RS - Istoreco

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RS - Istoreco
All’interno:
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Alberto Melloni, Reggio Emilia, 7 gennaio 2011. Dal tricolore della rivoluzione al
tricolore della Costituzione
Marco Marzi, Andrea Montanari, I «giubilei della patria» a Reggio Emilia. Il
cinquantenario dell’Unità nella Reggio Socialista (1909-1911)
Michele Bellelli, 1859. La fuga del duca estense. «An vin piô!». I reggiani in alcuni
eventi per l’Unità d’Italia
Massimo Storchi (a cura di), Michael Lees, Special operation executed. Nel paradiso
dei folli, un ufficiale di Sua Maestà sulle montagne reggiane, seconda parte
Gli archivi storici della Cassa di risparmio di Reggio Emilia, del Monte di pietà e
dell’Asilo d’infanzia «Pietro Manodori»
Cristina Carpinelli, Marco Aurelio Rivelli, studioso del Confine orientale. Chiesa e
nazionalismo in Croazia
Considerazioni e proposte a margine del seminario su «Violenza politica e lotta
armata negli anni Settanta»
Recensioni
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ISSN: 0035-5070
Poste italiane Spa - Spedizione in abbonamento postale - DL 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004) art. 1 c. 1 DCB - Reggio Emilia
Marco Cecalupo, Manuela Zinani, La bandiera di tutti. Didattica del prodotto al
Museo del Tricolore di Reggio Emilia
RS RICERCHE STORICHE
Remo Fantini, 1943-1946. Oltre la torbiera. Da Zante (Grecia) al Lager di Fullen
(Germania). L’odissea di un ufficiale reggiano
RS
n. 111 Aprile 2011
Adriano e Paolo Riatti, Renato Riatti, il «cassiere ciclista». 1944, le Reggiane nelle
grotte di Costozza (VI)
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Anno XLV
RICERCHE STORICHE
Direttore
Ettore Borghi
N. 111 aprile 2011
Rivista semestrale di Istoreco
(Istituto per la storia della Resisistenza
e della Società contemporanea in
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Garibaldini reggiani
I riga: 1) Rossi Antonio 2) Gandolfi
Pietro 3) Pregreffi Adolfo 4) Chiloni
Francesco 5) Storchi Eligio 6) Fantuzzi
Gioacchino
II riga: 7) Bedotti Cesare 8) Dacecchio
Giuseppe 9) Zolli Luigi 10) Bersanti
Luigi 11) Tirelli Luigi 12) Camerini
Carlo 13) Peri Antonio 14) Giazzi
Carlo 15) Ruspaggiari Natale
III riga: 16) Guberti Luigi 17) Fantini
Massimiliano 18) Davoli Gaetano 19)
Manzini Luigi 20) Seidenari Giovanni
21) Bedogni Francesco 22) Torricelli
Luigi 23) Maramotti Maurizio
IV riga: 24) Seidenari Francesco 25)
Fantuzzi Francesco 26) Guatteri Carlo
27) Bergomi Prospero
Foto sfondo sezioni:
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Le foto sono conservate presso il
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caserma «Taddei».
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e della Società contemporanea in provincia di
Reggio Emilia)
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n. 220 in data 18 marzo 1967
Con il contributo della Fondazione Pietro Manodori
Indice
Editoriale
Alberto Melloni, Reggio Emilia, 7 gennaio 2011. Dal Tricolore della rivoluzione al
tricolore della Costituzione
5
Ricerche
Marco Marzi, Andrea Montanari, I «giubilei della patria» a Reggio Emilia. Il
cinquantenario dell’Unità nella Reggio socialista (1909-1911)
15
Michele Bellelli, 1859. La fuga del duca estense. «An vin piô!». I reggiani in alcuni
eventi per l’Unità d’Italia
28
Memorie/Testimonianze
Massimo Storchi (a cura di), Michael Lees, Special operation executed. Nel
paradiso dei folli, un ufficiale di Sua Maestà sulle montagne reggiane, seconda
parte
33
Adriano e Paolo Riatti, Renato Riatti, il «cassiere ciclista», 1944, le Reggiane nelle
grotte di Costozza (VI)
55
Remo Fantini, 1943-1946. Oltre la torbiera. Da Zante (Grecia) al Lager di Fullen
(Germania). L’odissea di un ufficiale reggiano
63
Didattica
Marco Cecalupo, Manuela Zinani, La bandiera di tutti. Didattica del prodotto al
Museo del Tricolore di Reggio Emilia
125
Materiale d’archivio
Gli archivi storici della Cassa di risparmio di Reggio Emilia, del Monte di pietà e
dell’Asilo d’infanzia «Pietro Manodori»
137
Note e rassegne
Cristina Carpinelli, Marco Aurelio Rivelli, studioso del Confine orientale. Chiesa
e nazionalismo in Croazia
151
Considerazioni e proposte a margine del seminario su «Violenza politica e lotta
armata negli anni Settanta»
157
c.p., Le iniziative di Istoreco per il Giorno della Memoria 2011
158
Recensioni
160
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Editoriale
Reggio Emilia, 7 gennaio 2011
Dal tricolore della rivoluzione
al tricolore della Costituzione
Alberto Melloni*
Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signore e Signori
Bandiera
Segno delle «bande» longobarde che gli danno il nome, parte del bagaglio
pontificio, la bandiera entra nella storia militare con le armate dell’islam che ne
innalzano una bianca per gli Ommayyadi, nera per gli Abbasidi e infine verde
di Alì. Si troveranno spesso di fronte le bandiere dei crociati che stilizzano il
loro segno in vari formati e colori.
Da questo snodo altomedievale la bandiera entra definitivamente nella storia europea: storia di culti patronali e Comuni, di riti e Signorie, di dinastie
ed onori. Fonde disegni e colori nella Union Jack. Incantona le stelle sopra le
strisce della Continental Army, durante la rivoluzione americana.
E poi sale il piedistallo dell’imagerie dello Stato nazionale moderno di cui
diventa emblema, marcando una svolta formale e cromatica decisiva il 17 luglio 1789 a Parigi.
Per annunciare il ritorno del re in città la guardia civica aggiunge alla sua
coccarda rosso-blu il bianco, colore della monarchia. Quando quel distintivo
viene appuntato da Jean Sylvain de Bailly al cappello di Luigi XIV, s’apre il
sipario sull’ideologia del tricolore: evocazione della triade liberté-egalité-fra-
*
Pubblichiamo la prolusione del professor Alberto Melloni tenuta alla presenza del presidente
della Repubblica, il 7 gennaio 2011, al Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia, in occasione
dell’apertura delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia. Ringraziamo il professor Melloni
per la gentile concessione.
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ternité, segno dei cittadini, bandiera dei reggimenti francesi – e poi matrice di
infinite varianti sulla scia delle armate di Napoleone.
Pledge
E poi di culti di una Civil Religion che percorre l’Ottocento. Negli Stati Uniti
passa dal giuramento composto nel 1882 dal pastore Francis Bellamy, rivolto
alla «mia bandiera», che si saluta e soprattutto si piega con forme tanto rigide
quanto inclusive.
Nella Francia è l’ideologia dei colori nazionali che fornisce silenziosamente
un tratto di continuità delle cinque Repubbliche.
In quella Italia nata legando le diversità, che come diceva Giuliano Amato
a un convegno Treccani, avevano reso da sempre quella italiana una cultura
che o è aperta o non è – in quel Regno, dicevo, il culto della bandiera tenta
un salto di qualità nel 1897.
Inventio
È, infatti, allora che Giosuè Carducci, celebrando il «primo centenario» del
vessillo di uno Stato giovanissimo, si lancia in quella che potremmo chiamare
la inventio della bandiera. Inventio, non certo invenzione.
È, infatti, chiaro che la mozione del deputato Compagnoni approvata nella
sala dell’Archivio ducale di Reggio il 18 nevoso – per noi il 7 gennaio – 1797,
iscrive in un piccolo lembo del territorio italiano il tricolore come bandiera
non solo simbolica, ma politica.
Eppure quella del Carducci è inventio, in senso tecnico: ostensione d’una
reliquia, elaborazione d’una leggenda patriottica di cui quell’Italia dove possono votare solo i possidenti e da cui s’emigra per cercar pane, aveva più che
mai bisogno.
Il discorso carducciano segna una svolta nella ricostruzione eziologica del
vessillo nazionale, e dispone episodi d’incerto significato in un’ordinata galleria che smussa gli spigoli della storia.
Il tricolore d’allora si apparenta senza identificarsi col distintivo bianco rosso e verde indossato da Luigi Zamboni e Giovanni Battista de’ Rolandis, autori
del fallimentare complotto del 1794 contro il cardinal legato di Bologna – punito con la tortura a morte dell’uno e l’impiccagione dell’altro. E così pure si
lega e si staglia rispetto alle bandiere coeve ed omocrome: quel «primo tricolore» carducciano, infatti, è bandiera «nazionale» perché pre-esiste all’unità.
L’Italia giacobina, in effetti di tricolori ne fa tanti e non sempre coi colori
dettati da Bonaparte per quel bacino subalpino che egli – meno visionario di
Murat – chiama Italia. Dove «passa la storia a cavallo» fioriscono, infatti, molte
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terne cromatiche: con l’azzurro, il giallo il nero, con scacchi e bordi, simboli di
giustizia e scritte, che nel 1800-1802 si associano alla bandiera verde-biancarossa della Repubblica italiana di Napoleone presidente e del successivo Regno d’Italia di cui l’Imperatore dei francesi prende la corona.
Di questo tricolore «italiano» il patriottismo del primo cinquantennio d’Unità cerca improbabili ascendenze in Dante, nel paesaggio della penisola, o
nell’evocazione del sangue dei caduti: vuoi sotto la ghigliottina di Pio IX («il
gran prete quel dì svegliossi allegro», ringhia Carducci) vuoi davanti ai fucili
austriaci – in una epopea letteraria che si distende fino alle ultime invettive di
Oriana Fallaci.
Come ha spiegato Roberto Balzani, «con la scusa dell’acribia filologica» la
celebrazione del tricolore di fine Ottocento rimuove la questione del contenuto del Risorgimento, per trovare una forma, realizzatasi prima dell’Italia «una».
Sentiment
Quel drappo a cui si forniscono genealogie nobilitanti non emoziona tutti
in quei decenni. Certo non gli «uomini infami» di quell’Italia: quelli che in siciliano cantano la beffa della «bannera cu li tri culuri»; quelli di cui racconta
letteratura verista o che Scarpetta manda in scena con Miseria e nobiltà, archetipo d’un paese dove chi ha, ride di chi s’arrangia.
La bandiera che tanti preti e frati hanno sventolato dal periodo giacobino
in qua, non piace nemmeno all’intransigentismo papalino che, con decreto
del Sant’Uffizio del 1887, vieta il tricolore ai funerali, se non nel caso di temuti
tumulti.
Il piccolo mondo moderno dei clericali resta fedele ai colori guelfi: e racconta barzellette sconce sul «cencio tricolore», che si ritrovano perfino sotto la
penna di don Luigi Sturzo.
Ma il tricolore non è caro neppure ai socialisti che sulla «bandiera rossa»
laburista diffusa in tutt’Europa, scrivono le nuove parole d’ordine dell’internazionalismo, certi che – come preannunciava un canto mazziniano, poi destinato ad altri usi – alla fine «bandiera rossa la triunferà».
Politica
Se dunque il secondo Ottocento può tentare di risolvere i nodi storici
dell’Unità facendo leva sull’appropriazione sincronica dei tricolori, non è per
vastità di consensi o comunanza di sentimenti: ma per motivi politici, precisamente databili.
Al 1831 – quando a Marsiglia Giuseppe Mazzini adotta per la Giovine Italia
il «tricolore bianco-rosso-verde». Con questa scelta, compiuta a scapito di altre
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simbologie iniziatiche, egli trapianta fra i fuoriusciti piemontesi una bandiera
liberata così dall’ipoteca cisalpina che gravava su di essa.
Poi al 1848 – quando Carlo Alberto di Savoia, dopo le prime rivolte, cuce
lo stemma Savoia sul tricolore, seguendo un bozzetto del Bigotti, e con quella
bandiera attacca gli austriaci il 23 marzo: appropriandosi dei colori d’un episodio giacobino e napoleonico lontano mezzo secolo, il re sincronizza la casata
e l’Italia di Cavour sull’orologio dello Stato nazionale ottocentesco.
Simbolo
Un simbolo è un rapporto, non un oggetto ci ha insegnato Raymond Firth:
e il tricolore esprime il rapporto di italiani diversi fra loro (repubblicani e cavouriani, cospiratori e piononisti, monarchi e garibaldini, gesuiti e carbonari)
col disegno politico di una unità che si vuole ottenere, prima di definirne la
forma statuale.
Simbolo intravisto prima, secondo la inventio carducciana, e assunto da
subito proprio perché si lascia moltiplicare in una infinità di varianti.
Sognavo
Eppure, se come Lei ci ha chiesto nella sua lezione ai Lincei di un anno fa
tentiamo «d’abbracciare l’evoluzione dell’Italia unita nei periodi successivi alla
fondazione del nostro Stato nazionale, fino a consentire un bilancio persuasivo da far valere nel tempo presente» – se ci chiediamo su quali «italiani-dafare» sventola il tricolore riconosciamo accanto a passioni forti, delusioni assai
roventi.
Non è il paese che sognavo, titola l’ultimo libro di Carlo Azeglio Ciampi,
primo presidente del comitato dei garanti di queste celebrazioni del 2011, che
devono molto a lui, a Giuliano Amato che gli è succeduto.
Ma non è il paese che sognavo lo aveva detto già a suo tempo la generazione di coloro che diventano monumenti nelle piazze umbertine e poi nei
sussidiari della scuola gentiliana.
È la delusione di Mazzini, quando nel 1872 muore in casa Rosselli, là dove
nasceranno i fondatori di Giustizia e Libertà. È lo scontento che vela lo sguardo di «Giuseppe Garibaldi, agricoltore» – come recita l’epitaffio del condottiero
morto il 2 giugno 1882.
Di questa Italia che disillude gli italiani parlano tante fonti e tante analisi:
inclusa quella di Bolton King, primo biografo di Mazzini, che nel 1901 descrive così «la decadenza dei partiti»:
L’azione [dei partiti] sembra poco meno di un’interessata lotta per raggiungere
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cariche pubbliche e di una cieca resistenza a forze che non sanno comprendere e
assimilare e pertanto temono. La politica italiana si è annebbiata: niente lo mostra
in modo più penoso della differenza che corre fra la Destra e la Sinistra di oggi,
rispetto agli uomini che governarono l’Italia nuova nei suoi primi tempi.
Chi a inizio Novecento convince Laterza a tradurre queste pagine è Benedetto Croce. Lo stesso che dieci anni dopo, passata la fase marxista labriolana,
contesterà come una moda questi ragionamenti e prenderà in giro i «moralisti
da caffé o da farmacia [...pronti ad] annunziare che l’Italia sta per disgregarsi
economicamente o politicamente o dissolversi nella corruttela ed essere trascinata in una guerra, che sarà la sua fine come Stato e come Nazione»1.
Il Croce del 1912 irride i profeti di catastrofi mancate: ma è un fatto che
proprio quella sensazione di scoramento si ripeterà più volte in un Italia che
in questo, durante il Novecento, non cambia bandiera.
Guerra
In primis quando la storia prenderà le vie della guerra coloniale e poi nel
1915-18, il Guerrone come lo chiama Pio X.
Nazionalizzazione della masse, dicono gli storici: alle quali forniscono
motivi ideologici l’interventismo socialista e il patriottismo clerico moderato
(quello che manda al fronte due milioni di tricolori col Sacro Cuore al centro).
Ma anche nazionalizzazione del disincanto: come quello dei soldati finiti
davanti alla corte marziale italiana fra il 1915 e il 1918. Una frattura dolorosa –
quindicimila ergastoli, quattromila esecuzioni – ancor oggi irredenta.
Come dimostra il caso degli alpini fucilati nel giugno del 1917 a Cercivento,
per aver disobbedito ad un ordine sbagliato dato per vanità (e la cui condanna, impugnata dal ministro della Difesa, è stata confermata da una procura
militare il 15 marzo del 2010).
Fascismo
Eppure quella disillusione è un nonnulla rispetto a quella prodotta dal
fascismo e dalla percezione d’aver permesso il latrocinio di cui il regime si
alimenta. Latrocinio di libertà, certo. Ma anche dei simboli.
Latrocinio del fascio, simbolo di unità e di coesione giacobina, rubato per
farne l’emblema della dittatura; latrocinio della storia di Roma antica, usata per
ingannare soldatini mandati a morire; latrocinio d’eroi, come quello del Balil-
1
«La Voce», 25 gennaio 1912.
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la, il monello del ’700 genovese il cui soprannome viene ridotto a sinonimo
dell’acquiescenza al capo. Su su fino al latrocinio del patriottismo.
Quel sentimento che vediamo praticato da altri paesi in forme antiche e
democratiche, per noi, dopo il 1945, può esistere solo nella forma del Verfassungs patriotismus (il patriottismo della Costituzione, definito da Dolf
Sternberger e Jürgen Habermas), coniugato allo zelo europeista.
Interiorità
La delusione del fascismo ha, infatti, un gigantesco «di più» rispetto a quella
che poteva sentire verso i propri simboli l’Italia liberale o che Ciampi sente
in quella democratica: perché è delusione di sé, esilio dalla propria anima
«scervellata».
Sotto il tricolore che il fascismo carpisce gli italiani si scoprono capaci di
una violenza senza precedenti: nella repressione delle opposizioni, nella persecuzione degli ebrei, negli eccidi impuniti2.
Coscienza
A tutto questo reagisce la parte «non Stenterella», direbbe Gramsci, dell’Italia: fatta di cenacoli antifascisti, di militanza solidaristica, e poi di resistenza.
Resistenza partigiana giustamente celebrata e, grazie a Dio, non vinta.
Resistenza invisibile delle decine di migliaia di Internati militari italiani, gli
IMI: quelli come Giuseppe Lazzati, per fare un nome diverso da quello di mio
padre, che senza avere grandi mezzi intellettuali a disposizione scelgono il
Lager tedesco piuttosto che la militanza repubblichina.
Jemolo
È questo che guadagna all’Italia un’unità e un’indipendenza che non erano
scontate nel 1945. E spezzano quel circolo vizioso delle coscienze che Arturo
Carlo Jemolo spiegherà così: «I regimi totalitari sono deprimenti per l’uomo.
Ci sono gli eroi, quelli che affrontano nell’esilio la miseria nera [...]; ci sono
quelli che hanno troppo contato sulle proprie forze [...]. E ci sono molti che
non hanno fiducia in sé, e si rodono il fegato senza osare mai d’impegnarsi a
2
Come quello di Debré Libanòs, il monastero dove nel maggio del 1937 gli uomini comandati
dal generale Pietro Maletti fucilano 297 monaci, 23 probandi, 129 diaconi, e circa 900 pellegrini
cristiani rifugiatisi nel cenobio dopo l’attentato a Graziani.
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fondo [...], e talora si disprezzano e perdono la stima del proprio io, che è la
preparazione a ulteriori cedimenti».
Secondo Jemolo è questa miseria morale che dopo la guerra, residua
nell’acidità meschina di «[quelli che] più non cambieranno, [...] che dovunque
vogliono vedere la tara, il sudicio, che avranno rancore ed avversione per le
più alte figure, per quelli come Parri, come Bauer, come Capitini, nella cui vita
non c’è un solo neo».
Riprendere
Ferruccio Parri, Riccardo Bauer, Aldo Capitini: figure di quella generazione
che nella Resistenza si riappropria della dignità, della libertà, del pensare politicamente.
E anche del tricolore: simbolo da riconquistare tanto quanto l’unità nazionale.
Per questo Le strade della bandiera, la mostra che le vie di questa città
s’onorano di offrirLe, Signor Presidente – all’inizio di questa festa centocinquantenaria – ha voluto esporre alcuni vessilli partigiani: che hanno conservato il fregio tricolore o che sono tricolori tout-court nei quali lo scudo della
monarchia che aveva firmato le guerre e le leggi razziali, è sostituito dalle
sigle di chi cerca una Unità da rifare su basi democratiche, chiusa la parentesi,
crocianamente intesa, della dittatura.
Articolo 12
Ma anche per chi legge il fascismo come autobiografia della nazione la
bandiera rimane un simbolo: che viene liberato dalla Costituente e dalla sua
rigorosa vigilanza antiretorica.
Un’asciuttezza tale da far scrivere a Ignazio Silone nel 1946 che «più d’uno è
sinceramente costernato per la sobrietà, la semplicità, la prosaicità delle parole
che hanno salutato la nascita della Repubblica italiana».
Attualizzando la convergenza reticente dell’Ottocento, spogliandola delle
pompose forzature erudite e del nazionalismo drogato, la Costituzione sigla
il patto civile repubblicano con un tricolore essenzialissimo, descritto, senza
fronzoli, dell’articolo 12, ultimo dei principi fondamentali.
Patriottismo
È un gesto che sigla non tanto la generica «continuità» dello Stato quanto la
metamorfosi dei simboli dello Stato.
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Infatti, l’articolo 12, ben prima di Habermas, fissa un patriottismo costituzionale severo, sigillato dalla consapevole rigorosa mancanza d’enfasi autocelebrativa.
A partire dalla Costituzione, dunque, va vista la bandiera nazionale e non
viceversa. E se ha ragione David Kertzer, se «è più la nazione ad esser definita
dalla bandiera, che non la bandiera dalla nazione» – allora l’articolo 12 dipinge
un’Italia che non si riconosce per etnie, per radici, per generiche memorie e
imprecisate libertà.
Ma per principi unificanti, che fanno del dinamismo democratico dello
Stato – e, per estensione di quel dinamismo, dell’Europa – la cornice delle
finalizzate libertà repubblicane.
Ciò non diminuisce il significato del 18 nevoso 1797 né imbarazza questa
città che custodisce la storia della bandiera. Evocare da Reggio Emilia la Costituzione significa infatti ricordare con non minor fierezza nomi – quello di
Meuccio Ruini, di Nilde Jotti e soprattutto di Giuseppe Dossetti, per il cui centenario nel 2013 contiamo di riaverla con noi – che hanno insieme ai deputati
eletti per la prima volta a suffragio universale maschile e femminile il 2 giugno
1946 hanno dato un contributo significativo alla successiva storia italiana.
Rosa
Storia che la Costituzione non rende rosa. In modo profondamente diverso
da quello che era accaduto nel secolo che la precede, anche la vita repubblicana non ha prodotto «il paese che sognavo».
In prossimità delle celebrazioni del 1961 lo diceva Pier Paolo Pasolini:
la mia nazione è ritornata al punto
di partenza, nel ricorso dell’empietà. [...]
è morta un’epoca della nostra esistenza,
che in un mondo destinato a umiliare
fu luce morale e resistenza.
Era un giudizio duro su un’Italia con sé stessa assai severa (quella nella
quale don Milani attendeva il castigo di Dio per aver, la chiesa, «fornicato col
liberalismo di De Gasperi», il che oggi ci apparirebbe una virtù).
Explicit
Ma quel giudizio pasoliniano ha pure un sapore oracolare che ci tocca. E
sembra saldarsi col discontento della giovane generazione d’oggi, quella alla
quale tocca il compito di fare il quarto cinquantennio di questa Italia di cui
oggi abbiamo visto il primo mattino.
12
A questa leva è stato insegnato o male o retoricamente – e dunque inutilmente – cosa abbia impedito a questa Repubblica, nel secondo Novecento di
franare sotto le tentazioni autoritarie e la violenza terrorista, sotto la semina,
sotto i piani di rinascita di nazionale e il ricatto delle mafie, sotto le politiche
del debito allegro e le grandi crisi che l’hanno scossa.
Mentre il trombone populista suona alle orecchie di questa giovane leva di
italiani europei la cupa nenia dell’identità – evocata quando la comunità crolla, ci ricorda Bauman – essa si chiede con parole diverse da quelle di Dante
perché «un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene».
A queste giovani menti alle quali sembra esser stato preso il futuro in cambio dell’illusoria bambagia d’una prolungata adolescenza, nemmeno Carducci
saprebbe dare un orgoglio del tricolore per infusione retorica.
Eppure aprendo queste celebrazioni del 150° dell’Unità non possiamo non
sperare che l’attenzione, tutta politica che Lei, Signor Presidente, attira sui giovani dell’Italia di oggi e di domani, possa infondere in loro il coraggio di cui
hanno bisogno per prendersi sul serio.
Per trasformare il discontento in rigore, la lagnanza in responsabilità.
Per ripagare il cinismo riformaiolo che li assedia in una acuta vigilanza
intellettuale.
Per liberarsi chi non vede il loro futuro perché non guarda mai lontano, con
l’assunzione di quella cultura «aperta» che citavo all’inizio.
Così, forse, potranno capire anche quel simbolo che è la bandiera tricolore
e trovarle un posto in una imagerie nuova e in un paese da sognare.
Grazie dell’attenzione.
13
Ricerche
I «giubilei della patria» a Reggio Emilia
Il cinquantenario dell’Unità
nella Reggio socialista (1909-1911)
Marco Marzi
Andrea Montanari
1911: Il primo giubileo della patria
Il 17 marzo 1861, il Parlamento italiano proclamava Vittorio Emanuele II Re
d’Italia «per grazia di Dio e volontà della nazione», sancendo ufficialmente la
nascita dello Stato italiano. Cinquant’anni dopo, l’Italia festeggia sfarzosamente
mezzo secolo di unità politica con la promozione di solenni celebrazioni da
parte del Governo. Quello che viene definito il primo «giubileo della Patria»
diventa l’occasione, secondo un autorevole storico come Emilio Gentile, per
«riconsacrare con solennità, all’inizio del ventesimo secolo, il primato del mito
nazionale, quale supremo principio d’ispirazione etica e politica per i cittadini dell’Italia unita»1. La cifra simbolica di queste celebrazioni è efficacemente
sottolineata dalle parole scelte da Giovanni Pascoli, in occasione della commemorazione della morte di Vittorio Emanuele II il 9 gennaio 1911, per definire
«l’anno santo della patria»: «Quello che noi facciamo e il popolo italiano fa non
è una festa e una commemorazione civile, ma è una cerimonia religiosa»2.
Le celebrazioni patriottiche – anticipate dalla commemorazione della seconda guerra d’indipendenza nel 1909 e dai cinquantenari della spedizione
dei Mille e dei plebisciti che avevano sancito l’unificazione del mezzogiorno
nel 1910 – raggiungono il proprio acme tra il 17 marzo e il 4 giugno 1911. La
circostanza viene ricordata con il massimo impegno: nelle maggiori città italiane – Torino, Firenze, Roma – si organizzano grandi esposizioni tematiche,
1
E. GENTILE, La Grande Italia, Mondadori, Milano 1997, p. 57.
G. PASCOLI, Patria e Umanità, Zanichelli, Bologna 1914, p. 17, citato in A.M. BANTI, Sublime
madre nostra, Laterza, Bari-Roma 2010, p. 86.
2
15
volte a illustrare aspetti diversi della grandezza della patria, mentre giornali,
pubblicazioni ed eventi locali commemorano il Risorgimento e la nascita dello
Stato unitario. Ma anche eventi non strettamente legati alla ritualità nazionale
si caricano in questi anni di un significato patriottico. Il Giro d’Italia 1911, ad
esempio, fu fatto terminare proprio il 6 giugno a Roma, in occasione del Giubileo.
A Torino, i festeggiamenti hanno inizio il 17 marzo 1911 con un grande
banchetto a cui partecipano 1300 sindaci delle città degli antichi stati sardi3. La
prima capitale d’Italia ospita nel Parco del Valentino l’Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro, inaugurata il 29 aprile alla presenza di Vittorio
Emanuele III, di Giolitti, di vari ministri, del sindaco di Roma Nathan e dei
rappresentanti dei paesi ospitati. Numerosi eventi fanno da corollario all’esposizione: mostre, concorsi, concerti, feste ma anche dimostrazioni di nuove
apparecchiature elettriche e meccaniche. Tra questi anche la gara d’aviazione
«Roma-Torino», svoltasi in concomitanza con l’inaugurazione del campo volo
di Mirafiori.
Anche a Firenze, seconda capitale del Regno, vengono realizzate due esposizioni: la mostra del ritratto italiano dalla fine del XVI secolo al 1861 a Palazzo
Vecchio e l’Esposizione di floricoltura alla Società di orticoltura4.
A Roma invece, per una scelta non casuale, le esposizioni assumono un
carattere più artistico-storico. Tra le tante, occorre ricordare la mostra etnografica delle regioni italiane5 in piazza d’armi e quella internazionale di belle
arti a Vigna Cartoni (Valle Giulia), unite dal nuovissimo ponte Flaminio in
cemento armato che verrà poi dedicato al Risorgimento6. Le celebrazioni per
il cinquantenario culminano nel modo più spettacolare il 4 giugno 1911, in
occasione della festa dello Statuto, con l’inaugurazione del grande monumento
a Vittorio Emanuele II in piazza Venezia, costato più di quaranta milioni di lire
e realizzato in oltre 25 anni7. La cerimonia di apertura dell’imponente com3
Per un maggiore approfondimento si vedano L’esposizione di Torino 1911. Giornale ufficiale
illustrato dell’esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, Torino 1911 e U. LEVRA,
R. ROCCIA, Le esposizioni torinesi 1805-1911. Specchio del progresso e macchina del consenso,
Torino 2003.
4
http://www.italiaunita150.it/celebrazioni-passate/il-cinquantenario-del-1911.aspx
5
Il Padiglione emiliano, all’interno della mostra, è inaugurato il 12 maggio. Il presidente della
Deputazione provinciale reggiana è l’avvocato Mazzoli, la mente ideatrice della sala reggiana
è Naborre Campanini. Soffitto, mobili e altre opere in legno sono realizzate dalla Società
cooperativa falegnami, i dipinti sul soffitto sono di Emidio Villa e le fotografie del castello
di Canossa, del Palazzo dei Principi di Correggio, della rocca di Scandiano e del castello di
Selvapiana sono di Giuseppe Fantuzzi. Per maggiori informazioni si veda G. AGNELLI, Il Padiglione
emiliano-romagnolo a Roma nel cinquantesimo anno dell’Unità d’Italia. 1911, Tipografia Neri,
Bologna 1911.
6
Altre mostre minori realizzate nella capitale sono quella di archeologia alle terme di Diocleziano,
di «retrospettiva» varia a Castel Sant’Angelo e del Risorgimento all’interno del Vittoriano.
7
Per maggiori informazioni sui festeggiamenti a Roma si veda B. TOBIA, L’Altare della Patria, Il
Mulino, Bologna 1998.
16
plesso – anticipata nel modo più spettacolare da una fiaccolata che percorre
l’intero recinto della mostra etnografica e da concerti bandistici al Foro delle
Regioni – si tiene alla presenza delle più alte cariche dello Stato e di ben duecentomila visitatori. Si tratta di un grande rito collettivo, un’«autocelebrazione
della nazione compiuta nel sentimento di mistica comunione far governanti e
governati, uniti nella fede della Patria»8.
Il giubileo della Patria a Reggio Emilia
In controtendenza rispetto alla maestosità delle celebrazioni nazionali, a
Reggio Emilia i festeggiamenti per il primo cinquantenario dell’Unità assumono un carattere piuttosto modesto. E ciò non soltanto in confronto a quelli di
Roma, Torino e Firenze, come è lecito aspettarsi in una città di minor importanza, ma anche relativamente a quelle che si tengono in realtà decisamente
più piccole e paragonabili a quella reggiana.
Le cause della scarsità dei festeggiamenti vanno innanzitutto ricercate nella
particolare connotazione politica che caratterizza nei primi anni del Novecento la provincia reggiana, vera e propria roccaforte del socialismo italiano.
L’assunzione di una posizione fortemente critica verso i festeggiamenti giubilari da parte del partito socialista italiano9 ha, infatti, notevoli ripercussioni in
una zona dove la maggioranza delle fasce popolari, delle associazioni operaie,
delle cooperative e delle amministrazioni comunali è egemonizzato da uomini
di questo partito. Le celebrazioni che vengono qui organizzate soffrono di
conseguenza, da una parte, di una scarsa partecipazione della popolazione e,
dall’altra, del mancato sostegno delle istituzioni locali.
La posizione critica e distaccata verso le celebrazioni ufficiali dei socialisti
reggiani, fedeli interpreti e sostenitori della linea della segreteria nazionale del
partito, non nasce – come affermano ripetutamente i periodici filogovernativi
in questi anni – da un convinto antipatriottismo, né da una svalutazione delle
vicende che portarono all’unificazione nazionale. Nelle comunicazioni ufficiali
di partito, così come nei comizi e sulla carta stampata, i socialisti affermano
anzi ripetutamente il proprio riconoscimento dell’importanza storica dell’Unità
d’Italia e dei fatti che l’hanno preceduta. Ciononostante, la lettura dell’epopea
risorgimentale fatta da questa parte politica si discosta notevolmente da quella
che le classi dirigenti dello Stato intendono offrire durante i festeggiamenti del
Cinquantenario.
I liberali, interessati alla realizzazione di un mito nazionale in grado di
8
GENTILE, La Grande Italia, cit., p. 57.
Per maggiori informazioni sulla posizione ufficiale del partito socialista italiano in merito ai
festeggiamenti cinquantenari di veda GENTILE, La Grande Italia, cit., pp. 62-63.
9
17
conciliare e unificare tutti gli italiani sotto l’egida dello Stato e di casa Savoia
e legittimare così la propria posizione dominante, offrono nelle celebrazioni
ufficiali una rappresentazione estremamente retorica e idealizzata del Risorgimento. Nel tentativo di cancellare le divisioni che erano intercorse tra l’anima
democratico-repubblicana e quella liberale-monarchica, integrano le vicende
di personaggi come Garibaldi e Mazzini a quelle di Cavour e Vittorio Emanuele II in un armonico disegno verso l’unificazione e la costruzione dello Stato
nazionale, il quale viene celebrato come la maggior conquista del popolo italiano10. I socialisti, invece, rifiutano apertamente sia l’accostamento delle due
anime del Risorgimento sia questa glorificazione ingenua dello Stato unitario.
Essi accordano innanzitutto un’evidente preferenza per la parte democratica e popolare che ha preso parte all’impresa risorgimentale, in particolare
a precursori del socialismo quali Pisacane e Garibaldi. Al contrario riservano
pochi onori a casa Savoia, la cui partecipazione ai moti risorgimentali è spesso considerata come opportunista e motivata dalle sole ambizioni personali
di dominio11. L’interpretazione storica socialista dunque, ricalcando l’accusa
già lanciata da Mazzini nei giorni posteriori all’unificazione12, riconosce nella
costruzione dello Stato liberale a opera della monarchia sabauda una sorta di
tradimento delle aspirazioni popolari del Risorgimento. A differenza delle osservazioni del patriota genovese però, i socialisti, contestualmente alla propria
ideologia politica, tendono a interpretare il tradimento in chiave più economica che politica. Secondo questa lettura, il governo cinquantenario delle classi
dirigenti italiane avrebbe ripagato «l’enorme sacrificio compiuto per l’unità e
l’indipendenza d’Italia» delle «giovani vite che lasciarono le loro speranze e il
loro sangue sui campi di battaglia» con la costruzione di uno Stato che non si
è curato del miglioramento delle condizioni socioeconomiche e politiche di un
popolo che, ancora nel 1911, è «semianalfabeta, affamato, pellagroso, abbrutito dall’alcool, incretinito nel dogma»13.
Pur riconoscendo nell’Unità una conquista importante, perché con essa
gli italiani si sono liberati dal dominio straniero e dall’influenza clericale, i
socialisti non pensano quindi che il Risorgimento si sia concluso. Inserendo le
battaglie per la liberazione nazionale in un ampio processo di emancipazione
10
Per maggiori informazioni sulla mitografia ufficiale del Risorgimento durante il giubileo della
patria si veda GENTILE, La Grande Italia, cit., pp. 9-55. Per informazioni sulla costruzione di
questo mito durante i primi decenni postunitari si veda U. LEVRA, Fare gli italiani. Memoria
e celebrazione del Risorgimento, Torino, Comitato di Torino dell’Istituto per la storia del
Risorgimento italiano, 1992.
11
Si veda, a titolo esemplificativo, l’articolo Peccato d’idealità. Un grosso equivoco, in «La
Giustizia», 18 giugno 1909. I socialisti esprimono, per questa ragione, la propria contrarietà alla
celebrazione di episodi legati alla dinastia sabauda, cfr. Patria, Monarchia e Vacanza, in «La
Giustizia», 17 marzo 1911.
12
Si veda G. MAZZINI, Scritti politici editi e inediti, vol. XCI, Imola 1941, p. 162.
13
Mezzo secolo di regno, in «La Giustizia», 26 marzo 1911.
18
dell’umanità, essi considerano, infatti, il cammino del popolo italiano ancora
da portare a termine. Alle sfarzose esposizioni e alla costruzione di maestosi e
costosi monumenti14, che commemorano le battaglie per l’Unità ma allo stesso
tempo le relegano al passato, essi oppongono una forma di ricordo attivo15,
che si congiunga idealmente ad esse e sappia stimolare una loro conclusione
attraverso una rivoluzione sociale16.
I socialisti, insomma, non soltanto negano le accuse che ricevono dagli
avversari ma si dichiarano persino più patriottici degli uomini che governano
lo Stato17. È d’altra parte il concetto stesso di patriottismo, e non solo la lettura
delle vicende risorgimentali, a dividere i due schieramenti. Il peculiare patriottismo dei socialisti assume, infatti, a differenza dell’aggressivo nazionalismo
che si sta diffondendo nel primo Novecento tra le classi dirigenti, una declinazione pacifista, secondo cui l’amor di patria, «non è affatto contrapposto a
quello più ampio di umanità, e non deve portar a nessuno stupido orgoglio
nazionale e a nessun odio verso le altre nazioni»18. L’insistenza dei socialisti
su questo punto va contestualizzata nel quadro politico internazionale del
primo decennio del Novecento, caratterizzato dall’emergere di movimenti nazionalisti e dalla corsa europea agli armamenti. Anche in Italia è in corso una
battaglia parlamentare che vede opposte, da una parte, le forze nazionaliste e
conservatrici, sostenitrici di un consistente aumento delle spese militari da parte dello Stato, e dall’altra i socialisti, convinti che queste spese rappresentino
un inutile e dannoso ostacolo alla crescita del paese19. Per questi ultimi non è
la potenza degli eserciti a fare grande una nazione, ma il «crescente benessere
del maggior numero possibile dei suoi figli»20.
Bisogna tuttavia considerare che questa linea di pensiero, maggioritaria
all’interno del partito, non rappresenta una posizione unanime tra i socialisti
italiani. Si segnalano diversi casi, a livello nazionale e locale, di esponenti di
partito che si discostano da questa versione ufficiale per aderire a ideali decisamente più nazionalisti. È il caso sia di riformisti, come Leonida Bissolati, che
di intransigenti, come Benito Mussolini.
14
Particolarmente contestata dai socialisti è la spesa elevatissima per l’erezione del monumento
a Vittorio Emanuele II a Roma. Si vedano in proposito gli articoli: Patria o Monarchia, in «La
Giustizia», 3 giugno 1911; Il monumento a Vittorio Emanuele II, in «La Giustizia», 4 giugno 1911
e Per farci intendere, in «La Giustizia», 5 giugno 1911.
15
Si veda in proposito Teste dure, in «La Giustizia», 28 marzo 1911.
16
Si veda in proposito il discorso tenuto da Nino Mazzoni al comizio socialista di Reggio del
26 marzo 1911, riassunto in La solenne manifestazione di Reggio socialista, in «La Giustizia», 27
marzo 1911.
17
La commemorazione patriottica di ieri, in «La Giustizia», 21 giugno 1909.
18
Le feste patriottiche pel 50° del ‘59, in «La Giustizia», 13 giugno 1909.
19
Si veda, a titolo esemplificativo, l’articolo La resistenza dei socialisti alle spese militari, in «La
Giustizia», 5 giugno 1911.
20
Le feste patriottiche pel 50° del ‘59, in «La Giustizia», 13 giugno 1909.
19
I socialisti reggiani
La giunta municipale reggiana è invece una fedele interprete della linea
dettata dal partito e di conseguenza, per tutti gli anniversari celebrati negli anni
che vanno dal 1909 al 1911 nel resto d’Italia, si mostra estremamente reticente
a organizzare eventi celebrativi pubblici. Durante questi anniversari il Comune
si limita a esporre la bandiera tricolore, a illuminare gli uffici pubblici nelle
ore serali e a diffondere manifesti patriottici, i quali non nascondono tuttavia
critiche ai festeggiamenti ufficiali. Molto interessante, tra questi ultimi, è quello
redatto in occasione del cinquantesimo dell’Unità, il quale, dopo aver esaltato
il Risorgimento e l’unificazione, passa a una serrata critica del cinquantenario
governo liberale del paese:
Libero e schietto è adunque il nostro omaggio alla Patria alle sue glorie, ai martiri
ed agli eroi – illustri o ignoranti – che cooperarono a formarla: ma noi mancheremmo a noi stessi e ai nostri convincimenti, se non esprimessimo intero il nostro
pensiero.
Affrancata per concorde sforzo degli italiani, la patria, permase e s’acuì, per ferrea
legge della storia, la lotta di classe. La Borghesia dominante vide la patria attraverso sé stessa, la identificò coi proprii interessi, non attuò la visione piena del civile
rinnovamento d’Italia, che pur aveva sorriso agli apostoli e ai martiri dell’età eroica.
E non solo la classe dominante non diede al popolo le sue piene rivendicazioni
sociali – che non è compito questo che da lei si potesse pretendere – ma neppur
assolse il debito suo nei campi delle riforme che eran proprie della sua funzione.
Vede essa la grandezza della Patria nei fasti superbi delle memorie e nei sogni vani
di falsa potenza, nelle armi gravose ed infeste: non vede e non comprende – quale
noi la vediamo – la realtà della Patria languente per la miseria e l’ignoranza dei
milioni di suoi figli scarsi di pane, privi del libro, esclusi dalla luce della civiltà.
Onde noi dobbiamo arrossire – celebrando il giubileo della Patria – dei molti milioni di italiani che la ignorano, perché non han modo di conoscerla né ragione di
amarla: dobbiamo arrossire della povertà nostra e delle nostre vergogne.
Ma è legge magnifica della vita, che essa avanzi in virtù delle forze nuove che via
via salgono dalle tenebre alla luce. Queste forze ignorate ed oscure, che i socialisti
destano ed adunano, entrando nell’arringo della storia, rinsanguano, allargano, rinnovano, integrano la vita della Patria. Lottando per la giustizia e per l’eguaglianza,
contro i monopolii e i privilegi, gridando basta! alle armi e avanti! alla scuola,
assegnando più larghi diritti di cittadinanza a strati ognor più vasti di popolo, i
socialisti, i lavoratori s’apprestano a celebrare una sempre più angusta e grande
Italia, madre al suo popolo tutto, madre e maestra della civiltà nel mondo, nelle
lotte feconde del progresso, nell’emule gare per la libertà e per la giustizia21.
Il sindaco e gli assessori non fanno quindi mistero della propria apparte-
21
La solenne manifestazione di Reggio socialista per il rinnovamento popolare d’Italia, in «La
Giustizia», 27 marzo 1911.
20
nenza politica, ponendosi apertamente in contrasto con il Governo italiano e
con le classi borghesi.
Nonostante la mancata organizzazione di cerimonie ufficiali, a Reggio hanno comunque luogo festeggiamenti e celebrazioni in occasione degli anniversari più importanti. Un composito schieramento di forze sociali e politiche,
deluso dal comportamento dell’amministrazione, decide infatti di organizzare
personalmente alcuni eventi commemorativi. Tra le categorie che fanno parte
di questo gruppo di sostenitori delle celebrazioni vi sono innanzitutto i corpi
dell’esercito di stanza a Reggio, per ovvi motivi leali alla monarchia o comunque alle istituzioni statali, e i reduci delle guerre del Risorgimento. La componente più numerosa ed entusiasta dei partecipanti ai festeggiamenti è tuttavia
rappresentata dagli studenti, i quali organizzano numerosi cortei spontanei
per le strade della città durante i quali si lasciano andare a canti, cori e grida
di inni patriottici e slogan irredentisti. I giovani sono d’altra parte, a Reggio
come nel resto d’Italia, tra i principali recettori delle ideologie e delle retoriche
nazionaliste che si stanno diffondendo nei primi anni del Novecento in tutti i
paesi d’Europa. L’associazionismo nazionalista studentesco reggiano conosce
proprio nel decennio che precede lo scoppio della prima guerra mondiale una
notevole fioritura organizzativa. Risalgono, infatti, al 1908 la nascita dell’Associazione studentesca reggiana, politicamente vicina ai movimenti nazionalisti
e irredentisti, e al 1909 la pubblicazione di alcuni periodici studenteschi di
matrice nazionalista22.
L’universo liberale e i cattolici reggiani
Altri protagonisti delle celebrazioni sono i notabili appartenenti al composito universo liberale reggiano, la cui partecipazione alle commemorazioni,
se da una parte è naturale conseguenza della storia dell’area politica che
rappresentano, dall’altra assume a Reggio un preciso significato politico di
opposizione alle scelte dell’amministrazione comunale socialista. I riferimenti
al nazionalismo e all’irredentismo, infatti, iniziano a rappresentare in questi
anni una delle principali componenti della propaganda di una parte dell’opposizione liberale reggiana23. Questa, riunita intorno al periodico «Il Corriere
di Reggio», è responsabile di una feroce polemica nei confronti delle scelte di
astensione socialista dai festeggiamenti attraverso il proprio organo di stampa.
22
A. FERRABOSCHI, La nazione nella patria del «socialismo integrale». Irredentismo e nazionalismo
a Reggio Emilia dalla «grande armata» alla grande guerra (1904-1915) in M. CARRATTIERI, A.
FERRABOSCHI (a cura di), Piccola patria, grande guerra. La Prima Guerra Mondiale a Reggio
Emilia, Clueb, Bologna 2008, pp. 37-39.
23
Ivi, pp. 23-56.
21
Ma, in generale, tutti gli uomini appartenenti all’area politica liberale, compresi
coloro che rimangono legati al tradizionale orientamento moderato e gli esponenti della sinistra radicale, si pongono a favore delle celebrazioni24.
Anche alcuni cattolici, che a Reggio come in altre parti d’Italia sono in
questi anni schierati con i liberali in difesa dell’ordine contro l’avanzata dei
socialisti, sostengono la partecipazione alle feste patriottiche. Le ragioni di opportunismo politico sembrano però prevalere per questa fazione, nonostante
il tentativo da parte del settimanale «l’Azione Cattolica» di far apparire in buona
fede il patriottismo dei cattolici presenti alle festività del 190925. Questo ardore
caratterizza poi esclusivamente i cosiddetti clerico-moderati, mentre è del tutto
assente tra le file dei neo-intransigenti e dei democratici cristiani. Dopo la conquista da parte di questi ultimi della guida del movimento cattolico reggiano
nell’agosto del 190926, infatti, l’organo di stampa della diocesi manifesta scarso
interesse per gli eventi commemorativi. Si sofferma soltanto sulle celebrazioni
nazionali del 27 marzo 1911, allo scopo di criticarle aspramente27.
Va infine segnalata la parte presa da alcune associazioni reggiane, i cui
membri appartengono molto spesso all’area politica liberale, nell’organizzazione delle principali cerimonie. Tra queste occorre ricordare la Società del
Casino, l’associazione irredentista «Trento-Trieste» e la comunità ebraica.
Tre festeggiamenti: la liberazione dal dominio estense, l’Unità d’Italia, la festa dello Statuto
Le celebrazioni più importanti svoltesi a Reggio Emilia in questi anni sono
tre: il cinquantenario della liberazione dal dominio estense, festeggiato il 20
giugno 1909, quello dell’Unità d’Italia, il 27 marzo 191128, e la festa dello Statuto del 4 giugno 1911. Si svolgono poi alcune celebrazioni di importanza
minore, come ad esempio la festa per il cinquantenario della venuta di Vittorio
Emanuele II a Reggio organizzata dalla Società del Casino. Il 6 maggio 1860
il sovrano si trovava, infatti, in città ed ebbe modo di ammirare le sale della
sede della Società. Nel pomeriggio del 5 maggio 1910, cinquant’anni dopo la
real visita, nelle stesse sale, vengono promossi alcuni giorni di festeggiamento,
24
Si veda in proposito il periodico «L’Italia Centrale», il quale rappresenta fino al novembre del
1910 le posizioni dei liberal-moderati e, nei mesi successivi, quelle dei radicali.
25
Commemorazione patriottica, in «l’Azione Cattolica», 18 giugno 1909.
26
Sul cambio di direzione del movimento cattolico reggiano nell’agosto 1909 si veda S. SPREAFICO,
Dalla polis religiosa alla ecclesia cristiana. La Chiesa di Reggio Emilia tra antichi e nuovi regimi,
vol. II, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 954-956.
27
Si veda l’articolo Le feste cinquantenarie, in «l’Azione Cattolica», 2 aprile 1911.
28
Benché la data ufficiale di nascita dello Stato italiano sia il 17 marzo, si preferì festeggiare il
cinquantenario il 27 dello stesso mese, giorno in cui Roma fu proclamata capitale del Regno.
22
aperti dal discorso del professor Giuseppe Ferrari e dalla inaugurazione di una
lapide commemorativa dedicata al «padre della patria», la cui iscrizione viene
realizzata dal noto intellettuale Naborre Campanini. Banchetti, danze e concerti continuano le celebrazioni nei giorni successivi.
In occasione del primo dei tre anniversari principali, è invece l’associazione
irredentista «Trento-Trieste» a prendere l’iniziativa29, organizzando una commemorazione al teatro Municipale per il 20 giugno e offrendo al sindaco Roversi
la carica di Presidente del comitato d’onore. Il Comune, pur senza dare una
risposta chiara all’offerta, si pone nei primi giorni in una posizione di moderato sostegno all’iniziativa. Questo atteggiamento benevolo trova le sue ragioni,
in primo luogo, nel fatto che la sezione reggiana dell’Associazione «Trento
Trieste» non si caratterizza, nei suoi primi anni di vita, per una visione aggressivamente nazionalista, ma si limita a propugnare una difesa dell’italianità nelle
terre irredente attraverso un’azione di sostegno materiale e di riconoscimento
dei diritti delle minoranze italiane30; in secondo luogo, nel fatto che l’oratore
Giovanni Bertacchi fosse notoriamente di vedute socialiste. Dopo il congresso socialista di domenica 13 giugno, però, la posizione del Comune muta in
aperto rifiuto e la giunta decide di non mescolarsi con un’associazione che
nell’immaginario collettivo rinvia ad un aggressivo irredentismo31. Non è da
escludere che dietro a questa scelta intransigente, «esempio unico forse in Italia»32, si nasconda il tentativo della federazione reggiana di rispondere con un
gesto forte alle critiche che, negli stessi giorni, la sinistra del partito socialista
italiano sta muovendo alla sua linea moderata33.
Priva di un appoggio concreto da parte delle istituzioni locali e del partito
socialista, la commemorazione viene supportata dall’area liberale e in particolare dal «Corriere di Reggio», che per l’occasione prepara un numero straordinario dedicato al Risorgimento34. Viste queste premesse, è comprensibile come
a teatro accorra sì un pubblico numeroso, ma di estrazione per lo più borghese
e altolocata35: sono presenti, fra gli altri, il senatore Ulderico Levi, il prefetto
Gargiulo, il presidente della giunta provinciale Igino Bacchi Andreoli, e intellettuali come Campanini. Non mancano tuttavia anche alcuni socialisti, giunti
a titolo personale: Alberto Borciani, Alessandro Cocchi, Adelmo Sichel, Pietro
Petrazzani e gli assessori Mazzoli, Ferretti e Bisi36. La loro presenza dimostra
29
Per commemorare il 59, in «Corriere di Reggio», 14 giugno 1909.
FERRABOSCHI, La nazione nella patria del «socialismo integrale», cit., pp. 39-42.
31
La festa patriottica promossa dalla «Trento-Trieste» e il Comune, in «La Giustizia», 16 giugno
1909.
32
Per la commemorazione del 59, in «Corriere di Reggio», 17 giugno 1909.
33
Così sostiene il «Corriere di Reggio», in Per la commemorazione del 59, in «Corriere di Reggio»,
17 giugno 1909.
34
«Corriere di Reggio», numero straordinario, 20 giugno 1911.
35
La commemorazione patriottica di ieri, in «La Giustizia», 21 giugno 1909.
36
Intervenuti e rappresentanze, in «Corriere di Reggio», 22 giugno 1909.
30
23
l’esistenza di un dissenso interno al partito reggiano in merito alla questione
del patriottismo e prefigura l’abbandono, da parte di alcuni di essi negli anni
successivi, del PSI. Questa eterogeneità di pensiero offre ai liberali un’occasione per tentare di dividere gli avversari e contestare le scelte del Comune.
Non è infatti un caso che, tra le frasi stampate su volantini tricolore distribuiti
durante la celebrazione, compaia anche la dichiarazione di un rappresentante
della Camera del lavoro, Giuseppe Soglia, in cui si afferma che «l’esser socialisti non fa ci fa dimenticare d’essere italiani»37.
Un pubblico così composto non può che accogliere freddamente il discorso di Bertacchi, se non per alcune evocazioni retoriche di patrioti e per
qualche accenno irredentista. Molto vicino al pensiero socialista, il poeta insiste, infatti, sulla necessità di continuare le lotte militari del Risorgimento sotto
altra forma, quella del lavoro, dell’arte e del progresso civile38. Durante il resto
della giornata sono gli studenti a fare da protagonisti: sfilano per le strade del
centro cittadino, depositano corone di fiori presso le lapidi dell’albergo Posta,
dell’atrio municipale e di piazza Gioberti, e festeggiano gli ultimi superstiti
delle guerre d’indipendenza39.
In confronto alle celebrazioni tenute nelle altre città, quella di Reggio appare molto misera. Persino un giornale liberale come «L’Italia Centrale» deve
ammettere che «la manifestazione di Reggio Emilia fu di cento cubiti inferiore
all’altezza dell’avvenimento che si commemorava ed a quanto fecero altre città. Una conferenza, poche bandiere alle finestre... e niente altro!»40.
Anche per la festa dello Statuto del 4 giugno 1911, mentre a Roma si svolge
la solenne cerimonia di inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele
II, a Reggio il Comune, a causa dello stretto legame tra la festa e la dinastia
sabauda, si limita soltanto a esporre la bandiera negli edifici pubblici. In questa circostanza è la comunità ebraica locale a farsi carico dell’organizzazione
di una commemorazione pubblica nella propria sinagoga, che per l’occasione
viene illuminata e addobbata sfarzosamente. Qui il rabbino Angelo Sacerdoti commemora il cinquantenario con un discorso estremamente patriottico.
L’assunzione dell’onere della celebrazione di un simile evento rivela la piena
lealtà e riconoscimento, da parte degli ebrei reggiani, dello Stato italiano, la cui
nascita ne ha d’altra parte sancito l’emancipazione. Il rabbino insiste, infatti,
particolarmente su questo punto dichiarando come «in questa terra sacra l’antisemitismo è solo del passato, oppure esso è solo prerogativa di pochi fanatici»41. Durante la serata, mentre e le caserme numerosi uffici pubblici vengono
37
38
39
40
41
24
Il testo dei manifestini lanciati domenica, in «Corriere di Reggio», 23 giugno 1909.
La commemorazione patriottica di ieri, in «La Giustizia», 21 giugno 1909.
La commemorazione del 1859, in «Corriere di Reggio», 21 giugno 1909.
La commemorazione di ieri a Reggio Emilia, in «L’Italia Centrale», 21 giugno 1909.
La festa dello Statuto a Reggio, in «L’Italia Centrale», 5 giugno 1911.
illuminati, si svolge poi un corteo. La banda del 66° corpo di fanteria suona in
piazza Cavour la marcia reale, l’inno di Garibaldi e diversi altri inni patriottici.
I più attivi sono sempre gli studenti, i quali, terminata l’esecuzione musicale,
accompagnano la banda fino in caserma, per poi recarsi a rendere onore alle
lapidi dedicate a Umberto I e Garibaldi42.
Se per gli anniversari che abbiamo descritto finora il Comune e le organizzazioni socialiste si sono limitate a non partecipare alle celebrazioni, decisamente più provocatorio è il loro atteggiamento nei confronti della festività
centrale di questi anni, cioè il cinquantenario dell’unificazione del 27 marzo.
La segreteria nazionale del partito socialista, in accordo con la Confederazione
generale del lavoro, invita, infatti, le proprie sezioni locali a organizzare per il
giorno precedente una serie di comizi contro il carovita, le spese militari e a
favore del suffragio universale43. È naturale che a Reggio, dove i socialisti hanno un grande seguito e controllano le istituzioni locali, questi comizi richiamino una grande partecipazione e occultino quelli organizzati per il giorno
successivo44. Il sindaco Roversi, pur senza appoggiare materialmente i comizi,
si schiera nel consiglio comunale del 24 marzo contro la «festa del mondo
ufficiale», che «vuole esaltare l’odierno ordinamento così irto d’ingiustizie e di
privilegi», e a favore della manifestazione del 26, che «dalle fastose giornate
della rivoluzione patria vuol trarre l’incitamento a non indugiare sulle glorie
passate ma a procedere con sempre maggior fede ed energia a più umane
conquiste»45.
Le celebrazioni del giorno 27 appaiono di conseguenza ancora più misere
di quelle che abbiamo visto finora, limitandosi alle celebrazioni realizzate in
forma privata dai corpi dell’esercito e a cortei spontanei di soldati, studenti e
reduci in città. Le celebrazioni cittadine hanno inizio nel tardo pomeriggio in
piazza Vittorio Emanuele II (l’attuale piazza Prampolini), dove la banda del
66° fanteria suona la marcia reale, l’Inno di Mameli e l’inno di Garibaldi, di
fronte a un pubblico composto prevalentemente da studenti. Questi ultimi
sfilano poi insieme alla banda per le strade del centro storico, facendo tappa
sulle lapidi di Garibaldi e Umberto I.
In serata alcuni edifici – caserme, edifici municipali, alcune case private,
il Casino e la redazione del «Corriere di Reggio» – vengono addobbati con
42
Ibidem.
Per il 26 marzo, in «La Giustizia», 18 marzo 1911.
44
I comizi si svolgono: a Reggio Emilia, con oratori Nino Mazzoni e Guido Albertelli; a Sant’Ilario,
con oratore Massimo Samoggia; a Cadelbosco di Sotto, con oratore Guido Raise; Brescello, con
oratore Francesco Panizzi; Guastalla, con oratori Nino Mazzoni, Adelmo Sichel e Arturo Bellelli;
Scandiano, con oratore Giovanni Zibordi; Montecavolo, Ferdinando Laghi; San Polo, Francesco
Laghi; Felina, Nico Gasparini. Per maggiori informazioni si veda La solenne manifestazione di
Reggio socialista, in «La Giustizia», 27 marzo 1911.
45
La seduta del Consiglio Comunale di ieri sera, in «La Giustizia», 25 marzo 1911.
43
25
luminarie. La commemorazione continua di fronte al politeama Ariosto, dove
la banda suona i soliti inni prima dell’inizio dell’opera, e si conclude in tarda
serata con lo spontaneo pellegrinaggio di un gruppo di cittadini, formato prevalentemente da studenti, verso la lapide di Garibaldi in piazza del Monte46.
Reggio e Piacenza: due realtà a confronto
Per comprendere appieno quanto siano state misere queste celebrazioni,
risulta utile un confronto con quelle svoltesi in realtà simili per dimensioni e
per importanza. A Piacenza47, ad esempio, l’amministrazione comunale si comporta in modo completamente differente da quella reggiana, organizzando in
prima persona eventi e deliberando erogazioni in favore delle celebrazioni nazionali. Il 2 aprile 1910 il Consiglio comunale piacentino delibera di concorrere
con cinquanta lire «ad innalzare in Marsala il monumento nazionale che attesti
il leggendario sbarco dei Mille», mentre la locale Deputazione di storia provinciale ne elargisce altre cento. L’Amministrazione rende poi onore ai concittadini illustri che contribuirono all’Unità d’Italia con l’erezione di monumenti: a
Pietro Gioia, protagonista dei moti risorgimentali locali e nazionali, è dedicata,
sulla facciata di quella che fu la sua casa, una lapide commemorativa48.
La partecipazione del Comune permette poi la realizzazione di una cerimonia ufficiale decisamente più solenne e maestosa. Questa si svolge domenica
26, mentre a Reggio hanno luogo i comizi socialisti. La manifestazione inizia in
mattinata, con il ritrovo di tutte le associazioni partecipanti e di un gran numero di cittadini sotto i portici del Palazzo municipale. Quando lo spazio è ormai
saturo di folla e bandiere, dallo scalone del Palazzo alcuni addetti fanno scendere lo storico gonfalone, accolto dagli applausi e dall’inno di Mameli suonato
dalla banda cittadina. Alle 10 suona la campana del Comune; alle spalle del
gonfalone arriva la Giunta al completo, il rappresentante del Sindaco, assente
quel giorno dalla città, il Presidente del Consiglio provinciale e il rappresentante del prefetto, che aveva già dichiarato per il 27 marzo la chiusura di tutte
le scuole elementari e governative. La folla dei manifestanti porta il gonfalone
in corteo, compiendo un giro della città e stazionando presso i monumenti e
le lapidi commemorative dedicate ai quattro principali eroi del Risorgimento:
46
Per un resoconto dettagliato delle celebrazioni si vedano gli articoli: Corriere cittadino, in
«Corriere di Reggio», 28 marzo 1911; Il cinquantenario della liberazione d’Italia a Reggio, in «La
Giustizia», 28 marzo 1911; Corriere cittadino, in «L’Italia centrale», 28 marzo 1911.
47
Per le celebrazioni nel piacentino si veda:
http://www.archiviodistatopiacenza.beniculturali.it/opencms/opencms/it/contenuti/manifestazioni/
eventi/Articolo_554.html?pagename=137
48
http://www.archiviodistatopiacenza.beniculturali.it/opencms/multimedia/documents/1294665575211_
lapidegioiafilli.pdf
26
Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini e Cavour. Dopodiché i manifestanti si
rimettono in moto per riguadagnare il palazzo del Comune, dove pochi fortunati riescono a entrare nel Salone monumentale per ascoltare il discorso di
chiusura del senatore piacentino Tassi.
La distanza tra i festeggiamenti nelle due città – chiara conseguenza del
diverso atteggiamento tenuto dalle amministrazioni comunali, ma anche del
differente seguito che il partito socialista conta nelle due aree – è dunque
notevole. La Reggio socialista non perde quindi occasione in queste feste per
rimarcare la propria particolarità sia rispetto alla realtà nazionale che relativamente alle province limitrofe, ponendosi in una posizione di aperta contestazione allo Stato liberale e alle sue celebrazioni ufficiali. Che il comportamento
della amministrazione reggiana rappresenti un caso eccezionale nel panorama
italiano è tuttavia difficile da stabilire in assenza di una comparazione complessiva dei festeggiamenti locali.
27
1859. La fuga del duca estense
«An vin piô!». I reggiani
in alcuni eventi per l’Unità d’Italia
Michele Bellelli
Nel centocinquantesimo anniversario dell’unificazione italiana molti sono
gli eventi e i personaggi che andrebbero nuovamente ricordati per il loro ruolo
svolto nel Risorgimento.
Nella provincia di Reggio Emilia viene giustamente dato risalto alla nascita
del primo Tricolore nel 1797 e agli eventi che hanno portato alla nascita della
repubblica reggiana, evolutasi poi in cispadana, cisalpina e italiana negli anni
dell’epopea napoleonica.
Il cavriaghese Andrea Rivasi, caduto nel fatto d’arme di Montechiarugolo, è
considerato il primo italiano morto per il Risorgimento della penisola.
Altri fatti e personaggi sono purtroppo oggi quasi dimenticati, cito ad esempio don Giuseppe Andreoli1, giustiziato nel 1822 per volontà del duca Francesco IV per essere stato un carbonaro, dopo un processo svoltosi nel forte di
Rubiera. Pochi sanno che la caserma Zucchi, oggi sede universitaria, è intitolata al generale Carlo Zucchi che combatté le prime battaglie del Risorgimento e
che fu nominato da Napoleone Bonaparte barone dell’impero francese.
Molti sono poi i reggiani che a più riprese servirono come Camicie rosse
sotto l’eroe dei «due mondi» Giuseppe Garibaldi.
Istoreco sta in questi mesi realizzando, a cura di Giovanni Fontanesi e
Fabrizio Solieri, un database dei reggiani benemeriti del Risorgimento, comprendente alcune migliaia di nomi di chi si distinse a vario titolo nell’opera di
unificazione nazionale.
1
Per una carrellata di 100 anni di storia reggiana si veda la mostra «Reggio Emilia dal Ducato
all’alba del Novecento. Una mostra pensata e realizzata per i 150 anni dell’Unità d’Italia»
consultabile solo sul sito di Istoreco www.istoreco.re.it
28
Fra i dati già disponibili vi sono quelli di alcune decine di concittadini caduti nei moti carbonari o nelle guerre d’indipendenza. In questo elenco spiccano
i nomi di chi partecipò alla spedizione dei Mille nel 1860 e alla campagna che
culminò con la proclamazione del Regno d’Italia l’anno successivo.
Ecco allora Giuseppe Camellini, nato a Mancasale nel 1834 e morto a Genova nel 1902, Massimiliano Costetti, Antonio Ottavi nato a Reggio Emilia nel
1831 e Rainero Taddei nato nel 1827 entrambi ufficiali morti nella seconda
battaglia di Custoza del 1866. Eugenio Ravà nato a Reggio Emilia nel 1840 e
deceduto a Salsomaggiore nel 1901, Filippo Riccioni nato a Pastina di Bagnone
nel 1836 e deceduto a Ligonchio nel 1912.
Altri nomi che si possono ricordare sono quelli del colonnello Enrico Guastalla, nato nell’omonimo comune nel 1826 e deceduto a Milano nel 1903,
comandante dei volontari nella terza guerra di indipendenza.
E ancora: come non citare i fratelli Lupazzi di Rolo (Anastasio, Giuseppe e
Pellegrino) caduti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro durante la disperata ed eroica difesa della Repubblica romana fra l’11 e il 18 giugno 1849. Un’altra famiglia interamente dedita alla causa dell’indipendenza italiana fu quella
dei Ferrari: Vincenzo, Prospero, Giulio, Lodovico, Battista, Antonio e Filippo.
Ufficiali e volontari in tutte le campagne risorgimentali con Giulio morto nella
battaglia di Novara e gli altri feriti o decorati (Vincenzo divenne anche ambasciatore d’Italia presso il Negus d’Etiopia).
Secondo i dati raccolti da Istoreco i reggiani caduti per l’unità italiana sono
quarantatré. Dopo Rivasi e don Andreoli fu Aldo Strucchi a morire durante i
moti del 1831, seguito da quattro caduti nelle campagne del 1848-49, ben ventuno nella seconda guerra di indipendenza (quasi tutti nelle famose battaglie
di San Martino e Solferino), altri due perirono nella battaglia del Volturno del
1860, ancora dieci sono i morti nella guerra del 1866 (inclusa la medaglia d’oro
alla memoria del maggiore Giulio Fiastri, caduto nella repressione dei moti di
Palermo), ancora due reggiani decedettero l’anno successivo nella battaglia
di Mentana. L’ultimo in ordine di tempo è stato il rubierese Natale Bonezzi,
sergente dei cavalleggeri di Novara, caduto nella campagna per la liberazione
di Roma il 14 settembre 1870.
I dati sui caduti e decorati sono consultabili presso gli Albi della memoria
sul sito web di Istoreco.
In occasione del centenario dell’Unità d’Italia, il Comune e la Provincia di
Reggio Emilia pubblicarono un numero unico di una rivista creata appositamente dal comitato reggiano per le celebrazioni. Intitolata «Il 1859 a Reggio» la
rivista ricordava vari aspetti della storia cittadina negli anni del Risorgimento.
Fra gli altri un compendio, a cura di Odoardo Rombaldi, degli eventi fra il 1789
e il 1859 nel quale vennero ricordate le figure di Nicomede Bianchi, segretario
del Governo provvisorio del 1848 e poi esule in Piemonte e di Luigi Chiesi che
divenne ministro della Giustizia sotto la dittatura di Luigi Carlo Farini.
Alcuni articoli ricordavano gli eventi dell’anno che diede il nome al foglio.
29
Si ricordava che il territorio reggiano aveva già dato alcuni manifesti segni di
intolleranza verso l’amministrazione ducale modenese. Negli strati medio e
piccolo borghesi i sentimenti avversi al duca e favorevoli all’Italia erano alquanto manifesti, mentre nelle campagne
la popolazione agricola, costretta, per la maggior parte nell’analfabetismo e
nell’oscurantismo, si mantenne piuttosto refrattaria, salve alcune eccezioni. I contadini seguivano come guide, oltre che spirituali, anche politiche, i parroci i quali,
nella maggioranza, erano, per complesse regioni, conservatori… La guida del movimento patriottico era saldamente tenuta dai liberali di tendenza moderata, come
Prospero Viani, Bernardo Catalani, l’avv. Enrico Terrachini…
Il periodo decisivo per il definitivo tramonto dello Stato estense iniziò nel
mese di aprile quando da Modena arrivò un reparto militare per presidiare una
città che dava sempre più manifesti segni di insofferenza politica. Il 3 maggio
1859, come ci ricordava la suddetta rivista, il comandante dei Dragoni assunse
tutti i poteri di polizia, mentre contemporaneamente molti reggiani si davano
alla macchia per raggiungere Stradella, dove si andava radunando l’esercito
sardo in vista della guerra con l’Austria.
Attorno alla metà di giugno, in maniera incruenta, la città di Reggio Emilia
si sbarazzava definitivamente del dominio estense.
Ecco la cronaca di quei giorni come venne riportata cento anni più tardi:
11 giugno 1859 – All’alba, il Conte Carlo Ritorni, podestà di Reggio, telegrafa al ministero dell’Interno per avere istruzioni, data la gravità della situazione. Indi prende
alcuni provvedimenti per cercare di conciliarsi il favore di almeno una parte dei
liberali. Convoca pertanto i Conservatori (reggitori del comune), invitando a partecipare alla riunione anche 26 cittadini di moderato liberalismo. Libera quindi tre
detenuti politici e apre i ruoli della Guardia urbana. Cadono tuttavia i suoi tentativi
di approccio verso le forze liberali. Infatti, alla riunione i liberali invitati non si presentano, mentre pochissimi cittadini si arruolano nella Guardia urbana. Il Ritorni
e i conservatori, vista la piega che prendono le cose, presentano le dimissioni alla
Reggenza, la quale però le respinge.
12 giugno – Le ultime soldatesche austroestensi abbandonano il Ducato. Alle ore
15 la popolazione si riversa in Piazza Grande, applaudendo esultante all’arrivo di
un gruppo di patrioti che avanza con una bandiera tricolore. Le grida filtrano anche nella sala del Municipio ove sono adunati il Podestà e i Conservatori. “Pare sia
giunto il momento di andarsene!”, esclama costernato e prudente il conte Ritorni, il
quale con i colleghi, se la svigna infilando la scala che sbuca sotto il voltone della
Frumentaria. Alcuni cittadini irrompono quindi nel palazzo comunale, e l’avvocato
Agostino Sforza, fattosi sul balcone, adorno di due bandiere e del busto di Vittorio
Emanuele II, incita la folla plaudente a rinnovare il patto di annessione, del 30
maggio 1849, al Piemonte. In attesa del Commissario sardo viene istituito un Comitato governativo provvisorio.
30
13 giugno – Viene riorganizzata la Guardia civica. Gli stemmi estensi sono ovunque
abbattuti. Un ragazzo sedicenne, Napoleone Catelani, pianta il Tricolore sul fortino
di S. Marco.
14 giugno – Centottanta soldati piemontesi, al comando del generale Robotti, provenienti da Castelnuovo Monti, si approssimano alla città. Numerosi cittadini, con
bandiere e coccarde, si fanno loro incontro, a Rivalta, accogliendoli festosamente.
Nello stemma del Comune viene rimessa la gloriosa sigla SPQR.
I concittadini Chiesi, Viani e Bolognini partono per Torino per annunziare a quel
Governo la dedizione dei reggiani alla causa dell’unità d’Italia2.
Il grido di «An vin piô!» in riferimento al duca fuggiasco, corre di bocca in
bocca. Ha inizio una nuova vita democratica con l’accendersi delle discussioni
fra moderati e mazziniani che preludono a più ampie e profonde battaglie
democratiche, le quali faranno di Reggio Emilia uno dei centri della penisola
più avanzati e aperti alle idee nuove.
Appena ventiquattro ore dopo il volontario garibaldino Venerio Benati cadeva nella battaglia dei Tre Ponti, presso Castenedolo (BS), quando i Cacciatori al comando di Giuseppe Garibaldi tentarono senza successo di impedire
agli austriaci di ritirarsi verso il famoso quadrilatero3.
2
Cronache della liberazione in «Il 1859 a Reggio».
Si trattava di una sistema difensivo austriaco composto dalle città fortificate di Mantova,
Verona, Peschiera del Garda e Legnago. Già nei giorni precedenti altri due reggiani erano
morti nelle prime fasi della seconda guerra d’indipendenza: Felice Bologna il 31 maggio a
Confienza (medaglia d’argento al valor militare alla memoria) e Giuseppe Manganelli, deceduto
il medesimo giorno nella battaglia di Palestro (PV).
3
31
Memorie
Testimonianze
Michael Lees, Special operation executed
Nel paradiso dei folli, un ufficiale di
Sua Maestà sulle montagne reggiane
seconda parte
a cura di Massimo Storchi
Pubblichiamo i capitoli 17-Sizing up Botteghe/Albinea e il capitolo 18-The
grand Finale.
Capitolo 17
Per farsi un’idea di Botteghe/Abinea1
Qualche giorno dopo il nemico mise alla prova il nostro nuovo sistema
difensivo. Fu un fallimento completo per lui e un trionfo per la 26ª Brigata.
Sentendo colpi d’arma da fuoco all’alba giù lungo il fiume corsi a Costabona
da Carlo, visto che mi avevano detto che le sue truppe erano impegnate dal
nemico. Ero appena a mezza strada quando una staffetta a cavallo arrivò con
un messaggio delle Fiamme verdi che informava che due compagnie di un
battaglione della polizia fascista si erano mossi da Castelnovo per attraversare
il Secchia. Il messaggio era tranquillizzante visto che non richiedeva assistenza. Stavo per tornare a Secchio quando mi venne in mente che quella poteva
essere una buona occasione per fortificare il morale dei partigiani e dare una
lezione ai fascisti. Corsi allora verso Minozzo, mentre il fuoco era ancora intenso lungo il fiume, dove arrivai dopo una quarantina di minuti. Lì trovai Luigi,
un po’ incerto sul da farsi: visto che non c’erano altre segnalazioni di attacchi
era quasi sicuro che quello era un tentativo di provare la nostra forza. Ci conveniva quindi dimostrare una capacità militare notevole così ci lasciassero un
po’ in pace a preparare i nostri piani.
1
Traduzione a cura di Massimo Storchi. La prima parte è stata pubblicata su «RS-Ricerche
Storiche» n. 110/2010, pp. 18-43.
33
Così ordinai a Luigi di muoversi con tutti i suoi uomini e di attraversare il
fiume fra Castelnovo e la posizione dove erano arrivati i fascisti. Questo voleva
dire marciare quasi allo scoperto, ma considerato come il nemico non avesse quasi certamente truppe in retroguardia, la cosa non sarebbe stata troppo
pericolosa. Una volta in posizione, Luigi avrebbe dovuto tagliare la ritirata ai
fascisti colpendo duramente la loro formazione.
Una volta partiti, mi precipitai lungo il fiume per essere certo che le Fiamme
verdi tenessero le loro posizioni, cosa che era la premessa indispensabile alla
riuscita del piano. Quando arrivai le cose erano a un punto morto. Il nemico
che si era schierato sull’altro capo del fiume, tirava coi mortai e le mitragliatrici
ma senza grossi risultati. Ogni volta che uscivano allo scoperto per guadare
il fiume dovevano ritirarsi per il fuoco delle Fiamme verdi appostate sull’altra
riva. Temevo che Luigi non facesse in tempo a chiudere la ritirata prima che
i fascisti chiedessero rinforzi a Castelnovo. Così dissi a Carlo di inscenare una
finta ritirata. Dalle postazioni di una mezza dozzina di uomini si ritirarono un
uomo su due, facendosi ben vedere dal nemico che, incoraggiato dall’accaduto, aumentò il volume di fuoco facendo un nuovo tentativo di passare, ma
appena il primo fascista stava per attraversare, sentimmo il rumore che aspettavamo: raffiche di mitragliatrice a valle. La Brigata nera combattè bene ma la
cosa finì dopo un paio d’ore con un lancio di granate dei garibaldini che zittì
la loro resistenza. Sapevano bene, come noi, che i partigiani non prendevano
prigionieri. Gli attaccanti erano oltre duecento, quelli che fuggirono poco più
di cinquanta.
Phil Butler fu paracadutato per avvicendare il mio interprete e così inviai
Lizza alla missione inglese. Butler, che aveva insegnato in Svizzera prima della
guerra, aveva imparato l’italiano andandosene in giro per le montagne in vacanza. Era poi stato fino a poco prima caporale dell’Intelligence corps e conosceva bene il lavoro di controspionaggio. A parte le sue conoscenze specifiche
sarebbe stato utile per contrastare l’intelligence tedesca.
Phil aveva modi tranquilli ed educati ed era un buon compagno per le
lunghe marce quotidiane che ci facevamo insieme. Era forte come un mulo
e questo era un vantaggio per me che andavo di buon passo e odiavo dover
aspettare un compagno più lento.
C’erano state complicazioni a ritardare il lancio dei parà e considerato che
in quella fase sembrava che forse non sarebbero mai arrivati, decisi di occupare il tempo andando a dare un’occhiata all’obiettivo di Botteghe, così colsi
anche l’occasione per rivedere Gordon [Glauco Monducci] che si era trasferito
sulle colline per tendere imboscate notturne ai convogli sulla via Emilia fra
Reggio e Bologna.
Aspettavo un altro ufficiale che mi affiancasse ma, visto che i lanci erano legati alle condizioni del tempo, decisi di lasciare a Farrimond, di cui mi fidavo,
gran parte delle ultime sue soddisfazioni, Phil invece sarebbe venuto con me
e, visto che dovevamo uscire dalla zona partigiana, avremmo dovuto trovare
34
abiti civili. Questo era il solito problema insolubile e alla fine mi rassegnai a
mettermi un paio di calzoni tarmati da contadino e un mantello che copriva
la mia uniforme.
Tenendo due STEN silenziati sotto ai mantelli il mattino presto io e Phil partimmo accompagnati da un civile che lavorava per i partigiani nelle zone di
collina. Marciando per sentieri e carraie evitando le strade era un viaggetto di
quasi trenta miglia per arrivare a destinazione dove poter dormire, un villaggio
che si chiamava Viano in una vallata circa a un miglio dal limite della pianura. Raggiungendo le prime case del paese verso mezzanotte trovammo una
larga strada di traffico e strisciammo lungo di essa, facendo attenzione perché
spesso le pattuglie tedesche si acquartieravano lì per la notte. La nostra guida
ci portò a casa di un agente di Kiss [Giulio Davoli]. Era una costruzione ampia
e moderna poco distante dalle altre case. Non c’erano luci dietro le imposte
e, dopo aver girato attorno, non sentimmo nessun rumore venire da dentro.
Mentre ce ne stavamo nascosti dietro un angolo, la guida suonò il campanello,
con un segnale concordato, e pochi minuti dopo una voce dalla finestra in
alto chiese:
«Chi siete?».
«Partigiani», rispose la guida.
«Cosa volete?».
«Passar qui la notte».
«Andatevene via. Non c’entriamo coi partigiani, e ci sono stati i tedeschi in
paese oggi, possono tornare».
Le cose si stavano mettendo male. Prima che potesse chiudere la finestra,
uscii dall’ombra:
«Sono il capitano inglese, aprite!».
Dopo tutto quel tizio lavorava per me e la mia voce suggeriva che senza
alloggio non ci sarebbe stata nessuna ricompensa. La finestra sbattè subito!
Due minuti dopo la porta si aprì e noi scivolammo dentro.
L’agente era un tipo abbastanza di bell’aspetto e dopo essersi scusato
dell’iniziale passo falso si mise a nostra disposizione. Fui sorpreso dall’eleganza della casa e dei mobili, un arredamento davvero di lusso e di buon gusto.
Una banda di servitori, tutti in uniforme, ci preparò e ci servì una buona cena.
Il nostro ospite, per quanto cercasse di essere ospitale, era ovviamente preoccupato delle conseguenze che avrebbe dovuto subire se la nostra visita fosse
stata scoperta, io invece ero più tranquillo perché solo la nostra guida sapeva
della nostra presenza e io avevo fatto di tutto per lasciarla segreta.
Un’ora dopo eravamo già a letto in una stanza comodissima al primo piano.
Stavo per aprire la finestra quando sentii un mormorio dai cespugli in basso,
dissi a Phil di chiedere chi fosse. Visto che nessuno rispondeva, chiese ancora
e io tolsi la sicura dal mio STEN.
«Rispondi subito!».
Da basso venne un sussurro: «Sono io, il vostro ospite!».
35
Messo in sospetto lo feci venire in vista e gli chiesi che diavolo stesse facendo, come mi rispose mi convinse che non stava mentendo.
«Avevo paura di dormire in casa insieme a voi, se fossero arrivati i fascisti
all’alba...».
«Dove stai andando? Sta’ attento che ti conosciamo e se ci tradisci sei morto».
Sembrava sgomento all’idea di poterci tradire.
«No, no, no sto andando in una casa nel bosco», aggiunse disperato.
Presi contatto con Gordon il mattino dopo. Stava nascosto coi suoi uomini
in una valletta nei boschi, a circa un chilometro dal villaggio. Avevano attaccato un camion la notte prima e danneggiato un carro armato che era passato sopra una mina messa da loro. Uno dei suoi uomini non era tornato ma Gordon
era convinto che fosse ferito leggermente e che si fosse nascosto in pianura.
Gordon era in contatto con il movimento clandestino. Rimasi con lui dentro la valletta di giorno mentre spedimmo una staffetta, che aveva documenti
fascisti e poteva muoversi, per far venire i vari capi a un incontro. Quando
arrivarono verso mezzogiorno li interrogai sulla loro attività e sulla posizione
delle truppe nemiche a Botteghe in particolare. Sebbene per timore di rappresaglie i loro uomini stessero facendo poco, costituivano un buon potenziale
come guide e agenti per recuperare cibo e per favorire le azioni di sabotaggio
che volevamo portare giù dalle montagne. Potevano dirmi non molto di più
di quanto già non sapessi su Botteghe. Senza dir niente dei miei piani chiesi
loro della possibilità di avere più informazioni sui luoghi e dopo qualche obiezione, un giovane si offri volontario di portarci quella notte in un luogo dove
potessimo vedere da vicino la villa.
Presi con me Gordon e Giorgio, uno dei disertori tedeschi, e, appena buio,
seguendo un sentiero tortuoso verso nord, arrivammo dopo tre ore sul posto,
una fattoria desolata che stava su una collinetta affacciata sulla pianura. Era
fuori dai sentieri battuti anche se intorno giravano strade da tutte le parti. Perchè non trapelassero segni della nostra identità Gordon si avvicinò a parlare
col contadino mentre io e Phil restammo indietro. Così egli fece con precisione informando l’uomo di cosa sarebbe potuto accadergli se non avesse
fatto esattamente quello che desideravamo. Il disgraziato fu informato che era
nostra intenzione restar lì quella notte e il giorno seguente e che né lui né
nessun altro della sua famiglia dovevano muoversi da lì per nessuna ragione
al mondo. Così mentre Gordon e Giorgio si divisero i turni di guardia io e
Phil andammo nel fienile a dormire. La mattina seguente era bella e limpida.
Una leggera foschia saliva dalla terra ma in un ora il sole la spazzò via. Ce ne
stavamo sulla collina a guardare verso la pianura che si stendeva fino al Po.
Dieci miglia a nord le torri bianche di Reggio luccicavano nella foschia luminosa, un convoglio si muoveva verso Modena sulla via Emilia come una fila
di formiche in corteo.
Con le carte spiegate davanti cercavo di capire dove fossero i vari centri
36
della campagna attraverso le lenti del mio binocolo. Quel centro allargato a
destra lungo un torrente era Scandiano. Più vicino, una villa isolata di mattoni
rossi, Villa Spadoni. Ma cos’era il paesino sulla sinistra, lì sotto, proprio quattro case intorno a un incrocio e a circa trecento yarde due case larghe, la più
vicina di mattoni rossi? Quella doveva essere Botteghe.
Chiamai la guida per aver conferma, chiesi quasi distrattamente:
«È quella Botteghe?».
«Sì, signore, e quella è Villa Rossi». E indicò una larga costruzione di mattoni.
«Dicono che ci stia un generale là», aggiunse.
Mi feci un’idea accurata del posto: i due edifici, il boschetto dietro – poteva
essere un buon passaggio se non fosse stato minato – la strada all’incrocio,
probabilmente dove stava il corpo di guardia. Potevo vedere attraverso le lenti
qualche segno di attività ma non voleva dire molto, erano solo le sette del
mattino e non avevano ancora preso servizio tutti gli uomini.
Verso le 8 la strada che fino a quel momento era stata intasata di traffico
militare si svuotò. Il motivo divenne evidente quando, dieci minuti dopo, una
pattuglia di Thunderbolt passarono sulle nostre teste e iniziarono a girare in
tondo cercando un bersaglio. Da quel momento, per tutta la giornata, ci furono aerei alleati di continuo in giro in cerca di obiettivi al suolo. I tedeschi
avevano qualche pezzo antiaereo ma non avevano caccia e regolavano la loro
attività di conseguenza.
Rimanemmo tutto il giorno nel nostro fienile guardando attraverso le fessure. Passavano pattuglie e contadini lungo le strade attorno al nostro nascondiglio ma per fortuna nessuno si avvicinò fino a sera e così ce ne potemmo
andare senza grattacapi. Avevo dovuto abbandonare l’idea di preparare un
agguato all’auto del generale perché le informazioni che avevo raccolto mi
dicevano che il suo percorso era diverso di volta in volta e tornava di sera
sempre a orari diversi.
Forse, qualche volta, non lasciava neppure il comando e se avessimo dovuto aspettare l’occasione giusta, avremmo dovuto perdere troppo tempo,
cosa che non potevo permettermi. Comunque ero soddisfatto per il successo
del nostro viaggetto di ricognizione e sentivo che se avessimo potuto avere a
disposizione i parà avremmo avuto buone chance per organizzare un attacco
frontale.
Lasciammo la fattoria subito dopo il tramonto ringraziando il contadino
dell’ospitalità e della paura che aveva passato per causa nostra. Gordon doveva rimanere nei pressi di Viano ancora per qualche giorno, per azioni di
sabotaggio e cercando di avere qualche informazione in più su Botteghe. Gli
augurai buona fortuna e con Phil presi la strada della montagna per arrivare a
Secchio dodici ore dopo.
Durante la nostra assenza era stata fatta un’incursione, portandoci un ufficiale che mi facesse da secondo in comando. Smith era un tizio robusto del
37
Lancashire, di circa trent’anni. Era già stato in servizio in Jugoslavia, cosicché
avevamo argomenti in comune da discutere che, qualche volta, sotto l’influenza della grappa, finivano in accanite discussioni politiche.
Smith aveva un bel po’ di cattive novità: un messaggio riferiva, infatti, che
i paracadutisti non sarebbero stati lanciati ancora per un po’. Sembrava infatti
che il comando ritenesse che la presenza di parà avrebbe potuto attirarci attacchi nemici col rischio di disperderci e di bloccare tutte le nostre iniziative.
Mi sembrava una fesseria questa idea perché solo io potevo giudicare obiettivamente la situazione e sapevo che il nemico non aveva truppe di riserva
da impegnare in un attacco. Dopo i nostri successi sul Secchia ero certo che
potevamo respingere tutti gli attacchi purché non su grande scala e così inviai
un messaggio molto energico per contrastare la scelta fatta.
Tentare un assalto a Botteghe senza parà poteva essere un rischio troppo
forte. Sapevamo che intorno c’erano più di 500 tedeschi per la difesa del comando e altre truppe con mezzi blindati erano pronte a intervenire a pochi
minuti di strada. Dovevamo contare sulla sorpresa per riuscire nel colpo e la
quantità di uomini da far passare attraverso un territorio nemico doveva essere limitato. Ero certo che fosse un progetto fattibile se avessimo avuto pochi
esperti militari inglesi per rinforzare e incoraggiare i partigiani, ma senza di
essi temevo che non ce l’avremmo fatta.
Mentre stavo valutando la questione, Kiss venne fuori con delle novità su
Botteghe. Aveva avuto informazioni da fonti affidabili che il Generale andava
in chiesa tutte le domeniche per la prima messa alle 8.30 e che non aveva mai
più di due uomini di scorta che salivano in auto con lui e lo aspettavano fuori
durante la messa.
Kiss aveva un’idea che, per quanto diabolica, era di buon senso. Conosceva bene la chiesa e qualche anno prima era stato ospite in canonica che era
situata dall’altro lato della strada di fronte alla chiesa dove doveva passare il
generale. Kiss si sarebbe messo in agguato in quella casa con una pistola con
silenziatore e avrebbe sparato al generale appena sceso dalla macchina.
Visto che il nostro primo piano sembrava bloccato, decisi di lasciargli fare
un tentativo. Non sarebbe stato comunque dannoso e Kiss era fiducioso di
farcela.
Il primo problema era come farlo entrare in quella casa senza attirare l’attenzione. Dopo aver pensato a varie soluzioni decidemmo che avrebbe potuto
travestirsi da prete in viaggio e in cerca di una sistemazione per la notte. Così
sarebbe stato libero di muoversi mentre il parroco diceva messa. A questo
punto mettemmo al corrente don Pedro [don Pietro] e con sorpresa si disse
disposto ad aiutarci e mise il suo guardaroba a disposizione di Kiss, prestandoci anche i suoi documenti che noi avremmo contraffatto per l’occasione. Kiss
lasciò la base il venerdì seguente e sembrava un prete come se sempre avesse
portato la tonaca.
Mentre aspettavamo notizie sulla missione, ci arrivarono due colpi di fortu-
38
na. Un messaggio arrivò il sabato mattina dal Comando che ci informava che
in breve sarebbe arrivato un gruppo di venti parà al comando di un capitano.
La seconda buona notizia era che era stato preso un tedesco dai Garibaldini.
Era un soldato semplice, senza particolari caratteristiche e pensando che non
fosse particolarmente utile lo spedii da Fritz per gli interrogatori di routine. A
pranzo chiesi a Fritz se gli avesse cavato qualcosa di interessante.
Mi rispose distratto: «No, niente. Era in un reparto trasmissioni. Ha detto che
era in servizio in un posto chiamato Botteghe».
Nessuno, a parte Kiss, era al corrente dei nostri piani.
«Dov’è ora?», chiesi.
«L’ho spedito a Febbio al campo prigionieri».
«Temo che dovrai farlo tornare subito. Corri e prega Dio che non sia fuggito!».
Torchiammo quel tedesco tutta notte. Ero pronto a tutto per farlo parlare
ma non ce ne fu bisogno. Era il telefonista personale del Generale a Villa Rossi
a Botteghe. Era un vero colpo che quel tizio fosse finito nelle nostre mani. Era
andato a fare una passeggiata a Viano dove era stato preso da una pattuglia
di garibaldini di ritorno da una imboscata in pianura e non essendo un tizio
bellicoso si era subito arreso.
Quell’uomo sapeva tutto. Ci disse la forza esatta e la dislocazione del corpo
di guardia e la disposizione interna dei comandi e ci diede anche una serie di
informazioni di prima qualità sui futuri movimenti nemici che aveva ascoltato
sulle linee telefoniche.
L’unica cosa che non sapeva con esattezza era il compito preciso del Comando di Botteghe. Il suo indirizzo era comando 451 ma secondo lui il Generale comandava tutte le Divisioni da Bologna al mar Ligure.
Per aver conferma delle informazioni del prigioniero gli chiesi chi fosse il
generale
«Feurstein era lì fino a tre giorni fa», rispose.
«E ora?».
«Il giorno che mi avete preso, Feurstein doveva essere avvicendato dal generale Hauk».
Feurstein era fortunato. Mi chiesi se Hauk fosse stato tanto sfortunato da
essere un devoto cattolico.
Gli aerei arrivarono il giorno dopo, sei Dakota passarono su Secchio in
formazione e girarono un po’ prima di sganciare. Avevo spedito avanti Smith
per organizzare la ricezione del lancio, ma visto che ero ormai libero mi avviai
anch’io per la valle dietro di lui. Gli aerei sganciarono e quando quattro di
essi, ormai vuoti, salirono verso il Cusna, gli altri due puntarono verso il campo e da ognuno di essi saltarono fuori dieci puntini neri appesi ai paracadute
che si gonfiarono subito. Ci volle mezz’ora perché arrivassi al campo. Un paio
di soldati col basco rosso erano già sul sentiero.
Mi avvicinai.
39
«Hallo, felice di vedervi. Tutto a posto?».
Uno, coi gradi di sergente, mi rispose.
«Il capitano è caduto su una casa e s’è rotto un braccio, signore, ma il maggiore è a posto».
«Il maggiore? Quale maggiore?». Il soldato sorrise mentre gli facevo quella
domanda.
«Il maggiore Farran. Signore, non sapevamo neppure che dovesse venire...».
Trovai Smith e Scalabrini col resto dei nuovi arrivati. Smith stava parlando a
un tizio giovane e piccolo con bei capelli e occhi azzurri con la giubba fiorita
di un lunga serie di decorazioni.
«Questo è il maggiore Farran, Mike!».
«Come va. Nessuno mi aveva avvisato del tuo arrivo, ma è perfetto visto che
l’altro s’è fatto male!».
Gli occhi blu ammiccarono.
«Nessuno poteva saperlo – rispose – infatti anche il mio comandante non
voleva darmi l’autorizzazione, ma io ho pensato di salir sull’aereo a vedere i
ragazzi saltare giù. Sai bene come succede, mi sono messo un paracadute in
caso di guai e mentre me ne stavo vicino al portellone qualcuno mi ha fatto
lo sgambetto e, Dio mi benedica, ero già fuori nel vuoto. Beh, un uomo o un
paracadute non possono tornar su, così è capitato a me».
Mi strizzò l’occhio, «E ora andiamo a divertirci!», aggiunse quasi per caso.
Sorrisi, ma prima di potergli rispondere lui continuò.
«Naturalmente non c’è modo di rispedirmi a casa, no? Potrei mettermi a un
lavoro sedentario...».
Gli diedi l’incarico tranquillo che voleva: «C’è un servizio di staffetta e non
abbiamo mai perso un uomo ma è pericoloso, molto pericoloso».
«E saremo liberati presto?».
«Molto presto, spero».
Scoppiammo a ridere e Roy mi strinse la mano.
«Se le cose stanno così dovrei proprio restare. Ora raccontami tutto su
questo posto dove vuoi fare il colpo. Ho proprio voglia di andargli a dare
un’occhiata».
Il giorno dopo ero seduto con don Pedro quando entrò Kiss. Gli si leggeva
in faccia la contrarietà, la sua tonaca era infangata, si lasciò scappare una bestemmia poco consona all’abito.
«Quello non va mai in Chiesa».
Don Pedro si mise a ridere, io mi voltai verso di lui.
«Il generale Hauk deve essere un cattivo cattolico, così si salverà».
«Ah no – disse don Pedro – che aveva un buon senso dell’umorismo. «È
proprio perché il generale Feurstein era un buon cattolico che il destino lo ha
salvato. Il generale Hauk non va in chiesa, è vero» – e si voltò per indicare il
gruppo di parà fuori che pulivano le armi al sole – «ma questo non vuole dire
che si salverà».
40
***
Roy aveva la sua radio personale e si diede subito da fare per richiedere più
uomini e armi per l’azione che avevamo in mente. Gli avevo spiegato il mio
piano d’attacco per Botteghe e anche lui era interessato come me a compiere
l’operazione. Grazie al suo intervento in capo a tre giorni i nostri venti berretti rossi divennero cinquanta, tutti intenti a preparare i mortai, mitragliatori e
anche un cannoncino che ci avevano lanciato. Il nemico ci lasciò lavorare in
pace. Dovevano aver saputo dei parà ma erano consci di non poter far nulla
per snidarci, dopo la lezione che avevano preso sul Secchia due settimane
prima. Quando iniziarono ad arrivare i primi SAS mi misi a pensare qualche
storia da raccontare in giro per non rivelare i nostri veri piani. Dopo un bel
po’ e grazie ad un’appassionata discussione con Roy davanti a una bottiglia
di grappa [italiano nell’originale] ci venne l’idea di sfruttare i contrasti politici
che avevano spesso animato la resistenza. Chiamai Fritz e gli dissi di mettere
in giro la voce che i berretti rossi fossero una delegazione del partito laburista
presso le formazioni comuniste italiane.
Fritz, che si era scolato anche lui la grappa era un po’ brillo quando si mise
ad andare in giro a raccontare quella balla e fu così bravo che il mattino dopo
arrivò Roy raccontandoci che due commissari della Brigata erano venuti a
Secchio per chiedergli se era proprio vero che quel tizio, travestito da ufficiale
responsabile del partito fosse nientemeno che sir Stafford Cripps in persona2.
Il nemico teneva una divisione di truppe russe vicino a Reggio, sia per controllo del territorio che per interventi di fortificazione. Questi russi erano stati
presi durante l’avanzata tedesca in Russia e, attirati con promesse di buone
paghe e trattamenti, si erano arruolati nelle truppe dell’Asse. Erano organizzati
nella cosiddetta Divisione Turkoman [Turkestan] ed erano impiegati per lo
più contro i partigiani. Si comportavano con ferocia: ignoranti e primitivi saccheggiavano, uccidevano, strupravano e bruciavano villaggi solo per il gusto
di farlo.
I partigiani ci riferivano storie atroci di come i loro prigionieri fossero sempre torturati o picchiati a morte. Questi soldati, ora che le cose volgevano al
peggio, disertavano verso le montagne in gran numero. I partigiani erano per
farne fuori la maggior parte ma, sebbene fossero in effetti traditori ed assassini,
2
Sir Richard Stafford Cripps (1889-1952) fu un politico laburista britannico della prima metà
del XX secolo. Fu un sostenitore del socialismo e dei diritti dei lavoratori. Durante la seconda
guerra mondiale, quando Churchill guidava la National coalition, prestò servizio in diversi
dicasteri, tra cui il ministero della Produzione Aerea. Dopo la guerra fu membro del governo
laburista Attlee, come Cancelliere dello Scacchiere (1947-1950). Con questa funzione sostenne la
nazionalizzazione dell’industria pesante. Dal 1940 al 1942, va anche ricordato, fu ambasciatore in
Unione Sovietica, un periodo che comprende sia l’alleanza sovietica con Hitler che il Blitzkrieg
tedesco contro la stessa Unione Sovietica.
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erano comunque russi e quindi alleati. Ero certo, del resto che, finita la guerra,
i loro connazionali li avrebbero giudicati senza pietà, così nel frattempo mi
decisi a farne qualche uso. Avevamo un buon numero di russi, bravi e motivati, che combattevano coi partigiani, compresi tre ufficiali che erano sfuggiti ai
Lager e avevano continuato la loro lotta contro i tedeschi.
A questi uomini fu affidato il compito di reclutare elementi validi fra tutti
quelli che ogni giorno affluivano verso le nostre basi. Tenemmo gli elementi
più anziani che avevano conservato le armi e inviammo gli altri attraverso le
linee. In una settimana costituimmo un gruppo di un centinaio di elementi che
affidai al comando di Roy.
Gordon e i suoi uomini tornarono a Secchio per riposare, dopo qualche
giorno di preparazione eravamo pronti per la grande prova.
Il 21 marzo il Comando ci diede l’autorizzazione a procedere. C’erano stati
un lungo scambio di messaggi in precedenza e noi a Secchio avevamo pianificato l’azione nei dettagli . Era stato deciso che le nostre forze fossero formate
da venti SAS, quaranta russi e quaranta partigiani metà dei quali dal gruppo di
Gordon e metà dai garibaldini. La nostra potenza di fuoco era notevole. Ogni
uomo aveva un arma automatica: venti BREN e ottanta fucili mitragliatori.
Il piano era sostanzialmente di arrivare a Botteghe con dieci uomini più gli
uomini di Gordon e di attaccare Villa Rossi dove, come ci era stato segnalato
risiedeva il generale, lasciando agli altri dieci paracadutisti e ai garibaldini il
compito di attaccare Villa Calvi che aveva funzioni di comando e di accantonamento per il comando. I russi avrebbero dovuto stendere un cordone attorno
alle due ville per evitare interferenze ai nostri piani.
Io avevo passato il comando a Roy ben sapendo della sua maggior esperienza al comando di una forza così numerosa e anche perché ai suoi era
affidato il compito di sostenere l’urto dell’attacco.
«Ma verrai con noi anche tu, Mike?», mi chiese.
«Buon Dio, certamente. Non aspetto altro, oltretutto io ho fatto i sopralluoghi e spero che ti servirà la mia esperienza».
«Cosa farai quando attaccheremo?».
«A dire il vero – gli risposi – vorrei proprio trovare quel generale. Don
Pedro mi ha chiesto di punirlo per non essere andato a messa domenica. Io
andrò con Gordon e i miei ragazzi a Villa Rossi».
Eravamo nello studio di don Pedro, ogni tanto sentivamo scoppi di risa dal
gruppo di Gordon che era fuori e che stava apprendendo i segreti della cornamusa. Roy, che era un grande uomo di spettacolo, aveva deciso all’ultimo momento di arruolare un suonatore. Nonostante le mie proteste circa il fatto che
avevamo già abbastanza guai per conto nostro senza altre complicazioni egli
insistette che l’effetto sul morale dei tedeschi di sentire una cornamusa settanta
chilometri dietro le linee sarebbe stato superiore ai piccoli inconvenienti pratici. Così egli aveva richiesto – e ottenuto un suonatore che era stato allertato e
caricato su un aereo e lanciato a Febbio. Ora, solo dopo pochi giorni era pronto ad accompagnarci. Lavorare con Roy sembrava di partecipare ad un gioco.
42
Roy si alzò dalla sedia: «Mangia, bevi e sta tranquillo, la danza sta per cominciare».
Nella scuola del paese si era insediato Gordon con i suoi uomini e aveva
organizzato in quattro e quattrotto una festa da ballo con la staffette di Kiss
e anche noi ci unimmo alla festa. Alcuni dei ragazzi di Roy erano già lì e si
erano mescolati ai partigiani ballando, mentre Gordon suonava la fisarmonica
accompagnato da Rubens su un vecchio pianoforte. Mi sedetti in un angolo a
parlare con Hans che stava da solo e guardava gli altri con uno sguardo triste.
Le nostre speranze di successo dipendevano da lui perché lui doveva precederci così che in caso di cattivi incontri potesse rispondere nella sua lingua
così da farci sembrare niente altro che una pattuglia tedesca in marcia.
«Cosa c’é Hans?», gli chiesi.
Egli borbottò qualcosa.
In un mezzo inglese mi spiegò:
«Io sono di Vienna. Ci saranno molti miei compatrioti là domani e forse dovrò ucciderli. Ma devo farlo e voglio farlo per vendicarmi. Avevo una moglie a
Vienna ma non l’ho più vista. Quando io ero sul fronte di Stalingrado mi arrivò
una lettera di mia madre che mi diceva che Trudi aspettava un figlio. Io non
ero stato a casa da due anni».
«Andai dal mio ufficiale e gli chiesi di darmi una licenza perché potessi
farmi giustizia, ma quell’ufficiale era un nazista. Si mise a ridere e mi disse che
non dovevo così egoista con mia moglie, lei aveva fatto felice qualche soldato
e aveva fatto il suo dovere per dare figli al Führer».
«Ecco perché io combatto i miei compatrioti».
In mattinata lasciammo Secchio. La madre di don Pedro mi baciò teneramente e Bert mi strinse forte la mano:
«Buona fortuna, Signore, non corra troppi rischi».
«Non temere, Bert», gli risposi «Ho ancora troppe cose da fare».
Mentre stavamo partendo, Bert mi chiese all’improvviso: «Posso venire con
voi, sir?».
Sorpreso risposi «Proprio no. Tu devi stare qui e fare il tuo lavoro».
«Lo sapevo» – disse Bert – «ma stamattina mi sentivo che qualcosa deve
succedere e che dovevo esserci anch’io».
Mi misi a ridere «Non essere sciocco, sono solo fantasie».
Scendemmo giù per il sentiero verso Costabona e la pianura. La chiesa di
don Pedro e quel felice villaggio scomparvero appena superammo il versante
della collina. Davanti e dietro a me gli uomini in marcia cantavano.
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Capitolo 18
Il gran finale: tutti giù per terra con un gran botto
Avevamo lasciato Secchio da due giorni e ora eravamo nascosti a Casa
del Lupo, quel casale isolato che avevo visitato una volta con Phil. Il nostro
trasferimento verso la pianura era stato tranquillo, poco dopo aver attraversato il Secchia degli sfollati, diretti verso la montagna, ci dissero che fascisti
e tedeschi stavano rastrellando le colline. Nonostante fossimo tranquilli della
nostra superiorità in caso di scontro, era essenziale per la riuscita della missione arrivare in pianura senza dare nell’occhio. Di giorno ci nascondevamo nei
boschi e marciavamo di notte rimanendo sui sentieri ed evitando i villaggi. In
due giorni di marcia eravamo arrivati a destinazione proprio prima dell’alba
di quel giorno.
Gli uomini dormivano rannicchiati al caldo in una stalla: Roy era sopra nel
letto che il contadino gli aveva messo a disposizione. Ai quattro angoli del
gruppo di case le sentinelle stavano allerta con i loro BREN nascosti nell’oscurità
dietro alle finestre aperte. Speravo che nessuna pattuglia arrivasse alla fattoria
ma se fosse successo noi eravamo pronti. La casa era un buon rifugio dai tedeschi che passavano sulle strade poco lontane.
Mi sentivo dolori un po’ dappertutto e volevo andare a dormire. La malaria
presa in Iugoslavia due anni prima si faceva ancora sentire con febbri improvvise e togliendomi le forze, un bel guaio visto cosa stava per incominciare.
Decisi così di non dormire, se l’avessi fatto non mi sarei più alzato. Lasciai da
parte il problema della lunga marcia di ritorno probabilmente con uomini feriti
da aiutare. Ci sarebbe stato tempo di preoccuparsi per tutto ciò. Mi bastava che
l’attacco avesse successo e sarei stato comunque contento.
Salii su per svegliare Roy. Borbottò qualcosa quando lo scossi, poi, aprendo
gli occhi, si alzò subito guardando l’ora.
«Sono le 6, adunata alle 8.30».
«Ho già avvisato tutti», gli dissi.
«Vieni giù a mangiare qualcosa».
Ci sedemmo nella grande cucina a bere vino rosso. Uno alla volta arrivarono anche i comandanti delle formazioni e ci mettemmo tutti intorno al focolare. Il fuoco bruciava alto mandando riflessi rossastri sugli uomini raccolti in
quella stanza semioscura.
Roy stava in piedi con la schiena al fuoco mentre Phil gli faceva da interprete. In poche frasi spiegò di nuovo il piano.
«Ci muoveremo alle 22.30, dovremmo raggiungere Botteghe poco dopo
mezzanotte. Marceremo in tre colonne parallele, i russi, i garibaldini e il Gufo
nero».
Gufo nero era il simbolo portato dagli uomini di Gordon.
«Qualche domanda?».
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Guardai a quelle facce tutto intorno. Italiani, russi, tedeschi, inglesi; fisionomie differenti ma un’unica espressione tranquilla, decisa e senza paura,
nessuno pensava al domani ma solo a quello che ci aspettava quella notte.
A due miglia da lì, pensavo, il generale e il suo stato maggiore erano a cena
e sorseggiavano vino a Villa Rossi. A Villa Calvi gli ultimi militari al lavoro
stavano mettendo via le loro carte, presto se ne sarebbero andati a dormire
e sognare. Fuori le sentinelle, nel loro giro, avrebbero battuto i piedi in terra
per vincere il freddo. Sognate, bevete, battete pure i piedi, amici miei, finché
siete in tempo. I sogni, le bevute che avete fatto in giro per l’Europa terrorizzando la gente sono finiti, anche i vostri alleati, gli italiani, si sono ribellati per
colpirvi alle spalle. Vivete pure, pazzi ciechi, finché potete. Presto la giustizia
arriverà in Europa ma per voi arriverà stasera.
Fuori era nero come la pece. In pochi minuti controllai che tutti avessero
facce e mani tinte in nero, un ordine sottovoce e la colonna si mise in marcia.
«Eccola, Roy», sussurai appena fummo in vista di un boschetto.
«Quella è Villa Rossi e Villa Calvi è quella a sinistra».
Avevamo fatto un giro per evitare il paese ed arrivare dalla parte di Reggio, eravamo in mezzo a un campo e guardavamo il nostro obiettivo lontano
duecento yarde. Mancavano dieci minuti all’una. L’erba frusciò mentre i russi
strisciarono a prendere la loro posizione.
«Tutto pronto, Mike?»
«Tutto pronto».
«Ok. Andiamo. Buona fortuna!».
Con Gordon e i suoi venti uomini mi diressi verso il bosco silenzioso. Dieci
parà aprivano la strada. A sinistra l’altra colonna marciava su Villa Calvi. Ora
eravamo più vicini, in mezzo agli alberi e non eravamo ancora stati scoperti.
Mi vennero dei dubbi: era il posto giusto o avevamo sbagliato strada al buio?
Se quello era il comando di Botteghe certamente una sentinella ci avrebbe
visto e si sarebbe messa a sparare.
In quel momento sentii un grido gutturale, un istante di silenzio e uno sparo risuonò. Appena scattammo le mitragliatrici iniziarono a crepitare e sentii
il primo suono di cornamusa. Attraverso il bosco, oltre la strada, i proiettili
passavano sulla mia testa oltre un cancello, dieci yarde avanti c’era la villa.
Dai cespugli a destra un tedesco si slanciò verso di me con il fucile come un
bastone sulla sua testa. Girai il mio STEN verso il suo stomaco e la raffica lo fece
cadere con una smorfia di dolore ai miei piedi. Con Gordon dietro di me corsi
attraverso l’entrata verso l’ingresso lastricato che era ben illuminato. Il fracasso
di mobili in frantumi e il fracasso dei mitragliatori confermava che i parà stavano ripulendo le stanze vicine. Il generale doveva essere nella sua stanza. Mi
girai e corsi su per le scale.
Il piano di sopra era al buio e appena arrivai su sentii un urlo di allarme
dietro di me. Senza badarci andai avanti e un lampo ruppe l’oscurità. Un dolore acuto mi bruciò il petto e barcollando indietro caddi battendo la testa sul
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pavimento. Ero caduto nell’ingresso verso l’uscita e mi sembrava di avere un
peso enorme sulle gambe. Con la mano spostai qualcosa che si mosse. Era un
basco rosso inzuppato di sangue e spinsi via il cadavere del soldato morto. Il
combattimento continuava più intenso che mai. La cornamusa continuava a
suonare, sembrava dire «alzati, alzati, perché te ne stai lì?»
Perché stavo lì? Non sentivo nessun dolore, sembrava che non ci fosse nulla di grave. Cercai di alzarmi ma caddi subito di nuovo, provai ancora ma la
mia gamba sinistra pendeva inerte e non rispondeva in nessun modo alle mie
intenzioni. Passi di scarponi passarono veloci verso l’uscita. Tranne che quel
cadavere io ero rimasto da solo nella casa.
Provando mi accorsi che potevo trascinarmi. La mia gamba funzionava fino
al ginocchio, pensai che doveva essere rotta. Mi trascinai lentamente attraverso
la porta d’uscita.
«Capitano, capitano, siete ferito».
«Chi è?».
«Siciliano [Giuseppe Bertani]. Venite via, non siamo riusciti ad andare su
per le scale. Stiamo dando fuoco alla casa a pianoterra».
Mi aiutò a muovermi sull’unica gamba sana. Con il mio mitra a tracolla sulla
sua spalla saltellai lentamente verso la via di fuga. Ci fermammo un attimo e
guardai l’orologio: l’una. Tutto era successo in soli dieci minuti.
Mi venne subito la nausea. Cercando di resistere saltellando e strisciando ci
dirigemmo lentamente verso il punto di incontro. Dietro di noi gli spari erano
cessati ma si continuava a combattere sulla strada dove i russi stavano tenendo
impegnati i rinforzi tedeschi che volevano raggiungere le ville. Siciliano d’un
tratto disse:
«Guardate, stanno bruciando!».
Mi guardai intorno, entrambe le ville stavano bruciando, sembrava che
fossimo riusciti a fare quello che volevamo. In quel momento sentimmo due
raffiche e un fischio, il segnale di ritirata.
«Presto, capitano, presto».
Non ce la farò mai, pensai, non potevo strisciare per trenta miglia e non
potevano trascinarmi fino a casa. Dovevo restar lì e affrontare i tedeschi. Mi
sentivo stanco e svuotato d’energie ma non potevo farci niente.
«Lasciami qui, Siciliano».
«Per essere torturato e ucciso?», mi chiese.
«Mai!».
Fu un viaggio da incubo. Sorretto da partigiani e da due SAS, arrivai fino a
Botteghe. Mi lasciarono fuori da una casa di contadini per riposare un attimo
e Siciliano mi disse:
«C’è anche Gordon, capitano, ha una gamba rotta. Stiamo cercando un carretto per portarvi in un posto dove nascondervi».
Tre ore dopo ci portarono dentro a un granaio. Prima che chiudessero la
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porta mi alzai sui gomiti per vedere in distanza il cielo arrossato dalle case che
bruciavano a Botteghe.
Gordon e io rimanemmo nascosti su quel letto di paglia in quel granaio
per tre lunghi giorni. Prima di lasciarci lì, i partigiani ci avevano costruito una
pesante staccionata intorno e ordinato alla vecchia contadina, che era la sola
a sapere dove fossimo, l’assoluto silenzio. Gianni, il capo dei garibaldini, mi
strinse la mano salutandomi.
«Au revoir, mon capitain. Dobbiamo andare ma avvertirò mia sorella che è
infermiera a Reggio. Verrà ad assistervi».
La notte seguente sentii la porta aprirsi e un sussurrio di voci. Una balla di
fieno fu spostata e alla luce di una lanterna vidi la vecchia contadina con due
ragazze carine. La più alta si presentò:
«Sono la sorella di Gianni. Io e la mia amica staremo qui con voi finché
non potrete spostarvi. Avremo altre visite stanotte. Antonio3 sta portando qui
un medico».
«Chi è Antonio?».
«Il capo della Resistenza a Reggio», sussurrò così che la vecchia non potesse
sentire.
Poi si voltò verso di lei dicendole di non preoccuparsi più e di tornare fra
un po’ con una pentola d’acqua bollente. Lei e l’altra ci prepararono per il
medico. Gordon si lamentò per il dolore quando gli tolsero i calzoni. Anche
lui era stato ferito sulle scale e una pallottola passandogli la gamba gli aveva
frantumato l’osso.
«Dove sei ferito, capitano?», mi chiese la ragazza.
«Non lo so, non sento la gamba e non riesco a muoverla. Penso che sia rotta
sotto al ginocchio».
Mi arrotolò i calzoni, duri di sangue raggrumato, ma non c’erano segni di
ferite. Dopo un po’ trovammo un piccolo foro nel fianco e un altro sopra il
ginocchio. Ma mi resi conto come, essendo riuscito a strisciare, quel pezzo di
gamba non potesse essere rotto. Mi chiedevo cosa fosse successo. Oltre queste
ferite, un proiettile mi aveva colpito al petto, un altro il braccio sinistro e un
quarto il polpaccio destro. Mentre mi curavano con delicatezza e cura pulendo
e bendando le ferite, mi resi conto di quanto fossi stato fortunato ad essere
ancora vivo.
Antonio arrivò con il dottore poco dopo mezzanotte. Questi era stato costretto a venire, guardò le mie ferite, borbottando e insistendo che non sarebbe tornato in nessun caso. Ma, con l’aiuto delle ragazze la gamba di Gordon fu
immobilizzata con delle rudimentali assi. Guardando la mia gamba il medico
confermò i miei timori.
«È stato colpito il nervo».
3
Probabilmente si tratta di Nello Mattioli, vice comandante del I
BTG
della 145ª
BGT
«Garibaldi».
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«Quanto ci vorrà per riprendermi?», chiesi.
Alzò le spalle, come per lavarsi le mani del problema.
«Chissà, non posso far nulla per aiutarti. Ci vuole un ospedale».
Aveva ragione, certo dovevamo essere portati in ospedale ma come fare in
quella situazione, con il nemico intorno, senza poterci muovere e a cinquanta
chilometri dalle nostre linee? Per come eravamo messi, già eravamo fortunati
che il nemico non ci avesse trovato. Strinsi il revolver che avevo sotto le coperte e mi ricordai le parole di Siciliano: «Essere torturati e uccisi… mai!». Se il
nemico fosse arrivato avremmo combattuto anche se sarebbe stata la mia ultima battaglia. Pensai all’Inghilterra lontana. Ringraziai Dio che non sapessero
dei miei guai. Gwen doveva essere a letto in quel momento, sotto le coperte a
dormire, forse sognava il futuro che avevamo immaginato insieme, un futuro
che ora mi sembrava molto lontano.
Quando il dottore se ne fu andato Antonio uscì dall’ombra. Era smilzo, con
una giacca di cuoio e un cappello tirato sugli occhi, a tracolla un mitra Spandau che lo faceva sembrare più piccolo.
«Bene, Antonio, che novità?».
«I tedeschi vi stanno cercando ovunque, domani dobbiamo andarcene, qui
non è sicuro».
«E come faremo?».
«Troveremo il modo, di notte non possiamo far niente per il coprifuoco e ci
sono pattuglie ovunque dopo il vostro attacco a Botteghe».
«Hai qualche notizia su quello?».
Sorrise soddisfatto e ci raccontò i risultati. Ambulanze erano state viste andare e venire tutto il giorno portando feriti all’ospedale di Reggio. C’era stato
un corteo formale al cimitero ed erano state scavate molte tombe. Villa Calvi
era bruciata e Villa Rossi danneggiata. I tedeschi erano spaventati ed infuriati.
Avevano fatto pubblicare sul giornale locale un annuncio: «La scorsa notte
un forte gruppo di banditi ha assalito il comando di Botteghe. Dopo un duro
combattimento essi si sono ritirati con gravi perdite. Si pensa che questi banditi
fossero inglesi. È stato subito qualche danno. La popolazione deve rendersi
conto che tutti i partigiani saranno trattati come franchi tiratori».
Chiesi la cosa che mi interessava di più:
«Abbiamo ucciso il generale?».
«Non lo so – rispose Antonio – ci sono molti ufficiali uccisi e lui non è più
stato visto».
Antonio se ne andò, promettendo di tornare a mezzogiorno. Mentre eravamo sotto l’effetto della morfina le ragazze si davano il cambio a sorvegliarci.
Era tardi quando mi svegliai da un buon sonno, qualcuno mi scosse e una
mano mi chiuse con forza la bocca.
«Non una parola».
La luce del giorno filtrava attraverso le balle accatastate intorno a noi. Gordon con la pistola in mano era seduto di fianco a me. Fuori sentivo la voce di
una donna che si lamentava.
48
«Cosa c’è?».
Una voce sussurrò: «Fascisti, stanno setacciando la zona».
La Brigata nera, quegli assassini maledetti, peggio che i loro padroni tedeschi. Sapevo che se ci avessero preso non avremmo avuto speranze. Ma
come potevamo resistere con quelle due ragazze lì con noi? Così mi girai su
un ginocchio solo e bisbigliai:
«Andate via, per l’amor di Dio, andate via, passate dal retro mentre c’é ancora una possibilità».
La sorella di Gianni rispose sorridendo:
«Noi siamo partigiani e tu sei sotto la mia responsabilità: sta giù e sta buono!».
Sollevò il braccio, stringeva in pugno un piccolo revolver. Dei passi risuonarono nel cortile e sentii una voce acuta...
«Non c’é niente qui, solo un granaio».
Si sentì una bestemmia e di nuovo un pianto.
La porta si aprì con fragore, lasciando entrare la luce del sole. Ci acquattammo dietro alle balle, trattenendo il respiro. Per un istante interminabile ci fu
silenzio, mentre i fascisti guardavano attorno. Poi sentimmo sbattere la porta
e le voci allontanarsi.
La sorella di Gianni stava piangendo sommessamente senza una lacrima...
«Grazie a Dio, grazie a Dio, ma dobbiamo andarcene oggi stesso».
Ci trasferirono in una casetta nella periferia di Reggio. Ci avevano trasportato per sei miglia nascosti nel doppiofondo di un carretto che trasportava
letame e sento ancora la puzza nei miei capelli per il colaticcio che scendeva.
Per miracolo le ferite non si infettarono e le mie erano quasi cicatrizzate in
superficie anche se la mia gamba era ancora paralizzata e non riuscivo quasi
a muovermi per la stanchezza. Antonio aveva fatto l’impossibile, c’erano partigiani armati nelle case vicine e un’auto era pronta in cortile nel caso avessimo
dovuto fuggire all’improvviso. Un’infermiera ci assisteva ed eravamo forniti di
medicinali e bendaggi rubati all’ospedale.
Il nostro ospite era un contadino ben piantato, indifferente al rischio che
correva e indaffarato a renderci la vita la più comoda possibile, procurandoci
ogni giorno bottiglie di buon vino. Il padre di Gordon, che abitava vicino a
Reggio, era venuto a trovarlo, portandogli lo spazzolino, sapone e altre cose
di cui avevamo bisogno.
La settima notte dopo l’attacco venne un altro medico. La gamba di Gordon
era in cattive condizioni e l’infermiera insisteva perché fosse ingessato. Quando il medico ebbe finito con lui, mi visitò. La sua faccia era seria.
«Allora?», chiesi.
«Il nervo della gamba è offeso. Se non si interviene entro una decina di
giorni non ci sarà più nulla da fare».
«Cosa vuol dire?».
«Che senza un intervento non riuscirai più ad usare la gamba normalmente.
49
Potrai usare delle stampelle ma non sarà più normale».
«Non posso certo andare in ospedale, mi può operare qui?».
Scosse le spalle: «Impossibile, non c’é luce, attrezzatura e dovresti stare assolutamente immobile. No. È impossibile».
Dieci giorni per arrivare oltre il fronte. Ci volevano dieci giorno anche se
fossi stato sano e avessi potuto camminare. Ci volevano un paio di notti di
marcia per arrivare a Secchio, un giorno per andare a Civago e tre per arrivare
a Firenze, se tutto andava bene e fossi stato sano. Ma in quelle condizioni era
un’idea disperata e nonostante mi scervellassi non riuscivo ad inventare niente
di utile.
Il giorno dopo arrivò una staffetta da Secchio. Ci aveva cercato per giorni
ma Antonio ci aveva nascosto bene. A parte le sentinelle, che non sapevano
chi fossimo, nemmeno gli altri partigiani sapevano dove fossimo finiti. La staffetta portava una pacchetto di medicine, una busta con la mia posta che era
arrivata con l’ultimo lancio e una lettera di Roy. Aprii subito la posta.
C’erano quelle buste con l’indirizzo scritto con quella calligrafia tonda e
chiara che avevo imparato a riconoscere e ad amare.
Leggere le lettere di Gwen mi diede nuovo coraggio e determinazione. Dovevo farcela, e presto, per potere sperare in quel futuro insieme. La sua lettera
mi parlava di cose allegre, non poteva immaginare la mia situazione, se non
altro che per lei dovevo riuscire a venir fuori da quella situazione.
Aprii anche la lettere di Roy:
«Caro Mike… non puoi immaginare come siamo preoccupati per la tua dannata sfortuna e faremo l’impossibile per tirarti fuori. Luigi si è già offerto con
tutta la sua brigata per riportarti a casa, qui potrai essere al sicuro e aspettare
la liberazione che è ormai alle porte. Ci sono già staffette e corrieri che si sono
offerti di accompagnarti oltre le linee se sarai in grado di farlo. Altrimenti ho
comunicato via radio dicendo che siamo in grado di preparare un campo di
atterraggio per far arrivare un aereo a prenderti. Aspettiamo comunque tue
notizie prima di muoverci…».
Poi Roy mi comunicava i risultati dell’azione. Girava voce che l’attacco
avesse messo sottosopra il comando tedesco, sebbene fosse ormai certo che
il generale Hauk fosse partito la notte prima. A don Pietro sarebbe spiaciuta
questa notizia! Ma i nostri agenti a Viano ci riferivano che erano stati uccisi
trenta tedeschi. Villa Calvi era stata danneggiata e tutti documenti distrutti. Le
nostre perdite erano state di tre SAS, tutti uccisi a Villa Rossi e alcuni feriti ma,
esclusi Gordon e me, tutti erano tornati alla base.
«È stato fatto un buon lavoro – scriveva ancora – e ci prepariamo per il gran
finale. I partigiani sono in grande forma, vorrei solo che tu fossi qui per essere
al loro comando. Bert è piuttosto depresso, gira per Secchio brontolando: “Sapevo che sarebbe successo. L’avevo avvertito quel testone!”».
Avevo nove giorni per salvarmi. Se avessi rispedito la staffetta quella notte
stessa ci sarebbero voluti due giorni per arrivare in montagna, un altro gior-
50
no prima che Luigi potesse muoversi. Bene che andasse non avrebbe potuto
essere qui prima di sei giorni. Poi con la necessità di muoverci adagio per
sentieri il tempo a mia disposizione sarebbe finito prima ancora di arrivare
a Secchio. Senza considerare che i garibaldini non sarebbero mai riusciti a
passare dieci miglia di pianura fino a Reggio senza che il nemico scatenasse un attacco in grande stile. Non c’erano abbastanza speranze di successo
nemmeno per tentare una cosa simile. Un campo di atterraggio? Nel reggiano
non ce n’erano ma mi ricordai che una volta un aereo era atterrato per salvare
un pilota americano ferito su in montagna vicino a Ranzano, il villaggio dove
eravamo finiti in gennaio durante il rastrellamento. Là c’era un ufficiale inglese
di collegamento. Se fossi riuscito ad arrivare a Ranzano lui avrebbe potuto far
qualcosa per noi. Guardai la mia carta: almeno dieci miglia di pianura e venti
sulle colline verso la montagna. Ma come fare quelle trenta miglia? Usare un
carro? Ma i tedeschi fermavano e controllavano tutto quello che transitava
sulle strade verso la montagna per controllare che non ci fosse niente per i
partigiani. Non potevamo sperare di evitare quei controlli. Se fossimo arrivati
in montagna il resto era relativamente semplice ma i posti di controllo tedeschi
erano un problema insormontabile.
Antonio arrivò quella sera stessa. Gli spiegai la situazione e gli chiesi se
poteva aiutarci. Ci pensò su un po’, poi sorridendo mi disse:
«Non posso promettertelo, ma avrei una idea…».
«Quale?».
«Te lo dirò domani».
Le ore non passavano mai. Sdraiato vicino alla finestra vidi l’alba arrivare
e il sole sorgere nel cielo sereno. Si sentivano rumori di aerei di passaggio.
Doveva essere la pattuglia di caccia all’attacco, puntuali come ogni mattina
alle 8. Il nostro contadino arrivò con una nuova bottiglia di vino e ci informò
che era domenica. Sentivo i passi delle persone che tornavano dalla messa
passando per la strada vicino a noi. Le 12. Arrivò l’infermiera, ma di Antonio
nessuna traccia. Avevo ancora soltanto otto giorni. Il tempo passava e noi
eravamo ancora lì.
Antonio arrivò verso l’imbrunire. Quando lo vidi capii che aveva delle
buone notizie…
«Devi essere pronto domani all’alba: un’ambulanza ti porterà in montagna
e non sarai fermato ai posti di blocco».
Scrissi due lettere: una a Roy dicendogli del nostro piano, gli chiesi di
informare per radio la base che stavamo andando a Ranzano e di preparare
un campo per far arrivare un aereo in tre giorni. L’altra la scrissi all’ufficiale a
Ranzano, informandolo della situazione e chiedendogli di preparare il campo.
Antonio prese le lettere e disse che le staffette le avrebbero recapitate subito.
Mi svegliò il rumore dei passi sulle scale. Era ancora buio fuori e una candela rischiarava appena il mio letto. La porta si aprì lentamente e qualcuno
entrò…
51
«Chi è?», chiesi sospettoso.
Per tutta risposta l’intruso si mosse nell’oscurità della stanza. Era un soldato
con la divisa grigia dei tedeschi.
Appena riuscii a prendere la pistola che tenevo sotto al cuscino, sentii una
risata soffocata e il soldato sollevò il berretto che teneva sugli occhi. Era Antonio!».
«La sua ambulanza è pronta, sir!».
Ero sdraiato al bordo di un piccolo campo sulle montagna vicino a Ranzano. Due strisce di paracadute bianchi erano stati stesi sul prato a formare una
striscia lunga un centinaio di yarde e larga una trentina. Un gruppo di uomini
stavano guardando il cielo verso sud. Phil sedeva in terra vicino a me.
«Non ci vorrà molto, ora – disse – li aspettiamo dopo le 10. Fra tre ore sarai
di là dal fronte. Come stai?».
«Non troppo male. La mia gamba mi fa un male cane ma se tutto va come
deve stasera sarà sistemata. Aiutami a tirarmi su».
Phil mi aiutò a sollevarmi seduto così da poter guardare il paesaggio intorno. Era una splendida mattinata. L’erba fresca, bagnata dalla rugiada, luccicava
nel sole. Lontano, verso nord, la vallata scendeva verso la pianura coperta
ancora dalla nebbia del mattino. A sud, dieci miglia più in là, si stagliava la sagoma curva del Cusna, la sua cima innevata contro il cielo limpido. Nei boschi
attorno, macchie di colore diverso dove il croco e le primule stavano fiorendo
mentre gli uccelli cantavano allegri, annunciando la primavera. In quel momento amavo quelle montagne più che mai e mi dispiaceva tantissimo doverle
lasciare. Quell’aria, gli spazi aperti, la vita avventurosa e libera che sarebbe
rimasta un episodio del passato, il ricordo di un mondo perfetto.
Territori liberati! Che contraddizione di termini! Liberati ma ancora occupati.
In tre ore, pensavo, sarei stato libero, libero col corpo, ma il mio spirito sarebbero rimasto chiuso dietro le sbarre, libero di fuggire solo in sogno. Pensai agli
ultimi tre mesi, i più felici della mia vita. La sconfitta di gennaio, in fuga come
conigli spaventati da una faina. Il ritorno a Secchio e quelle lunghe settimane
di lavoro per trasformare una massa di gente in un esercito, e quell’attacco
attraverso il Secchia a conferma che il mio lavoro era servito, poi, sulla cresta
dell’onda, l’arrivo dei paracadutisti e il nostro attacco a Botteghe. La musica di
quella cornamusa e quel momento terribile quando mi accorsi di non riuscire
più a camminare, i giorni di paura nascosto in pianura, per la prima volta in
vita mia senza aiuti e dovendomi affidare agli altri.
Pensai ad Antonio e all’ambulanza che passava per le strade battute dal
nemico e i loro posti di blocco coi soldati che sorridevano e ci salutavano senza sapere che premio avrebbero avuto se avessero preso i passeggeri di quel
trasporto! E poi gli ultimi tre giorni. Il ricordo oscurato dal dolore e i momenti
di delirio, con Gordon che si lamentava insieme a me, mentre ci sballottavano
per le montagne su un carro coperto di paglia, quel terrificante strisciare ver-
52
so un fosso quando, a chiusura della giornata, un pilota mezzo matto di un
Thunderbolt scaricava le sue armi attorno a noi in mancanza di un obiettivo
migliore. Ora ero lì ad aspettare che un aereo mi portasse via, non via da quel
posto per tornare poi da qualche altra parte, come avevo fatto altre due volte,
ma via per sempre dai partigiani, verso un’altra vita.
Dal Cairo a Oruglica, da Kraljevo a Pino, dal monte Grammondo a Bari,
da Firenze a Secchio. Un lungo viaggio, sempre in movimento, all’attacco,
fuggendo, ma sempre lavorando, aspettando quel giorno, l’Ustanak [rivolta]
per gli iugoslavi quando, con pochi ufficiali inglesi in testa, i partigiani di tutta
Europa si erano sollevati contro il nemico. Avevo lavorato due anni, due anni
di attesa e ora, proprio alla vigilia del gran giorno, storpio e inutile, mi dovevo
ritirare dalla partita… Dura ingiustizia, davvero, ma le montagne sono crudeli
anche se tanto belle e un uomo ferito non serve a nulla. Fra un mese, forse
fra una settimana, la fiamma che bruciava ora su quelle montagne e colline
sarebbe dilagata e partigiani e alleati, fianco a fianco, forti e uniti, sarebbero
avanzati a spazzare via i tedeschi. Presto i reggiani sarebbero scesi in pianura, presto sarebbero stati a Reggio a ballare per le strade per la gioia della
Liberazione. Io sarei stato lontano quel giorno ma forse, per un momento, il
mio spirito sarebbe stato lì con quella gente e ancora una volta sarei stato coi
partigiani di tutte le nazioni a lodarli, maledirli, incoraggiarli.
Phil che aveva marciato con Kiss da Secchio la notte prima, mi scosse dai
miei sogni.
«Eccolo!».
Indicò verso il sud, alto oltre il Cusna, un puntino alto nel cielo che sembrava fermo. Lentamente, tanto lentamente, divenne più grande. Un rumore
di motori ci raggiunse e sentimmo altri due aerei arrivare. Erano due caccia
Mustang che si avvicinavano e giravano sopra il piccolo aereo.
Aspettavamo con ansia. Avrebbe trovato il campo o se ne sarebbe andato
via? Il campo era abbastanza lungo? Il vento troppo forte? Una quantità di
preoccupazioni, ridicole, mi frullò in testa.
L’aereo ora era basso. Era un Fieseler Storch tedesco che, mi avevano detto, era stato catturato qualche mese prima. Aveva una fusoliera tozza fra due
ali ridicolmente larghe e un piccolo motore che sbuffava come quello di una
moto e girava sulle nostre teste. La punta di un’ala sfiorò il suolo mentre virava in verticale poi girò intorno e si allontanò. Trattenni il respiro. Avevo visto
in faccia il pilota preoccupato mentre esaminava il campo di atterraggio. Era
accidentato e molto, molto piccolo. Avrebbe deciso che il rischio era troppo
grande? L’aereo ora era sotto di noi, girava nella valle fuori di vista dal nostro
punto di osservazione. Sentii ancora il suono del motore diventare più forte e
con il muso in alto e i grandi flap fuori, lo Storch apparve quindici metri sopra
la fine della pista, quasi fermo per un secondo e, come un grande uccello, si
stese al suolo, fermandosi in meno di venti yarde.
Fui portato subito al portello dell’aereo. Faticando e imprecando mi spinsi
53
dentro. Il pilota, un giovane italiano, legò un paracadute intorno a me che ero
avvolto soltanto in una coperta. I partigiani mi furono attorno per augurarmi
buona fortuna.
«Bye bye Phil. Saluti a tutti e un bacio alla madre di don Pedro. Dì a Bert di
non mettersi nei guai…».
I caccia ci giravano sopra la testa, picchiando e virando per farci fretta. Il
pilota si girò e mi sorrise. Poi, appena i partigiani presero le ali e sollevarono
la coda, diede tutto gas. Un istante dopo l’elica prese in pieno, la sua mano
diede il segnale e ci lanciammo attraverso il campo. Ci fu un momento terribile quando la vallata ci venne incontro e mi sentii spinto indietro contro il
seggiolino. Come in un sogno del passato, guardai quella gente là sotto che
ci salutava finché sparirono in lontananza e noi ci mettemmo in linea sopra il
Cusna verso sud.
54
Renato Riatti, il «cassiere ciclista»
1944, le Reggiane nelle grotte di Costozza (VI)
Adriano e Paolo Riatti 1
Alla fine del 1943 la situazione dello stabilimento OMI
Reggiane – esposto ad azioni
belliche come testimoniato da
frequenti allarmi aerei, dalla
continua carenza negli approvvigionamenti di materiali e da
difficoltà finanziarie – costrinse
la dirigenza ad accettare accordi con le autorità tedesche circa il trasferimento di macchinari ed impianti per le produzioni
aeronautiche in zone del nord
Italia.
I siti furono identificati nelRenato Riatti (archivio fam. Riatti)
lo stabilimento SNIA di Cocquio,
nella filanda di Gavirate e nella Cucirini-Cantoni di Besozzo, tutti nella provincia di Varese, in quanto questi stabilimenti erano divenuti inoperosi a causa
delle mancate importazioni di materie prime quali la seta dalla Cina ed il cotone da USA ed Egitto.
Il 7 e 8 gennaio 1944 gli stabilimenti delle OMI Reggiane di Reggio Emilia
vennero rasi al suolo nel corso di due bombardamenti alleati. L’80 percento
degli impianti ed il 30 percento del macchinario andarono distrutti.
1
Curatori archivio digitale aeronautico «Reggiane», Università degli Studi di Modena e Reggio
Emilia.
Gli autori ringraziano per il prezioso contributo alla realizzazione della ricerca: Mario Frigeri,
Attilio Ugolotti, Giorgio Danilo Cocconcelli, Mauro Vittorio Quattrina.
55
I macchinari salvati dal disastro furono immagazzinati nelle vicinanze di Reggio
Emilia (circa seicento macchiTORBOLE
ne) e oltre 450 in altre località
VICENZA
GEMONIO
GAVORATE
del nord Italia già prima del
BESOZZO
bombardamento.
COCQUIO
Per sfuggire ai bombardaREGGIO EMILIA
menti alleati che s’intensificavano, la produzione venne
decentrata in numerose località del nord Italia: Costozza di Longare (VI), Torbole
(Fonte Sergio Govi, Storia delle Reggiane, 1987)
(VR), Gavirate, Cocquio, Besozzo, Gemonio (VA).
Nel marzo ’44 le produzioni ripresero e interessarono la costruzione di
attrezzature per velivoli Messerschmitt, parti di motori per BMW, produzioni
di motori su licenza Piaggio «PVII» e «PXI bis», aerei Reggiane «RE 2002», collaborazione con Isotta Fraschini ed Alfa Romeo per la costruzione su licenza del
motore «Daimler Benz DB 605», riparazioni di velivoli.
MILANO
TORINO
GENOVA
BOLOGNA
FIRENZE
Gemonio. Tessitura Roncati (fonte: Attilio Ugolotti)
56
Contro la volontà della dirigenza furono prelevati dai tedeschi moderni
forni fusori elettrici e sessanta, tra le macchine utensili più moderne, vennero
trasferite a Domegliara (VR) a disposizione della Junkers. Successivamente
furono inviate in Germania, mentre altre sessanta macchine utensili vennero
destinate alle officine Caproni, insediate nella grotta orientale «Idraulica» di
Torbole, sul lago di Garda.
Nell’ottobre del ’44 gli operai delle Reggiane impiegati negli stabilimenti
della provincia di Varese erano 550, alloggiati in casali opportunamente adattati ed i dirigenti in residenze a Porto Ceresio mentre ottanta operai fuono
impiegati complessivamente nelle grotte di Costozza.
In novembre anche duecento macchine adibite alle lavorazioni ferroviarie
furono smontate per essere inviate a Rovereto e a Castelfranco Veneto.
Le grotte di Costozza
I tedeschi, agli inizi degli anni ’40, avevano pensato di utilizzare come deposito sotterraneo per gli impianti industriali le antiche cave di Costozza2, in
modo da preservarli dai bombardamenti degli Alleati.
È proprio nelle grotte di Costozza, nel comune di Longare, che vennero
inviate maestranze, sotto la direzione dell’ingegner Ferrari, e con l’incarico di
cassiere, Renato Riatti. La loro attività verrà diretta dall’ingegner Alessio, direttore generale, e dall’ingegner Vischi, direttore tecnico.
I collegamenti tra Reggio e Vicenza, molto difficili a causa della distruzione
di tutti i ponti sul fiume Po e della carenza di mezzi e carburanti, costrinsero
il «nostro» cassiere a continui viaggi in bicicletta, con la cartella dei documenti
ben fissata alla canna.
Gli attraversamenti del Po avvenivano nottetempo tramite chiatte condotte
dai vigili del fuoco, a volte contrastati dai mitragliamenti della caccia notturna
alleata con l’impiego dei famigerati aerei chiamati «Pippo» destinati appositamente ad attività di guerra psicologica ed operativi nel nord Italia già dalla
fine del 1943.
2
Le prime notizie storiche delle grotte, o govoli, di Costozza si trovano nel graffito in caratteri
etruschi già esistente al loro ingresso.
Dall’occupazione romana al Medioevo la località prese il nome di Custodia le cui cave immense
latomie, fornivano la pietra che servì alla costruzione di teatri romani, di ponti e monumenti in
Vicenza, Padova, e altre località circostanti.
In tempi meno lontani la pietra di Costozza fu utilizzata dal Palladio e da Orazio Marinali, lo
scultore settecentesco autore di molte tra le più belle statue delle Ville venete. Egli tenne bottega
proprio in una di queste.
L’antico nome di Custodia divenne col tempo Custoggia, Custoza ed infine Costozza. Le grotte
furono sempre adibite alla conservazione di derrate alimentari grazie al loro clima fresco,
asciutto e, soprattutto, costante. Proprio per questo in una delle grotte maggiori, di oltre cinque
ettari, il conte Alvise da Schio, primo in Italia, introdusse la coltivazione industriale dei funghi
commestibili. Ancora oggi le fungaie sono attive nelle grandi grotte.
57
Settembre 1944. Lettera di incarico a Renato Riatti (archivio fam. Riatti)
26 luglio 1944. Veduta aerea del Ponte di Ostiglia sul Po
Il consorzio CARIM
Nell’ottobre del 1943 fu costituito un consorzio tra Alfa Romeo e Isotta
Fraschini per la gestione congiunta delle commesse. Il consorzio individuò
diversi siti dove poter svolgere l’attività produttiva e spesso erano localizzati
in grotte naturali.
Le grotte, scelte a quindici chilometri a sud di Vicenza, disponevano di un
superficie di 60.000 mq.
Nel 1944, con l’ingresso delle officine Reggiane il consorzio divenne CARIM,
con sede a Milano e le attività delle consorziate si trasferirono nelle grotte di
Costozza denominate «officine C». La produzione era specifica per i motori
«Junkers Jumo 213».
Oltre al personale CARIM operavano anche maestranze della Ducati di Bologna per la produzione di condensatori e pompe di alimentazione.
59
1944. Maestranza Reggiane nelle grotte di Costozza (foto Giorgio Cocconcelli)
I tedeschi non erano numerosi, qualche decina di persone dedite al controllo dei lasciapassare. Il servizio di vigilanza era effettuato, inoltre, da guardie alle dipendenze delle varie ditte, della CARIM in particolare.
Tra le maestranze molti erano in contatto con la Resistenza. La consegna
era di salvare i macchinari ma di non produrre niente, o perlomeno nulla
di utilizzabile. Questa era stata una precisa direttiva del CLN durante l’ultimo
inverno di guerra: scendere a valle ed eventualmente guadagnarsi da vivere
lavorando per l’organizzazione Todt3 (valeva per chi non era troppo compromesso, ovviamente), salvaguardando quindi gli impianti, i macchinari in vista
della ricostruzione, sabotando invece la produzione.
A Costozza erano presenti diversi partigiani della Brigata «Silva» mentre i
tedeschi erano sistemati in basso, prima del «Volto», il caratteristico torrione
3
L’organizzazione Todt (OT) fu una grande impresa di costruzioni che operò dapprima nella
Germani nazista, e poi in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht impiegando al lavoro coatto
più di 1.500.000 addetti tra uomini e ragazzi. Creata da Fritz Todt, Reichsminister für Rüstung
und Kriegsproduktion (ministro degli Armamenti e degli Approvvigionamenti), l’organizzazione
operò in stretta sinergia con gli alti comandi militari durante tutta la seconda guerra mondiale. Il
principale ruolo dell’impresa era la costruzione di strade, ponti e altre opere di comunicazione,
vitali per le armate tedesche e per le linee di approvvigionamento, così come della costruzione
di opere difensive: la Linea Sigfrido, il Vallo Atlantico e – in Italia – la «Linea Gustav» e la «Linea
gotica» sono alcuni significativi esempi delle opere realizzate dall’organizzazione Todt.
60
sotto cui passa la strada per Lumignano. Una strada sotterranea usciva in Col
de Ruga, dove ora si trova la parte delle grotte occupata da una base militare
USA e si snodava in spazi immensi tra pilastri naturali di grosse dimensioni.
La mensa, che si trovava sulla sinistra in direzione di Lumignano, ospitava
anche i dirigenti e gli ingegneri che alloggiavano presso i «Buoni Fanciulli»
dell’Opera don Calabria.
A Costozza gli aerei attaccarono tre-quattro volte sparando dentro all’imboccatura con le mitragliere.
Per avere qualche possibilità di infilare i proiettili nell’imboccatura, scendevano in picchiata; mitragliavano e, quasi subito, dovevano immediatamente
impennarsi e risalire per non schiantarsi contro il monte.
In genere non bombardarono forse perché i Colli Berici erano una zona
controllata dai partigiani ma anche per l’enorme quantità di roccia sovrastante
le grotte. Sarebbe sicuramente stato più semplice ed efficace attendere e colpire all’uscita i mezzi di trasporto del materiale prodotto.
Anche in questo caso il «nostro cassiere» dovette sobbarcarsi alcuni viaggi
in bicicletta alla sede del consorzio CARIM a Milano, viaggi che ricordava ancora
alla bella età di novant’anni compiuti.
Il Comandante del piccolo presidio tedesco, che aveva fatto minare con
esplosivo le grotte per distruggerle in vista della fuga, prima di abbandonare
la posizione nell’aprile del ’45, trattò con le maestranze delle Reggiane, che
misero a disposizione l’autovettura aziendale, abiti civili e soldi e con i partigiani della Brigata «Silva» che consegnarono loro un salvacondotto4. In cambio
il comandante non avrebbe fatto saltare le grotte. Gli esplosivi vennero tolti
dai fornelli di mina già posizionati e fatti esplodere su di un carro nel piazzale
per far credere ai capi dei tedeschi che i loro subalterni tedeschi le avessero
realmente distrutte consentendo così il salvataggio dei macchinari e dei materiali che, ritornando a Reggio nel dopoguerra, contribuirono in modo tangibile
alla ripresa delle attività lavorative delle Reggiane.
Per questo gesto il consorzio CARIM rilasciò un attestato al «cassiere ciclista»
controfirmato dal locale CLN di Vicenza.
Il 26 agosto del 1945 il «cassiere ciclista» venne successivamente trasferito
a Cocquio (Va), dove lavorarono oltre mille dipendenti per poi rientrare successivamente alle Reggiane dove operò fino al 1970 recandosi ogni giorno al
lavoro con la sua fedele bicicletta, munita del «famoso» freno contropedale
Torpedo, alla quale non rinunciò mai.
4
Da notizie non confermate raccolte a Pianezze, i tedeschi in fuga sarebbero stati catturati da
un altro gruppo di partigiani a Motta, sulla strada per la Valdastico.
61
Bibliografia
Giorgio Danilo Cocconcelli, Tunnel factories. Le fabbriche aeronautiche di Fiat e
Caproni nell’Alto Garda 1943-1945, Edizioni Giorgio Apostolo, s.l., s.d.
Sandro Spreafico, Un’industria, una città. Cinquant’anni alle Officine Reggiane, Il
Mulino, Bologna 1968
Gianni Sartori, Mio padre partigiano, in «Rivista Anarchica», 289/2003 [http://www.
anarca-bolo.ch/a-rivista/289/60.htm]
Sergio Govi, Il Caccia Re 2000 e la storia delle «Reggiane», Gruppo Caproni, Giorgio
Apostolo Editore, s.l., 1987
Residence «Villa da Schio» Costozza di Longare, Vicenza. http://www.costozza-villadaschio.it/
1945. Attestato «CARIM-CLN Vicenza» consegnato a Renato Riatti (archivio fam. Riatti)
62
1943-1946
Oltre la torbiera
Da Zante (Grecia) al Lager di Fullen (Germania)
L’odissea di un ufficiale reggiano
Remo Fantini
Remo Fantini nacque a Reggio Emilia il 21 dicembre 1919.
Diplomatosi presso l’Istituto magistrale «Matilde di Canossa» di Reggio Emilia, venne chiamato alle armi nel dicembre 1941. Tornato dal conflitto bellico,
fu dichiarato invalido di guerra per le conseguenze riportate.
Svolse la professione di insegnante elementare, dapprima nella provincia
di Reggio Emilia, poi in città: dal 1959 al 1972 presso la scuola «Montegrappa», successivamente nella scuola «Carducci» fino al collocamento a riposo nel
1974.
Coniugato con la maestra Argia De Rossi (Gea), ebbe due figli. Morì a Bolzano il 27 luglio 1995.
Si spense nei luoghi da lui amati, fra le cime dolomitiche che si stagliano
nell’azzurro del cielo, nell’aria tersa, in ampi spazi e infiniti orizzonti. Mete
predilette poiché gli trasmettevano un senso di libertà, di aria aperta, sensazioni sempre ricercate in antitesi al periodo trascorso forzatamente al chiuso dei
campi di concentramento. Luoghi tanto cari da portarlo ad affermare poche
settimane prima della sua fine, dovuta ad un improvviso ed irrimediabile malore: «Come sarebbe bello morire qui, fra queste montagne…».
Auspicò che le nuove generazioni potessero vivere in un mondo libero da
ciò che egli aveva provato negli anni della giovinezza e che la sua testimonianza contribuisse a mantenere viva la memoria su tanto orrore, perché non si
ripetesse mai più.
Ci auguriamo, rendendo pubblica questa narrazione, conclusa da nostro
padre a Reggio Emilia il 19 aprile 1981, di aver esaudito il suo desiderio.
I figli
Carmela e Giancarlo
63
Novellara 1957. Gli anni dell’insegnamento
Dedico questi miei ricordi e riflessioni alla carissima professoressa Lina Cecchini1 e
alla memoria del Cardinale professor Sergio Pignedoli2, miei insegnanti di Filosofia
presso l’Istituto magistrale «Matilde di Canossa» di Reggio Emilia dal 1937 al 1940.
Introduzione
A distanza di decine di anni, sto ricopiando con pazienza le annotazioni
quasi illeggibili tracciate su di un vecchio, logoro diario di vita militare e di
prigionia. Mi aiuto coi ricordi, e talvolta introduco qualche considerazione
attuale.
Già su questo argomento sono stati versati fiumi di parole roventi. Narrare le proprie vicende passate, a volte avventurose, spesso dense di angosce,
1
Lina Cecchini (1906-1997), insegnante ed esponente del mondo cattolico antifascista. Per una
biografia di Lina Cecchini vedi A. ZAMBONELLI, «RS-Ricerche Storiche», n. 81/1997, p. 15.
Sergio Pignedoli (1910-1980), cardinale reggiano, segretario della Sacra congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli (Propaganda fide), guidò poi il Pontificio consiglio per i non
credenti. Sulla sua figura vedi P.P. SIMONELLI, Card. Sergio Pignedoli, profilo spirituale e biografico
Age Grafica Editoriale, Reggio Emilia 1980, estr. da «Bollettino diocesano di Reggio Emilia e
Guastalla».
2
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dubbi, paure, può sembrare indice di autocompiacimento, ma ogni esperienza
è irripetibile, ha un valore intrinseco che va oltre il «personale», ed io pazientemente scrivo. È un modo, anche questo, per analizzarsi intimamente, per
riconoscere le debolezze proprie e altrui. Narro le sensazioni e i dolori provati
in un periodo difficile della nostra vita: dal 1941 al 1946.
Se siamo sinceri, dobbiamo riconoscerlo, anche se può sembrare un luogo
comune, la vita è più ricca di sofferenze che di gioie, e non solamente nei tremendi tempi delle guerre. Il problema del male e del dolore non è facilmente
spiegabile: si presenta sotto aspetti irrazionali e perciò assurdi.
Il nostro più evidente errore e la nostra fragilità consistono probabilmente
nell’attribuire eccessiva importanza ai beni terreni, a questo nostro Io, che
sembra costituire, a torto, il centro dell’universo. Penso per un attimo alle
filosofie orientali, che in passato affascinarono il mio spirito; per l’induismo
la salvezza sta nel dissipare l’illusione dell’Io e del Tu, nel capire che noi e il
mondo intero siamo parte della divina Unità. Una volta raggiunta la coscienza
di Dio o «la coscienza di sé», come spesso la chiamano gli Indù, possiamo rifluire nel «Brahman», spogliandoci del nostro io, come i fiumi perdono nome
e forma, gettandosi nell’Oceano. Tutto è «Brahman», compresi noi stessi; solo
per un inganno dovuto alla nostra ignoranza vediamo la vita come molteplicità, anziché come unità.
Certo per noi occidentali, che apprezziamo la nostra individualità, il monismo non è una filosofia molto consolante, né accettabile, ma per gli Indù fondersi con «Brahman» significa solo rinunciare a una personalità finita, limitata,
per ottenerne una infinita: è la pura beatitudine.
Proprio questo nostro individualismo ci induce spesso ad uno stato d’animo del tutto buio, non intravediamo alcuno spiraglio. È indispensabile avere
sempre un po’ di fiducia: la disperazione non produce alcun bene, ma soltanto
ulteriori disgrazie.
Un mio caro amico un giorno mi scrisse: «È difficile tracciare consuntivi
sulla nostra vita, perché chissà quante aggiunte dovremmo poi fare; meglio
è voltare serenamente, un giorno dopo l’altro, le pagine degli avvenimenti,
come fossero un’opera in cui l’autore ha messo di tutto. Che noi speriamo o
temiamo, le pagine passate o future ci stanno davanti e dovremo leggerle noi,
anche se c’è qualcuno che ci accompagna nella lettura».
È vero, i nostri problemi dobbiamo risolverli responsabilmente, con calma:
la mia testimonianza, in effetti, non è dettata da un senso di ribellione fine a
sé stesso, ma dal desiderio che certe esperienze possano costituire, non solo
per me, ma per chiunque le legga, un sia pur breve motivo di ripensamento.
Ho sofferto molto a causa del fascismo e del nazismo. Ho sempre avvertito
un’invincibile contrarietà verso i regimi totalitari, qualsiasi etichetta portassero:
annullano la personalità umana, la rendono schiava del sistema e spesso la
costringono a ubbidire ciecamente anche agli ordini più insensati e inumani.
Inalberano il vessillo di un’idealità falsamente superiore, che nasconde l’aspi-
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razione al potere assoluto, annullando così ogni concetto di giustizia, di libertà
e di concordia.
Voglio riferirmi quasi esclusivamente ai fatti accaduti durante l’ultimo conflitto mondiale; si sono verificati, è vero, in seguito, molti altri gravi e dolorosi
avvenimenti, tutti degni di altrettanta considerazione e riflessione, ma non
voglio esulare troppo dal mio diario.
Mi ripropongo di ricordare, attraverso le mie, le personali, identiche o peggiori, situazioni in cui si sono venuti a trovare decine di migliaia di soldati,
sottufficiali e ufficiali italiani, che, internati durante la seconda guerra mondiale nei campi di prigionia nazisti, hanno rifiutato di aderire alla Repubblica
sociale italiana, al Reich, al lavoro, respingendo la proposta di collaborare,
sotto qualsiasi forma, con i tedeschi, nella prosecuzione di una guerra che i
più consideravano ingiusta e perduta sin dal suo inizio. Molti hanno sofferto
fame, freddo, infermità, torture fisiche e morali, tanti sono morti d’inedia o
sono stati soppressi: il loro unico ideale era quello di resistere al nazismo per
l’instaurazione della pace e della libertà.
Capitolo I
Vengo chiamato alle armi con cartolina rosa, anche se studente universitario, nel dicembre 1941, a ventidue anni: sono «volontario per volere di Mussolini», e ciò mi fa sorridere: una delle sue brillanti invenzioni spavalde. Il «duce»
interpreta le aspirazioni degli studenti universitari: devono essere considerati
«volontari».
Frequento vari e lunghi corsi: allievo caporale, in Sicilia, a San Ciro, in provincia di Trapani; allievo sergente a Campobasso; allievo ufficiale a Palermo.
Accadono incidenti mortali, specialmente in un’esercitazione «a fuoco» avvenuta a Boiano, nel Molise, ai piedi della catena del Matese. Vengo poi inviato
in licenza nella città natale di Reggio Emilia, in attesa della nomina a ufficiale.
Ritorno quindi in Sicilia, a Messina, perché sono aggregato con il grado di
sottotenente al 3° reggimento fanteria «Piemonte».
È il 30 gennaio 1943; in un salone della caserma avviene la cerimonia del
giuramento di fedeltà. Improvvisamente, durante la celebrazione, arrivano superfortezze volanti americane: un sibilo prolungato, orribili deflagrazioni. Ci
gettiamo tutti a terra. Una bomba è scoppiata nelle vicinanze: i vetri delle finestre vanno tutti in frantumi. Molti volti sbiancano per lo sbigottimento.
Terminata l’inquieta cerimonia, rientriamo nella nostra abitazione nella «Casa dello studente», amministrata da un’anziana contessa; qui possiamo
mangiare e dormire con una spesa modesta, come modesto è il trattamento.
Scarseggiano i generi alimentari di prima necessità, si soffre già un po’ la fame
e si cerca di porvi rimedio dando fondo ai risparmi.
I bombardamenti continuano a imperversare, la vita nella caserma è quasi
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paralizzata; ci rimango esclusivamente
quando sono di guardia, come «ufficiale
di picchetto».
Di notte spesso si ode la sirena
dell’allarme aereo, scendo con gli amici
Italo e Vittorio nello scantinato e, mentre si sentono i sibili e le deflagrazioni, preghiamo per conto nostro oppure
canticchiamo qualche canzonetta napoletana, sperando che cessino al più presto quei rumori sinistri.
Una notte, dopo un bombardamento
particolarmente intenso, usciti dal rifugio, troviamo le case poste di fronte alle
nostre, sull’altro lato della via, ridotte
a cumuli di macerie fumanti e polverose. Urla di dolore e disperazione, arrivo di autoambulanze: morti e feriti. I
vetri delle nostre camere sono tutti in
frantumi, il morale tende sempre più a
diminuire.
Di giorno la popolazione è talmente
terrorizzata, che basta un minimo segno
di allarme, una parola dal sapore di pericolo, e una folla ondeggiante si riversa
nelle vie della città, urlando e fuggendo
disperatamente verso la galleria ferroviaria della linea «Peloritana», per rag1942. Remo Fantini ufficiale
giungere un rifugio ritenuto un po’ più
sicuro, posto sotto il monte.
Non è possibile continuare a vivere in questo clima di terrore e il comando
militare ci ordina di condurre i soldati nella zona di Camaro Superiore, sulle
colline sovrastanti Messina.
Così una mattina ci mettiamo in marcia, soldati, sottufficiali e ufficiali, costeggiando in salita un torrentello, caratterizzato da tante piccole cateratte.
Regna il più assoluto silenzio. Si odono soltanto gli smorzati rumori dei nostri
passi e il mormorio dell’acqua che scorre, scendendo verso il mare.
Giunti a destinazione, non fatichiamo a trovare per la truppa e per noi un
alloggio in case semideserte: gli abitanti del luogo, impauriti, si sono rifugiati
in grotte naturali, ritenute meno vulnerabili durante le incursioni aeree.
Don Agostino, un piccolo proprietario terriero, coltivatore diretto, di statura
media, magro, carnagione olivastra, gli occhi neri, espressivi e buoni, è molto
ospitale: ci offre volentieri la sua camera da letto e pure tutte le altre stanze
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disponibili. La figlia Santuzza, riservata ma gentile, ci prepara ogni giorno un
caldo minestrone di verdura. La cordialità della popolazione siciliana è per noi
un grande sollievo. Non vorremmo arrecare tanto disagio, ma loro ripetono
che preferiscono vivere nei rifugi, dove hanno trasportato il necessario per
dormire e nutrirsi.
Di giorno riuniamo i soldati, eseguiamo brevi esercitazioni, poi conversiamo tra noi, riconoscendo che, male armati come siamo e con un nemico che
viene dal cielo, non sappiamo proprio che fare. Le batterie antiaeree funzionano con scarsi risultati.
Dall’alto della collina quotidianamente osserviamo arrivare, brillanti sotto i
raggi del sole, gli aerei da bombardamento «B17»: paiono, a distanza di alcuni
chilometri, giocattolini, ma giocattoli mortali, dal lugubre brontolio; vediamo
scendere le bombe, a grappoli, e osserviamo l’effetto devastante delle esplosioni. Gli obiettivi preferiti sono il porto, la ferrovia, la caserma, però spesso
vengono colpiti anche edifici pubblici e abitazioni private, sicché la città va
progressivamente spopolandosi e lo stato d’animo prevalente è il panico.
Nell’aprile 1943 vengo trasferito per via ferroviaria in Grecia.
Breve licenza nella città di Reggio Emilia, poi partenza per Mestre; la mezzanotte del giorno 10 sono a Trieste; il mattino seguente a Lubiana; breve sosta
nella città, dalle vie ampie e dagli
edifici ben costruiti, solidi, dominata da una fortezza medioevale
eretta su una collina verdeggiante.
Beata incoscienza della giovinezza: sembra quasi di trovarsi in
gita turistica!
Il convoglio riprende la marcia e oltrepassa il confine: giungo così nel territorio annesso alla
Germania nazista. Costeggio il
fiume Sava: osservo boschi di pini
e di abeti; vedo pure, più avanti, montagne rocciose, alternate a
zone collinari punteggiate da casette linde e ben disposte.
Temo di diventare noioso e
di ripetermi, però si tratta di annotazioni originali scritte sul mio
sgualcito quaderno: un itinerario
lungo.
A sera raggiungo Zagabria;
1943. In Sicilia
il mattino del giorno 12 sono in
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Croazia: qui si susseguono vaste pianure e fitte boscaglie; talvolta il paesaggio
si fa brullo, stepposo; sono a Sisak; nei pressi di Novska vedo tranquilli pascoli
di ovini e di bovini; passo da Okucani, Gradiska, Brod, Vinkovci: m’interesso
di annotare il nome delle varie stazioni; poi ammiro nuovamente pianure fertili, coltivate a grano, e boschi, tanti boschi.
A sera e di notte, quando non riesco a dormire, mi soffermo nel corridoio
della tradotta e ascolto, provando un senso di sollievo, il canto degli uccelli,
armonioso e interminabile: è la natura che pare voler mitigare, coi suoi accenti
primaverili, le angosce degli uomini, e invitarli alla pace.
A Mitrovica mi vengono incontro immense pianure brulle alternate a pascoli.
Il giorno 13 sono a Belgrado; il 14 proseguo il lungo viaggio tra pianure
brulle, pascoli e frutteti, specialmente susini.
Ora si entra nella valle della Morava: ecco la stazione di Lepovo, poi colline
e ancora frutteti a perdita d’occhio. È un viaggio interminabile, che per me
acquista un sapore di irrealtà.
Vi sono alcuni giorni di sosta causati da incidenti: i partigiani jugoslavi
hanno indirizzato contro il convoglio militare dei colpi di arma da fuoco. C’è
nell’aria una certa agitazione, alcune pattuglie vengono inviate a ispezionare
la zona circostante; ritorna la calma e il venti si riparte.
La temperatura è mite, l’atmosfera chiara; guardo ancora pianure fertili,
altissimi pioppi, coltivazioni di granturco, frutteti. Arrivo a Skopje. Non penso
ai guai, alle difficili situazioni in cui verrò un giorno a trovarmi, viaggio senza
eccessive preoccupazioni, quasi si tratti di un’avventura. Si costeggia il fiume
Vardar: ecco Zelenicovo e le montagne rocciose, aspre, monotone.
Il treno oltrepassa il confine, entra in territorio greco, nella Macedonia; tornano a comparire le verdi pianure, i campi di grano.
Oltrepassati i monti della Tessaglia, sono a Larissa. Sosta fino al 24 aprile;
il 25 si va a Domokos, quindi il convoglio sale tra monti rocciosi sino a Lianokladion. Si attraversano ancora montagne; il 26 passiamo a Tebe e si notano
nuovamente colline coltivate a grano e frutteti. Infine la sosta più importante:
Atene. Ci occorre del riposo e veniamo sistemati in un albergo, ma per ripartire il giorno successivo.
La capitale, osservata superficialmente, non colpisce la mia fantasia: mi
appare come una qualsiasi altra città. Pensando alla sua storia millenaria, immagino di vedere costruzioni grandiose e resto deluso, ma non c’è nemmeno
il tempo per visite particolari: il 27 devo raggiungere il Peloponneso.
C’imbarchiamo al Pireo e attraversiamo il canale di Corinto; dalla nave lo
spettacolo è originale e stupendo; l’acqua azzurra pullula di meduse dal corpo
gelatinoso, a forma di ombrello, e dai molteplici e cangianti colori: rosa, bianco, viola pallido, celeste.
Durante la notte indosso il salvagente e mi siedo sul ponte, scrutando il
cielo stellato. Incomincio a pensare al destino dei miei compatrioti e mio. Lo
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sguardo si fissa verso il mare infinito: il chiarore lunare si riflette sull’acqua
producendo un tremolo, continuo luccichio. È una poetica crociera! La giovinezza aiuta ad essere ottimisti. Confido nell’aiuto di Dio.
Il mattino seguente si sbarca a Patrasso. Vedo una città modesta, ma che so
importante dal punto di vista commerciale; noto pure i segni dell’antica città
sull’acropoli. Qui si sosta per alcuni giorni; il 2 maggio riparto per Lutra, Amalias, Pyrgos. Constato con piacere che il clima e la vegetazione sono in tutto
simili a quelli della Sicilia da cui provengo: cielo azzurro, aria piuttosto calda
e coltivazioni tipicamente mediterranee: cereali, ulivi, fichi, mandorli, agrumi,
viti, nespoli.
È il viaggio più lungo delle mia vita e, dopo tante impressioni ricevute,
desidero riposarmi.
Il Comando militare mi destina ad Amalias, presso un battaglione di fanteria, in una scuola adibita a caserma.
La mia prima conoscenza: Ilo, un giovane sottotenente perugino, mi accoglie con modi gentili, semplici, ma nello stesso tempo con l’aria consapevole
di chi sa di avere dietro di sé una discreta esperienza nel campo militare; ha la
spalla ed il braccio destro fasciati per una ferita riportata durante un’azione di
rastrellamento. È alto, biondo, capelli ondulati, occhi azzurri; la sua espressione è dolce, ma evidenzia l’orgoglio di chi ha già affrontato il fuoco.
Il maggiore Giaconia mi affida il comando di un plotone e mi assegna
un attendente, Antonino Castrianni di Petralia Sottana, un siciliano dai modi
un po’ ruvidi, ma dall’animo assai generoso. Questi mi procura una branda,
lenzuola, coperte e tutto ciò che mi necessita per sprofondare in una lunga,
ristoratrice dormita.
Il mattino seguente inizio con gli altri ufficiali esercitazioni utili per il comportamento da tenere nei territori occupati.
Il problema principale che grava sulla zona è costituito dagli attentati compiuti quotidianamente dai patrioti greci: non si rassegnano all’occupazione
militare da parte di una nazione straniera e compiono azioni di disturbo incendiando camionette, attaccando capisaldi e caserme. Ogni giorno si verificano atti di guerriglia. Per prevenirli o reprimerli usciamo spesso dalla nostra
caserma per rastrellare i paesi vicini. Durante queste operazioni vengono fatte
sgomberare le case: si fruga ovunque per cercare armi o munizioni nascoste.
Diversi ufficiali miei colleghi sono particolarmente nervosi, irritati, perché
la Sicilia è stata occupata in seguito allo sbarco degli Alleati, e molti di essi
riversano la loro esasperazione sui greci. Se questi non salutano romanamente
le sentinelle o gli ufficiali, vengono condotti nel corpo di guardia e malmenati. Questo è ingiusto e io non lo ammetto: che c’entrano i greci se gli Alleati
hanno invaso la Sicilia?
Si verificano talvolta altri atti illeciti: durante le marce di trasferimento da un
paese all’altro dei soldati rapiscono pecore o altri animali. Ciò non è leale: si
possono esigere dalle autorità locali, quali occupanti, le vettovaglie necessarie
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al sostentamento senza rubare o razziare. Impartisco ai miei soldati l’ordine di
astenersi da simili atti, degni di predatori, non di truppe regolari.
Di notte, quando sono di servizio, perlustro la cittadina di Amalias, accompagnato dalla ronda; temo attacchi di sorpresa, ma fortunatamente non
veniamo presi di mira.
Nel mese di agosto sono trasferito nell’isola di Zante.
La cittadina, denominata «La perla dell’Oriente» per le sue bellezze naturali,
per il suo fascino, è posta sulla costa orientale, di fronte ad Amalias. Nella piazza antistante il porto vi è un monumento dedicato a un poeta greco; intorno
alcuni edifici, la chiesa, i giardini. Ha l’aspetto di una cittadina italiana, anche
perché risente della lunga dominazione veneziana: su alcune vecchie costruzioni o ruderi ho notato scolpito il leone di San Marco. Alte palme stagliano le
loro lunghe, frastagliate e ondeggianti foglie lucenti nel cielo, costantemente
azzurro. C’è molta calma, il clima ideale, temperato, l’aria salubre. Passeggio
nelle vie di Zante, visito la casa dove nacque Ugo Foscolo. Mi viene fatto notare che è stata danneggiata da una bomba lanciata dall’aviazione italiana…
L’isola ha forma allungata, la pianura è fertile, racchiusa fra una catena
montuosa e una collinare. Vi si coltivano olivi e viti con la famosa uva di
Corinto, che ho potuto gustare per i suoi acini piccoli, delicati, dolci. Pochi
boschi e pascoli sulle alture.
Appartengo a una compagnia che ha il compito di predisporre sulla costa
nord-orientale uno schieramento difensivo, un caposaldo.
I soldati innalzano per noi e per i loro ufficiali le tende, sistemano intorno
i «cavalli di Frisia», una protezione formata da reticolati. Siamo armati di vecchi
fucili modello 1891, di mitragliatrici leggere «Breda» e «Fiat», di un cannoncino
anticarro. Con tali mezzi dovremmo tentare di sparare, se occorre, contro aerei
nemici che sorvolassero la zona: pura follia!
Ci asteniamo dall’impartire ordini precisi in tal senso: i mezzi di cui disponiamo sono assolutamente inadeguati. Dovremmo anche difenderci da tentativi di invasione dal mare…
Ad ogni nostra richiesta di rinforzi, il Comando militare risponde che dobbiamo arrangiarci. Se i soldati sono privi di scarpe, ci viene consigliato di far
loro confezionare degli zoccoli!
Molti generi di conforto non vengono distribuiti.
Si saprà poi che i magazzini, a Zante, erano colmi di materiali e che i tedeschi, al loro arrivo, dopo l’armistizio, ne avevano fatto incetta.
Intanto il mio attendente Antonino mi aiuta in tutto ciò che è possibile;
i rapporti con lui e con tutti gli altri soldati sono basati su collaborazione e
simpatia reciproca.
È estate e ci immergiamo giornalmente nello splendido mare azzurro cupo.
Io imparo, se non altro, a nuotare. Partecipo con gli amici, tutti ufficiali
siciliani, a brevi gite in barca, un po’ al largo, in acque limpide color cobalto.
Sarebbe una vita tranquilla, quasi felice, ma troppo lontana è la Patria.
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Svolte poche ore di addestramento, ci si ristora nelle acque di un mare
limpido e invitante, si pesca, si riposa. Fraternizziamo con i greci dell’isola,
sono molto affabili e ci ospitano nelle loro case; hanno compreso che questa
tremenda guerra non è da noi condivisa e che siamo semplicemente uomini
costretti a svolgere il ruolo ingrato di occupanti in un Paese che non ci è assolutamente ostile.
Impariamo anche le più elementari espressioni in lingua greca, soprattutto
di saluto e ringraziamento: «kalimera» (buongiorno), «kalispera» (buonasera),
«kalinikta» (buonanotte), «efkaristò» (grazie), canzoni popolari come «ta matia»
(gli occhi), e i nostri rapporti diventano sempre più cordiali.
Ma questo stato di cose non può durare a lungo.
Alle 21 guardo le stelle dell’Orsa Maggiore, ed in particolare quella che si
dice sia la stella degli innamorati. Anche Gea, la mia fidanzata, da Reggio, ne
sono certo, la sta guardando.
«Tutte le sere osserva nel cielo la stella del Cavaliere: se noi non possiamo
incontrarci, lasciamo che i nostri sguardi s’incontrino, là, tutte le sere… Tutte
le sere, finché non tornerò».
La lontananza mi fa male, ma riesco a mantenermi sereno. È uno stato
d’animo che però dura poche settimane.
8 settembre 1943: armistizio tra il generale Badoglio e gli Alleati. Il proclama ci lascia stupefatti, disorientati, in balia di noi stessi. Si avverte un primo
momento di euforia: si torna in Patria, la guerra è finita! Ma subito dopo ci
rendiamo conto che i tedeschi intendono proseguire i combattimenti. Già il
nove settembre ci viene comunicato che navi tedesche si trovano ancorate nel
porto di Zante.
Raduniamo i soldati, smontiamo le tende, prepariamo lo zaino, le armi, e
ci avviamo verso la cittadina per raggiungere il punto di raccolta delle nostre
truppe.
Ci muoviamo dal nostro caposaldo verso sud-est. In fila indiana marciamo
lentamente e sfiduciati. Ogni segno di serenità è stato cancellato d’un sol colpo
dai nostri volti.
Giunti nell’abitato, siamo pronti a rinchiuderci in qualunque androne, in
caso di attacco, allo scopo di difenderci. Nel silenzio grave si odono solamente
i passi cadenzati dei nostri scarponi; gli abitanti sono tutti rintanati: non si vede
ombra di essere umano.
Attraversiamo la zona antistante il porto. È il momento di maggiore tensione: i tedeschi si sono appostati nei punti strategici, impugnano e puntano le
loro armi automatiche nella nostra direzione, osservano ogni nostra mossa.
Continuiamo a marciare, sforzandoci di mantenerci calmi, sicuri, ma il nostro cuore batte forte nel petto. Le palme, il mare, così belli in altre giornate,
vengono trascurati dal nostro sguardo: sono momenti di estrema incertezza
e anche di paura. Tratteniamo persino il respiro, proseguiamo la marcia con
cautela e usciamo dal paese.
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Finalmente raggiungiamo il punto di raccolta a sud della cittadina. Innalziamo di nuovo le tende, mentre s’intrecciano interminabili discussioni. Qualcuno pensa sia bene collaborare con i tedeschi, ma non trova sostenitori e subito
viene messo a tacere.
Secondo un’indagine svolta febbrilmente tra soldati e ufficiali, emerge la
netta volontà di opporre resistenza e di combattere l’ex alleato, divenuto per
noi improvvisamente nemico, perché non condivide l’idea, che a noi pare la
più sensata, di accettare l’armistizio.
Qualche filotedesco ipotizza accordi per noi inammissibili e, siccome insiste, viene persino minacciato di morte.
Trascorrono quattro giorni densi di angosciosi interrogativi e di astio verso
chi ci impedisce di porre fine al conflitto.
Intanto sulla vicina Cefalonia i caccia tedeschi «Stukas» colpiscono inesorabili le truppe, che si battono con eroismo, e volteggiano minacciosi sulla
nostra isola per ammonirci.
Il colonnello Pozzuoli, venuto a conoscenza che a Cefalonia è stata massacrata la Divisione «Acqui», comandata dal generale Antonio Gandin, ci riunisce.
È amareggiato, non vorrebbe smorzare la nostra spinta a combattere, ma le
forze sono troppo impari, non si sente di mandarci a morire, e si assume la
responsabilità di arrendersi.
Così, a malincuore, avviliti, gettiamo le armi, una montagna di vecchie armi.
Capitolo II
Il 14 settembre veniamo imbarcati; il 15 siamo in navigazione. L’animo è
greve, umiliato; senza motivi ragionevoli, sentiamo rivolgerci dai soldati tedeschi le prime parole dure, cattive, volgari, parecchi «Schwein!» (Porco!).
Attraversiamo il golfo di Patrasso, il golfo e il canale di Corinto; il 16 settembre approdiamo al porto del Pireo.
Sul molo ci accoglie un plotone di soldati tedeschi dall’aria grintosa, forniti
di mitra; ci puntano contro, con ostilità, le loro armi.
Dopo un’ora di sosta penosa, scendiamo dalla nave, stanchi e avviliti; veniamo fatti salire sbrigativamente su autocarri e condotti alla periferia di Atene.
È il 17 settembre: siamo costretti a sistemarci alla meglio in bassi caseggiati,
tinteggiati di bianco, su una spoglia e sassosa collina. Non molto distante s’innalzano le colonne del Partenone, ma noi non riusciamo a pensare se non alla
nostra incerta sorte. Durante questi giorni ci viene subdolamente promesso
il rimpatrio e a noi ufficiali è concesso di conservare la pistola, ma sarà per
breve tempo.
Il 18 riceviamo l’ordine di metterci in marcia, zaino sulle spalle, verso la
stazione ferroviaria. Saliamo su un treno merci e si parte.
L’attendente Antonino non mi abbandona, come, al contrario, fanno gli at-
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tendenti di tutti gli altri ufficiali. Mi resta fedele; fra noi c’è un rapporto di amicizia e di affetto, che desta sorpresa, non priva di una certa amarezza, nei miei
colleghi. Rimango con lui e con gli altri miei soldati. Vogliono che mi sistemi
nel loro carro, steso su una brandina, perché possa affrontare più agevolmente
il viaggio; non vorrei godere di tale privilegio, ma ci sono quasi costretto dalla
spontaneità dell’offerta. Non so descrivere il senso di riconoscenza e di orgoglio che provo verso questi uomini semplici e generosi.
È il viaggio del ritorno; c’è in noi tutti un filo di speranza, ma una speranza
vana: in effetti si tratta di una penosa deportazione.
Il 20 arriviamo a Larissa, e poi, giorno dopo giorno: Salonicco, Skopje,
Nis, Sofia, Karnobat, Dobric, infine Varna sul Mar Nero: treno fantasma, che
si dirige verso tutte le direzioni, le più impensate. Probabilmente i tedeschi
obbediscono all’esigenza di altri trasporti, ben più importanti dal punto di vista
della loro strategia militare.
Con animo assai diverso avevo viaggiato in aprile nei medesimi luoghi,
quando tutto m’interessava: monti, pianure, vegetazione; quando conoscere
i paesaggi dei Balcani e della Grecia m’incuriosiva e contemporaneamente
infondeva nel mio animo il sapore dell’avventura…
Percorse Grecia e Bulgaria, il 28 entriamo in Romania seguendo itinerari
incredibili: si avanza, si torna indietro, si effettuano soste, senza mai conoscerne i motivi.
Raggiungiamo Galati, passando il ponte sul Danubio; attraversiamo i monti
Carpazi; il 30 siamo a Debrecen in Ungheria, il 1° ottobre a Varadino, il 2 a
Bekes, a Seghedino, il 3 a Zalaegerszeg: giri viziosi, tanto si tratta di materiale
umano di nessuna importanza, ingombrante e inutile.
Durante una sosta raggiungo l’amico Italo e converso a lungo con lui. Ci
troviamo nella carrozza destinata agli ufficiali, l’ultima del convoglio. Mi prega
di fermarmi almeno per una notte, gli terrei compagnia. Resto perplesso, indeciso, so che i miei soldati mi attendono.
Il treno intanto si mette in movimento. Saluto l’amico: «Ciao, Italo, no, questa notte no, un altro giorno mi fermerò a lungo, ciao!».
Chi avrebbe immaginato che sarebbe stato l’ultimo saluto? Mi avevano sempre colpito la sua profonda cultura e la mitezza del carattere; aveva negli occhi
un’espressione buona, un po’ melanconica, quasi presaga di tristi eventi. Il
treno aumenta la velocità. Rincorro il vagone dove si trova il mio attendente.
Per un attimo penso di fuggire nella campagna ungherese e chiedere ospitalità. L’angoscia mi attanaglia, non me la sento di affrontare l’ignoto, così, senza
mezzi, senza conoscenza della lingua ungherese. Privo di coraggio, raccolgo
lo stesso ogni mia energia e mi aggrappo a un respingente di un vagone. Salgo
a fatica, le mani sporche di morchia; riesco ad appoggiare i piedi sui bordi di
un carro, e tutto accade mentre il convoglio aumenta di velocità. Passo da un
carro all’altro, nella luce incerta del tramonto, sto per scivolare e precipitare
nella scarpata, mi aggrappo, continuo a superare altri carri e finalmente rag-
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giungo il mio posto. Mi sdraio sulla brandina e cerco di dormire; sono turbato
per i pericoli corsi, mi agito, poi mi assopisco tra gli scossoni del treno-fantasma. I soldati dormono, apparentemente tranquilli.
Alle 2.45 del 4 ottobre, nell’oscurità totale della notte, si ode uno schianto
fragoroso; la mia brandina cade per l’urto subìto. Tutti ci svegliamo e cominciamo a udire urla e lamenti. Un treno che ci seguiva, trovata la segnalazione
di «via libera», proseguiva la marcia a velocità sostenuta nei pressi di Hegyeshalom, poco prima del confine austriaco, investendo con violenza gli ultimi
carri del nostro convoglio: l’urto e la forza di penetrazione del locomotore
hanno fatto saltare i tetti e le fiancate dei vagoni; i carrelli dei tre carri di coda
sono venuti a trovarsi sovrapposti uno sull’altro, con distruzione di vite umane
e ferimenti gravi. La carrozza più colpita è proprio l’ultima, quella passeggeri,
riservata agli ufficiali. Nell’urto si è sviluppato un corto circuito, causando un
incendio. Scendo dal carro e mi trovo attorniato da rottami, fumo, fiamme,
sangue. Arrivano mezzi di soccorso: autoambulanze dal sibilo lacerante, camionette di vigili del fuoco. Fari illuminano la scena della catastrofe. Sporgono
teste, braccia, gambe incastrate dalle lamiere, corpi carbonizzati.
Si continuano a udire lamenti strazianti; qualcuno chiede aiuto, altri supplicano di venire finiti. Dopo le prime assistenze operate da medici e infermieri
volonterosi, si provvede al disincagliamento delle carrozze: corpi straziati, sangue che scorre ovunque.
Mi pare di essere una pietra.
Nessuno di noi sa che fare o dire. Muoiono amici carissimi, tra cui Italo di
Roma, Ivo Bassoli di Reggio Emilia.
Ore dopo, terminate le operazioni di trasporto dei feriti negli ospedali e
dei morti all’obitorio, liberata la linea ferroviaria, il convoglio prosegue la sua
corsa tragica.
Si entra in Austria e il 5 ottobre siamo a Linz. Breve sosta, scendiamo e
pure noi ufficiali veniamo perquisiti e disarmati, ma si tratta di un’operazione
inutile: dal treno in corsa abbiamo già smontato e buttato dai finestrini i pezzi
delle pistole, in modo da renderle inutilizzabili.
Qui si spegne del tutto la speranza di potere rientrare in Italia. Le promesse
erano soltanto servite come calmante. Si risale e si procede verso nord. I carri
vengono ermeticamente chiusi. Da ora in poi non esiste per noi alcuna, neanche minima, libertà di movimento.
Il 6 ottobre, alle 20, siamo a Berlino, nello «Stalag III/D». /Steglitz/
Il 7 gli ufficiali vengono separati dai soldati; saluto e abbraccio Antonino,
che piange. Strano vedere singhiozzare un uomo forte, abituato alla fatica, al
duro lavoro. Anch’io sono rattristato, avvilito, ma nessuna lacrima vuole scendermi lungo il volto. Lo saluto, sperando di poterlo ancora incontrare.
Vengo condotto in una baracca di legno, poi immatricolato, rapato, fotografato. Sul petto un cartello: 6132. Da questo momento, per i germanici, non
sono che un numero. Il bagno, e di nuovo partenza. Alle 19.30, dopo avere at-
75
traversato Berlino in metropolitana, arrivo a Luckenwalde, «Stammlager III/A»3.
Sistemazione in una tenebrosa, immensa baracca, densamente popolata da
prigionieri di ogni nazionalità.
Incomincia a farsi sentire, sempre più prepotente, la fame; le razioni dei
viveri sono scarsissime. Cedo a un prigioniero francese un paio di stivali e un
vecchio orologio in cambio di una pagnotta e di un pacchetto di surrogato di
caffè.
Il 29 ottobre si riparte da Luckenwalde: sveglia alle 6, partenza alle dodici.
Si cammina lentamente verso la stazione, si sale sul treno merci e, dopo due
giorni di sballottamento, il 31 raggiungiamo Varsavia e il primo novembre
Beniaminowo. Altra marcia fino al Lager, infine ingresso e assegnazione della
baracca numero dieci: è la prima tappa della mia travagliata prigionia.
Dal 14 settembre al primo novembre è durata la triste odissea, il doloroso
viaggio di deportazione attraverso tutta l’Europa: un mese e mezzo…
Mi sistemo alla meglio in un castello di legno a diversi piani: scelgo il secondo e mi sdraio, stanco e depresso, su un letto di assi coperto da un po’ di
paglia. La mancanza assoluta di igiene, il viaggio svoltosi in carro merci, chiusi
a chiave dalle guardie tedesche, solo un mastello per le necessità corporali
di quarantacinque persone, l’impossibilità di lavarsi hanno prodotto sulla mia
pelle, già da più settimane, un fastidioso, insistente, progressivo prurito. Ma
ora neppure posso dormire. Mi giro e rigiro su quel giaciglio immondo. Mi
appisolo e penso agli amici perduti, alla famiglia lontana. Mi sento debole e
abbattuto.
Resisto il 2, il 3, il 4 novembre, poi il giorno 5, dopo essermi fatto sottoporre a una visita molto sbrigativa, vengo isolato e ricoverato nell’infermeria del
campo, per scabbia.
Manca una sola settimana ai due mesi dal giorno della deportazione ed
eccomi qui, in una squallida baracca «sanitaria» del campo 333 [Beniaminowo],
affetto da una lurida scabbia4 che mi ha tormentato per interminabili giorni e
specialmente durante gli ultimi, inumani trasporti.
Ci sono venti castelli di legno per quaranta persone, occupati circa per
metà. Ho scelto un posto in alto, al fondo del tugurio. Sotto di me dorme,
quasi in letargo, un tenente dall’aspetto precocemente senile. Mi sono sistemato alla meglio, ho steso una coperta sulla paglia e appeso alla parete lo zaino
semivuoto.
Dormo discretamente durante la notte e di giorno svolgo i lavori indispensabili; non me la sento proprio di mercanteggiare, come fa qualche ufficiale
3
Lo Stammlager III/A di Lukenwalde era dislocato a 30 chilometri a sud di Berlino, aperto nel
1939 fu liberato dalle truppe dell’Armata rossa alla fine di aprile 1945. Nel corso della sua attività
vi avevano trovato la morte oltre 50.000 prigionieri sovietici, italiani, belgi, francesi e inglesi.
4
La scabbia, chiamata anche rogna, è una dermatosi contagiosa provocata da acari che si
insinuano sotto l’epidermide provocando vesciche e infezione.
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scaltro; trangugio quel po’ di broda che mi viene data e sono triste.
Il dottor Pieri mi porge una pomata gialla, contenente zolfo, il «Mitigal»,
perché me la spalmi su tutto il corpo: è l’unica medicina che posso ottenere
dal dermatologo.
Non sono più con me Antonino, Italo, Ivo, né posso conversare con gli
amici della baracca numero dieci del campo vecchio: Piero, Vittorio, Ilo.
I compagni di oggi non sembrano disponibili a intavolare un qualsiasi discorso, a intraprendere un contatto amichevole. Sono nuovo dell’ambiente e
mi sento isolato. Parlo pochissimo con loro e solamente quando lo spirito di
solitudine mi aggredisce e mi sprofonda nell’abisso della disperazione.
Mi sento angosciato e temo di perdermi nell’infinità dei pensieri che sgorgano dalla mia mente debole, impoverita per le dolorose esperienze attuali e
trascorse.
Fa piuttosto freddo e la stufa, posta al centro dello stanzone, non emana
calore sufficiente. I miei piedi sono gelidi, poi restano freddi, sempre più
freddi, per l’intera nottata. Eppure la temperatura esterna mi sembra del tutto
normale per il mese di novembre. In Emilia, nella mia città, in questo mese
talvolta è già nevicato.
Qui non c’è neve, ma il cielo è plumbeo. Tra questo grigiore uniforme, di
tanto in tanto, trapela qualche debole raggio di sole. Oggi è domenica e, per
alcuni minuti, è apparso il sole, che mi ha rallegrato. È stata celebrata una
Santa Messa dal cappellano, qui fra castelli e tavoli vecchi, fra sgabelli e usci
sconnessi. Mi sono sentito misero, povero, abbandonato da tutti.
Ho pregato in silenzio, ho ricevuto la Comunione e mi sono raccolto in me
stesso per cercare la pace.
Questa è la fame: attendere per ore il rancio, vicino alla stufa, rivolgendo
spesso gli occhi all’uscio; illudersi di scorgere, ad ogni suo muoversi sui cardini cigolanti, un mastello nero, fumante, portato da due robusti cucinieri…
Attendo: giunge alle 11.47. Mi metto in fila con la ciotola in mano e aspetto
pazientemente il mio turno; sono settimo e presto ricevo la mia razione. Mi
rallegro, vedendo cadere nel mio recipiente una patata. Bevo avidamente
quella broda, mangio la patata e mi sembra in quei momenti di non poter desiderare di più e di meglio. Alla fine, però, mi rattristo, vedendo che più nulla
rimane nella ciotola e considerando che sino all’indomani non mi spetterà
alcun’altra sbobba.
Dopo il pasto, penso alla pulizia personale: mi lavo alla fontana, fuori,
all’aperto. Quell’acqua gelida mi risveglia dal mio assopimento, mi arrossa le
guance, là dove prima il pallore mi faceva apparire triste e macilento.
Ora sto seduto al tavolo e scrivo queste poche righe per convincermi che
ancora ho in me forze sufficienti a comporre qualche pensiero e a trascriverlo
su una vecchia rubrica: la mia vita spirituale non si è esaurita, la mia anima
non è morta, ma attende fiduciosa, pur immersa talvolta nel torpore, di risorgere libera e quasi purificata dalle sofferenze.
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L’inverno deve ancora iniziare: sarà una prova assai dura. Circola la voce
che la guerra stia per volgere alla sua conclusione, ma io sono scettico. Spero intensamente di non rimanere in questo stato per l’intero inverno; è una
prigionia tutta particolare, assurda. Non riesco ancora a rendermi conto del significato dell’internamento e penso a quanto potrebbe essere utile una nostra
pacifica attività in Patria.
Mi viene portato l’infuso di tiglio per ben due volte al giorno: una bevanda
sgradevole, neppure zuccherata. La bevo ugualmente. Lo stomaco la sopporta
più di quanto la voglia accettare il palato.
Sono le quattro del pomeriggio e già si avvertono i primi segni del tramonto: la luce dalle finestrelle non entra chiara, ma grigia e debole, le figure
umane oscillano incerte e confuse.
Al di là dei pali che sostengono i fili elettrici scorgo le fitte ombre della boscaglia, più in là intravedo le brulle campagne della Polonia: terreni sabbiosi,
ricoperti di fogliame ingiallito, alberi spogli, piccole case di legno. Immagino
che vi regni il più assoluto silenzio. Qualche bimbo osserva attraverso le finestre una lunga processione: la lenta, consueta marcia dei prigionieri. Qualche
donna sosta presso le case. Pochissimi gli uomini, e tutti anziani.
Mi raffiguro le cucine dalle luci fioche, le povere stanze da letto e tanta
umile gente che soffre, dominata e sfruttata. Popolazione cattolica, dalla fede
incrollabile, che teme di dover perdere, comunque si concluda la guerra, il
dono più prezioso, la libertà, però prega con devozione ed è tanto forte da
non smettere mai di sperare nella salvezza dell’anima.
Ora una lampadina illumina i tavoli: quattro prigionieri giocano a carte, intorno alla stufa conversano e discutono i più infreddoliti. Un poco distante sto
io, assorto nei miei pensieri. Fra poco mi verrà portata una fetta di pane nero,
somigliante a segatura di legno, con un pezzetto di formaggio: è la cena, che
dura pochi istanti. Domani la fame farà ancora sentire i suoi morsi: la sbobba
servirà a calmarla solo in parte.
Ho trascorso un’interminabile notte nel dormiveglia: un molesto prurito mi
ha mantenuto in agitazione. Non mi preoccupavo soltanto della malattia della
pelle, ma anche degli insetti che si muovevano numerosi dal pagliericcio mal
cucito.
Mi sono alzato verso le 10 e sono uscito con decisione all’aperto, penetrato
dall’aria pungente che circonda la baracca. Cammino avanti e indietro, agitando le braccia, sino al confine del cortile: un tentativo di ginnastica. Avanti e
indietro... più volte, come un animale in gabbia. Che debbo fare? Di che posso
occuparmi? I pensieri si agitano irrequieti.
Rientro. Un po’ medito, poi leggo per alcune ore. Ma i libri che sono riuscito a conservare sono pochi e fra non molto anch’essi saranno esauriti. Invano
mi tormento: che vado cercando? La distrazione? Il senso di questa vita? È difficile dare una risposta adeguata, logica ai miei interrogativi.
Quanto pesa non sapere come spendere il tempo… quanto pesa attendere
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una liberazione che potrebbe non giungere mai… A notte desidero il giorno,
di giorno attendo la sera. Spesso guardo fuori, nel vuoto. Quando la luce si affievolisce e si avvicinano le tenebre, sento insinuarsi in me una tristezza meno
cupa, una malinconia quasi dolce: un altro giorno è trascorso.
Quanto mi fa sentire piccolo la fame: non faccio che pensare al momento in
cui dovrebbe arrivare la sbobba. Oggi ho ricevuto una sola patata e qualcosa
che pareva un pezzo di carne, ma si trattava di un corpo duro, probabilmente
un pezzo di tendine.
Voglio lavare un po’ di biancheria: se domani farò il bagno, vorrò cambiarmi calze, maglia e mutande. Esco con la bacinella, mi dirigo verso la fontana,
ma è scarica e rientro deluso nella mia tana, in attesa che arrivino la fettina di
pane e i pochi grammi di zucchero. Sono infreddolito e cerco di prepararmi
un surrogato di caffè, così mi scalderò lo stomaco.
Devo stare sveglio, questa sera, perché oggi ho dormito troppo e finirò per
indebolirmi tanto da non avere più la forza di alzarmi al mattino.
È sera, il grigiore mi avvolge, ombre umane si confondono nel fumo della
stamberga.
Solitudine. Penso a Gea, alla mia famiglia, troppo lontane, ai miei ex compagni di scuola, ai professori conosciuti in periodi dominati dalla spensieratezza. Erano gli ultimi tempi dell’adolescenza, quando non si sapevano apprezzare in pieno le gioie semplici e belle che la vita poteva offrirci.
Sembra incredibile, la legge dell’arrangiarsi imperversa anche nei campi di
concentramento. Mentre c’è chi languisce nella fame, qualcuno riesce a ingrassare, occupando ore ed ore in traffici vari, comprando e rivendendo, con
mille sotterfugi, oggetti del misero corredo altrui, speculando sulle necessità
dei più deboli. Io ogni giorno aspetto con impazienza l’arrivo di alcuni grammi
di margarina e di pane, mentre debbo assistere alla consumazione di pasti abbondanti: pane tostato, lardo, marmellata, purè di patate, ottenuti con subdoli
e silenziosi atti di strozzinaggio. Così sono costretto a sperare che, se tornerò
dalla prigionia, potrò nutrirmi a sazietà con cibi genuini. In questo momento uno dei miei maggiori desideri è quello di poter bere un uovo fresco, dal
tuorlo giallo vivo!
Fra poco riceverò le notizie internazionali da una radio rudimentale, costruita con non so quali mezzi di fortuna.
È l’11 novembre e ricordo le belle serate di San Martino trascorse in famiglia, davanti al caminetto: si era soliti, quand’ero bambino, cuocere, nella
ricorrenza, le castagne in un’enorme pentola forata. Che profumo! Com’erano
calde e invitanti le caldarroste versate sul grande tavolo della cucina… Me ne
stavo felice in compagnia della mamma e delle sorelle: come ultimo nato, ero
al centro di mille attenzioni.
Il fuoco mi sta di fronte anche oggi, ma le persone che mi circondano…
estranei di ogni età, dai volti scavati, pensierosi, lontani pure loro dalle famiglie, tristi. Non castagne, ma imbevibile infuso di tiglio. Non castagne, ma solo
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qualche patata per i più fortunati. Non castagne, ma un tozzo di pane nero.
Nessuno di questi miei compagni di sventura s’è ricordato che in Italia l’undici novembre è giorno festivo. Non ho visto alcuno radersi, lavarsi, cambiarsi
la biancheria, pettinarsi; sono rimasti tutti nella solita abulia. Io, invece, ho
sbrigato queste piccole faccende personali e mi sono raccolto in me stesso per
«festeggiare» la giornata di San Martino, il santo buono che divise col povero
viandante infreddolito il suo mantello, come ci narravano a scuola i maestri.
Seduta vicino alla stufa, rivedo la mia povera mamma: compirebbe proprio
oggi sessant’anni. Il mio sguardo si porta lontano, il pensiero corre alla mia
casa, ma lei non c’è più, se n’è andata a dormire nel «San Pellegrino», e mi
sembra che di là mi stia guardando con i suoi ultimi occhi fissi. Guarda la luce
che splende davanti alla Croce, guarda tutti coloro che vanno a farle visita, di
sicuro guarda anche me, in questa squallida baracca. Chiudo gli occhi e avverto una sua carezza.
Fuori, ai vertici del quadrilatero, sciabolano e ruotano incessantemente i
fari del campo: nessuno fuggirà. Fa molto freddo.
Una depressione profonda si insinua nel mio animo. Non deriva tanto dalle
buie giornate autunnali, dalla pioggerella fitta, dalle lente nevicate osservate
attraverso i vetri delle piccole finestre, quanto dalla tendenza istintiva a isolarmi dall’ambiente in cui sono caduto contro la mia volontà, da un malessere
generale che trova le sue prime cause nella cattiva alimentazione, nell’impossibilità assoluta di condurre una vita normale, sopportabile.
Mentre me ne sto ripiegato sui seggiolini quadrati, sulle panche o sui castelli cigolanti, quasi piangenti, le ore sembrano sprofondare nelle sabbie mobili:
lunghe, noiose, insopportabili.
Non ho più età. Mi sento vecchio, sordo, ma ugualmente sensibile. La sofferenza ci coinvolge tutti. La stagione ha dei mutamenti improvvisi e influisce
sul nostro umore con i suoi imprevedibili sbalzi di temperatura. Oggi pioggia
e sole, sole e pioggia.
E intanto qui la vita passa, passa, come passa in un canale costruito di recente l’acqua gialla, torbida, limacciosa.
L’uomo è nato imperfetto e mostra, in particolari condizioni, egoismo e
meschinità. L’educazione l’ha corretto nei gesti e nell’espressione, però il suo
spirito di conservazione è così forte da incutere timore. La civiltà ha posto un
abisso tra l’uomo primordiale e quello moderno, però, se noi lo riportiamo a
uno stato di estrema necessità, vediamo che mostra tutte le sue imperfezioni e
che si affievoliscono in lui sempre più le qualità morali.
Osserviamolo bene nella dura prigionia. Dimentica spesso, istintivamente,
di avere ricoperto una carica importante nella vita civile, assottigliando il senso
di dignità e responsabilità acquisite attraverso anni di educazione e di esercizio. Pensa a sopravvivere, a non cedere per la fame; a gabbare, se occorre, il
compagno. Una patata, una rapa, una carota, una briciola di pane, in certi casi,
possono valere più della reputazione e dell’onore. Qualcuno invece subisce
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passivamente qualsiasi ingiustizia e si dà per vinto. C’è poi chi sa mantenere
un rigore morale encomiabile sotto ogni aspetto, perché dotato di una così
forte carica umana che lo conduce al superamento delle miserie.
Oggi, in questa baracca, alcuni ufficiali riescono a trafficare e a concludere
affari. In tali condizioni sembrerebbe impossibile, invece contrattano accanitamente. Fungono da intermediari tra i prigionieri che conservano ancora
qualche oggetto d’oro o qualche indumento pesante e le guardie del campo.
Contrattano anche con i polacchi, che entrano con i carri dal doppio fondo,
idonei a vuotare i pozzi neri. D’accordo, affrontano con coraggio il rigore del
clima, restano appiccicati per lunghe ore ai fili spinati nelle giornate di gelo,
ma avverto, dentro, un senso di disgusto quando sento i più scaltri vantarsi
di concludere forti guadagni, quando ostentano il frutto della loro abilità:
sterline, catenelle, medagliette d’oro, con un’espressione da usuraio sul volto.
Trapela dalle loro labbra un sorrisetto ironico.
Io non riesco a vendere l’unico indumento di cui posso privarmi: una camicia di seta pura, confezionatami con cura da una mia sorella. Non è oro e
neppure protegge dal freddo, quindi non interessa a nessuno.
E intanto vedo smistare nel mezzo della baracca mucchi di pagnotte e di
pezzi di lardo… La mia non è invidia, è semplicemente fame.
Oggi mi sono alzato alle 10.30, dopo ore di torpore, durante le quali ho
osservato la distribuzione dell’infuso di tiglio e i movimenti di quei prigionieri
mattutini che sono soliti sviluppare i contratti di compravendita. Attendo la
sbobba e, senza che io lo voglia, lo sguardo si rivolge nella direzione di uno
specchio appeso a un castello. Mi fissano due occhi infossati in profonde
occhiaie, spenti, in un volto cereo, scarnito. Tante piccole rughe, intorno alle
labbra screpolate, rendono amara quell’espressione assente… «Che cosa credevi di scoprire, dopo sessanta giorni di stenti? Non accrescere la mia rabbia,
la mia angoscia mi basta, vattene, non voglio vedere la tua disperazione, la
mia mi basta, mi basta, mi basta…».
Per un istante quell’individuo così ostile svanisce, al suo posto il ragazzo
pronto ad uscire di casa per andare da lei. Un volto pieno, sano, un sorriso
disteso, occhi chiari e luminosi… ma è solo un attimo. Ora ci sono solo io, né
sereno, né rabbioso, l’«io» di oggi, un «io» rassegnato, pallido, smagrito, apatico.
Torno al mio giaciglio; riparato da alcune coperte, penso all’interminabile
nottata trascorsa: agitazione, veglia, preghiera.
Un altro giorno è passato. Guardo fuori: nevica, il cortile e i tetti delle baracche sono già coperti di bianco. Un freddo sottile penetra nelle mie ossa, un
freddo che quasi non si avverte, perché insistente e insidioso: il freddo umido
dell’autunno polacco.
Sono le 11, da due ore il movimento nella stamberga si è fatto più animato. Si attende di essere introdotti in una stanza per la visita medica. Il dottor
Pieri svolge la sua opera con impegno, nonostante abbia pochi mezzi di cura
a disposizione.
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Mi alzo adagio, sono incerto e misurato nel camminare; mi vesto, indosso
il cappotto e osservo di nuovo la mia figura in uno specchio appeso alla stufa:
la lunga barba mi rende ancora più triste e sciupato di ieri. Esco nel cortile per
lavarmi presso la gelida fontana e mi rado alla svelta.
Alle 12.30 arriva il solito magro pasto: verza cotta, e anche scarsa. Sono già
rassegnato: debbo sopportare il languore e attendere pazientemente.
Nel pomeriggio, nulla di mutato: l’abituale compravendita, e un mio particolare disagio per la scarsità dei cibi.
Mi lavo accuratamente, ma il mio volto rimane pallido, gli occhi incavati.
Cammino avvertendo un senso di squilibrio. La fame!
Oggi minestrone d’orzo, patate, carote e verdure varie: sembra festa... Seduto accanto alla stufa centrale con la gavetta sulle ginocchia, guardo gli avanzi del pasto e mi consolo, perché un po’ mi sono ristorato. Penso che, se un
giorno potrò ritornare a casa, mi sazierò per bene e seduto a una tavola apparecchiata, avrò un piatto, delle posate, un tovagliolo, un bicchiere di vino.
Non penso, e credo sia il desiderio anche di tanti miei compagni di sventura,
a lauti pranzi, ricchi di ogni qualità di vivande, ma a un enorme minestrone,
a un’immensa pentola di fumanti patate, a una quantità di cibo sufficiente a
evitare la debilitazione fisica.
Sono molto frustrato da questa vita di infermeria, tra gente affetta da malattie della pelle e veneree.
Mi sembra che la scabbia sia in fase regressiva, anzi sono convinto che sto
per guarire, però occorre fare il bagno. I dottori ce lo promettono da dieci
giorni, ma ancora non riescono a procurarcelo; affermano che anche loro sono
dei numeri.
Il direttore dell’infermeria, un tedesco dai modi bruschi, autoritari, ad ogni
nostro reclamo per il trattamento inadeguato a cui siamo soggetti ci dichiara
con tracotanza che non dobbiamo esigere di più e che ogni nostra protesta si
ritorcerà a nostro danno.
Finalmente mi trovo nello spogliatoio attiguo alla doccia: a minuti faremo
il sospirato bagno.
Mi guardo attorno. È assai buffo il vecchio tenente M., curvo e smilzo, dalla
pelle color latte macchiettata da ulcerazioni scabbiose. Borbotta che è tutta
colpa di un medico che non ha riconosciuto la sua infezione e l’ha curato con
lisoformio, anzi con creolina all’1,5 percento. Si ostina a ripetere ai circostanti,
stupefatti, che tutti i suoi guai gli sono accaduti per colpa di quell’incosciente… e si copre il corpo nudo con la giacca di un pigiama, mentre i pantaloni
gli scendono lungo le gambe stecchite. E, nonostante la situazione grottesca,
sorride, sorride con espressione enigmatica e infantile, tanto da far scomparire
dal suo volto qualsiasi indizio di età: sembra un vecchio e un bambino nel
medesimo tempo.
È buffo, ma fa tanta pena. Ed eccolo sotto la doccia, più curvo del solito;
s’insapona, mentre sul suo viso, tragicomica maschera, si accavallano incredi-
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bili smorfie, agita scompostamente braccia e mani per lavarsi. Ho pena di lui,
di me, di noi tutti…
Siamo di nuovo fuori, nel cortile, le guardie tedesche ci hanno contato per
almeno dieci volte: stiamo attraversando i cancelli che ci separano dalla quinta
baracca, nessuno deve mancare. Il conteggio, per ogni benché minimo spostamento, segue norme assai scrupolose.
M. è soddisfatto, come tutti noi, di essersi finalmente potuto lavare con
acqua calda. Almeno questa mattina è trascorsa utilmente…
Nella baracca sono rimasti alcuni colleghi; presto li ritrovo intenti alle loro
prime operazioni della giornata. L’ufficiale C. sta dividendo in tanti pacchetti il
tabacco che ha acquistato a mille lire ogni cento grammi per rivenderlo a prezzo ben più elevato. È contento, sorride sotto la folta barba al pensiero del guadagno, ha già trovato gli acquirenti: c’è sempre qualche prigioniero che può
pagare. A cena ha davanti a sé un mucchio di pane abbrustolito, una scatola
di tonno, burro, lardo, salsiccia… e ne fa bella mostra, mangiando a volontà.
Io mi corico lentamente nello scomodo giaciglio.
Ieri sera ho avvertito nuove sensazioni, dopo avere cambiato ambiente: finalmente sono ritornato con il mio striminzito zaino alla baracca numero dieci
dell’Oflag 73 di Beniaminowo5. Mi ritrovo con i vecchi amici e voglio dimenticare l’atmosfera tutta particolare dell’infermeria. Ma dov’è il mio posto? Nel
castello che prima occupavo mancano perfino le tavole di legno; qualcuno le
avrà bruciate per scaldarsi o per cucinare una misera vivanda.
Cerco, cerco e finalmente trovo un altro assito, vi stendo sopra una coperta,
mi sdraio e mi sforzo di dormire.
La mia mente corre lontano, penso a mia madre, alla sua morte; durante la
notte insonne si fa strada in me la convinzione che mi ammalerò pure io della
sua malattia.
Rivivo l’angoscia provata nell’andarla a trovare negli ospedali di Reggio e di
Parma. Lei voleva ritornare ad ogni costo a casa sua, anche se i medici glielo
sconsigliavano. Avevo finito per accontentarla. Sembrava felice, ma poi ero
dovuto partire militare.
Non sopportava la mia lontananza. Un giorno mi arrivò un telegramma
con la notizia che era stata nuovamente ricoverata. La sua malattia polmonare
progrediva, le condizioni generali peggioravano rapidamente.
Era l’agosto del 1942: un nuovo telegramma mi avvertiva che stava molto
male. Ottenni una licenza. Interminabile viaggio: Palermo, Messina, Salerno,
Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Reggio… non pensavo che a lei. Pregavo
perché mi fosse concesso di rivederla viva per l’ultima volta, ma inutilmente.
5
Il campo per ufficiali (OfLag-Offizier Lager) 73 e annesso Lager 333 era dislocato nei pressi di
Beniaminowo (40 chilometri a nord di Varsavia-Polonia) e fu attivo fino all’aprile 1945. Aperto
nel 1941 fu liberato dalle truppe dell’Armata rossa nell’estate 1944. Vi trovarono la morte oltre
30.000 prigionieri, in gran parte sovietici.
83
Corsi all’ospedale di Scandiano: giaceva inerte e cerea in una piccola stanza. Il dolore era una ferita bruciante, ma raccolsi ogni energia per adempiere
alle formalità del momento e feci quanto potei per renderle l’estremo saluto
con affetto e decoro.
Mi feci coraggio e l’accompagnai, dopo la funzione religiosa, fino all’ultima
dimora nel San Pellegrino.
Le mie sorelle e mio padre mi erano stati vicini, però la notte seguente,
quando rimasi solo nella mia cameretta, lo ricordo con lucidità, il dolore divenne più acuto e profondo. Accusai smarrimento: da allora l’avrei avuta vicina solamente nel ricordo, come in questo momento.
Ieri sera, per distrarmi, ho partecipato a un breve trattenimento musicale,
ma ho avvertito la stanchezza.
La notte ho dormito malissimo, saltuariamente: senza paglia, su di un tavolaccio improvvisato, freddo e duro. Mi sono alzato alle 7 con dolori alla schiena. Sono rimasto inattivo, non ho trovato neppure la forza di lavarmi per bene.
Ho cercato inutilmente un po’ di paglia per il mio misero assito.
Il rancio è stato scarso e brodoso; si è diviso in tre il pane, un poco di verza
e venti grammi di margarina.
Faccio visita agli amici Vittorio e Piero; mi consolano e m’incoraggiano.
Sono veri amici, con loro avevo fraternizzato durante il periodo di vita militare
in Grecia. Le 18.15. Fuori fa buio, ma ancora più buio c’è nel mio animo. Penso a lei, a Gea. Chissà dove si trova, ora. Non possiamo aiutarci a vicenda, né
per iscritto né concretamente. È molto lontana, ma il ricordo è così vivo che un
po’ mi consola. Alle 21 penso al momento in cui, a Zante, guardavo la stella
del Cavaliere, con la certezza che là i nostri sguardi s’incontrassero. Come è
lontano tutto questo…
Ora mi tranquillizzo: ho davanti a me tutti i miei cari, mi pare quasi di
vederli, penso a loro intensamente e ritrovo una parte della serenità perduta.
Oggi assisto alla Santa Messa con raccoglimento; trascorro il pomeriggio
tra il fumo di fornelli improvvisati e messi in funzione da alcuni prigionieri,
ansiosi di provare l’illusione di una cucina normale.
Nella miseria purtroppo si risveglia in qualcuno anche l’istinto di rubare; è
un basso istinto che si acuisce con l’incalzare della fame: stamattina c’è chi ha
rubato del pane.
Dopo avere trascorso alcuni giorni immerso nella solita monotonia, ho
una piacevole sorpresa: incontro Flavio e Mario, due amici reggiani. Dopo
una breve conversazione, m’incammino con Mario dal comandante italiano
del campo, colonnello Billia, per chiedere di essere trasferito nella baracca
numero tredici del campo nuovo e unirmi così al mio amico, ma non mi viene
concesso.
Sono in preda a una noia profonda, una cappa di fumo sembra gravare
nello stanzone. S’intravedono i movimenti stanchi, lenti, dei prigionieri. Le loro
ombre si proiettano lungo le pareti: chi legge pigramente, chi sonnecchia, chi
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fruga nello zaino, forse nell’illusione di trovare ciò che non potrà facilmente
ottenere: un alimento, un libro, un ricordo.
Si odono il sibilo del vento e lo scrosciare della pioggia: il freddo aumenta
di giorno in giorno e penetra ovunque; il riscaldamento è quasi inesistente.
Ora nevica. È il 28 novembre; verso le 10.30 consegno la biancheria al capitano Crovella, capo-baracca, poi esco per partecipare alla Santa Messa, che
si celebra nel campo nuovo. Cammino attraverso i larghi e sabbiosi cortili,
rasentando i fili del primo reticolato, e guardo i miei scarponi: li ho spazzolati
da poco e sono quasi lucidi. Anche i pantaloni sono in ordine. Ho per lo meno
cucito, anche se con difficoltà e imprecisione, gli strappi più evidenti.
Bastano queste piccole cure per farmi sentire maggiormente a mio agio e
rompere in piccola parte la tetraggine di queste giornate uniformi.
Assisto alla celebrazione religiosa e tutti insieme preghiamo per chi, come
noi, si trova in condizioni di estremo disagio e nella sofferenza fisica e morale.
Dopo il pasto, assai scarso, ricevo un piccolo supplemento, ma è sufficiente
per darmi una speranza: forse posso vincere la lotta contro la fame.
Oggi sto un po’ meglio, mi siedo sullo scomodo posto-letto e leggo alcune pagine di un libro di Enzo Paci sull’esistenzialismo. È aderente alla realtà
attuale: l’esistenza non è essere, ma solo possibilità di essere, tutto ciò che mi
circonda è irrazionale. Solamente la fede, mi dico, può giustificare la sofferenza di questa nostra vita.
Questa mattina passo in rassegna il misero corredo rimastomi, osservo la
giacca di panno grigio-verde e cucio senza molta abilità, ma con pazienza, le
parti lese.
Tenterò nuovamente di avvicinarmi a Mario, di essere trasferito nella sua
baracca: la sua vicinanza potrebbe farmi trascorrere meglio il tempo e l’aiuto
sarebbe reciproco.
Oggi, avvenimento eccezionale: mille grammi di patate!
Primo dicembre 1943: adunata dei prigionieri nel Campo grande; il colonnello ci comunica una richiesta avanzata dal Comando tedesco tendente ad
avviarci al lavoro, ma le adesioni sono rare.
La scorsa notte ho dormito poco, la febbre mi ha tenuto sveglio, mi doleva
il petto a causa di un’iniezione antitifica.
Mi viene chiesto nuovamente se voglio far aggiungere il mio nome nella
lista degli aderenti al lavoro. Le forze vanno scemando, ma non acconsento.
È domenica e mi alzo all’alba, proprio durante la distribuzione del tiglio;
scaldo una gavetta d’acqua e mi lavo alla meglio, mi vesto e mi preparo per
recarmi alla Messa.
Nel cortile incontro il professor Taverna; mi appare come un essere irreale:
debole, pallido, le fosse nel viso scarno. Era mio professore di lettere presso
l’Istituto magistrale di Reggio e commentiamo con nostalgia episodi vissuti
nella lontana vita scolastica, parliamo di persone conosciute da entrambi.
La sera non riesco proprio a dormire: i ricordi si accavallano. Rivedo don
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Sergio, futuro cardinal Pignedoli, il mio primo professore di filosofia, giovane
sacerdote dal sorriso accattivante. Si avvicinava a noi studenti non solo per
istruirci, ma per conoscere in profondità il nostro animo, le nostre aspirazioni,
e poterci così aiutare a realizzarci. Si accorse ben presto della mia sensibilità,
del mio carattere introverso, e mi stette vicino, tanto da comprendere i miei
problemi giovanili e la mia timidezza. Mi aiutò molto spiritualmente e mi guidò con amicizia. In classe era disponibile per qualsiasi genere di discussione,
tanto da non rifiutare neppure di trattare un argomento controverso come
quello dello spiritismo.
Rivedo la professoressa Lina Cecchini, la mia insegnante di filosofia durante il successivo anno scolastico, esigente riguardo allo studio, ma anche lei
umana e comprensiva, aperta a qualsiasi tipo di dibattimento. Con precisa intuizione riusciva a capire le problematiche di noi studenti. Mi rivedo, assieme
ai miei compagni di classe, invitato nella villa dei suoi genitori a Borzano di
Albinea, nella nostra ridente collina reggiana. Ricordo un’ampia e sobria sala
da pranzo, arredata in stile antico, e tutti noi seduti ad un lungo tavolo, mentre lei stessa, in un clima cordiale e sereno, ci serviva ciambelle e vino bianco
nostrano. Potessi averli ora…
Capitolo III
10 dicembre. Partecipo ad un raduno degli ufficiali reggiani. Ricordiamo
la nostra città, commentiamo le nostre singole storie: provenienza, cattura,
deportazione, condizioni attuali e incognite del futuro. Qualcuno sogna che
ci si possa ritrovare, un giorno, in Patria, e progetta riunioni festose. Più tardi
incontro di nuovo il professor Taverna e riandiamo col pensiero alla ormai
lontana vita cittadina, alle commedie e opere liriche ascoltate e applaudite nei
nostri teatri emiliani.
17 dicembre. Questa mattina ho venduto un paio di pantaloni, gli unici che
possedevo di scorta, e con grande rincrescimento, ma così ho potuto mangiare qualche pezzo di pane nero in più e far tacere almeno per alcuni giorni i
brontolii dello stomaco.
Il capitano Torelli è venuto a cercarmi perché gli porti un piccolo contributo per la cena che verrà organizzata per il giorno di Santo Stefano. Sarà una
modestissima cena, ma avrà lo scopo di riunire tutti noi reggiani.
I ricordi, nell’approssimarsi delle feste natalizie, si acuiscono: ancora più
intenso è il rimpianto per aver dovuto lasciare la famiglia, ingiustamente deportati in questa martoriata terra polacca, sperduta, in mezzo al gelo. Sono
giornate interminabili e malinconiche.
Eppure anche in questa deprimente situazione c’è chi trova la forza di sostenere la vita spirituale e culturale. Alcuni professori universitari si sono impegnati a tenere lezioni di filosofia, di diritto, di medicina, allo scopo di mante-
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nere allenata la nostra mente, distogliendola da un pericoloso intorpidimento.
Oggi ho ascoltato una lezione di Diritto Civile ed una di Storia della Musica.
I gerarchi fascisti ci hanno raggiunto fin qui, in Polonia, a Beniaminowo.
Vestiti di nero orbace, pieni di spocchia, pronunciano calorosi discorsi in difesa della linea seguita dall’Italia fascista e repubblicana; ci spronano con
insistenza ad aderire al Reich e alla Repubblica sociale italiana. Ecco la dichiarazione d’impegno:
Aderisco all’idea repubblicana dell’Italia fascista e mi dichiaro volontariamente
pronto a combattere con le armi del costituente nuovo esercito del Duce, senza riserve, anche sotto il Comando supremo tedesco, contro il comune nemico dell’Italia repubblicana fascista del Duce e del grande Reich germanico.
Firma e data
Non vogliono lasciarci in pace nemmeno qui. Non condivido le idee di
questi esaltati e non intendo aderire, così come la stragrande maggioranza dei
miei compagni internati. La nostra coscienza ci suggerisce di resistere e di non
tradire le nostre personali convinzioni.
Finalmente una buona notizia: possiamo spedire alla nostra famiglia, agli
amici, in Italia, lettere contenenti anche stampati per l’invio di pacchi-viveri.
Scrivo e spedisco il 29 dicembre ’43 e il 12, 13, 15, 24 gennaio 1944. Chiedo
che mi vengano inviati, se possibile, cibi nutrienti e non deperibili.
Ecco il testo di una lettera spedita alla mia fidanzata:
Cara Gea,
non è la prima volta che ti mando mie notizie ed ho la speranza che esse ti giungano tutte e che possano alleggerire un poco il senso di vuoto che si sarà andato
formando sempre più nella nostra abitazione di Viale Timavo. Sto bene, mi sforzo
di non preoccuparmi dell’avvenire e la speranza del ritorno riesce a spazzar via i
tristi pensieri. Vorrei esserti vicino; quante cose dovrei dirti! Ti porto dovunque con
me. Ricordo tutti: le mie sorelle, mio padre, i nipotini. Siete sempre vivi nel mio
cuore. Le lunghe giornate trascorrono in mezzo alla monotonia dell’uniforme paesaggio polacco, in un campo immerso nella più desolata pianura, ma la preghiera
riaccende in me la speranza di ritornare.
Ti abbraccio e ti bacio con amore, tuo Remo.
A febbraio invio una lettera alla signora F.G., sorella di un carissimo amico;
lei mi risponde rimproverandomi per non aver aderito alla Repubblica sociale.
Replico:
Gentile Signora,
il Suo scritto mi ha sorpreso e addolorato. Non ho aderito alla R.S.I. né al lavoro.
Sento che qui devo rimanere e non credo che il mio comportamento, il quale mi
è già costato moltissimo in salute, arrechi danno al nostro Paese. Abbiamo subìto
notevoli pressioni; sarebbe umano lasciarci almeno in pace. La prego, mi dica
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qualcosa di Suo fratello, mi mandi il suo indirizzo. Mi avete dimenticato completamente? Non posso crederlo! Io tengo ben distinte le idee politiche dai sentimenti
affettivi. Saluti vivissimi a Lei e alla famiglia tutta.
Vostro Remo Fantini
Finalmente, il 26 febbraio, ricevo la prima lettera della mia fidanzata:
Remo carissimo,
rispondo, e puoi immaginare con quanta gioia, alla tua del 15 gennaio, giuntami
stamane unitamente a quella del primo febbraio. Le tue parole mi hanno dato una
gioia immensa. Attendevo con ansia un tuo scritto da tanti mesi, per me interminabili, ma non ho mai pensato un solo istante che tu mi avessi trascurata volontariamente. Lo so che mi pensi, che mi vuoi sempre bene e attendi con grande fiducia
i giorni sereni, che non potranno mancare; allora il periodo trascorso nelle lontane
terre polacche, le più desolate, non saranno che un ricordo, lieve velo di tristezza
che non riuscirà ad appannare la nostra felicità. Che brivido nell’apprendere come
sei sfuggito miracolosamente alla catastrofe ferroviaria del 4 ottobre dello scorso
anno! Adesso stai bene, questo è l’importante. Coraggio, so che hai forze capaci di
superare ogni contrarietà. Ti sono molto vicina, mio caro, ti penso continuamente.
Abbiamo fiducia! Saremo felici!... Noi stiamo tutti bene, stai tranquillo. Alloggio a
Cavriago, pur continuando il mio lavoro di ufficio a Reggio.
Saluti da tutti. Ti abbraccio e ti bacio. Tua Gea
A marzo la mia salute peggiora.
Ogni giorno subiamo numerosi controlli. Dobbiamo inquadrarci davanti
alla baracca per la «conta» e, se il numero dei prigionieri non risulta esatto,
siamo costretti a rimanere impalati quasi sull’attenti, immobili: qualcuno cade
svenuto.
«Schnell…ein…zwei…drei…hundert: gut», si ode urlare. («Presto… uno…
due… tre… cento: bene»). E finalmente si rientra nel covile.
Il 28 marzo giunge l’ordine di partire dal campo di Beniaminowo. Si dice
che i russi avanzino e che noi dovremo essere spostati nella Germania settentrionale. Le guardie tedesche ci ordinano di sistemarci inquadrati davanti alle
baracche con lo zaino: si deve raggiungere a piedi la stazione ferroviaria.
Avverto brividi, sudore e febbre: come posso affrontare la lunga marcia?
Non me la sento proprio, debbo trovare ad ogni costo un rimedio. Corro affannosamente, madido di sudore, verso l’infermeria. Dopo averlo supplicato
a lungo, convinco un ufficiale medico a farmi aggregare agli ammalati, così
vengo trasportato alla stazione su di un autocarro.
Attendiamo il treno in un gelido cortile; l’aria fredda mi penetra nelle ossa,
sono sfinito. Finalmente veniamo fatti salire su carri merci: quaranta prigionieri
per ogni vagone, chiusi a chiave.
Ci vengono distribuiti un pane e una scatola di carne ogni venti persone. I
volti di tutti noi sono segnati dalla sofferenza, emaciati, ma ormai vi si legge
una sorta di rassegnazione alla fatalità.
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Il convoglio si mette in moto: direzione ovest. Il viaggio dura alcune terribili giornate con soste talvolta brevi, talvolta lunghe nelle varie stazioni.
Una notte udiamo il sibilo sinistro delle sirene: è l’allarme aereo. Le guardie
si ritirano nei rifugi. Noi ci troviamo chiusi nel lurido carro sotto l’uragano del
bombardamento. Un inferno… Mi rannicchio sulle gambe, chino il capo e
prego col pensiero. Il mio carro non viene investito dalle schegge delle bombe come purtroppo accade ad altri, e, cessato l’allarme, mi ritengo fortunato.
La febbricola non mi abbandona e cerco di coprirmi con tutti gli indumenti che posseggo. Il disagio è profondo, accentuato dall’umiliazione di dover
provvedere alle più intime necessità, all’interno del carro, con barattoli e con
un mastello che viene vuotato solo ogni tanto, durante le soste.
Viaggiamo il 28, 29, 30, 31 marzo, storditi dallo sferragliare del treno, tra
sobbalzi e cigolii; le ore sono lunghe da passare e aumenta di giorno in giorno
la depressione psichica.
Durante una lunga sosta veniamo fatti scendere e, sorvegliati dalle guardie,
ci sgranchiamo le gambe muovendoci lungo la massicciata e giù per la scarpata: non riesco a vedere se non prati confusi nella nebbia e risalgo presto. Fa
sempre molto freddo.
Finalmente il primo aprile raggiungiamo Bremerford, poi il campo di Sandbostel-Stammlager X B6.
Sceso dal carro, m’incammino, incerto sulle gambe, anzi barcollante, verso
il Lager, poi vengo spinto in una baracca vuota, priva dei «castelli di legno».
Sono sfinito, non mi reggo in piedi e, per riposare un poco, mi lascio cadere
sul pavimento, un assito umido. Non c’è nemmeno la paglia su cui giacere
e mi proteggo alla meglio, rannicchiato, sul lato destro, con una vecchia e
sporca coperta. Mi pare ancora di viaggiare; vorrei stare tranquillo, ma avverto ancora gli scossoni del carro e la mia mente mi conduce, senza che io lo
voglia, al viaggio appena terminato. Mi rigiro sul fianco sinistro, poi di nuovo
sul destro: vado, vado… tra le nebbie uggiose del nord, su ponti e grovigli di
rotaie… non posso fermarmi… tutum-tutum…tutum-tutum… Infine, tra brividi e sudori, m’addormento.
Il comandante italiano Brignole deve protestare diverse settimane per ottenere che possiamo dormire almeno nei «castelli di legno».
Passano i giorni, ma la stanchezza aumenta. Rimango quasi sempre sdraiato
per non consumare energie. Quando mi alzo per i soliti pasti a base di carote
e di rape, provo un senso di vertigine, capogiri, e per qualche minuto avverto
pure una fastidiosa tachicardia, che mi genera ansietà: è la conseguenza del
deperimento organico che mi assale dopo tanti digiuni.
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Sandbostel-Stammlager X B, a circa 40 chilometri a nord-est di Brema. Sandbostel fu uno dei
campi più grandi, fra il 1939 e il 1945 qui passarono oltre un milione di prigionieri di 46 nazioni.
Quasi 50.000 morirono per fame, malattia o assassinati.
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Il 10 maggio riesco a farmi trasferire nella baracca del mio amico Mario. Lui
mi dà qualche prezioso aiuto, cerca di distrarmi conversando, così ogni giorno
usciamo per brevi passeggiate nei cortili sabbiosi.
Prendiamo l’iniziativa, in un giorno di pioggia, per far trascorrere meglio il
tempo, di giocare a bridge, dimenticando quasi, o reprimendo più agevolmente i morsi della fame. Il gioco è piuttosto complicato. Si effettua tra due coppie
di giocatori che usano cinquantadue carte, distribuite tutte subito, e si inizia
con una «dichiarazione» delle presumibili prese. Io non sono esperto, mi sento
imbarazzato, ma vengo invitato ugualmente a sostenere il ruolo del quarto giocatore, tanto non c’è alcuna posta in gioco. Seguo le indicazioni suggeritemi
dal compagno e, poco alla volta, imparo anch’io, così passiamo ore ed ore nel
nostro lungo ozio forzato.
All’arrivo dei viveri dividiamo il pane, poi pesiamo le fette con una minuscola bilancia costruita da ufficiali scrupolosi, ma tale è il timore di essere
defraudati anche di un solo grammo, che la pesatura non basta. Formate le
porzioni, un collega volta la schiena al tavolo e qualcuno chiede: «A chi questa?». Talvolta si assiste a penosi litigi causati da una presunta irregolarità nella
distribuzione.
Nel mese di giugno incomincia a giungere dall’Italia qualche pacco viveri.
Abbiamo diritto a riceverne due al mese, ma arrivano con ritardi di varie settimane. Insisto nel farne richiesta, tuttavia lentezza ed irregolarità persistono.
Molti ne vanno perduti. E intanto si continua a patire la fame.
Mi rendo conto che le mie condizioni fisiche vanno progressivamente peggiorando. I miei pensieri sono ininterrottamente rivolti al desiderio della libertà. Ma come fuggire dal Lager? Esso è costruito, come tutti gli altri, in una zona
arida, nel nord della Germania, non molto distante da Brema e da Amburgo.
Di notte si vedono giganteschi fasci di luce incrociarsi nel cielo, mentre le
batterie antiaeree cercano di abbattere i bombardieri americani, che compiono
quotidiane incursioni sopra questa città.
Quando le forze me lo permettono, cammino a fianco del mio amico Mario
negli squallidi cortili del Lager. Dobbiamo fare attenzione al primo filo spinato che circonda i baraccamenti: un cartello indica che chiunque tocchi il filo
rischia di venire fucilato. Eppure il Campo è ben protetto: al di là del filo c’è
un enorme fossato colmo di grovigli di filo spinato, più in là una doppia rete
metallica e, in mezzo a questa, altri identici grovigli. Una torre di legno è posta
ad ogni angolo del campo, e sopra vigila una guardia armata. È mai possibile
fuggire?
Continuano le interminabili adunate per la «conta» due volte al giorno.
Un mattino un giovane ufficiale va a lavare la gavetta presso una fontana.
Appoggia le sue poche cose a terra, sciacqua il recipiente e, senza avvedersene, si avvicina troppo al primo filo spinato, forse lo tocca. Si ode uno sparo:
l’ufficiale cade a terra, colpito a morte. A nulla valgono le vibrate proteste del
comandante italiano: si dice anzi che la guardia abbia ricevuto, per il «corag-
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gioso» atto, per lo scrupolo con cui ha eseguito gli ordini, una licenza premio.
Di notte non si possono accendere fiammiferi, occorre osservare l’oscuramento più assoluto. Una sera un prigioniero accende una sigaretta: viene
freddato dalla fucilata di una sentinella.
Il comandante Brignole protesta nuovamente presso il Comando tedesco
per il rigore inconcepibile con cui veniamo trattati. Fa presente che il vitto è
del tutto insufficiente alla sopravvivenza, ma i tedeschi rispondono che queste
sono le regole del Lager e che non dobbiamo lamentarci neppure delle scarse
zuppe di carote, perché «la carota è un cibo nobile».
Nella notte i fari continuano a perlustrare ogni angolo del campo. In mezzo
a tanta miseria c’è chi trova la forza di recitare, di organizzare piccoli spettacoli.
Già a Beniaminowo Giovanni Guareschi aveva presentato alcune sue poesie e
aveva collaborato nell’allestimento di una rivista allegra, che si concludeva con
un coro scherzoso; qui le recite raggiungono livelli impensabili per un Lager.
Conosco Enzo Paci, Lombardi, Gianrico Tedeschi7. Consegno a Lombardi
un volume, di mia proprietà, sull’esistenzialismo, scritto da Paci, perché è utile
alla biblioteca e certamente può far piacere al filosofo rintracciarlo.
Tedeschi si rivela attore di indubbie qualità: recita, in un’affollata baracca,
seguìto attentamente e con ammirazione, le poesie La pioggia nel pineto e La
morte del cervo di Gabriele D’Annunzio, mettendone in risalto la musicalità e
sensitività. Gli applausi sono convinti e prolungati. Con la valida collaborazione di altri prigionieri, recita poi L’uomo dal fiore in bocca e Sei personaggi in
cerca d’autore di Luigi Pirandello. Il suo talento è indiscutibile: ci fa avvertire
il senso della solitudine disperata nella prima commedia e, nella seconda, il
travaglio spirituale dello scrittore nella sua lotta costante tra il Reale e l’Irreale.
Anche la vita del Lager ha dell’incredibile. Nelle baracche, improvvisate
a teatro, in una luce incerta per la scarsa illuminazione, si respira un’aria
trasognata, allucinante. Fame, miseria, arte! A volte lo spirito si eleva miracolosamente al di sopra delle meschinità, ma spesso si deprime, ed allora mi
domando: «Sono proprio io a vivere in questo stato?».
Intanto il tempo passa, lento, greve, inesorabile.
È arrivato agosto. Un mattino entrano nel campo robusti e ben pasciuti imprenditori tedeschi, desiderosi di reclutare manodopera a buon mercato. Chiedono la nostra adesione a vari tipi di lavoro: agricolo, di manovalanza nelle
fabbriche o nei cantieri, e, naturalmente, fedeltà al grande Reich. Gli interpreti
e il comandante italiano ironizzano con eleganza sulle proposte avanzate, sia
per una comprensibile ostilità, sia perché le norme internazionali vietano che
gli ufficiali, in cattività, vengano obbligati a lavorare. Quasi nessuno accetta:
scegliamo di sopportare la fame.
7
Gianrico Tedeschi (1920) è uno dei più noti e celebrati attori italiani. Ha recitato con i maggiori
registi italiani in teatro e televisione. Tenente degli alpini, recitò per la prima volta l’Enrico IV
di Pirandello proprio a Sandbostel.
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Un giorno entra il solito autocarro con sacchi di posta e di pacchi. Durante
le operazioni di smistamento, due prigionieri riescono a salire furtivamente
sull’automezzo e a nascondersi. Quando l’autocarro esce, anche i due ufficiali
varcano i cancelli e così riescono momentaneamente ad evadere. Verso sera,
al controllo, si scopre che mancano all’appello due persone. Allarme tra gli
agenti di servizio: la «conta» viene ripetuta più volte e noi restiamo in piedi,
inquadrati, per diverse ore. Qualcuno non resiste e cade svenuto.
Il nostro comandante protesta, ma inutilmente: possiamo rientrare soltanto
a sera inoltrata, quando i due fuggitivi vengono ripescati nei pressi della linea
ferroviaria. Era loro intenzione salire su di un convoglio in transito, nella speranza di raggiungere l’Italia. Purtroppo saranno puniti severamente, e di loro
non avremo più alcuna notizia.
I controlli, dopo quell’episodio, si fanno più pesanti, con frequenti perquisizioni. Le guardie tedesche entrano all’improvviso negli stanzoni urlando: «Heraus! Heraus! – Schnell! Schnell!» (Fuori! Fuori! – Presto! Presto!). Nonostante
lo stato di denutrizione in cui ci troviamo, siamo costretti a rimanere fuori nel
cortile, fermi, infreddoliti, sotto la pioggia, per un’ora e anche più. Il comandante tedesco Pinkel è spietato; non mostra alcun senso di umanità e applica
le regole più severe e crudeli.
Ogni mattino si ripete la medesima desolante scena: i soldati russi vengono
a vuotare i pozzi neri; soggiogati a un carro tramite funi, lo trascinano con
fatica come bestie, vestiti di stracci, le barbe lunghe, incolte. Il loro passo è
sempre uguale: lento e stanco; la schiena, curva.
Compaiono da lontano, dalla brughiera, come fantasmi confusi nella nebbia. Terminato il lavoro di svuotamento, ripartono rassegnati, stancamente
com’erano venuti, e lontano si perdono nei cortili sabbiosi, sempre avvolti nella nebbia. La lunga guerra, l’interminabile prigionia sembra abbiano annientato
la loro forza di volontà, tanto da rendere i loro movimenti pari a quelli di un
automa. Talvolta li osservo nei loro baraccamenti, vicini ai nostri: inerti, statici,
forse non possiedono nemmeno più l’energia sufficiente per lavarsi, per riordinarsi le vecchie, logore divise, ridotte a brandelli di stoffa. Si sdraiano e attendono passivamente che si compia la loro sorte. Manichini, ormai, di sé stessi.
È settembre. Un’epidemia di tifo petecchiale si diffonde nel Lager. I russi
non si muovono, probabilmente accettano con fatalismo il corso della grave
infezione. Il morbo invade il loro campo, li falcidia. Muoiono rassegnati, forse
lieti che un’esistenza così tremenda si concluda.
Al contrario, non appena da noi si scorgono i primi sintomi, è un accorrere affannoso da una baracca all’altra, un intrecciarsi di animate discussioni.
Chi raccoglie la paglia del proprio giaciglio ed esce in cortile a bruciarla, chi
ripulisce come meglio può i propri effetti personali, chi, al primo sentore che
è stata erogata l’acqua, si affretta alla fontana per lavarsi e per sciacquare la
biancheria. Di fronte al mio «castello» vi è un ufficiale colpito dal morbo: ha
febbre altissima, è in uno stato di attonito stupore; a tratti accusa mal di capo,
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vertigini e tremori. Viene presto isolato assieme ad altri, che presentano i medesimi, allarmanti sintomi, in una baracca recintata da filo spinato.
La lotta prosegue accanita attraverso la più scrupolosa opera di pulizia personale e generale possibile. Dopo alcune settimane si dice che l’epidemia sia
cessata. Stento a crederci…
Nell’autunno i tedeschi ci fanno passare, a gruppi, al reparto bagni e disinfestazione. Il trattamento è assai singolare. Scortati dalle guardie, varchiamo
un cancello e veniamo così introdotti in una grande baracca illuminata da una
sola lampadina appesa al centro. Nel fondo si notano le pedane, in lato tanti
piccoli rosoni, da cui usciranno gli zampilli d’acqua calda. Tutt’intorno un
calore umido misto a vapori mefitici. Sull’assito, un secchio e uno sgabello,
su cui siede un russo. Questi ci ordina perentoriamente di svestirci, perché
i nostri abiti devono venire introdotti in un forno. Poi, in fila indiana, dobbiamo passargli davanti per essere spennellati, con una soluzione di acqua
e cloro, nelle parti più delicate e intime del corpo. Siamo sbalorditi, volano
parole scurrili, imprecazioni, urla. C’è chi saltella per il bruciore, chi si lamenta
per le maniere brusche usate dall’addetto al servizio, ma ognuno è costretto
a sottoporsi all’operazione. Uno di noi esclama con ira malcelata: «Furfante
collaborazionista, ti costeranno care queste villanie!». Ultimata la sgradevole
disinfezione, via sotto la doccia bollente.
Finito il bagno, i vestiti e le scarpe vengono gettati fuori, sulla neve, e noi,
colti di sorpresa e avviliti, ci precipitiamo nel cortile, nudi, per recuperare, a
fatica ma in fretta, i nostri miseri indumenti, e ci vestiamo tremando.
Il cibo è sempre più scadente. Per alcune settimane ci vengono somministrati crauti in salamoia lessati, con l’aggiunta di farina avariata. Li mangio
ugualmente, tanta è la fame, però ben presto avverto dolori e brontolii insistenti nell’apparato digerente. Mi subentra, come a tanti altri prigionieri, una
debilitante dissenteria, così le mie condizioni generali peggiorano ulteriormente: sono sempre più pallido e anche il sonno non è tranquillo.
Ricevo un’altra lettera di Gea:
Carissimo Remo,
immagini tu stesso la gioia provata nel poter finalmente leggere le tue parole, dopo
tanto tempo che non avevo tue notizie. Le ho lette e rilette e sempre mi sembravano nuove; mi pare di averti vicino e di udire le tue espressioni affettuose.
La tua voce ora è certamente stanca, so che soffri, ma presto ritornerai e allora
saremo nuovamente felici, dimenticheremo i momenti di tristezza che stiamo attraversando. Il Signore ci aiuterà a sopportare le avversità di quest’ultimo periodo
di attesa.
Ho molta fiducia che tu possa presto ritornare e rimetterti in piena forza; tanto
ti potrà giovare l’affetto di tutti i tuoi cari. Attendo con fiduciosa speranza e non
desidero che rivederti.
Non preoccuparti per noi, cerca di non rattristarti.
Ti bacio, tua Gea.
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Ricevo qualche cartolina dalle mie sorelle, che si mostrano preoccupate per
la mia salute e per il protrarsi della prigionia; sono contente che abbia incontrato l’amico Mario Bini. Mi chiedono se ho ricevuto dei pacchi. In verità c’è
qualcosa che non funziona nel servizio postale, specialmente a causa dei ripetuti, intensi bombardamenti aerei sulle stazioni ferroviarie, cosicché la maggior
parte delle spedizioni non ha esito.
Don Luigi Pasa celebra come di consueto la Santa Messa ed io ricevo la
Comunione. Prego il Signore che aiuti tutte le persone care lontane, quasi certamente anche loro in pericolo. Gli chiedo di aiutare pure me a sopportare le
attuali sofferenze. Don Luigi m’incoraggia ad essere forte e a reagire: il nostro
dolore sarà premiato. Ha sempre pronti un sorriso e una parola di conforto
che infondono serenità.
Arriva una Commissione della Croce rossa italiana per una breve visita. Il
comandante italiano e altri ufficiali protestano con risentimento perché non
riceviamo adeguati aiuti e perché la CRI non ci invia un solo pacco viveri,
mentre gli altri prigionieri, fatta eccezione per i russi, sono trattati secondo le
norme internazionali. I rappresentanti della Croce rossa restano mortificati, si
scusano, visibilmente commossi, provati da insistenti, ma inutili tentativi: la Repubblica sociale italiana dichiara che gli internati italiani sono sotto la sua protezione e che ogni aiuto proveniente da altre parti non deve essere concesso.
Così si continua a «sopravvivere».
Capitolo IV
Il 10 dicembre 1944 mi accade un fatto traumatico, che lascerà a lungo il
segno sulle mie condizioni psicofisiche. A sera esco per recarmi al pozzo nero
per le mie necessità: un luogo lurido, ripugnante, privo di ogni norma igienica,
senza acqua, maleodorante. Me ne sto accovacciato sopra un’asse, di fianco
ad altri derelitti… e a un tratto sento giungere dal petto sino alla gola ed alla
bocca un gorgoglio, una strana tosse spugnosa, non mai provata fino a quel
momento, una tosse indescrivibile, insistente, continua. Provo a sputare: la
bocca è piena di un liquido dolciastro, denso.
Guardo: è sangue. Cerco di calmarmi, però rientro tremante e impaurito
nella mia baracca. Mi avvicino all’amico Mario, che si allarma, vedendomi cereo e atterrito. Racconto quanto mi è accaduto; si sforza di rincuorarmi. Continuo a tossire, macchio di sangue i pochi fazzoletti che possiedo; cerco acqua
per sciacquarli. L’emorragia non cessa. Chi devo chiamare? Chi può assistermi?
Domani mi recherò da un medico, ma ora è notte, non mi resta che mantenermi fermo, immobile. Mi corico lentamente e mi sforzo ancora di calmarmi. La
tosse diminuisce d’intensità. La notte trascorre lenta, insonne. M’impongo di
non muovermi, quasi trattengo il respiro.
Penso a mia madre, morta della medesima malattia, e mi rassegno all’idea
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che mi attenda una fine simile, in condizioni di assoluto abbandono.
Penso a Gea, alle mie sorelle, a mio padre. Sapessero in quale stato mi
trovo… non tornerò più in Italia, lo sento, morirò qui, in questa Germania
sventurata, come tanti altri infelici. La mia mente si agita fra intermittenti, tormentosi colpi di tosse.
L’indomani vengo visitato con attenzione prima da un medico italiano, poi
da uno tedesco. Mi vengono rivolte numerose domande: la cartella clinica
deve contenere anamnesi, indicazione dei disturbi attuali, dati obiettivi dedotti
dall’auscultazione del torace.
Il 12 dicembre mi trovo già nell’infermeria del campo, e di tanto in tanto,
mentre tossisco, emetto un po’ di sangue, il che contribuisce ancora di più a
mantenermi in uno stato ansioso.
Qui resto il 13 e il 14; intanto vengo condotto fuori dal campo per accertamenti radiologici. Il giorno 15 sono ricoverato nel «Lazaret», una specie di
ospedale per prigionieri di guerra. È costituito dai soliti baraccamenti circondati dalle immancabili recinzioni, in folti reticolati, e dalle torrette per le sentinelle. Neppure gli ammalati devono fuggire……
In altri cortili, confinanti con il reparto assegnatomi, circolano pazienti di
ogni nazionalità: francesi, inglesi, americani. Passeggiano e conversano tra
loro in modo disinvolto, vestiti decorosamente, si direbbero quasi allegri. Godono di un trattamento privilegiato: la Croce rossa internazionale può assisterli
e fornire loro regolarmente generi di conforto e divise nuove.
Nonostante l’avvilimento, la prostrazione in cui sono caduto, trovo qui un
ambiente più confortevole. La baracca è più pulita e ordinata. Non vi è un’unica camerata, ma diverse stanze piccole; in ognuna dormono venti, venticinque
malati o feriti. Siamo ugualmente fitti, sistemati nei «castelli» a due o tre piani;
non vi sono materassi, ma il solito assito e un po’ di paglia. Non è l’ambiente
idoneo, igienico, per «ammalati di petto», così disposti su vari piani allo scopo
di guadagnare spazio, però vi è una stanza per le visite e, in un’altra baracca,
un’apparecchiatura per l’esame schermografico.
Veniamo controllati periodicamente dal dottor Gherardini, tisiologo modenese, e ci vengono praticate iniezioni di calcio.
Il vitto è migliore del precedente: un bicchiere di latte, una minestra di
fiocchi di avena o di orzo o di miglio o di verdura, una fetta di pane, venti
grammi di margarina e trenta di marmellata al giorno. Non è certamente una
dieta da casa di cura, ma, rispetto alle condizioni in cui mi trovavo nel campo
precedente, vivo con un minimo di assistenza. Trovo miracoloso poter gustare
un bicchiere di latte: da almeno sedici mesi non ne bevo un sorso……
Sono affetto da tubercolosi polmonare. La cartella clinica reca: «Ieri all’improvviso ha avuto sbocchi di sangue dopo la tosse. Individuo in condizioni
di nutrizione e di sanguificazione scadenti. All’auscultazione delle regioni infrascapolari si avverte qualche fatto umido bronchiale, più evidente a destra,
dove si ode anche qualche crepitio pleurico. Diagnosi: «Infiltrato subclaveare
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destro. Caverna». Diagnosi e risultati di ogni visita o accertamento vengono
trascritti sia in italiano che in tedesco.
La febbricola non mi abbandona; spesso di notte tossisco, mi sveglio e
penso, penso… Un sopore strano s’impossessa di me, poi subentra l’inquietudine e mi porto lontano con la mente, che continua a seguire un suo corso
autonomo, non più guidato dalla mia volontà. La mia personalità sembra aver
subito un cambiamento radicale.
Al mattino, dopo essermi scrollati di dosso a fatica il torpore e l’agitazione
della notte, mi appresto ad avvicinare i miei nuovi compagni di sventura. In
un primo momento fatico ad inserirmi nella logica del conversare, ma dopo
un po’ d’esercizio mi sento quasi liberato dagli ossessionanti pensieri che mi
avevano tenuto legato per l’intera notte.
Sono tra persone comprensive, che hanno vissuto peripezie simili alla mia,
e l’intesa non può tardare. Trascorsi i primi giorni di studio reciproco e di
riservatezza, ci apriamo alle confidenze. Parliamo delle nostre condizioni di
prigionieri e della nostra salute. In seguito cerchiamo volentieri anche altri
interessi in comune, specialmente quelli culturali, riguardanti in particolare la
letteratura straniera.
Trovo una valida e intelligente amicizia in Carlo V., genovese. Con lui parlo
a lungo della trascorsa vita militare, della prigionia, dei terribili trasferimenti
avvenuti sotto le incursioni aeree, e anche della nostra vita studentesca e dei
nostri propositi per l’avvenire, nel caso si esca salvi dall’assurda odissea. Il
mio nuovo amico è stato ricoverato perché ferito a una gamba a causa di un
mitragliamento effettuato dagli Alleati contro un convoglio ferroviario che lo
trasportava in un Lager.
In prossimità delle feste natalizie, da trascorrere per la seconda volta in
prigionia, ricevo una fotografia-ricordo da don Luigi, che, ricco di miracolosa
energia spirituale, cerca di risollevare lo spirito di chi soffre.
Il 18 dicembre assistiamo ad uno spettacolo offerto dai prigionieri francesi
nel teatrino del campo: la cosiddetta «Comédie française» presenta Domino e
Le petit duc, due brevi riviste musicali che ci donano, con lo svago, l’illusione
di essere ritornati, almeno per un’ora, in un mondo più umano.
Di notte tossisco e non mi abbandona la febbricola; provo momenti di tremendo sconforto. Anche gli altri ammalati fanno pena. C’è un magistrato che
ritengo assai grave: ha segnato sulle gote quel rossore a pomello caratteristico
delle malattie polmonari. Anch’io vado soggetto a questi rossori.
Medito spesso, seduto sul mio «castello», e osservo i movimenti degli altri.
Ognuno cerca di far trascorrere il tempo come può: chi legge, chi scrive, chi
provvede a riordinare le proprie misere cose. Io spesso consulto un frasario
italo-greco, edito dal ministero della Guerra, e ricordo le migliori giornate
trascorse in quelle terre lontane, in clima mediterraneo. Leggo le annotazioni
inseritevi e le parole di tre canzoni: una napoletana, una greca e una tedesca
(Torna a Surriento, Ta matia, Mamaci), che mi erano state dettate dall’amico
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Pallotta, perito nell’incidente ferroviario. Conservo un altro ricordo: una banconota da diecimila dracme rappresentante da un lato una coppia greca in
costume e dall’altra il Partenone.
Specialmente verso sera, terminate le piccole operazioni del «Lazaret» (pulizia personale, visite mediche, cure, pasti), quando subentra in tutti una maggiore calma, ci riuniamo per parlare di autori che intendiamo leggere in futuro,
se ritorneremo alla nostra vita normale, e ci consigliamo a vicenda per una
buona scelta. Si cita Balzac, ricco di umanità e di verità universali; Proust, con
la sua opera monumentale Alla ricerca del tempo perduto, intessuta di introspezioni, di sensazioni provate dall’infanzia alla senilità: un ricordo ora dolce,
ora velato di tristezza. Qualcuno suggerisce la lettura di Giuda l’oscuro, di
Thomas Hardy, tutto concentrato sulla sofferenza umana. E ancora sfilano Paul
Bourgett, autore di romanzi a sfondo psicologico, Thomas Moore, Dostojevskij, Daudet, Hervey Allen…
Ne prendo nota a fatica negli spazi ancora liberi della mia logora rubrica
per appunti. Ricordo a mia volta Tonio Kröger di Thomas Mann, che ho già
letto in Italia e che ho molto apprezzato: ho sperimentato anch’io, da ragazzo, l’incomprensione di alcuni miei coetanei e mi sento vicino al personaggio
«Kröger», specialmente ora che, a causa della malattia, la mia sensibilità si è
andata acuendo.
Un giorno Carlo mi passa un vecchio foglio ingiallito: è la prima pagina
di La musique et la vie di Adolphe Boschot; dietro, a caratteri fittissimi, per
guadagnare spazio prezioso, ha scritto di suo pugno due poesie, piene di angoscia e di speranza. Penso di trascriverle così come sono state scritte in quel
particolare momento, frutto della sua memoria, e probabilmente con qualche
inesattezza:
La notte in cui sentimmo che la terra si sarebbe mossa /ci accostammo furtivi e lo
tirammo per la mano / perché l’amavamo dell’Amore / che sa, ma non può capire.
/ E quando il fianco della collina franò rombando / e tutto il nostro mondo si disfece in pioggia / noi lo salvammo, la Piccola Gente. / Compiangeteci, ora. Noi lo
salvammo per quel tanto di / povero Amore che anche gli esseri selvaggi sentono.
Piangete! Il nostro fratello non si sveglia/ e i suoi simili ci cacciano via.
Kipling
L’un dopo l’altro, i giorni / si sono passati il mio cuore / con mani febbrili. Stanco
/d’innumerevoli dita, / madido di sudore, / a poco a poco / ei si svota della vita /
finché l’ultimo giorno /cadere lo lascerà, nella terra. / Dio del giglio e della rosa, /
al quale farà ritorno / la mia anima impaurita / d’ignorare e di sapere, / fai Tu, mio
Signore / che da questa povera cosa / nasca un tuo umile fiore.
Fausto Maria Martini
La malinconia e lo spirito crepuscolare di questa lirica s’intonano con i miei
pensieri di morte e di abbandono, preso come sono dall’impossibilità di uscire
da una morsa che avvilisce perché non si allenta.
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La miseria umana non conosce confini; «la fame», così potrebbe definirsi il
mio ricordo di prigionia, provoca un episodio penoso, sia sotto il profilo morale che sotto quello fisico.
Ogni giorno viene a mancare nella nostra stanza una razione di pane. Qualcuno si adopera per scoprire il colpevole: un pomeriggio lo trova con le mani
nel sacco e lo accusa di trasgredire il settimo comandamento. La vigliaccheria
attanaglia il furfante. Forse per uscire da uno stato di estremo disagio attraverso la compassione, si mostra disperato, piange, geme in tutte le tonalità: forte,
piano, adagio, a scatti isterici, a lungo, per tutta la sera e per tutta la notte.
Inoltre, per fare breccia sul senso di pietà degli amici, che ha tradito e ai quali
ha tolto quel poco che può costituire l’ancora della sopravvivenza, mentre
piange, tra un singhiozzo e l’altro, recita, proprio come un attore consumato;
recita con accenti tanto convinti, che riscuoterebbe senz’altro, su di un palco,
calorosi applausi: «Ladro! Ladro! Sono un ladro!». Qualcuno ribatte: «Taci, almeno!». Ma il lamento si prolunga fino a notte fonda.
Il giorno seguente nessuno parla, né vengono presi provvedimenti. Che
fare? La fame porta anche al furto. Tutti la soffriamo, tuttavia finiamo per concedergli il perdono, pur considerandolo meschino.
A Natale la Pontificia commissione di assistenza riesce a farci pervenire
un piccolo aiuto: qualche minestra in più. I tedeschi lo concedono in via del
tutto eccezionale. Già lo sappiamo che non vogliono sentir parlare di aiuti
agli Internati militari italiani. Come ho già scritto in precedenza, la CRI non è
mai riuscita a far entrare un solo pacco viveri nei nostri campi: siamo sotto la
protezione della RSI! Ma l’unico «aiuto» che questa un giorno ci invia consiste
in alcune casse di fiale di calcium. Le iniezioni ci vengono sollecitamente
praticate, però ben presto accusiamo tutti febbre altissima: le fiale devono essere avariate o difettose, così la terapia si traduce in un ulteriore danno per la
nostra già precaria salute.
Nel mese di febbraio arriva nel «Lazaret» una Commissione medica di controllo: esamina le nostre cartelle cliniche, ci visita e infine ci dichiara inabili,
non solo a qualsiasi servizio militare, ma anche al lavoro. Sulle cartelle i medici
tedeschi appongono l’annotazione: «Il paziente è riformato dalla Commissione al fine del rimpatrio». Anche la mia cartella clinica reca tale attestazione in
lingua tedesca.
Le nostre speranze aumentano e ogni giorno attendiamo la partenza per
l’Italia. Invio ai parenti le poche cartoline che mi vengono concesse: i nostri
carcerieri dicono che presto un convoglio della CRI ci condurrà in Patria!
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Capitolo V
E invece ci attende una perfida beffa.
Una mattina di marzo ci viene ordinato di raccogliere le nostre misere cose,
di scendere nel cortile e di aspettare. Obbediamo, avvertendo una inspiegabile
paura. Un vento insidioso ci sferza il viso e le mani, ci guardiamo l’un l’altro
come per interrogarci, non esce però una sola parola dalle nostre bocche.
Dopo due lunghe ore d’attesa arrivano degli autocarri militari scoperti: dobbiamo salire per essere trasportati alla stazione ferroviaria. Qui siamo spintonati dalle guardie sui soliti carri-bestiame, chiusi a chiave, e via verso ovest
per destinazione ignota.
Tremanti per il freddo, sbigottiti, ci sistemiamo alla meglio sull’impiantito
del vagone traballante. Abbiamo una sola coperta, ci rannicchiamo vicini l’uno
all’altro per scaldarci un poco o almeno per averne l’illusione. Continuiamo a
tacere, non sappiamo quello che ci attende.
Il carro cigola, stride, corre sempre verso ovest.
I pensieri sono tristi. Guardando tra le grate di un finestrino il paesaggio,
non osserviamo per ora che un intreccio di binari che corrono, corrono, scarpate della linea ferroviaria, canali pure in corsa, nebbia, sempre nebbia; così
torniamo a raggomitolarci sull’infernale impiantito che fila all’impazzata, scuotendoci il corpo e la testa. La tosse riprende a tormentarmi.
Ci viene distribuito un pezzo di pane. Durante una breve sosta scendiamo
per le nostre personali necessità lungo la scarpata, tenuti a bada, noi così inoffensivi, dalle guardie armate di mitra.
Il vento mi stordisce e mi raggela. Cerco di proteggermi con il bavero della
giacca, poi mi arrampico a fatica sul carro e si riparte.
Il paesaggio è monotono, grigio. Attraverso il solito finestrino vedo che
stiamo attraversando il fiume Ems. Il convoglio si ferma, poi riprende la corsa
per raggiungere l’ultima tappa: la stazione di Meppen.
Scendiamo: ci attendono altri autocarri scoperti. Saliamo su uno di essi,
l’autista e le guardie ci conducono verso l’ignota meta. Nessuno di noi fiata,
si ode soltanto il rombo del motore. Campagne uniformi: vaste lande erbose,
pascoli di equini e ovini, fitta rete di canali; lontano mulini a vento olandesi
e case coloniche dal tetto enorme, spiovente, a punta, tipiche dell’Europa
settentrionale.
Al nostro passaggio, attraversando le strade dei villaggi, i bambini salgono
sugli alberi e, con un sorriso incosciente e beffardo, ci rivolgono frasi ingiuriose. Fra tante riusciamo a comprendere: «Patoglio! Kaputt!». Ci mandano sputi
e fanno segno di tagliarci la testa. Restiamo impassibili: ci pare incredibile che
anche l’infanzia sia stata educata all’odio.
Arriviamo nei pressi di un Lager, posto in una zona abbandonata, una torbiera. I soliti fili spinati, le torrette con le guardie, il cancello di entrata. Scendiamo dall’automezzo e, buttatoci il floscio zaino sulle spalle, pallidi, curvi,
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sfiniti, con il nodo alla gola, entriamo.
Qualche prigioniero ci guarda con occhi stupefatti e scuote la testa in segno
di compassione. Entriamo in una baracca di enormi «castelli» a diversi piani.
Nessuno osa fare commenti. Vediamo visi sparuti e sconsolati. Salgo ad un
posto alto, depongo sulle assi i logori cenci, scendo e solo solo faccio un giro
d’ispezione per il Lager. Chiedo notizie: mi viene risposto che ci troviamo a
Fullen, vigliaccamente denominato dai tedeschi «campo-ospedale»: in realtà
dovrebbe chiamarsi «campo della morte». È nella logica inumana del nazismo:
avevamo rifiutato di aderire alla RSI, al lavoro, eravamo ammalati o feriti, dichiarati da una fantomatica Commissione medica «Inabili a qualsiasi attività»,
Dauerwelle Untauglich (permanente inabile), quindi un peso inutile per il
grande Reich.
Vago incredulo e depresso nei vari cortili: a terra trovo chiazze di sangue e
mi si rinnovano nella mente le crisi sofferte a Sandbostel. Cammino, cammino,
non so dove andare. Entro in una qualsiasi baracca: stesi su assi sconnesse
visi emaciati, larve umane, pelle ed ossa, esseri che non hanno nemmeno la
forza di proferire una sola parola, qualche lento e inconscio gesto. Stanno lì
ad attendere la morte per consunzione, fame e malattia. Altro che «campoospedale», qui si attende che si muoia e basta! Tutti lo chiamano giustamente
«campo della morte». Resto colpito dall’espressione dei grandi occhi di questi
poveri uomini: chiedono disperatamente un aiuto che non potrà mai arrivare.
Creature che un sistema diabolico e spietato ha ridotto allo stremo delle forze,
all’ultima fase dell’esistenza.
Esco impietrito, non so che dire, che fare.
Passo vicino ad un’altra baracca, odo urla prolungate e strazianti, invocazioni e richiami incomprensibili: sono i dementi, coloro che non hanno retto
alle sofferenze fisiche e morali. Continuo a vagare, sempre più frastornato,
incredulo… osservo una baracca più piccola della altre e isolata. Mi avvicino,
metto la mano alla porta sconnessa, cigola, l’apro. Orrore: corpi nudi gettati a
mucchio uno sull’altro, inerti, i poveri morti di Fullen. È l’obitorio. Non catafalchi, non ceri o croci, ma una buia e orrida baracca.
Ne sono finiti lì centinaia e centinaia… in pochi mesi.
Ogni due o tre giorni vengono portati con un carro al cimitero e qui sepolti
in fosse comuni. Guardo oltre i reticolati: un po’ distante, nella torbiera desolata, in mezzo alla nebbia, s’intravedono appena alcune croci: è il cimitero.
Si fa sera, l’anima è svuotata, la mente ha un primo cedimento. Rientro
nello stanzone freddo, mi corico lentamente, come un automa, penso ai nostri
poveri militari, alla nostra tragedia, e piango in silenzio. Nessuno mi deve udire. Siamo tutti nelle medesime condizioni. È davvero la fine e mi tormento per
l’intera notte. Prego, ma sono troppo debole, e la mente cammina cammina,
non vuole più fermarsi. Basta! Un po’ di pace! Ma nessuno sforzo riesce più a
trattenerla.
Vorrei sdoppiare la mia personalità. Sento accendersi in me uno spirito di
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ribellione. Siamo perseguitati. Le nostre misere vite di prigionieri somigliano,
allontanandoci nei secoli, a quella del patriottico Bonivard; aspiriamo non ad
altro che alla libertà.
Potrei esclamare come Byron, nel suo poemetto The prisoner of Chillon:
D’accordo, io resto qui, non scappo, / il mio corpo non scappa, / magari potrà ancora farmi provare sensazioni, / ma la mia Mente fugge verso l’Alto / il mio Cuore
fugge verso l’Alto, / ormai così in alto, che nessuno / può raggiungerli. / E sono
quasi felice, / tanto mi sento leggero…
Capitolo VI
Il giorno seguente arrivano i pasti: una minestra composta di erba cotta
senza sale. Cerco di mangiarla, ma avverto disgusto e fatico nel gettarla, con
uno sforzo di volontà, nello stomaco vuoto. Mi viene dato un tozzo di pane,
non confezionato con farina, bensì con cereali pressati; a fatica lo mastico,
infine riesco a deglutirlo.
Ecco il motivo di tanto sterminio: questo sarebbe il vitto destinato ad ammalati gravi. È un sistema crudele per uccidere lentamente, ma con certezza.
In altri campi, con le camere a gas, la morte è invece atroce ma breve. Il risultato finale, tuttavia, è lo stesso.
Sto sempre coricato: camminare mi causa febbre. Viene in visita il capitano
dottor Leandro Bonini e mi trova in condizioni non disperate: sebbene sia
ammalato di petto, le poche cure prestatemi nel lazzaretto hanno prodotto nel
mio fisico un leggero miglioramento.
Bastano pochi giorni di questa vita impossibile per farmi ricadere: tossisco,
si rialza la temperatura, dormo pochissimo, sono stressato dai continui decessi.
Ogni mattina si trovano morti rosicchiati dai topi: topi enormi, famelici,
che durante la notte percorrono in lungo e in largo l’intera baracca, portando
danni e ripugnanza.
Dopo una settimana il dottor Bonini, visitandomi, mi trova peggiorato: presento un «Infiltrato cavernizzato infraclaveare destro». C’è la necessità di applicare il pneumotorace per mezzo di un apparecchio costruito non so in quale
maniera, con mezzi di fortuna: un vaso di vetro, un tubetto di gomma, un ago
disposti in modo da introdurre aria nelle cavità pleuriche e arrestare momentaneamente l’allargarsi della ferita polmonare.
Non accetto tale rimedio.
Il dottor Bonini è molto cordiale, cerca di rianimarci, conversa come un
amico, afferma che non dispone di mezzi per venire incontro alle nostre necessità, ma così è la situazione del Lager. Manca di tutto: disinfettanti, vitto,
riscaldamento, medicine. L’assistenza è soprattutto di carattere morale.
Vi è nella baracca un prete, padre Accorsi, domenicano, che alla sera recita
con noi le preghiere al buio, in un’atmosfera tutta particolare, da condannati, e
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alla fine non manca di lanciare concitate requisitorie nei confronti dei tedeschi
per il trattamento inumano e barbaro a cui veniamo sottoposti. Si accalora,
soffre, la sua mente sembra vacillare. Quanto deve pesargli, come cristiano
e missionario nella Fede in Cristo, il dovere assistere impotente ai numerosi
decessi quotidiani dovuti alla fame, alla mancanza assoluta di assistenza… e
tutto per la logica dello sterminio dei nemici, o presunti tali, messa in atto da
un regime folle.
Anch’io sento che sto cedendo, che le forze mi vengono a mancare: ogni
giorno che passa l’insonnia aumenta e s’insinua in me o sale dall’inconscio il
timore di finire nella camerata da cui escono urla raccapriccianti.
Mentre la mia mente sta scivolando in una «Fuga di idee», mi aggrappo al
pensiero che devo resistere. Dico a me stesso: «Sta’ calmo, convinciti che stai
vivendo un incubo, prima o poi finirà e ti sveglierai a casa tua».
Devo forse «pulire lo specchio»: una metafora orientale paragona la personalità a uno specchio. L’io profondo è lo specchio nitido, senza immagini. L’errore consiste nel confondere le immagini effimere, superficiali, riflesse
dallo specchio, con la personalità. Idee, desideri, ricordi, progetti, ossessioni
occupano la mente, ma non «sono» la mente.
Mi ripeto inconsciamente: «Devo pulire lo specchio, dare pace alla mia
mente».
È aprile. Le truppe alleate sono vicine. Da alcuni giorni la cittadina di
Meppen è colpita dall’aviazione e dall’artiglieria. Lingue di fuoco e colonne di
fumo si sollevano alla distanza di alcuni chilometri dal campo.
Capitolo VII
Una mattina, all’improvviso, raffiche di mitra e colpi di cannoni: il nostro
campo è circondato dalle truppe canadesi.
Passano i carri armati, mentre i tedeschi si ritirano opponendo scarsa resistenza: il Lager viene finalmente liberato.
Chi è in grado di reggersi in piedi va incontro ai liberatori e fraternizza
subito con loro, mostrandosi felice e grato. I più fortunati ricevono in dono
una cioccolata: da due anni non se ne vedeva. Si rivolgono ai soldati canadesi parole di riconoscenza, poi si chiedono informazioni sull’andamento delle
azioni belliche in corso. C’è una confusa euforia tra i prigionieri e anche sbalordimento, quasi incredulità.
Ufficiali e soldati dal volto bonario, sorridente, si presentano a noi sulla
Jeep: hanno un aspetto sano, il volto colorito, un’aria di sicurezza, di chi sa di
svolgere un’opera altamente umanitaria. Cercano di conversare, ma c’è lo scoglio della lingua: molti parlano solo l’inglese e ci consolano lo stesso offrendoci cioccolate e sigarette. Qualcuno dei nostri tenta di avviare maldestramente
un discorso con i verbi all’infinito, convinto di essere compreso, ma cade,
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senza volerlo, nel ridicolo. Io spiego come posso, in francese, l’accaduto. Essi
mi appoggiano una mano sulla spalla per rassicurarmi.
Non riesco ad esprimere con le parole i sentimenti che proviamo verso questi soldati e verso i loro comandanti: hanno lasciato la Patria, varcato
l’Oceano, partecipato alla gigantesca operazione di sbarco in Normandia, sopportato il peso di aspre e cruenti battaglie, liberato intere popolazioni. Molti
dei loro connazionali o alleati sono caduti o rimasti feriti in combattimento,
ed eccoli qui, sereni e quasi felici di continuare a compiere il loro dovere di
uomini amanti della pace e nemici della tirannia. La nostra riconoscenza non
avrà fine e non sarà mai adeguata al bene ricevuto.
I canadesi entrano nel campo con cineprese e documentano, attoniti, gli orrori perpetrati dal nazismo. Filmano gli interni delle baracche per fissare nelle
pellicole e testimoniare al mondo intero le condizioni di tanta gente infelice:
ammalati di tubercolosi, feriti, dementi, corpi scheletriti e irrecuperabili.
Al più presto ci vengono assegnati i viveri indispensabili alla nostra salvezza: pane, scatolette di carne e verdura, latte, cioccolato e caffè. Finalmente
l’umanità di queste persone ci aiuta a superare le condizioni di totale abbandono in cui eravamo sprofondati.
Lo stato di salute per molti è precario, per altri disperato: ogni giorno assistiamo gli agonizzanti; è triste dover constatare così numerosi decessi proprio
adesso che si è raggiunta la sospirata liberazione.
Tardano ad arrivare sia medicinali efficaci, sia ambulanze per i ricoveri urgenti in ospedali. Ai comandi alleati si presentano gravi problemi da risolvere:
le necessità di assistenza sono enormi.
Il dottor Bonini mi somministra compresse di Luminal, perché continuo a
soffrire d’insonnia.
La gioia della liberazione è stata grande, ma ora che il pericolo maggiore è
cessato sembra quasi che il mio sistema neuropsichico ceda, come quando si
piange dopo che si è usciti incolumi da una calamità o come quando, dopo
aver sopportato coraggiosamente una tragedia, si risente in seguito dello sforzo compiuto. È il trauma psichico che subisce colui che è rimasto a lungo nei
campi di concentramento.
Intanto ci procuriamo gli alimenti anche per conto nostro: uomini volonterosi e ancora sufficientemente robusti escono dal campo per recuperare carne
e patate.
Una sera Carlo mi sprona a recarmi con lui in campagna in cerca di viveri:
l’idea è buona di per sé, ma dubito sulla riuscita dell’impresa. Lo seguo senza
convinzione.
Usciamo dal campo, percorriamo un chilometro circa in mezzo alla brulla
pianura e, dopo aver superato a stento l’ostacolo di alcuni fossati, raggiungiamo un alto assito scabroso. Fremo solamente all’idea di superare tale barriera.
Il mio amico, più robusto e sano, si arrampica con decisione alla staccionata.
Mi sforzo di imitarlo, ma ben presto desisto; mi vengono a mancare le forze e
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avverto un fastidioso sudore colare dal viso e bagnarmi il petto, le braccia e la
schiena. «Carlo, smetti, non vorrai, per una pecora, correre il rischio di essere
aggrediti dal guardiano o di fratturarti una gamba!?».
Mi sembra davvero un’azione insensata. Ma lui, caparbio, s’aggrappa ai
legni, sale, poi scivola, insiste. In alto c’è un’altra protezione: un filo spinato.
È pericoloso, pazzesco.
Le idee mi si confondono. «Soldati, allontanatevi dal gregge, non dovete rubare! Anche i greci devono vivere, è un atto violento e disonesto, da predoni!
Possiamo pacificamente esigere le derrate, siamo gli occupanti! Non saccheggiate quei miseri casolari e non rubate gli animali da cortile. Dove sono? Aiuto!
Italo, Vittorio, venite!».
Non riesco più a connettere. Un tonfo mi riporta alla realtà. Mi asciugo il
sudore. Vedo Carlo a terra: è improvvisamente caduto, escoriandosi le mani e
la gamba destra, sanguina. «Non dovevi nemmeno tentare!».
Anche lui si asciuga il sudore e le piccole ferite con un fazzoletto, gli porgo
anche il mio ed improvvisiamo due fasciature. «Andiamo, allontaniamoci da
questo luogo!».
Così, sfiniti, l’amico abbandona l’idea di un rifornimento impossibile da
realizzare, ed io, smaltito l’incubo della vana fatica, lo spingo verso una plaga
di verde e gli chiedo di sederci sul terreno spugnoso per riprendere fiato. Ansimo ancora per la paura e i battiti del cuore sono frequenti, tumultuosi: «Carlo,
riposiamoci un po’»:
«Remo, che dicevi della Grecia?!» – «Io? Nulla, forse ricordi confusi…».
Silenzio. Il cielo è quasi sereno, il clima mite, la luna fa capolino tra qualche nuvola chiara, invita a placare i miei pensieri turbinosi. L’amico accetta,
rassegnato, e si siede pure lui, in silenzio. Poi dico: «Non siamo adatti a queste
imprese, lasciamole fare, alla luce del sole, a quelli che hanno ancora energie
da spendere…».
Carlo è indispettito, il suo carattere è volitivo e questa rinuncia gli pesa
come una sconfitta. Io no, l’ho seguito solo per non scontentarlo.
Passano i minuti, forse un’ora. Adesso è ritornata la calma, l’aria fresca ci
porta refrigerio e non vorremmo fare ritorno in quell’orrida baracca. Ma si fa
tardi e rientriamo a malincuore per dormire, se ci sarà possibile.
Il giorno seguente alcuni soldati requisiscono e macellano una mucca, inoltre scoprono un deposito di patate che i tedeschi erano riusciti a conservare
secondo le loro abitudini: sotterrate in lunghe fosse e protette da un particolare terriccio.
Il Comando canadese ci passa sotto l’amministrazione della Croce rossa
inglese. Veniamo suddivisi secondo le malattie e le necessità.
Mi sono trasferito in un’altra baracca, non sono vicino a Carlo. Mi dispiace:
ci eravamo affezionati come due fratelli. Ora vicino ho un altro ammalato,
con lui stringo ben presto una simpatica amicizia: Dante di Trieste. Veniamo
sistemati in letti, non in «castelli», ma di notte si ripete la galoppata dei topi che
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infestano l’ambiente. È diventata un’ossessione, non si dorme.
Dante mi tiene compagnia e così l’amico Carlo, che continua a farmi visita
per conversare e distrarci, ma io accuso lo stesso un’indefinibile inquietudine
e senso di smarrimento, che si accentuano col protrarsi dell’insonnia.
Non bastano purtroppo le pur gradite amicizie; vorrei al più presto partire
da questo luogo dai ricordi atroci.
C’è ancora chi soffre e chi muore.
A sera ingerisco compresse di Luminal; mi fanno addormentare per un’ora
o due, poi una scossa improvvisa mi sveglia così violentemente che non riesco
più a riprendere sonno.
Passano intanto maggio e giugno, e sempre si rimane a Fullen. È mai possibile che non si trovi per noi una sistemazione adeguata? Quando si partirà
da questo luogo di dolore?
Il dottor Bonini avverte i miei amici che necessito di distrazione perché do
segni di continua ansia, che mi causa agitazione e disorientamento.
Un giorno, durante la consueta visita, credendo di intuire chissà quali pensieri negli atteggiamenti del medico, mi alzo dal letto, molto eccitato, ed esclamo: «Dottore! Ma crede proprio che sia impazzito?». Col medico c’è un infermiere. Lo guardo negli occhi: è il mio attendente! «Signor tenente, appena ho
saputo che lei era qui, mi sono precipitato a trovarla. Venga, si riparte subito.
Venga nel mio vagone, come l’altra volta, se vuole salvarsi!». «Come, ci sarà un
altro incidente ferroviario? Avvertite il macchinista, avvertitelo in tempo!» urlo.
«Faccia i bagagli, presto, fra venti minuti si parte». »Avvertite il macchinista, che
cosa aspettate?».
Sono furente. «Altri gemiti, altro sangue!?! Avvertite il macchinista». «Si accomodi nel mio vagone, non le accadrà nulla».
Il treno accelera sempre più. Guardo l’orologio al mio polso. Le lancette,
rotte, sono ferme sulle tre. Alle tre dunque succederà. «Quanti minuti mancano
alle tre?», grido.
«Stia calmo!». L’attendente mi sorride. «A lei non succederà nulla», scandisce
con lentezza. «Avvertite il macchinista», bisbiglio debolmente, mentre il volto
dell’attendente si trasforma a poco a poco in quello del dottor Bonini, che sta
invitando i miei compagni a starmi vicino, a cercare di calmarmi con normali
conversazioni, come nulla fosse accaduto.
Mi dispiace disturbare chi mi circonda, ma l’agitazione aumenta, avverto
inoltre fastidiosi scorrimenti dietro la nuca e vari disturbi psicomotori.
La mente corre, corre ... potessi fermarla!
Spontaneamente, raggiunti un inaspettato equilibrio e lucidità, cessati gli
incubi, mi si creano in testa dei versi sciolti.
L’importante è imparare a Pilotare la tua Mente. / Non avrai più paura della Noia
/ e Nessuno potrà ferirti / se avrai imparato a Pilotare la tua Mente. / Potrai essere
molto vicino / e sembrare lontanissimo. / Potrai essere molto al di fuori / e sembra-
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re lì, a un passo. / Tutto questo, solo se tu avrai imparato bene / a Pilotare la tua
Mente, / la tua Mente, e, insieme, il tuo sguardo, / la tua Mente e, insieme, il tuo
sorriso. / Molta gente potrà provare a giocare con te, / ma tu giocherai con tutti /
se riuscirai a Imparare / a Pilotare la tua Mente. / In mezzo agli Oceani Sconfinati
dei tuoi Pensieri / la tua Mente può vagare alla deriva / o approdare a rive sicure /
e tutto il nocciolo della questione, e tu lo sai, / non è altro che Imparare /a Pilotare
la tua Mente.
Finalmente l’11 luglio arrivano all’improvviso le ambulanze della Croce rossa. Che sollievo! Mi sembra già di poter compiere un passo verso la guarigione.
Saluto Carlo: presenta solamente i postumi di una ferita, non necessita di
ricovero e quindi sarà presto rimpatriato.
Si raccomanda che io stia tranquillo, verrà a trovarmi in Italia; la drammatica deportazione e l’allucinante prigionia saranno solo una vaga reminiscenza.
Dante parte invece con me: entrambi veniamo sistemati sui lettini, e si inizia
il viaggio.
Dopo alcune ore raggiungiamo un luogo di cura: Bad Rehburg. Abbiamo
attraversato zone boscose nel Land di Niedersachsen, il cui capoluogo è Hannover.
Bad Rehburg è un paesino accogliente, circondato da colline ridenti. Veniamo ricoverati nel sanatorium «Volga», immerso in un verde parco tra i boschi.
Sembra di sognare: camere linde, a due letti, biancheria pulita, bagno, sala da
pranzo, e persino aula di soggiorno fornita di pianoforte. A tavola, dopo anni,
ci vengono serviti minestre, carne, patate, budini di mirtilli o di ribes, tè, latte,
prosciutto, uova, e ricompaiono finalmente piatti, posate, tovaglioli.
Sono ritornato in un mondo civile!
In un ambiente così nuovo, inatteso, sembra di sognare.
Trascorriamo alcune ore del giorno su un ampio terrazzo, sdraiati su lettini
speciali, protetti da coperte di lana, respirando aria salubre. Possiamo anche
passeggiare nel parco e notiamo ben presto un generale miglioramento delle
nostre condizioni di salute.
Purtroppo il 7 agosto, un mese dopo il trasferimento, veniamo spostati, con
nostro disappunto, a nord di Brema, precisamente in un ospedale della Croce
rossa inglese, ad Osterholz-Tenever.
L’ambiente mi pare misterioso, lugubre, anche se non manca il verde fitto
degli alberi. Si tratta forse di un antico monastero, immerso nel bosco, adattato per l’occasione ad ospedale. Ritorno con il pensiero ai castelli delle favole
udite o lette nell’infanzia.
L’enorme edificio presenta un ampio ingresso, muri spessi. Dopo aver percorso un lungo, spazioso corridoio, entriamo nella stanza che ci viene assegnata. È piccola, a tre letti, sobriamente arredata, senza bagno, illuminata da
una sola piccola finestra munita di inferriata, posta in alto sulla parete nord. Di
lì s’intravedono appena fusti di abeti e rami verdi. Mi trovo subito a disagio.
Siamo a pian terreno, la luce è scarsa, poi quella finestrina mi fa pensare trop-
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po ai carri-bestiame, alle celle dei carcerati, ai monaci di clausura.
Le crocerossine, alcune inglesi, altre olandesi, sono gentilissime, pronte a
offrirci parole ed espressioni di conforto, interessandosi alle vicende della nostra vita recente e passata e in modo particolare alla nostra salute. Si chiamano:
miss Roos Van den Berg, Lisbeth Weijers, Lies Van den Heijden, miss Power.
Cerchiamo di intenderci usando alcune parole di tedesco appreso non senza difficoltà, ma soprattutto parlando in francese.
Le ragazze olandesi ci spiegano che nel loro paese si studiano nelle scuole
due o tre lingue straniere. La loro posizione geografica facilita frequenti contatti con le popolazioni di lingua tedesca, francese, inglese; sono abituate più
di noi all’uso delle altre lingue europee. Conveniamo che anche nelle nostre
scuole sarebbe utile dedicare maggior spazio all’insegnamento delle lingue
straniere.
Faccio presto amicizia con miss Lisbeth, dal carattere cordiale e aperto.
È disposta a imparare l’italiano attraverso un ciclo di lezioni svolte da me in
francese. È stato motivo di grande sorpresa e piacere notare con quale facilità
ha imparato ad esprimersi nella nostra lingua sia a voce che per iscritto.
Nella stanza mi tengono compagnia Dante e Antonio, un modenese. Dante
accusa dolore a una gamba, è claudicante, si trattiene spesso nella camera
o nel cortile vicino. Antonio, invece, passeggia a lungo nel bosco con me:
conversiamo intorno agli argomenti più vari, da quelli frivoli a quelli seri, per
scaricare le nostre tensioni emotive, accumulate per anni.
L’alimentazione è tipicamente inglese: al mattino abbondanti colazioni a
base di pesce, uova, prosciutto e latte; alle 10 il the e il latte; alle 13 un pasto
a base di roast-beef; al pomeriggio cioccolata in tazza o tè; alla sera una zuppa di latte, fiocchi di avena, budino, biscotti. Siamo sorpresi per la ricchezza
dei pasti e constatiamo che in Italia, paese povero, si consumano assai meno
carne, latte, pesce.
Noi tre amici siamo affetti da malattia polmonare; l’abbondante nutrizione,
ricca di calorie, è adatta alle nostre scadenti condizioni fisiche e ci sforziamo
di approfittarne. Avendo a disposizione tante ore da far trascorrere, camminiamo spesso nei pressi dell’enorme parco che circonda l’edificio; vi sono alberi
resinosi altissimi, che permettono un’ottima ossigenazione.
Le terapie sono affidate a medici tedeschi; ci vengono praticate iniezioni
di vitamina A-C-D e di calcium, inoltre siamo sottoposti a esami del sangue e
schermografici.
Generalmente i medici hanno atteggiamenti sbrigativi; non svolgono la loro
opera con gentilezza, ma per puro dovere, così almeno è la mia personale
impressione. Attribuiscono poco peso alle lamentele che si riferiscono all’ambiente inadatto e ai disturbi causati dalla malattia. Non dimentichiamo che i
tedeschi hanno perduto la guerra, le loro città e le loro industrie sono state
distrutte dai bombardamenti, e che, ai loro occhi, noi italiani apparteniamo
ad un esercito inefficiente e traditore. Eppure avrebbero dovuto capire che
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l’unico mezzo capace di risparmiare vite umane e danni materiali incalcolabili
era l’armistizio!
Trascorrono alcuni giorni relativamente tranquilli, poi mi assale un invincibile senso di claustrofobia e desidero trovarmi sempre fuori dall’angusta
stanza: appena terminata la lezione con miss Lisbeth, mi affretto ad uscire nel
parco, tra gli alti abeti.
A distanza di una settimana Dante cambia carattere: da allegro e gioviale
diventa scontroso, suscettibile, appare quasi sempre innervosito. Il suo umore
è estremamente variabile; accusa dolori sempre più forti al capo e vomita,
infine compare febbre alta.
I dottori lo visitano a lungo, attentamente, poi lo isolano in una stanza del
piano superiore. Tramite le infermiere veniamo a conoscenza della diagnosi:
meningite tubercolare. Siamo costernati e il nostro pensiero va costantemente
a lui.
Il 30 agosto ci viene comunicato che è morto. Come può essere accaduto,
così all’improvviso? Pochi giorni prima scherzava e rideva, parlava di suo figlio
di appena quattro anni e sperava di raggiungere presto la sua Trieste...
Ci spiegava ciò che avveniva quando sulla città imperversava la bora; le
affannose strette delle mani alle corde per reggersi in piedi, i cappelli che volavano lontano, l’inclinarsi delle imbarcazioni attraccate al molo…
Ora dobbiamo prepararci ai funerali. Vogliamo che sia onorato degnamente; tutto il personale e noi amici, addolorati, partecipiamo alla mesta cerimonia. Penso alla disperazione della moglie …
Dopo la Santa Messa lo accompagniamo al cimitero di Altenheim-Tenever
e qui viene sepolto, lontano dalla sua amata terra.
Non l’ho neppure potuto assistere durante la sua ultima malattia; quanto
deve aver sofferto, così solo ...
La notte non dormo: penso alla sua improvvisa perdita e mi sembra irreale
che si sia aggravato in così breve tempo e irreparabilmente.
Da una settimana accuso catarro intestinale e dolore al capo. Una Schwester [sorella-infermiera] tedesca piuttosto anziana, piccola, la pelle grinzosa e
gialla, gli occhi vivaci ed espressivi, si accorge che non sto bene, ma non riesce a pronunciare una sola parola in italiano e mi chiede con interessamento:
«Wie geht es …?» (Come sta? …?). Io indico l’addome e rispondo alla meglio:
«Katarr… und Schmerz in der Kopf» (Catarro… e dolore alla testa.). E lei, premurosa, mi fa impacchi al capo con una pezzuola di tela bianca e mi porta del
carbone vegetale; così per diversi giorni.
La sfera psichica è scossa. Il sistema neuro-vegetativo, stimolato da impulsi
stressanti quali l’insonnia, ne risente e influisce negativamente su tutto l’organismo, in particolare sui visceri. Le cause penso siano diverse: deperimento
organico, traumi psichici, ricordi angosciosi.
Il dottore trova che presento uno «scarso focolaio febbrile» e scrive sulla
cartella clinica anche über nervosität (super nervosismo), genericamente. Non
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intende o non vuole indagare sui processi neuropsichici e sulle loro cause,
a lui sembra interessare unicamente la condizione dell’apparato respiratorio.
È settembre, sono già trascorsi cinque mesi dalla liberazione e ci troviamo
ancora bloccati in questa specie di monastero-ospedale.
Un collega, che mantiene i contatti con il comando inglese non sta bene,
le sue condizioni di salute sono peggiorate, non si sente più in grado di svolgere le proprie funzioni. Godendo io della stima generale, vengo proposto,
poi nominato, homme de confiance. Accetto, pur essendo cosciente di non
trovarmi nella condizione psicologica ideale per assumere una sia pur limitata
responsabilità. I fatti mi daranno ragione.
Vedo spesso il comandante inglese e, trattando con lui di problemi di assistenza, lo prego affinché veniamo trasferiti in un ospedale attrezzato per le
cure sanatoriali; gli chiedo che faccia contemporaneamente tutto il possibile
per rimpatriarci. Le rassicurazioni sono costanti, ma esistono evidenti difficoltà
di organizzazione nei trasporti e non si parte.
Arriva ottobre. Un giorno un gruppo di degenti entra in agitazione e mi
cerca: si tratta di un folto gruppo di soldati. Mi trovano nel corridoio che
costeggia le stanzette e mi aggrediscono, affermando concitatamente che la
causa del mancato rimpatrio è tutta mia e degli altri ufficiali, in quanto noi ci
intratteniamo volentieri in compagnia delle crocerossine olandesi e inglesi.
Queste si prodigavano davvero per renderci meno pesante la permanenza
nell’ospedale; non trascuravano i soldati, ma conversavano più spesso con
noi, anche perché conoscevamo meglio di loro l’inglese e il francese; ma da
ciò a desiderare di essere trattenuti in quel luogo c’è un abisso.
Li rassicuro che nemmeno per me è un piacere fermarmi nel tetro monastero, ma loro mi interrompono affermando che vogliono ritornare in Patria
e si abbandonano a insulti, a frasi isteriche, a giudizi cervellotici, che servono a scuotere ulteriormente il mio morale, già duramente provato. Corro dal
comandante inglese, gli riferisco l’accaduto. Egli torna ad assicurarmi che c’è
senz’altro il più vivo interessamento, ma che occorrono i treni-ospedale per
rimpatriarci. Mi fa accomodare su una poltrona, accende la pipa, accavalla le
gambe, vuole che anch’io mi distenda psicologicamente e non mi preoccupi.
Con la sua tipica calma inglese si mostra comprensivo e tende a sdrammatizzare la vicenda, affermando in lingua francese: «Molti Italiani hanno un temperamento impulsivo. Ho vissuto una simile esperienza nel sud della Francia, nella
zona di Marsiglia: anche là i soldati, in talune situazioni critiche, hanno rivelato
un carattere assai impulsivo e quasi irragionevole, è questione di temperamento, non se la prenda. Tutto si accomoderà nel migliore dei modi». Mi scuso e lo
saluto, insistendo però perché qualcosa di concreto venga realizzato.
L’insonnia si fa più grave: mi viene somministrato il Bromural, senza risultati apprezzabili. Come a Fullen, dopo un’ora di sonno un improvviso scossone
mi sveglia e non chiudo occhio per l’intera notte.
Mi vengono somministrate in seguito dosi giornaliere di Luminal; di sera
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impacchi caldi e compresse di Evipan. Nulla …
Passa di notte miss Roos: il suo incedere è silenzioso, non vuole disturbare
gli altri pazienti, tiene in mano una minuscola lampadina a pile, ha gli occhi
azzurri, il volto pallido, lievemente rosato, ovale. È una consolante apparizione. Una sera si sofferma ad osservarmi attentamente. Un velo di tristezza e di
rincrescimento passa nei suoi occhi inteneriti: rimane a lungo vicino al mio
letto come chi non sa che fare per lenire un turbamento dell’animo.
«Je ne dorme pas...» le dico, piano, sconsolato. Lei si intrattiene ancora un
po’ imbarazzata, infine si decide a darmi una compressa di Noctal, mi augura la buona notte toccandomi dolcemente la fronte e scompare, furtiva, così
come era venuta.
Tre rintocchi... la compressa produce uno strano effetto... mi pare di rimpicciolire... la mente si confonde, si perde lontano... un cigolio mi fa volgere
il capo verso la porta. Si apre piano. Il mio stupore è incontenibile. «Dante!...».
Sono euforico e atterrito insieme. «Sei venuto a prendermi? Non sono stato
avvertito, non sono pronto, io, non ...».
«Sciocco, che cosa farfugli? Non vedi che sto benissimo? Male ne ho provato tanto, ma ne sono uscito fuori. C’è una confusione… tutti questi feriti...
uno sbaglio, insomma. Per questo non volevo che mia moglie sapesse. Perché
spaventarla? Era una cosa da nulla.»
L’amico ride, ride, mi batte scherzosamente con la mano destra uno dei
suoi soliti colpi sulla spalla, ma così forte da farmi male, ride, ride, ride, non
ne può più, il suo volto sembra una maschera comica e grottesca. «Vieni, si va
a fare una passeggiata!» esclama.
Non capisce che fatica a camminare e che gli altri vogliono dormire? Non
può parlare sottovoce? Verrà certamente miss Roos, fra poco, lo sgriderà, lo
caccerà via, se la prenderà anche con me, che sono suo amico...
«Vai via, vai via!», lo supplico, lo imploro, lo spingo poi bruscamente, con il
braccio. Il suo riso scompare, non c’è più allegria in quegli occhi, il suo volto
si è trasformato repentinamente in una maschera di dolore.
«Mia moglie, mia moglie... Non vuoi venire a salutarla?... È lì fuori, devo raggiungerla presto, lei sì verrà subito a fare una passeggiata con me...» bisbiglia
e si allontana, senza fare rumore. La porta si richiude. Balzo dal letto e tento
goffamente di raggiungerlo. Nessuno nel buio corridoio, né l’eco di un passo.
«Dante, Dante, non volevo scacciarti... mormoro, e sento in gola qualche
lacrima, poi mi si accende una rabbia improvvisa contro di me, per non aver
accontentato l’amico, e grido «perché non mi hai aspettato?».
Così gridando mi sveglio per l’ennesima volta.
Passa la Schwester tedesca e io le sussurro: «Nicht schlafen» (Niente dormire). Anche lei è imbarazzata e mi somministra un’altra compressa di sonnifero,
ma non ne traggo alcun beneficio, anzi non dormo e mi agito al punto da
avvertire un’allarmante tachicardia.
L’insonnia mi provoca altri incubi e ricordi angosciosi. Di giorno accuso
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stanchezza profonda, sudorazione, intorpidimento ora di un braccio ora di
una gamba. In me permane una celata, ma invincibile paura.
Capitolo VIII
Il 13 ottobre giungono le sospirate ambulanze: si parte con animo rincuorato. Salutiamo e ringraziamo le crocerossine per le cure e le gentilezze che
ci hanno prodigato. Ci si promette reciprocamente di scriverci. Saliamo sugli
automezzi e veniamo ricondotti, con un viaggio celere, a Bad Rehburg.
È la zona collinare, densa di boschi, che ci ha ospitati nel mese di luglio;
questa volta siamo destinati al sanatorium «Alexander». Qui l’ambiente è confortevole: stanze a due letti, luminose, terrazzi, sala da pranzo, parco, crocerossine, come sempre, premurose. Siamo ricoverati in una casa di cura ben
attrezzata.
Mi guardo intorno, tutto è nuovo, cambiato; nel giardino le aiuole sono
fiorite, da una fontana zampilla acqua fresca e limpida. Al piano terreno i locali sono adorni di piante sempreverdi, l’arredamento è nuovo e funzionale.
L’ambiente favorevole sembra attenuare i miei disturbi.
Alla prima visita un medico tedesco mi osserva bene: i miei riflessi nervosi
sono anomali, il respiro aspro, specialmente nella zona apicale e sottoclaveare destra del polmone. Controlla le cartelle cliniche e mi parla francamente:
«Vedo che le sono stati prescritti molti sonniferi: Luminale, Bromural, Evipan,
Noctal. Se continua questa terapia ipnotica, lei finisce male. Deve da questo
momento astenersi dall’assumere barbiturici e bromuri. Rischia di avvelenarsi.
Faccia piuttosto lunghe passeggiate nei boschi, cerchi di distrarsi in buona
compagnia, eviti l’isolamento e stia lontano da questi prodotti».
Parla correttamente l’italiano, si esprime con sicurezza e mostra convinzione e competenza in ciò che consiglia: un medico coscienzioso. Io gli rispondo
che, siccome soffrivo d’insonnia persistente, mi venivano dati gli ipnotici, in
buona fede, con ogni probabilità, ma che non ero responsabile della terapia
applicatami.
Inizia da qui un enorme sforzo di ripresa, tuttavia a me sembra proprio di
impazzire: giro nel parco con la mente in perpetua agitazione.
Trovo in questo momento drammatico un valido aiuto nell’amico Antonio.
Il medico ha ragione, me ne devo convincere: bisogna reagire con mezzi naturali.
Passeggio con lui negli immensi boschi. Cammino, cammino, anche da
solo, fino a stancarmi fisicamente, per poter riposare meglio di notte, e ci
riesco solamente in parte. A volte mi trovo in uno stato di euforia ed altre di
profonda depressione.
La notte è sempre uno scoglio misterioso da superare. Il timore di non dormire mi tiene facilmente sveglio.
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Quando mi trovo in dormiveglia, la mia coscienza è piuttosto confusa, avverto o la molesta sensazione del cardiopalmo oppure sudorazione.
Rivedo volti cerei, scarni, odo la repellente scorribanda dei ratti, mi disturba
la macabra visione dei morti scheletriti di Fullen... immagini di tempi passati si
accavallano in disordine …
«Carlo, non correre fuori dal campo! Non salire sulla staccionata! Arrivano i
tedeschi e sparano senza preavviso! Torna indietro, altrimenti finirai sul carro
e vi resterai chiuso per intere giornate. Ricordi lo sferragliare del treno? Non
posso più sopportare quel frastuono incessante! …».
Mi sveglio completamente; è mattino, le idee sono tormentate, la testa stordita. L’infermiera entra nella stanza e mi fa un’iniezione. Ci salutiamo distrattamente. Non riesco a decidermi ad alzarmi dal letto, ho i riflessi appannati,
non so prendere decisioni.
Accuso immaginari difetti di vista e mi allarmo: «Non esagerare, non è possibile, il tuo sguardo è normale!», ma è un’ossessione purtroppo ricorrente.
Ricomincia un’altra giornata; le prime ore sono le più difficili da vivere. Mi
propongo di distaccare le idee fisse dalla mia psiche per inserirmi nella realtà
viva.
Non è facile: si rimane come legati al proprio «io», prigionieri, perché le
percezioni di ciò che accade all’esterno non interessano, non possono essere
ricevute con la lucidità dell’uomo sano, disinibito.
È un egocentrismo esasperato, tanto più avvilente quanto più temuto. Non
riesco a respingerlo; è mia la colpa? Dico a me stesso: «Staccati dal cervello,
immergiti nel mondo reale. Ammira i fiori, la loro bellezza, il loro profumo! Il
tuo stato emozionale, i tuoi sensi non funzionano e si sono irrimediabilmente
guastati, come un giocattolo a cui manca la carica per azionare i meccanismi?
Ascolta il canto degli uccelli, così sereno… Guarda chi è più infelice di te e
assistilo».
Ma sì, lo so, tuttavia non mi riesce di separare l’«io» dal «non io» e trasformarli in due entità distinte e in due distinte e chiare funzioni.
Scendo nella sala da pranzo per la prima colazione. Il vitto è buono, sostanzioso, e, ora che non ne abbiamo necessità, riceviamo anche numerosi pacchi
della Croce rossa internazionale: latte condensato, biscotti, cioccolato.
Come «uomo di fiducia» ho l’incarico di distribuire questi generi di conforto
ai degenti, e non solamente a quelli ricoverati presso il sanatorium «Alexander», ma pure a coloro che si trovano presso le altre case di cura.
È un ottimo motivo per scuotermi psicologicamente e allacciare nuove conoscenze. Mi interesso delle condizioni di molti altri ammalati. Mi colpiscono,
più delle altre, le vicende di Nico, abitante nella zona di Asiago, di Orazio,
romano; ascolto le vicissitudini della vita militare, della prigionia, e le angherie
patite nei cantieri di lavoro coatto.
Giunge intanto dall’Italia una professoressa, una signora piccola, il volto
ovale, gli occhi vivaci, penetranti. Cerca disperatamente il marito malato e
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trattenuto come noi in Germania per cure. Dopo tante indagini, viene a sapere
che è stato rimpatriato da poco con un treno ospedale. Si mostra ansiosa di conoscere le reali condizioni del coniuge, si interessa di noi e sollecita le autorità
militari alleate affinché possiamo finalmente essere rimpatriati.
Il 6 novembre arriva la sospirata notizia che è pronto il treno ospedale che
ci porterà in Italia. Siamo felici ed euforici: questa volta si ritorna davvero!
Notte insonne, di attesa.
Al mattino indossiamo gli abiti migliori, in buona parte donatici dalla Croce
rossa internazionale, così siamo pronti per il rimpatrio.
Le crocerossine tedesche, nel salutarci, si mostrano contente e dispiaciute
al tempo stesso; verranno un giorno in Italia, assicurano, per trascorrervi le
vacanze: il nostro Paese è molto bello ed ambito.
Il viaggio è lungo; ci sistemiamo nelle cuccette, così di notte possiamo
dormire.
Di giorno osserviamo dai finestrini i soliti paesaggi: boschi a non finire,
prati, fiumi, stazioni ferroviarie e tante distruzioni provocate dalla guerra.
Qualche sosta, poi si prosegue ininterrottamente per parecchie ore. Abbandoniamo il fiume Weser, siamo ancora nell’Hannover. Passato il fiume Leine,
tocchiamo Gottinga, altra città industriale duramente provata dalla guerra. Più
avanti, ancora boschi di abeti interminabili. Si prosegue tra le colline verdeggianti, poi si costeggia il Meno fino a Würzburg. Si notano zone verdi, altre
paludose, sabbiose, ed ecco Norimberga, distrutta dai bombardamenti.
È una scena desolante che si ripete spesso ai nostri occhi dolorosamente
stupiti. Fa pensare alla mancanza di saggezza dei dittatori, alla loro follia omicida e di autodistruzione. Prima di scatenare un conflitto, si dovrebbe esplorare
qualsiasi possibilità di accordo. Purtroppo la ragionevolezza e la moderazione
non sono caratteristiche proprie del totalitarismo, che non conosce né logica
né morale, ma l’imposizione della forza come unico mezzo per dominare chi,
a torto, viene ritenuto debole in quanto mite. I risultati della tirannia sono disastrosi, ma, alla fine, prevale su tutto la sete di giustizia e di libertà.
Attraverso i monti della Baviera raggiungiamo Ratisbona sul Danubio, una
terra fertile. Altra sosta monotona. La corsa prosegue: superati i fiumi Isar e
Vils, siamo a Passavia sul Danubio. Il treno si ferma, riparte, oltrepassa il confine germanico e arriva a Linz nell’alta Austria, sempre nella valle danubiana.
Il convoglio si ferma più a lungo del consueto e ne restiamo tutti molto
sorpresi. Veniamo fatti scendere: disappunto generale.
Camminiamo nei prati circostanti osservando, ad alcuni chilometri di distanza, la città industriale di Linz e, più lontano, la catena montuosa della selva
boema, che presenta alcune vette innevate.
L’aria è pungente e ci difendiamo coprendoci con gli indumenti più pesanti.
Ci viene comunicato che dobbiamo provvisoriamente sistemarci in un vecchio Lager abbandonato. Lo raggiungiamo a piedi e ci poniamo alcuni inutili
interrogativi. Vi sono forse intralci burocratici o difficoltà nelle vie di comuni-
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cazione ferroviaria. Siamo assai delusi e stressati per il lungo e lento viaggio.
Diverse erano le sofferenze e l’avvilimento provati durante la deportazione
o i forzati trasferimenti da un campo all’altro, però questo protrarsi di attese
logora i nervi e fiacca lo spirito.
Entriamo nelle tetre baracche, antiigieniche, e ci sistemiamo svogliatamente
sui soliti «castelli» e sulla poca paglia che ci viene concessa, nella speranza di
poter riposare o dormire.
Pare proprio di essere tornati prigionieri.
L’organizzazione è scadente, inoltre c’è una guardia che svolge un servizio
di sorveglianza con modi autoritari e noi mal sopportiamo, dopo una così debilitante prigionia, di essere bistrattati da un austriaco, che ci ricorda troppo
vivamente, con la sua divisa, le angherie subite in Germania. Il nostro amico
Orazio, romano, perde la pazienza, e, ricevuto l’ennesimo ordine severo, s’innervosisce e affronta la guardia decisamente, a pugni.
C’è un attimo di esitazione, di perplessità, infine li dobbiamo separare, perché la zuffa non rischi di procurarci nuovi guai. In fondo non siamo ancora
in Italia, ci troviamo in territorio straniero, non si sa mai come vadano a finire
questi gesti impulsivi, irrazionali, dettati da un risentimento a lungo represso
in silenzio.
Sopportiamo ancora e finalmente possiamo risalire sul treno; ripartiamo
con nuove speranze nel cuore, ma senza eccessivo entusiasmo, dopo le estenuanti attese e delusioni.
Il convoglio riprende a marciare con lentezza, poi aumenta gradualmente
la velocità. Molti di noi sono stanchi e taciturni. Si procede ancora per interminabili ore e infine, dopo aver attraversato i monti della Stiria e della Carinzia,
raggiungiamo il passo di Tarvisio!
È il 23 novembre 1945. Le nostre lunghe, interminabili aspettative stanno
per realizzarsi.
Capitolo IX
Proseguiamo fino al centro di raccolta di Pescantina, in provincia di Verona;
da qui verso Trento, a Bolzano e, ultima tappa, Merano. Il 27 novembre vengo ricoverato nell’ospedale n.°63 della Croce rossa italiana, istituito nell’hotel
Parco.
Sembra veramente di sognare: mi viene assegnata una stanza a due letti, vi
sono servizi igienici, biancheria linda, perfino un balcone. L’ambiente è spazioso e pulito: un albergo di lusso!
I medici e le crocerossine sono premurosi. La vita ha già iniziato a trasformarsi. La sera seguente mi ritrovo assieme ad altri ufficiali miei amici e brindiamo per festeggiare l’avvenimento. Cantiamo, ci abbracciamo, siamo felici, ma
alla fine devo ritirarmi per dormire, se possibile: mi duole la testa e sto male,
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non sono più abituato al vino. Non importa.
La notte è passata. Mi riprendo, mi alzo trasognato, guardo fuori dalla finestra: stupenda, Merano! Adagiata in una conca, circondata da monti innevati,
attraversata dal fiume Passirio, rigogliosa nella vegetazione per il suo clima
temperato, è il luogo ideale per magnifiche, rilassanti passeggiate: «Tappeiner»,
«Lungo Passirio», «d’Estate», «d’Inverno», «della Gilf»: portici abbelliti da numerosi negozi impregnati di folclore tirolese, giardini fioriti costeggianti il fiume.
Ben presto prendiamo familiarità con la cittadina; visitiamo il duomo, in
stile gotico, il castello principesco, la torre medioevale, i resti di Castel San
Zeno, e percorriamo i curatissimi viali. Talvolta raggiungiamo Avelengo, San
Vigilio, Lana, Castel di Scena, Castel Tirolo. Tutti luoghi che permettono di
accantonare, almeno in parte, il ricordo dei tragici giorni dei Lager.
Il panorama è sempre suggestivo. Durante l’inverno si sale con amici o
parenti sulla funivia che in pochi minuti porta al monte Avelengo, a mille
e duecento metri di altitudine. Ci si siede davanti all’albergo «Belvedere»; si
respira aria pura, ammirando, seduti su comode sedie a sdraio, l’incantevole
paesaggio della cittadina immersa nella neve. Altre volte si sale in teleferica sul
monte San Vigilio, a mille e quattrocento metri, e, dopo una lunga passeggiata,
si scoprono altre meraviglie della natura.
Oggi sono seduto su una panchina e osservo il ponte romano, le aiuole
fiorite e l’acqua che scorre veloce tra i massi, spumeggia, corre sotto gli innumerevoli ponti verso l’Adige, corre come i miei pensieri, lontano. Lo sguardo
è fisso. «Che hai?» mi chiede Antonio. «Nulla», rispondo. Riprendiamo a camminare in salita fino all’hotel Parco, immersi tra vigneti e frutteti.
Antonio parla, parla; io rispondo distrattamente, forse non seguo nemmeno la logica del suo discorso. Comprendo lo stesso che domani verranno a
trovarlo la madre e un fratello, lo condurranno a casa. Il padre è scomparso
tragicamente parecchi anni fa. Gli auguro con tutto il cuore di trovarsi a suo
agio nella nuova vita che sta per intraprendere e gli prometto che andrò a
trovarlo quando anch’io rientrerò nella mia città. È coraggioso e lo ammiro. Mi
ha sostenuto moralmente, spronandomi a superare momenti davvero difficili
per il mio equilibrio psichico, quando ero sconvolto per la morte di amici o
per le mie stesse malattie.
Viene sera, il momento ideale perché insorgano fantasmi. Nonostante le
distrazioni, ritrovo angoscia e insonnia.
Gli amici e il personale ospedaliero mi aiutano a superare alcune difficoltà
di reinserimento nella vita normale, ma le ferite prodotte dalle sofferenze e
dalle malattie non si rimarginano in pochi mesi, così alterno periodi di relativa
calma con altri ancora penosi.
La professoressa che ci ha raggiunti e seguìti nel viaggio di ritorno dalla
Germania ha finalmente ritrovato il coniuge in un ospedale di Merano-centro,
ma è molto grave, la tubercolosi polmonare è in uno stadio troppo avanzato e
a nulla valgono le cure. Vive un’agonia straziante, assistito notte e giorno dalla
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moglie, che non sa darsene pace: ha tanto sperato, pregato, implorato per poterlo riabbracciare, si è rivolta a Dio perché ci aiutasse a ritornare in Patria e,
ora che i suoi desideri sono stati esauditi, suo marito non è più. Così sprofonda
nel più oscuro dolore, le mancano le forze, si dispera, parla con il morto come
se fosse ancora in vita; non riesce a rassegnarsi al fatto che proprio alla soglia
della salvezza tutto sia crollato. La sua angoscia è profonda e autentica; credo
che solamente la fede, di cui ha dato evidenti prove in momenti tanto difficili,
potrà col tempo ridarle un po’ di fiducia e di serenità. Noi le siamo vicini e
vorremmo consolarla, ma non sappiamo con quali parole.
Nell’albergo adibito ad ospedale mi ritrovo, dopo che Antonio è partito,
nella stessa stanza con un degente appena arrivato, Giancarlo di Roma, anche
lui duramente provato dalla guerra e dalla prigionia. Non vuole mai uscire, i
suoi occhi sono come trasognati. Lo prego, insisto perché esca. Viene con me
una volta, due, poi si rinchiude nuovamente nel suo mondo, dominato, penso,
da sensazioni incomprese, o comunque inespresse. Preferisce restare chiuso
nella stanza, in compagnia dei suoi soli pensieri.
Qualcosa sembra bloccare la sua volontà: un’idea fissa, una preoccupazione, un ricordo traumatico che non riesce a scacciare? Il suo sguardo è dolce,
ma assente.
I suoi genitori vengono a trovarlo e lo incitano a scuotersi, a vincere i suoi
blocchi: la vita deve continuare. Lo circondano di premure affettuose e mi
pregano di aiutarlo. Cerco di rassicurarli: farò tutto ciò che mi è possibile. Lo
comprendo appieno, dato che anch’io mi sento inibito da idee fisse, sgradevoli, che salgono dal subconscio. Le riconosco prive di fondamento, ma non
sempre riesco ad uscirne, pur compiendo rilevanti sforzi.
Vengono a trovarmi anche i miei parenti. Mi mostro sfiduciato, depresso.
Mi accompagnano fuori nei giardini a passeggiare, poi nei ristoranti, per farmi
cambiare ambiente. Riprendo poco alla volta a parlare con disinvoltura e mi
sembra quasi impossibile che solo poche ore prima mi trovassi psichicamente
legato.
Partiti loro, ripiombo nella tetraggine di amare, incancellabili memorie. Lotto per svincolarmi dalle fobie. A volte ci riesco e mi rassereno, più spesso
perdurano in me instabilità di umore e una strana agitazione, non facilmente
spiegabile. Sono ansioso.
I medici mi prescrivono sedativi. Ancora Bromural, come in Germania.
Eppure il dottore tedesco di Bad Rehburg ragionava con buon senso: i sedativi non risolvono queste patologie, occorre uno sforzo della volontà, occorre
camminare, camminare fino a stancarsi fisicamente, uscire, parlare con gli altri,
mantenere sempre vivi i contatti umani, anziché chiudersi in sé stessi. Tutto
vero, verissimo, ma quando la volontà è debole o addirittura viene a mancare…?
È la primavera del 1946. Merano è incantevole, specialmente ora.
Viene a trovarmi mio cugino Domenico. Sono felice di rivederlo, dopo anni
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di lontananza. Conversiamo a lungo e ci accordiamo per effettuare una gita il
giorno seguente.
Al mattino saliamo sul tram, che ci porta da Maia Alta, nei pressi dell’hotel
Parco, a Maia Bassa, poi a Lana. Dai finestrini scorrono i meli in fiore, immensa distesa accecante. Una vista inconsueta, che sa di irreale. L’aria è tiepida, il
sole caldo.
Visitiamo la chiesa parrocchiale del XV secolo e il suo famoso altare gotico,
camminiamo a lungo per raggiungere i caratteristici ponticelli sospesi da funi
su piccole cascate, infine arriviamo alla stazione della teleferica di San Vigilio.
Entriamo nella cabina, che si mette in movimento e ci conduce fino all’ultima
fermata, la più alta, poi a piedi su, su, fino a raggiungere la neve. Scattiamo
delle fotografie in zone panoramiche, suggestive, per conservarne il ricordo.
Ritorno all’ospedale contento, rigenerato.
Il giorno successivo ricordiamo i tempi felici, quando, durante le vacanze
estive, ci fermavamo la sera a conversare con gli amici, seduti sul muricciolo
del ponte dirimpetto alla casa colonica dello zio. Erano momenti magici, vissuti tra persone sane, ragazze e giovani contadini dai modi semplici e cordiali,
che mi tenevano in grande considerazione, sapendomi studente.
Si osservava a lungo il cielo, scrutandone i punti luminosi: Sirio, Vega, l’Orsa Maggiore, la Via Lattea, le stelle cadenti. Ricordo che uno di questi ragazzi
amava discutere con me sul mistero dell’universo. Non riusciva a comprenderne l’immensità e traeva la conclusione che l’ordine esistente nel sistema
siderale non poteva far pensare che alla presenza di un Creatore capace di
regolare la vita della Terra e di tutti gli altri mondi.
Ero piacevolmente sorpreso all’idea che una persona non colta nutrisse in
sé il desiderio di affrontare, ritengo perché a continuo contatto con la natura,
problemi sconfinanti nella filosofia. A volte ero imbarazzato, non sentendomi
in grado di fornire una risposta a domande di fronte alle quali neppure gli
scienziati potrebbero essere esaurienti.
Allora ero libero. Non mi disturbavano quei fenomeni che io definisco impropriamente «contatti nervosi»: tengono la mente legata a un disturbo che, a
forza di pensarlo, diventa reale, mi deprime e non mi permette che di pensare
a quello, anche contro la mia volontà, a meno che una circostanza esteriore
non riesca a interromperlo, almeno per poco. È il solito «irretimento».
Mi rilassavo, allora, lavorando coi miei cugini in allegria nei campi: si vendemmiava, si raccoglievano frutti saporiti e genuini.
Mio cugino parte. Lascia un vuoto e mille ricordi. Mi chiedo se torneranno,
quei giorni spensierati.
Il mio «io» di un tempo mi appare ora il protagonista di un’altra storia, non
vissuta da me, ma di cui ho sentito raccontare. Ma neppure questa, presente,
è vissuta in realtà da me.
Io sono qui, ma è come fossi lontanissimo, irraggiungibile, nello spazio e
nel tempo. Forse nemmeno Gea potrà mai raggiungermi.
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Mi chiedo talvolta se sarò in grado di riprendere la relazione affettiva con
lei.
E lo studio, il lavoro… Potrà tutto tornare come prima?
Chilometri di reticolato ancora mi attraversano gli occhi, spari di sentinelle
mi esplodono nelle orecchie, e le larve umane di Fullen formano una barriera,
un’insormontabile barriera fra me e il Reale.
Carlo nella brughiera era sincero sull’indifferenza degli affetti? Aprirmi un
varco, un minuscolo varco, è tutto quello che per ora chiedo.
No, meglio lasciar perdere, glielo farò capire, è assurdo mettere assieme
una famiglia, dopo malattie così gravi e con tutti quei disturbi che tuttora mi
perseguitano… Non pensiamoci più, troverai qualcun altro, ma sì, magari molto migliore di me, meno provato da questa dannata guerra, lui ti offrirà quella
stabilità che non ho più, che mi è stata strappata prepotentemente di dosso.
Eppure mi pesa, mi pesa rinunciare… E perché, poi, dovrei? Chi lo può dire
se in sèguito saresti felice? L’equilibrio… me lo potrei riconquistare. Proprio
per te, e per i bambini che, già me li vedo, girerebbero per casa.
Poi mi viene in mente che, in un momento di particolare depressione, quasi
imprigionato in un incubo, ti ho mandato una lettera infarcita di parole dure,
ho cercato in tutti i modi di farti capire che per noi non c’è futuro, che il mio
sentimento non esiste più, così come quella persona che tu hai tanto amato.
E devo essere stato davvero bravo, visto che proprio tu non sei venuta a trovarmi.
Nell’albergo-ospedale, in una stanza vicina alla mia, si trova il dottor Emilio
Manenti8, un mio concittadino cordialissimo, amico di tutti. È ammalato, ma
sa ugualmente trovare pronte battute scherzose, e risolleva lo spirito degli altri
ufficiali ricoverati. Si prodiga come organizzatore ed interprete in una simpatica rivista.
Lo spettacolo viene presentato in un’ampia sala a piano terra, sopra un
palco improvvisato. Rammento le scenette più divertenti, una soprattutto. Sul
palco è stato allestito un moderno, sofisticato ambulatorio, diretto da un medico geniale: un tavolo, un complesso congegno elettrico, due cabine, una a
sinistra, una a destra. Arriva il dottorone, mentre l’infermiera sta amoreggiando
col fidanzato; presa da improvviso panico, lo nasconde nella cabina di sinistra,
dove avrebbe dovuto introdurre un magico manichino. L’uomo, intimorito, vi
rimane impalato, rigido, proprio come un fantoccio.
Il medico, col suo fantascientifico apparecchio, avrebbe dovuto curare i
suoi pazienti nel seguente, assai singolare modo: dopo averli introdotti, a
turno, nella cabina di destra, innestando una leva avrebbe trasmesso le loro
malattie al manichino, così la guarigione sarebbe stata perfetta. L’infermiera
8
Si veda G.E. MANENTI, Storia e cristianesimo nei lager nazisti. Diario di un Tenente medico degli
Alpini (1943-1946), a cura di S. Spreafico, Diabasis, Reggio Emilia 2006, pp. 248.
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non si rende conto del grave errore commesso, è confusa. Entra il primo malato, balbuziente; desta molta pena. Ne compare poi un altro, vistosamente
claudicante. Da ultimo arriva un minorato psichico vestito da marinaretto;
nonostante la sua rilevante mole, passeggia divertito sul palcoscenico su di un
triciclo per bambini, destando fragorose risate.
Il dottore appare sulla scena, esamina accuratamente i pazienti: sono davvero gravi. Dà loro una pacca d’incoraggiamento sulla spalla e li fa entrare, uno
alla volta, nella cabina di destra, poi aziona la magica leva ed altri misteriosi
pulsanti: guizzi di lampi, fiamme violacee, fumo. Trascorsi alcuni istanti, tutti i
malati escono perfettamente guariti e felici, e si congratulano con il prodigioso medico. Partiti il dottore e i clienti, finalmente il fidanzato dell’infermiera
può uscire dalla cabina di sinistra. Compare frastornato, agitato, nel mezzo del
palcoscenico: naturalmente ora è lui che zoppica, è rincretinito e balbuziente.
La fidanzata si dispera, tanto da cadere svenuta. Tutti ridono e applaudono.
Questa e altre scenette ingenue e farsesche hanno uno scopo ben preciso:
distogliere i reduci dal ricordo dei campi di concentramento, sdrammatizzando le tristi esperienze; far loro riassaporare, anche solo per pochi minuti, il
gusto della spensieratezza, della fantasia, della serenità, così spesso perdute.
Ben presto diventiamo amici, Emilio ed io, e insieme spesso passeggiamo
lungo il corso del Passirio nei riposanti giardini fioriti, ci sediamo sulle panchine e conversiamo per ore. Talvolta scherziamo, commentiamo libri umoristici,
come quelli di Rabelais, e ironici, come quelli di Anatole France.
Cresciuta fra noi la fiducia, gli confido i miei disturbi; lui cerca di minimizzarli con bonarietà sincera. È intelligente, dotato di profonda umanità e buon
senso; praticamente svolge nei miei confronti il ruolo di psicoterapeuta. Sa
infondere in chi lo avvicina più sicurezza e tranquillità, dote preziosa per un
medico.
Anche la moglie, venuta a trovarlo da Reggio Emilia, una signora simpatica
e dinamica, sa rivolgere ai degenti espressioni cordiali e rasserenanti.
Ma purtroppo non bastano le buone amicizie, le distrazioni, i miei ripetuti
sforzi di volontà per guarirmi. Quasi ogni mattino avverto dietro la nuca un
formicolìo, uno scorrimento, come se le meningi potessero decidere se irrigidirsi o muoversi. Questo sintomo, finora a me sconosciuto, m’irretisce la
mente e mi rende a tratti depresso, a tratti agitato.
Alzandomi dal letto, talvolta stento a muovere un braccio, come fosse paralizzato. Mi allarmo enormemente, inizio a massaggiare l’arto con affanno;
sto per chiedere soccorso al personale dell’ospedale, quando all’improvviso il
disturbo scompare.
Entra l’infermiera per l’iniezione. Più tardi, dopo la prima colazione, arrivano i dottori per la consueta visita. Non trovo il coraggio di informarli dei miei
disturbi, mi sentirei ridicolo ai loro occhi. Così mi limito a parlare delle mie
cefalee, dello «stordimento» che spesso mi assale.
Soltanto con rari amici mi confido. In effetti si tratta di impressioni assurde,
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illogiche, anche se le patisco realmente; incomprensibili da chi non ne abbia
avuto, per sua fortuna, esperienza diretta. Sono i sintomi della psiconevrosi.
Nel pomeriggio di solito entrano nella mia stanza alcuni colleghi, si chiacchiera e mi sforzo di scordare le spiacevoli sensazioni provate. Il tarlo dell’esaurimento però continua a lavorare, insidioso, all’interno.
È un periodo di crisi acuta; una lotta ìmpari. Mi sento fragile nel carattere,
non so prendere decisioni, vivo in un ininterrotto stato di dubbio.
Sono talmente autosuggestionato, che ho persino timore ad affacciarmi al
balcone della mia camera: temo che una forza misteriosa m’imponga di precipitare nel vuoto.
Eppure sarebbe così piacevole starsene tranquilli, ammirare con gioia il
paesaggio meranese, distensivo, rigoglioso di vegetazione, circondato da alte,
splendide montagne.
Non riesco, nonostante gli sforzi, a svincolarmi dai miei turbamenti, che a
volte s’interrompono momentaneamente, per poi riaffacciarsi più insidiosi di
prima.
La mia mente non si arresta, non trova pace.
È notte. Penso: tutto questo non esiste. Non lo dirò ai medici, chissà che
cosa penserebbero del mio stato psichico. È assurdo, ma è così. Non posso
farci niente.
M’illudo di riuscire ad addormentarmi, ma la mia mente corre oscillante su
di un sottilissimo filo. Si trasforma in acrobata, e sotto non c’è protezione…
Loro sono tutti lì: il mio pubblico, ufficiali in impeccabile uniforme, ben
rasati, sicuri di sé, seduti in semicerchio per l’insolito spettacolo, a osservare
la mia mente acrobata che ora, come al rallentatore, dolcemente, sta cadendo
nel vuoto. Tutti ammutoliscono. Ce la farà?
Si solleva di nuovo, riprende la sua corsa sul sottilissimo filo, la mente lavora su sé stessa, io lavoro sulla mia mente con la mia mente, io lavoro e lei
lavora, lavora e corre, corre sul filo sottilissimo, e io corro con lei e non riesco
a evitare una confusione immensa, immensa come lo scroscio di applausi del
mio pubblico. Ma su nessun volto leggo un sorriso...
Ho dormito malissimo. Al mattino, allo specchio, gli occhi sono asimmetrici, i globi paiono deviati.
«Ancora!... Spezzerò tutti gli specchi della terra, non voglio vedermi! Nessuno deve accorgersene». Così grido dentro di me, anche se vagamente mi rendo
conto che nessun altro se ne potrà mai accorgere, perché sono stato io stesso
a crearmi abissi di angosce negli occhi…
Come mai quando passeggio e converso con Emilio o con altri amici mi
sembra di cambiare personalità e giudico ancora più illogico quel mio «irretimento»?
Non v’è dubbio: la distrazione, il partecipare senza soste alla vita in comune
sono gli unici rimedi. Devo impormi di evitare nel modo più assoluto l’isolamento.
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La compagnia mi aiuta anche a superare le difficoltà che incontro nell’attraversare strade o piazze da solo… mi pare di perdere l’equilibrio, di cadere,
ma è un’altra autosuggestione che devo vincere ad ogni costo e in fretta…
Non devo arrendermi, tutti noi reduci dobbiamo vincere la nostra personale battaglia contro le sofferenze, le malattie fisiche e spirituali. Dobbiamo ricominciare a pensare al lavoro, non ai misfatti della guerra, dedicarci all’opera di
ricostruzione morale e materiale.
Nell’ospedale vi sono degenti che presentano quadri clinici vari. C’è chi
viene sottoposto al pneumotorace artificiale: insufflazione di aria nel cavo
pleurico per costringere allo stato di riposo la parte ammalata, onde favorire la
cicatrizzazione della ferita provocata dal bacillo di Koch. Visitando i colleghi,
osservo che qualcuno ha subìto l’intervento chirurgico detto «toraco-plastica»:
con la resezione di alcune costole si comprime la parte malata del polmone
e la si mette a riposo. Altri vengono sottoposti alla «frenico-exeresi»: col taglio
del nervo frenico la membrana del diaframma si ritrae, comprimendo la parte
inferiore del polmone malato. Altri ancora vengono tenuti a letto, a riposo
assoluto, in posizione supina, con torace e testa inclinati verso il basso, per
favorire la compressione degli apici polmonari.
Tutte queste terapie e interventi chirurgici si propongono di mettere il
polmone malato a «riposo funzionale», in condizioni di ridotta respirazione,
minore affaticamento, favorendo così la guarigione. Infine c’è chi necessita
solamente di riposo, ossigenazione, alimenti sostanziosi e cure ricostituenti. Io
sono tra questi ultimi e, se considero le precarie condizioni fisiche di alcuni
pazienti, dovrei essere più coraggioso e vincere i miei disturbi, prevalentemente di natura psichica e nervosa. Ma, lo ripeto, non sempre basta la volontà. Se questa viene a mancare per cause indipendenti dalle mie intenzioni,
dovrebbero essere i medici ad intuirlo e a provvedere. Ma in quale modo? Ci
troviamo in un campo non ancora esplorato a fondo, in cui giocano fattori
sconosciuti e misteriosi, come misteriosa è la vita umana. Forse il rientro in
famiglia, la ripresa dello studio o del lavoro, il ritorno ad una normale occupazione potranno migliorare il mio quadro clinico.
Devo riconoscere comunque che, con le cure ricevute, le mie condizioni
fisiche generali sono migliorate. La guarigione non è totale, però sto avviandomi verso la fine della convalescenza. Sento doveroso far visita agli ammalati
più gravi e converso con loro per rincuorarli, anche se riconosco che, da parte
mia, il coraggio e la fiducia, mio malgrado, costituiscono al momento i punti
carenti della mia personalità.
Qualche pomeriggio raggiungo con gli amici, secondo l’iniziativa di qualcuno di noi, le località più amene dei dintorni. Camminiamo per l’abitato di
Merano, sparso in mezzo a giardini e parchi, protetto dall’arco montuoso della
giogaia di Tessa e dai monti Sarentini. La temperatura è sempre mite, non va
soggetta a repentini sbalzi, come nella pianura padana, si mantiene costante
e gradevole.
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Ci sediamo sulle panchine oppure ci intratteniamo in una delle tante birrerie, conversando a lungo. Col passare dei giorni, la compagnia si assottiglia:
c’è chi viene mandato a casa, chi viene dimesso, munito di un foglio che concede sei mesi di licenza.
Qui termina il mio diario.
Conclusione
Sono convalescente; da pochi mesi ho chiesto e ottenuto di essere dimesso
dall’ospedale della CRI. Il Comando militare mi ha concesso una licenza straordinaria di sei mesi; dovrò presentarmi per altre visite presso la Commissione
medica ospedaliera di Bologna.
Mi trovo a Reggio.
Un giorno scrivo una lettera al mio attendente Antonino, narrandogli le mie
peripezie e chiedendogli sue notizie.
Trascorse due settimane, con mia grande sorpresa, arriva dalla Sicilia un
pacco postale. Che cosa potrà contenere? È piena di imballaggi di carta e di
cartone e, tra questi, parecchie e grosse arance, le più belle della nostra splendida isola. È Antonino che me le invia con affetto; egli, nonostante le vicissitudini della guerra e della prigionia, ne è uscito indenne e sta bene.
15 agosto 1987. Con l’attendente Antonino Castrianni a Petralia Sottana, Sicilia
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Si risvegliano in me infiniti ricordi e rivedo la «Conca d’oro». Nel dicembre
1941, quando in Emilia nevicava, là splendeva il sole e tra i verdi agrumeti
brillavano le arance dal colore giallo vivo.
Mi appare una distesa pianeggiante: la seguivo dal treno con lo sguardo,
lungo la costa, per chilometri e chilometri. Dovevo raggiungere Palermo. Si
stagliavano, ai lati delle strade, enormi agavi aguzze, fichi d’India carichi di
frutti, palme, giardini fioriti, poi colline ridenti e mare azzurro intenso, infine
monte Cuccio, ricordo di esercitazioni militari, monte Pellegrino con il santuario di Santa Rosalia, meta di marce del tempo in cui ero allievo ufficiale.
Chi avrebbe immaginato che un semplice cittadino, di una regione lontana,
senza alcun obbligo nei miei confronti, avrebbe avuto un cuore tanto grande
da ricordarmi sempre?
Mi scrive anche ora, a 38 anni di distanza, e anch’io, nel ricordo, ho l’animo
commosso e riconoscente.
Gli ho narrato tutto quanto mi è accaduto; non ci siamo mai dimenticati
l’uno dell’altro, fatto abbastanza raro, in questo mondo dominato dall’individualismo e dall’egoismo.
Entrambi siamo riusciti ad andare avanti, ci siamo realizzati nel lavoro, ci
siamo costruiti una famiglia.
Per decenni ho svolto l’attività di maestro elementare. L’avevo desiderato
fin da quando, bambino, vestivo, nel gioco con i coetanei, i panni dell’insegnante.
E poi, e soprattutto, ho ritrovato la mia Gea! Il mio atteggiamento nei suoi
confronti, inizialmente toccato ancora da potenti strascichi di angoscia e spaesamento, non ha impedito di realizzare quel mondo che avevamo pensato
assieme.
Con il suo aiuto ho gradualmente ritrovato la fiducia nella vita. Romantico
il nostro viaggio di nozze... a Merano! Proprio dove, sopraffatto dagli incubi,
avevo meditato di troncare tutto fra noi, ma dove anche, in rare, troppo brevi
parentesi di tregua, immaginavo il calore di una famiglia futura, rallegrata dai
nostri bambini.
E due figli, nel corso del tempo, sono arrivati a completare la nostra felicità.
Eppure quanto era stato lungo e tormentoso il mio viaggio: da San Ciro a
Fullen! Di San Ciro ricordo solamente le albe paradisiache; pur tra le difficoltà,
le asprezze della vita militare, vi erano per me momenti di infinita poesia: le
albe dei giorni sereni.
Tra gli ulivi, mentre ci si preparava per le lunghe marce, il mare ed il cielo
apparivano con le tinte più impensate ed eteree: rosa, azzurro, rosso, giallo,
indaco. Una fusione, una varietà di colori che nessun pittore avrebbe mai saputo cogliere e dipingere sulla tela.
Pensandoci ancora, quale contrasto con le albe tragiche di Fullen! Grigiore
e morte, poveri corpi martoriati, distrutti, e fuori, intorno alle baracche, reticolati e nebbia, nebbia sulla torbiera, e, più lontano, oltre la torbiera, confuso
anch’esso, come un fantasma, il cimitero: le fosse comuni! Eppure al di là di
quella nebbia vedo, ingigantita dalla mia mente turbata, una immensa Croce,
che si innalza su ogni cosa e si illumina.
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Didattica
La bandiera di tutti
Didattica del prodotto al Museo del Tricolore di Reggio Emilia
Marco Cecalupo
Manuela Zinani1
Il contesto
Questo laboratorio è stato realizzato nell’ambito del «Progetto integrato per
operatore alla promozione ed accoglienza turistica» in due classi seconde (IIª)
dell’Istituto professionale (IPSSCT) «Filippo Re» di Reggio Emilia in due successivi anni scolastici, tra il 2006 e il 2007.
Il progetto era finanziato dall’Ente di formazione IRECOOP (Istituto regionale
educazione cooperativa), ed è stato realizzato dalla docente di Lettere Manuela Zinani, con la collaborazione di Marco Cecalupo, esperto esterno dell’Associazione Historia Ludens di Bari.
Lo standard formativo nel cui ambito si è lavorato recitava: «Riconoscere
le caratteristiche della società contemporanea come il prodotto delle vicende
storiche del passato».
Tale obiettivo, declinato nell’attività di classi dell’indirizzo turistico, ci ha
orientato verso la metodologia di laboratorio storico definita «didattica del
prodotto».
Come suggerisce Cristina Monelli in un recente saggio2, la didattica del
prodotto «lavora border line, chiede al docente di saper accettare e valorizzare
lo scandalo della fantasia, vale a dire le rotture cognitive, le trasgressioni interpretative, in nome di quell’emozione dell’apprendere che stimola la curiosità
e attiva la creatività».
1
MARCO CECALUPO, Associazione Historia Ludens, Bari, (marco.cecalupo@libero.it) e Manuela
Zinani, docente Scuola secondaria, Reggio Emilia, (mzinani@hotmail.com).
2
C. MONELLI, Il laboratorio come didattica del prodotto, in P. BERNARDI (a cura di), Insegnare
Storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, UTET, Torino 2006, pp. 240-256. Il volume
raccoglie i materiali prodotti dal Landis per la piattaforma di formazione on-line sul DL59 a cura
del ministero della Pubblica istruzione «Indire».
125
Abbiamo dunque definito l’obiettivo del laboratorio: «Analizzare un bene
del patrimonio culturale della città e produrre materiale divulgativo a carattere
storico-culturale destinato ad adolescenti». Vale a dire, nostro compito era la
realizzazione di un «artefatto culturale» che stimolasse l’attività/operatività degli
studenti, e fosse in grado di coniugare diversi saperi.
Nell’ottica costruttivista delle scienze cognitive e pedagogiche, la didattica
del prodotto stimola il processo di apprendimento in «concreti contesti, dotati
di forte intersoggettività e mirati a compiti da risolvere, progetti da realizzare
e prodotti da creare, rendendo vive e partecipate le conoscenze apprese». Dal
punto di vista del docente, l’attenzione è incentrata dunque sul processo di apprendimento, piuttosto che sul prodotto, verso il quale tende invece lo sforzo
conoscitivo e realizzativo degli studenti.
Abbiamo adottato la «buona pratica» didattica di trasformare un aspetto che
spesso è considerato un limite, la breve durata del laboratorio limitata a dieci
ore, in una sfida lanciata agli studenti, che hanno dovuto risolvere problemi e
prendere decisioni ottimizzando i tempi di lavoro.
Il laboratorio ha trovato una precisa collocazione nella programmazione
annuale delle classi, il cui Progetto integrato era incentrato sulla conoscenza
della città, attraverso la scelta, operata dai docenti, di un bene rappresentativo
del patrimonio storico-culturale della città: il Museo del Tricolore, nel Palazzo
comunale di piazza Prampolini a Reggio Emilia. È questo il luogo in cui, durante la rivoluzione reggiana del 1796-97, è nata la bandiera italiana nella sua
forma originaria, a strisce orizzontali.
Al tricolore, inoltre, l’istituto Filippo Re ha dedicato qualche anno fa la redazione di un giornale storico, «Il Reggiano»3 realizzato dagli studenti con il coordinamento dei professori Gabriella Bonini e Fabrizio Solieri, in collaborazione
con Istoreco, per commemorare i 210 anni dalla nascita della bandiera italiana.
Le fasi di lavoro
1. La docente di classe e l’esperto esterno hanno reperito e studiato il materiale esistente4, hanno contattato il servizio di didattica del museo, ed effettuato una visita preliminare nelle sale.
3
Il Reggiano, foglio cittadino di informazione, a cura dell’Istituto Filippo Re, responsabili di
redazione: Gabriella Bonini e Fabrizio Solieri, disponibile in wwww.istoreco.re.it
4
Tra cui: U. BELLOCCHI, La storia d’Italia narrata dal Tricolore, 1796-1986, Soc. Emiliana, Reggio
Emilia 1985; F. TAROZZI, G. VECCHIO (a cura di), Gli italiani e il tricolore: patriottismo, identità
nazionale e fratture sociali lungo due secoli di storia, Il Mulino, Bologna 1999; T. MAIORINO
G. MARCHETTI, A. ZAMAGNI, Il tricolore degli italiani, storia avventurosa della nostra bandiera,
Mondadori, Milano 2002.
126
2. In classe si è tenuta una lezione introduttiva di raccordo tra la storia generale e la storia locale, con particolare enfasi sugli aspetti di diffusione del
modello rivoluzionario francese in Europa, sia sul piano socio-culturale che su
quello politico-militare.
Nella stessa giornata è stato proiettato il video Sotto un libero cielo, la nascita del tricolore a Reggio Emilia, realizzato dai musei cittadini, e gli studenti
hanno sfogliato, raccolti in piccoli gruppi, le pagine della pubblicazione del
catalogo ufficiale del Museo5.
In questa occasione è stata esplicitata alla classe la consegna finale del
laboratorio: creare un prodotto culturale destinato ad una fascia di possibili
fruitori del Museo, quella degli adolescenti, il quale abbia lo scopo di rendere
attiva la loro partecipazione durante la visita.
Nel primo anno del progetto, gli studenti hanno individuato il formato del
prodotto: un pieghevole/volantone, colorato, che contenesse attività ludiformi6 (quali abbinamenti, scelte multiple, completamenti) finalizzate all’esplorazione del museo e all’acquisizione di conoscenze.
Nel secondo anno, gli studenti hanno visionato il prodotto realizzato l’anno
precedente e hanno deciso di utilizzare lo stesso formato modificandone o
perfezionandone il contenuto (tempi: 2h).
3. Durante il secondo incontro, gli studenti hanno individuato dei temi topici nella storia raccontata dal Museo, che si intendevano proporre all’attenzione
dei giovani fruitori. Successivamente, la classe si è divisa in gruppi di lavoro,
ciascuno dei quali ha preso in carico un tema.
Ha fatto seguito una ricerca più approfondita e selettiva delle informazioni
attraverso una rilettura del testo e del materiale iconografico disponibile e,
soprattutto, attraverso la visita al Museo.
Giunti nel Palazzo comunale, gli studenti hanno esplorato la Sala del tricolore (sede del Consiglio comunale) e le teche del Museo in un setting informale, muovendosi liberamente e con la possibilità, notevolmente sfruttata, di
rivolgersi ai docenti e al personale per spiegazioni e richieste. Ciascun gruppo
svolgeva micro ricerche e analisi su argomenti mirati, precedentemente individuati, e documentava questa fase con foto, appunti scritti, raccolta di depliant
e ulteriore materiale illustrativo. (tempi: 2h)
4. Nei successivi incontri, la classe si è ritrovata nel laboratorio informatico
della scuola, dove i gruppi, con tutti i materiali a loro disposizione, hanno
ideato e materialmente costruito le pagine del pieghevole/volantone. A parti-
5
M. FESTANTI (a cura di), Il Museo del Tricolore, Comune di Reggio Emilia e Musei Civici di Reggio
Emilia, 2000.
6
Secondo la definizione di A. VISALBERGHI, Esperienza e valutazione, Taylor, Torino 1958.
127
Tema
Informazioni e documenti
Luoghi della città
L’Italia, il ducato estense, i rapporti tra la città e il contado; l’obelisco,
piazza Gioberti; la cinta muraria e le porte. Piazza Grande, l’Albero
della Libertà, le scenografie di piazza.
Cronologia-eventi
la costruzione dell’archivio di stato, oggi sala del tricolore; la rivoluzione reggiana e la nascita della Repubblica cispadana; la nascita del
tricolore della repubblica a Reggio; la campagna d’Italia di Napoleone;
la nascita della Repubblica cisalpina.
Personaggi
Foscolo (autore di un inno alla rivoluzione reggiana); Napoleone (il
sostegno alla Repubblica cispadana); gli Estensi (il Ducato); Filippo Re
(il ceto intellettuale urbano).
le cartoline rivoluzionarie; la satira antifrancese del 1799; canzoni e
inni; le rappresentazioni allegoriche della Repubblica e della Libertà.
Propaganda e satira
Simboli
l’albero della Libertà, ispirato alla rivoluzione giacobina in Francia; le
chiavi della città; le frecce nella faretra al centro del primo tricolore;
la sigla SPQR.
La bandiera
le bande orizzontali o verticali; i simboli all’interno; l’evoluzione storica; il confronto con il tricolore francese; l’attualità del significato
Le assemblee solenni
i proclami del Senato reggiano; la Sala del tricolore; il Congresso cispadano
re dal primo brain storming, hanno elaborato, con un affinamento progressivo
– sempre in funzione degli adolescenti futuri fruitori del Museo – i giochi e le
attività che presentiamo.
Questa fase dell’esperienza è stata caratterizzata da una forte libertà d’iniziativa degli studenti, che ha «relegato» i docenti al ruolo di supporto e coordinamento. Per citare ancora Cristina Monelli, si è costituita così una «comunità
di pratica», cioè un luogo «dove s’impara con e attraverso gli altri, ma soprattutto per gli altri, in direzione intersoggettiva», e dove «ogni regola/compito
resta sempre in progress, mai dato una volta per tutte, dipendendo sempre
dalle pratiche messe in atto insieme, negoziate e contrattate con gli altri e nel
contesto». (tempi: 5h)
5. Per restare nella prospettiva della didattica del prodotto, anche la verifica
si è trasformata in una attività creativa, multidisciplinare e funzionale al progetto stesso: ogni studente, oltre a dover risolvere tutti i giochi-attività realizzati
dagli altri gruppi, ha avuto il compito di scrivere una lettera di presentazione (dieci righe) del pieghevole/volantone realizzato, da indirizzare al Museo.
(tempi: 1h)
Riportiamo di seguito i testi di due lettere redatte dagli studenti.
128
Egregio direttore,
voglio informarla della realizzazione di un prodotto eseguito esclusivamente da
studenti. Gli studenti delle classi II A dell’anno scolastico 2005-06 e 2006-07 hanno
collaborato alla realizzazione di un depliant che vorremmo tanto farle vedere. Ci
siamo impegnati per rendere il più possibile accattivante questo volantino destinato a studenti di età compresa tra i dodici e i quindici anni. Abbiamo pensato di
rendere divertente questo prodotto, perché il lettore sia indotto ad andare avanti
nella sua lettura e a svolgere gli esercizi . Svolgendo queste attività, il ragazzo apprende delle conoscenze in più sulla bandiera tricolore, divertendosi.
E a questo punto il detto cambia: non più «sbagliando si impara», ma “giocando si
impara”. Spero vivamente che lei prenda in considerazione questo lavoro.
I miei più sentiti saluti,
Jennifer
Egregio direttore,
la nostra classe ha realizzato un pieghevole appositamente pensato per i vostri
giovani visitatori. Esso affronta temi legati alla nascita del tricolore: i simboli, la
bandiera, i personaggi, le date, la satira e la propaganda, i luoghi. A ogni tematica
è stato dedicato un gioco facile e simpatico da risolvere che indurrà il ragazzo ad
andare in giro per il museo allo scopo di ricercare le informazioni necessarie per
rispondere. Ci sono domande a risposta multipla, collegamenti tra immagini e frasi
o nomi, e un brano in cui cancellare i termini errati. In questo modo speriamo di
invogliare i giovani a interessarsi della storia del tricolore.
Colgo l’occasione per porgerle i nostri più distinti saluti,
Roberta
Conclusioni
Vi è stata, infine, una valutazione condivisa tra docente di classe e esperto
esterno, che ha evidenziato i punti di forza dell’esperienza di seguito riassunti:
• La forte finalizzazione del laboratorio, insieme con la sua breve durata,
ha spinto tutti i partecipanti a trovare soluzioni efficaci in tempi rapidi.
• In una sola attività integrata di storia, si sono proposti e utilizzati diversi
materiali di ricerca: fonti scritte e iconografiche, ricostruzioni video, elementi del patrimonio museale, pubblicazioni a carattere divulgativo.
• Attraverso l’uso delle tecnologie di video-scrittura presenti nell’Istituto,
siamo stati in grado di ottimizzare l’organizzazione del laboratorio e, al
contempo, rendere l’operatività piacevole e «allettante»;
• Il laboratorio ha consentito l’attivazione di abilità non solo legate allo
studio delle discipline storiche, ma trasversali e meta-cognitive, quali: la
lettura selettiva di testi e immagini; l’organizzazione del lavoro nei gruppi; il saper comunicare in modo efficace in relazione a un destinatario; la
scrittura secondo una tipologia testuale data.
129
Il depliant della IIª classe (IPSSCT) «Filippo Re» di Reggio Emilia
Nelle immagini sono riprodotte alcune delle pagine che costituiscono il
depliant realizzato dalla classe IIª dell’a.s. 2006-2007. Ciascuna pagina rappresenta l’elaborazione finale dei temi individuati e analizzati nella prima parte
del laboratorio: per la copertina (fig. 01), la cui scelta è stata affidata ad un
concorso di idee, ha prevalso il richiamo al presente e all’uso pubblico del
tricolore più diffuso tra gli adolescenti: il supporto alla nazionale di calcio; la
cronologia dei mutamenti della bandiera (fig. 02) è diventata un quiz a risposta
multipla; la successione degli eventi salienti della vicenda rivoluzionaria reggiana (fig. 03), tra cui il mega-party di costituzione della Repubblica cisalpina,
è un esercizio di collegamento; l’osservazione delle modificazioni urbanistiche
attribuisce nuovi significati a luoghi noti e meno noti della città (fig. 04); il
ruolo dei personaggi più noti è interpretabile attribuendo loro la giusta citazione (fig. 05); infine, gli studenti hanno presentato il tema della satira e della
propaganda (fig. 06) sotto forma di un utile doppio esercizio, per mettere alla
prova la ricostruzione dell’intera vicenda nei suoi tratti politici essenziali.
130
Dalla nazionale all’idea di nazione
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Breve storia della bandiera
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Luoghi cool della rivoluzione
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Materiali
d’ a r c h i v i o
Gli archivi storici della
Cassa di risparmio di Reggio Emilia,
del Monte di pietà e dell’Asilo d’infanzia
«Pietro Manodori»
Presentazione
Presso Istoreco e Polo archivistico è ora possibile consultare uno degli archivi più importanti per la storia cittadina recente e passata: quello della Cassa
di risparmio di Reggio Emilia, Monte di pietà e Asilo «Pietro Manodori». I tre archivi, con aggregati, costituiscono un patrimonio inestimabile che raccontano
uno degli aspetti principali della vita reggiana negli ultimi due secoli: quello
legato alla beneficenza e al credito.
La Cassa di Risparmio istituita nel 1852 per volontà di Pietro Manodori, che
il duca di Modena aveva nominato presidente del Monte di pietà, è tuttora una
delle principali istituzioni cittadine e nel suo archivio storico sono conservati
carteggi che riguardano la sua attività dalla fondazione fino al 1991, con statuti, ordinamenti, la storia delle varie filiali e l’assorbimento di banche locali
come la Cassa di risparmio di Boretto, la Banca popolare di Reggio Emilia, la
Cassa di risparmio agricola di Novellara, la Cassa rurale e prestiti in Campagnola Emilia e il Monte di pietà e Congregazione di carità di Guastalla.
I documenti della Cassa di Risparmio consentono di analizzare la storia
economica cittadina e, come detto dalle curatrici dell’inventario, le «numerose decisioni riguardanti l’interesse sui libretti, l’entità dei depositi e la loro
tipologia testimoniano la crescita della Cassa e, se esaminate con attenzione,
rivelano nel tempo anche le congiunture economiche sfavorevoli attraversate
dalla provincia di Reggio e dall’Italia in generale».
È possibile prendere visione oltre che degli statuti e dei bilanci della banca
anche delle attività di beneficenza da essa svolte nel tempo per notare come
esse si siano diversificate ed articolate. Basterà ricordare le attività svolte in
favore delle opere pie cittadine, i servizi di tesoreria e gli incentivi concessi a
cavallo fra XIX e XX secolo per promuovere la nascita di industrie nel territorio
reggiano.
Anche l’archivio del Monte di pietà conserva molte tracce dell’antica funzio-
137
ne di beneficenza svolta nel corso dei secoli e dalla cui attività nacque l’asilo
«Manodori», sebbene la documentazione più antica sia depositata presso l’Archivio di Stato cittadino.
L’asilo d’infanzia «Pietro Manodori», il cui archivio conserva carte dal 1843
al 1990, nacque «da istanze sociali ben precise», conserva nel suo archivio oltre
all’attività dell’asilo propriamente detto anche della Scuola di puerizia e Scuola
e Casa di carità per fanciulle. Decine di migliaia sono stati i bambini che nel
corso dei decenni sono stati ospitati presso Palazzo Da Mosto e che hanno
usufruito «dell’istituzione benefica educativa destinata ai bambini poveri reggiani dai 3 ai 6 anni».
Tutto il complesso archivistico consente quindi conoscere la vita e l’attività
di un settore che tanta parte ha avuto nella storia e nella crescita economica
e culturale del nostro territorio; non solo relativamente agli enti più noti che
danno il nome al complesso, ma anche di altri non più esistenti e da essi assorbiti .
Nelle pagine che seguono il lettore potrà leggere una breve sintesi della
storia degli enti depositari preparata dalle curatrici degli inventari Chiara Mussini e Maria Mussini.
Michele Bellelli
Documenti
Chiara Mussini e Maria Mussini
Archivi aggregati alla Cassa di risparmio di Reggio Emilia
La documentazione qui raccolta è pervenuta alla Cassa di risparmio in seguito all’assorbimento da parte di questo Ente di altri istituti bancari, tuttavia
gli atti pertinenti ai singoli istituti bancari sono giunti all’archivio della Cassa di
risparmio in circostanze spesso fortunose, non sempre agevolmente ricostruibili, perciò la consistenza dei singoli fondi è sovente esigua.
Un tratto comune a questi istituti, sorti nel corso del XIX secolo e sparsi sul
territorio reggiano, è che la loro attività testimonia l’esistenza di uno spiccato
spirito di cooperazione che ha costituito fermento vitale per il progresso socioeconomico della zona: a titolo esemplificativo si possono citare le vicende
della fondazione della Banca popolare di Reggio Emilia, nata per costituire
un fondo cassa per depositi e prestiti riservato alla Società operaia di Reggio,
aperta il 6 dicembre 1870 (lo statuto era stato approvato il 18 febbraio 1870).
Per i criteri di ordinamento e descrizione inventariale si fa riferimento a
quanto specificato nell’apposita introduzione all’archivio della Cassa di rispar-
138
mio, specificando che i singoli pezzi sono stati numerati e contraddistinti con
sigla «AgC».
Da segnalare in particolare la presenza della documentazione pertinente
il Monte di pietà di Guastalla, pervenuta probabilmente insieme agli altri atti
relativi ad istituzioni bancarie di Guastalla.
Archivio storico
Asilo d’infanzia «Pietro Manodori» (11/01/1843-28/11/1990)
Notizie storico-giuridiche
È dall’attività assistenziale del Monte di pietà e dall’iniziativa di illuminati
amministratori della città che trae origine l’istituzione di cui viene qui descritto
il patrimonio documentario. Nel 1854, infatti, il presidente del santo Monte di
pietà, Pietro Manodori, considerando come l’istituto da lui presieduto nel 1853
avesse avuto un attivo di 59.158,39 lire pensò di impiegare a vantaggio della
popolazione bisognosa tale cifra o parte di essa fondando una istituzione educativa, l’Asilo appunto. Manodori si faceva carico in effetti d’istanze sociali ben
precise e, superati i momenti di crisi seguiti alla carestia del 1853 e al colera
nel 1855, di concerto con i consiglieri del Monte procedeva all’acquisto di una
sede per l’istituzione: il palazzo dei conti Greppi, posto in via Mari. Contestualmente (5 febbraio 1857) il Consiglio d’amministrazione del Monte aveva altresì
approvato le linee programmatiche di istituzione della scuola (istituzione benefica educativa destinata a bambini poveri reggiani dai tre ai sei anni), deliberando poi in via definitiva il 9 dicembre 1859. Ottenuta la ratifica dell’iniziativa
da parte Governo generale delle province dell’Emilia il 3 gennaio 1860, venne
infine approvato lo statuto fondamentale il 9 gennaio 1860; con manifesto
murale dell’undici dello stesso mese poi il Manodori avvertiva la cittadinanza
dell’apertura dell’Asilo, avvenuta il 23 dello stesso mese. L’8 dicembre 1860
con decreto del luogotenente Eugenio di Carignano controfirmato dal ministro
dell’Interno Minghetti, venivano sciolte le amministrazioni delle istituzioni cittadine di beneficenza e sostituite da commissioni composte di un presidente di
nomina regia e di quattro consiglieri. Il 29 dello stesso mese poi l’Asilo amministrativamente veniva unito all’Istituto Scuola e Casa di carità per fanciulle (si
veda il fondo Archivi aggregati del Monte) e affidato alla Commissione amministrativa del Monte di pietà. Dal 1861 (6 maggio) anche le bambine dai tre ai
sei anni furono ammesse all’asilo (le più grandicelle venivano invece educate
e assistite presso la Scuola e Casa di Carità di cui sopra). Nel frattempo Manodori avanzava la proposta di istituzione di una scuola di Puerizia destinata ai
fanciulli fino ai dieci anni per insegnare loro un mestiere. Tale scuola fu aperta
in effetti il 18 dicembre 1862 ma nel 1907 fu soppressa per contenere i costi
di gestione. L’Asilo, intitolato nel 1894 al suo fondatore, continuò la sua opera
educativa divenendo istituzione di riferimento in Reggio, tant’è vero che nel
139
1934 risultava l’unica scuola materna riconosciuta dal Provveditore agli studi
come sede per il tirocinio delle candidate all’esame di abilitazione.
Quali fonti di sostentamento erano state previste per questo Ente? L’Ente
fondatore, il Monte, contribuì fin dall’inizio con l’erogazione di somma annua
(all’inizio 5000 lire), inoltre destinò all’Asilo i proventi di fondi rustici pervenuti in eredità con il lascito Sacrati e siti in Villa Sabbione (per maggiori dettagli
al riguardo si consulti l’introduzione ai fondi archivistici aggregati del Monte).
All’atto della fusione del Monte con la Cassa di risparmio (istituzione da esso
stesso nata nel 1852), deliberata il 23 ottobre 1930, quest’ultima assumeva l’incarico di continuare il finanziamento dell’Asilo inoltre ratificava la concessione
dei locali e dell’uso gratuito del riscaldamento. L’Asilo manteneva un bilancio
separato ma solo dal punto di vista contabile, dal punto di vista amministrativo, infatti, esso attingeva liberamente dalla Cassa e quest’ultima continuò a
considerare l’Ente in questione come se avesse personalità giuridica propria,
con amministrazione appunto separata: tali procedure, infatti, avevano radici
lontane nel tempo, poiché venivano seguite già dal Monte. Dal dopoguerra in
avanti altre istituzioni progressivamente vennero affiancando l’Asilo nell’educazione dell’infanzia (raccogliendone l’eredità e le innovazioni), quest’ultimo
continuava ad essere amministrato dalla Cassa di risparmio, fino ad arrivare
alla chiusura nel 1991. Con Deliberazione n. 251 del 28/02/1996 (pubblicata in
BUR n. 36 del 10 aprile 1996) il Consiglio regionale ratificava la trasformazione
dell’istituzione pubblica di assistenza e beneficenza «Scuola dell’Infanzia “P.
Manodori”» a favore della Fondazione Cassa di risparmio di Reggio Emilia «P.
Manodori» con trasferimento a quest’ultima del patrimonio residuo.
Vicende storiche dell’Archivio/Criteri metodologici adottati nell’ordinamento e nella descrizione inventariale:
Da quanto brevemente accennato la storia del «Manodori», e pertanto i documenti che ne sono riflesso, risulta intrecciata con quella del Monte e della
Cassa di risparmio. Il nucleo documentario in oggetto ha pertanto seguito
le vicende del patrimonio documentario ottocentesco di Monte e Cassa, allo
stato attuale delle conoscenze, difficilmente ricostruibile nel dettaglio anche
se si conoscono con certezza le date dei versamenti, da parte del Monte, di
parte degli atti allocale Archivio di Stato (17 aprile 1897 e 16 marzo 1907). Il
fondo qui descritto è conservato presso Palazzo Pratonieri salvo alcune buste
di documentazione classificata e alcuni registri di contabilità conservati presso
l’Archivio di Stato di Reggio Emilia e segnalati nel sommario con sigla «AS» che
precede l’intestazione della serie. All’atto del riordino non esisteva alcun repertorio, solamente un titolario peraltro incompleto, tuttavia le buste recavano
intestazione «Divisione III-Asilo», testimonianza probabilmente dell’ennesimo
raggruppamento amministrativo delle istituzioni di beneficenza avvenuto nel
140
XIX secolo (il Monte era contrassegnato da dicitura «Divisione II»); tale intestazione era corredata per il carteggio dall’indicazione di titolo, categoria e filza,
per le altre serie si indicava invece solo la definizione generica (scritture, conti
preventivi...). Il fatto che all’archivio nel suo complesso sia stata cambiata collocazione (non sono note le modalità di questi cambiamenti) ha creato grande
disordine tra le serie, cosicché buste di atti prodotti dal Monte erano accanto
ad altre archiviate dalla Cassa o dall’Asilo. Alcune serie trovavano poi naturale
completamento in registri che erano stati collocati in disordine unitamente ad
altri pertinenti al Monte o alla Cassa. Dunque, nel rispetto dei nessi originari
esistenti tra le carte, si è proceduto al riordino, individuando le serie e ripristinandone la sequenza con correttezza. Si è mantenuta autonomia per questo
fondo archivistico poiché tale era considerato dai suoi stessi amministratori,
contrassegnando i pezzi con la sigla «A» seguita da numero di catena. Per osservazioni più dettagliate sulle singole serie si rimanda alle apposite schede
introduttive.
Note: La documentazione si trova collocata presso palazzo Pratonieri, salvo pochi pezzi che vengono indicati nella scheda di presentazione della serie.
Archivio storico
Cassa di risparmio di Reggio Emilia, (15/07/1856-31/12/1979)
Fu dall’iniziativa di Pietro Manodori, nominato nel 1849 dal duca di Modena Francesco V presidente del Monte di Pietà, che nacque la Cassa di risparmio nel 1852: il 16 maggio di quell’anno, infatti, in seguito a regolare iter di
consensi da parte delle autorità, l’Istituzione apriva al pubblico i suoi sportelli
sotto il patrocinio del Monte, che le forniva un contributo di 8000 lire, i locali,
gli impiegati e gli amministratori. Intenzione del fondatore era quella di fornire le classi meno abbienti, e specialmente quelle persone senza occupazione
che andavano soggette alla disoccupazione, un mezzo per accantonare nei
periodi di lavoro e di maggior lavoro una somma che li potesse poi aiutare
nei periodi di bisogno; ancora secondo Manodori nell’istituzione, l’artigiano
poteva trovare la possibilità di crearsi un fondo da cui attingere per rinnovare
gli strumenti del lavoro senza dover ricorrere a prestiti presso privati. La situazione economica della provincia di Reggio, in effetti, era tale per cui si sentiva
fortemente l’esigenza di un istituto di credito come la Cassa di risparmio, del
resto esperienze analoghe, compiute in province limitrofe (Carpi, Modena,
Bologna), avevano avuto grande successo. In effetti, si sentiva allora necessità
di un istituto deputato al risparmio rivolto al ceto medio, capace di erogare
prestiti a tasso limitato (si pensò allora soprattutto al settore agricolo), del resto
anche il governo vedeva di buon occhio iniziative in tal senso. Come venisse
accolta l’apertura della Cassa lo dicono le cifre relative agli incassi del primo
141
giorno, 89 depositi per un totale di lire 1307,58, e alla gestione 1852, che portò
in sette mesi e mezzo a un capitale di 60.547,04 lire.
Le previsioni, all’atto della nascita dell’Istituto, erano di una richiesta di mutui da parte di enti morali, invece fu molto più rilevante la presenza di privati
che chiedevano denaro per liberare le loro proprietà da censi, canoni, livelli,
debiti che infiacchivano l’agricoltura. Il successo dell’istituzione fu comunque
tale che essa riusciva nel 1856 a restituire al Monte il contributo inizialmente
fornitole e, nel tempo, ingrandiva la propria sede acquistando nel 1882 una
nuova sede che, ristrutturata e abbellita, costituisce ancor oggi una rilevante
testimonianza artistica: Palazzo Pratonieri. Nel frattempo anche numerose decisioni riguardanti l’interesse dei libretti, l’entità dei depositi e la loro tipologia
testimoniano la crescita della Cassa e, se esaminate con attenzione, rivelano
nel tempo anche le congiunture economiche sfavorevoli attraversate dalla provincia di Reggio e dall’Italia in generale.
Utile, ai fini di meglio comprendere l’assetto dell’archivio e le tipologie
documentarie qui conservate, è ripercorrere brevemente la legislazione pertinente l’assetto e la natura della Cassa: per effetto della Legge 20 novembre
1860 essa veniva considerata opera pia, con Regio decreto, che scioglieva le
amministrazioni ducali, venne annessa al Monte di pietà che l’aveva istituita.
In conseguenza della Legge 3 agosto 1862, e relativo regolamento essa cominciava a devolvere annualmente parte degli utili alla beneficenza (finalità poi
mantenuta nel tempo a vario titolo). Nel giugno del 1864, la Cassa compiva la
prima operazione per deposito di titoli di debito pubblico, nello stesso anno
modificava lo statuto per meglio disciplinare la concessione di mutui; nel luglio 1874 pensava di introdurre nei suoi mezzi amministrativi lo sconto delle
cambiali, nel 1875 tentava di formare un portafoglio poi liquidato e soppresso
nel 1881. Nel frattempo con RD 13 novembre 1873 la Cassa fu eretta in ente
morale autonomo con patrimonio ed azienda separati da quelli del Monte. La
Legge del 15 luglio 1888 sulle Casse di risparmio, che mirava ad accordare loro
maggior libertà d’azione e rispettare le diverse peculiarità giunse con ritardo a
Reggio dove la Cassa già funzionava in piena autonomia. Si apriva comunque
un periodo di crisi economica che continuò per un decennio. Nel 1890, per
proporzionare le diverse forme di investimenti all’ammontare dei depositi, si
decideva di destinare il 50 percento dei depositi ai mutui ipotecari e il 10 percento ai chirografari. In seguito, vista la tendenza ad eseguire versamenti di
somme cospicue, stabiliva di istituire buoni a scadenza fissa nominativi, col 1
gennaio 1893 si creò poi il deposito di piccolo risparmio a interesse di favore
(5 percento). Ulteriormente incentivato da premi ai depositanti più diligenti;
nel 1894 si procedeva con la creazione dei depositi in conto corrente, mentre
dal 1893 era stato riordinato il servizio dei valori a custodia. Con rd 31 luglio
1891 era poi stato approvato un nuovo statuto disposizioni per il fondo previdenza impiegati, che stabiliva che esso venisse amministrato in modo distinto
dalla Cassa. Tale statuto poi prevedeva obbligatorietà per i sussidi annui da
142
conferire ad Asilo infantile e Scuola di puerizia, a Scuola e casa di carità per
fanciulle. Dal 1891 la Cassa assumeva gratuitamente il servizio di Tesoreria
del frenocomio di San Lazzaro, dal 1897 tale funzione fu estesa anche per le
seguenti istituzioni: Ospedale infermi, Monte di Pietà, Scuole e casa di carità,
Asilo d’infanzia, Albergo orfani mendicanti, Conservatorio della SS. Trinità, Istituto Quinziane, Ospedale esposti, Pia casa delle convertite, Ospedale Omozzoli Parisetti, Legato Omozzoli; ad essi dal 1898 si aggiungevano servizi di
Cassa per questi Enti: Comune, Istituto «Ferrari Bonini», Pio istituto Artigianelli,
Istituto regionale «Garibaldi» per i ciechi, tempio della BV della Chiara, nonché
quello dell’esattoria comunale. Nel frattempo la Cassa, portata per sua stessa
natura e per suo indirizzo programmatico a uno stretto contatto col tessuto
produttivo della provincia, si adattava alle nuove stagioni che andavano maturando e allo sviluppo degli anni dalla fine del XIX al primo decennio del
XX secolo (per maggiori dettagli utile può essere esaminare i bilanci di quegli
anni): anche gli investimenti della banca pertanto venivano improntati a vari
indirizzi. La Cassa di conseguenza favoriva dunque l’industria agricola distribuendo prestiti a casse rurali, accordando risconto di cambiali a consorzi e
cooperative agricole di proprietari, coltivatori, affittuari; inoltre venivano fatte
sovvenzioni a tassi di favore al Monte di pietà perché funzionasse da magazzino generale di prodotti agricoli, uguali sovvenzioni poi erano riservate a
consorzi di bonifica, idraulici ed irrigui, a Comuni. Anche la beneficenza poi
veniva arricchendosi e articolandosi, soprattutto nuova attenzione era riservata
alle sovvenzioni per impianto di nuovi stabilimenti industriali. Le linee guida
dell’attività della Cassa così tracciate possono riferirsi anche agli anni Trenta e
Quaranta del XX secolo, pur tenendo conto delle crisi determinate dagli eventi
bellici e dal regime totalitario. A questo proposito va ricordato che, in un generale quadro di riorganizzazione degli Enti di assistenza operato dal regime
fascista, la Cassa con RD 23 ottobre 1930 n. 1715 si fondeva con il Monte di
pietà assumendone gli obblighi nei confronti dell’Asilo d’infanzia (è necessario
far riferimento a tal proposito all’introduzione all’Inventario dell’Archivio storico del Monte di Pietà e dell’asilo «Manodori»). Il dopoguerra vedeva la Cassa
fortemente coinvolta nelle operazioni di ricostruzione seguendo le trasformazioni economiche che portarono l’Italia a divenire paese industrializzato. Il
mutamento istituzionale più rilevante è comunque la suddivisione dell’Istituto
avvenuta in seguito all’attuazione della legge 218/90. La banca veniva suddivisa in SPA. che svolgeva attività di impresa bancaria in senso stretto e Fondazione, che deteneva la maggioranza delle azioni, continuando a promuovere
iniziative di pubblica utilità. La Fondazione Manodori assorbiva poi dal 1996
(Deliberazione del Consiglio regionale Emilia-Romagna n. 251 del 28/02/1996)
l’Asilo Manodori e i legati ad esso pertinenti.
143
Vicende storiche dell’archivio - Metodologia e criteri di riordinamento
e di inventariazione
Per questa sezione occorre fare riferimento a quanto già detto in apertura
negli inventari dell’archivio del Monte e di quello dell’Asilo «Manodori», chiarendo che in questa sede si è scelto di inserire anche atti pertinenti la sezione
di deposito (in considerazione del fatto che si tratta di un archivio chiuso),
su cui si è fatto un lavoro preliminare di descrizione e di scarto capillare in
attesa del passaggio della documentazione definitivamente alla sezione storica.
All’atto del riordino ci si è comunque trovati di fronte, proprio in virtù delle
vicende storiche della Cassa, a una parziale sovrapposizione di competenze
tra Monte e Cassa, evidenziabile soprattutto nella classificazione del carteggio
attribuito ora all’una ora all’altra istituzione: si è pertanto scelto di attribuire
all’archivio della Cassa solo i fascicoli in cui prevalessero gli atti classificati
come Cassa di risparmio.
Di particolare rilievo la situazione che si è trovata per i registri che versavano in condizioni di estremo disordine; si è pertanto reso necessario un
confronto minuzioso per ricostruire le serie di appartenenza e ripristinare la
sequenza cronologica.
La documentazione è conservata presso Palazzo Pratonieri, ed è qui pervenuta in seguito a passaggi non ricostruibili nel dettaglio. I singoli pezzi sono
poi stati condizionati ed etichettati, è stato attribuito un numero di catena preceduto dalla sigla «C».
Si segnala poi la presenza di numerosi archivi aggregati pervenuti alla Cassa
in seguito ad assorbimento di istituti bancari, contraddistinti in sede di riordino
dalla sigla «AgC».
Archivio storico
Monte di pietà di Reggio Emilia
Vicende storiche ed amministrative
La nascita di istituzioni di prestito su pegno che costituissero un «Monte»
per sopperire ai bisogni dei poveri e tutelarli dall’avidità dell’usura procede in
Italia nel XV secolo voluta e sostenuta dall’azione delle comunità ebraiche e
religiose. Tra i primi istituti di tal genere sorse nel 1494, 32 anni dopo quello di
Perugia, il Monte di Reggio. Anche in seguito alle predicazioni di frate Bernardino da Feltre dei Minori osservanti, che si fece propugnatore di questa forma
di istituzione assistenziale, nel 1494 in Reggio di Lombardia il Consiglio generale della città di Reggio deliberava il 21 marzo 1494 la fondazione del Monte e
il duca Ercole d’Este, con decreto dell’8 ottobre di quell’anno approvava l’istituzione. Fin dall’inizio furono fissate alcune regole fondamentali: il Monte era
retto da cinque religiosi (scelti dal Vescovo) e da otto laici (eletti dal Consiglio)
144
i quali eleggevano un depositario, esso pagava sui pegni fino a metà del loro
valore; finito l’anno si vendevano al miglior offerente i pegni non riscattati,
sul prezzo si tratteneva solo la sorte e il sovrappiù si rendeva al debitore. Per
provvedere alle spese il Monte percepiva solo il 5 percento anche se il pegno
non riscosso andava all’asta, inoltre a fine d’anno se il denaro non bastava si
suppliva con la somma dell’anno successivo e se ne sopravanzava l’eccedenza
veniva divisa pro rata fra i non solventi. L’istituto fu eretto col contributo del
collegio dei notai, del Comune e con la cessione in uso di tre stanze concessegli gratuitamente in uso nel vecchio Palazzo comunale. Il primo statuto veniva
poi pubblicato con atto solenne il 5 dicembre 1494 e confermato nel 1601 dal
duca Cesare. Nel 1538 Jacopo Roberti de Luca con apposito lascito impose che
il prestito fosse gratuito. Con l’accrescersi del patrimonio del Monte si allargò
il limite del prestito gratuito, così nel 1556, mentre era di quattro ducati, si
ridusse a dieci lire reggiane, poi crebbe fino a cento lire e tale rimase fissato
da tutti gli statuti. Nel 1768 fu aperto il Monte fruttifero e il prestito divenne
oneroso entro limiti prefissati che variarono nel tempo, l’istituto comunque
fin dalla metà del XVI secolo assumeva sempre più le funzioni di istituto di
credito: riceveva depositi a custodia e a interesse, faceva mutui a interesse,
eseguiva operazioni bancarie, teneva corrispondenza d’affari con altre piazze
e, fino alla legge 17 maggio 1863 n. 127 sulla cassa depositi e prestiti, fungeva
da cassa dei depositi giudiziali e stragiudiziali.
Nel 1776, in conformità del chirografo sovrano di quell’anno, l’amministrazione del Monte passava alla Congregazione generale delle opere pie, retta
da tre presidenti amovibili (podestà, priore, sottopriore della comunità) e da
tre altri presidenti scelti dal duca stesso. Nel 1789 il duca Ercole III scioglieva
la congregazione e raggruppava le Opere pie cittadine in tre sezioni: il Monte
veniva unito ad altre istituzioni (catecumenti, trinità, esposti, manicomio di San
Lazzaro, casa di carità, refugio) e costituiva la prima sezione cui erano preposti
sette presidenti. All’avvento della Repubblica cispadana (1796) e fino al 1806
veniva di nuovo cambiato l’assetto delle istituzioni di beneficenza e il Monte
passava sotto l’amministrazione della Commissione generale delle opere pie,
composta da cittadini di nomina comunale. Il 5 settembre 1807, in conformità
alle leggi del Regno d’Italia, veniva istituita una Congregazione di carità unica,
il Monte faceva parte degli istituti elemosinieri. La Congregazione era retta dal
prefetto presidente, dal vescovo, dal podestà e da sei cittadini scelti dal podestà; la Congregazione eleggeva poi la Commissione speciale delle tre sezioni,
deputando due dei suoi membri per ciascuna, Con la Restaurazione il duca
Francesco IV sciolse con decreto 5 dicembre 1814 la Congregazione di carità,
dando con altro decreto 5 gennaio 1815 a ogni istituto un’amministrazione
propria, assegnandovi un presidente e due consiglieri di sua nomina (veniva
così eliminato l’intervento in tale ambito dell’amministrazione comunale). Così
venne ricostituita l’amministrazione del Monte, cui dal 1852 veniva aggiunta
quella della Cassa di risparmio. Tale istituzione ereditava le funzioni, fino a
145
quel momento svolte dal Monte in materia di depositi e operazioni bancari.
Dopo il 1859 si provvedeva a un nuovo assetto delle Opere pie, con decreto
del luogotenente regio in data 29 dicembre 1860 il Monte, la Cassa di risparmio,
le scuole e casa di carità per fanciulle e l’asilo infantile (si veda l’introduzione
all’archivio relativo a detta istituzione) vennero governati da una commissione
composta da un presidente di nomina regia (poi prefettizia) e di quattro consiglieri eletti dal Consiglio comunale. Per effetto della legge 15 luglio 1888 n.
1546 vennero poi separate le gestioni di Monte e Cassa, pur restando l’amministrazione in comune poiché lo prevedeva lo statuto della Cassa di risparmio.
Con la legge 4 maggio 1898 n. 169 fu data ai Monti una spiccata individualità,
il Monte di Reggio perciò estese il proprio intervento all’economia agricola
della provincia con operazioni sopra depositi di grana reggiano, creando cosi
appositi magazzini per la custodia del formaggio. In tale occasione il Monte
poi si dava un nuovo statuto, approvato con regio decreto l’8 febbraio 1903.
Nel 1906 l’istituto era in grado di compiere queste operazioni:
1) accettava in pegno oggetti preziosi e non e oggetti di varia natura con
valore commerciale, formaggio grana e altri prodotti agrari e industriali, titoli
al portatore del debito pubblico o garantiti dallo Stato, titoli al portatore industriali e commerciali quotati in Borsa;
2) riceveva depositi a custodia;
3) assumeva il servizio di cassa per i corpi morali;
4) faceva mutui ipotecari su immobili a lunga o breve scadenza, inoltre
poteva ricevere depositi a interesse.
Nel 1923 un regio decreto (n. 1396) distinse i Monti di pietà in due categorie, il Monte veniva assegnato alla prima (se ciò non fosse avvenuto il Monte
sarebbe stato ascritto fra le Opere pie e impossibilitato a continuare le operazioni di credito agrario), avendo in comune l’amministrazione con la Cassa
di risparmio. Le funzioni di Monte e Cassa vennero sovrapponendosi e completandosi finché si giunse a una netta prevalenza di quest’ultima, culminata
infine nell’assorbimento per fusione del Monte di credito su pegno in base al
Regio decreto 23 ottobre 1930 n. 1715.
Vicende storiche dell’archivio – Metodologia e criteri di ordinamento
e di inventariazione
All’atto del riordino la documentazione pertinente a questo fondo era suddivisa in due sedi distinte, situate entrambe in Reggio Emilia: Palazzo Pratonieri e l’Archivio di Stato, in quest’ultima sede si trovano le carte relative all’attività
del Monte nei secoli dal XV al XIX, tuttavia le serie documentali qui collocate,
per il secolo XIX soprattutto, sono lacunose e completano e integrano quanto
custodito presso Palazzo Pratonieri, in tale sede, infatti, si trovano quasi tutti
gli atti relativi alla vita del Monte nei secoli XIX e XX. La situazione attuale
146
si può chiarire facendo riferimento alla natura dell’ente già spiegata innanzi:
esso per molti secoli della sua storia visse ed operò accanto ad altre istituzioni
di beneficenza cittadine, pertanto seguì, dal punto di vista amministrativo, le
vicende di queste, confluendo nell’amministrazione delle Opere pie e seguendone i mutamenti istituzionali; dal punto di vista archivistico quindi gli atti
relativi al Monte più antichi oggi si trovano inseriti nel fondo relativo alle corporazioni religiose soppresse e delle Opere pie, ivi sono pervenuti in seguito a
due versamenti distinti in data 17 aprile 1897 e 16 marzo 1907, dei quali si ha
notizia consultando l’introduzione alla pubblicazione Il Regio Archivio di Stato
di Reggio Emilia, a cura di U. Dallari, in Gli Archivi della Storia d’Italia, a cura
di G. Mazzatinti, 1910, serie II, vol. I, pp. 130-132; in tale sede si trova inoltre
un elenco delle serie (con indicazione della consistenza e degli estremi cronologici) in cui si articola il fondo archivistico in esame. Altre notizie sulla storia
dell’archivio per i secoli XVII-XVIII si desumono dall’intervento Il patrimonio
documentario, a cura di A. Savazzi e G. Badini, nel volume·Il Santo Monte di
Pietà e la Cassa di Risparmio in Reggio Emilia. Cinque secoli di vita civile e
di promozione economica e civile, a cura di G. Adani e P. Prodi, 1994: a esso
si rimanda per maggiori informazioni. Per i secoli XIX e soprattutto XX non
si sono finora rintracciati dati significativi, in particolare non risultano ancora
chiari gli spostamenti che subì il nucleo documentario ora conservato presso
Palazzo Pratonieri.
Nell’affrontare il riordino di questo fondo archivistico si è evidenziato un
primo dato importante: l’Ente, proprio per la sua lunga e complessa storia,
ha mutato nel tempo competenze e assetto amministrativo, cambiamenti significativi si rilevano nella documentazione a partire dagli anni Venti del XIX
secolo, cosicché si è ritenuto di segnalare tale situazione anche in sede di
riordino delle serie, ascrivendo le serie da 1 a 12 all’«Antico Ordinamento», le
serie da 13 a 36 invece all’«Ordinamento Innovativo», per le serie successive
(da 37 a 57) si è invece ravvisata nel tempo una sostanziale omogeneità e
continuità all’interno delle tipologie documentarie, pertanto non si è proceduto ad alcuna ulteriore partizione: si tratta della documentazione prodotta
dalla sezione della Prestanza e dei Depositi. Le ultime quattro serie (da 68 a
61) testimoniano l’attività dal Monticello della Corte, istituzione autonoma dal
1591 che aveva ereditato competenze dal Monte: conservava pegni sequestrati
dal Comune per condanne, contravvenzioni e altro. Le operazioni di riordino
sono comunque state improntate al più rigoroso rispetto dei nessi archivistici,
procedendo con estrema cautela, nell’intento di non sovrapporre soluzioni
scorrette perché dettate da insufficienza di dati sull’ente: in particolare, laddove non emergeva con chiarezza un ordinamento alternativo alla situazione
in cui sono state reperite le carte, si è preferito non alterare la situazione di
partenza (soprattutto per ciò che concerne gli archivi aggregati).
In sede di descrizione inventariale ci si è pertanto trovati di fronte alla
necessità di render conto della situazione innanzi descritta (suddivisione in
147
due sedi di atti appartenenti alla stessa serie archivistica e collocazione delle
serie nell’una o nell’altra sede), sono stati perciò necessari svariati raffronti,
inoltre, in sede di numerazione dei pezzi e descrizione inventariale, sono state
segnalate con la sigla «as» le serie conservate interamente presso l’Archivio di
Stato mentre per le serie ripartite sia nell’una che nell’altra sede, si è segnalata
la collocazione nelle apposite introduzioni. Nella scheda relativa alle singole
unità archivistiche il campo relativo alla provenienza è stato riservato, per i
pezzi conservati presso l’Archivio di Stato, all’indicazione della loro collocazione nell’ordinamemo precedente, quello descritto da U. Dallari, in Gli Archivi
della Storia d’Italia, a cura di G. Mazzantini, 1910, serie II, vol. 1, pp. 130-132.
Ogni singolo pezzo archivistico (filze, registri) è poi stato condizionato (ove
necessario) ed etichettato, il numero progressivo è poi preceduto dalla sigla
«M», gli archivi aggregati invece sono contraddistinti dalla sigla «AfgM» (ma si
veda introduzione ad essi relativa acclusa all’apposito volume).
148
Pietro Manodori (dipinto di Camillo Manicardi)
Note e Rassegne
Marco Aurelio Rivelli,
studioso del Confine orientale
Chiesa e nazionalismo in Croazia
Cristina Carpinelli
Lo storico Marco Aurelio Rivelli ci ha lasciati. Si è spento a Milano nel novembre
2010 dopo una lunga malattia. La sua morte non ha fatto «notizia», perché era un
personaggio scomodo. Tramite lui, «molti di noi hanno potuto conoscere aspetti
della storia del Novecento di cui è negato l’insegnamento nelle scuole, impedita la
divulgazione sui media, omesso ogni approfondimento o iniziativa da parte degli
Istituti di Storia contemporanea e del mondo accademico in genere»1. Eppure, a
quest’uomo coraggioso dobbiamo molto, perché è uno dei pochi studiosi italiani, che
si è impegnato, con grande rigore intellettuale, a farci conoscere una delle pagine più
terribili della seconda guerra mondiale: quella dello Stato indipendente di Croazia
(Nezavisna Država Hrvatska), voluto dai nazifascisti negli anni 1941-1945, entro
cui si consumò un vero e proprio «Olocausto balcanico»: il movimento nazionalista
degli ustascia (ustaše: insorti), fondato dal politico croato Ante Pavelić, sterminò,
infatti, centinaia di migliaia di serbo-ortodossi e decine di migliaia di ebrei e rom, in
nome di una «soluzione finale» etnico-religiosa, che fu perseguita anche attraverso la
conversione forzata al cattolicesimo di circa duecentomila ortodossi. Ampi settori del
clero cattolico croato ebbero una parte determinante in questa carneficina.
L’arcivescovo di Zagabria, monsignore Alojzije Viktor Stepinac, e i periodici
cattolici, «Katolički tjednik» e «Hrvatski Narod», appoggiarono attivamente la dittatura
degli ustascia. Quasi il 15-20 percento della popolazione dello Stato indipendente di
Croazia fu massacrato. Una strage, che iniziò fin dai primi passi della formazione di
questo Stato, quando il 16 aprile 1941 la splendida sinagoga di Sarajevo, con la sua
ricca biblioteca e i suoi archivi storici, fu distrutta dai nazisti e dagli ustascia. Uccisioni
violente e torture cominciarono subito per gli ebrei, per estendersi, poi, nei confronti
di serbi ortodossi e zingari. Il 26 giugno del 1941, Ante Pavelić aveva già al suo
1
È scomparso M.A. Rivelli, biografo di Stepinac, in «Aurora. Sito d’Informazione Internazionalista»,
20 novembre 2010, in http://sitoaurora.splinder.com/post/23630684/e-scomparso-ma-rivellibiografo-di-stepinac.
151
attivo 180.000 vittime. Nel corso di quattro anni, all’incirca un milione di serbi (su un
totale di due milioni) fu sottoposto a pulizia etnico-religiosa, morendo nei campi di
concentramento, nelle strade, nelle piazze e nelle campagne.
Nel 1999, una piccola casa editrice di Milano, Kaos, pubblicò un libro di Marco
Aurelio Rivelli2, in cui l’autore sosteneva, con prove documentate, come la capillare
struttura della Chiesa cattolica croata si fosse mobilitata per sostenere e divulgare
l’ideologia degli ustascia presso i fedeli: l’Azione cattolica (organizzata e sviluppata
personalmente da monsignore Stepinac), la «Grande confraternita dei Crociati», la
Società accademica «Domagoj», l’Associazione cattolica studentesca «Mahnic», la
«Grande Unione delle sorelle crociate», le numerosissime parrocchie, i circoli ricreativi,
le scuole e i convitti cattolici. In quel libro, Marco Aurelio Rivelli poneva l’accento sulla
complicità di monsignor Stepinac nei massacri etnici, addossandogliene apertamente
la responsabilità come «Vicario apostolico militare delle forze armate ustascia, cioè
capo di tutti i cappellani che assistevano spiritualmente le milizie assassine»3, oppure
più indirettamente per non avere mai adottato alcun provvedimento a carico di quella
nutrita schiera di religiosi che si sono macchiati di orrendi delitti, partecipando in
prima persona ai massacri ustascia»4, o ancora per il «sostegno di monsignor Stepinac
all’attività eversiva dei “krizari” (Grande confraternita dei Crociati, N.d.R.). Alla
confraternita dei Crociati appartenne anche il tristemente noto Petar Brzica, già allievo
del collegio francescano di Široki Brijeg: nella notte del 29 agosto 1942, nel campo di
sterminio di Jasenovac, egli sarebbe riuscito ad uccidere 1300 persone»5.
L’orrore dell’eccidio si colorò di tinte più fosche, considerando la partecipazione
fisica ai massacri di centinaia di preti e frati, in particolare dei monaci francescani.
Per motivi di propaganda, la Chiesa di Roma difese sempre Stepinac. Affermava
ancora Rivelli:
Nei primi giorni del gennaio 1946 le autorità jugoslave consegnano al rappresentante ufficiale
della Santa Sede in Jugoslavia, monsignor Patrizio Hurley …, un’ampia documentazione sulle
attività collaborazioniste di monsignor Stepinac e di gran parte del clero croato con la dittatura
di Ante Pavelić. L’iniziativa diplomatica ha lo scopo di indurre la Santa Sede a rimuovere
l’arcivescovo di Zagabria, destinando monsignor Stepinac ad altro incarico pastorale in
altra nazione: una mossa che permetterebbe di evitare il processo, e di salvaguardare
le relazioni diplomatiche fra Belgrado e il Vaticano. Ma la Santa Sede ha bisogno di un
“martire” anticomunista, di una campagna propagandistica nel ruolo di “vittima”, di un caso
politico-giudiziario capace di riaccendere il fanatismo del cattolicesimo croato e di creare
2
M.A. RIVELLI, L’arcivescovo del genocidio. Monsignor Stepinac, il Vaticano, e la dittatura ustascia
in Croazia, 1941-1945, Kaos Edizioni, Milano 1999. Nella versione francese, questo libro era
uscito, un anno prima, come Le génocide occulté-État indépendant de Croatie 1941-1945, L’Age
d’Homme, Losanna 1998.
3
Don Vitaliano, «Il discusso cardinale Alojzije Stepina», la mia parrocchia vasto mondo, 14
gennaio 2007, in http://www.donvitaliano.it/?p=371
4
Ibidem.
5
RIVELLI, L’arcivescovo del genocidio, cit., in http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Alojzije_
Viktor_Stepinac&printable=yes.
152
difficoltà, interne e internazionali, al regime “materialista”, “ateo” e “bolscevico” della nuova
Jugoslavia di Tito. Per cui la Santa Sede conferma monsignor Stepinac nella carica di primate
di Croazia …6.
A distanza di molti anni, nel 1998, a Marija Districa, presso Zagabria, durante
il governo di Franjo Tuđman, nella Croazia da poco indipendente, papa Giovanni
Paolo II beatificava il cardinale Alojzije Stepinac7, in oltraggio ai martiri serbi-ortodossi,
ebrei, zingari, gran parte dei quali uccisi nei campi di sterminio di Jasenovac e di
Stara Gradiška (quest’ultimo riservato, in particolare, a donne e bambini). A capo del
campo di sterminio di Jasenovac, vi fu per quattro mesi (autunno-inverno 1942-43)
il frate francescano, Miroslav Filipović-Majstorović, detto frà Satana, che non soltanto
diresse la liquidazione di oltre quarantamila persone, ma in non pochi casi provvide
addirittura personalmente alle uccisioni8. Gli successe alla guida del campo un altro
religioso.
Un gesto simbolico che bene s’inseriva nel quadro delle azioni svolte dal Vaticano a
favore della secessione della Croazia dalla Repubblica socialista federale di Jugoslavia
(avvenuta nel 1991, quando si proclamò Stato indipendente). Eppure, scriveva Rivelli,
«Karol Wojtyla nei suoi lodevoli pellegrinaggi non si stanca mai di invocare il rispetto
dei Diritti dell’Uomo, ma questa posizione implica innanzitutto, da parte di Roma, di
non nascondere la verità, pur triste e scomoda che sia»9. Il Vaticano aveva preferito
gridare alla persecuzione comunista contro i cattolici croati, quando i tribunali della
Jugoslavia di Tito misero sotto processo i criminali ustascia e i loro collaboratori
cattolici. Aveva favorito la fuga del Poglavnik (capo) Ante Pavelić, giunto a Roma nel
1946 come ospite della basilica di San Gerolamo sulla via Cassia, sotto il nome di
padre Benarez, prima di fuggire in Argentina e poi, dopo la caduta di Peron, in Cile,
sino a sistemarsi definitivamente a Madrid presso un convento di francescani.
Rivelli non era certo uno studioso alle prime armi. Si era laureato in Scienze politiche
con una tesi su La politica razziale e religiosa dello Stato indipendente croato (19411945), e aveva scritto molto riguardo alle ampie responsabilità storiche e politiche
del Vaticano durante la seconda guerra mondiale10. Di ciò siamo venuti a conoscenza
6
Don Vitaliano, Il discusso card. Alojzije Stepinac, cit.
Era stato promosso al titolo cardinalizio da papa Pio XII durante il concistoro del 12 gennaio
1953.
8
G. BAMBARA, La guerra di liberazione nazionale in Jugoslavia (1941-1943), Mursia, Milano
1988, p. 42.
9
F. SESSI, Rivelli, il genocidio croato che imbarazza l’Italia, in «Corriere della Sera», 29 dic. 1998.
10
Propongo, in particolare: 1) la lettura del suo articolo Revisionismo storico. L’arcivescovo
Stepinac, altro che martire, comparso sul «manifesto» del 3 ottobre 1998, giorno della
beatificazione di Alojzije Stepinac da parte del papa di Roma; 2) V. BELLAVITE (a cura di), intervista
a Marco Aurelio Rivelli autore di L’arcivescovo del genocidio, 17 marzo 1999, Noblogs, in http://
vaticano.noblogs.org/post/2007/09/08/intervista-a-marco-aurelio-rivelli-autore-di-l-arcivescovodel-genocidio/.
11
M.A. RIVELLI «Dio è con noi!». La Chiesa di Pio XII complice del nazifascismo, Kaos Edizioni,
Milano 2002.
7
153
grazie anche ad un altro suo prezioso libro11 (pubblicato anch’esso da Kaos Edizioni),
in cui è raccolta una serie di documenti emessi da Eugenio Pacelli (1876-1958), durante
la sua lunga attività12, e che Rivelli analizza. È un testo che va letto con attenzione,
perché fornisce un quadro storico preciso di alcuni avvenimenti, dei quali i libri di
storia raramente, se non mai, ci hanno dato testimonianza. In esso spicca come figura
storica centrale quella di papa Pacelli, detto il «Pastore Angelico». Germanofilo per
formazione, reazionario per tradizione, antisemita per vocazione, il giovane Pacelli,
fin dal suo insediamento come nunzio apostolico in Baviera, non mancò di lamentarsi
della sconfitta della Germania nella Grande Guerra e della conseguente occupazione
tedesca da parte delle truppe anglo-francesi. A suo dire, la cristianissima nazione era
l’unico bastione contro il comunismo e l’ateismo, e il suo indebolimento avrebbe aperto
la strada ai disegni del complotto «giudeo-bolscevico», che vedeva il comunismo parte
e artefice di una cospirazione economica mondiale sionista. Per queste ragioni, Pacelli
arrivò a tollerare l’avvento di Hitler al potere, purché fossero salvaguardati i diritti dei
cattolici tedeschi, e si ponesse un argine sia al comunismo sia all’eccessivo potere che
gli ebrei avevano conseguito. Il 20 luglio 1933 fu firmato a Roma con la Germania del
cancelliere Adolf Hitler, il Reichskonkordat. Questo concordato, che pure garantiva i
diritti dei cattolici tedeschi, dava, tuttavia, un ulteriore riconoscimento internazionale al
regime nazista a pochi mesi dall’ascesa di Hitler al potere (30 gennaio1933), segnando
la fine di ogni vita democratica in Germania e la proibizione di tutti i partiti politici,
compreso quello cattolico del Centro (Zentrumspartei). Nel 1936, la Chiesa cattolica
si schierò contro la Repubblica spagnola, a favore del golpe del caudillo Francisco
Franco, aiutato militarmente dal governo fascista italiano e da quello nazista tedesco.
Nel 1939, Pacelli diventava papa con il nome di Pio XII. Il giorno stesso della elezione
del nuovo pontefice, il conte Ciano, ministro italiano degli Affari esteri, annotava nel
suo diario che alla vigilia, Pignatti di Custoza, ambasciatore d’Italia presso la Santa
sede, gli aveva detto che Pacelli era il cardinale favorito dai tedeschi:
2 marzo – Viaggio di ritorno. A Tarvisio ricevo la notizia dell’elezione alla tiara del cardinale
Pacelli. Non mi sorprende: ricordo il colloquio ch’ebbi con lui il 10 febbraio. Fu molto
conciliante. E pare che nel frattempo abbia anche notevolmente migliorate le relazioni con
la Germania, al punto che Pignatti ha ieri riferito essere il Pacelli il cardinale favorito dai
tedeschi. A tavola avevo detto a Edda ed ai miei collaboratori: “Il Papa sarà eletto entro
oggi. È Pacelli, che assumerà il nome di Pio XII”. La realizzazione della mia previsione ha
interessato tutti13.
Dopo la cerimonia dell’incoronazione, il 12 marzo, Ciano annotava, sempre nel suo
diario: Mussolini «è contento dell’elezione di Pacelli. Si ripromette di fargli pervenire
12
Innanzitutto, come nunzio apostolico in Baviera, poi come segretario di Stato e alla fine, dal
1939 fino alla morte avvenuta nel 1958, come papa con il nome di Pio XII.
13
R. DE FELICE (a cura di), Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943, Rizzoli, Milano 1980, p. 259.
14
A. RICCARDI, Roma città sacra? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Vita e pensiero,
Milano 1979, p. 181.
154
alcuni consigli circa quanto potrà fare per governare utilmente la Chiesa»14.
Nello stesso anno di elevazione al soglio pontificio di Pacelli, Hitler dava avvio alla
seconda guerra mondiale. I paesi circostanti il Reich, qualora non annessi come l’Austria
o la Boemia (dei Sudeti), vedevano alla guida governi-fantoccio: Slovacchia, Polonia,
Croazia, Francia meridionale (Governo di Vichy) e Ungheria. In tutti questi territori
– a grande maggioranza cattolici – i governanti furono i principali collaborazionisti
nel rastrellamento e nell’invio di ebrei nei campi di sterminio tedeschi, incontrando il
totale e incondizionato appoggio delle conferenze locali dei vescovi cattolici.
Pacelli sistematicamente ignorò i messaggi che arrivavano da coraggiosi sacerdoti
che denunciavano gli orrori compiuti ai danni degli ebrei. Anzi, diede la sua
benedizione a monsignore Josef Tiso, prelato slovacco a capo dello Stato, antisemita
biologico, asservito al nazionalsocialismo, che fu tra i più fedeli esecutori del disegno
hitleriano contro gli ebrei. Non disse nulla sulle stragi compiute dai religiosi cattolici
croati nei confronti di serbi ortodossi, zingari ed ebrei. Né valsero a smuoverlo
le testimonianze di ebrei fuggiti dai campi di concentramento slovacchi. A guerra
finita, si mosse, innanzitutto, per chiedere un trattamento particolare nei confronti
di Tiso «come il suo rango di monsignore imponeva»15. Le autorità della ricostituita
repubblica cecoslovacca lo avevano messo sotto processo per crimini di guerra e
collaborazionismo. Si prodigò, infine, per favorire la fuga in Sudamerica di religiosi,
che avevano appoggiato più o meno apertamente i governi-fantoccio filo-nazisti, di
numerosi gerarchi e ufficiali tedeschi, e di collaborazionisti. A tale proposito, dobbiamo
proprio a Rivelli la scoperta, attraverso le sue ricerche, del cosiddetto «canale dei topi»
(The rat Channel), con cui migliaia di criminali nazisti ed ustascia furono aiutati a
fuggire in Sudamerica. Al centro di questa rete di complicità e di questo smistamento
c’era il prelato ustascia monsignor Krunoslav Draganović ed il monastero croato di san
Girolamo degli Illirici di Roma.
Ancora oggi, a distanza di molti anni, Pio XII continua a suscitare imbarazzo.
Preliminarmente alla sua causa di beatificazione, una commissione, composta di sei
studiosi (tre cattolici e tre ebrei), e costituita nel 1999 per esaminare gli atti della Santa
sede durante la seconda guerra mondiale (ADSS) e giudicare l’operato di Pacelli durante
il nazismo e la guerra, aveva chiesto l’accesso agli archivi del Vaticano. Richiesta che
fu, tuttavia, respinta. A questa commissione furono mosse accuse pesanti: colpevole
di voler spargere notizie false e tendenziose su Pio XII. Eppure, la causa per la
beatificazione aveva sollevato dubbi non solo all’interno della comunità ebraica, a
motivo del suo silenzio sullo sterminio degli ebrei, ma anche all’interno della stessa
Chiesa cattolica16.
La controversia sul ruolo di Pio XII durante le persecuzioni naziste nei confronti
degli ebrei è, tuttora, lungi dall’essere chiusa: lo Yad Vashem, il museo dell’Olocausto
15
S. D’AFFLITTO, «Dio è con noi!», Unione degli Atei e degli Agnostici razionalisti, gennaio 2003,
in http://www.uaar.it/print/333.
16
S. MAGISTER, Un figlio della Chiesa di Pio XII rompe il silenzio sulla sua santità. chiesa.
epressonline.it, 27 gennaio 2005, in http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/22038.
155
di Gerusalemme, ospita dal 2005 una fotografia di Pio XII, la cui didascalia in calce ne
definisce «ambiguo» il comportamento di fronte allo sterminio degli ebrei. A seguito
di formale richiesta di modifica di tale didascalia, nel 2006 i responsabili del museo
si mostrarono disposti a riesaminare la condotta di Pio XII a condizione che ai propri
ricercatori fosse concesso di accedere agli archivi storici del Vaticano. Ma tale permesso
non fu mai accordato. Il 19 dicembre 2009, con un decreto firmato da papa Joseph
Alois Ratzinger (alias papa Benedetto XVI), che ne attesta le virtù eroiche, Pio XII è
stato proclamato venerabile. Critiche in merito sono venute dalle comunità ebraiche.
Diversi rabbini hanno parlato di scelta che addolora e riscrive la storia.
Concludo questa mia breve nota in memoria di Rivelli, con le ultime parole di un
epigramma scritto da Pier Paolo Pasolini, e tratto da La religione del mio tempo17, che
il poeta dedicò a papa Pacelli in occasione della sua morte avvenuta nel 1958: «Lo
sapevi, peccare non significa fare il male: / non fare il bene, questo significa peccare.
/ Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto: / non c’è stato un peccatore più grande
di te».
17
A un Papa, dalla sezione nuovi epigrammi (1958-1959), pubblicato in La religione del mio
tempo, Garzanti, Milano 1976, in http://www.pierpaolopasolini.org/poe_papa.htm.
156
Considerazioni e proposte a margine
del seminario su «Violenza politica e
lotta armata negli anni Settanta»
Nota di Mirco Carrattieri, Nando Rinaldi, Nadia Lusetti e Carlo Pellacani
Il 21 e 22 ottobre 2010 si è tenuto nell’aula magna dell’Università di Modena e
Reggio il seminario su Violenza politica e lotta armata negli anni Settanta organizzato
da Istoreco e dall’Istituto storico toscano.
Obiettivo dell’iniziativa, seconda tappa di un ciclo avviato in maggio a Firenze, era
discutere le possibilità e modalità di storicizzazione di un fenomeno che finora è stato
analizzato dal punto di vista memoriale, giuridico, giornalistico, ma non ancora sotto
il profilo propriamente storico.
In quest’ottica lo scopo pare pienamente raggiunto: dal convegno sono usciti
spunti utili sulle questioni definitorie, sulla periodizzazione, sulla fonti disponibili,
sugli strumenti euristici e concettuali necessari per comprendere questa vicenda,
inquadrandola in chiave europea. Anche la partecipazione del pubblico è stata buona:
i presenti nelle due giornate sono stati oltre 120, con numerosi giovani studiosi
provenienti da tutta Italia.
Questi risultati hanno avuto scarsa evidenza su alcuni organi d’informazione, che
hanno preferito dedicare ampio risalto a prese di posizione (sovente promosse da
soggetti che non hanno partecipato ad alcuna fase dei lavori) che interpretavano
come superficialità storica o addirittura come deliberata volontà di omissione il fatto
che nella sessione reggiana non fosse prevista la trattazione di argomenti (quali quelli
relativi alla nascita e all’operatività delle Brigate rosse) che avevano già avuto spazio
nella precedente sessione di Firenze.
In più occasioni si è precisato che il calendario dei lavori svolto non prevedeva
interventi sulla vicenda reggiana perché questo era già stato fatto a Firenze; perché
non erano disponibili ricerche originali su quel periodo; e perché si voleva evitare di
confinare il dibattito nei limiti di un «caso», tale come case study, non come mistero
da occultare.
Gli istituti storici che hanno promosso questo convegno non intendono in alcun
modo eludere o aggirare il problema, ma non ritengono di affrontarlo in modo
provinciale e ideologico, coscienti che storicizzare significa precisare, distinguere,
contestualizzare; accettando i tempi lunghi e i giudizi articolati che questo comporta
157
per far fare al dibattito il necessario salto di qualità.
Istoreco è da tempo impegnato ad affrontare la storia contemporanea del territorio
reggiano, compresi i suoi nodi problematici. Anche sul tema in questione rivendica
di essere tra i pochi che hanno preso l’iniziativa: con appositi moduli didattici; con
la presentazione del volume Tempi di conflitti, tempi di crisi; con il ciclo «Vittime
di pace»; ed ora con questi seminari, di cui sarebbe opportuno pubblicare gli atti e
che prevedono un’ulteriore tappa specificamente dedicata alla didattica. Inoltre, è
stata programmata una tavola rotonda sulle stragi degli anni Settanta, pur ritenendo
opportuno non dedicare ogni risorsa al tema della violenza politica e alla vicenda
delle Brigate rosse.
Istoreco, non arrogandosi alcuna esclusiva su questi temi, ritiene auspicabile un
confronto serio delle specifiche competenze esistenti a livello locale ed in ambito
scientifico, con la convinzione che la discussione storica non è mero opinionismo e
richiede di motivare e documentare le proprie posizioni.
C’è da augurarsi che la comunità reggiana, pronta ad enfatizzare interventi così
controversi, sia altrettanto disposta a garantire le risorse economiche e intellettuali
necessarie per impostare e realizzare un simile progetto di ricerca. Istoreco, per quanto
di sua competenza, è pronto a fare la sua parte.
Le iniziative di Istoreco per il Giorno della Memoria 2011
Le iniziative di Istoreco per il Giorno della Memoria 2011 sono state numerose e coinvolgenti.
Dal 23 gennaio al 23 febbraio, in collaborazione con gli Istituti superiori di studi musicali «A.
Peri» di Reggio Emilia e «C. Merulo» di Castelnovo ne’ Monti, e il Museo Cervi, Istoreco ha
organizzato, presso l’auditorium dell’Istituto «Peri» in via Dante, la mostra «Disegna ciò che vedi.
Helga Weissova: da Terezin i disegni di una bambina».
Nella stessa giornata del 23 gennaio, l’auditorium dell’Istituto «A. Peri» ha ospitato il Concerto
della memoria, intitolato «Il Futuro spezzato. Letture, musica e danza». All’esecuzione, curata
da Claudio Piastra con la coreografia di Annarita Pozzessere, hanno partecipato: Silvia Mazzon,
violino; Matteo Malagoli, violoncello; Gianni Biocotino, flauto; Mirco Ghirardini, clarinetto;
Francesco Cultreri, pianoforte; Mirko Ferrarini, fisarmonica; Giacomo Baldelli, chitarra, Giuseppe
Gaiani, voce recitante; Beatrice Piastra, danza e voce.
L’iniziativa è stata realizzata in collaborazione con il Museo Cervi di Gattatico.
Martedì 25 gennaio, presso il Polo Archivistico, ha avuto luogo la presentazione del volume Gli
ebrei sotto la persecuzione in Italia di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Einaudi, 2011). Dopo
le letture a cura dei ragazzi del Viaggio della memoria 2010, Mario Avagliano è intervenuto sui
temi affrontati nel libro. L’iniziativa è stata coordinata da Alessandra Fontanesi.
Dal 26 gennaio al 6 febbraio il Polo Archivistico ha poi ospitato la Mostra di Elisa Pellacani
Presente assenza. Un viaggio fotografico della memoria che, con particolare sensibilità e perizia,
ha proposto vedute originali del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau visitato
dall’artista, come altre mille persone, durante il Viaggio della memoria di Istoreco del 2010.
La mostra ha proposto scorci che fanno parte del nostro immaginario, ma ha favorito il presentarsi
di nuove domande su un periodo storico-politico così travagliato e discusso, trasformando
il «giorno della memoria» in un momento di informazione, di riflessione e soprattutto di
cittadinanza attiva.
Nelle giornate del 27 e 28 gennaio, presso il Teatro Bismantova di Castelnuovo ne’ Monti, il
158
presidente di Istoreco ha presentato il volume Memorie. Dalla campagna di Russia all’Italia
repubblicana di Vittorio Scalabrini, cui ha fatto seguito la proiezione del film Ogni cosa è
illuminata, trasposizione cinematografica dell’omonima autobiografia di Jonathan Safran Foer.
L’iniziativa era rivolta agli studenti degli istituti superiori.
Sabato 29 gennaio, infine, presso il Centro Giovani di Scandiano si è tenuto un seminario
di studi su «Lazzaro Padoa, un italiano “di razza ebraica”. Memorie tra vita, scuola e storia, a
vent’anni dalla morte (5 gennaio1991)» coordinato da Nadia Lusetti di Istoreco.
Le relazioni sono state presentate da Antonio Mammi (Lazzaro Padoa: un profilo biografico),
Gabriele Fabbrici (Padoa studioso dell’ebraismo reggiano), Antonio Petrucci (Per la difesa della
razza nella scuola fascista), Francesco Paolella (La Shoah degli ebrei reggiani e le tracce della
memoria), cui sono seguite testimonianze di Giuseppe Anceschi, Ettore Borghi, Giuseppe
Dossetti, Luciano Lanzi, Antonio Zambonelli. A conclusione, Alberto Cavaglion ha tenuto una
relazione su Ebraismo e identità italiana. (c.p.)
159
Recensioni
P. BONACINI, Brigata Katiuscia, Mirabilia editore, Reggio Emilia 2010, pp. 294,
18,00 euro
Nella sua terza avventura Corrado Grisendi, il giornalista protagonista di altre narrazioni di Bonacini, si deve confrontare con Reggio Emilia, una città che non conosce
e che inizia ad «imparare» attraverso un piccolo caso di cronaca, legato ad un passato
lontano nel tempo, le vicende della lotta di liberazione nelle campagne del forese
cittadino.
Rispecchiando vicende degli ultimi anni, Bonacini conduce il suo personaggio a
riscoprire l’umanità di una generazione che dovette confrontarsi con la durezza e le
atrocità di una guerra anche civile, una guerra che non finì all’improvviso con l’arrivo
degli alleati e la conquista delle città da parte delle brigate partigiane ma che ha continuato a lasciare tracce nascoste ma profonde nei tanti protagonisti del tempo. Oltre
sessant’anni dopo quei giovani, quelli rimasti, sono anziani, soli, quasi perduti in una
campagna mutata radicalmente ma ancora portatori di quei dolori, di quelle speranze
deluse, di rimorsi e sentimenti forse mai confessati. Come ripercorrere quelle vite,
come rispettare quei sentimenti sembra essere il problema che Bonacini pone al suo
protagonista, in una società dove i mass media sembrano cercare solo lo scoop, la
notizia clamorosa, la polemica usa e getta in chiave politica, poco importa se questo
comporta lo stravolgimento non solo delle sensibilità personali ma della stessa vicenda storica, riscritta ogni volta a seconda delle necessità.
In una vicenda dove la storia si lega alla cronaca (una croce piantata per ricordare
un fascista ucciso e la ricerca della salma) Brigata Katiuscia ripercorre la realtà di una
banda partigiana, dei suoi membri, dei sentimenti, della violenza di quei venti mesi di
lotta, diventata una «storia che non passa» e che un giovane dei giorni nostri si trova
ad affrontare senza adeguati strumenti storici e culturali.
L’incontro con i due giovani del ’45, che la vita e le atrocità subite ha diviso, Tom
e Neve, spinge ad una riflessione che può essere declinata su più percorsi. Il primo è
quello immediatamente storico: come ricostruire le vite degli altri senza esserne direttamente coinvolti, non solo a livello professionale ma, soprattutto, umano. Parafrasando
un ormai consunto slogan legato proprio alle grottesche vicende reggiane degli anni
’90, l’autore esorta a un «chi non sa taccia», come comprendere i fatti senza leggere
la storia nella sua interezza e complessità? Come costituire tribunali volanti sui media
chiamando alla sbarra persone di cui, in realtà, i giudici di turno non sanno nulla?
Ma anche dal punto di vista di chi opera nei media il romanzo pone un interrogativo non secondario: fino a che punto essere il semplice tramite di notizie, raccolte
con le approssimazioni appena accennate, e non intervenire con la propria coscienza
e valutazione, mettendo al primo posto il rispetto delle storie personali, magari a scapito della «verità» o del titolo di prima pagina da offrire a un pubblico sempre meno
attento e informato?
Questioni di metodo, si direbbe, ma anche questioni di cuore quando Bonacini ci
conduce con delicatezza e quasi pudore alla scoperta di un amore fra quei giovani di
160
allora, oggi anziani, un amore interrotto ma mai sopito, un amore fatto di silenzio e di
ricordi, un amore che la violenza e il rimorso ha reso impossibile, decidendo delle vite
di Tom e Neve ma che continua ad unirli in modo sotterraneo, un sentimento al quale
sarà proprio il giornalista protagonista della vicenda ad offrire l’ultima possibilità.
Brigata Katiuscia esplora i terreni della narrazione storica ricordandoci quanto la
Resistenza abbia inciso nelle vite di un’intera generazione ma anche come, sotto il
profilo narrativo e mitopoietico, essa rappresenti un’occasione parzialmente perduta
nella costruzione di un epos popolare in grado di superare la monumentalizzazione
che tanti danni ha fatto alla trasmissione dei suoi valori. La Resistenza avrebbe potuto essere per vicende e ricchezza di umanità, nell’immaginario popolare, quello che
l’epopea del FarWest è stato per gli Stati Uniti, la complessità della vicenda politica
italiana lo ha impedito. Raccontare le debolezze, la dolorosa umanità di quella generazione consente, seppur sessant’anni dopo, di recuperare qualche misura di consapevolezza di quella vicenda, riportando gli «eroi» alla loro quotidianità, di ragazzi allora,
di anziani oggi.
Massimo Storchi
C. ZAVATTINI, Non libro (più disco), Le Lettere, Firenze 2009, pp. 128, con illustrazioni b/n e CD, 22 euro
Il Non libro (più disco) di Cesare Zavattini è un pamphlet al quale è allegato un CD
audio – quando uscì per la prima volta nel 1970, da Bompiani, era un disco di vinile
– che contiene singolarmente un ululato. Riedito dalla Editrice Le Lettere a vent’anni
dalla morte dell’autore e a quaranta dalla prima pubblicazione, questo libretto non è
certo un’opera di tipo tradizionale. Qualcuno ha scritto: «fare la recensione del Non
libro sarebbe come criticare la metrica della Bibbia». Per un «non libro», al limite, si può
fare una «non recensione». Oppure – è stato scritto anche questo – sarebbe opportuno
dare un consiglio: «se amate la letteratura, questo Non libro (più disco) è una chicca
imperdibile».
Indubitabile frutto del clima culturale del suo tempo l’opera riprende gli assunti
estetici dell’ «avanguardismo». Del Non libro nell’archivio zavattiniano, contrariamente al solito (ogni opera era di norma il frutto di un paziente lavoro di limatura che
produceva molteplici stesure), non si conservano copie originali dattiloscritte o manoscritte. Probabilmente l’aspetto estetico ha prevalso ed è stato risolto direttamente
alla Bompiani col contributo di amici (ad esempio Gaetano Afeltra lo aiutò a versare
l’inchiostro su alcune pagine). Alcune altre di una presumibile ultima copia dattiloscritta con correzioni manoscritte autografe sono state addirittura pubblicate nella loro
forma grezza attraverso una particolare tecnica tipografica, per dare significato alla
conformazione segnica oltre che al testo scritto.
Si potrebbe, ad esempio, per questo aspetto specifico, azzardare un parallelo
con lo scrittore svizzero Enrico Filippini, scrittore e filosofo ma anche sceneggiatore, regista, testimone dell’avanguardia italiana in quanto cofondatore del «Gruppo
63». Filippini, seppure con abissali differenze, come Za intellettuale poliedrico, era
appassionato della «modernità» e dunque dell’«immagine» (cinematografica, pittorica,
161
…), memore di Merleau-Ponty. Per lui, e così in un certo senso per Za, la «visione»,
negli anni Settanta divenne uno degli aspetti del superamento del «libro» inteso come
«letteratura morta». In sostanza, per Zavattini la produzione letteraria tradizionalmente
intesa non reggeva più di fronte ai cambiamenti profondi che andavano delineandosi
nella società e nella cultura. L’«espressione» costituiva una costrizione che si rifletteva
sulla stessa formazione del pensiero e sui suoi ritmi obsoleti, retorici, regolati, nel
peggiore dei casi, dal mercato.
Tra le svariate interpretazioni possibili di quest’opera non facilmente definibile,
una, certo singolare, è la seguente: si potrebbe cioè iperbolicamente azzardare che il
Non libro (più disco) sia paragonabile al… Talmud ebraico. La qualifica di «non libro»
si attaglia bene per ambedue. Che si sappia, il Talmud è l’unico libro sacro che accetti
la propria rimessa in discussione, anzi che la solleciti; esso rappresenta un lavoro di
ricerca che ha, ante litteram, le sembianze della meticolosa e pervicace ricerca zavattiniana della… Veritàààà. Se per l’ebreo, infatti, la Torà (volgarmente la Bibbia) è
incomprensibile senza il Talmud, se essa (Torà) è la parola di D-o con cui l’Eterno si
rivolge all’uomo e gli parla, il Talmud è la risposta dell’uomo a D-o. Il Talmud si divide in due parti: «Mishnà e Ghemarà». La Mishnà è la lunga e complessa articolazione
di leggi, norme, statuti e decreti che regolano ogni aspetto della vita e delle relazioni
fra gli uomini e fra questi stessi e D-o nel solco del pensiero di Israel. La Ghemarà è
la – puntigliosa, dialettica, alle volte bizzarra, assurda, contraddittoria e inconseguente
– interpretazione di ogni aspetto di quel corpus straordinario (la Mishnà), ad opera di
centinaia di maestri che si sono cimentati in questo difficile lavoro nel corso dei secoli.
E il Talmud, segnatamente nella Ghemarà, come scrive Moni Ovadia (Difendere Dio,
Brescia 2009), è un «non libro», cioè un’opera in continuo divenire, mai sclerotizzata
e conformistica.
Zavattini non è così presuntuoso da rivolgersi al D-o di Israele. Può tutt’al più
rivolgersi al Dio dei cristiani (come fece ad esempio nel Chi è Dio?, documentario
catechistico di Zavattini-Fabbri e Soldati) e più specificamente a Gesù: si veda, sul settimanale «Famiglia Cristiana», alla fine di dicembre del 2004, un articolo di Enzo Natta
dal titolo Gesù secondo Zavattini nel quale, dello scrittore luzzarese, viene ripreso
il filone della spiritualità e segnatamente i colloqui sulla medesima con monsignor
Ciattaglia sull’attualità di Cristo o con Mino Argentieri sullo stesso argomento in chiave
neorealista, ecc.
Ma, nella fattispecie, egli si rivolge invece espressamente ad una divinità infinitamente più laica ed ingombrante, quella degli «Scrittori», interpellando l’istituzione
letteraria e il mondo intellettuale del suo tempo – impastoiato nelle beghe dei salotti
e dei premi letterari e cinematografici o attardato in diatribe poco edificanti – che viene colto in larga misura impreparato dall’irruzione, sulla scena culturale oltre che su
quella sociale e politica, dell’uragano sessantottesco. Za parla agli intellettuali con una
provocatoria improrogabilità, con l’urgenza di vincere la staticità della parola scritta,
la stessa con cui – in altre forme – Pasolini intervenne nella vita del suo tempo. Pochi
hanno saputo cogliere correttamente l’evoluzione della poetica zavattiniana. In tanti
quando uscì l’operetta, nel 1970, lo hanno subdolamente accusato di aver prodotto un
testo urlante per mania di grandezza («per restare a galla», è stato scritto) o blaterando
di un suo presunto «erotismo senile» per via di quella parola imbarazzante (fica) che
162
campeggiava ridondante in caratteri bodoniani nell’incipit dell’iconoclastico pamphlet.
Ma il Non libro (più disco) è in realtà il libro della contestazione a trecentosessanta
gradi, ivi compresa la contestazione di quei termini e di quei concetti che il sistema
politico-culturale (come fece con la rivoluzione del costume innescata dalla cultura
«beat») tendeva sornionamente ad integrare nel sistema. Pur non essendo un Marcuse
o un Cohn Bendit, il Bellocchio della Cina è vicina o un Toni Negri, non dunque un
idolo del Sessantotto ma sicuramente tra i numi tutelari nel Pantheon del medesimo –
così almeno per il primo movimento studentesco bolognese di quegli anni – Zavattini
annunciava col Non libro il suo diniego di fronte alla cultura dominante, la sua volontà
di andare oltre il sapere borghese, alla ricerca non già della «lezione» marxista–leninista, bensì di una dimensione artistica più autentica, per costruire una cultura più
«vera». Così smozzicava le frasi e le parole creando un linguaggio di «segni» che avrebbe voluto più significativo delle parole medesime. Fu questo improcrastinabile bisogno che lo spinse a produrre un testo che voleva fosse in contrapposizione radicale
con la tradizione letteraria e anzi rappresentarne il superamento critico. Non era più
sufficiente per Za, continuando nella metafora iniziale, leggere la Bibbia, cioè svolgere
quietamente il «mestiere» dell’intellettuale che s’interroga sui problemi della società e
dà la sua illuminata risposta; perché sarebbe stato troppo poco, troppo comodo ed
anche sommamente inidoneo e manchevole. Era necessario invece – parafrasando
– entrare in contatto diretto con D-o, contestarlo se occorreva, imitarlo (questa volta
nell’accezione cristiana) ove possibile. Bisognava cioè, fuori dal mito, attivarsi, non
restare inerti di fronte alla società che si trasformava e mutava il significato del vivere.
Così Zavattini di fronte all’epocale congiuntura degli anni Settanta sente la necessità
di un cambio di passo, di una rottura, di una propria rimessa in gioco, ha la profonda
percezione che non basti più fermarsi ad interpretare il mondo ma che sia necessario,
anzi improcrastinabile, adoprarsi per cambiarlo. Era una visuale che «coglieva l’attimo»
e invocava il superamento di tutti gli schemi e di qualsiasi prospettiva: il Non libro,
cioè, come opera rivoluzionaria, prodotta non già aderendo a uno o all’altro raggruppamento d’avanguardia («Gruppo ‘63», «Antigruppo siciliano», ecc.) ma in splendida
solitudine. E ancora. Con il Non libro, opera impervia come tutta la sua produzione
letteraria dalla fine degli anni Sessanta, ma qui ancor più caratterizzata dall’estrosità
e dall’anticonformismo e ancora una volta creata sulle ali dello sperimentalismo (non
era certo una novità la sperimentazione per lo scrittore di Luzzara), Zavattini aveva
raggiunto l’apogeo critico. Nel Non libro, che non viene indubbiamente partorito in un
eremo e non può essere svincolato, sciolto (solutus) dalle incrostazioni avanguardistiche meno recenti i cui riflessi si affacciano qua e là, il surrealismo o il dadaismo, né
tanto meno dal mondo artistico coevo, dalla letteratura espansa (Expanded literature)
ai libri d’artista alla Andy Warhol, dall’informale «freddo» alla conceptual art («fluxus»).
Insomma delle avanguardie artistiche e degli altri movimenti culturali più recenti, in
quest’opera sorprendente vi sono solo riverberi e nulla più.
C’è, invece, soprattutto la coscienza di aver raggiunto il punto di non ritorno
dell’evoluzione della sua poetica, c’è, sopra ogni cosa, la contestazione, la rimessa in
discussione del ruolo dell’artista nella società del capitalismo avanzato e del consumismo. Il Non libro è dunque, per dirla con le parole alate di Gualtiero De Santi, «un
monologo costruito in forma di libello … col quale Za non si limita ad impossessarsi
163
dell’armamentario delle avanguardie, [ma] attraverso flussi diversi, letterari politici,
erotici, intellettuali, corporei propone un’altra personalissima confessione sugli interrogativi angosciosi posti dalla realtà del suo tempo».
Zavattini, scrive Stefania Parigi citando Jacques Rancière, era partito molto tempo
prima del Sessantotto con la contestazione della cosiddetta «rappresentazione mimetica della realtà», se si pensa al «non film», al «non teatro», addirittura al «non quadro» e
poi, appunto, al «non libro» (successivamente alla «non radio» e alla «non televisione»).
Protagonista anch’egli e testimone del suo tempo, verso la fine d’agosto del 1968, la
passione per il «cambiamento» lo vedrà ultrasessantenne tra i contestatori che rivendicavano una gestione «democratica» della Mostra internazionale del cinema di Venezia.
Con loro occuperà la Sala Volpi per reclamare il ruolo degli autori e dei cineasti nella
gestione della Mostra. Verrà trascinato via dalla forza pubblica e arrestato insieme ad
altri. Queste e altre analoghe lacerazioni civili oltre che culturali lasceranno tracce
profonde. Ed ecco, dunque, le scaturigini del Non libro, ecco la scrittura arrembante,
provocatoria con l’eco dei cortei e delle manifestazioni in sottofondo, che tuttavia si
percepiscono distintamente. Così la repressione autoritaria e sovente il sangue di una
rivolta rivelatasi poi élitaria e alla fine fagocitata dal Sistema, nel testo… negazionistico
si fanno sentire, eccome. Il volumetto nasce in quella temperie culturale, tanto che par
di udire in lontananza l’eco delle parole del «Grande timoniere» (Mao-tse-tung) quando
nel suo «Libretto rosso» proclamava: «la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è un
festa letteraria, non è un disegno o un ricamo; non si può fare con tanta eleganza, con
tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza, con il quale una classe ne rovescia un’altra».
Giorgio Boccolari
A. SEZZI, Vincenzina, Brambilla e il Dirigente. Lavoro e lavori nella musica leggera
italiana dagli anni Sessanta a oggi, Aliberti, Roma-Reggio Emilia 2010, pp. 156, 15
euro
Un dato esce chiaro dal libro di Azio Sezzi: il lavoro in Italia non ha mai goduto,
come non gode, di particolare simpatia, almeno nelle manifestazioni canore più popolari come il Festival di Sanremo.
La stragrande maggioranza di noi del lavoro ha bisogno per vivere ma, se diamo
retta ai testi delle 250 canzoni che l’autore ha raccolto, analizzato e classificato dagli
anni Sessanta del Novecento a oggi il tema del lavoro è del tutto marginale. Una croce
da sbarazzarsi il prima possibile, perché nella scala delle priorità individuali è l’amore
a trionfare. Con buona pace di chi ritiene il lavoro un’occasione di emancipazione e
libertà, seppur nella durezza delle condizioni di vita che spesso impone alle persone. Il lavoro interpretato come schiavitù o come liberazione. Una durezza che non
viene contrastata e semmai vinta da possibili lotte collettive ma dal caldo abbraccio
dell’amata/o. Che ci fa dimenticare le tribolazioni lavorative o ci consola della mancanza del lavoro stesso.
Tuttavia non si può negare – seguendo l’Autore nelle sue conclusioni – che, nonostante di lavoro nella musica leggera italiana «si parla e si è parlato tutto sommato
164
poco», vi sia una «pur vaga corrispondenza con quanto avviene nel mondo reale»: con
tutti i limiti possibili la musica leggera «si sforza di seguire il “ciclo” sociale e dunque
la “rivoluzione” del Sessantotto, l’impegno degli anni Settanta, il riflusso degli anni
Ottanta, la lenta stabilizzazione degli anni Novanta, la complessità dei primi anni del
terzo millennio» (pp. 134-135).
Sul tema del lavoro due canzoni (agli antipodi) ci vengono immediatamente alla
memoria (sanremese): Chi non lavora non fa l’amore di Adriano Celentano (1970) ed
Era bello il mio ragazzo di Anna Identici (1972). Nella classificazione che ci offre Sezzi
la canzone di Celentano è collocata nella categoria «Interpretazione sentimentale [del
lavoro]» mentre la seconda in quella sociale, rappresentata con più forti connotati politici da «cantautori» quali, ad esempio, Gualtiero Bertelli, Paolo Pietrangeli e Gianfranco
Manfredi, che rispecchia però il nuovo clima sociale del Settantasette, al centro del
quale ci sta sì il lavoro, ma per rifiutarlo.
«Al di là comunque dei giudizi di natura estetica o politica – scrive Sezzi – la
canzone di Celentano dimostra l’assoluta impermeabilità del filone sentimentale alle
pressioni di temi esterni, per quanto attuali o caldi come le lotte e le tensioni sociali
del Sessantotto» (p. 32). La canzone del Molleggiato, ricordiamo, è cantata a Sanremo
all’indomani dell’Autunno caldo (1969). Più drastico il commento di Gianni Borgna in
un saggio del 1980: «Chi non lavora non fa l’amore!, una delle canzoni più reazionarie
dell’ultimo decennio, è infatti un’accozzaglia sconnessa dei più vieti luoghi comuni
della propaganda padronale» (G. BORGNA, La grande evasione. Storia del Festival di
Sanremo, Savelli, Roma 1980, p. 97).
Nella canzone della Identici, invece, «il lavoro viene esplicitamente posto al centro
del brano e descritto in modo realistico e crudo, senza tacere i suoi risvolti “sociali”
(strumenti di emancipazione) e le terribili conseguenze a cui esso può portare (strumento di morte)» (pp. 24-25).
Risultato? Celentano vince il festival, l’Identici non accede alla finale.
Vi è poi, secondo l’autore, un terzo filone: l’interpretazione onirica. Proposta, più
nota come Mettete dei fiori nei vostri cannoni dei Giganti, presentata al Festival di
Sanremo del 1967, «ci aiuta a comprendere il gioco tra realtà e fantasia tipico del paradigma onirico» (p. 41). Una canzone che ha il merito, «al di là della sua ingenuità e
degli ammiccamenti commerciali, di porre, nel tempio sacro della musica italiana, i
malesseri di una generazione e soprattutto di cercare una chiave, per quanto rassicurante, non individualistica alla loro espressione» (p. 43).
La piacevolezza del lavoro di Sezzi sta tutta nella leggerezza dei commenti che
nascono da un’attenta analisi dei testi. Considerazioni mai banali, attente al contesto.
L’autore non lo dice direttamente, ma è di egemonia culturale che si tratta nel volume,
come ben coglie l’economista Tito Boeri nella prefazione: «Il sospetto allora è che sia
l’industria discografica a scoraggiare chi produce canzoni dall’affrontare questi temi
controversi [oltre al lavoro, il precariato, l’immigrazione, le donne, N.d.R.]. Non sarebbe la canzone l’immagine della società italiana, ma semmai la società italiana a essere
artatamente deformata dai produttori di “canzonette” per il grande consumo» (p. 11).
È nel capitolo «Dai carri nei campi agli aerei nel cielo»: il contrasto tra campagna
e città e l’emigrazione che la complessità della società italiana comincia ad emergere. Dagli anni Sessanta del boom economico, che dà il via all’emigrazione interna,
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dal Mezzogiorno al Triangolo industriale, agli anni più prossimi, quelli caratterizzati
dall’immigrazione extranazionale. Una «rivoluzione» che cambia la società italiana.
Le voci sono, nella loro profonde differenze, e solo per citarne alcune, quelle di
Adriano Celentano del Ragazzo della via Gluck (1966), di Tenco di Ciao amore ciao
(1967), di Marcella Bella di Montagne verdi (1972), di Francesco Guccini di Piccola
città (1972), delle Orme di Cemento armato (1973), di Franco Battiato di Un’altra vita
(1983), dei The Gang di Sesto San Giovanni (1993), il De Gregori di Titanic (1982), di
Ivano Fossati di Italiani d’Argentina (1990), di Edoardo Bennato di Every Day, Every
Night (A Kiev ero un professore) (2003).
Un’ulteriore classificazione, che chiude il volume, tratta dei lavori e delle professioni nelle musica leggera italiana. E qui citiamo La storia di Serafino (1969) di Celentano,
Diesel (1977) di Finardi, Pescatore (1980) di Bertoli, Panama (1981) di Fossati, Yuppies
(1988) di Luca Barbarossa. L’autore nel suo documentato excursus rileva l’assenza della figura dell’imprenditore, «figura centrale dell’attività economica» (p. 102).
Diversi anche i testi che trattano di sport: ciclismo, pugilato, calcio. E alla fine non
si poteva non parlare del «non lavoro», di zingari vagabondi e barboni. Un approccio
principalmente poetico che mai scivola nel razzismo o nella discriminazione.
«È la libertà, l’assenza di condizionamenti e vincoli a stimolare un sentimento di
curiosità e di attrazione verso queste posizioni marginali, precarie ma indipendenti,
apparentemente fragili ma padrone della vita» (p. 117). Come dargli torto...
Ricordiamo, per concludere, due titoli diversissimi ma che confermano quanto
sostenuto da Sezzi, il Lolli di Ho visto anche degli zingari felici (1976) da un parte e il
Tozzi di Zingaro (1978).
Il saggio è corredato da un utile indice dei nomi e delle canzoni.
Infine, per sapere del titolo… basta leggersi il libro!
Glauco Bertani
G. LIGABUE, Nome di battaglia «Ferruccio», La Rapida, Reggio Emilia 2011, pp.
116, s.i.p.
Giovanni Castelli, il Ferruccio del titolo, fu uno delle centinaia di migliaia di soldati
sbandati dopo l’armistizio di Cassibile e quella narrata da Ligabue è la storia dei suoi
venti mesi di guerra di Liberazione. Il libro è nato anche grazie ad una sua recente
visita ai luoghi dove combatté da partigiano negli anni fra il 1943 ed il 1945.
Una storia iniziata molti anni prima nella natia Palermo dove Giovanni viveva con
la sua famiglia. La storia di Ferruccio è emblematica di tutti quei soldati che l’8 settembre 1943 si ritrovarono impossibilitati a ritornare a casa e dovettero scegliere come
comportarsi in un ambiente poco conosciuto e in un frangente così drammatico. Il
temporaneo rifugio presso la zia di un commilitone siciliano, la risposta non proprio
entusiasta ai bandi di Salò e il fortuito arrivo a Reggio Emilia per prestare servizio a
Casalgrande sono le tappe che piano, piano hanno avvicinato il protagonista al nostro
territorio e al movimento di liberazione. Le parti forse più interessanti del volume sono
proprio quelle dove l’autore racconta, utilizzando classiche espressioni siciliane ed
emiliane, le difficoltà del protagonista di rapportarsi con ambienti sconosciuti, dove
166
il clima, la cultura, i dialetti e lo stile di vita sono stati quanto di più diverso potesse
immaginare rispetto alla sua Sicilia. Differenze che tuttavia anziché spingerlo a isolarsi
lo hanno portato a voler conoscere, e non solo per necessità, i luoghi e le persone
che lo circondavano.
Nella nota tenuta dal conte Spalletti, Castelli ha maturato definitivamente la sua scelta pro Resistenza militando dapprima nelle SAP locali, poi nel distaccamento «Beucci»
della 26ª brigata Garibaldi. Di questo periodo sono molto ben evidenziati gli affetti
che provò per i suoi primi compagni partigiani come Adelmo Franceschini Cisella,
che morì nei giorni della Liberazione e Ugo Veronesi Visser. Un’amicizia talmente forte
quest’ultima da convincerlo a rifiutare il trasferimento nei «Gufi neri» pur di rimanere
a combattere coi suoi compagni. I giorni della Liberazione videro Ferruccio accanto
a Bruno Bonicelli Grappino quando questi venne colpito a morte pochi minuti prima
che un cecchino fascista ferisse proprio il protagonista in corso Cairoli. Una delle foto
di quei momenti così esaltanti ed importanti lo ritrae con tutto il suo distaccamento
presso la caserma «Zucchi», Giovanni Castelli è riconoscibile per via del suo maglione
bianco, un indumento che era diventato un suo vero e proprio «marchio di fabbrica».
Nel dopoguerra divenne capostazione in Liguria ed ebbe l’occasione di incontrare
il presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Michele Bellelli
G. VEZZANI, Leggevamo Gramsci e Marcuse, in «Psicoterapia e scienze umane»,
XLVI, 3, 2010, pp. 377-392
Negli anni del movimento studentesco e delle lotte politiche e sociali, fra la fine
degli anni Sessanta e buona parte del decennio successivo, Reggio Emilia non aveva
una sede universitaria. Così le scuole superiori hanno rappresentato un terminale fondamentale della contestazione; ma anche l’ospedale psichiatrico «San Lazzaro» è stato
un obiettivo primario di quel movimento fatto soprattutto di studenti universitari (e
anzitutto attraverso lo strumento dell’inchiesta sociale).
Questo contributo di Gabriele Vezzani, psicoterapeuta reggiano, allora attivo come
studente del liceo «Spallanzani» dapprima, e come studente di medicina prestato alla
politica poi (è stato assessore provinciale alla Sanità nei primi anni Settanta), raccoglie una notevole quantità di persone e di episodi di quella stagione di lotte, ma
soprattutto è un efficace repertorio bibliografico, per così dire, delle letture che allora
rappresentavano forse l’elemento più importante per contrassegnare l’appartenenza
al movimento: autori e riviste in molti casi oggi dimenticati, e soprattutto per ciò che
riguarda l’ambito del movimento anti-manicomiale (Laing, Szasz e così via), ma che
negli anni Sessanta erano presentati e discussi ad esempio (anzi: soprattutto) alla libreria «Rinascita», vero centro culturale cittadino.
Vezzani insiste molto, logicamente, sulla importanza che ha avuto la partecipazione popolare nelle lotte di quel movimento: in particolar modo nelle lotte per ridimensionare e poi superare il manicomio, considerato inemendabile, ma anche per
diffondere una «cultura dei diritti» nell’ambito della medicina del lavoro.
Al centro stava la questione dell’incontro, allora realizzatosi, pur non senza conflit-
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ti, fra «tecnici» e «politici». Per Vezzani Reggio, città pur sempre marginale ovviamente,
si è trovata ad avere una classe dirigente in molti casi di alto livello (anche nelle fila
dell’opposizione), in un contesto sociale tradizionalmente ben più moderato e conservatore – e questo per l’assenza di una vera borghesia cittadina, laica e progressista.
Così – e ci riferiamo ovviamente alla nascita, con Giovanni Jervis, dei Centri di igiene
mentale (CIM), per i quali Vezzani è stato a lungo volontario – si è venuta a creare una
specie di «alleanza» fra i movimenti e la politica: «Ripensando a quegli avvenimenti si
può pensare che l’azione di noi studenti, che ci muovevamo sull’onda del movimento
del 1968, si collegasse in una sinergia – non premeditata, certo, ma per strani destini
della storia – coi progetti dei politici dell’Amministrazione provinciale e della segreteria del PCI (stava iniziando l’era Berlinguer) e ai fermenti che, dalla metà degli anni
1950, si muovevano nei ceti tecnici e intellettuali (vedi tutta l’elaborazione di origine
francofortese). La direzione comune era l’affermazione a livello di massa dei diritti
civili unanimemente condivisi e non ancora attivi da noi, la modernizzazione del paese, l’affermazione di concezioni più idonee di assistenza sociale e di salute» (p. 385).
Francesco Paolella
A. LODI, L’Aeronautica italiana nella guerra di liberazione, 8 settembre 1943-8
maggio 1945, a cura di Marco Lodi e Silvia Bernucci, 4a ed., Brigati editore, Genova
2008, pp. 239, 15 euro
La guerra di liberazione degli anni 1944-45 ha visto impegnate le formazioni partigiane, soprattutto nelle regioni settentrionali, ma anche il ricostituito esercito italiano
dei governi Badoglio e Bonomi nello sfondamento della Linea Gustav tra Campania e
Lazio e successivamente della ben nota Linea gotica.
Sulla guerra partigiana non sono mancati veri e propri trattati storici come quelli di
Roberto Battaglia e di Claudio Pavone e poi sono intervenute numerosissime pubblicazioni locali e memorie di tanti protagonisti, talvolta anche esageratamente laudative.
Purtroppo altrettanto non è avvenuto per il concorso alla Liberazione dato dal
ricostituito esercito italiano successivamente alla dichiarazione di guerra contro la
Germania nazista disposta dal governo Badoglio sin dal 13 ottobre 1943.
Il battesimo del fuoco del primo reparto militare italiano contro i tedeschi avvenne
l’8 dicembre 1943 nei pressi del paese di San Pietro per conquistare Mignano Monte
Lungo, importante capisaldo della linea difensiva tedesca. Il reparto italiano subì gravissime perdite ma si battè al meglio ottenendo il plauso del generale americano Clark
ed anche il «Times» elogiò i soldati italiani. Il 31 marzo 1944 i soldati italiani conquistarono monte Marrone nella catena delle Mainarde, difendendolo poi con tenacia dai
contrattacchi tedeschi.
Il contingente italiano si organizzò, e in fasi successive, nei sei gruppi di combattimento «Cremona», «Friuli», «Legnano», «Folgore», «Mantova» e «Piceno» che si riunirono
nel Corpo italiano di liberazione raggiungendo una consistenza complessiva di quasi
centomila uomini, tenendo ovviamente anche conto della Marina e dell’Aviazione.
Infatti, nonostante la pessima gestione dell’armistizio dell’8 settembre da parte del re
e di Badoglio, le navi della Marina militare si sottrassero alla cattura raggiungendo
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Malta e la Sardegna ed altrettanto avvenne per l’Aviazione. Basti, a titolo di esempio,
ricordare il reggiano maggiore Luigi Gobbi, comandante dell’84° Gruppo ricognizione
marittima di stanza a Torre del Lago Puccini sul lago di Massaciuccoli, che il 9 settembre organizza la partenza di ben dodici idrovolanti per un totale di 55 uomini di cui 15
ufficiali che ammareranno, sani e salvi, all’idroscalo di Elmas nei pressi di Cagliari. Il
comportamento del maggiore Gobbi non fu un caso isolato, perché oltre un centinaio
di aerei da bombardamento, aerosiluranti, da ricognizione e da trasporto si trasferirono dopo l’8 settembre dalle basi del centro-nord ed anche dalla Grecia e dall’Egeo
al Sud, trasportando un rilevante numero di personale militare sottraendolo così alla
cattura da parte dei tedeschi.
Già dalla fine del settembre 1943 inizia la necessaria fase di riorganizzazione
dell’Aeronautica che si era sottratta alla cattura del tedeschi per renderla effettivamente utile alla guerra di liberazione in appoggio con le forze armate anglo-americane.
Tutta questa realtà è descritta in termini precisi e documentati dal libro di Angelo
Lodi, nato a Roma nel 1916, dapprima ufficiale di complemento in fanteria poi ufficiale
pilota in servizio permanente effettivo partecipando in questa veste sia alle fasi della
guerra 1941-43 e poi a quella di Liberazione 1944-45. Lodi, essendo stato incaricato di
ricostituire dopo la liberazione di Roma l’Ufficio storico della Aeronautica militare italiana, ha potuto descrivere, sia come storico e giornalista sia come effettivo partecipe,
tutti gli eventi connessi alla partecipazione dell’Aeronautica alla guerra di Liberazione.
Il libro, sin dalla sua prima edizione a cura dell’Ufficio storico dello Stato maggiore
dell’aeronautica, ha goduto di un grande successo sì da rendere necessarie successive
edizioni sino alla quarta del 2008 a cura del nipote Marco Lodi, che è anche presidente
della sezione di Roma della Associazione nazionale combattenti forze armate regolari
della guerra di Liberazione. Il libro ha inoltre un eccezionale corredo, in buona parte inedito, di ben 230 fotografie: dalla prima del luglio 1943 scattata all’aeroporto di
Catania-Sigonella con le aviorimesse distrutte ed i rottami di numerosi nostri aerei, tra
i quali anche un modernissimo caccia RE 2005 costruito dalle nostre Officine reggiane, all’ultima recante una mappa della zona di operazioni in Iugoslavia in appoggio
a quelle forze partigiane cui erano aggregate anche le divisioni italiane «Venezia» e
«Taurinense» che si erano sottratte alla cattura da parte dei tedeschi e contro gli stessi
combattevano in appoggio ai partigiani locali..
Il libro nei suoi capitoli segue una logica cronologia: il III è dedicato al primo riordinamento delle forze aeree italiane dal settembre al dicembre 1943 che arrivarono a
contare 169 velivoli efficienti di cui 79 da caccia, 63 da bombardamento e trasporto e
24 idrovolanti cui si aggiungevano 25 aerei dislocati in Sardegna mentre il IV e il V dettagliano le operazioni aeree contro i tedeschi con particolar riguardo al sostegno delle
truppe italiane operanti contro i tedeschi nei Balcani e in particolare nel Montenegro.
Il VI capitolo descrive il rafforzamento operativo delle forze aeree italiane anche grazie alla messa a loro disposizione di nuovi aerei di produzione inglese come il caccia
tipo Spitfire V e Aircobra P. 39. Al riguardo il primo ministro inglese Churchill il 24
maggio 1944 in suo discorso in Parlamento disse: «La leale Aviazione italiana ha combattuto così bene che mi sto adoperando con speciale riguardo per equipaggiarla con
apparecchi efficienti di fabbricazione britannica».
I due successivi capitoli VII e VIII descrivono in dettaglio le operazioni aeree nei
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Balcani a sostegno della divisione «Garibaldi» in cui erano confluiti i militari delle
disciolte divisioni «Venezia» e «Taurinense» che tra mille difficoltà e incomprensioni
combattevano contro i tedeschi in appoggio al locale II corpus partigiano.
È infine documentato, sia pure in modo necessariamente sintetico, l’apporto
dell’Aeronautica italiana alla guerra di Liberazione con quattromila azioni belliche nel
corso di undicimila voli con più di 24.000 ore di volo. Furono lanciate più di settemila
bombe e sparati oltre 480.000 colpi di mitragliatrice; si aviolanciò e si trasportò in zona
di operazioni materiale per oltre 1800 tonnellate; otre 650 militari feriti o ammalati
furono rimpatriati dai Balcani e furono salvati 35 aviatori naufragati sia italiani che
alleati.
Ci furono anche perdite: i caduti di tutte le specialità aeronautiche durante la guerra di Liberazione furono 2048 di cui 125 ufficiali. Sette furono nel periodo le medaglie
d’oro, di cui sei alla memoria, conferite nel periodo al personale dell’Aeronautica per
la loro attività bellica.
Il libro reca in appendice una dettagliata cronologia degli avvenimenti dal 9-10
luglio 1943 con l’inizio delle operazioni di sbarco degli Alleati in Sicilia all’8 maggio
1945 con la fine delle ostilità in Europa nonché i riconoscimenti alleati dell’opera
svolta dall’Aeronautica militare ed anche l’elencazione dei comandi dei reparti di volo
e la descrizione dei principali tipi di velivoli che hanno partecipato alla guerra di
Liberazione, tra i quali vanno segnalati il Caproni Reggiane RE 2002 ed il Caproni
Reggiane RE 2001. Il primo era un caccia bombardiere tuffatore, monoplano ad ala
bassa a sbalzo, di costruzione metallica, monoposto, monomotore, carrello retrattile,
ipersostentatori; derivato dal RE 2000, ma con motore più potente mentre il secondo
era un monoplano da caccia ad ala bassa a sbalzo a pianta ellittica, di costruzione metallica, fusoliera a guscio, monoposto, monomotore, carrello retrattile, ipersostentatori.
Danilo Morini
M. MINARDI, Invisibili. Internati civili nella provincia di Parma 1940-1945,
CLUEB, Bologna 2011, pp. 396, 30 euro
L’internamento civile durante la seconda guerra mondiale è stato relegato ai margini della storiografia. Qualche testimonianza e la documentazione d’archivio – che
a volte si interrompe con la deportazione degli internati lasciando incomplete molte
storie personali – hanno permesso però, in alcuni casi, di ridare visibilità ad un fenomeno tutt’altro che marginale.
Così, nella provincia di Parma, il Castello di Montechiarugolo, quello di Scipione
a Salsomaggiore Terme e, in un secondo tempo, il complesso termale di Monticelli
Terme, sono stati luoghi di internamento prima e di transito verso i campi di sterminio
poi. Luoghi nei quali si sono intrecciate le vite di centinaia di persone, privati della
libertà per le loro idee o per la loro fede.
E accanto a questi edifici fortificati, dal 1941, decine di località della provincia di
Parma, diventano a loro volta «parte integrante del sistema concentrazionario parmense», accogliendo, loro malgrado stranieri, di nazionalità nemica, antifascisti, ebrei o
protestanti.
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Internati. O internati liberi. Comunque invisibili. E soli. Soli con se stessi, con i
nuclei famigliari separati, con i loro valori soffocati.
Storie di vita vissute prive di libertà che si intrecciano con le vite dei residenti, con
i direttori dei campi, i carabinieri, i medici di paese, talvolta con gli insegnanti. Vite
condotte faticosamente alla ricerca di un po’ di normalità (di un lavoro, o semplicemente di poter studiare), con la speranza che tutto questo possa finire il più presto
possibile, nonostante la consapevolezza, poi, di poter esser deportato in un campo di
concentramento.
Uomini, soprattutto: alle apparenze un fenomeno quasi esclusivamente maschile.
Ma anche donne, madri, mogli, con le loro storie che emergono a fatica dalle testimonianze e dalle carte ufficiali, storie ancora una volta relegate in secondo piano. Ma la
realtà è stata molto diversa. Così lo storico racconta di donne tanto sole quanto coraggiose. Donne che spingono i figli a fuggire, per permetter loro di salvarsi. Donne che
mettono in pericolo la loro libertà per poter stare accanto ai mariti in carcere. Donne
che fuggono, per non far nascere il proprio figlio in un campo di concentramento.
Donne che tentano di salvare ebrei. Donne, insomma, che ancora una volta rinunciano a se stesse per gli altri.
Un’umanità dimenticata, appunto, alla quale Marco Minardi ha voluto dare voce
attraverso il presente libro.
Un lavoro minuzioso e dettagliato durato quattro anni. Racconta di un periodo
drammatico, di fatti e di persone sconosciute o volutamente dimenticate, protagonisti
involontari dell’orrore. Questa ricerca riconsegna a queste persone, «sole ed ingombranti» quella visibilità che è stata loro negata. Restituisce loro, inoltre, la dignità di
essere umano: quella dignità che inevitabilmente, i prigionieri vedono cancellata.
Anna Fava
M. RODANO, Memorie di una che c’era. Una storia dell’UDI, Il Saggiatore, Milano
2010, pp. 284, 19 euro
È un titolo che non ammette mezze misure quello che sintetizza l’esperienza di
Marisa Rodano all’interno dell’Unione donne italiane. Memorie di una che c’era ci
avverte subito, e senza possibilità di messa in discussione, che questo è si un libro
autobiografico dunque parziale ma, al contempo, scritto da chi ha vissuto da protagonista i fatti narrati, perché l’autrice è stata una delle fondatrici dell’UDI e sua presidente
nazionale dal 1956 al 1960.
La Rodano più volte rimarca la soggettività di quanto ricorda, affidandosi dove
possibile ad appunti e documenti di quegli anni, ricostruendo così un pezzetto di una
storia grande e complessa ancora poco conosciuta, troppo poco insegnata. Fra le pagine i suoi incisi riportano considerazioni personali di allora o di oggi – diremmo «col
senno di poi» – impreziosendo un testo che oscilla fra memoria e saggistica.
Il volume si apre con una premessa dell’autrice che sottolinea senza sconti quanto
ci sia necessità di ricordare la storia delle battaglie e delle conquiste dell’UDI, oggi che
le giovani generazioni di donne – ma i giovani in generale – si sono accorte che certi
diritti non sono una condizione naturale, ma che ciò di cui hanno goduto i loro padri
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e le loro madri è stato il frutto di lotte, di un progetto comune che con costanza è stato
portato avanti per decenni.
Pagine che ci raccontano della condizione femminile in Italia dal secondo dopoguerra in poi; dei primi passi in politica delle donne e dell’accoglienza dei colleghi
uomini; di come fosse da cambiare la mentalità di un’intera società e delle donne stesse; di come l’UDI abbia agito su più fronti, dalle battaglie pratiche a quelle culturali e
di costume per l’emancipazione femminile, con una devozione da parte delle militanti
che ha dell’incredibile e che da sola spiega i successi dei cui benefici ancora usufruiamo senza sapere da dove vengono.
Penso, essendo di Reggio Emilia, agli asili nido comunali che hanno fatto della
nostra città un esempio mondiale e le cui fondamenta vanno proprio ricercate nell’UDI
reggiana che, impegnandosi instancabilmente nell’esigere e ideare servizi sociali pubblici di supporto alle donne, hanno inaugurato una battaglia nazionale; penso al diritto
riconosciuto – ma ormai solo per chi accede a contratti di lavoro dignitosi – alla maternità o anche solo a non essere licenziate in caso di matrimonio. Queste forse le battaglie più famose, o meglio, le più ricordate da una società senza memoria di se stessa.
Così nelle parole di Marisa Rodano ritroviamo la nostra storia, con fondamentali
spunti di riflessione per l’attualità perché, senza voler a tutti i costi rimarcare le differenze di genere, il trattamento riservato da una società alle donne è rivelatore di come
sia quella stessa società, non è un fattore marginale ma ci racconta il suo grado di
sviluppo o, come nel nostro caso odierno, il suo livello di retrocessione.
«I movimenti delle donne – scrive l’autrice in chiusura – hanno prodotto la rivoluzione più lunga del XX secolo», è tempo di ricordarcene e di ricominciare a pensare
ad un futuro che ci assomigli.
Gemma Bigi
T. PORTOGHESI TUZI, G. TUZI, Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della Comunità del porcellino, Il Saggiatore, Milano 2010, pp. 344, 18 euro
Questo libro ci porta, con una resoconto centrato su aspetti privati e con un’azione
di scavo eminentemente antropologico, a rivivere anni d’intensa e fruttuosa attività politica che hanno segnato in modo indelebile la Carta fondativa della nostra Repubblica.
Le vicende oggetto della ricostruzione storico-documentaria si sono svolte in un edificio del centro di Roma, per la precisione al civico 14 di via della Chiesa Nuova,
nelle vicinanze di piazza Navona e di Montecitorio. Questo elegante palazzo «con le
persiane in legno laccato e un portoncino a volta» ha ospitato uno dei più straordinari
cenacoli politico-culturali del dopoguerra, tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi
degli anni Cinquanta. Noto con la denominazione di «Comunità del porcellino», per
la scherzosa vena goliardica dei protagonisti, il gruppo che si riuniva – e abitava – in
via della Chiesa Nuova era formato da Laura Bianchini, Giuseppe Dossetti, Amintore
Fanfani, Angela Gotelli, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati. Persone che hanno occupato spazi incommensurabili nel progetto costitutivo dell’Italia repubblicana.
La ricostruzione di Telemaco Portoghesi Tuzi e di Grazia Tuzi, seppur condotta dall’interno cioè con una conoscenza diretta di fatti e persone, non reca apporti
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innovativi alla conoscenza della nascita della nostra Repubblica. «Anche la visita di
Alcide De Gasperi, nel febbraio del 1948, in realtà non ci dice nulla di nuovo: note di
colore, ma nulla di rilevante per quanto riguarda le discussioni nella Costituente, in
particolare sui rapporti con il Vaticano a proposito dell’articolo 7», come afferma Paolo
Prodi nell’introduzione al volume. Ma questo non costituiva lo scopo degli autori, che
invece si sono dedicati alla rievocazione di un’atmosfera quotidiana unica, non spiegabile nei libri di storia politica, di una dinamica di gruppo dominata in modo naturale,
anche nelle divergenze, dalla personalità di Giuseppe Dossetti.
E questa narrazione, accompagnata da immagini e documenti inediti, porta il lettore a scoprire la vastità di una «crisi» che presenta forti aspetti di attualità, se non altro
perché fa meditare su un disorientamento collettivo che pare non avere argini e che
investe coscienze orfane di una riconciliazione del cattolicesimo con la modernità e
prive di ripari contro gli effetti perversi della globalizzazione.
La storia di famiglia di cui parla Telemaco Portoghesi Tuzi ingloba tutto questo,
fornendoci una lezione di vita, di politica, di sobrietà e di dedizione istituzionale –
come annota argutamente Gian Antonio Stella nella prefazione – di cui avvertiamo la
mancanza e che non ha eguali negli anni successivi.
Per questo, il bel libro di Telmo e di Grazia Tuzi è un manuale di corretta convivenza e di dialogo interpersonale, più che un resoconto di scelte politiche, da proporre a chiunque intenda candidarsi ad affrontare con spirito di servizio impegni
nell’amministrazione pubblico o nell’attività politica.
Carlo Pellacani
S. HESSEL, Indignatevi!, Postfazione di Sylvie Crossman, Add Editore, Torino 2011,
pp. 64, 5 euro
Se, all’età di 93 anni, un autore trova la forza di pubblicare un suo scritto e di farne
un bestseller mondiale, evidentemente è portatore di esperienze di vita e di un messaggio atteso e qualificante per la collettività. È questo il caso di Stéphane Hessel che
ha dedicato l’esistenza alla convinzione che «la vita restituita deve essere impegnata».
Una scelta derivante dalle vicissitudini nei campi di sterminio tedeschi (Buchenwald,
Rottleberode, Dora), dalla fortunata sopravvivenza e dalla consapevolezza del debito
di riconoscenza che ogni uomo libero deve saldare nei confronti dei suoi simili per la
salvaguardia della sua integrità morale e del suo contributo ad un saldo positivo della
storia. Hessel ha avuto occasioni importanti per affermare queste sue convinzioni. In
particolare ha partecipato alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo quale capogabinetto di Henri Lauger. È soltanto la prima tappa di un percorso
diplomatico che lo metterà a contatto con le più forti disuguaglianze del mondo e lo
porterà, ormai novantenne, a portare il proprio contributo di idee e di aiuti alla popolazione palestinese.
Già nel 2004 aveva firmato l’appello dei Resistenti alle nuove generazioni che
proponeva una «insurrezione pacifica» contro i mass media, ritenuti colpevoli di proporre «il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia
generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti». Parole che manifestano
un’attualità sconcertante.
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La terapia di Hessel per dare un senso all’impegno civile e politico, oggi come durante la lotta contro l’invasore tedesco, è indignarsi, all’esatto opposto dell’indifferenza
che pare caratterizzare gli atteggiamenti della maggior parte della gente.
L’insurrezione che l’autore propone è assolutamente pacifista, perché «la violenza
volta le spalle alla speranza» e perché in un mondo che «ha superato il confronto delle
ideologie e il totalitarismo conquistatore» l’unica via d’uscita si trova nella comprensione reciproca e nel rispetto dei diritti. Di fronte a fatti eclatanti come la crescita del
divario fra ricchi e poveri e come la persistente violazione dei diritti dell’uomo e dello
sfacelo ambientale del Pianeta, è colpevole non indignarsi e non assumere azioni civili
risolute. «Cercate e troverete!», sollecita Hessel, indirizzando il suo stimolo ai giovani
d’oggi, ai quali suggerisce che «creare è resistere».
Carlo Pellacani
G. DIDI-HUBERMAN, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano
2009, pp. 232, 24 euro
Il saggio, documentato ed esaustivo, di Didi-Huberman si basa sull’esame di quattro
pezzi di pellicola scattati nell’agosto 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz.
Sembra un’inezia, soprattutto osservando con occhio non attento gli sviluppi di quelle
pellicole, ma è una testimonianza dall’inferno, da un mondo che non dovrebbe essere
esistito, che è fuori da ogni ambito immaginativo.
Quattro pezzi di pellicola in bianco e nero, frutto di scatti frettolosi e clandestini,
che segnano in modo eloquente la forza resistenziale dei deportati, la volontà di far
conoscere al mondo ciò che si riteneva inimmaginabile e volutamente nascosto.
Si tratta di «brandelli più preziosi e meno rassicuranti di qualsiasi opera d’arte, brandelli strappati a un mondo che li considerava impossibili»: immagini malgrado tutto,
malgrado l’inferno di Auschwitz, malgrado i rischi corsi dai due operatori.
In questo percorso risarcitorio e ricostruttivo, attento e delicato come si trattasse
di una sacra sindone, l’autore ci conduce – passo dopo passo – a svelare le logiche
semantiche e antropologiche dell’azione filmica, ma anche le ragioni umane ed esistenziali che connotano il gesto e la collaborazione di due spettatori-attori dell’azione
quotidiana del Sonderkommando.
Il saggio implica cognizioni di critica estetica e di analisi filosofica, portando a
valutare quali siano i limiti e le potenzialità dell’immagine in quanto tale, artistica,
fotografica, cinematografica. Per ricordarsi, occorre immaginare: dice l’autore. E richiama l’urgenza del presente «fotografico» e la costruzione delle immagini nei «Rotoli di
Auschwitz», per affermare con Hannah Arendt che l’immagine è un istante di verità e
con Walter Bejamin che è «monade» che sorge la dove il pensiero viene meno.
Questi quattro pezzi di pellicola da Birkenau esprimono in modo emblematico la
questione delle immagini che è al centro del disagio del nostro tempo – il cosidetto
«disagio della civiltà». L’autore ci invita a «imparare a guardare le immagini, a scorgervi
ciò cui esse sono sopravvissute. E questo affinché la storia, svincolata dal puro passato, ci aiuti ad aprire il presente del tempo».
Carlo Pellacani
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G. CAMPIOLI, La classe operaia deve morire, Edizioni Consulta, Collana «Novecento»,
Reggio Emilia 2010, pp. 88, 15 euro
Scrive Silvia Vidoni nella prefazione: «Quando ho sentito per la prima volta il titolo
di questo lavoro sono stata colta da una sensazione di stupore mista a divertimento e
ad un senso di pienezza; quasi come quando ti senti sollevato perchè qualcun altro
ha finalmente trovato il coraggio di dire quello che tutti sotto sotto pensano e così
ti libera dalla responsabilità che hai nei confronti di te stesso per non essere riuscito
prima d’allora ad esprimere qualcosa di quasi scandaloso che nessuno mai oserebbe
rendere pubblico».
Il saggio di Giancarlo Campioli, frutto di confronti e ricerche che si sono sviluppati
nel corso di quarant’anni, espone, infatti, l’intuizione che «l’evoluzione delle classi, secondo gli schemi più ortodossi del materialismo storico, deve necessariamente portare
alla scomparsa della classe operaia e alla sua sostituzione con il lavoro autonomo».
L’affermazione deriva dalla constatazione che il sistema produttivo si regge sull’apporto di una «nuova classe» formata da lavoratori che non si riconoscono più nella
vecchia classe operaia e che si caratterizzano per competenze sempre più specifiche
che derivano dalla maggior specializzazione richiesta in ogni settore produttivo. Allo
stesso tempo il sistema capitalistico non si regge sulla produzione di ricchezza ma sul
suo incremento, tanto da entrare in crisi non soltanto quando cala la produzione, ma
addirittura quando questa manifesta un incremento più ridotto.
L’opera di Campioli propone uno scenario incerto sul futuro prossimo venturo
del «sistema borghese». «Poiché il prodotto, con tutta evidenza, non potrà aumentare
all’infinito, che cosa succederà quando non ci sarà più un suo incremento? E quale
sistema si sostituirà allora all’attuale sistema capitalistico?». E poi aggiunge: «La cultura
è una sovrastruttura o una struttura? Perché il movimento del ’68, che oggi sembra
riaffiorare, ha abortito?».
A queste e altre simili domande tenta di rispondere l’autore in questo libro, ma
soprattutto ne trasferisce la complessità sui lettori, sollecitando riscontri alle sue intuizioni. L’opera costituisce, dunque, un’occasione stimolante di riflessione sulla storia
del passato e sulle attese di un futuro che si avvicina. (cp)
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