Projects

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La forma deve nascere insieme
al suo scheletro. E l’attenzione
al numero matematico che
controlla la forma dello
scheletro, ovvero la struttura
portante, è il modo scientifico
per definire la forma dello
spazio architettonico e riuscire,
nell’architettura del futuro, a
materializzare la funzione
dello spazio nelle sue
mutazioni.
Form must take shape together
with its skeleton. And studying
the mathematical numbers
controlling the actual form of a
skeleton or, in other words, the
support structure, is the scientific
way of determining the form of
architectural space and
materializing the function of
space and its transformations in
tomorrow’s architecture.
Struttura e Forma
Structure and Form
Il numero che regola il progetto
The Numbers that govern the Design
Mario Antonio Arnaboldi*
N
el mondo della ricerca occorre affrontare i
temi con spirito di creatività e determinazione. È anche vero che fare ricerca signifi1
ca applicare la teoria della serendipità , cioè operare, in un percorso definito, per ottenere una
meta che, in molti casi, porta alla scoperta di ben
altro, forse di qualcosa di più importante. La teoria serendipica di Cristoforo Colombo, che impostò il suo viaggio su una rotta ben precisa per
raggiungere l’India e che, in effetti, scoprì l’America. Nel mondo della ricerca, nel campo della
progettazione, la rotta che oggi ci si pone è quella di percorrere la via più diretta che porta ad ottenere un nuovo spazio per l’uomo; una struttura abitativa diversa, in grado di aderire alle domande emergenti. Ma quale via, quale nuovo
spazio e rispetto a cosa? Soprattutto rispetto a
una concreta celebrazione della nostra modernità, nell’intento di mutare i comportamenti del
vivere quotidiano. Ciò sta a significare l’impegno
per una ricerca che deve essere compiuta per individuare quegli ambienti eccellenti dove l’industria, attraverso le più recenti tecnologie, si metta
in gioco come parte attiva e fattiva dell’edificazione, cioè, per realizzare una fattura industriale
degli edifici. Come mai lo stato dell’architettura
italiana è ancora fermo su posizioni romantiche,
destinate solo a riciclare un passato ormai sepolto sotto il mattone?
Il muro di Berlino ci insegna moltissimo a questo
proposito, sia sotto l’aspetto della sua fisicità,
che sotto l’aspetto del suo profondo significato
morale. Ed è sul senso morale, sull’onestà, che
deve basarsi la nuova ricerca, che è costretta
spesso a superare le lacune legate alla formazione universitaria, ferma da troppi anni su posizioni
non innovative, su insegnamenti tanto differenti
da quelli delle università straniere, in particolare
dalla metodologia anglosassone, dall’innovazione giapponese e dalla scientificità tedesca. Il sapere professionale frammentario che alberga
nelle attività italiane riferite all’arte dell’edificare,
cioè alla professionalità degli architetti, degli ingegneri edili, dei geometri o dei periti edili, ne è
un chiaro indice e necessita di una riunificazione
che si deve fondare sul sapere universale dell’architettura.
L’atto architettonico è un atto unico, è un fatto
unitario che rappresenta le necessità degli uomini ma, soprattutto, deve fondarsi sulla ricerca di
nuovi bisogni. Non si può frammentare l’architettura, è un unicum inscindibile, che non deve
basarsi sulle specializzazioni settoriali, data l’u-
nità morale e sentimentale insita nel progetto
stesso. Non ha più senso che un ingegnere aiuti
un architetto a progettare e a disegnare la struttura portante dello spazio, come se fosse un fatto
a sé stante. La forma deve nascere insieme al suo
scheletro, come madre natura ci ha sempre insegnato. Uno scheletro umano non può che generare delle forme umane che, anche se diverse per
tipologia, sono simili fra loro, sono sempre uomini. Viceversa, un diverso tipo di scheletro è in grado di formare un nuovo animale, di dare vita a
una nuova forma, a un nuovo spazio radicalmente diverso, insomma, una nuova architettura.
Ecco che tutto ciò fa scaturire la prima osservazione sulla formazione universitaria. Finché in
università si insegna a disegnare copiando, invece di disegnare pensando, non raggiungeremo
mai una formazione completa per i futuri operatori dell’architettura. Finché nella professione
nasceranno architetti o ingegneri specializzati
nella progettazione di piscine, ospedali, piuttosto che di alberghi o di sedi di università, non riusciremo più a comporre il nuovo progetto. Purtroppo ciò succede anche nella selezione dei professionisti per i Concorsi d’Architettura. È come
se un architetto, un vero progettista, non uno
specializzato, fosse in grado di disegnare solo un
cucchiaio o solo una città. Il punto ritorna alla conoscenza, il nodo chiave è quello di affrontare
l’architettura nei suoi veri contenuti, cioè esattamente quelli che la compongono: la struttura, le
ossa, gli impianti, le arterie, l’immagine, l’ambiente e via dicendo. Deve nascere una nuova
metodologia, capace di modificare l’approccio al
progetto e impedire che la così detta architettura
Hi-Tech, ormai morta, continui nelle sue sterili
apparizioni. Occorre una nuova concezione del
sapere, legata alle macchine della matematica, ai
più sofisticati calcolatori, ai recenti computer,
unitamente ai software emergenti e ai più avanzati programmi di calcolo. Gli algoritmi, i frattali,
la sistematica delle forme matematiche, delle
equazioni di terzo grado, delle cubiche, delle coniche, sono il nuovo humus sul quale si deve appoggiare il progetto, se non si vuole che l’architettura nostrana contemporanea venga saltata
nella storia recente. Anche l’aggiornamento del
prodotto industriale deve passare da questa via
che, in modo serendipico, porterà ai futuri risultati che saranno di impostazione diversa e dimostreranno che l’architettura sa volare. Tutto ciò è
come il numero che regola lo spazio e il tempo
dei fotogrammi di un film che permettono il
STRUTTURA STRUCTURE
montaggio della sua storia; è simile al numero
che monta l’architettura nello spazio e nel tempo, che definisce la sua immagine nella percezione dell’uomo attraverso lo spazio. L’architetto
Rem Koolhaas si è reso conto, da valido professionista quale è, che anche la città può formarsi
nel medesimo modo. Non esistono remore, non
devono esistere perplessità, perché la scienza
matematica ormai si è divulgata attraverso i calcolatori ed è diventata accessibile anche al più
umile operatore. Si dice che la guerra abbia trasformato il contadino in operaio, per avergli fatto
maneggiare le armi; il computer è simile a un’arma per conquistare il progetto di architettura.
È in questo modo che, oggi, si sta assistendo all’emergere di una nuova generazione di personaggi in grado di maneggiare il numero del calcolo statico, attraverso sofisticati programmi,
che danno la possibilità ai giovani progettisti di
scrutare il futuro, composto da realtà ormai non
più virtuali. Basta osservare il lavoro dei programmatori dei film di fantascienza, oppure le bellissime strutture dei video game, per scoprire che,
oggi, vi sono personaggi, alimentati da grande
passione e sensibilità, in grado di raccontarci come sarà in futuro il nostro spazio abitativo. Viene
in tal modo chiaramente indicata l’evoluzione cui
è destinata l’architettura.
Occorre fare presto, non per modificare gli animi
ma solo per alimentare il nostro pensiero e tenderlo alla ricerca, quella costruttiva, quella che
stupisce, quella che ci fa sperare che l’architettura
non è morta, ma che si deve rinnovare tutti i giorni. I programmi a elementi finiti, che raccolgono
le sollecitazioni unifilari riferite ai baricentri delle
masse, come il programma Sargon sa descrivere,
piuttosto che i Software, ad alto contenuto matematico, come Strucad, che trasferisce i risultati
nella materia, nei profilati in ferro, nel cemento,
nella plastica, la gomma e che generano, poi, le
sezioni adatte al più alto valore di resistenza.
Tutto ciò sta a significare che l’hardware e il
software, ben combinati, sono in grado di materializzare, in modo nascosto, il lp (raggio d’inerzia)
dell’ellisse centrale, piuttosto che il metodo grafico di Karl Culmann.
È la magia del nostro tempo che trova delle remore solo negli architetti romantici, che continuano
a voltarsi indietro pensando che l’architettura sia
già stata inventata.
Il progetto è come un romanzo perché tutti e due
sono un racconto. Il racconto per il progetto architettonico nasce nel magico momento della
creatività, nasce nel momento di chi vuole approfondire il proprio studio nella logica della trasformazione, nelle radici del mutamento che, co-
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La materia modellata
secondo la nuova
matematica algoritmica.
Il disegno raffigura una
parte della struttura in
ferro del Main Complex
di AFI South-Lagopatria
(Napoli), dello Studio
Arnaboldi;
elaborazione attuata
con software Strucad
da Davide Benini.
Matter shaped according to the latest algorithmic mathematics.
The drawing shows part
of the iron structure of
the Main Complex of
AFI South-Lagopatria
(Naples) designed
by Studio Arnaboldi;
Cad rendering using
Strucad software
by Davide Benini.
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me insegna la natura, nasce dal telaio che la sopporta.
Pensare al mutamento della struttura significa, obbligatoriamente, porsi nella condizione di rispondere alle
ragioni per cui l’architettura, lo spazio dell’uomo, lo
spazio vuoto che forma la città, esistono.
Esistono perché sono la forma che deve equilibrare la
spinta della natura con il valore del nostro sentimento.
La spinta del vento, dell’acqua che scivola sulle superfici inclinate della sua pelle; le aperture per accogliere
e controllare la luce, trattenere o isolare il caldo o il
freddo, tutte vere e proprie forze che modellano lo
spazio e sono destinate a dettare la forma ottimale per
suggerire un’architettura differente tra il polo e l’equatore.
Non vi è nulla di statico, nulla di scoperto, nulla di definito in questo mare di direzioni e di rotte; diventa veramente indispensabile aspettarci sempre di più e di
diverso se la serendipità ci accompagna nella nostra
predisposizione a trovare il nuovo, il bello, l’utile, la
forma, l’arte. Se poi si pensa che la struttura, che definisce le forme, racchiude al suo interno la forza della
nostra spiritualità, tutto questo ci spinge a volere ciò
che più è consono al nostro vivere nel momento della
nostra partecipazione alla modernità.
Si capisce come queste tensioni devono essere in grado di modellare la materia attraverso il numero matematico, il numero scientifico, insomma, il sapere latu
sensu, capace di usare le stesse forze che la natura usa
per formare una conchiglia, un fiore, l’ala di un uccello. La forza dell’acqua, che modella la prua di una nave, ha lo stesso potere della resistenza del vento in
grado di modellare un aereo; tutto allora risponde alla
funzione, all’utile, al bello.
Per l’architettura occorre che l’autore costruisca il racconto, che l’architetto, ricco delle nuove conoscenze,
sia in grado di costruire, in modo unitario, una storia
che rispetti le funzioni del progetto contemporaneo.
Occorre un racconto in grado di modificare la struttura per ottenere un nuovo spazio, uno scheletro che
tenga conto di tutte le implicazioni dell’architettura e
che non imponga la semplice composizione di una
facciata, il taglio di una finestra, l’orditura di un mattone, il displuvio di un tetto; insomma, una struttura
globale che diventi, nel suo insieme, un evento architettonico, in grado di generare un organismo per vivere. Un organismo che, a sua volta, sia capace di generare la nuova città attraverso spazi che si penetrano e
si compenetrano, in modo che il luogo della vita diventi un tutt’uno con la nostra mobilità nel tempo, un
organismo in grado di esprimere la fusione della nostra fisicità con la nostra spiritualità, nell’intento di
una vita sociale a noi consona.
1. Serendipità, dall’inglese serendipity, è un termine coniato nel 1754
da Horace Walpole e indicante il fare per caso delle scoperte, senza
indagini sistematiche. Il termine deriva da Serendip, nome arabo dell’isola di Ceylon e si riferisce a una leggenda sui principi di Serendip
che, viaggiando, non facevano che scoprire, grazie sia al caso, sia alla
loro acutezza, cose di cui non erano in cerca. Il termine è stato preso
nel linguaggio scientifico dal fisiologo statunitense Walter Bradford
Cannon.
* Mario Antonio Arnaboldi è Medaglia d’Argento del Politecnico di
Milano per i 40 anni d’emerita docenza. È vicedirettore della rivista
l’Arca. Opera con lo Studio Architetti Associati Arnaboldi & Partners,
Milano. Tra i progetti più recenti: Cargo City – Aeroporto Malpensa
2000; Calcoli strutturali della Nuova Sede NATO – Afsouth 2000 –
Lagopatria, Napoli; Palazzo Comunale di Casalpusterlengo.
Pubblicazioni: La città visibile, l’Arcaedizioni, 1992; Progettare oggi,
l’Arcaedizioni, 1992; Il senso universale dell’architettura, Liguori
Editore, 1993; Il giudizio universale, l’Arcaedizioni, 1995; La disciplina del progetto, Clup, 1989; Genesi della forma, Marsilio Editore,
1966; Genesi e propedeusi al progetto, Silvia Editrice, 1987; Atlante
degli impianti sportivi, Hoepli, 1982.
R
esearch must be driven by creativity and determination. There can be no doubt, too, that doing research also means applying the theory of
serendipity1, i.e., following a set route to a predetermined goal which often leads to quite a different discovery, that often times turns out to be even more
important. The theory of serendipity is epitomized by
Christopher Columbus’s voyage to India, which actually led him to discover America.
Today, in the fields of research and design, the course
that has been set is that of the most direct route to
creating a new space for people to inhabit; a different kind of structure to live in; one that caters to
emerging needs. But which route, which new space
and in relation to what? A course that is a real celebration of our modernity with the goal of changing
our everyday behavior. This means orienting our research toward finding ideal surroundings in which industry can apply the latest technology to play an active and effective role in building, in other words, we
are talking about creating buildings in an industrial
manner. Why is Italian architecture still stuck on romanticism, merely recycling a past that is now dead
and buried beneath a pile of “bricks”?
The Berlin Wall is extremely instructive in this respect,
both on a physical level and in terms of its deep moral
significance. And it is on morality and honesty that
this latest research must be based, since it must all
too often fill in the gaps in our university education,
which is so often stagnant and unlike that of foreign
universities, particularly those based on the AngloSaxon method, Japanese innovation and German scientific precision.
The fragmentary professional know-how that can be
witnessed in the Italian art of building, the professionalism of its architects, building engineers, and
building surveyors, is a clear sign of the need for a reunification that must be founded on a global architectural know-how.
Architecture is a uniform act, a unitary fact that translates human needs and, above all, that should be
grounded in the quest for new needs. Given the
moral and sentimental unity inherent in design, architecture cannot be divided up. It is an inseparable
whole that can not be based on separate, specialist
sectors. It no longer makes sense for an engineer to
“assist” an architect in planning and designing the
support structure of space, as if it were a separate element in its own right.
Form must take shape together with its skeleton, as
Mother Nature has always taught us. A human skeleton inevitably generates human shapes, which, although very different from each other, remain nevertheless human beings. In order to change, therefore,
a new type of skeleton must be created to form a
new animal, giving life to a new shape, a new and
radically different kind of space, in a word, a new architecture.
All this inevitably leads to a first comment about university education. As long as design in universities
means “copying,” rather than “thinking,” our architects of the future cannot be properly trained.
As long as our profession continues to produce architects or engineers specializing in the design of swimming pools and hospitals, rather than hotels and university buildings, we can never attain this new concept of architectural design. Unfortunately, the same
logic applies to the selection of participants in Archi-
tectural Competitions. It is as if an architect, a real designer not just a specialist, were only capable of designing a single spoon or a single city. The key to the
whole issue is “knowledge” and setting about tackling the real contents of architecture, its true constituents: structure, bones, systems, arteries, image,
environment and so forth.
A new methodology is necessary. A methodology capable of changing our approach to design and able
to stop the sterile development of so-called HighTech architecture, now dead and buried. We need a
new concept of knowledge closely linked to the
mathematical machinery, the most sophisticated recent computers, together with new software and
cutting-edge programs. If we want to ensure that
our modern-day architecture is not forgotten by recent history, algorithms, fractals, the systematics of
mathematical forms, third-degree equations and cubic and conic equations must come together to create the new breeding ground of design. Even the refurbishing of industrial products must follow this
path, which will lead (by serendipity) to future projects of a different nature, proving that architecture
can, in fact, fly.
This is similar to the guiding numbers that control
the space-time relations of the still shots in a movie,
essential in editing the story. It is also similar to the
numbers that set architecture in space and time,
defining how it is perceived through space.
As an expert, the architect Rem Koolhaas realized
that a city could be put together in the very same
way. Nothing need get in the way or perplex us, because, thanks to computers, mathematical science is
now widely available to even the humblest of operators. It is has been said that the war turned farmers
into workers by forcing them to take up weapons; a
computer is rather like a weapon for conquering architectural design.
This is how a new generation is now emerging, a
generation capable of handling static calculations by
means of sophisticated programs giving young designers the opportunity to look into a future that is
no longer made up of purely virtual realities.
Witness the work of programmers of science fiction
movies, or the wonderful structures of video games,
to realize that there are some people today fueled
with great passion and sensitivity and capable of
telling us what the space we live in will look like tomorrow. It is also a clear indication of how architecture is destined to develop. Nevertheless, we must
act quickly, not to alter our souls but simply to nourish our minds and focus on research. The kind that is
constructive and astounding, the kind that makes us
believe that architecture is not dead but that it is being re-invented every day.
Finite-element programs, like Sargon, that combine
the single-wire stresses and strains exercised on the
barycenter of masses, rather than the software with
high-tech mathematical content like Strucad, which
transfers the results into matter, iron sections, concrete, plastics and rubber, and which generates sections handling the highest resistances.
This implies that the thoughtful combination of
hardware and software can secretly give material
form to the p
l (inertial radius) of the central ellipse, as
opposed to Karl Culmann’s graphics technique.
This is our own modern-day magic, criticized only by
romantic architects, “frozen in time,” who still turn
their backs on all this in the firm belief that architecture has already been invented.
Design is like a novel in that both tell a tale. In architectural design the narrative is born in that magical
moment of creativity, the moment in which one
delves deeper into the logic of transformation, the
roots of change, which, as nature teaches us, find
their origin in the supporting structure. To consider
changing structure implies putting oneself in a position to cater to the very raison d’être of architecture,
i.e. the living space of man and the empty space of
the city. Architecture exists because it is the form
striking a balance between the force of nature and
the values of our feeling.
The way the wind blows and the water flows on the
skin; the openings to let in and control light, to retain
or insulate against heat and cold; these are all authentic forces shaping space and destined to dictate
the optimum shape of an architecture that will be different from the poles to the equator. Nothing static,
nothing already discovered, nothing definite in this
maze of different directions and routes; we must
continue to expect more and different things, if
serendipity is to accompany us in our quest for the
new, the beautiful, the useful, as well as form and art.
If, moreover, we consider that structure, which defines form, holds within it the essence of our spirituality, then we must seek the best way for us to live and
participate in modernity. It becomes clear how these
tensions must lead to the shaping of matter by means
of mathematical/scientific numbers, i.e. knowledge
in the broadest sense, using the same forces nature
uses to make a shell, a flower or a bird’s wing.
The power of water that shapes a ship’s hull is the
same as the force that the wind exerts on an airplane;
everything, then, corresponds to function, utility and
beauty. For architecture, the author must write his
own story, draw on his own wealth of knowledge to
construct a unitary narrative that respects the functions of modern-day design. The tale told must be capable of altering structure to create a new space, a
structure that takes into account all the implications
of architecture, rather than simply applying a façade
design, the cut of a window, a row of bricks or the
ridge of a roof. In other words, a global structure that
becomes an architectural event, the creation of an organism to live in. An organism which, in turn, can create a new city through interpenetrating spaces, so
that we can live in perfect harmony with our mobility
through time; an organism able to express the way
our physical nature fuses with our spirituality to create the ideal form of social life.
1. The term serendipity was coined by Horace Walpole in 1754 and
means making an unintentional discovery without any systematic
search. The word comes from Serendip, the Arabic name for the Island
of Sri Lanka (formerly Ceylon) and refers to a legend about the princes
of Serendip, who, while on their travels, kept making discoveries they
were not looking for, either by chance or cunning. The word was
incorporated in the language of science by the American physiologist
Walter Bradford Cannon.
* Mario Antonio Arnaboldi holds the Milan Polytechnic’s Silver Medal
for 40 years’ teaching and is Assistant Editor of l’Arca magazine. He
works with Studio Architetti Associati Arnaboldi & Partners, Milan. His
most recent projects include: Cargo City – Malpensa Airport 2000;
Structural computation for the New NATO Headquarters – Afsouth
2000 – Lagopatria, Naples; Casalpusterlengo Town Hall. Publications:
La città visibile, l’Arcaedizioni, 1992; Progettare oggi, l’Arcaedizioni,
1992; Il senso universale dell’architettura, Liguori Editore, 1993; Il
giudizio universale, l’Arcaedizioni, 1995; La disciplina del progetto,
Clup, 1989; Genesi della forma, Marsilio Editore, 1966; Genesi e propedeusi al progetto, Silvia Editrice, 1987; Atlante degli impianti
sportivi, Hoepli, 1982.
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Antropomorfismo strutturale
Structural Anthropomorphism
Toyota City, Toyota Bridge
Toyota City, Toyota Bridge
Progetto di Kisho Kurokawa Architect & Associates
Project by Kisho Kurokawa Architect & Associates
T
30
In queste pagine,
particolari del ponte,
che ha una larghezza
media di 20 m con
un massimo di 32,5 m.
Grande importanza
è stata data anche
al traffico pedonale cui
sono riservate due corsie
laterali larghe 10 m.
These pages. Details
of the bridge, which has
an average width of 20
m with a maximum
of 32.5 m. Pedestrian
traffic, for which two
10-meter-wide side
lanes have been
reserved, was also taken
into consideration.
oyota non è solo il logo di una delle maggiori industrie automobilistiche mondiali, ma
anche il nome di una città di 350 mila abitanti, distante un’ora di strada da un’importante
metropoli come Nagoya. Il centro urbano è stato
realizzato alla fine degli anni Trenta per accogliere
la comunità destinata alla produzione di auto e
quant’altro gira attorno al mondo dei motori. Il
Toyota Bridge rappresenta dunque un ulteriore
tassello che va ad aggiungersi a Toyota City,
creando cosi un importante collegamento fra la
città e il territorio circostante. Configurato come
una grande struttura zoomorfica, che rimanda all’impianto osseo di un misterioso animale preistorico, il Toyota Bridge privilegia nella distribuzione
dei percorsi il traffico pedonale, cui sono riservate
due grandi corsie laterali, larghe circa dieci metri.
Nonostante il ponte sorga nella più grande città
dell’automobile, si è voluto dare ampio spazio al-
l’uomo. Ciò spiega come la poetica progettuale di
Kurokawa metta sempre al centro del progetto il
rapporto fra l’uomo e l’architettura.
Fondatore, insieme a Kiyonori Kikutake, del Metabolismo, movimento sorto in occasione della
World Design Conference di Tokio del 1959, Kurokawa non ha mai smesso di ricercare nell’architettura funzioni e forme ispirate alla natura, ai
suoi processi vitali, alla ricerca di un equilibrio fra
spazio urbano e spazio esistenziale. Insomma, nel
Maestro giapponese non si è mai assopita la carica metabolista di un grande dell’architettura da
sempre impegnato nel confronto fra naturale e
artificiale. Soprattutto là dove ci siano da costruire manufatti architettonici di grande intensità
simbolica come il ponte, che rappresenta l’eterno
desiderio dell’uomo di superare i suoi limiti. Il
ponte rimanda infatti al volo, al salto nel vuoto
capace di rimediare alla mancanza d’ali. Ma il
Toyota Bridge è anche altro: è un segno forte nel
paesaggio. Un paesaggio che, nel caso di Toyota
City, è caratterizzato da dolci declivi collinari e
dalla presenza di ampi spazi verdi. In un simile
contesto, la “struttura nervosa” del nuovo ponte
emerge con grande intensità, con grande forza
segnica, divenendo punto di orientamento e fulcro visivo nel paesaggio. Da ovunque si osservi, il
ponte restituisce suggestioni sempre diverse: di
scorcio se ne apprezzano le linee arcuate, l’armonioso intreccio di tiranti; dal basso invece porzioni
di cielo colorano d’azzurro le asole di alleggerimento strutturale. Strutturalmente il ponte presenta un articolato blocco portante in calcestruzzo, mentre il resto è una mirabile opera di carpenteria metallica, realizzata totalmente a disegno.
Arcate e strutture sono infatti progettate per
creare una configurazione strutturale unica, destinata esclusivamente a risolvere la statica del
Toyota Bridge. Ciò fa di questo manufatto un’opera unica e irripetibile, poiché irripetibili sono le
situazioni orografiche delle sponde dei fiumi dove
lanciare i ponti. L’architettura può dunque essere
un’opera d’arte a scala territoriale?
Nel caso delle opere di Kurokawa certamente sì!
Nelle sue realizzazioni egli impiega materiali diversi, anche se spesso ricorrono il calcestruzzo e
l’acciaio, a patto che sia possibile plasmarne la
materia, dando forma a strutture mai standardizzate, poiché non vi è nulla di meno standardizzato di un luogo, di un territorio, di un paesaggio.
STRUTTURA STRUCTURE
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Pianta e viste del Toyota
Bridge, realizzato
da Kurokawa per
collegare Nagoya City
a Toyota City.
Plan and views of the
Toyota Bridge, designed
by Kurokawa as a link
between the city of
Nagoya and Toyota City.
32
T
oyota is not only the logo of one of the
largest automobile companies in the world,
it is also the name of a city with a population of 350,000, an hour’s drive from a major city,
Nagoya. The urban center was built toward the
end of the thirties to host a community destined
to work in automobile production and services.
The Toyota Bridge therefore, represents an additional feather in Toyota City’s cap, creating an important link between the city and the surrounding
area. Set up like a giant animal-shaped structure
that reminds the onlooker of some mysterious
prehistoric animal’s skeleton, the Toyota Bridge’s
layout favors pedestrian traffic, distributing two
ten meter-wide walkways on both sides of the
structure.
In spite of the fact that the bridge rises in the
largest automobile city in the world, there was a
strong desire to give man his own space. This attitude explains how Kurokawa’s design poetic always places the relationship between man and architecture at the center of his works.
The father, together with Kiyonori Kikutake, of Metabolism, a movement that emerged around the
time of the World Design Conference held in Tokyo
in 1959, Kurokawa has never ceased searching for
functions and forms inside his architecture that are
inspired by nature and its vital processes searching
for a balance between urban space and existential
area. In this Japanese master, the metabolist’s desire – which is so typical of him – for working eternally to blend the natural and the artificial has never waned with the passing of time. This is especially
true when it comes to building architectural constructions of great symbolic intensity such as the
bridge, which represents man’s eternal desire to
overcome his limits. The bridge reminds one of
flight, of the leap into space capable of making up
for the lack of wings. But the Toyota Bridge is even
more: it is a strong sign in the surrounding landscape – landscape that, in Toyota City’s case, is
characterized by soft slopes and the presence of
abundant greenery. In a similar context, the “nervous structure” of the new bridge emerges with
great intensity, with a great signifying force, becoming a point of orientation and a landmark.
From any given vantage point, the bridge supplies
ever-diverse suggestions: from a partial perspective, one can appreciate its arched lines and the
harmonious braided cables; from below, the sky
colors in light blue the openings designed to lighten the structure.
Structurally, the bridge presents an articulated concrete support block, while the rest is an admirable
work of metallic carpentry, fully created to design.
Arches and structures are designed to create a
unique structural configuration, destined exclusively to satisfy the equilibrium requirements of the
Toyota Bridge. This makes this architectural work a
unique and unrepeatable feat, akin to the mountainous landscape of the riverbanks from which
bridges protrude over the river. So, can architecture be a work of art on a territorial scale?
In the case of Kurokawa’s works, the answer is a
resounding yes! In his architectural constructions
he uses a variety of materials, even though concrete and steel are often the most common elements, as long as what he chooses can be molded,
modeled, giving form to structures that are never
standardized, because there exists nothing less
standardized in this world than a place, a territory
or a landscape.
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35
Se la città ha un cuore
If the City Has a Heart
Bilbao, Palacio Euskalduna
Bilbao, Palacio Euskalduna
Progetto di Soriano & Asociados
Project by Soriano & Asociados
A
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La facciata del Centro
Congressi. La forma
e i materiali utilizzati
nell’esterno dell’edificio
ricordano quelli di una
nave incagliata nei bassi
fondali del fiume.
The Conference Center
facade. The form
and materials used
for the outside of the
building are meant
to resemble a ship
stranded on the riverbed.
scolto il tuo cuore, città (Alberto Savinio,
1941) è un libro ma anche una straordinaria
metafora che evidenzia come ogni mutazione, ogni nuovo edificio siano battiti vitali per la
metropoli che cresce. Dunque, se la città ha un
cuore, l’architettura è il suo centro pulsante.
Bilbao, capitale basca da qualche anno al centro di
grandi lavori di riqualificazione, è certamente una
città con un cuore. Un cuore grande e complesso
come il Palacio Euskalduna, che rivela come l’architettura di qualità sia considerata dagli amministratori più illuminati potente motore per la promozione dei centri urbani. L’architettura più creativa è sempre ricca di metafore che ne rivendicano
il ruolo di vettori di immaginari, scaturiti spesso
dallo spirito del luogo.
In questo caso, il genius loci su cui lavorare era il
mondo degli arsenali, del porto fluviale di Bilbao,
con i suoi vascelli che dai luoghi più lontani ed esotici scaricavano merci e uomini nei magazzini delle
città dell’entroterra. L’immagine della nave arenata, con tutte le implicazioni del caso, è stata il concept su cui si sono concentrati gli architetti di Soriano & Asociados.
Attraverso un percorso di avvicinamento al nucleo
di quello che appare come un vascello in disarmo,
ma anche in via di costruzione e in perenne attesa
nel suo bacino di carenaggio, ci si accorge come la
fitta distribuzione di alberi metallici svolga egregiamente più funzioni. A cominciare da quella di
filtro per rallentare i flussi di visitatori ma anche di
supporto del sistema di illuminazione artificiale, fino a fungere da barriera frangivento e da schermo
per il soleggiamento, che da quelle parti è davvero
di forte intensità.
Il non finito, l’immaginario rarefatto del cantiere
con le sue strutture a vista che lasciano solamente
immaginare come potrà concludersi il tutto, sono
la cifra stilistica di questo grosso intervento di riqualificazione di un’area ex portuale, destinata a
divenire luogo di forti concentrazioni di capitali.
Anche capitali intellettuali poiché, secondo chi
guarda, il Palacio può assumere diverse connotazioni, diverse paternità progettuali: per esempio,
Carlo Mollino o Giovanni Battista Piranesi. Ciò dimostra che anche senza ricorrere a linguaggi codificati in tendenze consolidate, si possono ottenere
ottimi risultati.
Nel ventre del vascello, ovvero nelle stive del Palacio, trovano posto, in ordine sparso, tutta una se-
rie di spazi: sale conferenze, luoghi destinati agli
incontri e anche un teatro. Quest’ultimo pensato
come una sorta di personaggio notturno, qua e là
illuminato da soffitti solcati da file di luci e con una
platea con poltrone dai toni smorzati che facilitano quel senso d’intimità fondamentale per allacciare un giusto rapporto fra pubblico e scena.
In mezzo a tutti questi spazi, percorsi e luoghi troneggia l’enorme struttura in cui sono sistemati
tutti i dispositivi sceno-tecnici.
Ma se l’interno è una sequenza di spazi e funzioni
disseminati su livelli diversificati e altezze a volte
diverse solo per soggettive percezioni, ciò che
colpisce è l’esterno del complesso, che appare
come senza prospetti. O meglio, con una tale
STRUTTURA STRUCTURE
sfaccettatura di pieni e vuoti da rendere estremamente arduo ogni tentativo di dare un ordine a
tutto l’insieme.
Il Palacio è insomma una fitta distribuzione di
funzioni fra loro collegate attraverso percorsi in
quota, strutture in calcestruzzo concluse in capitelli svasati, che ne alleggeriscono il carico visivo.
A ben vedere, i rimandi stilistici vanno oltre quelli
molliniano e piranesiano, andando a confluire in
una sorta di stile vicino a quello di uno Scharoun,
rivisitato e aggiornato con ciò che si pensa avrebbe potuto fare oggi il grande Maestro razionalista avendo a disposizione tecnologie digitali e
materiali tecnologici, inesistenti ai suoi tempi.
Insomma, il Palacio Euskalduna è destinato a far
parlare di sé non solo per la sua intrinseca forza
evocatrice ma anche per la sua straordinaria mimesi con infinite poetiche.
Un’architettura che non si esaurisce nella sua
funzione pratica è destinata nel tempo a mutare
in testo, in struttura comunicante, in occasione
di riflessione critica.
Insomma, alcune architetture hanno la forza di
trasformarsi in scrittura.
In tal senso, vale la pena concludere con una citazione a Italo Calvino, che per le città “letterarie”
aveva particolare predilezione: “Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte”, dice Marco Polo
al Kublai Khan descrivendogli la città di Tamara
(Le città invisibili, Einaudi, 1972).
37
Particolare dell’accesso
principale dalla città
di fronte al Centro
Congressi del Palacio
Euskalduna a Bilbao,
inaugurato alla fine
del 1999.
Detail of the main
entrance from the
city facing the Palacio
Euskalduna Conference
Center in Bilbao, which
opened at the end
of 1999.
38
L
isten to Your Heart, City (Alberto Savinio,
1941) is not merely a book, it is an extraordinary metaphor that highlights how every
change, every new building constitutes a vital
heartbeat for a growing city.
Therefore, if the city has a heart, then architecture
constitutes its heartbeat.
Bilbao, the Basque capital that has been the focus
of great renovation and building transformation
efforts for several years now, is unquestionably a
city with a heart, a large and complex one like the
Palacio Euskalduna. This building reveals how the
most enlightened administrators consider quality
architecture to be a powerful engine for developing urban centers. The most creative architecture is
always rich in metaphors capable of asserting its
role of vector of imaginaries, often emanating
from the spirit of the place. In this case, the pervading spirit to be taken into account was the world of
shipping warehouses of the river port of Bilbao
whose vessels unloaded men and merchandise
coming from the farthest and most exotic locations
in the world bound for the warehouses of the inland cities. The image of the stranded ship, with all
its possible implications, was the concept upon
which the architects of Soriano & Asociados concentrated their efforts.
Through a path leading to the heart of what appears to be a laid up ship, but concurrently a ship
under construction endlessly waiting in dry dock,
one realizes how the generous distribution of metal cranes thoughtfully provides several functions at
once. It acts at once as a filter to slow the flow of
visitors, as well as a support structure for a system
of artificial lighting, and lastly, as a wind-breaking
barrier and a shade against the sun which can be
remarkably strong in this corner of the world.
The unfinished section – the subtle imaginary of
the work site with its open and visible structures
leave the spectator to imagine what the whole will
look like once complete – constitutes the stylistic
component of this enormous renovation project of
a former port area, now destined to become a concentration of investment and capital. The investment will be intellectual as well; depending on the
viewer’s perspective, the Palacio is capable of taking on numerous appearances and diverse design
origins: for example, Carlo Mollino or Giovanni
Battista Piranesi. This fact demonstrates how, even
without retreating to language codified in consoli-
dated trends, it is possible to obtain excellent results. In the belly of the ship, that is within the Palacio’s holds, a series of spaces find room in no particular order: conference rooms, areas destined for
meetings and even a theater. This last space has
been designed as if it were a nocturnal character,
randomly lit up by ceilings crossed by rows of
lights. Its audience floor, with soft-toned armchairs, facilitates the sense of intimacy so fundamental for establishing the right balance between
the public and the performers on stage. The enormous structure housing the theatrical equipment
towers over these spaces, pathways and places.
But if the inside is a sequence of spaces and function rooms spread over diversified levels and
heights – sometimes different from one another
for subjective perception – what strikes the visitor
is the complex’s exterior which appears devoid of
perspective. Or better yet, it appears to possess a
facade so filled with full and empty spaces that any
attempt to lend order to the whole would prove
extremely arduous.
The Palacio is essentially a close distribution of
functional areas connected with one another
through elevated pathways; steel-reinforced concrete structures crowned with embrasure capitals
that lighten the visual impact. Clearly, the stylistic
references go above and beyond those considered
to be of the Mollinian and Piranesian schools, flowing together into a style that is similar to a
Scharoun, revisited and updated by what the great
Rationalist master would have been able to accomplish with today’s digital and technological materials, unavailable in his day and age.
Essentially, the Palacio Euskalduna is bound to provoke discussion not only for the intrinsic evocative
force, but also for the extraordinary imitation of
various poetics.
An architecture that does not exhaust itself in practical functions is destined over time to turn itself into text, communicating structure and an opportunity of critical reflection.
Some architectural works exist with enough
strength to turn themselves into text. In this sense,
it is appropriate to conclude with a quotation from
Italo Calvino, who had a particular predilection for
“literary” cities, and wrote: “The glance runs along
streets as if they were written pages,” (spoken by
Marco Polo to the Kublai Khan, describing for him
the city of Tamara), (Invisible Cities, Einaudi, 1972).
39
In queste pagine,
particolare del foyer
con le passerelle
attraverso cui si accede
alla sala dell’auditorium.
These pages. Detail
of the foyer showing
the walkways leading
into the auditorium.
40
41
42
Il vestibolo della sala
congressi al livello 7,05.
Sotto, dall’alto in basso,
sezione longitudinale,
piani ai livelli +26,55,
+14,55, +7,05.
The conference hall
lobby on level 7.05.
Below. From top down,
longitudinal section,
plans on levels +26.55,
+14.55, +7.05.
43
Schizzo preliminare
per il foyer e, a destra,
la sala principale
da 2.200 posti.
Preliminary sketch
for the foyer and, left,
the main hall with
a seating capacity
of 2,200.
44
45
Contenitore di emozioni
A Container Filled with Emotions
Berlino, DG Bank
Berlin, DG Bank
Progetto di Frank O. Gehry
Project by Frank O. Gehry
F
46
La facciata d’ingresso
dell’edificio a uso misto
DG Bank a Berlino, che
apre sulla Pariserplatz
verso la Porta
di Brandenburgo.
Questa facciata
è caratterizzata
da una serie regolare
di semplici aperture
squadrate e rientrate
ed è rivestita con pietra
arenaria che
si armonizza col colore
dell’antistante Porta
di Brandenburgo.
The entrance facade
of the multifunctional
DG Bank building
in Berlin facing
Pariserplatz near
Brandenburg Gate.
This facade features
a regular pattern
of simple square in-set
openings and is clad
with sandstone which
matches the color of
the Brandenburg Gate.
orse stanco di stupire con le sue esplosive architetture ispirate al dinamismo dei futuristi
(cfr. il Guggenheim Museum di Bilbao in Spagna), Gehry cerca altre strade e progetta una scatola a sorpresa. Ovvero un edificio con l’esterno totalmente in antitesi con l’interno, una sorta di architettura double-face. Qualcosa insomma in grado di far ricredere chi pensava che ormai fosse preda della sindrome di Bilbao.
Il nuovo corso inizia con la DG Bank, costruita a
Berlino sulla Pariserplatz, verso la Porta di Brandenburgo. Gehry ottiene l’incarico del progetto vincendo un concorso internazionale precedendo sul
filo di lana concorrenti del calibro di Tadao Ando e
Arquitectonica.
Un premio meritato, il suo, visto il risultato: la DG
Bank è un’opera di rottura, un’architettura che segna una linea di demarcazione fra due linguaggi di
Gehry parimenti affascinanti e destinati a creare
epigoni ovunque.
E quindi a incidere non poco sui paesaggi urbani
delle grandi metropoli, come appunto Berlino, luogo simbolico della rigenerazione della città occidentale.
Oltre a essere una banca, la DG Bank è uno straordinario contenitore di emozioni, proprio per la dicotomia compositiva fra esterno e interno. Se il Razionalismo aveva decretato che l’esterno è conseguenza degli spazi interni, la DG Bank rimette tutto
in discussione, proponendo una sequenza di accadimenti spaziali assolutamente non dichiarati.
Ciò può significare una sola cosa: l’architettura
non può avere dogmi, non può essere costretta in
schemi inamovibili poiché, come l’arte, riflette il
suo tempo.
La DG Bank non è solo una scatola a sorpresa in cui
tutto succede all’interno, è una sorta di film: Gehry
sembra infatti essere ricorso al linguaggio cinematografico, ordinando gli spazi come una sequenza
spazio-temporale, organizzando il tutto attraverso
uno storyboard sottilmente enfatizzato onde ottenere il massimo di emozioni ogni qualvolta ci s’inoltri all’interno dell’edificio.
La “regia” di Gehry ha previsto una serie di schermi
ideali in forma di griglie ortogonali pensate per dare massimo risalto una volta arrivati davanti alla
“mostruosità” (nel senso di monstrum = meraviglia) neo-organica, sistemata al centro del contenitore. Evidentemente egli non ha potuto sottrarsi al
fascino dei suoi fantasmi zoomorfici, che tanto
hanno connotato le sue opere più clamorose e celebrate. Giocando con trasparenze, pieni e vuoti e
sensuali volute sospese, Gehry avvolge lo spettatore-fruitore con vertiginose suggestioni fino a fargli
perdere la cognizione della fisicità del luogo per
farlo entrare in una sorta di spazio mentale, dove è
facile perdersi, inseguendo i propri fantasmi, i sogni più nascosti.
Non importa se poi in un secondo tempo tutto si
stempererà in situazioni reali, in spazi come l’auditorium o la caffetteria, poiché l’esperienza del
“viaggio” rimarrà indelebile nella memoria, anche
una volta usciti dalla DG Bank.
Ma ciò che più impressiona di questo anomalo edificio destinato al terziario è la presenza del grande
volume sospeso d’acciaio e legno, che rimanda alle
forme archetipiche delle prime forme di vita terrestre.
Una memoria giurassica vista come proiezione nel
futuro di un passato ripresentato in chiave tecnologico-favolistica, quasi a voler dimostrare attraverso
l’architettura che davvero nulla si crea e nulla si distrugge.
Introversa, spettacolare ed estrema, la DG Bank si
propone come un luogo di trasgressione là dove invece ci si aspetterebbe il contrario, là dove le logiche economiche non prevedono voli ed emozioni
che non siano legati all’andamento del dollaro. Insomma, come va letta quest’inversione di tendenza che investe un mondo finanziario ansioso di
cambiarsi d’abito per comunicare, attraverso l’architettura, altri valori?
Forse la risposta sta in un’ansa della cultura contemporanea così pervasa dal desiderio di trasversalità, di contaminazione dei linguaggi. In tal senso,
perché non mutuare dalla cultura musicale risposte
a quesiti di diverso segno?
Brian Eno, eclettico agitatore di pentagrammi dalle
sonorità molto amate dagli architetti poiché strutturate come ambienti spaziali, sostiene che la verità sta in fondo a un percorso trasgressivo, a un
viaggio nell’estremo, che poi approderà in una radicale rinascita.
Ecco, forse la DG Bank di Gehry rappresenta un
tentativo di viaggio nella massima trasgressione
per poi ritrovare nuovi valori, altri riferimenti.
STRUTTURA STRUCTURE
47
Vista della cupola vetrata.
Nella pagina
a fianco, l’ingresso
dell’auditorium/sala
riunioni.
View of the glass dome.
Opposite page. Entrance
to the auditorium/meeting
room.
48
P
erhaps because he was tired of surprising
everyone with his explosive architecture inspired by the dynamism of the futurists (for
example, the Guggenheim Museum in Bilbao,
Spain), Gehry went in search of other paths and
designed a jack-in-the-box building with an exterior that is the antithesis of its interior; a kind of
double-sided architecture. This project has the
ability of altering the opinion of those who believed that Gehry had become a victim of the “Bilbao syndrome.” His new approach begins with the
DG Bank, built in Berlin overlooking the Pariserplatz, facing the Brandenburg Gate. Gehry obtained the job by winning an international competition against such admirable peers as Tadao Ando
and Arquitectonica. The choice has proved welldeserved in light of the result: the DG Bank is a
breakthrough work, a type of architecture that
draws a demarcation line between Gehry’s two
languages, both of which are fascinating and des-
tined to generate discussion everywhere they are
represented. As such, this construction highly influences the urban landscape of the great city of
Berlin, a place symbolizing of the regeneration of
Western cities. In addition to being a bank, the DG
Bank is an extraordinary container of emotions,
due specifically to the compositional dichotomy
between its exterior and interior. If Rationalism decreed that the exterior is a consequence of internal
spaces, then the DG Bank revives the discussion,
presenting a sequence of absolutely undeclared
spatial developments. This can only signify one
thing: architecture can support no dogmas; it cannot be contained in fixed outlines because, like artwork, it reflects the times.
The DG Bank is not only a box of surprises in which
everything happens within, it is also similar to a
film: Gehry seems to have drawn upon cinematic
language, ordering the spaces to the beat of some
spatial-temporal sequence, organizing everything
50
through a subtly emphasized storyboard in order
to obtain as much emotion as possible every time
someone enters the building. Gehry’s “direction”
has called for a series of ideal outlines in the form
of orthogonal grates, intended to provide maximum emphasis as you arrive in front of the neo-organic “monstrosity” (i.e. monstrum = wonder), located in the middle of the container. Apparently,
Gehry could not extract himself from his attraction
to zoomorphic illusions, which have so clearly
marked his most famous and celebrated architectural works. Playing with transparencies, full and
empty spaces, and sensual suspended vaults,
Gehry wraps the spectator-user with dizzying suggestions until the individual loses his sense of the
space’s physical nature. The visitor enters into a
kind of mental space in which it is easy to get lost,
following one’s personal fantasies; one’s most hidden private dreams. It doesn’t matter that subsequently the individual will find himself in real situations, in spaces such as the auditorium or the cafeteria, because the experience of the “voyage” will
remain indelible in the individual’s memory, even
once he has left the DG Bank. However, what is
most striking about this unusual building destined
for the service industry is the presence of an enormous suspended volume made of steel and wood,
which reminds the viewer of archetypical forms
from the first stages of terrestrial life. It is a Jurassic
memory interpreted as a projection into the future
of a past represented in a technological-fairy-talelike mode; an attempt to demonstrate through architecture that nothing is created and nothing destroyed. Introverted, spectacular and extreme, the
DG Bank comes across as a daring environment
exactly where one would expect the opposite, a
place where economic logic does not call for
flights of fancy and emotions that are not strongly
linked to the dollar’s trend.
So, how should one interpret this inverted tendency where the financial world is eager to change
clothing and communicate other values through
its architecture? Perhaps the answer lies in a secluded area of contemporary culture filled with linguistic contamination and a desire to be transversal. In this sense, why not borrow from the culture
of music answers to questions of a different nature? Brian Eno, eclectic agitator of pentagrams
whose sonorities are much-loved by architects because they are structured like spatial environments, claims that the truth lies at the bottom of a
path of transgression; a voyage into the extreme
that will eventually lead to a radical rebirth. Perhaps Gehry’s DG Bank represents an attempt to
travel into the outer limits of transgression to rediscover new values and other references.
Nella pagina a fianco,
il grande atrio che,
illuminato naturalmente
dalla calotta in vetro
e metallo della
copertura e contenente,
oltre al volume dalle
forme organiche
in acciaio
dell’auditorium/sala
riunioni, quello
completamente vetrato
della caffetteria,
si presenta come
una dinamica
orchestrazione fuori
scala di movimento
e luce.
Sotto, l’ingresso
al grande atrio.
A pagina 55, a sinistra
dal basso in alto: piante
del piano sotterraneo,
piano terra, primo,
secondo, terzo e quarto
piano; a destra dal
basso in alto: piante
del quinto, sesto,
settimo, ottavo, nono
piano e delle coperture.
Opposite page.
The large atrium.
It is naturally lit through
the roof’s glass and
metal spherical vault
and contains the
auditorium/meeting
room’s steel organic
forms and all-glass
cafeteria which is similar
to a dynamic out-ofscale orchestration
of motion and light.
Below. The entrance
to the great hall.
Page 55. Left, from
bottom up: plans
of the underground
level, ground floor, first,
second, third and fourth
floors. Right, from
bottom up: plans
of the fifth, sixth,
seventh, eighth
and ninth floors,
and the roofs.
51
52
53
54
55
56
57
Il simbolo della memoria
The Symbol of Memory
Ottawa, Archivi nazionali del Canada
Ottawa, National Archives of Canada
Progetto di Blouin Ikoy & Associés
Project by Blouin Ikoy & Associés
58
L
a memoria della nazione racchiusa in un santuario laico. La filosofia progettuale degli Archivi nazionali del Canada ha messo in gioco
segni e simboli per creare un nuovo cuore politico
alla città. Realizzato a Gatineau, vicino Ottawa, il
NAC rappresenta infatti il primo insediamento del
futuro centro civico. Il primo atto simbolico attuato fra costruito e ambiente naturale – costituito da
boschi e aree a verde – è la matrice geometrica
dell’impianto planimetrico, caratterizzato dalla
grande ellissi entro cui è inscritto l’ampio volume
del contenitore vetrato.
Ritorno all’eternità dell’architettura? Nelle intenzioni dei progettisti il NAC rappresenta un’inversione di tendenza. Negli ultimi anni, soprattutto
da parte della “scuola francese”, si era diffusa l’idea di un’architettura “effimera”, legata a linguaggi quasi usa e getta per favorire un veloce ricambio della scena urbana. Al contrario, i progettisti di Blouin Ikoy & Associés hanno ingaggiato
una sfida millenaria con il tempo, individuando in
una flessibilità d’uso quasi illimitata la soluzione al
problema della veloce obsolescenza che insidia le
opere di architettura contemporanea. Come?
Puntando su materiali come l’acciaio inox, in grado di resistere – a detta dei progettisti – fino a cinquemila anni alle aggressioni degli agenti atmosferici, ma anche capace di uscire indenne dal rapido mutare delle mode. Cinquemila anni rappresentano davvero una sfida impegnativa, non priva
di risvolti anche beffardi, poiché la tecnologia ormai promette sviluppi esponenziali.
L’acciaio inox anche fra meno di un secolo potrebbe infatti risultare obsoleto ed essere superato da
altri materiali, soprattutto dai cosiddetti compositi
con caratteristiche prestazionali ampiamente superiori. Non solo il tempo ma anche lo spazio è
stato oggetto di profonde riflessioni. Il NAC non
doveva essere un’architettura “omogenea”, nel
senso di inseguire pedissequamente uno stile forzatamente unitario da risultare frutto di una centrifugazione in grado di amalgamare il tutto, occultando le diverse matrici spaziali. Evitando qualsiasi “contaminazione” fra contenitore e contenuto, il NAC presenta un nucleo (l’archivio vero e
proprio) racchiuso in un guscio protettivo capace
di comunicare la sua funzione di “tenda sacra”
tecnologica. Il santuario laico appare ancora più
evidente all’interno del grande contenitore vetrato con il nucleo che ha la forma di un monolite in
STRUTTURA STRUCTURE
La nuova sede degli
Archivi Nazionali
del Canada, realizzati
a Gatineau, alla periferia
di Ottawa in un’area
per la quale è previsto
uno sviluppo urbano
come nuovo centro
civico.
The new headquarters
of the National Archives
of Canada. Designed
in Gatineau, in Ottawa's
suburbs, it is earmarked
for a proposed civic
center.
59
60
cemento, una sorta di hard disc dove sono conservati i file della storia del Paese.
Intorno al nucleo-monolite, alto tre piani, si snoda
un percorso, una sorta di promenade architecturale che propone come scena generale la vastità del
volume vetrato, realizzato in lastre di cristallo
strutturale, ed effetti di trasparenza poiché s’intravedono le strutture portanti esterne composte di
colonne e tralicci alti circa trenta metri.
Paesaggio sotto vetro. Alla ricerca di un ideale luogo in cui convivano armoniosamente città e campagna, la sommità del grande monolite è organizzata secondo un tracciato planimetrico simile a un
villaggio mediterraneo, ma con percorsi e strutture facilmente modificabili per adeguarsi a possibili
variazioni funzionali future. Sospeso fra memoria
e futuro, il NAC può anche apparire estremamente atipico, a causa di una marcata drammatizzazione simbolica, ma suggerisce l’idea che l’architettura, per non essere solamente espressione materiale di funzioni, deve rischiare, deve essere in
continua mobilità per poter attraversare territori
concettuali inesplorati.
1. Atrio/Atrium (lobby area)
2. Rampa/ Ramp
3. Volta/Vault
4. Area di sicurezza/
Security area
5. Galleria/ Gallery
6. Impianti/ Technical
equipment
7. Biblioteca/ Library
8. Laboratorio/ Laboratory
9. Archivio/ Archives
10. Amministrazione/
Administrative office
61
Nella pagina a fianco,
planimetria generale
e pianta, prospetto
e particolare di una
delle colonne di acciaio
inossidabile alte circa
30 m che, all’esterno
del guscio vetrato che
racchiude gli archivi,
sostengono la copertura
curva metallica.
62
T
he nation’s history enshrined in a secular
sanctuary. The design philosophy behind
the National Archives of Canada uses signs
and symbols to give the city a new political heart.
Built in Gatineau, near Ottawa, the NAC is the first
element in the creation of a new civic center. This
first symbol that has materialized in the surrounding landscape – woods and greenery – is the geometrical matrix of the site plan featuring a large ellipse with a vast glass container in its center.
Does this represent a return to an eternal vision of
architecture? The architectural designers of the
NAC see it as a reversal of the current trend. In recent years, especially in the “French school,” the
concept of “ephemeral” practically disposable architecture, designed for rapid changes of the
cityscape, has become widespread. In another
vein, Blouin Ikoy & Associés have chosen to meet
the age-old challenge of time through almost unlimited modularity; thereby addressing the problem of the increasingly rapid obsolescence that
threatens most works of contemporary architecture. How have they done this? By focusing on
materials like stainless steel, capable of withstanding the aggressions of atmospheric agents for up
to five thousand years – according to the architects – as well as surviving, unscathed, the rapid
changes in trends. Five thousand years really do
represent a mighty challenge, though, and as
technology continues to progress exponentially,
time will not fail to produce unexpected and
sometimes silly results.
Stainless steel might well be obsolete in less than a
century, replaced by other materials, particularly
the so-called composites with far superior quali-
Opposite pages.
Site plan and plan,
elevation and detail
of one of the ca. 30 mhigh stainless steel
columns sustaining
the curved metal
outside the glass shell
enclosing the archives.
ties and properties. Besides time, space has also
become the object of careful study recently. The
NAC was not supposed to be a “homogeneous”
work of architecture, literally following a forced
unitary style resulting in a spin cycle capable of
blending everything and camouflaging the various
spatial matrixes. By avoiding any “contamination”
between container and contained, the NAC presents a central core (the main archives) enclosed
within a protective shell that translates its function
as a “sacred technological tent.” The symbolism of
the secular sanctuary becomes crystal clear as it
sits inside a vast glass container, with its cementmonolith core, a hard disc of sorts that contains
the files of the Nation’s history.
A kind of architectural path winds around the
three-storey monolith core offering a view of the
vast glass structure, made of sheets of structural
glass, and of its transparencies, through glimpses
of the external support structures, the thirty-meter-high columns and stanchions. A landscape
shrouded in glass. In an attempt to create a place
in which city and landscape live harmoniously side
by side, the top of the large monolith is set out according to the layout of a Mediterranean village,
but using paths and structures that can be easily
adapted according to possible future requirements. Suspended somewhere between yesterday
and tomorrow, the NAC may seem atypical because of its marked symbolic dramatization, but it
clearly embodies the idea that in order for architecture to be more than just a material expression
of functionality, it must take risks and remain in
constant motion to reach previously unexplored
conceptual realms.
Legenda planimetria/Site
plan key
1. Archivi/Archives
2. Impianti/Technical
equipment
3. Percorso ellittico/Elliptical
path
4. Parcheggio/ Parking
5. Laghetto/ Pond
63
Il santuario della luce
The Sanctuary of Light
Roma, Dives in Misericordia
Rome, Dives in Misericordia
Progetto di Richard Meier
Project by Richard Meier
64
L’
architettura sacra è uno dei temi di progetto
dove è più facile sbagliare. Non basta aggiungere a un edificio una croce e un campanile per farne una chiesa. La chiesa è un luogo di
emozioni profonde. L’atmosfera del luogo sacro
nasce da uno spazio destinato a un’unica funzione: il rapporto con Dio attraverso la modulazione
della luce, attraverso il grado di coinvolgimento
emotivo dato dalla particolare configurazione spaziale dell’edificio chiesa. Il Razionalismo ha creato
una profonda cesura fra l’antico e il moderno.
Ha imposto una visione “fredda”, una tendenza
all’accentuazione della composizione funzionale
eludendo i fattori emozionali dello spazio.
Dagli anni Trenta in poi, sono state prodotte chiese
ineccepibili nella composizione ma prive di atmosfera mistica. A parte l’eccezione di Notre Dame
du Haut, realizzata a Ronchamp su progetto di Le
Corbusier, il resto è quasi tutto da dimenticare.
Occorre rivedere modalità compositive e strutture.
Occorre realizzare chiese meno “puriste” e più in
sintonia con la sacralità del luogo rituale.
In tal senso, una risposta l’ha data Richard Meier
con la chiesa Dives in Misericordia, in costruzione
a Roma. La nuova chiesa, realizzata in una zona
periferica della capitale, ha origine dal concorso
internazionale a inviti “La Chiesa del 2000”, bandito dall’Opera Romana per la Preservazione della
Fede e la Provvista di Nuove Chiese in Roma.
Richard Meier, architetto americano di fama internazionale, progetta un’architettura vigorosa, di
forte impatto e generatrice di un luogo, là dove
prima l’unica identità del luogo era di non avere
nessuna identità.
La zona è connotata da edifici di edilizia popolare
e l’intorno generale disomogeneo, privo di punti
focali, di spazi destinati alla socialità, come ce ne
sono tanti intorno Roma.
La configurazione a vele, le grandi aperture che
lanciano all’interno lame di luce danno un forte
carattere simbolico, realizzando uno spazio di
grande intensità emozionale.
La forza evocativa, il bianco assoluto delle superfici murarie pongono la chiesa come nucleo di forte
riqualificazione del quartiere. Inoltre, Dives in Misericordia dispone di una qualità ormai rara: avere
un interno parimenti suggestivo all’esterno.
È insomma un’architettura da percorrere, da vivere come spazio dinamico in grado di coinvolgere i
fedeli attraverso una sequenza di stati d’animo in-
tensi e variabili. Esattamente alla maniera delle
grandi chiese del passato. Per esempio, Sant’Ivo
alla Sapienza, sempre a Roma, dove il Borromini
attraverso la forma spiralica della lanterna della
cupola provoca una sorta di vertigine in chi la
guarda, dando l’impressione di risucchiare l’anima
nel suo vortice infinito. Qualità della luce.
La nuova chiesa dimostra come sia ancora possibile creare forti tensioni emotive senza ricorrere a
strutture formalmente complesse, a complicate
sequenze compositive.
In Dives in Misericordia tutto accade grazie alle interruzioni di materia fra vela e vela, dove grandi
portali, decrescenti verso l’esterno, inondano di
STRUTTURA STRUCTURE
luce l’aula conferendo a tutto l’insieme profondità
spaziale e intensità luminosa. La nuova chiesa si
pone dunque come esempio eclatante di struttura architettonica tipologicamente dedicata, unicamente destinata al culto attraverso caratteristiche proprie e non interscambiabili con altre funzioni. Meier sa “giocare” con le forme, con i solidi
geometrici elementari. Per esempio con il quadrato, il rettangolo ed elementi semicircolari, miscelando il tutto fino a realizzare uno spazio complesso ma di immediata lettura, favorendo così la
sintonia tra fruitore e luogo, arricchendo il percorso con sinuosità, convessità e concavità.
Ciò che più colpisce è la grande sensibilità e sa-
pienza compositiva. Meier sa coniugare sfericità e
superfici piane, geometrie elementari e complessità spaziali. Ciò fa parte di una matrice creativa
nata e sviluppata già nei suoi primi lavori negli
States, realizzati negli anni Sessanta: per esempio, la sua prima casa a Essex Fells, nel New Jersey.
Identiche particolarità compositive si ritroveranno
anche nelle opere della maturità come il Getty
Center, a Los Angeles, dove si riscontra la compresenza di forme e volumi “contrari”, ovvero la
fusione di spazi e forme sintatticamente inavvicinabili e invece da Meier sapientemente manipolati e ricomposti in forme accettabili sia dal punto di
vista linguistico sia funzionale.
Il cantiere della chiesa
Dives in Misericordia,
nel quartiere di Tor Tre
Teste. Al centro della
foto, la particolare
macchina realizzata ad
hoc per la messa in
opera dei conci.
Building site of Dives in
Misericordia church in
the Tor Tre Teste
neighborhood. Center
photo, the special
machine designed for
lying the ashlars.
65
66
In queste pagine,
alcune fasi della messa
in opera dei conci e,
nella pagina a fianco,
dall’alto in basso,
prospetto, sezione
longitudinale, sezione
trasversale.
These pages, stages of
ashlar assembly phases
and, opposite page,
from top down,
elevation, longitudinal,
and cross section.
R
eligious architecture is one of the most challenging themes to master. Simply adding a
cross or bell tower to an ordinary building
does not turn it into a church. A church is a place
filled with emotions. A holy place draws its atmosphere from its dedication to a single function: the
relationship with God through the modulation of
light and the emotional involvement associated
with the spatial layout of the church. In recent
years, Rationalism has resulted in a sharp rift between ancient and modern. It has imposed a
“cold” vision that emphasizes functional design at
the expense of the more emotional connotations
of space. Since the 1930s, churches have been
stylistically irreproachable but they lack a mystical
atmosphere. Apart from exceptional works like
Notre Dame du Haut in Ronchamp designed by Le
Corbusier, nearly everything else is of no interest.
The structural and compositional forms need to be
revisited. Churches must become less “purist” and
more in harmony with the sacred nature of a place
of worship. In this respect, Richard Meier’s design
of the Dives in Misericordia church, actually under
construction in Rome, provides one possible solution. Built in the suburbs of Rome, this new church
was entered in the “Church of the Year 2000” invitational competition organized by the Rome Committee for Keeping the Faith and Providing New
Churches for the City. The internationallyrenowned American architect Richard Meier designed a lively, striking work of architecture that
creates a space in a place whose previous identity
was precisely not to have any identity. Like so
many suburbs of Rome, the area is mainly made
up of varied low-income housing projects with no
real focal points or areas to meet and congregate.
The sail-shaped design and the large openings
that bring large swathes of light into the building
are powerfully symbolic and create a setting full of
emotions.
The strength of its symbolism and the absolute
whiteness of its walls make the church the neighborhood’s hub of urban redevelopment.
Dives in Misericordia also features what has become a rare quality nowadays: its interior is as
evocative as the exterior. Just like the great
67
churches of the past, this is a work of architecture
that must be visited and experienced like a dynamic space capable of accompanying worshippers in
a progression of intense and variable states of
mind and spirit.
It is similar to, for example, Sant’Ivo alla Sapienza,
also in Rome, where Borromini’s spiraling dome
lantern creates a sense of vertigo that conjures up
the feeling of having one’s soul sucked up into an
endless vortex.
And that quality of light… The new church
demonstrates how to create powerful emotions
without resorting to stylistically intricate structures and complicated design sequences.
Everything in Dives in Misericordia is the result of
the way in which matter is broken up from one sail
to the next, as huge portals, descending toward
the exterior, flood the main hall with light creating
an overall sense of spatial depth and intense luminosity. In this way, the new church becomes a
striking example of so-called typologically-dedicated architectural structure, devoted exclusively
to worship through its specific features that can-
not be adapted to other functions. Meier knows
how to “play” with form and the basic geometric
shapes, such as the square, rectangle and semicircular elements, mixing them together to create
a complex space that is nevertheless easy to experience, and thereby encouraging a harmonious
balance between place and user, as well as enriching the atmosphere with convex, concave and sinuous shapes.
The great sensitivity and the stylistic know-how
are the most striking elements of the design.
Meier skillfully combines spherical shapes and flat
planes, simple geometric patterns and spatial intricacies. This is part of the creative matrix already
apparent in his early works in the States in the
1960s: for instance his first house in Essex Fells in
New Jersey. Stylistic elements that can also be
found in his more mature works like the Getty
Center in Los Angeles which features “opposing”
shapes and structures, such as the fusion of syntactically irreconcilable spaces and shapes, which
Meier skillfully handles and recomposes to reconcile them both stylistically and functionally.
Sogni e visioni
Dreams and Visions
Design da fantascienza e comunicazione
Science Fiction Design and Communication
Progetto di Studioddm (Mario Taddei, Edoardo Zanon)
Project by Studioddm (Mario Taddei, Edoardo Zanon)
68
I
l mondo delle macchine, il culto della tecnologia,
il ciberspazio: queste le coordinate su cui si fonda la ricerca di Studioddm, gruppo formato da
Mario Taddei e Edoardo Zanon. Ancora una volta il
Futurismo riemerge, riconfermandosi più vitale
che mai, nonostante sia trascorso quasi un secolo
da quando Boccioni, Marinetti e compagni cercarono di ricostruire un universo tecnologico quale
dimensione parallela di un mondo che andava loro
stretto, nel tempo e nello spazio. E lo spazio, quello cosmico, è la dimensione in cui vivono le sorprendenti strutture di due giovani progettisti, laureati in design al Politecnico di Milano. Sorprendenti quanto inverosimili dal punto di vista funzionale, poiché sono strutture configurate più sul visionario che su dati realistici.
Cargo spaziali e stazioni satellitari presentano tuttavia interessanti suggerimenti tecnici. La loro forza immaginifica, i particolari costruttivi così dettagliati sono talmente realistici da suggerire spunti e
soluzioni possibili dal punto di vista ingegneristico.
Con The Art of Time Mechanic, una brochure che
documenta come gli architetti abbiano metabolizzato alla perfezione il linguaggio del MCAD (Mechanical Computer Aided Design), Studioddm entra nel mercato, realizzando una comunicazione di
forte contenuto spettacolare.
Il loro più che un catalogo è una sorta di storyboard cinematografico. Time Mechanic si presenta infatti come un frammento di un film di fantascienza, dove i personaggi sono straordinarie macchine che fluttuano nello spazio. La genialità del
sistema di comunicazione sta nell’aver previsto
una sorta di interattività. Ovvero sta in chi guarda
le immagini intuire possibili storie di astronauti
perduti a migliaia di anni luce dalla Terra.
In realtà, ogni riferimento a Guerre stellari è puramente casuale, poiché tutto è in funzione dimostrativa. La brochure serve infatti a divulgare un
programma di modellazione in 3D, il Thinkdesign,
accessibile gratuitamente via Internet e su CDRom. The Art of Time Mechanic va dunque letta
come portfolio professionale ma anche come comunicazione di un nuovo linguaggio attinente il
design e l’architettura.
Aldilà della complessa messinscena di un prodotto
informatico, dietro l’operazione di Studioddm ci
sono informazioni di carattere scientifico che riguardano fenomeni come la trasmissione sub-luce
(un sistema di trasmissione più veloce della luce).
STRUTTURA STRUCTURE
L’SGSS-Sub
Gravitational Stargate
System, la stazione
sperimentale orbitante
dotata di sistemi
di trasmissione
e ricezione di tipo
sub-luce. La struttura
di base è concepita
in modo da poter
ruotare a 360°
e puntare nella
direzione dovuta.
Dal centro dell’SGSS
partono a 120° tre
strutture che portano
alle estremità
gli interferometri
gravitazionali.
The SGSS-Sub
Gravitational Stargate
System, the experimental
orbiting space station
with a system capable
of transmitting and
receiving sub-light
impulses. The base
is designed to rotate
a full 360°, pointing
in the right direction.
From the center of SGSS
emerge three long
appendages at a 120°
angle carrying
the gravitational
interferometer on
their tips.
69
Un SGSS respinge
un attacco di alieni
grazie agli interferometri
sub-gravitazionali.
Per aggiungere i dettagli
di un’esplosione reale
sono stati aggiunti
all’interno degli oggetti
come carburante
e materiale aggiuntivo
per creare più caos.
70
An SGSS repels
the aliens’ attack
with sub-gravitational
interferometers.
To add details
of realistic explosion
elements and create
more chaos, fuels
and other materials
were added.
Dalle riflessioni sulla sub-luce nasce il progetto
SGSS, Sub Gravitational Stargate System, ovvero
un interferometro (strumento di precisione usato
per misurare lunghezze d’onda e indici di rifrazione sfruttando fenomeni interferenziali) con oscillatore a onde subgravitazionali, punto centrifugo
e centripeto di impulsi sub-luce.
Questo insieme di conoscenze veicolato fra lo
scientifico e il fantascientifico mira a definire sistemi in grado di far viaggiare l’uomo a velocità elevatissime, capaci di rendere possibili viaggi in altri
sistemi, in altri mondi lontanissimi, altrimenti irraggiungibili data la loro distanza.
Nella fantasia visionaria di Studioddm si ipotizza la
costruzione del laboratorio SGSS in un futuro non
poi così lontano come il 2152.
Per chi vuole saperne di più, sono disponibili ulteriori informazioni navigando su www.studioddm.com,
un sito pieno di sorprese e suggestioni dove design
e architettura trovano un’integrazione per ora negata e invece destinata a prodursi nel divenire.
Le visioni di Taddei e Zanon tendono infatti verso
una totale fusione fra le due discipline. L’architettura nel momento in cui diviene prodotto di alta
tecnologia non può che essere architettura industrializzata.
Si ipotizza che in un futuro non lontano costruire
divenga una procedura molto simile alla composizione realizzata attraverso un sistema come il
Meccano.
Ogni componente strutturale avrà una sua definizione morfologica e sue caratteristiche statiche.
Sarà insomma quasi impossibile sbagliare i calcoli
strutturali, poiché la scelta dei componenti sarà
orientata a priori e con una serie di variabili a prova di errore.
Dunque, il futuro dell’architettura probabilmente
avrà nella tecnologia il suo massimo referente.
In tal senso, l’architetto sarà un progettista a responsabilità limitata?
È possibile. Tuttavia ciò potrebbe rivelarsi non un
fatto totalmente negativo, poiché se da una parte
la creatività dovrà svilupparsi entro limiti dettati
dal prodotto industriale, dall’altra sarà quasi impossibile realizzare brutte architetture in nome di
una libertà creativa alla portata di architetti senza
talento.
71
Sotto, il Robot Edo
e, nella pagina a fianco,
un’arma utilizzata nello
scontro tra terrestri
e Kinodermi. Per ogni
modello sono state
realizzate numerose
immagini da usare come
texture con un mix
di metalli, pannelli,
72
T
scritte e simboli.
Nelle sequenze animate
con numerosi elementi
in movimento sono stati
inseriti i modelli con
diversi gradi di dettaglio.
Un modello completo
a elevato dettaglio
è composto da 125.365
poligoni.
he world of machines, the cult of technology and cyberspace: these are the basic concepts that guide the Studioddm team
(founded by Mario Taddei and Edoardo Zanon) in
its quest. Once again Futurism is making the headlines, proving it is more alive than ever almost a
century after Boccioni, Marinetti and co. tried to
re-create a technological universe in a parallel dimension to a world whose space and time they
found constraining.
And cosmic space is the dimension in which the
surprising structures of these two young architects, both graduates in design from Milan Polytechnic, come alive. Designed more along visionary lines than based on realistic data, the structures are as functionally startling as they are improbable. The space cargos and satellite stations
do, however, present interesting technical aspects
and ideas. Their highly imaginative power and in-
Bottom. The Edo Robot
and, opposite page,
a weapon used
in the battle between
humans and
Kinodermians.
For each model several
images were created
for use as a texture with
a mix of metals, panels,
writings and symbols.
Each animated
sequence, with a large
number of elements
in motion, used models
with different level
of detail. A full model
with a high-level
of detail is composed
of 125,365 polygons.
credibly detailed construction features are so realistic they suggest designs and solutions that are
quite feasible from an engineering point of view.
The “Art of Time Mechanic,” a brochure that
demonstrates how the architects have perfectly
metabolized MCAD vocabulary (Mechanical Computer Aided Design), marks Studioddm’s market
debut with a spectacular form of communication.
More than a catalogue, they have produced a sort
of film storyboard.
Time Mechanic is actually like the fragment of science fiction movie, whose characters are incredible
machines flying through space. The originality and
genius of this type of communication lies in its interactive nature. In fact, it is up to the onlooker to
imagine stories of astronauts lost in space, thousands of light years from the Earth. Because everything is purely demonstrative, any reference to Star
Wars is purely accidental. Ultimately, the brochure
is actually intended to promote a 3D modeling program, Thinkdesign, available as free-ware on the Internet and on CD-Rom. The “Art of Time Mechanic,” therefore, ought to be seen as both a business
portfolio and a way of spreading a new language
for architecture and design.
Apart from the graphic complexity of a computer
software product, Studioddm’s project is also based
on hard scientific data concerning phenomena like
sub-light transmission (a transmission system that
works faster than the speed of light). The research
on sub-light transmission gives birth to the SGSS
project (Sub Gravitational Stargate System), which
consists of an interferometer (a precision tool for
measuring wave lengths and refraction indexes using interferential phenomena) with a sub-gravitation wave oscillator and centrifugal/centripetal sublight impulse point. Combining science and science
fiction, this body of knowledge aims to design systems for travel at extremely high speeds, making it
possible to reach other systems and worlds, so distant that they would otherwise remain unreachable. Studioddm’s imaginative vision also foresees
the construction of the SGSS laboratory in the “notso-distant” future of the year 2152. Anyone interested in finding out more should visit www.studioddm.com, a site full of surprises and ideas in which architecture and design come together in original and
new ways, that are quite likely to become reality in
the near future.
Taddei and Zanon’s visions tend to merge architecture and design. After all, once architecture becomes a high-tech product, it inevitably also becomes industrialized. In the not-too-distant future,
construction is expected to become like building
with a Meccano set. Each structural component will
have its own morphological definition and static
characteristics. It will therefore be almost impossible to make mistakes in structural calculations,
since the choice of components will be made based
on a series of error-proof variables. Tomorrow’s architecture will probably have technology as its
closest partner. Will this make the architect something of a limited liability designer? It might. But
this is not necessarily a disadvantage, since, although, on the one hand, creativity will be limited
by the industrial product, on the other hand, it will
be virtually impossible to design unattractive architecture in the name of a creative freedom available to even the most untalented of architects.
73
74
75
L’SGEL-Sub Gravitational
Experimental Lab.
Costruito nel 2152,
l’SGEL è un laboratorio
per sperimentazioni
in orbita attorno
alla Luna. È composto
da due grandi moduli
opposti in continua
rotazione, per creare
gravità artificiale.
All’interno dei moduli
ci sono i laboratori della
confederazione terrestre
disposti su tre livelli.
L’SGEL è collegato
al compressore d’urto
quantico sferico
ed è protetto
da schermature
magnetiche.
76
The SGEL-Sub
Gravitational
Experimental Lab.
Constructed in 2152,
the SGEL is used
to conduct experiments
in the Moon’s orbit.
It is composed of two
large opposing modules
that continually rotate
to create artificial
gravity. The Earth
confederation labs are
distributed across three
levels. The SGEL
is connected to the
spherical quantum
collision compressor
and protected
by magnetic shields.
Interferometro SGSS.
La lontananza delle tre
estremità dei bracci
è direttamente
proporzionale
alla precisione
dei rilevamenti
sub-gravitazionali.
Le tre punte formano
un triangolo equilatero
con lato di 4 km.
Gli interferometri
gravitazionali vengono
installati in sospensione
quantica parallela.
La lettura delle onde
sub-gravitazionali
avviene confrontando
la diffrazione
del parallelismo
quantico. Nel momento
in cui la struttura
centrale ruota,
la posizione degli
interferometri
gravitazionali viene
mantenuta tramite
un controbilanciamento
di massa gestito
da giroscopi quantici.
Eventuali detriti cosmici
vengono tenuti sotto
controllo da stazioni
vicine che
ne intercettano
la traiettoria
e li respingono.
SGSS Interferometer.
The distance between
the three tips
of the appendages
is directly proportional
to the precision
of the sub-gravitational
bearings. The three tips
form an equilateral
triangle with 4-Kmsides. The gravitational
interferometers are
installed in parallel
quantum suspension.
Sub-gravitational waves
are read by measuring
the diffraction of the
quantum parallelism.
When the central
structure rotates,
the position
of the gravitational
interferometers
is maintained
by counterbalancing
the mass.
This counterbalance
is managed by quantum
gyroscopes. Wandering
cosmic detritus
is controlled
by neighboring stations
that intercept
and repel the debris.
77
78
79
La tecnologia plana sull’acqua
Technology lying on the Water
Osaka, Museo Marittimo
The Osaka Maritime Museum
Progetto di ADP-Paul Andreu
Project by ADP-Paul Andreu
80
STRUTTURA STRUCTURE
La sfera galleggiante
alta 40 metri è visibile
in ugual maniera
sia dal porto e dalla
passeggiata mare,
che dalla città. Sulla
terra ferma è situato
l’edificio d’ingresso,
di 5000 mq,
che si sviluppa a piano
terreno e su due piani
interrati e ospita
l’ingresso, i depositi
delle opere e i locali
tecnici.
R
ealizzato dopo una lunga incubazione (il
cantiere è rimasto aperto circa tre anni), l’Osaka Maritime Museum ora “galleggia” sulle
acque della diga del porto di Osaka. La nuova
struttura fa parte di un programma di rivitalizzazione della zona portuale avviato con la costruzione di un tunnel sottomarino, che collega il museo
con la città. Luccicante e simile a un’astronave anfibia, l’OMM, con i suoi quaranta metri d’altezza,
è perfettamente visibile anche da Osaka, di cui è
uno dei simboli di maggior richiamo.
Oriente e Occidente uniti sotto una cupola. Nell’architettura occidentale, la cupola è un archetipo
di origine religiosa. Nel progetto dell’Osaka Maritime Museum è facile intuire come Andreu abbia
cercato di creare un punto d’incontro fra Oriente e
Occidente attraverso un linguaggio collaudato dal
tempo, in grado di generare quell’energia chiamata emozione che solo la buona architettura, soprattutto quella sacra, è capace di produrre. In
fondo, il museo è una sorta di cattedrale del sapere. John Ruskin, critico d’arte e sociologo inglese
(1819-1900), per esempio, sosteneva che una cattedrale non ha solamente la funzione di contenere
una comunità religiosa ma anche di emozionarla.
Il linguaggio della tecnologia, con le sue iperboli
strutturali, è certo un segnale forte cui è difficile
sottrarsi. Soprattutto oggi che la tecnologia, oltre
a essere il dato scientifico di una costruzione, ne
supporta e definisce anche il sistema di comunicazione. Cosa comunica una cupola di vetro e acciaio “planata” sulle acque del porto di Osaka? A
un primo sguardo, appare come un elemento di
diversità rispetto al suo intorno, quindi è un segno
catalizzatore di attenzione. Ma il dato saliente, ciò
che fa di quella struttura un medium, è la sua disponibilità nel concedersi come elemento scenografico, come icona tecnologica splendente di luce propria che dà spettacolo di se stessa.
In questo caso lo spettacolo è un’architettura che
interpreta un fenomeno naturale come quello dell’avvicendarsi della notte e del giorno attraverso la
dicotomia natura-artificio. Inoltre, la doppia identità della cupola – trasparente nelle ore notturne
quando è illuminata dall’interno, non trasparente
di giorno – crea una fortissima tensione tra visibile
e invisibile, evidenziando così l’aspetto dinamico
di un’architettura attraverso lo scorrere del tempo.
Ma perché l’OMM è un’icona? Perché, come direbbe un semiologo, veicola un messaggio attra-
The 40-meter-high
floating sphere can
be seen equally well
from the port, the sea
front promenade and
the city. The 5,000square-meter entrance
building is on the
mainland and occupies
the ground floor
and two underground
levels. It holds
the entrance,
storerooms for the
works of art, and
utilities rooms.
81
verso la sua immagine. Si tratta di un’immagine
variegata e tridimensionale da cui emerge l’identità dell’OMM, che non punta sull’unicità della soluzione tecnica – in questo caso l’impiego del vetro strutturale – ma sul porsi come frammento di
un insieme di edifici diffuso ormai a livello planetario con identiche soluzioni costruttive. Uno degli
aspetti interessanti insito nell’OMM non è solo la
sua appetibilità mediatica di “fenomeno architettonico” spettacolare, destinato a far da sfondo a
video clip e spot, ma anche il suo essere frutto della velocità di comunicazione con cui è diffusa oggi
la tecnologia. Se l’informazione non fosse così sorprendentemente rapida, l’architettura non si evolverebbe con altrettanta velocità.
Lo spettacolo dell’architettura. Nel 1967, quando
Guy Debord pubblicò il saggio La société du spectacle, l’architettura era appena entrata nella luminosa scia mediatica, ovvero della struttura-evento
capace di rimodellare l’ambiente urbano attraverso architetture di forte impatto visivo e di competere con lo sfavillante linguaggio della pubblicità,
da sempre presente nel paesaggio urbano. Ora invece siamo nell’età matura dell’architettura come
medium. L’Osaka Maritime Museum, nella sua apparente elementarità geometrica, è una struttura
complessa sul piano della comunicazione poiché
portatrice di segni stratificati sovrapposti alla sua
funzione didattico-divulgativa.
Attraverso una forte presenza immaginifica,
l’OMM è generatore di immaginario collettivo; al
82
Schema del sistema
strutturale della sfera
del tipo “lamella grid”
costituito da losanghe
piatte la cui dimensione
diminuisce verso l’alto
mantenendo però
costanti a 90° gli angoli
destri e sinistri.
Diagram of the
structural system of the
“lamella grid” sphere
constructed out of flat
lozenges whose size
diminishes toward the
top while maintaining
their 90 degree right
and left angles.
tutto va poi aggiunta la componente “global”
espressa dalla fusione di due culture tecnologicamente affini ma ideologicamente opposte.
La tendenza verso un’architettura fusion, ibridata
da un melting pot colto – relazioni con le case del
tè del periodo Edo, ma anche con influenze FengShui – suggerisce diverse interpretazioni: da una
parte emerge lo sguardo rivolto al passato che
punta sul contrasto delle differenze – la costruzione tecnologicamente sofisticata e le relazioni cosmico-religiose del ciclo solare evocate dall’archetipo cupola –, dall’altra si evidenzia un punto debole, laddove la funzione primaria, quella di museo che sottende l’idea di conservazione perpetua, è leggermente oscurata dal concetto di effimero insito nel linguaggio mediale.
83
84
C
ompleted at last after a long period of incubation (construction lasted about three
years), the Osaka Maritime Museum now
“floats” on the waters of the breakwater located
in the port of Osaka.
The new building is part of a program designed to
revitalize the port area and was inaugurated with
the creation of an underwater tunnel connecting
the museum to the city. Gleaming like an amphibious space ship, the 40-meter-tall OMM building is
clearly visible from Osaka and represents one of
the city’s main landmarks.
East and West are brought together under a
dome, i.e. in western architecture, the dome is a
religious archetype. The Osaka Maritime Museum
is a clear attempt on the part of Andreu to bring
East and West together through this time-honored
symbol capable of generating the kind of energy
called emotion which only fine architecture, particularly religious architecture, can generate. After
all, a museum is a cathedral of knowledge. John
Ruskin, the British art critic and social commentator (1819-1900), claimed, for instance, that a
cathedral is not just designed to house a religious
community, but also to get the faithful emotionally involved.
The language of technology, with its hyperbolic
structures, is a powerful signal that cannot be ignored. Particularly now that technology is not just
the scientific characteristic of a building, but it also
supports and defines its system of communication. What message does a glass and steel dome
“resting” on the watery surface of the port of Osaka send out? At first sight, it contrasts with its surroundings, attracting our attention. But the key
aspect, the element that turns this structure into a
medium, is the way it offers itself as an element of
scenography, a technological icon glittering with
its own light and quite literally making a show of
itself.
In this particular case, the show is a work of architecture interpreting, through the dichotomy of
nature and artifice, the natural alternation between night and day. Moreover, the dome’s double identity – transparent at night when it is lit up
from the inside and non-transparent during the
day – creates a powerful sense of tension between
what is visible and what is invisible, thereby emphasizing the dynamic aspect of a work of archi-
tecture through the passing of time. But what
makes the OMM an icon? The fact, as a semiologist might put it, that it sends out a message
through its image. The image that gives the OMM
its identity is a varied, three-dimensional one that
does not focus on the uniqueness of its technical
design – in this case, the use of structural glass –
but rather on its being a fragment of a group of
structures spread across the planet that draws on
the same building solutions. One of the most interesting aspects of the OMM is not just the fact
that it is a spectacular “architectural phenomenon,” an ideal backdrop for video clips and commercials, but also the fact that it is a product of the
high speed with which technology travels today. If
information were not quite so stunningly quick,
architecture would not evolve as fast.
The architecture show. In 1967, when Guy Debord
published his essay La société du spectacle, architecture had just entered the glamorous world of
modern media. In other words, an event-structure
capable of reshaping the urban environment
through visually striking architecture and able to
compete with the dazzling vocabulary of advertising, ever-present in our cityscape.
Today, however, architecture as a medium has entered a mature phase. The apparent geometric
simplicity of the Osaka Maritime Museum hides an
intricate structure in terms of communications,
because it layers several levels of symbols on top
of its primary didactic-informational function.
The OMM’s powerful, colorful presence is a generator of collective imagination, not to mention
the “global” element inherent in the merging of
two technologically related but ideologically conflicting cultures. The trend toward hybrid fusion
architecture, like an erudite melting pot – combining influences of tea houses from the Edo period
and Feng-Shui tradition – suggests various interpretations. On the one hand, there is an orientation toward the past that focuses on contrasting
differences: technologically sophisticated construction vs. the cosmic-religious traditions of the
solar cycle suggested by the dome archetype. On
the other hand, it points to a weakness in the concept, as the primary function of a museum, based
on the notion of perpetual conservation, is slightly
obscured by the transience inherent in the language of media.
Nella pagina a fianco,
fasi del montaggio
della cupola trasportata
via mare sul luogo
del cantiere.
Pagine seguenti,
l’interno del museo vero
e proprio contenuto
nella sfera vetrata.
I visitatori accedono
al museo attraverso
un tunnel sotto il guscio
di una storica
imbarcazione in legno.
Salgono quindi
direttamente all’ultimo
piano con un ascensore
panoramico in vetro
e poi visitano i tre livelli
del museo scendendo
da una scala centrale.
Opposite pages.
Stages in the assembly
of the dome transported
by sea to the
construction site.
Following pages.
The inside of the
museum contained
in the glass sphere.
Visitors enter
the museum through
a tunnel under the shell
of an old wooden boat.
They reach the top floor
with a panoramic glass
elevator and then visit
the museum's three
levels going from floor
to floor by way
of a central staircase.
85
86
Nella pagina a fianco,
l’ingresso alla galleria
di collegamento con
il museo dall’edificio
d’ingresso sulla
terraferma.
Opposite page.
Entrance to the tunnel
connecting the museum
to the entrance building
on the mainland.
87