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Projects 26 La forma deve nascere insieme al suo scheletro. E l’attenzione al numero matematico che controlla la forma dello scheletro, ovvero la struttura portante, è il modo scientifico per definire la forma dello spazio architettonico e riuscire, nell’architettura del futuro, a materializzare la funzione dello spazio nelle sue mutazioni. Form must take shape together with its skeleton. And studying the mathematical numbers controlling the actual form of a skeleton or, in other words, the support structure, is the scientific way of determining the form of architectural space and materializing the function of space and its transformations in tomorrow’s architecture. Struttura e Forma Structure and Form Il numero che regola il progetto The Numbers that govern the Design Mario Antonio Arnaboldi* N el mondo della ricerca occorre affrontare i temi con spirito di creatività e determinazione. È anche vero che fare ricerca signifi1 ca applicare la teoria della serendipità , cioè operare, in un percorso definito, per ottenere una meta che, in molti casi, porta alla scoperta di ben altro, forse di qualcosa di più importante. La teoria serendipica di Cristoforo Colombo, che impostò il suo viaggio su una rotta ben precisa per raggiungere l’India e che, in effetti, scoprì l’America. Nel mondo della ricerca, nel campo della progettazione, la rotta che oggi ci si pone è quella di percorrere la via più diretta che porta ad ottenere un nuovo spazio per l’uomo; una struttura abitativa diversa, in grado di aderire alle domande emergenti. Ma quale via, quale nuovo spazio e rispetto a cosa? Soprattutto rispetto a una concreta celebrazione della nostra modernità, nell’intento di mutare i comportamenti del vivere quotidiano. Ciò sta a significare l’impegno per una ricerca che deve essere compiuta per individuare quegli ambienti eccellenti dove l’industria, attraverso le più recenti tecnologie, si metta in gioco come parte attiva e fattiva dell’edificazione, cioè, per realizzare una fattura industriale degli edifici. Come mai lo stato dell’architettura italiana è ancora fermo su posizioni romantiche, destinate solo a riciclare un passato ormai sepolto sotto il mattone? Il muro di Berlino ci insegna moltissimo a questo proposito, sia sotto l’aspetto della sua fisicità, che sotto l’aspetto del suo profondo significato morale. Ed è sul senso morale, sull’onestà, che deve basarsi la nuova ricerca, che è costretta spesso a superare le lacune legate alla formazione universitaria, ferma da troppi anni su posizioni non innovative, su insegnamenti tanto differenti da quelli delle università straniere, in particolare dalla metodologia anglosassone, dall’innovazione giapponese e dalla scientificità tedesca. Il sapere professionale frammentario che alberga nelle attività italiane riferite all’arte dell’edificare, cioè alla professionalità degli architetti, degli ingegneri edili, dei geometri o dei periti edili, ne è un chiaro indice e necessita di una riunificazione che si deve fondare sul sapere universale dell’architettura. L’atto architettonico è un atto unico, è un fatto unitario che rappresenta le necessità degli uomini ma, soprattutto, deve fondarsi sulla ricerca di nuovi bisogni. Non si può frammentare l’architettura, è un unicum inscindibile, che non deve basarsi sulle specializzazioni settoriali, data l’u- nità morale e sentimentale insita nel progetto stesso. Non ha più senso che un ingegnere aiuti un architetto a progettare e a disegnare la struttura portante dello spazio, come se fosse un fatto a sé stante. La forma deve nascere insieme al suo scheletro, come madre natura ci ha sempre insegnato. Uno scheletro umano non può che generare delle forme umane che, anche se diverse per tipologia, sono simili fra loro, sono sempre uomini. Viceversa, un diverso tipo di scheletro è in grado di formare un nuovo animale, di dare vita a una nuova forma, a un nuovo spazio radicalmente diverso, insomma, una nuova architettura. Ecco che tutto ciò fa scaturire la prima osservazione sulla formazione universitaria. Finché in università si insegna a disegnare copiando, invece di disegnare pensando, non raggiungeremo mai una formazione completa per i futuri operatori dell’architettura. Finché nella professione nasceranno architetti o ingegneri specializzati nella progettazione di piscine, ospedali, piuttosto che di alberghi o di sedi di università, non riusciremo più a comporre il nuovo progetto. Purtroppo ciò succede anche nella selezione dei professionisti per i Concorsi d’Architettura. È come se un architetto, un vero progettista, non uno specializzato, fosse in grado di disegnare solo un cucchiaio o solo una città. Il punto ritorna alla conoscenza, il nodo chiave è quello di affrontare l’architettura nei suoi veri contenuti, cioè esattamente quelli che la compongono: la struttura, le ossa, gli impianti, le arterie, l’immagine, l’ambiente e via dicendo. Deve nascere una nuova metodologia, capace di modificare l’approccio al progetto e impedire che la così detta architettura Hi-Tech, ormai morta, continui nelle sue sterili apparizioni. Occorre una nuova concezione del sapere, legata alle macchine della matematica, ai più sofisticati calcolatori, ai recenti computer, unitamente ai software emergenti e ai più avanzati programmi di calcolo. Gli algoritmi, i frattali, la sistematica delle forme matematiche, delle equazioni di terzo grado, delle cubiche, delle coniche, sono il nuovo humus sul quale si deve appoggiare il progetto, se non si vuole che l’architettura nostrana contemporanea venga saltata nella storia recente. Anche l’aggiornamento del prodotto industriale deve passare da questa via che, in modo serendipico, porterà ai futuri risultati che saranno di impostazione diversa e dimostreranno che l’architettura sa volare. Tutto ciò è come il numero che regola lo spazio e il tempo dei fotogrammi di un film che permettono il STRUTTURA STRUCTURE montaggio della sua storia; è simile al numero che monta l’architettura nello spazio e nel tempo, che definisce la sua immagine nella percezione dell’uomo attraverso lo spazio. L’architetto Rem Koolhaas si è reso conto, da valido professionista quale è, che anche la città può formarsi nel medesimo modo. Non esistono remore, non devono esistere perplessità, perché la scienza matematica ormai si è divulgata attraverso i calcolatori ed è diventata accessibile anche al più umile operatore. Si dice che la guerra abbia trasformato il contadino in operaio, per avergli fatto maneggiare le armi; il computer è simile a un’arma per conquistare il progetto di architettura. È in questo modo che, oggi, si sta assistendo all’emergere di una nuova generazione di personaggi in grado di maneggiare il numero del calcolo statico, attraverso sofisticati programmi, che danno la possibilità ai giovani progettisti di scrutare il futuro, composto da realtà ormai non più virtuali. Basta osservare il lavoro dei programmatori dei film di fantascienza, oppure le bellissime strutture dei video game, per scoprire che, oggi, vi sono personaggi, alimentati da grande passione e sensibilità, in grado di raccontarci come sarà in futuro il nostro spazio abitativo. Viene in tal modo chiaramente indicata l’evoluzione cui è destinata l’architettura. Occorre fare presto, non per modificare gli animi ma solo per alimentare il nostro pensiero e tenderlo alla ricerca, quella costruttiva, quella che stupisce, quella che ci fa sperare che l’architettura non è morta, ma che si deve rinnovare tutti i giorni. I programmi a elementi finiti, che raccolgono le sollecitazioni unifilari riferite ai baricentri delle masse, come il programma Sargon sa descrivere, piuttosto che i Software, ad alto contenuto matematico, come Strucad, che trasferisce i risultati nella materia, nei profilati in ferro, nel cemento, nella plastica, la gomma e che generano, poi, le sezioni adatte al più alto valore di resistenza. Tutto ciò sta a significare che l’hardware e il software, ben combinati, sono in grado di materializzare, in modo nascosto, il lp (raggio d’inerzia) dell’ellisse centrale, piuttosto che il metodo grafico di Karl Culmann. È la magia del nostro tempo che trova delle remore solo negli architetti romantici, che continuano a voltarsi indietro pensando che l’architettura sia già stata inventata. Il progetto è come un romanzo perché tutti e due sono un racconto. Il racconto per il progetto architettonico nasce nel magico momento della creatività, nasce nel momento di chi vuole approfondire il proprio studio nella logica della trasformazione, nelle radici del mutamento che, co- 27 La materia modellata secondo la nuova matematica algoritmica. Il disegno raffigura una parte della struttura in ferro del Main Complex di AFI South-Lagopatria (Napoli), dello Studio Arnaboldi; elaborazione attuata con software Strucad da Davide Benini. Matter shaped according to the latest algorithmic mathematics. The drawing shows part of the iron structure of the Main Complex of AFI South-Lagopatria (Naples) designed by Studio Arnaboldi; Cad rendering using Strucad software by Davide Benini. 28 me insegna la natura, nasce dal telaio che la sopporta. Pensare al mutamento della struttura significa, obbligatoriamente, porsi nella condizione di rispondere alle ragioni per cui l’architettura, lo spazio dell’uomo, lo spazio vuoto che forma la città, esistono. Esistono perché sono la forma che deve equilibrare la spinta della natura con il valore del nostro sentimento. La spinta del vento, dell’acqua che scivola sulle superfici inclinate della sua pelle; le aperture per accogliere e controllare la luce, trattenere o isolare il caldo o il freddo, tutte vere e proprie forze che modellano lo spazio e sono destinate a dettare la forma ottimale per suggerire un’architettura differente tra il polo e l’equatore. Non vi è nulla di statico, nulla di scoperto, nulla di definito in questo mare di direzioni e di rotte; diventa veramente indispensabile aspettarci sempre di più e di diverso se la serendipità ci accompagna nella nostra predisposizione a trovare il nuovo, il bello, l’utile, la forma, l’arte. Se poi si pensa che la struttura, che definisce le forme, racchiude al suo interno la forza della nostra spiritualità, tutto questo ci spinge a volere ciò che più è consono al nostro vivere nel momento della nostra partecipazione alla modernità. Si capisce come queste tensioni devono essere in grado di modellare la materia attraverso il numero matematico, il numero scientifico, insomma, il sapere latu sensu, capace di usare le stesse forze che la natura usa per formare una conchiglia, un fiore, l’ala di un uccello. La forza dell’acqua, che modella la prua di una nave, ha lo stesso potere della resistenza del vento in grado di modellare un aereo; tutto allora risponde alla funzione, all’utile, al bello. Per l’architettura occorre che l’autore costruisca il racconto, che l’architetto, ricco delle nuove conoscenze, sia in grado di costruire, in modo unitario, una storia che rispetti le funzioni del progetto contemporaneo. Occorre un racconto in grado di modificare la struttura per ottenere un nuovo spazio, uno scheletro che tenga conto di tutte le implicazioni dell’architettura e che non imponga la semplice composizione di una facciata, il taglio di una finestra, l’orditura di un mattone, il displuvio di un tetto; insomma, una struttura globale che diventi, nel suo insieme, un evento architettonico, in grado di generare un organismo per vivere. Un organismo che, a sua volta, sia capace di generare la nuova città attraverso spazi che si penetrano e si compenetrano, in modo che il luogo della vita diventi un tutt’uno con la nostra mobilità nel tempo, un organismo in grado di esprimere la fusione della nostra fisicità con la nostra spiritualità, nell’intento di una vita sociale a noi consona. 1. Serendipità, dall’inglese serendipity, è un termine coniato nel 1754 da Horace Walpole e indicante il fare per caso delle scoperte, senza indagini sistematiche. Il termine deriva da Serendip, nome arabo dell’isola di Ceylon e si riferisce a una leggenda sui principi di Serendip che, viaggiando, non facevano che scoprire, grazie sia al caso, sia alla loro acutezza, cose di cui non erano in cerca. Il termine è stato preso nel linguaggio scientifico dal fisiologo statunitense Walter Bradford Cannon. * Mario Antonio Arnaboldi è Medaglia d’Argento del Politecnico di Milano per i 40 anni d’emerita docenza. È vicedirettore della rivista l’Arca. Opera con lo Studio Architetti Associati Arnaboldi & Partners, Milano. Tra i progetti più recenti: Cargo City – Aeroporto Malpensa 2000; Calcoli strutturali della Nuova Sede NATO – Afsouth 2000 – Lagopatria, Napoli; Palazzo Comunale di Casalpusterlengo. Pubblicazioni: La città visibile, l’Arcaedizioni, 1992; Progettare oggi, l’Arcaedizioni, 1992; Il senso universale dell’architettura, Liguori Editore, 1993; Il giudizio universale, l’Arcaedizioni, 1995; La disciplina del progetto, Clup, 1989; Genesi della forma, Marsilio Editore, 1966; Genesi e propedeusi al progetto, Silvia Editrice, 1987; Atlante degli impianti sportivi, Hoepli, 1982. R esearch must be driven by creativity and determination. There can be no doubt, too, that doing research also means applying the theory of serendipity1, i.e., following a set route to a predetermined goal which often leads to quite a different discovery, that often times turns out to be even more important. The theory of serendipity is epitomized by Christopher Columbus’s voyage to India, which actually led him to discover America. Today, in the fields of research and design, the course that has been set is that of the most direct route to creating a new space for people to inhabit; a different kind of structure to live in; one that caters to emerging needs. But which route, which new space and in relation to what? A course that is a real celebration of our modernity with the goal of changing our everyday behavior. This means orienting our research toward finding ideal surroundings in which industry can apply the latest technology to play an active and effective role in building, in other words, we are talking about creating buildings in an industrial manner. Why is Italian architecture still stuck on romanticism, merely recycling a past that is now dead and buried beneath a pile of “bricks”? The Berlin Wall is extremely instructive in this respect, both on a physical level and in terms of its deep moral significance. And it is on morality and honesty that this latest research must be based, since it must all too often fill in the gaps in our university education, which is so often stagnant and unlike that of foreign universities, particularly those based on the AngloSaxon method, Japanese innovation and German scientific precision. The fragmentary professional know-how that can be witnessed in the Italian art of building, the professionalism of its architects, building engineers, and building surveyors, is a clear sign of the need for a reunification that must be founded on a global architectural know-how. Architecture is a uniform act, a unitary fact that translates human needs and, above all, that should be grounded in the quest for new needs. Given the moral and sentimental unity inherent in design, architecture cannot be divided up. It is an inseparable whole that can not be based on separate, specialist sectors. It no longer makes sense for an engineer to “assist” an architect in planning and designing the support structure of space, as if it were a separate element in its own right. Form must take shape together with its skeleton, as Mother Nature has always taught us. A human skeleton inevitably generates human shapes, which, although very different from each other, remain nevertheless human beings. In order to change, therefore, a new type of skeleton must be created to form a new animal, giving life to a new shape, a new and radically different kind of space, in a word, a new architecture. All this inevitably leads to a first comment about university education. As long as design in universities means “copying,” rather than “thinking,” our architects of the future cannot be properly trained. As long as our profession continues to produce architects or engineers specializing in the design of swimming pools and hospitals, rather than hotels and university buildings, we can never attain this new concept of architectural design. Unfortunately, the same logic applies to the selection of participants in Archi- tectural Competitions. It is as if an architect, a real designer not just a specialist, were only capable of designing a single spoon or a single city. The key to the whole issue is “knowledge” and setting about tackling the real contents of architecture, its true constituents: structure, bones, systems, arteries, image, environment and so forth. A new methodology is necessary. A methodology capable of changing our approach to design and able to stop the sterile development of so-called HighTech architecture, now dead and buried. We need a new concept of knowledge closely linked to the mathematical machinery, the most sophisticated recent computers, together with new software and cutting-edge programs. If we want to ensure that our modern-day architecture is not forgotten by recent history, algorithms, fractals, the systematics of mathematical forms, third-degree equations and cubic and conic equations must come together to create the new breeding ground of design. Even the refurbishing of industrial products must follow this path, which will lead (by serendipity) to future projects of a different nature, proving that architecture can, in fact, fly. This is similar to the guiding numbers that control the space-time relations of the still shots in a movie, essential in editing the story. It is also similar to the numbers that set architecture in space and time, defining how it is perceived through space. As an expert, the architect Rem Koolhaas realized that a city could be put together in the very same way. Nothing need get in the way or perplex us, because, thanks to computers, mathematical science is now widely available to even the humblest of operators. It is has been said that the war turned farmers into workers by forcing them to take up weapons; a computer is rather like a weapon for conquering architectural design. This is how a new generation is now emerging, a generation capable of handling static calculations by means of sophisticated programs giving young designers the opportunity to look into a future that is no longer made up of purely virtual realities. Witness the work of programmers of science fiction movies, or the wonderful structures of video games, to realize that there are some people today fueled with great passion and sensitivity and capable of telling us what the space we live in will look like tomorrow. It is also a clear indication of how architecture is destined to develop. Nevertheless, we must act quickly, not to alter our souls but simply to nourish our minds and focus on research. The kind that is constructive and astounding, the kind that makes us believe that architecture is not dead but that it is being re-invented every day. Finite-element programs, like Sargon, that combine the single-wire stresses and strains exercised on the barycenter of masses, rather than the software with high-tech mathematical content like Strucad, which transfers the results into matter, iron sections, concrete, plastics and rubber, and which generates sections handling the highest resistances. This implies that the thoughtful combination of hardware and software can secretly give material form to the p l (inertial radius) of the central ellipse, as opposed to Karl Culmann’s graphics technique. This is our own modern-day magic, criticized only by romantic architects, “frozen in time,” who still turn their backs on all this in the firm belief that architecture has already been invented. Design is like a novel in that both tell a tale. In architectural design the narrative is born in that magical moment of creativity, the moment in which one delves deeper into the logic of transformation, the roots of change, which, as nature teaches us, find their origin in the supporting structure. To consider changing structure implies putting oneself in a position to cater to the very raison d’être of architecture, i.e. the living space of man and the empty space of the city. Architecture exists because it is the form striking a balance between the force of nature and the values of our feeling. The way the wind blows and the water flows on the skin; the openings to let in and control light, to retain or insulate against heat and cold; these are all authentic forces shaping space and destined to dictate the optimum shape of an architecture that will be different from the poles to the equator. Nothing static, nothing already discovered, nothing definite in this maze of different directions and routes; we must continue to expect more and different things, if serendipity is to accompany us in our quest for the new, the beautiful, the useful, as well as form and art. If, moreover, we consider that structure, which defines form, holds within it the essence of our spirituality, then we must seek the best way for us to live and participate in modernity. It becomes clear how these tensions must lead to the shaping of matter by means of mathematical/scientific numbers, i.e. knowledge in the broadest sense, using the same forces nature uses to make a shell, a flower or a bird’s wing. The power of water that shapes a ship’s hull is the same as the force that the wind exerts on an airplane; everything, then, corresponds to function, utility and beauty. For architecture, the author must write his own story, draw on his own wealth of knowledge to construct a unitary narrative that respects the functions of modern-day design. The tale told must be capable of altering structure to create a new space, a structure that takes into account all the implications of architecture, rather than simply applying a façade design, the cut of a window, a row of bricks or the ridge of a roof. In other words, a global structure that becomes an architectural event, the creation of an organism to live in. An organism which, in turn, can create a new city through interpenetrating spaces, so that we can live in perfect harmony with our mobility through time; an organism able to express the way our physical nature fuses with our spirituality to create the ideal form of social life. 1. The term serendipity was coined by Horace Walpole in 1754 and means making an unintentional discovery without any systematic search. The word comes from Serendip, the Arabic name for the Island of Sri Lanka (formerly Ceylon) and refers to a legend about the princes of Serendip, who, while on their travels, kept making discoveries they were not looking for, either by chance or cunning. The word was incorporated in the language of science by the American physiologist Walter Bradford Cannon. * Mario Antonio Arnaboldi holds the Milan Polytechnic’s Silver Medal for 40 years’ teaching and is Assistant Editor of l’Arca magazine. He works with Studio Architetti Associati Arnaboldi & Partners, Milan. His most recent projects include: Cargo City – Malpensa Airport 2000; Structural computation for the New NATO Headquarters – Afsouth 2000 – Lagopatria, Naples; Casalpusterlengo Town Hall. Publications: La città visibile, l’Arcaedizioni, 1992; Progettare oggi, l’Arcaedizioni, 1992; Il senso universale dell’architettura, Liguori Editore, 1993; Il giudizio universale, l’Arcaedizioni, 1995; La disciplina del progetto, Clup, 1989; Genesi della forma, Marsilio Editore, 1966; Genesi e propedeusi al progetto, Silvia Editrice, 1987; Atlante degli impianti sportivi, Hoepli, 1982. 29 Antropomorfismo strutturale Structural Anthropomorphism Toyota City, Toyota Bridge Toyota City, Toyota Bridge Progetto di Kisho Kurokawa Architect & Associates Project by Kisho Kurokawa Architect & Associates T 30 In queste pagine, particolari del ponte, che ha una larghezza media di 20 m con un massimo di 32,5 m. Grande importanza è stata data anche al traffico pedonale cui sono riservate due corsie laterali larghe 10 m. These pages. Details of the bridge, which has an average width of 20 m with a maximum of 32.5 m. Pedestrian traffic, for which two 10-meter-wide side lanes have been reserved, was also taken into consideration. oyota non è solo il logo di una delle maggiori industrie automobilistiche mondiali, ma anche il nome di una città di 350 mila abitanti, distante un’ora di strada da un’importante metropoli come Nagoya. Il centro urbano è stato realizzato alla fine degli anni Trenta per accogliere la comunità destinata alla produzione di auto e quant’altro gira attorno al mondo dei motori. Il Toyota Bridge rappresenta dunque un ulteriore tassello che va ad aggiungersi a Toyota City, creando cosi un importante collegamento fra la città e il territorio circostante. Configurato come una grande struttura zoomorfica, che rimanda all’impianto osseo di un misterioso animale preistorico, il Toyota Bridge privilegia nella distribuzione dei percorsi il traffico pedonale, cui sono riservate due grandi corsie laterali, larghe circa dieci metri. Nonostante il ponte sorga nella più grande città dell’automobile, si è voluto dare ampio spazio al- l’uomo. Ciò spiega come la poetica progettuale di Kurokawa metta sempre al centro del progetto il rapporto fra l’uomo e l’architettura. Fondatore, insieme a Kiyonori Kikutake, del Metabolismo, movimento sorto in occasione della World Design Conference di Tokio del 1959, Kurokawa non ha mai smesso di ricercare nell’architettura funzioni e forme ispirate alla natura, ai suoi processi vitali, alla ricerca di un equilibrio fra spazio urbano e spazio esistenziale. Insomma, nel Maestro giapponese non si è mai assopita la carica metabolista di un grande dell’architettura da sempre impegnato nel confronto fra naturale e artificiale. Soprattutto là dove ci siano da costruire manufatti architettonici di grande intensità simbolica come il ponte, che rappresenta l’eterno desiderio dell’uomo di superare i suoi limiti. Il ponte rimanda infatti al volo, al salto nel vuoto capace di rimediare alla mancanza d’ali. Ma il Toyota Bridge è anche altro: è un segno forte nel paesaggio. Un paesaggio che, nel caso di Toyota City, è caratterizzato da dolci declivi collinari e dalla presenza di ampi spazi verdi. In un simile contesto, la “struttura nervosa” del nuovo ponte emerge con grande intensità, con grande forza segnica, divenendo punto di orientamento e fulcro visivo nel paesaggio. Da ovunque si osservi, il ponte restituisce suggestioni sempre diverse: di scorcio se ne apprezzano le linee arcuate, l’armonioso intreccio di tiranti; dal basso invece porzioni di cielo colorano d’azzurro le asole di alleggerimento strutturale. Strutturalmente il ponte presenta un articolato blocco portante in calcestruzzo, mentre il resto è una mirabile opera di carpenteria metallica, realizzata totalmente a disegno. Arcate e strutture sono infatti progettate per creare una configurazione strutturale unica, destinata esclusivamente a risolvere la statica del Toyota Bridge. Ciò fa di questo manufatto un’opera unica e irripetibile, poiché irripetibili sono le situazioni orografiche delle sponde dei fiumi dove lanciare i ponti. L’architettura può dunque essere un’opera d’arte a scala territoriale? Nel caso delle opere di Kurokawa certamente sì! Nelle sue realizzazioni egli impiega materiali diversi, anche se spesso ricorrono il calcestruzzo e l’acciaio, a patto che sia possibile plasmarne la materia, dando forma a strutture mai standardizzate, poiché non vi è nulla di meno standardizzato di un luogo, di un territorio, di un paesaggio. STRUTTURA STRUCTURE 31 Pianta e viste del Toyota Bridge, realizzato da Kurokawa per collegare Nagoya City a Toyota City. Plan and views of the Toyota Bridge, designed by Kurokawa as a link between the city of Nagoya and Toyota City. 32 T oyota is not only the logo of one of the largest automobile companies in the world, it is also the name of a city with a population of 350,000, an hour’s drive from a major city, Nagoya. The urban center was built toward the end of the thirties to host a community destined to work in automobile production and services. The Toyota Bridge therefore, represents an additional feather in Toyota City’s cap, creating an important link between the city and the surrounding area. Set up like a giant animal-shaped structure that reminds the onlooker of some mysterious prehistoric animal’s skeleton, the Toyota Bridge’s layout favors pedestrian traffic, distributing two ten meter-wide walkways on both sides of the structure. In spite of the fact that the bridge rises in the largest automobile city in the world, there was a strong desire to give man his own space. This attitude explains how Kurokawa’s design poetic always places the relationship between man and architecture at the center of his works. The father, together with Kiyonori Kikutake, of Metabolism, a movement that emerged around the time of the World Design Conference held in Tokyo in 1959, Kurokawa has never ceased searching for functions and forms inside his architecture that are inspired by nature and its vital processes searching for a balance between urban space and existential area. In this Japanese master, the metabolist’s desire – which is so typical of him – for working eternally to blend the natural and the artificial has never waned with the passing of time. This is especially true when it comes to building architectural constructions of great symbolic intensity such as the bridge, which represents man’s eternal desire to overcome his limits. The bridge reminds one of flight, of the leap into space capable of making up for the lack of wings. But the Toyota Bridge is even more: it is a strong sign in the surrounding landscape – landscape that, in Toyota City’s case, is characterized by soft slopes and the presence of abundant greenery. In a similar context, the “nervous structure” of the new bridge emerges with great intensity, with a great signifying force, becoming a point of orientation and a landmark. From any given vantage point, the bridge supplies ever-diverse suggestions: from a partial perspective, one can appreciate its arched lines and the harmonious braided cables; from below, the sky colors in light blue the openings designed to lighten the structure. Structurally, the bridge presents an articulated concrete support block, while the rest is an admirable work of metallic carpentry, fully created to design. Arches and structures are designed to create a unique structural configuration, destined exclusively to satisfy the equilibrium requirements of the Toyota Bridge. This makes this architectural work a unique and unrepeatable feat, akin to the mountainous landscape of the riverbanks from which bridges protrude over the river. So, can architecture be a work of art on a territorial scale? In the case of Kurokawa’s works, the answer is a resounding yes! In his architectural constructions he uses a variety of materials, even though concrete and steel are often the most common elements, as long as what he chooses can be molded, modeled, giving form to structures that are never standardized, because there exists nothing less standardized in this world than a place, a territory or a landscape. 33 34 35 Se la città ha un cuore If the City Has a Heart Bilbao, Palacio Euskalduna Bilbao, Palacio Euskalduna Progetto di Soriano & Asociados Project by Soriano & Asociados A 36 La facciata del Centro Congressi. La forma e i materiali utilizzati nell’esterno dell’edificio ricordano quelli di una nave incagliata nei bassi fondali del fiume. The Conference Center facade. The form and materials used for the outside of the building are meant to resemble a ship stranded on the riverbed. scolto il tuo cuore, città (Alberto Savinio, 1941) è un libro ma anche una straordinaria metafora che evidenzia come ogni mutazione, ogni nuovo edificio siano battiti vitali per la metropoli che cresce. Dunque, se la città ha un cuore, l’architettura è il suo centro pulsante. Bilbao, capitale basca da qualche anno al centro di grandi lavori di riqualificazione, è certamente una città con un cuore. Un cuore grande e complesso come il Palacio Euskalduna, che rivela come l’architettura di qualità sia considerata dagli amministratori più illuminati potente motore per la promozione dei centri urbani. L’architettura più creativa è sempre ricca di metafore che ne rivendicano il ruolo di vettori di immaginari, scaturiti spesso dallo spirito del luogo. In questo caso, il genius loci su cui lavorare era il mondo degli arsenali, del porto fluviale di Bilbao, con i suoi vascelli che dai luoghi più lontani ed esotici scaricavano merci e uomini nei magazzini delle città dell’entroterra. L’immagine della nave arenata, con tutte le implicazioni del caso, è stata il concept su cui si sono concentrati gli architetti di Soriano & Asociados. Attraverso un percorso di avvicinamento al nucleo di quello che appare come un vascello in disarmo, ma anche in via di costruzione e in perenne attesa nel suo bacino di carenaggio, ci si accorge come la fitta distribuzione di alberi metallici svolga egregiamente più funzioni. A cominciare da quella di filtro per rallentare i flussi di visitatori ma anche di supporto del sistema di illuminazione artificiale, fino a fungere da barriera frangivento e da schermo per il soleggiamento, che da quelle parti è davvero di forte intensità. Il non finito, l’immaginario rarefatto del cantiere con le sue strutture a vista che lasciano solamente immaginare come potrà concludersi il tutto, sono la cifra stilistica di questo grosso intervento di riqualificazione di un’area ex portuale, destinata a divenire luogo di forti concentrazioni di capitali. Anche capitali intellettuali poiché, secondo chi guarda, il Palacio può assumere diverse connotazioni, diverse paternità progettuali: per esempio, Carlo Mollino o Giovanni Battista Piranesi. Ciò dimostra che anche senza ricorrere a linguaggi codificati in tendenze consolidate, si possono ottenere ottimi risultati. Nel ventre del vascello, ovvero nelle stive del Palacio, trovano posto, in ordine sparso, tutta una se- rie di spazi: sale conferenze, luoghi destinati agli incontri e anche un teatro. Quest’ultimo pensato come una sorta di personaggio notturno, qua e là illuminato da soffitti solcati da file di luci e con una platea con poltrone dai toni smorzati che facilitano quel senso d’intimità fondamentale per allacciare un giusto rapporto fra pubblico e scena. In mezzo a tutti questi spazi, percorsi e luoghi troneggia l’enorme struttura in cui sono sistemati tutti i dispositivi sceno-tecnici. Ma se l’interno è una sequenza di spazi e funzioni disseminati su livelli diversificati e altezze a volte diverse solo per soggettive percezioni, ciò che colpisce è l’esterno del complesso, che appare come senza prospetti. O meglio, con una tale STRUTTURA STRUCTURE sfaccettatura di pieni e vuoti da rendere estremamente arduo ogni tentativo di dare un ordine a tutto l’insieme. Il Palacio è insomma una fitta distribuzione di funzioni fra loro collegate attraverso percorsi in quota, strutture in calcestruzzo concluse in capitelli svasati, che ne alleggeriscono il carico visivo. A ben vedere, i rimandi stilistici vanno oltre quelli molliniano e piranesiano, andando a confluire in una sorta di stile vicino a quello di uno Scharoun, rivisitato e aggiornato con ciò che si pensa avrebbe potuto fare oggi il grande Maestro razionalista avendo a disposizione tecnologie digitali e materiali tecnologici, inesistenti ai suoi tempi. Insomma, il Palacio Euskalduna è destinato a far parlare di sé non solo per la sua intrinseca forza evocatrice ma anche per la sua straordinaria mimesi con infinite poetiche. Un’architettura che non si esaurisce nella sua funzione pratica è destinata nel tempo a mutare in testo, in struttura comunicante, in occasione di riflessione critica. Insomma, alcune architetture hanno la forza di trasformarsi in scrittura. In tal senso, vale la pena concludere con una citazione a Italo Calvino, che per le città “letterarie” aveva particolare predilezione: “Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte”, dice Marco Polo al Kublai Khan descrivendogli la città di Tamara (Le città invisibili, Einaudi, 1972). 37 Particolare dell’accesso principale dalla città di fronte al Centro Congressi del Palacio Euskalduna a Bilbao, inaugurato alla fine del 1999. Detail of the main entrance from the city facing the Palacio Euskalduna Conference Center in Bilbao, which opened at the end of 1999. 38 L isten to Your Heart, City (Alberto Savinio, 1941) is not merely a book, it is an extraordinary metaphor that highlights how every change, every new building constitutes a vital heartbeat for a growing city. Therefore, if the city has a heart, then architecture constitutes its heartbeat. Bilbao, the Basque capital that has been the focus of great renovation and building transformation efforts for several years now, is unquestionably a city with a heart, a large and complex one like the Palacio Euskalduna. This building reveals how the most enlightened administrators consider quality architecture to be a powerful engine for developing urban centers. The most creative architecture is always rich in metaphors capable of asserting its role of vector of imaginaries, often emanating from the spirit of the place. In this case, the pervading spirit to be taken into account was the world of shipping warehouses of the river port of Bilbao whose vessels unloaded men and merchandise coming from the farthest and most exotic locations in the world bound for the warehouses of the inland cities. The image of the stranded ship, with all its possible implications, was the concept upon which the architects of Soriano & Asociados concentrated their efforts. Through a path leading to the heart of what appears to be a laid up ship, but concurrently a ship under construction endlessly waiting in dry dock, one realizes how the generous distribution of metal cranes thoughtfully provides several functions at once. It acts at once as a filter to slow the flow of visitors, as well as a support structure for a system of artificial lighting, and lastly, as a wind-breaking barrier and a shade against the sun which can be remarkably strong in this corner of the world. The unfinished section – the subtle imaginary of the work site with its open and visible structures leave the spectator to imagine what the whole will look like once complete – constitutes the stylistic component of this enormous renovation project of a former port area, now destined to become a concentration of investment and capital. The investment will be intellectual as well; depending on the viewer’s perspective, the Palacio is capable of taking on numerous appearances and diverse design origins: for example, Carlo Mollino or Giovanni Battista Piranesi. This fact demonstrates how, even without retreating to language codified in consoli- dated trends, it is possible to obtain excellent results. In the belly of the ship, that is within the Palacio’s holds, a series of spaces find room in no particular order: conference rooms, areas destined for meetings and even a theater. This last space has been designed as if it were a nocturnal character, randomly lit up by ceilings crossed by rows of lights. Its audience floor, with soft-toned armchairs, facilitates the sense of intimacy so fundamental for establishing the right balance between the public and the performers on stage. The enormous structure housing the theatrical equipment towers over these spaces, pathways and places. But if the inside is a sequence of spaces and function rooms spread over diversified levels and heights – sometimes different from one another for subjective perception – what strikes the visitor is the complex’s exterior which appears devoid of perspective. Or better yet, it appears to possess a facade so filled with full and empty spaces that any attempt to lend order to the whole would prove extremely arduous. The Palacio is essentially a close distribution of functional areas connected with one another through elevated pathways; steel-reinforced concrete structures crowned with embrasure capitals that lighten the visual impact. Clearly, the stylistic references go above and beyond those considered to be of the Mollinian and Piranesian schools, flowing together into a style that is similar to a Scharoun, revisited and updated by what the great Rationalist master would have been able to accomplish with today’s digital and technological materials, unavailable in his day and age. Essentially, the Palacio Euskalduna is bound to provoke discussion not only for the intrinsic evocative force, but also for the extraordinary imitation of various poetics. An architecture that does not exhaust itself in practical functions is destined over time to turn itself into text, communicating structure and an opportunity of critical reflection. Some architectural works exist with enough strength to turn themselves into text. In this sense, it is appropriate to conclude with a quotation from Italo Calvino, who had a particular predilection for “literary” cities, and wrote: “The glance runs along streets as if they were written pages,” (spoken by Marco Polo to the Kublai Khan, describing for him the city of Tamara), (Invisible Cities, Einaudi, 1972). 39 In queste pagine, particolare del foyer con le passerelle attraverso cui si accede alla sala dell’auditorium. These pages. Detail of the foyer showing the walkways leading into the auditorium. 40 41 42 Il vestibolo della sala congressi al livello 7,05. Sotto, dall’alto in basso, sezione longitudinale, piani ai livelli +26,55, +14,55, +7,05. The conference hall lobby on level 7.05. Below. From top down, longitudinal section, plans on levels +26.55, +14.55, +7.05. 43 Schizzo preliminare per il foyer e, a destra, la sala principale da 2.200 posti. Preliminary sketch for the foyer and, left, the main hall with a seating capacity of 2,200. 44 45 Contenitore di emozioni A Container Filled with Emotions Berlino, DG Bank Berlin, DG Bank Progetto di Frank O. Gehry Project by Frank O. Gehry F 46 La facciata d’ingresso dell’edificio a uso misto DG Bank a Berlino, che apre sulla Pariserplatz verso la Porta di Brandenburgo. Questa facciata è caratterizzata da una serie regolare di semplici aperture squadrate e rientrate ed è rivestita con pietra arenaria che si armonizza col colore dell’antistante Porta di Brandenburgo. The entrance facade of the multifunctional DG Bank building in Berlin facing Pariserplatz near Brandenburg Gate. This facade features a regular pattern of simple square in-set openings and is clad with sandstone which matches the color of the Brandenburg Gate. orse stanco di stupire con le sue esplosive architetture ispirate al dinamismo dei futuristi (cfr. il Guggenheim Museum di Bilbao in Spagna), Gehry cerca altre strade e progetta una scatola a sorpresa. Ovvero un edificio con l’esterno totalmente in antitesi con l’interno, una sorta di architettura double-face. Qualcosa insomma in grado di far ricredere chi pensava che ormai fosse preda della sindrome di Bilbao. Il nuovo corso inizia con la DG Bank, costruita a Berlino sulla Pariserplatz, verso la Porta di Brandenburgo. Gehry ottiene l’incarico del progetto vincendo un concorso internazionale precedendo sul filo di lana concorrenti del calibro di Tadao Ando e Arquitectonica. Un premio meritato, il suo, visto il risultato: la DG Bank è un’opera di rottura, un’architettura che segna una linea di demarcazione fra due linguaggi di Gehry parimenti affascinanti e destinati a creare epigoni ovunque. E quindi a incidere non poco sui paesaggi urbani delle grandi metropoli, come appunto Berlino, luogo simbolico della rigenerazione della città occidentale. Oltre a essere una banca, la DG Bank è uno straordinario contenitore di emozioni, proprio per la dicotomia compositiva fra esterno e interno. Se il Razionalismo aveva decretato che l’esterno è conseguenza degli spazi interni, la DG Bank rimette tutto in discussione, proponendo una sequenza di accadimenti spaziali assolutamente non dichiarati. Ciò può significare una sola cosa: l’architettura non può avere dogmi, non può essere costretta in schemi inamovibili poiché, come l’arte, riflette il suo tempo. La DG Bank non è solo una scatola a sorpresa in cui tutto succede all’interno, è una sorta di film: Gehry sembra infatti essere ricorso al linguaggio cinematografico, ordinando gli spazi come una sequenza spazio-temporale, organizzando il tutto attraverso uno storyboard sottilmente enfatizzato onde ottenere il massimo di emozioni ogni qualvolta ci s’inoltri all’interno dell’edificio. La “regia” di Gehry ha previsto una serie di schermi ideali in forma di griglie ortogonali pensate per dare massimo risalto una volta arrivati davanti alla “mostruosità” (nel senso di monstrum = meraviglia) neo-organica, sistemata al centro del contenitore. Evidentemente egli non ha potuto sottrarsi al fascino dei suoi fantasmi zoomorfici, che tanto hanno connotato le sue opere più clamorose e celebrate. Giocando con trasparenze, pieni e vuoti e sensuali volute sospese, Gehry avvolge lo spettatore-fruitore con vertiginose suggestioni fino a fargli perdere la cognizione della fisicità del luogo per farlo entrare in una sorta di spazio mentale, dove è facile perdersi, inseguendo i propri fantasmi, i sogni più nascosti. Non importa se poi in un secondo tempo tutto si stempererà in situazioni reali, in spazi come l’auditorium o la caffetteria, poiché l’esperienza del “viaggio” rimarrà indelebile nella memoria, anche una volta usciti dalla DG Bank. Ma ciò che più impressiona di questo anomalo edificio destinato al terziario è la presenza del grande volume sospeso d’acciaio e legno, che rimanda alle forme archetipiche delle prime forme di vita terrestre. Una memoria giurassica vista come proiezione nel futuro di un passato ripresentato in chiave tecnologico-favolistica, quasi a voler dimostrare attraverso l’architettura che davvero nulla si crea e nulla si distrugge. Introversa, spettacolare ed estrema, la DG Bank si propone come un luogo di trasgressione là dove invece ci si aspetterebbe il contrario, là dove le logiche economiche non prevedono voli ed emozioni che non siano legati all’andamento del dollaro. Insomma, come va letta quest’inversione di tendenza che investe un mondo finanziario ansioso di cambiarsi d’abito per comunicare, attraverso l’architettura, altri valori? Forse la risposta sta in un’ansa della cultura contemporanea così pervasa dal desiderio di trasversalità, di contaminazione dei linguaggi. In tal senso, perché non mutuare dalla cultura musicale risposte a quesiti di diverso segno? Brian Eno, eclettico agitatore di pentagrammi dalle sonorità molto amate dagli architetti poiché strutturate come ambienti spaziali, sostiene che la verità sta in fondo a un percorso trasgressivo, a un viaggio nell’estremo, che poi approderà in una radicale rinascita. Ecco, forse la DG Bank di Gehry rappresenta un tentativo di viaggio nella massima trasgressione per poi ritrovare nuovi valori, altri riferimenti. STRUTTURA STRUCTURE 47 Vista della cupola vetrata. Nella pagina a fianco, l’ingresso dell’auditorium/sala riunioni. View of the glass dome. Opposite page. Entrance to the auditorium/meeting room. 48 P erhaps because he was tired of surprising everyone with his explosive architecture inspired by the dynamism of the futurists (for example, the Guggenheim Museum in Bilbao, Spain), Gehry went in search of other paths and designed a jack-in-the-box building with an exterior that is the antithesis of its interior; a kind of double-sided architecture. This project has the ability of altering the opinion of those who believed that Gehry had become a victim of the “Bilbao syndrome.” His new approach begins with the DG Bank, built in Berlin overlooking the Pariserplatz, facing the Brandenburg Gate. Gehry obtained the job by winning an international competition against such admirable peers as Tadao Ando and Arquitectonica. The choice has proved welldeserved in light of the result: the DG Bank is a breakthrough work, a type of architecture that draws a demarcation line between Gehry’s two languages, both of which are fascinating and des- tined to generate discussion everywhere they are represented. As such, this construction highly influences the urban landscape of the great city of Berlin, a place symbolizing of the regeneration of Western cities. In addition to being a bank, the DG Bank is an extraordinary container of emotions, due specifically to the compositional dichotomy between its exterior and interior. If Rationalism decreed that the exterior is a consequence of internal spaces, then the DG Bank revives the discussion, presenting a sequence of absolutely undeclared spatial developments. This can only signify one thing: architecture can support no dogmas; it cannot be contained in fixed outlines because, like artwork, it reflects the times. The DG Bank is not only a box of surprises in which everything happens within, it is also similar to a film: Gehry seems to have drawn upon cinematic language, ordering the spaces to the beat of some spatial-temporal sequence, organizing everything 50 through a subtly emphasized storyboard in order to obtain as much emotion as possible every time someone enters the building. Gehry’s “direction” has called for a series of ideal outlines in the form of orthogonal grates, intended to provide maximum emphasis as you arrive in front of the neo-organic “monstrosity” (i.e. monstrum = wonder), located in the middle of the container. Apparently, Gehry could not extract himself from his attraction to zoomorphic illusions, which have so clearly marked his most famous and celebrated architectural works. Playing with transparencies, full and empty spaces, and sensual suspended vaults, Gehry wraps the spectator-user with dizzying suggestions until the individual loses his sense of the space’s physical nature. The visitor enters into a kind of mental space in which it is easy to get lost, following one’s personal fantasies; one’s most hidden private dreams. It doesn’t matter that subsequently the individual will find himself in real situations, in spaces such as the auditorium or the cafeteria, because the experience of the “voyage” will remain indelible in the individual’s memory, even once he has left the DG Bank. However, what is most striking about this unusual building destined for the service industry is the presence of an enormous suspended volume made of steel and wood, which reminds the viewer of archetypical forms from the first stages of terrestrial life. It is a Jurassic memory interpreted as a projection into the future of a past represented in a technological-fairy-talelike mode; an attempt to demonstrate through architecture that nothing is created and nothing destroyed. Introverted, spectacular and extreme, the DG Bank comes across as a daring environment exactly where one would expect the opposite, a place where economic logic does not call for flights of fancy and emotions that are not strongly linked to the dollar’s trend. So, how should one interpret this inverted tendency where the financial world is eager to change clothing and communicate other values through its architecture? Perhaps the answer lies in a secluded area of contemporary culture filled with linguistic contamination and a desire to be transversal. In this sense, why not borrow from the culture of music answers to questions of a different nature? Brian Eno, eclectic agitator of pentagrams whose sonorities are much-loved by architects because they are structured like spatial environments, claims that the truth lies at the bottom of a path of transgression; a voyage into the extreme that will eventually lead to a radical rebirth. Perhaps Gehry’s DG Bank represents an attempt to travel into the outer limits of transgression to rediscover new values and other references. Nella pagina a fianco, il grande atrio che, illuminato naturalmente dalla calotta in vetro e metallo della copertura e contenente, oltre al volume dalle forme organiche in acciaio dell’auditorium/sala riunioni, quello completamente vetrato della caffetteria, si presenta come una dinamica orchestrazione fuori scala di movimento e luce. Sotto, l’ingresso al grande atrio. A pagina 55, a sinistra dal basso in alto: piante del piano sotterraneo, piano terra, primo, secondo, terzo e quarto piano; a destra dal basso in alto: piante del quinto, sesto, settimo, ottavo, nono piano e delle coperture. Opposite page. The large atrium. It is naturally lit through the roof’s glass and metal spherical vault and contains the auditorium/meeting room’s steel organic forms and all-glass cafeteria which is similar to a dynamic out-ofscale orchestration of motion and light. Below. The entrance to the great hall. Page 55. Left, from bottom up: plans of the underground level, ground floor, first, second, third and fourth floors. Right, from bottom up: plans of the fifth, sixth, seventh, eighth and ninth floors, and the roofs. 51 52 53 54 55 56 57 Il simbolo della memoria The Symbol of Memory Ottawa, Archivi nazionali del Canada Ottawa, National Archives of Canada Progetto di Blouin Ikoy & Associés Project by Blouin Ikoy & Associés 58 L a memoria della nazione racchiusa in un santuario laico. La filosofia progettuale degli Archivi nazionali del Canada ha messo in gioco segni e simboli per creare un nuovo cuore politico alla città. Realizzato a Gatineau, vicino Ottawa, il NAC rappresenta infatti il primo insediamento del futuro centro civico. Il primo atto simbolico attuato fra costruito e ambiente naturale – costituito da boschi e aree a verde – è la matrice geometrica dell’impianto planimetrico, caratterizzato dalla grande ellissi entro cui è inscritto l’ampio volume del contenitore vetrato. Ritorno all’eternità dell’architettura? Nelle intenzioni dei progettisti il NAC rappresenta un’inversione di tendenza. Negli ultimi anni, soprattutto da parte della “scuola francese”, si era diffusa l’idea di un’architettura “effimera”, legata a linguaggi quasi usa e getta per favorire un veloce ricambio della scena urbana. Al contrario, i progettisti di Blouin Ikoy & Associés hanno ingaggiato una sfida millenaria con il tempo, individuando in una flessibilità d’uso quasi illimitata la soluzione al problema della veloce obsolescenza che insidia le opere di architettura contemporanea. Come? Puntando su materiali come l’acciaio inox, in grado di resistere – a detta dei progettisti – fino a cinquemila anni alle aggressioni degli agenti atmosferici, ma anche capace di uscire indenne dal rapido mutare delle mode. Cinquemila anni rappresentano davvero una sfida impegnativa, non priva di risvolti anche beffardi, poiché la tecnologia ormai promette sviluppi esponenziali. L’acciaio inox anche fra meno di un secolo potrebbe infatti risultare obsoleto ed essere superato da altri materiali, soprattutto dai cosiddetti compositi con caratteristiche prestazionali ampiamente superiori. Non solo il tempo ma anche lo spazio è stato oggetto di profonde riflessioni. Il NAC non doveva essere un’architettura “omogenea”, nel senso di inseguire pedissequamente uno stile forzatamente unitario da risultare frutto di una centrifugazione in grado di amalgamare il tutto, occultando le diverse matrici spaziali. Evitando qualsiasi “contaminazione” fra contenitore e contenuto, il NAC presenta un nucleo (l’archivio vero e proprio) racchiuso in un guscio protettivo capace di comunicare la sua funzione di “tenda sacra” tecnologica. Il santuario laico appare ancora più evidente all’interno del grande contenitore vetrato con il nucleo che ha la forma di un monolite in STRUTTURA STRUCTURE La nuova sede degli Archivi Nazionali del Canada, realizzati a Gatineau, alla periferia di Ottawa in un’area per la quale è previsto uno sviluppo urbano come nuovo centro civico. The new headquarters of the National Archives of Canada. Designed in Gatineau, in Ottawa's suburbs, it is earmarked for a proposed civic center. 59 60 cemento, una sorta di hard disc dove sono conservati i file della storia del Paese. Intorno al nucleo-monolite, alto tre piani, si snoda un percorso, una sorta di promenade architecturale che propone come scena generale la vastità del volume vetrato, realizzato in lastre di cristallo strutturale, ed effetti di trasparenza poiché s’intravedono le strutture portanti esterne composte di colonne e tralicci alti circa trenta metri. Paesaggio sotto vetro. Alla ricerca di un ideale luogo in cui convivano armoniosamente città e campagna, la sommità del grande monolite è organizzata secondo un tracciato planimetrico simile a un villaggio mediterraneo, ma con percorsi e strutture facilmente modificabili per adeguarsi a possibili variazioni funzionali future. Sospeso fra memoria e futuro, il NAC può anche apparire estremamente atipico, a causa di una marcata drammatizzazione simbolica, ma suggerisce l’idea che l’architettura, per non essere solamente espressione materiale di funzioni, deve rischiare, deve essere in continua mobilità per poter attraversare territori concettuali inesplorati. 1. Atrio/Atrium (lobby area) 2. Rampa/ Ramp 3. Volta/Vault 4. Area di sicurezza/ Security area 5. Galleria/ Gallery 6. Impianti/ Technical equipment 7. Biblioteca/ Library 8. Laboratorio/ Laboratory 9. Archivio/ Archives 10. Amministrazione/ Administrative office 61 Nella pagina a fianco, planimetria generale e pianta, prospetto e particolare di una delle colonne di acciaio inossidabile alte circa 30 m che, all’esterno del guscio vetrato che racchiude gli archivi, sostengono la copertura curva metallica. 62 T he nation’s history enshrined in a secular sanctuary. The design philosophy behind the National Archives of Canada uses signs and symbols to give the city a new political heart. Built in Gatineau, near Ottawa, the NAC is the first element in the creation of a new civic center. This first symbol that has materialized in the surrounding landscape – woods and greenery – is the geometrical matrix of the site plan featuring a large ellipse with a vast glass container in its center. Does this represent a return to an eternal vision of architecture? The architectural designers of the NAC see it as a reversal of the current trend. In recent years, especially in the “French school,” the concept of “ephemeral” practically disposable architecture, designed for rapid changes of the cityscape, has become widespread. In another vein, Blouin Ikoy & Associés have chosen to meet the age-old challenge of time through almost unlimited modularity; thereby addressing the problem of the increasingly rapid obsolescence that threatens most works of contemporary architecture. How have they done this? By focusing on materials like stainless steel, capable of withstanding the aggressions of atmospheric agents for up to five thousand years – according to the architects – as well as surviving, unscathed, the rapid changes in trends. Five thousand years really do represent a mighty challenge, though, and as technology continues to progress exponentially, time will not fail to produce unexpected and sometimes silly results. Stainless steel might well be obsolete in less than a century, replaced by other materials, particularly the so-called composites with far superior quali- Opposite pages. Site plan and plan, elevation and detail of one of the ca. 30 mhigh stainless steel columns sustaining the curved metal outside the glass shell enclosing the archives. ties and properties. Besides time, space has also become the object of careful study recently. The NAC was not supposed to be a “homogeneous” work of architecture, literally following a forced unitary style resulting in a spin cycle capable of blending everything and camouflaging the various spatial matrixes. By avoiding any “contamination” between container and contained, the NAC presents a central core (the main archives) enclosed within a protective shell that translates its function as a “sacred technological tent.” The symbolism of the secular sanctuary becomes crystal clear as it sits inside a vast glass container, with its cementmonolith core, a hard disc of sorts that contains the files of the Nation’s history. A kind of architectural path winds around the three-storey monolith core offering a view of the vast glass structure, made of sheets of structural glass, and of its transparencies, through glimpses of the external support structures, the thirty-meter-high columns and stanchions. A landscape shrouded in glass. In an attempt to create a place in which city and landscape live harmoniously side by side, the top of the large monolith is set out according to the layout of a Mediterranean village, but using paths and structures that can be easily adapted according to possible future requirements. Suspended somewhere between yesterday and tomorrow, the NAC may seem atypical because of its marked symbolic dramatization, but it clearly embodies the idea that in order for architecture to be more than just a material expression of functionality, it must take risks and remain in constant motion to reach previously unexplored conceptual realms. Legenda planimetria/Site plan key 1. Archivi/Archives 2. Impianti/Technical equipment 3. Percorso ellittico/Elliptical path 4. Parcheggio/ Parking 5. Laghetto/ Pond 63 Il santuario della luce The Sanctuary of Light Roma, Dives in Misericordia Rome, Dives in Misericordia Progetto di Richard Meier Project by Richard Meier 64 L’ architettura sacra è uno dei temi di progetto dove è più facile sbagliare. Non basta aggiungere a un edificio una croce e un campanile per farne una chiesa. La chiesa è un luogo di emozioni profonde. L’atmosfera del luogo sacro nasce da uno spazio destinato a un’unica funzione: il rapporto con Dio attraverso la modulazione della luce, attraverso il grado di coinvolgimento emotivo dato dalla particolare configurazione spaziale dell’edificio chiesa. Il Razionalismo ha creato una profonda cesura fra l’antico e il moderno. Ha imposto una visione “fredda”, una tendenza all’accentuazione della composizione funzionale eludendo i fattori emozionali dello spazio. Dagli anni Trenta in poi, sono state prodotte chiese ineccepibili nella composizione ma prive di atmosfera mistica. A parte l’eccezione di Notre Dame du Haut, realizzata a Ronchamp su progetto di Le Corbusier, il resto è quasi tutto da dimenticare. Occorre rivedere modalità compositive e strutture. Occorre realizzare chiese meno “puriste” e più in sintonia con la sacralità del luogo rituale. In tal senso, una risposta l’ha data Richard Meier con la chiesa Dives in Misericordia, in costruzione a Roma. La nuova chiesa, realizzata in una zona periferica della capitale, ha origine dal concorso internazionale a inviti “La Chiesa del 2000”, bandito dall’Opera Romana per la Preservazione della Fede e la Provvista di Nuove Chiese in Roma. Richard Meier, architetto americano di fama internazionale, progetta un’architettura vigorosa, di forte impatto e generatrice di un luogo, là dove prima l’unica identità del luogo era di non avere nessuna identità. La zona è connotata da edifici di edilizia popolare e l’intorno generale disomogeneo, privo di punti focali, di spazi destinati alla socialità, come ce ne sono tanti intorno Roma. La configurazione a vele, le grandi aperture che lanciano all’interno lame di luce danno un forte carattere simbolico, realizzando uno spazio di grande intensità emozionale. La forza evocativa, il bianco assoluto delle superfici murarie pongono la chiesa come nucleo di forte riqualificazione del quartiere. Inoltre, Dives in Misericordia dispone di una qualità ormai rara: avere un interno parimenti suggestivo all’esterno. È insomma un’architettura da percorrere, da vivere come spazio dinamico in grado di coinvolgere i fedeli attraverso una sequenza di stati d’animo in- tensi e variabili. Esattamente alla maniera delle grandi chiese del passato. Per esempio, Sant’Ivo alla Sapienza, sempre a Roma, dove il Borromini attraverso la forma spiralica della lanterna della cupola provoca una sorta di vertigine in chi la guarda, dando l’impressione di risucchiare l’anima nel suo vortice infinito. Qualità della luce. La nuova chiesa dimostra come sia ancora possibile creare forti tensioni emotive senza ricorrere a strutture formalmente complesse, a complicate sequenze compositive. In Dives in Misericordia tutto accade grazie alle interruzioni di materia fra vela e vela, dove grandi portali, decrescenti verso l’esterno, inondano di STRUTTURA STRUCTURE luce l’aula conferendo a tutto l’insieme profondità spaziale e intensità luminosa. La nuova chiesa si pone dunque come esempio eclatante di struttura architettonica tipologicamente dedicata, unicamente destinata al culto attraverso caratteristiche proprie e non interscambiabili con altre funzioni. Meier sa “giocare” con le forme, con i solidi geometrici elementari. Per esempio con il quadrato, il rettangolo ed elementi semicircolari, miscelando il tutto fino a realizzare uno spazio complesso ma di immediata lettura, favorendo così la sintonia tra fruitore e luogo, arricchendo il percorso con sinuosità, convessità e concavità. Ciò che più colpisce è la grande sensibilità e sa- pienza compositiva. Meier sa coniugare sfericità e superfici piane, geometrie elementari e complessità spaziali. Ciò fa parte di una matrice creativa nata e sviluppata già nei suoi primi lavori negli States, realizzati negli anni Sessanta: per esempio, la sua prima casa a Essex Fells, nel New Jersey. Identiche particolarità compositive si ritroveranno anche nelle opere della maturità come il Getty Center, a Los Angeles, dove si riscontra la compresenza di forme e volumi “contrari”, ovvero la fusione di spazi e forme sintatticamente inavvicinabili e invece da Meier sapientemente manipolati e ricomposti in forme accettabili sia dal punto di vista linguistico sia funzionale. Il cantiere della chiesa Dives in Misericordia, nel quartiere di Tor Tre Teste. Al centro della foto, la particolare macchina realizzata ad hoc per la messa in opera dei conci. Building site of Dives in Misericordia church in the Tor Tre Teste neighborhood. Center photo, the special machine designed for lying the ashlars. 65 66 In queste pagine, alcune fasi della messa in opera dei conci e, nella pagina a fianco, dall’alto in basso, prospetto, sezione longitudinale, sezione trasversale. These pages, stages of ashlar assembly phases and, opposite page, from top down, elevation, longitudinal, and cross section. R eligious architecture is one of the most challenging themes to master. Simply adding a cross or bell tower to an ordinary building does not turn it into a church. A church is a place filled with emotions. A holy place draws its atmosphere from its dedication to a single function: the relationship with God through the modulation of light and the emotional involvement associated with the spatial layout of the church. In recent years, Rationalism has resulted in a sharp rift between ancient and modern. It has imposed a “cold” vision that emphasizes functional design at the expense of the more emotional connotations of space. Since the 1930s, churches have been stylistically irreproachable but they lack a mystical atmosphere. Apart from exceptional works like Notre Dame du Haut in Ronchamp designed by Le Corbusier, nearly everything else is of no interest. The structural and compositional forms need to be revisited. Churches must become less “purist” and more in harmony with the sacred nature of a place of worship. In this respect, Richard Meier’s design of the Dives in Misericordia church, actually under construction in Rome, provides one possible solution. Built in the suburbs of Rome, this new church was entered in the “Church of the Year 2000” invitational competition organized by the Rome Committee for Keeping the Faith and Providing New Churches for the City. The internationallyrenowned American architect Richard Meier designed a lively, striking work of architecture that creates a space in a place whose previous identity was precisely not to have any identity. Like so many suburbs of Rome, the area is mainly made up of varied low-income housing projects with no real focal points or areas to meet and congregate. The sail-shaped design and the large openings that bring large swathes of light into the building are powerfully symbolic and create a setting full of emotions. The strength of its symbolism and the absolute whiteness of its walls make the church the neighborhood’s hub of urban redevelopment. Dives in Misericordia also features what has become a rare quality nowadays: its interior is as evocative as the exterior. Just like the great 67 churches of the past, this is a work of architecture that must be visited and experienced like a dynamic space capable of accompanying worshippers in a progression of intense and variable states of mind and spirit. It is similar to, for example, Sant’Ivo alla Sapienza, also in Rome, where Borromini’s spiraling dome lantern creates a sense of vertigo that conjures up the feeling of having one’s soul sucked up into an endless vortex. And that quality of light… The new church demonstrates how to create powerful emotions without resorting to stylistically intricate structures and complicated design sequences. Everything in Dives in Misericordia is the result of the way in which matter is broken up from one sail to the next, as huge portals, descending toward the exterior, flood the main hall with light creating an overall sense of spatial depth and intense luminosity. In this way, the new church becomes a striking example of so-called typologically-dedicated architectural structure, devoted exclusively to worship through its specific features that can- not be adapted to other functions. Meier knows how to “play” with form and the basic geometric shapes, such as the square, rectangle and semicircular elements, mixing them together to create a complex space that is nevertheless easy to experience, and thereby encouraging a harmonious balance between place and user, as well as enriching the atmosphere with convex, concave and sinuous shapes. The great sensitivity and the stylistic know-how are the most striking elements of the design. Meier skillfully combines spherical shapes and flat planes, simple geometric patterns and spatial intricacies. This is part of the creative matrix already apparent in his early works in the States in the 1960s: for instance his first house in Essex Fells in New Jersey. Stylistic elements that can also be found in his more mature works like the Getty Center in Los Angeles which features “opposing” shapes and structures, such as the fusion of syntactically irreconcilable spaces and shapes, which Meier skillfully handles and recomposes to reconcile them both stylistically and functionally. Sogni e visioni Dreams and Visions Design da fantascienza e comunicazione Science Fiction Design and Communication Progetto di Studioddm (Mario Taddei, Edoardo Zanon) Project by Studioddm (Mario Taddei, Edoardo Zanon) 68 I l mondo delle macchine, il culto della tecnologia, il ciberspazio: queste le coordinate su cui si fonda la ricerca di Studioddm, gruppo formato da Mario Taddei e Edoardo Zanon. Ancora una volta il Futurismo riemerge, riconfermandosi più vitale che mai, nonostante sia trascorso quasi un secolo da quando Boccioni, Marinetti e compagni cercarono di ricostruire un universo tecnologico quale dimensione parallela di un mondo che andava loro stretto, nel tempo e nello spazio. E lo spazio, quello cosmico, è la dimensione in cui vivono le sorprendenti strutture di due giovani progettisti, laureati in design al Politecnico di Milano. Sorprendenti quanto inverosimili dal punto di vista funzionale, poiché sono strutture configurate più sul visionario che su dati realistici. Cargo spaziali e stazioni satellitari presentano tuttavia interessanti suggerimenti tecnici. La loro forza immaginifica, i particolari costruttivi così dettagliati sono talmente realistici da suggerire spunti e soluzioni possibili dal punto di vista ingegneristico. Con The Art of Time Mechanic, una brochure che documenta come gli architetti abbiano metabolizzato alla perfezione il linguaggio del MCAD (Mechanical Computer Aided Design), Studioddm entra nel mercato, realizzando una comunicazione di forte contenuto spettacolare. Il loro più che un catalogo è una sorta di storyboard cinematografico. Time Mechanic si presenta infatti come un frammento di un film di fantascienza, dove i personaggi sono straordinarie macchine che fluttuano nello spazio. La genialità del sistema di comunicazione sta nell’aver previsto una sorta di interattività. Ovvero sta in chi guarda le immagini intuire possibili storie di astronauti perduti a migliaia di anni luce dalla Terra. In realtà, ogni riferimento a Guerre stellari è puramente casuale, poiché tutto è in funzione dimostrativa. La brochure serve infatti a divulgare un programma di modellazione in 3D, il Thinkdesign, accessibile gratuitamente via Internet e su CDRom. The Art of Time Mechanic va dunque letta come portfolio professionale ma anche come comunicazione di un nuovo linguaggio attinente il design e l’architettura. Aldilà della complessa messinscena di un prodotto informatico, dietro l’operazione di Studioddm ci sono informazioni di carattere scientifico che riguardano fenomeni come la trasmissione sub-luce (un sistema di trasmissione più veloce della luce). STRUTTURA STRUCTURE L’SGSS-Sub Gravitational Stargate System, la stazione sperimentale orbitante dotata di sistemi di trasmissione e ricezione di tipo sub-luce. La struttura di base è concepita in modo da poter ruotare a 360° e puntare nella direzione dovuta. Dal centro dell’SGSS partono a 120° tre strutture che portano alle estremità gli interferometri gravitazionali. The SGSS-Sub Gravitational Stargate System, the experimental orbiting space station with a system capable of transmitting and receiving sub-light impulses. The base is designed to rotate a full 360°, pointing in the right direction. From the center of SGSS emerge three long appendages at a 120° angle carrying the gravitational interferometer on their tips. 69 Un SGSS respinge un attacco di alieni grazie agli interferometri sub-gravitazionali. Per aggiungere i dettagli di un’esplosione reale sono stati aggiunti all’interno degli oggetti come carburante e materiale aggiuntivo per creare più caos. 70 An SGSS repels the aliens’ attack with sub-gravitational interferometers. To add details of realistic explosion elements and create more chaos, fuels and other materials were added. Dalle riflessioni sulla sub-luce nasce il progetto SGSS, Sub Gravitational Stargate System, ovvero un interferometro (strumento di precisione usato per misurare lunghezze d’onda e indici di rifrazione sfruttando fenomeni interferenziali) con oscillatore a onde subgravitazionali, punto centrifugo e centripeto di impulsi sub-luce. Questo insieme di conoscenze veicolato fra lo scientifico e il fantascientifico mira a definire sistemi in grado di far viaggiare l’uomo a velocità elevatissime, capaci di rendere possibili viaggi in altri sistemi, in altri mondi lontanissimi, altrimenti irraggiungibili data la loro distanza. Nella fantasia visionaria di Studioddm si ipotizza la costruzione del laboratorio SGSS in un futuro non poi così lontano come il 2152. Per chi vuole saperne di più, sono disponibili ulteriori informazioni navigando su www.studioddm.com, un sito pieno di sorprese e suggestioni dove design e architettura trovano un’integrazione per ora negata e invece destinata a prodursi nel divenire. Le visioni di Taddei e Zanon tendono infatti verso una totale fusione fra le due discipline. L’architettura nel momento in cui diviene prodotto di alta tecnologia non può che essere architettura industrializzata. Si ipotizza che in un futuro non lontano costruire divenga una procedura molto simile alla composizione realizzata attraverso un sistema come il Meccano. Ogni componente strutturale avrà una sua definizione morfologica e sue caratteristiche statiche. Sarà insomma quasi impossibile sbagliare i calcoli strutturali, poiché la scelta dei componenti sarà orientata a priori e con una serie di variabili a prova di errore. Dunque, il futuro dell’architettura probabilmente avrà nella tecnologia il suo massimo referente. In tal senso, l’architetto sarà un progettista a responsabilità limitata? È possibile. Tuttavia ciò potrebbe rivelarsi non un fatto totalmente negativo, poiché se da una parte la creatività dovrà svilupparsi entro limiti dettati dal prodotto industriale, dall’altra sarà quasi impossibile realizzare brutte architetture in nome di una libertà creativa alla portata di architetti senza talento. 71 Sotto, il Robot Edo e, nella pagina a fianco, un’arma utilizzata nello scontro tra terrestri e Kinodermi. Per ogni modello sono state realizzate numerose immagini da usare come texture con un mix di metalli, pannelli, 72 T scritte e simboli. Nelle sequenze animate con numerosi elementi in movimento sono stati inseriti i modelli con diversi gradi di dettaglio. Un modello completo a elevato dettaglio è composto da 125.365 poligoni. he world of machines, the cult of technology and cyberspace: these are the basic concepts that guide the Studioddm team (founded by Mario Taddei and Edoardo Zanon) in its quest. Once again Futurism is making the headlines, proving it is more alive than ever almost a century after Boccioni, Marinetti and co. tried to re-create a technological universe in a parallel dimension to a world whose space and time they found constraining. And cosmic space is the dimension in which the surprising structures of these two young architects, both graduates in design from Milan Polytechnic, come alive. Designed more along visionary lines than based on realistic data, the structures are as functionally startling as they are improbable. The space cargos and satellite stations do, however, present interesting technical aspects and ideas. Their highly imaginative power and in- Bottom. The Edo Robot and, opposite page, a weapon used in the battle between humans and Kinodermians. For each model several images were created for use as a texture with a mix of metals, panels, writings and symbols. Each animated sequence, with a large number of elements in motion, used models with different level of detail. A full model with a high-level of detail is composed of 125,365 polygons. credibly detailed construction features are so realistic they suggest designs and solutions that are quite feasible from an engineering point of view. The “Art of Time Mechanic,” a brochure that demonstrates how the architects have perfectly metabolized MCAD vocabulary (Mechanical Computer Aided Design), marks Studioddm’s market debut with a spectacular form of communication. More than a catalogue, they have produced a sort of film storyboard. Time Mechanic is actually like the fragment of science fiction movie, whose characters are incredible machines flying through space. The originality and genius of this type of communication lies in its interactive nature. In fact, it is up to the onlooker to imagine stories of astronauts lost in space, thousands of light years from the Earth. Because everything is purely demonstrative, any reference to Star Wars is purely accidental. Ultimately, the brochure is actually intended to promote a 3D modeling program, Thinkdesign, available as free-ware on the Internet and on CD-Rom. The “Art of Time Mechanic,” therefore, ought to be seen as both a business portfolio and a way of spreading a new language for architecture and design. Apart from the graphic complexity of a computer software product, Studioddm’s project is also based on hard scientific data concerning phenomena like sub-light transmission (a transmission system that works faster than the speed of light). The research on sub-light transmission gives birth to the SGSS project (Sub Gravitational Stargate System), which consists of an interferometer (a precision tool for measuring wave lengths and refraction indexes using interferential phenomena) with a sub-gravitation wave oscillator and centrifugal/centripetal sublight impulse point. Combining science and science fiction, this body of knowledge aims to design systems for travel at extremely high speeds, making it possible to reach other systems and worlds, so distant that they would otherwise remain unreachable. Studioddm’s imaginative vision also foresees the construction of the SGSS laboratory in the “notso-distant” future of the year 2152. Anyone interested in finding out more should visit www.studioddm.com, a site full of surprises and ideas in which architecture and design come together in original and new ways, that are quite likely to become reality in the near future. Taddei and Zanon’s visions tend to merge architecture and design. After all, once architecture becomes a high-tech product, it inevitably also becomes industrialized. In the not-too-distant future, construction is expected to become like building with a Meccano set. Each structural component will have its own morphological definition and static characteristics. It will therefore be almost impossible to make mistakes in structural calculations, since the choice of components will be made based on a series of error-proof variables. Tomorrow’s architecture will probably have technology as its closest partner. Will this make the architect something of a limited liability designer? It might. But this is not necessarily a disadvantage, since, although, on the one hand, creativity will be limited by the industrial product, on the other hand, it will be virtually impossible to design unattractive architecture in the name of a creative freedom available to even the most untalented of architects. 73 74 75 L’SGEL-Sub Gravitational Experimental Lab. Costruito nel 2152, l’SGEL è un laboratorio per sperimentazioni in orbita attorno alla Luna. È composto da due grandi moduli opposti in continua rotazione, per creare gravità artificiale. All’interno dei moduli ci sono i laboratori della confederazione terrestre disposti su tre livelli. L’SGEL è collegato al compressore d’urto quantico sferico ed è protetto da schermature magnetiche. 76 The SGEL-Sub Gravitational Experimental Lab. Constructed in 2152, the SGEL is used to conduct experiments in the Moon’s orbit. It is composed of two large opposing modules that continually rotate to create artificial gravity. The Earth confederation labs are distributed across three levels. The SGEL is connected to the spherical quantum collision compressor and protected by magnetic shields. Interferometro SGSS. La lontananza delle tre estremità dei bracci è direttamente proporzionale alla precisione dei rilevamenti sub-gravitazionali. Le tre punte formano un triangolo equilatero con lato di 4 km. Gli interferometri gravitazionali vengono installati in sospensione quantica parallela. La lettura delle onde sub-gravitazionali avviene confrontando la diffrazione del parallelismo quantico. Nel momento in cui la struttura centrale ruota, la posizione degli interferometri gravitazionali viene mantenuta tramite un controbilanciamento di massa gestito da giroscopi quantici. Eventuali detriti cosmici vengono tenuti sotto controllo da stazioni vicine che ne intercettano la traiettoria e li respingono. SGSS Interferometer. The distance between the three tips of the appendages is directly proportional to the precision of the sub-gravitational bearings. The three tips form an equilateral triangle with 4-Kmsides. The gravitational interferometers are installed in parallel quantum suspension. Sub-gravitational waves are read by measuring the diffraction of the quantum parallelism. When the central structure rotates, the position of the gravitational interferometers is maintained by counterbalancing the mass. This counterbalance is managed by quantum gyroscopes. Wandering cosmic detritus is controlled by neighboring stations that intercept and repel the debris. 77 78 79 La tecnologia plana sull’acqua Technology lying on the Water Osaka, Museo Marittimo The Osaka Maritime Museum Progetto di ADP-Paul Andreu Project by ADP-Paul Andreu 80 STRUTTURA STRUCTURE La sfera galleggiante alta 40 metri è visibile in ugual maniera sia dal porto e dalla passeggiata mare, che dalla città. Sulla terra ferma è situato l’edificio d’ingresso, di 5000 mq, che si sviluppa a piano terreno e su due piani interrati e ospita l’ingresso, i depositi delle opere e i locali tecnici. R ealizzato dopo una lunga incubazione (il cantiere è rimasto aperto circa tre anni), l’Osaka Maritime Museum ora “galleggia” sulle acque della diga del porto di Osaka. La nuova struttura fa parte di un programma di rivitalizzazione della zona portuale avviato con la costruzione di un tunnel sottomarino, che collega il museo con la città. Luccicante e simile a un’astronave anfibia, l’OMM, con i suoi quaranta metri d’altezza, è perfettamente visibile anche da Osaka, di cui è uno dei simboli di maggior richiamo. Oriente e Occidente uniti sotto una cupola. Nell’architettura occidentale, la cupola è un archetipo di origine religiosa. Nel progetto dell’Osaka Maritime Museum è facile intuire come Andreu abbia cercato di creare un punto d’incontro fra Oriente e Occidente attraverso un linguaggio collaudato dal tempo, in grado di generare quell’energia chiamata emozione che solo la buona architettura, soprattutto quella sacra, è capace di produrre. In fondo, il museo è una sorta di cattedrale del sapere. John Ruskin, critico d’arte e sociologo inglese (1819-1900), per esempio, sosteneva che una cattedrale non ha solamente la funzione di contenere una comunità religiosa ma anche di emozionarla. Il linguaggio della tecnologia, con le sue iperboli strutturali, è certo un segnale forte cui è difficile sottrarsi. Soprattutto oggi che la tecnologia, oltre a essere il dato scientifico di una costruzione, ne supporta e definisce anche il sistema di comunicazione. Cosa comunica una cupola di vetro e acciaio “planata” sulle acque del porto di Osaka? A un primo sguardo, appare come un elemento di diversità rispetto al suo intorno, quindi è un segno catalizzatore di attenzione. Ma il dato saliente, ciò che fa di quella struttura un medium, è la sua disponibilità nel concedersi come elemento scenografico, come icona tecnologica splendente di luce propria che dà spettacolo di se stessa. In questo caso lo spettacolo è un’architettura che interpreta un fenomeno naturale come quello dell’avvicendarsi della notte e del giorno attraverso la dicotomia natura-artificio. Inoltre, la doppia identità della cupola – trasparente nelle ore notturne quando è illuminata dall’interno, non trasparente di giorno – crea una fortissima tensione tra visibile e invisibile, evidenziando così l’aspetto dinamico di un’architettura attraverso lo scorrere del tempo. Ma perché l’OMM è un’icona? Perché, come direbbe un semiologo, veicola un messaggio attra- The 40-meter-high floating sphere can be seen equally well from the port, the sea front promenade and the city. The 5,000square-meter entrance building is on the mainland and occupies the ground floor and two underground levels. It holds the entrance, storerooms for the works of art, and utilities rooms. 81 verso la sua immagine. Si tratta di un’immagine variegata e tridimensionale da cui emerge l’identità dell’OMM, che non punta sull’unicità della soluzione tecnica – in questo caso l’impiego del vetro strutturale – ma sul porsi come frammento di un insieme di edifici diffuso ormai a livello planetario con identiche soluzioni costruttive. Uno degli aspetti interessanti insito nell’OMM non è solo la sua appetibilità mediatica di “fenomeno architettonico” spettacolare, destinato a far da sfondo a video clip e spot, ma anche il suo essere frutto della velocità di comunicazione con cui è diffusa oggi la tecnologia. Se l’informazione non fosse così sorprendentemente rapida, l’architettura non si evolverebbe con altrettanta velocità. Lo spettacolo dell’architettura. Nel 1967, quando Guy Debord pubblicò il saggio La société du spectacle, l’architettura era appena entrata nella luminosa scia mediatica, ovvero della struttura-evento capace di rimodellare l’ambiente urbano attraverso architetture di forte impatto visivo e di competere con lo sfavillante linguaggio della pubblicità, da sempre presente nel paesaggio urbano. Ora invece siamo nell’età matura dell’architettura come medium. L’Osaka Maritime Museum, nella sua apparente elementarità geometrica, è una struttura complessa sul piano della comunicazione poiché portatrice di segni stratificati sovrapposti alla sua funzione didattico-divulgativa. Attraverso una forte presenza immaginifica, l’OMM è generatore di immaginario collettivo; al 82 Schema del sistema strutturale della sfera del tipo “lamella grid” costituito da losanghe piatte la cui dimensione diminuisce verso l’alto mantenendo però costanti a 90° gli angoli destri e sinistri. Diagram of the structural system of the “lamella grid” sphere constructed out of flat lozenges whose size diminishes toward the top while maintaining their 90 degree right and left angles. tutto va poi aggiunta la componente “global” espressa dalla fusione di due culture tecnologicamente affini ma ideologicamente opposte. La tendenza verso un’architettura fusion, ibridata da un melting pot colto – relazioni con le case del tè del periodo Edo, ma anche con influenze FengShui – suggerisce diverse interpretazioni: da una parte emerge lo sguardo rivolto al passato che punta sul contrasto delle differenze – la costruzione tecnologicamente sofisticata e le relazioni cosmico-religiose del ciclo solare evocate dall’archetipo cupola –, dall’altra si evidenzia un punto debole, laddove la funzione primaria, quella di museo che sottende l’idea di conservazione perpetua, è leggermente oscurata dal concetto di effimero insito nel linguaggio mediale. 83 84 C ompleted at last after a long period of incubation (construction lasted about three years), the Osaka Maritime Museum now “floats” on the waters of the breakwater located in the port of Osaka. The new building is part of a program designed to revitalize the port area and was inaugurated with the creation of an underwater tunnel connecting the museum to the city. Gleaming like an amphibious space ship, the 40-meter-tall OMM building is clearly visible from Osaka and represents one of the city’s main landmarks. East and West are brought together under a dome, i.e. in western architecture, the dome is a religious archetype. The Osaka Maritime Museum is a clear attempt on the part of Andreu to bring East and West together through this time-honored symbol capable of generating the kind of energy called emotion which only fine architecture, particularly religious architecture, can generate. After all, a museum is a cathedral of knowledge. John Ruskin, the British art critic and social commentator (1819-1900), claimed, for instance, that a cathedral is not just designed to house a religious community, but also to get the faithful emotionally involved. The language of technology, with its hyperbolic structures, is a powerful signal that cannot be ignored. Particularly now that technology is not just the scientific characteristic of a building, but it also supports and defines its system of communication. What message does a glass and steel dome “resting” on the watery surface of the port of Osaka send out? At first sight, it contrasts with its surroundings, attracting our attention. But the key aspect, the element that turns this structure into a medium, is the way it offers itself as an element of scenography, a technological icon glittering with its own light and quite literally making a show of itself. In this particular case, the show is a work of architecture interpreting, through the dichotomy of nature and artifice, the natural alternation between night and day. Moreover, the dome’s double identity – transparent at night when it is lit up from the inside and non-transparent during the day – creates a powerful sense of tension between what is visible and what is invisible, thereby emphasizing the dynamic aspect of a work of archi- tecture through the passing of time. But what makes the OMM an icon? The fact, as a semiologist might put it, that it sends out a message through its image. The image that gives the OMM its identity is a varied, three-dimensional one that does not focus on the uniqueness of its technical design – in this case, the use of structural glass – but rather on its being a fragment of a group of structures spread across the planet that draws on the same building solutions. One of the most interesting aspects of the OMM is not just the fact that it is a spectacular “architectural phenomenon,” an ideal backdrop for video clips and commercials, but also the fact that it is a product of the high speed with which technology travels today. If information were not quite so stunningly quick, architecture would not evolve as fast. The architecture show. In 1967, when Guy Debord published his essay La société du spectacle, architecture had just entered the glamorous world of modern media. In other words, an event-structure capable of reshaping the urban environment through visually striking architecture and able to compete with the dazzling vocabulary of advertising, ever-present in our cityscape. Today, however, architecture as a medium has entered a mature phase. The apparent geometric simplicity of the Osaka Maritime Museum hides an intricate structure in terms of communications, because it layers several levels of symbols on top of its primary didactic-informational function. The OMM’s powerful, colorful presence is a generator of collective imagination, not to mention the “global” element inherent in the merging of two technologically related but ideologically conflicting cultures. The trend toward hybrid fusion architecture, like an erudite melting pot – combining influences of tea houses from the Edo period and Feng-Shui tradition – suggests various interpretations. On the one hand, there is an orientation toward the past that focuses on contrasting differences: technologically sophisticated construction vs. the cosmic-religious traditions of the solar cycle suggested by the dome archetype. On the other hand, it points to a weakness in the concept, as the primary function of a museum, based on the notion of perpetual conservation, is slightly obscured by the transience inherent in the language of media. Nella pagina a fianco, fasi del montaggio della cupola trasportata via mare sul luogo del cantiere. Pagine seguenti, l’interno del museo vero e proprio contenuto nella sfera vetrata. I visitatori accedono al museo attraverso un tunnel sotto il guscio di una storica imbarcazione in legno. Salgono quindi direttamente all’ultimo piano con un ascensore panoramico in vetro e poi visitano i tre livelli del museo scendendo da una scala centrale. Opposite pages. Stages in the assembly of the dome transported by sea to the construction site. Following pages. The inside of the museum contained in the glass sphere. Visitors enter the museum through a tunnel under the shell of an old wooden boat. They reach the top floor with a panoramic glass elevator and then visit the museum's three levels going from floor to floor by way of a central staircase. 85 86 Nella pagina a fianco, l’ingresso alla galleria di collegamento con il museo dall’edificio d’ingresso sulla terraferma. Opposite page. Entrance to the tunnel connecting the museum to the entrance building on the mainland. 87
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