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Mirco Carrattieri, In ricordo di Franco Boiardi
Marzia Maccaferri, La stampa cattolica di Reggio Emilia, 1945-1951.
Nuovo intransigentismo o pedagogia democratica?
Serena Cantoni, «Con concueste poche righe», due famiglie reggiane migranti
tra Castelnovo Sotto e l’Argentina, prima parte
Cleonice Pignedoli, L’Archivio della Direzione didattica di
Castelnovo ne’ Monti. Eccoli i miei scolaretti… I registri scolastici
degli anni 1942-43 e 1943-44
Adriano e Paolo Riatti, L’auto «made in Reggio».
Utopia od opportunità perduta?
Alessandra Fontanesi, SQEUU. Intervista ad Andrea Talmelli
Angiolino Catellani, Giorgio Finzi. Kaddish per zia Clotilde
Recensioni
Acquisizioni biblioteca Istoreco
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13
ISSN: 0035-5070
Poste italiane Spa - Spedizione in abbonamento postale - DL 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004) art. 1 c. 1 DCB - Reggio Emilia
Andrea Paolella, Ivan Bondi. Quel che ricorda un reggiano del Vajont.
Intervista
RS Ricerche Storiche
Michele Bellelli, L’album del marinaio Fernando Notari.
Una nuova acquisizione per la fototeca di Istoreco
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n. 108 Ottobre 2009
Michele Becchi, Theobaldo Antonio Kopp. Il partigiano Guglielmo
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Anno XLI
RICERCHE STORICHE
N. 108 ottobre 2009
Direttore
Ettore Borghi
Rivista semestrale di Istoreco
(Istituto per la storia della resistenza
e della società contemporanea in
provincia di Reggio Emilia)
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Alcuni membri della famiglia Bartoli
Oltreoceano, ritratto scattato in Argentina.
La foto è conservata in casa Bartoli
(Si veda il saggio di Serena Cantoni nel
presente volume).
Foto sfondo sezioni:
Particolare della cartolina spedita da
Enzo e Lidia Gabrielli il giorno della
partenza da Genova per Buenos Aires,
10 novembre 1950 (Si veda il saggio di
Serena Cantoni nel presente volume).
Foto IV di copertina:
Un gruppo di sommergibilisti italiani
durante la navigazione (data e luogo
ignoti). Fonte: anmi (Associazione
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Editore proprietario
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Istituto per la Storia della Resistenza
Registrazione presso il Tribunale di Reggio Emilia
n. 220 in data 18 marzo 1967
Con il contributo della Fondazione Pietro Manodori
Indice
Editoriale
Mirco Carrattieri, In ricordo di Franco Boiardi
Ricerche
Marzia Maccaferri, La stampa cattolica di Reggio Emilia, 1945-1951. Nuovo
intransigentismo o pedagogia democratica?
Serena Cantoni, «Con concueste poche righe», due famiglie reggiane migranti tra
Castelnovo Sotto e l’Argentina, prima parte
Cleonice Pignedoli, L’Archivio della Direzione didattica di Castelnovo ne’ Monti.
Eccoli i miei scolaretti… I registri scolastici degli anni 1942-43 e 1943-44
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Michele Becchi, Theobaldo Antonio Kopp. Il partigiano Guglielmo
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Documenti
Michele Bellelli, L’album del marinaio Fernando Notari. Una nuova acquisizione
per la fototeca di Istoreco
Adriano e Paolo Riatti, L’auto «made in Reggio». Utopia od opportunità perduta?
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Memorie
Andrea Paolella, Ivan Bondi. Quel che ricorda un reggiano del Vajont. Intervista
Alessandra Fontanesi, SQEUU. Intervista ad Andrea Talmelli
Angiolino Catellani, Giorgio Finzi, Kaddish per zia Clotilde
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150
161
Didattica
Alessandra Fontanesi, Relazione attività didattiche Istoreco a.s. 2008-09
177
In difesa della libertà di stampa
181
Recensioni
183
Acquisizioni biblioteca Istoreco
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Editoriale
In ricordo di Franco Boiardi
Mirco Carrattieri
La morte di Franco Boiardi rappresenta una grave perdita non solo per
la sua famiglia, cui va il nostro commosso ricordo, ma per l’intera comunità
reggiana, per la quale egli ha rappresentato un inquieto ma stimolante riferimento in ambito politico, amministrativo e culturale.
In questa sede vogliamo in particolare ricordarne l’opera come storico e
scienziato della politica: un percorso di ricerca lungo e articolato, che parte
dai lavori giovanili e arriva fino agli ultimi mesi di vita.
Boiardi si distingue già negli anni Cinquanta come ragazzo prodigio della
dc reggiana e brillante studente della Cattolica; ma l’opera che lo proietta alla
ribalta nazionale è il segno del tormentato (e mai completato) distacco da quel
mondo. Il volume Dossetti e la crisi dei cattolici, pubblicato nel 1956, presenta
indubbiamente le asprezze di un’opera giovanile e polemica, ma rappresenta
anche la prima lucida tematizzazione del «dossettismo».
Trasferitosi forzatamente a Pavia dopo il veto di Gemelli, Boiardi si laurea
con Federico Curato e diventa assistente di Vittorio Beonio Brocchieri: quest’ultimo in particolare, personaggio eccentrico ma brillantissimo, lo inizia alle
dottrine politiche e al lavoro culturale a 360°.
Nei mesi successivi, segnati dall’allontanamento dalla dc, Boiardi collabora a diverse riviste dell’area laica: importanti soprattutto le sue recensioni sul
«Ponte» di Calamandrei (dove parla del Pisacane di Rosselli, ma anche di Musil
e Maritain) e gli articoli su «Problemi del socialismo», la rivista di Lelio Basso,
alla cui corrente aderisce nell’ambito del psi.
Divenuto consigliere comunale e assessore nel 1960, Boiardi trasferisce le
sue competenze nel campo dell’organizzazione culturale (si pensi alle celebrazioni per il centenario dell’Unità); non disdegna però la pratica della storia
locale, da Spallanzani a Manodori, con particolare attenzione alle resistenze
cattoliche alla Rivoluzione francese e al Risorgimento.
Dopo aver seguito Basso nel psiup, Boiardi viene eletto alla Camera nel 1968,
5
maturando nuove relazioni col mondo culturale romano e internazionale
(rappresenta infatti il partito anche in sede europea).
Conclusa l’esperienza parlamentare nel 1972, si avvicina poi al pci, per il
quale svolge diversi incarichi pubblici (in particolare la presidenza dell’ospedale cittadino), senza però risultare organico al mondo intellettuale comunista.
Nel corso degli anni Settanta arriva intanto a compimento la prima delle
grandi opere legate al suo nome: la Storia delle dottrine politiche in cinque
volumi pubblicata tra il 1974 e il 1982.
Lasciato il pci nel 1981, Boiardi si avvicina al socialismo indipendente, rivestendo vari incarichi nel mondo cooperativo e nelle comunicazioni; e promuovendo nuovi esperimenti di sociabilità politica, come il gruppo Rossena 1985.
In questa fase ha comunque modo di dedicarsi più sistematicamente agli
studi, scrivendo su varie riviste (in particolare l’«Almanacco» e «Ricerche Storiche») e svolgendo attività di collaboratore editoriale presso la Nuova cei di Pasquale Buccomino (per la quale cura l’atlante storico-geografico Pianeta 1984
e collabora all’enciclopedia I Protagonisti ); la Ebe di Giovanni Di Capua (per
cui raccoglie nei tre volumi I bianchi i profili di politici democristiani pubblicati sul «Popolo»); e con l’Analisi di Ercole Camurani (nell’ambito della quale
dirige la collana «Cultura politica»).
Sono anni di grandissima attività, che spazia dal contesto locale a quello
internazionale e dal periodo napoleonico al dopoguerra. Da segnalare in particolare i saggi sul deputato radicale Gianlorenzo Basetti, protagonista della
lotta contro la tassa sul macinato, e sul suo successore nel collegio della montagna reggiana Meuccio Ruini; le ricerche su Crispi; la rivalutazione della
figura di Valdo Magnani; la raccolta degli interventi dei deputati reggiani (ed
emiliani) alla Costituente.
Ma lo sforzo più significativo è senz’altro quello per l’enciclopedia Il Parlamento italiano, pubblicata in 22 volumi tra 1988 e il 1992: Boiardi ne elabora
il progetto a livello nazionale, ne coordina i lavori (coinvolgendo tra l’altro il
meglio della cultura umanistica reggiana) e redige egli stesso centinaia di voci.
Con gli anni Novanta, dopo una sfortunata esperienza con la Rete, Boiardi
si allontana definitivamente dalla politica partitica, della quale denuncerà
l’imbarbarimento nel volumetto Al di là della siepe. Ma non per questo rinuncia all’attività pubblica: la sua passione si riversa in una nuova attività editoriale, la Grande Enciclopedia della Politica in settanta fascicoli, pubblicata tra
il 1994 e il 1997 in collaborazione con Di Capua.
Molto importante è anche il suo impegno nell’Associazione di Studi Euromediterranei di Baldassarre Armato (con cui aveva già collaborato su «Nuove
fase»), per la quale funge da segretario e poi da caporedattore della rivista «La
Rosa di Gerico», che a partire dal 1996 promuove i colloqui mediterranei di
Ragusa. Ma Boiardi collabora a numerose riviste, da «Impressioni» ad «Appunti» (nell’ambito della sinistra dc); da «La civiltà del risparmio», all’«Archivio di
opere scomparse e dimenticate». Partecipa inoltre a vari convegni, da quello
di Torino del 1993 su Pellico, a quello di Tarquinia del 1994 sul centrismo,
6
fino a quello di Parma del 1997 sul dialogo interreligioso. Tra i temi che caratterizzano questa stagione di studi: il movimento cooperativo; l’ebraismo; il
Tricolore; la situazione balcanica (questi ultimi due filoni sfociano in volumi
pubblicati con Laterza).
Ancora dopo il Duemila Boiardi promuove diversi convegni, come coordinatore regionale dell’associazione ex parlamentari e come presidente del comitato scientifico del Museo Cervi: vale la pena di ricordare almeno quello del
2001 sui contadini e la democrazia; quello del 2003 sul 7 luglio 1960; e da
ultimo il ciclo «7 giornate di cooperazione» del 2007. Nel frattempo cura anche
le raccolte dei discorsi politici di Flaminio Piccoli, Camillo Prampolini e Giuseppe Medici.
Nell’ambito di tutta questa sterminata produzione (oltre cinquecento titoli
nell’arco di più di cinquant’anni), spiccano indubbiamente alcune linee di
fondo.
Innanzitutto un’idea alta della politica, che combina un forte senso dello
Stato e una solida base culturale; e si traduce in un costante intreccio di storia
delle dottrine e delle istituzioni.
In secondo luogo una salda fiducia nella cultura democratica positiva uscita dalla rivoluzione francese, contro le chiusure antimoderne, ma anche contro le degenerazioni ideologiche del totalitarismo novecentesco (e senza sconti
per le insufficienze dell’idealismo e del gramscismo).
Evidente è poi il gusto della biografia intellettuale, in particolare quella di
personaggi atipici o irregolari, da Ruini a Magnani.
Notevole è anche la capacità di combinare una sincera attenzione per
l’identità regionale con una sensibile apertura di orizzonti, soprattutto nei
confronti dell’area euromediterranea.
Ma un quadro complessivo degli studi di Franco Boiardi, della loro qualità
(anche letteraria) e del loro impatto sulla cultura non solo locale si avrà solo
quando se ne compilerà una rassegna bibliografica completa; impresa tutt’altro che facile, nella misura in cui, ne siamo certi, la sua biblioteca continuerà
ancora per molto tempo a far emergere saggi ed articoli poco noti eppure sempre documentati e ricchi di spunti.
Nel frattempo auspichiamo che la sua figura trovi anche presso l’opinione
pubblica locale maggior riconoscimento di quanto non ne abbia avuto in vita;
e soprattutto che la sua lezione di intellettuale appassionato e libero ci conforti,
in un contesto sempre più cinico e conformista.
7
Ricerche
La stampa cattolica di Reggio Emilia,
1945-1951.
Nuovo intransigentismo o pedagogia
democratica?*
Marzia Maccaferri
Dopo vent’anni di fascismo e una guerra rovinosa il ritorno alla libertà di
stampa in Italia avviene in tempi diversi seguendo l’andamento delle operazioni belliche dal Mediterraneo alle Alpi. Quando i primi quotidiani dell’Italia
liberata compaiono in Sicilia1 e quando i carri armati del generale Mark Clark
entrano nella capitale il 4 giugno 1944, al contrario, al nord la Liberazione
sembra ancora lontana. Se i cittadini romani e del Centro-sud si trovano già
nel vortice di una stampa percorsa dalla smania e dal trasporto delle speranze
di ricostruzione, all’opposto, nel Nord e a Reggio Emilia in particolare la condizione della stampa e del giornalismo libero rimane ancora nella clandestinità. E lo resterà sino alla primavera del 19452.
* Questo saggio è debitore verso Mirco Carrattieri. Ampie parti non sarebbero state nemmeno
pensate senza le conversazioni, i suggerimenti, le discussioni. Desidero qui ringraziare il compagno di studi degli anni del Dottorato in Storia Politica dell’Età Contemporanea dei Secoli XIX
e XX svolto presso l’Università di Bologna e, soprattutto, il compagno di «chiacchiere storiche e
storiografiche».
1
«La Sicilia» di Caltanissetta uscita il 1° agosto 1943 e «Sicilia Liberata» di Palermo distribuita a
partire dal 6 agosto 1943. Cfr P. Murialdi, La stampa italiana dalla Liberazione alla crisi di fine
secolo, Laterza, Bari-Roma 20033, pp. 3-82.
2
Va ricordato che i fogli clandestini dei partiti del cln già erano diffusi tra mille rischi nelle ore
buie dell’occupazione («l’Unità», l’«Avanti!», «L’Italia liberata», «La Voce repubblicana», «Il Popolo»,
«Risorgimento liberale» e anche un foglio legato al partito demolaburista, «Ricostruzione»); essi
furono immediatamente seguiti da nuove testate, come «Il Tempo», e da fogli fino al giorno
prima espressione dell’occupante come «Il Messaggero». Cfr. ivi, p. 26.
9
Qui la lotta sarà più lunga, l’azione dei partiti antifascisti e del movimento
partigiano avrà un’ampiezza considerevole; qui avevano sede, va ricordato, i
maggiori quotidiani del periodo prefascista e fascista. Da un lato, nei dibattiti interni allo stesso cln così come nell’opinione pubblica, vi è la volontà di
sopprimere le testate compromesse col fascismo – ad esempio i giornali storici come «Il Corriere della Sera», «La Stampa», «Il Resto del Carlino», «Il Secolo
XIX» – ma dall’altro, in un momento così cruciale, si sente anche la necessità
di non sottrarre all’opinione pubblica la propria naturale arena, purché «epurata» nei suoi quadri dirigenti e professionali. Tutti elementi che andranno a
interagire, se non condizionare, lo sviluppo del sistema dei media nell’Italia
repubblicana.
In generale, nella provincia del nord Italia sono le testate espressione del
fronte ciellenestico a circolare per prime. Qualche esempio: il 26 aprile 1945
esce a Milano «L’Italia libera», testata legata al cln; il 18 aprile, a Bologna, è
consentita la pubblicazione del quotidiano del Comitato regionale di liberazione «Rinascita», diretto dal comunista Leonildo Tarozzi, accanto al «Corriere
dell’Emilia». Ancora nessuno ha però il coraggio di recuperare il «Resto del
Carlino», formalmente di proprietà della famiglia Grandi.
Ma è la stampa di partito ad andare letteralmente a ruba: «l’Unità», l’«Avanti»,
a Bologna e in provincia il socialista «La Squilla», il comunista «La Lotta» e dal
4 settembre 1945 riprende le pubblicazioni anche «L’Avvenire d’Italia» diretto
dal suo storico direttore Raimondo Manzini. A Reggio Emilia escono il socialdemocratico «La Giustizia» (dal 13 maggio 1945), «Noi Donne» (dal 20 maggio
1945), l’organo del PCI provinciale «La Verità» (dal 31 maggio 1945), l’azionista
«L’Azione» (dal giugno 1945)3. Uno straordinario fermento, dunque, testimone
di un’ansia di trasformazione e di radicale rinnovamento, ma anche sintomo
del bisogno di un ritorno alla normalità. In questa situazione, dunque, il futuro
di un’informazione libera e di un giornalismo autonomo si presenta imprevedibile e contraddittorio rispetto alle aspettative nel Centro-sud del Paese. Per
dirla in modo tranchant, in una stampa che riecheggia le speranze o i timori
presenti nella sfera politica, il dilemma appare essere al nord non tanto fra
«rinnovamento» e «restaurazione» ma piuttosto fra «rinnovamento» e «rivoluzione»4.
Questa stagione di successi e di entusiasmi composta da una stampa così
ricca e molteplice nella forma e nei contenuti, a volte sintomo di un atteggiamento e di un trasporto individuale, a volte espressione organica di una linea
e di una strategia politica che si va consolidando, quando le propaggini della
Per il caso reggiano, benché datato, si veda cfr. L. Barone, Il dibattito politico sulla stampa reggiana
1945-1947, Grafiche Step, Parma 1981, p. 109, nota 1.
4
Cfr A. Sangiovanni, La stampa romana tra rinascita e disincanto, in Roma 1944-45. Una stagione
di speranze, in «Annali dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza», Franco
Angeli, Milano 2003.
3
10
guerra non più guerreggiata si chiudono definitivamente e la conformazione
del mondo in due sfere d’influenza è ben chiara, si spegne nel giro di qualche
anno per lasciare il posto alle testate storiche che si reimpongono in breve
tempo5.
È in questo contesto che deve essere inserita e contestualizzata l’esperienza
del giornalismo reggiano; e in essa di quello cattolico. Tempi e condizioni del
ritorno alla libertà hanno inciso in modo considerevole e, per molti aspetti, in
misura duratura sul sistema libero dei media. Ed è, dunque, ancora in questo
contesto che inserire il dato locale nella realtà nazionale per definirne meglio
i contorni e le peculiarità conferisce interesse storico al cercare di ricostruire
l’iter del dibattito pubblico che si è svolto sulle pagine della stampa cattolica
reggiana in un torno di anni tanto veloci e convulsi quanto fondanti e imprescindibili per la storia dell’Italia repubblicana. Non va altresì dimenticato che
studiare, benché soltanto attraverso la sua stampa, il mondo cattolico reggiano
nella fase di transizione guerra-pace-ricostruzione e della guerra fredda deve
tener conto di due variabili che con esso intessono un dialogo continuo, a
volte uno scontro drammatico o infecondo, che ha percorso come un fiume
carsico l’intera vicenda postbellica locale e che è riemerso e riemerge, anche
inaspettatamente, nel dibattito pubblico e nella vita politica6. Ci si riferisce al
«contesto rosso», presupposto imprescindibile a cui la storiografia ha prestato
molta attenzione che, tuttavia, non può essere ridotto al solo dato antitetico
ma che ha nelle dinamiche di reciprocità e contaminazione fra universi cattolico e socialcomunista assume un aspetto storico nodale7. La seconda variabile
riguarda il confronto problematico e sofferto con la cultura socialcomunista.
Un confronto che il cattolicesimo reggiano ha vissuto schiacciato nella polarizzazione, da un lato, fra una curia pervasa da un anticomunismo «sferico»8
e assoluto e, dall’altro, una parte della dc che ha invece vissuto lo scontro in
modo programmatico, concorrenziale e competitivo, anche se «utopico»9.
5
Cfr. B. Bongiovanni, Gli intellettuali e i miti del dopoguerra, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura
di), Storia d’Italia. 5. La Repubblica, Laterza, Bari-Roma 1997, pp. 498-513; N. Tranfaglia, Editori
italiani ieri e oggi, Laterza, Bari-Roma 2001, pp. 61-74.
6
Cfr. M. Storchi, La memoria della violenza fra Resistenza e dopoguerra, in «L’Impegno», 2/2001,
pp. 29-37.
7
Fra l’innumerevole letteratura, la quale in realtà si è interessata per la maggiore al caso emiliano ma
che poco ha indagato nello specifico quello della provincia di Reggio Emilia, cfr. L. Casali, D. Gagliani, Movimento operaio e organizzazione di massa. Il partito comunista in Emilia-Romagna 1945-1954,
in P.P. D’Attorre (a cura di), La ricostruzione in Emilia-Romagna, Pratiche, Parma 1980; L. Paggi, M.
D’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo, Einaudi, Torino 1986; L. Casali, Dalla Liberazione
al «rinnovamento». Appunti per una storia del partito comunista italiano nell’Emilia-Romagna, in G.
Boccolari, L. Casali (a cura di), I Magnacucchi. Valdo Magnani e la ricerca di una sinistra autonoma
e democratica, Feltrinelli, Milano 1991; per una rassegna sulla memorialistica e la storiografia specifica
sul caso reggiano cfr. M. Carrattieri, Ricostruire la ricostruzione: bipolarismi, triangoli rossi e …
teste quadre, in «RS-Ricerche storiche», 103/2007, pp. 9-40.
8
L’espressione è usata da S. Chesi nella memoria rilasciata in S. Spreafico, I cattolici reggiani dallo
stato totalitario alla democrazia: la Resistenza come problema. V Il difficile esordio, Tecnograf, Reggio
Emilia 1993, p. 546 ripresa anche da M. Carrattieri, Anticomunismi cattolici nel dopoguerra reggiano, 1945-1951, in «Religioni e società», gen.-apr./2008, pp. 99-137, p. 135.
11
È dunque all’esperienza della stampa clandestina che si deve guardare per
cercare i prodromi della stampa libera reggiana. Essa è stata a Reggio Emilia,
come nelle altre parti dell’Italia del nord, un importante veicolo di fervore intellettuale, di passione politica e, seppur in modo limitato, di professionalità.
Sebbene alcuni redattori cattolici abbiano partecipato all’esperienza dei «Fogli
tricolore»10 e della «Penna», che esce in tre numeri nell’aprile del 1945, l’«iniziazione» è tuttavia da ricercare in «Tempo Nostro», uscito in un unico esemplare
ciclostilato dopo il 25 luglio 1943, molto probabilmente il 26 luglio, anche se
ideato dai suoi redattori nelle circostanze precedenti l’esautorazione di Mussolini. Secondo una memorialistica e una tradizione orale diffusa fu pensato
da Corrado Corghi11: la redazione era costituita da Alberto Altana, Francesco
Codazzi, Carlo Galeotti, Gianni Morselli, Nino Nasi, Eugenio Salvarani, Bruno
e il fratello Osvaldo Piacentini, Gino Zatelli. Stampato grazie alla macchinaciclostile dell’Associazione giovanile San Giovanni nei locali dell’ac presso la
parrocchia di Santo Stefano, «Tempo Nostro» si poneva l’obiettivo di «superare»
il comprensibile conformismo di «Azione fucina», la pubblicazione ufficiale
della fuci, allo scopo di muovere i primi passi verso una presa di coscienza
dei giovani studenti cattolici. La volontà era quella di rafforzare quell’apostolato d’ambiente che, seppur non ancora apertamente antitetico e antifascista,
avrebbe portato al rinnovamento e alla scelta democratica12.
Al tono cauto e moderatamente patriottico dell’editoriale nel quale si punta
l’indice contro il rapporto di azione-reazione a cui ogni paese, ogni nazione,
ogni patria è obbligata13 e nel quale si afferma che «il primato dello spirituale
è stato incrinato», segue un articolo in cui si asserisce che il «tempo nostro»,
appunto, «con le sue caratteristiche sociali e individuali, tecniche e culturali,
tempo attuale generato dai tempi prossimi e remoti ma con una fisionomia
inconfondibile, ricca di problemi» ha ora bisogno dell’azione coraggiosa delle
nuove generazione14. Di un certo interesse è poi l’articolo Vangelo e riforme
9
Dalla copiosa storiografia cfr. P. Trionfini, Giuseppe Dossetti nella chiesa di Reggio Emilia dalla
guerra alla chiusura della stagione politica, in A. Melloni (a cura di), Giuseppe Dossetti: la fede e la
storia. Studi sul decennale della morte, Il Mulino, Bologna 2007 e la voluminosa rassegna Spreafico,
op. cit.
10
Fra i redattori che al momento in cui vennero ciclostilati i «Fogli tricolore» possiamo considerare
esponenti dell’area cattolica, oltre a Mario Simonazzi, Giorgio Morelli ed Eugenio Corezzola, citiamo
Ettore Barchi, Guido Riva, gli ingegneri Alberto Toniolo e Domenico Piani. Cfr. Barone, Il dibattito
politico sulla stampa reggiana, cit., p. 105, nota 13.
11
Cfr. C. Galeotti, «Tempo Nostro». Un’interessante testimonianza di giovani cattolici, in «ricerche
storiche», 1/1967, pp. 57-64 [:58].
12
Cfr. C. Corghi, Una nota di storia politica locale, in «Ricerche Storiche», 1/1967, pp. 53-56; A.M.
Andreoli, L’Emilia-Romagna nella guerra di Liberazione, Vol. 4. Crisi della cultura e dialettica delle
idee, De Donato, Bari 1976, pp. 262-263.
13
Viva l’Italia, in «Tempo Nostro», giugno-luglio 1943. Biblioteca Panizzi, Misc. Regg. 250/6; alcune
parti ripubblicate in Galeotti, «Tempo Nostro», cit., p. 59.
14
Tempo Nostro, in «Tempo Nostro», giugno-luglio 1943, cit.
12
sociali in cui alla riconosciuta necessità d’implementazione di riforme sociali,
le quali dovrebbero essere tese a raggiungere «l’uguaglianza economica degli
uomini», si antepone l’esigenza di una riforma «in interiore homine»15.
Sebbene tutto sia ricondotto alla prospettiva religiosa e spirituale – in essa
anche la guerra è vista eminentemente attraverso le lenti della fede individuale, come frutto del peccato dei singoli – questo incunabolo del cattolicesimo
politico democratico reggiano rappresenta nondimeno un dialogo importante,
benché in alcune parti ingenuo e ancor privo degli strumenti intellettuali adeguati, che condurrà all’inserimento e all’integrazione effettiva del cattolicesimo
reggiano nel sociale e nel politico.
Alfabetizzazione democratica: «Tempo Nostro»
Tentando una ricostruzione della vicenda della stampa cattolica reggiana
nell’immediato dopoguerra non si può trascurare il suo sviluppo diacronico che dipende, da un lato, dai passaggi fondamentali della storia politicoistituzionale dell’Italia – e dunque la transizione alla Repubblica e la stagione
costituente, l’affermazione del centrismo e il sedimentarsi dell’anticomunismo
come ideologia totalizzante – ma anche, d’altro canto, è esso influenzato dagli
aspetti più strettamente locali come la nascita delle nuove strutture amministrative, il confronto sul futuro del cln e la fine dei governi ciellenistici, il
problema concreto della ricostruzione materiale, il precipitato dell’amnistia
togliattiana e il protrarsi della violenza, la dicotomia città-campagna e la contingenza delle vertenze mezzadrili. La situazione emiliana in genere e reggiana in particolare, lo si è già detto, presenta inoltre un fronte socialcomunista
dalla forza politica indiscutibile, una maggioranza schiacciante che garantisce
egemonia nei nuovi enti locali e predominio nel dibattito pubblico. In questo
contesto, dove alla tradizione del municipalismo socialista d’inizio secolo si
associa l’indiscutibile legittimazione resistenziale, è significativo altresì il fatto
che, compresi gli ex-militanti popolari della generazione precedente, tutti i
principali esponenti della dc reggiana e dunque competitor del blocco frontista, abbiano partecipato attivamente alla Resistenza16. Un dato che complica
qui, più che in altre zone, sia il maneggiare le attese, le utopie, l’eredità stessa
della Resistenza, sia l’opposizione pratica delle prime policies amministrative.
È dunque nel tentativo di trovare un equilibrio fra questi elementi del dibatIvi.
Cfr. Carrattieri, Anticomunismi cattolici, cit., p. 101. Per una ricostruzione sulle origini della dc a
Reggio Emilia cfr. V. Casotti, La formazione della Dc a Reggio, 1942-1946, Prima parte, in «Ricerche
storiche», 34/1978, pp. 3-40; ID., La formazione della Dc a Reggio, 1942-1946, Seconda parte, in
«Ricerche storiche», 35-36/1978, pp. 47-82.
17
Cfr. M. Mietto, La sinistra Dc a Reggio nei primi anni del dopoguerra, in «Ricerche storiche», 5455/1985, p.47-70 [:47].
15
16
13
tito, di coordinare in un’azione propositiva il pathos ideale della Democrazia
da forgiare e la concretezza della ricostruzione materiale da organizzare e partendo da quell’esperienza intellettuale fatta fra il giugno e il luglio 1943, che
si sviluppa il discorso pubblico di «Tempo Nostro», organo ufficiale della dc
provinciale pubblicato a partire dal 10 giugno 1945 sino al dicembre del 1948.
«Tempo Nostro», per così dire nella sua «nuova serie», è un quindicinale
composto da quattro pagine, ha sede in via Guidelli n. 10 ed è stampato
presso la tipografia Artigianelli. Si distingue fin da subito, sebbene nella dc
reggiana la componente legata a Giuseppe Dossetti sia inizialmente sopravanzata dagli ex-popolari17, per le sue posizioni apertamente di sinistra. Diretto
dall’ingegner Domenico Piani, convinto sostenitore dell’opzione laburista ed
esponente di spicco della linea improntata alla collaborazione sindacale nonché politica – una linea più volte accusata di essere cauta ed attendista nei
confronti dei comunisti18 – «Tempo Nostro» si appella sin dal primo numero
ai giovani19. In continuità con quanto affermato seppur in modo spurio e
immaturo sul numero ciclostilato nell’estate del 1943 e dopo aver salutato «i
combattenti della montagna e del piano, coloro che hanno combattuto con
le armi nelle formazioni Garibaldine e Fiamme Verdi» e aver reso omaggio
allo stesso tempo alla Resistenza silenziosa di chi «ha combattuto con l’opera
quotidiana di organizzazione e di convincimento, con la parola e con l’esempio e che nessun ostacolo ha mai fermato», il foglio democristiano passa alla
dichiarazioni d’intento:
Tempo Nostro vuole essere nella nostra provincia la voce fedele di un’idea e di
una decisa volontà realizzatrice sotto le insegne della Democrazia Cristiana. In
quest’ora solenne s’inizia un nuovo periodo di vita che attende da noi tutto lo
sforzo ricostruttivo di cui saremo capaci. La nostra divisa è “Col popolo e per il
popolo, per ricostruire una società nuova di Libertà e di Giustizia che dia a tutti
Pane, Lavoro e vera dignità d’Uomo”20.
Le fondamenta sulle quali articolare il discorso politico del laburismo cristiano, che vedrà nell’alternativa a De Gasperi rappresentata a livello nazionale
dalla corrente di Dossetti il momento più significativo, sono già qui esplicita-
18
Cfr. S. Folloni, Dal Non Expedit al Dossetti. Cento anni di Movimento Cattolico Reggiano, Pozzi,
Reggio Emilia 1991, p. 194 e ss.
19
Il richiamo al valore aggiunto generazionale in una stagione di speranze e utopie come quella postresistenziale e costituente è stato ampiamente sottolineato dalla storiografia benché, secondo il nostro
parere, mai autonomamente tematizzato ed enucleato come elemento nodale del processo di transizione
e formazione del nuovo sistema politico. Fra i tanti cfr. G.Orsina, G. Quagliariello (a cura di), La
formazione della classe politica in Europa (1945-1956), Piero Lacaita, Manduria 2000.
20
Saluto, in «Tempo Nostro», 10 giugno 1945.
14
te21. Le modalità attraverso le quali lanciare la sfida al comunismo sono indicate da Giuseppe Dossetti – che ancora si firma, come sarà d’uso sul quindicinale sino alla fine del 1945, col suo nome-partigiano Benigno – nel suo famoso
editoriale Diritti del partito, anch’esso pubblicato in prima pagina sul primo
numero del quindicinale22. Una palingenesi riformatrice, è noto, che intende
«intaccare» tutte le sfere e le aree della vita pubblica e civile e che trova anche
nelle pagine di «Tempo Nostro» una prima e anticipata cassa di risonanza.
Un esempio: «Economia pianificata – scrive «Tempo Nostro» nel luglio del
1945 – un punto programmatico essenziale nella ricostruzione della vita economica moderna». Ed ancora: «[P]ianificare vuol dire vigilare il funzionamento
effettivo … degli organi pubblici» e non può fermarsi ai soli «aspetti distributivi
(salari, prezzi, tasse) ma [deve] entrare nel vivo del processo produttivo».
Una pianificazione a tutto tondo, sferica, che si alza su su fino alla «pianificazione cristiana»:
La pianificazione cristiana – continua il quindicinale – sarà lo strumento primo
della giustizia sociale. Assicurare a tutti un’occupazione stabile, una retribuzione
proporzionata all’apporto effettivo, una ripartizione ragionevole, un massimo di
soddisfazioni compatibili con il prodotto sociale, un massimo soprattutto di soddisfazioni intellettuali e spirituali. La pianificazione cristiana sarà lo strumento, la
difesa della libertà personale. Il benessere massimamente diffuso garantirà il massimo delle libertà psicologiche (di fede, di opinioni, di stampa); la tutela della libera
iniziativa in ampi settori permetterà un’effettiva libertà economica; e infine i privati
strapoteri economici, opportunamente stroncati, non insidieranno la libertà delle
masse più deboli e incapaci23.
L’eco di temi e argomentazioni che saranno approfondite altrove, in uno
spazio appropriato come quello di «Cronache Sociali», si sente tutto24. Ed anche
la medesima attenzione verso le sperimentazioni del sistema politico inglese
che svilupperà «Cronache Sociali» è già presente, in nuce, su «Tempo Nostro».
Per un quadro introduttivo cfr. V. Saba, Quella specie di laburismo cristiano. Dossetti, Pastore,
Romani e l’alternativa a De Gasperi (1946-1951), Edizioni Lavoro, Roma 1996, p. 25 e ss.; P. Pombeni, Un riformatore cristiano nella ricostruzione della democrazia italiana. L’avventura politica di
Giuseppe Dossetti (1943-1956), in L. Giorgi (a cura di), Le «Cronache Sociali» di Giuseppe Dossetti,
Diabasis, Reggio Emilia 2007.
22
G. Dossetti, Diritti del partito, in «Tempo Nostro», 10 giugno 1945; ora ripubblicato in Id., Scritti
politici, Marietti, Genova 1995, p. 25. Sull’itinerario politico di Dossetti, cfr. L. Polese Remaggi, L’itinerario politico di Giuseppe Dossetti, in S. Fangareggi, Il partigiano Dossetti, Aliberti, Reggio Emilia
20042.
23
A. Toniolo, Economia pianificata, in «Tempo Nostro», 20 luglio 1945.
24
Per una biografia critica della rivista fondata da Giuseppe Dossetti cfr. A. Melloni, «Cronache Sociali». La produzione di cultura politica come filo della «utopia» di Dossetti, in Cronache Sociali.
Edizione anastatica, Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII, Bologna 2007; L. Giorgi, Il
percorso storico e ideale di «Cronache Sociali», in Id., Le «Cronache Sociali», cit., p. 89 e ss.; M. Tesini, Nino Andreatta. Appunti per una biografia intellettuale, in N. Andreatta, Per un’Italia moderna.
Questioni di politica e di economia, Il Mulino, Bologna 2002, p. 11.
21
15
La rivista reggiana segue, infatti, con un coverage tanto assiduo quanto
comprensibile, le linee dettate dal dibattito nazionale: la questione istituzionale e le controversie costituzionali25, la crisi del cln26 e il ruolo della dc27. E
per costruirsi un modulo interpretativo di fronte alle scelte politiche ed istituzionali fondanti che il sistema politico italiano sta attuando, «Tempo Nostro»
sceglie di guardare Oltremanica, alla madre delle democrazie. Accoglie infatti
con straordinario favore il successo elettorale del partito laburista britannico e
l’ascesa al governo del suo leader Clement Attlee, considerata una vittoria «non
improvvisa» ma il frutto d’impegno politico duraturo e, soprattutto, un valido
contributo «alla causa della democrazia europea».
Frutto di una più che ventennale attività di propaganda e di persuasione – continua
“Tempo Nostro” – la vittoria delle forze del lavoro inglesi assume oggi una ben particolare importanza. … Il solare successo dei laburisti porta sì al potere in Inghilterra una di quelle correnti che solitamente vanno sotto il nome di “sinistre”; ma
il laburismo inglese è una sinistra sui generis, aliena da ogni forma di demagogia
e quindi è quanto mai inopportuno sperare in chissà quali rivoluzionari sviluppi
della situazione28.
Al di là dell’interpretazione che la ricerca storiografica ha dato alla vittoria
di Attlee e alla complessità della vicenda politica del Labour che in parte non
coincide con quanto commentato a caldo dal quindicinale reggiano29 – una
più che comprensibile ingenuità di giudizio che aveva colto perfettamente
nondimeno quel progressive dilemma che ha attanagliato la storia della sinistra britannica nel Novecento30 – è tuttavia possibile ritenere che, in questa fase, nell’ibrido socialista del laburismo inglese «Tempo Nostro» individui
una’«alternativa» costruttiva, pragmatica e partecipata al fronte socialcomunista.
Un esempio da guardare con ammirazione perché capace di mettere in campo
un «vasto programma di trasformazioni sociali», in grado di dare forma ad una
«democrazia sostanziale … non incompatibile coi valori religiosi»31, in grado
persino di immaginare una riforma del sistema scolastico e dare corpo a un
sistema sanitario nazionale32.
È nel rapporto dialettico col comunismo e con la minaccia sovietica che
l’alternativa laburista acquista maggior rilevanza: «Democrazia non significa
G.R., Dopo la Costituente, in «Tempo Nostro», 21 aprile 1946.
D. Piani, Realtà, in «Tempo Nostro», 11 settembre 1945.
27
C. Guelfo, La Costituente, in «Tempo Nostro», 5 agosto 1945; P. Malvestiti, La Democrazia cristiana e il problema istituzionale, in «Tempo Nostro», 5 agosto 1945.
28
Quadrante, in «Tempo Nostro», 18 agosto 1945.
29
Cfr. K.O. Morgan, The People’s Peace, Oxford University Press, Oxford 20013, p. 29 e ss.
30
Cfr. D. Marquand, The Progressive Dilemma, London, Phoenix, 19992.
31
P.A. Maccarini, Politica e religione, in «Tempo Nostro», 28 ottobre 1945.
32
La riforma della scuola in Gran Bretagna, in «Tempo Nostro», 24 agosto 1945; Il Laburismo inglese,
in «Tempo Nostro», 7 ottobre 1945.
25
26
16
soltanto un regime di maggioranza – dice il quindicinale ai propri lettori prendendo a prestito le parole usate da Attlee al Trade Union Congress nel 1945
– ma un governo della maggioranza con il dovuto rispetto dei diritti delle
minoranze. Dovunque voi trovate l’oppressione delle minoranze, là non esiste
vera democrazia»33.
L’attenzione ai fatti internazionali ricopre in questa prima fase dell’esperienza di «Tempo Nostro» un ruolo propedeutico importante. Inquadrabile da un
lato come risposta immediata all’autarchia informativa e culturale del regime
fascista, ma anche, dall’altro, espressione sincera di una ricerca più ampia e
globale di moduli interpretativi, parte cioè di un percorso di vera e propria alfabetizzazione democratica offerta all’opinione pubblica reggiana. La tensione
sembra essere quella di recuperare al politico una cultura che al politico era
stata negli anni del regime fascista gradualmente diseducata e con una qualche difficoltà stava trovando il proprio filo d’Arianna34. L’opera pedagogicoeducativa rivolta ai meccanismi di funzionamento della democrazia si sviluppa
ribattendo articoli usciti sulla stampa nazionale. Man mano che la dc si organizza sul territorio anche la rivista si «localizza», pur mantenendo nondimeno
un afflato nazionale ed internazionale. Spazio viene concesso ai problemi
dell’organizzazione femminile e le cronache della vita del partito assumono
sempre più importanza, viene introdotta inoltre una sezione dedicata al movimento giovanile35.
Ma lo schema della «grande contrapposizione» si va via via disegnando,
aggravato dagli incomprensibili delitti e dal perdurare della violenza, dalle
polemiche anticomuniste, dagli allarmi vaticani36. La stagione dell’«utopia pragmatica», della tensione riformatrice a tutto tondo è ormai sulla via del tramonto
e sarà travolta dalle contingenze storiche.
La stagione dell’intransigentismo: «L’Era Nuova»
Che l’anticomunismo non sia affatto un dato residuale della lotta politica
e del dibattito pubblico e culturale per la realtà qui presa in esame si è già
Quadrante, in «Tempo Nostro», 21 ottobre 1945. Si veda anche G.R., Onde corte: differenze tra
laburismo e comunismo, in «Tempo Nostro», 28 ottobre 1945. Un’attenzione, questa, per la potenziale
valenza anticomunista del Labour presente anche in altre arene della cultura cattolica: nel commentare
la vittoria di misura ottenuta dal partito di Attlee nel febbraio 1950 «L’Avvenire» si focalizzava sul dato
della non rielezione degli unici due deputati comunisti eletti nel 1945. Vittoria Laburista, in «L’Avvenire d’Italia», 25 febbraio 1950; ed anche Churchill preferisce rinviare le elezioni, in «L’Avvenire
d’Italia», 1° marzo 1950 e I laburisti vincono ai Comuni, in «L’Avvenire d’Italia», 10 marzo 1950.
34
Cfr. G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia del ’900, Il
Margine, Trento 2008, p. 26 e ss.
35
G.R., Bilancio onesto, in «Tempo Nostro», 17 dicembre 1945.
36
Per il solo contesto reggiano si veda La grande contrapposizione. Aspetti delle elezioni del 1948 a
Reggio Emilia, Tecnograf, Reggio Emilia 1990, soprattutto p. 61 e ss.
33
17
detto. Le radici di lungo periodo del fenomeno affondano nella dura contrapposizione tra cattolicesimo e socialismo durante la stagione del riformismo
prampoliniano. L’antisocialismo d’inizio secolo è dunque l’innesto sul quale si
erigerà l’anticomunismo postbellico. La crisi degli anni Trenta e la guerra civile
europea appesantiscono ulteriormente un impianto ideologico già fortemente
sostanziato. Infine, è altresì determinante la comune esperienza resistenziale,
la quale andrà a porre le premesse immediate del rapporto tra cattolici e comunisti: «In quel contesto – è stato rilevato – matura la comune coscienza antifascista», ma allo stesso tempo «emergono quelle differenze di carattere morale
e politico che peseranno successivamente»37.
È su queste premesse e nel clima dei rapporti di forza fra i partiti politici reggiani, qui già precisati, che all’inizio del 1946, precisamente il 3 febbraio, viene
ripubblicato il settimanale diocesano «L’Era Nuova». Diretto da don Lorenzo
Spadoni esso rappresenterà per il dibattito reggiano l’arena del più infuocato
anticomunismo: dall’affermazione dell’assoluta incompatibilità tra comunismo
e cattolicesimo all’enunciazione del diritto della Chiesa di pronunciarsi nella
sfera politica, passando per l’appello all’unità politica dei cattolici. Temi che
durante le stagioni costituente e centrista pervadono il dibattito pubblico e che
andranno a inficiare in modo estremamente rozzo il confronto politico giù giù
sino ai centri nevralgici della vita civile; questioni che a Reggio Emilia, dato il
contesto, trovano un terreno estremamente fertile38.
I cristiani sono invitati ad eleggere «persone che conoscano e rispettino i
diritti di Dio», politici che pongono i «comandamenti della chiesa» al di sopra di
ogni altro aspetto, scrive il 17 febbraio 1946 «L’Era Nuova»39. «Non esula dal suo
campo – continua il mese seguente il foglio – quel sacerdote che, parlando
della fede cristiana, si sforza di far capire che la dottrina di Marx e i principi
del materialismo sono diversi e contrari a quelli della dottrina cristiana»40. Per
giungere ad affermare che o si è cristiani, e si sta dalla parte di Dio o si è comunisti perché questi «negano Dio e la Chiesa»41. Insomma, il noto bagaglio
polemico e l’altrettanto noto armamentario dottrinario dell’anticomunismo acceso e dogmatico, ampiamente ricostruito dalla storiografia42.
37
Cfr. Carrattieri, Anticomunismi cattolici, cit., pp. 99-100. Per quanto riguarda la contrapposizione
d’inizio secolo si veda nello stesso numero di «Religione e società», interamente dedicato al cattolicesimo reggiano nel Novecento A. Ferraboschi, Il cattolicesimo reggiano e la mobilitazione antisocialista:
l’opposizione alla Predica di Natale di Camillo Prampolini, ivi.
38
Per un quadro generale fra i tanti si veda P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna
1991; mentre sullo scontro ideologico P. Scoppola, Aspetti e momenti dell’anticomunismo, in A. Ventrone (a cura di), L’ossessione del nemico. Memorie divise nella storia della Repubblica, Donzelli,
Roma 2006.
39
B., Comunismo e religione, in «L’Era Nuova», 17 febbraio 1946.
40
D.R.D., La politica del prete, in «L’Era Nuova», 31 marzo 1946.
41
O cristiani o comunisti, in «L’Era Nuova», 31 marzo 1946.
42
Cfr. R. Pertici, Il vario anticomunismo italiano (1936-1960), in L. Di Nucci, E. Galli Della Loggia
(a cura di), Due Nazioni, Il Mulino, Bologna 2003; si veda inoltre il numero monografico Anticomunismo, anticomunismi: momenti e figure della storia italiana, «Quaderno di Storia Contemporanea»,
38/2005, soprattutto A. Agosti, B. Bongiovanni, Traiettorie dell’anticomunismo, in ivi, pp. 14-20 e P.
Soddu, Anticomunismo/Anticomunismi, in ivi, pp. 25-29.
18
Non v’è dubbio che a generare nella polemica locale una torsione ulteriore rispetto all’impeto già rovente ha concorso la delicata fase di transizione
guerra-pace-ricostruzione e, nello specifico, la tragica vicenda delle uccisioni
dei religiosi43. Ciò detto e assunto come dato imprescindibile, tuttavia, lo scheletro di un nuovo intransigentismo autoreferenziale e di un anticomunismo
assolutistico, ottuso, è osservabile fin dai primi passi del nuovo periodico
diocesano che si pone in netta antitesi non solo col fronte socialcomunista, e
quindi versus le istituzioni locali, ma anche con quelle componenti del cattolicesimo che si sono mostrate «deboli» o «dialoganti» con la dottrina materialista.
Il riferimento qui è soprattutto alle posizioni di Domenico Piani, direttore di
«Tempo Nostro» e segretario della dc provinciale sino al novembre 1945, la cui
linea sindacalista è relegata alla minoranza a partire dall’estate del 1946. Egli
– e non è un dato marginale – sarà sostituito alla testa del quindicinale democristiano alla fine dello stesso anno da un più «moderato» Giuseppe Romolotti.
Un avvicendamento che segna a livello locale il passo verso quella stabilizzazione all’interno della dc che contraddistinguerà il centrismo; un turnover che
si pone nell’ottica di un «riordino» dell’effervescenza reggiana.
In prossimità delle scadenze elettorali al dibattito politico ormai polarizzato
fra due approcci allo stesso modo totalizzanti, equivalenti ma contrari, si sovrappone l’insediamento del nuovo vescovo Beniamino Socche. Il nuovo presule declinando in chiave esclusivista i delitti di matrice politica – che nel frattempo sono assurti all’interesse dell’opinione pubblica nazionale e per i quali
la stessa stampa fa da cassa di risonanza, strumentalizzandoli e favorendo in
tal modo un ulteriore irrigidimento delle parti44 – si fa fin da subito paladino di
un intransigentismo massimalista, gretto e interessato, almeno secondo i suoi
avversari45. La lente di questo ideologismo anticomunista è pervadente e assoluta. Non ne sono immuni gli esponenti del cattolicesimo politico e sociale46,
né si mostra capace di filtrare le prerogative più spregiudicate «L’Era Nuova».
Se la scelta repubblicana è per «Tempo Nostro» un dato endemico al precipitato della lotta di Liberazione e, allo stesso tempo, è lo sbocco obbligato
di quel processo di rinnovamento di cui la stessa Resistenza è stata strumento
e a favore del quale la rivista si offre come mezzo di acculturazione – s’invita
dunque a votare la Repubblica non per risentimento, per rivalsa nei confronti
del passato ma «per stabilità»47 e per gettare un ponte verso un programma
43
Cfr. M. Storchi, Ordine pubblico e violenza politica nel Modenese e nel Reggiano, in «L’Impegno»,
1/1996, pp. 48-51; N.S. Onofri, Il triangolo rosso, Sapere, Bologna 2000.
44
Cfr. Carrattieri, Anticomunismi cattolici, cit., p. 112 e ss.
45
Si vedano le testimonianze di Nilde Jotti, Franco Jotti e Bruno Cattini in Spreafico, I cattolici reggiani, cit., pp. 538-539.
46
Cfr. M. Casella, 18 aprile 1948. La mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Congedo, Galatina
1992, p. 159 e ss.
47
D. Piani, Rinascita, in «Tempo Nostro», 2 dicembre 1945.
19
politico-sociale avanzato48 – «L’Era Nuova», all’opposto, si schiera per la Monarchia. Leggendo «la gravità dell’ora presente» alla luce della frattura fra mondo
cattolico e mondo laico e attraverso la dicotomia rivoluzione/controrivoluzione, essa anzi interpreta pregiudizialmente le vicende del 1789 e ammonisce i
lettori: la Repubblica non è altro che l’«anticamera del comunismo»49.
In un primo momento le derive strumentali dell’anticomunismo vengono
denunciate: «Troppi cosiddetti benpensanti – scrive «Tempo Nostro» – hanno
oggi soltanto paura del rosso, senza accorgersi del serpente»50. E mentre «Tempo Nostro» in merito alle elezioni amministrative, indipendentemente dall’esito, formula gli auguri sinceri affinché «le nuove amministrazioni, nel rinnovato
spirito di libertà, sappiano correggere gli errori del passato per il bene del popolo»51, «L’Era Nuova» invece accusa la dc della sconfitta locale, rincuorandosi
ovviamente per i dati nazionali i quali, tuttavia, vengono declinati esclusivamente in chiave religiosa e sterilmente anticomunista:
Chi nelle elezioni amministrative ha votato in buona fede pel comunismo ed è
ben deciso ad aggravare questa sua colpa continuando la sua fiducia anche nelle
elezioni politiche non è più cristiano cattolico … il voto e la fiducia concessa a
partiti anticristiani è sempre grave atto di responsabilità … Si impone dunque una
scelta: o con Cristo o contro Cristo. E abbiamo tutti da guadagnare a sapere con
precisione chi, essendo contro Cristo, è anche contro di noi: chi dobbiamo temere
come nemico, implacabile e insidioso52.
Non diverso il tono utilizzato a commento della campagna elettorale per
l’assise costituente; non diversa l’interpretazione del risultato. A portare alla
vittoria la dc sarebbero stati il «cristianesimo», il «buon senso», il divenire storico; la sua vittoria sarebbe venuta «di riflesso dalla vittoria sempre in atto della
Chiesa»; la democrazia che ne usciva vincitrice, anche se al terzo posto dopo
Dio e la storia, era interpretata come un’«associazione di uomo e Dio», come
sancito nella costituzione polacca del 1925 e in quella irlandese del 193653.
Che il discorso pubblico elaborato dall’«Era Nuova» presentasse i segni di
un intransigentismo radicale anche i commentatori coevi lo urlavano. Per argomentare una difesa delle proprie posizioni il settimanale diocesano il 28 aprile
La controvoce è assegnata a Dossetti il quale sostiene come i programmi economici dei comunisti
recuperino il nucleo propositivo del cattolicesimo sociale prebellico. G. Dossetti, Dc e Costituente, in
«Tempo Nostro», 19 maggio 1946, ora ripubblicato in Id., Scritti politici, cit., p. 57.
49
D.R.D., Repubbica e poi?, in «L’Era Nuova», 26 maggio 1946.
50
D. Piani, Vigilare, in «Tempo Nostro», 3 febbraio 1946.
51
Democrazia, in «Tempo Nostro», 17 marzo 1946; si veda anche D. Piani, Primavera elettorale, in
«Tempo Nostro», 7 aprile 1946 in cui si afferma che i «social-comunisti e i democristiani sono oggi le
sole forze capaci di orientare le grandi masse del popolo italiano».
52
B., L’equivoco comunista, in «L’Era Nuova», 7 aprile 1946.
53
D.R.D., Chi ha vinto?, in «L’Era Nuova», 16 giugno 1946; si vedano anche Repubblica cristiana,
«L’Era Nuova», 9 giugno 1946; d.P. Simonelli, Repubblica, ivi.
48
20
del 1946 dà alle stampe un commento intitolato Transigenze ed intransigenza:
L’accusa di intransigenza che viene mossa da tante parti contro i preti e la chiesa
non ha bisogno che d’essere stesa nei suoi termini esatti per cadere da sé. Verso chi
e verso che cosa esercita questa deprecata intransigenza? Poiché è chiaro: quando
sono in gioco dei principi non è lecito “il passar sopra” senza mancare nei riguardi
della verità … la chiesa è veramente intransigente … quando si tratta di affermazione di principi e di dottrine.
Contro chi è diretta questa intransigenza di principio?
La chiesa condanna – si precisa – e stigmatizza il comunismo ateo internazionale
per tutto il corredo dottrinario su cui poggia, che è materialista e perciò in netta
opposizione allo spiritualismo cristiano … non si può parlare di intransigenza dei
preti e della chiesa verso i comunisti; si deve parlare di intransigenza verso il comunismo e cioè verso tutto ciò che il comunismo mantiene di contrastante con il
cristianesimo e la sua dottrina come nei suoi programmi.
A questa distinzione metodologica seguiva un passaggio «ardito»:
È certo che il fascismo ebbe i suoi gravissimi e nefasti errori, ma non professò
mai l’ateismo né si schierò apertamente dalla parte dei nemici della religione. Per
questo la chiesa non ha messo al novero dei partiti “manifestamente ostili alla religione” il Partito nazionale fascista ed ha lasciato che le sue bandiere entrassero
nelle sue mura sacre54.
Proprio per questo, per rendere interamente la complessità del discorso
pubblico del cattolicesimo reggiano, non va dimenticato chi tentò di preservare la distinzione tra l’anticomunismo ideale e quello puramente strumentale:
don Alberto Altana che poté esprimere il proprio pensiero sulle stesse pagine
di quel foglio, «L’Era Nuova», che fungeva da «megafono» dell’anticomunismo
«di pancia». Rompendo la monotonia degli attacchi – è stato già scritto – Altana distingue la propria posizione dall’anticomunismo pregiudiziale basandosi
sull’idea della carità cristiana che «consiste nell’andare incontro alle masse proletarie, in così gran parte deviate dalla predicazione marxista, e nel mostrare
ad esse, non solo con le parole ma con i fatti, che i cattolici non combattono
il comunismo solo per ragioni d’interesse, ma per ragioni di ordine superiore,
religioso, spirituale e morale»55.
Gli eventi nazionali ed internazionali, però, si accavallano: la scelta occidentale attuata da De Gasperi, la scissione socialdemocratica, il noto interven-
Transigenze ed intransigenza, in «L’Era Nuova», 28 aprile 1946.
A. Altana, C’è modo e modo nell’anticomunismo, in «L’Era Nuova», 1 dicembre 1946. Per questo
passaggio cfr. Carrattieri, Anticomunismi cattolici, cit., p. 115.
54
55
21
to di Togliatti Ceti medi ed Emilia rossa56. Il precipitato locale di questi convulsi episodi è, da un lato, il reiterarsi delle polemiche sulla violenza postbellica
e, dall’altro, l’irrigidirsi del dibattito comunismo versus cattolicesimo. Esso si
adegua al clima teso e dal piano ideale viene declinato principalmente nel modulo dell’incompatibilità fra marxismo e cristianesimo, attraverso urlati attacchi
requisitori alle colpe e responsabilità del pci reggiano.
Da una parte «L’Era Nuova», la quale ribadisce che il «comunismo è una forma di barbarie» che insegna «l’ateismo e nega la libertà religiosa» accusando chi
decide di sposare la dottrina marxista di tradimento nei confronti di «Cristo e la
sua Chiesa» e di preparare «le catene alla Chiesa e la persecuzione ai cattolici»
concludendo, insomma, che «nessuno può servire a due padroni»57. Dall’altra,
«Tempo Nostro» ora diretto da Ermanno Dossetti che, pur continuando a prediligere i più ampi contesti internazionali58, è anch’esso attirato nel vortice del
dibattito. Compaiono così per la prima volta espressioni come «ottusa campagna antigovernativa scatenata dai rossi» e «truculenza balorda dei gerarchetti
comunisti» e «trucibalda oltracotanza dei cafoni scarlatti» e «irresponsabile gazzarra dei violenti» ed ancora «grossolane ed abbiette manovre terroristiche cui
dispettosamente fanno ricorso gli uomini falliti di partiti falliti»59.
L’apice, naturalmente, si tocca nei mesi della campagna elettorale del
194860. Per l’occasione «L’Era Nuova» all’inizio dell’anno esce in una nuova
veste grafica abbandonando quel layout ancora dal sapore «del ventennio» e si
prepara a dare man forte all’intransigentismo ospitando l’appello del vescovo
nell’«ora della fortezza cristiana». In esso si afferma che la dottrina di Cristo
è inconciliabile con le massime materialistiche, «l’aderire alle quali, si voglia
o no, se ne abbia o no la coscienza, significa disertare la Chiesa e cessare di
essere cattolici»61. Inoltre il settimanale diocesano pubblica editoriali espliciti:
«Guai a coloro che hanno ancora da obiettare qualche cosa – scrive il 25 gennaio 1948 – quando sono in gioco la fede ed i valori eterni del Vangelo»62; e
accoglie gli spunti satirici guareschiani – da «nella cabina elettorale Dio ti vede,
Stalin no» alle espressioni «Piccolo Cremlino»63.
P. Togliatti, Ceto medio ed Emilia rossa, in Id., Politica nazionale ed Emilia rossa, a cura di L.
Arbizzani, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 43. Per questo passaggio nella storia del pci, cfr. A. Agosti,
Storia del partito comunista italiano, 1921-1991, Laterza, Bari-Roma 1999.
57
Noi e i comunisti, in «L’Era Nuova», 21 settembre 1947.
58
G. DOSSETTI, Il compito primo, in «Tempo Nostro», 3 aprile 1947, ripubblicato in Id., Scritti politici, cit., p. 99.
59
Per i nostri e per gli altri, in «Tempo Nostro», 28 aprile 1947.
60
Fra l’innumerevole letteratura cfr. E. Novelli, Le elezioni del quarantotto, Donzelli, Roma 2008,
soprattutto pp. 21-80.
61
Delucidazione, in «L’Era Nuova», 4 marzo 1948. L’articolo riprende l’appello del vescovo già pubblicato sul «Bollettino Diocesano», 2 (1948).
62
Togliatti – bugie, in «L’Era Nuova», 25 gennaio 1948.
63
Fare blocco, in «L’Era Nuova», 18 gennaio 1948.
56
22
Il giro di vite, però, lo si è detto è rappresentato da «Tempo Nostro» che
rincorre la crusade vaticana e della destra democristiana; e in questo ripiegamento mostra il fianco e il proprio lato più debole. Avvertendo gli ex alleati
– «A gente che ha superato i limiti della decenza non c’è che da obbiettare
una parola: Attenzione!»64 – si allinea nell’utilizzo del più demagogico corredo
linguistico dell’anticomunismo frontale: titolando Lavoratore non farti ingannare, i comunisti ti hanno sempre mentito e pubblicando una serie di fotografie di chiese distrutte, di preti torturati, e via discorrendo65. Conclude infine
l’editoriale del 4 aprile 1948 con lo slogan: «Vota, vinci, vivi!»66.
Non diversi i toni legittimamente trionfalistici a commento della vittoria
del 18 aprile. «L’Era Nuova» esalta la ritrovata Italia «una di fede, di patria e di
lari», rivendicando ovviamente «la vittoria di Cristo». Scriveva A. Ravaglioli: «Il
suffragio è andato allo spirito evangelico … piuttosto che a un dettagliato programma politico» aggiungendovi qualche cenno di rivalsa storica: «I cattolici
che ottant’anni fa erano considerati ai margini della vita pubblica, quasi che
i loro principi fossero estranei alla comune utilità, ricevono oggi la conferma
di un mandato che, fin dalle elezioni del 1946, era stato loro accennato; è il
mandato di r[i]assestare la vita politica italiana dopo il gran danno del laicismo
liberale e dell’arbitrio dittatoriale».
Iniziava dunque «il meraviglioso spettacolo di un popolo che [aveva scelto]
Cristo» insisteva «L’Era Nostra»67.
Recupera invece il proprio spessore pragmatico «Tempo Nostro» che limitava la vittoria alle sole forze e strategia del partito cattolico68, anche se soltanto
due settimane prima aveva affermato che «furti, violenze, assassini reca[va]no
il … nome dei sindaci comunisti»69. Sarà tuttavia un rientro di breve durata: col
numero pubblicato il 30 dicembre 1948 «Tempo Nostro» cessa le pubblicazioni,
così come del resto aveva fatto «L’Era Nuova» proprio all’indomani della vittoria elettorale degasperiana70.
La cronaca della diocesi e della provincia proseguirà sino al 1950 sulle
pagine dell’ «Osservatore romano della domenica» e poi sul foglio quotidiano
vaticano a partire dal 1951; ed anche sull’«Avvenire d’Italia», la cui redazione
aveva iniziato la propria attività a partire dall’ottobre 1945 curando la pubblicazione di una colonna di brevi71 e che dal 1947, trasferitasi da via Arlotti al
numero 12 di via Farini utilizzando lo stesso indirizzo dell’«Era Nuova», avrà
Non è vero, in «Tempo Nostro», 1° marzo 1948.
«Tempo Nostro», 10 marzo 1948.
66
La grande ora è suonata in «Tempo Nostro», 10 aprile 1948.
67
A. Ravaglioli, Il popolo ha scelto Cristo, in «L’Era Nuova», 25 aprile 1948.
68
La Dc ha vinto!, in «Tempo Nostro», 22 aprile 1948.
69
Campioni di onestà i sindaci comunisti, in «Tempo Nostro», 10 aprile 1948.
70
L’ultimo numero uscito dell’«Era Nuova» è dell’11 aprile 1948.
71
Cfr. Cronaca di Reggio. La solenne manifestazione della Gioventù cattolica reggiana, in «L’Avvenire
d’Italia», 23 ottobre 1945.
64
65
23
una pagina dedicata alla cronaca cittadina e della provincia di Reggio Emilia72.
Principalmente attento all’attività della diocesi il primo, il secondo concentrato
quasi esclusivamente sulla cronaca nera73 e giudiziaria, soprattutto per quanto
riguarda gli sviluppi della vicenda delle uccisioni dei sacerdoti74 e il perdurare della violenza75, sporadicamente interessato alla cronaca politica76. Appare legittimo nell’economia editoriale di una pubblicazione quotidiana come
«L’Avvenire d’Italia» il prediligere gli avvenimenti di cronaca, con qualche concessione altrettanto giustificabile agli articoli di colore e alle notizie curiose77.
Contestualizzati, poi, nell’Italia passatista e tradizionalista, a volte retrograda
e reazionaria, degli anni Cinquanta appaiono allo stesso modo comprensibili
gli accenti quasi paternalistici coi quali si guarda ai primi segni di una modernità dei costumi che stava giungendo78. Ciò detto, nondimeno, dopo la
72
Sul foglio uscito il 15 gennaio 1947 viene comunicato il nuovo indirizzo della redazione reggiana.
Va precisato che a partire dalla seconda metà del 1948 la sede della redazione de «L’Avvenire d’Italia»
viene trasferita in via San Nicolò.
73
Già negli anni precedenti, dal 1946 e 1947, la cronaca nera aveva uno spazio considerevole nella politica editoriale dell’«Avvenire». Si veda, ad esempio, fra le tante bande di cui si è raccontato sulle sue
pagine (quella del «grana», quella dei «maiali» che colpirono nel 1947) la cronistoria delle vicende del
bandito Ivo Daolio, soprannominato dalla stampa l’uomo con la mitragliatrice. Assicurato alla giustizia
il bandito Daolio, in «L’Avvenire d’Italia», 13 febbraio 1947; Il padre di Ivo Daolio racconta. Il disordine morale della madre e una natura ribelle furono le cause prime del traviamento, in «L’Avvenire
d’Italia», 16 febbraio 1947; Bilancio dell’attività criminosa di Ivo Daolio e compagni, in «L’Avvenire
d’Italia», 22 febbraio 1947.
74
Oltre al coverage dell’inchiesta giudiziaria e della celebrazione del processo per l’uccisione di don
Pessina (che si è svolto a partire dal marzo 1947 e del quale segnaliamo Ignoranza e malafede? Pezzi
grossi all’attacco – Manovra delle sinistra, in «L’Avvenire d’Italia», 23 marzo 1947 e Malavita politica
nel reggiano, in «L’Avvenire d’Italia», 26 marzo 1947) si veda, fra i tanti, E il vescovo aveva ragione, in
«L’Avvenire d’Italia», 16 luglio 1949 il cui titolo era già stato impiegato per un commento sull’arresto
dei presunti assassini di don Pessina il 15 marzo 1947. Sulla vicenda del sindaco di Correggio Germano
Nicolini condannato a 22 anni di reclusione nel giugno del 1947 per l’uccisione del parroco Pessina e
scagionato dalla confessione del vero assassino soltanto nel 1991, si veda F. Sessi, Nome di battaglia
Diavolo, Marsilio, Venezia 2000.
75
Fra i tanti La vile aggressione di Rubiera nella ferma replica di mons. Socche, in «L’Avvenire d’Italia», 3 luglio 1949.
76
Si vedano Si sono conclusi i lavori del Congresso provinciale D.C., in «L’Avvenire d’Italia», 3 aprile
1951; Votare o no per la D.C.?, in «L’Avvenire d’Italia», 15 aprile 1951; La campagna elettorale amministrativa in una intervista al segretario provinciale D.C., in «L’Avvenire d’Italia», 18 aprile 1951.
77
Fra i tanti un articolo che ricostruendo un episodio di truffa ai danni di due cittadini di Guastalla si appella alla «saggezza dei vecchi proverbi» e un pezzo dedicato alle previsioni sull’anno appena iniziato,
il 1951, fatte dalla centenaria «maga della Roncina», evidentemente un artifizio narrativo che permette
ai redattori di elencare le loro aspettative: quelle che saranno soddisfatte (nessuna guerra in Europa, la
costruzione del nuovo isolato San Rocco, la Reggiana rimarrà in B) e quelle che, al contrario, si riveleranno troppo ambiziose (la soluzione della vertenza delle Officine Reggiane). Non è tutto oro quel
che riluce, in «L’Avvenire d’Italia», 6 agosto 1949; L’Italia non farà la guerra ed a Reggio ne vedremo
delle belle ha detto la “maga” della Roncina, in «L’Avvenire d’Italia», 9 gennaio 1951.
78
L., Promessa cinematografica e coscienza cattolica, in «L’Avvenire d’Italia», 4 gennaio 1951 in cui
si invitano i cattolici a boicottare le sale cinematografiche nel caso vengano proiettati film condannati
dalla Chiesa.
24
grande contrapposizione del 1948 nel ripiegamento verso moduli «familistici»,
nella propensione per i toni placidi e pacati, toni che rifuggono lo scontro
aridamente polemico ma che, allo stesso tempo, rifiutano anche il dibattito
aperto; e nell’attenzione verso quei fatti mai troppo «trascinanti», verso quelle
notizie che non suscitano passioni intellettuali e politiche forti che caratterizza
il discorso pubblico dell’«Avvenire» si può intravedere un ritorno nel «privato».
«L’Osservatore romano» e «L’Avvenire» rimangono dunque i due canali d’informazione e di (limitato) dibattito per il cattolicesimo reggiano sino al 1952,
quando viene pubblicata «La Libertà».
Annotazioni per una conclusione
Il 19 ottobre 1952 esce il primo numero della «Libertà», settimanale sociale
reggiano. Accanto all’editoriale di presentazione in cui si afferma che finalmente con quel ritorno è ritornata anche la «libertà di carta», quella vera, sulla
quale trionferà «la libertà ideale, la grande, la vera libertà di ogni individuo e
della società», quella libertà di cui «storicamente si inizia a parlare col cristianesimo»79 e accanto all’articolo che saluta con entusiasmo l’azione e l’impegno di
Luigi Gedda e del geddismo, si dedica un’intera pagina alle squadre Granata
(discipline del calcio e della pallacanestro): «La squadra Granata contro i grigi
ancora in cerca di se stessa» scrive G.B. e, dopo un breve trafiletto sul rugby,
ci si domanda il «Perché Reggio non avrà d’ora innanzi una squadra militante
in serie B»80.
Che cosa era successo? Che cosa aveva spinto il giornalismo cattolico reggiano dopo la palestra dello scontro e della «lotta di civiltà», dopo gli anni delle
battaglie apocalittiche ma anche dopo la stagione della politica partecipata
e propositiva, ad interrogarsi sulle potenzialità della pallacanestro nostrana?
Quali erano le ragioni di questa flessione?
Ovviamente l’esempio è qui utilizzato come pretesto provocatorio; e non
intende in nessun modo istituire una scala gerarchica sulle scelte editoriali
fatte dalla stampa reggiana di area cattolica definendone gli argomenti appropriati o quello inadeguati, quelli di un giornalismo «alto» e quelli di un giornalismo di livello mediocre. Peraltro la cronaca sportiva, soprattutto il calcio, era
trattata sull’ «Avvenire d’Italia» già a partire dal novembre 194581. Con esso si
vuole piuttosto introdurre una qualche riflessione conclusiva senza pretendere
A te, lettore, in «La Libertà», 19 ottobre 1952. Per un’antologia degli scritti di monsignor Wilson
Pignagnoli sulla «Libertà», cfr. R. Maseroli Bortolotti (a cura di), Scritti in «Libertà», Tipografia La
Commerciale, Reggio Emilia 2004.
80
In «La Libertà», 19 ottobre 1952.
81
Il primo articolo, Vittoria casalinga della «Reggiana», in «L’avvenire d’Italia», 7 novembre 1945;
dall’agosto 1949, precisamente il 10, viene pubblicata la rubrica Avvenimenti sportivi.
79
25
di esaurire la complessità di un’esperienza che, soltanto per i protagonisti e il
contesto nel quale si è manifestata, merita più ampi approfondimenti.
La battaglia frontale fra comunismo e cattolicesimo, fra pci, e fra centrismo
e sinistre, è continuata in Italia e, soprattutto, a Reggio Emilia ben oltre le elezioni del 1948. Anzi, essa si fece per certi versi persino più dura poiché non
giustificata nell’immediato dalla contesa elettorale82. E del resto non è in essa
e nella dicotomia «Tempo Nostro» versus «L’Era nuova» che si può diluire totalmente il discorso pubblico della stampa cattolica reggiana.
Ciò detto, nondimeno, il termine a quo della vicenda di cui qui si è tentato
di rintracciare le traiettorie è proprio il giro di boa del 1948.
Se il 1951 è una data fortemente periodizzante per la storia della città e
della provincia – oltre alla torsione del dossettismo, alla crisi del cosiddetto
«caso Magnacucchi» con la presa di posizione del segretario comunista che gli
costò la contraddittoria espulsione83, vi è la vertenza delle Reggiane84 e, infine,
il tramonto definitivo della collaborazione antifascista anche nel Comitato per
la difesa dei valori della Resistenza85 – ciò premesso, per il cattolicesimo locale
nel 1951 è d’altro canto già terminata da ormai un biennio la fase dell’interpretazione pubblica e autonoma. È vero che il giornalismo cattolico continua
la propria opera in altre arene; tuttavia, nel recupero di moduli e rapporti
tradizionali che si può scorgere nella trattazione della notizia che fa la pagina
reggiana dell’«Avvenire» si può rintracciare anche una sorta di «abdicazione» al
ruolo di integrazione sociale e di innesto del «politico», alla propria funzione
di decodificazione da offrire all’opinione pubblica.
Il dibattito che si sviluppa nella brevissima esperienza di «Tempo Nostro»,
come si è cercato di sottolineare, trascende i limiti della realtà provinciale, si
pone obiettivi di lunga scadenza, non ultimo la graduale educazione ai principi e all’ingegneria democratica. Allo stesso tempo, però, questo afflato getta
anche le basi, nel breve periodo, per la propria marginalizzazione e per il proprio depotenziamento. Non v’è dubbio che la contingenza storica e il contesto
internazionale siano stati elementi influenti; e non v’è altrettanto dubbio che
le dinamiche interne al partito democristiano reggiano abbiano indotto precise
politiche culturali, determinate scelte editoriali. Tuttavia, si può ritenere che la
Per una ricordo di questi anni cfr. G. Magnanini, Ricordi di un comunista emiliano, Teti, Milano
1978, p. 75 e ss.; S. Folloni, Dal Non Expedit al Dossetti, cit., p. 233 e ss.
83
SIR, L’ardente caso Magnani-Cucchi, in «L’Avvenire d’Italia», 30 gennaio 1951; G. Fornaciari,
Messaggio dei due «deviati» lanciato da Reggio Emilia, ivi; La Camera ha respinto le dimissioni
Cucchi-Magnani, in «L’Avvenire d’Italia», 31 gennaio 1951; Clamorosa adesione a Magnani e Cucchi,
ivi; L. Bedeschi, Valdo Magnani in Jugoslavia portò per fregio la stella rossa, in «L’Avvenire d’Italia»,
2 febbraio 1951; Solidarietà partigiana con Cucchi e Magnani, in «L’Avvenire d’Italia», 9 febbraio
1951.
84
La vertenza delle Reggiane, in «L’Avvenire d’Italia», 30 marzo 1951;
85
Sulla vicenda delle Reggiane cfr. S. Spreafico, Un’industria, una città, Il Mulino, Bologna 1968, p.
387 e ss.
82
26
smania e la tensione di comprendere la nuova epoca attraverso moduli culturali ampi e ambiziosi abbia contribuito a non permettere lo sviluppo né di una
cultura amministrativa autonoma e alternativa, né a corroborare un impianto
intellettuale pragmaticamente addentro alla realtà e alle esigenze locali.
Un esempio: per le elezioni amministrative del 1951, nonostante la «coraggiosa segreteria di Corrado Corghi» fondata su «premesse ideali dossettiane»86, si sceglie di riproporre il messaggio degli «antichi steccati» utilizzato in
precedenza per la campagna del 18 aprile. L’Italia rischiava di divenire «la
caserma e il campo di concentramento della tirannia dell’Anticristo», secondo
«L’Avvenire»87, e si veda anche «Presenza. Bollettino per i dirigenti della Democrazia Cristiana di Reggio Emilia», numeri unici usciti il 6 giugno e il 14 luglio
1951. Qui si insiste severamente sull’idea del partito cattolico come sola diga
anticomunista e unica salvezza per la neonata democrazia. Mentre Corrado
Corghi afferma sul numero del luglio che la dc non avrebbe permesso «alcuna incrinatura nel regime democratico, e alcun ripiegamento» e «consapevole
della propria funzione nel mondo politico nazionale ed internazionale» essa
si sarebbe «sbarazzata di ogni cristallizzazione aprendosi sempre più verso il
mondo del lavoro», nel numero di giugno, all’opposto, Sergio Vecchia ricordava come «i nostri avversari st[essero] lottando con tutti i mezzi per contrastare il
passo alla democrazia» e come gli stessi «comunisti specula[ssero] sulla paura,
sull’ingenuità e sull’ignoranza dei cittadini»88. Insomma, le contraddizioni del
messaggio politico democristiano, messaggio d’indubbio successo per il resto
d’Italia, ma che nel contesto reggiano col suo sclerotizzatosi non ha permesso
l’affrontare costruttivamente le policies pragmatiche e riformiste che il comunismo reggiano contribuiva a fondare, né ha in ultima istanza consentito di
raccogliere un sufficiente consenso elettorale89.
Ad un approccio inizialmente pedagogico-educativo, di trasmissione di una
grammatica democratica, di cui è stato portavoce nella sua prima fase «Tempo Nostro», è seguito il massiccio ricorso all’uso dello stereotipo del nemico interno, dell’apocalisse metafisica, alla semantica della «crociata» utilizzati
dall’«Era Nuova»90. Il discorso pubblico del giornalismo cattolico, consapevole
di essere minoranza politica e culturale, si percepisce dunque via via sempre
Cfr. Carrattieri, Anticomunismi cattolici, cit., p. 133.
Per un altro 18 aprile, in «L’Avvenire d’Italia», 20 maggio 1951.
88
I due numeri usciti nel 1951 sono stati ripubblicati in Spreafico, I cattolici reggiani, cit., pp. 169-170.
Si vedano inoltre B. Socche, «Tutti hanno l’obbligo grave del voto» perché tutti devono cooperare al
bene comune. Lettera del vescovo al clero e ai fedeli, in «L’Avvenire d’Italia», 21 aprile 1951
89
Per il nodo locale-nazionale nelle elezioni amministrative degli anni Cinquanta cfr. R. Forlenza, Le
elezioni amministrative della prima Repubblica. Politica e propaganda locale nell’Italia del secondo
dopoguerra (1946-1956), Donzelli, Roma 2008, p. 71 e ss.
90
Per un quadro concettuale, cfr. A. Ventrone, Il nemico interno. Immagini e simboli della lotta politica
nell’Italia del ’900, Donzelli, Roma 2005, p. 20 e ss.
86
87
27
più accerchiato e la tematica della «cittadella assediata» va a contagiare anche
gli intellettuali della sinistra. E «Tempo Nostro», nato come voce propulsiva
per un’alternativa programmatica, si trova costretto al contropiede, all’azione
esclusivamente difensiva rimanendo esso stesso «vittima» di quell’ideologismo
anticomunista che si era proposto di controbattere sui contenuti. Il periodo
cronologico proposto, non va dimenticato, coincide in buona misura con la
fase di transizione guerra-pace-ricostruzione, da un lato, e di sedimentazione
delle prassi politico-culturali dei due blocchi dall’altro, le quali a loro volta
complicano il contesto. Ciò detto, tuttavia, il giornalismo cattolico reggiano
qui esaminato, pur presentando esempi dialoganti e benché parte di quell’anticomunismo che ha contribuito di fatto alla maturazione della democrazia italiana, appare dominato da un forte intransigentismo e per questo non sembra
riuscire, quantomeno nel breve periodo qui preso in considerazione, a tramutarsi in una proposta politica e culturale alternativa, a portare a maturazione
una cultura municipale propositiva ma anzi è andato via via sclerotizzandosi e
costruendo schemi difensivi di forte chiusura.
Lo sviluppo storico è fatto di momenti di stasi e di fasi di accelerazione e
dunque la ricostruzione qui tentata può apparire sbilanciata e disomogenea.
Piuttosto che andare a sviscerare nel dettaglio ogni aspetto del dibattito svoltosi nelle pagine della stampa cattolica, come battuta conclusiva, è forse più interessante interrogarsi su ciò che su quelle stesse pagine non è stato affrontato,
su ciò che non è stato ritenuto determinante. Ci si riferisce all’assenza di un
percorso di riflessione sulle questioni che in modo generico potremmo chiamare delle «autonomie locali». Sebbene in questa fase della vita della dc abbia
partecipato, anche se sporadicamente, un intellettuale come Osvaldo Piacentini esse non sono state considerate importanti. Un’assenza che, in un contesto
storicamente diverso e non comparabile, sarà notato dalla dc bolognese e alla
cui soluzione, fra i tanti, verrà chiamato da Giuseppe Dossetti proprio lo stesso
Osvaldo Piacentini91.
L’esperimento del cosiddetto Libro bianco costituì il prodotto di uno staff di giovani intellettuali
chiamati da Giuseppe Dossetti ad elaborare un programma per la campagna elettorale per il comune di
Bologna del 1956 e la cui funzione di coordinamento e di guida fu assunta dal sociologo Achille Ardigò. Il nucleo centrale delle intuizioni qui elaborate ruotava attorno alla programmaticità da attribuire
alla vita amministrativa grazie ad un ripensamento dell’assetto urbano. Un programma di lavoro e di
mobilitazione fra i primi a introdurre nella prassi amministrativa italiana la diagnostica presentando la
proposta di un’indagine sociale per comprendere le reali esigenze della cittadinanza. Ma, soprattutto, il
Libro bianco fu un futuro modello per la politica di piano grazie alla lungimirante intuizione di Osvaldo
Piacentini di suddividere l’area urbana in quartieri. In esso la sezione II, redatta da Piacentini, immaginava una politica di espansione delle periferie pianificata e razionale grazie all’istituzione di «quartieri
organici, cioè tali per composizione sociale pluriclasse e per servizi e beni di interesse pubblico». Si
veda A. Ardigò, Giuseppe Dossetti e il Libro bianco su Bologna, Bologna, edb, 2002. Per una ricostruzione della vicenda e un commento critico all’esperienza si vedano M. Tesini, Oltre la città rossa.
L’alternativa mancata di Dossetti a Bologna (1956-1958), Il Mulino, Bologna 1986.
91
28
«Con concueste poche riche».
Due famiglie reggiane migranti tra
Castelnovo Sotto e l’Argentina
prima parte*
Serena Cantoni**
Dal Po al Rio de La Plata
Introduzione
1 La scoperta
«Cogruzzo era una frazione di contadini mezzadri e braccianti, emigrati in
Argentina»1.
Quante volte abitando e frequentando sempre lo stesso luogo si vive l’illusione di conoscerlo a fondo, per scoprire improvvisamente che si celano
* La seconda parte verrà pubblicata sul 109/2010.
** Ringraziamenti: Realizzare questo lavoro è stata un’esperienza emozionante che mi ha proiettato in un turbinio di storie di vita, lo dedico a Eugenio e Vittoria Gabrielli per l’affetto dimostrato, a Vittorio Bartoli per la simpatia e la generosità e a tutti coloro che hanno vissuto o vivranno
l’emigrazione. Ringrazio Angelo Ruspaggiari i cui racconti mi hanno aperto la strada giusta,
Dante Bigliardi della filef di Reggio Emilia per avermi fornito materiali, il relatore Prof. Fulvio
Pezzarossa che mi ha seguito con disponibilità ed interesse, la mia famiglia e tanti altri che mi
hanno supportato ed aiutato nella scoperta di un capitolo di storia reggiana ancora inesplorato.
Concludo con un riadattamento delle parole di Analìa Barrera: «Penso «emiliana»… e mi ricordo dell’emigrazione» (A. Barrera, La cocina de la nonna, recetas de la Emilia-Romagna, Artes
graficas Buschi, Buenos Aires 2006, p. 52).
1
Da una delle interviste agli abitanti di Villa Cogruzzo e Castelnovo Sotto nella prima fase del
lavoro di ricerca.
29
nella sua storia fatti di cui non si era mai sentito parlare. Proprio il racconto di
un’anziana cogruzzese ha aperto questa indagine che collega il Po con il Rio
de la Plata.
Sugli indizi di una narrazione basata tra Castelnovo Sotto e Villa Cogruzzo,
ho iniziato, nel marzo 2008, una serie di interviste «porta a porta» ai pochi ex
emigrati ancora viventi e alle loro famiglie riscontrando a volte ritrosia dovuta
al ricordo di vicende sofferte e umilianti, altre volte disponibilità ed entusiasmo nel mettere a disposizione se stessi e le proprie storie di vita.
In tutti i casi l’emotività ha giocato un ruolo preponderante perché questa
vicenda migratoria, per tanto tempo inesplorata, si è rivelata fondante sia nella
comunità castelnovese che nella storia reggiana.
Data la modernità degli studi sull’argomento, esistono poche pubblicazioni
di cui alcune ancora in corso d’elaborazione, per questo le interviste orali sono
state il primo strumento utile per inquadrare il contesto storico-sociale della
vicenda.
Il fenomeno migratorio castelnovese si è rivelato una «storia della gente»
che parte da una serie di narrazioni per snodarsi sia tra gli archivi della memoria orale che tra quelli della scrittura privata. A tal proposito, l’indagine
«dal basso»2 è stato il metodo di ricerca più consono per questo lavoro. Con il
termine «dal basso» si intende quella linea di studio storiografica sviluppatasi a
partire dagli anni Settanta del Novecento, che basava le proprie indagini sulle
fonti scritte e orali prodotte dalle classi popolari. Questi documenti si sono
rivelati materiali ricchi di molteplici aspetti quali lingua, letteratura, storia, antropologia, geografia, tutti elementi correlati che hanno richiesto un approccio
analitico e disciplinare per delineare con completezza un fenomeno storicosociale.
Nonostante queste peculiarità la storia dell’emigrazione locale non è stata,
ad oggi, molto valorizzata, resta sopita nei ricordi di famiglia e solo raramente
diviene oggetto di timide cerimonie istituzionali.
Dopo aver raccolto e contestualizzato storicamente le testimonianze, il secondo passo, più difficile, è stato dover scremare le numerose narrazioni per
concentrarmi prevalentemente su coloro che possedevano anche una documentazione scritta della propria vicenda migratoria così, seguendo le indicazioni che mi venivano fornite nelle interviste e compiendo altre indagini presso il Comune di Castelnovo Sotto e l’archivio della filef (Federazione italiana
lavoratori emigranti e famiglie) con sede a Reggio Emilia, sono giunta alle
famiglie Bartoli e Gabrielli.
Entrambe mi hanno fornito documentazioni complete su cui poter basare il
lavoro di tesi concentratosi poi sui carteggi.
2
Vedi per entrambe le definizioni E. Franzina, Merica! Merica!, emigrazione e colonizzazione
nelle lettere dei contadini veneti in America Latina 1876-1902, Feltrinelli, Milano 1979, p. 15.
30
Passaporto custodito dalla famiglia Bartoli
Con l’analisi degli epistolari delle suddette famiglie, rispettivamente di Villa
Cogruzzo e Castelnovo Sotto, ci si propone da una parte, di mostrare il valore
della lettera sia come mezzo di espressione tipico della scrittura popolare che
come fonte storica, dall’altra, di approfondire alcuni aspetti che hanno connotato l’emigrazione dell’area castelnovese in Argentina.
Interessante è notare come questi temi, che hanno plasmato l’identità sociale reggiana, si ritrovino nella storia dell’emigrazione nazionale ed internazionale.
1.2 Emigrazione italiana in Argentina
Per contestualizzare i nostri carteggi è necessario tracciare anche sommariamente una panoramica storica dell’emigrazione, prima italiana e poi reggiana,
in Argentina.
Nella storia, le migrazioni, di natura attiva o passiva che fossero, hanno
sempre rivoluzionato situazioni di staticità.
Ma solo nel XIX secolo si verificò un’imponente ondata di flussi migratori,
31
in seguito alla costruzione del «mito americano» voluto dal capitalismo.
Gli interessi di pochi crearono una propaganda che facendo leva su malcontento, disagio e povertà, influenzò le classi popolari dando il via ad una
catena di traversate oceaniche diffusasi capillarmente fino a paesi minori.
Protagonista principale di questo fenomeno fu la popolazione rurale a causa di un’economia troppo dipendente da fattori ambientali e climatici che non
sempre garantivano una ricca produttività sia nel nord che nel sud Italia.
Generalmente i contadini sviluppavano abilità artigiane e «lo spostarsi e il
girovagare era dunque un dato ineliminabile …»3 che accompagnò un processo di disarticolazione del vecchio assetto sociale.
I braccianti emigravano in cerca di migliori condizioni di vita e si dirigevano ove la propaganda, favorita dai governi nascenti di nuove nazioni, aveva
costruito il mito del benessere.
Così la Merica diventò un fenomeno di massa.
In questo panorama l’Argentina risultava al quarto posto tra le mete di
emigrazione dopo usa, Francia e Svizzera. I dati incrociati tra aire comunale
(Anagrafe degli italiani residenti all’estero) e mae (ministero Affari esteri) riportano ancora oggi che su due milioni di italiani all’estero, seicentomila sono in
Argentina.
Gli italiani che emigravano colonizzarono il territorio andando ad antropizzare gli spazi deserti e divennero il gruppo etnico più influente e ricco del Rio
de la Plata4.
Gli insediamenti radunavano comunità della stessa provenienza regionale:
La storia dell’emigrazione italiana in Argentina … si caratterizza per il suo aspetto
di regionalità. Il senso di appartenenza dell’emigrato italiano che giungeva nei
territori latinoamericani spesso non andava al di là del paese natio con il quale si
identificava … Non c’è un’Italia che emigra ma un paese Italia con i suoi particolarismi, la sua molteplicità linguistica e culturale5.
Secondo Franzina si delineava, con il regionalismo migratorio, il fenomeno
della «chiamata», che era l’input per lo sviluppo economico capitalista. Mentre
l’emigrazione fece di se stessa un mezzo di attrazione in Argentina con la speranza di una vita migliore, il governo intensificò l’espulsione dei suoi cittadini
poiché le rimesse contribuivano a riempire le casse dello Stato.
Il processo migratorio si articolò in più fasi. Nei primi decenni del XX
secolo, dopo essersi economicamente consolidati in Argentina, molti italiani
rimpatriarono per ritornare poi nella Pampa in veste di antifascisti.
M. Sanfilippo, Tipologie dell’emigrazione di massa, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina
(a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, Donzelli editore, Roma, 2001, pp. 77-94: 96.
4
F. Devoto, Storia degli italiani in Argentina, Donzelli Editore, Roma 2007, p. 18.
5
C. Cattarulla, Di proprio pugno, Autobiografie di emigranti italiani in Argentina e in Brasile,
Diabasis, Reggio Emilia 2003, pp. 87-88.
3
32
In seguito a tali eventi, l’attaccamento alla cultura di origine si intensificò
tanto che il mondo politico argentino, temendo per l’integrità della nazione,
iniziò un lavoro di assimilazione culturale dei figli degli emigrati. Dal 1947 vi
fu un altro preponderante flusso del nord Italia che l’Argentina accolse con il
varo di un accordo tra il governo italiano ed Eva Perón.
1.3 Reggiani oltreoceano
Ben poche sono le documentazioni sul movimento migratorio reggiano diretto in Argentina. Si trovano brevi biografie di famiglie di Poviglio e San Sisto,
storie d’emigrazione rurale nei vigneti di Mendoza6 ma resta ancora una fase
aperta per la ricerca storica.
Lo stesso Fernando J. Devoto in Storia degli italiani in Argentina7 riferendosi all’emigrazione dalla Pianura Padana cita solo il Piemonte e l’alta Lombardia anche se numerose dinamiche potrebbero essere ricondotte all’Emilia
Romagna.
Fra i dati riferiti alla provincia di Reggio Emilia, pervenuti da ricerche ancora incomplete a causa di emigrazioni coatte senza passaporto o con identità
falsificate per le persecuzioni politiche, risulta che il primo periodo migratorio
si articola tra il 1876 e il 1880, momento in cui partirono due migliaia di emigranti di cui 392 si diressero in Argentina. Nei cinque anni successivi, innescatosi il processo «di chiamata»8, il flusso si intensificò con il 62,7 percento degli
emigranti reggiani nel Paese. Come per il contesto nazionale, l’abbandono del
territorio reggiano, fu incentivato dalle condizioni di estrema povertà nelle
campagne.
Questa situazione di malessere fu anche la conseguenza dell’imposizione
della tassa sul macinato (1868) contestata dalle preponderanti insurrezioni tra
Gattatico, Castelnovo Sotto e Villa Cogruzzo. La qualità delle risorse alimentari
era limitata e la situazione igienica resa penosa da frequenti epidemie.
L’insieme di difficili condizioni di vita, malessere e restrizioni portò a costruire una forte coscienza sociale soprattutto tra i lavoratori, uomini e donne
che, sostenuta l’affermazione del partito socialista, si videro costretti ad emigrare come rifugiati politici.
Perciò la risposta migratoria al malessere della pianura reggiana non fu una
scelta facile per sfuggire ad una situazione sfavorevole, ma si trattò di una
scelta di coraggio e d’impegno per migliorare l’economia prima familiare poi,
6
A. Montero, M.P. Cepparo, Sangue emiliano romagnolo nelle vigne Mendozine, storie di vita,
Tipografia Modena, Bologna 1997.
7
Devoto, Storia degli italiani in Argentina, cit.
8
Vedi Franzina, Merica! Merica!, cit., pp. 15-22.
33
con il ritorno in patria, comunitaria.
I dati fino al 1915 delineano un movimento ciclico, infatti in quegli anni
tanti emigranti rientrarono portando con sé una mentalità rinnovata di esperienze all’estero e la partecipazione politica crebbe in vigore, poco dopo, in
seguito all’avvento del fascismo, numerose famiglie socialiste, di Castelnovo e
Villa Cogruzzo, dovettero ripartire.
Nel Ventennio il saldo migratorio si riattivò e in questo caso la scelta argentina toccò il 95 percento.
Questa volta gli emigranti, pur mantenendo i contatti con il paese natio,
scelsero di non tornare perché oltreoceano si viveva un momento di rinascita
economica.
La seconda emigrazione saliente fu tra il 1947 e il 1952.
Da altri dati recentemente raccolti9 risulta che in questo ultimo periodo i
reggiani, a differenza di altri emiliani come i modenesi, che si diressero in Brasile, e i parmigiani che scelsero gli Stati Uniti, rimarcarono la loro preferenza
per l’Argentina.
Si stabilirono nella Pampa Úmeda, la zona più ricca di terre da coltivare che
ricordava la Pianura Padana, costruendo una vera e propria relazione identitaria tra la «Bassa Ovest» e l’area rivierasca del Po in una serie di località che
include, tra i centri con il maggior numero di famiglie reggiane: Pergamino,
Bahía Blanca, Viedma, Mendoza, Santa Fé, Chaco e Buenos Aires.
Pergamino divenne filiera migratoria endogena di castelnovesi e cogruzzesi, mentre alcuni emigranti del primo periodo, tra cui dei Bartoli, scelsero
di risiedere nel quartiere cittadino del Barrio Centenario, quelli del secondo
periodo, tra cui i Gabrielli, si stabilirono ai margini del centro.
Altri ancora si spostarono alla ricerca di terre vergini verso il Nord, nel Chaco, reso provincia da Eva Perón.
Come sottolineato ad una conferenza della filef di Reggio Emilia10, nonostante molti avessero sperato di emigrare solo stagionalmente (rondinelle)11,
il processo non si rivelò tale. In generale l’emigrazione reggiana in Argentina
fu stanziale.
Da una parte la distanza, dall’altra gli eventi politici di entrambi i paesi,
prima il Fascismo in Italia poi la dittatura del ’76 in Argentina, resero il rientro
quasi impossibile e a ciò si unì la recessione economica che non permise agli
emigranti di sostenere le spese di viaggio per alcuni anni.
I dati ci sono stati gentilmente trasmessi dal Comune di Castelnovo Sotto con il fascicolo, A.
Canovi, N. Sigman (a cura di), Progetto per una ricerca-azione dedicata al fenomeno dell’emigrazione in Argentina nell’area della «Bassa Ovest», 2007.
10
Conferenza filef di Reggio Emilia tenutasi l’8/06/08 per la consegna della bandiera regionale
all’associazione degli emiliano romagnoli del Chaco.
11
Termine usato per indicare gli emigranti stagionali paragonati alle rondini che partono d’inverno per ritornare in primavera.
9
34
I primi Bartoli Oltreoceano. Ritratto scattato in Argentina conservato in casa Bartoli
Così il rapporto con l’Italia si invertì, il «sogno americano» fu sostituito dal
«sogno italiano». «In particolare dopo l’iperinflazione del 1989 e la crisi economica del 2001, migliaia di persone avviarono le pratiche per l’ottenimento
del passaporto italiano, cui avevano diritto come discendenti. Le lunghe file
davanti ai consolati e viceconsolati italiani diventarono scene famigliari per gli
argentini e furono l’emblema di quelle stagioni …»12.
2. Storie di vita migrante: Bartoli e Gabrielli
Le famiglie Bartoli e Gabrielli sono state tra i protagonisti di questo movimento reggiano, le interviste effettuate e i documenti analizzati rivelano due
storie anticamente radicate sullo stesso territorio ma con diverse dinamiche
migratorie.
La famiglia Bartoli si trova in Villa Cogruzzo dal XVIII secolo13 ed è di lunga
tradizione contadina. La ricostruzione della sua storia è stata realizzata con un
paio di interviste al signor Vittorio Bartoli, nipote di terza generazione, supporDevoto, Storia degli italiani in Argentina, cit., p. 473.
Dati ottenuti da Vittorio Bartoli in seguito a un’indagine personale condotta nei registri anagrafici dell’archivio parrocchiale di Villa Cogruzzo. Indizi recenti farebbero risalire la presenza
della famiglia sul territorio al XVI secolo ma si tratta di informazioni ancora da accertare.
12
13
35
tate da un carteggio, alcuni documenti riconducibili ai registri anagrafici della
parrocchia di Villa Cogruzzo e altri al Museo degli immigrati italiani in Argentina con sede a Pergamino. Tra questi vi sono: fotografie di famiglia risalenti
agli inizi del Novecento, l’albero genealogico, un passaporto senza fotografia
con lo scudo del regno d’Italia e un certificato di sbarco di Francesco Bartoli
ottenuto a Buenos Aires nel 1924.
Il signor Bartoli, per il forte desiderio di preservare la memoria di famiglia,
oltre ad aver conservato documenti e compiuto ricerche storiche, ha allestito
un museo domestico che ne ripercorre tutte le tappe dalle origini a lui note.
La vicenda migratoria risale ai primi anni del XX secolo. I fratelli Bartoli:
Raimondo, Cirillo, Francesco, Umberto e Vittorio (nonno dell’intervistato), rimasti orfani e in serie difficoltà economiche, decisero di emigrare in Argentina in cerca di lavoro con l’obiettivo di tornare a Villa Cogruzzo appena le
condizioni di vita fossero migliorate. Si trattava di una migrazione, come tante
all’epoca, di carattere contadino, infatti i Bartoli erano braccianti agricoli.
La meta del loro primo viaggio oltreoceano fu Buenos Aires perché era il
luogo più propagandato nella bassa reggiana per la fertilità del terreno.
Così i fratelli salparono da Genova e una volta a Buenos Aires si rivolsero
ad un centro di accoglienza tramite cui furono mandati a Pergamino. La città,
allora ancora villaggio, si trovava nella regione della Pampa Úmeda: una grande pianura al limite della ferrovia, dove vi era vasta disponibilità di terreno
coltivabile. Il governo argentino concesse ai Bartoli molti ettari con un contratto di proprietà che durava per tutto il tempo della permanenza, lì i fratelli
edificarono una vera e propria estancia14.
Avendo migliorato così la condizione di vita si fecero raggiungere dalle
mogli, sposate per procura. Le donne di Cogruzzo non emigrarono da sole e,
per quanto concerne la famiglia Bartoli, si trattava di sorelle o vicine di casa,
conoscenti che si univano ad altre conoscenti per supportarsi in terra straniera. Dato che gli spostamenti avvennero in tempi differenti, i primogeniti dei
Bartoli nacquero e vissero tra Italia ed Argentina.
Infatti, i Bartoli abitarono in Pergamino per circa vent’anni e dopo aver
consolidato le proprie situazioni economiche, rientrarono tutti in Italia e comprarono dei poderi a Villa Cogruzzo.
Qui poterono rimanere solo alcuni anni infatti, a causa dell’orientamento
socialista della famiglia, furono costretti ad emigrare di nuovo per le violente
persecuzioni fasciste. I fratelli vendettero i poderi e ripartirono definitivamente
per Pergamino.
Solo Vittorio Bartoli, che non si era mostrato politicamente schierato, poté
Fattoria di dimensioni medie o grandi con ettari coltivabili e allevamenti di bestiame, molto
comune sul territorio argentino.
14
36
rimanere a Cogruzzo con la moglie Ardua Spaggiari e i figli Guido, Giovanni,
Dina e Diva, per questo un ceppo della famiglia risiede ancora nella campagna
castelnovese.
Stabilitisi, per la seconda volta, tra Pergamino e la provincia di Entre Ríos, i
Bartoli qualificarono le proprie posizioni sociali avviando delle attività imprenditoriali. Raimondo si dedicò all’edilizia e costruì moltissimi edifici pubblici
e privati e il figlio Eledo, continuando l’attività del padre, ne fece anche una
«missione», rendendo casa sua un centro di accoglienza per tutti gli emigrati
italiani.
Cirillo aveva fondato un’industria meccanica che produceva i mezzi per la
lavorazione del legno, del cemento e dell’olio di soia.
Le notizie del benessere economico e sociale dei Bartoli si diffusero nel vicinato e ben presto altre famiglie politicamente perseguitate: i Melli, i Mattioli,
i Sedani e i Minari, tra quelle citate nell’intervista rilasciata dal signor Vittorio,
li raggiunsero.
Oggi circa ottantatre Bartoli abitano tra il Barrio Centenario e le zone di
Entre Ríos e María Grande, sono tra le famiglie più conosciute grazie alla fama
dei loro antenati.
Il flusso migratorio castelnovese fu continuato per un lungo periodo storico
come dimostra la ricca documentazione conservata in casa di Eugenio Gabrielli. I materiali messi a disposizione per la ricerca consistono in un copioso
carteggio, fotografie, articoli di giornali argentini, alberi genealogici ricostruiti
grazie ai registri anagrafici parrocchiali e numerosissimi oggetti che ricordano
tutt’ora le tappe fondamentali della storia di famiglia. Ancora una volta l’intervista che mi è stata concessa è largamente supportata da basi documentarie.
Dai documenti stessi si deduce che il viaggio «forzato» diviene una componente ricorrente per la famiglia, infatti i Gabrielli si stabilirono in Castelnovo
Sotto dal XVII secolo, periodo in cui Alessandro Gabrielli vi fu inviato dal bolognese come lettore di grida su ordine del duca Francesco d’Este15. Da quel
momento la famiglia radicò nel paese e si dedicò ad attività artigianali. Nei
primi anni del Novecento Elinando Gabrielli aprì una bottega per la lavorazione del cuoio e la produzione di finimenti e paramenti per carrozze, che fu poi
riconvertita in tappezzeria. Elinando e la moglie Lucia Vera Montanari ebbero
quattro figli: Enzo, Eber, Gabriella ed Eugenio.
Nel 1940, contro la volontà di Elinando che era socialista e intimo amico di
Alcide Cervi, i figli Enzo ed Eber si arruolarono nell’esercito per motivi economici e partirono. Da quel momento iniziò un’assidua relazione epistolare con il
padre che ne seguì tutti gli spostamenti dalla Grecia all’Albania alla Jugoslavia,
dalla Russia all’Africa.
V. Bartoli, R. De Simoni, Il carnevale di Castelnovo di Sotto, venticinque pittoreschi anni aperti
sul futuro, Diabasis, Reggio Emilia 2003, p. 23.
15
37
I Gabrielli con Alcide Cervi
Elinando Gabrielli con Alcide Cervi, foto scattata da Eugenio Gabrielli
Mentre Eber riuscì a rientrare dalla campagna di Russia,
Enzo fu imprigionato un paio
di volte in Grecia e deportato
nel campo tedesco di Brema.
Liberato nel 1945, dopo aver
lavorato alcuni anni nella tappezzeria del padre, Enzo decise di partire per l’Argentina
sperando di costruirsi una posizione economica autonoma.
La decisione fu incoraggiata da Gabriella che era partita
alcuni anni prima con il marito, sfruttando le agevolazioni
di viaggio in seguito all’accordo del 194716.
Il 10 novembre 195017 Enzo
Gabrielli, sposato in Castelnovo Sotto con Lidia Mori, si imbarcò a Genova diretto a Buenos Aires e poi a Pergamino.
Enzo conservò sempre
l’intenzione di tornare in Italia pur essendovi, tra le cause della sua emigrazione, una
forte sofferenza psichica, dovuta alle esperienze di guerra,
Matrimonio di Lidia Mori ed Enzo Gabrielli, 14 ottobre
che riuscì a superare solo una
1950, celebrato poco prima della loro partenza per
volta lontano da casa. Il viagPergamino, Argentina
gio migratorio, con il distacco
dal territorio d’origine, era stato una vera e propria necessità di vita: «chi ha
sofferto sa tacere … la mia vita e cominciata a 33 anni qui in Argentina …
dopo con l’aiuto della mia signora abiamo messo a parte qul [sic] pasato … il
dopo guerra e stato per me un poco triste, lasciai 25 anni di lavoro in Italia, e
qui cominciai con le mani in mano …»18.
Come molti altri castelnovesi scelse Pergamino ove, oltre alla sorella, cono-
Sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista.
Cartolina scritta da Enzo Gabrielli e Lidia Mori, 10 novembre 1950, carteggio Gabrielli.
18
Lettera scritta da Enzo Gabrielli, 27 febbraio 1997, carteggio Gabrielli, «qul» in originale nel
testo.
16
17
39
sceva bene i Bartoli da cui ebbe la prima assistenza.
Mentre Gabriella rientrò definitivamente in Castelnovo con la caduta del
peronismo, Enzo tornò al paese negli anni Sessanta, con il desiderio di aprire
un’attività ma non riuscendovi fu costretto a ripartire definitivamente per l’Argentina ove morì nel 2004.
Nonostante questo, insieme alla moglie Lidia, sono stati considerati tra le
personalità più influenti della comunità di Pergamino, per il successo delle attività lavorative e l’impegno politico-sociale nei centri di mutuo soccorso italiani
in cui Enzo fu a lungo vicepresidente. Testimonianza di questi riconoscimenti
sono le interviste edite sui quotidiani argentini che Eugenio Gabrielli ha conservato ed espone tutt’ora in casa.
Enzo avviò in Pergamino una tappezzeria, tra le prime sul territorio, che fu
rinomata per la precisione e la qualità del lavoro mentre Lidia aprì un negozio
di parrucchiera, entrambi, come artigiani riproposero le proprie abilità lavorative nel nuovo paese.
La stessa Società Italiana commemorò i coniugi come esempio di successo
migratorio: «La tapicería de autos fue la actividad que Gabrielli desarroló durante muchos años, en tanto su esposa se dedicó a la peluquería ... Para don
Gabrielli su trabajo fue orgullo y también un ejemplo: ... dos de sus aprendices
en la tapicería tienen hoy importantes talleres y son muy buenos trabajadores,
… trabajé mucho pero también vine para enseñar y sembrar cultura ...»19.
Le loro figlie, Graziella e Maria Laura, ebbero la possibilità di studiare e
frequentare l’Università ed ottennero, come molti altri figli di emigrati, incarichi rilevanti in ambito culturale riscattando i genitori: «Estoy muy orgulloso de
las dos hijas que tengo, la mayor es maestra jardinera y la menor profesora
de matemática y fisica y también analista de sistema y profesora universitaria.
Ellas también enseñan y estoy muy contento por eso»20.
Oggi i discendenti di Enzo e Lidia continuano a vivere in Argentina mantenendo i contatti con la famiglia a Castelnovo Sotto.
3. Lettere d’emigrazione: uno studio recente
Come si vede al centro dei materiali raccolti dalle famiglie Bartoli e Gabrielli ci sono le lettere.
L’epistolografia d’emigrazione è un campo studiato in Italia da tempi recenti.
Enzo Gabrielli, Lidia Mori, intervista sul giornale della Sociedad Italiana de socorros mutuos,
archivio Gabrielli.
20
Ibidem.
19
40
Lettere, biglietti e cartoline sono tutte tipologie epistolari che appartengono
alla scrittura privata da epoca antica. La categoria «scrittura privata»21 assume
una valenza concettuale piuttosto soggettiva che si estrania dalle attività di
alta levatura intellettuale, esaltate dalla Storia, ma coinvolge un vasto numero
d’autori di livello culturale medio che hanno voluto raccontare le proprie vite.
Questo aspetto ha portato per molto tempo ad ignorare il «semicolto», ossia
colui che ha una base culturale ma non possiede una formazione accademica,
nella ricostruzione di fenomeni storici fino a quando la sovversione degli schemi mentali ha riacceso, negli anni Settanta, l’interesse per la scrittura popolare
e le sue fonti alternative. Coloro che erano stati considerati i dominati, il popolo senza identità, si rivelano negli scritti e nelle testimonianze orali, soggetti
con coscienza di se stessi e del proprio contesto di vita, dunque, autori della
propria storia. Considerato che le tante storie soggettive costituiscono le storie
nazionali, questi subalterni sono stati riconosciuti veri protagonisti e i loro testi
si sono rivelati esaustive fonti documentarie.
Una volta definito questo ruolo, la domanda che si pone è come sia avvenuto nella cultura popolare nazionale ed internazionale, a partire dal XIX
secolo, il passaggio massificato dall’oralità alla produzione scritta. La storia
della lingua italiana ha rivelato che le classi popolari, pur avendone le capacità, raramente hanno prodotto testi scritti perché le necessità economiche
imponevano una priorità al lavoro per la sopravvivenza.
Tra XIX e XX secolo questo passaggio è avvenuto in seguito a due eventi:
l’emigrazione transoceanica e la Grande Guerra. Le cause furono da una parte
la necessità di espletare le pratiche burocratiche sempre più numerose con la
strutturazione dello Stato e dall’altra, la volontà di stabilire un contatto per non
perdere i legami affettivi in seguito alla rottura dei nuclei familiari.
L’importanza delle lettere era legata all’uso della scrittura per non dimenticare e la parola cartacea divenne un vero e proprio prolungamento del sé
contribuendo a creare, sul piano comune, una memoria collettiva.
Esattamente come scrive Antonio Gibelli: «La storia dal basso, ovvero la storia della gente comune, non può ambire a uno statuto separato e speciale, non
può e non deve contentarsi di coltivare i suoi orticelli … né … può accettare
di esservi confinata come in un ghetto: può ambire a qualcosa di più, a dialogare con la storiografia in generale e a modificarne l’orizzonte…»22.
Inoltre l’oralità sottesa a questi documenti, manifesta una vitalità espressiva
ed emotiva che coinvolge chi vi si avvicina per una lettura o uno studio: «Per
E.A. Perona, L’epistolario come forma di autobiografia: un percorso nel carteggio di Piero Gobetti, in M. L. Betri, D. Maldini Chiarito (a cura di), «Dolce dono graditissimo», la lettera privata
dal Settecento al Novecento, Franco Angeli Storia, Milano, 2000, pp. 18-37: 18-20.
22
A. Gibelli, C’era una volta la storia dal basso…, in Q. Antonelli, A. Iuso (a cura di), Vite di
carta, l’ancora del mediterraneo, Napoli, 2000, pp. 159-175: 174-175.
21
41
noi è un incontro leggere il diario di una famiglia contadina … è un evento,
non è soltanto una fonte storiografica o un oggetto di ricostruzione di sistemi
di pensiero sociali … è una possibilità della scrittura di rimettere in comunicazione esseri umani e di dare senso alla nostra vita collettiva»23.
L’archiviazione di questo materiale si è rivelata difficile per la precarietà che
lo connota, molte volte gli epistolari si sono dispersi all’interno delle famiglie
in seguito a vari fattori esterni, tra i più frequenti: la diminuzione dei contatti tra parenti, l’ingresso delle moderne tecnologie comunicative che hanno
soppiantato l’uso di carta e penna, altre volte la distruzione intenzionale per
allontanare un dolore recondito. A livello istituzionale una tra le più conosciute raccolte di lettere e altri scritti di cultura popolare riferiti all’emigrazione,
si trova nell’Archivio ligure della scrittura popolare (alsp) che conserva una
trentina di unità archivistiche, quasi tutti epistolari, che coprono un arco cronologico dal XIX secolo agli anni più recenti. Sul piano europeo uno tra i più
famosi è il centro di raccolta babs (Bochumer Auswandererbrief-Sammlung)
di Bochum, vicino a Dortmund fondato nel 1980, ove sono conservate circa
cinquemila lettere di emigrati tedeschi nelle Americhe nell’arco di un secolo.
Altri archivi europei citati nei saggi sull’argomento si snodano tra Inghilterra,
Francia e Finlandia.
Alla luce di questa larga attenzione per i materiali di cultura popolare, la
lettura degli epistolari delle due famiglie ha rivelato subito un materiale estremamente ricco di contenuti in cui abbiamo riconosciuto moltissime tematiche
classiche della letteratura d’emigrazione.
Molto frequenti sono le «lettere di saluto»24 in cui ci si informa sulle condizioni di salute dei famigliari oltreoceano o nel paese natio, la salute era l’arma
più importante per il successo economico dell’emigrante in quanto il corpo
era l’unica proprietà su cui si poteva investire. Fra le altre tematiche incontrate
vi sono i raggiri subiti dagli emigranti da parte delle compagnie navali, le lettere politiche ed economiche in cui si cerca di tracciare un parallelismo tra le
situazioni italiana ed argentina. Un elemento interessante comune ad entrambi
è il bilinguismo che si ritrova mescolato all’italiano popolare nelle lettere dei
padri, in seguito ad una lunga permanenza estera, ma soprattutto in quelle dei
nipoti che vogliono creare una doppia appartenenza italo argentina nel rispetto della memoria e delle origini.
Atri temi come la cucina, le attività del circolo della Società italiana si articolano e si intrecciano fra le righe soprattutto nel carteggio Gabrielli in cui più
mani partecipano alla stesura di una stessa lettera.
Data la rilevante quantità di informazioni si è scelto di prediligere alcune
23
24
42
Antonelli, Ricuperanti: l’archivio della scrittura popolare, in Vite, cit., pp. 71-99: 76-77.
Vedi Franzina, Merica! Merica!, cit., p. 51.
tra queste numerose tematiche articolando la struttura dei capitoli come segue:
nel primo capitolo si approfondisce il tema della scrittura popolare e dei suoi
testi analizzando, in particolare, la lettera, cui si aggiunge un parallelo con la
fotografia.
Il secondo capitolo, tra oralità e scrittura, si incentra sull’analisi linguistica
delle lettere partendo dagli elementi tipici dell’italiano popolare nelle missive
dei primi emigrati passando al bilinguismo, in quelle di figli e nipoti, legato
alla ricerca di una doppia identità italo-argentina.
Il terzo e il quarto capitolo affrontano le lettere in un’ottica di genere, lettere maschili e femminili con i relativi temi caratterizzanti. Si è pensato di dare
rilevanza a questi aspetti perché rispecchiano le funzioni sociali dell’uomo e
della donna mettendo in luce le evoluzioni o staticità di alcuni atteggiamenti
in seguito ai contesti in cambiamento.
Nelle lettere al maschile acquisiscono rilevanza temi come la politica, l’economia, le relazioni fra il paese natio e i paesani emigrati e il ruolo degli uomini
nelle Società italiane.
Nelle lettere al femminile i temi riscontrati sono la salute, la nostalgia, la
famiglia e il ruolo aggregante della cucina. A differenza degli uomini che, nel
tempo, mantengono gli interessi inalterati, le donne più giovani mostrano
attenzione anche per le condizioni politico-sociali delle realtà in cui vivono,
cosa che non si riscontra mai per le emigrate di prima generazione.
1
La scrittura popolare*
1 L’«altra storia»
L’interesse per la scrittura popolare in Italia risale a tempi storici recenti,
le modalità e le finalità degli studi che se ne sono occupati si sono evolute
insieme al loro contesto.
* Nota alla trascrizione dei testi. Abbiamo ritenuto importante, nella trascrizione degli epistolari,
delle interviste e nelle citazioni, riportare esattamente tutte le espressioni e le forme grafiche
(accenti, apostrofi, punteggiatura, maiuscole…) impiegate dagli scriventi sia in italiano che in
spagnolo. La decisione è stata presa in base alla volontà di preservare il carattere specifico degli
scritti e delle parole dei nostri protagonisti senza appiattirli sulla norma grammaticale, anche
laddove il senso poteva risultare oscuro. I chiarimenti per le trascrizioni e le citazioni sono
stati posti nelle note a piè di pagina come anche i dati di catalogazione delle lettere. Le lacune presenti nei testi sono state rese con i puntini di sospensione. Non si è ritenuto necessario
aggiungere le trascrizioni alle lettere proposte in quanto risultano graficamente leggibili e in
buono stato conservativo.
43
Già nel XIX secolo furono compiute le prime indagini, contemporaneamente al «boom» della scrittura di massa che fu usata, per la prima volta, come
fonte documentaria negli studi storici. Infatti nel 1892 il commissario per l’emigrazione Bodio, in occasione del congresso geografico italiano, raccolse circa
settecento lettere scritte da emigrati in Brasile per cercare di ricostruire un
bilancio delle condizioni di vita degli italiani all’estero25. Alcuni anni dopo, nel
1921, si fece strada in contesto italiano, l’opera di Leo Spitzer che si contraddistinse nel suo genere per aver introdotto alcuni parametri d’indagine ripresi
anche nel secolo successivo. Lavorando nell’ufficio censura dell’esercito durante la prima guerra mondiale, Spitzer non aveva solo catalogato i frammenti
di lettere e cartoline dei soldati italiani ma li aveva anche interpretati da un
punto di vista linguistico, questa sua intuizione gli valse il titolo di fondatore
degli studi sull’«italiano popolare».
Seguì a queste opere, una lunga pausa storiografica in cui l’attenzione si
spostò principalmente su modelli e temi demografici e macroeconomici. L’interesse per la dimensione microstorica e popolare si riaffermò sul finire degli
anni Sessanta e nei primi anni Settanta del Novecento. Il fermento culturale
di quegli anni aveva coinvolto, nell’interesse per la scrittura popolare, numerose discipline umanistiche, queste lavorarono prevalentemente su tre livelli.
Il primo riguardava la valorizzazione dell’individuo come possessore di una
coscienza soggettiva ma attenta al contesto sociale collettivo, aspetto che per
troppo tempo era stato volontariamente soffocato sia dai regimi nazionalisti
che dal sistema economico capitalista, in nome di un anonimato di massa.
Il secondo livello era antropologico e folkloristico incentrato sulla riscoperta della cultura popolare in tutte le sue peculiarità materiali ed espressive che
permisero di decodificare modalità comunicative rimaste, fino a quel momento, chiuse in comunità ristrette.
Il terzo ambito di studio era quello linguistico che dimostrò l’esistenza
dell’«italiano popolare»26, termine coniato da Tullio De Mauro nel 1970, come
lingua delle fonti scritte ed orali prodotte dai ceti subalterni, i «semicolti».
Per realizzare queste indagini la metodologia di ricerca fu completamente rinnovata, si basò esclusivamente sulle «fonti alternative» in un’ottica «dal
basso», ossia dal punto di vista delle classi popolari. La ricchezza tematica dei
materiali analizzati, tra cui testimonianze orali, testi ed oggetti, ne dimostrò il
valore come fonti documentarie provando il ruolo attivo della gente comune
nel «fare la storia»27.
Vedi Gibelli, Caffarena, Le lettere degli emigranti, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. I,
cit., pp. 563-574: 565-566.
26
P. D’Achille, L’italiano dei semicolti, in L. Serianni, P. Trifone (a cura di), Storia della lingua
italiana, vol. II, Einaudi, Torino, 1993, pp. 41-79: 47.
27
Ibidem.
25
44
Il paradosso di individualità e sentimento collettivo che permeava soprattutto le fonti scritte delle classi popolari enfatizzava il loro «apporto alla conoscenza»28 per la possibilità di entrare in contatto con un mondo intessuto di
esistenze che si incrociavano, comunicando una vita realmente vissuta e in cui
ciascuno poteva riconoscere parti di se stesso fuori dal confine della propria
comunità.
Era convinzione diffusa che: «si fa meglio la storia dei re se si fa meglio la
storia dei sudditi, di uno o più tra i sudditi capaci di parlare e scrivere di sé»29.
1.1 I «semicolti» e le storie di vita
In quest’ottica positiva e prendendo le distanze dagli studi storiografici elitari del passato, il termine «scrittura popolare» apre due strade nella riscoperta
di una storia italiana altra. Secondo il Lessico universale italiano30 il verbo scrivere significa: «Tracciare su una superficie segni convenzionali esprimenti idee
o suoni in modo che si possano poi leggere. Comunemente con riferimento
alla produzione di parole o di numeri, che oggi per lo più si esegue su fogli
di carta mediante una penna»31.
È su «segni convenzionali» che si ferma l’attenzione in quanto, secondo gli
studi, la lingua comune ha raggiunto una convenzionalità a partire dal XVI
secolo in seguito alla codificazione grammaticale posteriore alla stampa. L’aggettivo «popolare», a sua volta, applica a questa definizione, una connotazione
generica. Così «scrittura popolare» include da una parte, una periodizzazione dell’attività scrittoria abbastanza definita, dall’altra una vasta categoria di
soggetti-autori. La ricchezza individuale di ciascuno non permette di ridurli ad
un’unica classe sociale ma in ambito culturale, rende legittime alcune distinzioni per grado d’istruzione.
Questi autori «di mezzo» sono stati chiamati «semicolti»32, coloro che possedevano l’alfabetizzazione e ne facevano uso ma senza una preparazione
accademica. Con la riscoperta della loro esistenza fu abbattuta l’erronea polarità cultura-analfabetismo a favore dell’introduzione di vari livelli intermedi,
più o meno elevati, che non si intersecavano ma proponevano ciascuno una
cospicua quantità di testi. I «semicolti» erano fortemente connotati dal proprio
contesto storico-sociale e dalla comune difficoltà a trascrivere i suoni di una
lingua parlata.
Lejeune, Dove finisce la letteratura?, in Vite, cit., pp. 193-206: 193.
Gibelli, C’era una volta la storia dal basso…, cit., p. 175.
30
A. Petrucci, Scrivere e no, politiche della scrittura e analfabetismo nel mondo d’oggi, Editori
Riuniti, Roma, 1987, p. 11.
31
Ibidem.
32
D’Achille, L’italiano dei semicolti, cit., p. 42.
28
29
45
Finalmente si aprì la relazione tra il testo e l’oralità che fece della scrittura
popolare un mezzo vivo e in grado di comunicare storie, chi scriveva lo faceva ascoltandosi parlare, anche se silenziosamente, e rispondendo a necessità
personali.
Così, la diffusione di un codice espressivo più semplice iniziò progressivamente ad avvicinare le masse popolari alla cultura ma anche ad incentivare
una partecipazione più consapevole ad eventi storici, sociali e politici.
I due momenti chiave della scrittura popolare, secondo le fonti, sono stati,
come già precisato, il Cinquecento e la seconda metà dell’Ottocento. Ciò non
toglie che prima non esistessero testi di cui pervengono però scarse tracce.
1.2 Storia e testi della scrittura popolare
Ricostruendo la storia dei testi, come scrive Attilio Bartoli Langeli33, le poche fonti pioniere della scrittura popolare risalgono a XI e XII secolo sotto
forma di note commerciali o contabili redatte dagli artigiani dell’epoca con
finalità esclusivamente pratiche.
Già nel Duecento il volgare italiano fu riconosciuto come lingua di cultura
questo perché lo scrivere: «è un’attività tecnica e intellettuale, non naturale,
che si apprende studiando (o imitando), che ha regole specifiche e segue una
logica propria … l’alfabeto è strumento artificiale e convenzionale, ne abbia
chi lo usa una conoscenza rudimentale o sofisticata»34.
Ciò determinava da una parte, il riconoscimento di un’istruzione di base in
chi praticava la scrittura, ma dall’altra, per ragioni politico – sociali esterne, i
testi della gente comune furono ricondotti al baratro dell’analfabetismo. I «semicolti» continuarono a produrre testi di varia natura a seconda delle finalità
che ne avevano indotto la realizzazione e tra XIV e XV secolo lettere, libri di
conti, libri di famiglia e autografie divennero i generi di scrittura popolare più
diffusi.
Il Cinquecento inquadrò più compiutamente la lingua dei «semicolti» con la
scolarizzazione supportata dalla Chiesa e l’invenzione della stampa che, codificando la lingua parlata, facilitò l’approccio a lettura e scrittura. Le fonti scritte
più numerose di quel periodo erano le deposizioni inquisitorie e a questo
proposito si ricordano due testi esemplari: le memorie di Bellezze di Agnelo
Ursini di Collevecchio e gli scritti di Domenico Scardella detto Menocchio35. Si
tratta di autografie scritte rispettivamente da una presunta strega e un mugnaio che, accusati di eresia, si erano sentiti costretti ad approcciare alla scrittura
33
34
35
46
A. Bartoli Langeli, La scrittura dell’italiano, Il Mulino, Bologna 2000, p. 14.
Ivi, p. 25.
Vedi D’Achille, L’italiano dei semicolti, cit., p. 59.
per dimostrare la falsità delle infamie ricevute dal tribunale dell’Inquisizione.
Nelle pagine descrivevano le rispettive vite, compiendo uno dei primi tentativi
di ritrovare conforto nell’autobiografia. Entrambi non sopravvissero ma i loro
scritti si annoverarono tra le fonti più importanti per le ricerche storiche.
Ciò dimostra come, in generale, la scrittura fosse incentivata se vi si riconosceva un’utilità, diversamente lo scrivere si rivelava un grande sforzo e le classi
non abbienti, assillate da necessità di sopravvivenza, davano altre priorità.
Dal XVIII secolo, in seguito alle migrazioni interne per necessità economiche, si avvertì, soprattutto nella borghesia, il bisogno di comunicare e la
scrittura prese due direzioni: «lettere e scritture di memoria»36. Scrivere era una
fatica, era difficile però permetteva di mantenere i contatti a distanza, proprio
per questa necessità, nel XIX secolo, vi fu l’approccio massificato alla scrittura.
Due fenomeni rivoluzionarono gli ordini sociali: la prima guerra mondiale
e l’emigrazione transoceanica. I «semicolti», impreparati all’improvviso allontanamento dalla terra natia e spinti dalla necessità di instaurare un contatto con
le famiglie, riconobbero nella carta l’unico mezzo che permetteva di sfogare
le proprie preoccupazioni e combattere il senso di smarrimento per la perdita
delle radici.
I testi così prodotti si distinsero per una «capacità di astrazione insufficiente
a formare un testo autonomo»37 ossia per la loro incapacità di staccarsi dall’
io-qui-ora della discorsività orale.
Questo legame intrinseco tra identità minacciata e necessità di prolungare
se stessi nello spazio e nel tempo attraverso la scrittura viene specificato in un
intervento di Mario Isnenghi:
Un altro momento interessante, sempre in rapporto alla domanda su quando scrive
il personaggio popolare, è quando egli si costituisce in quanto io, in quanto identità, in quanto personaggio, proprio perché sente il bisogno di scrivere di sé e lo
fa, cosa che precedentemente non aveva avuto voglia, occasione, bisogno di fare.
Dunque un’identità minacciata che si reintegra e si ricostituisce (ma anche che si
forma e si diversifica) nel momento in cui scrive38.
Proprio per questa caratteristica i generi testuali della scrittura popolare,
le lettere, i diari e le autobiografie, sono quelli che assicurarono un maggior
spazio all’io.
La scrittura dunque si rivelò vitale, chi non sapeva scrivere fu costretto ad
imparare frettolosamente dai compagni di viaggio o nelle scuole che venivano
improvvisate ad hoc, tutti scrivevano costantemente per non essere dimenti-
Bartoli Langeli, La scrittura dell’italiano, cit., p. 115.
F. Bruni, L’italiano letterario nella storia, Il Mulino, Bologna 2002, p. 183.
38
Testo contenuto in Antonelli, Ricuperanti: l’archivio della scrittura popolare, in Vite, cit., p. 73.
36
37
47
cati, per non dimenticare ma anche spinti dalla necessità di affrontare le innumerevoli pratiche burocratiche di uno Stato in via di formazione.
L’urgenza con cui i semicolti erano spinti alla scrittura si riversò direttamente sulla carta così che la letteratura popolare si fece «torrentizia»39 contribuendo
all’esperienza di modernità di cui anche i nostri scriventi, tra XIX e XX secolo,
furono protagonisti.
2 «Concueste poche righe», lettere migranti
«I piroscafi che attraversano gli oceani a partire dalla metà dell’Ottocento
fino al secondo dopoguerra trasportano un pesante carico di storie vissute e di
storie raccontate: insieme agli uomini, alle donne ed ai bambini che si allontanano dalle loro famiglie e dalle loro terre, viaggia infatti una notevole mole
di corrispondenza»40.
Nel fenomeno della grande emigrazione la nave e la traversata oceanica
furono le cause iniziali dell’approccio alla scrittura. La lentezza e i disagi del
viaggio aumentavano il senso di nostalgia per la lontananza dal luogo d’origine facendo della lettera, del diario e della biografia gli antidoti alle sensazioni
di vuoto interiore. Mario Soldati aveva definito la navigazione «uno strano
spostamento, attraverso lo spazio, di un pezzo del paese da cui si parte»41 ossia
uno sradicamento che imponeva la revisione di se stessi.
A livello psicologico, nell’immaginario migrante, il «partire» è stato spesso
collegato al «morire», ciò derivò sia dal fatto che, nel XIX secolo si viveva un
senso di precarietà esistenziale per la tipologia degli eventi storici in atto, sia
perché il viaggio era una vera e propria rottura con la vita trascorsa fino al
momento della partenza42.
Se a questa riflessione, richiamata da Sebastiano Martelli, si affianca l’etimologia del verbo «partire», oltre al significato di allontanamento si trova il legame
con la radice latina pario di «partorire»43, indicando un partire per «dare la vita»
che non era possibile assicurare nel paese natio, facendo uscire il condensato
simbolico di un’esperienza universale in cui nascita e morte, o meglio, morte
e rinascita si compensavano nel lento processo di ridefinizione di sé affidato
alle pagine scritte.
Se questa lettura pare troppo simbolica, la relazione con la morte è stata
proposta anche da Ernesto De Martino nello studio antropologico Morte e
Ivi, p. 157.
Gibelli, Caffarena, Le lettere degli emigranti, cit., p. 563.
41
Ivi, p. 569.
42
Vedi Martelli, Dal vecchio mondo al sogno americano, in Storia dell’emigrazione italiana, vol.
I, cit., pp. 433-487: 435.
43
Vedi C. Vallini, Introduzione, le parole del viaggio, in A. De Clementi, M. Stella (a cura di),
Viaggi di donne, Liguori Editore, Napoli 1995, pp. 7-26: 17.
39
40
48
pianto rituale, in cui il rituale della partenza, per le sue manifestazioni, equivale alla cerimonia del lutto e del cordoglio44 in occasione della morte di un
familiare.
Per la saggezza popolare, descrivere ai familiari la propria esperienza di
viaggio era come condividere l’esperienza del trapasso esorcizzando il timore
dell’oblio portatore di malattia, disgrazia e follia. Per questo, tra le varie produzioni testuali degli emigranti, la lettera incontrò maggior successo perché
presupponeva un referente esterno, un destinatario con cui instaurare un vero
e proprio dialogo a distanza.
Una volta superata la fase del viaggio, la lettera si fece lo strumento per
preservare l’identità d’origine in un contesto estraneo descrivendo svariate
situazioni: sociali, politiche o familiari.
Questo suo essere proteiforme portò gli studiosi a considerarla, come scriveva Derrida, «non un genere ma tutti i generi, la letteratura stessa»45.
A questo proposito si ricorda l’opera di Emilio Franzina, Merica! Merica!,
uno dei primi studi a dimostrare la funzione fondamentale della lettera nella
vita dell’emigrante.
Franzina raccoglie ed analizza le lettere dei contadini veneti emigrati in Brasile tra il 1876 e il 1902 pubblicate sui giornali regionali di quegli anni. Queste
lettere, come tutte le epistole d’emigrazione, tra cui anche quelle dei Bartoli e
dei Gabrielli, assumevano una funzionalità poliedrica da «lettere di saluto», in
cui generalmente ci si informava sulle condizioni di salute di parenti ed amici, si passava alle lettere descrittive dell’ambiente abitativo o della situazione
lavorativa dei paesi in cui si era emigrati, le relazioni epistolari permettevano
anche l’attivazione di vere e proprie reti di solidarietà tra compaesani.
Il commento dello storico all’analisi di questi materiali focalizza l’attenzione
su come l’emigrante tenti, attraverso il corpo cartaceo, di tornare al paese natio
cercando di essere aggiornato sugli eventi salienti, sulla situazione familiare ed
economica, per attivare inconsciamente delle strategie di controllo che rafforzino il suo senso d’identità.
Questa compenetrazione tra io e lettera induce a comparare la struttura
discontinua dell’epistolario alla frammentarietà e all’eterna mutazione della
personalità del suo autore, rivelando vani i suoi sforzi conservativi.
Così, il valore della lettera si cela proprio nell’accompagnare il percorso
di ridefinizione soggettiva dell’emigrante alleviando le sofferenze psichiche
connesse. L’epistolografia d’emigrazione è, a pieno titolo, un insieme di documenti che narrano le storie di vita della «gente di frontiera»46.
Vedi Martelli, Dal vecchio mondo al sogno americano, cit., p. 435.
Alessandrone Perona, L’epistolario come forma di autobiografia: un percorso nel carteggio di
Piero Gobetti, cit., p. 19.
46
Vedi Franzina, Merica! Merica!, cit., p. 21.
44
45
49
2.1 Il carteggio Bartoli
L’epistolario Bartoli è drasticamente ridotto in seguito alla scelta di alcuni
parenti di eliminare, prima della propria morte, tutte quelle tracce familiari
ritenute così dolorose.
Nonostante la migrazione dei Bartoli avesse avuto un grosso successo dal
punto di vista economico, l’allontanamento dei parenti dal nucleo familiare ha
lasciato una ferita profonda. Si sono conservate una ventina di lettere, nascoste
nel fondo di un cassetto in soffitta forse per evitarne il contatto quotidiano.
Questo evidenzia come le carte fossero ritenute il prolungamento dei propri cari emigrati tanti anni prima, una fisicità di cui la lettera si è fatta simbolo.
Il carteggio è arricchito da un articolo del quotidiano «La Opinion» in cui
si legge l’intervista alla moglie di Eledo Bartoli che racconta la propria storia
come figlia di emigrati in Argentina, e da una decina di foto di famiglia inviate
in occasioni speciali.
L’arco cronologico coperto dalle missive va dal 1946 al 1993 ma con molte
lacune temporali perché, come già precisato, queste sono le uniche lettere rimaste di un carteggio ben più cospicuo. Forse si può leggere un’intenzionalità
nel fatto che siano state preservate solo queste epistole. Il dubbio sorge con
la presenza di una lettera del 1958 da parte dei nipoti Anita e Virgilio Bartoli
indirizzata ad Ardua Spaggiari in occasione della morte del marito Vittorio, il
messaggio è semplice ma ricco di espressività: «concueste poche righe sono
per notificarvi chè còndolore abiamo ricevuto la triste notizia della morte del
zio Vittorio io nonso, come, espressarvi il nostro dispiacere … Espero che
convalore soportarete cuesti momenti che sono un poco tristi ...»47.
Probabilmente la donna aveva instaurato un legame affettivo con la lettera
tanto da volerla conservare e così anche con le altre rimaste che, non a caso,
documentano momenti speciali della vita di famiglia.
Lo stato dell’epistolario è buono, la chiusura al buio e in un luogo riparato
da polvere ed acari ha permesso alle carte di mantenersi intatte e non ingiallire
molto.
Tutte le lettere sono scritte ad inchiostro da ciò si deduce che erano prodotte in situazioni di agio e tranquillità, non vi sono tratti grafici affrettati ma solo
un corsivo arrotondato, preciso e leggibile. L’inchiostro usato era blu o nero
ciò dimostra che gli autori conoscevano le norme base della redazione e solo
nelle lettere più recenti la biro si sostituisce al pennino.
La cura impiegata sia per scrivere la lettera che per la sua resa estetica, dimostra come scrivere alla famiglia fosse un evento importante. Nessuna lettera
Lettera di Anita e Virgilio Bartoli, 6 ottobre 1958, carteggio Bartoli, per i criteri della resa testuale si rimanda alla Nota alla trascrizione dei testi, p. 43.
47
50
è stata composta su fogli di ripiego ma solo su carta postale aerea, sottilissima
e bianca con i bordi perfettamente rifilati, in alternativa, in occasione delle
festività, si ricorreva ai biglietti illustrati.
Quasi tutte le lettere hanno la busta di riferimento, i francobolli, con rappresentazioni della Casa Rosada48 e di Eva Perón, attestano la provenienza
argentina e il timbro dell’ufficio postale informa che le lettere più antiche,
scritte fino alla fine degli anni ’60, provengono tutte da Pergamino, primo nucleo d’insediamento familiare. Le quattro lettere più recenti partono da Buenos
Aires e Rosario, città in cui risiedono i mittenti.
Il corpus non è unipolare, le lettere, con diversi destinatari: Vittorio Bartoli
nonno e la moglie Ardua Spaggiari, Vittorio Bartoli nipote e altri parenti di
cui non si hanno informazioni precise, hanno per mittenti: Eledo, Giovanni,
Virgilio, Camillo, figli dei primi fratelli emigrati, cui si aggiungono Iole, figlia
di Camillo e altre parenti quali Alicia Bartoli e Liliana Giurlani.
Non si hanno notizie precise del grado di istruzione degli scriventi ma
mentre dall’intervista al signor Bartoli trapela che i fratelli emigrati erano braccianti senza nessun grado di scolarizzazione, le lettere dei loro figli, rivelano
un livello culturale medio. La forma espressiva ha le caratteristiche dell’italiano
popolare con un uso abbastanza corretto del lessico, una costruzione sintattica
un po’ ridondante, senza punteggiatura e un’organizzazione logica dei periodi
che richiama l’oralità.
Frequenti sono anche gli influssi dialettali e spagnoli dovuti al bilinguismo
che inevitabilmente si strutturava a contatto con la società argentina. Questo
fenomeno si intensificò, con il passaggio generazionale nelle lettere dei nipoti,
ad esempio nei biglietti che Alicia scriveva ai parenti di Cogruzzo, fino a scomparire definitivamente lasciando il posto allo spagnolo nelle lettere di Liliana
Giurlani che non esita a scusarsi coi parenti per non conoscere la lingua delle
sue origini.
Dalle interviste concesse da Vittorio Bartoli trapela che, i membri della
famiglia, riconoscevano in Camillo e nella figlia Iole49 i due parenti più acculturati. Queste si rivelano notizie alquanto sommarie perché prive di documentazione. Camillo aveva redatto, in occasione di una mostra pittorica a
Castelnovo Sotto, una biografia50 in cui citava la sua formazione presso l’accademia artistica a Parma. Uno sguardo alle sue lettere mostra lunghi scritti
che rivelano il piacere della narrazione anziché la fatica di scrivere, anche se
da un punto di vista linguistico non si possono esattamente riportare agli ambienti dell’italiano universitario. Stessa situazione di Iole per la quale, l’unico
indizio utile trapela da una lettera del padre: «Ioles, si trova nei paesi del Sud
48
49
50
Sede del potere esecutivo argentino in Buenos Aires.
A volte, nel carteggio, la si incontra anche come Ioles.
Biografia dattiloscritta conservata tra le lettere del carteggio Gabrielli.
51
Argentino (Patagonia) con una commissione di Professori per la Settimana
Geografica...»51.
Nelle sue missive Iole dimostra vivacità espressiva e ciò la caratterizza in
quanto le donne, soprattutto prima del 1970, scrivevano poco e con molti
stenti perché l’istruzione era loro maggiormente preclusa.
Le lettere del carteggio sono «lettere di saluto» in cui si narrano alcune vicende familiari focalizzando l’attenzione sullo stato di salute dei parenti, sulla
descrizione del benessere economico e sulle vicende dei compaesani. Non
mancano l’interesse per la produttività agricola di Cogruzzo, né la nostalgia
per i parenti e il desiderio di far conoscere ai nipoti il paese natio.
Infatti gli scritti dei nipoti sono in genere ringraziamenti per l’ospitalità ricevuta durante il soggiorno in Italia:
Cara famiglia, … Io voglio ringraziare le attenzioni che voi mi avete fatto, durante
il mio viaggio. Tutto il soggiorno in Italia è stato benissimo52.
Perché quando uno si trova lontano il conforto della famigliarità, è una gran soddisfazione53.
La missiva più antica del corpus risale al 1946 quando, subito dopo la liberazione, si cerca il contatto con i parenti reggiani con cui si erano sospese le
comunicazioni a causa della guerra.
Caro zio Vittorio e familia la presente lettera e per dirvi che noi troviamo tutti in
buona salute e cosi esperiamo di voi tutti infamilia Dopo di un lungo tempo che
non sentiamo vostre notizie per causa della guerra che non andavano le corespondenze o sono desideroso di sentire vostre notizie e come ve la passate ora e come
ve la avete passato in tempo di guerra …54.
Le altre lettere risalgono ai decenni successivi inizialmente con un intervallo di uno o due anni per farsi poi sempre più rare. Dai carteggi si evince che
i Bartoli facevano molto uso del telefono o dei compaesani che riferivano le
notizie a voce facendosi tramite per la consegna di messaggi scritti:
Caro zio Vittorio e familia vi faciamo tantissimi auguri di buone feste natalizie e di
capo danno nuovo un buon fine e un buon principio adesso non vi escrivo tanto
espesso perché tutti li anni ce sempre cualquno che va e viene e così portano le
nostre notizie e i nostri saluti e così speriamo il bene di voi tutti … mi saluterete
tanto la familia Giovanni e la familia Guido55.
51
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53
54
55
52
Lettera
Lettera
Lettera
Lettera
Lettera
di
di
di
di
di
Camillo Bartoli, 24 ottobre 1968, carteggio Bartoli.
Alicia Bartoli, 1 dicembre 1992, carteggio Bartoli.
Camillo Bartoli, 24 ottobre 1968, carteggio Bartoli.
Giovanni Bartoli, 1 settembre 1946, carteggio Bartoli.
Giovanni Bartoli, 20 dicembre 1954, carteggio Bartoli.
Altro elemento particolare, nel carteggio, è il ricordino funebre di Raimondo Bartoli (morto il 27/7/1928) fatto stampare dai figli e dalla moglie, accompagnato da fototessera e scritto in italiano e in spagnolo. Nella preghiera in
spagnolo è ricordato come un «martire idealista» mentre nell’avvertenza sul
retro, scritta in italiano perché fosse comprensibile ai parenti, si rende noto
che il 27/10/1956 le sue spoglie sarebbero state riportate a Castelnovo Sotto e
finalmente quell’uomo inquieto per il suo «sempre andar»56 avrebbe trovato la
pace col rientro in Patria.
I biglietti natalizi sono i più numerosi del carteggio e anche qui vi è una
ragione che ne motiva la conservazione.
Il signor Vittorio Bartoli, nell’intervista rilasciata, specifica che i parenti attribuivano ai biglietti un certo valore, poiché era difficilissimo reperire cartoline con decorazioni natalizie o pasquali europee in Argentina. A causa
dell’inversione stagionale, i biglietti di produzione argentina avevano decori
floreali estivi invece quelli di produzione statunitense, apposita per i servizi
postali, presentavano paesaggi invernali ma erano più rari. Spesso i parenti
ricercavano con assiduità i biglietti adeguati alla stagione del paese natio per
mantenerne la memoria.
Nei biglietti scrivevano messaggi, brevi ma affettuosi, augurando prosperità
alla famiglia: «Cari cugini Guido Giovanni Diva e zia Ardua e familiari, ricordandovi sempre vi auguriamo buone feste natalizie e un buon 1964. Pure e nostro
desiderio che la zia Arduina si trovi sempre meglio. Saluti cari a tutti …»57.
2.2 Il carteggio Gabrielli
La quantità di fonti epistolari e documenti cartacei del signor Eugenio Gabrielli è vastissima. Non è stato possibile usare tutto il materiale in quanto lo
studio si è volutamente concentrato sulle lettere d’emigrazione, ma l’epistolario di famiglia risale all’inizio della seconda guerra mondiale ed è interamente
conservato.
La passione dei Gabrielli per la storia dalla dimensione locale a quella
internazionale si ritrova in ogni angolo della casa come nelle parole dell’intervistato.
L’epistolario analizzato, nella parte riferita alla vicenda migratoria, è composto da settanta lettere, cui si uniscono molte fotografie di famiglia, biglietti
in occasione delle festività, le cartoline illustrate e tre articoli di giornale tra
cui, due del quotidiano «La Opinión» e si tratta di un paio di interviste a Camillo Bartoli ed Enzo Gabrielli, il terzo è un articolo-intervista ai coniugi Lidia
56
57
Dal ricordo di Raimondo Bartoli conservato nel carteggio Bartoli.
Lettera di Eledo e Adela Bartoli, 15 dicembre 1963, carteggio Bartoli.
53
ed Enzo Gabrielli con cui si celebra la vita di una coppia importante per Pergamino.
L’epistolario accompagna passo passo la storia dell’emigrazione di Enzo
Gabrielli e Lidia Mori che inizia con l’imbarco a Genova datato, dalla cartolina
del transatlantico, 10 novembre 1950 e si sviluppa in modo continuativo fino al
2005. Come in tutti gli epistolari non mancano i vuoti temporali né le missive
non datate che risultano essere solo due.
Il corpus non è unipolare, vi sono scritti di Enzo, della moglie Lidia, delle
loro figlie Graziella e Maria Laura, di Eugenio e della moglie Vittoria, degli
amici Bartoli Eledo, Camillo e i figli Iole e Remo e di altre persone, per la maggior parte di origine castelnovese, che direttamente o indirettamente si sono
intrecciate con la vita dei Gabrielli.
Il carteggio, i cui soggetti prevalenti sono Enzo ed Eugenio, è un dialogo
a distanza prima di tutto tra fratelli cui si uniscono amici e parenti. Le lettere
sono cariche dell’emotività propria di chi partecipa attivamente a questa storia
di vita oltreoceano.
La provenienza delle epistole copre un arco spaziale da Pergamino a María
Grande, Entre Ríos e Buenos Aires, Castelnovo Sotto e Bordighera ove Eugenio si è trasferito quasi definitivamente.
Tutte le missive sono in buono stato grazie all’attenzione che il signor Gabrielli ripone nella conservazione dei materiali di famiglia.
I supporti scrittori sono tutti fogli di sottile carta postale o di quaderno
redatti con inchiostro blu e nero ed essendo relativamente recenti non si fa
uso del pennino a inchiostro ma della biro. La grafia del carteggio è il corsivo
eccezion fatta per alcune missive in cui Enzo, per essere più leggibile, scrive
in stampatello.
Solo in alcuni casi, a partire dagli anni ’80, il signor Eugenio Gabrielli invia
al fratello delle lettere scritte a macchina. L’uso di questo mezzo è spesso legato alla gravità del messaggio e drammatizza il tono della lettera. Sono scritte a
macchina le epistole che riportano i calcoli economici del libretto di deposito
bancario, di cui il signor Eugenio si era fatto amministratore per il fratello, oppure le lettere inviate alle autorità comunali per la richiesta dei dati anagrafici
di alcuni compaesani che volevano ottenere il passaporto italiano.
La macchina da scrivere aiuta l’autore a trasmettere chiarezza comunicativa ma anche distacco e freddezza nei confronti del destinatario, posizione a
volte richiesta dal contesto, altre volte voluta per non tradire l’emotività con
la grafia, in seguito ad una discussione dolorosa come poteva essere un litigio
familiare.
La lettera scritta a mano invece preserva il suo calore affettivo e la sua fisicità nel contatto con i parenti lontani, anche per i Gabrielli le lettere sono
piene di emozioni e provocano ancora, dopo molti anni, allegria o tristezza
per i ricordi che le accompagnano.
La forma linguistica degli scritti varia a seconda dei suoi autori ed è anche
fortemente influenzata dal contesto storico della lettera.
54
Enzo Gabrielli, la moglie Lidia, Eugenio e la moglie Vittoria, come gli amici
coetanei tra cui i Bartoli, tutti sono riconducibili, in seguito alle informazioni
sul loro grado di istruzione, al gruppo eterogeneo dei «semicolti». Come mostra
il certificato di studio elementare, Enzo Gabrielli aveva frequentato l’intero
quinquennio conclusosi nel 1932. A differenza di tanti altri coetanei i fratelli
Gabrielli avevano frequentato le scuole elementari più a lungo arricchendo
poi autonomamente la cultura personale grazie alla passione per i testi storicopolitici, interesse ereditato dal padre Elinando e acuito dalla propria esperienza di vita come soldati e partigiani durante la seconda guerra mondiale.
Questo grado di acculturazione spiega come, nonostante le numerose incertezze grafiche, le lettere dei Gabrielli siano lunghe e di buone capacità: narrativa, descrittiva ed analitica dei fatti cui fanno riferimento. A livello linguistico si incontrano errori ortografici, mancanza di punteggiatura e di ordine nella
struttura testuale, dovute ad una base di oralità cui si aggiunge una ricchezza
di passioni che tende a fluire, con forza espressiva, annientando le pause respiratorie che probabilmente non esistevano nella mente fervida degli autori.
Al contrario, le lettere delle giovani generazioni che avevano ricevuto
un’istruzione universitaria, risultano più corrette e lineari nell’organizzazione
testuale e nella grafia. La loro caratteristica è di essere permeate dal bilinguismo tipico dei nati in Argentina che hanno appreso l’italiano per via orale dai
genitori e che lo vogliono usare per scrivere ai parenti castelnovesi dimostrando la propria duplice appartenenza.
Entrambi gli aspetti linguistici, italiano popolare dei genitori e bilinguismo
dei figli e dei nipoti, si intrecciano varie volte nelle lettere di famiglia in quanto
tutti vogliono partecipare alla stesura di una stessa lettera spinti dal desiderio
di comunicare con i parenti italiani, adeguandosi agli spazi disponibili. Anche
questo è segno di un affetto familiare che non si è affievolito né col passare
degli anni né con la distanza.
La prima lettera del corpus, dopo la cartolina del 1950, è una lettera di Enzo
e Lidia, del 9 aprile 1967 redatta di ritorno da una visita ai parenti in Castelnovo Sotto. Il fatto che i coniugi abbiano scelto di usare la carta da lettere della
compagnia navale Linea C, su cui avevano intrapreso il viaggio, sottolinea
come il mare fosse fautore della nostalgia che portava al bisogno di scrivere
ai parenti, di sentirsi legati ad una terra, anche se non si trattava del primo
viaggio della coppia. La ricchezza della narrazione e l’equilibrio nella suddivisione dei fogli, denota tranquillità, il lento viaggio oceanico aveva lasciato
spazio alla riflessione ma anche alla malinconia che si cela dietro molte frasi di
rimpianto per la terra natia: «Carissimi tutti, … io mi ricordo tanto di tutti voi e
non potrò mai dimenticare di quei giorni, che sempre spero tornarli a passare,
non so quando però la speranza non si perde mai …»58.
58
Lettera di Enzo Gabrielli e Lidia Mori, 9 aprile 1967, carteggio Gabrielli.
55
La maggior parte delle lettere del carteggio sembrano appartenere a due
categorie principali: le «lettere di saluto» e quelle politiche.
La «lettera di saluto» include le notizie sullo stato economico e di salute della famiglia augurando successo e benessere a chi legge a casa:
Carissimi tutti, spero come sempre incontrarvi bene così pure alla buona si tira
avanti noi abiamo ricevuto la vostra lettera in questi giorni con un po’ di ritardo, …
il mio desiderio è propio per voi tutti che abiate una bella primavera e un migliore
estate … qui fa un tempo molto umido il lavoro va più o meno come al solito certo che con la nuova svalutazione del pesos cè un descuilibrio su tutto ed il costo
della vita, poi l’aumento delle tasse e creazione di nuove imposte, cose proprio che
non fanno altro che demoralizzare gli animi nostri, quasi costretti a rimanere in un
paese con la fiducia di vedere sempre più avanti migliori situazioni … qua da tutto
il tempo che stiamo aspettando è andata sempre peggiore, ed ora sai che stiamo
propio sotto una dittatura militare già cominciamo a perdere tutte le speranze …59.
Le lettere politiche non temono né la repressione violenta della dittatura
Argentina dagli anni Settanta né la censura e la descrivono apertamente, o
richiedono notizie per mettere a confronto la realtà italiana con quella sudamericana. Nonostante questo i periodi vuoti del carteggio, che il signor
Gabrielli pare non saper spiegare, forse, sempre non casualmente si snodano
tra gli anni Settanta e primi anni Ottanta coincidendo con il «boom» della crisi
economica argentina dopo il colpo di stato del 1976.
A tal proposito l’assenza di lettere ricevute per posta può essere spiegata
con i numerosi riferimenti a compaesani in movimento tra Italia ed Argentina
che si facevano messi epistolari per sfuggire al controllo repressivo. Non bisogna dimenticare che i protagonisti di questa seconda migrazione avevano tutti
vissuto la guerra e avevano sviluppato delle abilità organizzative in grado di
aggirare il controllo della censura.
I compaesani hanno un ruolo fondamentale nel recapito delle missive garantendo quella sicurezza che si basava sulla fiducia di chi proviene dalla
stessa terra, a loro erano affidati anche oggetti e denaro per ovviare al mal
funzionamento delle Poste argentine.
Il riferimento alla frequenza di questi disguidi si ritrova in una lettera di
Camillo Bartoli ad Eugenio: «mi dispiace dirtelo la lettera è arrivata ma i soldi
dentro non cerano (io non li ho ricevuti). Con lo sciopero dei postini in voga
il denaro l’an fatto smarire, dietro la busta non era ben pulita dava segni di
esser stata violata … non mettere mai i soldi nella busta, mi spiace molto»60.
59
60
56
Ibidem.
Lettera di Camillo Bartoli, 5 marzo 1985, carteggio Gabrielli.
3. Fotografia e scrittura, «Ricevuto le foto…»
Le fotografie, nei carteggi, sono forme di linguaggio più dirette della scrittura per l’impatto emotivo che suscitano. Considerate «linfa vitale» per la memoria, la loro «capacità di essere nel presente e di attraversarlo»61 diacronicamente
le rende sempre un dono graditissimo ai parenti Oltreoceano che legano a
queste rappresentazioni del reale un insieme di sensazioni immortali resistenti
a quella paura ancestrale che fa dell’emigrazione la metafora della morte.
Antonio Gibelli scrive che con l’epistolografia si porta avanti la necessità
di ricordo ma anche quella di un «restauro». A tal proposito si delinea il ruolo
della fotografia per ricordare, «Il tentativo è quello di far sì che … rimanga
inalterata e si aggiorni nei rimasti l’immagine dei partiti. Si tratta insomma di
evitare che l’emigrazione, pensata come provvisoria, produca invece risultati
irreversibili, renda cioè reciprocamente irriconoscibili coloro che la vivono
dall’una e dall’altra parte»62.
Il connubio tra immagine e scrittura è essenziale per soddisfare il «bisogno
di vedere»63 dei parenti lontani, ciò che connota il ritratto rispetto alla lettera è
la sua eterea fisicità, un paradosso che risponde a quell’insieme di realismo e
fantasia proprio della memoria dell’emigrante. I parenti vedono, nei corpi riprodotti dall’emulsione sulla carta fotografica, la materializzazione dei familiari
emigrati o mai conosciuti come nel caso di quelli acquisiti.
L’immagine si fa illusione di presenza e sempre Gibelli aggiunge: «nella
cultura popolare l’immagine fotografica sembra dunque presentare una superiorità comunicativa intrinseca sulla scrittura, la cui funzione non è ancora
interamente assimilata nella sua peculiarità64.
La foto, dunque, sopperisce alle lacune linguistiche dei «semicolti» completando la fase comunicativa della scrittura. Ciò che rende così forte la fotografia nel processo di comunicazione è, scrive Claudio Marra, più che l’identità
materiale del pezzo di carta, l’identità concettuale che l’accompagna che si fa
innesco di «fluttuanti stimolazioni mentali». Quello che conta è, ancora una
volta, la «capacità di memoria» che la foto suscita, il senso del tempo fermato
nell’«idea della presenza in assenza di qualcuno o qualcosa»65.
All’interno di questa analisi, le fotografie dei Bartoli in Pergamino, del primo
decennio del Novecento, acquisiscono un carattere didascalico e dimostrativo,
vogliono farsi prove tangibili di una emigrazione di successo rappresentando:
buona salute, felicità e benessere.
Martelli, Dal vecchio mondo al sogno americano, cit., p. 482.
A. Gibelli, fatemi unpo sapere, scrittura e fotografia nella corrispondenza degli emigranti, in
«Esuli pensieri, scritture migranti», 38/2005, pp. 140-147: 140-141.
63
Ivi, p. 142.
64
Ivi, p. 143.
65
Vedi C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, una storia senza combattimento, Bruno
Mondadori, Milano 1999, pp. 14-15.
61
62
57
All’epoca il mezzo fotografico era ancora possesso di pochi e le fotografie si
realizzavano dietro la guida di un fotografo, un esperto scenografo che sapeva
cosa e come i suoi committenti volevano comunicare alle famiglie. Ciò che
colpisce è la «messa in scena» delle immagini. Le pose, in studio o all’aperto,
risultano pensate nei dettagli e l’espressione dei volti seria e impassibile lascia
trapelare orgoglio e risolutezza, soprattutto negli uomini.
Per enfatizzare la ricchezza raggiunta i Bartoli sfruttano la funzione illusoria
della fotografia indossando in studio abiti cittadini e facendosi ritrarre davanti
alla estancia in tenuta da lavoro, accorgimento che ne sottolineava la produttività agricola.
Questa è la valenza concettuale della fotografia che si struttura adeguandosi
al messaggio che si vuole trasmettere e che non necessariamente documenta
la realtà, d’altra parte, dato il contesto storico in cui i Bartoli hanno eseguito
i ritratti, la riprova del loro benessere è la disponibilità economica per farsi
fotografare, un lusso di pochi.
Oltre alle fotografie più antiche ve ne sono alcune degli anni Cinquanta e
Sessanta in cui sono immortalate le occasioni speciali: matrimoni, funerali e
cene di famiglia.
Quasi tutte le immagini hanno una didascalia retroscritta con i nomi dei
presenti per ovviare a mancati riconoscimenti: «Una parte della tavola nella
cena fatta nel giorno dello sposalizio di mio filio Iofre. Potete vedere anche
dal n°1 in poi Domingo Bartoli, Italia, … mia mamma, Eledo, Adela, Iofre,
Mercedes, e i suoi padri»66.
Su un’altra fotografia vi sono segni ad inchiostro o matita che evidenziano
alcuni volti, forse dei parenti più stretti, i cui nomi sono indicati su un biglietto
allegato: «alla destra di mia mamma il primo Giovanni, Camillo, Ledo, la sua
moglie due suoi figli, alla sinistra: Ioles, figlio di Anita, Gladi figlia di Giovanni,
dagli occhiali Renia, poi la Anita, e due figlie di figli di Anita. La bimba è figlia
di Ledo»67.
In altri casi si mette in risalto non solo l’evento fotografato ma anche il
suo contesto per dare rilevanza ad elementi di contorno, così nel retro di una
fotografia si legge: «Il corteo funebre s’avvia a piedi fino passato le case dei
famigliari»68.
L’attenzione di chi osserva l’immagine cade prima sulla quantità di persone
presenti che hanno un valore in quanto «folla» per enfatizzare l’importanza
del morto nella comunità, poi l’occhio si sposta sulle grandi e nuove case di
famiglia a lato del corteo. Tutte le occasioni si rivelano utili per mostrare il
benessere raggiunto.
66
67
68
58
Fotografia inviata da Eledo Bartoli, , 1 marzo 1956, carteggio Bartoli.
Fotografia di famiglia, senza data, carteggio Bartoli.
Fotografia di un funerale di famiglia, senza data, carteggio Bartoli, si veda p. 62.
Il carteggio Gabrielli è molto più illustrato di quello Bartoli questo è dovuto
sia ad un contesto storico diverso che ad un’idea per cui la documentazione
per immagini era sentita come elemento fondamentale per conservare la memoria di famiglia. Così, quando ancora non era molto diffusa la possibilità di
fotografare, come negli anni Cinquanta e Sessanta, i Gabrielli inviavano cartoline come quella del primo transatlantico per Buenos Aires preso da Enzo
a Genova nel 1950 o quella del 1967 con il piroscafo con cui Gabriella tornava da un viaggio in Argentina. Altre volte le immagini erano folkloristiche e
volevano mostrare, per conoscenza, elementi tradizionali argentini ai parenti
italiani: gli scorci di Pergamino, la Cattedrale de La Plata e i Gauchos69.
A partire dagli anni Settanta la macchina fotografica era diventata un bene
comune, il fotografare si era fatto un gesto autonomo e libero di dare spazio ai
valori ritenuti più importanti, anche se le famiglie continuavano ad attribuirgli
il medesimo scopo «restaurativo» e narrativo. Inoltre l’arrivo della pellicola a
colori rivitalizzò le immagini, calandole ancora di più nel concreto e diminuendone quindi la connotazione eterea.
A questo contesto risalgono le foto scattate dai Gabrielli alla propria famiglia e ai compaesani oltreoceano. Queste ritraggono, per la maggior parte, i
momenti di convivio, in cui le famiglie numerose e l’abbondanza della tavola
si fanno indici di benessere.
A differenza delle pose rigide dei Bartoli, che risultavano fredde e distaccate, queste fotografie, più spontanee, continuano a far sorridere dopo anni
di distanza anche per l’ironia delle descrizioni che le accompagnano. Infatti
insieme ad immagini scherzose di amici e parenti mentre bevono mate70 o abbracciano alberi tipici argentini come il palo borracho si legge: «Cari Eugenio e
Vittoria, questo albero sarebbe “palo ubriaco” invece di botiglia grossa. Vedete
a Maria che è attaccata al albero perché è “un po ubriaca” anche lei. Felice
Natale e un buon capo d’anno ’99. “Palo Borracho» ciudad de Salta”»71.
L’autogestione del mezzo fotografico permetteva di superare l’impatto imbarazzante con l’obbiettivo e facilitava lo scatto pur non perdendo la connotazione concettuale che caratterizza sempre la realizzazione dell’immagine. Per
questo, da uno scopo apparentemente semplice come la foto per mostrare
l’apprezzamento dei regali ricevuti, si passava ad articolare l’osservazione sul
contesto accennato dalla didascalia, «Lucia Gabriella nel asilo (con il grembiulino) il giorno del suo 3 compleanno, Dicembre 1988. Ai miei cari zii Eugenio
e Vittoria con affetto»72 in questo caso l’asilo d’infanzia.
Mandriani delle Pampas (pianure) dell’America meridionale.
Infusione preparata con le foglie di erba Mate una pianta originaria del Sud America. Per
tradizione questa infusione si beve calda e in compagnia.
71
Fotografia inviata da Remo Bartoli e moglie Maria «Gringa», 1999, carteggio Gabrielli.
72
Fotografia allegata alla lettera di Graziella Gabrielli, dicembre 1988, carteggio Gabrielli.
69
70
59
La estancia Bartoli in Argentina
1907. I cinque fratelli Bartoli davanti all’estacia Argentina. Fotografia conservata nel Museo
degli immigrati italiani in Argentina e Pergamino
Foto di famiglia, i Bartoli argentini, carteggio Bartoli
Funerale di un familiare, carteggio Bartoli
A tavola con i Gabrielli, foto di Eugenio Gabrielli, carteggio Gabrielli
Di conseguenza si apriva, per il destinatario della fotografia, una riflessione
sui servizi sociali offerti ai parenti oltreoceano. La stessa dinamica si applicava anche ai ritratti, senza didascalie, delle feste della Società Italiana presso
l’Italclub di Pergamino o alle fotografie panoramiche con le tenute agricole, le
imprese edili e le case dei compaesani emigrati. Ecco dunque il potere evocativo delle numerosissime immagini che, anche senza l’ausilio della scrittura, si
facevano lettere in technicolor, narranti di storie di vita italo argentine conservate in grossi album di famiglia. Ma se come Gibelli precisa: «Quello affidato
alle lettere e alle fotografie appare come l’immenso sforzo di ricucire coi nuovi
mezzi della comunicazione a distanza una lacerazione ormai irreversibile …»73,
le occasioni in cui si inviano le fotografie rendevano gli emigranti e i loro parenti intimamente consapevoli di ciò. Così diveniva naturale per Eugenio Gabrielli, dopo il restauro della casa a Castelnovo, inviarne le immagini al fratello
per tenerlo aggiornato sulla situazione dei beni di famiglia che non avrebbe
più potuto vedere di persona. Dato che la fotografia coincideva in importanza
con la lettera per avere la certezza che arrivasse a destinazione la si affidava ai
compaesani in movimento:
73
Gibelli, fatemi unpo sapere, cit., p. 147.
63
Carissima Vittoria e Eugenio, mi auguro che al ritorno di Bartoli e signora, incontrarvi bene, … grazie per le cose che avete mandato, tutto molto bello e gradito …
la foto dell’entrata molto bella proprio allo stile che Enzo immaginava. Abbiamo
consegnato le foto … i quali sono rimasti molto contenti dell’ospitalità ricevuta e
non anno parole per ringraziarvi …74.
Ricevuto le foto e già sono state ripartite a chi di competensa. Ringraziamo, per
tanto tanti auguri di buona salute vi ricordo …75.
Questa funzione narrativa dell’immagine era stata pienamente compresa da
Enzo Gabrielli che, a causa dell’età avanzata, soffrendo la fatica di scrivere,
decise di scattare una fotografia per salutare l’Italia e il suo paese in cui riponeva tutti i ricordi.
Il ritratto, che spedì sia all’amministrazione comunale di Castelnovo Sotto
sia agli amici e ai parenti più stretti, è stato eseguito nella casa argentina e lo
raffigura con una grande mappa dell’Italia da lui dipinta a memoria e una sedia, realizzata nella sua tappezzeria, con raffigurati sulla seduta lo stemma del
Comune di Castelnovo e il Tricolore. Nell’immagine compaiono in secondo
piano la moglie Lidia e un ex sindaco di Castelnovo in visita istituzionale.
Dando prova di un fortissimo patriottismo Enzo volle dimostrare come la
sua identità originaria non fosse morta nonostante i decenni passati in Argentina. Questa lettera di addio in cui le parole sono gli elementi dell’immagine e
i periodi sintattici si realizzano con il loro accostamento, trasmette ancora una
fortissima emotività facendo di fotografia e scrittura un unicum.
3.1 «Lo invio così puoi vedere…»
«la foto occupi nella corrispondenza di emigrazione un posto di tanto rilievo, spesso decisamente centrale, costituendo talvolta l’avvenimento intorno a
cui ruotano intere lettere»76.
La compenetrazione tra scrittura e fotografia è talmente reciproca che se la
fotografia potenzia l’effetto comunicativo della lettera arrivando a farsi lettera
a sua volta, la lettera si fa fotografia quando il suo unico oggetto diviene l’immagine che spesso l’accompagna.
Quando si vivono esperienze particolari da fissare nella memoria il mezzo
mediatico diventa l’elemento su cui focalizzare il discorso.
Questi riferimenti a fotografie e filmati si trovano più nel carteggio Gabrielli
74
75
76
64
Lettera di Lidia Mori, 28 gennaio 1987, carteggio Gabrielli.
Lettera di famiglia, 8 dicembre 1992, carteggio Gabrielli.
Gibelli, fatemi unpo sapere…, cit., p. 143.
che in quello Bartoli in quanto è costume della famiglia ritrarre ogni evento
ritenuto importante.
Spesso, Lidia o la figlia maggiore Graziella, inviavano le lettere con le fotografie della nipote Lucia per mostrarla agli zii di Castelnovo e Lucia, divenuta
oggetto del dialogo tra parenti, cresceva nelle missive illustrate ricevute ogni
natale:
Carissima Vittoria e Eugenio, … mando il ricordino di Lucia Gabriella e auguri un
po in ritardo ma la colpa ce la avuta il fotografo, è una bella bambina vero? Crese
tanto bene è la nostra felicità …77.
Carissima Vittoria e Eugenio, si avvicinano le feste e uno sempre si ricorda delle
persone care per inviarle i migliori auguri di ogni cosa buona, approfitto pure per
mandare una foto della 1°ma comunione di Lucia … sempre vi ricordiamo con
affetto78.
L’affetto esternato nella lettera era sempre ricambiato dalla cognata italiana:
«Carissimi con tanto piacere abbiamo ricevuto il ricordino di Lucia Gabriella vi
ringraziamo tanto ai ragione Lidia vedo che è una bella bambina lo credo che
per voi sia un bellissimo passatempo e felicità …»79.
Nel 1995 Maria Laura, figlia minore di Enzo, compì un viaggio che la riportò
prima a Castelnovo per salutare gli zii e il paese d’origine, poi ad esplorare
l’Italia e l’Europa. Ne rimase entusiasta e al rientro scrisse agli zii:
Ancora non ho avuto il tempo di vedere le filmine ho soltanto messo apposto le
fotografie (per certo quelle che hai fatto tu sono le più belle tanto per il posto e per
le fotografie). Adesso le guardo e non posso credere di aver stato in quei posti non
ho parole per ringraziarvi perché mi avete fatto vedere tutto il più bello de l’Europa
… Adesso devo svegliarmi di quel sogno ormai è già finito e questo mi mette un
po depressiva e per questo anche che non ho scritto prima …80.
Le fotografie del viaggio erano l’oggetto del suo discorso perché solo queste le permettevano di non dimenticare un’esperienza unica per la sua vita.
Un’altra esperienza degna di ricordo era la morte. Graziella inviò ad Eugenio le fotografie del cimitero della Comunità italiana in cui ancora giace la
salma del padre e vi allegò una lettera in cui si descrivono sia i documenti di
morte che le immagini:
Caro zio Eugenio, non è gradevole, è molto triste quello che mando; lo invio così
puoi vedere dove riposa il caro papà. Sono tutti i forni della Società Italiana dove
77
78
79
80
Lettera
Lettera
Lettera
Lettera
di
di
di
di
Lidia Mori, 26 gennaio 1987, carteggio Gabrielli.
Lidia Mori, 28 novembre 1996, carteggio Gabrielli.
Eugenio e Vittoria Gabrielli, 8 marzo 1987, carteggio Gabrielli.
Maria Laura Gabrielli, giugno 1995, carteggio Gabrielli.
65
Cartolina scritta da Enzo Gabrielli con francobollo commemorativo i 125 anni della Società
italiana
Dicembre 1991. Cartolina inviata da Remo Bartoli e moglie, carteggio Gabrielli
Enzo Gabrielli con la mappa dipinta a mano e la sedia con lo stemma tricolore
lui è stato molto tempo vicepresidente Anche allego il certificato e atta e fotocopia
dei giornali dove vengono pubblicati gli annunci di morte. Si sente molto la sua
mancanza. Spero al ricevere la presente incontrarvi tanto a te come la zia Vittoria
in buona salute. Tanti cari saluti vi abbraccio e vi bacio. Se Dio vuole ci vediamo
in Gennaio …81.
In conclusione, scrittura e fotografia sono entrambe surrogati di presenza,
tecniche moderne che rispondono all’esigenza degli emigrati di acquisire lentamente, contro la propria volontà conservativa, la consapevolezza che niente
può restare inalterato nel tempo. La migrazione ha prodotto una lacerazione
con il passato e il soggetto migrante comprende, lottando con una serie di
paradossi, il suo essere in trasformazione che tende alla ricerca polimorfa di
una nuova identità.
81
68
Lettera di Graziella Gabrielli, 22 luglio 2004, carteggio Gabrielli.
2
Raccontarsi: elementi testuali e linguistici
Non era un fatto comune che nella prima metà del XX secolo due famiglie
di cultura popolare, una contadina e l’altra artigiana, privilegiassero la scrittura
epistolare come mezzo di espressione. Per comprendere meglio le ragioni di
questa scelta è necessario continuare a considerarne la relazione con la scrittura.
Si ricorda che la scrittura epistolare era uno dei mezzi più efficaci per mantenere il contatto affettivo con i parenti in una condizione di grande lontananza come quella transoceanica e la sua scelta era dovuta al fatto che la lettera
privata realizzava appieno quel felice connubio tra testo ed oralità, tipico della
letteratura popolare. «Walter Ong, uno dei più fini esegeti degli effetti della
literacy, propone così di vedere nella lettera un prodotto intermedio fra la
parola e lo scritto, nel senso che essa si sforzerebbe sempre di rappresentare
due parti in dialogo»82. In effetti la lettera divenne proprio la forma scritta di
un dialogo diretto che rese possibile, grazie al suo ibridismo, la completa realizzazione, sul foglio bianco, della personalità semiotica dell’uomo.
La lettera contiene due elementi in cui si esprimono le personalità degli
scriventi: la struttura del testo e la lingua. Entrambe dipendono molto dal contesto sociale e si rivelano preziose per l’analisi e la ricostruzione delle nostre
storie migranti. Mentre da una parte, numerosi studi hanno dimostrato la fissità
motivazionale nella scrittura dell’emigrante, delineando un modello di lettera
rimasto inalterato nel tempo, dall’altra il linguaggio ha subito mutamenti più
evidenti in relazione ai cambiamenti sociologici che hanno influenzato gli autori. Nel caso argentino, mentre gli emigranti scrivevano nella lingua madre,
per esaltare la propria italianità, i discendenti americani, che volevano recuperare e riscoprire le proprie radici, si esprimevano in un bilinguismo italo
spagnolo che meglio rispondeva alla loro duplice identità italo-argentina.
1 Tripartizione delle lettere di migrazione
Nell’analisi della struttura testuale delle lettere «migranti», si distinguono tre
sezioni: preludio, corpo centrale e conclusione.
Le tre parti: «costituiscono una forma epistolare abbastanza particolare, che
lega i registri dello scritto e del parlato … se la parte centrale della lettera
… contiene informazioni libere espresse sul tono della comunicazione orale,
queste sono però inquadrate … da schemi e formule d’apertura e di chiusura
che fanno chiaro riferimento al codice scritto»83.
D. Fabre, Introduzione. Nove terreni di scrittura, in D. Fabre (a cura di), Per iscritto, antropologia delle scritture quotidiane, Argo, Lecce 1998, pp. 11-58: 29.
83
Bruneton-Governatori, Moreux, Un modello epistolare popolare. Lettere di emigranti, in Per
iscritto, cit., pp. 100-122: 101.
82
69
Questo schema si ripete inalterato nei diversi contesti storico sociali di «padri» e «figli» in quanto la motivazione di base non muta nel tempo, si scrive per
mantenere il contatto affettivo con i parenti Oltreoceano. I termini virgolettati
delineano due gruppi di scriventi: con «padri» ci si riferisce agli emigranti, mentre per «figli» si intendono i prosecutori dei carteggi: sia i discendenti diretti che
quelli delle generazioni successive.
1.1 Il preludio
Nel preludio colpisce subito l’intreccio tra codice scritto e orale che si realizza nel saluto, la comunicazione scritta s’introduceva esattamente nello stesso
modo in cui si apriva una conversazione.
Si trattava di una strategia stilistica fondamentale per lo scrittore semicolto
che doveva orientarsi nella doppia dimensione tra dialogo e scrittura. Era norma che le lettere attivassero il contatto con il destinatario attraverso alcune forme standard, queste davano il tempo, a chi non era abituato, d’entrare nell’ottica dello «scrivere» e del registro linguistico che inaugurava la conversazione.
Nei nostri epistolari le tipologie di preludio più frequenti sono: «A la familia
Guido e Giovanni e zia Arduina e Diva vi mandiamo … affettuosi saluti»84, «Carissimi tutti, spero come sempre incontrarvi bene cosi pure alla buona si tira
avanti»85 o ancora «Carissimi zii … come va?»86, «Carissimi Vittoria e Eugenio,
spero con la presente incontrarvi in buona salute»87.
Il primo tema era la salute che, posta come domanda retorica preliminare,
voleva essere un rilancio di conversazione.
Seguiva immediatamente l’espressione della sorpresa per aver ricevuto la
lettera, sempre gradita in quanto sentita come sostituto dello scrivente: «Posso
immaginarmi la sorpressa di ricevere una lettera mia ma e gia molto tempo
che doveva scriverla e non trovava il tempo»88, «Lunedì 29/6; ò ricevuto la tua
lettera del 21/6 da B.A. l’ò subito letta e con sorpresa per le poco belle novità
che ci scrivi, dopo poco mi à chiamato per telefono, Gabriella che anche lei
aveva ricevuto la tua lettera, poi e venuto subito Eber con la sua»89.
Tale fisicità nel contatto epistolare si rafforzava con l’invio saltuario di regali, oggetti o denaro, implicando, sempre nel preludio, una risposta di ringraziamento per ciò che si era ricevuto: «Con tanto piacere abbiamo ricevuto
il pacchetto con le due camicie e la cartolina … cosi pure le vostre notizie»90.
84
85
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88
89
90
70
Lettera
Lettera
Lettera
Lettera
Lettera
Lettera
Lettera
di
di
di
di
di
di
di
Giovanni Bartoli, 19 dicembre 1962, carteggio Bartoli.
Enzo Gabrielli, 9 aprile 1967, carteggio Gabrielli.
Maria Laura Gabrielli, 21 giugno 1987, carteggio Gabrielli.
Lidia Mori, Graziella e Maria Laura Gabrielli, 18 luglio 1985, carteggio Gabrielli.
Maria Laura Gabrielli, 21 giugno 1987, carteggio Gabrielli.
Eugenio Gabrielli, 8 luglio 1987, carteggio Gabrielli.
Lidia Mori e Maria Laura Gabrielli, 18 luglio 1985, carteggio Gabrielli.
Nel Saggio sul dono91, Marcel Mauss, attribuisce allo scambio reciproco di
auguri e regali una circolarità sottesa, per cui, una volta conclusasi la lettura
della lettera, il preludio porterebbe la conversazione al punto di partenza, suscitando la reazione di «controdono o ... scambio»92. Saluti e salute dimostrano
che la lettera era intesa come vettore di un benessere da ricambiare al mittente.
Oltre a fungere da buon auspicio, il preludio introduceva l’uso dell’italiano
popolare come registro narrativo, grazie a questo lo scrivente si sentiva a proprio agio davanti al foglio bianco in cui si raccontava liberamente.
Qualora, in caso di comunicazioni urgenti, il preludio non fosse presente
in apertura, veniva subito recuperato con un augurio di buona salute al finale
della lettera: «aggiungo i miei saluti a voi e a tutti i paesani spero vi sia gradito
il dono che vi abiamo mandato»93, o con una soluzione più discorsiva: «faccio a
te i migliori auguri di intenso e fruttuoso studio, e a tutta la famiglia di buona
salute e che tutto si risolva nel migliore modo possibile saluti anche alle tue
amiche»94.
1.2 Il corpus
La seconda parte è il corpo centrale, area testuale in cui i nostri scriventi
davano sfogo al pensiero e all’inconscio, realizzando un vero e proprio flusso
di coscienza senza preoccuparsi dei canoni della scrittura epistolare, ripresi
poi nella parte finale. Per questo si parla del corpo testuale come dello spazio
di oralità scritta. I corpi delle lettere sono i più ricchi di informazioni, in quelli
delle nostre famiglie si trovano descrizioni delle condizioni di vita dei parenti
oltreoceano e i progressi o le difficoltà cui si andava incontro ma non solo,
anche osservazioni e analisi storiche, politiche ed economiche tra Argentina
ed Italia.
Proprio per l’intrinseca varietà tematica è lo spazio in cui si esplicitavano i
ruoli di genere degli scriventi, gli uomini mostravano di interessarsi dei contesti socio politici esterni mentre le donne si concentravano più sulla cerchia
familiare con alcune eccezioni tra le giovani generazioni.
Sempre dall’analisi di questi si rilevano i diversi approcci al mezzo epistolare. Mentre per i Bartoli, i biglietti augurali e le lettere hanno corpi brevi e
generici, acuendo il loro valore in quanto «attestati di presenza» del parente
lontano, per i Gabrielli il carteggio acquisisce una grande rilevanza tematica,
con corpus ben più descrittivi.
M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi,
Torino 2002.
92
Bruneton-Governatori, Moreux, Un modello epistolare popolare, cit., p. 109.
93
Lettera di Maria Laura Gabrielli, senza data, carteggio Gabrielli.
94
Lettera di Eugenio Gabrielli, 8 luglio 1987, carteggio Gabrielli.
91
71
Questo dipendeva molto dal contesto, infatti per i Gabrielli era costume
di famiglia osservare e raccontare tutte le evoluzioni della realtà in cui si viveva. Anche se si faceva riferimento ad un mondo lontano, quello argentino,
la descrizione degli eventi era curata e definita nei dettagli per ampliare la
conoscenza dei parenti castelnovesi. A queste narrazioni si univano sempre
sia le informazioni sui paesani emigrati, così che i parenti potessero informare
i familiari degli altri castelnovesi oltreoceano, che la conferma di ricezione di
denaro e regali che «contribuisce a materializzare i legami e lo scambio»95.
L’elemento interessante che distingue entrambi i carteggi da quelli studiati
in altri testi, come nel saggio di Bruneton-Governatori e Moreux sulle epistole
d’ emigrazione96, è che le condizioni emotive e psicologiche non sono mai
taciute, anzi, oltre alla nostalgia più volte citata, si manifestano rabbia e felicità, delusioni e aspettative, successi ed insuccessi, tutte quelle emozioni che
connotavano la vita quotidiana e di cui si volevano rendere partecipi i parenti
per sentirli più vicini.
Uno dei corpus tipici delle lettere dei Bartoli è il seguente: «Caro zio Vittorio
e familia vi facciamo tantissimi auguri di buone feste natalizie, ... un buon fine
e un buon principio adesso non vi escrivo tanto espesso perche tutti li anni ce
sempre cualquno che va e viene e cosi vi portano le nostre notizie e i nostri
saluti e cosi esperiamo il bene di voi tutti non avendo nessuna novità per il
momento mi saluterete tanto la familia Giovanni e la famiglia Guido»97.
Pare che la vita familiare fosse priva di stimoli ma non era così, l’aver scritto
ed inviato il biglietto era già una chiara intenzione di dimostrare il proprio affetto per i parenti cogruzzesi, di cui si specificavano, con vivo ricordo, i nomi
propri. Nonostante lo sforzo, la «fatica di scrivere» è palese e, come raccontato
dal signor Vittorio nell’intervista, i Bartoli, con l’avvento delle tecnologie, predilessero la comunicazione orale a quella scritta. Mentre prima erano i paesani
in viaggio a portare notizie a Cogruzzo o Castelnovo Sotto, oggi, il mezzo più
usato per il dialogo familiare è il telefono.
Di altro tipo sono i corpi epistolari dei Gabrielli:
Con tanto piacere abiamo ricevuto la vostra ultima lettera in data 5 Maggio e con
altro tanto dispiacere al sentire tutte le triste notizie che dopo poco la nostra partenza sono piombate sopra di voi ... abiamo pure ricevuto un pacco con le riviste
... forse già Gabriella vi avrà detto di Eugenio e Vittoria sono già tre lettere che le
scrivo e le domando l’indirizzo di Achille di Scandiano ma si vede che si dimenticano ... bene in quanto noi andiamo sempre con il nostro tran tran io faccio qualche
cosa ma non molto e piano piano continuo con le vendite di materiali e qualche
cosa compro un comercio un poco sottinteso al margine delle tasse ed anche mi
95
96
97
72
Bruneton-Governatori, Moreux, Un modello epistolare popolare, cit., p. 114.
Ibidem.
Lettera di Giovanni Bartoli, 20 dicembre 1954, carteggio Bartoli.
dedico alla compera di qualche auto per rivendere lavori da pensionati ... bene
come già ho mandato a dire a Gabriella Maria Laura ha terminato il suo studio ed
ha già il suo titolo di profesora ... proprio oggi sono state bloccate tutte le banche
... ma certo che è una confusione dal lato economico ... molti ci hanno promesso
che ci verranno a trovare qui in Argentina vedremo chi sarà i primi. Paolo come
va con il lavoro, immagino che si avrà preso tutto a suo carico il negozio ... spero
incontrare tutti bene un abbraccio a tutti. ... Carissimi tutti anno fretta per portarla
alla posta così che scriverò la prossima ...98.
La lunghezza e la narratività dei testi dimostrava il bisogno di determinare
la propria esistenza divisa tra l’Argentina e Castelnovo Sotto di cui soffrivano molta nostalgia. Nonostante la corrispondenza fosse assidua, la voglia di
raccontare, l’affetto per i familiari e l’urgenza di avere informazioni del paese
per non perderne i contatti, portavano gli scriventi a provare l’entusiasmo di
comporre lettere con così varie tematiche che spesso restavano inconcluse,
incastrate l’una nell’altra a causa della foga narrativa. Questo sovrapporsi d’informazioni nello scritto era un aspetto tipico della sottesa dialogicità.
1.3 La conclusione
Il terzo elemento testuale, la conclusione, affronta le stesse difficoltà del
preludio. Si ritorna ai codici della scrittura con le formule espressive stereotipate. Era sempre difficile porre fine ad una lunga chiacchierata ma lo si
doveva fare per questioni economiche perché la carta non era molta e le
spese epistolari incidevano sul budget di famiglia, l’uso di formule ridondanti
e precostituite poneva dei «fermi» che facilitavano il passo verso la chiusura
comunicativa.
Si aggiungevano altri saluti, espressioni d’affetto e auguri, che sempre secondo Mauss, non erano mai addii ma auspici di una comunicazione imperitura.
Con questo metodo d’analisi, studi antropologico letterari, come quello di
Bruneton-Governatori e Moreux, hanno definito l’esistenza di un modello, cui
fanno parte anche le nostre lettere, chiamato «modello popolare».
Come si spieghi la diffusione del modello epistolare popolare attraverso
tempi e spazi, in epoca non globalizzata, è presto dimostrato: «crediamo di
aver individuato un modello … che si è perpetuato, trasmesso senza dubbio attraverso la lettura e la memorizzazione di lettere che allo stesso tempo
hanno reso possibile variazioni e creazioni individuali. Questo modello ha
permesso a delle notizie banali – per quanto essenziali – di accedere allo
statuto di testo scritto, doppiamente sacralizzato in quanto scritto e in quanto
portatore di valore di scambio»99.
98
99
Lettera di Enzo Gabrielli e Lidia Mori, 14 giugno 1985, carteggio Gabrielli.
Bruneton-Governatori, Moreux, Un modello epistolare popolare, cit., p. 122.
73
2 Letture silenziose e letture collettive
La lettura, che seguiva alla ricezione delle lettere ma quasi mai alla loro stesura, si rivelò un momento fondamentale nell’epistolografia. Grazie a questa si
diffuse l’acquisizione, per imitazione, del «modello popolare» di lettera, inoltre
fu uno degli elementi che giustificò la presenza dell’italiano popolare nei testi.
In seguito alle tre novità introdotte dalla pratica della scrittura popolare, si
delinearono due ambiti di lettura: uno privato e uno collettivo, che risposero
alle esigenze dei diversi ceti sociali.
Primo: con la scrittura l’individuo determinava la propria soggettività al
di fuori dell’identità corale delle comunità di cultura orale. Inizialmente fu
costretto a farlo per motivi burocratici, si pensi quando allo sbarco nel porto
straniero, ogni migrante veniva registrato in base al passaporto personale e
in seguito ad un accertamento delle condizioni fisiche e mentali avvalorate
da una sua firma. Era l’individuo a porsi da solo di fronte ad un mondo sconosciuto e, per questo, doveva iniziare a trovare la forza prima di tutto in se
stesso. Secondo: da un punto di vista cognitivo la scrittura poteva lentamente
offrire una maggior capacità di astrazione e di costruzione logica dei fatti vissuti. Terzo: si fece strada la pratica della lettura silenziosa che non riuscì però
a scalzare quella collettiva, di famiglia.
La lettura silenziosa dipendeva molto dall’istruzione ricevuta, fu propria dei
ceti borghesi più alfabetizzati, mentre nelle famiglie popolari, in cui non tutti
sapevano leggere o comunque non tutti leggevano bene, le difficili comunicazioni oltreoceano rendevano implicito che il contesto di lettura fosse più
pubblico che privato. In tal caso, già al momento della sua stesura, il testo si
proponeva per un’udienza collettiva, infatti da una singola narrazione si estrapolavano indizi e notizie che potevano essere riferiti alle esperienze di altri, in
quanto la vicenda migratoria era un «fatto di classe» che accomunava i soggetti
di uno stesso ceto in simili esperienze di vita sia in patria che all’estero.
2.1 Colloqui in famiglia
Nei carteggi delle due famiglie l’approccio a più destinatari è realizzato
diversamente.
Nelle lettere dei Bartoli (primo sessantennio del XX secolo) si elencavano
nel preludio o in conclusione tutti i nomi propri dei parenti: «Cari cugini Guido
Giovanni Diva e zia Ardua e familiari»100 oppure «Ricevete tanti auguri di buone
feste natalizie e un buon principio di anno nuovo alla famiglia di Giovanni e
di Guido e alla zia Arduina e Diva da chi sempre vi ricorda»101. Anche i verbi
100
74
Lettera di Eledo e Adela Bartoli, 15 dicembre 1963, carteggio Bartoli.
erano coniugati al plurale per la lettura collettiva: «desidero sapere notizie di
Giovanni Guido la Diva la Dina e di tutti in generale fate sapere vostre notizie»102, l’enfasi con cui ci si riferiva a tutti portava all’omissione della punteggiatura, associando i ricordi a quell’urgenza comunicativa dettata dalla nostalgia.
Nelle lettere dei Gabrielli i riferimenti a plurimi destinatari avevano varie
formulazioni: alcune volte la lettera, intestata ad una sola persona, si suddivideva tra i membri familiari come se si trattasse di più dialoghi in uno:
Carissimi tutti spero sempre di incontrarvi in buona salute come è pure di noi,
io mi ricordo tanto di tutti voi, e non potrò mai dimenticare quei giorni … Come
senti caro Eugenio è impossibile muoversi ora come sta tutto. Maria Laura ora parla
alla sua nonna, nonno e zio Eugenio al telefono, e alla zia Vittoria … è vero cara
Mamma al papà le parla tutto il giorno e le canta … mi fa piacere cara Mamma che
abbia incominciato ad andare giù così le passa meglio il tempo … a proposito le
foto in colore sono riusite bene? Spero di ricevere qualcuna caro fotografo. Caro
Papà spero che della sua influenza si sia rimesso bene se lo auguro, ora che viene
il bel tempo è meglio per tutti, certo non per te cara Vittoria con la tua gamba che
col caldo si sente di più … Eugenio pure tu devi curare la tua salute … Caro Eber
Lisa e Paolo vi ricordo pure tanto voi … Eber ti dirò che il tuo taglio dei capelli è
stato tanto comodo … caro Paolo sento che ora studi un po’ di più … un abbraccio
per tutti Lisa saluta Zoe Adriana e tutti … tanti saluti a Gabriella e famiglia … zia
Margherita … il dottore Santi …103.
L’esempio mostra l’affettività del ricordo che associa ad ogni parente
un’esperienza di vita indimenticabile, alquanto interessanti sono i verbi di
percezione orale come «sento» anziché «leggo», ulteriori prove che la lettera
popolare era un dialogo con la famiglia e i compaesani.
Altre volte i destinatari erano riuniti nel «Carissimi tutti»104 soluzione che
non piaceva agli scriventi perché denotava una perdita d’individualità in un
contesto in cui la soggettività si andava piano piano affermando, così si optava
per un’altra curiosa soluzione che, nel carteggio, aveva dato adito a malintesi.
In alcune lettere si partiva con un preludio al singolare per passare ad
un’articolazione del corpus in cui solo i verbi erano coniugati al plurale ma
senza soggetti in quanto ci si riferiva al contesto familiare nella sua totalità. Se
non chiarita, tale modalità poteva essere associata ad una mancanza di rispetto
nei confronti del primo destinatario: «Caro Eugenio … mentre scrivo a te lo
faccio da fratello e ti guardo negli occhi non come te che sembra mi tratti al
plurale …»105. In questo esempio Enzo si sentiva trascurato dal fratello, oltretutto essendo lui più vecchio reclamava il diritto ad essere rispettato e lo chiede101
102
103
104
105
Lettera
Lettera
Lettera
Lettera
Lettera
di
di
di
di
di
Giovanni Bartoli, 19 dicembre (senza anno), carteggio Bartoli.
Giovanni Bartoli, 1 settembre 1946, carteggio Bartoli.
Lidia Mori, 9 aprile 1967, carteggio Gabrielli.
Enzo Gabrielli, 9 aprile 1967, carteggio Gabrielli.
Enzo Gabrielli, 27 febbraio 1997, carteggio Gabrielli.
75
va «guardando negli occhi» il suo referente. Al suo timore Eugenio rispondeva
prontamente: «le altre lettere …; al plurale perché erano indirizzate a tutta la
tua famiglia …»106; riteneva importante specificare subito la scelta effettuata, in
quanto nell’etica popolare, il rispetto era uno dei valori più importanti sia nel
legame parentale che amicale.
L’aspetto collettivo delle lettere si esprimeva anche al momento della redazione quando, data la forte voglia di comunicare, più mani interagivano su
uno stesso foglio ripartendosi lo spazio disponibile.
3 Una lingua unitaria
L’aspetto collettivo dell’epistolografia migrante che si snodava dalla redazione, all’organizzazione testuale, alla lettura, aveva portato alla scelta di una
lingua che fosse comprensibile per tutti e che tutti sapessero scrivere.
Negli anni Settanta del Novecento, gli studi sulla lingua popolare dimostrarono che l’uso di un codice espressivo dipendeva sia dall’istruzione ricevuta
dagli scriventi, dal loro contesto di vita che dalle finalità della comunicazione.
La lingua assumeva un ruolo di protagonismo che non poteva essere disgiunto dall’individuo, anzi come per la scrittura, era l’individuo stesso.
Ne è un esempio l’osservazione contenuta nella prefazione a Lettere da una
tarantata: «Rossi è consapevole di aver consentito ad Anna di essere tutt’uno
con l’immagine che di se stessa si è andata formando durante questi anni»,
grazie alla scrittura epistolare107. Anna, cui Apolito fa riferimento, era una donna del sud Italia che mai aveva usato la scrittura, lo fece solo quando ne fu
richiesta da un gruppo di antropologi per un lavoro d’indagine e nello scrivere, ritrovò la libertà di parlare di sé, si realizzò interiorizzando, con i mezzi
disponibili, la gestione della sua lingua, quella popolare.
Infatti, la lingua delle lettere, se contestualizzata, rivela molti lati della personalità degli scriventi, la scelta di esprimersi in un determinato codice è una
presa di consapevolezza del soggetto.
Come Anna aveva acquisito l’abilità di dar voce al suo «io» nel carteggio,
così fu anche per i Bartoli e i Gabrielli.
Alla luce di queste osservazioni, se fino ad ora, le lettere dei «padri» e dei
«figli» hanno avuto le stesse caratteristiche testuali, sul piano linguistico è necessario differenziarle.
Lettera di Eugenio Gabrielli, 24 marzo 1997, carteggio Gabrielli.
P. Apolito, «E sono rimasta come lisolo a mezzo a mare», in A. Rossi, Lettere da una tarantata,
Argo, Lecce 1994, pp. 7-51: 50-51.
106
107
76
3.1 La lingua dei «padri»
Il saggio di Paolo D’Achille sui testi di scrittura popolare mostra un principio d’italianizzazione che risale al XVI secolo anche se, come dimostrano
le fonti, la diffusione ufficiale dell’italiano popolare avvenne nel XIX secolo.
Il periodo postunitario aveva sensibilizzato alla necessità di valicare il dialettalismo, non solo i membri di classi elitarie ma tutti coloro che sentivano il
bisogno di affermare l’appartenenza ad una patria.
L’essere italiani si fece sentimento comune ma sviluppò da subito differenze interne: «la nascita di una nuova varietà di italiano, ricca di tratti “anormali”,
“irregolari”, “scorretti” venne avvertita da molti, fin dall’Unità d’Italia … momento in cui questa realtà linguistica, rimasta fino ad allora latente, era venuta
più decisamente in attrito con la realtà dell’italiano scolastico, che si andava
diffondendo in ambito borghese»108. Da una parte la borghesia si esprimeva in
un italiano grammaticalmente corretto, dall’altra le classi popolari adeguarono
la lingua ai registri orali e con la pratica massificata della scrittura la resero
sempre più viva e imperante.
Tra XIX e XX secolo, in seguito all’instabilità sociale prodotta dalle guerre
e dalle migrazioni, si acuì il bisogno di scrivere alle famiglie e il dialetto era
una lingua che si possedeva solo oralmente, quella che si sapeva scrivere era
quell’italiano elementare colorito di espressioni popolari. Alcuni anni dopo
l’evento che determinò l’uso dell’italiano popolare unitario fu il fascismo.
Con l’instaurazione del regime, per favorirne l’affermazione sulle culture
resistenti all’ideologia, era stato vietato, nelle relazioni pubbliche, il dialetto,
sia scritto che orale, attribuendogli un ruolo solo folkloristico109. L’uso di una
lingua unitaria non era stato pensato per le necessità comunicative del popolo
ma per sradicarne l’appartenenza locale e l’individualità a favore di un sentimento di massa molto più controllabile.
Questo provvedimento fu imposto nelle scuole e inconsapevolmente acquisito dalle giovani generazioni.
Il lato positivo dell’unificazione linguistica, da quegli anni in poi, fu la
diffusione di una maggiore chiarezza espressiva unita ad una possibilità più
agevole di comunicare tra italiani in madrepatria come all’estero. Infatti questa
lingua aveva portato al superamento delle barriere dialettali regionali ed era la
stessa che si usava in Argentina con gli altri italiani emigrati, così che si passò
autonomamente dai localismi ad una coscienza italiana più ampia che favorì
l’autodeterminazione dei soggetti.
Nel 1970 Tullio De Mauro e Manlio Cortelazzo coniarono il termine «italiano popolare unitario» indicando il linguaggio dei testi popolari prodotti dal
108
109
D’Achille, L’italiano dei semicolti, cit., p. 63.
Rossi, Lettere da una tarantata, cit., p. 102.
77
XIX secolo. Questa definizione comune presenta alcune sfaccettature, mentre
per De Mauro era il «modo d’esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di
comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si
chiama la lingua “nazionale”, l’italiano»110, per Cortelazzo era «il tipo di italiano
imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto»111.
Riassumendo, si parla di una lingua in contatto tra il dialetto correntemente
parlato e l’italiano scolasticamente acquisito che tende a semplificare la grammatica dei codici di scrittura. Per entrambi gli studiosi questo italiano popolare, tipico delle società rurali, si è manifestato quasi esclusivamente nello scritto
e su scala sovra regionale, si tratta infatti di un fenomeno derivato da eventi
storico sociali in risposta alle esigenze comunitarie delle varie epoche.
3.2 L’italiano popolare dei «padri» castelnovesi
L’italiano popolare unitario, dato il periodo storico, è la lingua delle lettere
dei nostri «padri».
Gli scriventi si trovavano nel periodo in cui le grandi migrazioni avevano
contribuito alla diffusione dell’italiano unitario in duplice modo: da una parte
allontanando masse ingenti di dialettofoni, dall’altra favorendo, con le rimesse,
il miglioramento dell’economia del paese che aveva portato all’inurbamento.
Con la costruzione di grandi centri l’italiano popolare era divenuto il mezzo
più efficace per la comunicazione112.
Non si hanno notizie precise sull’istruzione dei Bartoli. Dagli scritti si deduce una formazione elementare che, in quanto avvenuta in epoca fascista, influì
sulla loro scelta linguistica escludendo quasi totalmente l’uso del dialetto.
Nella famiglia Gabrielli l’unica fonte nel campo educativo è la licenza elementare di Enzo che risulta aver concluso i cinque anni di scuola primaria
nel 1932. Vi sono altri indizi che dimostrano come la cultura familiare si sia
autonomamente rafforzata nel tempo, infatti mentre nelle lettere concise dei
Bartoli è evidente la «fatica di scrivere», i Gabrielli mostrano più dimestichezza e passione per la scrittura. La fluidità linguistica, che ne connota i testi, fu
favorita dal piacere per la lettura dimostrato dalla ricca biblioteca conservata
in casa del signor Eugenio, i cui libri sono quasi tutti socio politici, data la
tradizione socialista.
Solo la vecchiaia rallentò la passione epistolare dei Gabrielli, in alcuni casi,
si avvertì la debolezza del prendere in mano la penna e la loquacità delle lette-
D’Achille, L’italiano dei semicolti, cit., p. 47.
Ibidem.
112
Vedi T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Universale Laterza, Roma-Bari 1979, p.
127.
110
111
78
re diminuì drasticamente. Nei loro ultimi scritti Enzo e Lidia cercarono sempre
di scusare l’incertezza grafica e la relativa brevità:
Ora lasio spero mi capirete perché faccio molta fatica a scrivere in Italiano …113.
Scusami del modo di scrivere un po mediocre …114.
Tale presa di consapevolezza resta comunque un fattore eclatante.
3.3 Aspetti linguistici
L’italiano popolare ha delle peculiarità che si ritrovano in tutti i suoi testi,
(comprese le lettere analizzate), tra queste le principali sono: la tendenza alla
semplificazione grammaticale e morfosintattica, l’interferenza col dialetto, che
si rileva dalla trascrizione dei tratti fonetici e lessicali, la tendenza all’arcaismo
nella conservazione di costrutti che la lingua italiana standard ha abbandonato.
3.3.1 La grafia
La grafia è il primo aspetto che colpisce. Le lettere presentano scrittura corsiva e tondeggiante propria dei canoni scolastici, per gli scriventi questa era
una prova rilevante poiché la censura sociale si limitava soprattutto all’aspetto
esteriore del testo. Nonostante gli sforzi per renderla leggibile e curata, la
scarsa familiarità con la penna era manifestata sia dalle difficoltà nel legare tra
loro i caratteri di scrittura corsiva che dai segni di correzione degli errori grammaticali. Successivamente, fu introdotta la macchina da scrivere con cui si cercavano di ovviare le difficoltà nel tracciare il segno alfabetico ma l’incertezza
grammaticale trapelava dagli errori ortografici, dal mescolamento dei caratteri
minuscoli o maiuscoli, dall’assenza degli apostrofi e della punteggiatura.
Un esempio di questo stream of consciousness a mano libera è una comunicazione scritta da Enzo al fratello Eugenio:
Caro Eugenio e Vittoria pochi giorni or sono che abiamo deciso di venire per
mare con Eugenio C. che parte 11-3-84 e arriverà il 23 Marzo ancora la data giusta
non si sa bene comuncue è nel mese di Marzo ci siamo decisi per il prezzo che
risulta molto economico cioè in dollari sono 1400 andata e ritorno ieri ho mandato l’assegno alla compagnia e questa mattina siamo stati a firmare per il foglio di
viaggio che rilasia la polizia e per averlo ce daspettare circa un mese … il ritorno
sarà a nostro piacimento … con il primo di gennaio ho presentato la disdetta del
negozio…115.
113
114
115
Lettera di Lidia Mori, 25 settembre 2004, carteggio Gabrielli.
Lettera di Enzo Gabrielli, 27 febbraio 1997, carteggio Gabrielli.
Lettera di Enzo Gabrielli, 20 gennaio 1984, carteggio Gabrielli.
79
In poche righe si concentrano tanti contenuti senza alcun segno d’interpunzione o pausa di lettura, anche gli apostrofi sono completamente dimenticati.
3.3.2 La fonetica
È soprattutto l’enfasi comunicativa che porta a tralasciare il controllo grammaticale la cui scarsa padronanza si rivela nell’incertezza della scrittura dei
fonemi.
Tra i più problematici vi sono «gn», «gli» e «sci» di cui si trascrive sempre la
pronuncia orale, come «rilasia» senza «sci», un’altra inflessione reggiana è quella che porta alla costante sparizione della «z» a favore di «s». A sua volta «q» è un
fonema difficoltoso perché parlando lo si pronuncia nello stesso modo di «c»
come in «comuncue». Ma l’errore più ricorrente in tutti gli scritti è l’omissione
della «h» nelle forme verbali di «avere»:
dal nostro ultimo viaggio le relasioni fra di noi si sono cambiate lasiamole perdere
e dire solo che il destino le a volute cosi, non è un bene capisco ma andare incontro a ragioni che proprio Enzo non ne a affatto nessuna colpa …116.
L’oralità è fortemente predominante, ciò che non si pronuncia non si scrive.
Altre lacune evidenti si riscontrano con i nessi consonantici o i raddoppiamenti per cui «abbiamo» diventa molto spesso «abiamo»:
Caro Zio Efamiglia noi qui in tempo di guerra se la abiamo passata sempre bene
siamo estati sempre tranqguilli non e mai mancato niente …117,
«trangquilli» è la soluzione ad un momento di incertezza, non sapendo
come scrivere una parola, vi si inserivano entrambe le consonanti ritenute
adatte a produrre il suono conosciuto.
3.3.3 Morfologia, lessico e sintassi
La morfologia e la sintassi sono caratterizzate dalla semplificazione e
dall’analogia di più parole che comporta la formazione di neologismi. L’analogia si realizza sia con la coniugazione di singolari e plurali tra il genere
maschile e femminile, che con la ridondanza pronominale e l’uso di aggettivi
in funzione avverbiale e viceversa. Molto spesso le proposizioni sono sovra
estese e mostrano lo scambio degli ausiliari «essere» e «avere» e la scorretta
coniugazione dei congiuntivi:
116
117
80
Lettera di Lidia Mori, 28 gennaio 1987, carteggio Gabrielli.
Lettera di Giovanni Bartoli, 1 settembre 1946, carteggio Bartoli.
riguardo alle 200.000 lire que ti ha consegnato Silvano io li ho mandato a dire que
se ne avesse bisogno ancora tu se la darai con il mio consenso … Esperiamo que
saresti rimasi contenti dei viaggi fatti assieme … per noi sono stati gratissimi118.
In campo lessicale si trovano influenze di origine dialettale ma in quantità
inferiore a quanto si possa pensare. Le difficoltà maggiori si incontrano nella
resa dei concetti astratti che molto spesso vengono parafrasati e ricondotti ad
un piano di concretezza: «qui in tempo di guerra se la abiamo passata sempre
bene … non e mai mancato niente siamo estati sempre come grandi signori in
comparazione a quello que e passato lì in Italia»119.
A questi elementi si aggiungono i forestierismi, dovuti al contatto con lo
spagnolo argentino, il cui uso porta spesso a confusioni che vanno a sostituire
fonemi o morfemi su cui si hanno già incertezze grammaticali come: «esperiamo que», «cuando», «cualche», «el corso masquerato», «lo lamento tanto per
tua sorella»120. Un esempio ben più efficace è una delle ultime lettere di Enzo
in cui la mente non riesce più a compiere lo sforzo di convertire il pensiero,
ormai spagnolo, in italiano: «pensando alla ruota del tempo, sempre più vicino
mi sento al tramonto ... Date las gracias all’amico Remo Bartoli portatore di
pochi aromi di terra Argentina. Buon Provecio …»121.
Per i «padri», questa influenza delle lingue straniere si rileva solo nelle
lettere degli ultimi periodi. Tutta la vita avevano continuato ad usare l’italiano popolare per determinare la propria identità all’estero, l’obiettivo non era
cancellare il passato ma anzi, fossilizzarlo nelle radici emiliane. Questa idea di
fissità identitaria si rivelò illusoria al momento di una presa di consapevolezza
del territorio straniero e con la costruzione di legami ed interazioni che portarono ad una doppia essenza italo argentina.
Ne è un esempio la lettera che Enzo scrisse alla sorella Gabriella:
Cara Gabriella e tutti, già da qualche giorno che ho ricevuto il giornale della festa
TRICOLORE molto interesante. Recibí da Bordighera da Eugenio la tesi già le contesté a los dos. Yo creo que estas al tanto de todo estos si contesta bien ... en Mayo
es la fiesta de esta stampita. Saludo siempre recuerdo122.
Colpisce come l’integrazione con la cultura spagnola si sia realizzata in un
completo bilinguismo appropriato agli eventi trattati, riferendosi in italiano alla
festa del tricolore reggiano, usò lo spagnolo per parlare dell’anniversario della
Società Italiana di Pergamino. Enzo aveva maturato che il senso di appartenenza al luogo lo si costruiva con l’interazione e la partecipazione alle attività
Lettera di Eledo Bartoli, 20 marzo 1982, carteggio Gabrielli.
Lettera di Giovanni Bartoli, 1 settembre 1946, carteggio Bartoli.
120
Lettera di Lidia Mori, 12 agosto 1985, carteggio Gabrielli.
121
Lettera di Enzo Gabrielli, 10 agosto 1992, carteggio Gabrielli.
122
Cartolina di Enzo Gabrielli, 3 marzo 1997, carteggio Gabrielli, «tricolore» si ritrova scritto
in stampato nel testo originale.
118
119
81
pubbliche e la lingua certo, poteva esserne un mezzo di espressione ma non
necessariamente un vincolo. Con questa consapevolezza l’emigrante aveva
raggiunto, sebbene alla fine della sua esistenza, quella duplicità identitaria che
lo faceva sentire contemporaneamente protagonista di due mondi.
Come scrive Francesco Paolo Cerase, la nuova identità dell’emigrante si è
costruita cercando di colmare quella distanza stridente tra la propria cultura e
la cultura del paese d’arrivo, creando quel senso di ambiguità che l’accompagna in tutta la sua esistenza123.
4 L’identità dei «figli»
Le lettere dei «figli» sono la miglior espressione di duplicità culturale post
migratoria.
La doppia identità era il risultato della pluralità culturale delle famiglie emigranti, infatti la memoria dei «padri», con la sua sovrapposizione tra passato e
presente esasperata dall’uso della lingua italiana nel paese estero, trasmetteva
ai figli un senso di ambiguità identitaria: le radici e il mondo familiare erano
italiani ma il mondo esterno e quotidiano no, era straniero.
Per i «padri», l’imposizione del ricordo rispondeva, da una parte, all’immediata paura d’essere dimenticati, dall’altra alla volontà di affermare se stessi in
un territorio sconosciuto, ma non solo, poteva anche leggersi come la paura di
non potersi inserire in un contesto nuovo, infatti come osserva Camilla Cattarulla: «La dialettica tra attaccamento al passato e proiezione verso il futuro, che
è anche dialettica tra memoria del luogo d’origine e desiderio di inserirsi nel
luogo d’arrivo, si rivela in tutta la sua complessità solo se si considerano più
generazioni della stessa famiglia»124.
Nei paesi coinvolti dall’emigrazione, come ad esempio gli Stati Uniti, le paure dei «padri» legate alle discriminazioni subite nelle nuove comunità, spesso
causarono contrasti generazionali per il modo di vedere e vivere la diversità
culturale, in Argentina questo fenomeno ebbe un’espressione molto più blanda. Il processo d’integrazione si era basato sul riconoscimento degli emigranti
come «agenti di modernizzazione»125 per il Paese, senza escluderne le peculiariCerase, L’onda di ritorno: i rimpatri, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. I, cit., pp. 113125: 113. Ulteriori analisi linguistiche dovrebbero tener conto delle importanti riflessioni di R.M.
Grillo sul cocoliche o itañolo «lingua mista di transizione tra un dialetto italiano e lo spagnolo
rioplatense» molto spesso usata nelle testimonianze scritte dei nostri emigranti in Argentina. Per
approfondimento sul tema vedi R. M. Grillo, L’italiano contaminato nei testi d’emigrazione
dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, in B. Van Den Bossche, M. Bastianesen, C. Salvadori Lonergan (a cura di), Lingue e Letterature in contatto, Atti del XV Congresso
dell’A.I.P.I., Brunico, 24-27 agosto 2002, Cesati, Firenze 2004, vol. I, pp. 61-77: 63.
124
A.M. Martellone, Generazioni e identità, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura
di), Storia dell’emigrazione italiana, vol. II, Donzelli editore, Roma 2001, pp. 739-752: 745.
125
Cattarulla, Di proprio pugno., cit., p. 71.
123
82
tà etniche. Si era lasciato spazio ai «localismi» che ebbero un ruolo importante
nella costruzione identitaria dei «figli».
A tal proposito Helen Barolini propone una riflessione interessante: «Raggiungere l’equilibrio tra la cultura che un individuo eredita e quella nella quale è nato è un aspetto di ciò che i sociologi chiamano «etnicità creativa», che
consiste nell’utilizzare la propria eredità etnica come il punto di partenza sul
quale costruire la propria identità in modo selettivo e critico»126.
Un pensiero tanto paradossale quanto veridico, infatti l’etnicità creativa dei
discendenti degli emigranti, nacque proprio dal «regionalismo», ossia il paese
natio non era visto come un limite da cui sfuggire, anzi, era la base più stabile
su cui porre la ricostruzione di sé.
4.1 Il bilinguismo
Come ricorda Daniel Fabre «non c’è identità, collettiva o individuale, che
non si forgi senza ricorso alla scrittura»127, inoltre vivendo all’interno di un ambiente, quello delle nostre famiglie, in cui la scrittura epistolare era largamente
praticata, questa attitudine si era trasmessa «in maniera quasi subliminale, invisibile e «infrariflessiva»128 alle giovani generazioni che avevano continuato il
contatto epistolare con il paese dei «padri».
Nelle nostre lettere l’uso della lingua italiana era il primo passaggio per stabilire un contatto continuativo con i castelnovesi. Sorge spontaneo chiedersi
quale sia stato il ruolo dell’italiano popolare tra le generazioni che non erano
nate in Italia.
Il cospicuo numero di scritti in madre lingua nei carteggi di entrambe le famiglie, dimostra come vi fosse la ferma intenzione di relazionarsi con un punto di vista italiano quando si comunicava con i parenti di Castelnovo Sotto e
Cogruzzo. Il mostrare questa abilità linguistica era correlato al dimostrare con
orgoglio che si aveva consapevolezza del relativo patrimonio culturale, infatti
«una lingua viva non ha ragion d’essere senza intervenire nelle interazioni con
gli altri … prende l’impronta culturale della famiglia, degli amici, del gruppo
sociale nel quale viene usata … la lingua è un elemento costituente della cultura e, allo stesso tempo, ne è vettore»129.
Nella famiglia emigrata i «figli» acquisivano sia la cultura italiana dei «padri»,
sia la cultura del paese in cui nascevano e crescevano e l’uso di entrambe le
lingue ne era il vettore unificante.
I giovani, tra due lingue, sviluppavano una doppia appartenenza che dava
H. Barolini, Riproponendo The Dream Book, an Anthology of writings by Italian American
women, in A. Arslan (a cura di), Chiaroscuro, saggi sull’identità, Guerini e Associati, Milano,
2004, pp. 177-261: 259.
127
Fabre, Introduzione. Nove terreni di scrittura, cit., p. 28.
128
Lahire, Identità sessuali alla prova della scrittura, in Per iscritto, cit., pp. 151-166: 162.
129
B. Abdelilah-Bauer, Il bambino bilingue, crescere parlando più di una lingua, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, p. 32.
126
83
loro la capacità di ampliare le prospettive cognitive, infatti il bilinguismo era
un fenomeno sociale o societario con connotazioni «soprattutto di ordine storico e politico»130 e diveniva «un doppio mezzo necessario o opzionale, di comunicazione efficace fra due o più mondi che utilizzano due sistemi linguistici»131.
Essere bilingue significava saper interagire con gli altri decifrando i codici
culturali delle realtà con cui si stabiliva un contatto. L’individuo era, prima
di tutto, motivato all’apprendimento linguistico e perfettamente cosciente di
vivere tra due o più culture, in base a questa consapevolezza era in grado di
elaborare pensieri e produrre messaggi nei vari contesti in cui viveva.
Per assicurarsi un ordine mentale era inevitabile che elaborasse inconsciamente una gerarchia linguistica prediligendo una sola lingua con un ruolo
determinante per la propria personalità.
La «lingua madre» deteneva quella posizione preponderante, questo fatto
non escludeva un’ottica di genere dato che, a partire dai primi mesi di vita,
l’approccio alla lingua passava tramite la figura materna, che era fondamentale
nella formazione culturale dei «figli».
«La madrelingua in genere non coincide con quella dello stato nazionale.
Soprattutto perché è una lingua parlata, mentre quella dello stato nazionale
è in primo luogo un codice scritto»132 dunque era sempre la lingua materna a
dare la possibilità al parlante, o allo scrivente, di incarnarsi nel luogo d’origine
e di possederne i codici culturali: «se dovessimo dimenticare anche la nostra
madrelingua … tutto svanirebbe nel nulla. Ci manca la terra sotto i piedi»133.
Certo se a questa dimensione si aggiunge la lingua del paese in cui si viveva, si realizza una perfetta mentalità pluriculturale.
Così, pur non essendo nati in Italia ma vivendo tra due realtà, una italiana
e familiare e l’altra argentina esterna, i «figli» degli emigranti castelnovesi sviluppavano un’identità in continuo divenire, se la relazione familiare era buona
allora non si volevano perdere le radici dei genitori e per questo il ruolo dominante era quello della «dimensione italiana», come dimostrato nelle nostre
lettere ai parenti oltreoceano.
4.2 Aspetti del bilinguismo nei carteggi
I «figli» sia Bartoli che Gabrielli si pongono nei loro scritti ai parenti in
un’ottica italiana. La lingua usata è l’italiano popolare appreso per via orale dai
genitori, con tutte le peculiarità grammaticali trasmesse di generazione in ge-
R. Titone, Per una teoria personologica del soggetto plurilingue l’approccio psicoanalitico e
oltre, in R. Titone (a cura di), La personalità bilingue, Bompiani, Milano 1996, pp. 37-52: 49.
131
Ivi, Titone, Sul significato psicologico della bilingualità, cit. pp. 9-12: 9.
132
E. Jankowski, Ascoltare la madre, in E. M. Thüne (a cura di), All’inizio di tutto la lingua materna, Rosenberg & Seller, Torino 1998, pp. 11-32: 31.
133
Ivi, p. 11.
130
84
nerazione e con frequenti influssi spagnoli provenienti dalla lingua scolastica
e quotidiana del contesto argentino.
Non è interesse dello studio proporre un’analisi linguistica dettagliata ma si
vuole offrire solo qualche esempio, tra i più rilevanti, per mettere in luce gli
aspetti di questo bilinguismo.
La trascrizione di morfemi e fonemi presenta una forte inferenza della lingua spagnola, ad esempio «professora»134 anziché «professoressa», o l’aggiunta
di una «e» davanti ad alcuni verbi «enviarlo», «espero», «espesso», «non vi escrivo
tanto espesso»135. Alquanto tipica è la confusione tra «c» e «q» «il cuale» o «cualquno», «vi mando un bacione a ciasquno»136, non si può definire con certezza
se l’errore sia dovuto più allo spagnolo che sostituisce spesso «c» alla «q» italiana o all’apprendimento dell’italiano popolare di cui questa confusione fonetica è una delle peculiarità più rilevanti.
Altre influenze dello spagnolo sono le formule espressive standard come:
«vederte pronto», «lo lamento tanto»137, «para ésto es necesario»138, queste espressioni molto spesso sono mescolate nel preludio a formule italiane dando origine a degli ibridi: «Come vanno?»139. Tipiche sono le confusioni tra ausiliari
«essere» e «avere» che normalmente hanno funzioni opposte in italiano e in
spagnolo:
Carissimi zii, … posso immaginarmi la sorpressa di ricevere una lettera mia … non
so se sapete che adesso vivo qui in Buenos Aires perché ho incominciato a studiare un’altra volta; … penso di studiare computazione … Sapete sto lavorando nel
vostro metier più o meno; perché sono aiutando con i conti al primo discipulo di
papà … Miguel Aiello … si fanno tutti i lavori di tappezzeria di machine e io sto
in ufficio …140.
Non è possibile elaborare una casistica completa di tutti i fenomeni linguistici che compaiono nei testi in quanto sono molto variabili, spesso la loro presenza è determinata da influenze esterne tra cui la condizione di tranquillità al
momento della scrittura che porta ad una maggior certezza nel padroneggiare
la lingua. Altro fattore importante è la frequenza epistolare, quanto più si scrive tanto più si arriva ad interiorizzare la lingua e diminuire gli errori.
Con il passare del tempo e l’attenuarsi sia del sentimento di appartenenza
a Castelnovo Sotto sia dell’uso dell’italiano in famiglia, visto un bilinguismo
in aumento anche nei «padri», le lettere dei «figli» si fanno sempre più spesso
in spagnolo. A partire da Remo Bartoli che, pur conoscendo bene l’italiano,
134
135
136
137
138
139
140
Lettera di
Lettera di
Lettera di
Lettera di
Lettera di
Ibidem.
Lettera di
Maria Laura Gabrielli, 24 gennaio 1989, carteggio Gabrielli.
Giovanni Bartoli, 20 dicembre 1954, carteggio Bartoli.
Maria Laura Gabrielli, 23 marzo 1988, carteggio Gabrielli.
Enzo e Lidia Gabrielli, 12 agosto 1985, carteggio Gabrielli.
Remo Bartoli, dicembre 1991, carteggio Gabrielli.
Maria Laura Gabrielli, 21 giugno 1987, carteggio Gabrielli.
85
scrive all’amico Eugenio una comunicazione veloce, per comodità, tutta in
spagnolo:
Aprovecho del viaje de Enzo y Lidia para enviarles mis saludos. Más mehubiera
gustado llevárselos personalmente ... Antes que nada debo pedir mis disculpas por
no haber respondido ... no te imaginas como desearía pasar uno o dos días con
ustedes, pues vuestra compañia nos resulta por demás amable y cordial …141;
per arrivare a tempi molto più recenti con le ultime lettere del carteggio
Bartoli di una parente che, dopo aver incontrato i familiari, scrive per ricevere
altre informazioni genealogiche:
de Pergamino saludos de Arturo, Luisa, (de Eusebio) e Adela Bartoli y de mi padre
... Esperamos que puédan venir pronto porque las quiéren conocer ... con respecto
a lo que necesito es la … partida de nacimiento de mi nono...142.
Nonostante si capisca come il senso di appartenenza non dipenda esclusivamente dal possesso della lingua italiana, ugualmente persiste, in chi non la
conosce, un vuoto interiore:
Come voi? Spero che benne tutti. Perdón por no escribir el Italiano yo molto benne
y la mia flia ... Los ricordo con molto affetto sempre. Spero volver pronto a Castelnuovo ... Me puede escribire una letra? Y me dice alguna cosa de mi parientes
Giurlani en Capannori o Lammari?143.
4.3 Scrivere l’italiano
L’importanza delle scuole italiane nei paesi d’emigrazione era già stata prevista dalla «legge Crispi» nel 1889, la legge «travalicava l’obiettivo primario della
semplice istruzione di base degli emigranti e dei loro figli per assumere un
significato marcatamente politico» ossia salvaguardare la lingua italiana come
mezzo per mantenere forte il legame con la madrepatria ma anche agevolare
la diffusione dell’influenza culturale italiana nei settori: politico e commerciale144. Nonostante questi effettivi vantaggi a livello sociale, la scuola d’italiano
era uno dei desideri dei «figli» argentini perché offriva loro gli strumenti per
mettersi in comunicazione con i parenti oltreoceano e comprendere la cultura
delle origini.
Qualora non vi fosse la possibilità di apprendere la lingua degli antenati
direttamente dai parenti, si frequentavano le scuole di lingua italiana organizzate negli Italclubs e questo accresceva il sentimento di appartenenza già
Lettera di Remo Bartoli, 5 marzo 1984, carteggio Gabrielli.
Lettera di Liliana Giurlani, 15 gennaio 1993, carteggio Bartoli.
143
Lettera di Liliana Giurlani, 17 giugno 1993, carteggio Bartoli, «Perdón» è sottolineato in originale nel testo.
144
Vedi Salvetti, Le scuole italiane all’estero, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. II, cit., pp.
535-549: 535.
141
142
86
dimostrato con la motivazione a voler scrivere e parlare l’italiano. La scuola
dava all’emigrato e ai discendenti dell’emigrato una maggior rilevanza sociale
perché si trattava di istituzioni volte a mantenere alto il nome dell’Italia in ambito culturale145. In una lettera di Iole Bartoli si legge: «sono stata con una mia
amica che va imparare l’italiano e le sue compagne, quasi tutte figlie d’italiani,
stanno facendo il passaporto italiano per qualunque eventualità … in questi
giorni ho pensato di farlo anch’io ...»146.
Come per la maggior parte dei casi nella storia della scrittura popolare,
anche per i «figli» della migrazione imparare a scrivere l’italiano correttamente
aveva una finalità utile. In una situazione di tensione economico politica, come
quella argentina dagli anni ’70, sapere l’italiano era una prerogativa importante
che avrebbe aperto le porte verso un paese idealizzato per una vita migliore:
La gente che mi conosce mi domanda sull’Italia e tutti sanno che si sta molto bene,
e per questo che ogni giorno che passa sono più la gente che parte, soprattutto
giovani. E anche mi domandano del viaggio ... sono molto contenta, di averlo fatto,
e vi ringrazio molto. Le mie amiche guardano le fotografie e ripassano un po’ di
storia ... credevano che restassero in Italia però non è possibile perchè i soldi non
valgono niente ...147.
4.4 Tra Pergamino e Castelnovo Sotto, identità italo-argentine
Dalle lettere del carteggio Gabrielli risulta che Maria Laura e Graziella compirono un viaggio (forse il primo) a Castelnovo dagli zii, nel 1967, ancora
bambine e iniziarono da subito a parlare italiano e spagnolo. Nella lettera che
Enzo e Lidia scrissero ai parenti si legge:
Graziella come pure Maria Laura si ricordano tanto di tutti, Maria Laura, ora parla
alla sua nonna, nonno e zio Eugenio per telefono, e alla zia Vittoria le dice, mi
ascolti zia, ora ti canto l’ambasciatore, è vero cara mamma al papà le parla tutto
il giorno e le canta, però fa una confusione mezzo italiano e mezzo argentino, è
tanto carina …148.
Il fatto che le figlie volessero parlare nella lingua madre era motivo di grande orgoglio per i genitori che le educavano più da italiane che da argentine,
infatti, l’identità delle sorelle si forgiò su una matrice italiana. Nel panorama
generale, le condizioni di benessere economico raggiunte in Argentina avevano permesso agli emigranti italiani di far studiare i figli, molti dei quali avevano rivestito ruoli determinanti nella società, in politica e in ambito culturale,
145
146
147
148
Ivi., p. 545.
Lettera di Ioles Bartoli, 16 dicembre 1985, carteggio Gabrielli.
Lettera di Ioles Bartoli, 24 luglio 1988, carteggio Gabrielli.
Lettera di Lidia Mori ed Enzo Gabrielli, 9 aprile 1967, carteggio Gabrielli.
87
riscattando il senso di inferiorità sofferto dai «padri». Così Maria Laura, ancora
studentessa, scriveva agli zii raccontando i propri progressi:
Dopo tanto tempo vi scrivo due righe per mandarvi i nostri più cari saluti … per
dirvi che sempre vi ricordiamo tanto con tanto affetto … io continuo studiando
all’Università e anche lavoro adesso nell’ Ministerio dell’ educacion come professora mi va abbastanza bene … Bene è già tanto tempo che non scrivo che non
riesco a trovare le parole giuste spero mi capiranno … non guardare gli errori per
favore … mia sorella Graziella ha tornato con suo marito e Lucia cresce bene …149.
Anche se si trovava in una condizione culturale superiore a quella dei suoi
destinatari, Maria Laura continuava a scusarsi per gli errori di grammatica perché era consapevole della mancanza di basi scolastiche che le permettessero
di padroneggiare meglio la lingua, una consapevolezza culturale che i «padri»,
spesso, non avevano.
Nonostante le scuse per le scorrettezze grammaticali il dialogo delle nipoti
con i parenti oltreoceano era frequente e carico di spontaneità:
Caro zio Eugenio e zia Vittoria, … devi perdonarmi perché io non so scrivere bene
l’italiano ma spero che tu mi capisca. Il motivo per il cuale scrivo e che come il
mio compleanno e vicino io ho demandato a Papà che mi comperi un orologio di
quarzo…qua sono più cari … tu puoi prendere i soldi di lui a la Banca e enviarlo
dopo con la gente che adesso è là …, ho incominciato la preparazione per ingresare a la Università … e questo è caro … penso di continuare studiando Ingegneria
eletronica. Spero di vederte pronto a te e a la zia Vittoria, un bacio grande e un
forte abbraccio150.
A tal punto che non esitavano a chiedere un favore economico agli zii con
cui da sempre erano in relazione, come se le distanze fisicamente esistenti,
non fossero nemmeno percepite. Il contatto con la famiglia italiana era molto
importante, si sentiva di possedere un’identità da non perdere: «tutto questo lo
scrivo perché voglio che sapete più o meno della nostra vita perché mi pare
che nonostante la lontananza siete la mia famiglia e vi voglio tanto bene; e non
vorrei … perdere tutta la (poca) comunicazione …»151.
L’attaccamento con Castelnovo si rafforzò con il passare del tempo, ciò era
dimostrato da una parte, dal fatto che si cercasse uno dei primi impieghi nello
stesso settore lavorativo del padre e dello zio italiano: «Sapete sto lavorando
nel vostro «metier» più o meno; perché sono aiutando con i conti al primo
discipulo di papà … Miguel Aiello … si fanno tutti i lavori di tappezzeria di
machine e io sto in ufficio …»152, dall’altra dalla disponibilità delle figlie di farsi
da tramite per risolvere eventuali disagi in famiglia con strategie prettamente
149
150
151
152
88
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 24 gennaio 1989, carteggio Gabrielli.
Lettera di Maria Laura Gabrielli, senza data, carteggio Gabrielli.
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 21 giugno 1987, carteggio Gabrielli.
Ibidem.
italiane, come la riunione a tavola dei parenti: «Il motivo della mia lettera è per
tratare di fare qualcosa per due fratelli che adesso non vanno tanto d’accordo.
Vorrei dire tante cose, ma non so come scriverle, spero di riuscire a dire qualcosa … conosco bene le due versioni di quel incidente da anni fa e la ultima
lettera che hanno mandato …»153;
io ho trovato adesso alcune lettere che il nonno ha inviato al mio papà ed anche
che una lettera della zia Gabriella el del zio Eber … ci siamo seduti tutti a tavola
e l’abbiamo letto con attenzione come tu chiedevi ma di quello papà quando l’ha
visto … ha detto che per lui è tutto dimenticato e che non vuole parlare più ... Io
so che questa non è la risposta che ti aspettavi ma io non posso scriverti altro mi
dispiace non aver potuto fare nulla per chiarire questo …154.
Con queste lettere le sorelle Gabrielli dimostrarono una compiuta assimilazione che poneva in relazione lingua e cultura italiana.
4.4.1 Viaggi in Italia
Tale connubio si realizzava anche in un altro tema comune alle lettere di
Bartoli e Gabrielli: il desiderio dei «figli» di conoscere il paese dei «padri». Molte lettere trattano l’argomento e spesso il viaggio al paese d’origine era visto
come un premio che si poteva ottenere una volta compiuto il proprio dovere.
Maria Laura è a BAs dove studia e lavora ed è molto brava e dice che li piacerebbe
venire in Italia quando finisce gli studi …155.
Carissimi zii … ho già finito il mio studio e adesso sono iscritta in tutte le scuole
medie di Pergamino dove posso lavorare … Olga mi ha detto che mi aspettano là,
ti ringrazio tanto l’invito e spero di poter andare un giorno non tanto lontano …156.
L’esperienza dei «figli» in Italia si rivelava sempre eccezionale e i «padri» ringraziavano i parenti per aver offerto la preziosissima possibilità di conoscere
il paese:
Carissimo Guido e tutta la famiglia con il ritorno di Remo siamo stati di festa al
raccontarci tutta la sua gita a casa vostra anche mia nuora e rimasta tanto contenta
ci raccontano che le avete fatto una grande accoglienza ... noi vi ringraziamo di
tutto cuore, di quanto avete fatto per loro, cari cugini, perchè quando uno si trova
lontano il conforto della famigliarita, è una gran soddisfazione, o provato molto
piacere che abbia conosciuto anche il cugino Giovanni...però a potuto conoscere
tutta la Villa, che tu l’hai accompagnato per fin nei prati e fatto conoscere tutti i
miei campi, pure il ... della cantarana peccato che non abbia conosciuto la famiglia
della Dina, sarà per un’altra volta …157.
153
154
155
156
157
Ibidem.
Lettera di
Lettera di
Lettera di
Lettera di
Maria Laura Gabrielli, giugno 1995, carteggio Gabrielli.
Ioles Bartoli, 25 luglio 1988, carteggio Gabrielli.
Maria Laura Gabrielli, 18 luglio 1985, carteggio Gabrielli.
Camillo Bartoli, 24 ottobre 1968, carteggio Bartoli.
89
La visita a Castelnovo permetteva ai «figli» di contestualizzare i racconti dei
genitori e dei parenti emigrati, potendo vivere direttamente i luoghi così tanto
idealizzati e sperimentarne anche le tradizioni. Questa accresciuta consapevolezza di emilianità si rigiocava con orgoglio nelle lettere, ne è un esempio
l’ironia di Remo Bartoli:
Nuestros más sinceros deseos de que pasen una feliz Navidad y un prospero año
1991. Para ésto es necesario non lavorare tanto, mangiare lo giusto e bere assai
sempre che il vino sia un lambrusco “salamino”158.
In questo caso si ha un bilinguismo completo con sicuro possesso di una
duplice identità culturale, lo dimostra il rapido passaggio dal registro spagnolo
a quello italiano in accordo con l’oggetto del discorso, un code switching tipico del soggetto bilingue che sa articolare la sua ironia con riferimenti emiliani
in quanto scrive a destinatari castelnovesi.
Per i «figli» l’appartenenza argentina non era mai escludente, in seguito
all’introiezione della lingua e della cultura italiane, dopo averle usate ironicamente nelle lettere o messe alla prova «sul campo» con i viaggi presso i parenti,
si sentiva la necessità di un recupero della memoria storica italiana. Da un
lato, si chiedevano informazioni per documentare le manifestazioni tipiche del
folklore castelnovese:
peccato che non hay preso parte en el corso masquerato, sarà per l’anno prossimo
... Senzaltro esperiamo que mandarai cualque foto del corso, que secondo te e
stato belissimo e cera molta gente …159;
dall’altro, ci si impegnava attivamente per assicurare la sopravvivenza alla
propria storia di famiglia migrante. Maria Laura, in seguito alla collaborazione
per un progetto sull’esperienza militare del padre, chiedeva di ricevere una
duplice copia del lavoro affinché lei e sua sorella potessero conservare, nelle
rispettive case, quel passato che non avevano direttamente conosciuto ma che
era parte della loro essenza:
è pura verità, di tante cose del suo passato si limita a racontare e tante di quei volte
non vuole neanche ricordare. E venuto in Argentina ed è contento di questo, però
io l’ho sempre visto e lo vedo che nel suo cuore ci sempre l’Italia ed il suo paesello nativo dove tanti sacrifici ha lasciato e ciò te lo dimostra la foto che di recenti
abbiamo fatto, proprio per suo consiglio, per inviarte a te con la sua bella Italia
(dipinta da lui un tempo fa) e tutta la sua famiglia (mia sorella mia mamma e la
nipotina) …, visto che tu mi dici si abiamo bisogno di un’altra copia del libro, a me
piacerebbe moltissimo averne un’altra (così c’è una in Pergamino per mia sorella
e l’altra qui in Buenos Aires in casa mia) … scusa gli «orrori» ortografiche ma non
sono andata a scuola di Italiano160.
158
159
160
90
Lettera di Remo Bartoli, dicembre 1991, carteggio Gabrielli.
Lettera di Eledo Bartoli, 20 marzo 1982, carteggio Gabrielli.
Lettera di Maria Laura Gabrielli, 31 marzo 1997, carteggio Gabrielli.
L’Archivio della Direzione didattica di Castelnovo ne’ Monti
Eccoli i miei scolaretti…
I registri scolastici degli anni 1942-43 e 1943-44
Cleonice Pignedoli
Introduzione
Gli archivi scolastici rappresentano una fonte importante di documentazione, tuttavia spesso contengono, come prevede la legge, esclusivamente gli atti
amministrativi. Si conserva cioè la burocrazia dell’istituzione e si butta tutto
ciò che potrebbe raccontare dei processi educativi, delle pratiche didattiche,
delle mentalità e delle condizioni di una società. Mi riferisco agli elaborati
degli studenti, alle valutazioni dell’insegnante sui propri successi ed errori, ad
osservazioni non convenzionali sulle classi.
Lo stato di conservazione non sempre è buono; a volte gli archivi sono collocati in scantinati umidi, sono stati smembrati o accorpati seguendo la sorte
della scuola o, nei casi peggiori liquidati insieme ad antichi materiali didattici.
Tuttavia si possono trovare anche numerose «perle» riordinate e ben custodite come nel caso dell’Archivio della Direzione didattica di Castelnovo ne’
Monti, da cui provengono i documenti che pubblichiamo.
Si tratta di pagine di Cronaca e osservazioni dell’insegnante sulla vita della
scuola che i maestri erano tenuti a compilare in calce ai registri della classe,
con notizie sulla frequenza e sulle assenze degli scolari, sulle ragioni eccezionali delle assenze numerose, sulle proprie assenze e sulle istruzioni eventualmente date al supplente, sui sussidi didattici e sugli episodi notevoli della vita
cittadina in rapporto alla scuola.
91
Non tutti gli insegnanti, allora come ora, seguivano scrupolosamente le indicazioni di compilazione e, in molti registri, gli spazi per la cronaca vennero
lasciati in bianco.
Quelli che pubblichiamo riguardano due anni scolastici: il 1942-43 e il 194344. Sono di maestre e di sedi diverse.
Siamo nelle frazioni di Castelnovo ne’ Monti; in ognuna di loro funzionano
una o più classi, circa quaranta in tutto il comune.
Le scuole di paese appartengono alla categoria delle «scuole rurali», suddivisione interna alle scuole elementari, introdotta nel 1938 con lo specifico scopo
dichiarato da Giuseppe Bottai (ministro dell’Educazione nazionale dal 1936 al
1943) di «conservare, anzi perfezionare e diffondere nelle località rurali uno
speciale tipo di scuola attiva ed efficiente che, mantenendo vivo il senso della
ruralità, affezionasse alla terra i figli dei contadini e fosse nello stesso tempo
centro di propaganda fascista»1.
Agli alunni delle scuole rurali, tra i più poveri d’Italia, spettavano libri e
quaderni gratuiti, refezione ed altre provvidenze gestite dall’Opera nazionale
balilla.
In realtà, come si deduce indirettamente dalle cronache delle maestre, queste provvidenze erano assai scarse e le famiglie dovevano pagare una tassa
d’iscrizione di Lire 7 (cifra non irrisoria) e partecipare ad altre innumerevoli
raccolte di fondi. Anche la refezione calda, abolita e poi reintrodotta per i
bambini di condizione miserrima e per gli orfani di guerra, non era sempre
garantita con puntualità.
Le scuole rurali avevano classi miste, con frequentanti dalla prima alla quarta, con un massimo di 45 iscritti; la più numerosa Costa de’ Grassi con 41
iscritti. La pluriclasse, come la chiameremmo oggi, aveva dei riflessi negativi
sull’insegnamento. Scrive la maestra Annigoni «Poche sono le ore che posso,
ogni giorno, dedicare a ogni singolo gruppo causa le classi abbinate. Invidio
gli insegnanti che hanno un’unica classe...».
Se scorriamo i dati dei registri di quegli anni, scopriamo che la bocciatura
rappresentava la normalità (a Gatta ad esempio su 28 iscritti quindici erano
ripetenti).
L’obbligo a quattordici anni era ampiamente disatteso o veniva raggiunto
collezionando una serie considerevole di ripetenze.
Un abbandono consistente avveniva dopo aver frequentato quattro anni,
ma aver superato soltanto la seconda classe. In terza era previsto l’esame di
compimento inferiore, altro traguardo importante, raggiunto da una metà circa di studenti. La classe quinta, al termine della quale si sosteneva l’esame di
E. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, il Mulino, Bologna 1996,
p. 442.
1
92
compimento superiore, poteva essere frequentata soltanto a Felina, Gatta e nel
capoluogo dove, nel 1943, per scarsità di aule vennero introdotti i doppi turni.
Le bambine frequentavano con una certa «assiduità» la prima e la seconda;
generalmente erano più brave dei maschi, poi il loro numero diminuiva drasticamente in quarta e quinta, a testimonianza della subalternità della condizione
femminile nel mondo contadino e nella cultura fascista.
La maggioranza delle famiglie era di condizione povera, come è annotato
sui registri: contadini, mezzadri, pochissimi operai, rari «possidenti».
Il tentativo di «affezionare» il contadino alla terra, cioè di rinchiudere nel
proprio stato i figli dei contadini ed impedire ogni tipo di mobilità sociale
(la riforma della scuola del ministro Bottai prevedeva anche scuole artigiane,
pensate per il popolo) doveva fallire al confronto con una condizione sociale
misera, ben testimoniata da alcuni brani delle cronache.
Le maestre Vezzosi e Annigoni riescono, con poche parole, a dare un quadro delle condizioni dei bambini: mancanza di calzature adeguate, lontananza
dalla scuola, lavoro prima di tutto.
Tra l’inizio ritardato per la difficoltà a reperire maestri e maestre e la chiusura anticipata per la guerra, negli anni in questione i giorni di scuola furono
circa 105 (la metà di quelli attuali). Se a questi togliamo le assenze individuali
degli studenti impegnati nei lavori dei campi o ammalati per l’influenza, possiamo ben capire come i risultati fossero scarsi, nonostante l’impegno delle
maestre a «farseli più pronti».
I dati nazionali ci dicono che, nel ventennio fascista, il tasso di diminuzione dell’analfabetismo (e ancor più quello femminile) subì un rallentamento
considerevole2, nonostante il fascismo considerasse la capillarità della scuola
elementare un obiettivo da raggiungere.
La lotta all’analfabetismo non era certo fra gli scopi primari del regime, che
altrimenti avrebbe messo a disposizioni maggiori risorse; piuttosto si vedeva
nella scuola il potenziale di indottrinamento, specialmente rivolto alle classi
rurali, rimaste ancora aliene alla retorica fascista.
I grandi miti della propaganda, patria, ordine, rivoluzione, eroismo, non
avevano attecchito nelle campagne, sia per la scarsa diffusione della radio e
dei cinegiornali, che per lo stridente contrasto tra i discorsi di Mussolini e la
misera vita quotidiana.
Nel 1926 fu fondata l’Opera nazionale balilla con l’intento di organizzare
bambini e adolescenti e formare in loro un autentico spirito fascista. Il rapporto con la scuola divenne sempre più stretto nel corso degli anni e ancor più
dal 1932, quando l’onb controlla i meccanismi di assistenza ai poveri attraverso
l’assorbimento dei patronati.
D. Marchesini, Città e campagna nello specchio dell’analfabetismo (1921-1951), in S. Soldani,
G. Turi, Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1993.
2
93
L’inquadramento militare della gioventù dovrà essere totale e ottenuto con
la collaborazione dei maestri, così si vedrà se la loro adesione al fascismo è
stata sincera3. Il rifiuto a tesserarsi comporterà, in molti casi, l’allontanamento
di tanti «scolaretti» dalle lezioni.
Nel 1943 i consensi al fascismo sono ormai molto scarsi e si preferisce sorvolare su questo aspetto.
L’unica che annota la difficoltà è la maestra Vezzosi: «Ho fatto il possibile
per tesserare gli alunni nell’onb. Non sono ancora riuscita data l’ostilità che ho
riscontrato».
Nelle circolari, il ministero dell’Educazione nazionale invitava i maestri a
richiamarsi ai valori tradizionali della patria, a diffondere l’idea dell’Impero, a
commemorare la Marcia su Roma, a celebrare compleanni e ricorrenze di tutta
la famiglia reale e di Mussolini.
Nell’anno scolastico 1930-31 fu stampato il Testo unico di Stato per le scuole elementari, si doveva fascistizzare l’insegnamento, inculcare nei bambini il
nuovo spirito eroico; nel 1933 inizieranno i programmi per le scuole dell’Ente
radio rurale.
La radio rappresentava un mezzo eccezionale di propaganda, ma gli apparecchi erano pochi e dovettero essere acquistati per iniziativa del maestro,
che avrebbe ricevuto, per questo, una menzione speciale sul suo curriculum.
Quando la radio non c’è, tutta la retorica fascista deve essere trasmessa per
bocca della maestra che fa «partecipare all’odierna vita nazionale i miei alunni
per entusiasmarli e farli vivere nel clima eroico della guerra narrando spesso,
ogni volta, che se ne presenta l’occasione, le gloriose imprese di terra, di mare,
di cielo dei nostri eroi», scrive la maestra Bedogni.
Tra le cronache pubblicate questo è l’unico esempio di assunzione convinta
di un ruolo di indottrinamento.
I restanti diari, pur senza aperte critiche e con le dovute concessioni al regime, lasciano trasparire una descrizione più aderente alla realtà, insieme ad
una partecipazione affettuosa alle difficoltà dei «propri bambini» .
L’ultima riflessione, fra le tante possibili, riguarda il lessico dei registri di
classe che si è tramandato alle successive generazioni di docenti. Anche oggi
risulta difficile sfuggire all’assidua frequenza e alle lacune da colmare.
3
De Fort, op. cit., p. 397.
94
Felina, a.s. 1934-35, la classe della maestra Arcadia Romei
Cronaca ed osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola.
Dai registri di classe conservati nell’Archivio storico della
Direzione didattica di Castelnovo ne’ Monti*
Scuola Mista Regnola
Classi: prima, seconda, terza e quarta.
A.S. 1942/43
Insegnante straordinaria Bedogni Alba
25-30 Settembre Iscrizione degli alunni. Tutti si sono presentati con la prescritta quota di lire 7. Eccoli i miei scolaretti, c’è una gioia nei loro cuori e una
specie d’ansia che ha luce dai loro occhi nel rivedermi.
Le iscrizioni sono complete, tutti gli obbligati si sono presentati.
* I nomi degli alunni sono stati sostituiti con nomi di fantasia. Un ringraziamento a Danila
Rosa per il lavoro di trascrizione.
95
1 Ottobre Riapertura della scuola. Inaugurazione dell’anno scolastico. La
scuola ha celebrato con rito ardente di fede e di patriottismo l’inizio del nuovo
anno scolastico alla presenza di tutti gli alunni e parecchi famigliari. Grave dovere è il nostro nel momento presente. Il maestro deve sentire questo dovere
e procurare di compierlo di più, degnamente possibile, con senno e cuore.
Incasso prodotto del campicello lire 40.
5 Ottobre Si sono incominciate le lezioni regolari. Mi pare che non troverò
difficoltà nello svolgimento del programma perché gli alunni sono volenterosi
d’imparare, di apprendere cose nuove per loro utili e istruttive.
9 Ottobre Ho distribuito i nuovi libri di testo, che mi sono stati inviati dalla
Direzione dietro mia richiesta, a tutti gli alunni iscritti. Con quale soddisfazione
i bambini hanno accolto i nuovi libri! La loro gioia è indescrivibile. Raccomando loro, specialmente ai piccoli, di tenere sempre pulito e ordinato il loro libro
e di leggere ogni giorno.
12 Ottobre I primi giorni sono dedicati a grandi italiani la cui figura appare
ai miei alunni quasi leggendaria. E favolosa sembra loro la vita e l’impresa del
Grande Genovese di cui ricorre oggi la giornata commemorativa.
19 Ottobre Ricevuta circolare N° 2 che ha per oggetto: Orario, Domande di
Congedo-Assistenza sanitaria-Giornata del Risparmio e Varie.
28 Ottobre La ricorrenza dell’Annuale della Marcia su Roma è stata celebrata
con speciale solennità ben intonata all’Atmosfera eroica nella quale viviamo.
Prendendo lo spunto dal Dettato: 28 Ottobre e dai racconti del libro di testo
spiego il significato della “Marcia su Roma”, nelle sue cause, nella sua epica
vicenda e nei suoi effetti.
Balilla e Piccole Italiane hanno cantato gli inni della Patria e della Rivoluzione elevando un pensiero di riconoscenza per il Duce e per i Camerati in
armi che dalle sabbie infuocate del deserto africano alle steppe della Russia
combattono con indomito valore.
31 Ottobre Giornata del Risparmio. Ho parlato agli alunni di tale festa e
della necessità del risparmio.
Particolare significato di questa festa in un periodo in cui è dovere di ogni
buon italiano economizzare e risparmiare per sé e per la Patria.
Facciamo anche noi il piccolo salvadanaio di classe. I soldini serviranno ad
acquistare libri per la bibliotechina scolastica o per comperare sementi per il
campicello scolastico o per la Croce Rossa.
1 e 2 Novembre Commemorazione della festa di tutti i Santi.
96
Commemorazione dei defunti. La Chiesa ci chiama a ricordare i nostri morti, anzi tutti i morti e a pregare per loro.
2 Novembre Oggi ha avuto inizio la refezione scolastica. Come sono contenti i bimbi di mangiare a scuola la minestra! E con quale gioia hanno accolto
l’entrata del paiolo con la buona minestra per loro ristoratrice! È un piacere
vederli mangiare!
4 Novembre Ricorrendo l’anniversario della Vittoria ho parlato ai miei alunni
della Grande Guerra, del sacrificio dei nostri valorosi soldati, dei luoghi dove
combatterono, i fatti più gloriosi e i grandi Condottieri. Ho letto il bollettino
della Vittoria e fatto un dettato di circostanza. Ho messo in rilievo la guerra di
allora e quella di oggi, la diversità dei fronti e di tattica, letto e narrato quanto
può esaltare il valore dei nostri soldati e la grandezza del loro sacrificio.
7 Novembre Sono state svolte diverse lezioni all’aperto. Gli alunni si interessano e seguono le lezioni con vivo piacere.
11 Novembre Ho parlato ai bambini del Genetliaco di S.M. il Re e Imperatore esaltandone la figura del Re Soldato. Dò pure un cenno sulla sua gloriosa
famiglia.
11 e 17 Novembre Nei giorni 11 e 17 si sono presentati a questa scuola tre
alunni provenienti da Genova: P. I. Adele, P. I. Rosa, Figlio della Lupa, Umberto. Le due Piccole Italiane frequentano la quarta classe e il Figlio della Lupa
la classe seconda.
I nuovi alunni sono stati accolti da me con spirito di comprensione e con
amore dedicando ad essi particolari cure affettuose agevolandoli in tutto quanto è necessario in modo da ridurre al minimo il disagio del repentino cambiamento di residenza di queste vittime innocenti della barbarie nemica.
14 Novembre Inizia oggi il sabato fascista. Dedico in un giorno della settimana a lezioni di Cultura Fascista e esercizi vari.
18 Novembre Annuale dell’Assedio Economico contro l’Italia. Parlo ai bambini di questa indimenticabile data in cui ha avuto inizio la più nera delle
ingiustizie, cioè l’applicazione delle Sanzioni.
24 Novembre Il giorno 23 è stato tenuto a Castelnovo nè Monti il Convegno
Magistrale indetto dal R° Provveditore agli Studi. Oltre alle notizie riguardanti
la ruralità della scuola il R°. Provveditore ci ha parlato del lavoro nella scuola,
della scuola all’aperto, dei corsi di perfezionamento ai quali ogni insegnante
deve intervenire e del momento attuale.
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26 Novembre Partecipo al corso di agraria tenuto dal Signor Benevelli.
3 Dicembre Il grande discorso del Duce. Leggo e spiego agli alunni il discorso del Duce che dopo diciotto mesi di silenzio, in un’ora di prova gloriosa
la voce attesa da tutto il popolo italiano ha parlato, ha echeggiato nelle case,
nelle piazze, nelle strade, tramutate come sempre in un solo arengo.
Il giorno 1 Dicembre si è presentata a questa scuola un’altra alunna proveniente da Genova: la Piccola Italiana Francesca frequentante la prima classe.
5 Dicembre Commemoro l’episodio di Gian Battista Perasso. Più che al racconto storico ò cercato di far risaltare la figura dell’eroico giovinetto, sprezzante del pericolo animoso e amante della Patria, esempio vivo della realtà ideale
di questi sentimenti che sono stati la base dell’amore e della fede incrollabile
delle nostre generazioni.
7 Dicembre Ogni lunedì svolgo l’ora settimanale della guerra.
Commento gli avvenimenti militari principali accaduti nella settimana precedente e dei principali avvenimenti nazionali.
Conversazioni con gli alunni per penetrarne l’animo e giungere alle famiglie.
Commemorazione della festa dell’immacolata concezione.
14 Dicembre La scolaresca prende viva parte alle lezioni di Nozioni Varie
ecc che vengono fatte all’aperto e si interessa di qualsiasi argomento e sa poi
discretamente, fare un riassunto orale e scritto. Anche i pensierini, il Diario
riescono abbastanza corretti.
18 Dicembre Nella prima mezz’ora dell’orario scolastico ho riunito i genitori
degli alunni e li ho intrattenuti sul profitto e sulla condotta dei loro figlioli di
questo primo bimestre e sulla necessità di una più stretta collaborazione fra
scuola e famiglia.
19 Dicembre Parlo agli alunni di Arnaldo Mussolini, del collaboratore che
voleva l’amore dei campi, la santità e l’armonia della famiglia e che esaltava il
lavoro, fonte di ricchezza.
Per ordine superiore da domani incominceranno le vacanze invernali che
dureranno sino al 15 di febbraio. La nostra opera educativa deve continuare
anche durante le vacanze, perciò invito gli alunni a ripresentarsi a scuola il
giorno 8 Gennaio per la revisione dei compiti assegnati, intendendo prendere
i miei alunni una o due volte alla settimana per questo contatto piacevole e
utile nel medesimo tempo. Assegno loro i compiti e dò le istruzioni necessarie.
Lascio i miei alunni augurando loro buone Feste con la speranza di rivederli
tutti l’8 Gennaio.
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20 Dicembre Il programma stabilito per il mese di Dicembre, sebbene il
periodo delle lezioni breve, è stato svolto in ogni sua parte. Il profitto è abbastanza soddisfacente.
6 Gennaio Distribuzione della Befana Fascista.
8 Gennaio Rivedo i miei alunni dopo il lungo periodo delle vacanze Natalizie e di Capo d’Anno per la revisione dei compiti e per l’assegnazione di
nuovi.
15 Gennaio Da oggi, sino al 15 di febbraio, due volte alla settimana prendo
a scuola i miei scolaretti per la correzione dei compiti loro assegnati, perché
non si dimentichino quello che è stato loro assegnato con tanta fatica.
Febbraio
Riprendiamo con gioia il nostro lavoro scolastico, dopo due mesi di vacanza straordinaria, con serenità e con rinnovata energia.
17 Febbraio Causa la forte nevicata pochi sono gli alunni presenti.
20 Febbraio Parlo agli alunni del Cambio della Guardia al Ministero dell’Educazione Nazionale. Al Ministro Giuseppe Bottai è succeduto il Ministro Carlo
Alberto Bigini. Leggo sul giornale le note biografiche del nuovo Ministro.
27 Febbraio Distribuzione delle pagelle con le qualifiche del primo trimestre per la firma del genitore.
Con una semplice e suggestiva cerimonia sono state distribuite le tessere ad
ogni singolo organizzato. Questa cerimonia à gridato il saluto al Real Duce e
gli alunni hanno cantato l’inno “Giovinezza” seguiti da altri inni.
Il programma stabilito per il mese di febbraio non è stato svolto in tutte
le sue parti per mancanza di tempo, in Marzo completerò gli argomenti non
svolti.
3 Marzo Parlo ai bimbi dell’Altezza Reale il Duca d’Aosta, Amedeo di Savoia deceduto a Nairobi in prigionia di guerra il 3 Marzo 1942-XX. Gli italiani
ricordano con commossa fierezza l’eroe dell’Amba Alagi e inchinano riverenti
le loro bandiere e i loro gagliardetti.
È stata fatta la raccolta dello “Straccetto di lana” sono stati raccolti Kg 1,600
di stracci di lana che vennero consegnati al Fascio di Castelnovo né Monti.
8 Marzo Faccio partecipare all’odierna vita nazionale i miei alunni per entusiasmarli e farli vivere nel clima eroico della guerra narrando spesso, ogni
volta, che se ne presenta l’occasione, le gloriose imprese di terra, di mare, di
cielo dei nostri eroi.
99
18 Marzo A mezzo vaglia postale ho trasmesso al Comitato Nazionale Stampa e Propaganda Rurale L. 20 per ottenere il Volume “Vita e Scuola Rurale”.
22 Marzo Avevo chiesto alla Federazione Nazionale Fascista, Casse Mutue
Infortuni Agricoli – Roma materiale per propaganda antinfortunistica agricola e
pacchetti di medicazione. Mi è stato risposto, che per disposizioni Ministeriali
è stata sospesa da parte delle R.R. Poste l’accettazione di opuscoli e stampe.
Per quanto riguarda i pacchetti di medicazione richiesti la Federazione stessa è
spiacente di non poter aderire alla mia richiesta perché non ha ancora stabilito
il piano di reparto.
23 Marzo Nella rievocazione di questa storica data ho ricordato agli alunni
che molte furono le lotte che i primi fascisti dovettero sostenere perché la loro
idealità fosse conosciuta e abbracciata. Il piccolo stuolo di Piazza S. Sepolcro
con a capo il Duce è diventato un esercito che abbatterà ogni ostacolo per
ridare all’Italia la grandezza e la potenza dell’antica Roma.
25 Marzo Sono state raccolte Pro’ Bibliotechina Scolastica L. 49,70. Nel salvadanaio L.8
3 Aprile Ordinazione di N.10 Volumi alla Società Editrice “La Scuola” Brescia
per la Bibliotechina Scolastica. Importo L. 40,30
Ricevuta circolare N. 65 di protocollo che ha per oggetto: Varie.
Celebrazione dell’eroico sacrificio del giovane maltese Carmelo Borg. Pisani, caduto per l’italianità della sua Isola. Offerte raccolte L. 10.
8 Aprile A mezzo vaglia postale ho trasmesso al Ramo Editoriale degli agricoltori- Roma L. 17,50 per ottenere i volumi: Orticoltura moderna. I parassiti
animali del frutteto. Erboristeria.
12 Aprile Ho condotto i miei alunni a Castelnovo ad assistere alla recita di
beneficenza “Pro Scuole Elementari”.
Quanta felicità nei miei bimbi che vivono in un angolo sperduto senza nulla
vedere, senza nulla conoscere di ciò che è bellezza, grazia e poesia!
14 Aprile A mezzo raccomandata ho inviato al R° Direttore Didattico il Rapporto sull’opera svolta e sui risultati conseguiti dal Documentario ortografico,
l’elenco dei libri esistenti nella bibliotechina scolastica con le relative notizie
richieste e la Relazione sulla lettura individuale e collettiva.
17 Aprile Sono state raccolte L. 9 per tesserino della Dante Alighieri.
Sono state versate alla capogruppo M° Vinsani L. 10 per abbonamento
all’Ente Biblioteche Scolastiche e L. 9 per le tesserine individuali della Dante
Alighieri.
100
Distribuzione delle pagelle con le votazioni del II quadrimestre.
5 Maggio Parlo agli alunni di questa data gloriosa, cara al cuore di ogni
italiano, degli atti di eroismo per la conquista dell’Impero che trovano degno
riscontro in quelli compiuti per la sua difesa.
7 Maggio Ho parlato alla scolaresca dei nuovi aggressivi aerei nemici: piastrine incendiarie, palloncini, matite e stilografiche esplosive, del come proteggersi da essi, della innocente vittima Calabrese e della barbara incursione
su Grosseto.
3 Maggio Ho letto alcuni episodi della barbara aggressione dell’aviazione
americana sulla popolazione di Grosseto e fatta vedere la fotografia del piccolo Calabrese Francesco Romeo. Il fatto di Grosseto e del piccolo Ciccio Romeo
ha suscitato nell’animo mio e dei miei scolaretti orrore e indignazione contro
i barbari aviatori nemici.
8 Maggio Ricevuta Circolare del R° primo Ispettore Scolastico numero di
protocollo 652 che ha per oggetto: Revisionismo. Sintetismo. Dinamismo.
12 Maggio Tutto quanto in essa contenuto sarà da me meditato e tradotto
in atto e farò mio il nobile commovente appello patriottico della finale della
Circolare che verrà inserita al Giornale di Classe per avere sempre presente
l’importante documento.
10-14 Maggio Ricevuta Circolare numero 274/114 di Protocollo del R° Direttore Didattico che ha per oggetto: Varie. Convegni Didattici. Congedi. Opuscolo. Stato Civile. Raccomandazioni.
18-19-20 Maggio Si procede agli scrutini. Conosco i miei ragazzi, si può
dire che saprei prevedere uno per uno che cosa sanno fare e come sanno fare,
però negli ultimi tre giorni di scuola li sottopongo ad alcune prove scritte e a
interrogazioni per dar loro l’impressione di un esame e per confermare il mio
giudizio.
20 Maggio Ultimo giorno di scuola. Assegnazione dei compiti per le vacanze. Raccomandazioni per il venturo anno scolastico.
22 Maggio Ricevuta Circolare numero 304/33 che ha per oggetto Varie. Il
saluto alla scuola è unito ad un saluto alla nostra cara e santa Patria e ai nostri
valorosi soldati.
101
Scuola Mista Ginepreto 1942/43
Classi: prima, seconda, terza e quarta.
Insegnante straordinaria Annigoni Alba
1 Ottobre Riapertura della scuola. Inaugurazione dell’anno scolastico. Messa
per gli alunni alla quale hanno assistito anche alcuni genitori.
2 Ottobre Inizio delle lezioni. Presenti pochissimi per tutte le classi. Insisto
perché ci sia maggior frequenza ma ora, causa la semina e la raccolta delle
castagne i ragazzi più alti mancano da scuola.
8 Ottobre Ho trovato gli alunni di seconda discretamente pronti in lettura e
nei dettati. Stentano invece a comporre pensierini; anche l’aritmetica sembra
che sia stata messa un poco da parte. Con parecchi esercizi cercherò di farmeli
più pronti.
16 Ottobre Oggi ci sono solo due ragazzi di terza presenti. I tre alunni iscritti
alla quarta non si sono ancora presentati. Insisto perché vengano, ma i genitori, che mancano assolutamente di aiuti e che sono sovraccarichi di lavoro
specie ora, non li mandano a scuola.
22 Ottobre Anche oggi solo presenti due di terza. Questa notte è piovuto e
oggi i contadini approfittano per seminare.
27 Ottobre In seconda classe quasi tutti presenti. La prima è al completo.
Seguono quasi tutti discretamente. La Nella è una bimba discretamente sveglia
e mi farà benino; vi sono pure altri elementi che spero mi potranno rendere.
28 Ottobre È una giornata bruttissima. Solo un bambino di terza è presente.
Bisogna considerare che la strada che viene da Ginepreto non è affatto buona,
anzi è a volte impraticabile poi i ragazzi sono anche sprovveduti di calzature.
La distanza è anche considerevole. Così pure per chi deve venire dal Pianello.
Ogni giorno insisto coi ragazzi e più spesso coi genitori affinché non ci siano
assenze ma non vale. O il lavoro, o la stagione poco buona, specie ora me li
trattengono a casa.
31 Ottobre Ho mandato a vendere Kg 11 di patate ricavate dal campicello
scolastico. Col ricavato acquisterò o libri o qualche sussidio didattico che crederò più necessario.
2 Novembre Anche con la terza classe, dopo avere atteso anche troppo, ho
già iniziato il programma. In quarta ancora nulla.
102
4 Novembre Ricordo agli alunni l’anniversario della Vittoria e parlo dei sacrifici e delle lotte durissime sostenute e sopportate dai nostri eroici soldati.
9 Novembre È il primo giorno in cui gli alunni di terza e quarta sono tutti
presenti. Potrò così ora cominciare sul serio il programma.
16 Novembre La frequenza ormai è quasi regolare e continuo così lo svolgimento del programma in tutte le quattro classi. Poche sono le ore che posso,
ogni giorno, dedicare a ogni singolo gruppo causa le classi abbinate. Invidio
gli insegnanti che hanno un’unica classe, non perché abbiano meno lavoro,
ma perché si può curare in modo diverso e con più amore. Anche lavorando
come faccio non possono gli alunni rendere come se fossero di una sola classe. Spero però che si riconoscano tutti gli sforzi che facciamo per arrivare al
completo svolgimento di tutto il programma.
5 Dicembre Ho consegnato alla Signora Vinzani numero 2 paia di calze che
le bambine della scuola hanno fatto con la lana che mi era stata precedentemente consegnata, pro combattenti.
11 Dicembre Continuo a svolgere regolarmente il programma poiché ora
quasi tutti gli alunni sono presenti in grazia alla bellissima stagione che ancora
continua. I bambini seguono discretamente bene e studiano con discreta buona volontà. I bambini di prima classe mi fanno già facili dettati, leggono sulle
paginine del sillabario e anche alla lavagna. Ancora non li ho fatti scrivere a
penna e non lo farò, ormai, altro che dopo le vacanze. La Bruna e Mauro trovano maggiore difficoltà a leggere che non a comporre paroline. Cercherò di
colmare questa lacuna con molti esercizi.
18 Dicembre Iniziano ormai le vacanze: sono lunghe ma ò invitato gli alunni a portarmi i compiti ogni 10 giorni cominciando dal 9 gennaio.
15 Febbraio Sono ricominciate le lezioni regolarmente. Sarà necessario
metterci al lavoro entrambi con buonissima volontà per recuperare in parte
il tempo perduto in queste vacanze. Come mi ero proposta, sono venuta a
correggere i compiti e a darne dei nuovi ogni 10 giorni, per più volte, e tutti
indistintamente sono sempre stati presenti.
15 Marzo Frequenza normale in tutte le classi. Continuo lo svolgimento
quasi regolare del programma. Comincio a fare qualche lezione all’aperto di
Geografia, con i ragazzi di terza e quarta (scienze e nozioni varie pure in terza
e quarta). Coi ragazzi di prima e seconda mi limito solo a fare qualche osservazione sulla natura. Ad ogni lezione una breve relazione scritta dagli alunni.
103
1 Aprile Un ragazzo di IV per volontà dei genitori si è trasferito e da me
sono venuti altri tre alunni: Antonio di seconda, Giuseppe di terza e Giulia di
quarta classe. I primi due sono discretini l’ultima invece ha fatto troppe assenze e à dimenticato anche il programma di terza.
10 Aprile Due ragazze di quarta non frequentano più perché il lavoro dei
campi le chiama. La Giulia iscritta il primo aprile non può assolutamente seguire il programma di quarta che ora sono costretta ad abbandonare e la considererò di terza così potrà imparare le cose che più assolutamente non ricordava.
30 Aprile Continuo a fare lezione all’aperto. I ragazzi tutti vi prendono viva
parte e si interessano a tutto lo svolgersi della natura.
20 Maggio Si sono chiuse, forse troppo presto tutte le scuole per ordini superiori. Abbiamo sentito la mancanza dell’ultimo mese per il ripasso. Ho fatto
parecchie raccomandazioni per i compiti che tutti gli alunni dovranno fare
nelle vacanze per ritornare a scuola in condizioni non disperate.
Scuola Mista di Gatta
Classi: seconda e quarta
a.s. 1943/44.
Insegnante Ordinario: Albertina Baccarani Eva
9 Novembre Stamattina ho ricominciato le lezioni. Le classi a me affidate
sono la seconda e la quarta.
10 Dicembre I bambini vengono a scuola volentieri. Sono abbastanza volenterosi. La frequenza è regolare, tranne per un alunno di IV che non s’è
ancora presentato.
12 Gennaio Sono ricominciate le lezioni dopo le vacanze natalizie. Spero
presto potere fare la refezione calda per bambini più poveri e bisognosi.
31 Gennaio I miei alunni frequentano sempre molto volentieri, nonostante,
in qualcuno, noti un po’ d’indolenza e di fiacchezza. Mi seguono però nello
svolgimento un po’ affrettato del programma. In lingua e in aritmetica sono un
po’ scadenti.
15 Febbraio L’influenza, che ogni anno ostacola il regolare andamento delle lezioni, è arrivata anche quest’anno. Parecchi alunni mancano. Trattengo i
presenti con esercizi orali e scritti di ripetizione.
104
29 Febbraio Faccio molti esercizi alla lavagna di lingua e di aritmetica perché
riconosco che i miei bambini ne hanno una grande necessità. Scrivono male
italianizzando troppo il loro dialetto e conteggiano troppo lentamente. Esercitandoli continuamente, ho la speranza di notare presto qualche progresso.
14 Marzo Stamattina non ho potuto fare lezione. Il ponte di Gatta è saltato
in aria la notte scorsa per opera dei ribelli, perciò stamane presto il paese era
circondato dalle autorità e nessuno poteva transitare.
16 Aprile È partito oggi il maestro Cherubini che ha lasciato in tutti un buon
ricordo. Era un bravo insegnante, serio ed affezionato alla scuola.
20 Aprile Ieri è venuta la nuova supplente. Le lezioni sono ricominciate
regolarmente.
30 Aprile Ho quasi terminato il programma di IV e da alcuni giorni ho terminato quello di II. Sono contenta perché riconosco che i miei bambini sono
diventati migliori hanno dimostrato, tranne che pochi elementi, disciplina,
buona volontà e assiduità alle lezioni.
16 Maggio Oggi sono stata a Castelnovo ne’ Monti ad accompagnare mio
nipote a sostenere l’esame di ammissione e ho saputo della chiusura anticipata
della scuola.
17 Maggio Questa mattina si sono presentati a scuola gli alunni e dopo aver
dato loro la notizia della chiusura della scuola, ho consegnato loro i quaderni
e li ho invitati a ritornare il 25 a ritirare le pagelle.
Scuola Mista di Ca’ di Scatola
Classi: prima, seconda, terza e quarta
Insegnante supplente Wanda Vezzosi
11 Dicembre 1943 Primi giorni di scuola; conoscenza degli alunni e di
alcuni genitori, impressioni varie, primi giudizi. Il numero degli iscritti è molto piccolo: 14 alunni distribuiti nelle quattro classi. Ho notato un ragazzo di
quarta classe abbastanza sveglio e intelligente: Giuseppe; gli altri sono un po’
lenti e addormentati. Fra gli alunni della prima classe tre di essi vengono per
il primo anno a scuola con un’aria molto smarrita, ma con grande desiderio
di potere possedere un libro ed un quaderno. L’aula scolastica è un ambiente
molto piccolo contenente sei banchi, un tavolino, due armadietti. Le pareti
sono guarnite da tre carte geografiche: una vecchia carta d’Europa, una carta
105
dell’Emilia e una carta d’Italia. Una piccola stufa Becchi riscalda molto bene
l’ambiente.
16 Dicembre 1943 Ho riordinato la biblioteca di classe. Sono rimasta molto contenta nel trovare opere di valore letterario come la letteratura del De
Sanctis che tornerò a consultare con molto piacere. Sono parecchie le opere
di filosofia e di pedagogia che m’interessano vivamente. Fra i romanzi ho
notato alcune delle principali opere di J. London; mi rammarica la mancanza
di Martin Eden. Vi sono due opere del Panzini un’opera di G. Conrad che mi
fa ricordare il memorabile Lord Jim. Anche i volumi per i ragazzi sono molto
interessanti. Gli alunni di quarta classe leggeranno con piacere i volumi di Salgari e del Wernes. Sono pure numerosi i libri di fiabe che interessano grandi e
piccoli per la loro sbrigliata fantasia.
14 Gennaio 1944 Ho incominciato la lettura di “Pinocchio” nelle classi terza
e quarta. Gli alunni seguono con vero interesse la storia del burattino, poiché
in esso ritrovano se stessi, i loro difetti, le loro spontaneità. Pinocchio infatti,
non è il bambino di una determinata epoca, ma è il monello di tutti i tempi,
con un grande cuore, ma sempre pronto a combinare una qualche monelleria.
La lettura di questo libro riesce molto educativa, poiché in essa gli stessi alunni
rilevano che a fare il bene capita il bene, a fare il male capita il male.
28 Gennaio 1944 Devo svolgere molto lentamente il programma della prima classe dato il cattivo elemento degli alunni. Solo due (...), essendo ripetenti, seguono abbastanza bene; gli altri sono tardivi e lentissimi. Sono nell’impossibilità di fare leggere Giovanni, che si limita a scrivere malamente, ma non
riesce a distinguere le lettere fra di loro.
13 Febbraio 1944 Da alcuni giorni devo registrare numerose assenze, causa
l’influenza che è propagata nel paese. Oggi due soli alunni erano presenti alle
lezioni per cui ho dovuto arrestarmi nel programma e fare ripetizione.
21 Febbraio 1944 Continuano le assenze causate dall’influenza e dal cattivo
tempo.
7 Marzo 1944 Ho fatto il possibile per tesserare gli alunni nell’onb. Non
sono ancora riuscita data l’ostilità che ho riscontrato. Spero, tuttavia, di riuscire
in seguito a fare qualche iscritto.
29 Marzo 1944 Ieri la Signora Ispettrice ha tenuto un’adunanza a Castelnovo Monti a tutti gl’insegnanti del Comune. Ha rispecchiato con chiarezza
l’attuale difficile situazione dell’insegnante ed ha consigliato di rivolgere l’insegnamento verso tre verità che non muoiono mai: Dio, patria, famiglia. Ho
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ascoltato con piacere la sua parola d’incitamento e di fede. La scuola, infatti,
che ha il compito di forgiare gli uomini di domani, ha il dovere d’inculcare
in essi sentimenti di fede e di patriottismo e di insegnare loro che per quanto
misere siano le condizioni attuali, la patria non può morire, perché come dice
Mazzini, essa è la più grande, la più santa delle realtà.
26 Aprile 1944 In questi giorni la frequenza è molto irregolare rimanendo
gli alunni di terza e di quarta assenti per i lavori di campagna e i più piccoli
per portare al pascolo le pecore. Le famiglie si disinteressano completamente
della scuola essendo questa, per loro, un lusso da concedersi solo nel tempo
invernale quando nessun altro lavoro li attende. Ma ora, due sole cose hanno
per loro importanza: la terra e la stalla e solo quando in queste, non vi è niente
da fare i bambini possono venire a scuola.
Scuola Femminile Capoluogo
Classe quinta 1943/44
Insegnante Ordinario Nebe Corbelli
8 Novembre 1943 Riapertura delle scuole. Con la cerimonia religiosa abbiamo iniziato la ripresa del lavoro. Affratellati nella fiducia in Dio, ricominciamo
il cammino, guardando in alto…
2 Dicembre Adunanza di principio d’anno. La Direttrice ha impartito agli
Insegnanti del circolo, le disposizioni che dovranno regolare il funzionamento
delle scuole nell’anno scolastico 1943-44.
22 Dicembre Vacanze natalizie. Il Ministero dell’E.N. [Educazione nazionale, NdA] ha disposto che le vacanze comincino il giorno 23 corr. e abbiano
termine il giorno 8 del prossimo gennaio.
10 Gennaio L’anno scolastico diviso in due periodi. Il Ministero dell’E.N.
ha disposto che, tenuti presenti il ritardato inizio delle lezioni e le difficoltà di
vario ordine tra le quali si svolge la vita scolastica, il corrente anno scolastico
sia ripartito nei due periodi seguenti:
primo periodo: dall’inizio delle lezioni al 15 marzo.
secondo periodo: dal 16 marzo alla fine delle lezioni.
Per la scarsa disponibilità di aule, si è reso necessario fare un secondo
turno d’insegnamento ad orario ridotto: inizio delle lezioni alle ore 13.30, fine
delle lezioni alle 16.30.
Sono stata assegnata ad esercitare la mia attività nelle ore pomeridiane;
spero che il mio buon volere e l’operosità della mia scolaresca suppliranno
alle deficienze dell’orario.
107
24 Gennaio Per ordine superiore ripristino l’orario normale, collo svolgimento delle lezioni nelle ore antimeridiane.
5 Febbraio Sottoscrizione pro sinistrati: offerte raccolte lire 61,40.
15 Marzo Chiudendosi il primo periodo di attività scolastica esamino il lavoro finora compiuto: pur tra le difficoltà e gli adattamenti resisi necessari per
le eccezionali contingenze dell’ora, l’insegnamento ha funzionato in sereno
ambiente e in un’armoniosa gara di fare sempre più e meglio. Con senso pratico, ho mirato specialmente agli insegnamenti principali senza diffondermi nei
particolari; preoccupata di raccogliere le idee fondamentali, non ho moltiplicato le nozioni, ma cercato soprattutto di agevolare l’apprendimento in generale.
Dal profitto della classe giudicherò se la mia fatica meritava buon frutto.
20 Marzo Lavoro.
Manca quasi tutto l’occorrente indispensabile e io mi sono chiesta il perché, finché siamo in istato di guerra, il lavoro non viene abolito nella scuola
elementare. Ho capito però, riflettendo, che nell’intimità della scuola, c’è sempre la possibilità di far compiere, con una piccola rudimentale tecnica, mille
necessarie operazioni; così ho cominciato a insegnare a riordinare l’aula, l’ho
fatta abbellire, poi mi sono occupata della cura degli indumenti e oggetti di
uso personale e ho insegnato il rammendo e il rattoppo. Mi sono accorta che
è possibile lavorare seriamente, anche senza costose attrezzature e grandi
apparati.
28 Marzo Con parole ricche di fede e di entusiasmo per l’opera educativa
della scuola, con un fervore che fa provare un senso di viva commozione in
chi ascolta, la Signora Ispettrice ha additato, incitando a credere nei valori
eterni Dio, Famiglia, Patria che noi continueremo ad esaltare perché saranno
i piloni della nostra rinascita, il modo di fare scuola, italianamente e cristianamente in quest’ora di rivolgimenti politici. Così, in maniera efficace e feconda,
ha illustrato i chiarimenti impartiti in proposito dal Direttore Generale per
l’istruzione elementare nel libro Fare scuola.
108
Theobaldo Antonio Kopp
Il partigiano Guglielmo
Michele Becchi
Premessa
Le forze aeree alleate presenti nei cieli italiani si potevano dividere, grossomodo, in
quattro grandi reparti.
La 15ª Forza aerea americana, cui era aggregato il 2050 gruppo della raf (che a sua
volta incorporava tutte le nazionalità del Commonwealth) rappresentava, con i suoi bombardieri a lungoraggio, la componente strategica
incaricata di colpire, partendo dalle grandi basi
della Puglia, la Germania, i Balcani, e occasionalmente (con risultati modesti dal punto
di vista militare e disastrosi dal punto di vista
delle perdite civili) gli impianti industriali e le
Theobaldo Koop
vie di comunicazione nel nord Italia.
Le altre due entità (che rappresentavano la componente tattica e di appoggio diretto alle truppe di terra) erano rappresentate dalla Desert air force, composta in massima parte di equipaggi del Commonwealth, e dalla 12ª Air force
americana, a cui si appoggiavano anche le forze aeree della Francia libera, e
(aggregato al 350° gruppo caccia americano come quarto squadrone dei tre
109
Patch del 1° gruppo caccia brasiliano disegnato da Walt Disney in occasione di una visita dei
piloti brasiliani agli studios Disney durante l’addestramento negli Stati Uniti
che solitamente componevano un gruppo) il 1° gruppo da caccia brasiliano.
Il 1° gavca (come veniva solitamente indicato nei documenti ufficiali) arriva
in Italia nell’ottobre del 1944, nella base di Tarquinia. È un momento particolare, quasi di transizione, per la dottrina d’impiego dei caccia alleati. La minaccia rappresentata dalla Luftwaffe è scomparsa da settembre, con il ritiro in
Germania delle ultime Staffeln dello Jagdgeschwader 53, solo gli agguerriti ma
numericamente insignificanti aerei dell’anr cercano inutilmente di contrastare
gli oltre mille aerei che giornalmente gli alleati sono in grado di mettere in
campo, con scorte di benzina e munizioni praticamente illimitate.
Questo enorme potenziale, ormai sprecato per quanto riguarda il mantenimento della superiorità aerea, trova nuova è più importante ragione di essere
in quella dottrina che, sviluppata dagli inglesi durante la campagna del nord
Africa, viene successivamente mutuata e portata ai massimi livelli dai cacciabombardieri americani: l’interdizione del campo di battaglia.
Già provata nella primavera precedente nel corso dell’«operazione Strangle»
(strangolamento), la nuova dottrina prevede che la grande massa di bombardieri medi e cacciabombardieri monomotori venga sguinzagliata, ogni giorno,
sul territorio occupato dal nemico, colpendo inesorabilmente strade, ferrovie,
depositi, stazioni, concentramenti di truppe, ponti, traghetti, automezzi, carri,
moto e ciclisti.
110
Nulla, o il meno possibile, deve arrivare alle truppe al fronte. La nuova dottrina di impiego darà sicuramente i suoi frutti, contribuendo ad abbreviare la
fine della guerra e a impedire l’attestarsi delle truppe tedesche sulla riva nord
del Po, ma spesso, come sentiamo ancora nei racconti degli anziani, a farne
le spese saranno i civili, mitragliati lungo le strade non per un gioco crudele,
come indubbiamente doveva apparire dal basso, ma per il semplice fatto che,
al di qua della linea del fronte, ogni movimento doveva essere considerato
nemico e immediatamente stroncato.
Aggregati al 350th fighter group, e dotati anch’essi dei possenti Republic
P-47 Thunderbolt, i piloti brasiliani imparano le nuove regole volando insieme ai colleghi americani prima di venire impiegati come gruppo autonomo.
E subito imparano che nei cieli italiani, anche se la minaccia della caccia nemica è quasi scomparsa, i piloti alleati hanno praticamente una sola, grande
e giustificata paura: la flak. Dei ventidue aerei perduti in Italia dal 1° Grupo
de caça brasiliano, ben sedici caddero ad opera dell’antiaerea tedesca e della rsi, solo sei in incidenti, e nessuno ad opera dei pur sparuti gruppi caccia
italo-tedeschi. Questo la dice lunga sul perché la pianura padana e la valle del
Brennero venivano correntemente chiamati «flak alleys», viali della flak, dagli
equipaggi alleati che giorno e
notte percorrevano i nostri cieli nel 1944-45.
Costretti ad operare a bassa quota dalla natura stessa dei
loro bersagli, gli aerei alleati si
espongono al fuoco di centinaia di armi da 20, 37 e 40 mm,
a tiro rapido, le cui scorte di
munizioni, grazie al fatto di essere prodotte nelle aziende del
Nord, non risentono delle difficoltà di comunicazione con
la madrepatria, inglobando anche le grandi riserve sequestrate all’ex regio esercito. Sapientemente disposte nei pressi dei
possibili bersagli e accuratamente camuffate, le postazioni
di contraerea leggera aprono il
fuoco all’improvviso, erigendo
dei muri mobili di fuoco attraverso cui gli aerei alleati si trovano inaspettatamente a dover
passare. Un sistema dispendioContraerea leggera tedesca da 37 mm
111
so ma pagante in termini di risultati, lo stesso impiegato dai serbi nella recente
guerra balcanica, in cui un costosissimo cacciabombardiere «invisibile» Stealth
è stato ignominosamente abbattuto da una vecchia flak 20 mm, residuato bellico, ma non per questo meno letale, della seconda guerra mondiale.
Come si è visto, il 1° gavca operò inizialmente dalla base di Tarquinia,
volando insieme ai piloti americani del 350th fighter group. La durezza della
guerra si fece sentire già nel primo giorno di impiego in combattimento, il 6
novembre 1944, quando i brasiliani ebbero la prima perdita, il tenente Cordeiro da Silva, abbattuto dalla flak nei pressi di Pianoro (BO), seguito il giorno
seguente dal tenente Olsen Sapucaia, perito a seguito della mancata apertura
del paracadute. Sia per le disagiate condizioni del campo di Tarquinia, sia per
ampliare il raggio d’azione dei Thunderbolt, nel dicembre 1944 il 350th FG e i
brasiliani si spostano sulla base di Pisa San Giusto, iniziando le operazioni il
4 dicembre1.
A differenza dei loro colleghi americani, che dopo circa trentacinque missioni di guerra acquisivano il diritto di essere avvicendati e destinati al servizio
in patria, per i piloti brasiliani non era previsto nessun cambio, se non in caso
di prigionia, ferite o morte. Questo, se da un lato provocava una considerevole usura fisica e mentale, fece acquisire ai piloti brasiliani una considerevole
esperienza, notevolmente superiore a quella dei loro colleghi americani, nel
riconoscimento dei bersagli, fatto che in più occasioni valse a salvare le vite
sia di civili che militari alleati potenziali vittime del cosiddetto «fuoco amico».
Mappa della
flack
sul nord Italia, ad uso dei piloti alleati
1
Sentando a Pua, A História da fab (Força aérea brasileira) na segunda guerra [Senti lo sperone.
Storia della fab nella seconda guerra mondiale], www.sentandoapua.com.br/.
112
P-47 del 350th FG e del 1°
gavca
sulla base di San Giusto
Pisa, 7 marzo 1945
Sono le 10:15 del 7 marzo 1945. Otto cacciabombardieri P-47 Thunderbolt
rullano sulla pista di San Giusto, apprestandosi al decollo. È la «squadriglia
rossa» del 1° gruppo caccia brasiliano, divisa in due sezioni: la prima, comandata dal tenente Lafayette, è composta dai tenenti Armando, Keller e Meneses.
La seconda, comandata dal tenente Theobaldo Antonio Kopp, è composta
dai tenenti Eustòrgio, Rui e Torres. Ogni aereo porta appese ai piloni alari
due bombe da cinquecento chili, destinate al nodo ferroviario di Lavis, poco
sopra Trento. La missione è relativamente semplice: devono fornire la scorta
a bombardieri medi inviati a colpire lo scalo ferroviario, scaricare in picchiata
le proprie bombe sulle installazioni rimaste indenni, e sulla strada del ritorno
mitragliare ogni obiettivo degno di nota incontrato sulla rotta di rientro. Un’ora
di volo è sufficiente agli otto Thunderbolt, per raggiungere Lavis, scaricare con
precisione le sedici bombe sui binari e mettersi sulla strada del ritorno.
Sono ormai le 12:00 quando gli aerei brasiliani, passato il Po, notano nei
pressi di Suzzara alcuni depositi di munizioni. Tutta la zona brulica di cataste,
sapientemente camuffate con zolle erbose nel tentativo di sottrarle agli onni-
113
Deposito di munizioni e colonne tedesche sotto attacco da parte di aerei brasiliani. Immagini
estratte dalla cinepresa accoppiata alle mitragliatrici
presenti aerei alleati. Anche se l’obiettivo è pericoloso, perchè difeso da numerose batterie di armi automatiche, la tentazione è troppo forte, e la squadriglia
decide di attaccare. L’aereo di Kopp, il P-47D serial 42-26776, codice A2, viene
colpito gravemente. I controlli sono inutilizzabili, tutto quello che Theo può
fare è sganciare le cinghie, il tettuccio, rovesciare l’aereo e lasciarsi cadere nel
vuoto2. L’aereo, ormai abbandonato a se stesso si schianta nei pressi di San
Bernardino, fra i filari di una vigna, dove lo ricorda Amedeo Lasagni, allora
ragazzino: «c’era sto buco fra gli olmi, ed era tutto pieno di pezzi d’aereo. Le ali
erano staccate e in mezzo c’era la carlinga...». Dalla testimonianza del tenente
Rui Moreira Lima:
ero nella sezione con Kopp, Eustorgio e Torres. A circa 15 minuti seguiva la sezione di Lafayette, con Keller e Menezes. Kopp decise di attaccare un obiettivo
“proibito”, i tedeschi vi avevano installato parecchia antiaerea; era un deposito di
munizioni, molto ben visibile. Improvvisamente vidi l’aereo di Kopp girarsi sul dorso, fuori controllo, e lui (Kopp) lanciarsi col paracadute, noi quattro contrariamente
alla norma ci abbassammo rasoterra...3.
«Daily Operation Report», 7 marzo 1945, missione n. 260 del 350th Fighter group, Air force
historical research agency, Maxwell afb, usa.
3
Entrevista com Brigadeiro Rui Moreira Lima – 94 Missões [Intervista con il brigadiere... – 94
missioni], tratto da cnor.
Conselho Nacional dos Oficiais da Reserva do Brasil [Consiglio nazionale degli ufficiali della
riserva brasiliana], intervista gentilmente fornita da Louis Gabriel, traduzione dell’autore.
2
114
Primo a destra, Amedeo Lasagni
Per dare tempo a Kopp di arrivare a terra e nascondersi, i suoi compagni
corrono il rischio di essere a loro volta colpiti, ma contano sul fatto che, ormai spaventati a morte dall’aviazione alleata, i tedeschi rimangano nascosti il
tempo sufficiente perché Kopp riesca a nascondersi. «I tedeschi non misero il
naso fuori... ma (sulla strada) apparvero due ciclisti e Lafayette, che era parecchio stressato, virò per colpirli. Gli gridammo di non sparare, perché potevano
essere partigiani... Lafayette non sparò e i due presero Kopp sulla bicicletta
fuggendo in direzione di alcuni alberi...»4.
Rui aveva ragione: i due ciclisti, e un’altro non visto dagli aviatori, facevano
parte del distaccamento locale della sap che si era messo in moto per raggiungere il paracadutista prima dei nazifascisti. Sono Oscar Consolini (nome di
battaglia Drox), Giovanni Pazzi e Giuseppe Montanari, che ignari del rischio
corso vanno incontro all’aviatore brasiliano che scende lentamente verso il
podere Carolina, non lontano dalla strada Novellara-Guastalla.
4
Ibidem.
115
La situazione è molto pericolosa. L’aviatore
è stato sicuramente avvistato dai presidi nazifascisti e occorre fare presto. Infatti, una squadra della Brigata nera di Novellara si avvicina
velocemente. Nascosto il paracadute sotto un
ponte, Kopp viene avviato verso il podere Rustica, mentre Consolini, con eccezionale sangue
freddo, tenta di sviare gli inseguitori. Così ricorda l’episodio l’ex partigiano sabotatore Anselmo
Bigi:
Kopp ha avuto culo! Consolini si è messo la sua tuta,
che era verde con un papero sulla schiena [l’emblema del 1° gavca, NdA] si è fatto vedere dai fascisti e si
Oscar Consolini
è messo a correre fra i canali. Gli ha fatto fare il giro
dell’oca per un’ora abbondante, conosceva tutti i
passaggi, poi quando si è stufato è andato sulla
riva del canale dove teneva la bilancia da pesca, si
è tolto la tuta, l’ha messa nella bilancia, sott’acqua,
e ha aspettato i fascisti. Quando sono arrivati gli
han chiesto se aveva visto uno che correva, e lui
gli fa: “mo sè per dio, è appena passato, è andato
di là”, e quelli sono corsi fino a Santa Vittoria!5.
Allontanatosi momentaneamente il pericolo
dei fascisti, Kopp viene spostato nella casa della famiglia Rossi,
rifugio partigiano
da cui sono passati anche altri aviaGiovanni Pazzi
tori alleati caduti
nella zona.
A casa dei Rossi avviene un piccolo episodio che sottolinea l’abisso, non tanto culturale
quanto materiale, che la guerra ha creato fra chi
vive da una parte o dall’altra del fronte, ce lo
racconta sempre Anselmo Bigi:
Bruno Consolini
5
A casa dei Rossi, un po’ per riguardo e un po’ per
tirargli un po’ su il morale, gli hanno cucinato una
gallina. Allora una gallina era tanto! Gli portano sta
Intervista rilasciata da Anselmo Bigi a Michele Becchi e Mario Frigeri, Guastalla gennaio 2007.
116
Theobaldo Koop, Curtiba, 28/05/1918-Rio de Janeiro, 16/09/1996
P-47 Thunderbolt del 1°
gavca
117
P-47 Thunderbolt del 1°
gavca
gallina tutta per lui, e mentre mangia lo stanno a guardare. Sto figlio di puttana
cosa fa? comincia a togliere la pelle e la butta! Rossi si è incazzato ed è andato via!
Per noi buttare la pelle era un peccato, c’era una fame... a me però mi ha regalato
la pistola, la bussola e le carte di seta, tutta roba che mi è servita in montagna...6.
Anche dai resti dell’aereo, che giace in pezzi poco lontano, viene recuperata una mitragliatrice ancora in buono stato: sono Armando Olivi e Bruno
Morselli che, eludendo la sorveglianza dei tedeschi, riescono a fare il colpo7.
Theobaldo, dopo essere passato per diverse case di latitanza, viene assegnato stabilmente al distaccamento partigiano Aldo di Rolo, dove gli viene
assegnato il nome di battaglia Guglielmo8 e dove rimane fino al giorno della
Liberazione, il 22 aprile 1945.
L’ultima emozione Guglielmo la vive proprio quel giorno, sulla strada Carpi-San Benedetto. Tutti i distaccamenti partigiani della Bassa sono affluiti nella
zona, dove ingaggiano diversi combattimenti contro grosse formazioni tedesche in ritirata verso il Po, e in uno degli ultimi combattimenti viene coinvolto
anche il partigiano Guglielmo, proprio poco prima dell’arrivo dei mezzi corazzati americani.
Ricongiuntosi agli alleati, Theobaldo raggiunge finalmente la sua base a
Pisa, da dove era decollato quaranta giorni prima.
Ibidem.
R. Cavandoli, Antifascismo e Resistenza a Novellara. 1919-1946, Tecnostampa, Reggio Emilia
1981, p. 203.
8
G. Laghi, Rolo nella resistenza e nella lotta per la libertà, Tipografia Lugli, Reggio Emilia 1990,
p. 136.
6
7
118
350th fighter group, daily opertation report del 7 marzo 1945, missione n. 260
119
Documenti
L’album del marinaio Fernando Notari
Una nuova acquisizione per la fototeca di Istoreco
Michele Bellelli
Questo album fotografico è recentemente giunto in copia a Istoreco grazie
all’interessamento del signor Gianni Casoli della sezione reggiana dell’anmi
(Associazione nazionale mariani italiani) che
ne detiene l’originale.
Si tratta dell’album fotografico di un marinaio reggiano, Fernando Notari, imbarcato
durante la prima guerra mondiale e negli
anni successivi su diversi sommergibili della
regia marina.
Sono presenti circa un centinaio di immagini, molte delle quali purtroppo prive
di didascalia, rendendo in tal modo arduo il
compito di identificare con certezza luoghi e
personaggi ritratti.
Alcuni eventi sono invece del tutto riconoscibili. Fra i battelli riconosciuti vi è anche
l’F14 protagonista di uno dei più tragici incidenti che ha coinvolto la marina italiana. Il 6
agosto 1928 si tenne un’esercitazione al largo
di Pola che vide la partecipazione di numerose unità da guerra, inclusi i sommergibili
121
F14 ed F15 (sul quale era imbarcato Fernando Notari) e la silurante Giuseppe
Missori. Nel corso delle manovre quest’ultima unità speronò l’F14 che colò a
picco con la tragica perdita di tutto l’equipaggio. Quattro marinai morirono
immediatamente a causa dell’impatto col Messori, mentre altri 23 decedettero
nelle ore successive a causa della mancanza d’aria. Di questo tragico episodio
sono conservate le immagini dei due sommergibili e della silurante «Missori»
dopo lo speronamento, nonché gli inutili tentativi di salvataggio del battello
e il pietoso recupero delle salme dei marinai. Nelle fotografie viene ricordata
anche un’altra tragedia che ha colpito nel 1925 i mariani italiani quale la perdita del sommergibile «Sebastiano Veniero», speronato il 25 agosto di quell’anno
dalla motocisterna «Capena» al largo della Sicilia con la perdita di oltre quaranta vite umane.
Molte immagini riguardano l’attività di Fernando Notari durante la prima
guerra mondiale, presumibilmente all’arsenale di Venezia dove si possono notare navi e sommergibili in navigazione (inclusa la torpediniera austriaca TB 11
catturata che entra nella base navale) ed apparecchi in volo come idrovolanti
e dirigibili (erano chiamati Draken).
Fra i vascelli ripresi c’è anche il regio sommergibile «Giacinto Pullino» im-
Una fase delle operazioni di recupero del sommergibile F14 affondato al largo di Pola il 6 agosto
1928 dopo essere stato speronato dalla nave «Giuseppe Missori»
122
mortalato prima della sua ultima missione che lo vide incagliarsi sulle coste
nemiche nella notte fra il 29 e il 30 luglio 1916: tutto l’equipaggio venne catturato dopo un tentativo di fuga, incluso l’irredentista Nazario Sauro che venne
giustiziato dagli austriaci.
Chiudono la collezione oltre ad alcune foto dei sommergibili F12 ed F19 e
del cacciatorpediniere «Euro» e diverse cartoline postali di Roma.
La salma di uno dei 27 marinai periti nell’incidente viene estratta dal relitto recuperato dell’F14
Venezia, la torpediniera austriaca TB 11 entra a Venezia dopo la sua cattura (data ignota durante
la prima guerra mondiale)
123
Un gruppo di sommergibilisti italiani durante la navigazione (data e luogo ignoti)
Foto di gruppo di marinai italiani a bordo di una nave da guerra (data e luogo ignoti)
I danni riportati dal Giuseppe Missori a seguito dello speronamento dell’F 14
(Fonte iconografica: sezione Associazione nazionale marinai d’Italia (anmi) di Reggio Emilia,
album fotografico «Fernando Notari» depositato in copia presso Fototetca Istoreco).
126
L’auto «made in Reggio».
Utopia od opportunità perduta?
Adriano e Paolo Riatti*
Il lavoro di ricerca sulla storia della tecnologia aeronautica delle Officine
Reggiane degli anni Quaranta, che stiamo portando avanti personalmente da
alcuni anni negli archivi nazionali ed esteri e con interviste ai dipendenti rimasti e alle loro famiglie, ci ha consentito di realizzare, in collaborazione con la
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, presso la Mediateca universitaria, che ha sede nella ex caserma Zucchi, un archivio digitale già fruibile.
La nostra attenzione è stata attirata da una particolare monografia del maggio 1944, a firma dell’ingegner Antonio Alessio, direttore generale delle Reggiane dell’epoca, riguardante lo sviluppo di un’autovettura.
Con notevole lungimiranza e in considerazione del fatto che la guerra e
le relative produzioni aeronautiche sarebbero terminate, mentre il complesso
industriale era stato pressoché distrutto dagli attacchi aerei alleati dei giorni 7 e
* Paolo Riatti, ingegnere aeronautico è dipendente di una multinazionale, opera attualmente
in qualità di Resident engineer presso un’azienda italiana del settore automotive. È responsabile
della sezione tecnica dell’Archivio digitale aeronautico Reggiane presso l’Università degli studi
di Modena e Reggio.
Adriano Riatti, padre di Paolo, ha operato professionalmente per conto di una importante società di consulenza aziendale nella funzione di quality auditor. Ora si occupa della sezione storica
dell’Archivio digitale aeronautico Reggiane presso l’Università degli studi di Modena e Reggio.
127
Ingegnere Antonio Alessio
8 gennaio 1944, l’ingegner Alessio diede evidenza a un progetto per la costruzione di un’autovettura, illustrando le considerazioni di carattere industriale e
commerciale che tale lavoro avrebbe dovuto tener presente.
Pur considerando che sulle lunghe distanze l’aereo sarà il mezzo di trasporto più importante e popolare ipotizza che
grande richiesta di automobili si avrà alla cessazione delle ostilità per la depauperazione di tutti i mercati dovuta alle distruzioni della guerra, alle requisizioni, all’usura dei mezzi superati ed alle stasi delle industrie, è fuor di dubbio che il mercato
automobilistico, liberato da vincoli doganali troppo monopolistici, o da posizioni
di privilegio, dovrebbe riservare al nostro Paese le possibilità di meglio saturare la
diffusione all’interno e forse anche di cercare degli sbocchi all’estero, soprattutto
se si tiene conto che una politica ai lavori pubblici e quindi anche di autostrade…1.
Non trascura l’analisi dei complessi industriali concorrenti «forse uno soltanto, la F.I.A.T., sarà in grado di produrre il tipo di auto popolare a basso prezzo, perché la sua realizzazione comporta un’organizzazione ed una potenza
di impianti, una tradizione commerciale, un’organizzazione del servizio alla
1
Relazione conservata dalla Mediateca dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
128
clientela ed un dominio del fido
e del credito, legati alla organizzazione delle vendite a rate, che
non si improvvisano»2.
In realtà, già nel 1943, Alessio
affida all’Ufficio tecnico motori
aviazione delle Reggiane, guidato
dall’ingegner Del Cupolo, l’incarico di realizzare un’autovettura «di
buona capacità dimensionale, di
buone prestazioni, di bassa potenza tassabile, di decorosa presentazione utilizzando leghe leggere
nazionali…» in modo da sfruttare
l’alluminio e le conoscenze acquisite grazie alle produzioni aeronautiche.
Era previsto che il motore, di
1750 cc di cilindrata, fosse integrato da un compressore. Alessio ritiene utile di far tesoro, per questo
progetto, dell’esperienza motoristica già acquisita nell’ambito dei
motori d’aviazione. È interessante
notare come, in questo campo, le
Reggiane utilizzassero motori V
12 e W 18 ad iniezione diretta delIngegnere Edmondo Del Cupolo
la benzina con compressore per
ristabilimento della quota.
La potenza equivalente a quella dei concorrenti Buick, Chrysler, Alfa Romeo, la minore cilindrata e il minore peso sarebbero stati i punti di forza,
grazie anche all’utilizzo di leghe leggere quali idronalio3 o peralumal4 così
come per il telaio e la carrozzeria in gran parte saldato per punti, adottando le
esperienze di progettazione strutturale utilizzate per la realizzazione delle ali
del caccia RE 20005.
Ibidem.
Denominazione commerciale di una lega leggera composta dal 90 percento circa di alluminio,
da magnesio, silicio e manganese utilizzata nelle costruzioni aeronautiche.
4
Lega a base di alluminio 99,5 percento ottenuta per ossidazione.
5
Primo aereo da caccia di progetto e fabbricazione Officine Meccaniche Reggiane (primo volo
24 maggio 1939).
2
3
129
Telaio
Il peso dell’auto di 1100 chilogrammi sarebbe stato inferiore ai 1400-1500
chilogrammi dei concorrenti ed avrebbe permesso economie costruttive e l’utilizzo di un cambio a marce.
Nello studio della carrozzeria si tiene conto delle presse esistenti in azienda
ritenute sufficienti senza la necessità di ulteriori integrazioni.
Anche l’aver previsto l’utilizzo del plexiglass per i due terzi del tetto aggiunge novità e comfort, risolvendo agevolmente il problema strutturale del tetto
non realizzabile senza grandi presse. Le sospensioni indipendenti sulle quattro
ruote avrebbero collocato l’auto tra le più innovative in quanto a soluzioni
tecniche adottate.
Alessio analizza i costi di produzione che ritiene allineati a quelli di auto
americane di pari classe e ipotizza un ulteriore beneficio derivante dalla revisione dei criteri del prezzo di vendita che necessariamente dovranno adottare
i produttori italiani.
Il piano successivo allo studio viene definito il cinque fasi principali:
1. costruzione del telaio
2. costruzione della carrozzeria
130
Sospensione
3.
4.
pari a
5.
collegamento delle strutture e montaggio delle trasmissioni
collaudo statico di telaio e carrozzeria con coefficiente di contingenza
quattro6
prova dinamica su rulli
Il problema del motore non preoccupa Alessio in quanto dichiara «che non
c’è nulla di arrischiato od inedito nel progetto».
E neppure l’arredamento interno «data la preparazione ed il buon gusto
delle nostre maestranze del settore ferroviario…».
A riprova delle fasi di sviluppo del progetto appare dagli archivi personali
della famiglia Del Cupolo il diario del 1943 nel quale sono riportati per ogni
giornata lavorativa gli incarichi assegnati ai collaboratori, tra i quali emergono
due nomi, Rocchi e Lampredi, che parte importante avranno nel dopoguerra
per l’attività progettuale che svolgeranno con Enzo Ferrari7.
6
7
Collaudo statico con metodologia utilizzata dalle aziende americane.
Costruttore vetture sportive e per competizione (Formula 1) – Maranello (MO).
131
Sfogliando il diario dobbiamo arrivare al 4 novembre 1943, giorno in cui si
dà inizio alla progettazione del motore;
al 1° dicembre 1943 per cambio e frizione;
al 20 dicembre 1943 per sospensione vettura;
132
al 27 dicembre 1943 per la carrozzeria;
Grazie a un ultimo e fortunato ritrovamento di fotografie dall’archivio Del
Cupolo possiamo avere un’idea di come sarebbe stata l’autovettura.
133
I bombardamenti del 7 e 8 gennaio 1944 e i divergenti interessi economici
e politici nazionali emersi nel dopoguerra non consentiranno alle Reggiane di
incamminarsi su queste innovative sfide. Una riprova di notevole ed antesignano fervore progettuale di prospettiva per il dopoguerra, allora esistente nel
complesso Reggiane, è offerto da un altro importante progetto, già allo stadio
sperimentale, costituito da un trattore cingolato da sessanta cavalli di potenza,
con alimentazione diesel8. Facile intuire come quest’ultimo progetto sia poi
stato alla base della realizzazione del trattore R-60 da parte delle maestranze
durante l’occupazione dello stabilimento nel 1950-51.
L’ingegner Alessio fu costretto a lasciare le Reggiane e passò all’Alfa Romeo
dove rimase per circa due anni. L’Alfa, tornata alle corse, conquistò nei due
anni della sua direzione il titolo mondiale.
Con lui e con la 158 Alfa Romeo in tutta l’Europa corsero i migliori piloti del
tempo, tra i quali Juan Manuel Fangio e Giuseppe «Nino» Farina.
Fonti: Famiglia Alessio; Famiglia Del Cupolo; Archivio digitale aeronautico
– Mediateca dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
8
Fonte: Informativa in data 1° novembre 1943 del Controspionaggio inglese. (nataf-Northwest
african tactical air force, in Archivi afhira-usa).
134
Il complesso Reggiane, vista aerea primi anni Trenta (tratta da A. Conti, M. Becchi, 22.000 bombe su Reggio Emilia. Bombardamenti alleati e vita (e morte) quotidiana, 1940-1945, DiabasisIstoreco, Reggio Emilia 2009, p. 561)
136
Memorie
Ivan Bondi
Quel che ricorda un reggiano del Vajont
Intervista
Andrea Paolella
La forza dell’indifferenza! – è quella che ha permesso
alle pietre di durare immutate per milioni di anni.
(Cesare Pavese, Il mestiere di vivere)
Quando i delitti si moltiplicano, diventano invisibili.
Quando le sofferenze diventano insopportabili, non si odono più grida.
È naturale che sia così.
Quando i crimini vengono come la pioggia, nessuno più grida basta.
(Bertold Brecht, Primo congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, Parigi 1935)
Ivan Bondi è un mio vicino di casa. È un ex-macchinista delle Ferrovie
dello Stato, reggiano, classe 1943. Abitiamo entrambi in questa sporca, rumorosa, rissosa, meravigliosamente vitale strada, che è via Umberto Ceva. Per
qualche anno, da buoni vicini ci siamo semplicemente salutati, con un cenno
della mano e, poi, ognuno per la sua strada, che poteva essere solamente via
Eritrea o il viale alberato della circonvallazione, piena di macchine di lusso
veloci e arrabbiate. Poi da qualche mese abbiamo cominciato a parlare. E mi
ha raccontato questa storia, che è solo una piccolissima stilla nel mare disperato del Vajont. Un mare evitabile. I nostri vicini di casa sono tutti testimoni
di qualcosa.
137
Ivan Bondi (foto di Andrea Paolella)
Come sei capitato sul Piave?
Sono nato a Mazzalasino di Scandiano. Fino alla quarta elementare ho fatto
le scuole a Ca’ de Caroli, e l’ultimo anno delle elementari l’ho fatto a Castellavazzo, comune limitrofo di Longarone e pure sinistrato dal disastro del Vajont.
Le scuole di avviamento le ho fatte a Longarone. Io e la mia famiglia siamo capitati a Castellavazzo perché mio padre, che lavorava nel cementificio di Ca’ de
Caroli, chiese di andare là perché sapeva che la filiale della ditta aveva bisogno
di un capofabbrica. Nella mia fantasia era un posto di lupi e orsi.
Arrivammo di notte, e nel buio vedevo le pareti rocciose dietro la stazione. Mi ero spaventato. Il giorno dopo, osservando boschi, dirupi, anfratti, mi
piacque moltissimo. Mi dicevo: «Qua trovo pane per i miei denti». Ero uno spericolato tra amici spericolati. Dopo l’avviamento sono andato a Belluno a fare
un corso per disegnatore meccanico. Passavo dei mesi, degli anni ad aspettare
che qualche mio amico mi chiamasse da Parigi, dalla Svizzera, dall’Africa, che
intercedesse per me, mi trovasse un posto di lavoro. Ho lavorato un anno alla
Faesite e poi dal ’68 andammo tutti a Santarcangelo di Romagna.
138
Com’era la tua vita di ragazzo tra le montagne?
Era un’adolescenza esaltante per le nostre scorribande, per il fiume Piave
dove si facevano i bagni e si potevano scoprire zone boscose e rifugi della
prima guerra mondiale, costeggiare burroni. Ci si diventava così tra amici. Mio
padre diceva: «L’è imposebil che ‘ste ragasol al pos arivér a vint’an!» [è impossibile che questo ragazzino possa arrivare a vent’anni]. C’era sempre la possibilità di cadere e di farsi molto male. Una volta sono caduto da una roccia:
avevo sbattuto la schiena e c’era un principio di emorragia interna. Fortuna
che passò. Abbiamo anche causato molti guai: per nostra leggerezza un giorno
tra i boschi appiccammo un fuocherello che divorò la montagna intera. Quella
montagna sovrastava il paesino di Termine di Cadore e in fondo alla scarpata
c’erano la ferrovia e la statale. I pini erano resinosi, il fuoco divampò velocemente. Noi eravamo scappati via impauriti, ma era stato un incidente. Grazie a
Dio il fuoco giunto alla cima si fermò. Dai nostri genitori botte da orbi.
Che cosa ricordi della gente della valle negli anni Cinquanta? Andavate spesso a Longarone da ragazzi?
Fino alla fine degli anni Cinquanta per noi Longarone era come una calamita che ci attraeva, potevamo andare al cinema, c’erano dei bar, qualche
gelateria, cose che a Castellavazzo mancavano e per noi arrivare a Longarone
era molto facile. Noi eravamo dei rustici, gente incolta, trovare un diplomato
a Castellavazzo era quasi impossibile. Longarone era tutto un’altra cosa. Parevano più borghesi, più avanzati, più ingentiliti. Ci guardavano, non dico con
sufficienza, ma sapendo che venivano da paesi vicini. Noi facevamo i bulletti.
Notavi delle differenze sostanziali. A Erto invece sono andato poco. Il massimo della diversità di Longarone erano Erto e Casso. A Longarone vedevamo
i giovani di quei paesi. Altra categoria. Quasi li ammiravamo. Sembravano
selvatici, forti, capaci di spostare delle montagne.
Alla gente piaceva bere l’ombreta nei bar, un vino povero. Bevevano tutti
poi perché era la tendenza generale, forse per dimenticare la fatica quotidiana.
C’era povertà: alcuni lavoravano al cementificio di Castellavazzo, altri alla cartiera proprio sotto la diga e altri ancora alla Faesite a Faé Fortogna. La Faesite
produceva proprio faesite. Quasi tutti i miei amici, dai diciassette anni in poi,
emigravano verso la Francia, perché avevano già dei parenti che riuscivano a
fargli avere un visto, un contratto e questi ragazzi partivano, sul posto vivevano nella baracche e prima di Natale ritornavano a fare bisboccia in paese
con gli amici e ci raccontavano di Parigi, del «Moulin Rouge», ci portavano
le sigarette «Gitanes». Provavo un senso di abbandono. Trovare un lavoro in
quelle terre si è rivelato per me difficile. Alcuni sono andati in Germania a fare
i gelatai. La gente campava con le rimesse degli emigranti. Almeno l’ottanta
139
percento dei giovani emigrava. Mi ricordo le donne vestite di nero salire verso
i boschi con un paio di caprette. Le vedevi raccogliere fascine che mettevano
poi in una gerla. Era ancora abitudine sfruttare la montagna. Qualcuno lavorava nelle cave di pietra, altri come stagionali, portavano le bestie al pascolo.
Longarone era tutta un’altra cosa. Avevano anche una parlata più sciolta.
Avevamo quasi una sudditanza psicologica verso gli anziani. Se qualcuno ci
chiedeva qualcosa, immediatamente rispondevamo: «Comandi!»
Cosa ricordi della diga?
Noi di Castellavazzo non sapevamo niente della diga e dei pericoli degli
smottamenti. Faceva impressione ai longaronesi vedere questo muro nella
gola. Dava un senso di insicurezza. Nessuno poteva pensare a un evento
catastrofico anche perché erano arrivate pochissime voci a noi della valle.
Noi non sentivamo le scosse che sentivano ad Erto e Casso. Le percepivano i
tecnici. Qualcuno a Longarone sapeva di qualche smottamento ma niente di
Il bacino massimo regime prima della frana (foto Ghedina, 1963)
140
Il monte Toc prima della frana del 1963 (foto Ivan Bondi, inedita)
preoccupante, perché altrimenti la gente non sarebbe rimasta lì, sarebbe scappata. Ogni tanto capitava di andare alla diga. Occasionalmente capitava che si
scendesse da Erto e, andando verso Longarone, si passava a vedere la diga in
costruzione. Alcuni mesi prima in un altro bacino della val Zoldana ci fu una
frana, tracimò l’acqua e un operaio morì.
La diga del Vajont mi faceva davvero impressione. Guardando il vuoto incredibile mi girava la testa. Mi ricordo di due operai che camminavano a filo
del burrone. Uno ha detto: «C’è una puntella di ferro laggiù, la vado a togliere».
Si era legato e senza problemi era sceso oltre cinquanta metri. Io mi chiedevo:
«Ma per Dio, com’è possibile? Come fa?». Molti operai erano di Erto, tutti abituati a salire sulle cime più pericolose.
Quando andavo a scuola a Longarone, ci portarono nel cuore della montagna a vedere la centrale, scavata nella profondità della roccia. I tecnici che
ci lavoravano sono morti tutti: le casette dei tecnici erano proprio a ridosso
del muro, penzoloni sulla diga. Le prime a sparire con la frana. Dava una
grande impressione la centrale, con le sue macchine super moderne, i grandi
alternatori.
141
Che cosa ricordi del 9 ottobre del 1963?
Era nostra abitudine andare a Longarone tutte le sere. Facevamo il giro di
tutti i bar. Si andava nei bar perché non tutti avevano ancora la televisione
a casa. Anche le donne capitava di trovarle al bar, davanti alla TV, di sabato
sera. Si giocava a carte, si bevevano liquori, grappa, cognac. Il 9 ottobre del
1963 ho avuto fortuna. Anche quella sera, saremmo dovuti essere a Longarone. Siamo partiti dopo cena in direzione di Longarone, per andare a vedere la
partita alla televisione, al bar Centrale. Eravamo in tre. Ci accompagnava un
certo Gigi, che per quattro soldi ci portava dappertutto, ufficialmente diceva di
essere tassista. Oltre questo Gigi eravamo io e un mio amico, Giacomo. Arrivati a metà strada al mio amico Giacomo venne l’idea, che si è rivelata salvifica
per noi, di ritornare sui nostri passi. Invece di andare al bar Centrale siamo
andati nel Cadore. Esattamente a Tai di Cadore. Nel pomeriggio, tornando da
Belluno in treno assieme a me, Giacomo aveva conosciuto una ragazza di Tai.
Poi andammo a cena. Quella sera gli frullava qualcosa. A Tai in ottobre, alle
nove di sera, non c’era nessuno. Dovevi andare in giro per i bar. Girammo per
Longarone dopo il disastro. Si notano i murazzi e il municipio miracolosamente salvo con una
decina di case (senza autore, inedita)
142
alcuni bar di Tai. Una noia incredibile. Eravamo mogi mogi, taciturni, anche
con poca voglia di bere. Ben presto abbiamo deciso di tornare indietro. Non
c’era un cane per strada. Al ritorno, arrivati in prossimità di Ospitale di Cadore,
vedevamo che la valle era tutta al buio, a circa dieci chilometri da Longarone.
Tutto era al buio. Arrivammo a Castellavazzo. Anche lì tutto buio. Siamo scesi
e abbiamo chiesto: «Come mai siamo tutti al buio?» Ci hanno detto: «Pare che
Longarone non ci sia più!», «Pare che la diga sia caduta!»
Tutta la valle del Piave era al buio, buio e silenzio. In quattroequattrotto
abbiamo proseguito per Longarone. Arrivati alle prime case che erano in piedi,
c’era silenzio. Qualche persona che si aggirava. Dopo cinquanta metri dalle
prime case ci siamo trovati la strada sbarrata fin quasi al tetto da pali, alberi,
blocchi di cemento, di tutto. Abbiamo dovuto scavalcarlo, facendo attenzione
a non scivolare. Una melma fredda come ghiaccio. C’era freddo a Longarone.
Tutto quello che toccavi era freddo, melmoso e diaccio. Siamo saliti per questo
sbarramento e poi scesi con precauzione. Arrivati e scesi dall’altra parte c’era
una piana totale. Una melma che ci si affondava fin quasi le caviglie. Una nebbiolina che si stava un po’ diradando. Un silenzio totale. Come fosse passata
una colata lavica. Non c’era nulla. Lo sbarramento era un pochino prima del
municipio, che è rimasto come allora. Poi nient’altro, il vuoto. Solo freddo e
melma. Io e il mio amico abbiamo sentito un lamento. Era un bambino che
emergeva solo capo da questo fango. Aveva un occhio un po’ rovinato. Abbiamo cercato di tranquillizzarlo. Abbiamo cercato di scavare con le dita per
liberarlo. Ma non era facile perché il fango era sempre più compatto. Dopo un
bel po’ siamo riusciti a liberarlo fin quasi alla vita. Poi ci hanno sostituito i soccorritori. Il bambino è stato travolto quando ancora era nel lettino, avrà avuto
sei o sette anni. Il lettino era stato piegato ad «U» e il bimbo ne aveva seguito
la piega. Anche i soccorritori attrezzati hanno fatto una gran fatica ad estrarlo.
Il mio amico si era allontanato da me e ha notato una ragazza, tutta ammaccata, sofferente, ma viva. Ragazza che noi conoscevamo perché era figlia di un
negoziante (gelataio?) di Longarone. Questa ragazza avrà avuto quattordici o
quindici anni. Siamo poi andati all’ospedale di Belluno. Il mio amico Giacomo
le disse: «Sono stato io a trovarti».
Siamo arrivati a Longarone non più tardi delle undici, massimo undici e un
quarto: circa mezz’ora dopo la tragedia. Soccorritori ancora non se ne vedevano. Sono arrivati dopo. Hanno usato badili del cementificio di mio padre,
anche lui allarmato insieme al direttore. Con delle auto hanno portato una decina di attrezzi dal cementificio di Castellavazzo. Dopo mezzanotte, mi sentivo
stanco, avevo le mani rovinate per lo scavare. Mi sono venuti in mente i miei.
Ero preoccupato di loro. Pensavano fossi a Longarone anche io. Siamo restati
svegli tutta la notte.
143
Quel che resta della chiesa (foto Ivan Bondi, 1964 inedita)
Una delle pochissime case superstiti (foto Ivan Bondi, 1964 inedita)
L’indomani?
Era una bellissima e fredda giornata di sole. Sono partito a piedi da solo e,
invece di scendere lungo la statale, sono sceso lungo il Piave. C’era un’enorme
distruzione dappertutto. La splendida villa Malcolm non esisteva più: aveva un
bellissimo parco che terminava a ridosso di alcune segherie sotto Longarone.
I proprietari inglesi venivano ogni quattro o cinque anni e davano delle feste.
La custode della villa era vedova e con lei c’era un figlio zoppicante. Penso
siano morti quella notte. Il passaggio violento dell’acqua aveva rivolto tutti gli
alberi posti lungo il fiume verso nord. Il ponte che collegava Castellavazzo a
Colissago non c’era più. Nella valle del Piave non c’era più nulla. Blocchi di
cemento e alberi rovesciati. Ho incontrato parecchi cadaveri. Naturalmente
tutti nudi, irriconoscibili, tranciati per metà, penzoloni su qualche albero, di un
blu tremendo. Ne avrò incontrati sette o otto che non avevano ancora raccolto. Così che sono arrivato a Longarone. Non c’era più nulla. Piana dilavata da
questa melma. Nemmeno le macerie delle case: dei muretti sono riapparsi solo
dopo diverso tempo. C’erano persone che cercavano l’abitazione dei parenti,
ma non riuscivano a trovarle perché non c’erano più riferimenti. Non si capiva
dove fosse stata la piazza e dove fossero le strade.
La piana di Longarone (foto Ivan Bondi, 1965 inedita)
145
Che cosa ricordi del dopo Vajont?
Cominciavano a venire i parenti dall’estero. Mi ricordo i racconti di chi non
era a Longarone per puro miracolo: mi ricordo di un camionista che abitava
a Longarone, di nome Angelo Bez. Quella sera mio padre gli aveva chiesto
di lavorare qualche ora in più nel cementificio ed è stata la sua salvezza. Ma
non per i suoi. Continuavano a cercare sopravvissuti: l’ultimo lo trovarono la
domenica successiva al disastro in una cantina. Era arrivato l’esercito. Hanno
installato potenti riflettori che di notte illuminavano a giorno la valle del Piave.
Un aspetto surreale della vallata. Guardando la diga si aveva una sensazione
della forza tremenda dell’acqua: aveva calcinato le rocce, le aveva completamente ripulite del verde degli alberi, avevano un colore spento, di morte. Poi
abbiamo cercato di raggiungere la diga, ma era impossibile. Le gallerie erano
completamente piene di alberi e massi, completamente ostruite. Si cominciavano a contare i morti.
Che persone ricordi morte nella tragedia?
Mi ricordo di una compagna di scuola che di cognome faceva Teza. Io ho
un senso di colpa verso questa ragazza: io le piacevo, e invece io la prendevo in giro. Facevo l’asino e dissimulavo la mia timidezza. È poi uscito un
bollettino parrocchiale con la lista di tutti i morti e io ho segnato quelli che
conoscevo. Ricordo una splendida ragazza di Castellavazzo; si chiamava Antonia. Aveva una ventina d’anni. Aveva lasciato il paese per andare sposa di
un benestante di Longarone. La vedevi contenta. Lui doveva avere un albergo
penso o un negozio. Era nato il loro bambino tre mesi prima. Sono morti tutti
e tre. Ricordo un amico della mia età: Cesare Arduini. Mi ricordo di un lunga
escursione in montagna, una di quelle che facevano noi, senza equipaggiamento, sulla Rocchetta Grande, proprio sulla diga di Pontesei. Ricordo un
cantore ciabattino di Castellavazzo, aveva una voce che era divina. Suonava la
chitarra e si accompagnava col canto. Mi faceva quasi lacrimare. Tornando la
sera verso casa, nelle vie interne del paese lo sentivo di notte cantare nella sua
casa in sasso vicina ad un anfratto roccioso. Era morto a Longarone, perché lui
lavorava alla cartiera che era proprio sotto la diga. Poi ricordo che era arrivato
un fratello di un mio caro amico di Castellavazzo, Adalberto Bratti. Quella famiglia si era trasferita in Alto Adige qualche tempo prima. Erano andati tutti via
tranne una figlia che era rimasta a Longarone. Erano molto poveri, in paese la
mamma la chiamavano la «Siora Poreta». Seppi da lui che anche un’altra sorella
di quattordici anni era venuta in visita alla sorella più grande e anche lei era
dispersa. Il ragazzo lo ospitavo a casa mia. Eravamo andati in giro per tutti i
cimiteri e avevamo trovato solo la sorella minore. La più grande non è stata
più trovata. I morti li portavano in tutti i cimiteri vicini a Longarone. Infinite
146
processioni con la speranza di ritrovare i cari. Ma i corpi erano irriconsoscibili,
bluastri. Ricordo un caro amico reggiano di mio padre, Ennio Ligabue. Lui
era un habitué del bar centrale di Longarone. Aveva una quarantina d’anni.
Molto amico di mio padre. Gli unici due reggiani della zona. Si stabilì lì. Aveva
quattro femmine. È morto solo lui perché andava a Longarone. Io incontro la
figlia minore, Vanda.
Quando capiti a Longarone oggi, che impressione hai?
Ormai è passato molto tempo. Cinque anni dopo il disastro sono andato via
e il paese l’ho perso di vista per un bel po’. La fase costruttiva di Longarone
non la ricordo. Quando sono ritornato, Longarone era praticamente ricostruita.
Non era più la Longarone di un tempo. È abitata non più da longaronesi, che
sono sopravvissuti in pochi e di quei pochi molti sono andati via. Io la vecchia
Longarone mi sforzo di ricordarla bene, com’era. C’è molto cemento ora. Il
vecchio paese aveva un certo fascino, aveva belle piazzette intime. Un piccolo
parco ombroso verso la chiesa. Adesso non sai più cosa sia. Allora riconoscevo la parlata di Longarone. Quando torno vengo preso dallo sgomento, da un
Longarone oggi: La via principale (foto di Andrea Paolella)
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senso di pena di tragico. In quei luoghi, fatti di abbandono, di miseria, quando
ripenso a quelle persone che hanno condotto una vita dura e sono poi morte,
mi viene una pena profonda. Una vera tristezza metafisica. Gente che aveva
lottato duro. Non è stata fatta giustizia perché si sa che la giustizia non è mai
uguale per tutti, quando entrano in ballo poteri forti. Tutti vogliono dimenticare. La diga è quasi sempre presa d’assalto dai curiosi. In alto ci sono le bancarelle dei souvenir, curiosi che entrano nella chiesa votiva. Persone che hanno
sentito parlare del Vajont e si aspettano di trovare ancora l’acqua nel lago. Non
si può immaginare ora. Su quella massa di terra sono cresciuti alberi, hanno
costruito strade per collegare le due sponde. Non sembra una frana ma ormai
una montagna naturale. Solo salendo fino a Casso si può capire bene cosa è
stata la frana. Bisogna immaginare il bacino pieno, che ho visto proprio poco
tempo prima della tragedia. Mi ricordo anche il monte Toc.
Longarone oggi. Le case superstiti della tragedia (foto di Andrea Paolella)
148
Dopo che hai fatto?
Nel ’68, seguendo la mia famiglia, sono andato a Santarcangelo di Romagna. Dopo un po’ sono diventato ferroviere, fino all’età della pensione. I paesi
della mia gioventù non li ho mai dimenticati e faccio in modo di non scordarli.
Almeno una settimana all’anno voglio ritornare.
Longarone oggi. Tra la fessura tra delle montagne si intravede la diga (foto di Andrea Paolella)
149
SQEUU
Intervista ad Andrea Talmelli
Alessandra Fontanesi1
Un’intervista, questa, che avrei voluto realizzare nell’anniversario della
morte di uno dei maggiori protagonisti
della letteratura italiana, ma che non ho
saputo – per ragioni di tempo – scrivere prima. Ora che gli eventi per il
ricordo della perdita di Levi sono terminati, Istoreco e Istituto «Peri» stanno
mettendo a punto un’altra collaborazione, dopo quella che ci vide insieme nella realizzazione e nella preparazione dell’operetta Brundibár. Primo
Levi non ha scritto solo Se questo è un
uomo, anche se – come ricorda spesso
lo studioso Alberto Cavaglion – sembra averlo scritto per tutta la sua vita.
Per questo noi vorremmo riproporre il
Andrea Talmelli davanti al manifesto
dell’opera Brundibár
Il suggerimento di realizzare l’intervista mi è stato fornito dal collega di Istoreco Matthias
Durchfeld che realizzò, nel 2000, con il maestro Talmelli e gli allievi del «Peri», il memorabile
Brundibár di cui si parla di seguito.
1
150
La lettera autografa di Primo Levi che Talmelli indica e che conserva nel suo studio
messaggio di biasimo verso la guerra che è presente nelle pagine di Squeuu attraverso l’opera omonima e giovanile creata dal maestro Talmelli, in occasione
della celebrazione per il 27 gennaio 2010. L’intervista che segue vorrei fosse
anche la prima pagina di un bel racconto, o di una cantata a più voci, in cui
protagoniste siano le parole di Primo Levi.
Lo incontro una mattina sul presto, prima dei suoi numerosi impegni come
direttore dell’Istituto musicale cittadino «Achille Peri». Andrea Talmelli, laurea
in legge, compositore e pianista, classe 1950, reggiano d’adozione, mi accoglie
entusiasta di potermi raccontare, finalmente, il suo incontro con Primo Levi.
Come sei arrivato alla realizzazione della composizione Se questo è
un uomo?
Avevo naturalmente letto il libro, ero all’ultimo anno di composizione a
Parma, il mio insegnante era Azio Corghi, un nome importante nel panorama
della musica contemporanea italiana e un grande docente, il mio rammarico è
151
di averlo conosciuto solo negli ultimi anni in cui si trasferì da Milano a Parma.
Io dovevo comporre il mio brano finale la mia, diciamo così, «tesi di laurea»
musicale.
Avevo letto questo libro e ne ero molto affascinato, gli parlai del progetto
e lui ne rimase contento così io mi misi a lavorare su questo testo, una Cantata sacra per coro e orchestra con frammenti presi direttamente dal libro,
soprattutto per la prima parte, e per la seconda ho scelto frammenti di bibbia
in latino – come idioma universale. Nella prima parte invece le frasi prese da
Levi erano in più lingue testimoni dell’esperienza evocata nel libro: frasi in
tedesco, francese, polacco che rimbalzavano diciamo come fantasmi in questa
situazione narrata.
Eravamo nel ’76, diplomandomi ebbi la fortuna di vedere rappresentato il
lavoro dalla scuola [Conservatorio di Parma, NdR): il 16 giugno del ’77 ci fu la
prima esecuzione con il coro dell’Università di Parma diretto dal compianto
Adolfo Tanzi mentre l’orchestra era quella del Conservatorio con Fabiano Monica direttore. Questa la genesi. Nella mia composizione comunque prendo
anche i titoli di alcuni capitoli di Se questo è un uomo per fornire una specie
di traccia: le parti sono Il Viaggio, Ka-Be, Le nostre notti, Die drei Leute von
Labor, Storia di dieci giorni, una citazione esplicita del libro.
Perché scegliesti proprio Sqeuu?
Beh, diciamo che qui entrano in gioco anche elementi psicologici che mi
ricollegano al periodo storico di quegli anni, anni in cui l’impegno civile era
molto avvertito; io non ho direttamente partecipato a certe battaglie del ’68
e successivamente del ’77. Diciamo che ho condiviso i grandi temi ideali che
proponevano quelle stagioni.
Nel ’68 poi studiavo al liceo classico a Fidenza e avevo un lontano parente,
che lì comandava l’Arma dei carabinieri e si preoccupava sempre di informare
la mia famiglia in modo che io stessi lontano da situazioni tese o «pericolose».
Io quindi non ho mai partecipato a situazioni reali ma idealmente vivevo le
contraddizioni del mio tempo nel mio piccolo paese di Soragna, come si faceva spesso nei paesi, tra ambienti parrocchiali e movimenti di sinistra. I miei
miti sono stati i miti dei giovani di quella generazione: i Kennedy e Kruscev,
papa Giovanni XXIII, quel più piccolo ma non meno significativo crocevia di
ideali che è stato la scuola di Barbiana di don Milani, e ancora Martin Luther
King. Ricordo questa stagione appassionata in cui si dibatteva a livello mondiale dei diritti dei «negri» in America così come si aveva la percezione di un
mondo diviso in due, Est e Ovest, due ideologie e due sistemi, il terrore che
potesse accadere uno scontro fra queste due realtà. Il ’68 è stato anche l’anno
di Praga che per me è stato un momento micidiale dal punto di vista di ideali
che si sono frantumati. Quelle erano idee che si vivevano intensamente mentre
152
oggi è triste assistere all’allontanamento dei giovani dalla politica e dal sociale,
un fatto triste ma anche purtroppo comprensibile.
Allora i giovani erano una componente attiva nelle lotte sociali e politiche.
Qualche anno prima di Sqeuu io avevo già fatto qualcosa diciamo così di
impegnato dal punto di vista della composizione seguendo una vocazione
sociale: quando avvennero i fatti tragici del Cile, l’11 settembre 1973, la presa
del potere del dittatore Pinochet e l’omicidio/suicidio di Salvador Allende, sul
quotidiano «Il Giorno» comparve una piccola poesia di Rafael Alberti e io la
musicai dedicandola a Allende. È la Trenodia per Salvador Allende in cui compare il testo iniziale della poesia di Alberti. La composizione è per pianoforte
e violoncello. È per me bello ricordare che qualche anno dopo consegnai
personalmente lo spartito alla moglie Ortensia Allende. Questo aggancio a una
dimensione «nobile» della politica c’è sempre stato perché faceva parte del mio
dna come di quello della mia generazione.
Questa tua passione civile e politica ha radici familiari?
Non so se la mia famiglia possa essere considerata la tipica famiglia emiliana antifascista. Mio padre dopo l’8 settembre 1943 non era che un soldato in
fuga che voleva salvarsi la pelle, e non ha partecipato a movimenti attivi nella
Resistenza. Con moglie e una figlia a carico, una seconda in arrivo, scappava
di giorno e di notte per evitare la cattura o un altro servizio militare.
La radice antifascista però c’era tutta, e la lego alla figura di mio nonno Arturo che io ricordo nella mia infanzia leggere tutti i giorni «l’Unità», giornale a
cui era abbonato. Mio nonno mi aveva fatto un regalo: una rivista agganciata
all’«Unità» che si chiamava «Vie Nuove» a cui lui mi abbonò. Era un vecchio socialista che si rifaceva alla tradizione precedente il 1921, un contadino ferrarese appartenente alla Lega che poi aderì al partito comunista. Mio padre Curio
invece è sempre stato più defilato e credo in ragione proprio delle paure vissute durante la guerra. Lui era militare in Croazia, ma con un ruolo non attivo,
era in infermeria nonostante lui non sapesse nulla di medicina; tuttavia l’8 settembre 1943 stava tornando a casa in licenza, e lasciò tra l’altro il suo violino in
caserma. Con l’occupazione e l’armistizio lui non tornò più in Croazia e quindi
perdette anche il violino, e tuttora ne parla con dispiacere. Di ritorno, iniziò a
lavorare in una ditta di alcuni parenti ma quando gli chiesero di consegnarsi
con la promessa che avrebbe prestato servizio vicino a casa, lui scoprì che
invece avrebbe dovuto far parte del nuovo esercito di Mussolini, così scelse la
latitanza. Mia madre, che faceva la sarta, riceveva notizie del passaggio delle
ronde notturne della gnr2 da una sua «sartina», figlia del Comandante di piazza,
Guardia nazionale repubblicana, forza armata con funzioni di polizia nel periodo della Repubblica sociale italiana.
2
153
che le passava le informazioni. In questo modo mia madre poteva avvisare
mio padre di non tornare a casa quella sera e di stare nascosto. Dai ricordi
di mio padre però so che i maggiori pericoli furono vissuti dalla mia famiglia
nella primavera del ’45: si sfollava di podere in podere nell’ultimo fondo erano
riuniti una quarantina di famigliari ma arrivarono sulla casa anche le granate
dei tedeschi in ritirata che si fronteggiavano con gli inglesi a poche centinaia
di metri. Due contadini rimasero colpiti a morte nella stalla.
Di mio nonno materno, Luigi, ricordo invece l’episodio doloroso a cui assistette durante la guerra. Era mediatore e un giorno alla settimana con la sua
bicicletta andava di mattina presto al mercato in città, a Ferrara, distante dal
suo paese quaranta chilometri. Quel giorno vide ciò che i fascisti avevano fatto
a degli antifascisti ferraresi, vide i corpi nella piazza davanti al castello, e mi
raccontò che girò la bicicletta e se ne ritornò a casa spaventato. Quel giorno
non sarebbe andato a vendere nulla al mercato3.
1
L’episodio a cui si riferisce viene ricordato come la «lunga notte di Ferrara»: nel novembre del
1943, in seguito all’uccisione di un esponente fascista di Ferrara, viene attuata una «spedizione
punitiva» che portò all’uccisione di undici cittadini (antifascisti ed ebrei) con l’esposizione dei
loro cadaveri davanti al Castello estense; l’episodio è anche il tema del racconto di Giorgio
Bassani La lunga notte del ’43 e dell’omonimo film di Florestano Vancini. Cfr. E. Collotti, R.
Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza. Luoghi, Formazioni, Protagonisti, tomo
II, lemma «Ferrara», pagg. 48-49.
3
154
2
1, 2, 3: Sono parti della Cantata sacra riprodotte nel foglio di sala della prima esecuzione
Come arrivasti alla lettura del libro di Primo Levi?
Il libro lo stava leggendo mia sorella Paola, nata nel ’45. Ricordo perfettamente la collana Einaudi che mio padre comprò per lei, e Paola un giorno
155
mi disse «Andrea ho letto questo libro di Levi, a te piacerà moltissimo, te lo
presto». E lo lessi.
Presi atto di una realtà per me sino ad allora poco conosciuta, una realtà quella della deportazione e del lager che la mia famiglia non mi aveva
trasmesso solo perché non l’aveva vissuta. Così come non sapeva, la mia
famiglia, dell’altra realtà quella della «realizzazione» degli ideali socialisti. Mio
3
156
nonno non sapeva che cosa corrispondesse realmente al suo ideale nel resto
del mondo. Come non lo sapevo io e mi limitavo a guardarmi intorno con
una certa fiducia per «un mondo migliore» per dirla col titolo di un libro di
Robert Kennedy. Intorno a me vedevo un gran fervore di idee e iniziative che
si concretizzavano: per esempio ricordo le iniziative in paese per la festa dell’8
marzo sul finire degli anni ’50: le donne dell’udi organizzavano la proiezione
di un film, il discorso del Sindaco e la distribuzione di mimose. Uno slancio
di autentici ideali che fa anche sorridere se la vediamo con gli occhi di oggi…
Oggi però ci stanno abituando alla ben più triste immagine della donna oggetto e a feste ben diverse!
Tornando sulla tragedia del ’45, i campi, chi li poteva immaginare? L’Italia
ha faticato a comprendere e ricordare e quando l’ha fatto era già molto tardi.
Io ho percepito dai racconti familiari molta paura della situazione del paese di
quel periodo di guerra civile, non potevano immaginare che a trecento chilometri dall’Italia dei crematori bruciassero dei cadaveri di altri esseri umani, era
inimmaginabile.
Poi una volta terminato il conservatorio, ti diplomi con la Cantata
sacra per coro e orchestra Se Questo È Un Uomo (Squeuu) e che cosa
succede?
Nel ’77 dunque viene eseguita per la prima volta nell’ambito dei saggi per
il diploma, ma in seguito ci saranno altre esecuzioni, ancora a Parma, Fidenza
e Voghera. Poiché non sapevo a chi rivolgermi per l’utilizzo di parti del testo
di Levi, scrissi direttamente all’editore Einaudi per chiedere la liberatoria in
quanto dovevo depositare la «Cantata» alla siae. Non ricevetti risposta dall’editore ma direttamente una lettera di Levi datata 2 settembre 19774 in cui mi
diceva che l’editore gli aveva girato la mia lettera e che nulla ostava da parte
sua all’utilizzo dei brani che avevo scelto. Compariva anche un invito esplicito a comunicare direttamente con lui attraverso il suo indirizzo privato. Puoi
immaginare come mi sentii: per me Levi era un personaggio da icona. Quindi,
io mi sentii incentivato, comparendo il numero di telefono sulla sua lettera lo
cercai direttamente. La prima telefonata… Io ero molto emozionato, ricordo
durò un quarto d’ora, lui fu gentilissimo. Ne seguì una seconda durante la
quale ci accordammo per il nostro incontro torinese.
Quindi, andasti a Torino per incontrarlo…
Nell’autunno del 1977 io andai a casa sua in Corso Re Umberto, ero con
Copia del testo compare nelle pagine seguenti, gentilmente concessa da Andrea Talmelli che
la custodisce in quadro nello studio nei Chiostri di San Domenico.
4
157
mia moglie, anche perché passammo a trovare mia sorella che nel frattempo
si era sposata e trasferita a Torino. Rivedo la scala, quella scala fatale per lui
più tardi, l’ascensore e – mi ricordo – in quel momento mi venne in mente il
ritorno a casa di Primo Levi descritto nelle pagine de La Tregua. Levi mi fece
dono del libro autografato durante il nostro incontro, ma io l’avevo già letto ed
è per quello che l’immagine della scala nel palazzo di Corso Re Umberto si era
fissato in me. Mi ricevette nel suo studio, lui dietro la scrivania e noi dall’altra
parte, gli feci sentire con un piccolo registratore l’opera che avevo composto,
gli raccontai come avevo impostato la cosa…
Lui come reagì all’opera?
Credo ne fosse felice, mi disse che era affascinato dall’opera in quanto atto
creativo, soprattutto dal fatto che il suo libro mi avesse spinto a creare questa
composizione. Poi fu anche un po’ restio nell’esporsi: credo volesse sapere
con chi aveva a che fare, per non lasciare che uno sprovveduto – come potevo
essere io all’epoca – utilizzasse il suo scritto in modo non corretto. Era comunque un uomo un po’ ritroso ma credo che gli abbia fatto davvero piacere
incontrarci. Soprattutto concordò poi sul buon proposito che mi aveva spinto
a realizzare la mia opera. Io mi spinsi oltre: gli chiesi anche se fosse stato
La lettera autografa di Levi ingrandita
158
disponibile in seguito a partecipare a un incontro pubblico, anche a scopo
didattico, in occasione di celebrazioni particolari, per ricordare quegli eventi
che lo avevano duramente colpito. Gli chiesi insomma se voleva essere pubblicamente presente a una delle rappresentazioni musicali e se fosse disposto
a intervenire con una testimonianza.
Lui si dimostrò disponibile e mi disse di tenerci in contatto.
L’incontro terminò con questa promessa di risentirvi?
Non solo. Ci fu un altro momento importante in questo incontro con Primo
Levi, quando parlammo del presente. Ricordo che io citavo continuamente
il passato del suo libro, la sua esperienza in lager, mentre lui riportava le
lancette nel presente. Non solo il tempo declinato al presente, anche il suo
pessimismo mi colpì. Ci sono alcune parole che mi sono rimaste impresse. «La
storia si ripete e non insegna niente all’uomo» e si riferiva alla quotidianità del
1977. Mi disse che era ancor più sconvolto dal presente che dal passato e dal
timore che «le vittime diventassero carnefici» riferendosi esplicitamente, ma in
modo delicato, al conflitto in Medio Oriente, senza schierarsi apertamente ma
facendomi capire che le possibilità dell’essere umano di apprendere dal proprio passato erano definitivamente scemate5. A mio avviso gli uomini grandi
come Levi sono anche figure tragiche e che spesso sanno interpretare il futuro,
come Pasolini ad esempio.
Sqeuu, in una definizione «con gli occhi del passato».
Qualche anno dopo in un ormai celebre articolo comparso sulla «Stampa», il 24 giugno 1982,
e intitolato Chi ha coraggio a Gerusalemme?, Primo Levi sembra riprendere il discorso accennato nell’incontro con il giovane Talmelli: «L’attacco attuale al Libano non è immotivato, una
lunga provocazione dell’Olp c’è stata, l’Olp non ha mai accondisceso ad un inizio di trattativa,
si ostina a non riconoscere Israele (che continua a chiamare “l’entità sionista”); ma la violenza
con cui l’attacco è stato condotto ha spaventato il mondo. Non ho vergogna ad ammettere la
mia lacerazione: il mio legame con questo Paese sussiste, lo sento in certo modo come la mia
seconda patria, lo vorrei diverso da tutti gli altri Paesi; ma proprio per questo provo angoscia
e vergogna per questa sua impresa. Diffido dei successi ottenuti con l’uso spregiudicato delle
armi. Provo sdegno per chi frettolosamente assimila i generali israeliani ai generali nazisti, ed
insieme devo ammettere che Begin questi giudizi se li sta tirando addosso. Vedo con sconforto
rarefarsi la solidarietà dei Paesi europei. Temo che questa iniziativa, spaventosamente costosa
in termini di sangue, infligga all’ebraismo una degradazione difficilmente guaribile e ne inquini
l’immagine. Avverto in me, non senza sorpresa, un vincolo sentimentale profondo con Israele,
ma non con questa Israele.
Il problema palestinese esiste: non lo si può rimuovere. Non lo si può risolvere alla maniera di
Arafat, negando a Israele il diritto di esistere, ma neppure lo si risolve alla maniera di Begin.
Sadat non era né un genio né un santo, era soltanto un uomo dotato di fantasia, buon senso e
coraggio, ed è stato ucciso per aver iniziato una via. Non c’è nessuno in Israele o altrove che
voglia continuarla?»
5
159
Riportandomi a quel periodo della mia vita, Sqeuu è una testimonianza
massima della mia «doppia personalità»: ovvero un’opera che coniugava la mia
passione sociale e storica e il mio amore per la musica e la composizione. Ho
lottato per poterne fare una ragione di vita anche contro chi mi vedeva già
avvocato o funzionario in una banca milanese. Io ho scelto la musica, senza
fatica, e ne sono orgoglioso. Ho scelto la musica anche per esprimere ideali
politici, memoria storica e passione civile e la composizione Se questo è un
uomo va proprio in questa direzione.
Primo Levi e questa opera hanno segnato la tua strada futura…
Senz’altro, la musica impegnata ha fatto parte in seguito delle mie composizioni. Ho musicato versi e scritti di Pier Paolo Pasolini (Il nini muart e Versi
sottili come righe di pioggia), Italo Calvino (Ti con Zero), André Platonov (Dal
mondo bellissimo e violento) sino alla scoperta del Brundibár di Krasa6. Sì,
mettendo in scena Brundibár ho ricominciato a occuparmi della storia della
deportazione, del lager che avevo conosciuto attraverso le parole di Levi molti
anni prima. Non credo sia stato casuale l’incontro con Istoreco con cui realizzammo questa esperienza straordinaria: rimettere in scena Brundibár a Reggio
Emilia con gli allievi del «Peri» nel 2000. Poi ci chiesero di replicarlo a Terezin,
i ragazzi rimasero profondamente colpiti da questa esperienza.
In questa seconda e più matura fase sono nate la composizione in memoria
dei fratelli Cervi, Morirono tirando dadi d’amore nel silenzio, su testi di Calamandrei, Borghesi e Quasimodo e Al cipresso cresciuto su quei binari della
memoria, basato su lettere di deportati italiani e che ha aperto la rassegna
«L’ora della Musica» l’anno scorso a Reggio Emilia.
Quando Levi è morto suicida che cosa hai pensato?
Non mi sono stupito. In fondo il suo pessimismo, e il suo senso di inutilità
nell’essere testimone di una terribile pagina della storia e dell’umanità, li avevo
già percepiti durante il nostro incontro. Con il senno di poi rileggo nelle sue
parole anche un certo sconforto, un disagio nei confronti di un mondo che
nemmeno una tragedia come il secondo conflitto mondiale aveva aiutato a
essere migliore.
Brundibár è un’opera per ragazzi scritta nel 1938 dal compositore ceco di origine ebraica Hans
Krása. Nel 1942 l’autore è internato nel campo di concentramento di Terezin, vicino a Praga.
Qui mise in scena l’opera all’interno del lager sia ufficialmente – durante una visita della Croce
Rossa internazionale ad esempio – che clandestinamente oltre una cinquantina di volte. L’autore e i tanti interpreti e musicisti saranno assassinati nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
6
160
Giorgio Finzi
Kaddish per zia Clotilde
Angiolino Catellani
Habent sua fata libelli
Le pagine da cui riemerge il passato sono spesso segnate da un peculiare
destino: non appena tracciate, subito ed ancora reclamano la parola, ulteriore
attenzione.
Regola cui non sfugge pure la vicenda dell’ebreo triestino-«campagnolese»
Giorgio Finzi, riportata alla superficie nell’ultimo numero di «Ricerche storiche»1. Poiché, proprio mentre essa era già in corso di stampa, giungevano in
merito res novae da Trieste a Campagnola Emilia.
Con lettera del 13 aprile 2009, Furio Finzi, il figlio di Giorgio, contraccambiava, infatti, alla maestra Maria Teresa Ferrari i rituali auguri pasquali accompagnandoli con l’invio di un altro suo scritto: «Spero che le possa interessare
questo libriccino di memorie famigliari, che ho destinato ai miei nipoti affinché possano conoscere le radici del loro passato. C’è dentro anche Campagnola, indelebile nei miei ricordi di bambino…»2.
A. Catellani, Giorgio Finzi. Un ebreo triestino-«campagnolese» nella temperie dell’ultimo conflitto mondiale, in «RS-Ricerche Storiche», n. 107/2009, pp. 129-138.
2
Lettera autografa di Furio Finzi, del 13/04/2009, a M.T. Ferrari. Rammentiamo che, nel periodo
bellico, la signorina Ferrari custodì gli autentici documenti anagrafici di Giorgio Finzi.
1
161
Nel volume l’autore ripercorre la storia dei Vitas, la famiglia d’origine della
madre, dai primi del Novecento a oggi3.
In esso, egli ritorna inevitabilmente al travagliato periodo delle leggi razziste antisemite e alla drammatica fase della seconda guerra mondiale, rivelandosi inestinguibile «candela della memoria» per i suoi cari.
Al riguardo, ci fornisce precisazioni su singoli episodi precedentemente
ricordati dal padre e motivi di riflessione sull’identità ebraica violata e perseguitata dal nazifascismo.
Ci commuove, soprattutto, con un racconto che scuote la coscienza. Ci svela, poi, il suo mondo di fanciullo ebreo alle prese con le tragedie belliche e ci
narra, anche e purtroppo, di un evento famigliare che in sé tutte le riassume
e le denuncia.
Riprendiamo, dunque, la trama dei fatti, per consegnarli con maggiore
compiutezza alla meditazione presente e futura.
Io mi chiamo Giorgio Finzi
«Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa:
che mi chiamavo Mattia Pascal… Non pareva molto, per dir la verità, neanche
a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo,
il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: “Io mi chiamo
Mattia Pascal”».
Questi periodi iniziali del celebre romanzo pirandelliano Il fu Mattia Pascal
ben si prestano ad introdurre l’offesa all’identità, e pertanto alla persona, subita da Giorgio Finzi.
Un’offesa ampiamente documentata nel libro del figlio Furio La famiglia Vitas. Quattro generazioni nel 1900, essenziale fonte di riferimento per quanto
rievocato nelle pagine seguenti.
Nel capitolo «Matrimoni» (pp. 37-46), Furio ricorda innanzitutto che il padre
Giorgio si sposò con la madre Ettorina (Rina) Vitas nel 1935, a Trieste.
I Vitas, originari di Vitasi, piccolo borgo vicino ad Antignana, in Istria,
commerciavano in vini e proprio il padre di Ettorina, Romano, aveva trasferito
l’attività a Trieste nel 1907.
Giorgio Finzi, grazie alla sua conoscenza del tedesco, fondamentale per la
corrispondenza con i clienti, fu ben presto impiegato dal suocero nella ditta
Vitas.
Ma, come rimarcato nel capitolo «Le leggi razziali» (pp. 47-52), a partire
dall’ottobre 1938 cominciarono l’emarginazione e la persecuzione degli ebrei
italiani.
3
F. Finzi, La famiglia Vitas. Quattro generazioni nel 1900, s. l. e s. d.
162
Proprio da Trieste, da piazza Unità d’Italia, il 18 settembre il duce del fascismo aveva annunciato a una folla in delirio la promulgazione dei provvedimenti antisemiti; e proprio quel giorno Ettorina Vitas Finzi aveva rapidamente
fatto battezzare il suo piccolo Furio, nato nel 1936, nella chiesa di Sant’Antonio
nuovo.
Giunti a quel punto «Avere un ebreo che lavorava nella ditta, che malauguratamente era anche il marito di una figlia, non era però ammissibile per chi
fosse allineato con le pretese del regime, e Romano a Giorgio lo fece capire
chiaramente».
Così la famiglia Finzi abbandonò Trieste per recarsi a Monza, dove Giorgio
trovò occupazione presso il feltrificio Vezzani, che necessitava di un corrispondente in lingua tedesca.
Ogni illusione di vita serena, per i genitori e il figlioletto, crollò tuttavia
dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, «quando la persecuzione si fece più
feroce ed apparve chiaro che per un ebreo era troppo pericoloso restare allo
scoperto; avrebbe significato la sicura deportazione e immediatamente si diffuse la consapevolezza che sarebbero stati identificati, denunciati e catturati»
Da ciò la decisione di tentare la fuga in Svizzera con gli amici Romanin. E
in proposito, sempre ad integrazione del racconto paterno, Furio precisa che
cercarono di varcare il confine in val d’Intelvi, nei pressi di Como, ma «La piccola comitiva ebbe però sentore che i contrabbandieri ai quali si erano affidati
li stavano conducendo in bocca alle SS per riscuotere la doppia mercede d’un
infame tradimento, dopo che avevano incassato il prezzo che loro competeva
per guidarli su sentieri nascosti oltre frontiera, e tempestivamente ritornarono
sui loro passi».
Riguardo alla successiva meta, la Valsesia, i Finzi e i Romanin ripararono
per l’esattezza a Ramello, frazioncina di Scopello (VC); ed è qui che, per la
prima volta, Giorgio, ottenuti dei falsi documenti, assunse una fittizia identità,
quella di Ugo Mambretti4.
A Scopello pure Mario Finzi e Bice Macchioro, i genitori di Giorgio, dovettero mascherarsi sotto mentite spoglie:
In una casa fuori dal paese erano sfollati i vecchi coniugi marito e moglie signori
Bonalumi, che Furio aveva l’ordine d’ignorare del tutto come se fossero assolutamente sconosciuti. D’inverno però la sera giungeva molto presto e quando si faceva buio e nessun occhio indiscreto li avrebbe potuti denunciare andavano spesso a
visitarli perché altri non erano che i nonni… con improvvisate generalità falsificate
e con l’angoscia di poter venire riconosciuti ed arrestati.
I milanesi Romanin riusciranno, poi e finalmente, a raggiungere la Svizzera a fine marzo 1944.
Cfr. G. Finzi, Una lettera. Ricordi di sci, s. l. e s. d., p. 2.
4
163
Le diverse identità di Giorgio Finzi (fonte: Una lettera. Ricordo di sci, cit. pp. 6-9)
Indi, a causa della frequente presenza in loco dei partigiani della zona e
di spie che ne riferivano ai tedeschi, i quali accorrevano per attuare rastrellamenti, divenne improrogabile scappare pure da Ramello: «L’aria si faceva…
irrespirabile per la paura delle delazioni e dei sospetti, con la sensazione che
il cerchio si chiudesse inesorabile attorno a chi mentiva sulla propria identità».
Giorgio Finzi, come già riferito nel precedente articolo sul numero 107 di
«RS-Ricerche Storiche», si recò infine a Campagnola Emilia (RE), per operare
presso una cantina, e lì, in seguito, si ricongiunse a Rina e Furio. Ma chi lo
aiutò in quell’occasione? Chi lo avviò al paesino della Bassa reggiana? Pure ciò
ci viene svelato dalla ricostruzione del figlio, che chiarisce inoltre l’enigma sul
nome Stelio Marchi:
Grazie ai buoni uffici dell’agente vinicolo Zannoni, generoso discreto e disinteressato amico modenese, Giorgio si rifugiò a Campagnola Emilia col falso nome di
Stelio Marchi… Stelio Marchi esisteva veramente ed era un ottimo impiegato della
ditta Vitas che aveva ceduto a Giorgio la sua carta d’identità con relativa foto coi
baffi un poco somigliante: per apparire più simile alla foto Giorgio si fece crescere
un bel paio di baffoni…
Solo dopo la Liberazione, Stelio Marchi potrà tornare a rispondere: «Io mi
chiamo Giorgio Finzi». Senza dubbio l’epopea di Giorgio Finzi, il suo percorso
di isolamento e di clandestinità, risultò «simile e differente» rispetto al vissuto
di circa altri ventinovemila ebrei italiani, come asserisce Michele Sarfatti a
proposito di ogni vicenda individuale5. E per tali ragioni riesce assolutamente
emblematica sul piano storico.
Simile in quanto scandita da alcune tappe non di rado comuni, costantemente ricorrenti: il battesimo cattolico per i figli; l’abbandono del proprio
ambiente e del proprio lavoro; l’avventurosa e fallita fuga verso la Svizzera;
l’affannosa ricerca di più nascondigli; la rinuncia al nome e il precario riparo
dietro falsi documenti anagrafici; l’aiuto di soccorritori anche «ariani»; la clandestinità fino alla Liberazione; la collaborazione con la Resistenza.
Differente, come naturale, per un del tutto singolare intreccio tra fattori
casuali e risoluzioni personali adottate per fronteggiare le circostanze.
E dalle memorie del figlio la figura di Giorgio si delinea quale quella di
un uomo sicuramente provvisto di coraggiosa intraprendenza e di tempestiva
capacità decisionale. Lo attestano, in particolare, l’episodio del pericoloso trasporto a Campagnola della sua famigliola e i rischiosi contatti da lui ivi instaurati con i partigiani, eventi che le parole di Furio fanno rivivere, con dettagli
inediti, nel capitolo «1945, fine della guerra» (pp. 65-70). Leggiamole:
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2007,
p. 301.
5
166
Venne a prenderli furtivamente Giorgio che non si sa come era riuscito ad assicurarsi il servizio di un incerto piccolissimo furgone: nel cassone scoperto ammucchiarono quattro masserizie ed una preziosa bicicletta, e tutti e tre si strinsero in
quel poco spazio che c’era nella cabina, sull’unico sedile accanto all’autista. Il Po
lo passarono di notte, essendo impossibile attraversarlo di giorno a causa delle
incursioni aeree che miravano ai ponti provvisori di barche … I ponti di barche
erano precari, pericolosi e molto stretti, per cui il traffico vi si poteva solo svolgere
alternativamente a senso unico. La colonna per passare il gran fiume era quindi
chilometrica già prima dell’argine e la gente era pronta e vigile a balzare nei fossati
per ripararsi dalle mitragliate non appena si sentiva arrivare da lontano il rombo
d’un aereo … Non c’era asfalto per raggiungere il ponte di barche e il camioncino
traballava paurosamente ondeggiando sul sentiero; finalmente attraversò il fiume
sulle tavole di legno sbilenche appoggiate su barche che sembravano muoversi
sinuose come fossero un lungo serpentone che nuotava a pelo d’acqua.
Giorgio accolse moglie e figlio nella stanza in cui abitava alla periferia del paese
… era l’unico … che conoscesse bene il tedesco e veniva quindi talora chiamato
a fungere da interprete negli interrogatori ai quali venivano sottoposti i partigiani
fatti prigionieri … era anche l’unico dotato di un lasciapassare che lo autorizzava
a circolare dopo il coprifuoco. Sapeva di giocare con il fuoco (il suo lasciapassare
era ovviamente intestato a Stelio Marchi) ma egualmente egli non mancava di trasmettere le notizie che raccoglieva dai tedeschi a un gruppo partigiano col quale
era in contatto: nel silenzio assoluto delle notti qualcuno bussava leggermente alla
porta di quella casa isolata, e nel breve confabulare che ne seguiva le informazioni
passavano di mano.
La sua volontà e la sua forza di lotta, tuttavia, è lecito supporre venissero
messe a dura prova da momenti di sconforto per le privazioni e i soprusi subiti: l’impossibilità di essere ufficialmente e pienamente se stesso; il timore di
tradirsi, o di venire tradito, nella propria identità; la temporanea separazione
dall’affetto dei suoi congiunti, parimenti condannati ad una teatrale finzione e
all’isolamento.
Ed è ancora il figlio Furio, con l’intensità di un devoto ricordo, a confermarcelo:
Giorgio era fiero della sua divisa militare, che aveva ottenuto dopo il corso allievi ufficiali di complemento di Spoleto, e si sentì molto umiliato quando dovette
deporla a causa della politica fascista che segregava ed isolava gli ebrei come se
fossero cittadini di seconda categoria non appartenenti alla pura ed eletta razza
italo-latina. Di quel primo sopruso, al quale altri e ben più gravi sarebbero tragicamente seguiti, non si sarebbe mai fatto ragione, tanto che ancora sul letto di
morte nell’incoscienza mormorava stupito e addolorato: i me gà cavà la divisa!
(«Matrimoni», p. 39).
167
Con occhi di bimbo
Come ovvio, anche per Rina e per Furio la forzata esperienza di fuggiaschiclandestini comportò rilevanti disagi e problemi. Essi, ad esempio, prima di
poter riunirsi con Giorgio a Campagnola, dovettero rimanere «occultati», tra
numerosi parenti, nella villa che Romano Vitas aveva acquistato a Strassoldo
(UD). Qui, «il prete del paese – a rischio della vita – compilò per loro certificati
di nascita e di battesimo fasulli, attestanti che Furio aveva cognome Vitas, figlio
illegittimo di Rina, la quale figurava come una svergognata ragazza madre sedotta e abbandonata da uno sciagurato amante sconosciuto, fuggito come un
volgare mascalzone» («Le leggi razziali», p. 51).
Per la donna si trattava di una pesante onta, di un gravoso colpo inferto alla
sua dignità di moglie e di madre, a cui si sarebbe aggiunto, non molto dopo,
il deprimente infingimento di «sposare» Giorgio quale vedova, con un figlio,
di un cugino. A Strassoldo, inoltre, come riportato all’inizio del capitolo «1945,
fine della guerra», giunsero i militi tedeschi ed occuparono proprio l’intero
piano terra della villa. Di conseguenza:
Non sembrava affatto opportuno – con i tedeschi in casa – che Rina e Furio mettessero a repentaglio la vita loro e quella dei loro congiunti se qualche delazione
avesse fatto scoprire le loro carte false. I famigliari tutti erano ovviamente a conoscenza della loro reale identità e non si poteva escludere che involontariamente
a qualcuno sfuggissero notizie deleterie per la comune sicurezza. Si decise perciò
che sarebbe stato meglio che se ne andassero altrove.
Per quanto concerne, invece, le specifiche esperienze vissute dal piccolo
Furio, appaiono illuminanti alcune considerazioni svolte da Sara Valentina Di
Palma nel suo notevole saggio I bambini nella Shoah:
L’assunzione di una falsa identità è problematica soprattutto per i più piccoli, perché costituisce un sovvertimento della conoscenza di sé e della logica. Per un bambino non è tanto il nome a renderlo conoscibile, riconoscibile e individuabile agli
occhi degli altri, quanto la sua persona fisica; un nome al posto di un altro è una
precauzione inutile per occultare la sua identità reale, e diventa invece elemento di
disturbo psicologico e di incertezza…6.
E Furio Finzi ci dichiara, appunto, di aver subito il cognome Mambretti
«come un’imposizione posticcia, non gradita, e che aveva richiesto un’attenzione ed una tensione particolari e continue per non tradirsi e rivelare così
6
S.V. Di Palma, I bambini nella Shoah, in M. Cattaruzza et al. (a cura di), Storia della Shoah. La
crisi dell’Europa, lo sterminio degli Ebrei e la memoria del XX secolo, vol. II, utet, Torino 2006,
p. 485.
168
Lasciapassare del Comando tedesco di stanza a Campagnola rilasciato a Stellio Marchi
alias Giorgio Finzi
con un tentennamento o incespicando la propria vera identità»; mentre quello
materno, Vitas, in fin dei conti «se lo sentiva bene addosso», dato che lo restituiva al suo mondo, corrispondeva con la stessa intitolazione della villa di cui
il nonno Romano era proprietario («Le leggi razziali», p. 51).
Pur rimanendo sempre con i genitori, con la madre o con entrambi, Furio
non fu poi risparmiato da sofferenze ed insicurezze che – segnala ancora la
Di Palma – riguardarono tutti i fanciulli ebrei condannati alla vita clandestina:
«costretti ad adattarsi ad ambienti, persone e abitudini nuove, i piccoli devono
spesso cambiare numerosi alloggi, con il disagio di sistemazioni non sempre
soddisfacenti e con il continuo timore di essere scoperti»7.
In relazione a ciò, già si è accennato alle difficoltà e ai problemi del soggiorno a Ramello, minimo borgo della Valsesia, formato «da una chiesetta e da
tre vecchie case montanare costruite con le pietre del luogo», durante il quale
Furio e i genitori, in visita segreta ai nonni del piccolo, «S’intrattenevano un
paio d’ore, cenavano insieme e prima di uscire dalla loro porta stavano bene
attenti come dei cospiratori guardando a destra ed a sinistra per essere ben
certi che nessuno li avesse potuti notare» («Le leggi razziali «, p. 49).
Ma anche a Campagnola non mancarono ristrettezze e inquietudini:
non c’era acqua corrente: la si doveva attingere ad un pozzo … il cesso era lontano
dalla casa e consisteva in una profonda buca maleodorante scavata nel terreno,
situata in un casottino di legno … L’inverno fu rigidissimo [tra il 1944 e il 1945,
NdA] e li costrinse a vivere praticamente sempre in cucina insieme ai padroni della
casa…la cucina era l’unico locale riscaldato … La camera era modesta e piccolina,
aveva due finestre e poteva contenere solo i tre letti per dormire; l’unico armadio
… era in fondo al lungo corridoio, che era isolato da una parete divisoria posticcia
di faesite per ricavarne un vano del quale Giorgio disponeva. Quando andavano
a dormire, la parete di faesite appariva di colore nero, in quanto brulicava di scarafaggi … Per rimediare al gelo padano … mezz’ora prima di andare a coricarsi
si prelevavano dei tizzoni ardenti dal focolare di cucina e li si sistemava dentro al
letto nel “prete”. Il futuro era incerto, si viveva alla giornata, e non ci si poteva azzardare a prefigurarsi che cosa avrebbe potuto riservare. Era già una fortuna avere
sempre da mangiare, chi era rimasto in città non poteva dire altrettanto («1945, fine
della guerra», pp. 66-68).
Occorre adeguatamente meditare, infine, sul travagliato, sebbene brillante
iter scolastico del giovanissimo Furio Finzi.
A Monza frequentò la seconda classe elementare, «dopo aver svolto privatamente il programma della prima per l’opportunità di guadagnare un anno
essendo nato il giorno 3 gennaio»; iniziò la terza a Scopello, e in tale classe
venne inserito a Strassoldo, dove, però, fu ben presto passato in quarta, senza
intralci burocratici, grazie al suo livello di preparazione («Le leggi razziali», pp.
47 e 49, e «A Strassoldo», p. 58).
7
Di Palma, I bambini nella Shoah..., cit., p. 486.
170
A Campagnola, Furio Mambretti Vitas divenne Furio Marchi e, con compagni di età più avanzata, anche di quattro o cinque anni superiore, frequentò
la quinta, riuscendo il migliore allievo; per l’età insufficiente, tuttavia, non
solo non poté accedere all’esame di ammissione alle medie, ma, addirittura,
dovette poi ripetere la classe, con sua «cocente umiliazione» («1945, fine della
guerra», p. 66).
A proposito di tale episodio campagnolese, la maestra in pensione Maria
Teresa Ferrari ha recentemente fatto rintracciare, nell’archivio del locale Istituto comprensivo, il «Registro degli scrutini e degli esami» della classe quinta
elementare maschile dell’a.s. 1944-45, diretta dall’insegnante Rosina Roncaglia,
per inviarne copia all’amico triestino.
Nell’interessante documento, risalta, in effetti, l’eccellente profilo dello scolaro n. 10 dell’elenco progressivo, Furio Finzi: «Lodevole in tutte le materie.
Manifesta intelligenza e volontà»8.
Finzi? Sì, perché al termine dell’anno scolastico, nella Campagnola finalmente liberata, Furio Mambretti Vitas Marchi ebbe almeno il conforto di riappropriarsi del legittimo cognome.
Un percorso di studi elementari lodevole ma tormentato, si diceva, in quanto tipico di un fanciullo ebreo soggetto a molteplici trasferimenti di sede,
inserito nella scuola pubblica contra legem, celato, dietro artificiali identità,
agli occhi di maestri e compagni, sicuramente condizionato dalla quotidiana
minaccia di un lapsus che ne manifestasse l’origine israelitica.
Come quelli di tanti, troppi bambini, ebrei e non, gli occhi di Furio Finzi
inquadrarono inoltre, in quegli anni tremendi, anche il volto più disumano
della guerra.
Accadde proprio a scuola, a Strassoldo. La mattina del 7 novembre 1944, un
camion carico di repubblichini della famigerata X Mas raggiunse l’edificio delle elementari e i militi, al cospetto degli alunni «ammutoliti e spaventati», prelevarono brutalmente dall’aula il maestro, Alessandro Moraiti, trentaduenne.
L’infelice fu impiccato, a un chilometro circa di distanza, al ramo di un tiglio.
La sua «colpa»? Alloggiato in una stanzetta nella guardiola che custodiva
l’ingresso della villa dei conti di Strassoldo, la notte precedente era stato obbligato ad aprire la porta a una pattuglia partigiana. Saliti ai piani superiori, i
partigiani avevano catturato un capitano della Wehrmacht, ospite degli Strassoldo, per giustiziarlo quindi presso il cimitero del paese. L’ignaro maestro
non sospettava di essere stato prescelto quale prima vittima di una spietata e
feroce rappresaglia. Dopo di lui, infatti, i medesimi fascisti della X Mas uccise-
Regio Provveditorato agli Studi di Reggio Emilia. III Circoscrizione scolastica. Circolo Direttivo
di Novellara. Comune di Campagnola (Capoluogo). A.s. 1944-1945. Scuola elementare maschile.
Classe quinta. Diretta dall’insegnante Roncaglia Rosina. Registro degli scrutini e degli esami.
8
171
ro nove giovani detenuti comuni prelevati nel carcere della vicina Palmanova.
Essi vennero fucilati presso il muro esterno di recinzione della villa Vitas.
Il resoconto particolareggiato di questi tragici fatti viene esposto da Furio
Finzi nel capitolo «A Strassoldo».
Alfa e Omega
La guerra nazifascista verso gli ebrei d’Europa, e pertanto anche contro
i Finzi di Trieste, pretendeva tutttavia il sangue, la morte, l’annientamento
completo del nemico. Non le potevano bastare le sofferenze inflitte con la discriminazione dei diritti e la spoliazione dell’identità. Era una guerra crudele e
vile, condotta all’insegna del motto «Homo homini lupus», come evidenzia Elio
Vittorini nel suo romanzo Uomini e no. Da qui le rappresaglie a danno di civili
inermi, vecchi, donne, bambini; da qui la Shoah dell’inerme popolo ebraico,
vecchi, donne, bambini… e purtroppo non tutti i Finzi riuscirono solo a lambire il baratro, senza farsene inghiottire. La famiglia di Giorgio si salvò, ma non
la zia paterna di questi. Il suo nome e la sua triste storia rivivono, insieme a
quelli di circa settemila altri ebrei arrestati in Italia tra il 1943 e il 1945, pure
nella fondamentale opera di Liliana Picciotto Il libro della memoria.
Questo il ricordo a lei ivi dedicato: «Finzi Clotilde, nata a Trieste il 23. 04.
1860, figlia di Giuseppe e Clerle Chiara. Ultima residenza nota: Trieste. Arrestata a Trieste il 20. 01. 1944 da tedeschi. Detenuta a S. Sabba campo. Deportata da Trieste il 28.01.1944 ad Auschwitz. Uccisa all’arrivo ad Auschwitz il
02.02.1944»9.
Ma ecco come narra la cupa e dolente vicenda il pronipote Furio, alle pagine 49-50 del capitolo «Le leggi razziali»:
Clotilde Finzi, sorella maggiore e semiparalizzata di Mario, non era invece stata
assolutamente in grado di scappare da Trieste. Era ricoverata in via Cologna nella
casa di riposo ebraica Pio Asilo Gentilomo. Nella fredda sera del 20 gennaio 1944
un plotone di soldati tedeschi fece irruzione con le armi in pugno in quella residenza per anziani e Clotilde insieme ad altri 53 vecchi ebrei senza difese, terrorizzati
e tremanti, venne stivata brutalmente sopra un camion che si diresse alla risiera di
San Sabba. Rimasero lì un’atroce settimana nel freddo e in agonia, ammassati come
bestie. Il 28 gennaio i vecchi vennero forzati a risalire sopra un camion che li trasferì alla stazione ferroviaria per essere caricati angosciati sopra un carro bestiame sul
cui impiantito di tavole di legno c’era solo un po’ di paglia ed un unico recipiente
per i bisogni corporali, senza nulla da bere e da mangiare. La porta del vagone venne fatta scorrere con violenza e sigillata dall’esterno. Dopo un lungo minaccioso
9
L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Mursia, Milano
2002, p. 284.
172
silenzio il convoglio si mise in moto lentamente e superò le Alpi nella gelida mattina susseguente. Raggiunse qualche giorno dopo la Polonia e si fermò definitivamente dentro il recinto di filo spinato dell’orrendo lager di Auschwitz. Non è dato
sapere quanti di quei vecchi invalidi arrivarono vivi né in quali condizioni, né se
qualcuno riuscì a scendere con le proprie forze sulla rampa di selezione quando la
porta del vagone venne aperta ed occhi impietosi videro ciò che nessuno vorrebbe
mai vedere. Certamente nessuno ritornò: “Trascinati nelle tenebre, strappati dalla
furia nazista alla mite speranza di un tramonto sereno” – recita la lapide che in via
Cologna ne ricorda almeno i nomi.
Si tratta di un racconto fortemente espressivo e «fotografico», nel quale ogni
parola ed ogni frase restituiscono tutta la concreta e terribile verità dell’evento
attraverso immagini interiori, che inducono – ad una lettura lenta e riflessiva,
silenziosamente assorta, evocatrice di una «testimonianza adottiva a posteriori»,
secondo l’efficace definizione di Marianne Hirsch10.
È infatti una narrazione che proietta il dramma di Clotilde Finzi e delle altre
sventurate vittime nell’esistenza di chi legge.
E l’identificarsi, sebbene a distanza, con un vissuto tanto sconvolgente e
tragico accosta ancor più alle peripezie e alle sofferenze stesse di Giorgio,
Rina e Furio Finzi, che dalla vicenda di zia Clotilde non possono che trarre un
significato maggiormente incisivo e condiviso.
Ma dopo la morte e i suoi neri scherani arrivò, pure per i «campagnolesi»
Finzi, il momento della libertà e della speranza in una «vita normale», che
Furio, affiancando la propria alla testimonianza paterna, così riconsegna alla
memoria collettiva:
Poi la giornata del 24 aprile fu totalmente calma e silenziosa: la grande ondata di
un esercito sconfitto s’era esaurita del tutto lasciando sul bordo dell’asfalto gli avanzi miserevoli ed inutilizzabili della ritirata … La mattina dopo finalmente si ebbe la
visione incredibile di un esercito vero, potente, ricco, organizzato e vittorioso …
Entrò in paese una colonna rombante di carri armati impolverati, con la gran stella
bianca al posto delle tante croci uncinate o dei fasci di Salò ai quali l’Italia s’era
abituata … I soldati americani erano allegri, profumati di sapone, dotati di comode
divise ed avevano gomme da masticare, caramelle e cioccolata che regalavano ai
bambini stupefatti … La lunga fila dei camion sembrava non finire più, tanti erano
in appoggio alle prime linee armate. Con una dovizia di mezzi che lasciava tutti a
bocca aperta … in quattro e quattr’otto misero su la tendopoli d’un accampamento
con tanto d’ospedale da campo e di cucine, e quelle strane automobiline-scatolette
che non s’erano mai viste né immaginate prima – le jeep – scorazzavano velocissiM. Hirsch, Immagini che sopravvivono:le fotografie dell’Olocausto e la post-memoria , in M.
Cattaruzza et al. (a cura di), Storia della Shoah..., cit, vol II, p. 302. Ivi, l’autrice definisce la postmemoria, quale «testimonianza adottiva a posteriori», in questi termini: «Ciò significa “adottare”
le esperienze traumatiche (e di conseguenza i ricordi) di altre persone come se si trattasse di
esperienze che avrebbero potuto essere vissute in prima persona, inscrivendole così nella storia
della propria vita».
10
173
me tra lo stupore ammirato della gente, che per la prima volta vedeva soldati neri
mescolati a quelli bianchi. Ci fu gran festa in piazza, la gente sembrava impazzita
dalla gioia… tutti s’abbracciavano e ballavano, ridevano ed urlavano in un’atmosfera generalizzata di ottimismo, di speranza in un futuro migliore e di fiducia di poter
forse vedere realizzati gli ideali di democrazia in uno Stato di diritto. Uscivano allo
scoperto personaggi che le famiglie avevano nascosto e alimentato per mesi nelle
loro soffitte, alcuni soldati inglesi sfuggiti alla prigionia, alcuni paracadutisti alleati
che s’erano lanciati e che i tedeschi non erano riusciti a catturare perché protetti
dall’omertà dei contadini11. Rientravano in paese con orgoglio ed onore i giovani
partigiani con i mitra a tracolla che avevano combattuto alla macchia e che ora
potevano riabbracciare da vittoriosi i loro cari alla luce del sole, ed accingersi a
riprendere dopo anni una vita normale. («1945, fine della guerra», pp. 69-70).
Riabbracciare i cari… alla luce del sole… vita normale… Kaddish e Yad
Vashem per la signora Clotilde Finzi12.
Sull’aiuto fornito dai campagnolesi a militari alleati o a soldati italiani sbandati, si vedano alcune significative testimonianze riportate in: A. Zambonelli, Antifascismo e Resistenza in un paese
della «Bassa»: Campagnola Emilia (1919-1945), Comune e anpi, Campagnola, 1984, pp. 78-80.
12
«Kaddish», ovvero preghiera ebraica per i defunti; «Yad Vashem», alla lettera, va tradotto con
«Un nome eterno».
11
175
Didattica
Relazione attività didattiche Istoreco
a.s. 2008-09
Alessandra Fontanesi
L’attività della Sezione didattica di Istoreco si esprime nella proposta «Prendi il tempo» – lezioni, attività, laboratori, formazione – per le scuole di ogni
ordine e grado, nella formazione docenti e operatori culturali, fornendo consulenza storico-didattica ad altre Istituzioni, collaborando trasversalmente con
gli altri componenti dell’Istituto (editoria, esteri, Giovani ricercatori reggiani,
ecc.).
Prendi il tempo
Racchiude come già detto le varie proposte di lezioni, laboratori, viste guidate riguardo la storia contemporanea e in particolare quella del ’900 che la
sezione e i suoi collaboratori offrono alle scuole e ai docenti di ogni ordine
e grado della provincia di Reggio Emilia. Le richieste di collaborazione con la
sezione didattica non solo provengono ormai da tutto il territorio provinciale
ma, in certi casi, anche da fuori provincia. L’anno scolastico è stato impostato
su scelte didattiche che corrispondevano a ricorrenze particolari nel calendario civile o su attività che metodologicamente si sono rivelate efficaci: un
notevole lavoro di proposte didattiche ha riguardato il 90° anniversario della
fine prima guerra mondiale in concomitanza con l’esposizione Così lontana
così vicina, Reggio Emilia e i reggiani nella Grande Guerra; le visite guidate
177
che utilizzano la città di Reggio Emilia come laboratorio storico su temi che
vanno dal periodo giacobino a quello risorgimentale sino al secondo conflitto
mondiale passando dai luoghi prampoliniani confermano un ottimo gradimento. Molte scuole superiori hanno scelto poi un approfondimento su gli anni ’60
e ’70 del secolo scorso, lezioni che scaturiscono ora anche da una ricerca di
fonti locali condotta da ricercatori dell’Istituto.
Aggiornamento/formazione
Particolarmente significativo è stato il lavoro di aggiornamento/formazione
che ha riguardato docenti e operatori culturali della provincia reggiana e non
solo. Nonostante l’aggiornamento per i docenti in servizio sia ormai privo di
riconoscimento e sia valido a solo titolo personale, più che buona è stata la
risposta alle nostre attività di formazione rivolta agli insegnanti.
Temi e modalità dell’aggiornamento dell’a.s. 2008-09: formazione in lingua
francese per docenti italiani e stranieri sulla storia della presenza ebraica a
Reggio Emilia e della seconda guerra mondiale; il primo conflitto mondiale e
sue conseguenze; la storia complessa del confine orientale con visita ai luoghi
di Trieste, Basovizza, Ljubljana, Gonars e San Sabba; le leggi razziali dello Stato
italiano; la storia del fascismo nel suo formarsi e apogeo storico; la deportazione e la memoria del lager; la Resistenza in un dialogo con le nuove generazioni; l’antifascismo come principio fondativo di una memoria europea. Ognuna
di queste tappe formative è stata delocalizzata proprio perché Istoreco, e la
sua sezione didattica e formazione, lavorano su tutto il territorio provinciale; la
maggioranza degli eventi sono stati effettuati all’interno di e in collaborazione
con scuole del territorio.
Il numero complessivo di docenti contattati attraverso tutte le nostre attività
sono circa quattrocento, mentre gli studenti circa quattromila, tenendo conto
di una media di venticinque alunni per classe.
Progetti specifici
Sono in particolare da ricordare i progetti: Una donna ai raggi x, vita di
Madame Curie consulenza sulla storia dell’acquisizione dei diritti delle donne
per Istituto «Russel» di Guastalla; A scuola di… Costituzione percorsi formativi
per i genitori degli alunni della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto comprensivo (ic) di Sant’Ilario con consulenza bibliografica ai docenti;
Dall’aula al luogo: un percorso nella storia contemporanea per tutte le classi
terze dell’ic don Dossetti di Cavriago; una giornata di narrazione degli eventi
storici riguardanti la «battaglia di villa Rossi» ad Albinea con tutte le quinte classi delle primarie dell’ic di Albinea; la costante attività laboratoriale alla scoperta
178
del cimitero ebraico di via della Canalina con tute le classi terze dell’i.c. «Lepido» di Reggio Emilia; progetto pluriennale sulla storia della seconda guerra
mondiale a Vezzano per gli studenti delle classi terze, scuola secondaria primo
grado dell’omonimo comune. Numerosi sentieri partigiani (sei) saranno ripercorsi da studenti reggiani grazie alla proposta di attività didattica sulle tracce
della resistenza in montagna.
Consulenza e docenza
Consulenza e docenza ad altre istituzioni: la sezione didattica e formazione
collabora ormai attivamente con scuole ed enti francesi che intendono visitare
il territorio della regione Emilia Romagna e scoprirne la storia riguardante il
fascismo, l’occupazione, la Resistenza e la deportazione.
Conduce giornate di formazione presso altri istituti collegati alla rete o musei. Nell’anno 2008-09 ha svolto le seguenti attività: presso Museo diffuso di
Torino, partecipazione alla tavola rotonda sui luoghi di memoria e loro utilizzo
(giugno 2008); animazione di visite guidate storiche a Reggio Emilia all’interno
di Festa della Storia di Bologna 2008; docenza per seminario sulle «Leggi razziali in Italia» per docenti partecipanti al «Concours National de la Résistance
a Annecy», nel Lycée Berthollet (dicembre 2008); relazione sull’uso didattico
dell’archivio era all’interno della «Giornata di studio sull’uso delle fonti orali»
presso il Museo Cervi di Gattatico (marzo 2009); relazione sui «Luoghi di memoria» all’interno del corso di formazione organizzato dal Centro per la didattica della storia e del patrimonio dipast di Bologna denominato «Patrimonio in
movimento» (maggio 2008).
Rete e comandi
Come responsabile della sezione didattica, e delegata dalla dirigenza, ho
spesso e volentieri partecipato a incontri riguardanti la rete nazionale insmli
a cui appartiene Istoreco e grazie alla quale possiamo usufruire della risorsa
del comando dal miur. Ogni incontro si è spesso rivelato molto importante
per far conoscere le iniziative di Istoreco in ambito nazionale e per iniziare
uno scambio di attività e confronto attraverso i contatti con Istituti confratelli.
Spesso all’interno delle riunioni a cui ho partecipato si è detto dell’importanza
della rete e di come renderla più forte, poiché una rete forte sarà di beneficio
a tutti gli istituti associati. Credo molto in questo, nello spirito della rete e della
collaborazione fra pari, e continuerò a sostenere un’attività che sia il meno
isolazionista possibile.
Siamo poi a un momento perennemente critico riguardante la sorte dei 54
comandi a disposizione della rete: anche quest’anno e grazie al Presidente
179
Scalfaro, che ha confermato la sua disponibilità a restare in tale carica, probabilmente (ma una risposta certa si avrà solo ad agosto 2009) resterà il comando
anche a Istoreco. Credo che questa situazione di precarietà che pende sulla
sezione didattica e formazione dell’Istituto debba essere valutata con attenzione e facendo le adeguate considerazioni proprio in vista del fatto che le risorse
umane riguardanti tale sezione possano, in un futuro molto vicino, estinguersi.
Collaborazioni
La sezione didattica collabora infine con la sezione esteri per quanto riguarda i contenuti pedagogici del progetto Viaggio della Memoria, coordina il progetto Costituzione disegnata, è attiva nella redazione della rivista «RS-Ricerche
Storiche» e sta sviluppando la ricerca nel proprio ambito specifico: sono in fase
di realizzazione un quaderno didattico sui percorsi che utilizzano la città come
museo diffuso e laboratorio della contemporaneità e un cd rom su Costituzione ed educazione alla cittadinanza.
180
In difesa della libertà di stampa
Riteniamo cosa utile ricordare che, col messaggio sotto riportato, la redazione
di «RS» ha aggiunto la sua voce alle tante che hanno espresso allarme e preoccupazione per i rischi che corre il diritto all’informazione nel nostro Paese. La
connessione necessaria fra un’opinione pubblica correttamente informata e l’
effettivo esercizio della sovranità popolare senza dubbio non sfugge ai nostri
lettori. Né la libertà della ricerca può dispiegarsi in tutte le sue potenzialità in
un mondo dominato da un sostanziale monopolio dei media.
La redazione di «RS-Ricerche Storiche» aderisce all’iniziativa della Federazione della Stampa Italiana, prevista per il 19 settembre [poi svoltasi il 3 ottobre]
a Roma, in difesa della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione nel
nostro Paese. I componenti la redazione di «RS» sollecitano la partecipazione
di tutti gli operatori del settore ed in particolare dei giornalisti della nostra Provincia, fornendo così un segnale inequivocabile della consapevolezza del momento storico e della necessità di manifestare totale dissenso rispetto a qualsiasi attentato ai principi fondamentali dell’ordinamento civile e costituzionale.
In relazione all’iniziativa adottata da Franco Cordero, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, la redazione di «RS» sottoscrive le preoccupazioni evidenziate
nell’appello pubblico e si dichiara disponibile a condividere le attività di protesta e di tutela che dovessero maturare nei prossimi giorni, fornendone ampi
resoconti sulle pagine della rivista e promuovendo occasioni di confronto e
di dibattito in sede locale. Il direttore, Ettore Borghi, il direttore responsabile,
Carlo Pellacani, redattori: Michele Bellelli, Glauco Bertani, Lorenzo Capitani,
Mirco Carrattieri, Alberto Ferraboschi, Fabrizio Montanari, Francesco Paolella,
Ugo Pellini, Massimo Storchi, Antonio Zambonelli.
181
Note e Rassegne
Recensioni
G. MAGNANINI, Attilio Gombia: un comunista dimenticato, Ed. Teorema, Reggio
Emilia 2009, pp. 343, euro 12
Scrivendo Un comunista dimenticato: Attilio Gombia, Magnanini ci ha dato il suo
libro migliore da quando egli si cimenta nella ricerca storica. Vi è qui un rigore nella
ricerca delle fonti documentali e testimoniali e nell’attenervisi nell’interpretare i fatti
e nell’avanzare ipotesi che è degna di uno storico e non di un semplice testimone,
seppure di primo piano, dei fatti e del periodo storico.
Partiamo dal titolo: Un comunista dimenticato. È un titolo giusto, ma bisogna intendersi: oggi molti comunisti sono dimenticati, a partire da Enrico Berlinguer, come
ha sottolineato giustamente Tortorella alla prima presentazione pubblica del libro
presso la sede della Camera del Lavoro di Reggio Emilia. Che se poi c’è chi lo cita ogni
tanto, come fa Veltroni, per metterlo nel Pantheon del partito democratico accanto e
sullo stesso piano di Craxi, sarebbe meglio che se lo dimenticasse del tutto.
Il fatto è che Gombia, dopo avere ricoperto ruoli politici di primissimo piano durante il fascismo, dopo essere stato un vero eroe nella Resistenza e in carcere, dopo
essere stato dopo la Liberazione segretario della Camera del lavoro di Reggio ed
essere stato il più votato a scrutinio segreto nel Congresso del pci, nel dicembre del
1945, a soli otto mesi dalla Liberazione è già «dimenticato» sia a Reggio che dal partito
nazionale. Non è dimenticato: è cancellato. Perché? questo è il punto che allora non
fu mai spiegato. Dal libro esce una personalità di grande spessore politico e di grande carattere (le due cose non vanno sempre insieme: non è detto che un dirigente
di grande spessore politico abbia anche il carattere di resistere a torture bestiali). Gli
esempi del suo acume politico sono tanti, ne scelgo uno dei più significativi della sua
personalità libera. Fondatore nel 1921 assieme ad Aldo Magnani della gioventù comunista a Reggio, è costretto a fuggire a Milano dove trova un partito comunista «chiuso
in un settarismo pericoloso che trascurava le masse operaie» (solo nel 1926 con il
Congresso di Lione Gramsci riesce a prevalere sulla linea di Bordiga). Ebbene Gombia
non esita ad aderire nuovamente alla federazione giovanile socialista di cui diviene
in breve tempo il segretario e a lottare per l’unificazione delle due federazioni. Il suo
carattere si manifesta nell’eroica resistenza al carcere e alle torture subite. Arrestato
nel 1938 e condannato a 25 anni di carcere, per 32 mesi rimase in segregazione senza
vedere nessuno e senza poter parlare col secondino. Liberato il 25 luglio del 1943,
combattè con i partigiani in Carnia e in Veneto come vice-comandante del Triumvirato
insurrezionale. Catturato nel novembre 1944 a Padova è torturato bestialmente dalla
banda Carità è condannato a morte.
La grande importanza del personaggio e dimostrata dal fatto che per lui trattarono
sia l’esercito iugoslavo che l’VIII Armata inglese; in cambio di Gombia i tedeschi volevano cinque generali e venti ufficiali di stato maggiore!
Questo è l’uomo che alla fine di maggio del 1945 torna a Reggio e lo fa da protagonista. In giugno viene nominato segretario della cgil e al Congresso del pci ottiene
il più alto numero di preferenze. La sua oratoria è trascinante, il suo prestigio tra le
183
masse immenso. Torniamo al punto: perché il 16 dicembre, in perfetto stile staliniano,
senza alcuna spiegazione, appare sul settimanale della federazione comunista la notizia che «Gombia non è più segretario della cdl e non appartiene più alla segreteria
della Federazione». Le numerose testimonianze citate da Magnanini sono a mio parere
reticenti e anche contrastanti. Amendola, facendo riferimento alle torture subite, scrive:
«Da quella prova Ascanio uscì fisicamente distrutto. Non è più tornato quello di prima
e si spento dopo anni di sofferenze fisiche e morali» (p. 182). Ma se «non era più tornato quello di prima» come mai quando torna a Reggio «lo fece con grande capacità
affermandosi subito tra gli uomini più prestigiosi del movimento democratico e antifascista», come giustamente scrive Magnanini? A nessuno di quelli che gli furono vicini
in quei sette mesi del 1945 è apparso un uomo distrutto, anzi!
La testimonianza di Aldo Magnani, con tutta la stima e il bene che gli voglio io
che ho fatto in tempo a conoscerlo personalmente, è sconsolante: «il motivo per cui
Gombia è andato via da Reggio era la scorrettezza per una vita sregolata…» (e qui uno
drizza le orecchie, ma poi sentite quale esempio fa di «vita sregolata»: «una volta, a casa
della fidanzata di Nizzoli disse: “oh cuoca ci fate il gnocco fritto?” Beh, insomma, in
questo modo tu finisci per urtare questi dirigenti… va bene facciamo una gnoccata,
però ci va dell’olio, ci va la farina, ci vanno altre cose, poi il vino… queste cose qui,
erano questi comportamenti che non andavano…» (p. 245). Suvvia, Gombia sarebbe
stato allontanato per lo gnocco fritto! Più esplicita è la testimonianza di Franco Iotti.
«La decisione dell’allontanamento fu legata a motivazioni che attenevano alla sfera del
privato» (p. 246).
Questo «innominabile privato», ci dice Magnanini, «era forse un orientamento sessuale che in un paese cattolico… non si poteva accettare?» Insomma l’accusa (vera o
falsa che fosse non interessa e non cambia nulla) era quella di essere un omosessuale.
La parola omossessuale però in tutto il libro non c’è; ci si gira intorno, si cita per analogia il caso Pasolini, quasi che anche oggi ci sia un residuo di reticenza e di disagio. Ho
notato che anche nelle due presentazioni pubbliche cui ho assistito, compresa quella
al festival dell’Unità, il termine omosessuale o gay, come si dice oggi, non è mai stato
citato. Che poi l’accusa sia stata utilizzata, nel clima puritano di allora, (Giannetto, il
paese cattolico non c’entra niente, la chiusura culturale era uguale, se non superiore
nei paesi e nei partiti comunisti d’Oriente o d’Occidente) per sbarazzarsi di una personalità che faceva ombra agli altri dirigenti, e assai probabile, ma non ci sono testimonianze di contrasti politici o di un’aperta lotta politica.
La gravità dell’ingiustizia commessa non è in alcun modo giustificata dal clima
sessuofobico e non solo in materia omosessuale, dominante allora anche nel pci, ben
testimoniato dall’episodio, citato da Magnanini, dell’avvocato Centomini espulso dal
partito per aver accusato i dirigenti di essere delle beghine perché sull’«Unità» era
comparsa una foto di Togliatti con la didascalia che diceva che «Il segretario del Partito
Comunista sta ormai terminando le sue vacanze assieme con la sua segretaria Leonilde
Iotti».
Dopo il suo allontanamento da Reggio comincia un calvario politico e personale
che assomiglia, per chi conosce il prestigio allora attribuito a chi ricopriva ruoli politici
di primo piano, a una discesa agli Inferi. Dalla Confederterra di Roma (che ruolo svolse? non ci si dice nulla)… a dirigente delle maestranze al pastificio di Corticella(?),…
184
finì per fare il venditore di prodotti tessili per conto dell’anpi di Parma! Solo, povero, gli
fu rifiutata la pensione di guerra, a lui, dopo tutto quello che aveva subito, nel Paese
dei milioni di pensioni di invalidità fasulle! Leggere la lettera che scrisse al presidente
della Repubblica Giuseppe Saragat nel 1965 strige il cuore. Possibile che nessuno a
Roma intercedesse per lui in una questione così semplice? Non mi si dica che era
orgoglioso, che non chiedeva niente a nessuno; si doveva trovare il modo di aiutarlo,
era un obbligo morale!
Il libro di Magnanini ha il grande merito di riparare, sul piano storico, a queste
ingiustizie.
Ho detto all’inizio che il titolo Un comunista dimenticato è giusto, ma il sottotitolo
potrebbe essere: «Una pagina nera nella gloriosa storia del pci».
Enzo Grappi
U. BENASSI, Una politica amica. 80 anni, una Vita, una Storia, una Città, Edizioni
Tecnograf, Reggio Emilia 2009, 25 euro
Superato il ragguardevole traguardo degli ottanta anni, Ugo Benassi può riandare con legittimo orgoglio al lungo cammino, umano e politico, da lui percorso.
Sbaglierebbe però chi sospettasse di trovare in questa Politica amica un racconto fatto
all’insegna del senno di poi, magari veridico in ogni dettaglio, ma costruito, nel suo insieme, sorvolando sulle incertezze trascorse e sui passati momenti di crisi, con quella
chiarezza di nessi e significati che solo lo sguardo retrospettivo sa cogliere. Esistono
libri così, resi unitari per lo più dalla manina complice, nascosta o dichiarata, di un
redattore o, come si dice oggi, di un «editor». Libri spesso buoni e utili, ma altra cosa.
Va invece osservato che qui ci troviamo davanti a una lettura diversa, singolare,
assai lontana da quel tipo. Intanto perché questo è un libro «di», ma allo stesso tempo
«su» Benassi. Ognuna delle quattro sezioni tematiche è infatti introdotta dal saggio di
uno studioso (Anna Salsi, Antonio Canovi, Antonio Zambonelli, Paolo Burani). E non
solo: in queste pagine Benassi presenta significativi esiti di una memoria coltivata
anche in senso materiale, da puntiglioso archivista di se stesso e delle vicende attraversate. «Carta canta», come si dice. Non diari, non carte segrete, bensì cose dette in
pubblico, scritte e pubblicate allora e riproposte oggi senza maquillage, con notevole
effetto di autenticità.
E poi, a parte quelle degli storici chiamati a far luce sui vari contesti, nel libro sono
convocate molte altre voci: di intervistatori, intellettuali, personaggi reggiani o nazionali che, sui giornali o nella corrispondenza con Benassi sindaco o senatore, hanno
espresso il loro interesse per le specificità del «caso Reggio». Ancor più: Benassi, che
(un po’ sorprendentemente) si confessa timido di carattere quindi poco incline alle
estrinsecazioni dell’ego, rivela molto di sé parlando di altri: figure della Resistenza
(Gismondo Veroni), valorosi sindaci del Reggiano (Antonio Mariani Cerati), donne
e uomini della sua famiglia e specialmente i suoi più stretti collaboratori, fossero
membri delle giunte da lui presiedute o funzionari del gabinetto. Difficilmente il lettore dimenticherà, per fare solo qualche esempio, le cose dette su «Rollo» Cavandoli,
Giuseppe Soncini, Maria Vergalli. Appare così in controluce – e chi scrive può fornirne
185
testimonianza diretta – una speciale virtù di Benassi: eccellere nella conduzione degli
organi collegiali (Consiglio comunale compreso, come usava ai suoi tempi) grazie ad
un’inconsueta disponibilità all’ascolto unita ad una notevole capacità di sintesi conclusiva.
Appare evidente che una simile struttura stratificata e, per così dire, polifonica
ammette una pluralità di letture, a seconda della chiave prescelta. Con una certa dose
di arbitrio, nella presente nota vorremmo leggere il lungo racconto come una storia
paradigmatica, per l’Emilia rossa senz’altro, ma anche molto oltre.
È intanto la storia di una generazione di militanti che hanno vent’anni in uno dei
momenti di maggiore contrapposizione nella nostra storia recente: le elezioni politiche dell’aprile 1948. Che si affacciano alla professione politica nella prima legislatura
repubblicana, avendo nel partito la propria scuola. Che devono trovare delle valide
ragioni per rimanere fedeli alla propria scelta anche dopo i «fatti di Ungheria» e le denunce dello stalinismo. La risorsa decisiva fu senz’altro – usiamo un’espressione ormai
desueta e ripudiata – l’assunzione di una prospettiva «di classe», la considerazione del
conflitto non come un prodotto dell’ideologia, ma semmai dell’ideologia come modo
di interpretare una conflittualità operante nelle cose stesse. Col conseguente dovere
di schierarsi, di farsi carico delle istanze (talora inespresse) delle classi subalterne (nel
linguaggio di allora: gli «sfruttati», gli oppressi). Prezzo da pagare, l’agguerrita ostilità
della classe egemone, che da parte sua poteva contare sull’insieme degli apparati statali, non ancora permeati dai principi costituzionali (e restii alla loro leale applicazione
anche una volta formalmente tradotti in leggi ordinarie).
Durante la guerra fredda avere l’occhio rivolto al «campo socialista» comportava
lo svantaggio della collocazione obbligata all’opposizione parlamentare, ma anche il
favore di una certa carica di deterrenza, atta a strappare concessioni politiche «riformiste» (si ricordi che allora il termine designava l’attuazione dei principi costituzionali
veramente innovativi, anche se «non immediatamente esigibili», come si esprimevano
i giuristi conservatori. Altra cosa dalle avventate e miracolistiche sperimentazioni di
ingegneria istituzionale – specialità condivisa anche dalla sinistra moderata dopo il
fatidico 1989 – cui si riferisce l’uso oggi prevalente).
Che quella politica pagasse (mettendo l’Italia in linea con le conquiste di welfare
dell’intera Europa occidentale) è dimostrato dai progressi conseguiti dal mondo del
lavoro negli anni Sessanta e Settanta: miglioramenti salariali, statuto dei lavoratori,
servizio sanitario nazionale, prolungamento delle ferie, facilitato accesso all’istruzione.
Soffiava a favore anche il fatto che, sino agli anni Ottanta, vigeva in tutto l’Occidente
un diffuso spirito «keynesiano», che portava a valutare lo stato di salute di un’economia
sulla base dei livelli di occupazione, e non sugli astratti parametri cari al neo-liberismo.
Ovviamente quegli stessi progressi furono fra i fattori di un sostanziale mutamento nella composizione di classe della società italiana (se ne avvide tempestivamente
Paolo Sylos Labini, che dedicò all’argomento una ricerca fondamentale). Ed è certo
che amministrare Provincia e Comune significava avere sott’occhio quei mutamenti
molto meglio che «al centro», a patto di possedere la vocazione, su cui Benassi pone
un accento particolare, a guardare la realtà locale come un tutto, allo stesso tempo
differenziato e variamente connesso. Una vocazione al dialogo e, come si è detto,
all’ascolto. Il che comportava, indubbiamente, un atteggiamento irenico e abbastanza
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conciliante, stigmatizzato da certa critica malevola come «consociativismo». In verità il tempo dell’Amministrazione Benassi (e ancor più quello del suo predecessore
Bonazzi) comportava una dialettica anche aspra, di tipo istituzionale e politico insieme, contro le resistenze conservatrici dello Stato centrale. Una situazione che richiedeva un ampio livello di consenso locale, che offrisse agli amministratori la possibilità di
far valere efficacemente i principi costituzionali dell’autonomia e della partecipazione
democratica, difendendo il diritto degli enti da loro governati di individuare terreni
nuovi di intervento. Si pensi alla cultura, alla scuola, alla fondazione e mantenimento
dell’iniziativa nel settore dell’infanzia, strumento di ricerca qualitativa e fattore, sia pur
parziale, di promozione della donna lavoratrice che volesse conciliare le sue aspirazioni di madre e quelle di cittadina. Si pensi ancora alla politica urbanistica, le cui scelte
consensuali Benassi vanta come uno dei suoi maggiori successi da sindaco.
Com’era bello il mio Pci, così un altro grande sindaco, Diego Novelli, ha intitolato un suo volume retrospettivo. Col sottinteso polemico che alquanto meno belle
furono le cose che seguirono. Dal canto suo Benassi mantiene fermo il punto sulle
radici resistenziali della nostra repubblica (si pensi ai richiami al suo lungo e fruttuoso
contributo volontario alle fortune dell’Istituto Cervi). Si può poi affermare che l’intero
volume documenta la dignità del ruolo da lui svolto come esponente di spicco del pci
reggiano. Ma, forse anche in forza delle cose suddette, a differenza del suo collega
torinese egli ha seguito con attenzione anche la storia successiva, con le sue variazioni
di nome, e di mano in mano anche di sostanza politica. Persino sull’ultima creatura,
che non contiene più nella «ragione sociale» né il concetto di sinistra, né quelli di socialismo o laburismo, Benassi esprime un cauto «ottimismo della volontà».
Il breve, ma intenso periodo vissuto da parlamentare è presente nel volume con
interessanti rilievi e rievocazioni, sia in materia di politica italiana, sia in quel campo
troppo misconosciuto che è la politica europea. La considerazione del cursus honorum di Benassi ci consente infine una annotazione a margine, su un aspetto tuttavia
non trascurabile del passato agire politico: la candidatura come culmine di un percorso precedente, come frutto, cioè, di esperienze maturate sul campo, di competenze espresse governando sistemi piuttosto complessi. Sindaco, poi senatore Bonazzi.
Sindaco, poi senatore Benassi. Non sarà (non era) certamente il modo, ma senz’altro
era un modo in grado di offrire un vaglio efficace, sempre comunque esposto al successivo vaglio di un elettorato ancora in grado di esprimere opzioni. Che altrettanto
possa essere garantito da procedure d’importazione (vedi le famose «primarie») – tacendo per carità di patria sulle investiture «imperiali» – è cosa ancora tutta da verificare.
Ettore Borghi
R. BARAZZONI (a cura di), Ulisse Gilioli, mezzo secolo di pagine a stampa, T & M
Associati Editore, Reggio Emilia, 2009, pp. 146, 16 euro
A due anni dalla prematura scomparsa, Renzo Barazzoni (coadiuvato dalla vedova
Simona Cocchi) propone una selezione dell’attività giornalistica di Ulisse Gilioli (19212007) che si è dipanata nel corso della seconda metà del Novecento.
Si tratta di frammenti esemplificativi, in quanto i settori d’interesse di Gilioli sono
187
diversi e non sempre correlati e perché la produzione è così ampia da presupporre un
impegno editoriale di altra portata.
Barazzoni è stato legato a Gilioli da «un’amicizia inalterata e lunga quanto una vita
e da un confronto di esperienze e di idee»: su queste basi si è costruita un’affinita
ideale che ha favorito il trapasso di un’epoca che trova fondamento nelle difficoltà di
una generazione che ha «attraversato e maledetto una guerra immane e le sue atroci
conseguenze» e che ha afferrato con imperiosa voluttà la speranza di partecipare alla
costruzione di un mondo migliore, pagando di persona le inevitabili disillusioni e le
cocenti amarezze che ogni processo innovativo comporta e che sono proprie della vita
umana. Dalla loro collaborazione è nata anche la pubblicazione di un’organica ricerca
storica sulla guerra di Liberazione, che costituisce tuttora un testo di riferimento per
chiunque desideri accostarsi a fonti autentiche dell’epopea resistenziale.
Il volume Ulisse Gilioli, mezzo secolo di pagine a stampa accoglie testimonianze accorate di amici e conoscenti (Alessandro Carri, Antonio Zambonelli, Alfredo
Gianolio, Umberto Bonafini, William Reverberi, ma anche Stefano Dallari, Romana
Bagni, Loredana Lasagni, Elena Magearu, Corrado Tagliati, Rosa Galeazzi), ma riporta
soprattutto una selezione dei suoi interessi sociali e culturali. Gli articoli pubblicati
spaziano da temi politico-storici connessi con la Resistenza, gli interessi per l’arte
contemporanea, la narrazione di fatti di cronaca reggiana, lo sport. Settori che tutti
insieme, seppur con valenze diverse, hanno occupato le giornate di Ulisse Gilioli,
facendone un interprete curioso e attento della vita civile e culturale del suo tempo.
La lettura è agevole e coinvolgente, per l’attenta selezione operata dalla moglie
Simona, ma soprattutto perché i testi sono accomunati da una forte capacità espositiva.
Dalle parole della figlia Simonetta – che tradiscono un’eccezionalità di rapporto
mascherata dietro un’apparente fragilità – emerge il carattere gioviale e affettuoso di
Ulisse Gilioli, interprete di una stagione della vita che ha condiviso con la moglie e
che ha riscattato la triste esperienza coniugale di cui è stato protagonista in gioventù.
Quest’opera meritoria di risarcimento della figura e dell’opera di Ulisse Gilioli sconta, probabilmente, l’immanenza della sua scomparsa, ma non può che essere preludio
per una più completa valorizzazione di mezzo secolo d’impegno civile e culturale.
Carlo Pellacani
G. LUSUARDI, A. GIAMPIETRI, D. MORINI, A. CARRI, L. CAPITANI (a cura di),
Sindaco una scelta di vita. Città e sindaci della Provincia di Reggio Emilia dal 1945 al
1975, Nero Colore, Correggio 2009, pp. 372, s.i.p.
A. CANOVI, D. CASTAGNETTI, Pratiche di democrazia. Il profilo di un consiglio
comunale Reggio Emilia, 1945-2009, Reggio Emilia, Comune di Reggio Emilia, 2009,
pp. 116, s.i.p.
Nonostante l’intensificazione degli studi ed i progressi degli ultimi anni, la prosopografia rappresenta ancora una metodologia non particolarmente frequentata dalla
contemporaneistica italiana, diversamente da altre tradizioni storiografiche europee.
Anche per questo motivo è da salutare con particolare favore l’uscita di due volu-
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mi pubblicati nel corso del 2009 e dedicati a componenti fondamentali della classe
politica-amministrativa locale dell’età repubblicana.
Il volume collettaneo curato da Giuliana Lusuardi, Angelo Giampietri, Danilo
Morini, Alessandro Carri e Lorenzo Capitani costituisce la prima tappa di un ambizioso progetto editoriale inteso a disegnare una «mappa» dei sindaci dei quarantacinque
comuni della provincia di Reggio Emilia in una prospettiva di lungo periodo (dal 1945
al 2010). Lo studio recentemente pubblicato copre il periodo dal 1945 al 1975 e presenta per ciascun comune del territorio provinciale una ricostruzione delle vicende
politico-amministrative locali attraverso l’operato dei sindaci che si sono susseguiti
alla guida delle diverse amministrazioni comunali. Si tratta di un lavoro che consente
di rivisitare da una prospettiva privilegiata la grande trasformazione della realtà provinciale nella seconda metà del Novecento: dalla fase della Ricostruzione (morale e
materiale) dell’immediato dopoguerra passando per il periodo del boom economico
fino alla complessa stagione degli anni ’70.
All’interno di questo orizzonte il lavoro ha il merito di gettare luce non solo su
quelle figure che sono rimaste impresse nella memoria collettiva della comunità locale
(in particolare i sindaci della Liberazione come Cesare Campioli) ma anche su personalità meno conosciute, alcune delle quali sicuramente significative i cui nomi sono
spesso rimasti relegati nei confini delle comunità di appartenenza. Al tempo stesso il
libro consente di ricostruire su scala provinciale l’attività dei sindaci reggiani offrendo
un’interessante «biografia collettiva» degli amministratori locali introducendo spunti di
riflessione sul rapporto tra le classi dirigenti e le strategie adottate per governare la
modernizzazione ed il cambiamento. In sostanza, si tratta di una ricerca che, oltre a
documentare l’importanza del territorio come elemento decisivo per il consolidamento
e lo sviluppo della democrazia repubblicana, può costituire un prezioso contributo
per sviluppare ulteriori ricerche sul ceto politico e sulle politiche del governo locale
nel primo trentennio del dopoguerra. Resta ora agli autori l’impegno di completare lo
studio organico sui sindaci reggiani dell’età repubblicana con il preannunciato secondo volume dedicato al periodo 1975-2010.
Anche la ricerca di Antonio Canovi e Daniele Castagnetti rivolge uno sguardo di
lungo periodo sul secondo dopoguerra focalizzando tuttavia l’attenzione su una specifica componente del ceto politico-amministrativo del capoluogo. La pubblicazione,
promossa dalla presidenza del Consiglio comunale, infatti, è incentrata sui consiglieri
del comune di Reggio Emilia dal 1945 al 2009 e intende documentare la storia dell’assemblea elettiva quale istituzione centrale nella vita della comunità reggiana. Questa
chiave interpretativa viene evocata dallo stesso titolo del volume (pratiche di democrazia) per essere poi esplicitata da Antonio Canovi nell’introduzione laddove evidenzia che nel Consiglio comunale «passa uno snodo cruciale per comprendere l’essenza
della vita democratica nell’epoca dei partiti di massa: la rappresentanza si esercita,
contemporaneamente, nell’esercizio delle cose locali come di quelle generali» (p. 14).
Nella prima parte il volume presenta una griglia tematica che si dispiega in tre
differenti percorsi (i dati sulla vita amministrativa, i riferimenti normativi e gli eventi
storici, politici e sociali locali), intrecciando così la storia della città con quella dei suoi
organismi municipali. La seconda parte della pubblicazione invece si configura come
un repertorio storico-amministrativo comprendente l’elenco completo dei 467 uomini
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e donne che hanno ricoperto l’incarico di consigliere comunale negli ultimi 64 anni di
attività del Consiglio comunale di Reggio Emilia. In tale modo, attraverso una completa
ed accurata raccolta dei dati, vengono poste le basi per un trattamento seriale delle
biografie dei singoli consiglieri.
Il libro è impreziosito da una prefazione di Francesco Bonini il quale, nel sottolineare la fecondità degli studi prosopografici, inquadra la ricerca dal punto di vista
istituzionale e all’interno del dibattito storiografico sul sistema delle autonomie locali.
Le prospettive dei dati raccolti dagli autori suggeriscono a Bonini alcune coordinate
interpretative di particolare interesse; tra queste emerge la constatazione di un’«ambivalente stabilità» che consente di applicare allo studio del governo del comune di
Reggio Emilia alcune categorie utilizzate e proposte per lo studio dell’evoluzione del
governo nazionale. Infatti, come osserva lo studioso di origine reggiana, «le consigliature reggiane sembrano riflettere, in modo speculare e simmetrico, le vicende dei
governi e del sistema politico della “repubblica dei partiti”. I dati disegnano di fatto
una rimarchevole stabilità degli assetti, che però non sono immutabili, ma seguono
plasticamente l’evoluzione delle generazioni, delle sensibilità, le dialettiche interne al
partito egemone e il sistema delle relazioni di questo con gli alleati ed un’opposizione sempre vivace, perché altrettanto fortemente radicata nel tessuto e nell’operosità
sociale» (p. 10).
Alberto Ferraboschi
S. CHESI, Pietro Marazzi. Un capitano dei… miracoli, Diabasis, Reggio Emilia
2009, 12 euro
Questo volumetto del professor Chesi si presenta essenzialmente come tentativo
di ovviare ad una carenza della memoria pubblica, che non ha riconosciuto a dovere l’importanza dell’esperienza personale e professionale di Pietro Marazzi, grande
imprenditore della ceramica e personaggio di spicco del mondo cattolico reggianomodenese.
Anche Chesi, per la verità, è arrivato al tema quasi per caso, a partire dall’epistolario di don Mario Prandi e dalla conoscenza personale con la moglie di Marazzi, sua
vicina di casa in gioventù. Né si propone un compiuto lavoro scientifico, stante la
relativa vicinanza nel tempo e la carenza di fonti documentarie accessibili; bensì una
«quasi biografia» (p. 12), che possa salvare testimonianze orali a rischio di scomparsa e
aprire la strada ad altri studi e soprattutto ad un riconoscimento pubblico per la figura
di Marazzi.
Il risultato è in effetti interessante, sotto diversi punti di vista.
Innanzitutto si offre una ricostruzione sommaria ma attenta delle vicende dell’industria ceramica, dalle sue origini in età moderna, alle innovazioni di inizio Novecento,
attraverso il boom del dopoguerra, fino alla attuale crisi di trasformazione. In questo
contesto spicca la dinastia dei Marazzi, che con coraggio e creatività trasformano
la «fabbrica di cartone» degli anni Quaranta nella grande impresa di oggi, capace di
proporre al mercato innovazioni come la monocottura e i forni a rullo. Ma importanti
sono anche le figure di dirigenti, tecnici e operai che animano l’azienda, guardando al
190
proprietario come ad una guida autorevole, ma non autoritaria.
In secondo luogo si narra la storia di Sassuolo, rispetto alla quale la Marazzi non è
un corpo estraneo, bensì un cuore pulsante, attorno al quale si sviluppa una comunità.
L’azienda persegue il profitto, ma mostra una precoce attenzione per problemi come
la salute dei lavoratori, l’inquinamento atmosferico o l’assetto territoriale. Marazzi promuove anche iniziative sociali e culturali, che giustificano il paragone con Mattei e
Olivetti (p. 42).
Infine si ricostruisce un esemplare itinerario di fede, che dall’indifferenza giovanile,
animata però dalla devozione della madre, giunge ad una conversione matura, alla
quale accompagna un inesausto impegno devozionale e caritativo, che si concretizza
anche in segni tangibili (dalla Madonna sullo stabilimento del 1957, alle «chiesette
Marazzi» donate alle nuove parrocchie degli anni Sessanta). La storia dell’imprenditore
sassolese si intreccia così con quelle di don Ercole Magnani e di don Dorino Conte, di
monsignor Socche e di monsignor Baroni, di Gorrieri e di Medici. Il volume vede anche una prefazione del cardinale Ruini, amico personale tanto di Marazzi che di Chesi.
L’estrema sobrietà dell’autore impedisce al volume di assumere toni schiettamente
apologetici; ma in alcuni passaggi il testo sconta la parzialità delle fonti, diffondendosi
nell’anedottica ed eludendo alcuni nodi più problematici, dalla transizione alla democrazia alle lotte sindacali degli anni Settanta. Segnalo inoltre alcuni errori di fatto, come
il riferimento ai «sette morti del 7 luglio 1960» (p. 104).
È augurabile che, come del resto nell’auspicio di Chesi, questo primo meritorio
abbozzo possa essere ampliato e sviluppato in una biografia a 360°. Tra le direzioni
che meritano un approfondimento segnalo ad esempio la formazione di Marazzi, sia
in senso tecnico che più generalmente culturale; le sue posizioni (e relazioni) politiche, soprattutto in merito ai meccanismi di acquisizione del consenso e di educazione
civica delle classi popolari; il suo specifico apporto teorico e pratico ad un processo
di sviluppo locale troppo spesso ridotto ad una modellistica astratta.
Mirco Carrattieri
S. LENZOTTI, La zona libera di Montefiorino. Luoghi della Resistenza nell’Appennino modenese e reggiano, Edizioni Artestampa, Modena 2009, pp. 132, 13 euro
Serena Lenzotti è una giovane ricercatrice dell’Istituto storico di Modena che vanta
già apprezzabili studi sulle lotte sociali dell’Ottocento e sulla Resistenza. La storia della
Repubblica di Montefiorino, in particolare, è stata oggetto di una sua attenta indagine
nell’ambito dell’opera Guerra e Resistenza sulla linea gotica fra Modena e Bologna (a
cura di Vito Paticchia) del 2006.
Quest’opera, caratterizzata dalla fruibilità di una guida turistica, riprende le acquisizioni di quel lavoro, ma in particolare si affianca alla realizzazione dell’attesa Guida
storica del Museo di quella Repubblica partigiana.
Nella prefazione all’opera, Serena Lenzotti precisa correttamente che la ricerca non
si pone come nuovo strumento scientifico per approfondire la tematica resistenziale,
ma interpreta l’esigenza avvertita di raccontare i luoghi della memoria dei quattro comuni modenesi e dei tre reggiani che costituirono la Repubblica.
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Non è pleonastico ricordare – come fa Laura Zona, assessore alla Cultura del
Comune di Montefiorino – che quei quarantacinque giorni di vita repubblicana costituirono un laboratorio di idee e rappresentarono uno spazio di libertà in cui immaginare
un futuro possibile. Caratteristiche che conferiscono unicità all’esperienza civica e militare, accomunandola a quella delle altre zone libere che si sono manifestate nell’Italia
del Nord per periodi della seconda metà del 1944.
La guida, al di là di preziose indicazioni geografiche e di un’avvincente documentazione fotografica e iconografica, delinea un percorso d’analisi del costituirsi, dello
svolgersi e della conclusione dell’attività resistenziale nelle zone indicate, offrendo
una dettagliata ricognizione dei luoghi che sono stati interessati dalle vicende belliche.
Il lettore dispone, così, di una ricostruzione efficace delle situazioni e dei fatti, accostandoli con l’individuazione dei luoghi e ponendo in evidenza le memorie esistenti,
spesso tradotte in immagini.
Ne deriva uno strumento efficace di comunicazione, in grado di fornire una percezione concreta degli eventi e di conservare la memoria di ciò che è accaduto, da
utilizzare soprattutto per far assumere la coscienza della storia da parte delle nuove
generazioni.
Probabilmente per esigenze di sintesi, Serena Lenzotti manifesta un certo ritardo
nella bibliografia di riferimento, non citando opere come 20 mesi e Il tempo e la vita
di don Pasquino Borghi che Istoreco aveva realizzato già alcuni mesi prima e che
costituiscono un apporto di rilievo alla comprensione della Resistenza sulla montagna
reggiana. Si tratta di una manchevolezza che è comunque colmata dalla precisione
della ricostruzione storica e dalla fluidità dell’impianto narrativo.
Un apprezzamento merita di essere rivolto anche ad Artestampa, che ha fornito
all’intera collana di cui l’opera è parte una veste particolarmente accurata e definita
sotto il profilo editoriale.
Carlo Pellacani
A. MELLONI, Papa Giovanni. Un cristiano e il suo concilio, Giulio Einaudi Editore,
Torino 2009, pp. 354, 30 euro
Meritoriamente edita al compiersi dei cinquant’anni della proclamazione ufficiale
del Concilio Vaticano II (avvenuta il 25 gennaio 1959), la calibrata ricostruzione storica
di Alberto Melloni s’inserisce con autorevolezza nell’ampio corpus degli studi che caratterizza il tempo trascorso dalla morte di papa Giovanni XXIII e il singolare percorso
del processo di beatificazione che lo riguarda. Alberto Melloni dispone, d’altronde, di
una competenza particolare, maturata nella docenza di Storia del cristianesimo all’Università di Modena e Reggio e nella direzione della Fondazione per le scienze religiose
Giovanni XXIII di Bologna. Meritano una citazione il pluriennale coinvolgimento di
Melloni nell’edizione italiana della Storia del Concilio Vaticano II (diretta da Giuseppe
Alberigo) ed i suoi studi su Angelo Giuseppe Roncalli che hanno trovato evidenza
in pubblicazioni e in corrispondenze giornalistiche, ma particolarmente nell’edizione
critica del «Giornale dell’Anima».
Già il titolo del lavoro di Melloni indica il carattere della ricerca e i propositi dell’au-
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tore: spiegare, attraverso il ricorso alle fonti documentali e ad una rigorosa interpretazione del contesto, il dilemma storico roncalliano, ovvero la sua capacità di coniugare
un «profilo spirituale assolutamente tradizionale, impastato delle devozioni tridentine,
appagato di forme liturgiche popolari, di letture rapsodiche, di modelli scelti vicino
casa», con l’intuizione di «linee di aggiornamento che travolgono assetti istituzionali e
teologici cristallizzati».
Lo storico si accosta a questo intreccio apparentemente conflittuale con la disponibilità del neofita che assume come naturale e prodigioso il progetto di un «concilio
pastorale», l’occasione di proporre «la verità cristiana e la sua istanza intima di comunicazione» non adottando «grandi rinnovamenti di struttura di tipo teologico» e «gesti
esteriormente dirompenti per rivelarsi». Papa Giovanni è il cristiano, sic et simpliciter,
che interpreta con fedeltà e totale dedizione il ruolo cui è stato chiamato e sconvolge
le categorie usuali di riferimento. Tanto da far esporre ad una lettrice attenta come
Hanna Arendt la convinzione che al soglio di Pietro sia giunto un cristiano senza che
nessuno (forse attardandosi nell’ipotesi prevalente della transizione) ne abbia immaginato la reale potenzialità.
Bastano pochi accenni del papa di Bergamo per convincere tutti che il «suo» concilio non pretende di «ripetere la dottrina risaputa» quanto piuttosto di restituire al
vangelo la sua eloquenza.
Melloni giunge a questa conclusione effettuando un’analisi dell’evoluzione della
cultura di Roncalli, dalla formazione biblico-pastorale all’adozione del dettato posttridentino (sulla scorta dell’esempio vivificante di san Carlo Borromeo e del magistero
della chiesa lombarda), fino all’esercizio ministeriale nei diversi ruoli cui è destinato.
La ricostruzione dello storico si incentra in particolare sull’esposizione dei caratteri
del «Giornale dell’Anima» e sulle scelte che l’anziano papa effettua nel breve volgere di
otto anni, giungendo a conclusione della sua vita terrena con la piena consapevolezza
di «essere giudicato troppo ottimista da chi non sente al modo di lui la cogenza dello
stile di Gesù Benedetto». Lo stile di un cristiano, appunto, qual è la testimonianza del
papa della «Pacem in Terris» e del Concilio Vaticano II.
L’opera di Alberto Melloni non presenta cedimenti nel rigore della ricerca e della
proposta delle fonti, ma accompagna il lettore in un percorso avvincente, capace di
far emergere la forza innovativa dell’esperienza giovannea e nel contempo di calare la
vita e l’opera di Angelo Roncalli nella fedeltà alla propria scelta ministeriale.
Il volume riporta, quale contributo inedito alla conoscenza di papa Giovanni XXIII,
la sinossi delle redazioni del discorso di annuncio del concilio del 25 gennaio 1959 e
dell’allocuzione per l’apertura del Concilio Vaticano II dell’11 ottobre 1962. Si tratta di
materiali che propongono una visione autentica della straordinaria potenzialità comunicativa e dell’intuizione profetica del «papa contadino».
Carlo Pellacani
A.M. JACAZZI, I miei primi ottant’anni da comunista, Nappa, Aversa 2006, pp. 61
L’autore ripercorre in maniera autobiografica la sua esperienza politica e personale
compiuta con il partito comunista italiano. Dalle sue origini friulane alla vicissitudini
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subite dalla famiglia durante il fascismo e la seconda guerra mondiale (con il padre trasferito per motivi politici dal Friuli alla Campania) per passare poi ai molteplici impegni pubblici del dopoguerra. Angelo Maria Jacazzi racconta infatti la sua esperienza di
amministratore comunale ad Aversa (CE), di consigliere provinciale a Caserta e di deputato al Parlamento per tre legislature e tredici anni complessivi fra il 1963 e il 1976.
Nel volume sono raccontate anche le peripezie subite dall’autore durante la guerra
quando si trovò isolato dal resto della famiglia e i suoi tentativi di raggiungerla o di
averne notizie.
Fra i suoi impegni del dopoguerra si possono ricordare invece le attività svolte a
favore dei partigiani (anche reggiani) detenuti nel manicomio criminale di Aversa che
per un cavillo legale non avevano potuto usufruire dell’amnistia di Togliatti; oppure la
sua latitanza seguita alle manifestazioni popolari ad Aversa successive all’attentato al
segretario del pci del 1948.
Interessante è poi la descrizione dell’approdo a Montecitorio di Jacazzi che a sorpresa raccolse più preferenze del candidato di punta del partito nel suo collegio elettorale provocando anche una piccola polemica fra i dirigenti comunisti campani. Grazie
al suo lavoro e alla sua dedizione seppe poi meritarsi la conferma a deputato per altre
due legislature, ottenendo anche prestigiosi incarichi istituzionali. (mb)
G. CAVALLERI, F. GIANNANTONI, M.J. CEREGHINO, La fine: gli ultimi giorni di
Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-1946), Garzanti,
Milano 2009, pp. 273, 16,60 euro
Dal momento stesso della sua morte, la fine di Benito Mussolini è stata al centro di
misteri grandi e piccoli. Numerose sono stati in passato gli studi e le ricerche pubblicati
con lo scopo di chiarire, quasi attimo per attimo, ciò che avvenne dalla drammatica
riunione all’Arcivescovado di Milano il 25 aprile 1945 fra il duce e i dirigenti del clnai,
allo scempio delle salme dei fucilati in piazzale Loreto.
In questi decenni si è spesso polemizzato sui misteri veri e presunti che circonderebbero la morte del dittatore: chi fu il suo vero giustiziere, Walter Audisio o un’altra
persona? Magari addirittura Luigi Longo… E poi ancora il tesoro di Dongo, il carteggio
segreto Mussolini-Churchill, la buona o la malafede dei vari protagonisti, il ruolo svolto
dai servizi segreti alleati, tanto per citare i più noti dettagli della vicenda.
Questo volume ripercorre ancora una volta gli avvenimenti di quei giorni, ma vista
in un’ottica fino ad ora del tutto inedita. Per la prima volta infatti gli autori hanno avuto
la possibilità di studiare e pubblicare due memorandum scritti, nei primi giorni successivi alla morte di Mussolini, dall’inviato speciale dell’oss a Como nel tentativo prima
di assicurare la consegna di Mussolini agli Alleati come previsto dalle clausole dell’armistizio e poi di scoprire l’esatto svolgersi dei fatti che hanno portato alla sua morte.
Il volume è sostanzialmente diviso in due parti delle quali la prima è una cronaca
degli avvenimenti di quelle giornate di fine aprile e inizio maggio 1945, mentre la
seconda parte riporta integralmente i due memorandum stilati per i massimi dirigenti
dell’oss dall’uomo inviato sul posto e vero protagonista di questo saggio: Valerian
Lada-Mocarski.
194
Il primo memorandum è stato scritto nei giorni immediatamente successivi la morte del duce e secondo gli autori presenta alcune lacune e approssimazioni, mentre il
secondo è ritenuto più attendibile in quanto scritto il giorno 30 dello stesso mese e
dopo che l’ufficiale dell’oss poté parlare personalmente con alcuni protagonisti della
vicenda e visitare i luoghi attorno al lago di Como che videro il tentativo di fuga del
dittatore e dei suoi gerarchi concludersi così tragicamente.
In queste ricostruzioni sono presenti anche alcuni personaggi legati a Reggio Emilia
quale l’ufficiale degli alpini Giuseppe Cancarini Ghisetti che nel reggiano frequentò il
colonnello delle SS Eugen Dollmann e che prese parte alle trattative di resa tedesca e
alla riunione all’Arcivescovado il giorno dell’insurrezione milanese e Orfeo Landini di
Fabbrico (condannato a diciotto anni di reclusione dal tribunale speciale fascista nel
1942) che scortò a Dongo il colonnello Valerio, nella sua qualità di alto ufficiale della
3ª divisione Garibaldi «Aliotta» dell’Oltrepo pavese.
I due memorandum di Lada-Mocarski sono attualmente conservati presso i
National archives and records administration (nara), nella città di College Park, stato
del Maryland (usa). Si tratta di un ente simile all’Archivio centrale dello Stato a Roma,
ma, come rilevano gli autori, con una semplicità di accesso ai documenti pubblici per
i comuni cittadini, studiosi ed appassionati che non ha paragone rispetto alle norme
e alle tradizioni nostrane. I documenti dell’oss, in particolare quelli riguardanti l’Italia
e la morte di Mussolini sono stati desecretati nel 2000 dall’amministrazione Clinton.
Michele Bellelli
E.M. CIORAN, Solitude et destin, Gallimard, Paris 2004, p. 426, 15 euro
La lotta dell’uomo con la storia, la lotta dell’uomo con Dio: questi sono i due
tormenti di Cioran. Nella sua ossessione per l’eternità, lo scrittore e saggista rumeno,
trapiantato a Parigi nel 1939, si pone in quella minuta, ma fiera schiera di paladini
dell’assurdo, dell’irrazionale, del pessimismo. Dopo quasi dieci anni dalla sua morte, l’editore Gallimard arricchisce i titoli di Cioran in catalogo con questa raccolta di
piccoli saggi e recensioni, composti per la stampa rumena tra il 1931 ed il 1943. Si
tratta certo di scritti «giovanili», ma chi già si è avvicinato a Cioran, non può mancare
di riconoscere gli stessi temi, la stessa acutezza degli anni successivi. Questi saggi
sanno mostrare la limpidezza e l’incisività dei suoi libri migliori, come Sur les cimes
du désespoir (1935), La tentation d’exister (1956) o, soprattutto, Écartèlement (1979).
Scorrendo l’indice, emerge anzitutto la vastità dei campi dei suoi interessi, da Hegel a
Dürer, da Jaspers a Kokoschka, dai filosofi russi a Rodin. Nel precoce divoratore dei
libri di Nietzsche, Dostoevskij e Schopenhauer, convive una particolare lacerazione,
quella fra il desiderare un mondo diverso dalla gretta provincia rumena e, contemporaneamente, l’insopprimibile sentimento di esilio, di marginalità, di insufficienza.
Di pari passo, Cioran individua molto presto i suoi principali obiettivi polemici: essi
coinvolgono l’idealismo, l’interpretazione allora dominante di Hegel, il positivismo, il
razionalismo. Si è parlato talvolta dell’opera di Cioran, del resto assai poco definibile,
come di una manifestazione di una filosofia dell’esistenza. Specialmente interessante è
il confronto fra il Nostro ed Albert Camus, i quali, e in questo inserendosi pienamente
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nel discorso scettico sulla religione, vivono per intero l’impossibilità del «salto nella
fede», percependo l’impossibilità di abbandonare il deserto della scepsi, dell’infondatezza radicale. Ma almeno un altro aspetto permette di avvicinare Cioran a Camus. In
entrambi emerge l’importanza di una seria riflessione sull’esistenza all’epoca del nichilismo. Potremmo, a questo proposito, prendere a prestito il titolo ed i temi sviluppati
in un saggio di Wilhelm Weischedel, e parlare di un’Etica scettica. Come è possibile
sopravvivere alla distruzione operata dal nichilismo? Entrambi negano che il nichilismo possa essere ignorato o rimosso tout court: non resta che seguire fino in fondo il
destino del nichilismo. Conosciamo il cammino compiuto da Camus – da Le mythe de
Sisyphe fino a L’homme révolté. Cioran pare soffermarsi più nella sua perplessità sulla
possibilità di una soluzione piuttosto che tentare una soluzione possibile del problema. Non che egli affermi categoricamente che non vi sono strade praticabili, ma – e
questo dato emerge soprattutto nei suoi primi scritti – la sua mente sembra coinvolta
soprattutto da una «collera metafisica» verso Dio, verso tutto ciò che è.
Tra tutti i possibili percorsi, attraverso la settantina di scritti presenti nella raccolta,
crediamo sia più indicativo preferire quelli che meglio possono mettere in luce il lato
più «radicale» del pensiero cioraniano. Consideriamo anzitutto lo scetticismo ed il nichilismo. Cioran mostra di mal sopportare quel dubbio soltanto cerebrale, razionale, il
dubbio, sia pure metodico, tanto in voga in filosofia. Esso non implica la soggettività
nella sua interezza, con i suoi tormenti. Il dubbio «metodico», figlio della sola speculazione, non coinvolge Cioran, perché non allarga il suo sguardo fino alle sue conseguenze: «Le doute de ce genre ne m’inspire ni respect ni sympathie, car il n’empêche
pas nos philosophes d’avoir la digestion facile et le sommeil léger» (p. 200). Ecco la
cifra caratteristica di Cioran, mai indulgente verso i difetti e i vizi della filosofia ufficiale
– da lui pure tanto ardentemente coltivata, e poi abbandonata. La scepsi che interessa
Cioran è quella che nasce dai tormenti del proprio essere, da un’«angoisse organique», dalla percezione del proprio strutturale, abissale essere antinomico. Il dubbio
separa l’uomo dall’ingenuità del vivere quotidiano, incosciente. Il dubbio spegne le
illusioni dell’ottimismo, di ogni speranza. Rimane solo la morte, come unica certezza.
Eppure, è proprio in questo stato di cose che si leva il paradosso più stravagante ed
affascinante: l’uomo scettico, colui che non crede più a nulla, «préconise néanmoins
des attitudes, des convictions, des idées, se prononce sur toutes les questions, lutte
contre ses adversaires, adhère à un mouvement politique» (p. 202). Nonostante la
bruciante consapevolezza che nulla può essere davvero risolto su questo mondo, per
la quale solo gli homines religiosi possono trovare, tradendosi, una giustificazione
soddisfacente all’esistenza del mondo, gli scettici non possono fare a meno di spendersi, sospinti da una reazione della vita irrazionale contro il sentimento negatore del
nulla. Lo scetticismo – che poi diventa nichilismo – di Cioran non può raggiungere la
serenità, come nella sua versione antica, ma vive eroicamente un’esistenza a un tempo
tragica e grottesca, dove coabitano tristezza ed esaltazione – sia pure non religiosa.
Cioran pensa che il compito della nostra epoca, agonia della modernità, sia quello di
costituire una «morale tragique», che sappia render conto della contraddizione assoluta
che è l’uomo. Cioran sente l’esigenza di un’antropologia tragica e pessimista. L’essere
umano è «un être fragmentaire, fini et tourmenté, brisé dans son essence, en proie au
dualisme exercé par les tendances divergentes de l’irrationalité vitale et de la conscien-
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ce, souffrant d’une rupture interne et d’un déséquilibre organique dont l’anthropologie
classique ne peut pas rendre compte» (p. 236). Riconoscere l’immanenza dell’irrazionalità fa esplodere il dramma dell’esistenza, separa l’uomo dalla vita. Un’antropologia
siffatta si riferisce in particolar modo a coloro i quali vivono il tormento dell’assenza
di senso, per i quali la felicità rimane inaccessibile. Ormai l’ottimismo (specie quello di
natura metafisica) è possibile solo a patto di rimuovere lo l’incessante sforzo speculativo dell’uomo, la sua coesistenza con la problematicità del tutto. È ora di superare con
l’antropologia umanista, che si illude di avere ancora di fronte un essere bilanciato,
equilibrato, al riparo dai conflitti e dalla antinomie. L’antropologia tragica dà anzitutto
conto delle continue disfatte dell’uomo. L’irrazionalità della vita resiste a qualsiasi razionalizzazione. Il principale avversario di Cioran non può che essere l’idealismo, sia
esso speculativo o etico. L’idealismo è la più forte delle illusioni. «Selon l’idéalisme,
l’irréductibilité incluse dans le fait qualitatif et individuel ne signifie rien, tout comme
ne signifie rien le donné existentiel dans sa structure hétérogène» (p. 138). L’idealismo
trasferisce tutto nel mondo delle idee, esasperandone la capacità di modificare la vita.
Soprattutto, l’idealismo non riesce a comprendere il destino come fatalità immanente. Quest’ultimo si rivela soltanto a chi riconosce che alla base della vita è posto un
dinamismo irrazionale. All’idealismo resta irraggiungibile l’evidenza dell’uomo come
essere votato alla morte.
Il pessimismo di Cioran trova un terreno privilegiato di applicazione nella storia. A
questo proposito, è indicativo evidenziare il legame che unisce il Nostro ad un altro
pensatore dell’assurdo, il filosofo italiano Giuseppe Rensi, per il quale «la storia non è
che lo sforzo per allontanarsi del presente, perché questo è sempre assurdo e male;
la prova dunque che è assurdo e male» (La filosofia dell’assurdo). Per Cioran, è pura
illusione volgere lo sguardo ad una presunta totalità dello svolgersi storico. Chi studia
la storia per ricercarne un senso, trascende i contenuti individuali – gli unici reali –,
riuscendo così a superare le antinomie e le disarmonie, le irriducibili pluralità culturali
e valoriali. «Pourquoi chercher l’harmonie là où elle n’existe pas? Les adeptes de la
perspective optimiste de l’histoire sont d’une superficialité scandaleuse. On a l’impression qu’ils négligent l’homme, qu’ils le séparent du processus historique» (p. 108). La
complessità costitutiva della storia è sormontata soltanto se il tragico viene depennato,
se l’entusiasmo per il progresso attribuisce al corso storico finalità che non trovano
riscontro nella concretezza del dinamismo storico.
La storia non è apparenza, ma non rappresenta un cammino ascensionale verso
uno stato armonioso e definitivo. Qui Cioran pone una forte relazione fra il nichilismo
e la cultura, il mondo dei valori. La creatività umana è la manifestazione più trasparente dello iato costante fra le intenzioni umane e le loro realizzazioni pratiche. La storia
ci mostra che l’universalità (ad esempio, quella dei valori) è un obiettivo irraggiungibile. Il divenire non ha carattere etico. Ogni attività individuale assume senso solo in
rapporto all’individualità – storica ed etica – del creatore.
Lo stesso Cioran è consapevole del «comune sentire» fra diverse sue riflessioni e
quelle di tanti pensatori religiosi. Pensiamo, ad esempio, alla corrente dei cosiddetti «esistenzialisti russi», a Šestov e Berdjaev. Ma come già si accennava, Cioran non
può accogliere la prospettiva di un «salto nella fede», non può accreditare il tragico
dell’esistenza ad un qualunque disegno sovrastorico e, in ultima analisi, provvidenzia-
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le, il quale poi, ad un’osservazione rigorosa, non può che rivelarsi una pia illusione.
L’entusiasmo naïf verso l’esistenza storica nasce da un’erronea idea di uomo. Al Nostro
manca del tutto, e ci riferiamo qui al titolo del primo saggio di questa raccolta, La
volonté de croire. Il moralista rumeno si rivolge piuttosto alla possibilità di superare
il tempo con il tempo, a un’eternità, raggiunta nella contemplazione distaccata della
natura. Non vi sarà più allora posto per la pretesa supremazia dell’uomo nel mondo.
Cioran si spende per una mistica senza Dio.
Francesco Paolella
P.F. PELOSO, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza
(1922-1945), Ombre corte, Verona 2008, pp. 282, 22 euro
Non riusciremo a dar conto della vastità e della complessità dei temi di cui si occupa Peloso, psichiatra genovese, in questo volume sulla psichiatria italiana negli anni
del fascismo e della seconda guerra mondiale. Si tratta di un volume da lungo tempo
necessario e atteso e primo, speriamo, di una serie di nuovi studi in questa direzione.
Le ricerche dell’autore sono state senza dubbio all’insegna della puntigliosità e di
un approfondito lavoro di documentazione sulle diverse realtà locali del Paese. Di
solito, leggendo dei rapporti fra psichiatria e fascismo, si rimane a tutta prima delusi,
perché non si ritrovano tratti analoghi al caso tedesco, come leggi sulla sterilizzazione
dei malati di mente, o progetti come il «programma T-4» per l’eutanasia massiva degli
internati nei manicomi.
Eppure, e ciò emerge chiaramente dalla prima parte del libro di Peloso, la psichiatria italiana fra le due guerre è stata tutt’altro che estranea al regime fascista, alla sua
ideologia, alla sua visione sociale e antropologica. Il lavoro della classe psichiatrica
– siamo negli anni di un «grande internamento», con un aumento considerevole del
numero dei ricoveri – si inserisce senza frizioni né grandi rifiuti nei progetti medicopolitici del fascismo: i medici sostengono e rinforzano – soprattutto quando studiano,
quando scrivono – i progetti eugenetici del regime (una eugenica «latina», però, che
rifiuta i metodi «positivi» alla tedesca), sposano l’ideologia scientifica che giustifica
l’ideologia fascista in quanto ideologia bellicista, coloniale e razzista (e poi in particolare antisemita).
La seconda parte del volume si diffonde invece nel ricostruire, dal punto di vista
psichiatrico e da quello manicomiale, gli effetti della seconda guerra mondiale come
evento traumatico (per i militari e per i civili). Occorre ricordare – e qui ci riferiamo
in particolare al caso reggiano – agli internati nei manicomi rimasti vittime di bombardamenti. Ma, oltre alla terribile devastazione che colpi l’Istituto del San Lazzaro l’8
gennaio 1944 e in momenti successivi, diversi altri manicomi furono colpiti: Vicenza,
Imola, Piacenza e molti altri ancora. (fp)
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F. CHESSA (a cura di), Leda Rafanelli tra letteratura e anarchia, Biblioteca Panizzi
e Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, Reggio Emilia 2008, 287 pagine, s.i.p.
Questo volume, curato da Fiamma Chessa, è dedicato ad una figura dell’anarchismo
italiano del Novecento fra le più originali ed interessanti. Vi sono raccolte le principali
relazioni esposte durante la giornata di studi (tenutasi a Reggio Emilia il 27 gennaio
2007), dedicata alla Rafanelli, una scrittrice, nella quale sono convissuti anarchismo,
femminismo, passione per la letteratura e fede musulmana. Proprio a quest’ultimo suo
aspetto biografico, sono dedicati diversi interventi, fra cui ricordiamo in particolare
quello di Enrico Ferri, in cui si approfondisce la sintesi, avvenuta nella Rafanelli, fra
cultura anarchica e cultura islamica, e ciò da un punto di vista propriamente filosofico.
Come giustamente sottolinea Maurizio Antonioli in sede di presentazione, la complessa e affascinante vita della Rafanelli, non deve essere sopravvalutato «il controverso legame con un giovane direttore dell’“Avanti!”, su cui opportunamente nel convegno si è fornito solo un discreto riferimento per l’irrilevanza storiografica che esso
ricopre» (p. 12) e su cui invece si è insistito fra gli studiosi ed i commentatori.
In estrema sintesi: Leda Rafanelli nasce a Pistoia nel 1880, e, ventenne, incontra la
fede musulmana e l’anarchia. Ai primi del Novecento, di ritorno da Alessandria d’Egitto, si stabilisce a Firenze, dove inizia a pubblicare i suoi lavori, collaborando anche
con diverse riviste anarchiche, e inaugurando una propria casa editrice, assieme al
marito Luigi Polli. Trasferitasi a Milano nel 1909, fonda assieme al nuovo compagno,
Giuseppe Monanni, la Libreria Editrice Sociale, una delle più importanti anarchiche
del XX secolo (e la cui storia è ricostruita in questo volume dal saggio di Franco
Schirone). Durante gli anni del fascismo e della guerra, la Rafanelli continua a pubblicare, pur fra molte difficoltà economiche, per le quali si trasferisce a San Remo nel
1939, e inizia anche l’attività di chiromante e di insegnante di lingua araba. Nel 1944
è colpita dalla morte del figlio. Muore a Genova nel 1971.
Alessandra Pierotti ha curato la bibliografia di tutte le opere della Rafanelli, sia
degli scritti editi che di quelli inediti, nonché degli studi critici. Di notevole valore e
suggestione l’appendice iconografica del libro, che riporta decine di fotografie che riprendono la Rafanelli lungo tutta la sua esistenza, e i cui originali sono conservati nel
fondo a lei intitolato presso l’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa.
Francesco Paolella
D. CARNEVALE, Dimenticati all’inferno. Un carabiniere nei lager sovietici 19421946, Mursia, Milano 2009, pp. 200, 16 euro
Dante Carnevale, carabiniere di Palermo, trentadue anni dopo il suo ritorno in
Italia, scrive la sua memoria della campagna di Russia e dei lunghi, terribili anni di prigionia in Unione Sovietica. Il manoscritto pubblicato è stato curato dal figlio Girolamo
e dallo storico Giuseppe Mariuz.
La testimonianza di Carnevale è tutta attraversata da una profonda delusione per
il modo in cui il suo Paese lo riaccolse, nel marzo del 1946. Ancora di più che verso
l’Italia fascista che lo aveva mandato in Russia, l’autore mostra risentimento verso
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l’Italia del dopoguerra, indifferente o apertamente ostile. Risentimento verso la stessa
Arma dei carabinieri, per la scarsa assistenza prestata e per la scarsa comprensione
dimostrata verso un uomo minato nel fisico e nella mente. Ma ancora di più ad emergere è un «risentimento politico», per così dire. Carnevale, assieme ai pochi reduci di
Russia, attraversò su un «treno pontificio» tutta l’Italia. Accanto a iniziali manifestazioni
di interesse e di festa, il passaggio di quei militari incontrò sempre più problemi, tanto
da spingere le autorità a vietare le manifestazioni nelle stazioni. «La sporca politica, che
neanche immaginavano lontanamente, felici solo di essere sopravvissuti, incominciò a
seminare zizzania. Nelle stazioni ferroviarie cominciarono a verificarsi i primi incidenti,
voluti probabilmente da italiani che avevano tradito e non erano stati nemmeno in
guerra; erano rimasti imboscati e ora cercavano, volevano speculare sul nostro rientro, su di noi poveri esseri, partiti con un regime e tornati con un altro. Noi eravamo
completamente all’oscuro della politica, di simpatie o antipatie verso l’uno o l’altro dei
partiti che erano nati dopo la caduta del fascismo. Ci venivano incontro, all’arrivo del
treno, con bandiere rosse con falce e martello e non pensavano – voglio credere – di
darci l’orrendo spettacolo di essere ancora in Russia» (pp. 173-174). Chi esponeva le
bandiere del pci era «teppista», «fannullone», «ignorante». Tanta acredine si spiega logicamente con il trattamento disumano subito per quattro anni fra marce forzate, viaggi su
vagoni bestiame, campi di lavoro, fame, malattie, nella Russia sovietica. Ma l’obiettivo
è prima di tutto italiano. Carnevale, e non lui solo ovviamente, denuncia il pregiudizio
contro i militari prigionieri sul fronte orientale. «Io rispetto i partigiani che veramente
soffrirono e combatterono per la liberazione dai tedeschi, però ricordiamo anche tutti
i caduti per la patria, tutti indistintamente, senza preferenze, di tutti i fronti, di tutte le
armi. Rendiamo onore a chi fece olocausto della propria giovane vita, pur se c’era quel
regime a cui dover obbedire» (p. 185).
Un altro dato evidente del libro, oltre all’avversione, tanto ovvia quanto radicale,
verso i carcerieri e torturatori russi – tranne qualche eccezione – è il risentimento verso
i tedeschi, «compagni» di prigionia. Fin dall’inverno del 1942, i militari italiani ai loro
occhi non erano altro che traditori. «Ci dicevano proprio in faccia che eravamo dei traditori e la causa della loro sconfitta. Litigavamo sempre e ovunque, soprattutto quando
diventarono più numerosi di noi italiani e incominciarono a ricoprire le cariche più
importanti del campo di concentramento. A un certo punto, oltre che prigionieri dei
russi, eravamo divenuti schiavi dei tedeschi, nonostante fossero internati come noi»
(pp. 88-89).
Il libro di Carnevale è un impressionante réportage, da un vero inferno. Spesso
sembra di avere fra le mani una testimonianza dall’universo concentrazionario nazista.
Ritroviamo l’interminabile viaggio in treno, durato quasi un mese in questo caso, su
vagoni bestiame, accanto a corpi morti, senza né acqua né cibo. Ritroviamo un sistema
di selezione per il lavoro – ma in questo caso in «positivo»: una «commissione» doveva
stabilire chi fosse abile per il lavoro all’esterno del campo. Ma ancora più crudele fu
la prima, vera selezione, quella fatta dalle mitragliatrici, per sfoltire il numero ancora
eccessivo («inaspettato» secondo Carnevale) di prigionieri militari italiani, nonostante
una marcia di una intera settimana nella neve: «Più sentivo le grida di dolore di quelli
rimasti feriti, più mi allungavo nella neve. Finalmente, sentii gridare in mezzo a quel
pandemonio: “Chi non è stato colpito si alzi! Andiamo nei campi di concentramento
200
e ci daranno da mangiare!”. Ma noi tutti credevamo fosse un inganno per uccidere
anche quelli che erano rimasti illesi. Perciò, nessuno si alzava e anche gli incolumi
fingevano di essere morti o gravemente feriti» (p. 56). La morte era in ogni caso una
possibilità concreta e continua: il freddo che sfiniva, la fame incessante, le punizioni,
il lavoro eccessivo, tutto concorreva a rendere quei soldati «larve umane». È questo
processo di rapida disumanizzazione un altro aspetto che spicca chiaramente: uomini
ridotti a compiere le azioni più spregevoli – rubare il pane ai malati, bere la propria
urina, vivere accanto ai cadaveri. Tutto ciò non poteva che favorire l’insensibilità e
l’indifferenza verso il destino altrui, davvero necessarie per sopravvivere. Ad esempio,
ancora durante il viaggio in treno: «una notte, durante uno di questi litigi, si sentì una
voce imperiosa: “State attenti dove mettete i piedi! Siete ciechi? Sono un tenente, usatemi rispetto e riguardo”. Ma non ci era rimasto niente di umano e men che meno di
militare. Sentii qualcuno che gridava in risposta: “Ma che rispetto, ma che tenente!”, e
giù botte e confusione da non immaginare, in quel vagone di relitti umani denutriti e
di pidocchi» (p. 67). In più di un’occasione Carnevale non nasconde di aver desiderato
la morte, giudicandola l’unica liberazione possibile da quella «vita» in prigionia, che
proseguì ben oltre la fine della guerra.
Francesco Paolella
S. COPPOLA, Entre la religión y la política. I rapporti della Santa Sede con Italia,
Germania e Spagna (1929-1945), Siddharth Mehta Ediciones, Madrid 2007
Appassionato cultore della storia politica e sociale del suo Salento, Salvatore
Coppola affronta in questo volume il delicato intreccio delle relazioni intercorse fra
la diplomazia vaticana e le tre principali versioni statuali della destra nazionalistica e
reazionaria tra le due guerre mondiali.
L’occasione per ritornare con un apporto originale su un tema indubbiamente
molto frequentato è stata offerta da «una preziosa miniera di fonti»: i documenti conservati a Madrid nell’archivio storico del Ministero degli affari esteri, integrati da fonti
a stampa attingibili nella Biblioteca nazionale madrilena, particolarmente nella sua
emeroteca.
Docente al liceo italiano della capitale spagnola, Coppola ha potuto svolgere un
minuzioso lavoro sulla carte degli ambasciatori (repubblicani e poi franchisti) che a
Roma e Berlino svolgevano un ruolo, oltre che di attori, anche di osservatori e testimoni di indiscutibile sagacia. Da qui l’opportunità di non limitare il campo della
ricerca alle sole relazioni fra Santa Sede e governi spagnoli (la parte indubbiamente
più nuova per il lettore italiano), ma di allargare il discorso a tutto il complesso gioco
di equilibri continuamente rinegoziati, che la diplomazia vaticana ebbe a gestire con
alterne fortune e diversi accenti (anche per la non perfettamente collimante personalità dei pontefici Pio XI e Pio XII), essendo all’orizzonte, incombente presenza sempre
richiamata nel grande gioco, quel protagonista fuori scena che era il bolscevismo (il
«comunismo ateo» dei documenti ecclesiastici).
La novità delle fonti avrebbe potuto indurre ad un lavoro molto specialistico, in
cui la diplomazia spagnola fosse il vero oggetto e la esclusiva ragion d’essere della
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ricerca, anziché una via d’accesso privilegiata, utilizzabile per riconsiderare nella sua
complessità una materia invero molto scottante. Ne sarebbe uscito un saggio magari accademicamente inappuntabile, ma appetibile solo da pochi addetti ai lavori.
Abbiamo qui, invece, un libro utile ed interessante per un più vasto pubblico, senza
l’appesantimento di esibiti apparati, ma pure rigorosamente legato alla folta documentazione abilmente inserita nel discorso. Un libro attento ai contesti complessivi entro
i quali la particolare tematica prende luce. Un libro, dunque, di piacevole lettura, che
unisce – lo sottolinea l’Editore nel suo prologo – «rigor y amenidad».
Va precisato che l’opera, benché pubblicata in Spagna e ricca di citazioni in castigliano, peraltro decifrabilissime, si rivolge al lettore italiano nella sua lingua.
Indubbiamente una singolare soluzione editoriale.
La tematica trattata – come sappiamo – si presta a forti riflessioni di natura etica.
Tutta una dolente materia (la violenza dei massacri indiscriminati, il genocidio) rende
difficile una ricostruzione oggettiva, sine ira ac studio, tale da evitare il terreno scivoloso dell’uso «attualizzante» della storia, vuoi in direzione apologetica, vuoi come
requisitoria contro complicità o silenzi.
Coppola, da parte sua, tiene fermo il punto: mostrare in atto la diplomazia vaticana,
la sua adattabilità alle situazioni, il lungo filo impiegato per tessere una trama di difesa o di riconquista del terreno provvisoriamente perduto, sulla base di un’esperienza
secolare. La studia insomma, come organismo politico, ne illustra i fini e i mezzi, e
proprio in questo modo consente al lettore, se lo vuol fare, di procedere oltre l’affascinante ricostruzione del funzionamento di una raffinata macchina da negoziato, per farsi, come si suol dire, una propria idea, considerando il tema anche sotto altra specie.
Da parte nostra, nell’impossibilità di riassumere adeguatamente la lunga e complicata vicenda, ci limiteremo a segnalare un aspetto che il lavoro di Coppola documenta con persuasiva evidenza: nel difendere, in quella drammatica fase della storia
contemporanea, le sue prerogative storicamente consolidate (sul piano assistenziale,
scolastico, associativo) la Santa Sede opera in modo costantemente conforme, non
importa se l’istanza statuale con cui deve fare i conti sia una dittatura o un sistema
democratico. È, insomma, lo Stato in quanto tale, purché effettivamente costituito e internazionalmente riconosciuto, l’interlocutore da cui pretendere la conservazione, e se
possibile l’espansione, dei propri spazi di agibilità. Mentre l’avocare a sé, da parte dello Stato, quelle stesse funzioni assistenziali o pedagogiche affrontandole direttamente
con propri strumenti (non importa se in un’ottica di indottrinamento delle masse o
quale riconoscimento di diritti fondamentali in capo alle persone) viene regolarmente
denunciato come un’invadenza arbitraria, un vulnus a cui porre rimedio alternando
vibrate proteste e sottili schermaglie diplomatiche.
Ovvio strumento di questa strategia, i Concordati. Sotto questo profilo è interessante notare come all’apparire delle nuove forme-stato novecentesche (totalitarie o laicodemocratiche che siano) fa riscontro una netta tendenza da parte vaticana a sostenere
il superamento di quegli aspetti giurisdizionali che, nei «vecchi» accordi, facevano da
contropartita ai privilegi garantiti alla Chiesa cattolica. Significativo esempio di questa
linea è l’accettazione, come fatto compiuto e irreversibile, della revoca del Concordato
del 1851, operata dal governo repubblicano spagnolo. Uno iato che metteva la Santa
Sede in condizione di respingere, successivamente, le pressioni franchiste volte al
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ripristino dello status quo, cosa che avrebbe consentito al governo del Caudillo di
condizionare la nomina dei vescovi e pretenderne il giuramento di fedeltà.
Il rapporto con la Germania nazista, peraltro, è più complicato e non può essere
configurato in modo esaustivo all’interno della cornice che abbiamo sin qui cercato di
delineare. Coppola mette bene in evidenza l’assillo della Santa Sede per quei caratteri
dell’ideologia nazista che le facevano assumere i connotati di una totalizzante religione naturalistica e neopagana, a tutti gli effetti un culto che, nelle teorizzazioni più
radicali (Rosenberg), ostentava la sua avversione per l’autonomia della Chiesa persino
nelle funzioni strettamente di magistero. Molto interessante, a questo proposito, il percorso che va dalle lucide analisi del concordato col Terzo Reich sviluppate dai diplomatici repubblicani alle critiche della diplomazia franchista sulla presunta ingratitudine
di Roma nei confronti dei nazisti, benemeriti per il contributo dato alla «crociata» e alla
sconfitta dei «rossi». In effetti la propensione della Falange ad andare oltre la semplice
alleanza col nazismo per assumerne in pieno i caratteri ideologici rappresenta una
preoccupazione ripetutamente espressa nelle carte vaticane.
La lente della diplomazia spagnola di parte franchista tende ad attribuire (in certi documenti, a circoscrivere) ai tratti caratteriali di Pio XI una parte preponderante
in questa diffidenza, tanto che la successione di Pacelli è vista con dichiarato favore. L’attenzione verso le appartenenze o le simpatie «politiche» dei vari porporati,
con interessanti rilievi sulle figure eminenti del vertice vaticano (Pacelli, ovviamente,
Tisserant, Montini, Maglione, Tardini…) costituisce peraltro uno degli aspetti meglio
documentati e più rivelatori del libro.
Si sa che la condanna delle teorie razziste, espressa nella Mit brennender Sorge del
marzo 1937 in forma inequivocabile nei termini generali, ma senza esplicito riferimento all’antisemitismo, avrebbe dovuto avere un seguito nella Humani generis unitas,
voluta nei suoi ultimi giorni da papa Ratti, ma lasciata cadere dopo la sua morte.
Un’interessante appendice del libro ricapitola i risultati della discussione su questa
enciclica «fantasma».
Insomma, una lettura utile, che non opprime il lettore con tecnicismi, ma rigorosa e non priva di aspetti di novità. Una tematica specifica, certamente, ma trattata in
modo da consentire una convincente messa a punto di un quadro più generale del
drammatico quindicennio.
Ettore Borghi
203
Acquisizioni biblioteca Istoreco
a cura di Lella Vinsani
Ebraismo, deportazione, memorie della Shoa
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De Sario Beppe, Resistenze innaturali. Attivismo radicale nell’Italia degli anni
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Finzi Fausta, A riveder le stelle. La lunga marcia di un gruppo di donne dal
lager di Ravensbruck a Lubecca, Gaspari, Treviso 2006
Frandini Paola, Ebreo, tu non esisti. Le vittime delle leggi razziali scrivono al
Duce, Manni, Lecce, 2007
Friedlander Saul, La Germania nazista e gli ebrei, Garzanti, Milano 2009
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sterminio nazista, Bruno Mondadori, Milano 2006
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209

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