas realizza due importanti stabilimenti elettrochimici nei pressi della città (fig. 1). Nuovi stabilimenti sorgono dopo la Prima Guerra Mondiale, mentre la Società Terni incorpora nel 1922 la Società Italiana per il Carburo di Calcio, già proprietaria, a sua volta, fin dal 1911, della Società Valnerina. È l’inizio, in definitiva, di un processo di concentrazione industriale, che consente alla Società Terni di controllare, durante gli anni Trenta, nella sua dimensione polisettoriale, l’intero apparato produttivo della città8. L’insediamento di queste industrie determina, nei due centri, un rapido aumento della popolazione, con tassi di crescita ampiamente superiori a quelli registrati nello stesso periodo in città come Milano e Roma. Sia Terni che Piombino, infatti, raddoppiano la loro popolazione nell’arco di soli vent’anni, tra il 1881 e il 1901. Nel primo caso, gli abitanti passano da 15.853 a 30.641; nel secondo da 4.595 a 8.309. Nei successivi dieci anni, la crescita di Piombino è ancor più impetuosa; nel 1911, infatti, i suoi abitanti raggiungono quota 19.6609. È proprio il rapido aumento della popolazione, in assenza dei necessari spazi abitativi e delle relative infrastrutture (ospedali, strade, acquedotti, fognature, illuminazione), a determinare l’emergere di gravi questioni igieniche e sanitarie. In entrambi i casi, le prime ondate migratorie vengono accolte all’interno dei vecchi quartieri del centro storico, con alti tassi di affollamento e con l’immediato degrado dell’intera area urbana. Per ampliare gli spazi abitativi si procede al rialzamento degli stabili già esistenti, mediante una procedura che contribuisce a danneggiare ulteriormente l’ambiente cittadino. All’ammassamento delle famiglie operaie in ricoveri di fortuna, o in alloggi fatiscenti (a Piombino vengono trasformati in abitazioni anche stalle, magazzini e locali posti sotto il livello stradale), corrisponde, come nel caso di Terni, la nascita di un’edilizia spontanea e minima nei borghi e nelle aree ubicate tra la città antica e il nuovo polo industriale. Si tratta di spazi malsani, privi di strade, fognature ed acqua potabile, posti a ridosso delle fabbriche e attraversati da ferrovie e canali. Le tipologie edilizie adottate, d’origine rurale, sono molto semplici: abitazioni per una o due famiglie, di due piani, prive di servizi igienici. Gli affitti, per effetto della speculazione, tendono a salire, mentre la costruzione di case popolari procede con estrema lentezza. Il dato che caratterizza sia Piombino sia Terni, infatti, è la sostanziale incapacità delle amministrazioni comunali di governare la crescita del tessuto cittadino e di provvedere alla realizzazione dei necessari alloggi operai. Ciò si deve alle scarse risorse finanziarie a disposizione, già ridotte dal sostegno dato in precedenza, in termini di infrastrutture e servizi, allo sviluppo economico delle città e all’insediamento delle stesse industrie. È in questo sostanziale vuoto che si inseriscono, con le loro politiche e le loro esigenze, le società industriali e gli imprenditori. Un solo dato è sufficiente 184 AUGUSTO CIUFFETTI Fig. 1. Collocazione dei quartieri operai e degli insediamenti industriali nel tessuto urbano di Terni (1898). A. Ciuffetti, Condizioni materiali di vita, sanità e malattie in un centro industriale: Terni, 1880-1940, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, pp. 22-23 I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO SVILUPPO URBANO 185 per comprendere il ruolo che si vuole attribuire, nell’immediato, a questi ultimi. A Terni, all’inizio del Novecento, in un memoriale compilato dai medici condotti della città si sottolinea, con enfasi, la necessità di un impegno diretto da parte degli industriali − del resto responsabili di quanto sta avvenendo all’interno dello spazio urbano − in quanto sono i soli in grado di affrontare e risolvere, dal punto di vista finanziario, i numerosi problemi igienici, sanitari ed urbanistici, che condizionano ogni scelta amministrativa10. A Piombino, per risolvere la grave situazione abitativa della classe operaia, l’amministrazione comunale, nel 1887, decide di cedere tutte le aree edificabili, senza corrispettivo, a degli speculatori edilizi. Nello stesso tempo, vengono esonerati dal pagamento delle tasse tutti coloro che sono impegnati nella costruzione di alloggi popolari. I risultati sono pessimi: tutte le case risultano di modesta qualità, mentre, a causa delle precarie condizioni igieniche dovute all’affollamento, malattie come il tifo e la tubercolosi si diffondono sempre di più11. Generalmente, come nel caso del palazzo operaio di tre piani costruito nel 1888 dallo Stabilimento Metallurgico, si adotta la tipologia del “palazzone” con ballatoio esterno: agli appartamenti si accede da una loggia comune, mentre le latrine sono ricavate all’interno dello stesso vano della cucina. I primi quartieri operai vengono costruiti dal 1907 in poi, oltre le antiche mura cittadine, in direzione degli impianti industriali e verso il porto mercantile. Questa direttrice di sviluppo viene mantenuta ed accentuata nel periodo compreso tra le due guerre mondiali. Seppur tra lacune e ritardi, la questione dell’abitazione operaia conosce, così, significativi interventi, da parte sia del Comune sia delle industrie. L’amministrazione municipale, che nel primo ventennio del Novecento è gestita dai socialisti, costruisce due importanti blocchi di case popolari tra il 1913 e il 1915, mentre nel successivo dopoguerra si impegna nella realizzazione di servizi e attrezzature sociali. Altri alloggi e interi quartieri vengono edificati nel corso degli anni Venti. Allo stesso modo, la Società ILVA e la Magona d’Italia iniziano a costruire interi borghi e quartieri o singoli alloggi operai tra il 1908 e il 1910, per continuare la loro attività durante gli anni Venti12. Le esigenze sono quelle di controllare una vasta ed eterogenea classe operaia in perenne conflitto e di assicurare alle fabbriche una costante presenza di manodopera, tendenzialmente pendolare. Nel caso di Terni, all’incapacità dell’amministrazione di intervenire nel settore urbanistico, in particolar modo in quello dell’edilizia popolare, si aggiunge la sostanziale attività fallimentare delle cooperative e l’iniziale disinteresse delle maggiori aziende cittadine nei confronti delle condizioni abitative della classe operaia. Alla fine dell’Ottocento, l’assenza di specifici interventi in questo settore da parte della Società degli Alti Forni, Fonderie ed Acciaierie di Terni, sebbene alla sua guida ci sia un imprenditore come Vincenzo Stefano Breda, si deve alle difficoltà organizzative e finanziarie che l’azienda incontra nei suoi primi anni di vita. L’unico intervento degno di nota si deve alla Società Industriale Valnerina, che nel 1888 costruisce un 186 AUGUSTO CIUFFETTI enorme fabbricato, denominato «palazzone», con 89 appartamenti, utilizzando una tipologia tipica dell’edilizia popolare ottocentesca, quella del «casermone», in grado di occupare un intero isolato. Si tratta dello stesso modello (con ballatoio posto nel cortile interno e con appartamenti di due o tre vani, con servizi igienici all’interno della cucina), adottato a Piombino dalla Società Metallurgica. Gli imprenditori tendono a controllare tutte le politiche territoriali del Comune, per cercare di trarne i maggiori benefici. Non a caso, nel 1911, la redazione del primo vero piano regolatore e d’ampliamento di Terni viene affidata proprio ad uno dei maggiori industriali della città, l’imprenditore belga Cassian Bon. Figura poliedrica e con interessi in più settori, egli si presenta, contemporaneamente, come imprenditore, tecnico, speculatore fondiario, realizzatore di infrastrutture e costruttore di case operaie13. Anziché favorire lo sviluppo dell’edilizia operaia, Cassian Bon preferisce incentivare quella destinata al ceto medio, sicuramente più redditizia14. Quando la Società Terni decide di intervenire nella costruzione diretta di alloggi operai, nel corso degli anni Venti e Trenta del Novecento, lo fa soltanto in base ad un accordo con il Comune. In cambio della realizzazione di case popolari, l’azienda ottiene il completo controllo delle risorse energetiche del territorio, rappresentate dal sistema idrico dei fiumi Nera e Velino, indispensabili per la sua crescita produttiva. Nel complesso, la Terni si impegna a costruire 1.500 vani, da destinare ad abitazioni per operai ed impiegati. Per tutta l’età giolittiana, a differenza di quanto accade nelle industrie di Piombino, nella Società Terni è totalmente assente una precisa politica sociale. Essa fa la sua comparsa soltanto negli anni del fascismo, per evidenti motivi di carattere ideologico. È soltanto in questo periodo, nell’ambito di un modello di «fabbrica totale» che contempla un controllo assoluto sui lavoratori, ispirato ai principi dell’Opera Nazionale Dopolavoro, che la Società Terni arriva a costruire i primi edifici popolari ed interi villaggi operai. Del resto, sono gli anni in cui Terni si trasforma definitivamente in una company town, in una città totalmente dominata dalle fabbriche, che impongono, al resto dell’insediamento urbano, tempi, ritmi e precise politiche territoriali15. I patrimoni delle società industriali: terreni, opifici e case operaie In queste città dalla forte configurazione industriale, le grandi aziende non sono soltanto le uniche in grado di realizzare alloggi operai, oppure di influenzare l’espansione del tessuto urbano: esse controllano, generalmente, anche tutti i suoli disponibili ai margini degli spazi cittadini, esercitando, così, un potere effettivo e totale sulla configurazione dell’agglomerato urbano e sulle trasformazioni dell’intero paesaggio16. Rispetto a realtà più ampie e complesse, come Milano e Torino, il rapporto tra città e industria è più forte ed esclusivo e, comunque, sempre a vantaggio di quest’ultima. L’insieme delle proprietà industriali, in termini di strutture produttive, opifici, case operaie e semplici terreni, consente di capire con quale forza gli imprenditori siano in grado di rapportarsi con le città nel loro complesso, condizionandone ogni sviluppo. I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO SVILUPPO URBANO 187 A Piombino, nel 1911, la Magona d’Italia risulta proprietaria di 82 alloggi, che ospitano in totale 411 persone. Quasi tutti questi appartamenti, disposti in edifici isolati di due piani, si concentrano nel borgo operaio che l’azienda costruisce vicino ai suoi stabilimenti. La Società ILVA, invece, inizia a costruire delle case operaie, utilizzando la tipologia «a schiera», nel 1908, contribuendo allo sviluppo delle borgate di Cotone e Poggetto. Il dato che caratterizza questi insediamenti è la loro collocazione periferica rispetto al centro storico della città, dove si concentrano i servizi. Gli interventi vengono realizzati ai limiti estremi della periferia, sempre in prossimità delle fabbriche, dove le industrie possiedono i relativi suoli e dove è possibile relegare gli operai, secondo un criterio di netta separazione sociale, evitando la loro «pericolosa» presenza all’interno del tessuto urbano. La portata di questi interventi, quindi, è caratterizzata da forti limiti e solo in parte essi riescono ad incidere positivamente sulle condizioni di vita dei lavoratori. Negli anni Venti, quando si apre una nuova fase di sviluppo edilizio, nessuna azienda prevede la costruzione di grandi villaggi. Si preferiscono interventi isolati e spesso male coordinati, con quartieri privi delle necessarie strutture di servizio. La Società ILVA realizza semplici dormitori, collocati all’interno di grandi capannoni, poi riutilizzati come abitazioni, oppure trasforma in alloggi delle palazzine destinate ad accogliere gli uffici. Dal 1925 in poi si completa la borgata operaia di Cotone, mentre anche la Magona d’Italia procede nella costruzione di nuovi blocchi di case. Essi vengono realizzati nell’area posta tra lo stabilimento industriale e la linea ferroviaria, in una di quelle zone marginali, cioè, prive di ogni valore e da sempre destinate, in ogni città, ad accogliere l’edilizia popolare. Il borgo operaio nato prima della guerra viene ultimato con la costruzione di sei nuovi edifici, per un totale di 66 alloggi17 (fig. 2). Come già evidenziato, a Terni la costruzione di alloggi popolari da parte della Società Terni assume un certo rilievo soltanto nella seconda metà degli anni Trenta, quando si procede nella costruzione di due grandi edifici in prossimità delle industrie, per un totale di 120 appartamenti. Si tratta del palazzo Rosa (sei piani) e del grattacielo (dieci piani), disposti l’uno di fronte all’altro, lungo la strada di collegamento tra il centro storico e l’insediamento produttivo. Per il primo si adotta la tipologia del palazzo in linea; per il secondo, invece, il modello «a ballatoio». Contemporaneamente, in vari punti della città, si completano altri interventi intrapresi nei decenni precedenti. Sempre in questa fase, nell’ambito della politica aziendale di controllo sui lavoratori mediante gli strumenti del dopolavoro e dell’assistenza sociale, vengono costruiti due importanti villaggi operai: il villaggio «Italo Balbo», alla periferia della città, composto da 41 fabbricati con quattro alloggi ciascuno, e il villaggio di Nera Montoro, nei pressi di uno stabilimento elettrochimico, con 16 case d’abitazione, per un totale di 41 alloggi18. In quest’ultimo insediamento, oltre alle case (disposte secondo una specifica gerarchia degli spazi, che corrisponde a quella aziendale, con la netta separazione tra 188 AUGUSTO CIUFFETTI Fig. 2. Collocazione dei quartieri operai e degli insediamenti industriali nel tessuto urbano di Piombino (1925). P. Innocenti, La città di Piombino: studio di geografia industriale, «Rivista geografica italiana», LXXI, 1964, n. 4, p. 371; C. Cresti e G. Orefice, La resistenza popolare e operaia a Piombino nel rapporto con lo sviluppo dell’industria siderurgica (1888-1930), «Ricerche storiche», VIII, 1978, n. 1, pp. 216-217 e 219-220. I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO SVILUPPO URBANO 189 operai, impiegati e dirigenti), si realizzano anche una scuola, con l’appartamento per l’insegnante, un edificio con lo spaccio dei generi alimentari, la farmacia e i bagni pubblici. Successivamente si apre un dopolavoro. Il villaggio «Italo Balbo», invece, si caratterizza immediatamente per il suo isolamento e per la sua spiccata dimensione rurale. È privo di servizi e dipende totalmente dalla città19. Contemporaneamente ai villaggi e ai quartieri operai, in diversi punti della città sorgono anche campi sportivi, piscine, dopolavoro, ambulatori, colonie, spacci, mense, biblioteche, teatri e cinema. Strutture che consentono alla Società Terni di gestire e controllare, al tempo stesso, sia gli operai, sia lo spazio urbano. Del resto, la Terni controlla anche i servizi (acqua, luce, trasporti) e realizza opere poi donate agli enti pubblici locali20. Oltre alle case e ai servizi, la Società Terni controlla anche vaste aree edificabili, poste soprattutto tra il centro storico e il polo produttivo. Nel 1928 l’azienda risulta proprietaria di otto vasti terreni, per un totale di 141.000 metri quadrati. Ad essi si devono aggiungere altre aree, poste in vari settori della città, oppure nello spazio occupato dalle industrie, per un totale di oltre 73.000 metri quadrati di terreno, dove all’inizio del Novecento e negli anni Venti, senza ottenere concreti risultati, la Terni aveva predisposto numerosi progetti per la costruzione di alloggi e quartieri operai21. Se a queste aree si sommano quelle direttamente occupate dagli stabilimenti industriali, nonché le strutture sociali realizzate dall’azienda, il peso esercitato da quest’ultima sugli equilibri e sugli sviluppi della città emerge in tutta la sua evidenza. Augusto Ciuffetti * In questo lavoro si riprendono e si ampliano alcune riflessioni presenti in A. CIUFFETTI, Casa e lavoro. Dal paternalismo aziendale alle “comunità globali”: villaggi e quartieri operai in Italia tra Otto e Novecento, Perugia, Giada/CRACE, 2004. 1 C. CAROZZI-A. MIONI, L’Italia in formazione. Ricerche e saggi sullo sviluppo urbanistico del territorio nazionale, Bari, De Donato, 1970; A. MIONI, Le trasformazioni territoriali in Italia nella prima età industriale, Venezia, Marsilio, 1976. 2 A. FARA, La Spezia, Roma-Bari, Laterza, 1983. 3 C. SIMONI, Alle origini di un distretto industriale, Brescia, Grafo, 1996. 4 S. BARIZZA, Storia di Mestre, Padova, Il Poligrafo, 1994. 5 Sesto San Giovanni 1880-1921. Economia e società: la trasformazione, a cura di L. Trezzi, Milano, Skira, 1997. 6 Per una più completa definizione di questo modello di città nell’ambito del sistema urbano italiano, si veda A. CIUFFETTI, La città industriale. Un percorso storiografico, Perugia, Giada/CRACE, 2002, pp. 26-41. 7 P. INNOCENTI, La città di Piombino: studio di geografia industriale, «Rivista geografica italiana», LXXI, 1964, 4, pp. 317-403; M. LUNGONELLI, Piombino: una città fabbrica nella prima metà del Novecento, «Annali di storia dell’impresa», XIII, 2002, pp. 189-205. 8 G. GALLO, Ill.mo Signor Direttore… Grande industria e società a Terni fra Otto e Novecento, Foligno, Editoriale Umbra, 1983. 9 A. CIUFFETTI, Condizioni materiali di vita, sanità e malattie in un centro industriale: Terni, 190 AUGUSTO CIUFFETTI 1880-1940, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, p. 26; R. COVINO-G. GALLO-L. TITTARELLI, Industrializzazione e immigrazione: il caso di Terni, 1821-1921, in La popolazione italiana nell’Ottocento, Bologna, Clueb, 1985, p. 409-430: 409. 10 A. CIUFFETTI, Condizioni materiali di vita, cit., pp. 80-85. Più in generale, si veda R. COVINO-G. GALLO, Terni. Insediamenti industriali e struttura urbana fra Otto e Novecento, «Archeologia industriale», I, 1983, 2, pp. 17-24; M.R. PORCARO-P. PENTASUGLIA, Tessuto urbano, equilibri territoriali e industria a Terni nella seconda metà dell’Ottocento. Schede monografiche sulla città e sul territorio, Terni, Editoriale Umbra/Provincia di Terni, 1986. 11 S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano, 1880-1890, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 455. 12 C. CRESTI-G. OREFICE, La residenza popolare e operaia a Piombino nel rapporto con lo sviluppo dell’industria siderurgica (1888-1930), «Ricerche storiche», VIII, 1978, 1, pp. 201-239. 13 R. COVINO, Tecnici e imprenditori europei a Terni nell’Ottocento, in L’Umbria e l’Europa nell’Ottocento, a cura di S. Magliani, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2003, pp. 105-118. 14 A. CIUFFETTI, Sviluppo industriale e tentativi di pianificazione del tessuto urbano: il caso di Terni, 1900-1920, «Storia urbana», XIV, 2, 1990, pp. 99-116. 15 R. COVINO, Terni. Nascita, apogeo e decadenza di una città-fabbrica, «Annali di storia dell’impresa», XIII, 2002, pp. 207-227; A. CIUFFETTI, La questione dell’abitazione operaia a Terni. L’attività edilizia della Società Terni nel periodo fascista, «Storia urbana», XIII, 1989, 2, pp. 199-203. 16 A. CIUFFETTI-M. GIANSANTI, Le Acciaierie e l’impatto ambientale (1880-1940), in Le Acciaierie di Terni, a cura di R. Covino e G. Papuli, Milano, Electa/Editori Umbri Associati, 1998, pp. 349-370. 17 C. CRESTI-G. OREFICE, La residenza popolare e operaia a Piombino, cit., pp. 201-239. 18 A. CIUFFETTI, La questione dell’abitazione operaia a Terni, cit., pp. 199-203. Sull’insieme delle case e dei villaggi operai realizzati a Terni, si veda M. GIORGINI, L’industria dell’acciaio e l’industria della città, in Le Acciaierie di Terni, cit., pp. 241-273. 19 M.G. FIORITI, I due villaggi Matteotti, in Le Acciaierie di Terni, cit., pp. 275-296. 20 R. COVINO, Terni: nascita, apogeo e decadenza di una città-fabbrica, cit., pp. 207-227. 21 A. CIUFFETTI-M. GIANSANTI, Le acciaierie e l’impatto ambientale, cit., pp. 357-359. LA «CITTÀ DELLE GENERALI» INVESTIMENTI, STRATEGIE E ARCHITETTURE* Sorte a Trieste nel 1831 per iniziativa di una compagine di commercianti triestini e veneziani, le Assicurazioni Generali sono dotate fin dalla nascita di ingenti mezzi finanziari1. Da Trieste e Venezia, centri statutari della compagnia, l’attività si irradia rapidamente in tutti gli Stati italiani e nei territori austriaci dell’Europa danubiana; da qui, per tappe successive, in quasi tutte le nazioni europee. Con rappresentanze e sedi ovunque, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale il gruppo assicurativo era considerato come una fra le più importanti e stabili società private. Tanta solidità, fino ad oggi confermata2, era dovuta in primo luogo a strategiche formule di investimento e alla consistente proprietà immobiliare, posseduta a copertura degli impegni verso i propri assicurati. Ma prima ancora di parlare di investimenti, strategie, architetture, si impone un’osservazione preliminare: non sono molti gli istituti finanziari in Europa che abbiano condizionato la configurazione di complesse identità urbane, e assai più rari quelli che, come le Assicurazioni Generali, abbiano avuto l’opportunità – sfruttata in taluni casi, trascurata in altri – di costituire un potente veicolo di diffusione di pratiche e codificazioni linguistiche. Questo dato è particolarmente evidente se ci si riferisce alla cospicua entità e al numero delle operazioni immobiliari promosse e condotte dalla compagnia del Leone alato. Come emerge dalle fonti consultate, ad un censimento del 1962 risultavano di proprietà del gruppo 350 fabbricati, situati per due terzi in Italia, e nove tenute, di cui una in Francia: una vera e propria città, già negli anni Trenta definita la «Città delle Generali». Al di là del mero dato quantitativo, è possibile dare forma a tale città immaginaria? Come ne hanno mutato i «confini» gli eventi di vario tipo nel corso di circa due secoli? È possibile definire la molteplicità degli innesti architettonici confluenti in tale città «dispersa»? E tale molteplicità ha determinato una coesistenza senza contrasti tra città immaginaria e città reali? Con quali meccanismi, infine, si è esercitato 192 MASSIMILIANO SAVORRA l’effettivo controllo degli spazi edificati? Rispondere a tali interrogativi – beninteso senza alcuna pretesa di esaustività – sarà l’obiettivo del presente contributo. Profilo di una «città» complessa Due fonti aziendali possono utilmente, se opportunamente interrogate, chiarire questioni e ragionamenti, permettendoci, da un lato, di confrontare alcuni casi-studio e, dall’altro, di mettere a fuoco un quadro più generale di riferimento entro cui comprendere le culture dei gruppi dirigenti. Si tratta di due pubblicazioni di natura diversa, ma accomunate dall’esplicito riferimento all’attività edilizia svolta dalla compagnia assicuratrice. Il primo testo, Le Assicurazioni Generali nel primo decennio del Regime – apparso nel 1932, ad un anno dunque dalle celebrazioni per il centenario della società – esponeva le politiche economiche, in linea con quelle del regime fascista, e spiegava i motivi per cui si rendeva opportuno provvedere alla completa trasformazione dei sistemi finanziari, «con speciale riguardo alla necessità di amministrare le riserve, seguendo quel frazionamento monetario cui aveva dato luogo la creazione di tanti nuovi stati»3. Dopo aver spiegato – tra grafici e tabelle – i perfezionamenti delle forme di assicurazione, gli sveltiti criteri di produzione, i sistemi di penetrazione dell’idea della previdenza nelle masse popolari, l’accelerazione delle iniziative di espansione all’estero, l’incremento delle fusioni e collaborazioni con altri istituti assicurativi, l’anonimo redattore del volume passava in rassegna forme e motivi del contributo dato al rinnovamento edilizio di alcune tra le maggiori città italiane, iniziato nel secolo precedente, ma alacremente ripreso e sviluppato in seguito all’avvento del fascismo. Che si trattasse della ricostruzione avvenuta negli anni Dieci degli stabili nell’«isola Chiozza» di Trieste4, vasto complesso di circa 6800 metri quadrati, o della trasformazione di cruciali nodi urbani milanesi, attraverso architetture realizzate in taluni casi con il contributo delle affiliate Anonima Infortuni e Anonima Grandine (in particolare si segnalavano la sede in piazza Cordusio di Luca Beltrami5 e il palazzo all’estremità di piazza Duomo di Gaetano Moretti6), o ancora della allora recente sistemazione della piacentiniana piazza della Vittoria a Brescia7, le vicende erano esposte in termini stringati, senza una visione d’insieme, ma tali da confermare l’espressione, coniata con una efficace pubblicità nel 1930, di «Città delle Generali», mentre gli investimenti effettuati sembravano essere dettati esclusivamente dal naturale proposito di incrementare il valore della proprietà immobiliare, nel 1931 pari a 291 milioni di lire. Il secondo testo, edito nell’ottobre 1963, ci accompagna nel vivo di una vera e propria strategia messa in atto nel lungo periodo di attività nel settore edilizio. Pubblicato con un evidente obiettivo celebrativo, oltre che divulgativo, il volume La proprietà immobiliare urbana e agricola mostrava le mille facce della «Città delle Generali», ricomposta dopo gli eventi bellici in un arbitrario accostamento di palazzi, «dove tutti gli stili si fondono e le masse severamente squadrate di alcuni edifici si LA «CITTÀ DELLE GENERALI» 193 alternano con le aeree eleganze»8. Con un bilancio della proprietà immobiliare, alla fine del 1962, pari a circa 60 miliardi di lire, si tracciava il profilo di una città dalla geografia complessa, dalla configurazione stratificata di tempi, luoghi ed eventi, fatta di moderni edifici e di efficienti aziende agricole, come Ca’ Corniani; una «città, dunque, raccolta dalla fantasia nei suoi elementi dispersi; ma una città completa, secondo le esigenze e le inclinazioni del nostro tempo»9. Cos’è dunque accaduto durante i circa trent’anni trascorsi tra le due pubblicazioni? I testi appena citati ci permettono di comprendere sia con quale intensità la strategia operata potesse essere messa in atto, sia da quali meccanismi potesse essere controllata. Una strategia che nel secondo volume appare certo non nuova, ma amplificata e riconsiderata alla luce del boom della ricostruzione post-bellica. Comparando le due fonti con altri documenti, in primo luogo quelli relativi alla materiale costruzione dei manufatti, è possibile inoltre tracciare, almeno per sommi capi, il profilo di una forma urbana i cui limiti appaiono sfilacciati, e decifrare i processi di innesto, di volta in volta realizzati, di singoli elementi all’interno di un quadro più ampio. Un capitale in pietre e cemento In effetti, l’analisi di quanto accaduto nell’arco temporale su citato, attraverso l’intreccio di informazioni e materiali documentari di provenienza diversa, non può che confermare il ruolo svolto dalle Generali nel rimodellare città e territori. Ciò non basta. Se, come è stato sostenuto, il capitale finanziario costituisce l’«elemento di coesione della classe borghese»10, allora la decodificazione della sua ricaduta in ambito urbano risulta essenziale per un’interpretazione corretta di fenomeni e strutture, di cui a partire dal 1920 le Generali risultano significativamente responsabili. Del resto, con Trieste diventata italiana e i drammatici eventi della Grande Guerra affrontati con successo, le Generali raggiunsero nei primi decenni del Novecento il vertice delle aziende assicurative italiane e un posto di rilievo tra quelle europee, nonostante le difficoltà create dalla legge del 1912 che sanciva la nascita dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni. Il successo crescente dei bilanci e la necessaria diversificazione degli investimenti della compagnia del Leone alato furono alla base dello statuto approvato nel 1922 dagli azionisti, che poneva dei vincoli alla politica degli investimenti patrimoniali delle diverse società appartenenti alle Generali11. In particolare, le riserve tecniche dei rami Danni e Vita dovevano essere utilizzate sia per acquistare titoli pubblici, sia per accrescere i beni immobili in Italia12. Edgardo Morpurgo, presidente dell’azienda per quasi tutto il ventennio, nel 1934 ricordava orgoglioso le mete raggiunte: la proprietà immobiliare aveva superato il valore di 435 milioni di lire. Nella composizione del patrimonio dell’azienda, i beni immobili furono confermati come una parte consistente anche durante il drammatico periodo delle leggi razziali, che videro il conte Giuseppe Volpi di Misurata succedere a Morpurgo nella presidenza, e in seguito negli anni della ricostruzione. 194 MASSIMILIANO SAVORRA A Roma, ad esempio, ormai lontano il periodo della realizzazione del palazzo sacconiano in piazza Venezia, nel corso degli anni Trenta e Quaranta fino a tutti i Cinquanta del Novecento viene aumentata la proprietà immobiliare sempre mediante acquisti e nuove costruzioni, anche se non necessariamente in zone eleganti e centrali, che sono portati a termine senza sontuose operazioni d’immagine13. In questo modo le Generali arrivano a possedere nei primi anni Sessanta più di cinquanta immobili, fra cui gli edifici di via Pezzana, via Duse, viale di Villa Massimo, viale Beethoven nei pressi dell’Eur, soltanto per ricordarne alcuni. Da una fase in cui l’incremento della proprietà era suggerito non solo da criteri di opportuno impiego del capitale sociale, ma anche e soprattutto dalla tendenza a dotare ogni città di una sede adeguata al prestigio della compagnia, si passava dunque ad uno stadio successivo, di investimento allargato. Luoghi e significati Per comprendere il senso della forma della «Città delle Generali» bisogna fare un passo indietro. Va infatti ricordato che tra Otto e Novecento, le Generali – al culmine di una fase sia di sviluppo nei rami Danni, Vita e Incendi sia di crescita a ritmi sostenuti della consistenza dei fondi di garanzia – avevano operato un rafforzamento patrimoniale sostenuto da un vasto programma di investimenti immobiliari. Avviata da Marco Besso14, la politica edilizia delle Generali consisteva nel costruire o acquisire stabili prestigiosi, con l’obiettivo sia di dotare la compagnia di una degna filiale nel centro delle principali città sia di dare visibilità alla potenza finanziaria raggiunta15. In tal senso, vennero realizzati tra il 1871 e il 1909 alcuni degli edifici più prestigiosi: basti ricordare i palazzi di piazza della Signoria a Firenze (Giuseppe Landi, 1871), della Direzione centrale di Trieste (Eugenio Gairinger, 1884) e di piazza Solferino a Torino (Pietro Fenoglio, 1909). Singole architetture da considerare quali «manifesti» di un fenomeno complesso che investiva strutture e metodi, logiche aziendali e procedimenti amministrativi. Tuttavia, è nel processo di attribuzione di nuovi significati a quei particolari luoghi della memoria, piazze più o meno nuove, più o meno rinnovate dell’Italia unita, che vanno rintracciati i segni della visibilità del potere delle Generali. Valga, per tutti, il caso più eclatante, quello della centralissima piazza Venezia a Roma, dove Besso, in qualità di rappresentante del Consiglio di amministrazione, decise di far erigere una sede adatta ad uno spazio carico «di risonanze e di rappresentatività»16. Largamente analizzata17, la vicenda della costruzione del palazzo (Sacconi, Manassei-Geiringer-Cirilli, 1906) sembra essere dominata dalla decisione del direttivo del gruppo triestino di aggregarsi alle scelte simboliche del nuovo potere politico. Le Generali previdero infatti il tentativo dei «nuovi occupanti» di conquistare, grazie ad una serie di «segni» capillarmente disseminati nelle piazze monumentali, l’intero territorio capitolino, ivi compresa la piazzetta antistante palazzo Venezia. Dagli interventi di demolizione e ampliamento dovuti alla realizzazione del LA «CITTÀ DELLE GENERALI» 195 Fig. 1. La «Città delle Generali» (AGTV, Le Assicurazioni Generali nel primo decennio .., 1932) Fig. 2. Assicurazioni Generali Trieste e Venezia (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola... 1963) 196 MASSIMILIANO SAVORRA Fig. 3. La «Città delle Generali» (AGTV, Generali, tradizione di immagine..., 1993) Fig. 4. Trieste, La sede centrale della compagnia (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola.., 1963) LA «CITTÀ DELLE GENERALI» 197 Fig. 5. Roma, Il palazzo delle Generali in piazza Venezia (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola..., 1963) Fig. 6. Roma, Edificio in via Nomentana (AGTV, La proprietà immobiliare La proprietà immobiliare urbana e agricola..., 1963) 198 MASSIMILIANO SAVORRA Fig. 7. Roma, Edificio in viale Beethoven, angolo viale Europa (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola..., 1963) Fig. 8. Firenze, Il palazzo di piazza della Signoria (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola..., 1963) LA «CITTÀ DELLE GENERALI» 199 Fig. 9. Milano, Il palazzo di piazza Cordusio (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola..., 1951) Fig. 10. Torino, Il palazzo di piazza Solferino (AGTV,La proprietà immobiliare urbana e agricola.., 1963) 200 MASSIMILIANO SAVORRA Fig. 11. Milano, Il palazzo di piazza Duomo (AGTV, Palazzo di proprietà delle società Assicurazioni Generali..., s.d.) Fig. 12. Milano, Quartiere delle «Generali» (AGTV, Nuove iniziative edilizie a Milano.., 1962) LA «CITTÀ DELLE GENERALI» 201 monumento a Vittorio Emanuele, ai provvedimenti più generali di trasformazione ispirati da Sacconi, la piazza − ancora prima di essere consacrata «teatro dello stato»18 − diveniva così oggetto di attenzioni da parte della compagnia. Non è un caso che, allorquando anni prima si era ventilata l’ipotesi di realizzare il Vittoriano in piazza dell’Esedra secondo il progetto di Paul-Henri Nénot, vincitore del primo concorso del 188119, le Generali avviarono trattative riservate per acquistare parte dell’area compresa tra via Nazionale e via Torino. Con la dichiarazione di nullità del concorso, si arrestarono anche le ambizioni della compagnia del Leone marciano. Soltanto tempo dopo, con l’abbattimento di palazzo Torlonia, Besso – mediante l’intervento della Società Generale Immobiliare di cui era intanto divenuto presidente – poté riconsiderare l’ipotesi di far realizzare la sede di rappresentanza romana di fronte al monumento al Padre della Patria. E mentre le strategie di affermazione della neonata nazione passavano in principal modo attraverso la qualificazione di spazi pubblici con monumenti ridondanti, la compagnia – la «Venezia» come era allora nota in Italia20 – mediante una sorta di captatio benevolentiae, realizzava in questo modo nella città dei papi la propria sede, e questo nonostante le numerose critiche avanzate circa l’idea, nata dalle richieste della «Commissione reale pel Monumento a Vittorio Emanuele», di replicare nelle forme e nello stile il simmetrico palazzo Venezia21. Rappresentazioni moderne della finanza: «lo stile 4,5%» Se a Roma l’evidente aspetto strategico e politico rimarcava limiti e conflitti di operazioni immobiliari dalle complesse implicazioni, a Milano – capitale finanziaria sempre più cosmopolita – l’accento si spostava verso la configurazione di uno spazio simbolo di un’industria terziaria in piena espansione economica. Inaugurata pochi anni prima di quella romana, la sede milanese – chiamata anche qui «Palazzo Venezia» – nella prestigiosa piazza Cordusio (Luca Beltrami, 1902) si propose fin da subito, in sintonia con le direttive del Piano Regolatore di Beruto22, come fulcro fondamentale di una forma urbana con ambizioni da metropoli europea. Approfondito ampiamente in tempi recenti23, l’episodio milanese – considerato «la prova più impegnativa» di Beltrami – rappresenta la perfetta sintesi di cultura architettonica tardo-ottocentesca ed espressione sociale delle élites dominanti. Ad una complessità dovuta alla forma del lotto e al suo rapporto con il contesto urbano24, si affianca difatti una molteplicità di richieste impegnative – non ultima quella di adottare «uno stile che renda il 4,5%»25 – cui l’architetto è chiamato ad assolvere. In altri termini, si trattava di realizzare – come ha giustamente sottolineato Ornella Selvafolta – un «edificio per il terziario, frutto di una corretta interpretazione del destino di quella parte di città che, di lì a breve, nello slargo ellittico del Cordusio, riceverà una più precisa definizione»26. Oltre ad essere considerato, da stampa e manualistica, un modello esemplare per la tipologia funzionale e per taluni aspetti co- 202 MASSIMILIANO SAVORRA struttivi27, il palazzo delle Generali, primo ad essere realizzato al Cordusio, diede effettivamente avvio alla terziarizzazione dell’intera zona, che di lì a poco sarebbe diventata la city milanese. Tuttavia, sono le vicende del secondo dopoguerra del capoluogo lombardo ad aiutarci a rintracciare il filo delle questioni inizialmente poste. In particolare, bisogna fare riferimento al 1947, quando, all’indomani della guerra, si ha la fusione dell’Anonima Infortuni e dell’Anonima Grandine, società partecipate fondate da Besso alla fine dell’Ottocento, con le Generali28. Per tale motivo, il palazzo di piazza Cordusio – uno spazio dunque non più adatto alla accresciuta mole del lavoro – fu destinato ad essere sostituito da un moderno complesso funzionale da costruirsi presso un’area del Verziere (largo Augusto), acquistata nel 193829. Incaricato del progetto, Enrico Agostino Griffini studiò una serie di interessanti soluzioni che non escludevano né l’aspetto funzionale e al contempo monumentale, né tanto meno il dialogo e l’integrazione con il tessuto urbano circostante. Un primo tentativo di dare inizio al processo di assimilazione di spazi cruciali all’interno del centro cittadino non più legato a sole strategie d’immagine, ma prevedendo servizi e attività sociali, oltre che ovviamente residenziali, in verità era stato il complesso studiato già dieci anni prima, sempre da Griffini, su una vasta area di proprietà delle Generali situata nei pressi delle vie Manzoni, Croce Rossa, dei Giardini e Pisoni30. Ciò nonostante, nel 1953 l’orientamento della compagnia muta a favore della realizzazione della «Cittadella delle Generali» tra via Tiziano e via Luca della Robbia, nella zona dell’ex scalo Sempione nei pressi della Fiera di Milano; l’edificio al Verziere – realizzato poi da Cesare Donini seguendo tutto sommato le linee già tracciate da Griffini – non ospiterà più la sede principale, ma si tradurrà invece in una delle tante operazioni di investimento immobiliare, come gli edifici di via Magenta, costruiti a partire dal 1954 sempre su progetto di Donini. Il quartiere delle Generali «La grande ‘Città delle Generali’, che riunisce in una immaginaria sintesi le costruzioni della Compagnia sparse nei più diversi paesi d’Europa e fuori d’Europa, si è arricchita di tutto un nuovo, moderno rione»31: con tale enfasi nel 1962, esponendo un bilancio positivo, veniva presentata l’operazione immobiliare della «Cittadella». Sotto la presidenza di Mario Abbiate, le Generali acquistarono il terreno nel 1952 dai fratelli Bonomi, che già nel 1941 avevano stipulato con il Comune una convenzione in attuazione dei piani urbanistici relativi alla zona, caratterizzata da una forte presenza di alberature. Con decreto prefettizio di esproprio ed immissione in possesso veniva reso operativo il passaggio di proprietà delle aree già contemplate nei patti definiti con il Comune: in base a tali accordi la superficie del comprensorio veniva ridotta da 21 a 17 mila metri quadrati. Con il trasferimento alle Generali dei terreni, nel maggio 1952, fu necessario stabilire le basi per ulteriori accordi con l’amministra- LA «CITTÀ DELLE GENERALI» 203 zione civica, dovuti anche alle direttive del nuovo Piano Regolatore. Prevedendo la nascita di un quartiere di 285 mila metri quadrati a destinazione residenziale di tipo semintensivo, il Piano definitivamente approvato nel maggio dell’anno successivo, per evitare una gravitazione verso il centro, contemplava la possibilità di realizzare tanto un complesso ben agganciato alla struttura urbana già esistente, quanto un comprensorio ex novo autosufficiente. Non è ben chiaro se l’avvicendamento ai vertici dell’azienda avvenuto nel 1953 abbia influenzato le linee strategiche in materia di investimenti immobiliari. Fatto sta che con la nuova presidenza dell’armatore Mario Tripcovich, le Generali si trovarono ad affrontare, oltre alle consuete scelte di merito, anche le difficoltà poste dal vincolo di tutela delle bellezze naturali per gli alberi d’alto fusto esistenti, notificato alla compagnia nel 1954. La riduzione delle originarie aree edificabili fu inevitabile, tuttavia il mantenimento del verde contribuì non poco all’immagine e alla destinazione finali. Autore del progetto di lottizzazione della zona e di sistemazione complessiva fu Cesare Donini, già collaboratore, come abbiamo visto, della società assicuratrice. Approvato nel maggio 1956, allorquando alla guida del gruppo era a sua volta giunto Camillo Giussani, il progetto definitivo prevedeva per gli uffici la realizzazione di un palazzo di rappresentanza articolato su tre corpi di fabbrica, e di dodici stabili ad uso abitazione raggruppati in tre lotti, più la sistemazione di servizi e di ampie zone verdi. Va ricordato come già a partire dai primi anni Cinquanta, nella metropoli lombarda il fenomeno immigratorio fosse in crescita esponenziale, fino a toccare punte massime nella seconda metà del decennio (basti pensare che – superando del 30% la quota del 1951 – nel 1961 la popolazione milanese aveva raggiunto la cifra di 1.600.000 abitanti), con la conseguente pressione della domanda di abitazioni32. E va altresì ricordato che, come è noto, in questi anni la politica del «quartiere»33 – considerato quale un «filtro» fra la popolosa comunità e la città storica – incontrava sempre più il consenso della cultura urbanistica, oltre che istituzionale, dando l’opportunità agli architetti di studiare e realizzare proposte di complessi autosufficienti. Tuttavia, all’interno di un contesto politico assai delineato nei suoi aspetti «sociali», la strategia delle Generali si discostava dagli interventi tanto di carattere riformista socialdemocratico quanto di ispirazione cattolica, proponendo un equilibrato rapporto quantitativo tra abitazioni e verde pubblico, ma senza quelle istanze ideologiche di matrice «collettivista» riscontrabili di contro negli episodi «agricoli» di Portonovo o di Ca’ Corniani34. La distribuzione dei blocchi residenziali nel quartiere rivelava un tracciato direttivo e compositivo unitario e al contempo articolato, con scelte architettoniche distanti sia dalla frammentazione in singoli edifici, presente in altri quartieri cittadini di analoga ispirazione (come il De Angeli Frua), sia da opposti orientamenti (come nei tanti quartieri di committenza pubblica)35. Ma al di là dei multiformi aspetti dell’intervento, a renderlo particolarmente degno di considerazione è il ruolo che tale complesso ebbe per le Generali agli inizi degli anni 204 MASSIMILIANO SAVORRA Sessanta. Un ruolo che si consolidò parallelamente con il crescente significato dell’istituto assicurativo nel mondo economico e finanziario italiano: un significato che doveva misurarsi, non più solo all’interno dell’immaginaria «Città delle Generali», universale e dispersa, ma ora soprattutto all’interno della città reale, nel gioco delle parti con gli altri poteri in grado di far mutare forma e apparenza a intere porzioni di città. Il fatto, poi, che scelte ed esiti architettonici fossero diffusi e resi noti con strumenti di propaganda ad hoc36, utilizzati in passato esclusivamente per operazioni dall’alto «valore aggiunto», è sintomatico dell’indiscutibile peso dato all’impresa immobiliare, considerata come un vero mezzo moderno di espressione visuale. Valutando le politiche e le strategie delle altre compagnie competitrici37, senza esagerare è certo possibile affermare in conclusione che il quartiere – parte urbana di una città virtuale e al contempo reale – di fatto concretizzava un rinnovamento delle logiche d’investimento sulla base di principi etici riconoscibili e condivisi, raggiungendo un livello, che – fatta eccezione per i casi d’intervento pubblico – non era dato riscontrare altrove. Massimiliano Savorra * I riferimenti indicati nel presente testo si riferiscono per lo più a fonti archivistiche e a stampa conservate presso la Biblioteca delle Assicurazioni Generali di Trieste (Fondo storico librario), presso la Fondazione Biblioteca di via Senato (Fondo di storia dell’impresa in Italia dall’unità), e presso la Biblioteca di storia delle assicurazioni Mansutti di Milano. Altri materiali documentari sono conservati presso l’Archivio Civico di Milano e presso il Fondo Enrico Agostino Griffini depositato all’Archivio Progetti di Venezia. Desidero manifestare il mio ringraziamento per la disponibilità e la gentilezza incontrate in tutte le biblioteche e le istituzioni su citate. Abbreviazioni: ARCHIVIO CIVICO DI MILANO = ACM; ASSICURAZIONI GENERALI DI TRIESTE E VENEZIA = AGTV. 1 Costituita a Trieste il 26 dicembre 1831, la Compagnia gode fin da subito del favore di numerosi azionisti e clienti. Tanto che, nel giugno dell’anno seguente, viene creata a Venezia la Direzione per lo sviluppo del lavoro negli Stati italiani. Cfr. Il centenario delle Assicurazioni Generali 1831-1931, a cura di G. Stefani, Trieste, Editrice la Compagnia, 1931. 2 Cfr. F. BALLETTA, Capitali, borsa e Assicurazioni Generali nel XX secolo, in ASSOCIAZIONE NAZIONALE ARCHIVISTICA ITALIANA, Le carte sicure. Gli archivi delle Assicurazioni nella realtà nazionale e locale: le fonti, la ricerca, la gestione e le nuove tecnologie, Atti del convegno, Trieste, Stella, 2001, pp. 239-242. Dello stesso autore si veda anche Mercato finanziario e Assicurazioni Generali 1920-1961, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995. Cfr. inoltre C. LINDMER-G. MAZZUCA, Il leone di Trieste. Il romanzo delle Assicurazioni Generali dalle origini austroungariche all’era Cuccia, Milano, Sperling & Kupfer, 1990. 3 Le Assicurazioni Generali nel primo decennio del Regime, Trieste, Editrice la Compagnia, 1932, p. 7. 4 Sui successivi interventi cfr. D. BARILLARI, Architettura e committenza a Trieste: Piacentini e le Assicurazioni Generali, «Archeografo Triestino», s. IV, LXIII, 2003, pp. 595-618. 5 Cfr. A. BELLINI, Luca Beltrami architetto restauratore, in Luca Beltrami architetto. Milano tra Ottocento e Novecento, a cura di L. Baldrighi, catalogo della mostra, Milano, Electa, 1997, pp. 118-120. Si veda anche Il palazzo Venezia in piazza Cordusio a Milano, Trieste, Edizioni Assicurazioni Generali, 2000. 6 Cfr. Palazzo di proprietà delle società Assicurazioni Generali di Trieste e Venezia e l’Anonima Infortuni di Milano in Milano, Roma-Milano, Bestetti e Tumminelli, s.d.; cfr. inoltre L. RINALDI, Gaetano Moretti, Milano, Guerini Studio, 1993, pp. 216-217. LA «CITTÀ DELLE GENERALI» 205 7 Si veda M. LUPANO, Marcello Piacentini, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 82-87; F. ROBECCHI, Brescia Littoria. Una città modello dell’urbanistica fascista, Brescia, La Compagnia della Stampa, 1998, pp. 79-173. 8 AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola, Bergamo, Edizioni Assicurazioni Generali, 1963, pp. 11-12. 9 AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola, cit., p. 13. 10 Ibidem. 11 Cfr. F. BALLETTA, Mercato finanziario, cit., pp. 11-13. 12 Le altre forme residue di investimento previste erano: prestiti sopra polizze di assicurazione sulla vita; depositi presso la Cassa Depositi e Prestiti, gli istituti di emissione e le casse di risparmio; cambiali scontabili con gli istituti di emissione; prestiti su pegno di titoli pubblici. 13 Cfr. AGTV, Generali, tradizione di immagine. I primi cento anni di comunicazione, Trieste, Edizioni Assicurazioni Generali, 1993. 14 Cfr. M. BESSO, Autobiografia, Roma, Fondazione Besso Editrice, 1925. 15 Cfr. da ultimo Il tempo del Leone. Il lungo viaggio delle Generali dal 1831 al terzo millennio, Trieste, Edizioni Assicurazioni Generali, 2002, pp. 34-35. 16 Cfr. I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. IX. 17 Cfr. Il palazzo delle Generali a piazza Venezia, Roma, Editalia, 1993. 18 Sui significati della piazza cfr. S. BERTELLI, Piazza Venezia. La creazione di uno spazio rituale per un nuovo Stato-nazione, in La chioma della Vittoria. Scritti sull’identità degli italiani dall’Unità alla seconda Repubblica, a cura di S. Bertelli, Firenze, Ponte alle Grazie, 1997, pp. 170-205. 19 Cfr. M. SAVORRA, Il monumento a Vittorio Emanuele II: effigi e disegni per una giovane nazione, in Verso il Vittoriano. L’Italia unita e i concorsi di architettura. I disegni della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma 1881, a cura di M.L. Scalvini, F. Mangone, M. Savorra, Napoli, Electa Napoli, 2002, pp. 42-67. 20 Cfr. A. ZIMOLO, Le Generali a Roma e la vita nel palazzo, in Il palazzo delle Generali a piazza Venezia, cit., pp. 199-274: 210. 21 Paradossalmente, il «monumentissimo» aveva due palazzi austriaci come sentinelle: il palazzo Venezia, ambasciata e proprietà austriaca dopo il trattato di Campoformio, e il palazzo delle Generali, sede di una compagnia avente sede principale a Trieste, dunque austriaca. Cfr. A. ZIMOLO, Le Generali a Roma, cit., pp. 211-212. 22 Cfr. M. BORIANI-A. ROSSANI, La Milano del Piano Beruto (1884-1889), «Rivsta Milanese di economia», X, 1984, 3, pp. 38-76. 23 Cfr. A. BELLINI, L’edificio di Luca Beltrami, in Il palazzo Venezia in piazza Cordusio a Milano, cit., pp. 125-178. 24 Cfr. L. BELTRAMI-L. TENENTI, Il Palazzo«Venezia» sede delle Assicurazioni Generali in Milano, «Edilizia Moderna», IX, 1900, 5, pp. 33-40. 25 Beltrami chiede «al consiglio di amministrazione della compagnia, tramite il segretario Besso di quale stile si desideri l’importante edificio. Una scelta dunque che non compete al pur oramai affermatissimo architetto, ma al committente che definisce l’immagine con la quale vuole presentarsi al pubblico. La risposta è sconcertante: si desidera uno stile«che renda il 4,5%»». A. BELLINI, L’edificio di Luca Beltrami, cit., p. 149. 26 O. SELVAFOLTA, Gli uffici e gli sviluppi del palazzo, in Il palazzo Venezia in piazza Cordusio a Milano, cit., pp. 189-208: 194-195. 27 Informazioni sul processo costruttivo Hennebique utilizzato nel palazzo sono in C. COLOMBO, L’introduzione del cemento armato a Milano tra Otto e Novecento, in Il modo di costruire, Atti del I seminario internazionale, a cura di M. Casciato, S. Mornati, C.P. Scavizzi, Roma, Edilstampa, 1990, pp. 421-423. 28 Cfr. AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola, Trieste, Edizioni Assicurazioni Generali, 1951. 29 Cfr. ACM, prot. gen. 43433/1950 V. 30 Cfr. i documenti e i grafici conservati presso il Fondo Griffini, Archivio Progetti di Venezia. Per una ricognizione si rimanda alla scheda contenuta nel volume di M. SAVORRA, Enrico Agostino Griffini. 206 MASSIMILIANO SAVORRA La casa, il monumento, la città, Napoli, Electa Napoli, 2000, pp. 194-195. 31 AGTV, Nuove iniziative edilizie a Milano. Il palazzo degli Uffici. Il quartiere residenziale, Trieste, Edizioni Assicurazioni Generali, 1962, p. 4. 32 Sulla ricostruzione a Milano esiste una vasta letteratura; si rimanda comunque a F. IRACE, Milano, in Storia dell’architettura italiana. Il secondo Novecento, a cura di F. Dal Co, Milano, Electa, 1997, pp. 58-81. Si veda inoltre M. GRANDI-A. PRACCHI, Milano. Guida all’architettura moderna, Bologna, Zanichelli, 1980 e M. BORIANI-C. MORANDI-A. ROSSARI, Milano contemporanea. Itinerari di architettura e urbanistica, Torino, Designers Riuniti, 1986. 33 Cfr. C. PIGNOLI, Il QT8 e la politica del quartiere, in Milano ricostruisce 1945-1954, a cura di G. Rumi, A.C. Buratti, A. Cova, Milano, Edizioni Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, 1990, pp. 143-171. 34 AGTV, Attività edilizie ed agricole nel 1953, Trieste, Edizioni Assicurazioni Generali, 1954. 35 Cfr. La grande ricostruzione. Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta, a cura di P. Di Biagi, Roma, Donzelli, 2001. 36 AGTV, Nuove iniziative edilizie a Milano, cit. 37 Per un confronto si veda I settantacinque anni dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, Roma, Ed. dell’Istituto nazionale delle assicurazioni, 1987, e E. TEDESCHI, Appunti per una storia. RAS: 1838-1988, Milano, RAS, 1989. LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO GLI INTERVENTI IN ALESSANDRIA* 1. Alessandria e la famiglia Borsalino Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo ad Alessandria si costruisce la città contemporanea, moderna, efficiente e forte dei servizi necessari al bene dell’intera cittadinanza. Lo sviluppo urbano è fortemente condizionato, negli stessi anni, dallo smantellamento del circuito fortificato (in ritardo rispetto ad altre realtà piemontesi), dall’abolizione della cinta daziaria (con legge del 1902) e dall’inserimento nelle zone marginali rispetto al centro storico di una serie di attività industriali. A questi fattori si somma il ruolo fondamentale interpretato dalla famiglia Borsalino: il padre Giuseppe e il figlio Teresio a capo del cappellificio omonimo. Infatti, parallelamente al decollo dello stabilimento (fondato nel 1857), all’attività produttiva a scala mondiale e al buon andamento degli affari, la famiglia Borsalino si occupa in maniera assidua del finanziamento di importanti iniziative socio-assistenziali. Teresio dedica una cura particolare non solo alle vicende del cappellificio, ma anche alla modernizzazione della città, garantendo un ingente apporto finanziario. L’aver ereditato un florido organismo industriale, ormai proiettato in una costante crescita, consente al futuro senatore di dispiegare un meritorio impegno a favore della collettività1. Nell’ambito delle strategie sottese alla costruzione fisica della città il ruolo interpretato dai Borsalino non è univoco. Alla tenace ricerca di costruire e raffinare l’immagine della famiglia – che si concretizza nella realizzazione delle case private, del negozio nella via principale della città, della tomba nel cimitero cittadino – si affianca la volontà di costruire luoghi strettamente legati all’attività produttiva e, quindi, lo stabilimento industriale, più volte ampliato e rimaneggiato. Alla mera necessità di creare spazi per il lavoro si accompagna l’esigenza di fornire abitazioni per i dipendenti, operai e impiegati; a ciò seguono ulteriori investimenti per opere di carattere socio-assistenziale. La famiglia di imprenditori è alla ricerca di una propria affermazione, non solo economica ma anche sociale: ciò li porta a diventare i promulgatori e i sostenitori della crescita urbana alessandrina nei primi decenni del Novecento. Il 208 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON mecenatismo di Teresio si affermerà in particolare dopo la Prima Guerra Mondiale, parallelamente al rilancio della ditta: grazie ai suoi finanziamenti è avviata la costruzione dell’acquedotto e della rete fognaria urbana. Le infrastrutture e i servizi socio-assistenziali vanno a definire l’ossatura della città novecentesca; non secondario appare, tuttavia, il ruolo giocato all’interno del disegno urbano dallo stabilimento, vero fulcro nella parte sud della città. Il cappellificio, ampliato in fasi successive, nel momento di massima espansione è articolato su due grandi isolati a cavallo di uno spalto alberato (valicato da una passerella in cemento armato demolita nel 1984, una volta dismessa l’attività produttiva). Il viale segna ancora oggi il limite dell’antico circuito fortificato: lo stabilimento Borsalino si sviluppa in un’area intra/extra-moenia. Il grande impianto produttivo fungerà, quindi, da cerniera tra la città ottocentesca e una nuova area di ampliamento, destinata principalmente a residenza dei lavoratori della fabbrica: il nuovo quartiere Pista troverà nella vicinanza con il cappellificio un input considerevole, tanto che successivamente gli edifici residenziali saranno occupati da un ceto medio-alto e non solo dai dipendenti del cappellificio. 2. La città di fine Ottocento La costruzione e l’ampliamento dello stabilimento Borsalino, oltre che essere indissolubilmente legati all’ascesa sociale della famiglia e ovviamente all’affermazione a scala mondiale della ditta alessandrina, costituiscono una vicenda parallela e strettamente connessa allo smantellamento della cinta fortificata e alla cessione dei terreni da parte del Demanio. Nel 1857, quando viene fondato il cappellificio da Giuseppe e Lazzaro Borsalino, il nucleo di impianto medievale, fortemente rimaneggiato nel Settecento e nella prima metà del secolo successivo, è ancora chiuso dalla cinta fortificata potenziata durante l’occupazione napoleonica. Tra Sette e Ottocento è stata creata una città moderna e salubre dove l’architettura si è fatta interprete del decoro, dell’ordine pubblico e dell’ottenuta agiatezza economica. La borghesia imprenditrice ha investito nell’edilizia costruendo palazzi e opere pubbliche; la municipalità ha combattuto la fatiscenza degli edifici nei quartieri più degradati e ha realizzato vaste aree adibite a verde pubblico2. Solo negli anni Sessanta dell’Ottocento sarà avviato lo smantellamento della cinta bastionata, liberando in questo modo la città da ogni vincolo nella prospettiva di ulteriori ampliamenti. Il centro abitato è lambito dalle acque del canale Carlo Alberto, realizzato a partire dal 1833 e ultimato solo nel 1846. I territori circostanti e la città stessa sono attraversati da una rete idrica sfruttata per l’irrigazione delle aree agricole, oltre che per il mantenimento della pulizia urbana e come forza motrice per il mulino di piazza d’Armi. Se fin dalla metà del XIX secolo l’area a nord della città, al confine con la cinta Fig. 1. Lo spostamento dell’alveo del canale Carlo Alberto condiziona la lottizzazione della zona meridionale della città.Ludovico Straneo, Progetto di trasporto del canale Carlo Alberto e Piano regolatore per l’ampliamento a sud dell’abitato della Città, Alessandria 7 febbraio 1884 (ASAl, ASCAl, serie III, n. 1643) LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 209 210 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON Fig. 2. Lo stabilimento Borsalino in una veduta di fine Ottocento (Collezione privata) Fig. 3. Pianta di Alessandria 1900 (ASAl, ASCAl, serie IV, n. 2860) LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 211 fortificata, si prefigura quale zona riservata ai servizi e ai luoghi per la «segregazione» del male, inteso nel senso più ampio del termine (qui si costruiscono l’ospedale, il manicomio, il penitenziario e più lontano il cimitero; e successivamente il dispensario antitubercolare e il sanatorio ad opera di Ignazio Gardella), nella zona a sud, grazie al passaggio delle acque del canale Carlo Alberto, già negli anni Cinquanta dell’Ottocento vanno a collocarsi le prime industrie alessandrine, tra le quali subito emerge per importanza il cappellificio Borsalino. Nelle vicinanze del canale ben presto, grazie alla possibilità di sfruttare l’acqua, si insediano il mulino, il nuovo macello municipale e un opificio; lo stesso cappellificio Borsalino verrà qui appositamente trasferito (la prima sede, di dimensioni limitate, è localizzata all’interno del nucleo abitato). L’abbattimento delle fortificazioni e lo spostamento dell’alveo del canale condizioneranno il disegno urbano di intere porzioni di città; sui terreni liberati verranno disegnati corsi e spalti alberati che si porranno quali cerniere tra la città preesistente e le nuove aree di espansione. Tuttavia, contrariamente a quanto accade nella maggior parte delle città europee, mentre altrove si demoliscono le cinte fortificate (in alcuni casi l’abbattimento è già stato completato), a ribadire il ruolo rimasto inalterato per Alessandria di centro della difesa sabauda, fra il 1856 e il 1859 è costruito il campo trincerato3, una cinta urbana con mezzelune antistanti e tre opere esterne a tracciato poligonale. Il perdurare del ruolo strategico-militare condiziona pesantemente scelte urbanistiche e possibili piani di ampliamento della città. Con la costruzione del campo trincerato quanto rimane della fortificazione napoleonica cade definitivamente in disuso. Nel corso del secolo le fortificazioni sono state smantellate in alcuni punti per il passaggio del canale Carlo Alberto o per l’arrivo della ferrovia; ancora negli ultimi decenni dell’Ottocento rimangono grandi cumuli di materiali mai livellati in maniera definitiva, in quanto l’operazione richiede un grande dispendio di energie e una non meno consistente spesa economica. Il perdurare della cinta fortificata permette, inoltre, il controllo del pagamento del dazio che si effettua solo in prossimità delle porte urbane, dove a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento la municipalità ha fatto costruire i casotti daziari e i pesi pubblici4. Nel 1883 è chiamato a dirigere l’Ufficio Lavori Pubblici l’ingegnere Ludovico Straneo, già professore di costruzioni all’Istituto Tecnico, consigliere comunale e assessore ai Lavori Pubblici5. Sono anni complessi per l’urbanistica alessandrina, anni in cui si pongono le premesse della città contemporanea: forte di un’economia non più esclusivamente basata sull’agricoltura e sul commercio, la borghesia si è affermata a livello imprenditoriale e industriale. Le comunicazioni ferroviarie e i migliorati mezzi di trasporto fanno sì che Alessandria si trovi al centro di traffici nazionali e internazionali. Straneo, a capo dell’Ufficio d’Arte, si impegna a far approvare dal governo centrale e dal Consiglio comunale lo smantellamento definitivo delle fortificazioni: opera di non facile risoluzione in quanto si vanno a intaccare gli interessi statali, mu- 212 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON nicipali e dei molti privati che hanno in uso le aree prossime ai bastioni. Sul sedime delle demolite fortificazioni sono tracciati i viali alberati, che mantengono ancora oggi l’antica denominazione e ricordano i quattro borghi medievali da cui è nata Alessandria: spalto Borgoglio, spalto Marengo, spalto Gamondio, spalto Rovereto. Straneo progetta un anello alberato di sei chilometri con due strade laterali e un viale centrale: «piano piano se ne colmarono i terrapieni che stringevano da vicino le ultime case, infondendo un senso di generale tristezza, se ne abbatterono le mura, e dove essi sorgevano se ne costrussero strade di circonvallazione facendo in esse sboccare tutte le vie della città»6. Gli spalti diverranno nei disegni dell’ingegnere municipale gli assi dai quali si irradieranno le direttrici dei quartieri di nuovo impianto7. Nel 1871 il cavalier Giuseppe Borsalino trasferisce il cappellificio sulla sponda nord del canale Carlo Alberto: quattro edifici e sei cortili in mezzo agli appezzamenti di prato che si estendono da via dell’Orto, oggi via Tripoli, sino all’antica strada di circonvallazione8. Lo stabilimento, la cui localizzazione è fortemente condizionata dalla prossimità del canale, si prefigura come polo di attrazione per lo sviluppo delle infrastrutture cittadine e per la lottizzazione di vaste aree urbane. Negli anni Ottanta la crisi agricola che colpisce l’intero Piemonte spinge la popolazione rurale a cercare lavoro nelle fabbriche in città. Nell’ambito del più complesso progetto di sistemazione dell’area meridionale, si rende necessario prefigurare un ampliamento per Alessandria. In un primo momento la municipalità propone di spostare l’alveo del canale Carlo Alberto dal sedime dell’attuale corso Cento Cannoni9 all’attuale corso Teresio Borsalino e di abbattere la polveriera della Maddalena rendendo edificabile una vasta area della città ancora chiusa a sud dalle fortificazioni10: qui verranno costruiti il nuovo cappellificio Borsalino e la caserma di artiglieria11. Gli edifici sono racchiusi tra il nuovo corso e il canale Carlo Alberto, che scorre affiancato da un viale alberato e dalla strada di circonvallazione12. 3. Dalla fabbrica alla città Nel decennio intercorso tra la proclamazione del regno d’Italia e il completamento dell’unità nazionale, all’interno di un lento processo di sviluppo economico che coinvolge l’intera nazione, ad Alessandria, come in altri capoluoghi di provincia, il proletariato trova occupazione nelle fabbriche. La città vede progressivamente alterare il suo storico ruolo di centro del commercio agricolo e di piazzaforte militare. Negli anni Sessanta la classe operaia lavora nelle prime fabbriche: i cappellifici di Giuseppe Borsalino e di Sebastiano Camagna, il mobilificio Savio, le filande Montel e Ceriana, la fonderia Thedy13. Lo stesso Giuseppe Borsalino, prima di diventare imprenditore e, quindi, a sua volta creare nuovi posti di lavoro per i propri concittadini, ha avuto modo di imparare il mestiere lavorando presso il cappellificio Camagna. Di umili origini, il giovane Giuseppe compie forse una scelta casuale, ma fortunata, visto che dopo l’apprendistato compiuto in Alessandria partirà per la Francia dove avrà modo LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 213 di conoscere tecniche di produzione per quei tempi all’avanguardia14. E proprio la continua volontà di perfezionarsi nella lavorazione dei cappelli lo porterà dapprima a Marsiglia e poi a Aix-en-Provence e a Bordeaux; da qui, dopo un quinquennio, torna a Alessandria padrone di un ricco bagaglio tecnico. È con queste basi che Giuseppe, con il fratello Lazzaro, fonda nel 1857 una follatura che trova sede in modesti locali nel centro storico. Agli esordi graduali seguono successi entusiasmanti dovuti al continuo miglioramento delle fasi di lavorazione; già nel 1861 sono prodotti 60 cappelli giornalmente. Una lunga serie di riconoscimenti e menzioni alle esposizioni di Parigi (1867, 1875, 1900), Torino (1868, 1884), Barcellona (1888), Guatemala (1897) accompagnano la crescita costante della Borsalino, costretta a ripensare già dopo un decennio all’ubicazione dei locali in un sito maggiormente decentrato che possa offrire ulteriori e indispensabili ampliamenti. Nel 1871 la fabbrica (130 operai con una produzione giornaliera di 300 cappelli) viene trasferita nell’attuale via Tripoli, sempre all’interno del centro storico, ma in un’area di circa 3.500 metri quadrati a ridosso della circonvallazione e del canale Carlo Alberto, oltre il quale si estende una vasta porzione di terreni demaniali sui quali sarebbe sorto negli anni successivi il nuovo stabilimento15. La cura costante dimostrata da Giuseppe nei confronti dell’addestramento delle maestranze, della selezione delle materie prime (pelo di coniglio selvatico, castoro, nutria, lepre) e della lavorazione, sempre eseguita a mano, sono alla base dei traguardi raggiunti dal cappellificio: l’esperienza lavorativa maturata in Francia si rivela una risorsa fondamentale per meglio rispondere alle richieste del mercato nazionale e internazionale. Nel 1880 è acquistata un’ampia porzione di terreno demaniale (circa 18.000 metri quadrati) oltre il canale. Il sedime delle antiche fortificazioni, ormai completamente smantellate, è ribadito all’interno del disegno urbano dal circuito degli spalti alberati; i terreni limitrofi di proprietà demaniale, sia verso il centro abitato sia verso la campagna, sono immessi sul mercato immobiliare. La lottizzazione si innesca immediatamente nelle zone di saldatura con il tessuto preesistente: la nuova area progettata come ampliamento meridionale della città vede nella grande piazza porticata (attuale piazza Garibaldi), nei giardini pubblici e nell’asse del canale interrato gli elementi di cerniera tra tessuto storico e nuove lottizzazioni. I grandi isolati della caserma Valfrè e del cappellificio Borsalino (la superficie di quest’ultimo è oltre il doppio di un isolato ad uso residenziale) segnano il limite della città costruita. Il nuovo canale Carlo Alberto scorre parallelo al sedime del primo, a distanza di circa centocinquanta metri, e affiancato da un piccolo canale, detto la «canalina», destinato a far funzionare la prima turbina idraulica che costituisce la base della meccanicizzazione e della elettrificazione del nuovo stabilimento Borsalino16. Il decollo dell’azienda e la definitiva affermazione sui mercati nazionali e internazionali avviene nell’ultimo ventennio del secolo: senza pregiudicare la qualità, Giuseppe 214 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON riesce a meccanizzare le fasi di lavorazione aumentando considerevolmente il numero dei cappelli prodotti. La discesa in campo negli importanti mercati inglesi, francesi, ma anche russi, sudamericani e australiani (spodestando qui il monopolio inglese) costituisce la componente più dinamica del fatturato. «E fu appunto la crescita delle esportazioni a trainare la brusca accelerazione della Borsalino a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, determinando la sua definitiva ascesa nell’olimpo industriale con 1.250 addetti e 750.000 cappelli prodotti, per circa due terzi esportati»17. A un costante e solerte impegno a sostegno dei propri dipendenti, Giuseppe Borsalino unisce interesse e attenzione per l’intera comunità locale. L’inaugurazione dell’Educatorio, poco prima della sua morte, giunge dopo un’ininterrotta partecipazione dimostrata con sottoscrizioni e donazioni a favore dei feriti della terza guerra d’Indipendenza, dei caduti d’Africa, dell’ospedaletto infantile, o con la creazione di un sussidio per i lavoratori inabili. Lo stretto rapporto tra la famiglia e Alessandria, che culminerà con l’attività del figlio Teresio impegnato nella costruzione anche fisica della città, trova, quindi, le sue basi nell’attività del padre Giuseppe, attento, inoltre, ad ottenere, attraverso lo scambio politico-sindacale, una situazione moderata e controllabile tra i lavoratori in fabbrica18; Giuseppe finanzia anche la realizzazione di case operaie per i propri dipendenti. La costruzione dell’Educatorio è uno degli ultimi atti della sua attività filantropica19: l’obiettivo perseguito è quello di ospitare gli alunni di entrambi i sessi dopo l’orario di chiusura delle scuole pubbliche, assistiti da insegnanti nei compiti e nella ginnastica. La scelta dell’area cade su un terreno non troppo lontano dalla fabbrica, in affaccio sullo spalto alberato, prossimo alla piazza Garibaldi20. Il numero dei bambini frequentanti aumenta in maniera considerevole: 300 nel 1906 e 350 nel 1909, grazie anche all’espansione della fabbrica e all’aumento del numero dei dipendenti. Al doposcuola e alla ginnastica si affiancano gite al mare e a Pecetto, paese natale della famiglia Borsalino; alla domenica è obbligatorio assistere alla funzione religiosa nella cappella interna all’edificio, cui si accompagna settimanalmente il catechismo. «Emergendo da una posizione marginale in fabbrica seppur dopo un lungo tirocinio nei diversi reparti, e dotato di un grande bagaglio di conoscenze acquisite direttamente all’estero, Teresio Borsalino assunse nel 1900 il timone della azienda che si apprestava a vivere una stagione di straordinari successi sui mercati di tutto il mondo»21. Con la morte di Giuseppe le scelte e le responsabilità economiche e produttive all’interno del cappellificio vengono assunte dal figlio Teresio. Anch’egli aveva avuto la possibilità di viaggiare in Europa, tra la Svizzera, il Belgio, l’Inghilterra e la Germania, dove aveva potuto acquisire i fondamenti della tecnica produttiva, oltre che conoscere gli andamenti dei mercati internazionali. Nel 1902 Teresio entra nel Consiglio comunale insieme a una nutrita rappresentanza dell’aristocrazia industriale alessandrina: la presenza imprenditoriale all’interno dell’amministrazione locale coincide, non casualmente, con un programma finalizzato a favorire lo sviluppo delle LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 215 Fig. 4. La fabbrica Borsalino nei primi anni del Novecento (in La ditta Borsalino Giuseppe & Fratello per l’Esposizione Universale Internazionale di Bruxelles 1910, Milano 1910) Fig. 5. Nel 1925 Arnaldo Gardella progetta la palazzina per uffici dello stabilimento Borsalino. 216 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON iniziative economiche. «Lo strumento fiscale – rimborsi ed esenzioni di dazi – si configurò come una forte leva di politica economica locale, impiegata dall’amministrazione in funzione redistributiva a vantaggio dell’industria»22. Sono anni in cui la municipalità assume un ruolo di rilievo nella politica sociale, urbanistica e fiscale: in quest’ambito l’alienazione di aree a favore degli insediamenti industriali si prefigura quale fautrice del rafforzamento patrimoniale della famiglia Borsalino. Nel 1910 viene affittato, per trent’anni, dall’amministrazione demaniale, un terreno situato oltre il canale Carlo Alberto destinato ad ospitare il nuovo impianto termoelettrico, con una spesa preventivata di circa mezzo milione di lire, per assicurare la forza motrice necessaria alla crescente attività del cappellificio. La trattativa è contestata aspramente da Urbano Rattazzi, candidato dai socialisti al Consiglio provinciale, ed è letta dall’opinione pubblica, o da chi non appoggia il raggruppamento liberal-cattolico, come un ulteriore tentativo di affermarsi da parte della famiglia Borsalino. A seguito di questo duro attacco nato sui banchi del Consiglio cittadino, emerge una nuova attenzione per alcune iniziative assistenziali. Sicuramente Teresio ha ereditato dal padre un atteggiamento filantropico, ma la volontà di recuperare il consenso sociale compromesso dalle polemiche lo sprona a integrare finanziamenti deliberati dal Comune e dalla Cassa di Risparmio di Alessandria, al fine di attrezzare un reparto tubercolotici presso l’ospedale cittadino. La donazione di un milione di lire è vincolata ad alcune condizioni imposte da Teresio, che richiede, a parità di gravità della malattia, la precedenza nell’eventuale ricovero per i dipendenti del cappellificio. Si apre con questa elargizione un costante impegno da parte della famiglia nei confronti degli ospedali cittadini e, in particolare, una tenace volontà di combattere, o almeno di arginare, la tubercolosi. La realizzazione di un apposito padiglione all’interno del complesso ospedaliero alessandrino, avviata nel 1913 grazie a un consistente finanziamento, rimane alla fase progettuale per ostacoli di natura economica; solo alla fine degli anni Venti l’edificazione del sanatorio, nella zona extra-urbana di Orti, concretizzerà l’impegno della famiglia. Dopo la Prima Guerra Mondiale l’apporto finanziario che Borsalino indirizza alla modernizzazione della città si fa sempre più ingente. Sin dal 1920 Teresio decide di dotare Pecetto, il paese natale sulle colline dell’alessandrino, di un acquedotto intitolato al padre Giuseppe e ceduto a titolo gratuito al comune. Tra il 1924 e il 1927 è avviata la costruzione dell’acquedotto di Alessandria con 1.500 allacciamenti iniziali e l’onere di oltre 5 milioni di lire assunto da Borsalino, innescando la predisposizione della rete fognaria, già approvata dall’Ufficio Tecnico Municipale, finanziata dall’imprenditore con 2,7 milioni. Borsalino si assume l’impegno di dotare Alessandria di infrastrutture basilari, senza trascurare le iniziative socio-assistenziali, culminate con la costruzione dell’Ospizio della Divina Provvidenza e con l’ammodernamento e l’ampliamento della casa di riposo, i cui progetti sono affidati agli ingegneri Arnaldo Gardella e Luigi Martini23. LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 217 È inaugurata in questo modo una stretta collaborazione tra i Borsalino e i Gardella (il padre Arnaldo e il figlio Ignazio), progettisti chiamati in diverse occasioni (e nell’arco di vari decenni) a rispondere alle esigenze espresse sia sul fronte privato (ville, studi, la cappella cimiteriale di famiglia), sia su quello più rappresentativo (negozi, stand, ampliamento e ricostruzione dello stabilimento, residenza per gli impiegati della fabbrica), che su quello con forti implicazioni socio-assistenziali (Istituto delle Suore della Divina Provvidenza, Sanatorio Vittorio Emanuele III, ospedale infantile). Già nel 1927 Teresio Borsalino invia a madre Teresa Michel le chiavi della nuova Casa della Divina Provvidenza nel quartiere Orti24. Colpito dall’impegno dimostrato nel soccorrere i più deboli e dall’inadeguatezza dei locali in cui la suora in un primo momento offriva ricovero e soccorso, Borsalino decide di far costruire un nuovo ospizio su un terreno messo a disposizione dalla municipalità a ridosso della nuova piazza d’Armi. La struttura, costata oltre otto milioni di lire, si estende per circa 17.000 metri quadrati dove sono realizzati refettori, dormitori, laboratori, aule, la chiesa e l’infermeria: un centinaio di locali in grado di ospitare circa cinquecento persone, suore e degenti, dotati di impianto di riscaldamento con termosifoni, luce elettrica, acqua potabile e gas. All’inizio degli anni Trenta Teresio Borsalino promuove la ristrutturazione e l’ampliamento della casa di riposo affacciata su corso Lamarmora. Questo non meno importante finanziamento è motivato dallo stesso imprenditore anche dalla necessità di creare nuovi posti di lavoro per arginare una crescente disoccupazione: la crisi dell’economia nazionale non ha risparmiato neanche il cappellificio alessandrino, la cui produzione ha subito un arresto e molti operai hanno perso il posto di lavoro. «Per queste ragioni di carità e di civismo mi sono deciso di compiere a mie spesa l’opera benefica di ampliamento della Casa di Riposo che mi costerà qualche sacrificio pecuniario. Ma lo faccio con lieto animo perché compio un dovere di cristiano e di cittadino25». Anche in questo caso il progetto per l’ampliamento è affidato allo studio milanese di Arnaldo Gardella e Luigi Martini, che scelgono un lessico profondamente radicato nella cultura tradizionalista che permea la prima metà del Novecento. Se nel 1913 il finanziamento predisposto per la costruzione di un nuovo padiglione destinato ai malati di tubercolosi non ha portato a un concreto risultato, è sempre Teresio a intervenire per realizzare con la necessaria rapidità la costruzione del Sanatorio Vittorio Emanuele III. Fin dal 1919 ha finanziato l’adattamento e l’arredamento dei locali dell’ambulatorio provinciale antitubercolare, data anche l’incidenza non marginale della malattia tra gli operai e in particolare tra le operaie della fabbrica. E ancora una volta il progetto è affidato a Gardella e Martini26. Se i Borsalino sono i protagonisti della vita sociale ed economica della prima metà del secolo e Alessandria è il palcoscenico su cui si muovono, le architetture volute e tenacemente perseguite da essi prenderanno forma solo tramite i progetti e le opere firmate dai due Gardella. 218 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON L’intreccio tra Alessandria, i Borsalino e i Gardella si fa con gli anni sempre più stretto. Arnaldo progetta una villa a Santa Margherita Ligure per la famiglia Usuelli (soci e cugini dei Borsalino), mentre Ignazio sposa nel 1933 Aura Usuelli, nipote di Teresio. I Gardella accompagnano lo sviluppo della fabbrica siglando progetti ad essa strettamente legati: Arnaldo progetta nel 1925 l’ingresso principale, i locali per gli uffici e l’atrio monumentale in cui compiaciuto si autoritrae in un disegno. Ignazio negli anni Trenta firma il dispensario antitubercolare, l’edificio che lo consacra fra i maestri dell’architettura italiana del Novecento, il cui iter progettuale travagliato e combattuto ben rappresenta la vicenda architettonica tra la due guerre. Al dispensario contrappone il laboratorio di igiene e profilassi in un’unica elaborazione progettuale con forti componenti urbane, tuttavia gli edifici sono risolti secondo partiture di facciata e texture di materiali completamente differenti. Gli anni Trenta, pur segnati da un declino nella produttività della fabbrica, non vedono un arresto nell’attenzione che Teresio dimostra per la propria città: con un investimento complessivo di circa cinquanta milioni di lire correnti Alessandria alle soglie della Seconda Guerra Mondiale ha finalmente una rete fognaria, l’acquedotto comunale, oltre che ospizi per poveri e anziani, un dispensario e un sanatorio antitubercolare. Con la morte di Teresio nel 1939 e lo scoppio del conflitto mondiale il legame tra i Borsalino e la città, tra la fabbrica e il disegno urbano di un’intera area non è reciso, e Ignazio Gardella continua ad essere l’architetto di riferimento. Nel dopoguerra egli collabora al progetto per la ricostruzione dello stabilimento Borsalino, gravemente danneggiato durante le incursioni aeree del 1944, mentre tra il 1947 e il 1973 è impegnato nell’ampliamento dell’ospedale infantile e, in particolare, del padiglione intitolato a Rosa Borsalino. Lungo lo spalto alberato, nella zona nord della città antistante l’ospedale e il manicomio, negli anni del dopoguerra Ignazio Gardella lavora alla costruzione dell’ospedale infantile e dell’Istituto tecnico industriale (1959-1967)27. Negli stessi anni nell’area a meridione, strettamente connessa alla fabbrica, Ignazio Gardella procede alla realizzazione della palazzina per la taglieria del pelo (1949-56), edificio all’epoca incluso nel perimetro della fabbrica e ora, dopo la demolizione del complesso, rimasto a testimoniare una funzione industriale ormai scomparsa28. Quasi contemporaneamente la famiglia Borsalino chiede al progettista di concepire in un’area attigua, al di là del corso alberato, un fabbricato destinato alla residenza delle famiglie degli impiegati. Il sedime su cui Gardella realizza uno dei suoi capolavori è stato concesso al cappellificio dal Comune in permuta di due lotti situati poco distante, all’interno del quartiere Pista. Gli appezzamenti erano stati acquistati nel 1945 prevedendo un ulteriore ampliamento dei locali destinati alla produzione, eventualità mai concretizzatasi. LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 219 Fig. 6. Arnaldo Gardella e Luigi Martini. Casa di riposo Fig. 7. Arnaldo Gardella e Luigi Martini. Istituto di Divina Provvidenza Madre Teresa Michel (1927) 220 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON 4. La presenza nell’assenza Nella prima metà del Novecento, a una presenza quasi ingombrante della famiglia Borsalino nella città e anche del suo stabilimento, sovradimensionato rispetto alla tessitura della città ottocentesca, si contrappone, a partire dagli anni Ottanta del secolo, l’assenza, il vuoto urbano generato dalla quasi totale demolizione del cappellificio. La localizzazione dello stabilimento ha profondamente segnato le scelte urbanistiche legate alla zona meridionale della città. Come già detto, se a nord nel corso di più di un secolo si sono localizzati i servizi socio-assistenziali, alcuni dei quali finanziati totalmente o in parte dai Borsalino (sanatorio, Istituto della Divina Provvidenza, ospedale infantile), a sud la vicinanza con la fabbrica ha innescato la lottizzazione a scopi residenziali. In un primo momento è il quartiere Pista di impianto novecentesco ad ospitare case mono e bifamiliari di bassa qualità, alle quali si affiancano, in casi più isolati, palazzine liberty e art-decò di pregio. Ancora negli anni Cinquanta Gardella costruisce lungo lo spalto la casa degli impiegati, edificio al quale lui stesso si dichiara indissolubilmente legato29. Il crollo delle vendite e le gravi conseguenze economiche che lo stabilimento si trova ad affrontare portano al trasferimento dei locali destinati alla produzione e, con i primi anni Ottanta, a una quasi totale demolizione della fabbrica. La scelta operata è quella di mantenere e restaurare, nell’isolato tangente il centro storico, la palazzina con ingresso su Cento Cannoni progettata da Arnaldo Gardella nel 1925, destinandola a sede universitaria. Nell’isolato più periferico, oltre lo spalto alberato, viene conservata, e solo recentemente ristrutturata, la palazzina della taglieria del pelo, attualmente sede del Collegio dei costruttori. La cittadinanza assiste attonita e avvilita alla cancellazione di una parte di città e di un frammento di storia cittadina: è demolita la quasi totalità del complesso e la passerella in cemento armato che valicava lo spalto alberato. All’ultimo atto, l’atterramento della ciminiera, che segue a un lungo e aspro dibattito e a molti tentativi di sospensione, presenzia una folla di persone, tra cui moltissimi ex dipendenti. Il sentimento comune è quello di vedersi privati di un simbolo della città e della cancellazione di un periodo in cui la famiglia Borsalino ha rappresentato l’ascesa economica di un’intera comunità. La demolizione libera, in una zona molto prossima al centro, due grandi isolati chiamando gli organi competenti a decidere sulla nuova destinazione e, quindi, a determinare un nuovo disegno urbano. Sull’area della «Borsalino» demolita ecco tornare ancora una volta Ignazio Gardella, questa volta affiancato dal figlio Jacopo. L’obiettivo è quello di costruire un nuovo supermercato Esselunga (marchio con il quale i Gardella hanno già lungamente collaborato)30 e il complesso Agorà per residenze e uffici. La volontà è anche quella di creare una ricucitura con l’architettura industriale di Arnaldo, alla quale Ignazio e Jacopo guardano e si ispirano nella partitura dei prospetti e nel disegno delle finestrature. In un solo isolato si snoda un LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 221 percorso tra diverse generazioni di una stessa famiglia di architetti, chiamati in tempi successivi a confrontarsi con la presenza (e l’assenza) di uno dei più importanti cappellifici a scala mondiale31. Al di là del corso alberato, il grande isolato liberato a seguito della demolizione è destinato a ospitare, anche in questo caso, un grande complesso residenziale, per il quale viene interpellato alla metà degli anni Ottanta Paolo Portoghesi. Nell’area antistante la palazzina della taglieria del pelo, improvvisamente liberata anche del muro di cinta e chiamata forzatamente a colloquiare con un contesto che le è del tutto estraneo, il Piano Regolatore impone la realizzazione di una zona destinata a verde pubblico. La mole poco armoniosa del complesso progettato da Portoghesi si trova a confrontarsi con la massa misurata e compatta della casa degli impiegati così prossima. Modi differenti di intendere i luoghi dell’abitare all’interno della città contemporanea hanno costruito un brano di città, andando a riempire vuoti lasciati dalla cancellazione di complessi industriali e a comunicare in modo differente con il contesto urbano. Poco distante dagli interventi di Paolo Portoghesi e di Ignazio e Jacopo Gardella, impegnati nella ricostruzione di un importante pezzo di città e, ancora una volta, nella ricucitura di un tessuto lacerato, in seguito a una nuova demolizione di uno stabilimento industriale dismesso, Alessandria ha assistito, in anni ancora più recenti, alla definizione di un nuovo progetto sospeso fra l’intervento architettonico e la scala micro-urbana. Ancora una volta è l’assenza, un vuoto a seguito di una demolizione, a richiedere l’intervento di un esponente dell’architettura contemporanea. La demolizione dello stabilimento Olva, nel quartiere Pista, crea le premesse per accogliere la prima opera italiana di Léon Krier. Attraverso la rilettura degli archetipi classici della storia dell’architettura, sommando stilemi della città di area padana e caratteri maggiormente piemontesi, Krier costruisce il borgo «Città nuova». Qui corti, portici, anditi si susseguono riproponendo scorci e percorsi di un borgo nella città, al contempo chiuso su se stesso ma in continua disputa con il contesto. La piazza aperta su corso IV Novembre, dominata dall’edificio della banca, in cui la sproporzionata colonna in facciata funge da monumento autoreferenziale, sancisce l’accesso al nuovo luogo urbano definendone il limite, ma anche la frons scenica di un nuovo luogo dell’abitare in una città ancora alla ricerca di una propria identità architettonica. 5. La casa degli impiegati nel dibattito architettonico del dopoguerra Nel 1948, nel momento in cui la famiglia Borsalino al suo interno discute sulle modalità operativo/funzionali della ricostruzione della fabbrica, a seguito dei consistenti danni di guerra subiti, Ignazio Gardella è incaricato dalla stessa famiglia di progettare una residenza di tipo economico per i propri impiegati (in affitto, con possibilità di riscatto) sul lotto posto a lato della grande fabbrica, lungo il corso Teresio Borsalino. Gardella all’epoca già collaborava con Franco Albini per la progettazione di case 222 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON Fig. 8. La portineria del sanatorio intitolato, ora, a Teresio Borsalino Fig. 9. L’ospizio della Divina Provvidenza (da Giuseppe Borsalino 1834-1934, Milano 1934) Fig. 10. Veduta dello stabilimento Borsalino (da Giuseppe Borsalino 1834-1934, Milano 1934) LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 223 224 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON popolari per lo IACP e l’INA-Casa, ma questa di Alessandria è un’occasione di riflessione su come applicare le «moderne» soluzioni adatte per una residenza di tipo economico, dall’uso della prefabbricazione all’individuazione di assetti distributivi tipologicamente nuovi. Per la casa degli impiegati Gardella sviluppa anche l’idea di garantire all’edificio residenziale un proprio «carattere urbano» che, come tale, deve essere inserito nel contesto con una propria autonomia. Nel «I° Convegno nazionale per la ricostruzione edilizia», svoltosi a Milano il 1416 dicembre 1945, si avvia il dibattito sul problema della casa e sulle sue modalità di costruzioni sperimentali; Gardella interviene con la relazione: Necessità di una evoluzione della tecnica edilizia e mezzi atta a favorirla, a cui fanno seguito il suo impegno sia nella commissione UNI (1946), in qualità di presidente, con la stesura della Relazione riguardante l’unificazione provvisoria in applicazione sperimentale (1947), sia nella progettazione di edifici residenziali con Franco Albini (Unità di abitazioni componibili per l’industria Ansaldo), sia, infine, nei concorsi per i quartieri IACP a Milano (1945-1946). Negli argomenti affrontati la posizione di Gardella è al contempo di tipo «tecnico», quando emerge il suo essere specialista del costruire, e di tipo «sociale», quando afferma l’utilità dell’architettura quale impegno sociale: egli sostiene che il procedimento seriale della prefabbricazione totale esclude l’aspetto espressivo dell’architettura. Per lui la prefabbricazione determina un controllo della quantità (dimensione/standard) e un controllo delle fasi costruttive e dell’estensione operativa (modalità/costi), elementi considerati essenziali ma non unici, requisiti non determinanti un prodotto di qualità; egli indica che è necessario continuare a lavorare «sull’architettura» e sulla sua decorazione, magari contemplando all’interno del processo fasi di lavorazione artigianale capaci di avvicinare l’opera al luogo dove sorge. Il dibattito avviato nel 1945 confluisce operativamente nel piano Fanfani del 1948 o Legge INA-Casa, dal titolo: «Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia agevolando la costruzione di case per lavoratori», nella quale si configura un solido e rapido intervento da parte delle pubbliche istituzioni, esteso all’intero territorio nazionale e indirizzato a soddisfare la richiesta immediata di case da parte dei lavoratori in difficoltà, seguendone tutte le fasi operative, dalla programmazione (pluriennale) e dal reperimento dei fondi, sino alla realizzazione dei quartieri e alla consegna degli appartamenti alle singole famiglie. L’esperienza condotta da Gardella dal 1945 sulle modalità d’intervento (normative e applicative) costituisce una solida competenza che confluirà nei progetti e nelle realizzazioni del quartiere IACP Mangiagalli a Milano (1950-1952), elaborato con F. Albini, e del quartiere INA-Casa di Cesate (1951-1963), elaborato in collaborazione con F. Albini, G. Albricci, L.B. Belgiojoso, E. Peressutti e E.N. Rogers. La Casa degli Impiegati di Alessandria (1948-1952) si distingue dalle altre esperienze di case economico-popolari, lontano dal ricordo di quei quartieri periferici LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 225 mai realmente integrati alla città, per il suo insito carattere urbano: «l’edificio, posto a diaframma fra la città e la campagna, conserva una sua solenne monumentalità, una sua forza riassuntiva. Diviene immagine urbana, come pochi edifici moderni sono in grado di fare»32. L’edificio, con un affaccio verso strada di quasi quarantasette metri per un’altezza di otto piani fuori terra, si slancia verso il cielo con una volumetria al tempo stesso articolata e compatta. L’intera facciata si spezza in piani, identificati per il medesimo texture (composto da piastrelline in clinker di colore bruno) e simmetria nelle pieghe, nei risvolti e nelle bucature. Queste ultime, costituite da porte finestre complanari al rivestimento, tutte uguali nelle dimensioni (m. 1,20 x 3,00) e nei colori e con le ante esterne scorrevoli, aggiungono gioco e movimento alla staticità degli spigoli netti e alla riquadratura dell’esile lastra nervata della copertura piana che chiude il volume con slancio (dato dal lungo aggetto, quasi m. 2,00). Annalisa Dameri - Silvia Gron Annalisa Dameri ha redatto i paragrafi 1, 2, 3, 4, mentre Silvia Gron ha redatto il paragrafo 5. Abbreviazioni: ARCHIVIO DI STATO DI ALESSANDRIA = ASAL; ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI ALESSANDRIA = ASCAL 1 Il presente saggio ha le sue basi essenziali nelle ricerche coordinate da Vera Comoli e confluite in una recente pubblicazione (Alessandria e Borsalino. Città architettura industria, a cura di V. Comoli, Alessandria, Soged, 2000). Altre ricerche su Alessandria e, in particolare, sulla figura di Ignazio Gardella, progettista eletto dalla famiglia Borsalino artefice di un’immagine moderna della famiglia e della città, sono scaturite da un’esperienza didattica per i dottorati di ricerca in Storia e Critica dei Beni Architettonici e Ambientali e di Teoria e costruzione dell’architettura del Politecnico di Torino, condotta nel 2003 e nel 2004 con Silvia Gron. Per i riferimenti bibliografici più recenti si rimanda a S. GUIDARINI, Ignazio Gardella nell’architettura italiana. Opere 1929-1999, Ginevra-Milano, Skira, 2002; Ignazio Gardella. Progettare con, a cura di A. Dameri, S. Gron, Cd rom, Politecnico di Torino, Dipartimento Casa-Città, Dottorato di Ricerca in Teoria e Costruzione dell’Architettura, 2004, Collana Strumenti per la Didattica. 2 A. DAMERI, Luoghi e architetture nella città dell’Ottocento, in Alessandria e Borsalino, cit., pp. 105-123; EAD., Leopoldo Valizone architetto in Alessandria. Un architetto per la città negli anni della Restaurazione, Torino, Celid, 2002. 3 Il campo trincerato va a perfezionare la cinta urbana potenziata durante l’occupazione napoleonica: negli anni della Restaurazione i bastioni sono stati demoliti in alcuni punti per permettere l’ingresso in città del canale Carlo Alberto. L’arrivo della ferrovia nella zona sud della città e la conseguente costruzione della stazione ne hanno imposto un’ulteriore parziale demolizione e la sistemazione dell’area che separa il nucleo urbano nella zona prossima alle attuali corso Roma e via San Lorenzo. 4 L. VALIZONE, Piano indicante il preciso perimetro che si destina pel Distretto del dazio Civico della Città di Alessandria per l’esercizio del Medesimo nell’appalto che deve aver principio col primo prossimo gennaio 1848, Alessandria 6 settembre 1847 (ASAL, ASCAL, serie III, Atti e Contratti, vol. 741, c. 774). Per la realizzazione dei casotti daziari e dei pesi pubblici cfr. A. DAMERI, Leopoldo Francesco Valizone, cit. 5 Per la figura di Ludovico Straneo cfr. V. Guerci, L’Ing. Ludovico Straneo e l’edilizia Alessandrina di un * 226 ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON cinquantennio, «Rivista di Storia, Arte e Archeologia per la Provincia di Alessandria», XLIV, 1935, pp. 157171; A. Damer i, Eclettismo nell’architettura funeraria: Lodovico Straneo e il Cimitero di Alessandria, «Rivista di Storia Arte e Archeologia per le province di Alessandria e Asti», CV, 1996, pp. 291-301. 6 [L. STRANEO], Alessandria nel mezzo secolo dal 1846 al 1896, Milano, Boratto, 1896, p. 12. 7 Gli ultimi decenni dell’Ottocento rappresentano per Alessandria un momento di importante crescita urbana. Tra i progetti realizzati si ricorda il piano di ingrandimento verso Porta Savona, la realizzazione della grande piazza porticata (attuale piazza Garibaldi), la costruzione del passage Guerci e della nuova sinagoga nel centro storico, l’ampliamento del cimitero, il risanamento, avvenuto tramite sventramenti e ricostruzioni, di ampie porzioni di tessuto urbano degradato. Cfr. A. DAMERI, Luoghi e architetture nella città dell’Ottocento, cit.; C. BOIDO-P. DAVICO, Il disegno delle piazze porticate in Piemonte. Le nuove «porte» della città ottocentesca, Torino, Celid, 2004. 8 L’antica sede dello stabilimento Borsalino è tutt’ora riconoscibile nel tessuto edilizio cittadino ed è indicata con il nome comune di cararola, dal termine di origine tardomedievale cararolia. 9 Il lato sud del nuovo corso alberato ospita la caserma di artiglieria, quella dei carabinieri e il grande isolato del cappellificio Borsalino, mentre per il versante nord è proposto un progetto, poi abbandonato, di lottizzazione a villini con giardini da corso La Marmora sino alla piazza Garibaldi. Municipio di Alessandria, Ufficio d’Arte, Lavori straordinari. Progetto per costruzione di Villini lungo il fianco nord del Corso dei Cento Cannoni, senza firma, s.d. (ASAL, ASCAL, serie III, n. 1643). 10 C. BOIDO, Il disegno urbano di Alessandria: le mura dopo le mura. La persistenza del segno della cinta muraria e delle porte della città nell’Ottocento fra rilievo e progetto, tesi di dottorato di ricerca in Disegno e Rilievo, Università di Roma «La Sapienza», tutors S. Coppo, G. Novello Massai, 1999. 11 La caserma di artiglieria è progettata tra il 1886 e il 1891 dall’ingegnere militare Trincheri che nella definizione dei prospetti adotta un lessico neomedievale. 12 Municipio di Alessandria, Ufficio d’Arte, Lavori straordinari. Progetto di ampliamento della strada della stazione e del nuovo Corso dei Cento Cannoni, senza firma, s.d., (ASAL, ASCAL, serie III, n. 1643). 13 L. LORENZINI-M. NECCHI, Alessandria storia e immagini, Alessandria, Il Quadrante, 1982. 14 Per la vita di Giuseppe e Teresio Borsalino, l’ascesa della fabbrica e una attenta lettura delle vicende economiche si è rivelato essenziale il saggio di G. BARBERIS, La famiglia Borsalino. La fabbrica e le opere, in Alessandria e Borsalino, cit., pp. 55- 89. 15 Ibidem. 16 Il cappellificio ottiene una concessione di derivazione dell’acqua, risorsa fondamentale nella lavorazione dei cappelli. 17 G. BARBERIS, La famiglia Borsalino, cit., p. 62. 18 Nel 1896 è istituita la Cassa pensioni operai. Nel 1898 è costituita la cassa pensioni tra gli impiegati stipendiati mensili della Borsalino, con un regolamento che ricalca l’istituto creato per gli operai. Nel 1901 è istituita la cassa interna di soccorso per le malattie comuni a favore degli impiegati e degli operai, avente la finalità di accordare un sussidio fisso a ciascun infermo per un periodo di tempo determinato. 19 Il costo di primo impianto dell’Educatorio risulta di circa 95.000 lire, di cui 13.942 lire per l’acquisto dell’area (5.500 metri quadrati), 51.800 lire per la costruzione del fabbricato e il rimanente per gli arredi. 20 L’edificio ospita oggi la sede della Polizia Municipale nell’attuale via Giovanni Lanza. 21 G. BARBERIS, La famiglia Borsalino, cit., p. 65. 22 Ivi, p. 67. 23 Arnaldo Gardella, padre di Ignazio, agli albori del XX secolo apre uno studio di ingegneria a Milano con Luigi Martini. Insieme affrontano la progettazione di un albergo e degli ospedali di Pavia (pubblicato su «Architettura Italiana» nel gennaio 1914, n. 4, pp. 37-53, tavv. XIII-XIV) e di Tortona, oltre all’ampliamento del manicomio e la realizzazione della clinica Crespi ad Alessandria. 24 L’opera di madre Michel, al secolo Teresa Grillo, prende avvio nel 1893 ad Alessandria con una prima scuola per bambini poveri e portatori di handicap. 25 ARCHIVIO FAMIGLIA BORSALINO, Lettera del 25 luglio 1931 di Teresio Borsalino a monsignor Giuseppe Bruno. LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO 227 26 G. MONTANARI, Il sanatorio Teresio Borsalino di Gardella: dalla costruzione all’attuale recupero, in Alessandria e Borsalino, cit., pp. 125-143. 27 Nel 1956 Ignazio Gardella cura l’allestimento del negozio Borsalino in corso Roma; nel 1963 progetta gli uffici Usuelli. Tra il 1964 e il 1969 realizza il nuovo istituto per l’infanzia di Alessandria. Cfr. S. GUIDARINI, Ignazio Gardella, cit. 28 Recentemente l’edificio, restaurato in accordo con la Soprintendenza, ha accolto i locali del Collegio Costruttori di Alessandria. 29 In un’intervista pochi anni prima della morte, Ignazio Gardella ha dichiarato di sentirsi fortemente legato e ben rappresentato sulla scena della cultura architettonica contemporanea dal dispensario antitubercolare e dalla casa degli impiegati di Alessandria. 30 S. GUIDARINI, Ignazio Gardella, cit. 31 La storia regala al longevo progettista la possibilità di ridefinire un progetto forzatamente modificato per volere di un gerarca fascista poco aperto al confronto e al dibattito. Il dispensario antitubercolare, ora intitolato «Ignazio Gardella», alla fine degli anni Ottanta è stato oggetto di restauro. In tale occasione l’autore ha potuto «restaurare se stesso» e apportare delle modifiche al fine di rispecchiare il progetto originario. 32 Ignazio Gardella 1905-1999. Architectura a través de un siglo, catalogo della mostra, Madrid, Centro de publicaciones, Segreteria general tecnica, Ministerio de Fomento, 1999, p. 49. GLI INVESTIMENTI DELLA SOCIETÀ REALE MUTUA A TORINO L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA «E svetta nell’aria la torre littoria che a tutti i torinesi grida: ‘Presente!’». Con la forza retorica di questa allitterazione nel 1937 Italo Angeloni, nella guida di Torino edita da Paravia1, descriveva ai cittadini torinesi la dirompenza dell’alto grattacielo della Società Reale Mutua di Assicurazioni, emblema inequivocabile della nuova italianità, della forza vigorosa del regime, dell’abile connubio tra sperimentazioni tecniche e tecnologiche e rispetto della tradizione. Una torre del tutto torinese e internazionale allo stesso tempo, modesta come una città che aveva ormai optato per una connotazione industriale, ma magniloquente come il simbolo di un potere che a Torino non era mai riuscito ad essere così persuasivo. Tra questi opposti capaci di convivere senza contraddizione si muove e si sviluppa il progetto della torre Littoria, alto edificio multipiano che caratterizza lo skyline della storica piazza del Castello nel suo imbocco con la via Roma, antico asse rettore della città barocca, oggetto delle politiche di risanamento urbano degli anni del regime, riconfermato asse rettore di collegamento meridionale, grande cantiere edilizio al quale si guarda come possibile elemento di ripresa economica in seguito alla crisi del 1929. Affrontare oggi il tema della torre Littoria significa affrontare il tema del significato di questo edificio o, meglio, che a questo edificio è stato assegnato. Un significato lontano dalle prime intenzioni dei progettisti e altrettanto lontano dalle forti critiche sollevate dalla Soprintendenza in fase di cantiere; significato visto come possibilità da una committenza già interprete delle istanze politiche del regime. La torre Littoria imbarazza i torinesi: sulle pagine del quotidiano «La Stampa», tra il 2000 e il 2001, si sono susseguiti articoli che ne invocavano l’abbattimento, quasi a voler cancellare la memoria di «quegli anni», considerando inaccettabile che il segno per eccellenza del regime fascista potesse ancora definire inequivocabilmente il profilo del centro storico della città. Il piano di ricostruzione di via Roma Tra il 1931 e il 1937 a Torino è finalmente realizzato il piano di ricostruzione di via Roma, asse rettore dell’antica città barocca ideato da Ascanio Vitozzi alla fine del XVI secolo2. 230 MARIA SANDRA POLETTO Il progetto, ampliamente indagato dalla storiografia per le sue implicazioni di carattere ideologico (via Roma è vista come specchio della politica di opere pubbliche del regime fascista), è in realtà il tassello conclusivo di un lungo dibattito che si sviluppa senza soluzione di continuità dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, quando la promessa del ruolo di capitale nazionale diventa per Torino motore propulsore di una serie di opere di abbellimento della città stessa e di dotazione dei servizi funzionali a questo ruolo3. Lo spostamento della capitale a Firenze e la conseguente crisi economica che aveva investito la città avevano però portato al momentaneo accantonamento di questo programma, che era stato ripreso in mano dai consiglieri comunali all’inizio del Novecento, ma senza una chiara volontà progettuale4. Dopo numerosi tentennamenti e altrettanto numerose crisi di governo municipale, solo la forte politica di opere pubbliche attuata dal regime, per far fronte alla crisi economica del 1929, riesce a dare inizio all’attuazione del primo tratto della via tra la piazza Castello e la piazza San Carlo, in seguito all’emanazione del R.D.L. del 19305. A fronte di un dibattito vivace e ricco, per la realizzazione del progetto, che porta a un radicale stravolgimento dell’immagine della via6, il regime sottolinea l’importanza della questione sanitaria (il Comune incarica un medico e un ingegnere di effettuare una ecografia sanitaria degli stabili). Le motivazioni igieniche, che avevano fortemente caratterizzato l’approccio alla questione urbana nei piani di fine secolo, diventano nuovamente alibi per realizzare soluzioni discutibili, strumento di appropriazione dei centri storici da parte delle grandi società finanziarie7. Il problema del rapporto con la preesistenza, identificata soprattutto nelle piazze storiche (la cinque-seicentesca piazza Castello, la seicentesca piazza San Carlo e lo sbocco nell’ottocentesca piazza Carlo Felice), è limitato unicamente alla questione degli imbocchi stradali, mentre l’attenzione prestata alla legislazione e alle procedure economiche corrisponde a una progressiva perdita d’importanza del parere degli organi deputati alla tutela − le Soprintendenze e il Ministero dell’Educazione Nazionale − che, seppure interpellati, si limitano a giudicare uno stato di fatto e a compiere un’azione di vincolo spesso disattesa. Il lungo processo decisionale e, soprattutto, la sua repentina conclusione sembrano essere la dimostrazione pratica dell’affermazione di Gustavo Giovannoni: a vedere bene non sono gli ingegneri e gli architetti a dar vita a un piano regolatore, più o meno ben disegnato; ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero elemento dinamico che ne avvia l’attuazione non solo nello spazio, ma anche nel tempo, tanto è vero che molto spesso i piani regolatori si risolvono in una dannosa illusione e finiscono per essere attuati solo per varianti sporadiche o secondo opere isolate che nulla hanno a che vedere con il programma edilizio8. La politica del regime, d’altra parte, aveva già dimostrato la scelta del centro storico della città come luogo deputato alla manifestazione del potere delle grandi società finanziarie e immobiliari, come scenario privilegiato delle grandi opere di L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA 231 investimento e di rendita fondiaria. Al tessuto minuto dei piccoli artigiani, dei commercianti, della borghesia di modesto rango, attraverso le opere di risanamento, si sostituisce una nuova immagine urbana. Analizzando le destinazioni d’uso degli stabili prima e dopo l’intervento di rifacimento della via Roma possiamo comprendere la natura e la consistenza di questo fenomeno. Nel 1930 la via era caratterizzata da un utilizzo misto, frutto nello stesso tempo di una stratificazione storica, che ha inizio dal XVIII secolo, e di un riutilizzo degli spazi centrali da parte della borghesia, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, attraverso la realizzazione di edifici bancari e di edifici legati allo svago e al commercio. Accanto alle sale cinematografiche, alle gallerie contenenti bar, circoli sportivi, uffici, sale riunioni, negozi, si collocano botteghe, abitazioni, laboratori (nel retro, sul cortile), alberghi e una casa di tolleranza9. Dopo l’intervento la geografia dei luoghi cambierà radicalmente: al piano terreno, sul fronte di via Roma, si affacceranno negozi di alto rango; i piani superiori saranno occupati da locali uso ufficio legati ai soggetti finanziatori dell’intervento. Attraverso la stipula di convenzioni con il Comune e il conseguente acquisto degli stabili espropriati, la Società Reale Mutua di Assicurazioni, l’Istituto Nazionale Italiano delle Assicurazioni e la Società Anonima Edilizia (dipendente dal gruppo FIAT) si approprieranno del primo tratto, l’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale, la società Assicurazioni Generali, la S.A. Comoglio e un consorzio di proprietari realizzeranno il secondo. Questa operazione si inserisce nell’importante politica di opere pubbliche promosse dal regime10; negli anni della ricostruzione di via Roma, infatti, nella sola Torino venivano inaugurati i Mercati Generali, lo stadio Mussolini, la casa del Balilla, la sede dell’Ufficio d’Igiene e veniva anche abbattuta la cinta daziaria11. I nuovi soggetti investitori e la politica della Società Reale Mutua di Torino Il forte impiego di manodopera non specializzata nelle opere pubbliche porta a un tamponamento del problema edilizio ma non certo a una sua soluzione definitiva. Degli 8.250 lavoratori impiegati nel settore delle opere pubbliche straordinarie durante tutto il 1933, il cantiere di via Roma assorbe 740 unità12. L’intervento non interessa unicamente la strada, ma consta in un rifacimento totale degli isolati circostanti e nell’apertura di nuove arterie di traffico. I privati, che secondo il R.D.L. del 1930 avrebbero potuto avvalersi di diritto di prelazione sugli stabili, non parteciperanno alla ricostruzione della via per mancanza di capitale da investire: ben presto le società finanziarie, le società di assicurazione, gli istituti di credito invece acquisteranno i vari isolati, vincolati da condizioni di esproprio per pubblica utilità disciplinate dalla Legge per Napoli del 188513. I permessi edilizi saranno concessi in fretta, i vincoli formali riguarderanno unicamente i fronti su strada. La complessità dell’operazione trova ragione nel fatto che ogni isolato è gestito da una diversa impresa: proprio per questo, per il primo tratto non possiamo parlare di cantiere tout court. Gli edifici 232 MARIA SANDRA POLETTO avranno tempi di attuazione diversi, ogni progetto richiederà una discussione particolare all’interno della Commissione Igienico Edilizia. Nelle convenzioni che si stipulano tra Comune e privati, il primo si occuperà di realizzare le opere di urbanizzazione primaria, senza nessuna contropartita di carattere finanziario. La necessità di sopperire alla grave crisi degli alloggi porterà alle numerose richieste di deroga o di modificazione del Piano Regolatore in favore di una maggiorazione dell’altezza degli edifici e del volume delle aree fabbricabili. Nella quasi totalità dei casi, tali richieste saranno approvate preliminarmente dall’autorità comunale senza trasmettere alcuna richiesta di autorizzazione al Ministero dei Lavori Pubblici14. All’interno dell’intricata maglia di rapporti spesso conflittuali tra protagonisti e attori della vicenda emerge il ruolo della Società Reale Mutua di Assicurazioni, istituto fondato a Torino nella prima metà del XIX secolo. La SRMA, con la sua azione di investimenti nel settore edilizio, è considerata dal regime come una componente essenziale per la riuscita della politica economica. Il suo appoggio agli investimenti nel campo delle opere pubbliche si esplica per mezzo «dell’incremento da essa portato all’industria edilizia non solo a Torino […] ma anche a Roma, Milano e Bolzano. La Reale contribuisce con l’erezione di imponenti edifici a risolvere problemi edilizi ed a fornire lavoro, attraverso l’investimento di decine di milioni, a industrie e operai»15. I festeggiamenti per il centenario della sua fondazione16 erano stati l’occasione per realizzare, all’interno dell’antico nucleo urbano torinese, la nuova sede societaria17. Il repentino inizio dei lavori di ricostruzione di via Roma Nuova e il valore dato a questa operazione da parte della pubblicistica di regime, convinceva quindi la Società a partecipare alla ricostruzione di uno degli isolati più degradati della via; il 14 marzo 1932 la Società stipula con il Comune una convenzione per la ricostruzione dell’isolato S. Emanuele, già di proprietà della Società La Rinascente, immotivatamente estromessa dall’iniziativa18. In tale convenzione la Reale Mutua si impegna a seguire le restrizioni stabilite dal R.D.L. del 1930, che impongono di non modificare lo storico fronte su piazza Castello, ad attenersi al Regolamento Edilizio e, quindi, a non far emergere un edificio più alto di cinque piani fuori terra19. Queste clausole, però, saranno prontamente disattese con il tacito benestare della municipalità20. In seguito alla stipula della convenzione, sono incaricati della realizzazione del progetto l’architetto Armando Melis e l’ingegner Giovanni Bernocco, periti della società stessa e già progettisti della sede torinese21. L’attività professionale dello studio Melis-Bernocco porta alla realizzazione di numerosissimi progetti architettonici e urbanistici, che ancora oggi contribuiscono a caratterizzare l’immagine di molte città piemontesi. Il sodalizio si rivela felice per molteplici aspetti: innanzitutto la militanza di Giovanni Bernocco nelle fila del Partito Nazionale Fascista favorisce l’attività lavorativa dello studio, inoltre l’attenzione all’innovazione tecnologica e strutturale dovuta al connubio ingegneria-architettura sarà quella che porterà a molte delle più apprezzate realizzazioni di Melis. Le testimonianze ci rivelano che il ruolo di L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA 233 Giovanni Bernocco è soprattutto quello di procacciatore di affari, mentre «l’uomo dello studio», instancabile lavoratore, è sempre Melis22. Dagli anni Trenta, inoltre, Melis e Bernocco fanno parte della Commissione Igienico Edilizia del Comune, funzione che consentirà loro di svolgere il proprio lavoro attraverso canali «privilegiati». Gran parte delle realizzazioni più importanti dello studio Bernocco-Melis sul territorio piemontese avranno come committente la Società Reale Mutua: già dal 1928 infatti abbiamo la testimonianza della presenza, tra i periti che lavorano per la Società, dell’ingegner Giovanni Bernocco, che è chiamato a pronunciare il discorso, come rappresentante della categoria, nella ricorrenza del centenario23, a conferma di come «nella provincia le relazioni personali e la stima degli amministratori contino di più delle tessere e delle dichiarazioni di principio»24. Riferimenti architettonici del primo progetto: la cultura americana, il valore della fotografia Il progetto approvato dai committenti fa seguito a un lungo percorso di proposte alternative che rivelano una forte incertezza sulla scelta del lessico architettonico da adottare. La possibilità di consultare i numerosissimi disegni conservati nel Fondo Melis25, infatti, chiarifica un iter progettuale controverso già in fase di ideazione, aperto a soluzioni del tutto differenti, chiaramente legate ad altrettante differenti interpretazioni del panorama urbano, del rapporto con il costruito, dei modelli di riferimento. Nelle varie idee l’edificio assume forme che guardano al passato o, alternativamente, che cercano di dar forma al futuro. Il vincolo di conservare inalterata la facciata sulla storica piazza Castello porta a cercare un altro fronte principale, individuato nella vicina via Viotti; su quest’asse i progettisti si liberano dai vincoli formali stabiliti dalla legge, facendo svettare l’alta torre (molto più bassa nell’idea iniziale, documentata nelle numerose visuali prospettiche conservate nel fondo Melis, testimoni di un iter realizzativo controverso, fig.1). Le due proposte iniziali divergono in modo sostanziale: alla successione di volumi loggiati che introducono alla torre si contrappone la scelta di far svettare l’alto edificio da un basso parallelepipedo che riprende il linguaggio architettonico della piazza. In questa seconda idea, sulla quale i progettisti lavoreranno per ottenere l’esito finale, il fronte principale non è enfatizzato come nella prima proposta, dove una successione verticale di cornici sottolinea la simmetria della composizione (fig. 2). La scelta dei committenti è quella di evidenziare la presenza della torre (come nella seconda proposta) senza rinunciare al ritmo della successione dei volumi degradanti. Su questa idea progettuale lo studio Melis e Bernocco inizierà a costruire l’immagine definitiva dell’alto grattacielo, citazione più o meno esplicita di una Manhattan assunta come modello paradigmatico della città del futuro. Se nell’edificio finale i diversi contributi storiografici hanno visto un chiaro richiamo alla cultura espressionista tedesca26, la possibilità di studiare in successione le proposte consente di ricostruire un quadro di riferimenti molto più articolato. La torre Littoria si camuffa di volta in volta in Flatiron 234 MARIA SANDRA POLETTO Fig. 1. Armando Melis, primo progetto per l’isolato S. Emanuele a Torino [1932] (Laboratorio di Beni Culturali del Politecnico di Torino, Fondo Melis) L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA 235 Fig. 2. Armando Melis, secondo progetto per l’isolato S. Emanuele a Torino [1932] (Laboratorio di Beni Culturali del Politecnico di Torino, Fondo Melis) 236 MARIA SANDRA POLETTO Building (grazie alla prospettiva incentrata sullo spigolo che la fa sembrare a pianta triangolare) o nella proposta di Gropius per il concorso del Chicago Tribune27 (fig. 3a-3b). Quello che Melis e Bernocco ci testimoniano non è la conoscenza delle realizzazioni d’oltreoceano ma piuttosto la conoscenza della loro iconografia, quasi del loro stereotipo. La pianta della torre Littoria non è triangolare, ma i progettisti la vogliono rappresentare così come in Italia sono giunte le rappresentazioni dell’opera di Burnham28. L’attenzione non è tanto rivolta al contenuto quanto alla forma di comunicazione di questo. Tale scelta è testimoniata anche dalle parole della pubblicistica in fase di costruzione. Il cantiere del grattacielo è descritto, infatti, come paradigma di efficientismo e, allo stesso tempo, come dimostrazione di un’abilità costruttiva del tutto italiana. I numerosi articoli che appaiono sui quotidiani non fanno altro che descrivere gruppi di cittadini che, con il naso in su, ammirano gli equilibrismi degli operai più simili ad acrobati che a manovali. «Adunque, esclama la gente, li abbiamo anche noi gli uomini vespa, gli uomini che non temono le vertigini di cui le riviste pubblicano le ardite imprese intessendo i colossali gabbioni dei grattacieli americani»29 (fig. 4a-4b). Il richiamo alla cultura americana, però, è giustificata dai progettisti attraverso un riferimento alla tradizione italiana. «San Geminiano [sic] visto dall’alto certe mattine di foschia, osserva l’architetto Melis, con le sue vecchie torri sembra, in scala ridotta, un paesaggio di New York con i suoi moderni grattacieli»30. La campagna fotografica commissionata dalla Società Reale Mutua, inoltre, non può non ricordare le cronache di cantiere dell’Empire raccontate dall’obbiettivo di Bettmann31. Le fasi costruttive del grattacielo torinese sono documentate da un amplissimo repertorio fotografico conservato presso l’Archivio Storico della Città di Torino32, in cui gli operai assumono le pose della ormai nota iconografia americana: i passi per la costruzione del «mito» sono i medesimi. Eppure, proprio mentre il binomio torre italiana-grattacielo americano sembra inscindibile, accade qualcosa che obbliga i committenti a fare un brusco dietro front. Nell’intricato avvicendarsi di fatti e problemi tra le diverse parti in causa (la municipalità, la Soprintendenza, il Ministero dei Lavori Pubblici e il Ministero dell’Educazione Nazionale) possiamo rintracciare le motivazioni che portano, ancora oggi, a identificare irrimediabilmente l’edificio della SRMA con il regime fascista, con una attribuzione di significato che va ben oltre alle intenzioni dei progettisti. Ragioni di un iter controverso L’inizio dei lavori (1932) si contraddistingue immediatamente per il ritmo serrato del cantiere che non è interrotto neppure nelle ore notturne. Alla possente struttura metallica della torre corrispondono altissime impalcature in legno e tecnologie costruttive tradizionali. Nel 1933, però, proprio mentre l’intelaiatura metallica della torre sta per giungere al compimento, il Sovrintendente ai Monumenti Giovanni Pacchioni richiede una repentina interruzione di lavori. La torre, infatti, minaccia di ergersi a un livello superiore rispetto alle prescrizioni L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA 237 Fig. 3a. Armando Melis, terzo progetto per l’isolato S. Emanuele a Torino [1932] (Laboratorio di Beni Culturali del Politecnico di Torino, Fondo Melis) Fig. 3b. New York, Fotografia del Flatiron Building 238 MARIA SANDRA POLETTO Fig. 4a. L’intelaiatura in acciaio dell’edificio della Società Reale Mutua [1935] (La ricostruzione dell’isolato S. Emanuele in Torino, «L’Architettura italiana», dicembre, 1935) Fig. 4b. New York, Fotografia di Bettmann del cantiere del Rockfeller Center L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA 239 regolamentari, turbando l’equilibrio compositivo dell’insieme. A questo problema si somma la volontà, da parte della committenza, di ricostruire il fronte sulla seicentesca piazza Castello modificando le arcate dello storico porticato33. Lo sviluppo della vicenda è uno dei punti cruciali per comprendere le profonde motivazioni di ordine economico che sottendono l’impresa urbanistica. La richiesta del Comune di realizzare una piccola piazzetta tra la via Viotti − parallela alla via Roma −, via Pietro Micca − la diagonale ottocentesca − e piazza Castello, infatti, è vista dalla Società Reale Mutua come un forte danno economico derivato dalla eliminazione di cubatura, quindi di rendita fondiaria. Per questo i progettisti si sentono legittimati ad aumentare l’altezza della torre prospettante su piazza Castello. La richiesta da parte del Ministero dell’Educazione Nazionale di studiare, anche per quella emergenza, un progetto «avente come fine di armonizzare la Torre che si eleva in via Viotti con l’antico palazzo prospiciente in via Roma mediante la ricostruzione simmetrica di due avancorpi laterali e conservando in modo rigoroso le caratteristiche architettoniche della piazza»34 non porta che a una modificazione dei corpi bassi, lasciando inalterato il profilo del grattacielo; nella prassi il problema formale è relegato a un ruolo secondario. Il dibattito tra i vari soggetti in azione si fa sempre più serrato, rendendo problematico anche lo svolgimento del lavoro in cantiere; Comune, Sovrintendenza, committenza e progettisti, infatti, si muovono con finalità del tutto differenti e non riescono a trovare un punto di accordo. Osservando in successione i disegni conservati nel fondo Melis, però, ci possiamo accorgere che alla fine del 1933 è introdotta una variante che può sembrare insignificante se non letta in parallelo con le decisioni politiche prese dal Governo centrale. Nello stesso periodo Andrea Gastaldi, segretario del Partito Nazionale Fascista, annuncia che ogni città deve dotarsi di una torre Littoria costruendola ex novo o riadattando un edificio esistente. Il Podestà di Torino propone che il grattacielo della Reale Mutua sia adibito a torre Littoria e che alla torre orologio che avrebbe dovuto coronare l’alto edificio sia sostituita una cella campanaria a ricordo dei martiri fascisti. Da questo momento tutte le similitudini e i paragoni con la cultura americana sono banditi, i riferimenti più o meno espliciti a una Manhattan allo stesso tempo avveniristica e presente sono dimenticati, l’iconografia cambia, le descrizioni si fanno pompose e retoriche, la torre può essere realizzata senza vincoli né opposizioni da parte degli istituti preposti alla conservazione35. Le cronache di settore non fanno altro che ricercare nell’edificio segni di «italianità», termine confuso che è utilizzato per identificare edifici e stili tra loro diversi, ma assunti a simbolo dell’opera del regime36. La torre a quindici piani fuori terra è realizzata e il fronte su piazza Castello è modificato attraverso l’eliminazione di una campata. Il Ministero dell’Educazione Nazionale approva il 240 MARIA SANDRA POLETTO raccordamento del Palazzo settecentesco con la retrostante costruzione moderna, allo sco- po di mettere in maggiore evidenza, in tutta la sua struttura, sin dal livello stradale, il grattacielo dell’isolato moderno, e per quanto riguarda il corpo intermedio, più alto di due piani, inscritto fra il palazzo settecentesco e la torre, esprime il parere che in esso non vengano ripetuti gli ordini dei quattro piani del palazzo prospiciente piazza Castello, ma ne sia invece reso più semplice il carattere adottando un tema architettonico che risponda a funzioni di trapasso fra l’architettura antica e la nuovissima, con un insieme unitario che giunga sino alla gronda: il complesso edilizio che ne risulterà sarà così costituito da tre masse distinte ad euritmicamente composte: la fronte monumentale del palazzo, la quinta semplice e più alta dietro, e la torre altissima in fondo37. L’architettura moderna e l’edificio storico devono trovare un raccordo nella semplicità dei volumi; in questa operazione l’architettura è spogliata dalle sue decorazioni per trovare la sua semplice struttura, criterio informatore del progetto razionale. Il progetto definitivo tra sperimentazione e tradizione Le intenzioni dei progettisti, dichiarate a più riprese in diversi scritti38, sono quelle di realizzare nell’isolato S. Emanuele un edificio che tenti di introdurre un linguaggio architettonico capace di coniugare la tradizione del passato − attraverso la conservazione del fronte su piazza Castello ma anche nell’enfasi data al significato della torre − e le istanze del moderno. La torre non sarà mai un grattacielo nel senso comune della parola. Saremo sempre a casa nostra, non andremo a chiedere nulla in prestito ai forestieri. Sarà una torre, una torre italiana. Già del resto gli ideatori dell’edificio, l’arch. Melis e l’ing. Bernocco, la chiamano torre, convinti che non c’è ragione che non abbia a star bene, a fare bella figura. Essi osservano che gli edifici di piazza Castello presentano delle masse che, eccedendo sul rimanente, danno movimento e leggiadria: il teatro Regio da una parte, la chiesa di San Lorenzo dall’altra e, più lontano la cupola della Sindone e il campanile del Duomo39. L’insieme dei disegni e dei progetti del grande Palazzo d’affitto, che culmina con la torre Littoria, costituiscono una parte molto consistente del fondo Melis e ci svelano l’iter progettuale che ha condotto al risultato finale. L’edificio appare subito come un elemento di rottura con il contesto circostante. Melis, infatti, intende «staccare decisamente le due costruzioni, quella moderna e quella vincolata. Cosicché la Torre compie da una parte la costruzione a carattere moderno e con la vetrata della scala crea una soluzione di continuità tra i piani»40. Dopo le prime difficoltà iniziali, in seguito al chiarimento del suo ruolo nel panorama urbano, l’edificio è costruito in fretta, tra il 1933 e il 1935. Il Palazzo presenta notevoli innovazioni: è il primo edificio multipiano con struttura metallica elettrosaldata costruito in Italia. Nella scelta dei materiali per la costruzione dell’edificio emerge chiaramente il continuo oscillare tra innovazione e tradizione che caratterizza tutta l’opera di Melis. Mentre per il rivestimento della facciata viene fatto impiego di materiali tradizionali, assolutamente innovativa si rivela la scelta del vetrocemento per i balconi, del linoleum per le coperture e del metallo per i serramenti a filo facciata e a L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA 241 saliscendi. Tale scelta sarà emblematica per lo sviluppo dell’architettura moderna. È inoltre da evidenziare l’uso delle strutture in metallo, la cui crescente importanza è inversamente proporzionale alla credibilità che essa riscuote presso i contemporanei (Melis sarà costretto a imbullonare la struttura). L’uso massiccio delle mattonelle di litoceramica è alternato all’utilizzo delle lastre di travertino, che assumono la funzione di fascia marcapiano, annullando lo slancio verticale e sottolineando la dimensione orizzontale della base del palazzo. Le lastre di travertino, inoltre, sono impiegate nel grattacielo per dare rilievo al corpo scala principale, nel quale è inserita una serie di finestre in vetrocemento che provoca un suggestivo contrasto di vuoto su pieno. Nell’edificio sembrano realizzarsi tutte le teorie di Melis intorno alle caratteristiche di una reale architettura moderna: «gli andamenti complessivi di piani e di linee, il rapporto di pieni e di vuoti, i valori tonali delle luci e delle ombre, le sensazioni statiche delle reazioni fra masse inermi e sostegni e quelle geometriche astratte delle direzioni, delle forze, dei rapporti di grandezza. […] Procedendo ulteriormente si arriva alla valutazione estetica della lucida nudità, del gioco astratto dei volumi puri nell’atmosfera»41. Ma è soprattutto la distribuzione interna degli ambienti e delle funzioni che richiama ai contemporanei il carattere razionalista dell’opera, in quanto essa «provvede molto bene, cioè razionalmente a ogni necessità, adeguandosi al gusto della vita moderna. E se convincesse in linea d’arte ed estetica quanto convince in linea pratica, le si potrebbe aprire dovunque e sempre le braccia»42. L’utilizzo del cemento armato nelle fondazioni e del metallo nell’intelaiatura è una scelta che porterà alla eliminazione della necessità di archi e volte, giungendo a quella «valutazione estetica dei fori rettangolari e degli ambienti cubici»43 tanto auspicata da Melis nei suoi scritti. Grande importanza è data inoltre «alle sorgenti luminose che mettono in valore la visione notturna dell’edificio»44 con un singolare exploit dei balconi in vetrocemento: attraverso pavimenti e solette, una serie di corpi luminosi integrali abbracciano lo spigolo dell’edificio, creando un voluto contrasto con gli antichi monumenti della piazza (fig. 5). La negazione dell’importanza dell’angolo, esplicitata attraverso il ricorso alla parete curva, non solo rivela una «tendenza a mettere in evidenza la difficoltà sorpassata affrontando procedimenti più involuti, ma fonti di un godimento estetico più sottile»45, ma richiama e sottolinea il carattere dinamico dell’edificio, adatto a essere osservato passando in velocità più che a essere staticamente contemplato. La torre suscita nei contemporanei un grande entusiasmo. Essa diventa nuovo simbolo della Torino moderna e fascista, in contrapposizione alla Mole Antonelliana, specchio del «modernismo del basso ottocento»46. Il grattacielo torinese − infatti − […] è quanto di più opposto si possa immaginare alla Mole Antonelliana […]. In esso la meccanica è meccanica, e l’arte riesce a farla dimenti- 242 MARIA SANDRA POLETTO care come tale nella funzione espressiva. L’architetto […] ha pensato alla struttura che è già forma, ed è diventato ingegnere senza dimenticare di essere architetto. […] La torre torinese è un’opera d’arte, un’opera d’arte moderna, intendendo l’aggettivo nel suo valore spirituale di cosa spiritualmente nuova, e perciò necessaria ed espressiva. […] È interessante vedere come l’architetto ha saputo trarre partito, per far vivere l’opera sua non da espedienti e trovatine, ma da uno schema di chiarezza semplice e robusto, che si appoggia sul gioco delle masse e fa collaborare i motivi cromatici di due soli materiali: il mattone e il travertino. La facciata verso via Viotti è intesa a preparare lo slancio della torre: la fasciatura chiara dei primi dieci piani, che si incurva piena di grazia a modellare l’angolo verso via Monte di Pietà, si intesta decisa al nascimento della torre, marcato dall’arretramento degli ultimi piani47. Per inoltrarsi nella comprensione dell’importanza dell’edificio ci è parso opportuno descriverne le principali caratteristiche. Strumenti essenziali per questo lavoro sono stati i progetti rinvenuti nel fondo Melis. L’edificio è composto di tre parti che presentano caratteristiche peculiari molto diverse, apparendo non molto equilibrate nella loro composizione. La prima parte costituisce il fronte su via Roma, all’imbocco con piazza Castello: essa è una costruzione a portici (così come richiesto dal R.D.L.), con ossatura in cemento armato di cinque piani fuori terra più il sesto arretrato; le colonne sono in diorite lucida del canavese. Il problema che avrebbe potuto causare la lunghezza della facciata sulla via è stato scongiurato con l’ausilio di una struttura in cui i ritti sono svincolati dalle piattabande. Tale soluzione permette alla costruzione di tollerare gli scorrimenti orizzontali causati dalla dilatazione termica e dal ritiro del cemento armato. Il collegamento ritti-piattabande è stabilito attraverso cuscinetti di piombo e per mezzo di un bolzone di piombo. La seconda parte è quella che si affaccia sulla storica piazza Castello la cui facciata seicentesca è interamente conservata solo come cortina scenografica, anche se elevata di due piani arretrati. Nel punto di immissione di via Viotti sulla piazza è stata creata una piazzetta per mezzo della demolizione del preesistente. Ciò rende migliore l’imbocco delle tre vie e consente un gioco di masse che «facciano da collegamento tra la parte vecchia e quella nuova e presentare più suggestivamente lo spigolo della Torre, che dalla piazzetta si innalza ininterrottamente per quasi 90 m.»48. La terza parte è quella del tutto moderna, il fronte su via Viotti. Essa si innalza per la parte più larga a dieci piani fuori terra, slanciandosi nella torre a venti piani per 72,30 metri di altezza. La torre è sovrastata dalla torretta contenente la cella campanaria, nella quale è riposta una campana di piombo dedicata ai caduti fascisti. Sulla torretta, infine, svetta l’asta della bandiera che si conclude, a 100 metri di altezza, con un fanale a luce intermittente per la navigazione aerea notturna. Il piano tipo della torre comprende un alloggio o un ufficio composto di sei vani, ingresso e servizi. La copertura è interamente a terrazzi, con cassette per i fiori e pergolati per l’estate, quasi a sottolineare la necessità di «un miglioramento dell’aspetto dell’edificio visto dall’alto, quale apporto allo sviluppo del volo, alla cui visione si vorrebbero offrire panorami di terrazze fiorite più che disordinate distese di comignoli e L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA 243 Fig. 5. La torre Littoria illuminata [1935] (La ricostruzione dell’isolato S. Emanuele in Torino, «L’Architettura italiana», dicembre, 1935) 244 MARIA SANDRA POLETTO Fig. 6. Vista della torre Littoria e della torre del Palazzo Madama [marzo 2000] L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA 245 abbaini»49. In essa si legge infatti un «ritorno alle case torri della tradizione italiana»50. L’uso del contrasto tra il rosso vibrante delle ceramiche in litocemento e il bianco delle lastre di travertino, che di notte viene riproposto dal contrasto tra le finestre e i balconi illuminati e la parete buia, ricorda alcune forme dell’espressionismo tedesco di Mendelsohn. A lavori conclusi alla torre sono attribuiti significati che esulano, come abbiamo visto, dalle intenzioni iniziali dei progettisti; le istanze del regime sono viste dalla Società Reale Mutua come strumento per l’affermazione dei propri interessi. In questo senso il rapporto con la tradizione è reinterpretato secondo il filtro dell’ideologia fascista. «Piazza Castello è di per sé stessa immagine, simbolo di Torino. Tra il Palazzo de Re e quello Madama, con d’attorno i tradizionali portici, aperta sulla via che conduce al più gran fiume d’Italia e sull’altra che, bellamente rinnovata, s’intitola degnamente alla capitale del Regno […]. La torre Littoria accomunerà simbolicamente l’antico e il nuovo, la tradizione veneranda e la modernità che crea altre immagini e segna novelle audaci, la storia di ieri e quella non scritto»51 (fig. 6). Maria Sandra Poletto I.M. ANGELONI, Torino, Torino, Paravia, 1937, p. 65. Sulla formazione della via nuova, attuale via Roma, in periodo moderno si segnalano i testi: V. COMOLI, Torino, Roma-Bari, Laterza, 1983 (2002); A. SCOTTI, Ascanio Vitozzi, ingegnere ducale a Torino, Firenze, La Nuova Italia, 1969; A. BARGHINI, Inediti per l’architettura da Ascanio Vitozzi agli architetti del primo Settecento, in Antologia di ritrovamenti per l’architettura in Piemonte fra Cinquecento, Sei e Settecento, a cura di Vera Comoli Mandracchi, «Studi Piemontesi», XIX, 1990, 1, pp. 57-64; Storia di Torino, vol. III: Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato (1536-1630), a cura di G. Ricuperati, Torino, Einaudi, 2002. Inoltre Ascanio Vitozzi: ingegnere militare, urbanista, architetto (1539-1615), a cura di M. Viglino, Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto, 2003. Inoltre, per quanto riguarda il progetto di risanamento realizzato negli anni tra le due guerre si citano: L. RE-G. SESSA, La formazione e l’uso di via Roma Nuova a Torino, in Torino tra le due guerre, Torino, Città di Torino, 1978, pp. 142-167; Via Roma. Cinquant’anni di storia e immagini, testi di L. Re e G. Sessa, fotografie di David Vicario, Milano, Mondadori, 1987; G. SESSA, Via Roma Nuova a Torino, in Guida all’architettura moderna di Torino, a cura di A. Magnaghi, M. Monge, L. Re, Torino, Lindau, 1995, pp. 507-517; M. ROSSO, La crescita della città, in Storia di Torino, vol. VIII: Dalla grande guerra alla liberazione, a cura di N. Tranfaglia, Torino, Einaudi, 1998, pp. 427-473; M.S. POLETTO, Via Roma 1861-1937: dai progetti di abbellimento al piano di ricostruzione urbanistica, tesi di dottorato di ricerca in Storia e Critica dei Beni architettonici e ambientali (XII ciclo), tutors prof. Vera Comoli e prof. Rosa Tamborrino, Torino 2000; EAD., Le altre via Roma, in Progettare la città, a cura di V. Comoli, R. Roccia, Torino, Archivio Storico della Città di Torino, 2001, pp. 355-370; EAD., La torre Littoria di Torino, in POLITECNICO DI TORINO, DIPARTIMENTO CASA-CITTÀ, De Venustate et Firmitate. Scritti per Mario Dalla Costa, Torino, Celid, 2002, pp. 544-552. 3 Sul dibattito ottocentesco che porta alla realizzazione di via Roma cfr. in particolare M.S. POLETTO, Le altre via Roma, cit. 4 M.S. POLETTO, Via Roma nuova a Torino. Dalle proposte di abbellimento al piano di ristrutturazione urbanistica (1861-1937), in L’architettura nelle città italiane del XX secolo. Dagli anni Venti agli anni 1 2 246 MARIA SANDRA POLETTO Ottanta, Atti del Convegno Internazionale (Roma, 20-24 febbraio 2001), a cura di V. Franchetti Pardo, Milano, Jaca Book, 2004, pp. 45-54. 5 R.D.L., 3 luglio 1930, n. 976. 6 L’antica via vitozziana si presentava come una via militaris di una larghezza di circa 10 m., non porticata, con facciate uniformi e gli edifici di 3-4 piani fuori terra. 7 V. CASTRONOVO, Potere economico e fascismo, in Storia d’Italia, vol. IV, tomo I, Torino, Einaudi, 1975, pp. 148-194. 8 G. GIOVANNONI, Questioni urbanistiche, «L’Ingenere», II, 1928, 1, pp. 6-10: 6. 9 I cinema erano il salone Ghersi e il Vittoria, le due gallerie erano la Galleria Nazionale e la Galleria Natta. Tra gli alberghi ricordiamo l’albergo del Caval Grigio, della Zecca, Trombetta. ARCHIVIO STORICO DELLA CITTÀ DI TORINO (d’ora in poi ASCT), Affari Lavori Pubblici. Via Roma e adiacenze, cartella 4, f. 8. 10 Per far fronte alla crisi economica del sistema bancario il Governo crea le due società finanziarie dell’IMI (1931) e dell’IRI (1933). Attraverso questa operazione si tenta di assorbire gli immobilizzi del sistema bancario in seguito al crollo di Wall Street. La partecipazione ai pacchetti azionari di vastissimi settori industriali, però, fa si che l’opera di salvataggio si trasformi in realtà in una azione di controllo e di direzione dell’economia nazionale. V. ZAMAGNI, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita dell’economia dell’Italia 1861-1990, Bologna, Il Mulino, 1990, cfr. in particolare il capitolo V: Industria e banca (1923-1943): dalla fratellanza siamese alla separazione, pp. 349-407. 11 L. RE, Problemi e fatti urbani dal 1920 al 1936, in Torino città viva: da capitale a metropoli 18801980, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1980, pp. 271-333 e G. MONTANARI, Architetture pubbliche in Piemonte negli anni del regime, Torino, Celid, 1983. 12 S. MUSSO, La società industriale nel ventennio fascista, in Storia di Torino, vol. VIII: Dalla Grande Guerra alla liberazione, a cura di N. Tranfaglia, Torino, Einaudi 1998, pp. 380-389. 13 L’indennizzo ai proprietari stabilito dalla legge per Napoli veniva maggiorato del 2-3%. Un’analisi approfondita dello stato di fatto avrebbe deciso per quali edifici si sarebbe potuta applicare la legge per Napoli. Il Regio decreto, inoltre, stabiliva il diritto di prelazione di proprietari o di consorzi di proprietari; nel caso questi non avessero mostrato di voler presentare alcuna richiesta non avrebbero avuto diritto ad alcun indennizzo. Il Ministero dei Lavori Pubblici si era mostrato molto perplesso riguardo all’inserimento di questa clausola. Per questo motivo aveva richiesto che si compisse una inchiesta sul danno recato ai proprietari per l’arretramento del filo stradale e l’inserimento del portico, elementi a detrimento della superficie fabbricabile. Il Municipio si era dimostrato fermamente convinto, invece, che i proprietari non avrebbero conseguito alcun danno, in quanto il nuovo movimento portato dalla riqualificazione dell’arteria avrebbe certamente agevolato la loro attività e portato un notevole aumento di valore degli stabili ricostruiti. ASCT, Affari Lavori Pubblici, Via Roma e adiacenze, 1919-1937. 14 Le lettere sono conservate in ASCT, Affari lavori pubblici, via Roma e adiacenze e Ordinati 1931-1935. 15 FEDERAZIONE DEI FASCI DI COMBATTIMENTO, Torino e l’autarchia, Torino, s.i.t., 1938, p. 108. 16 SOCIETÀ REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI, La Società Reale Mutua di Assicurazioni ed i suoi cento anni di vita, Torino, s.i.t., 1929. 17 La dimora della Reale Mutua in Torino, esperienza di restauro del “moderno”, a cura di P.G. Bardelli, Firenze, Octavo, 1999. 18 ASCT, Deliberazioni del Podestà, seduta del 14 marzo 1932. 19 Il Regio Decreto sancisce i provvedimenti per l’allargamento di via Roma e per il risanamento dei quartieri adiacenti, definendo le caratteristiche essenziali della nuova via quali: larghezza della via m. 14,80; portici da entrambi i lati larghi m. 5,80 ed alti non meno di m. 7,50; gli isolati non adiacenti a piazza San Carlo di 5 piani fuori terra e non superiori a 21 m. di altezza. 20 Tutto l’iter di realizzazione dell’isolato è accompagnato da un fitto carteggio tra Podestà e Presidente della Società Reale Mutua; molte di queste lettere non sono a oggi ancora pervenute ma ad esse si fa esplicito richiamo all’interno dei documenti conservati in ASCT, Affari Lavori Pubblici, via Roma e adiacenze. 21 La figura di Armando Melis, in particolare, ricopre un ruolo determinante all’interno del dibattito su architettura e città negli anni che precedono e seguono la seconda guerra mondiale. La storiografia in materia, pur non avendo affrontato in maniera sistematica e monografica lo studio dell’autore, L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA 247 sottolinea il suo impegno nel campo della formazione della disciplina urbanistica come architetto e teorico (è co-fondatore della rivista «Urbanistica» e partecipa attivamente alla formazione dell’INU). Rimarchevole è il suo ruolo nella formalizzazione della disciplina dei caratteri distributivi degli edifici e il suo apporto nella ricerca sperimentale nel campo delle tecniche costruttive e nell’uso dei materiali. La sua militanza nel Partito Nazionale Fascista e alcune sue realizzazioni architettoniche ritenute controverse, però, portano la critica storiografica postbellica a sottovalutare l’apporto di Melis, sottolineandone il suo essere fascista come elemento di giudizio anche degli esiti teorici e architettonici in campo urbanistico e architettonico. Solo ultimamente, uno sguardo più «distanziato» e critico consente di affrontare lo studio di architetti reputati «minori» o meno importanti, considerati però elemento chiave per comprendere esiti e sviluppi della città contemporanea. M. GUERRISI, Architetture di Armando Melis, Milano, Lattes, 1936; M.F. ROGGERO, Armando Melis de Villa, Torino, Politecnico, 1961; G. ASTENGO, In memoria di Armando Melis, XXXIV, «Urbanistica», 1961, pp. 3-7; M.S. POLETTO, Armando Melis de Villa architetto e urbanista. La figura professionale attraverso l’archivio, tesi di laurea, facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, rel. Vera Comoli, a.a. 1995-1996; A. PERRI, Armando Melis de Villa architetto e urbanista. La figura professionale attraverso l’archivio, tesi di laurea, facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, rel. Vera Comoli, a.a. 1996-1997; La dimora della Reale, cit. (in particolare il saggio critico di Carlo Ostorero); M.S. POLETTO, La torre Littoria di Torino, cit., pp. 544-552. 22 Cfr. intervista al prof. Roggero Mario Federico, collaboratore di Melis negli ultimi anni del suo operato [febbraio 1996], pubblicata in A. PERRI, Armando Melis de Villa, pp. 107-114. 23 SOCIETÀ REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI, La Società Reale Mutua di Assicurazioni e i suoi cent’anni di vita, cit., p. 268. 24 G. MONTANARI, Architetture pubbliche, cit., p. 11. 25 Nel dicembre 1994 il Dipartimento Casa-Città del Politecnico di Torino ha acquisito il fondo Melis, costituito da 2637 disegni che comprendono quasi interamente la produzione dell’architetto dagli anni Venti sino agli ultimi anni della sua attività, negli anni Cinquanta. I disegni sono stati oggetto di una schedatura informatizzata che consente, attraverso opzioni di ricerca, di individuare committenti, collaboratori, impresari insieme con luoghi, tipi edilizi, manufatti. Il fondo è attualmente conservato presso il Laboratorio Beni Culturali del Dipartimento Casa-Città del Politecnico di Torino. 26 L. RE-G. SESSA, Torino, via Roma, Torino, Lindau, 1992, p. 55. 27 Si fa riferimento alle vedute prospettiche conservate al’interno del fondo Melis del Politecnico di Torino. In particolare, inoltre, i vari progetti presentati al concorso per il Chicago Tribune (1922) sono pubblicati in Italia sulla rivista «Architettura e arti decorative». Cfr. M. PIACENTINI, In tema di grattacieli, «Architettura e arti decorative», VIII, 1923, pp. 311-317. 28 Si fa riferimento ai numerosi articoli riguardanti i «grattanuvole» di New York che appaiono sulle riviste di settore. Si vedano in particolare gli articoli di M. Piacentini sulla rivista «Architettura e arti decorative». Cfr. nota precedente e M. PIACENTINI, Il momento architettonico all’estero, «Architettura e arti decorative», 1921, 1, pp. 32-76. 29 Un grattacielo a Torino, «La Stampa», 20 ottobre 1932. 30 La torre e il torro, «La Stampa», 13 novembre 1932. 31 Per uno studio sull’attività di fotografo di Bettmann si rimanda al recente studio del CENTRO INTERNAZIONALE DI FOTOGRAFIA SCAVI SCALIGERI, I giorni e la storia. Le migliori immagini dell’archivio Bettmann, catalogo della mostra (Verona, Scavi Scaligeri, 30 ottobre 2004-9 gennaio 2005), Verona, Controverso, 2004. 32 ASCT, Fototeca, album via Roma anni Trenta. 33 ASCT, Affari Lavori Pubblici, via Roma e adiacenze, cartella 4, fasc. 2, visita del Soprintendente al cantiere, agosto 1933. 34 Atto di cessione alla Società Reale Mutua di Assicurazioni, 14 luglio 1932, ASCT, Affari Lavori Pubblici, via Roma e adiacenze, cartella 4, fasc. 3; Lettera del Podestà alla Sovrintendenza, 18 ottobre 1933, Ivi. 35 ASCT, Affari Lavori Pubblici, via Roma e adiacenze, cartella 4. 36 Su questo tema cfr. G. CIUCCI, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città, 1922-1944, Torino, Einaudi, 1989, in particolare il cap. VI Architettura, arte di stato, pp. 108-128. 37 ASCT, Affari Lavori Pubblici, via Roma e adiacenze, Lettera della R. Sovrintendenza all’Arte 248 MARIA SANDRA POLETTO Medievale e Moderna all’On. Signor Podestà di Torino, 3 febbraio 1934, cartella 4, fasc. 3. 38 Ci si riferisce in particolare all’articolo di A. Melis apparso sulla rivista «L’Architettura italiana» e al testo-diario dello stesso pubblicato durante la realizzazione del primo tratto di via Roma. Cfr. A. MELIS, La ricostruzione dell’isolato S. Emanuele in via Roma a Torino, «L’Architettura italiana», 1934, 7, pp. 220-254 e ID., La ricostruzione dell’isolato S. Emanuele in Torino, «Domus», 1935, 12, pp. 405-426 e ID., Architettura, scritti vari, Torino, Rattero, 1938. 39 «La Stampa», 6 settembre 1932. 40 A. MELIS, La ricostruzione dell’isolato S. Emanuele in Torino, «L’Architettura italiana», 1935, 12, pp. 11-35. 41 A. MELIS, Architettura, cit., pp. 147-148. 42 A. MELIS La ricostruzione dell’isolato, cit., pp. 11-35. 43 A. MELIS, Architettura, cit., p. 148. 44 «La Stampa», 6 settembre 1932. 45 Ivi, p. 149. 46 M. GUERRISI, Architetture di Armando Melis, cit., p. 150. 47 Ibidem. 48 A. MELIS, La ricostruzione dell’isolato, cit., p. 33. 49 A. MELIS, Architettura, cit., p. 151. 50 A. MELIS, La ricostruzione dell’isolato, cit., p. 35. 51 La torre Littoria in piazza Castello, «La Stampa», 28 marzo 1934. Note e Discussioni LA CITTÀ DEL TARDO RINASCIMENTO 1. Una periodizzazione e un campione di città Che cos’è il tardo Rinascimento? Cronologicamente, nella periodizzazione proposta da Claudia Conforti (La città del tardo Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2005, collana «Storia della città», pp. 161, euro 14,00), è la settantina d’anni che vanno dall’apertura del Concilio di Trento (1545) al pieno manifestarsi dell’età barocca, vale a dire il 1622, data simbolo che coincide con le celebrazioni romane per la canonizzazione dei campioni della Controriforma: Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Teresa d’Avila, Filippo Neri. Si tratta, dunque, di un pezzo importante di quello che Kamen ha chiamato il «secolo di ferro» (1550-1660). Per caratterizzarlo con i fenomeni più significativi è necessario compilare un lungo elenco: Controriforma; formazione dello Stato moderno a larga base territoriale; assolutismo; polarizzazione sociale; espansione dell’Europa oltreoceano; mercantilismo; ulteriore innovazione nell’arte della guerra; divaricazione economica tra Europa mediterranea ed Europa Nord-Occidentale; crescita (’500) e inversione (’600) demografica; crisi energetica; prime avvisaglie di rivoluzione scientifica; stallo nel confronto tra cristianità e Islam, due mondi entrambi in crisi in area mediterranea. Tutto ciò ha una profonda influenza sulla città, anzi, su alcune città che l’autrice seleziona accuratamente e con un certo criterio: la città grande, rappresentativa, quasi sempre capitale di uno Stato consolidato o in formazione. 2. La città moderna Il libro ha due grandi ed essenziali meriti. Innanzi tutto riesce ad allineare, in poche pagine e in questi settant’anni, un impressionante numero di elementi fondanti della città moderna, per tanti versi opposta alla città ideale del Rinascimento. Il secondo merito consiste nel non essere una storia dell’architettura o dell’urbanistica, ma una storia urbana à part entière, nella quale le trasformazioni fisiche della città si specchiano sempre su altri piani fenomenici: istituzioni politiche e amministrative, economia, tecniche, cultura, società. Questa, d’altra parte, è la filosofia culturale ed editoriale della collana diretta da Donatella Calabi, collana che intende dare, con una ben congegnata periodizzazione, suggestioni esatte sull’intera storia della città dall’antichità a oggi. 250 NOTE E DISCUSSIONI Molte cose cambiano in questa settantina d’anni. Cambia l’idea di città. Dall’ordine astratto e formale del Rinascimento, si passa alle esigenze funzionali e strumentali, ivi inclusa quella rappresentativa e celebrativa. Dall’armonia del disegno geometrico, l’attenzione si sposta sulla peculiarità del sito geografico e topografico (fiume, aria, retroterra agricolo, difendibilità). Da una proposta totalizzante di rinnovo, si passa ad una più pragmatica pratica di trasformazione per parti. L’autrice ricorda che, in tre scritti emblematici di Guicciardini, Tolomei e Botero, la città non è più forma urbis, ma «sistema composito di funzioni diverse, innervato sulla convergenza di molteplici fattori: demografici, geografici, meteorologici, igienici, economici, commerciali e, naturalmente, politico-istituzionali, cioè a dire religiosi, militari, giuridici e amministrativi». Cambia la società urbana, sottoposta a incipienti fenomeni di separazione di ceto, cioè di aristocratizzazione e chiusura delle classi dominanti. Ma si tratta di élites urbane disposte anche ad aperture in grado aumentare il potere della città: incentivi al popolamento, all’installazione di stranieri, di ebrei e di quanto può accrescere la competitività del milieu cittadino. La competizione globale (fisica, economica, sociale, culturale, istituzionale) tra città e tra territori, oltre che tra Stati, tipica del mercantilismo, è un’idea molto moderna. Dopo l’oblio deduttivo e marginalistico dell’economia politica classica e neo-classica, è un’idea che sta guadagnando forza proprio oggi, in epoca di neo-mercantilismo globalizzante (si pensi ai grattacieli e alle grandi opere in grado di alimentare il capitale simbolico delle metropoli mondiali). Cambia la dimensione delle città, con i primi fenomeni di gigantismo (per l’epoca): tra 1550 e 1650 Londra passa da 80mila a 400mila abitanti; Amsterdam da 30mila a 175mila; Anversa, tra 1500 e gli anni del tracollo (1576-85), da 40mila a 110mila; Parigi da 130mila a 430mila; Roma da 45mila a 124mila; Madrid da 30mila a 130mila. Tra 1500 e 1600 Napoli passa da 150mila a 281mila; Lisbona da 30mila a 100mila; Siviglia da 25mila a 90mila. È una crescita selettiva, che riguarda le capitali degli Stati a larga base territoriale e i porti, soprattutto quelli affacciati sull’Atlantico e sul Mare del Nord. La crescita crea nuove sfide e contraddizioni difficili da risolvere. L’edilizia tende a debordare extra moenia, che occorre allargare e adeguare agli standard del «secolo di ferro» e delle sue artiglierie. Una funzione continua di crescita (popolazione) entra in attrito con una funzione discreta (ampliamento del recinto murario). Ma le nuove (o adattate) opere di difesa sono molto costose e le città, nell’attesa, aumentano le densità fondiarie, anche in verticale, accrescendo le latenti contraddizioni ecologiche dell’agglomeramento urbano e producendo vistosi fenomeni di rendita. Il consolidarsi di alcuni Stati nazionali e delle loro strategie militari sta sdrammatizzando il problema della difesa della singola città, trasferendolo ai confini dello stato in forma di città-piazzeforti. Nell’ampia rassegna fatta dall’autrice, colpisce il ruolo chiave che in questa materia svolgono gli architetti militari italiani. NOTE E DISCUSSIONI 251 Sorgono le prime perplessità sulla sostenibilità e sui limiti dello sviluppo urbano, insidiato dai problemi di approvvigionamento alimentare ed energetico. Dalla seconda metà del ’500 prende avvio una sorta di malthusianesimo urbanistico che vieta di accrescere la città entro e soprattutto oltre le mura. Provvedimenti per il blocco della crescita della superficie urbanizzata vengono tentati a Parigi (1560), a Londra (ripetutamente tra 1580 e 1625), a Napoli (1566). È, naturalmente, una battaglia perduta contro le forze inarrestabili che sospingono l’espansione dell’area urbana. Comunque, dimensioni demografiche e accresciute funzioni richiedono interventi urgenti su parti e funzioni della città. Interventi sui «vuoti», cioè su strade, piazze, porte e ponti. È un lavorio di lima e piccone sulla densità e «confusione» che la città medievale ha lasciato in eredità alla morfologia urbana: lastricatura, larghezza, rettifica lineare delle strade ed eliminazione delle superfetazioni in aggetto che intralciano la mobilità; gerarchizzazione dei percorsi e dei siti (piazze reali; la Strada Nuova di Genova). Lo richiedono le carrozze, i flussi crescenti di prodotti e materiali (derrate, materiali edili), i percorsi istituzionalmente o socialmente privilegiati. Interventi sui «pieni», cioè sugli isolati. Occorre risolvere il problema della edificazione in aderenza tra lotti di proprietari diversi, onde eliminare i maleodoranti «chiassi», che pestilenze e teorie miasmatiche del contagio epidemico mettono sotto accusa. Bisogna anche accorpare e riedificare blocchi di edilizia preesistente, con innovative norme di esproprio e di incentivazione alla riqualificazione del patrimonio edilizio, particolarmente a favore di complessi religiosi e dimore aristocratiche. Si afferma, tuttavia, anche l’intervento in senso contrario, volto a limitare strapoteri religiosi o consuetudini giuridiche, come i fedecommessi, che tutelano l’integrità dei grandi patrimoni e che risultano ora troppo vincolanti per chi voglia mettere mano ad una riforma della città. Interventi si rendono necessari per aumentare l’efficienza della «macchina» urbana e diminuirne le esternalità negative, le non desiderabili interferenze che le varie funzioni esercitano l’una nei confronti dell’altra. Prosegue così una specializzazione funzionale delle parti di città, una sorta di «zoning» che sviluppa tendenze già presenti nella normativa statutaria medievale. Scala dimensionale, decoro, salubrità e bisogni in via di espansione richiedono, inoltre, migliori servizi, come acquedotti e sistemi fognari. Nelle città capitali, in particolare, nasce una nuova governance urbana, nella quale la Corona limita ed espropria i poteri municipali, signorili e religiosi. Le capitali fungono così da laboratorio normativo, i cui esiti verranno poi estesi, in tutto o in parte, anche alle città di rango inferiore. Ma nasce anche un settore e degli operatori definibili come imprenditoria immobiliare, che investe in crescita edilizia e domanda di abitazioni ed è ormai assuefatta all’idea di profitto, di rendita, di uscita dallo stato stazionario. Si dà il caso, persino, di una iniziativa pubblica in favore di edilizia popolare (a Parigi, nel contratto del 1598 tra un ingegnere-imprenditore ed Enrico IV). 252 NOTE E DISCUSSIONI Il volumetto, infine, è letteralmente pieno di acute notazioni, non proprio consuete negli studi di storia dell’architettura e dell’urbanistica. Si pensi, ad esempio, al nesso tra la crisi del legno, la scomparsa dei sistemi costruttivi a traliccio e il trionfo della pietra e del laterizio. Abbondano poi le pagine di grande apertura disciplinare, come quelle contenute nel capitolo sulla cultura della città e dedicate alla comparsa di un genere letterario «urbanologico», non più o non solo encomiastico, ma analitico e attento alla dimensione multiforme del fenomeno urbano. Oppure le pagine che descrivono la nascita di un dinamico settore grafico di vedute di città, usato commercialmente e politicamente quasi come strumento di marketing territoriale. 3. Alcune perplessità Come accade in tutte le opere importanti, restano alcuni punti da chiarire. Il campione di città esaminato dalla Conforti è trattato come un insieme omogeneo, che risponde ad analoghe sollecitazioni. Eppure i contesti nazionali e territoriali non sono affatto omogenei. Ci sono nazioni e territori in forte espansione economica (Inghilterra, Province Unite Meridionali fino alla seconda metà del ’500, poi Province Unite Settentrionali), ma nel campione compare solo Anversa, non Londra e Amsterdam. Ci sono nazioni e territori che proprio in questo arco di tempo subiscono una brusca inversione di tendenza (Spagna, Portogallo). Altri che vedono accumularsi sintomi di crisi e decadenza (Penisola italiana). La Francia, con Parigi, e soprattutto altri casi (Torino, Praga) sembrano rispondere a una dinamica tutta istituzionale. Viene da domandarsi se per caso non esistano diversi tipi di crescita e rinnovo urbano: uno da sviluppo economico e uno sostitutivo di un mancato sviluppo economico (cfr. l’accenno, a pag. 46, della estraneità dell’Italia al moto funzionalista e mercantilista dell’Europa del Nord). Si può, dunque, parlare di una urbanizzazione «parassitaria» a Napoli, Roma, Madrid? I porti mediterranei si rinnovano più che per esigenze mercantili «attive», per inedite esigenze strategiche e come scali «passivi». È il caso di Livorno, la Gioia Tauro del Sei-Settecento, che nasce e cresce in un’ottica di ripiegamento dell’Italia e del mondo mediterraneo, sempre più dominato dal commercio e dalle marinerie del Nord Europa. Qualche messa a punto sulle tendenze demografiche e territoriali sembra opportuna. Le città crescono sì per immigrazione rurale, ma sembra eccessivo dire che esse «prosciugano le campagne» e che queste ultime siano afflitte da una «languente agricoltura» che sta passando «inesorabilmente dall’aumento di produttività all’estensione delle colture». Non è sempre così, ad esempio (e ancora) in Olanda e Inghilterra. Oppure che la peste del 1348 si porti via metà della popolazione europea; oppure, ancora, che i «ricorrenti tracolli demografici [...] decimano anche nel Cinquecento la popolazione europea, non particolarmente copiosa». Il XVI è secolo, in realtà, e un periodo di sicura crescita demografica, almeno fino agli anni ‘80. NOTE E DISCUSSIONI 253 Un’ultima perplessità. La nascita della città moderna, nel volume, appare come un moto progressivo e razionale più che un parto punteggiato da doglie e contraddizioni. Essa, tra le altre cose, implica una crescente pressione fiscale sulle campagne, con conseguenti rivolte contadine e pauperismo dilagante. La città moderna cerca anche di cavalcare l’onda di crescenti contraddizioni ecologiche. Il poemetto di Alessandro Tassoni su Modena (pag. 21), ad esempio, più che uno sberleffo, sembra descrivere fedelmente la condizione ambientale della città, ove le «contrate corron di fango e merda a mezza estate». E’ interessante il tema delle «comandate» e ci si può chiedere quanto esse siano prossime alle corvées medievali, oppure siano strumenti eccezionali per far fronte ad opere pubbliche urgenti in situazione di crisi fiscale. Ercole Sori 254 NOTE E DISCUSSIONI A PROPOSITO DELL’ARA PACIS La nuova sistemazione dell’Ara Pacis potrà essere valutata più approfonditamente nel merito – e forse con maggiore distacco e serenità – nei prossimi mesi, dopo il completamento di tutti i lavori ed alla luce di un’informazione più precisa anche sui costi complessivi, diretti e indiretti, dell’opera. Tuttavia è a mio avviso maturo il tempo per avviare, a partire da questo caso “importante”, una discussione seria e costruttiva sulle politiche di indirizzo e di gestione in materia di patrimonio culturale. Infatti, la lunga e contrastata vicenda dell’Ara Pacis – segnata talvolta da polemiche politiche inappropriate e strumentali – ha evidenziato alcuni problemi di metodo e delle fragilità istituzionali sui quali occorre riflettere per individuare criteri e pratiche affidabili e largamente condivisi, traendo la giusta lezione dalle vicende passate. Un ragionamento sul caso dell’Ara Pacis è essenziale non solo perché si è trattato di un intervento culturalmente e finanziariamente significativo nel cuore della capitale, ma perché dall’analisi delle procedure adottate nascono delle considerazioni che non possono essere lasciate cadere in tema di politiche culturali ed urbanistiche nei centri storici. Va innanzitutto rilevato che nel caso dell’Ara Pacis vi era l’urgente necessità di un intervento da parte dell’amministrazione comunale, che riguardava la stessa sfera privilegiata della conservazione del bene, e sono del pari fuori discussione le buone intenzioni degli attori principali della vicenda, specie per quanto concerne l’obiettivo di recuperare una centralità per un’opera d’arte di elevato valore simbolico. Del resto è ben noto che l’area intorno al nodo storicamente nevralgico per la città del Porto di Ripetta (fig. 1) – tanto celebrato nell’iconografia di Sette-Ottocento – venne sconvolta nel periodo post-unitario dalla nuova regimentazione del Tevere e dalla realizzazione dei muraglioni e dei lungotevere. Inoltre tutto il complesso tessuto urbano stratificatosi nel tempo nell’area del Mausoleo di Augusto e intorno all’asse di via Ripetta (figg. 2-3) venne radicalmente cancellato dalle vaste demolizioni e dalle nuove edificazioni realizzate dal Governatorato alla fine degli anni Trenta nel quadro delle celebrazioni e delle rappresentazioni dei fasti e delle ambizioni imperiali (fig. 4). Nell’ambito di tali imponenti interventi si realizzò la traslazione dell’Ara Pacis dalla zona del suo rinvenimento a San Lorenzo in Lucina nella “teca” di Vittorio Ballio Morpurgo, posta a ideale completamento del nuovo assetto urbanistico dell’area dell’Augusteo (fig. 5). Nel secondo dopoguerra l’area di piazza Augusto Imperatore, persi i legami con il tessuto storico della città e, al tempo stesso, gli elementi simbolici che aveva inteso attribuirle il regime fascista, divenne un luogo marginale che, in relazione agli sviluppi della motorizzazione a partire dagli anni Sessanta, assunse la funzione di un grande parcheggio all’aperto (fig. 6). Sorte analoga toccò alla “teca” di Morpurgo, assediata dalle auto e posta a contatto di un asse viario di grande scorrimento: un monumento al di fuori di ogni percorso e visitato esclusivamente da turisti colti ed appassionati di antichità. NOTE E DISCUSSIONI 255 Questo sommario excursus è indispensabile per riepilogare i grandi sconvolgimenti subiti dall’area nel corso di un secolo e precisare in quale contesto si è venuta a collocare nel 1996 la decisione di affidare ad un architetto di fama internazionale – Richard Meier – il progetto di creare un nuovo “contenitore” per garantire una corretta conservazione ed una migliore fruibilità dell’Ara Pacis. Le vicende progettuali e realizzative sono state assai travagliate e certamente non solo per problemi burocratici o politici. Vi erano – e vi sono – delle questioni culturali e di metodo in merito alle quali è importante, a mio avviso, ritrovare degli elementi sostanziali di larga convergenza per il buongoverno della città. Non sembra che si possa assumere il caso Ara Pacis come un modello per futuri interventi riguardanti il patrimonio culturale della città. Infatti, l’opera di Meier potrà legittimamente piacere o non piacere, essere considerata sgraziata e inutilmente ingombrante dall’esterno e magari gradevole all’interno, oppure ancora si potrà rimanere colpiti dai giochi di luce che produce; su tutto questo le discussioni si protrarranno a lungo ed è naturale che si manifestino posizioni diverse. Certo è che si tratta di un’opera architettonica importante: Meier ha costruito un tempio per conservare l’altare e ha voluto imprimere un segno forte ed invasivo rispetto al tessuto urbano e al contesto ambientale. Si tratta di una considerazione oggettiva, riscontrabile da qualsiasi osservatore del sito (figg. 7-8), e che non entra nel merito e nell’apprezzamento dell’opera come chiarito in premessa; del resto è comprensibile che un autore voglia dare un’impronta preminente alla sua creazione. Quello che invece sorprende è che un’opera di queste dimensioni, che è passata al vaglio di vari organi tecnici e di tutela, si sia potuta deliberare e realizzare in assenza di una seria analisi e valutazione preventiva dei suoi rapporti con il contesto urbano e storico-culturale. Credo che anche un non specialista, leggendo la guida rossa del Touring, esaminando una piantina dell’area ed osservando direttamente il sito, si sarebbe agevolmente reso conto che esistevano almeno quattro problemi da tenere ben presenti nell’elaborazione e nella valutazione del progetto: il rapporto con il lungotevere e, più in particolare, con il fiume; la prospettiva di via di Ripetta; il rapporto con piazza Augusto Imperatore; il rapporto con le chiese di San Girolamo e, soprattutto, di San Rocco. Revisioni e ridimensionamento del progetto originario di Meier hanno dato un’insoddisfacente risposta ad uno dei problemi, mentre solo recentemente si è parlato della necessità di un progetto urbano per piazza Augusto Imperatore e le aree adiacenti e solo oggi, a fronte dell’evidenza indiscutibile di migliaia di veicoli che sfrecciano a 3 metri dalle vetrate dell’Ara Pacis (fig. 9), si è ipotizzato di realizzare un sottopasso che avrà notevoli implicazioni tecnico-scientifiche e comporterà consistenti oneri a carico della collettività. La definizione preliminare di un vero progetto risulta dunque la strada maestra da seguire in futuro, perché è quella che consente di stimare in modo realistico gli oneri complessivi, di ridurre i margini di errore e di evitare di perdere tempo e denari per ripensamenti in corso d’opera dovuti ad insufficienze del progetto originario. Alla luce di queste considerazioni appare fuori luogo il quesito se interventi innovativi 256 NOTE E DISCUSSIONI Fig. 1. Alessandro Specchi, Prospetto del nuovo navale di Ripetta, [1702], Fondazione Besso NOTE E DISCUSSIONI 257 258 NOTE E DISCUSSIONI Fig. 2. Il Porto di Ripetta, l’Augusteo e l’area del Tridente, anno 1748. Particolare tratto dalla carta vettorializzata della Pianta di G.B. Nolli redatta a cura di Keti Lelo Fig. 3. L’Augusteo prima delle demolizioni del 1936 quando era ancora utilizzato come anfiteatro, ICCD-Aerofototeca, 5° Reparto dello S.M. Aeronautica NOTE E DISCUSSIONI 259 Fig. 4. Lavori di sistemazione di piazza Augusto Imperatore, 1937, ICCD-Aerofototeca, Aeronautica Militare Fig. 5. La nuova sistemazione dell’Ara Pacis, 1938-1940, ICCD-Aerofototeca, 5° Reparto dello S.M. Aeronautica 260 NOTE E DISCUSSIONI Fig. 6. L’Ara Pacis e piazza Augusto Imperatore nel secondo dopoguerra, ICCD-Aerofototeca, Aeronautica Militare Fig. 7. Il nuovo museo dell’Ara Pacis in fase di completamento visto da Sud e le chiese di San Girolamo e di San Rocco, aprile 2006 (foto di Noemi Travaglini) NOTE E DISCUSSIONI 261 Fig. 8. Il nuovo museo dell’Ara Pacis (lato prospiciente su via di Ripetta e piazza Augusto Imperatore), aprile 2006 (foto di Noemi Travaglini) Fig. 9. Il nuovo museo dell’Ara Pacis (lato prospiciente sul lungotevere, particolare), aprile 2006 (foto di Noemi Travaglini) 262 NOTE E DISCUSSIONI NOTE E DISCUSSIONI 263 si possano realizzare nell’ambito del centro storico: il problema è un altro e su quello occorre confrontarsi. Infatti, la città è per sua natura un oggetto vivo in perenne evoluzione e sarebbe del tutto illogica la pretesa di cristallizzarla in un museo, anche limitatamente al perimetro della città storica; ma è al tempo stesso altrettanto ovvio che interventi nel centro di Roma dovrebbero essere preceduti da un’istruttoria tecnico-scientifica adeguata e dalla precisa definizione di obiettivi e contenuti, specie oggi che le nuove tecnologie edilizie possono tanto fare miracoli quanto facilmente creare delle mostruosità. Del resto un qualsiasi committente – e specie una pubblica amministrazione – ha il dovere di esplicitare obiettivi, esigenze funzionali e vincoli che dovrebbero riguardare anche gli aspetti economici e quelli gestionali dell’opera finita. Occorre poi sottolineare con schiettezza che se vi è un interesse di professionisti più o meno noti ad operare nei centri storici, perché lavori in questi ambiti garantiscono comunque – a parità di condizioni – una maggiore visibilità ai progettisti, questo certamente non si deve tradurre in una deprecabile sovraesposizione di molti centri storici di grandi e di piccole città a millantate politiche di riqualificazione urbana o di arredo urbano, che finiscono talvolta per deturpare piazze e strade con l’aggravante di un inutile spreco di pubblico denaro. Infine, i segni forti di innovazione – sempre coordinati con i contesti – dovrebbero probabilmente riguardare in primis le aree semi-centrali e le periferie, soprattutto quelle che, in base alla pianificazione urbana, devono costituire poli di nuove centralità. Se è assolutamente condivisibile, e va sollecitato, un impegno più forte – anche in termini di investimenti – di soggetti pubblici e privati sul terreno della qualità architettonica, ciò non significa affatto che tale impegno – specie nei centri storici – si possa ridurre all’affidamento ad personam ad un architetto di riconosciuta reputazione nazionale e internazionale dell’incarico di elaborare e realizzare un progetto. La città, specie la città storica, è un organismo straordinariamente complesso e stratificato e la sua conoscenza, che è poi il presupposto indispensabile di qualsiasi serio progetto di innovazione, non si può esaurire in una singola competenza, per quanto versatile; tale conoscenza richiede invece il concorso di una molteplicità di saperi specialistici ed una collegialità di analisi. È questo a mio avviso un punto cruciale che ha a che vedere con la questione del rapporto tra «città delle pietre» e «città degli uomini» e che sollecita una forte cultura di governo delle città, che si può esprimere in modo efficace solo coniugando memoria e progetto. La città è un organismo vivo in continua trasformazione, ma trae la sua forza e il suo carattere distintivo da una sedimentazione di esperienze e da un’accumulazione di saperi che ne fanno un luogo privilegiato di cultura, scambi, innovazioni, interazioni, identità, conflitti. Da queste riflessioni scaturiscono già oggi alcune indicazioni di politica culturale su cui è possibile intervenire, delineando una più coerente azione di governo dei processi di trasformazione ed innovazione urbana. Per i grandi progetti, specie per quelli che incidono nel vivo della città storica, sono necessari studi preliminari e chiarezza di obiettivi, larghe consultazioni, procedure concorsuali e assoluta trasparenza, perché 264 NOTE E DISCUSSIONI sono in gioco la nostra storia e la nostra cultura e sono pure implicati – non va sottaciuto questo aspetto – interessi professionali ed imprenditoriali corposi. Ma tutto questo non è sufficiente, poiché è emersa in modo oggettivo un’inadeguatezza dell’attività di organi tecnici e di tutela – che prescinde dalla qualità delle singole persone – ed evidenzia l’urgenza di una riforma istituzionale. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale in una città come Roma non possono essere affidati alle decisioni esclusive di organi monocratici: occorre dar vita ad un organo consultivo collegiale indipendente, basato su larghe competenze disciplinari e prevalentemente elettivo (invertendo perverse tendenze centralistiche e di asservimento dei tecnici al potere politico), in modo da coinvolgere e responsabilizzare i saperi presenti nel mondo scientifico romano. Vi è una sostanziale unitarietà tra tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, e il presupposto indispensabile per una più efficace azione a tutti i livelli è costituito dallo sviluppo della conoscenza e della ricerca. È poi importante, sul piano del metodo, programmare gli interventi e fissare delle priorità – l’elenco delle urgenze è assai fitto, direi imbarazzante – secondo criteri di valori. Tale pianificazione è tanto più essenziale in tempi di risorse scarse, anche sul piano della voce investimenti, e rappresenta l’unica strada per proporre degli obiettivi di alto profilo nella consapevolezza che l’investimento sul terreno del patrimonio culturale può costituire una leva potente di sviluppo economico e civile, come hanno testimoniato recenti analisi sulle tendenze dell’economia romana. Inoltre, si avverte la necessità di una maggiore collaborazione tra Stato, Comune, Regione (finora peraltro scarsamente presente e priva di progettualità) e le istituzioni scientifiche che operano in vario modo nel campo del patrimonio culturale, a partire dalle università; di questa esigenza si dovrà tener conto nel costruire il nuovo modello autonomistico di Roma capitale. In questo quadro, che esige un accrescimento di efficienza operativa, occorre ragionare anche per il patrimonio culturale in termini di reti e di sistemi, e diventa altresì irrinunciabile un impegno per estendere le sinergie tra istituzioni pubbliche ai vari livelli; sotto questo profilo Roma potrebbe costituire un caso sperimentale di straordinario interesse. Si pensi, ad esempio, al ruolo che potrebbe svolgere un’istituzione «Museo della città», intesa come laboratorio multidisciplinare e luogo di dialogo con la città. Il sindaco Walter Veltroni ed il ministro Francesco Rutelli, due personalità che in tempi e modi diversi hanno già dato un contributo importante ad una rivitalizzazione culturale della capitale, possono concertare quelle misure strutturali che oggi si richiedono. Il patrimonio culturale – inteso nella sua accezione più ampia – non è una delle questioni per il buongoverno della città; è la questione, perché in esso si sostanziano la storia, la cultura, l’identità della comunità e perché costituisce per Roma la radice profonda della sua egemonia e la principale fonte di ricchezza. Carlo M. Travaglini NOTE E DISCUSSIONI 265 I RECENTI PROGRESSI DELLA LOCAL HISTORY ITALIANA Nelle righe che seguono userò il termine local history. Non lo farò per anglofilia o per sfoggiare una mediocre conoscenza della lingua inglese, ma per indicare una diversa prospettiva di ricerca. Ci sarebbe l’italiano storia locale ma a molti di noi, a cominciare dal sottoscritto, quell’espressione evoca scenari non esaltanti. Ecco comparire davanti ai nostri occhi l’immagine del parroco con l’hobby della storia, dell’insegnante di lettere in pensione o comunque del solitario ramazzatore di carte d’archivio, impegnato su argomenti che a noi oggi appaiono futili o marginali: la storia del gonfalone, della patente regia, dello stemma e di quant’altro possa servire a dimostrare o a legittimare la dignità urbana di un centro piccolo e periferico. Al di là delle battute, la nozione di storia locale sembra appartenere ad una tradizione di eruditi che, soprattutto nell’Italia dei comuni medievali, ha avuto una robusta ed interrotta tradizione di studi durata fino al secondo dopoguerra. Una tradizione che ha avuto grandi meriti, ma che oggi appare esaurita, nonostante le molte sacche di resistenza sparse per la penisola. A confronto con la storia urbana, la local history registra oggi in Italia incoraggianti progressi: si tratta come vedremo del prodotto di studiosi i quali sono solidamente inseriti entro circuiti di ricerca nazionali e internazionali. E qui rimarchiamo una prima evidente differenza con una tradizione di storia locale che, alle nostre latitudini, si è quasi sempre associata all’idea di un dilettante o di uno specialista che opera en solitaire. Non si tratta di un’annotazione statistica o sociologica sul profilo del nuovo studioso, ma di un dato iniziale che poi si riflette sulla qualità del lavoro: emerge infatti un’attenzione al confronto tra diversi casi di studio, una vocazione alla storia comparata che genera un sensibile distacco dalla tradizione erudita. Mi riferisco, per cominciare, ad un nuovo filone di studi che ha preso il nome di «quasi-città», a partire da una serie di concetti formulati da Giorgio Chittolini in un articolo del 19901: vi si accennava a centri di modeste dimensioni, privi del titolo di città ma che, tuttavia, possiederebbero molti connotati per essere definiti come tali. In primo piano c’è l’aspirazione a divenire città. Le pressioni prodotte in questa direzione provengono soprattutto dalle élite locali e ci rivelano che cosa si intendesse, di volta in volta, per civitas: non solo un insediamento legittimato nel suo rango dalla presenza di un vescovo e di un caposaldo politico-amministrativo, ma un’entità legata a tutta una serie di funzioni assai più complesse. Anna Bellavitis ne dà una definizione precisa: «L’espressione quasi-città (…) in- 266 NOTE E DISCUSSIONI dica quei centri minori che pur avendo raggiunto, tra epoca medievale e moderna, un’organizzazione di tipo urbano e un peso demografico che, in altri contesti, permetterebbero di attribuire loro la qualifica di città ne sono sprovviste perché non sono sedi diocesane»2. Oggi, su questo fronte di studio troviamo impegnato un gruppo di giovani studiosi che provengono da diverse aree disciplinari: dalla storia dell’architettura come Elena Svalduz, Stefano Zaggia e Francesco Ceccarelli, dalla storia moderna come Marco Folin e la stessa Anna Bellavitis, dalla storia medievale come Manuela Ghizzoni3. Il punto di partenza è stato offerto dai piccoli centri dell’Emilia e della Romagna, capoluoghi di principato: Carpi, Imola, Guastalla. Tutti situati a sud del Po, questo tipo d’insediamento ha offerto indicazioni anche a chi intendeva affrontare casi di studio situati fuori dalla Cispadania: nella Lombardia, nel Veneto, nelle Marche e persino fuori dall’area della civiltà comunale. Le quasi-città presentavano aspetti confrontabili ed insieme caratteri specifici; a questo proposito, Elena Svalduz ha parlato della storia locale e della storia comparata come «due momenti necessari e complementari per chi studia una città, piccola o grande che sia»4. Come dire che la storia urbana ha bisogno dei centri minori per costruire una solida prospettiva di tipo comparato, perché a questa scala i problemi appaiono più facilmente controllabili. Da qui una serie di indicazioni metodologiche che poi saranno applicabili allo studio delle città più grandi: con bella espressione, ha indicato nei «giochi di scala» una possibile strategia di ricerca che riguarda la storia urbana nel suo complesso. Nell’esprimere il suo interesse per i centri minori, ed in particolare per le sedi dei principati emiliani, Lucio Gambi5 aveva indicato trenta anni fa un cammino di ricerca che non è stato poi percorso tanto dai geografi storici, quanto dagli storici moderni e dagli studiosi di architettura. I tre volumi offerti ai soci del Touring Club Italiano avevano rappresentato a metà degli anni settanta un’interessante finestra divulgativa. A differenza delle quasi-città, i centri minori rappresentavano una specie di entità urbana in sedicesimo: il lettore/escursionista era invitato ad andare al di là della dimensione modesta, per riconoscervi gli elementi tipici di una civitas perfettamente compiuta. L’attenzione per la città in sedicesimo ha trovato poi ampio spazio nella nuova generazione della Guida d’Italia, le cosiddette «guide rosse» ciascuna delle quali dedicata ad una singola regione: all’interno di questa collana, con la consulenza dello stesso Gambi, dopo il 1980, ha preso il via una strategia dell’attenzione verso i piccoli centri che ha trovato ampio spazio nelle ultime edizioni aggiornate. In questo caso, il procedimento andava dalla grande alla piccola città, da un’attrezzatura urbana di tipo completo fino alla sua miniaturizzazione alla scala locale. Nella prospettiva offerta dai nuovi, come abbiamo visto, il percorso sembra invertirsi: la local history si offre oggi come maturo campo di sperimentazione che può diventare utile – per non dire indispensabile – all’analisi di città più grandi e più NOTE E DISCUSSIONI 267 complesse. La dimensione ben più controllabile dei casi di studio consente infatti il confronto e le conferisce perciò una sorta di primato nell’ambito di una storia che non può non essere comparata. L’indagine su casi locali si incrocia poi con ricerche sui diversi tipi di centri e sul loro assetto statutario: alla vecchia schematica divisione tra città e centri minori fa seguito ora una ben più sofisticata diversificazione gerarchica. A questo Marco Folin ha dedicato un saggio molto interessante che analizza una serie articolata di definizioni (villa, terra, castello, villaggio…)6. Anche in Francia, ricerche come quella sui mots de la ville7, vanno inevitabilmente a intersecare questo tipo di argomenti: cité, ville, bourg, village sono solo alcuni tra i termini che traggono senso anche da un confronto interlinguistico tra parole solo apparentemente assonanti (come villa, vila e ville). Prova ne sia il fatto che l’articolo di Folin è stato tradotto e che ha suscitato interesse oltre le Alpi soprattutto là dove, a mio avviso, egli cerca di stabilire dei criteri oggettivi per la classificazione degli insediamenti urbani e di definire un’unità minima che possa dirsi tale. Questo aspetto lo pone in diretta relazione con l’opera straordinaria di Bernard Lepetit e con i suoi sforzi per individuare una «soglia minima urbana», soprattutto nel passaggio tra Ancien Régime ed età contemporanea: più che sulla quantità, la definizione appare legata alla presenza di funzioni amministrative e/o economiche (mercato, porto). Queste ricerche combaciavano con un generale interesse fiorito per petites villes e small towns, fiorito, tra gli anni Ottanta e Novanta, sulle due sponde della Manica8. Anche in Italia, come abbiamo visto, lo studio delle piccole città ha fatto grandi progressi. Lo dimostra molto bene l’ultimo volume pubblicato a più mani dal gruppo di storici della quasi-città, coordinati da Elena Svalduz: secondo una serie di parametri, in gran parte condivisi, sono passati al vaglio alcuni centri piccolo-medi della pianura emiliani (Carpi, Guastalla, Brescello, Correggio, San Secondo Parmense) cui si aggiungono osservazioni e descrizioni riguardanti casi della terraferma veneta e dei domini papali (romagnoli e marchigiani). In primo piano vi sono le trasformazioni dello spazio fisico, lette in un lungo periodo che va dal Trecento al Seicento; il tutto è posto in relazione con le modifiche degli ordinamenti politici e statutari, con le strategie di dominio e di consolidamento territoriale. In questa ottica, grande attenzione è dedicata alla forma urbis, specie nei casi di grandi addizioni e di città di fondazione. Un occhio di riguardo è però riservato alle aree centrali ove più si manifesta l’epifania del potere signorile e delle istituzioni ad esso legate. In particolare piazze, palazzi e castelli-diventati-palazzi appaiono, come nel caso di Carpi, snodi decisivi per verificare alcune linee di tendenza: i luoghi del potere si dimostrano efficaci sensori per misurare quella ambizione di essere città che dà il titolo alla raccolta di saggi. La storia locale, o local history, sembra dunque uscita da quel ghetto in cui la immaginiamo relegata. I suoi progressi si misurano anche su di un terreno di ricerca apparen- 268 NOTE E DISCUSSIONI temente immutato nella sua scala: la monografia urbana riferita a centri di media dimensione. È il caso, ad esempio, del volume che Salvo Adorno ha recentemente dedicato a Siracusa limitandola ad una precisa unità di tempo: il post-unitario9. Già nel titolo, La produzione dello spazio urbano, l’autore indica un’attenzione particolare alla dimensione fisica della città, analizzata in questo caso nella fase in cui impellenti ragioni di crescita la costringono ad «uscire dall’isola» e a re-inventarsi una nuova forma urbis. Il lavoro di Adorno è condotto su livelli diversi, ma contigui: l’analisi delle fonti documentarie (in primis gli atti del Consiglio comunale), la lettura del materiale cartografico e fotografico, l’indagine sistematica dei registri catastali riferita ad un caso di studio scelto come emblematico (il rione Santa Lucia). Qui, insieme agli attori politici ed economici, interagiscono alcuni fattori specifici: un piano disegnato da un ingegnere nel 1885, un particolare regime fondiario (l’enfiteusi) ed infine una certa ambizione riformistico-filantropica. Il tutto è posto strettamente in relazione con la storia degli accadimenti politico-amministrativi. Un plauso particolare va all’autore che non si è fermato al piano disegnato, come spesso fa chi proviene da un background architettonico, né si è limitato a restituirci la sola vicenda sociale e istituzionale, come spesso fanno gli storici contemporanei. Alla fine, lavorando su questo doppio registro, Adorno è riuscito a mettere in campo quanto di meglio è stato recentemente prodotto nei due rispettivi ambiti e che solitamente presenta gravi problemi di scambio/interrelazione. Per quanto ben caratterizzata, la vicenda siracusana – precisa molto bene l’autore – non è soltanto alimenta da fattori specifici ma si colloca entro una più generale storia della città italiana post-unitaria, per non dire all’interno di un quadro ancora più ampio: ovvero quello che fa capo alla città occidentale posta di fronte a problemi di ampliamento e di modernizzazione. Su questo terreno registriamo un bel passo in avanti rispetto ad una certa tradizione che amava indugiare sul colore locale, e concedersi alla retorica meridionalista di destra o di sinistra. Nel libro di Salvo Adorno, la storia locale è invece diventata parte di una storia più generale declinata secondo un tempo e uno spazio specifici. Sono certo di avere tralasciato una serie di importanti contributi pubblicati di recente nel settore della local history ; me ne scuso precisando, tuttavia, che quanto qui descritto vuole avere un valore esemplificativo di una tendenza nuova e incoraggiante. Aspettiamo segnalazioni e contributi da tutti coloro che, in Italia, si sono recentemente impegnati su questo stesso fronte. Guido Zucconi NOTE E DISCUSSIONI 269 1 G. CHITTOLINI, «Quasi-città». Borghi e territori in area lombarda nel tardo Medioevo, «Società e Storia», XIII, 1990, pp.7-30. 2 A. BELLAVITIS, Quasi-città e terre murate in area veneta: un bilancio per l’età moderna, in L’ambizione di essere città. Piccoli, grandi centri nell’Italia rinascimentale, a cura di E. Svalduz,Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2004, pp. 97-119: 97. 3 Cfr. L’ambizione di essere città, cit., ed anche S. ZAGGIA, Una piazza per la città del Principe. Strategie urbane e architettura a Imola durante la signoria di Girolamo Riario (1473-1488), Roma, Officina Edizioni, 1999. 4 L’ambizione di essere città, cit, p. 38. 5 L. GAMBI-A. MIONI e altri, Capire l’Italia. Le città, Milano,Touring Club Italiano, 1978. 6 M. FOLIN, Sui criteri di classificazione degli insediamenti urbani nell’Italia centro-settentrionale, secoli XIV-XVIII, «Storia Urbana», XXIV, 2000, n. 92, p. 5 (trad. franc. Hiérarchies urbaines/ Hiérarchies sociales. Les noms de villes dans l’Italie moderne, «Genèses», 2003, n.51, pp. 4-25). 7 CSU-UMR-CNRS, Le Trésor de mots de la ville: une maquette au 1/5e, rapporto a cura del Secrétariat administratif LAU-UPR, Paris, 2005. 8 B. LEPETIT, In search of the small towns in early nineteenth century France, in Small towns in early modern Europe, a cura di P. Clark, Cambridge, Cambridge University Press 1995, pp. 166-183; ID., Les villes dans la France moderne (1740-1840), Paris, Albin Michel, 1988. 9 S. ADORNO, La produzione dello spazio urbano. Siracusa tra Otto e Novecento, Venezia, Marsilio, 2004. Schede CLARA ALTAVISTA, Lucca e Paolo Guinigi (1400-1430): la costruzione di una corte rinascimentale. Città, architettura, arte, Pisa, ETS, 2005 (collana Saggi e Ricerche dell’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti), pp. 258, euro 18,00. L’autrice propone un’indagine delle trasformazioni culturali, urbane e architettoniche che caratterizzarono la Signoria di Paolo Guinigi su Lucca, descrivendo come gli interventi patrocinati dal «novo» prìncipe ben segnarono le tappe di un percorso verso la formazione di quella che, a ragione, può annoverarsi tra le prime corti rinascimentali italiane. Grandi e piccole opere, che appaiono profetiche per la storia urbana e architettonica di Lucca, e che troveranno realizzazione soprattutto nei successivi rinnovamenti cinquecenteschi, assai più noti. Nel volume sono rilevate le relazioni intercorse tra la corte guinigiana – dottamente celebrata dal cronista e novelliere Giovanni Sercambi e abilmente consigliata dal segretario di stato Guido Manfredi da Pietrasanta – ed alcuni tra gli esponenti più autorevoli del mondo politico, culturale ed artistico dell’epoca appartenenti in prevalenza alle aree lombardo-veneta e fiorentina, come Niccolò da Uzzano, Palla di Nofri Strozzi, lo scultore Jacopo della Quercia, l’ebanista Arduino da Baìso e l’architetto-scultore Pietro Lamberti. Attraverso provati legami tra Guinigi e il signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti, e meno documentati contatti tra il principe di Lucca e Giovanni di Averardo de’ Medici, l’autrice propone nuove riflessioni, che vanno a illustrare le strette analogie sul modo di concepire e realizzare lo spazio urbano e i modelli attraverso i quali costruire quello architettonico: comparazioni che finiscono sempre con il riconoscere come appannaggio del signore di Lucca un indubbio primato cronologico nella realizzazione dei progetti. Tra essi figura il grande piano di ampliamento della città nell’area dei Borghi di Levante collegato all’erezione della nuova residenza ufficiale del principe, secondo un modus operandi che sarà analogo a quello adottato dai Medici, e da Lorenzo il Magnifico in particolare, nell’ampliamento e urbanizzazione dell’area fiorentina denominata Cafaggio. Frutto di un’ampia rielaborazione di precedenti ricerche coordinate da Donatella Calabi nell’ambito del dottorato in storia dell’architettura e dell’urbanistica dell’Istituto IUAV di Venezia, il volume si correda di numerose illustrazioni e tavole sinottiche, proponendo una ricca appendice documentaria ed una aggiornata bibliografia. *** DONATELLA CALABI, Storia della città. L’età contemporanea, Venezia, Marsilio 2005, pp. 397+ ill., euro 29,00. Questo è il secondo volume di una storia della città europea e riguarda l’Otto e il Novecento (dopo un primo libro della stessa autrice dedicato all’età moderna). È un’ampia indagine, scandita in quattro sezioni ordinate cronologicamente, tra le destinazioni d’uso degli spazi urbani, le forme architettoniche che li occupano e il frammentarsi dell’urbanizzazione sul territorio. Protagonisti del racconto sono i cambiamenti nella distribuzione degli insediamenti, l’abbellimento e l’arte civica, la ricostruzione post-bellica, un’identità urbana meno identificabile che per il passato nei confini della superficie abitata e nella distribuzione delle attrezzature fino ai giorni nostri. Il testo si sviluppa su due registri di lettura tra loro complementari e paralleli: uno introduttivo che presenta il contesto storico, politico e sociale nel quale prendono forma gli elementi 272 SCHEDE materiali di cui è costituita la città come aggregato fisico durante i secoli XIX e XX – le strade, le piazze, le case, le attrezzature –, l’altro più analitico nel quale sono approfonditi, attraverso esempi significativi, gli aspetti essenziali dei cambiamenti in corso. Sono così stati descritti e illustrati casi di città o complessi urbani particolarmente capaci di riassumere la questione trattata. Ciò che contraddistingue la città contemporanea è la rapidità con la quale essa vede modificarsi la sua fisionomia e il suo rapporto con il territorio circostante. L’obiettivo del libro è quello di cogliere i momenti di cambiamento e le differenze negli strumenti e nelle procedure di trasformazione dell’assetto insediativo: la distribuzione dei nuclei abitati, le iniziative volte all’abbellimento e all’arte civica, la guerra e la ricostruzione post-bellica con il suo stato d’animo positivo nei confronti dell’edificazione, lo sfrangiarsi dell’identità urbana negli ultimi decenni del Novecento. Il libro propone un grande mosaico costruito per tasselli che insieme compongono il quadro delle trasformazioni, degli assetti fisici, delle rilevanze architettoniche che contraddistinguono in una fase di grandi rivolgimenti un’area ampia quanto l’intera Europa, consapevole tuttavia che la sua stessa unità geografica, nel periodo considerato non può non alludere a contesti e situazioni economiche, politiche e culturali extraeuropee. Attraverso casi emergenti, perché esemplari o innovativi, si viene così delineando non tanto una storia «evolutiva» quanto un’articolata visione d’insieme di come si modifica il paesaggio urbano. *** MAURIZIO CARBOGNIN-EUGENIO TURRI-GIAN MARIA VARANINI (a cura di), Una rete di città. Verona e l’area metropolitana Adige-Garda, Verona-Sommacampagna, Cierre Edizioni, 2003, pp. 334, euro 24,00. Il volume rappresenta un riuscito tentativo di far dialogare assieme demografi, economisti, sociologi e storici sull’esistenza o meno di una «rete» di città medie, relativamente all’area compresa tra il lago di Garda e la valle dell’Adige e alle realtà urbane di Verona, Brescia, Trento, Vicenza e Mantova. Il tema trae spunto dal dibattito sorto negli ultimi anni in sede politica, per verificare se l’eventuale esistenza di un sistema di relazioni fra queste città si fondi, o meno, su radici geografiche, storiche, culturali, economiche e sociali. Premessa quest’ultima a dir poco necessaria per progettare politiche efficaci che stimolino la competizione fra «aree-sistema» (come le reti di città), terreno sul quale si giocheranno i miglioramenti del livello di vita e lo sviluppo economico futuro. La prima parte del volume ripercorre la storia dell’area presa in esame, mettendo in luce le radici lontane su cui si fondano quelle reti di relazione che oggi sembrano a noi così evidenti. Pur in un quadro di notevoli trasformazioni, elementi di forte continuità caratterizzano i rapporti fra Verona e il territorio circostante. In un saggio iniziale, Eugenio Turri mostra come la città atesina sia stata in grado di legarsi alle correnti di traffico del mondo alpino e dell’Europa mediterranea in modo del tutto autonomo rispetto al resto del Veneto, tessendo di conseguenza significative relazioni con la Lombardia orientale e il Trentino. Come ci ricordano ancora Gian Maria Varanini e Paola Lanaro, infatti, dal basso medioevo fino agli inizi dell’Ottocento, saranno proprio determinati fattori geo-morfologici (alta pianura sfavorevole all’agricoltura, scarsa disponibilità di risorse d’acqua ad usi industriali se non in città, necessità di interventi di bonifica nelle campagne meridionali) a spingere Verona verso un’indiscussa egemonia sul territorio. Fra i vari settori vogliamo sottolineare in particolare il ruolo svolto dal commercio: a partire dal XII secolo, la città si fa punto d’incontro degli scambi sull’asse nord-sud, da Bolzano alla Romagna ma fino alle coste marchigiane, attraendo a sé gli operatori delle limitrofe città di Vicenza e Brescia. SCHEDE 273 Nonostante i grandi cambiamenti provocati dall’industrializzazione, queste profonde caratteristiche permasero durante il periodo contemporaneo, oggetto dell’analisi di Giovanni Zalin ed Eugenio Turri. Certo, il passaggio dal trasporto fluviale a quello su rotaia, la nuova dislocazione degli impianti produttivi e la realizzazione di bonifiche mutarono di molto il paesaggio e la struttura urbanistica dell’area, ma furono compiuti su un territorio che ben si adattava a queste opere e da ceti dirigenti non estranei ad affrontare tali ordini di problemi. A ben vedere, anche alcune fra le importanti iniziative degli ultimi decenni (l’Università e il polo fieristico) e del secolo scorso (la creazione di un moderno sistema finanziaro) furono il frutto di quel settore terziario da sempre fondamentale per l’economia urbana. I tre saggi centrali (ad opera di Paolo Perulli, Luigi Burroni, Alberto Magnaghi e Anna Marson) si soffermano sui modelli di reti di città presenti in Europa, soprattutto in relazione ai casi più vicini alla realtà nella quale è inserita Verona. La definizione della loro natura e dei loro obiettivi (forme di sviluppo, modelli di governance, orientamenti e competenze dei singoli attori politici), offre numerosi spunti alla riflessione sugli aspetti più propriamente socio-economici dei nostri giorni, analizzati nell’ultima parte del volume. I saggi dedicati alla realtà attuale, ovvero alle dinamiche del popolamento (Dario Olivieri) all’economia (Fabio Arcangeli, Giorgio Padrin), alle forme di governo (Maurizio Carbognin) e alla struttura urbanistico-territoriale (Roberto Pasini) evidenziano i caratteri distintivi dell’area, ma sottolineano a loro volta la necessità di un’intesa politica fra i diversi comuni posti all’interno della rete. Ilvo Diamanti, infine, ci ricorda come l’estraneità di Verona al «tradizionale» modello «Nord-Est» (piccola impresa manifatturiera, forte appartenenza al territorio), possa, e debba, spingere la città – ora più che mai di frontiera – ad agire verso un allargamento del modello stesso, sfruttando la sua propensione agli scambi, sia economici che culturali. Conclude il volume una postfazione di Romano Prodi, per sottolineare l’importanza dello sviluppo dei trasporti all’interno dell’Unione Europea in generale, condizione necessaria per stimolare la crescita economica. Verona e l’area metropolitana Adige-Garda, destinate ad essere, in un futuro quanto mai prossimo, snodo di transito di rilevanza internazionale tra Est ed Ovest (sulla linea LioneTorino-Venezia-Trieste-Capodistria) e tra Nord e Mediterraneo (sulla linea Berlino-VeronaBologna-Napoli), hanno tutte le premesse necessarie per divenire un centro economico europeo di primaria importanza. Andrea Caracausi NICOLETTA CARDANO (a cura di), Esquilino e Castro Pretorio. Patrimonio storico-artistico e architettonico del Comune di Roma, Roma, Artemide, 2005, pp. 288, ill. 204 in b.n. e 27 a colori, euro 30,00. I rioni Esquilino e Castro Pretorio richiamano, da sempre, il costante interesse di studiosi, amministratori e semplici curiosi. Non giunge perciò casuale la meritoria iniziativa della Sovraintendenza ai Beni Culturali – Monumenti Medioevali e Moderni del Comune di Roma, che ha promosso la realizzazione di un catalogo dei beni storico-artistici e architettonici di sua competenza. Il fulcro del volume curato da Nicoletta Cardano è costituito dalle dettagliate schede di catalogazione, corredate di relative illustrazioni, che descrivono con eloquenza la preziosità di un variegato patrimonio da tutelare, composto non solo di edicole sacre, lapidi, fontane e stemmi pontifici, ma anche di edifici residenziali, teatri, scuole, caserme e reperti di archeologia industriale. L’importanza del censimento non è limitata al suo essere funzionale all’opera di 274 SCHEDE salvaguardia e manutenzione dei monumenti, né al semplice soddisfacimento di una naturale curiosità dei lettori. Il catalogo fornisce soprattutto uno strumento utile ad una migliore comprensione della realtà urbana della zona, evidenziando le tracce lasciate dal succedersi dei regimi politici, dai cambiamenti sociali e culturali, dalle trasformazioni urbanistiche e dal controverso sviluppo di un’area, il cui carattere complessivo è tuttora in via di definizione. La modalità di procedere accostando frammenti eterogenei in una griglia ordinatoria, come sottolinea la stessa curatrice, sembra rimandare al carattere di discontinuità che ha segnato l’evoluzione storica del territorio e che si è accentuato negli ultimi venti anni, da quando l’Esquilino è diventato il luogo privilegiato dell’insediamento di nuovi soggetti sociali, provenienti da altri paesi e portatori di diverse culture. Il volume è inoltre arricchito da una serie di saggi e contributi. Francesco Meschini, ricostruendo il succedersi delle presenze religiose, evidenzia come, nonostante l’adiacenza al centro cittadino, la zona sia sempre stata un luogo di «complessa marginalità», sede naturale della contaminazione tra differenti situazioni storiche e culturali. Antonio Parisella, commentando il censimento delle lapidi, dei monumenti e degli altri manufatti commemorativi, ripercorre l’evoluzione dei «riti celebrativi della nazione» nelle memorie urbane dell’Esquilino e del Castro Pretorio. La stazione Termini, il più imponente fabbricato dell’area, elemento allo stesso tempo unificatore e separatore, è l’argomento del saggio di Dell’Ariccia e Robino Rizzet. Ceccaroni e Capalbi ricostruiscono le vicende dello sviluppo storico-urbanistico dall’età antica al XX secolo, mentre Strinati, Tiberia, Di Paola e Bruno descrivono i recenti interventi di restauro e recupero urbano. Chiude il volume lo spoglio dei periodici romani tra le due guerre, che fornisce interessanti spunti per lo studio della vita sociale nei due rioni. Un saggio dedicato ai cambiamenti nella composizione degli abitanti, e alle loro relazioni con il territorio, non avrebbe guastato, ma i tempi necessari ad una ricerca di questo tipo hanno probabilmente indotto a non allargare troppo il campo d’indagine. Resta in ogni caso auspicabile che la lettura del volume sia presto di stimolo anche per lo studio di tali temi. Fernando Salsano JEAN-FRANÇOIS COULAIS-BRIGITTE MARIN (a cura di), Rome. 2700 ans d’histoire. CD-Rom , realizzato in collaborazione con la Bibliothèque nationale de France, l’Ecole française de Rome, il Centro per lo Studio di Roma-Croma (Università degli Studi Roma Tre) e Spot Image, Parigi, Belin, 2003. Autori: S. Adina Meyer, J.-F. Bernard, M. Bevilacqua, D. Bocquet, M. Boiteux, G. Bonaccorso, J.-Y. Boriaud, S. Bourdin, C. Brice, S. Cortesini, J.-F. Coulais, H. Dessales, J. Dubouloz, M. Ghilardi, C. Goddard, C. Hagège, E. Hubert, A. Imbellone, V. Jolivet, B. Marin, G. Montègre, D. Palombi, A. Romano, C. Vallat, J.-P. Vallat, A. Vauchez, S. Verger. Il lavoro che viene qui recensito è un CD-ROM, il quinto di una collana (Terre des villes) dedicata alle grandi città del mondo. Coordinati da J.-F. Coulais e B. Marin, i contributi dei venticinque autori che vi hanno collaborato sono stati concepiti ed organizzati secondo due assi principali. Una prima parte fatta di immagini animate e commentate (per una durata complessiva di 50 minuti circa), articolate in quattro aree tematiche, è indirizzata a dar conto della storia di Roma, delle sue relazioni con le città limitrofe e delle modalità attraverso le quali sono avvenute, in rapporto al potere politico, le sue trasformazioni. Ad una maggiore completezza informativa provvede la seconda parte che, avvalendosi di una abbondante documentazione iconografica e testuale, offre diverse possibilità di navigazione. Le sequenze d’immagini animate sono composte in sessioni indipendenti, navigabili at- SCHEDE 275 traverso una serie di segnalibro e di indici. Un Sorvolo consente al lettore-utente di imbarcarsi in un viaggio, dall’antichità ai giorni nostri, alla scoperta di Roma e delle sue principali trasformazioni. Questa prima presentazione viene ad essere completata dalla sequenza Paesaggi. Strutturata anch’essa per temi, la sezione illustra, per tutto il periodo considerato, il processo di urbanizzazione, la conquista della valle del Tevere, l’organizzazione dei sistemi alimentari su vie d’acqua e quella delle vie di comunicazione. Le Ricostruzioni poi, presentano in sette tempi le principali mutazioni dello spazio urbano. Esse chiariscono bene i differenti periodi nel corso dei quali – sempre sullo stesso sito e secondo orientamenti variabili – si sono succeduti processi di espansione, recessione, riconquista. Questa sedimentazione è attestata dall’ultima sequenza di immagini che presenta, a partire da alcuni esempi, le modalità attraverso cui, in più di venti secoli, la città si è ricostruita su se stessa. Una posizione del tutto particolare occupa in questo percorso la Crypta Balbi, odierna sede del Museo nazionale romano e polo medievale. Queste quattro sezioni hanno in comune una serie di materiali cartografici inediti i quali, oltre a dar conto della consistenza del lavoro svolto, sono a tutti gli effetti innovativi. Infatti, queste sequenze audiovisive utilizzano delle ricostruzioni tridimensionali dello spazio urbano, elaborate per sette momenti diversi della storia dell’urbanizzazione dal periodo arcaico e la fine del XX secolo. Si lamenterà, piuttosto, che la debolezza della risoluzione delle immagini lasci solo supporre la massa documentaria mobilitata per poter restituire la complessità delle differenti sezioni nel corso del tempo. Questa terza dimensione rivela il suo maggior interesse nelle vedute dettagliate, efficaci nell’illustrare l’evoluzione dei luoghi più importanti attraverso una serie di rappresentazioni di uno stesso sito a momenti diversi. In questi documenti, la raffigurazione del volume degli edifici rende possibile leggere le trasformazioni intervenute in maniera notevolmente più chiara di quanto consentito da altri modi di rappresentazione. Mentre la prima parte può essere considerata un prodotto «pronto all’uso», la seconda offre strumenti più interattivi. Essi permettono sia di richiamare sequenze della prima parte, sia di accedere ad una documentazione che, attraverso dei testi, delle riproduzioni di documenti iconografici antichi o di restituzione, offra testimonianza di circa duecento cinquanta temi ed ambienti. Per questa parte, l’interfaccia non è esattamente all’altezza dei contenuti e la molteplicità degli schermi di navigazione non sempre facilita le ricerche. Il CD-Rom resta, in ogni caso, un documento di indubbia utilità pedagogica e – ad un tempo – uno stimolo alla lettura (grazie ad una bibliografia che completa la seconda parte), al viaggio ed alla scoperta di due millenni di storia della megalopoli romana. Jean-Luc Arnaud ALEKSEI KALC-ELISABETTA NAVARRA (a cura di), Le popolazioni del mare: porti franchi, città, isole e villaggi costieri tra età moderna e contemporanea, Udine, Forum, 2003, pp. 128, euro 15,00. Il volume raccoglie gli interventi presentati nella sessione Le popolazioni del mare: realtà demografica e sociale di porti e comunità del Mediterraneo, svoltasi all’interno del Convegno organizzato nel novembre 2000 a Bologna dalla Società Italiana di Demografia Storica. Obiettivo principale, enunciato nell’Introduzione dai curatori, è quello di mettere in luce il legame esistente fra la nascita e lo sviluppo di alcune realtà portuali del Mediterraneo (Ancona, Livorno e Trieste in primis) e i diversi aspetti politici, economici ed urbanistici ad esso legati. L’attenzione degli autori si concentra quindi sul contributo che l’istituzione porto-franco diede alla crescita demografica, soffermandosi in particolare sul processo di urbanizzazione, sulle politiche urbane e sull’integrazione di società e culture eterogenee. Primo caso di studio è Ancona (E. Sori). Sebbene all’interno di un’area sempre più mar- 276 SCHEDE ginale del Mediterraneo, la città registrò, fra basso medioevo e fine Settecento, un andamento demografico tutt’altro che lineare, caratterizzato da un forte incremento soprattutto in seguito alla nascita della franchigia commerciale. Politiche di accoglienza si alternarono a momenti di rifiuto, motivati da problemi di ordine igienico-sanitario o religioso, anche se nel lungo periodo prevalse tuttavia la prima linea. Per certi aspetti emblematica è invece la vicenda di Trieste (A. Kalc). L’istituzione del porto franco (1719) giocò un ruolo chiave per lo sviluppo di un vero centro urbano. La costruzione della città fu accompagnata da un fenomeno migratorio di matrice sia locale (Contea di Gorizia e Gradisca, Carniola e Istria), che europea (Boemia, Moravia e Ungheria). Fra le misure più significative prese dall’amministrazione pubblica ricordiamo un piano per la divisione e la distribuzione dei lotti fabbricabili e l’inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro, soprattutto nell’edilizia e nei servizi. Più breve (poco più di un decennio, fra la fine del Cinquecento e gli inizi del Sei), ma non meno denso di trasformazioni importanti, è l’arco temporale preso in esame per Livorno (L. Frattarelli Fischer), le cui vicende evidenziano appieno il nesso esistente fra popolamento, potere politico e costruzione di una realtà urbana. Nonostante la negativa congiuntura, il granduca Ferdinando I promosse lo sviluppo di un’impresa commerciale di primo piano, facendo della città, allora piccolo borgo di quasi 500 abitanti, uno dei centri più importanti dell’area mediterranea. Anche in questo caso si favorì l’immigrazione di artigiani e mercanti, senza però perdere di vista i problemi urbanistici, igienici e sociali, dovuti ad una così veloce crescita. Gli ultimi tre casi di studio riguardano delle piccole realtà portuali: Capodistria, Biserta e l’isola di Tabarka. Per quanto riguarda il borgo istriano, gli Autori (D. Darovec, D. Kmrac, E. Podovsovnik) individuano, sul finire del Cinquecento, i diversi movimenti migratori, evidenziando in particolare i legami che rimasero fra la città e le aree di provenienza dei nuovi arrivati. Biserta (L. Zaouali), invece, situata lungo la costa nord-occidentanle tunisina, rappresenta il caso di una città costruita governo turco che regolò costantemente durante l’età moderna i flussi migratori provenienti dal mare e dall’entroterra per questioni di ordine sanitario e di decoro pubblico. Ancor più significativo è il caso di Tabarka, un insediamento cristiano promosso dal mondo islamico. Pur in mancanza di dati ufficiali, la cronachistica coeva e l’iconografia mettono in luce lo sviluppo di una struttura urbana tripartita (la fortezza, l’area destinata ai soldati di guarnigione e quella dei musulmani) e un movimento migratorio proveniente non solo dall’immediato retroterra, ma legato anche al mondo dei commerci e, in particolare, del corallo. Andrea Caracausi DEREK KEENE-ARTHUR BURNS-ANDREW SAINT (eds.), St Paul’s: the Cathedral Church of London, 604-2004 (New Haven and London: Yale University Press, 2004), pp. xvi+538, 390 ill. £ 65. The recent spate of English cathedral histories began with the appearance of a fine volume on York Minster in 1977. So far, comprehensive accounts of nine major cathedrals have appeared, along with numerous specialised studies of many more. Perhaps the fall-off in worship has promoted this re-examination of our Christian past. Certainly, developing interests in the history of the arts (including building, painting, sculpture, music and drama), new historical thinking on religion and society, and the role of the iconic monument in tourism (not least as a source of income for its maintenance) have contributed to a lively field of enquiry and debate. Moreover, cathedrals are by far the oldest of our distinctively urban institutions and in that role continue to shape regional and national culture. Despite not being been the seat of an archbishop (although attempts have been made to SCHEDE 277 elevate to that status), St Paul’s is in many ways the most significant of English cathedrals on account of its association with London. As the largest and wealthiest English city, London has made St Paul’s both a focus for the people of the metropolitan region and a critical site for meetings and confrontations between the state and its subjects. The cathedral’s history is notably dramatic. Twice abolished twice and at least three times totally destroyed by fire, in the 1940s it became a symbol of the city’s survival through total war. Several times it has been a focus of political and religious revolutions. Since the twelfth century it has been one of the most impressive architectural structures in England, if not in Europe. St Paul’s was the subject of the first of the English cathedral histories, published in 1658 at a time it seemed to have no future as a cathedral. Yet within a few years, following the Great Fire of 1666, it was being rebuilt in the form which we know today and which for many, as the chief work of Christopher Wren, is its principal claim to significance. In this book, forty two authors address this complex history. Architecture and the extraordinary decoration of the present cathedral get their due, but the overall aim is to explore the wider role of the cathedral through a series of thematic studies, including covering liturgy and cults, music, learning, commemoration, the cathedral’s impact as the patron of churches and owner of landed estates in the city and surrounding region, and the interaction between the cathedral and the highly commercial and politicised city which surrounded it. A series of overview chapters provides a narrative which links these and other themes and charts the changing fortunes and reputation of St Paul’s. The Dean and Chapter of St Paul’s enthusiastically sponsored the project, which appeared in the fourteen-hundredth year of the present diocese of London and coincided with the completion of a major restoration of the cathedral. *** NICOLETTA MARCONI, Edificando Roma barocca. Macchine, apparati, maestranze e cantieri tra XVI e XVIII secolo, Città di Castello, Edimond, 2004, pp. 348 + 78 ill. f.t., euro 42,00. «Siché l’ambasciadore passò per la piazza di san Pietro, dove parendogli di vedere uno esercito di lavoranti in una selva di macchine e di ordigni, si fermò a due mosse de gli argani e disse di ammirar Roma risorgente per mano di Sisto». Questa testimonianza, contenuta nel seicentesco libro sulle Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni di Giovanni Battista Bellori, si presta bene a introdurre lo studio di Nicoletta Marconi pubblicato nella collana «Ricerche, fonti e testi per la storia di Roma» coordinata dal Croma – Università Roma Tre. L’autrice analizza i caratteri tecnici e organizzativi del cantiere romano tra XVI e XVIII secolo, desunti dalla ricca documentazione sulla costruzione della nuova basilica di San Pietro, custodita presso l’Archivio Generale della Fabbrica, ma anche dai resoconti dei lavori effettuati in altri cantieri romani, differenziati per caratteristiche e tipologia. Nel ripercorrere il graduale perfezionamento della pianificazione del lavoro, autentico motore del cantiere barocco, lo studio traccia le linee evolutive delle tecniche costruttive e della tecnologia edilizia pre-industriale, mettendone in luce meccanismi gestionali e caratteri operativi ricorrenti. Fino alle soglie del XX secolo, infatti, materiali, tecnologia, macchine da costruzione, gestione economica, gestione tecnica e organizzazione delle maestranze nell’edilizia romana risultano piuttosto omogenei. Frutto della sperimentazione e delle applicazioni cinquecentesche, tali elementi si perfezionano nel corso del Seicento approdando a un’efficace economizzazione del processo edilizio. Oltre ai progressi compiuti dalla tecnica edilizia, l’indagine sincronica e diacronica condotta sulle fabbriche seicentesche disegna in filigrana l’organizzazione delle maestranze, strutturata per squadre autonome e altamente qualificate che consentono 278 SCHEDE di contrarre notevolmente i tempi di esecuzione, oltre che di ottimizzare l’uso di materiali e macchine. In tale contesto, emerge il determinante contributo della Fabbrica di San Pietro, al contempo laboratorio sperimentale e sede privilegiata per la formazione di lavoranti specializzati di indiscussa professionalità. Grazie a un ingegnoso meccanismo di noleggio e vendita di macchine, materiali e attrezzature ai cantieri «minori» romani, documentato tra XVI e XIX secolo, la Fabbrica svolge un ruolo decisivo per lo sviluppo edilizio romano, oltre che per la diffusione e il progresso delle conoscenze tecniche. I vantaggi di tale cooperazione si fanno più evidenti nel settore della tecnologia e in tutte quelle operazioni dai complicati risvolti tecnici, per la cui risoluzione i cantieri esterni ricorrono all’esperienza di capomastri, fattori e soprastanti sampietrini e al decisivo contributo delle fornitissime munizioni vaticane. Con esse si intendono attrezzi da lavoro, macchine, funi e strumenti metallici custoditi nelle cosiddette «stanze delle munizioni», i depositi e luoghi di stoccaggio disseminati nel labirintico spazio basilicale e all’esterno della crociera, nei pressi delle chiese di Santo Stefano dei Mori e di Santa Marta e dello Studio del Mosaico. La pratica del noleggio consente alla Fabbrica di ammortizzare parte dei poderosi investimenti sostenuti nella costruzione del nuovo San Pietro e di partecipare attivamente alla costruzione della Roma moderna fino ai primi decenni del XIX secolo. Solo per fare un esempio, i documenti custoditi nell’Archivio della Fabbrica riferiscono sull’entrata e uscita dai depositi di San Pietro delle poderose traglie metalliche a sei girelle fatte forgiare da Domenico Fontana nel 1585 per l’erezione dell’obelisco Vaticano, richieste e impiegate ancora tra il 1783 e il 1790 dall’architetto Giovani Antinori (1743-1792) per l’installazione degli obelischi del Quirinale, di Trinità dei Monti e di Montecitorio, operata per conto di Pio VI Braschi (1775-1799). Lo scambio di materiali e attrezzature tra la Fabbrica di San Pietro e gli altri cantieri romani diviene addirittura indispensabile per il trasporto dei materiali da costruzione. Questo si avvale di un efficiente servizio fluviale allestito lungo i corsi del Tevere e dell’Aniene, con approdi disseminati lungo il tratto urbano del Tevere la cui funzionalità si deve proprio alla Reverenda Fabbrica. Infatti, nonostante disponga dell’approdo della Traspontina a esclusivo suo uso, grazie a una sorta di accordo istituzionale con la Presidenza delle Strade, la Fabbrica presta assistenza a manovali e barcaioli, fornendo loro attrezzature e macchine necessarie alla movimentazione dei grandi carichi o al recupero delle imbarcazioni affondate. Il segreto della velocità esecutiva barocca risiede pertanto nel vantaggioso scambio di materiali, attrezzature, risorse umane e conoscenze operative che si viene a instaurare tra i diversi cantieri romani, tanto più efficace se coniugato all’affinamento della tecnica esecutiva e alla parcellare specializzazione del lavoro. Con il contributo decisivo della Fabbrica petriana, dunque, prassi operativa, tecniche costruttive e tecnologia si adattano alla specificità di Roma e all’ingombrante presenza dell’antico, trasformando ogni cantiere in un fecondo laboratorio di ricerca edilizia. Giuseppe Bonaccorso ANNA LAURA PALAZZO (a cura di), Campagne urbane. Paesaggi in trasformazione nell’area romana. Roma, Gangemi, 2005, pp. 254, ill. b/n e colore, euro 30,00. Più dell’80% della popolazione italiana risiede in comuni che hanno oltrepassato la soglia dei 5000 abitanti. Questo vivere in città tende tuttavia ad assumere nuove fisionomie, delineando una condizione ibrida, di «campagna urbana»: la frontiera periurbana si estende progressivamente in relazione ad una propensione sempre più diffusa nei riguardi dell’habitat a bassa densità. Si tratta di processi analoghi a quelli che interessano da tempo ampie regioni metropolitane del Centro-Europa, dove i territori periurbani, anche in seguito ad una contrazione delle aree SCHEDE 279 agricole, si avviano oggi a svolgere una importante funzione di ricarica ricreativa ed ecologica. La stessa area romana partecipa di tale condizione, ma la competizione tra usi del suolo nel mercato legale o informale continua a vedere la prevalenza dell’urbano. Richiami e incentivi diretti al sostegno di una agricoltura di qualità, se non a obiettivi di eccellenza agricola, non bastano a controbilanciare le tendenze alla marginalizzazione del settore, esposto nel prossimo futuro a nuove trasformazioni strutturali per effetto di una riduzione delle disponibilità finanziarie attivate dalle politiche comunitarie. I saggi raccolti nel volume curato da Anna Laura Palazzo Campagne urbane. Paesaggi in trasformazione nell’area romana, hanno osservato sotto differenti punti di vista il territorio di Roma e la prima fascia di comuni le cui sorti appaiono fortemente condizionate dalla presenza della metropoli. Le diverse storie e geografie che ne emergono si cimentano con le differenti percezioni del territorio aperto nell’arco del secolo appena trascorso e si soffermano su alcuni passaggi dell’evoluzione urbana e sulle retoriche che di volta in volta ne hanno sostenuto principi e modelli insediativi. Una approfondita rassegna delle politiche istituzionali e delle pratiche sociali evidenzia il progressivo incrinarsi delle prospettive di un univoco limite tra città e campagna affidato ad una possente cerchiatura infrastrutturale, limite peraltro negato ab origine da dispositivi di regolazione degli incrementi edilizi fuori piano a vario titolo emanati. L’excursus storico ha peraltro consentito di collocare la prima «competizione» tra città e campagna agli anni della ideazione della Zona industriale tra Roma e il mare, nel primo Novecento: una competizione tra destinazioni urbane per quello che si immaginava il grande quadrante di espansione proteso tra Roma e il mare, e destinazioni agricole insistenti sulle medesime aree nell’ambito dei reiterati provvedimenti di risanamento agrario, che rinvia ad una sistematica opposizione di fase tra Comune di Roma e Governo centrale. Con riferimento a casi di studio significativi è poi emerso come l’infrastrutturazione di appoggio a quelle stesse bonifiche, realizzate nella prima metà del Novecento a carico prevalente dello Stato, e la Riforma agraria, avviata nel secondo dopoguerra, abbiano costituito potenti premesse per una valorizzazione in chiave urbana. Per quanto riguarda il trentennio appena trascorso, in cui le dinamiche di erosione dei suoli agricoli hanno subito un’impressionante accelerazione, l’interpretazione si è avvalsa di elaborazioni a partire da immagini satellitari a media risoluzione (LandSat), da tempo sperimentate e di largo impiego in altri contesti, ma innovative con riferimento all’area romana, integrate con fonti aggiuntive legate a informazioni qualitative e quantitative ottenute attraverso la conoscenza diretta di alcuni luoghi considerati rappresentativi. Sono stati evidenziati i meccanismi di inglobamento e cancellazione dei pattern rurali, e segnalate varie forme di discontinuità urbana, in una lettura per «generazioni» delle dinamiche di espansione, entro e tra le maglie del costruito, che invita a riformulare l’opposizione chiuso-aperto nei termini di compatto-disperso. Con riferimento al «punto di vista della campagna», laddove la chiave storica ne ha sottolineato l’inerzia e la passività come fattore di produzione, si avvertono i segnali di un possibile cambiamento nella prospettiva del governo del territorio: Roma dispone oggi di una disciplina specifica per i parchi e le riserve naturali, e di un nuovo Piano regolatore, chiamato a dare adeguato trattamento alla dimensione dei «paesaggi del quotidiano», nell’accezione data dalla Convenzione Europea. La riflessione effettuata sulle politiche e pratiche in corso nell’area romana ha posto dunque in chiave problematica la risignificazione dello spazio periurbano ed extraurbano di fronte a diversificate domande di paesaggio, ed ha provato a riposizionare i principali interrogativi legati ai temi della sostenibilità. L’economia dell’Agro deve dimostrare una capacità competitiva con altre destinazioni dei 280 SCHEDE suoli e con le rendite di attesa generate dalla macchina urbana che pongono a dura prova le forme tradizionali di regolamentazione. Si tratta di far sì che lo spazio agricolo e forestale, da sempre trascurato dalle politiche pubbliche, entri realmente nella categoria delle «infrastrutture pubbliche di natura», a dimostrazione del fatto che la convivenza tra città e campagna può essere non solo pacifica ma anche reciprocamente vantaggiosa. Sabrina Gremoli BERNARDO SECCHI, La città del ventesimo secolo, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 210, euro 14,00. Perchè un gruppo di storici di professione chiede a qualcuno, che storico non è, di scrivere un libro di storia della città? È la domanda che Secchi ammette di essersi posto prima di iniziare la stesura di questo nuovo tassello della collana di «Storia della città», edita da Laterza e diretta da Donatella Calabi. L’autore tiene tuttavia a precisare che il libro «non è una breve storia della città nel ventesimo secolo [...] ma piuttosto l’esposizione di alcune ipotesi maturate osservando un archivio di fatti e racconti vasto quanto consente un’esperienza personale». Pagina dopo pagina, gli studi e le letture, le formulazioni teoriche precedenti, ma anche le esperienze professionali dell’autore vanno ad alimentare costantemente la sua capacità di osservare e analizzare con lucidità e perizia il fenomeno urbano in tutte le sue molteplici sfaccettature e il suo essere, in fondo, inguaribilmente «urbanista». Il libro comprende sei capitoli distribuiti su 176 pagine, corredati da un importante apparato iconografico (quasi «un testo a sè», secondo la definizione dell’autore), da un indice dei luoghi e da una bibliografia ricchissima dove, incuranti delle tradizionali frontiere disciplinari, oltre 300 titoli si offrono al lettore. Il primo capitolo introduce i tre «racconti», che forniranno la materia ai capitoli successivi: crescita e dissoluzione della città (secondo capitolo); la fine della città moderna (terzo capitolo); città, individuo e società (quarto capitolo). Ognuno di questi tre capitoli centrali è accompagnato da una scheda, in cui gli esempi citati sembrano presi non tanto ad emblema quanto piuttosto a pretesto per poter parlare poi anche di altro: la città storica (Siena), un grand ensemble (Les Hauts de Rouen), una new town inglese (Milton Keynes). Nel quinto capitolo, «Eventi, processi, periodi», l’autore parla di quegli «eventi» che hanno segnato la scena economica, sociale, politica e istituzionale del secolo scorso e le cui conseguenze si leggono anche sul territorio e sulla città. Una città che però cambia anche seguendo un percorso proprio, sulla base di eventi locali o di processi più ampi e lenti. L’argomento della scheda di questo capitolo è la NWMA (North-Western Metropolitan Area), cioè quella parte di Europa compresa tra Amsterdam, Rotterdam, Anversa e Bruxelles, dove sta nascendo una nuova forma di città, priva di centro ma dotata della stessa importanza delle maggiori metropoli europee. Il capitolo conclusivo è «Raccontare il presente», in cui l’autore traccia un bilancio che sembra voler andare al di là di questa sua recente esperienza editoriale. Nei ringraziamenti Secchi dice, tra l’altro, grazie anche alla sua biblioteca. Da parte nostra, noi diciamo grazie a Secchi per esser stato guida esperta in questo intenso viaggio, fatto di racconti, esempi e immagini, attraverso la «città europea nel ventesimo secolo». Carmen Calandra SCHEDE 281 CARMELO G. SEVERINO, Roma mosaico urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore, Roma, Gangemi, 2005, pp. 240, euro 30,00. Il volume ricostruisce il lungo processo di formazione e l’evoluzione storica del Pigneto-Prenestino, quartiere romano della prima periferia orientale extra moenia, il cui territorio si estende fuori Porta Maggiore tra le linee ferroviarie per Sulmona e Napoli e via dell’Acqua Bullicante. Coprendo l’intero arco cronologico della Roma contemporanea, dal 1870 ai giorni nostri, l’autore illustra la progressiva trasformazione dell’area da rurale ad urbana, dando conto delle dinamiche di formazione di un tessuto insediativo eterogeneo, frutto di successive fasi di sviluppo e consolidamento. Sin dai primi anni post-unitari, il territorio fuori Porta Maggiore è interessato dall’impianto di importanti attività produttive, operanti soprattutto nei settori alimentare (Pantanella), chimico-farmaceutico (Serono), metalmeccanico (Officine Tabanelli) e dei servizi cittadini (Srt-o, Nettezza urbana). È un processo localizzativo spontaneo, che avviene al di fuori di qualsiasi pianificazione industriale, e che culmina negli anni Venti del Novecento con l’apertura del grande stabilimento della Viscosa sulla via Prenestina. L’edificazione residenziale viene invece avviata all’inizio del ventesimo secolo, con le lottizzazioni delle tenute agricole e lo sviluppo di forme di autopromozione edilizia privata e cooperativa. Anche in questo caso si tratta di processi spontanei: le singole iniziative procedono senza il coordinamento e il controllo necessari a definire un disegno unitario ed organico, e lo sviluppo del quartiere è a lungo segnato dalla carenza di opere di urbanizzazione e servizi pubblici. Nel corso del tempo si viene così stratificando un tessuto insediativo discontinuo ed eterogeneo, al cui interno convivono realtà diverse come la «città-giardino» della cooperativa Termini, i baraccamenti di fortuna, i fabbricati intensivi delle case convenzionate, le «borgate rapidissime» del Governatorato, la Casa dei ferrovieri e quella dei tranvieri sulla Prenestina, fino ai complessi residenziali realizzati dalla Società generale immobiliare negli anni Sessanta. Grazie al dettagliato spoglio di un’ampia e variegata documentazione d’archivio, Severino ricostruisce con grande accuratezza le dinamiche di sviluppo e la composizione sociale del quartiere, offrendo un’efficace rappresentazione delle trasformazioni vissute da questo pezzo di città nel corso di quasi un secolo e mezzo di storia. Architetto presso il Comune di Roma e responsabile del Programma di riqualificazione urbana del Pigneto in corso di attuazione, l’autore non manca di segnalare i rischi di snaturamento dell’originario tessuto sociale popolare e piccolo-borghese e di perdita di identità insiti nel recente processo di gentrification del quartiere. Corredato da un ricco apparato iconografico, il volume – nonostante l’assenza di un indice analitico e un periodare piuttosto ampio che a tratti affatica il lettore – costituisce un tassello di primaria importanza per la ricostruzione del complesso mosaico rappresentato dalle trasformazioni urbane di Roma in età contemporanea. Bruno Bonomo ELENA SVALDUZ (a cura di), L’ambizione di essere città. Piccoli, grandi centri nell’Italia rinascimentale, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2004 (Collana: «Memorie», Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti, Volume CVII), pp. 402, euro 54,00. Come classificare un centro abitato? Secondo quali connotati una città può essere definita tale? Ed è sempre vero che un agglomerato al di sotto di questa soglia, in mancanza cioè di un certo tipo di requisiti, debba essere definito una «quasi-città»? 282 SCHEDE Da questi e altri interrogativi, discussi nell’ambito di una serie di incontri di studio (tra cui il I convegno nazionale di storia urbana AISU, tenutosi a Lecce nel 2002), prende le mosse il volume curato da Elena Svalduz sulle piccole città rinascimentali della Penisola. Un questionario scientifico-culturale sta alla base del ragionamento comparativo che affronta una serie di temi: dal concetto di limite, all’articolazione degli spazi, alla geografia di immobili e di funzioni degli insediamenti studiati, fino a toccare dinamiche sociali, meccanismi competitivi ed emulativi tra piccoli e grandi centri. Il libro «a tema» è composto da dodici saggi: alcuni su casi-studio specifici (Carpi, Correggio, Guastalla, Brescello, San Secondo, Scandiano e Cervia), altri che assumono invece una prospettiva comparativa, all’interno di una serie omogenea di esempi (le terre murate in area veneta, Senigallia, Loreto e Giulianova, i piccoli stati italiani del Rinascimento). Dopo quello introduttivo di Elena Svalduz, che illustra gli obiettivi della ricerca e il significato della pubblicazione, i saggi sono firmati da giovani studiosi che hanno risposto all’invito della curatrice, attendendosi alle linee-guida generali: Marco Folin, Anna Bellavitis, Manuela Ghizzoni, Manuela Rossi, Gabriele Fabbrici, Mario Bevilacqua, Nicola Soldini, Francesco Ceccarelli, Maria Cristina Basteri, Diego Cuoghi, Giuseppe Bonaccorso. Il titolo è giocato su tre elementi: l’ambizione; il piccolo e il grande, ovvero l’oscillazione tra la piccola e la grande scala. Un dato che è possibile tradurre sul piano metodologico, distinguendo tra due momenti entrambi necessari per la la storia della città: il particolare, ovvero l’approfondimento del caso singolo, e il generale, cioè le linee di tendenza più ampie. È nel rapporto tra storia locale e storia comparata che possiamo ricomporre queste due fasi, come spiega Donatella Calabi nella prefazione al volume. Ed è per questo che al centro del libro troviamo i giochi di scala: una rete di rapporti che scalza la gerarchia tra piccolo e grande, facendo emergere quella ricca intelaiatura di «quasi-città» che testimonia la capillare penetrazione di un particolare modello di cultura urbana. Il volume, in definitiva, può essere letto sia come un momento di riflessione generale sul tema dei centri minori, accomunati dalla volontà di emergere con propri connotati urbani, sia come l’esito di un confronto tra studiosi che, pur provenendo da settori disciplinari differenti, adottano analoghe griglie interpretative. Un confronto che oggi, più che mai, appare aperto a nuove possibilità di ricerca. *** CARLO M. TRAVAGLINI (a cura di), Un patrimonio urbano tra memoria e progetti. Roma. L’area Ostiense-Testaccio, Roma-Città di Castello,Croma-Università Roma Tre / Edimond, 2004, pp. 251, euro 30,00. Il volume raccoglie le immagini esposte nella mostra fotografica organizzata dal CROMA presso l’Istituto Superiore Antincendi, dal 26 giugno al 15 ottobre 2004. La storia della prima area industriale della città di Roma –l’Ostiense-Testaccio – è raccontata attraverso immagini fotografiche, anche inedite, raccolte presso fondi pubblici e privati. In una successione dapprima cronologica, che va dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai giorni nostri, e poi tematica, vengono illustrate le trasformazioni fisiche, gli eventi, i personaggi chiave, e la vita sociale di un’area che attualmente rappresenta un riuscito esempio di recupero e di riqualificazione urbana e sociale. Territorio del suburbio coltivato a vigneti a sud del centro storico, affacciato sul Tevere e ricco di presenze archeologiche e monumentali, l’area Ostiense-Testaccio vide la sua sorte cambiare quando il primo Piano Regolatore post unitario del 1873 pose qui l’allora unica zona industriale di Roma. Il misto funzionale che derivò dall’insediamento di stabilimenti SCHEDE 283 industriali, infrastrutture ed edilizia residenziale, conferì al territorio una discontinuità fisica tipica delle periferie di grandi città. Ciò nonostante, in aree come il Testaccio o la Garbatella è ancora possibile incontrare il fascino caratteristico dei quartieri popolari del primo quarto del Novecento. L’inizio della costruzione dell’E42 come passo intermedio dell’espansione di Roma verso il mare, avviò la trasformazione residenziale dell’area. Nel dopoguerra il declino delle attività produttive, la speculazione edilizia e l’incremento demografico determinarono la progressiva dismissione delle strutture industriali, che oggi, inserite in un vasto programma di ripristino, ospitano in gran parte nuove funzioni del settore terziario legate soprattutto all’università e alla cultura. Grazie ad un paziente ed accurato spoglio di numerosi fondi fotografici presso archivi, biblioteche, musei, fondazioni, istituti e soprintendenze, supportato da una campagna fotografica promossa dal CROMA, il gruppo di lavoro della mostra è riuscito a raccontare con sensibilità quasi un secolo e mezzo di vita di questo pezzo della città. Un aspetto interessante è costituito dalla presenza nel volume di immagini pervenute grazie alla partecipazione dei cittadini, e in particolare dei giovani, nella realizzazione della mostra. Il concorso fotografico indetto dall’Università Roma Tre, dedicato sia alle foto contemporanee che alle immagini storiche ha consentito di raccogliere più di 700 immagini. Il coinvolgimento degli abitanti del quartiere nella ricostruzione di quella che Carlo Travaglini definisce nella sua introduzione al volume «la memoria collettiva dell’area Ostiense -Testaccio» rappresenta un importante punto di riferimento per future iniziative di questo genere. I saggi di Maria Filomena Boemi e Paola Calligari, le schede di Sonia Amadio, Carla Mazzarelli, Giuseppe Stemperini, nonché l’articolata cronologia e bibliografia, completano il racconto fotografico, ripercorrendo le trasformazioni salienti, fino ai giorni nostri. Keti Lelo STEFANO ZAGGIA (a cura di), Fare la città. Salvaguardia e manutenzione urbana a Venezia in età moderna, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 154, 45 ill., euro 16,00. Il libro affronta un nodo tematico di complessa definizione: quello che vede intrecciate tra di loro la progettazione, il controllo e la manutenzione del suolo pubblico urbano a Venezia fra la seconda metà del XV e la fine del XVIII secolo. Nei secoli presi in esame, il tessuto della città viene sottoposto a un’assidua attività di regolamentazione e, soprattutto, diviene oggetto di una quotidiana sorveglianza da parte dei principali uffici pubblici preposti alla tutela dello spazio collettivo. Gli elementi della viabilità cittadina (calli, canali, campi, ponti) e dei servizi fondamentali di approvvigionamento idrico (pozzi e cisterne) entrano di prepotenza nella sfera di attività di chi è incaricato di delineare la struttura funzionale e formale della città. La complessa realtà urbana impone, così, il ricorso a competenze operative e giudiziarie specifiche circa i lavori condotti fra terra e acqua. Tali competenze sono state costruite in un lungo periodo con strumenti messi a punto nella realizzazione di opere pubbliche, ma anche nel sistematico escavo dei canali, o nella costruzione di imbarcazioni. Partendo dall’analisi delle concrete azioni compiute dalle magistrature urbane – Giudici del piovego, Provveditori di comun, Savi ed Esecutori alle acque, Patroni all’Arsenale –, i cinque saggi che compongono il volume, redatti da A. Brucculeri, S. Moretti, E. Svalduz, G. Vertecchi, S. Zaggia e preceduti dall’introduzione di Donatella Calabi, delineano un quadro dei complessi e intricati modi di sviluppo e «condensazione» del paesaggio urbano di Venezia in epoca moderna. In tutti i casi presi in esame sembra emergere con forza che le condizioni 284 SCHEDE specifiche dell’ambiente umido lagunare da un lato, le esigenze della costruzione dei mezzi di trasporto acqueo dall’altro, abbiano influenzato non poco anche l’organizzazione e il trasferimento dei saperi e delle mansioni all’interno degli uffici interessati alla manutenzione di strade e «campi», oltre che alla concessione di permessi di costruzione. Al di là di discontinuità, ritardi e accelerazioni, inoltre, appare nitida la consapevolezza propria di coloro che furono coinvolti nelle funzioni di governo, circa la consistenza dell’agglomerato urbano e delle sue particolarità ambientali. Da questa cognizione conseguì l’impegno generalizzato nei confronti di quella capillare azione di costruzione della realtà urbana che un teorico del tempo definiva come «far la città». *** Le schede contrassegnate con *** sono state predisposte a cura della redazione. Convegni, seminari, mostre ANDREA PALLADIO E LA VILLA VENETA DA PETRARCA A CARLO SCARPA Dal 5 marzo al 3 luglio 2005, presso le sale del palazzo Barbaran da Porto a Vicenza, sede del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, si è tenuta una mostra dedicata alla Villa veneta, osservata in tutta la complessità e la multiformità dei suoi aspetti architettonici, sociali, culturali ed economici. Dalla campagna vicentina a quella trevigiana, fin alle soglie del Friuli, la Villa costituisce una presenza architettonica inconfondibile del paesaggio della Serenissima, emblema di una peculiare cultura del vivere e del produrre che, in svariati suoi elementi, è giunta, di fatto, sino ai nostri giorni. È proprio una simile cultura, colta nelle sue molteplici sfaccettature e nelle sue tante diramazioni, che l’esposizione vicentina ha portato alla luce con grande suggestione ed efficacia. Come si viveva in villa, cosa si produceva, com’erano organizzati i lavori agricoli e manifatturieri che si praticavano al suo interno: sono questi i principali interrogativi posti al centro dell’itinerario elaborato dai curatori della mostra. I disegni, i dipinti, i documenti e i manoscritti esposti nelle stanze del palladiano palazzo Barbaran hanno ben messo in evidenza come il concetto di villa, attraverso i secoli, abbia conosciuto un susseguirsi di continuità e discontinuità. Dallo sfarzoso palazzo di Villa Madama alla più semplice Casa del Petrarca, la villa sfuggiva – e sfugge tuttora – ad ogni tentativo di ferrea sistematizzazione. È un concetto, in ogni caso, che parte da lontano (così come da lontano partiva la mostra), e precisamente da quell’età romana in cui la villa richiamava una cultura particolare, intrisa di amore per la vita agreste, in un tutt’uno con la amena visione del paesaggio, fatto di alberi, prati e colture. Nell’età imperiale la villa divenne poi ideale di sontuosa proprietà, situata sia sulle coste marittime sia in campagna, con strutture architettoniche disperse in modo non codificato, ancora causale e irregolare, dove il paesaggio e le attività ricreative la distinguevano dai negotia cittadini. 286 CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE Una grande frattura arriverà, in pieno Cinquecento, con la figura di Andrea Palladio. Egli, infatti, giungerà ad operare una forte sistematizzazione del concetto di villa: dal suo significato, dal sito in cui doveva essere edificata, dalle sue funzioni, sino alle singole parti che andavano a comporla. Dopo Palladio vi sarà un aumento ancor maggiore di magnificenza e di fasto: dal trionfo del parco, alle grandi passeggiate, alla sontuosità delle sale interne dell’edificio. Infine, sarà Carlo Scarpa che nel secolo appena trascorso ridefinirà gli spazi a partire dall’interno, dettato da una ricerca di maggiore equilibrio delle forme, adattando le dimensioni difficilmente proponibili della Villa cinquecentesca alle mutate condizioni della committenza veneta. Molti erano dunque gli elementi di riflessione proposti dalla mostra, sviluppatasi con un occhio sempre attento allo scenario più generale. L’esposizione poteva inoltre essere seguita seguendo un unico o più fili conduttori, quali l’evoluzione delle strutture architettoniche, i giardini, l’agricoltura, i dipinti e le decorazioni interne, la committenza e, non ultime, le funzioni economiche e sociali della villa. In questo contesto si inserivano i manufatti, le piante, i disegni, i manoscritti e i documenti proposti, sino ad arrivare ai suggestivi modelli lignei della Villa Pisani a Strà. Le immagini del paesaggio, della vita e del lavoro in villa sono state infine raccontate sia dal punto di vista dei signori – i loro ideali, le loro attività, i loro svaghi – sia dalla prospettiva dei contadini, rappresentati attraverso i curiosi dipinti della religiosità popolare. Un tema, quello eletto a protagonista della mostra vicentina, indubbiamente di grande rilevanza, poiché la villa, lungi dal costituire l’espressione di una cultura “altra” rispetto a quella cittadina, era profondamente permeata degli ideali e dei valori che informavano l’universo urbano. Sotto questo profilo, il palazzo di città e la dimora di campagna, anziché contrapporsi, rappresentavano, piuttosto, due elementi inscindibili ed intimamente legati, frutto di una “urbanizzazione diluita” che, sotto la guida sapiente e potente delle élites aristocratiche, si espandeva e si diffondeva ben oltre i limiti urbani. Quest’intima connessione fra città e campagna, fra comfort e produzione, emerge, in tutta la sua evidenza, nel modello architettonico della villa palladiana, sintesi perfetta di magnificenza e funzionalità: una residenza signorile recante in sé i segni architettonici del tempio classico, con spazi interni ispirati alle mura romane, e, nel medesimo tempo, un’azienda ad alta produttività, provvista di ambienti deputati al ricovero degli attrezzi agricoli, alla trasformazione e alla conservazione dei prodotti dei campi, alla realizzazione di svariate attività manifatturiere. Lungi dal dedicarsi all’oziosa vita da rentiers, i nobiluomini veneti, con grande spirito imprenditoriale, profittavano quindi dei loro soggiorni in villa per seguire i lavori nei campi non meno che la trattura della seta. L’itinerario proposto dai curatori della mostra ha consentito, così, di sfatare diversi miti storiografici: su tutti, l’idea che la villa fosse il luogo per eccellenza deputato agli CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE 287 otia, al riposo e all’inattività. Il viaggio all’interno del mondo delle ville venete, per contro, ha mostrato come queste residenze, per quanto sontuose e confortevoli, brulicassero di ogni sorta di attività: dalla lavorazione delle fibre “industriali” all’organizzazione di fiere e mercati per la commercializzazione dei prodotti agricoli e manifatturieri. Un ricco Catalogo, edito da Marsilio, consente, a tutti coloro che non avessero potuto partecipare alla Mostra, di osservare le numerose opere esposte nelle sue sale. Una serie di saggi offrono poi la possibilità di approfondire i temi ad essa legati: il significato e l’evoluzione del concetto di villa (J.S. Ackerman, C.L. Frommel, L. Puppi), sull’architettura di villa nel Veneto (G.M. Varanini, G. Beltramini, H. Burns, P. Marini, A. Hopkins, G. Romanelli, V. Zanchettin) e sul contesto, politico, economico e ambientale in cui le ville erano inserite (P. Lanaro, M. Knapton, S. Ciriacono, M.L. De Gregorio, G. Marcadella, F. Cavazzana Romanelli, M. Azzi Visentini, L. Puppi). Nel vivere in villa, dunque, l’utile e il dilettevole andavano spesso e volentieri di pari passo. Michela Barbot - Andrea Caracausi 288 CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE THE 21TH INTERNATIONAL CONFERENCE ON THE HISTORY OF CARTOGRAPHY Si è svolta dal 17 al 22 luglio 2005 a Budapest la ventunesima International Conference on the History of Cartography, organizzata dalla Eötvös Loránd University di Budapest, coordinatore dr. Zsolt Török, e dalla rivista «Imago Mundi». L’appuntamento biennale, che segue quello di Boston del 2003 e precede quello di Berna, previsto per il luglio 2007, ha raccolto circa 230 adesioni. Nonostante i costi di iscrizione decisamente elevati di questi convegni biennali, la partecipazione è stata alta, in virtù del momento di grande popolarità che sta vivendo la storia della cartografia. La composizione delle presenze conferma purtroppo una tendenza ormai consolidata, che vede una decisa predominanza della rappresentanza anglosassone accanto all’area geografica del paese di volta in volta ospitante; molto ridotta la pattuglia italiana, ancora di più quelle di Francia, Spagna, e Portogallo; assente che tutto la Grecia che aveva ospitato il convegno nel 1999. Lo squilibrio che ne risulta, al di là delle ragioni che lo hanno determinato, non giova sicuramente alla circolazione delle idee, e neppure riflette la reale situazione degli studi sull’argomento. L’ottima organizzazione ha offerto ai convegnisti molte facilitazioni, occasioni d’incontro e eventi paralleli. In contemporanea sono state allestite tre mostre principali in aggiunta ad altre più piccole: Margaritae Cartographicae; Earth and Sky: Astronomy and Geography at the University; The History of Military Mapping in Hungary from the 16th to the 20th century. Il tema dominante individuato per l’edizione ungherese è stato «Changing borders»: una scelta determinata dalla considerazione che l’Europa centrale è stata caratterizzata nel corso dei secoli da un continuo e spesso drammatico cambiamento di confini, l’ultimo dei quali determinato proprio dal recente ingresso dell’Ungheria nella Comunità Europea. La cartografia storica dell’area ha puntualmente rappresentato questa singolare vicenda di separazione e definizione di entità diverse, di paesi, popoli ma anche culture e tecnologie. Dopo il tema principale venivano indicati nell’ordine: -la cartografia dell’impero asburgico; -la storia della cartografia militare; -Vecchio Mondo/Nuovi Mondi; -ogni altro aspetto di Storia della Cartografia;. Delle oltre centocinquanta proposte presentate solo sessantadue sono state selezionate e suddivise in ventuno sessioni, di cui sei organizzate, mentre le rimanenti sono state formate dalla commissione sulla base della vicinanza tematica dei soggetti. CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE 289 Tre sessioni rivestivano un carattere particolare:quella dedicata al progetto editoriale della History of Cartography, la Tavola rotonda sull’uso della cartografia storica nelle scuole, ed infine quella dedicata alla memoria di David Woodward, la cui prematura scomparsa è profondamente e sinceramente compianta da tutti coloro che lo hanno personalmente conosciuto o letto i suoi contributi. Alle sessioni di relazioni vanno aggiunti due workshops Early Map Printing e Plane Table Topographic Survey, ed una sessione di Posters, dove sono stati ospitati i contributi, circa quaranta, che focalizzavano una singola carta, o soggetto, o regione e che si prestavano ad una presentazione essenzialmente grafica. Ai temi particolari, vicini agli interessi del paese ospitante, si sono affiancati temi che ricorrono frequentemente negli appuntamenti biennali, anche se con prospettive ogni volta leggermente diverse: la cartografia tematica, la cartografia coloniale, strumenti e metodologie di rilevamento, rapporti tra testo e immagini e cartografia urbana. Quest’anno tre contributi erano ospitati nella sessione Towns and cities: uno illustrava un documento specifico, un atlante di fortezze portoghesi in India conservato alla Biblioteca Nacional di Rio de Janeiro, e la sua importanza per la comprensione della qualità delle architetture militari e dell’urbanizzazione dell’area (Andréa Doré, The Habsbourgs Plans of the Portuguese Fortifications in India: A Cartography with Military and Urbanistic Interest). Gli altri due si muovevano in ambito europeo, ma attorno a temi già ampiamente percorsi dalla letteratura esistente (Peter van der Krogt, Joan Blaeu and his Town Atlases; Kory Olson, Trasforming Paris ans Mapping the Republic: Atlas des travaux de Paris 1789-1889). Due altri contributi di interesse per la storia urbana erano ospitati altrove:il primo nella sessione Maps of the Holy Land, tema anch’esso ricorrente, ed analizzava le vicende, il contesto e le fonti di un modello tridimensionale di Gerusalemme esibito all’Esposizione Universale di Vienna del 1873, poi perduto e infine ritrovato a Ginevra. Grazie alla sua profonda conoscenza della città l’autore aveva potuto ricostruire nel dettaglio ogni piò minuto edificio, comprese le finestre, i portici e perfino le bandiere dei consolati (Rehav Rubin, Sthephan Illes and his 3D Map of Jerusalem ). L’altro, collocato nella sessione Asia mapped, presentava la collezione di cartografia giapponese dell’Università di Berkeley, segnalando la possibilità di analizzare attraverso le tecniche GIS la cartografia storica di Edo, oggi Tokyo (Caverlee Cary, Exploring Edo : Urban Dynamics and GIS in Japanese Historic Maps). Anche alcuni posters rivestivano particolare interesse per la cartografia urbana e il territorio italiano :quello di Maria Luisa Sturani (Cartography as a Tool for Fixing Borders at Local and National Scale:A Durieu, Cadastral and Border Maps in 18th century Savoy ) documentava l’attività di Antoine Durieu, noto topografo alla corte sabauda e assistente alla realizzazione del Catasto del 1728, nella definizione dei confini settentrionale fra lo Stato Sabaudo e la Francia. Le numerose fonti relative a quest’operazione hanno permesso di esplorare il ruolo svolto dalla cartografia come strumento per la definizione 290 CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE dei confini, sia all’interno dello Stato, per sottoporre a controllo la rete delle comunità, sia all’esterno nella normalizzazione dei territori dei diversi Stati europei. Michael F. Davie and Mitia Frumin (Veni, vidi delineavi: Beirut Cityscape in the late 18th Century through Russian Navy Maps) hanno visualizzato un percorso che ha preso le mosse da due carte manoscritte prodotte durante i due assedi settecenteschi di Beirut da parte dei Russi e conservate negli archivi statali della Marina di S. Pietroburgo. Attraverso le informazioni ricavate da fonti successive un gran numero di oggetti significativi della città e del suo entroterra sono stati identificati e georeferenziati. L’applicazione di tecniche GIS ha permesso agli autori di sperimentare un tentativo di ricostruzione del paesaggio urbano di Beirut nel tardo Settecento. Infine il poster di Regine Gerhardt (Henry IV in the Cartography of his Capital. Paris as the Projection screen of the King) ha illustrato l’azione di Enrico II nella forte committenza di architetture urbane. Il ruolo centrale di Parigi come schermo di proiezione del suo programma politico è stato evidenziato in particolare in due rappresentazioni cartografiche dei primi anni del Seicento, interpretabili come formidabile strumento di propaganda politica. L’alto numero di relazioni, unito alla diversità degli approcci, degli ambiti disciplinari di provenienza e diverso livello di specializzazione dei presentatori rende impossibile ed inutile un discorso di sintesi. E’ evidente testimonianza di un fermento culturale che si è creato attorno ai materiali cartografici, anche in seguito all’impulso verso la comunicazione visuale che stiamo vivendo negli ultimi anni con la creazione e moltiplicazione di forme multimediali. Nella convergenza di interessi verso il mondo delle carte c’è sicuramente un’area di confusione e improvvisazione, in cui ambiziose e velleitarie intenzioni non sufficientemente supportate da una chiarezza metodologica o un’adeguata attività di ricerca naufragano in risultati deludenti. Coloro che si considerano storici della cartografia in senso pieno tendono a diffidare dei nuovi arrivati e a considerare questa varietà piuttosto dispersione che ricchezza. Ma certo, proprio alla luce delle prospettive derivanti dall’apertura delle frontiere a nuovi apporti, appaiono altrettanto e sterili i contributi di stretta osservanza storico-cartografica, che non valicano i limiti della geografia della carta. Spunti di riflessione interessanti provengono proprio da contributi che hanno esplorato la qualità e la forza del linguaggio cartografico in aree marginali della cartografia storica, come quelli della sessione Map Tales :su carte usate in documenti legali come linguaggio vernacolare diretto a chi non conosceva la scrittura (Rose Mitchell, The case of the Crafty Prior and other Tales from Early English Legal Maps ); su carte che non ci sono più, oppure che non ci sono mai state, e pure hanno esercitato un ruolo nella evoluzione del sapere (Evelyn Edson, The case of Missing Maps: Reconstruction and Recreation of Lost Maps);o infine su carte non sono considerate come tali, stradari, cartoline o cartelloni pubblicitari, e relegate nel rango di cartografia effimera (Dennis Reinhartz, Ephemeral Cartography? ) Lucia Nuti CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE 291 SEMINARIO GIS Il 24 giugno 2005 ha avuto luogo a Venezia, presso la sede della Fondazione Scuola Studi Avanzati nell’isola di San Servolo, il seminario dal titolo «I GIS come strumento di analisi per la storia della città. La gestione della cartografia storica e delle fonti d’archivio attraverso lo studio di tre esempi: Lione, Roma e Venezia», organizzato da Giulia Vertecchi nell’ambito del Dottorato in Storia dell’Architettura e della Città, Scienze delle Arti, Restauro, coordinato da Donatella Calabi. Hanno partecipato all’iniziativa: Alessandra Ferrighi, Bernard Gauthiez, Keti Lelo, Mario Piana, Carlo Travaglini e Giulia Vertecchi. Ha introdotto i lavori del seminario Donatella Calabi. Obiettivo del seminario è stato quello di mostrare le potenzialità dell’applicazione dei Sistemi Informativi Geografici per lo studio della storia della città e del suo tessuto urbano. Infatti a fronte dell’enorme sviluppo che negli ultimi anni ha avuto l’utilizzazione del GIS e della cartografia storica in vari campi disciplinari, non si è registrata, se non episodicamente, un’adeguata riconsiderazione delle possibilità e dei limiti entro cui tali strumenti possano essere applicati nella maniera più corretta e proficua. È stato svolto il seguente programma di interventi: Bernard Gauthiez, SIG et autorisations de construire à Lyon (XVII-XVIII), ha illustrato come sia possibile analizzare la città attraverso un processo di decomposizione del tessuto urbano in unità spaziali. Queste unità hanno un significato diverso da quelle generalmente utilizzate, quali edificio, tipologia, parcella: infatti sono le fonti d’archivio, e, nel caso specifico, la serie degli atti di allineamento concessi a Lione tra il 1617 e il 1763, che consentono di definire e identificare spazialmente le unità e di costruire quindi la geometria del GIS. Carlo Travaglini e Keti Lelo, La costruzione di un sistema informativo geografico per Roma, hanno presentato la metodologia e il lavoro condotto per la costruzione dell’atlante storico della città di Roma. La ricostruzione dell’evoluzione della città è resa possibile dall’eleborazione e dall’analisi congiunta di fonti quantitative e di cartografia storica. La georeferenziazione delle diverse fonti cartografiche e l’integrazione dei layer cartografici con le informazioni tematiche desunte dal lavoro d’archivio hanno consentito di mostrare la dinamica delle trasformazioni della forma fisica della città. Mario Piana, Alessandra Ferrighi, Strumenti e dati per il WEB-GIS degli intonaci esterni del centro storico di Venezia, hanno illustrato il sistema di censimento e l’informatizzazione dei dati di circa 15.000 unità edilizie del centro storico di Venezia. La georeferenziazione degli intonaci è stata concepita non solo in relazione alle unità 292 CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE edilizie, ma anche sui fronti di ciascun edificio, con la messa a punto di un’apposita geometria. Per rendere la banca dati più facilmente accessibile hanno predisposto il sistema di trascrizione delle informazioni contenute nel GIS su piattaforma WEB. Giulia Vertecchi, Problemi e metodo nella costruzione del GIS e nelle indagini archivistiche: il caso di Venezia, ha messo in luce la metodologia e il percorso di ricerca adottati – dalla costruzione della banca dati alla georeferenziazione dei documenti – per rendere le informazioni archivistiche fruibili dal sistema GIS. Il limite di tale sistema è costituito dal supporto cartografico di riferimento, che, rappresentando la città attuale, non consente di localizzare e quindi di analizzare spazialmente una parte dei documenti. Al momento il sistema è in grado di fornire comunque alle amministrazioni comunali o alle soprintendenze una conoscenza più profonda del tessuto edilizio. Giulia Vertecchi Informazioni LA CONFERENZA 2006 DELLA EUROPEAN ASSOCIATION FOR URBAN HISTORY L’ottava conferenza della «European Association for Urban History», il cui tema è Urban Europe in Comparative Perspective, avrà luogo a Stoccolma fra il 30 agosto e il 2 settembre 2006. Attuale presidente dell’associazione e organizzatore dell’evento è il prof. Lars Nilsson che nella preparazione è stato affiancato dal comitato direttivo internazionale e da un comitato locale, oltre che dall’Institute of Urban History dell’Università di Stoccolma, uno dei primi centri europei specificatamente dedito alla storia urbana. Come è noto, dal 1989 (anno di fondazione) l’EAUH organizza i propri incontri ogni due anni: si tratta di un grande forum multidisciplinare che si rivolge a storici, sociologi, geografi, antropologi, storici dell’arte e dell’architettura, economisti, ecologisti, pianificatori e a tutti coloro che lavorano su diversi aspetti della storia urbana; esso richiama ogni volta un gran numero di ricercatori europei ed extra-europei interessati a conoscere i lavori in corso e a discutere tra loro delle tendenze in atto nell’ambito del proprio ambito di studi. A latere, saranno organizzate visite ai principali musei di Stoccolma, agli archivi, alla città storica, all’arcipelago e alla miniera d’argento di Sala; saranno disponibili informazioni bibliografiche sulle pubblicazioni recenti: alcuni editori specializzati organizzeranno un loro stand in cui venderanno e prenderanno prenotazioni per l’acquisto dei loro ultimi libri (in generale a prezzi scontati). Il congresso di quest’anno prevede circa 60 sessioni relative alla storia urbana europea medioevale, moderna e contemporanea, considerata da diverse punti di vista in una prospettiva di comparazione. Saranno discussi temi molto nuovi e questioni che tradizionalmente afferiscono a questo campo di studi: dalla cultura materiale ai grandi cantieri, dalla violenza nello spazio urbano a questioni di frontiere e identità, dai sistemi informativi all’ambiente urbano, dagli scambi tra città alle dinastie familiari, dalle città cosmopolite alla religione, dalla città socialista, alla politica della casa. In tutto oltre 400 partecipanti saranno coinvolti attivamente presentando una loro comunicazione in una delle 16 sessioni maggiori, o in una delle 44 specialistiche o ancora nelle due tavole rotonde, rispettivamente relative alla città medioevale e moderna e alla città contemporanea. È attualmente aperto l’appello alla registrazione sul sito: http://www.eauh.org, sul quale anche si troveranno tutte le notizie circa la conferenza e il programma articolato dell’iniziativa, nonché alcune indicazioni logistiche. 294 INFORMAZIONI Tutte le comunicazioni (di massimo 6 pagine) dovranno essere inviate per e-mail agli organizzatori al seguente indirizzo: mailto:urbanhistory@historia.su.se, così da poter essere pubblicate sul sito sopra menzionato. Per richieste particolari si può contattare il segretario: Bo Eriksson Janbrink, Department of History, Stockholm University, S-106 91 Stockholm, Sweden. E-mail: urbanhistory@historia. su.se. Phone: +46 8 674 71 18, Fax: +46 8 16 75 48. Donatella Calabi INFORMAZIONI 295 THE INTERNATIONAL COMMITTEE FOR THE CONSERVATION OF THE INDUSTRIAL HERITAGE La sola rete mondiale di specialisti del patrimonio industriale fondata nel 1978 a Stoccolma dedicherà il suo XIII Congresso Internazionale a «Industrial Heritage and Urban Transformation» (tema A) e a «Productive territories and industrial landascape» (tema B) Dopo Londra e Mosca, sedi delle ultime edizioni il Congresso si svolgerà per la prima volta in Italia, a Terni e Roma, dal 14 al 18 settembre 2006 e sarà seguito da due tour postcongressuali: quello breve, dal 18 pomeriggio al 20 settembre, che prevede la visita ai più importanti siti industriali e museali di Napoli, alla manifattura di San Leucio e alla penisola di Amalfi-Sorrento; quello lungo, dal 18 pomeriggio al 23 settembre, che si svolgerà secondo un itinerario comprendente i maggiori centri industriali e le città d’arte del centro-nord. Durante lo svolgimento della parte scientifica del Congresso (da giovedì 14 a lunedì 18 settembre 2006) vi sarà una giornata dedicata ad incontri ufficiali e visite all’area Ostiense e Testaccio di Roma. I lavori congressuali saranno articolati in due sessioni plenarie dedicate ai temi A e B e in 16 workshops dedicati ai seguenti temi: la conoscenza: i censimenti e la catalogazione; la tutela: gli strumenti giuridici e legislativi; il progetto: restauro, riuso e trasformazione; la conservazione e gestione: fondazioni, archivi, musei, ecomusei; comunicare l’industria e la sua identità storica; la fruizione: turismo culturale e turismo industriale; nuovi saperi progettuali e formazione degli operatori; valorizzazione del patrimonio e strategie di sviluppo «multiscala»; mestieri, saperi e produzioni tradizionali; gli archivi tecnici; il patrimonio dell’industria agro-alimentare; il patrimonio industriale del tessile-abbigliamento; il patrimonio dell’industria siderurgica e meccanica; il patrimonio minerario; il patrimonio industriale nel settore chimico; ponti, vie di comunicazione, reti energetiche ed infrastrutture industriali. Il Congresso sarà preceduto, accompagnato e seguito da numerose iniziative volte anch’esse alla conoscenza, allo studio e alla valorizzazione del patrimonio industriale italiano. Preliminarmente al Congresso si svolgeranno infatti tre conferenze preparatorie dedicate ad altrettanti temi: la prima relativa al patrimonio minerario si terrà in Sardegna in maggio, la seconda sul patrimonio agroalimentare sarà organizzata a giugno in Puglia, la terza si svolgerà in Piemonte nel mese di luglio e sarà dedicata al paesaggio industriale. Durante il Congresso saranno poi visitabili, nella stessa sede, due importanti mostre sul patrimonio industriale: una dedicata alle regioni italiane, curata dalle 20 sezioni regionali AIPAI, che illustrerà esperienze, risultati e percorsi di studio e valorizzazione del patrimonio industriale italiano e un’altra, realizzata con il progetto «Cultura 2000», che darà conto di alcune delle più significative esperienze europee. Contemporaneamente, presso la sua sede delle ex Officine Bosco, il centro multimediale di Terni allestirà una exhibition sul tema «L’acqua come fonte di energia e come elemento caratterizzante il paesaggio industriale» realizzata nell’ambito del progetto pilota «Nuove tecnologie di comunicazione audiovisiva applicate agli spazi» (finanziato dal progetto Comunicatio Mediauvis, programma Interreg III Medoc). 296 INFORMAZIONI La sede congressuale dell’ex SIRI ospiterà invece anche un’importante fiera del Turismo industriale durante la quale gli operatori del settore potranno presentare le proprie iniziative, o progetti e i percorsi diretti ad incontrare e a stimolare la domanda di turismo archeo industriale. Durante il Congresso particolare attenzione sarà dedicata alle visite di studio per consentire ai partecipanti una conoscenza diretta dei luoghi e dei monumenti della civiltà industriale del ternano e dell’ area Ostiense di Roma. Nel corso dei lavori sono infatti previste visite di studio ai siti e aree industriali di Terni (Cascata delle Marmore, Lago di Piediluco, Acciaieria del Gruppo Thyssenkrupp, centrali idroelettriche di Galletto e Monte Sant’Angelo del gruppo Endesa, quartieri operai) dimesse o riutilizzate ad altri scopi (Stabilimento elettrochimico di Papigno, stabilimento SIRI, Museo della Fabbrica d’armi); inoltre, a Roma, si visiterà il quartiere ex industriale dell’Ostiense, caratterizzato dalla presenza di ex siti produttivi riutilizzati come contenitori culturali (Università Roma Tre, Museo Centrale Termoelettrica «Montemartini», area Italgas ENI, Magazzini Generali, Mattatoio, Mercati Generali). Ancora ad oltre quattro mesi dal suo svolgimento il Congresso ha ottenuto una massiccia adesione (circa 400 iscritti) da oltre 40 paesi di tutti i continenti; circa 250 sono le proposte di papers fino ad ora presentate. Informazioni dettagliate su tutto il programma si possono reperire sul website del Congresso www.ticcihcongress2006.net o scrivendo a: Segreteria del Congresso TICCIH 2006 ICSIM via I° Maggio, 23 05100 Terni (Italia). L’organizzazione del Congresso è opera congiunta dell’TICCIH, dell’AIPAI (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale) e dell’ICSIM (Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa «Franco Momigliano»). Il TICCIH, formalmente costituito nel 1978 dopo le due conferenze internazionali ad Ironbridge (1973) e Bochum (1975) è l’organizzazione mondiale del patrimonio industriale che ha per obiettivo di promuovere la comparazione internazionale tra individui e istituzione, al conservazione, la ricerca, la documentazione, l’interpretazione e la formazione nel campo dell’Industrial Heritage in tutto il mondo. Attualmente è presieduto dall’Ingegner Eusebi Casanelles , direttore del Museu de la Ciencia i de la Tecnica de Catalunya. Organismo altamente rappresentativo e dalle competenze molto diversificate, il TICCIH dalla fine degli anni Ottanta è riconosciuto dal World Heritage Committee dell’ICOMOS (International Council for Monuments and Sites), riconoscimento confermato da una convenzione sottoscritta nel 2000 che lo costituisce come sezione consulente dell’UNESCO per la selezione dei monumenti, siti e paesaggi dell’industria da includere nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. TICCIH, oltre al suo sito internet www.museu.mNACTEC.com/ TICCIH, produce una newsletter di periodicità trimestrale e partecipa alla pubblicazione della rivista semestrale «Patrimoine de l’Industrie/Industrial Patrimony». I membri del TICCIH sono singoli individui o istituzioni. L’organizzazione è articolata in sezioni nazionali che eleggono il loro rappresentante nell’assemblea dei delegati nazionali che, a sua volta, elegge i membri del board del TICCIH. L’assegnazione del XIII Congresso Internazionale del TICCIH all’Italia costituisce anche un’importante riconoscimento al ruolo assunto sul piano internazionale dell’AIPAI (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale), l’unica associazione operante nel settore del patrimonio archeologico-industriale, fondata nel 1997 da un gruppo di specialisti del patrimonio industriale e da alcune tra le più importanti INFORMAZIONI 297 istituzioni del settore nel Paese. L’Associazione conta oggi circa 300 soci ed interagisce proficuamente con università, centri di ricerca, fondazioni, musei, organi centrali e periferici dello Stato (Ministeri, Soprintendenze, Regioni, Province, Comuni, Comunità Montane, Agenzie di promozione turistica e per lo sviluppo locale, ecc..). Al suo interno è costituita la sezione italiana del TICCIH; la cui attività si è sviluppata in sinergia ed integrazione con quella dell’AIPAI, dispiegandosi soprattutto nelle aree della formazione, della ricerca e della divulgazione; dell’inventariazione e catalogazione; della promozione, sensibilizzazione e valorizzazione dei beni della civiltà industriale. L’AIPAI, infatti, in collaborazione con una molteplicità di enti ed istituzioni, fin dalla sua costituzione, ha promosso, coordinato e svolto attività di ricerca avvalendosi di diverse competenze disciplinari con l’obiettivo di analizzare il patrimonio archeologico industriale nelle sue molteplici connessioni con il sistema dei bei culturali ed ambientali e con la cultura del lavoro, in una prospettiva di lungo periodo. Tra i fini dell’AIPAI vi è la promozione di un più elevato livello di collaborazione operativa e scientifica tra enti pubblici e privati (musei, ministeri, università, soprintendenze, enti locali ed istituzioni private) per la catalogazione, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio industriale, per la salvaguardia degli archivi, macchine e altre testimonianze della civiltà industriale e del lavoro, per la formazione degli operatori e la promozione del turismo industriale. A tale scopo, grazie anche all’organizzazione dell’AIPAI in sezioni regionali, sono state stipulate convenzioni con Comuni, Province e Regioni per il censimento dei beni archeologico-industriali. Indagini ed iniziative hanno riguardato i manufatti architettonici, l’ambiente, il paesaggio e le infrastrutture, le fonti documentarie e archivistiche, i macchinari e le attrezzature, i saperi produttivi e importanti aspetti della storia tecnica, sociale ed economica più direttamente collegati alle vicende del patrimonio industriale. I materiali relativi ad alcune iniziative promosse dall’AIPAI sono stati pubblicati nel primo «Quaderno» di Patrimonio Industriale «Industrial Heritage» uscito nel 2005 con il titolo di «Archeologia Industriale in Italia. Temi, progetti, esperienze». La nuova rivista semestrale «Patrimonio Industriale/Industrial Heritage», organo dell’Associazione ed unica rivista di settore presente in Italia, uscirà in occasione del Congresso. Nel frattempo l’Associazione e i suoi membri hanno concorso sia finanziariamente che con contributi scientifici alla pubblicazione della rivista del TICCIH «Patrimoine de l’Industrie/Industrial Patrimony». Per il potenziamento degli strumenti di comunicazione interna e con l’esterno l’Associazione si è dotata di una newsletter, che ora avrà una nuova veste grafica e sarà disponibile anche on-line, e del portale www.patrimonioindustriale.it. Giovanni Luigi Fontana 298 INFORMAZIONI LA CITTÀ E LE REGOLE Il terzo Congresso dell’Associazione Italiana di Storia Urbana (AISU) è consacrato a discutere un tema che ha sollecitato grande interesse e partecipazione tra i soci dell’associazione e nel mondo della cultura in generale: La città e le regole. Il convegno è ospitato dalla I e dalla II Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino e si svolgerà nei giorni 15,16 e 17 giugno a Torino al Castello del Valentino. Il Comitato scientifico è composto da Livio Antonielli (Università di Milano), Donatella Calabi (IUAV, Venezia), Vera Comoli (Politecnico di Torino), Costanza Roggero (Politecnico di Torino), Paola Lanaro (Università di Ca’ Foscari, Venezia), Luca Mocarelli (Università di Milano Bicocca), Roberta Morelli (Università di Roma Tor Vergata), Carlo Olmo (Politecnico di Torino), Sergio Pace (Politecnico di Torino), Ercole Sori (Università di Ancona), Rosa Tamborrino (Politecnico di Torino), Carlo Travaglini (Università Roma Tre) e Guido Zucconi (IUAV, Venezia). L’ampiezza delle questioni, che possono essere ricondotte al tema lanciato dal call for paper, ha permesso d’individuare una serie di aree tematiche, destinate a coordinare tutte le proposte pervenute. Tali aree interpretano l’universo delle norme e delle regole per la città, sulla base della finalità e delle funzioni cui possono essere ricondotte: amministrare e delimitare, abitare e utilizzare, costruire e abbellire, produrre e commerciare, accogliere e sorvegliare, circolare e smaltire. Un ulteriore contributo interpretativo è stato, inoltre, lasciato ai partecipanti, che hanno implicitamente articolato i temi attraverso le proposte inviate a ogni sessione. Sono state così definite una serie di subsessioni che, svolte in parte in parallelo, metteranno in rilievo le questioni di maggiore importanza, ponendo a confronto casi studio, approcci metodologici, tipologia di fonti, luoghi e tempi delle ricerche. Il convegno, in particolare, intende recepire quella tradizione degli studi italiani di storia urbana che si manifesta come attenzione particolare allo spazio fisico: un’attenzione evidente anche nell’associazione, a partire dal numero di iscritti provenienti dalle facoltà di architettura, con temi che vanno dalla costruzione della città alle infrastrutture, alle opere di architettura. La città, tema unificante le diverse aree disciplinari che si riconoscono nell’associazione, nasce e si sviluppa secondo un sistema di regole. Il convegno intende indagarne principalmente e diacronicamente quelle che più la definiscono e la identificano: le norme imposte dall’autorità pubblica, dunque, quelle che individuano le forme istituzionali e di governo, i regimi di gestione e amministrazione di uomini e risorse, prodotti e merci, cittadini e forestieri. Al centro dell’interesse è la città come bene comune, patrimonio pubblico, campo d’azione in cui si incrociano interessi generali e particolari, pubblico e privato, da cui emerge un’attitudine normativa intesa a prevenire i conflitti e ad armonizzare i contrasti. D’altra parte, è necessario tener presente pure l’attrito che si produce al momento della sua messa in opera, che produce scontri, reticenze, veri e propri soprusi, insieme al prevalere di consuetudini nuove o antiche. INFORMAZIONI 299 Lanciato nel 2004 e sollecitato dalla discussione generale dell’assemblea dei soci durante il II Congresso di Roma, il tema della città e delle sue regole non è soltanto un oggetto di studio storico, ma rimane necessariamente di grande attualità nel dibattito civile e politico della società italiana. In questo senso Giancarlo Caselli, procuratore generale di Torino, insigne giurista ma anche personaggio emblematico in Italia quando si pensa alle relazioni tra vita civile e applicazione della norma, sarà chiamato a svolgere la relazione introduttiva al convegno. Alle sue conoscenze ed esperienze sarà affidata una lettura del tema secondo un’inflessione interpretativa meno consueta, fuori dai confini disciplinari ma indispensabile per ricondurre gli studi a una dimensione attuale, per ritrovare il filo rosso che unisce la pratica della ricerca storica alla vita quotidiana d’una comunità di cittadini. Sergio Pace - Rosa Tamborrino 300 INFORMAZIONI LA CITTÀ E LE REGOLE III Congresso dell’Associazione Italiana di Storia Urbana Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura I e II Castello del Valentino 15-17 giugno 2006 giovedì 15 giugno 9.00 Registrazione 10.00 Salone d’onore. Apertura lavori 11.00 Relazione introduttiva, Giancarlo Caselli (procuratore generale di Torino) 14.00-18.30 Sessioni parallele: 1. Amministrare e Delimitare e 4. Produrre e Commerciare Aula Audiovisivi. Sessione 1. Amministrare e Delimitare coordinatori Paola Lanaro e Rosa Tamborrino 14.00-14.30 Introduzione dei coordinatori 14.30-16.00 Sub-sessioni 1 - parte I. Aula 8. Cittadinanze, partizioni e circoscrizioni coordinatore Gianmaria Varanini relazioni: Gianmaria Varanini, Michela Barbot, Fausto Cozzetto, Silvia Beltramo, Valeria Tomasi, Carlo Tosco; poster: Irene Maddalena, Cristina Natoli, Rosa Ciacco, Rossana Sicilia, Donatella Ronchetta-Paolo Mighetto Aula 6. Censimenti, catasti e competenze coordinatori Carlos Sambricio e Rosa Tamborrino relazioni: Pierre Pinon, Giovanni Favero, Maria Luisa Ferrari, Carlos Sambricio, Rocco Curto Gemma Sirchia Aula 4. Tutelare coordinatore Micaela Viglino relazioni: Gabriele Corsani, Mario Dalla Costa, Roberto Dulio, Alessandro Martini, Massimiliano Savorra, Francesca Torello; poster: Barbara Galli, Olimpia Niglio 16.00-17.30 Sub-sessioni 1 - parte II Aula 8. Municipalità: le regole per il governo delle città italiane nel XIX sec. coordinatori Salvatore Adorno e Filippo De Pieri relazioni: Salvatore Adorno, Denis Bocquet, Elisabetta Colombo, Filippo De Pieri, Alberto Ferraboschi, Federico Lucarini; Aula 6. Censimenti, competenze e istituzioni di controllo coordinatore Aldo Castellano relazioni: Pasquali Aloscari, Aleksander Panjek, Silvia Paoli, Raimondo Pinna, Francesco Quinterio; poster: Tommaso Zampagni, Giulia Mezzalama, Alessandra Buoso 17.30-18.30. Aula Audiovisivi. Discussione sessione 1 Aula 1. Sessione 4. Produrre e Commerciare coordinatori Luca Mocarelli e Sergio Pace 14.00-14.30 Introduzione dei coordinatori 14.30-16.00 Subsessioni 4 parte I. Aula 10. Annona e grani in età moderna coordinatore Luca Mocarelli relazioni: Brigitte Marin, Simona LaudaniValentina Vigiano, Ida Fazio, Cristina Ciancio, Renzo Corritore, Donatella Strangio Aula 11. Statuti corporativi e manifatture urbane coordinatore Sergio Pace relazioni: Giovanni Rossi, Sonia Scognamiglio, Roberto Livraghi, Marina Romani, Andrea Caracausi, Luisa Dolza-Maitte; poster: Laura Sabrina Pellissetti, Nadia Ostorero-Maria Vittoria Cattaneo 16.00-17.30 Subsessioni 4 parte II Aula10. Altri prodotti e annona ’800-’900 coordinatore Luca Mocarelli relazioni: Renato Sansa, Manuel Vaquero Piñeiro, Lavinia Parziale, Giuseppe Stemperini, Aula 11. Norme, commercio e mestieri coordinatore Sergio Pace relazioni: Emanuele Romeo, Carmen Calandra, Lavinia Gazzè, Eleonora Canepari, Simonetta Ciranna, Monica Parola; poster: Alessio Re, Alessia Bellone 17.30-18.30. Aula Audiovisivi. Discussione sessione 4 18.30-19.00 Salone d’onore. Riflessioni e spunti sui temi discussi durante i lavori della giornata coordinatore Georges Vigarello venerdì 16 giugno 8.30-13.00 Sessioni parallele: 3. Costruire e Abbellire e 5. Accogliere e Sorvegliare Aula Audiovisivi. Sessione 3. Costruire e Abbellire coordinatori Vera Comoli e Carlo M. Travaglini 8.30-9.00 Aula Audiovisivi, Introduzione dei coordinatori 9.00-10.30 Sub-sessioni 3 - parte I Aula 8. Piani per la città e il territorio coordinatore Laura Marcucci relazioni: Maria Luisa Neri, Gerardo Doti, Giuseppina Lonero, Ettore Sessa, Federica Zampa; poster: Denise Ulivieri, Filippo Masino, Giorgio Sobrà, Giovanni Maria Lupo, Giusi Lo Tennero, Claudia Lamberti, Maria Vitiello Aula 6. Ornato coordinatore Angela Marino relazioni: Alfredo Buccaro, Gabriella Orefice, Giuseppina Carla Romby, Maria Antonietta Rovida INFORMAZIONI Aula 4. Norme edilizie e regime dei suoli coordinatori Brigitte Marin e Carlo M. Travaglini relazioni: Keti Lelo-Carlo M. Travaglini-Orietta Verdi, Mariagrazia D’Amelio, Albane Cogné, François Dumasy; poster: Antonella Manfredi, Federica Carboni-Gilda Nicolai, Tiziana Malandrino 10.30-12.00 Sub-sessioni 3 - parte II Aula 6. Piani per la città e il territorio, coordinatore Giorgio Simoncini relazioni: Giuseppe Pignatelli, Marco Folin, Andrea Longhi, Eliana Mauro, Enrico Lusso; poster: Francesco Menchetti, Luigi Imparato Aula 4. Piani per la città e il territorio Il verde nelle teorie urbanistiche e nei piani regolatori tra Otto e Novecento coordinatori Elena Accati e Vera Comoli relazioni: A. Iolanda Lima, Francesca Bagliani, Paolo Cornaglia, Franco Panzini, Bianca Rinaldi; poster: Vittorio Defabiani, Angela Farruggia, 12.00-13.00. Aula Audiovisivi. Discussione sessione 3 Sessione 5 Accogliere e Sorvegliare, coordinatori Livio Antonielli e Donatella Calabi 8.30-9.00 Introduzione dei coordinatori 9.00-10.30 Sub-sessioni 5 - parte I Aula 11. Garanzie di sicurezza coordinatore Livio Antonielli e Donatella Calabi relazioni: Marco Frati, Claudia Bonardi, Laura Luzi, Aurora Savelli; poster: Monica Calzolari -Elvira Grantaliano-Chiara Lucrezio MonticelliLuisa Salvatori Aula 12. Emergenza e divisioni nella città coordinatore Aurora Scotti relazioni: Giuseppe Bonaccorso, Ilaria Forno, Elena Svalduz, Teresa Colletta-Cristina Iterar 10.30-12.00 Sub-sessioni 5 - parte II Aula 11. Conflitti e convivenze coordinatore Lucia Nuti relazioni: Matteo Dominioni, Anna GiannettiGiosi Amirante, Moreno Farina Aula 12. Controllo igienico coordinatore Donatella Calabi relazioni: Vilma Fasoli, Serenella Nonnis Vigilante, Diego Caltana; poster: Aulo Guagnini, Chiara Devoti 12.00-13.00. Aula 1. Discussione sessione 5 14.00-15.00 Seminario sui Poster discussant Derek Keene 15.30 Partenza in pullman per Mondovì. Visita del Santuario di Vicoforte 18.30 Politecnico di Torino. Sede di Mondovì. Assemblea dell’AISU sabato 17 giugno 8.30-13.00 Sessioni parallele 2. Abitare e Utilizzare e 6. Circolare e Smaltire Aula Audiovisivi. Sessione 2. Abitare e Utilizzare, coordinatori Roberta Morelli e Costanza Roggero 8.30-13.00 Aula Audiovisivi. Introduzione dei coordinatori 301 9.00-10.30 Subsessioni 2 parte I Aula 6. Proprietari e inquilini coordinatore Maurice Aymard relazioni: Carmelo G. Severino, Gaetano Pellecchia, Alison Smith, Augusto Ciuffetti, Barbara Bettoni, Massimo Galtarossa; poster: Francesca Quartini, Elisabetta Chiodi, Elena Gianasso, Cecilia Castiglioni Aula 8. Regimi e consuetudini coordinatore Roberta Morelli e Costanza Roggero video di Federico Cesali Visalberghi relazioni: Laura Palmucci, Gianmario Guidarelli, Ileana Tozzi, Fernando Salsano, Paolo Tachella, Federica Masè, Laura Guardamagna; poster: Elena Manzo, Francesca Castanò-Ornella Cirillo, Piera Ferrara, Beatrice Calandri, Silvia Haia Antonucci-Claudio Procaccia-Giancarlo Spizzichino, Irene Caltabiano-Francesca De Filippi, Roberta Ingaramo, Riccardo Balbo, Mariangela Brendolan Aula Audiovisivi. Strategie e modelli per l’edilizia abitativa: Roma e Milano nel secondo dopoguerra coordinatore Vittorio Vidotto relazioni: Francesco Bartolini, Bruno Bonomo, Alice Sotgia, Vittorio Vidotto, video di John Foot 12.00-13.00. Aula Audiovisivi. Discussione sessione 2 Sessione 6. Circolare e Smaltire coordinatori Ercole Sori e Guido Zucconi 8.30-13.00 Introduzione dei coordinatori 9.00-12.30 Subsessioni 6 parte I Aula 11. La città residuale: controllo e smaltimento dei rifiuti coordinatore Ercole Sori relazioni: Grazia Pagnotta, Elisa Tosi Brandi, Roberta Variale, Stefano Sorteni, Germana Albertani Aula 4. Strade e transiti territoriali, un confronto di lungo periodo coordinatore Guido Zucconi relazioni: Ippolita Checcoli,Cristina Cuneo, Rosa Savarino, Marco Cocchieri, Federico Paolini 10.30-12.00 Subsessioni 6 parte II Aula 4. Il controllo sulle acque urbane, un confronto di lungo periodo, coordinatori Annalisa Dameri e Elena Dellapiana relazioni: Konstantinos Chatzis, Elena Dellapiana, Elisa Panero, Annalisa Dameri Aula 11. Canali e città tra Otto e Novecento coordinatore Michela Morgante relazioni: Ruben Baiocco-Stefano Munarin, Michela Rossi, Lucia Frattarelli Fischer, Michela Morgante Aula 12. Controllo e trasformazione dello spazio urbano coordinatore Guido Zucconi relazioni: Niall Atkinson, Mauro Volpiano, Giulia Vertecchi, Sandra Poletto, Beatrice Fracchia 12.00-13.00. Aula 1. Discussione sessione 6 14.30-16.30 Tavola rotonda conclusiva 16.30 Visita ai siti olimpici Abstracts SILVIA DIONISI BROTHERHOODS AND URBAN REVENUE: «SAN SALVATORE» AND THE «GONFALONE» IN ROME BETWEEN THE FIFTEENTH AND EARLY SIXTEENTH CENTURY The study analyses the progress of the real estate market in Rome between the fifteenth and sixteenth century by means of the documentation of the Brotherhood of «San Salvatore» ad sancta sanctorum and that of the «Gonfalone». In keeping with some of the most powerful ecclesiastic institutions, the two brotherhoods were among the first to invest in the development of urban real estate, anticipating, each in its own way, the up-turn in the city’s economics. The buying and selling of houses and land for construction as well as for the rental market became part of the variables capable of recording Rome’s new economic vitality during the Renaissance. These were the years of the pontiffs’ return after the parenthesis in Avignon; it was the period of the humanist popes who favored Rome’s material and intellectual rebirth; it was also the moment of the city’s great demographic growth and its affirmation as an important multiethnic center. This was reflected not only in the increase of the number of transactions but also in the improvement and development of property, in view of an increase of revenue, thus establishing areas of potentially high income and others of lower potential. ILARIA PUGLIA FOR THE HISTORY OF THE «FEDECOMMESSO»: THE PICCOLOMINI FAMILY’S «PALAZZO DI SIENA» (1450-1582) «Palazzo di Siena», which the house of Piccolomini had constructed in Rome in 1450, was the object of a «fedecommesso» that enabled its preservation within the noble family for more than a century. The author, using unpublished manuscript documents, reconstructs the history of the palace highlighting the transformations undergone by the trust company over the centuries. Dating back to Roman law, the «fedecommesso» consisted in a clause of will by which the testator stated inflexibly and meticulously the succeeding passages of a property until a given generation or in perpetuity, declaring it inalienable. In the sixteenth century the institute became noble families’ preferred means for maintaining their heritage intact, most especially the family «palazzo», considered the asset which most contributed to the recognition of the social status. MANUEL VAQUERO PIÑEIRO REVENUE AND TRANSFORMATION OF HOUSING IN ROME DURING THE SIXTEENTH CENTURY During the sixteenth century demographic growth fostered the city’s physical transformation. The increase in population and wealth sparked a great demand for housing and work places and, consequently, a significant mutation in the urban fabric: new areas were built and those pre-existing became more densely populated. Within this process of architectural transformation, particularly dynamic in the States’ capitals, the principal land and real estate owners, the ecclesiastic institutions, played a primary role. They were forced to recognize and adapt to the process of urbanization. An example of this can be seen in the church of San Giacomo degli Spagnoli’s choice to make a large financial commitment for restoration work intended as an investment capable of increasing income as a response to the growing value of the Roman real estate market. 304 ABSTRACTS AUGUSTO ROCA DE AMICIS THE AREA OF «SANTA MARIA MAGGIORE AT THE TIME OF PAUL V BORGHESE: CANONS, PRIVATE CITIZENS AND STRATEGIES FOR URBAN IMPROVEMENT The essay concentrates on the analyses of the urban transformation around the basilica of «Santa Maria Maggiore» during the years of its renewal by Paul V Borghese (1605-1621) and particularly on the creation of Via Paolina. Such a project was the result of convergent interests: the desire of the pontiff to build a residential zone to join the basilica and the existing populated area towards the Suburra and the plans of the Santarelli family, with Liberian canon Odoardo and his brother Giovanni, owner of the adjacent land, aimed at turning the property into a profitable building project. Also involved were other private parties and the restoration of the fifteenth century residence of the Liberian patriarch. Thus a series of interconnected interests worked effectively, highlighting the difference in strategy of those years compared to the choices imposed by Sixtus V. SONIA SCOGNAMIGLIO PROPERTY AND GUILDS IN NAPLES BETWEEN THE SEVENTEENTH AND EIGHTEENTH CENTURY. INSTITUTIONS, OWNERSHIP AND PROFITS IN THE EUROPEAN URBAN ECONOMY DURING THE ANCIEN REGIME The historiography of the Neapolitan guild system has emphasized the complete opposition on the part of the guilds to the introduction of more developed forms of production and toward the initiatives of those merchant-entrepreneurs who tried to organize production outside the guild-imposed restrictions. This article wishes to show that, instead, in another sector of the their economic activity, the guilds adopted the opposite behavior, revealing an unusual entrepreneurial feeling. In the administration of their real estate they actually showed a preference for strategies that increasingly assumed the characteristics of capitalistic management. Between the fifteenth and eighteenth century, the Neapolitan professional groups aimed at extending, preserving and passing on their own property and at having sufficient income to finance social welfare. They were well aware that income property was a stable investment; an investment that guaranteed a narrower margin of risk than that of the financial market and, in a growing city like Naples, offered increasing income. CLARA ALTAVISTA REAL ESTATE IN GENOA IN THE ANCIEN REGIME: AN URBAN PHENONEMNON FROM THE VIEW OF THE «ALBERGO DEI POVERI» (1656-1798) This study of real estate property in Genoa, from the second half of the seventeenth to the end of the eighteenth century, deals with the real estate strategies of the those years in relation to the physical transformation of the city: a period of Genoa’s urban history which has received little attention in its overall characteristics. The varied strategies of the «Albergo dei poveri di Carbonara» aimed at the «petrification» of the funds, made it possible to draw a convincing picture of what the city was like and in addition, to evaluate more clearly the real estate fortunes of a number of noble and bourgeois families, which had devolved a part of their wealth or their entire estates to the charitable organization. The modus operandi of the Institution and of the Genoese elites is outlined, including the factors behind it. One, connected with the «capital’s» contemporary and future transformations, was the topographical position of the various real estate properties. Another influencing element was each property’s «individual history», seen as the direct result of the modus vivendi of the families it was or had been associated with. Thus a factor strictly dependant on the tight links established over time by the ancient geography of the alberghi nobiliari, which had actively blocked Genoa’s urban development. ABSTRACTS 305 SIMONETTA CIRANNA THE «VERY MOST IMPORTANT INDUSTRY IN THE CITY OF ROME»: HOUSES, SHOPS, WORKSHOPS AND STUDIOS OF ARTISANS IN STONE The study analyses the conditions of ownership and of use, the typological characteristics and the architectural transformation of a number of premises to be used for work, for commerce and for housing by three different artisans in stone. Francesco Sibillo (1784-1859), «pietraro» stone cutter, Filippo Albacini (1777-1858), sculptor and Tommaso Della Moda (?-1854), stone mason. The circumstances under which the three were, during the nineteenth century, to consolidate their activities in the area between piazza di Spagna, piazza del Popolo and the Tiber tell the story of the increasing artisan specialization of this part of Rome; an area favored both by the presence of many artists and foreign travelers entering the city through the Porta del Popolo and by the easy access to suppolies by means of the Tiber and the Port of Ripetta. DANIELA FELISINI PROCEDURES AND TRENDS IN REAL ESTATE INVESTMENT IN NINETEENTH CENTURY ROME The essay analyses the nature of real estate investments in papal Rome and points out the tight interconnection between economical and non-economical factors.It examines the effects of the demographic trends on the population’s distribution and density in the different districts of the city; it summarizes the principal public interventions on rental regulations; it takes note of the consequences of the most significant political-institutional events; profits and real estate investment risks are compared to alternative uses of capital. The essay also presents some examples of investments in constructions based on a demand for lodgings tightly linked to the social transformations of the urban classes as well as to the presence of numerous foreign colonies.What emerges is the picture of a complex market, one that escapes the usual law of supply and demand, and is strongly conditioned by financial considerations, juridical-institutional dispositions and by crucial symbolic values. RAFFAELLA CATINI THE NEW CONFIGURATION OF THE CAPITAL: THE OPENING OF THE TUNNEL OF THE TRITONE AND PALAZZO GENTILE DEL DRAGO This study reconstructs the events relative to the area in front of the north entrance of the tunnel by means of the controversy that arose with prince Filippo del Drago, owner of the palace of the same name. It does so on the basis of documentary and iconographic sources from the Capitoline Historic Archives which have only recently been catalogued. Expropriated and partially demolished following the boring of the Quirinale hill, the palazzo remained unfinished for a number of years due to the administration’s uncertainty concerning the use of that city space. Forced to compensate the prince as long as he was denied permission to reconstruct the front of his palazzo, the city of Rome preferred to resolve the question by adopting the only solution that would permit the immediate cessation of the payments. AUGUSTO CIUFFETTI BIG INDUSTRY REAL ESTATE AND URBAN DEVELOPMENT: THE EXAMPLES OF PIOMBINO AND TERNI BETWEEN THE NINETEENTH AND TWENTIETH CENTURY The cities of Piombino and Terni represent a distinctive model of city development in the Italian urban system at the end of the nineteenth century. In these particular cases the first transformations were produced by the arrival of the large industrial complexes which were able to alter the equilibrium of centuries. In these cities, with their industrial configurations, the companies are not only the only to provide lodgings, workers’ quarters and villages, or to influence the city administrations and the expansion of the urban fabric, they also control all the available land on the edges of the city space, exerting complete power over the configuration of the built up area and the transformation of the entire landscape. 306 ABSTRACTS MASSIMILIANO SAVORRA THE «CITY OF THE GENERALI»: INVESTMENTS, STRATEGIES, ARCHITECTURE In 1833, a group of merchants from Venice and Trieste formed the «Assicurazioni Generali in Trieste». From the beginning, the Assicurazioni enjoyed consistent financial means. From Trieste and Venice it rapidly spread throughout all the Italian States and the Austrian territories of Europe’s Danube basin and from here in successive steps, to almost all the European countries. By the eve of the First World War, the insurance group was regarded among the most important and stable financial institutions. This degree of stability was given largely by strategic investment formulas and by relevant real estate holdings: in a 1962 census it was shown to possess 350 buildings, two thirds of which located in Italy, and nine estates, of which one in France: a veritable city, already referred to as the «City of the Generali» in 1930.Is it possible to attribute a shape to an imaginary city? How have the events of various types mutated its «boundaries» during approximately two centuries? Is it possible to define the variety of grafts and converging elements in such a «scattered» city? Has this plurality permitted a co-existence without contrasts? Finally, what mechanisms have exercised the actual control of the built spaces? The study attempts to answer these questions by comparing several case studies on one hand and on the other, by outlining a general reference framework within which the culture of the management groups may be understood. ANNALISA DAMERI THE CLIENTS OF THE BORSALINO FAMILY: THE PROJECTS FOR ALESSANDRIA Between the final decades of the nineteenth and the first half of the following century a contemporary «new city» was built in Alessandria. The demolition of the fortified city walls (recent if compared with other cities in Piedmont), the abolition of the customs boundaries (1922 law) and the introduction of a series of industrial enterprises within the area surrounding the historic center were all factors that influenced the urban development. In particular, a fundamental role was played by the Borsalino family (the father Giuseppe and his son Teresio were the heads of the hat factory by the same name). Parallel to the take-off of the factory (founded in 1857), its production on a world wide scale and the financial success of the enterprise, the Borsalino family increased their welfare activities. Teresio dedicated particular attention not only to running the hat factory, but also to the modernization of the city, making a large financial contribution. Having inherited a flourishing manufacturing business with the concrete prospect of continuing growth, allowed the future senator to dedicate a praiseworthy effort in favor of the community of Alessandria. SANDRA POLETTO THE INVESTMENTS OF THE «SOCIETA REALE MUTUA» IN TURIN: THE «LITTORIA» TOWER The tall, multi-floored building rising in the historic «Piazza del Castello» is now an integral part of the city skyline. The «Torre Littoria», built in the 1930’s by the architect Armando Melis and the engineer Ciovanni Bernocco is considered an historic symbol of the regime, memento of years of conflict that were also especially significant for the shaping of Turin’s present image. The study of this «fragment», a part of the urban reform programs for the historic center during the Regime years, makes it possible to outline the coordinates of a discussion on the city, on those architectural symbols tied to the regime, on the importance of the planned and built space. In particular, the building belonging to the «Societa Reale Mutua di Assicurazioni» must be seen within the logic that brought about the reconstruction of «Via Roma», an undertaking which was carried out only thanks to the great financial investment in public works that followed the crisis of 1929. The article proposes to review the steps of the debate that resulted in construction of the building as the result of the attempt to reconcile a plurality of at times contradictory requests, also highlighting the inspiration in Melis and Bernocco’s design and their relationship with the historic context in which they worked. Pubblicazioni ricevute Alberto Caracciolo, Uno storico europeo, a cura C. CONFORTI, La città del tardo Rinascimento, di G. Nenci, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 155, euro 14,00. 210, euro 15,00. L’ambizione di essere città. Piccoli, grandi centri Domus et splendida palatia. Residenze papali e nell’Italia rinascimentale, a cura di E. Svalduz, cardinalizie a Roma fra XII e XV secolo, a cura Venezia, pp. 402, euro 54,00. di A. Monciatti, Pisa, Edizioni della Normale, 2006, pp. 303, euro 35,00. C. ALTAVISTA, Lucca e Paolo Guinigi (1400Esquilino e Castro Pretorio. Patrimonio storico1430): la costruzione di una corte rinascimentaartistico e architettonico del Comune di Roma, le. Città, architettura, arte, Pisa, ETS, 2005 pp. a cura di N. Cardano, Roma, Artemide, 258, euro 18,00. 2005, pp. 288, ill. 204 in b.n. e 27 a colori, J.-L. ARNAUD, Damas. Urbanisme et archi- euro 30,00. tecture 1860-1925, Arles, Actes Sud Sinbad, Fare la città. Salvaguardia e manutenzione 2006, pp. 355, s.i.p. urbana a Venezia in età moderna, a cura di S. M. BALDASSARRI, Bande giovanili e «vizio ne- Zaggia, Milano, Bruno Mondadori, 2006, fando». Violenza e sessualità nella Roma baroc- pp. 154, 45 ill., euro 16,00. ca, Roma, Viella, 2005, pp. 174, euro 18,00. St Paul’s: the Cathedral Church of London, E. BELFIORE, Il verde e la città. Idee e progetti 604-2004, D. Keene-A. Burns-A. Saint (eds.) dal Settecento ad oggi, Roma, Gangemi edito- (New Haven and London: Yale University re, 2005, pp. 254, euro 45,00. Press, 2004), pp. 538+390 ill., £ 65. D. CALABI, Storia della città. L’età contempo- Living in the city (14th– 20th centuries), Atti ranea, Venezia, Marsilio 2005, pp. 397+ ill., del Convegno (Roma, 27-29 settembre euro 29,00. 1999), a cura di E. Sonnino, Roma, Casa Editrice Università «La Sapienza», 2004, pp. Campagne urbane. Paesaggi in trasformazio662, euro 36,00. ne nell’area romana, a cura di A. L. Palazzo, Roma, Gangemi, 2005, pp. 254, ill. b/n e R. MAMMUCCARI, Settecento romano. Storia, colore, euro 30,00. Muse, Viaggiatori, Artisti, Città di Castello, Edimond, 2005, pp. 379, euro 55,00. Città e ambiente tra storia e progetto, a cura di V. Bulgarelli, Milano, FrancoAngeli, 2004, N. MARCONI, Edificando Roma Barocca. Macchine, apparati, maestranze e cantieri tra XVI pp. 303, s.i.p. e XVIII secolo, Città di Castello, Edimond, La città eventuale. Pratiche sociali e spazio urba2004, pp. 348+78 ill., euro 42,00. no dell’immigrazione a Roma, a cura dell’Università degli Studi “Roma Tre”-Dipartimento R. MASINI, Il Debito Pubblico Pontificio a fine di Studi Urbani (DipSU)-Dottorato in Seicento. I Monti Camerali, Città di Castello, Politiche Territoriali e Progetto Locale, Roma, Edimond, 2005, pp. 237, euro 24,00. Quodlibet, 2005, pp. 163, euro 20,00. 308 PUBBLICAZIONI RICEVUTE La mostra d’Oltremare. Un patrimonio stori- Santa Giulia. Un Museo per la Città, a cura di co-architettonico del XX a Napoli, a cura di F. M. Castagnara Codeluppi, Milano, Edizioni Lucarelli, Napoli, Electa Napoli, 2005, pp. Lybra Immagine, 2005, pp. 143, euro 25,00. 207, euro 30,00. B. SECCHI, La città del ventesimo secolo, RomaH. OBERMAIR, Bozen Süd-Bolzano Nord, vol. Bari, Laterza, 2005, pp. 210, euro 14,00. 1, Bolzano, Città di Bolzano, 2005, pp. 472, Statue di Campidoglio. Diario di Alessandro s.i.p. Capponi (1733-1746), a cura di M. FrancePer un Atlante Storico Ambientale Urbano, a schini e V. Vernesi, Città di Castello, Edicura di C. Mazzeri, Carpi, APM edizioni, mond, 2005, pp. 152+28 tavv. f.t., euro 2004, pp. 211, s.i.p. 24,00. Le popolazioni del mare: porti franchi, città, isole Teaching urban history in Europe, a cura di e villaggi costieri tra età moderna e contempo- R. Rodger-D. Menjot, Leicester, Centre of ranea, a cura di A. Kalc-E. Navarra, Udine, Urban History, 2006, pp. 142, s.i.p.. Forum, 2003, pp. 128, euro 15,00. Un patrimonio urbano tra memoria e progetti. «Quaderni di Patrimonio Industriale. Roma. L’area Ostiense-Testaccio, a cura di C. M. Industrial heritage. Archeologia industriale in Travaglini, Roma-Città di Castello, CromaItalia», I, 2005, 1, pp. 340, euro 20,00. Università Roma Tre /Edimond, 2004, pp. 251, euro 30,00. C.G. SEVERINO, Roma mosaico urbano, il Una rete di città. Verona e l’area metropolitana Pigneto fuori Porta Maggiore, Roma, Gangemi Adige-Garda, a cura di M.Carbognin-E. Turrieditore, 2005, pp. 239, euro 30,00. G. M. Varanini, Verona-Sommacampagna, Retailers and consumer changes in Early Cierre Edizioni, 2003, pp. 334, euro 24,00. Modern Europe. England, France, Italy Villa Doria Pamphilj, a cura di C. Benocci, and the Low Countries, Actes de la session Roma, Municipio Roma XVI, 2005, pp. 319, «Retailers and consumers changes» au sein s.i.p. (collana dell’Archivio Storico Culturale de la 7 Conférence internationale d’histoire del Municipio Roma XVI). urbaine «European city in comparative perspective» (Athènes–Le Pirée, 27-30 ottobre 2004), sous la direction de B. Blondé-E. Briot-N. Coquery-L.Van Aert, Tour, Presses Universitaires François-Rabelais, 2005, pp. 261, euro 30,00. Roma Capitale nel XXI secolo. La città metropolitana policentrica, a cura di P. Salvagni, Roma, Palombi Editori, 2005, pp. 207, euro 26,00. Rome. 2700 ans d’histoire, a cura di J.-F. Coulais-B. Marin, CD-Rom , realizzato in collaborazione con la Bibliothèque nationale de France, l’Ecole française de Rome, il Centro per lo Studio di Roma-Croma (Università degli Studi Roma Tre) e Spot Image, Parigi, Belin, 2003. NORME REDAZIONALI 1. TESTO a) il file va inviato per e.mail (c.travaglini@uniroma3.it) o per posta su cd-rom al Croma (piazza Campitelli, 3 - 00186 Roma) in qualsiasi versione di Word (indifferentemente per PC o per Macintosh). Si raccomanda vivamente di evitare qualsiasi formattazione del testo, anche nell’andata a capo. Il file avrà la denominazione: “cognome autore.testo” b) insieme al testo dell’articolo dovrà essere inviato l’abstract (in italiano e, possibilmente, in inglese) di max 1.000 caratteri o 190 parole; il file avrà la denominazione: “cognome autore.abstract” c) l’articolo dovrà riportare l’indicazione del numero di telefono, eventuale fax, e-mail e indirizzo postale dell’Autore; l’Autore deve indicare l’eventuale ente di appartenenza. 2. IMMAGINI, TABELLE, GRAFICI L’autore dovrà dichiarare che le immagini sono esenti da diritti ovvero dovrà segnalare le autorizzazioni ottenute per la riproduzione. Le immagini devono essere fornite esclusivamente su cd-rom, in formato tiff o jpg, con una risoluzione di almeno 300 dpi riferita alla dimensione cm 20x30. Vanno contraddistinte da un numero progressivo (Fig. 1, Fig. 2, ...) e associate a una didascalia con indicazione di autore, soggetto, datazione e fonte. Il file contenente le didascalie avrà la denominazione: “cognome autore.dida”. Le tabelle avranno una loro numerazione ed intestazione (in corsivo); si raccomanda di evitare formattazioni. I grafici avranno una loro numerazione ed intestazione (in corsivo); per essi, inoltre, l’A. dovrà fornire non solo l’immagine ma anche la base dati in excel in modo da consentire una corretta impaginazione. 3. CITAZIONI a) le citazioni brevi (2-3 righe) vanno tra virgolette caporali (« ») con il rinvio alla fonte; le citazioni più lunghe (infratesto) vanno separate dal testo, in corpo minore e senza virgolette; b) eventuali citazioni contenute in detti brani vanno contraddistinte con virgolette doppie in alto (“ ”); c) eventuali omissioni vanno indicate con tre puntini tra parentesi quadre […]; d) per facilitare la lettura è preferibile sciogliere le abbreviazioni contenute nei brani riportati nonché modificare la punteggiatura e l’accentazione secondo l’uso moderno. 4. MAIUSCOLE Le maiuscole vanno usate il meno possibile attenendosi alla massima uniformità in tutto il contributo: a) vanno lasciate quando una denominazione fa corpo con il nome proprio cui si accompagna (nel caso di Istituto e di toponimo); b) Santo, San, Santi vanno maiuscoli solo nella denominazione di chiese, basiliche, ecc., e vanno comunque citati sempre per esteso; c) le denominazioni di magistrature, enti, fondazioni, istituzioni, accademie, ecc. vanno maiuscole, in tondo anche se straniere, in tutte le iniziali delle parole che le compongono; d) le sigle vanno maiuscole e senza punto (BNL, INPS, CEE, ecc.); e) le parole: chiesa, basilica, monastero, tempio, porta, ecc. vanno minuscole (ad eccezione di: Porta Pia, Basilica Vaticana, Acquedotto Felice, ecc.); f ) Vanno maiuscoli: Paesi nel senso di nazionalità, Stato e Chiesa intesi come istituzione, Regione, Provincia, Comune intesi come autorità; così pure Codice e Raccolta, quando sono seguiti da nome proprio; Seminario, Convegno, Colloquio, ecc. quando sono seguiti dal titolo; i secoli come Cinquecento, Ottocento, ecc., e anni Venti, anni Quaranta, ecc.. 5. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI a) nome puntato e cognome dell’autore in tondo seguito da virgola (nel caso di più autori, i nomi vanno separati da un trattino); b) titolo dell’opera o dell’articolo per intero, in corsivo, seguito da virgola (nel caso di titolo in una lingua straniera, diversa dal francese, inglese, spagnolo e tedesco, si darà la traduzione in lingua italiana tra parentesi quadre); c) luogo di pubblicazione; nome dell’editore e per le edizioni antiche del tipografo; data di pubblicazione; rinvio alla pagina (p.) o alle pagine (pp.). Per le opere in più volumi, dopo il titolo si indicherà il numero dei volumi (in numeri arabi), seguiranno il luogo, l’editore, l’anno (o gli anni) di pubblicazione, l’indicazione specifica del volume (in numeri romani) e delle pagine cui si intende fare riferimento. Con l’eccezione di dizionari, enciclopedie, ecc. per i quali si darà solo l’indicazione bibliografica del volume citato. Per le opere anonime e per le opere collettive si darà indicazione del solo titolo come sopra (non preceduto da “AA. VV.”), seguito dall’indicazione dell’eventuale curatore (in tondo, con la sola iniziale del nome); per le opere straniere è preferibile dare l’indicazione “a cura di” nella lingua originale, come compare nel frontespizio; per gli atti di convegni seguirà, in tondo e preceduta da una virgola, l’indicazione: Atti del convegno … (luogo, data). Per gli articoli di riviste indicare, come sopra, nome dell’autore (in tondo) e titolo dell’articolo (in corsivo), quindi segue il titolo del periodico tra virgolette caporali («Città e Storia», non preceduto da “in”), l’indicazione dell’annata in numeri romani, dell’anno solare, del fascicolo dell’anno (non preceduto da “n.” né da “fasc.”), delle pagine complessive e, se del caso, della/e pagina/e cui ci si intende specificatamente riferire (le pagine estreme vanno indicate per esteso: pp. 235254); ad esempio: G. Giarrizzo, Intellettuali e Mezzogiorno nel secondo dopoguerra, «Studi Storici», XX, 1979, 1, pp. 91110: 93. Per contributi in opere collettive o in raccolte miscellanee si indicherà autore e titolo del contributo come sopra aggiungendo altresì (preceduti da “in”) i riferimenti completi dell’opera collettiva in cui è contenuto, inclusa la specificazione delle pagine relative all’insieme del contributo, seguirà l’eventuale specificazione di particolari pagine cui ci si intende riferire. Quando si ripete a distanza la citazione da uno stesso libro o articolo si indicherà, come di consueto, l’autore e, invece, in forma abbreviata (limitata alle due o tre parole iniziali) il titolo, seguito dalla virgola e dall’espressione “cit.” (in tondo); seguirà l’indicazione della pagina/e. Non si daranno altre indicazioni di luogo e di data. Quando la seconda citazione segue immediatamente la prima si userà l’abbreviazione “Ibidem” in corsivo senza indicazione di pagina se ci si riferisce ad altra riga dello stesso luogo, ovvero l’abbreviazione “Ivi” in corsivo con indicazione di pagina se ci si riferisce ad altro luogo. 6. PER LE CITAZIONI DI DOCUMENTI D’ARCHIVIO E DI MANOSCRITTI a) successivamente agli eventuali riferimenti relativi allo specifico documento, si darà indicazione dell’archivio (in tondo), del fondo e di eventuali serie (in corsivo), della busta o registro e, infine, eventualmente, della carta con specificazione recto o verso; b) qualora le citazioni di documenti d’archivio si ripetano più volte, occorrerà premettere alle note un’avvertenza non numerata, e collegata con asterisco al titolo, nella quale si darà l’elenco delle abbreviazioni usate, es.: ASR = Archivio di Stato di Roma; BAV = Biblioteca Apostolica Vaticana; c) il titolo di documenti manoscritti andrà citato in tondo tra virgolette caporali; d) per i rinvii alle pagine di un manoscritto si useranno le seguenti abbreviazioni: c. = carta; cc. = carte; r = recto; v = verso. Infine, si raccomanda in particolare di indicare sempre nella citazione di volumi: l’editore; nella citazione di articoli: gli estremi completi della rivista (annata, anno, fascicolo, pagine entro le quali è compreso il testo completo dell’articolo). Si prega infine di evitare qualsiasi formattazione/tabulazione del testo. a cura di Roberta Morelli e Maria Luisa Neri con saggi di: C. ALTAVISTA, R. CATINI, S. CIRANNA, A. CIUFFETTI, A. DAMERI, S. DIONISI, D. FELISINI, M.S. POLETTO, I. PUGLIA, A. ROCA DE AMICIS, M. SAVORRA, S. SCOGNAMIGLIO, M. VAQUERO PIÑEIRO Città & Storia La cifra della città Architetture ed economie in trasformazione 01 06 Città e Storia: il progetto M. RONCAYOLO, Plaidoyer pour une histoire de l’histoire urbaine NOTE E DISCUSSIONI contributi di: E. SORI – C. M. TRAVAGLINI – G. ZUCCONI CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE, INFORMAZIONI contributi di: M. BARBOT – D. CALABI – A. CARACAUSI – G. L. FONTANA – L. NUTI – S. PACE – R. TAMBORRINO – G. VERTECCHI Prezzo del volume € 25,00 Semestrale - Sped. in A. P. - Art. 2, comma 20/c - Legge 662/96 - Filiale di Roma ISSN 1828-6364