catalogo mostra cinema - 52a Mostra Internazionale del Nuovo

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catalogo mostra cinema - 52a Mostra Internazionale del Nuovo
CATALOGO DELLA 45A MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA
a cura di/edited by Mazzino Montinari
traduzioni in inglese/English translations Natasha Senjanovic
traduzioni in italiano/Italian translations Claudia Vettore, Elena Muratore
© 2009 Fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus
Via Villafranca, 20
00185 Roma
Finito di stampare
nel mese di giugno 2009
presso la tipografia Lineagrafica - Roma - Via delle Zoccolette, 25
45 MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA
A
realizzata con il contributo di:
FONDAZIONE PESARO NUOVO CINEMA ONLUS
45A MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA
MAIN SPONSOR
OFFICIAL SPONSOR
CON IL SUPPORTO DI
TECHNICAL PARTNER
Pesaro, 21 giugno / 29 giugno 2009
CON IL PATROCINIO DI
MEDIA PARTNER
FONDAZIONE PESARO NUOVO
CINEMA ONLUS
Soci fondatori/Founding partners
Comune di Pesaro/City of Pesaro
Luca Ceriscioli, Sindaco/Mayor
Provincia di Pesaro e Urbino
Province of Pesaro e Urbino
Matteo Ricci, Presidente/President
Regione Marche/Marches Region
Gian Mario Spacca, Presidente/President
Fiorangelo Pucci, Delegato/Delegate
Consiglio di Amministrazione
Board of Administrators
Luca Ceriscioli, Presidente/President
Luca Bartolucci
Roberto Bertinetti
Mario Cristiano Carloni
Giuliana Gamba
Goffredo Pallucchini
Silvana Ratti
Simonetta Romagna
Giuseppe Saponara
Segretario generale/Secretary General
Ennio Braccioni
Amministrazione/Administrator
Lorella Megani
Coordinamento organizzativo
Ufficio a Pesaro
Organizational coordinator
Pesaro office
Cristian Della Chiara
45A MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA
Comitato Scientifico/Scientific Board
Bruno Torri, Presidente/President
Adriano Aprà, Pedro Armocida
Pierpaolo Loffreda, Giovanni Spagnoletti
Vito Zagarrio
Direzione artistica/Artistic Director
Giovanni Spagnoletti
Direzione organizzativa/Administrative Director
Pedro Armocida
Segreteria/Secretary
Maria Grazia Chimenz
Assistente alla programmazione e ricerca film
Programming Assistant
Paola Cassano
con la collaborazione di/with the collaboration of
Micol De Falco
Ufficio Documentazione/Documentation
Mazzino Montinari
traduzioni dall’italiano/translations from Italian
Natasha Senjanovic
traduzioni dall’inglese/translations from English
Claudia Vettore
con la collaborazione di/with the collaboration of
Elena Muratore
Movimento copie/Print coordinator
Anthony Ettorre
Accrediti e ospitalità/Accreditation and Hospitality
Claudia Barucca
con la collaborazione di/with the collaboration of
Noemi Cerrone
uffici a Pesaro/Pesaro Office
Elisa Delsignore
Giovanna Gennarini
Veronica Mastrogiacomi
Ufficio stampa/Press Office
Studio Morabito
Mimmo Morabito (responsabile/owner)
Rosa Ardia
Marco Catola
con la collaborazione di/with the collaboration of
Chiara Giacobelli
Irene De Laurentiis (stage/intern)
Stampa regionale/Regional press
Beatrice Terenzi
Sito internet/Webmaster
Claudio Gnessi
Coordinamento proiezioni/Screenings Coordinator
Paolo Lucenò
Collaborazione alla selezione dei film
Programming assistance came from
Davide Cazzaro, Rebecca De Pas
Sergio Fant, Olaf Möller, Giovanni Ottone
Collaborazione Il cinema israeliano contemporaneo
Collaborators on Contemporary Israeli Cinema
Maurizio G. De Bonis, Ariel Schweitzer
Collaborazione Omaggio a Paolo Gioli
Collaborator Tribute to Paolo Gioli
Giacomo Daniele Fragapane
Coordinamento Dopofestival
After Hours Coordinator
Antonio Pezzuto
Coordinamento conferenze stampa
Coordinators of press conferences
Pierpaolo Loffreda, Mazzino Montinari
Concorso Video/Video Competition
L’Attimo Fuggente
Pierpaolo Loffreda (coordinamento/coordinator)
Giuria/Jury Paolo Angeletti, Gualtiero De Santi
Alberto Pancrazi, Fiorangelo Pucci
Mauro Rossi, Claudio Salvi
Traduzioni simultanee/Simultaneous translators
Anna Ribotta, Claudia Vettore
Progetto di comunicazione/Communication Design
33 Multimedia Studio
Consulenza assicurativa/Insurance consultants
I.I.M. di Fabrizio Volpe, Roma
Trasporti/Transportation
Stelci & Tavani, Roma
Ospitalità/Hospitality
A.P.A., Pesaro
Sottotitoli elettronici/Electronic subtitles
Napis, Roma - napis@napis.it
Allestimento Cinema in piazza e impianti tecnici
Cinema in the Square outfitters, technical equipment
L’image s.r.l., Padova
MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA
Via Villafranca, 20 - 00185 Roma
tel. (+39) 06 491156 / (+39) 06 4456643
fax (+39) 06 491163
www.pesarofilmfest.it
info@pesarofilmfest.it
INDICE
Si ringraziano
Oscar Alonso
Viviana Andriani
Simone Arcagni
Roberta Avolio
Laura Bartoletti
Karine Benzur
Francesca Bonetti
Massimo Brioschi
Brigitta Burger-Utzer
Martin Caraux
Tammy Cohen
Pamela Coppola
Valerio de Paolis
Frederique de Rooij
Federica de Sanctis
Andrea Di Mario
Maurizio Di Rienzo
Lucrezia Di Stefano
Nick Donnermeyer
Martine Dorin
Clément Duboin
Sergio Edelstein
Tania El Khoury
Michal Eliav
Emma Ettorre
Elena Fantasia
Fei Ling Foo
Galleria The Gallery Apart, Roma
Amir Harel
Patty Hewes
Gwen Joung
Yuval Kerstein
Suncem Kocer
Moshe Levinson
Paolo Mastrorosato
Anna Mastrorosato Coppola
Dafne Mauro
Mark Mc Elhatten
Assaf Mor
Maria Nadotti
Not Gallery, Napoli
Sarah Orazio
Ellen Parson
Cristina Piccino
Adam Rosner
Renzo Rossellini
Nancy Roth
Patrick Rumble
Estty Sade
Paola Scarnati
Minna Scorcu
Laurence Shonberg
Katriel Shory
Angiolo Stella
Meiske Taurisia
Edgard Tenembaum
Nikki Tok
Alessandro Usai
Sabrina Vedovotto
Rachel Wallach
Gerald Weber
Dieter Wieczorek
Gisela Wiltschek
Karl Winter
Orith Youdovich
Franco Zuliani
Si ringraziano inoltre
Ambasciata d’Israele a Roma
Israel Film Fund
Un ringraziamento particolare per
Omaggio a Paolo Gioli a
Paolo Vampa
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Pesaro 2009 - Brevi istruzioni per l’uso
di Giovanni Spagnoletti
LUNGOMARE ADRIATICO SETTE VARIAZIONI PER UN’ONDA
La sigla della Mostra di Mauro Santini
GIURIA
CONCORSO PESARO NUOVO CINEMA - PREMIO LINO MICCICHÈ
23° EVENTO SPECIALE: ALBERTO LATTUADA
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
BANDE À PART
Master Class: MARCO BELLOCCHIO E LA MUSICA
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OMAGGIO A PAOLO GIOLI
Il cinema paradossale di Paolo Gioli di Giacomo Daniele Fragapane
Il cinema verticale di Paolo Gioli di David Bordwell
«Se voglio svagarmi non vado al cinema». Conversazione con Paolo Gioli
di Giacomo Daniele Fragapane
Biografia e filmografia a cura di Giacomo Daniele Fragapane
I film di Paolo Gioli
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VIDEO DALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO
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IL DOPOFESTIVAL
VIDEO DAL LEMS - Laboratorio Elettronico di Musica Sperimentale
PERF ANIMAZIONI, FUMETTI, ILLUSTRAZIONI
Istituto Statale d’Arte di Urbino/Scuola del Libro
Concorso video “L’ATTIMO FUGGENTE”
PREMIO AMNESTY ITALIA “CINEMA E DIRITTI UMANI”
INDICE DEI FILM, REGISTI E CONTATTI
Pesaro 2009 – Brevi istruzioni per l’uso
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Come nelle sue migliori tradizioni e giunta ormai alla sua 45a edizione, la Mostra
Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro torna a parlare, sempre tramite le immagini
ovviamente, di temi scottanti e di politica. Il nome di Israele tende a evocare lutti storici e
guerre, la tragica questione della Shoa, l’altrettanto drammatica questione palestinese, in una
striscia di terra, la Palestina, che in più di sessanta anni non ha mai trovato una giusta quanto indispensabile pace tra due popoli perennemente in lotta. Il cinema israeliano è stato sinora in Italia una sorta di sotterraneo tabù, un non detto di cui era tempo che finalmente si
cominciasse a parlare. Sino a non molti anni fa, anche per gli addetti ai lavori, la cinematografia d’Israele si identificava solo e unicamente con la figura leader di Amos Gitai, regista di
punta di un cinema che però già a partire dagli anni Sessanta aveva iniziato a mostrare alcuni interessanti segnali di evoluzione.
È comunque soprattutto dall’inizio del nuovo Millennio e in particolare dal 2004 che i nuovi
filmmaker israeliani hanno iniziato a farsi conoscere in maniera più articolata e approfondita nell’ambito delle più qualificate manifestazioni internazionali, divenendo artefici di un
dibattito politico-culturale e di un confronto di idee, il cui fulcro resta sostanzialmente il problema geopolitico in Medio Oriente e più in specifico la questione palestinese con tutti i suoi
tragici problemi. Film come Or di Keren Yedaya, Ve’lakahta le’ha isha (E prenderai moglie) di
Ronit e Shlomi Elkabetz, Meduzot (Meduse) di Etgar Keret e Shira Geffen, Bufor (Beaufort) di
Joseph Cedar, Bikur Ha-Tizmoret (La banda) di Eran Kolirin o Etz Limon (Il giardino di Limoni)
di Eran Riklis e soprattutto Vals im Bashir (Walzer con Bashir) di Ari Folman – diversi dei quali
usciti anche sul mercato italiano oltre, ad esempio, alle opere di Eytan Fox (Yossi & Jagger e
Camminando sull’acqua) o di Oded Davidoff (Qualcuno con cui correre) – hanno ottenuto una
serie di riconoscimenti prestigiosi da parte delle maggiori manifestazioni cinematografiche
internazionali, tra cui il Festival di Cannes e quello di Berlino.
Grazie soprattutto a una nuova legge sul cinema e facendo leva su un intelligente sistema di
coproduzioni internazionali, Israele si propone oggi con un consistente nucleo di nuovi talenti in campo audiovisivo che stanno dando vita a un significativo cinema d’autore dalle precise caratteristiche critico-innovative e che, al tempo stesso, è diventato il maggiore specchio
critico della propria società e dei suoi drammatici problemi.
È questo il risultato di un salto di qualità già riscontrato nell’ambito delle altre arti visive (fotografia e videoarte) e nella produzione letteraria dove romanzieri come David Grossman,
Abraham B. Yehoshua e Amos Oz sono diventati celebri anche nel nostro paese. E tutto ciò
discutendo e mettendo in scena, in modo sempre fortemente critico, le principali tematiche che
attraversano e dividono l’odierna società israeliana: i rapporti tra religione e laicità dello Stato,
Noto, soprattutto in ambito internazionale, come uno tra i maggiori fotografi contemporanei,
Paolo Gioli a cui dedichiamo una ampia e approfondita Personale (nonché una mostra di
lavori fotografici recenti), è anche un filmmaker di straordinaria qualità, come forse potrà
ricordare qualche cinefilo formatosi negli ormai lontani anni Sessanta. Gioli che appunto ha
iniziato allora, nei swinging sixties, ha oggi al suo attivo oltre trenta lavori, un terzo dei quali
rimasti inediti (e che costituiscono la vera scoperta e novità del nostro omaggio). Citando il
curatore della sezione Daniele Fragapane: «Si tratta di opere difficilmente definibili nei termini dei consueti ambiti di produzione cinematografica e che invitano, semmai, a un’approfondita riflessione sulle stesse nozioni di “genere”, “stile”, “linguaggio”, “narrazione”, “sperimentazione” (malgrado alcuni film riportino nei titoli di testa la dicitura: “cinema sperimentale italiano”, l’autore si è più volte mostrato refrattario a una lettura in questa chiave del suo
lavoro, rivendicandone l’autonomia rispetto alle logiche dello sperimentalismo cinematografico)». Rompendo ogni steccato disciplinare, il filmmaker di Sarzano (Rovigo) ci offre allora
un raro esempio nel nostro cinema di laboratorio visuale. In esso troviamo intrecciate meditazioni e suggestioni provenienti dalla storia e dalla teoria del cinema, dalla storia dell’arte,
della fotografia, ovviamente, ma anche dalle tecnologie visuali e i loro dispositivi; nel suo
opus convivono gli studi sulla percezione visiva, l’epistemologia, la filosofia, la critica dell’ideologia e tanto altro ancora.
Sulla scia del lavoro delle scorse edizioni, il Concorso “Pesaro Nuovo Cinema-Premio Lino
Miccichè” (dotato di seimila Euro) continua nel suo intento di offrire una selezione di sette
film provenienti dai “punti caldi” della produzione cinematografica mondiale. Oltre a lavori
dalla Corea del Sud (Eoddeon gaien nal/The Day After), l’America Latina (presente con due co-
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
di Giovanni Spagnoletti
il problema del conflitto con il mondo arabo-palestinese, i temi della violenza, della guerra, la
sfera della sessualità, la condizione della donna e last but not least la relazione con la Shoah.
Curato insieme a due specialisti, il critico francese Ariel Schweitzer e Maurizio G. De Bonis,
il programma israeliano in cartellone alla 45a Mostra – sino ad oggi la retrospettiva più esaustiva proposta nel nostro paese – si compone di circa venti programmi tra lungometraggi di
finzione, documentari, documentazioni storiche (ad esempio la recentissima, monumentale
Historia shel h’akolnoa ha’israeli/Storia del cinema israeliano del francese Raphaël Nadjari, a cui
tra l’altro dedichiamo un focus riguardante la sua produzione in Israele) o ancora opere di
più piccolo formato, nella quasi totalità dei casi inedite in Italia. Insieme a un volume di documentazione e a una tavola rotonda, esse ci aiutano a fornire nuove e stimolanti chiavi di letture per tentare di avvicinarsi ai macroscopici problemi del Medio Oriente in maniera più
consapevole e meno aprioristica. Si tratta quindi di un’occasione da non perdere che restituisce al cinema il suo prioritario ruolo di privilegiata finestra sul mondo presente.
Parallelamente alla selezione dei film, si è pensato di proporre anche un’ampia selezione
dedicata alla videoarte, settore di punta della produzione audiovisiva, sempre presente nelle
più importanti biennali d’arte contemporanea internazionali. Anche se preminente, non è
tutto solo politica nel cinema israeliano contemporaneo dove l’elaborazione stilistica, come
cerchiamo di mostrare attraverso la nostra selezione, non privilegia unicamente un approccio
realistico ai temi scelti. Perciò in diversi film del giovane cinema israeliano troviamo elaborazioni e metafore poetiche o approcci di genere, elementi di commedia e di grottesco che ne
dimostrano la maturità.
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Nella sezione Fuori Concorso “Bande à part” – in cui dall’anno scorso vogliamo “valorizzare” proposte video, documentarie e sperimentali oltre ad alcuni film particolarmente originali o di montaggio (per esempio FILM IST. a girl & a gun dell’austriaco Gustav Deutsch) – si
ritrovano altri lavori di non fiction che approfondiscono la questione mediorientale: Rachel
della cineasta Simone Bitton (una ebrea marocchina residente in Francia) che come ne Il Muro
(vincitore nel 2004 del Premio Lino Miccichè) mette sotto osservazione la società israeliana;
oppure un’altra donna cineasta, questa volta italiana, Barbara Cupisti che in Vietato sognare
documenta a New York la collaborazione tra pacifisti palestinesi e israeliani. Ma poi si spazia
anche dalle atmosfere fordiane di Sweetgrass all’epica nascita del movimento studentesco
curdo all’università di Istanbul di Karim Öz (Bahoz/Firtina), dall’Indonesia di oggi di Babi
Buta Yang Ingin Terbang (Blind Pig Who Wants to Fly) all’India di un’insolita “corporation” femminile raccontata da Carola Spadoni in Meeting the S.E.W.A. Movement; per finire con l’anteprima internazionale di Malaysian Gods di Amir Muhammad (cineasta malesiano a cui, si
ricorderà, l’anno scorso abbiamo dedicato una Retrospettiva) e una “Master Class” di cinema
in cui Marco Bellocchio parlerà del suo rapporto con la musica.
Già da qualche anno il “Cinema in Piazza” presenta open air opere dalle principali sezioni del
festival, più consone a una fruizione per un pubblico non specializzato. Tra di esse segnaliamo quest’anno la prima assoluta di un film italiano, La fisica dell’acqua, che il suo regista Felice
Farina è riuscito finalmente a salvare e a completare con caparbia dal fallimento della produzione; e l’anteprima italiana subito dopo il Festival di Cannes di The Time That Remains, la
recentissima opera autobiografica di Elia Suleiman, il maggior regista palestinese.
Con le proiezioni del “Dopofestival”, che animeranno around midnight Palazzo Gradari per
quattro notti proponendo forme non canoniche di produzione audiovideo, il concorso video
dedicato alle giovani speranze de “L’attimo fuggente”, i video dal LEMS e dall’Accademia di
Belle Arti di Urbino, concludiamo questa nostra tradizionale presentazione senza non aver
fatto però cenno al 23° Evento Speciale Italiano.
Per la cura di Adriano Aprà, esso sarà dedicato a un grande autore della nostra cinematografia, Alberto Lattuada (1914-2005), un regista di cui oggi troppo poco si parla o si è parlato
rispetto alla sua grande importanza prospettica. In quasi mezzo secolo di attività, la filmografia del regista milanese conta 33 lungometraggi per il cinema oltre a importanti incursioni televisive. La retrospettiva sarà quindi l’occasione per rivedere grandi successi (e/o classici) del
nostro cinema come Il bandito (1946), Luci del varietà (1950), Anna (1951), Il cappotto (1952), Il
Mafioso (1962), Venga a prendere il caffè... da noi (1970) o Cuore di cane (1976) che sarà proiettato
in piazza, ma anche per valutare in tutta la sua importanza la figura di un grande maestro italiano della mise en scène cinematografica che ha saputo sfidare la censura del tempo affrontando, e trasformando in grande cinema, argomenti arditi o soggetti per l’epoca inediti.
Pesaro 2009 – Brief instructions for use
by Giovanni Spagnoletti
As in its best traditions, the 45th Pesaro Film Festival once again
speaks of pressing themes and politics – through images, naturally.
The name Israel tends to evoke historical mourning and wars, the
tragedy of the Shoah and the equally dramatic Palestinian problem,
in a strip of land, Palestine, that in over 60 years has never found a
just and necessary peace between two peoples perennially in conflict.
In Italy, Israeli cinema has until recently been an underground
taboo whose time has finally come. Even for film industry professionals, Israeli cinema was historically identified almost solely with
renowned director Amos Gitai, despite the fact that in the 1960s it
already began showing many interesting signs of evolution.
However, it was above all at the beginning of the new millennium
and in particular in 2004 that new Israeli filmmakers began
attracting greater attention at top festivals worldwide, as instigators of a political-cultural debate and exchanges of ideas that still
pivot around the geopolitical problems of the Middle East and, more
specifically, the Palestinian issue and all of its tragic consequences.
Films such as Keren Yedaya’s Or, To Take a Wife by Ronit and
Shlomi Elkabetz, Jellyfish by Etgar Keret and Shira Geffen, Joseph
Cedar’s Beaufort, Eran Kolirin’s The Band’s Visit, Eran Riklis’s
Lemon Tree and above all Ari Folman’s Waltz with Bashir –
many of which were released in Italy, alongside other films by, for
example, Eytan Fox (Yossi & Jagger and Walk on Water) and
Oded Davidoff (Someone to Run With) – have won numerous
prestigious prizes at leading international festivals, including
Cannes and Berlin.
Thanks above all to a new film law and an advantageous and intelligent system of international co-productions, Israel is today a consistent nucleus of new talents in the field, who are creating an
important auteur cinema that is both highly critical and innovative. This cinema has simultaneously also become the most powerful critic of Israeli society and its dramatic problems. This is the
result of a rise in quality already present in other visual arts (such
as photography and video art) and literature, with novelists such as
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
produzioni messicane: El árbol e La Sirena y el Buzo) e la Turchia (Kara Köpekler Havlarken/Black
Dogs Barking), ritorna alla Mostra il cinema “indie” americano con una coppia di film molto
differenti: nelle sognanti atmosfere in bianco e nero di Medicine for Melancholy e nella docufiction militante di Fixer: The Taking of Ajmal Naqshbandi. E in questo percorso “caldo” si inserisce La pivellina (Non è ancora domani) di produzione austriaca-italiana.
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45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Known above all internationally as a leading contemporary photographer, Paolo Gioli, the subject of a
wide retrospective at Pesaro (along with an exhibit of recent photos), is also an extraordinarily talented filmmaker. Gioli began in the swinging sixties and today has over 30 films to his name, a third of
which have never before been seen until now. To quote section curator Daniele Fragapane: “These
works are hard to define by the usual standards of film and, if anything, call for a deeper reflection on
the very notions of ‘genre,’ ‘style,’ ‘language,’ ‘narration and ‘experimentation’ (despite the fact that
the opening credits of some of the films bear the words ‘Italian experimental cinema,’ the filmmaker has
many times stubbornly negated this interpretation of his work, claiming them independent from the
logic of film experimentation).” Breaking all disciplinary boundaries, the filmmaker offers us a rare
example of a visual laboratory in Italian cinema. One that interweaves meditations and suggestions
that stem, for example, from film history and theory, art history, photography, as well as visual technologies and their machines. Within his oeuvre, studies on visual perception, epistemology, philosophy,
ideological criticism and much more live side by side.
As in previous editions, the Pesaro Nuovo Cinema-Premio Lino Miccichè Competition (worth 6,000
euros) once again offers a selection of seven films from the “hot spots” of international cinema.
Alongside “local” title La Pivellina (an Italian/Austrian co-production) and films from South Korea
(The Day After), Turkey (Black Dogs Barking) and Latin America (present with Mexican co-productions: The Tree and The Mermaid and the Diver), indie US cinema also returns to Pesaro, in
two very different works: the dreamlike, b&w Medicine for Melancholy and the militant docu-fiction Fixer: The Taking of Ajmal Naqshbandi.
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The out-of-competition section Bande à Part – which since last year includes documentary and experimental videos as well as particularly original or found footage films (such as FILM IST. a girl & a
gun by Austria’s Gustav Deutsch) – offers further works of non-fiction that probe the Middle East. In
Rachel, Simone Bitton (a Moroccan Jew residing in France), as she
did in The Wall (winner of the 2004 Premio Lino Miccichè
Competition), once again examines Israeli society; while
Forbidden Childhood by Italian filmmaker Barbara Cupisti documents the collaboration between Palestinian and Israeli pacifists
in New York. The section also spans other countries, styles and
events: from the Fordian atmospheres of Sweetgrass to the epic
birth of the Kurdish students movement in Istanbul captured by
Karim Öz (The Storm); from the contemporary Indonesia of Blind
Pig Who Wants to Fly to India and the original women’s “corporation” recounted by Carola Spadoni in Meeting the Sewa
Movement; from the international premiere of Malaysian Gods
by Amir Muhammad (the Malaysian filmmaker to whom we dedicated a retrospective in 2008) to a Master Class in which Marco
Bellocchio will speak of his relationship with music.
As it has for some years now, Cinema in the Square offers those
titles from the festival’s various sections that are best suited to
wider audiences. This year’s open-air screenings in Pesaro’s main
square will include the premiere of Italian film La Fisica
dell’Acqua, which director Felice Farina had to fight to save and
complete; and the Italian premiere of the Cannes 2009 hit The
Time That Remains, the recent, autobiographical film by leading
Palestinian director Elia Suleiman.
We round out the Pesaro Film Festival program with After Hours,
the section that for four nights will animate Palazzo Gradari “round
midnight,” with original forms of audio-video production; the video
competition for aspiring filmmakers, L’Attimo Fuggente; and the
videos from the LEMS department of the Urbino Fine Arts Academy
But that is not all. This year’s 23rd Italian Special Event, organized
by Adriano Aprà, is dedicated to the great Alberto Lattuada (19142005), a director who has been too rarely mentioned with respect to
his enormous artistic importance. In almost half a century of activity, Lattuada’s filmography came to include 33 feature films as well
as important television works. The retrospective offers a chance to
revisit such hits and/or classics of Italian cinema as The Bandit
(1946), Variety Lights (1950), Anna (1951), The Overcoat
(1952), Mafioso (1962), The Man Who Came for Coffee (1970)
and Dog’s Heart (1976), the latter which will screen in the square.
Audiences will moreover have the chance to evaluate the importance of a great Italian maestro who knew how to defy the censorship of his era, tackling and turning into great cinema the bold
arguments and subjects not openly discussed at the time.
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
David Grossman, Abraham B. Yehoshua and Amos Oz having achieved fame in our country as well.
All this while discussing and presenting, always in a highly critical manner, the main themes that traverse and divide contemporary Israeli society: the relationships between religion and state secularism,
the conflict with the Arab world and Palestinians, violence and war, sexuality, women’s rights and last,
but certainly not least, the Holocaust.
Organized with two experts, French critic Ariel Schweitzer and Maurizio G. De Bonis, our Israeli
focus – thus far the most exhaustive such showcase in Italy – comprises numerous feature films, historical documentaries (such as the very recent, monumental A History of Israeli Cinema by French
filmmaker Raphaël Nadjari, to whom we also dedicate a retrospective of his Israeli productions) and
shorter works, almost all of them Italian premieres. Along with an accompanying book and round table,
these works help give us new and stimulating interpretations with which to attempt to approach the
macroscopic problems of the Middle East in an increasingly more aware and less aprioristic manner.
This is an occasion not to be missed, which restores to cinema its rightful role as a privileged window
onto the present. The films are also flanked by a wide selection of video art, a leading sector of audiovisual production that is ever more present at the most important international contemporary art biennales. Although politics are prominent, there is more to contemporary Israeli cinema, and the diverse
styles do not merely opt for a realistic approach to their chosen themes. Thus, various films of young
Israeli cinema offer poetic elaborations and metaphors, diverse genres and elements of comedy and the
grotesque that prove its very maturity.
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Mauro Santini
LUNGOMARE ADRIATICO SETTE VARIAZIONI PER UN’ONDA
La sigla della Mostra
The festival trailers
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
«Da Piazza del Popolo si scende verso il mare, passando per Via Rossini; superato il
Cinema Astra si percorre Viale della Repubblica, fino all’incrocio con Lungomare
Adriatico... Ma a Pesaro una via chiamata Lungomare Adriatico non esiste: queste sette
variazioni raccontano dunque di un luogo immaginario, forse sognato, da percorrere lentamente, smarrendosi fra colori, suoni, luci, ombre... “Un luogo dello spirito”, forse, come
Pasolini definiva Pesaro e la sua Mostra.
Lungomare Adriatico è nato a seguito della richiesta, da parte della Mostra del Nuovo
Cinema di Pesaro, di realizzare una nuova sigla per il festival; il proposito iniziale si è poi
amplificato in sette sigle, una per ogni giornata della rassegna. Il progetto è composto di
sette variazioni su un unico soggetto: un’onda». (Mauro Santini)
“In Pesaro, one descends to the sea from Piazza del Popolo, down Via Rossini. After the Cinema
Astra one takes Viale della Repubblica, to the intersection with the Lungomare Adriatico... Yet in
Pesaro a street named Lungomare Adriatico does not exist. Thus, these seven variations depict a
place that is imaginary, perhaps dreamt, to stroll down slowly, lost among its colors, sounds, lights,
shadows… Perhaps ‘a place of the spirit,’ as Pasolini called Pesaro and its Festival.
Lungomare Adriatico came about as a commission to create a new trailer for the Pesaro Film
Festival. The original idea expanded to seven trailers, one for each day of the event. The project is
composed of seven variations on a single subject: a wave.” (Mauro Santini)
montaggio/editing Mauro Santini
musica/music Mario Mariani
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Mario Mariani (1970, Pesaro) è pianista e compositore, scrive musica per ensemble, soli e
orchestra, colonne sonore per cinema, televisione e teatro collaborando tra gli altri con la
Biennale di Venezia, (con le due sigle della Mostra), Auditorium di Roma e il Teatro Stabile
delle Marche. Come pianista collabora con numerosi enti internazionali (tra cui il Knitting
Factory di New York e al New England Conservatory di Boston) effettuando tournée negli
Istituti Italiani di Cultura all’Estero. Ha composto le colonne sonore di film di Vittorio
Moroni e con Sotto il mio giardino di Andrea Lodovichetti ha vinto il premio per la migliore
colonna sonora originale al Novaracinefestival.
Since 2000, Mauro Santini (Fano, 1965) has been creating unscripted video diaries, first-person
stories on time, memory and the search for one’s self. These include Da lontano, winner of the
Spazio Italia section of the 2002 Turin Film Festival. His works have screened numerous times at
Pesaro and at other international festivals such as Locarno, Jeonju, Annecy, Oberhausen, DocLisboa,
Cinémas différents Paris, Rencontres Paris/Berlin/Madrid and Montpellier, among others. In 2006
he made the experimental feature Flòr da Baixa and in 2008 several of his works were presented at
the La Cinémathèque Française in Paris, as part of “La cité des yeux, une saison italienne.” His films
are distributed by the Paris-based association Collectif Jeune Cinéma.
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Mauro Santini (1965, Fano) dal 2000 compone una serie di videodiari realizzati senza sceneggiatura, con un racconto in prima persona legato al tempo, alla memoria e alla ricerca di sé:
fra questi Da lontano, vincitore al Festival Torino nel 2002 nella sezione “Spazio Italia”. Ha
partecipato più volte alla Mostra di Pesaro e a Festival internazionali tra i quali Locarno,
Jeonju, Annecy, Cinémas différents Paris, Rencontres Paris/Berlin/Madrid, Oberhausen,
DocLisboa, Montpellier. Nel 2006 ha realizzato il lungometraggio sperimentale Flòr da Baixa
e nel 2008 è stato presente con più opere a La Cinémathèque Française di Parigi nel programma della rassegna “La cité des yeux, une saison italienne”. I suoi film sono distribuiti dall’associazione “Collectif Jeune Cinéma” di Parigi.
A pianist and composer, Mario Mariani (Pesaro, 1970) writes music for ensembles, soloists and
orchestras; film, television and theatre soundtracks; and has worked with the Venice Biennale (creating
the opening music for two editions), the Auditorium in Rome and the Marches Region Repertory
Theatre. As a pianist, his numerous international collaborations include New York’s Knitting Factory
and the New England Conservatory of Boston; and he tours in various Italian Institues of Culture
abroad. He has composed the soundtracks to Vittorio Moroni’s films and he won the Best Original
Soundtrack prize at Novaracinefestival for his work on Andrea Lodovichetti’s Sotto il mio giardino.
formato/format HDV
durata/running time 5’ (7 cortometraggi di 43”/Seven, 43-second shorts films)
15
LA GIURIA
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
16
Luca Guadagnino (1971, Palermo) si è laureato all’Università “La
Sapienza” di Roma, con una tesi su Jonathan Demme. Critico e scrittore di
saggi, ha esordito negli anni Novanta alla regia di documentari, tra i quali
citiamo Lia Rumma a Napoli (1994) e Algerie (1995). Nel 1997 ha presentato
il cortometraggio Qui al Festival di Taormina. L’esordio alla regia di un
lungometraggio risale al 1999 con The Protagonists, selezionato alla Mostra
di Venezia, protagonista Tilda Swinton che ritroveremo nel nuovo film
ancora in fase di postproduzione, Io sono l’amore, e che viene omaggiata
nel 2002 con Tilda Swinton: The Love Factory, sempre presentato in anteprima a Venezia. Tra il 2003 e il 2004 escono i documentari Mundo civilizado e
Cuoco contadino, entrambi proiettati in festival internazionali. Nel 2005 ha
realizzato il primo lungometraggio totalmente di finzione, Melissa P.
Roberto Nepoti è professore associato all’università di Trieste, dove insegna Filmologia e Storia del cinema. Ha pubblicato libri sul cinema americano e il documentario, monografie di registi nonché (col titolo L’illusione
filmica, UTET 2004) il primo manuale italiano di Filmologia. Ha partecipato a opere collettive italiane e straniere, tra cui numerosi volumi editi in
occasione delle varie edizioni della Mostra di Pesaro. Ha in preparazione
un libro sul cinema di guerra. Ha collaborato e collabora con riviste sul
cinema e gli audiovisivi. Per diversi anni ha selezionato i film della
“Settimana della Critica” di Venezia. Consulente di FilmItalia per il cinema documentario, nel 2008 ha scelto documentari e film narrativi per la
prima edizione del Festival Italiano di Madrid. Critico cinematografico
del quotidiano «la Repubblica», tiene una rubrica sempre di critica cinematografica per RadioCapital.
Valentina Cervi (Rome, 1976) made her acting debut in 1988 in Francesca
Archibugi’s Mignon è Partita. She has worked on numerous films, including Jane Campion’s The Portrait of a Lady (1996), Agnès Merlet’s
Artemisia (1997), Mike Figgis’ Hotel (2001), Sergio Rubini’s Soul Mate
(2002) and Luca Guadagnino’s Mundo Civilizado (2003). Most recently,
she appeared in Spike Lee’s Miracle at St. Anna, Francesco Munzi’s The
Rest of the Night and Life Sentence by Davide Barletti and Lorenzo
Conte; and on television in the series Donne Assassine and the epic War
and Peace, directed by Robert Dernholm. Her stage work in Italy includes
Sexual Perversity in Chicago (2000) and The Rules of Attraction
(2002). She was nominated for a Best Debut Actress César for Nothing
About Robert (1999) and a David di Donatello in 2005 for her performance in Stefano Mordini’s Provincia Meccanica.
Luca Guadagnino (Palermo, 1971) graduated from the La Sapienza
University in Rome with a thesis on Jonathan Demme. A critic and essayist, he began making documentaries in the 1990s, including Lia Rumma a
Napoli (1994) and Algerie (1995). In 1997, his short film Qui screened at
the Taormina Film Festival. His feature debut came in 1999 with The
Protagonists, which premiered at the Venice Film Festival and starred Tilda
Swinton, who will also appear in his latest film, currently in post-production, I Am Love, and to whom he paid homage in 2002 with Tilda
Swinton: The Love Factory, also selected at Venice. In 2003 and 2004 he
made the documentaries Mundo Civilizado and Cuoco Contadino, both
of which played international festivals. In 2005 he made his first, fully narrative feature film, Melissa P.
Roberto Nepoti is an Associate Professor at the University of Trieste,
where he teaches Film Theory and Film History. He has published books on
American cinema, documentaries and individual directors, as well as the
first Italian textbook on Film Theory, entitled L’Illusione Filmica. His
writings have been included in both foreign and Italian collections, including numerous volumes put out by the Pesaro Film Festival. He is currently
preparing a book on war cinema. He covers film for print, radio and television media. For a number of years he was a programmer of the Critics’ Week
sidebar of the Venice Film Festival. A documentary film consultant for
FilmItalia, in 2008 he selected the documentaries and narrative films for the
first Italian Festival in Madrid. A film critic for national daily La
Repubblica, he also hosts a film program on RadioCapital.
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Valentina Cervi (1976, Roma) ha debuttato nel 1988 in Mignon è partita di
Francesca Archibugi. Ha lavorato tra gli altri in Ritratto di signora (1996) di
Jane Campion, Artemisia - Passione estrema (1997) di Agnès Merlet, Hotel
(2001) di Mike Figgis, L’anima gemella (2002) di Sergio Rubini, Mundo
Civilizado (2003) di Luca Guadagnino. E recentemente in Miracolo a
Sant’Anna di Spike Lee, Il resto della notte di Francesco Munzi, Fine pena
mai di Davide Barletti e Lorenzo Conte, nella serie Donne assassine e nel
colossal televisivo Guerra e Pace diretto da Robert Dernholm. Ha interpretato in teatro nel 2000 le Perversioni Sessuali a Chicago e nel 2002 Le Regole
dell’attrazione. È stata nominata ai César come miglior attrice esordiente in
Rien sur Robert (1999) e ha ricevuto una nomination ai David di Donatello
nel 2005 per l’interpretazione di Provincia Meccanica di Stefano Mordini.
THE JURY
17
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Nel complesso del sistema audiovisivo italiano, i
festival rappresentano un soggetto fondamentale per la promozione, la conoscenza e la diffusione della cultura cinematografica e audiovisiva,
con un’attenzione particolare alle opere normalmente poco rappresentate nei circuiti commerciali come ad esempio il documentario, il film di
ricerca, il cortometraggio. E devono diventare un
sistema coordinato e riconosciuto dalle istituzioni pubbliche, dagli spettatori e dagli sponsor.
Within the framework of the Italian audiovisual system, film festivals are fundamental in the promotion,
awareness and diffusion of cinema and audiovisual
culture, as they pay particular attention to work that
is usually not represented by commercial circuits,
such as, for example, documentaries, experimental
films and short films. And they must become a system
that is coordinated and recognized by public institutions, spectators and sponsors alike.
L’AFIC nell’intento di promuovere il sistema festival nel suo insieme, rappresenta già oggi più di
trenta manifestazioni cinematografiche e audiovisive italiane ed è concepita come strumento di
coordinamento e reciproca informazione.
In its objective to promote the entire festival system,
the AFIC already represents over thirty Italian film
and audiovisual events and was conceived as an
instrument of coordination and the reciprocal
exchange of information.
Per questo motivo e per un concreto spirito di
servizio è nata nel novembre 2004 l’Associazione
Festival Italiani di Cinema (AFIC). Gli associati
fanno riferimento ai principi di mutualità e solidarietà che già hanno ispirato in Europa l’attività della Coordination Européenne des Festivals.
Inoltre, accettando il regolamento, si impegnano
a seguire una serie di indicazioni deontologiche
tese a salvaguardare e rafforzare il loro ruolo.
For this reason, and in the explicit spirit of service, the
Association of Italian Film Festivals (AFIC) was
founded in November, 2004. The members follow the
ideals of mutual assistance and solidarity that are the
guiding principles of the Coordination Européenne
des Festivals and, upon accepting the Association's
regulations, furthermore strive to adhere to a series of
ethical indications aimed at safeguarding and reinforcing their role.
Aderiscono all’AFIC le manifestazioni culturali
nel campo dell’audiovisivo caratterizzate dalle
finalità di ricerca, originalità, promozione dei
The festivals that are part of the AFIC are characterized
by their search for the new, originality, and the promo-
talenti e delle opere cinematografiche nazionali
ed internazionali.
L’AFIC si impegna a tutelare e promuovere,
presso tutte le sedi istituzionali, l’obiettivo primario dei festival associati.
18
tion of talent and national and international films.
The AFIC is committed to protecting and promoting,
through all of its institutional branches, the primary
objective of the member festivals.
Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic)
Via Villafranca, 20, 00185 Roma, Italia
www.aficfestival.it
PESARO NUOVO CINEMA
PREMIO LINO MICCICHÈ
Fotografia di Anthony Ettorre
Mehmet Bahadir Er & Maryna Gorbach
KARA KÖPEKLER HAVLARKEN
Black Dogs Barking
sceneggiatura/screenplay Mehmet Bahadir Er
fotografia/cinematography
Sviatoslav Bulakovskyi
montaggio/editing
Maryna Gorbach, Mehmet Bahadir Er
musica/music Alp Erkin Çakmak, Baris Diri
suono/sound Umut Senyol
scenografia/art direction
Mehmet Bahadir Er, Serdar Y›ılmaz
interpreti/cast Cemal Toktas (Selım)
Volga Sorgu (Çaça), Erkan Can (Usta)
Taylan Ertugrul (Reis), Ayfer Dönmez (Ayflse)
produttore/producer Mehmet Bahadir Er
produzione/production Kara Kirmizi Film
Giovani e irrequieti, Selim e Çaça vivono un’esistenza mediocre nei sobborghi di Istanbul.
Di giorno allevano piccioni, di notte si aggirano per le strade a bordo della loro auto truccata. Vogliono aprire un parcheggio vicino a un enorme centro commerciale, appoggiati
anche dal capo della mafia locale. Ma Sait, una losca guardia di sicurezza del centro, non
ha intenzione di concedere il suo territorio ai nuovi arrivati. La polizia, inoltre, è in cerca
dei due ragazzi per raccogliere prove contro la mafia. Non passa molto tempo quando i due
scoprono di esserci dentro fino al collo.
Young and restless, Selim and Çaça live a meagre existence on the outskirts of Istanbul. By day they
grow pigeons, by night they roam the streets in their pimped up car. They want to open a parking
lot near a huge mall and are even backed by the local mafia boss. But Sait, the dodgy mall security
guard, isn’t about to give up his turf to newcomers. The cops are also after the boys to gather evidence against the mafia. It isn’t long before the two find themselves well in over their heads.
Mehmet Bahadir Er (1982, Turchia) ha studiato regia presso la Mimar Sinan Fine - Art
University Cinema - Tv Faculty of Directing
e si è diplomato alla scuola di cinema di
Istanbul. Tra i suoi cortometraggi, Zilzal ha
vinto l’Istanbul Independent Film Festival ed
è stato selezionato a Rotterdam e a Locarno.
Maryna Gorbach (1981, Ucraina) si è laureata nel 2007 in regia presso la Andrzej
Wajda Master School of Film Directing di
Varsavia. Precedentemente ha conseguito
altri titoli di studio alla Kyiv National
University of Theatre, Cinema and TV
(2005) e alla Hollywood School in Ucraina
(2006). Ha diretto documentari per il canale
televisivo ICTV. I suoi corti sono stati selezionati in numerosi festival internazionali.
Kara Köpekler Havlarken è per entrambi il
lungometraggio d’esordio.
Mehmet Bahadır Er (Turkey, 1982) studied
directing at the Mimar Sinan University of
Fine Arts and graduated from the Istanbul
Film School. His short film Zilzal won the
Istanbul Independent Film Festival and was
selected at Rotterdam and Locarno.
Maryna Gorbach (Ukraine, 1981) graduated
in Film Directing from Warsaw’s Andrzej
Wajda Master School of Film Directing in 2007.
She previously studied at the Kyiv National
University of Theatre, Cinema and TV (2005)
and the Hollywood School in the Ukraine
(2006). She has directed documentaries for
broadcaster ICTV. Her short films have been
selected at numerous international festivals.
Black Dogs Barking marks the feature debut
for both directors.
PESARO NUOVO CINEMA - PREMIO LINO MICCICHÈ
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Turchia 2009, 90’, 16mm, 35mm, colore
Maryna Gorbach: Kara Köpekler Havlarken (Black Dogs Barking, 2009)
The Debt (2006, cm), The Jar (2004, cm)
Mehmet Bahadir Er: Kara Köpekler Havlarken (Black Dogs Barking, 2009)
Araf (The Heights, 2007, cm), Umut (Hope, 2006, cm), Zilzal (The Earthquake, 2005, cm)
Goygoy (Noki Noki, 2004, cm)
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Tizza Covi & Rainer Frimmel
LA PIVELLINA
Non è ancora domani
sceneggiatura/screenplay Tizza Covi
fotografia/cinematography
Rainer Frimmel
montaggio/editing Tizza Covi
suono/sound Tizza Covi
interpreti/cast
Patrizia Gerardi, Walter Saabel
Tairo Caroli, Asia Crippa
produttore/producer Rainer Frimmel
produzione/production Vento Film
con il sostegno di/with support from
Austrian Film Commission
Provincia di Bolzano-Alto Adige
vendite internazionali/world sales
Films Distribution
distribuzione/distribution Officine UBU
Abbandonata in un parco, Asia, una bambina di due anni viene trovata da Patti, una donna
che vive con il marito in una roulotte a San Basilio, alla periferia di Roma, all’interno di una
comunità di circensi. Con l’aiuto di Tairo, un ragazzino che vive con sua nonna Patti inizia a
cercare la madre della bambina. «Conosciamo questi circensi di San Basilio da molti anni e sappiamo bene che sono visti in modo negativo: il nostro obiettivo era far capire come vivono e
che anche loro hanno un gran desiderio di aiutare gli altri». (Tizza Covi & Rainer Frimmel)
Abandoned in a park, two-year-old Asia is found by Patti, a circus woman living with her husband
Walter in a trailer park on the outskirts of Rome, in San Basilio. With the help of Tairo, a 13-yearold boy who lives with his grandmother, Patti starts to search for the girl’s mother. “We’ve known
the circus people of San Basilio for many years and know just how negatively they are seen. Our goal
was to make people understand how they live and that even they have a great desire to help others.”
(Tizza Covi & Rainer Frimmel)
Tizza Covi (1971, Bolzano) ha vissuto a
Parigi e Berlino, e si è formata come fotografa alla Grafische Lehranstalt di Vienna. In
seguito si è trasferita per alcuni anni a Roma
dove ha lavorato come fotografa freelance.
Anche Rainer Frimmel (1971, Vienna) si è
formato da fotografo alla Grafische Lehranstalt di Vienna.
Nel 2002 Frimmel e Covi hanno fondato la
Vento Film. Insieme hanno realizzato due
documentari: Das ist alles proiettato e premiato a Nyon, e Babooska vincitore tra gli
altri al Festival dei Popoli di Firenze, a
Diagonale e al Cinéma du réel. La pivellina è
il loro primo lungometraggio di finzione,
presentato alla “Quinzaine des réalisateurs"
di Cannes e premiato con il "Label Europa
Cinemas” 2009.
Tizza Covi (Bolzano, 1971) lived in Paris and
Berlin before studying to become a photographer
at the Graphische Lehranstalt in Vienna. After
finishing her studies she went to Rome, where she
worked as a freelance photographer.
Rainer Frimmel (Vienna, 1971) also graduated
as a photographer from the Graphische Lehranstalt in Vienna.
In 2002 Covi and Frimmel founded their production company Vento Film. Together, they have
made two documentaries: That’s All, which was
screened and awarded in Nyon; and Babooska,
winner of, among others, the Festival dei Popoli
in Florence and the Diagonale and Cinéma du
réel festivals. La Pivellina is their first narrative
feature. It premiered in the Directors’ Fortnight
at Cannes 2009 and won the Label Europa
Cinemas Award.
PESARO NUOVO CINEMA - PREMIO LINO MICCICHÈ
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Austria, Italia 2009, 100’, super 16mm, colore
La Pivellina (Non è ancora domani, 2009)
Babooska (2005, doc)
Das ist alles (That ’s All, 2001, doc)
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Barry Jenkins
MEDICINE FOR MELANCHOLY
Stati Uniti 2008, 87', HD, colore
interpreti/cast
Wyatt Cenac (Micah), Tracey Heggins (Jo’)
produttore/producer Justin Barber
produzione/production Strike Anywhere
vendite internazionali/world sales IFC Films
Una storia d'amore nata da un incontro casuale e dall’avventura di una notte, raccontata
attraverso due ventenni afroamericani che si confrontano su questioni di classe, di identità
e su cosa significhi appartenere a una minoranza etnica a San Francisco. «Medicine for
Melancholy racconta quanto oggi sia complesso appartenere a una minoranza in declino
nelle maggiori città d’America e nei centri culturali. Essere afroamericani richiede allora
una forza maggiore sia per far valere la propria identità che per confrontarsi con le minoranze storicamente meno rappresentate». (Barry Jenkins)
A love story of a random encounter and a one-night stands, told through two African-American twenty-somethings dealing with issues of class, identity and being a minority in San Francisco.
"Medicine for Melancholy illuminates the modern complexities of living as a declining minority in
America’s major cities and cultural centers. Being African-American demands a struggle to assert
one’s own identity and be on par with historically lesser-represented minorities." (Barry Jenkins)
Barry Jenkins (Miami) dopo aver completato i suoi studi in regia e scrittura creativa alla
Florida State University, si è stabilito a Los
Angeles dove ha lavorato come assistente
alla regia per la Harpo Films. Attualmente
vive a San Francisco dove lavora di giorno
per pagarsi l’affitto e passa le notti scrivendo,
scrivendo e scrivendo. Ha diretto due cortometraggi Little Brown Boy e My Josephine,
prima di esordire alla direzione di un lungometraggio con Medicine for Melancholy.
After graduating in film and creative writing,
Barry Jenkins (Miami) relocated to Los
Angeles, where he worked as a director's assistant and development associate for Harpo Films.
He currently resides in San Francisco, working
for the rent check by day and writing, writing
and writing by night. He is the writer-director
of the short films My Josephine and Little
Brown Boy. Medicine for Melancholy is his
first feature film.
PESARO NUOVO CINEMA - PREMIO LINO MICCICHÈ
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
sceneggiatura/screenplay Barry Jenkins
fotografia/cinematography James Laxton
montaggio/editing Nat Sanders
musica/music Greg O’Bryant
suono/sound Niko Zasimczuk
Medicine for Melancholy (2008)
Little Brown Boy (2003, cm)
My Josephine (2003, cm)
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Lee Suk-gyung
EODDEON GAIEN NAL
The Day After
sceneggiatura/screenplay Lee Suk-gyung
fotografia/cinematography Kim Jae-hong
montaggio/editing Lee Suk-gyung
musica/music Shin Seong-ah
suono/sound
Kim Soo-duk
costumi/costumes
Oh Hyun-lim, Kim Hee-sun
interpreti/cast Kim Bo-young (Bo-young)
Chi Cheong-nam (Cheong-nam)
Kwon Yerim (Yerim)
produttore/producer Kwon Oh-sung
produzione/production
Korean Academy of Film Arts (KAFA)
vendite internazionali/world sales
CJ Entertainment
La storia di Bo-young, una scrittrice di mezza età divorziata da poco. È depressa e spesso in
conflitto con una figlia che le mostra indifferenza. Durante un viaggio di lavoro divide la stanza con Cheong-nam, anch’essa divorziata. Le due donne passano la notte bevendo birra, condividendo storie mai raccontate prima e decidendo di cambiare vita. «Per chi abita vicino alla
città più moderna della Corea del Sud, il ritmo di vita è così rapido da far abituare le persone
comuni a nascondere le proprie sofferenze e a indossare maschere sociali». (Lee Suk-gyung)
The story of Bo-young, a middle-aged writer recently divorced. She is drepressed and often picks
fights with her indifferent daughter. On a business trip she rooms with Cheong-nam, also a divorced
woman. They stay up all night drinking beer, sharing stories never told before and deciding to make
big changes in their lives. “For so-called ‘normal people’ living near [South] Korea’s most modern
city, the pace of everyday life is so rapid that they have become so accustomed to hiding their pains
and putting on their social masks.” (Lee Suk-gyung)
Lee Suk-gyung (1964, Seoul, Corea del Sud)
si è laureata in lingua tedesca presso la Korea
University e sul femminismo alla Ewha
Womans University. Ha insegnato Studi
sulle donne all’Università di Seoul. È attivista nel movimento per i diritti delle donne:
dirige il Yeo-Sung-Sa (Società per le donne) e
il Centro Assistenza Violenze Sessuali della
Corea del Sud (KSVRC). Ha presentato per la
EBS (Educational Broadcasting System) un
programma che affronta tematiche sociali
legate alle cause femminili (libertà, uguaglianza, pace). È attualmente editrice di
Zooma, una comunità on-line per i diritti
delle donne. Il suo libro Lady That Smokes è
stato pubblicato nel 2001.
Lee Suk-gyung (Seoul, South Korea, 1964)
graduated in German from Korea University
and went to graduate school at Ewha Womans
University. She taught Women’s Studies at the
University of Seoul. She works as an activist for
women’s rights and is former director of the
“Yeo-Sung-Sa” (Women’s Society) Publication
Company and a former managing director at
Korea Sexual Violence Relief Center (KSVRC).
She hosted a show discussing freedom, equality,
and peace for women on EBS (Educational
Broadcasting System), and is currently editor of
Zooma, an online community for women’s
rights. Her book Lady That Smokes was published in 2001.
PESARO NUOVO CINEMA - PREMIO LINO MICCICHÈ
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Corea del Sud 2009, 87', HD, colore
The Day After (2009), Once Again (2007, cm)
A Short Walk (2006, cm), On Sunday Afternoon (2006, cm)
The First Night (2004, cm), 38-Year-Old Lori (2004, cm, doc)
In sight (2003, cm), The Funeral of Mrs. Kim (2003, cm)
27
Mercedes Moncada Rodríguez
LA SIRENA Y EL BUZO
The Mermaid and the Diver
sceneggiatura/screenplay
Mercedes Moncada Rodríguez
fotografia/cinematography Alex Catalán
Emiliano Villanueva, Cuco Villarías
montaggio/editing Mercedes Cantero López
suono/sound José A. Manovel
produttore/producer
Gervasio Iglesias
Jorge Sánchez Sosa
produzione/production
Amaranta, La Zanfoña, IMCINE
vendite internazionali/world sales Latido Films
Il corpo del sommozzatore Sinbad compare alla deriva della costa atlantica del
Nicaragua. Una sirena trasferisce la sua anima nel corpo di una tartaruga, per mezzo
della quale Simbad riesce a tornare nel mondo degli umani. «La costa atlantica del
Nicaragua e i suoi abitanti sono da sempre emarginati dal resto del Paese. È la parte più
povera del Paese e ha evidenti carenze di risorse economiche. Accettarli significherebbe
riconoscere il Nicaragua come Paese multilingue, multirazziale e multiculturale».
(Mercedes Moncada Rodríguez)
The body of Sinbad the Diver turned up floating off the Atlantic coast of Nicaragua. A mermaid
turned his soul into a turtle, who returned him to the world of men. "Historically, the Atlantic coast
of Nicaragua and its population have been marginalized from the rest of the country. They are the
poorest in economical resources. Accepting [these people] implies acknowledging Nicaragua as a
multi-lingual, multi-racial and multi-cultural country." (Mercedes Moncada Rodríguez)
Mercedes Moncada Rodríguez (1972,
Siviglia) si è laureata in sociologia e si è
occupata di ricerca e sviluppo sostenibile
nell’ambito di progetti rurali. Tra il 1996 e il
2001 ha prodotto pubblicità, documentari e
film di finzione. Ha fondato la Mexican
Chango Films, casa di produzione con la
quale ha realizzato nel 2003, con il supporto
del Sundance Documentary Fund, La Pasión
de María Elena, premiato come miglior documentario messicano a Guadalajara, e come
miglior documentario ai Festival di San
Paolo e Gerusalemme. El Inmortal è stato
proiettato nella sezione Forum della
Berlinale, al Festival di San Sebastian e al
Sundance. Inoltre è stato scelto come film di
chiusura in occasione della riapertura del
MoMa di New York, e si è imposto al
Festival di Guadalajara come miglior documentario latino-americano.
Mercedes Moncada Rodríguez (1972, Seville)
has a degree in sociology and before making films
worked in field research and sustainable development of rural projects. From 1996-2001 she produced commercials, documentaries and fiction
films. She is a founding partner of Mexican
Chango Films, through which she directed and
produced, with the support of Sundance
Documentary Fund, the feature documentary La
Pasion de Maria Elena (2003). It went on to
win Best Mexican Film at the Guadalajara Film
Festival and Best Documentary at the Sao Paulo
and Jerusalem film festivals. Her documentary
The Immortal (2005) screened in the Berlinale
Forum, San Sebastian and Sundance, among
other festivals. It was also the closing night film
of the MoMA re-opening celebration in New
York and won Best Latin American Feature
Documentary at the Guadalajara Film Festival.
PESARO NUOVO CINEMA - PREMIO LINO MICCICHÈ
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Messico, Spagna, Nicaragua 2009, 86', super 16mm, colore
La Sirena y el Buzo (The Mermaid and the Diver, 2009)
El Inmortal (The Immortal, 2005, doc)
La Pasión de María Elena (2003, doc),
Sin dejar huella (2000)
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Ian Olds
FIXER: THE TAKING OF AJMAL NAQSHBANDI
Stati Uniti, Afghanistan 2009, 84', HDV, colore
produttore/producer
Nancy Roth, Ian Olds
produzione/production G Films
vendite internazionali/world sales Roko Films
Il documentario segue la collaborazione tra un interprete afgano, Ajmal Naqshbandi, e il giornalista americano Christian Parenti. Durante le riprese Ajmal viene rapito insieme a un reporter italiano. «Quando sono venuto a conoscenza della sorte di Ajmal, la mia prima reazione è
stata di abbandonare completamente il progetto. Ma più pensavo a ciò che avevo già filmato
con Ajmal, più ero certo che dovevo portarlo a termine. C’è un insieme di forze che hanno condotto alla sua morte. Capire quali siano state è diventata la linea guida del film». (Ian Olds)
The documentary follows the relationship between Afghan interpreter Ajmal Naqshbandi and the
American journalist Christian Parenti. During the shooting of the film, Ajmal was kidnapped along
with an Italian reporter. “When I learned of Ajmal’s fate my first instinct was to completely abandon the project. But the more I thought about what I had already filmed with Ajmal, the more certain I was that I had to finish. There was a constellation of forces that came to bear in his murder.
This simple understanding became the guiding principle of the film.” (Ian Olds)
Ian Olds (New York) dirige sia documentari
che opere di finzione. I suoi cortometraggi
sono stati proiettati in numerosi festival, sia
negli Stati Uniti che all’estero. Insieme a
Garrett Scott ha realizzato e diretto la fotografia del documentario Occupation: Dreamland,
la storia di una squadra di soldati americani
schierati in Iraq, nella città dannata di Falluja.
Il film è stato tra i candidati per il miglior
documentario agli Academy Award, e ha
vinto nel 2006 il Premio per la regia
all’Indipendent Spirit Award. Sempre nello
stesso anno ha ricevuto una borsa di studio
ministeriale per compiere ricerche inerenti al
cinema. Precedentemente, nel 2005, ha ottenuto l’MFA dalla divisione film della
Columbia University.
Ian Olds (New York) is a director of both narrative and documentary work. His short films
have screened at numerous festivals, both in the
US and abroad. With Garrett Scott, he photographed and directed the feature documentary
Occupation: Dreamland, an in-depth portrait
of a squad of American soldiers deployed in the
doomed Iraqi city of Falluja. The film was shortlisted for a Best Documentary Feature Academy
Award and won a 2006 Independent Spirit
Award for emerging documentary directors.
That year, Olds also received a Princess Grace
Award and earned his MFA from Columbia
University’s Film Division.
PESARO NUOVO CINEMA - PREMIO LINO MICCICHÈ
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
fotografia/cinematography Ian Olds
montaggio/editing Ian Olds
musica/music Growing
suono/sound Jim Dawson
Fixer: The Taking of Ajmal Naqshbandi (2009, doc)
Bomb (2007, cm)
Occupation: Dreamland (2006, co-regia Garrett Scott, doc)
Two Men (2005, cm)
31
Carlos Serrano Azcona
EL ÁRBOL
The Tree
sceneggiatura/screenplay
Carlos Serrano Azcona
fotografia/cinematography
David Valdepérez
montaggio/editing Manuel Muñoz
Carlos Serrano Azcona, Carlos Reygadas
suono/sound Carlos García Flores
scenografia/art direction Barbara Díez
interpreti/cast Bosco Sodi (Santiago)
Ana Casado Bosc (Camello)
Sara Montgomery Campbell (ragazza inglese)
Mayte Cedeño (cognata), Motxo Obeso (amico)
produttore/producer Jaime Romandía
Jaime Rosales, Carlos Reygadas
produzione/production Estar Ahi Cinema,
Fresdeval Films, Mantarraya
Santiago vaga solitario e senza meta per le strade di una piccola cittadina spagnola. È stato
lasciato dalla moglie e il giudice ha deciso che per il momento non potrà vedere i suoi figli.
Viene anche licenziato dal suo lavoro di barista e si ritrova di colpo davanti alla disfatta
totale, in un punto in cui tutto comincia ad andare male velocemente. «Il risultato è quello
di un film dinamico ma allo stesso tempo contemplativo. El árbol apre gli occhi dello spettatore sulla disperazione di tutti i giorni, culminando in un crescendo di emozioni che per
“crederci” deve esser visto». (Carlos Serrano Azcona)
Somewhere in a Spanish city, Santiago roams aimlessly and lonely through the streets. His wife has
thrown him out and the judge has decided that he cannot see his children for now. He has a job in a
friend's bar, but is given the sack. Little by little, his life falls apart. “The result is a dynamic and contemplative film. The Tree opens the eyes of the viewer to everyday despair, culminating in a climax
that has to be seen to be 'believed.'” (Carlos Serrano Azcona)
Carlos Serrano Azcona (1969, Madrid) inizialmente ha studiato filosofia all’Università
Complutense di Madrid e in seguito regia
alla London Film School. Ha diretto numerosi cortometraggi e ha lavorato come assistente alla regia, montatore e tecnico del
suono. In particolare nel 2003 ha montato e
co-prodotto Japón di Carlos Reygadas produttore a sua volta di El árbol, l’opera prima
di Serrano Azcona. Nel 2006 ha fondato la
casa di produzione Estar Ahi Cinema.
Carlos Serrano Azcona (Madrid, 1969) studied philosophy at the Complutense University
of Madrid and directing at the London Film
School. He has directed several shorts and has
also worked on other short films as assistant
director, editor and sound recording engineer. In
2003, he edited and co-produced Japón by Carlos
Reygadas, who produced The Tree, Serrano
Azcona’s feature debut. In 2006 he founded the
production company Estar Ahi Cinema.
PESARO NUOVO CINEMA - PREMIO LINO MICCICHÈ
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Spagna, Messico 2009, 70', digibeta, colore, 70'
El árbol (The Tree, 2009)
En el parque (2006, cm)
De paseo (2005, cm)
Fire and Grace (1996, cm)
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23° Evento speciale: Alberto Lattuada
CUORE DI CANE
sceneggiatura/screenplay Alberto Lattuada
fotografia/cinematography Lamberto Caimi
montaggio/editing Sergio Montanari
musica/music Piero Piccioni
scenografia/art direction
Vincenzo Del Prato
costumi/costumes
Marisa Polidori D’Andrea
interpreti/cast Max von Sydow (Professore)
Eleonora Giorgi (domestica)
Mario Adorf (assistente), Gina Rovere (cuoca)
Cochi Ponzoni (l’uomo-cane)
produttore/producer
Mario Gallo, Alberto Lattuada
produzione/production
Filmalpha, Corona Filmproduktion GMBH
Il professore Preobrazenski e il suo assistente Bormentàl, dopo lunghi studi sui rapporti tra
la vita animale e quella umana, applicano le esperienze fatte su un cane randagio cui trapiantano organi vitali di un funzionario moscovita morto da tre ore. Con loro stessa meraviglia, ottengono un umanoide che dopo diverse avventure prenderà il nome di Poligràf
Poligràfovic Bobikov. Quando le azioni e i ricatti dell’uomo-cane minacciano la tranquillità del professore e del suo assistente, i due scienziati lo riporteranno alla condizione di cane
randagio. Tratto dall’omonimo romanzo di Michail A. Bulgakov (1925).
«Lattuada, più di Bulgakov, dà spazio all’androide (correttamente interpretato da Cochi),
concedendogli una maturazione ignota al testo d’origine. Alla fine, poi, lascia la partita
aperta tra il cane e l’apprendista stregone. Dice, infatti, il cane, ritornato ad essere se stesso: “Eppure sento che tra me e lui la cosa non finisce qui”. Il cane diviene così l’emblema
della natura che comincia a ribellarsi allo scempio commesso nei suoi riguardi da una
scienza spesso irresponsabile». (Callisto Cosulich, «Paese Sera», 9 febbraio 1976)
23° EVENTO SPECIALE: ALBERTO LATTUADA
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Italia, RFT 1976, 109', 35mm, colore
Alberto Lattuada
After conducting much research on the relationships between animal and human life, Professor
Preobrazenski and his assistant Bormentàl apply their findings to a stray dog, transplanting into
him the vital organs of a freshly deceased Muscovite. To their amazement, they create a humanoid
who after several adventures will name himself Poligràf Poligràfovic Bobikov. When the actions and
the blackmail of the dog-man threaten the peaceful lives of the professor and his assistant, they turn
him back into a stray dog. Based on the Mikhail A. Bulgakov novel of 1925.
“More so that Bulgakov, Lattuada gives the android (well played by Cochi [Ponzoni]) room, and a
maturity that the original text did not contain. He leaves the ending open between the dog and the
assistant. In fact, the dog, once he is himself again, says: ‘I feel that things between us will not end
here.’ The dog becomes the symbol of a nature that begins to rebel against the foolish acts committed
against it by an often irresponsible science.” (Callisto Cosulich, Paese Sera, February 9, 1976)
35
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Biografia / Biography
36
Alberto Lattuada (1914 - 2005, Milano) si laurea in architettura ma durante gli anni
dell’università i suoi interessi si dirigono verso le arti visive. Collabora a diverse
riviste scrivendo di letteratura e poesia e pubblicando articoli e racconti. Il primo
obiettivo con il quale osserva la realtà è quello fotografico e nel 1941 raccoglie i suoi
scatti ne L’occhio quadrato. Durante gli anni Trenta organizza rassegne cinematografiche e si impegna per la conservazione delle vecchie pellicole, fondando insieme a
Mario Ferrari e a Gianni Comencini, la Cineteca Italiana di Milano. Il suo esordio
nel cinema avviene nel 1933 quando realizza la scenografia per il cortometraggio
Cuore rivelatore di Alberto Mondadori. Inizia anche a recensire i film per Libro e
Moschetto, fonda il periodico Camminare e, insieme a Luigi Comencini, entra a far
parte del gruppo antifascista che gravita intorno alla rivista Corrente. Nel 1941 scrive insieme a Mario Soldati la sceneggiatura di Piccolo mondo antico. Due anni dopo
debutta dietro la macchina da presa con Giacomo l’idealista di cui scrive anche la sceneggiatura. Nel 1946 firma la rilettura del gangster movie americano, Il bandito.
Insieme a Federico Fellini, autore del soggetto, dirige Luci del varietà (1950). Nel
1951 Anna con Silvana Mangano, esce dai confini italiani e viene applaudito anche
negli Stati Uniti. Per tutta la sua carriera, ha diretto o scritto più di quaranta film,
spaziando attraverso tutti i generi. Negli anni Ottanta si dedica alla televisione e
dirige il kolossal di grande successo Cristoforo Colombo (1985) e la miniserie Due fratelli (1987). Nel 1994 fa la sua ultima apparizione da attore nel film Il toro di Carlo
Mazzacurati, interpretando un burbero uomo d’affari.
Alberto Lattuada (Milan, 1914-2005) graduated in architecture but during university
his interests turned towards the visual arts. He wrote on literature and poetry for several
magazines and published articles and stories. He began working as a photographer and in
1941 published a collection of his pictures, L’occhio quadrato. In the 1930s he organized
film screenings and worked to preserve old films, founding the Italian Cinematheque of
Milan with Mario Ferrari and Gianni Comencini. He began working in cinema in 1933 as
production designer on Alberto Mondadori’s short film Cuore rivelatore. He also began
reviewing films for Libro e Moschetto, founded the newspaper Camminare and with
Luigi Comencini became part of an anti-fascist group that gravitated around the magazine
Corrente. In 1941 he co-wrote the screenplay Old-Fashioned World with the film’s director, Mario Soldati. Two years later he made his directing debut with Giacomo the Idealist,
which he also wrote. In 1946 he wrote the remake of the US gangster film The Bandit. With
Federico Fellini, the author of the film story, he co-directed Variety Lights (1950). In 1951,
he broke out of Italy when his film Anna, starring Silvana Mangano, won acclaim in the
US as well. Between directing and writing, he made over 40 films throughout his career,
covering all the genres. In the 1980s he turned to television and made the highly successful
mini-series Christopher Columbus (1985) and Due fratelli (1987). He last appeared as
an actor in 1994, in Carlo Mazzacurati’s The Bull, playing a surly businessman.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
A Declaration di Yael Bartana
Nir Bergman
KNAFAYIM SHVUROT
Broken Wings
sceneggiatura/screenplay Nir Bergman
fotografia/cinematography Valentin Belonogov
montaggio/editing Einat Glaser Zarhin
musica/music Avi Belleli
suono/sound David Lis
scenografia/art direction Ido Dolev
costumi/costumes Ada Levin
interpreti/cast Orli Zilbershatz-Banai (Dafna)
Maya Maron (Maya), Nitai Gvirtz (Yair)
Daniel Magon (Ido), Eliana Magon (Bar)
Vladimir Freedman (Valentin), Dana Ivgy (Iris)
produttore/producer Assaf Amir
produzione/production Norma
distribuzione/distribution Mikado
La morte del marito ha messo in difficoltà Dafna e i quattro figli. È iniziata la scuola, ma a
casa Ulman nessuno si eccita, c’è spazio solo per una crisi dopo l’altra. «Ho avuto pochi
momenti illuminanti nella mia vita. Momenti nei quali apprendi qualcosa di nuovo su te
stesso. Questi pochi momenti sono diventati i più significativi della mia vita. Sebbene non
mi abbiano realmente cambiato, mi hanno insegnato ad apprezzare ciò che ho. Ho fatto vivere ai miei personaggi uno di questi momenti per il sollievo che procurano». (Nir Bergman)
The death of her husband has made life difficult for Dafna and her four children. School has begun
but no one at the Ulman household is excited as one crisis after another occurs. “I have experienced
very few moments of enlightenment in my life. Moments when you learn something new about
yourself. These few moments became the most meaningful in my life. Although they didn’t really
change me, they taught me to hold on to what I have. I wanted to give my characters one of these
moments, because of the great release they bring." (Nir Bergman)
Nir Bergman (1969, Haïfa) si è laureato alla
Sam Spiegel Film School di Gerusalemme
nel 1998. Il suo primo lungometraggio,
Knafaim shburot, realizzato in collaborazione
con la casa di produzione Norma, ha vinto
il Festival di Tokyo, l’Oscar israeliano per il
miglior film e il Premio del Pubblico alla
Berlinale nel 2004. Attualmente è considerato in patria come uno dei registi più importanti. Ha ideato, sciritto e diretto per la televisione, In Treatment, acquistata e adattata
negli Stati Uniti dalla HBO. La miniserie
Walk the Dog, sempre prodotta da Norma, è
candidata ai prossimi Oscar israeliani come
miglior film televisivo.
Nir Bergman (1969, Haïfa) graduated from the
Sam Spiegel Film School in Jerusalem in 1998.
His debut feature Broken Wings, produced by
Norma Production, won the Grand Prix at the
2003 Tokyo International Film Festival, the
Israel Academy Award for Best Film and the
Audience Award at the 2004 Berlinale, among
other prizes. Today, Bergman is considered one
of Israel’s leading directors. He is the co-creator,
writer and director of In Treatment, which was
bought and adapted for American audiences by
HBO. His mini-series Walk the Dog, also produced by Norma, is a candidate for the coming
Israeli Academy Awards in the category of Best
Television Drama.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele 2002, 87', 35mm, colore
Knafaim shburot (Broken Wings, 2002)
Malkat ha’kita (The Class Queen, 1999, doc)
Susei yam (Sea Horses, 1998, cm)
39
Michale Boganim
ODESSA… ODESSA!
sceneggiatura/screenplay Michale Boganim
fotografia/cinematography Jakob Ihre
montaggio/editing
Valerio Bonelli, Koby Netaneal
suono/sound Antoine Brochu
Barnaby Templer, Phillipe Ciompi
produttore/producer Frederic Niedermayer
produzione/production Moby Dick Films
co-produttore/co-producer
Marek Rozembaum, Itai Tami
co-produzione/co-production
Transfax Films
vendite internazionali/world sales
Wide Management
Sulle rive a nord del Mar Nero sorge una città conosciuta con il nome di Odessa.
Nessuno sa perché, ma il nome continua a essere tramandato nelle fiabe raccontate di
continuo dalle nonne e che riecheggiano nelle orecchie degli adulti. «L’Odessa ebraica è
una città mitica ricca di immaginazione. Quando le persone lasciano una città, ne creano un’altra con la loro immaginazione, una città completamente diversa da quella che
era e da quella che ora esiste. E di gran lunga, quell’Odessa esiste solo nella memoria».
(Michale Boganim)
To the north of the Black Sea there exists a city, known as Odessa. Nobody knows why, but the
name seems to emerge from the depths of grandmothers’ tales, whose tirelessly repeated stories still
reverberate in adult ears. “Jewish Odessa is a mythical city full of imagination. When people leave
a city, they create another in their imaginations, entirely different from the city that was and the
city that exists now. To a great extent, that Odessa exists only in memory.” (Michale Boganim)
Michale Boganim (1971, Haïfa) si è trasferita con la famiglia a Parigi all’età di sei anni.
Ha preso un master in Scienze politiche e
Antropologia alla Sorbona di Parigi, dove ha
studiato cinema con Jean Rouch. In seguito è
tornata in Israele per studiare filosofia alla
Hebrew University di Gerusalemme. E al
tempo stesso in quell’ateneo ha tenuto alcuni workshop di fotografia. Successivamente
ha completato un master a Londra presso la
National Film School, sezione cinema della
Royal College of Art. Autrice di numerosi
ritratti e documentari, i temi cari alla
Boganim sono la diaspora, la condizione
dello straniero e l’emigrazione. Odessa...
Odessa! è stato presentato al Sundance e ha
vinto diversi premi, tra i quali quello della
Pace alla Berlinale nella sezione Forum.
Attualmente vive tra Tel Aviv e Parigi.
Michale Boganim (Haïfa, 1971) moved to
Paris at the age of six. She received a Masters in
Political Science and Anthropology in Paris at
the Sorbonne, where she studied film with Jean
Rouch. She returned to Israel, to Jerusalem, to
study Philosophy at Hebrew University, where
she also took several workshops in photography.
She later completed a Masters in Directing at
the National Film School of the Royal College of
Art in London. A director of numerous portraits
and documentaries, Boganim’s favorites subjects
are the diaspora, foreigners’ living conditions
and immigration. Odessa... Odessa! was presented at Sundance and has won various prizes,
including the Peace Award in the Berlinale
Forum section. She currently lives between
Paris and Tel Aviv.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Francia, Israele 2005, 96’, 35 mm, colore
Renata (2007, cm, doc), Dovid Katz (2007, cm, doc)
Odessa… Odessa! (2005, doc)
Macao, Last Stop (2004, mm, doc)
Dim Memories (2002, mm, doc)
Dust (2001, cm, doc), Venice (2001, cm, doc)
41
Joseph Cedar
BUFOR
Beaufort
sceneggiatura/screenplay
Ron Leshem, Joseph Cedar
fotografia/cinematography Ofer Inov
montaggio/editing Zohar M. Sela
musica/music Ishai Adar
suono/sound Alex Claude
interpreti/cast Oshri Cohen (Liraz)
Itay Tiran (Koris), Eli Eltonyo (Oshri)
produttore/producer
David Silber, David Mandil
produzione/production
Metro Communications
coproduzione/coproduction
United King Films, Movie Plus
vendite internazionali/world sales
Bavaria Film
Tratto da Im Yesh Gan Eden di Ron Leshem, il film narra la ritirata israeliana dalla roccaforte di
Beaufort in Libano, rasa al suolo il 24 maggio 2000. «L’articolo di Leshem su Yedioth Acharonot,
in cui venivano riportate le esperienze di un ufficiale israeliano in Libano, mi colpì profondamente. Mi resi conto d’un tratto che l’orribile, quasi incredibile storia su soldati che muoiono
in una guerra ridicola era anche la mia storia, con la quale però non mi ero mai confrontato.
Le paure che avevo represso per anni riemersero al punto da farmi piangere». (Joseph Cedar)
Inspired by Ron Leshem’s Im Yesh Gan Eden, the films centers on Lebanon’s Beaufort fortress,
destroyed by retreating Israeli soldiers on May 24, 2000. “Leshem’s article in Yedioth Acharonot,
about an officer’s experiences during the last year Israel spent in Lebanon, shakes me to the core. The
horrific, almost unbelievable story he was telling about soldiers losing their lives in a ridiculous war,
I suddenly realized, was my story as well. Only I had never confronted it. Fears I had repressed for
years bubbled up and left me in tears.” (Joseph Cedar)
Joseph Cedar (1968, New York) è emigrato
in Israele con la famiglia all’età di sei anni.
Ha studiato filosofia e storia del teatro alla
Hebrew University di Gerusalemme, e si è
laureato presso la New York University
Film School. Soldato di fanteria, tra il 1987 e
il 1989 è stato di servizio in Libano. Dopo
non essere stato ammesso al corso per ufficiali ha iniziato uno stage presso uno studio
televisivo a Gerusalemme. I suoi primi due
lungometraggi, Hahesder (2001) e Medurat
Hashevet (2004), sono stati scelti per rappresentare Israele agli Oscar nella categoria
Miglior film straniero; il secondo è stato
inoltre proiettato a Berlino nel 2004 e nello
stesso anno alla Mostra di Pesaro. Bufor è il
suo terzo film, vincitore dell’Orso d’Argento per la miglior regia. Attualmente vive e
lavora a Tel Aviv.
Joseph Cedar (New York, 1968) immigrated to
Israel with his family at the age of six. He studied philosophy and theater history at the Hebrew
University in Jerusalem and is an NYU Film
School graduate. An infantry soldier from 198789, he served in Lebanon. After not getting
accepted into officers’ training school, he began
interning at a television studio in Jerusalem.
His first two feature films, Time of Favor
(2001) and Campfire (2004), were Israel’s official selections for the Best Foreign Language
Film Oscar. The latter had its world premiere at
the 2004 Berlinale and also screened at the
Pesaro Film Festival. Beaufort is Cedar’s third
film, and won him the Silver Bear for Best
Director. He currently lives in Tel Aviv.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele 2007, 125’, 35mm, colore
Bufor (Beaufort, 2007)
Medurat Hashevet (Campfire, 2004)
Hahesder (Time of Favor, 2001)
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Ronit & Shlomi Elkabetz
SHIVA
Les sept jours
sceneggiatura/screenplay
Ronit Elkabetz, Shlomi Elkabetz
fotografia/cinematography Yaron Scharf
montaggio/editing Joëlle Alexis
musica/music Michel Korb, Sergio Leonardi
suono/sound Italy Eloav
scenografia/art direction Beni Arbitman
costumi/costumes Laura Sheim
interpreti/cast Ronit Elkabetz (Vivianne),
Solika Kadosh (Nonna), Albert Ilouz (Meir),
Moshe Ivgy (Haim), David Ohaion (David)
produttore/producer Jean-Philippe Reza
Eilon Ratzkovsky, Yochanan Kredo
produzione/production Thaleia Production
vendite internazionali/world sales
Les Films du Losange
Israele 1991. La famiglia Ohaion piange la morte di un congiunto. Rispettosi della tradizione, i parenti si riuniscono nella casa del defunto per la veglia funebre che deve durare sette
giorni. Presto il conflitto prende il sopravvento e la coabitazione diventa insostenibile.
«Durante la Guerra del Golfo la gente si chiudeva in casa perché temeva attacchi chimici o
nucleari. Avevamo in mente questo quando abbiamo deciso dove ambientare il film: tutti i
membri della famiglia confinati contro la loro volontà in una piccola casa da cui volevano
fuggire». (Ronit & Shlomi Elkabetz)
Israel 1991. Following a death in the family, the Ohaions gather at the house of the deceased to sit Shiva,
the traditional seven-day mourning period. Soon, family conflicts prevail and living together becomes
unbearable. “During the Gulf War people stayed at home because they were afraid of a chemical or
nuclear attack. We had this in mind when we chose the setting of the movie. The family members were
confined to a small house against their will and all of them wished to flee.” (Ronit & Shlomi Elkabetz)
Ronit Elkabetz (1966, Be’er Sheva, Israele)
ha vinto tre Oscar israeliani come attrice. La
sua carriera spazia dal cinema alla televisione e il teatro. Ha recitato in film come La
banda, Or e Matrimonio tardivo, grazie al quale
si è aggiudicata il premio della critica della
stampa americana e quello di miglior attrice
al Festival di Buenos Aires e di Salonicco.
Shlomi Elkabetz (1972, Be’er Sheva, Israele)
ha scritto numerose sceneggiature per il
cinema e diretto alcuni cortometraggi in
super8. Insegna cinema allo Sapira College
in Israele. Nel 2004 ha scritto, diretto e interpretato insieme alla sorella Ronit Ve’lakahta
le’ha isha (E prenderai moglie), che ha vinto il
Premio del pubblico e della critica alla
Mostra di Venezia. Shiva è stato presentato a
Cannes e si è aggiudicato il premio per il
miglior film al Festival di Gerusalemme.
Ronit Elkabetz (Be’er Sheva, Israel, 1966) has
won three Israeli Oscars. Her career alternates
between cinema, television and theatre. Her film
performances include The Band, Or (My
Treasure) and Late Marriage, the latter which
won her the Critics’ Choice Award from the
American press as well as Best Actress at the
Buenos Aires and Thessaloniki film festivals.
Shlomi Elkabetz (Be’er Sheva, Israel, 1972)
has written numerous screenplays and directed
several short films in Super 8. He teaches film at
Sapira College in Israel. In 2004 he wrote,
directed and with his sister Ronit starred in To
Take a Wife, which won the Audience and critics’ Isvema awards at the Venice Film Festival.
Shiva premiered at Cannes and won Best Film
at the Jerusalem Film Festival.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele, Francia 2008, 115', 35mm, colore
Shiva (Les sept jours, 2008)
Ve’lakahta le’ha isha (Prendre femme, E prenderai moglie, 2004)
45
Hadar Friedlich
AVDEI HA’SHEM
Slaves of the Lord
sceneggiatura/screenplay Hadar Friedlich
fotografia/cinematography Talia Gal’On
montaggio/editing Yosef Grunfild
musica/music Shem Tov Levi
suono/sound Danny Shetrit
Yissaschar Vishnia, Meir Alfassi
scenografia/art direction
Maya Zak, Raya Brokental
costumi/costumes Y. Kredo, Z. Ratzkovsky
interpreti/cast Maya Eshet (Role-Tamar), Adi
Barsheshet (Racheli), Razya Israeli (Madre),
Irit Sheleg (Insegnante)
Robert Henig (Padre), Itay Barnea (Fratello)
produttore/producer
Eylon Ratzkovsky, Mosh Danon
produzione/production JCS Productions
La dodicenne Tamar si prepara a festeggiare il suo Bat-Mitzva che avrà luogo durante la
Pasqua ebraica. Tamar si convince di essere impura. Spaventata e depressa, si sottopone a un
rituale di purificazione, cercando di mettere a tacere una voce interiore che le sussurra che
non riuscirà mai a disfarsi della sua colpevolezza. «Cerco di mostrare cosa accade quando ci
allontaniamo dall’essenza della fede e aderiamo solo ai cerimoniali e ai rituali, trasformandoci in schiavi che seguono le regole senza pensare al loro significato». (Hadar Friedlich)
Twelve-year-old Tamar is preparing for her Bah Mitzvah, which will take place on Passover. She becomes
convinced that she is impure and grows increasingly scared and depressed. She forces herself into an endless ritual of cleaning, while attempting to silence the unfettered whispering of inner voices that detail
every inch of her sinful guilt, over and over again. “I’m trying to show what happens when we move
away from the essence of faith and adhere only to ceremonies and rituals, thus turning ourselves into
slaves, following the rules without thinking about what they mean to us.” (Hadar Friedlich)
Di origini israeliane, Hadar Friedlich è anche
sceneggiatrice e montatrice. Durante gli studi
alla Maale Film School di Gerusa-lemme ha
realizzato due cortometraggi, Ta'anit dibbur e
Anashim. Nel 2001 il suo film di diploma,
Muaka, si è aggiudicato numerosi premi, tra
cui il Fipa d’oro a Biarritz e il Silver Prize del
Festival EXPO di New York. L’anno seguente,
il mediometraggio Avdei Ha’shem ha vinto il
premio per la miglior sceneggiatura al
Festival Internazionale di Gerusalemme ed è
stato selezionato alla “Quinzaine des réalisateurs” a Cannes. Nel 2004 è stata accolta alla
prestigiosa “Résidence della Cinéfondation”
a Parigi, dove ha scritto la sceneggiatura del
suo primo lungo, Hanna M., attualmente in
sala di montaggio.
Born in Israel, Hadar Friedlich is a screenwriter and editor. While studying at the Maale
Film School in Jerusalem she made two short
films, Fast of Words and People. In 2001, her
graduation film Grief won numerous awards,
including the Golden FIPA at Biarritz and the
Silver Prize at New York’s EXPO Festival. The
following year, her medium-length film Avdei
Hashem won Best Screenplay at the Jerusalem
International Film Festival and was selected for
the Cannes Directors’ Fortnight. In 2004 she
was accepted at the prestigious Cinefondation
Residence in Paris, where she wrote the screenplay for her first feature film, Hanna M., which
is currently in the editing phase.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele 2002, 50’, 35mm, colore
Avdei Ha’shem (Slaves of the Lord, 2002, mm)
Muaka (Grief, 2001, cm)
Anashim (People, 1998, cm).
Ta’anit dibbur (Fast of Words, 1996, cm)
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Dan Geva
DESCRIPTION OF A MEMORY
Israele 2006, 80', 16mm, 8mm, Beta sp, dvcam, colore, b/n
produttore/producer Dan e Noit Geva
produzione/production Habayit Hakatom
vendite internazionali/world sales J.M.T. Films
Dan Geva si confronta con Description of a Struggle (1960) di Chris Marker. Il regista ci conduce nei luoghi profetizzati da Marker quasi mezzo secolo prima e in quelli che lo stesso
artista non aveva immaginato. «Il mio viaggio cinematografico nell’Israele del 2006 non si
limita all’aspetto visuale e simbolico del film-poema di Marker, si addentra anche nelle
parti filmiche più nascoste, cercando disperatamente di decostruire e ricostruire i frammenti evanescenti del messaggio criptico, profetico e impegnativo che il regista francese ci ha
lasciato». (Dan Geva)
Dan Geva confronts Chris Marker’s film Description of a Struggle (1960). He takes us to places
Marker warned about half a century earlier and those that he could not even have imagined. “My
cinematic voyage in Israel 2006 is not only in [Marker’s] visual and symbolic footsteps but moreover into it's innermost hidden filmic molecules, trying desperately to deconstruct and reconstruct
the fading fragments of the challenging prophetic and cryptic message he left.” (Dan Geva)
Dan Geva è regista, operatore, produttore,
montatore e studioso del genere documentario. Nel 1993 la sua opera prima, Jerusalem,
Rhythms of a Distant City, ha vinto, tra gli
altri, il Festival di Gerusalemme e ha partecipato a oltre cinquanta festival in tutto il
mondo. Da allora ha realizzato una ventina
di documentari collaborando con Noit
Geva, compresi i pluripremiati What I Saw in
Hebron, The Key, e Description of a Memory,
quest’ultimo vincitore del Grand Prix al
Festival Internazionale del Documentario di
Montreal nel 2007. Negli ultimi dodici anni
ha tenuto corsi di regia, ripresa, montaggio e
ricerca, e di storia e teoria del documentario.
Dan Geva is a director, cinematographer, producer, editor and academic scholar in the field of documentary filmmaking. In 1993, his first film,
Jerusalem, Rhythms of a Distant City, won the
Volgin competition at the Jerusalem Film Festival,
among other prizes, and screened in over 50 festivals worldwide. Since then he made over 20 documentaries with Noit Geva, including the awardwinning What I Saw in Hebron and The Key.
Description of a Memory won the Gran Prix at
the 2007 Montreal International Documentary
Festival. For the past 12 years he has been teaching numerous courses in documentary filmmaking (directing, cinematography, editing, research)
and documentary history and theory.
LL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
sceneggiatura/screenplay Dan Geva
fotografia/cinematography Dan Geva
montaggio/editing Dan e Noit Geva
Filmografia parziale
The Impossible Takes Longer (2009, doc), Description of a Memory (2006, doc)
Think Popcorn (2004, mm, doc), fall (2003, mm, doc), The Key (2001, mm, doc)
Hora 2000 (2000, mm, doc), Routine (2000, mm, doc), What I Saw in Hebron (1999, doc)
Take Now Your Son (1994, cm), Jerusalem, Rhythms of a Distant City (1993, cm)
49
Dalia Hager & Vidi Bilu
KAROV LA’BAIT
Close To Home
sceneggiatura/screenplay
Dalia Hager, Vidi Bilu
fotografia/cinematography Yaron Scharf
montaggio/editing Joelle Alexis
musica/music Yontan Bar Giora
suono/sound Itai Elohev, Aviv Aldema
scenografia/art direction Avi Fahima
costumi/costumes Li Alembik
interpreti/cast Smadar Sayar (Smadar)
Naama Schendar (Mirit)
Irit Suki (Dubek)
Katia Zimbris (Yael)
produttore/producer
Marek Rozenbaum, Itai Tamir
produzione/production Transfax Film
distribuzione/distribution Mikado
Smadar e Mirit, due ragazze poco più che diciottenni dai caratteri completamente diversi,
stanno prestando servizio militare con il compito di perlustrare le strade di Gerusalemme
e controllare i documenti dei cittadini palestinesi. «Le protagoniste prestano servizio militare operando controlli di polizia a Gerusalemme, perché una di noi ha realmente svolto
quel tipo di attività durante il servizio militare. Attraverso quell’esperienza è stato possibile mostrare il nostro punto di vista sull’occupazione israeliana di questa città in conflitto».
(Dalia Hager & Vidi Bilu)
Very different from one another, Smadar and Mirit are assigned to patrol the streets of Jerusalem
together and check the papers of all Palestinian passersby. “The main characters are soldiers with the
patrolling police unit of the city of Jerusalem, as one of us actually did this kind of activity in her
military service. Through this experience it has become possible for us to show our point of view
regarding the Israeli occupation in this disputed city.” (Dalia Hager & Vidi Bilu)
Dalia Hager (1963, Givatayim) ha studiato
produzione all’Università di Tel Aviv, presso
la Scuola di Cinema e Televisione. Nel 1993
ha frequentato un corso di sceneggiatura
tenuto da Robert McCay. Da allora ha lavorato come sceneggiatrice, produttrice, regista, giornalista e insegnante. Ha scritto e
diretto numerosi cortometraggi. Ha esordito
con il lungometraggio Kaitz etzel Erika.
Vidi Bilu (1959, Gerusalemme) ha studiato al
dipartimento di fotografia presso l’Hadassah
College di Gerusalemme. In seguito ha lavorato come fotografa per network televisivi.
Nel 1986 ha iniziato a studiare cinema al Beit
Zvi, diplomandosi tre anni dopo. Da quel
momento ha diretto alcune pubblicità, lavorando come montatrice e produttrice. Ha
anche scritto e diretto show televisivi.
Dalia Hager (Givatayim, 1963) studied production at the School of Cinema and Television
at Tel Aviv University. In 1993 she took a
screenwriting course with American screenwriter Robert McCay. Since then she has worked
as a screenwriter, producer, director, journalist
and professor. She has written and directed several short films. Her feature directorial debut
was A Summer at Erica’s.
Vidi Bilu (Jerusalem, 1959) studied photography at Jerusalem’s Hadassah College before
working as a photographer for television networks. She graduated in directing in 1989 from
Beit Zvi and since then has directed several
commercials as well as worked as an editor and
producer. She has also written and directed television shows.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele 2005, 90’, 35mm, colore
Dalia Hager: Karov la’bait (Close To Home, 2005)
Kaitz etzel Erika (A Summer at Erica’s, 1991), Dvora Bertonov (1987, cm, doc)
Vidi Bilu: Karov la’bait (Close To Home, 2005), Yes or No (2002, cm)
Monologues (1995, cm, doc), Thirty Times Four (1993, mm, doc)
51
Dover Kosashvili
MATANA MI’SHAMAIM
Gifts From Heaven
sceneggiatura/screenplay Dover Kosashvili
fotografia/cinematography
Laurent Dailland
montaggio/editing Yael Perlov
musica/music Joseph Bardanashvili
suono/sound Julien Cloquet
scenografia/art direction Avi Fahima
costumi/costumes Maya Barsky
interpreti/cast Yuval Segal (Vaja)
Rami Heuberger (Baho),
Moni Moshonov (Giorgy)
Ronit Yudkevitch (Margot)
produttore/producer
Marek Rozenbaum, Edgard Tenembaum
produzione/production Transfax Film
co-produttore/co-productor Samuel Hadida
La Shtrenchman Srl., una società che importa diamanti, riceve ogni settimana due sacchi di
pietre grezze a Tel Aviv per mezzo di una linea aerea sudafricana. Alcuni addetti ai bagagli
immigrati dalla Georgia architettano il furto delle pietre. Si devono assicurare che nessuno
noti la scomparsa dei diamanti dopo l’atteraggio dell’aereo. La realizzazione del colpo risulta più difficile del previsto anche a causa dei numerosi legami e intrighi sentimentali in cui
i protagonisti sono coinvolti. Sette storie una dentro l’altra, che si integrano a vicenda e che
presentano chi parteciperà alla rapina e con quale ruolo.
Every week, diamond importers Shtrechman LTD. receive two mailbags of rough diamonds, via South
African Airlines. A group of airport porters, immigrants from Georgia, plan to steal the sacks just
after the plane lands, and must assure that no one is looking. However, the heist proves more difficult
than expected because of the numerous emotional ties and intrigues among the main characters. Seven
intertwining, integrated stories depict who will partake in the robbery and what their roles will be.
Dover Kosashvili (1966, Georgia) vive in
Israele dal 1972. Ha studiato filosofia e cinema presso l’Università di Tel Aviv. Il cortometraggio di fine corso, Im hukim ha ricevuto nel 1999 un premio dalla “Cinéfondation”
di Cannes. Hatuna meuheret (Matrimonio tardivo), la sua opera prima, è stata presentata a
Cannes nella sezione “Un Certain Regard”.
Il film ha ottenuto numerosi riconoscimenti
agli Oscar del cinema israeliano, tra qui
quelli di miglior film, regista, attrice e attore,
e altri premi in festival internazionali, nonché un notevole consenso di critica e pubblico, stabilendo il record d’incasso al box office in patria e all’estero per quanto riguarda
un’opera di produzione israeliana. Il terzo
film sarà Il duello, tratto da un omonimo racconto di Anton Chechov.
Dover Kosashvili (1966, Georgia) has lived in
Israel since 1972. He studied philosophy and
film at Tel Aviv University, where his short film
With Rules received a top prize at the Cannes
Cinéfondation in 1999. His first narrative feature, Late Marriage, was presented at the
Cannes Film Festival in the Un Certain Regard
section. The film won every top prize at the
Israeli Oscars, including Best Actress, Actor,
Director and Film, as well as numerous festival
and critics’ prizes. It also broke box office records
at home and abroad for an Israeli film.
Kosashvili completed his latest project in May
2008, a feature film based on the celebrated
Chekhov novel The Duel.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Francia, Israele, Italia 2003, 110’, 16mm, colore
Matana Mi’shamaim (Gifts From Heaven, 2003)
Hatuna meuheret (Late Marriage, Matrimonio tardivo, 2001)
Im hukim (With Rules, 1999, cm)
53
Danny Lerner
YAMIM KFUIM
Frozen Days
sceneggiatura/screenplay Danny Lerner
fotografia/cinematography Ram Shweky
montaggio/editing Tal Keller
musica/music Tomer Ran
suono/sound Itay Halevi
interpreti/cast
Anat Klausner (Meow), Uli Sternberg (Nahman)
Sandra Sade (la vicina), Pini Tabger (Alex)
produttore/producer
Alan Lerner, Danny Lerner, Assaf Rav
produzione/production
DPI e Sonatine Films
co-produzione/co-production
Bleiberg Entertainment
vendite internazionali/world sales
Les Acacias
Meow è una giovane donna che trascorre le sue notti girovagando per le strade e i bar
di Tel Aviv. Vive in appartementi vuoti e passa il tempo davanti al computer a chattare.
Una sera decide di incontrare Alex, una sua compagna di chat. Un tremendo attentato
suicida sconvolge i programmi. Meow sopravvive all’attacco e trova Alex in un ospedale in coma profondo. Così decide di andare a vivere nel suo appartamento, assumendone l’identità. Una volta indossati i panni di Alex, Meow si trova però ad affrontare una
realtà pericolosa.
Meow is a young woman roaming the streets and nightclubs of Tel Aviv. She lives in empty apartments and surfs Internet chat rooms. One night, she decides to meet her chat buddy Alex but their
plans are thwarted by a suicide bombing. She survives the attack and finds Alex in the hospital, in
a coma. She moves into his empty apartment and starts to assume his identity, but soon finds herself sinking into a dangerous and deluded reality.
Danny Lerner è regista, scrittore e produttore. Si è laureato all’Università di Tel Aviv
presso il dipartimento di Cinema e Televisione. Durante gli studi ha scritto, diretto e
prodotto una ventina di cortometraggi, tra i
quali Bang Bang, Don’t Call Me Galya e
Another Day. Il thriller Frozen Days, il primo
lungometraggio iniziato come saggio di fine
corso di laurea e realizzato con un piccolo
budget, ha vinto sorprendentemente il
Festival di Haifa. Ha appena terminato Kirot,
anche questo un thriller.
Danny Lerner is a director, writer and producer. He graduated from the Tel Aviv University
Film & Television Department. While at university he wrote, directed and produced over 20
short films, including Bang, Bang, Don’t Call
Me Galya and Another Day. Frozen Days is
his feature debut and in a way can be considered his graduation film. Made on a shoestring
budget, it was the surprise winner of the Haifa
Film Festival. His second feature, The Murs,
is also a thriller.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele 2005, 90', dv, b/n
Kirot (The Murs, 2009)
Frozen Days (2006)
55
Omaggio a Raphaël Nadjari
HISTORIA SHEL H’AKOLNOA HA’ISRAELI
A History of Israeli Cinema
fotografia/cinematography
Frederic Lefebvre, Oded Israeli
montaggio/editing Sean Foley
ricerche/researcher Keren Cohen
suono/sound Tully Chen, Chen Harpaz
produttore/producer Bruno Nahon
Amir Feingold, Paul Rozenberg
produzione/production Zadig Productions
Amir Feingold Productions
co-produzione/co-production United King Films
in associazione con/in association with
Arte France
vendite internazionali/world sales
Films Distribution
Il documentario divide la storia del cinema israeliano in due parti: la prima si sviluppa tra
il 1933 e il 1978, con il Movimento Sionista e la rivisitazione di questo periodo, la seconda
prosegue fino al 2005, e spazia dal cinema politico al cosiddetto cinema personale. L’intero
film mostra i generi e i temi del cinema israeliano, da quello ideologico di propaganda sionista a quello più intimista, da quello commerciale a quello politico dei registi militanti, da
quello riferito a un contesto locale a quello capace di esprimere contenuti universali.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Francia, Israele 2009, 103’ (parte I), 105’ (parte II), HD, colore, b/n
A documentary in two parts. The first, 1933-1978, starts with the Zionist movement and ends with
the first look back at that history. The second, 1978-2005, starts at the beginning of the political wave
in film and goes through the more recent personal cinema. The episodes cover most of the genres,
themes and periods of Israeli cinema: from the propagation of Zionist ideology to the most personal
stories; from commercial to politically engaged directors; from the local to the universal.
«Il film è da intendere come un work in progress, aperto a ulteriori modifiche e reinterpretazioni, senza la pretesa di assumere una
posizione definitiva. Quello israeliano è a
mio parere un grande cinema, malgrado i
suoi fallimenti ma anche i suoi successi».
(Raphael Nadjari)
"A History of Israeli Cinema remains a work
in progress, and does not pretend to be something other than that. It is maybe a preparation
for further works, it is definitely not a position
film. Israeli cinema is a great cinema, despite its
achievements and failures." (Raphael Nadjari)
57
Omaggio a Raphaël Nadjari
TEHILIM
sceneggiatura/screenplay
Raphaël Nadjari, Vincent Poymiro
fotografia/cinematography Laurent Brunet
montaggio/editing Sean Foley
musica/music Nathaniel Mechaly
suono/sound Tulli Chen, Chen Harpaz
scenografia/art direction
Dror Sarogati, Benny Afar
interpreti/cast Michael Moshonov (Menachem)
Yonathan Alster (David), Ilan Dar (Nonno)
Limor Goldstein (Madre), Yoav Hait (Zio)
produttore/producer Geoffroy Grison
Fred Bellaïche, Marek Rozenbaum, Itai Tamir
produzione/production BVNG, Transfax Films
vendite internazionali/world sales
Films Distribution
Il 17enne Menachem e la sua famiglia conducono una vita ordinaria finché un incidente
automobilistico sconvolge tutto. Menachem, ancora stordito, corre in cerca di aiuto per il fratello e il padre rimasti feriti nello scontro. Ma all’arrivo dei soccorsi l’uomo è misteriosamente scomparso mentre il bambino viene trasferito in ospedale. «La scomparsa di un uomo
mette a soqquadro le vite di coloro che gli sono legati e li costringe a reinventare se stessi. È
come se Dio ci avesse abbandonati, rivelando la nostra vulnerabilità». (Raphael Nadjari)
Seventeen-year-old Menachem and his family lead an ordinary life until a car accident changes
everything. In shock, Menachem runs to find help for his brother and father, who were injured in the
accident. But when he returns, his father has mysteriously disappeared and his brother is taken to a
hospital. “A world turned upside down by the disappearance of a man means all the people who knew
him have to reinvent themselves. It is as if God Himself had abandoned us, revealing our vulnerability." (Raphaël Nadjari)
Raphaël Nadjari (1971, Marsiglia) ha studiato arti visive. Nel 1997 si è trasferito a New
York, dove ha scritto e diretto il cortometraggio Snow Bird. Nel 1999 ha realizzato il primo
lungometraggio, The Shade, selezionato a
Cannes nella sezione “Un Certain Regard”.
Due anni dopo ha diretto I Am Josh Polonski’s
Brother, girato in Super8. A metà tra un film di
famiglia e un noir, è stato presentato al
“Forum” della Berlinale 2001. La “Trilogia di
New York” termina con Apartment #5C, presentato alla “Quinzaine des Réalisateurs” di
Cannes. Nel 2004, tornato a Tel Aviv, ha diretto Avanim che viene selezionato nella sezione
“Panorama” del Festival di Berlino e proiettato al MOMA in occasione della riapertura del
museo. Anche il successivo Tehilim viene
mostrato al MOMA, inserito nella selezione
ufficiale del Festival di Cannes e premiato
come miglior film al Festival di Tokyo.
Raphaël Nadjari (Marseille, 1971) studied
visual arts. In 1997 he moved to New York,
where he wrote and directed the short film Snow
Bird. In 1999, his feature debut The Shade was
selected in the Un Certain Regard section of the
Cannes Film Festival. Two years later, he directed I Am Josh Polonski’s Brother, shot in
Super 8. Halfway between a family movie and a
noir film, it was presented in the 2001 Berlinale
Forum. His “New York Trilogy” concluded with
Apartment #5C (2002), which screened in
Cannes’ Directors’ Fortnight. In 2004, he
returned to Tel Aviv and directed Avanim
(2004), presented in the Berlinale Panorama and
at the MOMA for the re-opening of the museum. His subsequent film, Tehilim, also played
at MOMA, was in the official selection at
Cannes and won the Best Film Award at the
Tokyo Film Festival.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele, Francia 2007, 96’, 35mm, colore
Historia shel h’akolnoa ha’israeli (A History of Israeli Cinema, doc, 2009)
Tehilim (2007), Avanim (2004)
Apartment #5C (2002)
I Am Josh Polonski’s Brother (2001)
The Shade (1999), Snow Bird (1998, cm)
59
Omaggio a Raphaël Nadjari
AVANIM
Stones
sceneggiatura/screenplay Raphaël Nadjari
fotografia/cinematography Laurent Brunet
montaggio/editing Godefroy Fouray
musica/music Nathaniel Mechaly
suono/sound Chen Harpaz
scenografia/art direction Sean Foley
interpreti/cast Asi Levi (Michale)
Uri Gabriel (Meir), Florence Bloch (Nehama)
produttore/producer
Geoffroy Grison
Marek Rozenbaum
Itai Tamir
produzione/production
Shilo Films (BVNG), Transfax Films
La Compagnie des Phares et Balises
co-produzione/co-production 2.1 Films
Michale, trentenne israeliana, è sposata, ha un figlio e lavora con suo padre in un’azienda
contabile di Tel Aviv che ha per clienti istituzioni religiose ultraortodosse. Ogni giorno cerca
di conciliare i suoi impegni professionali, la famiglia e la relazione con il suo amante. Niente
è lasciato al caso perché il minimo contrattempo potrebbe scatenare una serie di disastri.
Finché un attentato terroristico colpisce l’hotel di Tel Aviv dove Michale e il suo amante
avrebbero dovuto incontrarsi. Lui muore e la vita della donna viene sconvolta. «In ebraico
avanim significa “pietre”. Questo Paese è pieno di pietre, e sono tutte simboliche. Ci sono le
pietre del “muro del pianto”; le pietre con cui si costruiscono case e scuole; quelle tirate dai
religiosi ai laici, e dai laici ai religiosi. Ci sono le lapidi, e le pietre che si pongono sulla cima
della tomba come segno di commemorazione. Queste pietre ci segnano e diventano punti
interrogativi. Possono servire a distruggere ma possono servire anche a costruire, a edificare. C’è una frase riferita a Saint-Just, durante la Rivoluzione Francese: “Con le stesse pietre
possiamo erigere alla libertà un tempio o la sua tomba”». (Raphaël Nadjari)
Michale is a woman in her 30’s, married with a young son and working in her father’s Tel Aviv
accounting firm serving ultra-orthodox religious institutions. She divides her time between her
child, her husband, her work and her lover. Nothing can be left to chance because the slightest mishap
could set off a series of disasters. But after her lover dies in a terrorist attack in the hotel where he
and Michale were supposed to meet, her life is shattered. “In Hebrew, avanim means stones. This
country is full of stones, all of them symbols. There are the stones at the Western Wall; the stones
with which we build houses and schools; those which are thrown by the religious at the secular, and
by the secular at the religious. There are the tombstones, and the stones we place atop the tombs as
a sign of commemoration. These stones mark us, and become question marks. They can serve to
destroy, but they can also serve to construct, to build. There’s a saying that dates back to Saint-Just
during the French Revolution: ‘With the same stones, we can build either freedom’s temple or its
tomb.’” (Raphaël Nadjari)
Raphaël Nadjari
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele, Francia 2004, 105', 35mm, colore
61
Joseph Pitchhadze
SHNAT EFFES
Year Zero
sceneggiatura/screenplay
Joseph Pitchhadze, Dov Steuer
fotografia/cinematography Itai Neeman
montaggio/editing Dov Steuer
musica/music Ishai Adar
suono/sound Gil Toren
scenografia/art direction Miguel Merkin
costumi/costumes Doron Ashkenazi
interpreti/cast Menashe Noy (Reuben)
Sarah Adler (Anna), Moni Moshonov (Eddie)
Keren Mor (Michal), Ezra Kafri (Robinson)
produttore/producer
Joseph Pitchhadze, Lior Shefer, Dov Steuer
produzione/production
Year Zero - Limited Partnership
vendite internazionali/world sales Cinephil
Michal e Reuben sono una coppia di quarantenni decisi a non avere figli. Quando Michal
resta in cinta e vuole tenere il bambino, l’uomo si sente tradito. Anna viene sfrattata con il
figlio di dieci anni. Disperata, inizia a prostituirsi. La relazione con Matti, un venditore di
armi, sembra offrirle la possibilità di tornare alla normalità. Kagan, un trentenne solitario e
introverso, sta registrando un programma su suo padre, il fondatore del movimento punk in
Israele. Il nuovo direttore della radio però sta cercando di impedire che lo show vada in onda.
Michal and Reuben are a couple in their 40s intent on not having children. When Michal unexpectedly gets pregnant and wants to keep the baby, Reuben feels cheated. Anna and her 10-year-old son
are evicted. Desperate, Anna resorts to prostitution. A relationship with Matti, an arms dealer,
seems to offer an opportunity to return to normalcy. Kagan, a solitary introvert in his 30s, is recording a radio program about his father, the founder of Israel’s punk movement, but the new station
manager is trying to prevent the show from being broadcast.
Joseph Pitchhadze (1965, Tiflis, Georgia) si
è trasferito con la famiglia nel 1972 in
Israele. Ha studiato all’Università di Tel
Aviv dove si è laureato presso il Dipartimento di Cinema e Televisione. Ha diretto
due cortometraggi e un episodio della serie
televisiva Franco ve Spector. Nel 1996, tratto
dal romanzo di Joseph Conrad, Sotto gli
occhi dell’Occidente, ha realizzato Leneged
Eyinaim Maaraviyot. Con quest’opera prima
ha vinto il Festival di Gerusalemme e, nel
1997, il Premio della Giuria Ecumenica alla
Berlinale. Quattro anni dopo ha bissato il
successo al Festival di Gerusalemme con il
thriller Besame Mucho. Nel 2004 ha diretto il
suo terzo lungometragio, Shnat Effes.
Joseph Pitchhadze (1965, Tiflis, Georgia)
moved to Israel with his family in 1972. He
graduated in Film and Television from Tel Aviv
University. He directed two shorts and an
episode for the television series Franco ve
Spector. In 1996 he made his feature debut,
Under Western Eyes, from the Joseph Conrad
novel. The film won the Jerusalem Film Festival
and in 1997 the Ecumenical Jury Prize at the
Berlinale. Four years later, he once again won
Jerusalem with the thriller Besame Mucho. He
made Year Zero, his third feature, in 2004.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele 2004, 131', 35mm, colore
Shnat Effes (Year Zero, 2004)
Besame Mucho (2000)
Leneged Eyinaim Maaraviyot (Under Western Eyes, 1996)
Yamim Raiim (Bad Days, 1993, cm)
Dreaming in Russian (1990, cm)
63
Roee Rosen
THE CONFESSIONS OF ROEE ROSEN
Israele 2008, 57', HD, colore
sceneggiatura/screenplay Roee Rosen
fotografia/cinematography
Avner Shahaf
musica/music Dikla Baniel
suono/sound Tatiana Schnitke
The Confessions of Roee Rosen iniziano con l’artista che annuncia la propria morte imminente e
che rinnega una carriera piena di bugie, scandali e false identità. Le confessioni sono trasmesse da tre portavoce – tre lavoratrici straniere che risiedono in Israele – che recitano tre monologhi in ebraico, una lingua che non conoscono. Le oratrici dunque ignorano il significato dei
testi, che sono una sorta di ibrido: basati sulla vita di Rosen ma al contempo parzialmente
plausibili come dichiarazioni delle stesse lavoratrici straniere.
The Confessions of Roee Rosen begins with the artist announcing his imminent death and repudiating a career full of lies, scandals and fake identities. The confessions are made by three spokeswomen – three foreign workers living in Israel – who recite three monologues in Hebrew, a language they do not know. The speakers are thus unaware of the meaning of the monologues, which
are a hybrid of events from Rosen’s life and simultaneously also somewhat plausible as statements
by the women themselves.
Roee Rosen (1963, Rehovot, Israele) è conosciuto in patria e all’estero come pittore ma
anche come scrittore, intellettuale, regista e
insegnante. Ha studiato Filosofia e Letteratura comparata a Tel Aviv e Arti visuali
all’Hunter College a New York. Attualmente tiene corsi di storia dell’arte presso l’università Beit Berl e l’Accademia Bezalel a
Gerusalemme. Le sue opere sono state esibite in diversi musei in ogni parte del mondo.
Nel 2006 ha ricevuto una Menzione Speciale
della Giuria al Festival di Oberhausen per
Two Women and a Man. E anche con The
Confessions of Roee Rosen ha ottenuto un riconoscimento al Festival di Marsiglia.
Roee Rosen (Rehovot, Israel, 1963) is known at
home and abroad as a painter, writer, intellectual, director and teacher. He studied Philosophy
and Comparative Literature in Tel Aviv and
Visual Arts at New York’s Hunter College. His
work has been shown at many different museums and venues throughout the world. In 2006
he received a Special Jury Mention at the
Oberhausen Film Festival for Two Women and
a Man. The Confessions of Roee Rosen won
a prize at the FIDMarseille Film Festival.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
montaggio/editing Ben Hagari
costumi/costumes Ahal Eden
interpreti/cast
Ekaterina Navuschtanova (Roee Rosen 1)
Francisca Panikar (Roee Rosen 2)
Haddy (Roee Rosen 3)
produttore/producer Roee Rosen
Filmografia parziale
The Confessions of Roee Rosen (2008, mm)
Gagging During Confession: Names and Arms (2008, cm)
Confessions Coming Soon (2007, cm), General Knowledge, Feeling Heart (2007, cm)
I Was Called Kuney-Lemel (2007, cm), Two Women and A Man (2005, cm)
65
Yoav Shamir
CHAMISHA YAMIM
5 Days
sceneggiatura/screenplay Yoav Shamir
fotografia/cinematography Alon Zingman
Amit Shalev, Claudio Steinberg
Eytan Harris, Gil Mezuman
Mahmoud Albaied, Nadav Lapid, Shai
montaggio/editing Arik Lahav-Leibovitz
musica/music Ophir Leibovitch
produttore/producer Moshe Levinson
produzione/production Profile Productions Ltd
in associazione/in association
Keshet TV, Documentary Channel
Sundance Channel, USA
Il 14 agosto 2005 il governo israeliano rese esecutivo lo sgombero di ottomila coloni dalla
Striscia di Gaza e dal West Bank per fare spazio a 250mila palestinesi, un provvedimento stabilito nel 2004 dal governo Sharon. Il 15 scattò l’operazione “Mano tesa ai fratelli” che prevedeva aiuti e indennizzi per chi avesse deciso di lasciare le abitazioni entro le ore 24 del giorno
successivo. Dal 17, le autorità passarono allo sgombero forzato. Il 22 agosto tutti i coloni furono riportati entro i confini di Israele. Five Days racconta questi cinque giorni drammatici.
On August 14, 2005 the Israeli government ordered the evacuation of 8,000 Jewish settlers from the
Gaza Strip and West Bank to make way for 250,000 Palestinians, according to a March 2004 law
passed by the Sharon government. On August 15 an operation began offering aid and indemnity to
those who voluntarily left their houses within the following day. On August 17, the Israeli Defense
Forces began forcing settlers out. By August 22, all of the of the Jewish settlers had been brought to
Israel. The documentary depicts those five dramatic days.
Yoav Shamir (1970, Tel Aviv) si è laureato in
Storia e Filosofia presso l’Università di Tel
Aviv e nel 2002 si è specializzato in regia
documentaria con un master in cinematografia. Il suo primo documentario, Marta &
Luis è stato selezionato in numerosi festival.
Si è affermato come uno dei migliori documentaristi in Israele grazie al film Mahsomim
che descrive l’insopportabile umiliazione
subita dai palestinesi ai posti di blocco collocati intorno ai territori occupati e l’effetto
disumanizzante della politica di oppressione sui giovani soldati che devono metterla
in pratica. Il documentario ha vinto nel 2003
il premio Joris Ivens all'IDFA di Amsterdam.
Con il successivo Flipping Out, Shamir segue
un gruppo di soldati israeliani in India.
Mentre il nuovo documentario, Hashmatza,
tratta la questione dell’antisemitismo ed è
stato selezionato al Festival di Berlino.
Yoav Shamir (Tel Aviv, 1970) graduated in
History and Philosophy from Tel Aviv
University and in 2002 got a Masters in documentary filmmaking. His first film, Marta &
Luis, played numerous festivals. He established
himself as one of the Israel’s top documentary
filmmakers with Checkpoint, on the unbearable
humiliation Palestinians endure at checkpoints
in the Occupied Territories and the dehumanizing effect of oppressive politics on the young soldiers who must carry it out. In 2003, the documentary won the Joris Ivens Award at IDFA in
Amsterdam. In the subsequent Flipping Out,
Shamir followed a group of Israeli soldiers in
India, while his latest film, Defamation, looks
at anti-Semitism and was selected at the Berlin
Film Festival.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele 2005, 94’, dvcam, colore
Hashmatza (Defamation, 2009, doc)
Flipping Out (2007, doc)
Chamisha yamim (5 Days, 2005, doc)
Mahsomim (Checkpoint, 2003, doc)
Marta ve’luis (Marta and Luis, 2001, mm, doc)
67
Yoav Shamir
MAHSOMIM
Checkpoint
Israele 2003, 80', Dv, colore
produzione/production
Amythos Films, Eden Productions
vendite internazionali/world sales
First Hand Films
Girato nel corso di tre anni, tra il 2001 e il 2003, con il sostegno finanziario dell’istituto per
la promozione del cinema israeliano, Checkpoint con la classica tecnica del cinema verità,
rivolge uno sguardo compassionevole e al tempo stesso imperturbabile sulla vita che si
svolge nelle zone di confine che separano Israele dai territori palestinesi. A essere filmati
sono i posti di blocco dell’esercito israeliano dove si controllano il passaggio di uomini e
donne lungo alcune delle strade tra Israele, Gaza e la Cisgiordania. Shamir usa una videocamera ad alta tecnologia per mimetizzare la sua presenza e per entrare in un rapporto di
profonda confidenza con i militari che stazionano ai checkpoint. In tal modo, escono fuori
momenti di tenerezza e anche di umorismo, e l’umanità di coloro che si trovano su entrambi i lati del posto di blocco. «Ho realizzato questo film per il mio popolo, la mia famiglia e
gli amici che rappresentano quella parte della società israeliana che ha scelto di non sapere cosa succede così vicino a noi». (Yoav Shamir)
Shot from 2001-03, with financial backing from the institute that promotes Israeli cinema abroad,
Checkpoint uses the classic techniques of cinema verità to take a compassionate and unflappable
look at life on the borders between Israel and the Palestinian territories. The focus here is on the
Israeli military checkpoints that control the passage of men and women along the streets between
Israel, Gaza and the West Bank. Shamir uses a high-tech video camera to camouflage his presence
and forms relationships of profound trust with the soldiers stationed at the checkpoints. In doing so,
he captures moments of tenderness, even humor and the humanity of those on both sides of the
blocks. “I made this film for my people, my family and my friends who represent that part of Israeli
society that did not want to know what was taking place so close to us.” (Yoav Shamir)
Yoav Shamir
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
fotografia/cinematography Yoav Shamir
montaggio/editing Era Lapid
produttore/producer Amit Breuer
Edna & Elinor Kowarsky
69
Ran Slavin
THE INSOMNIAC CITY CYCLES
sceneggiatura/screenplay Ran Slavin
fotografia/cinematography Ran Slavin
montaggio/editing Ran Slavin
musica/music Ran Slavin
suono/sound Ran Slavin
scenografia/art direction Ran Slavin
costumi/costumes Maayan Goldman
interpreti/cast Lee Trifon (Donna)
Adi Gilad (Uomo nel negozio d’animali)
Yaniv Abraham (il Dandy assassino)
Irad Mazliah (Uomo nel parcheggio
ballerino mascherato)
produttore/producer Ran Slavin
produzione/production Nocturnal Rainbow
In una Tel Aviv in movimento, un uomo soffre di insonnia e cerca di ricordare se davvero
qualcuno gli abbia sparato in uno dei parcheggi sotterranei della città. L’uomo non riesce a
capire più cosa sia vero e cosa sia un sogno, mentre la città assume le sembianze della condizione umana. «The Insomniac City Cycles è un'opera senza fine, uno spazio aperto che accoglie lo spettatore e lo lascia libero di volare tra inquadrature, effetti visivi e suoni per costruire il proprio viaggio onirico. È un film di fantascienza noir sperimentale». (Ran Slavin)
In a bustling Tel Aviv, a man suffering from insomnia tries to remember if someone actually shot at
him in one of the city’s underground parking garages. He no longer knows what is real and what is
a dream, while the city increasingly reflects the human condition. “The Insomniac City Cycles is
a film without an ending, an open space that welcomes the viewer and leaves him free to fly among
the images, visual effects and sounds to construct his own personal, dreamlike journey. It is an
experimental noir science fiction film.“ (Ran Slavin)
Ran Slavin (1967, Gerusalemme) si è diplomato all’Accademia Bezalel e per quanto
riguarda il cinema è un autodidatta.
Musicista e videoartista, lavora tra cinema,
musica digitale e acustica e pittura. Le sue
installazioni sono una fusione di processi
sonori e di manipolazioni elettroacustiche,
mentre i suoi film si basano su un montaggio antinarrativo, sulla manipolazione della
durata temporale, sull’interazione di elementi come il colore o la velocità delle
immagini. Le sue opere sono state esposte a
Tel Aviv, Haifa, Venezia, Milano, Parigi,
Kassel, Berlino, Linz, Madrid, Cracovia,
Amsterdam, New York e molte altre città.
The Insomniac City Cycles è un’opera in divenire, inizialmente commissionata dalla
Biennale Architettura di Venezia 2004, per il
padiglione israeliano e che doveva ritrarre
la città di Tel Aviv.
Ran Slavin (Jerusalem, 1967) graduated from
Bezalel Academy but is self-taught in cinema.
A musician and video artist, he works in film,
digital music and painting. His installations
are a fusion of sonorous processes and electroacoustic manipulations, while his films are
based on anti-narrative montages, temporal
manipulations and interactions between elements such as color, speed and images. His
work has shown in Tel Aviv, Haifa, Venice,
Milan, Paris, Kassel, Berlin, Linz, Madrid,
Krakow, Amsterdam, New York and many
other cities. The Insomniac City Cycles is a
work in progress, initially commissioned by the
2004 Venice Architecture Biennale for the
Israeli pavilion, and was meant to depict the
city of Tel Aviv.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele 2004-9, 80’, Digital Beta, Mini Dv, colore
Filmografia parziale
The Insomniac City Cycles (2004-09), Alenbi Moment (2007), Facial Witness (2005)
Invisible Harmonies (2002-05), Untitled (2005), A RadiophonicFairyTale (2005)
Radio (2005), Golden Twilight Moments (2005), You Are Beautiful (2004)
The Silence (2004), Cit Oscillo (2004), Pixel Travels (2004), Dream Zone 537 (2004)
71
Ran Tal
YALDEI HA’SHEMESH
Children of the Sun
Israele 2007, 70', DigiBeta, colore, b/n
produttore/producer
Amir Harel, Ayelet Kait, Ran Tal
produzione/production Lama
vendite internazionali/world sales
Fortissimo Films
I membri del kibbutzim sperimentavano la vita collettiva cercando di rivoluzionare i cardini
della società. Si condividevano non solo la terra e i suoi frutti ma anche l’educazione dei figli.
Un documentario realizzato con filmati professionali e personali nel quale il regista ricostruisce questo esperimento fantastico e doloroso al tempo stesso. Un quadro ambivalente, fatto di
nostalgia e memoria traumatica, riconducibile all’incubo dei bambini costretti a dormire lontano dai propri genitori, e di felicità per la consapevolezza di crescere in totale indipendenza.
The members of kibbutzim experimented with collective living and tried to revolutionize the very
foundations of society. They shared not only the land and its fruits, but also the raising and educating of their children. The documentary was made using professional and home movies, in which the
director reconstructed this experiment, both wonderful and painful. The result is an ambivalent portrait, made up of nostalgia and traumatic memories tracing back to the happiness of growing up with
total independence and the nightmares of children forced to sleep far from their parents.
Ran Tal (1963, Kibbutz Beit Hashita, Nord
Israele) ha studiato Cinema e Televisione
presso l’Università di Tel Aviv. Il cortometraggio Malka lev adom, sceneggiato e diretto
insieme al celebre scrittore Etgar Keret, ha
vinto numerosi premi tra i quali quello di
Miglior Film agli Oscar israeliani. Di seguito
ha realizzato altri corti e documentari che
hanno partecipato a manifestazioni internazionali. Children of the Sun è stato descritto da
Uri Klein, critico cinematografico del quotidiano israeliano «Ha’aretz», come uno dei
più importanti documentari israeliani degli
ultimi anni. Il film ha partecipato a prestigiosi festival internazionali, tra i quali quello di
Gerusalemme (Premio per il miglior documentario 2007), di Toronto e di Singapore.
Ran Tal (Kibbutz Beit Hashita North of Israel,
1963) studied Cinema and Television at Tel Aviv
University. His short Skin Deep, co-written
and co-directed with celebrated writer Etgar
Keret, won various international awards,
including Best Drama from the Israeli Film
Academy Award. His subsequent short films
and documentaries screened in festivals worldwide. Children of the Sun was described by
Uri Klein, film critic of the Israeli daily newspaper Ha’aretz, as one of the most important
Israeli documentaries of recent years. The film
was selected at the most prestigious international film festivals, including Jerusalem (Best
Documentary of 2007), Toronto and Singapore.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
sceneggiatura/screenplay
Ran Tal, Ron Goldman
montaggio/editing Ron Goldman
musica/music Avi Belleli
suono/sound Alex Claude
Yaldei ha’shemesh (Children of the Sun, 2007, doc)
Beit halomotai (My Dream House, 2005, cm, doc)
Derech Ben-Tzvi 67 (67 Ben Tsvi Road, 1998, doc)
Malka lev adom (Skin Deep, co-regia Etgar Keret, 1996, cm)
73
Keren Yedaya
OR
sceneggiatura/screenplay
Keren Yedaya, Sari Ezouz
fotografia/cinematography
Laurent Brunet
montaggio/editing Sari Ezouz
suono/sound Tulli Chen
scenografia/art direction Avi Fahima
interpreti/cast Ronit Elkabetz (Ruthie)
Dana Ivgy (Or), Meshar Cohen (Ido)
produttore/producer
Marek Rosenbaum, Itaï Tamir
produzione/production Transfax
distribuzione/distribution
Big Fish Entertainment
Ruthie e Or, madre e figlia diciassettenne, vivono a Tel Aviv. Ruthie si prostituisce da vent’anni e la sua salute peggiora sempre più. Or, che senza successo ha provato a levare la
madre dalla strada, è giovane, bella, ha degli amici e un ragazzo. La sua quotidianità è fatta
di piccoli lavori: lavapiatti in un ristorante, pulizie delle scale, raccolta delle bottiglie. Nel
frattempo prova anche a terminare la scuola. Dopo l’ennesima visita in ospedale a sua
madre, Or decide che una volta per tutte la sua vita deve cambiare in meglio.
Ruthie and Or, a mother and her 17-year-old daughter, live in Tel Aviv. Ruthie has been a prostitute
for the last 20 years and her health is declining. The young and beautiful Or has friends and a
boyfriend and has tried many times to get her mother off the streets, to no avail. Or’s daily routine
is an endless succession of petty jobs: washing dishes in a restaurant, cleaning staircases and collecting deposit bottles while attending high school whenever she can. After the umpteenth visit to her
mother in the hospital, Or decides that this time, things must change for good.
Keren Yedaya (1972, Stati Uniti) scrive e dirige i suoi film. Dal 1975 vive in Israele. Dopo
una formazione presso la Scuola di cinema e
fotografia “Camera Obscura” di Tel-Aviv, è
entrata a far parte di diverse associazioni per
i diritti della donna e per la liberazione dei
territori palestinesi. Organizza anche workshop per bambini senza tetto. I suoi film, fortemente caratterizzati per l’impegno politico,
mettono spesso in scena donne alla ricerca
della loro dignità in una società militarista,
dominata dagli uomini e segnata dalle disuguaglianze tra le classi. Dopo tre cortometraggi, Elinor, Lulu e Les Dessous, premiati in
festival internazionali, nel 2004 ha realizzato
il suo primo lungometraggio di finzione, Or,
che si è aggiudicato il Gran Premio della
“Settimana della Critica” e la Camera d’Oro
al Festival di Cannes, dove quest’anno ha
presentato il nuovo film, Jaffa.
Keren Yedaya (United States, 1972) writes and
directs all her movies. She has been living in
Israel since 1975. After graduating from the
Camera Obscura Film and Photography School
in Tel Aviv, she began working with various
associations for women’s rights and the end of
Israeli occupation of the Palestinian territories.
She also organises workshops for homeless children. Her films, characterized by their political
bent, often focus on women searching for their
dignity in a militaristic society dominated by
men and marked by class inequality. After making three short films - Elinor, Lulu and Les
Dessous, which won awards at festivals worldwide – in 2004 she made her first feature film,
Or, which won Critics’ Week and the Camera
D’Or at the Cannes Film Festival.
IL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele, Francia 2004, 91', 35mm, colore
Jaffa (2009)
Or (2004)
Les Dessous (2001, cm)
Lulu (1998, cm)
Elinor (1993, cm)
75
Maya Zack
MOTHER ECONOMY
sceneggiatura/screenplay
Ytzchak Roth, Maya Zack
fotografia/cinematography Stanislav Levor
montaggio/editing Amos Ponger
musica/music Ophir Leibovitch
suono/sound Omri Levy
scenografia/art direction Maya Zack
costumi/costumes Maya Zack
interpreti/cast Idit Neuderfer
produttore/producer Ytzchak Roth
produzione/production
The New Israeli Foundation
The Ministry of Science Culture & Sport
The Israeli Film Council
Israel Lottery Council of the Arts
Mandel Granola Factories
Mother Economy segue le azioni di una casalinga all’interno di una casa durante il nazismo.
La donna, in uno stato di trance, si muove, organizza, effettua calcoli, elabora. Il film fa
riflettere sulle capacità e le numerose risorse dimostrate dalle donne anche durante un
periodo così violento. «Attraverso la protagonista del film ridefiniamo il tradizionale ruolo
femminile della semplice casalinga: essa si trasforma in scienziato meticoloso e artista
devoto del proprio territorio». (Maya Zack)
Mother Economy follows the actions of a lonely housekeeper in her house during Nazism. In a
trance-like state, the woman organizes and makes calculations. Mother Economy is a meditation
on the resourceful women during this violent period. “Mother Economy’s character is using space
and objects to execute obsessive actions that redefine the traditional role of the feminine character –
turning her from a naive housewife into a punctilious scientist and a devoted artist in her own territory.” (Maya Zack)
Maya Zack (1976, Tel Aviv) si è laureata nel
2000 presso l’Accademia di Arte e Design
Bezabel di Gerusalemme. Ha frequentato
per un anno la Kunsthochschule BerlinWeissensee e tra il 2004 e 2009 ha seguito un
master in Arte all’Università di Tel Aviv. Nel
2008 si è aggiudicata il "Celeste Kunstpreis"
di Berlino. Il lavoro con il quale ha acquisito
questo prestigioso riconoscimento è Mother
Economy, un esperimento raffinato che percorre il sottile confine tra cinema sperimentale e l’opera video-concettuale. Un film che
segue un’impostazione più cinematografica,
mentre nei lavori precedenti tra cui Meme 1
si sentiva maggiormente l’influenza estetica
di Matthew Barney.
Maya Zack (Tel Aviv, 1976) graduated in 2000
from Jerusalem’s Bezabel Academy of Art and
Design. She studied at the Kunsthochschule
Berlin-Weissensee for one year and from 200409 was enrolled in a Masters program at the
University of Tel Aviv. In 2008 she won the
prestigious Celeste Prize in Berlin for Mother
Economy, a sophisticated experiment that
skirts the subtle boundaries between experimental cinema and video/conceptual art. While the
film is more formally cinematic, her previous
works, including Meme 1, share an aesthetic
similar to Matthew Barney’s.
LL CINEMA ISRAELIANO CONTEMPORANEO
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Israele 2007, 20', HD, colore
Mother Economy (2007, cm)
Concrete and Cement 2: Door to Door (2005, cm)
Meme 2. The Units (2004, cm), Meme 1 (2003, cm)
Concrete and Cement 1: Preperations for the Ceremony (2003, cm)
Hier Seid Ihr Zusamen (2000, cm)
77
TEL AVIV UNIVERSITY FILM AND TV DEPARTMENT
Tre cortometraggi dalla scuola di Tel Aviv
Three shorts from the Tel Aviv School
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
78
The Tel Aviv University Film and TV Department (TAU) has educated an entire generation of filmmakers and is renowned for its
crucial impact on the Israeli film and television industry. Among
the department's graduates are Dover Koshashvili (Late
Wedding), Ari Folman (director of the groundbreaking Waltz
with Bashir) and Eytan Fox (Yossi & Jagger, Walk on Water,
The Bubble). Films by the students of the department are recognized by over one hundred international film festivals annually.
Moreover, in 2006, CILECT, the international association of major
film and television schools, established an annual competition to
select the world's best student film. TAU has accomplished the
unprecedented achievement of winning CILECT's first prize all
three years of the competition.
Israele 1990, 45', 35mm, colore
Eytan Fox (1964, New York) sin dal suo saggio finale After,
che anticipa nei contenuti e nella trama Yossi & Jagger, si è
interessato alla gioventù israeliana e al ruolo dell’omosessualità in quella società. Nelle opere successive toccherà
spesso dei soggetti delicati collocandoli al centro del
dibattito pubblico attraverso un cinema mainstream.
Eytan Fox (New York, 1964) since his graduation film Time
Off/After (1990), whose content and plot were similar to
Yossi & Jagger, has been interested in young people in Israel
and the role homosexuality has in that society. In his subsequent films, he has often touched upon delicate subjects that he
ties to a wider, public debate through mainstream cinema.
Yasmine Novak
ZOHAR
Israele 2007, 30', dvcam, colore
Yasmine Novak (1976, Canada) si è trasferita in Israele
nel 1980 . Lavora come regista e montatrice a diversi progetti televisivi che riguardano anche questioni sociali e
politiche del suo paese. Zohar è una giovane atleta alle
prese con la femminilità che sta sbocciando e con il salone di bellezza di sua madre, dove è costretta a lavorare.
Yasmine Novak (Canada, 1976) moved to Israel in 1980.
She currently works as a director and editor for Israeli television and is developing a number of projects that deal with
social and political issues. Zohar is a talented young athlete
on the verge of womanhood, who has to help her single mother in her beauty salon.
Lenoid Prudovsky
LAYLA AFEL/Dark Night
Israele 2005, 30', 35mm, colore
TEL AVIV UNIVERSITY FILM AND TV DEPARTMENT
Il Tel Aviv University Film and TV Department (TAU) ha formato un’intera generazione di cineasti ed è rinomato per il
suo impatto determinante sull’industria televisiva e cinematografica israeliana. Tra i diplomati della facoltà figurano
Dover Koshashvili, regista di Matrimonio tardivo, Ari Folman,
che ha diretto l’innovativo Valzer con Bashir ed Eytan Fox,
regista di Yossi & Jagger, Camminando sull’acqua e The Bubble. I
film realizzati dagli studenti della facoltà sono apprezzati
ogni anno da oltre cento festival cinematografici. Inoltre, nel
2006, il CILECT - l’associazione internazionale che riunisce le
principali scuole di cinema e televisione - ha lanciato un concorso annuale per selezionare il miglior film realizzato da
uno studente. Nelle tre edizioni svoltesi finora, il TAU è sempre riuscito ad aggiudicarsi il primo premio CILECT, un
risultato senza precedenti.
Eytan Fox
AFTER
Leonid Prudovsky (1978, Leningrado) ha diretto Victory
Day (2003) e Roads to Kfar Qasem (2004). Layla afel ha ricevuto la Menzione Speciale nella sezione ”Corto Cortissimo”
alla Mostra di Venezia nel 2005, e ha per protagonisti due
soldati israeliani e una coppia di palestinesi assediati in una
casa e intenti a trovare una soluzione pacifica al conflitto.
Leonid Prudovsky (Leningrad, 1978) has directed Victory
Day (2003) and Roads to Kfar Qasem (2004). Dark Night,
which received a Special Mention in the Corto Cortissimo section of the 2005 Venice Film Festival, centers on two Israeli soldiers and two Palestinians whose house they force themselves
into, all determined to find a peaceful solution to the problem.
79
Uno dei settori creativi nei quali la ricerca artistica si è
maggiormente sviluppata in Israele è senza dubbio quello della videoarte. Le più importanti biennali d’arte contemporanea internazionali ospitano costantemente artisti israeliani, il cui spirito espressivo è costantemente
concentrato su alcuni argomenti centrali: le questioni
geopolitiche del Medio Oriente, il conflito israelo-palestinese, i numerosi problemi della società israeliana, i
rapporti interpersonali. Pur occupandosi, praticamente
tutti, di tale nucleo contenutistico, gli artisti israeliani
operano però in modo autonomo e utilizzando i media
contemporanei in maniera personale, e spesso anticonvenzionale. Tra i nomi più noti a livello internazionale
Yael Bartana, a cui la Mostra dedica un focus, Doron
Solomons, e Guy Ben-Ner, quest’ultimo particolarmente
concentrato sul tema della famiglia. (Maurizio De Bonis)
One of the creative fields in which artistic experimentation
has most developed in Israel is without a doubt video art. The
most international contemporary art biennales consistently
host Israeli artists, whose works tends to be concentrated
upon several key arguments: the geopolitics of the Middle
East, the Israeli-Palestinian conflict, the numerous problems
of Israeli society and interpersonal relationships. Although
almost all of them focus on these themes, Israeli artists nevertheless work independently and use contemporary media in
personal and often unconventional ways. The most internationally renowned artists include Yael Bartana, to whom the
Pesaro Film Festival is dedicating a retrospective; Doron
Solomons; and Guy Ben-Ner, who places particular focus on
the family. (Maurizio De Bonis)
in collaborazione con
80
Boaz Arad & Miki Kratsman
PROGRAMMA
Program
Boaz Arad &
Miki Kratsman
21:40 (2002, 6’)
Yossi Attia & Itamar Rose
The State of Judeo-Arabia
(2007, 4’30”)
Yael Bartana
Summer Camp (2007, 12’)
A Declaration (2006, 7’)
Odds and Ends (2005, 4’)
Sirenís Song (2005, 4’)
When Adar Enters (2003, 7’)
Kings of the Hill (2003, 7’)
Guy Ben-Ner
Stealing Beauty (2007, 18’)
Ayelet Ben Porat
T.M.B. (2001, 4’30”)
Dana Levy
Hell Angels (2002, 3’30”)
Avi Mograbi
Detail 4 (2004, 5’)
Doron Solomons
Shopping Day (2006, 5’)
Father (2002, 13’)
«Boaz Arad, come Doron Solomons, ha iniziato la sua carriera di videoartista utilizzando materiali già pronti, e impegnandosi a decostruire principi base e tabu
della società israeliana. Piuttosto che saccheggiare fondi televisivi, servizi giornalistici o pubblicità, però, ha adoperato “found footage”. I primi lavori di Arad si
basano sulla manipolazione di materiali di repertorio relativi ad Adolf Hitler con
cui l’artista realizza la propria vendetta per l’Olocausto». (Sergio Edelstein). Boaz
Arad ha avuto anche una fruttuosa collaborazione con Miki Kratsman (1959,
Argentina), fotoreporter autore di numerosi libri che sottolineano un intenso lavoro di documentazione delle vittime palestinesi dell’occupazione israeliana, svolto
tra gli altri per il quotidiano «Haaretz». Miki Kratsman in molte sue fotografie sottolinea l’impotenza dei civili palestinesi di fronte al dispiegamento di mezzi economici, logistici e militari su cui può contare il governo di Israele e quello che per
essi è il suo principale rappresentante: l’esercito. In 21:40 «Arad e Kratsman, nel
luogo dell’assassinio del Primo Ministro Yitzak Rabin, chiedono ai passanti di
ricostruire l’evento, ripreso in un video amatoriale e trasmesso ripetutamente in
televisione – l’evento commemorato si rivela, così, come frutto della creatività
individuale, tale che ogni persona può darne la propria singolare versione. Il
video mette quindi a nudo l’incapacità dei media e della collettività di giungere a
un chiaro e definitivo racconto dell’assassinio – nonostante la fortuita ripresa
diretta dell’evento» (Sergio Edelstein)
Like Doron Solomons, Boaz Arad began his career as a video artist, using others’ material to deconstruct the underlying principles and taboos of Israeli society. Rather than looting television funds or journalistic or advertising works, however, he used found footage.
Arad’s first works manipulated archive material on Adolf Hitler, on whom the artist took
out his personal vendetta for the Holocaust.” (Sergio Edelstein). Arad has also worked
extensively with Miki Kratsman (1959, Argentina), a photo-journalist and author of
numerous books that scrupulously document the Palestinian victims of the Israeli occupation, which he has done for, among others, the daily paper Haaretz. In many of his photographs, Kratsman emphasizes the impotence of Palestinian civilians before the Israeli government’s economic, logistic and military resources; and focuses on the main subject in his
work, the army. In 21:40, “On the spot where Prime Minister Yitzak Rabin was assassinated, Arad and Kratsman ask passersby to reconstruct the event, which had been captured on amateur video and broadcast repeatedly on television. The commemorated event
is revealed to be the fruit of individual creativity, such that each person offers their own
unique version. The video thus exposes the incapacity of the media and the collective imagination to reach a clear, definitive account of the assassination – despite the fortuitous live
recording of the event.” (Sergio Edelstein)
VIDEOARTE ISRAELIANA
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
VIDEOARTE ISRAELIANA
Israeli Video Art
81
82
Yossi Attia (1979, Gerusalemme) e Itamar Rose (1979, Tel Aviv)
hanno studiato entrambi alla Scuola “Sam Spiegel” di Gerusalemme.
Hanno cominciato a lavorare come coppia artistica durante gli scontri avvenuti nel 2005 tra l’esercito israeliano e i coloni, con questi ultimi che resistevano al piano di disimpegno unilaterale israeliano
dalla Striscia Gaza voluto da Sharon. I due artisti sono andati negli
Insediamenti dove hanno documentato satiricamente la battaglia. I
loro video, esposti tra gli altri al Centre Pompidou, alla Kunstverein
di Amburgo, alla WHW's Gallery Nova di Zagabria e all’Israeli
Center for Digital Art di Holon, hanno come caratteristica il mescolare materiali documentari e satirici. Ad esempio in The State of JudeoArabia, fingendosi giornalisti, i due artisti hanno chiesto ai passanti
opinioni sui temi più scottanti. In un villaggio Arabo hanno domandato agli abitanti che forma dovesse avere, secondo loro, un vero
stato bi-nazionale: chi doveva essere il Capo di Stato, chi veniva
dichiarato nemico e quali minoranze dovevano essere oppresse in
questa situazione. Nel precedente Shirutrom (2006), una specie di
Telethon a favore dell’esercito, irrompevano nel ruolo di due stupidi
giornalisti televisivi nelle case degli spettatori chiedendo perché mai
la gente dovesse effettuare donazioni per l’istituzione più ricca e più
spendacciona del Paese.
Yossi Attia (Jerusalem, 1979) and Itamar Rose (Tel Aviv, 1979) both studied at the Sam Spiegel School in Jerusalem. They began working together
during the 2005 clashes between the Israeli army and the settlers who were
resisting Sharon’s Israeli unilateral disengagement plan for the Gaza Strip.
The artists went to the settlements and satirically documented the battle.
Their videos – which have been shown at, among others, the Centre
Pompidou, Hamburg Kunstverein, WHW's Gallery Nova in Zagreb and the
Israeli Center for Digital Art in Holon – characteristically mix documentary
and satire. For example, in The State of Judeo-Arabia, pretending to be
journalists, the two artists asked passersby for their opinions on a most pressing subject. In an Arab village they asked inhabitants what form they felt a
truly bi-national state should have, who should run it, who should be
declared the enemy and which minorities should be oppressed in such a situation. In Shirutrom (2006), during an army telethon, feigning to be two stupid journalists, they went to viewers’ houses to ask them why anyone should
donate to the richest and most spendthrift institution in the country.
Yael Bartana
Yael Bartana (1970, Afula, Israele) ha studiato a New York e successivamente si è trasferita ad
Amsterdam. Il suo lavoro collega esperienze collettive e comportamenti relazionali legati a
questioni etniche, sociali e di genere, alla formazione di un’identità culturale e nazionale.
«Yael Bartana è senz’altro tra i più radicali degli artisti israeliani impegnati sul fronte politico. Nei suoi lavori fa ampio uso di stilemi visivi pubblicitari per conferire alle proprie opere
seduttività e artificialità da sogno. L’opera di Bartana si richiama alla realtà mediatica, ma è
per lo più lei stessa a costruire le trame “funzionali”, girando e creando situazioni particolari, anche quando impiega materiali di repertorio» (Sergio Edelstein). Fin dall’inizio della sua
carriera ha indagato i temi legati ai conflitti, e in particolare quanto la militarizzazione dello
stato e la propaganda influiscano sui comportamenti quotidiani e favoriscano la creazione di
falsi miti. Le sue opere prendono avvio con la puntuale registrazione di situazioni quasi sempre pubbliche e reali o talvolta messe in scena in modo verosimile. Si tratta di eventi, cerimonie, attività di gruppo come raduni sportivi e azioni militari.
VIDEOARTE ISRAELIANA
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Yossi Attia & Itamar Rose
Yael Bartana (Afula, Israel, 1970) studied in New York before moving to Amsterdam. His work
unites collective experiences and relational behaviors tied to ethnic, social and genre issues, and the
formation of a cultural and national identity. “Yael Bartana is without a doubt among the most radical Israeli artists who are politically engaged. He widely uses the visual stylistic elements of advertising to infuse his openly political works with seductiveness and a dream-like artificiality. Bartana’s
work refers to the mass media, yet itself also constructs ‘functional’ plots, capturing or creating particular situations, even when he uses found footage.” (Sergio Edelstein). Since the beginning of his
career, Bartan has explored themes such as conflict and how the militarization of a state and propaganda influence daily behavior and foster the creation of false myths. He regularly films events, ceremonies and group activities such as sports gatherings and military actions that are public or real,
or sometimes reconstructed to appear real.
83
Guy Ben-Ner
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
84
Guy Ben-Ner (Ramat Gan, 1969) graduated in Fine Arts in 1996 and in 2001 moved to New York
to continue his studies at Columbia University. He represented Israel at the 2005 Venice Biennale.
He has held solo exhibits at the Cincinnati Contemporary Arts Center, Herzliya Museum of Art
(Israel) and the Montreal Musèe d’Art Contemporain. He has also participated in collective shows
at the PAN in Naples, at New York’s P.S. 1 and MoMA, the Haifa Museum, Skulptur Projekte of
Munster and London’s Tate Modern. One of the main themes of his work is his relationship with his
family. Another important element is the very beginnings of cinema. “Ben-Ner’s interest in early
cinema comes from his curiosity for slapstick comedies, which is in turn tied to his interest in body
art and the works of artists such as Bruce Nauman, Vito Acconci and Dennis Oppenheim. Ben-Ner
draws a certain language from early cinema, while from art history, and from body art in particular,
draws an endless repertoire of images to assign and give shape and personalities to his characters, to
complete an idea or image.” (Sergio Edelstein).
Ayelet Ben Porat (1976) si è diplomata presso la
Bezalel Academy of Art and Design a Gerusalemme.
Ha esposto i suoi lavori tra gli altri all’Agosarts
Festival, Bruxelles, Art in General, New York; SaintGervais Center, Geneva. T.M.B. è un genere di videoclip tecno-music realizzato con filmati della Guerra di
Indipendenza. Le scene degli ebrei giubilanti che arrivano in Israele dopo duemila anni dalla Diaspora si
contrappongono con quelle dei rifugiati palestinesi
che partono per il lungo esilio. In questo modo, T.M.B.
diviene una versione storica in forma di “gag” delle
radici del conflitto arabo-israeliano.
VIDEOARTE ISRAELIANA
Guy Ben-Ner (1969, Ramat Gan) si è laureato in Belle Arti nel 1996 e nel 2001 si è trasferito a
New York per continuare gli studi presso la Columbia University. Ha rappresentato Israele
alla LI Biennale di Venezia. Ha tenuto mostre personali al Contemporary Arts Center di
Cincinnati, allo Herzliya Museum of Art (Israele) e al Musèe d’art contemporain di Montreal.
Ha inoltre partecipato a mostre collettive al PAN di Napoli, al P.S. 1 e al MoMA di New York,
al Museo di Haifa, allo Skulptur Projekte di Munster, alla Tate Modern di Londra. Uno dei
temi principali della sua produzione è il suo rapporto con la famiglia. Altro tratto importante è il confronto con il cinema degli albori: «L’interesse di Ben-Ner per il cinema delle origini
nasce dalla sua curiosità per le commedie slapstick, a sua volta legata all’interesse per la Body
Art e il lavoro di artisti come Bruce Nauman, Vito Acconci e Dennis Oppenheim. Dal cinema
delle origini Ben-Ner trae un linguaggio, mentre dalla storia dell’arte, e dalla body art in particolare, trae un repertorio illimitato di immagini per assegnare e dare forma e carattere ai
suoi personaggi, o per completare un’idea o un’immagine» (Sergio Edelstein).
Ayelet Ben Porat
Ayelet Ben Porat (1976) graduated from Jerusalem’s
Bezalel Academy of Art and Design. Her works have shown
at, among others, the Agosarts Festival (Brussels), Art in
General (New York) and the Saint-Gervais Center
(Geneva). T.M.B. is a techno music video made with
excerpts on the Arab-Israeli War. In it, scenes of exulted
Jews arriving in Israel after 2000 years of the Diaspora are
offset by those of Palestinian refugees leaving for a long
exile. Thus, T.M.B. is a “gag” historical version of the roots
of the Arab-Israeli conflict.
85
Dana Levy
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
86
Dana Levy (Tel Aviv, 1973) studied graphic design in London and upon graduating, in 1998, got
a Masters in the electronic image. Last year she won the Best Young Artist Prize in Israel. Her work
has shown at, among other venues, the Habres+Partner Gallery (Vienna, 2009), Tavi Dresdner
Gallery (Tel Aviv, 2008), Rosenfeld Gallery (Tel Aviv, 2004) and Haifa Museum of Art (2004). “In
Hell Angels, the artist and several children quickly develop a playful relationship amid the devastation of the Jenin refugee camp, shortly after a tough battle between Palestinian combatants and the
Israeli army. In order to enter the camp, the filmmaker pretended to be a journalist and the children
said they were guides and witnesses. Levy does not linger long on the destruction around her and is
instead interested in the children, in their anxiety and embarrassment.” (Sergio Edelstein).
Avi Mograbi (1956, Tel Aviv) è il figlio del proprietario di
una famosa sala di Tel Aviv, il Cinema Mograbi, dove il
futuro regista vide i suoi primi film. Dopo aver studiato
arti plastiche a Ramat Ha’sharon, ha frequentato Filosofia
all’Università di Tel Aviv. Il film d’esordio, Girush (1989),
è un cortometraggio di finzione che descrive l’espulsione
da Israele di un attivista palestinese. La sua opera documentaristica elaborata in più di venti anni è profondamente segnata dall’impegno politico e costituisce una
visione critica della società israeliana e della repressione
dei palestinesi. Essa tende inoltre ad allargare le frontiere
del documentario introducendo sistematicamente elementi di finzione, oltre che autobiografici, attraverso i
quali Mograbi si interroga sul ruolo del cineasta in quanto cittadino. Il suo film Nekom ahat mi’shtei eynai (2005) è
stato presentato nella selezione ufficiale del Festival di
Cannes, mentre Z32 (2008) nella sezione “Orizzonti”
della Mostra di Venezia. Mograbi, inoltre, insegna cinema
documentario all’Università di Tel Aviv a alla scuola di
Belle Arti Bezalel.
Avi Mograbi (Tel Aviv, 1956) is the son of the owner of a
famous movie theatre in Tel Aviv, the Cinema Mograbi,
where the director saw his first films. After studying plastic
arts at Ramat Ha’sharon, he studied philosophy at the
University of Tel Aviv. His debut short Girush (1989) was a
fictional account of the expulsion from Israel of a Palestinian
activist. His documentary work, which spans over 20 years,
is deeply political as well as critical of Israeli society and the
repression of Palestinians. Mograbi tends to broaden the
frontiers of the documentary by systematically introducing
fictional and autobiographical elements through which he
explores the role of the filmmaker as a citizen. Avenge But
One of My Two Eyes (2005) screened in the official selection of the Cannes Film Festival and Z32 (2008) in the
Horizons section of the Venice Film Festival. Mograbi teaches documentary filmmaking at the University of Tel Aviv
and the Bezalel Academy of Fine Arts.
VIDEOARTE ISRAELIANA
Dana Levy (Tel Aviv 1973) ha studiato disegno grafico a Londra e ha proseguito dopo la
laurea, nel 1998, con la specializzazione in immagine elettronica. Lo scorso anno ha vinto il
Premio come miglior giovane artista d’Israele. Ha esposto tra gli altri: alla Habres+Partner
Gallery di Vienna (2009), Tavi Dresdner Gallery di Tel Aviv (2008), Rosenfeld Gallery di Tel
Aviv (2004) e al Museum of Art di Haifa (2004). «In Hell Angels l’artista e alcuni bambini
sviluppano in breve una giocosa relazione sullo sfondo devastato del Campo profughi di
Jenin, subito dopo una dura battaglia tra combattenti palestinesi ed esercito israeliano. Per
poter accedere al campo, l’autrice si finge un giornalista mentre i bambini si dichiarano
guide e testimoni. Levy non si dilunga troppo sulla distruzione che li circonda, piuttosto è
interessato ai bambini, al loro turbamento e imbarazzo» (Sergio Edelstein).
Avi Mograbi
87
Doron Solomons
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Doron Solomons (1969, Londra) si è diplomata all’Art College di Ramat Hasharon. Ha
cominciato il suo apprendistato come montatore del dipartimento informazione della prima
televisione privata israeliana nel 1994, verso la fine dei suoi studi presso l’Hamidrasha Art
Teachers College. Insegna videoarte e cinema all’Art College di Beit Berl e alla Camera
Obscura School of Art di Tel Aviv. Tra le sue principali esposizioni: Haifa Museum of Art,
Herzliya Museum of Art, Video Art Biennale, San Paolo, Videobrasil, Microwave 2000 Video
Art Festival, Hong Kong, Kunsthalle di Vienna. Il lavoro che segna una svolta nel suo stile
è Father. Il video si concentra sulle paure esistenziali condivise dai genitori israeliani e palestinesi riguardo il pericolo fisico e psicologico a cui i bambini sono esposti. Il padre è talvolta palestinese altre israeliano, dato che il doppiaggio è simultaneamente in arabo e in ebraico. In un tentativo futile di salvare la propria figlia da essere vittima o carnefice, l’artistapadre si trasforma in mago. Prova a mettere in atto una serie di trucchi magico-pedagogici.
Ma è tutto inutile il padre mago si trasforma in un truffatore patetico.
88
Doron Solomons (London, 1969) graduated from the Art College of Ramat Hasharon. He worked
as an apprentice editor at Israel’s first private television channel in 1994, towards the end of her
studies at the Hamidrasha Art Teachers College. She teaches video art and cinema at the Art
College of Beit Berl and Tel Aviv’s Camera Obscura School of Art. Her main exhibits have shown
at the Haifa and Herzliya museums of art, the Video Art Biennale, Videobrasil (San Paolo),
Microwave 2000 Video Art Festival (Hong Kong) and Vienna’s Kunsthalle. The work that most
marks a change in her style is Father. The video looks at the existential fears of Israeli and
Palestinian parents over the physical and psychological dangers to which children are exposed. The
father in the work is at times Palestinian, at times Israeli, as the dubbing is simultaneously in
Arabic and Hebrew. In an attempt to save his daughter from becoming a victim or victimizer, the
artist-father becomes a magician. He attempts to perform a series of magic-educational tricks. Yet
it is all futile as the magician-father is a lousy trickster.
BANDE À PART
A Rachel Corrie
Amir Muhammad
MALAYSIAN GODS
Malaysia 2009, 70’, minidv, colore
produttore/producer Amir Muhammad
produzione/production Da Huang Pictures
Nel Settembre del 1998, Anwar Ibrahim fu dimesso dalla carica di vice Primo Ministro della
Malaysia. La sua espulsione e il successivo processo per corruzione e sodomia causò un’ondata di proteste da parte dei suoi sostenitori e di coloro che erano contro l’autorità del governo. Malaysian Gods pone lo sguardo sulle tante proteste che ebbero luogo nell’anno seguente
al licenziamento. Il film evita di inserire immagini d’archivio, dando spazio a interviste con
le persone che oggi vivono, lavorano o sono in visita negli stessi luoghi delle manifestazioni.
In September 1998, Anwar Ibrahim was sacked as Deputy Prime Minister of Malaysia. His expulsion and subsequent trial for corruption and sodomy triggered a wave of street protests by his supporters and those who were against the authoritarian rule of the government. Malaysian Gods
takes a look at several pivotal protests that took place in the year following his sacking. It eschews
archive footage in favor of interviews with people who are living, working in or visiting the actual
locations of the demonstrations, about a decade later.
Amir Muhammad (1972, Kuala Lumpur) ha
esordito con la regia di Lips to Lips, un progetto pensato inizialmente per il teatro. Con
il docu-dramma The Big Durian inizia a essere considerato tra i giovani filmmaker più
interessanti del sud-est asiatico. Dopo aver
ottenuto una borsa di studio, si è trasferito
sei mesi a Tokyo dove ha realizzato Tokyo
Magic Hour. Mentre The Year of Living
Vicariously viene girato in Indonesia sul set
del film Gie di Riri Riza. Rientrato in
Malaysia, ha diretto Lelaki Komunis Terakhir
ispirato al memoriale My Side of History di
Chin Peng, ultimo leader del Partito
Comunista della Malesia. Il film è stato bandito dalle autorità locali e la stessa decisione
viene estesa al successivo Apa Khabar Orang
Kampung. Nel 2008 ha co-diretto l’horror
Susuk e fondato con tre filmmaker la piccola
casa di produzione Da Huang Pictures.
Amir Muhammad (Kuala Lumpur, 1972)
made his directorial debut with Lips to Lips, a
project initially conceived for the theatre. With
the docu-drama The Big Durian he began to be
considered one of the most interesting young
filmmakers of Southeast Asia. He received a
grant and moved to Tokyo for six months, where
he made Tokyo Magic Hour. He shot The Year
of Living Vicariously in Indonesia, on the set
of Riri Riza’s film Gie. Upon returning to
Malaysia, he directed Lelaki Komunis
Terakhir, based on the memoir My Side of
History by Chin Peng, the last leader of
Malaysia’s Communist Party. The movie was
banned by the local authorities, as was
Muhammad’s subsequent film, Apa Khabar
Orang Kampung. In 2008 he co-directed the
mainstream horror movie Susuk and with other
three filmmakers founded the small production
company Da Huang Pictures.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
fotografia/cinematography Shan
montaggio/editing MS Prem Nath
Malaysian Gods (2008), Susuk (2008, co-regia Naeim Ghalili)
Apa Khabar Orang Kampung (Village People Radio Show, 2007), 18MP (2006, cm)
Lelaki Komunis Terakhir (The Last Communist, 2006)
The Year Of Living Vicariously (2005), Tokyo Magic Hour (2005), Wait (2004, cm)
The Big Durian (2003), 6horts (2002, cm), Petrol-Parking (2002, cm), Lips To Lips (2000)
91
Ilisa Barbash & Lucien Castaing-Taylor
SWEETGRASS
Stati Uniti 2009, 105’, dvcam, colore
suono/sound Lucien Castaing-Taylor
produttore/producer Ilisa Barbash
produzione/production
Peabody Museum
Il documentario segue un gregge di pecore in uno degli ultimi ranch rimasti nel Montana sulle
montagne Absaroka-Beartooth, e studia i comportamenti e le relazioni che si sviluppano all’interno del gruppo e tra gli animali e i pastori. «Se alla fine Sweetgrass parla di qualcosa, è sull’attrazione e al tempo stesso le contraddizioni del mondo pastorale, uno stile di vita basato
sull’inseparabilità tra la natura e la cultura: un sistema che è stato determinante per la costruzione della civiltà ma che oggi è progressivamente in forte declino». (Lucien Castaing-Taylor)
The documentary follows the lives at one of the last sheep breeding ranches of Montana’s Beartooth
mountains, studying the behaviors and relationships the between the flock, men and other animals.
"If in the end Sweetgrass is about anything, it is perhaps what are at once the attractions and the
ambivalence of the pastoral world, and a lifestyle based on a propinquity between nature and culture
that has been integral to the fabric of human history but which is now emphatically on the wane."
(Lucien Castaing-Taylor)
Ilisa Barbash (1959, New York) è regista,
scrittrice e curatrice di mostre fotografiche.
Ha più volte collaborato con Lucien
Castaing-Taylor per libri e film, inclusi In
and Out of Africa, Made in U.S.A., CrossCultural Filmmaking e The Cinema of Robert
Gardner. Come curatrice e antropologa
visuale al Peabody Museum presso l’Università di Harvard, realizza installazioni
interattive, mostre fotografiche e libri.
Lucien Castaing-Taylor (1966, Liverpool)
ha studiato antropologia sociale, filosofia e
teologia a Cambridge, e antropologia visiva
alla Southern California. Nel 2000 ha ottenuto il titolo di PhD in antropologia culturale presso l’Università della California,
Berkeley. Attualmente è il direttore del Film
Study Center e del Sensory Ethnography
Lab di Harvard.
Ilisa Barbash (New York, 1959) works as a
filmmaker, writer and photography curator. She
has collaborated with Lucien Taylor on a number of books and films, including In and Out of
Africa, Made in U.S.A., Cross-Cultural
Filmmaking and The Cinema of Robert
Gardner. Working at the Peabody Museum at
Harvard University as a curator of Visual
Anthropology, she creates interactive media,
photography exhibitions and books.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
fotografia/cinematography
Lucien Castaing-Taylor
montaggio/editing
Ilisa Barbash, Lucien Castaing-Taylor
Lucien Castaing-Taylor (Liverpool, 1966)
studied social anthropology, philosophy, and
theology in Cambridge and visual anthropology
at the University of Southern California. In
2000 he earned his PhD in cultural anthropology at the University of California, Berkeley.
Presently he is Director of the Film Study
Center and of the Sensory Ethnography Lab at
Harvard University.
Barbash & Castaing-Taylor: Sweetgrass (2009, doc)
In and Out of Africa (1992, doc), Made in U.S.A. (1990, doc)
Castaing-Taylor: Daybreak on the Bedground (2009, doc), Turned at the Pass (2009, doc)
Bedding Down (2009, doc), Into-the-Jug (2008, doc), The High Trail (2007, doc)
Hell Roaring Creek (2007, doc) Coom Biddy (2007, doc), Breakfast (1992, doc)
93
Simone Bitton
RACHEL
Francia, Belgio 2008, 100’, dvcam, colore
produttore/producer Thierry Lenouvel
produzione/production Ciné-Sud Promotions
co-produzione/co-production
Arte France Cinéma, Novak Production, RTBF
vendite internazionali/world sales Umedia
Rachel Corrie aveva ventitre anni. Pacifista, militante in un’organizzazione internazionale
andò sulla Striscia di Gaza per difendere le case palestinesi che gli israeliani stavano abbattendo per costruire il Muro. Il 16 marzo del 2003 venne schiacciata da un bulldozer. La polizia
militare israeliana stabilì che la morte di Rachel fu un incidente. Molti testimoni affermarono
che il soldato alla guida del bulldozer aveva ucciso Rachel intenzionalmente, ma l’amministrazione americana non aprì un’inchiesta indipendente e il caso venne archiviato e dimenticato.
Rachel Corrie was 23 years old. A pacifist working with an international organization, she went to
the Gaza Strip to defend the homes of Palestinians that the Israelis were razing to build the wall. On
March 16, 2003, she was crushed by a bulldozer. The Israeli military police called Rachel’s death an
accident. Despite much eyewitness testimony that the soldier driving the bulldozer deliberately killed
Rachel, the US administration has never requested an independent investigation and the case was
closed and forgotten.
Simone Bitton (1955, Marocco) si è trasferita in Israele nel 1966 e ha prestato servizio
militare durante la Guerra del Kippur; successivamente è andata a vivere a Parigi e nel
1981 si è diplomata presso la scuola di cinema IDHEC. Parla perfettamente l’ebraico,
l’arabo e il francese. Attualmente vive tra
Gerusalemme e Parigi. Ha diretto più di 15
documentari. Il suo lavoro varia dall’inchiesta storica al reportage in prima persona e il
ritratto intimo di autori borderline, artisti e
politici. Tutti i suoi film dimostrano un profondo impegno personale e professionale
nel rappresentare le culture e la complessa
storia del Medioriente e dei Paesi Nord
Africani. Nel 2004 ha vinto il Premio “Pesaro
Nuovo Cinema” con il documentario Mur. Il
nuovo film, Rachel, è stato presentato alla
Berlinale nella sezione “Forum”.
Simone Bitton (Morocco, 1955) moved to Israel
in 1966 and served in the army during the Yom
Kippur War. She then moved to Paris and in 1981
graduated from the IDHEC film school. She is
fluent in Hebrew, Arabic and French. She currently divides her time between Jerusalem and
Paris. Her work varies in style from historical
inquiries, to first-hand reportage, and intimate
portraits of cutting-edge authors, artists, and
political figures. All of her films attest to her deep
personal and professional commitment to better
representing the complex histories and cultures of
the Middle East and North Africa. In 2004 she
won the Pesaro New Cinema Award for her documentary Wall. Her latest documentary, Rachel,
screened in the Berlinale Forum.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
sceneggiatura/screenplay Simone Bitton
fotografia/cinematography Jacques Bouquin
montaggio/editing
Catherine Poitevin, Jean-Michel Perez
suono/sound Cosmas Antoniadis
Filmografia parziale
Rachel (2008, doc), Mur (2004), Citizen Bishara (2001, doc),
Ben Barka, L'Èquation marocaine (2001, doc), L'Attentat (1998, doc)
Mahmoud Darwich: et la terre, comme la langue (1997, doc)
Palestine, histoire d'une terre (1993, doc)
95
Andrea Caccia
HOSPICE
Italia 2009, 28’, HDV, colore
produttore/producer Andrea Caccia
produzione/production Roadmovie
con il contributo di/with a contribution by
Idea insiene
A.O.U. Novara/Unità operativa di cure palliative
L’Hospice è una struttura intraospedaliera che ha sia le caratteristiche della casa, sia quelle dell’ospedale. È un luogo dove è possibile trattare i problemi dell’ammalato con ogni
mezzo idoneo al fine di migliorarne la qualità di vita. «Mi piace pensare a questo film come
a una sorta di viaggio. In un mondo sconosciuto. In uno spazio non esplorato. Un viaggio
alla fine di un corridoio. Alla ricerca di un respiro. Di un segnale di vita invisibile, da raccogliere e custodire attraverso lo sguardo. Per comprendere, preservare, raccontare il “pianeta” Hospice». (Andrea Caccia)
A hospice is an intra-hospital structure that offers the best of both a house and a hospital, and is dedicated to improving the quality of life of terminally ill patients. “I like to think of this film as a journey. Into an unknown world. Into a never-before-explored space. A journey to the end of a corridor.
In search of a breath. Of an invisible sign of life, to be gathered and looked after through the gaze. To
understand, preserve and recount the ‘planet’ Hospice.” (Andrea Caccia)
Andrea Caccia (1968) vive e lavora nella
valle del Ticino. Dopo gli studi di pittura e
regia si è dedicato al documentario di creazione e all’insegnamento del linguaggio
cinematografico come principale strumento
di (s)mascheramento della realtà. Appassionato di musica, antropologia e fantascienza,
ha realizzato diversi lavori che si muovono
in una “terra di nessuno” tra fiction e documentario, ricoprendo il ruolo di regista,
aiuto regia, direttore della fotografia e montatore. I suoi film hanno ricevuto riconoscimenti e partecipato a numerosi festival tra i
quali: Premio Libero Bizzarri, Festival dei
Popoli, Brooklyn Film Festival, Festival di
Locarno. La Mostra di Pesaro gli ha dedicato una retrospettiva nel 2006. Attualmente
sono in fase di postproduzione il lungometraggio d’esordio La vita al tempo della morte
e il documentario Vedozero.
Andrea Caccia (1968) lives and works in the
Ticino valley. After studying painting and
directing he began making creative documentaries and teaching film language as the main
tool for (un)masking reality. A lover of music,
anthropology and science fiction, he has made
various works that reside in a “no-man’s land”
between fiction and documentary, as a director,
assistant director, DoP and editor. His films have
won prizes and participated in numerous festivals, including the Premio Libero Bizzarri,
Festival dei Popoli; Brooklyn Film Festival; and
Locarno International Film Festival. In 2006, the
Pesaro Film Festival dedicated a retrospective to
his films. He is currently in post-production with
his feature debut, La Vita al Tempo della Morte, and the documentary Vedozero.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
fotografia/cinematography
Massimo Schiavon
montaggio/editing Marco Piccarreda
musica/music Carlo Cardelli
suono/sound Leo Dilenge
Filmografia parziale
Hospice (2009, cm, doc), Disco inverno (2006, cm)
Sulle tracce del gatto (2003, co-regia Vittorio Moroni, mm, doc)
18 days around_Arrington De Dionyso quartet (2002, mm, doc)
Due (1999, cm), L’estate vola (2000, cm, doc), Tribulero (1998, cm)
97
Barbara Cupisti
VIETATO SOGNARE
Forbidden Childhood
Italia 2008, 92’, HD, colore
musica/music Sebastian Meissner
suono/sound Riccardo Spagnol
produzione/production Rai Cinema
distribuzione/distribution
UCCA
L’ex combattente palestinese Ali Abu Awwad, uno dei leader del movimento pacifista “Al
Tariq”, e l’ex soldato israeliano Elik Elhanan, un portavoce dell’associazione “Combatants for
Peace”, cercano una soluzione al conflitto con il dialogo. Girato tra i Territori Occupati e gli
Stati Uniti, viene mostrata la condizione dei bambini palestinesi. «Ho sentito il bisogno di una
prospettiva rovesciata sul conflitto israelo-palestinese, che desse voce ai più piccoli, insieme
a tutti coloro che stanno cercando di dare una possibilità alla pace». (Barbara Cupisti)
Former Palestinian fighter Ali Abu Awwad, one of the leaders of the Al Tariq pacifist movement, and
former Israeli soldier Elik Elhanan, a spokesperson for the Combatants for Peace association, look for
a solution to the conflict through dialogue. Shot in the Occupied Territories and the US, the film
shows the condition of Palestinian children. “I felt I needed a completely different perspective on the
Israeli-Palestinian conflict, which gave voice to the smallest, along with all those who are trying to
give peace a chance.” (Barbara Cupisti)
Barbara Cupisti (1962, Viareggio) attrice e
documentarista si è trasferista a Roma per
studiare recitazione, e si è diplomata all’Accademia Nazionale d'Arte Drammatica
“Silvio D'Amico”. Ha iniziato la carriera in
teatro con Giuseppe Patroni Griffi, mentre il
suo esordio cinematografico avviene con La
Chiave (1983) di Tinto Brass. Successivamente ha interpretato numerosi ruoli in
film noir e horror. Ha proseguito come attrice, dividendosi tra Italia, Francia e Stati
Uniti, lavorando tra gli altri con Norman
Jewison (Only You, 1996) e Gabriele
Salvatores (Denti, 1998). Ha condotto programmi televisivi e nel 2007 si è imposta
sulla scena internazionale presentando
nella sezione “Orizzonti Doc” alla Mostra di
Venezia Madri, premiato nel 2008 con il
David come miglior documentario.
Actress and documentary filmmaker Barbara
Cupisti (Viareggio, 1962) moved to Rome to
study acting and graduated from the Silvo
D’Amico National Academy of Dramatic Arts.
She began her theatrical career with director
Giuseppe Patroni Griffi, and her made her film
debut in Tinto Brass’ The Key (1983). She later
appeared in numerous noir and horror films. She
continued her acting career dividing her time
between Italy, France and the US, and worked
with, among others, Norman Jewison (Only
You, 1996) and Gabriele Salvatores (Teeth,
1998). Cupisti has hosted television programs
and in 2007 made her international filmmaking
debut in the Horizons Doc section of the Venice
Film Festival with Mothers, which in 2008 won
the David di Donatello Award for Best
Documentary.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
sceneggiatura/screenplay Barbara Cupisti
fotografia/cinematography
Marc Caruso, Read Al Helou
montaggio/editing
Francesca Mor, Massimo Ergasti
Vietato sognare (Forbidden Childhood, 2008, doc)
Madri (Mothers, 2007, doc)
99
Gustav Deutsch
FILM IST. A GIRL & A GUN
Austria 2009, 93’, 35mm, colore, b/n
produttore/producer Manfred Neuwirth
produzione/production Media Loop
vendite internazionali/world sales Sixpack Film
Immagini degli albori del cinema trovate attraverso minuziose ricerche in archivi di tutto il
mondo e assemblate in sequenze. Il montaggio si basa su analogie visive e anche con la giustapposizione di generi: immagini documentaristiche, di finzione, pornografiche, scientifiche
e di propaganda, tutte alienate dal contesto d’origine. «FILM IST. a girl & a gun tratta uno dei
temi più vecchi della cinematografia e dell’umanità: il ruolo della violenza e del sesso nella
relazione tra uomini e donne, in continuo oscillare tra Eros e Thanatos». (Gustav Deutsch)
Filmic images from the first four and a half decades of cinematography have been found, through
painstaking research in archives across the world, and assembled into sequences. The editing is based
on visual analogies, but also with the juxtaposition of documentary, fictional, pornographic, scientific and propaganda images that are literally alien to their original purpose. "FILM IST. a girl & a
gun deals with one of the oldest themes of cinematography and mankind: the confrontation of the
sexes and the role of violence, a continuous swing between Eros and Thanatos” (Gustav Deutsch)
Gustav Deutsch (1952, Vienna) ha iniziato a
lavorare con le immagini in movimento
intorno al 1980, quando è diventato socio del
Vienna Media Workshop Medienwerkstatt.
In quel periodo è passato gradualmente dal
documentario a lavori video più concettuali.
Da allora ha principalmente adottato la
modalità del found-footage. Insieme ad Hanna
Schimek, compagna nel lavoro e nella vita,
setaccia gli archivi di tutto il mondo per recuperare materiali dimenticati e creare poetiche
riletture di questi tesori. Essere “giocoliere
del cinema ritrovato” è solo uno dei numerosi ruoli che Gustav Deutsch ha assunto negli
ultimi trent’anni: si divide artisticamente tra
disegno, musica, fotografia, architettura,
video, film e performance.
Gustav Deutsch (Vienna, 1952) began working with moving images around 1980, when he
became associated with the Vienna Media
Workshop Medienwerkstatt. During the 80s, he
gradually moved from documentary video works
into conceptual filmmaking. He has principally
explored the mode of found footage film ever
since. Together with Hanna Schimek, his partner in work and life, he combs film archives
throughout the world for forgotten material and
creates poetic “re-readings” of these treasures.
The ‘juggler of found footage’ is only one of several artistic roles which Gustav Deutsch has
taken on during the past three decades. He has
been dividing his artistic time between design,
music, photography, architecture, video, film
and performances.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
montaggio/editing Gustav Deutsch
musica/music Martin Siewert
Christian Fennesz, Burkhard Stangl
Filmografia parziale
FILM IST. a girl & a gun (2009), Welt Spiegel Kino (2005)
no comment - minimundus Austria (1996), Film ist mehr als Film (1996)
Marriage Blanc (1996), Augenzeugen der Fremde (1996), Welt/Zeit 25812 min (1990)
Adria Urlaubsfilme 1954-68 (1990/1994), Sa, 29. Juni / Arctic Circle (1990)
101
Edwin
BABI BUTA YANG INGIN TERBANG
Blind Pig Who Wants to Fly
Indonesia 2008, 77’, 35mm, colore
interpreti/cast Ladya Cheryl, Pong Harjatmo
Andhara Early, Joko Anwar, Carlo Genta
produttore/producer
Meiske Taurisia, Sidi Saleh, Edwin
produzione/production Babibutafilm
Linda e Cahyono si incontrano e riaccendono la loro amicizia. Halim dice a Verawati che vuole
prendere un’altra moglie. Salma appare nello show Planet Idol. Romi e Yahya si danno a nuove
pratiche sessuali. Opa muore e Linda sparge le ceneri insieme a Cahyono che ha iniziato finalmente ad alzare lo sguardo. «Babi Buta Yang Ingin Terbang racconta di speranze che non possono mai realizzarsi. La speranza di non essere un maiale cieco che vuole volare. La speranza di
non essere un cinese in Indonesia. Dietro queste storie c’è la ricerca dell’identità». (Edwin)
Linda and Cahyono meet and rekindle their friendship. Halim tells Verawati he wants to take a new
wife. Salma appears on Planet Idol. Romi and Yahya get practice performing penetrative sex. Opa
dies, and Linda scatters his ashes together with Cahyono. And Cahyono finally learns to look up.
“Blind Pig Who Wants to Fly speaks of hopes that can never be truly fulfilled. A hope not to be the
blind pig who wants to fly. A hope not to be a Chinese in Indonesia. Behind these stories is a search
for identity.” (Edwin)
Edwin (1980, Surabaya, Indonesia) si è laureato in disegno grafico presso l’Università
Kristen Petra a Surabaya. In seguito si è trasferito a Giacarta per frequentare l’Istituto
d’Arte e ha cominciato a realizzare i suoi
primi cortometraggi. Ha partecipato sia al
Talent Campus della Berlinale che all’Asian
Film Academy, organizzato dal Festival di
Pusan. I suoi corti sono stati selezionati in
numerosi festival, inclusi quelli di Rotterdam
e Vancouver, e nel 2005 Kara, Anak Sebatang
Pohon è stato il primo film indonesiano a
essere selezionato alla “Quinzaine des
Réalisateurs”. Ha diretto video musicali e il
documentario Nyanyian Negeri Sejuta
Matahari (2006), frutto di un workshop coi
figli delle vittime dello tsunami. Trip to the
Wound è stato invitato a Rotterdam e selezionato in concorso a Clermont-Ferrand. Babi
Buta Yang Ingin Terbang è la sua opera prima.
Edwin (Surabaya, Indonesia, 1980) majored in
Graphic Design at the University of Kristen
Petra in Surabaya. He then moved to Jakarta to
study Film at Jakarta Institute of Art and began
making short films. He has participated in both
the Berlinale Talent Campus and the Asian Film
Academy, organized by the Pusan Film Festival.
His short films screened at numerous festivals,
including Rotterdam and Vancouver, and in
2005 his film Kara, Daughter of a Tree became
the first Indonesian short ever invited to the
Directors’ Fortnight at Cannes. He has also
made music videos and the documentary Songs
from Our Sunny Homeland, based on a video
workshop for the children of tsunami victims.
Trip to the Wound was invited to Rotterdam
and screened in competition in ClermontFerrand. Blind Pig Who Wants to Fly is his
feature debut.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
fotografia/cinematography Sidi Saleh
montaggio/editing Herman Kumala Panca
suono/sound Wahyu Tri Purnomo
scenografia/art direction
Iqbal Raya, Eros Eflin
Filmografia parziale
Babi Buta Yang Ingin Terbang (Blind Pig Who Wants to Fly, 2008)
“9808” Anthology of 10 Years Indonesia Reform (2008, cm)
Hulahoop Soundings (2008, cm), Trip to the Wound (2007, cm)
Misbach, Di Balik Cahaya Gemerlap (2007, cm, doc)
103
LA FISICA DELL’ACQUA
The Physics of Water
sceneggiatura/screenplay Eleonora Fiorini,
Mauro Casiraghi, Felice Farina
fotografia/cinematography
Pietro Sciortino
montaggio/editing Esmeralda Calabria
musica/music Franco Piersanti
suono/sound Filippo Porcari
scenografia/art direction Gianni Silvestri
costumi/costumes Grazia Colombini
interpreti/cast Claudio Amendola
Paola Cortellesi, Stefano Dionisi
produzione/production Nina Film
Ale, un bimbo di sette anni orfano di padre, prova un’inspiegabile avversione per lo zio
Claudio, che dopo anni fa ritorno nella villetta di famiglia sul lago, dove il piccolo vive con
la mamma. Agitato da visioni tormentose, sabota i freni dell’auto dello zio. In macchina però
sale anche la madre: il figlio si lancia in un disperato inseguimento ma il veicolo ha uno
schianto terribile. Ale viene preso in cura da un commissario e scavando nel profondo della
memoria come un piccolo detective, comprende il tragico motivo dell’odio verso suo zio.
Seven-year-old Ale, who lost his father when he was very little, instinctively dislikes his Uncle
Claudio, who has returned after a long absence to the small family home on the lake where the boy
lives with his mother. Tormented by disturbing visions, he sabotages his uncle’s brakes. When his
mother, however, gets into the car, Ale tries desperately to stop her, to no avail, and a terrible accident occurs. Ale is taken into police custody and the Inspector helps him dig deep into his memories,
like a little detective, to get to the tragic reasons behind the hatred he feels towards his uncle.
Felice Farina (1954, Roma) ha vissuto i fermenti del teatro dell’avanguardia romana
come attore, e contemporaneamente ha sviluppato un forte interesse per l’animazione,
la fotografia, gli allestimenti artistici e gli
effetti visivi. Ha iniziato l’attività di regia
con alcuni cortometraggi e documentari
industriali; in seguito, tra gli anni Ottanta e
Novanta, ha realizzato e curato alcuni programmi per Raidue e Raitre. Nel 1986 ha
diretto il primo lungometraggio Sembra
morto... ma è solo svenuto. Tra le varie attività,
costruisce e progetta accessori per la macchina da presa, ad esempio un dolly e il carrello per il camera car. Al documentario è tornato di recente fondando una piccola compagnia indipendente, NinaFilm, che ha prodotto alcune serie per la Rai e con cui continua a sperimentare la ricerca sulla ripresa e
l’elaborazione dell’immagine e del suono.
Felice Farina (Rome, 1954) experienced firsthand the heyday of Rome’s avant-garde theatre
as an actor while simultaneously developing a
strong interest in animation, photography, art
installations and visual effects. He began his
directing career making shorts and industrial
documentaries and in the 1980s and 90s created
and filmed several programs for RAI 2 and RAI
3. In 1986 he made his feature debut with
Sembra morto… è solo svenuto. He also
builds and designs accessories for film cameras,
including various kinds of dollies. He has
returned to documentary filmmaking, recently
founding the independent production company
NinaFilm, which has produced several series for
RAI and with which he continues his experiments with filming and elaborating images and
sound, today amplified by digital’s vast horizons.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Italia 2009, 76’, 35mm, colore
Cinema
in Piazza
Felice Farina
La fisica dell'acqua (2008)
Bidoni (1995)
Ultimo respiro (1992), Condominio (1990)
Sposi (1988, cm), Affetti speciali (1987)
Sembra morto... ma è solo svenuto (1986)
105
Kazim Öz
BAHOZ (FIRTINA)
The Storm
sceneggiatura/screenplay Kazim Öz
fotografia/cinematography Ercan Özkan
montaggio/editing Kazim Öz
musica/music Ayhan Akkaya
Vedat Yildirim, Burak Korucu
suono/sound Murat Senurkmez
scenografia/art direction Selda Çiçek
costumi/costumes Firat Çete
interpreti/cast Cahit Gök (Cemal)
Havin Funda Saç (Rojda)
Selim Akgül (Orhan)
Asiye Dinçsoy (Helin)
produttore/producer Özkan Küçük, Kazim Öz
produzione/production
Mezopotamya Sinema
Yapim 13 Film Prodüksiyon
Cemal passa l’esame di ammissione all’università e decide di trasferirsi a Istanbul. Dopo
pochi mesi entra a far parte di un gruppo rivoluzionario. Gli ideali che accendono il suo
spirito lo portano alla ricerca della sua vera identità. Rojda e Orhan, che vivono esperienze
simili, iniziano anch’essi a cambiare e diventano membri attivi del gruppo. «Questi giovani ragazzi, non ancora ventenni, iniziano a vivere nell’utopia di cambiare il mondo. L’idea
di “rivoluzione” unisce le energie dei giovani trasformandole in azione». (Kazim Öz)
Cemal gets accepted into university in Istanbul. After several months, he becomes part of a revolutionary group. The ideals awakened in him lead to a search for his identity. Rojda and Orhan,
who have experiences similar to his, also begin changing and become active members of the group.
“These young people, who are still at the age of 18 or 19, start to live within the dreams of changing a huge world. The idea of ‘revolution’ unites youthful and dynamic energy and turns it into
action.” (Kazim Öz)
Kazim Öz (1973, Dersim, Turchia) durante
gli studi universitari ha lavorato per quattro
anni nel Teatra Jiyana Nû in veste di attore e
regista. Dal 1996 ha collaborato col dipartimento di cinema del Mesopotamia Culture
Center di Istanbul. Ha esordito nel 1999 con
il corto Ax, ben accolto da pubblico e critica
internazionale. Nel 2001 ha diretto il suo
primo lungometraggio, Fotograf. Il film, che
ha ricevuto numerosi premi, è poi uscito in
sala nel 2002. Due anni dopo, Dûr ha ottenuto il premio di miglior documentario al
Turkei & Deutschland Filmfestival.
While at university, Kazim Öz (Dersim,
Turkey, 1973) worked for four years with the
Teatra Jiyana Nû (New Life Theatre) as an actor
and director. Since 1996, he has been working in
film department of the Mesopotamia Culture
Center in Istanbul. His first short film Ax won
critical and public acclaim worldwide. In 2001
he made his feature debut, The Photograph,
which won a number of prizes and was in theatre in winter 2002. In 2004, his film The
Distance won Best Documentary at the Turkei
&Deutschland Filmfestival.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Turchia 2008, 155’, 35mm, colore
Bahoz (Firtina, The Storm, 2008), Shawaks (A Nomad Tribe, 2006)
Dûr (The Distance, 2004, doc), Fotograf (The Photograph, 2001), Ax (The Land, 1999, cm)
Destên Me Wê Bibin Bask Emê Bifirin Herin...
(Let These Hands Will Be Wings and We Will Fly..., 1996, cm, co-regia Dorothea Kiest)
107
Carola Spadoni
MEETING THE S.E.W.A. MOVEMENT
Italia 2009, 60’, dv, colore
correzione colore/color correction
Danilo Torre
produttore/producer
Carola Spadoni
Il S.E.W.A. è il piu' grande movimento di lavoratrici informali in India. Tra esotismi reciproci,
incomprensioni e voglia di comunicare le proprie storie, il film è un viaggio in soggettiva attraverso donne, spesso prive di istruzione, determinate a migliorare la propria vita. «Ho lavorato sui colori e la materia dell’immagine per ricavare l’aurea dei musical di Bollywood. Le
donne che ho incontrato, nel trasformare la loro vita, sono eroine contemporanee come gli eroi
delle saghe cinematografiche e le divinità del pantheon induista». (Carola Spadoni)
S.E.W.A. is the largest movement of female workers in India. Among mutual feelings of exoticism,
misunderstandings and the desire to tell their stories, the film is a personal journey into the lives of
women who are often uneducated but determined to improve themselves. “I worked on the colors and
the images themselves to create a feel similar to Bollywood musicals. The women I met who transformed their quality of life are contemporary heroines, like the heroes of the film sagas and the Hindu
gods.” (Carola Spadoni)
Carola Spadoni è filmmaker e artista visiva
formatasi a New York dove ha vissuto negli
anni Novanta. Ha scritto e diretto un lungometraggio, Giravolte, presentato al Festival di
Torino e in numerose manifestazioni internazionali. Al suo attivo ha anche documentari,
video musicali e cortometraggi selezionati
tra gli altri alla Berlinale, al Festival Internazionale di Chicago e a quello del Cairo. Negli
ultimi dieci anni la ricerca nel linguaggio
cinematografico l’ha portata a realizzare
installazioni film e video, esposte in gallerie
e musei. Nel 2003 è stata tra i vincitori del
Premio Giovane Arte Italiana e ha esposto
alla 50a Biennale d’Arte di Venezia l’opera
Dio è Morto. Tra le più recenti mostre, le personali The Sudden Outpost ed echo’s bones/ossi
d’eco per il ciclo Artist’s Corner. Nel 2007 la
Cineteca Nazionale le ha dedicato la monografia Carola Spadoni: un artista totale.
Filmmaker and visual artist Carola Spadoni
studied and lived in New York in the 1990s. In
2001 she wrote and directed her feature debut
Giravolte, which screened at Turin and
numerous other international film festivals.
She has made documentaries, music videos and
shorts, which played at festivals that include
Berlin, Chicago and Cairo. In the past ten years
she has made film installations and videos that
have shown in galleries and museums. In 2003,
she won the Premio Giovane Arte Italiana and
at the 50th Venice Art Biennale exhibited the
work Dio è Morto. Her most recent solo
exhibits include The Sudden Outpost and
echo’s bones/ossi d’eco for the Artist’s
Corner cycle. In 2007 the Cineteca Nazionale
held a retrospective on her entitled Carola
Spadoni: Un Artista Totale.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
fotografia/cinematography Carola Spadoni
montaggio/editing Rosella Mocci
montaggio del suono/sound editing
Alessandro Bianchi
Filmografia parziale: Meeting the S.E.W.A. Movement (2008, doc)
Local & Craft (2008, mm), echo’s bones/ossi d’eco (2007, cm), Live Trough This (2006, cm)
La periferia partecipata (2003, doc, mm), Dio è morto (2003, mm), Giravolte (2001)
Arthur Penn: The Work (2001, doc), Al confine tra il Missouri e la Garbatella (1997, cm)
Neighbors (1996, cm), Make Believe Aconin (1992, cm)
109
THE TIME THAT REMAINS
sceneggiatura/screenplay Elia Suleiman
fotografia/cinematography Marc-André Batigne
montaggio/editing Véronique Lange
scenografia/art direction Sharif Waked
interpreti/cast Saleh Bakri (Fuad)
Yasmine Haj (Nadia)
Leila Muammar (Thuraya)
Elia Suleiman (ES)
produttore/producer
Michael Gentile, Elia Suleiman
produzione/production The Film
coproduzione/coproduction
Nazira Films, France 3 Cinéma, Artemis
BIM, Corniche Pictures
vendite internazionali/world sales Wild Bunch
distribuzione/distribution BIM
«Film in parte autobiografico, in quattro capitoli, su una famiglia, la mia, dal 1948 ai giorni
nostri. Trae ispirazione dalle annotazioni di mio padre scritte a Nazareth all’indomani dell’invasione dell’esercito israeliano nel ‘48, e dalle lettere di mia madre ai membri della famiglia
che hanno dovuto lasciare il paese. Unendo i miei ricordi ai loro, il film traccia un ritratto
della vita di questi palestinesi che sono rimasti nelle loro terre d’origine e che vengono definiti “Arabi-Israeliani”, vivendo come una minoranza nel loro stesso paese». (Elia Suleiman)
"The Time That Remains is a semi biographic film, in four historic episodes, about a family - my family - spanning from 1948, until recent times. The film is inspired by my father’s diaries of his personal accounts, starting from when he was a resistant fighter in 1948, and by my motherís letters to family members who were forced to leave the country since then. Combined with my intimate memories of
them and with them, the film attempts to portray the life of those Palestinians who remained in their
land and were labeled 'Israeli-Arabs,' living as a minority in their own homeland." (Elia Suleiman)
Elia Suleiman (1960, Nazareth) ha vissuto a
New York tra il 1981 e il 1993 dove ha anche
diretto i suoi primi cortometraggi. Nel 1994,
tornato a Gerusalemme, ha ricevuto l’incarico da parte della Commissione Europea di
creare un dipartimento di cinema presso
l’Università di Birzeit. E ha tenuto seminari
nelle università di tutto il mondo. Oltre ad
aver realizzato cortometraggi e documentari spesso ispirati alle tragiche vicende israeliane e palestinesi, tra cui Introduction to the
End of an Argument, che affronta in chiave
parodistica la storia della politica mediorientale, ha lavorato anche per la televisione. Nel 2002 ha diretto e interpretato Yadon
ilaheyya (Intervento divino), che ha vinto il
Premio della Giuria al Festival di Cannes.
Una commedia con riferimenti alla comicità
di Jacques Tati e Buster Keaton, autori al
quale il regista è stato spesso accostato.
Elia Suleiman (Nazareth, 1960) lived in New
York from 1981-93, where he made his first short
films. In 1994, he moved to Jerusalem and was
entrusted by the European Commission to create
a Film and Media department at Birzeit
University. He also guest lectures at universities
around the world. After making numerous shorts
and documentaries often inspired by the tragic
events of Israelis and Palestinians – including
Introduction to the End of an Argument
(1990), a parody on the history of Middle
Eastern politics – he also worked in television. In
2002 he directed and starred in Divine
Intervention, which won the Grand Jury Prize
at the Cannes Film Festival. That film and
Suleiman’s style have often been compared to the
comedy of Jacques Tati and Buster Keaton.
BANDE À PART
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Francia, Belgio, Italia, Regno Unito 2009, 109’, 35mm, colore
Cinema
in Piazza
Elia Suleiman
The Time That Remains (2009), Chacun son cinema (2007, cm)
Yadon ilaheyya (Divine Intervention, Intervento divino, 2002)
Cyber Palestine (1999, cm), Reve arabe (1998, cm)
Chronicle of a Disappearance (1996), Hommage par assassinat (1992, cm)
Introduction to the End of an Argument (1991, doc)
111
Master Class
MARCO BELLOCCHIO E LA MUSICA
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
In occasione della 45a edizione, la Mostra
Internazionale del Nuovo Cinema conferisce un riconoscimento a Marco Bellocchio
di cui nel 2005 aveva presentato una retrospettiva completa. La carriera di questo
inesauribile inventore di nuove immagini,
è iniziata con il lungometraggio I pugni in
tasca (1965) proprio nello stesso anno in cui
è stata fondata la Mostra.
Dopo la proiezione di ... Addio del passato...
(2002) nella sala del Teatro Sperimentale,
sabato 27, parlerà al pubblico del suo
cinema e del suo suo rapporto personale
con la musica.
112
For its 45th edition, the Pesaro Film Festival
once again welcomes renowned director
Marco Bellocchio, to whom the 2005 Special
Event was dedicated, in the form of a complete
retrospective of his work. The career of this
indefatigable inventor of new images began
with the feature film Fists in His Pocket
(1965), made the same year in which the festival was founded.
After the Saturday, June 27 screening of
...Addio del passato... (2002) in the Teatro
Sperimentale, Bellocchio will speak to audiences about his films and his personal relationship to music.
OMAGGIO A PAOLO GIOLI
Fotografia di Giovanni Cappello
Il cinema paradossale di Paolo Gioli
114
Conosciuto in tutto il mondo come uno tra i maggiori fotografi della scena italiana contemporanea, Paolo Gioli è anche un originalissimo e prolifico filmmaker che ha al suo attivo oltre
trenta film, un terzo dei quali praticamente inediti fino a oggi. Si tratta di opere difficilmente
definibili nei termini dei consueti ambiti di produzione cinematografica e che invitano, semmai, a una approfondita riflessione sulle stesse nozioni di “genere”, “stile”, “linguaggio”,
“narrazione”, “sperimentazione” (malgrado alcuni film riportino nei titoli di testa la dicitura: “cinema sperimentale italiano”, l’autore si è più volte mostrato refrattario a una lettura in
questa chiave del suo lavoro, rivendicandone l’autonomia rispetto alle logiche dello sperimentalismo cinematografico). Rompendo ogni steccato disciplinare, la sua produzione si configura come uno straordinario laboratorio visuale in cui si intrecciano meditazioni che investono numerosi campi: dalla storia e la teoria del cinema a quelle dell’arte, della fotografia,
dei dispositivi ottici; dagli studi sulla percezione visiva alle scienze storiche, all’epistemologia, alla filosofia, fino alla critica dell’ideologia.
Forse la miglior definizione del cinema di Gioli l’ha – inconsapevolmente – coniata Ludwig
Wittgenstein, allo scopo di circoscrivere la necessaria, ineliminabile e “fondante” dimensione
convenzionale del linguaggio. Per Wittgenstein ogni problema di natura linguistica è descrivibile mediante un «esercizio mentale». Un esercizio mentale è un “congegno” per mezzo del
quale, all’interno di una determinata configurazione culturale, si può verificare la risposta
cognitiva a un dato problema in una data situazione. La logica del gioco vi concorre in maniera determinante (il filosofo austriaco ricorre altrettanto frequentemente alla nozione di «gioco
linguistico») nella misura in cui delimita il campo d’azione, traccia i confini dell’esercizio e
definisce le sue regole di funzionamento – e dunque, ad esempio, la meccanica dell’iniziosvolgimento-fine di un processo di conoscenza. I film di Gioli rispecchiano sostanzialmente
questo schema cognitivo. Ognuno di essi si configura in profondità come un “sistema” di
norme basato su premesse concettuali che ne stabiliscono le possibilità logiche e gli esiti. Un
meccanismo che trova forse la sua manifestazione più lucidamente metariflessiva nell’adozione del dispositivo stenopeico, reinventato in chiave cinetica in Film stenopeico (L’uomo senza
macchina da presa): opera in cui ogni elemento della struttura significante – dalla forma dei singoli fotogrammi alle logiche “attrattive” che li animano collegandoli gli uni agli altri e al film
nel suo insieme – risponde a una pura «misurazione mentale» (la definizione è di Gioli), data
anche l’impossibilità oggettiva di vedere ciò che entra nel campo della ripresa: a un principio,
dunque, secondo cui il visibile può essere solo immaginato o provocato affinché emerga “da
sé” alla coscienza dello schermo. Su questo terreno, Gioli innesta una riflessione – che attraversa tutto il suo lavoro – sulla natura tecnica e artigianale del fare artistico, dove la dimen-
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
di Giacomo Daniele Fragapane
sione pragmatica e gestuale si manifesta come una condizione ineliminabile, sempre finalizzata a porre e a chiarire in atto gli sviluppi impliciti nelle sue premesse concettuali.
Questo atteggiamento sembra porre Gioli in una condizione di perenne verifica circa le
potenzialità del mezzo cinematografico e la sua stessa identità. In molti film la struttura è,
come nel cinema delle origini, a “siparietti”: una serie di scene o episodi è introdotta da una
frase, da un titolo o da una didascalia, senza che, almeno in apparenza, intervengano nessi
causali a legare i diversi blocchi tra loro. Altre volte ci troviamo di fronte a un episodio
unico, ma lo sviluppo è analogo. Gioli sembra riferirsi in modo sistematico a meccanismi
narrativi “ellittici”, marginali, che la storia dell’audiovisivo ha gradualmente espunto o
lasciato estinguere. È un’operazione di “recupero dialettico” che va inquadrata alla luce
della sua visione radicalmente antistoricista dell’arte e del progresso. Sotto questo aspetto,
un modello in qualche modo archetipico del sistema-Gioli potrebbe essere considerato l’opera di William Fox Talbot intitolata The Pencil of Nature, primo libro fotografico della storia:
una serie di immagini che Rosalind Krauss ha descritto come «dimostrazioni o lezioni di
cose» e che, prese nel loro insieme, cortocircuitano qualsiasi prestabilita unità di ordine narrativo, stilistico o rappresentativo.
Sintomatico di tale modo di procedere è il gesto di esibire, all’inizio del film, la natura del
metodo o del dispositivo che è stato utilizzato per realizzarlo. Come in Filmfinish, in cui prima
di immergere lo spettatore nel flusso di immagini sfilacciate ottenute grazie alla tecnica del
fotofinish, derivata dalla fotografia scientifica e sportiva, Gioli sente l’esigenza di mostrare
l’obiettivo utilizzato e la mascherina con la sottile fessura che ha filtrato le immagini durante la loro esposizione. È un gesto che ricorda i rituali compiuti dal prestigiatore prima di eseguire i suoi trucchi e le sue trasformazioni, e che in qualche modo si va a configurare come la
marca enunciativa fondante dell’operare di Gioli. Analogamente, nel suo film-omaggio a
Escher (Metamorfoso) Gioli spinge al limite estremo le possibilità visive del tema della metamorfosi. Più in generale, mi sembra che questo si configuri come un altro dei nuclei concettuali profondi di tutto il suo lavoro, dal momento che gli consente di sviluppare al tempo stesso la sua analisi sui dispositivi visuali (sulle trasformazioni della luce attraverso una fessura
o un dato segmento di spazio-tempo, sui processi dell’anamorfosi, dell’inversione speculare
ecc.); sui limiti tra i dispositivi (tra cinema e fotografia, tra fotografia e pittura ecc.); sullo
sguardo e sulla grammatica del vedere, in quanto capacità di riflettere sull’apparenza mutevole delle cose e sulla natura proteiforme delle percezioni sensibili; sul tema del desiderio,
dell’eros, e su quello della dialettica tra nascita e morte, entrambi profondamente connessi
all’idea stessa di metamorfosi, se è vero che, come scrive Lacan, il desiderio è quella mancanza costitutiva che non può mai essere soddisfatta e che ci spinge a mutare incessantemente, a
spostare in continuazione l’oggetto del nostro interesse.
Ma il cinema di Gioli non si esaurisce solo in una dimensione astrattamente tecnica o mentale: esso è anche una sorta di strano laboratorio narrativo in cui storie e memorie, pubbliche e
private, sembrano emergere dal flusso incessante delle immagini. Anonimatografo, ad esempio, è uno straordinario film costruito a partire da riprese found footage del secolo scorso, che
racconta l’intreccio tra memoria personale (la vita, gli amori, gli esperimenti cinematografici
di un anonimo amateur d’inizio novecento) e storia collettiva. Un’opera che fa pensare al
miglior cinema di Ernie Gehr, e che anticipa di oltre un decennio l’Ungheria privata di Péter
Forgács. Gioli vi incrocia la dimensione archivistica e mnestica del found footage con quella
decostruttiva e autoriflessiva di un’indagine sui limiti e sulle potenzialità del dispositivo
115
Immagini disturbate da un intenso parassita
The paradoxical cinema of Paolo Gioli
by Giacomo Daniele Fragapane
Known throughout the world as one of Italy’s best contemporary photographers, Paolo Gioli is also a
highly original and prolific filmmaker with over 30 films to his name, a third of which have virtually
never before been screened publicly. These works are hard to define by the usual standards of film and,
if anything, call for a deeper reflection on the very notions of “genre,” “style,” “language,” “narration” and “experimentation” (despite the fact that the opening credits of some of the films bear the
words “Italian Experimental Cinema,” the filmmaker has many times stubbornly rejected this interpretation of his work, claiming them as independent from the logic of film experimentation). Breaking
all disciplinary boundaries his work takes the form of an extraordinary visual laboratory that interweaves meditations covering numerous fields: from the history and theory of cinema to that of art, photography and optical devices; from studies in visual perception to the historical sciences, epistemology,
philosophy and ideological criticism.
Perhaps the best definition of Gioli’s films is one unwittingly coined by Ludwig Wittgenstein, in circumscribing the necessary, required and “fundamental” dimension of language as convention. To
Wittgenstein, every problem of a linguistic nature can be described by means of a “mental exercise.”
Such an exercise is a “device” through which the cognitive response to a given problem in a given situation can be verified within a given cultural configuration. The logic of the game is decisive — the
Austrian philosopher just as often used the notion of a “language game”— in that it delineates the field
of action, sets the boundaries of the exercise and defines its rules – and thus, for example, the mechanics of the beginning, middle and end of a cognitive process.
Gioli’s films essentially mirror this cognitive pattern. Each one is rigorously configured as a “system”
of norms based on conceptual premises that establish its logical possibilities and outcomes. A mechanism that perhaps finds its most lucidly meta-reflexive manifestation in the adoption of the pinhole
apparatus, re-invented in cinematic form in Film Stenopeico (L’uomo Senza Macchina Da Presa).
In this work, each element of the signifying structure – from the form of the individual frames to the
logic of attractions which animates them, linking them to one another and to the overall film – is governed by a purely “mental measurement” (Gioli’s term). And given the objective impossibility of seeing what enters the field of view, it is governed by a principle according to which the visible can only
be imagined or provoked so that it emerges “by itself” to the consciousness of the screen.
Here Gioli engages in a reflection, which runs through his entire body of work, on the technical and
artisanal nature of making art, where the pragmatic and gestural dimension manifests itself as a
required condition, constantly directed towards the realization and resolution in practice of the developments implicit in its conceptual premises. His attitude seems to be one of constantly testing the capability of the cinematic medium and its very identity. In many of his films, as in the beginnings of cinema, the structure is broken down into interludes: a series of scenes or episodes introduced by a sen-
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
cinematografico. E non cede alla fascinazione nostalgica per quei reperti acquistati a poche
lire da un rigattiere e pazientemente rimaneggiati fino a creare un’epica dal sapore proustiano, se non per mostrare/dimostrare che il pensare per immagini è sempre, necessariamente,
anche un fare, cosicché il “reperto scopico” rimesso in azione nel film si va a definire come un
circuito cognitivo il cui sviluppo nel tempo e la cui tensione narrativa derivano da potenzialità interne, inespresse, che il “gioco” col dispositivo ha costretto, in qualche modo, a manifestarsi. Non si tratta dunque di un’indagine, ma di un’esplorazione, dal momento che in quelle immagini non c’è nulla da scoprire se non quanto è già implicito in esse, seppure non ancora emerso alla luce della storia.
Questa “logica interna” – ovvero: che sorge quasi spontaneamente, seppure a fatica, dal naturale sviluppo delle premesse del film-esercizio mentale – determina insomma la struttura, la
forma e la durata del processo. Il che ci spinge a una considerazione conclusiva: nulla è più
lontano del cinema di Gioli dalla dimensione (ideativa, produttiva, formale) del “genere”.
Con un gioco di parole, potremmo dire che i film di Gioli non sono mai “generali” ma sempre assolutamente “particolari”, concentrati analiticamente sul proprio oggetto e impermeabili, come dei paradossi cinetici, a qualsiasi campo gravitazionale esterno. Non rientrano
nella categoria – peraltro sfuggente in sommo grado – di “cinema sperimentale” perché è la
loro stessa logica strutturale a impedirne la categorizzazione, l’incasellamento in un insieme
di testi e di modi di fruizione storicamente codificati. Del resto, è la sua stessa refrattarietà a
piegarsi all’idea cripto-positivista di una storia progressiva, evolutiva, che pone Gioli al di
fuori di qualsiasi logica di genere. Il che spiega in qualche modo anche la difficoltà, vissuta
in prima persona da chi scrive, di organizzare la sua filmografia per temi o campi semantici:
motivo per cui si è scelto, in questa retrospettiva, di non seguire un criterio cronologico ma
di ordinare i film in base alle loro naturali – ancorché, ovviamente, opinabili – “affinità elettive”, ai nessi interni, più o meno espliciti, più o meno diretti, che i circuiti delle loro differenze/ripetizioni finiscono per generare in chi si sottopone al test della visione.
117
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Immagini travolte dalla ruota di Duchamp
tion of the process. Which leads us to conclude that nothing is more distant from Gioli’s cinema than
the (ideational, productive, formal) dimension of “genre.” We might say that Gioli’s films are never
general, but always decidedly peculiar, and quite extraordinary, analytically concentrated on their subjects and impervious, like kinetic2 paradoxes, to any external gravitational field.
They do not fit into that indeed most elusive category of “experimental cinema” because their very structure defies categorization or pigeonholing as a collection of historically codified texts and uses. Moreover,
it is precisely his stubborn refusal to give in to the crypto-positivist idea of progressive, evolutionary history that places Gioli beyond the codes of any genre. This in some way also explains the difficulty —
including this writer’s own — in organizing Gioli’s filmography into themes or semantic fields.
For this reason, we chose not to follow chronological criteria for this retrospective but to order the films
on the basis of their natural – though obviously debatable – “elective affinities,” to the internal connections — more or less explicit, more or less direct — which the circuits of their differences/repetitions
ultimately generate in those who submit themselves to the test of seeing them.
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
118
tence, title or caption, without, or so it seems, any causal connections between them. At other times we
see a single episode, but it develops in analogous fashion.
Gioli seems to systematically refer to “elliptical,” marginal narrative mechanisms that audiovisual history has gradually suppressed or allowed to die off. This is an operation of “dialectical recovery” that
must be placed within his radically anti-historicist vision of art and progress. Thus, one somewhat
archetypical model of the “Gioli system” could be William Fox Talbot’s The Pencil of Nature, the first
photography book in history. It is a series of images that Rosalind Krauss called “demonstrations or
object lessons” and that taken as a whole short-circuit any pre-established unit of narrative, stylistic
or representational order.
Symptomatic of this way of working is the gesture of exhibiting at the beginning of the film the nature
of the method or device used to make it. For example, in Filmfinish, before immersing the viewer in
the stream of frayed images, obtained using the photo-finish technique, derived from science and sports
photography, Gioli feels compelled to show the lens he used and the stationary shutter with its thin slit
that filtered the images as they were being exposed. This gesture is reminiscent of a magician’s rituals
before performing his tricks and transformations and, in some way, it becomes the foundational mark
of enunciation of Gioli’s work.
Likewise, in his film-homage to Escher, Metamorfoso, Gioli pushes to the extreme limits the visual
possibilities of the theme of metamorphosis. More generally, this would seem to be another of the core
conceptual nuclei of his entire body of work, as it simultaneously allows him to develop his analysis of
visual media (of the transformations of light through an opening or a given space-time segment, of the
processes of anamorphosis, mirror inversion and so forth). Of the borders between visual technologies (between cinema and photography, photography and painting, etc.). Of the gaze and the grammar
of vision as the capacity to reflect upon the mutable appearance of things and the protean nature of sensory perceptions. And of the subject of desire, eros, and the dialectic between birth and death, both profoundly tied to the very idea of metamorphosis, if what Lacan writes is true, that desire is the constitutive loss that can never be satisfied and which compels us to change incessantly, to constantly shift
the object of our interest.
However, Gioli’s films do not exist in a purely abstract technical or mental dimension. They are also a
kind of strange narrative laboratory in which both public and private stories and memories seem to
emerge from the unceasing flow of images. Anonimatografo, for example, is an extraordinary film
constructed using found footage material from the previous century, which narrates the connection
between personal memory (the life, loves and cinematic experiment of an anonymous amateur of the
early 1900s) and collective history. The work recalls the best films of Ernie Gehr and predates Péter
Forgács’ Private Hungary by over a decade.
Gioli crosses the archival and mnestic aspects of found footage with the deconstructive and self-reflexive
dimension of an investigation of the limits and capability of the cinematic apparatus. He does not give in
to the nostalgic fascination for those cheaply acquired second-hand clips, patiently reorganized to create
a Proustian-flavored epic, but shows/demonstrates that thinking in images is always, necessarily, also
doing, so that the “found footage” put back into action in the film defines itself as a cognitive circuit the
development over time and the narrative tension of which derive from internal, unexpressed potential,
which the “game” with the apparatus has in some way forced to be made manifest. It is not, therefore, an
investigation, but an exploration, since there is nothing to discover in those images except what is already
implicit in them, even if it has not yet emerged into the light of history/narration1.
This “internal logic” – which arises almost spontaneously, despite some difficulty, from the natural
development of the premises of the mental film-exercise – thus determines the structure, form and dura-
1. Translator’s note: In the original, the author plays on the dual meaning of “storia” as both story and history.
2. Translator’s note: “Cinetico” in the original; the author here plays on the dual meaning of the word: kinetic and cinematic.
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Il cinema verticale di Paolo Gioli
di David Bordwell
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
È mio desiderio intonare l’inno della maschia,
forte, virile, attiva composizione verticale!
Sergej Ejzenstejn, 1930
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L’immagine cinematografica ha sempre avuto una propensione per la dimensione orizzontale. Il rettangolo classico 4:3 è stata la misura standard, e quando ha subito variazioni
(Cinemascope, Panavision) è sempre cresciuto in lunghezza. All’interno di una inquadratura, le figure di solito si muovono lateralmente e la macchina da presa ruota e si sposta di conseguenza. Negli anni 1920, i sostenitori dell’orizzontalità l’hanno difesa come semplicemente naturale. I nostri occhi sono messi uno accanto all’altro, e noi abbiamo più muscoli dell’occhio destinati a seguire oggetti su quell’asse piuttosto che su un asse verticale. Inoltre – argomentavano – pittori ed altri artisti grafici hanno sempre preferito la dimensione orizzontale.
Nel 1930, quando la comparsa del sonoro costrinse i tecnici a riconsiderare la dimensione
della immagine, Sergej Ejzenstejn propose di ripensare il rettangolo. Nella sua lezione dal
titolo Il quadrato dinamico argomentò che il fotogramma 4:3 era stato ereditato dalla pittura
accademica e dal palcoscenico in uso in Occidente e che non aveva la sua origine in natura.
Mise pure in evidenza come l’Asia avesse una forte tradizione di opere d’arte a sviluppo verticale e in particolare i rotoli dipinti della Cina e le xilografie giapponesi. La dimensione verticale – diceva – offriva altrettante possibilità creative del suo opposto: «Per trent’anni ci
siamo accontentati di vedere rappresentato il 50% delle possibilità compositive potenziali».
Ejzenstejn avrebbe potuto aggiungere che nella tecnica cinematografica è radicata una curiosa singolarità. L’immagine del cinema è orizzontale, ma non il suo meccanismo. Nella cinepresa, nella stampante, nel proiettore e nei tavoli di montaggio tradizionali come la moviola,
la pellicola si muove dall’alto in basso, dalla bobina debitrice a quella raccoglitrice. La griffa
e l’otturatore agganciano ogni fotogramma tirandolo verso il basso e inserendo il successivo
al suo posto. Anche con gli odierni proiettori con sistema a piatto, il film deve arrampicarsi
per un sentiero tortuoso verso l’alto prima di iniziare la sua discesa attraverso il quadro. E
quando la pellicola si ammassa o è fuori allineamento, essa ci segnala il suo trauma non trascinando i fotogrammi uno a fianco all’altro ma saltando e ondeggiando. Con pochissime
eccezioni (VistaVision e i visori Prevost e il tavolo di montaggio orizzontale Steenbeck) sin dai
tempi di Edison e Lumière il cinema è stato una macchina che trasporta le sue immagini orizzontali lungo un ripido percorso verticale.
Lo sforzo di Ejzenstejn per riportare la verticalità nel cinema è stato solo un tentativo a metà.
Lui cercava un quadrato dinamico che garantisse uguale peso a tutti e due gli assi. Paolo Gioli
Hilarisdoppio
è andato più in là. Nella sezione aurea del fotogramma 16mm, molti dei suoi film mostrano
e esaltano la propensione verticale del congegno. Nel metodo, ci ricorda un periodo della storia del cinema in cui gli standard tecnici non erano ancora stati fissati. Nel corso di queste
esplorazioni egli crea, attraverso la scansione strisciante della pellicola, nuove immagini di
spazio, tempo e corporeità.
Cominciamo con l’esempio più ovvio: le singolari cineprese di Gioli. Avrebbe potuto costruirsele orizzontali, rendendo omaggio agli esperimenti di Muybridge. Invece ha seguito la
disposizione della macchina standard, costruendo delle cineprese stenopeiche che stessero in
piedi, alcune di esse alte fino a un metro. La cinepresa stenopeica eretta di Gioli prende letteralmente la misura del soggetto, come fosse un metro di legno per la misurazione dei tessuti. In Filmstenopeico, ogni porzione di film presenta un tema (una finestra, un mobile, un corpo
femminile, un orologio a pendolo, un panorama) dall’alto verso il basso catturandone la
visione da 47 punti dello spazio, leggermente distanziati. In proiezione tuttavia esso produce l’effetto di uno sfarfallio spasmodico, con l’oggetto che si muove a scatti tirando verso il
fondo del fotogramma. Se Muybridge ha trasformato il tempo in qualcosa che ricorda la striscia di un fumetto, Gioli lavora nell’altra direzione: una stesso spazio diventano tre secondi
di cinema reso come una vibrante scansione verticale.
Il trascinamento dell’immagine verso il basso prodotto dalla cinepresa stenopeica di Gioli
tende a cancellare l’interlinea. Dal momento che non c’è un’apertura standard e dal momento che il pezzo di pellicola non è sempre centrato rispetto ai fori stenopeici, si ottiene una
sequenza di immagini che sovrappongono le vedute. Il fotogramma, quel rettangolo 4:3 reso
celebre dal Kinetoscopio di Edison, nella prima decade del cinema era rimasto più o meno la
misura standard (sebbene ci fossero altre possibilità, come il lavoro di Gioli ci ricorda). Il fotogramma standard suddivide lo spazio creando un’immagine che non scivola. Eliminando
l’interlinea, Gioli ci consente di sottrarci al predominio del rettangolo fisso.
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Traumatografo
Gioli ha notato che quella stessa perforazione che permette alla pellicola di essere trascinata
all’interno della cinepresa e del proiettore ricorda in piccolo il fotogramma che contiene l’immagine. Che cosa potrebbe renderlo più felice di un formato che pianta una perforazione proprio lì, sulla sacra interlinea? Una delle prime pellicole amatoriali in formato 9,5mm ha la sua
perforazione singola al centro del margine orizzontale del fotogramma. Ne L’operatore perforato quel foro di trascinamento rotondetto mostra quanto è importante. Si moltiplica come un
virus, scorazzando con nonchalance sopra l’immagine, quasi cancellando le immagini traballanti sotto di lui. Verso la fine del film, stiamo guardando un altro operatore – che sta forse
riprendendo un imitatore di Fatty Arbuckle – alle prese con l’invasione delle perforazioni,
non solo dall’alto e dal centro ma anche dai margini. A questo punto, quando riusciamo appena a distinguere, tra fotogrammi e perforazioni - i due rettangoli del cinema con gli angoli
arrotondati - l’immagine potrebbe essere qualunque cosa, una rappresentazione o uno spazio
bianco vuoto.
Ma a me il lavoro più completo di Gioli sul cinema verticale sembra essere Anonimatografo.
Da un film amatoriale di una famiglia dell’epoca del muto egli crea un affresco di un’epoca
esaltando particolari domestici informali e intimi. Se Commutazioni con mutazione e L’operatore
perforato lasciavano scalfiture e segni sulle immagini che scorrevano attraverso il quadro, un
qualcosa di più garbato permea questo film. All’inizio, Gioli ci fa vedere la sua stampante
ottica che sovrappone al volto composto di una donna. L’inquadratura introduce un film che
si sviluppa attraverso varie forme di immagini doppie sia su fotogramma singolo ma anche
– spesso – in movimento. Ci sono prima sovraimpressioni, poi stacchi improvvisi e infine e
più a lungo inquadrature separate. Il luogo dove si svolge l’azione è diviso in ambienti con
personaggi colti sull’uscio o tra specchi a tre ante.
Ancora una volta, quello che si può vedere sulla pellicola è messo lì in modo classico, ma
quello che vediamo sullo schermo, rotto dall’otturatore e dall’incessante mancato assestarsi
della pellicola, diventa nell’insieme qualcosa di ancor più frammentato. Persone della famiglia che entrano ed escono sostituendosi l’uno all’altro in dittici o trittici. Le immagini caleidoscopiche fanno pensare a un guazzabuglio di album fotografici o di diapositive stereoscopiche. Immagini mozzate sono messe le une accanto alle altre, come quando un soldato affacciato al finestrino di un treno sembra fissare una donna nuda allungata in una posa voluttuosa sul tappeto del salotto. A un certo punto la verticalità sembra creare l’orizzontalità: due
donne ad una festa sembrano clonarsi ed espandersi fino ad invadere una intera stanza. Verso
la fine di Anonimatografo compare la verticalità suprema: una pioggia di minuscoli graffi che
non cancellano però l’immagine.
Alla luce di questa tendenza dei film di Gioli, è forse troppo vedere in Rothkofilm un consapevole omaggio ad un altro maestro dell’asse verticale? Certo, Rothko ha lavorato in un formato relativamente orizzontale, ma ha anche riabilitato la parte superiore della superficie del
quadro. Ha mostrato che una macchia compatta di colore acceso messo su un altro potrebbe
fare da contrappeso, potrebbe addirittura dare l’impressione di librarsi verso l’alto. Gioli
assoggetta i dipinti del maestro alle stesse sostituzioni verticali che troviamo in altri film
anche se ad un ritmo più misurato. I margini vanno su e giù, i colori si fondono l’uno nell’altro e, verso la fine, l’opera di Rothko altro non sembra che un insieme di fotogrammi e fori di
trascinamento. L’arte immortale di Rothko fa pensare all’eternità, ma nelle mani di Gioli questi rettangoli assumono una qualità più leggera, più fragile. Diventano versioni dell’umile,
luminoso rettangolo attraverso cui le immagini si lasciano cadere per poi scomparire.
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Se in Film stenopeico ci sono troppo poche interlinee, in compenso Commutazioni con mutazione, ci viene incontro con una epidemia di strutture cellulari. Ancora una volta il movimento
è soprattutto verticale. Ma appena le immagini rappresentate cominciano a muoversi traballando verso la parte bassa del fotogramma, lasciando vedere la colonna sonora che oscilla,
perforazioni, graffi, peli, ciuffi di polvere, grumi di colore, siamo costretti a prendere atto dell’arbitrarietà del rettangolo. Alle strisce e ai blocchi delle immagini nel quadro, si sovrappone un reticolo. Le interlinee e le perforazioni sono a volte inclinate alle estremità, quasi a creare un nuovo formato del fotogramma che rispetti il flusso del cinema verso il basso. Spesso
la pellicola sembra come essere incagliata nel proiettore, dando la sensazione di funzionar
male o farsi strada con frenesia; a volte le interlinee si susseguono una dopo l’altra come una
immagine televisiva fuori controllo. Distribuendo una fotografia stretta (verticale, naturalmente) su due o più fotogrammi della pellicola Gioli ri-produce sullo schermo l’effetto a
cascata del film stenopeico, che conosciamo: una rivoltella, un volante, alberi, uomini e donne
che insorgono su e giù in tumulto. Ancora una volta, ma ancor più segretamente, sta scansionando qualcosa – non una pianta o un seno di donna questa volta, ma una illustrazione.
123
Paolo Gioli’s Vertical Cinema
by David Bordwell
124
The film image has always been biased toward the horizontal. The classic 4:3 rectangle has been the
standard, and when it has varied, it has stretched lengthwise (CinemaScope, Panavision). Within a
shot, figures usually move laterally and the camera swivels or travels accordingly. Apologists in the
1920s argued that this horizontality was simply natural. Our eyes are mounted side by side, and we
have more eye muscles devoted to tracking objects on that axis than on the vertical one. Further, the
commentators argued, painters and other graphic artists had long preferred the horizontal.
In 1930, as the emergence of sound cinema made technicians reconsider the dimensions of the image,
Sergei Eisenstein proposed rethinking the rectangle. In his lecture, The Dynamic Square, he argued
that the 4:3 frame was inherited from academic painting and the Western proscenium stage, and thus
could not claim a source in nature. He pointed out that Asia had strong traditions of vertical imagery,
notably in the picture scrolls of China and the woodblock prints of Japan. The vertical dimension, he
insisted, harbored just as many design resources as its counterpart. “For thirty years we have been content to see excluded 50 per cent of compositional possibilities.”
Eisenstein might have added that a curious disparity is embedded in film technology. Cinema’s images
are horizontal, but its engineering is not. In the camera, the printer, the projector, and traditional editing machines like the Moviola, the film strip moves from top to bottom, from feed reel to take-up reel.
Claw and shutter seize each frame and yank it down, snapping the next one into place. Even with
today’s platter projectors, the film must climb a winding path upward before making its descent
through the aperture. And when the film strip jams or drifts out of alignment, it registers its trauma
by leaping and bobbing, not yanking side to side. With few exceptions (VistaVision, the Prevost and
Steenbeck flatbed viewers), cinema since the days of Edison and Lumière has been a machine that transported its horizontal images along a steep vertical path.
Eisenstein’s efforts to restore verticality to the cinema constituted a half-step: He sought a “dynamic
square” that would grant both axes equal weight. Paolo Gioli has gone farther. Within the golden section of the 16mm frame, many of his films expose and celebrate the vertical bias of the apparatus. In
the process, he reminds us of a period of cinema history in which the technical standards were not yet
fixed. In the course of these explorations he creates, through the slithering rhythm of the film strip, new
images of space, time, and corporeality.
Start with the most obvious example: Gioli’s eccentric cameras. He could have built them horizontally, paying a kind of homage to Muybridge’s experiments. Instead, he followed the layout of the stan-
Finestra davanti a un albero
dard machine, making his pinhole cameras stand upright, some of them one meter high. Gioli’s erect
camera literally takes the measure of its subject, like a meter-stick. In Film Stenopeico, each film strip
presents the motif (window, furnishings, a woman’s body, a clock, a landscape) from top to bottom,
seizing its look from 47 slightly different points in space. Run through the projector, however, the strip
yields a spasmodic flutter, the motif jerking insistently down the frame. If Muybridge turned time into
a comic-strip band, Gioli works in the other direction: an instantaneous sampling of space becomes
three seconds of cinema, rendered as a pulsating vertical scan.
The downward drift produced by Gioli’s stenopeic camera tends to erase the frameline. Because there
is no standard aperture, and because the film strip is not always centered on the pinholes, we get a
string of images that overlap the viewpoints. The film frame, that 4:3 rectangle promoted by Edison’s
Kinetoscope, was more or less standardized in the first decade of cinema (although there were many
alternatives, as Gioli’s work reminds us). The standard frame segregates space, creating an image that
will not slip. Once Gioli’s camera abolishes the dividing lines, we have escaped the domination of the
fixed rectangle.
If there are too few framelines in Film Steneopeico, Commutazione con mutazione compensates,
assaulting us with an epidemic of cellular structures. Once more the movement is mostly vertical. But
as the imagery wobbles down the frame, revealing the oscillating soundtrack, perforations, scratches,
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45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
It is my desire to intone the hymn of the male,
the strong, the virile, active, vertical composition!
Sergei Eisenstein, 1930
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Volto sorpreso al buio
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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hairs, clumps of dust, and blobs of color, we are obliged to notice the arbitrariness of the rectangle.
Gridwork is superimposed on the stripes and blocks in the picture. Framelines and perforations are
sometimes tipped on end, as if to create a new aspect ratio that will respect cinema’s downward flow.
Often the film seems to be snagged in the projector, stuttering or weaving frantically; sometimes
framelines roll past like an out-of-control television image. By spreading a narrow photograph (vertical, of course) across two or more frames on the physical strip, Gioli produces onscreen the cascade
familiar from the pinhole footage: a pistol, a steering wheel, trees, men, and women surge up and
down in the tumult. Again, but more secretly, he is scanning something—not a plant or a woman’s
breasts, but a picture.
Gioli has noticed that the very perforation that allows the film to be pulled down through camera and
projector echoes in miniature the frame enclosing the image. What could make him happier than a film
gauge that plants a perforation right on the sacred frameline? The early amateur film gauge, 9.5mm,
set its single perforation in the center of the horizontal edge. In L’operatore perforato that plump
sprocket hole comes into its own. It multiplies like a virus, riding serenely on top of the picture, nearly obliterating the images trembling underneath it. Near the close of the film, we watch another cameraman, perhaps shooting a Fatty Arbuckle imitator, cope with the invasion of perforations, not only
from the top and center but from the edge. By now, when we can hardly tell the difference between
frame and perforations, cinema’s two round-cornered rectangles, the image can be anything—a picture,
or a zone of blank white.
Gioli’s most exhaustive essay in vertical cinema seems to me Anonimatograph. From a family’s home
movies from the silent era he creates a fresco of an epoch by magnifying casual and intimate domestic
details. If Commutazione con mutazione and L’operatore perforato scarred and punctured the
images that slid through the frame, something gentler informs this film. Gioli shows us his optical
printer at the start, superimposing it on the lovely face of a woman. The shot announces a film that
will move across various forms of split imagery, in still frames as often as movement. First we get
superimpositions, then jump cuts, and finally and most lastingly divided frames. The settings themselves are partitioned, with characters caught in doorways or three-sided mirrors.
Once more, what is actually on the film strip is classically posed, but what we see onscreen, broken by
the shutter and the incessant dysfunctional framing, becomes something altogether more fractured.
Family members drop in and out, replacing one another in diptychs or triptychs. The kaleidoscopic
images suggest a jumble of albums or stereopticon slides. Truncated images are stacked up, as when a
soldier at a train window seems to gaze down at a nude woman stretched luxuriantly on the parlor carpet. At one point, verticality seems to create horizontality: two women at a party appear to clone themselves and spread across an entire room. Near the close of Anonimatograph comes the ultimate verticality: a rain of tiny scratches all but obliterating the image.
In the light of this tendency in Gioli’s cinema, is it too much to see in Rothkofilm a self-conscious
homage to another master of the vertical axis? Granted, Rothko worked in a slightly horizontal format; but he also rehabilitated the upper area of the picture plane. He showed that one massive patch
of glowing color stacked on another could provide a powerful counterweight, could even seem seem
to float upward. Gioli subjects the master’s paintings to the same vertical replacements we find in
the other films, though at a more measured pace. Edges slide up and down, colors melt into one
another, and by the end Rothko’s oeuvre seems nothing but frames and sprocket holes. Rothko’s monumental art evokes eternity, but in Gioli’s hands these blocks take on a softer, more vulnerable quality. They become versions of the humble, luminous rectangle through which film images drop on
their way to disappearing.
«Se voglio svagarmi non vado al cinema».
Conversazione con Paolo Gioli
di Giacomo Daniele Fragapane
No, piuttosto mi sembra che hai dato più di una risposta. Nel senso che mi hai detto che un
tuo film può nascere da una cosa che hai letto, da un’immagine non tua, oppure da un gioco
di parole ecc. Ma soprattutto dalla prosecuzione del tuo lavoro.
È così in maniera inconscia, in effetti, ma in genere lo scopro dopo.
Allora vorrei capire meglio innanzitutto come si intrecciano questi diversi aspetti, e poi, dal
momento che c’è una dimensione produttiva per certi versi “inesauribile” nel tuo modo di
procedere, come capisci che un tuo lavoro è finito, che un film è chiuso.
Da una ragione banale che in realtà si porta dietro una riflessione molto più complessa: perché, lavorando in pellicola piuttosto che in video – e qui ci sarebbe da fare un discorso lunghissimo e molto polemico – so fin dall’inizio che ho a disposizione una certa durata, mettiamo cinque minuti, e che all’interno di quella durata non posso sbagliare e devo mettere tutto
quello che ho immaginato. Ho ripetuto un’infinità di volte che per me il digitale è paragonabile a una “gomma per cancellare”, a qualcosa che ti consente sempre di tornare indietro e
rifare, mentre con la pellicola è come usare una stilografica: alla fine se hai fatto hai fatto, se
hai sbagliato hai sbagliato. In questo senso non penso che il digitale abbia arricchito molto i
processi creativi, proprio perché introduce la possibilità di cancellare. Se col digitale tu puoi
fare una quantità infinita di varianti e solo alla fine scegliere quella che ti convince di più – e
questo secondo me ti porta a lavorare in un modo molto più approssimativo –, lavorando con
la pellicola invece devi seguire un processo molto più preciso, sei costretto a ipotizzare una
serie di possibili soluzioni mentali – dieci, venti, cinquanta – per poi realizzare quella che ti
convince di più solo una volta che ti sei deciso. Se lavori in video, secondo me ti devi allenare per assumere lo stesso atteggiamento: procedere come se avessi una sola possibilità, come
se avessi una sola batteria che si sta scaricando, ad esempio, per avere una visione esatta di
quello che vuoi e mantenere alto il livello di concentrazione su ciò che fai.
E questo significa anche avere un determinato approccio nei confronti del soggetto? (utilizzo questo termine in un’accezione piuttosto ampia, dal momento che molti tuoi film non
hanno un vero e proprio “soggetto”). Roberta Valtorta ha parlato di una costante «teatralizzazione» del soggetto nella tua opera, di una sua drammatizzazione attuata per mezzo
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Filmfinish
Quello che vorrei fare in questa intervista è mettere in luce,
per quanto possibile, la logica dei tuoi processi creativi.
Inizierò con una domanda piuttosto ovvia, ma che credo
rechi in sé una grande complessità di possibili percorsi.
Jean-Michel Bouhours ha scritto che nel tuo lavoro «l’immagine non è più l’analogon della cosa rappresentata quanto la metonimia […] di un processo mentale» (Jean-Michel
Bouhours, Paolo Gioli, l’uomo senza macchina da presa, in Paolo
Gioli. Fotografie dipinti grafica film, Art&, Udine 1996, p. 197).
Il tuo cinema – così come buona parte della tua fotografia –
difficilmente rientra nella categoria della “rappresentazione” o della “narrazione”; sembra invece svilupparsi come
un processo di “esplorazione” (termine che tu usi di frequente) di un’idea. Come se quell’idea, spesso molto tecnica, oppure legata all’agire quotidiano, una volta messa in
moto non potesse che produrre, quasi automaticamente,
quel film. E allora qual è, di norma (se c’è una norma) la
genealogia di una tua idea? Come si manifesta la prima
volta, e come si evolve nel tempo?
È complicato rispondere, perché ogni mio lavoro parte da
pretesti diversi. Per esempio, è molto importante il contesto
letterario. Quello che leggo, i titoli soprattutto, ma anche
qualsiasi frammento che posso trovare in un testo letterario.
Spesso parto da una frase: tu mi dici una frase e io ci faccio
un film. Oppure una parola, ad esempio “foglia” o “vita”…
“Vita e morte di una foglia” potrebbe essere il titolo. Allora io
posso aspettare un’intera stagione: non è che vado a staccare
una foglia per farla cadere, ma aspetto che si dissolva, che
vada in consunzione. Detto così sembra la prima cosa che mi
è venuta in mente, invece coincide con quella che è una mia
visione della natura e delle stagioni. Dunque è importante il
contesto letterario o il fatto che si inneschi un’associazione di
idee. Ad esempio ieri sono stato in un laboratorio di sviluppo e stampa di pellicola cinematografica, per dare istruzioni
su alcuni lavori che sto facendo, tra cui un film intitolato Interlinea; da una sorta di pattumiera che hanno, dove gettano gli spezzoni inutilizzati, i materiali di scarto, ho tirato su un frammento di pellicola 35mm colore e guardandolo con un lentino mi è venuto in mente che potrei
reinquadrarne delle parti, osservando quello che c’è tra i fotogrammi; e così ho anche immaginato un ipotetico titolo, ossia “fuori-quadro”, che poi sarebbe esattamente la prosecuzione
di Interlinea. Dunque siamo dentro la materia del film, della pellicola, del supporto, prima
ancora che si adagi, che si depositi sopra un’immagine: spesso il pensiero di dover mettere io
le immagini mi distoglie, in certi casi considero una fortuna, un lusso poter lavorare su un
supporto che ha già dentro delle immagini anonime, fatte da un altro. Insomma in questo
caso ho immaginato di spostarmi dall’interlinea, di andare fuori quadro – un po’ come accade al cinema quando la pellicola non è bene allineata nel proiettore e qualcuno nel pubblico
grida: “quadro!” – ed esplorare la materia, la grana, scoprire cosa c’è dentro e poi solo alla
fine tornare all’ordine, al quadro, e svelare perché ero fuori-quadro. Non so se ho risposto alla
tua domanda: in effetti forse sono andato io “fuori-quadro”.
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Mi sono segnato un tuo commento al film Immagini travolte dalla ruota di Duchamp, dove
dici: «Su Duchamp mi sentirei di fare un film su ogni sua opera perché mente, ironia e
alchimia sono proprie del cinema». Al di là dell’omaggio a uno dei più importanti artisti
del novecento, questo mi sembra anche un bel modo per descrivere il tuo approccio al cinema. Vuoi parlare di questa dimensione duchampiana del tuo lavoro?
A me piacciono molto le cose laddove sono complicate, dove c’è una sfida. Ho fatto dei film
togliendo l’otturatore dalla mia cinepresa e utilizzando degli otturatori esterni: ad esempio la
mia stessa mano, oppure, come nel caso del lavoro su Duchamp, una ruota di bicicletta. In
effetti avrei voluto mostrare il risultato a Duchamp per vedere come avrebbe reagito, perché
se ci pensi la ruota è un otturatore: basta oscurare i raggi lasciando delle fessure e farla girare davanti alla cinepresa; se la cinepresa non ha l’otturatore puoi decidere la velocità dell’otturazione facendo girare la ruota più o meno velocemente, come si faceva nei baracconi del
tiro a segno alle fiere di paese. Trovo interessantissimo il fatto che un’opera finita sia poi
diventata parte di un’altra opera: come avrebbe potuto immaginare Duchamp che la “sua”
Children
della messa in posa o di altri espedienti (penso all’uso che fai della cornice, degli schermi
che inquadrano altri schermi, o a come metti in crisi ed evidenzi al contempo, mediante
raddoppiamenti speculari o slittamenti del fotogramma, quel luogo massimamente “teatrale” dell’immagine che nella tradizione occidentale è sempre stato il centro del quadro).
In che misura questi procedimenti “teatralizzanti” incidono sul tuo modo di fare cinema?
Ci sono differenze rispetto al tuo approccio alla fotografia?
Sì, certamente ciò che io mostro non è mai una cosa “colta al volo”, come fanno i fotoreporter ecc.; la medito sempre per conto mio, ci torno sopra a più riprese, con pause lunghissime. In questo senso devo dire che io non amo sperimentare, anzi la definizione stessa di
“cinema sperimentale” mi sembra assurda o vecchia (un’altra definizione che odio è quella
di “cinema d’artista”, che fa pensare a un pittore che si mette a fare i film). Le mie sono opere
compiute, non sono esperimenti! Sembra quasi che io dopo tutti questi anni sono ancora lì
che provo per vedere cosa salta fuori, che faccio esperimenti senza sapere se quello che sto
facendo riuscirà: e invece è ovvio che quello che faccio deve riuscire, perché per il settanta
per cento è tecnica, e per il resto – se ce l’hai o no è un’altra questione – è talento o creatività pura. Io non posso accettare l’eventualità di dovermi bloccare, se mi viene in mente una
cosa, perché non so farla. Ma scherziamo? In due secondi, anche solo con un pezzo di cartone e delle forbici, devo buttarmi subito e trovare un modo per farla. Tecnicamente non ho
problemi, faccio qualsiasi cosa. Il punto non è mai trovare la tecnica; il punto è cosa ti viene
in mente, cosa vuoi fare, che direzione prendere. Conosco uno che non ha mai ripreso il
sesso femminile. Eppure è molto bravo e sarebbe perfettamente in grado di ricavarne qualcosa di interessante. Ma non lo vuol fare. Io al contrario per principio non escludo mai niente, filmerei ogni angolo, soprattutto quelli in cui si raccoglie la polvere. Comunque, per tornare alla tua domanda, è evidente che in ogni cosa che faccio c’è sempre tutta una preparazione. Anche se semplicemente sto riprendendo qualcuno per fargli un ritratto, solo per il
fatto di dirgli “mettiti lì”, di parlargli, o di scegliere e preparare un luogo, sto in qualche
modo teatralizzando quella situazione, ma questo è un fatto che ha a che fare con la vita più
che con il cinema o la fotografia. Certo, non cerco di farlo rilassare, di farlo sembrare naturale: anzi, per me più è teso, più è insicuro o a disagio, meglio è, tanto poi tutto finisce, mica
sto facendo sul serio, è solo un’immagine che devo ricavare.
ruota sarebbe diventata un otturatore utilizzato per girare un film? Lo stesso discorso potrei
farlo per Duane Michaels e per tanti altri che ho utilizzato per il mio lavoro, cercando di
mostrare che dentro le loro opere si nascondevano infinite possibilità di realizzare cose del
tutto diverse, mentre magari – ed è qui l’ironia – loro pensavano al proprio lavoro come qualcosa di compiuto, di chiuso. Tu immagini ad esempio che l’ultima destinazione di una fotografia sia di depositarsi, sotto forma di inchiostro, sulle pagine di un libro. E invece no: io
animo l’inchiostro e quell’immagine comincia a muoversi, diventa un film. E lo stesso vale per
la ruota: non è più un oggetto inerte, a sua volta produce immagini perché io l’ho trasformata in un otturatore simile al disco di Étienne-Jules Marey.
Ma c’è un altro aspetto dell’approccio di Duchamp che mi fa pensare al tuo lavoro.
Duchamp sapeva bene che l’idea del ready-made era pericolosa, che poteva trasformarsi in
qualcosa di gratuito, in una formula ripetibile all’infinito; e allora si dava delle regole: si
imponeva di farne pochissimi e ne vagliava minuziosamente ogni aspetto. Dunque mi
sembra che soprattutto vi accomuni questa lentezza, il fatto di procedere attraverso una
complessa sedimentazione e stratificazione di idee e riflessioni.
Che nel mio caso si sviluppano tra letteratura, cinema, libri di fotografia e pittura. È chiaro,
per fare un esempio, che se io sto lavorando su un’idea che ha a che fare col sangue, non
posso ignorare certi quadri di Caravaggio, o tutta l’iconografia cristiana ed ebraica che
riguarda il sacrificio dell’agnello: devo necessariamente sviluppare una serie di correlazioni
storiche. In Children sono partito dalle fotografie di Kennedy fatte da Richard Avedon, in cui
si vede questa villa meravigliosa con i bambini della famiglia Kennedy – accomunati dal loro
destino tragico – mentre giocano, che io ho associato alle immagini della strage di My Lai e
dei bambini morti in Vietnam, e poi ad alcuni celebri dagherrotipi ottocenteschi in cui si
vedono dei miserabili coi loro bambini in braccio, alle immagini sul lavoro minorile di Jacob
Riis, all’anziana donna della Corazzata Potëmkin, che ho isolato per mostrarla come se stesse
urlando. Insomma ho sviluppato delle correlazioni. C’è l’intimità familiare, la famiglia borghese ripresa dal celebre fotografo, e poi c’è il massacro, quello che era successo in passato e
che sarebbe accaduto di nuovo negli anni a venire. Secondo alcuni storici del cinema, in un
film sperimentale ci deve essere un massimo di concentrazione semantica, non si deve perde-
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re nulla di ciò che è mostrato. È un po’ come accade in una poesia di Montale o di Elliot, dove
non ti puoi distrarre, devi soppesare attentamente ogni parola. I miei film vorrebbero essere
così: dei piccoli poemetti dove cerco di concentrare più cose possibile.
In diverse occasioni hai preso le distanze da chi interpretava il tuo continuo interrogarti sul
passato (sulle origini, sulla storia dell’arte ecc.) come una sorta di atteggiamento nostalgico…
Nostalgico io? La nostalgia è un atteggiamento reazionario! Chi ha detto questa cosa non ha
capito niente del mio lavoro…
È un po’ quello che diceva Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia, che poi coincide con l’idea che mi sono fatto di questo versante della tua opera, e cioè che tu tendi a lavorare su materiali storici – oggi si usa il termine found footage, che in realtà non mi piace
molto perché lo trovo riduttivo – per riportare alla luce dei frammenti di ciò che avrebbe
potuto essere; e questo è l’esatto opposto di un atteggiamento di tipo nostalgico.
Sì, è molto bella questa idea. Anche se in molti miei lavori utilizzo perlopiù dei brevi inserti.
Ma non sempre: Traumatografo ad esempio è pervaso di repertorio, che io all’epoca ricavavo
dal televisore in bianco e nero. Ricordo che mi ero fatto una sorta di teca di frammenti ripresi dalla televisione, che mi sarebbero poi serviti per inserirli nel film. Allora incominciavo già
Anonimatografia, stampa alla gelatina sali d'argento, 2009
Se non sbaglio, ad oggi tu hai fatto un solo film in digitale: Volto telato…
Sì, anche se in realtà non è un vero film digitale. L’ho ricavato da rulli di pellicola negativa
35mm, realizzati con la tecnica del photofinish: dunque si tratta di materiale fotografico analogico che io ho animato immagine per immagine. Ma il lavoro di ripresa l’ho fatto con una
fotocamera digitale che mi hanno prestato. Insomma il processo non è interamente digitale.
È molto importante capire questa cosa: se vuoi essere veramente puro col mezzo, non puoi
considerare digitale una cosa che in realtà è desunta da pellicola. C’è ancora tanta confusione su questo aspetto; ad esempio mi chiedo se lo stesso termine “film digitale” sia corretto:
dal momento che non si tratta di pellicola, in senso stretto non c’è alcun “film”.
Ha a che fare con questa tua ricerca di un rapporto “puro” col mezzo la scelta di lavorare
con la tecnica del foro stenopeico? Se, come tu sostieni, in taluni casi è impossibile distinguere un’immagine realizzata otticamente da una realizzata con una camera stenopeica,
allora come spieghi la tua predilezione per una tecnica così primitiva in cui, come hai detto
in diverse occasioni, non vedi realmente quello che stai riprendendo ma sei costretto ogni
volta a confrontarti con un’ipotesi, con una “misurazione mentale”?
Ma è proprio questo che è interessante! Col foro stenopeico tu costruisci un’immagine con
nulla: prendi una scatola di scarpe, ci fai un forellino e puoi realizzare immagini. Se poi l’immagine non viene, puoi sempre rimettere le scarpe nella scatola; non hai perso nulla, e non
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Infatti ci tieni sempre molto a precisare che nel tuo operato non c’è alcuna nostalgia – e io
concordo su questo, nel senso che ci vedo semmai un atteggiamento molto più “postmoderno”, una sorta di costante rimescolamento di carte che nega l’idea stessa di una storia
intesa in quanto processo evolutivo, progressione teleologicamente lineare. Qual è, insomma, il tuo rapporto col passato e con la storia, e in che modo questo ha a che fare coi tuoi
processi creativi?
Io guardo sempre alla storia, e alla protostoria soprattutto, perché voglio capire quanto di
attuale e di valido ancora ci possa essere di essa. E trovo che rileggendo la storia, magari a
distanza di due secoli o più, spesso ci siano ritorni impensabili. Vedo che le cose tornano sempre ad accadere.
da lì, prima ancora di realizzare il film, a pensare in questi termini; guardando la televisione,
ad esempio se sapevo che la sera avrebbero dato un film di Dreyer, decidevo di prendere dei
frammenti con l’idea che prima o poi li avrei utilizzati. Questo anche perché io lavoro sempre su tre o quattro cose simultaneamente, e dunque considero sempre utile raccogliere materiali di repertorio anche se ancora non so esattamente per cosa li utilizzerò, e così accade che
mi si gonfiano i film. È un processo analogo a quello di prendere degli appunti su un diario,
dei buoni appunti, aggiungiamo, con una costante riflessione sulle cose, sulla natura, che non
si limiti semplicemente a fare una cronaca di ciò che è successo nella giornata, oppure, peggio ancora, che non sia puro e semplice citazionismo. Anzi, di solito parto da un frammento
per farne una lettura completamente sconvolta, ma a partire dal principio che non potrei capire quello che mi accade intorno se non come un riflesso del passato. Osservando quello che
accade penso sempre “questo mi ricorda una cosa che è già accaduta”, oppure “questa cosa
la diceva già Svevo”, e così via. Non sono mai in pace con quello che vedo: guardando, oppure leggendo, colgo sempre le correlazioni con tanti ricorsi, come se osservassi un anello che
torna sempre a chiudersi in se stesso. Anche per questo mi dispiace molto di non aver fatto
studi classici, e non capisco perché la gente non voglia studiare i classici, il latino e il greco.
Questo è vero anche per quanto riguarda la tecnica. Il fatto di poter disporre della tecnologia
digitale non ti deve portare a dimenticare le tecniche precedenti: c’è Photoshop, e va bene, è
giusto utilizzarlo, ma c’è anche la manualità, che è fondamentale perché sei al buio nella camera oscura, mediti, i gesti che fai ti fanno scattare delle idee… In tal senso sul piano mentale il
buio è complice, ti immerge, ti fa riflettere mentre aspetti che l’immagine venga fuori. Per me
le due cose vanno assieme, mi interessa molto tutto ciò che è tecnologicamente avanzato –
tanto che spesso mi vengono in mente delle cose che si potrebbero fare con le nuove tecnologie, e poi scopro che le stanno già facendo oppure che ancora non esistono ma le stanno progettando – ma penso che non si dovrebbe perdere il rapporto con i processi più antichi.
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Preferisco non risponderti… Piuttosto mi arrischio a rilanciare la domanda che ti spingerà
all’omicidio. Ammesso che il tuo lavoro lo fai solo per te, è però altrettanto ovvio che poi
i tuoi film vengono visti da qualcuno. A riguardo, ti sei mai chiesto quale sia – come si dice
nel gergo critico – la tua “ipotesi di spettatore”? Qual è il pubblico che immagini per i tuoi
film (o quello che vorresti)?
Quello che si siede in sala sapendo che si sta sottoponendo non a una forma di intrattenimento ma a una sorta di test. Non è detto che un film debba piacere a tutti i costi; dove sta scritto che deve piacere? Un film può anche essere irritante o fastidioso. Il punto è che tu devi
guardare un film e chiederti il perché di quello che hai visto. Guardarlo come se stessi mettendo alla prova te stesso, come se fosse una forma di autoanalisi o un gioco con i tuoi meccanismi psicologici. Se non cerchi questo, è inutile che vieni a vedere i miei film: vai a vedere Moretti! Tanto ormai il “morettismo” è un vero flagello, la gente non guarda più i film
sovietici, magari ride sulla Corazzata Potëmkin senza averlo mai visto ma non si perde una pellicola di Moretti e dei suoi emuli. Se c’è da fare uno sforzo per capire, se bisogna impegnarsi,
Anonimatografo
A scanso di equivoci, è una cosa che non mi sognerei mai di chiederti.
Meno male; perché è ovvio che lo faccio per me, per una curiosità personale. Se avessi dovuto aspettare l’interesse altrui non avrei mai fatto nulla, non avrei neanche dipinto un quadro.
Tu fai per un tuo interesse, anche solo per vedere cosa salta fuori, cosa esce se fai una certa
cosa. Poi se non esce nulla la butti via, qual è il problema? Ma non tutti ragionano allo stesso
modo. Ci sono artisti che lavorano solo a richiesta, per il mercato, e se non c’è mercato non
fanno nulla, letteralmente non sanno cosa fare. Per me non è così, io riesco a lavorare solo
assecondando la mia curiosità. E dei soldi non me ne è mai fregato niente: non ho neanche
l’automobile, non so guidare, mi sposto a piedi o in bicicletta… Mi basta avere un po’ di pellicola, o quello che mi serve per lavorare. Penso solo alle cose che mi interessano, e sono soddisfatto quando mi riescono e piacciono a qualcuno (anche se devo dire che me le chiedono
più all’estero che in Italia). Certo, ragionando così sei considerato un debosciato, uno che
“deambula per casa”, come diceva uno scrittore di cui purtroppo adesso non ricordo il nome,
il quale racconta come in certe giornate plumbee non riuscisse a fare null’altro che vagare per
casa, e che alla moglie, che insisteva perché si desse da fare, rispondeva: io sto facendo. Non
faceva nulla di pratico, ma faceva qualcosa. A questo punto sono io che faccio una domanda
a te: si può essere arrestati per vagabondaggio in casa? Secondo me presto ci arriveremo.
magari anche solo per un minuto – e ovviamente non sto parlando solo dei miei film – ecco
che la gente scappa, perché deve essere tutto dato, deve arrivare senza alcuna fatica: lo scopo
del cinema di intrattenimento è proprio questo: il puro svago. Ecco, se io voglio svagarmi
però non vado al cinema, faccio una passeggiata o parlo con qualcuno. Con questo non voglio
dire che lo spettatore deve essere terrorizzato dai miei film; semplicemente deve capire che
non sono una forma di intrattenimento. Ad esempio, se è un lavoro di tipo cinetico, deve
sapere che questo può turbarlo o addirittura provocargli un attacco epilettico (ci sono autori
che lo dicono all’inizio proprio per evitare problemi). Insomma i miei film sono delle prove:
sulle tue reazioni fisiche o psicologiche, su quello che sai di cinema o di letteratura, di musi-
ca ecc. Io voglio che il mio spettatore abbia una reazione: anche un rifiuto. Al limite voglio
vederlo sbadigliare o scappare dal cinema, purché reagisca in qualche modo. Comunque non
ci sono vie di mezzo: o accetti o non accetti. In ogni caso il mio pubblico non è certo quello
che vedi uscire contento e pacioso dalla sala dopo la proiezione.
Questa idea di uno spettatore che si pone come se fosse di fronte a un test mi fa venire in
mente quegli esperimenti – percettivi o cognitivi – che Wittgenstein chiama «esercizi mentali» o altre volte «giochi linguistici». Mi sembra che certi tuoi film, come ad esempio
Interlinea, funzionino un po’ allo stesso modo, come dei “paradossi cinetici” in cui le
immagini si sviluppano alla maniera di esercizi mentali…
È vero. Ma non è detto che ci sia sempre una soluzione. A volte il paradosso resta tale. Del
resto lo stesso Wittgenstein spesso si fermava di fronte ai problemi che sollevava, e chiedeva
ai suoi allievi di aiutarlo perché era arrivato a un punto da cui non riusciva più a uscire.
Leggendo Wittgenstein puoi trovare paragrafi – che lui ha scelto di pubblicare! – in cui scrive semplicemente cose come: “oggi è nuvolo”. Perché evidentemente in quel giorno non ha
pensato nulla, non è avanzato nella sua ricerca. Quello che tu dici di Interlinea è esatto perché
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hai speso nulla. Per questo tutte le volte che mi dico che dovrei comprare una macchina fotografica, continuo a rimandare. Perché per me l’essenziale è poter lavorare, poter produrre
immagini. Mi ricordo che negli anni Ottanta, quando cominciavano a essere prodotte fotocamere sempre più complesse da un punto di vista tecnico, con l’esposizione automatica, le
varie priorità di tempo e di diaframma, e poi l’autofocus e via dicendo, io spesso mi ritrovavo, in certe rassegne, alle prese con tanti fotoamatori che arrivavano con la faccia triste e due
o tre macchine al collo e non sapevano cosa farci. Insomma, non è molto più interessante riuscire a fare immagini con la stessa immediatezza che si ha prendendo una matita e tracciando un segno sulla carta? Ma, sia ben chiaro, non è una esibizione di “povertà”, di miserabilia
tecnica (se è corretto dirlo), quanto un fatto di soddisfazione personale. C’è una domanda che
mi fanno sempre, e che prima o poi mi spingerà all’omicidio, ovvero: “ma il tuo lavoro lo fai
per te o per gli altri?”
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quello che ti pare ma lascia perdere gli autori!” Mi arrabbio sempre quando mi definiscono
un “cineasta”. I cineasti fanno cinema industriale, commerciale, cinema di produzione. Il
termine “filmmaker” è più esatto, anche se in genere chi lo utilizza non ne conosce bene il
senso: un filmmaker è uno che realizza interamente il suo lavoro; i suoi film nascono interamente da lui, e poi va in giro con la sua scatoletta a mostrarli.
Dunque tu come ti definisci? Qual è il termine che preferisci usare?
Quello che c’è scritto nella mia carta di identità. Sono un fotografo.
Adesso vorrei parlare della dimensione temporale dei tuoi film, che è poi il loro aspetto
più specifico: ciò che (per forza di cose) più radicalmente li differenzia dalla tua produzione fotografica, pittorica, litografica. Mi interessa approfondire questo versante del tuo
lavoro in particolare dal punto di vista di quella che potremmo chiamare la “logica generativa” del tempo filmico. Ovvero: cosa fa sì che un certo film abbia proprio quella durata. Nel cinema narrativo la durata media è imposta dalla stessa cornice dei generi (lungometraggio di fiction, corto, documentario ecc.), ed è anche il risultato di precise esigenze
di mercato. Nel tuo caso – non so se potremmo estendere questa riflessione al cinema sperimentale tout court – è invece evidente che ogni film, per così dire, costruisce da sé la
propria durata, la trova al suo interno. Insomma, cosa determina che un dato materiale di
partenza si sviluppi fino a un certo punto e poi si esaurisca? Ci sono schemi o processi
logici ricorrenti?
In genere parto dalla pellicola che ho, e dunque procedo a partire dai cinque o dieci minuti
di una bobina. È chiaro che può succedere che un certo lavoro rimanga in sospeso per un
certo tempo finché non mi procuro della nuova pellicola. Spesso inizio impressionando alcuni metri di pellicola che poi lascio in sospeso come promemoria, con un titolo provvisorio che
mi ricorda che devo finire quel lavoro, come faceva Joyce, che si circondava di appunti, di
bigliettini che aggiungeva giorno per giorno. La cosa importante comunque è iniziare e mettere un titolo. Successivamente accadono dei “sommovimenti”. Questa parola mi fa sempre
riflettere: il sommovimento è qualcosa di altalenante, di precario, che accade un po’ alla volta;
è tipico poi delle prime proiezioni delle origini del cinema. Molti inventori delle origini infatti riuscivano a girare ma poi non erano capaci di realizzare un proiettore: è come avere il libro
ma non l’inchiostro. Invece i Lumière, che erano geniali e soprattutto che pensavano da industriali, hanno preso un po’ da uno un po’ da un altro e hanno sintetizzato il meglio, prendendo l’idea delle perforazioni da Edison; e il procedimento è ancora oggi lo stesso: senza le perforazioni non sarebbe mai esistito il cinema. Ma quelli erano veramente dei filmmaker, facevano tutto da sé. Così per tornare al discorso del tempo, per me non è importante se un film
dura, mettiamo, solo due minuti: è comunque un film! Chi ha stabilito che deve durare un’ora
e tra quarti? Lo ha stabilito l’industria: facendo dei test sugli spettatori si sono resi conto che
a un certo punto cala l’attenzione, ma è un principio di natura puramente commerciale.
Per definire il tuo cinema è corretto secondo te usare il termine “antinarrativo”? O invece
ritieni sia più esatto parlare di una forma alternativa di narrazione?
Sicuramente sperimento modi alternativi di raccontare. Non sembra ma nei miei film c’è sempre un racconto. Non nel senso del racconto tradizionale, evidentemente, anche perché vorrei metterci dentro anche un po’ di ironia… Prendi Filmarilyn, ad esempio, dove si vede che
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Commutazioni con mutazione
in questo senso il film è un modo di sollevare un problema,
di ricordare che senza l’interlinea non avremmo il quadro, la
cornice. E io allora mi chiedo perché queste cose rimangono
fuori dal film? Perché tendiamo a non considerarle, mentre
fanno sempre parte del supporto, che è ciò che porta l’immagine? Senza perforazione infatti non vedremmo l’immagine:
ecco come escono fuori le perforazioni. Qualcuno potrebbe
obiettare che allora bisognerebbe mostrare ogni elemento del
processo, anche i rocchetti dentro cui passa la pellicola: sicuro! Paul Strand, ad esempio, ha fotografato tutto l’interno
della sua cinepresa. Io non riesco a lasciar fuori niente; il meccanismo, i diversi elementi, il supporto e via dicendo: tutto fa
parte della storia e tutto mi interessa. Se poi, esplorando l’immagine, scopro un elemento che mi colpisce, un dettaglio,
una mano, una finestra o qualcos’altro, allora decido di fermarmi e vedere che succede. Trovo sempre interessantissimo poi osservare quello che accade in una dissolvenza
incrociata, e non capisco perché oggi si tende a non farne
più – se è fatta in pellicola però, perché quella elettronica è
tutta un’altra cosa: si affumica, si annebbia, ed è piatta.
Vorrei farti vedere un confronto tra una dissolvenza fatta in
pellicola e una dissolvenza elettronica: in quella filmica
vedi che l’immagine fino all’ultimo istante si scarnifica,
anche quando resta solo un barlume di luce si continua a
percepire lo scheletro dell’immagine, mentre in quella elettronica si appanna tutto lo schermo; c’è un abisso di differenza. Insomma il mio spirito è questo: per me un filmmaker è un “lavoratore di film”. Almeno in questo senso,
anche se il mio lavoro non valesse nulla dal punto di vista
dei suoi risultati, vale comunque per l’atteggiamento, che
io, senza saperlo, ho sempre mantenuto massimamente
puro nei confronti del mezzo e di ciò che faccio. Da quando
ho iniziato a fare cinema il mio modo di lavorare è sempre
stato lo stesso: vado in un negozio, compro – coi miei soldi
– una bobina, trenta preziosissimi metri di pellicola che utilizzo per realizzare l’idea che ho in testa. E poi me la sviluppo io stesso, anche perché non puoi andare in un laboratorio e chiedere che ti sviluppino trenta metri: devi portarne
almeno trecento! All’inizio andavo in un laboratorio di
Roma, a via Tomacelli, che lavorava per i cine-amateurs,
dove mi sviluppavano anche piccole quantità di pellicola.
Mi ricordo che all’epoca mi offendevo perché non volevo
essere confuso con un cineamatore: quelli volevano diventare dei Rossellini, giravano pensando al grande cinema e a
me veniva da pensare: “disgraziato! Filma tua moglie, fai
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Marilyn ha una ferita perché si era operata di calcoli alla cistifellea, e sappiamo bene che non
voleva che Bert Stern, il fotografo che ha scattato le fotografie da cui poi io ho fatto il film, la
riprendesse; se non fosse morta prima non gli avrebbe mai consentito di pubblicare quelle
fotografie. Quello che io ho fatto è stato far uscire del pus da quella ferita, e poi l’ho fatta
morire, anche se in quelle immagini è viva, gioca a rotolarsi sul letto: io l’ho inquadrata come
probabilmente l’ha trovata il coroner, con la faccia in giù e la mano rivolta verso il telefono.
Le mie immagini insomma vanno a cercare la posizione esatta di come è stata trovata morta,
ma nelle stesse fotografie lei prende una posizione come se fosse morta, nuda, con gli occhi
chiusi e la bocca spalancata. Io in fondo ho solo legato quei fotogrammi, come se si trattasse
di un film trovato ma che non è mai stato girato.
L'operatore perforato
Il riferimento alla farfalla del film di Milestone mi fa venire in mente che tu hai realizzato un
film, Farfallio, il cui soggetto principale è proprio il battito d’ali delle farfalle.
Sì, ma l’intenzione principale lì era di ironizzare sul cosiddetto “sfarfallio” del proto-cinema,
quell’effetto che poi è rimasto nella stroboscopia e di lì è arrivato al cinema sperimentale.
Nelle prime proiezioni questo effetto di “flickeraggio” era dovuto al fatto che non c’erano
buoni otturatori e la pellicola si muoveva a scatti.
Eppure nel film c’è molto di più. Il tema della farfalla è legato al sesso (vi associ immagini di una vulva, di capezzoli, e a un certo punto c’è una scena di fellatio piuttosto esibita)
e soprattutto lo riporti al tema dello sguardo, a partire dall’immagine dell’occhio che appare sulle ali delle farfalle, che è a sua volta una figura cara a Bataille e al surrealismo, ripresa poi da Caillois e da Lacan in rapporto ai fenomeni del mimetismo animale e al tema
della lotta per la sopravvivenza. Insomma, mi sembra che su questo elemento minimale
del flickeraggio delle ali di farfalla si sviluppino una serie di riflessioni filosofiche che
attraversano in profondità tutto il tuo lavoro. Sei d’accordo?
È la forma stessa della farfalla, così speculare, che ricorda quella di una vulva. Senz’altro non
ho inserito gratuitamente quelle immagini. Il corpo della farfalla nella sua parte centrale è
pelosissimo, le ali si aprono come un libro e quando la farfalla le chiude lo fa per mimetizzarsi, perché così, se vista di taglio, dall’alto, praticamente scompare. E poi cerca sempre i luoghi
che hanno il suo stesso colore. Nel mio lavoro io osservo molto tutte queste cose, mi interessa
particolarmente tutto ciò che riguarda il mimetismo: come fanno gli animali a riconoscere i
colori e a camuffarsi. Una volta, osservando uno dei miei alberi, ho visto una foglia vibrare leggermente. Ma non c’era vento; allora mi sono incuriosito e mi sono avvicinato, e ho visto che
si trattava di una farfalla che aveva assunto un colore perfettamente identico a quello delle
foglie. Sono corso in casa per prendere la macchina fotografica, sperando che non si muovesse, e ho prima fatto una ripresa molto ravvicinata, in stile «National Geographic». E la farfalla
non si è mossa anche se io ero vicinissimo; sicuramente sentiva la mia presenza, il mio alito, il
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Dunque il racconto è quello di una tua indagine…
Sì, ho interpretato a modo mio quelle fotografie, che furono fatte per un servizio di moda,
osservandole come se fossero le immagini di quando Marilyn è stata trovata morta. Ho chiuso il diaframma in modo che si scarnificassero un po’ di più le mani, ho fatto una dissolvenza molto lunga, che si spegne lentamente. Se lei fosse viva ovviamente non avrei mai fatto
una cosa del genere. Insomma il racconto è un po’ una parabola: come nell’Operatore perforato, in cui in una vecchia pellicola Pathé-Baby con perforazione centrale, che io ho trovato tutta
rovinata, si vede un operatore al lavoro che si muove e spesso quasi sparisce spostandosi vicino alla perforazione, che è proprio al centro della pellicola. Allora ho pensato: prima o poi
questa perforazione finirà per farlo fuori! In questo senso parlo di ironia. Nel film cerco di
farlo sopravvivere più possibile tenendolo ai margini prima che la perforazione lo uccida.
L’ironia e il sarcasmo nei miei lavori hanno sempre a che fare con la morte, con un fondo di
malinconia che deriva probabilmente dal fatto che ci penso continuamente. Del resto
Traumatografo l’ho dedicato al tema del massacro, sia in senso bellico che in rapporto agli inci-
denti d’auto, con un intermezzo in cui si vedono dei bambini, che ha lo scopo di creare un
contrasto. E dentro ci ho inserito anche dei frammenti che ho preso dalla televisione, come la
scena meravigliosa di All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone in cui un soldato si muove
per prendere una farfalla e viene ucciso da un colpo sparatogli in fronte. È una scena fatta con
un’intelligenza straordinaria, senza alcuna retorica, in cui si capisce che il soldato muore solo
dal movimento improvviso della sua mano. Il soldato cade nel fango e io lo faccio rotolare
più volte finché la sua mano non si consuma. Mi soffermo sulla mano, ne faccio un anello che
gira in continuazione nella cinepresa, e che io esploro. In pratica ho mandato in loop l’immagine della mano, facendola girare nella cinepresa a contatto con la pellicola vergine.
Riavvolgendo la pellicola e facendola girare di nuovo l’immagine si impressiona sempre di
più, e allora vedi la mano di un uomo che è morto che si dissolve a sua volta, che va in consunzione e si sfalda finché non rimane solo lo scheletro dell’immagine: il fotogramma si riempie sempre di più e si macera, finché lo schermo non rimane soffocato dalle immagini e si
vedono solo dei barbagli. Io lì mi sono fermato perché volevo che il film procedesse in un’altra direzione, ma l’esperimento è interessantissimo: tu puoi continuare finché le immagini, a
forza di sovraimprimersi sulla pellicola, non saturano completamente lo schermo, e allora
non c’è più spazio, tutto si chiude e si dissolve perché l’immagine ha mangiato se stessa.
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45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
calore, ma non si è mossa perché era convinta che io non la vedessi, perché sapeva di essere
una foglia. Successivamente ho fatto altre fotografie riprendendo l’albero sempre più da lontano, e mi piace mostrarle dicendo che in quell’albero c’è nascosta una farfalla, e scoprirla gradualmente. Non so cos’è che mi spinge a osservare le foglie. Poi, come sai, c’è il film di
Brackhage, Mothlite (1963), che io amo molto. È tutto fatto con ali di falene che lui e sua moglie
hanno catturato, mettendo una candela dentro un cilindro per attirarle, e poi hanno ucciso per
staccargli le ali e filmarle. Il film è bellissimo ma io non potrei mai fare una cosa così, neanche
staccando le foglie di un albero. Semmai al massimo posso raccoglierle per filmarle o fotografarle, lo faccio spesso e a volte mi viene da pensare all’idiozia di chi dice che l’autunno è così
bello per via del colore che prendono le foglie, e non si rende conto che sono così perché stanno morendo… Però se ci pensi questa cosa è straordinaria, perché noi se siamo in decomposizione facciamo veramente schifo, mentre la foglia è bella: sta morendo, si sta sgretolando per
divenire concime, per essere divorata dalle altre creature, eppure per noi diventa bella!
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A questo punto mi sembra quasi obbligatorio parlare di un altro tuo film, Metamorfoso,
che è un omaggio a Escher in cui sviluppi al limite estremo tutte le possibilità visive
della metamorfosi. L’idea che mi sono fatto è che questo tema della metamorfosi attraversi in profondità tutto il tuo lavoro. Sei d’accordo?
Quello che dici è vero. Animare Escher è stato un’impresa difficilissima, una vera sfida.
Nella sequenza originaria c’è una figura – un animale, una salamandra, un coccodrillo ecc.
– che attraverso pochi passaggi, non più di quattro o cinque, si dissolve e diventa una foglia
o qualcos’altro. Ma per farlo muovere realmente hai bisogno di molti più fotogrammi intermedi, altrimenti il movimento è piatto. Allora bisogna creare delle interpolazioni per creare
il senso dello scorrimento.
È ciò che fai anche con delle sequenze fotografiche di Duane Michals, oltre che ovviamente con le immagini di Muybridge, Eakins ecc.
Sì, in Piccolo film decomposto, che di fatto è un film sul movimento. L’idea è di prendere i pochi
scatti di Michals e farli muovere come se la donna delle fotografie si spogliasse realmente di
fronte al fotografo. Lo spunto nasce da un vecchio trucco: se io ti fotografo in una posizione
intermedia, mettiamo tra alzato e seduto, dall’immagine tu non hai modo di capire se mi sto
alzando o sedendo, oppure, analogamente, se ti sto porgendo la mano o la sto ritraendo: sono
tempi sospesi. Allora se ho solo un gesto accennato, devo necessariamente ripeterlo. Ad esempio, prendi le quattro immagini dell’onda che avanza fotografata da Albert Londe: non sono
sufficienti per rendere l’effetto del movimento, allora le ho riprese in entrambe le direzioni,
così da avere anche l’illusione che l’onda torni indietro, cosa che ovviamente in origine non
esiste. Lo stesso ho fatto con le immagini del tuffatore Cagnotto in Del tuffarsi e dell’annegarsi,
in cui ho girato un frammento brevissimo e poi l’ho dilatato in tutti i modi possibili. Ecco, per
me è fondamentale questo aspetto del rapporto tra trasformazione e ripetizione, anche se il termine è brutto, dà l’idea della noia: io preferisco parlare di iterazione, pensando ad esempio alla
musica di Satie – un musicista che adoro – o anche di Stockhausen e di Glass, dove c’è sempre
una scansione, un’evoluzione che nasce dall’interno dei meccanismi di ripetizione.
Approfitto della tua risposta per affrontare un aspetto apparentemente marginale del tuo
cinema, il suono. Infatti solo una piccola parte dei tuoi film sono sonori in origine, molti
nascono e restano muti e altri ancora sono stati sonorizzati – non da te – in occasione della loro edizione in DVD.
Allora vorrei sapere quanto ti interessa il rapporto
suono/immagine, e come lavori sulla dimensione acustica
dei tuoi film?
Sicuramente mi interessa, e in alcune occasioni ci ho lavorato molto. Però sono sempre più convinto che il film “in
silenzio” offra maggiori possibilità perché il fatto di lavorare senza il supporto e l’aiuto della musica ti porta a una
consapevolezza maggiore riguardo alla dimensione visiva.
Ci sono film cosiddetti sperimentali che privati dell’audio
non funzionano più – ad esempio ieri ero a una rassegna di
Zbigniew Rybczynski e a un certo punto c’erano dei problemi tecnici con il sonoro: l’effetto è stato che le immagini
non avevano più alcun senso. Non c’è niente di più interessante del silenzio, perché in realtà il silenzio pieno non esiste: lo hanno anche dimostrato scientificamente, ma io ne
ho avuto la riprova quando, nel corso di una mia rassegna
che si è tenuta al Filmstudio a Roma, ho proiettato Quando
la pellicola è calda, che è un film muto ricavato da spezzoni
di pellicole porno. C’era il silenzio, ma in realtà era un
silenzio fatto dei rumori della gente che assisteva: c’era chi
sospirava, chi si muoveva, chi borbottava, magari perché si
sentiva a disagio. Mi ricordo che Cosulich fece una recensione bellissima sulla terza pagina di «Paese Sera» in cui
diceva che era un film sonoro. Allora ho cominciato a riflettere sul fatto che spesso il silenzio può essere più efficace
del suono. Perché l’immagine può mostrarti qualcosa che
sta accadendo, ad esempio un colpo di pistola, e fartene
percepire il suono anche se non c’è.
In un’altra occasione tu hai fatto considerazioni analoghe
sul rapporto tra luce e buio, dicendo che la dimensione del
buio è fondamentale perché si abbia una piena percezione
della luce.
Sì, la tua intuizione è giustissima. Ho parlato di questo in
un’intervista che mi ha fatto Bruno Di Marino, per cui non
vorrei ripetermi, ma in sostanza lì notavo che quando stampo le mie fotografie, ovviamente chiudo le finestre e ci
metto sempre un po’ ad abituarmi al buio. E allora mi dico
che la stanza è buia ma in realtà non lo è veramente, perché
in quel lasso di tempo rimane sempre della luce, che è quella che ha impressionato la mia rètina: di fatto, io sono portatore di luce. È la lettura di Wittgenstein che mi porta a
riflettere su questi paradossi portati all’estremo, perché nei
Tracce di tracce
141
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
paradossi si celano un’infinità di cose che poi si possono
anche narrare. Così in Metamorfoso, per tornare al discorso
di prima, ho cercato di animare l’inanimazione, rendendo giustizia a quegli autori che sognavano di poter realizzare
immagini in cui ci fosse anche solo un barlume di movimento. In questo senso la protostoria del cinema sarebbe da
riscrivere, perché quegli autori non avevano fallito: semplicemente non erano riusciti a proiettare quello che invece
erano riusciti perfettamente a riprendere.
142
Vorrei tornare su un tema che abbiamo toccato solo incidentalmente. Mi sembra che nel tuo cinema ci sia sempre
una tensione sessuale latente, anche quando non la enunci in modo diretto, con immagini esplicite. A volte si ha
l’impressione che tu tenda a erotizzare lo stesso dispositivo, il cinema, la fotografia, perfino taluni oggetti particolarmente “sensibili” come le ottiche o gli otturatori; che tu
tenda a trattarli come degli organismi viventi, un po’ come
faceva Bellmer con le sue bambole. Vuoi parlare di questo
aspetto del tuo lavoro?
È innegabile che per me questa sia una sorta di ossessione,
ma è anche qualcosa che mi sprigiona una enorme quantità
di idee e di energie. È banale come riflessione, ma innanzitutto devi considerare che fare l’amore produce endorfina,
che è la droga naturale del corpo. Dopo averlo fatto mi vengono in mente moltissimi titoli. Apro a caso diversi libri, di
letteratura e altro, ne faccio delle pile per formare un unico
libro in cui lascio dei segni. Dopodiché guardo magari cinque libri contemporaneamente, aprendo a caso i punti in cui
ho lasciato un segno, e comincio a montare mentalmente le
immagini sfogliando i libri e collegandoli tra loro. Questa è
per me un po’ una condizione naturale: la sera non riesco ad
addormentarmi perché penso in continuazione a quello che
ho visto durante il giorno, alle cose che potrei fare, a come
farle, a come collegarle tra loro…
E che ruolo ha il caso nel tuo modo di lavorare?
Nessuno. Anche se a volte parto da immagini trovate per
caso, sono sempre io che scelgo di raccoglierle e di metterle
insieme. Del resto anche noi nasciamo dal caso, da un insieme di cose che non siamo in grado di gestire… Certo, il caso
esiste, ma dopo il caso subentra sempre la scelta, la volontà
e la capacità di cogliere ciò in cui ti sei imbattuto. Una volta
con un mio amico ho fatto un esperimento. Eravamo a
Venezia, e avevamo due cineprese molto simili, due Bolex
non reflex. L’abbiamo caricate con la stessa pellicola, dividendo una bobina da trenta metri,
e in due momenti diversi abbiamo fatto lo stesso percorso, che entrambi conoscevamo
benissimo perché era un tragitto che percorrevamo quotidianamente, con l’intento di verificare se avremmo ripreso le stesse cose. Alla fine avevamo visto cose completamente diverse. È un test che andrebbe benissimo anche per le scuole di fotografia.
Credi che il tuo lavoro sia stato capito fino in fondo?
C’è così poca gente che si interessa di queste cose… Non me lo sono neanche mai chiesto.
Prima ti parlavo della ripresa che ho fatto mandando in loop la mano del soldato in All’ovest
niente di nuovo. Beh, è chiaro che nessuno mi obbligava ad utilizzare proprio quell’immagine, avrei potuto usare la mia mano o qualunque altra scena presa dalla televisione. Ma volevo che fosse una citazione, che si trattasse di una morte simulata, di una cosa che non accade nella realtà ma nella storia del cinema, cosicché lo spettatore che ha visto quel film potesse riconoscerlo. Più in generale, per rispondere alla tua domanda, mi spiace sempre che chi
vede i miei film non possa cogliere interamente quello che significano, o quello che io ci
metto dentro, non sapendo come ho fatto a realizzarli da un punto di vista tecnico. Nel mio
cinema la dimensione tecnica è fondamentale. Sono convinto che se io ti spiego come ho
fatto a realizzare un determinato film che hai già visto – ad esempio Filmfinish – tu te lo vai
subito a rivedere e ci scopri una grande quantità di cose che non avevi colto. Eppure come
ti ho detto non sopporto che si parli del mio lavoro come di un cinema di “pura sperimentazione”. Certi film di Rybczynski, ad esempio, lo sono: vedendoli hai l’impressione che
l’unica logica che li anima sia quella di comprovare le premesse del suo esperimento… Di
dimostrare a Lucas che lui è più bravo! Eppure è dagli anni novanta che non fa più nulla:
malgrado tutta le tecnologia e le risorse economiche di cui dispone è in un cul de sac…
Produce software, fa videoclip e pubblicità! Anche a me hanno proposto di fare pubblicità,
mi hanno offerto un sacco di soldi ma non mi interessa per niente. Forse se mi avessero offerto una bella riserva di pellicola avrei accettato.
Anonimatografia, stampa alla gelatina sali d'argento, 2009
Roma, 20 novembre 2008
“If I want to have fun I don’t go to the movies.”
A conversation with Paolo Gioli
144
In this interview I’d like to bring to light, as much as possible, the logic behind your creative
process. I’ll begin with a rather obvious question, but which I believe contains a number of
complex ramifications. Jean-Michel Bouhours wrote that in your work, “The image is no
longer the analogon of the thing represented but the metonymy […] of a mental process.”
(Jean-Michel Bouhours, “Paolo Gioli, L’uomo Senza Macchina da Presa,” in Paolo Gioli.
Fotografie Dipinti Grafica Film, Art&, Udine 1996, p. 197). Your films, like most of your photography, are difficult to categorize as “representation” or “narration.” Instead, they seem to
play out as an “exploration” (a term you use frequently) of an idea. As if an idea – which is
often very technical, or even connected to daily activity – once set in motion cannot help but
produce a film, almost automatically. What is the standard genealogy, if one exists, of one
of your ideas? How does it first manifest itself and how does it evolve over time?
It’s hard to say, because each of my works starts from a very different context. For example, literary
context is very important – what I read, titles especially, as well as any fragment that I might find in
a literary text. It often begins with a sentence – you give me a sentence and I’ll make a film out of it.
Or a word, for example “leaf” or “life”… The title could be “The Life and Death of a Leaf.” I can even
wait an entire season: I won’t tear off a leaf to make it fall, but I will wait for it to decompose, to be consumed. Described this way, it seems like the first thing that comes to mind, but it actually coincides
with my vision of nature and the seasons.
Quando l'occhio trema
No, I think you actually gave me more than one answer. That is, you said that one of your
films can come from something you’ve read, from an image that’s not yours, from a play on
words, and so forth. But above all from how your work progresses.
It’s essentially unconscious, and I generally discover it later.
I’d like to better understand how these different aspects are interwoven and, since there is
essentially an inexhaustible creative dimension to your approach, how do you know when
one of your works is finished, when a film is done?
For a trivial reason that actually derives from a much more complex reflection. Working in film rather
than video – this in and of itself requires a very long and very controversial discussion – I know from
the onset that I have a certain running time available, let’s say five minutes, and that within that running time I can’t make any mistakes and must include everything I’ve imagined. I’ve said over and
over again that, to me, working digitally is like having an eraser, it always allows you to go back and
redo everything, whereas film is like a fountain pen – in the end, what’s done is done, if you made a
mistake, you made a mistake.
In that sense, I don’t think that working digitally has enriched the creative process much, precisely
because it introduced the possibility of deleting. Working digitally allows you to create an infinite
number of variations and only in the end choose the one you like best – and this, I believe, leads you to
work in a much more approximate way. With film, you have to use a much more precise process, you’re
forced to hypothesize a series of possible mental solutions—ten, twenty, fifty— then decide to make the
one that seems the most convincing to you.
If you work in video, I think you have to train yourself to have that same attitude: work as if you had
only one possibility, as if you had only one battery that was dying, for example, to have an exact vision
of what you want and stay very concentrated on what you’re doing.
Does this also mean having a set approach to the subject? (I use the term rather broadly since
many of your films don’t have a true “subject”). Roberta Valtorta spoke of a constant “theatricalization” of the subject in your work, of a dramatization achieved through a created
pose or other means. For example, the use of framing, screens that frame other screens; or how
you simultaneously upset and highlight – through mirrored doubling or by offsetting the
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
by Giacomo Daniele Fragapane
So, literary context is important, and the fact that it sparks an association of ideas. For example, yesterday I was in a film lab giving instructions for several works I’m making, including a film entitled
Interlinea. I pulled out a piece of 35mm color film from this garbage can they have, where they throw
away outtakes and discarded material, and when I started looking at it with a magnifying lens it
occurred to me that I could re-frame some parts, examining what there is between the frames. I also
imagined a hypothetical title, Outside the Frame, which would be the sequel to Interlinea.
So, we are inside the film material, the film strip, the base of the film, prior even to an image being registered on it. Often, the thought of having to create the images myself distracts me – sometimes I consider it lucky, a luxury, to be able to work in a medium that already contains anonymous images made
by someone else. In this case I imagined myself moving beyond the frameline, moving outside the frame
– not unlike in the movie theatre when the film isn’t properly aligned in the projector and someone in
the audience yells: “Frame!” – to explore the material, the grain, to find out what’s inside it and only
at the end return to order, to the frame, and reveal why I was outside the frame. I don’t know if I
answered your question. I think maybe I went “outside the frame.”
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Volto telato
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
I wrote down a comment of yours on the film Immagini Travolte Dalla Ruota di Duchamp,
where you say: “I could do a film on every single work of Duchamp’s because intellect, irony
and alchemy belong precisely to cinema.” Besides the homage you pay to one of the most
important artists of the 20th century, this also seems like a good way to describe your
approach to cinema. Can you speak a little of this Duchampian aspect to your work?
I like complicated things, challenges. I made films removing the shutter from my camera and using
external shutters. For example, my hand or, in the film on Duchamp, a bicycle wheel. I would have
liked to show Duchamp the results, to see his reaction, because if you think about it, the wheel is a shutter. You need only to black out its spokes, leave some openings and spin it in front of the camera. If the
camera doesn’t have a shutter you can decide the shutter speed by spinning the wheel quicker or slower, like they used to at the shooting galleries at county fairs.
I find it fascinating that a completed work becomes part of another work: Duchamp could never have
imagined that “his” wheel would have become a shutter used to shoot another film. I could say the same
about Duane Michaels and many others whose work I’ve used to make my own, trying to show that
within their works lay hidden infinite possibilities to make completely different things, whereas,—and
herein lies the irony—perhaps they thought of their work as something finished, closed. For example,
you might imagine that a photograph’s final destination is to end up, in the form of ink, on the pages
of a book. Yet when I animate the ink that image begins to move, it becomes a film. The same holds
true for the wheel: it is no longer an inert object, it produces images because I transformed it into a
shutter similar to one of Étienne-Jules Marey’s discs.
There’s another aspect to Duchamp’s approach that makes me think of your work. Duchamp
knew very well that the idea of ready-made was dangerous, that it could become gratuitous,
an infinitely repeatable formula. So he gave himself rules: he forced himself to make very few
and examined each aspect of them meticulously. It seems that what you two have in common above all is this slowness, this working through a complex sedimentation and stratification of ideas and reflections.
Which in my case develops from literature, cinema, photography books and painting. Naturally, if I’m
working on an idea that has to do with blood, I can’t ignore certain paintings of Caravaggio’s, or all
the Christian and Jewish iconography on the sacrificial lamb – I must necessarily develop a series of
historical correlations. In Children I began with Richard Avedon’s Kennedy photos, in which you see
this beautiful house with the Kennedy children playing – united by their tragic destiny – which I associated with images of the My Lai massacre and the dead children of Vietnam. As well as with several
renowned, 19th century daguerreotypes of the poor holding their children in their arms; Jacob Riis’
images of child laborers; and the elderly woman of The Battleship Potemkin, whom I isolated in order
to depict her as if she were screaming.
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
146
frame – the most “theatrical” part of the image that in Western tradition has always been
at the centre of the frame. To what extent does this theatricalization influence your way of
filmmaking? Does it differ from your approach to photography?
Yes, definitely. What I show is never something captured “on the fly,” as photo-reporters do. I always
mull it over, I come back to it several times, over a long period of time. But, I must admit, I don’t like
experimenting. The very designation of “experimental cinema” seems absurd and old to me (another
designation I hate is “art cinema,” which makes me think of a painter making films).
My films are completed works, they’re not experiments! That sounds as if after all these years I’m still
trying to see what will happen, as if I’m doing experiments without knowing whether or not they will
succeed. When actually it’s obvious that what I’m doing must succeed, because 70% of it is technique
and the rest is talent or pure creativity – whether or not you have that is another matter.
I can’t accept the possibility of having to stop because I can’t do something I’ve imagined. Are you kidding? Within two seconds I have to throw myself into it and find a way of doing it, even if it means
using just a piece of cardboard and scissors. Technically, I have no problems, I can do anything. The
point is never to find the technique; the point is what comes to mind, what you have to do, what direction to take. I know someone who’s never shot women’s sexual organs, yet he’s very good and would be
capable of extracting something interesting from that. But he doesn’t want to. I, on the other hand,
never exclude anything on principle. I’ll film every corner, especially those where dust gathers.
Anyway, to get back to your question, it’s obvious that a lot of preparation goes into everything I do.
Even if I’m simply shooting someone for a portrait, just from that fact that I tell him “stand there,”
speak to him, or choose and prepare a location, I am in some way theatricalizing the situation, but it
has to do more with life than with film or photography. I don’t try to relax him, make him seem natural – on the contrary. For me, the tenser he is, the more insecure and/or uncomfortable, the better it is.
But then it’s all over, it’s not like I’m serious, it’s just an image that I have to extract.
In other words, I developed correlations. There is familial intimacy, a rich family captured by a famous
photographer, and then there is the massacre, which took place in the past and could happen again.
According to some film historians, in experimental films there must be a maximum of semantic concentration, nothing of what is shown must be lost. Not unlike a poem by Montale or Elliot – you can’t
get distracted, you must weigh each word carefully. My films aspire to be that: small poems into which
I try to concentrate the greatest amount of things.
On various occasions you have distanced yourself from those who interpreted your continuous examinations of the past (on origins, art history, etc.) as a kind of nostalgia…
Me, nostalgic? Nostalgia is reactionary! Whoever said that about my work understood nothing about it…
147
Figure instabili nella vegetazione
That’s similar to what Walter Benjamin wrote in his Theses on the Philosophy of History,
which coincides with an idea that I’ve gotten from this aspect of your work. That is, you tend
to work on historical material – today the term is found footage, which I don’t really like
because I find it reductive – to bring back to light fragments of what could have been. This is
the exact opposite of nostalgia.
Yes, this idea is very beautiful. Even though I usually use short inserts in many of my works. But not
always: Traumatografo, for example, is full of archive material, which at the time I took from b&w
television. I remember that I created a collection of fragments taken from television, which I then inserted into the film. So I’d begin with that, before even making the film, thinking in those terms. For example, if I knew that they’d be showing a Dreyer film that evening on TV, I’d decide to take some fragments from it thinking that sooner or later I’d use them. Also, I work on three or four things at once
and therefore always think it’s useful to gather archive material even if at that moment I don’t know
exactly what I’ll use it for, and that’s how my films grow.
The process is similar to keeping notes in a diary, good notes, let’s say, a constant series of reflections
on things, on nature, that is not limited to just chronicling what happened during the day, or, even
worse, that is not purely note-taking. On the contrary, I usually begin with a fragment and interpret
it in a completely different way, but starting from the principle that I couldn’t understand what happens around me if not as a reflection of the past. Observing what happens, I always think, “This
reminds of something that already happened”, or “Italo Svevo already said this,” and so forth. I’m
never at peace with what I see: looking, or reading, I always grasp the correlations and multiple recurrences, as if closely watching a loop that always ends up closing in upon itself.
148
This is one of the reasons I’m very sorry I didn’t study the classics, and I don’t understand why people don’t want to study the classics, Latin and Greek. The same is true for technique. Having digital
technology at your disposal shouldn’t lead you to forget past techniques. Photoshop exists, and that’s
fine, it’s good to use it, but dexterity also exists, and is fundamental because you’re in the dark in a
darkroom, you meditate, your gestures spark certain ideas in you… Thus, on a mental level the dark
aids you, it envelops you, it causes you to reflect while you wait for the image to emerge. For me, the
two things go together, I’m very interested in what is technologically advanced – so much so that often
I think of things that could be done with new technologies, or discover that they’re already doing them
or that they don’t exist but are being developed – but I don’t think we should lose sight of our relationship to older techniques.
If I’m not mistaken, you’ve made only one film in digital so far, Volto Telato.
Yes, even though it’s not actually a true digital film. I extracted it from rolls of 35mm film negatives,
made with the photofinish technique. It is analogue photographic material that I animated image by
image. But I shot it with a digital camera that was lent to me. So the process isn’t entirely digital. This
is a very important thing to understand: if you want to be really pure with the medium, you can’t consider something digital that actually comes from film. There’s still a lot of confusion about this. For
example, I wonder if the term “digital film” is correct. If there’s no film stock, technically speaking
there’s no “film.”
Does your choice to work with the pinhole camera tie in with your search for a “pure” relationship with the medium? If, as you maintain, it is sometimes impossible to distinguish an
optically produced image with one produced with a pinhole camera, how do you explain
your penchant for a more primitive technique in which, as you’ve said repeatedly, you don’t
actually see what you’re shooting but are forced each time to make a comparison for yourself with an hypothesis, a “mental measurement”?
But that’s exactly what’s interesting! With the pinhole camera you construct an image out of nothing.
You take a shoe box, poke a little hole in it and you can make images. If the image doesn’t come out,
you can always put the shoes back in the box, you haven’t lost anything, you haven’t spent anything.
That’s why each time I tell myself I should buy a camera, I continue to put if off. To me, the essential
thing is being able to work, being able to produce images. I remember that in the 1980s, when they
began producing technically more and more complex cameras, with automatic exposure, various priorities of shutter speed and f-stop, then auto-focus and so forth, at exhibitions I’d often see numerous,
sad-faced amateur photographers who’d have two or three cameras hanging round their necks yet
wouldn’t know what to do with them. But isn’t it much more interesting to make images with the same
immediacy as picking up a pencil and drawing on paper? But let’s be clear about it: it is not an exhibition of “poverty,” of a “poor” technique (if that’s the right way to put it), as much as personal satisfaction. I’m always asked, and sooner or later I’ll kill someone over this, “Do you create your work for
yourself or for others?”
To avoid any misunderstandings, I’d never dream of asking you that.
Good, because it’s obvious I do it for myself, out of personal curiosity. If I’d had to wait for other people to become interested, I’d never have done anything, I’d never have painted a painting. You do it for
yourself, even if only to see what comes out, what happens if you do a certain thing. And if nothing
comes out you throw it away. Where’s the problem? Not everyone thinks that way, however. There are
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
In fact, you always take great pains to point out that there is absolutely no nostalgia in your
work. And I agree with that because, if anything, I see a much more “post-modern” attitude,
a constant re-mixing of elements that denies the very idea of history as an evolutionary
process, a teleologically linear progression. What is your relationship with the past and with
history, and how is this related to your creative process?
I always look at history, at protohistory above all, because I want to understand how much of it is valid
and could still exist in the present. I find that in re-reading history, even at a distance of two or more
centuries, there are often unthinkable recurrences. I see the same things happening over and over again.
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45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
artists who work only when commissioned, for the market, and if there’s no market they don’t do anything, they literally don’t know what to do. That’s not how it is for me, I can only work nurturing my
curiosity. I’ve never cared about money – I don’t even have a car, I don’t know how to drive, I either
walk or bike everywhere…
All I need is some film stock, or whatever I need to work. I only think about what interests me, and I’m
satisfied when the work gets made and someone likes it (although I must admit that my work is much
more sought after abroad than in Italy). Of course, if you think like this you’re considered depraved,
someone who “wanders around the house”, like a writer whose name I unfortunately don’t remember
used to say. He said that on certain bad days all he could do was roam around the house, and would
tell his wife, who insisted that he do something: I am doing something. He wasn’t doing anything practical, but he was doing something. So now I’d like to ask you something: can a person be arrested for
vagrancy at home? I think we’ll be reaching that point soon.
150
I’d rather not answer… Instead, I’ll take the risk of re-raising the question that will drive
you to murder. Although you only work for yourself, it is nevertheless just as obvious that
someone sees your films. With regard to that, have you ever asked yourself, as they say in
critic-speak, who is your “hypothetical spectator”? What public do you imagine for your
films (or would like for them)?
The kind that sits in a movie theatre knowing that they’re subjecting themselves not to a form of entertainment but to a kind of test. There’s nothing that says that a film must be liked at all costs. Where is
it written that anyone has to like it? A film can also be irritating and tiresome. The point is that you
have to watch a film and ask yourself the “why?” of what you’ve seen. Watch it as if you were putting
yourself to a test, as if it were a form of self-analysis or a game with your psychological mechanisms.
If you don’t want that, there’s no point in coming to see my films: go see Moretti! These days,
“Morettism” is a true scourge, people no longer watch Russian films, they might even laugh at The
Battleship Potemkin without ever having seen it but never miss a film of Moretti’s and those who
emulate him. If they have to make an effort to understand, if they have to exert themselves, even just
for a minute – and obviously I’m not talking about only my films – people flee, because everything has
to be spoon-fed to you, it must come to you with no effort. This is precisely the goal of entertainment
cinema: pure fun.
But if I want to have fun I don’t go to the movies, I take a walk or talk to someone. However, I don’t
mean that a viewer must be terrified of my films. He must simply understand that it’s not a form of
entertainment. For example, if it is a truly kinetic work, he has to know that it can disturb him or even
cause an epileptic seizure (some filmmakers say so before their films, to avoid problems).
In other words, my films are tests: of your physical and psychological reactions, of what you know
about cinema, literature, music, etc. I want my viewer to have a reaction: even a rejection. At the very
least, I’d like to see him yawn or run away from the cinema, just so long as he reacts in some way.
Because there is no middle ground: either you accept it or you don’t accept it. In my case, my public is
certainly not the kind you see coming out from a movie theatre contented and peaceful.
This idea of a spectator who acts as if he were being tested makes me think of those perception and cognition experiments that Wittgenstein called mental exercises, or linguistic
games. It seems that some of your films, like Interlinea, function in a similar manner, like
“kinetic paradoxes,” in which the images play out like mental exercises.
That’s true, though that doesn’t mean there’s always a solution. Sometimes the paradox remains a
paradox. Moreover, Wittgenstein he was often stumped by problems he posed, and would ask his students to help him because
he’d reached a point from which he couldn’t find the way out.
Reading Wittgenstein you find paragraphs – which he chose to
publish! – in which he simply wrote things like “It’s cloudy
today.” Because apparently that day he thought of nothing, he
didn’t make any advances in his research.
What you say of Interlinea is very true because in that sense the
film is a way to pose a problem, to recall that without the frameline
we wouldn’t have the composition, the framing. So I ask myself why
these things are left out of films. Why do we tend not to consider
them, when they’re part of the medium, when they’re what carries
the image? Without the perforations we wouldn’t see the image:
that’s why the perforations exist. Some could object that we should
then show every element of the process, even the reels through
which the film passes: sure! Paul Strand, for example, photographed the entire insides of his movie camera. I can’t leave anything out: the mechanism, the various elements, the medium and so
forth. Everything is part of the story and I’m interested in all of it.
If later, when exploring the image, I discover an element that
strikes me, a detail, a hand, a window or anything else, then I
decide to stop and see what happens. I always find it interesting to
observe what happens in a cross fade, and don’t understand why
people don’t tend to use them anymore today. Only in film, however, because the electronic one is completely different. It becomes
smoky, cloudy, and flat. I’d like to show you the difference between
a film fade and an electronic fade. In the former you see that the
image lasts until the very last moment, even when there’s only a
glimmer of light left you continue to perceive the skeleton of the
image. Whereas in the latter the entire screen gets misty, there is a
world of difference.
For me, a filmmaker is a “someone who works with film.” In this
sense at least, even if my work were worthless in terms of the
results, it’s still worth something because of my approach, which
has unknowingly always been as pure as possible towards the
medium and what I do. My methods have remained the same ever
since I began making films: I go to a store, I buy a roll of film with
my own money, 30 very precious meters of film that I use to create
the idea I have in my head. Then I develop it myself, because you
can’t go to a lab and ask them to develop 30 meters, you have to
bring them at least 300!
In the beginning, I used to go to a lab in Rome, in Via Tomacelli,
which would process film for amateur filmmakers and where they
used to process even small quantities of film for me. I remember at
the time I’d get offended because I didn’t want to be mistaken for an
Film stenopeico
151
amateur filmmaker. Those people wanted to become Rossellini, they shot thinking of the big screen and
I used to think: “Idiot! Film your wife, do whatever you want but leave the real filmmakers alone!” I
always get angry when they call me a “cineaste”. Cineastes [Translator’s note: In English, approximately] “film director” - make industrial, commercial films, backed by a production company. The
term “filmmaker” is more exact, even though those who use it generally don’t know what it really
means. A filmmaker carries out every aspect of making his work himself; his works are born entirely
from him, and then he goes around with his reels to show them.
152
Filmarilyn
I’d like to speak of the temporal dimension of your films, which is their most specific aspect,
what (necessarily) most radically separates them from your photography, paintings, engravings. I’m interested in delving into this aspect of your work, in particular from the point of
view of what we might call the “generative logic” of film time. What determines that a certain
film have precisely that running time. In narrative cinema, the average running time is imposed
by the genres themselves (narrative features, shorts, documentaries, etc.), and is also the result
of precise market needs. However, in your case – I don’t know if we could extend this idea to
experimental cinema, period – it’s obvious that each film constructs its own running time, so
to speak, it finds it internally. What exactly determines that a given initial idea develop to a
certain point and then is exhausted? Are there any recurring patterns or logical processes?
I generally start with the film I have, from the five or ten minutes I have in a roll. Obviously, sometimes a certain work remains suspended for a while until I can get more film stock. I often begin working on several meters of film that I then leave suspended as notes, with a working title that reminds me
that I have to finish that work, like Joyce, who surrounded himself with notes, little pieces of paper that
he’d add day by day. The important thing is really to begin setting down a title.
Then “movements” happen. This word always makes me think: a movement goes up and down, is precarious, it happens little by little; it was typical of the first screenings at the birth of cinema. Many
In defining your films, do you think it’s correct to use the word “anti-narrative”? Or do you
think it’s more exact to speak of an alternative form of narration?
I definitely experiment with alternative modes of narration. It doesn’t seem like it, but there’s always
a story in my films. Not in the sense of a traditional story, obviously, because I also like to include some
irony… Take Filmarilyn, for example, in which you see Marilyn has a scar because she had her gall
bladder removed, and we know that she didn’t want Bert Stern, the photographer who the took the photos from which I then made the film, to shoot her. If she hadn’t died beforehand, she’d never have let
him publish those photos.
What I did was to squeeze the pus out of that wound, and then let her die, even if in those images she’s
alive, she’s playing and rolling around the bed. I framed her probably like the coroner found her, with
her face turned downwards and her hand reaching for the phone. My images search for the exact position in which her body was found, but in those photos she assumes a position as if she were dead, nude,
her eyes closed and her mouth wide open. Ultimately, all I did was tie those frames together, as if they
were part of a found film that was never shot.
So, the story is about an investigation of yours…
Yes, I interpreted those photographs that were taken for a fashion shoot in my own way, looking at them
as if they were images of when Marilyn was found dead. I closed down the f-stop so that her hands
would look a bit more like the flesh had been stripped off, I used a long fade, which slowly dies out. If
she were alive obviously I’d never have done anything like that. In other words, the story is somewhat
of a parable, like Operatore Perforato, in which in an old Pathé-Baby film with central perforations,
which I found totally ruined, you see a worker at work. He moves around and often almost disappears
near the perforation, which is right at the center of the film. So I thought: sooner or later the perforation will kill him! That’s what I mean by irony. I try to keep him alive as long as possible in the film,
on the margins, before the perforation kills him.
The irony and sarcasm in my works are always connected to death, with a backdrop of melancholy that
probably derives from my thinking about it all the time. Moreover, Traumatografo I dedicated to the
subject of the massacre, both in terms of war as well as car accidents, with an interlude with children
intended to create a contrast. I also inserted fragments that I took from television, like the wonderful
scene from Lewis Milestone’s All Quiet on the Western Front, in which a soldier moves to capture a
butterfly and is killed by a shot to the forehead. It is an extraordinarily intelligent scene, done without
any rhetoric, in which you understand that the soldier dies solely from the sudden movement of his
hand. The soldier falls into the mud and I make him roll around several times until his hand is consumed. I stop on his hand, I create a loop that plays continuously in the camera, and which I explore.
Actually, what I did was to have a loop made of the image of the hand, and then ran it through the camera putting it in front of some raw stock that was loaded into the camera at the same time; by rewind-
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
So what do you call yourself? What term do you prefer to use?
What’s on my ID card: photographer.
inventors at the time could shoot film but couldn’t make a projector. It’s like having a book but no ink.
The Lumières, on the other hand, who were geniuses and above all thought like industrialists, took a
little bit from here and a little bit from there and synthesized the best of it all, taking the idea of the perforation from Edison. The process is still the same today: without perforations, cinema would never
have existed. But they were true filmmakers, they did everything themselves. So to get back to the discussion on time, I don’t care if a film lasts only two minutes – it’s still a film! Who said it has to last
an hour and 45 minutes? The industry. Through tests they performed on audiences they realized that
at a certain point attention drops, but this is a purely commercial principle.
153
ing the rawstock and running it again and again the image got more and more superimposed on itself
so that you see the hand of a dead man, which then dissolves, it’s consumed so that at the end just the
skeleton of the image remains. The frame fills up more and more, until the screen is suffocated by the
images and you see only a kind of glimmering. I stopped there because I wanted to take the film in
another direction, but the experiment is very interesting: you can continue until the image completely saturates the screen by being superimposed upon itself by this repeating loop and there is no room
let for anything else. Everything closes and fades because the image has consumed itself.
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
The reference to the butterfly in Milestone’s film makes me think of your film, Farfallio,
whose main subject is the beating of butterflies’ wings.
Yes, but the main intent there was to be ironic about the so-called “flicker” of proto-cinema, the effect that
remained in stroboscopy and from there moved to experimental cinema. In the earliest projections of film,
this flicker effect was due to the fact that there were no good shutters and the film jerked when it moved.
154
Yet there is much more in the film. The theme of the butterfly is tied to sex (you associate with
it images of a vulva, nipples, and even a rather explicit fellatio scene at a certain point) and
above all you re-connect it to the theme of the gaze, beginning with the image of the eye that
appears on the wings of butterflies, which then becomes a figure dear to Bataille and surrealism, later taken up by Caillois and Lacan with regard to the phenomena of animal mimicry and the fight for survival. It seems to me that a series of philosophical reflections develop from this minimal element of flickering, reflections that run deeply through all of your
work. Would you agree?
The butterfly’s very form, which has so much mirror symmetry to it, is reminiscent of a vulva. I certainly didn’t insert those images gratuitously. The central part of a butterfly’s body is very hairy, the
wings open up like a book and when the butterfly closes them it does so to camouflage itself. This way,
seen from above, it practically disappears. And it always seeks out places with its same colors. In my
work, I observe all of these things a great deal, I’m particularly interested in everything that has to do
with mimicry: how animals recognize color and camouflage themselves.
Once, looking at one of my trees, I saw a leaf vibrate slightly – but there was no wind. So I became
curious and when I looked closer saw that there was a butterfly there that had taken on the same
exact color as that leaf. I ran inside to get my camera, hoping it wouldn’t move, and I first took a
close-up, National Geographic-style. The butterfly didn’t move even though I was very close. It
must have felt my presence, my breath, my warmth, but it didn’t move because it was convinced I
couldn’t see it, it knew it was a leaf. I then took other pictures, of the tree and from farther and farther away. I like showing them and telling people there’s a butterfly hidden in that tree, and gradually revealing it.
I don’t know what drives me to observe leaves. As you know, I really love the Brackhage film
Mothlight (1963). It’s made entirely with the wings of moths that he and his wife captured, placing
a candle in a cylinder to attract them, before killing them to tear off their wings and film them. The
film is beautiful but I could never do that, I can’t even tear leaves off of a tree. At most, I can gather
them to film or photograph them, I do it often and sometimes I think of how idiotic it is when some
people say that autumn is beautiful because of the color of the leaves, not realizing that they’re
dying… Yet if you think about it, this is extraordinary, because when we decompose we’re disgusting
whereas the leaf is beautiful. It’s dying, it’s crumbling to become fertilizer, to be devoured by other
creatures, yet to us it’s beautiful!
At this point it seems almost mandatory to speak of another of your films, Metamorfoso, which pays homage to
Escher and in which all the visual possibilities of metamorphosis develop to the extreme. The idea I came away with
was that metamorphosis itself runs deeply through all of
his work. Is that true?
It is. Animating Escher was very difficult, a real challenge. In the
original sequence there’s a figure – an animal, a salamander, a
crocodile, etc. – that in just a few instances, no more than four or
five, dissolves and becomes a leaf or something else. But to make
it truly move you need many more intermediate frames, otherwise
the movement is flat. So you need to create some interpolations to
create a sense of flow.
This is what you also do with Duane Michaels’ photographic sequences, as well as, obviously, the images of Muybridge,
Eakins and so forth.
Yes, in Piccolo Film Decomposto, which is a film about movement. The idea is to take Michals’ few photos and make them move
as if the woman in the pictures were actually stripping in front of
the photographer. The inspiration comes from an old trick: if I photograph you in an intermediate position, let’s say between standing
and sitting, from the image you can’t tell whether I’m standing or
sitting, or, likewise, whether I’m extending my hand to you or
pulling it away: these are suspended movements. Thus, if I have
only a single gesture indicated, I necessarily have to repeat it.
For example, take the four images of the advancing wave photographed by Albert Londe. Alone, they don’t render the effect of
movement, so I shot them in both directions, to have the illusion
of the wave retreating, which obviously doesn’t exist in the original. I did the same with the image of the diver Giorgio Cagnotto
in Del Tuffarsi e Dell’Annegarsi, in which I shot a very brief
fragment and then expanded it in every way possible. For me, this
aspect of the relationship between transformation and repetition is
fundamental, even though the term is ugly, it gives the idea of
boredom. I prefer speaking of iteration, such as in, for example, the
music of Satie, a musician I adore, or even Stockhausen and
Glass, where there is always a build-up, an evolution, which
comes from mechanisms of repetition.
I’ll take advantage of your answer to look at an apparently
marginal aspect of your films: sound. In fact, just a few of
your films are shot with sound, many are made silent and
remain silent, and others still have been synchronized with
sound in post-production (by someone other than you) for
Metamorfoso
155
Farfallio
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
On another occasion you said something similar about the relationship between light and
dark, that darkness is fundamental to giving a full perception of light.
Yes, your intuition is right. I spoke of that in an interview with Bruno Di Marino, so I don’t want to
repeat myself, but essentially I was saying then that when I print my photos, naturally I close the windows and it always takes me a while to get used to the dark. I tell myself that the room is dark even
though it’s not truly dark, because in that period of time there is always some light left, the light
impressed upon my retina. Suddenly, I’m the bearer of light. Reading Wittgenstein led me to reflect on
these paradoxes taken to the extreme, because paradoxes conceal an infinite number of things that can
then also be narrated. To return to the previous discussion, in Metamorfoso I tried to animate the
animation, doing justice to those artists who dreamt of creating images in which there was even just
a glimmer of movement. In this sense, the proto-history of cinema can always be rewritten, because
those artists did not fail – they simply couldn’t project that which they captured so perfectly.
156
I’d like to return to something we touched upon just incidentally. It seems that there is
always a latent sexual tension in your films, even when you don’t present it directly, with
explicit images. Sometimes one gets the impression that you tend to eroticize the camera
itself, cinema, photography, even certain particularly “sensitive” objects like the lenses and
the shutters. You tend to treat them like living organisms, not unlike Hans Bellmer and his
dolls. Could you speak about this aspect of your work?
I can’t deny that this is somewhat of an obsession, but it’s also something that releases an enormous
amount of ideas and energy in me. It may sound trivial, but above all you must consider that lovemaking produces endorphins, which is the body’s natural drug. After making love I get tons of ideas for
titles. I randomly open various books, of literature or something else, I make a pile to create a single
book full of marks. Afterwards, I may look at five books simultaneously, randomly opening to the places
that I’ve marked, and I begin mentally editing the images leafing through the books and making connections between them. This is normal for me: at night I can’t fall asleep because I’m always thinking
about what I saw during the day, what I could do, how to do it, how to connect it all…
What role does chance play in your way of working?
None. Even though I sometimes talk about randomly found images, I’m always gathering and putting them together. What’s more, we are also born by chance, from a mix of things that we cannot control… Sure, chance exists, but then chance is always replaced by choice, by will and the capacity to
grasp your situation. Once a friend and I conducted an experiment. We were in Venice and had two
similar film cameras, two non-reflex Bolexes. We loaded them with the same film, splitting a 30-meter
roll, and at two different times we covered the same route – which we both knew really well because it
was one we walked daily – to see if we had shot the same things. In the end, we saw completely different things. This would be a really good test for photography schools.
Do you think that your work has been truly understood?
There are so few people interested in these things that I’ve never even thought about that. I was speaking to you about the loop I created of the soldier’s hand in All Quiet on the Western Front. Well,
obviously no one forced me to use that image, I could’ve used my hand or some other scene taken from
television. But I wanted it to be a reference to a simulated death, to something that doesn’t happen in
reality but in film history, so that the viewer seeing that film would recognize it. More generally, to
answer your question, I’m always sorry that whoever sees my films can’t fully grasp what they mean,
or what I include, because they don’t know how I made them technically.
In my films, the technical dimension is fundamental. I’m convinced that if I told you how I made a certain film that you’ve already seen – for example, Filmfinish – you’d see it again right away and you’d
discover a ton of things that you hadn’t grasped. Yet, as I said, I can’t stand those who speak of my
work as films of “pure experimentation.” Certain films by Rybczynski, for example, are pure experimentation. When you see them you get the impression that the only logic to them is to demonstrate the
underlying assumptions of his experiment… To show Lucas that he’s better than him! Yet he hasn’t
done anything since the 1990s. Despite everything, the technology and the economic resources he has,
he’s at a dead end. He produces software and makes music videos and commercials!
I’ve also been asked to make commercials, they offered me a ton of money but I’m not the slightest bit
interested. Perhaps if they’d offered me a lot of film stock I’d have accepted.
Rome, November 20, 2008
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
the DVD edition. I’d like to know how interested you are in the sound/image relationship,
and how you work on the acoustic dimension of your films?
I’m definitely interested, and in some instances worked on it quite a lot. But I’m more and more convinced that a film “in silence” offers greater possibilities because working without the medium and the
aid of music makes you more aware of the visual dimension. There are so-called experimental films that
no longer work if deprived of sound. For example, I was at a Zbigniew Rybczynski retrospective yesterday and at a certain point there were technical problems with the sound: without it the images no
longer made any sense. There is nothing more interesting than silence, because total silence actually
doesn’t exist, that’s even been proven scientifically. But I had more proof when, during a retrospective
of my work at the Filmstudio in Rome, I screened Quando la Pellicola è Calda, which is a silent film
made from fragments of porn films. There was silence, but actually it was a silence made up of sounds
of the people laboring over it: there were sighs, someone moved, others mumbled, perhaps because they
were uncomfortable. I remember that Cosulich wrote a beautiful review in Paese Sera, in which he said
it was a sound film. Then I began to think about how often silence can be more effective than sound.
Because the image can show you something happening, for example a gun being fired, and make you
perceive the sound even if it doesn’t exist.
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45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Biography
Paolo Gioli (1942, Sarzano di Rovigo) dal 1960 al 1963 frequenta l’Accademia di Belle Arti di
Venezia. Alla fine del 1967 parte per New York, dove vive per circa un anno e stringe amicizia con Paolo Vampa, che diverrà il sostenitore e il produttore di tutto il suo lavoro. Soggiorna
a Union Square, accanto alla Factory di Andy Warhol; visita ripetutamente i musei e le gallerie d’arte newyorchesi e fa diretta conoscenza dell’Espressionismo Astratto, della Pop Art, del
New American Cinema. Questo periodo segna la nascita di un forte interesse per il cinema e
per la fotografia. Nell’autunno del 1968 è di nuovo in Italia. Nel 1969 realizza il suo primo
film, mentre in fotografia comincia a utilizzare la tecnica del foro stenopeico, per la quale –
nonché per le sue Polaroid – diverrà negli anni sempre più noto nell’ambiente fotografico
internazionale. Nel 1969 si trasferisce a Roma, dove vive fino al 1975 frequentando gli
ambienti della Pop Art romana. Attraverso il filmmaker Alfredo Leonardi entra in rapporto
con la Cooperativa Cinema Indipendente. I suoi primi lavori, che l’autore sviluppa e stampa
in proprio ispirandosi ai processi del cinema delle origini, sono presentati al Filmstudio di
Roma. Gioli affianca, inoltre, alla sua produzione fotografica e cinematografica la sperimentazione di tecniche come la serigrafia e la litografia. A partire dal 1973 comincia a lavorare con
la tecnica del fotofinish, e dal 1977, in concomitanza con le sue mostre alla galleria Il
Diaframma e al SICOF di Milano, all’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma e ai
Rencontres Internationales de la Photographie di Arles, sperimenta i suoi noti processi di trasferimento dell’emulsione Polaroid su supporti come carta da disegno, tela, seta, legno.
Dagli anni ottanta in poi si susseguono mostre ed eventi in cui Gioli espone i suoi lavori e proietta i suoi film. La produzione di questo periodo è fortemente ispirata alle figure dei pionieri
del cinema e della fotografia – tra il 1981 e il 1984 realizza, in Polaroid, quattro veri e propri
omaggi: A Hyppolite Bayard gran positivo; Niépce di Land; Cameron Obscura; Eakins/Marey. L’uomo
scomposto. Negli anni novanta si alternano alcune grandi mostre antologiche e numerose nuove
ricerche fotografiche, cui Gioli continua ad affiancare una costante ricerca sulle componenti
essenziali del dispositivo cinematografico: sui processi della visione, della riproduzione meccanica, della proiezione. Nel 2001 realizza una mostra antologica alla galleria Michèle Chomette
di Parigi, Paolo Gioli. Attraverso. Oeuvres fotofinish 1995-2000 et films 1969-1995. Nel 2003 Paris
Experimental dedica un cahier al suo cinema e ai suoi scritti sul cinema, Paolo Gioli. Selon mon
oeil de verre, presentando alcuni film alla Galerie des Filles du Calvaire. Dal 1974 a oggi Gioli ha
pubblicato, in Italia e all’estero, decine di monografie e cataloghi, e ha esposto presso fondazioni e musei internazionali, tra cui: Stadtmuseum, Monaco; Art Institute of Chicago; Collezione
Peggy Guggenheim, Venezia; Biennale di Venezia; Centre Georges Pompidou. Le sue opere
sono conservate in diversi musei nel mondo, tra cui: Centre Georges Pompidou; Art Institute of
Chicago; MoMa; Minneapolis Institute of Art; Istituto Nazionale per la Grafica, Roma; Museo
di fotografia contemporanea, Cinisello Balsamo (Mi). In quarant’anni di attività ha partecipato
a tutte le principali rassegne di cinema sperimentale. Nel 2007 è stato invitato come Artist on
Focus al 31º Festival del cinema di Hong Kong, e diversi suoi film sono stati presentati al festival di New York (NYFF) nel 2006 e 2007. Sono in preparazione rassegne dei suoi film
all’Anthology Film Archives di New York, alla Cinémathèque Française di Parigi, alla
Cinemathèque of Ontario di Toronto. Paolo Gioli vive e lavora a Lendinara (Ro).
Paolo Gioli (Sarzano di Rovigo, 1942) attended the Academy of Fine Arts in Venice from 1960-63. In
1967 he moved to New York for a year and became friends with Paolo Vampa, who would eventually
back and produce all of his work. In New York he lived in Union Square, next to Andy Warhol’s
Factory; he frequently visited the city’s museums and art galleries and became acquainted with
Abstract Expressionism, Pop Art and New American Cinema. It was during this period that he became
very interested in cinema and photography.
In Autumn of 1968 he returned to Italy. He made his first film in 1969 and as a photographer began
using the pinhole camera technique, for which – along with his Polaroids – he would become increasingly more renowned over the years within international photography. From1969-75 he lived in Rome
and frequented the city’s Pop Art circles.
Through filmmaker Alfredo Leonardi he became involved in the Independent Cinema Cooperative. His
first works, which Gioli developed and printed himself, inspired by the processes of the very beginnings
of cinema were presented at Rome’s historic Filmstudio movie theatre. Along with his photography and
filmmaking, Gioli also began experimenting with silk screening and lithography. In 1973 he began
using the fotofinish technique and in 1977 – while having exhibits at Milan art galleries Il Diaframma
and SICOF, the National Graphics Institute of Rome and the Rencontres Internationales de la
Photographie in Arles – Gioli also began experimenting with his noted processes of transferring
Polaroid emulsion on drawing paper, canvas, silk and wood.
In the 1980s Gioli was featured in numerous photography exhibits and film events. His work of that
period was very much inspired by the pioneers of film and photography. From 1981-84 he made four
Polaroid tributes: A Hyppolite Bayard Gran Positivo, Niépce di Land, Cameron Obscura and
Eakins/Marey. L’uomo Scomposto. In the 1990s he alternated between large anthological exhibits
and much photographic experimentation, which Gioli continued to flank to his constant search for the
essential components of the film camera: the processes of vision, mechanical reproduction and projection. In 2001 an anthological exhibition of his work was held at Parisian art gallery Michèle Chomette,
entitled Paolo Gioli. Attraverso. Oeuvres Fotofinish 1995-2000 et Films 1969-1995. In 2003 Paris
Experimental dedicated a cahier to his films and his writings on cinema, Paolo Gioli. Selon Mon
Oeil de Verre, alongside screenings of several of his films at the Filles du Calvaire Gallery.
Since 1974 Gioli has published dozens of monographs and catalogues in Italy and abroad, and has
shown at important foundations and international museums that include the Stadtmuseum
(Munich), Art Institute of Chicago, Peggy Guggenheim Collection (Venice), Venice Biennale and
the Centre Georges Pompidou (Paris). His works are displayed in various museums worldwide,
including the Centre Georges Pompidou, Art Institute of Chicago, MoMa (New York),
Minneapolis Institute of Art, National Graphics Institute (Rome) and the Museum of
Contemporary Photography (Cinisello Balsamo). In 40 years of activity he has participated in practically all of the major festivals of experimental cinema. In 2007 he was invited to be Artist on
Focus at the 31st Hong Kong Festival, and numerous films of his were presented at the New York
Film Festival in 2006 and 2007.
He is currently preparing retrospectives of his films at New York’s Anthology Film Archives, the
Cinémathèque Française in Paris and Toronto’s Cinemathèque of Ontario.
Paolo Gioli lives and works in Lendinara, Italy.
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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Biografia
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Sommovimenti [Extremotions] (2009), 16mm, b/n, 7’30”
I volti dell’anonimo [Faces By a Person Unknown] (2009), 16mm, b/n, 7’30”
Vita circolare [Circular life] (2009), 16mm, b/n, 7’30”
Rothkofilm (2008), 16mm, colore, 7’15’’
Interlinea [Frameline] (2008), 16mm, colore, 5’12”
Children (2008), 16mm, b&n, 6’10’’
Volto telato [Face: Canvas: Texture] (2002), DVD, b/n, 2’52”
Volto sorpreso al buio [Face Caught In The Dark] (1995), 16mm, b/n, 6’50”
Immagini travolte dalla ruota di Duchamp
[Images Overtaken By The Wheel Of Duchamp] (1994), 16mm, b/n, 13’03”
Farfallio [Fluttering] (1993), 16mm, b/n, 7’45”
Filmarilyn (1992), 16mm, b/n, 11’12”
Metamorfoso [Metamorphous] (1991), 16mm, b/n, 12’48”
Finestra davanti a un albero [Window In Front Of A Tree] (1989), 16mm, b/n, 12’34”
Quando l’occhio trema [When The Eye Quakes] (1989), 16mm, b/n, 10’57”
Film stenopeico (L’uomo senza macchina da presa)
[Pinhole-film (The Man Without A Movie Camera)]
(1973-1981-1989), 16mm, b/n, colore, 13’06”
Filmfinish (1986-1989), 16mm, b/n, 12’27”
Schermo-Schermo [Screen-Screen] (1987), Super 8, colore, 10’
Piccolo film decomposto [Little Decomposed Film] (1986), 16mm, b/n, 18’45”
L’assassino nudo [The Naked Killer] (1984), 16mm, b/n, 42’20”
Il volto inciso [The Graven Face] (1984), VHS, colore, 25’
L’operatore perforato [The Perforated Cameraman] (1979), 16mm, b/n, 8’53”
Quando la pellicola è calda [When The Film Gets Hot] (1974), 16mm, b/n, 20’30”
Traumatografo [Traumathograph] (1973), 16mm, b/n, 26’05”
Hilarisdoppio [Hylaris-Double] (1972), 16mm, b/n, 19’09”
Cineforon (1972), 16mm, b/n, 11’09”
Secondo il mio occhio di vetro
[According To My Glass Eye] (1972), 16mm, b/n, 10’09”
Del tuffarsi e dell’annegarsi [Of Diving And Drowning] (1972), 16mm, b/n, 10’25”
Anonimatografo [Anonymatograph] (1972), 16mm, b/n, 26’08”
Figure instabili nella vegetazione
[Unstable Figures Amidst Vegetation] (1973), 16mm, b/n, 6’45”
Immagini reali, immagini virtuali
[Real Images, Virtual Images] (1972), 16mm, b/n, 9’58”
Immagini disturbate da un intenso parassita
[Images Disturbed By An Acute Parasite] (1970), 16mm, b/n, 37’52”
Commutazioni con mutazione
[Commutations With Mutation] (1969), 16mm, b/n, colore, 6’35”
Tracce di tracce [Traces Of Traces] (1969), 16mm, b/n, colore, 6’56”
SCHERMI DISTURBATI
IMMAGINI DISTURBATE DA UN INTENSO PARASSITA
Images Disturbed By An Acute Parasite (1970, 37’52”, 16mm, b/n)
Di gran lunga il più complesso e faticoso lavoro da me attuato sulle immagini-video. Diviso da titoli-poema e da allocuzioni visual-strutturali, ha
per protagonisti detti geometrici forniti dal quadrato in prima persona e
da altri corpi plastici provenienti dal quadrato medesimo. Il cascame d’immagine viene a formarsi all’interno e ai bordi dei corpi suddetti, formato
e trasformato da successivi interventi diretti anche sullo schermo vetroso
del video usato come tavola luminosa, dove vengono a formarsi più strati di immagini.
This film, completely shot off a television, is by far the most complex and laborintensive work I have completed on video images. Its divisions are marked by
poetic titles and by structural-visual allocutions; it has for protagonists, the geometric givens furnished directly by the square and by other plastic forms deriving
from the square. The by-products of the images are formed inside and along the
edges of these bodies, formed and transformed by successive direct interventions
on the glassy video screen, which is used as a light table, where more layers of
images are formed.
SECONDO IL MIO OCCHIO DI VETRO
According To My Glass Eye (1972, 10’09”, 16mm, b/n)
La natura semi-scientifica che un po’ si ritrova è data per via del meccanismo
visivo stereo-stroboscopico a cui fa ricorso. Puntiglioso caricamento paradossale di alcuni profili vorticosi tra negativo e positivo a cui fa perno un
sonoro di percussioni super-sincronizzato, dando vita ad un groviglio solubile solo alla percezione più attenta di un test psicovisivo.
The semi-scientific character of this work is in some degree due to the stereo-stroboscopic visual mechanism employed in its making. The careful and paradoxical loading up of
profiles alternating between negative and positive is aligned along the axis of a soundtrack of super-synchronized percussions, giving rise to a complexity which can be deciphered only by an attentiveness of the degree required for a visual psychological test.
ROTHKOFILM (2008, 7’15’’, 16mm, colore)
Non è un breve documentario su Rothko ma una mia riflessione sulle sue tele
che tanto assomigliano a schermi, a fotogrammi, a interlinee. Film ricavato da
due libri. Un film muto che vorrebbe essere… sonoro. I ritmi, le [com]pulsazioni dei fotogrammi mi fanno pensare ad un sonoro che non conosco.
This is not a short documentary on Rothko, but rather my reflection on his canvasses, that become so deeply assimilated with the screen, frames of film, the frame line. A
film excavated from two books. A silent film that should be a sound film. The rhythms,
the inter-pulsations of the frames of film make me think of a sound I do not know.
I FILM DI PAOLO GIOLI
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Filmografia/Filmography
161
OMAGGI/RILETTURE
METAMORFOSO / Metamorphous
(1991, 12’48”, 16mm, b/n)
Escher è tutta una lode a una delle maggiori anime del
cinema, la dissolvenza incrociata. Gli atti cinetici li ho trovati proprio lì, nella casa che muta in pesce e tutto che
muta. Ho dovuto ideare passo-passo specie di sequenze
inesistenti e alla fine mi sono trovato a dissolvermi, ad
incrociare me metamorfòso.
All of Escher is an homage to one of the major animating forces of
cinema: the cross-dissolve. Precisely there, I found cinematic attitudes: in the house which turns into fish and in everything that
transforms into something else. I gradually managed to figure out
various types of non-existent sequences and then finally found
myself dissolved, crossing over metamorphically.
FINESTRA DAVANTI A UN ALBERO / Window In Front Of A Tree
(1989, 12’34”, 16mm, b/n)
Ho alcune finestre all’inglese e ciò mi ha obbligato a pensare
alla finestra di Talbot […]. Tratto da una esigua monografia
(vale a dire da inchiostro da stampa là dove c’erano sali d’argento) ho tentato di scuotere la mia finestra con la sua là dove
c’era un albero d’inverno. Incrociando dissolvenze tra vero e
non vero, il fisso con l’animato delle sue opere vive, mi è parso
di ricostruire ciò che a Talbot forse sarebbe successo: di filmare
la mia finestra d’inverno.
I have several English-style windows and this and a tree in winter
have caused me to think about Fox-Talbot’s window […]. Drawn
from a thin monograph (it’s worth saying from typographic ink
where there had been silver salts), I tried to shake my window
using his where there had been a tree in winter. Cross-dissolving
between real and not-real, between fixed and animated images of
his lively works, seemed to me to reconstruct what would have perhaps happened to Fox-Talbot, filming my window in winter.
FILMARILYN (1992, 11’12”, 16mm, b/n)
Questo breve film, mi sembra, alla fine, come se lo avessi
ritrovato in qualche parte completamente dimenticato, come
fosse stato un provino pre-cinematografico non riuscito.
Tutte animazioni costruite da fotografie di un unico grosso
libro. Al termine lei muore e nella simulazione viene trovata
così, come nella simulazione; come fossi stato io con la mia
cinepresa ad entrare per primo nella sua stanza di morte.
This brief film seems to me to exist, ultimately, as if I had found it
somewhere completely forgotten, as if it had been some unsuccessful pre-cinematic experiment. All animations were constructed
from photographs from a huge book. Finally, she dies and is found,
in a simulation as if it were a simulation; as if I, with my movie
camera, had been the first one to enter the room where she died.
I FILM DI PAOLO GIOLI
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Filmarilyn
162
IMMAGINI TRAVOLTE DALLA RUOTA DI DUCHAMP
Images Overtaken By The Wheel Of Duchamp
(1994, 13’03”, 16mm, b/n)
Duchamp è certamente complesso quanto Joyce e, per fare
qualcosa su di lui, ho provato a dedicargli questo breve poemetto filmico agendo solo su alcune immagini di immagini
delle sue opere tratte sempre da libri e cataloghi (cioè dall’inchiostro). Per esempio, oscurando i raggi di una ruota
lasciando fessure regolari, trasformandola così in un vero
otturatore-esterno che è venuto a sostituire quello della mia
cinepresa, mancante.
Duchamp is certainly as complex as Joyce and to do something
about him, I tried to dedicate to him this small film poem, using
only a few images of images of his work, taken always from books
and catalogues (that are made of typographic ink). For example,
blackening in the spokes of a wheel, allowing regular slits, transforming it in this way into a true external shutter, that came to substitute for the missing one of my movie camera.
163
FILMFINISH (1986-1989, 12’27”, 16mm, b/n)
Questo film è costruito con la tecnica di ripresa del cosiddetto fotofinish attuato nelle gare
sportive. Lo stesso principio è applicato – appunto – alla cinecamera. I soggetti sono esplorati e autoesplorati da una sottile fessura sistemata orizzontalmente a metà del riquadrofotogramma di entrata della cinecamera stessa […]. I ritmi cinetici del film variano su accelerazioni e decelerazioni imposte fuori sincrono tra cinepresa e soggetti.
This film was constructed using the photo-finish technique employed in sporting events. The same
principle was applied, precisely, to the motion picture camera. The subjects are explored and selfexplored using a thin slit arranged horizontally halfway along the aperture plate as they enter the
motion picture camera itself […]. The cinematic rhythms of the film vary with the accelerations and
decelerations imposed beyond the synchronism between movie camera and subject.
TRACCE DI TRACCE / Traces Of Traces (1969, 6’56”, 16mm, b/n e colore)
Eseguito e stampato a due mani, vale a dire: fatto uso di tutte le impronte possibili della
mano e del braccio destro su inchiostro di pennarello fresco, carta vetrata, timbri, ecc. Il
tutto su pellicola bianca non emulsionata.
Executed and printed with two hands, that is to say, made using all possible means of imprinting
the right hand and arm on freshly applied ink, sand paper, stamps, etc. Everything was done on nonemulsion clear leader.
164
SOMMOVIMENTI / Extremotions (2009, 7’30”, 16mm, b/n)
Questa sorta di proto-film nato per essere fotografia, ho fatto sì che trasmigrasse – con uno
scorrimento orizzontale tipico del fotofinish – in un film, tradendo la sua naturale verticalità.
This sort of proto-film was born as a photograph; I caused it to transmigrate – using a horizontal scanning motion of the filmstrip typical of photo-finish – into a film, thus betraying its natural verticality.
VOLTO TELATO / Face: Canvas: Texture (2002, 2’52”, DVD, b/n)
Questo video parte da una idea di trasferire in film tutte le immagini fotografiche realizzate con la cosiddetta tecnica del fotofinish. In attesa di completarlo, ho ripreso a passo-uno
con camera digitale i volti e le loro trasformazioni subite con il fotofinish trasferendole, per
poi agitarle in animazione in un’unica sequenza, dentro il computer.
This video arose from the idea of trying to transfer to film all the photographic images I had created with
the photo-finish technique. While in the process of completing it, I used single frame digital animation
to shoot the faces and their sudden transformations when subjected to the photo-finish technique, transferring them, then imparting motion to them in a single animated sequence on the computer.
COMMUTAZIONI CON MUTAZIONE / Commutations With Mutation (1969, 6’35”, 16mm, b/n, col.)
Composto da formati di tre nature diverse e fatti coesistere: Super8, 16mm e 35mm in un unico
supporto originario 16mm, bianco. Le misure diverse hanno fatto sì che le loro interlinee primitive venissero a contatto e regolate (e con loro le immagini) da un unico ritmo diabolico.
This is composed using three different formats, which have been made to co-exist: super-8, 16mm,
and 35mm on a single 16mm support, clear leader. The variations in size caused the original framelines to overlap, subjecting them (and with them their images) to a singular diabolical rhythm.
FIGURE INSTABILI NELLA VEGETAZIONE
Unstable Figures Amidst Vegetation (1973, 6’45”, 16mm, b/n)
Trattasi di un accumulo di figure semi-stroboscopiche a tratti sotterranee all’occhio che
dimorano nella corteccia che l’uomo ha nella sommità del cervello. La natura, le persone
sono compresse e perturbate da forme geometriche che lottano stroboscopicamente tra di
loro come esseri piatti ma trasparenti che le penetrano, le contraggono in movimenti congiunti al centro dello schermo e fluidità ai suoi lati. Il compulsare risveglia le figure in due
vite diverse speculari e non nel loro passo-uno diretto, incessante.
This film is an accumulation of semi-stroboscopic figures with features invisible to the eye, that remain
in the human cerebral cortex located at the top of the brain. Nature and people are compressed and disturbed by geometric forms that struggle among themselves stroboscopically, appearing flat but transparent, penetrating the other images, causing them to contract in movements joined at the center of the
screen, but more fluid at the edges. This pulsing together awakens the figures to a twofold life: mirrored
and not mirrored, a result of their being filmed one frame at a time, directly, non-stop.
I FILM DI PAOLO GIOLI
FILM STENOPEICO (L’UOMO SENZA MACCHINA DA PRESA)
Pinhole-film (The Man Without A Movie Camera)
(1973-1981-1989, 13’06”, 16mm, b/n e colore)
Questo film, come dice il titolo vertoviano, è stato eseguito senza macchina da presa, più precisamente con un utensile autoprogettato per restituire immagini liberate dall’ottica e dalla
meccanica. Il sostituirsi alla cinepresa tradizionale fa parte di un mio ormai prolungato gesto
verso la spoliazione di una tecnologia di consumo, tossico della creatività pura.
This film, as the Vertovian title indicates, was made without a movie camera, more precisely with a
device custom-made to restore to images freedom from optics and mechanics. The act of substituting
my device for a traditional movie camera is part of a project I have continued from that moment on,
towards weaning myself from a consumer technology, a toxin to pure creativity.
Filmfinish
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
DISPOSITIVI
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TRAUMATOGRAFO / Traumathograph (1973, 26’05”, 16mm, b/n)
Traumatografo è un film come primo motivo di conforto per
quelli che temono di morire sopra forche o palchi. Diviso in tre
parti: nella prima il massacro visto mediante l’automobile, la
terza sullo scontro bellico, al centro bambini che pantomimano
movimenti sincopati dall’alto in basso.
Traumatograf is a film, the principal purpose of which is to comfort
those who fear death by the gallows or scaffold. It is divided into three
parts: in the first, slaughter by automobile is shown; in the third, by
military engagements; in the center section, children pantomime
syncopated movements from top to bottom.
FARFALLIO / Fluttering (1993, 7’45”, 16mm, b/n)
Lo sfarfallìo cinetico, il flicker, viene immesso nello sfarfallìo di
farfalle riprese da piccoli libri. Il mio intento è stato, come altre
volte, quello di tentare di animare ciò che sta inesorabilmente
nel chiuso, nella fissità dell’inchiostro di stampa di un libro. In
questa prova ho affiancato il ritmo di fotogrammi erotici nel
compulsare di farfalle e eros. I cinque minuti bellissimi di ali di
falene su pellicola del grande Stan Brakhage: io non avrei mai
staccato ali alle farfalle, anche se… notturne.
Cinematic flicker: flicker is introduced into the flutter of butterflies
shot from small books. My intention was, here as elsewhere, to animate what is inexorably locked up in the fixity of typographic ink in
a book. In this attempt, I brought into play the rhythm of some erotic film images, making butterflies and eros pulsate together. As for
the extraordinarily beautiful five minutes of moth wings by the great
Stan Brakhage: I would never have used wings ripped from butterflies, even if they were… nocturnal.
[Gioli here puns on the phrase “farfalle notturne” – literally “nocturnal butterflies” – another way of saying “moths,” which is also
in Italian “falene”].
Quando la pellicola è calda
INTERLINEA / Frameline (2008, 5’12”, 16mm, colore)
Tratto da frammenti di film erotico ritrovato, dove l’interlinea che divide i fotogrammi si situa
come forma plastica oscura che si dibatte al centro dello schermo anche in verticale. La lama
di un otturatore seziona i corpi dell’eros per i desideri del fotogramma e della sua cornice.
Made from fragments of a found porno film, where the frameline, which divides the images, becomes
a mysterious plastic form, struggling in the center of the screen, vertically and horizontally. The
blade of the shutter sections the bodies of eros, according to the desires of the film image and its frame.
QUANDO LA PELLICOLA È CALDA
When The Film Gets Hot (1974, 20’30”, 16mm, b/n)
Film erotizzato da prolungati bagni in sali d’argento. Completa esposizione di corpi a giacere e loro deambulazioni lascive. Personaggi dissoluti in copulazioni incestuose di metamorfosi carnali e congiungimenti abnormi. Trasformazioni dei loro corpi in visualizzazioni totemiche di un rito molto locale. Fasi di sdoppi fallici fantastici e groppi di carne pure
fantastica in dissoluzione.
A film eroticized by prolonged baths in silver salts. Complete exposure of reclining bodies and their lascivious perambulations. Licentious characters in incestuous copulations of carnal metamorphoses and
abnormal couplings. The transformations of their bodies in totemic visualizations of a uniquely local rite.
Made up of fantastical phallic doublings and entanglements of purely fantastic flesh in dissolution.
I FILM DI PAOLO GIOLI
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
VISIONI NOTTURNE
167
I VOLTI DELL’ANONIMO / Faces By a Person Unknown (2009, 7’30”, 16mm, b/n)
Volti e figure trovati su rullini di autore sconosciuto dei primi anni del ’900. Ho trascinato
le immagini attraverso quella che probabilmente era la sua cinepresa, che avevo comprato
in un vecchio negozio di Roma nel ’72. I fotogrammi vi si trovavano verticali e orizzontali,
singoli e in brevi sequenze, e così le ho lasciate sovraimprimendo con più riprese e con dissolvenze naturali date dall’otturatore della vecchia cinecamera, con velocità di ripresa
manuali, rallentamenti e arresti improvvisi.
Faces and figures found on reels of film by an unknown artist from the first few years of the 20th
century. I fed the images through what was probably his own movie camera that I had purchased in
Rome in 1972. The frames appeared vertically and horizontally, individually and in short sequences
and so I allowed them to become superimposed by re-photographing them in several passes and dissolves were created naturally by the shutter of the old movie camera due to the speed of manual rephotography, by improvised slowing down or stopping of the camera.
VOLTO SORPRESO AL BUIO / Face Caught In The Dark (1995, 6’50”, 16mm, b/n)
Da vecchie lastre di un fotografo degli anni ’50 ho ricavato questo impossibile film – lastre che
hanno contribuito anche a comporre un piccolo libro dal titolo Sconosciuti. Fotogramma per
fotogramma, lastra per lastra con lembi di luce riflessa e lembi di decine di volti, ho provato a
sottoporli a un unico flusso cinetico pensando a un solitario, singolo volto emerso dal buio.
I extracted this impossible film from old plates of a photographer who worked in the 50s – plates that
had contributed to the composition of one of my little books entitled Sconosciuti. Frame by frame,
plate by plate, with strips of reflected light and strips of tens of faces, I tried to bring them into a single cinematic stream, thinking about a solitary, single face emerging from the darkness.
L’OPERATORE PERFORATO / The Perforated Cameraman (1979, 8’53”, 16mm, b/n)
Al centro della perforazione un operatore sconosciuto tenta in qualche modo di filmare parte
di una storia (di sé, di chi?) apparentemente riuscendoci. Implacabile, la perforazione centrale scassa e disturba l’immagine dell’operatore, diventando essa stessa protagonista centrale.
Constructed through multiple passes and optical set-ups using very few images from an anonymous
stock shot to which brief, extraneous fragments have been added. In the middle of the perforation an
unknown camera operator tries to somehow film part of a story (of what? of whom?) with some
apparent success. Inexorably, the center perforation breaks into and disturbs the images of the camera operator, itself becoming the central protagonist.
CHILDREN (2008, 6’10’’, 16mm, b/n)
Questo film parte dalla sequenza di un libro che si anima ma chiude con immagini inanimate. Riflessione su una bambina del presidente degli Stati Uniti assassinato e un’altra
bambina nuda, morta, sul mucchio di contadini uccisi in una strada di campagna. Da una
parte, vita borghese nella grande villa con il grande fotografo, morte nella polvere dall’altra, ripresa da un fotografo di guerra.
This brief film takes its departure from the sequencing of a book that is animated but ends with inanimate images. A reflection on a daughter of the assassinated President of the United States and on
another little girl: naked and dead, on a heap of peasants murdered on a country road. On the one
hand, a life of privilege in a great mansion taken by a great photographer, on the other, death in the
dust, taken by a war photographer.
I FILM DI PAOLO GIOLI
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ANONIMATOGRAFO / Anonymatograph (1972, 26’08”, 16mm, b/n)
Questo film è stato girato a passo-uno e realizzato con durissimi avvicinamenti ottici.
Anonimatografo: immagine rianimata di uno sconosciuto amateur d’inizio secolo imborghesito al focolare degli amici, con cinecamera in mano, interni ed esterni circondati dalla guerra e dalle sorelle. Ho tentato di ricostruire uno strampalato film-diario a cui ho strappato faticosamente paginette di fotogrammi. Se ne stavano impressionati e abbandonati in negativo
su una certa quantità di rullini fotografici, giuntati alla rinfusa in due rulli da sessanta metri
in 35mm e acquistati da me per 500 lire da uno straccivendolo. Molti fotogrammi erano in
verticale, altri impressionati a metà; a tratti sviluppati bene a tratti non bene. Ho tentato di
animare questi piccoli rulli con la tecnica detta dello sfarfallìo e con leggeri tocchi stroboscopici: un film non consigliabile ad alcuno.
This film was shot a frame at the time using laborious extreme optical close-ups. Anonimatograph:
the reanimated image of an unknown amateur at the beginning of the century who becomes middle class as he focuses on friends, movie camera in hand, indoors and outdoors surrounded by war
and by his sisters. I have tried to reconstruct an extravagant film diary from which I have
painstakingly torn out little pages of frames. These frames were exposed and abandoned on negative on a number of photographic reels, cut together at random in two sixty-meter reels in 35mm
and acquired by me for 500 lire from a flea-market vendor. Many frames were shot vertically, others only partially exposed, sometimes properly developed, sometimes not. I tried to animate these
little reels using a flicker technique with light stroboscopic touches; in short, a film that could not
be recommended to anyone.
Children
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
STORIE/MEMORIE
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Anonimatografia, stampa alla gelatina sali d'argento, 2009
Fratelli Fava di Cosimo Terlizzi
IL DOPOFESTIVAL
172
Siamo dominati dal vero, con i computer ininterrottamente connessi a Internet, sovrastati dalle microstorie, dagli aneddotti,
che nel loro incalzante succedersi tolgono sempre più spazio
alla riflessione. Avvenimenti che, al di là del loro valore intrinseco, vengono affrontati con la stessa enfasi, moltiplicati da
milioni di commenti e link. Gli spazi per lasciare fuggire il proprio pensiero sono sempre più angusti.
Microstorie di una società che si atteggia a reality, dove tutti si
coalizzano e tutti sono in guerra contro tutti. Una società dominata dall'ego, senza voglia di condividere nulla.
Singoli individui, ognuno con un proprio linguaggio, come
ognuno degli artisti di questa serata lascia urlare al proprio ego
le proprie parole. Mariana Ferratto e Matteo Fato, entrambi autori di un autoritratto: il tentativo concreto di scrivere il proprio
nome in modo perfetto da un lato, la fuga irreale dal quotidiano
e dall’altro; quella stessa fuga narrata da Paola Luciani e da
Elena Arzuffi che raccontano, rispettivamente, i percorsi emotivi
di una donna e di una coppia distrutta dalla quotidianeità, e poi
il found footage di Bruno Di Lecce e Michela Pozzi, che racchiude
il soggetto in una chiostrina per poi contaminarlo con immagini
proiettate in una piccola celletta. Guardarsi per poter guardare
gli altri, come dicono gli sguardi ambliopici di Marco Baroncelli.
O cercare se stessi negli altri: Nicoletta Agostini e la sua vana
ricerca di un padre artistico sfociata in una auto-intervista,
Federico Solmi, che si autorapprenta nelle vesti di un King Kong
alla ricerca di una identità (in questo video, altrove assumerà le
sembianze di Rocco Siffredi o del Papa), o Chiara Fumai, che di
se stessa ha fatto un'opera d'arte assumendo il nome di dj Pippi
Langstrumpf, e che canta una canzone greca, inneggiante alla
bellezza di una vita da drogata, con i piedi ben piantati per terra.
Come per terra sono i piedi dei gemelli Fava, nel videoclip di
Cosimo Terlizzi, ma la terra su cui questi piedi poggiano è una
scomoda pietra, in equilibrio precario.
Undici artisti che raccontano storie riguardanti il proprio ego,
strumento indispensabile per il lavoro creativo, l'ego, ma strumento che va stravolto - come stravolto è in questi video - per
non restare anedotto, ma diventare pensiero condiviso, quel
pensiero che le facili, consuete e ammiccanti immagini che ci
travolgono, tentano strenuamente di rendere inutile.
SUBJECTIVE EQUILIBRIUM
We are dominated by the real, by computers unceasingly connected to
the Internet, by micro-stories and anecdotes, which in their insistent
flow leave increasingly less room from reflection. Beyond their intrinsic value, these occurrences are handled with the same emphasis, multiplied by millions of comments and links. Room in which to let one’s
thoughts escape is ever more narrow.
Micro-stories of a society that poses as a reality show, where everyone
forms a coalition and everyone wages war on everyone else. A society
dominated by the ego, with no desire to share anything.
Individuals, each with her or her own language, like each of the artists
of this evening, scream their words out at their egos. Mariana Ferratto
and Matteo Fato both created a self-portrait: the concrete attempt to
write one’s own name perfectly, on the one hand, and the unreal flight
from everyday life on the other. This same flight is depicted by Paola
Luciani and Elena Arzuffi, who respectively depict the emotional journey of a woman and of a couple destroyed by the quotidian. And Bruno
Di Lecce with his Foun footage, and Michela Pozzi, who encloses the
subject of the video in a kiosk to then contaminate it with images projected in a small cell.
Some look or themselves in order to be able to look at others, as Marco
Baroncelli’s amblyopic gaze tell us. Or search for themselves in others,
such as Nicoletta Agostini and her vain search or her artist father, which
leads to an interview with herself; Federico Solmi, who represents him-
IL DOPOFESTIVAL
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
EQUILIBRI SOGGETTIVI
Matteo Fato, Autoritratto
173
Courtesy “NOT Gallery” Napoli
Federico Solmi, King Kong at the End of the World
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
174
Nicoletta Agostini
INTERVIEW
Italia 2006, 6’30”
Nicoletta Agostini (1971, Roma) lavora con il disegno e il video. Tra le sue mostre: Lmak projects, New York; Fondazione Sandretto re Rebaudengo, Torino; Care Of, Milano; Dena
Foundation, Paris; Gertrude Contemporary Art Spaces, Melbourne. Del 2003 il suo Progetto
per Radioartemobile Cataloguing, presentato alla 50a Biennale di Venezia. Interview è parte di
un lavoro frutto dei viaggi, tra Parigi e Roma, di una giovane artista italiana che non parlava
francese, alla ricerca di un padre artistico, un famoso scrittore, regista e lettore di tarocchi.
Nicoletta Agostini (Rome, 1971) works prevalently in design and video. Her exhibits include:
Lmak Projects (New York), Fondazione Sandretto re Rebaudengo (Turin), Care Of (Milan), Dena
Foundation (Paris) and Gertrude Contemporary Art Spaces (Melbourne). Her Progetto per
Radioartemobile Cataloguing of 2003 was presented at the 50th Venice Biennale. Interview is part
of a work that came about from trips between Paris and Rome, on a young Italian artist who did not
speak French and was looking for her artist father, a famous writer, director and tarot card reader.
CRUNCHY LOVE
Italia 2008, 5’ 7”
Elena Arzuffi dal 2000 si dedica alla realizzazione di fotografie, disegni, video e installazioni
ambientali e sonore. Insegna all’Istituto Europeo di Design (IED) a Milano. Ha esposto in
diverse mostre: alla Fondazione Sandretto re Rebaudengo; alla Gam (Torino); Lovely nest
(Padova). Premiata con una menzione a Verona per un lavoro su Ingrid Betancourt. In Crunchy
Love, attraverso disegni, immagini fotografiche rielaborate e riprese video l’autrice costruisce
un paesaggio emotivo dove la quotidianità consuma ciclicamente sentimenti e passioni.
Since 2000, Elena Arzuffi has been working in photography, design, video and ambient and sound
installations. She teaches at the European Institute of Design (IED) in Milan. Her various shows
include the Fondazione Sandretto re Rebaudengo, Gam (Turin) and Lovely Nest (Padua). She won
a Special Mention in Verona for her work on Ingrid Betancourt. Using designs, reworked photographic images and video material, in Crunch Arzuffi creates an emotional landscape in which the
quotidian cyclically consumes feelings and passions.
IL DOPOFESTIVAL
self as King Kong in search of his identity (while in some moments of his work he takes on the semblance of Rocco Siffredi and the Pope); and Chiara Fumai, who has made herself into a work of art, taking on the name dj Pippi Langstrumpf, and who sings a Greek hymn to the beauty of the life of a junkie,
with her feet planted firmly on the ground. Like the feet of the Fava twins in Cosimo Terlizzi’s music
video, even though the ground under their precariously balancing feet is an uncomfortable rock.
Eleven artists tell ten stories about their egos. An essential tool for producing creative work, the ego,
but one that must be turned upside down – as it is in these videos – so that it becomes not an anecdote but a shared thought. That thought that the facile, habitual and alluring images that overwhelm
us strive valiantly to render useless.
Elena Arzuffi
Marco Baroncelli
KA
Italia 2008, 4’30”, suono Enzo Orlandi
Marco Baroncelli (1967, Prato) ha frequentato a Prato la scuola di fotografia “Dryphoto”.
Da qualche anno si avvale del video, senza però tralasciare la ricerca fotografica. I suoi
lavori sono stati presentati in festival internazionali. Tra le sue mostre più recenti, ricordiamo quelle presso la galleria LAC (Roma), e presso la galleria Ilsoleartecontemporanea
(Roma). Ka, che trae il nome da un geroglifico, rimanda al concetto del doppio, alternando
immagini fisse e in movimento che creano un linguaggio dove la razionalità e il suo contrario dialogano/disputano.
Marco Baroncelli (Prato, 1967) studied at the Dryphoto photography school in Prato. He has been
working for several years in video as well as photography. His work has been presented at international
festivals. His more recent exhibits were at the LAC and Ilsoleartecontemporanea galleries of Rome. Ka,
which takes its name from a hieroglyphic, stems from the concept of the double, and alternates static and
moving images to create a language where rationality and its antithesis dialogue/argue.
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Bruno Di Lecce
CORTO CIRCUITO
Italia 2007, 4’, video found footage
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Artist and architect Bruno Di Lecce (Matera, 1980) has exhibited his work at the International
FotoGrafia Festival of Rome, at the A.A.M. Gallery; 14th Young European and Mediterranean
Artists Biennale (Skopje, Macedonia); 91mq art project space (Berlin); and 10th Venice
Architecture Biennale. Corto Circuito was made with super8 home movies and spans two generations through sacred and profane cyclical recurrences, connecting them to the music of French
composer Romain Kronenberg.
176
Matteo Fato
AUTORITRATTO
Italia 2006, Penna grafica su video, 4’ 35”
La ricerca di Matteo Fato (1979, Pescara) si concentra sull’analisi di un’intesa tra immagine
e puro segno. Ha esposto in numerose mostre, tra cui la Galleria Daniele Ugolini
Contemporary (Firenze); la Galleria Annarumma 404 (Napoli); il MLAC (Roma); la Galleria
Cesare Manzo (Pescara); Kasa Gallery (Istanbul); National Museum of Contemporary Art
(Bucarest). Autoritratto è un dittico in progress di disegni virtuali, realizzati a penna grafica
su video e animati sino a comporre il racconto visivo di una giornata nella vita dell’artista.
In his experimentation, Matteo Fato (Pescara, 1979) analyzes the connections between the image
and the pure sign. He has shown in numerous exhibits, including at the Galleria Daniele Ugolini
Contemporary (Florence), Galleria Annarumma 404 (Naples), MLAC (Rome), Galleria Cesare
Manzo (Pescara), Kasa Gallery (Istanbul) and the National Museum of Contemporary Art
(Bucharest). Autoritratto is a diptych in progress of virtual designs, made with a graphic pen on
video and animated to create a visual story of a day in the life of the artist.
AUTORITRATTO
Italia 2006, 6’ 28”
Mariana Ferratto (1979, Roma) lavora con il video, interessata a tutto ciò che riguarda il corpo
e il suo linguaggio. Ha esposto in mostre internazionali tra cui la Fondazione Olivetti, XIII
Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, Festival Internazionale del
Cinema di Roma. Lavora con la galleria romana The Gallery Apart. In Autoritratto, una telecamera fissa inquadra le mani dell’artista che cerca di scrivere il proprio nome. Tra indecisioni e
ripensamenti, alla ricerca della perfezione, sono utilizzate una riga, un goniometro e dei font.
Mariana Ferratto (Rome, 1979) works with video and is interested in everything pertaining to the
body and its language. Her work has been shown at international festivals and exhibits, including
the Fondazione Olivetti, 13th Biennale of Young European and Mediterranean Artists and Rome
International Film Festival. She is currently working with The Gallery Apart in Rome. In
Autoritratto, a fixed camera frames the artist’s hands as she tries to write her name. As she changes
her mind and decisions, in search of perfection, she uses a ruler, goniometer and fonts.
IL DOPOFESTIVAL
Bruno Di Lecce (Matera 1980), artista e architetto, ha esposto al FotoGrafia Festival
Internazionale di Roma, galleria A.A.M.; XIV Edizione della Biennale dei giovani artisti
dell’Europa e del Mediterraneo (Skopje, Macedonia); 91mq art project space (Berlino); X
Biennale di Architettura, Venezia. Corto Circuito si basa su video di famiglia girati in super8, che coprono l’arco di due generazioni attraverso ricorrenze cicliche sacre e profane, relazionandole alla musica del compositore francese Romain Kronenberg.
Mariana Ferratto
Chiara Fumai
I’M A JUNKIE
Italia 2007, 3' 07”, musica Roza Eskanazi
Chiara Fumai, artista e musicista elettronica (nota con il nome dj Pippi Langstrumpf), ha partecipato a diverse mostre tra cui nel 2009, alla Fondazione Ratti, Como; ai Duende Studios,
Rotterdam; alla Pinacoteca Civica Palazzo Volpi, Como; alla Fondazione Merz, Torino. In I’m
a Junkie, su una spiaggia cretese, l’artista, vestita in abiti tradizionali locali, inscena un canto
greco. La canzone, Eimai Prezakias (“Sono una drogata”), del 1934 di Roza Eskanazi, controversa cantante folkloristica, narra la bellezza di una vita da tossicodipendente.
Artist and electronic musician (who goes by the name dj Pippi Langstrumpf) Chiara Fumai has
participated in various exhibits and festivals, including, in 2009, at the Fondazione Ratti (Como),
Duende Studios (Rotterdam), Pinacoteca Civica Palazzo Volpi (Como) and Fondazione Merz
(Turin). In I’m a Junkie, the artist, dressed in traditional local clothing, stages a Greek canto on a
beach in Crete. The 1934 song, “Eimai Prezakias” (“I’m a Junkie”) by Roza Eskanazi, a controversial folk singer, tells of the beauty of being a drug addict.
177
Paola Luciani
THE CHOISE
Italia 2009, 3’ 22”, disegno su carta
arte digitale, musica Itamar Ziegler
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Paola Luciani (Rome, 1964) graduated in Animation from the National Film School in Rome in
1990 and has taken part in numerous exhibits and international festivals, including the international film festivals of Annecy and Stuttgart, Cartoombria (Perugia), the Future Film Festival
(Bologna) and Festival BMB (Milan). Her video depicts the emotional journey of a woman, her
self-awareness and her decision to forge ahead, observing her unconscious as it follows various
existential moments.
178
Michela Pozzi
CAMPO D’ATTENZIONE TRANSITORIO
Italia 2008, 3’ 06"
Michela Pozzi (1980, San Marino) vive e lavora tra San Marino e Urbino. Ha preso parte a
diverse mostre, come la 53° Biennale di Venezia, Making Worlds / Fare Mondi, padiglione San
Marino, San Servolo; White Cube Satellite Pesaro, Centro Movimento e Fantasia, Cagli (PU);
Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea, Castello Colonna, Genazzano (Rm). Nel
video vediamo uno spazio intimo, un’edicola religiosa, posta all’incrocio di due vie. Nella celletta, l’inserimento di una sorta di schermo televisivo attraversato da frame della Dea Madre.
Michela Pozzi (San Marino, 1980) lives and works between San Marino and Urbino. She has participated in numerous exhibits, including the 53rd Venice Biennale, Making Worlds/Fare Mondi,
San Marino Pavilion, San Servolo; White Cube Satellite Pesaro; Centro Movimento e Fantasia,
Cagli; Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea; and Castello Colonna, Genazzano. In the
video we see an intimate space, a religious kiosk, at an intersection. Inside is a television screen that
depicts images of the Goddess Mother.
KING KONG AT THE
OF THE WORLD
ITALIA 2005, 4’
END
Federico Solmi (1973, Bologna), premiato dalla Fondazione Guggenheim di New York con
il John Simon Guggenheim Fellowship per la videoarte nel 2009. Le sue opere sono state
esposte al Centre Pompidou, Parigi; Drawing Center, New York; Museo CA2M Centro de
Arte Dos de Mayo, Madrid; Australian Center of Moving Images, Melbourne; Palazzo delle
Esposizioni, Roma. Nel video assistiamo a uno scatenato delirio, realizzato con la collaborazione dell’artista neozelandese Russell Lowe, dove un disorientato King Kong ricerca
una propria identità.
Federico Solmi (Bologna, 1973) is a 2009 Guggenheim Fellow for video art. His work has been
exhibited at the Centre Pompidou (Paris), Drawing Center (New York), Museo CA2M Centro de
Arte Dos de Mayo (Madrid), Australian Center of Moving Images (Melbourne) and Palazzo delle
Esposizioni (Rome). Made with New Zealand artist Russell Lowe, the frenzied video depicts a disoriented King Kong searching for his identity.
IL DOPOFESTIVAL
Paola Luciani (1964, Roma), diplomata in animazione al Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma nel 1990, ha preso parte a diversi festival internazionali, tra i quali
il Festival Internazionale di Annecy; Festival Internazionale di Stoccarda; Festival internazionale Cartoombria (Perugia); Future Film Festival (Bologna); Festival BMB (Milano). Il
video racconta il percorso emotivo di una donna, la sua consapevolezza e la sua scelta di
andare avanti, osservando il suo inconscio seguire vari momenti esistenziali.
Federico Solmi
Cosimo Terlizzi
FRATELLI FAVA
Italia 2008, 5’, minidv
musica Christian Rainer “Jongleur”
Cosimo Terlizzi (1973, Bitonto) ha seguito un percorso di studi artistici parallelamente all’approfondimento di vari media usati nell’arte audiovisiva. Tra le altre ha esposto alla D. Gallery
(Torino); Mirra Arte Contemporanea (Bologna); Traffic Gallery (Bergamo); alla Galleria Civica
Arte Contemporanea di Monfalcone (GO). Premiato alla Fondazione Merz di Torino e al
Centro di Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. Il video clip, ispirato dal brano musicale Jongleur di Christian Rainer, indaga l’essenza più profonda e visionaria della gemellarità.
Cosimo Terlizzi (Bitonto, 1973) studied art while simultaneously working with various media
used in audiovisual art. His exhibits include at the D. Gallery (Turin), Mirra Arte Contemporanea
(Bologna), Traffic Gallery (Bergamo) and galleries of contemporary art in Monfalcone. He has won
awards from the Fondazione Merz of Turin and the Centro di Arte Contemporanea Luigi Pecci of
Prato. The music video, inspired by Christian Rainer’s song “Jongleur,” examines the deepest and
most visionary essence of what it means to be complementary.
179
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
SIGNS OF NIGHT
Il Festival Internazionale Signes de nuit a Parigi, riunisce dei film che riflettono sulle nuove
visioni, un immaginario originale e un approccio critico sui momenti cruciali dell’esistenza
umana moderna. È il luogo del cinema che espande i propri limiti, di un cinema sorprendente, differente, libero dalle pressioni della tradizione, pronto a lanciarsi nella sperimentazione.
Le forme artistiche di questi film mescolano i parametri artistici: suono, composizione musicale, immagine, movimento, ritmo, testo, spazio e luce, non solamente a fini estetici, ma
anche per permettere una comunicazione e una comprensione con spettatori di origini differenti, una sensibilizzazione a uno spazio culturale nuovo e qualche volta strano. È la
responsabilità di un “cinema impegnato” e della produzione audiovisiva.
La preservazione di uno spazio libero è l’obbiettivo di Signes de nuit, le cui proiezioni si sono
tenute in oltre sedici paesi come la Libia, Cuba, la Turchia, il Giappone, l’Australia, il Perù,
la Slovenia, la Tunisia, la Lituania e la Russia, oltre che nell’annuale sede di Parigi, che vede
quest’anno un programma costituito da film provenienti da circa trentacinque paesi.
The International Festival Signs of Night in Paris is comprised of films that reflect new views, original imagery and a critical approach to the crucial points of the modern human existence. It is a place
for cinema that expands its own boundaries, that is astonishing, different, potentially free from the
pressure of tradition, ready to give itself to the unpredictable experiment.
Special artistic forms of these films – which combine music, image, movement, rhythm, text, space,
lighting and time – carry not only an aesthetic purpose, but also broaden the possibilities of communication and understanding between people within different international communities, with their
mental, social and physiological phenomena. This is the responsibility of political cinema and audiovisual production.
This opposition and preservation of a free cultural space is the goal of the Signs of Night festival,
which has been held in 16 different countries, including Lebanon, Cuba, Turkey, Japan, Australia,
Peru, Slovenia, Tunisia, Lithuania and Russia, besides the annual festival in Paris, which will this
year present a program of films from apprximately 35 countries.
Gli obietivi del festival internazionale Signes de Nuit di Parigi sono molteplici. Innanzitutto
è una reazione alle maldicenze che vogliono perso il dinamismo della vita notturna della
città. Bisognava dimostrare il contrario. In secondo luogo, è un forum per la giovane scena
parigina del cinema independente, che cerca di promuoversi e di mostrare le proprie produzioni. Terza cosa, a Parigi come ovunque, è importante mostrare la creazione internazionale, ricca e altamente differenziata nel campo del cortometraggio e del cinema sperimentale.
Il dinamismo, la libertà e la voglia di sperimentare dei film corti e sperimentali, probabilmente non hanno eguali nel mondo culturale attuale. Inoltre bisogna accrescere l’opportunità di una scena pubblica alternativa, controcorrente rispetto al mondo dei media, sempre
più controllati e commercializzati. Un gesto essenziale per la sopravvivenza della cultura.
Il cinema delle differenze, della tresgressione e della sorpresa è potenzialmente libero da
tutte le costrizioni imposte dalle istituzioni. Per presentare le sue visioni artistiche ha semplicemente bisogno di un proiettore e di una sala buia. I bassi costi di produzione rendono
il cinema della differenza indipendente dalle contingenze commerciali e presentano una
sfida permanente ai creatori pronti a fare esperienze dai risultati imprevisibili.
Dal momento che offrono una grande mobilità, il video, il digitale, e anche il super 8 e il
16mm, permettono delle forme d’incontro quasi spontanee fra registi e pubblico.
La maggior parte delle opere sono il risultato di un lavoro di squadra. Infine il cinema delle
differenze è una delle forme d’arte fra le più diversificate e differenziate, in quanto riunisce suono, immagine, movimento, ritmo, testo e articolazione, spazio, luce e tempo, spiegando così il suo spettro assai ricco di variazioni.
Detto ciò, non resta che fare una scelta in questo fermento creativo, una scelta che non tradisca la diversità, che difenda la singolarità e che non eviti il confronto con la vita reale.
Anche questo è il fine di Signes de Nuit.
Dieter Wieczorek - signesdenuit.free.fr
The Signs of Night international festival pursues several objectives. It responds first of all to certain rumors which say that the city’s cultural nightlife has lost its vitality. We will prove otherwise.
Secondly, it offers a forum for Paris’ young, independent film scene, which we seek to promote.
Thirdly, we present an extremely differentiated cross-section of high quality international short and
experimental film work. Finally, the festival is an opportunity to dissolve the borders between different forms of expression such as photography, theater, public lectures, the presentation of artistic projects, video art and performance; and, above all, between the genres of the cinematic arts (experimental films, shorts, documentaries and fiction). Signs of Night consists of a rich and stimulating night
of exchanged ideas and projects. The dynamism of and excitement for experiencing short/experimental films probably have no equal in the contemporary cultural world. Add to this the opportunity to
create an alternative public art scene that sets itself against the increasingly regulated and commercial media situation, and you have a creation essential for culture’s survival.
The cinema of transgression, surprise and “la difference” is potentially free from any constraint
imposed by institutions. In order to present its artistic visions, it simply needs a projector and a
darkened hall. The relatively low production costs make cinema “de la difference” independent of
commercial interests and offers a constant challenge for those artists ready to throw themselves into
unpredictable experimentation.
Offering a wide flexibility, formats such as video, DV, super 8 and 16mm permit almost spontaneous
encounters between filmmakers and the public. Cinema “de la difference” is an art form with perhaps the broadest creative palette, combining sound, image, movement, rhythm, text, space, light and
time, thus deploying a richly varied spectrum.
That said, it was necessary to make a selection within this burgeoning creative scene, one that does
not undermine its diversity but rather defends its singularities and does not shirk its confrontation
with actual life. This is indeed the goal of the festival Signs of Night.
Dieter Wieczorek - signesdenuit.free.fr
IL DOPOFESTIVAL
180
SIGNES DE NUIT 2009
181
I FILM DAL SIGNES DE NUIT
PROGRAMMA
Program
Aleksander Duraj
1982
Polonia 2003, 10’
Niklas Goldbach
Greetings
Germania 2003, 11’
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Mihai Grecu
Coagulate
Francia 2008, 6’
Cyrill Lachauer
I killed the Butterfly
Germania 2007, 5’
Antonello Matarazzo
Luna Zero
Italia 2007, 10’
Alexander Meyer
Cheyenne
Svizzera 2004, 5’
Mihai Grecu, Coagulate
182
Royston Tan
D.I.Y.
Singapore 2005, 6’
VIDEO DALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO
VIDEO DALL’ ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO
Ricordare Tracciare Sconfinare Comunicare
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
184
in collaborazione con/in collaboration with
LEMS
direttore Eugenio Giordani
Cattedra di Elettroacustica III
prof. Domenico De Simone
genere/genre
riduzione in video da video-installazione
video of video installation
formato/format dvd
durata/running time 11’
anno/year Italia 2009
In questa edizione del festival, i lavori che presentiamo partecipano a un progetto che vede
riunite diverse forze e competenze. L’obiettivo è quello di realizzare un percorso di cittadinanza attiva dei giovani a tappe intermedie: Per esempio ... (giugno) e Zoe Microfestival (luglio).
Nei primi tre video viene trattata: la memoria storica - anche se quella delle piccole storie
familiari; la necessità di lasciare una traccia di sé - in un mondo dove tutto ci disorienta e
ci sradica; la costruzione di confini e barriere - che interrompono la continuità territoriale,
storica e sociale. Argomenti che troveranno spazio all’interno di tematiche più ampie: come
la sostenibilità ambientale e relazionale, specificando il contenuto dei diritti umani nel
diritto all’informazione e alla controinformazione.
Il quarto video raccoglie in pochi minuti alcuni momenti salienti del lavoro del collettivo
di media attivismo Apes. tv, che si interroga proprio sul ruolo dell’informazione.
«Se perderemo la memoria della città, i luoghi che ce la fanno scoprire, smarriremo anche
la nostra capacità di orientarci, cadremo vittime delle grandi dimensioni, di ciò che è inafferrabile, onnipotente. Dobbiamo batterci per conservare tutto ciò che è piccolo, che conferisce alle grandi cose una prospettiva da cui vederle» (Wim Wenders)
Cammino! Ma questa volta non sono sola, e seguo il filo dei ricordi: quelli di mia madre.
Non andiamo lontano: la strada è quella di sempre, che parte davanti alla casa dove abito.
La voce, quella di mia madre, apre un varco, e al piano orizzontale del paesaggio si interpone quello verticale del tempo. Attraverso la voce di mia madre i miei occhi sprofondano
nel passato, contrastando il falso movimento dei piedi sulla strada. «La voce sale e scende
[...] racconta degli anni passati. Un fantasma nasce dalle sue labbra [...] Le parole diventano poesia [...] Il tempo è là [...] porzione di eternità». (Ray Bradbury)
In this edition of the festival, the works we are presenting are part of a project that unites various
strengths and skills. The goal is to create an active body of young people and intermediary passages:
Per esempio... (June) and Zoe Microfestival (July).
The first three videos deal with historical memory, even of small family stories; the need to leave a
trace of one’s self, in a world where everything disorients and uproots us; and the construction of
borders and barriers, which interrupt territorial, historical and social continuity. These arguments
a part of broader themes: such as environmental and relational sustainability, specifying the content
of human rights in the right to information and counter-information.
The fourth video in just a few minutes gathers salient moments of the work done by media activist
collective Apes.tv, which investigates the role of information.
“If we lose the memory of the city, the places that allow us to discover it, we will also lose our ability to orient ourselves, we will become victims of large dimensions, of what is elusive, omnipotent.
We must fight to preserve everything that is small, that gives large things a perspective from which
to see them.” (Wim Wenders)
I’m walking! But this time I am not alone, I follow the thread of memories, my mother’s memories.
We do not go far: the street is the same, it begins from the house in which I live. The voice, my mother’s voice, opens a passage, and the horizontal plane of the landscape is interposed on the vertical
plane of time. Through my mother’s voice my eyes sink into the past, contrasting the false movement
of feet on the street. “The voice rises and falls…tells of other years. A ghost rises off his lips…. The
words become poetry…. Time is there…. [a] portion of eternity.” (Ray Bradbury)
VIDEOS FROM THE URBINO FINE ARTS ACADEMY
Remembering Marking Crossing Borders Communicating
SNG09
by Valentina Olivi
VIDEO DALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO
a cura di/curated by
Roberto Vecchiarelli & Emanuele Bertoni
(Cattedre di Storia dello spettacolo e
Progettazione digitale II)
con/with Apes.tv & Q(X)
SNG09
di Valentina Olivi
185
#1
di Anna Gioia
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
186
suono elettronico/electronic sound
Angelo Ciavarella (LEMS)
durata/running time 8’
anno/year Italia 2009
Anche per chi è continuamente costretto o abituato a spostarsi, l’appartenenza a un luogo è necessaria per l’affermazione
di un’ identità. Per questo sono necessari una serie di salvagenti, fatti di persone e cose, che rendano l’abitare un atto
familiare; e se giorno dopo giorno questa familiarità non si
realizza, il mondo circostante diventa insignificante e ambiguo. Alla familiarità contribuirà anche la memoria che, attraverso il riconoscimento delle tracce, plasmi e dia senso a un
luogo, riscattandolo dall’anonimato e dall’assenza dei segni.
Even for those who are forced to move constantly, belonging to a
place is necessary for affirming one’s identity. This is why a series
of life preservers are necessary, made up of people and things that
make living a familiar act. If day after day this familiarity is not
created, the surrounding world becomes insignificant and ambiguous. Contributing to this familiarity is memory, which by recognizing various marks molds and gives sense to a place, lifting it
above anonymity and the absence of signs.
#1
by Anna Gioia
genere/genre
riduzione in video da video-installazione
video of video installation
formato/format dvd
suono elettronico/electronic sound
Angelo Ciavarella (LEMS)
durata/running time 14’
anno/year Italia 2009
Diverse realtà etniche, politiche e religiose,
dislocate nel tempo e nello spazio, e un
muro che le accomuna. Ghetti, recinti, filo
spinato, muri, confini invalicabili. Berlino,
West Bank, Border Patrol, Belfast, Cipro.
Sottili delimitazioni che riescono a condizionare l’esistenza di tante persone: dall’una e dall’altra parte.
Questo lavoro, attraverso materiale di archivio, tenta di mettere insieme gli aspetti
comuni di quei tanti “recinti” che hanno condizionato e condizionano tutt’ora la vita di
tante persone.
Ma questi confini li abbiamo sotto gli
occhi tutti i giorni: passeggiamo indifferenti e dietro un recinto, a pochi passi da
noi, molte vite sprofondano nella tragedia
della separazione.
Various ethnicities, politics and religions, dislocated in time and space, and a wall that unites
them. Ghettos, fences, barbed wire, walls, insurmountable borders. Berlin, the West Bank,
Border Patrol, Belfast, Cyprus. Subtle limits
that condition the lives of many – on one side
and the other.
Using archive material this work tries to bring
together the common aspects of many of those
“fences” that have conditioned and continue to
condition the lives of countless people.
Yet these borders are before our eyes every day.
We stroll indifferently and behind a fence, just a
few steps away from us, many lives drown in the
drama and tragedy of separation.
MURO CONTRO MURO
by Cristina Landriscina
VIDEO DALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO
genere/genre
riduzione in video da video-installazione
video of video installation
formato/format dvd
MURO CONTRO MURO
di Cristina Landriscina
187
APES.TV
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
genere/genre
promo di un brand mediatico
promo of a media brand
formato/format dvd
durata/running time 12’
anno/year Italia 2009
Apes.tv è un colletivo di media attivismo che si interroga sul ruolo dell’informazione nella
società italiana di oggi, nasce da un progetto didattico di cooperative learning interno al
corso di Progettazione Multimediale dell’Accademia di Belle Arti di Urbino.
In un contesto mediatico dove l’informazione è divenuta mero intrattenimento, arma di
manipolazione di massa e macchina generatrice di consensi Apes.tv tenta di ricollocarla in
una posizione eticamente corretta; la realizzazione di interviste-sondaggio a soggetti rappresentativi di differenti categorie della società civile vuole provocare un momento di
riflessione nel cittadino/spettatore su temi di attualità sociale, politica, ambientale, culturale senza filtri o mediazioni di sorta se non quelli esclusivamente legati all’aspetto formale ed estetico. Sviluppato come un vero e proprio brand mediatico Apes.tv veicola se stesso e le sue produzioni principalmente attraverso social Networks, momenti performativi,
pubblicazioni cartacee e digitali. La prima serie di interviste-sondaggio è dedicata alla crisi
economica e a come questa venga percepita dalla società civile.
Apes.tv is a collective of media activists that looks at the role of information in contemporary Italian
society. It was created as an educational program of cooperative learning within the Multimedia
Design course of the Urbino Fine Arts Academy.
In a media context in which information has become mere entertainment, a weapon of mass manipulation and a consensus-generating machine, Apes.tv attempts to return it to an ethically correct
position. Interview-polls conducted with people from various categories of civil society aim to make
the citizen/spectator reflect upon topical social, political, environmental and cultural themes without filters or mediations other than those exclusively tied to the formal and aesthetic aspect.
Developed as a media brand, Apes.tv transmits its presence and work mainly through social networks, performances, and paper and digital publications. The first series of interviews-polls is on the
economic crisis and how it is perceived by society.
APES.TV
188
VIDEO DAL LEMS
LA CONTROVOLONTÀ
Per il Centenario della morte di Cesare Lombroso
LEMS in collaborazione con Quatermass(X) / diadi / ISA Pesaro
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Nei luoghi di reclusione, per il bisogno di riappropriarsi dell’esistenza e per non sentirsi
sconfitti, si ha una grande necessità di comunicare, di raccontare la propria storia, di rendersi riconoscibili attraverso un segno. E Lombroso, attraverso un’attitudine che gli è propria (spesso istintiva e priva di metodo), raccoglie frammenti di documenti, informazioni e
pensieri degli internati. Secondo lui, l’uomo recluso, posto di fronte allo “scienziato sordastro”, registrato soltanto attraverso fredde documentazioni cliniche che non rinviano altro
che a brandelli di storia, diventa un corpo muto. Per l’istituzione, il soggetto, rinchiuso,
posto sotto osservazione e lasciato nel silenzio, è uno dei tanti e appartiene a una categoria
ben documentata nella cartella clinica. Malato, disagiato, sta lì e non può sfuggire in alcun
modo alla sottomissione che la reclusione impone.
I segni, la scrittura, permettono invece di rompere il silenzio.
Per questo motivo Cesare Lombroso, medico-direttore presso il manicomio di Pesaro nell’anno 1872, istituisce “un giornale manicomiale che inaugura primo in Italia”: Il Diario
dell’Ospizio di San Benedetto in Pesaro.
«Onde tenere occupati alcuni alienati di singolare ingegno, letterati tipografi e per informare
le famiglie senza ricorrere alle lunghe corrispondenze dello stato dei loro ricoverati si pensò
a modo di quanto si pratica in Germania ed in Inghilterra di fare uscire un Diario stampato
dagli stessi ricoverati in cui essi potevano publicare i loro pensieri e così si otteneva il vantaggio di diffondere idee più esatte e nobili sulle condizioni morali degli alienati e rialzarli agli
occhi del volgo che considera spesso i dementi come bestie feroci». (C. Lombroso)
www.eugenio-giordani.it
www.conservatoriorossini.it
190
danza/dance Francesca Gironi
supervisione coreografica
choreographic supervision
Monica Gironi
voce registrata/recorded vocals
Lucia Ferrati
voce dal vivo/live vocals
Giorgio Donini
fisarmonica/accordion Raffaele Damen
durata/running time 45’
anno/year Italia 2009
La controvolontà, dell’internato L. M. n. 110, è uno dei testi più emblematici stampati sul
Diario, e l’azione scenica, presentata dal LEMS, ruota attorno a questo “autoritratto”.
«La controvolontà è una cosa terribile, ed io posso parlarne, pur troppo, con esperienza,
poiché mi ha rapito al mondo ogni compiacenza, e m’ha cangiato la vita dolce e soddisfacente di prima, in un peso amaro e tormentoso.
Ecco di che si tratta in sostanza. L’uomo a questo mondo, per vivere davvero, non basta che
mangi e dorma, bisogna che dia una potente direzione alle proprie facoltà; bisogna che
abbia uno scopo all’esistenza; che le proprie occupazioni lo soddisfino davvero; per trascinarsi malamente, penosamente intorno, insensibile ad ogni dolcezza della vita, è da preferirsi mille volte la morte, od il non avere la cognizione di sé stesso.
E così appunto accadde di me, che abituato alla vita dolce e tranquilla, mi vidi d’improvviso strascinato in un turbine di violenti dolori; il mio cervello scosso da tali stravaganze si
rifiutò di procedere come per il passato; più non potei pensare liberamente al fatto mio, e
ne nacque appunto la controvolontà ossia l’inceppamento alla volontà naturale dell’uomo,
l’impossibilità di operare e di agire, come se una forza materiale legasse l’individuo.
Io non ho impero sufficiente su me stesso, per dare la direzione che vorrei alle mie azioni;
da ciò ne nasce lo sgomento, il crepacuore, il tedio della vita.
Da principio ho cominciato a provare un’inquietudine vaga, un peso tormentoso; in seguito questa forza crebbe, si fece più violenta, più prepotente, in modo da paralizzarmi ogni
compiacenza e ad esser costretto a passar le ore nel tedio più angoscioso.
Di notte non posso dormire; il più delle volte m’addormento verso un’ora o alle due; e la
giornata per me non è altro che una tormentosa apprensione, perché io non so assolutamente che fare di me, dove cacciare la testa, quale direzione dare alle mie idee, sempre in
causa della controvolontà.
Sento a parlare di felicità domestica, di compiacenze dell’anima, di soddisfazioni, di amor
proprio, di affetto reciproco fra le persone; ma io non posso provar nulla di tutto ciò, misuro angosciosamente le ore della giornata, e tutto il mio studio consiste nell’annoiarmi meno
che sia possibile. Perciò io pregherei che si producesse una reazione violenta nel mio cervello, e che mi facessero rivedere la famiglia. Una scossa benefica potrebbe giovarmi moltissimo, un’emozione violenta dell’animo m’ha rovinato, ed un’altra emozione, di genere differente, potrebbe giovarmi. Sono tanti anni che non vedo la famiglia, ed il signor Direttore
comprende che cosa stravagante e vergognosa sia questa; io assicuro che se ho fatto qualche
stranezza, ciò dipende dalla fatalità a cui sono andato soggetto, non già dal mio carattere,
che è sempre stato ottimo; e devono tenere in considerazione anche ciò». (L. M. n. 110)
VIDEO DAL LEMS
genere/genre
azione scenica, video e suono elettronico
genre performance, video and electronic sound
concept e realizzazione video
concept and video
Roberto Vecchiarelli
Mariangela Malvaso, Luca Vagni
disegni originali/original designs
Alessia Manzone
suono elettronico/electronic sound
Eugenio Giordani
Laboratorio Elettronico di Musica Sperimentale
del Conservatorio G. Rossini - Pesaro
a cura di Eugenio Giordani e Roberto Vecchiarelli
www.myspace.com/diadi
www.centroartivisivepescheria.it
191
ACTING AGAINST ONE’S WILL
For the 100-year anniversary of Cesare Lombroso
LEMS in collaboration with Quatermass(X) / diadi / ISA Pesaro
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
For this reason, Doctor Lombroso, the director of the Pesaro mental institution, in 1872 founded “the first institutional newspaper
in Italy”: Il Diario dell’ Ospizio di San Benedetto in Pesaro.
“In order to keep occupied some inmates particularly skilled in
literature and printing and to inform the families about the state
of their hospitalised relatives without having to resort to long
correspondence, he thought of the idea already practised in
Germany and in England of issuing a Diary printed by the
patients themselves in which they could publish their thoughts,
thus obtaining the advantage of spreading more correct and
nobler ideas about the moral conditions of the inmates and raise
their standing in the eyes of the public who often consider the
demented as wild beasts.” (C. Lombroso)
www.eugenio-giordani.it
www.conservatoriorossini.it
192
Acting Against One’s Will, by patient L. M. No.
110, is one of the most symbolic texts printed in
Diario, and the performance presented by
LEMS centers around this “self-portrait.”
“Acting against one’s will is a terrible thing,
and I can speak of it, alas, from experience, since
it deprived me of any worldly pleasure, and
transformed my sweet and satisfying former life
into a bitter and tormenting weight.
This is what it comes down to. For man to really live in this world, to eat and sleep is not
enough, he must give a strong direction to his
own faculties; he must have a reason for existing; his occupations must really satisfy him;
rather than stray painfully and miserably from
the path, insensitive to all sweetness in life, it
would be better to die a thousand deaths, or lose
all consciousness of oneself.
And this, in fact, is what happened to me, who
was used to a sweet and quiet life, when I suddenly saw myself sucked into a turmoil of violent pains; disturbed by such oddness, my brain
refused to continue as it had in the past; no
longer could I think freely about my own affairs,
and out of this was born the contravoluntariness
or the malfunctioning of man’s natural will, the
impossibility to do or to act, as if the individual
were bound by some material force.
I have not sufficient command over myself, to
give the direction I would like to my actions;
from this is born the dismay, the heartbreak, the
tedium of life.
At first I began to feel a vague restlessness, a
weight that tormented me; this force then grew,
became more violent, more demanding, removing
all pleasure and forcing me to spend hours amid
the most anxious tedium. I can no longer sleep at
night; I mostly fall asleep at around one or two
o’clock; and for me the day is nothing but a tormenting apprehension, because I absolutely don’t
know what to do with myself, where to bury my
head, which direction to give to my thoughts, all
because of this contravoluntariness.
People talk of domestic happiness, contentment
of the soul, the satisfactions of one’s love, affection between people; but I can feel none of this,
I anxiously count the hours of the day, and I
put all my effort into trying to become the least
bored possible.
So I pray for a violent reaction in my brain, and
that they would let me see my family again.
A beneficial attack might do me much good, a violent emotion in my soul ruined me, and so another emotion, of a different kind, might do me good.
I haven’t seen my family for so many years, and
the kind Director understands what a terrible
and shameful thing this is; I am certain that if I
have committed some strange act, it was the outcome of misfortune, not my character, which is
still in fine shape; and they should take this into
account too.” (L. M. n. 110)
VIDEO DAL LEMS
In places of confinement, out of the need to re-appropriate one’s
existence and not feel defeated, there is a great need to communicate, to tell one’s story, to make oneself recognizable through a
sign. Acting from a very personal (and often instinctive and
method-less) approach, Cesare Lombroso collected fragments of
patients’ documents, information and thoughts. He believed the
confined man, placed before the “deaf scientist,” registered only
through cold, clinical documentations that offer mere bits of a
personal history, becomes a mute body. For the institution, the
confined subject placed under observation and abandoned to
silence is just one of many and belongs to a category well documented in clinical files. Sick and needy, he is stuck there and can
in no way escape the submission that hospitalization imposes.
Yet making his mark and writing allow him to break that silence.
Electronic Laboratory of Experimental Music
of the G. Rossini Conservatory - Pesaro
curated by Eugenio Giordani and Roberto Vecchiarelli
www.myspace.com/diadi
www.centroartivisivepescheria.it
193
Istituto Statale d’Arte di Urbino/Scuola del Libro
PERF ANIMAZIONI, FUMETTI, ILLUSTRAZIONI
Il Perfezionamento di Disegno animato, attivo presso l’Istituto Statale d’Arte di Urbino dagli anni ‘50, è
un corso biennale post-diploma unico nel suo genere
a livello internazionale. Il suo scopo è la formazione
di autori e professionisti in grado di operare presso
gli studi e le agenzie più qualificate, nei settori del
cinema d’animazione, del fumetto e dell’illustrazione. Periodicamente gli elaborati grafici e i cortometraggi vengono esposti in mostre e concorsi e ricevono numerosi primi premi.
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Le lezioni sono integrate da interventi di artisti e editori, tra i quali: Stefano Ricci, Igort, Gabriella Giandelli,
Robert Cahen, Jon Jost, Gianni Amelio, Luca Bigazzi,
Guido Scarabottolo, Alexandar Zograf, Nicoletta
Ceccoli, Sertena Riglietti, Gianluigi Toccafondo,
Simone Massi, Mara Cerri, Gipi, Giacomo Nanni.
The Masters of Animated Design, offered by the “Scuola
del Libro” State Institute of Art of Urbino since the 1950s,
is a two-year post-diploma course and is the only one of its
kind internationally. It aims to train filmmakers and professionals to work in the top studios and agencies in the
fields of film animation, illustration and comics.
Periodically, the students’ graphics and short films are
shown at national and international exhibitions and have
won numerous top awards.
Guest teachers at the school have included, to name but a
few: Stefano Ricci, Igort, Gabriella Giandelli, Robert
Cahen, Jon Jost, Gianni Amelio, Luca Bigazzi, Guido
Scarabottolo, Alexandar Zograf, Nicoletta Ceccoli,
Sertena Riglietti, Gianluigi Toccafondo, Simone Massi,
Mara Cerri, Gipi and Giacomo Nanni.
www.isaurbino.it
animaurbino@libero.it
194
L’ATTIMO FUGGENTE
196
Dal 2000 la Fondazione Pesaro Nuovo Cinema organizza il Concorso video
“L’attimo fuggente”, riservato agli studenti di tutte le scuole (elementari,
medie, superiori, università), per la realizzazione di un cortometraggio (di
qualsiasi argomento, genere e linguaggio) della durata massima di tre minuti, realizzato in video, in digitale o in pellicola. Dall’edizione 2006 la partecipazione al Concorso è stata limitata agli studenti di scuole della Regione
Marche.
I cortometraggi meritevoli vengono presentati nell’ambito della programmazione video della Mostra e i tre film migliori vengono scelti da una giuria di
esperti, composta dai giornalisti Paolo Angeletti («Il Resto del Carlino»),
Alberto Pancrazi (RAI), Mauro Rossi («Il Pesaro»), Claudio Salvi («Il
Messaggero»), da Gualtiero De Santi (saggista e docente universitario) e da
Fiorangelo Pucci (direttore del Fano International Film Festival). I cortometraggi vincitori del Concorso vengono quindi proiettati di nuovo (e i loro autori premiati) nel corso della serata conclusiva della Mostra, in Piazza del
Popolo.
Un apporto significativo al Concorso è sempre stato dato dall’Istituto Statale
d’Arte Scuola del Libro di Urbino. “L’attimo fuggente” si avvale della fondamentale collaborazione dell’Accademia di Belle Arti di Macerata.
Since 2000, the Pesaro Film Festival has been holding the “L’Attimo Fuggente” video
competition - open to students of all ages (elementary, middle, high school and university) - of short films of any topic, genre and language that must not exceed three
minutes and can be made using video, digital or film. Since 2006, the competition has
been limited to students from only the Marches region.
The best shorts are screened on video during the Pesaro Film Festival and the three
best works are chosen by a jury of experts, comprising journalists Paolo Angeletti (Il
Resto del Carlino), Alberto Pancrazi (RAI), Mauro Rossi (Il Pesaro), Claudio Salvi
(Il Messaggero), Gualtiero De Santi (essayist and university professor) and
Fiorangelo Pucci (director of the Fano International Film Festival). The winning
shorts are shown again during the Festival’s awards ceremony, in Piazza del Popolo,
at which the winning filmmakers are presented with their prizes.
“L’Attimo Fuggente” has since its inception received significant support from the
“Scuola del Libro” State Art Institute of Urbino. The competition also enjoys a crucial partnership with the Macerata Fine Arts Academy.
Video selezionati
The videos selected
Oltre l’infinito - studenti III C Scuola Media Cappella-Curzi di San Benedetto del Tronto (AP)
Non il mio nome - studenti Scuola Media Cappella-Curzi di San Benedetto del Tronto (AP)
Un sogno spezzato - studenti Istituto Statale Superiore Adriano Olivetti di Fano
Mai più - studenti II H Istituto Professionale Francesco Podesti di Chiaravalle (AN)
Marzia e le nuvole - Roberto Mezzano e Stefano Teodori, Accademia di Belle Arti di Urbino
Cybergirl - Giulia Baciocchi e Silvia Borroni, Accademia di Belle Arti di Macerata
Is Anothe World Possible? - Andrea Giancarli, Accademia di Belle Arti di Macerata
Another History of Violence - Alice Castiglione, Accademia di Belle Arti di Macerata
Fiori fra i rovi - Fabio Ferretti, Accademia di Belle Arti di Macerata
Young Emotion - Stefano Teodori, Accademia di Belle Arti di Macerata
Vita di 50 euro - Stefano Teodori, Accademia di Belle Arti di Macerata
Skermografia polifonika - Marco Di Battista, Accademia di Belle Arti di Macerata
Qual è la differenza? - Campetelli, Cuini, Ferrara, Rinaldi, Verdicchio
Accademia di Belle Arti di Macerata
Serenamente cane - Diego Capomagi, Accademia di Belle Arti di Macerata
New Family - Davide Rocco Coluccelli, Accademia di Belle Arti di Macerata
La tela - Stefano Ferrini, Accademia di Belle Arti di Macerata
Distruzione - Giacconi, Romagnoli, Tofani, Zampino, Accademia di Belle Arti di Macerata
Oro nero - Adriana Gonzales Toledo, Accademia di Belle Arti di Macerata
Notte di me - Luca Ricci, Accademia di Belle Arti di Macerata
This Is a Wonderlul Town? - Lara Sacripanti, Accademia di Belle Arti di Macerata
Menù del giorno - Gloria Tarquini e Giovanna Cocca, Accademia di Belle Arti di Macerata
Passi in volo - Eleonora Celi, Università di Urbino (sede di Pesaro)
Picture - Stefano Teodori, Università di Urbino
Macbeth - Giovanni Piscaglia, Pesaro, Istituto Europeo di Design
Ascolto dei sensi - Luciana Bencivenga, Istituto d’Arte Scuola del Libro di Urbino
Miraggio nel cassetto - Alessandra Maccari, Istituto d’Arte Scuola del Libro di Urbino
Risveglio - Valeria Prosperi, Istituto d’Arte Scuola del Libro di Urbino
A Francesca - Alessia Secondini, Istituto d’Arte Scuola del Libro di Urbino
Hecha con los pies - studenti III E e III I Istituto d’Arte Scuola del Libro di Urbino
Creazione - Marina Amatista, Istituto d’Arte Scuola del Libro di Urbino
Il nodo - Elisa Mossa, Istituto d’Arte Scuola del Libro di Urbino
Invisibile contemporaneità - Riccardo Spallacci, Istituto d’Arte Scuola del Libro di Urbino
Fuori concorso/Out of competition
She and the Gun - Rosanna Benvenuto
L’ATTIMO FUGGENTE
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Concorso Video/Video Competition
L’ATTIMO FUGGENTE
a cura di/curated by Pierpaolo Loffreda
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IL CINEMA A SOSTEGNO DELLE CAMPAGNE DI AMNESTY INTERNATIONAL
Amnesty International è un’Organizzazione non governativa, indipendente e imparziale,
fondata nel 1961 dall’avvocato inglese Peter Benenson, che opera in tutto il mondo per
difendere i diritti umani. Conta attualmente oltre due milioni di soci, sostenitori e donatori in più di 150 paesi; la sede centrale è a Londra. La Sezione Italiana di AI, costituitasi nel
1975, conta circa 80mila soci; la sede nazionale è a Roma.
Amnesty International svolge ricerche e azioni per prevenire e far cessare gravi abusi dei
diritti all’integrità fisica e mentale, alla libertà di coscienza e di espressione e alla libertà dalla
discriminazione. Nell’ambito della propria opera di promozione di tutti i diritti umani, organizza iniziative di natura educativa e formativa e attività di pressione e sensibilizzazione. La
visione di Amnesty International è quella di un mondo in cui a ogni persona sono riconosciuti tutti i diritti umani sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
Accanto alle campagne in corso, come quella per porre fine alla violenza sulle donne e alle
violazioni dei diritti umani nel contesto della “guerra al terrore”, Amnesty International ha
recentemente lanciato la campagna (((IO PRETENDO DIGNITÀ))), che intende mettere in
luce il legame tra la povertà e le violazioni dei diritti umani. La Sezione Italiana dell’associazione è inoltre impegnata per ottenere l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice
penale e, da alcuni anni, svolge azioni di sensibilizzazione e denuncia sulla deriva discriminatoria di leggi e pratiche istituzionali, che erodono sempre di più la tutela dei diritti umani
di gruppi vulnerabili quali migranti, richiedenti asilo, cittadini stranieri e minoranze etniche.
Negli ultimi anni il cinema si è rivelato un mezzo sempre più prezioso ed efficace per la promozione delle campagne in difesa dei diritti umani. In Italia, a partire dal 2005, l’associazione ha dato il patrocinio a oltre 15 pellicole che hanno contribuito a far conoscere a migliaia
e migliaia di persone le violazioni dei diritti umani in specifici paesi o problemi gravissimi
quali il traffico di armi o la violenza sulle donne. L’ultimo film patrocinato in ordine di
tempo è il vincitore dell’Orso d’oro a Berlino 2009, “Il canto di Paloma” di Claudia Llosa.
Accanto a specifiche collaborazioni con festival quali Human Rights Nights,
Cinemambiente, Est Film Festival, Cinema Senza Frontiere e Giffoni Film Festival, per la
terza volta la Sezione Italiana di Amnesty International è presente alla Mostra
Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro con un premio, intitolato “Cinema e diritti
umani”, al film che, trasversalmente tra le varie sezioni, avrà saputo meglio descrivere le
tematiche relative ai diritti umani.
Questo premio testimonia ancora una volta l’importanza del connubio tra cinema e diritti
umani e la fiducia che Amnesty International ripone nel veicolo cinematografico per sensibilizzare il pubblico sui temi delle sue campagne.
Info: +39 06 4490212 , +39 320 6196321
comunicazione@amnesty.it - www.amnesty.it
198
CINEMA AND AMNESTY INTERNATIONAL’S
HUMAN RIGHTS CAMPAIGNS
Amnesty International (AI) is an independent non-governmental organization for the international recognition of human rights, founded in 1961 by British lawyer Peter Benenson. It currently
counts over two million members, supporters and subscribers in over 150 countries and is headquartered in London. The Italian Section of AI, founded in 1975, has approximately 80,000 members and
is headquartered in Rome.
Amnesty’s mission is to undertake research and action focused on preventing and ending grave
abuses of the rights to physical and mental integrity, freedom of conscience and expression, and freedom from discrimination. In pursuit of this vision, AI organizes educational and training activities
and pressure and awareness campaigns. Amnesty International envisions a world in which each person’s rights as stated by the Universal Declaration of Human Rights are recognized.
Alongside current campaigns such as ending violence against women and the violations of human
rights as part of the “war on terror,” Amnesty International recently launched the campaign (((IO
PRETENDO DIGNITÀ)))(“I Demand Dignity”) to bring to light the connection between poverty
and human rights violations. The Italian Section of AI is furthermore committed to introducing the
crime of torture into the country’s penal code and has for years been undertaking actions to raise
awareness and denounce the discriminatory laws and institutional practices that increasingly erode
the protection of human rights for vulnerable groups such as immigrants, asylum seekers, foreign
citizens and ethnic minorities.
In recent years, cinema has proven itself to be an increasingly invaluable and efficient tool in promoting campaigns for the defense of human rights. In Italy, since 2005, Amnesty has given its
patronage to over 15 films that have contributed to revealing to thousands of people the human
rights violations in specific countries, or profoundly grave problems such as arms trafficking and
violence against women. The latest such film was 2009 Berlinale Golden Bear winner The Milk of
Sorrow by Claudia Llosa.
Along with collaborating with festivals such as Human Rights Nights, Cinemambiente, Est Film
Festival, Cinema Senza Frontiere and Giffoni Film Festival, for the third consecutive year, AI’s
Italian Section is proud to return to the Pesaro Film Festival with the Cinema and Human Rights
Award, presented to the film that of all the sections best describes themes relating to human rights.
This prize once again bears witness to the fundamentally important union between cinema and
human rights and the trust that Amnesty International places in film as a medium for raising
awareness among audiences about the subjects of its campaigns.
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
IN DIFESA DEI DIRITTI UMANI
Info: +39 06 4490212 , +39 320 6196321
comunicazione@amnesty.it - www.amnesty.it
199
200
#1, 186
21:40, 81
A Declaration, 83
After, 79
Anonimatografo/Anonymatograph, 168
Apes.tv, 188
Autoritratto, 176
Autoritratto, 177
Avanim/Stones, 60-61
Avdei Ha’shem/Slaves of the Lord, 46-47
Babi Buta Yang Ingin Terbang
Blind Pig Who Wants to Fly, 102-103
Bahoz (Firtina)/The Storm, 106-107
Bufor/Beaufort, 42-43
Campo d’attenzione transitorio, 178
Chamisha Yamim/5 Days, 66-67
Children, 169
Commutazioni con mutazione
Commutations With Mutation, 165
Corto Circuito, 176
Crunchy Love, 175
Cuore di cane, 34-35
Description of a Memory, 48-49
Detail 4, 87
El árbol/The Tree, 32-33
Eoddeon gaien nal/The Day After, 26-27
Farfallio/Fluttering, 166
Father, 88
Figure instabili nella vegetazione
Unstable Figures Amidst Vegetation, 165
FILM IST. a girl & a gun, 100-101
Film stenopeico
(L’uomo senza macchina da presa)
Pinhole-film
(The Man Without A Movie Camera), 164
Filmarilyn, 163
Filmfinish, 164
Finestra davanti a un albero
Window In Front Of A Tree, 163
Fixer: The Taking of
Ajmal Naqshbandi, 30-31
Fratelli Fava, 179
Hell Angels, 86
Historia shel h’akolnoa ha’israeli
A History of Israeli Cinema, 56-57
Hospice, 96-97
I volti dell’anonimo
Faces By a Person Unknown, 168
I’m a Junkie, 177
Immagini disturbate da un intenso parassita
Images Disturbed By An Acute Parasite, 161
Immagini travolte
dalla ruota di Duchamp
Images Overtaken By
The Wheel Of Duchamp, 162
Interlinea/Frameline, 167
Interview, 174
KA, 175
Kara Köpekler Havlarken
Black Dogs Barking, 20-21
LIST OF FILMS
Karov la’bait/Close To Home, 50-51
King Kong at the End of the World, 179
Kings of the Hill, 83
Knafayim Shvurot/Broken Wings, 38-39
L’operatore perforato
The Perforated Cameraman, 169
La controvolontà, 190-193
La fisica dell’acqua
The Physics of Water, 104-105
La pivellina/Non è ancora domani, 22-23
La Sirena y el Buzo
The Mermaid and the Diver, 28-29
Layla afel/Dark Night, 79
Lungomare Adriatico.
Sette variazioni per un’onda, 14-15
Mahsomim/Checkpoint, 68-69
Malaysian Gods, 90-91
Matana Mi’shamaim
Gifts From Heaven, 52-53
Medicine for Melancholy, 24-25
Meeting the S.E.W.A. Movement, 108-109
Metamorfoso/Metamorphous, 162
Mother Economy, 76-77
Muro contro Muro, 187
Odds and Ends, 83
Odessa… Odessa!, 40-41
Or, 74-75
Quando la pellicola è calda
When The Film Gets Hot, 167
Rachel, 94-95
Rothkofilm, 161
Secondo il mio occhio di vetro
According To My Glass Eye, 161
Shiva/Les sept jours, 44-45
Shnat Effes/Year Zero, 62-63
Shopping Day, 88
Sirenís Song, 83
sng09, 185
Sommovimenti/Extremotions, 164
Stealing Beauty, 84
Summer Camp, 83
Sweetgrass, 92-93
T.M.B. , 85
Tehilim, 58-59
The Choice, 178
The Confessions of Roee Rosen, 64-65
The Insomniac City Cycles, 70-71
The State of Judeo-Arabia, 82
The Time That Remains, 110-111
Tracce di tracce/Traces Of Traces, 164
Traumatografo/Traumathograph, 166
Vietato sognare/Forbidden Childhood, 98-99
Volto sorpreso al buio
Face Caught In The Dark, 169
Volto telato/Face: Canvas: Texture, 165
When Adar Enters, 83
Yaldei ha’shemesh
Children of the Sun, 72-73
Yamim Kfuim/Frozen Days, 54-55
Zohar, 79
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
INDICE DEI FILM
201
202
Agostini Nicoletta, 174
Amir Muhammad, 90-91
Arad Boaz, 81
Arzuffi Elena, 175
Attia Yossi, 82
Bahadir Er Mehmet, 20-21
Barancelli Marco, 175
Barbash Ilisa, 92-93
Bartana Yael, 83
Ben Porat Ayelet, 85
Ben-Ner Guy, 84
Bergman Nir , 38-39
Bilu Vidi, 50-51
Bitton Simone, 94-95
Boganim Michale, 40-41
Caccia Andrea, 96-97
Castaing-Taylor
Lucien, 92-93
Cedar Joseph, 42-43
Covi Tizza, 22-23
Cupisti Barbara, 98-99
Deutsch Gustav, 100-101
Di Lecce Bruno, 176
Edwin, 102-103
Elkabetz Ronit, 44-45
Elkabetz Shlomi, 44-45
Farina Felice, 104-105
Fato Matteo, 176
Ferrato Mariana, 177
Fox Eytan, 79
Friedlich Hadar, 46-47
Frimmel Rainer, 22-23
Fumai Chiara, 177
Geva Dan, 48-49
Gioia Anna, 186
Gioli Paolo, 113-170
Gorbach Maryna, 20-21
Hager Dalia, 50-51
Jenkins Barry, 24-25
Kosashvili Dover, 52-53
Kratsman Miki, 81
Landriscina Cristina, 187
Lattuada Alberto, 34-36
Lee Suk-gyung, 26-27
Lerner Danny, 54-55
Levy Dana, 86
Luciani Paola, 178
Malvaso
Mariangela, 190-193
Mograbi Avi, 87
Moncada Rodríguez
Mercedes, 28-29
Nadjari Raphaël, 56-61
Novak Yasmine, 79
Olds Ian, 30-31
Olivi Valentina, 185
Öz Kazim, 106-107
Pitchhadze Joseph, 62-63
Pozzi Michela, 178
Prudovsky Lenoid, 79
Rose Itamar, 82
Rosen Roee, 64-65
Santini Mauro, 14-15
Serrano Azcona
Carlos, 32-33
Shamir Yoav, 66-69
Slavin Ran, 70-71
Solmi Federico, 179
Solomons Doron, 88
Spadoni Carola, 108-109
Suleiman Elia, 110-111
Tal Ran, 72-73
Terlizzi Cosimo, 179
Vagni Luca, 190-193
Vecchiarelli
Roberto, 190-193
Yedaya Keren, 74-75
Zack Maya, 76-77
INDICE DEI CONTATTI / CONTACTS
2.1 Films
60 Leroy St., 10014
New York, United States
Tel. +1 212 604 0768
noah@twopointonefilms.com
www.twopointonefilms.com
Nicoletta Agostini
www.lmakprojects.com
Amythos Films & Eden Productions
C/O Eden Productions,
84 Arlozorov St., Tel Aviv – 62647, Israel
Tel. +972-3-5273403
Fax +972-3-5236076
eden_e@netvision.net.il
Arte France
8 rue Marceau, 92785
Issy Les Moulineaux, France
Tel. +33 1 55007142
Fax +33 1 55007397
www.arte.tv/fr
Elena Arzuffi
www.elenaarzuffi.com
Babibutafilm
Jl. Madrasah no. 3B, Cilandak Timur,
Jakarta 12560, Indonesia
www.babibutafilm.com
Marco Baroncelli
marco.baroncelli@fastwebnet.it
Bavaria Film International
Bavariafilmplatz 8,
D-82031 Geiselgasteig, Germany
Tel. +49 089 6499 3506
Fax +49 089 6499 3720
bavaria.international@bavaria-film.de
BIM
Via Marianna Dionigi, 57,
00193, Roma, Italia
Tel. +39 06.3231057 - Fax +39 06.3211984
bimfilm@bimfilm.com - www.bimfilm.com
Bleiberg Entertainment
9454 Wilshire Blvd., # 200, 90212
Beverly Hills, United States
Tel +1 310 273 0003 - Fax +1 310 273 0007
info@bleibergent.com
www.bleibergent.com
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
INDICE DEI REGISTI / DIRECTORS
BVNG Productions
15, rue des Platriéres, F-75020 Paris, France
geoffroygrison@bvng.com
The Center for Contemporary Art
Tel. +972 03 51061111
Fax +972 03 5106112
info@cca.org.il
Cinephil
Philippa Kowarsky
18 Levontin st., Tel-Aviv 65112, Israel
Tel. +972-3-566-4129 - Fax +972-3-560-1436
info@cinephil.co.il - www.cinephil.co.il
203
INDICE DEI CONTATTI
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Da Huang Pictures
118A Jalan Sultan Abdul Samad, 50470
Kuala Lumpur, Malaysia
Tel. +60 3 2273 9496
Fax +60 3 22749496
info@dahuangpictures.com
www.dahuangpictures.com
204
Bruno Di Lecce
www.brunodilecce.com
DPI
11 rue Marbeuf, 75008 Paris, France
Tel. +33 1 42 89 23 11
mail@DPIcinema.com
Eden Productions
84 Arlozorov st., Tel Aviv
62647, Israel
Tel. +972-3-5273403
Fax +972-3-5236076
info@edenproductions.co.il
www.edenproductions.co.il
Estar Ahi Cinema
Hilarion Eslava 27-7°
D, 28015 Madrid, Spain
Tel. +34 625640062
csaminister@gmail.com
Matteo Fato
www.matteofato.com
Mariana Ferratto
marianaferratto@yahoo.it
Films Distribution
34 rue du Louvre, 75001 Paris, France
Tel. +33 1 53103399 - Fax +33 1 53103398
info@filmsdistribution.com
www.filmsdistribution.com
First Hand Films
Schaffhauserstrasse 359
8050 Zurich, Switzerland
Tel. +41 1 3122060 - Fax +41 1 3122080
info@firsthandfilms.com
www.firsthandfilms.com
Fortissimo Films
Van Diemenstraat 200 , 1013 CP
Amsterdam, Netherlands
Tel. +31 20 6273215 - Fax +31 20 6261155
info@fortissimo.nl
www.fortissimofilms.com
Chiara Fumai
www.myspace.com/mybeardedpippi
G Films
275 East 10th Street, #5 , New York,
NY 10009, United States
nanceelou@gmail.com - www.fixerdoc.com
Habayit Hakatom
Tel./Fax +972-3-516025
ariale@013.net
IFC Films
11 Penn Plaza 18th Floor 10001
New York, United States
Tel. +1 646 2737336 - Fax 1 646 2737260
info@ifcfilms.com - www.ifcfilms.com
IMCINE
Insurgentes sur 674, Colonia del Valle Piso
2 03100, Mexico City DF, Mexico
Tel. +52 55 5448 5344
Fax +52 55 5448 5380
mercaint@imcine.gob.mx
www.imcine.gob.mx
JCS Productions
22 Isserlis St., 67014 Tel Aviv. Israel
Tel. +972 3637 0500 - Fax +972 3637 0505
noa-wi@jcsproductions.co.il - www.jcs.co.il
J.M.T. Films
20 Bialik st., Tel Aviv 63324, Israel
Tel. +972 3 5254782
jmtreves@012.net.il - www.JMTFilms.com
Kara Kirmizi Film
Pehlivan Yani Sokak no 8-2 Ortaklar Cad
Mecidiyekoy, Istanbul, Türkiye
Tel +90 533 5230663
Fax +90 2123474813
karakirmizi@hotmail.com
www.karakirmizifilm.com
Korean Academy of Film Arts (KAFA)
337-8 Seogyo-dong, Mapo-gu, Seoul, Korea
Tel. +82 2 3326087421 - Fax +82 2 3326010
qksilver@kofic.or.kr - www.kafa.ac
Lama
17 Bar Ilan St. Tel Aviv, Israel
Tel. +972-3-6850430 - Fax +972-3-6869793
lama@barak.net.il
Latido Films
c/o Veneras 9, 6º, Madrid, 28013, Spain
Tel. +34 9 1548 8877 - Fax +34 9 1548 8878
www.latidofilms.com
Les Acacias
122, rue La Boétie, Paris 8, France
Tel. +33 01 56692930
acaciasfilm@wanadoo.fr
Les Films du Losange
22 Av. Pierre 1er de Serbie
75116 Paris, France
Tel. +33 1 44438726
Fax +33 1 49520640
www.filmsdulosange.fr
Paola Luciani
www.myspace.com/paluc
Mantarraya Producciones
Sultepec 47 Col. Hipódromo Condesa,
06170 México DF, Mexico
Tel. +52 55 52739307
jaime@mantarraya.com
www.mantarraya.com
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
CJ Entertainment Inc.
2nd FL. 602, Sinsa-dong, Gangnam-gu,
Seoul, 135-893 Korea
Tel. +822 2017 1094/1192
Fax +822 2017 1240
erickim@cj.net - mkchae@cj.net
www.cjent.co.kr/eng
CONTACTS
Metro Communications
34 Allenby St., 63325 Tel-Aviv, Israel
Tel. +972 3 5177101 - Fax +972 35103311
metro@metrocom.co.il
Mezopotamya Sinema
Cd. Duvardibi Sk. 61/2 Kismet Han
34373, Sisli, Istanbul, Turkiye
Tel. +90 212 232 60 63
Fax +90 212 230 31 43
info@mezopotamyasinema.com
www.firtinafilmi.com
Mikado
Via Vittor Pisani, 12, 20124, Milano, Italia
Tel. +39 02 679790/06 3244989
Fax +39 06 66711488
mikadoro@mikado.it - www.mikado.it
205
INDICE DEI CONTATTI
Nina Film
V. Ippocrate, 116, 00161 Roma, Italia
Tel. +39 06 49772125 - Fax +39 06 4467446
info@ninafilm.it - www.ninafilm.it
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Nocturnal Rainbow
8 Yehuda Halevy st, Tel Aviv, 65135, Israel
Tel. +972 545 741815 - Fax+972 3 5162601
www.ranslavin.com - info@ranslavin.com
206
Norma Productions LTD
Levontin 18, Tel-Aviv, 65112, Israel
Tel. +972 3 5609311/2 - Fax +972 3 5609443
www.norma.co.il - info@norma.co.il
Officine UBU
via Imbonati, 4, 20159 Milano, Italia
Tel. +39 0287383020/89959951,
+39 0662290242 - Fax +39 0287383024
www.officineUBU.com
Peabody Museum
Harvard University, 11 Divinity Avenue,
Cambridge, MA 02138, United States
Tel. +1 617 496 1525
barbash@fas.harvard.edu
Michela Pozzi
www.michelapozzi.net
Profile Productions Ltd
5 Shderot Hayotzer Str.
Tel-Aviv, 62746, Israel
Tel. +972-3-6055955 - Fax +972-3-6059940
l.m@orange.net.il
Roadmovie
info@roadmovie.it
Roee Rosen
P.O. Box 326, B’nai Zion, 60910, Israel
Tel. +972 9 7439947
agrosen@netvision.net.il
Shilo Films
113, rue Vieille du Temple,
75003 Paris, France
Tel. +33 1 48789836
Fax +33 1 48781694
shilo@shilofilms.com
Sixpackfilm
Neubaugasse 45/13, P.O.Box 197,
A-1071, Wien, Austria
Tel. +43 1 52609900 - Fax +43 1 5260992
office@sixpackfilm.com
www.sixpackfilm.com
Federico Solmi
www.federicosolmi.com
Sonatine Films
17 avenue George V, 75002, Paris, France
Tel. + 33 1 45631668
Fax +33 1 45631668
sonatinefilms@noos.fr
Carola Spadoni
screen@carolaspadoni.net
www.carolaspadoni.net
Strike Anywhere
11638 Riverside Dr. Ste.5 91602 North
Hollywood, United States
Tel. +1 310 927 5330 - Fax +1 310 927 5330
strikeanywherefilms.com
Tel Aviv University Film & TV Dept.
P.O.Box 39040, Mexico Bldg. Room 18,
Ramat Aviv 69978, Israel
Tel. +972 3 6406836
sffoc@tauex.tau.ac.il
Cosimo Terlizzi
cosimo.terlizzi.googlepages.com
Thaleia Production
216, Boulevard Saint Germain,
75007 Paris, France
Tel. +33 1 53635050
Fax +33 1 53573740
Transfax Film Production
Ltd., 3 Yagia Kapayim Street,
Tel Aviv 67778, Israel
Tel. +972 3 6871202 - Fax +972 3 6871499
sales@transfax.co.il
marek@transfac.co.il
www.transfax.co.il
UCCA
Unione dei Circoli Cinematografici ARCI
Via dei Monti di Pietralata, 16, 00157
Roma, Italia
Tel. +39 06 41609220/225
ucca@arci.it
Umedia
Tel. +33 1 4870 7318 - Fax +33 1 4972 0421
contact@umedia.fr
United King Films
47100 Ramat Hasharon, Israel
Tel. +972 3690 9999
Fax +972 3699 7022
avitalr@unitedking.co.il
www.unitedking.co.il
Vento Film
Leitermayergasse 33/20
A-1180 Vienna, Austria
Tel. +43 1 4060392 - Fax +43 1 4060392
www.ventofilm.com
www.lapivellina.com
contact@ventofilm.com
Wide Management
40 rue Sainte Anne 75002, Paris, France
Tel. +33 1 53950464
Fax +33 1 53950465
wide@widemanagement.com
www.widemanagement.com
Wild Bunch
99 rue de la verrerie
75004 Paris, France
Tel. +33 1 53015030
Fax +33 1 53015049
avicente@wildbunch.eu
www.wildbunch.biz
45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Moby Dick Films
12 rue du Mont Thabor, Paris 75001, France
Tel. +33 1 53200209 - Fax +33 1 53200812
contact@mobydickfilms.fr
CONTACTS
Yap›m 13 Film Prodüksiyon
Elmadag Caddesi, Duvardibi Sokak,
No: 61/2, Sisli, Istanbul, Turkiye
Tel. +90 2122326063
Fax +90 2122303143
info@mezopotamyasinema.com
yapim13@hotmail.com
www.mezopotamyasinema.com
Year Zero - Limited Partnership
P.O.B 14178, Tel-Aviv 61142 Israel
Tel. +972 544746933
Fax +972 3 5608197
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THE END
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