Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al
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Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al
LA CIVILTÀ DEL VINO Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento I In ricordo di un maestro e di un caro amico: Antonio Ivan Pini III © CENTRO CULTURALE ARTISTICO DI FRANCIACORTA E DEL SEBINO Via Tito Speri, 6 I - 25040 Bornato di Cazzago S. Martino (Brescia) tel. e fax 030 7751308 - E-mail: giovanni.castellini1@tin.it IV Brescia, luglio 2003 Atti delle Biennali di Franciacorta, 7 La civiltà del vino Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento Atti del convegno (Monticelli Brusati - Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001) A cura di Gabriele Archetti con la collaborazione di Angelo Baronio, Roberto Bellini e Pierluigi Villa Centro Culturale Artistico di Franciacorta e del Sebino Brescia 2003 ENTI PROMOTORI: Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino Assessorato all’Agricoltura della Provincia di Brescia Guido Berlucchi & C. Banca Lombarda Assessorato alla Qualità dell’Ambiente della Regione Lombardia ENTI COLLABORATORI: Università Cattolica del S. Cuore, sede di Brescia Banca di Valle Camonica Fondazione Banca San Paolo di Brescia Banco di Brescia Banca Regionale Europea Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Brescia Fondazione Civiltà Bresciana Ente vini bresciani Centro per la storia dell’agricoltura e dell’ambiente San Martini Centro vitivinicolo provinciale Associazione archeologica Uspaaa Associazione Amici dell’abbazia di Rodengo VI Le illustrazioni sono fornite, oltre che dai singoli autori, dalla Biblioteca Queriniana di Brescia, dalla Guido Berlucchi e C., da Andrea Breda, Basilio Rodella, Mario Bonotto e Fotostudio Rapuzzi Presentazione GIAMPAOLO MANTELLI Assessore all’Agricoltura della Provincia di Brescia È motivo di grande soddisfazione per la Provincia di Brescia salutare la pubblicazione di questo volume importante e rilevante; ciò per una serie di motivi strettamente connessi, anche se diversi. Innanzitutto perché una coltivazione antichissima come quella viticola ottiene qui un riconoscimento internazionale, non solo per la capacità imprenditoriale di produrre e innovare in campo agricolo di operatori locali, ma anche per la loro capacità di trasferire risorse ed energie in ambito culturale. Ciò è particolarmente significativo in quanto è il frutto di un abile e lungimirante interscambio tra istituzioni pubbliche e aziende private, tra associazioni culturali e ricerca universitaria che insieme hanno creduto al progetto del “Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino” su La civiltà del vino, promosso di concerto con l’Assessorato all’Agricoltura della Provincia di Brescia. L’iniziativa ha trovato la sua realizzazione nelle giornate di studio del 5 e 6 ottobre 2001 in Franciacorta, presso l’Antica Fratta di Monticelli Brusati, vale a dire in un territorio da sempre ‘vocato’ alla viticoltura di qualità – che negli ultimi anni ha conosciuto uno straordinario sviluppo grazie al pregio delle bollicine, ora denominate semplicemente Franciacorta – e divenuto un esempio produttivo studiato dagli economisti. Ma nella medesima area collinare, adagiata lungo le sponde del lago d’Iseo e dal clima ventilato dalle brezze alpine, le monache di Santa Giulia possedevano già prima del Mille alcune delle loro vigne migliori e, tra XII e XIII secolo, ebbe luogo un poderoso dissodamento per l’impianto di nuovi vigneti e l’introduzione di vitigni pregiati, mentre dal XV secolo vennero realizzati quei terrazzamenti, in parte ancora esistenti, attestati dalle fonti d’archivio e archeologiche. VII Il percorso scientifico che il volume consente al lettore appare esemplare. L’attività vitivinicola, quale espressione della civiltà mediterranea ed europea, è indagata nei suoi aspetti colturali, produttivi, varietali e commerciali; l’interesse si sposta poi alle implicazioni sociali, religiose, culturali, legislative e medico-dietetiche, che l’uso del vino ha avuto fin dalla tarda romanità e nel corso del medioevo, per giungere alla coltivazione della vite in ambito bresciano prima e dopo il grande rinnovamento avvenuto tra Otto e Novecento, senza dimenticare l’apporto dato negli ultimi decenni dalla cosiddetta ‘eno-tecnologia’. Si tratta dunque di un lavoro nuovo, sia per le tematiche esaminate che per lo sforzo interdisciplinare di affrontarle, messo in atto da studiosi di molte università italiane e straniere; un contributo tra i più significativi per la storia della vite e del vino – intesa come ‘storia della civiltà’ – pubblicati negli ultimi decenni a livello internazionale e un esempio ben riuscito di come gli studi storici consentono a culture diverse di dialogare e crescere insieme. Un motivo di orgoglio in più, quest’ultimo, per una provincia crocevia naturale tra il Mediterraneo e l’Europa; ciò grazie anche alla vite e alle strade del vino. CRISTINA ZILIANI Guido Berlucchi e C. VIII Quando mi è stata proposta l’idea di contribuire alla realizzazione del convegno “La civiltà del vino” e alla stampa di quest’opera, ho subito ricordato i tanti racconti di mio padre, le mille difficoltà che incontrò 50 anni fa quando iniziò, insieme a Guido Berlucchi e Giorgio Lanciani, la sua avventura in Franciacorta. Allora la tecnica balbettava e l’empirismo dava vini che oggi sarebbero considerati imbevibili. A parte pochi grandi esempi. L’esperienza del passato non deve però rimanere nel solo ricordo di pochi eletti. La lettura del presente volume risulta in questo senso particolarmente affascinante ed illuminante: vi si scoprono le radici del nostro agire, si possono apprezzare le intuizioni, le capacità, le lotte, i sacrifici, le passioni che hanno animato le molte generazioni di vignaioli che ci hanno preceduto. Ciò è ancor più significativo perché non rimane circoscritto nell’ambito ristretto di una piccola realtà territoriale o regionale, ma prende in esame l’intera area mediterranea ed europea, con un interesse peculiare verso lo sviluppo della civiltà. Oggi tutto è cambiato: la zonazione, la selezione clonale, i vigneti policlonali, l’alta densità d’impianto, la bassa resa per ceppo, le presse a membrana, l’acciaio inossidabile e l’importanza del freddo hanno fatto fare all’enologia passi da gigante, soprattutto in questi ultimi 20 anni. Alcune intuizioni tuttavia non sono nostre, ma fanno parte di una tradizione colturale millenaria; senza di esse la moderna scienza enologica non sarebbe la stessa e, di sicuro, sarebbe meno ricca e aperta all’innovazione. Credo sia importante la conoscenza delle origini, l’apprezzamento delle difficoltà che il progresso comporta, la diffusione della ‘cultura viti-vinicola’ tra tutti coloro che vivono, scrivono, consumano e apprezzano la qualità dei vini. FRANCO NICOLI CRISTIANI Assessore alla Qualità dell’Ambiente della Regione Lombardia La pubblicazione di un volume è sempre un momento che arricchisce e contribuisce alla crescita sociale e civile. Questo avviene soprattutto nel caso di un libro di storia, che attraverso la conoscenza del passato alimenta il senso di appartenenza e di identità di una comunità. Da questo punto di vista, l’ecologia della memoria non è meno importante della tutela del territorio, perché la natura senza qualcuno che ne apprezza la bellezza è come un quadro in una stanza senza luce. Gli atti della VII Biennale di Franciacorta, curati da Gabriele Archetti e intitolati La civiltà del vino. Fonti temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento, danno un grande apporto alla conoscenza del passato dei popoli mediterranei ed europei, dal momento che la ‘cultura’ del vino ha caratterizzare la loro storia più che millenaria. Questo lavoro – poderoso non solo e non tanto per il numero delle pagine, ma soprattutto per la mole di dati, attestati dai preziosissimi indici, e per la capacità di mobilitare studiosi di tante università italiane e europee – è un contributo fondamentale alla storia della vite e del vino nel panorama scientifico internazionale. Inoltre, per la prima volta, mette a disposizione del lettore italiano un quadro aggiornato degli studi sull’argomento, tenendo conto di un’area geografica che spazia dal Mediterraneo al Baltico, dalle isole Britanniche ai territori bizantini, senza tralasciare la cultura coranica. Ma agli aspetti per così dire più tradizionali, quali la coltivazione, il commercio, la legislazione o i consumi, nel IX volume sono messi a fuoco i temi profondi che legano il vino all’esperienza religiosa, alla liturgia, alla letteratura, alla filosofia e alla medicina, con saggi di altissimo livello molti dei quali aprono prospettive assolutamente inedite. In questo orizzonte generale, però, si innesta sapientemente lo studio dell’ambito territoriale più ristretto della Lombardia orientale e con esso di una piccola zona assurta a modello di sviluppo, come quella della Franciacorta. È doveroso quindi il sentimento di gratitudine verso il “Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino”, che ha promosso la ricerca su “la civiltà del vino” dilatando così il suo impegno oltre i confini strettamente locali. Al lettore resta il piacere di una lettura diversa e stimolante, ricca di novità e lontana dai luoghi comuni sul vino e sui vari abbinamenti gastronomici... Ma anche la consapevolezza di avere tra le mani un libro di studio importante, che tra cinquant’anni sarà ancora citato, e che grazie anche al sostegno della Regione Lombardia diventa patrimonio di tutti, nel segno di una comune vicenda storica che si è sviluppata nel corso del tempo intorno al vino. X GABRIELE ARCHETTI La civiltà del vino: una doverosa premessa Tra gli studi di storia agraria, quelli relativi alla vite e al vino hanno conosciuto nell’ultimo quindicennio una feconda stagione di interessi da parte della medievistica italiana. Ciò appare tanto più significativo perché in controtendenza rispetto ad una certa ‘assuefazione’ della storiografia – attratta verso temi considerati più ‘tradizionali’ – per le tematiche legate al mondo rurale, che negli anni Settanta e Ottanta del Novecento ne aveva invece fatto uno degli ambiti di ricerca più avanzati e dinamici1. Non è una situazione che riguarda solo il nostro Paese, ma in diversa maniera buona parte dei centri di ricerca e delle ‘scuole’ europee2. Le ragioni della predilezione per la storia della vitivinicoltura sono numerose e, non ultima, il fascino dell’argomento, giacché il consumo del vino accompagna le vicende dell’uomo fin dalla più remota antichità, con la sua forza simbolica, aggregante e festosa, la sacralità millenaria che lo rende un dono, anzi il più prezioso, fra i doni ‘divini’, il potere del farmaco che lenisce gli affanni e concede l’oblio temporaneo, la ritualità religiosa che ne accompagna l’assunzione, consentendo di giungere all’estasi dell’unione mistica, ma anche di distruggere coloro che non sono in grado di controllarne gli effetti inebrianti. Il punto di snodo fondamentale è stato senza dubbio il convegno di Greve in Chianti del 1987, che ha posto le premesse necessarie per gli approfondimenti su base regionale e, in una terra ‘vocata’ come la penisola italica, 1 Si vedano in proposito le considerazioni introduttive di A. CORTONESI al volume Uomini e campagne nell’Italia medievale, a cura dello stesso autore, ma redatto insieme a G. Pasquali e G. Piccinni, Roma-Bari 2002, pp. V-XV, mentre per la vitivinicoltura un quadro di sintesi è alle pp. 217-240. 2 Una prima risposta a questa situazione di ‘stanchezza’ storiografica è venuta dalla costituzione, tra il 1996 e il 1997, del “Centro di studi per la storia delle campagne e del lavoro contadino” di Montalcino – che dal 1998 organizza anche dei “Laboratori di storia agraria” –, a cui si deve già una prima sistematica riflessione sui problemi degli studi di storia rurale, apparsa nel volume Medievistica italiana e storia agraria. Risultati e prospettive di una stagione storiografica, (Atti del convegno di Montalcino, 12-14 dicembre 1997), a cura di A. Cortonesi e M. Montanari, Bologna 2001 (Biblioteca di storia agraria medievale, 18), in particolare le pagine introduttive di M. Montanari (ivi, pp. 7-10). Nella medesima direzione, benché con un interesse scientifico territorialmente più ristretto, si pone pure il “Centro studi per la storia dell’agricoltura e dell’ambiente San Martino” avviato nel 2003 presso la Fondazione civiltà bresciana con il sostegno della Provincia di Brescia, che ha promosso la ristampa anastatica delle Venti giornate della vera agricoltura di Agostino Gallo (Brescia 2003). XI di metterne a fuoco le specificità varietali, tecniche e produttive locali. Già l’anno successivo alla pubblicazione di quegli atti tuttavia, quali primo “Quaderno” della «Rivista di storia dell’agricoltura», compariva nel 1989 il volume Vite e vino nel Medioevo di Antonio Ivan Pini per i tipi della collana “Biblioteca di storia agraria medievale”, diretta da Bruno Andreolli, Vito Fumagalli e Massimo Montanari, mentre il compianto studioso bolognese veniva invitato a tenere una lezione sulla ‘vitivinicoltura alto medievale’ e ‘negli studi medievali italiani’ alla 37a settimana di studio spoletina e all’11° congresso internazionale svoltosi presso l’abbazia francese di Flaran (1989). La vivacità sorprendente quanto caotica dei contributi successivi è stata ben sintetizzata da Alfio Cortonesi nelle pagine introduttive del presente volume e rende palese l’attenzione diffusa per i processi produttivi vitivinicoli; alcuni momenti, però – a cominciare dall’esemplare percorso di ricerca sviluppato nella ‘quadrilogia’ dei convegni di Alba (1990-1992 e 1994), diretti magistralmente da Rinaldo Comba e dedicati all’area piemontese –, sono diventati ormai un riferimento portante. È il caso del congresso di San Martino di Bentivoglio nel 1991, di quelli di Trento nel 1993, di Erbusco in Franciacorta nel 1995, di Reims nel 1997, di Alghero e di Conegliano Veneto nel 1998 – che si tennero in concomitanza con la stampa del nostro ‘Tempus vindemie’. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale –, fino al simposio di Roma su Vino, mistero divino del 2000, dedicato alle virtù mistiche del frutto della vite, e alle giornate di studio di Monticelli Brusati del 2001 su La civiltà del vino. In questo approfondimento delle indagini sulla storia della vite e del vino dunque – che nel frattempo ha dato occasione a numerosissime iniziative, conferenze e appuntamenti, spesso assai rilevanti, anche se di carattere prevalentemente locale –, si inserisce a pieno titolo l’impegno del “Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino” che, con l’edizione degli atti della IV Biennale di Franciacorta (1996), dal titolo: ‘Vites plantare et bene colere’. Agricoltura e mondo rurale in Franciacorta nel Medioevo, poneva la sua attenzione sullo sviluppo agrario di una piccola regione lombarda, compresa tra il Mella e l’Oglio, posta in provincia di Brescia3. Si evidenziava così la speciale attitudine vinicola di un’area collinare, dove il “vino con le bollicine” è divenuto esso stesso sinonimo del territorio, il franciacorta appunto, proprio come nel nord della Francia lo champagne ha fatto con la regione omonima. Non paiono quindi fuori luogo le parole celebrative che a metà dell’Ottocento scriveva lo storico Gabriele Rosa4: 3 In questa direzione, nella quarta sezione del volume, si muovono soprattutto i lavori di B. Scaglia, P. Tedeschi e B. Bettoni, mentre per la trattatistica agronomica interviene E. Ferraglio; più in generale sugli aspetti colturali, invece, tratta M. Fregoni, su cui torna anche G. Andenna. 4 XII Cfr. G. ROSA, La Francia Corta, Bergamo 1852 (rist. anast., Brescia 1974), ripreso alla lettera in IDEM, Guida al Lago d’Iseo ed alle Valli Camonica e di Scalve, Brescia 1886 (rist. anast., Milano 1979), pp. 1-2; per il recupero storico-locale della tradizione di produrre vini ‘frizzanti’, invece, si veda G. ARCHETTI, Intorno al vino mordace o «spumante», in Libellus de vino mordaci, ovvero le bollicine del terzo millennio, a cura di G. Archetti, «Nessun visitatore delle plaghe più belle e felici dell’alta Italia, nessuno de’ buoni gustai dei vini di questa parte del bel paese, ignora il nome e il sito della Franciacorta», dove da sempre «la migliore entrata, per lo più, è quella dei vini che si fanno eccellentissimi e neri, e bianchi e garbi che noi chiamiamo racenti e dolci». Era pertanto un percorso quasi obbligato quello del Centro culturale artistico, animato fin dalla sua fondazione da Giovanni Castellini5, di tornare ad occuparsi del vino, non già nella prospettiva della semplice valorizzazione storico-territoriale, peraltro già perseguito, ma dell’inserimento della stessa in un quadro più generale affinché dalla veduta d’insieme spiccassero meglio le peculiarità di quella più ristretta. Di conseguenza, le giornate di studio della VII Biennale di Franciacorta, svoltesi presso l’Antica Fratta di Monticelli Brusati il 5 e 6 ottobre 2001, si sono poste come obiettivo non solo i problemi legati alla coltivazione, alla produzione, al commercio, ai consumi o alla trasformazione del paesaggio, ma anche le relazioni, le connessioni e le differenti implicazioni che l’uso del vino ha avuto a livello sociale, religioso e culturale per i popoli europei e del Mediterraneo durante il medioevo, quando cioè – secondo la felice espressione del Pini6 – si svilupparono intorno al vino gli elementi comuni di una nuova civiltà, differente da quella antica. La stampa di questo volume, che di quelle giornate franciacortine raccoglie gli atti, va al centro di questi problemi e, per quanto in ritardo sui tempi di edizione programmati, sembra aver beneficiato proficuamente dalla prolungata sedimentazione, migliorando in qualità e contenuti, proprio come l’invecchiamento in pregiate botti di rovere fa bene ai rossi o ai bianchi più strutturati. Intendiamo dire che alla perdita di qualche elemento, inevitabile in un convegno così articolato – spiace in particolare l’assenza del testo degli interventi di Andrea Breda (su I luoghi della conservazione del vino), di Fiorella Frisoni (riguardante Il vino nell’arte lombarda) e di Pierluigi Villa (su Le varietà viticole pre-fillosseriche), che toccavano temi rimasti purtroppo scoperti all’interno del testo –, ha in un certo senso fatto da contrappeso lo sviluppo di altri aspetti pregnanti, quali l’apertura internazionale verso Oriente come a Occidente, solo adomBrescia 2001, pp. 7-40, che fa da introduzione all’edizione del trattatello sul vino ‘mordace’ del medico bresciano Girolamo Conforti (Brescia 1570). 5 Sull’attività trentennale del Centro si veda il recente lavoro: Cultura in Franciacorta e sul Sebino. Trent’anni del Centro culturale artistico, a cura di F. Marchesani Tonoli e G. Rolfi, Brescia 2003 (Quaderni della biblioteca comunale “don Lorenzo Milani” [di Cazzago San Martino], 9). 6 Nel suo saggio ‘pionieristico’ del 1974 Pini poneva il vino tra «gli elementi caratterizzanti la civiltà medievale» [A.I. PINI, La viticoltura italiana nel Medio Evo. Coltura della vite e consumo del vino a Bologna tra X e XV secolo, «Studi medievali», s. III, 15 (1974), p. 795, riedito in IDEM, Vite e vino, p. 53], quando la coltivazione della vite raggiunse la sua massima espansione, toccando latitudini oggi impensabili e non fermandosi neppure di fronte ai divieti coranici; lo storico bolognese, inoltre, si era fatto carico della relazione introduttiva al convegno di Greve in Chianti, significativamente intitolata Il vino nella civiltà italiana (ora anche in ID., Vite e vino, pp. 17-28). XIII brati durante i lavori alla Fratta. L’architettura complessiva del volume appare quindi delineata dal sottotitolo: Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento; essa si muove dapprima intorno agli aspetti colturali e produttivi per soffermarsi poi su quelli più squisitamente “culturali” e chiudersi nello studio del ‘modello campione’ offerto in età moderna dal territorio bresciano e della Franciacorta. La storia della vite e del vino appare così come un punto di osservazione privilegiato per guardare alla molteplicità di interazioni sociali, di credenze religiose, di pratiche coltuali, di tradizioni culturali, di relazioni commerciali e politiche, di trasformazioni ambientali e tecnologiche che hanno forgiato l’Europa medievale. D’altra parte, è proprio nel millennio seguito alla dominazione romana che affondano le radici della viticoltura moderna, che avvenne l’introduzione di nuovi vitigni accanto alle varietà autoctone, che si registrò la più ampia dilatazione degli spazi vitati, la ripresa e la sperimentazione di tecniche di coltivazione dimenticate, mentre il vino tornò ad essere una bevanda comune a tutti gli strati sociali e gradualmente anche la più diffusa. La decadenza tardo-antica e le invasioni barbariche avevano certo segnato una regressione delle coltivazioni agrarie e favorito il ritorno di più vaste foreste, degli acquitrini e dell’incolto; bisogna però fare attenzione a generalizzare il quadro catastrofico di tale situazione, dal momento che profonde differenze sussistevano tra Oriente e Occidente, come pure nell’ambito più ristretto dell’Europa continentale e mediterranea. In ogni caso, le attestazioni della presenza della vite prima del Mille sono numerose e riflettono le varietà geografiche e le mutevoli situazioni storico-sociali che si verificarono localmente. Le notizie più frequenti provengono, com’è noto, dalle opere degli scrittori ecclesiastici, dagli archivi monastici e dagli inventari dei beni di chiese e canoniche. Un dato quantitativo questo che, già di per se stesso, dà conto del nesso profondo esistente tra religione cristiana e diffusione viticola, non solo per le implicazioni teologico-simboliche del vino, ma anche perché la Chiesa – come ha rilevato il Dion – ha «servito la viticoltura tanto conservando e trasmettendo i metodi di coltivazione ereditati dall’antichità romana, quanto aumentandone il prestigio»7. In occasione della fondazione di un cenobio infatti, della costruzione di una nuova chiesa o di una cappella rurale, nella scelta del sito si teneva conto anche della possibilità di avere nelle vicinanze un terreno adatto per piantare una vigna o, in caso contrario, che vi fossero almeno i mezzi economici necessari per il reperimento del vino. Vescovi e abati, spinti dalla necessità del fermentato d’uva per gli usi liturgico-caritativi, piantarono la vite in collina e in pianura ritenendolo un motivo di prestigio sociale, ma si spinsero presto anche in zone di montagna o nelle terre basse e paludose, dove le condizioni erano meno favorevoli. 7 XIV R. DION, Histoire de la vigne et du vin en France des origines au XIXe siècle, Paris 1959 (rist. anast., Paris 1977), p. 188. Sugli aspetti liturgici dell’uso del vino, sia in Occidente che in Oriente, si occupano di seguito nel volume F. Dell’Oro, S. Parenti e P.-M. Gy. Ciò fu possibile grazie alla versatilità della vite, una pianta ‘infestante’ con la capacità di attecchire quasi dappertutto, e dall’abilità umana di selezionare le varietà più produttive e resistenti alle diverse situazioni climatiche e pedologiche. Per quanto tuttavia la vite crescesse un po’ ovunque, sia in promiscuità che in coltura specializzata, ciò non significa che rese e qualità fossero identiche: allora come ora i contadini conoscevano bene i luoghi più adatti per fare buoni vini; e, al riguardo, il confronto tra gli studi di ‘zonazione’ e la mappa della viticoltura medievale mostra una sorprendente convergenza di dati. Va inoltre rilevato che la grande espansione delle vigne tra pieno e tardo medioevo fu innanzitutto una risposta alla crescita demografica ed urbana; il fatto poi che si piantassero vigneti nei dintorni delle città, dei villaggi e dei maggiori centri abitati, indipendentemente dal fatto che tali zone fossero adatte o meno alla coltura viticola, conferma il carattere ‘antropico’ di tale diffusione e di come a guidarla fossero soprattutto le esigenze quantitative, non quelle qualitative. Le necessità liturgiche e per l’ospitalità fraterna di chiese e monasteri avevano ormai lasciato il posto al consumo di massa e, da prodotto di lusso, il vino era diventato un alimento presente nella dieta di tutti gli strati sociali. Seguendo l’articolazione del volume, questi problemi complessivi trovano spazio soprattutto nella prima parte, dedicata – per quanto sembri riduttiva la concettualizzazione – agli aspetti della coltivazione della vite dal Mediterraneo all’Europa centrale e dalla penisola Iberica al mondo bizantino, senza tralasciare la galassia islamica, offrendo così al lettore italiano una panoramica assolutamente nuova e di prima mano per il periodo medievale8. Ciò ha permesso di avere una prospettiva più ampia rispetto alla geografia della respublica christiana e di tener conto di quelle realtà dove il rigido monoteismo aveva escluso qualunque impiego sacrificale del vino, condannandone l’uso perché di origine diabolica (sura 5, 90-91). In taluni casi però, proprio l’interdizione di bere il vino materiale – più precettistica che effettiva –, ha favorito la valorizzazione simbolica del vino mistico, come canta Rumi, il grande poeta sufi, alludendo alla preesistenza delle anime: «prima che in questo mondo vi fosse un giardino, una vigna, un grappolo, la nostra anima si inebriava del vino immortale». Anche nell’ambito ecclesiastico – nonostante i molti sospetti e la condanna di ogni eccesso nel bere, come mostra la seconda parte del testo dedicata alla “civiltà del vino” – non si giunse mai a biasimare il consumo di vino in se stesso; l’esempio di Gesù che mangiava e beveva in pubblico (Lc 7, 34), il consiglio di Paolo di bere un po’ di vino contro la salute cagionevole (1 Tm 5, 23) e soprattutto il suo impiego 8 In questa direzione e secondo una precisa articolazione geografica si susseguono i contributi di A. Cortonesi per l’area italiana, P. Racine per quella francese, M. Vaquero Piñeiro per quella iberica, M. Matheus per le regioni transalpine dell’impero, I. Lumperdean per la Moldavia e la Romania, E. Kislinger per il complesso dei domini bizantini e P. Branca per i territori legati alla predicazione di Maometto che, nel loro insieme, costituiscono quasi una ‘storia’ della vite e del vino nel medioevo. XV durante la messa, erano sotto gli occhi di tutti. Nella fonti agiografiche la riproposizione del miracolo della trasformazione dell’acqua in vino è un topos dalla chiara matrice ‘Cristo-mimetica’ fra i più frequenti, mentre la parola chiave capace di mettere d’accordo il rigorismo ascetico con l’equilibrio della norma quotidiana, secondo la regola benedettina, risulta essere la ‘moderazione’. Quando però si verificavano gli eccessi che portavano all’ubriachezza, «causa di ogni male» (Ef 5, 18), ci si preoccupò soprattutto di non dare scandalo e di non essere di turbamento per i fedeli più sensibili; al contrario, il piacere e la dimensione ludica del vino, le sue proprietà inebrianti e afrodisiache attirarono l’interesse degli umanisti, per quanto in ogni tempo siano stati un tema privilegiato per massicce incursioni poetico-letterarie9. Produzione, commercio e consumo di vino d’altra parte, sia pure in maniera diversa, preoccuparono sempre le autorità pubbliche, che ne disciplinarono e favorirono lo sviluppo ricevendone un adeguato ritorno fiscale. Tale interesse, soprattutto a partire dalla metà del XIII secolo, era pienamente giustificato dai larghi consumi sociali e dall’esigenza di far fronte alle crescenti richieste. Il vino era il corredo abituale di ogni età e, in occasione di una festa, non poteva mancare sulla tavola; consigliato ai vecchi, era dato anche ai fanciulli in dosi alquanto annacquate, mentre i medici prescrivevano il rosso come ricostituente alle donne dopo il parto; per i malati poi si confezionavano prodotti e medicamenti che traevano la loro base dalla fermentazione alcolica degli zuccheri contenuti nel succo d’uva e, per le sue proprietà antisettiche, l’aceto era il disinfettante più comune. Naturalmente il luogo del consumo per eccellenza era la taverna, ma sul potere di guarire i mali dell’esistenza e su quello dei fermentati propinati dagli osti la Chiesa ebbe sempre un occhio di attenzione10, non tanto o soltanto per punire – al contrario colpisce la grande tolleranza delle disposizioni canoniche in materia di ebbrezza – ma per suggerire un uso accorto dei beni e dei prodotti della natura. Una lezione che, a ben vedere, continua ad essere attuale. 9 La lettura delle fonti ecclesiastiche e poetiche viene proposta dai contributi di G. Motta sul vino nei Padri della Chiesa, di G. Archetti e N. D’Acunto sul vino in ambito monastico e riformistico, di P. Tomea nei racconti agiografici e di R. Bellini nelle disposizioni canoniche, mentre S. Gavinelli e P. Gibellini ripercorrono la ricchezza dei testi letterari. 10 XVI Questi temi sono oggetto di indagine nella terza sezione del volume, dove C. Cogrossi, C. Azzara e A. Baronio esaminano soprattutto l’ambito legislativo, dalla tradizione romano-barbarica a quella comunale, mentre A.I. Pini e G.M. Varanini sviluppano in maniera complementare gli aspetti legati al commercio e alla circolazione dei vini; M. Tagliabue, invece, mette a fuoco i problemi connessi con il consumo nelle taverne; da ultimo, A. Ghisalberti e A. Albuzzi conducono un’indagine sulle fonti medico-dietetiche, con riferimento ad Arnaldo da Villanova e all’impiego del vino nella profilassi e nella pratica medica. PARTE PRIMA La coltura della vite nel Medioevo 1 2 ALFIO CORTONESI* La coltivazione della vite nel Medioevo Discorso introduttivo Com’è noto ai cultori della materia, il ventennio compreso fra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’80 del Novecento ha segnato per la storia agraria italiana (e particolarmente per quella di riferimento medievale, della quale qui ci occupiamo) un periodo di notevole fioritura degli studi. Rapporti di lavoro, produzioni e tecniche, ordinamenti colturali e paesaggi hanno rappresentato allora un settore di ricerca fra i più frequentati nell’ambito della storia economica e sociale. Tale fervida stagione di studi ha avuto il merito di richiamare con vigore l’attenzione su quella ‘dimensione rurale’ della storia italiana troppo a lungo occultata dalla tendenza nettamente urbanocentrica della storiografia otto-novecentesca. Le ricerche di Emilio Sereni, Giorgio Giorgetti, Elio Conti, poco dopo quelle di Vito Fumagalli e Giovanni Cherubini, aprirono strade sulle quali una folta schiera di storici si è poi avviata, dando un contributo di primo piano al rinnovamento delle tematiche e dei metodi. Esteso lo sguardo a quanto si dispiegava oltre le mura urbiche, ricercatori delle più varie provenienze territoriali e accademiche hanno saputo ben evidenziare il peso che il lavoro contadino, il complesso ordito sociale e insediativo delle campagne, le peculiari dinamiche politiche di tali ambiti, ebbero a esercitare sulla vicenda complessiva, in quel costante intreccio con la realtà urbana che rappresenta uno degli aspetti caratteristici della storia d’Italia. Sullo scorcio del secolo le indagini sono poi proseguite con passo meno risoluto e con qualche segno di stanchezza, in un clima storiografico ormai mutato e caratterizzato da una certa ripresa di temi più tradizionali: la storia politico-diplomatica, istituzionale, religiosa, eccetera1. Proprio per fare il punto della situazione 1 Su questa vicenda storiografica può ora leggersi la mia introduzione al volume: A. CORTONESI, G. PASQUALI, G. PICCINNI, Uomini e campagne nell’Italia medievale, a cura di A. Cortonesi, Roma-Bari 2002, pp. V-XV. * Università degli Studi della Tuscia, Viterbo. 3 e rinnovare lo slancio perduto, nel dicembre 1997 si registrava, tuttavia, la costituzione in Montalcino di un Centro di studi per la storia delle campagne e del lavoro contadino che, intendendo proporsi come luogo di raccordo e coordinamento per quanti indirizzano la loro attenzione alle problematiche indicate, ritaglia per sé – com’è stato scritto – «un’identità scientifica forte... in sostanza riconducibile all’idea del ‘lavoro contadino’, inteso come ambito specifico della storia agraria»2. Dalla storia agraria alla storia del vino e degli altri prodotti riconducibili alla coltivazione della terra il passo è, in tutta evidenza, assai breve, vuoi per la contiguità tematica, vuoi per un percorso storiografico che ha visto, in tempi recenti, la storia dell’alimentazione (e più generalmente quella della cultura materiale) e la storia dell’agricoltura tessere comuni percorsi in una funzione di reciproco stimolo. Del resto – lo ha opportunamente osservato Massimo Montanari – «parlare di vino non si può senza parlare di molte altre cose, che rimandano all’economia e alle forme produttive, ai rapporti di proprietà, all’organizzazione sociale, al diritto come nucleo di ordinamento e di interpretazione della realtà»3. Definitivamente riscattata dalla lunga appartenenza al dominio dell’antiquaria e dell’aneddotica, la storia del vino ha dunque potuto pienamente sviluppare negli ultimi decenni le sue molteplici valenze attivando itinerari di riflessione e d’indagine che hanno reso necessario il contributo di discipline diverse. Aspetti economici, politici, sociali, materiali e mentali di tale storia sono stati approfonditi con risultati di grande interesse che segnano una pagina importante del rinnovamento storiografico dei nostri tempi. Passare in rassegna anche soltanto i più significativi fra i contributi scientifici che si sono susseguiti in anni a noi vicini sulla vitivinicoltura medievale non mi sembra possa essere fra i compiti di questa introduzione; per le ricerche svolte anteriormente al 1990 esiste peraltro la puntuale e argomentata rassegna di Antonio Ivan Pini, Il Medioevo nel bicchiere4, la quale rende ozioso tornare sull’argomento con intenti di informazione bibliografica o di esegesi storiografica, mentre per l’ultimo decennio una buona integrazione si può avere con il volume 2 M. MONTANARI, Dalla parte dei ‘laboratores’, in Medievistica italiana e storia agraria. Risultati e prospettive di una stagione storiografica, Atti del Convegno (Montalcino, 12-14 dicembre 1997), Bologna 2001, pp. 710, alle pp. 9-10. 3 M. MONTANARI, Aperitivo, in La vite e il vino. Storia e diritto (secoli XI-XIX), 2 voll., a cura di M. Da Passano, A. Mattone, F. Mele, P.F. Simbula, Roma 2000, pp. XIII-XIX, a p. XIII. 4 4 Il Medioevo nel bicchiere. La vite e il vino nella medievistica italiana degli ultimi decenni, «Quaderni medievali», 29 (1990), pp. 6-38. Tempus vindemie di Gabriele Archetti5, che propone anche un’utile comparazione con gli studi fioriti di recente in altri ambiti nazionali. Ci limiteremo, dunque, a ricordare come, accanto ad una miriade di validi contributi di riferimento microterritoriale, sub-regionale e regionale, si siano avute nel tempo pubblicazioni che, per un approccio più generale alla materia e lo sforzo di costruire, a più voci, un quadro di sintesi, hanno finito col costituire altrettanti momenti cardine della riflessione intorno alla storia vitivinicola: intendo riferirmi essenzialmente al volume Il vino nell’economia e nella società italiana medioevale e moderna, contenente gli atti del convegno svoltosi a Greve in Chianti nel 19876; alla raccolta di saggi del già ricordato Pini, Vite e vino nel medioevo, del 19897 (nella quale viene riproposto, fra gli altri, l’articolo su La viticoltura italiana nel Medio Evo. Coltura della vite e consumo del vino a Bologna dal X al XV secolo8, che molto ha significato per lo sviluppo degli studi nell’ambito che qui interessa); al volume curato da JeanLouis Gaulin e Allen J. Grieco, Dalla vite al vino. Fonti e problemi della vitivinicoltura italiana medievale9; infine agli atti, apparsi nel 2000, del convegno internazionale su La vite e il vino. Storia e diritto (secoli XI-XIX), tenutosi ad Alghero nel 199810. È un fatto che l’insieme delle ricerche di cui oggi si è arrivati a disporre rappresenta una base ben solida dalla quale partire tanto per gli approfondimenti che si rendono necessari quanto per la sperimentazione di nuovi itinerari tematici. Per quanto mi riguarda, proporrò in questa sede qualche breve nota sull’affermazione della viticoltura nei secoli centrali e tardi del medioevo, per poi passare ad occuparmi, in maniera meno fuggevole, del fondamentale segmento della vicenda vinicola che si snoda fra la vendemmia e il consumo, ciò con riferimento al mosaico, come sappiamo assai variegato, delle diverse Italie. La ripresa delle attività mercantili e artigianali e il connesso incremento delle popolazioni urbane diedero luogo nell’Italia dei secoli dopo il Mille ad un forte sviluppo della pratica viticola. Benché non venisse meno il contributo 5 Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998 (Fonti e studi di storia bresciana. Fondamenta, 4). 6 Firenze 1988. 7 Bologna 1989. 8 Il contributo (pp. 53-145) era già stato pubblicato sulla rivista «Studi medievali», s. III, 15 (1974), pp. 795-884. 9 Bologna 1994. 10 Cit. alla n. 3. 5 degli enti ecclesiastici e della componente aristocratica (che tanta parte avevano avuto nella ripresa produttiva dei secoli VIII-X), protagonisti della nuova espansione furono i ceti cittadini di formazione più recente, provvisti più degli altri di capitali da investire nella terra e ben decisi nel perseguire la più ampia disponibilità di vino come «uno dei segni più tangibili della propria ascesa sociale»11. Fu soprattutto per la loro iniziativa che gran parte delle campagne suburbane d’Italia (da Mantova a Bologna, da Cremona ad Arezzo, a Viterbo) furono trasformate in terroirs viticoli più o meno compatti, dotati sovente – è il caso di Roma – di corpose appendici all’interno della cerchia muraria. Se le difficoltà che incontrava il commercio vinicolo incentivavano non poco, in una prospettiva micro-autarchica, la capillare diffusione della vigna, ad assicurare le fortune del prodotto era in molti contesti soprattutto l’elevata domanda dei mercati urbani. Quest’ultima era determinata tanto dagli alti livelli del popolamento che dalla notevole entità dei consumi. Se per Firenze i dati trasmessi da Giovanni Villani e confermati da altre fonti hanno consentito di avanzare, per la prima metà del Trecento, l’ipotesi di un consumo annuo per abitante di circa 260270 litri, per Siena, Bologna, l’area veneta e lombarda si è potuto motivatamente proporre, con riferimento al medioevo tardo, un consumo medio pro capite superiore ad un litro al giorno. A comprendere le ragioni del fenomeno gioverà aver presente che il vino – generalmente di bassa gradazione alcolica – era la sola bevanda corroborante di cui all’epoca si disponesse e a cui potesse farsi ricorso nei momenti della socializzazione e dell’aggregazione ludica. Ma la vigna non si limitò di certo a colonizzare le campagne di più stretta gravitazione urbana. La sua presenza si addensò, difatti, anche in prossimità degli insediamenti castellani e di villaggio, come pure venne a caratterizzare l’assetto produttivo di appezzamenti periferici, distanti da ogni abitato. Nuovi paesaggi in tal modo si disegnarono. Mentre le vigne a sostegno morto e interfilare stretto continuarono a dominare le campagne suburbane, con l’affermazione della mezzadria poderale venne introdotto in buona parte del territorio centroitaliano quel sistema della coltivazione promiscua che negli ampi spazi tra un filare e l’altro consentiva la semina di cereali e leguminose ed affidava, perlopiù, ad alberi la funzione di supporto delle viti. In alcuni settori dell’area padana (ad esempio le campagne emiliane) analoghi processi di accorpamento fondiario, accompagnati anche qui dalla penetrazione dei patti mezzadrili, diedero forma, 6 11 PINI, Vite e vino, p. 24. soprattutto a partire dalla seconda metà del XIV secolo, a quel paesaggio della ‘piantata’ che sempre più largamente venne realizzando l’integrazione di seminativi, filari, alberi e prati e la sostituzione, per essa, delle superfici a monocoltura cerealicola o viticola, in precedenza nettamente prevalenti. Una presenza non meno ampia e capillare la vigna segnò nelle regioni del Mezzogiorno, dove – sia pure con l’importante eccezione della Campania, già in antico caratterizzata dal frequente ricorso al sostegno vivo – diffusamente conobbe la sistemazione ad alberello, che non prevedeva alcun supporto, godendo l’uva in ogni caso, per le favorevoli condizioni climatiche, di un’adeguata insolazione. È almeno dall’età normanna che i documenti testimoniano qui una significativa espansione della viticoltura, suggerendo per essa una geografia che tende nella sostanza a ripetere quella degli insediamenti umani. Per quanto, in particolare, concerne la Sicilia, non sembra che la lunga dominazione araba abbia determinato l’annientamento della pratica viticola; i divieti posti dal Corano al consumo del vino ne limitarono certo la diffusione, ma il gradimento che incontrava sia l’uva fresca che quella passa dovette in qualche misura garantire alla vite una continuità di presenza. Sotto i normanni e nel corso del XIII secolo l’avanzamento delle colture significò di frequente l’impianto di nuovi vigneti. Intorno a Palermo come a Messina e in area etnèa i filari conquistarono gran parte della superficie agricola sotto la spinta di una domanda molto sostenuta. Su un piano generale, andrà pure ricordato come, a seguito del forte calo della popolazione, la seconda metà del Trecento abbia fatto registrare in buona parte delle campagne italiane un arretramento della pratica viticola, bisognosa di così assiduo e robusto apporto di manodopera. Ma se l’incremento dei salari legato alla minore disponibilità di braccia dovette creare per i produttori non poche difficoltà, sortì pure l’effetto di ampliare la schiera dei consumatori e, comunque, di accrescere la domanda di vino. Agli abbandoni delle vigne che i documenti diffusamente segnalano dopo gli anni cruciali di metà Trecento, ben presto fece seguito pertanto la riconquista delle superfici perdute e l’avvio di nuovi dissodamenti. Non mancarono, in ogni caso, territori entro i quali la lentezza della ripresa demica indusse esiti di ristagno produttivo a livelli ben inferiori rispetto a quelli toccati fra Due e Trecento. Non tutta la produzione della vigna era destinata alla vinificazione; sia pure in quantità modesta, l’uva era consumata anche fresca o passa; una piccola parte era poi raccolta ai fini della confezione dell’agresto: un condimento che si otteneva aggiungendo sale al succo dell’uva acerba (meglio ove si disponesse di uva 7 pergolese). A fronte dell’impiego nella vinificazione tutto ciò risultava, comunque, di ben scarso significato. La vendemmia richiedeva, come noto, lavori preparatori che riguardavano essenzialmente la manutenzione dei vasi vinari: si bagnavano, ripulivano e riparavano i tini da pigiatura (tinae) e gli altri recipienti utilizzati per la fermentazione del mosto e la conservazione dei vini (vegetes, butes, carrata, dolia, eccetera), si procedeva a sostituire doghe vecchie e cerchi che non assicuravano una perfetta tenuta, si eliminavano eventuali muffe disinfettando con acqua salata, gesso e altri materiali, si rinforzavano infine i cavalletti (calastri nelle fonti lombarde) sui quali poggiavano le botti ad evitare il contatto con il suolo umido. Per la fabbricazione dei recipienti si impiegava legname ben stagionato e della miglior qualità, perlopiù di castagno e di rovere, talora anche di abete e di noce. Compatto, leggero ed elastico, il legno di rovere e di castagno era particolarmente indicato per le botti di maggiore capacità; all’abete, al larice e al noce, più pesante, si ricorreva soprattutto per i recipienti più piccoli, spesso utilizzati per la conservazione dei vini forti e di maggior pregio. I cerchi (circuli) erano ricavati da virgulti di castagno e di salice debitamente tenuti in ammollo; si poteva ricorrere, comunque, anche al legno di betulla, nocciolo, noce e abete; in qualche contesto (ad esempio a Vicenza) la fabbricazione era affidata ad artigiani specializzati, i cerquarii. La legatura dei cerchi si effettuava perlopiù con i vimini. Trova riscontro anche l’uso di cerchi di ferro (più sicuri, ma più costosi) che, ad esempio, risultano impiegati nella fabbricazione dei quaranta barili che il comune di Viterbo, alla metà del Duecento, mette a disposizione dei cittadini per le operazioni di compravendita del vino. Ad evitare perdite e infiltrazioni, sostanze e materiali diversi erano applicati nei punti di connessione fra le tavole: dalla colla di farina di grano, di cui fanno menzione gli statuti dei bottai di Messina, alla pece, al sego, a «un particolare tipo di giunco che assicurava la perfetta tenuta degli incastri»12. I fondi di tini e botti potevano essere rinforzati da un asse disposto trasversalmente; nella parte centrale dei recipienti un’apertura circolare (cocchiume), incorniciata talora da un portello di forma quadrata, consentiva l’immissione del vino. La fabbricazione e la riparazione dei recipienti erano affidate a manodopera specializzata (i ‘maestri bottai’), talora anche a carpentieri; la loro responsabilità si palesava nel marchio che veniva apposto; nei casi di più elementare manutenzione poteva, tuttavia, 12 8 C.M. RUGOLO, Maestri bottai in Sicilia nel secolo XV, «Nuova rivista storica», 69 (1985), pp. 195-216, a p. 210. intervenire la mano stessa del viticoltore. Diffusamente attestato è anche il nolo di botti e altri recipienti, ciò che sottolinea come la loro costruzione comportasse un impegno economico non trascurabile. Data l’importanza che la pratica viticola spesso assumeva, le operazioni della vendemmia finivano col coinvolgere, sia in ambito cittadino che rurale, larga parte delle popolazioni; per rendere possibile l’utilizzo di tutta la manodopera ed evitare ogni intralcio allo svolgimento dei lavori veniva sospesa, nella circostanza, l’attività ordinaria del tribunale civile; gli statuti di Modena esoneravano, di più, i lavoratori da ogni prestazione dovuta al comune nel periodo compreso fra il 15 settembre e il 15 ottobre. La raccolta dell’uva poteva avviarsi generalmente solo dopo la data fissata dallo statuto della comunità o, comunque, dopo il bando emesso dalle autorità locali: ciò garantiva un più agevole controllo pubblico sulle operazioni e, dunque, un più regolare andamento delle stesse, scoraggiava i furti, impediva raccolte intempestive (che potevano essere determinate dalla mancanza di vino come dalla paura della grandine o di altri danneggiamenti) e disciplinava il mercato dell’atteso vino novello. Laddove la data della vendemmia fosse individuata dalla normativa statutaria, si aveva di frequente riferimento alla festa di S. Maria di settembre (l’8 del mese), ricorrendo tuttavia anche altre indicazioni, secondo le necessità derivanti dal clima e dell’altitudine. Deroghe alla normativa vigente potevano verificarsi in presenza di condizioni atmosferiche particolari o per l’incombere di eventi bellici; anche la peculiare posizione di una contrada viticola o l’utilizzo in talune parcelle di vitigni di maggior pregio potevano costituire, quanto alla data d’avvio delle vendemmie, motivo per altrettante eccezioni. Nel caso di vigne condotte in locazione il coltivatore era tenuto a preavvisare il proprietario dell’avvio delle operazioni sì che lo stesso, personalmente o avvalendosi di un incaricato (nuntius), potesse verificare l’entità della produzione e il buon andamento dei lavori. La raccolta poteva essere effettuata a mano o con il ricorso a piccole roncole, coltelli e forbici; depositata in ceste o canestri di vimini, talora in gerle o mastelli di legno (ciberi nella documentazione piemontese), l’uva era successivamente riversata nei tini o nelle vasche utilizzate per la pigiatura. L’impiego di vasche (vascae, palmenta, eccetera) era largamente diffuso; in area laziale tali contenitori – scavati nella pietra o in muratura e sovente denominati torcularia – erano in genere disposti a coppia, su livelli diversi. Da un foro praticato nel fondo della vasca superiore il mosto defluiva in quella inferiore (il romano vascale), di dimensione ridotta rispetto alla prima; un’altra apertura doveva consentire di raccoglierlo all’esterno e di travasarlo entro i tini per la fermentazione. Vasca, 9 vascale e tino costituivano per le vigne romane un obbligatorio corredo. Al fine e di ridurre le spese necessarie a dotarsi delle vasche e di sottrarre il minor spazio possibile alle viti, ci si risolveva non di rado a dividere fra vicini o eredi l’uso degli impianti di vinificazione; poteva così accadere che compravendite e locazioni di vigne avessero per oggetto una quota, talora anche molto ridotta, delle vasche; nel tardo Quattrocento si rendeva necessario a Ferentino disciplinare statutariamente l’uso delle stesse da parte degli aventi diritto. Un «minimo di pratica sociale collettiva» si perpetuava per questa via in un settore della produzione fortemente connotato dall’«individualismo agrario mediterraneo»13. Le pratiche della pigiatura e della vinificazione richiedevano la presenza tra i filari di fabbricati rurali appositamente costruiti (è il caso dei chiabotti delle castellanie sabaude) o, più semplicemente, di rudimentali strutture che comunque garantissero un adeguato riparo. ‘Palmenti’ a cielo aperto sono, tuttavia, testimoniati per la Sicilia ed erano probabilmente diffusi in tutto il Mezzogiorno. La scelta di procedere o meno alla vinificazione entro la vigna doveva dipendere essenzialmente dalla distanza della stessa dalla dimora padronale e dalla disponibilità presso quest’ultima di locali sufficientemente ampi; in presenza di proprietà articolate poteva, altresì, prevalere l’esigenza di concentrare le operazioni in un unico luogo. Quando la pigiatura non avvenisse nell’ambito della vigna, ci si avvaleva per il trasporto dell’uva di carri (plaustra) sui quali trovavano posto recipienti di vario tipo (tina, carraria, eccetera) o di asini che venivano caricati con ‘bigonce da soma’. Nelle campagne emiliane oltre il Panaro il trasporto era effettuato «con le ‘navacce’ (recipiente aperto con due testate più alte in modo da costituire quasi un barcone a fondo piatto)»14. Non di rado si dava pure il caso che l’ammostatura avesse luogo in campagna e che nelle cantine urbane e castellane si svolgessero le fasi conclusive del processo di vinificazione; occorrendo tale circostanza, il trasporto del mosto (operazione assai delicata che poteva, se mal condotta, compromettere il risultato della vendemmia) avveniva entro appositi recipienti che nel Bolognese, in Romagna e in altre zone dell’Italia padana prendevano il nome di castellate (botti allungate di varia dimensione). L’enorme tinaia dell’ospedale pratese della Misericordia riceveva, nel Quattrocento, uve già ammostate che si 13 P. TOUBERT, Paysages ruraux et techniques de production en Italie méridionale dans la seconde moitié du XIIe siècle, in Potere, società e popolo nell’età dei due Guglielmi, Atti delle IV Giornate normanno-sveve (Bari-Gioia del Colle, 8-10 ottobre 1979), Bari 1981, pp. 201-229, a p. 222. 10 14 PINI, Vite e vino, p. 106. procedeva a depositare in 18 ‘canali’ e 10 tini destinati alla fermentazione del prodotto; la capienza di alcuni ‘canali’ superava i 5.000 litri. Le uve erano pigiate sia con i piedi che con ammostatoi: bastoni che si allargavano in fondo a forma di clava o terminavano a forcella ed erano utilizzati specialmente per la pigiatura in recipienti piccoli; in presenza di tini di particolare altezza, ci si introduceva negli stessi ricorrendo a scale o impalcature. Nel Bolognese del Due-Trecento la pigiatura avveniva con il ricorso alla ‘graticula’ o ‘pistarola’: «una tinozza quadra (...) che lasciava passare nel tino sottostante un mosto puro, con una modesta quantità di bucce e vinaccioli», consentendo con ciò di migliorare la qualità del vino15. La fermentazione poteva interessare tanto il mosto «separato dalla vinaccia e dai graspi» mediante lo «sgrondo dell’uva ammostata»16 – si aveva in questo caso la fermentazione ‘in bianco’, di tradizione classica – che il mosto con le vinacce (fermentazione ‘in rosso’); nel primo caso si otteneva un vino puro, chiaro, di sapore gradevole, nel secondo, per solito, un vino più sapido ed aspro, che – come testimonia Piero de’ Crescenzi – assumeva, secondo le uve impiegate, un colore nigrum, rubeum o aureum. Il processo di fermentazione poteva avvenire «con chiusura ermetica del vaso» – così nelle già ricordate cantine pratesi dove si ricorreva «alla muratura del coperchio»17 –, come pure a tino aperto, in questo caso con assidua rimescolatura del mosto e delle vinacce sì da evitare che quest’ultime restassero troppo a lungo in emersione e il vino ne fosse rovinato. Alla pigiatura poteva far seguito la torchiatura: pratica che sembra essere, tuttavia, di diffusione non generale (piccoli e medi proprietari di rado possedevano un torchio) e dalla quale si ricavava un vino di seconda (ma anche terza o quarta) spremitura decisamente meno gradito del primo vino. Le torchiature successive alla prima dovevano essere precedute dal taglio e dalla sgretolatura delle vinacce, finalizzati a «liberare il tannino contenuto nei raspi e nelle bucce» ed a rendere più chiaro il prodotto18; in assenza di torchi, le vinacce potevano 15 G. PASQUALI, Il mosto, la vinaccia, il torchio, dall’alto al basso medioevo: ricerca della qualità o del massimo rendimento?, in Dalla vite al vino. Fonti e problemi della vitivinicoltura italiana medievale, a cura di J.-L. Gaulin, A.J. Grieco, Bologna 1994 (Biblioteca di storia agraria medievale, 9), pp. 39-58, alle pp. 46-47. 16 Ivi, p. 46. 17 G. PAMPALONI, Vendemmie e produzione di vino nelle proprietà dell’ospedale della Misericordia di Prato nel Quattrocento, in Studi in memoria di Federigo Melis, III, Napoli 1978, pp. 349-379, a p. 368. 18 A.I. PINI, Vite e olivo nell’alto medioevo, in L’ambiente vegetale nell’alto medioevo, Atti della XXXVII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1990, pp. 329-380, a p. 359. 11 essere pressate attraverso l’imposizione di pesi adeguati. I torchi (torcitoria, stringitoria, eccetera), di varia grandezza, avevano talora dimensioni ragguardevoli e potevano dunque richiedere per la costruzione decine di giornate di lavoro, ingenti quantitativi di legname, ferramenta di vario tipo, grasso per la lubrificazione; quelli presenti, alla metà del Quattrocento, nelle cassine della Certosa di Pavia erano costruiti «in legno di rovere o di noce, con rinforzi in ferro» ed esercitavano la pressione mediante una grossa pietra «governata da un albor, albero a vite, e da una scogha, scoggia»19. Lasciato a fermentare nei tini per periodi di durata variabile – attesta il de’ Crescenzi che la fermentazione ‘in rosso’ durava nelle cantine bolognesi 15 giorni – il prodotto era successivamente travasato nelle botti per mezzo di secchi, mastelli e grandi imbuti. Accadeva in qualche caso che, prima o dopo l’imbottamento, s’intervenisse sul vino con speciali trattamenti: a Rivoli, «il vino proveniente dalle decime e dai redditi veniva estratto dai tini o dalle botti per essere versato sul genus del nebbiolo signorile», dunque subendo «un secondo periodo di stazionamento nei tini prima di essere definitivamente imbottato»20; nelle campagne pratesi si governava diffusamente il mosto (o il vino) aggiungendo un’uva particolare, denominata ‘raverusco’, che conferiva un colore più intenso ed accresceva la gradazione alcolica. Più generalmente, il ricorso a vini ‘da colore’, quali l’‘albatico’ – per il bianco – e il ‘raverusco’ o ‘abrostino’ (vocaboli riconducibili entrambi al latino labrusca o lambrusca: uva selvatica) appare diffuso nella pratica vinificatoria toscana del Quattrocento. Da aggiungere che, facendo riposare le vinacce (solitamente non torchiate) nell’acqua si otteneva l’acquerello (acquatum, acquarellum, pusca, eccetera): un vinello leggero (o, più propriamente, un ‘mezzo vino’) destinato al consumo dei meno abbienti ma che, servito fresco, poteva trovare in estate un più generale gradimento; le vinacce potevano essere più volte utilizzate allo scopo, ottenendosi via via un prodotto a gradazione alcolica decrescente. Pratica piuttosto usuale era pure quella di versare sui resti della svinatura il vino scadente o non ben conservato che una rifermentazione poteva rendere nuovamente bevibile; da tale procedimento si ricavava quello che le fonti tardomedievali indicano come vino ‘acconciato’. Vini più robusti e durevoli era, infine, possibile ottenere con la cottura in apposite caldaie del vino (o del mosto), ope19 20 12 L. CHIAPPA MAURI, Paesaggi rurali di Lombardia, Roma-Bari 1990, p. 183. A. DAL VERME, Vendemmia e vinificazione in Piemonte negli ultimi secoli del Medioevo, in Vigne e vini nel Piemonte medievale, a cura di R. Comba, Cuneo 1990, pp. 51-67, a p. 58. razione che comportava la riduzione del prodotto nella misura di circa un quarto; proseguendo la cottura fino alla riduzione di circa tre quarti, si otteneva la sapa, di sapore dolcissimo, usata in cucina come condimento. Le numerose varietà dei vitigni coltivati garantivano una gamma di produzioni assai ampia. Per l’area padana il de’ Crescenzi ricorda una quarantina di uve, distinguendo fra le bianche e le nere, insistendo sul rapporto qualità/quantità e indicando quali fossero le più apprezzate, nonché quelle da usare per la vinificazione e quelle adatte per la tavola. La Sclava, la Garganica, la Malixia o Sarcula sono fra le bianche coltivate nel Bolognese, che annovera fra le rosse la Grilla, la Gramesta, il Maiolo; tanto bianca quanto nera è la Lambrusca, già ricordata per i vini ‘da colore’. A Forlì si coltivava la migliore Albana, la Nebiola era caratteristica di Asti, la Duracla di Ferrara; la Garganica si ritrovava anche nelle campagne padovane, la Sclava a Brescia e a Mantova. In realtà ben poche delle uve note ai trattatisti trovano riscontro nella documentazione disponibile. Pochi, a fronte delle nutrite enumerazioni del Tanaglia, i vitigni di cui si ha menzione nelle carte toscane del Quattrocento: lo Zeppolino è fra quelli che danno vino rosso, il Trebbiano, la Vernaccia fra quelli che producono bianco. Particolarmente apprezzate erano le varietà di uva da cui poteva ricavarsi vino dolce; secondo la trattatistica agronomica tardomedievale (ma il dato trova sostanziale conferma anche nei testi cinque-seicenteschi) erano, infatti, i vini giovani e di sapore dolce ad essere particolarmente ambiti. L’invecchiamento, anche se limitato a un anno, metteva a repentaglio le caratteristiche di vini che faticavano sovente ad arrivare integri fino all’estate; non è un caso che molti trattatisti si misurassero con il problema di ringiovanire il prodotto e che il vino vecchio fosse per solito venduto a prezzi inferiori rispetto al nuovo. Quanto al sapore dolce, lo si ricercava, oltre che con la scelta dei vitigni, affidandosi ad elaborate ricette o particolari accorgimenti nella vinificazione; un consiglio dispensato a più riprese (lo si ritrova anche in de’ Crescenzi) è quello di ammucchiare per terra l’uva raccolta tenendovela per alcuni giorni prima di passare alla pigiatura. I moscatelli come pure le vernacce e i trebbiani riscuotevano nell’Italia tardomedievale i più unanimi consensi; la loro produzione, largamente diffusa, investiva ambiti territoriali diversi, con esiti certo non omogenei sul piano qualitativo; se fra i moscati godeva della miglior fama quello ligure di Taggia, fra le vernacce si distingueva quella prodotta a Corniglia e nelle Cinque Terre; dal Valdarno superiore e dalle Marche venivano i trebbiani più graditi; generale era anche l’apprezzamento per le ribolle istriane. A dividere con questi prodotti le 13 posizioni di vertice nella gerarchia del gradimento erano i vini ‘greci’ del Mezzogiorno, esportati in notevole quantità verso le regioni centro-settentrionali della penisola; una robusta gradazione alcolica, la conseguente maggiore durevolezza, la dolcezza, costituivano altrettante caratteristiche che i vini ‘greci’ nostrani avevano in comune con la malvasia, esportata verso l’Italia da Creta, dalle isole dell’Egeo, da altre contrade del Mediterraneo orientale. Alla metà del Quattrocento, vino ‘greco’ di provenienza napoletana, malvasia e vernaccia ligure (guarnaccia de riparia Ianue) costituivano i soli vini di cui era concessa l’importazione in Viterbo; si trattava, in realtà, di un fenomeno di generale riscontro: per la qualità del prodotto e i costi elevati i cosiddetti vina navigata (trasportati via mare) davano luogo, infatti, a commerci che, non interferendo con la vendita e il consumo dei vini locali, non contraddicevano la scelta microautarchica solitamente operata dai governanti a protezione della viticoltura locale. Resta comunque da osservare che dovrà attendersi quasi ovunque il XV secolo perché, sulla base del vitigno e del luogo di coltivazione (o magari di uno solo di questi elementi), i prodotti delle vigne italiane marchino una propria identità e, forti di essa, si dispongano a far fronte alla domanda di consumatori sempre più esigenti e propensi al consumo di vini forti. Di fatto, fino a tutto il Trecento le fonti propongono ben di rado una distinzione che vada oltre la constatazione del colore o la qualifica di vino ‘di pianura’ o ‘di collina’. Il vino bianco era considerato generalmente un prodotto di maggiore raffinatezza e tanto più lo si apprezzava quanto più era chiaro; al rosso si richiedeva un colore deciso. Tendenzialmente più robusto e in prevalenza bianco, il vino di collina era preferito a quello di pianura, che era spesso un vino di modesta gradazione alcolica. Non è senza significato che nel 1372 il cronista vicentino Conforto da Costozza contrapponga «i debiliores vini di pianura ai groppelli et alii meliores albi de monte»21 e che il catasto fiorentino del 1427 fissi le tariffe più elevate per i vini bianchi derivanti da vitigni rinomati (trebbiano) coltivati in aree collinari. Sono certo che sui temi sopra accennati e su molti altri ancora un contributo originale verrà dalle relazioni che seguiranno, nell’ambito di un Convegno che si annuncia come una tappa importante nell’indagine della storia vitivinicola del nostro paese. 21 14 G.M. VARANINI, Aspetti della produzione e del commercio del vino nel Veneto alla fine del medioevo, in Il vino nell’economia e nella società italiana medioevale e moderna, Convegno di studi (Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987), Firenze 1988 (Quaderni della Rivista di storia dell’agricoltura, 1), pp. 61-89, a p. 65. PIERRE RACINE* Vigne e vini nella Francia medievale Gli studi sulla storia della vite e del vino nella Francia medievale si sono moltiplicati dopo la pubblicazione, nel 1959 da parte di Roger Dion, della storia delle vigne e del vino in Francia1. In alcune regioni, piuttosto che in altre, si è approfondito in modo particolare questo argomento. In generale si tratta di quelle regioni che sono diventate dominio di produzione di vini di qualità e che hanno attratto l’attenzione dei ricercatori e degli autori, i quali hanno tentato in particolar modo di risalire alle origini dei grandi vigneti della Borgogna, della Champagne e del Bordolese2. Tuttavia non sarebbe sufficiente basarsi su queste grandi regioni viticole contemporanee per dare un’idea della produzione, del traffico e del consumo di vino nel medioevo e delle grandi trasformazioni avvenute tra il periodo medievale e quello contemporaneo3. 1 R. DION, Histoire de la vigne et du vin en France des origines au XIXe siècle, Paris 1959 (rist. anast. Paris 1997); si v. anche il sintetico quadro storiografico presente in G. ARCHETTI, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998 (Fonti e studi di storia bresciana. Fondamenta, 4), pp. 47-60. 2 Cfr. a questo proposito la bibliografia di M. LACHIVER, Vins, vignes e vignerons. Histoire du vignoble français, Paris 1997, pp. 631-691; v. anche Géographie historique des vignobles, Actes du colloque (Bordeaux, 27-29 octobre 1977), 2 voll., Parigi 1978, dove nelle 33 relazioni vengono illustrati i più grandi vigneti francesi nella loro storia. Per quanto riguarda la Borgogna, segnaliamo, oltre a quanto figura nell’opera precedente, gli studi di J. RICHARD, Burgunds Weine in Mittelalter, in Weinwirtschaft in Mittelalter. Zur Verbreitung, Regionalisierung und wirtschaftlichen Nuntzung einer Sonderkultur aus der Römerzeit, Vorträge des gleichnamingen Symposium von 21. bis 24. März 1996 in Heilbronn, herausgegeben von C. Schrenk, H. Weckbach, Heilbronn 1997 (Quellen und Forschungen zur Geschichte der Stadt Heilbronn, 9), pp. 205-229, e ID., Les vignobles et les vins de Bourgogne au Moyen Age, in Vins, Vignes et vignerons en Bourgogne du Moyen Age à l’époque contemporaine, «Annales de Bourgogne», 73 (2001), pp. 9-17. 3 Cfr. a questo proposito le opere di Dion e Lachiver sopra citate. * Università March Bloch, Strasburgo. 15 16 Centri e vini più rinomati al tempo di Filippo Augusto. D’altra parte, chi osserva la distribuzione dei vigneti, anche contemporanei, non può che rimanere sorpreso nel vedere fiorire vigne in regioni come la Champagne, la Borgogna o l’Alsazia, dove le condizioni climatiche, come temperature, gelate e precipitazioni, non sono affatto favorevoli alla loro espansione. Si possono addurre sicuramente dei motivi di ordine storico e culturale a questo proposito, ma sono stati prima di tutto gli uomini gli artefici di questa storia della vigna, non dimenticando che delle regioni dove i vigneti trovavano delle condizioni favorevoli per il loro sviluppo nel periodo medievale, oggi sono del tutto inadatte, come l’Île de France vicino Parigi, mentre altre regioni, pur non godendo di condizioni favorevoli, hanno visto la fioritura di grandi vigneti, come la Montagne de Reims. Dunque tutto dipende dalla volontà dell’uomo, che sa o non sa approfittare delle circostanze e delle congiunture economiche e politiche e che è in grado di far adattare dei vitigni sensibili a condizioni talvolta sfavorevoli alla vigna stessa. Un testo emblematico: la guerra dei vini Un poema di 204 versi, scritto da un dignitario della cattedrale di Rouen, Henri d’Andeli, nato in Andelys alla fine del XII secolo, ci permette di collocare la ripartizione dei vigneti francesi all’inizio del XIII secolo4. Per lungo tempo il poema è stato datato a partire dal 1240, ma in esso viene segnalato il porto de La Rochelle come fornitore di vino per l’Inghilterra, mentre la città fu presa dal re di Francia il 3 agosto 1224. Quindi bisognerebbe situare l’azione del poema verso il 1223-1224, indubbiamente alla vigilia della morte del re Filippo Augusto. Nel poema, il re di Francia, che ama soprattutto il vino bianco, intende fare una degustazione comparativa dei vini prodotti sia all’interno che al di fuori del regno e tale comparazione 4 Il poema di Henri d’Andeli è stato pubblicato in Œuvres d’Henri d’Andeli, trouvère normand du XIIIe siècle, a cura di A. Heron, Rouen 1881, pp. 87-129. Il poema è stato riedito, in una migliore versione, da F. AUGUSTIN, Sprachliche Untersuchung über die Werke Henri d’Andeli nebst einem Anhang enthaltend: La bataille des vins, «Ausgabe und Handlungen aus dem Gebiete der romanischen Philologie», 44 (1886) 52 pp. Cfr. anche G. GALTIER, La bataille des vins d’Henri d’Andeli et le commerce des vins de la France médiévale, «Bulletin de la Société languedocienne de gèographie», s. III, 2/3 ( 1968 ), pp. 5-41; CH.M. HIGOUNET, Une carte des vins du XIIIe siècle, «Actes de l’Académie Nationale des sciences et des belles lettres, arts de Bordeaux», s. V, 5 (1980), pp. 29-39, ripreso in ID., Villes, sociétés et économies médiévales, Bordeaux 1992, pp. 363-369. 17 deve avvenire nel suo palazzo. Viene assistito da un altro degustatore che non è un vignaiolo, né un negoziante, ma un prete inglese, con indosso la sua stola così da poter scomunicare i vini cattivi. La scelta di un prete inglese, che giura su san Tommaso Becket martire, assassinato nel 1170 e canonizzato poco tempo dopo, si può spiegare con il ricordo della visita del re d’Inghilterra Giovanni senza Terra nel 1201, descritta dal cronista Rigord. Tuttavia bisogna tener conto del fatto che gli inglesi sono già dei buoni clienti dei vini francesi e la scelta di un uomo di chiesa si giustifica perfettamente se si pensa all’importanza del vino nella vita liturgica. Mettendo quindi a confronto successivamente i diversi grandi vigneti di allora, il paragone può essere fatto anche con i vigneti dell’estero. In testa, ma questa non dovrebbe essere una sorpresa, troviamo il vino di Cipro: D’abord manda le vin de Chypre Ce n’étais pas cervoise d’Ypres 18 Poi vengono quelli considerati di qualità: Alsazia, Mosella, Aunis, Spagna, Provenza, Angiò, Gâtinais; quelli prodotti in zone vicine alle città e chiamati col nome stesso della città: La Rochelle, Béziers, Narbonne, Carcassonne, Orléans, Menton, Hautvillers. Epernay, Saint Pourçain, Chablis, Beaune; quelli detti «francesi», stimati a Parigi e all’estero. Accanto a questi vini apprezzati dal prete inglese ci sono quelli scomunicati, soprattutto per la loro acidità: vini di Beauvais, d’Etampes, di Chalons; quelli dell’occidente: Rennes, Le Mans, Tours, ma anche vini provenienti dai vigneti dell’Île de France (disprezzato soprattutto quello di Argenteuil). Il vino d’Alsazia è qualificato come «vinello che conviene al re», esportato per altro verso le città del Reno inferiore. Il vino di La Rochelle ha diritto ad un posto particolare perché viene bevuto dagli inglesi, ma anche dai bretoni, dai normanni e dai fiamminghi, gallesi, scozzesi, irlandesi, norvegesi e danesi. Dopo avere messo a confronto tutti questi vini, la discussione si apre tra i due perché vantino loro stessi i propri meriti. I vini «francesi» sottolineano la loro leggerezza, rimproverando a quelli della bassa Borgogna di far star male i loro bevitori. Interviene allora il re per giudicare e gustare tutti i vini. Egli scomunica la cervogia, tipica dei paesi al di là dell’Oise, della Fiandra e dell’Inghilterra e durante tre giorni e tre notti sonnecchia senza svegliarsi dopo aver steso una specie di elenco dei premiati, in cui incorona i vini buoni e dove il vino di Cipro è considerato l’esponente più importante. Il poema dice anche che egli nominò tre re e tre conti così come 12 pari di Francia, ma senza fare il loro nome. Un tale poema del quale non esistono esempi analoghi per la fine del medioevo, dimostra che i vini che godono di una posizione eccellente a Parigi e alla corte reale sono quelli prodotti nella parte settentrionale del regno, senza, comunque, che vengano ignorati i vini provenienti dal sud-ovest o dal Mezzogiorno. I vini stranieri provenienti da Cipro o dalla Spagna sono conosciuti ed apprezzati, come nel caso di Filippo Augusto, che manifestò il suo apprezzamento per il vino di Cipro durante la terza crociata. I vini dell’Alsazia e della Mosella sono considerati vini di qualità e i vini della Linguadoca, citati nelle città vicine, devono sicuramente la loro fama alla crociata degli Albigesi. I vini che ricevono dal re i loro titoli sono principalmente dei vini bianchi. A tal proposito può sorprendere, ad esempio, il vino di Beaune, considerato ai nostri giorni per essere prima di tutto un vino rosso, come quello di Chablis. Oggi bisogna andare a sud di Beaune, a Meursault oppure a Puligny, per trovare i grandi vini bianchi della Borgogna. In un’epoca in cui gli uomini non sanno ancora produrre dei vini da conservare non è sorprendente il fatto che i consumatori preferiscano dei vini bianchi. Il poema ci descrive, dunque, un quadro reale dei vigneti francesi dall’inizio del XIII secolo, ma di questo non possiamo tenere conto che come testimone di un certo periodo, senza poterlo proiettare su tutto il periodo medievale. I fattori che hanno favorito l’espansione dei vigneti francesi Il poema, per quanto se ne sappia, ci introduce in maniera espressiva alla conoscenza della situazione viticola francese verso il 1220. I fattori che hanno contribuito a questa distribuzione geografica sono di due ordini, fisici da una parte e storici ed umani dall’altra. Sul piano fisico è chiaro che le vigne hanno occupato delle zone dove ai nostri giorni non sono più introducibili. Un tempo i vigneti venivano coltivati nella Francia occidentale fino in Bretagna e Normandia e fino a nord della Senna, nella Piccardia e addirittura nelle Fiandre. Quindi non bisogna far altro che dare uno sguardo alla carte attuali sulle precipitazioni, le temperature ed il numero di giorni di gelo, per constatare come la vite, pianta che teme il freddo e l’umidità, non saprebbe trovarsi a proprio agio in queste zone. Certo la nostra conoscenza del clima medievale rimane mediocre malgrado le ricerche effettuate in questo campo, basate sia sulle cronache che su elementi archeologici o dendrologici5. Comunque sia, è doveroso considerare delle 5 Si v. in proposito E. LEROY LADURIE, Histoire du climat depuis l’an Mil, Parigi 1967, opera assai contenuta riguardo al periodo medievale; W. DANSGAARD, North Atlantic climatic oscillations revealed by deep 19 costanti per quanto riguarda la materia delle precipitazioni e delle temperature nelle regioni ad ovest della Francia. È interessante osservare che già nel medioevo gli uomini avevano capito che i vigneti dovevano essere coltivati lungo le pendici e le collinette perché ciò permetteva di evitare il fondo della vallate paludose o umide, dove d’inverno era presente costantemente la nebbia, mentre le colline esposte al sole che sorge erano sicuramente un luogo privilegiato. Un esempio eclatante è il vigneto del Clos Vougeot, creato dai monaci di Cîteaux. Per quanto riguarda il terreno, si sa bene che la vigna non è molto esigente6. Sicuramente il terreno preferito dovrebbe essere ben drenato, preferibilmente di natura calcarea e le colline della Borgogna, lungo la Saône, o quelle dell’Île de France, o della Champagne hanno queste caratteristiche. Evidentemente i terreni argillosi sono i più problematici, perché mantengono le radici della vigna nell’acqua. Nel complesso, comunque, i terreni favorevoli all’impianto del vigneto non mancavano nel territorio francese. E se talvolta la vigna è stata piantata su un terreno poco favorevole, è indispensabile considerare la necessità di alcuni fattori umani, soprattutto di ordine religioso, in quanto la chiesa doveva disporre del vino per i suoi uffici. Le popolazioni che volevano bere il proprio vino, anche se mediocre, facevano rientrare la vigna tra le coltivazioni scelte, in un’epoca in cui la commercializzazione del vino era contrastata da seri problemi di trasporto. Per altro non bisogna dimenticare che per la celebrazione dell’ufficio divino era indispensabile usufruire di questa bevanda perché potesse verificarsi la trasformazione del vino nel sangue del Signore al momento della consacrazione. Dunque la coltivazione dei vigneti raggiungeva anche quelle regioni dove c’erano condizioni difficili per il proprio sviluppo, ma le regioni più idonee, quelle con terreni ben drenati e ben esposti, erano destinate soprattutto alla produzione di vini di qualità. Greenland in cores, in Climate processes and climate sensinity, a cura T. e J.E. Hansen Takahashi, Washinghton 1984, pp. 288-298; P. ALEXANDRE, Le climat en Europe au Moyen Age. Contribution à l’histoire des variations climatiques de 1000 à 1425 d’après les sources narratives de l’Europe occidentale, Paris 1987; R. DELORT, F. WALTER, Histoire de l’environnement européen, Paris 2001, pp. 135-141. 6 20 Sono più i fattori climatici di quelli pedologici a influenzare la piantagione dei vigneti, come ha evidenziato E. JUILLARD, La vie rurale en basse Alsace. Essai de géographie sociale, Paris 1953, e prima ancora A. LUCIUS, Le vignoble d’Alsace, «Annales de géographie», 31 (1922), pp. 205-214 che scrive a p. 205: «La culture de la vigne a, comme dans tout l’est de la France, quelque chose d’artificiel (…), elle ne peut y exister que grâce à la presence de conditions naturelles particulièrement favorables». Riguardo, infine, alla Borgogna, cfr. R. GADILLE, Le vignoble de la Côte bourguignonne. Fondements physiques et humains d’une viticulture de qualité, Paris 1967. Le zone dove venivano prodotti vini di qualità erano non soltanto quelle caratterizzate da terreni calcarei, ma anche zone legate alle valli. Fin dal medioevo, la vite offriva a coloro che la lavorano e la possedevano delle possibilità di arricchimento grazie alla commercializzazione del vino. Viste le condizioni in cui versava la rete stradale medievale7 ed il costo elevato del trasporto su strada, causato da numerosi pedaggi e telonei, era difficile pensare al trasporto del vino via terra se non su percorsi brevi, tanto più che il trasporto terrestre rischiava di deteriorare la qualità del vino durante il viaggio. Pertanto il trasporto via mare era preferibile e gran parte delle località da cui provengono i vini citati nel poema riguarda delle regioni dove i fiumi o i corsi d’acqua navigabili ne permettono un trasporto facile. I vigneti borgognoni della valle dell’Yonne o quelli vicini alla Saône ne sono dei bellissimi esempi8. I vigneti della Lorena o dell’Alsazia hanno goduto di grossi vantaggi grazie alle valli della Mosella o del Reno, riguardo al trasporto dei loro prodotti verso le regioni del basso corso del Reno9. D’altra parte i porti di La Rochelle e di Bordeaux consentivano una esportazione facile dei vini provenienti dal retroterra via acqua verso i paesi settentrionali, le Fiandre, l’Inghilterra e persino i paesi scandinavi e delle rive del Baltico10. Favoriti dalle loro condizioni, questi vigneti di valle si sono rapidamente rivelati destinati a fornire un prodotto di lusso e per questo i vignaioli sono stati sollecitati a prendersi cura del loro prodotto. Certamente fattori fisici ed umani hanno avuto un peso particolare nello sviluppo delle vigne sul territorio francese medievale. Bisogna comunque precisare che la vigna non rappresentava un prodotto tipico, nonostante in Gallia fosse esistito un vigneto selvaggio prima dell’arrivo dei romani, che sicuramente non poteva dare frutti al punto da considerarlo una base per la vendemmia. Ne è pro- 7 J. HUBERT, Les routes du Moyen Age, in Les routes de France depuis les origines jusq’à nos jours, Paris 1959, pp. 25-56; M. ROUCHE, L’héritage de la voierie antique dans la Gaule du haut Moyen Age (Ve-XIe siècle), in L’homme et la route en Europe occidentale au Moyen Age et aux temps modernes, Auch 1980, pp. 13-32. 8 M. DELAFOSSE, Le commerce du vin à Auxerre (XIVe-XVe siècles), «Annales de Bourgogne», 13 (1941), pp. 208-230; ID., Note d’histoire sociale. Les vignerons d’Auxerre (XIVe-XVIe siècles), «Annales de Bourgogne», 20 (1948), pp. 7-41. Il cronista Guglielmo Anglico celebra la vinifera Beaune al tempo di Filippo Augusto: Œuvres de Rigord et Guillaume le Breton, Paris 1882, vv. 580-583. 9 La vigne et le vin en Lorraine. L’exemple de la Lorraine médiane à la fin du Moyen Age, Nancy 1982; inoltre O. KAMMERER, Le vin d’Alsace, fruit d’un écosystème médiéval, in Vins, vignobles et terroirs de l’Antiquité à nos jours, Nancy 1999, pp. 119-135. 10 R. DION, Les origines de La Rochelle et l’essor du commerce atlantique aux XIIe et XIIIe siècles, «Norois», 9 (1956), pp. 35-50; Y. RENOUARD, Histoire de Bordeaux, Bordeaux 1965, pp. 233-266. 21 va il fatto che Cesare non abbia fatto alcun accenno a qualsiasi forma di coltivazione della vigna nel suo resoconto della guerra in Gallia. Le più antiche testimonianze sull’introduzione della vigna nel territorio gallico riguardano le prime province sottomesse dai romani, come la regione narbonese e la Provenza, prima che la vigna si espandesse lentamente nelle regioni mediterranee e soprattutto lungo i fiumi Rodano, Saona e Garonna e i loro affluenti verso il nord11. Il successo della vigna nella regione gallica avrebbe peraltro provocato l’abbassamento del prezzo del vino in Italia, secondo Plutarco e Marziale, e Columella aggiunge: «L’uva raccolta per il nostro vino viene dalle Cicladi, dalla Baetica e dalla Gallia»12. Anche l’imperatore Domiziano aveva promulgato un editto, forse nel 92, per limitare l’espansione della vigna fuori dell’Italia, «convinto – secondo Svetonio – che la sovrabbondanza di vino e la penuria di grano derivassero da una infatuazione eccessiva per la vigna, dalla quale aveva origine l’abbandono dell’aratura». Per questo motivo ordinò di sradicare nella metà delle province almeno la metà dei vigneti13. Senza dubbio si trattò di un editto teso a proteggere i vigneti migliori piuttosto che della distruzione di gran parte di essi. L’editto, comunque, non ostacolò l’espansione della viticoltura in Gallia e ciò, senza dubbio, durante i due secoli successivi. Laddove si trovava la vigna non ci furono sradicamenti, ma nelle regioni dove la vigna non esisteva, non furono introdotte nuove piantagioni. Il fatto che la vigna abbia potuto espandersi in Gallia presuppone che i vitigni utilizzati potessero adattarsi a delle condizioni climatiche più dure rispetto alle regioni mediterranee. Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale definisce allobrogicum il vitigno nero che resiste alle gelate e che ha raggiunto le valli alpine. Gli storici R. Dion e L. Levadoux non sono riusciti a dare una spiegazione logica sull’adattamento del vitigno che M. Lachiver dice assomigliare al moderno syrah dei vigneti attuali che si trova sulla «Côte rôtie e l’Hermitage»14. Probabilmente biso11 L. LEVADOUX, De l’origine de la vigne dans les Gaules, «Le progrès agricole et viticole», 20-21 (1953), pp. 295-301; DION, Histoire de la vigne, soprattutto i capp. III e IV. 12 DION, Histoire de la vigne, p. 120, cita il passo di Plutarco, Symp., 3, 1, 10, per mostrare quanto il picatum, o vino con la pece della città di Vienne in Gallia, fosse apprezzato a Roma, e l’epigramma di Marziale, che promette ad uno dei suoi commensali di servirgli del vino impeciato di Vienne. Per quanto riguarda Columella, cfr. De agricoltura 1, Praef. 20, ed. H.B. Ash, I, London-Cambridge Mass. (The Loeb Classical Library), p. 16. 13 C. SVETONIO TRANQUILLO, Vitae Caesarum. Domitianus, 7, ed. H. Ailloud, III, Paris 1957 (Collections des Universités de France [CUF]), pp. 84-85. 14 22 PLINIO IL VECCHIO, Naturalis historia, 14, 4(2), 26-27, ed. J. André, XIV, Paris 1958 (CUF), p. 32: «Allobrogica frigidis (locis) gelu maturescens et colore nigra». gna pensare ad un incrocio tra una varietà selvatica ed una varietà coltivata ma, tuttavia, l’allobrogicum era destinato ad un grande successo in quanto apriva la strada all’espansione delle vigna verso regioni caratterizzate da un clima più rigido. Insieme all’allobrogicum, Plinio il Vecchio cita anche la vite biturica, alla quale dà un posto altrettanto importante. Senza dubbio si tratta di un vitigno, il cui nome proviene dal porto di Burdigala (Bordeaux), alla foce della Garonna, uno dei centri principali. Sembra che la biturica, importata a differenza dell’allobrogicum, fosse l’antenato del gruppo dei carmenets, di cui fanno parte il cabernet, il cabernet sauvignon, il merlot, il petit verdot, la carmenère e il sauvignon. Il cabernet verrà chiamato per lungo tempo verdure in francese antico e in guascone bit-durs, cioè vite dura, per le difficoltà che presentava durante la potatura15. I vigneti francesi medievali: l’eredità romana È un testo del 312, il panegirico di Costantino, che dà una prima idea sull’espansione della vite borgognona e permette di analizzare effettivamente una situazione che risale almeno ad un secolo prima. Nello stesso anno Costantino si recò in visita ad Autun, capitale del paese degli Edui, dove ascoltò un discorso di ringraziamento, composto da un discepolo del retore Eumenio, su richiesta dei cittadini. L’imperatore aveva appena accordato loro uno sgravio d’imposta ed ascoltava le lamentele degli abitanti riguardo alla loro condizione di povertà. Autun si trovava, dunque, in un territorio fertile. Sicuramente non c’erano vigneti intorno alla città, ma al pagus Arebrignus erano collegate le regioni di Beaune e di Nuits Saint Georges. Le parole utilizzate dal retore sono particolarmente significative: «Ed anche questo famoso pagus Arebrignus è lontano dal meritare la stima che gli si concede. Addossato, da un lato, a delle rocce e a delle foreste impraticabili, dove gli animali selvatici trovano dei rifugi sicuri, dall’altro domina una bassa pianura che si estende fino alla Saona. Certo, si dice che questa pianura un tempo fosse prospera, un tempo in cui la coltura veniva curata costantemente ed ognuno, sulla propria terra, manteneva liberi dagli ostacoli i fossati, assicurando lo scolo delle acque. Ma oggi, per effetto delle devastazioni, le condotte si sono ostruite e 15 Ibidem, 14, 4(2), 27, p. 32. Su questi vitigni cfr. DION, Histoire de la vigne, pp. 118-126, e LACHIVER, Vins, Vignes, p. 37; sulla concorrenza tra i vini d’Italia e i vini della Gallia, cfr. A. TCHERNIA, Le vin de l’Italie romaine. Essai d’histoire économique d’après les amphores, Rome 1986 (Collection de l’École française de Rome, 261). 23 queste terre basse, che altrimenti erano considerate essere le più feconde per la loro posizione, ritornano allo stato di pantani e di paludi. I vigneti, infine, questi vigneti ammirati solamente da coloro che ignorano il loro stato reale, sono talmente sfibrati dalla vecchiaia che sentono appena le cure che noi diamo loro. Le loro radici, delle quali non conosciamo più l’età, hanno formato, intrecciandosi, una massa che impedisce di scavare dei fossati alla profondità necessaria per cui, a causa di una copertura insufficiente, le propaggini delle viti sono esposte alle noie della pioggia ed ai raggi del sole che le bruciano. E noi non abbiamo qui il vantaggio, come in Aquitania ed in altre province, di poter trovare altro spazio necessario alla creazione di nuovi vigneti, rinchiusi come siamo tra le pietraie ininterrotte delle montagne e la pianura dove si teme il gelo»16. Di questo testo, ben conosciuto, conviene sicuramente considerare la parte legata alle circostanze e non prendere alla lettera le lamentele presentate dal retore. Sicuramente porta moltissime informazioni su ciò che era la viticoltura in Borgogna nel periodo del basso impero. I vigneti sono situati proprio sulle pendici delle colline davanti al sole che sorge, tra le alture rocciose e la pianura invasa dalla nebbia in autunno e in primavera, sottomesse al gelo durante l’inverno: il retore descrive delle viti «sfibrate dalla vecchiaia, le cui radici non hanno più età». Queste due frasi evocano evidentemente la propagginazione. Il vignaiolo piantava la sua vigna e, dopo qualche anno, scavava una fossa e nascondeva nella terra un ceppo lasciando che nascessero due o tre tralci: la vigna dunque non veniva ripiantata in quanto non veniva quasi mai più estirpata. Continuava così ad occupare lo stesso posto, pur riproducendosi per propagginazione per 20 o 30 anni. Le radici dei tralci nascosti nella terra formavano il groviglio descritto nel testo del retore e siccome i piedi erano aggrovigliati ed il lavoro non veniva fatto che con la zappa, non c’era il rischio che un aratro potesse dipanarlo. Ora gli abitanti di Autun dichiaravano che non era loro possibile fare dei fossati alla profondità desiderata, per cui i legni vecchi coperti dalla terra marcivano poco a poco e ad un certo punto il groviglio inestricabile di radici non era più in grado di moltiplicarsi. I mali di cui si lamentano gli abitanti di Autun derivano più che altro dalla mancanza di manutenzione, non avendo fatto le propaggini della vite nel tempo debito. Fin dal III secolo la città 16 24 Panegirico di Costantino, V, 6, 4-7, cit. dalla traduzione di Dion: v. il testo latino originale nell’edizione di R.A.B. MYNORS, XII panegyrici latini, Oxonii 1964 (Scriptorum classicorum Bibliotheca Oxoniensis), p. 179. di Autun aveva dovuto affrontare diversi problemi, nel 269 la città era stata saccheggiata ed i vigneti borgognoni avevano sofferto, in questo modo, dei mali i cui risultati si sarebbero resi palesi con la crisi del III secolo: calo demografico, terreni incolti, piantagioni trascurate, a tal punto che i vigneti borgognoni che si trovavano lungo l’asse Mosella - Saona - Rodano erano una facile via di penetrazione da parte degli invasori germanici. Leggendo il testo del retore ci si chiede quale sia stato il periodo di introduzione del vigneto borgognone. L’editto di Domiziano sembra essere rimasto in vigore durante la maggior parte del II secolo. Se gli abitanti della civitas di Autun hanno ottenuto da Roma l’autorizzazione a piantare le loro vigne, bisogna senza dubbio pensare che essa sia stata loro accordata non prima della fine del II secolo o all’inizio del III secolo, in quanto gli Antonini, che avevano offerto i loro favori alla città di Lione, non avevano sicuramente voluto ottemperarvi. I vigneti borgognoni si sono, dunque, sicuramente sviluppati nel corso del III secolo, durante un’epoca difficile, e gli abitanti di Autun avevano interesse ad insistere sul loro degrado per meritare la pietà imperiale. Nello stesso periodo, nel 291, gli abitanti di Treviri ringraziano l’imperatore Massimino per il diritto che ha loro concesso di piantare delle vigne che diano loro dei raccolti abbondanti17. I vigneti di Treviri sembrano essersi sviluppati contemporaneamente a quelli borgognoni, anche se il periodo di piantagione sembra essere leggermente posteriore, a metà del III secolo. Questi due tipi di vigneti, pertanto, pongono il problema del tipo di vitigno utilizzato per resistere al freddo. Senza dubbio si trattava di vitigni nati dal vigneto degli allobrogi, con l’allobrogicum, a partire dal quale sono state selezionate le piante idonee all’adattamento nelle regioni settentrionali. L’editto di Domiziano doveva essere abrogato dall’imperatore Probo, che concesse a tutte le città dell’impero il diritto di piantare vigneti18. In questo modo egli pensava alla riconoscenza degli abitanti, che avevano la possibilità di accedere ad una coltura remunerativa. Da allora la vigna poté guadagnare tutte le regioni ad ovest dell’asse Mosella, Reno, Saona, Rodano, così come quelle a nord di Bordeaux. I vigneti si estesero rapidamente e le testimonianze sulla loro presenza alle porte di Parigi all’epoca dell’imperatore Giuliano o nella valle della Senna non mancano19. Di fronte alla cupidigia dei barbari, gli imperatori tenta17 Panegirico di Massimiano, X, 6: «metendo et vendemiando deficimus» (cito dall’edizione inglese). 18 Historia Augusta. Probus, 18, 8, ed. F. Paschoud, V/2, Paris 2001 (CUF), p. 36. 19 LACHIVER, Vins, Vignes, pp. 42-43. 25 rono di impedire, alla fine del IV secolo, l’esportazione del vino a partire dalla Gallia e destinato al mondo germanico. L’espansione del vigneto ha sofferto, senza alcun dubbio, delle invasioni ‘barbariche’, senza però che gli invasori abbiano contribuito alla sua distruzione. L’eredità romana è stata molto importante per la diffusione della vigna in Gallia, anche se nelle regioni settentrionali è stato necessario aspettare la fine della dominazione romana perché potesse raggiungere regioni come il cuore del Massiccio Centrale, tanto che ne è testimonianza una lettera di Sidonio Apollinare al suo amico Aper: le montagne le fanno una cintura di pascoli alla loro sommità, alcuni vigneti si nascondono sulle collinette, delle cascine nei luoghi coltivati, dei castelli si ergono su delle rocce, scriveva l’aristocratico gallo-romano. Roger Dion ha formulato l’ipotesi che il vigneto descritto da Sidonio Apollinare dovesse trovarsi nella regione di Saint Pourçain e fu verosimilmente all’origine di un vigneto destinato a perpetuarsi fino ai nostri giorni ed a godere di una grande fama nel medioevo20. I vigneti che si sono sviluppati durante l’epoca romana si sono mantenuti nell’alto medioevo. Creazioni di altri vigneti si sono avute a partire dal VI secolo, per esempio nella valle della Loira. Il poeta Venanzio Fortunato ricorda le viti che il vescovo di Nantes pianta nell’Angiò21 e Gregorio di Tours ricorda le vigne della basilica di San Martino, che, secondo la leggenda, si presume abbiano dato origine alla piantagione del vigneto attorno a Tours. Egli racconta come un capo bretone, nel 587, dopo aver fatto la vendemmia trasportò il vino nella regione di Vannes22. Essendo crollata la dominazione romana, sono i signori ecclesiastici (vescovi ed abati) e laici a prendere in mano la viticoltura in seno ai regni merovingi. I vescovi, come anche gli abati, avevano bisogno del vino per la celebrazione della eucaristia e, in questo ambito, la religione cristiana contribuì largamente a conferire al vino il suo valore. Non ci sono vescovi o abati che non abbiano 20 SIDONIO APOLLINARE, Epistulae 4, 21, ed. A. Loyen, II, Paris 1970 (CUF), pp. 157-159. 21 VENANZIO FORTUNATO, Carmina, ed. F. Leo, MGH, Auctores antiquissimorum, IV/1, Berolini 1881, p. 118. 22 26 GREGORIO DI TOURS, Historia francorum, 9, 18 (ed. B. Krusch, W. Levison, MGH, Scriptores rerum merovingicarum, I/1,2, Hannoverae 1951, pp. 431-432): il capo bretone Waroch fa rimanere i suoi uomini nel territorio di Nantes per il periodo della vendemmia per poi rientrare a Vannes. Altri colpi di mano effettuati da capi bretoni nelle stesse condizioni vengono segnalati dal medesimo autore: 5, 31(I/1,1, pp. 236-237); 9, 24 (pp. 443-444). rivolto la propria attenzione al vino, tanto più che sia in città che nei monasteri il palazzo vescovile, come la residenza abbaziale, diventano luoghi di ospitalità. Il vescovo riceve i grandi che sono di passaggio e il monastero offre ospitalità ai poveri e ai viandanti. Il polittico di Saint Germain des Prés non manca di rilevare i vigneti di sua proprietà e Argenteuil, alle porte di Parigi, diventa il centro di una grande tenuta viticola, proprietà dell’abate di Saint Denis23. «Che i nostri amministratori si occupino delle nostre vigne, sollevandole dal loro ministero e le facciano rendere bene, che mettano il vino in contenitori di buona qualità e che prendano tutte le precauzioni perché non si guasti in alcun modo. Se bisogna comprare altro vino, che lo facciano comprare in un posto dal quale possano portarlo nelle nostre proprietà. E se il vino così comprato è in eccedenza, che ce lo sottopongano affinché noi prendiamo una decisione. Che riservino per il nostro uso il prodotto delle nostre viti. Che mettano nelle nostre dispense i redditi delle nostre proprietà che devono consegnare del vino»24. Questi estratti dal capitolare De villis di Carlo Magno sono significativi per quanto riguarda l’attenzione che sia l’imperatore che i grandi signori laici prestavano alla cura del vigneto, alla vendemmia ed al vino. Gli imperatori carolingi sono chiamati a spostarsi di palazzo in palazzo e vogliono disporre del vino nel luogo in cui soggiornano. I vigneti vengono piantati intorno ai palazzi imperiali o principeschi e ben presto il signore laico, che vede nel vino l’occasione per avere dei guadagni apprezzabili dalla sua commercializzazione, è portato ad introdurre il diritto di banvin, che gli dà il privilegio di poter smerciare prima di tutto il vino nuovo. I signori ecclesiastici non rimangono fermi riguardo al modo di smerciare il loro raccolto in eccesso. Spesso regna la speculazione nei periodo di penuria, tanto che Carlo Magno, col capitolare di Nimègue dell’806, condanna coloro che traggono profitto dai malesseri del tempo: «Tutti coloro che durante il periodo della mietitura e della vendemmia acquistano grano o vino senza necessità, ma con atteggiamento di cupidigia, commettono quello che noi consideriamo un profitto disonesto»25. Passate le invasioni normanne, senza che del resto ne abbia sofferto il vigneto, lo slancio monastico è legato in modo particolare a Cluny nei secoli X e XI ed alle creazioni dell’XI e 23 Polyptyque de l’abbeye de Saint Germain des Prés, a cura di A. Longnon, 2 voll., Paris 1886, passim. 24 Capitulare de villis, cap. 8, ed. A. Boretius, MGH, Leges, Capitularia regum francorum, I, Hannoverae 1881, p. 83. 25 Capitulare missorum Niumagae datum, cap. 17, ed. Boretius, p. 132. 27 XII secolo, di cui segnatamente Cîteaux non poteva che contribuire all’espansione dei propri vigneti, in un’epoca in cui la crescita demografica offriva mano d’opera utile all’impianto di nuovi vigneti. Lo slancio del vigneto nel XII e XIII secolo La situazione descritta dalla guerra dei vini di Henri d’Andeli corrisponde, per quanto riguarda l’estensione dei vigneti francesi nel medioevo, all’eredità venuta sia dall’epoca romana che da quella dell’alto medioevo. Si mantiene sicuramente per tutto il XIII secolo, addirittura fino alla crisi del XIV secolo, caratterizzata in modo particolare dalla peste nera. Di questi vigneti è possibile portare alla luce i tratti fondamentali. I proprietari che hanno incoraggiato e favorito lo slancio della viticoltura sono stati, per la maggior parte, sul versante laico i sovrani ed i principi, sul versante ecclesiastico i vescovi, gli abati e le comunità di canonici26. Del resto, gran parte degli storici ammettono che il XII secolo è stato decisivo per lo slancio della viticoltura, ma ancora bisogna precisare che questa impressione si fonda soprattutto sul fatto che i cartulari monastici, segnatamente per le abbazie cistercensi, rivelano chiaramente le creazioni dei vigneti. Il caso di Cîteaux in Borgogna è ben conosciuto, grazie a delle ricerche basate su una documentazione molto ricca presso gli archivi del dipartimento della Côte d’Or27. La pubblicazione del cartulario di Puligny ha rivelato come l’abbazia si sia interessata a sviluppare i propri domini viticoli di Saint Bris e di Chablis28. Ciò che gli abati cistercensi si impegnavano a creare era già stato realizzato da altri signori ecclesiastici, come per esempio il vescovo di Autun29. Ma i signori laici non la cedevano affatto a quelli ecclesiastici. Il duca di Borgogna possedeva dei vigneti a Pommard e sui vigneti che erano di sua proprietà all’inizio del XIV 26 R. DION, Viticulture ecclésiastique et viticulture princière au Moyen Age, «Revue historique», 212 (1954), pp. 1-22, ristampato in ID., Le paysage et la vigne. Essais de géographie historique, Paris 1990, pp. 245-270. 27 J. MARILLIER, Le vin de Cîteaux au XIIe siècle, «Mémoires de l’Académie des sciences, arts et belles lettres de Dijon», s.n. (1943-1946), pp. 267-272; B. BORELY, Les vignes et le vin de l’abbaye de Cîteaux, 10981780, Dijon 1997; A. LACANDRE, Les vignerons de Cîteaux dans la Côte de Beaune au Moyen Age, in Vins, vignes et vignerons en Bourgogne, pp. 95-102. 28 29 28 Le premier cartulaire de l’abbaye de Pontigny, a cura di M. Garrigues, Paris 1981. J. MADIGNIER, L’influence des institutions ecclésiastiques dans la constitution du vignoble bourguignon: l’exemple du chapitre d’Autun (XIe-XIVe siècle), in Vins, vignes et vignerons en Bourgogne, pp. 83-93. secolo, cinque risalivano al XII secolo30. Per quanto riguarda il duca bisogna aggiungere le tenute vinicole di Corton, Chenôve e Darny31. I vigneti in Borgogna subirono un incremento sicuramente intorno al XIII secolo, che, in alcuni casi, portò alla piantagione della vite su dei terreni meno favorevoli, come per esempio con i canonici di Saint Etienne di Dijon che lottizzarono 67 giornate di terra a Saint Apollinaire, alle porte di Digione, per piantarvi dei vigneti nel 125032. I vigneti raggiungono anche dei terreni pianeggianti nella regione di Pommard, destinati ad essere abbandonati successivamente. Comunque, Salimbene, da parte sua, di passaggio in Borgogna nel 1248, non nasconde la sua meraviglia davanti alla distesa di vigneti intorno ad Auxerre e Beaune33. Anche se i proprietari sono soprattutto dei grandi signori laici ed ecclesiastici, non sono sempre i soli a possedere delle vigne. Certamente le informazioni a questo riguardo sono meno abbondanti che per i grandi signori. Nella regione lionese, accanto ai grandi proprietari ecclesiastici e laici sta venendo a galla una proprietà borghese, ad esempio nel caso degli abitanti di Belleville che possiedono dei vigneti a Brouilly34. Ciò che colpisce particolarmente riguardo a questa proprietà borghese, chiamata a riprendersi nei secoli successivi, è la parte che spetta alla vigna per consolidare la loro ricchezza mobile ed immobile. Un vigneto come quello di Laon ha largamente contribuito alla prosperità della città, a tal punto che fin dal periodo carolingio la città era già considerata come una piattaforma girevole del commercio del vino35. Questa situazione era destinata a definirsi nel corso del XII secolo e la 30 J. RICHARD, Les ducs de Bourgogne et la formation du duché du XIe au milieu du XIVe siècle, Paris 1954 (rist. anast. Genève 1986), pp. 331-332. 31 RICHARD, Le vignoble et les vins en Bourgogne, p. 10, dove l’autore precisa, alla n. 8, che i torchi del vigneto di Chenôve, così come si presentano allo stato attuale, risalgono al secolo XV. 32 Chartes de l’abbaye Saint Etienne de Dijon de 1250 à 1260, a cura di G. Bloc, Dijon-Paris 1910, numeri 7 e 36. 33 SALIMBENE DE ADAM, Cronica, ed. O. Holder-Egger, MGH, Scriptores, 32, Hannoverae 1905-1913, p. 288: «et montes et valles vineis pleni sunt». 34 M.T. LORCIN, Le vignoble et les vignerons du Lyonnais aux XIVe et XVe siècles, in Le vin au Moyen Age: production et producteurs, Paris-Grenoble 1978, pp. 15-37; v. anche dello stesso autore Les campagnes de la région lyonnaise aux XIVe e XVe siècles, Lyon 1974, dove si citano numerosi esempi di borghesi lionesi proprietari di vigneti. 35 R. DOEHAERD, Laon, capitale du vin au XIIe siècle, «Annales E.S.C.» 5 (1950), pp. 145-165; ID., Sur la vigne. Au temps de Charlemagne et des Normands. Ce qu’on vendait et comment on le vendait dans le Bassin Parisien, «Annales E.S.C.» 29 (1974), pp. 266-280; A. SAINT DENIS, Apogée d’une cité. Laon et les Laonnois aux XIIe et XIIIe siècles, Nancy 1994. 29 30 La coltura viticola in Guascogna nel medioevo. I vigneti bordolesi nel XIII secolo. 31 carta comunale del 1128 dice che il possedimento dei vigneti è uno dei fattori che permettono ai borghesi della città di partecipare al governo comunale. Ciò che la Borgogna presenta come esempio di sviluppo della vigna, il Bordolese ce lo offre per il XIII secolo. I vini del Bordolese non avevano ancora che un posto secondario nel poema di Henri d’Andeli. Il commercio con l’Inghilterra non ha inizio che con la presa di La Rochelle da parte del re di Francia nel 1224. Lo spoglio dei cartolari di La Sauve Majeure, di Saint Seurin, di Sainte Croix e del capitolo di S. Andrea di Bordeaux aveva rivelato, fin dall’XI secolo, l’esistenza di un vigneto urbano e suburbano sulle graves della sponda sinistra della Garonna, un vigneto collinare in Blayais e in Bourgés sulla sponda destra della Garonna, che si estende progressivamente nel corso del secolo nell’Entre Deux Mers36. Il vigneto suburbano, particolarmente quello dell’Hôpital Saint Jean di Bordeaux, è andato sviluppandosi nella periferia occidentale della città. Allo stesso modo, nel Médoc, fin dal XII secolo si possono già trovare degli appezzamenti di vigneto e nel corso del XIII e XIV secolo si dà risalto alla qualità dei vini del terreno appartenente oggi allo Château Latour37. Ai vigneti di Bordeaux, dove si fa sentire l’azione dei principi, degli istituti ecclesiastici e dei borghesi, bisogna aggiungere i vini guasconi, la cui esportazione dipende sia dal porto di Bayonne che da quello di Bordeaux38, e gli abitanti di Tolosa, in un raggio relativamente corto, hanno favorito lo slancio dei vigneti suburbani, particolarmente lungo le vie che portano a Montauban o a Carcassonne, più spesso sulla sponda destra della Garonne39. Per quanto riguarda i vigneti di Bergerac, lungo la Dordogna, conosciuti tramite il cartulario di Notre Dame de Saintes grazie a delle donazioni fatte al priorato di Saint Sylvain de la Monzie, nella regione di Saussignac, si può dire che essi risalgono almeno all’XI secolo. Intorno a Bergerac, signori laici ed ecclesiastici hanno contribuito a valorizzare un vigneto la cui valle del fiume ha costituito l’asse fondamentale per la circolazione40. 36 CH.M. HIGOUNET, Pour une géographie du vignoble aquitain médiéval, in Le vin au Moyen Age, pp. 130-124, ristampato in ID., Villes, sociétés, pp. 371-384. 37 J.P. GARDERE, Le Médoc, sa vie, son œuvre, Bordeaux 1971; Ch. M. HIGOUNET, La seigneurie et le vignoble de Château Latour du XIVe au XXe siècle, Bordeaux 1974. 38 LACHIVER, Vins, vignes, p. 97. Esiste una strada dei Bayonnais a Bruges nel XIII secolo. 39 G. CASTER, Le vignoble suburbain de Toulouse au XIIIe siècle, in Hommage à Yves Renouard, «Annales du Midi», 78 (1966), pp. 201-217; M. MOUSNIER, La Gascogne toulousaine aux XIIe et XIIIe siècles: une dynamique spatiale et sociale, Toulouse 1997. 32 40 J. BEAUROY, Vin et société à Bergerac du Moyen Age aux temps modernes, Saratoga 1976. Che si tratti della Borgogna, del Bordelais o del sud-est, vengono a delinearsi tre grandi categorie di proprietari: i signori laici, i signori ecclesiastici – vescovi, abati e comunità di canonici – ed i borghesi abitanti delle città. L’azione dei borghesi si fa sentire soprattutto nelle periferie delle città, mentre quella dei signori laici ed ecclesiastici si riscontra soprattutto nelle campagne. Si vede bene come tutti hanno spinto verso lo sviluppo della viticoltura soprattutto nel XII e XIII secolo, periodo di grandi dissodamenti e della conquista di nuove terre. Una delle caratteristiche dominanti è che la vigna non è mai oggetto di grandi proprietà di un solo possidente riguardo al suo sfruttamento diretto. La valorizzazione avviene attraverso degli appezzamenti spesso dispersi, oggetto di uno sfruttamento indiretto da parte dei proprietari, che stipulano dei contratti con dei conduttori. Anche i terreni dei duchi di Borgogna della regione di Pommard vengono concessi a dei piccoli conduttori sotto il controllo degli amministratori. Il tipo di contratto più in uso è detto di piantagione, contratto di associazione tra proprietario e affittuario. Lo ritroviamo nella Francia occidentale, in Borgogna, nel Bordelais, nel Delfinato e in Provenza41. Il contratto prevede che il proprietario cede la terra ad un acquirente incaricato di lavorarla, o più precisamente di piantarla con alberi da frutto, olivi, noci e sicuramente viti. È il vigneto che ha dato il profitto più grande. L’acquirente ha il compito di dissodarlo, lavorarlo, concimarlo, piantarlo con vitigni e alberi. Tutto ciò che l’acquirente raccoglie nell’arco di cinque anni è suo. Se è vero che durante i primi tre anni non può sperare di ottenere un raccolto proveniente dalla vigna, almeno ha il profitto di una o due vendemmie, se il tempo è stato clemente. E d’altra parte è sempre possibile inserire delle colture intercalari tra i filari della vigna, ancora interamente a suo vantaggio. È alla fine dei cinque anni che si presenta il problema della spartizione del raccolto, sia in parti uguali – la metà della piantagione spettante all’acquirente a vita per sé e i suoi discendenti – sia per una durata vitalizia – l’altra metà spettante al locatore. Succede che quest’ultimo si riserva il diritto di prelazione se l’acquirente lascia la sua parte. In funzione della pressione esercitata dal locatore o dall’acquirente, talvolta il locatario lascia all’acquirente l’usofrutto della totalità del bene dietro il versamento di una parte del raccolto, in generale un quinto; altre volte l’acquirente ottiene solamente una parte esigua del raccolto. L’affitto è in principio perpetuo, infatti ha fine se la vigna deperisce o se l’acquirente la sottrae: la totalità della terra torna allora al locatario. 41 R. GRAND, Le contrat de complant, Paris 1917. 33 Delimitazione del territorio comunale 34 Curve di livello equidistanti 20 m. Vini a denominazione del luogo di produzione La diffusione della vite nei pressi di Clos de Vougeot. Vini denominati “Bourgogne” Il caso della perpetuità ha dovuto presentarsi spesso, poiché la vigna si rigenerava perpetuamente per propagginazione e quindi lo stesso terreno poteva continuare a farla crescere. Nei periodi di crescita demografica era facile trovare la mano d’opera necessaria all’estensione dei vigneti, tanto più che il consumo di vino era maggiore soprattutto nelle città del nord. Certamente è necessario essere cauti sulle cifre affermate, in quanto sono calcolate a partire dalle tasse di consumo sul vino e i dati demografici sono lontani dall’essere facilmente gestibili. Basti pensare alle cifre riguardanti la popolazione di Parigi, 80.000 o 200.000 abitanti secondo gli storici42. Sembra che i francesi abbiano bevuto molto vino nel medioevo. I grandi signori, a cominciare dal re, amavano il vino e se i borghesi, quelli di Laon o di Tolosa, hanno rivolto la loro attenzione a vigneti suburbani, era in gran parte per il loro consumo personale. Anche le regioni rurali, prive di sbocchi esterni, sono interessate alla viticoltura, base di una policoltura destinata ancora a durare nei secoli. Il vigneto della regione di Chartres ne è senza dubbio un buon esempio43. Per quanto ne sappiamo sull’alimentazione umana del XIII secolo, carne e vino dovevano avere un ruolo più importante che ai nostri giorni, tanto più che il vino è stato per lungo tempo considerato come un alimento più che come una bevanda44. La Regola di san Benedetto aveva già lasciato spazio al vino e i pasti dei monaci erano caratterizzati dalla presenza del vino in quantità sorprendenti. I monasteri e gli ospedali che accoglievano viandanti e pellegrini non mancavano di offrirne ai loro ospiti durante il loro soggiorno. Se il vino veniva consumato abbondantemente (a Bruges 100 litri a persona!), bisogna, comunque, dire che si trattava di un prodotto a ridotto contenuto 42 Gli storici hanno discusso a lungo, per esempio, sul numero degli abitanti di Parigi alla fine del XIII secolo, a partire dal famoso documento Etat des feux del 1328 e del Libres de tailles: v. a questo proposito i saggi di PH. DOLLINGER, Le chiffre de Paris au XIIIe siècle: 200.000 ou 80.000 habitants?, «Revue historique», 216 (1956), pp. 35-44, ripreso in ID., Pages d’histoire (France et Allemagne médiévales, Alsace), Strasbourg 1978, pp. 63-72, che conclude col far ammontare la popolazione a 80.000 abitanti; in opposizione a Dollinger, R. CAZELLES, La population de Paris avant la Peste Noire, «Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles Lettres», s.n. (1966), pp. 539-550, ipotizza il numero di 200.000 abitanti come un dato verosimile. Per i problemi di metodologia v. J. HEERS, Les limites des méthodes statistiques pour les recherches de démographie médiévale, «Annales de démographie historique, 5 (1968), pp. 4372, e R. FOSSIER, La démographie médiévale: problèmes de méthode (Xe-XIIIe siècle), «Annales de démographie historique», 12 (1975), pp. 143-165. 43 A. CHEDEVILLE, Chartres et ses campagnes (XIe-XIIIe siècle), Paris 1973. 44 J.L. FLANDRIN, M. MONTANARI, Cuisines médiévales, Paris 1996. 35 di alcool, senza dubbio da 7 a 8 gradi. Lo zuccheraggio, che avrebbe permesso di aumentare il grado alcolico aggiungendo dello zucchero al mosto, era allora sconosciuto. Eccitante conosciuto, con un prezzo accessibile, poteva essere bevuto a piene caraffe. Il vino prodotto si conservava male e finiva per deteriorarsi velocemente quando non era fatto a regola d’arte. La fermentazione dei mosti era controllata male, i fusti non erano lavati con cura, le botti mal riempite. Dunque il vino si ossidava, mal protetto contro il calore, in botti che non erano chiuse ermeticamente. Nel medioevo non esistevano vini invecchiati o vini da conservare. Il vino invecchiava velocemente, inacidiva e prendeva il gusto dell’aceto. Per questo un vino stagionato non aveva valore, soprattutto se aveva già due anni, salvo eccezioni. Al massimo i vini migliori, come quello di Chablis in Borgogna, si conservavano da cinque a sei anni45. Dunque bisognava eliminare il vino vecchio, soprattutto prima del nuovo raccolto. Vendere del vino vecchio spacciandolo per quello nuovo era addirittura considerato una frode passibile di sanzioni. Generalmente il vino vecchio era destinato ai domestici, ai mietitori o addirittura ai vendemmiatori. Venduto a basso prezzo, allungato una volta con l’acqua e ripassato sulla vinaccia, poteva essere consumato, anche se doveva avere un pizzicore più o meno gradevole. Questo vino, destinato così al consumo, proveniva da vitigni diversi. I nomi citati nei documenti ci portano, infatti, a dei vitigni ben conosciuti a giorni nostri. La consuetudine di Beauvaisis, redatta da Filippo de Beaumanoir nel 1283, indica il valore relativo dei vini forniti dai diversi vitigni della regione46. Il fromenteau dava un vino bianco: si trattava infatti del pinot grigio, con gli acini di un grigio rosato, che poteva essere vinificato in grigio o in bianco. In Borgogna viene denominato beurot e nelle Côtes de Toul auxerrois gris, senza dubbio per la sua provenienza dalla regione di Auxerre. È un vitigno che per tutto il medioevo ha goduto di una grande fama. Dopo il fromenteau, Beaumanoir cita il vin moreillons, vino derivato da un vitigno nero che non è altro che un pinot. Il termine morillons gli è stato dato nell’Île de France. Anche nei vigneti di Orlèans troviamo questo tipo di vitigno, qui chiamato auvergnat forse perché originario dei 45 M. BECET, Le vignoble de Chablis au Moyen Age, «Bulletin de la société des sciences historiques et naturelles de l’Yonne», 103 (1971), pp. 45-50. Il poeta Eustache Deschamps, citato da LACHIVER, Vin, vignes, p. 57, scriveva del vino di Chablis: «Avec des huîtres / Que le chablis est excellent / Je donnerai fortune et titres / Pour m’enivrer de ce vin blanc / Avec des Huîtres». 46 36 PH. DE BEAUMANOIR, Coutumes de Clermont en Beauvaisis, cap. 790, ed. A. Salmon, I, Paris 1900, p. 404. vigneti di Saint Pourçain, prima di essere importato nella regione orleanese. Successivamente Beaumanoir cita anche il vino gros noir ou de goet, che stima valere la metà del vino derivato dal fromenteau. Il gouais era un vitigno nero, ma ne esisteva anche uno bianco, di grande rendimento, resistente alle gelate primaverili. Dava un vino senza alcuna qualità e si trovava soprattutto nella regione parigina. È dunque normale che siano sopravvissuti i primi due vitigni, praticamente fino ai nostri giorni. Nella descrizione di Beaumanoir sono assenti i vitigni delle regioni del sud ovest, soprattutto il cabernet e quello della regione lionese, il gamay. Oltre al fromenteau, la Borgogna conosceva anche lo chardonnay, che dava un vino bianco di grande qualità, arrivato fino ai giorni nostri. È tuttavia certo che fin dalla fine del XIII secolo e nel XIV secolo, i vitigni di media qualità come il gamay in Borgogna e il gouais di Metz, sono preferiti dai vignaioli alla ricerca della quantità e non della qualità. Piantare un nuovo vigneto esigeva una preparazione accurata del terreno. La prima operazione consisteva spesso nel disboscarlo o renderlo coltivabile, poi bisognava procedere ad un’aratura in profondità prima di lavorare il terreno con la zappa e il bidente, talvolta tre o quattro volte all’anno, non dimenticando, tra l’altro, di sarchiare. Il lavoro era faticoso se si pensa che il terreno scelto era in una zona collinare, con un’esposizione preferibilmente ad est o a sud-est. Senza dubbio, se si crede a Michel Lachiver, era già conosciuta, senza saperlo, la legge di Lambert, secondo la quale la quantità di calore ricevuta da una superficie cambia non seguendo il valore dell’angolo, ma seguendo il valore del seno dell’angolo47. Di fatto, al levar del sole, i raggi che arrivano orizzontalmente non danno calore, ma con una pendenza di 20 o 30 gradi il calore ricevuto è equivalente alla metà del calore massimo ricevuto da quel versante nel momento in cui i raggi arrivano perpendicolarmente (seno 30° = 1/2; seno 90° = 1). Dunque il valore del seno dell’angolo aumenta più velocemente del valore dell’angolo, di qui il vantaggio di piantare un vigneto su un terreno in pendenza, in una zona collinare. La Borgogna, la Champagne, l’Alsazia nella zona collinare al di sotto dei Vosgi, le colline dell’Île de France o lungo il Rodano offrono le immagini più significative, ma mostrano anche il grande impegno degli uomini per piantare dei grandi vigneti. Inoltre, la scelta di una tale zona permette uno scolo facile delle acque. La costruzione di muretti era indispensabile per trattenere la terra. Ai bordi degli appezzamenti, addirittura dei numerosi terreni delle grandi pro47 LACHIVER, Vins, vignes, p. 47. 37 prietà, vengono eretti altri muretti. La preparazione di un vigneto implicava, così, un grosso spreco di energia e costringeva ad investire dei capitali il cui ammortizzamento non era assicurato che a medio termine. Quando il terreno era pronto, si poteva piantare il vigneto: veniva disposto in modo lineare, i filari erano spesso separati da circa mezzo metro, divisi l’uno dall’altro da buche nelle quali era nascosto il materiale organico destinato a dissodare ed arricchire il terreno. Venivano piantate delle semplici talee senza radici, formate dai tralci dell’anno precedente o portate. Non tutte le propaggini di vite riuscivano a prendere, così l’anno successivo era necessario sostituire quelle che non si erano radicate. La piantagione veniva effettuata in autunno o in primavera. La terra veniva riportata sui piedi in autunno per evitare il rigore dell’inverno e in primavera per proteggerli dalla grande calura estiva, che poteva farli seccare. Le giovani piante venivano fissate con dei legni a dei paletti o a dei puntelli verdi o secchi. La vigna esigeva dei lavori continui per tutto l’anno, come la vangatura, operazione ripetuta in maggio e agosto: il passaggio di un aratro tirato dai buoi nelle zone in pendenza era molto difficoltoso e aleatorio. In gennaio o febbraio, quando il tempo lo permetteva, si procedeva al taglio della vigna. I rami meno forti venivano eliminati e le piante invecchiate venivano rinnovate per propagginazione, i puntelli deteriorati venivano sostituiti e il terreno arricchito per lo più con concime organico. Dopo la potatura, in primavera, venivano sollevati i ceppi per assicurare un appoggio ai tralci, portatori di frutti. Aprile - maggio era il periodo della spollonatura, mediante l’eliminazione di rami senza frutto e in agosto c’era la sfogliatura, cioè la rimozione dei rami e delle foglie superflue, per consentire agli acini una buona esposizione per la maturazione e la circolazione di aria per combattere gli attacchi di butritis. Questi lavori tipici della vigna andavano ad aggiungersi a quelli legati alle altre coltivazioni intercalari o tipiche di altre colture di sfruttamento promiscuo. Un tale calendario poteva variare leggermente da un vigneto all’altro, ma i lavori erano sempre gli stessi. Il tempo della vendemmia, fine settembre-inizio ottobre, un po’ più precoce nelle regioni mediterranee, era un momento di forte attività umana. Veniva a coronare il lavoro del vignaiolo che vi trovava la propria ricompensa, visto che il vigneto era stato lavorato con cura e non aveva sofferto per i capricci del tempo. Il proprietario doveva esserne informato, in quanto doveva percepire una parte del raccolto, così da potersi spostare personalmente o delegare un suo rappre48 38 I contratti che legano proprietari e conduttori lo prevedono espressamente nella maggior parte delle regioni. sentante per poter controllare il raccolto48. Inoltre, bisognava aver preparato i recipienti, eventualmente averne acquistati di nuovi, bisognava lavare i tini, sistemare il locale dove doveva aver luogo la fermentazione. La vinificazione e la conservazione del vino si effettuavano in botti di doghe di legno legate con dei cerchi. Non è sorprendente che gli scavi archeologici sia in Borgogna che in altre regioni francesi non ci abbiano fornito resti, in quanto il legno si conserva molto male nel tempo. Tutt’al più conviene far riferimento alle fonti iconografiche per avere un esempio degli strumenti legati alla vinificazione e in uso nel medioevo49. La raccolta dell’uva veniva fatta con l’aiuto di cestini e di canestri. I grappoli erano poi trasportati verso i tini e nel torchio. Qui venivano prima schiacciati nei tini con i piedi (il grappolo veniva ‘pigiato’), operazione destinata a prolungarsi in Borgogna fino all’inizio del XX secolo, poi venivano spremuti prima di finire nelle botti e di essere depositati nelle dispense signorili. Il capitolo di Autun, che possedeva un insieme di vigneti in Borgogna, ad Aloxe (una trentina di ettari), a Sampigny (una dozzina di ettari), a Chenôve (9,5 ettari), a Meloisey (cinque ettari), oltre a delle proprietà di minore importanza, a Pernand, Echevronne, Baubigny, faceva effettuare la pressatura, la vinificazione e la conservazione dei vini in alcuni edifici di proprietà del capitolo su ogni terreno vinicolo. Qui erano depositati torchi, tini, piccoli vasi e botti. Ad Aloxe, dove si trovavano tre edifici, una casa e due fienili con due torchi, vi erano una dispensa ed una cantina in grado di contenere cinque grandi tini da 100 moggi, sei piccoli tini da 72 moggi e numerose botti. All’inizio del XIII secolo la spremitura e la vinificazione venivano effettuate su tutte le proprietà vinicole, ma alla fine del secolo i canonici dovettero ricorrere ad una mano d’opera pagata e le vigne erano ormai in regime di sfruttamento indiretto, con delle rendite fisse pari ad un terzo o alla metà del prodotto a Chenôve e addirittura ad un quarto del prodotto a Baubigny. I vini erano conservati nelle dispense, nelle cantine o nei granai di ogni proprietà locale, prima di essere portati nei luoghi di raccolta: i vini di Meursault a Sampigny, quelli di Echevronne ad Aloxe per uno stoccaggio provvisorio, prima di raggiungere Autun grazie a delle corvee di carreggio, alle quali erano assoggettati i fittavoli di Sampigny, di Perreuil e di Auxy. I vini venivano quindi depositati ad Autun nelle dispense e nelle cantine vicino agli edifici del capitolo. La dispensa misurava 22 m di lunghezza per 10 di larghezza, 49 Sarebbe indispensabile compilare un inventario delle fonti iconografiche riguardante la viticoltura sul territorio francese. 39 Le tenute viticole del capitolo di Autun nel XIII secolo. Possedimenti maggiori organizzati intorno a delle chiusure. Possedimenti secondari costituiti di vigne sparse. 40 coperta da due volte ogivali affiancate che si appoggiavano su due pesanti pilastri circolari. Sul chiostro si apriva una grande porta per permettere il passaggio delle botti50. Del resto, nei conti del capitolo si fa riferimento al personale preposto alla dispensa: manovratori per le operazioni di scarico delle botti, magazzinieri addetti alla misurazione. L’organizzazione del capitolo di Autun poteva ripetersi per molti altri possedimenti ecclesiastici o laici, quali Cîteaux o il duca di Borgogna51, come anche nel Bordelais52. Il commercio del vino tra XII e XIII secolo Il vino del capitolo di Autun era in gran parte destinato al consumo quotidiano del capitolo stesso e del personale dipendente. Ma il vino non era sempre consumato sul posto ed era oggetto di commercio a lunga distanza. Data la fragilità del prodotto, il trasporto via terra non poteva essere preso in considerazione che per brevi distanze. Veniva quindi privilegiato il trasporto via acqua, come è ben dimostrato dalla dislocazione dei terreni che abbiamo descritto. Gli affluenti della Senna, Marne e Yonne, l’asse Mosella, Reno, Saona e Rodano sono i fiumi attraverso i quali vengono effettuati i trasporti più importanti di vino. È necessario stupirsi del fatto che gli spostamenti siano avvenuti dal sud verso il nord? Basti pensare che i paesi nordici, come la bassa valle del Reno, la Germania settentrionale o i Paesi Bassi, non potevano permettersi una produzione vinicola di qualità. Dunque i principi, gli abati e i borghesi preferivano rivolgersi alle zone dalle quali potevano far pervenire un prodotto di lusso, poiché i ceti più umili di queste regioni si rivolgevano verso la cervogia. Le tariffe di teloneo lungo il Reno, a Coblenza, a Colonia, fanno riferimento al vino proveniente dalla Lorena o dal50 Cfr. il saggio citato sopra, alla n. 29, pp. 86 e 89. 51 Per Cîteaux cfr. sopra, la n. 27, e per i duchi di Borgogna la n. 31. 52 Higounet aveva avviato un progetto per i vigneti dell’Aquitania: gli studi hanno chiarito soprattutto la localizzazione dei principali vigneti e la commercializzazione dei vini aquitani. Resta ancora da approfondire, come nel caso della Borgogna, l’organizzazione dei grandi terreni viticoli laici ed ecclesiastici. 53 Higounet conta 19 pedaggi sul Reno nel tratto da Bingen a Coblenza, dove erano riscossi dei diritti sul traffico del vino proveniente dalla Lorena e dall’Alsazia: Cologne et Bordeaux, marchés du vin au Moyen Age, «Revue historique de Bordeaux et du département de la Gironde», s.n. (1968), pp. 65-79, rist. in ID., Vins, sociétés, pp. 395-406. 41 l’Alsazia attraverso la Mosella e il Reno53. La direzione del traffico del vino, dai vigneti della Francia settentrionale, può sicuramente sembrare curiosa, ma non bisogna dimenticare che i paesi mediterranei, come l’Italia e la Spagna, hanno una produzione vinicola locale e i vini della Linguadoca o della Provenza dispongono di una zona di diffusione piuttosto limitata per via della concorrenza e della difficoltà di consegna sui grandi mercati di consumo, anche a partire dai porti di Montpellier e di Marsiglia54. La risalita del Rodano è molto difficoltosa a causa della pendenza del fiume, che provoca una corrente difficile da affrontare da parte delle navi. Il trasporto del vino attraverso diversi fiumi, Mosella e Reno, la Senna e i suoi affluenti, addirittura la Loira o la Garonna, si raddoppia grazie al trasporto marittimo, per il quale il porto di La Rochelle gioca un ruolo fondamentale nel corso del XIII secolo, anche se nel 1224 entra in gioco la concorrenza da parte di Bordeaux. Intorno al porto si sviluppano i vigneti di Aunis55. Dall’Inghilterra e dalle Fiandre proveniva una grossa domanda, soprattutto di vini bianchi. È risaputo che delle navi inglesi e fiamminghe, addirittura provenienti dalla Germania settentrionale, frequentavano le coste tra la Loira e la Gironda alla ricerca di sale, dalla Baia di Bourgneuf all’Île d’Aix. Oléron offriva a queste navi un porto sicuro. Fino al XII secolo, inglesi e fiamminghi si erano accontentati di vini acidi che venivano loro forniti dalle regioni settentrionali francesi, dopo il bacino parigino e la Piccardia. Tuttavia il raccolto era irregolare e i prezzi subivano delle variazioni più o meno impreviste. Inglesi e fiamminghi, alla ricerca di una nuova fonte di approvvigionamento, hanno saputo cogliere i vantaggi che poteva dare alla viticoltura la regione dell’Aunis. Quindi, nel XIII secolo, fecero il loro ingresso delle navi più grandi di quelle utilizzate nell’alto medioevo, navi e kogges, con un equipaggio di una trentina di uomini ed un timone assiale. Ciò nonostante, essi non potevano risalire il fiume in quanto il loro pescaggio era 54 Le quantità di vino provenienti dalla Linguadoca e dalla Provenza attraverso i due porti di Montpellier e di Marsiglia, come sui porti mediterranei secondari, erano caratterizzate da una modesta commercializzazione. 55 42 P. BOISSONNADE, La Renaissance et l’essor de la vie et du commerce maritimes en Poitou, Aunis et Saintonge du Xe au XVe siècle, Poitiers-Paris 1924; DION, Les origines de La Rochelle, pp. 29-50; H. PIRENNE, Un grand commerce d’exportation au Moyen Age: les vins de France, «Annales d’histoire économique et sociale», 5 (1933), pp. 225-243; J. CRAEYBEKX, Un grand marché d’importation: les vins de France aux anciens Pays Bas (XIIIe-XVIe siècle), Paris 1958. Questi ultimi due autori danno grande rilievo al commercio di vino tra i due porti dell’Aunis e della Saintonge verso i Paesi Bassi; Pirenne sottolinea il ruolo delle navi che trasportavano il vino grazie ai Rôles d’Oléron. troppo importante. Essi necessitavano di apparecchiature marittime accessibili, con delle banchine per l’attracco. Già i fiamminghi avevano provveduto ad equipaggiare l’avamporto di Bruges, Damme, nel 1180. Sulle coste francesi nessun porto era in grado di accogliere queste nuove navi, salvo quello di Chatelaillon, a sud di La Rochelle. Il signore di La Rochelle si era impadronito dell’Île d’Aix, ma era vassallo del conte di Poitiers, che conquistò la città e il porto nel 1130. Ordunque Guglielmo X, conte di Poitiers, voleva disporre del suo porto per il mercato del Poitou, così ha avuto inizio la sistemazione di un porto a La Rochelle. Nel 1190 la preparazione del porto fu terminata e le grosse navi del nord poterono attraccare. La Rochelle, trovandosi sul mare, era situata meglio di Bordeaux, in fondo ad un estuario pericoloso per la navigazione. Quella regione era già conosciuta dai marinai fiamminghi e inglesi che venivano a cercare il sale. La guerra dei vini di Henri d’Andeli riserva un posto di qualità ai vini dell’Aunis e del Poitou, apprezzati addirittura in Inghilterra. Sarebbero stati necessari due vitigni per assicurare la reputazione di questi vini, la blanche chenière, senza dubbio simile allo chenin angioino che dava del vino bianco, e lo chauche, varietà di pinot nero per la produzione di vini rossi, quest’ultimo vitigno ci ricorda il fromenteau e il morillon delle regioni francesi a nord della Loira. Il successo dei vigneti legati al porto di La Rochelle dovette essere veloce e le navi inglesi e fiamminghe, presto anseatiche, lo avrebbero fatto conoscere anche a Bruges e a Londra. La fama dei vini esportati da La Rochelle durerà per tutto il XIII secolo, anche dopo aver subito la concorrenza di Bordeaux nel 1224. I mercanti bordolesi seppero far valere i loro interessi presso il re d’Inghilterra: «Per quel che ci riguarda, noi siamo decisi a resistere ai nemici del re d’Inghilterra ed a conservare per lui la nostra fedeltà. Noi fortificheremo Bordeaux con tutti i nostri mezzi. (...) Tutte queste necessità, tutti questi problemi, noi li subiamo con l’atteggiamento che esige il bene pubblico. Si tratta di difendere Bordeaux, la città del nostro signore, il re d’Inghilterra, che noi serviremo sempre fedelmente per tutta la nostra vita»56. I mercanti bordolesi avevano saputo cogliere l’occasione e fin dal 1224 dalla Guascogna i vini si dirigevano verso l’Inghilterra, che si era chiusa alle navi provenienti da La Rochelle. I vini bordolesi e guasconi conquistarono la terra inglese. Tra La Rochelle e Bordeaux si era in qualche modo creata una linea di separazione. Le navi fiamminghe e anseatiche venivano a La Rochelle per cercare il vino del Poitou e dell’Aunis per distri56 Cit. da LACHIVER, Vins, vignes, p. 95. 43 44 Le vigne d’Aunis. buirlo a Bruges e addirittura fino a Lubecca, e gli inglesi attraccavano a Bordeaux per prendervi i vini bordolesi e guasconi. I vignaioli guasconi e bordolesi seppero adattarsi al gusto inglese e produssero dei vini bianchi che, secondo Salimbene, venivano bevuti puri, mentre nel medioevo vi era l’usanza di berli mescolati all’acqua57. A Cîteaux, il vino che veniva distribuito sulla tavola dei monaci, vino di grande qualità, conteneva in proporzione il 20% di acqua58. Comunque sia il Bordolese, regione del sud ovest francese, valle della Garonna e dei suoi affluenti, trovò uno sbocco importante con il mercato inglese. Il XIII secolo ha segnato, in Francia, un’epoca di esplosione urbana. Nei centri cittadini si consumava molto vino, in particolar modo a Parigi, capitale amministrativa del regno con Filippo Augusto, con un’attività artigianale brulicante e, si potrebbe dire, capitale intellettuale della cristianità con la sua famosa università. Grazie alla Senna ed ai suoi affluenti, Parigi dispone di un retroterra vinicolo di prim’ordine, sia che si tratti di vini consumati nelle taverne o di vini ricercati dalla corte reale o dai borghesi. La Lega dei Mercanti d’Acqua (Hanse des Marchands de l’Eau) che controlla il traffico fluviale è composta prima di tutto dai negozianti che lavorano nel mercato del vino, che riguarda il transito del vino sia in direzione della Normandia, di Rouen e dell’Inghilterra, che verso le regioni del nord attraverso l’Oise59. Certamente attorno alla capitale ci sono anche i vigneti dell’abbazia di Saint Germain des Prés a sud, quelli dell’abbazia di Saint Denis sulle colline di Montmartre , Belleville, Charonne, Montmorency, Cormeilles en Parisis. Ad ovest, lungo la Senna, dal Pecq a Mantes, le rive del fiume sono bordate da vigneti, dove vengono a far rifornimento le abbazie della Normandia (Jumièges, Saint Wandrille, Fécamp, Le Bec-Hallouin). Le vigne hanno invaso le pendici della montagna di Sainte Geneviève ed i villaggi suburbani, 57 SALIMBENE, Cronica, p. 220. 58 RICHARD, Le vignoble, p. 17. 59 La capitale era rifornita direttamente dai vigneti che si trovavano intorno ad essa stessa, cfr. G. FOURQUIN, Les campagnes de la région parisienne à la fin du Moyen Age (du début XIIIe au début XVIe siècle), Paris 1964, e l’opera La vigne et le vin en Ile de France, Paris 1984. Sulla Hanse e il traffico di vino sulla Senna, si v. A. PICARDA, Les marchands de l’eau. Hanse et compagnie française, Paris 1901, e A. SADOURNY, Les transports sur la Seine et aux XIIIe et XIVe siècles, in Les transports au Moyen Age, «Annales de Bretagne et des pays de l’Ouest», 85 (1978), pp. 231-244, e segnatamente per il vino le pp. 239-241. Nel porto di Parigi transitavano dei vini che prendevano la direzione di Rouen attraverso l’estuario della Senna, i Paesi Bassi e la Germania settentrionale: e M. MOLLAT, Le commerce maritime normand à la fin du Moyen Age, Paris 1952, e R. SPRANDEL, Die wirtschaftlichen Beziehungen zwischen Paris und den Sprachraum im Mittelalter, «Vierteljahrschrift für sozial- und Wirtschaftsgeschichte», 49 (1962), pp. 289-369. 45 come Ivry, Vaugirard, Meudon o Vanves, hanno i loro propri vigneti. Tali vigneti, comunque, non sono sufficienti a soddisfare le esigenze di una popolazione che non ha smesso di crescere per tutto il secolo, al punto di fare di Parigi la città più importante del mondo cristiano occidentale. Sono dunque i vini dei vigneti di Beauvais, Laon, Soissons, che raggiungono la capitale attraverso la valle dell’Oise. Ma i vigneti che riforniscono in modo particolare il mercato parigino passano per la valle della Marna e dei fiumi della Champagne e, soprattutto, per la valle dell’Yonne e la Senna dalla Borgogna, Auxerre e Chablis60. Certamente ancora non si tratta dei vini detti della Champagne per quelli che provengono dalla regione di Reims o Epernay, questi sono ancora compresi tra i ‘vini francesi’, i vini dell’Île de France; essi arrivavano, ad esempio, a Londra con questo nome e transitavano per il porto di Rouen. Nelle valli dell’Yonne e dei suoi affluenti, il Serein e l’Armançon, si concentra la produzione dei vini ‘borgognoni’, che vengono importati nel porto di Parigi. Da Cravant a Auxerre, senza parlare di una reale monocoltura, si estendono le vigne che hanno suscitato l’ammirazione di Salimbene, che amava il vino bianco prodotto in questa regione, «un vino bianco, a volte dorato, che ha aroma e corpo, un sapore raffinato e generoso e che riempie il cuore di una gioiosa certezza»61. È lungo il Serein che matura l’uva che dà origine al vino di Chablis, su un terreno marnoso, che si presta bene alla viticoltura e che ha permesso la produzione di un vino bianco di altissima qualità fino ai giorni nostri62. Quest’ultimo vino aveva il vantaggio di potersi conservare per molto tempo. Non è senza ragione che Henri d’Andeli può vantare come vini borgognoni quelli di Auxerre, Chablis e Tonnerre, mentre il vino di Beaune non merita ancora la qualificazione di vino di Borgogna, definito nel poema come ‘vino di Beaune’. Nel XIII secolo il vino di Beaune raggiunge i mercati settentrionali, passando per il porto di Parigi o per la valle della Saona, in direzione della Mosa per poi raggiungere i Paesi Bassi63. Così ha inizio un commercio del vino sia in direzione di Parigi che dei mercati settentrionali, grazie ai vigneti destinati a diffondersi largamente nei secoli successivi. 60 Cfr. sopra, la n. 8. 61 SALIMBENE, Cronica, p. 218: «Nota similiter quod vina Altisiodori sunt alba et aliquando aurea et odorifera et confortativa et magis et boni saporis et omnem bibentem in securitatem et iocunditatem inducunt atque convertunt». 62 63 46 Cfr. sopra, la n. 45. H. DUBOIS, Les foires de Chalon et le commerce dans la vallée de la Saône à la fin du Moyen Age (vers 1280 vers 1430), Paris 1975, dà delle indicazioni importanti sull’esportazione del vino di Beaune. Destino dei vigneti francesi nel basso medioevo La produzione ed il commercio del vino sono rimasti in piena attività fino alla crisi della fine del medioevo. Prima di tutto, la peste sorprende gli uomini, che non erano più abituati a vivere a suo contatto. Essa dimezza la popolazione in proporzioni considerevoli. Gli storici continuano a discutere per conoscere il tasso reale di mortalità dovuto a questa epidemia. Il dramma è dovuto soprattutto al ripetersi delle epidemie, impedendo così la ricostituzione della popolazione. Il dinamismo demografico è spezzato. Non ci sono più braccia per lavorare le vigne, che in molte regioni deperiscono proprio per la mancanza di attenzioni. Il vino non è un prodotto che continua ad essere apprezzato dagli uomini. Addirittura, la guerra che distrugge una parte del territorio francese è spesso sfociata nella distruzione dei vigneti, scoraggiando la loro ricostruzione: Robert Boutruche ha tracciato un quadro di questa situazione facendo riferimento alle regioni a sud-ovest del regno64 e Guy Bois ha insistito particolarmente sul disastro demografico verificatosi in Normandia, parlando addirittura di un effetto Hiroshima, per quanto riguarda il calo demografico65. È vero che questo autore ha preso in esame soprattutto le campagne, mentre dei lavori recenti hanno dimostrato che Rouen, ad esempio, aveva saputo concentrare in seno alla città una certa attività commerciale ed artigianale66. ‘L’autunno del medioevo’ non è stato certo favorevole allo sviluppo della viticoltura, salvo che in alcune regioni privilegiate sul piano commerciale. L’autore più recente della storia della viticoltura francese ha creduto di poter dire che il basso medioevo è stato l’epoca dello slancio dei vigneti situati nelle zone atlantiche, mentre il periodo che va dal XII al XIII secolo era stato contrassegnato dallo sviluppo dei vigneti situati nelle regioni settentrionali67. Senza dubbio è opportuno sfumare questa visione. Sicuramente un tempo i vigneti bordolesi hanno conosciuto una grande prosperità nella prima metà del XIV 64 R. BOUTRUCHE, La crise d’une société. Seigneurs et paysans du Bordelais pendant la guerre des Cent Ans, Paris 1947. 65 G. BOIS, Crise du féodalisme, Paris 1976. 66 PH. LARDIN, Les chantiers du bâtiment en Normandie orientale (XIVe-XVIe siècles). Les matériaux et les hommes, 2 voll., Lille 1995, corregge il quadro pessimista e catastrofico di Bois per la città di Rouen. 67 LACHIVER, Vins, vignes, pp. 111-178, che include il XVI secolo in questo capitolo e ciò da una visione generale errata per la fine del medioevo. 47 secolo. Un testo trecentesco, contemporaneo alla presenza del papato ad Avignone, la Disputa del vino e dell’acqua, che può essere paragonato a quello di Henri d’Andeli, dimostra che nel XIV secolo l’immagine dei vigneti francesi si è in qualche modo stabilizzata e non è affatto diversa da quella del XIII secolo68. È significativo il fatto che laddove Henri d’Andeli metteva in primo piano dei vini come quelli di Aunis e di Saintonge, ciò è confermato nel XIV secolo, anche se il primo posto viene loro conteso dai vini di Borgogna, di Auxerre e di Beaune, ma, riconosce l’autore della Disputa, il vino di Auxerre invecchia male. Le tendenze che si erano accumulate nel XIII secolo non sono state realmente stravolte e le grandi linee del traffico commerciale non hanno fatto che confermare la superiorità di alcuni grandi vigneti a scapito di quelli di qualità inferiore, alcuni destinati addirittura a scomparire laddove le condizioni fisiche ed economiche erano sfavorevoli e cioè a nord della Senna e ad ovest del regno. Due grandi vigneti si sono sottratti all’avvento della peste nera, quanto alla qualità dei loro prodotti ed al loro dinamismo per l’esportazione dei propri vini: la Borgogna e il Bordolese. Tuttavia è innegabile che la Borgogna abbia subito gli effetti della peste nera, come è dimostrato dall’aumento dei salari legato ad una certa penuria di mano d’opera, sia nelle regioni di Beaune, Corton, Volnay che in quella di Chablis, ma bisogna anche osservare che le ordinanze reali sono arrivate a soffocare questo aumento dei salari dopo il 1350. Ma il problema della carenza di mano d’opera aveva cominciato a farsi sentire già alla vigilia della grande epidemia del 1348. Gli effetti dell’epidemia si fecero sentire più profondamente con il suo ritorno, nel 1361, piuttosto che nello stesso 1348. La regione borgognona, nel periodo in cui aveva legami commerciali con il mercato parigino, ha beneficiato, in questo periodo di fine medioevo, di due atouts fondamentali: da una parte l’ascesa di una dinastia ducale a capo di un principato che univa i Paesi Bassi del nord con il ducato primitivo, grazie al matrimonio del duca Filippo l’Ardito con l’ereditiera della contea delle Fiandre, Margherita, dominazione estesa dalle Fiandre alla Zelanda, Olanda, Brabante, Gueldre e Lussemburgo, da una parte; d’altra parte, gli stretti legami che il papato installato ad Avignone poté intrattenere con i vigneti borgognoni attraverso l’asse Saona-Rodano, almeno fino al periodo del grande scisma. 68 48 Il testo della Desputaison du vin et de l’ieaue è stato pubblicato da A. Jubinal, Nouveau recueil de chansons, I, Paris 1839, pp. 293-311. Sviluppo della Borgogna sotto il granducato Il duca di Borgogna era già proprietario di un vasto dominio viticolo fin dal XIII secolo, consolidato ed affermato nei secoli XIV e XV. La sua corte, stabilita a Bruges all’epoca del duca Filippo il Buono, era una grande consumatrice di vini originari sia della Borgogna che della regione di La Rochelle, poiché Bruges era rimasta un grande porto dove continuava ad affluire il vino del Poitou e di Saintonge. La proprietà viticola del duca comprendeva circa 180 ettari, di cui un centinaio sulle colline della Saona a Pontailler, i paesi settentrionali dell’Auxois (Avallon, Montbard, Montréal, Semur), La Montagne (Aisey le Duc, Selmaise, Villaines en Duesmois, Villiers le Duc) e il Dijonnais (Saulx le Duc). Il resto delle proprietà si concentrava in vasti campi a Talant e Chenôve, alle porte di Digione, Beaune, Pommard e Volnay. Filippo l’Ardito aveva rivolto il proprio interesse soprattutto a queste grandi proprietà, accontentandosi di far sfruttare in terre affittate a canoni 2/3 dei vigneti delle terre alte69. Nel 1380 acquistò la proprietà di Germolles (400 ouvrées su 17 ettari), trasformando la casa che dominava il vigneto in una sontuosa residenza per Margherita delle Fiandre70. Dai conti ducali si evince come i duchi avevano cura degli edifici legati a questi terreni e, del resto, i responsabili delle opere murarie, delle dispense, del corpo dei coppieri, erano incaricati di vigilare sulla loro amministrazione generale, facendo rispettare i loro ordini ai «responsabili dei vigneti e dei torchi». Da queste terre nascevano dei vini di qualità, con un rendimento che variava da 7 a 15 ettolitri per ettaro: vini verdelz (ottenuti da vendemmie precoci), vini paglierini e vini galanz (vini cotti), ma spesso si facevano anche delle misture. Se i vini ‘piccoli e deboli’, addirittura aciduli, non mancavano, i migliori erano riservati al duca e alla sua corte. Una parte di questi arrivava fino a Parigi, Arras o Douai, senza dimenticare di farne consegnare ai membri della famiglia ducale, al re di Francia o al duca di Berry. Gli ospiti importanti del duca non ne sono che onorati. Altra grande destinazione del vino di Borgogna, sia quello dei vigneti ducali che quello del monastero di Cîteaux, fu la Corte pontificia di Avignone71. Se un 69 P. BECK, Les clos du prince. Recherches sur les établissements viti-vinicoles ducaux, in Vignes, vins et vignerons, pp. 103-116. 70 Ibidem, p. 106. 71 Y. RENOUARD, La consommation des grands vins du Bordonnais et de Bourgogne à la cour pontificale d’Avignon, «Annales de Bourgogne», 24 (1952), pp. 221-244. 49 tempo, all’inizio del loro soggiorno ad Avignone, i papi e i cardinali hanno apprezzato il vino di Saint Pourçain, così come dice anche la Disputaison: Alla corte del papa e di Francia Tra tutti i vini, io ho importanza, il suo successo fu, in seguito, eclissato dai vini di Beaune, presenti alla corte pontificia fino al 1403. La ragione per cui i papi hanno preferito il vino di Beaune sta nel fatto che il vino di Saint Pourçain arrivava ad Avignone ad un prezzo triplicato rispetto alla produzione, mentre il vino di Beaune, a parità di prezzo alla partenza, non faceva che raddoppiare il suo costo all’arrivo ad Avignone. In effetti il vino di Saint Pourçain doveva essere trasportato tramite carreggio fino a Chalon sur Saône per 175 Km, passando per Digoin e La Fresne. Ogni carro trasportava un fusto di vino di 400 litri circa, ma bisognava attraversare l’Allier, la Loira e la Bourbince su dei traghetti, per cui era necessario rafforzare i cerchi delle botti e colmarle. Quindi bisognava organizzare dei convogli di 10 o 20 carri circondati da carrettieri, da servi e da un bottaio per la sorveglianza e le riparazioni urgenti alle botti. Il prezzo d’acquisto si era già raddoppiato quando il vino arrivava a Chalon sur Saône. Il vino di Beaune, che raggiungeva anch’esso il fiume, non vedeva che aumentare del 10 o 15% il suo prezzo. Era ovvio che il vino di Saint Pourçain non potesse sopportare la concorrenza del vino di Beaune per rifornire le cantine pontificie avignonesi. Il trasporto via acqua si rivelava più economico e favoriva i vigneti prossimi al grande asse fluviale Saona-Rodano, anche se i pedaggi non erano trascurabili quanto al prezzo di costo della merce trasportata. Questo vino (di Beaune) il papa ha tanto amato Che la benedizione gli ha dato E il suo affetto gli ha accordato. Questi versi possono far pensare che il vino di Beaune, «che non è troppo rosso, né troppo pallido», diceva Henri d’Andeli, è stato preferito da papi e cardinali, ma in realtà, era il meno caro fra tutti i vini di qualità presenti sul mercato. Forse per vanità o forse perché vi erano rimasti affezionati al punto che Petrarca poteva scrivere: «Li ho sentiti dire, a volte, che non c’era vino di Beaune in Italia»72. Questa maldicenza del grande poeta italiano era dovuta al suo dispiacere per la ‘catti72 50 Petrarca non aveva una grande opinione della corte pontificia di Avignone e considerava la città come la Babilonia moderna, come dimostra la sua corrispondenza ai familiari: v. in particolare le let- vità’ del papato ad Avignone ed auspicava il suo ritorno a Roma. È altrettanto vero che il duca di Borgogna si era premurato di far consegnare alla corte del Santo Padre nel 1370, all’epoca del ritorno di Gregorio XI ad Avignone, dopo il mancato ritorno del papato a Roma, circa 170 ettolitri di vino delle sue proprietà, «per donarle e presentarle al nostro Santo Padre il papa»73. Che i vini borgognoni siano stati favoriti dalle vie d’acqua per la loro esportazione lo rivelano i favori reali di cui hanno beneficiato sul mercato parigino e particolarmente alla tavola reale. Del resto il vino faceva parte delle usanze diplomatiche dei grandi duchi d’occidente al tempo del loro splendore. Quando nel 1375 il duca Filippo l’Ardito si preparava ad incontrare a Bourges i rappresentanti del re d’Inghilterra e del papa per cercare di ristabilire la pace in Occidente, non esitò ad inviare loro 25 ettolitri di vino di pinot rosso74. Dal canto loro gli scabini di Auxerre gli offrirono nel 1377 un vino di pinot in occasione della sua visita75. Nel momento in cui si impone il termine di pinot per definire il vitigno e il vino, diventa normale farlo entrare nel quadro della diplomazia e della propaganda. Lo stesso Filippo l’Ardito, che aveva sposato Margherita delle Fiandre, non mancò di far bere a suo suocero il vino di Borgogna e ciò a discapito del vino di La Rochelle, facendone mandare 800 ettolitri a Parigi in occasione del suo soggiorno nel 138576. L’azione intrapresa da Filippo l’Ardito per la promozione dei vini di Borgogna venne proseguita da suo nipote Filippo il Buono, il cui cancelliere Nicolas Rolin è il fondatore degli Hospices de Beaune. Del resto, non esitò a farsi chiamare «il noto signore dei migliori vini della cristianità»77. Una volta perso il mercato della corte pontificia avignonese, è il mercato delle Fiandre e dei paesi del nord che diventa fondamentale per i duchi di Borgogna, facendone pagare le conseguenze al vino di La Rochelle. Il vino prodotto in Borgogna arrivava nelle Fiandre sia attraverso gli affluenti della Senna e poi dell’Oise, con un’interruziotere dei vol. II e III pubblicate da V. ROSSI, Le Familiari, Firenze 1934. Per quanto riguarda l’opinione di Petrarca riguardo ai papi che rifiutano di lasciare Avignone, perché troppo attaccati al vino di Borgogna, vedi le F. PETRARCA, Opera, I, Basilea, 1581, pp. 845-846, 849 e 857; II, pp. 1064 e 10731074. A Petrarca ha risposto Jean de Hesdin: B. HAUREAU, Jean de Hesdin, le Gallus calumniator de Pétrarque, «Romania», 22 (1893), pp. 276-281. 73 Citato da LACHIVER, Vins, vignes, p. 142. 74 Ibidem, p. 142. 75 Ibidem, p. 143. 76 Ibidem, pp. 143-144. 77 Ibidem, p. 144. 51 ne del traffico fluviale a Compiègne, sia attraverso la Senna, fino a Parigi, poi a Rouen, la via marittima e Bruges. Del resto non sono soltanto i vini del ducato, soprattutto quello della Côte d’Or, del quale i duchi si impegnarono a far propaganda, ma anche quelli della loro Contea, i vini dello Jura, Arbois, Poligny, Doublans78. Filippo l’Ardito ne fece consegnare a Cambrai per il matrimonio del suo figlio primogenito nel 1385 ed il vino che non fu consumato durante il pranzo di nozze venne mandato al suo palazzo ad Arras79. Filippo il Buono si piegò alle richieste dei vignaioli di Arbois, che nel 1463 gli chiesero l’abolizione delle tasse sul vino che veniva spedito verso le altre città della Franca Contea80. Ordunque il vino di Arbois era certamente di grande qualità, tanto da far scegliere a Rabelais delle viti di Arbois per il suo vigneto della Dive Bouteille, ma Panurge esalta il vino di Beaune: «Mio Dio, questo vino di Beaune è il migliore che abbia mai bevuto»81. I mercanti venivano a prendere i vini di Borgogna, destinati all’esportazione, direttamente alla produzione. La contabilità dei papi di Avignone è, da questo punto di vista, molto esplicita. I fornitori della camera apostolica si recavano a Beaune, Chalon, Givry per controllare i loro mercati e far inoltrare le consegne ai porti che si trovano lungo la Saona82. Se una parte dei vini ducali era destinata al duca ed alla sua corte, un’altra parte veniva commercializzata, grazie a dei mercanti parigini che venivano a comprarlo sul posto. I mercanti facevano «gustare i vini di Borgogna», concludevano le trattative e stipulavano il contratto con i vetturali. Il vino spedito a Parigi era venduto alle Halles o consegnato ai palazzi signorili. Una parte della merce sostava provvisoriamente a Parigi, poiché era destinata all’uso dei consumatori nordici, per esempio lo Hainaut83. Di questi vini borgognoni bisogna sottolineare che quelli che possono beneficiare del trasporto via acqua, i vini dell’Auxerrois, di Tonnerre e di Avallon, sono i più favoriti per essere consegnati sul mercato parigino, che malgrado il calo demografico della capitale rimaneva grande consumatore di vino. I vini di Beaune dovevano viag78 R. DION, Le vin d’Arbois au Moyen Age, «Annales de géographie», 343 (1955), pp. 162-169. 79 LACHIVER, Vins, vignes, pp. 146-147. 80 Ibidem, p. 147. 81 RABELAIS, Le Cinquiesme Livre, Paris 1960, p. 794. 82 Renouard ne dà alcuni esempi nell’articolo cit. sopra, alla n. 71, e nelle sue opere Les relations des papes d’Avignon et les compagnies commerciales et bancaires de 1316 à 1378, Paris 1942, e Recherches sur les compagnies commerciales et bancaires utilisées par les papes d’Avignon avant le Grand Schisme, Paris 1942. 52 83 G. SIVERY, Les comtes de Hainaut et le commerce du vin au XIVe et au début du XVe siècle, Lille 1969. giare tramite carreggio per raggiungere la valle dell’Yonne, Cravant e Vermenton, dove venivano caricati su dei battelli per i quali i naufragi non erano rari. Dai conti di Cîteaux si vede come i mercanti di Parigi, di Rouen o di Méziéres si incaricavano di commercializzare il vino di Borgogna84, ma non mancavano neanche i borghesi di Digione, che facevano partire dei convogli di carri per rifornire non soltanto il mercato digionese, ma anche quello di Parigi o di Compiègne85. Il commercio dei vini borgognoni non era dunque interamente nelle mani dei mercanti estranei alla provincia, almeno per i vini di Beaune, mentre ad Auxerre dominavano i mercanti parigini86. Tra i vini di Borgogna si stabilì una gerarchia di prezzo, che si può dedurre dalle ordinanze reali. I vini di Beaune, Givry, Saint Gengoux, rivali di quelli di Saint Jean d’Angély, erano quelli che raggiungevano i prezzi più elevati; al contrario, quelli del bacino dell’Yonne, detti precisamente vini di Borgogna, erano molto meno costosi. Tuttavia i vini d’Irancy e di Chablis, originari anch’essi del bacino dell’Yonne e denominati vini di pinot, appartenevano alla categoria dei vini rinomati87. La preoccupazione dei duchi di garantire e mantenere la qualità dei vini di Beaune si espresse in particolar modo attraverso l’ordinanza del 1395, che impedì la piantagione di gameti e l’uso di letame animale88. Era conveniente non produrre dei ‘vinelli’ su dei terreni di minore qualità da vitigni che davano grosse quantità, ma producevano vini mediocri. Allo stesso modo doveva essere utilizzata come fertilizzante la genne, cioè il residuo della spremitura, in modo tale da non alterare l’aroma del vino. Non sorprende il fatto che una parte della produzione sia stata riservata al consumo locale. Le amministrazioni comunali, Digione in particolare, si preoccuparono di procurare agli abitanti un prodotto che occupava un posto importante nella loro alimentazione89. Era dunque competenza degli amministratori 84 Presentazione dei conti da parte di RICHARD, Le vignoble, pp. 15-16. 85 P. GEOFFROY, Commerce et marchands à Dijon au XVe siècle, «Annales de Bourgogne», 25 (1953), pp. 168-175, ha dimostrato che i mercanti di vino digionesi erano anche dei mercanti di tessuti. Cfr. a questo proposito anche T. DUTOUR, Une société de l’honneur. Les notables et leur monde à Dijon, Paris 1998 (Études d’histoire médiévale, 2). 86 Cfr. l’articolo di Delafosse cit. sopra, alla n. 8. 87 RICHARD, Le vignoble, p. 16. 88 Testo dell’ordinanza in J. LAVALLE, Histoire diplomatique de la vigne et des grands vins de la Côte d’Or, Dijon 1855, pp. 37-39. 89 C. TOURNIER, Le vin à Dijon de 1430 à 1560: production et commerce, «Annales de Bourgogne», 22 (1950), pp. 7-32. 53 comunali far arrivare sulla tavola dei loro concittadini un alimento che faceva parte delle loro abitudini e al gusto del quale erano ormai abituati. Il modo più semplice per evitare un costo troppo elevato era di favorire la vendita, da parte dei produttori locali, dei vini di loro proprietà. I privati avevano così una bottega per smerciare il vino spillato dalle botti, consumato a ‘boccale rovesciato’. Alla ‘vendita a tappa’, che si svolgeva in rue Saint-Jean a Digione, ne venivano messe in vendita grandi quantità. L’ammontare dell’imposta ci permette di conoscere l’importanza di alcuni luoghi per la commercializzazione del vino: 1600 franchi a Beaune nel 1378, 1379, 900 franchi a Digione nel 1380, 265 franchi a Nuits Saint Georges nel 137890. Declino del Bordelais Fattori storici, congiunturali e geografici evocano il successo dei vini borgognoni alla fine del medioevo. Lo splendore dei duchi di Borgogna ha influito su questo prodotto, che rappresentava forse uno dei motivi più efficaci per la loro propaganda come per la loro fama. Per quanto riguarda il Bordelais, i fattori geografici hanno avuto sicuramente la loro importanza grazie alla presenza dei fiumi per il trasporto dei vini dall’entroterra verso il porto di Bordeaux, con sbocco verso l’Inghilterra, al tempo in cui il ducato di Aquitania dipendeva dal re d’Inghilterra e questo fino al 1453, quando il ducato e la città di Bordeaux tornarono sotto il regno di Francia91. Dell’esportazione dei vini di Aquitania verso il porto di Bordeaux e di altri porti del sud-ovest parlano i registri della Grande Coutume conservati nel Public Record Office92. Sfortunatamente essi sono incompleti e non permettono di stabilire il movimento globale di uscita dei vini aqui90 RICHARD, Le vignoble, p. 14. 91 Le osservazioni di Higounet (cfr. sopra la n. 35) restano valide per la fine del medioevo. 92 54 La Grande Coutume des vins era una tassa che veniva percepita sui vini di qualsiasi origine che transitavano per il porto; veniva riscosso anche l’ issac che riguardava i vini che entravano in città per essere venduti. La Petite Coutume, detta di Royan, veniva saldata all’uscita dall’estuario della Gironde ed era costituita da una tariffa fissa di due denari e un soldo a botte, mentre la Grande Coutume veniva fissata ogni anno dal conestabile di Bordeaux prima della vendemmia. I diritti di dogana percepiti a Bordeaux sui vini, e sulle mercanzie, sono stati oggetto di studio da parte di J.P. TRABUT CUSSAC, Les droits de douane perçus à Bordeaux sur les vins et les marchandises par l’administration anglaise de 1252 à 1307, «Annales du Midi», 62 (1950), pp. 135-150. tani verso i porti inglesi. I calcoli stabiliti per circa una trentina d’anni nel corso della prima metà del XIV secolo, dal 1305 al 1336, cioè nel periodo che segue la pace tra il regno di Francia e quello di Inghilterra fino all’inizio della guerra dei Cento Anni, mostrano che nel porto di Bordeaux transitava un traffico medio annuale di 70.000 botti (da 800 a 900 litri)93. E gli abitanti del Bordolese, borghesi, nobili ed ecclesiastici, contribuivano ad aumentare il numero di botti da 10.000 a 12.000 per quanto riguarda la parte derivante dalle loro proprietà. Tutto il resto proveniva dalla parte bassa del paese, da 30.000 a 40.000 botti, e dalla parte settentrionale. Un documento del 1306-1307, anno in cui si conoscono bene le diverse provenienze, permette di delineare cinque grandi assi di produzione: l’asse della Garonna, con 18 punti di imbarco per 13.500 botti; la valle del Tarn, con il vino di Gaillac e di Moissac (quest’ultimo già elogiato da Henri d’Andeli); la valle del Lot, con Cahors, e la Dordogne, con il vino di Bergerac. In questo caso manca il vigneto tolosano, del quale si sa soltanto che per l’anno successivo avrebbe inviato 1087 botti verso Bordeaux. I vini arrivavano a Bordeaux e nei porti secondari a bordo di piccole navi, per le quali i carichi disparati si ingrandivano man mano che passavano a filo dell’acqua. Come in Borgogna, la via d’acqua aveva contribuito largamente al successo dei vigneti aquitani. Al loro arrivo a Bordeaux i vini venivano depositati sulle banchine prima di essere imbarcati per l’Inghilterra su delle navi più grandi. Tra il 1306-1307, 603 navi presero la via del mare dopo aver risalito l’estuario della Gironde. Nel 13081309 le navi diventeranno 75094. In ottobre-novembre una flotta autunnale lasciava così il porto per consegnare il vino nuovo e il padrone marittimo doveva colmare le botti durante il viaggio affinché il vino non inacidisse. Le navi 93 A partire dallo studio di M.K. JAMES, The fluctuations of the anglosaxon wine during the fourteenth century, «The economic review», s.n. (1951), pp. 170-169, Y. RENOUARD, Histoire de Bordeaux sous les rois d’Angleterre, Bordeaux 1965, p. 255, ha potuto stilare la seguente tabella sulle esportazioni di vino dal porto di Bordeaux. 1305-1306: 97.848 botti, di cui 13.958 per i borghesi e i nobili della città; 1306-1307: 93.452 botti, di cui 13.866 per i borghesi e i nobili della città; 1308-1309: 102.724 botti, di cui 12.260 per i nobili e i borghesi della città; 1310-1311: 51.351 botti; 1328-1329: 69.175 botti; 1329-1330: 93.556 botti; 1335-1336: 74.053 botti. Sul commercio dei vini guasconi cfr. Y. RENOUARD, Le grand commerce des vins de Gascogne, «Revue historique», 221 (1959), pp. 261-304; sulla capienza invece della botte bordolese Y. RENOUARD, La capacité du tonneau bordelais, «Annales du Midi», 65 (1953), pp. 395403, e ID., Recherches complémentaires sur le tonneau bordelais, «Annales du Midi», 68 (1956), pp. 195-207. 94 Sulle navi che trasportavano il vino verso il nord dal porto di Bordeaux cfr. J. BERNARD, Navires et gens de mer à Bordeaux (vers 1400 - vers 1550), Paris 1968; si v. dello stesso autore, nel III volume dell’Histoire de Bordeaux curato da Y. Renouard, il capitolo Le fleuve, le port, la navigation, pp. 267-292. 55 Il commercio dei vini guasconi nel XIV secolo. Principali porti inglesi di importazione. 56 Altri porti collegati con Bordeaux. potevano così sperare di raggiungere i porti inglesi prima delle grandi tempeste invernali e il vino poteva essere venduto prima di natale. Al loro ritorno, in primavera, essi effettuavano un secondo carico, con i vini delle zone settentrionali, avendo già consegnato quelli delle aree meridionali. Questi vini, detti di pasqua, già travasati, a causa della mobilità della festa di pasqua non venivano trasportati dalle navi che in maggio o addirittura giugno, per cui il vino delle regioni settentrionali era già inacidito al momento dello sbarco in Inghilterra. Malgrado il numero relativamente esiguo dei suoi abitanti, un po’ più di tre milioni – e aggiungendo il resto delle isole britanniche circa cinque milioni – l’Inghilterra è una grande importatrice di vini aquitani, almeno fino alla peste del 1348. Bristol, Exeter, Southampton, Sandwich, Londra, Hull, Newcastle erano i grandi centri di destinazione dei vini provenienti dal sud-ovest della Francia. Sicuramente le isole britanniche non erano in grado di assorbire i 700.000 ettolitri esportati in media ogni anno da Bordeaux, ma le navi che trasportavano questi vini ne lasciavano una parte in Normandia e in Bretagna, scontrandosi verso la Normandia con la concorrenza dei vini che transitavano per i porti di Rouen e della Senna. Tuttavia, verso il nord, i vini aquitani si incrociavano nei Paesi bassi con quelli provenienti dal porto di La Rochelle, come con i vini della Mosella e del Reno nella Germania settentrionale Se l’inizio del XIV secolo, prima dell’avvento della guerra dei 100 anni, è stato un periodo di grande prosperità per il porto di Bordeaux, non si può dire lo stesso per la regione aquitana, che subì gli effetti della peste e le devastazioni della guerra, in quanto il ducato di Aquitania è stato importante oggetto di contesa tra la corona inglese e quella francese. I registri della Grande Coutume ne parlano a partire dal 1337 e fino al 144095. In Inghilterra non vennero inviate che 11.000 botti in media ogni anno tra il 1400 e il 1440. È anche vero che i bordolesi si riservavano il diritto di poter spedire il loro raccolto a scapito di quello nordico. Appena un centinaio di navi, contro le sei o settecento degli anni tra il 1306 e il 1337, in gran parte inglesi, ma anche baionesi e normanne, vennero a prendere in consegna il vino aquitano nella prima metà del XV secolo. Quando il ducato di Aquitania passò nelle mani del re di Francia, nel 1453, la situazione era particolarmente drammatica: terreni incolti, abitanti morti o in fuga, censi insoluti, canoni persi96. Era indispensabile procedere ad una ricostruzione delle vigne, «cadute in grande rovi- 95 LACHIVER, Vins, vignes, pp. 119-120. 57 na», ed incoraggiare i contadini a lavorarle di nuovo. La ripresa non si farà sentire che nel 1475, ma sarà allora necessario ricostruire i mercati e trovarne di nuovi. Gli inglesi rivolsero quindi la loro attenzione verso i paesi Iberici, la Spagna e il Portogallo, non lasciandovi entrare che 3.000 botti di vini aquitani nel 1460. Verso i Paesi Bassi c’era una forte concorrenza, tanto più che il conflitto tra il re di Francia Luigi XI e il duca di Borgogna Carlo il Temerario, non facilitava l’ingresso dei vini aquitani sul territorio fiammingo. Anche se la situazione andò lentamente migliorando sul versante inglese fino alla fine del secolo, Bordeaux non esportò ancora che una media annuale di 10.000 botti verso i porti inglesi. Del resto i mercanti inglesi si mostrarono esigenti quanto alla qualità del vino che importavano: oltre ai vini bianchi, chiaretti e rossi a bassa gradazione alcolica e difficili da conservare, essi rivolsero la loro attenzione verso dei vini con un’origine precisa, nel Médoc (nucleo del Taillan) o nelle Graves (Talence e Haute Brion), prodotti sulle proprietà di grandi famiglie nobili97. Questa è senza dubbio l’origine di una gerarchia di vini bordolesi destinata a meglio delinearsi nei secoli successivi. Ristagno degli altri vigneti La rinascita del vigneto aquitano alla fine del XV secolo fu dunque molto lenta e non ritroverà mai più la stessa prosperità che all’inizio del XIV secolo prima del periodo contemporaneo, quanto all’esportazione dei suoi prodotti. La presenza della corte di Francia nella Val de Loire ha potuto contribuire, un tempo, alla fama di alcuni vini della regione. Il vino prodotto nella regione di Orléans godeva, alla fine del Medioevo, di una fama equivalente a quella dei vini di Beaune. Un resoconto del 1377-1378 per il castello di Gaillon segnala la sua presenza sulla tavola dell’arcivescovo di Rouen. Il re Carlo VII, assicuratosi definitivamente della corona di Francia in seguito alla sua incoronazione a Reims nel 1429, grazie a Giovanna d’Arco, vantava i meriti del vino di Orléans, che per «la sua bontà e la sua fama» era ricercato in Normandia, nelle Fiandre e in Bretagna98. Rabelais fece venire dei vitigni dalla regione di Orléans per il suo vigneto della Dive Bouteille a fianco di quelli di Beaune99. I vitigni alverniati, nel- 58 96 Cfr. l’opera di Boutruche cit. sopra, alla n. 63. 97 LACHIVER, Vins, vignes, pp. 122-123. le varietà viticole dette orleanesi, si estendevano fino ai dintorni di Tours, ma a partire da Bourgueil e Chinon si scontrarono con il cabernet. Touraine e Angiò erano i terreni di un vino che Rabelais chiama vino bretone e Luigi XI era un grande amante del vino di Bourgueil100. Se in alcuni anni vennero importati dei vini rossi in Angiò, fu tramite il fiume, la Loira, che furono esportati i vini della valle: essi discendevano il fiume, per prendere poi, a Nantes, la via per l’Inghilterra e per Rouen. Le navi che trasportavano il sale dalla baia di Bourgneuf e di Guérande venivano a prendere il vino dell’asse ligeriano. La quantità di vino esportata era, ciononostante, molto esigua, poiché i mercati inglesi, bretoni o normanni non potevano assorbire che una parte limitata di questi vini, destinati soprattutto al consumo locale. La concorrenza degli altri vini provenienti da La Rochelle e Bordeaux era troppo dura101. Peraltro l’Angiò, come Bordeaux e la sua regione, era stato colpito dal cattivo tempo, dalla peste e dalla guerra102. Quindi non sorprende il fatto che il commercio si sia fermato tra il 1365 e il 1377 e che siano diminuite le aree destinate alla vigna. Malgrado una certa ripresa tra il 1390 e il 1420, la crisi tornò e si protrasse fino al 1445. Allora si videro passare attraverso Angers dei vini della Borgogna, di Orléans e di Saint Pourçain, destinati a Mont Saint Michel. Vi furono delle perdite importanti, con lo sradicamento di vigneti a favore di terreni seminati a grano. I vigneti si concentrarono allora lungo il fiume tra Saumur e Angers, dove dei proprietari nobili stipularono degli affitti vitalizi con dei contadini, che accettarono di reimpiantare i vigneti. Ma il vino di Angiò non si ritrova in quantità relativamente importanti nel porto di Nantes che alla fine del XV secolo e all’inizio del XVI. Anche se la storia ha giocato a favore del vino di Orléans, non si è saputo ben approfittare della presenza della Corte francese, che aveva stabilito la sua dimora sui bordi della Loira, e i vigneti del Val si sono poco sviluppati. È significativo come a Tours, addirittura nei conti municipali, non com- 98 Ibidem, pp. 128-129. 99 Rabelais definisce bretoni i vini di Bourgueil e di Chinon, ma il vitigno a base di questi vini è senza dubbio originario dell’Aquitania: si tratta senz’altro di un cabernet. 100 LACHIVER, Vins, vignes, p. 131. 101 M. LE MENE, Le vignoble angevin à la fin du Moyen Age, étude de rentabilité, in Le vin au Moyen Age, pp. 81-101. 102 M. LE MENE, Les campagnes angevines à la fin du Moyen Age, étude économique (vers 1350 - vers 1580), Nantes 1982, pp. 360-398. 59 paiono, per la ricezione degli ospiti di passaggio, che dei vini di Anjou, dei vini del Bourbonnais (Saint Pourçain) e dei vini di Orléans103. Bisogna quindi aspettare gli anni ottanta del XV secolo perché sia presente nel porto di Nantes il vino di Touraine, del resto sconosciuto sul mercato parigino. La prosperità dei vigneti alsaziani Se la valle della Loira non ha contribuito molto all’esportazione dei suoi vini nella zona atlantica, al contrario i vini d’Alsazia, più che quelli lorenesi, hanno tratto vantaggio dalla fortuna di Colonia104. Nei pressi di Metz venne impiantato un grande vigneto, lungo la Mosella, grazie all’iniziativa dei borghesi della città105. Nel XIV secolo i vigneti della Mosella si ritrovarono a soffrire di due mali, che ostacolarono decisamente l’esportazione dei loro prodotti. I vignaioli utilizzavano il gouais, un tipo di vitigno che aveva una resa molto alta a discapito della qualità, e le ordinanze di sradicamento delle piante malate non furono affatto applicate, come è dimostrato dalla loro ripetizione. È per questo motivo che i mercanti di Colonia si rivolsero ad altre fonti di rifornimento in Alsazia. Peraltro i conflitti tra il duca di Lorena e il conte di Bar coinvolsero la valle di Metz. La diminuzione dell’attività del vigneto è sorprendente e si protrae fino al XV secolo. Sulle tavole signorili non si trovavano più i vini della regione della Mosella, se non in assenza dei vini di Borgogna e d’Alsazia. Un vigneto che produce vini bianchi crebbe nei pressi di Toul, lungo le colline, dove nel 1486 furono introdotte delle piante borgognone per la produzione di vini rossi. Era appena sufficiente per il consumo locale e non partecipò affatto al traffico per l’esportazione106. Approfittando del declino dei vigneti lorenesi, quelli alsaziani hanno avuto dei buoni raccolti alla fine del medioevo, tanto che i loro vini hanno potuto rag- 103 B. CHEVALIER, Tours, ville royale (1356-1520), Paris 1975; ID., Alimentation et niveau de vie à Tours à la fin du XVe siècle, «Bulletin philologique et historique», 1 (1971), pp. 143-157. 104 F.J. HIMLY, L’exportation du vin alsacien en Europe au Moyen Age , «Revue d’Alsace», 89 (1949), pp. 2536; F. IRSIGLER, Kölner Wirtschaft im Spätmittelalter (zwei Jahrtausend Kölner Wirtschaft), Köln 1975; HIGOUNET, Cologne et Bordeaux, pp. 404-406. 105 106 60 J. SCHNEIDER, La ville de Metz aux XIIIe et XIVe siècles, Nancy 1950. M. MAGUIN, Economie, politique et viticulture en Lorraine médiane aux XIVe et XVe siècles, «Annales de l’Est», 35 (1985), pp. 193-207. giungere i mercati del nord. Sicuramente bisogna tener conto dei rischi meteorologici, come estati umide, inverni rigidi, gelo dei fiumi, che ostacolavano la circolazione dei vini, e gli anni di carestia: 1337, 1339, 1364, 1485, segno forse di un certo raffreddamento del clima, che ha cominciato a manifestarsi nella seconda metà del XIII secolo107. I vigneti si trovavano ormai su un’area di un centinaio di chilometri, da nord a sud, lungo le colline al di sotto dei Vosgi, per una larghezza di tre o quattro chilometri108. Proprietarie di queste aree erano le istituzioni ecclesiastiche (monasteri, capitoli, vescovi), i signori ed i borghesi che vivevano nelle città ai piedi dei Vosgi. È interessante notare che furono le autorità municipali a regolare il lavoro dei salariati (Regolamento di Colmar, del 1438)109: i borghesi controllavano il commercio del vino. Nel XVI secolo furono le autorità comunali a decidere quali vitigni nobili piantare, come il moscato a Wolxheim nel 1523110. Alla fine del medioevo questo tipo di vigneto ha rappresentato un fattore importante per il commercio internazionale della valle renana. Nel 1548, S. Münster scriveva nella sua Cosmografia: «Il buon vino d’Alsazia viene trasportato per mezzo di una serie di carri e talvolta via acqua in Svizzera, Svevia, Baviera, Lorena e Germania meridionale e talvolta in Inghilterra»111. Nel 1327 il cronista Froissart osservava che i vini d’Aussy (Alsazia) erano oggetto di commercio sui mercati delle città della regione112. Colmar era senza dubbio il più importante tra questi mercati, con una vendita annuale che oscillava tra 30.000 e 100.000 ettolitri. Il vino d’Alsazia veniva esportato a sud verso la Svizzera (Basilea, Lucerna, Friburgo), al nord verso Francoforte, Colonia e i Paesi Bassi113. I negozianti di Colmar non sono i soli a partecipare a questo traffico commerciale: l’abbazia di Andlau vendeva il proprio vino a dei clienti residenti a Saverne e Strasburgo. All’inizio del 107 LACHIVER, Vins, vignes, p. 150. 108 L. SITTLER, L’agriculture et la viticulture en Alsace, Colmar-Ingersheim 1974; Vignes, vignerons et vins d’Alsace, Colmar 1975; G. BISCHOFF, J.M. BOEHLER, J.V. DIETRICH, G. DOPFF, J. DREYER, R. DUMAY, P. GOFFARD, P. HUGLIN, F. RAPP, L. SITTLER, Le vin d’Alsace, Paris 1978. 109 L. SITTLER, La viticulture et le vin de Colmar à travers les siècles, Colmar 1956. 110 LACHIVER, Vins, vignes, p. 151. 111 Cit. da LACHIVER, Vins, vignes, p. 151. 112 C. OBERREINER, Les vins d’Aussay bus en Angleterre étaient-ils des vins d’Alsace?, «Revue d’Alsace», 71 (1924), pp. 289-303. 113 L. SITTLER, Le commerce du vin de Colmar jusqu’en 1789, «Revue d’Alsace», 89 (1949), pp. 37-56. 61 XVI secolo, ogni anno, metteva in vendita una media di mille ettolitri, soprattutto di vino bianco, ma anche di vini rossi114. Il ritardo dei vigneti meridionali È nei pressi di Lione e a sud della città che si svilupparono lungo il Rodano, fino alla regione della Linguadoca e fino in Provenza, dei vigneti il cui mercato si svolgeva soprattutto a livello locale. I vini del Beaujolais e del Lionese raggiungevano talvolta anche il mercato parigino. È tuttavia nei porti mediterranei che nacque, anche se con difficoltà, l’esportazione dei vini del Rodano, della Linguadoca e della Provenza, il quale incontrò comunque una severa concorrenza da parte dei vini cretesi e ciprioti, italiani e spagnoli115. Ciononostante appaiono dei vitigni legati al traffico mediterraneo, attraverso i porti di Montpellier, Marsiglia e Aigues Mortes. Il moscato, originario del Mediterraneo orientale, che produceva vini liquorosi, è menzionato nei conti del vescovado di Avignone nel 1364 e Benedetto XIII, ultimo papa di Avignone, lo fa portare nel Rossiglione116. Nella seconda metà del XIV secolo ha così inizio la cultura del moscato, vino che avrà un grande avvenire nelle regioni mediterranee fino ai giorni nostri, La fama dei vini della Linguadoca e della Provenza non fu tale da indurre i re di Francia ad averne nelle loro dispense. Del resto, il periodo della guerra dei Cento Anni è stato particolarmente drammatico per la Linguadoca, dove i vigneti e i terreni tornano ad essere incolti117. È soltanto alla fine del XV secolo che riprese il traffico del vino e quindi l’attività nei porti del litorale della Linguadoca, Frontignan, Aigues Mortes, Sérignan. La presenza della corte pontificia ad Avignone ha incoraggiato la piantagione di vigneti di qualità, non foss’altro che per le dispense dei papi a Châteauneuf, e nei dintorni di Tarascon, Avignone ed Arles una produzione ecces- 114 C. HEITZ, Consommation et vente du vin de l’abbaye d’Andlau, «Société d’histoire et d’archéologie de Dambach-le Ville», 18 (1984), pp. 139-154. 115 La situazione si è poco evoluta nel XIV e XV secolo, tanto che il traffico dei porti mediterranei è fermo, addirittura regredisce. 116 J. CALMETTE, Benoît XIII et le muscat de Clara, «Revue d’histoire et d’archéologie du Roussillon»,4 (1903), pp. 229-230. 62 117 E. LEROY LADURIE, Les paysans du Languedoc, Paris 1966, ne offre un quadro nei primi capitoli. siva ha dato l’opportunità di rifornire abbondantemente le taverne urbane118. Il vino del Comtat Venaissin conquistò così le città della valle della Durance, Briançon, Digne, Sisteron, senza contare Embrun, Barcelonette e le Alpi meridionali. Nel catasto di Arles del 1425 si scoprono 725 proprietari di vigneti su 1123 persone iscritte119. Si tratta sicuramente di vigneti spezzettati, dove si ritrovano persone di città ed ecclesiastici. Una città come Carpentras, che contava una popolazione di 3000-3500 abitanti all’inizio del XV secolo, tra cui un’importante comunità ebraica, fornisce delle informazioni significative sull’importanza del vino, sia nell’economia urbana, che in quella esterna. Dall’80% al 90% degli abitanti possiedono vino nell’ordine di molti ettolitri, proveniente dal raccolti degli appezzamenti individuali o acquistato da altre persone. Certamente i poveri non ne possedevano, ma è ovvio che gli abitanti di Carpentras disponevano di apprezzabili quantità di vino. Ordunque in questa città vi è una comunità ebraica, alcuni membri della quale possedevano dei vigneti e potevano comprare vino solo da altri ebrei e non da cristiani. Al contrario, era possibile comprare dell’uva da un cristiano, a condizione che non fosse stata raccolta durante una festa ebraica120. Il vino del Comtat Venaissin era poco commercializzato, soltanto nelle zone periferiche, per esempio nel Delfinato. Bisogna dire che si trattava di vini colorati, chiaretti, a tal punto che i ricchi, come l’arcivescovo di Arles erano portati a procurarsi vini bianchi e vini liquorosi (moscato o vino greco) per i loro ricevimenti121. La fine del medioevo è dunque caratterizzata, sia riguardo alla produzione, sia riguardo alla commercializzazione, dal successo dei vini di Borgogna, la cui fama raggiunse ben altri paesi che la Corte pontificia di Avignone. Ciononostante è stupefacente notare quanto la peste e la guerra abbiano avuto conseguenze importanti su vigneti come quelli di Aquitania, della valle della Loira o della Linguadoca e addirittura della Champagne122. Il traffico, che prima della 118 Ciò è vero per la città di Arles, cfr. L. STOUFF, Ravitaillement et alimentation en Provence aux XIVe et XVe siècles, Paris 1970. 119 L. STOUFF, Arles à la fin du Moyen Age, 2 voll., Aix en Provence 1986. 120 L. STOUFF, Ravitaillement et consommation alimentaire à Carpentras au XVe siècle, «Etudes vauclusiennes», 6 (1971), pp. 1-6; 7 (1972), pp. 5-18. 121 Cfr. sopra, la n. 119. 122 M. BELOTTE, La région de Bar sur Seine à la fin du Moyen Age, du début du XIIIe siècle au milieu du XVIe siècle: étude économique et sociale, Lille 1973, dove si segnala il regresso della coltura viticola nel XIV secolo e la sua ripresa nella seconda metà del XV secolo. 63 peste si orientava da sud verso nord, non si era modificato. L’apertura dei mercati atlantici non si è ancora affermata alla fine del medioevo. Certamente nel 1500 Bruges non era più il porto attivo che aveva dimostrato di essere all’epoca del grande mercato dei vini di La Rochelle o di Rouen, a seguito dell’insabbiamento dell’estuario. Ma si faceva già strada il porto di Anversa e nel retroterra i mercanti di Colonia prendevano lezione dal declino della città di Bruges per rivolgersi verso i vini venuti dall’Alsazia, di cui una gran parte transitava per le fiere di Francoforte prima di prendere la direzione del nord123. La situazione originatasi dalla guerra dei vini di Henri d’Andeli ancora non si era veramente modificata. Considerazioni conclusive Il vino ha occupato un posto di primaria importanza nella vita degli uomini del medioevo. Oltre alla sua importanza nella liturgia, ha avuto un ruolo fondamentale nell’alimentazione degli uomini. Sicuramente le sue qualità erano diverse da quello di oggi: del resto, a seconda del consumatore, di ceto agiato o umile, vi era un tipo di vino diverso sulla tavola. Inoltre fu un prodotto di primo piano nell’economia francese medievale. La nostra conoscenza del vino nel medioevo è relativamente esigua fino all’anno 1000, ma cresce considerevolmente a partire dagli anni 1000-1200. La Guerra dei vini di Henri d’Andeli ne è l’esempio più importante. Il consumatore contemporaneo resterebbe sicuramente colpito riguardo alla qualità del prodotto ed alla provenienza dei vini commercializzati e consumati in questo periodo. Sono i vini bianchi a dominare, addirittura i chiaretti, provenienti da regioni dove il vigneto è oggi quasi completamente scomparso124. Dalla fine del XIII secolo, in Normandia e Bretagna non si produce praticamente 123 124 64 Cfr. sopra, la n. 113. È il caso della regione parigina, per la quale FOURQUIN, Les campagnes, pp. 81-88, 357-358, 367-383, 400-405, 445-450, 490-492 , ha descritto i vigneti intorno a Parigi; quanto all’estensione delle aree vitate a nord di Parigi, si segnalano diversi studi, tra cui L. DUVAL ARNOULD, Le vignoble de l’abbaye cistercienne de Longpont, «Le Moyen Age», 62 (1968), pp. 207-336; A. MOREAU-NERET, Aperçu historique sur les vignobles de la région de Senlis et de Valois, «Société d’histoire et d’archéologie de Senlis», s.n., années 1967-1968, pp.35-54; M. MULLON, Les vignobles de l’abbaye de Preuilly, «Bulletin de la Société historique et archéologique de Provins», 126 (1972), pp. 80-89. più vino, se non in piccole quantità a livello locale. Il sidro non ha ancora preso del tutto il suo posto, ma le correnti commerciali, per fiume o per mare, permettevano di fornire alle popolazioni normanne e bretoni il vino proveniente da altre regioni. È la scomparsa di queste correnti commerciali o del loro rallentamento durante la guerra dei Cento Anni che farà il successo del sidro. Se Parigi, grande centro di popolazione e di consumo, vide arrivare dei vini dal retroterra borgognone, tutt’intorno alla capitale si era imposto un vigneto difficile da immaginare ai nostri giorni. La suddivisione dei vigneti che si effettuerà sul territorio francese era lontana dall’essere realizzata, anche se la fama di alcuni grandi vigneti cominciava ad affermarsi in Borgogna, nel Bordolese e in Alsazia. Prodotto di lusso e di grande consumo, il vino, introdotto in Gallia dai Romani, si è imposto sulla tavola dei grandi come delle persone più umili. I vitigni, destinati ad un grande avvenire sul territorio francese, si spandono poco a poco: il fromenteau o pinot grigio, gli alverniati o morillons, antenati del pinot, la cui ortografia si delineerà soltanto nel XIX secolo, dopo che era stato scritto pineau o pinneau, chenin lungo la valle della Loira, cabernet, proveniente dal moscato alla metà del XIV secolo. Questi vitigni davano, prima di tutto, dei vini bianchi, chiaretti o vermigli, produttori della bevanda per eccellenza ad un prezzo relativamente accessibile a tutti. I raccolti potevano variare in quantità e in qualità, ma era il rischio di tutti i vignaioli, anche ai giorni nostri, e i vini prodotti erano destinati ad essere bevuti rapidamente. La suddivisione dei vigneti dipese soprattutto dai consumatori e dagli acquirenti potenziali. Il trasporto via acqua si rivelò essere il più economico. Per il trasporto del vino si dovevano evitare i carri via terra, che facevano deteriorare le botti, inacidire il vino ed aumentare il costo del pedaggio in modo vertiginoso. Era sicuramente più conveniente produrre vino per il consumo urbano vicino, e Digione e Parigi ne sono un ottimo esempio, ma anche per alimentare i mercati più lontani. I vigneti erano piantati anche nelle valli della Saona e Yonne in Borgogna, della Garonna e dei suoi affluenti in Aquitania, Marna e Senna intorno a Parigi e in Champagne, Charente per l’Aunis e il Poitou, la Mosella e il Reno in Lorena e in Alsazia, e i porti fluviali e marittimi ne assicuravano la migliore commercializzazione possibile. Lungo questi fiumi, gli appezzamenti in pendenza, assicuravano una buona esposizione al sole ad oriente o a sud-est. Principi della Chiesa, sovrani e signori laici hanno largamente contribuito al successo della viticoltura. È vero che si trattava di consumatori importanti, come il re di Francia o il duca di Borgogna, e tanti altri signori di minore importanza. 65 Durante le feste di natale l’arcivescovo di Arles beveva il ‘nettare’, ippocrasso, vino mescolato a miele e a diverse spezie. Nei monasteri e negli ospedali gestiti dalla chiesa, il vino era offerto ai poveri come complemento al pane. Del resto, non senza ragione i prigionieri erano privati del vino e tenuti a pane secco e acqua. È impossibile realizzare uno studio statistico tanto della produzione, quanto del commercio del vino in epoca medievale. Le informazioni che si possono carpire qua e là sono troppo frammentarie perché possa essere stabilito con precisione il ruolo del vino nell’economia medievale. Nonostante ciò, è certo che abbia avuto un ruolo non trascurabile per quanto riguarda i trasporti fluviali e marittimi e la sua importanza fu tale che, all’indomani dei drammi dell’autunno del medioevo, i grandi laici ed ecclesiastici non hanno risparmiato i loro sforzi, malgrado una certa penuria di mano d’opera, mentre si affermava di nuovo la domanda, per ricostituire le piantagioni dei vigneti. Il periodo moderno avrebbe proseguito questi lavori, contribuendo lentamente ad una selezione sempre più rigorosa della qualità dei vitigni e del prodotto presente sul mercato. 66 MANUEL VAQUERO PIÑEIRO* Vigne e vino nella penisola Iberica Fecit ecclesias et plantavit vineas (diploma carolingio, IX sec.) Pan e vino sono los frutos de la tierra de que los omes mas se aprobechan (Las Siete Partidas di Alfonso X) L’agricoltura nelle regioni dell’Europa mediterranea subì una trasformazione radicale a causa della conquista islamica. Mi limito a ricordare alcuni aspetti salienti di una vicenda per altro verso ampiamente nota: a partire dal secolo VIII nelle zone sotto dominazione musulmana si verificò la diffusione di nuove colture, i sistemi di irrigazione di tradizione romana furono portati a perfezionamento con l’introduzione anche di nuove tecniche, e in generale, la proliferazione di trattati e opere di agronomia1 sui più svariati argomenti pose l’agricoltura al centro di un intenso dibattito scientifico. L’impiego di concimi, il modo di effettuare la semina, la rotazione dei campi, lo studio dei suoli, le condizioni climatiche, gli impianti di irrigazione, i giardini e gli orti, le piante medicinali sono tra gli argomenti trattati da un’abbondante letteratura la quale, opportunamente tradotta, avrà poi grande influenza in tutta l’Europa. In considerazione dell’intensità dei cambiamenti, alcuni autori si spingono a parlare apertamente di una vera e propria «Arab Agricultural Revolution»2 o 1 L. BOLENS, Les méthodes culturales au Moyen-Age d’après des traités d’agronomie andalouse: traditions et techniques, Gèneve 1974; EAD., Agronomes andalous du Moyen Age, Gèneve 1981; J. VALLVÉ, La agricultura en Al-Andalus, «Al-Qantara», III/1-2 (1982), pp. 261-293. 2 A.W. WATSON, The Arab Agricultural Revolution and its diffusion, 700-1100, «The Journal of Economic History», XXXIV/1 (1974), pp. 8-35. * Università La Sapienza, Roma. 67 «Arab Green Revolution»3; in questo senso si ricorda come l’introduzione nell’Occidente di piante quale il gelso, il riso, il cotone, la canna da zucchero, gli agrumi, andò a modificare in maniera sostanziale il paesaggio agrario di ampie zone della penisola Iberica4 e della Sicilia ma allo stesso tempo appare evidente l’importanza di una popolazione non più dipendente unicamente dall’andamento del raccolto del grano, senza dimenticare con ciò l’incidenza che nel corso dei secoli medievali alcune di queste specie vegetali ebbero nel settore della produzione tessile o dei traffici commerciali5. Il quadro appena delineato nei suoi tratti più sommari consente di dire che se da un verso gli arabi portarono un patrimonio di conoscenze e di pratiche agricole, dall’altro con l’occupazione della penisola Iberica si trovarono pure loro a confrontarsi con una struttura agricola consolidata – quella del regno visigoto – all’interno della quale il vigneto aveva un ruolo centrale. Il contatto di società così distanti nel modo di concepire il vino e il suo consumo, portano a ritenere il vigneto come parte di uno spazio sociale – quello della penisola Iberica – in movimento, condizionato da pressanti esigenze militari e da una società organizzata in funzione della guerra. Una storia agraria e sociale allo stesso tempo che nel lungo periodo e a seconda l’area culturale di riferimento (musulmani - cristiani) assume dunque differenti significati e testimonia rapporti economici e assetti produttivi di varia natura. Lasciando in secondo piano gli aspetti attinenti le pratiche culturali e la vinificazione, a grandi linee la storia del vigneto nella penisola Iberica durante il Medioevo può essere divisa in quattro grandi periodi: 1) l’epoca del regno visigoto; 2) i secoli VIII-X con una netta distinzione tra i regni cristiani del nord e la parte meridionale (al-Andalus) sotto la dominazione dell’Islam; 3) i secoli 3 T.I. GLICK, Islamic and Christian Spain in the Early Middle Ages. Comparative Perspectives on Social and Cultural Formation, Princeton 1979, p. 76. 4 T.I. GLICK, Irrigation and Society in Medieval Valencia, Massachussetts 1970; A.W. WATSON, Innovaciones en la agricultura en los primeros tiempos del mundo islámico, Granada 1998; A. RIERA I MELIS, Las plantas que llegaron de Levante. Acerca del legado alimentario islámico en la Cataluña medieval, «Anuario de Estudios Medievales», 31/2 (2001), pp. 787-841. 5 68 In questo settore la storia della canna da zucchero e la sua importanza nei processi di colonizzazione delle isole dell’oceano Atlantico risulta molto evidente, T.I. GLICK, Regadío y técnicas hidráulicas en al-Andalus, in I seminario internacional sobre la caña de azúcar. La caña de azúcar en los tiempos de los grandes descubrimientos (1450-1550), Granada 1990, pp. 83-98; A. FÁBREGAS GARCÍA, Producción y comercio de azúcar en el Mediterráneo medieval: el ejemplo del Reino de Granada, Granada 2000. XI-XIII di avanzata del processo di riconquista e repoblación, e di crescita dei traffici commerciali intorno alle città del cammino di Santiago; 4) i secoli XIVXV con la conquista dell’Andalusia e l’inserimento della penisola Iberica nell’ambito degli scambi commerciali tra il Mediterraneo e l’Atlantico. Il vigneto nel regno visigoto Valicati i Pirenei, i visigoti arrivarono nella penisola Iberica nel V secolo e dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente conservarono inalterato il sistema economico preesistente incentrato sul lavoro servile e la produzione agricola delle grandi ville patrizie. In un generalizzato processo di ruralizzazione acuito dalla scarsa vitalità dimostrata da un ridotto numero di centri urbani6, le leggi e le disposizioni conciliari della chiesa visigota evidenziano l’importanza che conservò la coltivazione della vite7. Oltre ad Isidoro di Siviglia che nei suoi scritti ne parla, sono numerose le testimonianze di carattere legislativo attinenti la protezione delle aree riservate a vigneto e al disciplinamento del ciclo dell’uva. Nella Lex Visigothorum promulgata nel 654 sono, infatti, frequenti i richiami alle vineae, al fructus vineae e alla vendemmia a dimostrazione di come il consumo di vino fosse largamente diffuso e come il vigneto fosse una delle coltivazioni dominanti, soprattutto all’interno della struttura patrimoniale delle grandi unità fondiarie. Anche nei concili della chiesa di Toledo sono ricorrenti gli interventi su temi riguardanti la difesa dei vigneti, in particolare si insiste sulla necessità di provvedere al risarcimento dei danni causati dal bestiame, così come sull’adempimento di obblighi fiscali e sul rinvio di cause e procedimenti giudiziari durante il periodo della raccolta dell’uva che per legge doveva svolgersi tra il 15 di settembre e il 15 di ottobre8. Insomma un insieme di notizie e misure che, sebbene non consentano di far emergere in concreto i differenti tipi d’uva esistente, le pratiche agricole impiegate, le tecniche di trasformazione, in generale consentono però di cogliere la rilevanza che aveva il vigneto nel paesaggio agrario della penisola Iberica duran6 J.A. GARCÍA DE CORTÁZAR, La época medieval, Madrid 1981, pp.16-17. 7 G. ARCHETTI, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998 (Fondamenta, 4), p. 37. 8 H. HALLEGO FRANCO, La cultura del vino en la España visigoda: un análisis de las fuentes jurídicas, in Actas del I encuentro de historiadores de la viticoltura española, El Puerto de Santa María 2000, pp. 193-205. 69 te il VII secolo9 e la produzione di vino che, soprattutto per esigenze di carattere liturgico, condizionava in larga parte il ritmo annuale dei lavori nei campi. Questa situazione subisce una modifica radicale a partire dal 711 quando gli arabi, senza trovare alcuna resistenza militare, liquidarono il regno visigoto annettendosi quasi per intero il territorio peninsulare10. Da questo momento in poi per la storia del vino nella penisola Iberica si possono distinguere due società, due culture che si evolvono in parallelo: da una parte, a Nord, tra i monti Cantabrici e il mare, ove le popolazioni cristiane che non avevano voluto rimanere a vivere sotto la dominazione musulmana, trovarono rifugio; e dall’altra – a Sud – dove il vigneto, pur in presenza dei rigidi precetti coranici che vietavano il consumo di vino, rimase e la produzione d’uva si evolse verso un’agricoltura molto specializzata. Secoli IX-X: i regni cristiani del Nord e al-Andalus Protette da alte montagne e con un clima poco adatto all’agricoltura di tipo mediterraneo, le tribù che abitavano la parte nord della Spagna, rimasero sostanzialmente al margine dell’organizzazione economico-amministrativo imposta dall’impero romano, il quale, mediante uno stanziamento permanente di contingenti armati, cercava anzitutto di garantire un controllo militare senza, per contro, incentivare un effettivo processo di assimilazione11. Per questo motivo la romanizzazione della fascia nord della penisola Iberica fu molto superficiale, pronta a sgretolarsi al minimo segnale di debolezza o crisi del potere centrale. Neppure durante il regno dei visigoti, i “popoli del nord” (asturi, cantabri e anche i baschi) furono sottomessi, limitandosi la corte di Toledo, una volta constatato l’insuccesso delle ripetute spedizioni militari12, a predisporre una linea di 9 Sul vigneto e il vino nell’Europa altomedievale, v. I. IMBERCIADORI, Vite e vigna nell’alto Medioevo, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’alto medioevo, Spoleto 1966 (Settimane di studi del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 13), pp. 307-342; A.I. PINI, Vite e olivo nell’Alto Medioevo, in L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo, Spoleto 1990 (Settimane di studi del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 37), pp. 329-370. 10 F. GABRIELI, La spinta araba nel Mediterraneo nell’VIII secolo, in I problemi dell’Occidente nel secolo VIII, Spoleto 1973 (Settimane di studi del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 20), pp. 413-431. 70 11 A. BARBERO, M. VIGIL, Sobre los orígenes sociales de la Reconquista, Madrid 1979. 12 BARBERO, VIGIL, Sobre los orígenes, pp. 52-67. fortezze e presidi militari al fine di respingere le periodiche razzie che questi popoli – descritti da tutte le fonti come dei “banditi”, “barbari” e “feroci” – compivano nelle fertili pianure della Castiglia13. Si può quindi comprendere l’effetto dirompente del contatto, avvenuto nel corso del secolo VIII, di due modelli sociali contrapposti: i cristiani che fuggendo dagli arabi portavano con sé un’economia di tipo mediterranea, una chiesa strutturata, e una gerarchia sociale e di potere monarchico di carattere pre-feudale14, e ad accoglierli un eterogeneo insieme di tribù e clan sorretti da strutture gentilizie, un’economia silvo-pastorale e un mondo religioso fatto di divinità e credenze ancora preromane. A giudicare dai punti di partenza così lontani e dissimili, lo scontro socio-culturale dovette essere violento e ne uscì vincitore il modello più forte, quello imposto dai visigoti in fuga. Perciò durante l’VIII e con più intensità nel IX secolo cominciò un rapido processo di acculturazione dei “popoli del Nord” che, di fatto, determinò la nascita della società dei regni cristiani della penisola Iberica15. Con l’arrivo della grande proprietà ecclesiastica e feudale si consolidarono i vincoli di dipendenza servile, si avviò la cristianizzazione della popolazione indigena, e il paesaggio agrario, lì dove da sempre dominava il bosco, cambiò pelle con i dissodamenti e la diffusione di campi coltivati a grano e a vigneto16. Nel fondovalle e sui pendii soleggiati il manto boschivo fu sostituito da seminati e filari, e in certe zone, particolarmente favorite dal clima, la coltura viticola conobbe un discreto successo. Una di queste aree, geograficamente molto circoscritta, adatte alla coltura della vite è la valle di Liébana, tra le Austurie e la Cantabria, dove il monastero di Santo Toribio nel corso dei secoli IX e X venne in possesso di un gran numero di aree vitate17. Per un altro dominio monastico 13 BARBERO, VIGIL, Sobre los orígenes, pp. 67-73. 14 A. BARBERO, M. VIGIL, La formación del feudalismo en la Península Ibérica, Barcelona 1979. 15 J.A. GARCÍA DE CORTÁZAR, Del Cantábrico al Duero, in Organización social del espacio en la España medieval. La Corona de Castilla en los siglo VIII a XV, Barcelona 1985, pp. 43-83; ID., La sociedad rural en la España Medieval, Madrid 1988, pp. 17-27. 16 J. GARCÍA FERNÁNDEZ, Organización del espacio y economía rural en la España atlántica, Madrid 1975, pp. 284-328. 17 J.A. GARCÍA DE CORTÁZAR, C. DÍEZ HERRERA, La formación de la sociedad hispano-cristiana del Cantábrico al Ebro en los siglos VIII a XI. Planteamiento de una hipótesis y análisis del caso de Liébana, Asturias de Santillana y Trasmiera, Santander 1982, pp. 173-176. 71 nel nord della Spagna, San Juan Bautista de Corias, sulla valle del fiume Narcea, le prime testimonianze della presenza di vigneti risalgono alla fine del IX secolo18. Da questi due primi esempi si evince un tratto che, come si vedrà in seguito, sembra contraddistinguere l’intera storia della vitivinicoltura nella Spagna cristiana, vale a dire il ruolo fondamentale giocato dagli enti ecclesiastici. Al di fuori di ridotte zone avvantaggiate dagli effetti benefici di un clima mite e con una struttura fondiaria dominata dai complessi patrimoniali dei monasteri, nel nord della penisola le rigide condizioni climatiche e l’alta umidità del suolo rendevano estremamente problematica la maturazione dell’uva; al massimo, utilizzando pergolati e filari rialzati, le famiglie contadine solo con grande fatica riuscivano ad ottenere un raccolto sufficiente per rispondere al fabbisogno domestico con dei vini a bassa gradazione e di scarsa qualità. Quindi niente di simile a quelle «due Italie, quella padana e quella peninsulare» prospettate da Antonio Ivan Pini «unificate in età romana e in parte anche preromana dalla coltura della vite e dell’olivo e dalla cultura del vino e dell’olio»19. Verso est (tav. 1), da Alava fino alle propaggini meridionali dei monti Pirenei, zone della Marca Hispanica contraddistinte da un maggior tasso di romanizzazione e dove si faceva sentire più direttamente l’influsso del regno carolingio, una consolidata presenza del vigneto è attestata già dal IX secolo20. Nella contea della Catalogna si hanno delle testimonianze sulla piantagione di viti nuove (majuelos) tra il IX e il X secolo21, un precocce sviluppo della viticoltura da mettere in relazione alla presenza in quest’area di un certo numero di centri urbani (Barcellona, Girona, Vic, Manresa...) capaci di alimentare degli interscambi commerciali e un’agricoltura in chiara fase di trasformazione. Per l’anno 957 ci sono delle indicazioni sull’esistenza di magazzini (cellarios), torchi per la spremitura (torculari) e botti per conservare il vino (cupas), ma il contenuto delle clausole testamen- 18 MaE. GARCÍA GARCÍA, San Juan Bautista de Corias. Historia de un señorío monástico asturiano (siglos XXV), Oviedo 1980, p. 236. 19 PINI, Vite e olivo, pp. 334-335. 20 S. RUÍZ DE LOIZAGA, La viña en el Occidente de Alava en la Alta Edad Media (850-1150). Cuenca OmecillaEbro, Burgos 1988, pp. 26-41; M.C. ESTELLA ALVAREZ, El viñedo en Aragón, Zaragoza 1981, pp. 14-15. 21 72 A. RIERA I MELIS, “Os doy una parcela de tierra para que plantéis una viña de buenas vides y la cultivéis”. El vino en Cataluña, siglos IX-XIII, in Vino y viñedo en la Europa Medieval, a cura di F. Miranda García, Pamplona 1996, pp. 13-38, a p. 15; P. BONNASSIE, Le vignoble catalan aux alentours de l’An Mil, in Le vin au Moyen Âge: production et producteurs, Grenoble 1971, pp. 53-79. tarie e degli atti di donazioni fanno ritenere che la produzione di vino fosse molto diffusa in tutti i gruppi e ceti sociali22. Mentre prima del Mille nel nord della penisola il vigneto si espandeva tra molte difficoltà e ostacoli, nel sud sotto la dominazione arabo-musulmana la situazione era ben diversa. Come già accennato in precedenza, il Corano vieta il consumo di alcol23 ma non quello dell’uva, inoltre i nuovi dominatori si trovarono di fronte ad una realtà agricola funzionante e a dover convivere con delle comunità locali che erano abituate a bere vino. In questo senso la presenza di consistenti comunità di mozárabi e di ebrei nelle città meridionali favorì tanto la continuazione delle vigne quanto la commercializzazione e il consumo di mosti e bevande fermentate24. Neppure nei momenti di maggiore ortodossia religiosa sotto gli Almoràvidi (1061-1147) e gli Almohadi (1146-1212) si riuscì a debellare una pratica molto radicata negli usi e costumi della popolazione musulmana della penisola Iberica25. Le reiterate disposizioni ricordando l’obbligo di astenersi dal consumo di vino testimoniano infatti lo sforzo – in verità con scarso successo – condotto dalle autorità islamiche per adeguare le abitudini delle persone alle normative di carattere religioso. Nell’882, prima di morire, l’emiro al-Hakam I ordinò la distruzione dei magazzini di vino di Cordova, mentre il suo successore, al-Hakam II fu consigliato a non desistere dall’ordinare lo sradicamento di tutte le vigne di al-Andalus. Allo stesso modo il visir di Granata ‘Abd Allah cercò di vietare il consumo di vino, ma i giovani della città continuarono a riunirsi per bere e divertirsi26. Altri califfi ed emiri praticarono invece una politica molto più tollerante e le cronache del tempo raccontano come gli stessi ‘Abd al-Rahman III e suo figlio ‘Abd al-Malik al-Muzaffar non rifiutavano mai una coppa di buon vino27. 22 RIERA I MELIS, Os doy una parcela, pp. 19-20. 23 Sul vino nella cultura arabo-musulmana, cfr. P. Branca in questo stesso volume. Anche, T. DE CASTRO MARTÍNEZ, La alimentación en la cronística almohadi y nazarí: acerca del consumo del vino, in La Mediterrània. Area de convergncia de sitemes alimentaris (segles V-XVIII), Palma de Mallorca 1996, pp. 591-614. 24 Per la Sicilia si vedano le considerazioni di PINI, Vite e olivo, pp. 342 e 347. 25 ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 37-39. Per le abitudini alimentari della popolazione araba della penisola Iberica, M. ESPADAS BURGOS, Aspectos sociorreligiosos de la alimentación española, «Hispania», 131 (1975), pp. 537-565; T. DE CASTRO MARTÍNEZ, La alimentación castellana e hispanomusulmana bajomedieval. Apuntes para la definición de dos códigos, in Alimentazione e nutrizione secc. XIII-XVIII, Firenze 1997 (Settimana di studi Istituto internazionale di storia economica “F. Datini”, 28), pp. 797-806. 26 A. HUETZ DE LEMPS, Vignobles et vins d’Espagne, Bordeaux 1993, pp. 30-32. 27 VALLVÉ, La agricultura, p. 290. 73 Grazie ai numerosi trattati arabi di agricoltura28 conosciamo abbastanza bene la varietà di uva esistenti e gli accorgimenti tecnici impiegati durante il lungo ciclo produttivo del vino. Molta dell’uva prodotta in al-Andalus veniva destinata al consumo di frutta fresca, godendo di speciale fama l’uva acebibe per la carnosità dei suoi chicchi; risultavano anche molto richieste le varietà provenienti dalle zone di Málaga, Marbella, Almuñécar, Jerez, Ibiza ed Elche; nel Levante erano famosi i vigneti della zona di Valencia, di Lorca, i cui grappoli arrivavano a raggiungere le cinquanta libbre di peso, o di Saragozza che si potevano conservare perfettamente per sei anni. Del vicino Portogallo va ricordata l’uva di Coimbra, Faro e Idanha29. A dimostrazione dell’estrema ricchezza agricola nelle fonti si trova menzionata l’uva della zona di Granada, il moscatello, l’alarije, ossia l’uva coltivata nei pergolati. Un mercante della città di Ceuta arriva addirittura a quantificare in sessantacinque le classi o varietà d’uva che si potevano trovare nelle città arabe della Spagna. Oltre alla produzione di vino e al suo consumo come frutta fresca, molta dell’uva raccolta veniva lasciata seccare per ottenere l’uva passa. In generale, si trattava d’uva molto dolce e i vini o liquori ottenuti avevano un elevato contenuto di zuccheri e «ciò spiega senza dubbio la predilezione per le bevande dolci a base di mosto, per gli sciroppi o il vino cotto»30. Per quanto riguarda i sistemi di coltivazione, l’agronomo Ibn Bassal individua quattro procedimenti prestando particolare attenzione ad un tipo di vigneto la cui coltivazione inizia nel mese di novembre in suoli sabbiosi e leggeri per consentire di avere verso il mese di ottobre un raccolto di eccezionale qualità31. I consigli contenuti nelle opere di agricoltura si riferiscono, per citare soltanto alcuni dei punti sviluppati con dovizia di particolari, al modo di effettuare gli innesti, al periodo idoneo per l’introduzione di piante di altre regioni, alla potatura delle piante e al trattamento della vite come alberi da giardino32. Tuttavia gli autori arabi si soffermano anche sul modo di condurre la vendemmia che doveva comin- 28 Cfr. sopra la nota 1. Per la coltivazione dell’uva nei trattati di area europea, J.-L. GAULIN, Tipologia e qualità dei vini in alcuni trattati di agronomia italiana (sec. XIV-XVII), in Dalla vite al vino. Fonti e problemi della vitivinicoltura italiana medievale, Bologna 1994, pp. 59-84. 29 VALLVÉ, La agricultura, p. 289. 30 ARCHETTI, Tempus vindemie, p. 39. 31 VALLVÉ, La agricultura, p. 288. 32 74 E. GARCÍA SÁNCHEZ, Cultivos y espacios agrícolas irrigados en Al-Andalus, in Agricultura y regadío en AlAndalus, II Coloquio de Historia y Medio físico, Almería 1996, pp. 17-37. ciare verso la fine del mese di settembre. Con il mosto ricavato dalla torchiatura degli acini si ottenevano degli sciroppi particolarmente densi, essendo più diffuso quello realizzato con l’aggiunta d’acqua, ma non mancavano altre bevande molto raffinate a base di succo di melocotogno zuccherato, miele e una grande varietà di aromi e spezie. In questo universo gastronomico fatto di un’infinità di odori e aromi, il vino più famoso, anche fuori da al-Andalus, divenne quello prodotto nella zona di Malaga. Insieme a vini più o meno fermentati e sciroppi, l’uva veniva destinata anche alla produzione di aceto, da consumare, così risulta stabilito, come condimento in cucina ma anche nella lavorazione del cuoio33. Appare chiaro da quanto detto fin qui come, agli occhi di qualsiasi viaggiatore che intorno al Mille avesse attraversato la penisola Iberica da nord a sud, apparisse stridente il confronto tra due civiltà agrarie così profondamente differenti34. Alle vallate cristiane della cordigliera Cantabrica o dei Pirenei – in cui la popolazione si concentrava in villaggi di poche case quali punti focali di un reticolo parcellare dominato da campi aperti seminati a grano, vigneti e dagli orti strappati a fatica al bosco, con delle rese condizionate dai rigori climatici e da un basso apporto di tecnologia –, facevano da contrappunto le fertili e urbanizzate pianure dell’Ebro e del Guadalquivir, dove come in un giardino cresceva un’infinità di piante, le ruote idrauliche consentivano l’irrigazione dei campi, i raccolti erano abbondanti e i frutti dolci e carnosi. Due mondi che, anche dal punto di vista delle rispettive agricolture, apparivano distanti e diversi, ma i cui destini li avrebbero portati a contrastarsi per più di quattro secoli, senza perdere mai la capacità di alimentare un intenso flusso di scambi e di prestiti culturali, economici e sociali che superavano facilmente i limiti di una frontiera a maglie larghe. La crescita dei secoli XI-XIII: la riconquista e il cammino di Santiago Con la scomparsa nel 1035 del califfato degli Omayyadi di Córdoba la geografia politica dell’al-Andalus si frantumava in un pulviscolo di stati e ridotte unità politiche (i regni di taifas) minati al loro interno da cruente faide familiari e in permanente stato di belligeranza. Approfittando del profondo stato di debolezza del 33 J.L. MARTÍN GALINDO, Almería. Paisajes agrarios. Espacio y sociedad. De la agricultura morisca a los enarenados e invernaderos actuales, Valladolid 1988, pp. 132-133. 34 GLICK, Islamic and Christian, pp. 51-109. 75 fronte islamico, i monarchi dei differenti regni cristiani che nel frattempo si erano consolidati a nord (León, Castiglia, Navarra, Aragona e Catalogna) si trovavano nelle condizioni di intraprendere un’energica azione di espansione territoriale rendendo ormai sicura la conquista di intere zone che ancora per tutto il X secolo erano state scenario di razzie e distruttive campagne militari35. La frontiera ispanomusulmana si spostava verso sud e nella retroguardia dell’avanzata cristiana la coltivazione della vite dilagava. Il considerevole aumento delle testimonianze scritte a partire dai primi decenni dell’XI secolo sulla piantagione di nuove vigne e la proliferazione di contratti riguardanti le terre vitate, rappresentavano un chiaro segnale di famiglie e comunità contadine saldamente stabilizzate sul territorio. Lungo una linea senza interruzioni che procede da ovest a est, la vite in quanto coltivazione che fissa gli uomini e le strutture sociali, svolge un ruolo molto importante nel processo di repoblación36 attuato a partire dai primi decenni dell’XI secolo. In questo periodo si consolida la grande proprietà ecclesiastica, anzitutto quella appartenente agli enti monastici37. Nella Rioja il monastero di San Millán de la Cogolla è un evidente esempio dello stretto rapporto tra sviluppo della viticoltura nella Spagna cristiana e il monachesimo benedettino38. Nella valle del Duero troviamo lo stesso legame nel caso dei monasteri di Sahagún39, di San Pedro de Cardeña40, di Santa María de Valbuena41 e di Santa María de Moreruela42, la cui produzione vitivinicola serviva tanto per coprire le proprie necessità liturgiche e di alimentazione quanto per rifornire i vicini mercati di Valladolid, Burgos, León, Zamora e altri piccoli centri urbani della Castiglia settentrionale. 35 GARCÍA DE CORTÁZAR, Del cantábrico al Duero, pp. 48-58. 36 Sul processo di ‘ripopolamento’ si veda il sintetico inquadramento di S. DE MOXÓ, Repoblación y sociedad en la España cristiana medieval, Madrid 1979. 37 A. MARTÍNEZ TOMÉ, El monasterio cisterciense en el origen de los vinos españoles, Madrid 1991. 38 J.A. GARCÍA DE CORTÁZAR, El dominio del monasterio de San Millán de la Cogolla (siglos X al XIII). Introducción a la historia rural de Castilla altomedieval, Salamanca 1969, pp. 289-292. 39 J.M. MÍNGUEZ FERNÁNDEZ, El dominio del monasterio de Sahagún en el siglo X. Paisajes agrarios, producción y expansión económica, Salamanca 1980, pp. 161-170; E. MARTÍNEZ LIÉBANA, El dominio señorial del monasterio de San Benito de Sahagún en la Baja Edad Media (siglos XIII-XV), Madrid 1990. 40 S. MORETA VELAJOS, El monasterio de San Pedro de Cardeña. Historia de un dominio monástico castellano (902-1338), Salamanca 1971. 76 41 MARTÍNEZ TOMÉ, El monasterio, pp. 61-66. 42 MARTÍNEZ TOMÉ, El monasterio, pp. 67-74. Nella crescita del vigneto e della produzione di vino nei regni di Navarra, Castiglia e León, oltre a motivi riconducibili a condizionamenti di carattere culturale-religioso, fu determinante la nascita del cammino di Santiago (tav. 2) e il viavai di pellegrini che, dalla seconda metà del X secolo, si mettevano in viaggio da tutte le parti dell’Europa per recarsi a pregare dinanzi la tomba dell’apostolo Giacomo43. Con loro nella penisola Iberica riprese la circolazione delle merci mentre la crescita demografica e commerciale dei centri urbani dislocati lungo la rotta del pellegrinaggio44 sollecitava la progressiva specializzazione agricola che nell’arco di pochi decenni si tradusse in un paesaggio rurale organizzato in funzione delle esigenze dei mercati cittadini. Nel contesto europeo di generale accelerazione degli interscambi e della circolazione di beni e persone, a trarre vantaggio furono le signorie monastiche soprattutto quando a ridosso del cammino sancti Iacobi nascevano dei centri abitati di una certa rilevanza. È il caso molto eloquente della città di Estella, fondata nel 1090 dal re navarro Sancho Ramírez a pochi chilometri dal monastero cluniacense di Santa María de Irache45. Ai nuovi abitanti di Estella, tra i quali artigiani e maestri provenienti dall’altra parte dei Pirenei, venivano concessi ampi privilegi giuridici ed economici, e la città, situata nella parte meridionale del regno della Navarra, si trasformò nel corso del XII secolo in un nucleo commerciale animato da un mercato agricolo. Un crocevia dunque di grande valore economico che modificò in profondità la configurazione del paesaggio agrario circostante. Allo stesso tempo che la popolazione cresceva e il tessuto edilizio si espandeva con la formazione di nuovi quartieri e parrocchie, la produzione agricola si evolse con la creazione di un’ampia fascia viticola intorno alla città46. Partecipando ad un fenomeno di 43 Sul pellegrinaggio a Compostella e sulle implicazioni del cammino di Santiago a livello spagnolo e europeo, L. VÁZQUEZ DE PARGA, J.M. LACARRA, J. URÍA, Las peregrinaciones a Santiago de Compostela, Madrid 1948-49; El camino de Santiago y la articulación del espacio hispánico, XX Semana de Estudios Medievales, Pamplona 1994; G. CHERUBINI, Santiago di Compostella. Il pellegrinaggio medievale, Siena 1998. 44 J. GAUTIER DALCHÉ, Historia urbana de León y Castilla en la Edad Media (siglos IX-XIII), Madrid 1979, pp. 67-80; J. PASSINI, El espacio urbano a lo largo del Camino de Santiago, in El Camino de Santiago, pp. 247-269. 45 E. GARCÍA FERNÁNDEZ, Santa María de Irache. Expansión y crisis de un señorío monástico navarro en la Edad Media (958-1537), Bilbao 1989. 46 M. VAQUERO PIÑEIRO, El paisaje agrario del señorío monástico de Santa María de Irache (958-1222). Contribución al estudio del campo navarro de la Alta Edad Media, in Primer congreso general de historia de Navarra. 3. Edad Media, Pamplona 1988, pp. 217-223. 77 valenza europea47, il numero di vigneti proprietà del monastero di Santa María de Irache si duplicò tra i secoli XI e XII e, ciò che ancora risulta più significativo, fu portata a termine una marcata concentrazione spaziale attorno Estella o nelle prossimità di altri villaggi distribuiti lungo il percorso del cammino di Santiago48. Ugualmente nella documentazione del monastero cresce il numero di riferimenti a nuovi vigneti, alla concessione di appezzamenti allo scopo di provvedere all’introduzione della vite, e all’uso sistematico dei contratti ad complantatio o ad laborandum nel caso di messa a coltura di terreni abbandonati. Ma le sollecitazioni provenienti dal mercato urbano si fanno sentire anche per altre importanti novità. La vite non era più coltivata in piccoli appezzamenti isolati ma i vitigni venivano accorpati in ampie estensioni delimitate da cammini e vie, che consentivano un facile accesso e un altrettanto comodo trasporto dell’uva nel periodo della vendemmia. Molti degli affittuari dei vigneti del monastero di Irache, dislocati nell’area suburbana di Estella, erano artigiani del settore del cuoio, ciò aiuta a comprendere la frequenza con cui la vite viene associata alla coltivazione dello zumaque o scotano49, un arbusto della famiglia delle anacardiacee adatto per siepi, dal quale si ottenevano delle sostanze impiegate tanto per colorare i tessuti quanto per la concia delle pelli e del cuoio. Ancora nell’ambito del regno di Navarra oltre la grande proprietà monastica anche la corona vantava un considerevole numero di vigneti. In totale appartenevano al demanio 598 appezzamenti distribuiti tra 57 località per una superficie complessiva di 208 ettari ma in questo caso la dimensione media di ogni singola unità viticola era di appena 0,3 ettari50. Dalla distribuzione geografica dei vigneti di proprietà della corona (Pamplona, Olite, Tudela) la produzione di vino, oltre ad essere una fonte di reddito sicura, era diretta ad assicurare anzitutto l’approvvigionamento della casa reale nei suoi frequenti spostamenti. L’evoluzione del paesaggio agrario riscontrato intorno a Estella serve da modello per la disamina dello sviluppo dei vigneti intorno alla città di Nájera, nella Rioja, fino al 1076 capitale di un regno cristiano indipendente51. Nel corso 47 G. DUBY, Guerreros y campesinos. Desarrollo inicial de la economía europea (500-1200), Barcelona 1980, p. 301. 48 F. MIRANDA GARCÍA, Producción y comercio del vino en la Navarra medieval, in Vino y viñedo, pp. 55-74. 49 VAQUERO PIÑEIRO, El paisaje agrario, p. 220. 50 MIRANDA GARCÍA, Producción y comercio, p. 66. 51 78 Mª. C. FERNÁNDEZ DE LA PRADILLA MAYORAL, El reino de Nájera (1035-1076). Población, economía, sociedad, poder, Logroño 1991. dell’XI secolo si fanno più frequenti le allusioni a cantine, a torchi e sembra si riesca a coprire una domanda in crescita grazie alla dislocazione degli appezzamenti in zone dedite esclusivamente alla coltivazione delle vigne. Anche in questa circostanza dietro le novità introdotte si individua la decisa volontà dei centri monastici – San Millán de la Cogolla – di consolidare il loro dominio sulla regione mediante una sistematica politica di allargamento delle aree vitivinicole52. Senza abbandonare la rotta del cammino di Santiago, nell’area del Duero53 lo sviluppo delle vigne nei secoli XI e XIII si inquadra all’interno delle dinamiche patrimoniali dei principali enti monastici della regione e tra le zone produttrici di vino di qualità cominciano a emergere Medina del Campo e Toro. Se rivolgiamo invece l’attenzione al regno di Aragona54, notiamo che l’orientamento est-ovest predominante nelle regioni della Castiglia e della Navarra, sviluppatosi a seguito l’articolazione socio-economica imposta dal cammino di Santiago, viene sostituito da un asse verticale nord-sud. Per l’XI secolo le testimonianze della presenza di vigneti si riferiscono a località (Jaca) e monasteri (San Juan de la Peña) situati nella parte pirenaica della provincia di Huesca. Dopo questa fase iniziale, negli ultimi anni del secolo la linea del vigneto aragonese si sposta fino alle porte della città di Huesca ma il grande salto in avanti si compie a partire dal 1118 in seguito alla conquista di Saragozza e la conseguente l’annessione della fertile pianura dell’Ebro (tav. 3). Per la prima volta i cristiani entrano in contatto diretto con le tecniche e i sistemi agricoli praticati dai musulmani, a cominciare dall’irrigazione dei vigneti. Nel corso del XII secolo la viticoltura raggiunge i sobborghi di Calatayud, Daroca e Albarracín per arrivare all’inizio del XIII secolo a occupare le terre intorno alla città di Teruel, nell’estremo lembo meridionale del regno. Nel confinante contado della Catalogna si verifica un andamento cronologico similare a quello riscontrato per gli altri regni cristiani iberici. Prima della fine dell’XI secolo la vite domina il paesaggio agrario della ‘Catalogna vecchia’ addensandosi in modo particolare presso le città di Barcellona, Gerona, Vic o Manresa; con il XII secolo sono i distretti cittadini di Lerida e Tortosa, nel basso Ebro, ad essere coinvolti in questo progressivo avanzamento del vigneto. È stato calcolato che i vigneti venduti, in relazione all’insieme di proprietà fondia52 FERNÁNDEZ DE LA PRADILLA MAYORAL, El reino de Nájera, pp. 182-186. 53 P. MARTÍNEZ SOPENA, El viñedo en el valle del Duero durante la Edad Media, in Vino y viñedo, pp. 85-108. 54 ESTELLA ALVAREZ, El viñedo, pp. 14-44. 79 rie motivo di transazione, passarono dal 15% nel 950 al 40% nel 103055. Anche in queste zone i cristiani si trovarono con una struttura produttiva pienamente funzionante che, fra l’altro, garantiva rendimenti più alti. Dall’insieme dei dati raccolti fin qui, riferiti a tutti i regni cristiani della penisola Iberica, è possibile tentare un minimo di analisi comparativa capace di evidenziare, pur tra tante situazioni particolari e strutture regionali molto specifiche, una serie di tratti comuni che consentano di arrivare ad una visione complessiva del vigneto nella Spagna durante i secoli centrali del medioevo. Dalla Catalogna alla Castiglia passando per l’Aragona e la Navarra risulta palese lo stretto legame che intercorre tra sviluppo del vigneto, consolidamento dei patrimoni monastici e crescita demografica delle città. Anzi si potrebbe quasi aggiungere che ad ogni zona produttrice di vino corrisponde un ente ecclesiastico e un nucleo abitato di una certa consistenza. Il risultato, come ben rispecchia la distribuzione geografica elaborata da Huetz de Lemps (tav. 4)56, è una mappa a macchia di leopardo limitata nella parte settentrionale della penisola. A dominare sono dunque gli imperativi legati al rifornimento dei mercati locali, nei casi – non sempre – che una volta soddisfatto l’autoconsumo, ci fossero ancora eccedenze da vendere57. Come si vedrà più avanti, bisogna attendere il XV secolo per riscontrare l’inserimento del vino dell’Andalusia nel commercio internazionale, nel frattempo, per i secoli XII-XIII e nell’ambito dell’area nord della penisola Iberica, soltanto in alcune zone molto circoscritte il commercio del vino raggiunge una discreta dimensione regionale58. Dalla Rioja arrivava il vino ai Paesi Baschi mentre l’area di Toro riforniva le Asturie59; da Tudela e Olite, nella bassa Navarra, il vino raggiungeva i mercati della Rioja e dell’Aragona60 utilizzando, è da supporre, il trasporto fluviale sull’Ebro. In questo senso la mancanza di fiumi in grado di consentire un agevole e conveniente trasporto delle mer- 55 P.J. GALÁN SÁNCHEZ, Paisajes, hombres y alimentación en la Europa Bajomedieval Mediterránea, in Dieta mediterránea. Comidas y hábitos alimenticios en las culturas mediterráneas, Madrid 2000, p. 200. 56 HUETZ DE LEMPS, Les vins d’Espagne, p. 35. 57 S. MORETA VELAYOS, Rentas monásticas en Castilla: problema de método, Salamanca 1974, p. 127. 58 HUETZ DE LEMPS, Les vins d’Espagne, pp. 41-44. Da quanto risulta dai registri doganali, nei secoli XIV e XV il commercio di vino tra la Castiglia e l’Aragona era molto basso, v. M. DIAGO HERNANDO, El comercio de productos alimentarios entre las Coronas de Castilla y Aragón en los siglos XIV y XV, «Anuario de Estudios Medievales», 31/2 (2001), pp. 643-646. 80 59 MARTÍNEZ SOPENA, El viñedo, pp. 102-103. 60 MIRANDA GARCÍA, Producción y comercio, pp. 71-74. ci, insieme ad una rigida politica protezionistica, condizionò molto negativamente l’inserimento delle regioni del centro della Spagna nei circuiti commerciali a largo raggio; indicativo al riguardo il fatto che alle città della costa del Nord risultava più conveniente e facile rifornirsi di vino proveniente dalla Francia o dal Portogallo, fatto arrivare via mare, che non dipendere di un approvvigionamento dall’interno, costoso per le numerose gabelle da pagare e insicuro, dovendo fare affidamento su una rete di strade impraticabili durante i mesi invernali e comunque insufficiente a consentire il passaggio dei pesanti carri carichi di botti di vino. Si delinea nel complesso una situazione geograficamente molto frammentata in tante zone produttive, indipendenti l’una dall’altra e fortemente vincolate da una serie di condizionamenti geografici ma anche di carattere socio-istituzionale. Abbiamo già accennato ai freni imposti dalla politica protezionistica praticata senza distinzione dalle autorità municipali, facendo leva sui privilegi concessi dai monarchi61. A questo modo di agire, che di fatto ostacolò la formazione di un mercato di grandi dimensioni sovra-regionali e conseguentemente la nascita di operatori economici dediti alla produzione e vendita di vino su larga scala, si deve aggiungere la subordinazione della produzione agli interessi della rendita fondiaria. In realtà, né ai monasteri né ai signori feudali interessava la costruzione di grandi aziende agricole gestite da loro direttamente e orientate alla produzione di eccedenze da destinare al mercato cittadino. Per loro, invece, l’obiettivo principale era quello di suddividere la proprietà in tanti piccoli appezzamenti da poter poi cedere in locazione. Secondo questa logica tendente alla moltiplicazione dei produttori di rendita, la ridotta dimensione dei vigneti e la generalizzazione dei contratti di complantatio risultavano pienamente funzionali alla riproduzione del sistema. È vero che la documentazione spagnola di questo periodo rende molto difficile lo studio della piccola proprietà agricola allodiale, tuttavia l’impressione è che predomini una diffusa presenza di affittuari che cominciavano a pagare al proprietario un canone in denaro o in natura (da un quarto alla metà della vendemmia) soltanto dopo i primi cinque o sei anni dalla stipula del contratto, periodo durante il quale le terre risultavano esenti da qualsiasi gravame signorile, a fronte dell’impegno di metterle a frutto piantandovi delle vigne62. L’iniziale 61 MIRANDA GARCÍA, Producción y comercio, pp. 105-107 62 RIERA I MELIS, El vino en Cataluña, pp. 23-24. Il contratto ad complantatio diffuso in Spagna durante i secoli XI-XII risulta simile alla cessione ad pastinandum praticato nelle regioni italiane: A. CORTONESI, Terre e signori nel Lazio medioevale. Un’economia rurale nei secoli XIII-XIV, Napoli 1988, pp. 84-89; PINI, Vite e olivo, pp. 352-353; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 43, 263-286. 81 conduzione di complantatio, tipica delle epoche di dissodamento e colonizzazione, si volge dunque verso forme di cessione vitalizia o enfiteutica. Il risultato è la formazione di un ampio gruppo sociale di censuari, molti di loro artigiani dei centri urbani che sfruttavano il dominio utile delle vigne suburbane nell’ottica di soddisfare il fabbisogno alimentare familiare63. Del resto, soltanto gli enti ecclesiastici di maggiore consistenza patrimoniale si trovavano nelle condizioni di accumulare sufficienti eccedenze da mettere poi sul mercato locale, ma anche per un monastero o per un nobile la priorità principale era quella di provvedere al consumo domestico, molto abbondante visto gli impegni sociali oltre che religiosi a cui far fronte64. Ma se la mappa elaborata da Huetz de Lemps porta ad interrogarsi sulle ragioni che stanno alla base di una certa debolezza della viticoltura al nord del Duero, lo stesso materiale grafico mette in evidenza un’altra singolarità nella distribuzione geografica delle terre viticole nella penisola Iberica: la totale assenza di vigneti nell’area centrale. Tra la conca del Duero e l’Andalusia non vengono riportate ‘macchie’ o aree di particolare rilevanza per quanto riguarda la produzione di vino, un’assenza di riferimenti che, ad esempio nel caso della regione Castiglia-La Mancha, colpisce in maniera molto evidente. Le ragioni che aiutano a spiegare tale vuoto sono senza dubbio di carattere climatico, ma a incidere sono soprattutto gli effetti della guerra contro l’islam65. Per quasi due secoli le terre comprese fra le città della Castiglia del nord (Segovia, Avila, Salamanca) e quelle della Castiglia del sud (Toledo, Cuenca) furono una frontiera militare, una linea di combattimento e razzie che condotte da una e dall’altra parte mettevano a rischio qualsiasi raccolto o produzione, molto di più nel caso del vino che richiedeva tempi lunghi. Risulta evidente come in quest’ampia zona la viticoltura fosse incompatibile con la principale attività economica praticata: la guerra, 63 Sui comportamenti alimentari nella penisola Iberica durante l’epoca medievale, M.C. CARLÉ, Notas para el estudio de la alimentación y el abastecimiento en la Baja Edad Media, «Cuadernos de Historia de España», LXI-LXII, (1977), pp. 256-258; GALÁN SÁNCHEZ, Paisajes, hombres, pp. 183-226; a livello europeo ma contenenti numerosi contributi sulla penisola Iberica, cfr. Manger et boire au Moyen Age, II Colloque International du Centre d’Etudes Médiévales de Nice, a cura di D. Menjot, Paris 1984. Per uno stato della questione, M.A. LADERO QUESADA, La alimentación en la España Medieval. Estado de las investigaciones, «Hispania», 159 (1985), pp. 211-220. 64 L’abate di Santo Domingo de Silos comperava ogni anno 2.070 cantaras di vino prodotto dallo stesso monastero, v. MORETA VELAYOS, Rentas monásticas, p. 127. 82 65 E. PORTELA, Del Duero al Tajo, in Organización social, pp. 85-122. mezzo molto più efficace per un più facile arricchimento e promozione sociale66. Nei decenni centrali del XIII secolo, mentre la guerra era all’ordine del giorno nei territori della Castiglia, unicamente nella zona costiera di Valencia la coltivazione dei vigneti riesce a progredire. Sulla base dell’agricoltura irrigua di tradizione araba, vengono introdotte le uve malvasia per la produzione del vino “greco” molto dolce, con un alto grado alcolico e quindi maggiore durevolezza rispetto i vini “latini”67; le fonti parlano anche di altri tipi d’uva come ad esempio l’uva bobal, rustica ma molto resistente ai rigori climatici, con la quale si producevano dei vini rosati e rossi abbastanza corposi; un’altra varietà d’uva menzionata è la monastrell, impiegata per ottenere dei rossi di maggiore colore e gradazione. Tuttavia la novità maggiore è l’inizio della produzione di acquavite. Sembra che sia stato il medico valenciano Arnaldo de Vilanova il primo che, per motivi farmaceutici, cominciò la distillazione di liquori mediante il fuoco e l’impiego dell’alambicco68. Secoli XIV-XV: il vino dell’Andalusia e il commercio internazionale Tra il 1236 e il 1248 gli eserciti cristiani, dopo aver vinto le truppe almohadi nella decisiva battaglia di Las Navas de Tolosa (1212), espugnano le città di Jaén, Córdoba e Siviglia, e con esse prendono possesso della fertile pianura del Guadalquivir dove i vigneti, così raccontano le testimonianze scritte, apparivano abbondanti e rigogliosi. Si trattava, contrariamente a quanto era accaduto in precedenza, di un territorio densamente abitato, con un alto tasso di urbanizzazione, un’agricoltura di tipo mediterranea e da molto tempo inserita nei circuiti commerciali internazionali69. Dunque un insieme di fattori che determinarono anzitutto la nascita di una viticoltura destinata al rifornimento dei grandi mercati urbani della regione, 66 F. GARCÍA FITZ, Castilla y León frente al Islam. Estrategias de expansión y tácticas militares (siglos XI-XIII), Sevilla 1998, pp. 78-89; J.F. POWERS, A Society Organized for War. The Iberian Municipal Militias in the Central Middle Ages, 1000-1284, Berkely-Los Angeles-London, 1988. 67 H. ZUG TUCCI, Un aspetto trascurato del commercio medievale del vino, in Studi in onore di Federigo Melis, III, Napoli 1978, pp. 311-348, p. 315. 68 J. PIQUERAS HABA, La vid y el vino en Valencia. Una síntesis histórica, in Actas del I encuentro, pp. 285-300; su questo tema v. anche le considerazioni di A. Ghisalberti di seguito volume. 69 M. GONZÁLEZ JIMÉNEZ, Andalucía Bética, in Organización social, pp. 163-194, pp. 165-166. 83 ma anche la penetrazione dei mercanti italiani per i quali la lunga linea costiera dell’Andalusia, tra il Mediterraneo e l’Atlantico, giocava un ruolo di straordinaria importanza nell’articolazione dei rapporti commerciali con il nord d’Europa. In una prima fase le terre furono divise tra i conquistatori (repartimientos), ai quali, in funzione della condizione sociale e dell’apporto militare fornito, venne corrisposta una determinata quantità di terreni e di beni70. Le grandi aziende arabe (alquerías) furono divise in piccole proprietà e le produzioni che richiedevano un maggior apporto di tecniche e di conoscenze (riso, cotone, canna da zucchero) furono abbandonate e sostituite da cereali e terre di uso collettivo da destinare a pascolo71. Nell’arco di pochi decenni l’agricoltura dell’Andalusia compì un salto in dietro di quasi sette secoli, facendo tavola rasa di un immenso patrimonio di conoscenze teoriche e pratiche. Per quanto riguarda l’evoluzione dell’area viticola, passati i primi momenti dominati dai campi da grano e dagli oliveti72 nel corso del XIV e XV secolo la produzione di vino, sollecitata da una crescente domanda interna e internazionale, si avviò a conoscere una forte ripresa73. Giovanni di Avignone alla fine del XIV secolo parla di ben undici tipi di vini consumati a Siviglia, tra i quali il baladí e il torrontés, un vino bianco, chiaro, leggero e odoroso74. Si documenta l’aumento della superficie degli appezzamenti e nei grandi complessi patrimoniali delle sedi vescovili e degli ordini militari compaiono edifici e impianti di trasformazione che denotano la progressiva specializzazione agricola delle singole aree75. I contratti parziari di complantatio, come si è già detto, furono lo strumento giuridico largamente utilizzato per rendere più stabile l’insediamento della popolazione e consentire un rapido ripristino della produzione di terre abbandonate o sotto utilizzate. A contrassegnare la struttura della proprietà sono i piccoli appezzamenti capillarmente distribuiti tra tutti i settori sociali. A Carmona, una comu- 70 Sei aranzadas (quasi tre ettari) di vigneto per ogni nobile a cavallo e da due a tre aranzadas nel caso dei militari di fanteria, M. BORRERO FERNÁNDEZ, La viña en Andalucía durante la Baja Edad Media, in Historia y cultura del vino en Andalucía, Sevilla 1995, pp. 33-61, p. 35. 71 GONZÁLEZ JIMÉNEZ, Andalucía Bética, pp. 176-183. 72 BORRERO FERNÁNDEZ, La viña en Andalucía, pp. 35-36. 73 BORRERO FERNÁNDEZ, La viña en Andalucía, pp. 37-39. 74 M. BORRERO FERNÁNDEZ, El mundo rural sevillano en el siglo XV: Aljarafe y Ribera, Sevilla 1983, p. 84. 75 84 I. MONTES ROMERO-CAMACHO, Propiedad y explotación de la tierra en la Sevilla de la Baja Edad Media. El patrimonio del Cabildo-Catedral, Sevilla 1988, pp. 107-110. nità rurale di circa 1600 fuochi, quasi il 70% dei suoi abitanti possedeva un vigneto di un ettaro di superficie e percentuali simili si riscontrano in molte altre località a dimostrazione di come la diffusione della piccola proprietà contadina risultasse pienamente compatibile con una struttura fondiaria che vedeva nell’Andalusia del XV secolo il predominio assoluto dei grandi latifondi signorili orientati alla produzione di grano e olio76. Come in molte altre città spagnole anche nell’Andalusia si riscontrano provvedimenti e misure di carattere protezionistico a difesa dei produttori locali77. Nel 1310, ad esempio, a Siviglia e nei suoi dintorni viene vietata la vendita di vino del Portogallo e le stesse autorità cittadine, al fine di rendere la misura ancora più restrittiva, stabiliscono che soltanto il vino prodotto dagli abitanti della città poteva entrare senza dover pagare gabella o imposizione alcuna78. Nella valle del Guadalquivir – sebbene i guadagni provenienti dal vino fossero minori rispetto quelli del grano e dell’olio79 – si crearono le condizioni necessarie a favorire lo sviluppo di una produzione viticola destinata al mercato internazionale80. Tale fenomeno in particolare si verifica nelle zone di Niebla, Jeréz, Sanlúcar de Barramela, e il Puerto de Santa María81. Anche in queste zone i grandi proprietari preferirono le cessioni enfiteutiche in modo da evitare l’elevato costo della mano d’opera in cambio di una rendita in metallico o in natura. D’altra parte, le famiglie contadine e i piccoli artigiani cittadini prendevano in affitto più di un appezzamento82 nella certezza che le eccedenze sarebbero state acquistate da mercanti, nazionali o stranieri83. Tra i mercanti attivi alla fine del XV - primi anni 76 BORRERO FERNÁNDEZ, La viña en Andalucía, pp. 44-47. 77 HUETZ DE LEMPS, Vignobles et vins, p. 37. 78 BORRERO FERNÁNDEZ, La viña en Andalucía, p. 57. 79 BORRERO FERNÁNDEZ, La viña en Andalucía, p. 54. 80 Ci sono numerosse testimonianze sull’esportazione di vini dell’Andalusia via mare, «en el dichjo lugar se cogian muchos vinos, los quales se solian cargar por mar para Frandes e para Ynglaterra e para otras partes, e diz que los suelen comprar e cargar mercaderes yngleses e de otras naçiones estante en la dicha villa de Sanlucar e algunos vezinos de ella», M.A. LADERO QUESADA, Dos cosechas de viñedo sevillano, 1491-1494, «Archivo Hispalense», 193-194 (1980), pp. 41-57. Anche cfr. W.R. CHILDS, Anglo-Castilian Trade in the Later Middle Ages, Manchester 1978, pp. 127-128. 81 BORRERO FERNÁNDEZ, La viña en Andalucía, pp. 58-59. 82 BORRERO FERNÁNDEZ, El mundo rural, p. 222. 83 Sul commercio internazionale di vino nel Tardo Medioevo, ZUG TUCCI, Un aspetto trascurato, passim; F. MELIS, I vini italiani nel Medioevo, Firenze 1984; Y. RENOUARD, Etudes d’histoire médiévale, I, Paris 1968, 85 del XVI secolo nel commercio di vino dell’Andalusia, infatti, troviamo i genovesi Bernardo Grimaldi, Benedetto Doria, Antonio Pinelli, Alessandro Cattaneo e il fiorentino Pietro Rondinelli84. Il vino veniva acquistato prima della vendemmia e secondo lo schema delle transazioni commerciali tra l’Atlantico e il Mediterraneo, caricato nei porti spagnoli consentiva di riempire le stive delle navi di ritorno dal nord d’Europa in modo da fungere da zavorra per i bastimenti e al contempo avere una merce la cui vendita in Italia era proficua85. Nella direzione opposta, verso il nord d’Europa, era piuttosto il vino bianco e dolce di Lepe ad essere molto apprezzato nell’Inghilterra e nelle Fiandre86. Vini scaricati nel porto di Bristol (botti) Anni 1477-78 1479-80 1485-86 1486-87 1492-93 Andalusia 172 160 228 673 679 Spagna 12 36 24 24 63 Portogallo 179 195 209 273 468 Guascogna 499 829 645 400 1119 (Fonte: HUETZ LE LEMPS, Vignobles et vins, p. 46) Se quindi come abbiamo visto la struttura agraria della parte occidentale dell’Andalusia nel Tardo Medioevo risulta piegata agli interessi del capitalismo mercantile internazionale, nel resto della corona di Castiglia la viticoltura appare negativamente condizionata dalla pastorizia transumante e in molte zone dalla bassa qualità dei vitigni ottenuti. La pratica dell’allevamento transumante, in un movimento annuale di miglia e miglia di pecore, era di fatto incompatibile con un tipo di agricoltura, come quella richiesta dalle viti, adatta piuttosto ai tempi lunghi e ad una cura continuata propria del giardinaggio; perciò durante i secoli pp. 225-359; M.K. JAMES, Studies in the Medieval Wine Trade, Oxford 1971; A.I. PINI, Il commercio internazionale del vino nel medioevo (a proposito degli studi di M.K. James), in Vite e vino nel Medioevo, Bologna 1989, pp. 187-204; anche i contributi di A.I. Pini e di G. Varanini in questo volume. 84 E. OTTE, Sevilla y sus mercaderes a fines de la Edad Media, Sevilla 1996, p. 43; la colonia genovese insediata a Siviglia godeva di ampi privilegi dal 1280, R. CARANDE, Sevilla, fortaleza y mercato. Las tierras, las gentes y la administración de la ciudad en el siglo XIV, Sevilla 1982, pp. 68-81. Nel medioevo i mercanti genovesi erano tra i più attivi nel commercio vinicolo, ZUG TUCCI, Un aspetto, p. 318. 86 85 ZUG TUCCI, Un aspetto trascurato, p. 321. 86 HUETZ DE LEMPS, Vignobles et vins, pp. 45-46. tardo medievali nelle principali città del centro della Spagna (Soria, Segovia, Avila, Salamanca) furono molto frequenti le dispute tra allevatori e agricoltori, uscendo i primi sempre vincitori forti dalla protezione reale di cui godevano87. Il secondo fattore penalizzante si verifica soprattutto nelle città del cammino di Santiago, intorno alle quali, come è stato detto prima, tra i secoli XI e XIII si formò un ampio anello viticolo. Alla fine del XV secolo questo tipo di economia si dimostra in via di superamento, progressivamente abbandonata per l’impossibilità di ottenere bevande di una discreta qualità. Così accade a Burgos dove in maniera molto emblematica il vigneto suburbano, in netta regressione allo scadere del ’400, consentiva di ottenere appena dei mosti molto economici e di infima qualità destinati a soddisfare le necessità caloriche degli strati sociali più popolari mentre i settori più agiati preferivano spendere per acquistare i buoni vini rossi e bianchi della Rioja, della Ribera del Duero, di Tierra de Campos e di Toro88. Anche nel caso delle città del regno d’Aragona (Huesca, Saragozza e Teruel) si fa largo questa netta distinzione tra il vino locale di scarso valore e i vini importati da zone produttive confinanti (Valenzia e Navarra) destinati a soddisfare una domanda più esigente89. Si ha in questo modo una progressiva disgiunzione tra la viticoltura locale ormai in fase stagnante e le zone capaci di articolare uno spazio economico di ambito regionale anche se, diversamente da quanto accadeva con i vini dell’Andalusia, non in grado di offrire prodotti concorrenziali in ambito internazionale. 87 M. DIAGO HERNANDO, Soria en la Baja Edad Media. Espacio rural y economía agraria, Madrid 1993. 88 Negli ospedali di Burgos ai poveri e i ricoverati venivano forniti ¾ di litro di vino al giorno, H. CASADO ALONSO, Señores, mercaderes y campesinos. La comarca de Burgos a fines de la Edad Media, Valladolid 1987, pp. 127-138. Per i vini della Rioja, F. ANDRÉS BARRIOS, Algunas noticias, contenidas en la documentación medieval riojana publicada hasta la fecha sobre los tipos de vinos y sus métodos y técnicas de elaboración en la Rioja en la Edad Media, in Actas del I encuentro, pp. 83-94. 89 ESTELLA ALVAREZ, El viñedo en Aragón, pp. 43-44. 87 Tav. 1 - La penisola Iberica nel 1450. 88 Tav. 2 - Il cammino di Santiago. Tav. 3 - La riconquista spagnola. Tav. 4 - Vigne e vino nella Spagna medievale. 89 La cerchiatura delle botti (xilografia del XVI secolo). 90 La vendemmia in una xilografia del XVI secolo. MICHAEL MATHEUS* La viticoltura medievale nelle regioni transalpine dell’Impero È stata avanzata più volte l’ipotesi di un’origine romana della viticoltura in quei territori transalpini dell’Impero germanico che un tempo furono sotto il dominio di Roma; per molto tempo, però, non si era in possesso di prove sicure. Fu solo con il rinvenimento di impianti chiaramente identificabili come torchi per la spremitura delle uve lungo il corso della Mosella e nel Palatinato che si poté fornire la prova archeologica inconfutabile dell’esistenza di una viticoltura intensiva in epoca romana. Vennero allora alla luce sia impianti di grandi dimensioni a conduzione pubblica, che impianti di proprietà privata1. A partire da queste scoperte, che risalgono agli ultimi trent’anni, la nostre informazioni relative alla viticoltura nelle province romane a ovest del Reno si sono notevolmente arricchite assumendo contorni decisamente più netti. Nonostante le distruzioni causate dalle guerre del III e IV secolo i romani continuarono a coltivare la vite e a produrre vino. Numerose testimonianze indicano che in epoca romana il trasporto del vino sulla terra ferma e sull’acqua svolgeva un ruolo fondamentale. Mentre ancora pochi anni fa si pensava che le botti della cosiddetta nave di Neumagen contenessero soltanto vini di importazione provenienti dal sud, oggi si può essere certi che sulle acque della Mosella e del Reno venissero trasportati anche prodotti originari di quelle regioni. Se si considera che i vini locali erano stivati a bordo in botti di legno, molto probabil- 1 Ringrazio Barbara Brandt per la traduzione. Per la zona vinicola della Mosella si veda K.-J. GILLES, Neuere Forschungen zum römischen Weinbau an Mosel und Rhein, Wiesbaden 1995 (Schriften zur Weingeschichte, 115), pp. 15 sg.; ID., Der moselländische Weinbau zur Römerzeit unter besonderer Berücksichtigung der Weinkeltern, in Weinbau zwischen Maas und Rhein in der Antike und im Mittelalter, a cura di Michael Matheus, Mainz 1997 (Trierer Historische Forschung, 23), pp. 7-51, qui p. 15; ID., Bacchus und Sucellus. 2000 Jahre römische Weinkultur an Mosel und Rhein, Briedel 1999, pp. 93 sgg. * Università Johannes Gutenberg, Mainz (Germania), Istituto Storico Germanico di Roma. 91 mente una parte delle numerose anfore di terracotta recuperate a Bonn, Magonza, Strasburgo e altre località conteneva vini provenienti dalla Gallia meridionale e dall’area mediterranea, destinati ad una clientela residente in città, ad accampamenti e fortificazioni lungo il corso del Reno. Il crollo dell’Impero romano e la conseguente perdita dei costumi e della cultura romana rappresentò senza dubbio un momento di crisi anche per la produzione vinicola2, crisi che però è da intendersi più quantitativa che qualitativa. La viticoltura, infatti, sopravvisse in diverse località e regioni a ovest del Reno, come confermano, non da ultimi, i risultati di recenti ricerche filologiche3. Dopo lunghi studi, i linguisti hanno potuto documentare l’esistenza di un’enclave gallo-romanza nell’area della Mosella tra le città di Merzig, Konz e Coblenza. In quel tratto della valle del fiume fortemente caratterizzato da elementi romanzi i conquistatori franchi assimilarono gran parte del linguaggio dei viticoltori. Sviluppo della coltura viticola e commercio vinicolo La terminologia della viticoltura comprende numerose parole che ancora oggi tradiscono la loro origine gallo-romanza. Tra gli innumerevoli esempi forniti dalla linguistica riportiamo solo un esempio significativo: la coltivazione a tendone avveniva nell’antichità nella cosiddetta vinea camarata. Il termine Kammertbau, che deriva dal latino sia sotto l’aspetto linguistico che sotto l’aspetto pratico, si è mantenuto a lungo specialmente nel Palatinato4. Nonostante la continuità della viticoltura per la regione dell’Alto Adige fin dall’antichità debba essere considerata come 2 M. MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein: Grundlagen, Konstanten und Wandlungen, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 503-532, in partic. pp. 504 sgg. 3 Wortatlas der kontinentalgermanischen Winzerterminologie (WKW), a cura di W. Kleiber, Tübingen 1990 (Akademie der Wissenschaften und der Literatur Mainz. Geistes- und sozialwissenschaftliche Klasse. Kommission für Deutsche Philologie), Introduzione; Carte topografiche e commento, fascicoli 1-6, Tübingen 1990-1996. Una delle pubblicazione più recenti con indicazioni bibliografiche è quella di W. KLEIBER, Sprache und Geschichte am Beispiel des europäischen Winzerwortatlasses (WKW), in Weinproduktion und Weinkonsum im Mittelalter, a cura di M. Matheus, Stuttgart 2003 (Geschichtliche Landeskunde, 51), in corso di stampa. 4 92 M. SCHARF, Kammertbau. Zur Geschichte einer Reberziehung unter besonderer Berücksichtigung der Pfalz, in Weinproduktion und Weinkonsum im Mittelalter (come nota 3). un dato di fatto5, mancano ancora oggi prove inequivocabili sia per quella che in epoca medievale era la regione della Baviera (cioè l’area compresa tra il limite settentrionale delle Alpi e il corso del Danubio tra i suoi affluenti Inn e Lech) così come per l’area danubiana austriaca6. Ad ovest del Reno la viticoltura venne praticata ancora sotto il dominio dei franchi da una popolazione di lingua galloromanza che a sua volta insegnò l’arte di produrre il vino anche ai popoli che in tempi successivi migrarono e si insediarono in quella regione. Anche l’antica rete dei trasporti resistette al generale declino e non andò completamente in rovina7. Pur non essendovi testimonianze di commercio vinicolo durante quel periodo di transizione, non vi è dubbio che il Reno ed i suoi affluenti continuarono ad essere utilizzati per il trasporto di persone e merci. Ad illuminare questo aspetto interviene, al tramonto del VI secolo, il poeta Venanzio Fortunato, originario dell’Italia settentrionale. Seguendo l’esempio di Ausonio egli racconta con versi molto vivaci un viaggio che lo portò, discendendo il corso della Mosella e proseguendo sul Reno, da Coblenza ad Andernach. Il poeta descrive la viticoltura lungo questi corsi d’acqua e menziona esplicitamente sia le vigne nei dintorni di Metz e di Treviri che quelle nelle vicinanze di Andernach8. Circa mezzo secolo dopo il viaggio di Venanzio, nell’anno 634, il testamento di Adalgiso Grimo – il documento più antico redatto nella regione renana9 – contiene, se pur casualmente, notizie relative alla presenza di possedimenti vinicoli in una valle laterale della Mosella10. 5 J. NÖSSING, Die Bedeutung der Tiroler Weine im Mittelalter, in Weinwirtschaft im Mittelalter. Zur Verbreitung, Regionalisierung und wirtschaftlichen Nutzung einer Sonderkultur aus der Römerzeit, a cura di C. Schrenk e H. Weckbach, Heilbronn 1997 (Quellen und Forschungen zur Geschichte der Stadt Heilbronn, 9), pp. 193-203, in partic. 193 sg. 6 A.O. WEBER, Studien zum Weinbau der altbayerischen Klöster im Mittelalter. Altbayern - Österreichischer Donauraum - Südtirol, Stuttgart 1999 (Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte. Beiheft, 141), pp. 26 sgg., 351 sg. 7 F. STAAB, Untersuchungen zur Gesellschaft am Mittelrhein in der Karolingerzeit, Wiesbaden 1975 (Geschichtliche Landeskunde, 11), pp. 32 sgg., 46 sgg., 106 sgg. Si vedano anche i contributi nel volume a cura di F. Burgard e A. Haverkamp, Auf den Römerstraßen ins Mittelalter. Beiträge zur Verkehrsgeschichte zwischen Maas und Rhein von der Spätantike bis ins 19. Jahrhundert, Mainz 1997 (Trierer Historische Forschungen, 30). 8 MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 506 sg. 9 F. IRSIGLER, Gesellschaft, Wirtschaft und religiöses Leben im Obermosel-Saar-Raum zur Zeit des Diakons Adalgiso Grimo, «Hochwälder Geschichtsblätter», 1 (1989), pp. 5-16; ID, Vie sociale, économique et religieuse dans le pays de la Moselle et de la Sarre au temps du diacre Adalgisel - Grimo, «Annales de l’Est», 43 (1991), pp. 3-28. 10 K. PETRY, Die Geschichte des Weinbaus in einer kurtrierischen Landstadt: Das Beispiel Wittlich, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 251-269. 93 Già le testimonianze linguistiche lasciano supporre che nelle zone vinicole di impronta romana fosse stata tramandata l’antica tecnica della torchiatura. I reperti archeologici rinvenuti negli ultimi anni nell’area della Mosella documentano che nell’antichità il procedimento di lavorazione dell’uva comprendeva due fasi. Dapprima l’uva veniva lavorata semplicemente pigiandola o calpestandola con i piedi nelle vasche o nelle botti di ammostatura, ottenendo quindi il cosiddetto primo mosto, di qualità superiore. La vinaccia che risultava da questa prima fase di lavorazione veniva poi introdotta nel torchio, per ricavarne il succo rimanente. Pubblicazioni anche recenti sostengono l’opinione che in epoca carolingia, per lo meno nelle tenute regali, la prassi di pigiare le uve con i piedi fosse vietata. Alcuni autori definiscono questo divieto addirittura «una legge veramente rivoluzionaria» di Carlo Magno11, interpretando un passo del ben noto Capitulare de villis. Tuttavia è necessario chiedersi se con questo decreto non si intendesse vietare la pigiatura delle uve con i piedi solo nel caso in cui le condizioni igeniche non corrispondessero alle norme stabilite in questa materia («et hoc praevideant iudices, ut vindemia nostra nullus pedibus premere praesumat, sed omnia nitida et honesta sint»)12. E se dal punto di vista filologico tale interpretazione desta ancora qualche dubbio, dal punto di vista pratico si può asserire che nel medioevo oltre alla torchiatura sicuramente si utilizzava ancora il metodo tradizionale di pigiatura con i piedi. Entrambi i procedimenti sono documentati per esempio in fonti della regione della Mosella nei secoli XIII e XIV13. Anche i due tipi di torchio conosciuti nell’antichità – il torchio ad albero 11 Cfr. ad esempio H. JOHNSON, Wein im Mittelalter, in Damals 26. Oktober 1994, pp. 18-24, qui p. 18. Articolo Charlemagne, in The Oxford Companion to Wine, a cura di J. Robinson, Oxford 19992, p. 158: «Wine Presses should be clean, and grapes should not be trodden with the feet». 12 Per questa proposta di interpretazione, pubblicata con il mio collaboratore nel 1996, cfr. L. CLEKeltertechnik in karolingischer Zeit, in Liber amicorum necnon et amicarum für Alfred Heit. Beiträge zur mittelalterlichen Geschichte und geschichtlichen Landeskunde, a cura di F. Burgard, C. Cluse, A. Haverkamp, Trier 1996 (Trierer Historische Forschungen, 28), pp. 255-265, in partic. 252-254; L. CLEMENS, M. MATHEUS, Weinkeltern im Mittelalter, in Europäische Technik im Mittelalter 800-1200. Tradition und Innovation, a cura di U. Lindgren, Berlin 1996, pp. 133-136; è stata poi ripresa da G. ARCHETTI, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998 (Fondamenta, 4), pp. 182-184, mentre recentemente è tornato sull’argomento L. CLEMENS, Zur Kontinuität von Kelter- und Mühlentechnik in Antike und Mittelalter unter besonderer Berücksichtigung der Moselregion, in Weinproduktion und Weinkonsum (come nota 3). MENS, M. MATHEUS, Zur 13 94 Si consulti la tesi di dottorato del mio collaboratore nel progetto di ricerca del Sonderforschungsbereich 235 della Deutsche Forschungsgemeinschaft presso l’Università di Treviri (“Sonderkulturen an e quello a vite – sopravvissero con ogni probabilità al declino dell’Impero romano. Con l’unica differenza che invece degli antichi impianti in muratura ora venivano utilizzati torchi in legno. Sia impianti appartenenti a un determinato podere, sia torchi a cui faceva riferimento un intero distretto o torchi a esercizio comune hanno lasciato le loro tracce sul territorio. Già prima dell’anno mille il vino non veniva prodotto solo per il fabbisogno di centri economici autarchici, ma anche per essere immesso sul mercato e commercializzato in paesi lontani. Obblighi relativi al trasporto e alle imposte mettono in luce un commercio, anche su lunghe distanze, di grandi quantità di vino provenienti dalle zone di produzione predilette dagli acquirenti. Nelle aree in cui la viticoltura era maggiormente favorita dal clima, i vigneti appartenevano per la maggior parte a proprietari laici oppure ecclesiastici che risiedevano in luoghi anche molto distanti nei quali la viticoltura era, se non scarsa, completamente assente. Questi possedimenti a distanza rappresentano un particolare importante di molte aree vinicole dell’Europa continentale, influenzando precocemente e in modo duraturo le vie seguite dal commercio del vino14. Le regioni con una grande concentrazione di possedimenti a distanza erano in parte anche zone vinicole nelle quali i vini venivano prodotti in misura crescente come oggetto di scambio commerciale. Questi vini si trasportavano anche a lunga distanza per essere scambiati con altri beni di consumo di massa. Al più tardi a partire dall’inizio del VIII secolo furono soprattutto i frisoni ad utilizzare il Reno come una delle loro principali vie di commercio15. Nei seco- der Mosel und ihren Nebenflüssen vom 13. bis 16. Jahrhundert”): L. CLEMENS, Trier. Eine Weinstadt im Mittelalter, Trier 1993 (Trierer Historische Forschungen, 22), p. 309; ID., Weinwirtschaft im hohen und späten Mittelalter: Das Beispiel Trier, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 85-106. 14 Relativamente al fenomeno dei possedimenti a distanza dei monasteri bavaresi in zone vinicole altoatesine e austriache si veda A.O. WEBER, Nah- und Fernbesitz von Weinbergen altbayerischer Klöster im Mittelalter, in Weinproduktion und Weinkonsum im Mittelalter (come nota 3). Sui possedimenti a distanza situati in Alto Adige cfr. NÖSSING, Die Bedeutung der Tiroler Weine, pp. 195 sgg. Esempi di possedimenti a distanza si trovano anche in G. BÖNNEN, Der mittelalterliche Weinbau in der Bischofsstadt Toul und ihrem Umland, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 139-170, in partic. 145 sg.; H. VAN WERVEKE, Comment les établissements religieux belges se procuraient-ils du vin au haut âge?, «Revue Belge de philologie et d’histoire», 2 (1923), pp. 643-662; M. VAN REY, Der deutsche Fernbesitz der Klöster und Stifte der alten Diözese Lüttich vornehmlich an Rhein, Mosel, Ahr und Rheinhessen, «Annalen des Historischen Vereins am Niederrhein», 186 (1984), pp. 30-90; e, di seguito, anche il contributo di G.M. VARANINI, Le strade del vino. 15 S. LEBECQ, Marchands et navigateurs frisons du haut Moyen Age, 2 voll., Lille 1983; A. VERHULST, Der frühmittelalterliche Handel der Niederlande und der Friesen, in Untersuchungen zu Handel und Verkehr der vor- 95 li VIII e IX essi furono i maggiori protagonisti del commercio a largo raggio, ed il Reno rappresentava la rotta commerciale più utilizzata, sulla quale si compiva lo scambio di merci tra il regno franco da una parte e l’Inghilterra e la Scandinavia dall’altra. Sorsero allora piazze commerciali come Dorestadt, dove questi mercanti risiedevano abitualmente. Sulla base di scavi archeologici effettuati negli ultimi decenni si delinea un’immagine di questi “empori” commerciali, così come gli studiosi li definiscono prendendo in prestito la terminologia delle fonti: essi si presentano come degli insediamenti preurbani, come agglomerati in un certo senso già somiglianti a una città vera e propria. I frisoni si insediarono anche lungo il corso del Reno e al più tardi nel IX secolo essi disponevano di vere e proprie colonie nelle più importanti piazze commerciali come potevano essere Duisburg, Colonia, Magonza e Worms. Dal nord essi importavano tra l’altro stoffe pregiate: i pallia fresonica, il cui luogo di provenienza è ancora oggi indefinito, non potendo stabilire con assoluta certezza se furono effettivamente prodotte in Frisia o solo commerciate dai mercanti frisoni. Discendendo il corso del Reno la merce di scambio più importante era rappresentata dal vino, che i mercanti del nord acquistavano in Alsazia, a Worms oppure a Magonza, trasportandolo poi con le loro navi verso l’Inghilterra e la Scandinavia. Tali scambi sono documentati, oltre che in sporadiche fonti scritte, anche grazie a reperti archeologici, come per esempio i cocci delle caraffe di ceramica utilizzate dai mercanti, ritrovati in grandi quantità in città inglesi nonché in piazze commerciali come Dorestadt, Haithabu e Birka16. Le fonti scritte che riportano direttamente o indirettamente informazioni sul commercio vinicolo lungo il Reno nell’VIII e IX secolo non sono state ancora esaminate ed interpretate sistematicamente, ciò rimane quindi un obiettivo auspicabile per la storia del commercio e del vino. Si tratta soprattutto di appunti e notizie contenute in cronache o fonti letterarie ed agiografiche. Il loro valore come testimonianze è certamente sempre da valutare sullo sfondo specifico ed in base alla loro tipologia, ma nell’insieme, come tasselli di un mosaico, esse und frühgeschichtlichen Zeit in Mittel- und Nordeuropa, a cura di K. Düwell et al., Göttingen 1985 (Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften in Göttingen, Philologisch-Historische Klasse, 3), pp. 381391; S. LEBECQ, L’emporium proto-médiéval de Walcheren-Domburg. Une mise en perspective, in Peasants and townsmen in medieval Europe. Studia in honorem Adriaan Verhulst, a cura di J.-M. Duvosquel et al., Gent 1995, pp. 73-90. 16 96 F. STAAB, Weinwirtschaft im früheren Mittelalter, insbesondere im Frankenreich und unter den Ottonen, in Weinwirtschaft im Mittelalter, pp. 29-76, in partic. pp. 58 sgg. sono giunte fino a noi in quantità notevole, e sarebbe quindi ragionevole studiarle nel loro complesso. Sia citato qui un solo esempio: Ermoldo Nigello, originario dell’Aquitania, era stato temporaneamente esiliato dal re Ludovico il Pio a Strasburgo, dove rimase per diversi anni sotto la sorveglianza del vescovo locale. Egli descrive il suo esilio in un epopea composta tra l’826 e l’828, tentando così di riconquistare la benevolenza dell’imperatore e della consorte Giuditta: Terra antiqua, potens, Franco possessa colono, / (...) / Bacchus habet colles, pubescunt montibus uvae, / (...) / Arva fuerunt Cererem, colles dant copia vini, / (...) / Si non, Rhene, fores, mansissent laeta Falerna, / Bacchus et exhilarans gaudia larga daret, / Per te vecta quidem pretioque redempta marino; / Vinetis recubans vinitor ipse sitit. / (...) / Utile consilium Frisonibus atque marinis / Vendere vina fuit, et meliora vehi17. Colline dalle quali cola il vino, viticoltori assetati, cantine vuote, si tratta certamente di immagini poetiche, che esagerano sulle condizioni reali ricollegandosi a modelli letterari. Ma anche questo linguaggio lirico caratterizzato da molti luoghi comuni mette in luce chiaramente la funzione di merce di scambio assunta dal vino del Reno nel commercio con i paesi nordici. Nell’epopea sono menzionati esplicitamente i frisoni ed altri mercanti del nord che commerciavano soprattutto in vino importando in contropartita merci pregiate. In quell’epoca sulle acque del Reno non navigavano unicamente le navi dei mercanti frisoni cariche di vini ma vi si trasportavano anche i vini prodotti nelle tenute appartenenti alla corona, alla nobiltà e alle istituzioni ecclesiastiche. Sono proprio queste ultime a fornire ampia testimonianza, potendo garantire, in un periodo povero di fonti scritte, le migliori condizioni di conservazione delle fonti stesse. Così dai documenti risalenti al IX secolo dei monasteri di Prüm, Weißenburg e Lorsch apprendiamo che determinati gruppi di persone erano incaricati ad effettuare i trasporti sul fiume. Si trattava di veri e propri equipaggi specializzati, a servizio dei grandi proprietari fondiari e che, ad esempio nella zona del medio Reno, sono da considerare gli eredi della navigazione fluviale romana18. Sul Reno e sugli altri fiumi venivano inoltre trasportati i prodotti di 17 ERMOLDO NIGELLO, Carmina. Carmen Nigelli Ermoldi exulis in laudem gloriosissimi Pippini Regis, ed. E. Dümmler, in Monumenta Germaniae historica [= MGH], Antiquitates. Poetae Latini aevi Carolini II, Liptiae 1884 (rist. 1999), pp. 82 sg. 18 STAAB, Untersuchungen zur Gesellschaft am Mittelrhein, pp. 32 sgg., 46 sgg.; Strukturen der Grundherrschaft im frühen Mittelalter, a cura di W. Rösener, Göttingen 19932 (Veröffentlichungen des Max-PlanckInstituts für Geschichte, 92). 97 quelle vigne di cui molti monasteri erano proprietari a distanza19. Anche gli ebrei assunsero ben presto un ruolo di rilievo nel commercio del vino20. Con la fondazione di monasteri e la conseguente nascita di insediamenti in zone fino ad allora scarsamente popolate, così come con l’aumento delle aree destinate all’utilizzo agrario, è possibile documentare ad ovest del Reno già nell’alto medioevo una fitta rete di vigneti21. Nel IX secolo invece, dal lato opposto dello stesso fiume, la viticoltura era ancora così poco diffusa che nella spartizione dell’Impero carolingio avvenuta nell’anno 842 tra i figli di Ludovico il Pio, all’erede al quale spettò la Franconia orientale vennero dati in più, propter vini copiam, anche alcuni territori sulla riva sinistra del fiume22. Bisogna tuttavia ricordare che la viticoltura ad est del Reno non vide i suoi albori con la cristianizzazione di quei territori, ma che essa era presente anche prima al di là del limes – l’antico confine dell’Impero romano – in una misura che purtroppo non è possibile determinare esattamente23. L’espansione dei secoli centrali del medioevo Durante i secoli centrali del medioevo la trasformazione iniziata già prima dell’anno mille si rafforzò in tutta l’Europa24. La vite fu portata ben oltre le zone già sfruttate per la viticoltura; infatti, la sua espansione fu favorita da vescovi e 19 ID., Weinwirtschaft im früheren Mittelalter, in partic. pp. 54 sgg. 20 M. TOCH, Die Juden im mittelalterlichen Reich, München 1998 (Enzyklopädie deutscher Geschichte, 44), pp. 7 e 98; STAAB, Weinwirtschaft im früheren Mittelalter, pp. 66 sg., 71 sg. 21 F. IRSIGLER, Mehring. Ein Prümer Winzerdorf um 900, in Peasants and townsmen in medieval Europe, pp. 297-324. 22 REGINONE DI PRÜM, Chronicon cum continuatione Treverensi, ed. F. Kurze, MGH, Scriptores rerum Germanicarum, L, Hannoverae 1890 (rist. 1999), p. 75; STAAB, Weinwirtschaft im früheren Mittelalter, p. 61; M. BARTH, Der Rebbau des Elsaß und die Absatzgebiete seiner Weine. Ein geschichtlicher Durchblick, 1, Strasbourg/Paris 1958, p. 95 sg. 23 U. BRAASCH-SCHWERSMANN, Rebgewächs und Hopfenbau: Wein und Bier in der spätmittelalterlichen Agrargeschichte der Deutschordensballai Hessen, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 305-363, in partic. pp. 306 sg. 24 98 M. MATHEUS, s.v., Weinbau, -handel. Allgemein; Mittel- und Westeuropa, in Lexikon des Mittelalters, 8, München/Zürich 1997, coll. 2116-2123; R. SCHÖNE, Bibliographie zur Geschichte des Weines, 2a ed. corredata da supplementi e attualizzata, München et al. 1988. monasteri, da signori laici ed infine anche dai cittadini dei nuovi centri urbani in espansione. La vite come elemento di civilizzazione di impronta mediterranea e latina si affermò in misura limitata nel nordovest, nel nord e nell’est dell’Europa, raggiunse la Scandinavia meridionale, la Slovacchia e la Stiria25, oltre che la Boemia, la Moravia, la Polonia, la Georgia e l’Ucraina dove alcune zone circoscritte erano fittamente coltivate a vigneti26. In Inghilterra invece la viticoltura medievale rimase concentrata nel sud-est27. In concomitanza con l’incremento demografico e lo sviluppo delle campagne, l’urbanizzazione e l’addensamento delle zone abitate, vennero rese accessibili allo sfruttamento nuove aree vinicole. In sostanza ora la vite era coltivata ovunque le condizioni topografiche e climatiche lo consentissero. Essa era destinata in primo luogo a ricoprire il fabbisogno locale, non da ultimo quello liturgico, contribuendo così a risparmiare il trasporto di costosi prodotti di importazione. L’impianto di vigneti nelle zone immediatamente limitrofe a residenze signorili e a città fu anche favorito dal fatto che il loro possesso poteva diventare simbolo di ricchezza, ospitalità e prestigio. Inoltre, sviluppi climatici relativamente favorevoli contribuirono dopo il Mille ad un’espansione sorprendente della vite che in quel periodo era coltivata anche in zone in cui al giorno d’oggi la viticoltura è tornata ad essere sconosciuta, come ad esempio nella Bassa Renania a nord di Bonn, lungo il corso della Ruhr e in Vestfalia, sugli argini dei fiumi Neiße e Oder, nel Meclenburgo, in Pommerania e in Prussia, nel Brandeburgo ed in Slesia28. Alcune delle zone vinicole impiantate nei territori orientali dopo il 25 J. BADURÍK, Westslowakische Städte und der Weinbau im 13.-15. Jahrhundert (mit besonderer Beachtung von Bratislava/Pressburg und weiteren kleinkarpatischen Weinstädten), in Stadt und Wein, a cura di F. Opll, Linz/Donau 1996 (Beiträge zur Geschichte der Städte Mitteleuropas, 14), pp. 85-98; H. VALENTINITSCH, Die Bedeutung des Weins für die steirischen Städte im Mittelalter und in der frühen Neuzeit, in Stadt und Wein, pp. 109-125. 26 C. HIGOUNET, Esquisse d`une géographie des vignobles européens à la fin du moyen âge, in F. MELIS, I vini italiani nel medioevo, a cura di A. Affortunati Parrini, Firenze 1984 (Istituto internazionale di storia economica “F. Datini”, 7), pp. VII-XX; W. WEBER, Die Entwicklung der nördlichen Weinbaugrenze in Europa. Eine historisch-geographische Untersuchung, Trier 1980 (Forschungen zur deutschen Landeskunde, 216). 27 K.-U. JÄSCHKE, Englands Weinwirtschaft in Antike und Mittelalter, in Weinwirtschaft im Mittelalter, pp. 256-388. 28 Per la Germania del nord cfr. O. PELC, Der Weinbau in Norddeutschland, in Lübecker Weinhandel. Kultur- und wirtschaftsgeschichtliche Studien, a cura di E. Spies-Hankammer, Lübeck 1985 (Veröffentlichungen des Senats der Hansestadt Lübeck, Amt für Kultur, Reihe B, 6), pp. 9-28; F. PAPE, Der Weinbau im ehemaligen Fürstentum Lüneburg. Eine landeskundliche und kulturgeschichtliche Studie, Celle 1989 (Schriften- 99 Mille si sono mantenute fino ad oggi in Sassonia e Turingia, ad esempio lungo il fiume Elba intorno a Dresda e Meißen29, come anche lungo i fiumi Saale e Unstrut. Esse non rappresentano però che scarse vestigia di quelli che furono i livelli raggiunti sia dalla produzione che dal commercio del vino nelle città della Turingia durante il medioevo30. Nel contesto dell’incremento demografico avvenuto nel XII e XIII secolo, in numerose aree vinicole la superficie destinata alla viticoltura venne sempre più sfruttata ed estesa. Nelle principali zone vinicole, come lungo il Reno e la Mosella, il Neckar ed il Meno31, sui fiumi Ahr32 e Lahn33, come anche sul lago di Costanza34 e sul Danubio (in particolare nelle vicinanze di Ratisbona35 e nella Wachau36), non si produceva solo per il fabbisogno locale e regionale, ma anche reihe des Stadtarchivs Celle und des Bomann-Museums. Celler Beiträge zur Landes- und Kulturgeschichte, 17); ID., Der Weinbau im ehemaligen Land Braunschweig. Ein Beitrag zur Heimatgeschichte, Wolfenbüttel 1995. Sulla viticoltura in Prussia si veda anche U. ARNOLD, Weinbau und Weinhandel des Deutschen Ordens im Mittelalter, in ID., Zur Wirtschaftsentwicklung des Deutschen Ordens im Mittelalter, Marburg 1989, pp. 71-102, in partic. pp. 96 sg. 29 J. BERNUTH, Der Weinbau an der Elbe, Wiesbaden 1984 (Schriften zur Weingeschichte, 72). 30 J. BERNUTH, Der Thüringer Weinbau, Wiesbaden 1983 (Schriften zur Weingeschichte, 65); ID., Der Jenaer Weinbau, Wiesbaden 1988 (Schriften zur Weingeschichte, 85); W. HELD, Der Weinbau in und um Jena/Thüringen im Spätmittelalter und in der Frühneuzeit. Seine Wirkungen auf die Stadt und ihre Bewohner, in Stadt und Wein, pp. 127-146. 31 W. LUTZ, Die Geschichte des Weinbaues in Würzburg im Mittelalter und in der Neuzeit bis 1800, Würzburg 1965 (Mainfränkische Hefte, 43); W. STÖRMER, A.O. WEBER, Weinbau und Weinhandel in Städten und Märkten des Mainvierecks, in Die Stadt als Kommunikationsraum. Beiträge zur Stadtgeschichte vom Mittelalter bis ins 20. Jahrhundert. Festschrift für Karl Czok zum 75. Geburtstag, a cura di H. Bräuer, E. Schlenkrich, Leipzig 2001, pp. 737-762. 32 J. RAUSCH, Die Geschichte des Weinbaus an der Ahr, Wiesbaden 1963 (Schriften zur Weingeschichte, 10); K.-P. BÖLL, Die Entwicklung der Ahr zum Rotweinanbaugebiet, Wiesbaden 1983 (Schriften zur Weingeschichte, 63). Di prossima pubblicazione nella collana “Schriften zur Weingeschichte”: W. HERBORN, Das Werden einer Weinlandschaft. Der Weinbau an der Ahr im frühen und hohen Mittelalter. 33 R. SCHÖNE, G. PAHL, Bibliographie zum Weinbau an der Lahn (ultimo aggiornamento: 28 ottobre 2002). Oppure il sito htpp://www.rhein-lahn-info.de/geschichte/rhein-lahn/lahnwein.htm. 34 G. SPAHR, Geschichte des Weinbaus im Bodenseeraum, «Schriften des Vereins für Geschichte des Bodensees und seiner Umgebung», 99/100 (1981/1982), pp. 189-230. 35 WEBER, Studien zum Weinbau, in partic. pp. 198 sgg.; T. HÄUßLER, Der Baierwein. Weinbau und Weinkultur in Altbaiern, Amberg 2001. 100 36 H. PLÖCKINGER, Die Wachau und ihr Wein, Krems 1949; WEBER, Studien zum Weinbau (come nota 6). per il commercio interregionale. La valle della Mosella presso Treviri, ad esempio, in seguito a bonifiche e a nuovi impianti della vite, era ricoperta da vigneti molto più densamente di quanto non lo sia ai giorni nostri37. Questo sviluppo ebbe inizio nella seconda metà del XII secolo e quindi dopo i duri anni di crisi precedenti alla metà del secolo, che avevano costretto all’emigrazione i viticoltori della Mosella e del Reno. Che siano stati proprio quei viticoltori a trovare una nuova patria nei Carpazi è altamente probabile soprattutto sulla base di testimonianze linguistiche mosello-romanze rintracciate ancora verso il 1980 in località viticole transilvane. Determinati termini del linguaggio dei viticoltori si ritrovano infatti solo in quella particolare zona dei Carpazi e nell’enclave moselloromanza. Nella parte centrale di quest’ultima ancora oggi i viticoltori più anziani chiamano il germoglio della vite Gimme, si tratta chiaramente di una trasposizione del termine latino gemma. Termini simili a questo utilizzati nella zona mosello-romanza si ritrovano anche in numerose località del nord e del sud della Transilvania, ed esclusivamente lì. Si può quindi asserire che furono proprio questi viticoltori immigrati a introdurre l’uso di quel termine nella loro nuova patria nei Carpazi38. Molte aree selvatiche vennero disboscate durante questa fase di estensivo sviluppo della coltivazione della vite, e questo a discapito degli altri utilizzi agrari. La viticoltura divenne quindi, in misura ancora maggiore di prima, la coltura principale, e in parte persino la monocoltura per eccellenza. Di conseguenza si crearono rapporti di dipendenza strutturale da altri settori, in particolare dall’agricoltura, dall’allevamento del bestiame e dall’economia forestale. In alcune zone vinicole questo sviluppo favorì anche la coltivazione a terrazzo, che a partire dal XII secolo incrementò sotto l’aspetto sia qualitativo che quantitativo i ricavi del raccolto39. In numerose zone vinicole i signori ecclesiastici – non da ultimi gli ordini monastici di recente fondazione, come per esempio i cistercensi – svolsero un ruolo decisivo per lo sviluppo della viticoltura, e si può supporre che essi siano 37 CLEMENS, Trier. Eine Weinstadt im Mittelalter, pp. 25 sgg. 38 Wortatlas der kontinentalgermanischen Winzerterminologie, fascicoli 1, 7 e 8. 39 O. VOLK, Die Erschließung des mittleren Rheintals für den Weinbau im Hoch- und Spätmittelalter, «Berichte zur deutschen Landeskunde» 71, Hefte, 1 (1997), pp. 107-128; ID., Wirtschaft und Gesellschaft am Mittelrhein vom 12. bis zum 16. Jahrhundert, Wiesbaden 1998 (Veröffentlichungen der Historischen Kommission für Nassau, 53), pp. 44 sgg. Per la Mosella si veda anche MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 507 sg.; F. IRSIGLER, Weinstädte an der Mosel im Mittelalter, in Stadt und Wein, pp. 165-179, in partic. p. 170. 101 stati anche tra i maggiori responsabili delle innovazioni introdotte nel settore vinicolo. Dobbiamo tuttavia tenere presente che le probabilità di avere informazioni relative agli altri protagonisti della viticoltura sono molto basse rispetto alle fonti conservate negli archivi delle comunità ecclesiastiche. All’intensificarsi della viticoltura contribuirono senz’altro in modo decisivo non solo le condizioni sia climatiche che dei terreni ma anche l’influsso esercitato dai grandi insediamenti e dai centri urbani, nonché quello proveniente dall’attività commerciale. La vicinanza di importanti vie di comunicazione, ed in particolar modo dei grandi fiumi, ebbe un effetto stimolante sulla viticoltura che non mirava solo a coprire il fabbisogno locale. Nel complesso quindi la coltivazione della vite nelle regioni a nord delle Alpi e dei Pirenei raggiunse durante il medioevo la sua massima espansione. Trasformazioni strutturali nel tardo medioevo Secondo le opinioni più diffuse, nelle zone vinicole delle regioni di lingua tedesca la viticoltura fu per lo più risparmiata dalla tanto discussa crisi agraria che ebbe inizio nel XIV secolo. Già Friedrich Bassermann-Jordan sosteneva che i secoli XV e XVI rappresentarono «l’epoca principale in cui il popolo tedesco beveva a dismisura»40. Di fatto, alla fase di espansione e di intensificazione della viticoltura durante i secoli centrali del medioevo seguì – localmente già agli inizi del XIII secolo, in misura maggiore poi nel corso dei secoli XIV e XV – uno sviluppo divergente, con caratteri diversi da regione a regione e che fino ad oggi non è ancora stato al centro di studi esaustivi. In molte zone vinicole, in particolare in quelle a est del Reno, come in Turingia, nel Baden, lungo il Neckar e in Austria, si registra un’espansione delle aree coltivate a vite che durò fino al XVI secolo inoltrato41. Nella piccola regione vinicola lungo il fiume Lahn, solo per 40 F. VON BASSERMANN-JORDAN, Geschichte des Weinbaus, 2 voll., Frankfurt a. M. 19232 (rist. Frankfurt a. M. 1975), p. 1174. 41 102 O. VOLK, Weinbau und Weinabsatz im späten Mittelalter. Forschungsstand und Forschungsprobleme, in Weinbau, Weinhandel und Weinkultur, Sechstes Alzeyer Kolloquium, a cura di A. Gerlich, Stuttgart 1993 (Geschichtliche Landeskunde, 40), pp. 49-163, qui pp. 64 sgg. Per la regione del Baden cfr. K. MÜLLER, Geschichte des badischen Weinbaus. Mit einer badischen Weinchronik und einer Darstellung der Klimaschwankungen im letzten Jahrtausend, Lahr 19532, p. 22; R. WINKELMANN, Die Entwicklung des oberrheinischen Weinbaus, Marburg 1960 (Marburger geographische Schriften, 16), p. 31. citare un esempio, la viticoltura raggiunse il suo massimo sviluppo non prima del XVI e agli inizi del XVII secolo per poi assistere ad un rapido declino dovuto alla guerra dei trent’anni42. Nelle zone vinicole a ovest del Reno i fattori ritardanti si manifestano invece già in un’epoca di gran lunga precedente. Per molte zone vinicole francesi si possono osservare trasformazioni foriere di crisi dalla metà del XIV secolo in poi43. All’inizio dello stesso secolo anche in paesaggi vinicoli lungo il corso della Mosella e del Reno si moltiplicano gli indizi di un abbandono dei vigneti44. La riduzione delle aree coltivate toccò in modo particolarmente grave quegli appezzamenti che davano uva di scarsa qualità e che spesso registravano la perdita totale del raccolto. Tuttavia non vi sono ancora precisi studi relativi all’influsso esercitato dalla riforma sulla viticoltura praticata dalle istituzioni ecclesiastiche nelle regioni orientali e settentrionali di lingua tedesca45. Sta di fatto che dal XVI secolo in poi, non da ultimo a causa di un peggioramento del clima a nord delle Alpi, si creò una distinzione molto più netta di quanto non lo fosse stata nei secoli precedenti tra le regioni in cui si preferiva il vino e quelle in cui si beveva invece soprattutto la birra. Gli sviluppi appena accennati non hanno un’unica spiegazione, ma furono certamente il risultato dell’interazione di tutto un complesso di fattori, alcuni dei quali di carattere specificatamente regionale. Accanto a fattori dalle ripercussioni immediate, come guerre, epidemie e ripetute annate di scarso raccolto, svolgono un ruolo determinante le variazioni demografiche, climatiche e congiunturali di lunga durata con le loro conseguenze sui prezzi ed i salari, come anche le trasformazioni nei contratti agrari, nei rapporti di proprietà e nelle strutture del commercio. Anche i mutamenti delle abitudini di consumo non rimasero privi di conseguenze. È così che nel tardo medioevo la birra di luppolo si affermò in molti luoghi a discapito della birra di gruit, prodotta sulla base di una mistura di spezie, ma più facilmente deteriorabile rispetto a quella di luppolo. La recessione nel corso del XV secolo del commercio vinicolo e la flessione in negativo del42 SCHÖNE, PAHL, Bibliographie zum Weinbau an der Lahn (come nota 33). 43 M. LE MENÉ, Le vignoble français a la fin du moyen âge, in Le vigneron, la viticulture et la vinification en Europe occidentale au Moyen Age et à l’époque moderne, Auch 1991 (Flaran 11), pp.189-205. 44 MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 518 sgg. 45 Sull’influsso della riforma cfr. VOLK, Weinbau und Weinabsatz, p. 162. Si veda anche HELD, Der Weinbau in und um Jena, pp. 145 sg. 103 la curva di consumo di vino a Colonia si può spiegare con il forte incremento del consumo di birra46. Anche a Norimberga così come nella Franconia centro-settentrionale durante il XV secolo si può osservare un mutamento delle abitudini di consumo a favore della birra a poco prezzo. In Baviera un’ordinanza del 1493/1516 consentiva infine esclusivamente l’utilizzo del luppolo come additivo per la birra. In molti luoghi essa incontrò tuttavia la resistenza di chi deteneva i diritti per la produzione del gruit 47. In altre zone tradizionalmente vinicole la birra si affermò nelle mescite solo in annate in cui la vendemmia non era sufficiente a coprire il fabbisogno della popolazione48. In tempi in cui le riserve di grano erano scarse, di contro, la produzione della birra rappresentava di per sé un fattore in grado di aggravare la situazione49. Inoltre si deve tenere conto di fattori psicologici: basti pensare agli effetti benefici attribuiti al vino per capire come molti appassionati consumatori di vino non vi avrebbero mai rinunciato50. Diverse città la cui economia dipendeva dalla produzione vinicola, ma anche signori territoriali, si adoperavano per proteggere la viticoltura nei confronti del- 46 F. IRSIGLER, Die wirtschaftliche Stellung der Stadt Köln im 14. und 15. Jahrhundert. Strukturanalyse einer spätmittelalterlichen Exportgewerbe- und Fernhandelsstadt, Wiesbaden 1979 (Vierteljahrsschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte. Beiheft, 65), pp. 241sgg. Così anche R. VAN UYTVEN, Die Bedeutung des Kölner Weinmarktes im 15. Jahrhundert. Ein Beitrag zu dem Problem der Erzeugung und des Konsums von Rhein- und Moselwein in Norddeutschland, «Rheinische Vierteljahrsblätter», 30 (1965), pp. 234-252. Anche a Colmar il consumo di vino nel XV secolo assistette ad un drastico calo, cfr. la recente pubblicazione di R. SPRANDEL, Von Malvasia bis Kötzschenbroda. Die Weinsorten auf den spätmittelalterlichen Märkten Deutschlands, Stuttgart 1998 (Vierteljahrsschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte. Beiheft, 149), pp. 108 sgg. con ulteriori esempi. 47 F. IRSIGLER, “Ind machden alle lant beirs voll”. Zur Diffusion des Hopfenbierkonsums im westlichen Hanseraum, in Nahrung und Tischkultur im Hanseraum, a cura di G. Wiegelmann, R.-E. Mohrmann, Münster, New York 1996 (Beiträge zur Volkskultur in Nordwestdeutschland, 91), pp. 377-397; W. HERBORN, Römerbier - Grutbier - Hopfenbier, in Bierkultur an Rhein und Maas, a cura di F. Langensiepen, Bonn 1998, pp. 195-218; G. FOUQUET, Aspekte des privaten Bierkonsums im Süden und Westen Deutschlands während des ausgehenden Mittelalters und der beginnenden Neuzeit, in “Proeve ‘t al, ‘t is prysselyck”. Verbruik in Europese steden (13de-18de eeuw). Consumption in European Towns (13th-18th Century). Liber amicorum Raymond van Uytven, Antwerpen 1998 (Bijdragen tot de geschiedenis, 81, 1998), pp. 171-190; ID., Nahrungskonsum und Öffentlichkeit im Späten Mittelalter: Beobachtungen zum Bierverbrauch der Lübecker Oberschicht, «Zeitschrift der Gesellschaft für Schleswig-Holsteinische Geschichte», 124 (1999), pp. 31-49. 48 MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 528 sgg. 49 D. KERBER, Der Weinbau im mittelalterlichen Koblenz, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 271-292, in partic. pp. 281 sg. 104 50 MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein, p. 529. la concorrenza di altre bevande alcoliche per mezzo di particolari agevolazioni o misure protettive51. Vi sono poi zone in cui termini come stagnazione, recessione o depressione non sono adatti a descrivere la situazione particolare. È possibile invece individuare una serie di elementi che rappresentano un indizio di una notevole capacità di adattamento a condizioni in continuo mutamento. Parallelamente al fenomeno della perdita di aree coltivate a vite si registra, anche se solo a livello locale, un intensificarsi della viticoltura in zone particolarmente adatte52. In particolare le aziende vinicole di grandi produttori laici ed ecclesiastici si distinguono per gli sforzi da essi compiuti per migliorare qualitativamente sia la coltivazione della vite (ad esempio attraverso una concimazione regolare) che la vinificazione. Non di rado le aree in cui la viticoltura era stata abbandonata furono utilizzate – in parte o del tutto – per colture alternative come per esempio noceti e frutteti, i cui prodotti erano destinati alla produzione di olio o mosto di frutta. Questa tendenza, e cioè la trasformazione dei vigneti in giardini o in altri impianti colturali, si può osservare anche nelle valli della Mosella e del fiume Mosa, ma soprattutto nei dintorni di Liegi, dove i vigneti, numerosi fino al XVI secolo, cedettero il passo ad altre colture, tra cui in particolare il melo53. Già nel XIII secolo furono avviate almeno in parte misure per migliorare la qualità delle uve, che poi, come si può osservare, si intensificarono nei due secoli seguenti. Durante la prima metà del XIV secolo i produttori della Lotaringia, vedendosi minacciati dalla sovrapproduzione dei propri vigneti e dalla concorrenza di vini pregiati di importazione, reagirono incentivando la coltura di vitigni di qualità superiore54. Durante il XV secolo lungo il corso del Reno e della Mosella si iniziò a piantare particolari uve da vino rosso dalla maturazione precoce55. La classificazione ampelografica dei vini, menzionati sempre più spesso a partire dal XV secolo nelle fonti scritte, è assai difficile, anche perché essi assunsero nomi differenti da zona a zona. È possibile però interpretare l’impianto di 51 S. SCHMITT, Mittelalterlicher Weinbau am Neckar, in Weinwirtschaft im Mittelalter, pp. 93-121, in partic. pp. 115 sgg; SPRANDEL, Von Malvasia, pp. 112 sgg. 52 MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein, p. 520; M. MAGUIN, Structures viticoles en Lorraine médiane: XIVe-XVe siècles, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 171-183, in partic. pp. 182 sg. 53 M.-C. CHAINEUX, Culture de la vigne et commerce du vin dans la région de Liège au moyen âge, Liège 1981 (Centre Belge d’Histoire Rurale, 65). 54 MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein, p. 523; BÖNNEN, Der mittelalterliche Weinbau, in partic. pp. 162 sgg. 55 CLEMENS, Trier. Eine Weinstadt im Mittelalter, pp. 397 sgg. 105 diverse varietà di “Spätburgunder” nella zona del Rheingau56, di “Riesling” sul Reno e sulla Mosella57 nonché di altri vitigni – di cui in quel periodo si fa menzione per la prima volta – come un tentativo di reagire a trasformazioni di tipo strutturale e di contrastare la tendenza alla sovrapproduzione concentrandosi su vitigni di qualità superiore58. Viticoltori e rapporti fondiari La produzione di vino richiede numerose fasi di lavorazione specifiche e conoscenze particolari sia sulla cura della vite che sulla vinificazione59. Ed è proprio per questo che i viticoltori poterono usufruire quasi immediatamente, nell’ambito di forme di conduzione legate alla signoria fondiaria, di condizioni relativamente favorevoli liberandosi gradualmente dai tradizionali vincoli60. Tale processo di emancipazione da rapporti di dipendenza personale fu accelerato nel momento in cui la signoria fondiaria, dopo l’anno mille, iniziò a subire profonde trasformazioni. La necessità urgente di regolare le diverse fasi della lavorazione (riscontrabile nei banni che disciplinavano la data d’inizio della vendemmia oppure la torchiatura) favorì inoltre lo sviluppo di prime forme comunitarie e consorziali61. 56 J. STAAB, 500 Jahre Rheingauer Klebrot = Spätburgunder, Wiesbaden 1971 (Schriften zur Weingeschichte, 24); F. SCHUMANN, Rebsorten und Weinarten im mittelalterlichen Deutschland, in Weinwirtschaft im Mittelalter, pp. 221-254, in partic. pp. 232 sgg. 57 M. MATHEUS, Die Mosel - ältestes Rieslinganbaugebiet Deutschlands?, «Landeskundliche Vierteljahrsblätter», 26 (1980), pp. 161-173; ID., Vom “edelsten aller Traubengeschlechter”. Anmerkungen zur Geschichte des Rieslings, in Festschrift anläßlich des 10-jährigen Jubiläums des “Riesling- Freundeskreises Trier”, Trier 1989, pp. 15-23; J. STAAB, Der Riesling. Geschichte einer Rebsorte, Wiesbaden 1991 (Schriften zur Weingeschichte, 99); VOLK, Weinbau und Weinabsatz, pp. 106 sgg. 58 SCHUMANN, Rebsorten und Weinarten, pp. 232 sgg. 59 F. STAAB, Agrarwissenschaft und Grundherrschaft. Zum Weinbau im Frühmittelalter, in Weinbau, Weinhandel und Weinkultur, pp. 1-47, qui pp. 19 sgg.; CLEMENS, Trier. Eine Weinstadt, pp. 258 sgg. 60 Cfr. già E. ENNEN, Die Grundherrschaft St. Maximin und die Bauern zu Wasserbillig, in Historische Forschungen für Walter Schlesinger, a cura di H. Beumann, I, Köln, Wien 1974, pp. 162-170 (ora rist. in EAD., Gesammelte Abhandlungen zum europäischen Städtewesen und zur rheinischen Geschichte, Bonn 1987, pp. 472477). Si veda anche in generale: Die Grundherrschaft im späten Mittelalter, a cura di H. Patze, Sigmaringen 1982 (Vorträge und Forschungen, 27); Grundherrschaft und bäuerliche Gesellschaft im Hochmittelalter, a cura di W. Rösener, Göttingen 1995 (Veröffentlichungen des Max-Planck-Instituts für Geschichte, 115). 106 61 SCHMITT, Mittelalterlicher Weinbau am Neckar, pp. 104 sgg. Tra le varie forme di contratto di locazione incontriamo sia quelle a tempo determinato oppure a vita, che l’enfiteusi, non limitata nel tempo, che meglio si adattava alle esigenze dell’economia vinicola. Nelle regioni austriache si diffusero speciali forme di locazione: il Bergrecht (nelle zone vinicole di campagna come anche nella Wachau) e il Burgrecht (in ambito urbano e in particolare nella valle di Krems). È alquanto possibile che la nascita di tali contratti dipenda dalla ripresa della viticoltura avvenuta in quelle zone nell’XI secolo. Il fatto saliente è che queste forme di contratto implicavano canoni vantaggiosi e trasferibili agli eredi consentendo inoltre la vendita degli stessi vigneti. Evidentemente si intendeva attirare i coloni offrendo loro contratti di locazione vantaggiosi per incentivare l’impianto di nuovi vigneti62. In molte aree vinicole lungo i fiumi Reno, Mosella ed Ahr, ma anche in Franconia ed in Turingia, un ruolo particolare è da attribuire in questo campo ai contratti di mezzadria dipendenti dalla rendita del vigneto, consoni ai bisogni dell’economia vinicola caratterizzata da oscillazioni anche notevoli degli utili63. Anche in quelle regioni si tendeva ad incoraggiare i viticoltori a coltivare nuove aree a vigneto tramite incentivi finanziari64. Il peggioramento delle condizioni generali a partire dal XIV secolo condusse in molte aree vinicole ad una riduzione dei tributi pagati dai locatari. Nelle zone finora studiate ad ovest del Reno e anche nella stessa valle di questo fiume la mezzadria, che fino ad allora era stata la forma di contratto più applicata, fu quasi completamente abbandonata e sostituita da forme di locazione più vantaggiose, come la terzeria. È comunque impossibile formulare un giudizio conclusivo su tali trasformazioni, già per il semplice fatto che il panorama delle fonti è tale da riflettere un’immagine distorta della situazione65. Risulta in ogni caso evidente che molti locatori si trovarono costretti a concedere condizioni più favorevoli al loro locatari. Le fonti permettono solo occasionalmente di individuare le aliquote di rendita spettan62 WEBER, Nah- und Fernbesitz (come nota 14). 63 VOLK, Weinbau und Weinabsatz, pp. 92 sgg; HELD, Der Weinbau um Jena, pp. 134 sgg.; MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 520 sgg.; SCHMITT, Mittelalterlicher Weinbau am Neckar, pp. 100 sgg., con rimandi ad altri studi importanti, ad esempio quelli di Karl-Heinz Spiess. 64 BADURÍK, Westslowakische Städte und der Weinbau, p. 88. 65 MATHEUS, Der Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 520 sgg.; VOLK, Wirtschaft und Gesellschaft, pp. 156 sgg. Cfr. prossimamente anche la tesi di dottorato di ricerca della mia allieva Meike HENSEL, Das St. Nikolaus-Hospital in Bernkastel-Kues. Studien zur Stiftung des Cusanus und seiner Familie (15.-17. Jahrhundert), con un capitolo dedicato all’economia vinicola dell’ospedale. 107 ti al proprietario fondiario, ai viticoltori oppure ai conduttori di una determinata vigna66. Molti proprietari non rinunciarono a mantenere una certa superficie a conduzione propria67, altri aumentare persino la loro produzione grazie ad un incremento delle possibilità di vendita del proprio vino. Spesso la viticoltura si concentrava nei dintorni di paesi o città con i loro mercati, essendo questi gli unici luoghi dove la produzione, la conservazione e la commercializzazione del vino erano possibili su ampia scala. Troviamo così torchi e cantine soprattutto in insediamenti di una certa dimensione e nelle città, dove tra l’altro risiedevano bottai e carrettieri, mestieri molto importanti per l’economia vinicola68. Il fabbisogno di manodopera, che nell’economia vinicola era maggiore rispetto al lavoro dei campi, contribuì in maniera determinante ad un aumento notevole della popolazione e a una maggiore concentrazione di centri urbani nelle più importanti zone vinicole. I villaggi vinicoli, densamente popolati, erano spesso di dimensioni relativamente grandi e nel loro aspetto assomigliavano più a piccole città69. Ben presto la posizione economica e sociale dei gruppi di persone impegnati nella viticoltura e residenti nelle città di alcune zone vinicole portò alla nascita di particolari corporazioni di mestiere (vignaioli, zappatori, orticoltori). Inoltre, la manodopera salariata maschile e femminile non tardò ad assumere un ruolo di rilievo nelle zone vinicole, in modo che in molti luoghi i viticoltori assunti a salario, i braccianti assoldati per lunghi periodi e i lavoratori stagionali costituivano una parte notevole della popolazione70. Tipico per molte zone vinicole era anche il vigneto coltivato come attività secondaria. L’aumento della popolazione fece sì che in molti casi i terreni subissero una forte parcellizzazione. L’economia vinicola, fortemente influenzata dalle oscillazioni delle rendite, era estremamente soggetta a crisi nei periodi in cui le cattive annate si susseguivano. Accadeva sempre più spesso che i viticoltori, per poter far fronte alle spe66 VOLK, Weinbau und Weinabsatz, in partic. pp. 77 sgg. 67 W. RÖSENER, Grundherrschaft im Wandel. Untersuchungen zur Entwicklung geistlicher Grundherrschaften im südwestdeutschen Raum vom 9. bis 14. Jahrhundert, Göttingen 1991 (Veröffentlichungen des Max-PlanckInstituts für Geschichte, 102), in partic. pp. 47 sgg., 361 sgg., 414 sgg., 456 sgg., 557 sgg. 68 K. WESOLY, Handwerke in Weinbaugebieten während des Mittelalters - unter besonderer Berücksichtigung des schwäbischen Unterlandes, in Weinwirtschaft im Mittelalter, pp. 123-137; VOLK, Wirtschaft und Gesellschaft, pp. 235 sgg.; CLEMENS, Trier. Eine Weinstadt im Mittelalter, pp. 309 sgg. 69 70 108 IRSIGLER, Weinstädte an der Mosel im Mittelalter, pp. 165-179. K. SCHULZ, Handwerksgesellen und Lohnarbeiter. Untersuchungen zur oberrheinischen und oberdeutschen Stadtgeschichte des 14. bis 17. Jahrhunderts, Sigmaringen 1985, pp. 343 sgg.; VOLK, Weinbau und Weinabsatz, pp. 86 sgg. se, contraevano debiti presso i mercanti di vino e gli ebrei, che fino alle persecuzioni e alla loro espulsione nel tardo medioevo si erano insediati in molte delle tradizionali zone vinicole dell’Occidente71. I mercanti di Colonia, ad esempio, acquistavano i vini richiesti direttamente dai viticoltori soprattutto dell’area del medio Reno e in Alsazia, occasionalmente anche della bassa Mosella e delle Fiandre, utilizzando spesso anche degli intermediari. Non era raro che cittadini benestanti possedessero vigneti anche in zone distanti dal loro luogo di residenza72. Poteva addirittura accadere che i mercanti di vino acquistassero in anticipo la vendemmia degli anni a venire, evitando in tal modo le imposte dei mercati locali73. I vini della Franconia venivano acquistati non solo dai mercanti di Colonia, ma anche da quelli di Norimberga, dagli olandesi e dai boemi74. In tal modo aumentò la dipendenza economica dei produttori di vino nei confronti dei mercanti, la tensione sociale cresceva, sfociando non di rado in episodi di rivolta. Il peggioramento delle condizioni generali nelle zone vinicole della Germania meridionale e occidentale a partire dalla fine del XV secolo fu senz’altro uno dei motivi per cui la popolazione di quelle regioni partecipò in misura notevole alla rivolta dei contadini del 152575. 71 G. MENTGEN, Studien zur Geschichte der Juden im mittelalterlichen Elsass, Hannover 1995 (Forschungen zur Geschichte der Juden, A/2), pp. 557 sgg.; F.J. ZIWES, Studien zur Geschichte der Juden im mittleren Rheingebiet während des hohen und späten Mittelalters, Hannover 1995 (Forschungen zur Geschichte der Juden, A/1), pp. 40 sgg., 233 sgg.; TOCH, Die Juden im mittelalterlichen Reich, p. 98. 72 G. FOUQUET, Weinkonsum in gehobenen städtischen Privathaushalten des Spätmittelalters, in Weinproduktion und Weinkonsum im Mittelalter (come nota 3), qui nota 127. Per la regione della Bassa Stiria, cfr. VALENTINITSCH, Die Bedeutung des Weins für die steirischen Städte, pp. 112 sgg. 73 K. MILITZER, Wirtschaftsleben am Niederrhein im Spätmittelalter, «Rheinische Vierteljahrsblätter», 49 (1985), pp. 85 sgg. 74 SPRANDEL, Von Malvasia, p. 76. 75 VOLK, Weinbau und Weinabsatz, pp. 159 sgg. Similmente per l’Alsazia: F. RAPP, Rentabilität des Rebbaus am Beispiel elsässischer Klöster, in Weinproduktion und Weinkonsum (come nota 3); a confronto HELD, Der Weinbau in und um Jena, pp. 145 sgg.; si veda anche F. IRSIGLER, Zu den wirtschaftlichen Ursachen des Bauernkriegs von 1525/26, in Martin Luther und die Reformation in Deutschland, Halle 1988 (Schriften des Vereins für Reformationsgeschichte, 194), pp. 95-120; inoltre, anche Martin Luther und die Reformation in Deutschland. Vorträge zur Ausstellung im Germanischen Nationalmuseum Nürnberg 1983, a cura di K. Löcher, Nürnberg 1988, pp. 51-60; F. IRSIGLER, Der Junker und die Bauern. Zur Krise adeliger Herrschaft und bäuerlicher Wirtschaft um 1500 am Beispiel des Kraichgaudorfes Menzingen, in Region und Reich. Zur Einbeziehung des Neckar-Raumes in das Karolinger-Reich und zu ihren Parallelen und Folgen, Stadtarchiv Heilbronn 1992 (Quellen und Forschungen zur Geschichte der Stadt Heilbronn, 1), pp. 255-270. 109 Tecniche di vinificazione Complessivamente non vanno sopravvalutati i progressi compiuti nella coltura della vite e nella vinificazione. Oltretutto è difficile determinare in che misura le opere fondamentali (Pier de’ Crescenzi, erbari e trattati sull’arte dell’innesto) fossero recepite a livello pratico76. La richiesta da parte dei mercanti e la concorrenza esercitata dai vini provenienti da altre zone spronarono comunque i produttori a migliorare la qualità. Le innovazioni relative ai vitigni di cui troviamo traccia nelle fonti non oltrepassarono probabilmente i confini delle vigne dei grandi produttori. Obblighi contenuti nei contratti di locazione ed anche ordinamenti cittadini e signorili relativi alla viticoltura rivelano gli sforzi compiuti per migliorare qualitativamente la cura della vite. Non si può stabilire con sicurezza se in generale vi fu un aumento delle fasi di produzione per quanto riguarda la coltivazione della vite. Tanto più visibili sono le trasformazioni delle tecniche di vinificazione. In numerose zone vinicole, a partire dal XIV secolo, furono prodotti vini dal sapore relativamente amabile (come i cosiddetti vini infuocati) grazie a procedimenti specifici77. Lo zolfo necessario per la conservazione del vino fu impiegato in misura maggiore nelle cantine al più tardi dal XV secolo in poi; il suo impiego fu controverso e regolamentato con diverse ordinanze. Si conoscevano numerosi procedimenti nella produzione vinicola – alcuni consentiti, altri vietati –, tra essi anche quelli che permettevano di correggere qualche spiacevole variazione del gusto e del colore78. L’aggiunta di miele e spezie era particolarmente apprezzata, 76 STAAB, Agrarwissenschaft und Grundherrschaft, pp. 8 sgg.; S. KIEWISCH, Weinbehandlung in mittelalterlichen Fachprosatexten, in Weinproduktion und Weinkonsum (come nota 3); R. WUNDERER, Weinbau und Weinbereitung im Mittelalter. Unter besonderer Berücksichtigung der mittelhochdeutschen Pelz- und Weinbücher, Bern et al. 2001 (Wiener Arbeiten zur Germanischen Altertumskunde und Philologie, 37). 77 M. MATHEUS, Gefeuerter Wein. Zur “Weinverbesserung” in alter Zeit, «Jahrbuch des Kreises BernkastelWittlich» (1985) pp. 361-373; ID., P. MAJERUS, Wie man in Kellern den Wein feuret, ibid., pp. 374-376; ID., “Gefeuerter Wein”: Un procédé de vinification très particulier au Moyen Age, in Le vigneron, la viticulture et la vinification, pp. 259-266; H.R. ESCHNAUER, Feuerwein am Rhein, Wiesbaden 1995 (Schriften zur Weingeschichte, 112). 78 110 B. PFERSCHY-MALECZEK, Weinfälschung im Mittelalter, in Fälschungen im Mittelalter. Internationaler Kongreß der Monumenta Germaniae Historica München, 16.-19. September 1986, Hannover 1988 (MGH Schriften 33,V), pp. 669-702; EAD., Weinfälschung und Weinbehandlung in Franken und Schwaben im Mittelalter, in Weinwirtschaft im Mittelalter, pp. 139-178; B. FUGE, Weinbehandlung und Weinverfälschung in Mittelalter und früher Neuzeit: Technik, Verbreitung und regionale Rechtspraxis, in Landesgeschichte als multidisziplinäre Wissenschaft. Festgabe für Franz Irsigler zum 60. Geburtstag, a cura di D. Ebeling et al., Trier 2001, pp. 479-522. mentre quella di pepe e miele ed un successivo riscaldamento della bevanda così ottenuta doveva probabilmente assomigliare molto a quello che oggi si definisce vin brulé. Nonostante ciò l’usanza di bere vini puri e assolutamente inalterati non era affatto sconosciuta, al contrario, nelle fonti viene menzionata esplicitamente varie volte79. Nella seconda metà del XV secolo, sullo sfondo di diversi scandali relativi alla sofisticazione del vino, non solo le città ma anche signori e confederazioni regionali si impegnarono a vietare tali pratiche dannose per la vinificazione e per il commercio vinicolo, mettendo a freno soprattutto quelle pratiche da cui conseguivano danni economici o che mettevano persino a repentaglio la salute o la vita delle persone. Si intendeva quindi proteggere sia il commercio dei vini di qualità ineccepibile e gli introiti che ne derivavano, che garantire la tutela dei consumatori. Nella dieta di Friburgo del 1498, infine, furono emanate delle norme generali contro la sofisticazione del vino che, almeno per quel periodo, furono definitive in materia80. Commercio e tipologia del vino Con l’incremento demografico iniziato in parte già prima del Mille, anche il commercio del vino subì una notevole crescita. Dal XII e XIII secolo in poi, lungo il Reno ed i suoi affluenti, i cistercensi e le comunità dell’ordine teutonico produssero vino in misura notevole creando particolari reti commerciali per la commercializzazione dei propri prodotti. Così ad esempio la commenda di Coblenza dell’ordine teutonico si era specializzata nel commercio vinicolo. Grazie a questo esempio si è potuto mostrare in maniera efficace come e in che misura le navi dell’Ordine riuscissero a vendere con buoni profitti il vino prodotto in eccedenza al proprio fabbisogno sui mercati in cui la richiesta era più forte, come a Colonia o nelle città delle Fiandre e del Brabante. Privilegi doganali giunti fino a noi permettono di seguire le tracce di tale commercio discendendo il Reno fino alla foce per risalire poi il fiume Schelda fino ad Anversa ed 79 L. CLEMENS, M. MATHEUS, Weinfälschung im Mittelalter und zu Beginn der Frühen Neuzeit, in Unrecht und Recht. Kriminalität und Gesellschaft im Wandel von 1500-2000, Koblenz 2002 (Veröffentlichungen der Landesarchivverwaltung Rheinland-Pfalz, 98), pp. 570-581. 80 D. SCHELER, Die fränkische Vorgeschichte des ersten Reichsgesetzes gegen Weinfälschung, «Bericht des Historischen Vereins Bamberg», 120 (1984), pp. 489-504. 111 oltre fino a Mechelen81. Nel XIV secolo questo commercio approfittò del fatto che, con la diffusione dell’argano a ruota che permetteva di sollevare pesi maggiori, le dimensioni delle botti cominciarono ad orientarsi su quei trait d’union che caratterizzavano il trasporto su terra e quello su acqua. Ciò portò ad una certa unificazione nelle dimensioni dei barili che, a sua volta, permise una razionalizzazione nell’ambito dei trasporti82. Le navi dei cistercensi83 e dell’ordine teutonico profittavano inoltre del fatto di essere almeno in parte esenti da quell’insieme di imposte e di dazi che invece gravavano sempre più pesantemente sui mercanti e sui consumatori di vino. Per gli insediamenti più grandi situati nelle zone vinicole queste tasse rappresentavano di norma una delle entrate di maggiore entità per il bilancio cittadino e in origine furono impiegate soprattutto per finanziare la costruzione della cerchia delle mura. Perfino in città situate ad una certa distanza dalle zone vinicole le entrate provenienti dalle tasse di consumo sul vino potevano ammontare nel XIV e XV secolo anche al 30% e fino al 60% del totale delle proprie entrate84. Colonia, la “casa del vino della lega Anseatica”, per quanto riguarda il commercio del vino superava tutti gli altri centri di esportazione e di commercializzazione lungo il corso del Reno85. La città aveva acquisito il suo ruolo predominante 81 ARNOLD, Weinbau und Weinhandel (come nota 28); K. VAN EICKELS, Die Deutschordensballei Koblenz und ihre wirtschaftliche Entwicklung im Spämittelalter, Marburg 1995 (Quellen und Studien zur Geschichte des Deutschen Ordens, 52), in partic. pp. 127 sgg.; ID., Weinbau und Weinhandel der Deutschordensballei Koblenz im Spätmittelalter, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 293-304. 82 M. MATHEUS, Hafenkrane. Zur Geschichte einer mittelalterlichen Maschine am Rhein und seinen Nebenflüssen von Straßburg bis Düsseldorf, Trier 1985 (Trierer Historische Forschungen, 9); ID., Hafenkrane, in Europäische Technik im Mittelalter 800-1200. Tradition-Innovation, a cura di U. Lindgren, Berlin 1996, pp. 345-348. 83 Sui monasteri cistercensi e la presenza dei loro vini sul mercato vinicolo di Colonia, cfr. K. MILITHandel und Vertrieb rheinischer und elsässischer Weine über Köln im Spätmittelalter, in Weinbau, Weinhandel und Weinkultur, pp. 165-185, in partic. pp. 176 sg.; J. STAAB, Die Zisterzienser und der Wein, Wiesbaden 1987 (Schriften zur Weingeschichte, 81). ZER, 84 M. PAULY, Luxemburg im späten Mittelalter, II. Weinhandel und Weinkonsum, Luxemburg 1994 (Publications de la Section historique de l`Institut grand-ducal, 109), pp. 38 sgg. 85 112 VAN UYTVEN, Die Bedeutung des Kölner Weinmarktes, pp. 234-252; IRSIGLER, Die wirtschaftliche Stellung der Stadt Köln (come nota 46); W. HERBORN, K. MILITZER, Der Kölner Weinhandel. Seine sozialen und politischen Auswirkungen im ausgehenden 14. Jahrhundert, Sigmaringen 1980 (Vorträge und Forschungen Sonderband, 25); MILITZER, Handel und Vertrieb (come nota 83); G. HIRSCHFELDER, Die Kölner Handelsbeziehungen im Spätmittelalter, Köln 1994 (Veröffentlichungen des Kölnischen Stadtmuseums, 10), in partic. pp. 175 sgg., 267 sgg., 395 sgg.; K. OSSENDORF, “Sancta Colonia” als Weinhaus der Hanse, 2 voll., Wiesbaden 1996 (Schriften zur Weingeschichte, 116/118). nel commercio del vino non da ultimo grazie al diritto di scarico, trasbordo e scalo di cui profittava anche il commercio vinicolo di altri centri come Lubecca, Amburgo, Brema e Vienna. Da Colonia partivano i prodotti di molte aree vinicole situate lungo quel fondamentale asse fluviale ed i suoi affluenti, tutti sotto la denominazione comune di vini del Reno e diretti verso l’area anseatica, l’Inghilterra e la Scandinavia, oppure verso le zone urbanizzate dell’Europa nord-occidentale. Nella regione anseatica, dove il vino era una bevanda di lusso già per il semplice fatto che i costi di trasporto facevano salire di molto i prezzi86, le cantine municipali, controllate dal governo cittadino, svolgevano un ruolo importante per il commercio ed il consumo di vino. Il vino che vi era conservato era destinato a servire non soltanto come genere voluttuario, ma anche come bevanda d’onore per occasioni di rappresentanza e in particolare per la cura dei rapporti diplomatici87. I principali mercati per la commercializzazione del vino prodotto a Colonia furono i Paesi Bassi e le regioni baltiche, così come la Vestfalia e la Germania settentrionale. Mentre nei secoli centrali del medioevo il vino rappresentava il prodotto più importante tra quelli commerciati dai mercanti di Colonia in Inghilterra, la sua importanza andò diminuendo a partire dal XIV secolo. Pur essendovi sulla piazza di Colonia anche un commercio di vino alsaziano, le cui dimensioni però non si possono determinare con esattezza sulla base delle fonti, non vi è motivo di mettere in dubbio la dominanza dei vini del Reno. Più a valle poi, nelle regioni del basso Reno come anche nell’area economica urbanizzata delle Fiandre e del Brabante, la differenza tra il vino del Reno ed il vino alsaziano diveniva pressoché irrilevante, essendo entrambe le tipologie riunite sotto la denominazione di “vini del Reno”. A Colonia, come in altre importanti città commerciali, il commercio del vino, sottoposto a controlli minuziosi88, era per la 86 H. AMMANN, Konrad von Weinsbergs Geschäft mit Elsässer Wein nach Lübeck im Jahr 1426. Untersuchungen zur Wirtschaftsgeschichte des Oberrheins, «Zeitschrift für die Geschichte des Oberrheins», 108 (1960), pp. 466-498. 87 E. SPIES-HANKAMMER, Der Lübecker Ratsweinkeller und seine Aufgaben im innerstädtischen Weinhandel von den Anfängen bis ins 17. Jahrhundert mit einer Edition der Ratsweinkellerordnung von “1504”, in Lübecker Weinhandel. Kultur- und wirtschaftsgeschichtliche Studien, a cura di E. Spies-Hankammer, Lübeck 1985 (Veröffentlichungen des Senats der Hansestadt Lübeck, Amt für Kultur, Serie B, 6), pp. 111-148; R. POSTEL, Das “Heiligtum” im Ratskeller. Die Hansestädte und der Wein, in Stadt und Wein, pp. 147-163; A. SANDER, Städtische Weinkeller in Norddeutschland im Spätmittelalter, in Weinproduktion und Weinkonsum (come nota 3). 88 E. PITZ, Schrift- und Aktenwesen der städtischen Verwaltung im Spätmittelalter. Köln, Nürnberg, Lübeck, Köln 1959 (Mitteilungen aus dem Stadtarchiv Köln, 45), pp. 102 sgg. 113 maggior parte nelle mani di grandi proprietari fondiari e commercianti che disponevano di ingenti capitali, i quali dalla metà del XIV secolo in poi spesso si unirono in società commerciali. Anche le diverse tipologie di vino prodotte in Alsazia erano riunite sotto un’unica denominazione per il commercio a grande distanza. Questi vini bianchi venivano trasportati in grandi quantità sul fiume Jll fino a Strasburgo89 e da lì sul Reno verso nord. Per la commercializzazione dei vini alsaziani nell’Europa nord-orientale90 le fiere di Francoforte con la loro funzione di centri di scambio giocarono un ruolo importante91. Anche a Colmar – nel XV secolo la città più importante dell’alta Alsazia – si trattavano rispettabili quantità di vino. Da lì il vino alsaziano veniva esportato tra l’altro anche verso le regioni di lingua tedesca della Svizzera92. Nella Germania meridionale i vini più importanti da esportazione erano riuniti sotto la denominazione di vini della Franconia, vini del Neckar ed il cosiddetto Osterwein93. Il maggiore acquirente dei vini della Franconia, commerciati fino alla metà del XIV secolo sotto il nome di vino di Würzburg, era la città di Norimberga. Da lì il vino veniva distribuito in altre regioni, per esempio a Lipsia, ad Augusta passando per Nördlingen e nella bassa Baviera passando per Eichstätt e Ratisbona. Esso era però anche presente nelle fiere di Francoforte e nella Germania settentrionale a ovest dell’Oder. I vini del Neckar erano commercializzati soprattutto nell’alta Baviera e detenevano un ruolo importante sui mercati di Augusta, Nördlingen, e Ulm. Come Osterwein erano classificati soprattutto i vini dei dintorni di Vienna94, della Wachau e della valle di Krems, situata ai 89 E. BENDER, Weinhandel und Wirtsgewerbe im mittelalterlichen Straßburg, «Beiträge zur Landes- und Volkskunde von Elsaß-Lothringen und den angrenzenden Gebieten», 48 (1914); BARTH, Der Rebbau des Elsaß und die Absatzgebiete seiner Weine, pp. 336 sgg. 90 H. AMMANN, Von der Wirtschaftsgeltung des Elsaß im Mittelalter, Lahr 1955 (anche in: Alemannisches Jahrbuch 1955, pp. 1-112). 91 M. ROTHMANN, Die Frankfurter Messen im Mittelalter, Stuttgart 1998 (Frankfurter Historische Abhandlungen, 40), in partic. pp. 128 sgg., 167 sgg.; ID., Die Frankfurter Messe als Weinhandelsplatz im Mittelalter, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 365-419. 92 L. SITTLER, Le commerce du vin de Colmar jusqu’en 1789, «Revue d’Alsace», 89 (1949), pp. 37-62; ID., La viticulture et le vin de Colmar à travers les siècles, Colmar 1956. 93 94 114 Su quanto segue si veda in particolare SPRANDEL, Von Malvasia (come nota 46). R. PERGER, Weinbau und Weinhandel in Wien im Mittelalter und in der frühen Neuzeit, in Stadt und Wein, pp. 207-219. confini della Wachau. Essi venivano trasportati in grandi quantità sul Danubio verso Ratisbona e da lì proseguivano per Norimberga95. L’Osterwein veniva venduto anche nella Germania orientale e settentrionale. Accanto a queste varietà destinate all’esportazione a largo raggio, incontriamo nel tardo medioevo anche vini di Esslingen e Heilbronn, Pfeddersheim e Spira, Überlingen e Würzburg, per citare solo pochi esempi96. Queste denominazioni permettono di identificare le città corrispondenti come centri di produzione e di commercio vinicolo. Tali centri di norma corrispondono – e questo finora non è stato oggetto di attenzione e tanto meno di studi sistematici – a quei criteri che secondo gli studiosi fanno di una città un centro vinicolo97. Caratteristiche sono la loro funzione di capoluogo di una zona vinicola, la partecipazione di ampi strati della popolazione nella produzione vinicola, di gruppi professionali differenziati all’interno di forme di organizzazione consorziale, la concentrazione di luoghi di produzione (spesso costosi) come ad esempio gli impianti di torchiatura, ed infine un mercato vinicolo significativo dotato della necessaria capacità di stoccaggio e di buoni collegamenti. Il grado di diffusione e di popolarità di tali vini era assai differente e subiva inoltre frequenti oscillazioni. Le denominazioni dei vini forniscono in ogni caso indicazioni preziose sul raggio d’azione e sui rapporti commerciali delle città produttrici e, di conseguenza, anche sugli orizzonti di comunicazione. Si può asserire comunque che più un vino veniva venduto lontano, le probabilità che diverse tipologie venissero commercializzate sotto un’unica denominazione erano maggiori. Oltre ai vini menzionati finora, un ruolo importante spettava anche ai vini di importazione, in particolare a quelli provenienti dall’Europa sud-occidentale. Attraverso le maggiori rotte commerciali di terra e di acqua si importavano i vini ad alta gradazione alcolica prodotti nel bacino mediterraneo, che troviamo, riuniti sotto le denominazioni Malvasia, Romania, Moscato e Bastert in tutte le città 95 H. DACHS, Zur Geschichte des Weinhandels auf der Donau von Ulm bis Regensburg, «Verhandlungen des Historischen Vereins von Oberpfalz und Regensburg», 83 (1933), pp. 36-96; A. HOFFMANN, Die Weinfuhren auf der österreichischen Donau in den Jahren 1480-1487, in Aus Verfassungs- und Landesgeschichte, Festschrift Theodor Mayer, 2, Konstanz 1955, pp. 329-345. 96 Cfr. SPRANDEL, Von Malvasia, consultando l’indice. Si veda ad esempio per il vino di Preßburg BADURÍK, Westslowakische Städte und der Weinbau, p. 90. 97 Per le caratteristiche di un centro vinicolo, cfr. CLEMENS, Trier. Eine Weinstadt, pp. 413 sg.; si veda anche IRSIGLER, Weinstädte, pp. 165 sgg., che annovera tra questi criteri anche il possesso di beni distanti (che secondo me non rappresenta tuttavia una conditio sine qua non). 115 situate lungo le vie commerciali98. Si trattava di vini costosi, venduti in piccole quantità. I vini francesi furono trasportati insieme al sale di Bayen in misura crescente a partire dalla seconda metà del XIV secolo da navi della Lega Anseatica verso le regioni baltiche99. Vini delle regioni dell’Italia settentrionale erano trasportati al di là delle Alpi al più tardi nel XIII secolo. Nel sud della Germania erano molto diffusi i vini dell’Alto Adige. In questa regione numerosi signori laici e istituzioni ecclesiastiche possedevano sia i vigneti che i mezzi di trasporto per esportare il proprio vino100. A Bolzano, la piazza commerciale dell’Alto Adige, i mercanti di Monaco, Augusta, Ratisbona, Praga e Lindau acquistavano intere forniture di vino.101 I mercanti di Ratisbona e Monaco attraversarono in gruppi le Alpi per rifornirsi in modo particolare sia di vini prodotti nella zona di lingua tedesca della valle dell’Adige, che di quelli della zona di lingua italiana, che essi chiamavano Welsch102. Il Rainfal, una qualità di vino nominata spesso nelle fonti transalpine, probabilmente proveniva dall’Istria ma anche da altre zone vinicole italiane103. A Monaco già nella prima metà del XIV secolo si distingueva tra le qualità Rainfal, Bassano e Welsch. In fonti del XV secolo il Rainfal ed i vini di Bassano vengono spesso menzionati a parte, così come, più raramente, anche i vini friulani e del trevigiano104. Manca però fino ad oggi un’analisi sistematica dei vini originari dell’Italia commerciati nelle regioni transalpine. 98 SPRANDEL, Von Malvasia, in partic. pp. 51 sgg., 61 sgg., 95 sgg. 99 Ultimamente F. IRSIGLER, Wirtschaft, Wirtschaftsräume, Kontaktzonen, in Deutschland und der Westen Europas im Mittelalter, a cura di J. Ehlers, Stuttgart 2002 (Vorträge und Forschungen, 56), pp. 379-405, in partic. pp. 380 e 390 sg. 100 G. SCHREIBER, Deutsche Weingeschichte. Der Wein in Volksleben, Kult und Wirtschaft, Köln 1980, p. 111; WEBER, Nah- und Fernbesitz (come nota 14). 101 NÖSSING, Die Bedeutung der Tiroler Weine im Mittelalter, in partic. pp. 199 sgg.; ID., Bozens Weinhandel im Mittelalter und in der Neuzeit, in Stadt und Wein, pp. 181-192. 102 Cfr. SPRANDEL, Von Malvasia, in partic. pp. 27 sg., con il suggerimento di distinguere, all’interno della denominazione “Welsch”, un significato più ristretto e uno più largo. 116 103 Ibid., p. 27. 104 Ibid., pp. 56 sg.; e le indicazioni offerte da G.M. Varanini in questo volume. Consumo e sapore del vino Nella regione che è oggetto di questo studio (all’interno delle zone vinicole densamente coltivate e previa una sufficiente quantità di scorte) il vino, pur rappresentando un genere alimentare di prima necessità, al di fuori di tali territori era invece un prodotto riservato alla tavola degli strati sociali più elevati. Anche nelle stesse aree vinicole molti consumatori dovevano spesso accontentarsi di vini di qualità inferiore: vini di seconda o terza spremitura oppure ottenuti spremendo la feccia dell’uva. Se i vini, nonostante i prezzi vantaggiosi per i consumatori ottenuti grazie alla regolamentazione imposta dalle autorità, divenivano troppo cari, si ripiegava di frequente su bevande alternative di poco prezzo. Nelle famiglie dell’alta borghesia residenti nelle grandi città della Germania settentrionale nel tardo medioevo si è calcolato un consumo giornaliero pro capite di 1,3 litri di vino105. Queste stime non vanno però applicate all’intera popolazione. Si deve inoltre tenere conto del fatto che si trattava di vini con una modesta gradazione alcolica. Le pretese relative a qualità e quantità erano, confrontandole con quelle attuali, piuttosto ridotte; tuttavia, i consumatori più esperti sapevano distinguere i vini buoni da quelli cattivi. Essendo le capacità di stoccaggio piuttosto ridotte, i vini delle zone vinicole transalpine giungevano sul mercato di regola poco dopo la vendemmia, e si bevevano per lo più giovani. In molti casi il mosto appena spremuto veniva portato dalle zone di produzione alle cantine dei proprietari e dei mercanti. È tuttora impossibile dire se all’epoca si distinguesse tra il vino frensch (probabilmente di qualità superiore) ed il vino chiamato heunisch106. Sui mercati in cui la richiesta era maggiore, ad esempio quelli del Brabante e dei Paesi Bassi, troviamo nel tardo medioevo quattro tipi di vino che si distinguevano nettamente anche nel prezzo: in cima alla graduatoria si trovavano i vini meridionali ad alta gradazione alcolica e più facilmente conservabili e trasportabili. Essi raggiungevano i territori settentrionali in quantità crescente dopo che si erano intensificati i rapporti commerciali con l’area mediterranea, dove le zone di produzione si erano espanse in conseguenza alla maggiore richiesta. Essi erano 105 Cfr. FOUQUET, Weinkonsum in gehobenen städtischen Privathaushalten des Spätmittelalters (come nota 72), con numerosi rimandi; M. PAULY, Luxemburg als Zentrum für Weinhandel und Weinkonsum in der zweiten Hälfte des 15. Jahrhunderts, in Weinbau zwischen Maas und Rhein, pp. 199-224, in partic. pp. 213 sgg. 106 Di recente SCHUMANN, Rebsorten und Weinarten im mittelalterlichen Deutschland, pp. 222 sgg.; SPRANVon Malvasia, pp. 38 sg. DEL, 117 annoverati, accanto a determinate qualità di vini speziati (ad esempio il Claret ed il Lautertranck detto anche Luttertranck107), tra quei prodotti fuori dal comune che i consumatori facoltosi – che in questo modo ribadivano anche la loro elevata posizione sociale – servivano ai propri ospiti di riguardo in occasioni particolari. Al secondo posto troviamo i vini del Reno e del Beaune, come venivano generalmente chiamati i vini delle zone di produzione distribuite lungo il corso del Reno e in Borgogna108. Gli altri vini francesi di cui si serba il ricordo erano in particolare vini provenienti dalla costa sud-occidentale della Francia. I vini più a buon mercato erano quelli locali provenienti dalle zone di produzione brabantine109. Pur apprezzando anche i buoni vini rossi della regione del Beaune, nel tardo medioevo i consumatori preferivano i vini bianchi110. Per spiegare le notevoli differenze di prezzo non basta nominare i relativi costi di trasporto, devono essere considerati infatti anche i diversi criteri di qualità. E se nel medioevo il vino non veniva distinto in base alle annate, si può tuttavia constatare tra i conoscitori di vino del tardo medioevo una distinzione significativa a seconda della categoria di qualità e della tipologia111. Così ad esempio il libro dei conti di Anton Tucher, un patrizio di Norimberga vissuto agli inizi del XVI secolo, contiene una lista di venti vini diversi112. Dal XV secolo in poi l’interesse per le diverse qualità di vino sembra aumentare, e con esso la necessità di utilizzare denominazioni più particolareggiate di quelle molto generali usate fino ad allora come appunto quella di vino del Reno113. 107 H. KREISKOTT, Mittelalterliche Kräuter- und Arzneiweine und ihre Wirkungen, in Weinwirtschaft im Mittelalter, pp. 179-191; SPRANDEL, Von Malvasia, p. 20; anche G. Archetti, in questo volume per gli usi monastici attestati nelle consuetudini. 108 R. VAN UYTVEN, Der Geschmack am Wein im Mittelalter, in Weinproduktion und Weinkonsum im Mittelalter (come nota 3); J. RICHARD, Burgunds Weine im Mittelalter, in Weinwirtschaft im Mittelalter, pp. 205-219. Sulla concorrenza delle diverse tipologie di vino su altri mercati, cfr. SPRANDEL, Von Malvasia, in partic. pp. 87 sgg. 109 Cfr. SPRANDEL, Von Malvasia, seguendo l’indice. Qui si trovano anche numerosi esempi relativi ad altre regioni. 110 FOUQUET, Weinkonsum in gehobenen städtischen Privathaushalten des Spätmittelalters, nota 168 sgg. 111 SPRANDEL, Von Malvasia, in partic. pp. 87 sgg.; VAN UYTVEN, Der Geschmack am Wein (come nota 108). 112 SPRANDEL, Von Malvasia, p. 21; FOUQUET, Weinkonsum in gehobenen städtischen Privathaushalten des Spätmittelalters (come nota 72). 118 113 SPRANDEL, Von Malvasia, pp. 29 sgg. Per quanto riguarda invece l’invecchiamento del vino, Friedrich von Bassermann-Jordan era ancora del parere che nel medioevo il vino vecchio fosse generalmente tenuto in maggiore considerazione del vino giovane, mentre oggi questa opinione non viene più sostenuta seriamente114. «Dopo il crollo dell’impero romano la predilezione per il vino invecchiato scomparve per un millennio. I vini acquosi e a bassa gradazione alcolica dell’Europa settentrionale si mantenevano solo per alcuni mesi, diventando poi aspri e imbevibili. Gli unici a poter essere consumati a distanza di tempo erano i vini dolci e ad alta gradazione alcolica provenienti dall’area mediterranea»115. Nel frattempo si è invece affermata l’opinione «che nel medioevo si bevesse solo vino giovane e che il ‘vino vecchio’ menzionato occasionalmente altro non fosse che il vino della penultima annata»116. Tuttavia, nei testi di alcuni autori medievali troviamo riferimenti relativi all’apprezzamento di cui godevano i vini invecchiati. Così il Segré des Segrez (“Segreto dei segreti”), un’opera redatta intorno al 1300 basata su un testo latino e di chiara impostazione classica, distingue tra vini giovani (di un anno) e vini medi e vecchi (questi ultimi dai quattro ai sette anni). Pier de’ Crescenzi, autore di una significativa opera di agronomia medievale, l’Opus ruralium commodorum, molto diffusa e tradotta in diverse lingue europee, nomina espressamente vini invecchiati dai quattro ai sette anni. Si potrebbero riportare ancora molti altri esempi117. Non è certo tuttavia se queste affermazioni si riferiscono a vini delle regioni transalpine o in particolare a vini bianchi, giacché molti testi fanno riferimento a modelli antichi. Inoltre tali affermazioni probabilmente si riferiscono più che altro a vini ad alta gradazione alcolica provenienti dalle zone vinicole mediterranee118. Purtroppo anche altre fonti medievali significative come per esempio inventari di cantine, fatture, tariffe o bollette dei dazi, non danno che esigue informazioni sull’età dei vini. Pur trovandosi non di rado la distinzione tra vino nuovo e 114 VON BASSERMANN-JORDAN, Geschichte des Weinbaus, 1, pp. 471 sg.: «Anche nel medioevo si restò fedeli in generale alla predilezione per il vino rosso». 115 J. ROBINSON, Das Oxford Weinlexikon, Bern und Stuttgart 1995, pp. 38 sg. 116 VAN UYTVEN, Der Geschmack am Wein (come nota 108). Cfr. anche Y. RENOUARD, Le vin vieux au Moyen-Age, «Annales du Midi», 76 (1964), pp. 447- 455 (rist. in ID., Etudes d`histoire médiévales, 1, Paris 1968, pp. 249-256); discute la questione, invece, ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 438-447. 117 Cfr. VAN UYTVEN, Der Geschmack am Wein (come nota 108). 118 Per prove relativi alla conservabilità dei vini meridionali, cfr. PAULY, Luxemburg im späten Mittelalter II, in Weinhandel und Weinkonsum, pp. 45 sgg., 96 sg. 119 firner Wein (un termine che indica quasi sempre un vino invecchiato), le indicazioni delle fonti non permettono quasi mai di giungere a conclusioni sicure sull’età precisa del prodotto. Occasionalmente si può supporre che per ‘vino vecchio’ si intendesse il vino dell’annata precedente119. Nella regione della Mosella già nel XIV secolo il vino considerato vecchio poteva essere ben più caro del vino dell’ultima annata120. «Tutto sembra indicare che la richiesta di vino invecchiato sia aumentata notevolmente dal XVI secolo in poi»121. Le prestigiose botti giganti, che al più tardi intorno al 1500 furono di moda nell’area di lingua tedesca, fornivano vino di qualità più che rispettabile. «Questi vini dovevano la loro scarsa alterabilità al concorrere dei fattori contenuto di zuccheri, acidità e bassa temperatura delle cantine, nonché all’impegno dei maestri cantinieri di impedire l’ossidazione riempiendo di continuo le botti»122. Vi sono numerosi indizi che la richiesta di vino vecchio ed il suo apprezzamento aumentarono a partire dalla fine del XV secolo. Nel 1487 un’ordinanza imperiale sul vino consentiva per la prima volta la solfitazione dei vini in misura controllata ed evidentemente entro limiti non considerati nocivi per la salute. Con essa si sanciva un’importante innovazione nel campo della tecnica cantiniera che permise l’applicazione di nuovi metodi di conservazione dei vini bianchi delle zone vinicole tedesche. L’emanazione dell’ordinanza era stata preceduta da una lunga fase di sperimentazione in molte cantine, nel corso della quale erano stati fatti esperimenti anche con quantità di zolfo e procedimenti di solfitazione allarmanti. Nel XVII e XVIII secolo furono soprattutto i ricchi produttori del Rheingau a conservare i vini nelle loro cantine e a sottoporli a un pluriennale affinamento allo scopo di incrementarne il pregio e di stabilizzare i ricavi in annate scarse. È documentato come si siano 119 F. WAGNER, Der Weinhaushalt der Landsburg, Wiesbaden 2000 (Schriften zur Weingeschichte, 135), p. 66. 120 MATHEUS, Die Mosel - ältestes Rieslinganbaugebiet Deutschlands?, p. 163. Sulla differenza tra vino giovane e firner Wein per Treviri ultimamente CLEMENS, Trier. Eine Weinstadt im Mittelalter, p. 362: «Si nota che il firner Wein, cioè quello dell’annata precedente, viene generalmente valutato meglio di quello della nuova annata». Cfr. invece VOLK, Weinbau und Weinabsatz, p. 149: «Il firner Wein, che proveniva dalla penultima annata o anche da una ad essa precedente, era generalmente valutato peggio». 121 122 120 Cfr. VAN UYTVEN, Der Geschmack am Wein (come nota 108). ROBINSON, Das Oxford Weinlexikon, p. 39. Sulla botte del monastero di Eberbach, costruita intorno al 1500, cfr. J. STAAB, Beiträge zur Geschichte des Rheingauer Weinbaus, Wiesbaden 1970 (Schriften zur Weingeschichte, 22), p. 11. Dello stesso autore di recente anche Die Zisterzienser und der Wein, p. 1. ottenuti guadagni notevoli con annate d’eccezione, provenienti proprio da quei vini che furono immessi sul mercato solo dopo diversi anni di affinamento in cantina. Per concludere possiamo affermare che il particolare apprezzamento dei vini vecchi del Reno corrispondeva alle abitudini di consumo e di rappresentanza della cerchia di corte e della nobiltà come anche della borghesia facoltosa di quell’epoca123. 123 Cfr. M. e R. MATHEUS, “Je älter der Rheinwein wird, je mehr Firne bekömmt er, welches dem Kenner am meisten gefällt!”, Beobachtungen zum Geschmackswandel im Mittelalter und in der frühen Neuzeit, «Mainzer Zeitschrift», 96/97 (2001/2002) (Festschrift F. Schütz), pp. 73-85. 121 122 IOAN LUMPERDEAN* Il vino in Romania e Moldavia nel Medioevo La coltivazione della vigna, l’impiego dell’uva nell’alimentazione, la produzione ed il consumo del vino sono state tra le più antiche attività del popolo rumeno. Le fonti archeologiche e le testimonianze di alcuni autori classici (Senofonte, Platone, Strabone, Ovidio) attestano che, sin dall’antichità, grazie alle condizioni pedo-climatiche favorevoli, la vigna è stata coltivata su larghi spazi in questa parte dell’Europa1. Nell’epoca dacica, durante il regno del famoso daco Burebi1 Per la storia della vigna e del vino nel territorio rumeno ho consultato i seguenti testi: V. BUTURĂ, Etnografia poporului român, Cluj-Napoca 1978, pp. 165-201; C.C. GIURESCU, Istoria podgoriei Odobeștilor din cele mai vechi timpuri până în 1918, București 1969; C. CIHODARU, Podgoriile de la Cotnari și Hârlău în economia Moldovei din secolele XV-XVIII, «Analele Știinţifice ale Universităţii Al. I. Cuza, secţ. Istorie», 10 (1964), pp. 2-17; N. AL. MIRONESCU, Cu privire la istoricul și răspândirea tipurilor de călcători și teascuri pe teritoriul României, «Terra nostra», 1 (1969), pp. 91-101; N.AL. MIRONESCU, Cu privire la istoricul viticulturii tradiţionale românești. «Ţara Vinului» sau «Podgoria Alba Iulia», «Apulum», 7 (1969), pp. 489-514; N.AL. MIRONESCU, P. PETRESCU, Cu privire la instrumentarul viticol tradiţional, «Cibinium», s.n., Sibiu 1966, pp. 62-66; P. PETRESCU, N. AL. MIRONESCU, Construcţiile viticole din Gorj, «Cibinium», s.n., Sibiu 1967-1968, pp. 281-325; I.C. TEODORESCU, Activités viticoles sur le territoire dace, București 1968; GH. UNGUREANU, GH. ANGHEL, C. BOTEZ, Cronica Cotnarilor, București 1971; L. BOTEZAN, Contribuţii la istoricul cultivării viţei de vie pe pământurile nobiliare și iobăgeșt din comitatele Transilvaniei în perioada 1790-1820, «Terra nostra», 2 (1971), pp. 135-162; T. MATEESCU, Cultura viţei de vie în Dobrogea în timpul stăpânirii otomane, «Terra nostra», 3 (1973), pp. 263-282; A. BULENCEA, Viile și vinurile Transilvaniei, București 1975; C. ȘERBAN, Aspecte privind viticultura în judeţul Mehedinţi în secolul al XVIII-lea, «Studii și comunicări de istorie și etnografie», 2 (1978), pp. 183-187; L. ȘTEFĂNESCU, O interesantă reglementare la începutul scolului al XVIII-lea privind viticultura în judeţele Argeș și Vâlcea, «Studii și comunicări de istorie și etnografie», 2 (1978), pp. 275-279; I. ȘUTA, Preocupări privind cultivarea viţei de vie în Bihor în a doua jumătate a secolului al XVIII-lea, «Lucrări Știinţifice Oradea, Istorie», s.n., 1975-1976, pp. 29-32; S. TUDOR, Viticultura în zona Muscel - podgoria în secolele XIV-XVII reflectată în documente, «Studii și comunicări de istorie și etnografie», 2 (1978), pp. 299-308; G. DAVID, Podgorii feudale românești, «Magazin istoric», 12 (1981), pp. 49-52; V. BĂICAN, Răspândirea viţei de vie pe teritoriul Moldovei în secolul al XVIII-lea, «Cercetări agronomice în Moldova», 26/1-2 (1993), pp. 191-196; Istoria românilor, IV, București 2001, pp. 65-67; C. ŢÂRDEA, L. DEJEU, Viticultura, București 1995, pp. 32-33; Ș. OPREA, Viticultura, Cluj-Napoca 2001, pp. 19-26; I. PRAOVEANU, Etnografia poporului român, București 2001, pp. 114-116. * Università Babeș-Bolyai, Cluj-Napoca (Romania). 123 sta (82-44 a.C.), su consiglio del gran sacerdote Deceneus, i daci tagliarono la vigna ed accettarono di vivere senza vino2. Bisogna tuttavia accogliere l’informazione con molta cautela perché, senz’altro, le vigne non furono distrutte interamente, ma soltanto in una loro parte. Proprio per questo si sono mantenuti e trasmessi, fino al presente, una serie di termini d’origine daco-getica: strugure, butuc, curpen, cosor (uva, ceppo di vite, viticcio, roncola). Anzi, a partire da questo periodo, è cominciato il processo di sacralizzazione del vino e la sua utilizzazione in numerosi riti magico-religiosi molto diffusi3. Nei secoli seguenti, e specialmente in epoca romana, la viticoltura ha registrato rilevanti progressi. Una prova, in questo senso, è offerta dalle numerose scoperte archeologiche, dalle iscrizioni e dai monumenti scolpiti, i quali rappresentano tralci di vite, grappoli d’uva, come pure attrezzi da lavoro e vasi necessari per la produzione e la conservazione del vino, ma anche dalle rappresentazioni di alcune divinità, come Bacchus, Liber e Libera, protettori della vigna e del vino. I romani hanno introdotto ed utilizzato in Dacia attrezzi e metodi più avanzati; hanno inoltre introdotto nuovi tipi di vitigni, caratteristici del mondo mediterraneo. Dopo la ritirata aureliana (271 d.C.), la coltivazione della vigna e l’uso del vino sono continuati. Lo dimostrano i ritrovamenti archeologici, ma soprattutto la terminologia viticola di origine latina: viţă (vitis), vie (vinea), lăuruscă (labrusca), coardă (chorda), par (palus), must (mustum), vin (vinum), vinaţ (vinaceus), e così via4. L’epoca delle migrazioni e gli inizi del medioevo rumeno si caratterizzano, come per altri popoli, per l’influenza del cristianesimo. L’etno-genesi rumena s’intrecciò con la graduale penetrazione cristiana a cominciare dal III-IV secolo d.C., e con la sua graduale diffusione nei secoli seguenti; a differenza di altri popoli dell’area centrale del sud-est europeo (bulgari, serbi, croati, ungheresi, ucraini, cechi, slovacchi, polacchi, ecc.), però, i rumeni non conservano nella loro memoria collettiva il ricordo di una conversione di massa e in una data precisa alla nuova fede. In ogni caso, tra VII e VIII secolo, alla fine dell’etno-genesi rumena, gli abitanti del territorio carpatico-danubiano-pontico erano cristiani5. L’espansione e l’adozione del cristianesimo quindi, anche nei territori rume2 Izvoare privind Istoria României, I, București 1964, pp. 237-239. 3 GIURESCU, Istoria podgoriei Odobeștilor, p. 14; R. VULCĂNESCU, Mitologie română, București 1987, p. 559. 4 GIURESCU, Istoria podgoriei Odobeștilor, pp. 15-16. N. BOCȘAN, I. LUMPERDEAN, I.-A. POP, Ethnie et confession en Transylvanie (du XIIIe au XIXe siècles), Cluj-Napoca 1996, p. 8. 5 124 ni, hanno favorito la coltivazione della vigna e lo sviluppo della viticoltura. I testi religiosi offrirono infatti numerosi consigli riguardanti i metodi di coltivazione della vigna, la conservazione ed il consumo moderato del vino. Il terreno agricolo, sul quale era coltivata la vigna, fu man mano considerato «il regno di Dio» ed il vino, bevanda rituale con valore eucaristico, venne chiamato «il sangue del Redentore»6. In simili condizioni, anche in questa parte dell’Europa «la civiltà cristiana, grazie all’eucaristia, si identificava ormai con la civiltà del vino»7. Appunto per questo, nell’iconografia cristiana rumena del medioevo la vigna ed il vino appaiono sacralizzati e san Basilio cominciò ad essere considerato dai rumeni il patrono delle attività viticole8. Durante il lungo medioevo rumeno9 la vigna si diffuse in tutti i territori da essi abitati e la viticoltura divenne un tratto fondamentale dell’economia agraria. L’impianto e l’espansione delle colture viticole furono dovute, come per altri territori europei10, ai molti vantaggi che offrivano alla gente nei settori della produzione, della divisione e dell’organizzazione del lavoro, ma anche nell’ambito delle attività alimentari, commerciali, sociali e religiose. La viticoltura si diffuse in tutti i territori rumeni, superando le difficoltà legate al clima e ai terreni. Le attività lavorative relative al mantenimento delle colture viticole, alla fabbricazione ed alla commercializzazione del vino furono organizzate durante tutto l’anno agricolo, seguendo le varie stagioni. Tali opere, molto complesse, includevano la zappatura, la pulitura, la sarchiatura e la concimazione del suolo, la legatura ed il diradamento dei tralci, la vendemmia, la pigiatura dell’uva, la preparazione dei barili, il trasporto e la vendita del vino, attività nelle quali erano coinvolti specialmente gli uomini, ma anche le donne ed i bambini, per i compiti più facili. I 6 VULCĂNESCU, Mitologie română, p. 561; D. COMBES, Epopeea vinului, în românește de V.D. Zăiceanu, Iași 1996, p. 105. 7 J.-F. GAUTIER, Civilizaţia vinului, traducere din limba franceză de C. Călușer, Cluj-Napoca 2001, p. 48. 8 VULCĂNESCU, Mitologie română, p. 563. 9 Il famoso sintagma di Jacques Le Goff ‘per un lungo medioevo’ è valido anche per i territori rumeni, specialmente riguardo alle strutture socio-economiche. Si v. J. LE GOFF, Imaginarul medieval, traducere și note de M. Rădulescu, București 1991, pp. 34-43. Per questi motivi la nostra analisi riguardante la storia della vigna e del vino comprende anche il periodo dei secoli XVII-XVIII, perfino l’inizio del secolo XIX, quando nell’area rumena avviene il passaggio dall’età medievale a quella moderna. 10 G. CHERUBINI, Ţăranul și muncile câmpului, in Omul medieval, coordonator J. Le Goff, traducere de I. Ilinca și D. Cojocaru, Iași 2000, pp. 113-114. 125 126 lavori si svolgevano di solito in comune, favorendo così il consolidamento della solidarietà sociale, ma anche una giusta organizzazione e divisione del lavoro. Durante il loro svolgimento erano previsti e celebrati numerosi rituali laici e religiosi, soprattutto in occasione della vendemmia. L’uva, sia fresca che passa, ed il vino erano inoltre elementi fondamentali nell’alimentazione della gente, perché soddisfacevano le diverse esigenze e necessità quotidiane, laiche e religiose, ma soprattutto festive, della vita individuale, familiare e sociale. Il consumo quotidiano del vino assicurava alle categorie sociali superiori notorietà e prestigio nell’ambito delle comunità urbane e rurali. Infine, i vini rumeni sono stati, durante tutto il medioevo, prodotti ricercati ed apprezzati sui mercati interni ed europei. I documenti del tempo ci offrono una ricca e variegata gamma d’informazioni concernenti la coltivazione della vite nelle regioni rumene del medioevo. Essi evidenziano soprattutto l’importanza della viticoltura nella vita e nell’attività della gente, ma anche nell’economia agraria rumena. Essendo allo stesso tempo un’attività che implica la presenza costante dell’uomo, la viticoltura rispecchia le fasi delle attività agricole del popolo rumeno ed il suo carattere sedentario. La coltivazione della vite, a differenza di altre iniziative agricole, richiedeva il più delle volte ampi e minuziosi lavori manuali, la cui realizzazione richiedeva discernimento, tempestività e sovente la collaborazione di più persone. Dopo la scelta del terreno, di solito in zone collinari caratterizzate da declivi dolci e facilmente accessibili, si zappavano le fosse; quindi venivano selezionate le propaggini, che si piantavano in autunno, oppure a fine primavera. Seguivano poi, nel corso dell’anno, i lavori per il mantenimento della vigna, la vendemmia e la lavorazione dell’uva. I primi raccolti avvenivano dopo tre o quattro anni: seguiva quindi l’aumento della produzione. Nei paesi rumeni la vigna era sfruttata per circa 30-40 anni, poi veniva abbandonata, essendo stati nel frattempo introdotti altri terreni nel circuito viticolo. Gli attrezzi usati per la coltura viticola erano la marra, la zappa piccola, la roncola, la tinozza, il torchio, cui si aggiungevano i contenitori per il trasporto dell’uva, del mosto e del vino. I documenti attestano anche l’esistenza, sui terreni a vigna o in loro vicinanza, di specifiche costruzioni. Queste erano di due tipi: costruzioni di protezione e costruzioni finalizzate tanto alla custodia degli attrezzi e dei vasi, quanto alla conservazione dei prodotti raccolti e del vino. Della prima categoria facevano parte le strutture terranee oppure le casupole, che in genere erano costruite con materiali leggeri (legno, canne, paglia, tralci, frasche), avevano tre lati, erano site su un piano inclinato e sistemate in modo da difendere il custode dalle intemperie, ma anche per assicurare una permanente sorve- glianza delle coltivazioni. Oltre a queste, esistevano anche dei punti di osservazione collocati sugli alberi o su pilastri, appositamente costruiti. Tramite queste strutture si assicurava la permanente protezione delle vigne dagli animali domestici e selvatici, dagli uccelli, da malintenzionati o da eventuali ladri. Della seconda categoria facevano parte le cantine di pietra, i palmenti, le rimesse. Esse erano usate come depositi per l’attrezzatura, per la pigiatura dell’uva, per la fermentazione del mosto e, soprattutto, per la conservazione del vino. Per questi motivi, la maggior parte delle costruzioni era molto fresca, essendo allocate sotto il livello del suolo, distribuita in due o tre stanze e con misure di circa 7-8 metri di lunghezza e 2-2,5 metri di altezza11. In queste stanze erano collocati i barili e le botti di legno di quercia, che nei secoli XIV-XVII avevano una capacità di circa 12,88 hl12. C’erano anche casi speciali, quando la capienza di un barile equivaleva a 3000 vedre (secchi, tine) di vino, ogni secchio essendo pari a 12 ocale (un’antica unità di misura, tra 1288 e 1520 millilitri)13. Dai documenti sappiamo che il principale produttore e consumatore di vino era rappresentato dalla corte signorile, da quella principesca o del voivoda. Il signore14 in Ţara Românească (ossia nel Paese Rumeno) ed in Moldova (Moldavia), il voivoda e il principe15 in Transilvania, possedevano ampie superfici di terreni vitati. Numerosi documenti menzionano le proprietà signorili, principesche o del voivoda, ma anche il rilevante consumo quotidiano di vino della corte, dei sol11 BUTURĂ, Etnografia poporului român, pp. 198-201. 12 Documenta Romaniae Historica. B: Ţara Românească, I, București 1966, p. 436. Vadra (la tina, il secchio) era nel medioevo l’unità di misura, pari a circa 12,88 litri nel Paese Rumeno, 15,2 litri in Moldavia e 10 litri in Transilvania. 13 Călători străini despre Ţările Române, VI, București 1976, p. 199. 14 Il signore feudale aveva attribuzioni monarchiche ed era considerato nel Paese Rumeno ed in Moldavia, in virtù del diritto di dominium emines, il supremo capo del paese e dei contadini asserviti. In virtù di questo diritto, poteva offrire in dono parcelle di terra e confermare o infirmare il diritto di proprietà. Egli era anche gran voivoda, cioè capo dell’esercito, sia in pace, sia in guerra. Si v. Instituţii feudale din Ţările Române. Dicţionar, coordonatori O. Sachelarie, N. Stoicescu, București 1988, pp. 167-172. 15 Il voivoda divenne vassallo del re d’Ungheria dopo la conquista della Transilvania da parte degli ungheresi. Pur avendo soprattutto funzioni amministrative, giudiziarie e militari, egli esercitava, in alcune situazioni, anche prerogative signorili sul territorio e sugli abitanti a lui sottomessi. Dopo il 1541, quando la Transilvania cominciò a cadere sotto l’autorità ottomana, il voivodato venne sostituito dal principato; il principe era scelto dalla dieta (assemblea nobiliare) e confermato dal sultano e mantenne una larga autorità, anche per quanto riguardava i rapporti di proprietà e di lavoro: cfr. Instituţii feudale, pp. 381-383. 127 dati della guardia regia e per i servi. Nel medioevo, inoltre, numerosi atti di donazione rilasciati dall’autorità centrale ai monasteri, alle chiese oppure ai feudatari e ai nobili si riferiscono a terreni vitati e a forniture di vino. Per la Transilvania, un documento del 1201-1203, rilasciato dal re Emeric di Ungheria (1196-1204)16, riconosceva il diritto di proprietà della chiesa di Arad sulle vigne dei villaggi di Galşa e di Pâncota; in seguito, nel 1206, il re Andrea II (1205-1235) consolidò il diritto di proprietà dei coloni secui nella zona delle Târnave, sulle vigne dell’Alba-Iulia, di Cricău e di Ighiu17. In Ţara Românească, Mircea cel Bătrân (Mircea il Vecchio, 1386-1418) donò nel 1388 al monastero di Cozia vaste superfici coltivate a vigna nella zona di Argeș e di Lotru, nei villaggi di Călinești e di Râmnicu-Vâlcea18, e l’anno dopo esentò i contadini, abitanti sulle terre dello stesso monastero, dal canone in vino in cambio dell’obbligo di estendere le superfici vitate19. Questi atti di donazione furono confermati ed estesi dai successori di Mircea cel Bătrân, più precisamente da Radu II, nel 1402, e da Vlad Dracul, nel 144020. Grazie al documento rilasciato da quest’ultimo, scopriamo che le vigne della zona di Râmnicu-Vâlcea erano apprezzate per la qualità dell’uva e del vino, ma soprattutto per la produzione di oltre 3100 vedre l’anno21. Probabilmente per questi motivi il signore concesse agli abitanti il diritto di edificare un monastero presso il villaggio di Râmnic22. In Moldavia, la tradizione viticola e la preoccupazione della signoria per questa attività sono confermate da documenti dei secoli XIII-XIV. Così, in un accordo concluso il 7 gennaio 1407 tra Alexandru cel Bun (Alessandro il Buono, 1399-1431) ed il metropolita Iosif al Moldovei (Giuseppe di Moldavia) sono menzionate, tra i beni del monastero Neamţ, anche due vigne, una regalata da Petru Mușat (1375-1391) e l’altra comprata dal metropolita23. Altri documenti e 16 Nella Transilvania il diritto di offrire in dono i propri averi era esercitato anche dal re di Ungheria. Si v. Documente privind istoria României [DIR]. C: Transilvania, I, București 1951, pp. 23-26. 128 17 DIR. C, pp. 31-32. 18 DIR. B: Ţara Românească. Veac XIII, XIV, XV: (1245-1500), București, 1953, pp. 25-28. 19 DIR. B, pp. 28-30. 20 DIR. B, pp. 76-77 e 107-108. 21 DIR. B, p. 108. 22 DIR. B, p. 108. 23 DIR. A: Moldova. Veacul XIV-XV, I, București 1954, p. 15. Carta delle zone viticole rumene nel medioevo. 129 registrazioni di alcuni cronisti ci trasmettono informazioni sulle famose vigne signorili di Cotnari, Odobești, Huși24. I sovrani, i voivodi ed i principi sorvegliavano attentamente le attività viticole, ma soprattutto garantivano la cura permanente delle vigne e lo svolgimento, in tempo utile, dei lavori necessari. Quando, a causa della mancanza d’interesse da parte dei coltivatori o dei proprietari, le vigne cadevano in stato d’abbandono, o venivano proprio abbandonate, il sovrano agiva con molta decisione, per trasferire la proprietà ad altri conduttori. Nello stesso tempo, la signoria incoraggiava le attività di disboscamento, di dissodamento e di bonifica di altri terreni e la loro introduzione nel circuito viticolo. Molto eloquenti sono, in questo senso, le azioni intraprese da Irimia Movilă e Radu Mihnea alla fine del XVI e all’inizio del XVII secolo25. L’aristocrazia nel Paese Rumeno ed in Moldavia, la nobiltà in Transilvania, la Chiesa ed i monasteri figurano tra i grandi proprietari di vigna e produttori di vino. I territori feudali disponevano di estese superfici coltivate. Per le attività viticole nel Paese Rumeno ed in Moldavia si utilizzava soprattutto il lavoro dei contadini liberi o asserviti; in Transilvania, oltre tutto questo, si impiegava anche il lavoro salariato. In questo modo, sul terreno di Hunedoara, alla metà del secolo XVI, per lo svolgimento dei diversi lavori stagionali erano assunte oltre 700 persone, pagate con 5-7 dinari al giorno26. Sempre qui s’incontrano forme di management viticolo, rispecchiate dagli investimenti annui per il mantenimento della vigna, per la selezione e la moltiplicazione delle propaggini, per la preparazione dei terreni, per la lotta contro gli insetti, per la vendemmia, per la preparazione, il consumo e la commercializzazione del vino. La vigna si coltivava su vasta scala anche sulle proprietà dei contadini, dove si producevano considerabili quantità di vino. Certo, abbiamo a che fare, soprattutto, con un vino a buon mercato, comune o di bassa qualità, così come esisteva nel medioevo in altre parti dell’Europa27, ma necessario e quasi sempre presente nel consumo quotidiano. I contadini dipendenti ricevevano spesse volte, da parte dei proprietari di terra, speciali terreni sui quali coltivavano la vite, ver- 24 BUTURĂ, Etnografia poporului român, p. 187. 25 DAVID, Podgorii feudale românești, p. 50. 26 I. PATAKI, Domeniul Hunedoara la începutul secolului al XVI-lea. Studii și documente, București 1973, p. LXXIX. 27 130 F. BRAUDEL, Structurile cotidianului: posibilul și imposibilul, traducere și postfaţă de A. Riza, I, București 1984, p. 275. sando un canone in vino. Gli appezzamenti vitati posseduti dai contadini liberi e dipendenti erano sottoposti ad un regime giuridico speciale, potendo essere alienati più agevolmente tramite compravendita, oppure per trasmissione ereditaria. Tra i proprietari di vigne e produttori di vino nella Transilvania bisogna menzionare anche i secui. Originari delle Fiandre, del Lussemburgo e dei territori dell’ovest del Reno, furono introdotti come coloni dalla monarchia ungherese, durante i secoli XII e XIII, in Transilvania, nelle province di Sibiu, di Târnave, di Brașov, di Orăștie e di Bistriţa28. I secui, specialmente quelli delle zone di Târnave, di Orăștie, e di Bistriţa, si inserirono e contribuirono al miglioramento della coltivazione della vigna ed allo sviluppo della viticoltura, godendo dell’appoggio delle autorità centrali, che ogni tanto li esentò dai versamenti «per le vigne che loro avrebbero piantato»29. Provenendo da una zona europea con antiche tradizioni viticole30, i secui praticavano una viticoltura più avanzata e razionale, utilizzando attrezzi più perfezionati e tecniche viticole all’avanguardia. Essi portarono dai territori tedeschi, acclimatarono e piantarono vari tipi di vitigni più produttivi, resistenti al freddo, alla siccità ed ai terreni aridi. Tutti i coltivatori ed i produttori di vino, ma soprattutto i contadini, avevano l’obbligo di pagare numerosi canoni relativi alla viticoltura, alla produzione e al consumo di vino. Tra questi, il più diffuso era la ‘donazione di vino’, o imposta sul vino (‘vignaiolo’) nel Paese Rumeno ed in Moldavia, la ‘donazione dopo i torchi’ in Transilvania. Rappresentando una delle più importanti componenti della rendita feudale nei Paesi Rumeni, questa imposta si pagava in origine soprattutto in natura o in prodotti e rappresentava, come nel caso di altri censi, la decima parte della quantità prodotta, o «una delle dieci tine»31. Più tardi, questa tassa venne convertita in denaro e comportava, all’inizio del XVIII secolo, un reddito medio annuo di 50000 lei per signoria nel Paese Rumeno e di 10000 lei in Moldavia32. La ‘donazione di vino’ era percepita tanto dai feudatari e dai nobili, quanto dalla 28 Ș. PASCU, Voievodaul Transilvaniei, I, Cluj-Napoca 1972, pp. 115-129. 29 DIR. C, pp. 31-32. 30 G. ARCHETTI, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998 (Fonti e studi di storia bresciana. Fondamenta, 4), pp. 63-77. 31 Instituţii feudale, p. 501. 32 Instituţii feudale, p. 501. Il leul era una moneta d’origine olandese, che circolava anche nei Paesi Rumeni tra i secoli XVI-XVIII. Dopo la metà del secolo XVIII, il leul venne tolto dalla circolazione, non essendo più emesso dal paese d’origine. È rimasto pure come una moneta ‘fittizia’ di calcolo, 131 Chiesa e dai monasteri. La sua quantità variava da una proprietà feudale all’altra, da una regione all’altra, da un periodo storico all’altro. In Transilvania, nel XVI secolo, la ‘donazione di vino’ era tanto diffusa e stabile da diventare la principale risorsa di reddito per il potere centrale e demaniale33. Nella prima metà del XVII secolo le grandi quantità di vino del dominio di Făgăraș provenivano, per la loro maggior parte, dalle decime del villaggio, più che dalla produzione propria34. Verso la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, quando nei Paesi Rumeni assistiamo al passaggio dal medioevo all’epoca moderna, le vigne contadine vengono ridotte come superficie ed importanza a causa dell’eccessivo peso fiscale35. Le fonti storiche c’informano anche sulla fama di alcune vigne, relativamente alla diversa qualità dei vini rumeni e anche alla quantità di vino prodotta. Nel Paese Rumeno le più famose e apprezzate aziende erano quelle di Baia de Aramă, Balș, Buzău, București, Caracal, Craiova, Curtea de Argeș, Drăgășani, Pitești, Ploiești, Râmnicul Sărat, Târgoviște, Târgu-Jiu, Târgu-Cărbunești, Valea Călugărească; in Moldavia quelle di Cotnari, Grecești, Iași, Huși, Hârlău, Nicorești, Odobești, Putna, Roman, Tecuci; in Dobrogea quelle di Babadag, Cernavodă, Măcin, Medgidia e Murfatlar; ed in Transilvania quelle di Alba-Iulia, Aiud, Blaj, Bistriţa, Caransebeș, Hunedoara, Dumitra, Jidvei, Lechinţa, Lugoj, Mediaș, Oraviţa, Șimleul Silvaniei, Teaca, eccetera36 Numerosi autori rumeni e stranieri ci offrono importanti informazioni sui vini prodotti in queste proprietà. Per esempio, il medico Matei de Muriano, invitato nel 1503 a sorvegliare la salute di Ştefan cel Mare37, affermò che in Moldova si ottengono vini «simili a quelli del Friuli»38, ed il famoso umanista tedesco Sebastian Münster, precursore della geografia scientifica moderna, nel suo lavoro Cosmographia Universalis, stampata a Basilea nel 1544, oltre ad altre preziose informazioni sui territori rumeni scrive che «accanto al mercato di Mediaş si produce vino in grande usata nell’espressione dei doni, dei prezzi e del corso di numerose monete estere che circolavano nei Paesi Rumeni. Più tardi, nel 1867, il leul è diventata la moneta nazionale della Romania. Si veda: C.C. KIRIŢESCU, Sistemul bănesc al leului și precursorii lui, I, București 1997, pp. 93-111 e 163-176. 132 33 D. PRODAN, Iobăgia în Transilvania în secolul al XVI-lea, I, București 1967, p. 351. 34 Urbariile Ţării Făgărașului 1601-1650, I, editate de acad. D. Prodan și L. Ursuţiu, București 1970, p. 93. 35 Istoria României, III, București 1964, p. 45. 36 BUTURĂ, Etnografia poporului român, pp. 188-189. 37 N. GRIGORAș, Moldova lui Ștefan cel Mare, Iași 1982, p. 274. 38 Călători străini despre Ţările Române, ed. M. Holban, I, București 1968, p. 149. quantità e perciò la pianura [quella delle Târnave] viene soprannominata Ţara Vinului» (il ‘paese del vino’)39. Le sue informazioni sono completate da un altro erudito umanista, il prelato ungherese d’origine croata Anton Verancsics, che dichiarò essere la Transilvania «tanto ricca in grano e vini (…) che i vini, sia che tu li preferisca forti o deboli, aspri o dolci, bianchi o rossi (…) sono così buoni al gusto e di una speciale sorta, che non desideri più i vini di Falerno della Campania e, pur comprandoli, ti piacciono più di questi ultimi»40. Simili interessanti opinioni sulla viticoltura e sui vini rumeni incontriamo anche nelle opere dell’umanista italiano Franco Sivori, segretario personale del signore del Paese Rumeno, Petru Cercel (15831585): «Le molte colline sono piene di vigne, che producono in abbondanza vini bianchi e rossi, molto preziosi, che i rumeni non sanno conservare, sicché si trasformano in aceto; l’abbondanza dei vini è così grande che un barile di quattro tine si compra a tre o al più a quattro scudi»41. A sua volta, Petru Bogdan Baksič attestava: «Ho visitato la città di Cotnari, situata in una valle le tra colline (...). Qui ci sono tante vigne, perché questa terra dà i migliori vini di tutto il paese. E tutte queste vigne appartengono al principe ed ai feudatari. Durante la vendemmia quasi tutta la gente del paese si raduna, sia per la vendemmia, sia per comprare il vino»42. Alla metà del XVII secolo, il cronista rumeno Grigore Ureche sottolineò anche lui che si coltivava la vite sull’intero territorio della Moldavia e che «il vino non manca a nessuno, da nessuna parte»43, mentre all’inizio del XVIII secolo il principe-erudito Dimitrie Cantemir, nel suo lavoro Descriptio Moldaviae44, attestò: «Tutte le altre ricchezze della terra sono superate dalle vigne speciali, collocate in una lunga fila tra Cotnari e Dunăre [il Danubio]; sono così fertili, che un solo pezzo di terra45, che ha la superficie di 24 stânjeni46, dà spesso da 4 fino a 500 39 Călători străini, I, p. 505. 40 Călători străini, I, p. 408. 41 Ș. PASCU, Petru Cercel și Ţara Românească la sfârșitul sec. XVI, Cluj 1944, p. 113. 42 Călători străini, I, p. 237. 43 G. URECHE, Letopiseţul Ţării Moldovei, ed. P.P. Panaitescu, București 1958, p. 134. 44 Dimitrie Cantemir (membro dell’Accademia di Berlino) ha scritto, nel 1716, la Descriptio Moldaviae, con lo scopo di far conoscere la Moldavia agli ambienti culturali occidentali. A questo fine, l’autore ha realizzato ampie incursioni nella storia, nella geografia e nell’economia della Moldavia. Si v. P.P. PANAITESCU, Dimitrie Cantemir. Viaţa și opera, București 1958, pp. 149-168. 45 Il pogonul era un’unità di misura della superficie ed era equivalente a ½ ettaro, oppure a 5.012m². 46 Lo stânjenul era una delle più antiche unità di misura, pari a circa 2 m. 133 misure di vino, ognuna delle quali equivale a 40 litri. Il miglior vino è quello di Cotnari (…). Oso sostenere che sia migliore di quello di Tokay. Quando si ripone in cantine profonde e con soffitto a volta, come è abitudine da noi, ed è conservato per tre anni, nel quarto anno acquista una tale forza nel sapore che arde come il vino bollente. Il più forte ubriacone appena riesce a berne tre bicchieri senza inebriarsi; eppure, alla fine non ha mal di testa. Il vino di Cotnari ha uno speciale colore che non trovi in altri vini ed è un po’ verdastro, e col tempo acquista il colore verde (…). Subito dopo, il vino di Huși, nella regione di Fălciu, viene considerato il migliore; il terzo posto è occupato dal vino di Odobeşti, della regione di Putna, sulla riva del fiume Milcov; Nicoreşti, originario di Tecuci, sulla riva del Siret, occupa il quarto posto; il quinto vino è quello di Greceşti, della regione di Tutova, sulla riva di Berheci; il sesto è considerato quello proveniente dalle vigne di Costeşti, nella stessa regione»47. Allo stadio attuale delle ricerche è abbastanza difficile stabilire la quantità di vino prodotto nei Paesi Rumeni, in un periodo o in un altro. Sappiamo però che, alla fine del XVI secolo, la signoria accordava ad 11 monasteri (cinque del Paese Rumeno e sei di Moldavia) una quantità di vino equivalente a 1000 hl. Se consideriamo che questa cifra rappresentava soltanto la decima parte della raccolta, allora possiamo stimare la quantità totale in oltre 10000 hl48. Si sa, allo stesso tempo, che in Transilvania, nell’anno 1517 sul territorio di Hunedoara, la produzione era stata di 5480 litri di vino49. A cominciare dalla seconda metà del XVI secolo si registra l’aumento della pressione dei turchi sui Paesi Rumeni, tramite l’instaurazione del monopolio turco sull’economia locale50. È molto significativo il fatto che, pure in queste condizioni, le superfici coltivate a vigna e le produzioni vinicole siano aumentate. Questa situazione è dovuta all’esclusione del vino dagli obblighi fiscali in natura dei Paesi Rumeni, nei confronti dell’impero Ottomano, a causa dell’interdizione islamica del consumo della bevanda. In questo contesto, il prezzo dei terreni viti- 47 DIMITRIE CANTEMIR, Descrierea Moldovei, postfaţă și bibliografie M. Popescu, București 1973, pp. 52-53. 48 Istoria românilor, p. 66. 49 PATAKI, Domeniul Hunedoarei, p. LXXIX. 50 134 Il monopolio turco sull’economia rumena significò l’aumento delle prestazioni fiscali in denaro ed in lavoro dei Paesi Rumeni verso l’impero Ottomano, mentre il commercio rumeno ebbe un orientamento prevalente verso le piazze turche. coli aumentò considerevolmente. Nel sesto decennio del secolo XVI, in Moldavia, una fălcia (il pezzo di terra per la vigna) si vendeva a 90 zecchini, e tre decenni più tardi a 400. Quasi nello stesso periodo, nel Paese Rumeno, il prezzo di mezzo ettaro di terreno da vigna aumentò da 200 a 880 aspri (un’antica moneta turca)51. Anche in Dobrogea, controllata totalmente dall’impero Ottomano sin dal 1417, l’attività e la produzione vinicola non è diminuita. Dai documenti doganali delle città e dei porti di Dobrogea, sappiamo che nel XVI secolo la vigna si coltivava su estese superfici nella zona di Babadag, di Mangalia e di Sinistra per produrre uva, uva passa, mosto e vino52. Nella seconda metà del XVI, il viaggiatore Maciej Stryjkowski era rifocillato dai contadini di Dobrogea con «uva con cui si faceva il vino»53, e l’italiano Giulio Mancinelli trattò, tra gli anni 1582-1586, delle grandi quantità di vino prodotte a Mangalia54. Il viaggiatore turco Evilia Celebi scriveva, nel XVII secolo, che a Babadag, «tra i più significativi prodotti alimentari, ci sono l’uva di otto varietà, il pane bianco e lo yogurt. Tra le bevande, il mosto d’uva»55. Qui abbiamo a che fare con la produzione di frutta e dobbiamo fare una netta distinzione tra questa e la viticoltura56. Possiamo affermare, allo stesso tempo, che, a differenza di altri territori europei caduti sotto il controllo dell’impero Ottomano, nei quali «la vigna incontra l’ostinato ostacolo dell’Islam»57, nei Paesi Rumeni la viticoltura ha conosciuto un rilevante slancio, appunto grazie all’interferenza economica e politica con il mondo turco. Nella maggior parte dei casi, la produzione vinicola era destinata al consumo interno. Le fonti dei tempi ci mostrano il consumo del vino diffuso in tutte le categorie sociali: feudatari, nobili, artigiani, commercianti, contadini, ecc. La quotidiana presenza del vino nell’alimentazione dei rumeni non portava però ad eccessi da parte dei consumatori. Il viaggiatore italiano Fernante Capaci attestava, per la seconda metà del XVI secolo: «Non ho mai sentito parlare, in questi paesi [Moldavia e Paese Rumeno], di omicidi e scannamenti, nonostante vi si 51 Istoria românilor, p. 67. 52 MATEESCU, Cultura viţei de vie în Dobrogea, p. 265. 53 Călători străini, I, p. 451. 54 Călători străini, I, pp. 523-524. 55 Călători străini, I, p. 393. 56 M. LACHIVER, Vins, vignes et vignerons. Histoire du vignobel français, Paris 1988, p. 22. 57 BRAUDEL, Structurile cotidianului, p. 270. 135 trovi vino in abbondanza»58. Dalla testimonianza di un altro viaggiatore straniero, il francese Pierre Lescalopier, conosciamo la maniera in cui si consumava il vino, in occasione di alcune nozze o feste: «Il primo bicchiere si beve alla salute di Dio, il secondo alla salute del voivoda, il terzo alla salute del sultano, il quarto alla salute di tutti i cristiani (…), il quinto si beve per la pace ed il sesto alla salute dei presenti, con grandi cerimonie e auguri di redenzione, salute, buon viaggio e buon ritorno, di realizzazione dei desideri, eccetera. Facendo un simile brindisi, loro bevono in piedi e ti apprezzano molto se fai lo stesso»59. In Transilvania, sul territorio di Făgăraș, la corte principesca ha consumato, tra 2 febbraio e 27 aprile 1679, circa 6250 tine di vino60. La produzione di uva e di vino era destinata pure al commercio interno ed estero. Certo, la quantità maggiore era assorbita dal mercato interno. Un intenso commercio di prodotti si svolgeva anche tra i tre paesi rumeni. Dal contenuto dei registri doganali risulta che, nel 1543, il vino del Paese Rumeno e della Moldavia inviato sul mercato di Braşov, città della Transilvania, raggiunse il valore di 24500 aspri61. C’era anche una complementarità tra i territori rumeni quando le condizioni sfavorevoli del clima, da un anno all’altro, comportavano una diminuzione del prodotto. Il cronista secuo Georg Kraus afferma che, nel 1653, «se il Paese Rumeno non avesse provveduto tutta la Transilvania di vino, questi sarebbero stati ancora più costosi»62. Lo sviluppo della viticoltura rumena nel medioevo ha creato importanti disponibilità per l’esportazione. I vini rumeni sono stati i primi prodotti commercializzati sui mercati esteri. Nel 1173, quando il doge di Venezia Sebastiano Ziani introdusse la tariffa dei prezzi massimi relativi agli alimenti ed alle bevande, riscuotendo tasse di consumazione in rapporto al valore della merce, i vini dei territori danubiani vennero esclusi da questa misura grazie alla loro speciale qualità63. I vini rumeni continuavano ad essere noti e ricercati man mano che i mercanti ed i viaggiatori occidentali scoprivano i territori rumeni, ed i percorsi commerciali europei 58 DAVID, Podgorii feudale românești, p. 51. 59 DAVID, Podgorii feudale românești, p. 51. 60 Urbariile Ţării Făgărașului 1601-1650, II, editate de acad. D. Prodan, București 1976, p. 73. 61 R. MANOLESCU, Comerţul Ţarii Românești și Moldovei cu Brașovul. Secolele XIV-XVI, București 1965, p. 129. 62 A. ARMBRUSTER, Dacoromano-saxonica. Cronicari români despre sași. Românii în cronica săsească, București 1980, p. 282. 136 63 I.C. TEODORESCU, s.v., Viticultura, in Enciclopedia României, București 1939, p. 401. attraversavano i Paesi Rumeni, includendoli così nel vasto sistema di scambi economici tra l’Europa centro-occidentale ed il mondo orientale64. Quasi tutti i percorsi commerciali europei non evitavano, anzi, attraversavano le più note zone viticole rumene, come quelle di Cotnari, Odobeşti, Huşi, Drăgășani, eccetera. Lo stanziamento dei genovesi alla foce del Danubio e la fondazione, tra i secoli XIII-XIV, sulle coste del mar Nero, di numerose colonie, hanno contribuito all’attivazione dei rapporti commerciali tra i Paesi Rumeni, i territori bizantini e quelli italiani. Il commercio si svolgeva per il mezzo dei porti di Vicina, Chilia, Licostomo e Cetatea Albă, porti che, per la loro posizione geografica, permettevano l’entrata e l’ancoraggio delle navi e, per la loro navigazione sui fiumi interni, consentivano un rapido collegamento con le zone agricole rumene65. Con l’avvio e lo sviluppo dei rapporti commerciali rumeno-genovesi, assistiamo al coinvolgimento della viticoltura medievale rumena nei circuiti economici europei. Dai territori danubiani-pontici, i mercanti italiani importavano grandi quantità di prodotti agro-alimentari, incluso il vino e l’uva, ma portavano anche nuovi tipi di vite e una ricca varietà di vini mediterranei. I contratti notarili firmati a Chilia e Licostomo, tra gli anni 1360-1361, attestano grandi quantità di vini venduti e comprati, ma anche la tassa stabilita (comergium) dalle autorità dei porti per la circolazione e la vendita dei prodotti66. Il più attivo commercio rumeno di prodotti viticoli era, però, orientato verso la Polonia, l’Ucraina, la Russia e l’Ungheria. Il cronista polacco Matei de Miechow attesta che in Polonia ed in Ucraina erano importate grandi quantità di vino da «l’Ungheria, la Moldavia ed il Paese Rumeno»67, mentre l’italiano Giovanni Botero, dopo la visita fatta a cavallo dei secoli XVI-XVII nei Paesi Rumeni, osservava: «Il negozio consiste in cereali e vini, che vengono esportati in Russia e in Polonia»68. Tale situazione è rilevabile anche all’inizio del XVIII secolo, secondo la testimonianza di Dimitrie Cantemir: «Queste vigne [dalla Moldavia] non sono utili soltan64 P.P. PANAITESCU, Interpretări românești. Studii de istorie economică și socială, postfaţă, note și comentarii de Ș.S. Gorovei și M.M. Székely, București 1994, pp. 83-98; Ș. PAPACOSTEA, Geneza statului în evul mediu românesc, Cluj-Napoca 1988, pp. 151-204. 65 G. ASTUTI, Le colonie genovesi del Mar Nero e i loro ordinamenti giuridici, in Genovezi la Marea Neagră în secolele XIII-XIV. I Genovesi nel Mar Nero durante i secoli XIII e XIV, București 1977, pp. 87-129. 66 R. MANOLESCU, Comerţul și transportul produselor economiei agrare la Dunărea de Jos și pe Marea Neagră în secolele XIII-XV, «Revista istorică», 6 (1990), p. 554. 67 Istoria românilor, p. 66. 68 DAVID, Podgorii feudale românești, p. 52. 137 to agli abitanti del paese, per i loro bisogni, perché il prezzo basso del vino attrae qui mercanti russi, polacchi, cosacchi, abitanti della Transilvania e pure ungheresi che, ogni anno, importano nel loro paese molto vino»69. I mercanti cosacchi del Don si stabilivano già in estate nei villaggi vicini alla famosa area vinicola di Odobeşti ed in autunno compravano rilevanti quantità di vino, che poi vendevano sui mercati di Odessa, Harkov, Kiev e della Crimea70. Alcuni nobili polacchi acquistarono dei terreni da vigna in questa regione, per assicurarsi permanentemente i vini prodotti nei territori rumeni71. Durante i secoli XVIII-XIX, in seguito al coinvolgimento dell’economia rumena nei circuiti commerciali europei ed alle iniziative per il suo ammodernamento72, la viticoltura si trasformò e migliorò. Furono stampati libri e dispense in rumeno su tematiche agro-viticole73, si diffusero attrezzi e tecniche più produttive, vennero introdotti nei circuiti viticoli nuove superfici di terreno, si generalizzò il lavoro salariato nelle regioni coltivate a vigna, furono creati vivai e migliorate notevolmente le varietà già esistenti, o ne vennero introdotte di nuove. Si effettuarono lavori di miglioramento su vasta scala, nonché la fertilizzazione e l’irrigazione delle superfici. Si pose poi una grande cura alla preparazione, alla conservazione, al trasporto ed alla commercializzazione dell’uva e del vino74. In particolare, si imposero e diventarono rappresentativi, tanto sul mercato interno, quanto su quello europeo, soprattutto i vini di Cotnari, Odobești, Murfatlar, Drăgășani, Târnave, Alba-Iulia, Orăștie, Miniș, Teaca, Dumitra, Lechinţa. Lo spumante, introdotto nei territori rumeni all’inizio del XVIII secolo, cominciò ad essere consumato dall’alta società rumena durante i pranzi festivi e le cene sontuose. All’inizio lo spumante s’importava, poi, finalmente, si iniziò a produrre anche nello spazio rumeno a cominciare dalla metà del secolo XIX. Dal punto di vista cronologico, la Romania è il quarto paese del mondo, dopo la Francia, la Russia e la Germania, nel quale si è prodotta questa bevanda alcolica75. 69 CANTEMIR, Descrierea Moldovei, pp. 54-55. 70 TEODORESCU, s.v., Viticultura, p. 402. 71 TEODORESCU, s.v., Viticultura, p. 402. 72 A. OŢETEA, Pătrunderea comerţului românesc în circuitul internaţional, București 1977. 73 I. LUMPERDEAN, Literatura economică românească din Transilvania la începutul epocii moderne, București 1999, pp. 130-131. 138 74 TEODORESCU, s.v., Viticultura, pp. 402-403; ŢÂRDEA, DEJEU, Viticultura, pp. 32-34. 75 I. M. PUȘCĂ, Băuturi spumante în gospodărie, București 1988, p. 29. EWALD KISLINGER* Dall’ubriacone al krasopateras Il consumo del vino a Bisanzio «Hai guardato di nuovo il fondo della bottiglia e di nuovo l’ebbrezza il senno ti piglia» (palin eis ton kaukon epies, palin ton noun apolesas). Questi versi irridenti1 venivano recitati all’indirizzo dell’imperatore Foca (602-610), cui veniva rinfacciato in questo modo l’eccessivo consumo di alcoolici, vale a dire di vino. L’opinione pubblica dei primi secoli e del periodo mediano del millennio bizantino si è espressa ripetute volte in modo molto critico nei riguardi di un tale abuso. Analogo, ad esempio, è il biasimo sperimentato dall’imperatore Alessandro agli inizi del X secolo. Egli si è sempre dedicato ad occupazioni esterne al palazzo, non ha realizzato nessun’opera degna di un imperatore, ma ha sempre vissuto nel lusso e nella crapula2. Il bilancio politico passivo dei due sovrani giustifica simili maldicenze. L’imperatore Foca dopo otto anni di regno ha lasciato al suo successore un impero in rovina: orde di avari e slavi si erano insediati nei Balcani, i sassanidi erano penetrati in profondità nell’Asia Minore e l’Italia andava progressivamente cadendo in mano ai longobardi3. Alessandro, a sua volta, ‘riuscì’ addirittura, in un unico anno di regno, a coinvolgere Bisanzio, che si trovava in condizioni di inferiorità militare, in una guerra rovinosa con i bulgari, che per poco non portò 1 TEOFANE, Chronographia, ed. C. De Boor, I, Lipsiae 1883, p. 296, rr. 26-27. 2 LEONE GRAMMATICO, Chronographia, ed. I. Bekker, Bonnae 1842 (Corpus scriptorum historiae bizantinae [CSHB], 26), p. 286, rr. 8-11. P. KARLIN-HAYTER, The Emperor Alexander’s Bad Name, «Speculum», 44 (1969), pp. 586-595. 3 G. OSTROGORSKY, Geschichte des byzantinischen Staates, München 19673 (Handbuch der Altertumswissenschaft 12, 1/2), pp. 70-72; P. DELOGU, Il regno longobardo, in Storia d’Italia. I: Longobardi e Bizantini, diretta da G. Galasso, Torino 1980, pp. 1-28, 36-39. * Università di Vienna, Austria. 139 lo zar Simeone sul trono imperiale4. Constateremo con interesse che persino a un sovrano di chiara fama quale Giovanni Tzimisce (969-975), che sottomise la Bulgaria e condusse le sue truppe vittoriose fino alla Palestina5, non furono risparmiate critiche a causa della notoria inclinazione al vino6, un tratto di carattere questo che evidentemente era considerato particolarmente negativo7. Nel caso di Michele III (842-867) l’abuso d’alcool diviene addirittura leit-motif emblematico di una campagna denigratoria di ampia portata: «Egli si circondava di un’infame banda di uomini empi e scostumati con i quali il buono a nulla trascorreva le giornate, senza darsi pensiero della dignità della maestà imperiale, dandosi ad orgie dissolute. Si accompagnava a vili fantini dedicandosi a corse di cavalli, cortei schiamazzanti e bevute a causa della sua passione malata per il vino e della sua limitatezza mentale (...). Reso sfrenato dall’ebbrezza, si lasciò andare ad ogni empietà e abbandonò il cammino della legge e del diritto. Quando era ubriaco di vino non mescolato ad acqua e non più padrone dei suoi sensi, non rifuggiva nemmeno da delitti ed insensate punizioni di innocenti. (...) Quando poi i fumi del vino si dileguavano, non ricordava più nulla e spesso chiedeva di persone che nell’ubriachezza aveva condannato a morte. Ma quando si faceva di nuovo sera e l’orgia, accompagnata da parole empie e sconsiderate, si protraeva fino a notte tarda, egli tornava a comportarsi allo stesso modo»8. La provvida veglia (agrypnia) a vantaggio dei sudditi degenera qui in una farsa, il comportamento di Michele manca di giustizia (dikaiosyne), utilità (opheleia) e aiuto (boetheia) vengono concesse solo ai compagni di orge, l’imitazione di Dio (mimesis theou) non è per lui, il suo fine infatti è l’estasi dionisiaca9. Ogni elemento costitutivo dell’ideologia imperiale appena elencato10 è ignorato da Michele, al quale si addice l’attributo di ‘ubriacone’ (methystes)11. 4 S. RUNCIMAN, A History of the First Bulgarian Empire, London 1930, pp. 155-164; OSTROGORSKY, Geschichte, pp. 216-221. 5 OSTROGORSKY, Geschichte, pp. 243-247. 6 LEONE DIACONO, Historia, 6, 3, ed. C.B. Hase, Bonnae 1928 (CSHB, 11), pp. 97-98. 7 E. JEANSELME, L´alcoolisme a Byzance, «Bulletin de la société française de la médecine», 18 (1924), pp. 289-295. 8 TEOFANE, Continuatus 5, 20 e 26, ed. I. Bekker, Bonnae 1838 (CSHB, 21), pp. 243 e 251-252. 9 TEOFANE, Continuatus 5, 26, p. 251, rr. 10-11. 10 Cfr. H. HUNGER, Prooimion. Elemente der byzantinischen Kaiseridee in den Arengen der Urkunden, Wien 1964 (Wiener Byzantinistische Studien, 1). 140 11 MICHELE GLICA, Annales 4, ed. I. Bekker, Bonnae 1836 (CSHB, 16), p. 541. Ma il salvatore (soter) sta già dietro la porta. La fonte principale per questo periodo della storia bizantina, il libro V della cronaca del cosiddetto Teofane continuato, è generalmente nota sotto il titolo di Vita Basilii, una denominazione adatta al carattere vagamente agiografico dell’opera12. Il luminoso eroe è qui appunto il nuovo imperatore Basilio I (867-886). Le zone d’ombra della sua carriera vengono ignorate, ad esempio il fatto che la sua ascesa sociale è iniziata e si è compiuta all’interno della ‘banda infame’ che circondava Michele III13 e che, dopo aver gozzovigliato con l’imperatore la sera, levò contro di lui la notte stessa la mano assassina14. La dinastia detta macedone ha manipolato abilmente la memoria storica per lavare da ogni colpa il proprio fondatore, ma non ha risparmiato nemmeno ai suoi stessi membri i predicozzi moraleggianti a proposito del vino. Leone VI, il figlio di Basilio, denominato il saggio, fece un giorno una visita a sorpresa nel monastero di Eutichio a Psamathia15. L’imperatore vi fu ricevuto con tutti gli onori e gli fu dato il posto a capotavola; davanti a lui troneggiava un grande boccale per il vino che però, con suo grande stupore e delusione, non venne riempito per intero. «La stessa quantità per tutti», gli si comunica. «Il vino da voi si beve freddo?», s’informa il sovrano. «No di certo, il thermodotes (cioè colui che porge l’acqua calda) è già qui». Leone pensa di approfittare della situazione per ottenere una maggiore quantità di vino. Si fa prima versare abbondantemente acqua, assaggia e constata che la miscela è troppo calda. «Non sarebbe possibile avere un poco di vino fresco per ottenere la temperatura giusta?», propone. Me genoito, liberamente tradotto, «Manco a parlarne», è la brusca risposta. «Aggiungere vino è contrario alla regola. Ognuno si versi più o meno acqua calda a suo piacimento». L’imperatore avrà comunque l’ultima parola: donando al monastero altri vigneti, egli farà sì che ogni monaco ed ogni ospite in futuro abbia un bicchiere colmo per pasto e lo beva alla salute dell’imperatore. Leone VI con questo operato dà prova 12 P.J. ALEXANDER, Secular biography at Byzantium, «Speculum», 15 (1940), pp. 200-202; H. HUNGER, Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, München 1978 (Handbuch der Altertumswissenschaft, 12, 5/1-2), pp. 339-343. 13 E. KISLINGER, Der junge Basileios I. und die Bulgaren, «Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik», 30 (1981), pp. 137-150. 14 LEONE GRAMMATICO, Chronographia, pp. 250, r. 11-251, r. 21; GIORGIO MONACO, Continuatus (A), ed. I. Bekker, Bonnae 1838 (CSHB, s.n.), pp. 836, r.12-837, r. 22; PSEUDO-SIMEONE LOGOTETA, Chronographia, ed. I. Bekker, Bonnae 1838 (CSHB, s.n.), pp. 684, r. 9-685, r. 11. 15 Il seguente episodio è narrato nella Vita Euthymii Patriarchae Costantinopolitanae, ed. P. Karlin-Hayter, Bruxelles 1970 (Bibliothèque de Byzantion, 3), pp. 51-55 (cap. IX). 141 di un’altra fondamentale virtù imperiale, l’euergesia. L’impegno a favore dei sudditi compensa il fatto che i monaci avevano dovuto ricordargli di osservarne un’altra, vale a dire la giusta e conveniente misura (prepon, metron). La pratica già propria del simposio antico, di diluire il vino con l’acqua (a quei tempi però al fine di berne quantità maggiori), viene perpetuata nel mondo monastico e non soltanto lì16. Il libro dell’eparca, una sorta di regolamento dei mestieri redatto agli inizi del X secolo su incarico appunto di Leone VI, tratta anche dei kapeleia, le taverne17. La sera va spento il fuoco sotto il paiolo. Questo provvedimento non mira a proibire la preparazione di cibi caldi, ma a limitare il consumo del vino: senza il fuoco, infatti, non è possibile riscaldare l’acqua per diluirlo e si impedisce così che gli avventori rimangano l’intera notte e, ubriachi fradici, si abbandonino a risse e violenze. Si noterà che non è affatto necessario prevedere la possibilità che, in mancanza d’acqua, si continui a trincare con vino puro: un tale comportamente era degno soltanto di un ubriacone. La mescita dell’acqua calda era un’occupazione che dava addirittura di che vivere: una trattoria di Emesa, in età protobizantina, aveva impiegato a questo scopo il santo Simeone Salos (folle)18. Un santo nella taverna? Come conciliare ciò con l’ideale ascetico e l’influsso che esso esercitava sulla società bizantina? Simeone, è bene ricordarlo, aveva già alle spalle un decennio di vita eremitica nel deserto, durante il quale aveva raggiunto l’apatheia, la libertà da tutte le passioni terrene, ed era poi tornato in città, il teatro di queste stesse passioni. Nel recitare per il pubblico urbano, in questa seconda fase, il ruolo dell’antitipo di un santo, egli, ritenuto folle (salos), si attira il disprezzo di tutti e lo sopporta con umiltà19. Malgrado l’alterità comportamentale dell’eroe, la narrazione rimane sostanzialmente ancorata agli standards agiografici. Simeone divora, ad esempio, coram publico intere scodelle di fagioli, ma poi, aggiunge immediatamente la Vita, si premura di digiunare per parecchi giorni senza che nessuno lo noti20. 16 E. KISLINGER, Thermodotes - ein Beruf ?, «Klio», 68 (1986), pp. 123-127. 17 Das Eparchenbuch Leons des Weisen, introduzione, testo critico, trad. tedesca e indici di J. Koder, Wien 1991(Corpus Fontium Historiae Byzantinae [CFHB], 33), pp. 130-133 (cap. 19). 18 Das Leben des Heiligen Narren Symeon von Leontios von Neapolis, ed. L. Rydèn, Stockholm-GöteborgUppsala (Acta Universitatis Upsaliensis. Studia Graeca Upsalensia, 4), p. 147, rr. 8-21. 19 P. HAUPTMANN, Die «Narren um Christi Willen» in der Ostkirche, «Kirche im Osten», 2 (1959), pp. 2749; V. DÉROCHE, Études sur Léontios de Néapolis, Uppsala 1995 (Acta Universitatis Upsaliensis. Studia Byzantina Upsaliensia, 3); D. KRUEGER, Symeon the Holy Fool. Leontius’s Life and the late antique city, Berkeley-Los Angeles-London 1996. 142 20 Das Leben des Heiligen Narren Symeon, p. 146, rr. 7-10; cfr. anche pp. 156, r. 23-157, r. 4. Per quanto riguarda il vino, l’indice di tolleranza della santa follia è notevolmente inferiore. La professione di thermodotes per un santo è ancora compatibile con gli intenti didattici del genere agiografico, ma s’intende che a Simeone stesso non è lecito assaggiare neanche una goccia di vino. Anch’egli incarna l’ideale dell’astinenza (o tutt’al più del consumo moderato) che santi e imperatori, entrambi guide e modelli della società bizantina, sono tenuti a propagare. La realtà che la mensa imbandita di Isacco II Angelo (1185-1195) ci presenta era lontana mille miglia da questo ideale. Montagne di cacciagione, un fiume brulicante di pesci, un mare di vino, è il quadro che si offre agli occhi dello spettatore. Questo però, come osserva lo storico Niceta Coniata21 aggrottando, per cosi dire, la fronte, non è che un vizio fra molti altri (avarizia o irascibilità)22; accanto a questi vi è anche parecchio da lodare (ad esempio le numerose opere di carità)23. È possibile attribuire questa relativa moderazione esclusivamente alla costante ricerca di obiettività da parte dello storico? Era l’indulgenza di Niceta nei confronti del mediocre, ma tutto sommato ‘normale’, Isacco una consapevole reazione al regime di terrore di un Andronico Comneno (1182-1185)? Può darsi. A mio avviso però è lecito leggere qui, fra le righe, l’emergere di un nuovo atteggiamento, di una diversa valutazione sociale del consumo del vino. Non intendo con ciò affermare che l’alcoolismo stava per trasformarsi in una virtù imperiale e per ciò stesso esemplare. Tuttavia, dall’XI secolo in poi incontriamo indizi sempre più numerosi di un atteggiamento mentale più favorevole nei confronti del bere. I toni bruschi e severi con i quali veniva stigmatizzato nel passato l’abuso del vino diventano più rari. Vorrei innanzitutto presentare alcuni testimoni che parlano a favore di questa interpretazione, prima di affrontare il problema dei possibili motivi di un tale mutamento. Voci a favore del vino: Psello, Mesarita e altri Michele Psello (vissuto dal 1018 al 1081 ca.), uno dei bizantini di più ampia e universale cultura, esibisce una bibliografia che abbraccia i più disparati generi 21 NICETA CONIATA, Chronike diegesis, ed. I.A. Van Dieten, Berolini-Novi Eboraci 1975 (CFHB, 11/1), p. 441, rr. 10-12. 22 NICETA, Chronike diegesis, p. 424, rr. 52-55. 23 NICETA, Chronike diegesis, p. 445, rr. 19-35. 143 letterari24, fra cui si annovera anche un opuscolo specifico sul vino25. La natura, o meglio Dio, che ne è il creatore, ha dato all’uomo un alimento particolare e ci si può chiedere se, dopo il pane, ci sia qualcosa di più meraviglioso del vino (109, rr. 14-23). Entrambi infatti vengono adoperati nella consacrazione per la loro eccellenza (114, rr. 105-110). Non si deve insultare il vino per il suo effetto inebriante, anche chi si avvicina troppo al fuoco subisce danno, eppure il fuoco è senza dubbio il più importante degli elementi (113, rr. 77-80). Questa esaltazione non ha grande rilevanza, ci troviamo infatti nel regno della retorica, nel quale è permesso trattare gli argomenti più assurdi, come fece anche Psello nei suoi elogi del pidocchio o della cimice26, dai quali certamente non si può dedurre nessuna particolare simpatia per questi animali, tutt’al più il superamento di problemi quotidiani grazie all’ottimismo. La descrizione della visita di un conoscente colto ed esperto di vini, il quale elogia in toni lirici la marca servitagli da Psello27, acquista credibilità soltanto quando lo scrittore in altro contesto ci rivela, per cosi dire en passant, quale sia la sua reale opinione sul vino. L’orazione Eis tina kapelon genomenon nomikon si beffa del figlio di un oste che, per ottenere una promozione sociale, aveva studiato giurisprudenza28. Adesso il giovane dottore è disoccupato e ha tutto il tempo di riflettere malinconicamente se era davvero cosi umiliante e faticoso rivoltare sulla brace gli spiedini di agnello o di maiale (52, rr. 13-14; 54, rr. 94-96). Ancor più interessante di questa informazione sull’esistenza, già in epoca bizantina, dei suvlakia sono le frequenti notizie relative 24 E. KRIARAS, s.v., Michael Psellos, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XI, Stuttgart 1968, coll. 1124-1182. 25 Enkomion eis ton oinon, ed. A. Littlewood, Michaelis Pselli oratoria minora, Leipzig 1985, pp. 110-116 (or. 30). E.V. MALTESE, Per una storia del vino nella cultura bizantina: appunti della letteratura profana, in Storie del vino, a cura di P. Scarpi, Milano 1991 (Homo edens, 2), pp. 193-205 (ristampa in E.V. MALTESE, Dimensioni bizantine. Donne, angeli e demoni nel medioevo greco, Torino 1995, pp. 93-110), qui pp. 199-201: «Psello indica contemporaneamente il culmine e il limite della rivalutazione del vino nella cultura ufficiale bizantina: il massimo elogio della bevanda non può non coincidere con la codificazione del suo consumo moderato». 26 Oratoria minora, pp. 97-101 (or. 27), pp. 107-110 (or. 29). Analisi in R. VOLK, Der medizinische Inhalt der Schriften des Michael Psellos, München 1990 (Miscellanea Byzantina Monacensia, 32), pp. 245-251 e 257-261. Si ricorderà inoltre che in altra circostanza Psello, al contrario, ha stigmatizzato, sempre retoricamente, l’alcoolismo di un monaco che si faceva beffe di lui, cfr. K.N. SATHAS, Mesaionike bibliotheke, V, Paris 1876, pp. 177-181. 144 27 Enkomion eis ton oinon, pp. 115-116. 28 Oratoria minora, pp. 51-57 (or. 14). alla mescita del vino (52, r. 11; 53, rr. 42-43; 54, rr. 79-81; 55, rr. 120-125). Nonostante l’uso di svariate citazioni classiche, l’autore rivela a quanto pare una buona conoscenza dell’ambiente delle taverne. Dico di proposito ‘a quanto pare’, perché l’arrivato cortigiano che era Psello procede in modo molto raffinato, attribuendo ad altri tali conoscenze; in un’altra orazione, la numero 16 (59-62 Littlewood), egli li biasima addirittura per tale frequentazione: «Ora si gode l’aroma del vino non diluito, ora lo diluisce, ma soltanto con poca acqua tiepida per non diminuirne, a quanto dice, la corposità (...) Spesso afferra la brocca con entrambe le mani e la porta alla bocca. Le osterie della città le conosce tutte a menadito. (...) Sa perfettamente dove si beve il rosso più scuro e che il migliore in ogni caso è quello di Chio. Questo è il più forte, egli dice, il migliore di tutti, tiene insieme anima e corpo e chi lo ha non ha bisogno di nessun altro» (60, 43 - 61, 55). Chi è il soggetto di questo ritratto ironico e critico a un tempo? Si tratta del confessore di Psello: i suoi titoli di grammatikos e notarios (59, rr. 10-11)29 ci assicurano che egli non era di certo il parroco malandato, quale ci appare nella caricatura che ne fa il nostro retore. Le reali impressioni riportate dopo una visita in una taverna sono oggetto di descrizione, circa 150 anni dopo Psello, ad opera di un altro chierico, questa volta indiscutibilmente di alto rango. Nicola Mesarita, metropolita di Efeso, abbandonò nel 1208 Costantinopoli ormai latina e s’imbarcò dapprima su una nave in rotta verso Pylai. Qui giunto, si aggregò ad un gruppo di mercanti che si dirigevano, come lui, con i loro muli e i loro carri verso Nicea, sede del governo bizantino in esilio dei Lascaridi30. La prima tappa del viaggio condusse la comitiva fino alla cittadina «tou Kyr Georgiou», dove essa prese alloggio in una casa non meglio specificata. Essa metteva a disposizione dei viaggiatori non soltanto un letto, ma anche una cena a base di pane, vino, carne e pesce salato (40, rr. 15-19); tutto ciò ci fa supporre che la casa in questione fosse una locanda del tipo noto 29 A. KAZHDAN, s.v., Grammatikos, in Oxford Dictionary of Byzantium, 3 voll., New York-Oxford 1991, p. 866: «In addition to its ancient meaning of scholar or teacher (...) came to signify scribe or secretary»; ID., A. CUTLER, s.v., Notary, in Oxford Dictionary, p. 1495: «notarioi (...) served in various government departments (...) as scribes and secretaries». 30 A. HEISENBERG, Neue Quellen zur Geschichte des lateinischen Kaisertums und der Kirchenunion. II: Die Unionsverhandlungen vom 30. August 1206. Patriarchenwahl und Kaiserkrönung in Nikaia 1208, in Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, philosophisch-philologische und historische Klasse. Jahrgang 1922/5, München 1925, pp. 3-56 (ristampa in A. HEISENBERG, Quellen und Studien zur spätbyzantinischen Geschichte, London 1973, nr. II/2). Sul percorso cfr. J. LEFORT, Les communications entre Constantinople et la Bithynie, in Constantinople and its Hinterland, a cura di C. Mango, G. Dagron, Aldershot 1995 (Society for the Promotion of Byzantine Studies. Publications, 3), pp. 207-218. 145 come pandocheion31. Gli ambienti sono pieni di fumo e soffocanti (40, rr. 19-24), il compagno di camera in preda ai fumi dell’alcool dorme un sonno inquieto e mormora parole volgari o prive di senso (40, rr. 34-36). Il garzone del carrettiere, in cambio, è in piedi già all’alba: ben presto si ricomincerà a bere vino non diluito accompagnato da carne bollita, che viene tagliata a grossi pezzi con un coltello e divorata avidamente (41, rr. 6-15). Mesarita descrive, con rude realismo, la vita quotidiana in un locale che oggi classificheremmo come un ritrovo di camionisti, dove gli avventori, prima di iniziare la dura giornata di lavoro, bevono e consumano pasti semplici ad alto contenuto calorico, ben al disotto del livello gastronomico cui era abituato il prelato. Nicola è indignato, ma in primo luogo perché è costretto a condividere letto e tavola con il popolino; l’abitudine di bere vino fin di prima mattina non provoca però nessuna critica di principio. Adesso si beve esclusivamente vino non diluito: questo trend, registrato, come si è visto, già da Psello («Ora si gode l’aroma del vino non diluito, ora invece lo diluisce, ma con poca acqua tiepida»), si è completamente imposto, almeno nelle taverne, Simeone Salos sarebbe ora stato costretto a cercarsi un altro lavoro! Nel 1214 Nicola Mesarita ritornò in missione diplomatica a Costantinopo32 li . In suo onore fu offerto un ricevimento nel Tomaita, un edificio che era anticamente sede del patriarcato ed era connesso architettonicamente al complesso di Santa Sofia. Il buffet non mancava di nulla (21, rr. 8-18). He de posis hoia? Questa la domanda retorica, dopo le pietanze, sulle bevande offerte. La relazione di Mesarita elenca a questo proposito il vino di Chio, quello di Lesbo, più dolce del miele, ed uno aromatico proveniente dall’Eubea (21, rr. 18-20)33. A conclusione 31 Sui diversi tipi di locande v. per l´antichità T. KLEBERG, Hotels, restaurants et cabarets dans l’antiquité romaine, Uppsala 1957 (Bibliotheca Ecmaniana, 61); in particolare per l’età bizantina E. KISLINGER, Kaiser Julian und die (christlichen) Xenodocheia, in Byzantios. Festschrift für H. Hunger, Wien 1984, pp. 171184, e ID., Taverne, alberghi e filantropia ecclesiastica a Bisanzio, «Atti della Accademia delle Scienze di Torino. Classe di scienze morali, storiche e filologiche», 120 (1986), pp. 83-96. 32 A. HEISENBERG, Neue Quellen zur Geschichte des lateinischen Kaisertums und der Kirchenunion. III: Der Bericht des Nikolaos Mesarites über die politischen und kirchlichen Ereignisse des Jahres 1214, in Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, philosophisch-philologische und historische Klasse. Jahrgang 1923, München 1923, pp. 3-96 (ristampa in HEISENBERG, Quellen und Studien, nr. II/3). 33 146 Le zone coltivabili a vite dell’Egeo orientale (fra cui anche Samo, Rodi e Cos) sono noti e apprezzati fin dall’antichità. In particolare su Chio v. già sopra p. 145 e sotto, n. 40; su Lesbo v. ATENEO, Deipnosophiston 1, 28 e-f, edd. A.M. Desrousseaux, C. Astruc, Paris 1956 (Collection des Universités de Françe [CUF]), pp. 67-68; Q. ORAZIO FLACCO, Carmina 1, 17, 21-22, in Le opere, a cura di F. della della serata viene infine portato in tavola il principe dei vini, quello di Monembasia (21, r. 21). Lo studioso incontra questo prodotto per la prima volta. Mesarita in ogni caso lo conosce e lo apprezza da tempo e non mostra di avere alcun rimorso di coscienza per essersi dato al consumo di quattro vini tanto forti. Qui si trova fra uguali, ad un ambiente fine e raffinato si addicono vini scelti. Quanto diverse le reazioni di Giovanni Eleemon (il misericordioso), patriarca di Alessandria agli inizi del VII secolo, quando il suo cantiniere gli offrì un bicchiere di vino palestinese: questo è un lusso eccessivo, in futuro sarà sufficiente anche il vinello locale della palude mareotica34 (il quale, sia detto in parentesi, nell’antichità godeva di ottima fama)35. Chi vuole tuttavia giustificare Nicola Mesarita può sempre rifarsi ad un altro ecclesiastico, suo collega in duplice senso, intendo Liutprando di Cremona, anch’egli vescovo e diplomatico al servizio dell’imperatore tedesco Ottone I. Egli infatti osservava con disprezzo che i chierici constantinopolitani non bevevano vino, ma sorseggiavano acqua da bagno – con il che alludeva probabilmente all’aggiunta di acqua calda – in minuscoli bicchierini36. Un tale paragone comporta, è vero, un passo all’indietro alla metà del X secolo, Nicola Mesarita invece è molto più vicino, sia cronologicamente che ideologicamente, al mondo di un Giovanni Apocauco (metropolita di Naupatto, 1200-1232) e agli abati della quarta poesia ptocoprodromica. Il primo biasima il vescovo di Chimara per avergli servito, in occasione di una recente visita, soltanto pane, ma non vino37. Gli ultimi, a loro volCorte, P. Venini L. Canali, I/1, Roma 1991 (Antiquitas Perennis), p. 143; e TEODORETO DI CIRO, Epistula 13, ed. Y. Azéma, Correspondance, II, Paris 1964 (Sources chrétiennes, 98), p. 44. Sull´Eubea cfr. sotto, n. 43. 34 H. DELEHAYE, Une vie inédite de Saint Jean l’Aumonier, «Analecta Bollandiana», 45 (1927), p. 24 (cap. 10). 35 PLINIO IL VECCHIO, Naturalis historia 14, 4 (3), 39, ed. J. André, XIV, Paris 1958 (CUF), p. 36; P. VIR- GILIO MARONE, Georgiche 2, 91-92, ed. H. Goelzer, II, Paris 1935 (CUF), p. 71: «Sunt Thasiae vites, sunt et Mareotides albae, pinguibus hae terris habiles, levioribus illae»; M.A. LUCANO, De bello civile 10, 162163, edd. A. Bourgery, M. Ponchont, II, Paris 1929 (CUF), p. 189. J.-Y. EMPEREUR, La production viticole dans l´Egypte Ptolémaique et Romain, in La production du vin et de l´huile en Mediterranée, a cura di M.-C. Amouretti, J.P. Brun, Paris 1993 (Bulletin de Correspondance Hellénique. Supplément, 26), pp. 39-47. 36 LIUTPRANDO DI CREMONA, Legatio c. 63, ed. J. Becker, MGH, Scriptores rerum germanicarum in usum scholarium, 41, Hannoverae-Lipsiae 1915, p. 211. Traduzione italiana e commento in Liutprando di Cremona. Italia e Oriente alle soglie dell’anno Mille, a cura di M. Oldoni, P. Ariatta, Novara 1987. 37 S. PÉTRIDÈS, Jean Apokaukos. Lettres et autres documents inédits, «Izvestija russkago archeologiceskago instituta v Konstantinopole», 14 (1909), pp. 73-74 (nr. IV); K. L AMPROPOULOS, Ioannes Apokaukos. Symbole sten ereuna tou biou kai tou syngraphikou ergou tou, Athena 1988 (Historikes monographies, 6). 147 ta, nel monastero di Filotheou osservano mercoledì e venerdì digiuno strettissimo: di pesce nemmeno a parlarne, soltanto qualche bocconcino di carne di aragosta, gamberetti, cuore di cavolo in purée di lenticchie con ostriche, mele e datteri e «fra i vini quelli di Tracia, Creta e Samo la cui dolcezza stimola gli umori corporei»38. Si potrebbe giustamente obiettare a quanto detto finora che è lecito mettere in relazione soltanto ciò che è paragonabile, mentre io ho qui posto sullo stesso piano il rapporto obiettivo di un Mesarita, da un lato, ed una satira squisitamente letteraria, dall’altro. La satira, è noto, deforma di fatto la realtà conformemente alle leggi del genere e ottiene l’effetto desiderato proprio con l’esagerare la portata dei dati e degli abusi effettivi. La ricerca scientifica afferma oggi unanimemente che i testi letterari in volgare non sono frutto della musa popolare, ma che i loro produttori e ricettori primari sono da cercare anch’essi nei circoli intellettuali della capitale. Questi avrebbero adoperato la lingua volgare in conformità ad un diffuso Zeitgeist come un gioco letterario, onde conferire vivacità e autenticità ai personaggi del mondo proletario messi in scena. Il monachello («dei semplici il più semplice, monastico, mediocre e schietto»)39 cui l’autore pone sulle labbra la protesta contro quelli che stanno in alto, non si augura affatto un ritorno all’ascetismo estremo dei padri del deserto dei primi secoli di Bisanzio. Quel che lo disturba è la discriminazione subita, il suo essere escluso dalle gozzoviglie dei superiori: «Potessi anch’io ricrearmi con il vino di Chio, diciamo quattro boccali, potessi anch’io ruttare a piacimento e poi mettermi a dormire. (...) Mai, ahimè, mi è riuscito di aver questo piacere»40. Anche a lui tocca del vino, ma è quello acidulo di Varna e anche di questo ce n’è poco e, purtroppo, diluito con acqua41. In questo caso è la gerarchia sociale che si oppone al sogno di avere più e miglior vino, in altri invece si tratta di ostacoli reali. Niceforo Basilace, durante il suo esilio a Filippopoli (oggi Plovdiv, in Bulgaria) nel 1160, aveva un bel lamen38 Ptochoprodromos. Einführung, kritische Ausgabe, deutsche Übersetzung, Glossar, ed. H. Eideneier, Köln 1991 (Neograeca Medii Aevi, 5), pp. 156-157 vv. 317-333. Sul vino di Gano in Tracia cfr. N. GÜNSENIN, Le vin de Ganos: les amphores et la mer, in Eupsychia. Mélanges offerts à Hélène Ahrweiler, I, Paris 1998 (Byzantina Sorbonensia, 16), pp. 281-287; su Creta A. CHANIOTIS, Vinum Creticum Excellens: Zum Weinhandel Kretas, «Münsterische Beiträge zur antiken Handelsgeschichte», 7 (1988), pp. 62-89; e A. MARANGOU-LERAT, Le vin et les amphores de Crète, Paris 1995 (Études crétoises, 30). 148 39 Ptochoprodromos, IV 26, 28, p. 140. 40 Ptochoprodromos, IV 181-182, 228, pp. 148 e 150. 41 Ptochoprodromos, IV 137, 253, 299, 349, 396, pp. 146, 153, 155, 158 e 160. tarsi del vino locale, che spumeggiava addirittura a causa della resina che vi veniva mescolata, malauguratamente era l’unico vino disponibile in zona42. In quell’oscura provincia mancava una richiesta di marche più costose, ad esempio quelle delle isole dell’Egeo orientale, paragonabile a quella della capitale, che fosse in grado di compensare le fatiche e i costi del trasporto. Vino di Chio e di Rodi mancava anche ad Atene: Michele Coniata, metropolita della città nel 11821204, doveva addirittura fare a meno di quello della vicina Eubea43. Anche per lui i vini di qualità, quando erano disponibili, rappresentavano un elemento positivo, un auspicabile status symbol. Col vino resinato, la retsina, non si poteva fare bella figura, e non soltanto a Plovdiv44. Esso rimase sempre, fino al passato più recente, un semplice vino locale, soltanto il turismo di massa degli ultimi decenni lo ha promosso a principe dei vini greci. Se un odierno autore di successo quale Umberto Eco, nell’ambientare la cornice narrativa del suo ultimo romanzo a Costantinopoli, fa comparire sulla tavola dello storico Niceta Coniata proprio la retsina, con la quale egli spegne la sete del suo illustre ospite Baudolino45, ciò riflette e proietta nel passato un orizzonte d’attesa tipicamente moderno: le reali preferenze dei Bizantini non vengono prese in considerazione. Questa piccola digressione ci riporta a Costantinopoli, dove, come si è visto, il consumo del vino era ampiamente diffuso ed i conoscitori erano numerosi. Il breve intermezzo dell’impero latino (1204-1261) non pregiudicò questo stato di cose (vedi Mesarita). In una lettera, a mio avviso databile fra il 1324 e il 1330, Giovanni Cumno descrive una sorta di carnevale bizantino46. Dalla mattina fino a tarda notte si faceva onore a Dioniso, si brindava con grandi bicchieri colmi di vino di Monembasia e Trigleia e ci si sentiva forti come tori, benché ci si potes42 A. GARZYA, Quattro epistole di Niceforo Basilace, «Byzantinische Zeitschrift», 56 (1963), p. 233 [ep. 4] (= ID., Nicephori Basilace orationes et epistulae, Lipsia 1984, pp. 114-115). 43 MICHELE CONIATA, Epistula 50, ed. F. Kolovou, Berolini-Novi Eboraci 2001 (CFHB, 41), p. 69 (rispett. ed. S.P. Lampros, Michaelis Acominati opera, II, Athena 1880 [rist. Groningen 1968], p. 83). 44 TH. WEBER, Essen und Trinken im Konstantinopel des 10. Jahrhunderts, nach den Berichten Liutprands von Cremona, in J. KODER, TH. WEBER, Liutprand von Cremona in Konstantinopel. Untersuchungen zum griechischen Wortschatz und zu realienkundlichen Aussagen in seinen Werken, Wien 1980 (Byzantina Vindobonensia, 13), pp. 71-99, qui pp. 77-78; E. KISLINGER, Retsina e balnea: consumo e commercio del vino a Bisanzio, in Storie del vino, pp. 77-84, qui p. 81. 45 U. ECO, Baudolino, Milano 2000, p. 275. 46 Cfr. J.FR. BOISSONADE, Anecdota nova, Paris 1844, p. 216 (epist. 6). 149 se a malapena tenere dritti. Il vino di Monembasia, così la nostra fonte, ha perso la sua esclusività. Ora è apprezzato da molti per la sua corposità insieme ad un nuovo tipo, il vino di Trigleia (oggi Zeytinbagi). Questa località è situata sulla costa meridionale del Mar di Marmara, 30 km a nord-ovest di Prusa/Bursa. È da notare, in generale, che tutti i vini di circolazione sovraregionale provenivano da isole, o erano prodotti in zone costiere (ad esempio Creta, Lesbo, Chio, Taso, Cilicia e – in epoca protobizantina – le città di Palestina, come Gaza, Tiro, Sarepta)47. I centri principali di consumo possedevano anch’essi porti di rilievo, ad esempio Costantinopoli o anche Salonicco. Nella capitale si dibattè tenacemente, fino alla conquista ottomana (1453), se le taverne veneziane dovessero avere licenza di vendere il loro vino – che le esenzioni fiscali rendevano più economico – ai sudditi bizantini, anche al dettaglio o semplicemente in botti, un dibattito che, tra l’altro, la dice lunga sull’entusiasmo della clientela bizantina per il vino48. La predica ammonitrice del metropolita di Salonicco Gabriele, sullo scorcio del XV secolo, ci rivela una situazione analoga anche in questa città49. Non è tollerabile che i fedeli alla festa del patrono, san Demetrio, vadano all’officio notturno, ma subito dopo, sulla via di casa, si rechino alla taverna (170, rr. 40-42, 55-57). Il vino è naturalmente un dono di Dio, ma la ametria (smoderatezza) è un’invenzione del Maligno (170, rr. 49-50). Chi accanto alla venerazione del santo intende cercare l’ubriachezza all’osteria fa meglio a restarsene a casa (170, rr. 50-53; 171, rr. 70-75). Gabriele è un pastore molto accorto perché aggiunge subito: «vi dico questo per via delle taverne, non vi autorizzo certo ad ubriacarvi appena arrivati a casa» (170, rr. 53-54). L’autorità ecclesiastica non si limitava ad ammonire, ma prendeva provvedimenti contro le pecore nere nelle proprie fila, non a caso contro i chierici di ran- 47 E. KISLINGER, Dulcia Bacchi munera, quae Gaza crearat, quae fertilis Africa mittit. Commercio del vino in epoca protobizantina (s. IV-VI), in L´avventura del vino nel bacino del mediterraneo. Itinerari storici ed archeologici prima e dopo Roma. Simposio internazionale, Conegliano 1998, a cura di D. Tomasi, Ch. Cremonesi, Treviso 2000, pp. 197-209. 48 J. CHRYSOSTOMIDES, Venetian commercial privileges under the Palaeologi, «Studi veneziani», 12 (1970), pp. 267-356, qui pp. 298-311. 49 150 B. LAOURDAS, Gabriel Thessalonikes. Omiliai, «Athena», 57 (1953), pp. 141-178, qui om. VII, pp. 170-171. Sull’ubriachezza durante le feste pasquali v. già GIOVANNI CRISOSTOMO, Kata methyonton kai eis ten anastasin, PG 50, coll. 434-436; e PSEUDO-GIOVANNI CRISOSTOMO, Eis ten anastasin tou kyriou hemon Iesou Christou I, 2, ed. M. Aubineau, Homélies pascales, Paris 1972 (Sources chrétiennes, 187), pp. 320 e 333. go inferiore50. Il registro del patriarcato costantinopolitano, che registra gli atti di circa 700 processi discussi di fronte al tribunale sinodale fra il 1315 e il 140251, riporta spesso le promesse di pentiti colti sul fatto, che s’impegnano in futuro ad astenersi dal vino52. Tanto l’omelia di Gabriele di Salonicco quanto le sanzioni comminate dal tribunale ecclesiastico ci permettono di inferire che la società tardo-bizantina conosceva il problema dell’alcoolismo. Non tutti però vedevano le cose in modo cosi negativo. Il Krasopateras53 ci presenta l’altro lato della medaglia: questi infatti aveva, al contrario, il problema della mancanza di alcool. Il nomignolo Krasopateras (letteralmente ‘padre del vino’) non sta a indicare il viticoltore (krasi è il termine greco medievale e moderno per vino)54, ma l’allocuzione rispettosa del monaco in quanto padre spirituale (pater o più tardi pateras). I tre manoscritti più antichi che tramandano il testo sono databili tutti al XVI secolo. Mentre l’ultimo editore data l’originale – piuttosto apoditticamente - «non oltre la metà del secolo precedente»55, H.-G. Beck nel suo manuale preferisce più prudentemente fissare la cronologia approssimativa ai secoli fra il XII e il XIV56. La poesiola, che conta poco più di 100 versi, non ha una trama coerente, ma si limita a schizzare una cornice entro la quale il Krasopateras si abbandona, in libera associazione di pensieri, ad una serie di riflessioni sul tema del vino57. Quando si sveglia al mattino il sole sta alto sull’orizzonte. Il suo disco ricorda al mugnaio la macina, al musicante il tamburo, per il Krasopateras esso è invece 50 C. CUPANE, Una ‘classe sociale’ dimenticata: il basso clero metropolitano, in Studien zum Patriarchatsregister von Konstantinopel, I, Wien 1981, pp. 61-83. 51 H. HUNGER, Das Patriarchatsregister von Konstantinopel als Spiegel byzantinischer Verhältnisse im 14. Jahrhundert, «Anzeiger der phil.-hist. Klasse der österreichischen Akademie der Wissenschaften, Jahrgang», 115 (1978), pp. 117-136. 52 Acta Patriarchatus Constantinopolitani MCCCXV-MCCCCII e codicibus manuscriptis bibliothecae palatinae Vindobonensis, ed. Fr. Miklosich, J. Müller, 2 voll., Wien 1860-1862: I, p. 590 n. 327, II, p. 134 n. 408/II, p. 141 n. 416/II, p. 158 n. 428. Cfr. CUPANE, Una ‘classe sociale’, pp. 72-73. 53 Krasopateras. Kritische Ausgabe der Versionen des 16.-18. Jahrhunderts, ed. H. Eideneier, Köln 1988 (Neograeca Medii Aevi, 3). 54 H. EIDENEIER, Sogenannte christliche Tabuwörter im Griechischen, München 1966 (Miscellanea Byzantina Monacensia, 5), pp. 55-84. 55 Krasopateras, p. 17. 56 H.-G. BECK, Geschichte der byzantinischen Volksliteratur, München 1971 (Handbuch der Altertumwissenschaft, 12, II/3), pp. 194-195. 57 Le citazioni che seguono si riferiscono alla versione più antica AO, cfr. Krasopateras, pp. 28-33. 151 simile ad una botte di vino cretese (9-17). Magari un miracolo potesse veramente trasformarlo in una botte piena di vino non diluito (20-23). Il cielo potrebbe essere una nave e la botte il suo carico (24). Se viene una tempesta tanto meglio, spalancherà i boccaporti e farà saltare il tappo in modo che il vino piova direttamente nella bocca del Krasopateras: così la morte non gli farà più paura (27-33). Ciò che a prima vista suscita associazioni con certe canzoni da Heuriger viennesi («Es wird ein Wein sein, und wir werden nimmer sein»), allude in realtà al sonno di pietra dell’ubriaco e ai suoi pensieri sconnessi nel dormiveglia. Già l’augurio iniziale, che il sole possa diventare una botte, richiama il miracolo delle nozze di Caana: nel sonno la sapienza biblica dell’ebbro inventa associazioni più audaci. Sconsiderati furono gli ebrei, per i quali Mosè fece sgorgare acqua dalla roccia: vino avrebbe dovuto venir fuori di là (34-40). I quattro fiumi dell’Eden dovrebbero essere pieni di vino, altrimenti non varrebbe la pena di andare in paradiso (64-69). Il tabù antico del vino non diluito sussiste, malgrado tutto, anche qui, ovviamente buttato in ridicolo: il Krasopateras si rifiuta infatti di vuotare in un sorso il cielo intero ricolmo di akraton (vale a dire vino puro) per timore di ubriacarsi (9195). La mancanza però è molto più pericolosa dell’eccesso. I medici Sorseggiatore e Bevitore guarirono una volta un malato per la sete somministrandogli un’infusione di vino per via orale (96-99). Le coppie dei santi medici Cosma e Damiano, o Ciro e Giovanni, che nell’agiografia polemica dei primi secoli di Bisanzio avevano combattutto con successo la medicina classica di stampo pagano58, festeggiano in questo modo un assurdo comeback nel mondo sempre più pregno di vino del Krasopateras. In sogno egli si vede vestito con un tubo per travasare il vino, al posto di stivali calza borracce di pelle, una fiaschetta gli penzola sul petto al posto della croce e il torchio gli fa da letto (101-106): a questo punto il nostro eroe si sveglia e la sua giornata può cominciare da capo (113-114). Senza dubbio il Krasopateras è un ubriacone (il primo verso della poesia dice espressamente: ho methystes exypnesen), come lo era a suo tempo Michele III. La sequenza degli appellativi nel titolo di questo contributo non vuole dunque esprimere una polarizzazione assoluta. Certamente però il vizio comune alle 58 152 K. HEINEMANN, Die Ärzteheiligen Kosmas und Damian. Ihre Wunderheilungen im Lichte alter und neuer Medizin, «Medizinhistorisches Journal», 9 (1974), pp. 255-317; Los thaumata de Sofronio. Contribucion al estudio de la incubatio christiana, ed. N.F. Marcos, Madrid 1975; C. COZZOLINO, Origine del culto ai santi martiri Ciro e Giovanni in Oriente e Occidente, Gerusalemme 1976; H.J. MAGOULIAS, The lives of the saints as sources of data for the history of Byzantine medicine in the sixth and seventh centuries, «Byzantinische Zeitschrift», 57 (1984), pp. 127-150. due figure è presentato in una luce molto diversa, dal reciso rifiuto del primo all’indulgente ironia del secondo. È pertanto necessario chiedersi cosa abbia provocato, o piuttosto influenzato, questo graduale mutamento nel consumo del vino e nella considerazione sociale di esso nel corso del millennio bizantino. Non uno, ma svariati fattori hanno contribuito, a mio avviso, a provocare una modifica della mentalità. Il consumo di vino a Bisanzio Il vino a Bisanzio non deve essere considerato come un fenomeno isolato, bensì va visto nel quadro generale delle abitudini e delle tradizioni alimentari della società bizantina59, le quali a loro volta non sono che un aspetto particolare della più generale tematica della vita quotidiana e della cultura materiale dell’impero. In questo ampio campo di fenomeni socio-culturali possiamo constatare un incremento di qualità e di consumo intorno all’XI e XII secolo60. Odo di Deuil, il cronista della seconda crociata, è profondamente colpito dalle ricche vesti di seta dei bizantini61, mentre il conservatore Niceta Coniata critica la moda contemporanea, che prescrive vesti aderenti al corpo62; i capelli sono lunghi fino alle spalle e oltre e quelli cui la natura non ha concesso una folta chioma si aiutano con parrucche63. Il crescente benessere fece dimenticare le perplessità morali nei confronti della tryphe, la mollezza, e della gastrimargia (la gola), che aprivano entrambe la porta al maligno e facevano precipitare nella palude della gozzoviglia quanti si arrampicavano a fatica sulla scala paradisi. 59 In generale sull’argomento PH. KUKULES, Ai trophai kai ta pota, in Byzantinon bios kai Politismos, V, Athenai 1952, pp. 9-205; A. DALBY, Siren feasts. A history of food and gastronomy in Greece, London-New York 1996, pp. 187-211; E. KISLINGER, Cristiani d’Oriente: regole e realtà alimentari nel mondo bizantino, in Storia dell’alimentazione, a cura di J.-L. Flandrin, M. Montanari, Roma-Bari 1997, pp. 250-265. 60 A.P. KAZHDAN, A. WHARTON EPSTEIN, Change in Byzantine Culture in the Eleventh and Twelfth Centuries, Berkeley-Los Angeles-London 1985, pp. 74-83. 61 ODO DI DEUIL, De profectione Ludovici VII in Orientem, ed. V. Gingerick Berry, New York 1948 (Records of civilisation, sources and studies, 42), p. 26. 62 NICETA, Chronike diegesis, p. 298, rr. 28-32. 63 GIOVANNI ZONARA, Commentaria in canonem XCVI synodi in Trullo, PG 137, col. 848 B-C. 64 T.L.F. TAFEL, Eustathii metropolitae Thessalonicensis opuscula, Frankfurt/M. 1832 (ristampa Amsterdam 1964), pp. 328-332. 153 Il metropolita di Mokessos, Neofito, non volle rinunciare alla quotidiana visita ai bagni pubblici nemmeno alla morte del patriarca e divenne vittima di uno scherzo birbone di alcuni fratelli in Cristo, che nel frattempo si impadronirono dei suoi abiti e li distribuirono ai poveri64. La alousia, che Gregorio di Nazianzo annoverava fra le virtù più celebri di quel modello di ascesi che era Basilio il Grande65, è un ideale del passato, il monastero della Kosmosoteira ad Aino in Tracia e il convento metropolitano di San Mama gestiscono bagni non soltanto per i monaci, ma anche per una clientela laica e pagante66. Il monastero, che agli inizi dell’impero cristiano era la sede deputata per la fuga dal mondo nel o ai limiti del deserto67, è diventato un importante fattore economico68. La possibilità di ritirarsi dal mondo nella solitudine di un monastero continua ovviamente a sussistere, centri come l’Athos e l’Olimpo in Bitinia, dove lo stesso Psello soggiornò brevemente nel 105569, fioriscono, ma un cristianesimo che controlla ormai saldamente lo stato non ha più bisogno di quel rigorismo sfrenato, che era stato necessario per imporre i suoi ideali ad una società ancora semipagana. Molto di ciò che era stato ridotto al minimo indispensabile, ad esempio il lusso materiale limitato esclusivamente alla sfera rappresentativa del 65 GREGORIO DI NAZIANZO, Oratio 43, PG 36, col. 576B. In generale H. HUNGER, Zum Badewesen in byzantinischen Klöstern, in Klösterliche Sachkultur des Spätmittelalters, Wien 1980 (Österreichische Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Kl., Sitzungsberichte, 367), pp. 353-364. Non stupirà che Basilio, coerentemente con la sua concezione dell’ideale cristiano, abbia composto anche una Homelia in ebriosos (PG 31, coll. 444-464), che costituisce una trattazione fondamentale per la chiesa ortodossa contro l’eccesso nel bere. 66 L. PETIT, Typikon du monastère de la Kosmosotira près d’Aenos (1152), «Izvestija russkago archeologiceskago instituta v Konstantinopole», 13 (1908), pp. 17-75, qui p. 66, 17-24; S. EUSTRATIADES, Typikon tes en Konstantinoupolei mones tou hagiou megalomartyros Mamantos, «Hellenika», 1 (1928), pp. 256-314, qui p. 309, 39-40; R. VOLK, Gesundheitswesen und Wohltätigkeit im Spiegel der byzantinischen Klostertypika, München 1983 (Miscellanea Byzantina Monacensia, 28), pp. 200-221; Byzantine monastic foundation documents. A complete translation of the surviving founders’ typika and testaments, ed. J. Thomas, A. Constantinides Hero, II-III, Washington D.C. 2000, rispettivamente pp. 782-858 e 973-1041. 67 Y. HIRSCHFELD, The Judean Desert Monasteries in the Byzantine Period, New Haven-London 1992; J. KODER, Mönchtum und Kloster als Faktoren der byzantinischen Siedlungsgeographie, «Acta Byzantina Fennica», 7 (1995), pp. 7-44. 68 P. CHARANIS, The monastic properties and the State in the Byzantine Empire, «Dumbarton Oaks Papers», 4 (1948), pp. 51-118; J. KODER, Der Lebensraum der Byzantiner, Wien 2001 (Byzantinische Geschichtsschreiber. Ergänzungsband, 1), pp. 128-131 e 203-204. 154 69 VOLK, Der medizinische Inhalt, pp. 3 n. 3, 30-31, 200-201 e 436-438. potere imperiale70, o appunto il consumo del vino, ristretto per secoli ai campi del simbolismo liturgico71 e dell’applicazione medica72, cominciano lentamente a riaffermare la propria ‘legalità’ in tutte le sfere del quotidiano. Naturalmente la prostituzione era sempre esistita a Bisanzio73 e naturalmente si continua a stigmatizzarla come un peccato, ma adesso, nell’XI secolo un eremita miete applausi entusiastici quando, lista alla mano, disquisisce su «quale ostessa in città dirige anche un bordello e se una prostituta è anche una ruffiana e una ruffiana è anche una prostituta»74. Il canone 9 del concilio Trullano (a. 692) proibiva ai chierici di possedere una locanda (kapelikon ergasterion echein)75, ma nel XII secolo il canonista Teodoro Balsamone ne dava un’interpretazione meno restrittiva: non la proprietà e il diritto di affitto, ma soltanto la gestione personale era da considerarsi vietata76. La preghiera rivolta per lettera ad amici e conoscenti di mandare in dono vini pregiati continua ad essere giustificata con il pretesto della terapia medica77, ma l’assicurazione che lo si consumerà diluito con 70 O. TREITINGER, Die oströmische Kaiser- und Reichsidee nach ihrer Gestaltung im höfischen Zerimoniell, Jena 1938; M. MCCORMICK, L’imperatore, in L’uomo bizantino, a cura di G. Cavallo, Roma-Bari 1992, pp. 339-379. 71 Il simbolismo cristiano si sovrappone alla connessione antica del vino con il culto di Dioniso, le cui ultime tracce sono rintracciabili fino al XII secolo (MALTESE, Per una storia, p. 193). 72 Ed es. cfr. ALESSANDRO DI TRALLE, Therapeutica 8, 1 e 9, 2, ed. T. Puschmann, II, Amsterdam 1963, pp. 327 e 407. A. GARZYA, Le vin dans la litterature médicale de l’antiquité tardive et byzantine, «Filologia antica e moderna», 9/17 (1999), pp. 13-25. Leone il Filosofo si lamenta però nel IX secolo che il suo medico curante, malgrado l’età avanzata ed i rigori dell’inverno, non gli abbia prescritto il vino che, secondo i principi della patologia umorale (contraria contrariis) gli avrebbe dato calore (Epigrammatum Anthologia Palatina III cap. 4, 77, ed. E. Cougny, Parisiis 1890, pp. 412-413): v. in proposito I. ANAGNOSTAKES, Oinos ho byzantinos. He ampelos kai ho oinos ste byzantine poiese kai hymnographia, I, Athena 1995, pp. 98-102. 73 PH. KUKULES, Ai pandemoi gynaikes, in Byzantinon bios kai politismos, II/2, Athenai s.d., pp. 117-162; ST. LEONTSINI, Die Prostitution im frühen Byzanz, Wien 1989; H. HERTER, s.v., Dirne, in Reallexikon für Antike und Christentum, III, Stuttgart 1957, coll. 1154-1213; J. HERRIN, s.v., Prostitution, in The Oxford Dictionary, pp. 1741-1742. 74 MICHELE PSELLO, Epistula 97, edd. E. Kurtz, F. Drexl, Michaelis Pselli scripta minora, II, Milano 1941, pp. 125-126. Ed. P.-P. Ioannu, Discipline générale antique (IIe-IXe s.). I/1: Les canons des conciles oecuméniques, Grottaferrata 1962 (Codificazione canonica orientale. Fonti, 9), pp. 136-137. 75 76 TEODORO BALSAMONE, Commentaria in canonem IX synodi in Trullo, PG 137, col. 549A-B. 77 Così MICHELE GABRA, Epistula 101, ed. G. Fatouros, Die Briefe des Michael Gabras (ca. 1290-1350), II, Wien 1973 (Wiener Byzantinistische Studien, 10), p. 163. Gabra stesso si attira, a sua volta, i rimproveri di Manuele Gabala (= Matteo di Efeso) per avergli inviato in dono un vino inacidito anziché uno 155 acqua e in quantità moderata ricorre troppo insistentemente per non destare sospetti78. Il ritratto negativo del sovrano beone non è scomparso, ma viene proiettato sul mondo dell’altro. L’imperatore Manuele II Paleologo (1391-1425) si lamenta in una lettera di dovere affrontare un invito alla corte del Sultano, dove non avrebbe potuto fare a meno (essendo un vassallo) di bere svariati vini. Nella sua risposta il destinatario, Demetrio Cidone, fa del suo meglio per minimizzare le preoccupazioni dell’illustre mittente: certamente le coppe dorate e le chiacchiere dei convitati non lo danneggeranno, al contrario, essendo egli un sapiente, gli forniranno addirittura ispirazione. Malgrado il tono conciliante, queste parole rivelano chiaramente la scarsa comprensione del dotto Cidone per il problema del suo imperiale corrispondente79. Manuele File, un poeta del XIV secolo, rinuncia addirittura a qualsivoglia discrezione e sollecita senza perifrasi il suo protettore (un membro della famiglia imperiale) affinché gli faccia avere vino, puro e in sufficiente quantità, nonché un cavallo da sella80. Tutti questi sono sintomi di una nuova mentalità e un più progredito stile di vita della società bizantina. Sarebbe possibile elencarne molti altri; poiché una trattazione esauriente di tutti i disparati aspetti di questa complessa problematica oltrepasserebbe di gran lunga i limiti imposti alla presente ricerca, mi limiterò qui ad evidenziare un ultimo dettaglio, non tanto lontano dal vino. Nel clima liberale e tollerante dell’età dei Comneni risorge il genere letterario del romanzo d’amore81, che era scomparso dalla scena letteraria fin dal periodolce e fresco (epist. 21, in D. REINSCH, Die Briefe des Matthaios von Ephesos im Codex Vindoboniensis Theol. Gr. 174, Berlin 1974, p. 117). Ulteriori esempi in MALTESE, Per una storia, pp. 197-198 con n. 27. 78 MASSIMO MONACO DI PLANUDE, Epistula 22, ed. M. Treu, Breslau 1890 (ristampa Amsterdam 1960), pp. 39-40; cfr. MALTESE, Per una storia, p. 198. Nel XIV secolo Giovanni Cumno, nel prescrivere una dieta contro la gotta, non ritiene fuori luogo specificare che il vino che è permesso bere non solo non deve essere puro, ma la miscela deve contenere una maggiore quantità di acqua che di vino (ed. BOISSONADE, Anecdota nova, p. 221 [epist. 8]). 79 The letters of Manuel II Palaeologus, text, translation and notes by G. T. Dennis, Washington 1977 (CFHB, 8), p. 48 (nr. 16); DEMETRIO CIDONE, Correspondance, ed. R.-J. Loenertz, II, Città del Vaticano 1960 (Studi e testi, 208), p. 389 (nr. 432). A dispetto della reazione di Cidone non si dubita qui che Manuele II personalmente non apprezzasse molto il vino, cfr. in proposito la sua Melete pros methyson (ed. J.Fr. Boissonade, Anecdota graeca e codicibus regiis, II, Paris 1830 [ristampa Hildesheim 1962], pp. 274-307). 80 MANUELE FILE, Carmina ex codicibus Escurialensibus, Florentinis, Parisinis et Vaticanis, ed. E. Miller, I, Paris 1855-1857 (ristampa Amsterdam 1967), p. 41 (nr. 91); ANAGNOSTAKES, Oinos, II, pp. 127 e 227. 81 156 Il romanzo bizantino del XII secolo. Teodoro Prodromo, Niceta Eugeniano, Eustazio Macrembolita, Costantino Manasse, introduzione, testi, traduzione italiana, commento a cura di F. Conca, Torino 1994; Der Roman do tardo antico (cosi come, dal VI secolo, anche l’epigramma conviviale)82, probabilmente soppiantato dal racconto agiografico. Questo nuovo romanzo è una pianticella tenera e modesta, che segue da presso il modello classico. I due protagonisti s’incontrano, s’innamorano subitaneamente l’uno dell’altra e vengono separati da una sorte crudele. Dopo molte avventure in terre lontane e infinite peripezie, schiavitù, naufragi e rivali che minacciano il legame della coppia83, – la quale riesce però sempre a mantenersi casta e fedele fino alla fine in ogni circostanza – la conclusione stereotipa celebra la riunione e il matrimonio degli innamorati84. Il desiderio sessuale è ovviamente presente e viene manifestato, a volte con notevole intensità, specialmente da parte del protagonista maschile85, soltanto nel romanzo di Eustazio Macrembolita tuttavia, Ismine e Isminia, questo motivo viene sviluppato con tutti i particolari d’obbligo, ma al tempo stesso relegato nel mondo della fantasia: in sogno il secolare tabù della castità viene infranto e l’amore romanzesco realizzato86. La seconda ondata di romanzi, quella dell’età paleologa87, non risparmia agli innamorati traversie di ogni tipo, ma li ricompensa in cambio col sesso prematrimoniale. Callimaco libera Crisorroe dalle im Byzanz der Komnenenzeit, Referate des internationalen Symposiums (Berlin, 1998), a cura di P.A. Agapitos, D.R. Reinsch, Frankfurt/M. 2000 (Meletemata, 8); in generale sulle sorti di questo genere letterario a Bisanzio v. R. BEATON, Il romanzo greco medievale, a cura di F. Rizzo Nervo, Soveria Mannelli 1997. 82 ANAGNOSTAKES, Oinos, I, pp. 56-74; MALTESE, Per una storia, pp. 195-196. 83 HUNGER, Die hochsprachliche profane Literatur, II, pp. 121-142. ID., Antiker und byzantinischer Roman, Heidelberg 1980 (Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Klasse, Jahrgang 1980. Abhandlung 3). 84 H.-G. BECK, Byzantinisches Erotikon, München 1986, pp. 148 e 153. Si sconsiglia di consultare la traduzione italiana di questa monografia (L’eros a Bisanzio, Roma 1994) a causa dei numerosi e a volte gravi errori di interpretazione. 85 L. GARLAND, «Be amorous, but be chaste ...». Sexual morality in byzantine learned and vernacular romance, «Byzantine and modern greek studies», 14 (1990), pp. 62-120. 86 L’eroe Isminia ha una serie di sogni ‘sessuali’ che soddisferebbero le esigenze di qualunque consumatore di letteratura erotica: Isminia e Ismine 3, 7, 1-6; 5, 1, 1-4 e 3, 1-2, ed. Il romanzo bizantino, pp. 536 e 562-564. Cfr. BECK, Byzantinisches Erotikon, pp. 147-148; S. MACALISTER, Dreams and suicides. The greek novel from antiquity to the byzantine empire, London-New York 1996, pp. 137-139 e 160. 87 Romanzi cavallereschi bizantini. Callimaco e Crisorroe, Beltandro e Crisanza, Storia di Achille, Florio e Plaziaflore, Storia di Apollonio di Tiro, Favola consolatoria sulla Cattiva e Buona Sorte, introduzione, testi, traduzione italiana, commento a cura di C. Cupane, Torino 1995. Cfr. BECK, Geschichte der byzantinischen, pp. 115-153; P.A. AGAPITOS, Narrative structure in the byzantine vernacular romances. A textual and literary study of Kallimachos, Belthandros and Libistros, München 1991 (Miscellanea Byzantina Monacensia, 34). 157 grinfie di un drago nella prima parte del romanzo, seguono voluttuosi preliminari amorosi nel bagno, poi l’amore reciproco viene consumato senza complessi o remore morali sul bordo della vasca88. Beltandro non rifugge nemmeno da un matrimonio apparente con l’ancella della sua adorata Crisanza pur di potere stringere fra le braccia indisturbato la bella principessa89. Ci si chiederà che rapporto ha tutto questo con il vino. Oltre all’accostamento proverbiale (Bacco.... e Venere, vino = ‘il latte di Afrodite’)90, la comunanza fra le sfere del vino e della sessualità è data più concretamente dall’analogo progressivo mutamento di status sociale che esse sperimentano nel corso dei secoli. Nell’XI-XII secolo, in corrispondenza dell’interesse di Psello per il vino e le taverne, evidente ma mascherato in terza persona, assistiamo ad una prima, ancora esitante elaborazione letteraria di motivi erotici sotto la protezione garantita dalla dimensione onirica. Negli ultimi due secoli di Bisanzio, la frequentazione delle bettole praticata dagli abitanti di Salonicco, da un lato, e le citate scene romanzesche dall’altro, ci dimostrano che i freni inibitori in entrambi i campi si erano di molto allentati. Alla stessa epoca la Boule / Gkiostra ton politikon, nella quale prostitute greche nella Creta veneziana discutono seriamente sull’opportunità di creare un sindacato delle puttane innaffiando generosamente con il vino le relative consultazioni, conferma nell’esagerazione parodica questa tendenza91. Le ragioni del mutamento di costume Possiamo adesso ritornare al vino e affrontare il problema del perché il mutamento che abbiamo riscontrato abbia preso il suo avvio proprio nell’XI secolo. Il cristianesimo si era imposto ormai da secoli, una maggiore tolleranza nei confronti dei godimenti della carne sarebbe quindi stata teoricamente praticabile 88 Callimaco e Crisorroe, pp.92-94 vv. 565-584, pp. 104-108 vv. 768-804. 89 Beltandro e Crisanza, pp. 278-288 vv. 880-1059. 90 Der Roman des Konstantinos Manasses. Überlieferung, Rekonstruktion, Textausgabe der Fragmente, ed. O. Mazal, Wien 1967 (Wiener Byzantinistische Studien, 4), p. 169 fr. 24. Cfr. Isminia e Ismine 1, 8-9, pp. 506-508, in cui le avances della ragazza si fanno sempre più audaci, proporzionalmente al consumo di vino del partner maschile. 91 158 Ed. G. Wagner, Carmina graeca medii aevi, Leipzig 1874, pp. 79-105. N. PANAGIOTAKES, Sachlikisstudien, in Neograeca Medii Aevi: Text und Ausgabe, Köln 1987, pp. 219-277. anche prima. La situazione geopolitica e i suoi riflessi sulla compagine economica statale ebbero però un effetto ritardante sul formarsi di una mentalità consumistica interessata ad un offerta molteplice e varia. La renovatio imperii avviata da Giustiniano I (imperatore dal 527) è paragonabile ad un colosso dai piedi di argilla. Il carme di Corippo in onore del successore di Giustiniano, Giustino II (565), nel quale viene stilato un intero catalogo dei vini serviti in occasione delle feste per l’incoronazione del nuovo sovrano, è in un certo senso un involontario canto di addio92. La molteplicità delle marche elencatevi (libro III, vv. 8793, 96-102) aveva il compito di illustrare il topos letterario, secondo il quale i prodotti di tutte le province dell’impero confluivano nella capitale a testimonianza del potere dello stato. Già sotto Giustino II i longobardi invasero l’Italia93, avari e slavi saccheggiarono, nei decenni successivi, la penisola balcanica sempre più frequentemente94, la guerra con i sassanidi riprese ad imperversare estenuando le forze di entrambi i contendenti95 a favore della nuova potenza militare dell’epoca, gli arabi96. L’oikumene, che fino ad allora era sembrata solida e immutabile, verso la metà del VII secolo è in rovina, le sue diverse parti conducono adesso un’esistenza insulare, in cui le comunicazioni, effettuate prevalentemente per la via marittima, sono limitate e difficili. Le grosse flotte onerarie che trasportavano il grano due o tre volte all’anno da Alessandria a Costantinopoli erano divenute superflue già prima della perdita definitiva dell’Egitto97, la popolazione, ulteriormente decimata da ripetute epidemie di 92 F.C. CORIPPO, In laudem Justini augusti minoris, ed. A. Cameron, London 1976 (oppure ed. S. Antès, Paris 1981); analisi in KISLINGER, Dulcia Bacchi munera, pp. 197-205. 93 PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum 2, 7, ed. G. Waitz, MGH, Script. rerum germ. in usum schol., 48, Hannoverae 1878 (rist. Hannover 1978), p. 89 (trad. it. a cura di A. Zanella, Milano 1991, p. 240). Cfr. O. BERTOLINI, La data dell’ingresso dei Longobardi in Italia, ora in Scritti scelti di storia medievale, I, Livorno 1968, pp. 18-61. 94 W. POHL, Die Awaren. Ein Steppenvolk in Mitteleuropa, München 1988, pp. 567-822. 95 M. WHITBY, The emperor Maurice and his historian: Theophylact Simocatta on persian and balkan warfare, Oxford 1988, pp. 193-308; The roman eastern frontier and the persian wars. Part II: A.D. 363-630. A narrative sourcebook, edited and compiled by G. Greatrex, S.N.C. Lieu, London-New York 2002. 96 A.N. STRATOS, Byzantium in the Seventh century, I-III, Amsterdam 1968-1975: I, pp. 602-634; II, pp. 634-641; III, pp. 642-668. 97 J. DURLIAT, De la ville antique à la ville byzantine. Le probleme des subsistances, Rome 1990 (Collection de l’École française de Rome, 136), pp. 185-278; E. KISLINGER, Pane e demografia: l’approvvigionamento di Costantinopoli, in Nel nome del pane, Trento-Bolzano/Bozen 1995 (Homo edens, 4), pp. 279-293. 159 peste98 poteva essere rifornita col prodotto dei rispettivi territori99; con la fine del V secolo non sentiamo più parlare neanche dei commercianti di vino di Cilicia a Costantinopoli100. L’avanzata autarchia di alcune regioni comporta una riduzione effettiva dell’offerta commerciale ai prodotti locali (vedi sopra il caso di Filippopoli/Plovdiv). Sul piano pratico ciò veniva incontro all’esortazione della Chiesa – che in periodi di crisi otteneva maggiore ascolto – di placare cioè la collera divina con uno stile di vita virtuoso, vale a dire anche modesto e frugale. La concorrenza araba sul mare, la pirateria e la perdita di ulteriori zone costiere facevano inoltre della navigazione un’impresa, oltre che poco proficua, anche rischiosa. Il commercio sovraregionale era quindi ridotto a quei prodotti che promettevano grossi guadagni anche per un volume limitato di merci, per esempio preziose stoffe di seta101: i beni di consumo, fra questi naturalmente anche il vino, non compensavano che raramente i rischi del trasporto. Un mutamento del clima politico comincia a delinearsi a partire dal X secolo quando, con la riconquista di Creta, l’Egeo tornò ad essere un mare interno, intorno al quale si estendevano i territori-chiave dell’impero102. Intorno al 1000, sotto Basilio II, l’intera penisola balcanica meridionale è di nuovo saldamente controllata da Bisanzio, la cristianizzazione dell’Ungheria e il consolidamento della posizione dell’impero in Italia meridionale aprono nuove vie di comunicazione, che erano state per secoli troppo rischiose o addirittura bloccate al traffico. Non sono però i commercianti e proprietari di navi bizantini ad approfittare delle nuove possibilità. Il commercio greco si ostina a rinchiudersi nella 98 J.-N. BIRABEN, J. LE GOFF, La peste dans le haut moyen-âge, «Annales E.S.C.», 24 (1969), pp. 1484-1510; P. ALLEN, The ‘justinianic’ plague, «Byzantion», 49 (1979), pp. 5-20; K.-H. LEVEN, Die ‘justinianische’ Pest, «Jahrbuch des Instituts für Geschichte der Medizin der Robert Bosch Stiftung», 6 (1987), pp. 137161; D. STATHAKOPOULOS, Famine and Pestilence in the Late Roman and Early Byzantine Empire. A Systematic Survey of Subsistence Crises and Epidemics, Aldershot 2003 (in corso di stampa). 99 J.L. TEALL, The grain supply of the byzantine empire, 330-1025, «Dumbarton Oaks Papers», 13 (1959), pp. 87-139; J. KODER, Gemüse in Byzanz. Die Versorgung Konstantinopels mit Frischgemüse im Lichte der Geoponika, Wien 1993 (Byzantinische Geschichtsschreiber. Ergänzungsband 3), pp. 99-108. 100 J. DURLIAT, A. GUILLOU, Le tarif d’Abydos (vers. 492), «Bulletin de Correspondance Hellénique», 108/1 (1984), pp. 581-598, qui p. 584. KISLINGER, Retsina, p. 78. 101 A. MUTHESIUS, Silken diplomacy, in Byzantine diplomacy, Aldershot 1992 (Society for the promotion of byzantine studies. Publications, 1), pp. 237-248; ID., Byzantine silk weaving A.D. 400 to A.D. 1200, Vienna 1997. 160 102 OSTROGORSKY, Geschichte, pp. 236-276; KODER, Der Lebensraum, pp. 13-19. confortevole sicurezza dei metata (fondaci), paralizzato dal protezionismo statale103; sono invece le repubbliche marinare italiane, dapprima Amalfi, poi in modo massiccio Venezia (e più tardi anche Genova)104, a sfruttare le opportunità offerte da un mercato che produceva in eccedenza, specialmente in campo agricolo105. Il trattato del 1082 assicurava a Venezia libero commercio esente da tasse doganali in species universas106 in 37 località, tutte tranne due situate in zone costiere. La scelta di Durazzo ad occidente fino a Laodicea nella Siria del nord non fu fatta a caso, ma era piuttosto il risultato di esperienze commerciali precedenti, che avevano insegnato dove gli affari erano particolarmente convenienti. Fra i prodotti commerciati è da annoverare anche il vino. La vicinanza alla costa delle zone di produzione più rinomate – che lo divennero anche per questo motivo – era molto favorevole al trasporto e alla diffusione per via marittima107. 103 Si vedano ad es. le disposizioni del libro dell’eparca (come sopra, n. 17) sulle singole corporazioni, le cui attività vengono regolate esattamente con un margine di guadagno garantito dallo stato. 104 F. THIRIET, La Romanie vénitienne au moyen âge. Le développement et l´exploitation du domaine colonial vénetien (XIIe-XVe siècles), Paris 1959 (Bibliothèque des écoles francaises d´Athènes et de Rome, 193); S. BORSARI, Il commercio veneziano nell’impero bizantino nel XII secolo, «Rivista storica italiana», 76 (1964), pp. 982-1011; M. BALARD, Amalfi et Byzance (Xe-XIIe siècles), «Travaux et mémoires», 6 (1976), pp. 85-95; A. PERTUSI, Venezia e Bisanzio: 1000-1204, «Dumbarton Oaks Papers», 33 (1979), pp. 1-22; P. SCHREINER, Untersuchungen zu den Niederlassungen westlicher Kaufleute im Byzantinischen Reich des 11. und 12. Jahrhunderts, «Byzantinische Forschungen», 7 (1979), pp. 175-191; R.-J. LILIE, Handel und Politik zwischen dem byzantinischen Reich und den italienischen Kommunen Venedig, Pisa und Genua in der Epoche der Komnenen und der Angeloi (1081-1204), Amsterdam 1984; Les italiens à Byzance, ed. M. Balard, A.E. Laiou, C. Otten-Froux, Paris 1987; E. MALAMUT, Les îles de l’empire byzantin, II, Paris 1988 (Byzantina Sorbonensia, 8), pp. 438-446; D. JACOBY, Byzantine Crete in the navigation and trade networks of Venice and Genoa, in Oriente e Occidente tra medioevo ed età moderna. Studi in onore di Geo Pistarino, a cura di L. Balletto, I, Genova 1997, pp. 517-540; Amalfi, Genova, Pisa e Venezia. Il commercio con Costantinopoli e il vicino Oriente nel secolo XII, Atti della giornata di studio (Pisa 1995), a cura di O. Banti, Ospedaletto 1998 (Società Storica Pisana. Collana storica, 46). 105 LILIE, Handel und Politik, pp. 272-282 e 315-320; A. HARVEY, Economic expansion in the byzantine empire, 900-1200, Cambridge 1989. 106 M. POZZA, G. RAVEGNANI, I trattati con Bisanzio, 992-1198, Venezia 1993 (Pacta veneta, 4), pp. 3645, specialmente p. 40. 107 FRANCESCO BALDUCCI PEGOLOTTI, La pratica della mercatura, ed. A. Evans, Cambridge/Mass. 1936; THIRIET, La Romanie vénitienne, pp. 415-416 e 425-426; CHRYSOSTOMIDES, Venetian commercial privileges (cit. sopra, n. 48); M. BALARD, La Romanie genoise (XIIe-début du XVe siècle), II, Rome 1978 (Bibliothèque des écoles francaises d´Athènes et de Rome, 253), pp. 842-846; LILIE, Handel und Politik, pp. 271, 274 e 276; MALAMUT, Les îles, pp. 536-561. 161 Una novità tecnica contribuì poi ad abbassare i costi. A nord delle Alpi si usava per il trasporto, già in epoca romana, la botte di legno, nell’Italia settentrionale la si incontra dal XII secolo108 ed al più tardi nell’età dei Paleologi (12611453) essa sostituisce definitivamente l’anfora, fino ad allora dominante109, anche in ambito greco, come testimoniano soprattutto i libri di conto110. In questo modo fu possibile ridurre drasticamente l’impedimento costituito dall’imballaggio pesante, che aumentava i costi, incrementando cosi il volume dei trasporti: più vino raggiunge adesso il consumatore. Le fonti a disposizione non permettono purtroppo di determinare se esso fosse anche più economico. È possibile soltanto arguire, per il XIV secolo, un prezzo medio di un terzo di nomisma per un metron thalassion (= 10 litri)111 e l’imposizione temporanea di una tassa straordinaria per metron112 sembrerebbe documentare un prezzo base moderato, conveniente per gli acquirenti: mancano però sia dati sufficienti per quanto riguarda i salari dei consumatori, sia prezzi paragonabili per l’età medio-bizantina. Nel commercio sovraregionale i bizantini fungevano esclusivamente da junior-partners o da fornitori113. Ciò risulta in modo particolarmente chiaro nel 108 PLINIO, Naturalis historia 14, 27(21), 132, pp. 66-67. 2000 Jahre Weinkultur an Mosel-Saar-Ruwer, Trier 1987, pp. 114-116 (catalogo della mostra); G. ARCHETTI, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’ Europa medievale, Brescia 1998 (Fonti e studi di storia bresciana. Fondamenta, 4), pp. 397-410. 109 Le circa 900 anfore ritrovate nel celebre relitto rinvenuto a Yassi-Ada, di fronte alla costa dell’Asia Minore, servivano almeno in parte al trasporto del vino (G.F. BASS, F.H. VAN DOORNINCK, YassiAda I. A Seventh century byzantine shipwreck, Texas University Press 1982, pp. 155-161, 165 e 327-331); anche i ritrovamenti di Gano (v. sopra, n. 38) e di Serce Limani A (A.J. PARKER, Ancient shiwprecks of the Mediterranean and the roman provinces, Oxford 1992 [BAR Int. Series, 580], pp. 398-399, nr. 1070), in entrambi i casi databili all’XI secolo, sono indizio dell’ulteriore uso di anfore. Cfr. CH. MPAKIRTZES, Byzantina tsoukalolagena. Symbole ste melete onomasion, schematon kai chreseon pyrimachon mageirikon skeuon, metaphorikon kai apothekeutikon docheion, Athena 1989. 110 Il libro dei conti di Giacomo Badoer, a cura di U. Dorini, T. Bertelè, Roma 1956; P. SCHREINER, Texte zur spätbyzantinischen Finanz- und Wirtschaftsgeschichte in Handschriften der Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano 1991 (Studi e testi, 344), pp. 154-156, 206, 302-303, 347 e 366. Cfr. E. SCHILBACH, Byzantinische Metrologie, München 1970 (Handbuch der Altertumswissenschaft, 12, 4), pp. 120-122. 111 SCHREINER, Texte, pp. 99 e 375. 112 CHRYSOSTOMIDES, Venetian commercial privileges, pp. 301 e 308-309. 113 162 V. in generale. N. OIKONOMIDÈS, Hommes d’affaires grecs et latins a Constantinople (XIIIe-XVe siècles), Montreal-Paris 1979; A.E. LAIOU, The byzantine economy in the Mediterranean trade system, Thirteenth-Fifteenth centuries, «Dumbarton Oaks Papers», 34/35 (1980/81), pp. 177-222; E. KISLINGER, Gewerbe im späten Byzanz, in Handwerk und Sachkultur im Spätmittelalter, Wien 1988 (Österreichische Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Kl., Sitzungsberichte, 513), pp. 103-126, specialmente pp. 119-124. caso della situazione commerciale della città di Monembasia, dalla quale nel XIV secolo salpavano ogni anno, in direzione di Creta, le navi delle principali famiglie locali con a bordo il loro carico di vino114. La commercializzazione a livello internazionale era poi effettuata da Venezia, che cominciò ben presto a vendere anche i propri prodotti insulari con l’etichetta di Malvasia115. A rigor di termine questo è un caso lampante di falsificazione di etichetta. Cerchiamo però di vederne gli aspetti positivi. Secoli dopo il giudizio inappellabile di Liutprando di Cremona sul «graecorum vinum, ob picis, taedae, gypsi commixtionem nobis impotabile»116, il vino greco, oltre alla nuova image positiva formatasi a Bisanzio stessa negli ultimi secoli della sua esistenza, ha ottenuto per lungo tempo una vasta ed entusiastica clientela anche nell’Europa occidentale. 114 H. NOIRET, Documents inédits pour servir l´histoire de la domination vénitienne en Crète de 1380 a 1485, Paris 1892, p. 354 (26 avril); F. THIRIET, Délibérations des assemblées vénitiennes concernant la Romanie, I, Paris 1966, p. 189 nr. 455; CH. GASPARES, He nautiliake kinese apo ten Krete pros ten Peloponneso kata ton 14o aiona, «Ta Historika», 9 (1988), pp. 278-318. 115 NOIRET, Documents, pp. 52, 287, 386 e 525; THIRIET, La Romanie vénitienne, pp. 320, 415-416 e 437; ID., Délibérations, p. 198 nr. 488; M. CORTELAZZO, L’influsso linguistico greco a Venezia, Bologna 1970, pp. 128-129. B. IMHAUS, Enchères des fiefs et vignobles de la république vénitienne en Crète au XIV siècle, «Epeteris Hetaireias Byzantinon Spoudon», 41 (1974), pp. 195-208; D. A. ZAKYTHINOS, Le Despotat grec de Morée. II: Vie et institutions, London2 1975, pp. 249-250; P. TOPPING, Viticulture in venetian Crète (XIIIth C.), in Pepragmena tou D’ (= quarto) kretologikou Synedriou (Irakleion 1976), I, Athena 1981, pp. 509-520. 116 LIUTPRANDO, Legatio cap. 1, p. 176. WEBER, Essen und Trinken, pp. 78-81. 163 164 PAOLO BRANCA* Il vino nella cultura arabo-musulmana Un genere letterario... e qualcosa di più La civiltà araba è sorta in ambiente nomade e la trasmissione della cultura vi è a lungo avvenuta principalmente per via orale. Di qui il suo carattere tipicamente ‘logocentrico’ e l’enorme valore attribuito alla poesia che vi permane tuttora, essendo rimasto intatto il prestigio della tradizione letteraria più antica a dispetto del suo radicamento nell’epoca della cosiddetta Jâhiliyya, ossia dell’‘ignoranza’ che ha preceduto l’avvento dell’Islam. Quest’ultimo, poi, incentrandosi sul ‘Verbo’ coranico e scoraggiando per vari motivi le arti figurative, ha perfino rafforzato l’attaccamento degli arabofoni alla loro lingua e al patrimonio poetico in essa espresso. In tal modo non solo i metri, ma persino i temi degli antichi poeti si sono perpetuati, nonostante alcuni di questi fossero in netto contrasto con determinati aspetti della legge religiosa affermatasi con l’avvento dell’Islam. Il caso più tipico è appunto quello del vino, abbondantemente presente nei versi degli autori pagani. L’eredità preislamica ‘Amr ibn Kulthûm, poeta del VI secolo d.C., pur componendo una tipica ode celebrativa dei vanti della propria tribù, non rinuncia a inneggiare al gusto e agli effetti del vino nel prologo di questa: Orsù, ragazza, alzati con la tua coppa e versaci la bevanda mattutina: non risparmiare il vino di al-Andarîn / mescolato con acqua; quando l’acqua calda vi si mescola sembra che in esso sia zafferano. / Quando il bramoso gusta il vino, è distolto dalla sua passione * Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. 165 amorosa, sì che diventa docile di carattere. / Quando il vino vien fatto circolare in un convito, tu vedi il gretto avaro disprezzare, nel berlo, le sue ricchezze1. Ancor più esplicite e significative in tal senso sono alcune affermazioni di un altro poeta di quei tempi, Labîd ibn Rabî‘a, che secondo la tradizione sarebbe morto vecchissimo ed è noto anche per versi gravi e meditabondi, i quali però si affiancano a ricordi di ben altro tenore, dove il vino è protagonista: Tu non sai quante tiepide e dolci notti, bevendo e giocando in allegra compagnia / io abbia trascorso in piacevoli conversazioni! Quante volte mi sono fermato all’insegna del vinaio quando più forte e più caro era il suo vino. / A caro prezzo acquistai i vecchi otri nerastri e anfore annerite dal tempo, dalle quali si mesce dopo aver rotto il sigillo! / Quante volte bevvi già al mattino vino schietto, mentre un’abile suonatrice toccava col pollice le corde del suo strumento, / o già prima dell’alba mi levai al primo canto del gallo a berne una seconda volta2. Quando il cantore è anche poeta di corte, le immagini si fanno più complesse, pur riproponendo schemi consueti, come nel caso di al-A‘shâ: Un vino, ove, quando viene filtrato, l’occhio crede veder rosseggiare il purpureo fiore del ‘dhubah’. / Dal profumo acuto come l’odore penetrante del muschio; lo mescé il coppiere, quando fu detto: “Affrettati!”, / dagli otri dei mercanti, da una nera anfora ricolma e capace, profonda, che non si cura, per tutto il giorno, del bricco e della coppa che attingono al suo seno. / Quando vi spumeggia il vino mescolato con l’acqua, si dissolve nella sua massa e scompare la spuma. / Quando il nappo immerso ne urta i fianchi, torna a sguazzare e nuotare entro il suo liquido. / Si versa il vino con una lavorata coppa, e chi ne attinge ripete più volte l’estrazione. / Ridotto che fu al fondo, noi sollevammo l’otre, e il liquido fluì, sciolte le anse. / L’otre appoggiato al suolo sembra un abissino dormente, disteso faccia a terra, / e un cantore, cui quando si dice “Fa sentire il tuo canto ai bevitori”, ei leva alta la voce nel canto, / e ripiega la mano sui legni di un liuto, unendo alla voce il roco tinnir d’una corda, / tra giovanotti come lampade della tenebra, in cui appare manifesta delizia e gioia3. 166 1 P. MINGANTI, G. VASSALLO VENTRONE, Storia della letteratura araba, I, Milano 1969, pp. 22-23. 2 Ibidem, p. 36. 3 F. GABRIELI, V. VACCA, Antologia della letteratura araba, Milano 1976, pp. 32-33. Interessante è notare come il commercio o la presenza del vino siano spesso collegati a persone appartenenti ad altre religioni, come nel caso dei versi di ‘Adi ibn Zayd (lui stesso cristiano e influenzato dalla cultura iranica) che, dopo aver accennato ad un vinaio ebreo, indica chiaramente dei monaci quali detentori del nettare inebriante: Nel Convento ho trincato con i figli di ‘Almaqah un vino che diresti sangue di drago. Il profumo del muschio sembra emanar dalla sua coppa, quando lo mescolano all’acqua del cielo. Chi si allieta della vita e delle sue gioie, faccia del vino la scala che ad esse conduce4. L’accostamento tra il vino e la presenza di questi ‘stranieri’ corrisponde in parte alla sua stessa provenienza esterna, dalla Siria e dall’Iraq soprattutto, benché non mancassero coltivazioni locali, tra le quali le più note erano quelle della città alpestre di Tâ’if e dello Yemen, accanto a una varietà di Medina, ma meno pregiata. Ad ogni modo gli arabi non erano certo noti nell’antichità quali grandi consumatori di vino: «Nel 194 d.C. i soldati romani di Gaio Pescennio Nigro, governatore della Siria e antagonista di Settimio Severo, vengono sconfitti dagli Arabi. Rimproverati dal loro condottiero, essi si giustificarono dicendo che in Arabia non avevano avuto la loro solita razione di vino, al che Pescennio Nigro rispose: “Vergogna! Quelli che vi hanno sconfitto bevono soltanto acqua!”. La notizia ora riferita ci viene da Elio Sparziano, ma anche lo scrittore Ammiano Marcellino racconta in un passo della sua opera come gli Arabi da lui visti fossero per la maggior parte vini penitus ignorantes, non conoscessero cioè il vino»5. Da altre fonti classiche riceviamo notizie simili, almeno relativamente a certi specifici gruppi: «Secondo Diodoro Siculo, una legge in vigore tra i Nabatei condannava a morte chiunque “bevesse vino, fabbricasse case, coltivasse vigneti o seguisse attività agricole; essi dovevano vivere sotto le tende e nutrirsi di carne, latte, miele e altri prodotti del bestiame”. Ancora interessante, a proposito dei Nabatei, è una iscrizione palmirena pubblicata dal Littmann e tradotta poi da Dussaud, nella quale si parla di un altare dedicato a un dio, definito il “dio buono e rimuneratore che non beve vino”. Pare che questa divinità, Shay‘ alqawm, fosse venerata da un gruppo arabo-nabateno che non ammetteva libagioni di vino nel culto, contrapponendosi in tal modo al culto di Dusares (Dhu’sh-sharâ o Dhû Sharâ) vivo a Petra, dalle caratteristiche bacchiche molto accentuate»6. 4 MINGANTI, VASSALLO VENTRONE, Storia della letteratura, p. 50. 5 A. BORRUSO, Vino e fermenti nella cultura arabo-islamica, «Islam, storia e civiltà», 42 (1993), p. 5. 6 Ibidem, p. 11. 167 Come abbiamo visto, tuttavia, tale ignoranza era più presunta che reale, benché dal punto di vista letterario non si potesse parlare ancora di un vero e proprio genere bacchico indipendente. È tuttavia innegabile che esso sussistesse accanto agli altri temi tipici degli antichi carmi, come il vanto e l’encomio, l’elegia e l’invettiva, la descrizione naturalistica e il rimpianto amoroso... Il consumo di vino non era comunque molto comune ed era riservato a speciali occasioni, tra le quali non mancavano quelle a sfondo religioso, già «nel periodo del paganesimo arabo era in uso durante il rito antichissimo del pellegrinaggio (...), islamizzato in seguito (...), bere particolari fermenti: queste bevande rituali, usate dai pellegrini in pia visita al santuario della Ka‘ba (o ad altri minori santuari della Penisola), sono anzi distinte da alcune fonti in sharâb, nabîdh e sawîq. Si dava il nome di sharâb al liquido ottenuto dalla spremitura dell’uva fresca, mentre con il termine di nabîdh si indicava il fermento derivato dalla macerazione dell’uva secca nell’acqua: in una prima fase dolce e sciropposo, esso raggiungeva poi la fermentazione e diventava inebriante, quindi s’inaspriva e perdeva di gradazione alcolica. L’evoluzione poteva essere molto rapida, andando da poche ore ad una sola giornata, dato il clima molto caldo, almeno durante il giorno. Il termine nabîdh comunque assunse in seguito sempre più il significato di vino di datteri, distinto dunque dal khamr vero e proprio, termine aramaico che fu usato in arabo per indicare in sostanza il vino d’uva. Quanto al sawîq, la terza bevanda rituale citata, esso era un fermento fatto d’orzo e miele che per molto tempo restò in uso presso gli abitanti della Mecca e di Medina. Sarebbe comunque molto difficile tracciare una storia delle bevande fermentate presso gli Arabi antichi, a motivo del fatto che con gli stessi termini spesso le fonti indicano bevande fatte di cose diverse, o addirittura non più bevande ma cibi solidi. Qui ci limitiamo a ricordare che era in uso il vino di palma (tratto dal midollo di palma, o altrimenti dalla polpa del tronco di palma e rinforzato con miele di datteri), l’idromele vero e proprio, e il cosiddetto sawîq muqannad, cioè il vino di canna da zucchero; e, come prima si diceva, il vino di datteri generalmente chiamato nabîdh, ma che aveva nomi diversi a seconda della specie di datteri adoperati e dal loro grado di maturazione»7. 168 7 Ibidem, p. 6. Il vino nel Corano e nella Sunna Contrariamente a quel che si potrebbe pensare il testo sacro dell’Islam, il Corano, non giudica sempre il vino negativamente, ma talvolta lo elenca tra le cose buone di cui Dio ha fatto dono all’uomo: E Dio fa scender acqua dal cielo e ne fa viva la terra che prima era morta, e certo un segno è ben questo, per gente capace d’udire. / E voi avete ancora nei greggi un esempio: Noi vi diam da bere di quel che è nei loro ventri, di fra le feci e ‘l sangue, latte puro squisito a chi beve. / E dei frutti delle palme e delle viti vi fate bevanda inebriante e buon alimento; e certo è ben questo un Segno per gente che sa ragionare (16, 65-67). Gradualmente però tale valutazione si è modificata, dapprima con riserve: Ti domanderanno ancora del vino e del maysir. Rispondi: “C’è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambe le cose: ma il peccato è più grande del vantaggio” (2, 219), infine con una condanna totale a motivo degli effetti nefasti che ne deriverebbero: O voi che credete! In verità il vino, il maysir, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono sozzure, opere di Satana; evitatele, a che per avventura possiate prosperare. / Perché Satana vuole, col vino e col maysir, gettare inimicizia e odio fra di voi, e stornarvi dalla menzione del Santo Nome di Dio (5, 90-91). La tradizione riporta infatti che uno zio del Profeta, ubriaco, avrebbe mutilato i cammelli di ‘Alî, così come si accenna al comportamento riprovevole di alcuni fedeli che, trovandosi in stato di ebbrezza, avrebbero commesso errori nel rituale della preghiera: O voi che credete, non accingetevi alla preghiera in stato di ebbrezza, ma attendete di poter sapere quello che dite (4, 43). Non manca tuttavia neppure nel Corano l’utilizzo della metafora del vino come bevanda paradisiaca che ritroveremo specialmente nei versi dei mistici musulmani: La descrizione del Giardino che è stato promesso ai timorati di Dio è così: vi saranno fiumi d’ acqua incorruttibile, e fiumi di latte dal gusto immutabile, e fiumi di vino delizioso a chi beve, e fiumi di miele purissimo (47, 15). Ma si tratterà di un vino del tutto particolare, privo di quegli effetti che lo rendono sconsigliabile ai mortali: 169 E forniremo loro frutta e carne, quella che desidereranno. / E si passeranno a vicenda dei calici d’un vino che non farà nascer discorsi sciocchi, o eccitazioni di peccato (52, 22-23). addirittura simbolo di un’estasi desiderabile: In verità i Pii vivranno fra le delizie, / stesi su alti giacigli si guarderanno placidi attorno, / e si scorgerà luminoso sui loro volti il fiorir della gioia; / saranno abbeverati di vino squisito suggellato / suggellato di suggello di muschio (oh, possan bramarlo gli uomini quel vino, di brama grande!) (83, 22-26). Com’è noto, il Corano contiene soltanto disposizioni di carattere generale, mentre maggiori dettagli sono reperibili nei detti del Profeta, raccolti nella Sunna o ‘tradizione’, che precisa le disposizioni da seguire nelle più varie circostanze e, con la sua forma aneddotica, fornisce inoltre parecchie informazioni di contorno talvolta molto interessanti. Da essa apprendiamo, per esempio, che il vino che si consumava in Arabia era prevalentemente di datteri freschi o secchi e che il Profeta predisse che l’aumento del consumo di vino sarebbe stato uno dei segni della depravazione generale che precederà la fine del mondo. Dai detti del Profeta apprendiamo però che c’era anche del vino ottenuto dal grano, dal miele, dal miglio o dall’orzo, tutti egualmente proibiti, con l’avvertenza di non cercare di render lecito quanto non lo era soltanto cambiandogli nome... Questa raccomandazione riflette probabilmente l’incertezza che si era prodotta riguardo tale proibizione: dato che i sistemi con cui si ottenevano e si conservavano varii tipi di bevande erano diversi, non era facile stabilire esattamente quali di esse fossero interdette e soprattutto da quando lo diventassero a motivo dei processi fermentativi. Il liquido ottenuto dalla spremitura di datteri, bevuto nel giro di ventiquattr’ore, è generalmente ammesso, ma per troncare ogni discussione si giunse a stabilire che era vietata ogni bevanda che turbava la ragione: «Probabilmente la regola nacque per disciplinare anche gli altri tipi di fermenti – non ancora usati però al tempo del Profeta – ottenuti da fichi, albicocche, ciliege, more o altrimenti dalla saggina e dal latte, specie il latte di giumenta (che darà una bevanda alcolica chiamata kûmis, introdotta intorno al Mille dai Turchi e divenuta poi la bevanda preferita dai Mamelucchi)»8. Non mancava chi cercava di ‘salvare’ dalla condanna e quindi dalla distruzione il vino che possedeva prospettandone un uso benefico: si parla di un uomo che aveva ereditato del vino ed era intenzio170 8 Ibidem, p. 12. nato a venderlo devolvendo il ricavato a favore di alcuni orfani, ma Maometto gli ordinò comunque di gettarlo via e di distruggere i contenitori in cui era conservato. In effetti sono condannati tutti coloro che vi hanno a che fare: chi lo pigia, chi lo trasporta, chi lo vende o lo compra, chi lo serve e chiunque ne tragga profitto, oltre naturalmente a chi lo beve. Sulla punizione vi sono pareri discordanti: le frustate vano da 40 a 80 a seconda dei casi e il Profeta avrebbe ordinato di uccidere chi fosse sorpreso a bere una quarta volta, benché in tale fattispecie egli abbia evitato di infliggere la pena capitale. Altre sanzioni potevano comprendere la rasatura completa o l’esilio. L’uso di simili bevande non è consentito dalla maggior parte delle scuole giuridiche neppure come medicamento. L’epoca omayyade Il divieto del vino fu percepito presto come dato tipico della fede islamica, tanto che il poeta cristiano al-Akhtal († 710) manifesta vivacemente la sua intenzione di non rispettarlo a conclusione di una serie di rifiuti opposti ad altri e più fondamentali precetti del culto musulmano: No! Mai osserverò il digiuno del ramadan, né mangerò la carne degli olocausti. Mai spingerò verso la valle della Mecca al tempo del pellegrinaggio una giovane e robusta cammella. Mai griderò come un asino: “Orsù! alla preghiera!” Ma continuerò a bere il benefico liquore e mi prosternerò al levar dell’alba9. Non si deve però credere che i poeti musulmani disdegnassero il vino per motivi religiosi, né che esso fosse dunque scomparso dai loro versi. Lo stesso Hassan ibn Thâbit, contemporaneo di Maometto e fratello del segretario di quest’ultimo che fu incaricato di mettere per iscritto il Corano dopo la morte del Profeta, va annoverato tra i poeti bacchici del Hijâz presenti fin dal primo secolo dell’Islam, personalità irriverenti se non ribelli, dediti anche alla musica e ai corteggiamenti, che ebbero i loro corrispondenti nelle terre di recente conquista, come il celebre al-Uqayshir di al-Kûfa, in Iraq. Il tema bacchico dunque non solo permase, ma addirittura si sviluppò, e non certo come mera convenzione: non furono pochi infatti coloro che conti9 MINGANTI, VASSALLO VENTRONE, Storia della letteratura, p. 90. 171 nuarono a cantarlo avendone diretta e dilettevole esperienza. Tra di essi un vero ‘campione’ fu in particolare il califfo omayyade gaudente al-Walîd ibn Yazîd († 740)10, non privo di un gusto dissacratore a ben più largo spettro, di cui i seguenti versi son chiara testimonianza: Oh che notte ho passato a Dayr Bawannâ / quando ci era mesciuto il vino, e ci veniva cantato! / Come girava la coppa, così giravamo (in danza) / e gli sciocchi credevano fossimo impazziti. / Passammo presso profumate donne / e canto, e vino, e ci fermammo. / E facemmo del Califfo di Dio Pietro, / per riso, e del consigliere, Giovanni. / E prendemmo la loro comunione, e fummo fatti / infedeli, per le croci del loro convento, e tali fummo. / E ci siamo diffamati presso la gente, quando chiacchiereranno / venendo a conoscere quanto abbiam fatto11. Non stupirà dunque scoprire, in questo secondo secolo dell’Islam, un’intera generazione di poeti ‘libertini’ i quali, cantando i piaceri della vita incuranti delle proibizioni religiose, esprimevano un atteggiamento di più generale insofferenza e ribellione. In questo quadro il tema bacchico fu trattato da alcuni di loro come un genere a parte e in ciò si distinse per primo Abû l-Hindî, indicato come uno degli ispiratori di colui che diverrà, in epoca abbaside, il massimo cantore del vino: il celeberrimo Abû Nuwâs. Il vino nell’epoca abbaside Con Abû Nuwâs († 815) «nel carme bacchico vivono come una seconda vita, e spesso in forma più agile e schietta, quasi tutti gli altri generi poetici: l’amoroso soprattutto, ma anche l’encomiastico, il satirico, persino il venatorio. Dal momento, dunque, che il vino è per il poeta una sorta di compendio dei piaceri terreni, acquista una particolare rilevanza il sistema di metafore che intorno ad esso si crea. Il più singolare, per noi, è quello che si forma attorno al genere grammaticale, femminile, che in arabo hanno tutti i termini usati a designare i vari tipi di vino. Questo diventa, quindi, la fanciulla che si chiede in isposa, la schiava che si vuol riscattare dal padrone, la vergine rimasta per anni chiusa e 10 Su di lui si veda F. GABRIELI, Al-Walîd ibn Yazîd. Il califfo e il poeta, «Rivista degli studi orientali», XV/1, (1934), pp. 1-64. 172 11 Ibidem, p. 27. protetta nei suoi penetrali (i recipienti di conservazione) che improvvisamente balza fuori con impeto conquistando e soggiogando i suoi ammiratori»12. Tra i suoi versi ci pare opportuno citarne alcuni nei quali, sorprendentemente, proprio agli arabi si ritiene che più che ad altri si convenga offrire da bere: Non far però che mi beva il chiassone inopportuno, / né il pidocchioso che al solo fiutarmi s’aggronda; / neppure il Mazdeo, perché il fuoco egli ha per signore, / non il Giudeo, e nemmeno chi adora la Croce; / non il plebeo che neppure innaffiato d’ingiurie / si scuote giammai, né chi cortesia non conosce, / né a tutti gli altri villani babbei che apprezzarmi / non sanno: agli Arabi sol devi darmi da bere13. L’autore è ben consapevole di violare un divieto, ma ai rimproveri ribatte rincarando la dose: Falla finita col biasimo: il biasimo m’eccita (p. 4) Ma più mi ci fanno rampogne più io mi ci ostino (p. 7) e anzi affermando di trovar gusto nel dare scandalo: Su, dammi del vino da bere, e dimmelo: ‘È vino!’ Non farmelo ber di soppiatto, se in piazza è possibile. (...) Gridalo, il nome di chi ti sta a cuore, e basta pseudonimi: gusto non c’è nei piaceri velati (p. 6) deciso ad insistere fin oltre la morte: Il giorno ch’io muoia, sotterrami presso una vite, che con le sue vene m’innaffi l’esanimi ossa (p. 7) e insinuando il sospetto contro chi lo disapprova: Se tu criticassi lealmente, buon viso farei: ma sai perché critichi me? Perché sei invidioso! (p. 9). Ma, accanto a questi temi tipici, non mancano dettagli interessanti anche sulla tipologia delle bevande, come l’idromele che: non trae il suo lignaggio dal pampino, né dalla palma, ma vien dal purissimo miele con acqua mischiato (p. 12) 12 ABÛ NUWÂS, La vergine nella coppa, a cura di M. Vallaro, Roma 1992, p. XXIII. 13 Ibidem, p. 23. 173 e che brilla di strane iridescenze: e quel che con l’acqua lo mesce diresti l’adorni di pelle strappata alla vipera o ad altro serpente (p. 13). Il vino è descritto come “fruttato e robusto” (p. 31), generalmente allungato con acqua, come afferma questa quartina: L’offre un coppiere e lo puoi bere a tuo piacere d’acqua mischiato (p. 25) anche se tale connubio è talvolta disapprovato e si interpreta l’effervescenza che ne viene prodotta come una reazione di collera da parte del vino al contatto con l’acqua: La linfa del pampino ha in odio l’umor della nube: se questi la tocca, quella di collera esplode (p. 14), né mancano cenni all’invecchiamento, o a chi lo produce e lo vende: Il vino? No, non mescolarlo affatto, / e dammene di quel che d’anni è carico, quel che ha invecchiato, fra verzieri e monti, / il Curdo in un ameno suo ricovero (p. 21). Amico mio, che gran piacer per me / bere d’un vinattier sotto la pergola! Specie presso un’Ebrea dagli occhi neri, / bella quale nel ciel luna nottivaga (p. 21). Spesso esso è abbinato alla musica e ad ancor meno lecite passioni: Venne poi una di dolce voce, che i commensali svagò, assommando piacer novelli che ognun trascinano (p. 20) C’era un coppier tutto vezzi ammalianti, dal languido sguardo, pupillo di re, cui Cosroe è padre (p. 8). 174 Una varietà sorprendente di variazioni sul medesimo tema, caratterizzate anche da una grande ricchezza lessicale: «I nomi dati al vino dagli Arabi preislamici, e rimasti poi nell’Islam, erano numerosi. Nella maggior parte dei casi, si trattava di aggettivi che indicavano qualità specifiche, gradazione di forza, di colore o di aroma: essi acquistavano spesso valore di sostantivi veri e propri, per cui abbiamo il ‘limpido’, il ‘chiaretto’, il ‘rinforzato’, ovvero il ‘portato da lungi’, il ‘ben maturato’, e ancora il ‘bianchino’, la dolce ‘acqua di zibibbo’ che si ricavava dall’uva passa, e via dicendo. Il colore preferito è comunque il rosso, chiamato nell’antica poesia ‘sangue dell’otre’, oppure il rosato, paragonato allo zafferano o al sangue di gazzella. Si beveva in genere miscelato con acqua fresca o con miele d’api, sia per motivi economici (si pensi che un otre di vino veniva cambiato con un cammello di tre anni), sia per evitare emicranie; a volte si profumava artificialmente, per esempio col muschio»14. Il livello che il genere bacchico raggiunse con Abû Nuwâs, definito l’Anacreonte arabo, contribuì da un lato a consacrarlo, ma dall’altro ne stemperò anche la carica trasgressiva, cosicché nel terzo secolo dell’era islamica lo troviamo ‘praticato’ da tutti, forse però con toni meno spontanei, come in Ibn al-Mu‘tazz, e comunque più faticosi, come in Ibn al-Rûmî. Lo stesso si può dire anche per i grandi del secolo successivo, quali al-Mutanabbî e Abû Firâs, nei quali il tema permane soprattutto come una convenzione letteraria, formalmente perfetta ma ormai lontana dalla vivacità del suo primo ‘spumeggiante’ affermarsi. Un fluire di versi ‘divini’ Successivamente le cose non mutarono, ma – paradossalmente – nuova linfa fecondò il genere da parte di una categoria di poeti che teoricamente si potrebbero considerare i meno adatti ai temi licenziosi: i cosiddetti sufi o mistici musulmani. Versi d’amore o la celebrazione del vino si prestavano infatti molto bene ad essere interpretati come simboli e metafore del rapporto tra fedele e Signore, fatto di desiderio e di attesa, come appunto un innamoramento, o di diletto e di estasi, come una gustosa libagione. Pur obbedendo al lessico e ai canoni classici del genere, i sufi seppero alimentarlo di ulteriori significati e di nuove immagini e in ciò si distinse specialmente Ibn al-Fârid († 1235): Alla memoria del Beneamato abbiamo bevuto un vino / che ci ha inebriati prima della creazione della vigna. (...) / Quante stelle risplendono, quando è mescolato! / Senza il suo profumo, non avrei trovato la via delle sue taverne. / Senza il suo splendore, l’immaginazione non potrebbe concepirlo. (...) / Se nella tribù ne è citato il nome, quella gente diviene ebbra / senza disonore e senza peccato. / A poco a poco è salito dal fondo dei vasi: e in verità solo il nome ne resta. / Ma se allo spirito d’un uomo un giorno viene, / 14 BORRUSO, Vino e fermenti, pp. 6-7. 175 176 la gioia allora si impadronisce di lui, e la tristezza se ne parte. / La sola vista del suggello posto sui vasi basta a far cadere nell’ebbrezza i convitati. / Se con un vino tale innaffiassero la terra di un sepolcro, / il morto ritroverebbe la propria anima e il suo corpo sarebbe resuscitato. / Steso all’ombra del muro della sua vigna, / subito il malato già in agonia ritroverebbe la forza. / Presso le sue taverne il paralitico cammina, / e al ricordo del suo sapore i muti si mettono a parlare. / Se gli aliti del suo profumo si esalano in Oriente, / all’Occidente un uomo senza odorato diviene capace di sentirli. / Chi ne regge la coppa, la palma piena di questo vino, / non si perderà nella notte: reca un astro nella mano. / Il nato cieco che nel cuore lo ricevesse, / ritroverebbe subito la vista. / Fa udire i sordi, il gorgogliare del suo filtro. / In una schiera di cavalieri che spronano verso la terra natia, se qualcuno fosse morso / da una bestia velenosa, il veleno non gli potrebbe arrecare alcun male. / Se l’incantatore traccia le lettere del suo nome sulla fronte di un ossesso, / quei caratteri lo guariranno. / Ricamato sullo stendardo dell’armata, / il suo nome inebria tutti quelli che marciano sotto quel vessillo. / Affina il carattere dei commensali, e suo tramite si riconducono / alla via della ragione quelli che la ragione hanno smarrita. / Generoso diviene colui la cui mano non ha mai conosciuto la larghezza, / e chi non possedeva grandezza d’animo impara a moderarsi, perfino nella collera. / Se il più stupido fra gli uomini potesse baciare il coperchio della sua brocca, / arriverebbe a comprendere il senso delle sue perfezioni. / Mi dissero: “Descrivilo, tu che delle sue qualità sei così bene informato!” / Sì, in verità io so come descriverlo. / È limpidezza, ma non è acqua; è fluidità, ma non è aria; / è una luce senza fuoco e uno spirito senza corpo. / Il suo verbo è preesistito eternamente a ogni esistenza, / quando non erano né forme né immagini. / Per sua virtù qui sussistono tutte le cose, / ma con saggezza esse lo velano a chi non comprende. / In lui s’è smarrito il mio spirito, in tal maniera che si sono intimamente mescolati / entrambi; ma non è un corpo entrato in un corpo. / Vino e non vigna: Adamo ho per padre; / vigna e non vino: sua madre è mia madre. / In verità la purezza dei vasi viene dalla purezza delle idee; / e le idee, lui solo e lui proprio le fa crescere. / Hanno fatto una distinzione. Ma il tutto è uno. / I nostri spiriti sono il vino, e i nostri corpi la vigna. / Prima di lui non c’è “prima”, e dopo di lui non c’è “dopo”; / il cominciare dei secoli è stato il sigillo della sua esistenza. / Prima che il tempo fosse, è stato spremuto sotto il torchio. / Il testamento del padre nostro è venuto soltanto dopo di lui: / e lui è come un orfano. / Tali ne sono le bellezze che a lodarlo ispirano le prose armoniose e i versi rotondi. (...) / Hanno detto: “Hai peccato, bevendolo”. / No certo! Ho bevuto solo ciò di cui sarei stato colpevole a privarmi. / Felici le genti del monastero! / Quanto si sono inebriate di quel vino! / E però non l’hanno bevuto; ma hanno avuto l’intenzione di berlo. / Prima della mia pubertà ho conosciuto la sua ebbrezza: / essa sarà ancora in me quan- do le mie ossa saranno polvere. / Prendilo puro, tal vino! / O mescolalo soltanto alla saliva del Beneamato! / Sarebbe colpevole ogni altro miscuglio. / Sta a tua disposizione nelle taverne; / vallo a prendere in tutto il suo splendore! / Come è buono berlo al suono delle musiche! / Perché mai, in nessun posto, si fa compagno della tristezza: / così come mai stanno insieme dispiaceri e concerti. / Se di tal vino ti inebri, fosse pure per un’ora soltanto, / il tempo ti sarà docile schiavo, e avrai la potenza. / Chi è vissuto senza ebbrezza, non ha vissuto quaggiù; / e ha sprecato il proprio tempo, chi non è morto della sua ebbrezza. / Pianga se stesso, chi ha perduto la vita senza gustarne la sua parte15. Il grande mistico al-Rûmî († 1273) propone addirittura l’immagine di un’ebbrezza universale motivata dalla presenza divina che pervade tutto il cosmo: O cammelliere, guarda ai cammelli! Da un capo all’altro della carovana sono ebbri, / ebbro il padrone, ebbra la guida, ebbri gli estranei, ebbri gli amici! / O giardiniere! Il Tuono fa da menestrello, la Nube da coppiere, e ormai / è ebbro il giardino, ebbro il prato, ebbro il bocciolo, ebbra la spina! / Fin quando te ne starai a girare, o cielo? Guarda al girare degli elementi: / ebbra l’Acqua, ebbra l’Aria, ebbra la Terra, ebbro il Fuoco! / Cosi si presentan le forme, quanto all’intimo senso non chieder neppure: / ebbro è lo Spirito, ebbra la Mente, ebbra la Fantasia, ebbri i Cuori! / E tu, o tiranno, lascia la tua crudele superbia, fatti terra, e vedrai / la polvere tutta, atomo ad atomo, ebbra di Dio sublime Tiranno Creatore! / E non dir che d’inverno più non resta ebbrezza al giardino: / nascosto a sguardi furtivi s’è ancora per un tempo inebriato. / Le radici degli alberi s’imbevono di vino segreto: / aspetta qualche giorno, e vedrai gli alberi di nuovo svegli e inebriati! / Se ti arriva un colpo pel disordinato inceder degli ebbri, non t’irritare: / con tale coppiere e tal menestrello, come un ebbro camminerebbe diritto? / O coppiere! Distribuisci il vino in modo uniforme e smetti questi giochi: / ebbri sono gli amici perché lo concedi, ebbri i nemici pel diniego! / Aumenta ancora il vino, o coppiere, che sciolga ogni nodo; / finché non dà alla testa il vino, come l’ebbro scioglierebbe il turbante? / È per avarizia di coppiere o per vino cattivo: se questo non è / come potrebbe il viandante incedere in preda all’ebbrezza? / Guarda i volti sì pallidi e dona vino rosato, / perché i volti degli ebbri e le guance non hanno, mi pare, quel rosa. / Un vino hai divino, leggero al sorso e sottile, / che, se vuole, ne beve l’ebbro cento kharvâr al giorno! / O Sole divino di Tabriz! Nessuno è sobrio, quando tu sei; / atei e credenti sono ubriachi, asceti e libertini son ebbri!16 15 Cit. in I mistici dell’Islam, a cura di E. de Vitray-Mayerovitch, Milano 1996, pp. 99-101. 16 RÛMÎ, Poesie mistiche, a cura di A. Bausani, Milano 1980, pp. 80-81. 177 Se questi versi esprimono una vena mistica schietta, non mancano autori che si spingono ben oltre, fino all’ambiguità di eccessi che pur appartengono a quella sorta di mondo alla rovescia e di gusto della provocazione talvolta presenti nei ‘giullari’ e ‘pazzi’ di Dio17: «il vino in questa tradizione non è quello d’uva bensì quello mistico e coloro che ne bevono non sono dei corrotti, bensì metaforicamente i mistici che ricercano la suprema ebbrezza divina. Anche l’amore omosessuale trova una sua spiegazione in questo ambito tematico. Se amore mistico è rovesciamento dei valori umani, se amare Dio significa essere disprezzati dal mondo, ecco il modello dell’amore omosessuale – strettamente interdetto nel Corano e nella Tradizione, per quanto ampiamente tollerato nella società del tempo – diventava un eccellente topos poetico da utilizzarsi nella descrizione dell’amore mistico, amore difficile, ‘amore proibito’, amore appunto stigmatizzato o deriso nel mondo dell’illusione. Il libertinaggio (rendi), la depravazione morale, diventa dunque inopinatamente cifra poetica della ricerca di Dio, di una verità superiore. Esso assume il significato essenziale di una ‘dissimulazione’ del vero scopo, un nascondere ai più l’oggetto del proprio amore, concezione in fondo non estranea neppure allo Stilnovo (...)»18. I poeti arabi di Sicilia La Spagna musulmana ha avuto in particolare degli autori che hanno cantato nei loro versi i piaceri della vita e che sono per noi importanti poiché: «Quei poeti arabo-andalusi con il loro repertorio di danzatrici, di coppiere, di ganimedi; quei poeti che bevono sulle rive del Guadalquivír attendendo con i calici in mano l’aurora, che celebrano nelle composizioni chiamate nawriyyât fiori e giardini, che si estasiano di fronte alla bellezza della natura, che compongono poesie a indovinello sul giglio, la melanzana, la cicogna, che fabbricano versi di iridata polvere di diamante, ebbene quei poeti influenzano soprattutto i migliori tra i poeti arabi di Sicilia»19. Tra costoro ricordiamo Ibn Hamdîs, che spesso e con vive immagini esalta il vino: 17 Cfr. A. BAUSANI, Il ‘pazzo sacro’ nell’Islam, Trento 2000. 18 HÂFEZ, Il libro del coppiere, introduzione, traduzione e note a cura di C. Saccone, Trento 1998, pp. 48-49. 178 19 IBN HAMDÎS, La polvere di diamante, a cura di A. Borruso, Roma 1994, p. 9. Vino di colore e odor di rosa, mescolato all’acqua ti mostra stelle fra raggi di sole. / Con esso cacciai le cure dell’animo, con una bevuta il cui ardore serpeggia sottile, quasi inavvertibile. / L’argentea mia mano, stringendo il bicchiere, ne ritrae le cinque dita dorate20. Ancora in lui ritorna il tema del convento: Che monaca! Aveva chiuso il suo convento, e noi eravamo i suoi notturni visitatori. / Ci aveva guidati da lei un vino profumato come muschio, che rivelava al tuo naso i suoi segreti. (...) / Presso di lei le ampolline del pregiato muschio eran botti dal fondo impeciato. / Gettai sulla bilancia il mio soldino, ed essa spillò dalla botte il suo tesoro21. Le libagioni scacciano i pensieri e non hanno mai fine: Quando il giovane è oppresso dagli affanni e tormentato, tu vedi che in lui cerca rifugio, perché esso ne spegne la sete, ne avvicina i desideri, ne fa sparire la tristezza, e ne ravviva l’allegria. / Coppa, vino e acqua: è come se tu dicessi materia, spirito e forma. / Caccia da te via il sonno, e aspetta fino a quando il giorno abbia steso la sua luce sulla notte. (...) / Abbiam trincato con la luna piena a mezzanotte, ed ora mesciamo con il sole alto a mezzogiorno, tra il profumo dei fiori, laddove l’usignolo va ripetendo su ogni ramo il suo canto22. A nulla valgono i rimproveri, e le similitudini si sprecano: Ti biasimano perché bevi di quello fresco, ma chi ti biasima non ne conosce la virtù segreta. / Nascosto nell’orcio, vi risplende con la sua luce, mentre il recipiente, all’esterno, è circondato da oscura pece. / Molto si è già discusso sulla sua età, ma il tempo non conobbe chi l’ha spremuto. / Ride sommessa la brocca quando lo si versa, come mormora lo stallone costretto al chiuso. (...) / Sembra contenere tante formiche, da cui ti senti percorrer le ossa. / Lo mesce intorno una gazzella dai grandi occhi neri, alla cui malia si arrende il leone; / dalle sue ciglia si levano sguardi che incantano, e quando parla scopre le perle della sua bocca23. 20 Ibidem, p. 63 21 Ibidem, pp. 64-65. 22 Ibidem, pp. 65-66. 179 Coltivazione e produzione 180 Se, come abbiamo visto, il vino fu spesso messo in relazione con la presenza di stranieri e di seguaci di altre religioni, anche la produzione locale – secondo vari metodi e utilizzando diverse materie prime – è egualmente attestata. L’affermazione dell’Islam, pur con i suoi divieti, non comportò affatto la scomparsa di tale produzione, come testimoniano le stesse opere di agronomia dalla Persia all’Andalusia. Particolarmente in quest’ultima i trattati riservavano grande attenzione ai diversi sistemi di coltivazione, riprendendo e completando quanto in materia era stato detto da precedenti autori classici, quali Columella, talvolta dichiarando esplicitamente la loro origine più antica, come nel caso di Ibn Wahshiyya (X secolo) – che afferma di aver tradotto dal siriaco (benché la cosa abbia sollevato una lunga e irrisolta diatriba tra gli specialisti) –, il cui trattato di agricoltura (Kitâb alfilâha) ha lo stesso titolo di un’opera analoga dell’andaluso Ibn al-‘Awwâm (XII secolo). Date le interdizioni della legge islamica, però, questi manuali si occupano della vite limitatamente alla produzione di uva da tavola, fornendoci dettagli circa la sua coltivazione e relativi alla potatura. Benché non teorizzata, è attestata anche la produzione di vino. Si può dire che, data l’espansione dovuta alle conquiste, in epoca islamica gli arabi ebbero occasione di conoscere varietà maggiori e migliori di vino, il che contribuì non soltanto a perpetuare il tema bacchico nella loro poesia, ma anche all’accrescimento e all’affinamento delle tecniche di coltivazione della vite e della produzione vinicola. Gli stessi manuali di diritto, pur mirando alla definizione delle bevande proibite, ci forniscono indirettamente la conferma della loro esistenza e delle modalità della loro preparazione e si accostano così alle testimonianze letterarie e ad alcune miniature nelle quali figurano uomini intenti a trasportare grappoli e a versarli in contenitori dove altri procedevano alla pigiatura da cui risultava un liquido che veniva conservato in anfore. «Per coloro che conoscono l’atteggiamento ufficiale dell’islam nei confronti del vino, la vitalità della coltivazione della vite nella gran parte dei paesi musulmani medioevali può apparire paradossale. Ciò nonostante, questa vitalità è incontestabile, e può essere spiegata dalla forza della tradizione in alcuni paesi dove la vite è da tempo consolidata, dai diversi usi dell’uva (frutto fresco, uvetta, aceto, usi farmaceutici, i fondi impiegati come fertilizzante, ecc.), dalla sopravvivenza di comunità non-islamiche e anche dal lassismo di molti musulmani. (...) Appare in generale che le viti coltivate, più numerose rispetto ad oggi e traspor- tate dagli arabi da una parte delle loro terre di conquista ad un’altra, non rimanevano stabili e costituivano l’oggetto di esperimenti di selezione e di acclimatazione, che conosciamo in particolare per quanto riguarda la Spagna (tra la pianura e le montagne, ad esempio) ma che venivano sperimentate anche ad Oriente, dove Ibn al-Fakih e gli agronomi persiani dell’epoca mongola in particolare ci conservano i nomi di diversi tipi di vitigni. Il ciclo vegetativo di ogni vitigno essendo diverso, gli agronomi, applicando il principio della natura complementare di un difetto e di una qualità (quale adattamento all’aridità o all’umidità) si avvalevano principalmente delle diversità climatiche e dei terreni dell’area mediterranea e del Vicino Oriente. Alcuni sistemi di coltivazione predominano nei trattati andalusi: (a) la vite bassa, piantata in buche o fosse (consigliate, ma poco attuate), ad una distanza di circa 1 m e 40 l’una dall’altra, con sostegni o a macchie basse, con poco diradamento per proteggere l’uva dal sole: un metodo di coltivazione riservato ai luoghi caldi; (b) la vite rampicante, classica della regione mediterranea, dove il rampicante veniva utilizzato come sostegno per gli alberi da frutta con radici poco profonde e la cui altezza doveva essere controllata per non danneggiare il vitigno; al contrario degli antichi, gli andalusi respingevano la coltivazione intercalare che esaurisce il vitigno e soprattutto la sua associazione col fico. (...) La scelta dei siti si adattava alle esigenze dei vitigni: pendii e colline per i vitigni bassi, vallate e pianure per i vitigni rampicanti, montagne per sperimentare la qualità di un vitigno; era bandita la coltivazione nelle paludi, fonte di malattie per la vite. Il lavoro di preparazione consisteva in un profondo dissodamento con la spada, con fosse più larghe dei solchi di dissodamento nel terreno di qualità mediocre e buche per le località buone con una profondità di almeno 2 cubiti (quasi un metro) per protezione contro il sole. (...) La maggior parte degli autori concordano nel consigliare di piantare a primavera, benché i vitigni primizie potrebbero essere piantati d’autunno (si incontrano ancora queste esitazioni); i trattati fiscali egiziani parlano di piantare a febbraio o marzo. I ceppi, dopo essere stati sperimentati per tre anni in un terreno molto povero, venivano trapiantati nella vigna prescelta. (...) L’irrigazione dipendeva dal clima, dal terreno e dal vitigno prescelto; l’annaffiatura manuale era frequente per meglio proporzionare la quantità di acqua necessaria al fine di ottenere uva veramente “sciropposa” e non troppo piena. (...) Come oggi, la protezione delle viti dalle malattie e dal tempo inclemente preoccupava il viticultore, impotente davanti alle calamità. Più dei Romani, gli Andalusi temevano la vicinanza del mare e, con buoni motivi, il piovischio. I sin- 181 tomi di malattie, descritti in modo molto preciso da Ibn Wahshiyya, corrispondono all’antracosi, alla ruggine e all’ittero; il rimedio prescritto si ispirava alla panacea curativa, cioè un miscuglio di olio, vino e acqua applicato al ceppo del livello esposto; Ibn Hajjâj aggiungeva la paglia, che offriva inoltre protezione contro il gelo. Senza poter dare gli stessi dettagli precisi per tutti i paesi musulmani come per la Spagna e l’Iraq, possiamo affermare, grazie soprattutto alle informazioni dei geografi, la presenza generalizzata della vite, almeno fino alle invasioni dei nomadi del tardo medioevo e spesso ancora più in là: in Arabia, Mesopotamia, Asia Centrale, Siria, Egitto (...)»24. Nella produzione di vino si distinse in particolare l’Andalusia, nella quale «la coltivazione della vite era molto estesa. Accanto all’uva secca, impiegata nella preparazione di numerosi piatti della cucina andalusa, alla fine dell’estate e in autunno con l’uva si preparava il vino che fu sempre abbondantemente consumato nella Spagna musulmana. Gli storici arabi non lasciano alcun dubbio in proposito. Il consumo di vino è attestato in tutte le classi, a imitazione di quanto facevano ebrei e cristiani, e l’ubriachezza non veniva sempre punita come prevederebbe teoricamente l’ortodossia. (...) È pur vero che numerosi storici riferiscono che il pio ed erudito sovrano al-Hakam II ebbe in animo di eliminare completamente la coltivazione della vite nella Spagna musulmana, ma si dice che egli rinunciò a tale progetto quando gli fu fatto notare che un simile provvedimento sarebbe stato inefficace in quanto, invece del vino d’uva, si sarebbe bevuto vino di fichi. Se il vino veniva prodotto ovunque, tuttavia non lo si faceva ostentatamente. Tale produzione delle terre andaluse è passata sotto silenzio da parte dei geografi i quali si limitano a celebrare l’uva secca prodotta dalle viti della penisola»25. Aspetti tecnici «Gli attrezzi e le tecniche necessarie per ottenere il mosto erano varie. Dalle fonti non ricaviamo come fossero esattamente costruiti i torchi. “La soluzione più semplice era sistemare un’apertura in un contenitore alquanto grande, in cui si pigiava l’uva; il mosto fuoriusciva dall’apertura”. La pressione sull’uva stipata 182 23 Ibidem, pp. 67-69. 24 Voce karm, in The Encyclopaedia of Islam, Leida 1991. 25 E. LÉVI-PROVENÇAL, L’Espagne musulmane au Xème siècle. Institutions et vie sociale, Parigi 1932, pp. 168-169. nella pigiatrice veniva aumentata per mezzo di pietre. (...) Nella spremitura si avevano due fasi chiaramente distinte. In un primo tempo veniva raccolto il succo ricavato per mezzo del solo peso dell’uva ammucchiata senza esercitare alcun altro tipo pressione. Questo “primo fiore” del mosto era particolarmente apprezzato per la sua purezza ed il vino che se ne ricavava era assai rinomato. (...) Ma nemmeno nelle ricche regioni vinicole della Siria e della Mesopotamia ci si poteva accontentare di questo solo modo per ottenere il mosto. Non è possibile stabilire, in base alla sola letteratura, se vi fossero delle presse artificiali, del tipo di legno a leva. Il fatto che vengano menzionate delle pietre fa tuttavia supporre che si ottenesse un aumento della pressione per mezzo di procedimenti meccanici. Soprattutto si aveva cura di schiacciare l’uva con i piedi o con le mani in modo da spremere per bene il succo dagli acini. (...) La stagione della pigiatura era ovviamente collegata a quella della vendemmia. In Egitto i mesi di agosto e settembre. Il lavoro veniva svolto dal pigiatore. Questi non viveva solo di quest’attività, perché si trattava di una occupazione stagionale. Da lui veniva portata l’uva raccolta, eventualmente acquistata, e gliela si dava da pigiare, così come si portava il grano alla macinatura. Quantità piuttosto piccole venivano pigiate anche in casa utilizzando allo scopo dei cesti senza manici. (...) Come nell’antichità anche nel medioevo arabo era conosciuto, come trattamento ampiamente utilizzato per la preparazione del vino, l’ispessimento del mosto, successivo alla pigiatura. Il processo tecnico prevedeva che il mosto venisse scaldato in un contenitore sul fuoco fino a far evaporare, poco alla volta, due terzi del liquido. Da fonti giuridiche viene l’indicazione di un’interruzione della cottura già alla perdita di metà del liquido. (...) Prima della cottura queste uve venivano lasciate riposare in un orcio coperto o in un sacco esposto al sole per tre, quattro giorni, e poi travasate in una pentola già scaldata. La schiuma superficiale veniva eliminata. In questo modo si formava dall’uva, e si noti bene non dal mosto, uno sciroppo. Ovviamente si poteva procedere anche alla concentrazione del mosto stesso. Lo sciroppo così ottenuto per poter essere consumato doveva essere diluito mescolandolo con acqua. Questa bevanda godeva di un certo apprezzamento, perché secondo alcuni giuristi non ricadeva, contrariamente al vino, prodotto di fermentazione, sotto il dettame di proibizione coranica. (...) La tecnica della diraspatura, ovvero della separazione degli acini dai raspi, era conosciuta anche dai vendemmiatori arabi. Se la tecnica sia stata applicata all’uva fresca non risulta documentato, comunque separavano gli acini, che venivano fatti poi appassire, dai peduncoli, dopo che si erano essiccati per qualche tempo al 183 184 sole. Da questa uva passa veniva prodotto un tipo di vino passito. Le descrizioni moderne della produzione di questo tipo di vini mostra forti somiglianze con i metodi del medioevo islamico. L’uva veniva colta matura e deposta in locali caldi e non aerati su paglia o su canne oppure era appesa ad incastellature di legno, sinché non si era notevolmente ridotta di volume. Da quest’uva passa veniva poi spremuto il succo. A causa dell’alto contenuto di zucchero la fermentazione sarà stata molto lenta ed il vino ricavatone avrà avuto un gusto molto dolce. (...) Come in altre regioni ed altre epoche anche i vinificatori arabi si sono serviti della fermentazione naturale. Essi avevano attentamente osservato le varie fasi dei questo processo. Avevano individuato tre fasi, che in analogia al procedimento della cottura con liquidi avevano contrassegnato con i termini di ebollizione, cottura e formazione della schiuma. I vinificatori sapevano che la schiuma trabocca facilmente se il contenitore in cui avviene la fermentazione è stato riempito fino all’orlo. Le fermentazioni si svolgono in caso di temperature alte in modo molto tumultuoso. Le alte temperature esterne dei paesi arabi potevano portare a processi accelerati di questo tipo. (...) Non si sa se gli arabi eseguissero più operazioni di chiarificazione dal lievito con travasi del vino giovane. Questo procedimento probabilmente era – così come era presso i romani – collegato al filtraggio ed andava eseguito solo poco prima del consumo. Per il filtraggio gli arabi utilizzavano degli appositi imbuti con fessure, attraverso le quali veniva condotto il vino. È possibile, considerando la distinzione dei nomi, che ci fossero diverse attrezzature di filtraggio. Per molte delle denominazioni non sappiamo nemmeno se si trattasse di un dispositivo di filtrazione o di un mezzo per migliorare la qualità del vino. I compilatori di lessico non forniscono delle definizioni completamente affidabili. (...) Come espressamente dicono le fonti nel medioevo arabo erano considerati particolarmente buoni quei vini che erano invecchiati a lungo. (...) Con iperboli poetiche si affermava che il vino risalisse ai tempi dei re persiani o che Adamo stesso avesse raccolto uva per farne vino. Tutto ciò testimonia la predilezione che si riservava nel medioevo arabo ai vini invecchiati. Anche se le espressioni di alcuni versi vanno esaminate con prudenza, si può tuttavia giungere alla conclusione che gli arabi nel loro amore per i vini invecchiati siano quasi giunti a pareggiare greci e romani. (...) La tecnica di conservazione del vino nei paesi arabi fu determinata nel medioevo dal livello di sviluppo tecnico, che in queste regioni non era arretrato, dal clima, dal tipo di vino e dai materiali impiegati per la confezione dei contenitori di stoccaggio. In base ad un’indicazione tratta dalla raccolta di favole delle Mille e una notte possiamo considerare che almeno un modo di conservazione, particolarmente antico e primitivo, non fosse ancora caduto in oblio: si conservava il vino in buche, che erano state ricavate in terreno impermeabile, o in cisterne, similmente a quanto avveniva per l’acqua. Un altro sistema del tutto usuale nel medioevo islamico era l’impiego di otri di pelli di animale. Soprattutto quando il vino si doveva trasportare risultava ideale, dato che l’otre ha un certo grado di elasticità. In confronto ad altri materiali, di cui erano fatti i contenitori per vino, l’otre aveva un peso proprio ridotto. Quanto questo mezzo facilitasse il trasporto risulta chiaro da un confronto con l’Europa, dove si era costretti a portarlo con navi, seguendo percorsi allungati. (...) Entrambi questi tipi di conservazione non erano particolarmente adatti al vino. Il dato di fatto del loro utilizzo permette di pensare che si fosse sperimentato che il vino sopportasse bene un trattamento di questo tipo. Una condizione necessaria in questo senso era l’alto contenuto alcolico ed è pertanto lecito tirare la conclusione che almeno alcuni tipi di vino del medioevo arabo la soddisfacessero. Nella conservazione di maggior diffusione i maestri cantinieri utilizzavano degli orci, che erano disponibili in diverse grandezze e forme. Essendo il materiale di cui erano fatti l’argilla, che è porosa, ogni vaso doveva essere impermeabilizzato con bitume o pece. (...) La bocca dell’orcio veniva chiusa a tenuta d’aria. La chiusura era costituita da un tappo di argilla e pece. (...) Gli orci terminavano nella parte inferiore a punta e pertanto non potevano stare in piedi da soli. Per questo motivo venivano interrati o appoggiati. (...) La produttività dei vigneti, e di conseguenza la quantità di vino prodotto a partire dalla vendemmia, è ed era condizionata dal clima, dalla posizione, dall’annata, dal tipo di vitigno, dagli agenti nocivi e dal tipo di conduzione del podere. Purtroppo non disponiamo di dati sulle quantità di vino prodotto nel medioevo arabo e ci dobbiamo accontentare di supposizioni. Date le condizioni materiali notoriamente favorevoli dei terreni arabi destinati alla viticoltura possiamo considerare che il raccolto non fosse certamente inferiore a quello dell’antichità classica. Se a ciò aggiungiamo che non venivano prodotti vini di qualità, possiamo valutare che venissero prodotte delle quantità di vino tanto grandi quanto quelle dell’Europa medioevale, dove i raccolti erano diminuiti quantitativamente in favore di una miglior qualità. Volendo fare un confronto con i dati del presente non vanno presi in considerazione i dati dei paesi nordafricani produttori di vino: Algeria, Tunisia ed anche Marocco, perché vi viene praticata una viticoltura con l’adozione di crite- 185 ri moderni. Tuttavia i paesi poco integrati nel mercato internazionale, come l’Afganistan, l’Iran, la Siria o la Turchia, possono servire come punti di riferimento anche con i loro dati moderni di produzione, considerato che la tecnica viticola non è comunque peggiorata rispetto a come era nel medioevo. I dati attuali della produzione di paesi orientali assai diversi tra loro mostrano che, in base alle possibilità di coltivazione, era possibile ottenere grandi quantità d’uva, così che la condizione necessaria per la produzione del vino – la disponibilità di sufficienti quantità d’uva – sussisteva verosimilmente anche nel medioevo»26. Altre testimonianze L’arabo non è l’unica lingua del mondo musulmano, e il motivo bacchico non ricorre meno in persiano e in turco che nell’idioma del Profeta, nonostante il divieto coranico. Una pur sommaria ricognizione nelle rispettive letterature ci porterebbe lontano, ma non è possibile evitare di citare almeno tra i cantori del vino in lingua persiana il celeberrimo Omar Khayyâm, del quale rare sono le quartine ove il liquido inebriante non sia protagonista. Per quanto l’intento provocatorio possa averlo indotto ad esagerazioni, nei suoi versi troviamo conferma di quanto il consumo di vino superasse le rigide interdizioni della legge religiosa: Il Corano, che chiamano la somma parola (di Dio), di quando in quando, non di continuo, lo leggono. Ma nel fondo della coppa c’è inciso un versetto, che in ogni luogo, e di continuo, vien letto27. Domina in lui il tema del carpe diem: Bevi il vino, ché questa è la vita eterna, questo è il tuo frutto, dalla stagione di gioventù. È il tempo delle rose, del vino, degli amici ebbri... Sii lieto un istante, ché questa è la vita (p. 36) 186 26 P. HEINE, Weinstudien, Wiesbaden 1982, pp. 31-43 passim. 27 O. KHAYYAM, Quartine, a cura di F. Gabrieli, Roma 1973, p. 28. frutto di una visione della vita disincantata: Il mio bere vino non è per eccitarmi, non per far baldoria, e venir meno alla religione e al decoro. Voglio trascorrere un istante fuor di me stesso: ecco il motivo del mio bere vino e ubriacarmi (p. 40) senza che ciò significhi tuttavia rinunciare a toni insolenti: Quando trapasserò, lavatemi col vino, / e di legno di vite fatemi le tavole della bara (p. 48), e persino dissacratori: Mi hai fracassato la caraffa del vino, o Signore! Mi hai chiusa in faccia la porta della vita, o Signore! Mi hai rovesciato a terra il vino puro: Possa io morire! Sei un bel tipo d’ubriaco, o Signore! né va trascurato che tra i primi poeti turchi d’Anatolia Yunus Emre, nonostante la sua vena mistica, celebrò anche il vino e la musica. Quanto il tema bacchico sia ancora percepito in epoca moderna come tipico della letteratura ci viene indirettamente confermato dalle memorie di un dotto musulmano egiziano che nell’800 trascorse alcuni anni in Francia, paese nel quale poté constatare che il consumo di vino era piuttosto comune, senza però che questo portasse a un genere letterario simile a quello presente presso gli autori arabi: «Il pasto inizia con la zuppa e termina con il dessert e la frutta. Come bevanda si consuma generalmente vino. Nella maggior parte dei casi non lo si beve fino ad ubriacarsi, soprattutto da parte delle persone di un certo livello che considerano tale comportamento riprovevole. Dopo il pasto, possono bere del liquore. Benché consumino vino, non lo celebrano nelle loro poesie. Né hanno per designarlo tanti nomi diversi quanti ce ne sono in arabo. Gustano il piacere della cosa in sé, senza caricarla di significati immaginari, metafore o esagerazioni. Non mancano i libri che parlano dell’ubriachezza, ma si tratta di facezie che fanno l’elogio del vino le quali non hanno nulla a che vedere con la letteratura propriamente detta»28. Da più parti, e talvolta con malcelata malignità, si fa notare come l’interdizione del consumo di alcolici sia ben lungi dall’esser rispettata da molti musulmani. Que- 28 R. AT-TAHTÂWÎ, L’Or de Paris, Parigi 1988, p. 149. 187 188 sta sorta di doppia morale, teoricamente intransigente ma nella pratica molto più permissiva, trova eco nella narrativa moderna, che in parte ne fornisce anche una spiegazione: «poi domandò col tono inquisitorio proprio di un giudice: “E del vino, che mi dici?”. All’improvviso Abd el-Gawwad sembrò perdere sicurezza, il disagio apparve nei suoi occhi, rimase interdetto per un momento. Lo sheikh presentì nel suo silenzio un segno di resa e, trionfante, rincarò tuonando: “Non è forse vietata dalla legge divina questa tentazione alla quale non deve mai cedere chiunque tenga all’obbedienza ad Allah e al Suo amore?”. Abd el-Gawwad si affrettò ad affermare con il fervore di chi respinge un male certo: “Sapessi come sto attento ad obbedire ed amare Allah!”. “In parole o in opere?”. Benché avesse la risposta sulla punta della lingua, prese tempo per riflettere prima di formularla. Non era sua abitudine impegnarsi in riflessioni profonde. In questo, era di quelli che non hanno capacità alcuna di introspezione; il suo pensiero funzionava solo in seguito a provocazione esterna: un uomo, una donna, un motivo qualunque della sua vita pratica. Si era abbandonato alla piena corrente della sua vita, immergendovisi del tutto, senza poter vedere di se stesso che il proprio riflesso sulla superficie dell’onda. Anche in seguito il suo slancio vitale, malgrado l’avanzare dell’età, non si era affievolito tanto che egli era giunto a quarantacinque anni pur sempre dotato di una vitalità straripante e giovanile come quella di un adolescente. Per questo la sua vita abbracciava un insieme di contraddizioni oscillanti fra la devozione e il vizio. Contraddizioni che egli accettava tutte in se stesso, malgrado la loro incompatibilità naturale, senza necessità di ricorrere – per mantenerle in piedi – a una propria filosofia o a quelle ipocrisie inventate dalla gente. Al contrario, egli agiva sempre secondo natura, con buon cuore, coscienza pulita e lealtà in tutto ciò che faceva. Il suo animo non era stato mai scosso dalle tempeste del dubbio e pertanto, semplicemente, era un uomo felice. La sua fede era profonda, questo è certo. Una fede ricevuta in eredità che non richiedeva nessuno sforzo di ricerca. Inoltre, la mitezza dei sentimenti, la delicatezza delle emozioni, la stessa spontaneità avevano raffinato ed elevato in lui la sensibilità, allontanandola tanto da un’accettazione acritica della tradizione, che dai rituali ispirati solo dalla concupiscenza e dalla paura! Per dirla in breve, il tratto distintivo della sua fede era la capacità di amore fecondo e puro. Ed è con questa fede feconda e pura che egli adempiva a tutti i precetti di Allah: preghiera, digiuno e elemosina legale, con amore, disinvoltura e gioia; e così pure con coscienza serena, cuore ricco d’amore per gli altri e anima traboccante di virilità e di ardimento, doti che lo avevano reso l’amico più caro, la dolce fonte alla quale tutti si rivolgevano per dissetarsi. E con questa vitalità gagliarda e giovanile egli si offriva alle gioie e ai piaceri della vita, attratto da cibi eccellenti, reso gioioso da un vino invecchiato, impazzito d’amore per un bel volto, abbeverandosi di tutto con allegria, felicità ed entusiasmo, libero nella coscienza da qualsiasi sentimento di colpa o ombra di inquietudine, anzi esercitando un diritto a lui concesso dalla vita. Quasi non ci fosse incompatibilità alcuna fra ciò che il suo cuore doveva alla vita e ciò che la sua coscienza doveva a Dio. Mai nella sua esistenza si era sentito lontano da Allah o esposto alla sua collera, considerando entrambe quelle sue propensioni passibili di reciproca integrazione. C’erano forse in lui due personalità distinte? O piuttosto la sua ferma fede nella clemenza divina era tale da non fargli credere che essa condannasse veramente siffatti piaceri? E anche nel caso in cui li condannasse, questi potevano tuttavia essere perdonati ai peccatori, dal momento che non nuocevano a nessuno? Probabilmente, egli divorava la vita con il cuore e con i sensi, senza lasciar posto alla minima riflessione o meditazione. Scopriva in se stesso istinti potenti, alcuni rivolti a Dio, da esercitare con l’adorazione, altri pronti per i piaceri, da soddisfare con gli svaghi. Questi istinti li confondeva tutti nel suo animo, sereno e fiducioso, senza darsi pena alcuna di porli in armonia. Non sentiva il bisogno di rifarsi alla logica per giustificarli, se non sotto la pressione di critiche come quelle che gli rivolgeva lo sheikh Metwalli Abdes-Samad. In casi simili si trovava più a disagio per la necessità di riflettere che per l’accusa stessa. Non che non gli importasse di essere colpevole davanti a Dio, ma non riteneva assolutamente di essere colpevole o che i suoi passatempi inoffensivi sollevassero effettivamente la collera divina. Quanto alla riflessione vera e propria, da un lato lo stordiva, e dall’altro essa metteva in luce l’esiguità delle sue conoscenze nel campo della religione. È per questo che aveva arricciato il naso alla domanda di sfida rivoltagli dallo sheikh, e cioè: “In parole o in opere?”. Ed è per questo che rispose, chiaramente infastidito: “In parole e in opere insieme, nella preghiera, nel digiuno, nell’elemosina legale, nell’invocare Allah, in piedi e seduto. Cosa possono rimproverarmi se mi distraggo con svaghi che non facendo male a nessuno non mi allontanano dai doveri religiosi? Del resto non viene proibito a ciascuno solo ciò che può nuocere ma non qualsiasi cosa indistintamente?”»29. Non si tratta tuttavia soltanto di un argomento di dibattito per intellettuali o di un tema ritornante negli scrittori che cercano di ritrarre nelle loro opere anche gli aspetti più realistici e talvolta scabrosi della società in cui vivono. Se il vino vie29 N. MAHFUZ, Tra i due palazzi, Napoli 1996, pp. 65-67. 189 ne consumato è comunque perché, a dispetto dei divieti tradizionali, viene commercializzato e talvolta persino prodotto in loco, oltre che importato. L’argomento è delicato e solo alcuni osano affrontarlo, evidenziandone le contraddizioni. Un caso tipico è quello del Marocco, dove la produzione vinicola è stata incrementata durante il periodo coloniale, ma non è certo scomparsa dopo l’indipendenza: «All’indomani dell’indipendenza, il Marocco conservò l’impianto di questa attività commerciale del periodo coloniale considerandola come uno dei pilastri fondamentali dello sviluppo economico del paese (occupazione, introiti in valuta pregiata, turismo), mantenendola con tutte le sue contraddizioni. (...) A livello religioso politico ciò ha portato a confusione, conflitti e lacune gravi. (...) Così, per quanto attiene ad esempio la commercializzazione di bevande alcoliche da parte di musulmani, la legislazione marocchina è caratterizzata da un mutismo o da un lassismo tali da far ritenere che tale attività sia praticabile da chiunque. Il legislatore vieta soltanto timidamente ai gestori di locali pubblici di vendere o regalare alcolici a marocchini musulmani, il che lascia intendere che questi ultimi possono procurarsene altrove. (...) I divieti previsti dalla sharî’a, eccetto il caso di ubriachezza manifesta e pubblica, non si traducono in sanzioni. (...) Una patente contraddizione è il fatto che, uscendo da un negozio che vende alcolici dopo aver acquistato del vino, un marocchino musulmano può essere accusato dalla buon costume per la detenzione di un prodotto ‘autorizzato’ per i soli non musulmani, mentre il negozio stesso, che offre ogni tipo di alcolici, ha un gestore musulmano. (...) Ai tempi del protettorato francese ciò era espressamente vietato... La Francia sarebbe pertanto stata più scrupolosa rispetto all’attuale stato islamico?»30. Conclusione Possiamo dunque terminare questa rapida ricognizione a proposito del vino nella civiltà arabo-islamica constatando quanto questo elemento vi sia presente, in forma certo problematica ma non per questo meno costante ed evidente. Pur consapevoli dei divieti che lo riguardano, i musulmani non ne hanno comunque saputo fare a meno e, anzi, quasi stimolati dalla proibizione ne hanno fatto un simbolo tra 30 190 F. RHOUMA, Statut de l’alcool dans l’imaginaire social des musulmans, conferenza tenuta a Losanna durante il convegno “Maghreb et Monde Arabe”, 12-13 maggio 1997 (dattiloscritto). i più fecondi non soltanto nella letteratura, ma persino nella spiritualità. Il destino del frutto della vite, in conclusione, sembra proprio quello di accompagnare l’esistenza dell’uomo ad ogni latitudine offrendo diletto e consolazione, a dispetto dei rischi che può comportare il suo consumo smodato. Del resto, è così per ogni cosa, anche buona, quando si perda il senso della misura tanto caro ai nostri classici, ma presente in ogni cultura e ribadito dallo stesso Corano che ad esso richiama i fedeli con esortazioni semplici, ma cariche di un’antica saggezza: «mangiate e bevete, ma senza eccedere, poiché Iddio non ama gli stravaganti» (7, 31). 191 192 PARTE SECONDA La civiltà del vino 193 194 GIUSEPPE MOTTA* Il vino nei Padri: Ambrogio, Gaudenzio e Zeno Quando, nell’autunno del 384, Agostino giunse a Milano, si recò ben presto ad ascoltare Ambrogio, incuriosito dalla fama che circondava i discorsi del vescovo. Ne restò ammirato, non tanto per i contenuti, che ancora disprezzava, ma per il modo con il quale – come ricorda nelle Confessioni (5.13.23) – «Egli dispensava efficacemente al tuo popolo il fiore del tuo frumento, la letizia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino (sobriam vini ebrietatem)». Ma il passo di Agostino acquista un significato ancor più pregnante, se lo inseriamo nel contesto degli avvenimenti che egli descrive. Nella dialettica tra verità ed errore, alla sobria vini ebrietas, si contrappongono gli amici manichei vanitatibus ebri, grazie ai quali Agostino aveva ottenuto l’insegnamento di retorica in quella città. Il retore africano, da esteta qual era, era più interessato non a quel che Ambrogio diceva, ma a come lo diceva. Tuttavia, intuì subito la bellezza e l’efficacia delle allegorie ambrosiane; e mentre apriva il cuore per accogliere l’eloquenza, vi lasciava entrare, seppur pian piano, anche la verità. Furono quelli i primi passi sicuri verso la più celebre conversione dell’età patristica. Dall’eloquenza passò ad ammirare l’esegesi di Ambrogio per molti passi della Scrittura, che, presi alla lettera, erano per Agostino esiziali, mentre il vescovo di Milano li interpretava spiritualiter, ossia in senso spirituale, alla luce della pienezza portata da Cristo (Confessioni, 5.14.24)1. 1 Per i rapporti di Agostino con Ambrogio v. V. GROSSI, Sant’Ambrogio e sant’Agostino. Per una rilettura dei loro rapporti, in «Nec timeo mori», Atti del Congresso internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della morte di sant’Ambrogio (Milano, 4-11 aprile 1997), a cura di L.F. Pizzolato, M. Rizzi, Milano 1998 (Studia patristica Mediolanensia, 21), pp. 405-462, in particolare pp. 406-417. * Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. 195 Ambrogio di Milano In questa breve comunicazione, che vuol essere nulla più di un semplice sondaggio condotto nel vastissimo campo della letteratura patristica nelle sue varie espressioni, ma per un’area geografica e cronologica ben definita, tra Milano e Verona, passando per Brescia, negli ultimi decenni del secolo IV fino al 410, anno della morte del presule bresciano Gaudenzio, mi occuperò specialmente di commenti ai testi della Scrittura in rapporto alla vite e al vino, nella consapevolezza di offrire, per gli esponenti di quest’area, poco più che rapidi cenni, una minuscola tessera di un imponente mosaico. Basti pensare, ad esempio, che alla terminologia del nostro tema Ambrogio, da solo, offre oltre ottocento occorrenze2. Partiamo con Ambrogio, vescovo di Milano dal 374 fino alla morte nel 397, per soffermarci sull’Exameron, opera che ci riporta la sua predicazione quaresimale nella prossimità della Pasqua del 387. Vi sono riflesse tutta la sua scienza e sapienza, la sua vibrante sensibilità per gli spettacoli della natura, da lui contemplata come epifania del creato, manifestazione, cioè, della volontà del Creatore e del Redentore3. Ogni volta che Ambrogio esamina un passo biblico, accanto all’attenzione per il senso letterale, sempre presente, si accompagna l’allegoria che si traduce costantemente in un insegnamento pastorale: stile avvertito e apprezzato, come si è detto, da sant’Agostino. Nell’ambito dell’opera sui sei giorni della creazione, le allegorie, i simboli sono frequenti, numerosi, avvincenti e suggestivi4. Ricordando piante e fiori – opere del terzo giorno – Ambrogio ci rammenta che se noi abbiamo in comune con i fiori la caducità, con la vite dobbiamo condividerne la letizia, perché è dalla vite che deriva «il vino che rallegra il cuore degli uomini»5. Da questa espressione, suggeritagli dal salmo 103, 15, Ambrogio si lascia condurre ad una serie di osservazioni che dimostrano, anche nei minimi particolari, la sua perfetta conoscenza della crescita e dello sviluppo della vite fino alla maturazione dell’uva: «(...) nulla è più gradito del profumo della vite in fiore, 2 Cfr. Thesaurus sancti Ambrosii, curante CETEDOC, Turnhout 1994 (Corpus Christianorum. Thesaurus Patrum Latinorum). 3 Per quest’opera disponiamo di una buona versione italiana, alla quale faccio riferimento nel presente saggio: SANT’AMBROGIO, I sei giorni della creazione, a cura di G. Banterle, Milano-Roma 1979 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 1). 196 4 Cfr. nell’Introduzione del Banterle, sopra cit., pp. 17-19. 5 I sei giorni della creazione 3.12.49, pp. 161-165. se è vero che il succo spremuto dal suo fiore produce una bevanda che nello stesso tempo riesce gradevole e giova alla salute» (un primo riconoscimento degli effetti positivi che derivano dall’uso del vino)6. Ma l’attenzione si fa più attenta e diventa finissima: «Chi non proverebbe meraviglia al vedere che dal vinacciolo di un acino la vite prorompe fino alla sommità dell’albero che protegge come con un amplesso e avvince tra le sue braccia e circonda in una stretta vigorosa, riveste di pampini e cinge di una corona di grappoli. Essa affonda dapprima la sua radice viva nel terreno; poi, siccome per sua natura è flessibile e non sta ritta, stringe tutto ciò che riesce ad afferrare con i suoi viticci, quasi fossero braccia, e, reggendosi per mezzo di questi, sale in alto». E la descrizione è in funzione di una prima riflessione: «del tutto simile è il popolo fedele che viene piantato, per così dire, mediante la radice della fede e frenato dalla propaggine dell’umiltà»7. Il discorso insiste ancora sul significato simbolico della vite e parte sempre da una descrizione oggettiva molto attenta, prima di passare immediatamente ad esortazioni di carattere morale. Cito almeno un altro passo: «Anche la vite, quando intorno ne è stato zappato il terreno, viene legata e tenuta dritta, affinché non si pieghi verso terra. Alcuni tralci si tagliano, altri si fanno ramificare; si tagliano quelli che ostentano una inutile esuberanza, si fanno ramificare quelli che l’esperto agricoltore giudica produttivi»8. Ma Ambrogio ha la capacità di contemplare «l’ordinata disposizione dei pali di sostegno e la bellezza dei pergolati, che insegnano con verità e chiarezza come nella Chiesa debba essere conservata l’uguaglianza, sicché nessuno, se ricco, si senta superiore, e nessuno, se povero, si abbatta e si disperi. Nella Chiesa ci sia per tutti una unica ed uguale libertà e con tutti si usi pari giustizia ed identica cortesia»9. Sono le stesse espressioni ed immagini che troviamo nel commento di Ambrogio al vangelo di Luca10. Attratto dalla bellezza dei pergolati, Ambrogio trova modo di esprimere tutto il suo stupore, la sua meraviglia di fronte allo spettacolo dei grappoli maturi 6 Ibidem 3.17.72, p. 187. 7 Ibidem 3.12.50, p. 163; anche le osservazioni di G. ARCHETTI, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998 (Fonti e studi di storia bresciana. Fondamenta, 4), pp. 1112, 178-179. 8 Ibidem 3.12.51, pp. 163-165. 9 Ibidem. 10 SANT’AMBROGIO, Esposizione del Vangelo secondo Luca, I-II, a cura di G. Coppa, Milano-Roma 1978 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 11-12), II, 9.29-32, pp. 385-387. 197 pronti per la vendemmia, ed esclama: «Quale spettacolo è più gradevole, quale frutto è più dolce che vedere i festoni pendenti come monili di cui si adorna la campagna in tutto il suo splendore, cogliere i grappoli rilucenti di un colore dorato o simili alla porpora? Crederesti di vedere scintillare le ametiste e le altre gemme, balenare le pietre indiane, risplendere l’attraente eleganza delle perle, e non ti accorgi che tutto ciò ti ammonisce a stare in guardia, perché il giorno supremo non trovi immaturi i tuoi frutti, in tempo dell’età nella sua pienezza non produca opere di scarso valore»11. La contemplazione estetica non è fine a se stessa: tutto è ricondotto da Ambrogio ad una conclusione mirata ed efficace nel contesto della sua predicazione: «chiaramente – dice – il Signore ha indicato che l’esempio della vite deve essere richiamato quale esempio per la nostra vita»12. E se nell’Exameron è prevalente l’attenzione alla vite, in altre opere di Ambrogio è la vigna ad assumere significati diversi e molteplici. Essa è ora l’emblema del vivere cristiano, ora segno della propria anima, per cui non custodire la vigna equivale a non custodire la propria esistenza dalle passioni13; ma ancor più la vigna diventa il simbolo della fede che va conservata anche a prezzo della propria vita, come fece Naboth14. Ma essa è anche l’immagine reale e concreta della Chiesa, persino nella sua struttura materiale, che va difesa e salvaguardata al di sopra di ogni altro bene; e, ancora, la vigna è la Chiesa stessa che va tutelata dalle eresie e dalla quale vanno espulsi gli eretici allo stesso modo che vanno allontanate le volpi che rovinano i vigneti15. Non mancano, ovviamente, continui riferimenti al vino anche per gli effetti deleteri che può produrre in chi ne abu11 I sei giorni della creazione 3.12.52, pp. 165-167; ma cfr. anche, sempre di sant’Ambrogio, I patriarchi 10.41, a cura di G. Banterle, Milano-Roma 1980 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 4), p. 53; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 178-179. 12 I sei giorni della creazione 3.12.52, pp. 165-167. 13 Ad esempio: Esposizione del Vangelo secondo Luca, I, 5.81, p. 423; e, ancor più significative, SANT’AMIsacco o l’anima 4.13, a cura di G. Moreschini, Milano-Roma 1982 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 3), p. 53. BROGIO, 14 SANT’AMBROGIO, Commento a dodici salmi 36.19, a cura di L.F. Pizzolato, Milano-Roma 1980 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 7), p. 173; v. anche, dello stesso santo, Esortazione alla verginità 5.29-30, a cura di F. Gori, Milano-Roma 1989 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 14/2), pp. 221-223, e v. ibid., nota 59 per i frequenti riferimenti simbolici alla figura di Naboth nell’opera ambrosiana, oltre, evidentemente, il Naboth, a cura di F. Gori, Milano-Roma 1985 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 6), pp. 130-195. 15 198 SANT’AMBROGIO, Commento al salmo 118 11.29, a cura di L.F. Pizzolato, Milano-Roma 1987 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 9), pp. 481-483. sa; il vino genera discordie, fa dimenticare l’amicizia e le necessità dei fratelli. È un veleno16, è uno strumento di tortura che va rifiutato17. In particolare all’ubriachezza e alle sue conseguenze il vescovo di Milano dedica gran parte del trattato De Helia et ieiunio, che recentemente l’amico Roberto Bellini ha studiato in un bel saggio apparso nella rivista «Aevum», proprio all’inizio di quest’anno18. Ambrogio condanna l’abuso del vino che degrada l’uomo – assai efficace e disseminata in molte opere ambrosiane la descrizione dell’ubriaco – ma ribadisce che il vino, al pari di ogni realtà, è stato creato per dare gioia, procurare esultanza all’anima e al cuore. Il saggio di Bellini, al quale rinvio, pone in risalto quanto Ambrogio deve alla cultura pagana nella condanna dell’ubriachezza, ma altresì quanto dalla medesima si allontani nelle motivazioni che lo inducono a mettere in guardia i suoi fedeli da quel vizio. Non ci attarderemo, pertanto, su questo specifico tema e sulla sua fenomenologia, che investe uomini e donne di varie classi sociali, poveri e ricchi, semplici soldati e grandi potenti19; né qui è il caso di richiamare nelle sue veridiche espressioni il binomio donne e vino, presente anche in altre opere ambrosiane, come ad esempio nel De Cain et Abel, specialmente nella efficace rappresentazione nel banchetto della voluptas in contrapposizione a quello della virtus20. L’ubriachezza, che doveva essere uno dei mali morali più diffusi nella società del tempo, è per Ambrogio miserando spettacolo21, negazione della dignità della persona22 il cui fine è la ricerca della verità, e non quello, passando da una taverna all’altra23, di tracannare coppe di vino senza gustarne il dolce sapore24. 16 SANT’AMBROGIO, Elia e il digiuno 14.51-52; 16.59, a cura di F. Gori, Milano-Roma 1985 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 6), pp. 91 e 99. 17 Ibid. 17.63, p. 103 e nota 3. 18 R. BELLINI, Intorno all’ebbrezza: sant’Ambrogio e la cultura pagana, «Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche», 75 (2000), pp. 163-177. 19 Elia e il digiuno 12.44-45; 18.66-68, pp. 83-85 e 105-107. 20 SANT’AMBROGIO, Caino e Abele 1.4.14, a cura di P. Siniscalco, Milano-Roma 1984 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 2/1), pp. 197-201 e relative note. 21 Elia e il digiuno 18.66-67, pp. 105-107. 22 Ibid. 16.59, p. 99, ma i riferimenti sono assai numerosi anche in altre opere ambrosiane come, ad esempio I sei giorni della creazione 3.7.30, p. 141. 23 Elia e il digiuno 15.53, pp. 93-95. 24 Ibid. 9.32, p. 71. 199 Ma accanto a questi calici che danno l’ebbrezza – l’ebbrezza del peccato25 – vi sono altre coppe che trasfondono l’ebbrezza dello spirito, che danno la dolcezza del cuore e fanno aprire gli occhi alla contemplazione del vero (e in simile contesto gli Ariani, che non vogliono accogliere la verità su Cristo, sono paragonati a dei caupones, ossia agli osti, che alterano la purezza del vino26); questa ebbrezza – l’unica vera – trasporta lo spirito in zone migliori e rasserenanti, e fa sì che il nostro animo dimentichi le sue preoccupazioni e sia rallegrato da quel vino che dà piacere27. E questa intima gioia – ci dice Ambrogio – può essere offerta soltanto da Cristo, che alla croce ha confitto insieme con l’umanità decaduta anche il vino corrotto divenuto aceto28. Per questo, aggiunge Ambrogio nel commento al vangelo di Luca, «(...) travasiamo anche noi nel Cristo i nostri vizi... affinché a sua volta trasfonda in noi l’intatta schiettezza del vino», un vino che è fonte di vita, che non fa vacillare il corpo, che lo eleva, che non delude lo spirito ma lo rende cosa sacra. È la dottrina mistica, peraltro molto studiata, della sobria ebrietas costantemente presente nelle opere di Ambrogio. L’anima che giunge a bere il Verbo di Dio (Cristo è la vera vite, come si legge in Giovanni 15,5) si inebria a quel contatto fino a uscirne di sé, a perdere i sensi della contemplazione di Dio29. Certo, Ambrogio, in questa dottrina non è originale: la deriva dal grande Origene e dalla scuola alessandrina, ma ha il merito d’averla trasmessa alla tradizione spirituale dell’età patristica e medioevale30. 25 Ibid. 15.55; 16.61 e 17.63, pp. 95-97; 101 e 103. 26 Commento al salmo 118 11.20, p. 473 e nota 46, che evidenzia anche in altre opere il motivo ambrosiano. 27 Cfr. ad esempio, tra i molti possibili, Caino e Abele 1.5.20, p. 211; Isacco o l’anima 5.49, p. 87; Commento al salmo 118 13.24, p. 81. 28 Esposizione del Vangelo secondo Luca 10.124, II, p. 481. 29 SANT’AMBROGIO, La fede 1.20.134-137, a cura di C. Moreschini, Milano-Roma 1984 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 15), pp. 125-127 e nota 4. Alla bibliografia ivi enunciata sulla sobria ebrietas, si aggiunga la voce Ivresse spiritelle di H.J. SIEBEN, in Dictionnaire de spiritualité, VII/2, Paris 1971, coll. 2312-2322. 30 200 Cfr. G. PENCO, La «sobria ebrietas» in san Bernardo, «Rivista di ascetica e mistica», 38 (1969), pp. 249255. Gaudenzio di Brescia Il bresciano Gaudenzio, eletto vescovo della sua città dal clero e dal popolo nel 390, dal vescovo Ambrogio ricevette l’ordinazione episcopale e con lui mantenne sempre rapporti di stima e di amicizia. A Milano, alla presenza di Ambrogio, Gaudenzio tenne il discorso sugli apostoli Pietro e Paolo, che è divenuto il trattato XX31. Di Gaudenzio ci sono pervenuti soltanto 21 sermoni, che lui stesso ha preferito chiamare trattati: un corpus che in nessun modo può essere paragonato a quello ambrosiano, ma che non è privo di significato per la notevole cultura dell’autore. La sua esegesi dei brani del Vangelo e del Libro dei Maccabei, passa con uno stile semplice, dal senso storico a quello allegorico. Il tema che a noi qui interessa, tralasciando per ora altri riferimenti che pur riguardano il vino e la vite, è riscontrabile almeno in due casi. Alle nozze di Cana dedica ben due discorsi, che costituiscono i trattati VIII e IX nella tradizione degli scritti di Gaudenzio. Furono pronunciati in due giorni successivi, il venerdì e il sabato dopo la Pasqua: il secondo, ovviamente, è la continuazione del primo. Parte dalla storia dell’avvenimento, per poi offrire una interpretazione spirituale, che prende in attenta considerazione ogni particolare del racconto che l’evangelista Giovanni introduce con un preciso riferimento temporale: «E tre giorni dopo a Cana di Galilea si celebrava uno sposalizio (...)»32. Non possiamo, per ovvii motivi, seguire punto per punto la lettura spirituale offerta da Gaudenzio. Ma quando la narrazione evangelica giunge al punto nodale di tutto il racconto «e non avevano vino», il commento si fa preciso: «Volle indicare evidentemente che i Gentili, ossia i pagani, non avevano il vino dello spirito santo»33. Presentato il simbolo del vino nella sua più alta espressione, quello che lo fa allegoria dello Spirito santo (e in questo non si discosta da molti passi di Ambrogio), il vescovo conclude il suo discorso esortando i neo31 Per i rapporti tra Ambrogio e Gaudenzio e le loro rispettive chiese, v. M. BETTELLI BERGAMASCHI, Brescia e Milano alla fine del IV secolo. Rapporti tra Ambrogio e Gaudenzio, in Ambrosius episcopus, Atti del Convegno internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della elevazione di sant’Ambrogio alla cattedra episcopale (Milano, 2-7 dicembre 1974), II, a cura di G. Lazzati, Milano 1976 (Studia patristica Mediolanensia, 7), pp. 151-167. 32 SAN GAUDENZIO DI BRESCIA, Trattati 8 e 9, a cura di G. Banterle, Milano-Roma 1991 (Scrittori dell’area santambrosiana. Complementi dell’Opera omnia di sant’Ambrogio, 2), pp. 309-353; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 179-180. 33 Trattati 8.46, pp. 327-329. 201 fiti, ossia i neobattezzati, a conservare il vino nuovo in otri nuovi, come si addice all’uomo nuovo, all’uomo rinato nel battesimo34. Nella sua successiva omelia, corrispondente, come si è detto, al trattato IX, Gaudenzio prosegue nella lettura e nella interpretazione allegorica del racconto giovanneo, nel quale non mancano momenti di difficile interpretazione (basti pensare alla risposta di Gesù alla madre: «E che importa a me e a te, donna? Non è ancora venuta la mia ora»), ma ogni qual volta ritorna all’oggetto del miracolo, ne ribadisce l’interpretazione simbolica: «Conserviamo, dunque, la grazia dello Spirito Santo, infusa dal generoso dono dello sposo celeste, per non ritornare alla povertà di un tempo. A tale povertà, che precedette il battesimo, si riferì in enigma la madre, quando osservò ‘non hanno più vino’, vinum non habent»35. Una parola aggiungo, infine, sull’ultimo discorso di Gaudenzio, il XXI, in cui traccia i momenti salienti della vita del suo predecessore, il beato Filastrio. Per offrire una accattivante sintesi dello zelo del pastore, Gaudenzio ricorre a quella che potremmo definire una figura bucolica: «Quel buon agricoltore tagliò subito dalle radici l’ispida selva di differenti errori (non dimentichiamo che Filastrio è autore di un’opera sulle varie eresie) e curvo sull’aratro dell’insegnamento, rovesciò la terra priva di tutte le energie e trasformò lo squallido terreno in fecondi maggesi (...)»36. Ma l’opera, che sembra dare completezza e giustificazione per il vescovo-contadino, viene indicata con questa immagine: «Piantò anche una vigna per rallegrarsi del suo prodotto, poiché il vino rallegra il cuore dell’uomo»37. Ovviamente, in questo caso, la vigna è l’immagine della chiesa, che Gaudenzio si propone di proteggere come il campo ben coltivato dal padre. Zeno di Verona Il nostro terzo ed ultimo interlocutore è Zeno di Verona, morto verso il 380. Ambrogio, allora, era già vescovo, ma non si conoscono i rapporti che siano intercorsi tra i due. Del resto, Verona, come chiesa locale, gravitava piuttosto 34 Ibid. 8.50-51 e 9.3, pp. 329-331. 35 Ibid. 9.3, p. 331. 36 Ibid. 21.8, p. 483; G. ARCHETTI, Chiese battesimali, pievi e parrocchie. Organizzazione ecclesiastica e cura delle anime nel Medioevo, «Brixia Sacra. Memorie storiche della diocesi di Brescia», V/4 (2000), p. 14 e n. 17. 202 37 Trattati 21.8, p. 483. verso il patriarcato di Aquileia. Zeno è autore di sermoni o brevi ‘trattati’, che hanno per oggetto questioni morali, feste liturgiche (specialmente la Pasqua) oppure brani della Scrittura38. Ma come esegeta il vescovo di Verona non presenta grande originalità, mentre risultano più vivaci le sue riflessioni di carattere morale. In ogni caso, si avverte una prosa diversa da quella di Ambrogio; la direi più pacata, meno coinvolgente. Tralasciando riferimenti più o meno occasionali che si possono leggere nei testi di Zeno – come quello che si incontra nel discorso sul giorno del Signore, dove si ricorda, nell’avvicendarsi delle stagioni, l’autunno «ricco di mosti», perché necessariamente alla fragranza del pane (il grano della mietitura estiva) si aggiungesse anche la giocondità del vino (vini iucunditas)39 – mi pare che la sua attenzione verta specialmente sulla vendemmia: ne descrive i momenti successivi e li applica alla vita del cristiano. Avviene in due discorsi: entrambi si riferiscono alle note pagine del profeta Isaia, il quale paragona il popolo eletto ad una vigna infruttuosa: «Il mio diletto possedeva una vigna in cima ad un fertile colle. La zappò, ne tolse le pietre, vi piantò vitigni, fabbricò una torre (...) vi scavò persino un tino, si aspettava che producesse dell’uva, ma ne fece solo delle lambrusche, ossia uve acerbe» (Is 5, 1). Una prima occasione gli è offerta da un discorso tenuto ai neobattezzati ai quali fa osservare che la vera vigna del Signore è la Chiesa che li ha accolti. La vigna che ha prodotto lambrusco è invece la Sinagoga, e prosegue «...oggi avviene che dal vostro numero, viti novelle legate al giogo (il giogo è la traversa di legno che univa i due pali piantati in terra, e quindi è il simbolo della croce) ribollendo del dolce fiotto del mosto zampillante, hanno riempito di universale gioia la cantina del Signore (...)»40. Ritorna al medesimo testo di Isaia in un discorso successivo, rivolto sempre ai neofiti, nel quale si attarda a descrivere il processo che dal tralcio reciso al punto giusto si giunge alla vite perfetta e, attraverso altri passaggi, all’uva matura. E così descrive la vendemmia: «quando sarà venuto il tempo della vendemmia (...) l’uva viene senza eccezione staccata e posta nel luogo della torchiatura sotto i piedi dei pigiatori, viene calpestata, spremuta nel torchio e stretta energicamente tra due tavole, finché ogni dolcezza sia fatta uscire fin dal midollo e così il pre38 SAN ZENONE DI VERONA, I discorsi, a cura di G. Banterle, Milano-Roma 1987 (Scrittori dell’area santambrosiana. Complementi dell’Opera omnia di sant’Ambrogio, 1). 39 I discorsi 1.33.1-4, pp. 131-133. 40 Ibid. 1.10B.3, p. 91. 203 zioso liquido viene bevuto dai pigiatori che l’hanno prodotto e viene portato nelle cantine del padre di famiglia perché invecchiando migliori»41. Ma il processo della vendemmia viene interpretato in chiave allegorica: il tralcio potato è l’aspirante al battesimo. La fossa che circonda la vigna è il sacro fonte; il legno di appoggio è il segno della croce del Signore. Il tempo vero e proprio della vendemmia è il giorno della persecuzione; i grappoli strappati sono gli uomini santi contro i quali si è levata la mano dei persecutori; il luogo della torchiatura è il luogo dei supplizi, e così via, fino al mosto riposto nella cantina che è il simbolo del martire introdotto nel segreto della dimora del Signore42. Mi sembrano i brani più significativi di Zeno di Verona, ma, ripeto non certo gli unici. A conclusione di questo rapido e lacunoso sondaggio, che, tuttavia ci ha permesso di individuare, in sintesi, il pensiero patristico sulla vite e sul vino come pure sul loro penetrante significato mistico, penso non sia fuori luogo ricordare qui i bellissimi versi di un celebre inno attribuito ad Ambrogio e che generazioni di cristiani hanno cantato al sorgere di un nuovo giorno: Christusque nobis sit cibus potusque noster sit fides: laeti bibamus sobriam ebrietatem spiritus. e ancora con Ambrogio ci giunge l’augurio: Laetus dies hic transeat43. 41 Ibid. 2.11.2.3, p. 281. 42 Cfr. Ibid. 2.11.3, 4-7, pp. 281 e 283; anche ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 7, 177, 179, 227-228. 43 204 SANT’AMBROGIO, Inni, 2, versi 21-25, a cura di G. Biffi, I. Biffi, Milano-Roma 1994 (Opera omnia di sant’Ambrogio, 22), pp. 36-38. GABRIELE ARCHETTI* De mensura potus Il vino dei monaci nel Medioevo Nella Vita di Benedetto di Aniane († 821), il grande riformatore franco del monachesimo, si narra che, prima di entrare in monastero, l’abate Benedetto, «illuminato dalla grazia divina, incominciò ad ardere per l’amore di Dio, a desiderare con tutte le forze di abbandonare il mondo e a ricusare gli onori caduchi (...). Per un triennio, tuttavia, celò tutto questo nel suo cuore e mantenne il segreto con Dio solo, prendendo parte alle imprese terrene col corpo, non con la mente. Cercava infatti in questo periodo di raggiungere il culmine della continenza, di ridurre il sonno, di frenare la lingua, di astenersi dal cibo, di bere vino con maggiore moderazione e, come un atleta esperto, di prepararsi al combattimento futuro (...). Divenuto monaco, per due anni e sei mesi afflisse il suo corpo con un incredibile digiuno. Si accaniva contro la sua carne come se fosse una bestia feroce, assumendo pochissimo cibo e nutrendosi di pane e acqua, quanto bastava per allontanare la morte piuttosto che la fame, ed evitava il vino come fosse un morbo pestifero»1. Il suo modo rigoroso di interpretare la vita monastica gli valse presto importanti incarichi in seno alla comunità che lo aveva accolto, ma anche le critiche aperte dei meno virtuosi. «Si affidò a lui – scrive infatti il cronista – l’incarico di cellerario e poiché non offriva loro da bere a volontà, molti non lo guardavano 1 ARDONE SMARAGDO, Vita Benedicti abbatis Anianensis et Indensis, ed. G. Waitz, in Monumenta Germaniae historica [= MGH], Scriptores, XV/1, Stuttgart 1963, pp. 201-202, capp. 1-2, il corsivo e la traduzione sono nostri. Il testo della vita del riformatore carolingio si può leggere anche in traduzione italiana in Benedetto di Aniane. Vita e riforma monastica, a cura di G. Andenna e C. Bonetti, Cinisello Balsamo 1993 (Storia della Chiesa. Fonti, 5); sulla sua figura e l’opera di riforma, invece, R. GRÉGOIRE, Benedetto di Aniane nella riforma monastica carolingia, «Studi medievali», 26 (1985), pp. 573-610. * Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. 205 benevolmente»2. Queste divergenze lo convinsero alla fine, benché gli fosse stata offerta anche la guida dell’abbazia, a lasciare quel luogo e a tornare verso le terre paterne, dove fondò un piccolo cenobio nei pressi del fiume Aniane. «A quel tempo – osserva Ardone Smaragdo, riferendosi all’austerità della nuova esperienza, quei fratelli – non avevano nessuna proprietà, non vigne, né bestiame o cavalli (…). Bevevano vino soltanto la domenica e nelle solennità». La sua fama di santità però si diffuse rapidamente, richiamando un numero di seguaci sempre più numeroso, e con essa anche quella delle sue opere miracolose. Accadde una volta, per esempio, che nugoli di cavallette, tanto «numerose da nascondere i raggi del sole», giunsero nei pressi delle tenute monastiche, concentrando «la loro furia devastatrice nella vigna vicina al monastero, dalla quale i fratelli erano soliti ricavare la maggior parte del vino, al punto da minacciare di distruggerla del tutto». Il venerabile abate si ritirò in chiesa «e con voce flebile, tra le lacrime, invocò l’aiuto divino e poco dopo le cavallette se ne andarono». Un’altra volta scoppiò un incendio sulle pendici del monte in cui sorgeva il cenobio che, dopo aver bruciato le sterpaglie, si avvicinava minacciosamente al monastero e al vigneto col rischio di incenerirli; «per spegnerlo accorse tutta la schiera dei monaci e con essi anche il venerabile padre Benedetto: il fuoco allora abbandonò subito la sua direzione»3. Ma il suo esempio di perfezione ascetica si manifestava anche nella vita quotidiana e, «mentre gli altri bevevano vino, egli spesso beveva acqua, ad eccezione del sabato e della domenica». Inoltre, «arava con coloro che aravano, zappava con colo- 2 ARDONE, Vita Benedicti, p. 203, cap. 3. L’episodio ripropone un modello agiografico che ha il suo archetipo nella ‘vita’ di san Benedetto tratteggiata da GREGORIO MAGNO [cfr. Dialoghi (I-IV), Introduzione di B. Calati, traduzione a cura delle Suore benedettine Isola San Giorgio, note e indici di A. Stendardi, Roma 2000 (Opere di Gregorio Magno, 4), p. 144, lib. II, cap. 3, 2-4], senza tuttavia assumere i tratti drammatici del II libro dei Dialoghi, dove i monaci giungono persino ad avvelenare l’abate, «(...) allora i fratelli (...) fremettero di collera, (...) essendo troppo duro per loro praticare una vita nuova (...) cominciarono a studiare il modo di farlo morire. Presa d’accordo la decisione, gli misero del veleno nel vino. Venne poi presentata a Benedetto – loro Padre –, seduto a mensa, la tazza (vas vitreum) contenente la bevanda avvelenata (pestifer potus), perché, secondo la consuetudine del monastero, desse la benedizione (signum crucis). Benedetto, stese la mano, fece il segno di croce e subito la caraffa di vetro, pur essendo tenuta a una certa distanza da lui, si ruppe e andò in frantumi come se egli, anziché fare il segno di croce, avesse lanciato un sasso contro quel vaso che conteneva veleno di morte. L’uomo di Dio comprese immediatamente che nel recipiente c’era una bevanda mortale, proprio perché non aveva saputo resistere al segno della Vita» (Ibidem, p. 145). 206 3 ARDONE, Vita Benedicti, pp. 203, 205, capp. 4 e 13-14. ro che zappavano, mieteva con coloro che mietevano; e, sebbene quella regione fosse arsa per il calore del sole (…), concedeva a stento un bicchiere d’acqua ai suoi fratelli prima dell’ora della refezione. Infatti, stanchi per la fatica e bruciati dal sole, desideravano acqua fresca piuttosto che vino, ma nessuno si permetteva di mormorare contro di lui, poiché anch’egli sopportava simili disagi». La sua preoccupazione per i fratelli impegnati nel lavoro dei campi, tuttavia, era sempre attenta e premurosa; al riguardo, in molti ricordavano l’umiltà del conte Guglielmo, che – fattosi monaco ad imitazione di Benedetto – sulla groppa di un asino portava spesso un barilotto di vino ai monaci impegnati nella mietitura, su comando del superiore4. Il quadro agiografico del ‘padre’ del monachesimo riformato carolingio non poteva escludere, naturalmente, il più classico degli interventi miracolosi. Si racconta infatti che un giorno, mentre era diretto verso il monastero di Menat, si fermò presso una piccola dipendenza del medesimo cenobio, già sede di alcuni dei suoi religiosi, poi trasferitisi in Alvernia per l’angustia del luogo. Quelli che però vi erano rimasti «per provvedere alla cella», quando videro l’abate provarono insieme grande gioia e profonda tristezza «perché vivevano in grandissima povertà. Tuttavia, dal momento che dove si trova la carità bastano anche poche cose, colui che era preposto ai confratelli ordinò ad un giovane di portare del vino. Ma questi subito rispose: “Non c’è nulla nella botticella”. I confratelli, in effetti, andandosene avevano lasciato per loro solo due modestissimi vaselli, nei quali c’era poco vino, con cui avrebbero dovuto celebrare le messe e riceverne nei giorni festivi una dose ciascuno. Il monaco cantiniere, saputo che non vi era vino nella botticella, se ne dolse ma aggiunse fiducioso: “Affrettati a portarcelo, perché coloro che accorrono al nostro Padre potranno bere per suo amore, e il vino non mancherà loro”. Il confratello corse e senza indugio tolse il tappo dalla botticella da dove subito uscì il vino. In precedenza egli era già andato a prenderlo, ma non avendone trovato, era tornato indietro. Annunciò quanto era accaduto e coloro che erano presenti glorificarono Dio e riconobbero che ciò era avvenuto per i meriti di Benedetto. Bevvero dunque a volontà e portarono il vino con sé per benedizione. Anche Benedetto, che era presente con i suoi, ricevette quanto gli era necessario e lo portò in viaggio con sé. Dopo questi fatti la botticella cessò di dare vino»5. Abbiamo indugiato a lungo sulla vita dell’abate di Aniane perché in maniera paradigmatica illustra i diversi atteggiamenti del mondo monastico nei confron4 Ibidem, p. 208, cap. 21. 5 Ibidem, p. 214, cap. 31. 207 ti del vino: rifiuto, diffidente tolleranza e consumo moderato, ma anche elemento conviviale di condivisione e comunione. Prendendo in esame le più importanti regole e consuetudines monastiche, tanto orientali quanto occidentali, tali aspetti emergono tutti e, sia pure in modo diverso, sotto questo particolare punto di vista rappresentano una sintesi dell’ascetismo cristiano per l’intero periodo medievale e anche oltre. Ciò significa che per quanto «il vino non sia affatto per i monaci», secondo la sentenza dell’abate Pastore6, non è certo possibile avviare una crociata indiscriminata contro una bevanda che, per esprimerci con Pier Damiani, essendo una creatura di Dio è da ritenere senz’altro buona, «ma sappiamo bene che a noi monaci – scrive nella lettera all’eremita Guglielmo – viene prescritto di porre in seconda linea vino, carne, matrimonio e molte altre simili cose, così che, astenendoci dalle creature, possiamo maggiormente piacere al Creatore»7. La rinuncia monastica cioè – anche quella al frutto della vite –, non è mai fine a se stessa, al contrario è l’espressione di una scelta spirituale che, grazie anche a digiuno e astinenza, consente un più rapido e intenso avvicinamento a Dio. Il vino non è fatto per i monaci La diffidenza nei confronti del vino e delle altre bevande inebrianti, sin dai padri del monachesimo orientale, si basava innanzitutto sulla sacra scrittura, ma all’esortazione paolina di evitare ogni eccesso di vino (Ef 5, 18), faceva da contrappeso l’invito della 1 Lettera a Timoteo (5, 23) di smettere di bere solo acqua e di assumere un po’ di vino per facilitare la digestione e aiutare la salute cagionevole8. Su questa linea troviamo l’abate egiziano Pacomio (292-346), ispiratore di numerose comunità cenobitiche, che vietava ai suoi monaci il vino alla stregua dei bagni e della carne, consentendolo però ai fratelli infermi; metteva quindi in guardia il preposito 6 Vitae Patrum, in Patrologia latina [= PL], 73, col. 868, lib. V, cap. 4, 31. 7 PIER DAMIANI, Lettere (1-21), a cura di G.I. Gargano, N. D’Acunto, traduzione di A. Dindelli, L. Saraceno, C. Somigli, Roma 2000 (Opere di Pier Damiani, 1/1), pp. 271-273 lettera 10. 8 208 Cfr. Ef 5, 18: «Non ubriacatevi di vino, perché ciò vi porta alla rovina» (i testi che condannano l’eccesso di vino, l’ubriachezza e le sue deleterie conseguenze sono numerosi: 1 Tim 3, 3.8; 1 Cor 5, 11; 6, 10; 1 Tess 5, 7; Tt 1, 7, ecc.); inoltre, 1 Tim 5, 23: «Smetti di bere soltanto acqua; prendi un po’ di vino per favorire la digestione, visto che sei spesso malato», da cui conseguirebbe la liceità anche per i monaci di un impiego moderato del fermentato d’uva, sia pure limitato alle finalità medico-dietetiche. dal cedere all’ebbrezza – proibendogli di «sedere accanto ai contenitori vinari della cantina» – e ribadiva di non bere vino né liquori quando si andava a visitare un parente malato o si era costretti a mangiare fuori dal cenobio9. La condanna dell’ubriachezza, «dalla quale vengono molte rovine» e l’accecamento della ragione, appare dunque netta; da essa derivavano i comportamenti sconsiderati e le occasioni di scandalo esemplificati dalla narrazione biblica di Noè, che si addormentò nudo dopo essersi ubriacato (Gen 9, 21). Il pericolo del vino naturalmente era maggiore per chi aveva la guida di una comunità di monaci, perché «un ubriaco non può aiutare un altro ubriaco: chi sbaglia, infatti, come mostrerà la strada a colui che ha perso la via?»10. Non mancava, d’altra parte, l’invito a quanti intraprendevano la vita monastica a evitare di comportarsi come quando erano nel mondo e di non dare scandalo con atteggiamenti inopportuni11, sulla scorta dell’esortazione paolina ai cristiani di Corinto12; da cui conseguirebbe che la scelta cenobitica doveva tradursi in uno stile di vita che interessava anche l’ambito dell’alimentazione quotidiana13. 9 Praecepta S. Pachomii, in Pachomiana latina, a cura di A. Boon, L. Th. Lefort, Louvain 1932 (Bibliothèque de la Revue d’histoire ecclésiatique, 7), pp. 24, 29-31 capp. 45, 54 e 73; Praecepta et instituta S. Pachomii, in Ibidem, p. 58, cap. 18. Le regole e i precetti del monaco egiziano sono pubblicati in italiano da G. TURBESSI, Regole monastiche antiche, Roma 19903 (Religione e società. Storia della Chiesa e dei movimenti cattolici, 15), rispettivamente pp. 11, 114, 116, capp. 45, 54, 73; p. 125, cap. 18 dei precetti. Le disposizioni di Pacomio sono riprese quasi alla lettera dalla Regola orientale, capp. 17, 1.5.44; 25, 1.8 [cfr. Les règles des saints Pères, a cura di A. de Vogüé, Paris 1982 (Sources chrétiennes [= SC], 298), pp. 472, 474, 480, 482]. Inoltre, ORSIESI, Règlements, in Oeuvres de S. Pachôme et de ses disciples, traduites par L. Th. Lefort, Louvain 1956 (Corpus scriptorum christianorum orientalium [= CSCO], 160. Scriptores Coptici, 24), p. 96, righe 8-21; SCENUTE DI ATRIPE, Vita et opera omnia, a cura di H. Wiesmann, IV, Louvain 1952 (CSCO 108. Scriptores Coptici, 12), p. 32, cap. 56: De vita monachorum, III. 10 Epistula III: «Ad patrem monasterii Cornelium quod vocetur Mochariseos», in Pachomiana latina, pp. 8081. In particolare, l’ubriachezza è costantemente inserita in un caratteristico elenco di vizi sul modello dei testi paolini, che si ritrova di continuo nella letteratura ellenistica cristiana, ma che appartiene anche alla tradizione del mondo giudaico ellenizzato [si veda a titolo esemplificativo, con riferimento specifico a Clemente di Alessandria, A. JAUBERT, Épître aux Corinthiens, Paris 1971 (SC 167), p. 33 e n. 1]. 11 Liber S. Orsiesii, in Pachomiana latina, p. 30, cap. 29. 12 Cfr. 1 Cor 11, 20-21: «Ma quando vi riunite, la vostra cena non è certo la Cena del Signore! Infatti, quando siete a tavola, ognuno si affretta a mangiare il proprio cibo. E così accade che mentre alcuni hanno ancora fame, altri sono già ubriachi». 13 Praecepta S. Pachomii, cap. 73: «Nessuno osi mangiare le uve o le spighe ancora immature, perché si osservi la disciplina. E di tutte le cose che sono in campagna o nei frutteti, nessuno mangi separatamente, prima che siano offerte ugualmente a tutti i fratelli» (TURBESSI, Regole monastiche antiche, p. 116). 209 Non dissimile è la posizione del vescovo Basilio (329 ca-379), originario della Cappadocia e tra i maggiori sostenitori del monachesimo orientale, che, pur non facendo espressamente riferimento al vino, invitava a rifuggire dall’appesantire il corpo con un eccesso di cibi e bevande per non cedere alla lussuria; «se infatti serviamo il piacere – nota nella sua regola per i monaci – non facciamo altro che rendere dio il nostro ventre»14. L’esempio da seguire è invece quello del Signore, quando trovandosi nel deserto riuscì a sfamare la folla che lo attendeva soltanto con cinque pani e due pesci. Nell’episodio, rileva il vescovo di Cesarea, non c’è alcun riferimento a bevande: «ciò significa che a tutti potrebbe essere sufficiente e molto necessario l’uso dell’acqua, a meno che forse qualcuno non abbia a riportare danno da ciò per un’infermità corporale; e questo tale certamente, secondo il consiglio dell’apostolo nella lettera a Timoteo, deve guardarsi da quanto è nocivo»15. In altre parole, l’astensione dal vino si giustificherebbe sulla base della sua ‘superfluità’ poiché è possibile limitarsi all’assunzione dell’acqua, «che sgorga naturalmente e basta a fronteggiare ogni necessità»16; una esclusione che – tranne nel caso di infermità fisica – si applicava anche ai fratelli occupati in lavori materiali, benché il cellerario fosse tenuto a conoscere le necessità di quanti lavoravano per porvi il giusto rimedio17. Il presule esprimeva così una convinzione largamente diffusa nel mondo orientale, basti per tutti ricordare il benevolo commento di Clemente Alessandrino (150-212)18 alle raccomandazioni dell’apostolo: «Per un corpo indebolito o malaticcio il vino è un ricostituente, ma Paolo consiglia a Timoteo di berne solamente un poco; egli sa bene che un tale rimedio preso in grande quantità chiamerebbe subito un altro rimedio. La bevanda più naturale e la più semplice per placare la sete invece è l’acqua (…). Io ammiro pertanto coloro che, avendo abbracciato una vita più austera, aspirano al rimedio della temperanza: l’acqua, e coloro che fuggono il più lontano possibile dal vino, come la minaccia del fuo- 14 BASILIO, Regulae fusius tractatae, in Patrologia graeca [= PG], 31, col. 967, interr. XIX; per la citazione specifica anche TURBESSI, Regole monastiche antiche, p. 172; inoltre, BASILIO, Regula, a cura di K. Zelzer, Wien 1986 (Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum [= CSEL], 86), pp. 47-48, cap. 9, 13. 15 BASILIO, Regulae fusius tractatae, interr. XVII, coll. 963-964; anche TURBESSI, Regole monastiche antiche, p. 173. 16 BASILIO, Regulae fusius tractatae, interr. XIX, coll. 966-967. 17 BASILIO, Regulae brevius tractatae, PG, 31, col. 1171, interr. CXXXV. 18 210 CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Le Pédagogue, a cura di C. Mondésert, H.-I. Marrou, II, Paris 1965 (SC 108), p. 47, lib. II, cap. 19, 1-2, anche per la citazione successiva. co». Si dilunga poi in suggerimenti di carattere pedagogico: «È cosa buona che i giovani e le giovani si astengano il più possibile da questo intruglio, perché non conviene versare il più caldo dei liquidi, il vino, su un’età già bollente: ciò significherebbe mettere fuoco sul fuoco». Tuttavia, alla moderazione necessaria ai giovani – secondo le nozioni medico-fisiologiche del tempo –, fa da contrappeso l’apertura verso un maggiore consumo da parte dei vecchi: «A coloro che hanno già superato il pieno vigore degli anni, permettiamo più volentieri di prendere delle bevande: al raffreddamento dell’età, che è una sorta di esaurimento dovuto al tempo, esse recano senza danno il fuoco vivente che si trova nel rimedio prodotto dalla vite (…), purché anche per loro il limite nel bere rimanga quello di conservare fermo il ragionamento, attiva la memoria e il corpo al riposo dall’agitazione e dai tremori provocati dal vino». Il problema dell’uso del vino, per tornare alle argomentazioni di Basilio, poteva semmai presentarsi quando in monastero giungevano dei forestieri che non conoscevano gli usi conventuali; ma anche simili circostanze non dovevano giustificare l’introduzione di una dispensa dalla regola. Infatti, se ad essere accolto era un fratello che conosceva le abitudini alimentari dei cenobiti, il problema non si poneva; al contrario se si trattava di un laico, a cui sarebbero potute risultare difficili tali consuetudini, «gli si doveva mostrare con l’esempio ciò che non avrebbe capito con le parole»19. Anche nella lettera XXII, Basilio, pur non vietando in modo categorico di bere vino, denuncia il rischio di ogni abuso che conduce all’ubriachezza; di conseguenza, solo la temperanza permette di bere e mangiare senza essere sopraffatti dalla voluptas incontrollabile, compiendo ogni cosa per la gloria di Dio20. D’altra parte, alimentarsi a sazietà e appesantire il corpo di cibo e di vino in eccesso, aveva controindicazioni medico-dietetiche molto nette perché causava quelle fantasie e pulsioni notturne che potevano indurre al peccato21. Cedere all’ebbrezza, allora, significava lasciare il posto ai vizi peggiori, quali fornicazione, cupidigia, idolatria, maldicenza, rapacità, poiché si codificava come un cedimento ai desideri corporei, oltre che una disobbedienza alla legge divina22. Se 19 BASILIO, Regulae fusius tractatae, interr. XX, coll. 970-971. 20 BASILIO, Epistula XXII, PG, 32, coll. 290-294, la lettera, diretta secondo la tradizione ai monaci, in realtà fu scritta per i suoi fedeli. 21 Ibidem, coll. 290-291 e cap. 3, col. 294. 22 Il riferimento a 1 Cor 5, 9-11 è chiaramente espresso da BASILIO, Regulae brevius tractatae, interr. coll. 1166-1167, anche interr. CCLXIX, col. 1267 con riferimento a Ef 2, 3 e Gal 5, 19-21. CXXIV, 211 qualcuno tra i fratelli, pertanto, prendeva cibo e beveva in modo smodato, andava ripreso e punito affinché ciò non diventasse motivo di scandalo23. Nel deserto della Tebaide, d’altra parte, Antonio (250 ca-356) aveva lasciato ai suoi seguaci un esempio di vita molto austero, essendosi nutrito solo di pane e acqua, mentre carne e vino erano assolutamente esclusi24; lo stesso regime alimentare caratterizzava la dieta dei monaci descritti da Giovanni Crisostomo25 (345 ca-407), il quale adottò questo comportamento quando era monaco a Gerusalemme e, secondo il suo biografo, continuò a bere solo acqua anche quando divenne vescovo di Costantinopoli26. Non dissimile era il rigore dei monaci copti, secondo l’abate Scenute, i quali, persino in caso di malattia, permettevano solo a fatica – in quanto l’infermo doveva farne esplicita richiesta – «paululum vini»27. Una linea di forte rigorismo ascetico era similmente seguita dai cenobiti palestinesi: «I monaci non bevano vino per non bestemmiare – prescriveva il vescovo di Edessa Rabbûlâ († 435/6) – e rifuggano in ogni caso dal comprarne e dal berne»28, mentre per l’abate Isaia l’Anziano il divieto di bere vino non dipendeva dal fatto che fosse in sé un male, ma perché poteva far perdere la «temperanza»; un uso incontrollato poi stimolava le passioni, allontanando l’anima dal «timore del Signore»29. 23 Ibidem, interr. LXXII, col. 1134 con riferimento a 1 Cor 10, 31-32 e 14, 40. 24 ATANASIO DI ALESSANDRIA, Vita Antonii, a cura di G.J.M. Bartelink, Paris 1994 (SC 400), p. 153, cap. 7, 6-7. 25 GIOVANNI CRISOSTOMO, Commentarius in Matthaeum evangelistam, PG, 58, col. 653, cap. 69, 3; inoltre, La Règle de saint Benoît. VI: Commentaire historique et critique (Parties VII-IX et Index), a cura di A. de Vogüé, Paris 1971 (SC 186), pp. 1159-1160. 26 PALLADIO, Dialogus historicus, PG, 47, col. 39, cap. 12. 27 SCENUTE DI ATRIPE, Vita et opera omnia, pp. 32-34, cap. 3: De vita monachorum. L’archimandrita Scenute fu a capo del monastero Bianco per ben 83 anni, ispirandosi alla regola di san Pacomio. Per il suo cenobio, un monastero doppio, la norma alimentare di base era quella di «mangiare poco cibo e bere un bicchiere d’acqua» (Ibid., p. 32, righe 28-29); il vino era contemplato solo per i fratelli o le sorelle inferme, i quali tuttavia per averne dovevano richiederlo esplicitamente: «Visne paulum vini habere et bibere?»; tale prassi però – nonostante lo stato di palese debolezza fisica – non era affatto incoraggiata. 28 Canoni monastici, cap. 3 (cfr. TURBESSI, Regole monastiche antiche, p. 308); inoltre, sulla bevanda degli anacoreti palestinesi anche La Règle de saint Benoît, p. 1161 e n. 473. 29 212 Les cinq recensions de l’Ascéticon syriaque d’Abba Isaië, a cura di R. Draguet, 2 voll., Louvain 1968 (CSCO 293-294. Scriptores Syri, 122-123), vol. II, pp. 286 cap. 15, 29; vol. I, p. 233, cap. 13, 19; vol. II, pp. 315-316, 318, cap. 15, 116a-b.120. Dal canto suo Evagrio di Antiochia – amico e sostenitore di Girolamo, a cui si deve la traduzione latina (374) della Vita di Antonio, scritta da Atanasio – rilevava che il desiderio di bere vino è una delle tentazioni con cui lo spirito maligno della gola cerca di spingere il monaco ad attenuare il rigore del digiuno, affermando che l’acqua è nociva per il buon funzionamento del fegato e della milza30. Nel Monachikos tuttavia, al fine di contrastare lo stesso demone, raccomanda di evitare la sazietà con la fame e l’austerità; invita pertanto a nutrirsi solo di pane e acqua, giacché l’assunzione di più vivande e persino la sazietà di pane e acqua favoriscono il manifestarsi del demone, al contrario di chi è affamato31. Una posizione in cui è facile riconoscere l’influsso della psicologia platonica delle tre parti dell’anima e l’azione dei demoni su quella concupiscibile, presente anche nel testo dello pseudo Basilio32; alla fine, però, anche Evagrio fa propria una linea più equilibrata che, pur stigmatizzando ogni eccesso, riconosce i benefici di un consumo parsimonioso e con finalità medicali: «Bevi assai poco vino: quanto infatti danneggia, tanto corrobora coloro che lo bevono»33. Negli Apotegmata Patrum, i Detti dei Padri del deserto, stabilito che «il vino non conviene affatto ai monaci»34 e pertanto non bisogna assumerne, neppure in caso di malattia – in quanto mangiare e bere smodatamente reca con sé conseguenze molto pesanti, causa altri mali e quel decadimento morale che è tanto deplorevole nei laici quanto inaccettabile nei monaci35 –, si giunge addirittura a 30 EVAGRIO PONTICO, Traité pratique ou le moine, a cura di A. e C. Guillaumont, II, Paris 1971 (SC 171), pp. 511, 553; anche W. FRANKENBERG, Evagrius Ponticus, Berlin 1912, p. 476. 31 FRANKENBERG, Evagrius Ponticus, pp. 536-543, capp. 15-17. 32 «Multi per vinum a daemonibus capti sunt. Nec est aliquid ebrietas quam manifestissimus daemon» (PSEUDO - BASILIO, Admonitio ad filium spiritualem, PL, 103, col. 695, cap. 14: «De crapula fugienda»). 33 EVAGRIO, Capita parenetica, PG, 79, col. 1254, cap. 60. Quest’opera, attribuita dall’editore a san Nilo, è in realtà di Evagrio Pontico (cfr. J. QUASTEN, Patrologia, II, Torino 1969, p. 507). 34 Les apopthegmas des Pères. Collection systematique (chapitres I-IX), a cura di J.-C. Guy, Paris 1993 (SC 387), p. 202, cap. 4, 34: «Narraverunt quidam abbati Poemenei de aliquo monacho, qui vinum non biberet. Et dixit: Vinum omnino monachos non pertinet». 35 Come dimostra l’episodio di 2 Re 25, 8 in cui si narra l’arrivo di Nabuzardan, capo cuciniere di Nabucodonosor, in seguito al quale venne dato inizio alla distruzione di Gerusalemme; testo rafforzato da Lc 21, 34, relativo al tradimento di Pietro (Les apopthegmas, p. 230, cap. 4, 90). In questa direzione si pone anche il parere dell’abate Mosè, il quale disse: «Per has quatuor res pollutionis passio gignitur: per abundantiam escae et potus, et satietatem somni, per otium et iocum, et ornatis vestibus incedendo» (Vitae Patrum sive Historiae Eremiticae libri decem, PL, 73, col. 1027, lib. VIII: Verba senio- 213 legare il vino con la morte dello spirito. «Celebrandosi una festa, diedero al vecchio saggio del vino in un calice, ma egli vedendolo esclamò: “Togli da me questa morte!”. E, di fronte a quella reazione, anche gli altri commensali non osarono berne»36. Il rifiuto perentorio del venerando abate tuttavia, se da una parte conferma il suo alto grado di ascesi, dall’altra indica che il vino era in qualche modo accettato e usato, sia pure con alcune restrizioni particolari. «Dicevano infatti che l’abate Pietro Pionita in Cellis non bevesse vino. Fattosi vecchio, i suoi confratelli mischiavano poco vino con acqua pregandolo di berlo. Ed egli commentava: “Credetemi solo preparato così io lo bevo”. E si scherniva di essere ormai svanito nel vino»37. L’età come la malattia, dunque, non autorizzava a prendere vino – neppure annacquato per evitare di sentirne il piacere – e ogni cedimento in questa direzione veniva giudicato con severità. Ciò risulta evidente dall’episodio relativo a quel fratello che, mentre mangiava con altri nella chiesa di Kellía nel giorno di pasqua, ricevette in dono una coppa di vino; prontamente egli si rifiutò di prenderne, affermando di avere già ricevuto la medesima offerta l’anno precedente, di avere bevuto e di averne sofferto per molto tempo38. Come a dire che neppure la solennità liturgica pasquale giustificava l’assunzione di vino, benché ciò rum, cap. 2, 6); e ancora quello dell’abate Isidoro, che emetteva spesso le sue sentenze: «Si quis se in vini potationem dederit, non effugiet insidias cogitationum», dove il termine cogitatio ha una valenza tecnica precisa nell’indicare il diavolo tentatore, con riferimento biblico a Lot che fu indotto all’incesto dopo essersi ubriacato (Gen 19, 31-36; cfr. Les apopthegmas, p. 196 cap. 4, 23). Questi brani collocano il bere non solo tra i mali più gravi, ma anche all’origine di altri peccati, per cui il consiglio perentorio di «noli pane satiari, nec desiderabis vinum», appare come una conseguenza inevitabile per i monaci che hanno scelto di rifiutare le «saecularium divitum deliciae» (Les apopthegmas, p. 212, cap. 4, 51), perché evitando di rimpinzarsi di pane si diminuirà anche il desiderio di assumere vino. 36 Les apopthegmas, p. 216, cap. 4, 63. Altrettanto esplicito anche il testo seguente: un vegliardo sedeva lontano nel suo eremo, quando giunse a fargli visita un fratello; questi, trovandolo molto debilitato, gli preparò del cibo. L’anziano eremita di fronte a tanta premura gli disse: «Veramente, fratello, avevo dimenticato che gli uomini trovano conforto nel cibo». Subito quello gli offrì un calice di vino, alla cui vista il vecchio asceta replicò tra le lacrime: «Non mi aspettavo di bere vino fino alla morte» (Ibidem, p. 226, cap. 4, 79). 37 38 214 Les apopthegmas, pp. 206-208, cap. 4, 43. Les apopthegmas, p. 230, cap. 4, 91. Questo rigorismo ascetico continuerà ad esercitare una grande influenza sullo sviluppo del monachesimo orientale e slavo (cfr., ad esempio per il territorio russo, G. PASINI, Il monachesimo nella Rus’ di Kiev fino alla calata dei mongoli in rapporto al monachesimo bizantino, Romae 2001, pp. 71, 85-86). avvenisse in un contesto in cui bere vino era una cosa consueta. Trova conferma il fatto però che il rifiuto del vino non è mai fine a se stesso, né l’astinenza un valore assoluto, ma uno strumento per uno scopo più alto, come risulta chiaramente dal fatto capitato all’abate Pafnunzio. Egli, che di solito non beveva vino, una volta incappò in una banda di briganti proprio mentre tracannavano allegramente da una botte appena rubata. Il loro capo, che conosceva le abitudini ascetiche del santo, presa una coppa di vino, gliela porse gridando: «Bevi, altrimenti ti uccido!». Questi obbedì prontamente, suscitando lo stupore e il subitaneo rimorso del brigante per aver provocato l’uomo di Dio; poi motivò la sua decisione di rompere l’astinenza con il desiderio di guadagnare il suo cuore alla causa divina. Tale risposta provocò immediatamente la conversione del ladrone e di tutti i suoi seguaci39. Dal rifiuto totale al consumo moderato Da questi ultimi esempi appare chiaro che accanto alla rinuncia al vino, la sua graduale assunzione, sia pure inizialmente con finalità medico-dietetiche, si andava imponendo persino negli ambienti di più stretta vita anacoretica. Così talvolta anche gli eremiti prendevano vino, specie in occasione delle loro riunioni settimanali o delle festività liturgiche40, come la pasqua. Bere oltre una certa misura però era sempre male; bisognava allora fissare i limiti oltre i quali il demonio era in agguato, senza tuttavia giungere mai alla sazietà e tantomeno all’ubriachezza. Nella tradizione dei padri del deserto si racconta che un gruppo di monaci palestinesi «trovò una giara di vino; uno degli anziani allora, riempitone un piccolo bicchiere, lo portò all’abate Sisoe, glielo porse e questi ne bevve. Similmente fece con il secondo bicchiere, ma quando provò a darglielo per la terza volta egli non lo volle accettare, dicendo: Basta fratello, non sai che è Satana?»41. 39 Apophthegma Patrum. De abbate Paphnuntio, PG, 65, coll. 378-379, cap. 2, 20. 40 Vitae Patrum, coll. 868-871, lib. V: Verba seniorum, cap. 4, 26.36.53.54 (dove il vino viene bevuto solo occasionalmente). 37 (è preso il sabato e la domenica); d’altra parte, nella sentenza dell’abate Pastore, secondo la quale il vino non conviene ai monaci (Ibidem, col. 868, cap. 4, 31), viene presentato il caso di un monaco che non beveva vino, senza precisare però se si trattava di una sua abitudine consueta oppure di un’astinenza totale, che esercitava anche quando era in compagnia di altri monaci. 41 Les apopthegmas, p. 208, cap. 4, 44; inoltre, La Règle de saint Benoît, p. 1160 n. 470. 215 A cui si può senz’altro accostare il lapidario detto di un anziano: «Se un monaco beve più di tre coppe, che non preghi per me!»42. I due testi, confermando la possibilità di bere vino, ne limitano la quantità fino a tre bicchieri ma non dicono nulla riguardo alla loro frequenza o al tempo, su cui invece insiste l’abate Isaia, il quale sosteneva la liceità di bere fino ad un massimo di tre coppe, oltre cui non bisognava assolutamente andare. A suo avviso era preferibile tuttavia che il vino non fosse preso dai cenobiti, tranne che in presenza di ospiti o di amici43. La maggiore considerazione della vita cenobitica portava così allo sviluppo degli aspetti legati alla convivialità e all’accoglienza, in cui la distribuzione di vino spicca quale elemento tipico della condivisione fraterna. In un’altra occasione, a conferma che il rigore iniziale veniva via via temperato, un monaco interrogò ancora l’abate Sisoe, chiedendogli come si dovesse comportare dal momento che ogni volta che andava in chiesa nei giorni di festa, alle normali funzioni religiose seguiva anche un banchetto, durante il quale era offerto del vino senza che egli potesse sottrarsi dal prenderne. In particolare, il suo cruccio maggiore era quello di sapere se essendosi recato di sabato o di domenica e avendo bevuto tre bicchieri, tale quantità non fosse eccessiva. Al che gli rispose semplicemente l’anziano asceta: «Si non sit Satanas, multum non est!»44. Il problema non stava nel bere, ma nella capacità di autocontrollo e nel desiderio del piacere. Altrove si racconta invece, riguardo all’abate Macario, che quando c’era del vino e gliene veniva offerto egli lo beveva, ma «per ogni bicchiere si asteneva dal bere l’acqua per un giorno». Come a dire che, per quanto tollerata, l’assunzione di vino restava un comportamento quantomeno inopportuno, i cui effetti andavano ‘espiati’ mediante gesti di rinuncia adeguati; non meno importante, però, appare anche l’aspetto della carità fraterna, in virtù della quale Macario beveva per non contristare i confratelli che gliene davano, i quali compresolo «non 42 Les apopthegmas, p. 234, cap. 4, 98. Il riferimento alle tre coppe ha una precisa matrice letteraria nel noto frammento 94 del commediografo Ebulo (IV sec. a. C.), ripreso anche da M. MONTANARI, Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola dall’antichità al medioevo, Roma-Bari 1989, pp. 17-18, che ne riporta il testo: «Tre coppe di vino, non di più, stabilisco per i bevitori assennati. La prima per la salute di chi beve; la seconda risveglia l’amore e il piacere; la terza invita al sonno. Bevuta questa chi vuol essere saggio, se ne torna a casa. (…) Il vino versato troppo spesso in una piccola tazza taglia le gambe al bevitore». 43 Les cinq recensions, I, pp. 17, cap. 5, 4; 146, cap. 10, 66, si ripropone qui il tema della carità e dell’accoglienza verso poveri, pellegrini o forestieri che la chiedono. 216 44 Les apopthegmas, p. 208, cap. 4, 45. amplius ei porrigebant»45. Le esemplificazioni a questo punto potrebbero moltiplicarsi senza modificare l’orizzonte che si è andato delineando. Presso i cenobiti egiziani, descritti da san Girolamo (347 ca-420), il vino era riservato ai vecchi e permesso ai malati46; ma il santo di origini dalmate ritorna più volte sulla questione mostrando, insieme agli aspetti più squisitamente spirituali, anche quelli di carattere dietetico funzionali al controllo della sessualità e basati sulle nozioni di fisiologia medica del tempo. Le scelte dietetiche infatti erano dettate da precise convinzioni di carattere medico, nelle quali erano ben calcolati gli effetti di inibizione indotti dal digiuno e la capacità dei diversi alimenti di incidere sulle pulsioni della carne47; queste conoscenze, unite spesso ad influssi neoplatonici tipici degli ambienti ellenistici, erano orientative nella determinazione di una dieta “disseccante” e nel consumo di alimenti “freddi” al fine di mettere un freno alla sessualità nelle diverse fasi della vita, che trovava origine e vigore negli umori caldi e umidi. Ciò era di capitale importanza per coloro che avevano deciso, tra le altre cose, di vivere in castità. Di qui il consiglio generale di Girolamo: «Mantieni un regime alimentare ridotto, il tuo ventre senta sempre lo stimolo della fame, piuttosto che digiunare tre giorni di fila: è molto meglio mangiare un po’ ogni giorno, che mangiare raramente ma a sazietà»48. Il vino pertanto andava rifuggito come il veleno, secondo la raccomandazione alla vergine Eustochio, perché riscalda i corpi; ciò 45 Les apopthegmas, p. 200, cap. 4, 29. 46 GIROLAMO, Epistulae, a cura di I. Hilberg, I, Vindobonae 1996 (CSEL 54), pp. 198-199, epist. 22, 35; anche lo scrittore latino cristiano Sulpicio Severo ricorda in proposito che a Marmoutier il vino era consentito solo ai malati [SULPICIO SEVERO, Vita Martini, a cura di J. Fontaine, Paris 1967 (SC 133), p. 274, cap. 10, 7]. 47 A proposito del rapporto tra la rinuncia del cibo e l’ascesi monastica, si vedano le considerazioni di M. MONTANARI, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-Bari 1988 (Quadrante, 18), pp. 64-70; ID., L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli 1979 (Nuovo medioevo, 11), pp. 266-267, 288, 466-467 con riferimento alle regole monastiche; per l’importanza invece dell’alimentazione nel controllo della sessualità, si veda A. ROUSSELLE, Sesso e società alle origini dell’età cristiana, Roma-Bari 1985, pp. 141-176; mentre per l’esame di una fonte medica, in relazione agli effetti del vino sulla complessa fisiologia corporea – concetti, come si è visto, diffusamente presenti anche nella tradizione monastica più antica – descritti da Girolamo Conforti (1570) e sulla sopravvivenza nella prima età moderna della tradizione antica, si veda G. ARCHETTI, Intorno al vino mordace o «spumante», in Libellus de vino mordaci ovvero le bollicine del terzo millennio, a cura di G. Archetti, Brescia 2001, pp. 9-26, il testo del Libellus del Conforti è pubblicato alle pp. 43-57; più in generale sulla complessa fisiologia medievale e le fonti medico-dietetiche, in relazione all’uso e agli effetti del vino, si rimanda al contributo di A. Albuzzi in questo volume e alla bibliografia ivi citata. 48 GIROLAMO, Epistulae, I, p. 200, epist. 22, 35 217 è tanto più pericoloso quanto l’età è giovane e ardente a motivo del vigore della crescita, mentre nella vecchiaia, così come per i malati, si poteva trarne giovamento nella misura in cui il calore del vino rimetteva in movimento i freddi e rinsecchiti umori corporei49. I veri monaci tuttavia, secondo Girolamo50, si accontentavano di semplice acqua fredda, benché colpiti da infermità. Giovanni Cassiano (360 ca-435), le cui opere sono un ponte tra la tradizione del monachesimo orientale e quello occidentale, metteva in guardia da tutti gli eccessi alimentari e soprattutto nei confronti della carne e del vino – che pure accetta per i malati –, muovendo da un ragionamento preciso: se anche il pane, secondo le scritture (Ez 16, 49), può corrompere l’uomo, quanto più lo potranno la carne e il vino?51 Di fronte ai pericoli della gola è difficile fissare un limite valido per tutti, ma ciascuno a seconda del tempo, della salute, dell’età e della condizione è tenuto a mortificarsi, poiché la perfezione sta nel cibarsi per vivere, e non per soddisfare il piacere, giacché «chi non ha saputo frenare i desideri del suo ventre non può neutralizzare il fuoco della sua concupiscenza»52. La temperanza è dunque il criterio di riferimento da seguire, da cui consegue che «è più ragionevole mangiare ogni giorno cum moderatione che a intervalli fatti di lunghi ed estenuanti digiuni»53. La crapula, l’ubriachezza e l’attaccamento alle cose materiali impediscono di elevarsi a Dio; più che il divieto assoluto di bere vino, allora, va coltivata la sobrietà e la continenza54. L’astinenza perpetua dal vino infatti, pur essendo senza dubbio una cosa buona, può essere temperata senza danneggiare l’ascesi monastica55; nessuna deroga invece nei confronti dell’ebbrezza, giacché la gola è la radice di tutti i mali56. 49 GIROLAMO, Epistulae, I, pp. 154-157, epist. 22, 8-9; pp. 433-435, epist. 52, 11; pp. 475-477, epist. 54, 9-10; (SC 56/1), p. 148, epist. 127, 4. 50 GIROLAMO, Epistulae, I, p. 153, epist. 22, 7. 51 GIOVANNI CASSIANO, De institutis coenobiorum, a cura di J.-C. Guy, Paris 1965 (SC 109), pp. 198-200, cap. 6. 52 GIOVANNI CASSIANO, De institutis coenobiorum, pp. 196-198, libro 5, cap. 5, 1-2; 202, cap. 8. 53 Che inevitabilmente spingono a riempirsi di cibo e bevande in modo disordinato (GIOVANNI CASDe institutis coenobiorum, p. 205, libro 5, cap. 9; 228-230, capp. 22-23). SIANO, 54 GIOVANNI CASSIANO, Conlationes, a cura di E. Pichery, Paris 1958 (SC 54), pp. 43-45, conl. 9, cap. 5. 55 GIOVANNI CASSIANO, Conlationes, p. 281, conl. 17, cap. 28. 56 218 GIOVANNI CASSIANO, Conlationes, pp. 194, 212, 216, conl. 5, capp. 6.20.26. Sulla condanna ecclesiastica dell’ubriachezza, v. il bel saggio di R. Bellini in questo volume; inoltre, ID., Intorno all’ebbrezza: Palladio (363 ca-430 ca) invece, vescovo di Elenopoli, la cui posizione appare influenzata da Girolamo, rimprovera quei monaci che si abbandonano «ai dolori intestinali e al vino», preferendo quelli che bevono con coscienza come aveva fatto il Signore, anche perché nulla sarebbe più funesto di una sorta di orrore manicheo o gnostico nei confronti di una creatura di Dio, e nella descrizione degli asceti della montagna della Nitria presenta un contesto sociale dove il vino era presente e venduto; ciò non toglie, ovviamente, che l’unico motivo per prendere del vino restava quello della malattia57. In questo clima del tutto mutato, non stupisce se Agostino di Ippona (354-430), a differenza del suo confratello Crisostomo, beveva vino a tutti i pasti e il suo Ordo monasterii preveda che «al sabato e alla domenica chi vuole possa avere del vino»58; inoltre, un passo della Vita di Ilario di Arles lascia intendere che i monaci chierici di quella città facevano onore senza troppe remore al frutto della vite59. Taluni agiografi, infine, esaltano l’astinenza dei loro eroi – si pensi a Lupicino o a Fulgenzio –, ma ciò viene fatto in un contesto in cui appare del tutto normale che i cenobiti abbiano del vino sulla loro mensa60. Le comunità femminili sono sulla medesima linea: la Regula sanctarum virginum di Cesario (470 ca-542), vescovo di Arles, consente l’uso del vino alle monache delsant’Ambrogio e la cultura pagana, «Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche», 75 (2000), pp. 163-177. 57 PALLADIO, La Storia Lausiaca, a cura di C. Mohrmann, G.J.M. Bartelink, M. Barchieri, Milano 1974, pp. 39-41, cap. 7, 3-4. 58 POSSIDIO, Vita Augustini, PL, 32, coll. 51-52, cap. 22; TURBESSI, Regole monastiche antiche, p. 292; La régle de saint Augustin, I. Tradition manuscrite, a cura di L. Verheijen, Paris 1967 (Études augustiniennes, 29), p. 150, cap. 7, 28-29; è interessante notare che in un manoscritto di area tedesca del XII secolo (il Vindobonense B.N. 2207, proveniente forse da Rottenbuch) accanto al vino si ha il riferimento alla birra: «Cotidie ut consuetudo est loci illius vinum et cervisiam accipiant» (Ibidem, pp. 134, 150); mentre la possibilità di bere vino è presente anche in una versione più tarda destinata alle monache spagnole: «VIIII. Sabbatum et Dominicum sicut constitutum est, qui volunt vinum accipiant, et qui nolunt non sunt reprendende» (Ibidem, p. 141, dove qui sta evidentemente per quae). Rimane tuttavia la limitazione di evitare di mangiare e bere fuori dal monastero senza permesso (Ibidem, p. 151, cap. 8). 59 ONORATO DI MARSIGLIA, Vita S. Hilarii Arelatensis, a cura di P.-A. Jacob, Paris 1995 (SC 404), p. 114, cap. 11; l’opera resta tuttavia di incerta attribuzione (cfr. Clavis Patrum latinorum, a cura di E. Dekkers, Ae. Gaar, Steenbrugis 19953, p. 180 nr. 506). 60 Cfr. La Règle de saint Benoît, p. 1162; per il riferimento ai testi: Vita vel regula sanctorum patrum Romani, Lupicini et Eugendi monasteriorum Jurensium abbatum, a cura di F. Martine, Paris 1968 (SC 142), p. 312, cap. 66-67; FERRANDO, Vita Fulgentii, PL, 65, coll. 123, 136, cap. 6, 13; 19, 38. Per l’uso del vino in ambito agiografico, si rimanda al puntuale contributo di P. Tomea in questo volume. 219 la sua città, senza rinunciare all’austerità e al rigore; «soprattutto vi scongiuro – scrive il presule – al cospetto di Dio e dei suoi angeli che nessuna di voi compri del vino nascostamente o lo riceva, da qualunque parte venga inviato. Se però gliene viene mandato, le portinaie lo prendano alla presenza della badessa o della priora e lo consegnino alla cantiniera. Questa poi lo dispensi alla sorella cui è stato mandato, nella misura che conviene al suo stato di salute; e poiché capita ordinariamente che la dispensa del monastero non abbia sempre del vino buono, spetterà alla sollecitudine della superiora provvedere tale vino, affinché ne possano bere un poco le malate o quelle che beneficiano di un nutrimento più delicato». La fatica delle sorelle impegnate in cucina – un monastero sembra con almeno duecento religiose – era ripagata con un bicchiere di vino puro e un trattamento analogo, ma il regime alimentare normale prevedeva di solito due o tre bicchieri di vino (caldellos), allungato con acqua calda, a pranzo e un paio a cena, mentre per le più giovani la razione era un poco più ridotta61. Dall’inizio del VI secolo, comunque, abbondano le testimonianze sul consumo abituale, sia pure parsimonioso, del fermentato d’uva nei monasteri e quasi tutte le regole ne parlano: Aureliano di Arles, Isidoro di Siviglia, Fruttuoso di Braga, Ferreolo di Uzès danno indicazioni precise circa i bicchieri da bere, di solito due o tre62, e persino il monachesimo celtico non ne è immune63, dove il posto del vino – come nel caso dei monaci di san Colombano – viene preso semmai dalla cervogia e l’emulazione del miracolo evangelico della folla affamata lascia il posto alla trasformazione dell’acqua in… birra64. Dunque, se le prime 61 CESARIO DI ARLES, Regula sanctarum virginum, capp. 14, 1; 30, 48; 32, 4; 71, 4-6 (citiamo dalla traduzione italiana di TURBESSI, Regole monastiche antiche, pp. 346, 350-351, 364-365). 62 AURELIANO DI ARLES, Regula ad monachos, PL, 68, Paris 1868, coll. 395, 406 (merum et tres caldellos, biberes binas); ISIDORO DI SIVIGLIA, Regula monachorum, PL, 83, coll. 879-880, cap. 9, 5.9 (vinum, pocula); FRUTTUOSO DI BRAGA, Regula monachorum, PL, 87, col. 1102, cap. 5 che permette una sola potio per pasto pari a un quarto di sestario (cioè, a mezza emina), ma il sabato e la domenica viene aggiunta un’altra potio e una terza è prevista durante feste, giungendo così alle tre potiones previste anche da Isidoro. La conferma dell’uso ormai comune del vino viene anche dalla Regula Pauli et Stephani (ed. J.E.M. Vilanova, cap. 21, 17) e da quella di FERREOLO DI UZÈS (Regula ad monachos, PL, 66, col. 975, cap. 39, contro l’ubriachezza), che pure non entrano nei dettagli della distribuzione personale giornaliera. 63 64 220 Per questi riferimenti si vedano le sintetiche indicazioni di DE VOGÜÉ in La Règle de saint Benoît, p. 1163. COLOMBANO, Regulae, a cura di G.S.M. Walker, Dublin 1957 (Scriptores latini Hiberniae, 2), pp. 124 e 126, cap. 3 e 5; VALDEBERTO DI LUXEUIL, Regula ad virgines, PL, 88, col. 1062, cap. 10: «sicera liquoris id est cervisiae»; per il miracolo della moltiplicazione del pane e della cervogia attribuito a Colombano – «Padre, non abbiamo che due pani e un po’ di cervogia», dopo di che tutti bevvero e man- generazioni monastiche hanno rifiutato con forza di bere vino, riservandolo solo ai malati, in seguito hanno adottato un regime più equilibrato che ha portato il vino in tutte le comunità cenobitiche. Il cambiamento di rotta sembra avvenire al tempo di Agostino e di Palladio, mentre nel V secolo l’astinenza totale è ormai un fatto eccezionale; non è un caso, infatti, se nella regola dei santi padri (Serapione, Macario e Pafnunzio) non se ne faccia alcuna menzione, mentre si condannano con fermezza i vizi della «gola e dell’ubriachezza»65. Soltanto l’austera Regula cuiusdam Patris persiste nel proibire il vino e tutte le bevande inebrianti, ma il suo carattere arcaico rende ragione di tanto rigore ascetico66. Tale evoluzione può dirsi conclusa nei due secoli successivi, giacché i documenti normativi – si pensi solo al Maestro e a Benedetto da Norcia – sono praticamente tutti concordi nel ratificare l’uso del vino e delle altre bevande alcoliche. La ragione di questa progressiva evoluzione è abbastanza semplice: il punto di riferimento resta il consiglio di Paolo a Timoteo che in origine è preso, per così dire, alla lettera; il vino perciò è riservato solo ai malati. Ma il vero problema si pone nel momento in cui le adesioni monastiche crescono e le comunità vanno organizzate secondo norme precise, che si sostituiscono al fervore iniziale; ciò porta i monaci a una riflessione più articolata sul senso e le finalità dello sviluppo comunitario del monachesimo. Ci si chiede, in particolare, chi siano veramente i malati o i più deboli: solamente quelli che lamentano crampi allo stomaco e frequenti indisposizioni? Ferreolo nota che tutti si rifanno al testo paolino senza che sia possibile opporre nulla di altrettanto autorevole67, offrendo così un’interpretazione diversa da quelle più restrittive di Pacomio, Basilio, giarono senza che i contenitori si svuotassero –, a cui si deve aggiungere quello della conservazione di una botte di cervogia che il cellerario aveva improvvidamente lasciato aperto, vedi GIONA, Vita sancti Columbani abbatis et disciplinarum eius, ed. B. Krusch, MGH, Scriptorum rerum merovingicarum, IV, Hannoverae - Lipsiae 1902, pp. 102, 82, 84, capp. 27, 16 e 17; per questi ultimi riferimenti anche M. MONTANARI, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari 1997, p. 28. La birra o cervogia, pur essendo una bevanda-alimento tipica dell’Europa settentrionale, è attestata anche in SCENUTE DI ATRIPE, Vita et opera omnia, p. 33: «non parabitur cervisia neque ulla unquam coquetur res in communitate monacharum», e di essa dà conto anche Isidoro di Siviglia (ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiarum libri XX, PL, 82, col. 713). 65 Les règles des saints Pères, p. 538 cap. 9. 66 Regula cuiusdam Patris, PL, 66, col. 990, cap. 11; EVAGRIO, Sententiae, PL, 20, col. 1182); le motivazioni di questa impostazione restrittiva e il collegamento con le sentenze di Evagrio sono evidenziate da de Vogüé (La Règle de saint Benoît, p. 1163 e n. 485). 67 FERREOLO, Regula ad monachos, col. 975, cap. 39. 221 Girolamo o Ferrando. Da parte sua, san Benedetto attribuisce invece un valore molto più largo all’infirmorum imbecillitatem68 – e sulla sua linea si pongono anche i commenti alla regola successivi –, perché ciascuno ha ricevuto un proprio dono da Dio e anche la rinuncia al vino rientra tra questi. Infatti, «coloro ai quali Dio dona la capacità di astenersene, riceveranno una ricompensa particolare»; il vino sembra lenire così le infermità di un corpo malato insieme alle debolezze umane dei monaci che non sanno privarsene (RB 40, 4.6). La misura del vino per il Maestro e secondo Benedetto Particolarmente interessante appare quindi il confronto tra la Regula Magistri e quella di Benedetto, su cui ha insistito il benedettino Adalbert de Vogüé69, evidenziandone le rispettive peculiarità. La misura del bere è trattata dal Maestro al cap. 27, testo che fin da principio sembra improntato ad una certa ‘larghezza’ ma dove nulla viene lasciato al caso, forse perché il legislatore avvertiva l’intrinseca debolezza dell’animo umano. «Non appena i fratelli si sono seduti a tavola – vi si legge in apertura –, prima di mangiare, ricevano ciascuno un calice di vino puro (singulos meros)» (RM 27, 1). Qui, la preoccupazione del Maestro sembra diretta, più che a prescrivere una severa astinenza – come nelle norme sul cibo (cap. 26) – ad impedire ogni ingordigia ed eccesso, tanto che neppure l’acqua deve essere bevuta con avidità (RM 27, 22-26). Contrariamente ad altri legislatori monastici poi – si pensi a Basilio che non dà indicazioni riguardo alla misura del bere o a 68 Per i riferimenti alla Regula Benedicti, si rinvia alla recente edizione contenuta in SAN BENEDETTO, La Regola con testo latino a fronte, a cura di G. Picasso, traduzione e note di D. Tuniz, Cinisello Balsamo 1996 (Storia della Chiesa. Fonti, 7 = d’ora in poi semplicemente RB), pp. 133-135, cap. 40, 3. 69 222 Cfr. La Règle de saint Benoît, pp. 1142-1168: «La ration de vin (RB 40)», anche 1190-1203 per l’esame comparato delle due regole. Riguardo al testo della regola del Maestro, si veda La Règle du Maître, a cura di A. de Vogüé, I-II, Paris 1964 (SC 105-106 [= RM]); III: Concordance verbale du texte critique conforme à l’ortographe du manuscrit Pal. lat. 12205, a cura di J.-M. Clément, J. Neufville, D. Demeslay, Paris 1965 (SC 107); inoltre, rinviamo alla recente edizione: Regola del Maestro, I: Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Bozzi; II: Introduzione, testo e note a cura di M. Bozzi e A. Grilli, Brescia 1965 (= BOZZI), dove è puntuale il commento della Bozzi alle pp. 300-303 del primo volume; inoltre, per qualche precisazione rispetto alla normativa alimentare del Maestro, cfr. anche A.M. NADA PATRONE, “Monachis nostri ordinis debet provenire victus de labore manuum”. L’ordine cistercense e le regole alimentari, in L’abbazia di Lucedio e l’ordine cistercense nell’Italia occidentale nei secoli XII e XIII, Atti del terzo congresso storico vercellese (Vercelli, Salone Dugentesco, 24-26 ottobre 1997), Vercelli 1999, pp. 296-301. Cassiano le cui Institutiones fissano una differente disciplina personale (mutevole, cioè, da soggetto a soggetto: sani, malati, bambini, vecchi) quale criterio di riferimento70 – nella Regula Magistri tutto viene prescritto meticolosamente, nella convinzione che la norma comunitaria può aiutare lo sforzo verso la virtù. Di qui la complessità della casistica, specialmente di fronte ad una bevandaalimento come il vino considerato da sempre con sospetto in ambito ascetico, che tiene conto delle variazioni stagionali, del tempo liturgico, dell’impegno lavorativo dei monaci, delle occasioni di condivisione fraterna e di festa. Per questo, col caldo estivo che genera più sete, dopo il calice di vino puro iniziale, nel quale si poteva intingere non più di tre bocconi del proprio pane (RM 27, 3)71, seguivano quattro bevute di mixtum, vale a dire vino temperatum con acqua calda, che d’inverno si riducevano a tre; alla sera erano invece considerate sufficienti tre coppe di vino temperato caldo se il pranzo avveniva a mezzogiorno (cioè, a sesta nel periodo dell’anno a doppia refezione), due se il pasto era consumato a metà 70 TURBESSI, Regole monastiche antiche, p. 172 (= BASILIO, Regula, cap. 9); GIOVANNI CASSIANO, De institutis coenobiorum, p. 230, lib. V, cap. 5, 23. 71 La ragione era duplice: sia perché ogni monaco ne conservasse per accompagnare le restanti pietanze, sia per non peccare di voracità e scandalizzare i fratelli attirando il loro sguardo severo (cfr. anche i commenti della BOZZI, I, p. 301 e della NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, p. 298). In particolare, riguardo alla mensura potus si veda il seguente schema distributivo risultante dal cap. 27 della RM: tutto l’anno all’inizio di ogni pasto un calice di vino puro (merus) a ciascuno (RM 27, 1.5) estate pranzo a sesta dopo nona tra nona e decima a cena estate pranzo a nona 4 temperati caldi (caldos; RM 27, 5) prima di compieta 2 temperati caldi (potiones, mixtus; RM 27, 10) dopo ogni pasto a richiesta acqua calda temperata con pusca e iotta (RM 28, 9) inverno pranzo a sesta a cena 3 temperati caldi (caldos; RM 27, 27) 1 temperato caldo (caldos; RM 27, 28) inverno pranzo a nona alla sera 3 temperati caldi (caldos; RM 27, 27) 1 temperato caldo (caldos; RM 27, 31) 4 temperati caldi (caldos; RM 27, 5) 1 temperato caldo (potiones, mixtus; RM 27, 13-14) acqua con moderazione a seconda delle esigenze (RM 27, 21) 3 temperati caldi (potiones; RM 27, 6) tempo pasquale pranzo a sesta a cena 3 temperati caldi (caldos; RM 27, 33) 2 temperati caldi (caldos; RM 27, 33) tempo pasquale pranzo a sesta (ottava, giovedì a cena e domenica) temperati caldi (caldos; RM 27, 37) 2 temperati caldi (caldos; RM 27, 37) 223 pomeriggio (nona). Durante l’estate, per far fronte alla calura e alla fatica del lavoro, si poteva aggiungere un’altra coppa di vino temperato caldo dopo l’ora nona, se il pranzo era consumato a sesta, o dell’acqua a discrezione e a seconda del bisogno (RM 27, 5-22); nel periodo invernale era pure concessa una bevuta serale in sostituzione della cena (RM 27, 28-29). Inoltre, per coloro che soffrivano maggiormente la sete era permessa l’assunzione di un boccale capiente, alla fine del pasto principale, di acqua o di una bevanda più dissetante a base di aceto o di vino acidulo (pusca), oppure aromatizzata con erbe e decotti vari (RM 27, 9), che venivano preparati durante la cottura quotidiana delle pietanze (pulmentaria). La regola alimentare del Maestro dunque, nel solco di una sperimentata tradizione cenobitica e lontana dal rigore di un digiuno assoluto, favoriva un’ascesi fatta di gradualità e di sobrietà, dove non contavano tanto gli eccessi del digiuno o le prodezze individuali, ma l’obbedienza a misure e orari comandati, uguali per tutti, che era il primo passo verso il controllo della volontà, in quanto il monaco non mangiava o beveva come e quando voleva. È questo un punto basilare: provvedendo con paterna sollecitudine ai bisogni anche materiali dei fratelli (RM 27, 7) si scongiurava l’insorgere di malcontenti e abusi, purché naturalmente «si evit[asse] l’ebbrezza del vino, poiché se il corpo non è sobrio, non riesce a star meglio per l’opera di Dio e l’anima non va esente da pensieri impuri» (RM 27, 46). Ciò permetteva ai più virtuosi di esercitare nell’umiltà un’ascesi controllata e costante senza il rischio di mettersi in mostra; infatti, «se a tavola qualcuno dei discepoli vuol rinunciare a un po’ della razione regolamentare di bevanda o del pezzo che ancora gli resta del suo pane, mostra che ama lo spirito più della carne e impone un freno di castità alla lussuria» (RM 27, 47-48). Al termine del pasto, quindi, prima di lasciare il refettorio egli sussurrava al cellerario che raccoglieva i resti delle vivande: «Prendi, e ciò che è stato negato alla carne serva a Dio»72. Per sostenere il suo programma penitenziale, al riparo tanto dagli eccessi della «vinolentiae ebrietatem» quanto dall’appagamento della sazietà alimentare, in linea con la tradizione il Maestro non disdegna di ricorrere alle nozioni medi- 72 224 «Subito il cellerario metta a parte in un recipiente questo cibo che felicemente servirà a Dio, e dal cellerario sia messo in mano a un povero che va mendicando, come un dono aggiunto all’elemosina del monastero» (RM 27, 49-51). Come a dire che la carità e la penitenza sono un connubio auspicabile, ma devono avvenire con umiltà e lontano dagli occhi dei fratelli per evitare le loro lodi; all’elemosina consueta, dunque, fatta in modo ‘istituzionale’ dal cenobio (RM 16, 34-37) si aggiunge quella ‘privata’ dei singoli monaci che sfugge, per il suo riserbo, alla codificazione ufficiale, ma non per questo è meno importante, e viene «messa in mano al povero come un dono» (RM 27, 51). che per spiegare l’utilità della moderazione (ne quid nimis, RM 27, 25) laddove, per esempio, enumera i disturbi che può causare alla digestione e alla mente anche la semplice assunzione smodata di acqua73. Per lui la sobrietà del nutrimento serve alla custodia della castità e al controllo delle fantasie inopportune, come pure è indispensabile per una preghiera attenta e fervorosa; l’incontinenza nel mangiare e nel bere, pertanto, diventa oggetto di biasimo e dello sguardo severo dei fratelli (RM 27, 4). Un regime particolare, inoltre, è indicato per i fanciulli e per il tempo pasquale, mentre aggiunte di cibo e di bevanda sono previste la domenica, nei giorni di festa e in tutte quelle occasioni in cui la comunità può trarre giovamento dalla presenza di un ospite; è altresì facoltà del superiore aggiungere qualcosa (quidquid) alla razione giornaliera di cibo e di vino quando lo ritiene opportuno: «per la gioiosa carità dei giorni santi o per l’arrivo di amici» (RM 27, 45), come pure nel periodo della pasqua quando può essere consentita in più una bevanda di qualsiasi genere, senza rifiutare però quello che viene donato alla comunità, «giacché se è stato offerto è potuto arrivare solo in quanto l’ha procurato il Signore» (RM 27, 38.53-54). La preghiera segnava sempre l’inizio e la fine del pasto, ma anche l’assunzione di vino era caratterizzata da un’orazione; quando infatti i monaci si sedevano a mensa, ricevuto il calice di vino puro (merus), lo presentavano all’abate che lo benediceva tracciando un segno di croce. La stessa cosa succedeva nel periodo estivo quando i settimanari presentavano al superiore, prima della distribuzione fraterna, il contenitore con il vino e l’acqua (mixtus), preparato dopo l’ora nona per far fronte al caldo, per la benedizione74. Tuttavia, se una volta ricevuta la propria razione consueta di bevanda, qualcuno aveva ancora sete, era tenuto a manifestarlo dicendo semplicemente al cellerario che glielo chiedeva: Benedic, cioè «Benedici», senza aggiungere altro. Subito si mescolava (temperata) in un recipiente dell’acqua calda con aceto o vino inacidito (pusca), oppure con un 73 RM 27, 23-26: «Se però un fratello ha sete ancora a questa stessa ora nona, prima che sopraggiunga, come abbiamo detto, la decima ora, e se vorrà bere dell’acqua, non beva però a squarciagola dall’orcio, ma a misura di una coppa o di un boccale o di una ciotola, perché ciò che non si attiene a misura è eccessivo e ingiusto e si vedrà che procura soddisfazione di desideri, ma a danno morale. Infatti conforme alla sentenza che dice: «Niente di troppo», anche l’eccesso di acqua può ubriacare la mente, suscitando fantasmi di sogni, e invadere il corpo di reazioni moleste, quali fiotti nelle vene, brividi nelle ossa, pesantezza alle palpebre, giramenti di testa, sonno negli occhi e continuo starnuto al naso». 74 Per il riferimento alla preghiera prima di bere e alla benedizione delle bevande, cfr. RM 27, 2.20.1516.19.29.32. 225 decotto a base di erbe (cum iotta; RM, 27, 8-9). Quali fossero allora i limiti della mensura potus è lo stesso Maestro a indicarlo: «La coppa (calix) o il boccale (galleta) con cui si farà il servizio nei vari turni di distribuzione, sia di tale capacità che il vino, mescolato in ragione di un terzo, misuri un’emina (qui tertius impleat mixtus iminam). Ma uguale restando tale misura, conviene che siano due o tre coppe o i boccali a disposizione per il servizio delle mense, in modo che, usando parecchi bicchieri (pocula), si possa fare la distribuzione più in fretta» (RM 27, 39-40). Da ciò sembrerebbe di capire che, giunti a tavola, i monaci ricevevano subito un calice di vino puro (merus) e successivamente una quantità variabile di una bevanda fatta dalla miscela di acqua calda e un terzo di vino (caldos), questo almeno pare il senso dell’espressione «tertius mixtus», che in totale doveva raggiungere la misura di un’emina75, equivalente a poco più di mezzo litro circa, stabilendo così un ulteriore punto di contatto con san Benedetto che non ha riscontri nelle altre regole (RB 40, 3). È stato notato però che, essendo la temperatio di acqua calda e vino preparata per ogni tavola, dove di solito sedevano dieci monaci e due prepositi76, risulta che ogni bevuta comportava per ciascuno «1/12 di emina di vino puro ed essendo le bevute al massimo, nella calura estiva, otto al giorno, abbiamo un totale di 8/12, a cui va aggiunto il calice iniziale di merus. Si arriverebbe così all’incirca a quell’emina di vino puro al giorno a testa che la RB presenta come una misura già calcolata con larghezza e sufficiente per ogni stagione»77. Il problema naturalmente, al di là della suggestione dell’ipotesi, resta la corrispondenza con le misure attuali e la grande variabilità metrologica che già in età tardo antica e nel medioevo si registra a livello territoriale. Inoltre, ammes- 75 Il passo potrebbe però essere inteso non come «mescolato in ragione di un terzo», ma per «tre volte» fino a comprendere un’emina, secondo l’interpretazione data da Mabillon e Martène nell’edizione per la Patrologia latina (cfr. PL, 66, coll. 654, 650; RM 27, 39-40 e commento), che porterebbe a considerare l’indicazione della quantità riferibile al mixtus e non al merus. La nostra propensione per la prima ipotesi è suffragata tuttavia dalle considerazioni di de Vogüé, riprese anche dalla Bozzi (cfr. La Règle de saint Benoît, pp. 1143-1144; BOZZI, II, p. 292). Quanto all’hemina, si tratta di un’antica misura di capacità per i liquidi corrispondente a mezzo sestario, mutuata dai romani dalla Magna Grecia, il cui valore però poteva variare anche in modo significativo da regione a regione e che, già al tempo di san Benedetto e per il resto del medioevo, oscillava da un quarto a quasi un litro e anche più [in questi termini, sia pure in maniera più dubitativa si muove anche il commento del p. Lentini: S. BENEDETTO, La Regola, testo, versione e commento a cura di A. Lentini, Montecassino 19943 (prima ediz. 1947), p. 363]. 226 76 Si vedano al riguardo le indicazioni presenti in RM 23, 23-25; 27, 2.9.13.17-18.40; 18, 1. 77 Cfr. BOZZI, II, p. 292. so pure che la quantità di vino corrispondeva all’hemina, le bevande e il mixtus messo a disposizione di ogni monaco nell’arco del giorno risultava assai più consistente e comunque da rapportare alle esigenze dei singoli. Ora, proprio questa impostazione di tipo ‘personalistico’ dell’esperienza cenobitica, risulta centrale nella Regula di Benedetto da Norcia (ca 480-ca 547), per quanto le indicazioni normative sul consumo di vino, nel corrispondente cap. 40, siano assai scarne rispetto a quelle della Regula Magistri e improntate a linee di riferimento ideali. Nulla si dice infatti riguardo al numero dei bicchieri a persona e, anche a proposito della determinazione della quantità giornaliera, pari ad un’emina, non si indica in alcun modo le modalità di distribuzione concreta. Nel testo benedettino tuttavia i riferimenti al vino sono numerosi: al cap. 4, 36 per scongiurare il monaco a non essere vinolentus; al cap. 35, 12 per concedere ai settimanari un po’ di pane e vino prima del pasto, come corroborante nel loro servizio; al cap. 38, 10 per dare al lettore il mixtus quando si accinge a leggere durante i pasti in refettorio; quindi, al cap. 40 relativo alla misura della bevanda; al cap. 46, 16 per sanzionare la punizione riservata a coloro che giungono in ritardo, consistente nella privazione della razione giornaliera di vino; infine, al cap. 49, 57 per ordinare che l’astinenza quaresimale comprenda, tra le altre cose, anche l’ulteriore riduzione se non la rinuncia al vino. In relazione a questi passi è utile segnalare che la razione supplementare di pane, accompagnata da una bevanda di acqua e vino (biberes) per coloro che avevano il compito settimanale dei sevizi di cucina (settimanari), ha una precisa corrispondenza in RB 38, 10-11 dove si dice che «il fratello lettore di settimana prima di iniziare a leggere beva del misto (mixtum) [e il testo prosegue: «per rispetto alla santa comunione e perché non sia troppo gravoso sopportare il digiuno, e pranzi successivamente assieme ai settimanari di cucina e agli inservienti»], dal momento che in entrambi i casi tale aggiunta alimentare ha lo scopo di alleviare il digiuno e rendere più efficiente il loro servizio, mentre gli altri mangiavano. Nel brano relativo al lettore, tuttavia, è presenta la precisazione sacramentale «per rispetto alla comunione» molto interessante, che è la trasposizione in forma meno schietta del testo della RM 24, 14: «per non vomitare il sacramento»78. Ciò 78 Si veda al riguardo il classico commento a RB 38, 10 del p. Anselmo Lentini (cfr. S. BENEDETTO, La Regola, pp. 348-349, citaz. a p. 349), che tra l’altro scrive: «Si noti l’allusione alla santa Comunione, dopo la quale anche i fedeli solevano prendere un po’ di vino o di acqua per impedire che particelle di Sacre Specie uscissero di bocca con lo sputo o la saliva». 227 si spiega con il fatto che il lettore normalmente compiva il suo servizio in refettorio, subito dopo essersi comunicato durante la messa, quando era ancora a digiuno. Ma poteva accadere che durante la lettura gli si impastasse la bocca o, peggio, eiettasse accidentalmente qualche residuo del pane consacrato che gli era rimasta tra i denti. Ebbene, tali inconvenienti potevano essere facilmente evitati con un buon bicchiere di mixtum e qualche boccone di pane che permettevano di ripulirsi adeguatamente la bocca e la gola, scongiurando così il rischio di mancanze sacramentali e rendendo meno pesante il perdurare del digiuno. Anche sotto il profilo penitenziale, la privazione del vino aveva una funzione e una gradazione precise. Per chi arrivava tardi a mensa, infatti, o non era presente insieme agli altri fratelli per la recita del versetto era previsto il rimprovero, che dopo la seconda volta, se ciò non bastava, si tramutava in una punizione pubblica con la sua esclusione dalla mensa comune, l’allontanamento e la privazione «della sua razione di vino, fino a quando non avrà fatto penitenza e si sarà corretto» (RB 43, 13-16). La punizione – si badi – era accompagnata dall’umiliazione, peggiore senza dubbio della stessa privazione, della denuncia davanti a tutti per quanto compiuto. La rinuncia al vino, però, non era solo uno degli «strumenti delle buone opere», in quanto bevendo con moderazione si evitava il pericolo della vinolentia (RB 4, 36 che riprende Sir 31, 16-17), al contrario faceva parte di quel qualcosa in più di «preghiere e astinenza», rispetto all’impegno consueto, che ogni monaco poteva compiere in quaresima per piacere al Signore. In questo è interessante notare come Benedetto non stabilisca una penitenza uguale per tutti, ma ne indichi le modalità, vale a dire ciascun fratello «privi il suo corpo di un po’ di cibo, di bevande, di sonno, di loquacità, di discorsi volgari e attenda la santa pasqua nella gioia e nel desiderio spirituale» (RB 49, 7). Tra questi, titolo di merito non secondario, risultava certo la rinuncia al fermentato d’uva. Ma il capitolo di riferimento sull’uso del vino nella regola benedettina è quello dedicato alla misura della bevanda (RB 40: De mensura potus) che, anche per la sua brevità, merita di essere qui riportato per intero. 228 «Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor 7, 7) e perciò abbiamo qualche scrupolo (cum aliqua scrupolositate) a stabilire la quantità del cibo altrui. Tuttavia, tenendo presente le necessità dei più deboli (infirmorum imbecillitatem), riteniamo che a ciascuno sia sufficiente un’emina di vino (eminam vini) al giorno. Ma coloro ai quali Dio dona la capacità di astenersene, sappiano che riceveranno una ricompensa particolare. Se le esigenze locali, il lavoro o il caldo dell’estate ne richiedessero una quantità maggiore, sia in potere del superiore concederla, badando sempre di evitare a tutti la nausea o l’ubriachezza. È vero che si legge che «il vino non è affatto per i monaci» (Vitae patrum, V, 4), ma poiché oggi (nostris temporibus) essi non sanno più convincersene, possiamo almeno (saltem ad hoc) concordare sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma di farne un uso moderato (parcius), giacché «il vino fa traviare anche i saggi» (Sir 19, 2). Dove le condizioni locali non consentano di averne neppure nella quantità prescritta, ma molto meno o addirittura niente, i fratelli di quel luogo benedicano Dio e non mormorino. Questo soprattutto raccomandiamo: di astenersi di mormorare. Dal testo appare chiara fin dall’inizio l’importanza delle differenze individuali, a conferma di una impostazione caratteristica della regola, che si avvale di una solida «armatura biblica»79, quale premessa dell’intero dispositivo normativo. Rifacendosi alla dottrina paolina dei carismi, infatti, Benedetto afferma di essere impossibilitato a fornire una norma valida per tutti perché, esattamente come la verginità – richiamata nel brano che apre il capitolo –, anche l’astinenza dal vino è un dono di Dio, la quale non può essere imposta come un obbligo morale, ma soltanto suggerita come rinuncia meritoria. A quanti, però, «Dio dona la capacità di privarsene» viene promessa una ricompensa (merces) particolare80. La diversità dei doni, dunque, risulta essere il criterio di riferimento che guida il legislatore; tuttavia, egli supera la scrupolositas iniziale nel determinare la misura alimentare solo quando porta l’attenzione sui fratelli più deboli. Si ripropone in questo processo il medesimo schema già sperimentato nel capitolo sui malati (RB 36), ma l’espressione «infirmorum imbecillitatem» – che si riferisce certamente alla condizione di debolezza fisica dei malati, così come suggerisce il consiglio dato a Timoteo – ha una valenza più ampia che coinvolge anche l’ambito più sfumato della condizione morale, nella quale trovano spazio le situazioni di mediocrità, di mancanza di forte slancio spirituale o di inappetenza nei confronti di un’ascesi rigorosa, come del resto sembrerebbero confermare altri passi della regola in cui ricorrono i termini «imbecillitas» e «infirmitas»81. Applicato al vino, ciò significa che il suo uso è destinato a lenire i malanni di un essere debi- 79 La Règle de saint Benoît, p. 1153. 80 RB 40, 4, dove il richiamo immediato è a GIOVANNI CASSIANO, Conlationes, cap. 24, 2, oltre a 1 Cor 7, 7 e 3, 3; altrove tuttavia dice che «una ricompensa particolare» è prevista anche per chi assiste i fratelli malati e per quanti si adoperano nel servizio agli altri, come nel caso dei lavori di cucina (RB 36, 5; 35, 2). 81 Riferimenti precisi alla condizione di infermità fisica sono presenti in RB 35, 3; 36; 37, 2; 48, 2425, mentre alla situazione di rilassatezza o debolezza morale sono riferibili RB 34, 2; 64, 19; 72, 5; inoltre, La Règle de saint Benoît, pp. 1146-1147. 229 litato, tanto nel corpo quanto nello spirito, mentre l’astinenza totale si configura come un dono dall’alto. È evidente allora che, in questa prospettiva, la razione di vino consentita è indicata solo in rapporto ai «malati» che ne hanno realmente bisogno, mentre quanti stanno in buona salute sono moralmente sollecitati a privarsene perché «il vino non è affatto per i monaci»; e questo non occasionalmente, ma sempre. Inoltre, mentre per il Maestro l’astinenza era uno strumento per mettere un freno alla lussuria, preferendo lo spirito alla carne, in Benedetto trova spazio solo il riferimento alla ricompensa finale suggerita dal testo biblico: «Ciascuno riceverà la propriam mercedem secondo il suo lavoro» (1 Cor 3, 8). Il ragionamento che si sviluppa di seguito è di tipo consequenziale: se il vino non è per i monaci, a maggior ragione essi non dovranno berne a sazietà (usque ad satietatem) e ancor meno esporsi all’ubriachezza (vinolentia) che è vietata a tutti i cristiani; così, alla realtà del presente, costituita dai monaci che non sanno privarsene, sembra contrapporsi il modello ideale della purezza ascetica del passato. Se i nostri santi padri, osserva Benedetto, «hanno recitato il salterio in un solo giorno, noi dobbiamo almeno recitarlo in una settimana»; se i padri tracciano il programma di una vita monastica degna di questo nome, noi dobbiamo almeno osservare la piccola regola per principianti che ci è proposta. Questo «almeno», che resta implicito in RB 18 e 73, qui è detto invece espressamente (saltem vel hoc). Nei tre passaggi – osserva Adalbert de Vogüé – Benedetto lega la sua norma, presentata come il minimo indispensabile, a delle sublimità inimitabili degne di ammirazione, giacché esaltare la perfezione degli antichi sulla scorta agostiniana è ispirare «ai contemporanei una salutare cattiva coscienza, che impedirà loro forse di trasgredire la regola e di cadere più in basso»82. Lo sguardo attento poi alle diverse necessitates, determinate dal luogo, dal caldo dell’estate e dal lavoro – a loro volta dovute anche alla povertà che costringeva i monaci a lavorare per procurarsi il vino altrimenti mancante –, portano l’abate di Montecassino a considerare la possibilità di una deroga alla razione giornaliera di vino83. Tale facoltà però, concessa a discrezione del superiore, 82 83 230 La Règle de saint Benoît, p. 1153. Sono tre i casi di deroga alla norma generale previsti da Benedetto: rispetto alla quantità del cibo, alla quantità della bevanda e all’orario dei pasti [cfr. le osservazioni di A. DE VOGÜÉ, Travail et alimentation dans les règles de saint Benoît et du Maître, «Revue bénédictine», 74 (1964), pp. 242-261, riprese poi in La Règle de saint Benoît, pp. 1191-1203]. appare come una dispensa data a malincuore di fronte a effettivi bisogni della comunità che viceversa non comprenderebbe una maggiore restrizione, laddove nella Regula Magistri il supplemento era considerato come un segno di gioia e di fraterna condivisione nei giorni di festa e in presenza di ospiti. Si comprende perciò la conclusione del capitolo, ispirata ad un passo preciso della regola agostiniana84: se il vino è una delle cose di cui hanno bisogno solo i malati (infirmi), dovrà rallegrarsi quella comunità che, a causa delle condizioni del luogo in cui risiede, non ne possiede nella quantità stabilita o addirittura per nulla; la sua situazione cioè sembra simile a quella del fratello che, pur ricevendo di meno in quanto ha meno bisogno, non per questo deve rattristarsi né mormorare, ma ringraziare Dio che prova la sua virtù (RB 34, 3-7; 40, 5). In altre parole, questo sta a significare che se fa freddo e non c’è vino perché le contingenze locali non lo consentono – una situazione concreta adombrata in RB 35, 4 per i settimanari di cucina e in 55, 2.4 circa gli abiti e le calzature dei confratelli – bisognerà accontentarsi, né si dovranno contrarre debiti per comprarne laddove non ce n’è e neppure per la stessa ragione si trarrà motivo per trasferire il cenobio in una regione dove si possa coltivare la vite, ma i monaci semplicemente «benediranno Dio» senza mormorare85. È altresì interessante rilevare che qui, per la terza volta proprio a proposito del vino (RB 40, 1.4.8), viene invocato il nome divino; ma tre sono pure le citazioni bibliche della tradizione (1.6.7) e con la stessa simbologia numerica – tre volte – ricorre la parola vinum (3.6.7), mentre nove, cioè il suo multiplo, sono i versetti che compongono l’intero capitolo; inoltre, almeno due volte vengono ripetuti i termini «monaci», «mensura», «necessitas loci», «donum», «satietas», «murmuratio», secondo una struttura letteraria che meriterebbe una lettura più attenta da parte dei linguisti. Nel richiamo al lavoro dei campi, però, Benedetto dà un apporto innovativo rispetto al Maestro (RM 86), che lo riteneva inadatto ai monaci, i quali, affaticati sotto il sole nell’impegno rurale, avrebbero potuto perdere l’abitudine al digiuno; egli aveva limitato pertanto le loro occupazioni manuali a opere artigianali e di giardinaggio. Benedetto, al contrario, ritiene che si possa derogare dall’obbligo del digiuno e dalla quantità del vino quando i fratelli sono impegnati nei lavo- 84 RB 40, 5; ma anche 39, 6; 41, 2.4; 48, 7.8; per il riferimento ad Agostino, cfr. Regula secunda Augustini, cap. 9, 65: «Melius est minus indigere quam plus habere» [edita in D. DE BRUYNE, La première règle de saint Benoît, «Revue bénédictine», 42 (1930), p. 321; inoltre, La Règle de saint Benoît, p. 1158]. 85 Il monito ad evitare ogni mormorazione è presente anche in RB 34, 6; 35, 13; 41, 5. 231 ri agrari d’estate ed è necessario far fronte alla calura e alla fatica86; convinzione nella quale, ancora una volta, è facile vedere la preoccupazione del legislatore per i più deboli (pusillanimes) già emersa all’inizio del capitolo. È evidente, allora, che il tipo di alimentazione pensata dal Maestro per i suoi monaci risultava insufficiente quando dal brolo del cenobio si passava ai lavori di fienagione o di mietitura svolti dai monaci agricoltori di Benedetto; non si trattava più, in altre parole, di celebrare le feste e la venuta degli amici, ma di nutrire una comunità stanca dopo una giornata trascorsa nelle opere rurali. La ragione tuttavia della diversa impostazione dell’attività lavorativa non è meno importante, giacché i monaci erano organizzati in modo tale da vivere «del lavoro delle proprie mani» sull’esempio apostolico e dei padri (RB 48, 8). Significativa appare anche la differente valutazione degli effetti dell’ebbrezza, espressa da Benedetto in termini assai vaghi e ben lontani dalla precisione del Maestro: ‘sinteticità’ e ‘prolissità’ che contraddistinguono nel loro complesso le due regole. Da una parte, si condanna semplicemente l’abuso, sulla scorta del passo biblico in cui si dice che il vino in eccesso fa perdere il senno (Sir 19, 2), secondo un’impostazione ben collaudata dal legislatore cassinese; dall’altra, le conseguenze dell’ubriachezza sono poste in relazione al controllo della sessualità, adombrata nell’uso dei termini luxuria e libido. Dalla sobrietà conseguono un maggiore fervore ascetico e il desiderio delle cose spirituali, mentre bevendo vino in eccesso si scatenano le basse pulsioni corporee e le fantasie impure. Resta comune, invece, il quadro normativo generale e il riferimento alla moderazione e alla continenza, quale orizzonte entro cui far crescere l’esperienza claustrale. In ogni caso, entrambe le regole si pongono nella tradizione normativa del monachesimo del VI e VII secolo; con il suo elenco dei bicchieri da bere, infatti, il Maestro è assai vicino a Cesario, ad Aureliano e Isidoro e con tutta serenità tratta del vino considerandolo come elemento positivo87; Benedetto invece, per il suo modo di introdurre l’emina, appare più vicino a Fruttuoso e il cap. 40 sembra ispirato dal dubbio e dalle preoccupazioni di dover concedere quanto sarebbe stato meglio evitare, pressato dalla contingenza bellica della guerra greco-gotica (535- 86 87 232 La Règle de saint Benoît, pp. 1196-1197. Facciamo nostre qui alcune osservazioni conclusive di de Vogüé (cfr. La Règle de saint Benoît, pp. 1164-1165). 553) e impossibilitato perciò a fare altrimenti88. È un aspetto questo molto importante su cui bisogna porre la dovuta attenzione, in quanto le difficoltà della guerriglia che allora affliggeva la regione, giustificano le concessioni fatte da Benedetto e danno conto della ‘storicità’ della regola, concepita per il monastero di Montecassino in tempi di fame, di conflitti e penuria generali, dove qualora ci fosse stato del vino era giusto concederne un po’ anche ai suoi monaci. D’altra parte, la citazione paolina iniziale e quella successiva degli apotegmata manifestano la volontà del legislatore di voler essere come l’apostolo e il bisogno di riferirsi ad un modello di purezza primitiva, che sono frustrati dalla condizione reale, ma mostrano pure la sensibilità storica dell’autore. Questo modo di rapportarsi a delle origini ideali, in effetti, per «misurare dolorosamente il cammino percorso fino “ai nostri tempi”, è uno degli aspetti più interessanti della fisionomia intellettuale e morale di Benedetto»89, che proprio nel capitolo De mensura potus dimostra una straordinaria originalità rispetto alle altre regole, unita allo sforzo di adeguamento al fluire del tempo. Così l’austera ristrettezza benedettina sembra ispirarsi al mito della perfezione del passato e al rigorismo della tradizione monastica degli antichi padri, per poi innestarsi nel solco della sacra scrittura, dove il riferimento alla prima lettera ai Corinzi conferisce un rilievo al vino che non aveva certamente nel pensiero dell’apostolo. Il senso della persona, la dottrina dei carismi, il parallelo con il tema della castità sono concetti centrali nel discorso di Benedetto sull’uso del vino da parte dei monaci, la cui prospettiva storica – vista proprio in rapporto alla purezza del passato – consente al suo discorso di assumere una forte valenza attualizzante del modello di vita cenobitico. Tanto che un commentatore moderno, parlando del vino come della totalità racchiusa in una parte, ha potuto notare che quel breve capitolo sulla misura del bere e sul vino racchiude in realtà lo spirito di tutta la regola benedettina90. 88 Sulla storicità della regola e la conseguente attenuazione del rigore ascetico dovuto alle difficoltà del momento, ha richiamato per primo e giustamente l’attenzione Giorgio Picasso: «In particolare, quanto riguarda la mitigazione della disciplina monastica, e la stessa riduzione dell’ufficio divino che Benedetto introduce rispetto ai corrispondenti testi del Maestro, si può spiegare come un segno della durezza dei tempi nei quali il santo è vissuto e che corrispondono agli anni della guerra greco-gotica» (G. PICASSO, Il monachesimo nell’alto medioevo, in Dall’eremo al cenobio. La civiltà monastica in Italia dalle origini all’età di Dante, Milano 1987, p. 13). 89 La Règle de saint Benoît, p. 1166. 90 Cfr. A. FRACHEBOUD, Saint Benoît et le vin ou le tout dans la partie, «Collectanea cistercensia», 49 (1987), pp. 327-338; poco utile al nostro scopo risulta invece il contributo di V. FATTORINI, L’alimentazione nella Regola di san Benedetto, «Inter fratres», 45/2 (1995), pp. 175-201. 233 L’alimentazione monastica in età carolingia Con i capitoli 39, 40 e 41, relativi alla quantità del cibo, delle bevande e all’ora dei pasti, la Regula Benedicti stabilisce l’alimentazione dei monaci e ne fissa il regime quotidiano, senza tralasciare la periodicità dei giorni di digiuno e la cura verso i malati. La presenza del vino, intanto, era diventata del tutto normale sulle mense cenobitiche; anzi, si andavano moltiplicando le occasioni per aumentarne la razione giornaliera, ferma restando la misura di riferimento di un’emina per ciascuno. Alla vigilia della nascita dell’impero carolingio, tuttavia, la regola dell’abate cassinese – pur diffusa e adottata da numerose comunità, specie dell’Italia centrale – era ancora molto lontana dall’essere ‘la regola’ del monachesimo occidentale. L’artefice di questa svolta fu Benedetto di Aniane che, chiamato alla corte franca da Carlo, riuscì nell’intento di riformare i cenobi del regno, quando pochi anni dopo – grazie al sostegno di Ludovico il Pio – «il 23 agosto dell’anno 816 (…), riunitisi gli abati insieme a moltissimi loro amici nella parte del palazzo di Aquisgrana detta Laterano, si stabilì di comune accordo e all’unanimità» che la regola benedettina e le disposizioni integrative promulgate in quell’occasione diventassero vincolanti per tutte le abbazie dell’impero91. Quando l’abate di Aniane riprese il testo della regola, per assicurarne la diffusione generale, si rifece alle prescrizioni del fondatore anche per l’aspetto nutrizionale: i monaci avevano diritto a due pietanze cotte al giorno durante tutto l’anno e ad un terzo piatto di legumi o di verdure crude, se ce n’era la disponibilità, accompagnati da un grosso pane del peso di una libbra92 e da un’emina 91 Synodi primae Aquisgranensis decreta authentica. (816), ed. J. Semmler, in Initia consuetudinis benedictinae. Consuetudines saeculi octavi et noni, Siegburg 1963 (Corpus consuetudinum monasticarum [= CCM], 1), p. 462; inoltre, Benedetto di Aniane, p. 108, in cui le disposizioni del decreto sono tradotte in italiano, mentre nelle pagine introduttive all’edizione, a cura di G. Andenna e di C. Bonetti, viene tracciato un quadro del monachesimo carolingio e del contesto in cui maturò la riforma. 92 234 «Una libbra di pane pesi 30 soldi del peso di 12 denari ciascuno» (Benedetto di Aniane, p. 113 cap. 22), che all’inizio del IX secolo – secondo i calcoli di J.-C. HOCQUET, Le pain, le vin et la juste mesure à la table des moines carolingiens, «Annales. Économies, sociétés, civilisations», 40/3 (1985), pp. 668-670, elaborati per l’abbazia di S. Pietro di Corbie – corrispondeva ormai a poco meno di un Kg di peso (non molto dissimili sono anche le conclusioni di H. WITTHOFT, Les ordonnances metrologiques carolingiennes: verité et légende, in Les mesures et l’histoire, Table ronde W. Kula, 2 mai 1984, Paris 1984, p. 29; riprese da NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 297-298). La libbra di pane, in verità, è una misura tradizionale nell’alimentazione monastica: secondo Cassiano (Conlationes, 2, 19) agli eremiti e ai cenobiti d’Egitto era concesso mangiare due paxamatia (focacce d’orzo) al giorno del peso complessivo di una libbra di vino; il mercoledì e il venerdì, indicati di solito come giorni di digiuno, non veniva servito il terzo piatto. Questo impianto alimentare di base non venne modificato dal sinodo dell’816, né da quello successivo del luglio 817, nel corso dei quali ci si preoccupò di ‘attualizzare’ il dispositivo normativo interpretandone lo spirito in funzione delle mutate esigenze dei tempi e in relazione alla diversità dei luoghi, delle necessità imposte dal lavoro, dalle condizioni climatiche o dai doveri di ospitalità verso protettori illustri93. In particolare, si ritenne opportuno garantire ai malati «una ricca dieta con cibi e bevande particolari» che ne facilitasse il recupero, pur limitando la pratica salutare dei salassi94; si stabilì poi che quando «la fatica del lavoro lo richiedeva, i monaci potessero bere anche dopo cena, così come anche in quaresima e quando si celebrava l’ufficio funebre», prima della recita della compieta95; inoltre, pur invitando gli abati a rispettare «la stessa misura fissata per i loro monaci nel cibarsi e nel bere», anche in presenza di ospiti, si confermava al superiore la facoltà di aumentare un poco la razione quotidiana in base alle differenti esigenze, mentre nei giorni in cui era abolito il vino – vale a dire, il venerdì, venti giorni prima di natale e la settimana prima della quaresima – veniva concessa «una doppia emina di buona birra»96. scarsa; la RM (26, 2) prevede una libbra da dividere in tre quadrae, mentre Benedetto precisa che «di pane basterà una libbra abbondante al giorno, sia che si faccia un pasto solo o che vi sia pranzo e cena. Se vi è anche la cena, il cellerario ne metta da parte un terzo di libbra per il pasto serale» (RB 39, 4-5). Quanto alle pietanze, invece, l’abate cassinese è preciso sia nell’indicare il numero che nel darne la spiegazione: «per il pasto quotidiano siano sufficienti cocta duo pulmentaria, per tener conto delle diverse condizioni di salute, così che chi non potesse cibarsi dell’una possa nutrirsi dell’altra (…), e qualora vi sia la possibilità di avere frutta o verdura fresca, se ne aggiunga pure una terza» (RB 39, 1-3). 93 BENEDETTO DI ANIANE, Concordia regularum, PL, 103, col. 1130, corrispondente a RB 40; Regula sancti Benedicti abbatis Anianensis sive collectio capitularis, ed. J. Semmler, in Initia consuetudinis benedictinae, p. 534, cap. 74, 77. 94 Synodi primae Aquisgranensis, pp. 459-460, cap. 10; Benedetto di Aniane, pp. 108, 119. 95 Synodi primae Aquisgranensis, p. 460, cap. 11; Benedetto di Aniane, p. 108. 96 Synodi primae Aquisgranensis, pp. 462-464, cap. 23, 20; in particolare, rispetto al problema dell’ospitalità, il cap. 25 così si esprime: «L’abate, o qualche fratello, non sosti con gli ospiti presso la porta del monastero, ma dia ristoro e mostri loro l’umana accoglienza offrendo da mangiare e da bere nel refettorio. L’abate, tuttavia, si accontenti della stessa quantità di cibo e di bevanda che assumono gli altri confratelli. Ma se per la presenza dell’ospite, volesse aggiungere qualche cosa per sé e per i monaci alla solita razione, abbia il potere di farlo»; norma che veniva commentata poco dopo negli statuti murbacensi nel modo seguente: «Il capitolo prevede che agli ospiti, per i quali è stato dato il permesso di entrare nel refettorio, sia fornito un cibo adeguato; l’abate invece si accontenti del cibo che è servito ai confratelli, disposizione che sarà facile osservare se tanto all’abate quanto agli ospiti 235 Prima di giungere a queste decisioni, però, una serie di contatti, di incontri e di confronti erano stati avviati con la Chiesa romana e soprattutto con Montecassino, l’abbazia culla del monachesimo benedettino restaurata proprio all’inizio del secolo VIII. Consapevole della forza di tale illustre tradizione, il suo abate Teodomaro (778-797) era tutt’altro che disposto ad introdurvi modifiche volute dall’esterno, per questo ben volentieri aveva inviato al conte Teodorico, potente vassallo del re Carlo, una lettera in cui illustrava il calendario del regime alimentare annuale dei suoi monaci97. Da questo documento apprendiamo che, a due secoli e mezzo dalla morte di san Benedetto, non erano intervenuti significativi cambiamenti nella dieta cassinese e che, in particolare, la misura della bevanda continuava ad essere la stessa in qualunque stagione. In quaresima la loro alimentazione era fatta di uova, pesce, formaggio, ma non contemplava vino né pietanze cotte; durante l’unico pasto invernale, invece, ricevevano regolarmente la loro razione di vino e d’estate, coloro che erano occupati nel lavoro dei campi, oltre a ottenere un supplemento di vino, avevano diritto a due pasti anche il mercoledì e il venerdì in cui c’era digiuno, rispettivamente a mezzogiorno e alla sera. In occasione delle feste liturgiche, inoltre, o delle maggiori opere agricole si aumentava sia il formaggio che la quantità delle pietanze in genere, mentre durante la canicola estiva i religiosi erano rinfrancati da una coppa di vino prima del pranzo e un’altra a metà pomeriggio. Dalla loro mensa restava del tutto assente la carne, ma quella dei volatili – specialmente dei polli o delle oche allevate nel cortile dell’abbazia – veniva cucinata e servita, insieme al vino nuovo dell’annata, a pasqua e natale per rendere più festose tali solennità. Teodomaro si rivolse tuttavia direttamente anche a Carlo Magno con un’altra lettera, nella quale presentava al sovrano in modo più dettagliato il menu settimanale completo, con allegato un campione del peso di quattro libbre, sul modello di quello in uso a Montecassino per pesare il pane, e la misura di capacità per la bevanda esemplata da due calici, l’uno per il pranzo e l’altro per la cena, conforme alla regola e corrispondente ad un’emina98. Nei giorni di magro, sarà dato un cibo migliore; anche i confratelli gioiscano un po’ per l’arrivo di altri monaci e allentino il rigore dell’astinenza» (Benedetto di Aniane, pp. 109-110, 121). 97 Theodomari abbatis Casinensis epistula ad Theodoricum gloriosum, ed. D.J. Wynandy, D.K. Hallinger, in Initia consuetudinis benedictinae, pp. 128-162. 98 236 Theodomari abbatis Casinensis epistula ad Karolum regem, ed. D.K. Hallinger, D.K. Wegener, in Initia consuetudinis benedictinae, pp. 160-166. In particolare l’abate cassinese scrive al sovrano franco: «(…) vi mercoledì e venerdì, i fratelli si accontentavano di due pietanze cotte, senza bere vino, insieme al pane, ai legumi e alle verdure dell’orto; gli altri giorni le pietanze diventavano tre, mentre la domenica e nei giorni di festa se ne aggiungeva una quarta, ed era pure permesso nutrirsi di carne di volatili anche in momenti diversi da pasqua e natale, senza per questo commettere colpe. Riguardo alla bevanabbiamo pure mandato una misura della bevanda che deve essere distribuita ai fratelli al pasto di mezzogiorno e un’altra al pasto della sera. Queste due misure, secondo il parere dei nostri monaci più anziani, sono la misura di un’emina. Ma noi stabiliamo anche la misura del calice che i fratelli devono ricevere conformemente al testo della santa regola» (Ibidem, p. 163). Sulla base di questo testo, nel quale Teodomaro dice di aver inviato una coppa conforme al calice-campione conservato nel suo monastero, in due esemplari, l’uno per il pranzo e l’altro per la cena, pari ad un’emina, JeanClaude Hocquet ha provato ad elaborare il sistema di misure volumetriche in uso a Corbie dopo la riforma di Benedetto di Aniane, schematizzabile nel modo seguente: moggio secchio (situla) sestario emina calice 1 2 16 48 96 1 8 24 48 1 3 6 1 2 1 L’autore poi, attraverso una serie complessa di calcoli e dopo aver evidenziato come il sistema sia fondato su un aritmetica a base 2 (calice-emina, sestario-secchio, secchio-moggio) o a base 3 (eminasestario), trasforma tali indicazioni in misure moderne, cioè in litri, proponendo tre ipotesi ragionevoli e ben argomentate: I moggio in litri secchio (situla) sestario emina calice 39,75 19,875 2,484 0,828 0,414 II 46,32 23,166 2,895 0,925 0,482 III 52,93 26,465 3,308 1,102 0,551 Il confronto, infine, con alcune misure adottate in Francia ancora in età moderna, lo porta a privilegiare, riguardo la stima del moggio, la terza ipotesi che lo collocherebbe tra 51 e 53 litri, osservazioni che – soprattutto in rapporto al valore della situla – trovano un interessante parallelo anche in area lombarda nel periodo tardo medievale e moderno [cfr. HOCQUET, Le pain, le vin, pp. 666-667, 673-675; per un parallelo con l’area padana, G. ARCHETTI, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998 (Fonti e studi di storia bresciana. Fondamenta, 4), pp. 198-199]. In realtà, il problema delle misure medievali è un tema aperto e dibattuto, spesso anche in maniera molto vivace, sia per la diversità dei sistemi adottati su base regionale, sia per quella dei contenitori che solo di rado si sono conservati; quanto all’emina, poi, la variabilità delle indicazioni offerte dagli studiosi – da ¼ di litro a oltre un litro – trova una parziale spiegazione se correttamente collocate nell’ambito spazio-temporale riferito dalla singola fonte. Nel nostro caso, per esempio, non sembra accettabile la stima di ¼ di litro proposta dagli editori della lettera di Teodomaro (Theodomari abbatis Casinensis epistula ad Karolum regem, p. 163 ripresa da I. HERWEGEN, Sinn und Geist der Benediktinerregel, 237 da poi, «giacché da noi vi è vino in abbondanza», oltre la razione consueta essi ricevevano una coppa il sabato, la domenica, il martedì e il giovedì, due coppe invece durante le feste; in estate si dava loro un frutto e una coppa di vino, ma a coloro che lavoravano nei campi per la fienagione, si preparava una bevanda più nutriente a base di vino, acqua e miele. Tuttavia, osservava Teodomaro, nonostante il rigore della regola sia stato un po’ attenuato nel corso del tempo dagli abati di Montecassino, «molti nostri fratelli non mangiano volatili né bevono mai vino, se non dal santo calice»99. Tenendo conto anche di questa evoluzione, Benedetto di Aniane confermò le due pietanze giornaliere, il piatto di legumi, la libbra di pane e l’emina di vino. Riguardo a quest’ultima, però, essa appariva ormai – rovesciando in un certo senso il ragionamento di san Benedetto – come la misura minima fissata per i malati, per i più deboli o per coloro che non facevano lavori pesanti nei campi, esemplificati dalla fienagione100. I testi preparatori del sinodo di Aquisgrana precisano che «un’emina di vino basta ogni giorno, per quanto possa essere aumentata, senza tuttavia cadere nell’ubriachezza che è proibita dalla regola»101; come a dire che il riferimento ideale alla norma era salvo, ma le contingenze legate al Einsiedeln-Köln 1944, p. 259), come davvero eccessivamente abbondanti – per quanto indicative di consumi realmente più elevati rispetto al passato – appaiono le stime di M. ROUCHE, La faim à l’époque carolingienne: essai sur quelques types de rations alimentaires, «Revue historique», 250/1 (1973), pp. 301317, pesantemente criticate da HOCQUET, Le pain, le vin, pp. 661-686 (e Ibidem, pp. 687-688 per la risposta di M. Rouche e 689-690 per la replica di J.-C. Hocquet); più equilibrate sono invece le considerazioni di WITTHOFT, Les ordonnances, p. 28, riprese da NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 302-303, e soprattutto quelle di J.-P. DEVROEY, Units of measurement in the early medieval economy: the example of carolingian food rations, «French History», 1/1 (1987), pp. 68-72, che sostiene l’inaffidabilità dei tentativi di tradurre in misure di capacità moderne le unità medievali, concetti su cui è tornato per qualche precisazione MONTANARI, Alimentazione e cultura, p. 90 e n. 203; ripresa anche da C. URSO, L’alimentazione al tempo di Gregorio di Tours. Consuetudines e scelte culturali, «Quaderni medievali», 43 (1997), p. 24 e n. 130. Un utile campionatura e confronto tra consuetudini orientali e occidentali invece, sia pure con qualche limite metodologico, è data dal saggio di M. DEMBINSKA, Diet: a comparison of food consumption between some eastern and western monasteries in the 4th-12th Centuries, «Byzantion», 55 (1985), pp. 431-462; il tema dei consumi e dell’alimentazione, infine, è stato oggetto anche di uno specifico dossier: Histoire de la consommation, da parte della rivista «Annales ESC», 30 (1975), pp. 402632, ancora meritevole di un’attenta lettura. 99 100 101 238 Theodomari abbatis Casinensis epistula ad Karolum regem, pp. 162-166, citaz. a p. 166. BENEDETTO DI ANIANE, Concordia regularum, col. 1130, cap. 49; HOCQUET, Le pain, le vin, p. 667. Synodi primae Aquisgranensis acta praeliminaria, ed. J. Semmler, in Initia consuetudinis benedictinae, p. 436, cap. 28. luogo, al tempo e alle più diverse situazioni autorizzavano la sua interpretazione storica e la possibilità di inserire deroghe importanti. Bisognava pertanto evitare di bere a sazietà, rifuggire l’ebbrezza ed avere come misura consigliata quella dell’emina benedettina, senza smettere di nutrire un’attenzione speciale per i più deboli e bisognosi, ma tenendo conto pure delle esigenze di una vita più intensa. Il criterio di comportamento, cioè, era quello indicato negli statuti murbacensi a corredo dei decreti sinodali: «Abbiamo parlato della debolezza del nostro corpo non per assecondarne le lusinghe della gola, quanto per provvedere alle necessità fisiche», di conseguenza – nota il commentatore –, per la misura del cibo e della bevanda, si è deciso «in modo tale che ci sostenga per le cose utili e non ci sia nocivo conducendoci al male»102. Nei cenobi dell’Europa mediterranea il vino era distribuito in virtù della sua abbondanza e dove mancava, come nei paesi continentali e insulari, il suo posto era preso dalla birra o da bevande analoghe103. La misura consentita era il minimo che si potesse ricevere, ma laddove tale quantità poteva essere aumentata, per la presenza di ospiti104 o perché la situazione del luogo lo permetteva, si poteva giungere persino ad un massimo di cinque libbre (più di due litri), eventualmente suddivise tra varie bevande – ad esempio un’emina di vino e il doppio di birra –, senza tuttavia eccedere tale limite massimo e restando la quantità consigliata quella di un’emina a testa al giorno105. Nel caso di S. Pietro di Corbie, le 102 Benedetto di Aniane, p. 117. 103 Si vedano a titolo indicativo: Consuetudines Corbeienses, ed. J. Semmler, in Initia consuetudinis benedictinae, pp. 373, 418-419; nelle consuetudini dell’abbazia inglese di Eynsham nell’Oxfordshire la cervisia è di gran lunga più attestata del vino: infatti, ai monaci doveva essere garantita «cervisiam recentem» a tavola, al cantore invece era riservata una misura «de meliori cervisia» e ai poveri, come agli ospiti, erano dati cotidie pane e cervisia [The Customary of the Benedictine Abbey of Eynsham in Oxfordshire, ed. A. Gransden, Siegburg 1963 (CCM 2), pp. 186-187]; così pure nel monastero austriaco di Kastler, per la carità e l’accoglienza, nel tardo medioevo erano riservati «tria vascula cum cervisia» [Consuetudines Castellenses, ed. P. Maier, Siegburg 1996 (CCM 14/1), p. 277]. 104 «Il ventitreesimo capitolo – si legge nei decreti del secondo sinodo di Aquisgrana (817) – prevede che gli ospiti, per i quali è stato dato il permesso di entrare nel refettorio, sia fornito un cibo adeguato; l’abate invece si accontenti del cibo che è servito ai fratelli, disposizione che sarà facile osservare se tanto all’abate quanto agli ospiti sarà dato un cibo migliore; anche i fratelli gioiscano un po’ per l’arrivo di altri monaci e allentino il rigore dell’astinenza» (Benedetto di Aniane, p. 121). 105 Concilium Aquisgranense. (816), ed. A. Werminghoff, MGH, Concilia aevi Karolini, II/1, Hannoverae et Lipsiae 1906, pp. 401-403, 447; DEVROEY, Units of measurement, p. 87, commentando la disposizione conciliare nota che l’ipotetica razione giornaliera di un canonico doveva essere di 4 libbre di pane (cir- 239 cui consuetudini mostrano con una certa precisione le razioni distribuite ai poveri dell’ospedale monastico, a cui erano destinate un quinto delle entrate e parte delle decime, sappiamo che nei giorni di festa ogni fratello poteva aspirare alla consolatio, oltre alla consueta razione di vino, cioè ad un supplemento di vino o birra: tre calici a natale, pasqua e pentecoste, due per altre 15 grandi festività liturgiche, uno per almeno altre 36 feste ordinarie, nei giorni di sabato e le domeniche, per un totale di quasi 150 giorni all’anno in cui la quantità di bevanda permessa era accresciuta106. Una situazione che, in larga misura, trova conferma anche nel commentario di Ildemaro di Corbie, compilato pochi decenni dopo in Lombardia, che per ciò stesso consente di dilatare queste indicazioni sulle aggiunte di vino anche ai grandi monasteri dell’Italia padana. Per applicare correttamente le disposizioni di Aquisgrana, gruppi di monaci si spostarono di abbazia in abbazia al fine di facilitare l’introduzione delle norme o di apprenderle dove già erano entrate in vigore, come pure furono compilati strumenti interpretativi a compendio dei decreti conciliari e della regola benedettina. È il caso dell’Expositio dell’abate Smaragdo di Saint-Michel presso Verdun, che permette di seguire la regola capitolo per capitolo attraverso i testi della sacra scrittura e dei padri collazionati a commento107: uno strumento, cioè, che per la sua particolare struttura non risulta essere molto rilevante ai nostri fini. Alcune annotazioni però meritano la nostra attenzione, anche perché dal loro esame sarà poi possibile passare ad un commentario assai più interessante e originale come quello di Ilde- ca 1, 3 kg) e di 1, 3 litri (fino a 1, 6 litri) di vino o birra, mentre le monache ricevevano 3 libbre di pane (1 kg) e, a seconda della regione, da 1/3 a 1 litro di vino o birra al giorno; ID., Vin, vignes et vignerons en pays rémois au Haut Moyen Âge, in Vins, vignobles et terroirs de l’Antiquité à nos jours, Actes du colloque de Reims (du 9 au 11 octobre 1997), réunis sous la direction de V. Barrie, Nancy 1999, p. 76. 106 Consuetudines Corbeienses, pp. 368-369, 418-419; HOCQUET, Le pain, le vin, p. 679. Per il riferimento al testo del commentario di Ildemaro di Corbie, si veda più avanti alla nota 112; per il supplemento quasi giornaliero di misto, invece, cfr. Ildemaro, pp. 399-400, 402, 427, 462-463 (v. sotto la nota 123 e testo corrispondente e successivo); inoltre, per il suo impiego nell’alimentazione monastica, con particolare riferimento alle consuetudini di Fruttuaria, si veda MONTANARI, Alimentazione e cultura, p. 89, come pure le osservazioni proposte più avanti. 107 240 SMARAGDO DI SAINT-MICHEL, Expositio in Regulam s. Benedicti, ed. A. Spannagel, P. Engelbert, Siegburg 1974 (CCM 8). L’esempio concreto, tipico dei commentari medievali dalla struttura compilativa, è dato dal commento a RB 4, 35 dove si dice che il monaco non deve essere dedito al vino, «non vinolentum», e la spiegazione precisa semplicemente che si tratta di «colui che beve a sazietà col pericolo di inebriarsi», corredata da una nutrita serie di testi biblici, di Isidoro e dello pseudo-Basilio sui pericoli di ogni eccesso nel bere (Ibidem, p. 117). maro di Corbie. Innanzitutto, riguardo ai settimanari di cucina (RB 35, 12-13), si precisa meglio la prassi concreta del supplemento alimentare, vale a dire che il pane e il vino concesso per aiutarli a resistere meglio al digiuno durante il loro servizio doveva essere inteso in aggiunta alla normale razione alimentare; tale integrazione, inoltre, andava presa prima che i fratelli si recassero a mensa per la refezione108. Più interessante risulta invece la spiegazione relativa al «mixtum» dato al lettore (RB 38, 10), ossia «il pane intinto nel vino», per l’esplicito riferimento eucaristico che recava con sé: «infatti, in molte province il pane appunto e il vino che viene offerto sull’altare, è chiamato misto»; da cui risulta chiaro anche il significato del passo successivo, che il lettore prende il misto «per rispetto alla santa comunione, affinché nessuna particella delle sacre specie sputacchiando finisca in quanto espettorato»109. Nel commento al capitolo 40, dedicato alla misura della bevanda, si precisa che proprio in virtù della diversità dei doni ricevuti da ciascuno, la linea della temperanza aiuta sia chi ha ricevuto di più sia chi fa più fatica a rinunciare ad una maggiore quantità di vino, mentre il riferimento alla «debolezza dei malati» non va inteso in rapporto all’infermità del corpo, ma a quella dello spirito. Si cita poi un passo della regola di Ferreolo, non tanto per stigmatizzare i rischi del bere troppo, «poiché è superfluo ammonire un monaco riguardo all’ubriachezza», quanto per stabilire una astinenza di almeno 30 giorni per il fratello che imprudentemente dovesse inebriarsi, cioè per il tempo necessario all’anima di liberarsi del tutto dai fumi della digestione alcolica.Quanto sia pericoloso, infine, ogni eccesso di vino lo dimostrano gli esempi biblici dei patriarchi Noè e Lot (Gen 9, 21; 19, 33-35); i monaci devono pertanto essere contenti di quanto viene loro preparato senza mormorare, per non finire come quelli che perirono nel deserto per essersi lamentati (Nm 14, 36; Sal 106, 25-25)110. Circa l’ora dei pasti e il digiuno, infine, si conferma che durante la quaresima il pasto è uno solo, nel quale sono esclusi sia il vino che l’olio, mentre quando si compiono i lavori agricoli estivi e durante la vendemmia, l’astinenza può essere mitigata e il pranzo deve essere a mezzogiorno111. 108 SMARAGDO, Expositio in Regulam, p. 247. 109 SMARAGDO, Expositio in Regulam, p. 254. 110 Ragione per la quale si comprende la necessità di introdurre, quale misura di riferimento di consumo pro capite giornaliero, quella dell’emina corrispondente – secondo Isidoro – «ad una libbra che raddoppiata forma un sestario» (SMARAGDO, Expositio in Regulam, pp. 258-259; ISIDORO, Etymologiae, col. 594, lib. XVI, cap. 26, 5; FERREOLO, Regula ad monachos, col. 975). 111 SMARAGDO, Expositio in Regulam, p. 261. 241 Il commento di Ildemaro di Corbie Più dettagliata e per tanti aspetti originale è l’Expositio o commento alla regola benedettina di Ildemaro112, monaco educato alla scuola di Adalardo di Corbie e poi diffusore per mezza Europa – fino a giungere in Italia settentrionale, dove si spense nel monastero di S. Pietro di Civate a metà del IX secolo – del suo peculiare modo di interpretare la riforma monastica, il cui commentario è stato definito «il libro di testo del monachesimo carolingio»113. L’opera non comprende ovviamente una trattazione specifica sul vino, ma il contesto e le occasioni in cui 112 R. MITTERMÜLLER, Expositio Regulae ab Hildemaro tradita, in Vita et Regula ss. p. Benedicti una cum expositione Regulae a Hildemaro tradita, Ratisbonae, Neo-Eboraci et Cincinnati 1880 (= Ildemaro). Sulla tradizione manoscritta del commentario di Ildemaro, attribuito a Paolo Diacono [tanto che il manoscritto cassinese è stato pubblicato col suo nome, cfr. PAULI WARNEFRIDI diaconi Casinensis Commentarium in Regulam Benedicti, Florilegium Casinense, Monte Cassino 1880 (Bibliotheca Casinensis, 4)], oltre che ad altri autori (con particolare riguardo alla cosiddetta Recensio Basilii abbatis, la più antica), cfr. L. TRAUBE, Textgeschichte der Regula S. Benedicti, München 1910, p. 42; W. HAFNER, Der Basiliuscommentar zur Regula S. Benedicti. Ein Beitrag zur Autorenfrage karolingischer Regelkommentare, Münster 1959 (Beiträge zur Geschichte des alten Mönchtums und des Benediktinerordens, 23), pp. 60-69; K. ZELZER, Überlegungen zu einer Gesamtedition des frühnachkarolingischen Kommentars zur Regula S. Benedicti aus der Tradition des Hildemar von Corbie, «Revue bénédictine», 91 (1981), pp. 373-382; M. DE JONG, Growing up in a Carolingian monastery: Magister Hildemar and his oblates, «Journal of Medieval History», 9/2 (1983), p. 124 n. 3; K. ZELZER, Von Benedikt zu Hildemar. Zur Textgestalt und Textgeschichte der Regula Benedicti auf ihrem Weg zum Alleingeltung, «Frümittelalterliche Studien», 23 (1989), pp. 112-130; M. DE JONG, In Samuel’s image. Child oblation in the early medieval West, Leiden - New York - Köln 1996 (Brill’s studies in intellectual history, 12), p. 70. Sulla vicenda biografica invece di Ildemaro – registrato insieme all’abate Leodegario nel liber vitae del monastero di San Salvatore - Santa Giulia di Brescia [Der Memorialund Liturgiecodex von San Salvatore / Santa Giulia in Brescia, ed. D. Geuenich und U. Ludwig, unter Mitwirkung von A. Angenendt, G. Muschiol, K. Schmid (†) und J. Vezin, Hannover 2000 (MGH, Libri memoriales et necrologia. Nova series, IV), pp. 106, 192], il cui nome con la qualifica di presbyter è riportato anche nella lista dei monaci di Civate, presente nel liber confraternitatum di Pfäffers (Libri Confraternitatum Sancti Galli, Augensis, Fabariensis, ed. P. Piper, MGH, Confraternitates Augenses, Berolini 1884, p. 384) – e sulla sua presenza riformatrice in area bresciana e lombarda, cfr. TRAUBE, Textgeschichte der Regula, pp. 40-44, 107-108; [P. Tomea], s.v., Hildemarus monachus, in Repertorium fontium historiae medii aevi, V, Romae 1984, pp. 492-494; G. MICHIELS, s.v., Hildemar, abbé de Civate, in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, 24, Paris 1993, col. 502; inoltre, qualche precisazione anche in G. ARCHETTI, Pellegrini e ospitalità nel medioevo. Dalla storiografia locale all’ospedale di Santa Giulia di Brescia, «Brixia sacra. Memorie storiche della diocesi di Brescia», VI/3-4 (2001), pp. 85-104; ID., Scuola, lavoro e impegno pastorale: l’abbazia di Leno nel medioevo (secoli IX-XIV), «Brixia sacra. Memorie storiche della diocesi di Brescia», VII/1-2 (2002), pp. 98, 109-116. 242 113 DE JONG, In Samuel’s image, p. 70; ARCHETTI, Pellegrini e ospitalità, p. 91. ricorre il derivato della vite sono numerosi e talvolta offrono all’autore la possibilità di descrivere aspetti diversi della vita monastica e della sua esperienza personale nei grandi cenobi transalpini114. Un primo aspetto emerge a proposito del termine miscere (mescolare, versare), usato per qualificare l’insegnamento dell’abate che, come un maestro austero o un padre affettuoso, deve alternare severità e dolcezza a seconda delle circostanze115. «Il verbo miscere – spiega Ildemaro – può essere inteso in due modi: nel senso di ministrare, come quando diciamo: “mesce il vino”, cioè versa il vino, oppure nel senso di mittere, come quando diciamo: “mescola l’acqua col vino”, cioè mette insieme acqua e vino». Alla stessa maniera, il superiore dispensa (miscet) affetto e serietà ai fratelli in relazione alle loro necessità; a lui spetta però anche il dovere di sradicare i vizi ogni qual volta si manifestano, operando con determinazione. Se, per esempio, vi sono «due o tre monaci che, sopraffatti dal desiderio della gola, mangiano e bevono in refettorio prima dell’ora del pasto» e l’abate li rimprovera senza riprendere il cellerario, in questo caso «il suo richiamo rischia di essere vanificato, poiché – anche se sembra emendare e amputare – qualora dovesse risultare che ad essere vizioso è il cellerario, questi non darà più nulla ai fratelli che sono stati rimproverati, ma ad altri. Pertanto, se si vuole recidere fino alle radici si deve esonerare il cellerario»: solo così potrà essere veramente sradicato il vizio116. Di norma le colpe però non hanno tutte la stessa gravità e, nel caso in cui un fratello arrivi tardi a mensa o non sia presente al momento della preghiera comune, è prevista la privazione del vino e il suo isolamento durante il pasto. Tuttavia, osserva Ildemaro, quando nella regola si dice «separatus solus», non si deve intendere nel senso che questi mangi da solo dopo gli altri, ma piuttosto che «quando gli altri mangiano, egli mangi separato e non beva vino. Nel mio monastero in Francia, infatti, ho visto mangiare quel fratello negligente per conto suo in mezzo al refettorio mentre pranzavano anche gli altri»117. Dove al castigo dell’astensione dal vino, si aggiunge la vergogna dell’umiliazione pubblica e della pressione 114 Numerosi riferimenti interni al commentario fanno direttamente appello a quanto avveniva in tali abbazie, cfr. almeno per i monasteri della Francia, Ildemaro, pp. 302, 417, 460, 462, 519, 572, 582. 115 RB 2, 24: «miscens temporibus tempora, terroribus blandimenta dirum magistri, pium patris ostendat affectum»; Ildemaro, p. 107, anche per la citazione del testo successivo. 116 Ildemaro, p. 113; RB 2, 26, ma anche 33, 1; 55, 18. 117 Ildemaro, pp. 462 e 497; RB 43, 15; 51, 3. 243 psicologica esercitata dallo sguardo dei confratelli. Per mancanze più lievi, invece, come fare rumore a tavola, rovesciare un cucchiaio d’olio o un bicchiere di vino, era necessario chiedere scusa al superiore chinando il capo, mentre per le cose più leggere – per esempio, sciupare tre chicchi di lenticchia – si rimediava con la recita di due o tre salmi. Alle differenti mancanze, dunque, corrispondevano diversi obblighi di riparazione: se si danneggiava qualche oggetto di utilità comune bisognava in qualche modo rimediare; un giudizio severo aveva il non riconoscimento o l’occultamento delle proprie responsabilità. Il commentario a questo proposito offre alcune importanti precisazioni di carattere concettuale e linguistico: «deliquerit attiene al versare qualcosa, fregerit al rompere qualcosa, excesserit si riferisce al far rumore in refettorio con la coppa o il coltello, oppure con il cucchiaio che cade per terra, o qualche altro rumore fatto sulla tavola»118. Questo argomento, dopo aver considerato i compiti dell’abate, ci porta a guardare all’economo della comunità, il cellerario, a cui erano affidate la mensa, la cucina, la cantina e la dispensa. Tra i suoi compiti vi era quello di mantenere in buono stato beni e attrezzi del cenobio e, tra questi, anche le stoviglie e i recipienti di cucina (vasa, vascula), rispetto ai quali doveva provvedere alla loro munditiam (alla pulizia), integritatem (che non si rompessero) e numerum (che ci fossero tutti), stilando un apposito elenco. All’inizio di ogni settimana, pertanto, egli diceva a colui che prendeva servizio in cucina: «Ecco fratello, tu hai visto che questi utensili sono sana et munda atque integra, restituiscili così allo scadere del tuo servizio»; e subito dopo scriveva con precisione sulle tavolette il numero vasculorum119. Responsabile di tutto ciò che giungeva sulla tavola dei monaci, il cellerario doveva pure evitare di essere attorniato di fanciulli che gli chiedevano pane e vino; per questo era consentito ai più piccoli anticipare l’ora dei pasti e, «quindi, non è sbagliato che essi mangino prima dell’ora fissata per il pasto», durante il quale non veniva data loro una razione di cibo uguale a quella di tutti i monaci, non solo e non tanto per una ragione economica in quanto essi consumavano di 118 Ildemaro, pp. 471, 473-474; per l’atteggiamento di umiltà da tenere quando si commette qualcosa, RB 45, 2, mentre rispetto ai danneggiamenti 46, 1-4: «Se durante qualche lavoro, in cucina, in dispensa, nel servizio a mensa, al forno, nell’orto o mentre è impegnato in altre attività o in qualche altro posto, qualcuno commette una mancanza, o danneggia o perde qualcosa o si rende comunque colpevole, e non si presenta subito davanti all’abate e alla comunità per fare spontaneamente riparazione e confessare la propria colpa, ma la sua mancanza si viene a sapere da un altro, sia sottoposto a un castigo più severo». 244 119 Ildemaro, pp. 398-399; RB 35, 5.10.11; inoltre 31, 10; 36, 10; 39, 5. 245 246 meno, ma perché avendo mangiato prima erano già sazi120. In ogni caso, a parte questa deroga specifica per l’infanzia, di norma a nessuno era permesso «prendere per conto suo cibo e bevanda prima o dopo l’ora stabilita» (RB 43, 18) e Ildemaro spiega che laddove si dice «nequidquam potus», si deve intendere tanto il vino quanto l’acqua, tranne che di fronte a bisogni particolari. Nel caso in cui però la necessità di bere veniva indotta dal lavoro dei campi, spettava al priore comunicarlo all’abate, il quale dava seguito a tale richiesta, dicendo: «Poiché il nostro fratello ha bisogno di bere a motivo del lavoro, che lo abbia» e informava il decano, il quale comandava al cellerario di dargli da bere. Si precisa poi che l’uso particolare di offrire al lettore o agli altri ministri per il loro servizio, sia pure con la benedizione del superiore, qualcosa in più di pane, vino o pietanza non era conforme alla regola, ma corrispondeva alla consuetudine dei laici, in quanto san Benedetto aveva permesso loro «di prendere prima del pasto suam justitiam, cioè il mixtum; salvo che quel qualcosa in più, e questo è giusto, fosse dato a motivo della loro debolezza o della malattia»121. Il riferimento al lettore che prima di iniziare a leggere in refettorio prendeva il «misto» è assai interessante, in quanto precisa che il mixtus era detto anche «giustizia», e consisteva in «singoli bicchieri di acqua e vino (biberes) e del pane»; ciò spiega pure la consuetudine esistente nell’area franca di usare il termine «mordere per indicare il misto», mettendolo in relazione diretta con “il pane e il vino” dato ai fratelli incaricati dei lavori di cucina poco prima del pasto122. Si aggiunga, inoltre, che la precisazione temporale “poco prima del pasto” ha semplicemente il valore di segnare cronologicamente lo svolgersi ordinato delle cose, in modo tale che nell’orario esista un breve intervallo nel quale essi possano prendere ciò che è loro comandato di mangiare prima del servizio. Ciò significa, per esempio, che quando i fratelli mangiano all’ora nona, dopo aver cantato la messa all’ottava, finita la celebrazione quelli che dovevano ricevere il mixtum – cioè, gli inservienti della cucina, il lettore, gli addetti dell’ospedale e quelli preposti alla cura dei malati – andavano in refettorio dove trovavano preparato un quarto di libbra di pane e un bicchiere di vino. Solo allora il fratello addetto al segnale, atteso che il 120 Ildemaro, p. 421; RB 37, 3; inoltre, per il tema dell’educazione dei bambini oblati e la loro alimentazione, si vedano Ildemaro, pp. 333, 419-421, 578 e le osservazioni al riguardo di DE JONG, Growing up in a Carolingian monastery, pp. 103-104 e ARCHETTI, Scuola, lavoro e impegno pastorale, pp. 112-113. 121 Ildemaro, pp. 362-363. 122 Ildemaro, pp. 427, 399; RB 38, 10; 35, 12-13. 247 sacerdote si fosse tolto i paramenti, suonava il cembalo o la campana perché la comunità andasse in refettorio123. In quaresima, nell’intervallo tra la messa e il vespro, a cui seguiva l’unico pasto del giorno, i monaci ricevevano il mixtum, come se fosse uno spuntino o una merenda124, per usare un’immagine attuale; durante l’estate, invece, quando il pasto era all’ora sesta, dopo aver cantato terza e celebrato la messa, il fratello incaricato di dare il segnale del pranzo – quando vedeva che si stava avvicinando il momento, ma mancavano ancora pochi minuti –, suonava due o tre rintocchi in modo che i fratelli potessero affrettarsi ad andare in refettorio, dove trovavano preparato solo panem et vinum sui tavoli, in quanto la regola parla di questi due alimenti e non di altri. Quando poi colui che doveva dare il segnale del mezzogiorno vedeva che tutto ciò era stato consumato, allora suonava la sesta; la comunità iniziava a recitare il Miserere mei Deus mentre i settimanari, accompagnati dal cellerario, si recavano in cucina a svolgere il loro compito, mettevano la pietanza calda nelle scodelle e il cellerario versava il vino. Terminato il pasto e trascorso il tempo del riposo, giunta l’ora nona ognuno riprendeva le sue mansioni; nel caso del lettore, tuttavia, va aggiunto che quando si esercitava a leggere o a cantare non riceveva il misto, «giacché non ho mai visto nessuno a fare ciò», assicura Ildemaro. Bisogna sapere semmai, prosegue il testo, che quanti ricevevano il mixtum, non per questo erano tenuti alla recita in comune del versetto. Il supplemento di pane e vino, dunque, era diventato una consuetudine diffusa e comune, che si svolgeva secondo un rituale preciso e ad un orario consueto, appositamente segnalato dai rintocchi ad mixtum, non solo durante i giorni feriali ma anche la domenica, nelle feste dei santi e quando il pasto era all’ora sesta125. Comprensibilmente ampio appare a questo punto il commento a RB 40, sulla quantità del vino, fin dall’esame iniziale della dottrina paolina dei carismi, dalla quale consegue la scrupolositas del legislatore nel fissare una misura alimentare valida per tutti126. Infatti, scrive il maestro di Civate, «qualcuno riceve il dono di bere meno della quantità stabilita», qualcun altro quello di averne appena a suf123 Ildemaro, p. 399. 124 Il termine ricorre però, «pro merendam panem unum et vinum quantum sit sufficiens», in modo preciso negli Statuta Casinensia del XIII secolo [ed. T. Leccisotti, F. Avagliano, C.W. Bynum, in Consuetudines benedictinae variae (Saec. XI - Saec. XIV), Siegburg 1975 (CCM 6), p. 235]. 248 125 Ildemaro, pp. 400, 402; inoltre, per l’assunzione di misto anche pp. 399, 427, 462-463. 126 Ildemaro, pp. 443-448. ficienza, un altro ancora di «poter vivere senza la necessità di assumere vino e un quarto, bastandogli meno della misura indicata, accetta tale quantità pur non potendo astenersi completamente dal vino». Il motivo, tuttavia, per il quale Benedetto alla fine ha rotto gli indugi stabilendo una quantità standard sufficiente per ciascuno deriva dalla preoccupazione di provvedere alle esigenze dei più deboli; la «infirmorum (…) imbecillitatem» però, anche per Ildemaro, non riguarda tanto l’infermità del corpo, ma quella della mente127. Si avverte piuttosto il timore che non vengano superati quei limiti oltre i quali si cade nel vizio, «dal momento che il peccato non sta tanto nel cibo, quanto nel desiderio». Per questo, anche laddove nella regola si ordina che il monaco non deve essere «vinolentus», si mette in evidenza che il padre Benedetto «non disse di non bere vino, ma di non essere dedito al vino. Vinolentus infatti è colui che viene sopraffatto dalla bramosia del vino; ciò vuol dire che non bisogna bere con avidità»128. Di conseguenza, proprio in virtù della premessa biblica iniziale, qualunque siano le condizioni e le situazioni particolari, l’assenza o la penuria di vino non deve mai diventare un motivo di lamentela (RB 40, 8-9). Un passo questo che si presta a tre diversi livelli di lettura: circa il tipo di misura stabilita, la facoltà di poter accrescere un poco tale misura e l’obbligo di evitare i rischi dell’ebbrezza; livelli illustrati dall’esempio comportamentale dei tre monaci, al primo dei quali basta la quantità stabilita, al secondo cui non gli basta e al terzo che addirittura si ubriaca se la beve. «Colui infatti – si legge di seguito nel commentario – per il quale non è né troppa né poca, se vuole, può berla tutta; quello invece che ha bisogno di una quantità superiore, deve riceverne di più, come pure gli si deve aumentare la razione di pane e di pietanza, benché anche per lui sussista il limite di non cadere nell’ingordigia; quello infine che bevendo la quantità stabilita si ubriaca, vale a dire balbetta quando parla e vacilla quando cammina, se lo vuole, può diminuire spontaneamente tale quantità». Qualora invece egli dicesse che non vuole farlo, precisa Ildemaro, «perché quella è la misura che gli ha concesso san Benedetto, non gliela si deve diminuire per evitare la mormorazione, al contrario va rispettata la norma affinché sia noto a tutti e diventi una convinzione comune che quella quantità gli fa male». Fatto questo, se il fratello se ne renderà conto e vorrà astenersi, bene, «se invece persevererà nella sua ostinazione e non vorrà limitarsi spontaneamente, allora sia privato da parte del superiore, poiché 127 Ildemaro, pp. 444-445. 128 Ildemaro, rispettivamente pp. 445, 132, 136; RB 40, 6.7; 4, 20.35. 249 è meno grave che si mormori senza motivo, che prendere decisioni in stato di ebbrezza». In ogni caso, una volta corretto e guarito dalla sua debolezza, l’umiliazione subita con quella privazione volontaria veniva lenita e, in un certo senso, ‘compensata’ con qualche piccolo privilegio costituito da un supplemento di cibo o licenza nel vestire129. La debolezza umana ha indotto il legislatore a permettere di bere vino, ma quanti possono astenersene – ricorda la regola – riceveranno una ricompensa particolare (RB 40, 4). Ciò significa che il monaco, il quale con il consenso dell’abate, vuole e può rinunciare a qualcosa della bevanda, del cibo o del vestito, fa bene a farlo, e per questo verrà compensato. Sarà cura del superiore però, «che permette ad un suo monaco di digiunare, stare attento che questi non voglia farlo per mettersi in mostra», perché è più apprezzabile quel fratello che «ogni tanto beve del vino per evitare le lodi umane, rispetto a quello che se ne priva completamente» per farsi vedere130. Si prosegue poi con alcune precisazioni di carattere terminologico; in particolare quando nella regola (40, 5-7) si dice «subrepat» (eviti l’eccesso di vino), ciò sta ad indicare il pericolo che nascostamente si insinui la sazietà o entri l’ebbrezza; «parcius», significa in modo più temperante o con maggiore astinenza; «apostatare», cioè fa deviare dalla strada di Dio o prevaricare; «propriam mercedem», infine, sottolinea che una ricompensa speciale è promessa a chi sa rinunciare al vino. Ciò è comprensibile perché, come un uomo che lavora con gli altri per uno scopo collettivo riceve una ricompensa comune, così avviene anche presso Dio, in quanto se si fa qualcosa di bene insieme agli altri con loro si sarà premiati, se invece si compie qualcosa più degli altri si avrà diritto a ricevere qualcosa in più. «Pertanto, se un fratello si astiene dal vino quanto gli altri, riceverà un premio uguale a loro, se al contrario vi rinuncia di più o di meno, riceverà una ricompensa maggiore o minore per ciò che avrà fatto»131. La quantità giornaliera di vino sufficiente per ciascuno resta naturalmente quella dell’emina (RB 40, 30), rispetto alla quale nel testo di Ildemaro c’è la conferma di quanto abbiamo già appreso da altre fonti. Si deve sapere, infatti – prosegue l’Expositio –, che «ogni regno ha le sue misure; e pertanto gli esperti, trattando delle misure, lo fanno secondo le consuetudini del loro paese, come si legge nel caso di Rut, che raccolse da sola sei moggi di olio. Analogamente Ezechiele parla in un 250 129 Ildemaro, pp. 447-448. 130 Ildemaro, p. 446. 131 Ildemaro, p. 447, anche 569. modo del siclo e l’Eptateuco in un altro: così anche san Benedetto, quando parla di emina di vino, lo fa secondo le abitudini della sua regione, come pure delle altre cose. Per cui il re Carlo, per poter conoscere e sapere quale emina adottare, mandò un suo messo a Benevento nel monastero di san Benedetto, dove trovò l’antica misura e vide che la quantità di vino dato ai monaci corrispondeva a quell’emina». «Similmente a quella – aggiunge Ildemaro – ne abbiamo una anche noi»132. Per dare completezza scientifica all’informazione, si cita subito dopo Isidoro: «L’emina divide in due parti uguali il sestario e forma un cotile; essa pesa una libbra che raddoppiata fa un sestario»133; per poi continuare il discorso sulla derivazione orientale del nome e sulle osservazioni linguistiche formulate dai grammatici che stabiliscono la corrispondenza tra mina ed emina: «la mina pesa cento dramme, due emine fanno un sestario, per cui Prisciano scrive, nel libro dedicato alle misure: l’emina raddoppiata corrisponde a un sestario, che è preso quattro volte, esso viene dalla parola greca koinix. Emna greca invece corrisponde all’emina latina, come mnas greca corrisponde a mina latina». Annotazioni che si dilungano poi in complicate argomentazioni di carattere culturale e linguistico. Ildemaro osserva, infine, che quando manca il vino non è sbagliato se i monaci se lo procurano comprandolo. Tuttavia, questo prodotto per quanto necessario non deve essere considerato come un bene primario, ma in subordine ad altri bisogni comunitari più impellenti, come quelli relativi ai vestimenta; si deve cioè «provvedere prima ai vestiti che al vino»134. Ciò naturalmente non toglie che la sua presenza sia richiesta e considerata quasi indispensabile, non solo per le esigenze di natura liturgica, ma appunto perché il vino compare fra i prodotti autorizzati dalla regola. Liturgica abbondanza negli usi cluniacensi Dopo Benedetto, dunque, il rinnovamento carolingio reca con sé la conferma del vino quale bevanda comune nelle dieta dei monaci, il cui uso viene via via ampliato. Il problema non è più quello di bere oppure no il vino, ma di limitarne il con- 132 Ildemaro, p. 445. 133 ISIDORO, Etymologiae, col. 594, lib. XVI, cap. 26, 5; Ildemaro, p. 445, anche per le citazioni seguenti. 134 Ildemaro, p. 448. 251 sumo evitando le varietà più pregiate e robuste, in ossequio alla scelta di una vita semplice, sobria e orientata all’ascesi. Per questo nella Vita di Ugo di Semur, il grande abate di Cluny (1049-1109), sotto la cui guida l’abbazia borgognona raggiunse la sua massima espansione, la preoccupazione non appare tanto quella di mostrare l’eroicità di Ugo nel rinunciare al vino, quanto di mettere in evidenza la sua virtù nell’astinenza. Ciò rispondeva evidentemente ad una precisa esigenza agiografica, quale esempio per i suoi monaci, ma rappresentava anche una presa di posizione polemica nei confronti di Pier Damiani che aveva attaccato con asprezza i cluniacensi per le loro ricchezze e l’abbondanza alimentare della loro mensa, ma poi – dopo essersi trattenuto lui stesso per qualche tempo ospite a Cluny – si era ricreduto vedendo con «quale devozione affrontavano le fatiche» della liturgia quotidiana e «vivevano santamente la regola» quei monaci135. Nei confronti del cibo, pertanto, Ugo viene presentato come un modello di moderazione: non lo sdegnava ostentatamente, ma neppure indulgeva troppo alle esigenze del corpo, mettendolo alla prova specialmente con l’astinenza dal bere a tavola, pur avendo il vino di fronte. «Lasciava che il suo corpo – narra l’Anonimo cronista – soffrisse di una sete più tormentosa di qualsiasi digiuno, costringendosi a prendere il cibo senza alcuna bevanda. Quale Pier Damiani sarebbe stato capace di imporsi come norma, più dura di ogni tormento, di non concedersi da bere durante i pasti, ma di inghiottire faticosamente, come pietra senza calcina, i bocconi di cibo non accompagnandoli ad alcuna bevanda, in modo da eccitare la sete e stimolare in continuazione il desiderio di bere senza soddisfarlo anche solo con qualche sorso?»136. Avviata all’inizio del X secolo, la riforma cluniacense aveva ormai conquistato moltissimi cenobi europei, influenzando il rinnovamento o la fondazione di tanti altri monasteri. Durante l’abbaziato di Ugo, lo stile di vita di Cluny era stato messo per scritto dal monaco Bernardo, le cui consuetudini furono compilate prima del 1078137, ma già al tempo dell’abate Odilone, un monaco di estra135 Cfr. Ugo abate di Cluny. Splendore e crisi della cultura monastica, a cura di G. Cantarella, D. Tuniz, Novara 1982, pp. 139-140. 136 ANONIMO II, Alia miraculorum quorundam sancti Hugonis abbatis relatio, in Bibliotheca Cluniacensis…, Omnia nunc primum ex ms. codd. collegerunt M. Marrier, A. Quercetanus, Lutetiae Parisiorum 1614, col. 462; inoltre, Ugo abate di Cluny, p. 141. 137 252 BERNARDO DI CLUNY, Consuetudines aevi sancti Hugonis, a cura di M. Herrgott, in Vetus disciplina monastica, Parisiis 1726, pp. 133-364; D. IOGNA-PRAT, C. SAPIN, Les études clunisiennes dans tous leurs états, «Revue Mabillon», 5 (1994), p. 244. zione romualdina di nome Giovanni, ne aveva dato un prezioso resoconto nel Liber tramitis che trovò applicazione nella grande abbazia di Farfa138. Dopo averla sperimentata personalmente, poi, un altro monaco proveniente da Hirsau, Udalrico di Ratisbona, compilò prima del 1083 le Antiquiores consuetudines dell’abbazia di Cluny139, redazione che insieme a quella di Bernardo influenzò le costituzioni dell’abate Guglielmo di Hirsau alla fine dello stesso secolo, dopo aver ispirato pure i Decreta di Lanfranco di Canterbury e le Consuetudines dell’abbazia di Bec, in Normandia140. Nel medesimo periodo, inoltre, si collocano cronologicamente anche gli usi di San Benigno di Fruttuaria, cenobio riformato da Guglielmo da Volpiano e destinato a dilatare ulteriormente il monachesimo di derivazione cluniacense, i cui religiosi esercitavano, secondo Rodolfo il Glabro, «la mortificazione della carne, l’umiliazione del corpo, la rozzezza delle vesti e la parsimoniosa frugalità del cibo»141. Ora, prendendo in esame questo primo nucleo di usi monastici si ricavano una serie di dati e tendenze che danno un quadro dei comportamenti monastici più diffusi nei secoli centrali del pieno e del tardo medioevo. L’ora del pranzo innanzitutto – vale la pena di ripeterlo –, che era il pasto principale, variava con la stagione: nei mesi estivi, a partire dalla pasqua, era consumato al termine della messa solenne subito dopo mezzogiorno, mentre la cena si faceva la sera dopo i vespri. Nei giorni più brevi dell’inverno, invece, era previsto un solo pasto al giorno nel tardo pomeriggio, benché uno spuntino potesse essere distribuito prima di compieta142. L’assunzione del cibo naturalmente, come ogni altra cosa, seguiva un 138 Liber tramitis aevi Odilonis abbatis, ed. P. Dinter, Siegburg 1980 (CCM 10); G. PICASSO, “Usus” e “Consuetudines” cluniacensi in Italia, in L’Italia nel quadro dell’espansione europea del monachesimo cluniacense, a cura di C. Violante, A. Spicciani, G. Spinelli, Cesena 1985 (Italia benedettina, 8), pp. 301-302, 309-310. 139 UDALRICO DI RATISBONA, Antiquiores consuetudines Cluniacensis monasterii, PL, 149, col. 635-778; IOGNA-PRAT, SAPIN, Les études clunisiennes, p. 244. 140 GUGLIELMO DI HIRSAU, Constitutiones Hirsaugienses seu Gengenbacenses, PL, 150, coll. 927-1146; Decreta Lanfranci monachis Cantuariensibus transmissa, ed. D. Knowles, Siegburg 1967 (CCM 3); Consuetudines Beccenses, ed. M.P. Dickson, Siegburg 1967 (CCM 4); D. KNOWLES, The Monastic Order in England, Cambridge 1950, pp. 119-124. 141 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, ed. L. Spätling, P. Dinter, Siegburg 1985, 1987 (CCM 12/12); G. PENCO, Le “Consuetudines Fructuarienses”, in Cîteaux e il monachesimo del suo tempo, Milano 1994, pp. 8196. Per la citazione dalla Vita di Guglielmo da Volpiano, cfr. RODOLFO IL GLABRO, Storie dell’anno Mille. I cinque libri delle Storie. Vita dell’abate Guglielmo, a cura di G. Andenna, D. Tuniz, Milano 1981, p. 189. 142 Per un primo sommario inquadramento generale, v. A. D’AMBROSIO, Per una storia del regime alimentare nella legislazione monastica dall’XI al XVIII secolo, «Benedictina», 33 (1986), pp. 429-449; MON- 253 rituale ben codificato. Dopo essersi lavati le mani, i fratelli entravano nel refettorio – dove i posti erano assegnati seguendo un ordine rigoroso basato sull’anzianità di ingresso nel cenobio –, rimanendo in piedi fino all’arrivo dell’abate o del priore che dava la benedizione. I pasti erano serviti e consumati in rigoroso silenzio, rotto soltanto dalla voce del lettore sul pulpito e dai rumori delle stoviglie. Il vino era presente tutto l’anno nella loro alimentazione e, se escludiamo i periodi di digiuno canonico e la quaresima – dal quale tuttavia erano esentati i malati, non erano comprese le domeniche, i giorni di festa e il giovedì santo – veniva preso durante i pasti e in vari momenti della giornata secondo un rigido calendario. Tempi e modalità della distribuzione erano fissati dalla regola ed avvenivano a metà mattina (bibitio post nonam)143, nel pomeriggio (post scillam vespertinam)144 e prima di compieta (post collationem)145, mentre era assolutamente proibito TANARI, Alimentazione e cultura, pp. 64-104; A.M. NADA PATRONE, A mensa con i monaci, in L’alimentazione nei monasteri medievali, a cura di E. Scapoli, Ferrara 1997, pp. 15-57; A. RIERA-MELIS, Società feudale e alimentazione (secoli XII-XIII), in Storia dell’alimentazione, a cura di J.-L. Flandrin, M. Montanari, Roma-Bari 1997, pp. 315-320; NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 277-350. 143 Per lo spuntino fatto dai monaci a metà mattina, cfr. BENEDETTO DI ANIANE, Concordia regularum, coll. 1133-1134; Redactio Sancti Emmerammi, in Consuetudines saeculi X/XI/XII monumenta non-cluniacensia, ed. K. Hallinger, Siegburg 1984 (CCM 7/3), pp. 239-241 (sec. X); per gli usi cluniacensi: Liber tramitis, pp. 90-91, 219, 229; Redactio Fuldensis-Trevirensis, in Consuetudines saeculi X/XI/XII, pp. 293, 312 (sec. XI); Consuetudines Cluniacensium antiquiores cum redactionibus derivatis, ed. K. Hallinger, Siegburg 1983 (CCM 7/2), p. 246; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 56-57, 65-67, 135, 154, 163, 201; 2, pp. 34, 44, 219. 144 Nel monastero tedesco di S. Emmeran l’assunzione vespertina della bevanda era annunciata dal suono del cembalo (Redactio Sancti Emmerammi, p. 239); inoltre, Liber tramitis, pp. 82, 165, 222, 219; Consuetudines Cluniacensium antiquiores, p. 297; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 167-170. 145 254 Terminata la lettura, spiegano le consuetudini di Fleury della fine del secolo X, il decano suonava il cembalo «et caritas bibitionis fiat sive bibitio caritatis» [Consuetudines Floriacenses antiquiores, ed. K. Hallinger, in Consuetudines saeculi X/XI/XII, pp. 38-39, cap. 26]; tale rito trova una dettagliata presentazione anche nel Liber tramitis, pp. 52, 83, 92, 116, 130, 222; è ripreso nelle Consuetudines Cluniacensium antiquiores, pp. 92-93, 265, 351 e in quelle fruttuariensi (Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 29-30, 179-180), mentre in quelle sublacensi si precisa che i monaci si recavano in refettorio al segnale della campana, facendo un inchino al crocifisso che si trovava nella sala; quando poi il priore diceva: Benedicite, tutti ripetevano la stessa cosa, per proseguire in tono retto con il versetto: Potus caritatis benedicat dextera Dei Patris omnipotentis, a cui si rispondeva: Amen. Solo allora andavano a sedere al proprio posto e l’inserviente, che «tenebat cannatam cum vino» con le due mani, versava loro da bere due volte [Caeremoniae Sublacenses, in Caeremoniae regularis observantiae sanctissimi patris nostri Benedicti ex ipsius Regula sumptae, secundum quod in Sacris Locis, scilicet Specu et monasterio Sublacensi practicantur, ed. J.F. Angerer, Siegburg 1985 (CCM 11/1), pp. 92-93]; inoltre, Consuetudines Castellenses, 1, pp. 279-280, 282. bere vino di notte146. Durante le festività liturgiche e la domenica, in base ad una prassi che si era andata diffondendo con la riforma carolingia147, la misura quotidiana del vino era accresciuta da un’aggiunta supplementare denominata karitas o «bibitio caritatis», forse per l’indulgenza verso la debolezza dei monaci o perché «ciò che avanzava del pane e del vino lo raccoglieva l’elemosynarius»148 per darlo ai poveri, ma non tanto secundum regulam quanto ex gratia149. La sua distribuzione avveniva con una certa solennità, poiché – secondo il monaco Bernardo – il «vino della carità» era preceduto da candele che venivano deposte sul tavolo dell’abate e su una tavola dei fratelli; a tale scopo, ancora alla fine del XIV secolo, a Cluny erano destinate le uve di una vigna particolare, il cui prodotto era stimato anno 146 Dopo compieta, col permesso del superiore, chi aveva necessità di bere poteva farlo recandosi in refettorio, dove a sua disposizione trovava acqua o altri infusi, birra compresa, ma non vino, cfr. Consuetudines Beccenses, p. 173, in refettorio di notte si può bere acqua «vel cervisiam, vinum autem nequaquam»; precisa appare anche la Redactio Fuldensis-Trevirensis, pp. 312-313: «emina in die vini et in nocte addito servisie potum tam in estate quam in hyeme singulis porrigetur»; inoltre, Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, p. 79. 147 Il monaco Giovanni, autore del Liber tramitis (p. 91), precisa che questa è una prassi molto antica, attestata già nella Concordia Regulae di Benedetto di Aniane (BENEDETTO DI ANIANE, Concordia regularum, coll. 1129-1138 per l’intero commento, in part. col. 1133) e nel commentario di Ildemaro di Corbie (Ildemaro, pp. 443-448), ma questi testi contengono semplicemente il commento del cap. XL della RB (De mensura potus), dove è documentabile la crescita del consumo di vino nell’alimentazione monastica, mentre non sembrano esserci indicazioni esplicite alla trina propinatio quale abitudine consolidata che, invece, sembra essere codificata nell’abbazia di Cluny e da qui diffusa, come appare dalle Consuetudines Floriacenses saeculi tertii decimi, ed. A. Davril, Siegburg 1976 (CCM 9), p. 88. Nella redactio delle consuetudini bavaresi di S. Emmeran (sec. X) infatti, come pure a Fleury, la trina bibitio era praticata durante la settimana di pasqua, secondo la successione distributiva di pueri, diaconi e presbiteri (Redactio Sancti Emmerammi, p. 237). La «caritas vini aut potionis» invece, cioè il supplemento di vino consentito nei giorni festivi e distribuito nel corso della giornata (Consuetudines Fructuarienses Samblasianae, 1, p. 57), è esaminata da G. ZIMMERMANN, Ordensleben und Lebensstandard. Die Cura corporis in den Ordensvorschriften des abendländischen Hochmittelalters, Münster 1973 (Beiträge zur Geschichte des alten Mönchtums und des Benediktinerordens, 32), pp. 42 sgg., 252; inoltre, viene ricordato anche da G. DE VALOUS, Le monachisme clunisien des origines au XVe siècle. Vie intérieure des monastères et organisation de l’Ordre. I: L’abbaye de Cluny, les monastères clunisiens, Paris 1970, pp. 259-261; L. MOULIN, La vita quotidiana dei monaci nel medioevo, Milano 1988, p. 97. 148 Liber tramitis, pp. 130 e 124, 206; BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 158; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, p. 219; non dissimili gli usi del monastero di Fleury tra X e XI, dove il vino avanzato in refettorio «de singulis cuppis fratrum» era vuotato in situlas e poi dato ai poveri in vascula vinaria appositi (Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 26). 149 Cfr. Consuetudines Castellenses, p. 279. 255 per anno e affidato al custos caritatis, che aveva il compito di assicurare ben 104 carità ordinarie (due alla settimana) e cinque straordinarie nel corso dell’anno150. Il santo abate Odilone di Cluny dispose che a natale, pasqua e nelle solennità di pentecoste, dei santi Pietro e Paolo e dell’Assunta i monaci avessero «terna pocula», oltre la loro razione quotidiana di vino, mentre in altre quindici feste la loro refezione fosse arricchita di una sola «propinatio» aggiuntiva151. In queste occasioni, il cellerario, aiutato da un altro monaco, andava di persona a prendere in cantina le «galetas vini» necessarie, che portava poi in refettorio; qui erano riempite le iusticias di tutti i fratelli – cioè, le coppe o boccali contenenti la “misura giusta” di vino stabilita dalla regola per ciascuno ogni giorno –, i quali ricevevano una o più coppe supplementari, mentre al termine della distribuzione i contenitori vinari erano riportati in cantina, dove restavano sotto la custodia del «cellerarius de vino»152. Tale distribuzione, in particolare, veniva annunciata dai rintocchi della campanella del refettorio ed aveva una chiara valenza simbolica, espressa anche nell’uso dei termini; al segnale convenuto, infatti, dapprima si alzavano i conversi per ricevere la loro potionem, poi veniva il turno della caritas data ai diaconi e, da ultimo, era offerto il vinum ai sacerdoti. Nel monastero di Fleury invece, come in quello bavarese di S. Emmeran, durante la settimana santa l’aggiunta suppletiva era scandita dalla successione di pueri, diaconi e presbiteri153. Nel Liber tramitis si chiarisce, però, che questo supplemento non era servito «per il piacere della gola o per raggiungere l’ebbrezza, ma per dovere di carità e per amore di Cristo, poiché questa trina propinatio simboleggia[va] la Trinità, in quanto tutto ciò che facciamo deve avere inizio e compimento nel nome della santa e individua Trinità»154. Comprensione ver- 150 Tale distribuzione supplementare nell’abbazia borgognona di Cluny era minuziosamente regolamentata ancora nel XV secolo (BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 158; DE VALOUS, Le monachisme clunisien, pp. 259-260). 151 Liber tramitis, pp. 198-199; per i decreti del grande abate Odilone, cfr. BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 242-245; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, coll. 654-656. 152 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, pp. 217-218, 239; il termine «galleta» compare già nella RM 27, 23, in Isidoro di Siviglia (ISIDORO, Etymologiae, col. 706, cap. 5) e in BENEDETTO DI ANIANE, Concordia regularum, col. 1133, dove viene usato come sinonimo di calice o bicchiere: «sed ad calicis aut galletae aut caucelli bibat mensuram (...) calix autem aut galleta, per quel erit in diversis vicibus ministrandam, talis sit qui tertius impleat mixtam heminam»; ma a Fruttuaria, come in buona parte dell’Italia settentrionale, assume il significato di brocca o secchio (situla). 256 153 Consuetudines Floriacenses saeculi tertii decimi, p. 88; Redactio Sancti Emmerammi, p. 237. 154 Liber tramitis, pp. 90-91, in part. p. 91 per la citazione. so le debolezze individuali, dunque, ma anche simbologia liturgica e giustificazione teologica. Nei giorni feriali, di norma, ciascuno andava in refettorio secondo il suo ordine: i monaci passando attraverso il chiostro vicino alla chiesa, i pueri dalla loro scuola, dove ai più piccoli era pure consentito fare colazione di prima mattina prendendo pane e vino155; soltanto quando erano giunti tutti l’abate benediceva la bevanda, il priore dava il segnale (scillam pulset) e ognuno beveva «cum sua iustitia»156, vale a dire nella sua coppa. Al termine del pasto – uso quest’ultimo comune a tutte le consuetudini, ad eccezione della sola voce contraria di Pietro il Venerabile († 1156)157 – il monaco addetto ai poveri raccoglieva ciò che era avanzato del pane e del vino, mettendo i pezzi di pane in due capienti ceste di legno, poste in mezzo alla sala, e lasciando ai fanciulli il compito di vuotare il vino lasciato nelle iustitias dentro un secchio (situla) per darlo all’elemosynarius. I pueri anzi svolgevano una funzione importante nel servizio delle mensa: prendevano infatti la bottiglia (fiala) con il vino e lo versavano nei bicchieri (scyphulos) dei fratelli, quindi – una volta finito di mangiare, sempre sotto la direzione del loro maestro – lavavano i contenitori vinari. Era importante però che in refettorio tutti sedessero al proprio posto, a cominciare dal superiore che occupava lo stallo centrale, e non in piedi, sugli sgabelli riservati ai fanciulli (trunci) o sulle panche poste davanti alla predella. Nelle consuetudini fruttuariensi si precisa anzi che, quando i monaci ricevevano «caritatem vini aut potionis», quelli più giovani si alzavano per prendere le bottiglie pulite, coperte con un panno, dal cesto di vimini (canistrum) posto in un angolo del refettorio; le riempivano quindi di vino e acqua, aspettando davanti ai contenitori (galetas) il segnale della distribuzione. Suonata la campanella e recitato il versetto, tutti dicevano Benedicite, dopo di che aveva inizio la distribuzione del «vinum in fiala» cominciando dall’abate, mentre gli inservienti dovevano fare attenzione a non rovesciare nulla; da ultimo, veniva dato da bere anche ai pueri e a quanti servivano a mensa, i quali lo 155 Di prima mattina, nel periodo invernale, «si parvissimus quilibet infans fuerit, panem et vinum licitum sit ei in scola commedere» (Redactio Wirzeburgensis, in Consuetudines Cluniacensium antiquiores, p. 275, sec. XI; qualche riferimento anche in DE VALOUS, Le monachisme clunisien, pp. 257-258, 260-261). 156 Liber tramitis, pp. 46, 177, 250. 157 A questo proposito l’abate di Cluny riteneva che non fosse decoroso che il fratello addetto alla carità verso i poveri prendesse il vino avanzato dalla mensa monastica per darlo a quanti bussavano alle porte del cenobio, ma doveva essere riunito dal custos vini e servito ai fratelli durante il pasto del giorno seguente (Statuta Petri Venerabilis, in Consuetudines benedictinae variae, p. 67). 257 ricevevano «in sciphis» stando seduti al loro posto158. Il tutto avveniva in silenzio e chi lo infrangeva era punito con l’«abstinentia vini»159; il suo rispetto però – specie nei primi tempi – era diventato proverbiale a Cluny, al punto che si era andato sviluppando un apposito linguaggio dei segni, una sorta di alfabeto muto, per consentire ai monaci di chiedere ciò che serviva loro senza parlare. «Il novizio deve apprendere con diligenza – spiega Udalrico – i segni per esprimere le proprie necessità, poiché dopo che sarà entrato nella comunità, molto raramente gli sarà permesso di parlare»160. Così, per indicare l’acqua si riunivano tutte le dita della mano destra facendole ondeggiare; per chiedere il vino si intingeva un dito portandolo poi alle labbra: per il rosso si toccava la guancia con l’indice, per il bianco si univano due dita rappresentando la forma rotonda dell’occhio e per lo speziato si chiudeva la mano simulando la farina che cade per terra, mentre per il vino temperato con miele e assenzio si muovevano a forbice l’indice e il medio, «poiché l’assenzio è diviso nelle sue foglie»161. Per segnalare la coppa (scyphus) invece, contenente «la misura quotidiana del vino», che nelle consuetudini di Hirsau è assimilata alla iustitia, precisa ancora Udalrico: «inclina indietro la mano e così tienila cava con le dita un poco piegate»; per chiedere la bottiglia di vetro (phiala vitrea), invece, al segno del bicchiere si aggiungeva il gesto di porre due dita intorno all’occhio, «poiché con lo splendore dell’occhio si rappresenta la trasparenza del vetro», mentre con altri segni si indicavano vasi vinari come la coppa di legno, il calice, la patera e la sua variante chiamata cicothus, oppure lo zuber, contenitore ligneo con due manici162. 158 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 56-57: «De potione propinanda»; 2, p. 219: «De caritate vini»; inoltre, Liber tramitis, pp. 219, 222, 231. 159 Redactio Fuldensis-Treverensis, p. 278. 160 UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 703, mentre negli Statuta Casinensia, p. 221, si precisa che nessuno deve chiedere qualcosa in refettorio «nisi cum signo». Cfr. inoltre, E. MARTENE, De antiquis Ecclesiae ritibus. IV: De monachorum ritibus, Antverpiae 1738 (rist. anast., Hildesheim 1969), col. 918, cap. 22: De signis habendis, coll. 955 sgg. e riferimenti ad indicem, specialmente con riferimento alla riforma di Grandmont. 161 UDALRICO, Antiquiores consuetudines, coll. 703-704, libro II, cap. 4: «De signo loquendi» (in part., col. 704); che sono riprese e ampliate nelle consuetudini di Hirsau dell’abate Guglielmo (cfr. GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, coll. 945-946, libro I, cap. 14: «De signis diversi liquoris»). 162 258 UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 704; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, coll. 746-747, cap. 15: «De signis vasorum». Si conferma perciò la presenza sulla mensa monastica di un contenitore equivalente alla misura quotidiana di vino stabilita per ciascuno dalla regola (iustitia o scyphus), insieme ad una discreta varietà di recipienti per l’assunzione, la mescita e il trasporto del vino, il cui uso non è immune da una certa ambiguità, dal momento che termini differenti sono spesso impiegati sia come sinonimi, sia in modo generico con riferimento ai vasi vinari, sia in forma metonimica per indicare tanto il recipiente quanto la quantità di vino contenuto. L’uso della parola iustitia, per esempio, che per Ildemaro indicava il mixtum dato al lettore e agli inservienti della cucina, ora corrisponde alla razione giornaliera di vino (ma anche alla ‘misura giusta’ di altri alimenti dati ai monaci)163 e ad un recipiente specifico, che poteva essere detto anche scyphus; il termine però, tra X e XI secolo, viene gradualmente sostituito da caritas per denominare l’aggiunta di vino e da scyphus per la coppa con cui bere, senza perdere tuttavia la duplicità semantica originaria164. Lo stesso avviene per caritas che si riferisce sia all’impegno monastico in favore di «pauperes et infirmi», esemplificato dal servizio svolto dal monaco elemosiniere, sia il supplemento di vino concesso oltre la razione giornaliera, come pure il contenitore di vetro che serve a portarlo in tavola e il bicchiere per berlo165; quanto al termine mixtus, viene usato in modo particolare per indicare ciò che è permesso al lettore, ma anche il recipiente con cui viene assunto e la mescolanza generica di più cose166. 163 Il termine viene usato però anche per indicare la misura giusta di altre cose, come per esempio, «tot iustitias panis et vini», «tot iustitias ovorum», assicurate ai monaci di Montecassino e ai loro operai impegnati nei cantieri monastici (Statuta Casinensia, pp. 234-235, 243). 164 Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 38: «caritas bibitionis fiat sive bibitio caritatis», «benedictionem caritatis»; Liber tramitis, pp. 92, 130, 219; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, coll. 946, 994, 1108; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 56-57, 59, ecc. 164, 167-170; 2, pp. 124, 126, 217, 239, 243, 249. 165 Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 26; Liber tramitis, pp. 52, 92 (ogni giorno i monaci «faciant caritatem»), 116, 130 («karitas propinetur ad omnes»), 219 («pueri qui non valent portare caritatem, id est fialas ad mensam»); Redactio Vallumbrosana, in Consuetudines Cluniacensium antiquiores cum redactionibus derivatis, ed. K. Hallinger, Siegburg 1983 (CCM 7/2), p. 351: «bibant fratres cum caritate»; GUGLIEMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 1108: «quotiescunque ad charitatem propinatur, ipse et aliquis adiutor eius modiolis infundunt»; anche Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 48, 56, 111, 132, 215, ecc.; 2, p. 124: «caritatem cum vase vitreo bibit». 166 Vedi UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 726: il lettore «ante refectionem generalem de pane vinoque praelibat», così pure gli addetti alla cucina (col. 727); Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 38: «vascula vitrea que mixtoria vocant»; Statuta Petri Venerabilis, p. 50, statuto 11: «vino mixto sive pigmentato». 259 Bicchieri, coppe e boccali sulle mense monastiche Se proviamo dunque a tratteggiare un primo elenco dei contenitori presenti sulla tavola monastica a cavallo del Mille, si deve partire proprio dalla iustitia, corrispondente a una coppa167 o vaso potatorio con o senza manici – vasculum vinarium, la chiama Pietro il Venerabile168 – più stretto alla base che all’imboccatura e quasi senza stelo, della capacità di poco superiore al litro e pari alla misura giornaliera stabilita dalla regola per ogni monaco. La sua forma ripropone in buona sostanza quella tradizionale dei vasi potori antichi e dei calici ministeriali liturgici usati per la comunione dei fedeli (maius scyphus), riconducibili alla duplice tipologia del ‘bicchiere’ a coppa alta e stretta e del ‘cantaro’, il cui calice basso e ampio era munito di due anse. Un campione contemporaneo di iustitia, fatto di acquamarina incastonata di gemme preziose e ornato d’oro, della capacità di circa un litro, è tutt’oggi conservato al museo parigino del Louvre e si tratta del vaso donato da Eleonora d’Aquitania al re Luigi VII e da questi regalato all’abate Sugero di SaintDenis, che ne ha lasciato una descrizione nel De administratione169. Ma esempi di grandi coppe vinarie più omeno affusolate e svasate, esemplate sul modello dei calici eucaristici, sono ben attestati dall’iconografia artistica: si 167 Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 27; Redactio Sancti Emmerammi, p. 241; GUGLIEMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 946; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, p. 48; 2, p. 126. 168 The letters of Peter the Venerable, a cura di G. Constable, I, Cambridge Mass. 1967, p. 39, lett. 20: «vascula vinaria quae iustitias vocant»; ma accanto a iustitia è molto diffuso anche il termine iusta, in quanto questa coppa – boccale o brocca, le fonti sono spesso ambigue e ambivalenti al riguardo – conteneva la giusta quantità giornaliera di vino stabilita per ciascun monaco dalla regola benedettina (MARTENE, De antiquis Ecclesiae ritibus, col. 962). 169 260 Parigi, Museo del Louvre, Sala Suger 2, vetrina 16, dove è incisa la seguente iscrizione: «+ Hoc vas sponsa dedit A(lie)nor regi Ludovico Mitadol(us) avo mihi rex s(an)c(tis)q(ue) Suger(ius) [= Questo vaso, Eleonora sua sposa, lo ha donato al re Luigi, Mitadolus al suo antenato, il re a me, Sugero, che l’ho offerto ai santi]»; testo che è presente, insieme alla descrizione del vaso, in SUGERO DI SAINT-DENIS, Liber de rebus in administratione sua gestis, PL, 186, col. 1238, che lo definisce anche «justa», nel senso di “giusta misura”; a commento l’abate di Saint-Denis osserva poi che i calici dei cristiani debbono essere più ricchi delle fiale e delle anfore degli ebrei. Ben noto agli storici dell’arte, questo prezioso vaso di cristallo «ad libandum divinae mensae», di provenienza orientale (sec. VII), è stato esaminato da E. PANOFSKY, Abbot Suger on the Abbey Church of St-Denis, Princeton 1946, pp. 78, 204 e tav. 23; inoltre, G.T. BEECH, The Eleonor of Aquitaine Vase, William of Aquitaine, and Muslim Spain, «Gesta», 32 (1993), pp. 3-10; sull’opera di Sugero, invece, si veda L’abbé Suger, le manifeste gothique de Saint-Denis et la pensée victorine, Actes du Colloque organisé à la Fondation Singer-Polignac (Paris) le mardi 21 novembre 2000, a cura di D. Poirel, Paris 2002 (Rencontres médiévales européennes, 1). pensi al grande vaso dell’Ultima cena del “Codex purpureus” di Rossano (sec. VI, p. 5), ai calici del mosaico della Comunione degli apostoli nella basilica di S. Marco a Venezia (sec. XIII), all’ampia coppa di impostazione conventuale dell’Icona della Trinità di Andrej Rublëv (Mosca, Galleria Tretjakov, a. 1411), a quella della Cena di Emmaus del Pontormo (Firenze, Galleria degli Uffizi, a. 1523) o del Romanino nel dipinto dell’Ultima Cena di Montichiari (chiesa di S. Maria Nuova, a. 1542ca), come pure alla rappresentazione delle Nozze di Cana nella navata centrale della chiesa abbaziale di Pomposa (sec. XIV), dove ai bicchieri di terracotta dei commensali, alle anfore e alle gerle si contrappone il grande calice tenuto dall’abate che assiste al miracolo. Non meno interessanti sono gli affreschi dell’Ultima Cena, ma soprattutto del Miracolo di san Guido (sec. XIV) nel refettorio monastico della medesima abbazia, dove i bicchieri e le brocche di vetro e terracotta contenenti l’acqua e il vino sono ben distinti dalla coppa di cristallo con il lungo stelo tenuta dall’arcivescovo. Ampiamente documentata nella letteratura monastica in generale, risulta pure la corrispondenza tra iustitia e scyphus che trova conferma anche nella rappresentazione segnica, giacché nel linguaggio muto la ‘giustizia’ veniva indicata con gli stessi gesti usati per lo scyphus170, contenente – come si diceva a Cluny – «mensuram quotidianam vini»171. Nel Liber tramitis e nelle consuetudini risalenti all’abate Ugo, tuttavia, si comprende che – al di là del loro uso linguistico quali sinonimi – si trattava di due recipienti distinti e che la «iustitia» era più capiente dello «scyphus»172, poiché i fratelli – come nel caso di Fruttuaria – dovevano ciascuno «iusticias suas sciphis cooperire» e nell’armarium del refettorio, accanto ai vasa vitrea, trovavano 170 «Pro signo scyphi, quem iustitiam vocamus» (BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 391); UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 704; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 946; a Fruttuaria i due termini sono usati anche come sinonimi: «cum scipho seu iusticia sua» (Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, p. 67). 171 BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 170; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 704: «Pro signo scyphi qui capit quotidianam vini mensuram, inclina manum deorsum, et ita cava tene, digitis aliquantulum inflexis»; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 946. Il de Valous ritiene giustamente che a Cluny lo scyphus corrispondesse all’unità di misura quodidiana del vino, sbaglia però quando sostiene – contrariamente a quanto indicano i testi ricordati – che tale «vaso non era un bicchiere per bere» (DE VALOUS, Le monachisme clunisien, p. 259). 172 «Iustitie illorum cum suis sciphulis» (Liber tramitis, p. 266); «in iustitiis est potus et cum scyphis potatur» (BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 148, 227, 315); «in scyphum iustitiae superpositum nihil imponat» (GUGLIELMO, Consuetudines Hirsaugienses, col. 994); inoltre, Statuta Petri Venerabilis, p. 63, statuto 27: «De vasis vinariis», e il commento alle pp. 63-64. 261 posto anche «iusticiae novae et sciphis»173. Negli statuti di Pietro il Venerabile, però, si ordina di non bere nei vasi vinari chiamati iustitias, come si era soliti fare un tempo174, ma che ogni monaco lo faccia usando il proprio cipho; un provvedimento che appare motivato da ragioni igieniche al fine di evitare che nel periodo estivo (muscarum tempore) non capitasse che mosche e insetti finissero nelle coppe (iustitie) piene di vino175. In esse infatti, fin dal mattino, l’addetto al refettorio metteva la razione giornaliera che poteva essere bevuta direttamente o versata poco per volta in tazze (sciphos) o bicchieri (pocula, modioli) più piccoli che, per la loro minore capacità, potevano essere vuotati ogni volta. La stessa preoccupazione igienica viene espressa anche nelle consuetudini di Fleury, dove si precisa che il vino quotidiano messo nelle capienti coppe, «quas iustitias vocant», era salvaguardato dalle ciotole o piatti fondi (pateras) che vi erano poste sopra al termine del pasto176; tali termini 173 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, p. 59; 2, p. 221. Anche nelle consuetudini del monastero di S. Pietro di Kastler si conferma la presenza di «scyphos, iusticias, cantra et alia vascula necessaria mensae», che si riscontra pure tra gli oggetti dell’infermeria: «iustitias, scyphulos de mensis», mentre in refettorio il vino e la cervisia dovevano essere versati «in scyphos in tali quantitate» da non farne avanzare per non doverli travasare «in iustitias seu cantras» (Consuetudines Castellenses, pp. 128129, 135-136); i vari contenitori avevano i propri segni di identificazione, ma i recipienti vinari potevano essere indicati in modo più generico, come accadeva ad Hirsau: «Pro signo cuppae vinariae, praemisso ligni signo, manum utramque paululum inflexam ad indicem coniunge, et in quantum potest, circumvolve, addito demum vini signo» (GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 947). 174 Ogni monaco mangiava e beveva usando le proprie posate e bevendo di norma «cum sua iustitia» e non in quella di un altro, cfr. Consuetudines Floriacensium antiquiores, p. 27; Liber tramitis, pp. 46, 52, 177, 223, 250, 265-266; Consuetudines Cluniacensium antiquiores, pp. 67-68, 246, 265, 401; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 48, 59, 66-69, 111, 135, 154, 169, 201, 215, ecc.; tuttavia, a proposito della pitancia – cioè, del supplemento alimentare concesso ai monaci in memoria dei benefattori defunti o durante le festività liturgiche – Udalrico precisa che veniva servita nella medesima scodella a due monaci insieme (UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 728). 175 Statuta Petri Venerabilis, p. 63. Secondo il de Valous ciò significa che la iustitia conteneva la razione di vino per due monaci (DE VALOUS, Le monachisme clunisien, p. 259); in verità, la prescrizione di non mangiare in due nella stessa scodella, né di bere nello stesso bicchiere, non solo era più antica (Liber tramitis, pp. 46, 250; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 944), ma venne ripresa anche in seguito come risulta dalle consuetudini duecentesche dell’abbazia di Afflighem nella diocesi di Cambrai [Consuetudines Affligenienses (saec. XIII), ed. R.J. Sullivan, in Consuetudines benedictinae variae, p. 149]. 176 262 Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 27, il monaco addetto al refettorio (refectorarius): «vinum cuppis quas iustitias vocant infundit et pateras superponit» e, subito dopo, si fa riferimento al fastidio sopportato dai fratelli in estate a causa delle mosche; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 1036: «si quibus de potu quid remanet bibentibus, hoc infundunt iusticiis suis, et pateras superponunt», col. 946: «pro signo paterae ex qua bibitur, tres digitos parum inflecte, et sic sursum tene». ricorrono, inoltre, anche in Udalrico e sono ripresi da Guglielmo di Hirsau177, come pure negli usi di Fruttuaria, dove si parla sia dello scifo «superpositum iustitiae», sia della patera da prendere «cum ambabus manibus» quando si beve178. Scifo e patera, termini di origine antica, sono dunque anch’essi sovente usati come sinonimi, possono essere di vetro come la iustitia e – quando lo scifo non indica semplicemente la coppa o il bicchiere – hanno la forma di una coppetta o di una tazza, con o senza manici; essi servono a bere il vino e a coprire la coppa più grande, ma anche a prendere il mixtum, come si legge nei decreti di Lanfranco: «il misto, costituito soltanto di pane e bevanda, è messo dal refectorarius negli scifi che sono posti sopra le iusticias»179. Una conferma ulteriore, ma importante di questi elementi, viene da Stefano di Parigi che, nella seconda metà del XII secolo, osserva come la iustitia impiegata a Montecassino corrispondeva a «septem coopercula», cioè alla misura di un’emina o quantità giornaliera, suggerendo così che tale ‘coperchio’ fosse costituito da una tazza o un piattino fondo180. Le fiale – quando non indicano semplicemente dei vasi potori181 – erano bottiglie di vetro panciute dal collo stretto e allungato, come si vede bene a Monte Oliveto Maggiore (Siena), nel chiostro affrescato dal Sodoma nella scena dei 177 «(…) iustitiam suam et pateram lavare» (UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 704); «paterae ex qua bibitur» (GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, coll. 946, anche 1036). 178 GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 994; nelle consuetudini fruttuariensi si conferma che i monaci «debent singuli iusticias suas sciphis cooperire», sono tenuti a bere non «cum scipho sed cum iusticia» – punto questo sul quale gli statuti di Pietro il Venerabile costituiscono un’evoluzione –, tenendola «non una sed utraque manu bibendo» (Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, p. 59), salvo che non si tratti di un fratello flebotomizzato (GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 994). 179 Decreta Lanfranci, p. 29, cap. 31: «De mixto»; inoltre, quando lo scifo sta sulla iustitia deve essere vuoto, né è consentito intingere il proprio pane nello scifo di un altro (GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 994), mentre nelle Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 38, si precisa che si tratta di recipienti di vetro: «vascula vitrea que mixtoria vocant». In ogni caso, di norma, scifo è un vaso di origine greca (skýphos) troncoconico provvisto di due anse orizzontali all’altezza dell’orlo; la patera invece è una ciotola bassa o una tazza priva di manici, usata nel mondo antico per libagioni alla divinità. 180 «Iustitia enim Casinensis quae tenet septem coopercula, emina potest dici» (citato in Statuta Petri Venerabilis, p. 64). Il ‘coperchio’ della iustitia era costituito probabilmente da quella coppetta o piattino fondo, come si veda nella rappresentazione cinquecentesca dei monaci a tavola del Sodoma a Monte Oliveto Maggiore (Siena), dove i piattini però sono della misura giusta per coprire i bicchieri di vetro. 181 ISIDORO, Etymologiae, col. 716: «phyalae dictae, quod ex vitro fiant»; GUGLIELMO, Consuetudines Hirsaugienses, col. 946: «Pro signo phialae vitreae, praemisso signo paterae hoc adde, ut duos digitos circa oculum ponas, ut splendor oculi, splendor vitri significetur». 263 monaci a tavola, e da numerose rappresentazioni artistiche (si pensi alla tipologia dell’Ultima Cena), impiegate per mescere vino e acqua nelle coppe o bicchieri posti sulla tavola insieme alle iustitias; esse erano riempite con secchi di legno (situlas, oppure galetas con due manici laterali e brocche), con i quali si prelevavano acqua e vino direttamente dal pozzo o dalla cantina, ed erano conservate piene nel refettorio in appositi cesti coperti182. Nelle consuetudini di Fruttuaria si precisa, infatti, che il vino era portato «in fiala» e anche quando si voleva dell’acqua veniva versata nel «vitreum vas» con la bottiglia (phiala); al contrario, se ad avere sete era uno dei bambini ospitati nel monastero, questi doveva attingerla direttamente «ad galetam de aqua», cioè al secchio o alla brocca grande, e berne a volontà183. Dopo l’uso, queste bottiglie trasparenti erano riposte pulite, insieme agli altri contenitori di vetro e alle posate, in una cassapanca oppure nei ripiani dell’armadio a muro del refettorio; quando vi erano dei fratelli malati, per portare loro «caritatem de vino», il monaco infermiere prendeva una parvulam galetam con la quale riempiva tante fiale quanti erano i malati e si recava all’infermeria, dove di norma si trovavano «galetas de vino et aqua et unum canistrum» per deporvi le fiale; per la refezione di tutti i giorni invece portava il vino in galetam se vi erano molti degenti, versandolo a ciascuno nella sua iusticia, mentre se il loro numero era ridotto glielo portava già pronto «in iusticiis»184. A Montecassino gli ospiti ricevevano due pani e un orcio di vino al giorno, corrispondente alla misura monastica quotidiana, e «iustitias panis et vini» erano assicurate agli operai che lavoravano al restauro della chiesa abbaziale; i monaci invece erano dotati di piccoli boccali ansati (de ciatis) per attingere il vino dai vasi di terracotta (de urceis) posti sui tavoli del refettorio, mentre quando bevevano il vino nuovo (mustum) usavano delle caraffe più capienti (nappos)185. Nelle consuetudini di Fulda e di Treviri, tuttavia, si precisa che a tavola il vino era servito nelle coppe, ma ai più giovani quando si distribuiva la carità non erano dati dei semplici recipienti, bensì preziosi bicchierini di vetro lavorato, che essi tenevano in mano per il manico, e con i quali andavano al centro del refettorio per ricevere la benedizione dell’abate prima di bere; tali contenitori 182 Liber tramitis, pp. 219, 252; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 704; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 946. 264 183 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, p. 56-57, 65-66, 69, 167-170, 201. 184 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, pp. 165, 217, 220-221, 243, 249, 253. 185 Statuta Casinensia, pp. 233-235. dovevano essere naturalmente ben lavati per non rovinare il vino186. Nel monastero tedesco di S. Pietro di Kastler, accanto a «scyphos, iustitias et alia vascula necessaria mensae», è attestato l’uso del cantaro (cantrus) come sinonimo della iustitia, capiente calice basso e largo che era riempito a pranzo e a cena con una ampia brocca (sericum maius) – a Treviri, dove ancora alla fine del medioevo sono attestate «amphoras cum vino», era detta classicamente lagena187 –, corrispondente alla misura permessa dalla regola, mentre nel monastero austriaco di Melk dotato di buone vigne il vino era servito in un grosso boccale, chiamato significativamente peccarius, e lo stesso avveniva nella vicina, ma meno fornita, abbazia di Bursfeld, dove il vino non veniva versato «in cantro» (cioè, nella tradizionale coppa grande con il manico di forma più svasata o cantaro), ma due volte «in peccariis» di dimensioni più ridotte. Un’ultima precisazione importante sui contenitori monastici viene dal testo consuetudinario di Udalrico, che menziona scifi e fiale di vetro, patere, iustitie, galete (o cavete) e bicchieri (pocula) o tazze (modioli) di varie forme, ma soprattutto dagli usi del monastero di Hirsau codificati poco dopo dall’abate Guglielmo, dove insieme ai recipienti di vetro non mancavano quelli di legno e di terracotta188. Il cicothus, innanzitutto, una sorta di patera circolare, i contenitori per il sale e le salse, le tazze o scodelle di creta (pocula), il vasello dell’aceto, la cannata di legno – specie di ampio boccale da prendere con le due mani – lo zuber, grosso 186 «Perlucidos cyatos vitri aliave vascula decora» (Redactio Fuldensis-Trevirensis, p. 290, mentre per le coppe in tavola, pp. 282, 317, e per la loro pulizia, pp. 291, 317). 187 Consuetudines Castellenses, 1, pp. 135-136, in refettorio «vinum vel cervisiam in scyphos in tali quantitate fundendum est ne illud superfluum in iustitias seu cantras refundere cogamur»; 2, p. 73: «mensura autem potus ad prandium similiter ad cenam vel collationem diebus ieiuniorum unum sericum maius in cantro»; per gli usi dei monasteri di S. Matteo e S. Massimino di Treviri, redatti dall’abate Giovanni Rode nel XV secolo, cfr. Consuetudines et observantiae monasteriorum Sancti Mathiae et Santi Maximini Treverensium ab Iohanne Rode abbate conscriptae, ed. P. Becker, Siegburg 1968 (CCM 5), p. 149: «lagenam cum vino coram domino abbate in altum elevat ante pectus suum»; la presenza di anfore vinarie e la prescrizione di tenere puliti tali recipienti, rimanda alla circolazione commerciale per via fluviale ben documentata lungo il Reno [a questo riguardo, cfr. L. CLEMENS, Trier. Eine Weinstadt im Mittelalter, Trier 1993 (Trierer Historische Forschungen, 22), pp. 88-118; M. MATHEUS, Weinbau in Antike und Mittelalter an Rhein und Mosel, in Misterium Wein. Die Götter, der Wein und die Kunst, a cura di M.M. Grewenig, Speyer 1996, pp. 99-103; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 63-75 e riferimenti bibliografici riportati]. 188 UDALRICO, Antiquiores consuetudines, coll. 704, 763; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, coll. 946947, 994, 1036, 1108. 265 recipiente ligneo con due manici laterali adatti a trasportarlo, il fusto fatto di doghe, anch’esso di legno e usato per lo stesso scopo, «quo vinum vel aliud huiusmodi portari solet», e le diverse cuppae vinariae189. Un corredo che appare fortemente influenzato dalle tradizioni locali, ma per la cui più puntuale determinazione materiale è indispensabile una ricognizione sistematica sulle fonti, senza tralasciare quelle artistiche ed archeologiche, indagine che supera però i limiti del nostro breve excursus190. Naturalmente non mancavano i preziosi vasi liturgici a partire dal calice aureo e dalle cannucce di metallo («fistulae sive arundines») con le quali si soleva «prendere il sangue del Signore»191, seguiti dalle ampolline di vetro, dai catini e bacili solitamente conservati nell’armarium della sacrestia192. Spettava al monaco sacrestano procurare il vino e l’acqua necessari per la liturgia: a Fruttuaria193 prendeva «galetas de vino et aqua», con cui aveva attinto vino e acqua per le mes189 GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 946; per le consuetudini sublacensi, Caeremoniae regularis, p. 92. 190 Per quanto non incentrato su fonti di ambito monastico, un esempio in questa direzione è offerto da P. MANE, I recipienti da vino nell’iconografia italiana dei secoli XIV-XV, in Dalla vite al vino. Fonti e problemi della vitivinicoltura italiana medievale, a cura di J.-L. Gaulin, A.J. Grieco, Bologna 1994 (Biblioteca di storia agraria, 9), pp. 85-115, a cui si possono utilmente affiancare i contributi di G. ALLIAUD, Cantine e vasi vinari nel tardo medioevo piemontese, e I. NASO, Il vino in tavola. Bicchieri e vasellame vinario nel Piemonte dei secoli XV e XVI, in Vigne e vini nel Piemonte rinascimentale, a cura di R. Comba, Cuneo 1991, rispettivamente pp. 69-90 e 205-234. 191 «Pro signo calicis, cum laeva signum paterae facito, et cum dextra desuper signum crucis exprimito. (...) Pro signo fistulae, sive arundinis, ex qua sanguinem Domini percipere solemus, praemisso signo metalli summitatem indicis ad os applice, quasi ex ea bibere velis» (GUGLIELMO, Consuetudines Hirsaugienses, col. 949). Si pensi al calice di sardonica, di probabile origine bizantina, acquistato dall’abate Sugero per il monastero di Saint-Denis (Washington, National Gallery of Art), al grande calice ansato di Wilten (Vienna, Kunsthistorisches Museum) o ai manufatti di altissima oreficeria conservati nel tesoro di S. Marco a Venezia, ma basta esaminare i cataloghi dei musei diocesani di arte sacra per averne una campionatura di straordinario valore; per la diversa tipologia e funzione dei calici litugici: H. LECLERCQ, s.v., Calice, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, II, Paris 1910, coll. 1595-1645; J. BAUDOT, s.v., Calice ministériel, in Ibidem, coll. 1646-1651; E. TABURET-DELAHAYE, s.v., Calice, in Enciclopedia dell’arte medievale, IV, Roma 1993, pp. 71-78; C. BARSANTI, s.v., [Calice]. Area bizantina, in Ibidem, pp. 80-82. 192 Consuetudines Floriacenses antiquiores, pp. 16, 55; Liber tramitis, pp. 81-82, 227, 270-271; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 949; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 25-26, 44-45, 78, 99; 2, pp. 51, 126, 165-166, 201, 205; Redactio Fuldensis-Trevirensis, pp. 292, 316-317; Decreta Lanfranci, pp. 173-174 sgg.; Consuetudines Affligenienses, pp. 141-143; Consuetudines et observantiae, pp. 168-211 passim. 266 193 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, pp. 165-166. se del giorno precedente, e andava in cantina dove come prima cosa versava il poco vino rimasto nella botticella dell’aceto, poi si recava al pozzo per risciacquare accuratamente i due contenitori riempiendone uno solo e mettendo poca acqua nell’altro, tornava perciò alla cantina e con questa lavava la spina della botte prima di attingervi il vino per la messa. Riempiti in questo modo i due secchi, uno di vino e l’altro di acqua, faceva ritorno alla sacrestia dove riponeva nell’armarium il primo e utilizzava il secondo per lavare calici, patene e corporali presso il lavacrum, nel quale versava pure l’acqua in eccesso. Rigore e moderazione nella tradizione cistercense Il robusto consumo di vino attestato nel mondo cluniacense prosegue, sia pure con accenti di maggiore moderazione, anche nella tradizione cistercense, alimentando anzi il ‘mito’ del vino di qualità e della specializzazione colturale di molte grange, che ha trovato sostenitori un po’ ovunque, ma spesso senza un sufficiente inquadramento storico-critico. Scrive in proposito il padre Lekai: «In Francia Cîteaux divenne e restò fino alla Rivoluzione francese la più famosa produttrice di vini di qualità. Le vigne situate nei terreni migliori della Borgogna, arricchirono l’abbazia fin dagli inizi del XII secolo, e tra di esse si conta quella di Clos-Vougeot, nelle immediate vicinanze di Nuits-Saint-Georges, che ebbe fama mondiale. Questa distesa di vigneti si era sviluppata da inizi ben modesti fino a raggiungere cinquanta ettari, tutti circondati da mura, e forniti di torchi e di cantine, molte delle quali esistono ancora oggi». Le abbazie poste tra il Reno e la Mosella, prosegue ancora lo storico americano con toni quasi trionfalistici, divennero tra i centri più importanti per il commercio vinicolo, grazie alla facilità dei trasporti fluviali, mentre la vendita del vino costituiva per i monaci la maggiore fonte di reddito disponibile194. 194 L.J. LEKAI, I cistercensi. Ideali e realtà, con appendice di G. Viti e L. Dal Prà, Firenze 1989, p. 381, ma anche le pp. 374, 380-383, 446, 460-466; anche MOULIN, La vita quotidiana, pp. 103-105. Per la viticoltura cistercense, con particolare riferimento all’abbazia madre, si veda il saggio di M. LEBEAU, Essai sur les vignes de Cîteaux, des origines au 1789, Dijon 1986; mentre per un approccio sintetico, C. HIGOUNET, Essai sur les granges cisterciennes, in L’économie cistercienne. Géographie - mutations du Moyen Âge aux Temps Modernes, Auch 1983, pp. 174-175; per l’esempio produttivo di un singolo cenobio, invece, S. LEBECQ, Vignes et vin de Vaucelles: une esquisse, in Ibidem, pp. 197-206; inoltre, ARCHETTI, Tempus vindemie, soprattutto pp. 58-63 e A.M. RAPETTI, Alcune considerazioni intorno ai monaci bianchi e alle campa- 267 Il cenobio più celebre fu senz’altro quello renano di Eberbach a poca distanza da Magonza; nel 1135 furono donati ai suoi monaci circa sei ettari «di quel famoso terreno di Steimberg, che era una delle più antiche vigne di Germania; la maggior parte del terreno sui ripidi fianchi della collina non era ancora coltivato. I fratelli disposero a terrazza quel terreno difficile; verso il 1232, poi, tutto lo Steimberg era di loro proprietà ed essi avevano coperto quasi sessantatré acri del prezioso riesling [cioè, quasi 35 ettari]»195. In realtà, non si conosce affatto il nome di questi vini, dal momento che per trovare attestate le prime denominazioni varietali bisogna aspettare il XV secolo, in quanto il riferimento ai fermentati d’uva è indicato nelle fonti locali semplicemente con l’espressione di «vino del Reno» o di «mustum Mosellanum», cioè in relazione al luogo di origine. È vero invece che, fedeli al principio generale dell’autosufficienza, i cistercensi avviarono quelle opere di dissodamento e terrazzamento collinari che portarono ad un innegabile sviluppo della coltura viticola nell’area renana, in Turingia e in Sassonia196. Ciò non toglie naturalmente che sulla mensa monastica finissero prodotti differenti e di varia gradazione, rinforzati con l’aggiunta di miele o aromatizzati con erbe e spezie costose, la cui presenza viene descritta con amara ironia da san Bernardo, ma anche fermentati di scarso valore commerciale come quelli prodotti ad esempio nel monastero di Kamp nella regione basso-renana: vinum Campense non facit gaudia mense, a detta di un popolare quanto impietoso proverbio medievale del luogo197. gne nell’Europa dei secoli XII-XIII, in Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millennio, Atti del Convegno internazionale, Brescia-Rodengo, 23-25 marzo 2000, a cura di G. Andenna, Milano 2001, pp. 338-339. 195 LEKAI, I cistercensi, pp. 381-382; anche, W. RÖSENER, L’économie cistercienne de l’Allemagne occidentale (XIIe-XVe siècle), in L’économie cistercienne, p. 147; utili puntualizzazioni anche nel lavoro di P. Racine nelle pagine precedenti di questo volume. 196 Cfr. G. SCHREIBER, Deutsche Weingeschichte. Der Wein in Volksleben, Kult und Wirtschaf, Köln 1980, pp. 62, 84-88 sgg.; F. IRSIGLER, Viticulture, vinification et commerce du vin en Allemagne occidentale des origines au XVIe siècle, in Le vigneron, la viticulture et la vinification en Europe occidentale, au Moyen Age et à l’époque moderne, Onzièmes journeés internationales du Centre culturel de l’abbaye de Flaran (8-10 september 1989), Auch 1991 (Flaran 11), pp. 57-58; inoltre, per l’area tedesca, anche le osservazioni di M. Matheus in questo volume. 197 268 S. BERNARDO, Apologia all’abate Guglielmo, in Opera omnia di san Bernardo. I: Trattati, a cura di F. Gastaldelli, Roma-Milano 1984, p. 197; per l’abbondante ma qualitativamente scadente produzione vinicola dell’abbazia di Kamp, attestata fin dalla fondazione del cenobio (1122), cfr. IRSIGLER, Viticulture, vinification et commerce, p. 58. Le vigne dell’abbazia di Himmerod, posta non lontano da Trier nella vallata della Mosella, erano inferiori soltanto a quelle dell’arcivescovo di Treviri198, mentre il monastero di Otterberg nel Palatinato possedeva vigneti a sufficienza per trarre i vantaggi di un fiorente commercio vinicolo, facilitato dalla navigazione fluviale. Anche le abbazie dell’Alsazia – soprattutto quelle di Lützel, Pairis, Baumgarten e Neubourg – erano note per la loro discreta produzione vinicola, le cui eccedenze giungevano sui mercati di mezza Germania. Il vino infatti veniva trasportato facilmente su chiatte dalle vigne fino ai mercati urbani di Treviri, di Magonza, di Francoforte e al grande emporio di Colonia; esso viaggiava senza pesanti limitazioni doganali e le esenzioni fiscali concesse ai cistercensi consentirono loro di farlo giungere lungo il Reno fino ai porti dei Paesi Bassi. La netta specializzazione di alcune abbazie francesi e soprattutto della Germania sud-occidentale, tuttavia, non deve indurre a pensare che in tutte le fondazioni cistercensi sia riscontrabile una medesima ‘vocazione’ vitivinicola, per quanto la diffusione del commercio di vino risulti attestata fin dai primi decenni di vita dell’ordine, se il capitolo generale si sentì in dovere di inserire nello statuto del 1134 una norma che vietava la vendita al minuto sia da parte di monaci e conversi che dei loro dipendenti, confermata indirettamente anche nel capitolo del 1193199. In realtà, il possesso di vigneti doveva essere funzionale innanzitutto all’autoconsumo dei singoli cenobi nella misura e secondo il criterio della moderazione stabilito dalla regola200; questo non esclude che le eccedenze produttive vinicole potessero entrare nel circuito commerciale, esse non rappresentarono però – almeno per l’Italia centro settentrionale, come mostra la storiografia più 198 CLEMENS, Trier. Eine Weinstadt, pp. 88-118; inoltre, ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 63-77. 199 Statuta capitulorum generalium ordinis Cisterciensis ab anno 1116 ad annum 1736, a cura di J.M. Canivez, I, Paris-Louvain 1933, p. 24, cap. 52: De tabernis: «Neque per monachum, neque per conversum, neque per aliquem hominum licet nobis vinum nostrum vendere ad tabernam, sive vulgum dicitur ad brocam, sive ut lingua teutonica dicitur ad tappam, in nostris seu in domibus alienis, nec alicubi omnino»; nel capitolo del 1193, invece, si stabilì la punizione per un abate che aveva autorizzato la vendita del vino prodotto in una grangia del suo monastero (Ibidem, p. 163, cap. 33); anche, NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, p. 291. 200 C. HIGOUNET, Le premier siècle de l’économie rurale cistercienne, in Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali in Occidente (1123-1215), Atti della settima Settimana internazionale di studio, Mendola, 28 agosto - 3 settembre 1977, Milano 1980 (Pubblicazioni dell’Università Cattolica del S. Cuore. Miscellanea del Centro di studi medioevali, IX), pp. 358-360. 269 recente201 – un ambito particolare di specializzazione produttiva. Situazione che appare ancora diversa nelle regioni meridionali della Penisola, dove la contiguità tra cistercensi e potere regio, specie con gli angioini, portò quest’ultimo a dotare di ampie forniture di vino e cereali le fondazioni dell’ordine202. Il vino e l’alimentazione monastica, infine, alla luce delle disposizioni normative cistercensi – la charta caritatis e i provvedimenti successivi presi dai capitoli generali – è stato oggetto di un recente saggio di Anna Maria Nada Patrone203, su cui merita di insistere brevemente. Anche se non con l’abbondanza della mensa cluniacense e privo di spezie e aromi (almeno nei primi tempi), il vino rientra a pieno titolo nell’alimentazione e nella dieta dei cistercensi; tuttavia, nelle regioni europee poco adatte alla viticoltura, il suo posto è occupato da altri fermentati, quali la birra, il sidro o l’idromele. In Borgogna e nelle vallate tra il Reno e la Mosella si sviluppa nel XII secolo una fiorente coltura viticola, che sta alla base anche di un ricco mercato; in Turingia però sono i frutteti a prevalere, dai quali si ottiene la materia prima per il sidro, e sul mercato di Treviri si trova il vino di pere (bierenviez), mentre nell’Europa centro-settentrionale e nell’Inghilterra meridionale alle birre di crauti, poco resistenti e dal gusto dolciastro, si affiancano dal XIV secolo quelle più amare e ricche di luppolo, adatte al trasporto e al commercio perché più resistenti204. Il consumo di vino semplice non pigmentatum, in linea con la tradizione 201 «Le abbazie italiane – almeno quelle di cui sono note le attività economiche (…) – non sembrano aver conosciuto vere e proprie forme di specializzazione nella produzione o nel commercio vinicoli» [così nota A.M. RAPETTI, La formazione di una comunità cistercense. Istituzioni e strutture organizzative di Chiaravalle della Colomba tra XII e XIII secolo, Roma 1999 (Italia sacra, 62), p. 328, che presenta poi il caso concreto dell’abbazia piacentina (pp. 329-331); analoghe considerazioni erano già state espresse da R. COMBA, Dal Piemonte alle Marche: esperienze economiche cistercensi nell’età di Bernardo di Chiaravalle, in San Bernardo e l’Italia, Atti del convegno di studi (Milano, 24-26 maggio 1990), a cura P. Zerbi, Milano 1993, p. 337]. 202 R. COMBA, Le scelte economiche dei monaci bianchi nel regno di Sicilia (XII-XIII secolo): un modello cistercense?, in I cistercensi nel Mezzogiorno meridionale, a cura di H. Houben, B. Vetere, Galatina 1994, pp. 142143, dove viene calcolato anche un elevato consumo pro capite giornaliero, pari a tre litri di vino. 203 204 270 NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 277-350, in part. pp. 320-323. Per i necessari rimandi bibliografici a questi problemi, si vedano almeno M. MATHEUS, Viticoltura e commercio del vino nella Germania occidentale del Medioevo, in Vino y viñedo en la Europa medieval, Actas de las jornadas celebradas en Pamplona los días 25 y 26 de enero de 1996, a cura di F. Miranda García, Pamplona 1996, pp. 116-119; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 74-76; NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 302-304. bernardina, sembra attestato per buona parte del XII secolo; tradizione che trova pure conferma nel noto Dialogo dei due monaci di Idungo di Prüfening (11531154), passato dall’osservanza cluniacense a quella cistercense. Nell’operetta l’ascetismo dei monaci bianchi viene esaltato anche attraverso il rifiuto delle bevande preparate «con spezie preziose e profumate» che, al contrario, «in refettorio dilettavano il gusto e l’olfatto» dei monaci dell’abbazia borgognona, i quali ne facevano largo impiego, a meno che non fossero destinate ai fratelli malati dell’infermeria205. La linea di rigore si registra però anche nei confronti dei conversi, ai quali era chiesto di rinunciare ad ogni bevanda fermentata per evitare le tentazioni, benché fossero essi stessi a produrla con il loro lavoro, per quanto un’analoga restrizione nel 1175 venne estesa pure ai fratelli impegnati nei campi206. Di conseguenza, mentre san Benedetto aveva permesso ai monaci di fronteggiare la fatica del lavoro rurale con un supplemento di vino, i cistercensi ne limitarono l’uso nelle loro aziende agrarie, proibendolo ai conversi delle grange, ma consentendolo nella quiete del chiostro ai religiosi che non sudavano sotto il sole. Questa realtà innescò presto proteste e ribellioni tese ad eliminare le restrizioni alimentari, che solo gradualmente vennero lasciate cadere dai vertici dell’ordine207; il tutto avvenne però in un clima di progressiva rilassatezza che colpì anche l’osservanza dei monaci, in quanto già a metà del XII secolo – secondo la denuncia allarmata del vescovo di York – molti di loro faticavano ad abbandonare completamente i costumi da cui provenivano e si lasciavano tentare dal cibo, dalla ricercatezza delle vesti e soprattutto dal vino, «dulci et solemni vicissitudine 205 R.B.C. HUYGENS, Le moine Idung et ses deux ouvrages: “Argumentum super quatuor questionibus” et “Dialogus duorum monachorum”, «Studi medievali», s. III, 13/1 (1972), p. 447, rr. 327-331: «Eleuctuaria vero ex preciosis et odoriferis specibus confecta, quibus gustus et olfactus vester oblectatur in refectorio, noster ordo refutat quia nequaquam monachis conveniunt, nisi forsitan in infirmaria egrotantibus». Per l’uso delle spezie nel tardo medioevo e il loro impiego medico-farmacologico, v. B. LAURIOUX, Cucine medievali (secoli XIV e XV), in Storia dell’alimentazione, pp. 360-361; J.-L. FLANDRIN, Condimenti, cucina e dietetica tra XIV e XVI secolo, in Ibidem, pp. 381-384. 206 Cfr. Regula conversorum ordinis Cistercensis secundum instituta sancti Benedicti, in Codex Regularum monasticarum canonicorum, a cura di L. Hostenius, II, Augustae Vindelicorum 1759 (rist. anast., Graz 1957), p. 428, cap. 9; Statuta capitulorum generalium, I, p. 87, cap. 10; anche, NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 305-306. 207 J. LECLERCQ, Comment vivaient les frères converses, in I laici nella «societas christiana» dei secoli XI e XII, Atti della terza Settimana internazionale di studio (Mendola, 21-27 agosto 1965), Milano 1968, pp. 163164; inoltre, NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 306-308, 321. 271 potionum», tanto che nel 1181 il capitolo generale si vide costretto a condannare il comportamento di numerose abbazie indebitatesi pesantemente per comprare il vino loro necessario208. Riguardo alla quantità e alla qualità delle bevande la charta caritatis non contiene particolari indicazioni dietetiche, sembra piuttosto avvalorare la consuetudine di bere vini non artefatti, consentendo che ad un primo calice di vino puro all’inizio del pasto, seguisse una quantità variabile di aquatum o di altre bevande caloriche, a discrezione dell’abate, prodotte nelle diverse regioni209. Per il resto le disposizioni normative si modulano sul dettato della regola: nel 1195 si ribadisce che durante la quaresima e nei giorni di digiuno ogni bevanda fermentata sia esclusa dal vitto e la quantità non consumata venga distribuita ai poveri; ciò comprendeva anche la razione degli eventuali ospiti presenti nel monastero, se vi avessero rinunciato, la quale non doveva comunque essere data ai vicini di posto a tavola210. Quando poi il pasto era unico nella giornata, ai monaci era permesso prendere il mixtum a metà mattina, perché il digiuno non fosse troppo gravoso e debilitante per la loro età; allo stesso modo, ai fratelli che subivano un salasso era concesso un supplemento di vino fuori pasto e un’alimentazione più ricca a pranzo211. Il silenzio a tavola era fondamentale e mancare di rispettarlo comportava la privazione temporanea del vino, quando non addirittura pene più severe comprensive di battiture e della riduzione alimentare a pane e acqua; era pure vietato bere vino dopo compieta, mentre venivano ammesse acqua, infusi di erbe e birra; inoltre, era altresì proibito portare vino in viaggio o fermarsi in una taverna per prendere cibo quando si era lontani dal monastero212. Continuò invece a restare in vigore il divieto di bere vino, sidro o birra per i conversi, poiché tale consuetudine sembra fosse molto diffusa e difficile da estir208 Per l’aperta denuncia fatta dal vescovo di York Turstino nella lettera inviata al confratello di Canterbury Guglielmo, riguardo alla rilassatezza dei costumi di alcuni monaci cistercensi, cfr. Epistula CDXC (1146). Turstini archiepiscopi Eboracensis ad Willelmum Cantauriensem pontificem (1147), PL, 182, col. 699]; per i provvedimenti adottati dal capitolo generale dell’ordine, invece, v. Statuta capitulorum generalium, I, p. 89, cap. 7. 209 Statuta capitulorum generalium, I, p. 163, cap. 33 (a. 1191). 210 Statuta capitulorum generalium, I, pp. 182-183, capp. 2 e 9; NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 320-321. 211 212 272 Statuta capitulorum generalium, I, pp. 24, 57, cap. 50 e 17. Statuta capitulorum generalium, I, pp. 46, 397, 346, capp. 3, 36 e 3; III, Paris-Louvain 1935, p. 127, cap. 5 (a. 1274); anche, NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 340, 343. 273 274 pare. specialmente nelle grange inglesi, in quelle delle Fiandre, della Normandia, del Maine e della Francia occidentale. A poco valsero le misure restrittive se, soprattutto nelle tenute insulari, i capitoli del 1192 e 1196 mettevano in guardia gli abati dallo scegliere senza alcun discernimento i conversi dei loro cenobi, in quanto molti di loro risultavano essere incorregibiles e sfrenati bevitori di birra213. Tre anni dopo, forse a motivo dei risultati del tutto deludenti di tali limitazioni, si tentò un primo compromesso permettendone l’uso, purché nelle grange in cui si consumava vino e birra venisse servito un solo pulmentum. Nel 1201 si tornava ancora a tuonare contro «i conversi che bevevano vino nelle grange» e nel 1208 si vietò a monaci e fratelli laici di portare con sé recipienti pieni di vino durante i viaggi e di berne se non in presenza del superiore, soprattutto in quelle regioni dove la restrizione per i conversi era rispettata; finalmente, nel 1238 la consuetudine di assumere bevande fermentate, consentita in un primo tempo solo ad alcune dipendenze rurali, venne estesa a tutti senza limitazioni geografiche214. Un ultimo aspetto dell’alimentazione cenobitica, che riguarda anche i monaci bianchi, è la presenza sulla loro tavola di pitantie aggiuntive rispetto alla refezione quotidiana, preparate grazie all’elemosina e alla generosa benevolenza dei benefattori del cenobio, ai quali i fratelli assicuravano il viatico liturgico del ricordo nella preghiera nel giorno anniversario della loro morte o la commemorazione durante particolari feste religiose. La registrazione dei loro nomi, insieme all’entità del dono a cui si collegava la memoria, era fatta in appositi registri o libri obituari, che da questo punto di vista possono fornire informazioni alimentari importanti, come ha mostrato ancora la Nada Patrone esaminando un obituario del XIII secolo proveniente dall’abbazia di Lucedio215. Non mancano 213 Statuta capitulorum generalium, I, pp. 139, 149, capp. 16 e 76; per i riferimenti geografici, invece, Ibidem, I, p. 97, cap. 115; 149, cap. 16; 193, cap. 76; 273, cap. 76; II, Paris-Louvain 1934, p. 153, cap. 4. 214 Statuta capitulorum generalium, I, p. 185, cap. 18; 273, cap. 48; 346, cap. 3; II, p. 7, cap. 34; su cui si sofferma anche NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, p. 323. 215 NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 315-320; il testo del manoscritto è stato pubblicato da A. CERUTI, Un codice del monastero cistercense di Lucedio, «Archivio storico italiano», VIII/6 (1881), pp. 336-388. Queste registrazioni non sono infrequenti nella documentazione medievale; un esempio recente è dato dall’obituario della pieve di S. Giovanni di Monza pubblicato da F. DELL’ORO e R. MAMBRETTI, Kalendarium-Obituarium Modoetiense, tomus B, Roma 2001 (Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae». Subsidia, 117; Monumenta Italiae Liturgica, II), pp. 119-134; sul tipo di fonte, v. in generale J.-L. LAMAÎTRE, Les obituaires, témoins d’une mutation, in L’Europa dei secoli XI e XII fra novità e tradizione: sviluppi di una cultura, Atti della decima Settimana internazionale di studio (Mendola, 25-29 agosto 1986), Milano 1989 (Miscellanea del centro di studi medioevali, 12), pp. 36-56. 275 qui evidentemente le registrazioni relative a donativi di «vinum bonum et sanum», di vino puro o della consegna di «unum botallum vini sacristae» da distribuire in refettorio nel giorno memoriale del defunto donatore. Queste pitancie permettevano così «di aumentare la quantità e la qualità di cibo e di bevande distribuite usualmente ai monaci, di rompere la monotonia dell’alimentazione monastica, se non addirittura di fornire pasti supplementari, come intermezzo fra i due pasti regolamentari»216. Aggiunte che potevano essere anche assai numerose e, nelle maggiori abbazie, si è calcolato potessero superare persino i duecento giorni all’anno. Alimento e bevanda, carità e farmaco di vita eterna Bevanda e alimento, energetico e ricostituente naturale, per le sue elevate virtù nutrizionali il vino era un elemento costante e particolarmente indicato nelle diete dei fratelli malati, ai quali veniva consentito e consigliato anche quando gli altri monaci dovevano astenersene. Già Pacomio aveva previsto un’assistenza premurosa agli infermi, la cui alimentazione comprendeva il fermentato d’uva; la stessa cosa si trova nelle regole della Gallia meridionale e nei consigli di Isidoro di Siviglia, mentre calici di merus, ossia di vino puro, sono presenti nelle disposizioni normative del Maestro; in quelle di san Benedetto, invece, la cura degli ammalati diventa ormai un tratto caratterizzante, che si ritroverà successivamente in tutte le proposte di rinnovamento monastico217. L’uso anzi della prassi terapeutica della flebotomia permise a quanti subivano un salasso di ricevere «cari216 NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, p. 318 per la citazione; per il supplemento alimentare a tavola assicurato dalle pitancie e il loro elevato consumo ancora alla fine del medioevo, cfr. H. WATZL, Über Pitanzen und reichnisse für den Konvent des Klöster Hailige Kreuz, «Analecta cistercensia», 34 (1978), pp. 44-46, 55; inoltre, NADA PATRONE, A mensa con i monaci, pp. 32-33. 217 276 Per un primo inquadramento storiografico, A. BÖCKMANN, “I fratelli malati” (Regula Benedicti cap. 36), «Benedictina», 47 (2000), pp. 5-19; per il periodo successivo a Benedetto si può vedere l’esempio della tradizione cluniacense in R. CRISTIANI, “Infirmus sum, et non possum sequi conventum”. L’esperienza della malattia nelle consuetudini cluniacensi dell’XI secolo, «Studi medievali», 41/2 (2000), pp. 777-807 e, per i pochi rimandi all’uso del vino, pp. 790, 792-794; inoltre, MONTANARI, L’alimentazione nell’alto medioevo, pp. 374-375; ID., Alimentazione e cultura, p. 89; inoltre, M. WEISS ADAMSON, Medieval Dietics. Food and Drink in Regimen Sanitatis Literature from 800 to 1400, Frankfurt am Main 1995 (German Studies in Canada, 5), pp. 25-34, per la tradizione dei testi classici di medicina e la loro influenza sulle diete dei regimina sanitatis (anche in rapporto al vino e alle sue varietà). tatem de pane et vino» subito dopo la «minutio sanguinis», accompagnata da un’alimentazione più nutriente a pranzo e da un supplemento di ‘misto’ nei due o tre giorni seguenti all’intervento218. Col passare del tempo però ci si preoccupò di evitare abitudini secolari, vigilando che anche in infermeria i fratelli rispettassero il silenzio e non disturbassero i più gravi con chiacchiere inutili, trasformando quel luogo di cura in un una taberna e lasciandosi andare a «dissolutiones», «ebrietates» o canti volgari alla maniera dei laici219. Il tentativo tuttavia di determinare, attraverso le regulae e le consuetudines varietà e prodotti vinicoli riservati in modo specifico ai fratelli più deboli, risulta poco fruttuoso, benché per la sua componente alcolica il vino fosse uno dei costituenti base di sciroppi, pozioni e prodotti medicinali usati per la cura dei malati in infermeria, come confermano gli statuti cassinesi e le disposizioni sul funzionamento della «domus infirmorum», che lo registrano fra gli elementi conservati nell’armariolum accanto ai principi attivi e ai medicamenti220. Ma il suo impiego risulta abituale anche nella normale profilassi medico-dietetica, essendo indicato come ricostituente primario insieme a miele, erbe medicinali e spezie. Senza dilungarci su questo aspetto, basterà ricordare che Giovanni Gualberto († 1073), «vedendo un giorno alcuni fratelli piuttosto gracili, ordinò di preparare una potione con certe erbe medicinali e miele», e la si desse da bere a quelli che tra di loro apparivano più bisognosi, con esiti riabilitativi facili da immaginare; il biografo di Gioacchino da Fiore († 1202 ca), invece, narra che trovandosi a Sambucina gli capitò una volta di cadere gravemente malato e quasi in fin di vita a causa di una febbre altissima; trasportato d’urgenza a Fiore, venne visitato dal santo abate che, veduto il suo stato di grande debolezza e inappetenza, gli pre218 Mentre nel sinodo aquisgranense dell’816 ci si limita a prescrivere «una ricca dieta con cibi e con bevande», a quanti è consentita la flebotomia (Benedetto di Aniane, p. 108, cap. 10), nelle consuetudini cluniacensi si precisa che il monaco, subito dopo la minutio sanguinis, poteva recarsi in refettorio per assumere una parte della sua libbra di pane e del suo vino, e poteva farlo anche nei due giorni successivi, cfr. UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 710, cap. 21: «surgens statim [il monaco che ha terminato il salasso] venit in refectorium, aliquantum de libra sua comesurus et de vino bibiturus; sicut etiam per dies geminos sequentes»; inoltre, Liber tramitis, p. 178, 249; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 990; Consuetudines Cluniacensium antiquiores, pp. 14-15; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 94, 96; 2, pp. 222, 249, 251, 253; anche, Consuetudines Castellenses, 1, pp. 418-419; 2, pp. 26, 56-57, 121. 219 Caeremoniae regularis, p. 112; Consuetudines Castellenses, 1, pp. 56-57, 384. 220 Statuta Casinensia, pp. 237, 241, 245-246; anche, Consuetudines Castellenses, 1, p. 384; mentre per gli usi cluniacensi: BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 184-185. 277 scrisse di mangiare cavoli (caules) e di bere vino nuovo (mustum), dolce e forte; pochi giorni dopo l’infermo riacquistò completamente la salute221. Il monaco addetto all’assistenza degli infermi poteva essere esonerato dai doveri comunitari e prendere il misto se le necessità del suo impegno lo esigevano, mentre una disciplina tutta particolare vigeva per i suoi pazienti che, anche senza il permesso del superiore e la recita di un versetto, potevano assumere il mixtum quando il loro stato di infermità lo richiedeva222. All’uscita dalla chiesa, dopo l’ora terza, essi ricevevano iustitiam vini e una libbra di pane su un vassoio con una tovaglietta, avendo la possibilità di nutrirsi se lo volevano «quasi in loco mixti»; coppe, bicchieri, vasi potori, brocche e bacinelle costituivano inoltre la normale dotazione dell’infermeria223. Ma se bere vino aiutava il monaco malato a ritornare in salute e il misto simboleggiava il nutrimento eucaristico, molto più importante era curare la sua anima con il ‘farmaco’ della vita eterna, cioè la comunione, i cui benefici effetti non avrebbero mancato di ripercuotersi anche sulla salute fisica dell’infermo e operare per la sua ‘guarigione’. Infatti, osserva Innocenzo III nel De sacro altaris mysterio, «come il pane più degli altri cibi e bevande sostiene il cuore dell’uomo e il vino ne rallegra l’anima (Sal 104, 15), così il corpo e il sangue di Cristo più degli altri cibi e bevande spirituali rinfrancano e irrobustiscono l’uomo interiore. (…) Allora io – prosegue il pontefice – che voglio avere la vita eterna, veramente mi cibo della carne di Cristo e veramente bevo il suo sangue (…), sicuro dell’autorità con cui si dice: Chi mangia la mia carne, vive per me (Gv 6, 52)»224. 221 Per la Vita di san Giovanni Gualberto, scritta dall’Anonimo discepolo, cfr. Alle origini di Vallombrosa. Giovanni Gualberto nella società dell’XI secolo, a cura di G. Spinelli, G. Rossi, Novara 1984, p. 141; per quella di Gioacchino da Fiore, cfr. H. GRUNDMANN, Zur Biographie Joachims von Fiore und Rainers von Ponza, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», 16 (1960), p. 542. Non va dimenticato che negli xenodochia o hospitalia medievali – ma ciò vale almeno fino al pieno Settecento e oltre, quando si assiste alla ‘medicalizzazione’ dell’assistenza sanitaria – il principale rimedio curativo era costituito dalla sicurezza di un letto riparato, di un pasto caldo e della razione giornaliera di vino. 222 Liber tramitis, pp. 222, 249. Simbolo eucaristico, il misto era ‘farmaco’ per il corpo come la comunione lo era per l’anima. 223 Liber tramitis, pp. 265-266 e 205 per l’infermeria; inoltre, CRISTIANI, Infirmus sum, pp. 790, 797, mentre per le funzioni e la figura dell’infirmarius nell’ambito cluniacense, pp. 799-800. 224 278 INNOCENZO III, De sacro altaris mysterio libri sex, PL, 217, lib. IV, capp. 3 e 7, coll. 854, 860, anche cap. 42, coll. 882-883. Nell’elogio della Vergine e di suo Figlio (INNOCENZO III, Hymnus. De Christo et beatissima virgine Maria dignissima matre eius, PL, 217, coll. 919-920), invece, il pontefice riferendosi a Cristo scrive: «Questo fiore è divenuto per noi medicina, in lui è cibo e bevanda, da lui viene miele e In questo modo, il fratello ospitato nell’infermeria di Cluny, benché separato dalla comunità, partecipava alla liturgia quotidiana non nella chiesa maggiore ma nell’oratorio di S. Maria, attiguo alla domus infirmorum, dove riceveva l’eucaristia e si purificava la bocca bevendo dal «calice cum vino puro». Se però era costretto a letto, il sacerdote andava in chiesa a prendere il corpo del Signore e il calice, accompagnato da quattro conversi con i candelabri, il turibolo e l’«ampullam cum vino»; al loro arrivo tutti facevano la genuflessione, compreso il malato se poteva alzarsi, che, dopo il canto del Miserere mei Deus (salmo 50) e di altre preghiere, si comunicava intingendo «corpus Domini in vino»225. cera. È medicina nella redenzione, cibo e bevanda nella giustificazione, miele e cera nella glorificazione. Da questa medicina viene l’eterna salute dell’incorruttibilità, da questa medicina viene il cibo ristoratore della sazietà interiore, da questa medicina la bevanda dell’ebbrezza spirituale, della eterna fecondità (…)». Date queste premesse, uno dei problemi che si ponevano i medievali era quello se Giuda avesse preso o meno l’eucaristia insieme agli apostoli e pur ammettendo di si, «come fa la maggior parte dei commentatori – nota Innocenzo III –, bisogna chiedersi per quale motivo il medico salvifico dava al malato una medicina che sapeva per lui mortale. Sapeva infatti che chi prende indegnamente l’eucaristia, mangia la propria condanna (Cor 11, 29), ma davvero Gesù porse un boccone intinto. Perciò la Chiesa ha deciso di non dare l’eucaristia intinta» (INNOCENZO III, De sacro altaris, coll. 865-866, cap. 13). 225 Per il rito della comunione al malato, Liber tramitis, pp. 270-271; per lo spazio dei malati e l’oratorio di S. Maria a Cluny, BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 187-189, 262; l’esclusione dalla comunione, tuttavia, era prevista per quelli che mangiavano carne (Ibidem, p. 188, limitazione ripresa solo in GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 1123). Il rito della comunione avveniva normalmente sotto le due specie, a cui seguiva la possibilità di bere un po’ di vino non consacrato per lavarsi la bocca e la gola, come si dirà meglio anche più avanti alle note 286-287 (Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 55; Liber tramitis, pp. 81-82, 271; BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 225; Consuetudines Cluniacensium antiquiores, pp. 91, 303, 353; Decreta Lanfranci, p. 52); dove non si praticava invece il rito dell’intinzione, come nella regione magontina, si beveva direttamente dal calice con una cannuccia [Redactio Fuldensis-Trevirensis, p. 316; Redactio Wirzeburgensis, p. 282; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, coll. 1013-1014; inoltre, Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 44-46; e Consuetudines et observantiae, p. 211, per un esempio tardo medievale; più in generale, invece, MARTENE, De antiquis Ecclesiae ritibus, col. 182 e le note di K. HALLINGER, Gorze-Kluny. Studien zu den monastischen Lebensformen und Gegensätzen im Hochmittelalter, II, Roma 1951 (Studia Anselmiana, 23), pp. 975-976; ID., Progressi e problemi della ricerca sulla riforma pre-gregoriana, in Il monachesimo nell’alto medioevo e la formazione della civiltà occidentale, Spoleto 1957 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 4), pp. 285-286]. Ci si chiedeva tuttavia se l’intinzione dell’ostia nel vino non consacrato o l’aggiunta di vino a quello consacrato trasformasse il fermentato in sangue di Cristo non in virtù della consacrazione ma del contatto; il problema viene chiarito senza possibilità di equivoco da Innocenzo III in una lettera del 30 novembre 1202 diretta a Giovanni di Bellesmes, già arcivescovo di Lione, fattosi monaco cistercense a Clairvaux: «se dopo la consacrazione del calice si mette altro vino 279 Quando però alla malattia stava per succedere la morte, l’infermo veniva preparato al grande transito con l’unzione e la comunione. Il priore avvisava i monaci e tutti insieme andavano processionalmente a fargli visita portando la croce, l’acqua santa, il turibolo, l’ampolla con l’olio e l’eucaristia; entrati nell’infermeria, veniva sparso l’incenso e aspersa l’acqua benedetta, poi iniziava il rito mentre il sacerdote ungeva il moribondo, lo comunicava e gli lavava la bocca con il vino. Nell’imminenza del trapasso la comunità si raccoglieva attorno a lui per accompagnarlo nell’ultimo viaggio, il suo corpo era adagiato sulla cenere per terra e un converso suonava la campanella del chiostro per segnalare l’avvenuto distacco. La salma veniva subito ricomposta e, come nel caso dell’abate Ugo di Cluny, il corpo «portato nella sala capitolare, dove alcuni fratelli in abiti bianchi lo lavavano prima con acqua e poi col vino, da ultimo con un po’ di unguento» sull’esempio evangelico; la sua razione giornaliera di pane e vino era distribuita ai poveri: a Cluny continuava ad alimentare le elemosine per i trenta giorni successivi al decesso, mentre a Montecassino era data all’incaricato della sepoltura226. Il dolore della scomparsa, tuttavia, si trasformava presto nella gioia della memoria liturgica che celebrava il dies natalis del defunto, secondo una ritualità nel calice, esso non diventa sangue né si mescola al sangue ma, mescolato agli accidenti del vino precedente, circonfonde da ogni parte il corpo celato sotto di esso senza bagnare ciò che viene circonfuso» (INNOCENZO III, Joanni, quondam archiepiscopo Lugdunensi. Declarat omnia quae dicuntur in missa circa consecrationem et alia, in ID., Regestorum sive epistularum, liber quintus, PL, 214, col. 1118, epist. CXXI). Concetti che il pontefice aveva già sviluppato nel suo lavoro sull’eucaristia pochi anni prima: «Se poi dopo la consacrazione del calice si mette nel calice stesso altro vino, esso non diventa sangue né si mescola al sangue ma agli accidenti del vino precedente unito al corpo che si cela sotto di essi e si sparge dappertutto senza bagnare ciò che è circonfuso. Gli stessi accidenti, tuttavia, sembrano condizionare l’unica aggiunta che da esso deriva, perché se fosse stata aggiunta acqua pura prenderebbe il sapore del vino. Gli accidenti dunque riescono a cambiare il soggetto, come il soggetto riesce a cambiare gli accidenti. Così la natura si assoggetta al miracolo e la potenza opera al di là della consuetudine. Alcuni però hanno voluto sottilizzare che, come l’acqua semplice per contatto con l’acqua benedetta, così il vino per contatto col sacramento diventa consacrato e si trasforma in sangue, ma la ragione non sopporta affatto questa teoria» (ID., De sacro altaris, col. 877, cap. 31). 226 280 Per il riferimento alla biografia di Ugo, si veda Ugo abate di Cluny, p. 106. Riguardo all’unzione dei monaci, al loro trapasso e alla presenza del vino in queste circostanze in ambito cluniacense, cfr. Liber tramitis, pp. 269-272, sulla composizione della salma p. 273 e, sulla distribuzione di pane e vino in elemosina, pp. 276-277; inoltre, UDALRICO, Antiquiores consuetudines Cluniacensis, col. 772; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 86-89, 249-254; sulla ritualità della liturgia dei defunti, invece, si vedano le considerazioni di G.M. CANTARELLA, I monaci di Cluny, Torino 1993, pp. 156-160; e le precisazioni di CRISTIANI, Infirmus sum, pp. 806-807; mentre per le usanze cassinesi sulla sepoltura, Statuta Casinensia, p. 235. che si era andata arricchendo enormemente nel corso del medioevo e si traduceva, anche a tavola, nella distribuzione aggiuntiva di vino (potio) e di una terza pietanza per tutti227. In verità, aggiunte di cibo e bevande accompagnavano quasi quotidianamente anche la commemorazione di amici e benefattori del monastero, mentre nel giorno anniversario della morte dell’abate il cellerario forniva all’elemosiniere pane, vino, carne o legumi per sfamare i poveri che accorrevano alla porta del monastero; il loro numero, secondo le consuetudini di Fruttuaria, superava il centinaio in quel giorno, mentre a Cluny nella festa di Ognissanti erano nutriti tutti quelli che giungevano all’abbazia e, dodici di essi, erano invitati a partecipare alla messa e rifocillati come il giovedì santo228. Un’attenzione quella caritativa da sempre tipica della tradizione benedettina (RB 31, 9; 53, 15)229 che, ancora nel monastero di S. Benigno, metteva a disposizione del monaco elemosiniere la decima di tutte le offerte, un’analoga quantità di lardo, formaggi, pesci, agnelli e maiali macellati, la terza parte delle rendite cerealicole e vinicole provenienti dalle dipendenze rurali, mentre il cellerario provvedeva a nove iustitie di vino al giorno e tre per il mandato (cioè, la lavanda dei piedi), insieme a quanto avanzava dalla mensa dei monaci che i pueri raccoglievano in due galete e ponevano sul carro fuori della cucina230. Ciò significa che di solito erano nutriti e vestiti almeno dodici poveri, tre dei quali però erano trattati con particolare riguardo giacché 227 Si veda per l’ambito cluniacense, Liber tramitis, pp. 281-283. 228 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, pp. 18-19, mentre per l’elemosina ai poveri pp. 128-129; 2, pp. 38, 240-241; per i supplementi di vino a Cluny in occasione della commemorazione di parenti e benefattori o delle numerose ricorrenze festive, invece, Liber tramitis, pp. 198-199, 281-283, 285, dove la distribuzione coinvolgeva, oltre ai monaci, anche poveri e ospiti; inoltre, UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 689, dove si precisa che a questi poveri erano dati a tutti «pane, vino et carne», col. 776 che precisa come nell’anniversario della morte dell’abate dodici ospiti dell’ospedale ricevessero vino e carne, mentre i monaci mangiavano pesce e bevevano vino speziato (pigmentum). Sull’importanza rituale dei pasti offerti ai poveri, in occasione di feste e anniversari vari, si vedano MONTANARI, Alimentazione e cultura, pp. 29-30, 78; B. ANDREOLLI, Uomini del medioevo, Bologna 1983, pp. 95-110. 229 Il cap. 21 dei decreti sinodali di Aquisgrana (816) precisa che «in quaresima, come negli altri periodi, [i fratelli] si lavino i piedi reciprocamente e cantino le antifone che si confanno a questo compito» (Benedetto di Aniane, p. 109). 230 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, pp. 38, 129, 240-241; anche, Liber tramitis, pp. 53-55, 199; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 766. 281 venivano loro lavati i piedi e le mani sull’esempio del Signore nell’ultima cena. A Fruttuaria infatti essi erano accolti nel chiostro vicino alla chiesa e tre fratelli – due dei quali dovevano essere litterati e uno no (vale a dire, un sacerdote, un priore e un converso) – a turno rinnovavano quel gesto evangelico di umiltà, detto mandatum, con un catino d’acqua e un asciugamano; poi il presbitero, data la benedizione, si metteva in ginocchio e porgeva loro la iustitiam con il vino e il pane, baciando le loro mani in segno di riverenza come durante la liturgia eucaristica al momento dell’offerta delle oblate, per poi tornare verso la chiesa231. Questa usanza quotidiana si arricchiva di maggiore valenza simbolica durante la settimana santa e precedeva la più solenne lavanda dei piedi comunitaria: «Nel rito del giovedì santo – stabiliscono i decreti sinodali dell’816 – l’abate, se ne è in grado, lavi e baci i piedi dei confratelli, e infine porga loro di sua mano una bevanda»232. Recitata sesta, ma prima del vespro, al suono della tabula il 231 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 72-73; a Cluny si precisa che la benedizione riguardava «cibum et potum», poi il monaco di turno prendeva in mano «iustitiam vini et libram panis» e la porgeva ai poveri baciando le loro mani (Liber tramitis, pp. 253-255); il cellerario, inoltre, teneva segnato su «quasdam membranas cum martyrologio» quante «iustitiae vel librarum panes» erano da dare ogni giorno in elemosina, mentre su una colonna del chiostro teneva affisso l’elenco di chi a turno aveva il compito del mandatum (Ibidem, p. 53, e p. 55 per la refezione ai poveri in quaresima). Nelle consuetudini dell’abbazia di Bec, in Normandia, si dice invece che mentre i monaci erano a cena, il cellerario e l’elemosiniere chiedevano il permesso per uscire, andavano a chiamare i poveri e li facevano sistemare in un luogo congruo del chiostro; poi uscivano anche gli altri fratelli che passavano davanti a loro, mentre gli incaricati provvedevano a lavare e asciugare i loro piedi, facevano portare tre monete e il vino dagli inservienti; al suono secco della tavola tutti esclamavano: Benedicite, il sacerdote tracciava il segno di croce sul vino, che era subito servito ai poveri «osculando eis manus» negli ciphos; al termine dell’oblazione seguivano altre preghiere, poi i monaci tornavano verso la chiesa cantando (Consuetudines Beccenses, pp. 44-45). Nel monastero di Kastler, invece, il sacerdote benediceva il pane e il vino tenendoli in mano, per porgerli poi ai poveri con il bacio consueto (Consuetudines Castellenses, 1, p. 277; 2, pp. 64, 118-119, 123). Riguardo al bacio, gli usi fruttuariensi precisano che anche quando il sacerdote distribuisce le fave benedette i monaci gli baciano la mano «sicut ad hostias» [Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, p. 170; 1, p. 41 per il rimando alla liturgia eucaristica che, anche dal punto di vista artistico, trova un bellissimo riscontro nelle due miniature con la ‘distribuzione del pane e del vino agli apostoli’ del codice purpureo di Rossano Calabro (Museo dell’arcivescovado, pp. 6-7, sec. VI)] e ciò avviene come nella liturgia della messa perché chi porta la patena e il calice bacia la mano, avvolta nella casula, del sacerdote che li riceve (Consuetudines Affligenienses, in Consuetudines Benedictinae variae, pp. 141-142); inoltre, MONTANARI, Alimentazione e cultura, p. 83, che ricorda la benedizione delle fave; G. ARCHETTI, La vite e il vino a Brescia nel medioevo, «Civiltà bresciana», VI/3 (1997), pp. 17-19, che riporta l’esempio del rituale liturgico delle monache di S. Giulia di Brescia. 282 232 Citiamo dalla traduzione presente in Benedetto di Aniane, p. 109: sinodo di Aquisgrana, cap. 21. superiore si recava nel luogo dove erano stati riuniti dodici poveri, come gli apostoli nel Cenacolo – nel chiostro, nel refettorio dell’ospedale o altrove –, lavava loro le mani e i piedi, quindi, recitate le parole della benedizione: «Dio padre onnipotente benedica potum caritatis», offriva vino e cibo, con vestiti, scarpe e denaro a seconda della disponibilità del cenobio; infine, cantando il Miserere o il De profundis, faceva ritorno alla chiesa233. Nella Redactio Virdunensis della fine dell’XI secolo, invece, il ricordo dell’ultima cena si sostanziava nella distribuzione di pane azzimo «cum cathino pleno falerno»234, anche se il riferimento letterario a questo robusto vino mediterraneo sta probabilmente a significare l’uso di un prodotto di ottima qualità, piuttosto che l’effettiva disponibilità della celebre e antichissima varietà vinicola. Ma assai più intenso era il «mandatum fratrum» – attestato con precisione a Cluny, dove veniva compiuto nella sala capitolare, e così pure nell’abbazia di Bec –, al termine del quale i fratelli andavano in refettorio, ricevevano caritatem vini dall’abate e gli baciavano la mano; la medesima cosa tra XII e XIII secolo, sempre nell’ambito di comunità maschili, avveniva anche a Rheinau in Svizzera e a S. Arnolfo di Metz235, mentre l’influsso cluniacense dovette farsi sentire anche 233 Liber tramitis, pp. 75-76; BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 159, 341, 312 non fa invece riferimento al bacio delle mani, così pure UDALRICO, Antiquiores consuetudines, coll. 659, 730 e le Consuetudines Cluniacensium antiquiores, p. 82 (è presente però nella Redactio Wirzeburgensis, pp. 300-301, ma non nella Redactio Vallumbrosana, pp. 350-351), dove il giovedì santo si lavano i piedi ai poveri e, presa una fialam, si dà loro pane e vino «in sciphis», con l’aggiunta di qualche moneta; compare invece nei Decreta Lanfranci, p. 45; nelle Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, p. 73; Redactio Sancti Emmerammi, p. 229; Redactio Fuldensis-Trevirensis, p. 296; AELFRIC, Epistula ad monachos Egneshamnenses directa (post 1004), ed. H. Nocent, K. Hallinger, C. Elvert, in Consuetudinum saeculi X/XI/XII, 3, p. 170; Consuetudines Castellenses, 2, pp. 64-65; inoltre, Consuetudines et observantiae, pp. 146-148 del monastero di Treviri e Th. SCHÄFER, Die Fußwaschung im monastischen Brauchtum und in der lateinischen Liturgie, Beuron 1956 (Texte und Arbeiten 1. Abt. Heft, 47), pp. 45-48, 52, 54, 58, 88 che mostra la derivazione e l’influsso cluniacense del rito in ambito renano. Sulla lavanda dei piedi ai poveri il giovedì santo, si può vedere in generale U. BERLIÈRE, Le mandatum du Jeudi Saint, «Revue liturgique et monastique», 5 (1919), pp. 134-139. 234 Redactio Virdunensis, in Consuetudines saeculi X/XI/XII, p. 399; quanto al riferimento al fermentato campano, Isidoro di Siviglia spiega che il falerno è il «vinum vocatum a Falerna regione Campaniae, ubi optima vina nascuntur» (ISIDORO, Etymologiae, col. 712). 235 Liber tramitis, pp. 77-78; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 661; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, coll. 1035-1036; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 169-170; Decreta Lanfranci, pp. 46-48; Redactio Sancti Emmerammi, pp. 227-228; Redactio Fuldensis-Trevirensis, pp. 297-298; Consuetudines et observantiae, pp. 148-149; Der rheinauer Liber Ordinarius (Zürich Rh 80, Anfang 12. Jh.), ed. A. Hänggi, Freiburg (Schweiz) 1957 (Spicilegium Friburgense, 1), pp. 122-126; Der Liber Ordinarius 283 nel grande monastero femminile di S. Giulia di Brescia. Qui il rito si svolgeva davanti alla fontana del chiostro, al termine del quale le religiose si recavano in refettorio, dove il sacerdote leggeva e commentava il brano del vangelo relativo alla passione del Signore236. L’ambiente era preparato sobriamente con tre lunghi tavoli ricoperti di tovaglie bianche, ricamate in modo raffinato, intorno a cui le religiose prendevano posto nel modo solito. La badessa allora ordinava di portare due brocche di vetro contenenti una potione di acqua e miele e del vino puro color vermiglio come il sangue del Signore; aiutata dalla priora e da un’altra suora anziana, lei stessa versava poi le due bevande nei bicchieri delle consorelle, le quali le baciavano la mano quando mesceva il vino. Solo dopo che tutte le monache avevano bevuto, la priora ne offriva anche alla badessa che ripeteva umilmente il gesto del bacio della mano; terminata la distribuzione di acqua e vino alle sorelle, si dava da bere ai chierici per poi tornare in silenzio processionalmente verso la chiesa abbaziale di San Salvatore. Anche a Fruttuaria terminata la lavanda dei piedi, i fratelli si recavano in refettorio dove ascoltavano la lettura del vangelo dalla voce del diacono; quindi l’abate versava il vino a tutti – dopo aver dato la benedizione con la destra e sollevando nella sinistra «vas cum vino» davanti alla galeta piena, tenuta da due conversi – cominciando dal priore e via via agli altri, compresi i bambini che gli baciavano la mano237. Nelle consuetudini di Bec, invece, l’abate lavava i piedi ai conversi del monastero nell’aula capitolare, poi andava in processione verso il refettorio dove il diacono leggeva la lettura e, al segnale convenuto, tre inservienti prendevano «tres ciphos cum vino» dicendo ad alta voce: Benedicite. Il sacerdote allora dava la benedizione e il superiore prendeva lo scifo centrale e lo porgeva al subpriore, che subito lo beveva, per poi scambiarsi il bacio delle mani e sedersi; quindi lo scifo di sinistra era offerto a colui che era all’inizio del tavolo e la stessa cosa faceva il priore con colui che stava dalla sua parte, mentre nel rispetto dei gradi si completava la distribuzione a tutti, compresi i tre inserviender Abtei St. Arnulf von Metz (Metz, Stadtbibliothek, Ms 132, um 1240), ed. A. Odermatt, Freiburg (Schweitz) 1987 (Spicilegium Friburgense, 31), pp. 162-165 («De mandato fratrum; De caritate et de cypho sancti Arnulfi»); e, più in generale, MARTENE, De antiquis Ecclesiae ritibus, col. 383. 236 Per lo svolgimento di questo rito, si veda G. ARCHETTI, Vigne et vin au Moyen Âge: l’exemple d’une région lombarde type: Brescia, in Vins, vignobles et terroirs de l’Antiquité à nos jours, pp. 109-111; ripreso in ID., Tempus vindemie, pp. 486-488; il rituale nel cenobio giuliano viene descritto anche da F. Dell’Oro in questo volume. 284 237 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 169-170. ti; in presenza di ospiti, questi sedevano alla mensa dell’abate e ricevevano il vino direttamente da lui baciandogli la mano238. Accanto e collegato a questo aspetto della carità, interna al cenobio, vi è quello dell’ospitalità, a sostegno del quale era destinata una parte cospicua delle entrate monastiche, decime incluse, e che, almeno dall’età carolingia si era andato specializzando in strutture di accoglienza adatte ad ospiti di differente provenienza sociale239. Infatti, specie nelle abbazie più importanti, trovavano riparo e accoglienza non solo poveri e pellegrini, ma anche la corte regia e l’alta aristocrazia del tempo che, ovviamente, erano alloggiati in ambienti separati. Per tutti però l’offerta di buon vino e di un vitto adeguato era un segno distintivo dell’attenzione e della predilezione nei loro confronti, ampiamente attestata nella letteratura monastica e agiografica ispirata a precisi modelli di derivazione biblica240. Ciò trova importanti conferme anche in ambito eremitico – in un contesto, cioè, dove a motivo della rinuncia al vino ci si potrebbe aspettare il contrario –, come si è già detto a proposito delle Vitae Patrum, ma appare evidente anche dal miracolo compiuto sul monte Pirchiriano dall’eremita Giovanni, nel luogo cioè dove sarebbe sorto San Michele della Chiusa241. Un giorno giunsero lassù per fargli visita Ugo d’Alvernia con il suo seguito; essendo molto affaticati e soprattutto assetati, ma non essendoci acqua nelle vicinanze per placare la loro arsura, tranne «una sola ampollina con il poco vino sufficiente per dire una messa», il santo invocò la potenza dell’arcangelo Michele dando loro l’esiguo vino che vi era contenuto. Immediatamente, come da una fonte d’acqua fresca, cominciò a sgorgare tanto vino da saziare la loro sete242. 238 Decreta Lanfranci, pp. 46-48. 239 Per questi aspetti e per un sommario inquadramento del problema, si vedano J.L. NELSON, Viaggiatori, pellegrini e vie commerciali, in Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno. Saggi, a cura di C. Bertelli e G.P. Brogiolo, Milano-Brescia 2000, pp. 163-171; ARCHETTI, Pellegrini e ospitalità, pp. 69-104. 240 A.I. PINI, Vite e vino nel medioevo, Bologna 1989 (Biblioteca di storia agraria medievale, 6), pp. 6567; MONTANARI, La fame e l’abbondanza, pp. 26-29; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 58 sgg., 184-207. 241 Chronica monasterii Sancti Michaelis Clusini, ed. G. Schwartz, E. Abegg, MGH, Scriptores, XXX/2, Leipzig 1929, p. 976; anche, MONTANARI, Alimentazione e cultura, p. 102 n. 193. 242 L’episodio ritorna anche nella Vita sancti Iohannis cumfesoris, pubblicata da G. Sergi [«Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 81 (1969), p. 168], dove tuttavia al posto del conte Ugo compaiono semplicemente alcuni pellegrini; inoltre, l’editore attribuisce una valenza inversa al miracolo della distribuzione del poco vino, in quanto l’ardente desiderio dei sopravvenuti e il paragone 285 L’episodio è fortemente simbolico – non tanto per l’ambigua lettura che ha fatto pensare ad una sorta di miracolo al contrario, della trasformazione del vino in acqua e della sua moltiplicazione per dissetare dei pellegrini – ma perché indica in modo inequivocabile come l’offerta di vino, in quantità abbondante come se fosse acqua di sorgente, rappresenti un tratto squisito dell’accoglienza accordata. Ciò è rafforzato anche dal fatto che non si trattava di vino normale, ma di quello usato per la messa e destinato a diventare il sangue del Signore; inoltre, la carità dell’eremita Giovanni appare tanto più grande perché egli non esita neppure un istante a ricorrere all’unica cosa, per quanto estremamente modesta ma indispensabile alla liturgia, a sua disposizione per rispondere alle necessità dei suoi ospiti. La fede è subito premiata: dall’ampollina sgorga, come da una fonte, il vino necessario a dissetare Ugo e il suo seguito, rendendo così visibile a tutti la potenza di san Michele; il significato dell’episodio, però, sembra prendere ancora più valore nella seconda versione, dove la presenza di umili pellegrini al posto di un ospite di riguardo, conferisce all’accoglienza un senso caritativo maggiore perché è rivolto a tutti, potenti e semplici, senza distinzione di classi sociali. Tuttavia anche nel caso dell’ospitalità, come per la cura degli infermi, non sono molte le informazioni riguardanti la tipologia dei vini serviti nelle ‘foresterie’ abbaziali. Il vino veniva offerto per le sue proprietà intrinseche, secondo la disponibilità del cenobio e in una quantità pro capite non dissimile da quella che i monaci ricevevano ogni giorno; nelle regioni poco fornite e dai climi inadatti era sostituito o accompagnato dalla cervisia o da altri fermentati, mentre le aggiunte supplementari per i monaci coinvolgevano anche i loro ospiti che, specie in occasione delle festività o degli anniversari, ricevevano una razione più ricca, senza che di norma però se ne indichi la varietà243. Nella supplica dei monaci dell’ampolla con una fonte sotterranea, farebbero pensare piuttosto a una trasformazione del vino in acqua [G. SERGI, La produzione storiografica di S. Michele della Chiusa, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 88/2 (1970), p. 208, posizione ripresa, sia pure più cautamente, anche da MONTANARI, Alimentazione e cultura, pp. 89, 102 e n. 193]. In verità, tale interpretazione contrasta con l’ampia tipologia agiografica presentata da P. Tomea in questo volume, nella quale il santo riesce ad accrescere miracolosamente l’insufficiente quantità di vino disponibile per l’accoglienza. Sull’utilità delle fonti agiografiche, invece, si era già espresso PINI, Vite e vino, p. 61 e n. 26, il quale è recentemente tornato sull’argomento e sul tema dell’aumento miracoloso del vino, v. ID., Miracoli del vino e santi bevitori nell’Italia d’età comunale, in La vite e il vino. Storia e diritto (secoli XI-XIX), a cura di M. Da Passano, A. Mattone, F. Mele, P.F. Simbula, Introduzione di M. Montanari, I, Roma 2000, pp. 367-382. 243 286 Liber tramitis, pp. 198-199, 251-253 per l’accoglienza da riservare agli ospiti in ambito cluniacense; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 776, dove si ricorda il vino speziato (pigmentum); The Custo- di Fulda all’imperatore Carlo si raccomanda di non tralasciare «l’ospitalità antica, ma che a tutti gli ospiti siano tributati il giusto onore e ogni espressione di umanità. Quando invece giungono contemporaneamente molte persone, come avviene durante la messa della solennità di san Bonifacio, offerto il conforto necessario, coloro che provvedono alla dispensa diano a tutti la refezione»244. Particolari maggiori di tutto questo vengono taciuti dalle consuetudini, anche se non è difficile immaginarne lo svolgimento reale. Al contrario, preziose informazioni possono venire allargando lo spettro documentario allo studio delle fonti economiche e contabili, disponibili soprattutto per gli ultimi secoli del medioevo, come pure ricorrendo a quelle archeologiche e iconografiche; non è raro allora incontrare libri di forniture alimentari fatti appositamente per gli ospedali e le foresterie monastiche, il cui esame può dare risultati significativi, come è risultato nel caso di Corbie in età carolingia245. Un altro esempio, cronologicamente posteriore ma non meno interessante, è costituito dall’ospedale di S. Giulia di Brescia, la cui rettrice non solo rendeva conto alla badessa dell’amministrazione e del funzionamento dell’ente, ma figurava anche tra gli invitati al banchetto organizzato dalla superiora nel giorno di santo Stefano con i chierici di San Daniele nel suo palacium, mentre nella festa di san Remigio dopo la celebrazione dell’ufficio ad hospitalem, le monache facevano un banchetto in cui offrivano a tutti i presenti carne, pane e formaggio abbondantemente irrorati di buon vino246. Ma le virtù terapeutiche attribuite al vino ne giustificavano l’impiego anche laddove la sua negazione totale appariva come necessaria conseguenza di un’ascesi più rigorosa e solitaria di quella cenobitica. Se l’egiziano Antonio, infatti, e gli eremiti ricordati da Girolamo e Agostino vivevano semplicemente di pane ed acqua, i padri del deserto sembrano mitigare il loro rigore quando si incontrava- mary of the Benedictine, p. 187; Caeremoniae Sublacenses, pp. 109-110; Consuetudines Castellenses, 1, p. 277. 244 Citiamo con qualche ritocco dalla traduzione italiana in Benedetto di Aniane, p. 126. 245 Vedi sopra la nota 106 e il testo corrispondente. Per alcune esemplificazioni concrete, invece, ARCHETTI, Pellegrini e ospitalità, pp. 112-115; E. MAZZETTI, Possedimenti e attività agricole nelle carte dell’ospedale di Santa Giulia, «Civiltà bresciana», XI/1 (2002), pp. 39 sgg., 44-45; G. ARCHETTI, Un antico codice vescovile: il registro 2 della mensa, «Civiltà bresciana», V/2 (1996), pp. 54-56 (per l’ospedale extraurbano di S. Giacomo dei Romei); ID., Scuola, lavoro e impegno pastorale, pp. 121-122. 246 ARCHETTI, Pellegrini e ospitalità, pp. 114-115. 287 no per le loro riunioni periodiche, come pure per combattere gli acciacchi dell’età e rianimare un corpo indebolito dall’astinenza. È questo, del resto, il percorso ‘riabilitativo’ compiuto da molti riformatori a cominciare da Pier Damiani che, nella lettera all’eremita Guglielmo247, rimprovera il suo giovane interlocutore per gli indugi con i quali esitava a ritirarsi a Fonte Avellana, reso titubante dal divieto di bere vino praticato nell’eremo. Tale rigore iniziale, tuttavia, venne ben presto mitigato, come spiega – non senza una certa ritrosia – lo stesso Damiani: «Dal vino poi, come sapete, per un po’ di tempo ci siamo astenuti; cosicché neppure i laici né gli ospiti venuti da fuori bevevano nient’altro che acqua, anche nella pasqua del Signore. Il vino non lo si utilizzava, qui, se non per il sacrificio della messa. Ma poiché anche quelli che qui dimorano cominciavano ad indebolirsi e ad ammalarsi, ed altri che desideravano venire all’eremo sentivano assoluta ripugnanza verso un’osservanza di tale rigore, noi ci siamo determinati ad indulgere alla debolezza dei fratelli, o, più esattamente, alla debolezza di tutti, concedendo che se ne potesse distribuire, per cui si può bere vino mantenendo sobrietà e moderazione. Così non potendo eliminarlo del tutto come Giovanni il Battista, cerchiamo almeno, con Timoteo, discepolo di Paolo, di accordarlo con sobrietà e umiltà allo stomaco debole: non potendo essere astinenti del tutto, cerchiamo almeno di essere sobri»248. Ragioni di carattere nutrizionale e salutistico dunque, alimentate da un topos agiografico di matrice evangelica, si celano dietro le parole dell’Avellanita che – sia pure con modalità diverse – si ritrovano anche in altri contesti riformistici. È il caso di Camaldoli, dove i seguaci di Romualdo, dopo l’austerità delle origini, accolsero l’uso del vino per i benefici che arrecava alla loro salute. Il testo delle regole del XII secolo, attribuite al priore Martino, appare estremamente indicativo in proposito, anche per il corredo di norme igieniche che reca con sé: «Sappiamo che il vino non conviene agli eremiti, ma poiché l’imperfezione e la debolezza sia del nostro tempo che della disposizione naturale non permette di pri247 PIER DAMIANI, Lettere, pp. 271, 273, lett. 10, 2; nella lettera il Damiani si lancia poi in un grande elogio dell’acqua, non senza chiedersi però dove sia andato a finire il coraggio di Guglielmo, giacché nel suo animo aveva già deciso di abbracciare la vita eremitica: «Forse fu il gusto del vino a trattenere entro le pareti domestiche, con la sua femminile blandizia, l’austero soldato, e a non permettere che uscisse in battaglia chi già s’era munito dell’elmo, già aveva cinto le armi, già aspirava a grandi imprese?». 248 288 PIER DAMIANI, Lettere, pp. 329, 331, lett. 18, 5; inoltre, si veda il commento di N. D’Acunto in questo volume. varcene del tutto, gli eremiti sono soliti prendere tale bevanda, di rado e con sobrietà, affinché coloro che non possono rispettare la frugalità da astemi con Giovanni, diano prova di sobria moderazione assieme a Timoteo. E poiché sappiamo per esperienza che il vino, per quelli che bevono di rado, se non è puro e integro è nocivo e fa male alla salute, fu stabilito fin dai primi tempi ed anche adesso con maggior fermezza vogliamo ribadire che il vino sia dato agli eremiti di pura qualità e schietto. Si curino perciò i ministri, che ne hanno l’incarico, che nel tempo della vendemmia, il vino sia riposto puro e senza alcuna mescolanza d’acqua in botti a ciò preparate e convenientemente pulite, e così sia distribuito ai fratelli dell’eremo nei giorni consueti. Giacché come nei giorni di astinenza devono bere acqua pura, così nei giorni di refezione devono avere vino schietto, come sembra debba usarsi. Inoltre, se si troverà che il vino è guasto, inacidito o ha preso la muffa, si potrà servire ad altri, e per gli eremiti se ne procuri dell’altro conveniente»249. Non meno interessante appare pure il caso dei monaci di Monte Oliveto che tre secoli dopo, secondo la cronaca attribuita a Alessandro da Sesto, vissero un’esperienza analoga250. Decisi a seguire un modello di vita monastica più austero, dopo alcuni anni nei quali avevano atteso con crescente fervore all’apprendimento della sapienza divina, stabilirono di rinunciare totalmente al vino ben consapevoli del consiglio paolino a rifuggirlo come fonte di ogni peccato e della tradizione del monachesimo antico, che lo sconsigliava ai cenobiti. Tagliate le vigne che erano piantate sulle pendici del monte, svuotarono le botti e le fecero rotolare fuori dal monastero per evitare che la disponibilità di vino potesse far venir meno tale proposito. Essi trascorsero così senza vino alcuni anni, ma poiché bevendo acqua fredda molti si ammalavano e lamentavano dolori di stomaco, compresero alla fine il significato dell’invito rivolto a Timoteo di bere un po’ di vino per superare le infermità intestinali. Ripresero quindi a bere poco vino mescolato con acqua, ritenendolo salutare per il corpo e non dannoso all’anima; Antonio da Barga, tuttavia, più realisticamente precisa che furono sempre assai 249 Liber eremiticae Regulae, in Le Constitutiones e le Regulae de vita eremitica del B. Rodolfo, a cura di F. Crosara, Roma 1970, p. 57, cap. XXIII; citato anche da MONTANARI, Convivio, pp. 271-273. 250 Compilato alla fine del XV secolo e iniziato verosimilmente da Alessandro da Sesto, cfr. Chronicon Cancellariae, in Regardez le rocher d’où l’on vous a taillés. Documents primitifs de la Congrégation bénédictine de Sainte Marie du Mont-Olivet, par les moines de l’abbaye Notre Dame de Maylis, Maylis 1996 (Studia Olivetana, 6), pp. 380, 382, cap. 28; l’episodio è brevemente menzionato anche da MONTANARI, Alimentazione e cultura, p. 89. 289 temperati al riguardo e, quando pigiavano l’uva al tempo della vendemmia, versavano dell’acqua sulle vinacce facendo bollire quel mosto poco robusto per almeno tre giorni prima di riempire le loro botti nuove, con il quale si alimentavano per tutta la durata dell’inverno251. Per Bruno di Colonia invece, che nella seconda metà dell’XI secolo aveva scelto «di abitare su un monte aspro e terribile» vicino a Grenoble, avviando l’esperienza certosina, il problema del vino non si pone perché pane, legumi e acqua erano gli alimenti quotidiani della sua comunità. Ad essa egli concedeva formaggio e pesce soltanto la domenica, quando venivano donati da qualche benefattore, se capitava talvolta però che i suoi religiosi «bevessero vino, era talmente leggero che non offriva alcuna forza a chi lo prendeva, non aveva quasi alcun sapore e a malapena si distingueva dall’acqua»252. La via della perfezione ascetica, in altre parole, non passava più attraverso la rinuncia assoluta, ma si poneva nel solco profondo della tradizione benedettina: per diventare buoni eremiti o monaci virtuosi non era più indispensabile abdicare al frutto della vite, né bere un po’ di vino a tavola appariva contrario alla santità, ma sull’esempio del Signore, che aveva mangiato e bevuto liberamente durante la sua vita, se ne rivalutava anche in campo ascetico l’assunzione di una modica quantità. Non sorprende quindi che Giovanni Gualberto abbia concesso di bere vino persino fuori orario ad un monaco molto assetato253, né che Gioacchino da Fio251 ANTONIO DA BARGA, Chronicon Montis Oliveti (1313-1450), a cura di P. Lugano, Florentiae 1901 (Spicilegium Montolivetense, 1), p. 18, è questa peraltro una preziosa quanto rara illustrazione delle tecniche di vinificazione tardo medievali (per questa tecnica e il tipo di vino, cfr. ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 438 sgg.). 252 Sogni e memorie di un abate medievale. La “Mia vita” di Guiberto di Nogent, a cura di F. Cardini, N. Truci Cappelletti, Novara 1986, pp. 49-50; utili per un primo inquadramento le note di G. PICASSO, Certosini e cistercensi: i ritmi della preghiera e del lavoro nella vita quotidiana, in Certosini e cistercensi in Italia (secoli XII-XV), Atti del convegno: Cuneo, Chiusa Pesio, Rocca de’ Baldi 23-26 settembre 1999, a cura di R. Comba, G.G. Merlo, Cuneo 2000, pp. 295-306; mentre per l’evoluzione istituzionale, M.P. ALBERZONI, I certosini fra consuetudines e statuta: gli sviluppi istituzionali fino alla metà del XIII secolo, in Certose di montagna certose di pianura, Convegno internazionale, 13-16 luglio 2000, Villar Focchiardo - Susa Avigliana - Collegno 2002, pp. 103-116. 253 290 Dopo aver affidato un’importante missione fuori dal cenobio ad un confratello, la mattina seguente, subito dopo l’ufficio notturno, l’abate Giovanni illuminato da Dio venne a sapere che quel monaco era afflitto da un attacco di sete; «chiamò con un cenno il fratello addetto all’assistenza, gli fece riempire fino all’orlo un bel bicchiere di vino misto ad acqua, poi lo pregò di mandargli, se c’era, il fratello che doveva partire. Appena giunto, glielo offrì» (Alle origini di Vallombrosa, p. 99 cap. 62). Obbedienza, carità fraterna, chiaroveggenza si mescolano nell’episodio elevandolo ad esempio, re – secondo l’arcivescovo Luca di Cosenza, suo biografo – quando si trovava a Casamari non si preoccupava affatto «de qualitate seu paucitate cibi aut potus». Successe anzi una volta che, a causa della disattenzione di un inserviente che non gli avevano messo il vino in vasculo, il monaco calabrese rimanesse senza e fosse costretto a bere solo acqua, senza che per questo avesse a lamentarsi o contristarsi minimamente254. La rinuncia al vino pertanto, più che un obbligo comunitario, rientrava nel cammino ascetico personale, che era tanto più meritevole in quanto volontario, ma sempre finalizzato ad un bene più grande dell’ascesi in se stessa. Questa almeno sembra la lezione che viene da san Bononio, abate di Lucedio († 1026), il quale si asteneva dal vino anche nei giorni festivi e persino a pasqua255. In una di queste solennità, mentre era a tavola, chiese a un servo di portargli un bicchiere d’acqua; dopo che lo ebbe, fece il segno della croce e si mise a bere, ma si accorse che si trattava di vino. Rimandò indietro il bicchiere e chiese di nuovo dell’acqua, ma fatto il segno di croce si ritrovò a bere ancora vino. Sgridò allora il servo, ma questi assicurò di avergli portato dell’acqua; solo allora Bononio capì e ringraziò il Signore per l’amore che gli portava. Nella Vita di Guido degli Strambiati, il grande abate del periodo d’oro di Pomposa († 1046), si evidenza invece lo scalpore suscitato dal miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, operato dal santo quando si trovava a mensa in compagnia di Gebeardo, arcivescovo di Ravenna256; intervento che, pur esaltando l’austerità e la santità dell’abate, conferma quanto il vino fosse abituale e non costituisse affatto un problema, neppure per un cenobio fortemente impegnato nella riforma. Trovandosi un giorno a tavola con l’abate, il presule chiese all’amico Guido il boccale (cuppam) col quale beveva; questi sul principio rifiutò, ma poi dietro le insistenze dell’arcivescovo, accondiscese. Gebeardo infatti, sapendo che l’abate era solito bere solo acqua a tavola, cominciò a versare nel proprio bicchiere, sicumentre il bicchiere di vino dato dal padre superiore diventa viatico e benedizione paterna per il monaco in procinto di partire. 254 GRUNDMANN, Zur Biographie Joachims von Fiore, p. 541, mentre l’abate florense restava rigorosamente a pane e acqua nei giorni feriali della quaresima (Ibid., pp. 541-542). 255 Vita sancti Bononii abbatis Locediensis, ed. G. Schwartz, A. Hofmeister, MGH, Scriptores, XXX/2, Hannoverae 1934, pp. 1026-1033; il fatto miracoloso è ricordato anche da PINI, Miracoli del vino, p. 370 n. 11, di cui abbiamo parafrasato il testo. 256 Sulla biografia di questo abate, cfr. D. BALBONI, s.v., Guido, in Bibliotheca Sanctorum, VII, Roma 1966, coll. 510-512; con riferimento alla Vita e al miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, v. P. LAGHI, S. Guido, abbate di Pomposa, «Studi di liturgia, agiografia e riforma medievali», 3 (1967), pp. 103-104. 291 ro di avere acqua; ma grande fu la sua meraviglia quando si accorse che era ottimo vino e della stessa qualità che gli era stato servito altre volte durante i pasti. Finita la cena volle sincerarsi della cosa con l’inserviente, il quale assicurò di aver versato acqua come sempre nel boccale dell’abate, ma le sue preghiere l’avevano mutata in vinum257. Quella non era stata l’unica volta tuttavia in cui Guido aveva fatto un simile prodigio, poiché in numerose altre occasioni – a detta del biografo e di vari testimoni – ciò si era ripetuto258. Da tutto questo consegue un dato ulteriore. Dal momento in cui nel tardo medioevo il vino appare accolto comunemente in tutto il mondo monastico, nella tradizione cenobitica si registra il venire meno della preoccupazione di indicare con precisione la misura giornaliera per ciascuno, fermo restando il limite invalicabile dell’esclusione della crapula e dell’ebbrezza, come pure di ogni «superfluitatem» del cibo e della bevanda259. Nelle disposizioni normative resta sempre il riferimento ideale all’emina benedettina, ma la necessità di stabilire una misura uguale per tutti lascia ormai il posto alla discrezione e alle esigenze individuali. Il criterio della sobrietà e del rifiuto di ogni intemperanza della gola orientano i comportamenti da tenere a tavola e in particolare il delicato rapporto con il vino: i monaci del Sacro Speco di Subiaco ne ricevono «quantum sufficit», sempre opportunamente diluito «cum aqua», e sulla stessa lunghezza d’onda appaiono anche le comunità di Melk o di Kastler, come pure quelle insulari di Eynsham, di Canterbury, di Hyde, di Waltham o di Gloucester che integravano con la birra la mancanza del fermentato d’uva260. 257 Vita S. Guidonis abbatis, in Acta Sanctorum martii, tomus III, Venetiis 1736, p. 914, cap. 2, 12. 258 Trovandosi per esempio, in un’altra occasione, l’abate Guido a Ravenna gli si presentò un cavaliere di Faenza mentre stava pranzando, il quale avendo sentito parlare della sua austerità prese la sua coppa e bevve: ma subito uscì vino benché l’inserviente vi avesse messo dell’acqua (Vita S. Guidonis, p. 914; LAGHI, S. Guido, pp. 103-104). 259 Caeremoniae Mellicenses, in Breviarum caeremoniarum monasterii Mellicensis, ed. J.F. Angerer, Siegburg 1987 (CCM 11/2), p. 69, in ciò si rispettava la tradizione cristiana e il precetto paolino, ma anche quella monastica ispirata alla sobrietà e al rifiuto di ogni eccesso alimentare, «superfluitatem in cibis et potibus caveant ut venenum» (Consuetudines Castellenses, 2, p. 419). 260 292 «De quantitate panis et vini», recitano le consuetudini sublacensi, si deve assicurare a ciascuno «quantum sufficit et vinum cum aqua iuxta posita» (Caeremoniae Sublacenses, pp. 96-97); «pro potu vinum mediocre et sanum in competenti quantitate ministretur, crapula semper et ebrietate exclusis» (Caeremoniae Mellicenses, p. 69); «quicquid in cibo vel potu (…) ministretur per proprios monachos ad congruentem mensuram» (Consuetudines Castellenses, 1, p. 30; inoltre, Concordiae ac discordiae trium observantium, in Ibidem, 2, p. 114; Consuetudines Castellenses, 1, p. 135; Consuetudines et observantiae, p. 183; The Customary of the Benedictine Abbey of Eynsham, pp. 186-187). Usi liturgici (e non solo) del vino Va ancora ricordato che il vino, oltre che a tavola – dove semmai i fratelli colpevoli di qualche mancanza o che avevano recato un danno alla comunità ne erano privati261 – compariva anche in altri momenti della vita monastica: ricostituente e farmaco per gli infermi, energetico per quanti erano impegnati nel lavoro dei campi, alimento per la crescita dei pueri oblati affidati al cenobio, lenitivo per il lettore della mensa e per gli inservienti di cucina, esso era presente nella complessa ritualità della liturgia annuale. Inoltre, alla morte di un monaco la salma poteva essere purificata con il vino e durante il mandatum del giovedì santo la distribuzione del «vinum caritatis» giocava un ruolo non secondario nella celebrazione della memoria del Signore e nella ripetizione dei suoi gesti, al termine dei quali il sacrestano preparava l’altare denudandolo e lavandolo prima con acqua e «postmodum de vino»262; rito quest’ultimo che ricordava quello della consacrazione della 261 Nei monasteri della zona renana, per esempio, chi rompeva il silenzio «vini abstinentia precipitur» (Redactio Fuldensis-Trevirensis, p. 278); a San Benigno di Fruttuaria se qualcuno sputava o soffiava dalle narici catarro sulle scale o in qualche altro posto deturpando il decoro e la bellezza del luogo, in quel giorno «vinum bibere non debe[ba]t», come pure se rompeva «vasa, situla, scutella...» (Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, p. 237); a Subiaco, a seconda della gravità della colpa, i fratelli potevano essere costretti a «manducare in terra sine vino seu pane et aqua» (Caeremoniae Sublacenses, p. 48); inoltre, quando «quis fratrum agit poenitentiam in abstinentia vini, detur servitor mensae scyphum vini praesidenti presentare signum gratiae» con un inchino del capo (Consuetudines et observantiae, p. 198). Le esemplificazioni a questo riguardo possono essere numerosissime e rientrano nei capitoli dedicati alle colpe e alla loro riparazione (RB 23-30, 43-46), aspetti che esulano dall’interesse specifico di questo contributo; aggiungiamo soltanto una nota biografica relativa a Matteo Ronto, umanista olivetano traduttore latino di Dante, che, mentre era impegnato nei lavori di cucina del suo monastero di S. Giorgio di Ferrara, gli capitò di rompere un’anfora piena d’acqua, allagando tutto il locale. Il priore, per la disattenzione e il danno causato, lo punì severamente privandolo del vino e redarguendolo in tedesco: «Trinch, imbibe guaczer, absque liquore meri». Al che, per tutta risposta, il povero fra Matteo riprese mesto il suo servizio in cucina, meditando però in cuor suo l’arguta spiritosa vendetta: «Me tamen is necuit, cum protulit: Imbibe guaczer, / corque meum timidum cuspide cudit acus» [M. TAGLIABUE, Contributo alla biografia di Matteo Ronto traduttore di Dante, «Italia medievale e umanistica», 26 (1983), pp. 178-179]. 262 La purificazione dell’altare con acqua e vino è attestata da Isidoro di Siviglia (ISIDORO DI SIVIGLIA, De ecclesiasticis officiis, PL, 83, col. 764) e ben documentata dalle consuetudini cluniacensi (Liber tramitis, p. 82; BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 261; Consuetudines Cluniacensium antiquiores, pp. 94, 302; per l’area bavarese e renano-mosellana: Redactio Sancti Emmerammi, p. 227; Redactio FuldensisTrevirensis, p. 297 e Redactio Virdunensis, pp. 396-397; inoltre, HALLINGER, Gorze-Kluny, pp. 934-935, 293 chiesa abbaziale, avvenuto proprio con l’aspersione di vino e acqua mescolati a cenere, più volte ripetuta nelle lustrazioni interna ed esterna delle pareti dell’edificio sacro e nella purificazione del pavimento, come spiega Bruno di Segni263. Durante le periodiche processioni domenicali, poi, tra le benedizione dei locali era compresa anche quella della cantina monastica, le cui porte erano aperte dal cellerario, mentre nell’intensa cerimonia dell’oblazione era il fanciullo stesso a portava in dono al momento dell’offertorio la patena con l’ostia e l’ampollina col vino, consegnandoli nelle mani dell’abate che li poneva sull’altare insieme alla petizione dei suoi genitori264. D’altra parte, in occasione della solenne benedizione dell’abate, rito che in origine consisteva nella recita di una semplice preghiera per invocare i doni di Dio sull’eletto e nella consegna dei simboli della sua autorità (la regola e il baculum pastoralis)265, si andarono gradualmente inserendo alcuni gesti tipici della consacrazione episcopale – specie in relazione alla nomina delle abbazie più importanti – con il crescere del prestigio e del potere 964 sgg.), mentre nel monastero bretone di Bec il sacrestano lavava l’altare il venerdì santo con acqua e poi con vino aromatizzato, issopo e bosso (Decreta Lanfranci, p. 52), così pure a Fleury (Consuetudines Floriacenses saeculi tertii decimi, p. 78). 263 BRUNO DI SEGNI, Tractatus tertius. De sacramentis Ecclesiae, mysteriis atque ecclesiasticis ritibus, PL, 165, coll. 1091, 1095-1097, dedicate al rito della consacrazione di una chiesa, dove si ricorda come il vescovo asperga la chiesa e l’altare con acqua, vino e cenere: il vino mescolato all’acqua simboleggia una maggiore intelligenza della legge divina, superiore al semplice apprendimento letterale (dato dal sapore della sola acqua), mentre l’aggiunta della cenere è un segno penitenziale e di conversione. Per la tradizione manoscritta di questo testo liturgico, cfr. R. GREGOIRE, Bruno di Segni exégète médiéval et théologien monastique, Spoleto 1964 (Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 3), pp. 104-108; per un quadro aggiornato, invece, sulla figura e l’opera del grande esegeta, Bruno di Segni († 1123) e la Chiesa del suo tempo, Giornate di studio. Segni, 4-5 novembre 1999, a cura di F. Cipollini, Venafro 2001 (San Germano. Collana di storia e cultura religiosa medievale, 4). Più in generale sul rito della dedicazione di una chiesa si vedano le osservazioni di F. Dell’Oro in questo volume. 264 A Fruttuaria le processioni domenicali toccavano il capitolo, il dormitorio, il refettorio, la cucina e «cellarium de vino» (Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, pp. 40, 185; per l’offerta di bambini al monastero, p. 51; assai significativo anche il commento di Ildemaro, pp. 548-549); per l’ambito cluniacense, UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 654; inoltre, G. ARCHETTI, Per la storia di S. Giulia nel medioevo. Note storiche in margine ad alcune pubblicazioni recenti, «Brixia sacra. Memorie storiche della diocesi di Brescia», V/1-2 (2000), p. 31. Per l’oblazione monastica, invece, si veda lo studio di M. DE JONG, In Samuel’s image. Child oblation in the early medieval West, cit., mentre per qualche osservazione sull’alimentazione e l’uso del vino da parte di questi “piccoli monaci”, v. ARCHETTI, Scuola, lavoro e impegno pastorale, pp. 112-113. 265 294 M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, IV, Milano 19592, p. 482 e le osservazioni di F. Dell’Oro in questo volume. delle istituzioni monastiche266. Ciò si registra soprattutto al momento dell’offertorio durante la messa, quando il neo-abate portava al celebrante due grossi pani coperti da una tovaglia bianca, baciando la sua mano, due fialas contenenti rispettivamente del vino bianco e rosso, e due grandi ceri; l’eventuale privilegio a poter indossare le insegne vescovili (mitra, anello, guanti, sandali, ecc.) rendeva ancora più stretta tale somiglianza. Ripresa invece dal Liber pontificalis e dai più antichi sacramentari romani, la benedizione delle uve viene attestata nelle consuetudini cluniacensi: un rito antichissimo inserito nel canone della messa che si svolgeva il 6 agosto, giorno della trasfigurazione del Signore e memoria di san Sisto martire267. Tuttavia, a differenza di altri prodotti, quali le fave nuove, il vino novello e il pane fresco, che erano benedetti in refettorio, la benedictio uvae avveniva in chiesa quando dopo il vangelo il diacono poneva alcuni grappoli sull’altare «in cipho argenteo»268. Qualora però l’uva non fosse stata matura per quella data, si aspettava ancora qualche giorno e competeva al custos ecclesiae verificarne la maturazione, coglierla e poi portarla in sacrestia, dove era conservata nell’armarius per essere pronta al momento del rito (che si celebrava anche di domenica). Una volta benedette, le uve venivano portate in refettorio e distribuite a tutti «in loco hostiarum», alla maniera del pane benedetto come se fossero delle eulogie269. Altra cosa era la 266 Ciò si vede bene ad esempio nel pontificale romano del XII secolo: Le Pontifical Romain au Moyen Âge, ed. M. Andrieu, I: Le Pontifical Romain du XIIe siècle, Città del Vaticano 1938 (Studi e testi, 86), pp. 170-174, cap. XV (consegna della regola e del «baculum pastoralis officii»), 409-410, cap. XVI (per il rito offertoriale). 267 Liber pontificalis, ed. L. Duchesne, I, Paris 1886, p. 159; per la tradizione liturgica di questo rito, la sua antichità e diffusione, H. LECLERCQ, s.v., Raisin, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, XIV, Paris 1948, coll. 2055-2059; RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, III, pp. 419-425; V. RAFFA, Liturgia eucaristica. Mistagogia della messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, Roma 1998 (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae”: Subsidia, 100), pp. 494-595. 268 Per l’uso in ambito cluniacense, si vedano UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 683, cap. 39: De benedictione uvarum et aliorum fructuum; ripreso quasi alla lettera da Guglielmo per l’abbazia di Hirsau (GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 1015), che si ritrova anche nelle Consuetudines Floriacenses saeculi tertii decimi, pp. 200-201; mentre ZIMMERMANN, Ordensleben, pp. 276, per la benedizione del mosto e, 281-284, delle fave. L’influenza transalpina è ben presente anche a Fruttuaria, dove a proposito della benedizione delle uve l’estensore confonde probabilmente i termini quando parla di «uvis arborum, quas Teutonici vulgariter cherriscibere vocare solent» (Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, pp. 29, 55, 75-76; citaz. a p. 76), dal momento che non sono noti casi in cui le ciliege sono dette uvas arborum, né rituali di benedizione per i frutti del ciliegio (riguardo al il termine cherriscibere cfr. il commento introduttivo di K. Hallinger, in Ibidem, 1, p. LVII e nota 155). 295 benedizione del vino novello (mustum) che avveniva fuori dalla chiesa; il sacerdote, infatti, stando in mezzo al refettorio davanti alla mensa principale, dopo il saluto e la recita di un versetto, pronunciava la formula rituale pro musto invocando il nome divino su questo prodotto della natura. Prima di sedersi a mensa però, di norma, era compito del superiore la benedictio vini, uso di sicura matrice evangelica e di ascendenza orientale, le cui finalità dirette a santificare il cibo e le bevande rinviavano, per simbologia e gestualità, alla memoria dell’ultima cena e della comunione eucaristica; gesti che a loro volta si concretizzavano anche nell’assunzione del mixtum e nella distribuzione delle “eulogie del vino” (Weineulogie)270. In particolare, riguardo a quest’ultimo aspetto, il forte rapporto esistente tra la salute del corpo e l’assunzione di pane e vino santificati dai poteri taumaturgici, quale prefigurazione del cibo eucaristico, risulta chiaro dalla lettura di alcuni testi agiografici di area franca: una donna malata chiede all’abate di Lagny, san Furseo (sec. VII), di darle l’eulogia del vino, ma essendo finito, questi le dà dell’acqua che subito si trasforma in vino e la risana; allo stesso modo il vino benedetto da san Richerio di Centula († 644), guarisce una donna paralizzata, mentre pane e vino benedetti sulla tomba di san Martino di Tours hanno il potere di liberare gli indemoniati e di curare dalla febbre alta271. Il vino tuttavia era indispensabile soprattutto per la celebrazione eucaristica e questa esigenza liturgica imponeva ad ogni chiesa e ad ogni monastero di averne in quantità sufficiente per la messa. Senza entrare qui in questioni di natura teologica o sacramentale, va però ricordato che il vino usato per questo scopo doveva essere puro, «recens et friscum» stabiliscono le consuetudini di Fleury272, 269 Si tratta di una prassi antichissima e tipica del mondo monastico, ricordata anche tra i punti presentati all’imperatore Carlo dai monaci di Fulda (a. 812) a tutela delle loro consuetudini: «Non si rifiuti di celebrare l’eulogia, cioè di assumere quotidianamente il pane spezzato prima del cibo e ciò in base agli esempi dei padri che ci hanno preceduto» (Benedetto di Aniane, p. 124). Sull’uso non liturgico delle eulogie: P.L. JANSSENS, Les Eulogies, «Revue bénédictine», 7 (1890), pp. 510-520; 8 (1891), pp. 28-41; H. LECLERCQ, s.v., Ampoules à eulogies, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, I/2, Paris 1907, coll. 1722-1747; inoltre, dedica un apposito capitolo a questa tradizione mostrando le differenze tra Oriente ed Occidente, A. FRANZ, Die kirchlichen Benediktionen im Mittelalter, I, Freiburg im Bresgau 1909 (rist. anast., 1960), pp. 229-263. 270 FRANZ, Die kirchlichen Benediktionen, pp. 284, 244-246; ripreso anche da F. Dell’Oro in questo volume che ne sviluppa il contenuto. 271 272 296 FRANZ, Die kirchlichen Benediktionen, pp. 284 e n. 3-5. A Montecassino si precisa «de vino puro pro sacrificio fiendo» (Statuta Casinensia, p. 233); per Fleury, cfr. Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 16, dove il sacrestano era tenuto a provvedere e Innocenzo III, commentando Gv 6, 55 («la mia carne è veramente cibo e il mio sangue veramente bevanda»), precisa che «il pane deve essere di grano e il vino d’uva, perché Cristo ha paragonato se stesso al frumento (…) e alla vite»273. Nei monasteri di S. Matteo e S. Massimino di Treviri era privilegiato il rosso, in quello austriaco di Kastler si usava indifferentemente «vinum rubeum vel album», purché fatto d’uva e non adulterato, e nella seconda metà del XIII secolo a Brescia si prediligevano i fermentati albi prodotti con uva schiava, mentre Teodoro di Studion († 826) attesta che in area bizantina si poteva usare sia l’uno che l’altro274. Ne consegue quindi che il colore del vino non costituiva di per sé un problema per il valore sacramentale e, come mostrano le rappresentazioni artistiche dell’Ultima Cena, poteva essere impiegato tanto il rosso quanto il bianco, anche se il primo manteneva una maggiore valenza simbolica per il suo colore in quanto, come nota Innocenzo III, «essendo liquido e rosso è segno di somiglianza col sangue; dal momento poi che riscalda e profuma, rappresenta ed esprime il carattere della carità. Il vino infatti fa sangue e muove alla carità, perché rallegra e apre il cuore di chi beve»275. «vinum sancti libaminis per unumquemque diem recens et friscum», p. 55: «accepto calice cum vino puro communione perficiunt»; negli usi di Melk si aggiunge: «vinum purum de vite ac melius quod haberi potest» (Caeremoniae Mellicenses, p. 116). 273 INNOCENZO III, De sacro altaris, col. 854, lib. IV, cap. 3. 274 Consuetudines et observantiae, p. 168; Consuetudines Castellenses, 2, p. 260; ARCHETTI, La vite e il vino, pp. 5-6; IDEM, Tempus vindemie, p. 455; per la tradizione bizantina, con particolare riferimento al monastero costantinopolitano di Studion, v. TEODORO STUDITA, Descriptio constitutionis monasterii Studii, PG, 99, col. 1720: «De divina comunione (...) et utrum in albo an rubeo fortasse vino»; in verità, come ha mostrato PASINI, Il monachesimo nella Rus’, pp. 61-64, queste costituzioni monastiche (o typikon) non vennero redatte dall’abate Teodoro, ma da un altro monaco studita due secoli più tardi, Alessio, divenuto patriarca di Costantinopoli (1025-1043), che le compilò sulla base degli insegnamenti di Teodoro per il monastero della Dormizione di Costantinopoli (1034 ca); l’influenza di queste regole però fu davvero notevole sia in ambito bizantino che in area slava. 275 INNOCENZO III, De sacro altaris, col. 879, lib. IV, cap. 36. Per il colore del vino eucaristico nelle rappresentazioni artistiche, v. D. RIGAUX, À la table du Seigneur. L’Eucharistie chez les Primitifs italiens 12501497, Paris 1989, p. 242 dove l’autrice presenta anche alcuni casi in cui compare il vino bianco; EAD., La Cène aux écrevisses: une image spécifique des Alpes italiennes, «Civis», 16 (2000), pp. 11-28; inoltre, i contributi apparsi in Le Pressoir Mystique, Actes du Colloque de Recloses (27 mai 1989), a cura di D. Alexandre-Bidon, Paris 1990, con particolare riguardo al saggio di M. PASTOUREAU, Ceci est mon sang. Le christianisme médiévale et la couleur rouge, pp. 43-56, specialmente pp. 50 sgg. e di D. RIGAUX, Le sang du Rédempteur, pp. 57-67; ma anche, ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 181-182 e, in questo volume, il lavoro di P.M. Gy sul colore del vino per la messa. 297 Spettava comunque al sacrestano provvedere ogni giorno la quantità necessaria di vino per la messa, andando a prenderlo direttamente in cantina come accadeva a Fruttuaria, vigilare che la sua qualità fosse eccellente e i contenitori sempre ben puliti276; anzi, nelle consuetudini di S. Pietro di Kastler si elencano con cura prodotti che, essendo privi delle caratteristiche proprie del vino, non potevano essere impiegati per la celebrazione eucaristica: ciò valeva per l’agresto, per il vino annacquato, poco alcolico, inacidito, feculento o corrotto, oppure per quello adulterato con spezie, more, melograne e, anche se mescolato con acqua, doveva conservare il sapore del vino277. Bisognava in ogni caso «fare molta attenzione a trovare dell’ottimo vino per offrire il sacrificio, benché anche un vino difettoso non alterava di per sé la purezza del sacramento. E se anche fosse capitato di offrire in sacrificio del vino novello, cioè mustum, o del vino inacidito, che è chiamato acetum, il sacramento veniva compiuto e consacrato divinamente»278. Un vino speciale, inoltre, era impiegato a Cluny durante le messe della notte di natale, poiché non era ottenuto da una sola e più pregiata varietà viticola ma mischiandone un po’ di quello attinto da tutte le botti della cantina monastica279. Con questa disposizione, Pietro il Venerabile stabiliva che esso non fosse costituito dal fermentato proveniente dal vigneto abitualmente destinato a questo scopo, ma dalla miscela dei vini comuni usati per l’alimentazione dei fratelli, degli ospiti e dei poveri dell’abbazia, per essere sicuro che tutti i contenitori vinari fossero idonei alla conservazione e non contenessero prodotti dal sapore «innaturalem et corruptum». Il loro uso liturgico nelle celebrazioni natalizie era perciò una 276 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, pp. 165-166; inoltre, Consuetudines et observantiae, p. 168; 194: «ut vasa vinum recipientia semper sint munda». 277 Consuetudines Castellenses, 1, p. 260, il vino per la messa può essere «rubeum vel album, dummodo retineat speciem vini. Cavendum etiam est circa materiam sanguinis Christi, ne sit agresta vel vinum ita debole, quod nullo modo habeat speciem vini; ne sit aqua rubea expressa de panno intincto in vino rubeo; ne sit acetosum vel vinum omnino corruptum; ne sit claretum vel vinum de moris aut malo granatis, quia haec omnia speciem vini non retinent. Cum faecibus etiam vini vel cum vino nimis faeculento confici non potest. Cavendum etiam est sacerdoti, ne apponatur nisi modicum de aqua, quia si tantum apponeretur, quod speciem vini tollet, non conficeretur». 278 279 298 INNOCENZO III, De sacro altaris, col. 876, lib. IV, cap. 29. Statuta Petri Venerabilis, p. 103, statuto 73: «De vino ad missas natalis Domini»; di norma il vino da messa usato nell’abbazia borgognona proveniva da una vigna speciale donata dalla contessa Giuditta d’Auvergne, su richiesta esplicita dell’abate Ponzio, cfr. É. BALUZE, Histoire généalogique de la maison d’Auvergne, 2, Paris 1708, p. 53. garanzia di buona qualità e segno della premura riservata anche ai più deboli nella scala sociale. Non va però trascurata un’altra ragione, certo meno nobile rispetto a quelle addotte, ma non per questo meno sentita e importante: vale a dire, la troppo spesso scadente qualità dei vini che giungevano sulla mensa monastica, come ebbe a riconoscere tra il 1147-1148 lo stesso abate di fronte alle reiterate lamentele dei suoi fratelli per il «vinum maxime aquatum, insipidum et vere villum» (troppo annacquato, acidulo e comune) che veniva loro servito280. Problema che accompagnerà fino alla fine del medioevo la potente abbazia borgognona. Il rispetto sacramentale, d’altra parte, è un altro elemento da tenere ben presente. Infatti è anche alla sua luce che va interpretato il permesso dato al lettore settimanale di prendere il mixtum prima di iniziare a leggere: «per rispetto della santa comunione», commenta san Benedetto (RB 38, 10), mentre il Maestro senza giri di parole precisa: «per non vomitare il sacramento» (RM 24, 14). Come si è già detto, si deve ricordare che il pasto era posto di norma subito dopo la messa e poteva succedere, a causa del digiuno che si protraeva dalla sera precedente, che il lettore potesse non essere nelle condizioni fisiche migliori e durante il suo servizio espellesse accidentalmente qualche particella di comunione rimasta tra i denti o, peggio, vomitasse l’ostia. Tale inconveniente poteva essere evitato assumendo appunto il mixtus, cioè bevendo un bicchiere di vino misto ad acqua e accompagnato da un quarto della sua libbra di pane giornaliera, che liberava il cavo orale e si sovrapponeva mischiandosi nello stomaco agli accidenti sacramentali281. Il pericolo di espettorare in modo involontario le specie eucaristiche o 280 Recueil des chartes de l’Abbaye de Cluny, formé par A. Bernard, completé, revisé et publié par A. Bruel, V, Paris 1894, nr. 4132. Per ovviare a questi inconvenienti nel 1428 si dispose che il priore claustrale avesse la responsabilità della distribuzione del vino e vigilasse affinché fosse «di buona qualità, sano e solo moderatamente allungato con acqua»; ma nonostante queste raccomandazioni, i monaci neri dell’abbazia di Cluny nel capitolo generale del 1436 tornarono a protestare perché al posto del vino promesso veniva data loro dell’acqua rossa «in violazione del regolamento siglato tra l’abate di SaintClaude e l’uditore apostolico»; nel 1451 inoltre, di fronte ai continui pianti delle monache di Marcigny, il loro priore decise di concedere alle religiose «un vino conveniente, non torbido né acidulo, né viziato di qualche altro cattivo sapore e tagliato soltanto con un terzo di acqua se era troppo forte» (DE VALOUS, Le monachisme clunisien, p. 262). 281 Già nel commento dell’abate Smaragdo il legame tra il mixtum e il rispetto sacramentale era espresso con chiarezza (SMARAGDO, Expositio in Regulam, pp. 247, 254; v. anche sopra le n. 108-110 e testo corrispondente); in ogni caso, l’assunzione del ‘misto’ consentiva al lettore settimanale e ai fratelli incaricati dei servizi di cucina di sopportare meglio il digiuno mentre gli altri monaci erano a mensa 299 parti di esse, assunte nella comunione, mentre cantavano o pregavano, riguardava però tutti i monaci: se per esempio un fratello cantando eruttava un frammento di ostia intrisa di vino, facendola cadere per terra, si doveva provvedere subito al suo recupero e ad una serie di meticolose abluzioni, mentre il malcapitato doveva scusarsi pubblicamente nella riunione del capitolo e fare penitenza per 40 giorni a pane e acqua o come meglio avrebbe deciso l’abate282. Pene più severe naturalmente colpivano il malcapitato se la causa della sua indisposizione era imputabile a un cattivo comportamento, come nel caso di un’eccessiva «assunzione di vino, di bevande aromatizzate o di birra» e addirittura dell’ubriachezza283. Per evitare questi rischi, soprattutto se la comunione non avveniva sotto le due specie o era fatta per intinzione, venne introdotto l’uso di bere del vino puro non consacrato subito dopo l’assunzione dell’ostia per purificare e lavare adeguatamente la bocca e la gola284. I calici contenenti questo vino erano posti sull’altare (RB 38, 10: «lector ebdomadarius accipiat mixtum priusquam incipiat legere»; 35, 12-13: «septimanarii autem ante unam horam refectionis accipiant super statutam annonam singulas biberes et panem, ut hora refectionis sine murmuratione et gravi labore serviant fratribus suis»); queste disposizioni generali si riscontrano poi praticamente in tutti gli usi monastici e, per esempio in ambito clunicense, UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 725: «De lectore ad mensam», 726: «ante refectionem generalem de pane vinoque praelibat, iuxta prescriptum sancti Benedicti», 727: riguardo ai cuochi «ad mixtum non accipiunt nisi quod sanctus Benedictus praecipit, quartam partem panis absque libra sua, et de vino similiter», 762: spetta al cellerario provvedere «panem et vinum» necessari per tutti; il ‘misto’ tuttavia entrava a pieno titolo nel regime alimentare dei più deboli e bisognosi, come nel caso del nutrimento dei fanciulli, col. 669: «post tertiam mistum accipitur a pueris». 282 Consuetudines Beccenses, p. 176; per il riferimento al lettore, anche Decreta Lanfranci, pp. 67 sgg.; mentre per le consuetudini cluniacensi, BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 161-164. 283 Citiamo dal testo del Decretum di Burcardo (cfr. A pane e acqua. Peccati e penitenza nel Medioevo. Il Penitenziale di Burcardo di Worms, a cura di G. Picasso, G. Piana, G. Motta, Novara 1986, p. 69); FERREOLO, Regula ad monachos, col. 973, stabilisce 30 giorni di penitenza per il monaco che si ubriaca; SMARAGDO, Expositio in Regulam, pp. 117, 258, è sulla stessa linea, così pure FRUTTUOSO, Regula monachorum, col. 1107; Ildemaro invece sembra tenere conto delle debolezze umane e affronta la questione cercando di vederne le implicazioni di tipo personale, anche se ritiene – e sulla stessa lunghezza d’onda si pone Pietro il Venerabile – che non dovrebbe neppure sussistere la preoccupazione che un monaco possa cedere nell’ebbrezza, essendo l’incontinenza e la gola proibiti a tutti i cristiani (Ildemaro, pp. 444-445, 447-448; Statuta Petri Venerabilis, p. 51). Inoltre, con particolare riferimento alle disposizioni canoniche, il problema dell’ubriachezza è attentamente esaminato da R. Bellini nelle pagine seguenti di questo volume, a cui volentieri rimandiamo. 284 300 Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 55; nella Redactio Fuldensis-Trevirensis, p. 316, si precisa che «post communionem omnes bibant vinum in calicibus» e a p. 292: «accepta communione sacra prebetur eis a custode parum [vinum] in caliculis villuli, ut ex eo lavetur eorum bacca [= bucca]»; Consue- solo al Padre nostro, cioè dopo la consacrazione, ed erano ben distinti da quello usato dal sacerdote per il rito; di solito anche questo vino era bevuto interamente, ma se ne avanzava il sacrestano provvedeva ad eliminarlo versandolo insieme all’acqua «in piscina» o, come a San Benigno di Fruttuaria, mettendolo nella botticella dell’aceto in cantina285. In verità va pure ricordato che, mentre le ostie avanzate al termine della comunione venivano riposte nella pisside, i problemi legati alla conservazione del vino – che poteva facilmente inacidirsi – e il pericolo di profanazioni portarono a limitare quello destinato alla consacrazione al minimo indispensabile al celebrante. Ciò favorì l’uso della comunione sotto le due specie con il vino puro non consacrato, che era santificato mediante l’aggiunta di vino consacrato (immixtio) o attraverso l’intinzione dell’ostia (intinctio)286: a Fleury l’abatudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, p. 77; al riguardo anche P. BROWE, Mittelalterliche Kommunionriten, «Jahrbuch für Liturgiewissenschaft», 15 (1935), pp. 48-49. Vedi sopra anche le note 224-225 e testo corrispondente. 285 Consuetudines Affligenienses, p. 142; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, p. 165. 286 La comunione sotto le due specie, cioè col pane e col vino sull’esempio evangelico, fu una prassi comune almeno fino all’inizio del XIII secolo, anche se perdurò in ambito monastico. In origine, tuttavia, ciò si faceva mediante l’assunzione di un po’ di vino consacrato direttamente o con una cannuccia dal calice del celebrante o da altri calici più grandi, ugualmente consacrati (calices ministeriales), ma successivamente vennero introdotti due nuovi riti: 1) l’immixtio o commixtio (mescolanza), che consisteva nel versare poche gocce di vino consacrato in altri vasi pieni di vino normale preparati dagli accoliti e destinati alla comunione dei fedeli. Tale ‘miscela’ poteva ancora essere chiamata sanguis dominicus, quantunque non consacrata, perché quell’unione santificava tutto il liquido. Questo antichissimo rituale, diffuso in Oriente, è attestato a Roma già prima del VII secolo nell’ordo romanus I [cfr. Les ‘Ordines Romani’ du haut Moyen Âge, ed. M. Andrieu, II: Les textes (Ordines I-XIII), Louvain 1948 (Spicilegium Sacrum Lovaniense, 23), pp. 90-104, 106] e poi viene ripreso, in forme più o meno confuse, nell’ordo IV franco-romano del secolo VIII (ivi, pp. 165-167), nell’ordo V romano-germanico della seconda metà del secolo IX (ivi, pp. 237-238) e nell’ordo VI dello stesso periodo, prodotto in Francia e influenzato dalla posizione del vescovo Amalario di Metz (ivi, pp. 249-250; per questi aspetti dell’ordo romanus, anche F. Dell’Oro in questo volume): «Sed ipse pontifex confirmatur ab archidiacono in calice sancto, de quo parum refundit archidiaconus in maiorem calicem, sive cyphum, quem tenet acolitus, ut ex eodem sacro vaso confirmetur populus: quia vinum etiam non consecratum, sed sanguine domini commixtum, sanctificatur per omnem modum». A partire da Amalario († 853), tuttavia, l’immixtio cominciò a subire un’interpretazione teologica – si sosteneva, cioè, che l’aggiunta di una piccola quantità di vino quello consacrato o il contatto col pane trasformasse tutto il vino in sangue di Cristo, santificandolo e consacrandolo –, ma senza avere mai un’approvazione da parte della Chiesa che, in seguito, la respinse decisamente (v. ad esempio INNOCENZO III, De sacro altaris, col. 877, lib. IV, cap. 31, cit. sopra alle note 224-225). Questa pratica aveva il pregio di evitava alcuni inconvenienti connessi con la comunione sotto le due specie, quali il versamento del vino consacrato durante la distribuzione ai fedeli, il conseguente rischio di profanazione e l’eventuale suo inacidirsi, qualora, dopo la distribuzione al popolo, ne fosse rimasta una certa quantità nel 301 te si comunicava ponendo la particola nel calice con il vino puro «non consecrato», dopo di che tutti facevano la comunione in silenzio, e la stessa cosa avveniva a Cluny e a Eynsham secondo l’abate Aelfric, come pure a Vallombrosa287. calice. In seguito quest’uso venne abbandonato, ma rimase l’abitudine di bere del vino ordinario dopo la comunione in segno di rispetto, al fine di evitare che tossendo qualche particella di pane sfuggisse dalla bocca e andasse profanata [sul problema della commixtio eucaristica, cfr. M. ANDRIEUX, Immixtio et consacratio, Paris 1915; J.P. DE JONG, Le rite de la commixtion dans la messe romaine, «Revue bénédictine», 61 (1951), pp. 15-37; ripreso in ID., L’arrière plan dogmatique de la commixtion dans la messe romaine, «Archiv für Liturgiewissenchaft», 3/1 (1953), pp. 78-98; RAFFA, Liturgia eucaristica, pp. 88-92, 470-471]. 2) L’intinctio, invece, consisteva nell’intingere del pane consacrato nel vino distribuendolo poi ai fedeli. Di quest’uso, ancora praticato nei riti orientali, nella messa romana non resta che una debole traccia nell’azione del sacerdote che stacca un pezzetto di ostia e la lascia cadere nel calice; si trattava di una pratica molto diffusa e dai forti contenuti simbolici, in quanto prefigurava l’unità nell’eucaristia del corpo e del sangue del Signore, attestata già nel IV concilio di Braga del 675, dove venne però condannata a motivo della sua difformità dal racconto evangelico della cena (I.D. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, XI, (rist. anast.) Graz 1960, coll. 155-156, can. 2); il suo uso generale in età carolingia è attestato da numerosi testi, a partire da AMALARIO, Liber officialis, ed. I.M. Hanssens, in Amalarii episcopi opera liturgica omnia, II, Città del Vaticano (Studi e testi, 139), p. 107, di cui parlano anche le Lectiones discrepantes longiores del Liber officialis, cap. 3: De praesentatione corporis domini in altari et calicis cum vino non consecrato: «(…) Sanctificatur enim vinum non consecratum per sanctificatum panem. Postea communicant omnes» (Ibidem, p. 546); ma similmente si esprimono sia il Pontificalis Maguntinum: «sanctificat autem vinum non consecratum per sanctificatum panem» [Le Pontifical romano-germanique du dixième siècle. Le texte, ed. C. Vogel, R. Elze, II, Città del Vaticano 1963 (Studi e testi, 227), p. 93 nr. 335], sia lo PSEUDO ALCUINO, De divinis officiis liber, PL, 101, coll. 1210-1211, cap. 18, che riprende le stesse parole: «Sanctificatur autem vinum non consecratum per sanctificatum panem. Tunc communicant omnes cum silentio». Il rito dell’intinctio venne poi condannato dal concilio di Clermont nel 1096, presieduto significativamente dal cluniacense Urbano II, con la deroga però che poteva essere praticato laddove fossero state prese le necessarie precauzioni onde evitare ogni versamento (MANSI, Sacrorum Conciliorum, XX, col. 818, can. 28: «Ne quis communicet de altari nisi corpus separatim et sanguinem similiter sumat, nisi per necessitatem, et per cautelam»), mentre nel 1118 Pasquale II, scrivendo all’abate di Cluny Ponzio, lo limitò solo ai bambini e agli infermi «qui panem absorbere non possunt» (MANSI, Ibid., col. 1013; ripreso in PASQUALE II, Epistulae et privilegia, PL, 163, col. 442, epist. 535: Ad Pontium Cluniacensem abbatem. De non porrigenda comunione intincta). In ogni caso, dalla fine dell’XI secolo la pratica della comunione sotto le due specie andò via via scemando a favore della comunione sotto la sola specie del pane; questa evoluzione era il risultato dell’acceso dibattito teologico sull’eucarestia, in corso nei secoli a cavallo del Mille, e della preoccupazione di evitare i rischi di profanazione o mancanza di rispetto verso il sacramento, ma soprattutto al fine di contrastare più efficacemente l’erronea interpretazione di quanti ritenevano che la presenza di Cristo non fosse tutta intera sia nel pane che nel vino, ma solo dalla loro unione (v. in proposito INNOCENZO III, De sacro altaris, col. 866); infine, praticata universalmente dalla fine del medioevo, la comunione soltanto col pane ebbe la sua definitiva sanzione normativa e dottrinale durante la XXI sessione del concilio tridentino (C. TESTORE, s.v., Comunione eucaristica, in Enciclopedia cattolica, IV, Roma 1950, coll. 134-142). 287 302 Per l’uso dell’intinzione da parte dei cluniacensi, v. Liber tramitis, pp. 81-82, 270-271; BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 225-226; inoltre, per gli usi monastici della comunione a Fleury, Al termine della comunione, le ostie rimaste erano poste nella pisside aurea mentre nel calice vuoto il suddiacono versava un po’ di vino per lavarlo, facendo lo stesso con la patena e dandolo al diacono che lo beveva; si versava poi dell’altro vino nel calice per un’ulteriore abluzione, che veniva bevuto e quindi il diacono lo asciugava con il suo pannulum facendolo riporre nell’armarium insieme all’ampollina. Da ultimo, il suddiacono porgeva un po’ di vino al sacerdote per lavarsi le dita con cui aveva preso l’ostia, che era bevuto subito dopo288. Ciò mostra come la liturgia eucaristica era regolata da una complessa e scrupolosa ritualità, a conferma della viva preoccupazione e del rispetto con cui si compiva l’azione sacramentale. «Occorre soprattutto ricordare – scrive in proposito Rodolfo il Glabro – che il pane e il vino trasformati per darci la vita nel corpo e nel sangue del Signore Gesù Cristo non possono mai subire alcuna alterazione, né essere messi in pericolo da qualche incidente. Quando capita che l’eucaristia venga trascurata o distrutta per negligenza di coloro che la maneggiano, per costoro, se non sono pronti a fare penitenza, è sicuro un giudizio di condanna (…). Al tempo del venerabile abate Guglielmo da Volpiano – continua il cronista –, nella chiesa adiacente il monastero di Moutiers-Saint-Jean, il giorno di pasqua capitò che il calice del sangue vivificante sfuggisse dalle mani del sacerdote e cadesse a terra. Non appena il nostro abate, uomo di acuto ingegno, lo seppe, ordinò che tre dei suoi monaci facessero penitenza per espiare questa colpa: temeva infatti che l’atto commesso dal maldestro prete potesse coinvolgere con lui anche i suoi monaci nel castigo vendicatore, cosa che certamente si sarebbe verificata senza la saggia accortezza dell’abate, come l’avvenimento poi confermò»289. Cluny, Eynsham e Vallombrosa, cfr. Consuetudines Floriacenses antiquiores, pp. 55: «accepto calice cum vino puro communionem perficiunt», 75-76: «calice cum vino non consecrato ponant super altare (…), sumat abbas de sancto sacrificio et ponat in calicem nihil dicens et communicent omnes cum silentio»; Consuetudines Cluniacensium antiquiores, p. 91: «Tunc mittat hostiam in vino non consecrato. Deinde communicent omnes etiam infantes»; testo ripreso anche nella Redactio Wirzeburgensis, p. 303; AELFRIC, Epistula ad monachos, p. 172: «calicem cum mixto vino non consecrato»; Redactio Vallumbrosana, p. 353: «subdiaconus deferat calicem cum vino non sacrato (…), corpus domini super altare ponatur et calix cum vino (…), sacerdos vero iuxta morem mittat unam particulam in non sacrato vino et ita communionem sumat»; al riguardo anche K. HALLINGER, Neue Fragen der reformgeschichtlichen Forschung, «Archiv für Mittelrheinische Kirchengeschichte», 9 (1957), pp. 28-29; e per il confronto con gli usi orientali, ID., Progressi e problemi della ricerca, pp. 285-286. 288 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 44-47, 169; Consuetudines et observantiae, p. 80. 289 «Tutto quanto abbiamo sopra riferito – prosegue il cronista – ha lo scopo di esortare a credere fermamente che se in qualche luogo capitano per negligenza degli incidenti a questo sacro e vivifican- 303 Nelle consuetudini dell’abbazia di Bec, dove era stato maestro Lanfranco, trova infine ampio spazio la casistica relativa alle mancanze di rispetto verso il corpo e il sangue del Signore290. In esse, infatti, in maniera abbastanza dettagliata si spiega come ci si doveva comportare se per negligenza o dimenticanza il sacerdote tralasciava di mettere l’acqua o il vino nel calice, stabilendo anche un diverso livello di gravità del suo comportamento; ma indica altresì il da farsi, per esempio, se una goccia di vino cadeva accidentalmente sulla tovaglia, se una mosca o un pidocchio finiva nel calice o andava a posarsi sull’ostia, se dopo aver fatto la comunione, a causa di una indisposizione fisica, capitava di vomitare l’eucarestia, e così di seguito, oppure se dal pane intinto troppo nel calice se ne staccava un pezzo che cadeva sull’altare o per terra, se una briciola andava a finire fuori dalla patena… in tutti questi casi si fermava ogni funzione, bisognava recuperare ciò che si poteva delle sacre specie, lavare con vino e acqua per tre volte accuratamente e bere l’intera lavatura, fino a bruciare la stuoia o il tappeto e conservare le ceneri «in sacrario». Qualora poi ad un fratello fosse capitato un ‘infortunio’ sacramentale fuori dal monastero, al suo rientro doveva sottoporsi al giudizio del superiore e riparare in modo conveniente, restando a pane e acqua per un congruo periodo. Il vino sulla tavola dei monaci Al termine di questo lungo percorso nella tradizione e nelle consuetudini monastiche, resta da chiedersi quale fosse il vino che giungeva sulla mensa dei monaci, quale la varietà di tutti i giorni e quali i fermentati destinati alle feste, come pure quale apporto abbia dato alla coltura viticola il mondo cenobitico. Diciamo subito che la risposta, per quanto articolata, non può che essere provvisoria, anche perché il quadro d’insieme che ne risulta riguarda necessariamente la vitivinicoltura medievale europea con le sue differenti caratterizzazioni geografiche – altra è infatti la situazione delle regioni mediterranee da quella dell’Europa te dono, la vendetta divina non tarda a colpire, ma al contrario in tutti i luoghi in cui viene trattato con cura e la dignità dovute, non mancherà l’abbondanza di ogni bene» (RODOLFO IL GLABRO, Storie dell’anno Mille, pp. 160-161). 290 304 Consuetudines Beccenses, pp. 174-177; disposizioni che ricorrono tuttavia anche in altre testi, cfr. Consuetudines Floriacenses saeculi tertii decimi, pp. 306-307, cap. 20: «De negligentiis que eveniunt ad missam»; Consuetudines Castellenses, pp. 91-92, 218; Consuetudines et observantiae, pp. 38-39. centro settentrionale e insulare –, i limiti colturali, la diversità delle fonti disponibili e il conseguente approfondimento degli studi291. A tavola i monaci ricevevano in primo luogo vino puro (merus), bianco e rosso – purum et integrum, precisano le consuetudini di Treviri –, che veniva poi temperato con acqua e per questo era detto anche linphatum, ma vino annacquato era pure il misto assicurato al lettore, agli inservienti di cucina e quello dato per la ‘colazione’ ai pueri, nel quale si intingeva del pane292. Il Maestro precisa che al ter291 Per un primo inquadramento della vitivinicoltura medievale europea, si veda ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 25-172 e i contributi precedenti di Cortonesi, Matheus, Vaquero Piñeiro, Racine, Kislinger, Lumperdean e Branca. Non ci è stato possibile prendere visione del lavoro di D. SEWARD, H. JOHNSON, C. DAAGE, Les moines et le vin. Histoire des vins monastiques, Paris 1982 (trad. dall’ediz. inglese, Monks and wine..., London 1979). 292 Per il vino puro, ISIDORO, Etymologiae, col. 711: «Merus dicimus, cum vinum purum significamus (...), purum atque sincerum»; BENEDETTO DI ANIANE, Concordia regularum, col. 1132: «Merus, calicem sive cyathum vini»; per le varietà di «vinum rubeum vel album», Consuetudines Castellenses, 1, p. 260 e, in ambito cluniacense, GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 945, descritte attraverso il linguaggio dei segni: «Pro signo vini rubei indicem in gena trahe; pro signo vini claris, duos digitos oculo circumpone»; non dissimili sono le norme degli statuti riformati di Grandmont: «Pro vino albo, pone digitum super supercilium. Pro vino rubro, frica cum uno digito super faciem» [MARTENE, De antiquis Ecclesiae ritibus, col. 962; per il rinnovamento di Grandmont, v. C. HUTCHISON, K. DOUGLAS, The Hermit Monks of Grandmont, Kalamazoo (Michigan) 1989 (Cistercian Studies Series, 118)]; per gli usi trevirensi tardo medievali attestati da Giovanni Rode, Consuetudines et observantiae, p. 166; per il misto di vino e acqua, invece, Monumenta aevi Anianensis, in Initia consuetudinis, p. 276; indicazioni riprese in ambito cluniacense, Liber tramitis, pp. 113, 179, 220, 224, 231, 249, 250: «si bis commeditur, qui vult mixtum sumere de sua iustitia atque libra post missam edant absque versu»; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, coll. 669: «post tertiam mistum accipitur a pueris», 726: «ante refectionem generalem [al lettore] de pane vinoque praelibat juxta prescriptum sancti Benedicti», 727: «ad mistum non accipiunt [gli inservienti di cucina] nisi quod sanctus Benedictus praecipit, quartam partem panis absque libra sua, et de vino similiter», 762; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 993; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 1, pp. 52: «finita missa vadant ebdomadarii coquinae et lector mensae et cellararius necnon infantes accipere mixtum (…). Ebdomadarii vero nichil habeant singulatim ad mixtum nisi quartam partem libre panis et singulos biberes sicut sanctus Benedictus precipit», 53-54, 56: «cellerarius (…) galetam tenens dispenset convenienter et temperate», 94, 136, 206, 208; 2, pp. 169: «mixtum dat eis de pane et vino», 228: «De mixto»; Consuetudines Cluniacensium antiquiores, pp. 14, 282, 275, 300, 350 e nell’ambito bavarese la Redactio Burgundica - Mellicensis - Moriana, p. 256 precisa che, dopo la messa, tutti vanno in refettorio per il mixtum: «panem qui vocitatur foliatum et fialam potionis claram vel turbulam unicuique porrigant»; per l’ambito non cluniacense, Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 55, servitori e infantes ricevono il misto; The Customary of the benedictine Abbey, p. 186: «omni die anni inveniet refectorarius servitoribus et lectori panem unum de pondere ad mixtum sumendum, cuius quarta pars datur illi qui de lavatorio curam gerit»; Consuetudines Affligenienses, pp. 148, dopo la comunione «accipiunt mixtum iuvenes, sicut semper solent quando bis comeditur», 167; Statuta Casinensia, p. 221 al lettore e agli inservienti «nichil aliud ad comedendum et bibendum 305 mine del pasto i fratelli che avevano ancora sete dovevano dirlo e subito veniva preparata per loro pusca con l’aggiunta di acqua calda – caldos o caldellos secondo la tradizione antica, attestata anche in Cesario di Arles, in Aureliano e nella Concordia regularum293 – oppure addizionata cum iotta, cioè con erbe aromatiche, per renderla più gradevole (RM 28, 9). La pusca, costituiva perciò la base di una bevanda semplice e comune dal sapore tendenzialmente acidulo, apprezzata per le sue proprietà rinfrescanti e digestive294; essa, sia pure con varie denominazioni (posca, marello, picheta, mesgio, aquatum, ecc.), risulta ampiamente documentata nelle fonti medievali per indicare tanto i vinelli leggeri, ottenuti dalla seconda torchiatura delle vinacce rinvigorite con l’aggiunta di acqua – come nel caso delle monache di Santa Giulia di Brescia che, alla fine del Duecento, permettevano ai coltivatori della loro vigna, posta nel brolo dietro il cenobio, di fare «vinum marellum se lo volevano»295 –, quanto una pozione a base di aceto o di vino inacidito. Per la sua componente alcolica, tuttavia, poteva essere impiegata anche per il confezionapro misto detur nisi quod regula iubet»; Caeremoniae Sublacenses, pp. 92-93, 96: «et vinum cum aqua iuxta posita»; Caeremoniae Mellicenses, p. 70: «mixto vero, quod servitor et lector recipiunt, sit panis et vinum in certa mensura, prout regula docet»; Consuetudines Castellenses, 1, pp. 128, 174: «mensura mixti sit quarta pars librae panis et biberes vini ad unum moderatum haustum», 274; 2, p. 50: «lector et ministri accipiant mixtum cum benedictione, scilicet panem et vinum, et non aliud comestibile, et hoc sedendo tempore et loco oportuno»; Ibid., p. 119 cap. 32 delle Concordantiae ac discordantiae trium observantiarum: «pro mixto vero extra dies ieiuniorum ecclesiae accipiunt quartam partem panis librae et tertiam partem mensuarae vini»; Consuetudines et observantiae, pp. 183 a tavola «vinum temperet», 195: «servitor mensae habet aquam ad lymphandum», 196 lettore e inservienti «singulos biberes et panem in mixto seu aliquid pulmenti accipiant (…), tantum panis in vino mixtus». 293 DI Praecepta S. Pachomii, pp. 24, 30, cap. 45 e 54; AURELIANO, Regula ad monachos, col. 395; BENEDETTO ANIANE, Concordia regularum, col. 1133: «caldellos, pusca calida». 294 PINI, Vite e vino, p. 108; A.M. NADA PATRONE, Il cibo del ricco ed il cibo del povero. Contributo alla storia quantitativa dell’alimentazione. L’area pedemontana negli ultimi secoli del Medio Evo, Torino 1981, pp. 383, 386, 423; J.-L. GAULIN, Tipologie e qualità dei vini in alcuni trattati di agronomia italiana (sec. XIV-XVII), in Dalla vite al vino, pp. 68-72; su tutti si veda, da ultimo, i rimandi offerti da ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 440-444; vino inacidito o misto ad aceto era somministrato anche ai soldati romani durante le spedizioni perché ritenuto più dissetante del vino o dell’acqua semplice (v. il contributo di C. Cogrossi alla nota 74 e testo corrispondente in questo volume); è assai significativo poi quanto, ancora in età moderna, scriveva il Tanara: «misticasi poco aceto con molta acqua, e fassi bevanda rinfrescativa, usata l’estate, da’ lavoratori in campagna, per ripararsi da’ rigorosi caldi nell’ardente sole, e per risparmio di molto vino, oltre che estingue assai la sete» (V. TANARA, L’economia del cittadino in villa, in Venetia 1687, p. 59). 295 306 Archivio di Stato di Brescia, Archivio storico civico, S. Giulia, busta 7, f. 82r (Brescia, 8 gennaio 1294); qualche cenno anche in G. ARCHETTI, La vite in Lombardia in età medievale. Note storiografiche sull’ultimo decennio di studi e ricerche, «Civiltà bresciana», IX/1 (2000), pp. 25-26. mento di infusi, bevande o sciroppi dalle proprietà medicamentose e ricostituenti; con sagace ironia ne dà conto san Girolamo quando parla di coloro che, per aver fama di astinenza, non bevevano acqua e non mangiavano pane, ma poi sorseggiavano a più riprese «non calice sed concha» di «sorbitiunculas delicatas»296. A questi prodotti, più o meno alcolici, si possono aggiungere i fermentati a base di datteri, attestati nelle regole orientali, e di altri frutti come il moratum o vino di more, bevuto a Corbie e ancora a S. Pietro di Kastler alla fine del medioevo insieme all’infuso di chicchi di melagrana, ma registrato con cura già nel capitulare de villis accanto al vino nuovo e a quello vecchio, all’aceto, al vin cotto, all’idromele (medum), al sidro (sicera) ottenuto dalle mele selvatiche, al liquore di pere e alla birra senza luppolo (cervisia)297, diffusa non solo nell’area celtica. Una gamma di prodotti che rispecchia le abitudini colturali delle regioni continentali, 296 GIROLAMO, Epistulae, I, p. 435, epist. 52, 12, nella quale si fa esplicito riferimento anche al betarum sucum (Ibid.). Nel commento alla RM la Grilli (p. 111) identifica nella iotta un decotto di bietolone rosso o erba rapa (Atriplex hortensis), dal gusto poco intenso presente anche nelle regioni dell’Europa settentrionale; la Nada Patrone rileva però che, nelle regioni temperate, a tale varietà doveva essere preferita l’Atriplex silvestris, un tipo di pianta erbacea dal sapore più agro e dissetante (NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 298-299 e nota 63); alla fine del medioevo, inoltre, il medico pavese Antonio Guainerio parla della jotha o rojtha come di una bevanda molto dissetante fatta con mosto di uva nera o vino rosso molto robusto mescolato con chicchi di melagrana (NADA PATRONE, Il cibo del ricco, p. 381). 297 Il vino di more era ottenuto con il fermentato d’uva o mosto e l’aggiunta di more selvatiche, miele e spezie, cfr. Consuetudines Corbeienses, pp. 368-369; Consuetudines Castellenses, 1, p. 260; Capitulare de villis, in Capitularia regum Francorum, ed. A. Boretius, V. Krause, MGH, Leges, I, Hannoverae 1883, pp. 82-91, cap. 34, 45, 62; per il commentato e la traduzione, v. B. FOIS ENNAS, Il Capitulare de villis, Milano 1981, la cui importanza è ricordata anche da PINI, Vite e vino, p. 67 e n. 51. L’idromele, bevanda alcolica tratta dal miele, diluito in acqua, e fermentata con lungo e lento calore, era molto diffusa [ISIDORO, Etymologiae, col. 713; Cartulaire de l’abbaye de Redon en Bretagne, ed. A. de Courson, Paris 1863, p. 383 (a. 1062); GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 945; gli usi di Treviri parlano di una «maiore copa medone» (B. ALBERS, Consuetudines monasticae, 5, Montis Oliveti 1912, p. 42); NADA PATRONE, Il cibo del ricco, pp. 371, 373; EAD., Monachis nostri ordinis, p. 322] ed è attestata anche nel linguaggio muto dei segni (GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 945: «Pro signo medonis, praemisso signo bibendi, manum ori applicabis, lambentemque simulabis, quod et mellis signum est»); quanto al sidro, la sua produzione riguarda soprattutto l’Europa anglosassone, benché il significato del termine sicera sia piuttosto ampio, come spiega Isidoro di Siviglia, definendola: «omnis potio quae extra vinum inebriare potest (…) ex succo frumenti vel pomorum conficiatur, aut palmarum fructus in liquore exprimantur», e riguardo alla sua preparazione aggiunge: «coctis frugibus aqua pinguior, quasi succus, colatur et ipsa potio sicera noncupatur» (ISIDORO, Etymologiae, col. 713); questa pluralità si significati è bene attestata da VALDEBERTO, Regula ad virgines, col. 1062: «sicera liquoris, id est, cervisiae»; Cartulaire de l’abbaye de Redon, p. 383 (a. 1062) che fa riferimento ad entrate «de selegia»; per l’ambito cistercense, Statuta capitulorum generalium, I, pp. 87, 97, 159, 193, 273 e NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, pp. 322-323; inoltre, INNOCENZO III, De contemptu mundi, col. 724. 307 poco adatte allo sviluppo della vite; se ci spostiamo però più a sud il quadro è ben diverso: a Montecassino il vino abbondava e i suoi monaci, ad esempio d’estate, ricevevano un frutto e singulas fialas da bere dopo nona, mentre durante la fienagione chi lavorava sotto il sole beveva a metà mattina vino intriso di miele (potionem ex melle) e i malati trovavano cura e sollievo alle loro infermità nei preparati a base di erbe, miele rosato, vino e mosto298. La bevanda tuttavia più usata nell’Europa del nord era la birra, che accompagnava e talvolta persino sostituiva il vino nell’alimentazione cenobitica; nei giorni «in cui viene tolto il vino – si legge nei decreti sinodali di Aquisgrana (816) –, sia concessa una doppia emina di buona birra», abitudine che sembra fosse in uso nelle grandi abbazie di Fulda e Corbie299. Nella regione di Oxford i monaci ricevevano vinum et cervisiam, ai poveri e agli ospiti di Eynsham venivano propinati panem et cervisiam, al cantore dello stesso cenobio era riservata la birra di qualità migliore e la sua presenza tra i condimenta necessari doveva essere garantita dal cellerario al monaco refectorarius, il quale preparava panem et potum per i fratelli, assicurandosi che la birra servita a pranzo e a cena fosse sempre recente e alla giusta temperatura per essere gustata, cioè non ghiacciata d’inverno né tiepida d’estate300. Nel monastero austriaco di Kastler, inoltre, durante la cena la pietanza poteva essere seguita da una schenka o due, cioè da una doppia razione di birra301, a discrezione del priore; anche dopo compieta era permesso prendere un po’ di birra, assolutamente proibito invece era bere il vino302. Rispetto all’area mediterranea, la diversità dei vini prodotti e consumati nell’Europa del nord era dovuta naturalmente alle differenti condizioni climatiche, pedologiche e ambientali, come registrano le consuetudini di Fleury: «abbonda 298 Theodomari abbatis Casinensis epistula ad Karolum regem, pp. 164-165; Statuta Casinensia, pp. 241- 245-246. 299 Benedetto di Aniane, p. 109, cap. 20; Consuetudines Corbeienses, pp. 418-419; Collectio capitularis Benedicti Levitae, in Initia consuetudinis benedictinae, pp. 547-548: «ubi autem vinum non est unde emina detur duplicem mensuram de cervisia»; Redactio Fuldensis-Trevirensis, pp. 283-284, 293, 312; anche GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 945 e ISIDORO, Etymologiae, col. 713; inoltre, ZIMMERMANN, Ordensleben, pp. 56, 278. 300 The Customary of the benedictine Abbey, pp. 186-187. 301 «Si priori visum fuerit propter labores eiusdem diei vel seguentis, poterit fratribus in cena pietantiam cum una schenka vel duabus, secundum quod est numerus personarum, administrare» (Consuetudines Castellenses, 1, pp. 283-294; a proposito del termine schenka, cfr. M. LEXER, Mittelhochdeutsches Handwörter, II, Leipzig 1876, p. 702: «quatuor mensure cerevisie que schenk dicuntur»). 308 302 Redactio Fuldensis-Trevirensis, p. 312; Consuetudines Beccenses, p. 173. tanto la birra in Germania quanto il vino in Gallia»303; ciò rende ragione pure del fatto che i fermentati elaborati con l’aggiunta di altre sostanze e il numero delle sofisticazioni vinicole siano di gran lunga più numerosi nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali304. I vini poco robusti ottenuti in zone climaticamente poco adatte, infatti, erano insaporiti e rinforzati con spezie, miele, frutta, erbe aromatiche sia per renderli gradevoli al palato e più nutrienti, sia per conferire loro il colore, la corposità e la robustezza di cui erano privi, ma tipici dei fermentati delle zone più calde. Nell’abbazia di Fleury, non lontano da Orléans, vi era una grandissima attenzione alla produzione e alla cura del vino ricavato dai vigneti attigui al cenobio; questo compito era affidato al previsor vinearum, un monaco dalle qualità non comuni – chiamato per metonimia: fratello Bacco – perché doveva essere dotato «di grande ingegno e fervore spirituale» per sovrintendere ai lavori viticoli e soprattutto all’imbottamento del vino nuovo al tempo della vendemmia305. Di un monaco responsabile delle vigne abbaziali dà conto all’inizio del IX secolo anche Wala di Bobbio e questa tradizione è ripresa nelle consuetudini di Cluny redatte da Bernardo al tempo dell’abate Ugo306; Udalrico di Ratisbona invece, e con lui anche Guglielmo di Hirsau, parlano del custos vini come di un collaboratore del cellerario, il cui compito era quello di «ricevere e custodire il 303 Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 26. 304 Si vedano al riguardo B. PFERSCHY, Weinfälschung im Mittelalter, in Fälschungen im Mittelalter, Internationaler Kongreß der MGH (München, 16.-19. September 1986), a cura di H. Fuhrmann, V, Hannover 1988 (MGH Schriften, 33/V), pp. 669-702; EAD., Weinfälschug und Weinbehandlung in Franken und Schwaben im Mittelalter, in Weinwirtschaft im Mittelalter. Zur Verbreitung, Regionalisierung und wirtschaftlichen Nutzung einer Sonderkultur aus der Römerzeit, Vorträge des gleichnamigen Symposiums vom 21. bis 24. März 1996 in Heilbronn, a cura di C. Schrenk, H. Wechbach, Heilbronn 1997 (Quellen und Forschungen zur Geschichte der Stadt Heilbronn, 9), pp. 139-178; utili riferimenti anche in MATHEUS, Viticoltura e commercio del vino, pp. 112-119; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 66-77, 471-473. 305 Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 32: «Vinearum previsor sive nemorum monasterio adiacentium ordinatur, vir magni ingenii atque fervoris spiritualis frater, qui subtili custodia et vineas procurat et quernas arbores ne succidantur curam gerit. Ad illum pertinet cura omnis vinearum et operariorum merces, quam ipse a camerario exigit et cautus dispensat. Autumnali tempore quando maturante vini flore uvarum collectio instat, adiuncto fratrum solatio solicitus invigilat quoad tutum vassatur repaguloque commititur. Vocatur autem metonimice frater Bachus». 306 Breve Memorationis Walae abbatis, appendice alle Consuetudines Corbeienses, p. 422 (databile intorno all’834-836): «Custos vinearum prevideat»; BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 151-152, dove però non si parla della custodia del bosco, ma solo di quella delle vigne. 309 310 vino»307. Infatti, terminata la vendemmia, il priore gli diceva quanto vino doveva essere destinato alle varie necessità monastiche ed egli provvedeva alacremente allo scopo; quando poi i fratres dovevano avere il pigmentum si procurava le spezie dal camerario e le metteva nella giusta misura; non riposava nel dormitorio comune, ma il suo posto era in cantina accanto al cellerario e alla lucerna accesa. A San Benigno di Fruttuaria questi compiti erano assolti dal cellerarius de vino, il quale operava in stretto raccordo con gli incaricati del refettorio, dell’infermeria, dell’hospitale e della sacrestia308; a lui competeva, infatti, provvedere il vino destinato alla mensa dei fratelli, alla liturgia, agli infermi, ai poveri e agli ospiti ricorrendo – se necessario – all’aiuto di collaboratori e, se dava del vino a quanti facevano le pulizie, andavano a prendere l’acqua o confezionavano il vino speziato, non per questo veniva ripreso; sotto la sua responsabilità ricadevano le forniture e l’uso del miele, con il quale si preparava il vinum mixtum o pigmentum, come pure aprire le porte della cantina per la processione domenicale dei monaci. A San Matteo di Treviri, infine, il custos vini teneva un libro contabile con le entrate e le uscite che sottoponeva mensilmente alla revisione dell’abate, predisponeva il vino rubeo per la messa e quello destinato all’accoglienza, provvedeva alla pulizia dei contenitori vinari per evitare l’inacidirsi o il guastarsi dei prodotti309. A San Benedetto di Fleury si beveva con gioia il vino «recens et friscum» che il monaco addetto al refettorio versava a ciascuno nella grandi coppe di vetro (iustitiae); queste, al termine del pasto, erano coperte con le ciotole (paterae) della pietanza per preservare il vino, salvaguardandolo specialmente d’estate dalle mosche e dagli insetti310. Ma accanto al vino puro di tutti i giorni, durante le feste era servito quello pigmentato, detto anche clarum o claretum, herbolatum, hysopatum 307 UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 762, cap. 19: De custode vini; ripreso alla lettera in GUGLIELConstitutiones Hirsaugienses, col. 1104. MO, 308 Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, pp. 40, 185, 239-240. 309 Provvedeva cioè che il vino fosse sempre in buono stato di conservazione, «purum et integrum, non pendulum aut fortassis vasorum corruptione insipidum» (Consuetudines et observantiae, p. 166, anche 193-194 sgg.); negli usi di Melk si parla di «vinum mediocre et sano» (Caeremoniae Mellicenses, p. 69) e in quelli di Kastler di vino «debole, acetosum, corruptum, feculento» (Consuetudines Castellenses, 1, p. 260); per il problema della pulizia dei contenitori vinari nel medioevo, cfr. ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 389-433 passim. 310 Per ripararsi anzi dal tedio fastidioso procurato dalle mosche d’estate, i fratelli si armavano di piccoli ‘scopini’ fatti con fasci di erba legnosa (abigalia) o di piume di volatili (Consuetudines Floriacenses antiquiores, pp. 26-27), attestati anche in ambito cluniacense (BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 159 e GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 946, dove il termine usato è «flabello»). 311 e a Hirsau popolarmente liitranch – un fermentato profumato, tendenzialmente bianco ma anche vermilio, cosparso di spezie rare e diverse, di erbe aromatiche, anice e issopo –, oppure quello intriso di miele (mellitum), denominato anche uvasledam forse a motivo del suo sapore dolce e fresco, simile al vino novello o al mosto311. L’uso di vini speziati, in realtà, era antichissimo e già il vangelo di Marco ricorda che durante la crocifissione di Gesù «vollero dargli un po’ di vino drogato, ma egli non lo prese» (Mc 15, 23), riferendosi alla prassi di dare ai condannati a morte vino e mirra prima del supplizio per le sue virtù sedative e calmanti. Di essi fanno menzione molti testi, da Gregorio di Tours e Isidoro di Siviglia ad Alcuino, fino alle consuetudines di Cluny312, dove il pigmentum è indicato anche 311 Consuetudines Floriacenses antiquiores, p. 28: «vinum purum sive pigmentatum quod clarum dicunt vel herbolatum vel hysopatum necnon mellitum quod uvasledam vocant»; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 945: «potionis pigmentatae, quae claretum, id est liitranch dicitur a pluribus» (per l’uso di vini speziati in area tedesca «Lautertranck» o «Luttertranck», v. sopra il contributo di Matheus alla nota 107 e testo corrispondente); Redactio Fuldensis-Trevirensis, pp. 283-284, i fratelli ricevevano da novembre fino alla quaresima: «ligumina optime cum vino aut cervisia, que illa regione videbitur rara, insuper aneto aliisve herbis que sunt boni odoris parata infusa sufficienter»; al riguardo anche ZIMMERMANN, Ordensleben, pp. 56, 278. 312 312 GREGORIO DI TOURS, Historiarum libri X, ed. B. Krusch, W. Levison, MGH, Scriptores rerum merovingicarum, Hannover 19622, p. 348, cap. 7, 29: «vino odoramentis (…) immixta», e le osservazioni di URSO, L’alimentazione al tempo di Gregorio, p. 15; ISIDORO, Etymologiae, coll. 712-713 (conditum); ALCUINO DI YORK, Epistulae, ed. E. Dümmler, MGH, Epistulae karolini aevi, IV/2, Berolini 1895, epist. 8 (a. 790 ex.), p. 34: «de vino optimo et claro»; Carlo il Calvo si procurava dai suoi possedimenti i pigmenta graecorum, mentre i monaci di Tulle in Francia dovevano consegnare a quelli di Aurillac una certa quantità di pigmenta nel secolo X (C. DU CANGE, s.v., Pigmentum, in Glossarium mediae et infimae latinitatis, 6, Niort 1886 (rist. anast., Bologna 1982), pp. 316-317); nella Vita di sant’Anscario l’apostolo del Nord si narra che egli avesse composto alcune preghiere capaci di raddolcire l’asprezza dei salmi e che, per questo, le avesse chiamate i suoi pigmenta (RIMBERTO, Vita sancti Anskarii, ed. C.F. Dahlmann, MGH, Scriptores, 2, Hannoverae 1829, p. 718: «Quidam tamen nostrum, qui ei familiarissimus erat, magna vi precum vix ab eo obtinuit, ut ei ipsa pigmenta, sicut ille cantare solitus erat, dictaret»); nell’area bretone, Cartulaire de l’abbaye de Redon, p. 257: «similiter de medone, de selegia et de pigmento»; in ambito cluniacense invece, dalla Borgogna a Fruttuaria, gli usi antichi parlano di «mixtum» (Regularis concordia, ed. Th. Symons, London 1953, p. 40; A. ALBERS, Consuetudines monasticae, 2, Montis Casini 1905, p. 18); Liber tramitis, p. 144: «pimentatum potum», 229; BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 151-152: «vino pigmentato vel herbolato»; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, coll. 704: «potionis pigmentate», 761-763, 766, 776; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 945; nella versione bavarese della Redactio Bugundica - Mellicensis - Moriana, p. 226: «fialam potionis claram vel turbulam» viene servita ai fratelli dopo la messa, dove il termine turbula indica la poca trasparenza del fermentato speziato; Consuetudines Fructuarienses - Samblasianae, 2, p. 240: «ad vinum pigmenta tundunt (…), pigmenta ad festivitatem facienda ducunt»; gli usi di St. Vanne e di Mettlach nominano in un’occasione una potio densa di vino aromatizzato (ALBERS, Consuetudines monasticae, 5, p. 124); Con- nel linguaggio dei segni313, rientra nei compiti distributivi del refectorarius e trova spazio tra i prodotti maneggiati dal monaco infermiere314. Un’indicazione preziosa quest’ultima perché ci informa che tra le spezie in polvere adottate per il suo approntamento vi erano di sicuro pepe, cumino, zenzero, issopo e radici315, mentre dalle fonti due e trecentesche si sa che il claretus era fatto con mosto e, come nel caso dell’Italia centrale, anche con vino greco, mescolati con zucchero o miele e numerose spezie – quali anice, zenzero, cannella, chiodi di garofano, cardamomo, grani di paradiso –, in proporzioni tali da essere ritenuto un vero e proprio liquore più che un vino, destinato perciò alle mense più esclusive316. Nella grande abbazia borgognona la distribuzione del vino pigmentato avveniva nelle prime domeniche di avvento, di quaresima, in quella delle palme e in altri giorni festivi registrati con cura dal monaco Bernardo al tempo dell’abbaziato di Ugo; egli ci informa, inoltre, che tutti i giovedì e le domeniche di quaresima – eccetto la prima, quella a metà e delle palme, nelle quali era servito il pigmentum – i fratelli ricevevano un’altra bevanda locale dolce di colore rosso, chia- suetudines Floriacenses saeculi tertii decimi, p. 76: «vitrea vasa pimento plena»»; e nella regione austriaca, Caeremoniae Mellicenses, p. 69: «ut pigmentum ei conficitur»; inoltre, per l’ambito cluniacense, HALLINGER, Neue Fragen, pp. 28-30; DE VALOUS, Le monachisme clunisien, p. 262; HALLINGER, Progressi e problemi della ricerca, pp. 287-288, con riferimento all’uso del pigmentum il giovedì santo; e ZIMMERMANN, Ordensleben, pp. 69 sgg., 312-316; il claretum tuttavia è ricordato anche da INNOCENZO III, De contemptu mundi sive de miseria conditionis humanae libri tres, PL, 217, col. 724, lib. II, cap. 19: «(…) non sufficit vinum, non sicera, non cervisia, sed studiose conficitur mulsum, syropos, claretum», testo quest’ultimo ricordato anche da MONTANARI, La fame e l’abbondanza, p. 76. 313 Per la descrizione del pigmentum attraverso il linguaggio dei segni: BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 170; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 704; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 945; più in generale, MARTENE, De antiquis Ecclesiae ritibus, coll. 918, 962. 314 Era il monaco addetto al refettorio che versava il pigmentum, anche se spettava al cellerario procurarglielo; cfr. BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 156; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 763, che scrive: «quotiens pigmentum datur, ipse modiolis infundit, ipse scillam pulsat, quae ad hoc solum in extremitate refectorii pendet, quae etiamsi pulsatur ad benedictionem pigmenti in qualibet festivitate et in quolibet anniversario (…)»; il vino speziato come pure i pigmenta rientravano tra i preparati e le sostanze presenti in infermeria e, talvolta, anche nell’hospitale monastico: BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 184-185; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, coll. 763, 766; HUYGENS, Le moine Idung, p. 447; inoltre, MONTANARI, La fame e l’abbondanza, p. 80. 315 BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 184-185; Consuetudines Castellenses, 1, p. 384. 316 NADA PATRONE, Il cibo del ricco, pp. 171, 380, 455; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 153-154, 467-468 e i rimandi ivi contenuti. 313 mata borgerasae317, prodotta nella regione borgognona o nella vicina Turenna. La prassi di bere vini speziati e robusti, tuttavia, venne duramente criticata da san Bernardo, preoccupato che siffatte abitudini più che al rispetto della tradizione cenobitica invogliassero a bere di più, con inevitabile detrimento del fervore liturgico; ciò spiega perché, almeno fino alla metà del XII secolo, i cistercensi non ne fecero uso e un’analoga proibizione venne adottata anche alla Certosa318. «E che dire – scrive infatti l’abate di Chiaravalle nell’Apologia – del bere acqua prescritto dalla Regola, dal momento che l’acqua non si ammette assolutamente, nemmeno col vino? Evidentemente da quando siamo monaci, abbiamo tutti lo stomaco debole, e abbiamo ragione di non trascurare quel consiglio così necessario dell’apostolo circa il bere vino. Egli tuttavia permette un po’, e questo un po’ non so per qual ragione noi lo omettiamo. E almeno fossimo contenti del solo vino, pur bevendolo puro! Mi vergogno a dirlo, ma (…) in un medesimo pranzo vedresti riportare tre o quattro volte semipiena la coppa, talmente che dopo avere piuttosto odorato che bevuto vini di qualità diversa, e dopo averli piuttosto lambiti che tracannati, finalmente, con assaggio sagace e rapido riconoscimento, se ne sceglie uno che sia di molti il più forte. E cos’è quel costume che si dice osservato in parecchi monasteri, di bere al convito, nelle feste grandi, vini intrisi di miele e cospersi di spezie in polvere? Anche questo diremo che avviene per la debolezza dello stomaco? Io però vedo che questo serve soltanto a far bere di più e con maggior piacere»319. All’affondo polemico di Bernardo di Clairvaux, che attaccava i monaci di Cluny intorno alla sobrietà del mangiare e del bere, Pietro il Venerabile rispose mettendo mano alle consuetudini cluniacensi e abrogando l’antico uso di bere vino con miele e spezie, detto pigmentum, salvo che durante il giovedì della settimana santa in cui era permessa l’aggiunta di miele320. La ragione di questa deci317 BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, pp. 151-152: inoltre, sull’uso di vino speziato, anche DE VALOUS, Le monachisme clunisien, p. 259; HALLINGER, Progressi e problemi della ricerca, pp. 286-288. 318 MARTENE, De antiquis Ecclesiae ritibus, col. 384; M. LAPORTE, Édition critique des Consuetudines Cartusiae, «La Grande Chartreuse», 4 (1962), p. 70; 5 (1965), p. 71; NADA PATRONE, Monachis nostri ordinis, p. 322. 319 320 314 S. BERNARDO, Apologia dell’abate Guglielmo, p. 197. Statuta Petri Venerabilis, pp. 50-51, statuto 11: De abstinentia a pigmentato: «Statutum est, ut ab omnis mellis ac speciarum cum vino confectione, quod vulgari nomine pigmentum vocatur, cena Domini tantum excepta, qua die mel absque speciebus vino misceri antiquitas permisit, omnes cluniacensis ordinis fratres abstineant». sione scaturiva dalla necessità di ravvivare almeno un poco lo spirito di astinenza dei suoi monaci, ripristinando l’autentico senso benedettino della “misura del bere”. Se infatti il vino non era fatto per i monaci ed era stato permesso solo a causa della loro fragilità, a che titolo – si chiedeva commentando il cap. 40 della Regola l’abate di Cluny321 – si cercano con tanta fatica spezie esotiche d’oltremare, pagandole a caro prezzo, per metterle nel vino destinato ai fratelli? Certo, è vero che l’apostolo ha consigliato di bere un po’ di vino per rimediare ai dolori intestinali e alla salute cagionevole (1 Tim 5, 23), ma che dire ancora di quei «monaci che, pur non essendo malati ma sani, né infermi ma robusti, non bevono poco vino ma molto, né basta loro in abbondanza ma lo prediligono mellito e, non accontentandosi di quello con il miele, lo vogliono preparato con spezie regali? Dal momento che già l’apostolo ha ordinato a loro come ai laici: non inebriatevi di vino, in cui vi è la lussuria (Ef 5, 18), che cosa accadrà ai monaci, i quali non solo non evitano l’ubriachezza, ma piuttosto la provocano con ricercati sapori che irritano la gola?»322. Un elemento costante di questi preparati era dunque il miele che, riscaldato e sciolto nel vino (mulsum), lo rendeva più amabile, nutriente e forte; anche in questo caso, però, non si trattava di una novità medievale, ma di una pratica ereditata dalla tradizione antica, che trova conferma un po’ in tutta l’Europa monastica: da Montecassino a San Gallo, da Cluny a Santa Giulia di Brescia e da Fleury al mondo bizantino323. Negli usi cluniacensi tuttavia, per le sue proprietà 321 Ibidem, pp. 50-51. 322 Ibidem, p. 51. 323 ALDELMO, De virginitate, II. Carmen, ed. R. Ehwald, in Aldhelmi Opera, MGH, XV, Auctores antiquissimi, Berolini 1919, p. 456, v. 2541: «nectaris (…) pocula mulsa»; ISIDORO, Etymologiae, col. 713, mulsum è il vino «ex melle mistum»; Theodomari abbatis Casinensis epistula ad Karolum regem, p. 165 (potionem ex melle); tra VIII e IX secolo in Gallia, durante il periodo di digiuno, i vescovi proibivano di bere «vinum (…) melle dulcoratum» (Collectio Sangallensis Salomonis III. Tempore conscripta, ed. K. Zeumer, MGH, Legum sectio, V, Formulae merowingici et karolini aevi, Hannoverae 1886, p. 417 nr. 31) e la stessa limitazione era imposta da Erchenperto, vescovo di Frisinga, il quale invitava ad astenersi «a vino et carne et medo et melscada cervisa, et de lacte et ovo» [Epistolae variorum inde a morte Caroli Magni usque ad divisionem imperii collectae, ed. E. Dümmler, MGH, Epistolae Karolini aevi, III/5, Berolini 1899, p. 338 nr. 23 (a. 836-838)], come pure è ampiamente attestata nel decreto del vescovo Burcardo di Worms (sec. XI): «ti asterrai completamente dal vino, da bevande aromatizzate, dal lardo, dal formaggio e da ogni tipo di pesce grasso (...), durante tutte queste quaresime ti asterrai dal vino, dalla bevanda aromatizzata, dalla birra, (...) ti asterrai anche dal vino, da bevande mielate e dalla birra tre giorni alla settimana, ecc.» (A pane e acqua, pp. 68-69, 71); Constitutiones Floriacenses antiquiores, p. 28 (mellitum); Liber 315 antielmintiche e stimolanti, un posto di rilievo era occupato dal vino temperato con miele e assenzio324, il cui gusto amaro stimolava le funzioni digestive, e per questo era assunto la sera, benché un uso eccessivo producesse allucinazioni e fosse dannoso alla salute. Era una bevanda distinta dal pigmentum, come si evince dalla differente gestualità segnica per indicarla, a motivo dell’infusione di foglie di assenzio325, ma, se veniva arricchita di spezie preziose e resine profumate, poteva diventare una bevanda fortemente simbolica, giacché – nonostante le restrizioni di Pietro il Venerabile – era assunta il giovedì santo in ricordo dell’ultima cena e della passione del Signore326. Nelle diverse regioni europee esistevano naturalmente molte varietà viticole, dalle quali si ottenevano fermentati albi e vermigli più o meno pregiati, resi speciali da microclimi particolari. Le informazioni al riguardo però sono piuttosto sporadiche, insufficienti a tracciare un quadro di sintesi omogeneo e non anteriori al XIIXIII secolo; alcune ricerche recenti, inoltre, hanno evidenziato la precocità delle attestazioni varietali nelle zone mediterranee rispetto all’Europa continentale. Ciò, per quanto possa apparire scontato dal punto di vista pedologico e climatico, è storicamente assai rilevante per lo sviluppo e il rinnovamento viticolo, in quanto i vititramitis, p. 219; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, coll. 677, 704; GUGLIELMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 945; Consuetudinis Fructuariensis - Samblasianae, 2, p. 240; anche INNOCENZO III, De contemptu mundi, col. 724 (mulsum); per gli usi orientali, invece, basterà ricordare che negli statuti di Teodoro di Studion era prevista l’assunzione di eukraton, bevanda a base di vino e spezie, durante la quaresima (TEODORO DI STUDION, Descriptio consuetudinis, col. 1715, cap. 30: «Tota autem sancta quadragesima mixtum bibimus, exceptis infirmis aut senibus. Porro mistum constat ex pipere, cumino, et aniso calido»); HALLINGER, Progressi e problemi della ricerca, p. 288; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 487, 8283 e NADA PATRONE, Il cibo del ricco, pp. 381 (mellitus, mulsus), 371 (mulsus). 324 Liber tramitis, p. 219: «absintium cum melle mixtum»; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, coll. 677: «potio propinatur melle, vino et absynthio confecta», 704: «potionis melle et absynthio temperata»; GUGLIEMO, Constitutiones Hirsaugienses, col. 945: «potionis quae cum melle et absynthio confecta». 325 Che si tratti di due prodotti distinti appare chiaro dalla diversità dei simboli che servivano ad indicarli nel linguaggio muto: «Pro signo potionis pigmentatae, conclude manum, et ita simula moletam. Pro signo quae est melle et absynthio temperata, duos digitos indicem et medium a caeteris disiunge, et ipsos quoque ab invicem disiunctos ita move, quia absynthium in suis foliis divisum» (UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 704; anche BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 170). 326 316 L’uso delle spezie e di vini resinati il giovedì santo è molto antico nella prassi liturgica: MARTENE, De antiquis Ecclesiae ritibus, col. 384ab; BERNARDO, Consuetudines aevi sancti Hugonis, p. 311; UDALRICO, Antiquiores consuetudines, col. 659; Statuta Petri Venerabilis, p. 50; HALLINGER, Progressi e problemi della riforma, pp. 286-288. gni cominciano ad avere una propria denominazione specifica e la loro diversità non coincide più semplicemente con il luogo di origine. Se nella penisola iberica, infatti, le fonti arabe non mancano di registrare per il territorio meridionale vini speziati, aromatizzati e uve da tavola già dal XII secolo, nell’area francese bisogna aspettare almeno il XIV secolo per dare un nome ai bianchi e ai rossi bordolesi, assistere alla concorrenza tra gamay e pinot noir borgognoni e alla sostituzione di golz (o gouais) in favore di varietà più pregiate327. L’impegno cluniacense e cistercense per l’avvio di nuovi vigneti non è seguito da un’analoga informazione documentaria sulle varietà coltivate e nel Trecento i vini di Beaune sono privilegiati dalla curia avignonese semplicemente perché più a buon mercato di altri; in genere poi, i rossi francesi per ragioni pedologiche e ambientali sono meno apprezzati di quelli bianchi, come si registra nel Duecento nelle campagne intorno ad Auxerre, mentre quando nella Redactio Virdunensis328 i monaci usano pane azzimo e vino falerno, il riferimento varietale ha ormai perso ogni collegamento con l’antico prodotto campano e sta semplicemente a indicare del ‘buon vino’. Tra la Mosella e il Reno, come nel resto dell’area germanica, non si conosce il nome dei vitigni prima del XV secolo, quando sono documentabili le prime vigne selezionate di riesling, e i vari vini non vengono identificati per le loro caratteristiche intrinseche ma genericamente dal luogo di provenienza: è il caso dei vini del Reno, del «mustum mosellanum», del «vinum francium» e del «vinum hunnicum», mentre i monaci di S. Pietro di Kastler bevevano il vinum Australe prodotto in loco329. I tentativi di identificazione, tuttavia, di questi fermentati attra- 327 Per queste sommarie indicazioni, come pure per quelle seguenti, si rimanda alle note e alla bibliografia presente in ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 36-47 per la penisola iberica, 47-63 per l’area francese, 63-77 per il territorio della Germania romana e 78-85 per l’area bizantina; queste indicazioni vanno integrate con i saggi presenti in questo volume di A. Cortonesi, M. Matheus, P. Racine, M. Vaquero Piñeiro, E. Kislinger e I. Lumperdean. 328 Redactio Virdunensis, p. 389; per i vini di Auxerre il giudizio è quello riferito da SALIMBENE DE ADAM, Cronica, a cura di G. Scalia, I, Bari 1966, pp. 313-314; inoltre, ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 53-54. 329 IRSIGLER, Viticulture, vinification, p. 64; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 73-76; mentre per il vino della regione austriaca registrato nelle Consuetudines Castellenses, 1, p. 125: «de potu vini Australis», si vedano H. DOPSCH, Von der Slawenmission zur Grundherrschaft. Zur Rolle des Erzbistums Salzburg und der Salzburger Klöster in Niederösterreich, in Die bayerischen Hochstifte und Klöster in der Geschichte Niederösterreich, Wien 1989 (Studien und Forschungen aus dem Niederösterrechischen Institut für Landeskunde, 11), p. 18; H. HUNDSBICHLER, Der Wein als Kulturaufgabe und als Kulturträger im Mittelalter, in Probleme des niederösterrechischen Weinbaus in Vergangenheit und Gegenwart, Wien 1990 (Studien und Forschungen aus dem Niederösterrechischen Institut für Landeskunde, 13), p. 61. 317 verso le loro caratteristiche organolettiche, collegandoli a varietà di vini moderni, risultano essere storicamente infondati, né appare possibile dire se il vino francone (francium) fosse di colore bianco e quello unnico rosso; di sicuro il primo era più robusto ed alcolico del secondo se la badessa Ildegarda di Bingen consentiva alle sue monache di bere puro il vino hunnicum e con l’aggiunta di acqua quello francium330. Alla fine del medioevo, inoltre, i vini prodotti intorno a Reichenau e al lago di Costanza erano ritenuti inferiori al traminer, mentre quelli della Mosella erano più apprezzati dei fermentati della valle del Reno331; a Treviri infine, secondo le costituzioni dell’abate Giovanni Rode, le puerpere ricevevano dai monaci di San Matteo e San Massimino per tutto il periodo del travaglio del parto un pane bianco e una quarta di vino come offerta alla beata vergine Maria332. Assai più ricca e variegata appare la produzione vinicola della penisola italiana, dove già dalla seconda metà del XII secolo sono documentati vigneti di schiava sulle colline del Garda e della Franciacorta, a cui si affiancavano i più comuni e diffusi nostrani locali333. La precocità di queste attestazioni si sostanzia però solo nel corso del Duecento, quando il panorama ampelografico muta in modo profondo e duraturo, dando origine alla viticoltura moderna e a produzioni di qualità; in questo sviluppo colturale non restano esclusi i possedimenti viticoli monastici che, anzi, risultano in taluni casi tra i primi e maggiori artefici di queste trasformazioni, come mostrano per esempio le carte di Santa Giulia di Brescia e del priorato cluniacense di San Nicolò di Rodengo334. In area padana le 330 ILDEGARDA DI BINGEN, Heilkunde, übersetz und erlaütert von H. Schipperges, Salzburg 1957, pp. 193, 210. 331 IRSIGLER, Viticulture, vinification, pp. 64-65. 332 Consuetudines et observantiae, p. 205: «Datur etiam omnibus puerperis singulis diebus puerperii unus panis albus et quarta vini pro praebenda beatae virginis. Hoc officium habet subcellerarius, si sint duo cellerarii». 333 Per la produzione regionale italiana si vedano le indicazioni di ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 93172, da integrare almeno con i contributi di A. Cortonesi, A.I. Pini e G.M. Varanini, M. Tagliabue e E. Ferraglio in questo volume; inoltre, gli atti del convegno di Alghero, La vite e il vino. Storia e diritto (secoli XI-XIX), cit.; G. ARCHETTI, La viticoltura lombarda nel medioevo, in Le piante coltivate e la loro storia, a cura di O. Failla, G. Forni, Milano 2001, pp. 228-247; R. PACI, Vigne e vino a Jesi nel Quattrocento, «Studia picena», 67 (2002), pp. 17-55. 334 318 La ricca produzione vinicola del cenobio femminile di San Salvatore - Santa Giulia di Brescia è esaminata da ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 165-211, 272 sgg., dove viene studiata anche quella del priorato franciacortino di Rodengo, pp. 229-230, 242, 262; inoltre, ID., Vigne e vini nel medioevo. Il modello della Franciacorta (secoli X-XV), in Vites plantare et bene colere. Agricoltura e mondo rurale in Fran- fonti cenobitiche confermano la prevalente produzione di vini rossi sui bianchi e, per l’ambito lombardo, registrano accanto alla schiava vigneti di groppello, di luglienga, di pignolo, di bonimperghe, di gragnolate e più tardi anche di vernaccia, di malvasia, di moscatello. Questo ricco elenco, spostandoci verso la campagna veneta, si accresce delle varietà garganiga, palestra, marzemino e dal XV secolo con quelle trentine di gocciadoro e mandruzzo, che vanno ad integrare i vitigni diffusi nella pianura Padana, mentre pignolo, rafosco, orello e cadic sembrano caratterizzare la produzione friulana. Sui grandi empori veneziano e genovese, come pure sui mercati delle più importanti città comunali, transitavano i maggiori fermentati del Mediterraneo: la vernaccia ligure, la ribolla istriana, il trebbiano della Marca, il greco di Napoli, i forti prodotti meridionali, insulari e orientali, come il vino di Tiro, quello di Rodi, l’athiri e la malvasia di Creta, ecc.; inoltre, se barbisino, grignolino e spanna rappresentavano con il vino di Vernazza e il moscatello di Taggia le migliori varietà dell’area piemontese e dell’entroterra ligure, la felice esposizione delle regioni centrali conferma l’importanza storica della coltura viticola di queste zone. I trebbiani neri come l’inchiostro giungevano a piena maturazione sulle colline toscane, i bianchi sulle Crete senesi e la vernaccia rendeva famosa la produzione viticola di San Gimignano; questi vitigni lasciano il posto in area marchigiana alla celebre ribolla, all’albana, ai trebbiani fino ai più modesti vizago e pezuolo. Nella Tuscia invece proliferavano i bianchi del Viterbese, trebbiano, fiano, vernaccia, greco, moscatello e nel basso Lazio, dove si sentiva maggiormente l’influenza campana, veniva favorito l’impianto di vitigni greci al posto di quelli latini autoctoni; molto apprezzati erano pure i bianchi dei Castelli e di Anagni, che trovavano il loro naturale sbocco sul mercato romano, ma non mancavano anche fermentati più raffinati e uve da tavola come la pizzutella e la pergolese. A Montecassino il vino puro e forte allietava la tavola dei monaci, i quali lo prendevano talvolta con il miele e non disdegnavano il novello dopo la vendemmia, mentre in occasione della festa di san Nicola accompagnavano la distribuzione del ricercato pane con lo zenzero (zinziberatum) con dell’ottimo vino rubeo; anche il personale di servizio, i rustici dipendenti e gli artigiani impegnati ciacorta nel medioevo, a cura di G. Archetti, Brescia 1996 (Atti delle Biennali di Franciacorta, 4), pp. 67146 passim; ID., Ad suas manus laborant. Proprietà, economia e territorio rurale nelle carte di Rodengo (secoli XI-XV), in San Nicolò di Rodengo. Un monastero di Franciacorta tra Cluny e Monte Oliveto, a cura di G. Spinelli, P.V. Begni Redona, R. Prestini, Brescia 2002, pp. 82-83. 319 nei lavori continui di restauro o di abbellimento dell’abbazia godevano dell’abbondanza vinicola cassinese335. Il Meridione appare ricco di varietà locali difficili da identificare con precisione, per quanto non manchino produzioni di vernaccia e di malvasia; infatti, accanto ai robusti vini campani e dell’area costiera, cominciando dall’antichissimo quanto generico falerno – il cui nome derivava dall’ager Falernus, cioè dal luogo di produzione –, si registrano i rossi calabresi e i vini del Cilento, i fermentati dei territori pugliese e siciliano, ma anche il vino sardescho di colore rosso, ottenuto dalla miscela di uve differenti. L’elenco potrebbe ancora continuare e un esame sistematico delle fonti è destinato a fornire non poche informazioni preziose; queste brevi annotazioni tuttavia sono più che sufficienti a mostrare la ricchezza produttiva che caratterizza la penisola italiana. Sulla tavola dei monaci greci del XII secolo, benché un’indagine sistematica sia ancora da compiere336, troviamo precisi riferimenti al barnioticon, o vino della Varna, mentre le mense abbaziali prediligevano il chioticon, il più robusto vino di Chio; comuni erano invece la balnea, vino medicinale arricchito con pece, e soprattutto la retzina ottenuta mescolando vino e resina di pino. Nelle costituzioni monastiche di Teodoro di Studion era prescritto un eukraton tutti i giorni della quaresima, cioè una bevanda fatta di vino caldo aromatizzato con pepe, cumino e anice337, che ebbe grande fortuna anche in Occidente fino ad essere codificato negli usi cluniacensi; sul mercato bizantino abbondavano comunque i vini dell’area costiera del mar Nero, quelli provenienti dalle isole greche e mediterranee, oltre a quelli delle regioni palestinesi. Non mancavano fermentati più esotici, estranei comunque alla tradizione cenobitica, quali il rodìtes oinos, mosto arricchito di petali di rosa, il marazìtes oinos, ottenuto con l’infusione di semi di finocchio, o il selinìtes oinos, prodotto con mosto e semi di sedano, a cui va aggiunto il consueto vino caldo arricchito di pece e miele ricordato anche da Liutprando da Cremona: «[i bizantini] non bevono ma sorseggiano in piccolissimi bicchieri una bevanda miscelata di vino e miele»338. Più 335 Statuta Casinensia, pp. 234, 236-237. 336 Per queste brevi indicazioni si rimanda ad ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 78-85, 463-464, 471-472 e ai contributi di E. Kislinger e S. Parenti pubblicati in questo volume, con i rimandi ivi contenuti. 337 TEODORO DI STUDION, Descriptio consuetudinis, col. 1715; per il collegamento critico con gli usi cluniacensi, HALLINGER, Progressi e problemi della ricerca, p. 288. 338 320 LIUTPRANDO DI CREMONA, Italia e Bisanzio alle soglie dell’anno Mille, a cura di M. Oldoni, P. Ariatta, Novara 1987, p. 250. Ewald Kislinger osserva che «tanto l’aggiunta di resina per garantire la durata che di vino e miele, in verità, si trattava forse di un vino medicinale arricchito con pece da sorseggiare in piccole dosi e, appunto per questo, servito in bicchierini in segno di riguardo verso l’ospite; al presule lombardo tuttavia dovette risultare decisamente sgradito sia per il sapore amaro che per il gusto resinoso e l’elevata temperatura in cui era servito, ma probabilmente anche a motivo dell’esigua quantità offerta, al punto da notare: «alle nostre sventure si aggiunse che il vino dei greci, mescolato con pece, resina e gesso, era per noi imbevibile»339. Dove l’aggiunta del gesso serviva a mitigare l’asprezza e l’acidità dei vini resinati, ai quali il vescovo di Cremona imputava buona parte dei disturbi sopportati durante il suo soggiorno a Costantinopoli. Note ‘quasi’ conclusive Bevanda, simbolo religioso, alimento, farmaco sono dunque vari aspetti che vanno presi in considerazione per capire la storia vinicola medievale, quando bere vino mangiando non era una moda ma un’esigenza dietetica reale, dettata dal sistema alimentare e solo in seconda istanza anche una necessità gastronomica. In occasione della fondazione di un monastero o di una chiesa rurale si teneva conto, nella scelta del sito, della necessità di avere nelle sue vicinanze un terreno adatto alla coltivazione della vite e, in caso contrario, che almeno non mancassero i mezzi economici per il reperimento del vino che serviva ai bisogni liturgici e al consumo interno della comunità. Da questo punto di vista, infatti, possiamo senz’altro convenire con Rogier Dion laddove scrive che la Chiesa e il monachesimo hanno «servito la viticoltura tanto conservando e trasmettendo i metodi di coltivazione ereditati dall’antichità romana, quanto aumentandone il prestigio»340. Affermazione che trova il necessario conforto nella ricchezza documentaria – polittici, cartulari, registri e atti di varia natura – ancora a disposizione degli storici. del vino, quanto la mescolanza di mosto e petali di rosa, finocchio e sedano, conferivano al vino un sapore inconsueto» (E. KISLINGER, Cristiani d’Oriente: regole e realtà alimetari nel mondo bizantino, in Storia dell’alimentazione, p. 256). 339 LIUTPRANDO, Italia e Bisanzio, p. 219. 340 R. DION, Histoire de la vigne et du vin en France des origines au XIXe siècle, Paris 1959, p. 188; anche T. UNWIN, Storia del vino. Geografie, culture e miti dall’antichità ai nostri giorni, Introduzione di F. Portinari, Roma 1993, pp. 133-134. 321 Si può anzi aggiungere che nella tradizione monastica vi è grande attenzione al lavoro manuale, sintetizzata nel precetto benedettino dell’«ora et labora», ma già Cassiodoro raccomandava ai monaci di coltivare il giardino e la vigna, di occuparsi del lavoro dei campi e gioire nel raccogliere i frutti della terra da essi stessi lavorata; nel De institutione divinarum litterarum ricordava pertanto ai fratelli l’utilità dei trattati agronomici antichi, che egli conosceva bene, presentandoli con abilità affinché anche loro ne facessero un uso sapiente341. Resta difficile stabilire però in quale misura i monaci medievali, che conoscevano e si tramandavano le sue opere, abbiano letto, studiato e applicato in concreto i consigli degli agronomi del passato. Di sicuro istruivano i loro coloni e sovrintendevano alla coltura delle loro vigne, alla vendemmia delle uve, al loro trattamento e alla preparazione dei vini, lavorando sovente in prima persona per il successo di tali opere. «Costruì chiese e piantò vigne» è l’elogio fatto ad un monaco in un diploma carolingio e nell’iscrizione funebre di un abate milanese del IX secolo si legge che «piantò viti, olivi e alberi da frutto», mentre san Gerardo di Angers (sec. XI-XII) viene presentato come ‘fratello dissodatore’ dell’abbazia di Saint-Aubin: «edificò un oratorio in onore di santa Maddalena, coltivò la terra, creò un giardino e vi piantò delle vigne, vivendo come un eremita del lavoro delle sue mani, aiutato soltanto da pochi coloni»342. L’importanza delle tenute viticole monastiche, tuttavia, si accrebbe anche per il fatto che tali vigneti restavano tra i possessi del medesimo proprietario per periodi molto lunghi, consentendo così l’investimento di cospicui capitali per l’avvio di nuovi impianti, su cui erano garantite la continuità colturale e la possibilità di sperimentazioni produttive anche per periodi di tempo medio-lunghi; lavori di miglioramento e di qualificazione agraria che erano vissuti dai monaci come un’applicazione pratica della regola e un modo elettivo per mettere in atto la volontà di Dio. Nell’abbazia di S. Salvatore - S. Giulia di Brescia per fare solo un esempio, sia pure 341 CASSIODORO, De institutione divinarum litterarum, PL, 70, coll. 1142-1143. Sul lavoro dei monaci, invece, si veda J. DUBOIS, Le travail des moines au Moyen Age, in Le travail au Moyen Age. Une approche interdisciplinaire, Actes du Colloque international du Louvain-la-Neuve (21-23 mai 1987), a cura di J. Hamesse, C. Muraille-Samaran, Louvain-la-Neuve 1990 (Publications de l’Institut d’études médiévales. Textes, études, congrès, 10), pp. 60-100; anche ARCHETTI, Scuola, lavoro e impegno pastorale, pp. 93-103. 342 322 Per gli esempi degli abati ‘viticoltori’, si veda PINI, Vite e vino, pp. 23, 65-66; per la Vita di san Gerardo di Angers che, posto a capo di un locus dal suo abate, «terram excohuit, hortos et vineas plantavit et quasi eremita illic cum paucissimis agricolis manuum suarum labore vivere coepit», v. Vita sancti Gerardi confessoris, in Acta Sanctorum novembris, II/1, Bruxellis 1894, p. 495, cap. 6; inoltre, DUBOIS, Le travail des moines, pp. 81-82; ARCHETTI, Tempus vindemie, pp. 480-482. tra quelli più significativi343, sappiamo dal polittico che fin dall’alto medioevo le monache avevano distribuito le colture a seconda della collocazione e della natura dei terreni; in particolare, nel caso della vite avevano concentrato le loro vigne più redditizie nell’area collinare della Franciacorta e delle Chiusure cittadine, ubicandole cioè nelle zone che i recenti studi di zonazione hanno dimostrato essere particolarmente ‘vocate’ alla viticoltura. In queste stesse aree, tra XI e XIII secolo, si ebbe un forte ampliamento delle superfici vitate con l’introduzione precoce e la selezione di nuovi vitigni rispetto a quelli tradizionali; si sviluppava così una produzione di qualità che consentiva al cenobio cittadino di ottenere uve, mosto e vino per le sue necessità interne e da destinare al mercato. La vita cenobitica imponeva ai suoi membri scelte di campo nette, che avevano precisi riflessi sul regime alimentare adottato, nel quale l’elemento forse più caratterizzante dato dall’assenza di carne rossa era compensato da un apporto nutrizionale prevalentemente vegetariano, ricco e bilanciato. L’atteggiamento nei confronti del vino appare invece fin dall’inizio piuttosto controverso e oscillante tra negazione e tolleranza a motivo delle sue forti implicazioni liturgiche; ma a partire da san Benedetto il suo uso diventa di fatto comune a tutti i monasteri. A Montecassino, infatti, i fratelli possono bere in modo moderato e l’abate, interpretando i bisogni della sua comunità, ha l’autorità per integrare la quantità di vino giornaliera destinata ai suoi monaci. Non è fuori luogo chiedersi, allora, se un modello alimentare come quello monastico – basato su cereali, legumi, verdura, frutta opportunamente abbinati a latticini e formaggi, pesce e uova, ma privo di carne rossa di quadrupedi – richieda l’impiego di vino per giungere a un giusto equilibrio dietetico e, di conseguenza, se l’alimentazione cenobitica abbia portato ad un incremento della produzione vinicola e della viticoltura. L’ipotesi non è oziosa e, se suffragata da dati scientifici – senza trascurare naturalmente gli espliciti riferimenti biblici, alla tradizione ascetica antica e ai modelli agiografici – spiegherebbe anche perché ogni qualvolta una comunità religiosa ha abbandonato l’uso del vino è poi incorsa in gravi problemi di salute, capaci di minacciarne la sua stessa sopravvivenza. Dal punto di vista nutrizionale la risposta è certo positiva, ma non riguarda in modo esclusivo i monaci. Bere vino nel medioevo era sovente più salutare che 343 Per la coltura viticola sui possedimenti giuliani in rapporto agli studi di zonazione, si veda G. ARCHETTI, Vite e territorio. Il caso della Franciacorta nel medioevo, in Territorio e vino. La zonazione strumento di conoscenza per la qualità, Atti del simposio internazionale (Siena, 19-24 maggio 1998), Siena 1999, pp. 43-54; ID., Tempus vindemie, pp. 223-224. 323 bere acqua, la cui potabilità era a rischio a causa dell’assenza di adeguate strutture igieniche e fognarie, mentre il mosto fermentando si sterilizzava da sé. Detto questo però va aggiunto che il vino possiede almeno due capacità operative: l’una derivante dall’alcol etilico, per cui si lega bene con i carboidrati; l’altra, dovuta ai componenti non alcolici (polifenoli, tannini e antociani), che si abbinano perfettamente alle proteine. Una delle ipotesi infatti, della minore longevità delle comunità che hanno abbandonato l’uso quotidiano del vino, come ci conferma Giorgio Calabrese344, «è suffragata dal fatto che molti polifenoli modulano in modo assai equilibrato le membrane cellulari, specie dei neuroni»; di conseguenza se il vino è presente a stomaco pieno dà salute e facilita la digestione stimolando la secrezione di succhi gastrici, se invece è bevuto a digiuno può danneggiare. Il problema allora non sta nel fatto se una dieta a base di carne richieda un apporto minore o maggiore di una dieta prevalentemente vegetariana come quella cenobitica, ma se nel corpo vengono introdotte proteine o grassi. Nel caso di proteine animali, essendo prive di zuccheri (se non addizionati dall’esterno), esse attirano di più le bevande; il vino, tuttavia, per il suo stesso flavour si abbina meglio con i carboidrati, i legumi e i formaggi, che costituiscono la base della dieta monastica, fornendola di un energetico subito disponibile per l’organismo345. La presenza, inoltre, di alcune sostanze particolari – come i polifenoli, il resveratrolo, la ciclossigenasi-2, ecc. – esercita una funzione protettiva sul cuore, sulle arterie e nella prevenzione di malattie tumorali per la benefica azione che esercitano sulle strutture cellulari ed enzimatiche. Naturale completamento del pasto, il vino, se assunto con moderazione e con criterio, era considerato una creatura Dei che consentiva di apprezzare di più le vivande e di digerirle meglio, bevuto in maniera smodata si trasformava invece in un opus diaboli, aprendo la strada dell’ebbrezza fonte di tutti i vizi. Questo comportamento, dettato da equilibrio e buon senso, ha attirato l’attenzione della moderna scienza medica e dei nutrizionisti, i quali tendono a trattare il frutto della vite alla stregua di un valido integratore dei pasti e consigliano di consumarlo non solo in quantità moderate ma anche in rapporto alle necessità di ciascuno, 344 Ringrazio il prof. Giorgio Calabrese dell’Università Cattolica di Piacenza, per queste osservazioni, comunicatemi per via epistolare nel febbraio 2002. 345 324 Non è forse superfluo ricordare che il vino in sé non dona un vero e proprio apporto nutritivo, al contrario fornisce calorie in abbondanza con conseguente apporto di energie, soprattutto di carattere nervoso. Un litro di vino di circa 12° gradi alcolici, infatti, corrisponde a oltre 800 calorie, mentre un vino liquoroso – si pensi al mellitum – può superare anche le 1700-2000 calorie. variabili cioè a seconda dell’età, del sesso, del tipo di lavoro e di condizioni ambientali in cui vive. Uno o due bicchieri a pranzo e a cena dunque possono avere effetti benefici in quanto stimolano l’appetito e favoriscono la digestione; al contrario, preso in eccesso, il vino può risultare dannoso nei confronti di diversi organi e apparati, quali il fegato, il sistema nervoso e quello cardio-circolatorio, vanificando così le sue proprietà antiossidanti. Si è inoltre compreso che l’azione benefica dell’alcol presente nel vino risulta efficace fino alla soglia di un litro circa al giorno per un soggetto adulto in buona salute (un po’ di meno per le donne); una quantità che risulta quindi essere perfettamente in linea con l’antica misura dell’emina stabilita da Benedetto per i suoi monaci. Per tale quantitativo però la gradazione alcolica non deve superare i 12 gradi; di conseguenza, tanto più un fermentato è alcolico e minore deve essere il consumo, a meno che non si provveda a temperarlo, come di norma accadeva in ambito cenobitico. Bere vino, tuttavia, non faceva solo bene alla salute dei monaci ma anche al loro umore; per questo erano permesse integrazioni e deroghe ai limiti imposti dalla regola quando giungeva un ospite, si celebrava una solennità liturgica o più semplicemente per rendere viva la comunione fraterna346. Il problema non era il fermentato d’uva – ribadisce il vescovo Burcardo –, peraltro utile a lenire le debolezze dei monaci che non sapevano privarsene, ma il suo desiderio che portava all’incontinenza347. Nell’ascesi monastica, dunque, non erano tanto le prodezze alimentari individuali a contare, ma l’obbedienza e il rispetto di misure, orari e alimenti uguali per tutti; la condanna di ogni intemperanza, e quindi dell’ubriachezza, restava sempre netta, mentre la sobrietà del nutrimento se risultava utile alla custodia 346 Ciò valeva anche per le comunità femminili, come precisa VALDEBERTO, Regula ad virgines, col. 1062: «Si voluntas abbatisse fuerit, si labor, vel festus dies, vel hospites adventus pia precatio exagitaverit, vini potio augenda est». Secondo Salimbene de Adam, inoltre – ma siamo ormai in un contesto diverso da quello monastico –, quando il generale Giovanni da Parma si trovava a tavola e si accorgeva che «davanti a sé vi erano qualità diverse di buon vino, ne faceva mescere a tutti in misura uguale o versare nell’orciolo comune, perché tutti ne avessero nello stesso modo. E questa era considerata cortesia e carità grandissima» (SALIMBENE DE ADAM, Cronica, I, pp. 447 § 1402). 347 Pur non essendo diretto ai monaci, il testo di Burcardo (Decretum, XIX, 32) riflette comunque una posizione generale relativa ai penitenti: «Chi per i suoi peccati digiuna una settimana intera, al sabato e alla domenica mangi e beva pure quanto gli verrà offerto, ma si astenga dal rimpinzarsi e dall’ubriacarsi; è dall’ubriachezza, infatti, che nasce ogni tipo di lussuria. Per questo san Paolo la proibì dicendo: Non inebriatevi con vino nel quale è ogni sfrenatezza (Ef 5, 18); non nel vino in sé è sfrenatezza ma nell’ubriacarsi» (A pane e acqua, p. 120). 325 della castità, non era meno indispensabile per una preghiera attenta e fervorosa. Immediato appare quindi il riferimento al passo paolino: non ubriacatevi di vino in cui è la lussuria (Ef 5, 18), ma anche all’amara ironia di Bernardo di Chiaravalle verso i confratelli troppo indulgenti con il vino, ripresa da Pietro il Venerabile negli statuti cluniacensi da lui revisionati: «quando le vene saranno gonfie di vino e pulseranno per tutta la testa, che cos’altro mi piacerà di fare, levandomi da tavola, se non di andare a dormire? Che se poi mi costringerai ad alzarmi per il mattutino, quando non ho ancora digerito il vino, non mi farai cantare ma piuttosto piangere»348. Faccio mio allora, per concludere, un consiglio degli Apotegmata Patrum attribuito ad un vegliardo del deserto di Sceta, noto non tanto per aver rinunciato a bere vino nella sua vita, ma per questo detto: «Se un monaco beve più di tre coppe, non preghi per me!»349. 326 348 S. BERNARDO, Apologia all’abate Guglielmo, p. 197; Statuta Petri Venerabilis, pp. 50-51, statuto 11. 349 Les apopthegmas, p. 234, cap. 4, 98. NICOLANGELO D’ACUNTO* Il vino negato Riforma religiosa e astinenza nel Medioevo regolare Come ha osservato Massimo Montanari in pagine davvero esemplari, «il messaggio evangelico in rapporto al cibo è molto semplice e chiaro: non esistono alimenti buoni o cattivi, puri o impuri. Il cibo è una realtà neutra e solo l’atteggiamento di chi mangia può conferire al gesto alimentare un valore positivo o negativo». Il cristianesimo, infatti, ruppe con la tradizione ebraica, fondata sulla distinzione tra alimenti puri e impuri e spostò «il baricentro del problema dall’oggetto al soggetto, dal cibo consumato a colui che lo consuma». Per il Nuovo Testameno non vale più «la diversificazione del regime alimentare come segno della distinzione etnica e religiosa», cosicché il cristianesimo invoca – tra le altre cose – l’abolizione di ogni distinzione e di ogni barriera alimentare quale presupposto della propria universalità. Ne consegue che «una volta spostato il centro di gravità del problema dall’oggetto al soggetto, dal cibo all’uomo, quest’ultimo è davvero solo con la sua coscienza e con il suo appetito. Drammaticamente solo, perché la nuova religione lascia interamente a lui la responsabilità della scelta». Eppure – continua Montanari – la successiva vicenda dell’atteggiamento dei cristiani verso il cibo è la storia di un tradimento di questo messaggio, poiché «l’attenzione al consumo di carne (ma più in generale ai problemi del consumo alimentare) nei primi secoli cristiani si ingigantisce: le riflessioni dei Padri della Chiesa, le pratiche e gli esempi di vita dei primi asceti e dei primi monaci rivelano un’insistenza quasi ossessiva sui temi del cibo e della dietetica»1. Tutte queste 1 M. MONTANARI, Il messaggio tradito. Perfezione cristiana e rifiuto della carne, in La sacra mensa. Condotte alimentari e pasti rituali nella definizione dell’identità religiosa, a cura di R. Alessandrini, M. Borsari, Modena 1999, pp. 99-130 (per le citazioni pp. 99-100), che rinvia a J. SOLER, Sémiotique de la nourriture dans la Bible, «Annales E.S.C.», 28 (1973), pp. 943-955; ID., Le ragioni della Bibbia: le norme alimentari ebraiche, in * Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia. 327 considerazioni valgono anche per il consumo di vino, che non è vietato in sé e per sé ma solo se porta all’ubriachezza, alla perdita del controllo di sé e delle proprie reazioni. Nelle epistole paoline i cristiani sono esortati a evitare la crapula e l’ebbrezza, tipiche dei pagani, ma il vino in sé non viene condannato; anzi, proprio l’Apostolo – come vedremo – introduce nella tradizione cristiana il valore terapeutico della bevanda, già elaborato dalla cultura classica. Nel medioevo chi aspirava al rinnovamento della vita religiosa continuò a dibattersi in mezzo a queste aporie, secondo che pesasse la volontà di obbedire a un certo letteralismo neotestamentario, con la conseguente ‘tolleranza del vino’, oppure il richiamo alla tradizione patristisca con la sua insistenza sulla inaccettabilità di certi alimenti e in particolare proprio della carne e del vino. Va detto, di passaggio, che se il rifiuto della carne poteva trovare a livello simbolico un pendant nel travisamento della distinzione paolina tra carne e spirito, per il vino il discorso si faceva estremamente pericoloso, dato il significato eucaristico della bevanda, che frenava in qualche modo gli eccessi polemici. Pur con molte cautele il rifiuto del vino si andò configurando come una sorta di principio di individuazione di un modello di perfezione cristiana che percorse tutta la tradizione regolare dell’Occidente, pur affondando le sue radici nel monachesimo orientale. Per converso il parziale superamento di questo paradigma si realizzò nel basso medioevo in contesti che non a caso rinviavano alla grande trasformazione della spiritualità cristiana attuata dagli ordini mendicanti. A queste motivazioni spirituali si intrecciarono variamente inveterate abitudini alimentari e insieme con esse ragioni riconducibili alla ratio stessa di bilanci energetici incompatibili con la rinuncia al vino. Passare seppur corsivamente in rassegna gli atteggiamenti verso il vino elaborati dai riformatori della vita religiosa consente dunque di mettere in evidenza modelli di perfezione tra loro perfettamente alternativi che furono riproposti con una certa regolarità nella storia, così da divenire ideali verso i quali protendersi in vista della reformatio. Il termine stesso di ri-forma, com’è noto, presupponeva nella mentalità medioevale non un radicale rinnovamento, ma piuttosto il ritorno a una ‘forma’ anteriore di vita cristiana della quale si postulava la superiorità rispetto alla vera 328 Storia dell’alimentazione, a cura di J.L. Flandrin, M. Montanari, Roma-Bari 1997, pp. 46-55; M. DOUGLAS, Purezza e pericolo, Bologna 1993 (orig. Purity and Danger, London 1966). o presunta corruzione presente. Ecco allora la necessità di tornare a modelli dalla tradizione consolidata o quanto meno a taluni loro moduli espressivi identificati o identificabili come denotanti. Per chiarire il senso di un discorso che rischia di cadere nell’astrazione, abbandono questa premessa ed entro subito in argomento. Le più vive correnti riformatrici del medioevo occidentale miravano prima di tutto a rigenerare le forme della vita religiosa. In tale contesto – come ha giustamente osservato Carlo Delcorno in splendide pagine sulla fortuna medievale delle Vitae dei Padri del deserto – «la scelta dei cibi e l’alternarsi delle stagioni definivano l’essenziale di quella cura corporis, dalla quale dipendeva gran parte della vita contemplativa»2. Cura corporis nell’orizzonte della quale – aggiungo io – l’astensione dal vino costituì per secoli una sorta di principio di individuazione di un modello di santità e di vita cristiana fondato sull’ascesi e sulle privazioni, che conobbe ripetuti e più o meno riusciti tentativi di attualizzazione nel corso del medioevo all’interno di contesti apertamente riformatori. Proprio di alcuni di questi episodi vorrei occuparmi in queste pagine. Per descrivere il rifiuto del vino da parte del monachesimo orientale basti quanto Domenico Cavalca in pieno Trecento traduceva dalla Vita Antonii: «Beeva un poco d’acqua; di carne, o di vino non è bisogno ch’io ne faccia menzione, perocché appo i monaci di quella contrada cotali vivande né si usano né si truovano»3. Un modello di astinenza, questo, che conobbe una fortuna diuturna e diffusa, almeno tanto quanto lo furono le resistenze che nello stesso mondo dei religiosi esso incontrò. Anche san Benedetto si rassegnava a trovare soluzioni di compromesso: «Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci [è chiaro a quali letture si riferisse: le già citate Vitae patrum e la regola di Basilio], siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci d’accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà» (Regula Benedicti, cap. 39). Da una parte l’ideale dell’astinenza dal vino, dall’altra l’incapacità dei contemporanei di Benedetto di farne a meno. Non a caso – e qui cito nuovamente Delcorno – «nasceva, proprio dalla lettura dei libri che illustravano le più significative e varie esperienze del monache- 2 C. DELCORNO, Introduzione, in DOMENICO CAVALCA, Cinque vite di eremiti dalle «Vite dei santi padri», a cura di C. Delcorno, Venezia 1992, p. 11. 3 Vita di Antonio, in CAVALCA, Cinque vite di eremiti, p. 101. Cfr. Vita di Ilarione: p 157: «Bevea dell’acqua»; per il modello di astinenza alimentare di Ilarione si v. anche Ibid., p. 159. 329 simo orientale, l’idea di una nuova forma di vita religiosa, aggressivamente polemica nei confronti del vecchio cenobitismo benedettino»4. Tra i molti riferimenti alle Vitae patrum che sostanziano e definiscono la cifra della proposta monastica di Romualdo di Ravenna – tutti attentamente censiti nel bellissimo commento che accompagna l’edizione della damianea Vita Romualdi procurata da Giovanni Tabacco5 – il tema dell’astinenza dal vino ricorre con una certa frequenza. Scrivendo l’agiografia del proprio maestro spirituale Pier Damiani, nel 1042, ricordava che nell’eremo di Sitria, alle pendici del Monte Catria, divenuto un novello deserto di Nitria, «vinum ibi nemo noverat ne si etiam gravissimam quis aegritudinem pateretur»6. La precisazione conclusiva si spiega alla luce della concezione medicinale del vino che il medioevo aveva ereditato dal mondo antico. Così Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae affermava che «vinum inde dictum quod eius potus venas sanguine cito repleat»7. Insomma – mi sia perdonata l’irruzione della cultura popolare – «il vino fa sangue». In particolare negli ambienti religiosi ed ecclesiastici si ripeteva il richiamo alla prima lettera a Timoteo, il quale fu esortato da Paolo a smettere di bere soltanto acqua e a prendere anche un po’ di vino per favorire la digestione, dato che spesso era ammalato (1 Tim 5, 23). In Romualdo, nella cui Vita è inserito l’implicito rifiuto di questa concessione paolina, l’ancor giovane Pier Damiani trovava (o ‘voleva’ trovare) il modello più alto di vita monastica, di fatto coincidente con l’eremitismo dei Padri del deserto. Il rinnovamento del monachesimo passava dunque attraverso il recupero della disciplina del corpo di matrice orientale, fatta di privazioni alimentari e preghiera incessante, arricchita dalla pratica quotidiana della flagellazione. Divenuto priore dell’eremo di Fonte Avellana, nelle attuali Marche, il Damiani provò a mettere in pratica integralmente questo modello e l’astinenza dal vino divenne un elemento tipico di quella comunità. Infatti un non meglio precisato eremita Guglielmo aveva promesso di ritirarsi a Fonte Avellana, ma non aveva mantenuto l’impegno proprio perché intimorito dall’assoluto divieto 4 DELCORNO, Introduzione, p. 13. 5 PIER DAMIANI, Vita beati Romualdi, a cura di G. Tabacco, Roma, 1957 (Fonti per la storia d’Italia, 54). 6 PIER DAMIANI, Vita Romualdi, cap. 64, p. 105. Altri riferimenti all’astinenza dal vino: cap. 27, p. 57; cap. 67, p. 110, ove si narra che nell’eremo giunsero del cibo e del vino, necessari quanti inaspettati, ma entrambi profetizzati da Romualdo; Pier Damiani significativamente e con qualche pudore riferisce che gli eremiti mangiarono le vivande, ma non accenna neppure a quale fine fece il vino! 330 7 ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiae 20, 3, 2, PL 82, Parisiis 1887, col. 711. di bere vino che colà vigeva. Lo apprendiamo da una splendida lettera giovanile del Damiani, scritta prima del giugno 10458, ove Guglielmo è dipinto come il soldato di Cristo che sta per uscire a compiere grandi imprese, ma è trattenuto nelle pareti domestiche dalla femminile blandizia del gusto del vino. Gli altri torneranno onusti di gloria. Egli, invece, si vergognerà e quel goccio di vino gli costerà a tal punto che preferirà aver bevuto veleno! Segue un ricco repertorio di citazioni bibliche sul vino. Se Proverbi 23, 29-30 promette guai a «quelli che si perdono dietro al vino e si studiano di vuotare più bicchieri», allora «a coloro che per amore di Dio bevono acqua soltanto è promessa per certo la felicità». Per non sprecare l’efficacia del passo scritturale, il Damiani completa la citazione: «Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa. Scende giù piano piano, ma finirà con il morderti come un serpente e spandere veleno come una vipera (Pr 23, 31-32)». La tradizione cristiana si dibatte, però, tra la condanna veterotestamentaria del vino (generalizzata, pur con qualche eccezione), la sua rivalutazione operata dagli evangelisti (superfluo ricordare le nozze di Cana e l’istituzione dell’eucaristia) e la posizione più sfumata di Paolo, che se da un lato eredita la concezione medicinale del vino, dall’altro lo condanna come fonte di immoralità. Pier Damiani, pienamente consapevole della multiformità di queste tradizioni, si guarda bene dall’offrire il fianco a chi, Scrittura alla mano, lo potrebbe smentire. Sentiamo allora questa sottilissima precisazione: «Del resto, io non intendo parlar di una tale bevanda quasi per screditare una creatura di Dio, che senza dubbio è buona; ma sappiamo bene che a noi monaci è prescritto di porre in seconda linea vino, carne, matrimonio e molte altre simili cose, così che, astenendoci dalle creature, possiamo piacere maggiormente al Creatore»9. Il vino, in quanto creatura di Dio, è senza dubbio una cosa buona, ma l’astinenza da esso mette i monaci nella condizione di aspirare a una forma speciale di perfezione. Pier Damiani immagina il mancato eremita Guglielmo mentre protesta appellandosi alla solita concezione medicinale del vino: «Ma forse dirai: mi fa male la testa, sono ammalato di stomaco. Questi sono gli espedienti dei fiacchi, queste le scuse dei monaci che vivono secondo la carne; poiché 8 PIER DAMIANI, Lettera 10, in ID., Lettere (1-21), I, a cura di G.I. Gargano, N. D’Acunto, Roma 2000, pp. 270-283. 9 Ivi, pp. 271-273. 331 anche l’acqua ristora i malati e il vino spesso li uccide, è evidente che tali scuse sono molto inconsistenti»10. Segue una raffica impressionante di citazioni bibliche contro il vino, utilizzate con grande maestria. Giacomo di Alfeo, Noè, Lot e Salomone affollano la scena e preparano l’affondo finale contro chi si appellava alla già citata lettera a Timoteo: «Dio volesse, fratello, che sapessimo a memoria le altre sentenze della S. Scrittura che raccomandano il digiuno, come sappiamo a memoria questa unica, che a motivo di discrezione mitiga il rigore dell’astinenza! Perché non ricordiamo nello stesso modo ciò che lo stesso Paolo dice altrove: Non ubriacatevi di vino, in cui è la lussuria (Ef 5, 18)»11. Dopo aver snocciolato un’altra corona di passi biblici contro il vino, che fanno di questa lettera un vero e proprio repertorio sull’argomento, il Damiani osserva con perfidia che Paolo permetteva a Timoteo di bere vino «con condiscendenza» (indulgentia, nel testo) e che in questi casi «spesso è meglio se il discepolo umilmente tralascia il comando che se obbedisce prontamente»12. Per chi disattende siffatti precetti si deve anzi parlare di «felice disubbidienza», lautamente ricompensata dal giudice divino, per cui è meglio che i monaci non bevano vino. Il discorso, che si snoda con grande finezza tra il serio e il faceto, si conclude con questa chicca, che rende ragione del gusto tutto medievale per i parallelismi: «Da molto tempo, fratello carissimo, con la gola riarsa, ero assetato di parlarti; ora, colta l’occasione, dopo aver tenuto lontano il vino dalla mensa dei monaci, mi sono saziato agli abbondanti rivoli della parola»13. Nella lettera 44 all’eremita cittadino Teuzone, l’astinenza dal vino si configura come un vanto per Fonte Avellana, a segno dell’almeno temporaneo successo della scelta damianea: «Il non conoscere vino infatti, in una città, si reputa un portento; mentre il berne nell’eremo è cosa semplicemente ignobile»14. 10 Ivi, p. 277. 11 Ivi, p. 279. 12 Ivi, pp. 279-280. 13 Ivi, p. 283. 14 332 PIER DAMIANI, Lettera 44, in ID., Lettere (41-67), III, a cura di G.I. Gargano, N. D’Acunto, Roma 2002, pp. 60-61. E ancora: «Lupo, in realtà vero agnello di mansuetudine, già prima di rinchiudersi, senza più uscirne, nel carcere della cella che ora abita per amore di eterna libertà, per tutto un periodo di circa tre anni di seguito non bevve vino (...) Vidi io stesso un monaco eremita che conduceva una vita molto rigida e austera; egli, pallido in volto, tutto consunto nella carne, con gli occhi fissi a terra, sembrava morto al mondo: non aveva assaggiato vino da più di dieci anni»15. In poco tempo tuttavia, le resistenze alla ‘linea dura’ di Pier Damiani ebbero la meglio anche tra gli eremiti di Fonte Avellana, tanto che il priore fu costretto a fare marcia indietro. A meno di dieci anni dalla citata lettera all’eremita Guglielmo, in una ‘regola’ che codificava le consuetudini dell’eremo, il Damiani ricostruiva sconsolato la vicenda: «Dal vino (...) per un po’ di tempo ci siamo astenuti; cosicché neppure i laici né gli ospiti venuti da fuori bevevano nient’altro che acqua, anche nella Pasqua del Signore. Il vino non lo si utilizzava, qui, se non per il sacrificio della messa». Torna quindi la concezione medicinale del vino: «Ma poiché anche quelli che qui dimorano cominciavano ad indebolirsi e ad ammalarsi, ed altri che desideravano venire all’eremo sentivano assoluta ripugnanza verso un’osservanza di tale rigore, noi ci siamo determinati ad indulgere alla debolezza dei fratelli, o, più esattamente, alla debolezza di tutti, concedendo che se ne potesse distribuire, per cui qui si può bere vino mantenendo sobrietà e moderazione». Considerato l’apporto calorico pressoché nullo determinato dalla dieta rigidissima degli eremiti dell’Avellana, ci si accorge che il vino, lungi dal costituire un complemento dell’alimentazione, ne era divenuto un cardine. Così anche il Damiani si vide costretto ad appellarsi al precetto paolino per Timoteo, che incautamente aveva rigettato nel 1045: «Così, non potendo eliminarlo del tutto come Giovanni il Battista, cerchiamo almeno con Timoteo, discepolo di Paolo, di accordarlo con sobrietà e umiltà allo stomaco debole (cfr. 1 Tm 5, 23): non potendo essere astinenti del tutto, cerchiamo almeno d’essere sobri»16. 15 Ivi, pp. 66-67. 16 PIER DAMIANI, Lettera 18, in ID., Lettere, I, pp. 331-333. 333 Che Pier Damiani vivesse questa situazione come uno scacco lo dimostra la ripetizione quasi letterale di questo segmento della lettera 18 che si trova nella numero 50, la seconda regola per i suoi eremiti, scritta nel 105717. Sebbene anche a Fonte Avellana taluni, non bevendo vino, continuassero a imitare alla lettera il remoto modello di austerità dei Padri del deserto18, Pier Damiani si vide costretto a distinguere la vita eremitica da quella degli anacoreti, quasi a rimarcare la distanza tra il modello di santità dei Padri del deserto, a cui si poteva solo guardare con rispetto, e quello tutto sommato compromissorio che egli stesso era riuscito a realizzare: «Ma noi, ai santi anacoreti, che ai nostri tempi son pochi o forse nessuno, soltanto dimostriamo riverenza, mentre, con questa nostra trattazione consideriamo solo gli eremiti»19. Dall’imitazione all’ammirazione Tale passaggio dall’imitazione del modello anacoretico alla semplice ammirazione fu non più praticato obtorto collo ma espressamente teorizzato nel basso medioevo, quando, secondo Delcorno, «come già nel secolo XI il riferimento al monachesimo orientale implicava, e mascherava, un richiamo alle origini evangeliche, operazione troppo compromessa dai movimenti ereticali»20. Capisco che potrebbe far storcere il naso l’idea di inserire pacificamente nell’alveo della presente relazione la novità rappresentata dagli ordini mendicanti, ma nulla impedi17 PIER DAMIANI, Lettera 50, in ID., Lettere, III., pp. 156-157: «Dal vino, per parecchio tempo ce ne astenemmo, tanto che qui anche i laici e gli ospiti, persino il giorno di Pasqua, non bevevano altro che acqua; non si teneva qui vino fuorché per il sacrificio della messa. Ma poiché quelli che dimoravano in questo luogo cominciarono ad illanguidirsi e a venir meno ed altri che desideravano passare alla vita eremitica sembrava si spaventassero di una vita tanto rigorosa, accondiscendendo alla debolezza di alcuni confratelli, o per esser più sincero, alla debolezza di tutti noi, permettemmo che, per quanto con moderazione e sobrietà, si bevesse del vino. E così, non potendo con Giovanni eliminarlo del tutto, ci si ricordi almeno con Timoteo, discepolo di Paolo, di servire al nostro stomaco infermo con parsimonia e con umiltà; e, visto che non possiamo essere astemi del tutto, si cerchi almeno con zelo di essere sobri». 18 Ivi, pp. 164-167: «Vi sono alcuni tra noi, i quali, tra le altre mortificazioni, si astengono dal bere vino con un tale rigore, che da quasi dieci anni non ne assaggiano più neppure nelle feste pasquali. Di questi, alcuni sono ancora nel fiore degli anni giovanili, altri invece hanno già varcato la soglia di una veneranda vecchiaia. Taluni si privano persino dell’uva e dell’aceto». 334 19 Ivi, pp. 148-151. 20 DELCORNO, Introduzione, p. 18. sce di considerarli semplicemente come una riforma della vita regolare. Il modello della santità anacoretica, e insieme con esso la riproposizione del tema dell’astinenza dal vino, penetrarono sia nell’agiografia latina, sia nella cultura religiosa dei laici attraverso i volgarizzamenti delle Vitae patrum. Inevitabilmente tale pluralità dei destinatari determinò una grande variabilità negli accenti con i quali quelle tematiche venivano di volta in volta declinate. Sia a Francesco che a Domenico gli agiografi attribuirono l’astinenza dal vino. Per esempio, Bonaventura non resiste alla topica agiografica dei Padri del deserto e a proposito dei digiuni di Francesco dice che non si deve nemmeno parlare di vino, visto che il santo «a malapena, quando si sentiva bruciare dalla sete, osava dissetarsi con l’acqua»21. Per i fondatori dei due maggiori ordini mendicanti gli agiografi e i predicatori ammettevano l’uso del vino soltanto a scopo terapeutico. Tommaso da Celano22 e Bonaventura23 attribuirono al Poverello il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, secondo un procedimento abituale dell’agiografia occidentale, che qui assume un significato particolare alla luce della concezione che vedeva in Francesco un alter Christus. Ammalatosi nell’eremo di Sant’Urbano, presso Narni, il santo chiese un po’ di vino e, siccome non ce n’era, benedisse l’acqua col segno della croce e la trasformò in «ottimo vino», per guarire subito dopo. Anche san Domenico, secondo Giordano da Pisa24, si era astenuto per dieci anni dal vino, ma ammalatosi, ricevette da un vescovo l’ordine di berne, sia pure annacquato, per salvarsi la vita. Palese e quasi letterale il parallelo con la lettera a Timoteo. Insomma, la eco del paradigma anacoretico dell’astinenza si accompagna a richiami all’eredità biblica, che ne attenuano il rigore senza sminuire la misura delle privazioni che il santo, per essere tale, doveva sopportare. La perdurante fascinazione esercitata dai Padri del deserto sulla spiritualità medievale e dal modello agiografico a loro ispirato trova poi una sorprendente 21 BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Legenda maior sancti Francisci, 5, 1, in Fontes Franciscani, a cura di E. Menestò e altri. Assisi 1995, pp. 813-814; trad. it. in Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di Chiara d’Assisi, Assisi 1977, p. 871; IDEM, Legenda minor, 3, 1, in Fontes Franciscani, p. 980; trad. it. in Fonti Francescane, pp. 1031-1032. 22 TOMMASO DA CELANO, Vita prima sancti Francisci, 21, 61, in Fontes Franciscani, pp. 336-337; trad. it. in Fonti Francescane. p. 460. 23 BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Legenda maior sancti Francisci, 5, 10, in Fontes Franciscani, a cura di E. Menestò e altri. Assisi 1995, p. 821; trad. it. in Fonti Francescane. pp. 878-879. 24 Esempi, 28, L’astinenza dal vino, in Racconti esemplari e predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini, G. Baldassarri, Salerno 1993. 335 conferma in un altro episodio dell’agiografia francescana vicina agli Spirituali, quella della Compilatio Assisiensis25 e dello Speculum perfectionis26. In entrambi i florilegi compare la pericope del miracolo della vigna di S. Fabiano. Francesco era ospite di un prete secolare nei pressi di Rieti, ove risiedeva la curia di Onorio III. Per questo molti ecclesiastici visitavano il santo. Il prete che lo ospitava possedeva una vigna che i visitatori depredavano: «Chi coglieva grappoli e se li piluccava sul posto, chi li pigliava per portarseli via, altri calpestavano il terreno». Il prete cominciò ad agitarsi: «Quest’anno il raccolto è perduto. Per quanto piccola, la vigna mi dava il vino sufficiente al mio bisogno». Sentito questo lamento, Francesco rassicurò il prete di Rieti. Se avesse raccolto meno di venti some d’uva, gliele avrebbe rifuse, anche se il raccolto in condizioni normali a stento raggiungeva le tredici some all’anno. La vigna, per quanto devastata, produsse non meno di venti some. Caso del tutto eccezionale, perché in condizioni normali la vigna non avrebbe potuto produrre tanto. A proposito di questa narrazione si potrebbero fare dei calcoli sul consumo di vino del prete di Rieti, partendo dalla misura del raccolto sperato in rapporto con il vino che se ne sarebbe potuto produrre, nonché dall’estensione presunta della vigna: tutti calcoli utili per la storia della realtà effettuale del vino. Tuttavia a me preme in questa sede rimarcare come dietro questa narrazione apparentemente innocente pesi ancora una volta l’intertestualità agiografica27. Infatti il miracolo della vigna di S. Fabiano richiama molto da vicino un episodio della vita di Ilarione: il santo anacoreta fece visita a un monaco avaro. Questi, per evitare che gli accompagnatori di Ilarione gli devastassero la vigna, vi pose dei guardiani che impedissero l’accesso. Ilarione rifiutò quell’ospitalità e si recò da un altro monaco, più generoso, che naturalmente ebbe un raccolto assai più abbondante di quello dell’avaro, il cui poco vino si sarebbe addirittura tramutato in aceto28. L’agiografia francescana ci mostra dunque che il modello di santità dei Padri del deserto, pur se in filigrana, costituì un punto di riferimento costante per il cristianesimo medievale anche quando le trasformazioni profonde della spiritualità 25 Compilatio Assisiensis, 67, in Fontes Franciscani, pp. 1567-1569. 26 Speculum perfectionis, 104, in Fontes Franciscani, pp. 2019-2020; trad. it. in Fonti Francescane, pp. 1417-1418. 27 Si veda in proposito E. PRINZIVALLI, Un santo da leggere: Francesco d’Assisi nel percorso delle fonti agiografiche, in Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino 1997, pp. 71-116. 28 336 Vita Hilarionis, 17, 1, in Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria di Paola, testo critico e commento a cura di A.A.R. Bastiansen, J.W. Smit, Milano 1975, p. 110. richiesero notevoli innovazioni nel linguaggio agiografico29. A differenza del loro fondatore, i francescani – le cui gesta potevano essere narrate con accenti meno vincolati dalla topica corrente – consumavano tranquillamente vino, anche se l’agiografia mostra qualche imbarazzo. Per esempio la Compilatio Assisiensis in Legenda Perusina 26 (1573, p. 1191) narra che alcuni frati che dimoravano con Francesco nel romitorio di Fonte Colombo presso Rieti portarono quel poco di pane e di vino che avevano al medico che curava il santo, vergognandosi di ospitarlo tanto indegnamente. A trarli d’impaccio giunse una donna che recava molte vivande, grappoli d’uva, ma non vino30. C’è qui un certo pudore a parlare della bevanda, sebbene la dotazione iniziale della tavola imbandita per il medico la comprendesse, a segno del fatto che rientrava nel consumo corrente della comunità. Conferma questa impressione Giacomo da Vitry, il quale nel secondo dei suoi sermoni ad Fratres Minores31, commentando Ger 35, 6-7, paragona Francesco a Jonadab e i frati ai Recabiti, per richiamarli al senso letterale dell’osservanza della povertà. Per questo vieta la costruzione di case e la coltivazione di vigne, ma sul consumo di vino è singolarmente elusivo. Anche nel Sacrum commercium alla povertà che li interroga i frati rispondono citando Sir 29,2: «Signora nostra, vino non ne abbiamo, perché indispensabili alla vita dell’uomo sono il pane e l’acqua, e non è bene che tu beva vino, perché la sposa di Cristo deve fuggire il vino come fosse veleno»32. La realtà veniva qui volutamente travisata per proiettare il quotidiano dei minori in un’aura di perfetta povertà, ma altre fonti sono più sincere nel confessare il consumo di vino da parte dei seguaci di Francesco. Per esempio l’autore della Passione di san Verecondo della seconda metà del Duecento, composta nell’omonimo monastero, sito nei dintorni di Gubbio, si muove con qualche imbarazzo e si appella solo all’uso medicinale del vino: vicino al cenobio Francesco celebrò il capitolo dei primi trecento frati e per l’occasione l’abate li rifornì di «pane di orzo, frumento, sorgo e miglio, acqua limpida per bere e vino di mele diluito con 29 Per la bibliografia relativa a questo confronto si veda DELCORNO, Introduzione, p. 15. 30 Compilatio Assisiensis, 67, in Fontes Franciscani, pp. 1569-1571. 31 GIACOMO DI VITRY, Sermones ad Fratres Minores, «Analecta Ordinis Minorum Capuccinorum», 19 (1903), pp. 114-122, trad. it. in Fonti Francescane, pp. 1940-1941. 32 Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate, in Fontes Franciscani, cap. 30, p. 1730; trad. it. in Fonti Francescane, p. 1662. 337 acqua», ma quest’ultima bevanda era destinata solo «ai più deboli»33. Di ben diverso tenore la testimonianza di Salimbene de Adam, il quale, finalmente e del tutto libero dai condizionamenti del linguaggio agiografico, riferisce che il generale Giovanni da Parma era persona assai ‘cortese’: quando visitava un convento e si accorgeva che alla sua mensa c’era un vino migliore degli altri, «ne faceva mescere ugualmente a tutti oppure lo versava in una brocca perché tutti ne bevessero. E questa era ritenuta cortesia e carità grandissima»34. Qui l’uso del vino è pacificamente accolto. Semmai il valore da esaltare, come ha mostrato in uno splendido studio Cinzio Violante, era la curialitas, che si esprimeva nella generosità con la quale si usava del vino35. Siamo dunque in una prospettiva etica completamente ribaltata rispetto ai valori biblici. La narrazione di Salimbene dimostra che il modello dei Padri del deserto è stato soppiantato – nel più estremo dei casi, rappresentato appunto dall’acuto cronista francescano – dai valori cortesi, penetrati dalla società all’interno dell’Ordine dei minori. Certo è che il cronista non può essere assunto a modello della generale concezione del vino in ambito francescano, vista l’eccezionalità della sua figura, che possiamo considerare una sorta di situazione-limite della compenetrazione di ideali cortesi e mentalità minoritica. I domenicani nelle Vitae fratrum di Gerardo di Frachet si presentavano come i nuovi padri del deserto insistendo sullo zelo pastorale degli antichi monaci orientali36. Ma anche tra i seguaci di san Domenico il dovere dell’astinenza non venne accolto senza contrasti. Giordano da Pisa, negli Esempi (27) contrappone Antonio e Maccario, veri modelli di penitenza, a sant’Agostino, il quale invece «mangiò e carne e pane e bevve vino». Dei due modelli Giordano preferisce il secondo, perché mentre i primi «con ciò sia cosa che fossero così perfetti, non predicavano però, non amaestravano, se non che salvavano loro medesimi». Chi fu maggiore? Certamente Agostino e i pastori come lui, perché «tanta gente salvarono». Insomma i mendicanti usano le Vitae patrum per colpire l’immaginario 33 Legenda de Passione Sancti Verecundi militis et martyris, in M. FALOCI PULIGNANI, San Francesco e il monastero di san Verecondo, «Miscellanea Francescana», 10 (1906), pp. 10-11; trad. it. in Fonti Francescane, p. 1931. 34 SALIMBENE DE ADAM, Cronica, a cura di G. Scalia, I, Turnholti 1998 (Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, 125), p. 470. 35 36 338 Cfr. C. VIOLANTE, La cortesia chiericale e borghese nel Duecento, Firenze 1995. Per l’agiografia domenicana delle origini si veda almeno L. CANETTI, L’ invenzione della Memoria: il culto e l’immagine di Domenico nella storia dei primi frati Predicatori, Spoleto 1996. dei laici senza incitarli all’imitazione monastica, ma formulando un generico richiamo alla lotta col maligno e alla necessità della penitenza. Essi stessi non si sentono in dovere di imitare l’astinenza dei padri del deserto e si limitano ad ammirarla. Il modello anacoretico, ancorché efficace per la predicazione, è considerato, proprio per la sua grande elevatezza, distante e non riproducibile. Apertamente polemico con il divieto di bere vino è anche Tommaso da Eccleston, che nel De adventu fratrum minorum in Anglia, 118, racconta divertito un aneddoto: il vescovo di Lincoln, Roberto Grossatesta, uno dei più grandi filosofi del Duecento, riteneva che «tre cose fossero necessarie alla salute del corpo: il cibo, il sonno e il buon umore». Una volta ordinò a un frate domenicano malinconico di bere una coppa del vino migliore. Questi recalcitrava, ma, quando ebbe bevuto, il vescovo gli disse: «Carissimo fratello, se tu facessi più spesso questa penitenza, avresti anche una coscienza migliore». Santità e vino potevano allora andare perfettamente d’accordo e gli imitatori degli antichi anacoreti venivano presi sottilmente in giro37. Il progressivo logoramento del modello dell’astinenza, nonostante la sua perdurante presenza nella mentalità religiosa dell’Occidente, continuò per tutto il medioevo. Il tentativo di imporre un ideale di perfezione ascetica che comportava la rinuncia al vino fu vanificato da scelte e abitudini alimentari di lunghissimo periodo. Non è un caso che, pur impacciati dalla perdurante presenza di stilemi agiografici immodificabili nell’immaginario religioso, nei fatti gli Ordini mendicanti del pieno e basso medioevo riuscirono a riconciliare l’aspirazione alla santità con la necessità e il piacere di bere vino. Non a caso a fronte di una sorta di ossessione dietetica delle regole monastiche della tarda antichità e del primo medioevo, le regole francescane non prevedevano nessuna restrizione alimentare per i minori, tranne i digiuni nei tempi d’avvento e di quaresima e il venerdì: «Sia loro lecito mangiare, secondo il Vangelo, di tutti i cibi che vengono loro presentati»38. Il ritorno letterale a Lc 10, 8 consentiva a Francesco di recuperare, in virtù del suo amore per le creature, l’essenza stessa del messaggio cristiano e di riportare al centro dell’attenzione il cuore dell’uomo. I frati, secondo Francesco, non dovevano più cercare la santità a tavola e ancor meno nel fondo dei loro boccali. 37 TOMMASO DI ECCLESTON, De adventu fratrum minorum in Angliam, 15, a cura di A.G. Little, Manchester 1951, p. 92; trad. it. in Fonti Francescane, p. 2079. 38 Regula non bullata, III, in Fontes Franciscani, p. 188; trad. it. in Fonti Francescane, p. 102. 339 340 PAOLO TOMEA* Il vino nell’agiografia: elementi topici e aspetti sociali È stato ripetutamente sottolineato come le fonti agiografiche, spesso infide e poco attendibili nell’aderenza storica della loro trama fattuale, costituiscano un cespite di informazione estremamente valido, talora anzi privilegiato, per la conoscenza delle strutture mentali, della cultura materiale e di svariati aspetti della vita comune dell’epoca in cui furono composte: dalle pratiche devote e cultuali alla nosografia, dai dettami comportamentali alla storia dell’alimentazione; né si dimenticherà, ancora, l’importanza rivestita da alcuni testi di questo ambito in ordine alla documentazione topografica e toponomastica. Proprio perché l’azione del santo, il più delle volte non si intreccia con eventi straordinarî, ma si dipana in un vissuto senza enfasi, dove l’elemento eccezionale è invece introdotto dal suo intervento, l’agiografo è quasi costretto infatti, nel descriverla, a fornire una serie di dati ‘innocenti’ – estranei cioè alle intenzionalità del racconto – che, in modo diverso, rientrano inscindibilmente nella quotidianità che le fa da contesto. Tuttavia, se per molte realtà un rilevamento che potremmo definire di tipo positivistico-etnografico risulta felicemente perseguibile, nei presupposti metodologici come negli esiti, altri soggetti resistono a una lettura univoca in tale direzione, presentando una sorta di doppia immagine dove i contorni concreti si sovrappongono potenzialmente a radici memoriali che li connotano di significati particolari. Partecipa ampiamente di questo novero anche il vino che, protagonista della cultura alimentare e dell’economia dall’età antica, ma insieme collegato, nel mondo cristiano a Noè, il patriarca che stipulò l’alleanza con Dio, al Cristo stesso in quanto «vitis vera», al suo primo miracolo, a Cana, e all’istituzione 1 Si tratta di cose note; per una comoda selezione dei principali passi relativi alla vite e al vino, che in senso concreto o figurato si trovano nell’Antico e nel Nuovo testamento cfr. tuttavia G. ARCHETTI, Tempus vindemiae. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998 (Fonti e studi di storia bresciana. Fondamenta, 4), pp. 25-26 n. 1. * Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. 341 dell’eucarestia1, si riflette nella agiografia medioevale secondo questo duplice assetto, aprendo la strada a un doppio registro di considerazioni. Per non eccedere i confini di tempo prefissati mi limiterò a una rapida ricognizione che, lontana dal voler definire la mappa completa di un campo per ora quasi inesplorato, si accontenterà di additare alcuni punti e temi emergenti, che si incontrano nel primo dei due versanti enunciati. Relativamente alla storia del vino, dei suoi ruoli e delle sue vicende nei secoli medioevali, i testi agiografici porgono notizie di colore eterogeneo, tra le quali tuttavia spiccano, più insistite di ogni altra e inscritte in un quadro di lunga durata, quelle che ci illuminano sul posto raggiunto dall’alimento tratto dalla vite nelle convenzioni sociali dell’epoca, che ne associavano strettamente l’offerta al dono dell’ospitalità, anche quando ragioni pedologiche, climatiche o di differente natura lo rendessero prodotto non facilmente reperibile2. Sembra mostrarlo con chiarezza una folta schiera di miracoli, assai diffusi in area franco-francese, nei quali si replica il motivo di una quantità di vino, totalmente inadeguata alle necessità dell’accoglienza, prodigiosamente moltiplicata grazie ai meriti dell’uomo di Dio, che può trovarsi in modo indifferente nelle vesti di ospitante o di ospitato. Appartengono a questa seconda eventualità i casi di Eligio di Noyon3 e 2 Tale aspetto è già stato messo in rilievo da R. DION, Histoire de la vigne et du vin en France des origines au XIXe siècle, Paris 1959, p. 188, che sottolinea: «Chez ces grandes [du monde] se manifeste avec force, dès le Haut Moyen Age, le sentiment que, dans le commerce d’hospitalité, l’honneur fait à l’hôte et celui qui revient au maître qui accueille sont attachés à l’offrande du vin. N’en point avoir chez eux en quantité suffisante pour recevoir dignement le visiteur de qualité qui survient à l’improviste les met en un tel désarroi qu’on le voit, en pareil cas, implorer, comme ils feraient en un grand péril, la misericorde divine, qui, parfois, se laisse toucher, et les assiste d’un secours surnaturel». Sull’ospitalità nel medioevo cfr. inoltre H.C. PEYER, Von der Gastfreundschaft zum Gasthaus. Studien zur Gastlichkeit im Mittelalter, Hannover 1987 (Schriften der MGH, 31), pp. 21-76 per quanto concerne l’ospitalità non istituzionalizzata. 3 342 «Erat autem vir quidam habitans in suburbio Parisiaco (…) quem Eligius pro fide et devotione sua familiariter diligebat (…). Accidit ergo quadam die ut praedia monasterii sui Eligius lustrata et a Gentiliaco iam digressus, Parisiis remaneret; cumque non longe a domo eius cum suo nobili, ut solebat, comitatu tramitem praeteriret, fortuitu ille eminus conspiciens cognovit illico adesse Eligium. Tunc obviam accurrens, coepit genua eius lambere, dicens: ‘Est mihi pauxillum falerni in cado, divertat, quaeso, dominus meus paulisper in domum servi sui, ut hi qui tecum sunt percipiant merum et benedicat mihi Dominus ad introitum tuum; cumque ille recusare vellet, vix comitantium victus precibus tandem ad domum divertit. Erat autem praefato viro positum vas in cellario (quod vulgo tunna vocatur) duas fere aut tres tantummodo in se metretas vini habens. Cum ergo illic ingressus obnixe rogaretur ut vel parum quid pro benedictione perciperet, allatum sibi poculum benedicens, modicum ex eo pro satisfactione hausit; cuncti tamen comites eius gratissime ubertimque potati sunt. Deinde, benedicta domo, valedicens viro, discessit atque ad monasterium suum, quod in eadem urbe ad di Ermelando di Antresis4, che sovvengono alla penuria vinicola rispettivamente di un nobile parigino e di un signore del Coutances, Launo, che avevano fatto pressione perché il santo accettasse di sostare nella loro casa; di Filiberto di manendum divertit. Post cuius videlicet abscessum repente cadum, quod ad usum famulorum eius pene fuerat exhaustum, divinitatis gratia exuberante, vino usque ad summum est repletum. Facto autem die altero, fortuitu ingressus homo in penum invenit tunnam, quae pridie vacua prope remanserat, usque ad os vini repletam: ex quo vehementer mox attonitus coepit nimium eventum rei mirari, confestimque hospitis sui merita reducens ad memoriam propere ad eum perrexit, narrans quanta sibi Dominus ad adventum eius praestiterit. Quod cum Eligius audisset, agens Domino gratias dixit ad eum: ‘Pax tibi, frater, tecum sit hic sermo, nec patieris unquam divulgare eum, sed vade, et cum gratiarum actione quod tibi pius Dominus largitus est in usus necessarios expende. Tunc ille coepit rogare eum ut dignaretur ipse iterum ad domum eius usque fatigari ac per semetipsum temetum illud benedicere et utendum ex vase proferre, quod nisi faceret, testabatur se nullatenus exinde unquam vel guttam foris praeripere. At ille cernens devotionem hominis pariter ad domum perrexit et ingressus domum prostravit se in pavimento ac diutissime precem fudit; post orationem vero, considerans apothecam plenam, iussit eam reserari vinumque in vase proferre; et cum factum fuisset et ipse quidem exinde modicum gustavit et omnes qui simul aderant largissimos ex eo meros hauserunt. Sic demum oculis manibusque ad coelum porrectis, gratias agens et glorificans nomen Domini, via qua venerat rediit» (AUDOINO DI ROUEN, Eligii episcopi Noviomensis vita [Bibliotheca hagiographica latina antiquae et mediae aetatis, 2 voll., Bruxelles 1898-1899 et 1986 (Subsidia hagiographica, 6 e 70) = BHL 2476], in Patrologia Latina [= PL], 87, coll. 551-552); già menzionato da DION, Histoire, p. 188. 4 «Quidam nobilis illius provinciae vir, Launus nomine, virum Domini cum discipulis ad prandium vocavit. Sed ipse, ut erat animo mitis, eloquio affabilis, vultu serenus, eius petitionem non rennuens, sed, data benedictione, domum illius ingressus est. In regione quippe eadem vinum minime nascitur et ideo praedictus vir Launus non plus quam in uno vasculo, capiente, ut reor, metretas quaternas, parumper habebat vini. Ipse vero gaudens, quia Dei virum in domum suum suscipere meruit, convocatis amicorum turbis, hilariter omnibus iussit cum pauperibus et peregrinis supervenientibus ex eodem vino ubertim distribui. Mira omnipotentis dispensatione, omnibus habunde potantibus, vinum ita crevit in eodem vasculo, ut pro sui diminutione redundans eundem repleret iam poene exaustum vasculum. Sed haec res ea die silentio contecta, crastina ita per omnem illam regionem divulgata est (…). Vir itaque Domini post refectionem ad propriam domum, quae est in villa quae dicitur Oglauda, reversus est. Launus autem in crastinum uxorem requisivit, si saltim parum vini superesset, ex quo ad virum Dei pro benedictione aliquid mitti valeret. Quae cum praedictum vas diligentius fuisset intuita, repperit nihil diminutionis, verum augmentationis plenitudinem accessisse; quod et viro suo nuntiare studuit. Tunc praedictus Launus cum oblationibus ex eodem vino benedictionem sancto viro obtulit, et quantam ei Dominus per merita ipsius gratiam reddidisset indicavit. Quo audito, vir Domini silentio hoc abscondere adolationibus vacuus iussit, dicens: ‘Noli, quaeso, meis meritis hoc deputare miraculum, quod pro erogatione pauperum tuae Dominus largitati conferre dignatus est’ (…); sed omnibus fidelibus liquido patet, quia sancti sacerdotis merito hoc gestum est miraculum, quia illi toto corde adheserat, qui in Chana Galileae aquam convertit in vino» (DONATO, Vita Ermenlandi abbatis Antrensis [BHL 3851], ed. W. Levison, in Monumenta Germaniae historica [= MGH], Scriptorum rerum merovingicarum [= SRM], V, Hannoverae-Lipsiae 1910, pp. 697-698). Il passo è ricordato anche in DION, Histoire, p. 188. 343 Jumièges5, che rinnova le scorte di una religiosa presso la quale si era fermato a mangiare, e del vescovo di Reims, Remigio, che – visto il rossore della cugina Celsa, quando, subito dopo averlo invitato, apprende di essere sfornita di vino – la salva miracolosamente dall’umiliazione6. Quanto a Isarno, abate di S. Vittore di Marsiglia presentatosi inatteso a visitare un antico compagno, che trova intento a parlare di lui con un altro monaco, fa in modo che il vino non basti per tre ma per trenta persone7. Allo stesso modo, nella situazione tipologica inversa, 5 «Quaedam religiosa femina Pinverno in villa virum Dei in propria recepit aedicola, rogans eum cellarium ingredi et vas vinarium, quod tunna dicitur, benedici atque in eadem domo, refectione peracta, dignaretur nocte eadem commanere. Quod obtentu, cum in honore sancti cuncti habitatores vel hospites domus illius fuisset largiter propinati, illo maturius decedente, praedicta femina ingressa cellarium, ita vas ipsud repperit plenum, hacsi nihil ex eo fuisset expensum» (Vita Filiberti abbatis Gemeticensis et Heriensis [BHL 6805], ed. W. Levison, MGH, SRM, V, p. 594). 6 Riporto, per brevità, l’episodio dall’epitome che Flodoardo include nell’Historia Remensis ecclesiae, utilizzando la Vita Remigii BHL 7152-7159, composta da Incmaro di Reims. «Alio quoque tempore dum pontificali sollicitudinem parochiam peragraret, rogatus a quadam consobrina sua nomine Celsa, Deo sacrata, villam ipsius vocabulo Celtum adiit. Ibi dum beatus vir spiritalibus colloquiis vite propinat hospiti de more pocula, minister prefate Celse vini sufficientiam domine sue nunciat non adesse. Re huiuscemodi cognita sanctus Remigius hanc hilari consolatur vultu et post blanda verbi solamina eiusdem sibi domus ostendi precepit habitacula. Sicque de industria prius perlustrans cetera, tandem ad cellam pervenit vinariam, quam sibi faciens aperiri rogitat, si forte remanserit in aliquo vasorum quippiam vini. Et designato sibi vase, in quo tantillum vini pro salvando scilicet eodem relictu fuerat, claudi precipit hostium iussoque consistere loco cellerarium, ipse vero ad alteram accedens vasis frontem super idem, quod erat non modice quantitatis, Christi annotat crucem flectensque genua secus parietem, celo devotam dirigit precem. Cepit interea – mirum dictu! – vinum per foramen superius exundare ac supra pavimentum abundanter effluere. Exclamat hoc viso cellarius stupore perculsus, sed mox a sancto viro repressus, ne id palam faciat, inhibetur. At quia tam clari lumen operis minime valuit abscondi, ubi consobrina sua factum comperit, eandem villam ipsi et ecclesie ipsius perpetim possidendam tradidit ac legali iure confirmavit» (FLODOARDO DI REIMS, Historia Remensis ecclesiae, ed. M. Stratmann, MGH, Scriptores [= SS], XXXVI, Hannoverae 1998, p. 83 rr. 18-33). Sul capitolo dell’Historia, il XII del I libro, in cui con altri è riferito il miracolo, cfr. M. SOT, Un historien et son église au Xe siècle: Flodoard de Reims, Paris 1993, pp. 382-384; per le fonti agiografiche messe a partito da Flodoardo nell’Historia: STRATMANN, Einleitung all’ed. citata, in particolare pp. 813. Anche Flodoardo è già ricordato da DION, Histoire, pp. 188-189, che sembra tuttavia ignorare come il fatto sia una ripresa da Incmaro. 7 344 «Me vero ista coram fratribus memorante, Rainoardus quidam, magnae sanctitatis aestimatione in monasterio venerabilis, ea, quae narraturus sum, intulit, dicens: ‘Ego apud ecclesiam s. Mauricii iuxta Marestam oppidum cum domino Isnardo monacho tunc adolescentulus manebam; cumque de beato Ysarno, quomodo in terras illas ferebatur advenisse, colloqueremur, ecce nobis ipse pro foribus adest. Nos vero nullum apparatum receptui eius congruum habentes, perturbari vehementer coepimus atque anxiari. Mensa tamen apposita ad prandium, blande nos consolatus, assedit. Erat l’intercessione del defunto Goar rifornisce la cantina dell’abbazia di Prüm, così che il suo successore, l’abate Assuero, nonostante la grama vendemmia consentita da una cattiva stagione, non si trovi mai in difficoltà con gli ospiti del cenobio8; Agilo di Rebais converte l’acqua in vino per onorare un gruppo di Irlandesi giunti al monastero9; né sono da meno Agerico, quando si tratta di accogliere re Childeberto II con il suo seguito10, e Soro, che dopo aver mondato perfettanobis tantillus vini, quod vix a tribus ad unam refectionem parcissime communicari posset; sed neque inveniendi plus in tota vicinia nostra spes habebatur. Quid plura? de benedictione patris confidentes, illud tantillum obtulimus. Ipse ego propinavit, et triginta ferme hominibus, nimium stupens, largissime abundare vidi» (Vita Ysarni [BHL 4477], in Acta Sanctorum [= ASS], Septembris, VI, ParisiisRomae 1867, p. 744AB). Un episodio simile anche in ALCUINO DI YORK, Vita Willibrordi [BHL 89358936], ed. W. Levison, MGH, SRM, VII, Hannoverae-Lipsiae 1919, pp. 130 r. 19, 131 r. 5. 8 «Assueri, qui primus coenobio Prumiae praefuit, tempore accidit, ut assolet, ex terrae sterilitatis minorem in Gallicis regionibus vini copiam provenisse. Iamque novae vindemiae tempora propinquabant, et clericis, in cella viri Dei degentibus, una solummodo vini cupa supererat. Ea cum coepisset expendi et quotidie cum iisdem clericis, tum hospitibus, quorum ibi frequentia non minima semper existit, ex ea pocula praeberentur, spatio novem sive octo dierum transacto, cum vix media eius parte vel tertia vinum contineri putaretur, repente in ea ad summum usque repertum est excrevisse, ut subiaciens quoque pavimentum vino excrescente fuerit madefactum, et merito, quoniam vir beatus [sc. Goar] hospitalitatem proprie et sincere, quoad vixit, exercuit actum est; ne vel ipsis servientibus, vel hospitibus qui supervenirent, unde vinum ministraretur deesset» (WANDELBERTO DI PRÜM, Miracula sancti Goaris [BHL 3567], ASS, Iulii, II, Parisiis-Romae 1867, p. 339BC; ma, meglio, Vita et Miracula sancti Goaris, ed. H.E. Stiene, Frankfurt am M.-Bern 1981 [Lateinische Sprache und Literatur des Mittelalters, 11], che non ho potuto vedere). Citato in DION, Histoire, p. 189. 9 «Quadam die cum [plebs ex Hybernia] advenissent, beatus Agilus officiosissime eos suscipiens prandia iubet parari. Cumque pater monasterii respondisset, adfore satis omnia praeter vini copiam, unde non amplius quam tres modii in ministerium sacrificii servabantur et illud in magno vase, imperat abbas fratribus ac plebi propinari. Ministris vero respondentibus vix unius calicis haustum unicuique in tanta multitudine porrigi posse, ait: ‘In Dei nomine offerte totum fratribus, quin et hospitibus, donec deficiat: potens est Dominus augere illud sua sancta et admirabili potentia, qui in nuptiis, quando defecit, aquam convertit in vina’. Sicque factum est ut, aperto vase, usque adeo sint vina secuta, ut fratres sobrie et populus ubertim satiatus sit; et illud vas divina virtute operante, usque ad summum vino ita sit repletum, ut desuper emanaret» (Vita Agili abbatis [BHL 148], ASS, Augusti, VI, Parisiis-Romae 1868, p. 586DE). 10 «Childebertus rex cum placitum et conventum multorum Virduni habere debuisset, et sanctum virum dilectionis ac venerationis amplexibus honoraret, eum obsoniis necessariis non patiens gravari, removit servitii necessitatem et placitum transtulit ad Metensem civitatem. Cumque consequenti tempore per urbem fecisset transitum, et a sancto pontifice benigna esset susceptus dulcedine, humanitas quoque hospitalis ei exhiberetur cum omni cura et sollicitudine, in ipso fervore regiae servitutis accedens ad eum oeconomus rerum suarum universalis: ‘Etsi alia’, inquit, ‘domine, providendo abundamus, vinum ut maiestati regiae decet exhibere non possumus, quia praeter vas medium, 345 mente dalla lebbra un altro monarca merovingio, Gontrano, trascinatosi fino a lui in cerca di guarigione, ricava da tre soli chicchi d’uva la bevanda necessaria ad allestirgli un banchetto regale11. Eloquente, infine, sull’obbligo che incombeva agli ecclesiastici e alla nobiltà laica di congiungere il vino all’ospitalità, anche l’evento straordinario che, nel X quod tonna vulgariter dicitur, nihil habemus’. Tunc vir Dei, in re corporea angustiatus, sed corde in Domino dilatatus: ‘Noli’, inquit, ‘desperatione languescere, sed affer mihi de eodem liquore; potens est Deus tristitiam parcitatis nostrae in gaudium abundantiae commutare’. Dixit, et allato sibi vino, paulum sorbuit, et ad caelum oculos sublevans: ‘Domine’, inquit, ‘oro ut fiat istius vini amplificatio’. Cumque eius praecepto illud refudisset in vase supradicto, coepit copiose vinum ministrari, coepit copiose vinum affluere, et quanto amplius vacuabatur ad libitum bibentium efferendo, tanto magis augebatur Creatoris iussu et virtute redundando. Poterat namque istud Omnipotens, et qui de aqua vinum fecerat in Cana Galileae, poterat et vinum de vino facere sincera servi petentis et indubia fide. Quid plura? Biberunt ut Galli, nec erat mensura in erogando. Multis diebus vas illud vinarium conati sunt vacuare, et quodammodo vina infundere videbantur dum effusioni instarent. Crescebat modica benedictio multis vorantibus et, Deo imperante, modum naturae superabat. Ad ultimum finito servitio, nec imminuto vino, rex miraculo stupefactus, episcopo humiliatus, Deum in ipso veneratus, regiam ostendit largitatem, et qui vinum virtutis biberat, vineas et possessiones ex amore et devotione episcopi ecclesiae suae obtulit, quas et usque hodie privilegio et auctoritate stabili deinceps possedi» (Vita Agerici [BHL 143], in Catalogus codicum hagiograficorum latinorum antiquiorum saeculo XVI , qui asservantur in Bibliotheca Nationali Parisiensi [= CCHL Paris], III, Paris 1892, pp. 88-89). Il medesimo prodigio anche nella Vita BHL 144 (CCHL Paris, I, p. 481) e in Gesta episcoporum Virdunensium, ed. G. Waitz, MGH, SS, p. 41, dove è contenuto un elenco minuzioso dei beni donati da Childeberto alla Chiesa di Verdun in seguito al miracolo. I Gesta sono ricordati in DION, Histoire, p. 189. 346 11 Una volta sanato Gontrano, il santo «vocato ad se suarum rerum oeconomo, iubet citius regium praeparari convivium. Tempus erat, quo praecoque uvae vesci solent. Denegati minister meri quicquam reperiri posse, sed neque in vineis circumquaque quicquam uvarum, unde id liquoris quiddam exprimeretur, inveniri valere. Tum ille, ut totus semper affluebat in Domino, supplices oculos coelorum aspectui dirigens ‘Eia’ inquit ‘eia, nunquid manus Domini invalida est? Vade ocyus, et in illa quam nosti, parva vite tria, quae repereris de palmite pendere, turgentia grana protinus defer’. Obsequitur minister magistri edictis et excusso pede defert quae fuerat iussus, traditque patri tria illa gemmea grana. At sanctus tota Spiritum sanctum mente concipiens ‘Eia, eia’ inquit ‘num manus Domini invalida est? Vade igitur oeconome et penu omne scopa terens diligenter emunda ac tres illas apothecas, quas rustici tonnas vocant, diligentissime compone’. Fecit ut fuerat iussus, conciteque ad patrem regressus, indicat cuncta studiose perfecta. ‘Accipe’ inquit sanctus ‘haec tria, quae clementia Domini contulit in vite grana, et ea in quas praeparasti apothecas exprime elicita. Aderit enim, credo, ille qui in Cana Galileae aquam fundere limpidissimam iussit in vina’. Statimque ut iussus sancti minister obtemperans peregit quae praeceperat, exuberans unda subito replevit cellaria […] tun diligenter convivio edito, aliquamdiu inibi rex commoratus (…) orat suppliciter sanctum, quo, si fieri posset servorum Dei inibi contrueretur enodochium» (Vita Sori [BHL 7824], ASS, Februarii, I, Parisiis-Romae 18633, p. 202BC). Altri casi nei quali il santo, sprovvisto di vino riesce miracolosamente a far fronte ai doveri dell’accoglienza, in ALCUINO DI YORK, Vita Vedastis [BHL 8506-8508], ed. B. secolo, si vorrebbe all’origine della donazione di un’isoletta della costa bretone ai monaci di S. Salvatore di Redon. Il conte di Reims Giuele Berengario, mentre ha riunito la corte con i grandi della regione, viene colto alla sprovvista dall’arrivo di alcuni messi del conte dell’Angiò. Vedendosi esposto al rischio di non poter offrire loro che birra o idromele, si getta in preghiera ed ecco un villano annunciare al signore – con un’immagine quasi evocativa di alcune marine della pittura surrealista – che una botte di enormi dimensioni, piena di vino puro si era arenata sull’isola in questione12. Ma i miracoli che la virtù del santo opera sul vino non si arrestano a queste uniche occasioni, né aiutano soltanto a comprendere le concezioni che regolavano le pratiche ospitali nel medioevo. Analoghi prodigiosi incrementi della sua quantità ne attestano un uso, non più riservato ai ceti eminenti, in ricorrenze festive, in concomitanza con speciali eventi dei quali gioisce l’intera comunità o semplicemente in relazione alla pratica caritativa. La Vita di Radegonda presenta la santa che lo distribuisce personalmente ai poveri ogni domenica13, mentre, sia per il traKrusch, MGH, SRM, III, Hannoverae 1896, p. 420 rr. 5-28; Vita Lupi [BHL 5082-5083] ed. B. Krusch, MGH, SRM, IV, Hannoverae-Lipsiae 1902, pp. 180 r. 25, 181 r. 10. 12 «Ad utilitatem tam presentium quam posterorum, litteris mandare placuit, ut memoriter possit teneri, qualiter Juhel Berenger, consul, nutu Dei a quo cuncta bona procedunt correptus, pro salute anime suae suorumque filiorum necnon ut sibi cuncta prospere succederent, tradidit Sancto Salvatori suisque monachis in perpetuum insulam quandam parvam in Britanniam, quae nuncupatur Enesmur, liberam et sine alicuius viventis calumnia, nichil sibi nec alicui mortalium reservans, sicuti ipse eam libere possidebat. Quadam vice, dum ex more supradictus comes cum obtimatibus tocius Britanniae in plebe que vocatur Lanmurmeler curiam suam teneret, et de communi utilitate sui regni cum ipsis tractaret, legati comitis Andegavorum, viri illustrissimi a suo comite publica legacione transmissi, plurima donaria secum deferentes, ad eum venerunt. In quorum adventu nobilissimus comes plurimum gavisus, accuratissime illos recepit, et ad hospicium duci precepit. Tristabatur tamen admodum quod in adventu tantorum virorum vinum non habebat, quamquam medonem et cervisam habundantissime haberet, nec in tota terra reperiri poterat. Quid faceret, quo se verteret, nesciebat. Tandem in se reversus, ad salubre refugium confugit, nomen Salvatoris toto corde invocans, ut sui misereretur oravit, et de suo illius locum honorare spopondit. Cumque haec sepe et sepius reperet, et nomen Salvatoris acclamaret, divina Providencia nuntiacum (sic) est sibi a quodam rustico, in portu illius supradicte insule quoddam vas mire magnitudinis, vini meri plenum, esse inventum, quod vulgo tonna noncupatur. Quod comes audiens, admodum gaudens, simulque Dei clemenciam tacite considerans, equos sibi preparari iussit» (A. DE COURSON, Cartulaire de l’abbaye de Redon en Bretagne, Paris 1863, n° 305 p. 257). Citato in DION, Histoire, pp. 189-190. 13 ILDEBERTO DI LAVARDIN, Vita Radegundis [BHL 7051], ASS, Augusti, III, Parisiis-Romae 1867, p. 89C. In questo caso non si parla tuttavia di un incremento miracoloso del vino, mentre non si esaurisce il vino contenuto nella «tonnella octo modiorum» che la santa dispensa per un anno intero alle 347 sporto delle reliquie di Giuliano a Tours14, sia per il passaggio del corpo dei martiri Giorgio, Aurelio e Natalia a Puteaux, nel IX secolo15, sia, ancora, durante la lunga marcia taumaturgica delle spoglie di Leodegario di Autun verso il cenobio di S. consorelle «ubicumque indigere vidit»: cfr. Vita sanctae Radegundis [BHL 7049] ed. B. Krusch, MGH, SRM, II, Hannoverae 1888, p. 384 rr. 20-28, da dove sono tratte le frasi citate, e ILDEBERTO, Vita Radegundis, p. 92B. 14 «Sed nec hoc silere puto, quod in nocte illa, priusquam sanctae reliquiae ibidem collocarentur, sit gestum. Monachus ipsius loci, dum de adventu solemnitatis gauderet et singulos quosque ad cellariolum basilicae prumptissimus invitaret, hortans, ut omnes in basilicam fideliter vigilarent, extracto a vase vino, coepit eos causa devotionis cum gaudio propinare, dicens: ‘Magnum nobis patrocinium in beatum martyrem pietas divina largitur. Idcirco rogo caritatem vestram, ut unianimiter vigiletis mecum. Cras enim sanctae eius reliquiae in hoc loco sunt collocandae’. Exacta quoque cum sacris hymnis modolisque caelestibus noctem, caelebrata etiam missarum solemnia, ovans festivitate clericus, coepit eos iterum quos prius invitaverat rogare ad refectionem, dicens: ‘Gratias vobis ago, quod sic ad vigilandum immobiles perstitistis’. Sed nec martyr diu distulit bonam voluntatem virtutis suae gratia munerare. Nam ingressus prumptuarium clericus, repperit cupellam, quam pene mediam reliquerat, per superiorem aditum redundare, in tantum ut copia defluentis vini rivum per terram ad ostium usque duceret. Quod ille admirans, positum deorsum vas, saepius extulit plenum; sed et de ipso, cum satis abundeque fuisset expensum, nihil prorsus defuit, sed usque in crastinum, mirantibus cunctis, semper stetit plenum. Erat autem Kal. mensis quinti. O admirabilis virtus martyris! Cum produxit de vase sine flore vindemiam, cum sit solitum, ut collecta vina condantur in vascula, protulit doleum musta, in quo non uva, sed virtus sola defluxit. Turgescit vasculum a liquore, fructus non inlatus est, sed creatus. Agit hoc ille Dominus ad glorificandum martyrem, qui inplens uterum Virginis sine semine, et permanere praestit matrem in castitate. Sed tamen hic novo Maius exuberat fructu, cum sine codicibus Falerna porregit ad bibendum. In aliis vineis vix adhuc erumpunt gemmae, in hoc vero vase vinum defluit a virtute. Aequatur Maius Octobri, cum nova porregit pocula; plus habet quam ille, cum in prumtu non ostenditur vinea et in domo gignuntur Falerna. Rudius etenim venit sine torculare vindemia, quae non in palmitibus, sed in occultis mysteriis est reperta. Acervus acenorum non premitur ab arbore, et vini defluunt undae. Hauriuntur Falerna, cum in torculari non cernuntur inpraessa; vitis, ecce, non aspicitur, et pocula large complentur. Sed quid inquam? Non enim deest fidelibus virtus illa caelestis. Nam qui quondam nuptiis de aquis praestetit vina, nunc suis eadem large porregit sine ullius elimenti natura; et geminis piscibus quinque milia hominum satiavit, nunc bonae voluntati multiplicata restituit. In ipsius enim ortus tempore angelica vox testata est, dicens: ‘Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis’» (GREGORIO DI TOURS, Libri octo miraculorum, ed. B. Krusch, MGH, SRM, I/2, Hannoverae 1885, II, p. 129). 15 348 AIMOINO DI S. GERMAIN, Historia translationis Georgii, Aureliae et Nataliae [BHL 3409], ASS, Iulii, VI, Parisiis-Romae 1868, p. 465BC: «Cum ergo fuissent horum delatores sanctorum monachi, qui ea nocte una cum suis fere triginta ab eodem hospitio sunt excepti, illis necessaria non surdus auditor apostolicus, hilari animo distribuens praerogavit. Sed ut tantae tamque copiosae caritatis superabundans opus remuneratur: ipsius vinarii vascula sic sunt mane reperta acsi nihil ex inde sero potatum fuisset. Universis namque, omnique suae domus familiae ac advenientibus, causa sanctorum martyrum, ita ubertim propinatum fuerat, quatinus omnes pro sobrietatis competentia ad plenum vino satiati Massenzio, nel Poitou16, esso viene erogato a coloro che erano convenuti ad attendere i sacri resti o che ne avevano effettuato e accompagnato il trasferimento. Estremamente significativo, infine, per la facile immediatezza della sua spiegazione, l’episodio della Vita di Frodoberto, dove lo zelo e la larghezza, con cui il santo abate dispensava il vino del monastero ai bisognosi, provoca un allagamento vinicolo della cantina poiché – come annota l’agiografo – «quanto hauriebat propensius caritas, tanto benigna Creatoris largitas hausta profusius reformabat»17. Altri testi indicano invece come il vino fosse talvolta portato in offerta ai santuari, evidentemente per la celebrazione della messa. Ne danno un esempio la Vita di Glodesinda, dove la titolare reintegra la bevanda che una giovane conversa aveva dispensato ad alcune compagne assetate18 e i Miracula di Sacerdote di Limoges, composti da Ugo di Fleury, nei quali il dono è al centro di una vicenda laetarentur. Penum siquidem eidem subiectum erat solario, (benedictionem desuper hauriens) quo beatorum corpora martyrum illa nocte ad quiescendum fuerant admissa». 16 Passio Leodegarii [BHL 4849b] e URSINO, Passio Leodegarii [BHL 4851, 4851a, b], ed. B. Krusch, MGH, SRM, V, Hannoverae-Lipsiae 1910, rispettivamente pp. 321 r. 10 (saltato perché = 351 rr. 817), 351 rr. 8-17: «Sed et hoc non est silendum miraculum, quia vir Dei Ansoaldus pontifex, audiens sanctum adpropinquasse iam corpus, velocem ministrum quae ex Interamnis villam suam daret habundantiam vini unde pauperes et vulgus reliquum, qui commitabantur sancto corpore, habere potuissent ad refocilandum se refectionem. Sed cum hoc fuisset actum, non multum post spatium nuntiatum est, quod omnia vasa, qui intra apotica, unde ipsum vinum exierat, poene vacua remanserant, tam plena esse videbantur, ut etiam superfluentia vina in pavimento deciderent, ipsa tamen vascula plena remansissent». 17 «Cumque illic saepe caritatis officio, [Frodobertus] ad sumendum poculum plurimos convocaret, die quadam apothecariam solito cellam ingressus, pavimenti faciem vini exuberantia reperit superfusam, veritusque ne forte vasculi incontinentia liquoris dispendium provenisset, fratrem qui secum forte venerat os superioris meatus inspicere praecepit: quo facto (mirum dictum quod est) vinum superne redundans aspicitur. Satisque aperte constitit, quod quanto hauriebat propensius caritas, tanto benigna Creatoris largitas hausta profusius reformabat. Eius nimirum hoc factum creditur pietate, qui cum nos misericordes esse iubeat et dare indigentibus, ut nobis quoque plurima dentur; in qua tamen mensura tribuimus, in eadem nobis remetiendum nihilominus repromittit. Est enim manus divina non larga solum, verum etiam dives et proflua» [Vita Frodoberti [BHL 3178], ASS, Ianuarii, I, ParisiisRomae 18633, p. 74 nella quale Pier Damiani narra che l’abate cluniacense «Iovini montis praerupta conscendens, obvios habuit pauperes, prae difficilis viae lassitudine potum aestuanti desiderio flagitantes. Pius itaque pater sui negligens, aliis in necessitate compatiens, iussit ut quidquid vini propriis haberetur in vasculis absque ulla reservationis industria, vel potius diffidentia, praeberetur egenis. Paullo post necessitate naturae cogente, discumbunt omnes ut capiant cibum. Et ecce utres, qui studio fuerant piae compassionis exhausti, vino reperiuntur, Deo scilicet debitum persolvente, repleti». 18 Historia translationis Glodesindae, ASS, Iulii, VI, Parisiis-Romae 1868, p. 223AB. 349 a forti tinte. Lungo la strada che conduceva a un monastero intitolato al santo vescovo, una coppia di coniugi di umile condizione viene derubata con la forza da un prepotente, uomo di un miles non meglio precisato, del fiasco di vino che recava; ma quando lo sciagurato si accinge a gustare il frutto dell’impresa, i suoi complici, dopo aver dovuto ricorrere a un colpo di lancia per aprire il pessulum che sigillava la sommità del contenitore, non riescono egualmente a versare il liquido mentre egli, colto da possessione demoniaca si infligge mordendosi tali ferite da spirare poco dopo19. Non è certo il solo caso in cui il santo si fa tutore di vino e vigne contro furti o usurpazioni. Nei Miracula di Romarico, Amato e Adelfo, redatti nel X secolo, Pantone, mandato con un gruppo di armati dal nobilissimo Walo a requisire la vendemmia di una vigna disputata, attribuita infine alle monache di Remiremont, affrontato da una suora che, tenendo in mano un calzare di Romarico, gli offre in segno di sfida le chiavi della cantina, perisce immediatamente mandando, preda del demonio, «teterrime voces», né sono risparmiati i buoi destinati a portare l’illecito carico, che salgono sul tetto della costruzione mandando orribili muggiti, e lo stesso Walo che morirà in un breve arco di tempo20. Così pure, 19 «Calviniacus est vicus in confino Petragoricorum et Caturcensium. Huius vici incolae ad beati Sacerdotis monasterium venire consueverant. Quadam igitur die quidam illorum ex more veniebant; pauper vero quidam cum sua coniuge ceram et vinum de penuria sua coemerat, et sequebantur praecedentes. Sed dum, ut diximus, tardiori calle iter caperent et soli incederent fit eis obviam unus ex parasitis cuiusdam militis, flasconemque vini, quem ferebant, violenter extorsit. At illi iter propositum expeditius peragentes ad supradictum veniunt monasterium. Tunc expansis manibus in terram se proiicientes de illata sibi iniuria a Deo et ab eius famulo, sancto videlicet Sacerdote, expetunt ultionem. Ille interim qui flasconem rapuerat ex eo sibi potum porrigi postulabat. Hi autem qui adstabant vinum ex supra memorato vasculo fundere cupiebant; sed nec pessulum quidem, quo desuper muniebatur, eximere praevalebant. Demum lancea pessulum effringentes, vini liquorem ex eo elicere non potuerunt. Et dum haec fierent, auctor flagitii, divinitus percussus, a daemone corripitur, atque in seipsum debacchando sceleris ultor efficitur. Manus enim proprias et brachias furibundis depascebat dentibus, et omnes quos poterat saevis dilaniabat morsibus. Qui tandem apprehensus atque duris funibus adstrictus vitam exhalavit protinus. Illo igitur terribiliter mortuo, qui adfuerunt, flasconem cum vino ad beatissimi Sacerdotis monasterium detulerunt et ad memoriam tanti miraculi in eadem ecclesia suspenderunt» (UGO DI FLEURY, Vita, translatio, miracula Sacerdotis [BHL 74567459], ASS, Maii, II, Parisiis-Romae 18663, pp. 19F-20A). 20 350 «Qua necessitate compulsae tam abbatissa quam omnis congregatio concilio inito, contra morem loci elegerunt ex sanctimonialibus timentibus Deum et miserunt illas ad principem Richardum supplicantes ut res ablatas restitui iuberet. Venientes igitur ad supradictum principem, continuo largiente superna clementia, res iam dictas restitui praecepit. Quo responso accepto, famulae Dei introgressae vineam vindemiare iusserunt et in cellario iuxta ecclesiam collocaverunt. Quo audito perfi- una tradizione tardiva narra che la piccola vigna miracolosa, piantata dagli eremiti ungheresi Zoerardo e Benedetto, oltre a produrre tutto l’anno un vino che guariva le febbri, recava anche la pestilenza a chi osasse rubarne dei grappoli21, e Antonio Ivan Pini nel suo recente Miracoli del vino e santi bevitori nell’Italia d’età comunale, uno dei rarissimi contributi sul vino che presti attenzione alle fonti agiografiche, ha ricordato la miracolosa paralisi che nei Miracula di Rofillo di Forlimpopoli, composti agli inizî dell’XI secolo, blocca gli uomini del ricco signore ultramontano diretto in Oriente, mandati a impadronirsi, nella chiesa dedicata al santo, del vino che doveva servire al sacrificio eucaristico, dopo aver deciso che nel luogo lo si vendeva a un prezzo troppo alto22. dus Walo indignatione commotus misit unum de militibus suis, nomine Panthonem, qui sibi vinum accersiret. Qui veniens cum comminatione illud recipere gestiens, una ex famulabus Dei calceamentum beati Romarici manu tenens simul cum clavi et fiducialiter contra illum erigens dixit: ‘Accipe clavem hanc, quam requiris, ad cumulum damnationis tuae. Qui retro rediens cecidit ac voces teterrimas emittens, a diabolo graviter vexatus expiravit. Boves vero, qui ad vinum vehendum venerant, tecta conscendentes dirae vocis mugitum dabant. Videntes hoc famulae Dei omnisque plebs fidelium, qui ad spectaculum convenerant, gratulantes et laudantes Dominum, remearunt ad propria. Walo autem supradictus ante anni circulum miserabiliter vitam finivit» (Translationes et miracula sanctorum Romarici, Amati et Adelphi [BHL 75], ASS, Septembris, III, Parisiis-Romae 1868, p. 837B-D). 21 Cfr. ASS, Iulii, IV, Parisiis-Romae 1868, p. 335CD, che riporta la tradizione riferita da Marcin Baronjusz (Martinus Baronius) nel Seicento. Sull’agiografo polacco: K. KANTAK - S. KOMORNICKI, Baronjusz, in Polski Słownik Biograficzny, I, Kraków 1934, p. 307. 22 A.I. PINI, Miracoli del vino e santi bevitori nell’Italia d’età comunale, in La vite e il vino, Storia e diritto (secoli XI-XIX), a c. di M. Da Passano, A. Mattone, F. Mele, P.F. Simbula, Introduzione di M. Montanari, I, Roma 2000 (Collana del Dipartimento di Storia dell’Università degli Studi di Sassari, 3), pp. 370-371. Così il testo, che si legge in Sancti Rophilli episcopi Foropopiliensis Miracula post mortem [BHL 7284], «Analecta Bollandiana», 1 (1882), pp. 113-114: «Tunc temporis adveniens quidam dives vir occidentalis, ex ultramontanis partibus versus orientem profisciens, prope beati iam dicti viri ecclesiam in quadam domuncula sibi hospitium praeparavit. Tunc circumquaque aliquos de suis mittens, quo sibi vinum quod nimis illo in loco carum fuerat, adquirere studuissent. Cumque illi ab incolis loci illius fuisset nuntiatum quod in sancti Rophilli ecclesia iuxta altare in quodam vase quod veies nuncupatur, vini quid parum occultaretur, praecepit servis suis ut etiam sibi vinum ab ecclesia reportarent. Obsequentes igitur duo ex ipsis, ecclesiam cum austeritate ingressi, vinum furibundi a vase haurire nitebantur. Pauperculus vero presbyter tantum lacrimans, quo sibi vinum non raperent, precabatur; sed Deus omnipotens illorum procacitatem istiusque pauperiem contemplatus, servi sui sacerdotis misertus est, ita ut beati Rophilli merita fidelibus patescerent, ecclesiaque eius ampliori veneraretur honore. Servi igitur illi utrique tamquam divino iaculo perculsi, subito obmutuerunt, nec se loco movere, nec vinum haurire, nec sibi mutuo loqui potuere; sed velut lapides vix oculis palpitantes mirabiliter obriguerunt. Videntes autem conservi eos tantam moram fecisse, aliquibus casibus perculsos aestimantes, concite ad ecclesiam pervenerunt. Conspicientes vero intus, eos taliter obriguis- 351 Non vi è dubbio che alla base di queste punizioni non sia tanto il valore del vino quanto evidentemente l’oltraggio, talora sacrilego, portato al santo; ma ciò non toglie che in tutta la campionatura fin qua esaminata la bevanda figuri sempre bene prezioso e appetito; tale del resto continuerà a essere anche dopo il XII secolo, quando la diffusione e gli spazi guadagnati dalla viticoltura, rendendo il vino accessibile a fasce sociali che prima non potevano se non eccezionalmente o quanto meno raramente fruirne, creerà, con nuove consolidate abitudini alimentari, nuovi bisogni ai quali diventava difficile o addirittura impensabile rinunciare. Anche questa mutata situazione riverbera frequentemente nell’agiografia esprimendosi in diverse contestualizzazioni, alcune delle quali, per altro, nettamente anteriori al crinale indicato. Una chiara attestazione si riscontra già nella Vita di Crotilde, redatta verso la fine del IX secolo. Là, gli operai, che stavano costruendo, per conto della santa regina, un nuovo monastero nella località di Les Andelys, incuranti che la regione non fosse vinicola, «vinum exigebant» a conforto della loro fatica e, nel giorno del miracolo, provati dalla calura estiva, «vociferant» e «vinum expostulant», finché Crotilde non placherà il malcontento grazie a una fonte scaturita presso il cenobio, la cui acqua versata nelle tazze si trasformerà in un vino del quale le maestranze mai avevano conosciuto il migliore23. Ancora nei Miracula di Rofillo, il santo preserva dalle conseguenze di una caduta la piccola botte di vino diretta agli uomini che lavoravano a riparare il tetse mirabantur. At illi tantummodo oculis non vocibus annuebant; et quia se movere non poterant, eorum immobilitas ostendebat. Quam rem eorum dominus audiens, ad ecclesiam venit, eique de suis bonis sancto Rophillo satisfaciens obtulit, atque ita servos suos miserante Deo sanos atque incolumes recepit». Per la datazione dei Miracula: P. TOMEA, L’agiografia dell’Italia settentrionale, in Hagiographies. Histoire internationale de la littérature hagiographique latine et vernaculaire en Occident des origines à 1550, a cura di G. Philippart, III, Turnhout 2001 (Corpus Christianorum), pp. 134-135. 23 352 «Regio illa vinifera non est; operarii tamen prefati monsaterii a regina vinum exigebant. Erat enim eo tempore tanta vini sterilitas, quanta numquam audita fuerat. Qua de re dum sancta Chrothildis anxiaretur, apparuit prope monasterii edificium egrediens de terra fons mire pulchritudinis, visu delectabilis, ad potandum salubris; dictumque est beatae Chrothildi in sonnis, ut, dum ab ea quererent potum vini edificatores monasterii, mitteret illis poculum per unam famularum suarum a predicto fonte haustum. Die vero sequenti, ut est natura estivi temporis, dum sol ferveret estu maximi caloris, operarii vociferant, sanctam Chrothildim proclamant, vinum expostulant. Sancta Dei famula celeriter mittit eis poculum, quod ei fuerat a Deo inperatum. Mox illi ut sumpserunt, aqua conversa est in vinum, et dixerunt se nunquam tam obtimum bibisse vinum. Quo sumto, sanctam Dei famulam adeunt, cervices solo tenus flectunt, grates gratulando referunt, se numquam tam bonum sumpsisse poculum dicunt» (Vita Chrothildis [BHL 1785], ed. B. Krusch, MGH, SRM, II, pp. 346 r. 35, 347 r. 7). to della chiesa a lui intitolata24. In epoca successiva, Omobono di Cremona, unico canonizzato di quel gruppo di santi laici dell’Italia comunale che André Vauchez ha felicemente definito “della carità e del lavoro”25, avendo ceduto a dei bisognosi incontrati sul cammino il vino che portava ai suoi laboratores, riempiti con dell’acqua i recipienti svuotati e segnatili con la croce li troverà con sua grande sorpresa colmi di «amabile et pretiosum vinum» al momento della loro apertura26. Un incrocio tra gli ultimi due miracoli, entrambi segnalati dal Pini nello studio appena menzionato, si trova infine nella Vita del vescovo di Nusco, Amato, dove il santo, con il segno salvifico, converte dell’acqua in vino per dissetare gli operai che stavano erigendo la chiesa di S. Maria Nova27. 24 «Aliud quoque miraculum consecutum est quod opere pretium credimus referendum. Cumque abbas qui illic primus omnium ordinatus fuerat, nomine Leo, pro restauratione ecclesiae circa frequens ministerium anhelaret, veterrimas trabes quae ab exordio eiusdem primitivae ecclesiae ibidem positae fuerant, quo novas imponeret, coepit excludere. Inter huiuscemodi operis exercitia, quoddam vas vinarium, quod propter laborantium bibitionem ad summum ecclesiae cacumen fuerat deportatum, ab ipso tecti fastigio accedente casu dilapsum est. Sicque factum est ut nec ipsum vas in pavimento fractum, nec vini damnum aliquod quo plenum fuerat, fecisse videretur» (Sancti Rophilli... Miracula, p. 115). Cfr. PINI, Miracoli del vino, pp. 371-372. 25 Cfr. A. VAUCHEZ, La santità nel medioevo, Bologna 1989, pp. 159-160. 26 In attesa della promessa edizione delle Vite del santo cremonese che sta approntando André Vauchez, utilizzo quella fornita anche per la Vita BHL 3971, nella quale è narrato l’episodio, da D. PIAZZI, Omobono di Cremona. Biografie dal XIII al XVI secolo. Edizione, traduzione e commento, Cremona 1991, p. 64: «Nam cum ipse exilem vineam purgari fecisset, quam solam pro victo suo et multorum pauperum tenuerat, ceteris aliis praediis venditis et distributis in pauperes, ferretque vasa vino plena colonis, hunc pauperes quidam suppliciter rogarent, ut ex eis vasis potum acciperent. Quod cum eis ita dedisset, ut fere omne vinum exaustum foret, nec auderet domum reverti implere vasa ob uxoris iurgia, aqua implevit signavitque et concludens laboratoribus tulit, quos sitibundos invenit. Illi ergo cum gustassent, senserunt amabile et pretiosum vinum, nec simile nostrati vino quod patria germinat et quaerebant unde hoc habuisset, cui numquam simile in bonitate fuisset. Quod audiens vir Dei, putans derisum fore, cum et ipse gustasset, illud opus Dei conoscens, grandes ei gratias retulit. Quidam vero qui aquam in vase mittentem illum viderant, hoc scientes narraverunt grande miraculum». 27 «Dumque ecclesiam, quae sancta Maria Nova dicitur, faceret fabricari et propter vini inopiam aqua offerariis apponeretur in prandio sicut in Iesu Christi signorum patratum est initio, aqua in vinum signo mirabili conversa est. Qua in re artifices permaxima admiratione perculsi, seque mutuo inspectantes, qui aquam sciebant fuisse appositam, in Dei laudibus non tacebant. O res inaestimabilis! O signum praedicabile, et cunctis gentibus declarandum! Aqua in vini naturam et saporem conversa est. A Domino factum est istud, et est mirabile in oculis nostris. Aqua data est et vinum haustum est. Aqua scyphis infusa est et diversam invenimus liquoris substantiam» (Vita altera Amati [BHL 359], ASS, Augusti, VI, Parisiis-Romae 1868, p. 846F). 353 È chiaro che nell’autentico laboratorio di topoi costituito dal genere agiografico anche i prodigi relativi al vino conoscono non di rado la reiterazione di strutture tematiche e narratologiche; ma se l’incidenza di tale fattore non dovrà essere dimenticata nel valutare la storicità del singolo episodio o in altre prospettive di ricerca, essa non viene a pregiudicare o a scalfire il rilevamento di quelli che abbiamo designato come dati innocenti. Al contrario può essere particolarmente significativo in proposito cogliere il cambiamento degli elementi accessori di un medesimo miracolo nel suo trapasso da un ambito cronologicosociale a un altro. Così, per quanto riguarda il fatto della botte dimenticata aperta, ma il cui contenuto non fuoriesce o viene reintrodotto grazie a un intervento taumaturgico, è interessante constatare che mentre nella Vita di Adelfo di Metz, scritta alla fine del XII secolo28, il responsabile della svista è un monaco chiamato improvvisamente ad altre incombenze, nella Vita Rigaldina di Antonio da Padova e nel racconto di Tomaso di Cantimpré su Giovanni da Vicenza, che rimontano pressapoco alla fine e alla metà del XIII, la protagonista è una donna che, nel primo caso29, volle ospitare presso di sé il santo che stava attraversando 28 «Quadam die, cum cellerarius ad vinum fratribus exhibendum promptuarium fuisset ingressus, detracta de dolio brocca sive ducillo, missoque desubtus ad implendum vase, vocatus est ad aliud quoddam opus exercendum, de quo se cito sperabat reversurum; cumque vasculum impletum esset, nullo nisi Deo agente, stetit vinum, quasi clausum, duarum horarum spatio, donec cellerarius, reminiscens quomodo dimiserit, ingressus est et reperit ad integrum per omnia salvum, quod timebat perditum vinum» (Vita Adelphi Mettensis [BHL 76], ASS, Augusti, VI, p. 510DE). 29 354 «Cum vero postea a custodiatu Lemovicensi exoneratus, de Lemovico versus Italiam tendens cum socio, per provinciam Proventiae transiret, in quodam loco parvo quaedam mulier, eis fame afflictis compatiens ipsos Dei amore in suum hospitium introduxit. Illa ergo mulier, quasi altera Martha solicita, panem et vinum mensae apposuit et a quadam vicina sua scyphum vitreum mutuavit. Sed Deus facere volens cum tentatione proventum, permisit quod mulier illa, de dolio vinum extrahens pro fratribus, incaute dolii clepsydram dereliquit apertam et vinum per pavimentum totum fuit effusum. Socius etiam beati Antonii, inepte scyphum accipiens eum ad mensam sic collisit quod pes ad unam partem et cuppa integra ad aliam partem remansit. Circa finem ergo prandii, cum mulier vinum recens vellet fratribus propinare, intrans cellarium vinum invenit esse totum per pavimentum effusum. Rediit autem ad fratres flens amarissime, et pro vini perditione supra modum afflicta. Quod cum beato Antonio revelasset, sanctus multum sibi compatiens, caput suum supra mensam inter palmas reclinans, oravit Dominum cum fervore. Et dum mulier eum sic orantem respiceret (quod est dictu mirabile) dictus scyphus vitreus, qui erat ex una parte mensae, super pedem qui erat ex altera, motu proprio seu potius impulsu divino se locavit. Quod videns mulier et stupens, celeriter scyphum accepit et scyphum fortiter concutiens, reintegratum virtute orationis conspexit. Credens ergo mulier, quod virtus quae scyphum reintegraverat, poterat vinum deperditum restaurare, gradu propero ad cellarium properat et dolium, quod vix ante erat bene medium, sic plenum reperit, quod ad summitatem dolii vinum erat scaturiens et bulliens quasi la Provenza, nel secondo, fu distolta dall’operazione che stava compiendo dall’arrivo del santo nella piazza sulla quale si affacciava la casa30. Qualche informazione danno infine le nostre fonti – sebbene in maniera assai più avara e discontinua – sulle specie di vino bevuto e sulle modalità tecniche del suo consumo. In un passo della Vita metrica di Martino di Tours, Venanzio Fortunato ci dà un breve elenco dei luoghi in cui venivano prodotti i vini più nobili: la zona della Campania che andava sotto il nome di Falerna, Gaza, Creta, Samo, Cipro, Colofona e Serapte31; ma la lista sembra assai vicina alle simili enunovum. Quo visu fuit mulier supra modum gaudens et stupefacta; verum dum sanctus Antonius se sensit exauditum, statim a loco verae humilitatis Chisti discipulus, ne ab aliis honoraretur, recessit» (Legenda alia seu Liber miraculorum Antonii de Padua [BHL 595], ASS, Iunii, III, Parisiis-Romae 18673, p. 222BC). 30 «Venerabilem Reginaldum abbatem quondam Blesensem, narrantem audivi, quod dictus frater Ioannes oppidum quoddam intraverat et occurrit ei ac sequabatur infinita hominum multitudo. Quem ut transeuntem vidit mulier, quae in cellario stabat et vinum trahebat e dolio, cum clepsedra in manu oblita, in plateam cucurrit et avidis oculis sanctum virum non modico spatio properantem inspexit. Ut ergo ad se retraxit oculos invenit clepsedram in manu sua, currensque ad dolium totum vinum per cellarium effusum vidit. Consternata ergo ultra quam credi posset, quia virum suum crudelissimum exhorrebat, cucurrit post servum Dei et apprehenso pede eius cum clamore valido et lacrymis narrat eventum casus et quantum sibi ex hoc ex crudelitate viri periculum immineret. Tum frater, compatiens mulieri, benedixit illi et praecepit ut revertens in Domino secura mente confida. Mirare lector quod gestum est. Revertitur mulier ad cellarium, dolium totum repletum invenit, siccam aream cellarii, nec in sola gutta vini solo tenus humectatam. Ad evidentiam autem tanti miraculi, ipsum dolium, in fronte ecclesiae dictus abbas, a quo haec praecepi, suspensum vidit» (ASS, Iulii, I, Parisiis-Romae 18673, pp. 414F-415A). Su Tomaso e il Bonum universale de apibus, da cui è tratto l’episodio, cfr. H. PLATELLE, Le recueil de miracles de Thomas de Cantimpré et la vie religieuse dans les Pays-Bas et le Nord de la France au XIIIe siècle, in Actes du 97e Congrès national des sociétés savantes, Nantes 1972, Paris 1979, pp. 469-498; R. GODDING, Une oeuvre inédite de Thomas de Cantimpré. La ‘Vita Ioannis Cantipratensis’, «Revue d’histoire ecclésiastique», 71 (1981), pp. 241-316. Il motivo anche nel racconto della vita e dei miracoli di Colette, composto in francese dalla compagna della santa Perine de Balma, che cito dalla traduzione latina di ASS, Martii, I, Parisiis-Romae 18653, p. 614CD: «Eadem mihi narrando retulit accidisse sibi ut, in Ausonensi conventu nolulam pulsaret alicuius obsequii necessari caussa: accurrit ad sonitum, tum forte vino hauriendo intenta soror Ioanna Rabardelle, oblita vini decurrentis fluxum sistere epistomio, quod manu tenebat, in syphonem immisso. Itaque vacuum deinceps vas totum inveniens, recurrit ad matrem, ploratque ob culpam pariter et iacturam; sed ‘Revertere’, inquit moerenti mater, ‘et demo vide quomodo se habeat’. Dictu mirabile! Vas funditus vacuum, plenum vino sapidissimo reperit oboediens soror, cuius proinde virtuti miraculum Coleta, ipsa beatae matris meritis tribuebat». 31 «Emblema gemma lapis toreumata tura, Falerna / Gazaque, Creta Samus Cypros Colofona Seraptis / lucida perspicuis certantia vina lapillis, / vix discernendis crystallina pocula potis. / Inde calix niveus variat per vina colores, / hinc mentita bibunt patera fucante Falerna» (VENANZIO FORTUNATO, Vita sancti Martini [BHL 5624], ed. F. Leo, MGH, Auctorum antiquissimorum [= AA], IV, Berolini 1881, II, pp. 316-317, vv. 80-85). 355 merazioni poetiche che si rinvengono in altri autori, come Corippo, che nel carme In laudem Iustini rammenta i dolci doni di Bacco portati dalla ferace Serapte, da Gaza e da Ascalona32, o Sidonio Apollinare, che nel carme XVII33 – poi ripreso dal XII dei cosidetti Tituli Gallicani34 – cita a sua volta i vini preziosi di Gaza, di Chio, della Falerna e di Serapte, così da lasciare in dubbio se l’elencazione di Venanzio fosse rispondente a una diffusione ancora effettiva nell’epoca in cui egli scriveva o non fosse almento parzialmente nutrita da modelli retorico-letterari35. Più sicuri appaiono invece i riferimenti di Gregorio di Tours che nelle Historiae nomina, inseriti nella trama del racconto, lo Scalonum, il vino cioè di Ascalo32 «Interea laetus sacra cum coniuge princeps / coeperat Augustae felicia carpere mensae / gaudia, regales epulas et dulcia Bacchi / munera, quae Sarepta ferax, quae Gaza crearat, / Ascalon et laetis dederat quae grata colonis / Quaeve antiqua Tyros, quae fertilis Africa mittit, / quae Meroë, quae Memphis habet, quae candida Cypros: / quaeque ferunt veteres maturo robore vite / [........... ...................................................] / quaeque Methymnaeis expressit cultor ab uvis; / pocula quae vitreo flagrabant plena Falerno. / Prisca Palestini miscentur dona Lyaei, / alba colore nivis blandoque levissimo gustu. / Fusca dabant fulvo chrysattica vina metallo, / quae natura parit liquidi non indiga mellis, / et Garisaei permiscent munus Iacchi» (CORIPPO, In laudem Iustini augusti minoris libri IV, ed. I. Partsch, MGH, AA, III/2, Berolini 1879, pp. 139-140, vv. 85-102). 33 «non panes Libyca solitos flavescere Syrte / accipiet Galli rustica mensa tui. / Vina mihi non sunt Gazetica, Chia, Falerna / quaeque Sarepteno palmite missa bibas. / Pocula non hic sunt inlustria nomine pagi / quod posuit nostris ipse triumvir agris» (Carmina, XVII, vv. 13-18, in Sidoine Apollinaire, ed. A. Loyen, I, Paris 1960, pp. 125-127. Sul carme v. l’attenta e ricca analisi di I. GUALANDRI, ‘Elegi acuti’: il distico elegiaco in Sidonio Apollinare, in La poesia cristiana latina in distici elegiaci, Atti del Convegno internazionale Assisi, 20-22 marzo 1992, a cura di G. Catanzaro, F. Santucci, Assisi 1993 (Centro studi poesia latina in distici elegiaci, 3), pp. 190-216 in part. 204-206. 34 «Nec scyphus hic dabitur, rutilo cui forte metallo / crustatum stringat tortilis ansa latus; / vina mihi non sunt Gazetica, Chia, Falerna / quaeque Sarepteno palmite missa bibas; / sed quidquid tenuis non complet copia mensae, / suppleat hoc, petimus, gratia plena tibi» (Tituli Gallicani, ed. R. Peiper, MGH, AA, VI/2, Berolini 1883, XXIIII vv. 5-10, pp. 195-196). 35 Va tuttavia osservato che – come rileva già GUALANDRI, ‘Elegi acuti’, p. 206 – vi è una grande disparità tra la memoria letteraria dei vini della Palestina, che cominciano ad apparire giusto tra V e VI secolo nei componimenti ricordati, e quella del Falerno e del vino Chio, che, singolarmente (con una pronunciata maggior frequenza del primo) o in coppia, ritroviamo in Catullo, Virgilio, Properzio, Orazio, Marziale, Giovenale, Prudenzio, Macrobio e altri; una tavola delle citazioni relative al Falerno, in A. TCHERNIA, Le vin de l’Italie romaine. Essai d’histoire économique d’après les amphores, Rome 1986 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 261), pp. 330-333, fondamentale per la storia e il posto di entrambi i vini nella società e nell’economia del mondo romano: in part. pp. 100104 per il vino di Chio, indice s.v. per il Falerno. 36 356 GREGORIO DI TOURS, Historiarum libri X, ed. B. Krusch, MGH, SRM, I/1-13, Hannoverae 19371951, I, 19, p. 121, dove trattando della felicità naturale in cui è posta Digione scrive: «Habet enim in na36, e, definiti come particolarmente forti, il Laticinum, proveniente da Laodicea (l’odierna Latakia), e il Gazitinum o Gazetum, originario di Gaza, in Palestina37. Tali accenni, che confermano l’intensità delle comunicazioni e degli scambi commerciali tra l’Occidente e l’area siro-palestinese – vivi fino agli inizi del VII circuitu praetiosus fontes; a parte autem occidentes montes sunt uberrimi viniisque repleti, qui tam nobile incolis falernum porregunt, ut respuant Scalonum». Una nuova traduzione italiana dell’opera è stata recentemente proposta accanto al testo latino da M. OLDONI, Gregorio di Tours, Storia dei Franchi. I dieci libri delle storie, I-II, Napoli 2001 (Nuovo medioevo, 55). Sullo Scalonum: P. SCHEFFER-BOICHORST, Zur Geschichte der Syrer im Abendlande, «Mitteilungen des Institus für Österreichische Geschichtsforschung», 6 (1885), pp. 529, 539-540; per l’importanza di Ascalona come emporio vinicolo: B. JOHNSON, L. STAGER, Ashkelon: Wine Emporium of the Holy Land, in Recent Excavations in Israel, a cura di S. Gitin, Boston 1995, pp. 95-109. 37 GREGORIO, Historiarum libri, VII, 29, p. 348, dove Claudio allettato dalla promessa di Gontrano di farlo ricco se avesse ucciso Eberulfo, che si era rifugiato nella basilica di S. Martino a Tours, fintosi suo amico gli dice che avrebbe gradito assaggiare i vini che egli aveva a casa: «His ita loquentibus, ait Claudius Eberulfo: ‘Delectat animo ad metatum tuum haurire potum, si vina odoramentis essent inmixta aut certe potentioris vini libationem strenuetas tua requireret’. Haec eo dicente, gavisus Eberulfus, respondit habere se, dicens: ‘Et omnia quae volueris ad metatum meum repperies, tantum ut dignetur dominus meus tugurium ingredi mansionis meae’. Misitque pueros, unum post alium ad requirenda potentiora vina, Laticina videlicet adque Gazitina». Sulle fortune del vino di Gaza: PH. MAYESON, The Wine and Vineyards of Gaza in the Byzantine Period, «Bulletin of the American School of Oriental Research», 257 (1985), pp. 75-80; C.A.M. GLUCKER, The City of Gaza in the Roman and Byzantine Periods, Oxford 1987 (British Archeological Reports. Int. Ser., 325), pp. 93-94; P.-L. GATIER, Le commerce maritime de Gaza au VIe s., in Navires et commerces de la Méditerranée antique. Hommage à J. Rougé (= «Cahiers d’histoire», 33 [1988]), pp. 361-370; ARCHETTI, Tempus vindemie, p. 79; M. MC CORMICK, Origins of the European Economy. Communications and Commerce, A.D. 300-900, Cambridge 2001, p. 93, che sottolinea come la crescita delle esportazioni del vino di Gaza e delle anfore legate alla sua produzione sia stata avvantaggiata dalla progressiva importanza assunta tra VI e VII secolo dal vicinissimo porto di Ascalona. Sul gazition, il tipo di anfora vinaria fabbricata a Gaza e nei suoi dintorni (Late Roman 4): M. BONIFAY, Observations sur les amphores tardives à Marseille d’après les fouilles de la Bourse (1980-1984), «Revue archeologique de Narbonnaise», 19(1986), pp. 269-305; C. PANELLA, Merci e scambi nel Mediterraneo tardoantico, in Storia di Roma, a cura di A. Schiavone, III, 2, Torino 1993, p. 665 n. 218. Sul vino di Laodicea-Latakia, KRUSCH, Gregorii Turonensis Historiarum, p. 348 n. 2, menziona, sulla scorta di Arndt, le citazioni di Strabone GEWGRAFIKA, XVI, 2, 9: «E ta Laod…keia, ™pˆ tÍ qal£ttV k£llista ™ktismšnh kaˆ eÙl…menoj pÒlij, cèran te œcousa polÚoinon prÕj tÍ ¥llV eÙkarp…¬ to‹j m n oân ’Alexandreàsin aÛth paršcei tÕ ple‹ston toà o‡nou, tÕ Øperke…menon tÁj pÒlewj Ôroj p©n kat£mpelon œcousa mšcri scedÒn ti tîn korufîn» (The Geography of Strabo, ed. H.L. Jones, VII, London-Cambridge Mass. 19613 [The Loeb Classical Library], p. 248), che ricorda l’abbondanza della produzione vinicola del centro, che riforniva l’area di Alessandria; il PERIPLOUS THS ERUQRAS QALASSHS, 6, 30-35: «‘Omo…wj d kaˆ pelÚkia procwre‹ kaˆ skšparna kaˆ m£cairai kaˆ pot»ria calk© stroggÚla meg£la kaˆ dhn£rion Ñl…gon prÕj toÙj ™pidhmoàntaV kaˆ o noj LadikhnÕj kaˆ ’ItalikÕj oÙ polÚj kaˆ œlaion oÙ polÚ tù d basile‹ ¢rgurèmata kaˆ crusè- 357 secolo per quel che concerne le importazioni vinicole, ma sostanzialmente mai interrotti relativamente ad altri aspetti38 –, trovano un ulteriore sviluppo, limitatamente al solo Gazetum anche nel più schiettamente agiografico Liber in gloria confessorum dello stesso Gregorio, dove al prezioso nettare – che Cassiodoro nelle Variae utilizza quale termine di paragone per nobilitare il locale Palmatianum39 mata ·opikù ruqmù kateskeuasmšna kaˆ ƒmat…wn ¢bÒllai kaˆ gaun£kai ¡plo‹, oÙ polloà d taàta» (The Periplus Maris Erythraei, ed. L. Casson, Princeton 1989, p. 52), dove si narra come sui mercati egiziani del Mar Rosso giungessero, tra le altre merci, in quantità limitata vini italiani o di Lodicea; Alessandro di Tralles, che insieme con altri vini da utilizzare nella terapia delle infiammazioni renali nomina anche quello di Laodicea: Alexander von Tralles Original-Text und Übersetzung, ed. Th. Puschmann, II, Wien 1879 [= Amsterdam 1963], XI, 2, p. 483. 38 Per gli stanziamenti, nelle diverse regioni europee, di vere e proprie colonie siriane, sempre utili i dati offerti da H. LECLERCQ, s.v., Colonies d’Orientaux en Occident, in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, III, Paris 1914, coll. 2266-2277. Quanto alla tesi del brusco troncamento del commercio mediterraneo provocato dall’espansione araba, proposta da Henri Pirenne, soprattutto in Mahomet et Charlemagne, Bruxelles 1937 (ripubblicato con una cornice di studi integrativi in H. PIRENNE, B. LYON, H. STEVER, F. GABRIELI, A. GUILLOU, La naissance de l’Europe, Antwerpen 1987), è stata, come è noto, dimostrata infondata nelle sue linee sostanziali: un gruppo di interventi che hanno preso in esame il problema in The Pirenne Thesis: Analysis, Criticism and Revision, a cura di A.F. Havighurst, Lexington Mass. 19763 (Problem in European Civilization) e, più recentemente, nella rassegna di L. GENICOT, Mahomet et Charlemagne après 50 ans, «Revue d’histoire ecclésiastique», 82 (1987), pp. 277-285. In senso fortemente riduttivo rispetto alle opinioni del grande storico belga si muove oggi anche il poderoso lavoro di MC CORMICK, Origins, in part. pp. 343-351, 696-733, 815-834. Nel caso dell’esportazione del vino dal mondo medio-orientale all’Occidente (di cui danno ancora un’attestazione, intorno al 600 alcuni esemplari di anfore di Gaza rinvenuti presso le banchine merovinge del porto di Marsiglia: MC CORMICK, Origins, p. 37), tuttavia l’influsso dell’Islam che vietava l’assunzione di bevande fermentate segnò un colpo di forbice decisivo, anche se vi erano nella regolamentazione della norma alcune libertà interpretative e anche nel mondo musulmano non venne mai meno completamente la produzione vinicola; in proposito I. IMBERCIADORI, Vite e vigna nell’alto medio evo, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’alto medioevo, Atti della XIII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto, 22-28 aprile 1965), Spoleto 1966, in part. 328-332; J. SADAN, s.v., khamr, in Encyclopédie de l’Islam, IV, Leiden-Paris 1978, pp. 1027-1030; L. BOLENS, Al-Andalus: la vigne et l’olivier, un secteur de pointe (XIe-XIIIe siècles), in La production du vin et de l’huile en Méditerranée. Oil and Wine Production in the Mediterranean Area, a cura di M.C. Amouretti, J.-P. Brun, Paris 1993 (Bulletin de correspondence hellénique. Suppl. 26), pp. 423-429. 39 358 Vinum quoque, quod laudare cupiens Palmatianum nominavit antiquitas, nos stipsim, asperum, sed gratum suavitate perquire. nam licet inter vina Bruttia videatur extremum, factum tamen est paene generali opinione praecipuum. ibi enim reperitur et Gazeto par et Sabino simile et magnis odoribus singulare. Sed quia illud famam sibi nobilissimam vindicavit, hoc et in suo genere nimis elegans perquiratur, ne prudentia maiorum aliquid appellasse videatur inproprium. est enim suavi pinguedine molliter crassum, vivacitate firmissimum, nare violentum, candore quoque perspicuum, quod ita redolet ore ructatum, ut merito illi a palma nomen videatur impositum (CASSIODORO, Variarum libri XII, ed. Th. Mommsen, MGH, AA, XII, Berolini 1894, 12, p. 369). – tocca una parte di rilievo in un singolare episodio. A Lione una signora di ceto aristocratico, rimasta vedova, faceva consegnare periodicamente un sestario di Gazetum, per celebrare il suffragio del marito, al suddiacono della chiesa vicina; questi, tuttavia, teneva per il suo uso personale, mosso dalla gola, il vino recato in offerta sostituendovi un fortissimo aceto. La donna, che non si accostava spesso all’eucaristia, non si accorge della cosa finché una notte non le appare in sogno il marito lamentandosi che dopo una vita trascorsa nella fatica di mantenere un’elevata condizione economica fosse ora costretto a bere aceto in oblazione. Il giorno seguente la frode sarà svelata, quando la matrona, accostatasi alla comunione, si troverà in bocca un aceto talmente aspro che – sono le parole di Gregorio – se lo avesse inghiottito fino in fondo le sarebbero caduti i denti40. Ma il vino che domina la scena, senza una neppur lontana possibilità di paragone, è il Falerno, del quale, in un esame non certo completo, ho contato attestazioni in diciotto differenti Vite, principalmente altomedioevali41. La frequen40 «Duos in hac urbe fuisse ferunt, virum scilicet et coniugem eius, senatoria ex gente pollentes, qui absque liberis functi, heredem eclesiam dereliquerunt. Sed vir prius obiens, in basilicam sanctae Mariae sepultus est. Mulier vero per annum integrum ad hoc templum degens, assiduae orationi vacabat, celebrans cotidie missarum solemnia et offerens oblationem pro memoria viri, non diffusa de Domini misericordia, quod haberet defunctus requiem in die qua Domino oblationem pro eius anima delibasset, semper sextarium Gazeti vini praebens in sacrarium basilicae sanctae. Sed subdiaconus nequam, reservatum gulae Gazetum, acetum vehementissimum offerebat in calicem, mulierem non semper ad communicandi gratiam accedente. Igitur cum fraudem hanc Deo placuit revelare, apparuit vir mulieri, dicens: ‘Heu, heu, dulcissima coniux, in quid defluxit labor meus in saeculo, ut nunc acetum in oblationem delibem?’ Cui illa: ‘Vere’, inquid, ‘quia caritati tuae non inmemor semper Gazetum potentissimum obtulit pro requie tua in sacrario Dei mei’. Expergefacta autem admirans visionem eandemque oblivioni non tradens, ad matutinum secundum consuetudinem surrexit. Quibus expletis celebratisque missis, accedit ad poculum salutare. Quae tam ferventem acetum hausit ex calice, ut putaret sibi dentes excuti si haustum segnius deglutisset» (GREGORIO DI TOURS, Libri octo miraculorum, ed. B. Krusch, MGH, SRM, I/2, Hannoverae 1885, VIII (Liber in gloria confessorum), 64, pp. 335-336). 41 GREGORIO, Libri octo miraculorum, p. 129 [BHL 4541]; 164, 169 [BHL 5618]; 351 [BHL 8495], VENANZIO FORTUNATO, Vita Martini [BHL 5624]; Vita Fidoli [BHL 2947], ed. B. Krusch, MGH, SRM, III, Hannoverae 1896, p. 430; Vita Lupi [BHL 5082-5083], p. 180; Vita Eligi [BHL 2476], p. 709; Vita Sadalabergae [BHL 7463], ed. B. Krusch, MGH, SRM, V, Hannoverae 1910, p. 61; Vita Filiberti [BHL 6805], pp. 588, 590; Vita Pardulfi [BHL 6459], ed. W. Levison, in MGH, SSRM, VII/1, Hannoverae 1919, pp. 24, 25; Vita Germani [BHL 3469], ed B. Krusch, MGH, SRM, VII, 1, p. 419; Vita Tillonis [BHL 8291], ASS, Ianuarii, I, Parisiis-Romae 1863, p. 380; Vita Eligii [BHL 2478], ed. K. Strecker, in MGH, Poetae, IV/2, Berolini 1923, p. 795; Vita Galli [BHL 3256], ed. K. Strecker, MGH, Poetae, IV/2, p. 1104; ALCUINO DI YORK, Vita Willibrordi [BHL 8938-8939], ed. E. Dümmler, MGH, Poetae, I, Berolini 1881, pp. 249; Vita Desiderii [BHL 2144] ed. B. Krusch, MGH, SRM, IV, Hannoverae 1902, p. 596 [= Corpus christianorum series latina (= CCSL), CXVII, Turnholti 1957, p. 392]; Passio Thebeo- 359 za di tali menzioni si giustifica in gran misura con l’illustre tradizione eminentemente poetica, che aveva consacrato il forte vino campano come il più celebre e pregiato dell’antichità latina, favorendo nei secoli successivi uno slittamento semantico che ne aveva reso la denominazione – specie quando si applicasse un linguaggio elevato – sinonimico di vino dalle eccelse qualità. Basterà scorrere, per avere evidenti conferme in questa direzione, i passi del De virtutibus sancti Martini di Gregorio di Tours, della Vita di Pardolfo e della Vita metrica di Landelino, nei quali si parla del Cristo come di colui che mutò l’acqua in Falerno42, o la sentenza «uas incrustatum corrumpit dulce falernum», che troviamo nella Passione dei martiri della legione Tebea, composta da Sigeberto di Gembloux43. Non sono tuttavia completamente concorde con la tesi di Émile Brouette – poi comunemente accolta –, secondo cui già a partire da Gregorio di Tours, Falernum avrebbe ormai solo e sempre il significato generico di buon vino senza più alcuna attinenza a una precisa caratterizzazione vitivinicola44. Proprio il brarum [BHL 5754], ed. E. Dümmler, Sigibert’s von Gembloux ‘Passio sanctae Luciae virginis’ und ‘Passio sanctorum Thebeorum’, in Philosophische und historischen Abhandlungen der königlichen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Berlin 1893, p. 424; Vita Landelini [BHL 4698a], ed. K. Strecker, MGH, Poetae, V, Lipsiae 1937, p. 482. Quasi tutte queste attestazioni, che avevo raccolto autonomamente nel corso del censimento più generale effettuato per questo intervento, sono già elencate in E. BROUETTE, ‘Vinum Falernum’. Contribution à l’étude de la sémantique latine au haut moyen-âge, «Classica et mediaevalia», 10 (1949), pp. 267273. Sulle caratteristiche che doveva avere l’antico Falerno: TCHERNIA, Le vin, pp. 342-344. 42 GREGORIO, Libri octo miraculorum, II, p. 164: «Fuit et illud insigne miraculum, cum Dominus in die ephiphaniorum obtentu beati antestitis ex aquis Falerna produxit ac de alvei fundere vinum elicuit pauperi, qui quondam latices in vina mutavit»; 169: «Cum autem venisset antedictus ad sancti basilicam in ea nocte, in qua dominus Iesus Christus fluenta laticum hauriens Falerna porrexit, ad beati pedes vigilare disposuit»; Vita Landelini, p. 223: «ac amnem vinum fecit prebere falernum». Da rilevare per il primo passo di Gregorio di Tours (dove il termine Falerno – in realtà impiegato per il prodigio compiuto da Martino – è tuttavia estensibile al Cristo per l’immediato paragone con il miracolo di Cana) il vistoso incidente di C. URSO, L’alimentazione al tempo di Gregorio di Tours. ‘Consuetudines’ e scelte culturali, «Quaderni medievali», 43-44 (1997), p. 15, che, incredibilmente, a proposito del passo citato, scrive: «non mancarono casi di sofisticazione e ci fu addirittura chi ‘ex aquis Falerna produxit’». Corretto invece il riferimento a Libri octo miraculorum, VIII, p. 369, dove di fatto si narra la vicenda di un truffatore che annacquava il vino, punito con la perdita della somma accumulata illecitamente. Per quanto concerne i tagli apportati nel medioevo al vino con altre sostanze e le vere e proprie adulterazioni, ottimamente B. PFERSCHY, Weinfälschungen im Mittelalter, in Fälschungen im Mittelater, Internationaler Kongreß der Monumenta Germaniae Historica. München, 16.-19. September 1986, V, Hannover 1988, pp. 669-702. 43 44 360 Passio Thebeorum, p. 424. BROUETTE, ‘Vinum Falernum’, in part. p. 268: «C’est à partir de Grégoire de Tours que ce vocable prit une extension plus grande: il devint générique et, vidé de toute idée de localisation géographique, s’ap- no in cui lo studioso coglie la prima testimonianza del mutamento, quello delle Historiae, in cui si afferma che i monti a Ovest di Digione producevano un Falerno dalle note così eccellenti da farlo preferire al vino di Ascalona45, mi sembra ribellarsi, anzi, a tale interpretazione. Anzitutto, sostenere che nel passo «les vins de Langres et ceux d’Ascalon» sarebbero stati «confondus avec le Falerne»46 costituisce una forzatura: Gregorio in realtà dice solo, e con estrema chiarezza, che il Falerno prodotto nella zona era migliore dello Scalonum, qualità che – come si è visto – era effettivamente importata in area gallo-franca. Possiamo parlare di confusione solo a patto di negare aprioristicamente che nelle colline della Côte-d’Or non potessero coltivarsi viti dalle quali si traeva un vino con la denominazione di Falerno. Ma è davvero così? Gregorio – salvo che per alcuni passaggi di sapore retorico-figurato – si rivela assai definito nelle indicazioni enologiche; si direbbe che – similmente a quanto traspare per Cassiodoro nella lettera citata – le conoscenze che egli mostra nel campo rappresentino addirittura – più o meno ostentate – uno degli emblemi della sua cultura sociale, del ceto senatorio cui apparteneva. Perché dunque, mentre si sofferma con proprietà sui vini mediorientali della Palestina e della Siria avrebbe dovuto utilizzare il termine Falernum in senso totalmente generico? A me pare invece probabile l’ipotesi che, a suo tempo, il vitigno del Falerno fosse stato effettivamente trapiantato in alcune zone della Gallia romana e che il vino derivatone, sebbene lo si possa immaginare lontano dall’originale per evidenti condizionamenti ambientali e pedologici, ancora all’epoca di Gregorio di Tours, continuasse a portarne il nome47. pliqua à tout bon vin, voire – et c’est de loin le cas le plus fréquent – à un vin de n’importe quelle qualité». Così anche DION, Histoire, p. 172 n. 21; D. NORBERG, Epistulae s. Desiderii Cadurcensis, Stockholm 1961 (Studia Latina Stockholmiensia, 6), p. 60 n. 13; G. GUADAGNO, Produzione vinicola falerna e campana tra antichità e età di mezzo, «Rivista storica del Sannio», s. 3a, 3/1 (1996), pp. 45-73, in part. 54-55. 45 Si v. il passo supra, n. 36. 46 BROUETTE, ‘Vinum Falernum’, p. 268. 47 L’eventualità risulta ancor più plausibile alla luce di rinvenimenti archeologici recenti che, come sottolinea A. TCHERNIA, Du commerce des vins antiques, in ID., J.-P. BRUN, Le vin romain antique, Grenoble 1999, pp. 154-155, mostrano il Falerno richiesto e trasportato, nel II secolo, non solo in Italia, ma, per quanto riguarda il mondo latino, anche a Tarragona, negli accampamenti militari del Reno e, nelle Gallie, a Saint-Romain-en-Gal nel pressi di Vienne. Allo stesso modo di ciò che si è detto per il brano di Gregorio, non mi sembra potersi ridurre a denominazione generica e letteraria – sia per il tono concreto del documento, sia soprattutto per l’esiguità della specifica richiesta ricordata dall’estensore («unam Falerni anforam deposcimus») – quella contenuta nella lettera inviata tra il 630 e forse il 647 361 Da segnalare infine, a conclusione di questo paragrafo, anche un passaggio del De situ civitatis Mediolani, che verso gli inizi dell’XI secolo traccia le biografie dei primi vescovi di Milano, dove l’esaltazione dell’abbondanza di vino donata dal contado milanese, superiore a quella di molte province «Romani nominis», sottintende quasi certamente una parallela eccellenza qualitativa, ma è sopratutto interessante in quanto dimostra la vitivinicoltura elemento ormai costituivo del prestigio cittadino e, seppure in misura meno rilevata di altre componenti, della sua identità48. dal vescovo di Verdun, Paolo, a Desiderio di Cahors, nella quale lo ringraziava, fra l’altro del dono di dieci tunnae di falerno: «Praeterea multiplices dominationi uestrae agimus gracia de eulogias sanctas, de Falerno nobile, uel uascula decem, quae nobis tanti habuistis dirigere. Superexcreuit quidem et superabundauit benedictio largitatis uestrae adeo, ut, dum nos unam Falerni anforam deposcimus, uos eminencia uasa et, ut usitacius dicam, tunnas decem eligantissimi Falerni tanti habuistis dirigere» (DESIDERIO DI CAHORS, Epistulae, ed. W. Arndt, CCSL, CXVII, Turnholti 1957, II, 11, p. 334; anche in Epistulae s. Desiderii, pp. 60-61). Rilevo, inoltre, che sebbene esportazioni di vino dalla Campania siano ancora attestate nell’VIII secolo (cfr. P. ARTHUR, Early Medieval Amphorae. The Duchy of Naples and the Food Supply of Rome, «Papers of the British School at Rome», 61 (1993), pp. 231-244, in part. 237241; H. PATTERSON, Un aspetto dell’economia di Roma e delle Campagna Romana nell’altomedioevo: l’evidenza della ceramica, in La storia economica di Roma nell’alto medioevo alla luce dei recenti scavi archeologici, Atti del Seminario, Roma 2-3 aprile 1992, a cura di L. Paroli, P. Delogu, Firenze 1993 [Biblioteca di archeologia medievale, 10], p. 313; MC CORMICK, Origins, p. 625), risulta difficile credere che il ‘Falerno’ in possesso di Desiderio non fosse prodotto nei dintorni di Cahors, ma fosse importato: scoraggiano tale eventualità, così la quantità che Desiderio ne invia a Paolo, come il fatto che le testimonianze accennate si riferiscono a giri commerciali di modesta distanza, di ambito italiano. 48 362 «Quid et de vini referam ubertate precipua, qua per supernam largitatem usque adeo plurimas Romani nominis provincias exuperat, ut multo amplius huic nonumquam meraca potio, quam sicere quibus suci vel etiam aque salubris videatur inesse plenitudo» (Libellus de situ civitatis Mediolani, de adventu Barnabe apostoli et de vitis priorum pontificum Mediolanensium, ed. A. e G. Colombo, in Rerum Italicarum Scriptores2, I, 2, Bologna s.d. [1952], pp. 11 r. 10, 12 r. 3). Sulle descrizioni medioevali delle città: J.K. HYDE, Medieval Description of Cities, «Bulletin of the John Rylands Library Manchester», 48 (19651966), pp. 308-340; G. FASOLI, La coscienza civica nelle ‘laudes civitatum’, in La coscienza cittadina nei comuni italiani del Duecento, Todi 1972 (Convegno del Centro di studi sulla spiritualità medioevale, 11), pp. 9-44; C.J. CLASSEN, Die Stadt im Spiegel der Descriptiones und Laudes urbium in der antiken und mittelalterichen Literatur bis zum Ende des zwölften Jahrhunderts, Hildesheim-New York 1980 (Beiträge zur Altertumswissenschaft, 2); C. FRUGONI, Una lontana città. Sentimenti e immagini del medioevo, Torino 1983 (Saggi 651); G. VITOLO, Città e coscienza cittadina nel Mezzogiorno medioevale (secc. IX-XIII), Salerno 1989; P. TOMEA, Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel Medioevo. La leggenda di s. Barnaba, Milano 1993 (Bibliotheca erudita. Studi e documenti di storia e filologia, 2), pp. 361-369; ID., Rappresentazioni e funzioni del cielo e della terra nelle fonti agiografiche del medioevo occidentale, in Cieli e terre nei secoli XI-XII. Orizzonti, percezioni, rapporti, Atti della tredicesima Settimana internazionale di studio (Passo della Mendola, 22-26 agosto 1995), Milano 1998 (Miscellanea del Centro di studi medioevali, 15), pp. 343- Sul modo in cui veniva assunto il vino gli scritti agiografici sono poi quasi totalmente reticenti. In un recente intervento Bruno Andreolli ha individuato, basandosi su di una documentazione di altro genere, momenti alterni nella parabola del costume vigente in proposito, sottolineando, per l’arco di tempo che ci compete, lo stacco tra l’età antica, in cui si tendeva a controllare il vino mescolandolo in giusta misura con l’acqua, e il mondo medioevale in cui pur con difformità prevale la consumazione del prodotto allo stato puro49. È una ripartizione sostanzialmente ribadita dall’agiografia, dove per esempio Ansovino, in viaggio verso Roma, smaschera la truffa di un oste che gli aveva venduto vino annacquato facendoglielo versare in una cocca del proprio mantello50. L’autore 345. Relativamente al posto assunto dalla dotazione vitivinicola nell’ambito dell’honor cittadino, PINI, Miracula, p. 373, crede si possa scorgere un’umiliazione tesa a negare il rango di cives nella distruzione delle cantine operata dai Milanesi nei confronti dei Lodigiani che avevano ricusato di pagare loro il fodrum, della quale ci dà notizia in questi termini un passo di Ottone Morena: «Insuper etiam in sequenti mense Novembri eiusdem supradicti anni de indictione sexta Mediolanensium consules Laude venientes ipsis Laudensibus petierunt et, nisi eis darent, in bannum eos publice posuerunt et insuper etiam omnes illos, qui dare recusarent, sine ulla spe recuperationis de terra se delecturos fore spoponderunt. Laudenses vero eorum bannum et minas valde timentes ac eorum nequitiam super ipsos, quacumque possent arte vel occasione, libenter exercere se velle sciente, valde pertimuerunt; et per diversas terras multi ex ipsis statim fugierunt. Illi autem, qui steterunt, quamvis nolentes, dolentes tamen pernimium, quod cum gentiles fuerant cives, ipsum fodrum sicut pessimi villani timore Mediolanensium ipsis tribuerunt. Illis vero, qui dare recusaverunt, Mediolanenses perfidiam eorum exercentes, in domibus eorum introeuntes ac ipsas omnes expoliantes et omnem mobiliam quam portare potuerunt auferentes, vinum etiam eorum per terram effuderunt et eos de terra penitus deiecerunt» (OTTONE MORENA E CONTINUATORI, Historia Frederici I., ed. F. Güterbock, MGH, Scriptores rerum Germanicarum, VII, Berolini 1930, pp. 35 r. 21, 35 r.41). 49 B. ANDREOLLI, Un contrastato connubio. Acqua e vino dal medioevo all’età moderna, in La vite e il vino, II, pp. 1031-1051. 50 «Nam cum forte ventum esset in unam Romanorum civitatum quae Narniensis dicitur opportunitas illi emendi potus fuit. Illico vero caput ei taxato certo sane pretio, vinum obtulit. Cui sanctus ait Ansuinus: ‘Vide frater ne fortassis aqua vino miscueris, et frustremur huiuscemodi fraudolentiis, cum tu a nobis quod rite competit accipiat pretium, post vero nos decepisse gauderis, nosque amissae cogamus pati dispendium pecuniae’. At ille velut insultans beato: ‘Accipe inquit si vis: numquid tuis cogemur deliramentis nostra immutare negotia?’. Et sanctus ad eum: ‘Accipiam’ inquit, ‘sed vasculi deest nobis copia gratia huius exceptionis, nisi forte largitas vestrae humanitatis in hoc ergo nos exuberaverit. Postquam enim indigentia potandi aberit a nobis id tum quod vestrum est recipietis servata caritate’. Quo namque negante se illi nullatenus vas largiturum ait beatus Ansuinus: ‘Funde, inquiens illud in istius sinuamen cappae, potest enim omnipotens Deus qui ex nihilo cuncta creavit, illud ita praecepto suae firmitatis stabilire ut minime cogamur nostri super hoc pretii sustinere dampna’. Quibus auditis tabernarius, amplius coepit illum quasi gannientem habere et nescientem 363 della Vita di Pardolfo di Guéret, nell’VIII secolo accenna però, non importa se per via metaforica, a un altro taglio evidentemente praticato: quello dei vini più austeri con il mosto51. Resterebbe ora da esaminare l’altra faccia di queste testimonianze: quella intenzionale e che sola contava per i nostri autori, nella quale il vino, sia rivelando la santità dell’uomo di Dio, diventando elemento dei contorni cristomimetici in cui si iscrive il suo operato, sia facendosi in vari modi tramite della sua potenza, compare strumento cosciente e voluto di un messaggio specificamente agiografico. Ma di questo diremo in una prossima occasione. quid diceret, atque illudere illi velut cuidam dementi quem utique insanire putabat. Ad quem sanctus Ansuinus magis hylaris, iterum atque iterum inquit: ‘Funde frater funde securus: quid trepidas quasi si quippam perdas tuorum? Numquid non nostrum apud te retines pretium? Neque quidquam propriorum amittis si disperierit, cum nostrae potius videaris rei iacturam’. Tum siquidem tandem his victus conflictibus vini negotiator fudit illud super cappa sancti Ansuini ipso sancto Ansuino quippe illam tenente. In quo facto continuo patuerunt dico stupenda memorandaque valde prodigia. Nam tanta tenacitate retentus est fusus liquor in pannum ut putaretur alterius naturae fore non suae: fraus etiam venditoris continuo nihilominus manifeste claruit mirantibus cunctis. Ita namque discretum est vinum ab aqua ut ipse etiam qui miscuerat licet confusus confiteretur non aliter esse praeter quam Ansuinus antequam acciperet dixerat» (Vita Ansuini [BHL 555], ed. A.A. Bittarelli, S. Ansovino vescovo e Peregrino monaco nella civiltà longobarda maceratese, Macerata 1968 [Quaderni del Centro studi storici maceratesi, 1], pp. 77-78; anche nel più diffuso ASS, Martii, II, Parisiis-Romae 18653, p. 319AB). 51 364 «Sed melius utrobique, ut opinor, uterque comiscere in haustum, vinum scilicet et mustum, ut dulcedo quoque musti foveat ac temperet austeritatem meri, similiter autem austeritas falerni dulcedinem exacuit musti» (Vita Pardulfi, p. 24 rr. 22-25). ROBERTO BELLINI* Il vino nelle leggi della Chiesa Molto si è scritto, da parte della medievistica contemporanea, attorno all’argomento del presente volume, e con buone ragioni. La produzione ed il consumo del vino, infatti, costituivano un elemento importante della civiltà medioevale, la cui vita materiale è stata indagata con sempre maggiore attenzione dalla moderna ricerca storica1. Tuttavia, tra le fonti utilizzate, appaiono singolarmente poco considerate quelle canonistiche, che pure hanno offerto preziose indicazioni ogniqualvolta sono state prese in considerazione per indagini storiche, sia settoriali, sia di più ampio respiro2. Ciò si deve, in primo luogo, all’estrema eterogeneità dei loro materiali, costituiti inizialmente dai canoni dei concili, locali e generali, e dalle lettere dei pontefici romani, ai quali però si aggiunsero rapidamente altre tipologie di documenti, dai libri della penitenza alle leggi laiche (romane e barbariche), dai brani degli scrittori ecclesiastici alle regole monastiche, per giungere, infine, ai fragmenta Patrum, soprattutto a partire dall’età della 1 Per un bilancio storiografico si v., innanzi tutto, A.I. PINI, Il medioevo nel bicchiere. La vite e il vino nella medievistica italiana degli ultimi decenni, «Quaderni medievali», 29 (1990), pp. 6-38, da integrarsi con l’eccellente monografia di G. ARCHETTI, Tempus vindemie. Per la storia delle vigne e del vino nell’Europa medievale, Brescia 1998 (Fonti e studi di storia bresciana. Fondamenta, 4), pp. 36-172, con amplissima bibl. alle pp. 517-568. 2 Un magistrale esempio è offerto, in un ambito vicino a quello qui considerato, da G. PICASSO, Campagna e contadini nella legislazione della Chiesa fino a Graziano, in Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, a cura di V. Fumagalli, G. Rossetti, Bologna 1980, pp. 381-397. Per il periodo successivo ci permettiamo di rimandare a R. BELLINI, Diritto canonico e mondo agrario, in Vites plantare et bene colere. Agricoltura e mondo rurale in Franciacorta nel medioevo, Atti della IV Biennale di Franciacorta (Erbusco, 16 settembre 1995), a cura di G. Archetti, Brescia 1996, pp. 183-204. * Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. 365 riforma3. Secondariamente, si deve segnalare la carenza di edizioni criticamente soddisfacenti delle collezioni canoniche, o almeno delle più importanti, all’interno delle quali i documenti vennero ben presto raccolti ed ordinati: una realtà, questa, frequentemente deplorata, cui si è ben lungi dall’avere posto rimedio4. Un po’ più soddisfacente è, forse, la situazione editoriale del nuovo diritto, avviato col papato di Alessandro III mediante l’emanazione delle lettere decretali e della loro successiva raccolta in sillogi sistematiche5. Ma anche in questo settore molto è ancora da fare: basti considerare che lo stesso fondamentale Liber Extra, fatto comporre da Gregorio IX nel 1234, non è ancora disponibile in una vera edizione critica, giacché, come osservava Gerald Fransen, il testo di Friedberg «reproduit simplement le texte des Correctores Romani»6. Non di agevole consultazione, infine, è pure la grande opera di commento dei testi giuridici svolta dai decretisti e dai decretalisti durante i secoli XII e XIII. Costoro aggiornarono ed attualizzarono la normativa prodotta mediante il confronto e l’armonizzazione dei brani, i quali erano talvolta in apparente, o reale, conflitto reciproco, impiegando, a tale fine, anche altre fonti giuridiche, quali le leggi imperiali o i Libri feudorum7. In questo ambito, ebbe un’importanza partico3 Cfr. su ciò G. FRANSEN, Les collections canoniques, Turnhout 1973 (Typologie des sources du moyen âge occidental, 10), pp. 29-30, nonché PICASSO, Campagna, pp. 381-383. 4 Sulle collezioni canoniche fondamentale è lo studio di Fransen cit. alla n. precedente, con la mise à jour dello stesso maestro di Lovanio, pubblicata nella medesima collana (Turnhout 1985). Per la storia di queste fonti è tuttora indispensabile l’ormai classico lavoro di P. FOURNIER, G. LE BRAS, Histoire des collections canoniques en Occident depuis les Fausses Décrétales jusqu’au Décret de Gratien, 2 voll., Paris 1931-32, bisognoso tuttavia di ampi aggiornamenti. Utili indicazioni in tale senso si possono leggere in J. GAUDEMET, Les sources du droit canonique (VIIIe-XXe siècle). Repères canoniques. Sources occidentales, Paris 1993, pp. 17-119, e L. KÉRY, Canonical collections of the early middle ages (ca. 400-1140). A bibliographical guide to the manuscripts and literature, Washington D.C. 1999 (History of medieval canon law, 1). 5 Essenziale inquadramento in G. FRANSEN, Les décrétales et les collections des décrétales, Turnhout 1972 (Typologie des sources du moyen âge occidental, 2), con la mise à jour dell’autore nella stessa collana (Turnhout 1985) e l’aggiornamento di GAUDEMET, Les sources, pp. 119-131. L’evoluzione del diritto canonico, dalle collezioni di canoni alle decretali, è stata delineata da G. FRANSEN, Papes, conciles, évêques du XIIe au XVe siècle, in Problemi di storia della Chiesa. Il medioevo dei secoli XII-XV, Milano 1976 (Cultura e storia, 16), pp. 3-20, ma specialmente pp. 4-11. 6 FRANSEN, Les décrétales, p. 42. L’edizione in uso è Decretales Gregorii IX, ed. Ae. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, II, Lipsiae 1879 (rist. anast. Graz 1959). Sul Liber Extra si v. S. KUTTNER, Raymond of Peñafort as editor: the ‘Decretales’ and the ‘Constitutiones’ of Gregory IX, ora in ID., Studies in the history of medieval canon law, Aldershot 1990 (Collected studies series, CS 325), n.o XII, pp. 65-80. 366 7 Per i commentatori del diritto canonico cosiddetto classico cfr. GAUDEMET, Les sources, pp. 131-144. lare l’opera di Enrico da Susa, i cui commenti acquisirono rapidamente un’assoluta autorevolezza e vennero perciò utilizzati ben oltre il secolo XIII8. Ad essa faremo riferimento per questo aspetto della nostra indagine, non senza tuttavia prioritariamente sottolineare come pure per tali fondamentali testi occorra rifarsi alle cinquecentesche edizioni veneziane, inevitabilmente lacunose sotto il profilo degli strumenti di corredo, delle quali si possiede soltanto una contemporanea ristampa anastatica9. Le fonti Attraverso l’esame di quanto attualmente edito, è comunque possibile enucleare alcune importanti riflessioni svolte dalla Chiesa attorno al tema della vite e del vino. Della vite e del vino, dobbiamo precisare, intesi nel loro aspetto concreto, per così dire materiale, poiché delle loro dimensioni sacramentali e simboliche, ampiamente presenti nelle raccolte, non ci occuperemo in questo contributo. Anche con tali limiti, del resto, la ricchezza del materiale è veramente rilevante ed abbraccia una molteplicità di aspetti diversi, di natura economica, morale e socio-culturale. Avviando la nostra analisi dal punto di vista storico-cronologico, occorre sottolineare come la prima importante sintesi normativa sull’argomento sia rappresentata dai Libri duo de synodalibus causis dell’abate Reginone di Prüm10. Il dos8 Su Enrico di Susa, cardinale di Ostia (e perciò soprannominato Ostiense), e sulla sua opera v. K. PENNINGTON, s.v., Enrico di Susa, in Dizionario biografico degli italiani, 42, Roma 1993, pp. 758-763; P.G. CARON, Il cardinale Ostiense artefice dell’ ‘utrumque ius’ nella prospettiva europea della canonistica medievale, in Cristianità ed Europa. Miscellanea di studi in onore di L. Prosdocimi, a cura di C. Alzati, I/2, Roma-Freiburg-Wien 1994, pp. 561-582. 9 Le opere di Enrico qui considerate sono la Summa Aurea, Venetiis 1574 (rist. anast. Torino 1963: da ora S.A.), ed i Commentaria in libri Decretalium, 2 voll., Venetiis 1581 (rist. anast. Torino 1965): il primo libro contiene il commento ai libri I-II delle decretali, il secondo ai libri III-VI e ciascuno di questi ha un’autonoma numerazione delle pagine. 10 REGINONE DI PRÜM, Libri duo de synodalibus causis, ed. F.G.A. Wasserschleben, Lipsiae 1840 (rist. anast. Graz 1964: da ora Reg.), con utilissima tavola di concordanza alle pp. 497-516: sull’edizione v. le osservazioni di R. POKORNY, Nochmals zur ‘Admonitio synodalis’, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Kanonistische Abteilung» (da ora ZSSR.KA), 71 (1985), pp. 42-44. Sulla collezione dell’abate renano, esemplata agli inizi del secolo X, cfr. P. FOURNIER, L’oeuvre canonique de Réginon de Prüm, ora in ID., Mélanges de droit canonique, édité par Th. Kolzer, II, Aalen 1983, pp. 333-372, ripreso per l’essenziale in FOURNIER, LE BRAS, Histoire, I, pp. 244-268; ulteriore aggiornamento bibliografico in KÉRY, Canonical collections, pp. 131-133. 367 sier ivi raccolto consta di 42 capitoli, distribuiti perlopiù in lunghe serie soprattutto all’interno del primo libro della raccolta. Di questi brani, 19 si leggono per la prima volta in una collezione canonica e nove di essi sono stati probabilmente composti dallo stesso autore11, mentre quasi tutti gli altri frammenti provengono da precedenti sillogi: la Collectio Dacheriana, il penitenziale Quadripartitus e la Collectio capitularium di Ansegiso abate di Fontenelle. Due testi si leggono pure nella Collectio Anselmo dedicata, la quale non è però una fonte formale del De synodalibus causis: si tratta di frammenti tratti dai Canones Apostolorum, forse mutuati, come un altro canone del nostro dossier, dalle Decretali Pseudo-Isidoriane12. Di questi 42 capitoli, 31 si diffonderanno nelle sillogi successive ed 11 saranno ancora trascritti, sia pure non direttamente, nel Decreto di Graziano. Nella Concordia discordantium canonum del monaco bolognese si possono altresì individuare 18 testi provenienti, prevalentemente tramite le collezioni di Ivo di Chartres, dal Decretum di Burcardo di Worms13, il cui dossier conta 53 canoni, molti dei quali ignoti al De synodalibus causis. Reginone rappresenta, in effetti, la principale fonte di Burcardo sull’argomento, seguito dall’Anselmo dedicata e, in misura minore, da altre sillogi (la Collectio Hibernensis e lo Pseudo-Isidoro in particolare). Tuttavia, 17 testi – tre dei quali sono falsificazioni dell’autore – compaiono per la prima volta nella tradizione canonistica proprio grazie al Decretum. Il presule wormaciense, inoltre, dedica un intero libro dell’opera ad un problema strettamente collegato al tema del vino: «Il quattordicesimo libro – recita, infatti, l’indice della silloge – tratta della crapula e dell’ebbrezza e della loro penitenza», due vizi defini11 Consideriamo infatti, in questo gruppo di testi, anche quelli che Reginone ha trascritto da una silloge composta nell’area lorenese, probabilmente nel tardo sec. IX, in quanto si tratta di una raccolta di materiali normativi semplicemente giustapposti: cfr. su questo FOURNIER, LE BRAS, Histoire, I, pp. 253-255 e 280-283; KÉRY, Canonical collections, pp. 182-183. Per le falsificazioni del De synodalibus causis v. invece le pp. 259-264 dell’Histoire. 12 13 368 Si tratta di Reg. 1, 64-65 e 146, testi diffusi anche nelle altre collezioni maggiori. BURCARDO DI WORMS, Decretum, PL 140, coll. 537-1058 (da ora Burch.), un’edizione tutt’altro che irreprensibile, come hanno dimostrato gli studi di E. VAN BALBERGHE, Les éditions du Décret de Burchard de Worms. Avatars d’un texte, «Recherches de théologie ancienne et médiévale», 37 (1970), pp. 5-22, e di G. FRANSEN, Le Décret de Burchard de Worms. Valeur du texte de l’édition. Essai de classement des manuscrites, ZSSR.KA, 94 (1977), pp. 3-8, del quale si v. anche le pp. 8-19 per una valutazione dell’opera. Fondamentale studio della raccolta, esemplata agli inizi del secolo XI, in H. HOFFMANN, R. POKORNY, Das Dekret des Bischofs Burchard von Worms. Texstufen - Frühe Verbreitung - Vorlagen, München 1991 (MGH. Hilfsmittel, 12), pp. 9-161, al quale vanno aggiunti gli ormai classici lavori di P. FOURNIER, Etudes critiques sur le Décret de Burchard de Worms, e Le Décret de Burchard de Worms. Ses caractères, son influence, ora entrambi in ID., Mélanges, I, pp. 247-391 e 393-440. Altra bibliografia in KÉRY, Canonical collections, pp. 149-155. ti «detestabili» nella breve introduzione premessa ai 17 capitoli del medesimo libro14. Lo sviluppo ulteriore della casistica è affidato soprattutto al lungo interrogatorio, che costituisce il canone 5 del libro XIX, il famoso Corrector sive Medicus, diffusosi in seguito anche indipendentemente dal resto della raccolta15. È ben nota l’influenza esercitata dal Decretum Burchardi sulle collezioni di Ivo di Chartres16. Il vescovo francese ha, infatti, trascritto tutti i capitoli del libro XIV nel libro XIII del suo Decreto e questi, assieme ad altri frammenti, compongono un dossier di 54 brani (uno è doppio), di cui ben 42 provengono da Burcardo e dieci dalla Collectio tripartita, ossia la prima silloge, in ordine di tempo, uscita dall’atelier del presule di Chartres. Gli altri due testi, le cui fonti formali non sono ancora chiaramente identificabili, sono stati estrapolati dai falsi Capitolari di Benedetto Levita e dal Registrum di papa Giovanni VIII17. Tali conside14 BURCARDO, Decretum, col. 541B, mentre il libro – uno dei più brevi dell’opera – si legge alle coll. 889-894. 15 Con opportune aggiunte, infatti, costituirà il cosiddetto Poenitentiale ecclesiarum Germaniae, pubblicato da H.J. SCHMITZ, Die Bussbücher und das kanonische Bussverfahren, II, Düsseldorf 1898 (rist. anast. Graz 1958), pp. 403-467. Che quest’opera derivi dal Corrector e non ne costituisca una delle fonti, come pensava lo Schmitz, è stato dimostrato definitivamente da FOURNIER, Le Décret, p. 445. Del Corrector Burchardi esiste una traduzione in lingua italiana: G. PICASSO, G. PIANA, G. MOTTA, A pane e acqua. Peccati e penitenze nel medioevo, Novara 1986, pp. 57-183. 16 Indicazioni fondamentali in tale senso in FOURNIER, LE BRAS, Histoire, II, p. 70, che si basa sul monumentale studio di P. FOURNIER, Les collections canoniques attribuées à Yves de Chartres, ora in ID., Mélanges, I, pp. 451-678. L’edizione della raccolta si legge in PL 161, coll. 47-1022 (da ora Ivo D.), ma presenta gravissimi difetti: cfr. M. BRETT, Urban II and the collections attributed to Ivo of Chartres, in Proceedings of the Eighth international Congress of medieval canon law (San Diego, University of California at la Jolla, 21-27 august 1988), edited by S. Chodorow, Città del Vaticano 1992 (Monumenta Iuris Canonici. Series C: subsidia, 9), p. 32; si v. anche le pp. 27-46 per una considerazione complessiva sull’opera canonistica del presule francese, cronologicamente spostata dallo studioso inglese agli inizi del secolo XII, mentre Fournier aveva indicato l’ultimo decennio dell’XI (cfr. le pp. 483, 489, 552-555, 572574 e 589-590 dello studio sopra cit.). Altra bibliografia in KÉRY, Canonical collections, pp. 244-260. 17 Sono Ivo D. 14, 35, tratto da GIOVANNI VIII, Registrum epistolarum, frag. 34, ed. E. Caspar, MGH, Epistulae, VII, Berolini 1928, pp. 292-293 (v. PH. JAFFÉ, Regesta pontificum romanorum ab condita Ecclesia ad annum post Christum natum MCXCVIII, ed. secundam curaverunt S. Loewenfeld, F. Kaltenbrunner, P. Ewald, Lipsiae 1885-1888 [da ora JL, JE, JK] = JE 2992), e Ivo D. 16, 353, trascritto da BENEDETTO LEVITA, Capitularia 2, 20, ed. D.F.H. Kunst, MGH, Leges (in folio), II (pars altera), Hannoverae 1837 (rist. anast. Stuttgart 1965), p. 75. Sulla distinzione tra le fonti materiali (ossia i testi materialmente trascritti nella silloge) e quelle formali (ossia le collezioni dalle quali essa li ha ricopiati), essenziale nello studio di una raccolta, v. J.J. RYAN, Observations on the pre-Gratian canonical collections: some recent works and present problems, in Congrès de droit canonique médiéval (Louvain et Bruxelles, 22-26 juillet 1958), Louvain 1959 (Bibliothèque de la «Revue d’histoire écclésiastique», 33), pp. 98-99 e 101. 369 razioni, tuttavia, sono prevalentemente ipotetiche: infatti, da un lato non esiste ancora alcuna edizione della Tripartita, dall’altro quella del Decretum oggi disponibile è molto difettosa, quindi nessuna conclusione definitiva circa la trasmissione di questi testi da una collezione all’altra è oggi possibile. In ogni caso, i 14 frammenti sull’argomento che si leggono nella Panormia – la terza raccolta attribuita ad Ivo di Chartres – appaiono tutti trascritti dal Decreto18. Dalla silva canonum prodotta dalla precedente tradizione, il monaco bolognese Graziano19 sceglierà 31 frammenti, ai quali aggiungerà altri 21 nuovi brani. Del primo gruppo di testi, in verità, non è agevole indicare l’esatta provenienza, per i problemi già più volte segnalati: in linea generale, sembrano nettamente prevalenti, come fonti formali, la Collectio Tripartita e la Panormia (16 e 13 frammenti rispettivamente, ma quattro della seconda si leggono pure nella prima), alle quali si affiancano forse la Collectio canonum di Anselmo di Lucca, la Collectio Polycarpus ed il Liber de misericordia et iustitia di Algero di Liegi. Nel secondo gruppo spiccano ben dieci brani patristici e tre di scrittori ecclesiastici, oltre a quattro frammenti biblici e a due falsificazioni (una già presente in Reginone, dal quale però non è stata certo trascritta, mentre l’altra si legge in Graziano per la prima volta)20. Per completare questo aspetto della problematica, è opportuno sottolineare la scarsa incidenza del tema nelle cosiddette collezioni canoniche della riforma21: 18 Edizione dell’opera in PL 161, coll. 1041-1344 (da ora Ivo P.), non meno difettosa di quella del Decreto, come hanno osservato BRETT, Urban II, p. 31, e G. FRANSEN, La tradition manuscrite de la Panormie d’Yves de Chartres, pp. 23-25 del medesimo volume. 19 Su Graziano e la sua opera cfr. S. KUTTNER, s.v., Gratien, in Dictionnaire d’histoire et de géographie écclésiastiques, 21, Paris 1986, coll. 1235-1239; GAUDEMET, Les sources, pp. 103-119. Anche la collezione di Graziano, composta attorno al 1140, si legge in un’edizione classica, ma difettosa: Concordia discordantium canonum siue Decretum Magistri Gratiani, ed. Ae Friedberg, Corpus Iuris Canonici, I, Lipsiae 1922 (da ora Grat.). 20 Per le fonti di Graziano, e più in generale sulla sua collezione, è ancora fondamentale l’ampio studio di J. Rambaud in G. LE BRAS, CH. LEFEBVRE, J. RAMBAUD, L’âge classique (1140-1378). Sources et théorie du droit, Paris 1965 (Histoire du droit et des institutions de l’Église en Occident, 7), pp. 49-129, specialmente pp. 51-77. Indicazioni ulteriori in GAUDEMET, Les sources, pp. 116-117. 21 370 Sul significato di questa definizione cfr. H. MORDEK, Dalla riforma gregoriana alla ‘Concordia discordantium canonum’ di Graziano: osservazioni marginali di un canonista su un tema non marginale, in Chiesa, diritto e ordinamento della ‘societas christiana’ nei secoli XI e XII, Atti della IX Settimana internazionale di studio (Passo della Mendola, 28 agosto-2 settembre 1983), Milano 1986 (Miscellanea del Centro di studi medioevali, 11), pp. 89-112 (specialmente pp. 91-104); O. CAPITANI, L’interpretazione ‘pubblicistica’ dei canoni come momento della definizione di istituti ecclesiastici (secc. XI-XII), ora in ID., Tradizione ed interpretazione: dialettiche ecclesiologiche la più nota di esse, la su menzionata raccolta di Anselmo, contiene solamente tre brani sul vino, due dei quali forse provenienti da Burcardo. Sei, invece, i testi presenti nel Liber de vita christiana di Bonizone di Sutri, di cui quattro pure estratti dall’opera del presule tedesco. Costituiscono certamente un caso particolare i dieci capitoli della Collectio canonum del cardinale Deusdedit, sui quali converrà pertanto soffermarsi più oltre, ma, nel complesso, questi dati confermano l’autorevole conclusione di Fransen circa il carattere sostanzialmente ‘ideologico’ di queste collezioni, attente soprattutto a sviluppare i principi teorici della riforma, ognuna dal suo peculiare punto di vista, più che ad affrontare e risolvere problemi di concreta prassi giuridica22. Infine, tra le raccolte della prima metà del secolo XI, si possono segnalare sette capitoli presenti nel libro III della Collectio V librorum: cinque di questi si leggono già in Reginone, gli altri due sono tratti dai sermoni di Cesario di Arles ed il primo, tra l’altro, verrà poi ripreso per via indiretta anche da un dictum di Graziano23. del sec. XI, Roma 1990, soprattutto pp. 159-160 e 164-165 (per tutto il saggio pp. 151-182). Queste collezioni furono composte tra gli anni settanta del secolo XI ed i primi decenni del successivo. 22 Ciò spiega, tra l’altro, il duraturo successo di una silloge sostanzialmente ‘episcopalista’ come il Decretum Burchardi anche in piena ‘età gregoriana’, cfr. R. BELLINI, Un abrégé del Decreto di Burcardo di Worms: la Collezione canonica in 20 Libri (Ms. Vat. lat. 1350), «Apollinaris», 69 (1996), pp. 141-142 e nn. corrispondenti per gli opportuni approfondimenti bibliografici. Sull’argomento v. inoltre lo studio di Fransen cit. sopra, alla n. 13. 23 Indichiamo qui le edizioni delle raccolte su citate, con le sigle che utilizzeremo nel contributo: 5L = Collectio canonum V librorum, ed. M. Fornasari, Corpus Christianorum. Continuatio mediaevalis, 6, Turholti 1970 (primi tre libri); Collectio canonum in quinque libris. Libro IV, curante D. Cito, Roma 1989 (Centro Accademico Romano della Santa Croce). Ans. = ANSELMO DI LUCCA, Collectio canonum una cum collectione minore, ed. F. Thaner, Oeniponte 1906 et 1915 (rist. anast. Aalen 1965), fino al l. XI cap. 15; per la restante parte del libro e per i due conclusivi abbiamo consultato il ms. Milano, Bibl. Ambrosiana, C. 287 inf. Bonizo = BONIZONE DI SUTRI, Liber de vita christiana, ed. E. Perels, Berlin 1930. Deusd. = V. WOLF VON GLANVELL, Der Kanonessammlung des Kardinals Deusdedit, Paderborn 1905 (rist. anast. Aalen 1967). Polyc. = Collectio canonum Polycarpus, per la quale, mancando una vera edizione, si v. U. HORST, Die Kanonessammlung Polycarpus des Gregor von S. Grisogono. Quellen und Tendenzen, München 1980 (MGH. Hilfsmittel, 5). 371 Per quanto riguarda le fonti materiali impiegate dalle principali collezioni canoniche, esse si distribuiscono secondo la tabella seguente: FONTI Capitolari Canoni di concili Libri penitenziali Regole monastiche Capitula episcoporum Decretali dei pontefici Brani patristici Scrittori ecclesiastici Frammenti biblici Falsificazioni REGINONE BURCARDO IVO (DECRETO) GRAZIANO 9 9 8 3 2 0 0 0 0 11 3 15 7 1 4 3 0 2 1 14 4 18 7 2 4 5 6 2 1 5 1 14 2 0 1 4 18 4 4 4 A prescindere da qualche piccola oscillazione, sempre possibile quando si tratta di definire la tipologia di un testo, i dati raccolti consentono alcune interessanti conclusioni. In primo luogo, si coglie agevolmente la progressiva emarginazione dei testi spuri, molto abbondanti nelle prime due raccolte, avviata da Ivo di Chartres e completata da Graziano. In particolare, va sottolineato il fatto che questi ultimi non hanno elaborato nuove falsificazioni, né le hanno recuperate da altre fonti, ma si sono limitati – salvo un caso isolato – a trascrivere quelle presenti nelle collezioni anteriori24. In secondo luogo, è non meno evidente la loro scelta di integrare i testi della tradizione soprattutto mediante l’inserimento dei fragmenta Patrum. Infatti, se Reginone e Burcardo non presentano alcun brano di questo tipo, nel Decretum del vescovo francese se ne leggono sei, che salgono a 18 nella Concordia, o addirittura a 22, se ad essi si uniscono i frammenti degli scrittori ecclesiastici. 24 372 Unica eccezione è infatti costituita da Grat. C. 16 q. 7 c. 4, dove si legge il frammento di un sermone quadragesimale di asserita paternità ambrosiana: si tratta, in verità, di un testo composto da un anonimo attorno alla metà del sec. IX, posto però sotto l’alta autorità ora del presule milanese, ora di S. Agostino (cfr. I. MACHIELSEN, Clavis patristica pseudoepigraphorum medii aevi, I/A, Turnholti 1990, pp. 2223 n.o 35, e p. 518 n.o 2252). Un profilo complessivo circa l’utilizzo dei falsi nelle sillogi canonistiche è stato tracciato da P. LANDAU, Gefälschtes Recht in den Rechtssammlungen bis Gratian, in Fälschungen im Mittelalter, Internationaler Kongreß der MGH (München, 16.-19. September 1986), II, Hannover 1988 (Schriften der MGH, 33/2), pp. 11-49; per Graziano si v. pure il contributo di CH. MUNIER, Gratiani patristica apocrypha vel incerta, pp. 289-300 del medesimo volume, interamente dedicato alle falsificazioni nelle fonti giuridiche. Sulla lotta contro i testi apocrifi a muovere dall’età della riforma cfr. P. FOURNIER, Un tournant de l’histoire du droit 1060-1140, ora in ID., Mélanges, II, pp. 381-382. Anche in rapporto al nostro tema, pertanto, possono essere confermati gli orientamenti generali assunti dalla canonistica a partire dall’età della riforma, già autorevolmente individuati da Paul Fournier25. Le conclusioni del grande studioso francese trovano, per altro, ulteriori e probanti riscontri alla luce di qualche altra rapida considerazione dei dati. Nel Decreto di Graziano si nota, infatti, la ridottissima presenza di fonti quali i capitolari, o i frammenti dei libri penitenziali, fenomeno spiegabile, nel secondo caso, non tanto – a nostro parere – con l’ostilità della Chiesa, già in età carolingia, nei confronti di questi testi26, quanto piuttosto col progressivo affermarsi, durante il secolo XII, di nuove pratiche espiatorie, frutto a loro volta dell’evoluzione sociale e culturale del tempo, le quali daranno luogo al moderno sistema penitenziale, sanzionato definitivamente dal concilio Lateranense IV27. L’eclisse dei capitolari, invece, è già evidente in Burcardo, il quale, pur non ostile