File - Paolo Bavazzano
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MEMORIE DELL’ACCADEMIA URBENSE Collana diretta da Alessandro Laguzzi Nuova serie n. 89 anno 2010 PAOLO BAVAZZANO UBALDO ARATA un ovadese nella storia del cinema Con una nota di Mario Canepa ACCADEMIA URBENSE CINEMA E' tutto qui il materiale che riguarda Ubaldo Arata… Vedi un po'… certo sarà da sistemare, impaginare… Ci sono i testi, la filmografia, le foto… E' un libro adesso, mi ha detto Paolo. Guardalo, hai tutto il tempo che vuoi e poi… una tua prefazione magari… Pensaci. Ci ho pensato. *** Lo zio Pino, il fratello di mia madre, era dell'undici ma nel ventotto era già scappato di casa. Per anni non se ne seppe più niente. E questo sembra già un film. Il primo marito della zia Anita, ufficiale di marina, venne invece ammazzato nel porto di New York negli anni trenta, e questo potrebbe essere il secondo tempo. Io sono cresciuto sentendo raccontare questi fatti e intanto che rigovernava la cucina la mamma si asciugava le lacrime. Abitavamo allora in via Gilardini a due passi dal Moderno, d'estate, per dare aria, aprivano il tetto così gli spettatori, con il film guardavano anche le stelle. Le voci, i dialoghi del film ci entravano in casa e si confondevano col rumore dei piatti, con i racconti della morte e la fuga degli zii e con il pestare nervoso di mio padre che, tra la carta del pane, si accaniva con le pastiglie Roter, quelle per l'ulcera, che non riusciva a ingoiare intere. Colpi di pistola e subito pensavo all'uccisione dello zio. Erano stati e George Raft, o Paul Muni o magari James Gagney, il più cattivo, quello che sorrideva, sparava e si aggiustava il cappello. Non c'entra la pistola, lo zio è stato pugnalato!, chiariva mio fratello. Allora pensavo a qualcuno che agiva con fare vigliaccamente subdolo… non poteva che essere Peter Lorre. Certo era stato lui anche se era impegnato a Dusseldorf con Fritz Lang ma intanto teneva in ostaggio in uno scantinato lo zio Pino che senz'altro non vedeva l'ora di tornare a casa. Realtà, finzione, lacrime vere… tutto era cinema. Poi arrivò la zia Maria: era piccola, grassa e con la smania di fumare. La sera ci faceva venire le ore piccole a raccontare di Roma, delle dive del cinema che lei frequentava. Io la stavo a sentire con gli occhi spalancati, dimenticando il sonno, e mi sembrava di partecipare ad un mondo sconosciuto. Al mattino, per lei, non era mai l'ora di alzarsi e la colazione la consumava a letto, come nei film dei telefoni bianchi. La cosa non andava giù a mio padre che, evidentemente, non era tagliato per il cinema. Arrivò una lettera dallo zio Pino e tutti a piangere attorno al tavolo. Ci chiedeva com'era andata, se la guerra ci aveva risparmiati. Quanti figli hai?, domandava a mia madre. Poi chiedeva perdono per il lungo silenzio (non può parlare di Peter Lorre, pensavo, naturalmente ora è nelle mani della Cia…) ma vi voglio bene, vi penso sempre, scriveva. U puraiva penseie anche prima!, disse subito mio padre, ricordando anni di lacrime. Abito a Hollywood, sono sposato e ho una figlia che si chiama Dina come te, scriveva, ma era come se parlassa a mia madre. Mia cugina Dina arrivò a Ovada negli anni sessanta, era felice, chiamava mio padre Daddy, come la canzone di Cole Porter, sorrideva, ci abbracciava… e questo era capitato proprio a noi, alla nostra famiglia, dove le effusioni erano bandite e sconosciute. Al mattino colazione tutti insieme seduti a tavola come fosse mezzogiorno: ci guardavamo con un po' di vergogna, sembravamo un telefilm. Dina lavorava per la Columbia Pictures e ci raccontava della sua amicizia con Gregory Peck, Cary Grant e altri e altri ancora, nomi noti e meno noti, che io credevo esistessero solo in celluloide, e ne parlava con naturalezza, così come noi in casa quando si diceva di Grillo l'elettricista, di Leoncini, di Gino Meneghetu o del farmacista in piazza… *** E il libro su Arata?, chiedevo a Paolo. Ma, non so… magari più avanti. Più avanti quanto?. Poi vedremo… devo ancora sentire il figlio se per caso… Un giorno, era il 2002, senza dirgli niente, mentre scrivevo la prefazione al volume due di Bala Giainte ci ha messo dentro questa strana storia di Bavazzano con Arata e, per combinazione, anche questa sembra un film. *** Sapete quanti Arata ci sono sull'elenco telefonico di Roma? La storia però incomincia in un altro modo. La storia inizia… e qui mi viene in mente mio figlio che da piccolo invece di inizio diceva l'incomincio. L'incomincio è un libro Cinema e Cineasti di George Sadoul, acquistato da Bavazzano molti anni fa. La storia avrà ora trent'anni. Torniamo al libro: nella pagina della A, come se fosse stato sempre lì ad aspettarlo, Paolo ci trova un Arata. Ma questo è un nome nostro, cosa ci fa nel cinema? Legge: Arata Ubaldo, operatore, nato ad Ovada (Al) nel 1895… Fu amore a prima vista. Da quel giorno non ha mai smesso di ricercare ed annotare tutto ciò che riguarda l'illustre, ma a noi ignoto, concittadino. Tutto quello che qui dico l'ho saputo da Paolo, in attesa che ci scriva prima o dopo un libro per saperne di più. Nel 1915 Arata è a Torino, allora capitale del muto, in seguito si trasferirà a Roma. E' l'operatore del primo film sonoro La canzone dell'amore, poi verranno Scipione l'Africano, Passaporto Rosso, Luciano Serra pilota e tanti altri… Alida Valli e Isa Miranda, in interviste dell'epoca, esprimono gratitudine e riconoscenza all'Arata testimoniando che devono a lui se ora sono quelle che sono… Ed è ancora l'Arata l'operatore del celebrato Roma città aperta. Negli anni '80 Ugo Pirro scrive Celluloide ( Lizzani ne ha poi tratto un film), un libro che racconta la rocambolesca vicenda della realizzazione del capolavoro di Rossellini e, tra i personaggi descritti, oltre a Rossellini, Magnani, Fabrizi ecc… c'è pure il nostro Arata. Per me fu naturale regalarlo a Paolo. Questo invece lo avevo scritto io: "Per farmi stare buono la mamma mi raccontava di Cinecittà e a me sembrava di sognare. Ci andò col marito di sua zia Maria che lavorava nel cinema. Conobbe Nazzari, la Valli, Cervi, De Sica e vide le case con solo la facciata e dietro altre storie". Lo zio della mamma si chiamava Mario Gnasso e il suo nome compariva spesso nei vecchi film in bianco e nero sotto la scritta "direttore di produzione". Chissà se lo zio ha conosciuto Arata?, mi domando ora. Magari lo incontrò anche la mamma allora… tanti anni fa… prima della guerra. Perché non telefoni a Roma?, chiedo a Paolo. Arata è morto nel '47, ma aveva un figlio forse… Paolo è dubbioso: con tutti gli Arata che ci sono a Roma dovrei star lì a raccontare a ognuno se per caso sono parenti di un Arata Ubaldo di origine ovadese che faceva l'ope- ratore a Cinecittà ai tempi di Rossellini, Nazzari e… Ma andiamo su! Sapete quanti Arata ci sono sull'elenco telefonico di Roma? Uno!, ed è il figlio di quello di Ovada. Che culo!, gli ho detto, visto che solo qui da noi gli Arata segnati sull'elenco sono ben 55! Paolo telefona: Mio padre è a cena fuori, gli risponde una voce gentile, mi spiace deluderla ma io del nonno non ne so proprio niente, però avviserò papà che ha chiamato da Ovada così domani si metterà in contatto con lei e... Quella sera il figlio di Arata era a cena con conoscenti ed amici di conoscenti. Pacche sulla schiena, presentazioni, strette di mano… piacere… molto lieto… Lei è di qui? No, sono di passaggio, io abito a Cremolino, un paese vicino ad Ovada, nell'alessandrino. Mio padre era di Ovada sa?, e pensi che combinazione!, proprio questa sera mio figlio mi ha avvisato che hanno telefonato da Ovada per sapere di mio padre… un certo Bavazzano… Lo conosco, gli dice quello di Cremolino, Bavazzano lavora con me! La sera dopo finalmente si trovarono e parlarono di Ubaldo Arata: Io allora ero un bambino, quando giravano gli esterni a volte mia madre mi portava, mi sedeva su una panchina, dondolavo le gambe e guardavo mio padre trafficare con la macchina, le luci… ricordo i tedeschi in divisa che andavano avanti e indietro e io non capi- vo se erano ancora quelli veri. Nella pausa mangiavamo un panino tutti insieme, c'era Rossellini, anche Fellini che allora faceva l'aiuto, poi Fabrizi che non sembrava neanche più un prete da come scherzava e raccontava le storie, e poi la Magnani che quel mattino era già morta quattro volte e ora rideva di cuore come non fosse successo niente… Mio padre morì giovane, aveva fatto da poco i cinquant'anni… io sono arrivato tardi, nel '37, ed è come se non ci fossimo incontrati: non ha fatto in tempo a raccontarmi la sua favola… Lo sa che è morto nel '47 mentre girava il Cagliostro con Orson Welles? Che domanda stupida le ho fatto!, lei conosce mio padre meglio di me. Mario Canepa UBALDO ARATA, oPeRAtoRe CinemAtoGRAfiCo OVADA 1895 - ROMA 1947 Da "Cabiria" a "Roma Città aperta", un ovadese nel mondo del cinema, Urbs, Gennaio 87 e Dai fasti di Cinecittà alla nascita del neorealismo; Urbs, Aprile 87 Sebbene di volta in volta ricorrano voci di crisi il cinema continua ad essere uno dei divertimenti preferiti, eppure, nonostante la sua attualità i suoi esordi sembrano ormai relegati in un passato mitico. A questo passato quasi leggendario appartiene anche un ovadese: Ubaldo Arata. Agli inizi del secolo Torino, quasi a rivalsa di essere stata solo per un brevissimo periodo capitale d'Italia, era un ribollire di iniziative in campo economico che il clima giolittiano favoriva. Nel 1902 funzionavano in città una decina di cinematografi e le pellicole importate dalla Francia non bastavano più a tenere aggiornati i cartelloni e a far fronte alle richieste che le nuove disponibilità economiche rendevano possibili. Questa congiuntura fece si che nascesse e si potesse sviluppare una produzione sul posto e nel volgere di pochi anni Torino divenne la capitale europea del cinema, mentre centinaia di pellicole varcavano i confini raggiungendo anche i lontani mercati americani e orientali. Ma nuovi traguardi erano possibili e il destro veniva fornito dalla grandiosa Esposizione Internazionale torinese del 1911. Ad essa la nascente industria cinematografica si volle presentare in forza sfoderando tutto il fascino del nuovo mezzo con una sorta di festival cinematografico a cui interverrà anche uno dei padri fondatori dell'effimero mondo della celluloide: Louis Lumière. Mescolato tra la folla vagante di padiglione in padiglione ci pare di scorgere Ubaldo, giovane studente, che affascinato dagli spettacoli e incuriosito dalle attrezzature esposte finì col farsi così suggestionare da quell'atmosfera particolare da decidere di abbandonare gli studi liceali per entrare senza ripensamenti nel mondo del cinema. Ubaldo Arata, figlio di Marco e di Concetta Aprile, era nato in Ovada il 23 marzo 1895. I genitori, camerieri del ministro guardasigilli Giacomo Costa, dovettero affrontare non pochi sacrifici per mantenerlo agli studi. Ubaldo, come abbiamo visto aspirava invece a diventare operatore cinematografico e ci riuscì grazie a Roberto Roberti Leone che lo mise subito alla prova dietro la macchina da presa. Per il Nostro fu l'inizio di una lunga avventura che lo avrebbe portato a partecipare alle tappe più significative del cinema nazionale, dall'epoca del muto alla "rinascita sonora", fino agli esordi del neorealismo che doveva riportare all'attenzione internazionale la cinematografia italiana del dopoguerra. Girò oltre centocinquanta films di cui almeno sessanta in veste di operatore primario o direttore della fotografia, mansioni che nel cinema delle origini erano affidate alla stessa persona. A Torino Arata si fece assumere dall'Itala Film. Lui stesso in un articolo autobiografico pubblicato negli Anni Trenta su "Cinema Illustrazione" sotto il titolo di "Quelli di cui il pubblico si accorge di meno" ricorda che negli studi cinematografici torinesi si impratichì dietro la macchina da presa e nell'illuminazione delle scene come allievo e collaboratore di Roberto Roberti Leone, padre del noto regista di film western Sergio Leone. Dalla sua entrata nel mondo del cinema trascorrono circa tre anni ed ecco che l'apprendista operatore viene messo alla prova. Filma con grande emozione la diva del momento Italia Almirante Manzini ne "Il Matrimonio di Olimpia" diretto da Gero Zambuto. Possiamo ripercorrere l'attività svolta dall'operatore avvalendoci di testimonianze pressoché sconosciute e segnatamente della citata autobiografia apparsa nel 1934 su "Cinema illustrazione". A quei tempi il cinema italiano era monopolio del regime e la via del successo passava spesso, per le stelline, dall'alcova di qualche gerarca. Arata era considerato uno dei migliori tecnici di cui l'industria cinematografica romana potesse disporre ma il ricordo degli esordi torinesi era per lui indelebile. Ecco come rievoca, adottando uno stile alla Guido da Verona, quelle prime esperienze: "Dopo diciotto e più anni che faccio l'operatore, al passo più difficile giungo proprio adesso costringendomi a queste confessioni. Che ho potuto fare giacché sono operatore cinematografico se non inquadrare, selezionare, illuminare scene e figure? Il mio ruolo è modesto per quanto utile e di grande importanza è la mia funzione. Finora ho girato cento film o giù di lì. Di questi, diciotto almeno alla nuova Cines, circa un quarto del mio lavoro totale si è così svolto nella lavorazione sonora. Ma la maggior tenerezza produce in me il ricordo dei primi passi, in una piccola casa cinematografica torinese che nascondeva la sua reale modestia sotto la pomposa insegna dell'Aquila Film. In quegli stabilimenti di Via Tiziano, Roberto Roberti mi avviò a quest'arte che incominciò subito a procurarmi emozioni grandissime, In quel primo film, infatti la drammaticità d'una scena che dovevo riprendere mi emozionò tanto che non riuscii a finirla. Ma lentamente si andò maturando in me quello spirito di fredda penetrazione che occorre possedere ad ogni costo per non abbandonarsi neppure nei momenti più patetici alla deriva dei sentimenti. Nell'Itala Film del Mecheri collaborai con Gero Zambuto al primo suo film "Il matrimonio di Olimpia" prima attrice la stella di allora dal nome sonante a dagli atteggiamenti venusti e floreali: Italia Almirante Manzini. Ma a completare il mio curricolo professionale dovrei tirare in ballo nomi più illustri della nostra cinematografia, da Pastrone a Genina e Ghione". Nel profilo biografico dedicato ad Arata da Mario Quargnolo, ("Filmlexicon delle Opere e degli Autori" a cura della rivista "Bianco e Nero" - Roma 1958), si legge che divenne operatore effettivo nel 1915 ma prima collaborò alla realizzazione di un numero imprecisato di pellicole nelle quali il suo nome non figura. Come lui stesso afferma lavorò anche con Giovanni Pastrone, mostro sacro del cinema piemontese, ideatore del mitico capolavoro "Cabiria" (1914) la cui gloria condivise con Gabriele Dannunzio che ne dettò le didascalie. La confessione di Arata continua: "Con Genina" il grande Genina "eccomi alla macchina per quell' "Orizzontale", (1919) che considero uno dei migliori film dell'epoca, e che venne girato alla FERT di Enrico Fiori presso la quale lavorai anche con Righelli ne "Il richiamo" (1919) e con Mario Almirante negli "Zingari" (1920) interpreti Amleto Novelli e Italia Almirante Manzini, attori che io inquadrai ancora nell'"Arzigogolo" (1924) e nel "Fornaretto di Venezia" (1923)". Ma il Nostro dimentica di citare dello stesso periodo: "Il romanzo nero e rosa" (1921); "La statua di carne" (1921); "I Foscari" (1922); "La piccola parrocchia" (1923); "L'ombra 1924"; "La grande passione" (1924); tutte pellicole dirette da Mario Almirante, regista "tipico di quella vecchia guardia del muto" che non volle adeguarsi alla nuova era sonora e fascistizzante. Nel 1925 la F.E.R.T., la società per la quale l'operatore lavorava, abbandonata dai finanziatori stava naufragando. Entra in ballo la Stefano Pittaluga, alla quale Arata si lega contrattualmente per circa quattro anni. Si trova così impegnato nelle riprese di "Maciste all'inferno" (1925), diretto da Guido Brignone e interpretato da Bartolomeo Pagano il popolare camallo genovese dalla forza smisurata, capostipite di una numerosa progenie di forzuti ercoli e macisti le cui epiche imprese ebbero un revival all'inizio degli Anni Sessanta e che ancora oggi deliziano i pomeriggi televisivi dei nostri ragazzi. Successivamente Arata si trasferì in Germania. Di quel tempo ricorda: "Non era certo Alessandro Balsetti Anton Giulio Bragaglia Brigitte Helm facile lavorare allora con i mezzi tecnici di cui si poteva disporre. Si dovevano compiere dei veri e propri salti mortali. Figurarsi il mio ammirato stupore quando a Berlino con Righelli per girare il "Transatlantico". La ricchezza e la modernità degli impianti, delle macchine, dei congegni che le case tedesche possedevano mi diedero la vertigine da principio, ma poi mi misero la febbre addosso accrescendo in me la fiducia dell'avvenire della cinematografia". Negli studi tedeschi Arata arricchì la propria esperienza professionale. Ritornato in patria il suo campo d'azione doveva spostarsi dagli artificiosi teatri di posa agli esterni per riprendere incomparabili panorami: "Dagli stabilimenti berlinesi di Grunewald e di Johannistal eccomi inviato dalla Pittaluga, nei mari e nelle terre del vicino Oriente. Percorsi per un documentario l'Egitto, la nostra Africa settentrionale, la Palestina, il Bosforo e le isole dell'Egeo. Fu in questa crociera che ebbi la prima avventura marina. Quasi per dovere di ospitalità (ospitalità attiva) pensai di prendere l'intera sagoma del "Conte Verde" in navigazione calandomi in mare con una scialuppa. La folla dei passeggeri protesa sul ponte mi vide diventare sempre più piccolo e quasi scomparire, misero e solo nella vastità bianco azzurra del mare. E grandi strilli si levarono e imprecazioni contro lo Stato Maggiore che incurante di me pareva abbandonarmi a sicura morte. E quando la scialuppa ritornò sul fianco del transatlantico che aveva compiuto la rivoluzione pre- stabilita vidi negli occhi di ognuno come la drammaticità del caso sia sola a far affiorare i buoni sentimenti e la solidarietà umana". Nel 1926 la società cinematografica gestita da Stefano Pittaluga cambiò nome diventando la "Anonima Pittaluga" che inglobò gli stabilimenti della vecchia F.E.R.T. riscattata dallo stesso cineasta nel 1919. Sotto tale insegna Arata lavorò con Baldassarre Negroni in "Beatrice Cenci" (1926), ancora con Mario Almirante ne "Il Carnevale di Venezia" (1927) e nuovamente con Negroni ne "Il vetturale del Moncenisio" (1928) e "Giuditta e Oloferne" (1928). gli ultimi due film vennero interpretati da Bartolomeo Pagano, il Maciste nazionale, l'unico ancora capace di attirare pubblico nelle sale cinematografiche sempre meno frequentate a causa del preannunciarsi di una crisi che avrebbe investito non solo il mondo del cinema. Fu in quel periodo che molte maestranze, registi, tecnici, furono costrette ad emigrare all'estero dove, oltre a trovare lavoro, conobbero innovazioni tecnologiche che stavano affermandosi. Mentre all'estero veniva largamente sperimentata la tecnica del sonoro, in Italia, il regime, che fino ad allora si era occupato marginalmente di cinema, si rendeva conto di aver sottovalutato troppo a lungo un mezzo propagandistico così efficace, tanto più ora che la voce era alle porte. Già un primo passo per piegare il cinema alle esigenze del regime fu la creazione dell'Istituto Luce a Roma e la distribuzione dei famosi cinegiornali che dal 1927 dovevano essere proiettati obbligatoriamente nelle sale cinematografiche della penisola. Clara Calamai Dria Pola Maria Denis Doris Durante Ancora qualche anno e su tutto il mondo della celluloide sarebbe calata l'onnipresente e vischiosa censura del celebre MINCULPOP (Ministero Cultura Popolare) che dai testi ai soggetti, agli stessi artisti e lavoratori dei teatri di posa avrebbe garantito la più rigorosa uniformità con le parole d'ordine della propaganda. Frattanto Arata ritornava in Germania per un nuovo periodo di aggiornamento. Scriverà poi nell'autobiografia: "Beatrice Cenci" è stato il nuovo film per cui fu richiesta la mia opera, poi "Il carnevale di Venezia" e diversi altri fra cui vari della pittoresca e ingenua serie dei "Maciste".Ritornai dopo a Berlino dove trascorsi tre mesi a scopo di studio e per conto dell'Ente della Cinematografia negli stabilimenti dell'UFA. Qui conobbi naturalmente parecchi direttori tedeschi. Essi hanno una grande considerazione per gli artisti e per i tecnici italiani: ma soprattutto ispira simpatia quella esuberante festività che li fa entusiasti del lavoro e rende duttile il loro carattere a fondo duro e lineare". Berlino offrì ad Arata una grande occasione, facendolo lavorare al massimo livello professionale. Infatti collaborò, con l'operatore tedesco Carl Hoffman, che allora passava per il migliore d'Europa e aveva girato "Varietè" "Nibelunghi" "Faust", alla realizzazione di "Manolescu" (1929), diretto da Richard Oswald. Attori protagonisti: Ivan Msjouskine e Brigitte Helm, stella di prima grandezza del firmamento cinematografico in seguito al successo ottenuto interpretando la parte di Maria in "Metropolis" di Fritz Lang. Bellezza ermetica, trascinante, misteriosa, fatale, cosi la definivano i rotocalchi dell'epoca. in "Manolescu", la Helm, è la "bionda sirena che non ha scrupolo di consegnare alla polizia l'uomo che un giorno fu tutto per lei". Ritornato in Italia, accanto all'esordiente Mario Camerini, Arata si trovò sul set di "Rotaie" (1929). Una pellicola a sfondo drammatico sentimentale prodotta dalla Sacia Film Milano, girata muta e riproposta due anni dopo in versione sonorizzata. Nello stesso anno, l'operatore fu chiamato per le riprese di "Napoli che canta", diretto da Mario Almirante, altro film uscito in versione muta e successivamente riproposto con basi sonorizzate. "Rotaie", come vedremo, riservò ad Arata anche una brutta avventura: "Ritornato in Italia già pratico del sonoro lavorai con un direttore giovanissimo Mario Camerini alla realizzazione di un soggetto dovuto alla fantasia di un ancor più giovane poeta, Corrado D'Errico. Il film si chiamò "Rotaie" vi lavorarono Kate Von Nagy, Maurizio D'Ancora e Daniele Crespi e doveva darmi l'emozione di uno scontro ferroviario dopo le non veraci impressioni di un naufragio. Durante la lavorazione del film, infatti, essendo una vettura trainata da una grossa locomotiva, fummo arrestati per oltre un'ora e mezza a causa di una via chiusa. Il macchinista s'accorse un po' tardino guardando l'orologio dell'imminenza del passaggio, per il binario da noi occupato, di un direttissimo. ci istradò allora precipitosamente sul binario laterale. ma il sopraggiungere fulmineo del convoglio provocò l'urto con la coda della nostra vettura, sicché la mia macchina da presa e i praticabili andarono in frantumi". Nel 1930 uscì il primo film sonoro italiano intitolato "La canzone dell'amore" e Arata vi collaborò per le riprese con Massimo Terzano. La Stefano Pittaluga si avvalse del già col- laudato regista Gennaro Righelli e scomodò per i dialoghi addirittura il noto commediografo Luigi Pirandello che nel '34 avrebbe vinto il Premio Nobel per la letteratura. La pellicola venne accolta favorevolmente dal regime e dalla critica. Per quanto ci risulta coincide con l'affermazione professionale di Arata sebbene le sue prove migliori erano ancora di la da venire. "La canzone dell'amore" uscì con il marchio Cines, una vecchia casa cinematografica romana, sorta fuori Porta San Giovanni nel 1905, che con l'avvento del film parlato risorse a nuova vita. Con il sonoro il polo attrattivo del cinema italiano si spostava definitivamente a Roma, come era nei disegni del regime che a questo scopo aveva investito ingenti capitali. Egualmente ebbe successo l'operazione volta a monopolizzare la produzione e la distribuzione e mentre iniziava l'era che dava la parola all'immagine, caratterizzata da pellicole a sfondo patrio ed eroico, le ultime voci indipendenti del cinema nazionale tacevano, o prendevano la via dell'esilio. *** Abbiamo lasciato l'operatore Ubaldo Arata al primo tentativo di film sonoro italiano ed è opportuno parlare della Cines, la casa produttrice della pellicola. Inaugurata nel 1930 da "Sua Eccellenza" il ministro Giuseppe Bottai, la Cines da subito eguaglia per efficenza degli impianti le grandi compagnie americane ed è in grado di immettere nel circuiti frui- tori quasi la totalità della produzione cinematografica nazionale. Della distribuzione si incarica Stefano Pittaluga a quei tempi acclamato re della pellicola, Dei sette film usciti in Italia nel 1930, sei ostentano il marchio Cines. Arata collabora a quattro di essi: "La canzone dell'amore" "Napoli che canta" "Rotaie", di cui abbiamo accennato in precedenza, e "Corte d'assise" di Guido Brignone, un giallo - processo sul quale il critico E. M. Margadonna scriveva: “Diciamo subito che Corte d 'assise rappresenta un trionfo. i nostri tecnici operatori dell'obiettivo e del microfono, che già in 'Canzone dell'amore, avevano lavorato egregiamente, hanno compiuto il loro dovere con eccezionale valentia collaudando ancora una volta i nostri impianti, modes i forse, ma predisposti e adoperati con ogni scrupolo". Del film sono segnalate buone inquadrature che sottolineano in primo piano lì potenziale espressivo della giovane attrice Marcella Albani che decreta il successo della pellicola. Nel 1931 la Cines realizza dodici film a Arata partecipa a due di essi. Iniziamo con "Medico per forza" trasposizione cinematografica della commedia di Moliere che riporta sul grande schermo l'arguta comicità di Ettore Petrolini, attore di teatro che, come tanti, non sa resistere alla tentazione di prodursi di fronte a l'obiettivo. Nel film, diretto da Carlo Campogalliani, Petrolini entra nei panni dell'ubriacone e manesco Sganarello punito dalla moglie Martina che a suon di bastonate lo convince a fingersi medico. Ancora con Guido Brignone, Arata punta l'obiettivo su "Rubacuori" con Armando Falconi e Grazia del Rio, un titolo antesignano di quel filone caratteristico degli anni Trenta denominato "Cinema dei telefoni bianchi" definizione derivata, dice Fernaldo di Giammatteo: "Da alcune ambien- Ettore Petrolini tazioni create dai pittori menzi e Levi che prevedevano interni completamente bianchi (compreso lo Status Symbol del benessere sociale, il telefono). Si tratta di film basati su intreccio ad equivoci che ruota intorno ad una serie di malintesi che preludono allo scioglimento della azione con lieto fine". Aggiunge il critico che si tratta di "film in cui sono spesso cancellati tutti i riferimenti alla vita italiana a volte anche geografici" tanto è vero che la pellicola che dà inizio al fortunato filone "La telefonista" (1932), viene girata addirittura in Ungheria. Noi aggiungiamo che si tratta in concreto della applicazione al campo cinematografico delle direttive del regime che impedivano la pubblicazione sui quotidiani della cronaca nera. Con Mario Camerini, esponente di spicco del cinema dei telefoni bianchi, Arata gira nel 1932 "Ultima avventura" con Armando Falconi e Diomira Jacobini. Nello stesso anno l'operatore è sul set di "Paradiso" diretto da Guido Bnignone e, sotto la direzione dello stesso, prende parte alla lavorazione de "La Wally", di cui scrive nella autobiografia da noi già ampiamente utilizzata: "Le emozioni alpine è stato invece il film la Wally a darmela, a causa di quella valanga che si staccò dalla Jungfrau quasi a protestare contro il nostro tentativo di violazione dei vergini silenzi, delle vette e delle distese delle Alpi. Quel film però non poteva arrestarlo neppure la improvvisa ostilità della natura tanta era la passione che tutti, da Brignone all'ultimo aiutante, portavamo per affermare la nuova attrice Germana Paolieri che aveva acceso tante speranze". Nel 1932 muore improvvisamente Ste fano Pittaluga e la Cines, pur presentando sullo schermo ben sedici lungometraggi deve misurarsi con la concorrenza che riesce a pro- durne diciotto. Nel frattempo esordisce la rassegna di arte cinematografica di Venezia che richiama in Italia un buon numero di critici e giornalisti stranieri al seguito delle nove nazioni invitate. Per lì cinema si aprono più vasti orizzonti e ulteriori occasioni di confronto tra le diverse cinematografie in lizza. Quale migliore film straniero è giudicato "l'Uomo di Aran" (di produzione bnitannica) del documentarista Robert Flaherty; riconoscimento dato ad una cinematografia minore ma di ottimo livello artistico che impiega modelli di lettura diversi dal cinema nostrano che per ragioni di botteghino tende a privilegiare la quantità alla qualità. Nel 1933, per la "Forzano film", Arata gira "Villafranca" diretto da Giovacchino Forzano, con Annibale Betrone, Corrado Racca e Enzo Bilotti. Quindi pone la propria esperienza al servizio di vari indipendenti ma il cinema si prepara ad affrontare un nuovo momento di crisi che non risparmia nessuno, come testimonia uno scritto di Arata del dieci novembre 1933: "Alla Cines siamo tutti tra coloro che son sospesi, da qualche tempo, tutti i giorni stanno licenziando personale di tutte le categorie, il lavoro è sospeso per tutti, anche noi vecchi tecnici dello stabilimento non siamo ancora in grado di sapere quale sarà la nostra sorte. Allo stabilimento Luce lavorano ma anche la stanno sempre licenziando personale e corre voce che le cose non vadano troppo bene". Pare però che il lavoro di Arata non risenta molto di questa situazione. Un'altro film riportato nelle diverse filmografie riguardanti l'operatore è del 1933: "T'amerò sempre" di Mario Camerini, girato contemporaneamente in versione francese e riproposto (remarke) nel 1943 a cura dello stesso regista. La pellicola è un esempio tipico della commedia rosa in voga in quegli anni. Tra gli interpreti: Elsa de Giorgi, Mino Dono, agli esordi cinematografici, e Nino Besozzi nel ruolo di "un giovanotto prestante e di modi seducenti che travia una giovinetta e tenta invano di approfittarne anche quando lei ha incontrato il vero amore”. Mario Camerini, intervistato da Sergio Grmek Germani (Cfr. lì Castoro Cinema - La Nuova Italia, Firenze 1980) parlando dei suoi operatori, fra i quali Arata, dice: "erano operatori che avevano il mestiere, ossia era un miracolo quello che si faceva perché molte volte si andava di notte a girare le scene, non veniva niente perchè durante il giorno avevano girato e l'occhio non era più adatto a calcolare le differenze della luce. oggi dal punto di vista tecnico è facilissimo fare l'operatore, c'è solamente il gusto delle luci". Nel 1934 Arata prende parte alla realizzazione di diverse pellicole tra cui "la Signora paradiso" di Enrico Guazzoni, produzione Tirrenia film, interpreti: Elsa de Giorgi, Mino Doro e Memo Benassi. Il regista Guazzoni maestro del genere storico, è suo "Quo vadis" primo lungometraggio della storia del cinema, non riesce a riconfermare la propria bravura con il film parlato. Ancora nel 1934 Arata gira "Frutto acerbo", produzione LCD., regia di C.L. Bragaglia, interpreti Lotte Menas e Nino Besozzi. Dopo una parentesi segnata da pellicole di scarso rilievo l'operatore lavora accanto ad un grande professionista dell'immagine: Max Ophuls che nel 1934 firma la regia de "La Signora di tutti" prodotto rivelazione di Isa Miranda, un tipico esempio delle nuove fortune generate dal mondo della celluloide. La Miranda prima di entrare nel cinema era stata scatolaia, commessa di negozio e stenodattilografa. Da Max Ophuls Arata ricevette l'offeta di lavorare in Francia al suo fianco ma non se ne fece nulla. Nel 1935, con Guido Brignone, Arata gira "Passaporto rosso" "Lorenzino de Medici" " Ginevra degli Almieri" e con Alessandro Blasetti "Aldebaran" ambientato nella Marina Militare Italiana. È l'ultimo film realizzato alla Cines i cui teatri di posa sono distrutti da un violento incendio divampato misteriosamente nella notte del 26 settembre 1935. L'incendio, a quanto pare di origine dolosa, si rivela quanto mai propizio addirittura per il proprietario degli stabilimenti andati in fumo, il costruttore Carlo Roncoroni che, anzichè versare lacrime sulle ceneri della Cines acquistata dall'IRI; di li a poco, con l'aiuto del regime, avrebbe costruito il grande complesso industriale di Cinecittà. Sempre nel '35 la Banca Nazionale del Lavoro, su indicazione della Direzione Generale della Cinematografia, inizia a erogare crediti ai produttori. Lo stato da parte sua emana una serie di provvidenze che assicurano ad un certo genere di film l'anticipo di un terzo delle spese occorrenti per la realizzazione. In particolare ne usufruiscono pellicole messe in cantiere negli anni 1936-37-38, nelle quali gli intenti propagandistici del regime sono più evidenti. Ad esempio "Scipione l'africano" e ''Luciano Serra pilota'' ai quali Arata è chiamato a collaborare. L'idea di realizzare "Scipione l'africano" nasce appena dopo che le truppe italiane di Badoglio sono entrate ad Addis Abeba e l'impero è tornato sui colli fatali di Roma. Bartolomeo Pagano, Maciste L'intento encomistico e celebrativo dell'impresa del regime è espresso chiaramente nel programma. Esso infatti: "Rispondendo alla sostanza viva del nostro tempo (Parole di Luig Freddi, allora direttore generale della cinematografia), traduce in immagini l'essenziale identità di spirito che unisce la grande Roma della conquista africana alla grande Roma della conquista etiopica”. Riferimenti e confronti tra la vittoria di Zama e quella di Addis Abeba sono dichiaratamente cercati e mirano ad esaltare il valore e la politica colonialistica dello stato fascista. Il film, diretto da Carmine Gallone, viene preparato nei minimi dettagli tecnici, ha dei costi faraonici ma non si rivela il capolavoro tanto atteso. Premiato a Venezia nel 1937, fa soprattutto testo per l'artificiosità che lo contraddistingue e l'impressione di finzione che comunicano anche le sequenze più spettacolari e suggestive. Mentre nei dintorni di Sabaudia si svolgono gli ultimi giri di manovella di "Scipione l'africano" al Quadraro, a pochi chilometri da porta San Giovanni, si danno gli ultimi ritocchi a Cinecittà; inaugurata dal Duce in persona il 28 aprile 1937. Essa, (scrive Quivis in: Vita e miracoli di Cinecittà - "Le Vie d'Italia", dicembre 1938) "si espande oggi, coi suoi edifici e i suoi giardini, su un'area di circa centoventimila metri quadrati, ha a propria disposizione altri quattrocentomila metri quadrati di terreno e possiede dieci teatri di posa. Continuando a girare per la città troveremo le officine, i laboratori, i magazzini, i locali della mensa" e via con un altra sequela di dati e notazioni che esaltano questa nostra Hollywood casareccia: in diciotto mesi fino ad oggi sono stati eseguiti cinquanta film, dei quali dieci in doppia versione. il primo, girato in presenza del Duce è stato "Luciano Serra pilota". Uno dei film sull'arma prediletta del regime che ottiene un enorme successo popolare grazie ad Amedeo Nazzari ormai all'apice della carriera di attore. La pellicola ha come supervisore l'asso pilota Romano Mussolini, figlio del duce, che coltiva grande passione per l'arte del cinema e si propone di emulare gli splendori di Hollywood a Cinecittà. Luciano Serra, intrepido pilota, distintosi in azioni eroiche durante la guerra 15-18, al termine del conflitto rifiuta un comodo impiego e dopo una serie di traversie, che lo portano anche in terra straniera a veder umiliata la sua italianità, perde la vita in una azione eroica e il suo sacrificio contribuisce ad esaltare sullo schermo le gesta africane che hanno portato all'impero. Presente alla mostra del cinema di Venezia nel 1938, lì film viene premiato con la coppa Mussolini (ex equo) con "Olympia" il documentario sulle Olimpiadi di Berlino di Leni Riefenstahl. Nello stesso anno il nostro Ubaldo inizia a lavorare per la Scalera Film, dei fratelli Antonio e Salvatore Scalera, approdati alla decima musa dopo essersi arricchiti come costruttori della litoranea libica. Gli speculatori fiutano l'affare e comprendono come grazie all'autarchia filmistica gli italiani che vogliono andare al cinema saranno costretti a vedere le loro pellicole. Sotto tale insegna Arata gira una decina di lungometraggi che lo tengono occupato anche durante lo svolgimento del secondo conflitto mondiale. Ricordiamone alcuni: Janné Doré (1938) di Mario Bonnard, l'Ultima giovinezza (1939) di Goffredo Alessandrini, il Ponte di vetro (1940) di Goffredo Alessandrini, Processo e morte di Socrate (1940) di Corrado d'Errico, È caduta una donna (1941) di Alfredo Guaini, Perdizione (1942) di Carlo Campogalliani, I due Foscari (1942) di Enrico Fuighignoni. Sfilano di fronte a l'obiettivo di Arata gli attori più affermati e popolari del cinema nazionale: Emma Gramatica, Ruggero Ruggeri, Ermete Zacconi, Isa Pola, Oreste Bilancia, Erminio Spalla, ecc. Il regista Mario Bava in Avventurosa Storia del Cinema italiano 1935-59, Faldini-Fofi ed. Feltrinelli 1979) afferma: La Scalera film dette il via al cinema italiano vero. Si cominciò a spargere la voce per Roma che terzano, Arata, Brizzi e montuori, i grandi operatori venivano presi a l4mila lire al mese (la topolino quando usci costava 5000 lire). Nel 1942 la città del cinema riesce a produrre la cifra record di 120 lungometraggi. La frenetica attività svolta all'interno dei teatri di posa ha fine solo con i bombardamenti e l'occupazione della capitale da parte delle truppe tedesche. "Rimasto forzatamente inattivo dalla fine del '43 alla liberazione di Roma, Arata, è tra i primissimi a riprendere a girare". Era destino che proprio lui, che aveva fulmato la più osannata pellicola del regime, ora, avesse il compito di far vedere agli italiani i guasti e le ferocie della guerra in "Roma città aperta" film di Roberto Rossellini che segna la nascita del neorealismo e il ritorno in campo internazionale della cinematografia italiana. Esso infatti, premiato al festival di Cannes 1946, porta il nome di Arata come direttore della fotografia. Fra le innumerevoli testimonianze raccolte dai cultori dell'arte cinematografica, su "Roma città aperta" quella di Jone Tuzzi, Eli Parvo Rossano Brazzi segretaria di produzione del film, è certo la più singolare rispetto al tema che stiamo svolgendo: "il povero Arata aveva tutte le lampade gialle, che davano tutte una luce gialla, allora si arrabbiava e si sfogava facendo delle gran risate.Girammo in via Rasella, poi in quel posto che serviva come sede della Gestapo, via tasso, a casa di maria michi. e Arata si faceva queste gran risate: voglio la luce, non posso, non si vede niente. nel film c'erano molte cose vere. Allora non c'erano le cronache sui giornali, certe cose li sapevamo per sentito dire, perchè la gente ne parlava ". (l'Avventurosa Storia del Cinema italiano. op. cit). Ancora nel 1945 l'operatore è presente sui set de "La vita ricomincia" di Mario Mattoli e de "l'Adultera" con Clara Calamai. Nel 1946 collabora a "Sinfonia fatale" di Victor Stoloff e "Theran" di William Freshman. All'apice del successo e della carriera viene chiamato per le riprese di "Black Magic" ovvero Cagliostro, di Gregory Ratoff. interpretato da un beffardo Orson Welles, ma è l'ultima volta che Ubaldo Arata pone la propria esperienza di operatore al servizio del cinema. La morte lo coglie improvvisamente il 7 dicembre 1947.Per la stesura della prima e seconda parte di queste nostre note, oltre alle opere citate nel testo, sono state consultate le annate 1930-31-32 della rivista "Comoedia" rassegna mensile del teatro e vari numeri dell'"Illustrazione del Popolo"" dello stesso periodo. Ringraziamo sentitamente per le notizie biografiche sull'operatore e i preziosi suggerimenti forniti la prof.ssa Maria Adriana Prolo del Museo Nazionale del Cinema di Torino, il dott. Achille Valdata del quotidiano "La Stampa" di Torino e l'A.I.A.C.E.(Associazione Italiana Amici del Cinema d'Essai) di Roma. Cronache del passato. Un ricordo dell'attrice A lida V alli. La grande interprete di Senso filmata dall'ovadese Ubaldo A rata Il 22 aprile si è spenta a Roma l'attrice Alida Valli. La ricordiamo su Ovada Notizie, perché ci sentiamo veramente onorati di poter affiancare il nome dell'espressiva interprete di Senso (1954) di Visconti a quello di un concittadino che tanta parte ha avuto nel mondo del cinema italiano. Si tratta dell'operatore Ubaldo Arata (1895 - 1947) il quale ha filmato la Valli in "La vita ricomincia", pellicola realizzata negli stabilimenti SAFA Palatino, per la Minerva Film, a guerra appena finita. Gli studi cinematografici, in parte occupati dagli sfollati, come nel caso di Cinecittà, sono nuovamente utilizzati nella maniera appropriata. Il regista Mario Mattoli (noto per i film di Totò) fa battere il primo ciak, Arata fa partire la macchina da presa e presto una nuova pellicola sarà pronta per gli schermi dell'Italia libera. Richiamerà nelle sale cinematografiche tanta gente che dopo gli orrori della guerra ha voglia di sognare, di ballare, di fischiettare motivi come ma l'amore no…, del maestro Giovanni D'Anzi, cantata dalla Valli nel film Stasera niente di nuovo (1942), sempre diretto da Mattoli. Nata a Pola, Croazia, nel 1921, recentemente commemorata dalle più alte cariche dello Stato (Ciampi l'ha definita la "fidanzata d'italia") e dal mondo del Cinema, quando presta il proprio volto per la realizzazione del film di cui si tratta la Valli è attrice già affermata. Consacrata diva con Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati, è anche stata diretta da Goffredo Alessandrini in noi vivi e Addio Kiria, lungometraggi di grande impatto sul pubblico. Arata (nella foto) avendo da poco finito le riprese del capolavoro di Rossellini Roma Città Aperta, non ne ha ancora assaporato il successo che giungerà, con particolari motivazioni per quanto riguarda la fotografia, con il festival di Cannes nell'anno successivo. E' operatore di grand'esperienza professionale, lavora nell'ambiente cinematografico dall'epoca del muto, costituisce una garanzia per Mattoli che con questo film vuole dimostrare che si può anche opporre al neorealismo emergente un cinema popolare, con grandi attori, trattando gli stessi temi con uno spirito più roseo e semplicistico. Ecco la trama ripresa dal corposo Dizionario dei film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi, Milano 1993: 1945: dopo la prigionia, un medico, (Giachetti), torna a casa, a Roma. La moglie (Valli) che, per salvare il figlio, si era dovuta prostituire, uccide il suo aguzzino. il marito se ne addossa la colpa; ma, come proclama il titolo, dopo tanti travagli si apre uno spiraglio alla speranza. De filippo si ritaglia la parte di un professore disoccupato ("C'è la libertà i ragazzi non vanno a scuola") e filosofeggiante. Tra gli interpreti del film, come accennato: il livornese Fosco Giachetti, protagonista di pellicole di regime come Lo squadrone bianco (1936) e L'assedio dell'Alcazar (1940) di Augusto Genina, il grande Eduardo De Filippo di cui pare superfluo riandare ai numerosi lavori teatrali, cinematografici e televisivi di cui è stato interprete. Fra gli attori citiamo ancora l'indimenticabile Carletto Romano e il caratterista Nando Bruno. Mario Mattoli, affida la sceneggiatura ad Aldo De Benedetti, si avvale dell'esperienza dello scenografo Gaston Medin, vuole al suo fianco l'allora trentenne ma già artisticamente agguerrito Stefano Vanzina, una promessa per il cinema italiano, meglio conosciuto come Steno. Quali nomi e quali interpreti! David O. Selznick ammirò tanto la Valli in questo film da volerla a Hollywood per girare il caso Paradine (1947) di A. Hitchcock, dove però, come successivamente altre dive italiane: la Miranda, la Magnani, la Loren, ella non riesce a trovare la giusta simbiosi con gli stili statunitensi. Ne La vita ricomincia (foto di copertina di un cineromanzo del tempo), la bellissima Alida malinconicamente canta "t'ho incontrato a napoli, non ti scorderò mai più…" una canzone divenuta popolare, che sottolinea la scena finale del film col volto piangente della diva in un primo piano valorizzato dalla fotografia di Arata: con le note di questa canzone e con tale inquadratura, che suggella l'impegno artistico di entrambi, ci piace concludere il ricordo della grande attrice e del nostro operatore. Alida Valli Cremolino QUELL'ESTATE CON ORSON WELLES A CREMOLINO L'INTERPRETE DI QuARto PoteRe, INCONTRA L'OPERATORE ARATA Nel volume della serie Castoro Cinema (2004) dedicato a Robert Bresson, Nuccio Lodato anticipa che sta ultimando il "Il principe del bianco e nero", libro dedicato all'operatore cinematografico Ubaldo Arata, nato a Ovada nel 1895, scomparso a Roma nel 1947. Sull'operatore continuano le ricerche di materiale e, a cura dell'Accademia Urbense, si sta preparando un convegno che ne metterà ulteriormente in luce la vita e l'opera. Tra le più recenti notizie raccolte sull'operatore, davvero singolare è l'episodio narratoci dal figlio Guido il quale, a Roma, sostanzialmente prosegue la strada professionale paterna come produttore di programmi televisivi. Dopo il successo mondiale di Roma Città Aperta (1945), il capolavoro di Rossellini che ha dato il via al filone del neorealismo, Ubaldo Arata, che ne ha firmato la fotografia, è ormai apprezzato in tutto il mondo. La Scalera, casa cinematografica per la quale ha lavorato in vari lungometraggi, intende scritturarlo per un film di produzione italo-americana; protagonista il grande Orson Welles, già conduttore radiofonico noto per aver terrorizzato nel 1938 gli americani annunciando la discesa degli alieni sulla terra. Era solamente l'adattamento radiofonico di La guerra dei mondi, di un suo omonimo, che passò alla storia come la beffa dei marziani. Il nome di Welles è spesso associato a quest'episodio d'inizio carriera, mentre è del tutto ignorato un momento della sua vita d'artista che ha come ambienta- zione scenica il piccolo paese di Cremolino. Questo perché, il pittoresco borgo appollaiato sul colle vicino al vecchio castello, nell'estate del 1947, come di consueto, ha nell'operatore cinematografico Ubaldo Arata un ospite gradito e perfettamente integrato. Egli vi sta trascorrendo una breve vacanza con la moglie e i figli; le fatiche accumulate negli ultimi set cinematografici l'hanno messo a dura prova, soffre di nefrite e una pausa distensiva in campagna, lontano dalla frenetica vita della Città del Cinema, sembra il modo migliore per riacquistare la piena forma. Roma è lontana, ma la fama di Arata ha ormai varcato l'oceano e neppure un luogo tranquillo e ospitale come Cremolino, riesce a proteggere l'operatore dalle conseguenze della notorietà conquistata nel mondo della celluloide. Un pomeriggio giunge in paese una bellissima e luccicante automobile americana lunga parecchi metri. Lo stupore è generale; mai meraviglia simile s'era vista percorrere le vie del paese attraversate semmai da carri e quadrupedi, ciclisti e motociclisti, dalla sgangherata corriera di linea, da alcuni camion e rare automobili di passaggio sulla Provinciale. Al seguito della vettura si forma un nugolo vociante di ragazzi che corrono all'impazzata per tenervi dietro. La curiosità coinvolge anche chi se ne sta seduto all'ombra e i paesani che si trovano a passare per la via. Un polverone che acceca e arde la gola lascia intravedere nell'abitacolo della sfavillante quattro ruote le sagome di due uomini di corporatura robusta, all'apparenza reduci da un lungo viaggio: si tratta di Franco Maglio, produttore della Scalera Film di Roma e di Orson Welles, il divo, con il cappellaccio da duro e il sigaro tra le labbra, che ha conquistato il pubblico delle sale cinematografiche americane, un po' meno italiane, come regista e interprete di Quarto potere (Citizen Kane, 1941). Gli abitanti di Cremolino infatti non lo sanno, essi sono solamente attratti e incuriositi da quell'auto favolosa e dai suoi passeggeri vestiti elegantemente. L'autovettura rallenta e si ferma dinanzi all'abitazione della famiglia Arata. I due scendono, bussano alla porta e sono ricevuti. Arata li fa accomodare nel salottino e la moglie Maria si offre di preparare un buon caffè. Il figlio undicenne Guido osserva la scena, in disparte, mentre addenta una mela presa nel cesto al fresco del sottoscala. Dopo le presentazioni di rito inizia la conversazione e Magli giunge subito al dunque argomentando: "La Scalera sta preparando con la united Artists le riprese di un lungometraggio che avrà come interprete principale il qui presente Welles. e' venuto personalmente a conoscere l'operatore di Roma Città Aperta, che stima moltissimo e che desidera avere come direttore della fotografia del suo nuovo film. S'intitolerà Cagliostro e sarà diretto da Gregory Ratoff; ci sarà anche Valentina Cortese, si tratta insomma di una produzione importante e il tuo apporto, caro amico ubaldo, non può mancare. e' un favore che mi devi. i tempi stringono e occorre che tu decida subito se accetti o no la proposta". Arata, indubbiamente lusingato di tanto onore, risponde di non poter accettare per via della salute. Vuole godersi in santa pace qualche giorno ancora di vacanza a Cremolino, dove ha saputo farsi voler bene per l'affabilità che lo contraddistingue e dove sa di essere considerato un uomo nella norma come tanti. La moglie Maria aggiunge che Ubaldo ha bisogno di riposo e nessun contratto di lavoro, pur allettante, può valere quanto la salu- te. Magli incalzando fa una proposta d'ingaggio più sostanziosa della precedente. Welles osserva e non dice nulla, spera solamente di poter cogliere nello sguardo di Arata un segnale di assenso. Il nostro esperto operatore ha di fronte l'attore osannato dal pubblico cinematografico di tutto il mondo: è' qui a Cremolino e non gli sembra vero. La possibilità di filmare un attore come Welles per Arata non è cosa di tutti i giorni. Si prospetta per lui l'opportunità di prendere parte ad un progetto ambizioso, di lavorare al massimo livello e con mezzi e attrezzature mai usate prima. Gli americani impiegano macchine da presa ultramoderne e la tentazione è grande. Nella discussione interviene nuovamente la moglie che invita Ubaldo a non sottoscrivere alcun contratto. Magli torna alla carica ma visto l'esito negativo delle sue insistenze ad un certo punto non sapendo più a che santo votarsi, s'inginocchia a terra e, aggrappandosi ad una gamba di Arata lo implora dicendo: "Se non ci salvi tu la Scalera chiude". Solo allora il figlio Guido che segue allibito la scena si rende conto di quanto sia importante suo padre, un papà un po' severo sì, ma affettuoso e protettivo, che mai ha permesso ai suoi famigliari di varcare la soglia di uno studio cinematografico, anche per semplice curiosità, sempre affermando essere lavoro e famiglia cose ugualmente importanti ma da tenere separate. Arata, vedendo l'amico Magli in quella posizione scomoda e umiliante, si intenerisce e a un certo punto finisce per cedere alle sue preghiere, pur sapendo che lo attendono giorni d'intenso lavoro. Lo scopo è finalmente raggiunto; Magli e Welles salgono in macchina e ripartono soddisfatti da Cremolino, guadagnandosi strada tra i ragazzi di prima e lasciandosi dietro una nuvolone di polvere. Nell'autunno, a Cinecittà, la produzione di Cagliostro ha inizio e da subito si capisce che i tempi di lavorazione del film sono stretti. Dati i costi, le riprese devono essere concluse nel volgere di poche settimane, inoltre Welles si è impegnato a lavorare in successivi lungometraggi le cui riprese non possono essere dilazionate, pena rilevanti esborsi finanziari da parte delle case produttrici che non rispettassero i tempi di realizzazione. I ritmi di lavoro si fanno insostenibili, particolarmente per Arata già debilitato. Le riprese continuano ininterrottamente per tre giorni e altrettante notti e, a questo punto, la fibra dell'operatore cede improvvisamente. Colto da malore sul set Arata è ricoverato d'urgenza in ospedale dove si spegne poco dopo. E' il 7 dicembre 1947; il mondo del Cinema perde un tecnico di prim'ordine che ancora tanto avrebbe potuto fare per la decima musa. Cagliostro / Black magic, di Gregory Ratoff. Pr.: Edward Small Productions - r.: Gregory Ratoff - con la collab. di Silvano Balboni per la versione italiana - s.: da "Joseph Balsame, mémories d'un médecin" di Alexandre Dumas jr. (1878) - sc.: Charles Bennet - f.: con Arata ci sono Anchise Brizzi e Otello Martelli - scg.: Jean D'Eaubonne, Ottavio Scotti, Vittorio Valentini, - cost.: Georges Annenkov e Vittorio Nino Novarese - musica: Raoul Santell - mo.: James McKay, Fred Feitshans, Renzo Lucidi - fo.: Frank Cleverly - int.: Orson Welles (Giuseppe Balsamo, Orson Welles in Cagliostro conte di Cagliosto), Nancy Guild (Maria Antonietta / Lorenza), Akim Tamiroff (il gitano), Frank Letimore (Gilbert de Rezel), Valentina Cortese (Zoraida), Margot Grahame (Madame Du Barry), Stephen Bekassy (De Montagne), Berry Kroeger (Alessandro Dumas senior), Raymond Burr (Alessandro Dumas junior), Charles Goldner (dott. Mesme), Gregoy Gay (Chambord), Lee Kresel (re Luigi XVI), Nicholas Bruce (De Remy), Franco Corsaro (Chico), Aniello Mele (Giuseppe Balsamo bambino), Ronald Adam (presidente della corte), Bruce Belfrage (procuratore), Leon Lenoir (Gaston), Alexander Danaroff (dott. Duval), Tamara Shayne (Maria Balsamo), Milly Vitale (una giovane popolana), Joop Van Hulsen (ministro della giustizia), Peter Trent (amico del dott. Mesmer), Giuseppe Varni (Bochner), Tatiana Pavlova (la madre), Dina Romano (una anziana popolana), Rosina Galli, Maria Antonietta Pavese, Michele Sakara, Renato Casanova, Ludmilla Dudarova, Valentino Bruchi, Mary Genni, Silvana Mangano, Filippo Minelli, Nicholas Scussanin, la principessa Vassileiko, la baronessa Vredeun, il principe Volkonski, il conte Orloff. Il film è stato presentato nel 1949 - Stati Uniti 1948. Durata 90 minuti, genere: drammatico. E' la storia romanzata di Giuseppe Balsamo (1743 - 1795), l'avventuriero italiano dotato di non comuni poteri, che conobbe il successo nell'intera Europa finendo spesso in carcere e morendo tragicamente dopo essere stato condannato a morte e rinchiuso nel castello di San Leo. ragguardevole l'interpretazione di O. Welles in una parte per lui calzante. Anche "Gli spadaccini della Serenissima". Dichiarazione di Welles tratta dal libro "Io, Orson Welles", di Orson Welles e Peter Bogdanovich, Baldini & Castoldi, 1993. "in italia, Quarto potere è andato malissimo. A Roma, la tenitura del film è stata di tre giorni in totale. Perché sono andato a vivere lì. in molti paesi ti rispettano solo se non ci vivi. Pensano che devi avere qualcosa che non va, se vai ad abitarci. Così, quando sono andato per Cagliostro ho faffto furore per una settimana con tutti gli intellettuali esistenti sulla piazza, dopo di che non sono stato più nessuno perché vivevo lì…". Di Rossellini Welles però dice: "Di quello ho visto tutti i film: è un dilettante. i film di Rossellini provano semplicemente che gli italiani sono degli attori nati e che in italia basta prendere una macchina da presa e metterci delle persone davanti per far credere che si è registi". Cfr. Claudio M. Valentinetti, Orson Welles, L'Unità - Il Castoro, 1995, p. 13. “L'idea di Quarto potere si basava sulla rappresentazione del crescente, incontenibile potere della stampa nel mondo. Correva l'anno 1941 e infuriava la Seconda Guerra mondiale. La gente non poteva vivere la cronaca in diretta come farebbe oggi attraverso la televisione. i giornali avevano quindi un'influenza rilevante su ciò che avrebbe pensato l'opinione pubblica a proposito di qualsiasi argomento. Del resto, già da tempo su quelle colonne di piombo si eleggevano o si affondavano i candidati alla presidenza, si amplificavano o si soffocavano gli scandali, insomma si decidevano le sorti di tutto e tutti. ma orson Welles era un artista, non un ideologo. Ciò che gli premeva raccontare era soprattutto la nascita, l'ascesa e il declino di un grande magnate della carta stampata. Doveva essere la storia di un uomo solo, un uomo solo e potente, un uomo ben riconoscibile”. Brano tratto da: David Grieco, Quarto potere, intervento redatto in occasione della uscita della videocassetta del film allegata al quotidiano L'Unità. A lcuni articoli annuncianti la scomparsa dell'operatore pubblicati su quotidiani della capitale nel dicembre 1947: E' morto Ubaldo Arata. Si è spento all'età di 52 anni l'operatore Ubaldo Arata, uno dei più noti ed apprezzati tecnici del mondo cinematografico italiano ed europeo. Arata lavorava in cinema da ben 37 anni ed era stato al fianco dei più validi registi del nostro schermo. Gli ultimi films ai quali prese parte sono "Carmen", "Rosa di sangue", e "Roma città aperta". recentemente era stato ingaggiato per la lavorazione di "Cagliostro" il film americano che l'attore regista Orson Welles è venuto a girare a Roma. La nostra industria cinematografica perde con Ubaldo Arata uno dei suoi più validi collaboratori. Alla famiglia e ai compagni di lavoro che ci hanno dato notizia della sua immatura morte vadano le più vive condoglianze. *** Ieri è morto Ubaldo Arata. Il miglior operatore che il cinema italiano poteva vantare, Ubaldo Arata, è morto a 52 anni di un attacco cardiaco. Fin dal 1919 era entrato in cinematografia e partecipando così a quasi tutta la storia del cinema italiano, aveva acquistato una esperienza compiuta del linguaggio del film. Esperienza che unita alla sua sensibi- lità aveva fatto di lui uno dei maggiori tecnici del nostro cinema. Il suo valore era apprezzato anche all'estero e soprattutto in America. Ha girato circa 500 films e in questi giorni lavorava al film di produzione americana "Cagliostro". I funerali si svolgeranno mercoledì alle ore 10,30 dall'abitazione in via Papulonia 26. *** I funerali di Ubaldo Arata. Si può dire che tutto il mondo cinematografico fosse rappresentato ai funerali dell'operatore Ubaldo Arata svoltisi ieri mattina nella Chiesa della Natività in Via Gallia. Del mondo politico erano presenti gli on.li Restagno e Giannini; del mondo cinematografico i registi Ratoff, De Sica, Rossellini, Mastrocinque, Blasetti, Alessandrini, Camerini, Bianchi, Salvini, Mattoli, Brignone, Franciolini, Guarini, Gallone, Vergano, De Sanctis, Campogalliani, Gambino, Chiari, Amidei, Lastricati; gli operatori Montuori, Gallea, Brizzi, Albertini, Tonti. I dirigenti del Ministero comm. Calvino e dott. De Rigo, l'avv. Monaco, l'avv. Besozzi, il dottor Mondini direttore del Popolo, i colleghi Berra e Trabucco per il "Popolo Nuovo" di Torino, le attrici Isa Miranda, Valentina Cortese, Maria Mercader, gli attori Brazzi, Lupi, Carminati, Viarisio, Pepe, Varelli, Tamberlani, Centa; i produttori Michele Scalera, Giacalone, Pavanelli, Capitani, De Laurenti. L'assoluzione fu impartita nella Chiesa della Natività dopo la celebrazione della Messa di suffragio. Porse l'estremo saluto alla salma il dott. Jachia della Federazione dello spettacolo, dopo di che il feretro, seguito dalla vedova dai figli, dal fratello Rodolfo e dagli intimi, raggiunse il cimitero del Verano. *** L'estremo saluto a Ubaldo Arata. Roma, 10 dicembre. Stamane hanno avuto luogo i funerali di Ubaldo Arata. Una quarantina di corone fra cui quella del "Popolo Nuovo", una folla di registi, attori, produttori, dipendenti del mondo cinematografico ha seguito il feretro. Reggevano i cordoni gli on. Proia e Giannini, Michele Scalera, Vittorio De Sica e due operai. Il feretro è stato portato a braccia dai compagni del reparto fotografi ed elettricisti. Anche l'on. Andreotti e Monsignor Montini hanno inviato telegrammi di condoglianze. All'uscita dalla chiesa, dove era stata celebrata una Messa di suffragio, ha pronunziato accorate parole il dott. Jacchia per la Federazione dello Spettacolo. La salma seguita dai familiari e da alcuni intimi, ha raggiunto il Verano, dove è stata tumulata. Rappresentavano il "Popolo Nuovo" i colleghi avv. Carlo Trabucco e dott. Ettore Berra. Per la scomparsa del valoroso tecnico ed artista della cinematografia italiana, tutti i giornali hanno scritto parole di rievocazione, di commosso elogio e di rimpianto. Da ogni parte d'Italia sono giunti alla famiglia e al nostro condirettore, prof. Rodolfo Arata, espressioni di cordoglio e di conforto. *** La scomparsa di Ubaldo Arata, morto domenica notte a Roma, ha privato il cinema italiano del suo più grande operatore. Dopo il successo americano di "Roma città aperta" si era affermato anche all'estero come uno dei più celebri operatori internazionali e questa fama si era in seguito maggiormente affermata con tre film inglesi girati in Italia: "Grand Prix de Rome", "The Call of the Blood" e "Theran". Faceva parte di quel famoso gruppo di operatori torinesi che ha dato a Hollywood Tony Gaudio e all'Italia Ubaldo Arata, Anchise Brizzi e Massimo Terzano. Dopo la morte di Arata e di Terzano, scomparso alcuni mesi or sono, non resta che Brizzi a tener alto in Italia il nome di gruppo di Torino. Arata era venuto dalla gavetta. Cominciò a Torino come sviluppatore, nel 1911, all'epoca d'oro del cinema italiano. Nel 1915 divenne operatore e lavorò per Pasquali Barattolo, Ambrosio, Aquila Film ed altri produttori dell'epoca. Nel '29 passò alla Cines e infine alla Scalera. Nel 1916 partecipò alla spedizione sull'Imalaja con il Duca degli Abruzzi. Era certamente più un artista che un tecnico nel senso che risolveva il problema delle luci e della fotografia per mezzo di una specie di sesto senso che sbalordiva tutti quanti. La scomparsa di Terzano lo aveva profondamene impressionato. Quando si ammalò, quel misterioso sesto senso che gli suggeriva esattamente dove disporre le luci e quali lenti usare, lo avvertì che sarebbe morto, contrariamente al responso dei medici. Aveva 52 anni, era un uomo alto, magro, pallido, cordiale e spiritoso. La sua scomparsa lascia un grande vuoto nel cinema italiano e un profondo dolore in quanti l'hanno conosciuto. *** New York. 2 (A.P.). Il film italiano "Roma città aperta" che è passato di successo in successo su tutti gli schermi d'America e di Europa nella consueta rassegna cinematografica annuale è stato riconosciuto come il miglior prodotto mondiale del 1946. Tutti i maggiori critici americani nell'apprezzare la magnifica realizzazione di questo film si sono anche dimostrati d'accordo nel considerare Roberto Rossellini come il miglior regista dell'annata ed Ubaldo Arata come il miglior fotografo cinematografico. "Il Tempo", quotidiano indipendente del mattino, Roma, anno IV, n.2, Venerdì 3 Gennaio 1947. *** Arata è ricordato come uno dei più insigni tecnici della fotografia del cinema italiano. Il suo nome è legato ad alcuni importanti film che hanno valso a metterne in luce le qualità. E' dal 1911 nel campo cinematografico. Operatore di numerosi film muti, con l'av- vento del sonoro e con la ripresa del cinema italiano, è alla Cines di via Vejo 51. E' un operatore sicuro, che sa rendere con plastica evidenza il tono ambientale, mediante una sapiente illuminazione. L'ultimo film muto era stato "Rotaie" di Camerini, uscito nel 1929. Tra i primi film sonori è "Wally" di Brignone, realizzato in tre versioni. Max Ophuls giunto in Italia per dirigere "La signora di tutti" (1934), chiede Arata quale operatore. Arata ha il merito di aver messo in evidenza in questo film le qualità di Isa Miranda, che egli fotografa ancora in "Passaporto rosso" (1935) di Brignone. Scritturato dalla Scalera, resta lungo tempo presso gli stabilimenti di questa ditta. Registi italiani e stranieri si valgono della sua opera. "Tosca" e "Una signora dell'ovest" di Carl Koch si valgono della sua opera. Egli è inoltre l'operatore di "Carmen" di Christian Jaque. ma il "tour de force" per Arata è "Roma città aperta" (1945) di Roberto Rossellini: il film girato in condizioni difficilissime, in ambienti naturali, con illuminazione scarsa. La fotografia di Arata che ha dovuto valersi tra l'altro di pellicola scadente, è uno dei pregi del film. L'ultimo suo film è "Cagliostro" di Gregory Ratoff; ancora un film di classe internazionale, per il quale occorreva appunto, un tecnico della fotografia della levatura di Ubaldo Arata. Alessandro Blasetti Roberto Rossellini Filmografia di Ubaldo Arata Il matrimonio di Olimpia, di Gero Zambuto. Pr. Itala Film Torino, r. Gero (Calogero) Zambuto, s.; dal dramma «Le Mariage de Olympe» (1855) di Guillaume Victor Emile Augier, sc. Gero Zambuto, int. Italia Almirante-Manzini (Olympe Tavern Pauline Moris), Alberto Nepoti (marchesino Vilbert de Puygeron), Liana Rosier (la cugina di Vilbert), Vittorio Rossi Pianelli, Oreste Bilancia, Gabriel Moreau. Paolo Cherchi Usai in «Giovanni Pastrone - Gli anni d’oro del cinema a torino». (Strenna) UTET 1986 di questo primo film dell’operatore Arata dice: «il matrimonio di olimpia (10 - 12 - 1918), metri 1655. tratto dal romanzo di emile Paul Augier. Regista Gero Zambuto. interpreti: italia Almirante manzini, Alberto nepoti, Liliana Rosier, Vittorio Rossi Pianelli, Gabriel morea e oreste Bilancia». 1919 Il principe dell’impossibile di Augusto Genina. Pr.: Itala Film, r. Augusto Genina, s. Riccardo Cassano; sc. Augusto Genina, Alessandro De Stefani, scg.: Giulio Foschi, int.: Ruggero Ruggeri (principe Venceslao d’Avrezac), Elena Makowsk (Elena), Alfonso Cassini (Duca Petrini), Ernesto Sabbatini. «Il principe dell’impossibile (14 - 3 1919), lunghezza metri 2028; regista Augusto Genina, interpreti: Ruggero Ruggeri, Alfonso Cassini, Elena Makowska, Ernesto Sabbatini. Unione Cinematografica italiana (U.C.I.). Segnalato da Paolo Chrchi Usai in «Giovanni Pastrone - Gli anni d’oro del cinema a Torino». (Strenna) Utet 1986 1919 Il Richiamo di Gennaro Righelli. Con Maria Jacobini, Lido Manetti. Produzione F.E.R.T. Torino.1919. 1920 l’Orizzontale, di Augusto Genina. Poi «L’innamorata», pr.: Fert Roma, r.: Gennaro Righelli, - s. e sc.; da «L’orizzontale» di Augusto Genina - f.; Ubaldo Arata - scg.; Giulio Lombardozzi -int. Italia Almirante Manzini (Mara Flores), Annibale Betrone (Ing. Franco Arnaldi), Alberto Collo (Ing. Carlo Valderi), Alfonso Cassini (il principe), Myriam De Gaudy (Oriett sorella dell’ing. Arnaldi), Franz Sala (un corteggiatore di Mara), Giulia Cassini-Rizzotto (la madre di Franco e Orietta), Alfredo Martinelli, Nuto Navarrini, Enrico Viarisio (altri tre corteggiatori di Mara). E’ uscito nel febbraio 1920 - di.; Pittaluga - v.c.; 14727 del 1/2/1920 - p.v. romana 9/4/1920 - lg.o.; mt. 1640. La trama: «Mara Flores dopo aver conquistato molti uomini s’imbatte in Franco Arnaldi, che resiste al suo fascino. Mara usa tutti i mezzi per giungere a lui. Dapprima seduce Carlo, amico e futuro cognato di Franco, riducendolo alla rovina e poi alla morte. Infine scoppia la passione fra Mara e Franco. L’uomo trascura il lavoro e si batte a duello con un antico amante di Mara. Ma quando sua madre e Orietta, sua sorella, implorano Mara di lasciarlo, questa, che si è realmente innamorata di Franco, lo esorta a tornare al lavoro, a riprendere la sua vita e lo accompagna all’officina. E avendo capito che per lui rappresenta solo la rovina, afferra i due poli di una dinamo e si dà una scarica elettrica mortale». Dalla critica: “L’innamorata” è una riduzione cinegrafica del noto romanzo L’orizzontale di Augusto Genina e, come il titolo lascia ben supporre, l’azione si impernia sopra una donna, Mara Flores, enigmatico miscuglio di bellezza e di superbia, di gentilezza e di perfidia, di sguardi languidi e occhiate torve; creatura sublime e fatale, capricciosa e bizzarra che ama e odia, che bacia e morde. L’intreccio non è molto complicato e ci ricorda altra produzione recente; ma ciò che in questa film desta la più schietta ammirazione è lo svolgimento, ispirato a concetti d’arte e di nobiltà, che è curato con degna perizia e acuta sagacia e che riesce di grande effetto. Solo si potrebbero rimproverare al direttore artistico alcune lungaggini che in qualche modo nuocciono alla agilità ed alla spigliatezza dell’azione, ma una fotografia meravigliosa, dovuta all’operatore Ubaldo Arata, ed una lussuosa ed accurata sceneggiatura, fanno perdonare facilmente questa piccola menda. Che suggestivo allestimento scenico! Che splendidi esterni scelti e ripresi con cura meticolosa! Italia Almirante Manzini, per quanto non fosse una sconosciuta in cinematografia - anzi, tutt’altro - non si era mai provata in un ruolo così importante come questo di Mara Flores. Da questa grande prova, brillantemente superata, ci siamo persuasi che la simpatica attrice è una vera trionfatrice dello schermo. In questa film essa rivela le copiose risorse del suo temperamento artistico, con una sobrietà, una disinvoltura, uno charme da incantare. La sua recitazione avvince sin dalle prime scene, si fa seguire con interesse sempre crescente, seduce con una grazia birichina, convince con una mimica mai esagerata, commuove con l’espressione del suo dolore, suggestiona con la sua potenza drammatica e lascia scossi, pensierosi, perplessi dinanzi ad una morte così fulminea e redentrice. Carlo Fischer in «La Cine-fono», Napoli 22 gennaio 1921. Il film, presentato in censura come «L’orizzontale» incontrò subito le più aspre riserve, da parte della commissione per il titolo. Dopo lunghe trattative, si decise di cambiarlo in «Mara Flores», dal nome della protagonista e poi alla fine, si trovò il titolo «L’innamorata», lasciando come sottotitolo «Mara Flores». Ma la censura, prima dell’immissione nei circuiti cinematografici, chiese il taglio di «tutte quelle scene di eccessivo sensualismo ed immorali, nonché tutte le parole volgari che ricorrono nelle didascalie»». 1920 Lo scaldino, di Augusto Genina. Pr.: Itala - U.C.I. r.: Augusto Genina - s.; dalla omonima novella di Luigi Pirandello - sc.: Augusto Genina - f.: Ubaldo Arata - int.; Kally Sambucini (Rosalba Vignas), Franz Sala (Cesare), Alfonso Cassini (Papa-Re), Ria Bruna (Mignon, la chanteuse), Léonie Laporte, Leone Paci. v.c.; 15501 del 1/11/1920 - p.v. romana; 27/2/1921 .lg.o.; mt. 1590. La trama: «In una squallida rivendita di sigari e giornali, accanto ad un altrettanto miserabile caffè - concerto, il vecchio Papa - Re vende la propria mercanzia, riscaldato, nelle fredde notti solo da uno scaldino di terracotta che ogni sera gli porta la nipotina, sua unica parente. un giorno lo scaldino gli cade di mano e va in mille pezzi. Quando la sera va ad aprire il chioschetto, vi trova dentro accoccolata una donna con una bambina in braccio. E’ Rosalba, una canzonettista che è stata scacciata dal suo amante, Cesare il milanese. Invaghitosi della più giovane collega, Mignon. Nel chiosco Rosalba attende che esca il suo uomo. Pigiati nella stretta edicola, il vecchio Papa - Re prende in braccio la bambina per scaldarla e scaldarsi a sua volta. Quando il «milanese» esce dal locale, Rosalba gli spara, poi fugge. Il vecchio Papa - Re rimane con la piccola addormentata fra le sue braccia». Dalla critica: «La novella di Pirandello è vecchia, l’argomento è trito; ma l’arte di Genina è riuscita a ringiovanire la novella e a rendere originale La trama. Sotto la sua direzione hanno recitato uomini e cose; e davvero può dirsi che, assieme agli attori l’ambiente palpitava. Kally Sambucini non ci ha mai così profondamente commossi. Benissimo i suoi compagni, ottimo l’inarrivabile Cassini. La fotografia di Arata, luminosa e morbida. Conclusione: un film eccellente». Guglielmo Giannini in «Kines», Roma 5 marzo 1921. 1920 Zingari di Mario Almirante. Pr.: Fert, Roma, di.: Pittaluga , r.: Mario Almirante, s. e sc.: Mario Almirante, f.: Ubaldo Arata, int.: Italia Almirante-Manzini (Vielka), Amleto Novelli (Sindel), Franz Sala (Gudlo), Alfonso Cassini (Jammadar), Rosetta Solari (Radscia), Arturo Stinga (Leandro Klotz), Joaquim Carrasco (il curato) - v. c.; 15604 del 1/3/1920 - l.g.o.; mt.; 1674. La trama: «Il vecchio Jammadar, re degli zingari, vorrebbe che sua figlia Vielka andasse sposa a Gudlo, uomo del clan forte e valoroso, ma anche ambizioso e violento. Ma Vielka ama invece Sindel, capo di un altro clan. Alla morte di Jammadar, Vielka viene incoronata regina, ed a questo punto, il fiero Sindel, che non vuole diventare un «principe consorte» cerca di abbandonare la donna. Gudlo, perfidamente, ferisce a tradimento Sindel. Ma Vielka, rinunciando alla corona, riacquista l’amore di Sindel e scaccia dal clan Gudlo». Dalla critica: «Un ottimo film. Il soggetto richiamò alla memoria molti elementi romantici sufficientemente sfruttati dal cinematografo, ma tuttavia la vicenda è logica, serrata, avvincente e contiene anche situazioni di una certa originalità. La messa in scena è pressoché impeccabile; fedele e accurata negli interni, assai pittoresca negli esteri. La tecnica è di una modernità veramente degna d’una Casa che, come la Fert, ha dato a tutta la sua produzione un bene definito carattere di rinnovazione. L’interpretazione è affidata ad un complesso di artisti veramente eccezionale. Su tutti emerge tuttavia Italia Almirante Manzini, che ha saputo creare una parte abbastanza ardua e complicata con un senso di profonda umanità, di vigoroso e caldo intuito interpretativo». U. Ugoletti in «Febo», Roma 5 gennaio 1921. “Zingari”, il nuovo film teatrale edito dalla Fert e interpretata dai migliori elementi della grande editrice torinese, ci ha fatto conoscere un Mario Almirante, al quale è mancata la vena. A parte l’originalità fatalmente scomparsa dalle produzioni moderne, in “Zingari” è venuta meno anche quella leggerezza di mano nello svolgere con equilibrio e continuità le varie azioni sceniche e interpretative. Il lavoro ha avuto poi cattiva alleata l’interpretazione della coppia Almirante - Novelli, che ha coadiuvato a sminuire l’importanza e l’interesse del film per l’incertezza della recitazione. L’Almirante-Manzini curò più la sua plastica e la bellezza del suo volto che il personaggio che doveva incarnare; (...) se è stato fedelmente riprodotto l’aspetto esteriore, psicologicamente ella non dice niente. Amleto Novelli, costretto in una parte quasi di scorcio, senza rilievo, non poté dare una interpretazione di carattere, per quanto si denoti in lui ottime disposizioni artistiche. “Zingari” è un film che all’atto della visione si segue volentieri, anzi tutto perché si va ad assisterla con la prevenzione di vedere qualche cosa di eccezionale, e poi perché esteriormente il lavoro si presenta sotto l’aspetto di un’edizione di lusso; splendida fotografia, bella messa in scena, bellissima la protagonista; ma, a visione ultimata, ripensando a tutto l’assieme, si prova una sgradevole impressione di vuoto e ci si accorge che il lavoro pre- senta lacune immense di indoleorganica e soggettiva». (Carlo Fischer in «La Cine-fono». Napoli, 10 luglio 1921. Netta conferma anche per il terzo film del 1920, «Zingari» di Mario Almirante: è ancora Carlo Fischer su «La Cine-fono» del 10 luglio 1921 ad annotare, pur tra nette riserve sul film, «splendida fotografia, bella messa in scena, bellissima la protagonista», mentre Ugo Ugoletti, in «Febo» di Roma del 5 gennaio dello stesso anno era stato più incondizionatamente più favorevole, sintetizzando compiaciuto: «La tecnica è veramente degna d’una Casa che, come la Fert, ha dato a tutta la sua produzione un bene definito carattere di rinnovamento». Arata ha solo venticinque anni, è nell’ambiente cinematografico appena da cinque, è alla terza opera firmata, eppure la sua affermazione è così netta da farne già un nome. 1921 I tre amanti, di Gugliemo Zorzi. Pr. Fert, Roma. (Distribuzione S.A. Pittaluga), r.: Gugliemo Zorzi, s.: dalla commedia omonima di Guglielmo Zorzi (1912), Fotografia: Ubaldo Arata. Int.: Italia Almirante - Manzini (Elena Guardi), Amleto Novelli (Andrea Maggesi), Alfonso Cassini (Giovanni Salvi), Bianca Renieri (Ghita). Renato Visca (il diciottenne cieco Mitia), Alfredo Martinelli, Lunghezza m. 1625. La trama: «Giovanni Salvi, un noto pittore, ha per allievo Andrea e per modello il giova- ne zingaro cieco Mitia. Incontra Elena, una donna che è stata scacciata dai suoi familiari perché è stata sedotta e poi abbandonata. Salvi la invita a posare per lui, la ritrae in un quadro che vince un premio e la accoglie nella sua casa. Attorno alla donna si agitano ben presto tre passioni: quella riposante e serena dell’anziano Giovanni, quella violenta e ardente di Andrea, quella timida e giovanile di Mitia. Elena non sa resistere ad Andrea e, approfittando di una momentanea assenza di Giovanni, posa per il giovane allievo. Quando il pittore torna e comprende che la sua protetta, di cui si è follemente innamorato, è innamorata del suo allievo, si chiude nel suo studio e si uccide. I due amanti si dividono, mentre il giovane Mitia, che nulla vede, ma tutto comprende, si abbandona ad un pianto sconsolato». Dalla critica: «Il dramma di Guglielmo Zorzi, che ebbe varia fortuna su le scene italiane, non era certo tra le sue opere teatrali la più indicata ad una trasposizione sullo schermo: il conflitto d’anime che costituisce il centro del dramma e s’esprime sempre in sordina, quasi tema di erompere in lacerante grido di passione; la tenuità della sua trama, se a stento erano servite a costruire un lavoro teatrale che non riusciva ad andare al di là di una forma schematica tanto meno poteva servire a comporre un film di molta ampiezza e consistenza. Infatti, il difetto più evidente e che salta subito agli occhi di chiunque è che il film s’indugia in particolari inutili o ricorre a continui insignificanti passaggi, si perde in giri tortuosi per supplire così alla scarsezza del suo contenuto e della sua azione (...). L’esecuzione, la messa in scena e l’interpretazione sono invece assai lodevoli e danno il valore al film (...). Ma tutta la raffinatezza interpretativa di Italia Almirante Manzini, malgrado si sforzi, non riesce a dar vita a questa creatura incerta di Elena; manca in essa l’anima e noi sentiamo che ciò che ci fa vibrare appartiene esclusivamente all’anima dell’artista, dell’interprete, non a quella del personaggio». Dionisio in «La vita cinematografica», Torino, 22 giugno 1921. Condizione della censura per il nulla osta fu di modificare l’ultima didascalia in questo modo: «E mentre di fronte al mistero della morte, pallido il vizio cadeva, il grido disperato di Mitia era sommerso dal sereno canto di Ghita». 1921 Il romanzo nero e rosa, di Mario Almirante. Pr.: Fert, Torino - d.: Pittaluga .r.: Mario Almirante - s.: Luciano Doria e Mario Almirante liberamente tratto dal romanzo poliziesco di Giorgio Mairs «Il segno misterioso» - sc.: Alessandro De Stefani - f.: Ubaldo Arata - sgc.: Mario Gheduzzi - int.: Alma Pianelli, Vittorio Rossi - Pianelli, Alfredo Martinelli (Sfortunello Fortuna), Franz Sala, Mario Ferrari, Luigi Duse, Ines Maria Ferrari. Il film è conosciuto anche con il titolo «Le avventure di Sfortunello Fortuna. v.c.; 16222 del 1/7/1921 - p.v. romana 19/9/1921 lg.o.; mt. 1823. La trama: «Due giovanotti rimangono colpiti da una fanciulla che hanno intravista fuggevolmente. Si mettono alla sua ricerca, ma trovano invece una testa mozzata. Quella che avrebbe dovuto essere un’avventura sentimentale, non è altro che l’inizio di un avventuroso dramma, con frequenti intermezzi comici». La critica: «Il film poliziesco, che a molti pare di infimo ordine e spregevole e trascurabile, e che è stato assai invilito, ma che è eminentemente cinematografico se non scende alle volgarità cui fu asservito, diventa di prim’ordine ed assume un’ impronta d’arte; e questo bisogna riconoscerlo, è uno dei pochi casi nei quali il film d’avventura, il film poliziesco, è stato esguito con i più seri intendimenti. In verità, accade raramente di vedere impiegato per un film d’avventure un così omogeeo e valoroso complesso di attori, un’accurata ricca messa in scena e un’impeccabile fotografia». Dionisio, in «La vita cinematografica», Torino 7 settembre 1921. «Il soggetto non è privo di una certa genialità, ma nel suo insieme convince poco, e spesso, l’enorme quantità di intrighi stanca lo spettatore. Il dramma sarebbe piaciuto assai di più, se alcuni quadri non fossero stati tanto prolissi e se si fosse evitata qualche scena poco opportuna. Di una comicità sempre fine e buona, il simpatico Alfredo Martinelli, in complesso però il lavoro non ha molto soddisfatto; eccessivamente avventuroso ed intricato non è riuscito chiaro e convincente per molti spettatori». Mak, in «La rivista cinematografica», Torino 10 novembre 1921. Il romanzo di G. Maire «Il segno misterioso» non prevedeva il personaggio del poliziotto un pò tonto, ma a volte imprevedibile di Sfortunello Fortuna, personaggio che Alfredo Martinelli aveva già interpretato nel film «L’isola della felicità» con tanto successo. La Fert pensò di ripetere l’exploit con questo «Romanzo nero e rosa», che molto spesso è stato presentato con il titolo «Le avventure di Sfortunello Fortuna». La censura fece tagliare qualche breve scena di scasso di una cassaforte e di tentativi di asfissiare il poliziotto. 1921 Il fango e le stelle, di Pier Angelo Mazzolotti. Pr: Fert, Roma - di.: Pittaluga - r.: Pier Angelo Mazzolotti - s. e sc.: Pier Angelo Mazzolotti - f.: Ubaldo Arata - int. Italia Almirante Manzini (la donna redenta), Alberto Pasquali (Zeno, l’astronomo), Oreste Bilancia (Dott. Sereno), Franz Sala (l’avventuriero) - v.c.: 16262 del 1/7/1921 - p.v. romana: 3/4/1922 lg.o.: mt. 1869. La trama: «E’ la storia della redenzione di una donna perduta: la piccola fioraia che abbandonata a se stessa, si perde e si travia, cade nelle mani di un bruto, il quale ne sfrutta la bellezza, ne fa la sua complice e la sua schiava. E la donna dai grandi occhi neri, in fondo ai quali si può leggere ancora un’espressione di bontà soffocata, ma non spenta, si redime nell’amore di un uomo forte, un astronomo insigne. Nella pace di una casa dove tutto è sereno come limpido cielo, che nelle notti stellate, il suo abitatore dal grande occhio del telescopio scruta e osserva. Quanta lotta in quella povera anima che oscilla tra il vizio e la santità di un affetto; che sente il suo cuore portato in alto verso colui che l’ha salvata, e sente insieme gravare su di lei la torbida passione dell’avventuriero, che se ne è impossessato, che l’ama, e che, geloso, è pronto ad ucciderla! Ma la perduta ascolta la voce del cuore e sale dal fango su in alto fino alle stelle! (da un volantino pubblicitario). Dalla critica: “Il fango e le stelle” mi è parso un lavoro mancato. L’autore, che è anche il direttore del film, non può certo invocare le attenuanti per tutte le illogicità, le inverosimiglianze e i luoghi comuni della sua opera. Italia Almirante - Manzini questa volta manca l’anima e il carattere al suo personaggio e la sua bellezza non basta a riscattare la freddezza e la convenzionalità, della recitazione. Alberto Pasquali, valorosissimo attore è qui assolutamente fuori posto. Inutile è la funzione drammatica di Oreste Bilancia. La sua comicità a nulla serve e la sua presenza è superflua. Avremmo almeno desiderato che il Mazzolotti, in luogo di quel modesto gruppo allegorico, ci mostrasse le stelle, le stelle vere, un visione poetica del firmamento. Credo che nessuno, fin qui, abbia osato cimentarsi col divino volto del cielo! quale bella occasione per tentare la difficile prova. E quale ironia invece assistere alle evoluzioni del gigantesco cannocchiale, assistere a lezioni di astronomia, e a conciliaboli di astronomi, e non vedere mai un lembo di cielo, né la luce palpitante di un astro!». Aurelio Spada in «La vita cinematografica», Torino n.2, 25 gennaio 1922. «Italia Almirante che ci ha dato prove indubbie del suo talento, nel dramma di Mazzolotti “Il fango e le stelle” ha completamente tradito la nostra attesa. E’ stata monotona e inco- lore, come non avevamo mai notato prima d’oggi. Mentre il soggetto del collega Mazzolotti aveva in se ottimi elementi drammatici per dar motivo ad una interpretazione vibrante e possente. Se la signora Almirante non ci ha persuaso, meno di lei ci ha persuaso Oreste Bilancia. Si sono salvati decorosamente il Pasquali e Franz Sala. La messa in scena è bella, discreta la fotografia, il lavoro ha incontrato, tuttavia, il favore del pubblico. Giuseppe Lega in «La vita cinematografica», Torino 15 luglio 1922. 1921 La statua di carne, di Mario Almirante. Pr.: Fert, Torino - di. U.C.I. - r.: Mario Almirante - s.: dal dramma omonimo di Teobaldo Ciconi, (1862) - a.d. e sc.: Luciano Doria - f. Ubaldo Arata - int. Italia Almirante-Manzini (Maria e Noemi Keller), Lido Manetti (Conte Paolo di Santafiora), Alberto Collo (un amante sfortunato), Oreste Bilancia, Bianca Renieri, Alfonso Cassini, - v.c.; 16340 del 1/8/1921 - p.v. romana: 12/2/1922 - lg.o.; mt. 2190. La trama: «Una bella donna, mondana, spregiudicata, sfrenata nei piaceri e nella rovina degli amanti, si innamora di un uomo che bevve a tutte le coppe della vita e che ritrova in lei, la memoria di una morta da lui precedentemente amata ed alla quale la donna assomiglia come una goccia d’acqua. Egli si serve di lei come di una statua di carne, ma benché ormai tetragono alle seduzioni della vita e dell’amore, finisce anche lui per innamo- rarsi della sua «statua», che, per dispetto, per vanità, per orgoglio, per natura, ha messo in arte tutte le sue astuzie per scuoterlo dalla sua introversione». (Desunto da una corrispondenza su «La rivista cinematografica», Torino). Dalla critica: « La riduzione o il “rifacimento libero”, come lo chiama l’autore, ha sfrondato il lavoro da dettagli che, se conservati, avrebbero nuociuto alla snellezza del lavoro cinematografico. Il film è condotto con una pregevole forma esteriore, più che sufficiente per garantire un soddisfacente risultato di cassetta, e in modo da ottenere sicuro rendimento dagli effetti d’ogni genere, calcolati da menti esperte, in altri termini, il successo è sicuro, la cronaca è lieta, ma... La critica deve fare alcune riserve. Italia AlmiranteManzini ci ha dato un’esecuzione mirabile ed in qualche punto addirittura magistrale, ma non sempre in armonia con il carattere dei due personaggi rappresentati. Questa disarmonia crediamo principalmente dovuta all’austera plasticità delle sue linee, che mal si adatta così alla debole e mite Maria del prologo come alla spumeggiante ballerina russa Noemi. Pochissimi han saputo in breve spazio di tempo conseguire risultati come quelli ottenuti dall’Almirante e, a giudicare da ciò che han fatto in soli due anni di lavoro, c’è da credere che questo giovane andrà molto avanti. Ma per ora abbiamo notato dell’incertezza, dell’inesperienza, della timidezza fors’anche. Ignis in «La vita cinematografica», Torino, 7 novembre 1921. «La stampa non è stata concorde su questo lavoro. Qualche scrittore ha espresso perfino Ermete Zaccinu Jia Ruskaja una specie di ripugnanza spirituale per il soggetto. Segno buono, cotesto. Un lavoro discusso, un lavoro che appassiona, è un’opera nobile e contiene sicuri fermenti vitali. E la nostra cinematografia non può che avvantaggiarsi del ribollire di succhi generosi e dal dibattito di spiriti onesti e appassionati». (Aurelio Spada in «La rivista cinematografica», n.3, 10 febbraio 1922). Il lavoro di Cicconi era stato portato precedentemente sullo schermo, in uno di quei tipici duelli tra case produttrici che contraddistinsero le vicende della cinematografia italiana nei primi ani dieci. Nel 1912, mentre la Latium-film di Roma stava realizzando «La statua di carne» per la regia di Attilio Fabbri e l’interpretazione di Pina Fabbri e Luciano David, di circa 1000 metri, la Milano-film realizzò una analoga riduzione, regista Giuseppe De Liguoro ed interpreti Alberto Pirovano e Clara Vendòme, di 585 metri e che fu lanciata pochi giorni prima dell’edizione della Latium. Una terza edizione era intanto in corso di lavorazione a Torino per conto della Itala, regista ignoto, con Dora Baldanello e Ruggero di Charny. Probabilmente, per evitare vertenze giudiziarie, il film apparve con il titolo «Amore d’oltre tomba». Nel 1919 la Tirrenafilm di Napoli si ispirò liberamente a Cicconi per «Chi non crede all’amore», regia di Alberto Sannia, interpreti Luciano Molinari e Haydèe. Infine, nel 1943, Camillo Mastrocinque realizzò una versione sonora del dramma, in chiave naturalistica, intitolata «La statua vivente», interpreti Fosco Giachetti e Laura Solari. 1921 Marthù che ha visto il diavolo, di Mario Almirante. Pr.: Fert-Torino, d.: Pittaluga - r.: Mario Almirante, s. e sc: Amleto Palermi (dal romanzo di E. Falciani) f.: Ubaldo Arata - int.: Franz Sala (Marthù), Italia Almirante-Manzini (sua moglie), Bianca Renieri (la gigolette). Lunghezza m. 1400 circa. La trama: «Marthù, un buon operaio, innamoratissimo della moglie che è stato costretto a lasciare per andare a lavorare in terra straniera, è triste e preoccupato. E pensa anche all’eventualità di un tradimento. Tutti questi terribili pensieri gli si affacciano alla mente, proprio alla vigilia del giorno in cui deve riabbracciare la sua cara compagna, ed a niente giovano le buone parole di un amico, un fraterno compagno di lavoro. Sempre fantasticando sulla fedeltà della moglie, seduto al tavolo di una modesta osteria, reclina il capo sulle braccia e…comincia a sognare. L’incubo che accompagna il sogno è terrificante: il tradimento della moglie, un gesto inconsulto, l’uxoricidio, la lama della ghigliottina che sta per abbassarsi... Ma a questo punto si risveglia: la gelida sensazione sul collo è la manina del suo bimbo che, insieme alla mamma, è venuto per riportarlo a casa». Dalla critica «Il diavolo lo deve aver visto l’autore e, sotto l’incubo di tale visione, e per lo spavento provato, ha scritto un soggetto su cui è meglio, spiccando un salto, passare oltre. Ma il film, anche se a noi non piace, è stato inquadrato e diretto così bene, che s’impone appunto per il suo tecnicismo. Mario Almirante, del rifritto zibaldone, ha saputo trarre e dare tali effetti granguignoleschi da tenere desta la nostra attenzione; effetti di esterni, stradette, carceri e ghigliottina illustrati - in toni costantemente bassi - da una fotografia lucida, viva, così sensibile, da darci l’impressione di quadri tolti dal vero, e quel che più vale, la senzazione delle ore piccine e dei luoghi malfamati. Però il vero valore del film dall’interpretazione potente di Franz Sala, che, di una figura comune di operaio, crea un tipo superbo di sofferenza umana. Dal primo quadro, quand’egli tranquillamente cena all’osteria, al suo svegliarsi dal sogno, tutta la sua mimica è di mirabile semplicità. Attore perfetto, completandosi con l’abilissima truccatura che gli mette sul viso i segni della devastazione dell’anima, ha fatto della poverissima e piatta personalità di Marthù un uomo distinto, schiacciato dalla fatalità, ma non vinto. l’interpretazione della sig.ra Italia Almirante - data la parte di poco rilievo - non ha speciale risalto». Elle. Gi. in «La vita cinematografica», Torino 15 ottobre 1923. «Raramente un soggetto è stato tanto adatto alla creazione cinematografica quanto questa fantasia notturna, lugubre, angosciosa ed appassionante; le scene figuranti la notte, tanto difficili da ottenersi in cinema sono qui riprodotte in modo molto pregevole e pittoresco. Tutto il lavoro è svolto con molta abilità e signorilità di mezzi e ottima interpretazione di artisti. Conclusione: il pubblico e... anche la critica sono usciti da questo spettacolo divertiti e soddisfatti: è il più bell’elogio che si possa fare ad un film». Edgardo Rebizzi in «L’Ambrosiano», Milano 5 aprile 1923. 1921 La grande passione, di Mario Almirante. Pr. Fert-Roma - d.: S.A. Pittaluga - r.: Mario Almirante . s.: dal dramma omonimo di Alessandro Varaldo e Giovacchino Forzano - sc.: Mario Almirante, f.: Ubaldo Arata - scg.: Mario Gheduzzi - int.: Italia Almirante-Manzini (Maria), André Habay (Patrizio), Carlo Benetti (Marcello, il cugino), Vittorio Pieri (Lucidi, lo zio), Joaquim Carrasco (Carli). Uscito nell’aprile 1922. Lunghezza m. 2001. La trama: «Maria, orfana dei genitori, vive con lo zio. La sua bellezza suscita l’invidia delle cugine, che la perseguitano e Maria è quasi costretta ad accettare la richiesta di matrimonio di Carli, un vecchio e ricco vedovo. Non è l’amore, ma la serenità. L’amore appare quando un altro uomo, Marcello, cugino di Carli, comincia a corteggiarla. La donna è sedotta facilmente da Marcello. Patrizio, un amico, la mette in guardia. Maria, dopo essere stata abbandonata da Marcello, accetta l’amore sincero e disinteressato di Patrizio. Marcello torna, vorrebbe riconquistare Maria ,ma, sfidato a duello da Patrizio, viene ucciso. Carli nel frattempo è stato rovinato da Marcello. Maria comprende che il suo dovere è di stare accanto al marito e, sacrificando il suo grande amore per Patrizio, diviene una sposa fedele». Dalla critica: «Un lavoro degno del più grande successo non tanto per la sua esimia e squisita interpretazione quanto per la sua magnifica impostazione e per l’ottimo rendimento ottenuto dalla messinscena. Anzi, a tal riguardo, possiamo anche aggiungere che Mario Almirante è riuscito a dare al lavoro di Alessandro Varallo quell’austera linea di condotta, che, forse, non avrebbe avuto senza sapiente adattamento, se si pensa che lo schermo è un divoratore terribile di effetti scenici, contro la facile credenza di molti nostri soggettisti inarrivati. Ottima, senza confronti, fu l’interpretazione di Italia Almirante, la cui superiorità non ha certo bisogno di essere rimessa in rilievo (...) Andrea Habay, a parer nostro, fu forse il meno a posto, dato che sarebbe stato un artista più adatto per parti di controscena che per ruoli diretti, ma con questo non si è smentito però in lui un forte convincimento scenico ed una spiccata adattabilità anche ad interpretazioni passionali». (M.T.F, in «La rivista cinematografica», Torino, n.4, 25 febbraio 1923). «... “La grande passione”, come film è un bellissimo lavoro, che si impone all’attenzione del pubblico fin dai suoi primi quadri, e possiede scene madri che, da solo, bastano ad esaltarlo; p.e. la più altamente drammatica e che è la sola veramente umana - quando Maria posa le mani sulle spalle di Patrizio ed ha l’intuizione della tragedia avvenuta; “tu...tu... hai fatto questo?” - ella balbetta in uno smarrimento fatto di spavento e di amore. - “Si... per te... per liberarti” - sussurra nell’angoscia l’altro. Nel grido spasmodico della rivelazione, la passione si suggella in u bacio rovente... Ed è in questa scena che Italia Almirante rivela d’essere sempre l’artista eletta nel tormento interiore, la più significativa fra le nostre migliori attrici, per forza di espressione, se non l’unica...». Elle G., in «La vita cinematografica», Torino, 30 gennaio 1923. 1922 La chiromante o La maschera del male, di Mario Almirante. Pr.: Fert, Torino - di.: Pittaluga - r.: Mario Almirante - s. e sc.: Amleto Palermi - f. Ubaldo Arata - int.: Italia Almirante-Manzini (Lucrezia/ Madama X/ La Contessa Turchina), Alberto Collo (il giornalista - detective), Lido Manetti (Santino), Franz Sala (il patrigno), Oreste Bilancia (un viveur), Leonie Laporte, Bianca Renieri - v.c.; 16900 del 24/4/1922 p.v.romana 4/12/1922 - lg.o.; mt. 1693. La trama: «Rimasta da giovinetta vittima della brutalità del patrigno, Lucrezia decide di vendicarsi implacabilmente di tutti gli uomini. Passano alcuni anni, la donna è divenuta la Contessa Turchina, padrona di una casa da gioco in cui attira gli uomini per distruggerli prima economicamente e poi, con le arti della sua fatale seduzione, ridurli schiavi della propria femminilità. Ma quando incontra un giovane di cui si innamora perdutamente ed al quale riserva la sorte degli altri, pentita, si rinchiude in un asilo ad assistere i bambini abbandonati». Dalla critica: «(...) Il prologo che precede i quattro atti del dramma è come un dogma fondamentale. Senza la visione di esso non si può comprendere, né concepire per quale movente questa fascinatrice sorrida nell’ebbrezza del male di cui si circonda e che semi- na sulla sua via. Ed è necessario appunto assistere alla fosca scena preliminare (...) per poter considerare l’eccezionale originalità peccaminosa della sua esistenza, non come istintiva inclinazione alla colpa, ma come rappresaglia conseguente contro il destino, come una vendetta bieca e ed inesausta contro quella umanità che le si è mostrata beffardamente brutale ed inesorabile. Le scene che seguono e che portano al naturale epilogo, sono unicamente coreografiche. Hanno dell’avventura poliziesca, del bozzetto passionale e della puntata d’appendice (...). E piacciono come singoli episodi e non perché esse siano un nesso logico della vicenda. Tutto ciò nuoce, quindi, anziché serrare le fila di questo dramma avventuroso (...). Italia Almirante, sobria sempre e naturale, ha poche scene emergenti, non ostante essa sia l’ossatura del La trama (...)». (E. Pastori in «La vita cinematografica», Torino, 7 ottobre 1922). «Il titolo suggestivo, l’arte eccellentissima dei suoi principali interpreti, nonché la sua sfarzosa messa in scena, come da tempo, infatti non avemmo più occasione di constatare, ci ha fatto indubbiamente pensare ad un ritorno ai magnifici films d’un tempo, quando ancora si sapeva dare una vera e propria impronta artistica anche a ciò che forse nulla avrebbe avuto a che fare con l’arte, ov’essa venga intesa come mezzo integrante della speculazione cinematografica e specificatamente a quell’aureo periodo in cui il cinematografo s’andava dibattendo puramente per mettere in evidenza le proprie dive e i propri divi. Invano insisterei quindi se volessi adoperare per «La chiromante» i medesimi termini critici usati per altri films, del genere e volessi ricercarvi pregi e difetti, in tema di produzio- ne, considerando «La chiromante» come un lavoro leggermente in contrasto con le attuali esigenze tecniche, scientifiche ed artistiche. Ma poiché ciò che nel bello è grande non può sfuggire alla più minuta attenzione, benché qualche volta sia di secondaria importanza discutere il soggetto, per quanto sapiente e geniale da parte di Mario Almirante, la sua esecuzione, quello che sommamente ci da motivo di giudicare «La chiromante» un capolavoro, è l’efficacia profonda e assoluta della sua protagonista. Un nuovo trionfo quindi del divismo inteso nel senso più ampio e cioè nella formola dell’arte per l’arte, dai più ancora oggi combattuta per timore di riveder sopraffatta la propria produzione o di vederla travolta nuovamente attraverso forme rappresentative irraggiungibili e costosissime». (M.T.F. in «La rivista cinematografica», Torino, 25 dicembre 1922). Uno dei film più popolari di Italia Almirante - Manzini, che circolò a lungo, spesso con il titolo «La chiromante». 1922 La storia di Clo-Clo, di Luciano Doria. Pr.: Fert, Torino - distr.: Pittaluga - r.: Luciano Doria - s.: dal romanzo «Miche» di Gyp (Sibylle Gabrielle de Riquetti de Mirabeau) - sc.: Nunzio Malasomma e Luciano Doria f.: Ubaldo Arata - int.: Diomira Jacobini (Miche alias Clo-Clo), Alberto Collo (Il contino d’Erdeval), Vittorio Pieri (il nonno), Vittorio-Rossi Pianelli (l’amministratore Antonio), Lia Mari (l’amante del contino) lunghezza m. 1839. La trama: «Clo-Clo è una povera servetta che ha una padrona bisbetica ed autoritaria. Una sera che rientra tardi, viene scacciata. Per sfuggire ai poliziotti che, vedendola con la sua valigia, di notte, la credono una ladra, si rifugia in casa del conte D’Erdeval. Sopraggiunge l’amante del suo ospite, che subito sospetta che Clo-Clo sia una rivale: grande scenata e minacce di vendetta. D’Erdeval riceve una lettera in cui viene informato che l’intendente del nonno lo sta derubando dei suoi beni. Si reca allora al castello assieme a Clo-Clo, la quale, fingendosi una svampita, segue da vicino le manovre dell’infedele amministratore e riesce a farlo arrestare proprio nel momento in cui, rivoltella in pugno, questi stava facendo compilare al nonno di D’Erdeval un testamento in suo favore. D’Erdeval a Clo-Clo scoprono, poi, d’amarsi e si sposano». DalLa critica: «A noi questo lacrimevole soggetto non è piaciuto cinematograficamente parlando, però non è mal riuscito. Tuttavia una maggiore concisione gli avrebbe giovato. Certo sì è che a Diomira Jacobini spetta il merito di aver tenuta desta e viva l’attenzione degli spettatori con la sua grazia e la sua gaminerie deliziosissima di donna e di attrice. A nostro modo di vedere, questo lavoro è la migliore e più vissuta interpretazione sua. Anche il Rossi - Pianelli ha avuto momenti felici, pur avendo esagerato in molte scene. Attore di linea ci è sembrato, ancora una volta, Vittorio Pieri. Deplorevole, fiacco e sco- lorito Alberto Collo. Si ha l’impressione che egli reciti distrattamente e senza volontà (...)». (Giuseppe LEGA in «La vita cinematografica», Torino 30 aprile 1923). «(...) Questa “Storia di Clo-Clo” è una delle più belle fatiche della Diomira. La sua semplicità ha del meraviglioso. Ella non recita mai: vive sempre. Le prime scene - quando si nasconde sotto le coperte e di sotto ad esse sbuca con il cappellino in testa - sono di una comicità schietta e salutare; quelle dell’alienazione mentale, e quando spia l’intendente ed il conte, hanno un valore altamente e fortemente espressivo; ed in fine, quando risponde il “non so” alla domanda del Conte, è di una emotività semplice, sì, ma assolutamente viva. Alberto Collo l’ha seguita degnamente, Rossi-Pianelli è stato efficace e con qualche momento felice. Nelle due lotte con la Miche è però completamente fuori posto: assolutamente ridicoli - e lui e il contino nell’altra lotta. Certe pecche non solo non sfuggono all’occhio del critico, ma nemmeno a quello del pubblico, che si pronunziò troppo lusinghieramente a voce alta... In fondo la recitazione è ottima, la tecnica perfettissima, da non aver proprio nulla da invidiare ai tanto lodati Americani; la mise en scène buona, con qualche interno ottimo; la fotografia di Ubaldo Arata chiara, nitida, luminosissima, stereoscopici. R. D’Orazio in «La rivista cinematografica», Torino 10 luglio 1923. 1922. Il controllore dei vagoni letto, di Mario Almirante Pr.: Alba Film, Torino - dist.: S.A.Pittaluga - r.: Mario Almirante - s.: dalla commedia «Le controleur des wagons-lits» di Alexandre Bisson (1898) - ad. e sc.: Mario Almirante - f. Ubaldo Arata - scg.: Mario Gheduzzi - int.: Oreste Bilancia (il falso controllore), Alberto Collo (il vero controllore), Leonie Leporte (la suocera), Rita d’Harcourt (la moglie del falso controllore), Vittorio Pieri (il ganimede stagionato), Lia Miari, Annie Wild, Elena De Chiesa, Dorian Wild, Ernesto Collo, Dino Bonaiuti, Pauline Polaire, sig. Zessi - v.c.; 17550 del 30/11/1922 p.v.romana 31/3/1923 - lg.o.; mt. 1681. La trama: «Ossessionato da una moglie gelosa, un povero marito, per poter godere della libertà per qualche giorno della settimana, si fa credere impiegato delle ferrovie e quindi obbligato ad assentarsi il giorno e la notte, come controllore dei vagoni letto. Di qui tutta una serie di situazioni imbarazzanti, di allegri equivoci, di imprevisti, di quipro-quo, che si concludono con il ritorno del marito trasfuga a casa». Dalla critica: «Se ce ne fosse bisogno, “Il controllore dei vagoni letto” viene ancora una volta a dimostrare il pericolo, per il cinematografo, di valersi di riduzioni dal teatro o dal romanzo. Anche la vecchia pochade di Bisson esce dalla riduzione, per quanto sia essa abile, scolorita a snaturata. E’ inutile: la letteratura è una cosa, il cinematografo un’altra. Sono forse più i punti di antitesi tra i due generi, che quelli di affinità. Malgrado questo il film è divertente, molto grazioso, assai bene interpretato da Oreste Bilancia e diretto con mano abile e sicura. Il taglio delle scene è moderno e sobrio, la tecnica fotografica è sempre lodevole. Insomma, si è fatto tutto quello che si è potuto, con un risultato, se non adeguato allo sforzo, certo assai soddisfacente». (Edgardo Rebizzi in «L’Ambrosiano», Milano 20 dicembre 1922). «Questa pochade del Bisson, che noi conoscevamo attraverso l’indiavolata interpretazione della Compagnia Galli - Ciarli - Bracci - Guasti, nella riduzione e direzione artistica di Mario Almirante, si è trasformata in commedia brillante e signorile. Al posto del sapore pepato e boccaccesco che stuzzicava le pupille del debosciato, noi gustiamo una vera allegrezza, un’ilarità fresca e serena nel seguire la serie dell’avventura (...)». Oltre ad innumerevoli versioni teatrali, l’allegra pochade di Bisson risulta essere stata portata sullo schermo da Georges Monca nel 1911 e, nel sonoro, in doppia versione francotedesca, girata a Berlino, da Richard Eichberg (Le controleur des Wagons-lits / Der Schlafwagenkontrolleur - 1935). 1923 La piccola parrocchia, di Mario Almirante. Pr.: Alba Film, Torino - dist.: Pittaluga r.: Mario Almirante - sc.; Mario Almirante - s. dal romanzo «La petite Paroisse», di Alphonse Daudet (1901) - sc.: Mario Almirante - f.: Ubaldo Arata - scg.: Mario Gheduzzi - int.: Italia Almirante-Manzini (Lidia Fenigan), Amleto Novelli (Riccardo, suo marito), Alberto Collo (Charlexis), Leonie Laporte (signo- ra Fenigan, la suocera), Oreste Bilancia (Alessandro, il servitore), Dino Bonaiuti (Delcrous), Gabriel Moreau (il generale D’Auvergus), Vittorio Pieri (Merivet), Salvatore Laudani (il guardiacaccia Santecoeur), Enrico Gemelli (mendicante), Mario Gheduzzi, Lia Miari. Lunghezza m.2176. La trama: «Una giovane trovatella che ha sposato un ricco, ma imbelle nobile, viene accolta in casa dalla suocera, una austera signora di un villaggio sperduto tra i monti. La giovane Lidia si sente prigioniera e soffre per i continui rimproveri della madre del marito, che le ricorda la sua umile nascita. Per un istinto di ribellione ella tradisce il marito con un gaudente del paese e con lui fugge lontano, credendo di andare incontro ad una nuova felicità. La suocera, presa dal pentimento, una sera, uscendo dalla piccola e umile parrocchia del paese, decide di ritrovare Lidia e ricondurla a suo figlio. Ma, ritornato in paese, l’uomo con il quale Lidia era fuggita viene ucciso misteriosamente in aperta campagna. Tutto fa pensare ad una vendetta del marito tradito, ma si scopre che è stato il guardiacaccia ad ucciderlo per vendicare l’onore della propria figlia». DalLa critica: «Uno di quei romanzi profondamente umani, finemente psicologici, della migliore scuola francese, dove l’azione non è inventata per raccontare piacevolmente un fatto, ma per poter legare e permettere uno studio acuto di caratteri, per sviscerare il cozzo di passioni che da tali caratteri derivano (...). Nella forzata sintesi psicologica del cinematografo, dove tutta l’esplicazione di un carattere si riduce a qualche dozzina di parole nelle didascalie, la maggior parte dei pregi del romanzo se e va perduta irremissibilmente, e non rimane che l’azione, molte volte di per se stessa scialba e banale, o illogica, quale appare dallo scarno riassunto delle premesse che portano alla conclusione (...). «La piccola parrocchia» risente di questo squilibrio profondo tra romanzo e film, di questa...antitesi, per cui, come trama, il film vale... per quello che vale, mentre il romanzo è tra i migliori della letteratura francese contemporanea (...). Con tutto ciò noi non vogliamo affatto diminuire i meriti di Mario Almirante: neppure lui può sbattere la testa al muro, colla illusione di spaccare i mattoni. Ammessa la scelta del soggetto, diremo che, anzi, difficilmente avrebbe potuto fare di più e di meglio (...). Di Italia Almirante Manzini (...) da un lato riconosciamo in lei la linea di una buona attrice, la signorilità del gesto, la padronanza della scena, un fascino, anche, tutto speciale che da lei emana e dai suoi occhi metallici e penetranti (...) dal lato opposto ci lascia freddi e perplessi. Ella ama l’enigma, la sfinge: e le donne sfingee, le donne fatali appartengono ad un genere letterario ormai sorpassato. E non adatta sè al personaggio, ma foggia il personaggio a propria immagine e somiglianza (...)». Elle Gi. in «La vita cinematografica», Torino 15 aprile 1923. 1923 La locanda delle ombre (Non ho ucciso!), di Baldassarre Negroni. Pr.: E.D.A. - distr.: Pittaluga - r.: Baldassarre Negroni e Ivo Illuminati - s. e sc.: Luciano Doria - f.: Ubaldo Arata - int.: Hesperia (Contessa Lavallière), Margot Pellegrinetti (Nancy), Lido Manetti (Tom Howard), Franz Sala (Fu-Ciang), Pauline Polaire (Maria), Ubaldo Stefani, Ugo Gracci, Giorgio Bonaiti, Gemma de Sanctis. Lunghezza m. 1570. La trama: «Storia di un giovane aristocratico che, abbandonato fin dalla più tenera infanzia, frequenta un equivoco locale dei bassifondi parigini e viene accusato innocentemente di un brutale assassinio. Ma una straniera riesce a salvarlo dal patibolo e, dopo una serie di emozionanti episodi, la sconosciuta rivela di essere la madre alla quale era stato sottratto da bambino». DalLa critica: «Siamo in pieno dramma avventuroso. Luciano Doria vuol cimentarsi in tal genere di produzione per il quale ha mostrato, però, almeno finora, scarsa capacità. S’inizia “La locanda delle ombre”, con la presentazione di vari personaggi, tracciati con mano sapiente, abitatori e frequentatori della trista locanda. Il dramma si snoda fra quantità di circostanze impreviste e di vicende strane. L’imprevisto. Ecco la malattia dei soggettisti italiani, che non vogliono convincersi quanto e come sia difficile coltivare il genere avventuroso dopo che gli americani hanno fatto prodigi. Hesperia - sempre affascinante e avvincente per la sua dolce e morbida bellezza - non possiede temperamento artistico adatto per simili interpretazioni ed evidentemente essa ha dovuto compiere uno sforzo per rendere con l’abituale sua scrupolosità e precisione la parte della contessa Lavalliere. Discreta Pauline Polaire, bene Margot Pellegrinetti e Lido Manetti, ottimo Franz Sala, attore che possiede una maschera efficacissima e che nel suo ruolo è fra i migliori artisti esistenti oggi in Italia. Una caratteristica, intonata mise en scène ed una fotografia instabile, a volte buona, a volte incerta». A. Bruno in «Il Roma della domenica», Napoli, 10 gennaio 1924. Il film è noto anche come «Non ho ucciso!». 1923 Il fornaretto di Venezia - anche Il povero fornaretto di Venezia, di Mario Almirante. Pr.: Alba Film, Torino - r. Mario Almirante - s. dal romanzo «Il fornaretto» (1846) di Francesco Dall’Ongaro - ad e sg. Luciano Doria e Mario Almirante - scg Mario Gheduzzi - int. Alberto Collo (Il Fornaretto di Venezia), Amleto Novelli (Lorenzo Barbo), Nini Dinelli (Clemenza Barbo), Vittorio Pieri (Marco Faciol, padre del fornaretto), Lia Mari (Annetta), Alberto Pasquali (Alvise Duodo), Oreste Bilancia (il pescatore), Felice Minotti. Lunghezza m. 1875. La trama «Nel 1507, a Venezia, durante il Carnevale, il giovane fornaretto Faciol, nel compiere il giro mattutino per la consegana del pane, trova un uomo riverso in una stradina. E’ il Conte Alvise Guoro che è stato ammazzato. Il giovane cerca di soccorrerlo, credendo che sia ancora vivo e si imbratta di sangue. Quando giungono le guardie viene arrestato e accusato di omicidio. Contro di lui si scatena una speculazione politica, poichè l’as- sassinio del conte viene presentato come la vendetta di un popolano contro un esponente della nobiltà. Ma è Lorenzo Barbo, nobile e cugino del Guoro, ad assumersi la difesa, attirandosi, per questo, le ire del patriziato. Le indagini condotte da Lorenzo e dalla sua amante portano alla certezza che l’assassino sia il conte Strucchi, che avrebbe agito in complicità addirittura con la moglie di Lorenzo, Clemenza. Lorenzo si accusa dell’omicidio di Guoro, ma nessuno gli presta ascolto. Per il povero fornaretto non vi è alcuno scampo. Verrà torturato e giustiziato». DalLa critica: «Con augurale simpatia salutiamo oggi “Il fornaretto di Venezia”, lavoro fatto dopo la famosa crisi, lavoro che ci viene come annunciatore di una nuova cinematografia nazionale, rinata e ravveduta. Un ottimo lavoro, fatto senza spreco, ma anche senza meschinità, un lavoro eccezionale non per merito di monumenti di cartapesta e di contorsionismi di qualche donna troppo celebre, ma per l’intelligenza, la potenza, la drammaticità che il realizzatore ha saputo infondere negli elementi eterogenei del film tanto da trarne un’armonia sobria ed efficace. Nell’interpretazione è degno di particolare nota, come sempre, Amleto Novelli, il quale ha ricevuto in questo lavoro la consacrazione della sua fama di nostro migliore attore drammatico». Edgardo Rebizzi, in «L’Ambrosiano», Milano 31 marzo 1923. «La vicenda è quanto mai ricca d’elementi drammatici ed emotivi; e poteva tralignare nel- l’enfasi più grottesca del melodramma dozzinale o del drammaccio plateale, nuocendo al film, se Mario Almirante, con squisito temperamento d’artista, non avesse saputo contenere la ricostruzione e l’esecuzione in una sobrietà che non è scarsezza di fantasia, ma eleganza e finezza d’arte. Storia o leggenda, il dramma d’amore e il dramma giudiziario si ricostruiscono con senso di verità e di vita, si sviluppano in ua misura pregevole. Non è stato dimenticato il carattere eminentemente popolare della favola stessa. E l’azione diventa centro o base del lavoro, è tutto il lavoro, mentre la più seducente delle cornici, Venezia, con i suoi canali silenziosi e la sua laguna placida, con i suoi palazzi e le sue calli, con le sue feste e con i suoi giardini, la inquadra, insomma, la materia truculenta di questo dramma giudiziario, si nobilita in materia d’arte e diventa fresca e malleabile. Alberto Collo ha superato ogni previsione, ha superato se stesso, rompendo finalmente la tradizione delle figure da lui impersonate fino ad oggi, tanto sono ingenue e giovanili le sue espressioni di innamorato felice e bonariamente geloso, quanto piene di dolore e di spasimo, di mortale angoscia e di prostrazione, dopo la tortura e dopo il crollo del suo sogno». Dionisio in «La vita cinematografica», Torino 15 aprile 1923. «Il film, spesso presentato anche come “La storia del fornaretto di Venezia” o “Il povero fornaretto di Venezia”. fu uno dei più grossi successi dell’annata 1923 e fu ripresentato ininterrottamente fino alla fine del muto. Si tratta di una delle storie più celebri della letteratura popolare nazionale ed il cinema se ne interessò sin dal 1908. Una edizione particolarmente felice fu quella diretta da Luigi Maggi nel 1914, con Umberto Mozzato e Alberto Napoli. Nel sonoro, altre tre edizioni: 1939, regia di John Bard (Duilio Coletti) con Roberto Villa; nel 1952, regia di Giacinto Solito, con Paolo Carlini, nel 1963. regia di Duccio Tessari, una coproduzione italo-francese con Jacques Perrin ed Enrico Maria Salerno. La censura si preoccupò delle scene macabre del film, chiedendo la soppressione di varie parti, in particolare da eliminare era la scena in cui si vede l’estrazione del pugnale dalla larga ferita sanguinante prodotta sul petto di Messer Alvise disteso a terra. Fu richiesta la soppressione di numerose scene della tortura inflitta al Fornaretto che, legato, è più volte sollevato da terra per mezzo di un congegno di tortura, mentre ha ai piedi una pesante palla. L’eliminazione di tutte le scene dell’impiccagione, in cui si vede il Fornaretto sospeso alla forca e il suo cadavere, deposto a terra, con la lingua di fuori, in una smorfia tragica e impressionante. 1923 I Foscari, di Mario Almirante. Pr. Alba Film, Torino - r. Mario Almirante - s e sc: Mario Almirante e Camillo-Bruti Bonzi - scg. Mario Gheduzzi - int.: Amleto Novelli (Jacopo Foscari), Alberto Collo (Ezio Contarini), Ninì Dinelli (Lucrezia Contarini), Vittorio Pieri (il doge Francesco Foscari), Lia Miari (Zanze), Alberto Pasquali (Ermolao Donati, avvocato della Repubblica Veneta), Felice Minotti (Nicolò Erizzo), Armando Pouget, Carolina White. Lunghezza m. 2010. Distribuzione: Pittaluga. La trama: «Ezio Contarini, giovane nobile veneziano dissoluto ed acerrimo nemico di Jacopo Foscari, che è stato costretto all’esilio benchè figlio del Doge, si accorge che jacopo è tornato di nascosto a Venezia per riverdere Lucrezia, sua moglie. Ezio denuncia il fatto al Consiglio dei Dieci. Jacopo viene arrestato e a nulla valgono le lacrime di Lucrezia e la richiesta di grazia avanzata dal vecchio Doge Francesco Foscari all’inflessibile Consiglio. Ogni pietà viene negata, anzi proprio il Doge dovrà firmare la condanna. Gli stessi implacabili giudici, mentre Jacopo viene portato al patibolo, inducono il Doge ad abdicare». Dalla critica: «Di rado capita di vedere riprodotta in cinematografia u’azioe così complessa - com’è questa dei «Foscari» - con tanta scorrevolezza di scena, tanto logico susseguirsi di vicende, con tanto equilibrio per l’una e per l’altra parte. Il riduttore, Camillo Bruto Bonzi, ha fatto, della passionale leggenda, una ricostruzione drammatica potente, svolta scenicamente con rara perizia di narratore, con alto senso artistico e letterario. Noi che conosciamo la storia del Doge Foscari a traverso del libretto di Piave per l’opera di Verdi - libretto manierato, pieno di controsensi, farragioso e ben lontano dall’assomigliare ad un’opera d’arte - ci siamo trovati di fronte a cosa nuova che ci persuade, trascina, conquide, dal principio alla fine, con la sua palpitante umanità. Ed è al Bonzi che va buona parte dell’interesse destato da questo lavoro - veramente di prima classe - poichè se tutti hanno concorso a renderlo bello, ciò potè avvenire in quanto il canovaccio sul quale costruire era tale, da prestarsi a magnifica riuscita. Amleto Novelli, nella nobiltà fiera di Jacopo Foscari, ha sfumature, passaggi graduali di gioia, di coraggio, di sofferenza contenuta, di muta disperazione, veramente incomparabili. Il suo giuoco mimico è fortemente comunicativo e studiosamente addestrato (...)». Elle Gi. in «La vita cinematografica», Torino 30 giugno 1923. «Il cinema Palace ha voluto, con opportuna finezza, non dare a questo programma una solennità minore di quella attribuita ad altri lavori congeneri di marca straniera, superiori di mole, ma non certo di fedeltà e buon gusto. La sala d’aspetto è stata intonata scenograficamente con l’ambiente del film: in un angolo, una colonna regge un bussolotto dove è scritto: “Denunzie de’ crimini contro lo Stato”. Disgraziatamente la cassetta, con relativa buca, è dipinta. Per entrare nella Sala occorre passare sotto il Ponte dei Sospiri, chiaro simbolo della lunga e compressa attesa che il misero spettatore deve fare per essere ammesso nel tempio delle delizie visive. A completare il colore locale, vi è un lift visibilmente innamorato della sua nuova professione e un paio di veneti dell’epoca, in ricco costume, che fumano indolentemente una sigaretta». Edgardo Rebizzi in «L’Ambrosiano», Milano 20 dicembre 1923. 1923 Le sorprese del divorzio, di Guido Brignone. Pr.: Alba Film, Torino - r.: Guido Brignone - s.: dalla commedia «Les surprises du divorce» di Alexandre Bisson (1888) - sc.: Guido Brignone - int.: Oreste Bilancia (Enrico Duval, il marito), Lia Miari (Digna, la moglie), Léonie Laporte (Madame Bonivard, la suocera), Alberto Collo (Champerereaux, l’amante), Vittorio Pieri (Courbillon, lo zio), Giuseppe Brignone (Borgoneuf, il suocero), Niobe Sanguinetti (Gabriella, la seconda moglie). Lunghezza m. 1774. Distribuzione: Pittaluga. La trama: «Un grande romanziere fugge in cerca di quiete in riviera, per non assistere alla rovina di un suo romanzo ridotto per la scena da un impresario ostinato e colà s’incontra e s’innamora, senza saper chi essa sia, della moglie dell’impresario. Costei, scoperta la relazione di suo marito con la prima attrice della compagnia, chiede il divorzio e sposa il grande autore di romanzi, del quale si è perdutamente innamorata. Ma il nuovo marito non resta indifferente al fascino della prima attrice e la moglie lo sorprende, nel camerino della rivale, mentre i due si baciano, la sera che la commedia ha ottenuto un grande successo. Delusa, la donna non trova altra via d’uscita che chiedere un secondo divorzio e ritornare a vivere con il primo marito. Non sono ancora trascorse ventiquattr’ore da quest’ultima decisione che un nuovo divorzio si profila all’orizzonte e l’amore tormentato fra l’autore e la donna trionfa». (Dal programma distribuito in un cinema). Dalla critica: «La commedia di A. Bisson non è una pochade: è una commedia allegra, un po’ scapigliata, di quelle che prelusero alle pochades, ma tale ancora da rifuggire da tutte le volgarità, le scurrilità e le scempiaggini di esse. Di quelle produzioni, all’ascoltar le quali una donna non è costretta ad arrossire, un uomo a trovarsi a disagio di fronte alle signore, ed ambedue a disgustarsi. Non è neppure una farsa, dalla quale, anzi, è ben lontana, rifuggendo dai lazzi e dalle buffonerie. Ridotta in film l’inscenatore e forse, più il direttore artistico dell’Alba, ha voluto, invece, fare una completa farsa, con intonazioni posciadesche, per quanto avrebbe potuto permettere la censura che, cinematograficamente, in questo campo è assi esigente. Nel film... forse si è troppo pensato che il cinematografo è la volgarizzazione dell’arte e della letteratura, e si è esagerato nel... volgarizzare, fino a raggiungere, qua e là, situazioni completamente fuori posto - diciamo così - nelle scene e nelle diciture. Si è voluto strafare in qualche punto, aggiungendo un po’ di pepe alla commedia; ma si vede che il pepe non era di prima qualità». (Elle Gi. in «La vita cinematografica», Torino, dicembre 1923). «Commedia prettamente teatrale, con intrecci e trovate complicate e graziosissime (...) Compito difficilissimo, quindi, era quello della riduzione cinematografica facendone risaltare, come meglio era possibile, le grandi arguzie come le graziose sfumature. Questa meta si prefisse Guido Brignone - direttore del film - e l’ha raggiunta. Abbiamo da rilevare soltanto un difetto originario insopprimibile in simili lavori scritti pel teatro; quello di un po’ d’imbroglio generale per le situazioni troppo complicate che esigono spesso il concorso di didascalie - spiritose, naturalmente - che se fanno ridere, non sono per questo molto desiderabili. Oreste Bilancia ha impersonato la figura di Duval con la sobrietà e buon gusto che sono abituali ad ogni sua interpretazione. Lia Miari, attraente. Niobe Sanguinetti, spigliata. A Leonie Laporte non diamo affatto la nostra approvazione perché le sue interpretazioni, sguaiate non ci sono mai piaciute». A. Bruno in «Il Roma della domenica», Napoli, febbraio 1924. Il film venne presentato e premiato con medaglia d’oro al Gran concorso internazionale del cinema di Torino, svoltosi nel 1923. Guido Brignone diresse nel sonoro una seconda versione del film per conto della Scalera film (1939) con Armando Falconi, Sergio Tofano, Bice Parisi, Olga Pescatori e Tiziana Calvi. Si ricordano anche una versione americana: «The Popular Sin», del 1926, regia di Malcom St. Clair ed una francese: «Les surprises du divorce», diretta da Jean Kemm nel 1933. 1923 L’ombra, di Mario Almirante. Pr. Alba Film, Torino - r.: Mario Almirante - s.: dal lavoro drammatico omon. di Dario Niccodemi (1915) - ad. e sc.: Mario Almirante - int.: Italia Almirante - Manzini (Berta Trégner), Alberto Collo (Gerardo Trégner), Liliana Ardea (Elena Preville), André Habay (Alberto Davis), Domenico Marvert (il medico), Vittorio Pieri (Michele, padrino di Berta), Oreste Bilancia. Lunghezza m. 1955. Distribuzione: Pittaluga. La trama: «Berta Trégner, vittima di un incidente, è rimasta paralizzata. Per la giovane e bella donna la vita scorre tra la sopportazione della sua sventura e l’illusione che Gerado suo marito, continui ad amarla. Quando dopo sei anni, Berta guarisce, quasi per miracolo, scopre che Gerardo si è creata un altra famiglia con Elena, la sua migliore amica, ad hanno anche un figlio. Affranta, la povera donna fugge, invocando la Vergine. Ma l’amoroso padrino di Berta riesce a scoprire che Elena ha allacciato nuovamente rapporti col suo ex marito, Alberto, e ne informa Gerardo, il quale, respinta l’indegna Elena, può ritornare da Berta per ritrovare l’amore sopito più che distrutto, ed il bimbo vive con loro, poiché la mamma, abbandonandolo nella sua fuga, non è degna di riaverlo». DalLa critica: «Il dramma si svolge intenso e raccolto nell’animo della protagonista. Tutto racchiuso in lei, una lotta titanica fra opposti sentimenti e passioni erompenti, senza tuttavia affrontare problemi ideologici e morali. Se questi scoppiano improvvisi e veementi, senza preparazioni e quasi senza addentellati, è per quello strano giuoco di cui alcune volte si compiace un autore per un senso di acrobatismo e virtuosismo teatrale. L’intrico teatrale che in molte opere si estende dalla prima all’ultima scena con potenzialità progressiva, qui è tenuto in sordina e solo appare nell’evoluzione dell’anima conseguente della donna, nei suoi passaggi, nelle sfumature e diremmo, nel presentimento dell’immanenza oscura del destino. Questo aver voluto svolgere un concetto superiore crea evidentemente degli squilibri fra l’idea, astrazione e la realtà, materia; squilibri che permangono nel cinematografo, pur possedendo questi maggiori mezzi di attuazione e maggiori possibilità, sì che la vicenda realistica soffoca il significato simbolico che noi, a differenza di altri scrittori, abbiamo voluto rilevare per una maggiore comprensione e penetrazione dell’opera, anche perché abbiamo seguiti i commenti del pubblico che affollava il Ghersi, commenti impostati sull’esteriorità e sull’impressione. Invece, quanta comprensione sarebbe necessaria e quanta minor leggerezza di giudizio, per una giusta valorizzazione dell’arte. Se il pubblico ci legge, da queste note può trarre un buon profitto». Gulliver in «La rivista cinematografica», Torino, n.8, 25 aprile 1924. Presentato all’Esposizione Internazionale di Torino, il film venne premiato con una medaglia d’oro. «L’ombra» non è da confondere con l’omonimo film del 1920, interpretato da Francesca Bertini e tratto dal romanzo di Octave Feuillet. Il lavoro di Niccodemi era stato invece già portato sullo schermo nel 1918 da Mario Caserini, con Vittoria Lepanto protagonista, venne poi nuovamente realizzato nel 1954 da Giorgio Bianchi con Marta Toren. 1923 L’arzigogolo, di Mario Almirante. Pr.: Alba Film Torino - s.: dal dramma omon. (1922) di Sem Benelli - ad. e sc.: Mario Almirante - cost.: Caramba (Luigi Sapelli) - scg.: Giulio Lombardozzi - int.: Italia Almirante – Manzini (Violante), Annibale Betrone (Spallatonda il buffone), Alberto Collo (Il Conte Giano), Oreste Bilancia (Floridoro), Vittorio Pieri (Il principe di Carpi), Felice Minotti. Lunghezza m. 2419.. Distribuzione: Pittaluga. La trama: «Monna Violante, figlia del principe di Carpi, ha deciso di sposare l’uomo che riuscirà a affascinarla e a scuoterla dalla sua apatia. Il padre le ordina di scegliere uno dei pretendenti o la chiuderà in convento. Violante sceglie Floridoro, un grasso mercante, arricchitosi per avere recato al re di una remota isola infestata dai topi, una coppia di voraci gatti. Violante chiede che le nozze siano formali, finchè non avrà trovato l’uomo dei suoi sogni. Floridoro accetta, sicuro della buona sorte, che già altre volte l’ha favorito. Il Conte Giano, sfortunato pretendente di Violante, si rifugia nel suo castello con il buffone Spallatonda. E quando Violante, col suo goffo consorte, visita i castelli dei suoi antichi corteggiatori e sosta in quello di Giano, crudelmente finge di essere pronta a cedergli. Giano ordina a Spallatonda, pena la decapitazione, di portargli la donna. Spallatonda tenta, ma con tale veemenza, che Violante ne é sensualmente turbata e si lascia sedurre dal buffone che, dopo, non vuole più portarla a Giano. E mentre il suo padrone sta per mettere in atto la sua terribile minaccia, Violante implora per Spallatonda, offrendosi a Giano per la vita del buffone. Giano accetta. Spallatonta sarà decapitato per burla. Mentre si celebra la finta esecuzione, il buffone finge di perdere i sensi. Poi, di nascosto entra nella stanza di Violante e quando arriva Giano, trionfante, l’uccide, per pio fuggire con la donna». Dalla critica: «L’Arzigogolo», uno degli ultimi lavori di Sem Benelli - che ha al suo attivo un lusinghiero successo teatrale - non ha deluso le buone speranze che si nutrivano per l’adattamento cinematografico, poi ch’esso è risultato sullo schermo un’opera originale ed interessante. Il poeta può, dunque, essere contento. Egli non soltanto ha aderito a cedere il soggetto, ma ha partecipato e ha favorito la riduzione e trasformazione necessaria; questa sua condiscendenza verso il cinematografo - ch’è combattuto dalla maggior parte degli scrittori di grido - viene ad avere piena ricompensa oggi che il film è presentato al pubblico, perché «L’Arzigogolo» - finora noto ai soli frequentatori di teatri - si infiltrerà adesso fin nei villaggi e sobborghi, valicherà le frontiere e avrà, così, il battesimo della gran folla che si riversa quotidianamente nei locali cinematografici». (Alberto Bruno in «Il Roma della Domenica», Napoli, 23 marzo 1924). « Mai vedemmo Italia Almirante così perfettamente a posto, figura squisita di donna intelligente, la sua bellezza plastica - che le sfarzose vesti conservao morbida - rende più viva di fascino e suggestiva la complessa, enigmatica figura di Violante. Nella multiformità dei sentimanti che l’agitano, ella ha saputo dare una finzione del suo dramma innteriore un senso così profondo del suo svegliarsi all’amore, il sogno del poeta. E se Italia Almirante in quest’opera è grande, Annibale Betrone no le è inferiore nei suoi scatti d’ogni angoscia, di tutto riso spasmodico, di tutta beffa sanguinosa. Nella direzione artistica e tecnica, Mario Almirante si è posto alla testa dei metteurs enscene italiani pari per abilità di inscenatore a Griffith, per coloritura drammatica a Lubitsch, per finezza e grazia ad Abel Gance. Artista sensibile e raffinato, ha saputo impadronirsi del carattere dei singoli personaggi del dramma e svilupparsi in limpidezza di espressioni significative, con un crescendo wagneriano, si che ogni ombra come ogni palpito messi in luce, hanno potuto, nell’essenza spirituale, conservare l’impronta dell’epoca fastosa e torbida. Nel piccolo castello medioevale del Valentino, abbiamo avuto la sensazione di essere stati trasportati indietro nei secoli; tutta la ostra modernità di idee e di abitudini si è sfaldata, come per un incantesimo, e con gli interpreti abbiamo vissuto la vita di quel tempo, nell’amalgama più completa. Così potente è la comunicativa che amana dall’azione». Luciana Grimaldi in «La vita cinematografica», Torino 10 novembre 1923. Il film, che costituì uno dei maggiori successi della stagione cinematografica del 1924 e che si segnala per una realizzazione molto accurata, non è fedele all’opera di Sem Benelli. Infatti, nel lavoro teatrale, Spalltonda, dopo la finta decapitazione (che la censura cinematografica volle fosse solo accennata con una «fugace visione»), chiede a Giano di fargli portare la donna nella staza da letto. E infatti porta Violante, agonizzante, dopo averle inferto numerose coltellate. Nella versione cinematografica è invece Giano che viene ucciso da Spallatonda, per poi fuggire con Monna Violante. 1924 Largo alle donne!, di Guido Brignone. Pr.: Alba Film, Torino - r.: Guido Brignone - s.: dalla commedia «Place aux femmes!» di Charles Maurice Hénnenqui e A. Valabrègue (1898) - ad. e sc.: Guido Brignone - int.: Oreste Bilancia (Cascadier), Léonie Laporte (Felicita Cascadier), Alberto Collo (Conte di Castelvajour/ Pontgirard), Lia Miari (Andreina), Liliana Ardea (Camilla), Alberto Pasquali (Giboulet), Enrica Massola (Malvina de La Roche), Nella Marino (Renata), Giuseppe Brignone, Vittorio Pieri. Di.; Pittaluga - v.c.; 19223 del 28/2/1924 - p.v. romana 4/5/1924 - lg. o., mt. 1603. La trama: «La famiglia Cascadier è dominata dalla madre, Felicita, che è avvocatessa, presiede varie associazioni ed è alla testa di un movimento femminista. Delle tre figlie, la seguono Renata, che dipinge quadri moderni, e Camilla, medico che assiste i sani e giudica guarito chi sta per morire. Solo Andreina preferisce dedicarsi al marito, ai figli e al povero padre, ridotto ad occuparsi delle faccende domestiche. Ma una serie di vicende più o meno grottesche faranno cadere, ad una ad una, le fisime del femminismo. Il vecchio Cascadier, che in un momento di ribellione aveva abbandonato la moglie, ritorna a casa. Ma Felicita non cercherà ancora una volta di porlo sotto il giogo delle sue frenesie?». Dalla critica: «La fantasia scapigliata di Hennequin ha forse avuto nella trama di questa commedia scitillii particolari e diversivi nuovi. Il femmismo non è stato per lui un motivo di studio, di analisi, di ricerca sociale o morale, ma un intreccio allegro, che egli ha saputo in quella sua forma amabile di bonomia saporosa ed inoffensiva, cospargere d’ironia. A volte ha accenti setiti di pochade, si fa leggera, incosistente; ma in tutti i momenti è opera di scrittore guardingo, arguto, che vuol svolgere il suo soggetto irrobustendolo di tutti gli elementi acquisiti dal suo spirito e dalla sua esperienza. Questa ricostruzione dà l’impressione di opera originale composta e scritta unicamente per il cinematografo, poiché l’essenzialità della parola è sostituita con mezzi adeguati. I contrasti maritali non hanno bisogno di illustrazione verbale, ed il comico, lo spirito di un motto, è espresso nella stessa situazione dagli accenti plastici, dai richiami posteriori o dl profilarsi di sorprese postume. Ma dopo questo giudizio di indole generale, dobbiamo rilevare i valori cinematografici, consistenti nel raggruppamento dei quadri, nella successione coordinata degli episodi, e l’alternarsi stesso degli avvenimenti che procedono con logicità serrata». Gulliver in «La rivista cinematografica», Torino, 25 settembre 1924. 1925. Der Bastard o Il transatlantico, di Gennaro Righelli. Pr.: Phoebus - r.: Gennaro Righelli assistito da Mario Almirante - s.: dal romanzo “Transitlantic” di Urville - sc.: Leò Birinski - f.: con Arata ci sono anche Arpad Viragh e Eduard von Borsody - scg.: Jacques Rotmil, Gustav Knauer - int.: Maria Jacobini, Erich Kaiser Titz, Mary Kid, Rolla Norman, Heinrich Peer, Oreste Bilancia, Hedwig PaulyWinterstein, Albert Paul, Nien Son Ling, Hilde Maroff. 1926 Maciste all’inferno, di Guido Brognone. Pr.: Fert-Pittaluga - r.: Guido Brignone - s.: Fantasio (Riccardo Artuffo) - f.: con Arata c’é anche Massimo Terzano eff.f.spec. e trucchi: Segundo De Chomon - scg.: Giulio Lombardozzi int.: Bartolomeo Pagano (Maciste), Pauline Polaire (Graziella), Elena Sangro (Proserpina), Lucia Zanussi (Luciferina), Franz Sala (Barbariccia / Dott. Nox), Umberto Guarracino (Pluto), Mario Sajo (Gerione), Domenico Serra (Giorgio), Felice Minotti (un diavolo), Andrea Miano (un altro diavolo), Sergio Amidei (un terzo diavolo), Oreste Grandi. Sincronizzato nel 1940. Lunghezza m. 2475. La trama: «Pluto, re dell’inferno, invia sulla terra Barbariccia, sotto le spoglie del Dottor Nox, per procurare anime e perdere Maciste che vive in un paesetto di montagna. Quando Barbariccia, con altri cinque diavoli, gli arriva in casa, Maciste lo mette alla porta e anche Graziella, una vicina di Maciste, resiste alle lusinghe del diavolo. Barbariccia fa incontrare Graziella con un giovane ricco signore, Giorgio, che dopo aver ricambiato il suo amore, l’abbandona sola con un figlio. Maciste si reca al palazzo di Giorgio, lo costringe a tornare dalla ragazza e salva anche il bambino, che Barbariccia aveva rapito e abbandonato nel bosco. In uno scontro con Barbariccia, Maciste cade in una trappola e viene spedito diritto all’inferno, dove è conteso fra la moglie di Pluto, Proserpina, e la figliastra di lei, Luciferina. Per un bacio dato a Proserpina, Maciste si trova trasformato in demonio. L’attrazione che per lui prova Proserpina ingelosisce Barbariccia che, con il pretesto di moralizzare l’ambiente, organizza una rivolta contro Pluto. Maciste accorre in difesa del re, sbaraglia i rivoltosi e umilia Barbariccia. Pluto, riconoscente, lo libera dall’incantesimo e lo lascia libero di tornare sulla terra. Proserpina non si rassegna a lasciarlo andare e lo incatena ad una roccia. Viene liberato la notte di Natale, dalla preghiera del bimbo di Graziella, sposatasi con Giorgio». Dalla critica: «Un film in cui si riscontrano un non comune intendimento di arte e una genialità di fantasia insolite. La lotta del Male contro il Bene in «Maciste all’inferno» si complica di elementi soprannaturali. La rievocazione del mondo infernale è fatta secondo la tradizione classica dantesca. Il film è stato inscenato con grandiosità e con ricchezza di mezzi. Per creare il Regno delle Tenebre sono state eseguite costruzioni monumentali, antri paurosi e bolge profonde. La moltitudine dei demoni è imponente e spettacolosa. Ma ai quadri di bellezza, diremo così, infernale, rosseggianti di fiamme e densi di ombre, si alternano quadri di paesaggio idilliaco, di semplicità agreste e domestica, sul cui sfondo agiscono le persone terrene. Oltre al prestigio di un’ottima fotografia, efficacemente stereoscopica, morbida, pastosa, pittorica, doviziosa di effetti di luce, sapientemente resi e atti a riaffermare la tonalità del quadro, a dare u senso di irreale al reale, il film sfoggia non pochi virtuosismi tecnici di mirabile fattura. Per i suoi meriti tecnici e artistici, per l’originalità dell’argomento, «Maciste all’inferno» costituisce uno dei massimi lavori che la cinematografia italiana abbia prodotto in questi ultimi tempi». (Edgardo Rebizzi in «L’Ambrogio», Milano 28 aprile 1926, citato in «Mario Verdone, «Il film atletico ed acrobatico», Torino: «Centrofilm», n. 17, 1960). «Non a torto il film è intitolato: «diavoleria»; è una cosa strana, un impasto di grottesco, di gentile, di sentimentale, di fantastico, di comico e di tragico; u motivo fondamentalmente goethiano inscenato bene, col concorso di una serie impressionante di trucchi (...). Bisogna riconoscere che il film è ben riuscito. Le scene dell’inferno, lavorate sui ben noti motivi danteschi, sono ancora quanto di meglio finora ci è accaduto di vedere in questo tema. Come risulta dalla esposizione del La trama, non c’è nel film nulla intesi di immorale, però, a causa di alcune scene, esso è da ritenersi inopportuno per i giovanetti». (Anonimo in «La Rassegna del Teatro», Milano, n.4, 30 aprile 1926). «Un curioso film, non privo di una certa grandiosità, girato in una vallata delle Alpi piemontesi (la Valle di Stura n.d.r.) che, nonostante tutto, ha un notevole successo commerciale dovuto in buona parte alla generosa esibizione» delle proprie grazie che, con la scusa dell’inferno, vi fanno la bella Elena Sangro e le molte altre donzelle». Vico d’Incerti in «Ferrania», Milano, n.6, giugno 1951. Presentato una prima volta in censura, il film di Brignone venne bocciato (ottobre 1925). Ottenne il visto solo nel marzo 1926, dopo che la lunghezza originale di metri 2502 era stata ridotta a 2475 metri. Comunque il film era già stato visto, nella sua edizione integrale, e prima ancora della censura, da migliaia di spettatori, in quanto venne proiettato varie volte durante la Fiera di Milano del 1925, nell’ambito della quale si svolgeva un concorso internazionale cinematografico. E aveva anche ottenuto un premio. Nel 1940, il film venne sonorizzato e circolò ancora a lungo nei cinema della penisola. Edgardo Rebizzi, attento osservatore del lavoro di Arata alla Fert-Pittaluga per il fortunatissimo «Maciste all’inferno» di Brignone: «Un’ottima fotografia efficacemente stereoscopica, morbida, pastosa, pittorica, doviziosa di effetti luce, sapientemente resi e atti a raffermare la tonalità del quadro, a dare un senso di irreale al reale» («L’Ambrosiano», 28 aprile 1926). «Ottima la fotografia di Arata: luminosa e solida» (e oltretutto con l’introduzione di alcune sequenze girate sperimentalmente a colori) l’anno dopo ne «Il vetturale del Moncenisio» di Baldassarre Negroni, secondo Aldo Gabrielli. «La rivista cinematografica» di Torino, n. 21 del 15 novembre 192). 1926 Beatrice Cenci, di Baldassarre Negroni. Pr.: Pittaluga - r.: Baldassare Negroni - s. e sc.: Luciano Doria con la collab. di Torello Rolli - f.: con Arata c’é anche Anchise Brizzi - scg.: Giulio Lombardozzi - cost.: Domenico Gaido int.: Maria Jacobini (Beatrice Cenci), Raimondo Van Riel (Francesco Cenci), Franz Sala (Marzio Savelli), Gino Talamo (Olimpio Calvetti), Ugo Gracci (il Catalano), Celio Bucchi (Amerigo Caponi), Gemma De Sanctis (Lucrezia Petroni), Camillo De Rossi (Marco Sciarra), Maria De Valencia (Dianora Apolloni), Augusto Bandini (Cipolletta), Mino Doro (Bernardo Cenci), Bianco Tranquillo (Sante da Pompa), Nino Beltramo (Giacomo Cenci), Caterina Collo (Geromina), Ida Moru (Caledonia), Lillian Lyl, Chiara Ravotti, Felice Minotti, Andrea Miano. Lunghezza m. 2785. La trama: «Il conte Francesco Cenci, dissoluto e violento, confina nella Rocca di Petrella Salto la figlia Beatrice, la quale, divenuta l’amante del castellano Olimpio, lo induce, con la complicità della matrigna Lucrezia e dei propri fratelli Giacomo e Bernardo, ad uccidere il padre nel sonno, facendolo poi precipitare da un balcone, perché si creda a una disgrazia. Scoperti e processati, i colpevoli si difendono affermando che Francesco era stato ucciso per aver stuprato la figlia Beatrice, nel frattempo divenuta madre. Ma Papa Clemente VIII, inesorabilmente, infligge condanne terribili: lo squartamento per Giacomo, la decapitazione per Beatrice e Lucrezia, l’ergastolo per il giovane Bernardo». 1927 I martiri d’Italia, di Domenico Gaido. Pr.: Pittaluga - r.: Domenico Gaido - s.: Luigi Collino - sc.: Domenico Gaido - f.: con Arata ci sono anche Massimo Terzano e Fortunato Bronchini - scg.: Giulio Lombardozzi - cost.: Domenico Gaido - int.: Elena Lunda (Elena Sciesa), Vasco Creti (Amatore e Antonio Sciesa), Bianca Maria Hubner (Contessa di Belgioioso), Franz Sala (Dante Alighieri), Umberto Mozzato (Masaniello), Gian Paolo Rosmino (Mazzini), Mauro Serra (Pietro Maroncelli), Vasco Brambilla (Camillo Benso conte di Cavour), Celio Bucchi (Cola di Rienzo), Amilcare Taglienti (Gugliemo Oberdan), Luigi Martini (Vittorio Emanuele II), Vittorio Bonelli (gen. austriaco Radetzky), Augusto Ricci (re Carlo Alberto), Camillo De Rossi (Giuseppe Garibaldi), Cesare Carini - Gani (Francesco Petrarca), Domenico Sartori (Balilla), Giacomo Gaggiotti (Goffredo Mameli), Giuseppe Brignone (Martin Tosco),Felice Minotti (Pietro Micca), Domenico Serra (l’alpino), Teresa Marangoni (la madre dell’alpino), Fede Sedino (la fidanzata del soldato). - p.di.; S.A. Pittaluga - v.c. 23348 del 31/3/1927 - p.v. romana 31/3/1927 - lg.o.; mt. 2315. La trama: «Traendo spunto dal lontano 1200, alba crepuscolare d’una prima Unità della Patria, quella della lingua, il film passa in rassegna tutti gli avvenimenti più notevoli della storia d’Italia esaltando, nella loro semplice e sintetica esposizione le eroiche gesta dei Martiri e dei Grandi. Da Dante a D’Annunzio, da Balilla a Garibaldi, da Pietro Micca a Cesare Battisti, da Cesare Balbo a Silvio Pellico, da Masaniello a Santorre di Santarosa, da Federico Confalonieri ai fratelli Cairoli, fino alla Grande Guerra ed alla Marcia su Roma, che conclude quest’epopea. Il coro del Nabucco e canzoni patriottiche sottolineano l’azione cinematografica». (Da un programma distribuito nei cinema romani). Dalla critica: «I martiri d’Italia è un film fatto per diffondere nel pubblico italiano la conoscenza delle nostre glorie passate e delle nostre possibilità d’ascesa. Fatto con intendimenti nobilissimi, non è esente da pecche, dovute, più che altro, a sproporzione. Ciononostante, la fedeltà quasi fotografica con la quale sono stati riprodotti certi tipi e certi quadri celebri, ha fatto sì che il lavoro abbia avuto un sicuro successo di stima presso il pubblico numerosissimo che ha gremito la vasta sala dal primo giorno all’ultimo. Quando non avesse alcun altro merito, il film ha quello di aver dimostrato come il nostro pubblico possa trovare diletto anche all’infuori delle avventure di Rodolfo Valentino e di Tom Mix, e come la visione delle bellezze ed il ricordo delle glorie italiche abbiano tanta presa sui cuori degli italiani, quanta ne ha su quegli stranieri un atteggiamento più o meno plastico della biondissima Mae Murray». (Mascamort in «La rivista cinematografica», Torino 14 aprile 1927). «Anche a Milano, il nuovo film italianissimo ha avuto accoglienze trionfali. Sono intervenuti allo spettacolo S.A.R. il duca di Bergamo, le autorità civili e militari, il corpo dei professori e degli insegnanti. Lo svolgimento dell’azione è stato accompagnato con perfetto sincronismo dalla scelta orchestra del Cinema Corso. Cori e solisti hanno cantato le più note canzoni e i più popo- lari inni patriottici. Gli applausi, che sono divenuti frenetici all’episodio delle cinque giornate e all’eroico “Tirem innanz” del milanese Antonio Sciesa, hanno accomunato nello slancio generoso e commosso del pubblico, tutti i nostri eroi! E veramente I martiri d’Italia è un bel film che ci insegna molte cose nuove, e innanzi tutto, a dare un significato meno effimero a quest’arte del cinematografo, che brancola ancora nel buio. Un film che canta una sublime canzone di fede e d’amore; che tutti gli italiani dovrebbero vedere e dal quale alcuni avrebbero molto da imparare!». (Redazionale in «Il corriere cinematografico», Torino, 16 aprile 1927). 1927 Il vetturale del Moncenisio, di Baldassarre Negroni. Pr.: Pittaluga - r.: Baldassare Negroni - s. e sc.: Baldassarre Negroni dal romanzo «Jean le Coucher» di Jean Bouchardy (1852) - scg.: Giulio Lombardozzi - cost.: Domenico Gaido, int.: Bartolomeo Pagano (Jean - Claude Thibaut), Rina De Liguoro (Geneviev), Umberto Casilini (Ludovico, conte di Arezzo), Alex Bernard (Pietruccio, il campanaro), Celio Bucchi (il colonnello Rouger), Giuseppe Brignone (il parroco di San Martin), Mimì Dovia (la piccola Jeanne Thibaut), Manlio Mannozzi (Henri Rouger), Oreste Grandi (Morel), Carlo Valenzi (Napoleone), Felice Minotti, Andrea Miano. Lunghezza m. 2499. La trama: «Gian Claudio Thibaut, vetturale del Moncenisio, vive sulle Alpi con sua moglie Genoveffa e la piccola Giovanna. Siamo al tempo delle guerre napoleoniche ed un ufficiale deve attraversare le Alpi per portare un messaggio all’Imperatore. Ma un traditore lo denuncia, facendolo arrestare insieme a Gian Claudio. A Genoveffa viene portata dal traditore, che si finge amico, la notizia che Gian Claudio è morto. Credendosi vedova, la donna va a vivere dal nonno, a Milano, poi, cedendo alle sempre più intense attenzioni del traditore, accetta di sposarlo. Il vetturale, che si è liberato ed in guerra ha compiuto atti di valore, ritrova infine la sua donna e, dopo aver compiuto giustizia, ricostituisce la sua famiglia nel sereno paese alpino». Dalla critica: «La trama cade nelle inevitabili deficienze d’una favola ricca di avventura: c’è qualche sproporzione e qualche illogicità non convincente. Mal di poco. Ché l’abbondanza di fatti incastonati sulla gemma sempre a sicuro effetto della pietà o dell’amore, hanno il merito invidiabile di mantener sempre viva l’esaltazione commossa della folla e di strappare ad essa quella condiscendenza per le venture men logiche che altrimenti sarebbe vano sperare. Certo, è una trama che possiamo giudicare audace se la mettiamo a confronto con lo sciame dei soggetti americani dove il cuore entra molto di sghembo. Una trama che trionferà; ché l’italiano nasce con un’anima sua, e l’anima non si cambia a suon di dollari. Il Conte Negroni, il noto padre nobile della cinematografia italiana, ha diretto la parte artistica di questo film. Il pittore Domenico Gaido ha disegnato i costumi e gli scenari. Un binomio eccellente. Bartolomeo Pagano fu un Gian Claudio, come sempre, appassionato e dolce. E Rina de Liguoro interpretò la parte di Genovieffa con anima veramente italiana. Ottima la fotografia di Arata: luminosa e solida». A. Gabrielli in «La rivista cinematografica», Torino, n.21, 15 novembre 1927. Primo ed unico film dell’anno 1927 a godere dei benefici della legge 1121 del 16 giugno 1927, «Il vetturale del Moncenisio» venne riconosciuto come «pellicola dotata dei prescritti requisiti di dignità artistica e di buona esecuzione tecnica». Girato per quanto riguarda gli esterni in una impraticabile valle dell’alto Cadore, i mezzi tecnici occorrenti vennero trasportati con due aeroplani. Da notare che alcune scene vennero sperimentalmente girate a colori. Questa è la seconda versione del popolare «feuilleton» del Bouchardy. La prima risale al 1916, produzione Vay-film di Milano, regia Leopoldo Carlucci, interprete Achille Majeroni. Ve ne è poi una terza sonora, del 1956, diretta da Guido Brignone. 1927 Il carnevale di Venezia, di Mario Almirante. Pr.: Pittaluga - r.: Mario Almirante - s.: Pier Angelo Mazzolotti - sc.: Mario Almirante, Pittigrilli (Dino Segre) - f.: con Arata c’é Massimo Terzano - scg.: Giulio Lombardozzi int.: Maria Jacobini (Graziella Morosin poi Graziella Dorigo), Malcolm Tod (Edward Jefferson poi Andrea Albani), Bonaventura Ibanez (Duca Morosin poi Duca Dorigo), Josyane (Germaine Normand), Manlio Mannozzi (Giorgio poi George Rodriguez), Alex Bernard (il segretario Whisky), Giuseppe Brignone, Carlo Tedeschi, Felice Minotti, Andrea Miano. Lunghezza m. 2954. La trama: «Un giovane americano compie un gesto generoso verso un nobile veneziano, salvandolo dalla rovina e sposandone poi la nipote, ingannata da un innamorato senza scrupoli, giocatore e vendicativo». Dalla critica: «Il successo fantastico, grandioso, completo che ha arriso al film è spiegato facilmente quando si esamina con coscienza questo capolavoro della Moderna Cinematografia. L’ambiente di una suggestività incomparabile, l’interpretazione dovuta ad attori di grande stile, fra i quali Maria Jacobini, una delle più squisite attrici cinematografiche del Mondo, la sontuosità sfarzosissima di gran buon gusto sono doti che a questo film non fanno certo difetto. La sala del cinema è talmente gremita da costringere gran parte del pubblcio a privarsi del piacere di assistere alla prémiere di questo colosso della Cinematografia, del quale si iniziano le numerose repliche. Nicola Forastiere in «Kines», Roma, n.4, 1 febbraio 1928. «Si parla di rinascita del film italiano; ma questa rinascita non va intesa soltanto nel senso di ridare l film italiano quegli elementi di tecnica fotografica ed interpretativa che lo debbono portare all’altezza della migliore produzione straniera. Per film italiano si deve intendere anche quello che porti per il mondo la parola, lo spiri- to, la vita di questa rinnovellata Italia, oggi più a buon diritto orgogliosa di sé e gelosa del proprio decoro, giacché un uomo ed un partito l’hanno messa in tale felice condizione in faccia al mondo. E - mi duol dirlo - per questo rispetto, per il suo contenuto, per una particolarità che si sarebbe potuta facilmente evitare, «Il carnevale di Venezia» non è ancora quel che auspicavamo, quello che già credevamo il primo film della rinascita della cinematografia italiana». Francesco Marulli in «Cinemalia», Milano, n.2, febbraio 1928. Il film, per il quale era stata richiamata da Berlino la popolare attrice Maria Jacobini e alla quale erano stati affiancati l’inglese Malcom Tod, la francese Josyane ed un cast di tutto rispetto, venne violentemente stroncato da Alberto Spaini sulla «Tribuna» e da Corrado Pavolini su «Il Tevere». Oltre alla mediocrità della realizzazione,venne stigmatizzato che il personaggio del «vilain» fosse un italiano. La protesta non restò senza eco, il film vene ritirato e poi ripresentato, come detto dagli annunci pubblicitari «riveduto e corretto». In effetti vennero cambiati i nomi dei personaggi: il cattivo da Giorgio divenne George Rodriguez, mentre l’americano Edward Jefferson divenne Andrea Albani. Non è noto perché la Jacobini e la Ibanez si trovarono il cognome mutato da Morosini in Dorigo. Vi fu anche un intervento della censura ufficiale, che impose di attenuare le nudità delle bagnanti al Lido e di sopprimere una scena in cui una ballerina accenna alla danza del ventre. Nel 1930, il film venne sonorizzato, a cura di Guglielmo Zorzi, e ripresentato. con scar- sissimo esito, nelle prime visioni. Nessuna analogia, ad eccezione del titolo, con un altro film italiano (1940), diretto da Giuseppe Adami e Giacomo Gentilomo, interpretato dalla cantante Toti Dal Monte. 1927 Addio, mia bella Napoli, di Mario Almirante. Pr.: Fert - Pittaluga - r.: Mario Almirante s. e sc.: Mario Almirante - f.: con Arata c’é anche Massimo Terzano op.: Beniamino Fossati - musica: Ernesto Tagliaferri - scg.: Giulio Boetti - int. Malcolm Tod (Genny D’Ambrosio), Anna Mari (Alice Baldwvn), Lillian Lyl (Carmela), Giorgio Curti (Taniello), Carlo Tedeschi, Nino Altieri, Camillo De Rossi, Elvira Marchionni, Giovanni Marcial, Felice Minotti, Ellen Meis, Adriana Facchetti. E’ stato sincronizzato alla Cines a cura di Guglielmo Zorzi verso la fine del 1930 e presentato col titolo “Napoli che canta”. - p.; Fert, Torino - di.; Pittaluga - v.c.; 26019 del 30/9/1930 - lg.o.; mt. 2040. La trama: «A New York, Genny D’Ambrosio, oriundo, e Alice Baldwvn, accettano piuttosto freddamente le decisioni dei rispettivi genitori, che hanno combinato un matrimonio tra i due ragazzi, per propiziare un’alleanza industriale. Per far contenti i genitori, accettano la decisione, ma rinviano di un anno la data delle nozze e partono separatamente per l’Italia. Giunti a Napoli, complici le mandolinate, il sole, il mare e una serie di equivoci con una coppia di napoletani, Carmela e Taniello, scoprono di amarsi. Quando ripartono per l’America hanno il cuore pieno di nostalgia». 1928 Gli ultimi zar, di Baldassarre Negroni. Pr.: Pittaluga - r.: Baldassare Negroni - s.: dal romanzo di Emilio Valabrega - sc.: Emilio Valabrega e Baldassare Negroni - f.: con Arata c’é anche Fortunato Bronchini - scg.: Giulio Lombardozzi - int.: Bartolomeo Pagano (Wassili Lobov), Elena Lunda (Caterina Pavlova), Amilcare Taglienti (Sergio Pavlov), Sandro Ruffini (lo zar Alessandro III), Franz Sala (ten. Ermolov), Elizabeth Grey (Elena), Alberto Pasquali (ministro di polizia Panin), Augusto Bandini (ordinanza di Ermolov), Felice Minotti, Andrea Miano. p.di.; Pittaluga v.c.; 24343 del 31/7/1928 - p.v. romana; 29/12/1928 - lg.o.; mt. 2554. La trama: «Il governo di Alessandro III di Russia comincia a vacillare. Lo Zar non ha l’animo del tiranno; egli esita e trema ogni volta che il suo ministro della polizia gli sottopone nuove liste di condanna. Un giorno, Sergio Pawlow incontra una colonna di deportati: un gendarme sta martoriando un vecchio che muore di stanchezza per via. Sergio si ribella e, strappato lo staffile dalle mani del soldato, con un colpo rabbioso lo frusta sul volto. Il giovane viene arrestato e aggregato alla carovana dei deportati, mentre sua madre, pazza di dolore, decide di seguire l’unico figlio. Tra i condannati c’è un singolare filosofo, generoso d’animo e dal corpo di proporzioni gigantesche, Lobov. Egli incoraggia i compagni ai quali promette una non lontana libertà. Una notte, infatti, il gigante rompe le catene e prepara la fuga. Ma proprio in quel momento si scatena un terribile incendio; gran parte dei deportati e delle guardie periscono. Solo Lobov, con Sergio e sua madre e l’attendente del bieco Panin si salvano. Scampati alla morte, i tre uomini indossano le divise di alcuni ufficiali morti nell’incendio e riescono a tornare in patria. Il gigante è il più fortunato di tutti; lo Zar ammiratane l’imponenza, lo nomina aiutante di campo. Sergio invece viene di nuovo arrestato e condannato a morte. Non resta che una speranza per sua madre, chiedere la grazia al sovrano. Quando la donna si incontra con Alessandro III riconosce nello zar l’uomo di cui fu amante un giorno e dal quale ebbe Sergio. La grazia è concessa. Sergio e sua madre tornano alla casetta, dove trascorreranno una vita di lavoro e di pace». Dalla critica: «Il film come è noto, è tratto da un romanzo di Emilio Valabrega, pubblicato in appendice da uno dei maggiori quotidiani di Torino. Il romanzo ebbe successo: lo sfondo storico in cui la vicenda si inquadra, risalta di più vivo interesse dopo le vicende sopravvenute, che hanno richiamato l’interesse del mondo intero sulla vecchia Russia. La traduzione cinematografica che la Pittaluga ha realizzato con ogni più assidua cura, ha portato sullo schermo la storia d’amore di una donna bellissima, storia d’amore che tocca le più alte cime della drammaticità e che per isfondo ha la nevosa Siberia ed il fasto imperiale di Tsarskoje Zelo. Ottima l’interpretazione di Elena Lunda. Il buon Maciste, Franz Sala, ecc. Indovinato il commento orchestrale e prendo occasione per segnalare tre ottimi elementi di questa orchestra: Alberico Mazzinelli al violino, Lino Elena al pianoforte e Tommaso Boni al violoncello». A. Ghidoni in «Kines», Roma, n.4, 2 febbraio 1929. Dalla critrica «Meno a segno una produzione successiva dello stesso Negroni, «Gli ultimi Zar». Secondo una firma poi prestigiosa, l’allora ventiduenne giornalista Mario Serandrei, destinato a essere in futuro il montatore insuperato di tutti i film di Visconti da «Ossessione» a «La strega bruciata viva» (collaborazione troncata solo dalla morte) non che l’inventore, in una lettera all’esordiente Visconti, del termine «neorealismo», nel film, globalmente stroncato nel n. 2 di «Cinematografo», febbraio 1929: «senza infamia e senza lode è la fotografia», che peraltro Arata divideva con Fortunato Bronchini. 1928 Giuditta e Oloferne, di Baldassarre Negroni. Pr.: Pittaluga - r.: Baldassare Negroni - s. e sc.: Baldassare Negroni - f.: con Arata c’é anche Massimo Terzano scg.: Giulio Lombardozzi - int.: Bartolomeo Pagano (Oloferne), Jia Ruskaja (Giuditta), Franz Sala (Efrem), Carlo Tedeschi, Giuseppe Brignone, Augusto Bandini, Felice Minotti, Loré Lay, Anna Mari, Giorgio Curti, Nino Altieri, Felice Minotti, Andrea Miano. p.di.; Soc.An. Pittaluga - v.c.; 24605 del 31/12/ 1928 - p.v. romana 26/8/1929 - lg.o.; mt. 2773. La trama: «Il film è costruito su due storie parallele. La prima è ambientata nella biblica Betulla. assediata dagli Assiri, guidati da Oloferne. Questi, per piegare la resistenza di Efrem, difensore della città, legato alla bellissima Giuditta, non esita a tagliare l’acquedotto. Ma il barbaro Oloferne viene fermato dalla eroica donna, che mette a repentaglio la vita e la bellezza per salvare la sua città. Il secondo episodio racconta di un ingegnere che, per salvare da sicura morte l’intera popolazione di un paese di montagna, impedisce, con grande coraggio, i loschi affari di alcuni speculatori guidati da una donna molto bella». Dalla critica: «Indubbiamente, in questo film, trionfano gli elementi che dovrebbero assicurare, secondo una inestirpabile idea dei finanzieri cinemtografici, il successo commericiale delle produzioni. V’è ricchezza che imita bene la grandiosità di ricostruzioni, la messa in scena degli ambienti moderni è stilizzata, vi è uno yacht e visioni dei quadri più varii della biblica Betulla alla elegante terrazza di una villa sulla ridente Riviera. Vi è inoltre la grazia e la virtù tersicorea di Jia Ruskaja ed il vigore persuasivo di Maciste. Il film è stato evidetemente concepito per il pubblico meno esigente, che guarda più alla spettacolosità delle rappresentazioni che non alla loro forma artistica». (Mario Magic in «Il cinema italiano», Roma, 1 settembre 1929). «Uno strano raffronto costituisce il principale argomento di questo film: un raffronto, a dir vero, messo poco a proposito e tale da disturbare assai i due fatti che si svolgono, alter- nandosi l’un l’altro. In sostaza «Giuditta e Oloferne», questo film strambo per quanto originale, vuol dirci che gli uomini (e le donne) del 1929 et ultra, sono fatti allo stesso modo di quelli del buon tempo antico. Ma questa non è una novità, credo, e le due storie avrebbero potuto svolgersi ognuna per conto suo - e la materia c’era - senza incatenarsi in una guisa inconcludente e stonata. Si fece lavorare troppo Bartolomeo Pagano nella vicenda moderna, e troppo poco in quella antica, mentre precisamente il contrario si è fatto per Jia Ruskaja, che nel film fa proprio la figura della scritturata unicamente per ballare. Non credo che la cinematografia italiana abbia a trarre giovamento da tutto ciò; essa acquisterà maggior credito allestendo lavori più semplici e più genuini. Non sarà male andare in cerca anche di qualche nuovo attore. «Giuditta e Oloferne» è spettacolo per adulti». Don Carlo Canziani in «La rivista del cinematografo», Milano, n.5, maggio 1929. «Giuditta e Oloferne» costituisce il malinconico canto del cigno per Bartolomeo Pagano, il popolare Maciste, che dopo questo film si ritira a vita privata, e l’unica apparizione sugli schermi della celebre ballerina russa Jia Ruskaja. La mitica leggenda di Betulla è stata più volte portata sullo schermo. In Francia da Louis Feuillade (1909); in U.S.A. da D.W. Griffith (1914); in Inghilterra, sempre nel 1914, regista ignoto; ancora in Italia nel 1919, da Aldo Molinari, con Ileana Leonidoff, e nel 1959 da Fernando Cerchio. 1929 Rotaie, di Mario Camerini. Pr.: SACIA - r.: Mario Camerini - s. e sc.: Corrado D’Errico - ri.: Mario Camerini - scg.: Daniele Crespi con la collab. di Vittorio Cafiero, Angelo Canevari e Otha Sforza - partit. mus.: Nuccio Fiorda int.: Maurizio D’Ancora (Giorgio), Kate Von Nagy (la sua ragazza), Daniele Crespi (Jacques Merier), Aldo Moschino (poi Giacomo Moschini) (un amico di Jacques, giocatore al Casinò), Carola Pia Lotti (la giovane bionda, sua compagna), Mario Camerini (un giocatore alla roulette), Guido Celano (un passeggero del treno). Sincronizzato nel 1930, la musica è stata composta da Marcel Lattès. Lunghezza m. 2469. La trama: «Due amanti senza denari trovano un portafogli pieno di denaro, caduto a un ricco mentre sta prendendo il treno. Partono a loro volta, e vivono riccamente finchè dura il denaro: poi tornano, in vettura di terza classe, per lavorare nella stessa città dove, prima dell’avventura, entrambi avevano deciso di uccidersi». Il film muto, fu poi sonorizzato. «V’erano felicissime notazioni, di gusto sottile... Un tono sobrio e modesto riusciva a far accettare certe convenzionalità del soggetto...» (Francesco Pasinetti). Rivisto a distanza di molti anni il film colpiva per il realismo di molti ambienti e particolari. (Si veda: La Storia del Cinema, Vallardi Editore - Milano 1967, Vol. IV, Dizionario dei film, pag. 322) Cinzia Romani: in Fernaldo Di Giammatteo «Dizionario Universale del Cinema», pag. 989: Nagy Kate von «Ma forse il suo primissimo esordio nel sonoro va fatto risalire a «Rotaie» (1929) di Mario Camerini, un garbato lavoro nato muto e in seguito sincronizzato. Il film, nel quale l’attrice, scritturata dalla Sacia di Milano, lavora accanto a Maurizio D’Ancora (più noto col suo vero nome di creatore di moda Gucci) narra la delicata storia di una coppia di operai che, afflitti da una povertà senza rimedio, cercano scampo nella morte. Umanissima nella parte dell’operaia passata attraverso l’esperienza d’una felicità e d’una ricchezza provvisorie, la N. esordisce nella sua prima parte realistica». Enrico Roma, sul n. 12 della milanese «Cinema Illustrazione», il 25 marzo 1931, sentenzia: «L’Arata ha ottenuto una fotografia che costituisce da sola un godimento squisito, tanto è ricca di toni caldi, di luminosità, di giochi di luce ed ombre, raggiungendo spesso effetti bellissimi». 1930 Giardini che vivono, di Giuseppe Forti. Pr.: Enac (Ente Naz. per la Cinematografia). r.: Giuseppe Forti - assist. r.: Giorgio C Simonelli e Libero Solaroli. 1930 Ninna nanna delle dodici mamme, di Mario Almirante, Carlo Ludovico Bragaglia. Pr.: Cines - r.: Mario Almirante assistito da Carlo Ludovico Bragaglia - f.: con Arata ci sono anche non accreditati Massimo Terzano, Carlo Montuori, Anchise Brizzi e Fernando Risi - scg.: Gastone Medin - mo.: Carlo L. Bragaglia - fo.: Giovanni Paris - int.: Odoardo Spadaro, Leda Gloria, Dria Pola, Giorgio Bianchi, Gino Mercuriali, Isa Pola, Piero Pastore, Anna Vinci, Marcello Spada, Vittorio Gonzi. Cortometraggio. Inizia l’era del sonoro 1930. La canzone dell’amore, Gennaro Righelli. Pr.: Cines - r.: Gennaro Righelli - tratto dalla novella “In silenzio” di Luigi Pirandello - ad. e sc.: Gennaro Righelli, Giorgio C. Simonelli - f.: con Arata c’é anche Massimo Terzano - scg.: Gastone Medin e Alfredo Montori - musica: Cesare A. Bixio, Armando Fragna (la canzone “La ninna nanna del bambino” é cantata da Geni Sodero) - mo.: Giorgio C. Simonelli e Gennaro Righelli - fo.: Pietro Cavazzuti, Vittorio Trentino, Giovanni Paris int.: Dria Pola (Lucia), Isa Pola (Anna), Elio Steiner (Enrico), Mercedes Brignone (la governante), Camillo Pilotto (Alberto Giordani, il padre del bimbo), Olga Capri (la padrona di casa), Fulvio Testi (Giocondo), Nello Rocchi (Marietto detto Ninnì a 14 mesi), Franco Cagnoni (Ninnì neonato), Amerigo Di Giorgio (direttore della casa discografica), Umberto Sacripante (invitato al pranzo iniziale), Franz Sala (il signore barbuto e sordo), Nino Altieri, Ermete Tamberlani, Renato Malavasi, Gino Mercuriali, Emilia Vidali (signora Annovazzi). «La dernière berceuse» - pr.: Delac & Vandal - r.: Gennaro Righelli e Jean Cassagne - int.: Dolly Davis (Marise anziché Lucia), Grazia del Rio (Anna), Robert Hommet (Henri), Jean Angelo (il padre del bambino), Berthe Jalaber (la governante), Madeleine Guitty (la padrona di casa), Polidor (Giocondo). Edizione francese de “La canzone dell’amore”. «Liebeslied» - pr.: Itala Film - r.: Gennaro Righelli e Constantin J. Davis - int.: Renate Muller (Lucia), Ketty Berger (Anna), Gustav Frohlich (Enrico), Fritz Alberti (il padre del bambino), Frigga Braut (la governante), Toni Telaff (la padrona di casa), Carl Walther Meyer (Giocondo). Edizione tedesca di “La canzone dell’amore”. La trama: «Una ragazza si prende cura della creaturina che la madre, vedova, ha avuto poco prima di morire - da una sua relazione. Dopo alcuni anni il padre si fa vivo, riconosce il figlio e ne chiede l’affidamento. La ragazza trova nel proprio amore per un giovane musicista, da cui si era allontanata, per dedicarsi al fratellino, il coraggio per il distacco». Dati integrativi: Direttore di produzione Giuseppe Mari, sceneggiatura Giorgio C. Simonelli. Altri interpreti: Fulvio Testi (Giocondo) e Umberto Sacripante. Lunghezza m. 2380. Girato negli studi Cines. «Rimasto celebre soprattutto come primo film sonoro italiano, la nostra risposta al famoso «Jazz singer» americano che aveva rivoluzionato la tecnica del cinema, porta la firma di Righelli, regista che esordì prima come attore e poi si trasferì a lavorare in Germania. Ma la sua fama, nonostante abbia poi continuato a dare prodotti di buon artigianato, rimane legata a questa «Canzone» che fece «palpitare i cuor» come disse poi un refrain popolare. La musica era di una casa discografica famosa: la Bixio. Ebbe, come era in uso allora, altre due versioni in lingua straniera ma sempre girate a Roma. E’ una storia strappalacrime a lieto fine: «Enrico, un giovane musicista, ama Lucia, una compagna di conservatorio. Quando la mamma di Lucia muore, la ragazza scopre improvvisamente che la mamma aveva avuto da poco un bambino, che nessuno aveva visto. Sarà lei a prendersi cura del neonato, senza rivelare a nessuno il suo segreto, rischiando così di perdere il fidanzato che pensa di dover a che fare con una poco di buono. Per fortuna, alla fine, si presenta il vero padre e la situazione si chiarisce, in modo che il matrimonio si possa alfine celebrare». Su «La lettura», anno XXXI, n.2, febbraio 1931, IX, pagg. 139 - 144 articolo di John La Loupe, «Nella fucina delle ombre. quelli che tirano i fili» a pag. 140 foto di scena con didascalia del tenore seguente: «Righelli mette a punto Dria Pola e Pilotto, in un episodio della «Canzone dell’Amore». Sul ciak si legge il nome di Arata. Dalla critica: «La canzone dell’amore» «non è stato soltanto uo spettacolo, è stato un avveniemento base ella storia del cinematografo italiano. Primo film sonoro italiano è stato l’unico, fra tutti i film sonori fin qui presentati, che il pubblico abbia unanimemente accettato». Esso «ha battuto il record degli incassi» e ha mostrato «una tecnica di ripresa fonica incofrontabilmente, luminosamente superiore a quella straniera» (Alessandro Blasetti, «Servizio di turno», in «Cinematografo», 30 ottobre 1930). Il film «ha momenti pieni di vitalità ed altri d’un sentimento delicato. Dria Pola, rivelazione di «Sole» (il film muto diretto da Blasetti), crea «una figurina di femminilità appassionata e sincera» (Umberto Masetti, in «Cinematografo», 30 ottobre 1930). Bibliografia:Anonimo, «Canzone che è anche ammonimento» in «Cinema illustrazione», 15 ottobre 1930. Enrico Roma, recensione in «Cinema illustrazione», 15 ottobre 1930. Mario Serandrei, «Il più bel film del mese a Roma», in «Cinematografo», 30 ottobre 1930. Enrico Roma, «Pirandello e il cinema» (con una intervista allo scrittore), in «Comoedia», 15 luglio 15 agosto 1932. Con il sonoro il polo attrattivo del cinema italiano si spostava definitivamente a Roma, come era nei disegni del regime che a questo scopo aveva investito ingenti capitali. Egualmente ebbe successo l’operazione volta a monopolizzare la produzione e la distribuzione e mentre iniziava l’era che dava la parola all’immagine, caratterizzata da pellicole a sfondo patrio ed eroico, le ultime voci indipendenti del cinema nazionale tacevano, o prendevano la via dell’esilio. Inaugurata nel 1930 da «Sua Eccellenza il Ministro Giuseppe Bottai», la Cines da subito eguaglia per efficenza degli impianti le grandi compagnie americane ed è in grado di immettere nei circuiti fruitori quasi la totalità della produzione cinematografica nazionale. Della distribuzione si incarica Stefano Pittaluga a quei tempi acclamato re della pellicola. Dei sette film usciti in Italia nel 1930, sei ostentavano il marchio Cines. Arata collaborò a quattro di essi: «La canzone dell’amore», «Napoli che canta», «Rotaie», di cui abbiamo accennato in precedenza, e «Corte d’assise» di Guido Brignone, un giallo-processo sul quale il critico E.M. Margadonna scriveva: «Diciamo subito che «Corte d’assise» rappresenta un trionfo. I nostri tecnici operatori dell’obiettivo e del microfono, che già in «Canzone dell’amore», avevano lavorato egregiamente, hanno compiuto il loro dovere con eccezzionale (sic) valentia collaudando ancora una volta i nostri impianti, modesti forse, ma predisposti e adoperati con ogni scrupolo». Del film sono da segnalare buone inquadrature che sottolineano in primo piano il potenziale espressivo della giovane attrice Marcella Albani che decretò il successo della pellicola. 1930 Corte d’assise, di Guido Brignone. Pr.: Cines - r.: Guido Brignone - s.: Giuseppe Romualdi - sc.: Guido Brignone, Mario Serandrei - f.: con Arata c’é anche Massimo Terzano - scg.: Gastone Medin e Carlo Santonocito musica: Pietro Sassoli - mo.: Guido Brignone - fo.: Vittorio Trentino int.: Marcella Albani (Leda Astorri), Lya Franca (Dora Bardi), Carlo Ninchi (il guardiacaccia Marcello Barra), Renzo Ricci (Aroldo Gramoli), Elio Steiner (Giulio Alberti), Elvira Marchionni (cognata del guardiacaccia), Giovanni Cimara (Alberto Astorri), Camillo De Rossi (banchiere Adolfo Calandri), Vasco Creti (Giovanni, cameriere di casa Astorri), Franco Coop (il portiere di casa Calandri), Giorgio Bianchi (lo sconosciuto), Luigi Carini (il presidente del tribunale), Raimondo Van Riel (il Procuratore Generale), Oreste Fares (l’avvocato difensore), Mercedes Brignone, Gino Sabbatini, Franz Sala, Bruto Castellani, Umberto Sacripante, Giuseppe Pierozzi, Augusto Bandini, Alfredo Martinelli, Clara di Martignano, Elena Zoar, Alberto Castelli, Tullio Galvani, Giuseppe Gambardella, Walter Grant, Roberto Pasetti, Nino Altieri, Rosetta Calavetta, Umberto Cocchi, Lorenzo Evi Maltagliati Soderini, Vittorio Bianchi, Jolanda Di Lorenzo, Rinaldo Rinaldi, Amerigo Bombrazzi, Angelo Marsili, Flora Rossini, Giuseppe Farnese, Enrico De Martino, Salvatore Schiavo, Umberto Maestri, Francesco Giancamela, Enrico Marignetti, P. Cantinelli. Lunghezza m. 1980. Per Guido Brignone «E’ «Corte d’Assise», un dramma giudiziario del 1930 a renderlo popolare», in Fernaldo Di Giammatteo «Dizionario universale del cinema», Dizionari tematici Editori Riuniti, Roma 1985, pag. 434. Secondo film parlato italiano. dopo «La canzone dell’amore». La trama: «Chi ha ucciso il banchiere? Le tormentate indagini e il laborioso processo». Dalla critica: «Ottima tecnica. Moderna. Uso frequente e opportuno del carrello. Svolgimenti per grande dettaglio. Incroci frequenti. Molto bene. (Anonimo (Alessandro Blasetti?) in «Cinematografo», 30 gennaio 1931). Bibliografia: Anonimo, «Vigilia di un grande processo - Chi uccise il banchiere Gualandri? (Referendum tra i nostri lettori)» in «Cinema Illustrazione», 22 ottobre 1930. Ettore M. Margadonna, «Corte d’Assise», in «Comoedia», dicembre 1930. R(aul) Q(uattrocchi), recensione, in «Kines», 11 gennaio 1931. Frase di lancio: «Un film di carattere passionale e giudiziario». 1930 Cortile, di Carlo Campogalliani. Pr.:Cines - r.: Carlo Campogalliani - s.: dal bozzetto poetico omonimo di Fausto Maria Martini - ad. e sc.: Ettore Petrolini - f.: con Arara c’è Massimo Terzano - scg.: Daniele Crespi - musica: Pietro Sassoli - mo.: Mario Almirante - fo.: Pietro Cavazzuti, Giovanni Paris - int.: Ettore Petrolini (il cantante cieco girovago), Dria Pola (Maria), Augusto Contardi. Mediometraggio di 712 m. abbinato a «Medico per forza». La trama: «Un cieco, che canta per le strade e i cortili di Roma, invoca inutilmente la grazia di un bacio da una fanciulla, la cui bellezza egli sente». Dalla critica:«Dei due lavori (l’altro è “Il medico per forza”) il più riuscito cinematograficamente è “Cortile”. Vi sono scorci indovinati, inquadrature felici, e un’ottima interpretazione da parte di Petrolini e della Paola. Ma l’essenza del lavoro, tutta finezze e sfumature verbali, è andata completamente perduta». E poi «la parola, sullo schermo, deve essere un mezzo, mai uno scopo». Raoul Quattrocchi. in «Kines», 8 febbraio 1931. Bibliografia: Ettore Petrolini, «Io e il film sonoro», Roma, 1931 (riporta recensioni da «Corriere della Sera», 29 gennaio 1931; «Gazzetta del Popolo», 29 genn.; «L’Ora», 30 genn.; «Il Messaggero», 31 genn.; «L’Impero d’Italia» 1 febb.; «Il Piccolo della Sera», 2 febb.; «Giovedì», 5 febb.). 1930 Medico per forza, di Carlo Campogalliani. Pr.: Cines - r.: Carlo Campogalliani - s.: liberamente tratto da “Le médecin malgré lui” di Molière - sc.: Carlo Campogalliani, Ettore Petrolini - f.: con Arata ci sono Massimo Terzano e Carlo Montuori - scg.: Daniele Crespi - musica: Pietro Sassoli - mo.: Carlo Campogalliani - fo.: Pietro Cavazzuti, Giovanni Paris - int.: Ettore Petrolini (Sganarello), Tilde Mercandalli (Lucinda), Letizia Quaranta (Martina), Augusto Contardi (Geronte), Sergio Rovida (Leandro), Elda Krimer (la balia), Dria Pola, Checco Durante, Enzo De Felice. Uscito nel gennaio 1931 insieme a “Cortile”. Lunghezza m. 1524. La trama: «Sganarello ubriacone e manesco è punito dalla moglie Martina che con le bastonate lo convince a fingersi medico presso una famiglia, nella quale c’è una fanciulla ammalata. Egli è costretto a presentar come farmacista l’innamorato della ragazza, che così riacquista la salute e la favella». Dalla critica: «In due interpretazioni (l’altra è “Cortile”) di genere assolutamete diverso, Petrolini affaccia i due differenti volti che è andata assumendo la sua arte. Nell’uno e nell’altro bisogna accettarlo così com’è, con il suo temperamento e le sue mirabili qualità, (...) con il grottesco e il lazzo che gli sfuggono anche senza logica nel genere comico. E con quel suo prepotere in iscena, anche per l’ombra discreta in cui si tengono gli altri e più ancora dovrebbero tenersi. Da questo “Medico per forza” esula naturalmente lo spirito di Molière per lasciar posto a quello di Petrolini che però vi “neroneggia” con misura. Specialmente quando si raccolgono tutte sul bertoldesco Sganarello, la farsa e la satira raggiungono effetti di comicità sicura». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera, 29 gennaio 1931. Bibliografia: Ettore Petrolini, «Io e il film sonoro» (riporta ampi brani di recensioni da «Corriere della Sera», 29 gennaio 1931; «Gazzetta del Popolo», 29 genn.; «La Stampa», 29 gen. «L’Ora», 30 genn.; «La Nazione», 31 genn.; «Il Popolo di Roma», 31 genn.; «Il Messaggero», 31 genn.; «L’Impero d’Italia» 1 febbraio, «La Tribuna», 1 febb.; «Il Piccolo della Sera», 2 febb.; «Il Mattino», 3 febb.; «Giovedì», 5 febb.; «Corriere Emiliano», 14 febb.), Roma, 1931. 1931 Rubacuori, di Guido Brignone. Pr.: Cines - r.: Guido Brignone - s.: Gino Rocca, Dino Falconi - sc.: Gino Mazzucchi - f.: con Arata c’é anche Massimo Terzano - scg.: Gastone Medin - musica: Felice Montagnini - mo.: Libero Solaroli, Carlo José Bassol - fo.: Vittorio Trentino - int.: Armando Falconi (il banchiere Giovanni Marchi), Tina Lattanzi (sua moglie), Ada Dondini (la madre di Giovanni), Mary Kid (Ilka Bender), Grazia del Rio (Dolly), Vasco Creti (l’allenatore sportivo), Mercedes Brignone (Giulietta Dupré), Alfredo Martinelli (il complice di Dolly), Egon Stief (Joe Battling), Giorgio Bianchi (il commissario), Guido Celano, Giacomo Moschini, Mario Revera, Roberto Pasetti, Vittorio Bianchi, Maria Della Lunga Maldarelli, il pugile Brunelli, il balletto Schwarz e con Edoardo Bianco e la sua orchestra. Lunghezza m. 1891. La trama: «Un maturo dongiovanni, benchè regolarmente sposato, passa da un avventura all’altra. Una sera, al tabarin, durante un’interruzione di corrente, viene rubato il gioiel- lo della sua partner. gioiello che, più tardi, egli si ritrova nelle tasche, e che, più tardi ancora, finisce nelle mani di sua moglie. Lite e riconciliazione (provvisoria)». Dalla critica:«Nella produzione italiana, un genere a torto trascurato è stato quello della commedia brillante. Ecco dunque, oggi che lo schermo parla e che il film pochadistico può trarre da questa innovazione elementi che ne rinverdiscano il troppo avvizzito stelo, ecco a colmare la lacuna “Rubacuori”, debolmente ideato, ma luminosamente realizzato, e avvolto in un’atmosfera di scintillante latinità. Brignone ha svolto con sicurezza e buon gusto un soggetto troppo tenue e troppo visibilmente concepito per il protagonista, gli ha conferito il ritmo spigliato e il movimento misuratamente farsesco che gli si convenivano, lo ha situato in un alone di garbo e di leggiadria. La commedia, nell’assieme, non tradisce debolezza alcuna di realizzazione. Sarebbe solo stato opportuno evitare i vari soliloqui che, per quanto brevi, rammentano troppo la vecchia tecnica teatrale. Interpretazione magnifica di Armando Falconi». Raoul Quattrocchi in «Kines», 19 aprile 1931. 1931 Il solitario della montagna, di Vladimiro De Liguoro. Pr.: Cines - r.: Vladimiro De Liguoro s.: Olga Battaggi, Eugenio De Liguoro. Sc.: Olga Battaggi - scg.: Gastone Medin - musica: Pietro Sassoli - mo.: Guy Simon, Vladimiro De Liguoro - fo.: Vittorio Trentino - int.: Carlo Ninchi, Letizia Bonini, Laura De Montel, Gustavo Serena, Franz Sala, Giorgio Bianchi, Vera Sari, Amedeo Trilli. 1931 Il Natale del Bebé, di Carlo Campogalliani. Pr. Cines - r.: Carlo Campogalliani - f.: con Arata c’é anche Massimo Terzano - musica: Felice Montagnini - int.: Pino Locchi. Cortometraggio. 1931 Wally, di Guido Brignone. Pr.: Cines - r.: Guido Brignone - s.: dal romanzo «Die Gelerwally» di Wilhelmine von Hillern e dal libretto di Luigi Illica per l’opera lirica omon. - di Alfredo Catalani - sc.: Gian Bistolfi - scg.: Gastone Medin, Ivo Perilli e Carlo Santonocito - musica: Alfredo Catalani - mo.: Giorgio C.Simonelli - fo.: Vittorio Trentino - int.: Germana Paolieri (Wally), Carlo Ninchi (Hagenbach), Isa Pola (Afra) Achille Majeroni (Strominger), Renzo Ricci (Vincenzo Gellner), Gino Sabbatini (Walter), Giuseppe Pierozzi (un contadino), Nino Altieri, Amedeo Trilli, la cantante Giannina Arangi Lombardi doppia nel canto Germana Paolieri. Lunghezza m. 2395. La trama: «Fiera ed illibata tirolese, Wally, costretta a baciare Hagenbach, che pure ama, si ritira in cima a una montagna. Mentre cerca di raggiungerla lassù Hagenbach è travolto da una valanga e Wally si dà la morte gettandosi nell’abisso». Dalla critica:«C’è una scolastica diligenza, con un buon impiego di mezzi sonori; ma c’è anche una innegabile atmosfera teatrale e teatraleggiante. Questi non sono gli alpigiani e i cacciatori di Solden e dell’Hochstoff ai primi dell’Ottocento, ma i coristi di Luigi Illica, raminghi per gli scampoli di uno smisurato palcoscenico, che si estende dai monti della Svizzera ai teatri della “Cines”. La stonatura più evidente è in questo alternarsi di visioni alpine, talvolta di per sé suggestive, con altre dove la neve è gesso, e forre e dirupi soo praticabili e fondali. Guido Brignone si è dovuto sobbarcare a un’impresa certo difficile, forse ingrata, anche qui il suo esperto mestiere si rivela in qualche tocco, né ci può sorprendere in chi fa del cinema da circa vent’anni. Ma ci si chiede se sia opportuno il continuare a costringere in vecchie formule i nuovi sforzi; e se sarebbe dannoso il sostituire quelle vecchie formule con visioni suggerite da una sensibilità sia pure modestamente aggiornata». Mario Gromo, in «La Stampa», 21 gennaio 1932 Poi in «Film visti», Roma 1957. Bibliografia: Enrico Roma, recensione, in «Cinema Illustrazione», 10 febbraio 1932; collage di recensioni dal «Lavoro fascista», 21 gennaio 1932; «La Stampa», cit. e «Corriere della Sera», 29 gennaio 1932; in «Scenario», febbraio 1932. Scrive Arata nell’autobiografia: «Le emozioni alpine è stato invece il film «La Wally» a darmele, a causa di quella valanga che si staccò dalla Jungfrau quasi a protestare contro il nostro tentativo di violazione dei vergini silenzi, delle vette e delle distese delle Alpi. Quel film però non poteva arrestarlo neppure la improvvisa ostilità della natura tanta era la passione che tutti, da Brignone all’ultimo aiutante, portavamo per affermare la nuova attrice Germana Paolieri che aveva acceso tante speranze». Sull’«Illustrazione del Popolo», supplemento della Gazzetta del Popolo, di domenica 13 settembre 1931, anno XI, n. 37 figura in copertina il disegno di Aldo Molinari con la seguente didascalia: «Una drammatica disavventura cinematografica hanno corso Guido Brignone e l’operatore Arata della Cines a causa di una valanga artificiale troppo violenta che li ha travolti per alcune centinaia di metri». In seconda pagina la cronaca della disavventura capitata alla troupe: «Un’avventura cinematografica dal vero. La Cines sta girando alcune scene della «Wally» sulla Jungfrau, ma, a causa, del maltempo, da alcuni giorni operatori e artisti erano stati costretti a restar tappati nell’albergo. Finalmente, avendo le avversità atmosferiche concesso una tregua, fu deciso di provocare una valanga artificiale a mezzo di una mina per girare una scena del film. Il direttore Brignone e l’operatore Arata erano al loro posto, quando la mina esplose con una violenza superiore al previsto, creando così un’enorme valanga che investì e travolse per alcune centinaia di metri i due cinematografisti. Essi furono tratti a salvamento dal pronto accorrere degli aiutanti e se la cavarono così con leggere ferite e contusioni». Nel 1932 muore improvvisamente Stefano Pittaluga e la Cines, pur presentando sullo schermo ben sedici lungometraggi, deve misurarsi con la concorrenza che riesce a produrne diciotto. Nel frattempo esordisce la Rassegna di Arte Cinematografica di Venezia che richiama in Italia un buon numero di critici e giornalisti stranieri al seguito delle nove Nazioni invitate. Per il Cinema si aprono più vasti orizzonti e ulteriori occasioni di confronto tra le diverse cinematografie in lizza. Quale miglior film straniero è giudicato «L’uomo di Aran» (di produzione britannica) del documentarista Robert Flaherty; riconoscimento dato ad una cinematografia minore ma di ottimo livello artistico che impiega modelli di lettura diversi dal cinema nostrano che per ragioni di botteghino tende a privilegiare la quantità alla qualità. Con Mario Camerini, esponente di spicco del cinema dei telefoni bianchi,, Arata gira nel 1932 «Ultima avventura» con Armando Falconi e Diomira Jacobini. Nello stesso anno l’operatore è sul set di «Paradiso» diretto da Guido Brignone. 1932 Il ventre della città, di Francesco Di Cocco. Pr.: Cines - r.: Francesco Di Cocco - f.: con Arata ci sono anche Massimo Terzano, Carlo Montuori e Anchise Brizzi musica: Mario Labroca. Documentario di 343 m. 1932 L’ultima avventura, di Mario Camerini. Pr.: Cines - r.: Mario Camerini - s.: Oreste Biancoli, Dino Falconi - sc.: Mario Camerini, Tomaso Smith - scg.: Gastone Medin - musica: Ezio Carabella - mo.: Giuseppe Fatigati, Mario Camerini - fo.: Pietro Cavazzuti - int.: Armando Falconi (conte Armando Landi), Diomira Jacobini (Lilly), Carlo Fontana (Paolo), Cesare Zoppetti (Battista), Nella Maria Bonora (Luisa), Giovanni Dolfini (Carlo), Elisa Masi (la zia), Rossana Masi (Adriana),Gemma Schirat (Giulia), Carlo Ranieri (notaio), Guglielmo Barnabò (Don Luigi), Ciro Galvani (il padre di Paolo), Pino Locchi (Giorgetto, il nipotino di Armando), Isa Pola (una delle belle ragazze a Rapallo), Elena Zoar, Maria Della Lunga Maldareli. Lunghezza m. 2079. Ritrovato alla cineteca nazionale. Alcune fonti indicano il titolo alternativo «Un buon ragazzo». La trama: «Un vecchio conte, impertinente libertino s’invaghisce di una donna e la conduce a Rapallo; ma tarda a dichiararsi. Un giovane è più lesto e più fortunato di lui, e così «l’ultima avventura» va in fumo». DalLa critica: «Il personaggio» di Falconi «è sempre quello. Perciò, nessuna meraviglia» che anche questa volta l’attore sia «lepido, gioviale, simpaticone. Quando c’è lui sullo schermo, è partita vinta. Dunque, non parliamone più. Diomira Jacobini ha recitato con sincerità e con molto charme. Come donna è deliziosamente giovae e bella. Tutto sommato, anche questa Avventura è abbastanza divertente e ben realizzata. Il secondo tempo è certo preferibile al primo, che va avanti con facili e inu- tili espedienti» e con «reminescenze di teatro (il sonno improvviso della ragazza, che ricorda quello di Giacomina “nell’Asino di Buridano”, ecc)». Enrico Roma, in «Cinema Illustrazione», 16 marzo 1932. Bibliografia: Mario Gromo, recensione, in «La Stampa», 25 febbraio 1932; Filippo Sacchi, recensione, in «Corriere della Sera», 6 marzo 1932, collage di recensioni dalla «Gazzetta del Popolo», 25 febbraio 1932 e dalla «Stampa» cit., in «Scenario», marzo 1932. 1932 Pergolesi di Guido Brignone. Pr.: Cines - r.: Guido Brignone - s. e sc.: Gian Bistolfi - f.: con Arata c’é anche Brizzi scg.: Giovanni Spellani - cost.: Gino C. Sensani - musica: Giovan Battista Pergolesi e dell’epoca, elaborate, scelte e coordinate da Vittorio Gui - mo.: Guy Simon - fo.: Vittorio Trentino - int.: Elio Steiner (G.B.Pergolesi), Dria Pola (Maria di Tor Delfina), Tina Lattanzi (Erminia), Livio Pavanelli (Nicola d’Arcangeli), Carlo Lombardi (Raniero di Tor Delfina), Mina D’Albore (la cantante), Lidia Simoneschi (la cameriera Nicoletta), Gemma Schirato (Didone), Romolo Costa (Ilario di Neresti), Giacomo Almirante (il maestro Lambrughi), Roberto Pasetti (il notaio Verlupi), Cecyl Tryan (la modista), Vasco Creti (il brigante Talandri), Olinto Cristina, Carlo Simoneschi, Franco Schirato, Amedeo Trilli, con la partecipazione dei cantanti Vincenzo Bettoni e Laura Pasini (gli interpreti della “Serva padrona”). Lunghezza m. 2264. «Les amours de Pergolèse» - pr.: Cines - r.: Guido Brignone - int.: Pierre Richard Willm (Pergolesi), Simone Vaudry (Marina di Tor Delfina), Leda Ginelly (Erminia), Robert Pizani (Nicola d’Arcangeli), Henri Valber (Raniero di Tor Delfina), Maguy Noel (Didone), Lidia Simoneschi (Nicoletta), Romolo Costa (Ilario di Nerestra), Cecyl Tryan (la modista), Philippe Richard (Talandri). Edizione francese di “Pergolesi”. Secondi operatori (per «L’Almanacco») Domenico Scala e Gioacchino Gengarelli, e per («Scenario») Beniamino Fossati. Inoltre «L’Almanacco» aggiunge al cast i nomi di Vasco Creti e Gemma Schirato. Dalla critica: «Vecchia storia romantica da teatro popolare, che Gian Bistolfi s’è sforzato di rendere tollarabile, con una pittura d’ambiente accurata e fine, in cui non manca qualche nota caricaturale. Ma, come tutto è di maniera e i personaggi sono sbiaditi, privi di carattere, anche come spettacolo “Pergolesi” non vale se non per la messainscena veramente fastosa» («i quadri sono spesso superbi, ispirati ora al Watteau, ora al Tiepolo, ora al Longhi») e «per i costumi disegnati da Gino Sensani. Deliziosa Dria Pola». Enrico Roma, in «Cinema Illustrazione», 12 ottobre 1932. Bibliografia: Collage di recensioni da «Popolo di Lombardia» e «La Stampa», 30 settembre 1932, in «Scenario», novembre 1932. Frasi di lancio: «Il film che, in un puro ambiente settecentesco, narra ed incatena in visioni di suggestiva bellezza la vita, l’arte e gli amori di Giovan Battista Pergolesi. Un’avventura affascinante, ispirata alla vita del grande musicista e che si svolge nel pitto- resco mondo del primo Settecento napoletano. Musica e poesia si fondono mirabilmente in questo film d’eccezione». 1932. Paradiso, di Guido Brignone. Pr.: Cines - r.: Guido Brignone - s.: Luigi Bonelli - sc.: Alessandro De Stefani - scg.: Vittorio Cafiero, Angelo Canevari musica: Luigi Colacicchi - mo.: Giorgio C. Simonelli, Guido Brignone s.: Vittorio Trentin - int.: Nino Besozzi (Max), Sandra Ravel (Eva), Lamberto Picasso (il prestigiatore), Olga Capri (una congressista), Calisto Bertramo (presidente Società Zoofilm), Pio Campa, Giuseppe Pierozzi, Giacomo Almirante, Oreste Bilancia, Alfredo Martinelli, Giacomo Moschini, Turi Pandolfini, Roberto Pasetti, Alfredo Robert, Gino Viotti, Carlo Simoneschi. Lunghezza m. 1823. Osservazioni: Aldo Moschino, poi attivo come Giacomo Moschini. La trama: «Un giovane gaudente riceve in eredità da uno zio zoofilo un’ingente somma e una villa, purchè sia disposto ad abitarvi per tre anni, senza mai uscirne nè mai farvi entrare una donna. Se contravverrà, la villa andrà al Presidente di una società zoofila. Il quale Presidente riesce a introdurre nella villa un’Eva ignara. L’eredità va in fumo (ma per un’altra ragione) e il giovane si consola con la sua Eva». Dalla critica: la commedia, «interpretata con brio, offre allo spettatore un’ora di piacevole svago. Dunque il suo compito è assolto. Il direttore Brignone ha portato l’azione con divertente scorrevolezza: l’episodio del labirinto, per esempio, è fatto molto bene». Anonimo, in, «Corriere della Sera», 26 febbraio 1933. Bibliografia: Collage di recensioni da «Il Lavoro» e «Gazzetta del Popolo» in «Scenario», gennaio 1933; Angelo Cereseto, «Il soggetto italiano» (sotto questo titolo - ironico - è riportato da Leo Longanesi), in «Il cinema», numero speciale de «L’Italiano», gennaio febbraio. 1933; Enrico Roma, recensione, in «Cinema Illustrazione», 8 marzo 1933. Frasi di lancio: «Vale più un sorriso di donna o dieci miloni?» / «Un’azione ricca di sorprese, umana, piacevole» / «Un film veramente moderno» / «Un film incorniciato nella stupenda riviera Sorrentina, scorrevole e fantastico ad un tempo, tutto armonico e scintillante nella vicenda d’amore che svolge e nei personaggi tipici che lo interpretano». 1933 Zara, musica di Giovanni Medin. Pr.: Cines - r.: Ivo Perilli - musica: Giovanni Medin documentario di 290 metri. 1933 Cantieri dell’Adriatico, di Umberto Barbaro. Pr.: Cines - r.: Umberto Barbaro, documentario di 280 metri. 1933 Miniere di Cogne - Val d’Aosta, di Marco Elter. Pr.: Cines - r.: Marco Elter, documentario di 265 metri. 1933 Fori imperiali, di Aldo Vergano. Pr.: Cines - r.: Aldo Vergano, documentario di 297 metri. 1933 T’amerò sempre, di Mario Camerini. Pr.: Cines - r.: Mario Camerini - s.: Mario Camerini sc.: Guglielmo Alberti, Ivo Perilli scg.: Gastone Medin - musica: Ezio Carabella - mo.: Fernando Tropea - fo.: Giovanni Paris - int.: Elsa De Giorgi (Adriana Rosé), Nino Besozzi (rag. Mario Fabbrini), Mino Doro (conte Diego), Robert Pizani (Oscar il parrucchiere), Loris Gizzi (Meregalli), Pina Renzi (la signora Clerici), Giacomo Moschini (l’inquilino del piano di sotto), Claudio Ermelli (impiegato di Meregalli), Nora Dani (Clelia sorella del rag. Mario), Pinca Nova (la madre del rag. Mario), Maria Persico (Gaby), Zita Soares (signora Sonia Krauss), Carlo Ranieri (il vecchio conte), Cecyl Tryan (una signora del gran mondo), Carlo Chertier, Giancarlo Cappelli. «Je vous aimerai toujours» - pr.: Cines - ad. e dialoghi: Henri Decoin musica: Ezio Carabell, Georges Van Parys - int.: Lisette Lanvin (Adrienne), Henri Marchand (Pierre Duchene, in Italia: rag. Mario Fabbrini), Alexandre D’Arcy (Comte Jean Claude, in Italia: conte Diego), Robert Cizani (Oscar), Rachel Devirys (Madame de Saint-Obin, in Italia: signora Clerici), Lulu Watier (Gaby), Jeanne - Marie Laurent (la signora Duchene, in Italia: la madre del rag. Mario), Mary Serta, Raymond Cordy, Darly, Marcella Prace. La pellicola è un esempio tipico della commedia rosa in voga in quegli anni. Tra gli interpreti: Mino Doro, agli esordi cinematografici e Nino Besozzi nel ruolo di «un giovanotto prestante e di modi seducenti che travia una giovinetta e tenta invano di approfittarne anche quando lei ha incontrato il vero amore». Dai titoli di testa del film: «L’Anonima Pittaluga presenta il film di produzione Cines T’amerò sempre, soggetto di Mario Camerini, sceneggiatura di Ivo Perilli e Guglielmo Alberti, musiche di Ezio Carabella dirette da Luigi Colacicchi. Interpreti: Elsa De Giorgi, Nino Besozzi, Mino Doro, Roberto Pizani, Pina Renzi, Nora Dani, Loris Gizzi. Direzione Artistica Mario Camerini. Collaboratori: Carlo Bassoli (Direttore di produzione), Guglielmo Alberti (Aiuto direttore), Ubaldo Arata (operatore), Giovanni Paris (Tecnico del suono), Gastone Medin (Scenografo), Fernando Tropea (Montaggio)». Titolo provvisorio: «Io t’amerò sempre». La trama: «Un’orfana, sedotta da un giovane conte, lavora come commessa di profumeria, presso un parrucchiere per signora, provvedendo così alla bambina, frutto della relazione. Il timido contabile della ditta s’innamora di lei e, nonostante la rivelazione della sua maternità, la sposa, previa scazzottata col patrizio». Dalla critica: «Camerini comincia questo film in un modo quasi mirabile: le scene della Maternità, quei corpicini ancor umidi di tenebra, ancora animali, incipriati, pesati, catalogati, e dopo di essi quel volto di donna risentita e cupa, sono realtà “viste” con una tale curiosità e pacatezza da far pensare al Vidor minore. Si è d’accordo nel riconoscere in Camerini un ottimo direttore italiano, capace di fare un film decoroso e simpatico, non volgare e non raffinato, buono per il grosso pubblico e accettabile anche dalle povere minoranze. Io, per mio conto, credo che egli potrebbe dare qualcosa di più: c’è in lui una finezza, una gentilezza direi, che pochi mestieranti d’altri paesi hanno. Certe cose egli le vede non solo con abilità e calcolo, ma anche con amore: in taluni momenti la sua sensibilità si raggira fino al ritmo poetico e alla giusta misura, come nella sequenza dei due che scendon le scale, dove la situazione non è straordinaria, ma appunto il ritmo è delicato, tanto delicato che quel signore macchietta, dal fisico buzzo (Loris Gizzi), non disturba come in astratto dovrebbe, ma spraggiunge discreto come una scherzosa variazione sul tema patetico di una buona canzonetta sentimentale. E allora? Allora, dico, se è capace di queste finezze d’orecchio, non sarà proprio possibile cinciliare le due cose, quel tanto d’istinto artistico che Camerini ha e il ‘genere’ da cui si sente irresistibilmente attratto?». (Nicola Chiaromonte, in «Italia Letteraria»), 30 aprile 1933, poi in «Materiali sul cinema italiano 1929-1943» a cura di Adriano Aprà, Pesaro, 1975). Bibliografia: Matteo Incagliati, recensione, in «Il Messaggero», 21 aprile 1933; Mario Gromo, recensione, in «La Stampa», 28 aprile 1933; anonimo, «T’amerò sempre», racconto dal film, in «Cinema Illustrazione», 26 aprile 1933 (con 6 foto), 3 maggio (con 8 foto), 10 maggio (con 5 foto); Enrico Roma, recensione, in «Cinema Illustrazione», 3 maggio 1933; Filippo) Sacchi, recensione, in «Corriere della Sera», 12 maggio 1933 (il film “desta ottima impressione” per “la sua umanità sincera, l’interpretazione spontanea, la fattura eccellente”); collage di recensioni da «Corriere della Sera», cit. e da «La Tribuna» in «Scenario», maggio 1933; Francesco Pasinetti, «Storia del Cinema», Roma, 1939. Frase di lancio: «Una storia semplice e commovente, piena di profonda umanità». Si evidenzia un Arata scopritore di talenti, soprattutto femminili: gli devono i propri primi passi nel cinema tanto una leggiadra, eterna «cutsider» di classe come Elsa De Giorgi, quanto un’attrice di prosa, e poi televisiva, autorevole e affermata quale Evi Maltagliati. La De Giorgi, che definisce Arata «persona di grande civiltà, piemontese, uomo apertissimo e simpatico, una grande figura anche umana, come lo furono d’altronde Brizzi, Montuori e tutti i grandi operatori di allora», racconta come fu lui, eccezionalmente, a spostarsi nel ‘33 a Firenze, a casa sua, per sottoporla al provino che le valse la scrittura per il film d’esordio, destinato a restare anche il suo più significativo, «T’amerò sempre» di Camerini. Camerini intervistato dice: «Ho avuto i grossi operatori di allora che erano veramente miracolosi perché non esisteva ne il luxometro, ne la pellicola della sensibilità d’ora e si andava così alla ventura. Brizzi, Terzano, che era un grosso operatore, Montuori erano quattro e Arata. Erano operatori che avevano il mestiere, ossia era un miracolo quello che si faceva perché molte volte si andava di notte a girare le scene, non veniva niente perché durante il giorno avevano girato e l’occhio non era più adatto a calcolare le differenze di luce. Oggi dal punto di vista tecnico, è facilissimo fare l’operatore, c’è solamente il gusto delle luci». Sergio Grmek Germani: «Mario Camerini», il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze 1980 pag. 6. 1933 Al buio insieme, di Gennaro Righelli. Pr.: Cines - r.: Gennaro Righelli - s.: liberamente tratto da una commedia di Alessandro De Stefani - sc.: Alessandro De Stefani - scg.: Gastone Medin - musica: Cesare Celani mo.: Guy Simon fo.: Giorgio Melchiori - int.: Sandra Ravel (la ragazza), Maurizio D’Ancora (il giovanotto), Olga Vittoria Gentili, Lamberto Picasso, Romolo Costa, Amedeo Giovacchini. 1933 Il presidente della Ba. Ce. Cre. Mi., di Gennaro Righelli. Pr.:S.I.C. Cines - r.: Gennaro Righelli - s.: Pio Vanzi -sc.: Alessandro De Stefani, Aldo Vergano, Pio Vanzi - scg.: Gastone Medin - musica: Vigilio Ranzato - mo.: Giuseppe Fatigati - fo.: Giorgio Melchiori - int.: Andreina Pagnani (signora Rossi), Nino Besozzi (ing. Rossi suo marito), Hilda Springher (Béguinette), Luigi Almirante (commendator Mandragola), Arturo Falconi, Eva Magni, Cesare Zoppetti, Elena Scala, Ernesto Gentili, Frida Wallner. Lunghezza m. 1867. Trama: «Il comm. Mandragola, presidente della banca da cui dipende la piccola «Banca Centrale di Credito Minerario», crede di corteggiare la moglie dell’ing. Rossi, candidato alla presidenza della stessa Ba.Ce.Cre.Mi. Ma la corteggiata è Bèguinette, che passa dalle breccia di Rossi a quelle di Mandragola». Dalla critica: «Non bisogna per carità considerare questi film dalle altezze metafisiche del cinema assoluto: sono film digestivi. Nel complesso questo è snodato e pulito di fattura», e «dialogato meno banalmente del solito». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 12 novembre 1933. Frasi di lancio:« Trovate esilaranti, eleganze e ‘modernità, in un quadro di singolare buon gusto» / «Una festa notturna, animata dai tuffi di avvenenti ondine» / «Alcuni fra i più simpatici attori della scena italiana, e un gruppo di belle donne, che non temono confronti». 1933 Cento di questi giorni, di Augusto Camerini. Pr.: Cines - r.: Augusto Camerini con la supervisione di Mario Camerini - s.: Mario Camerini - sc.: Guglielmo Alberti, Mario Soldati - scg.: Gastone Medin - musica: Guido Albanese mo.: Fernando Tropea (ma in effetti di Giuseppe Fatigati) - fo.: Giorgio Melchiori - int.: Diomira Jacobini (Marina), Gianfranco Giachetti (conte Agostino di Montecorvo), Mino Doro (Guglielmo), Cesare Zoppetti (il medico), Francesco Amodio (l’intendente), Romolo Costa (amante di Olga), Nora Dani Pines (Olga), Giulio Turchetti (cameriere). Lunghezza m. 1769. La trama: «Un film improntato di gustosa ironia per le aberrazioni della vita moderna. La storia di due innamorati che ritrovano il loro amore per opera d’un bimbo che non conoscono. Una vicenda piena di contrasti». Osservazioni: La “direzione” di Mario Camerini è, in pratica, una supervisione alla “messa in scena” del fratello Augusto. Nora Dani, ultima nel cast dei titoli di testa, è citata come Nora Pines da «Scenario» e come «la Pines» da Filippo Sacchi, mentre Argentieri-Vento omettono la Dani e registrano una certa Dane Beryl. Titolo provvisorio: «Il giocattolo dell’amore». Dalla critica: «C’è un difetto di costruzione in «Cento di questi giorni». La situazione motrice del film, cioé quel matrimonio simulato che diventa causa di una paternità usurpata, era per sé una situazione eminentemente farsesca. Ancora a un terzo dalla fine il film cammina a due passi dalla “pochade”. Mario Camerini, che è un artista fine e delicato, non poteva sentirsi di portare quella situazione fino alle estreme conseguenze, e perciò a un certo momento ha voltato la farsa nel drammatico sentimentale. Ma il passaggio non è perfettamente riuscito». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 15 settembre 1933. Bibliografia: Mario Gromo, recensione, in «La Stampa», 16 settembre 1933; anonimo, recensione, in «Il Messaggero», 17 settembre 1933; Enrico Roma, recensione, in «Cinema Illustrazione», 27 settembre 1933. Frasi di lancio: «Un film improntato di gustosa ironia per le aberrazioni della vita moderna». / «La storia di due innamorati, che ritrovano il loro amore per opera d’un bimbo che non conoscono». / «Una vicenda piena di contrasti». 1933 La maestrina, di Guido Brignone. Pr.: G.A.I. - r.: Guido Brignone - s.: dalla commedia omonima di Dario Niccodemi - rid. e sc.: Guido Brignone - f.: con Arata c’é anche Anchise Brizzi - scg.: Gastone Medin musica: Armando Fragna, Giovanni D’Anzi - mo.: Giacinto Solito - fo.: Vittorio Trentino - int.: Andreina Pagnani (Maria Bini, la maestrina), Renato Cialente (il podestà), Egisto Olivieri (il commissario), Enzo Gainotti (il bidello), Mario Ferrari (Giacomo Macchia), Jone Frigerio (la direttrice), Cesare Zoppetti (il medico), Gina Grappasonni (una collega di Maria), Giuseppe Galeati. Lunghezza m. 1648. La trama: «La maestrina d’un paese della montagna toscana si reca tutte le notti, non già ad un convegno amoroso come sussurrano le malelingue, ma a pragare sulla tomba della figlia della colpa. Senonchè la bambina non è morta, è anzi una delle sue alunne. Riunitasi alla figlia, la maestrina sposa il podestà, che l’ha sempre stimata ed amata». DalLa critica: Sulla «tenue, delicata e profondamente umana vicenda» ideata da Niccodemi, «Guido Brignone è riuscito a realizzare un bel film. Andreina Pagnani, dà alla figura della maestrina un’alta passionalità ed un profondo senso umano che riesce a commuovere». Anonimo, in «Popolo d’Italia», 18 aprile 1934. Bibliografia: Collage di recensioni da «Il Messaggero», 30 gennaio 1934 e da «Il Popolo di Roma», in «Scenario», marzo 1934. 1933 Villafranca, di Giovacchino Forzano. Pr.: Forzano Film - r.: Giovacchino Forzano - s.: dall’omonimo dramma di Benito Mussolini e Giovacchino Forzano - f.: ci sono con Arata anche Reumar Kuntze, Giovanni Vitrotti e Mario Albertelli - scg. e cost.: Antonio Valente, Celestino Magliolo - mo.: Giacinto Solito con la collaborazione di Mario Bonotti - fo.: Carlo Gambacciano int.: Corrado Racca (Camillo Benso conte di Cavour) Annibale Betrone (Vittorio Emanuele II), Enzo Biliotti (Napoleone III), Pina Torniai (principessa Clotilde di Savoia) Giulio Donadio (Castelli), Alberto Collo (il canonico Gazzelli, confessore di Casa Savoia), Giulio Oppi (il marchese Virago di Vische), Ernesto Marini (Margotti), Gustavo Conforti, Vasco Brambilla, Felice Minotti, Nino Bellini, Carlo Lampugnani, Cel Bucchi, Edoardo Biraghi, Valentino Bruchi, Isora Cardinali, Guido De Monticelli, Maria Denis, Luigi Erminio D’Olivo, Carlo Duse, Oreste Fares, Mario Ferrari, Giulio Paoli, Guido Preti, Renato Toffone, Edoardo Toniolo, Egle Arista, Roberto Pasetti, Angelo Bassanelli, Odon Berlioz, A. Amidei, W. Bassi, M. Calavolo, A. Conte, M. Lamari. Lunghezza m. 2824. Girato alla Fert di Torino. La trama: «Villafranca riassume gli eventi del periodo che va dal gennaio 1858 al colloquio di Monzambano tra Vittorio Emanuele e Cavour, quando, nella notte dopo l’undici luglio 1859, fu comunicata dal Re al grande ministro copia dei preliminari di pace stipulati tra l’Imperatore dei Francesi e Francesco Giuseppe». Dalla critica: «Apparentemente se c’era un caso che giustificava la trasposizione letterale sullo schermo di un’opera di teatro era questo, in cui non soltanto la concatenazione delle vicende, ma le battute stesse del dialogo erano dettate dalla storia. Pure, anche nei limiti prefissi, siamo convinti che sarebbe stato possibile dare a questa vasta e pittoresca materia una maggiore elaborazione cinematografica. nell’intento di arrivare a questa elaborazione, Forzano ha avuto la lodevolissima cura di andare a girare i più significativi episodi del dramma sul loro sfondo autentico. Purtroppo “vi” ha collocato personaggi presi tali e quali dal palcoscenico, con gli stessi gesti, le stesse riflessioni, si direbbe le stesse truccature; e il contrasto della convenzione scenica sovrapposta al dettaglio reale, non fa che far sentire più vivo l’artificio di quella». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 20 gen- naio 1934. Bibliografia: Cesare Meano, «Si gira “Villafranca”. Sogno di alcuni giorni d’estate», in «Corriere della Sera» 20 agosto 1933. Annibale Betrone, «Confidenze dell’interprete di “Villafranca”», in «Cinema Illustrazione», 17 gennaio 1934. Dino Falconi, recensione, in «Popolo d’Italia», 20 gennaio 1934. Enrico Roma, recensione, in «Cinema Illustrazione», 31 gennaio 1934. Collage di recensioni dal «Lavoro fascista», «Popolo d’Italia» (cit.), «Il Lavoro», in «Scenario», febbraio 1934. «L’Illustrazione Italiana», anno LXI, n. 3, 21 gennaio 1934, pag. 92: «Villafranca sullo schermo. Alcune scene suggestive del film “Villafranca” tratto dal dramma storico di Giovacchino Forzano su trama di Mussolini e inscenato dallo stesso Forzano. Sopra: Il ricevimento di gala alle Tuileries. A destra: Clotilde di Savoia. Sotto: Vittorio Emanuele II». Ettore M. Margadonna, «Cinema. Villafranca e il caso Forzano. In «L’Illustrazione Italiana, anno LXI, n.5, 4 febbraio 1934, pag. 168. L’articolo è corredato di 4 illustrazioni: 1) La storica seduta alla Camera. 2) Nel giardino del Palazzo Reale di Torino. 3) Clotilde di Savoia viene esortata a sposare il principe Gerolamo. 4) Durante la celebrazione delle nozze. 1934 Oggi sposi, di Guido Brignone. Pr.: S.A.P.F. - r.: Guido Brignone - s.: Aldo De Benedetti, Oreste Biancoli - sc.: Aldo De Benedetti, Leo Menardi - scg.: Guido Fiorini - musica: Armando Fragna - mo.: Guido Brignone - int.: Umberto Melnati (Renzo), Leda Gloria (Lucia), Ugo Ceseri, Giuseppe Porelli, Marcella Melnati, Mario Gallina, Gino Viotti, Ada Dondini, la cavalla Karuska. Lunghezza m. 1964. Titolo provvisorio: «Viaggio di nozze all’80%». Osservazioni: Scrive, nella sua recensione, Enrico Roma: «Alla realizzazione degli esterni ha collaborato, con bravura, Oreste Biancoli. Il soggetto è di De Benedetti». Dalla critica: «In confronto alle solite commediole, mal dissimulanti, sotto il travestimento italiano, forme e modi di vita imparaticci e forestieri,”Oggi sposi” ha questo merito di ispirarsi a motivi schiettamente nostrani. Il viaggio di nozze a Roma, divenuto ormai l’augurale rito delle coppie italiane, è preso infatti come spunto principale del film. E’ vero che poi, nel corso della vicenda, il tema si svia, e Roma stessa finisce per diventare una specie di inospite Babilonia, dove servi cinesi, robots meccanici e poliziotti cerberi cospirano a martirizzare i due poveri sposi». Ma «queste deformazioni fanno parte delle inevitabili necessità della farsa, e non tolgono pregio all’intenzione» Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 1 marzo 1934. Bibliografia: Dino Falconi, recensione, in «Popolo d’Italia», 28 febbraio 1934; Enrico Roma, recensione, in «Cinema Illustrazione», 14 marzo 1934; collage di recensioni da «L’Ambrosiano» e «Il Tevere», in «Scenario», aprile 1934. Belisario L. Randone, «Come rifarebbero i loro film: Melnati» (intervista), in «Film», 4 maggio 1940. 1934 Melodramma, di Robert Land e Giorgio Simonelli. Pr.: S.A.F.F. - r.: Robert Land e Giorgio C.Simonelli s.: dal dramma: «Mélo» di Henri Bernstein - sc.: Robert Land, Giorgio C.Simonelli - scg.: Gastone Medin - musica: Ludwing Van Beethoven, Richard Wagner - canzone: “Violino tzigano” di Bixio e Cherubini - mo.: Giorgio C. Simonelli - int.: Elsa Merlini (Gaby), Corrado Racca (Pietro), Renato Cialente (Marcello), Nino Marchetti (Remo). Lunghezza m. 1842. La trama: «La moglie di un orchestrale s’innamora, riamata, di un violinista celebre, ma una malattia del marito la forza alla rinuncia. Una notte, ella sogna d’avvelenare il consorte, si sveglia in preda al panico, fugge nel buoi dei campi e perde la vita nelle acque di un fiume». Osservazioni: Roberto Land è il regista tedesco Robert L. Il film è il rifacimento del film girato l’anno prima, 1932, a Parigi, in doppia versione franco-tedesca, su scenario di Carl Mayer; versione francese («Mélo») diretta da Paul Czinner, con Gaby Morlay, Victor Francen, Pierre Blanchar; versione tedesca («Der tràumende Mund») diretta dallo stesso Czinner, con Elizabeth Bergner, Rudolf Forster, Anton Edthoifer. Ancora Czinner, nel 1937, curerà in Gran Bretagna il “remake” («Dreaming Lips»), con Elisabeth Bergner e Raymond Massey. Dalla critica: «Tratto dal notissimo dramma di Bataille» il soggetto «non offre che una modesta e casalinga copia della situazione originale. senza che nemmeno vi aggiungano pregio l’interpretazione e la regia. Chi ha dato a Elsa Merlini il cattivo consiglio di presentarsi in questa parte, che non ha cinematograficamente nessuna possibilità per lei? (...) Nei momenti di dolore contenuto ella piomba in una monotona uniformità di tono, nei momenti di disperazione aperta esplode in una disordinata enfasi che oltrepassa le intenzioni stesse del titolo». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 16 novembre 1934). Bibliogrfia: Dino Falconi, recensione, in «Popolo d’Italia», 16 novembre 1934; collage di recensioni da «Lavoro fascista», «La Stampa», 14 ottobre 1934; e «Il Lavoro», in «Scenario», novembre 1934. 1934 La signora Paradiso, di Enrico Guazzoni. Pr. Tirrenia Film - r.: Enrico Guazzoni - s.: dalla commedia omon. di Guido Cantini (1931) - sc.: Guido Cantini - scg.: Alfredo Montori, Arnaldo Foresti - musica: Umberto Mancini - mo.: Giuseppe Fatigati - fo.: Giorgio Melchiori - int.: Memo Benassi (Matteo Iran), Elsa De Giorgi (Anna Lucenti), Mino Doro (Delfo Delfi), Franco Coop (Geremia Bianchi), Augusto Marcacci (il conte), Enzo Biliotti (Lukas), Ugo Gracci, Paolo Bernacchi. Lunghezza m, 2095. Girato a Tirrenia. La trama: «Un usuraio accoglie nella sua tana una povera fanciulla, e se ne sente riscaldato il cuore. Quando la sua protetta s’innamora di un giovane, ecco che il vecchio usuraio, in un impeto di assurda gelosia, tenta la strada del ricatto, poi quella della forza. Ma, infine, si rassegna». Dalla critica: “La signora Paradiso” ha questo a suo credito, almeno nell’intenzione: di offrire a un interessante attore l’occasione per un’interpretazione (cinematografica) organica e completa». Se «l’intenzione fallisce la colpa non è di Benassi ma proprio dellaparte, tecnicamente confusa e psicologicamente ingrata, senza precisione di contorni e senza finezza di trapassi, convenzionale nelle premesse e sconcertante nelle conclusioni. Insignificante», poi «la direzione di Guazzoni». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 4 ottobre 1934. Bibliografia: Anonimo, recensione, in «Popolo d’Italia», 4 ottobre 1934; collage di recensioni dal «Popolo d’Italia», «Gazzetta del Popolo», «La Tribuna», 19 ottobre 1934, «Il Tevere», «Il Messaggero», 18 ottobre 1934, «Lavoro fascista», in «Scenario», novembre 1934. Il regista Guazzoni maestro del genere storico, è suo «Quo vadis», primo lungometraggio della storia del cinema, non riesce a riconfermare la propria bravura con il film parlato. Scrive Arata: «Fra i 18 film della Cines per i quali ho lavorato c’è il primo tentativo nostro di film sonoro «La canzone dell’amore» cè «Rubacuori», che portò sullo schermo l’arguta risata e la comicissima mimica di Armando Falconi e c’è «T’amerò sempre» il film che sotto la direzione di Camerini misurò la possibilità di una nuova attrice: Elsa De Giorgi e di un nuovo attore Mino Doro. Gli ultimi film da me girati «Melodramma» e «La signora paradiso». Dopo una parentesi segnata da pellicole di scarso rilievo l’operatore lavora accanto a un grande professionista dell’immagine: Max Ophuls che nel 1934 firma la regia de: «La signora di tutti», prodotto rivelazione di Isa Miranda, un tipico esempio delle nuove fortune generate dal mondo della celluloide. La Miranda prima di entrare nel Cinema era stata scatolaia, commessa di negozio e dattilografa. Da Max Ophuls il Nostro ricevette l’offerta di lavorare in Francia al suo fianco ma non se ne fece nulla. Scrive infatti Arata, concludendo il suo intervento su «Cinema Illustrazione»: «Con un regista tedesco, il signor Max Ophüls ho iniziato la realizzazione di «La signora di tutti» i cui scenari sono stati tolti dal famoso romanzo di Salvator Gotta. L’interpretazione è affidata ad attori di grande rinomanza e di sicure qualità: perché non sia del tutto inutile questa chiacchierata mando un sincero consiglio alle belle figliole che fidando solo nella loro giovinezza e attraenza vorrebbero avviarsi al cinema. Si accertino di possedere forza di volontà, capacità di lavoro, di studio, di riflessione, di disciplina, Poi vengano per il provino. Magari da me». 1934. Luci sommerse (poi “Don Pablo il bandito”), di Adelqui Millar. Pr.: Roma Internazionale Film - r.: Adelqui Millar - s.: da un’idea di Michele Galdieri sc.: Giacomo Gentilomo - f.: con Arata c’é anche Carlo Montuori - scg.: Guido Fiorini - musica: Daniele Amphitheatro - mo.: Giacomo Gentilomo, Adelqui Millar - fo.: Vittorio Trentino - int.: Fosco Giachetti (Lord Spider), Nelly Corradi (Adria d’Aurigny), Laura Nucci (la vamp), Augusto Marcacci, Yvonne Sandner, Carlo Reter, Raimondo Van Riel, Amina Pirani Maggi, Danilo Calamai, Arturo Cellini, Carlo Chertier, Tonio Masini, Arturo Vitaletti con l’orchestra Bachicha. 1934 Frutto acerbo, di Carlo Ludovico Bragaglia. Pr.: Carlo Ludovico Bragaglia - s.: dalla commedia “Le fruit vert” (“Primizia”) di A. Savoir, M. Maurey, Régis Gignoux e Jacques Thér - sc.: Leo Menardi e non accreditato Vigilio Lilli - scg.: Camillo Mastrocinque con la supervisione non accreditata di Gastone Medin - musiche di Nikolaus Brodszky e Felice Montagnini - mo.: Fernando Tropea - fo.: Vittorio Trentini - int.: Lotte Menas (Lucy Carell, attrice di varietà), Nino Besozzi (Giorgio Verni), Maria Wronska (la madre di Lucy), Ugo Ceseri (prof. Ugotti), Matilde Casagrande (Gertrude, la governante), Giuseppe Porelli (Il maggiordomo), Elvira Borelli (Eva), Nino Lari alias Giovanni Calzolari (Gigino), Luigi Cimara (Edoardo Manni), Jone Frigerio (l’educatrice), Carlo Petrangeli (Tort), Alberto Gabrielli, Lucia Cannone. La trama: «Per «ringiovanire» la madre vedova agli occhi di un avvocato che le fa la corte, un’attrice di varietà recita la parte della tredicenne. Questo non le impedisce di innamorarsi di un amico dell’avvocato, e di celebrare le proprie nozze contemporaneamente a quelle della madre». Osservazioni: Secondo «l’Almanacco», il produttore è Roberto Dandi, e la scenografia oltre che di Mastrocinque, sarebbe di Gastone Medin (ma perché costui non avrebbe firmato?). Il film è il rifacimento del film austriaco «Fruchtchen» (1934, produzione Universal, regia Richard Eichberg dalla commedia di Gignoux e Théry, fotografia Georg Bruckbauer, musica Anton Perak e Nikolaus Brodszky, interpreti Franziska Gaal, Hermann Thimig, ecc). Dalla critica: « “Frutto acerbo” ha un soggetto francese e un protagonista viennese. Eppure, nonostante questo, è venuta fuori una divertente commedia italiana. Il merito è in primo luogo della regia di C. Ludovico Bragaglia, gradevolmente spigliata e mossa. In secondo luogo dell’interpretazione di Nino Besozzi, che raramente è stato più fine, più spontaneo, più naturalmente disinvolto e gioviale». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 4 ottobre 1934. Bibliografia: Collage di recensioni da «Il Lavoro» e «Lavoro fascista», in «Scenario», novembre 1934. 1934 La signora di tutti, di Max Ophuls. Pr.: Novella Film, Milano - r.: - s.: dal romanzo omon. di Salvator Gotta (1934) - sc.: Curt Alexander, Hans Wilhelm, Max Ophüls - scg.: Giuseppe Capponi - cost.: Sandro Radici - musica: Daniele Amphitheatroff - mo.: Ferdinando Maria Poggioli - fo.: Hans Bittmann int.: Isa Miranda (Gabriella Murge alias Gaby Doriot), Memo Benassi (Leonardo Nanni), Friedrich Benfer (Roberto Nanni), Tatiana Pavlova (Alma Nanni), Nelly Corradi (Anna sorella di Gabriella), Lamberto Picasso (il colonnello Murge, padre di Gabriella e di Anna), Franco Coop (il manager Veraldi), Mario Ferrari (il produttore cinematografico), Gildo Bocci (il regista), Vinicio Sofia (l’aiuto regista), Ines Cristina Zacconi (la zia), Carlo Lombardi (un azionista), Achille Majeroni (il portiere del teatro), Giulia Puccini (la maestra di canto), Olinto Cristina (impiegato di Nanni), Attilio Ortolani (Giovanni il maggiordomo), Andrea Checchi (uno studente amico di Roberto), Zoe Incrocci (la collegiale che fa le imitazioni), Carlo Romano (un autista di taxi), Alfredo Martinelli (un giornalista), Mattia Sassanelli (il preside), Elena Zareschi (una collegiale), Luigi Barbieri. Lunghezza m. 2659. La trama: «Ascesa e caduta di Gaby Doriot, per la quale un professore si suicida e un altro uomo (dissipate le proprie sostanze, causata la morte della moglie paralitica, sofferto il carcere per bancarotta) perde la vita sotto un automobile mentre, su tutti i muri, trionfano i manifesti con l’immagine di Gaby. Ma quando la “diva” apprende che l’unico uomo da lei amato ha sposato sua sorella, si uccide». Osservazioni: Presentato alla seconda biennale ciematografica di Venezia nel 1934, vi ottiene la Coppa del Ministero delle corporazioni per «il film italiano tecnicamente migliore». E’ il solo film girato in Italia dal grande regista tedesco Max Ophüls, e, insieme, l’esordio dell’editore Rizzoli nel campo della produzione cinematografica. La canzone «La signora di tutti» è cantata da Nelly Nelson. DalLa critica: «Dai timidi e semplici amori di «Liebelei», a quelli inconfessabili e grevi della «Signora di tutti» il passo non è lieve e c’era pericolo che la vene così delicata del direttore austriaco (sic) non reggesse all’impeto di passioni così rovinose. Questo pericolo si è fatto sentire specialmente nelle presentazioni iniziali dei personaggi, la cui violenza appare ingiustificata ed un tantino arbitraria». Inoltre «la prima parte (del film) è una rievocazione troppo frammentaria e gratuita», sebbene non banale «della lontana vita della donna. Anche la tecnica di Ophüls, quell’ondoso e peree procedere dell’obiettivo in tutti i sensi e i tutte le direzioni», trova «ua sua ragione drammatica» soltanto «nella seconda parte, così unitaria, movimentata e febbrile La rivelazione del film è Isa Miranda. La sua espressione, la sua figura, piena di terribile, miserevole e stanca stupefazione, hanno molto contribuito a spiegare la natura del carattere della protagonista, che ne aveva veramente bisogno» Sandro De Feo, dalla Mostra di Venezia, in «Il Messaggero», 17 agosto 1934. Bibliografia: Filippo Sacchi, «Quattro film italiani», in «Corriere della Sera», 7 settembre 1934. Dino Falconi, recensione, in «Popolo d’Italia», 30 novembre 1934. Giulio Cesare Castello e Claudio Bertieri (a cura di), «Venezia 1932 1939 Filmografia critica», Roma, 1959 (riporta ampi estratti di recesioni dalla Mostra di Venezia). Anonimo, in «Gazzetta di Venezia», 17 agosto 1934. Anonimo, in «Il Gazzettino», 17 agosto 1934. Mario Gromo, in «La Stampa», 17 agosto 1934. Filippo Sacchi (ma anonimo), in «Corriere della Sera», 17 agosto 1934. Gugliemina Setti, in «Il Lavoro», 19 agosto 1934. Eugenio Giovannetti: in «Mappamondo veneziano del Cinema»,«La Lettura», Rivista mensile del Corriere della Sera, Anno XXXIV, n. 9, settembre 1934 - XII, pagg. 814 821), scrive: «La signora di tutti, tratta da un romanzo di Salvatore Gotta, è la più intensa opera drammatica del regista Ophüls. Il creatore di Liebelei ha qui voluto dare una vibrazione profonda al suo stile e c’è indubbiamente riuscito. Il film è vivo e rapido: e rivela in Isa Miranda uno straordinario temperamento d’attrice». Adolfo Franci «Mentre si gira «E’ caduta una donna», «L’Illustrazione Italiana», n. 10, 9 Marzo 1941-XIX, pag. 351-352: «E’ la seconda volta che m’incontro con Isa Miranda al lavoro. La prima fu a Canzo qualche anno fa, durante la «ripresa» di alcune scene di quella «Signora di tutti» in cui la Miranda, allora quasi sconosciuta, apparve attrice cinematografica di singolari doti. S’era d’estate, e in fondo al mio ricordo splende ancora il bellis- simo paesaggio brianzolo con le colline verdi cariche di sole, le bianche e tortuose strade, i borghi ridenti e le maestose ville circondate da vasti parchi donde veniva il chiocchiolio dei merli e il fresco canto delle fontane. Villa Rizzoli, in que’ giorni, era un porto di mare: dall’alba al tramonto un andirivieni di automobili, di gente indaffarata vestita succintamente, in pantaloni di tela e in magliette balneari; un correre di qua e di là, un chiamare a gran voce. Tra codesti scalmanati, si aggiravano impassibili e silenziosi camerieri in guanti bianchi e giacchette rigate portando vassoi e bevande. Ogni tuo desiderio veniva subito esaudito, a ogni minimo tuo cenno ti vedevi alle spalle, mezzo uomo e mezzo fantasma, uno di quei camerieri muti e ossequienti che andavano e venivano senza far rumore lungo le aiuole e i viali del parco trasformato in cantiere cinematografico, con macchine da presa, riflettori, carrelli ed altri armamenti acquattati fra le annose piante, i boschetti di bossolo, i rosai in fiore. Gli attori si truccavano e struccavano all’aperto, i camerini improvvisati con tralicci fatti di rami d’albero e di foglie, come quei capanni di fortuna dietro i quali i cacciatori si nascondono, in aperta campagna, nell’attesa della preda. Cari ricordi venatorii riaffioravano alla mente alla vista di codesti tralicci, mentre sugli alberi e in cielo gli uccelli volavano e cantavano giocondi. Se non che da quelle tenui spalliere non già venivano i noti richiami degli uccellatori ma voci e risa di tutt’altro timbro e colore; dietro quelle trasparenti spalliere non già si vedevano muovere uomini in giacca di fustagno e cappellaccio sugli occhi ma corpi di donne ricoperti da leggerissimi abiti estivi, rosee braccia e spalle alabastrine. E un odor di cosmetici e lambiccati profumi si spandeva d’intorno, più forte dell’odor di campagna e di bosco. Ma anche quel contrasto, tra l’agreste e il mondano, tra il falso e il vero, accresceva stupore alla scena, le dava un che di artificioso e naturale assieme, un sapore di commedia improvvisata, per gioco, in mezzo agli scenari della natura, un ritmo quasi di festa campestre o di balletto boschereccio, che il ricordo ne è ancora lieto e in fondo un po’ meravigliato, come si trattasse di cosa piuttosto sognata che vissuta, di un’immaginaria scena con piante e fiori finti, luci artificiali e macchine da laboratorio, nella quale si dicono parole e si fanno gesti strani e inconsueti, e alla quale, di vero, di reale, non resta che quell’alto cielo azzurro su cui volano le lodole, inebriate d’aria e di sole. Ritornando ora, con la memoria a quei giorni mi sembra di ricordarmi che fra le bizze di Memo Benassi e le intelligenti impennate di Tatiana Pavlova, tra il pensieroso Ophuls e il nervoso Arata, tra l’entusiasta Rizzoli e gli incantati suoi figli, la più stupita e insieme la più calma, la più padrona dei suoi nervi, fosse proprio Isa Miranda che pur nasconde in quel suo volto biondo di madonna luinesca, in quel suo corpo magro e scattante di cerbiatta, una natura sensibilissima. Al richiamo del regista ella scendeva dallo «chalet» dove abitava, dietro la villa, seguita dalla segretaria di Ophuls che aveva sempre un copione in mano e tratto tratto vi gettava gli occhi, protetti dagli occhiali cerchiati di tartaruga, col gesto d’un suonatore d’orchestra che segue lo spartito. E vedendola apparire giù per la china fiorita, agile e serena nelle movenze, si sarebbe detto che ella fosse già espertissima nella difficile arte della cinematografia. Ed era invece al suo primo film». Su Max Ophüls, Alberto Crespi in Fernaldo Di Giammatteo, «Dizionario universale del Cinema», pag. 1020-1022: «All’avvento del nazismo O. ripara in Francia e assume la cittadinanza francese, in seguito al plebiscito sulla SAAR. Comincia la sua vita di esule: fra il ‘34 e il ‘41 realizza film un po’ dovunque in Europa....Dirige in Francia, in Italia «La signora di tutti» (1934) con Isa Miranda e Memo Benassi, storia di un’attrice non più giovane che rivive il proprio passato, fatto di uomini che volevano sfruttarla e annullarne la personalità. Presentato con successo alla seconda biennale di Venezia del ‘34, il film anticipa in parte le tematiche di uno dei capolavori del regista «Lola Montés. Mario Ramperti, nuovo alfabeto delle stelle, Rizzoli & C, Milano 1937 – XV. Isa Miranda. Stella vespertina. Chi ha detto che Isa Mirando ha il genio dell’esitazione? Non dimenticherò mai il camminare incerto, il guardare domandante scusa delle sue prime comparse. E’ il suo indice; il suo stile. Riconosco la lombarda del Manzoni. Una pudicizia, quella che il Manzoni appunto chiamava “severa”, sopravvive in lei anche nelle finzioni più crude delle anime più smarrite. Una pudicizia, ed una dolcezza. La “Signora di tutti” è ancora la sorella di Lucia. Riconosco, in pari tempo, la lombarda di Leonardo. Se la sua guancia ombrosa ricorda quella della Hepburn e della Dietrich, più dirittamente ci richiama le donne che il toscano, in figura di Marie giovinette o di santi fanciulli, dipinse in terra cisalpina. Quella sfumatura di volto nasce armoniosa, tra un umido campo e una vaporante nuvola di Brianza. Nella luce dei riflettori, appare un’altra Vergine delle Roccie. Come il viso è penombrato, il gesto è indeciso; e ne vengono all’attrice quel ritegno e quell’arcano di cui tanto fruisce la sua scarna bellezza. Ella ci ridà nel suo giuoco le mezzeluci vinciniane e i tempi ritardati di Chopin. E, infine, un alito di clemenza plenaria, l’assistenziale bontà che mai vidi più schiettamente effusa sullo schermo da alcun’altra, anche celeberrima, e che è proprio, in sommo grado, della sua sostanza milanese. Che grazia, in lei, ha quell’apparente durezza che quasi s’adira con sé medesima, prima di cedere al sentimento che la penetra, per tramutarsi a poco a poco in un totale impeto d’abbandoni! Ma anche più mi piace quell’esitazione crepuscolare di cui fu detto ella avere il genio. La sua voce, allora, è un rintocco. Sospeso è il passo al limite della notte. Tra ombre e murmuri d’Avemaria, chi è milanese risente le sue campane. 1934 L’albergo della felicità, di Giuseppe Vittorio Sampieri. Pr.: SACI - r.: Giuseppe Vittorio Sampieri - s.: Leo Mezzadri - sc.: G. Vittorio Sampieri scg.: naturale musica: Gianni Buccèri e Ezio Carabella - mo.: Giuseppe Fatigati - fo.: Elso Finardi - int.: Turi Pandolfini (Ignazio Privitera), Isa Pola (sua nipote), Dino Di Luca (avv. Policastro), Diana Lante (la seducente signora americana), Guido Verdiani, Nives Poli, Fulvia Gerbi, Nino Giusti, Ugo Saitta, Peppino Nicolosi, Barberis. 1934 La marcia nuziale, di Mario Bonnard. Pr.: Manderfilm - r.: Mario Bonnard - s.: dal lavoro drammatico di Henri Bataille “La marche nuptiale” (1905) - ad. e sc.: Guido Cantini e non accreditato Mario Bonnard - scg.: Gastone Medin - musica: Giulio Bonnard - mo.: Giuseppe Fatigati - f.: Giovanni Bianchi - int.: Kiki Palmer (Grazia de Plessans), Tullio Carminati (Ruggero Lechatelier), Cesare Bettarini (Claudio Morillot), Diana Lante (Susanna), Assia Noris (la signora Clozires), Nella Maria Bonora (Amata), Enrico Viarisio (Cesare), Mercedes Brignone (signora de Flessans), Lamberto Picasso (l’editore), Cesare Zoppetti (de Plessans), Ferruccio Ermini (de Saussy), Oreste Bilancia (l’albergatore), Mario Brizzolari (il procuratore), Elsa Camarda (signora Morillot), Emilio Petac, Elsa Maria (Maria de Plessans), Luigi Erminio D’Olivo. Lunghezza m. 2584. «La marche nuptiale» - pr.: Paris-Rome Film - r.: Mario Bonnard - sc. e dialoghi: Ivan Noé - int.: Madeleine Renaud (Grace de Plessans), Henri Rollan (Roger Lechatelier), Jean Marchat (Claude Morillot), Arlette Marchal (Suzanne Lechatelier), Assia Noris (signora Clozières), Simone Genevois (Aimée), Henri Marchand (César), Marfa Dhervilly (la signora de Plessans), Pierre Finaly (l’editore), Pierre Magnier (de Plessans), Raymond Rognoni (l’albergatore), Ferruccio Ermini (de Saussy), Georges Prieur (il procuratore), Joelle Le Feuve (Marie de Plessans), Suzanne Desprès (signora Morillot), Alina Debray. La trama: «Una giovane aristocratica sposa il suo maestro di pianoforte, dicendo addio per amore agli agi in cui è vissuta. Ma il musicista, per sbarcare il lunario, deve inpiegarsi e la donna, corteggiata insistentemente di lui, medita il suicidio. Lieto fine». Dalla critica: «Ritroverete, più o meno, il dramma di Bataille, con l’appendice di un finale che modifica, e psicologicamente prolunga, il dramma originale. Bonnard lo ha diretto con gusto e penetrazione, anche se talvolta indulge troppo alle lentezze della struttura teatrale. La distribuzione è equilibrata, la scenografia accurata, la fattura omogenea, senza nessuna di quelle discontinuità e di quie buchi che rivelano spesso, nella nostra produzione corrente, l’improvvisazione e la fretta». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 16 gennaio 1935). Bibliografia: Anonimo «La marcia nuziale», racconto del film (serie «I romanzi del cigno», n. 27 bis), ed. Nicolli, Milano, 1935; Dino Falconi. recensione, in «Popolo d’Italia», 17 gennaio 1935; Enrico Roma, recensione, in «Cinema Illustrazione», 30 gennaio 1935. 1935 Lorenzino de’ Medici, di Guido Brignone. Pr.: Manenti Film - r.:Guido Brignone - sc.: Tomaso Smith, Guido Brignone - scg.: Guido Fiorini - cost.: Gino Sensani - musica: Umberto Mancini - mo.: Giacomo Gentilomo - f.: Giovanni Bianchi int.: Alessandro Moissi (Lorenzino de’ Medici), Camillo Pilotto (duca Alessandro de’ Medici), Germana Paolieri (Bianca Strozzi), Uberto Palmarini (Filippo Strozzi), Teresa Franchini (Maria Soderini), Maria Denis (Nella), Sandro Salvini (Francesco Guicciardini), Mario Ferrari (ser Maurizio), Mario Steni (Michele del Tavolaccino), Michele Riccardini (il Bronzino), Raimondo Van Riel (Benvenuto Cellini), Giovanni Dal Cortivo (il legato pontificio), Giuseppe Pierozzi (un ortolano), Sandro Palmieri (il giovin cantore), Romolo Costa (il gioielliere), Vinicio Sofia (il venditore del falco), Memmo Carotenuto (un cittadino che protesta), Guido Barbarisi, Danilo Calamai, Jole Capodaglio, Gustavo Conforti, Didaco Chellini, Alberto Campi, Alberto Gabrielli, Ernesto Torrini, Nino Altieri, Arturo Salviati, Amedeo Vecci. La trama: «Inizi del ‘500. A Firenze tiranneggia il duca Alessandro: suo cugino Lorenzino trama una congiura contro di lui». Osservazioni: E’ l’unico film girato in Italia dal grande attore austriaco d’origine italiana Alexander Moissi. Dalla critica: Brignone ci presenta il personaggio «soltanto come intrigante politico limitando il dramma, inoltre, ai pochi mesi di sua vita fiorentina che precedettero l’assassinio di Alessandro Poco, perché i non informati riescano a farsi un’idea di quello che fu chiamato l’emulo di Bruto e delle ragioni che lo spinsero a far causa comune con i fuoriusciti e a sfruttare per suoi fini personali, l’esasperazione del popolo contro il tiranno. Dal punto di vista cinematografico» il film «non è privo di qualità. Pur slegato com’è (difetto di sceneggiatura), interessa e ha scene bene impostate e drammaticamente efficaci. Manca piuttosto di originalità» così come «nelle scene di massa è sciatto. Il meglio sono gli interpreti, scelti tra i più valenti attori del teatro di prosa, e per loro merito l’opera si sostiene e ha prestigio». Enrico Rom, in «Cinema Illustrazione», 13 marzo 1935. Bibliografia: Dino Falconi, recensione, in «Popolo d’Italia», 27 febbraio 1935. Altro attestato di gratitudine d’attrice protagonista alla magia estetica delle riprese di Arata, quello di Germana Paolieri, stupenda principessa delle scene di prosa, ma dalla carriera filmica un po’atrofizzata, parlando di «Lorenzino de’ Medici» di Brignone, anno 1934, celebre per essere l’unico film italiano avente a protagonista il grande attore di prosa austriaco di origine italiana Alexander Moissi: «Chi ricordo con gratitudine, perché veramente mi hanno fotografata in modo stupendo, sono Ubaldo Arata, Gallea e Brizzi». 1935 Campo di Maggio, di Giovacchino Forzano. Pr.: Consorzio “Vis” - r.: Giovacchino Forzano - s.: dal lavoro teatrale di Giovacchino Forzano “I cento giorni” cambiato poi in “Campo di Maggio” (1931) - ad. e sc.: Giovacchino Forzano - f.: Alexander von Lagorio, Mario Albertelli - f.: per le sequenze della battaglia di Waterloo oltre ad Arata, anche Carlo Montuori e Anchise Brizzi - scg. e cost.: Antonio Valente, Ezio Polloni - mo.: Giacinto Solito, Mario Bonotti - fo.: Mario Amato - int.: Corrado Racca (Napoleone Bonaparte), Emilia Varini (Letizia Bonaparte), Enzo Biliotti (Fouché), Pino Locchi (il re di Roma), Paola Barbara (la governante del re di Roma), Rose Stradner (Maria Luisa d’Asburgo - Lorena), Lamberto Picasso (Metternich), Augusto Marcacci (Talleyrand), Ernesto Marini (Luigi XV), Carlo Duse (Marchand), Ugo Soldarelli (colonnello Malet), Marcello Giorda (Cabronne), Vinicio Sofia (un deputato), Celio Bucchi, Gemma Bolognesi, Ciro Bortolotti, Corrado Caparuccia, Giorgio Capecchi, Leo Chiostri, Giovanni Cimara, Lina Coppée, Camillo De Rossi, Dino Di Luca, Luigi Erminio D’Olivo, Eugenio Duse, Liana Ferri, Irina Lucacevich, Alfredo Menichelli, Carlo Lamari, Athos R. Natali, Dino Raffaelli, Aldo Pini, Armando Rossi, Ezio Rossi, Gino Soldarelli, Virgilio Tommasini, Bruno Torrisi, Gaetano Verna. 1935 Passaporto rosso, di Guido Brignone. Pr.: Tirrenia Film, Roma - r.: Guido Brignone - s.: ispirato da un’idea di Alfredo Guarini, elaborata da Gian Gaspare Napolitano - sc.: Gian Gaspare Napolitano con la collab. non accreditata di Ivo Perilli e Fritz Eckardt - scg.: Guido Fiorini - cost.: Titina Rota - musica: Emilio Gragnani - mo.: Giuseppe Fatigati - fo.: Hans Bittmann - int.: Isa Miranda (Maria Brunetti), Filippo Scelzo (dott. Lorenzo Casati),Ugo Ceseri (Antonio Spilli), Giulio Donadio (don Pancho Rivera), Tina Lattanzi (Giulia Martini), Federico Collini (Luigi Martini), Olga Pescatori (Manùela Martini), Mario Pisu (Gianni Casati), Oreste Fares (Andrea Brunetti), Carlo Ninchi (un passeggero sul “Santa Fé”), Guglielmo Barnabò (Mr. Johnson), Guido Verdiani (un amico di Casati), Flavio Diaz (il capitano del”Santa Fé”), Ernesto Almirante (l’addetto ai passaporti clandestini), Emilio Petacci (il console italiano), Olinto Cristina (il commissario di bordo del “Marseille”), Cele Abba (una delle attrici del “Café de Paris”), Lilla Brignone (un’altra attrice), Bruna Lovet (una terza attrice), Edda Soligo (una quarta attrice), Carlo Tamberlani (l’ufficiale comandante le truppe), Eugenio Cappabianca (uno degli uomini di don Pancho Rivera), Renata Marini (una emigrante), Giulio Marini (suo figlio), Pina Gallini (la signora che lavora a maglia), Fernando Solieri (ministro sudamericano), Rocco D’Assunta (un soldato in trincea con Gianni Casati), Miranda Nansea (una bambina dell’asilo), Giovanni Conforti, Gustavo Conforti, Vittorio Tettoni, Luigi Pavese, Marcella Rovena, Arnaldo Martelli, Ilse Marie Edoardo, Giovanni Ferrari, Alberto Campi, Amedeo Vecci, Renato Bonatti, signora Brizzolari. Lunghezza m. 2561. Nei titoli di testa del film si legge: «E’ il film di tutti gli italiani che lasciarono la patria con il Passaporto Rosso, che trepidarono da lontano per le sue fortune e che, quando fu necessario, risposero generosamente alla sua voce che li richiamava. Passaporto Rosso è un contributo alla storia di quegli umili sconosciuti che partirono verso l’ignoto e l’avventura con il Passaporto Rosso. L’azione del film si svolge dal 1890 al 1922». Partecipa alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. La trama: «Ultimi anni del secolo scorso. Un Italiano, emigrato in America con la famiglia, muore di febbre gialla. La figlia sposa un medico compatriota, e ne ha un figlio che, al momento dello scoppio della Grande Guerra, non sente il dovere di arruolarsi volontario, perché cittadino americano. E’ allora il padre ad arruolarsi: ma il figlio, che infine comprende qual’è il proprio posto, immola in una patria tricea la giovane esistenza». Dati integrativi: Lunghezza m. 2561. Sceneggiatura: Gian Gaspare Napolitano. Osservazioni: Isa Miranda interpreta due parti: la madre (che è la protagonista) e la più breve parte della figlia. La prima avrebbe dovuto essere interpretata da Marta Abba, che, avendo «contestato» la Miranda, venne sciolta dal contratto e liquidata. (La testimonianza è di Alfredo Guarini). Presentato a Venezia nel 1935, «Passaporto Rosso» vi ottiene la Coppa del Partito Nazionale Fascista «per il film artisticamente più riuscito». Dalla critica: «Anche il tema di Passaporto rosso è di quelli che la risorta cinematografia nazionale doveva affrontare. Tutto sommato, da un punto di vista schiettamente spettacolistico» esso «può essere paragonato a quello di molti film americani sulla colonizzazione del West. L’autore dello scenario ha ideato un appassionante conflitto, preparandolo con accortezza. Ogni episodio ha una sua ragion d’essere e ogni personaggio qualità rappresentative d’una collettività. Il Brignone questa volta si è fatto onore sul serio, dimostrando di essere giovane e pieno di idee. Con Passaporto rosso egli torna in primo piano, con tutti gli onori. La Miranda migliora ogni volta». Enrico Roma in «Cinema Illustrazione», 18 dicembre 1935). Bibliografia: Anonimo, recensione, (dalla Mostra di Venezia), in «Popolo d’Italia», 23 agosto 1935; anonimo, «Passaporto rosso», racconto dal film (serie «I grandi cine-romanzi illustrati», n. 47), ed. Taurinia, Torino, 1936. Per ritornare al Nostro non possiamo dimenticare che nel 1936 gira tre film: «Re di denari» di Enrico Guazzoni con Angelo Musco, Leda Gloria, Mario Ferrari, Nerio Bernardi. Produzione Capitani; (si veda: «L’illustrazione Italiana», Anno LXIII, n. 25, 21 Giugno 1936 - XIV pag. 1142 - 1143 didascalia «Una scena di «Re di denari» nuovo lavoro della Capitani Film (Consorzio Scar) che il regista E. Guazzoni ha condotto a termine.Questa fotografia nella quale non appare Angelo Musco che è il protagonista del film, ci mostra una vivace scena fra Vanna Vanni e Ciro Galvani»)l’omonimo «RE DI DENARI» di Gennaro Righelli, con Angelo Musco, Paola Borboni, Franco Coop.Produzione Capitani; e ancora «Lo Smemorato» di Gennaro Righelli con Angelo Musco, Paola Borboni, Franco Coop.Produzione Capitani. Per una bella foto di scena di «Re di denari» si veda «L’Illustrazione italiana, Anno LXIII, n. 25, 21 Giugno 1936 XVI, tra pag. 1142 e pag. 1143. Titolo: «Incessante attività della cinematografia italiana», didascalia: «Una scena di «Re di denari» nuovo lavoro della Capitani Film (Consorzio Scar) che il regista E.Guazzoni ha condotto a termine. Questa fotografia nella quale appare Angelo Musco che è il protagonista del film, ci mostra una vivace scena fra Vanna Vanni e Ciro Galvani». Nel 1935 la Banca Nazionale del Lavoro, su indicazione della Direzione Generale della Cinematografia, inizia a erogare crediti ai produttori. Lo Stato da parte sua emana una serie di provvedimenti che assicurano ad un certo genere di film l’anticipo di un terzo delle spese occorrenti per la realizzazione. In particolare ne usufruiscono pellicole messe in cantiere negli anni 1936 - 37 - 38, nelle quali gli intenti propagandistici del regime sono più evidenti. Ad esempio «Scipione l’Africano» (1937) e «Luciano Serra pilota» (1938) ai quali Arata è chiamato a collaborare. L’idea di realizzare «Scipione l’Africano» nasce appena dopo che le truppe italiane di Badoglio sono entrate ad Addis Abeba e l’impero è tornato sui colli fatali di Roma. L’intento encomistico e celebrativo dell’impresa del regime è espresso chiaramente nel programma. Esso infatti: «Rispondendo alla sostanza viva del nostro tempo» (parole di Luigi Freddi, allora direttore generale della cinematografia) «traduce in immagini la essenziale identità di spirito che unisce la grande Roma della conquista africana alla grande Roma della conquista etiopica». Riferimenti e confronti tra la vittoria di Zama e quella di Addis Abeba sono dichiaratamente cercati e mirano ad esaltare il valore e la politica colonialista dello Stato fascista. Il film, diretto da Carmine Gallone, viene preparato nei minimi dettagli tecnici, ha dei costi faraonici ma non si rivela il capolavoro tanto atteso. Premiato a Venezia nel 1937, fà soprattutto testo per l’artificiosità che lo contraddistingue e l’impressione di finzione che comunicano anche le sequenze più spettacolari e suggestive. «Scipione l’Africano» di Carmine Gallone. Fotografia Ubaldo Arata Anchise Brizzi.Si svolge ai tempi della seconda guerra punica che vanno dal 207 aC. anno della partenza di Scipione per l’Africa, alla vittoria di Zama, riportata da Scipione nel 20 a.C. La pretesa monumentalità e grandiosità del film si deducono anche dalle cifre, secondo i notiziari dell’epoca 232 giornate di lavorazione, 60 attori di cui almeno un terzo di primo piano, una cinquantina di impiegati e di tecnici; circa 44.000 giornate lavorative di generici e comparse, oltre 26.000 per maestranze, oltre 174.000 per soldati di fanteria e cavalleria e per vigli urbani, una cinquantina di elefanti e migliaia di cavalli. Premiato alla Mostra di Venezia del 1937 quale miglior film italiano con la Coppa Mussolini. Produzione Cons. Scipione l’Africano, distribuzione ENIC. (Si veda ad esempio: «L’Illustrazione Italiana, Anno LXIII, n.41, 11 Ottobre 1936-XIV, illustrazioni tra pag. 654 - 655: «Il più grande film italiano - Ferve da qualche tempo il lavoro per la realizzazione di un film eccezionale Scipione L’africano, con la regia di Carmine Gallone, sarà una nuova e più decisa affermazione della rinnovata cinematografia italiana. Ecco, sotto, una delle scene (in fondo si vede Isa Miranda) già girate al Quadraro dove sono stati eseguiti grandiosi impianti di luce per la ripresa notturna; e sopra un’altra scena fra la Miranda e Marcello Spada». Lo stesso su «L’Illustrazione italiana, Anno LXIII,n. 51, 20 Dicembre 1936-XV, tra pag. 1084 - 1085 si legge: «Grandi film italiani in lavorazione» e la didascalia riporta: «Un altro grandissimo film italiano in lavorazione, che suscita intensa aspettativa è «Scipione l’Africano», regia di Carmine Gallone. Questa scena (qui sotto) mostra tre ambasciatori romani al cospetto del Senato cartaginese». Si veda anche: «La Domenica del Corriere», Anno XXXVIII, n. 44, 1 Novembre 1936, A.XV, «Tra le quinte del Cinema. Come nasce un colosso». Pro Famiglia, Rivista mensile settimanale illustrato, Milano 8 ottobre 1935, pag. 616 – Panorama del Festival Cinematografico, di Mario Milano, foto di scema di Passaporto Rosso: “Inaugurata il 10 agosto da Sua Eccellenza Galeazzo Ciano, la terza Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ha aperto le porte a tutte le nazioni del mondo, mettendo in palio le due coppe del Duce (rispettivamente assegnabili al miglior film italiano e al miglior film straniero) e numerosi altri premi. L’Italia ha partecipato con sei produzioni a soggetto e sette documentarie. Casta diva, Scarpe al sole, Passaporto rosso, Darò un milione, freccia d’oro, Amore, sei produzioni italiane a soggetto realizzate sotto la nuova atmosfera controllatrice della Direzione Generale della Cinematografia; hanno finalmente recato la parola nuova, fortemente espressiva, del nostro cinematografo, presentandosi in una veste artistica assai decorosa e spesso eccellente”. 1935 Aldebaran, di Alessandro Blasetti. Pr.: Manenti Film - r.: Alessandro Blasetti - s.: Corrado D’Errico, Giuseppe Zucca - sc.: Giuseppe Zucca, Alessandro Blasetti f.: con Arata ci sono anche Massimo Terzano e Carlo Montuori - scg.: Guido Fiorini e Giulio Lombardozzi - musica: Umberto Mancini - mo.: Ignazio Ferronetti e Alessandro Blasetti - fo.: Giovanni Paris - int.: Gino Cervi (Corrado Valeri), Eva Maltagliati (Anna Weiss, sua moglie), Gianfranco Giachetti (contrammiraglio Claudio Valeri), Egisto Olivieri (comandante del vascello Stefano Devon), Elisa Cegani (qui col nome di Elisa Sandri, nel ruolo di Nora Bandi), Gian Paolo Rosmini (Luigi Bandi), Ugo Ceseri (il nostromo Bertani), Franco Coop (capo furiere Gennarino), Umberto Sacripante (l’attendente Fortunato Stella), Vittorio Vaser (Rocchi), Doris Duranti (Mirella, un’amica di Anna), Rosina Anselmi (Orsolina), Gemma Bolognesi (Giuditta), Ermanno Roveri (Solinas), Piero Pastore (il marinaio chiamato “Manica a vento”), Aristide Garbini (vice-nostromo), Tatiana Pavoni (Carla Valeri), Vasco Creti (il comandante del “Titano”), Franco Brambilla (un ragazzo), Mario Steni (il tenente Silich), Luigi Pavese (il corteggiatore di Nora), Sina Romano (la madre di Fortunato Stella), Romolo Costa (il fratello di Anna), Graziella Betti (Elsa), Alessandro Blasetti (un radiotelegrafista), Silva Melandri, Giotto Tempestini, Aldo Frosi, Dino cardinali, Umberto Bompani, Vittoria Carpi, Olga Sandri, Alberto Cinquini, Enzo Di Felice, Carlo Chertier, Ida Mazzera. Lunghezza m. 2726. La trama: «Una moglie frivola e borghese sta per compromettere la carriera di un ufficiale di Marina, figlio di un contrammiraglio della riserva. Una pericolosa missione richiama il comandante al senso del dovere, e la moglie ai suoi compiti di sposa». Dalla critica: «Nobile e ispirata pellicola, che sa alternare con tanta arte la commozione alla comicità». Nelle ultime scene, «Blasetti trova gli accenti più commossi e il tono più elevato. C’è una “carellata” nel sottomarino affondato, che scopre la straziante e fierissima morte degli eroi inchiodati per sempre ai posti del loro dovere, che è uno dei pezzi più cinematografici dei nostri tempi». Dino Falconi, «Popolo d’Italia», 30 novembre 1935. Bibliografia: Anonimo, racconto dal film, in «Cinema Illustrazione», 23 ottobre 1935 (con 5 foto) e 30 ottobre 1935 (con 3 foto). Mario Gromo, in «La Stampa», 30 novembre 1935; Filippo Sacchi, recensione, in «Corriere delle Sera», 30 novembre 1935; Enrico Roma, recensione, in «Cinema Illustrazione», 18 dicembre 1935 («Aldebaran è il massimo sforzo industriale compiuto dalla nuova cinematografia italiana, il più palese segno delle attuali direttive»); anonimo, «Aldebaran», racconto dal film (serie «I grandi romanzi illustrati», n. 55), ed. Taurinia, Torino, 1936; Cesare Vico Lodovici, «Un processo per Aldebaran», in «Lo Schermo», febbraio 1936 (Guido Milanesi accusa di plagio il film, convenendo in giudizio la manenti Film e la M.G.M.); Candido, recensione, in «Cinema», 10 maggio 1937; Arpagone, contro-recensione, in «Cinema», 10 maggio 1937. Pellicola realizzata con la collaborazione della Regia Marina Militare italiana e coll’assistenza navale del capitano di fregata Franco Garofalo. Il film segna il debutto di Elisa Cegani. E’ l’ultimo film realizzato alla Cines i cui teatri di posa sono distrutti da un violento incendio divampato misteriosamente nella notte del 26 settembre 1935. L’incendio, a quante pare di origine dolosa, si rivela quanto mai propizio addirittura per il proprietario degli stabilimenti andati in fumo, il costruttore Carlo Roncoroni che, anzichè versare lacrime sulle ceneri della Cines, acquistata dall’IRI, di lì a poco, con l’aiuto del regime, avrebbe costruito il grande complesso industriale di Cinecittà. Evi Maltagliati, per parte sua: «Se ho cominciato a fare del cinema lo devo a Ubaldo Arata. I primi provini, quelli andati male, li ho girati con altri operatori. Ma il provino per «Aldebaran» l’ho fatto con lui. E Arata sapeva veramente fotografare, sapeva mettere le luci. I tre operatori con i quali mi sono trovata veramente meglio, proprio su un piano di collaborazione, sono stati Arata, Terzano e Martelli. Tre grossi operatori, che io ho avuto la fortuna di avere in più film. In «Aldebaran» ho avuto Arata e Terzano. Poi mi sono ritrovata con Terzano, Arata e Martelli in «Io, suo padre» e «Janne Doré». A un certo punto ci si conosce, ci si capisce, per cui mi guidavano anche quando recitavo. E’ molto importante questa fusione tra l’attore e l’operatore, questa collaborazione fatta di simposio, di professionismo. Arata, per esempio, era formidabile sempre, anche negli esterni; ma negli esterni era eccezionale Terzano. Trovava il modo di illuminare con una piccola luce, attraverso una foglia messa sul viso, non so: aveva delle trovate straordinarie, Terzano. Negli interni, invece, io trovavo che era molto più bravo Arata. sapeva sfruttare il viso dell’attore e renderlo veramente fotogenico. Dicevano che io non lo ero, e invece lui dimostrò il contrario. Grazie alle sue meravigliose luci». Distribuzione: Metro Goldwyn Mayer Italiana. 1935 Ginevra degli Almieri, di Guido Brignone. Pr.: Capitani-Icar - r.: Guido Brignone - s.: Guido Brignone Luigi Bonelli e Ivo Perilli da una leggenda popolare fiorentina del XV secolo - sc.: Guido Brignone, Luigi Bonelli, Ivo Perilli -scg.: Gastone Medin - cost.: Titina Rota - musica: Gian Luca Tocchi - mo.: Giuseppe Fatigati - fo.: Vittorio Trentino - int.: Elsa Merlini (Ginevra degli Almieri), Amedeo Nazzari (Antonio Rondinelli), Uberto Palmarini (padre di Ginevra), Ugo Ceseri (Francesco Agolanti), Guido Riccioli (il Burchiello), Maurizio D’Ancora (Paolino), Ermanno Roveri (Menicuccio), Tina Lattanzi (Violante), Luigi Almirante (il notaio), Mario Gallina, Carlo Duse, Olinto Cristina, Dina Berbellini, Pina Gallini, Ida Mezzera, Loris Gizzi, Vinicio Sofia, Guido Barbarisi, Nino Altieri, Pina De Angelis, Adele Garavaglia, Enzo Di Felice, Giorgio Covi, Giuseppe Pierozzi, Luigi Mottura, Nanda Primavera, Mauro Serra, Giuseppe Ricagno, Edoardo Toniolo, Pasquale Braucci, Virgilio Tomassini, Vittoria Carpi, Gusavo Conforti, Elda Maris, Doris Duranti, Giovanni Ferrari, Amedeo Vecci. Lunghezza m. 2451. Osservazioni: L’«Almanacco» scrive, erroneamente, «dalla commediola omonima di Giovacchino Forzano». I soggettisti Bonelli e Perilli, si sono invece ispirati a una «leggenda fiorentina del XV secolo». Dalla critica: «Ginevra degli Almieri è personaggio da farsa. La sua avventura quasi d’oltretomba si prestava per un film buffonesco, per una caricatura del dramma storico. L’impresa è in gran parte riuscita. Le situazioni d’infallibile effetto che l’argomento presentava, l’assieme degli interpreti tra i quali primeggia Elsa Merlini, una messinscena decorosa, hanno offerto al regista quanto di meglio si potesse desiderare. La sua Ginevra è divertente, gustosa. Forse si poteva sfruttare meglio lo spavento dei fiorentini dinanzi a colei che credono lo spettro della ragazza uccisa dall’epidemia, ricavandone altri elementi di comicità. Ma non si può chiedere troppo». (Enrico Roma in «Cinema Illustrazione», 1 gennaio 1936). Bibliografia: Anonimo, «Ginevra degli Almieri» in «Cinema Illustrazione», 11 dicembre 1935; Dino Falconi, recensione, in «Popolo d’Italia», 12 dicembre 1935; anonimo, «Ginevra degli Almieri», racconto dal film (serie «I grandi cine-romanzi illustrati», n. 36), ed. Taurinia, Torino 1935; Aldo Vergano, «Parla Aldo Vergano, eminenza grigia di Ginevra degli Almieri», in «Cinema Illustrazione», 1 gennaio 1936. Frase di lancio: «Una pittoresca ricostruzione ambientale, una comicità soffusa di sentimento». 1936 L’Anonima Rylott poi Gli avvoltoi della metropoli, di Raffaello Matarazzo. Pr.: Fiorda & C. - r.: Raffaello Matarazzo - s.: dalla commedia gialla di Guglielmo Giannini “Anonima fratelli Rylott” (1936) sc.: Gugliemo Giannini . f.: con Arata c’è anche Mssimo Terzano - scg.: Antonio Tagliolini, Giulio Lombardozzi - musica: Nuccio Fiorda - mo.: Marcello Caccialupi e R. Matarazzo - fo.: Vittorio Trentino - int.: Camillo Pilotto (avv. George Evans), Romano Calò (ispett. Dean McKay), Giulio Donadio (ing. Rogers), Isa Pola (Helena Roylott), Mino Doro (ing. Georg Harris), Italo Pirani (Joe Roylott), Carlo Lombardi (Erich Roylott), Alfredo De Antoni (direttore amministrativo Peters), Emma Baron (sua moglie), Olga Solbelli (Anna), Paolo Stoppa (usciere Giovanni De Paolis), Giovanni Confort (ing. Dixon), Cesarina Gheraldi (Clara, la segretaria di Evans), Mario Ferrari (colonnello James Stark, capo della polizia), Aldo Pierantoni (Seymour), Corrado Annicelli (Morris), Beatrice Mancini (la telefonista), Zoe Incrocci, Zole Lunghetti, Nietta Zocchi, Clelia Bernacchi, Norma Nova (la dattilografa della ditta), Gina Sammarco, Mauro Serra, Anna Vestri, De Ambrosis. 1936 Re di denari, di Enrico Guazzoni. Pr.: Capitani Film - r.: Enrico Guazzoni - s.: dalla commedia “I Don”di Pippo (Filippo) Marchese - sc.: Guglielmo Giannini e Sandro De Feo (non accreditato) - scg.: Guido Rappini, Enrico Guazzoni (non accreditato) - musica: Ezio Carabella - mo.: Ferdinando M. Poggioli - fo.: Hans Bittmann - int.: Angelo Musco (Don Paolo Marino), Rosina Anselmi (Grazia Marino, sua sorella), Mario Ferrari (conte Fabrizio di Grottaferrata), Maria Denis (Lola), Nerio Bernardi (avv. Lorenzi), Vanna Vanni (contessina Paolina Raspaglietti), Mario Pisu (Franco Marino), Ermanno Roveri (Totò), Stefanella Ponti (la piccola Maria), Nicola Maldacea (il maggiordomo), Ciro Galvani (Don Valerio Raspaglietti), Albertina Bianchini (donna Bice, sua sorella), Gino Viotti (avv. Gaetano Marzanò), Rocco D’Assunta (Don Cola, il sensale), Aristide Garbini (Don Romolo, il padrone della pensione), Renato Malvasi (un cameriere dell’albergo “Quirinale”), Carlo Buti (il cantante), Gustavo Serena, Amelia Amorosi, Rosina Adrario, Vittoria Carpi, Alfredo Fiorentini, Antimo Reyneri, Amedeo Vecci. Lunghezza m. 2447. Trama: «Un ricco possidente siciliano è chiamato d’urgenza a Roma, dove il nipote, studente, è in carcere per corruzione di minore. La minore è figlia di uno spocchioso aristocratico, che intende sì celebrare le nozze riparatrici, ma per disfarsi, poi, del genero. L’agricoltore paga gl’ingenti debiti del patrizio, lo conquista all’idea d’un matrimonio non formale, e torna al suo paese». Osservazioni: Vanna Pegna, poi Vanna Vanni. Titolo provvisorio: «Re di danari». Dalla critica: Nel film «cavato da una commedia del repertorio di Musco», l’attore «è trattato nel solito modo e senza nessuno sforzo di dargli uno stile, me è naturalmente il solito mattatore dell’ilarità e quasi tutte le sue battute toccano il segno. (...) Il film è un po’ lungo, e se qua e là sfrondasse di certe sovrabbondanti inclusioni turistiche e mondane, (per es. la festa nel ristorante notturno) guadagnerebbe». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 9 ottobre 1936. Bibliografia: Anonimo, «Re di denari», (è La trama del film), in «Cinema illustrazione», 29 luglio 1936 (con 5 foto); anonimo, «Re di denari», racconto dal film (serie «I grandi cineromanzi illustrati», n. 143), ed. Taurinia, Torino, 1936. 1936 Lo smemorato, di Gennaro Righelli. Pr.: Capitani-Icar - r.: Gennaro Righelli - s.: dalla commedia omon. di Emilio Caglieri sc.: Sandro De Feo, Ivo Perilli ad. e rid.: Guglielmo Giannini - scg. e arr.: Mario Rappini - musica: Armando Fragna - mo.: Fernando Tropea - fo.: Ovidio Del Grande - int.: Angelo Musco (Domenico Mondini), Pina Renzi (Amelia, sua moglie), Amelia Chellini (Agata sua suocera), Luisa Ferida (Giulietta), Paola Borboni (Erminia Nardelli - Buzzi), Franco Coop (Salvatore l’amministratore), Wanda Buratti (Josette), Checco Durante (l’allenatore Marinoni), Loris Gizzi (Mario Tiana), Mario Delli Colli (Nello Salucci), Lilla Brignone (una sposina al “Club delle Ondine”), Nietta Zocchi (Zelinda), Eva Magni (la nipote di Erminia), Virgilio Botti (Giacomozzi), Giulio Alfieri (Cirillo il presidente onorario), Amalia Amorosi (la presidentessa), Luigi Ermi D’Olivo (il medico), Ugo Sasso (un atleta), Vittoria Carpi (una invitata al pranzo), il pugile Vittorio Tamagnini (se stesso). Lunghezza m. 2232. La trama: «Un uomo, oppresso da una famiglia impossibile, si allontana da casa e s’imbatte in una ricca ed eccentrica vedova che riconosce in lui il proprio marito scomparso. Dopo aver secondato il giuoco, l’uomo torna a casa, ma non per questo rinuncia al suo ruolo fittizio, così spadroneggiando sui famigliari attoniti». DalLa critica: «C’è da ridere sovente. e poichè il film non si propone altro, sarebbe ingiusta pedanteria il pretendere di più». Del resto «anche se La trama seguita ad essere emi- nentemente farsesca», gli «episodi esilaranti si susseguono con una certa scioltezza e la loro teatralità non è eccessivamente caricata. (...) Angelo Musco è spassosissimo nelle sue rassegnazioni, nei suoi intenerimenti, nelle sue paure e nelle sue simulate pazzie, sempre sorrette dal suo estro balzano». Dino Falconi, in «Popolo d’Italia», 8 novembre 1936). 1936 Una donna tra due mondi, di Goffredo Alessandrini. Pr.: Astra Film - r.: Goffredo Alessandrini - s.: dal romanzo “Die Weisse Frau des Maharadscha” di Ludwig von Wohl: diFerruccio Biancini: Umberto Scarpelli dal romanzo «Die weisse Frau de Maharadscha» - sc.: Corrado Alvaro - scg.: Hans J. Lendersteger mucica: Franz Grothe - mo.: Fernando Tropea - mo.: Hans Bittmann - int.: Isa Miranda (Mira Salviati), Giulio Donadio (il maharajah Suraj), Vasa Prihoda (il violinista Stefan Polgar), Mario Ferrari (il dottor Lawburn), Assia Noris (Daisy Atkins), Ernesto Sabbatini (Lord Winston), Olinto Cristina (Trenchman), Oreste Bilancia (Nando Angeli), Tatiana Pavoni (Mimì, la cameriera), Carlo Petrangeli (Saverio Lancia), Celeste Almieri Calza, Corrado Alvaro, Angelo Bizzarri, Luigi Erminio D’Olivo, Renato Malvasi, Giuseppe Ricagno, Mauro Serra, Gino Viotti, Vinicio Sofia. «Die Liebe des Maharadscha» - pr.: Baviera Film - Astra Film - r.: Arthur Mari Rabenalt - sc.: Georg C. Klaren, Corrado Alvaro - int.: Isa Miranda (Mira Salviati), Gustav Diessl (il maharajah Suraj), Vasa Prihoda (il violinista Stefan Polgar), Attila Horbiger (il dottor Lawburn), Hilde von Stolz (Daisy Atkins), Anton Pointner (Lord Winston), Rudolf Carl, Mihail Xantho, Marjan Lex, Hans Loibner, Robert Valberg. Lunghezza m. 2256. La trama: «Corte insistente d’un maragià a una pianista europea, la quale gli ricorda una donna amata in precedenza. La pianista, dopo molte esitazioni, gli cede, ma poi lo pianta per tornare dal violinista, oggetto dei suoi veri sentimenti, teneramente corrisposti». Osservazioni: Del film, girato a Roma negli stabilimenti Cines, fu realizzata anche una versione tedesca (Die Liebe des Maharadscha), edita in Germania nel 1936, sceneggiata da Georg C. Kalren e da Alvaro, e interpretata da Isa Miranda, Hilde von Stolz, Gustav Diessl, Vasa Prihoda, Attila Horbiger, Anton Pointner. Dalla critica: «Il film nella prima parte è ben condotto, con un’abile graduazione nell’impianto dei tipi e degli episodi risveglia interesse e sospensione: nella seconda drammaticamente si affloscia, lasciando freddo lo spettatore alla fine». Filippo Sacchi, in «Corriere della Sera», 30 ottobre 1936). Bibliografia: Anonimo «Una donna tra due mondi», racconto dal film, in «Cinema Illustrazione», 3 febbraio 1936 (con 4 foto); 12 febbraio (con 3 foto); 19 febbraio (con 5 foto); Dino Falconi, recensione, in «Popolo d’Italia», 30 ottobre 1936. 1937 Scipione l’Africano, di Carmine Gallone. Pr.: Consorzio Scipione - E.N.I.C. - r.: Carmine Gallone - s. e sc.: Carmine Gallone, Camillo Mariani dell’Anguillara, Sebastiano A. Luciani - f.: con Arata ci sono anche Anchise Brizzi e non accreditato Mario Craveri - scg. e cost.: Pietro Aschieri assistito da Maria De Matteis (per i costumi) - musica: IIdebrando Pizzetti - mo.: Osvaldo Hafenrichter - fo.: Vittorio Trentino - int.: Annibale Ninchi (Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano), Carlo Lombardi (Lucio, suo fratello), Carlo Ninchi (Lelio, suo luogotenente), Fosco Giachetti (Massinissa, re dei Numidi e alleato dei Romani), Diana Lante (la moglie di Scipione), Camillo Pilotto (Annibale, comandante dei cartaginesi), Raimondo Van Riel (Maharbake, suo logotenente), Lamberto Picasso (Asdrubale, fratello di Annibale), Marcello Giorda (Siface, alleato dei cataginesi), Francesca Braggiotti (Sofonisba figlia di Asdrubale e moglie di Siface), Memo Benassi (Catone), Isa Miranda (Velia, patrizia romana), Marcello Spada (Arunte, suo fidanzato), Ciro Galvani (Quinto Fabio Massimo), il piccolo Alberto De Martino (il figlioletto di Scipione), Guglielmo Barnabò (il centurione Furio), Franco Coop (il centurione Mezio), Piero Carnabuci (il reduce della battaglia di Canne), Achille Majeroni (un principe del Senato), Carlo Tamberlani (un ambasciatore romano), Gino Viotti (un mercante fenicio), Clara Padoa (la schiava di Sofonisba), Mario Gallina (un ambasciatore cartaginese), Ugo Sasso (ufficiale cartaginese che rapisce Velia), Olinto Cristina (un’altro ambasciatore cartaginese), Arata con il Duce durante le riprese di Scipione l’Africano Fernando Solieri (un anziano cartaginese), Carlo Duse (il messo di Magone), Franco Brambilla (un ragazzo romano), Antonietta Stefanini (la futura Antonella Steni - nel ruolo di una bambina di undici anni), Enzo Biliotti, Bruno Calabretta, Alberto Campi, Gustavo Conforti, Giorgio Covi, Federico De Martino, Cesare Gambarelli, Walter Lazzaro, Guglielmo Longo, Giorgio Marcello, Otello Polini, Albino Principe, Gennaro Sabatano, Carlo Simoneschi, Ernesto Torri, Amedeo Vecci, Vittorio Vaser, Franca Vella, Carla Zaccaria, Armando Zuccarli, Rosina Adrario, Vittorio Capanni, Nino Altieri, Ruggero Angeletti, Sandro Bianchi, Antimo Reyneri, Alberto Sordi (un soldato romano), Massimo Serato (un soldato romano che lancia giavellotti contro gli elefanti). Dati integrativi: lunghezza m. 3274. Arredamento Ivo Battelli. Dalla critica: «Nelle intenzioni e nella materia, un film d’ispirazione imperiale. E non soltanto perché, nei confessati propositi dei suoi autori, il film vuol esprimere, attraverso un lontano parallelismo di eventi e di ideali, una fatalità per la quale dopo più di duemila anni l’Africa ridiventa la chiave di un nuovo Impero mediterraneo e latino. ma lo è anche perché è il film destinato a segnare la nostra reintegrazione come potenza cinematografica mondiale. Stilisticamente «Scipione l’Africano» non assomiglia in niente alle tendenze esperimentate in questi ultimi anni. Gallone, uno dei nostri maggiori direttori del muto, è l’autore (con Palermi) di quegli «Ultimi giorni di Pompei» che segnarono lo sprazzo finale della nostra cinematografia, l’ultimo colosso dopo il quale essa decadde e si spense». Egli ha perciò voluto «romperla con la formula forestiera e moderna del film storico, e tornare all’antico, tornare ciè a quei modelli popolari e nostrani che hanno fatto il nostro prestigio e la nostra forza». Molti personaggi «per quanto efficaci ai fini dell’intreccio, vanno sommersi nella collettiva complessità del quadro. Perché è la folla che è la vera e vivente comprimaria del film», anche «per il suo schiacciante numero (fino a 7000 persone impiegate). E’ essa che Gallone si sforza di affrescare nei suoi aspetti più monumentali e nei suoi toni più popolareschi, e quando il grande dramma giunge alla crisi finale, è ad essa, come espressione intera della razza, che è affidata la risoluzione. Si viene così al pezzo della battaglia, una battaglia di Zama ricostruita integralmente», col «lungo episodio degli elefanti magistralmente svolto». Filippo Sacchi, recensione dalla Mostra di Venezia, in «Corriere della Sera», 26 agosto 1937. Mentre nei dintorni di Sabaudia si svolgono gli ultimi giri di manovella di «Scipione l’Africano», al Quadraro, a pochi chilometri da Porta San Giovanni, si danno gli ultimi ritocchi a Cinecittà. Inaugurata dal Duce in persona il 28 aprile 1937, essa, scrive QUIVIS in «Vita e miracoli di Cinecittà», «Le Vie d’Italia», dicembre 1938: «...si espande oggi, coi suoi edifici e i suoi giardini, su un’area di circa centoventimila metri quadrati, ha a propria disposizione altri quattrocentomila metri quadrati di terreno e possiede dieci teatri di posa. Continuando a girare per la città troveremo le officine, i laboratori, i magazzini, i locali della mensa...» e via con un’altra sequela di dati e notazioni che esaltano questa nostra Hollywood casareccia: «...in diciotto mesi fino ad oggi» continua Quivis «sono stati eseguiti cinquanta film, dei quali dieci in doppia versione. Il primo, girato in presenza del Duce è stato «Luciano Serra Pilota». Uno dei film sull’arma prediletta del regime che ottenne un enorme successo popolare grazie ad Amedeo Nazzari ormai all’apice della carriera di attore. 1938 Luciano Serra pilota, di Goffredo Alessandrini. Pr.: Aquila Film - r.: Goffredo Alessandrini supervisione r.: Vittorio Mussolini - s.: Francesco Masoero, Goffredo Alessandrini - ad.: Ivo Perilli, Fulvio Palmieri - sc.: Goffredo Alessandrini, Roberto Rossellini - dial. Cesare Giulio Viola - f.: con Arata anche Crescenzo Gentili e Mario Craveri (non accreditato) per le riprese aeree - scg.: Gastone Medin - musica: Giulio Cesare Sonzogno mo.: Giorgio C. Simonelli - fo.: Bruno Brunacci - int.: Amedeo Nazzari (Luciano Serra), Germana Paolieri (Sandra Serra), Roberto Villa (Aldo Serra) Gino Mori (Aldo bambino), Mario Ferrari (colonnello Franco Morelli), Egisto Olivieri (Nardini, suocero di Luciano Serra), Guglielmo Sinaz (José Ribera), Andrea Checchi (tenente Binelli), Felice Romano (Mario, il meccanico), Oscar Andriani (Il cappellano militare), Olivia Fried (Dorothy Thompson), Nico Pepe (il conte), Felice Minotti (Andrea), Beatrice Mancini (la fidanzata di Aldo), Franco Caruso (un pilota), Silvio Bagolini (un socio del circolo), Nicola Maldacea (un altro socio del circolo), Elena Altieri, Gemma Bolognesi, Manlio Calindri, Corrado De Cenzo, Fedele Gentile, Lina Tartara Minora, Fernando Crucciati, Rosina Adrario, Gino Baghetti, Gennaro Sabatano, Sergio Pastorini, Ernesto Torrini. Il film è stato girato negli stabilimenti di Cinecittà». La trama: «Luciano Serra reduce della prima guerra mondiale in cui era stato pilota; ora porta in giro i turisti sul Lago Maggiore su di un vecchio idrovolante. Sono finiti i tempi epici, ma la moglie non gli perdona di aver scelto un vita di stenti invece di accettare per il figlio un ricco impiego nelle filande del suocero. Così la moglie e il figlio vanno a vivere col padre di lei, mentre Luciano Serra tenta ancora l’avventura e si reca in America su invito di un costruttore americano anche se le peripezie non sono finite. Scontento dell’emigrazione in Sud America dove viene beffeggiato e sfruttato per anni, felice invece di salvare il figlio e più ancora di esaltare sacrificandosi, le «gesta africane» che hanno portato all’Impero». Dalla critica: «Il film rivela alcuni difetti specie nella prima parte, un po’ scialba nella descrizione dei caratteri e dell’ambiente, e forse non del tutto intonata rispetto al colre del tempo, tanto che subito non si ha la sensazione del dopoguerra». Esso è «tuttavia pieno di ottime qualità, ricco di colore e di scioltezza. Lo svolgimento delle scene sudamericane ha rivelato negli autori una fantasia e uno stile che la nostra cinematografia non aveva mai lasciato sperare». Soprattutto le scene «impetuose della battaglia suggeriscono quale potrebbe essere una soluzione decorosa ed efficace riguardo alle possibilità del cinema italiano, tuttora incerto sulla via da seguire per migliorare il proprio stile e, di conseguenza, quello degli attori. E’ da augurarsi, dunque, che il saggio felice offerto da un’opera importante come «Luciano Serra», non resti lettera morta». Gino Visentini, in «Cinema», 10 novembre 1938. Bibliografia: Goffredo Alessandrini, «13.000 Km. di preparazione a Luciano Serra pilota», in «Cinema», 25 giugno 1937; Mino Doletti, «Si gira “Luciano Serra” in Etiopia» in «Film», 29 gennaio 1938; Mino Doletti, «Esterni in Etiopia», in «Film», 5 febbraio 1938; «Come abbiamo fatto “Luciano Serra pilota”», (testimonianze di Vittorio Mussolini, Franco Riganti, Amedeo Nazzari, Goffredo Alessandrini, Mario Ferrari, Ubaldo Arata, Giorgio C. Simonelli, Roberto Villa, G.C. Sonzogno, Germana Paolieri, Luigi Giacosi), in «Film», 6 agosto 1938; Alberto Consiglio «Un grande film», in «Film», 27 agosto 1938; Mino Doletti, «Hanno vinto i giovani» in «Film», 27 agosto 1938. Premiato alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nel 1938 insieme al film «Olympia» (sulle opimpiadi di Berlino) di Leni Riefensstahl, detta la «Ninfa Egeria» del Fuhrer (ex equo per i migliori film) Coppa Mussolini. «Luciano Serra pilota fu uno dei film del regime che acquistarono maggior popolarità anche in virtù dell’interprete Amedeo Nazzari, allora all’apice della fama. Il supervisore del film fu Vittorio Mussolini, figlio di Benito che coltivava grande passione per l’arte del cinema e si era messo in testa a Cinecittà di emulare gli splendori di Hollywood. Nostalgie, il richiamo agli ideali, al sentimento del rischio e alla continuità generazionale sono alcuni degli elementi che hanno fatto di quest’opera uno dei successi mastodontici degli Anni Trenta. Non c’era solo Nazzari a richiamar le folle ma anche il giovane Roberto Villa che si conquistò con la sua faccia di bravo ragazzo le simpatie del pubblico soprattutto quello femminile. Su: «L’Illustrazione Italiana», Anno LXV, n. 35, 28 Agosto 1938, rubrica, «Sullo schermo del Lido» si nota «...un’istantanea presa durante la lavorazione del film italiano «Luciano Serra pilota» (Aquila-Generalcine) del quale è stato supervisore Vittorio Mussolini. Qui si vedono il protagonista che è l’attore Amedeo Nazzari, e il regista Alessandrini, assieme a un gruppo di ufficiali aviatori». Su: «L’Illustrazione Italiana», Anno LXV, n. 36, 4 Settembre 1938, pagg.337-338: Ariele, «Lettere veneziane - Il tribunale sulla spiaggia», parlando del film «Luciano Serra pilota», dice: «Anche di questo film, dove alle quattro principali energie collaboratrici - e cioè di Alessandrini, regista; di Arata operatore; di Amedeo Nazzari, interprete, di Vittorio Mussolini, supervisore - tante altre forze si sono aggiunte, tutte giovani e schiette, e tutte animate e concordi, a formare la vivida, la vera, l’irresistibile allegoria del volo e dell’ardimento italiano: giustamente tutta la stampa, dopo il pubblico, ha potuto vantare la purità, oltre che l’efficacia dei mezzi a raggiungere l’ottenuto, ardentissimo successo...». Nel 1938 Ubaldo Arata inizia a lavorare per la «Scalera Film», dei fratelli Antonio e Salvatore Scalera, approdati alla decima musa dopo essersi arricchiti come costruttori della litoranea libica. Gli speculatori fiutano l’affare e comprendono come grazie all’autarchia filmistica gli Italiani che vogliono andare al cinema saranno costretti a vedere le loro pellicole. Sotto tale insegna Arata gira una decina di lungometraggi che lo tengono occupato anche durante lo svolgimento del secondo conflitto mondiale. Sfilano di fronte a l’obiettivo di Arata gli attori più affermati e popolari del cinema nazionale: Emma Gramatica, Ruggero Ruggeri, Ermete Zacconi, Isa Pola, Oreste Bilancia, Erminio Spalla, ecc. 1938 Janne Doré, di Mario Bonnard Pr.: Scalera Film - r.: Mario Bonnard - s.: dal dramma omon. di Tristan Bernard - rid.: Tomaso Smith - sc.: Mario Bonnard e non accreditati Ivo Perilli e Amedeo Castellazzi f.: con Arata anche Otello Martelli - scg. arr. e cost.: Carlo Enrico Rava - musica: Giuseppe Mulé - mo.: Gabriele Varriale - fo.: Victor Wilson, Boris Muller - int.: Emma Gramatica (Janne Doré), Leonardo Cortese (Jacques Doré), Evi Maltagliati (Fanny), Sergio Tofano (Fanard), Margherita Bagni (signora Fanard), Lamberto Picasso (Michaud), Filippo Scelzo (Perodot), Guido Celano (avv. Charles), Aldo Rubens (l’ufficiale), Ruggero Capodaglio (segretario di Perodot), Giorgio Capecchi (Pubblico Ministero), Armando Migliari (Rozan), Cesare Zoppetti (presidente del Tribunale), Carola Lotti (una signora), Oreste Bilancia, Anna Capodaglio, Adelmo Cocco, Licia D’Alba, Aldo Fiorelli, Maria Pia Fonzi, Claudia Marti, Renato Nardi, Vittorio Ripamonti, Armando Rossini, Lina Tartara Minora, Maria Della Lunga Maldarelli, la Backmann e in due brevi ruoli non accreditati, Elena Zareschi e Mariella Lotti. Lunghezza m. 2482. La trama: «Un giovane, che ha una relazione con la moglie di un giornalista, oppressa dai debiti, chiede aiuto ad un grasso borghese, il quale, non pago di rifiutare il denaro, insulta la donna. Al giovane che, esasperato, lo uccide vengono comminati 20 anni di deportazione. Chiede di poter salutare la donna, ma questa, temendo lo scandalo, evita l’incontro. E allora la madre di lui, nell’oscurità del parlatorio, a prendere il suo posto, e , spacciandosi per la donna, a promettere al recluso eterno amore». Osservazioni: Per la sceneggiatura, l’«Almanacco» aggiunge, a quello di Bonnard, i nomi Ivo Perilli e Amedeo Castellazzi. Il riduttore Tommaso Fabbri è Tomaso Smith, che il trasparente pseudonimo adotta per motivi politici. Dalla critica: «Per più giorni, i muri di Roma apparivano coperti di grndi avvisi pubblicitari che annuciavano il primo film di una grossa società cinematografica italiana (la Scalera). Un sincero interesse la prima parte del film riesce a destarlo. Bonnard, in alcuni momenti, fa pensare a un regista d’un certo stile, e ad uno sceneggiatore abile e sicuro. L’azione, i dialoghi si svolgono all’inizio con andamento drammatico e chiuso, non privo d’una proprietà insolita nella nostra produzione. Ma i guai cominciano quando il racconto giunge al suo momento culminante: perché allora Emma Gramatica si mette a urlare, a barcollare, a spettinarsi. E tralasciamo di dire che cosa riesce a fare il dolore materno di questa donna lacrimosa e insopportabile. In quella rovina è il solo nuovo attore Leonardo Cortese che rimane in piedi». Gino Visentini, in «Cinema», 25 novembre 1938. 1939 La vedova, Pr.: Scalera Film - r.: - s.: dalla commedia omon. di Renato Simoni (1906) - sc. e rid.: Tomaso Smith e non accreditato Goffredo Alessandrini - scg.: Antonio Valente - cost.: Gino C. Sensani musica: Giorgio Federico Ghedini - mo.: Giorgio C. Simonelli - fo.: Victor Wilson e Boris Muller - int.: Isa Pola (Maddalena), Leonardo Cortese (Carlo Poerio), Osvaldo Valenti (Riccardo Padovan, il pittore), Ruggero Ruggeri (ing. Alessandro Poerio), Emma Gramatica (Adelaide, sua moglie), Cesco Baseggio (Anselmo Falerio), Nicola Maldacea (Gennarino Dandolo), Cesare Zoppetti (Ogniben), Bice Parisi (donna Clementina), Emi Rai (Gemma), Anna Capodaglio (Rosa), Wanda Capodaglio (una dama al ballo), Vasco Creti (un medico), Albino Principe (Mario), Nietta Zocchi (una invitata alla festa), Lina Marengo (un’altra invitata), Lina Tartara Minora (una popolana curiosa), Giuseppina Bianchini, Antonietta Marchi, Emilia Gentilini, Enzo Pagliericci, Maria Pia Fonzi, Giulio Massarotti. Lunghezza m. 2640. La trama: «Una giovane vedova si presenta in casa dei genitori del marito, bene accolta dall’uomo, non così dalla donna, cui sembra ingiusto dividere con un’estranea il proprio dolore. Anni dopo, la vedova si innamora di un pittore, ma esita al pensiero di abbandonare i suoceri. E, ora, la madre ad incoraggiarla: solo così essa potrà riavere, tutto suo, il ricordo del figlio». Osservazioni: Tommaso Fabbri è, al solito, lo pseudonimo di Tomaso Smith, inviso al regime, Argentieri-Vento aggiungono al cast i nomi di Emil Rai e Anna Capodaglio. DalLa critica: «Ottima regia, ottimi attori, ottima ricostruzione scenica. Ma non un ottimo film. La somma di questi ingredienti non sempre dà un ottimo film? Spesse volte non dà un film. Perché la staticità e la cristallizzazione della situazione, dell’interesse, dello svolgimento, immobilizzano l’attenzione dello spettatore» senza però «appassionarlo. Peccato. perché il film è sempre (diciamo sempre) a un alto livello di nobiltà ed arte. Contribuiscono a raggiungerlo la regia pacata e aristocratica di Alessandrini, il taglio e lo sfumato delle fotografie che ci riportano ai tempi dei vecchi album di famiglia e delle glorie di Nadàr, la ricostruzione degli interni e dei costumi. Ruggeri fu raramente così efficace», al cinema, come in questo film, cui la cornice di Venezia «aggiunge fascino e malinconia». Raffaele Calzini, in «Film», 11 febbraio 1939. Bibliografia: Anonimo, «Miracolo veneziano. Si gira “La vedova”», in «Film», 27 agosto 1938; anonimo, «Parla il regista» (intervista con Alessandrini), in «Film», 27 agosto 1938; anonimo, «Una commedia per il cinema», in «Film», 27 agosto 1938; anonimo, «Incontro con Renato Simoni», in «Film», 15 ottobre 1938; breve racconto dal film in «Film», 4 febbraio 1939 (con 20 foto); Filippo Sacchi, recensione, in «Corriere della Sera, 24 febbraio 1939; Gino Visentini, recensione, in «Cinema», 25 febbraio 1939; anonimo, recensione, in «Bianco e Nero», marzo 1939. Perché il pubblico che ricorda La Vedova della prima o della seconda edizione, deve esse- re preparato ad accogliere il film con tutte le modifiche imposte dalla tecnica cinematografica. La vicenda è la stessa. Lo spirito è intatto. Ma gli avvenimenti si sono sviluppati in immagini. E quel che una volta si raccontava, ora si vede. Il marito morto, per esempio... Ma procediamo con ordine e raccontiamo come qualmente La Vedova, dopo circa otto lustri, ha cambiato panni. Senza per questo cambiar l’anima, ch’è sempre quella pura, ardente e bella. La prima variante che caratterizzerà la versione cinematografica della Vedova sarà quella dell’epoca in cui si svolge la vicenda. Nella commedia essa è contemporanea. Nel film è stata fissata intorno al 1860, per dare ai personaggi la suggestione del costume. L’opera assumerà dunque un aspetto nuovo, ed avrà un maggior fascino spettacolare. Ma questa variante formale è irrilevante in confronto allo sviluppo che ha assunto La trama originale. Si ricorderà infatti che la commedia incomincia al momento in cui Maddalena ritorna vedova alla casa dei suoceri, iniziandosi da questo punto il dramma dei personaggi, legati, ciascuno a suo modo, alla memoria del morto. Nel film invece la storia incomincia dal primo nascere dell’amore fra Maddalena e Carlo, dando vita a quello che era l’antefatto della commedia. Tanto che tutto il primo tempo del film ha dovuto essere ricostruito di sana pianta. Così il film si inizierà con l’amore contrastato dei due giovani, con la loro fuga a Parigi, dove, dopo molti stenti, una vita gaia e serena li riconpensa delle molte pene. Poi la polomonite, la morte, ed il ritorno disperato di Maddalena che crede di poter trovare, in casa dei suoceri, l’asilo pietoso del suo dolore. E qui, quasi alla fine del primo tempo, ecco innestarsi la commedia, con tutti i suoi potenti contrasti: la cupa ostilità della suocera, la generosa bontà del suocero, la tenerezza dei vecchi amici che si sentono ringiovanire al calore della grazia di Maddalena, la lotta gelosa per l’esclusività della memoria del povero scomparso, il nuovo amore ed infine il distacco, tra il rimpianto e l’amarezza di tutti. Il pubblico dirà se la storia è più bella così. Tuttavia si può ritenere che Goffredo Alessadrini e Tomaso Smith, responsabili della riduzione cinematografica, in collaborazione con Cesco Baseggio, nulla abbiano trascurato per restare fedeli allo spirito dell’opera originale, anche se l’azione è stata trasportata dalla provincia veneta a Venezia, dando al film un’aria cittadina che mancava alla commedia. Quest’aria però è rimasta intima, raccolta, come si doveva, avendo raggruppato le scene in un solo sestiere, tra il Rio di San Trovaso e l’Abbazia della Misericordia; sicchè nulla è andato perduto della primitiva intimità nella concezione artistica del soggetto. L’obbligo di rispettare questo assunto in ogni minimo particolare, per non deviare nemmemo d’una linea le intenzioni del regista, era dell’operatore, Ubaldo Arata, e dell’architetto, Valente. E bisognava vederli qualche settimana fa a Venezia, in giro per i canali e per i campielli, alla ricerca di notazioni sulle quali ricostruire gli interni in stabilimento, e alla scoperta di scorsi e particolari atti ad inquadrare la vicenda nella voluta cornice. Così tra Dorsoduro e Torcello i luoghi della Vedova sono stati identificati, dopo tanti anni, nella nuova creazione cinematografica. Alessandrini, col suo fido aiuto Scarpelli, ne è stato un meticoloso cercatore. Per venti giorni i veneziani son rimasti estatici a guardare grandi “topi” che trasportavano da una parte all’altra della città autocarri sonori, per la registrazione del parlato, lampade che poi splendevano in pieno sole. personaggi illustri in costume più o meno ottocentesco. Poi è tornata la calma, la sognante calma della laguna mentre a Roma, oltre le mura, in vista dell’Appia, risorgeva in cartapesta quanto ancora occorreva di veneziano alla realizzazione del film. Ed oggi, nel cortile dello stabilimento, trasformato bellamente in un angolo di quei maravigliosi giardini che s’affacciano timidamente sul Canal Grande, abbiamo visto girare una delle scene più intime: quella in cui il vecchio Alessandro dice alla nuora che la casa antica non potrà più fare a meno di lei. Splendeva il sole, in questo ottobre eccezionale, e durante le innumeri prove si alzava uno schermo a difendere dalla calura Ruggero Ruggeri ed Isa Pola, immobili nella posizione fissata da più di due ore. Quando poi si girava, cadeva lo schermo e s’accendevano cinque lampade colossali, quindicimila watt complessivamente, per rafforzare la luce del sole. Intanto le dolci parole del dialogo originale di Renato Simoni si ripetevano due tre cinque sette volte, sino ad avere il punto giusto dell’espressione, dell’intonazione. Un lavoro di ricamo, di cesello, di miniatura sulla parola dei due attori». G.V. Sampieri, «Dal teatro al cimema “La Vedova”», in «La Domenica del Corriere», Anno 40, N.45, 30 Ottobre - 5 Novembre 1938, pag.11. 1939 Processo e morte di Socrate, di Corrado d’Errico. Pr.: Scalera Film - r.: Corrado d’Errico - s.: da “I dialoghi” di Platone - ad. e sc.: Corrado D’Errico - scg.: Alfredo Manzi - musica: Giuseppe Mulé - mo.: Eraldo da Roma - fo.: Pietro Cavazzuti - int.: Ermete Zacconi (Socrate), Rossano Brazzi (Simmia), Filippo Scelzo (Cebete), Alfredo De Sanctis (Critone), Olga Vittoria Gentilli (Santippe), Luigi Almirante (il cerusico che prepara la cicuta), Alfredo Robert (l’anziano compagno di Socrate), Aldo Fiorelli (Fedone), Mario Brizzolari (l’accusatore), Nerio Bernardi (il giudice), Ferruccio Stagni (Eutifrone), Ermete Tamberlani (Meleto), Lina Marengo (una donna al processo), Mario Mercanti, Albino Principe, Amedeo Vecci, Maria Vivaldi, Di Falco. Lunghezza m. 3000. Girato negli studi Scalera. Titolo provvisorio: «I dialoghi di Platone». Da: Riccardo Freda, «Divoratori di celluloide - 50 anni di memorie cinematografiche e non», Emme Edizioni, Milano 1981, pag. 27 - 28: «Il fascismo non arrivò mai allo sconcio nepotismo che oggi contraddistingue l’attuale «cinematografia di stato», cioè la televisione, che è solita affidare miliardi a registi di indubbia mediocrità. Non esistevano casi, che io ricordi, per cui ingenti capitali dovessero essere messi a disposizione di un regista in quanto «marcia su Roma» o squadrista. E se capitò che venisse affidata una regia a un tizio perché amico di Ciano o che so io, il tizio in questione doveva sempre varare il suo progetto basandolo per lo meno su un attore di grande rinomanza. E fu questo il caso di un certo Corrado D’Errico che riuscì a metter su un «Processo e morte di Socrate», trat- to dal «Fedone», che Ermete Zacconi, il santone per eccellenza, recitava in teatro. Il film fu realizzato alla Scalera. Si doveva girare la prima inquadratura: si trattava in sostanza di un lungo monologo di Zacconi - Socrate rivolto agli allievi. Il regista D’Errico si accostò al vegliardo e gli spiegò cche quella prima inquadratura era un totale della scena: Socrate seduto in mezzo agli allievi che dava inizio al suo discorso. D’Errico spiegò a zacconi, indicandogli il copione, che lui doveva in sostanza dire solo le prime venti parole del discorso: si sarebbe poi passati ai mezzi primi piani, poi ai primi piani alternati con i primi piani e i mezzi totali degli allievi in ascolto, per continuare sul discorso. Zacconi lo ascoltava scuotendo la testa infastidito. Poi, bruscamente, interruppe il regista e, con quel suo vocione un po’ tremolante ma poderoso, fece capire, all’allibito D’Errico che lui non intendeva sottomettersi alla schiavitù della tecnica cinematografica e che ogni volta, ogni volta, lui avrebbe recitato il discorso per intero. D’Errico capì che era inutile insistere e dette le opportune disposizioni. Dato il motore e raggiunto da Zacconi il punto del discorso - era l’inizio, come ho detto - che a lui interessava, il regista in punta di piedi, seguito da gran parte della troupe, si avviò al bar del teatro, dove doveva raggiungerlo la segretaria di edizione non appena Zacconi avesse consumato le trenta e più pagine del copione. Naturalmente anche la macchina da presa veniva arrestata al punto stabilito. E così fu per tutto il film. D’Errico faceva «partire» Zacconi sempre dall’inizio, e lo raggiungeva poi sul set, facendo contemporaneamente partire la macchina da presa solo quando il vegliardo aveva «raggiunto» la battuta dell’inquadratura prefissata. Per poi, girata la battuta, riallon- tanarsi dal teatro lasciando Zacconi tuonare a vuoto fino alla fine». 1939 Ultima giovinezza, di Jeff Musso Pr.: Scalera Film - r.: Jeff Musso e Marcello Albani - s.: dal romanzo «Mister Gilhooley» di Liam O’Flaherty (1936) -sc.: Jeff Musso, Maria Basaglia - scg.: Pierre Schild - musica: Giuseppe Mulé - mo.: Eraldo da Roma - fo.: Giuseppe Caracciolo - int.: Raimu (Cesare), Jaqueline Delubac (Marcella), Pierre Brasseur (Frossard), Alice Tissot (la padrona della pensione), Hélèna Manson (Maria), Jean Brochard (il proprietario del ristornte), René Génin (il proprietario della pensione), Felicien Tramel (Derange), Armand Larcher (amico di Frossard), Anita Farra (Jeannette), Elena Zareschi (Yvonne), Guido Celano (Reynaud), Maupi (la Puce, il jockey), Fedele Gentile (Michele), Nicola Maldacea (proprietario del caffè), Ermete Tamberlani, Otello Toso. «Dernière jeunesse» - pr.: Scalera Film - r.: Jeff Musso - sc.: Liam O’Flaherty - int.: Raimu (nell’edizione francese Georges anziché Cesare), Jaqueline Delubac (Marcelle), Pierre Brasseur (Frossard), Alice Tissot (la padrona della pensione), Hélèna Manson (Marie), Jean Brochard (il proprietario del ristornte), René Génin (il proprietario della pensione), Felicien Tramel (Derange), Armand Larcher (l’amico di Frossard), Raymone (Jeannette), Monique Joyce (Yvonne), Yves Deniaud (Reynaud), Maupi (la Puce, il jockey), River Cadet (Michelin), Palmyre Levasseur (l’affittacamere), Amy Collin (la cassiera della cre- meria), Charles Redgie (l’ubriaco), Pierre Labry (il padrone della caffetteria). Lunghezza m. 2432. Girato negli studi Scalera. La trama: «Un «pied noir» torna in Francia e accoglie nella sua casa una ragazza. Dalla compassione che ha ispirato il gesto, alla passione amorosa, il cammino è breve. Ma la ragazza ama un giovane, e l’uomo, ingelosito, tenta invano di ucciderlo. Ebbene, la reazione della ragazza è, più che violenta, volgare. L’uomo, angosciato, si toglie la vita». Osservazioni: «Coproduzione con la Francia. L’edizione in lingua francese (Dernière jeunesse) è presentata a Venezia nel 1939». Dalla critica: «Il film reca la firma di Jeff Musso, un giovane di curioso talento, che, come quasi tutti i registi francesi delle ultime leve, vede l’umanità molto in nero. E’ una storia lineare, diretta, angosciosa, un po’, come s’è detto, per partito preso di scuola, e molto per l’ineluttuabilità dei suoi dati», che fanno centro «su un amore senile. A Venezia sentii dire che Musso avrebbe fatto meglio a stringere di più i tempi del dramma. Forse, se lo avesse fatto, il film avrebbe guadagnato in esteriore drammaticità, ma avrebbe preduto in verità psicologica. Proprio questo è il pregio di «Ultima giovinezza»: l’osservazione è minuziosa ma quasi sempre stretta e genuina e i personaggi non sono tolti dalla convenzione ma descritti di prima mano. Il fatale progresso della passione dalla pietà, alla curiosità, all’amore, all’amorosa angoscia, non è osservato dal di fuori, ma sul personaggio stesso, il che naturalmente rallenta l’azione, ma autentica il dramma. Raimu sta magnificamente nella parte». Sandro De Feo, in «Film», 30 settembre 1939. Bibliografia: Anonimo, «Ultima giovinezza», in «Cinema Illustrazione», 14 giugno 1939 (con 5 foto); Pier Luigi Melani, recensione dalla Mostra di Venezia («Dernière jeunesse»), in «Film», 19 agosto 1939, anonimo, recensione, in «Corriere della Sera», 7 ottobre 1939; D(ino) F(alconi), recensione, in «Popolo d’Italia», 7 ottobre 1939. 1939 Rosa di sangue, di Jean Choux. Pr.: Scalera Film - r.: Jean Choux - s.: dal romanzo «Les compagnons d’Ulysse» di Pierre Benoit (1937) - ad.: Jean Georges Auriol, Jean Choux, Fabien Franchat - sc.: Maria Basaglia, Fabien Frachat - scg.: Pierre Schild, Alfredo Manzi - musica: Jacques Ibert cost.: Domenico Gaido - mo.: Eraldo da Roma - fo.: Pietro Cavazzuti, Franco Robecchi - int.: Viviane Romance (Angelica), Georges Flamant (don Manrico Ruiz detto “El Salvador”), Guillaume De Sax (Diaz), Paul Amiot (Iramundi), Monique Thiebaut (Manuela), Raymond Galle (Ramiro), Géo Bury (Salazar), Marcelle Yrven (Yacc), Oreste Bilancia, Fedele Gentile, Elodia Maresca, Emi Rai, Olga Vittoria Gentilli, Clelia Bernacchi, Camillo Apolloni, Raimondo Van Riel, Robert Favart, Robert Pizani, Ermete Tamberlani, Giuseppe Zago, Stefano Daffimà, Bruno Persa, Arlette Redon, Carlo Chertier, Yves Deniaud, Maria Pia Fonzi, Ernest Maupi, Stella Gaipo, Fernando Mochetti, Renato Nardi, Amalia Pellegrini, Regina Bianchi, Enzo De Feleice, Pierre Labry, Zara Lammari, Fernando Squinquel, Amedeo Vecci. Identica l’edizione francese, “Angelica” con i dialoghi di René Joliv. Lunghezza m. 2820 (secondo altra fonte, m. 2599). Girato negli studi della Scalera. Registro cinematografico 111. La trama: «Un rivoluzionario sudamericano rovescia un governo dispotico, ma il suo luogotenente, in preda al vino, abusa di una dodicenne, la cui sorella, che crede autore dello stupro il capo della rivolta, cospira contro quest’ultimo con l’aiuto dello stesso luogotenente, cui si è promessa in moglie. La congiura ha buon esito, ma la donna scopre il proprio tragico errore e cerca di farsi perdonare dal capo fuggiasco, che la respinge. La infelice si ritira in un convento, e il valente rivoluzionario torna al potere». Recensione tratta da «Tempo», Roma 7 dicembre 1939 A, XVIII E.F., Anno IV, N. 28 pagg. 22- 23: «Cinema: «Rosa di sangue». Produzione Scalera. Regista Jean Choux. Operatore Arata. Dal romanzo di Pierre Benoit «Les Compagnons d’Ulisse». Riduzione di M. Basaglia. Interpreti principali: Viviane Romance, Georges Flamant, Guillaume De Saxe. «Rosa di sangue» traduce per il film il titolo originale del romanzo di Pierre Benoit «Les Compagnons d’Ulisse»: lo traduce cioè nel suo vero significato richiamandoci al mondo d’amore e di avventure del classico romanzo popolare. L’«Atlantide» dello stesso Pierre Benoit, fu già un pretesto per Pabst, il quale seguendo apparentemente La trama del libro, in realtà cercava di dar vita a una visone più lontana, ma un sogno che si perdeva nell’arida immensità del deserto. Jean Choux forse si ritroverà più vicino al suo autore e se ne varrà come di un buon soste- gno. Amore e sangue, avvicinati nel titolo, s’accompagnano bene con le frenesie delle chitarre e delle nacchere, e quindi avrete già capito che siamo in pieno ambiente spagnolesco. Si tratta di un piccolo paese sud-americano, naturalmente in rivolta, dove il generale Ruiz, nobilissimo cavaliere, vuol portare l’ordine. Egli lotta contro un suo luogotenente, Alvarez, ed è amato, odiato e amato, volta a volta, da Angelica, la bella, che lo crede e non lo crede colpevole della morte di suo padre. Alla fine Angelica, che aveva istigato Alvarez alla rivolta, vuol espiare le sue colpe e si chiude in convento (campanelle, mormorio di suore, crepuscolo) mentre Ruiz con le lagrime agli occhi si allontana galoppando attraverso il paese oramai rappacificato (A.L.)». La recensione comprende 14 immagini di scena e alla terza la didascalia dice: «L’indice del regista fa alzare, sorpreso, l’operatore Arata». 1939 Papà Lebonnard, di Jean De Limur. Pr.: Scalera Film - r.: Jean De Limur e Marcello Albani - s.: dal dramma «Le père Lebonnard» di Jean Aicard (1889) - sc.: Maria Basaglia, Akos Tolnay, Jacques de Féraudy e non accreditato Guido Cantini - scg. e cost.: Antonio Valente - musica: Jacques Ibert mo.: Eraldo da Roma - fo.: Pietro Cavazzuti - int.: Ruggero Ruggeri (papà Antonio Lebonnard), Madeleine Sologne (Mariella), Jean Murat (dott. Andreolo), Jeanne Provost (la signora Lebonnard) Hélène Perdrière (Bianca di Roccaforte), Charles Dechamps (il conte Majori), Pierre Brasseur (Alfredo Lebonnard), Nicola Maldacea (il curato), Sylvain Itkine (il marchese di Roccaforte), Robert Seller (Grignolino), Roberto Cappella (il sindaco), Ivana Claar (infermiera), Elena Fusco (Fulvia), Fedele Gentile, Massimo Serato (due giovanotti al ballo), Dina Sassoli, Lina Marengo, Amedeo Dominella, M.C.Magli. Identica la versione francese “Le père Lébonnard”, con la regia dovuta al solo Jean De Limur.Lunghezza m. 2714. La trama: «Nel passato di Madame Lebonnard, che vive in Italia con il marito, un ricco orologiaio, c’è una macchia: uno dei due figli, il maschio, è frutto di una sua colpa. Quando la figli s’innamora d’un medico di nascita illegittima, il fratello s’oppone alle nozze. Papà Lebonnard, che pure lo ha sempre amato come figlio, gli svela le origini irregolari della sua nascita e lo esorta alla tolleranza». Osservazioni: Coproduzione italo-francese, diretta da Jean de Limur (titolo dell’edizione francese: «Le père Lebonnard) con l’assistenza linguistica di Marcello Albani per l’edizione italiana: «Le protagoniste était doublé en francais et les acteurs francais doublés e italien afin que le film put etre exploité aussi bien en France qu’en Italie» (René Janne e Charles Ford, «Histoire encyclopédique di cinéma», IV vol., Parigi, 1958). Maria Basaglia-Albani firma in genere M.Basaglia, tralasciando di aggiungere, al suo, il cognome del marito. Secondo l’«Almanacco», peraltro, la sceggiatura sarebbe di Akos Tolnay e Guido Cantini. Dalla critica: «Jean de Limur, chiamato dalla Scalera a realizzare un film a carattere tradizionale, non ha fallito il segno. La commedia è riuscita. Riuscita mi sembra sotto l’aspet- to industriale e commerciale: questo film varcherà indubbiamente le frontiere. Riuscita mi sembra anche sotto l’aspetto emotivo; ci si diverte, ci si commuove: vecchio spunto sociale, che cinquant’anni fa occupava e preoccupava anche sentimentalmente. Riuscita infine ai riguardi dell’interpretazione, che dà modo agli interpreti di passare, di volta in volta, in primo piano». Attilio Frescura, in «Film» 15 aprile 1939. Bibliografia: P., «Quelli di Papà Lebonnard» in «Film», 21 gennaio 1939; anonimo, breve racconto dal film, in «Film» 4 febbraio 1939 (con 20 foto); anonimo, «Si gira Papà Lebonnard. Esterni ad Amalfi», in «Cinema Illustrazione», 22 febbraio 1939; Dino Falconi, recensione, in «Popolo d’Italia», 2 aprile 1939; F(ilippo) S(acchi), recensione, in «Corriere della Sera», 2 aprile 1939; Gino Visentini, recensione, in «Cinema», 25 aprile 1939 (3 stellette); anonimo, recensione, in «Bianco e Nero», giugno 1939. Il regista Mario Bava afferma: «La Scalera Film dette il via al cinema italiano vero. Si cominciò a spargere la voce per Roma che Terzano, Arata, Brizzi e Montuori, i grandi operatori, venivano presi a 14mila lire al mese (la Topolino quando uscì costava 5000 lire)». 1940 Il ponte di vetro, di Goffredo Alessandrini. La trama: «Un incidente di volo intreccia fra loro i destini della moglie d’un chirurgo e del pilota. Il chirurgo, benchè al corrente della tresca (non consumata peraltro), sottopone a delicata operazione il rivale, vittima d’un nuovo incidente durante un volo di collaudo. La moglie, ammirata e pentita, torna agli amori legittimi». (Si veda: «L’Illustrazione Italiana», Anno LXVI, n. 53, 31 Dicembre 1939-XVIII, tra pag.1140-1141 «da: Il ponte di vetro»: Isa Pola, Giovanni Brazzi (sic) e Filippo Scelzo (Foto Pesce). Si veda ancora: «L’Illustrazione Italiana», Anno LXVI, n. 48, 26 Novembre 1939-XVIII, rubrica «Film italiani a tutta velocità» foto di scena con didascalia: «Isa Pola nel film «Ponte di vetro», regia Alessandrini». 1940 Arriviamo noi! Titoli provvisori: «Vita di luna park», poi «L’amico pubblico n.1». Argomento: Tre amiconi, che gestiscono il castello delle streghe in un luna park, prendono sotto le loro ali un’orfanella, inopinata beneficiaria di una pingue eredità, a lei contesa dalla perfida matrigna. Dalla critica: «Romanzetto tra sentimentale e buffonesco. Ma il soggetto oltre alle risorse della romanticheria, si giova di trovate e di elementi a sorpresa. Si giova soprattutto della schietta, scanzonata, comicità di Riento, delle risorse naturali di Erminio Spalla e della buona recitazione di Carlo Romano. l’originale terzetto dei protettori» Anonimo, in «Corriere della Sera, 13 agosto 1942. Bibliografia: Luigi A. Garrone, «Si gira Vita di luna park», in «Film», 24 febbraio 1940. 1940 Ritorno, di Geza von Bolvary» Pr. Scalera Film - r.: Geza von Bolvary - s.: Georg C. Klaren, Richard Billinger, J.B. Malina - sc.: Guido Cantini - f.: con Arata c’é Friedl Behn -Grund - scg.: Emil Hasler, Giorgio Pinzauti musica: Peter Kreuder, Franz Fux con brani operistici di Riccardo Zandonai e Giacomo Puccini - mo.: Giuseppe Fatigati - fo.: Arrigo Usigli, Eric Lange, Otto Schlumberger - int.: Rossano Brazzi (Michele Donato), Martha Harell (Carla Holm), Maurizio D’Ancora (Ronny Selva), Elsa Wagner (la madre di Carla), Lizzi Waldmuller (Odette), Albrecht Schoenals (il maestro Hutten), Beniamino Gigli (se stesso), Axel von Ambesser, Carl Günther, Walter Ladengast, Peter Elsholtz, Karl Etlinger, Eric Egar, Eleanore Tappert, Antonio Jaeckel, Olga von Kollar, Rudolf Platte, Willy Schonbora, Hugo Werner - Kahle, Maria Krahn, Klaus Pohl, Ha,s Wendler. E’ l’edizione italiana del tedesco “Traummusik” che ha come direttore della foto il solo Friedl Behn - Grund. 1940 La donna perduta, La trama: «Una cantante di musica leggera torna al paese, e ne riparte con un giovanotto fidanzato a una ragazza aristocratica. Costei, con la sua cameriera, muove all’inseguimento dei fuggiaschi. Risultato? Al cameriere toccherà «la donna perduta», e alla padroncina lo sposo promesso». Per una foto di scena si veda: «L’Illustrazione Italiana», Anno LXVII, n.21, 26 Maggio 1940-XVIII, didascalia «Una scena di «La donna perduta», regia di Gambino, produzione Iris». 1941 Tosca, di La trama: «La classica vicenda di Floria Tosca che, innamorata del pittore Cavaradossi e insidiata dal perfido barone Scarpia, trova la morte precipitando giù dagli spalti di Castel Sant’Angelo». Si veda: «L’Illustrazione Italiana», n. 52, 29 Dicembre 1941, locandina pubblicitaria relativa al film. 1941 E’ caduta una donna, di. La Trama: «Una ragazza madre, costretta a lasciare il paese ove è stata sedotta, si trasferisce in città. Il medico che la sposa, pur amandola, concepisce un’insana gelosia per il passato della donna, e una crescente ostilità per il bambino. La donna affida il piccolo alla madre del seduttore (ora defunto), ma poi, pentita, l’insegue, cade sotto una macchina, e muore all’ospedale». «Uomini donne e fantasmi. Mentre si gira «E’ caduta una donna». Didascalie: «Nei giorni scorsi la «Scalera» ha girato a Milano alcuni quadri del nuovo film «E’ caduta una donna». Ecco qui sopra Isa Miranda protagonista del film assieme a Milli Dandolo autrice del bel romanzo «E’ caduta una donna» dal quale si è tratto il soggetto la cui realizzazione è stata affidata alla regia di Guarini. A sinistra: Isa Miranda pronta per «girare» un quadro. Il passaggio di Isa Miranda attraverso le vie del centro di Milano ha richiamato l’attenzione della folla. Subito intorno alla grande attrice del nostro cinema si sono addensati gli ammiratori tanto fervidi quanto ignoti». Tra i quadri del film «E’ caduta una donna» girati a Milano alcuni sono stati ripresi nell’interno dell’ippodromo del trotto a San Siro. Eccoci, qui sopra e a sinistra, pochi momenti prima del ciac, all’ippodromo, l’operatore sul carrello, le comparse ai tavoli del ristorante. Isa Miranda e Rossano Brazzi che si accingono a seguire lo svolgimento di una corsa, fatta appositamente per la ripresa». Si veda pure una locandina pubblicitaria del film in «L’Illustrazione Italiana», n. 35, 31 Agosto 1941-XIX. Adolfo Franci «Mentre si gira «E’caduta una donna», «L’Illustrazione Italiana», n. 10, 9 Marzo 1941 - XIX, pag. 351-352: «E’ la seconda volta che m’incontro con Isa Miranda al lavoro. La prima fu a Canzo qual- che anno fa, durante la «ripresa» di alcune scene di quella «Signora di tutti» in cui la Miranda, allora quasi sconosciuta, apparve attrice cinematografica di singolari doti. S’era d’estate, e in fondo al mio ricordo splende ancora il bellissimo paesaggio brianzolo con le colline verdi cariche di sole, le bianche e tortuose strade, i borghi ridenti e le maestose ville circondate da vasti parchi donde veniva il chiocchiolio dei merli e il fresco canto delle fontane. Villa Rizzoli, in quei giorni, era un porto di mare: dall’alba al tramonto un andirivieni di automobili, di gente indaffarata vestita succintamente, in pantaloni di tela e in magliette balneari; un correre di qua e di là, un chiamare a gran voce. Tra codesti scalmanati, si aggiravano impassibili e silenziosi camerieri in guanti bianchi e giacchette rigate portando vassoi e bevande. Ogni tuo desiderio veniva subito esaudito, a ogni minimo tuo cenno ti vedevi alle spalle, mezzo uomo e mezzo fantasma, uno di quei camerieri muti e ossequienti che andavano e venivano senza far rumore lungo le aiuole e i viali del parco trasformato in cantiere cinematografico, con macchine da presa, riflettori, carrelli ed altri armamenti acquattati fra le annose piante, i boschetti di bossolo, i rosai in fiore. Gli attori si truccavano e struccavano all’aperto, i camerini improvvisati con tralicci fatti di rami d’albero e di foglie, come quei capanni di fortuna dietro i quali i cacciatori si nascondono, in aperta campagna, nell’attesa della preda. Cari ricordi venatori riaffioravano alla mente alla vista di codesti tralicci, mentre sugli alberi e in cielo gli uccelli volavano e cantavano giocondi. Se non che da quelle tenui spalliere non già venivano i noti richiami degli uccellatori ma voci e risa di tutt’altro timbro e colore; dietro quelle trasparenti spalliere non già si vedevano muovere uomini in giacca di fustagno e cappellaccio sugli occhi ma corpi di donne ricoperti da leggerissimi abiti estivi, rosee braccia e spalle alabastrine. E un odor di cosmetici e lambiccati profumi si spandeva d’intorno, più forte dell’odor di campagna e di bosco. Ma anche quel contrasto, tra l’agreste e il mondano, tra il falso e il vero, accresceva stupore alla scena, le dava un che di artificioso e naturale assieme, un sapore di commedia improvvisata, per gioco, in mezzo agli scenari della natura, un ritmo quasi di festa campestre o di balletto boschereccio, che il ricordo ne è ancora lieto e in fondo un po’ meravigliato, come si trattasse di cosa piuttosto sognata che vissuta, di un’immaginaria scena con piante e fiori finti, luci artificiali e macchine da laboratorio, nella quale si dicono parole e si fanno gesti strani e inconsueti, e alla quale, di vero, di reale, non resta che quell’alto cielo azzurro su cui volano le lodole, inebriate d’aria e di sole. Ritornando ora, con la memoria a quei giorni mi sembra di ricordarmi che fra le bizze di Memo Benassi e le intelligenti impennate di Tatiana Pavlova, tra il pensieroso Ophuls e il nervoso Arata, tra l’entusiasta Rizzoli e gli incantati suoi figli, la più stupita e insieme la più calma, la più padrona dei suoi nervi, fosse proprio Isa Miranda che pur nasconde in quel suo volto biondo di madonna luinesca, in quel suo corpo magro e scattante di cerbiatta, una natura sensibilissima. Al richiamo del regista ella scendeva dallo «chalet» dove abitava, dietro la villa, seguita dalla segretaria di Ophuls che aveva sempre un copione in mano e tratto tratto vi gettava gli occhi, protetti dagli occhiali cerchiati di tartaruga, col gesto d’un suonatore d’orchestra che segue lo spartito. E vedendola apparire giù per la china fiorita, agile e serena nelle movenze, si sarebbe detto che ella fosse già espertissima nella difficile arte della cinematografia. Ed era invece al suo primo film». 1941 Il re si diverte, di Trama: «Troppo nota è la vicenda dello sciagurato Rigoletto, buffone di re Francesco I, e padre della misera Gilda, per richiamarla qui». 1942 Una signora dell’Ovest, di La trama: «Una ex-stella del varietà si mette in viaggio col suo amante, Diego, in cerca di fortuna all’Ovest. I due si uniscono a un ricco mandriano, William, che li conduce da Butler, un torbido vecchio, il quale, se concede loro lo sfruttamento di una miniera abbandonata, fa in modo che dall’uccisione di Diego, di cui lui stesso è il mandante, sia sospettato William. La donna cerca conforto tra le braccia di Butler, ma qualche tempo più tardi appresa la verità, essa va alla ricerca di William, lo trova sposato e felice, e gli chiede perdono». Da «Tempo», Gennaio 1942: Il giornalista, o, comunque, l’estraneo abituato a girare per i teatri di posa acquista uno speciale fiuto che gli permette di intuire quando, durante la lavorazione di un film, la sua presenza non è opportuna. Allora, e magari per scrupolo discretamente si informa, gira la largo per evitare situazioni che potrebbero diventare incresciose. Così mi capitò un giorno negli stabilimenti Scalera. Era già notte. Negli altri teatri il lavoro era stato sospeso, attori e tecnici uscivano per tornarsene a casa. Ma in un teatro qualche cosa sopravviveva dell’attività della giornata: un gruppo di riflettori erano accesi, concentrati sopra un divano posto contro una nuda parete che era l’unica costruzione. Pochi macchinisti e tecnici, poi sopraggiunse l’operatore Arata che dette qualche disposizione, e dopo un momento il regista Koch e sua moglie. Vi era un clima freddo nel teatro, le parole venivano scarne, lontane. Questo mi bastò, me ne andai. Sull’uscio seppi che sul quel divano Michel Simon avrebbe dovuto girare un «primo piano» importante, l’ultima scena per lui del film “Una signora all’ovest”. Un «primo piano» è sempre una cosa delicata, e non soltanto per gli attori all’inizio della carriera, ma anche per molti di quelli più vecchi del mestiere e più scaltriti. Il fatto di trovarsi la macchina da presa così vicina, gli occhi di tutti così vicini, pare che dia loro una certa indefinibile angoscia che si manifesta col nervosismo. Io non so se quel giorno Simon provasse quest’angoscia o semplicemente avesse desiderio di vedere poche facce e di essere il più possibile solo col suo personaggio; so però che egli volle che tecnici e macchinisti fossero ridotti al numero strettamente indispensabile e che nessun estraneo assistesse alla scena. Prima di andarmene avevo salutatom Koch e sua moglie. Abbozzarono essi il tentativo di trattenermi, ma io sostenni che ciò era impossibile, i miei impegni non me lo permette- vano. Allora mi pregarono di tornare per la scena del bianco e per altre scene importanti che mi elencarono. Io promisi; e infatti sono tornato altre volte, perché mi interessa moltissimo di vedere i registi come dirigono, studiarne le caratteristiche e lo stile in sede di lavorazione. Koch, per esempio, ama la realtà, ama di essere fedele al vero, insegue il particolare. Ci si richiama, per quanto oggi ne sia lontano in questi suoi film italiani (“Tosca” e “Una signora all’Ovest”), a un suo film, realizzato in Germania, sui bambini presi nella loro libera vita quotidiana. Da qualche cosa si avverte che è stato a contatto con Renoir. Preferisce storie gravi, gli piace più l’amarezza che la gioia e su quella calca più che su questa. “Tosca” non è in sostanza che la storia di un amore insidiato e infelice; “Una signora all’Ovest”, in tutt’altro ambiente, è analogamente la storia di una donna perseguitata da un avverso destino che la costringe a rinunciare alla felicità quando è sul punto di conquistarla. Con Koch collabora sua moglie che è la famosa Lotte Reiniger. Io dico «famosa» ma è probabile che a qualcuno questo nome non dica nulla. La Reiniger è famosa per i suoi film di ombre cinesi, film di pura fantasia, favole interpretate non da attori in carne ed ossa ma da figurine ritagliate con le forbici, neri profili caratterizzati con precisione. Con le forbici essa modella questo suo particolarissimo mondo, con le dita lo muove per effettuare la presa tecnica che non sto qui a descrivere. (D.M.). 1942 Perdizione ** (Italia, 1942. N\n 94’). Carlo Campogalliani. Con Adriano Rimoldi, Dina Sassoli, Marisa Vernati, Carlo Romano, Carlo Tamberlani, Evelina Paoli, Checco Durante, Alfredo Martinelli. Un giovane camionista (Rimoldi) perde le testa per una donna fatale e commette un furto nella villa dove lavora la fidanzata infermiera. Cineromanzo d’appendice, senza molto estro ma con qualche spunto interessante nella messa in scena che ricorda il realismo noir del cinema francese anni Trenta. E’ uno degli ultimi film italiani di questo genere: ancora qualche mese e ossessione aprirà una nuova era. Alla sceneggiatura ha collaborato Aldo Vergano futuro regista del Sole sorge ancora. (p. 865 - Dizionario dei film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi, Milano 1993). Altra versione della trama: «Un giovane camionista mette su, in proprio, un’autorimessa, ma, irretito da una mondana, commette furto nella villa presso cui presta la sua opera la fidanzata, infermiera. Costei lo sorprende, medica la ferita infertagli dal sorvegliante, restituisce la refurtiva e mette il fidanzato in carreggiata». 1942 I due Foscari, di La trama: «La rivalità tra due famiglie veneziane, i Foscari e i Faredana, causa la morte, prima del vecchio Faredana, e poi del Doge Foscari, il cui figlio, accusato di tradimento, riesce a provare la propria innocenza». Rossano Brazzi ricordando i tempi della Scalera, e la realizzazione de «I due Foscari» di Fulchignoni in piena guerra, tra Venezia e Roma, spezza una lancia a favore del nostro anche quale operatore di esterni: «Sì, direi che circa il settanta per cento era in esterni, dal vero. E fecero un certo effetto, no? Scalera sapeva dare ai suoi film una certa proprietà, no? Non lesinava soldi, c’era Arata, un operatore col quale ho avuto la fortuna di fare altri film. Io ho lavorato con gli operatori più importanti del mondo, da Shamroy a Krasker, tutti premi Oscar. E devo dire, ora che posso giudicare un po’ meglio, dopo un’esperienza più che trentennale, che Arata era il più grosso operatore che io abbia incontrato. Quindi, sa, la fotografia era meravigliosa, i costumi erano belli, gli ambienti, vero al settanta per cento (e non era facile, allora, girare in esterni: perciò andava tanto la commedia in teatro di posa). Scalera è stato un pioniere di queste cose: per forza la gente correva». 1943 Carmen, (Italia\Francia, 1943, b\n 124’). Di Cristian Jaque. Con Viviane Romance, Jean Marais, Adriano Rimoldi, Elli Parvo, Marguerite Moreno, Cesare Fantoni, Julien Bertheau. La storia della sigaraia di Siviglia (Romance) che dopo aver condotto alla rovina il sottufficiale Don Josè (Marais) lo tradisce per amore di un torero ma paga la sua infedeltà con la morte. Girata in doppia versione italiana e francese il film è sostanzialmente fedele alla versione che M Meilhac e Halévy avevano fatto per Bizet. Bella la fotografia che favorisce i toni bianchi forti e drammatici. (p. 187 - 188 - Dizionario dei film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi, Milano 1993). Su «L’Illustrazione Italiana», n.3, 17 Gennaio 1943-XXI, una foto di scena del film con la seguente didascalia: «Viviane Romance e Adriano Rimoldi nel nuovo film di Cristian Jaques (sic) «Carmen». Identica l’edizione francese, curata nella fotografia sempre da Ubaldo Arata. 1945. Quartetto Pazzo. 1\2. (Italia 1945, b\n, 70’). Guido Salvini. Con Anna Magnani, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Gino Cervi. Nel corso di ventoquattr’ore trascorse nella stessa casa, due sorelle cercano di dare stabilità ai propri legami sentimentali. Versione cinematografica dell’omonimo successo teatrale di Ernest Eklund recitato sui palcoscenici dalla compagnia Pagnani - Morelli - Cervi - Stoppa. Per motivi di distribuzione la sconosciuta (cinematograficamente) Andreina Pagnani fu sostituita da Anna Magnani. Una commedia troppo parlata per essere anche divertente. (p. 943 - Dizionario dei film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi, Milano 1993). 1945 Quartetto pazzo, di Guido Salvini. Pr.: S.A.F.I.C. - Italfilm - r.: Guido Salvini - s.: dalla commedia omon. di Ernest Eklund sc.: Guido Salvini f.: con Arata ci sono anche Anchise Brizzi, Arturo Gallea e Augusto Tiezzi e hanno fatto per le riprese un po’ a turno - musica: Raffaele Gervasio - mo.: Mario Serandrei - fo.: Orazio Sacco - int.: Gino Cervi (Roberto), Anna Magnani (Elena), Rina Morelli (sua sorella Monica), Paolo Stoppa (Filippo Osman), Guglielmo Barnabò (Alberto il maggiordomo). Trama: «Due sorelle, l’una decisa a far pace con il marito, e l’altra attrice - ad acalappiare uno scapolo, riescono, dopo ventiquattro ore di schermaglie, nel rispettivo intento». Osservazioni: «Secondo un’altra fonte: produzione SAFIC. Girato in Roma occupata, il film riprende un successo teatrale del quartetto Andreina Pagnani, Rina Morelli, Gino Cervi, Paolo Stoppa. Per ragioni di noleggio, la Pagnani è sostituita dalla Magnani. La pellicola esce tuttavia con ritardo, e un pò alla chetichella. 1945 Roma città aperta, di Roberto Rossellini. 1945 Il canto della vita, di Carmine Gallone. Pr.: Excelsa - r.: Carmine Gallone - s.: da una commedia di Gherardo Gherardi - sc.: Gherardo Gherardi, Carmine Gallone - scg.: Gastone Medin - musica: Ettore Montanaro - mo.: Nicolò Lazzari; fo.: Tullio Parmegiani - int.: Alida Valli (Giovanna), Carlo Ninchi (padron Cesare), Roberto Bruni (Giacomo, suo figlio), Luigi Almirante (il vecchio Coco), Maria Mercader (contessina Maria), Mario Pisu (Rimondino), Dina Romano (la anziana zia di Giovanna), Anna Pirani Maggi (la suora), Roberto Donati (il piccolo Cesare), Massimo Pietrobon (un altro bambino). Valli Alida, nome d’arte di A. Maria Altengurger (Pola, Croazia, 1921 - Roma 2006) attrice italiana. Di famiglia nobile, cresciuta in un ambiente ricco di stimoli culturali, studia al centro sperimentale di cinematografia a Roma e subito la sua bellezza raffinata e sensualmente malinconica le vale le prime parti al cinema. L’esordio è in i due sergenti (1936) di E. Guazzoni, recita poi in altre tredici pellicole fino alla consacrazione a diva con Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati, dall’omonimo romanzo di A. Fogazzaro, in cui è una perfetta Luisa, la sensibile e straziata madre della sventurata Ombretta destinata ad annegare nel lago. Il suo repertorio recitativo si arricchisce poi di ogni tipo di ruolo anche se è più convincente nel melodramma sentimentale, in particolare nel controverso drammone, allora antisovietico, noi vivi - Addio Kiria (1942) diretto da G. Alessandrini. Il dopoguerra la vede ancora protagonista con Eugenia Grandet (1946), sempre di Soldati, e con una prestigiosa chiamata ad Hollywood dove però, nonostante la fulgida presenza in Il caso Paradine (1947) di A. Hitchcock, non riesce a trovare la giusta simbiosi con gli stili statunitensi. Il ritorno in Italia si rivela quanto mai proficuo. Nel 1954 in Senso, L. Visconti le cuce addosso la parte più memorabile, quella della contessa Livia Serpieri, traditrice del proprio paese per amore di un ufficiale austriaco. Arriverà poi M. Antonioni a ratificarne lo status di primadonna del cinema italiano con il grido (1957) seguito da decine di film, sempre di livello, e da trionfi in teatro e televisione. La sua statura di interprete è ormai tale da farla passare negli anni a ruoli più anziani con intatta efficacia. Nel 1976 è nel cast di Novecento di B. Betolucci, e si concede più di una divertita ma aderente trasfigurazione horror della sua ormai matura bellezza in Suspiria (1977) e inferno (1980) di D. Argento. Dagli anni ‘90 riduce gradualmente la quantità ma non la qualità delle sue apparizioni sempre all’altezza come in L’amore probabilmente (2001) di G. Bertolucci e nel thriller etnico Semana Santa 2002 di P. Danquart.pp. 1183 - 1184 de Le Garzantine Cinema - Vol.2 1945 La vita ricomincia, di Mario Mattoli **1\2, (Italia, bn., 89’). Mario Mattoli. Con Alida Valli, Fosco Giachetti, Eduardo De Filippo, Nando Bruno, Aldo Silvani. 1945: dopo la prigionia un medico (Giachetti ), torna a casa, a Roma. La moglie (Valli) che, per salvare il figlio, si era dovuta prostituire, uccide il suo aguzzino. Il marito se ne addossa la colpa; ma, come proclama il titolo, dopo tanti travagli si apre uno spiraglio alla speranza. All’estero il film venne messo sullo stesso livello dei capolavori di Rossellini e De Sica; Mattoli invece intendeva polemicamente oppor- re al neorealismo un cinema popolare, con grandi attori, che trattasse gli stessi temi con uno spirito più roseo e semplicistico. De Filippo si ritaglia la parte di un professore disoccupato (“C’è la libertà i ragazzi non vanno a scuola”) e filosofeggiante. David O. Selznick ammirò tanto la Valli in questo film da volerla nel Caso Paradine (p. 313 Dizionario dei film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi, Milano 1993). La vita ricomincia, Soggetto e sceneggiatura: M.M., Aldo De Benedetti; fotografia: Ubaldo Arata; scenografia: Gastone Medin; suono: Giovanni Bianchi; musica: Ezio Carabella; montaggio: Fernando Tropea; aiuto regista: Steno e Leo Cattozzo; interpreti: Alida Valli (Patrizia Marchini), Fosco Giachetti (Paolo Marchini), Eduardo De Filippo (Il professore), Nando Bruno (Michele, il borsanerista), Carlo Romano (Croci), Aldo Silvani (il giudice), Anna Haardt, Maria Donati, Fabrizio Tosi, Maurizio Ceselli; produzione: Excelsa (dir. di produzione Baldassare Negroni); distribuzione: Minerva; durata: 89’, registro cinematografico n. 535. Girato negli stabilimenti S.A.F.A. – Palatino. Presentato nel 1945 al Festival di Locarno. Steno (Stefano Vanzina, Roma, 1915 - 1988, sceneggiatore e regista) La trama: «Sullo sfondo delle macerie di Napoli distrutta, si fa largo il dottor Paolo Marchini. E’ appena sbarcato in città dopo essere stato liberato dalla prigionia. In un vicolo compra un vestito borghese. Si mette in strada per Roma con l’autostop. Ad un certo punto si ferma un camioncino condotto da due borsaneristi, Michele e un suo amico. I Akida Valli e Fosco Giachetti due prima rifiutano, poi accettano di caricarlo e lo portano a Roma, tra immagini di distruzione e posti di blocco. Arrivato in città, Marchini si reca alla sua abitazione; il campanello non funziona, ma la chiave è al solito posto. Entra nel salotto borghese che aveva lasciato per andare in guerra, e dove oggi campeggia una bicicletta; un bambino entra correndo e Marchini crede di riconoscere il figlio Sandro, che però e solo il secondo bambino che varca la porta di casa. Marchini inizia ad ambientarsi ma non è facile. Squilla il telefono; una persona minaccia Patrizia Marchini - la moglie - di licenziamento. Il padre dell’altro bambino è ancora in prigione perché ha imboscato l’oro. Il vicino di casa, un simpatico professore napoletano (disoccupato perché «c’è la libertà e gli studenti non vengono a scuola») propone a Marchini la sua filosofia pacifista. La moglie dal canto suo ha trovato lavoro in una fabbrica di paralumi perché il socio del marito, Croci, non le ha dato un soldo. Marchini va da Croci, che si è arricchito durante la guerra (evitandola). Costui invita Marchini e la moglie a cena fuori. Il ristorante è pieno di gente, segno che rinunce e privazioni non sono per tutti. Tra gli avventori ci sono anche il borsanerista Michele e il suo amico con le mogli. Riconosciuto Marchini, lo festeggiano e invitano la moglie a cantare. Lei sembra felice, ma all’improvviso vede qualcuno e si turba. La sera successiva, patrizia non torna a casa per cena. Dopo averla aspettata, Paolo e il professore girano per ospedali e commissariati. Dopo qualche ora la terribile notizia: Patrizia è al commissariato Flaminio in stato di arresto, accusata di aver ucciso un uomo. Paolo riesce ad incontrarla, e lei gli racconta quel che è successo. Tutto è iniziato tre anni prima, quando Sandrino era gravemente ammalato. Occorrevano molti soldi per salvarlo, ma Paolo non c’era e nessuno la aiutava. Una signora, la baronessa Hubert, si era messa in contatto con Patrizia per segnalarle che un signore facoltoso si sarebbe interessato a lei, in cambio delle sue attenzioni. Patrizia si era rifiutata, ma l’aggravamento di Sandrino la aveva spinta a incontrare lo sconosciuto (di cui la macchina da presa non mostra mai il volto). Non aveva mai più rivisto quell’uomo, ma la sera prima al ristorante lo aveva incontrato e il mattino dopo lui aveva cercato di riagganciarla: dopo una violenta discussione, Patrizia gli aveva sparato e lo aveva ucciso. Patrizia è molto dura nei confronti di Paolo che si mostra sdegnato: come può permettersi di giudicare, lui che è stato lontano per tanto tempo? Paolo, visibilmente scosso, si incontra col giudice cui è affidato il caso e si autoaccusa dell’omicidio; il giudice non crede a quella ricostruzione chiaramente di fantasia, e Paolo ribatte che in questa storia tutti sono colpevoli, tranne la moglie. Al processo, seguito da Paolo per telefono (a telefonargli sono Croci e Michele, che lo tengono informato), il Pubblico Ministero chiede sette anni, ma il tribunale assolve Patrizia. Paolo non vorrebbe vederla più, ma il professore lo affronta duramente dicendogli che la guerra non ha risparmiato nessuno e ora bisogna rifare tutto, rimboccarsi le maniche. Patrizia torna. ad accoglierla sono il figlio e Paolo, che la prende per mano. Anche per loro, adesso, la vita ricomincia». Tratto da Stefano Della Casa, “Mattoli Mario”, Il Castoro Cinema, n. 44, La Nuova Italia, Roma 1990. 1945 L’innocente Casimiro, di Carlo Campogalliani. Pr.: Ars Società Produzioni Cinematografiche r.: Carlo Campogalliani - s.: Mario Amendola dalla sua commedia “Scandalo al collegio” (1943-44) - sc.: Mario Amendola, Carlo Campogalliani, Vincenzo Rovi - scg.: Gastone Medin - cost.: Ines De Ferrari - musica: Aldo Di Lazzaro - mo.: Eraldo Da Roma - int.: Erminio Macario (Casimiro Pelagatti), Lea Padovani (Marcella Corra), Adriana Serra (Silvia), Enzo Biliotti (dottor Raglia), Olinto Cristina (il preside), Ada Dondini (zia Tecla), Baby Donall (Paola Doretti), Adriana Facchetti (signorina Pannelli), Lauro Gazzolo (Pietro), Loris Gizzi (Gustavo Corra), Alberto Sordi (Guido Corra), Paola Veneroni (Emilia Rosselli), Letizia Quaranta (contessa Rosselli), Vinicio Sofia (prof. Polpettone), Giuseppe Pierozzi (cocchiere), Checco Durante (capo-bidello), Vittorina Benvenuti (la madre di Casimiro), Emilio Petacci (un professore), Mimì Dugini. 1946 L’adultera, di Duilio Coletti E’ un film di Duilio Coletti del 1946, con Clara Calamai, Roldano Lupi, Carlo Ninchi, Delia Brandi, Dino Di Luca, Carlo Romano, Angelo Calabrese, Gualtiero Tumiati, Ernesto Bianchi, Bianca Avalise. Prodotto in Italia. Durata 107 minuti. La trama: Una contadina sposa per interesse un anziano facoltoso che ben presto le rinfaccia la sua sterilità. Quando la donna rivede il suo vecchio fidanzato, la passione tra i due torna a divampare e lei resta incinta. Credendosi il padre del bambino in arrivo , il marito da il via ai festeggiamenti, ma quando viene a conoscenza della verità uccide. 1946 Sinfonia fatale/ When in Rome, di Victor Stoloff Pr.: Scalera Film - Società delle Nazioni - r.: Victor Stoloff - s.: Victor Stoloff - sc.: Louis Goldwing, Oreste Biancoli, Victor Stoloff - scg.: Ottavio Scotti - musica: Renzo Rossellini - mo.: Eraldo Da Roma - int.: Douglas Montgomery (John Savago), Sarah Churchill (sua moglie), Marina Berti (Mirella), Tullio Carminati (il pittore spagnolo), Pina Gallini (madre di Mirella), Carlo Romano, Cesare Fantoni, Ken Walton, Guido Celano, John Blythe, Sergio Capogna, Nino Javert, William Tubbs, Victor Riti, Pina Piovani, Diego Pozzetto, Tom Payne, la bimba Marcella Di Toro. 1946 Teheran, di William Freshman. Pr.: I.C.A.I. (Ind. Cin. Assoc. Int.) - Steven Pallos / John London Stafford - r.: William Freshman e Giacomo Gentilomo - s.: Dorothy Hope - sc.: Akos Tolnay, William Freshman, Oreste Biancoli, Alberto Vecchietti, Giacomo Gentilomo - scg. e cost.: Veniero Colasanti - musica: Enzo Masetti - mo.: Renzo Lucidi - fo.: Franco Robecchi int.: Derek Farr (Pemberton Grant), Martha Labarr (Nathalie Trubetzin), Manning Whiley (Paul Sherek), Pamela Stirling (Hali), John Slater (magg. McIntyre), Macdonald Parker (magg. Wellman), Sebastian Cabot (Caretaker), Philip Ridgeway jr. (Razed), Enzo Fieramonte, Enrico Glori, Lydia Johnson, Vera Bergman, Nico Pepe, Lamberto Picasso, Giulio Donnini, Anthony Sharpe, Arnaldo Mochetti (un terrorista), Luigi Pavese, Valentino Bruchi, Marisa Fimiani, Ornella Lauri. 1947 L’elisir d’amore, **1\2. (Italia, 1947, b\n, 85’). Mario Costa. Con Nelly Corradi, Gino Sininberghi, Tito Gobbi, Italo Tajo, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano. Il giovane contadino Nemorino (Sininberghi), innamorato della ricca Aldina (Corradi), chiede al ciarlatano Dulcamare (Tajo) un filtro d’amore. Più sicuro di sé, grazie all’elisir, il ragazzo fa innamorare la bella e il “mago” acquista un’insperata celebrità. Brillante e gradevole film musicale tratto dall’opera omonima di Donizetti. Ottima fotografia di Mario Bava. (p.373 - Dizionario dei film, a cura di Paolo Mereghetti, Baldini & Castoldi, Milano 1993). L’elisir d’amore, di Mario Costa. Pr.: Prora Film - r.: Mario Costa - s.: dall’opera lirica omonima di Gaetano Donizetti su libretto di Felice Romani - ad.: Mario Costa - sc.: Mario Costa, Carlo Castelli - f.: con Arata c’é anche Mario Bava - scg.: Aldo Calvo, Libero Petrassi - musica: Gaetano Donizetti coordinata da Alessandro Cicognini - mo.: Otello Colangeli fo.: Raffaele Del Monte - int.: Nelly Corradi (Adina), Gino Sininberghi (Nemorino), Tito Gobbi (Belcore), Italo Tajo (Dulacamara), Fiorella Carmen Forti, Flavia Grande, Gina Lollobrigida, Silvana, Mangano, (le quattro amiche di Adina), Loretta Di Lelio (Giannetta), Rinaldo Marchetti, Franco Pesce, Lea Migliorini, Nino Crimi, Guido Mazzini, Di Tommaso. 1947 Il richiamo del sangue / Call of the Blood, di Ladislas Vajda Pr.: I.C.A.I. - C.I.A. John Stafford / Steven Pallos - r.:Ladislas Vajda, John Clemente - s.: da un romanzo di Robert Hichens - ad: Fabrizio Sarazani - sc.: John Clement, Akos Tolnay, Basil Mason, - f.: con Arata c’é Wilkie Cooper scg.: Gastone Simonetti, Maurice Fowler - cost.: Maria De Matteis, Elizabeth Haffenden - musica: Fernando Ludovico Lunghi - mo.: Carmen Belaieff - fo.: William Sweeney, Franco Robecchi - int.: Lea Padovani (Maddalena), Kay Hammond (dottoressa Anne Lester), John Clements (Dario Ikon), John Justin (David Erskine), Robert Rietti (Gaspare), Carlo Ninchi (Salvatore), Hilton Edwards (dott. Robert Blake), Filippo Jelo (Sebastiano), H.G. Stoker (lo zio), Michael Medwi (studente), Eliot Makeham (assistente), Marisa Fimiani, Valentino Bruchi, Giulio Donnini, Keith Pyott, Dora Gregory, Islo Sebastiani. 1947 Cagliostro / Black magic, di Gregory Ratoff. Pr.: Edward Small Productions - r.: Gregory Ratoff - con la collab. di Silvano Balboni per la versione italiana s.: da “Joseph Balsame, mémories d’un médecin” di Alexandre Dumas jr. (1878) - sc.: Charles Bennet - f.: con Arata ci sono Anchise Brizzi e Otello Martelli scg.: Jean D’Eaubonne, Ottavio Scotti, Vittorio Valentini, - cost.: Georges Annenkov e Vittorio Nino Novarese - musica: Raoul Santell - mo.: James McKay, Fred Feitshans, Renzo Lucidi - fo.: Frank Cleverly - int.: Orson Welles (Giuseppe Balsamo, conte di Cagliosto), Nancy Guild (Maria Antonietta / Lorenza), Akim Tamiroff (il gitano), Frank Letimore (Gilbert de Rezel), Valentina Cortese (Zoraida), Margot Grahame (Madame Du Barry), Stephen Bekassy (De Montagne), Berry Kroeger (Alessandro Dumas senior), Raymond Burr (Alessandro Dumas junior), Charles Goldner (dott. Mesme), Gregoy Gay (Chambord), Lee Kresel (re Luigi XVI), Nicholas Bruce (De Remy), Franco Corsaro (Chico), Aniello Mele (Giuseppe Balsamo bambino), Ronald Adam (presidente della corte), Bruce Belfrage (procuratore), Leon Lenoir (Gaston), Alexander Danaroff (dott. Duval), Tamara Shayne (Maria Balsamo), Milly Vitale (una giovane popolana), Joop Van Hulsen (ministro della giustizia), Peter Trent (amico del dott. Mesmer), Giuseppe Varni (Bochner), Tatiana Pavlova (la madre), Dina Romano (una anziana popolana), Rosina Galli, Maria Antonietta Pavese, Michele Sakara, Renato Casanova, Ludmilla Dudarova, Valentino Bruchi, Mary Genni, Silvana Mangano, Filippo Minelli, Nicholas Scussanin, la principessa Vassileiko, la baronessa Vredeun, il principe Volkonski, il conte Orloff. Il film è stato presentato nel 1949. Stati Uniti 1948. durata 90 m. Genere: drammatico. La storia romanzata di Giuseppe Balsamo (1743 - 1795), l’avventuriero italiano dotato di non comuni poteri, che conobbe il successo nell’intera Europa finendo spesso in carcere e morendo tragicamente dopo essere stato condannato a morte e rinchiuso nel castello di San Leo. ragguardevole l’interpretazione di O. Welles in una parte per lui calzante. Anche «Gli spadaccini della Serenissima».