L Islam, il Vietnam, il ring, la malattia E le altre. Intervista alla (ex

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ha steso Ali.
Nel ring di una camera, senza testimoni. Ancora adesso
non le servono i guantoni. È
imponente, non proprio una
bambolina: se vi dà una sberla, vi rigira.
Bel viso, occhi che non si abbassano, tratti decisi. Conosce anche le arti marziali, è
stata cintura nera di karatè. Rappa, come
faceva lui.
Khalilah Camacho Ali, prima si chiamava Belinda, è la seconda moglie di Muhammad Ali. Quasi dieci anni di matrimonio, quattro figli, tre femmine, un maschio. Forse la moglie più importante: lei
c’era quando Cassius Clay è diventato
Ali, lei c’era quando lui rifiutò di andare
LA DONNA CHE
in Vietnam (‘67), lei c’era nello Zaire,
3VNCMFJOUIF+VOHMF (contro Foreman
nel ‘74), lei c’era nelle Filippine, 5ISJMMFS
JO.BOJMB (contro Frazier nel ’75). Ali
con lei ha fatto le cose più grandi: sul ring
e fuori. E ora lei rivendica il suo ruolo: di
donna che lo ha reso il campione della
gente. 5IF(SFBUFTU, appunto. Khalilah,
sessantacinque anni, è di Chicago, ma vive a nord di Miami.
Quando vi siete conosciuti?
«Avevo undici anni, portavo la coda di
cavallo, ci è venuto a trovare nella scuola
islamica. Si è avvicinato, mi ha dato la foto autografata, gli ho chiesto: come ti
chiami? E lui: Cassius Clay. Gli ho risposto: ma che razza di nome è? $MBZ, come
fango, terra? Sei ridicolo. Ho preso l’auto-
grafo e l’ho stracciato: torna quando
avrai un nome decente, gli ho detto».
Però, che carattere.
«Quello non mi mancava. Ero giovane,
ma culturalmente non una sprovveduta.
E mi scappavano più no che sì. Ero di Chicago, mia padre leggeva molto, usava
spiegarci tutto, militava con Elijah Muhammad, della Nation of Islam. Io non
avevo bisogno di convertirmi, avevo fede
e disciplina».
Ali tornò a trovarla.
«Un po’ di anni dopo. Lavoravo in una
panetteria, faceva il simpatico, voleva accompagnarmi a casa. Ma a me non va, dissi, e nemmeno i miei saranno d’accordo.
Avevo sedici anni, lui ventiquattro. Un
giorno venne e pioveva, sali in macchina
che ti dò un passaggio, mi disse. Non ci
penso proprio, gli risposi, ma se vuoi,
puoi seguirmi mentre cammino. E così fece, tenendo il finestrino abbassato. Almeno aveva capito che con me non funzionava come con le altre. Ero un maschiaccio,
m’interessavano solo i cavalli».
Lo sposò.
«Sì. Anche se i miei erano contrari. Era
alto e belloccio, a me bastava. Ero vergine, veniva sempre a cena a casa, mai uscita sola con lui. Aveva divorziato dalla prima moglie, Sonji, perché lei non voleva rinunciare alle minigonne e al trucco. Lui le
disse: ti comprerò un vestito semplice e
modesto. Lei gli rispose: accosta, e scese
per sempre dalla macchina».
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ON ME NON CORREVA RISCHI, non ero troppo vezzosa, né avevo grilli nella testa. In viaggio di nozze
andammo a New York e la rivista &CPOZ ci dedicò
sette copertine. Ma Ali nel privato era diverso da
come si mostrava in pubblico. In quel momento lì
era giù di morale, anzi era depresso, molto infelice. Gli avevano tolto il titolo mondiale e la licenza
pugilistica, non poteva combattere, non aveva
soldi, né carte di credito. Era a terra, in tutti i sensi. Io gli ho insegnato ad avere fiducia in se stesso.
Io l’ho mantenuto per tre anni».
Come?
«Con i soldi di una borsa di studio universitaria. Cucendo abiti, ricamando, cucinando mattina e sera, mandando avanti la casa, senza aiuti, non chiedendo mai un dollaro. Senza fargli sapere che stavo usando un mio fondo, perché il suo orgoglio maschile ne avrebbe sofferto. Così come l’ho convinto che fosse giusto rifiutare il servizio militare per il Vietnam. Certi titoli te li possono togliere, altri no, e sono quelli che ti dà la gente, quando diventi un simbolo. Lui era incerto,
sapeva di rischiare molto, ma non vedeva».
Cosa?
«Che fuori c’era un mondo, una generazione pronta a seguirlo. Che il suo gesto avrebbe signifi-
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cato tanto per molti. Erano anni di contestazione. Glielo ripetevo: ci sono molti modi per battersi. Tu sai solo dare pugni, ma puoi diventare il campione della gente, di chi protesta per
una guerra assurda. Trova un altro modo di essere un eroe, fuori dal ring. Gli ho preparato i
discorsi, gli ho insegnato a parlare quando
non si trattava di boxe. Gli ho detto che poteva
farsi ascoltare dalla gente, di preoccuparsi di
quello, doveva costruirsi una personalità. Non
si trattava solo di provocare, ma di dare coerenza a quell’impegno. Il resto sarebbe venuto. L’ho guidato, ma è stata una battaglia. Gli
dicevo: io scrivo, tu leggi. Sia chiaro: non era
un fantoccio nelle mie mani, ma io l’ho spinto
e sorretto».
Vuol dire che c’era lei dietro?
«In quel momento era un cane bastonato.
Forse fuori sembrava forte, ma a casa era abbattuto, fragile, con l’autostima sotto i tacchi.
Non riusciva a mantenere la famiglia, non aveva contratti. Era abituato a dominare sul ring,
ad avere una classifica, gli mancava quell’iden-
tità, quella conferma del suo valore. Io lo incitavo, gli dicevo: possiamo fare degli spettacoli a
Broadway, andare lì a raccontare la nostra storia, proviamo a chiedere sostegno a quelli che
la pensano come noi. Quindi la risposta è sì. Io
ho cercato delle vie d’uscita, io l’ho spronato a
non abbattersi. E l’ho allenato a reggere la scena. E insieme abbiamo fatto Maryum nel ‘68,
le gemelle Jamillah e Rasheda nel ’70 , e finalmente il maschio Muhammad jr. nel ‘72, a cui
lui teneva molto. Gli ricordavo: abbiamo una
famiglia, credici, anche quella è un valore. Lui
non ha capito subito che fuori dal ring poteva
avere un’altra dimensione. E che per farlo doveva battersi, sostenere dei principi che lo
avrebbero reso nemico a una parte dell’America, ma un grande campione dell’altra. Lui aveva il coraggio, ma io glielo ho tirato fuori».
Però lui l’ha tradita.
«Sì, quando stava con me ha fatto figlie un
po’ ovunque. Qualcuno ha ancora illusioni sugli uomini? Non è che abbia avuto grandi
esempi, suo padre era peggio: beveva e anda-
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va a donne. Però fino a quando è stato mio marito mi ha sempre ascoltato. Aveva fiducia in
quello che dicevo. Anche in Africa, a Kinshasa,
quella notte ero lì, a bordo ring».
Lei era l’unica a darlo vincente.
«Sapevo che contro Foreman ce la poteva fare. Non era facile, ma nemmeno impossibile.
Bisognava però mettere in testa ad Ali una cosa: doveva allenarsi bene, perché a volte trasgrediva, e doveva dormire da solo di notte».
Da solo?
«Sì. Si era portato dietro l’altra, Veronica
Porsche, una delle quattro ragazze ritratte nel
manifesto dell’incontro. La faceva passare per
mia cugina, per bambinaia, sapevo che ci andava a letto. Ma quello non era il momento per
regolare i conti, nè per lui quello di fare sesso».
E dopo?
«Gli spiegai. La poligamia in America non
era accettata e noi lì vivevamo. Non me la venisse a raccontare in versione islamica. In più
davanti ai figli non poteva mancarmi di rispetto in quel modo, era una questione di dignità.
Un conto sono le avventure, un altro le storie
parallele. Tutti possono avere figli, ma da uomini a diventare padri ce ne vuole».
A Manila lei lo picchiò.
«Mi arrabbiai perché lui presentò Veronica
come sua moglie al presidente Marcos. Ma io
non ero lì, lo lessi sui giornali. Così gli urlai al telefono, e lui mi disse: sono balle, non è vero
niente, vieni qui a controllare».
E lei?
«Nemmeno feci i bagagli, m’imbarcai subito: ventisei ore di viaggio via Parigi per arrivare a Manila. Non ne potevo più, volevo sbugiardarlo. Alla Casa Bianca per re Hussein di Giordania aveva lasciato la cena dicendo: me ne devo andare, mia moglie sta partorendo, e tutti
sapevano che non ero io, ma un’altra».
Dicono che lei buttò giù la porta della stanza.
«Ero piuttosto infuriata quando sbarcai nelle Filippine. E sì, più che una visita feci un’irruzione. Le guardie del corpo non tentarono
nemmeno di fermarmi».
Cinque minuti di grande rabbia?
«Facciamo quindici. Ma non mi dilungo, vorrei raccontare i particolari in un libro. Le ho
detto che ero cintura nera di karatè?».
Gli mollò degli schiaffoni, devastò la sua camera.
«Diciamo che prima dei round con Frazier
se la dovette vedere con me. E non ero meno
dura. Ma volevo proteggere i miei figli, avevano una madre che non si abbassava a certi
compromessi. Chiesi il divorzio. Ali sul ring è
stato grande, come marito
un po’ meno».
Come sono i vostri rapporti ora?
«Erano buoni fino a un
po’ di tempo fa. È stato un
colpo vederlo cambiare, ha
iniziato a tremare sempre
di più. Ma io gli parlavo
all’orecchio dei vecchi tempi, lui era affettuoso, si divertiva. Ancora non prendeva tutte quelle pillole
che gli dà Lonnie, la sua
quarta moglie, quella a cui
lui ha pagato gli studi sin
da piccola. Non era contento di assumere tutti quei
farmaci. È un’altra persona sotto quel trattamento, sembra rimbecillito. Ma ora è lei a occuparsi di lui. E da quando c’è lei, è isolato, noi
non contiamo più molto. Non accuso nessuno,
ma credo che un Ali stordito dai medicinali faccia comodo».
Non è gelosia la sua?
«Io sono andata avanti. Ho fatto tante cose,
anche una piccola parte nel film 4JOESPNF$J
OFTF con Jane Fonda. Mi sono risposata, ho
avuto altre due figlie, non voglio parlare male
di lui, non mi appartiene più. Se dico che ho conosciuto Ali quando non era ancora Ali non è
per vendetta. Io gli ho mostrato quello che poteva essere. Sì, io ho fatto Ali, lui ha fatto me, e
insieme abbiamo fatto un pezzo di storia».
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HO SENTITO NEI SOSPIRI DEI SUFI A KABUL, al Cairo e a
Istanbul, durante i riti dionisiaci dei musulmani
del Maghreb, tra le esplosioni di petardi e rulli di
tamburi nella Tripoli agghindata con palloncini e
teste di squalo. Era il canto natalizio dei musulmani. Quest’anno, per la prima volta negli ultimi quattrocentocinquantasette, quel canto si leverà nel
mondo musulmano nella stessa notte in cui i cristiani celebreranno il loro Natale, quella tra il 24 e il 25
dicembre. Perché quest’anno Maometto nasce
quando nasce Gesù. Sarà il secondo .BXMVE del
2015, il primo è caduto tra il 3 e il 4 gennaio: l’anno
liturgico dei musulmani, governato dalla Luna, corre più veloce di quello cristiano.
Coincidenze. Del resto — e oggi pare così strano ricordarlo — le due religioni si sono
rispecchiate l’una nell’altra nei secoli a suon di melodie e usanze, e si sono prestate poesie e riti come i buoni vicini si prestano il sale. E fu forse proprio per resistere all’incanto
della notte di Betlemme che un califfo decretò la nascita del Profeta come festa popolare. Da allora il Natale musulmano viene festeggiato dal Maghreb fino all’Indonesia con
fuochi d’artificio e regali per i bambini, cortei e danze estatiche, ed è replicato a sua volta per i santi locali in una infinità di Natali minori.
Sono anni che viaggio nelle sacre periferie delle religioni del Libro, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute di un’umanità in fuga. Come i santuari dei
mistici dell’Islam, che dal Pakistan al Mali stanno scomparendo a suon di bombe. Odiati
dagli ultras dell’Islam e ignorati dall’Occidente, i sufi sono forse una delle poche barriere contro la barbarie. Riempiono le biblioteche, godono della lettura come i mistici
ebrei, mettono l’esperienza al di sopra della teoria, chiamano la pratica “strada” e il fanatico “asino che porta sulla groppa una pila di libri”. Sono zone franche. Come le donne
armene e turche che dormono assieme sulla tomba di un santo cristiano sul Bosforo; come i monasteri nel deserto egiziano, ora assediati dai fondamentalisti, dove Abuna Fanous ascolta i sogni dei pastori beduini che per parlare con lui si fanno ore di coda sotto
il sole; oppure come la venerazione dei kosovari verso lo sfortunato santo dei serbi, il re
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Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Zone franche sono i cristiani e
i musulmani che pregavano assieme nella
moschea di Damasco, o quelli che hanno
rimesso a posto le pietre del monastero di
Deir Mar Musa, sempre nella povera Siria.
Sono queste le ultime oasi d’incontro
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tra le fedi, luoghi dove gli dei ancora si parlano, terre di promiscuità millenaria scomoda ai predicatori dello scontro di civiltà, luoghi dove la catena delle vendette si
rompe, dove si mangiano le stesse pietanze, si intonano gli stessi canti, si fanno gli
stessi gesti. Accadde anche nella mia Polonia prima della Seconda guerra, nel Ma-
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A SINGOLARE COINCIDENZA di calendario tra la festa della
natività di Gesù e la commemorazione del profeta
Muhammad dovrebbe scuoterci dal nostro
analfabetismo nel dialogo islamo-cristiano,
distoglierci dalle polemiche insensate sulla presenza
o meno del presepe nelle scuole e nei luoghi pubblici istituzionali
e spingerci alla pratica di quella “ospitalità culturale” di cui c’è
grande urgenza per una convivenza buona e intelligente.
Conoscere le feste dell’altro, il significato delle celebrazioni, la
reale portata delle tradizioni instauratesi nel corso dei secoli è il
passo più semplice e tra i più fecondi per scoprire l’universo
religioso di chi ci sta accanto e, al contempo, per riscoprire il
fondamento di ciò che noi stessi ricordiamo, sovente offuscato
dall’abitudine.
Dai primi secoli i cristiani fanno memoria della nascita di Gesù
Cristo a Betlemme di Giudea il 25 dicembre: una data scelta
perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il
“sole invitto”, il sole che in quel giorno terminava il suo
progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto
nel cielo, vincitore sulla tenebra che offusca la terra. Essendo
Gesù Cristo vero sole, luce del mondo, era naturale fare memoria
della sua nascita al solstizio d’inverno.
Per i musulmani invece la “commemorazione” (non la “festa”,
perché nel calendario islamico solo due sono le “feste”: Id al-Fitr
alla conclusione del mese di Ramadan, e Id al-Adha, la festa del
Sacrificio) della nascita del Profeta, nel dodicesimo giorno del
mese lunare di Rabi’ I che quest’anno cade appunto il 24
dicembre, risale a non prima del X secolo, con ispirazione alla
festa cristiana, e oggi è particolarmente sentita a livello popolare
e tra i bambini, sebbene sia contestata da alcuni che la giudicano
troppo modellata sul Natale cristiano.
Due feste differenti, dunque, senza possibili sincretismi né
simmetrie perché nella fede non si festeggia nulla insieme: ai
cristiani è chiesto rispetto per la commemorazione dei
musulmani, così come ai musulmani è chiesto rispetto per la
festa cristiana della nascita di colui che per loro è comunque
considerato un profeta, ma non colui che i cristiani confessano
quale loro Signore e loro Dio. Insieme si può solo celebrare la
gioia dell’altro e scambiarsi auguri di pace, e questo non è poco in
un’umanità tentata di smentire la fraternità e di far divampare
conflitti religiosi.
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rocco degli anni Cinquanta prima dell’esodo degli ebrei. Il buon santo è buono per
tutti. A Mea Sharim, il quartiere dei Chassidim di Gerusalemme, i nomi delle sinagoghe rievocano paludi bielorusse, pianure polacche, bianche colline ucraine.
È un mondo parallelo e invisibile che va
dall’Asia centrale all’America latina, dalle Russie al Medio Oriente. Il calendario
dei miei spostamenti tra Gibilterra e l’Afghanistan segue anniversari di nascita e
morte di uomini e profeti, pellegrinaggi e
sacrifici, lune, solstizi e stagioni che annodano il tempo: persiano, aramaico, arabo
o ebraico non importa, svela comunque
una trama di sorprendenti parallelismi.
Elia diventa tra i musulmani “Khidr il verde”; San Giorgio viene festeggiato nei Balcani da cristiani e musulmani; attorno alle
Madonne si radunano donne musulmane
e greco-ortodosse, di Napoli e di Istanbul.
Accade che a un certo punto sono le stesse immagini che vengono a cercarti. Svelano una continuità che abbiamo disimparato a osservare. Quello che faccio io è una cosa quasi infantile: raccolgo schegge di un
grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi,
forse mattoni della Torre di Babele, tessere di un mosaico che non sarà mai completo. Poi metto tutto nell’ordine che mi sembra giusto, o forse solo possibile.
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e lavoravo per una compagnia aerea, perciò non tornavo mai a casa in Alabama per Natale — a volte non avevo neppure il giorno libero. Mi mancava
il Natale a casa, pensavo. Ma in realtà quello che mi mancava
era un ricordoPer chi viene dal Sud, Natale a New York può essere una festa piuttosto malinconica, non perché lo scenario risulti straniante per chi è lontano da casa, al contrario, ma perché appare familiare: i newyorchesi in giro a fare shopping
mostrano la stessa ferrea determinazione degli abitanti del
Sud con i loro ritmi lenti; la banda dell’Esercito della Salvezza
e i canti natalizi sono uguali dappertutto; in quel periodo
dell’anno le strade di New York luccicano della stessa pioggerellina di campagna che impregna i campi invernali dell’Alabama.
Mi mancava il Natale a casa, pensavo. Ma in realtà quello che mi mancava era un ricordo,
un ricordo antico di persone scomparse da tempo, della casa dei nonni che traboccava di cugini, salsapariglia e agrifoglio. Mi mancava il suono degli stivali da caccia, delle folate improvvise di aria gelida quando si apriva la porta, che penetrava in mezzo all’aroma di aghi di
pino e salsa di ostrica. Mi mancava la maschera di rettitudine indossata da mio fratello la
notte della Vigilia e la voce grave da calabrone di mio padre che canticchiava +PZ5P5IF
8PSME.
A New York di solito passavo la giornata, o quello che ne restava, con i miei amici più cari,
a Manhattan. Erano una famiglia giovane e tendenzialmente agiata. Tendenzialmente perché il capo famiglia, per vivere, faceva il mestiere più precario, quello della scrittura. Era brillante, vivace: il suo unico difetto era una smodata passione per le freddure.
Aveva poi una caratteristica peculiare, non solo per uno scrittore, ma per un giovane con
famiglia a carico: c’era in lui un ottimismo impavido — non del genere “per riuscire basta volerlo” — ma quello di chi vede un obiettivo raggiungibile e non ha paura di assumersi dei rischi per perseguirlo. La sua temerarietà a volte lasciava gli amici a bocca aperta: nella sua situazione, chi mai si sarebbe avventurato a comprare una UPXOIPVTF (le tipiche villette a
schiera newyorchesi) a Manhattan? Ma la sua sagacia tattica assicurava il successo dell’impresa: quasi tutti i giovani certe cose si accontentano di sognarle, lui aveva reso il sogno una
realtà per la sua famiglia e appagato così il suo desiderio tribale di avere sotto i piedi un terreno di sua proprietà. Era venuto a New York dal Sud Ovest, e come tipico di quelli di laggiù
aveva trovato la ragazza più bella di tutto l’Est e se l’era sposata.
nel passato e che ogni anno viveva una vaDa questa eterea, femminilissima creatu- ga, sofferta risurrezione.
ra, erano nati due maschietti grandi e grosCi fu un Natale, però, che fu diverso dagli
si, che crescendo scoprirono che la loro fragi- altri. Ero stata fortunata. Avevo tutta la giorle madre possedeva un’energia che non era nata libera e avevo passato la Vigilia insieseconda a nessuno. La sua capacità di amare me a loro. Al mattino mi svegliai con una maera smisurata e passava ore in cucina a pro- nina che mi massaggiava la faccia. «Alzati»,
durre delizie scure e mielose per la sua fami- fu tutto quello che ebbe il tempo di dire il
glia e gli amici.
suo proprietario. Scesi giù appena in tempo
Erano una bella coppia, floridi nella men- per vedere le facce dei bambini mentre conte e nel corpo, felici nella loro vita così attiva. templavano i razzi e l’equipaggiamento spaAd attirarmi a loro erano stati gli interessi ziale che gli aveva lasciato Babbo Natale.
comuni, oltre che l’affetto; e un flusso inces- All’inizio, le dita toccavano quasi timidasante di letture che ci scambiavamo: ci piace- mente quei giocattoli. Quando l’ispezione fu
vano gli stessi spettacoli teatrali, gli stessi completata, i due maschietti trascinarono
film, la stessa musica; ridevamo delle stesse tutto al centro del salotto.
cose, e ridevamo tantissimo a quei tempi.
Fu una bolgia, finché non scoprirono che
I nostri Natali insieme erano semplici. Li- c’erano altri regali. Mentre il papà cominciamitavamo i regali a idee argute da quattro va a distribuirli, io ridacchiavo dentro di me
soldi, con una competizione spietata per chi chiedendomi come sarebbero stati accolti
riusciva a trovare il dono più originale spen- quest’anno le primizie che ero riuscita a scodendo meno. Il vero Natale era per i bambi- vare con somma abilità. Per lui un ritratto di
ni, concetto che trovavo assolutamente sen- Sydney Smith che avevo trovato per 35 censato — da tempo avevo smesso di arrovellar- tesimi; per lei l’opera completa di Margot
mi sul senso del Natale al di fuori del fatto Asquith, risultato di un anno di pazienti riche fosse una giornata per i bambini. Il Nata- cerche. I bambini non riuscivano a decidere
le, per me, era solo un ricordo di vecchi affet- quale pacchetto aprire per primo, e aspetti e stanze vuote, qualcosa che avevo sepolto tando mi accorsi che mentre accanto alla seIVERSI ANNI FA VIVEVO A NEW YORK
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%0.&/*$" %*$&.#3& dia della mamma si stava accumulando una
piccola pila di regali, io non ne avevo ricevuto neanche uno. La mia delusione cresceva
costantemente, cercavo di non darlo a vedere.
Se la presero comoda. Alla fine lei disse:
«Non ci siamo dimenticati di te. Guarda
sull’albero».
Sull’albero c’era una busta, con su il mio
nome. La aprii e lessi: «Hai un anno di vacanza dal tuo lavoro per scrivere quello che ti
va. Buon Natale».
«Che significa?», chiesi io.
«Quello che c’è scritto», mi risposero.
Mi assicurarono che non era uno scherzo.
Avevano avuto un’annata buona, dissero.
Avevano risparmiato un po’ di soldi e pensavano che fosse venuto il momento di fare
qualcosa per me.
«Che volete dire con fare qualcosa per
me?».
A dire la verità, se proprio volevo saperlo,
pensavano che avessi un grande talento e…
«Che cosa ve lo fa pensare?».
Era evidente per chiunque mi conoscesse, mi dissero, se solo ci si soffermava a guardare. Volevano mostrarmi la fiducia che avevano in me nel modo migliore che conoscevano. Se sarei mai riuscita a vendere una sola riga per loro era irrilevante. Volevano offrirmi una possibilità vera, concreta di apprendere il mestiere, libera dai fastidi di un
lavoro a tempo pieno. Volevo accettare quel
regalo? Nessuna condizione. Mi pregavano
di accettarlo, con tutto il loro affetto.
Mi ci volle un po’ per ritrovare la voce.
Quando riuscii a parlare, chiesi se non fossero usciti di senno. Come potevano pensare
che potesse venirne fuori qualcosa? Non avevano tutti quei soldi da buttar via. Un anno
era un mucchio di tempo. Che cosa avrebbero fatto se i bambini si fossero presi una terribile malattia? Via via che snocciolavo obiezioni, loro me le cassavano. «Siamo giovani», dissero. «Possiamo far fronte a qualunque cosa. Se dovesse succedere una catastrofe, puoi sempre trovarti un lavoro qualsiasi.
E va bene, consideralo un prestito se vuoi.
Vogliamo solo che tu accetti. Permettici di
credere in te. Devi farlo».
«È un azzardo colossale», mormorai io. «È
un rischio enorme».
Il mio amico si guardò attorno, nel salotto, con i suoi figli semisepolti sotto una pila
di carta regalo natalizia tutta luccicante. Gli
occhi gli sfavillavano quando incontrarono
quelli di sua moglie e si scambiarono uno
sguardo di insopportabile compiacimento.
Poi mi guardò e disse in tono suadente: «No,
tesoro. Non è un rischio. È una cosa sicura».
Fuori stava nevicando, evento inconsueto per un Natale newyorchese. Io andai alla
finestra, stordita per il miracolo di quella
giornata. Gli alberi di Natale erano sagome
indistinte sull’altro lato della strada e la luce
del camino faceva danzare le ombre dei
bambini sulla parete accanto a me. Una possibilità vera, concreta, per una nuova vita.
Una possibilità che mi veniva data non per
un atto di generosità, ma per un atto di amore. La nostra fede in te, non gli avevo sentito
dire altro. Avrei fatto del mio meglio per non
deluderli. La neve continuava a cadere sul
marciapiede sottostante. I tetti di arenaria
si stavano pian piano imbiancando. Le luci
lontane dei grattacieli brillavano come macchie gialle alla fine di una strada solitaria, e
mentre stavo alla finestra, guardando le luci
e la neve, il dolore dei vecchi ricordi mi lasciò per sempre.
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A RAGAZZA È MOLTO GIOVANE. Indossa un cap-
pello da SVEFCPZ come quello di Paul Simonon dei Clash nel video di -POEPO$BMMJOH e
dietro di lei, sulla sedia, si può vedere un
giubbotto di pelle con la scritta 8IJUF3JPU,
un’altra delle canzoni più famose della band
londinese. La ragazza prende quella che a
prima vista sembrerebbe una grossa radio e
dice, rivolta alla telecamera del suo smartphone: «Questo che sto per aprire è il nuovo
box set dei Clash, è stato disegnato da Paul
Simonon, il bassista del gruppo, si chiama
4PVOE4ZTUFN e assomiglia a una grossa radio stereo perché nei primi
anni ‘80 era molto DPPM portarsela in giro per far sentire a tutti che cosa ascoltavi: avevano un suono potente, si chiamavano CPPNCPY. Ma
questa non è una radio e dentro ci sono davvero un sacco di cose» .
Siamo su YouTube e quello a cui stiamo assistendo è un VOCPYJOH,
ovvero il video di un appassionato di musica che apre un CPY, un cofanetto, che contiene sicuramente dischi (in cd o in vinile) ma spesso
anche molto altro. Del box set dei Clash, non a caso considerato uno
dei migliori di tutti i tempi, Mick Jones, il chitarrista ha dichiarato:
«Volevamo semplicemente fare il miglior box set di sempre» . E probabilmente ci sono riusciti dal momento che è andato a ruba: la leggenda dei Clash si tramanda tra generazioni come testimonia la ragazza
del video su YouTube. Del resto il mercato della discografia ha ormai
due punti di riferimento fondamentali: da un lato la musica “liquida”
di Spotify, Deezer, Tidal (per citare solo i più noti), da ascoltare su
smartphone e computer, dall’altro, come perfetto contraltare, il sofisticato pubblico degli appassionati che della propria band di riferimento vuole sempre di più. Da qui il moltiplicarsi delle “special edition” e “deluxe edition” anche di dischi appena immessi sul mercato
(vedi il recente caso di Jovanotti commercializzato in versione singolo e doppio cd, triplo Lp in colorazione rossa e, solo attraverso Amazon, in tiratura limitata a duemila copie in colorazione verde, blu,
arancione).
Per chi vuole avere tutto dei propri artisti di riferimento ci sono i
box set: oggetti del desiderio che raccolgono intere discografie e anche molto di più. Non si tratta di un piccolo fenomeno e neppure relegato a un pubblico di quaranta-cinquantenni nostalgici. Anzi. In Italia
le vendite del vinile (fenomeno con cui il box set va a braccetto) sono
aumentate lo scorso anno dell’84 per cento (dati Fimi). E la conferma
che si tratti di un pubblico giovane viene dai dati di visione dei video
di VOCPYJOH, aumentati nel 2015 del 57 per cento(dati Google) e considerati anche dalle aziende uno dei nuovi fenomeni virali da tenere
d’occhio. Ma veniamo al cuore della questione: i contenuti. Dallo scrigno in legno pregiato e ad anta scorrevole che raccoglie per la prima
volta nel 1988 l’opera dei Beatles dal 1962 al 1970, fino allo splendido
4IJOF0Odei Pink Floyd pubblicato nel 1993 in occasione del venticinquesimo anniversario della band con sette album rieditati in un’elegantissima versione “all black” che, sistemati in un apposito contenitore accluso, compongono sul retro il celeberrimo prisma attraversa-
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to da un
raggio di luce
della copertina di
%BSL 4JEF 0G 5IF .PPO. Bonus: un cd digipack con i primi singoli, otto cartoline e un lussuoso volume di centododici pagine zeppo
di foto. Un vero manuale di cultura
pop è invece8FJSE5BMFT0G3BNPOFT:
copertina tridimensionale e appositi occhialini con fumetto stile sci-fi allegato. Mentre, sempre per restare
nel mondo della fantascienza, uno dei box più originali della storia è
#SBJO*O"#PY: ologramma tridimensionale di un cervello al centro di
un cubo in metallo in stile macchina-di-scienziato-pazzo con cinque cd
a base di UIFSFNJO e NPPH: colonne sonore dal miglior cinema di fantascienza vintage, da 'PSCJEEFO1MBOFU a -PTU*O4QBDF. Ovviamente ci
possono essere anche box set dannatamente seri, fondamentali per
tracciare il profilo di un’era, ad esempio la rigorosissima "OUIPMPHZ
0G"NFSJDBO'PML.VTJD pubblicata da Smithsonian Folkways Studio
e curata da Harry Smith, antropologo, mistico e collezionista di introvabili 78 giri: pubblicata la prima volta nel 1952 e rieditata nel 1997
in un box di sei cd, un libro con le note originali di Smith e saggi di critici come Greil Marcus, questa antologia influenzò migliaia di appassionati, studiosi, storici e, soprattutto, musicisti, da Bob Dylan a Joan
Baez a Jerry Garcia. E a proposito di influenze, vale la pena citare l’in-
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credibile lavoro di ricostruzione, album per album, di uno dei gruppi
più importanti della storia: i Velvet Underground (di cui Brian Eno disse: «Forse del loro primo disco vendettero poche migliaia di copie ma
tutti quelli che lo comprarono formarono una band»). Bonus tracks, live, vari livelli di evoluzione di brani importanti come 7FOVT*O'VST o
)FSPJO: tutto è stato ripubblicato in maniera accuratissima in una serie di box fondamentali. Un approccio filologico adottato anche da
Neil Young nella serie "SDIJWFT, il cui volume ha vinto un
Grammy per il “Miglior Box” nel 2009 in un profluvio di registrazioni
audio e video curato dall’artista e teso a ricostruire un periodo storico
ben preciso: «Ero stanco di CPPUMFHmal registrati» ha spiegato lo stesso Neil, talmente irritato da questa mancanza di rispetto che una volta entrò in un negozio e si presentò alla cassa con due suoi CPPUMFH dicendo: «Questi non li pago: è roba mia!». Infine, volendo concludere
nel totale delirio feticistico, non si possono non citare due opere del
“rumorista” giapponese Merzbow (il nome viene dagli assemblamenti materici dell’artista tedesco Kurt Schwitters): il fondamentale
.FS[CPY, ovvero un cofanetto di cinquanta cd di trapanante rumore
puro, condito ogni tanto da urla disumane dell’artista, più due cd
rom, poster, T-shirt e comoda valigetta per portarselo appresso. Se siete interessati ce ne sono al momento ancora due in vendita sul sito di
appassionati Discogs, a 444.35 euro. Ancora meglio, se preferite, la
Merzcar: una Mercedes Benz 230 alla cui accensione parte il capolavoro rumorista /PJTFNCSZP al massimo volume e impossibile da silenziare. Ne esisterebbe solo una. Ancora invenduta.
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REMI IL TASTO DEL TELEFONO e “Now on Tap”,
che da questa settimana è disponibile anche
da voi in Italia, analizza lo schermo e i contenuti che stai guardando e ti fornisce la risposta in base al contesto. Può anche essere una
frase generica, un nome di battesimo. Il sistema capisce di cosa stai parlando perché vede
quel che vedi, sa dove sei in quel momento.
Capisce cosa conta per te e quale è la risposta giusta da dare». E, aggiungiamo noi, sa
ovviamente che ora è, cos’hai in agenda, quali mail hai ricevuto, quali app hai istallato e
di conseguenza qual è il contesto esatto della domanda che stai ponendo.
La voce di Aparna Chennapragada, a capo del progetto Google Now, disegna con un sorriso il nostro futuro. E lascia intravedere quel che sarà dei motori di ricerca in tempi di
cloud, big data, apprendimento delle macchine e diffusione capillare degli smartphone. «Ogni giorno tre milioni e mezzo di persone comprano uno smartphone, parliamo quindi dell’intera popolazione di una città come Chicago, e lo scorso anno c’è
stato il sorpasso nel campo delle ricerche online fatte da dispositivi mobili rispetto a quelle provenienti dai pc. Fra cinque anni ci saranno cinque miliardi di persone sul web e la maggior parte ci entreranno da un telefono. Ma i motori di ricerca
tradizionali non sono stati pensati per la mobilità, né per cercare attraverso i contenuti delle app o ancora per farlo ricevendo comandi vocali. Si tratta di capire le
persone, le relazioni fra loro e fra le cose. In ultima analisi di capire il mondo».
Chennapragada ha quell’attitudine singolare che hanno buona parte dei dirigenti di gle introdusse cinquantasette diMontain View. Fede incrollabile nel progres- versi filtri, per personalizzare il riso e nessuna traccia di cinismo. Ma come sultato delle ricerche, usando segnali
sempre, soprattutto per chi viene da un pae- che andavano dal tipo di browser usato,
se come il nostro, si fa fatica a credere che sia al luogo di origine, alle ricerche fatte in pretutto lì, che quel che vedi e ascolti sia davve- cedenza. “Il più grosso cambiamento mai acro uno specchio d’acqua trasparente. Che caduto in questo settore”, scrisse quel giordietro non ci sia l’ombra di un colosso che, in- no Danny Sullivan, esperto di questo campo.
seguendo il profitto come qualsiasi multina- Aveva ragione, in parte. Era il passo decisivo
zionale, sa già tutto di noi e ora inizierà ad in- verso un web su misura, ma era un percorso
tuire quel che vogliamo da una mezza paro- iniziato da tempo. Nel 2004 era arrivato Goola. Benefici immediati e pericoli sottintesi.
gle Local, che aggiungeva i risultati riguarLa letteratura a sostegno della prima tesi danti la propria area, mappe incluse, e due
come della seconda è sterminata. Per averne anni dopo avevano iniziato a usare i primi filun’idea sfogliate le pagine luminose di 5IF tri.
/FX%JHJUBM"HF di Eric Schmidt, il presiden“Now On Tap” non funziona sempre come
te di Google, e dall’altro quelle cupe di 5IF'JM dovrebbe, ma è un segno della direzione preUFS#VCCMF di Eli Peliser. Perché di filtri in ef- sa. E basta ricordarsi che appena tre anni fa
fetti stiamo parlando. Meglio, della loro ulti- il riconoscimento vocale non riusciva a capima evoluzione. Il 4 dicembre del 2009 Goo- re nulla se si parlava in inglese con un forte
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accento straniero. Ora vi sa dire anche da dove venite, o quasi. Ma la cosa importante è
che la personalizzazione diventerà capacità
di predire quel che vogliamo, perché cercando quando siamo in movimento non sempre
abbiamo tempo o modo di farlo immettendo
tutte le parole chiave che vorremmo.
«Gli sviluppi possibili sono tanti», racconta Mike Krieger. Ventinove anni, brasiliano,
assieme a Kevin Systrom (che di anni ne ha
trentadue) ha fondato Instagram puntando
fin dall’inizio tutto sulla semplicità. «Immaginiamo di poter cercare le foto scattate nelle strade di Roma attorno a te. Oppure spingiamoci più avanti fino a eliminare completamente la richiesta da parte dell’utente. Se
sei lì, segui certi profili, ti piacciono certe immagini, saremo noi a suggerirti cosa guardare senza nemmeno che tu lo chieda. Ed è
qualcosa che è molto legato a Google Now».
Già. Google Now è una ricerca vocale avanzata, la più avanzata con ogni probabilità, Now
on Tap è la sua evoluzione. E sfrutta ovviamente il “deep learning”, l’apprendimento
delle macchine, quella nuova capacità dei
computer di riconoscere tanto un fonema
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quanto i margini di un oggetto in una foto imparando a distinguere e apprendendo dall’esperienza per riuscire a farlo sempre meglio.
Distinguere fra cose, concetti, parole, soggetti e soprattutto il contesto, è essenziale altrimenti non si può arrivare a comprendere
davvero quel che viene chiesto né a anticiparlo. «Io userei il termine di motori semantici»,
racconta Gianpiero Lotito, di FacilityLive,
startup italiana specializzata in motori di ricerca. «Non è un concetto nuovo. Tim Berners-Lee lo disse tanto tempo fa che il futuro
del web sarebbe stato semantico». Di qui un
sistema, quello di Lotito, che non funziona
per semplici parole chiave ma combina tre diversi parametri: i metadati dei contenuti disponibili online (se si tratta di testo o immagine ad esempio); gli attributi aggiunti da
chi quei dati li ha pubblicati (le cosiddette
tag che possono dire di cosa si sta parlando);
le parole chiave contenute nel testo. Il risultato, stando a Lotito, darebbe risposte intelligenti. «Se si digita “origine” e “tangentopoli”, come risposta si ricevono i testi dove ricorrono entrambe. Ma non compariranno mai
quei primi articoli che riguardavano la corru-
zione a Milano quando ancora il termine
“tangentopoli” non era stato coniato».
Ma c’è anche un’altra strada. È quella di
Renato Soru, fondatore di Tiscali. Il suo Istella, che è funzionante e disponibile online,
punta a fare qualcosa di diverso. Non competere tanto con Google o Bing di Microsoft sul
fronte dell’intelligenza artificiale, quanto su
un terreno dove entrambi sono piuttosto lacunosi. Quando si cerca con Google non si
sonda la Rete, ma l’indice che Google ha della Rete. Questo indice viene costantemente
aggiornato con l’invio di programmi, i cosiddetti “spider”, che analizzano le pagine web
e seguendo i link costruiscono una immagine di Internet, o quantomeno di una sua parte. «Ma tutto il resto è fuori», sottolinea Soru.
«Archivi, database, biblioteche... Il nostro
progetto è di avere un motore nazionale, come Baidu in Cina. E cominciamo proprio dagli archivi. Anche perché non si tratta più di
dare cento risposte possibili, ma di fornire
l’unica che davvero conta». Bisognerà ora vedere chi riuscirà a darla davvero quella risposta.
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o quello, pari non sono. Ogni
anno, a un passo
dal Natale, l’Italia
dei golosi si spacca
in due, divisa da un
derby
secolare,
all’ultimo morso.
Ghelfi e ghibellini
dell’arte dolciaria
difficilmente accettano compromessi, né commistioni. Ognuno rivendica per il proprio lievitato la corona di re delle feste, disdegnando il rivale. Le statistiche dicono che il panettone seduce soprattutto maschi e persone anziane, mentre donne e ragazzi preferiscono il
pandoro, secondo una parcellizzazione dei gusti
simile a quanto succede rispetto a vini (soprattutto rossi) e birre. La scelta sarebbe figlia di palati antropologicamente diversi. Da una parte,
l’approccio a un sapore più complesso, virile e legato alla memoria gustativa. Dall’altra, la suadenza burrosa e la consistenza aerea, più in linea
con la percezione femminile e giovanile del gusto. In realtà, prosperano le vendite di sofficissimi pandori destinati a omoni grandi e grossi, così come quelle di tosti panettoni sbranati da eteree signorine. Perché la guerra tra canditi e zucchero a velo deve fare i conti con milioni di cellule
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olfattive e gustative, assemblate in milioni di modi diversi, originali, irripetibili.
Il virtuoso decreto varato dieci anni fa ha
sgombrato il campo da una buona percentuale
di trucchi e scorciatoie, che riducevano i dolci natalizi a lievitati intrisi di chimica. Per chiamarli
panettone e pandoro, infatti, tanto l’industria
quanto gli artigiani devono usare farina di frumento, zucchero, uova categoria A, burro e lievito naturale, più i dettagli che fanno la differenza, ovvero uvetta e scorze candite per ilQBOEF
5POJ e vaniglia per ilQBOEFPSP. Restano — messi in fila nell’elenco degli ingredienti facoltativi
— emulsionanti, acido sorbico e sorbato di potassio, non proprio il massimo, utilizzati per allungare la conservabilità e (in certi casi) per mascherare la qualità non eccelsa delle materie prime. La legge, del resto, non va oltre le quantità
minime da assemblare, per cui gli impasti possono essere ricchi di burro o semi-dietetici — si fa
per dire — ridondanti d’uova o invece palliducci,
impreziositi da canditi fragranti e vaniglia di bacca oppure da scorzette rattrappite e vaniglia sintetica (vanillina).
Come sempre, a far la differenza, materie prime e sapienzialità. Non a caso, le classifiche sulle
migliori produzioni hanno cominciato a includere artigiani lontani dalle tradizioni geografiche
o dalle città sedi di pasticcerie storiche. Così, il salernitano Salvatore De Riso ha aperto la strada a
un gruppo di strepitosi pasticceri campani, con i
loro lievitati profumati di agrumi, mentre i migliori allievi del bresciano Iginio Massari, padre
nobile dell’arte bianca made in Italy, hanno stravolto gli standard delle rivendite nei piccoli centri di Lombardia e Veneto, terre madri di panettone e pandoro, andando a cercare gli ingredienti tra caseifici di montagna e mulini biologici.
Che siate irriducibili nel rubare l’uvetta sultanina dalle porzioni altrui, o incapaci di resistere
alla tentazione di affondare i denti in una fetta di
pandoro, non fermatevi al primo lievitato. Mai
derby fu più dolce di quello tra un panettone e
un pandoro fatti come il dio dei dolci comanda.
Assaggiate e che vinca il migliore, con un bicchiere di setoso demi-sec ËDPUÏ.
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INGREDIENTI:
250 G. DI PANETTONE E PANDORO RAFFERMI; 500 G. DI LATTE; 2 UOVA
500 G. DI MELE; 120 G. DI ZUCCHERO GREZZO DI CANNA
80 G. DI BURRO FUSO; 130 G. DI FARINA 00; 40 G. DI FARINA FIORETTO
1 BUSTINA DI LIEVITO; ½ BACCA DI VANIGLIA; 30 G. DI CEDRO CANDITO
½ BICCHIERINO DI MARSALA; BUCCIA DI ARANCIA E LIMONE
.
ettere in ammollo nel latte la sera panettone e pandoro a
pezzi. La mattina, strizzare, aggiungete le mele a pezzi,
lo zucchero, le uova, il burro e amalgamare, prima di aggiungere tutti gli altri ingredienti.
Infornare un’ora a 170° (forno statico).
PER LA CREMA AL MASCARPONE:
100 G. DI MASCARPONE; 20 G. DI CAFFÈ
20 G. DI PANNA LIQUIDA; 30 G. DI ZUCCHERO A VELO
In una ciotola ammorbidire il mascarpone con il caffè preparato
con la moka. Aggiungere lo zucchero a velo mescolando con cura,
unire poi la panna liquida fino a quando non si è raggiunta la consistenza desiderata. Servire insieme alla pinza dell’anno nuovo ancora tiepida.
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INGREDIENTI:
720 G. DI PANDORO AVANZATO TAGLIATO A PEZZETTI
800 G. DI PANNA; 1 L. DI LATTE
1 E 1/2 BACCHE DI VANIGLIA
250 G. DI TUORLI; 150 G. DI ZUCCHERO
4 G. DI GELATINA IN FOGLI
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.
ettere il pandoro in forno 40’ a 100°, polverizzandone un
poco. Scaldare latte, vaniglia e panna, poi i tuorli sbattuti
con lo zucchero. Cuocere a 81°. Aggiungere il pandoro, la
gelatina ammollata e frullare tutto. Raffreddare il composto e
riempire un sifone da 500 grammi, inserendo tre cariche.
PER LO ZABAIONE AL VIN SANTO:
400 G. DI LATTE; 80 G. DI TUORLI; 10 G. DI FARINA; 120 G. DI VIN SANTO
4 G. DI GELATINA IN FOGLI; 50 G. DI ALBUMI MONTATI; 100 G. DI ZUCCHERO
Cuocere latte, tuorli, farina e gelatina. Aggiungere il vin santo. Preparare uno sciroppo di acqua e zucchero a 121° e colare sugli albumi, mescolando poi alla crema. Raffreddare. Stendere in una fondina. Sopra,
la spuma avvolta nella polvere di pandoro. A lato, spicchi di mandarino pelati e marinati nella menta.
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NOSTRI NONNI hanno cominciato a
condannare la mancanza di
rispetto delle tradizioni dolciarie a
metà anni Ottanta, quando in tv
comparve un nero con accento
francese: per accumulo di cliché, lo spot
del Tartufone sembra scritto
da un prozio di Salvini; quanto al
prodotto, era una ciambella
con crema di cioccolato di forma
bombata. Cominciò allora la deriva
del dolce con ogni variazione
d’ingredienti, ma invariabilmente
chiamato “panettone”. Il pandoro,
intanto, restava immutato, con la sua
misera bustina di zucchero a velo nella
confezione.
I nostri genitori hanno cominciato a
scandalizzarsi quando le aziende
produttrici — preso atto che i canditi
venivano scartati, come la fettina di
cetriolo dal cheeseburger, dalla totalità
della popolazione — si sono messe a
produrre panettoni con sola uvetta.
Conosco una milanese, odiatrice di
canditi, troppo rispettosa della ricetta
tradizionale per comprare la variazione:
continua a scartarli uno per uno, come
nel Novecento. Il pandoro, intanto,
continua a essere uguale a se stesso.
Non è una metafora politica, ma
potrebbe: può mai l’immobilismo
vincere rispetto all’aggiornarsi
secondo le sensibilità correnti?
Sì, d’accordo, il pandoro puoi
pucciarlo nello zabaione, ma
che dolce è un dolce che ha
bisogno d’altri dolci per
assumere un’identità? È
come dire che è un dessert
la base di pasta frolla. Non
ci sarebbe metafora
politica, ma chi ce la vuole
mettere a tutti i costi dice
che vanno schierati per
origine geografica: che il
pandoro è di destra, perché i
veneti, si sa, hanno quel
problema; e il panettone di sinistra,
perché le metafore si fanno con
memoria da pesci rossi e la convinzione
che Milano sia sempre stata un baluardo
di sinistra. Però l’altro giorno, in un
ristorante fighetto milanese, lo chef mi
ha spiegato che quest’anno il loro
panettone viene dalla Campania, perché
scelgono sempre il migliore: l’anno
scorso era pugliese. E non è una
metafora del declino della gloria di
Vendola, lo giuro.
Ammettere che i dolci tradizionali
non sono all’altezza della pasticceria
contemporanea è pochissimo natalizio,
quindi quello stesso chef mi ha poi
offerto un panettone zucca e caffè —
cioè una cosa che era tutt’altro, ma che è
sembrato a entrambi nataliziamente
corretto chiamare “panettone”. Non è
una metafora partitica, ma ho
l’impressione che questo trucco di
cambiare la sostanza tenendo lo stesso
nome si venda meglio del meccanismo
inverso.
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È forse l’unico tra gli attori di successo a non avere né un agente
né un addetto stampa e a presentarsi ai festival da solo. Non ha
neppure il cellulare, e non usa la email: “Non è un problema mio,
semmai di chi mi cerca, e comunque qualcuno che mi trova alla fine c’è sempre”. Ora “Murricane” (questo il soprannome che gli
hanno affibbiato per via del suo caratterino) si trasforma in Babbo Natale per la regia, per la seconda volta dopo “Lost in Translation”, della Coppola: “Pensavo ma, però, premette: «Non so se sono stato soltanto un comico oppure un vero attoQuello che so è che se non fossi entrato nel mondo dello spettacolo oggi sarei
professionista dello sport, forse un grande campione di baseball. Ma a pensarche Sofia fosse soltanto una fi- re.unci meglio
la verità è che non so neppure beneDIJ veramente sono: diciamo che
quando recito e interpreto un ruolo sono una persona migliore che nella vita».
Con un’ottantina di titoli alle spalle, Murray di ruoli ne ha interpretati tanti e
glia di papà. E invece no. Quan- diversi
da quando a venticinque anni — è nato a Chicago nel 1950 — conquista la
prima popolarità nel4BUVSEBZ/JHIU-JWF imponendo la sua comicità stralunata,
surreale. Nel ‘79 raggiunge il successo sul grande schermo con una comto a ‘Murray Christmas’ è un caustica,
media del genere scolastico, 1PMQFUUF, diretto da Ivan Reitman, lo stesso regista
che nel 1984 lo guiderà in (IPTUCVTUFST"DDIJBQQBGBOUBTNJ, il film che consacra il suo talento comico a livello internazionale. Inizia lì a interpretare una lunga
musical. Canto con George Cloo- serie di personaggi sarcastici, svitati, politicamente scorretti, arroganti, come in
-PTCJSSPJMCPTTFMBCJPOEBdel 1993, che entusiasmò il pubblico americano, e
solo, per il rovesciamento dei ruoli: il duro Robert De Niro che fa il poliziotto
ney. Lui è bravissimo. E io pure” non
timido, mentre a Murray vengono messi i panni del boss prepotente ( la bionda è
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UANDO BILL MURRAY sorride si
crea subito un’atmosfera di festa». Ha detto proprio così Naomi Watts dopo aver lavorato
con lui in 4U7JODFOU, un film
dell’anno scorso distribuito da
Netflix. Magari una festa a sorpresa, perché in realtà Bill Murray non è certo un uomo che
sorride spesso mentre è piuttosto famoso per i suoi repentini
cambi di umore. Può passare
dalla cordialità più amichevole all’ostinata chiusura in silenzi scontrosi, ragione
per cui nell’ambiente è per tutti “Murricane”, soprannome affibbiatogli da Dan
Aykroyd, il collega “acchiappafantasmi”. Non a caso Murray è uno dei pochissimi, se non l’unico tra gli attori di successo, a non avere né un agente né
un ufficio stampa, e sui set o ai festival arriva da solo e senza il consueto stuolo di assistenti. Il fatto poi che non abbia un cellulare e non usi
mai le email rende ancora più difficile il contatto. «Ma questo non è
un mio problema, è un problema per chi mi cerca, del resto c’è sempre qualcuno che mi trova» dice lui con il più accattivante dei sorri-
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Fortunatamente al Festival di Marrakech, quindicesima edizione, è emerso il lato buono della sua complessa
personalità. Fin dalla prima sera, quando Sofia Coppola, la regista di -PTUJO5SBOTMBUJPO che nel 2004 gli portò la candidatura all’Oscar, gli ha consegnato il premio
alla carriera: «Ho sempre rifiutato questo genere di riconoscimenti che suggeriscono una fine. Se accetto, e
con gioia, è perché il mio cuore è pesante per quanto accaduto a Parigi, pesante per quanto accaduto a San Bernardino e perché questo premio mi viene dato qui, in questa
parte di mondo».
La buona disponibilità d’animo resiste anche nelle ore
successive. Bill Murray parla, e lo fa persino volentieri. Pri-
Uma Thurman).
Intanto la vita privata avanza nel segno dell’irrequietezza. Due matrimoni,
due divorzi, due figli dal primo matrimonio, quattro dal secondo: «Non ho mai saputo conciliare il lavoro con la vita famigliare. Ho sempre in mente il proposito di
fermarmi e occuparmi di figli e di nipoti, ma continuo a rinviare». Del resto, verso
la fine degli anni Novanta, si fa irrequieta anche la carriera. Comincia una nuova
fase in cui interpreta personaggi malinconici, irrisolti, solitari, talvolta depressi,
come ne*5FOFOCBVN(2002) di Wes Anderson, storia di una famiglia sgangherata che non trova pace; o come in #SPLFO'MPXFST(2005) di Jim Jarmusch in cui
Murray è un maturo, tragicomico ex dongiovanni che parte alla ricerca di un figlio segreto e delle donne che ha incontrato nella vita. Ma ovviamente l’esempio
più noto e fortunato è il maturo divo di Hollywood sbarcato in Giappone di -PTUJO
5SBTMBUJPO (2003): «E pensare che ero molto diffidente nei confronti di Sofia Coppola, pensavo fosse solo la-figlia-di. Poi ho letto la sceneggiatura e non ho esitato
ad accettare il film», ricorda Murray che ha inserito la Coppola tra il gruppetto di
quelli che considera «i registi e gli amici della vita», con — appunto — Reitman,
Jarmusch e Anderson.
Con la regista è tornato a lavorare adesso in ".VSSBZ$ISJTUNBT, un musical
prodotto da Netflix: «In parte recito me stesso, ma soprattutto ballo e canto con
grandi ospiti, come Chris Rock, Jason Schwartzman, George Clooney. Con George cantiamo in duetto un paio di canzoni natalizie. Devo dire che lui è bravissimo.
E ho scoperto di essere bravo anch’io. Pensare che da giovane, prima di fare il cinema, quando cantavo in un gruppo rock, ero pessimo, ancora oggi non so com’è
che non mi abbiano mai buttato giù dal palco. Ora sento di avere una bella voce.
Forse l’ho affinata dando la parola a un mucchio di animali nei film di animazione» riflette pensando a (BSGJFME (2004) e a 'BOUBTUJD.S'PY (2009)di cui ancora con Wes Anderson sta preparando il sequel.
Un altro suo film, 3PDLUIF$BTCBI, di Barry Levinson, è uscito nei giorni drammatici degli attentati di Parigi e non ha avuto l’attenzione che forse meritava.
Qui Murray interpreta un manager alla deriva che si redime in Afghanistan sal-
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vando la vita di una ragazza dotata di un grande talento musicale. «Ma non è il ritratto del bravo americano, è una storia contro le guerre. Il mio personaggio non
è un eroe, è solo un uomo che trova un ultimo guizzo di coraggio. Quando ero giovane l’immagine dell’eroe americano era chiara, era colui che andava a combattere contro le tirannie e le ingiustizie del mondo. Dopo la Corea, dopo il Vietnam, dopo l’Iraq questa immagine si è annebbiata. Oggi moltissimi americani non capiscono affatto che cosa stia accadendo. Pensi a quanto è successo a San Bernardino: sono state uccise persone dedite alla cura del prossimo, gente straordinaria, rara, che non cresce sugli alberi. Per quanto mi
riguarda, su queste faccende io non condivido tutto quello che faccio io, figuriamoci se condivido tutto quello che fa l’America. Tutti i paesi commettono errori, e tanto più risaltano se sono commessi da una grande potenza.
Ma se c’è una cosa che proprio non sopporto è quando si dice che è stata l’America a creare il terrorismo. Questo no, non lo accetto. Dopodicché, cosa vuole, alla fin fine io faccio l’attore, mica sono un veicolo di pace». Eppure un segno di pace in fondo lo è anche la sua presenza in Marocco. «Sono sincero. In tanti mi hanno sconsigliato,
ma io non voglio e non posso vivere nella paura. La paura è la negazione della vita. Curiosamente proprio in tempi come questi i nostri vecchi(IPTUCVTUFST (l’anno prossimo arriverà la puntata numero tre, regia di Paul Fey) stanno diventando una metafora: alla fine dei conti combattono contro chi vuole distruggere New
York».
Il nostro incontro sta per concludersi e Murray appare incredibilmente ancora di buon umore. Accenna persino ai progetti-per-il-futuro: «Sto cercando una storia per tornare alla regia,
mi piacerebbe ripetere l’esperienza di venticinque anni fa quando ho diretto 2VJDL. Ma forse voglio fare troppo. E forse dovrei
smetterla una dannata volta di rinviare il progetto di dedicare tempo alla famiglia».
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