Letteratura tedesca B_2013_2014_Materiale didattico

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Letteratura tedesca B_2013_2014_Materiale didattico
Letteratura tedesca B
L'età del moderno:
Itinerari storico-letterari attraverso Vienna,
Berlino e Praga del primo Novecento
Prof. Raul Calzoni
Anno Accademico 2013/2014
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VIENNA
Stefan Zweig: Die Welt von gestern. Erinnerungen eines Europäers (1944)
Si viveva bene, si viveva con facilità e spensieratezza in quella vecchia Vienna e i tedeschi del nord
guardavano noi vicini del Danubio con un poco d'irritazione e di disprezzo, perché invece di essere
«attivi» e di tenere un rigido ordine, godevamo la vita, mangiavamo bene, ci divertivamo a feste e
teatri e per di più facevamo ottima musica. Invece della famosa abilità ed attività tedesca, che ha
finito per amareggiare e per turbare l'esistenza di tutti gli altri paesi, invece di questa cupida smania
di sorpassare tutti gli' altri e di correre avanti, a Vienna si amavano le placide chiacchierate, i
comodi incontri, lasciando che ognuno vivesse a modo suo, con indulgenza bonaria e forse un po'
pigra. «Vivere e lasciar vivere» era il celebre motto viennese, una massima che ancor oggi mi
sembra più umana di tutti gli imperativi categorici e che si diffuse irresistibilmente in tutti gli
ambienti. Poveri e ricchi, slavi e tedeschi, ebrei e cristiani vivevano insieme, pur punzecchiandosi
all'occasione, in buona pace e persino i movimenti politici e sociali eran privi di quell'animosità
crudele che è penetrata nella circolazione sanguigna del mondo come un sedimento velenoso
rimasto dalla prima guerra mondiale.
Nella vecchia Austria ci si combatteva ancora cavallerescamente, ci si insultava nei giornali o alla
Camera, ma dopo le concioni ciceroniane gli stessi deputati sedevano in compagnia bevendo la
birra o il caffè e dandosi del tu. Persino quando Lueger, capo del partito antisemita, divenne
borgomastro di Vienna, nulla si mutò nei rapporti privati e io personalmente debbo dichiarare di
non avere mai come ebreo incontrato il più piccolo ostacolo o segno di dispregio, né nella scuola né
all'università né nella mia vita letteraria. L'odio da paese a paese, da popolo a popolo, da tavola a
tavola non balzava fuori ogni giorno da ogni giornale, non staccava uomo da uomo e nazione da
nazione. Il senso di massa e di gregge non aveva raggiunto nella vita pubblica la repugnante
potenza che ha oggi; la libertà dell'agire privato era considerata - cosa oggi appena concepibile legittima e sottintesa, la tolleranza non veniva come oggi disprezzata, e ritenuta debolezza, ma
esaltata quale energia morale.
Non fu un secolo di passione quello in cui io nacqui e fui educato. Era un mondo ordinato, con
chiare stratificazioni e comodi passaggi, era un mondo senza fretta. Il ritmo della nuova velocità
non si era ancora propagato dalle macchine, dall'automobile, dal telefono, dalla radio e
dall'aeroplano sino all'uomo: il tempo e l'età avevano altre misure. Si viveva più comodamente e se
io tento di rievocare nella loro precisa immagine le figure degli adulti che circondarono la mia
infanzia, constato con stupore che moltissimi fra di essi erano precocemente corpulenti. Mio padre,
gli zii, i maestri, i commessi dei negozi, i suonatori d'orchestra, tutti a quarant'anni erano uomini già
piuttosto pingui e dignitosi. Camminavano lenti, parlavano pacati e discutendo si accarezzavano le
barbe ben curate e spesso già volte al grigio. I capelli grigi del resto erano un segno di dignità ed un
uomo «posato» evitava di proposito, come sconvenienti, i gesti e la baldanza della gioventù. Anche
nella più remota infanzia, quando mio padre non aveva ancora quarant'anni, non posso
rammentarmi di averlo mai visto correre frettoloso su e giù per una scala o comunque far qualcosa
con visibile fretta. La fretta non solo era considerata inelegante, ma era in realtà superflua, giacché
in quel saldo mondo borghese, con le sue innumerevoli cautele e previdenze, non accadeva mai
nulla di improvviso e se catastrofi si verificavano lontano, alla periferia del mondo, nulla penetrava
attraverso la parete ben imbottita della vita «sicura». La guerra contro i Boeri, quella russogiapponese, persino quella balcanica, non scalfirono neppure l'esistenza dei miei genitori. Questi
saltavano le notizie di battaglie nel giornale con la stessa indifferenza con cui non leggevano la
rubrica sportiva. Che cosa in fondo importava a loro di quel che accadeva fuor dell'Austria? Quali
mutamenti ne derivavano alla loro vita? Nella loro Austria durante quell'epoca di bonaccia non vi
furono colpi di Stato né improvvisi sbalzi di valori; se le azioni perdevano in borsa quattro o cinque
punti, si parlava già di un crac e si aggrottava la fronte sulla «catastrofe». Ci si lagnava più per
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consuetudine che per convinzione delle forti tasse, che in realtà, paragonate a quelle del dopoguerra,
non eran che una specie di piccola mancia allo Stato. Si stabiliva nei testamenti con la massima
precisione il modo di proteggere nipoti e pronipoti da ogni perdita finanziaria, come se la sicurezza
fosse garantita con una invisibile cambiale dalle potenze eterne e nel frattempo si viveva a proprio
agio, accarezzando le piccole preoccupazioni come bravi e docili animali domestici che in fondo
non fanno paura. Debbo sempre involontariamente ridere quando il caso mi mette tra mano un
vecchio giornale di quei tempi e io leggo gli articoli eccitati a proposito di una elezione al consiglio
comunale, oppure se cerco di ricostruire nel ricordo i drammi del Burgtheater con i loro minuscoli
problemi o se ripenso all'ardore sproporzionato delle nostre discussioni giovanili su argomenti in
fondo senza importanza. Come erano lillipuziane le nostre cure, che bonaccia regnava in quel
tempo. Ha avuto fortuna la generazione dei miei genitori e dei miei nonni, ha vissuto la propria vita
da cima a fondo tranquilla, diritta e limpida, ma non so tuttavia se di ciò li invidio. Essi infatti
hanno vissuto al di là di ogni vera amarezza, delle perfidie e delle forze del destino, son passati
quasi dormendo accanto a quelle crisi e a quei problemi che torturano, ma insieme grandiosamente
allargano il cuore. Hanno ignorato, adagiati nella sicurezza, nell'agiatezza e nella comodità, che la
vita può essere anche eccesso e tensione, eterna sorpresa e sconvolgimento; essi nel loro
commovente liberalismo e ottimismo non intuirono mai che ogni giorno che albeggia alla finestra
può sconvolgere la nostra vita. Anche nelle notti più nere non concepirono mai sino a qual punto
l'uomo possa divenir pericoloso, ma neppure quanta forza sia in lui per superare pericoli e prove.
Noi, trascinati dalle cateratte della vita, divelti da ogni vincolo di fraternità, noi che dobbiamo
ricominciare appena sospinti verso una fine, noi vittime e insieme servitori volonterosi di ignote
forze mistiche, noi per cui ogni serenità è leggenda e ogni sicurezza sogno puerile, noi abbiamo
sentito in ogni fibra del nostro corpo la tensione da un polo all'altro e il brivido dell'eterno
rinnovamento. Ogni ora di questi nostri anni fu legata alla sorte del mondo. Con dolore e con gioia
abbiamo vissuto il tempo e la storia al di là della nostra piccola esistenza personale, mentre quei
vecchi erano limite a se tessi. Per questo ognuno di noi, anche il più modesto della generazione,
conosce la realtà mille volte meglio che i più saggi fra i nostri progenitori. Nulla però ci fu donato;
ne abbiamo dovuto pagare l'intero prezzo.
(S. Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano, Mondadori, 1994, pp. 26-27)
Impero austriaco e Regno d’Ungheria dopo il 1867 (Ausgleich)
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Hermann Broch, Hofmannsthal und seine Zeit (1947-48)
In tutto ciò vi era anche molta saggezza (cordialità e saggezza fioriscono sempre l'una accanto
all'altra), la saggezza di un'anima che presagisce la caduta e l'accetta. Era una saggezza da operetta,
però, e sotto l'ombra della caduta incombente essa divenne a poco a poco sempre più spettrale
portando appunto alla gaia apocalisse di Vienna.
Il fenomeno della copertura della miseria con una vernice di ricchezza si presentò a Vienna, specie
durante la sua ultima spettrale fioritura, con maggiore chiarezza che in qualsiasi altro luogo e in
qualsiasi altro momento. Un minimo di valori etici doveva essere ricoperto con un massimo di
valori estetici, i quali non erano più e non potevano più essere tali perché un valore estetico che non
si sviluppi su una base etica è esattamente il proprio contrario e cioè artificio, paccottiglia,
sofisticazione: in una parola Kitsch. Come capitale del Kitsch, Vienna divenne anche la capitale del
vuoto-di-valori dell'epoca.
(H. Broch, Hofmannsthal e il suo tempo, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 93-94)
Hugo von Hofmannsthal,
E neppure posso definire in altro modo che assai congruente, molto giusto, il fatto che le teorie del
dottor Freud si siano fatte strada nel mondo a partire da qui - proprio come le melodie leggere, un
po' banali, ma duttili e accattivanti, delle operette, con cui esse hanno così poco in comune. Vienna
è la città della musica europea: essa è la porta Orientis anche per quel misterioso Oriente che è il
regno dell'inconscio.
Le interpretazioni e le ipotesi del dottor Freud sono le escursioni di un consapevole spirito del
tempo verso i lidi di quel regno. [...]
La forza interiore che possiamo chiamare genius loci è attiva in molteplici modi ed è avvincente
ricollegare l'uno all'altro i suoi vari modi di esprimersi.
(H. von Hofmannsthal, L’Austria e l’Europa: saggi 1914-1928, Marietti, Casale
Monferrato 1983, 92-93).
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Stefan Zweig (1881-1942)
Hugo von Hofmannsthal
(1874-1929
Hermann Broch (1886-1951)
Hermann Bahr (1863-1934)
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Ringstraße (inaugurazione: 1 maggio 1865)
1- Alte Börse
(Vecchia borsa)
Schottenring 16
La borsa di Vienna che esiste dal 1771 si
trasferì in questo edificio classicista nel 1877.
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2 - Votivkirche
Rooseveltplatz
Dopo il fallito attentato all'imperatore
Francesco Giuseppe nel 1853, suo fratello
Massimiliano fece costruire questa chiesa in
segno di ringraziamento.
3 - Universität
Dr.-Karl-Lueger-Ring 1
L'università di Vienna fu fondata nel 1365 e
ospita oggi circa 60.000 studenti. L'edificio
principale in stile rinascimentale fu inaugurata
nel 1884.
4 - Neues Rathaus
(Nuovo Municipio)
Rathausplatz
L'edificio in stile neogotico con più di 1.500
sale interne fu terminato nel 1883. Nella
piazza davanti al municipio ci sono spesso
degli spettacoli e altri eventi, come per
esempio il mercatino di Natale. Di notte la sua
facciata è illuminata in modo spettacolare.
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5 - Burgtheater
Dr.-Karl-Lueger-Ring 2
L'attuale sede del Burgtheater (1874-1888) fu
costruito secondo il modello della
"Semperoper" di Dresda. Distrutto
completamente due mesi prima della fine della
seconda guerra mondiale fu ricostruito nel
1955.
6 - Parlament
Dr.-Karl-Renner-Ring
In questo edificio in stile greco-classico
(1873-1883) fu proclamata, nell'ottobre del
1918, la prima Repubblica austriaca.
7 - Naturhistorisches Museum
(Museo di Storia naturale)
Maria Theresien-Platz
I due musei "Naturhistorisches Museum" e
"Kunsthistorisches Museum" si trovano uno di
fronte all'altro e formano una copia molto
armoniosa. Questo museo, inaugurato nel
1889, ospita affascinanti collezioni di storia
naturale, geologia e archeologia.
8 - Kunsthistorisches Museum
(Museo di Storia dell'Arte)
Maria Theresien-Platz
Aperto nel 1891 il museo ospita tutti i tesori
artistici raccolti dagli Asburgo.
È tra i musei d'arte più importanti e belli del
mondo.
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9 - Neue Burg
(Residenza imperiale)
Heldenplatz
Questa sezione della "Hofburg" è forse
architettonicamente la più spettacolare della
sontuosa residenza imperiale di Vienna. Oggi
ospita vari musei e gli appartamrenti di Stato,
aperti al pubblico.
10 - Staatsoper
(Opera di Stato)
Opernring 2
Costruita 1861-1869, quasi completamente
distrutta durante la seconda guerra mondiale,
ricostruita nel 1955. Il più importante
appuntamento è il "Ballo dell'Opera", ogni
anno l'ultimo giovedì di Carnevale.
11 - Postsparkasse
(Cassa di risparmio delle Poste)
Georg-Coch-Platz 2
Il palazzo della Postsparkasse fu costruito tra
il 1904 e il 1912 su progetto di Otto Wagner,
uno dei maggiori architetti (stile liberty) del
primo Novecento. Anche gli interni,
l'arredamento e i mobili sono di Otto Wagner.
HANS MAKART (1840-1884)
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Palazzo della Secessione
Gustav Klimt, Manifesto per Ver sacrum, 1898
Fregio per il Palazzo Stoclet L'albero della vita 1905-1909
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Sigmund Freud (1856-1939)
Arthur Schnitzler (1862-1931)
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Arthur Schnitzler
Leutnant Gustl, 1900
»Pardon, pardon, wollen mich nicht hinauslassen?«...
Ist das ein Gedränge! Lassen wir die Leut' lieber vorbeipassieren... Elegante Person... ob das
echte Brillanten sind?... Die da ist nett... Wie sie mich anschaut!... O ja, mein Fräulein, ich möcht'
schon!... O, die Nase! – Jüdin... Noch eine... Es ist doch fabelhaft, da sind auch die Hälfte Juden...
nicht einmal ein Oratorium kann man mehr in Ruhe genießen... So, jetzt schließen wir uns an...
Warum drängt denn der Idiot hinter mir? Das werd' ich ihm abgewöhnen... Ah, ein älterer Herr!...
Wer grüßt mich denn dort von drüben?... Habe die Ehre, habe die Ehre! Keine Ahnung hab' ich, wer
das ist... Das Einfachste wär', ich ging gleich zum Leidinger hinüber nachtmahlen... oder soll ich in
die Gartenbaugesellschaft? Am End' ist die Steffi auch dort? Warum hat sie mir eigentlich nicht
geschrieben, wohin sie mit ihm geht? Sie wird's selber noch nicht gewußt haben. Eigentlich
schrecklich, so eine abhängige Existenz... Armes Ding! – So, da ist der Ausgang... Ah, die ist aber
bildschön! Ganz allein? Wie sie mich anlacht. Das wär' eine Idee, der geh' ich nach!... So, jetzt die
Treppen hinunter: Oh, ein Major von Fünfundneunzig... Sehr liebenswürdig hat er gedankt... Bin
doch nicht der einzige Offizier herin gewesen... Wo ist denn das hübsche Mädel? Ah, dort... am
Geländer steht sie... So, jetzt heißt's noch zur Garderobe.. Daß mir die Kleine nicht auskommt... Hat
ihm schon! So ein elender Fratz! Laßt sich da von einem Herrn abholen, und jetzt lacht sie noch auf
mich herüber! – Es ist doch keine was wert... Herrgott, ist das ein Gedränge bei der Garderobe!...
Warten wir lieber noch ein bisserl... So! Ob der Blödist meine Nummer nehmen möcht'?...
»Sie, zweihundertvierundzwanzig! Da hängt er! Na, hab'n Sie keine Augen? Da hängt er! Na,
Gott sei Dank!... Also bitte!«...
Der Dicke da verstellt einem schier die ganze Garderobe... »Bitte sehr!«...
»Geduld, Geduld!«
Was sagt der Kerl?
»Nur ein bisserl Geduld!«
Dem muß ich doch antworten... »Machen Sie doch Platz!«
»Na, Sie werden's auch nicht versäumen!«
Was sagt er da? Sagt er das zu mir? Das ist doch stark! Das kann ich mir nicht gefallen lassen!
»Ruhig!«
»Was meinen Sie?«
Ah, so ein Ton! Da hört sich doch alles auf!
»Stoßen Sie nicht!«
»Sie, halten Sie das Maul!« Das hätt' ich nicht sagen sollen, ich war zu grob... Na, jetzt ist's
schon g'scheh'n!
»Wie meinen?«
Jetzt dreht er sich um... Den kenn' ich ja! – Donnerwetter, das ist ja der Bäckermeister, der immer
ins Kaffeehaus kommt... Was macht denn der da? Hat sicher auch eine Tochter oder so was bei der
Singakademie... Ja, was ist denn das? Ja, was macht er denn? Mir scheint gar... Ja, meiner Seel', er
hat den Griff von meinem Säbel in der Hand... Ja, ist der Kerl verrückt?... »Sie, Herr...«
»Sie, Herr Leutnant, sein S' jetzt ganz stad.«
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Was sagt er da? Um Gottes willen, es hat's doch keiner gehört? Nein, er red't ganz leise... Ja,
warum laßt er denn meinen Säbel net aus?... Herrgott noch einmal... Ah, da heißt's rabiat sein... ich
bring' seine Hand vom Griff nicht weg... nur keinen Skandal jetzt!... Ist nicht am End' der Major
hinter mir?... Bemerkt's nur niemand, daß er den Griff von meinem Säbel hält? Er red't ja zu mir!
Was red't er denn?
»Herr Leutnant, wenn Sie das geringste Aufsehen machen, so zieh' ich den Säbel aus der
Scheide, zerbrech' ihn und schick' die Stück' an Ihr Regimentskommando. Versteh'n Sie mich, Sie
dummer Bub?«
Was hat er g'sagt? Mir scheint, ich träum'! Red't er wirklich zu mir? Ich sollt' was antworten...
Aber der Kerl macht ja Ernst – der zieht wirklich den Säbel heraus. Herrgott – er tut's!... Ich spür's,
er reißt schon d'ran! Was red't er denn?... Um Gottes willen, nur kein' Skandal – – Was red't er denn
noch immer?
»Aber ich will Ihnen die Karriere nicht verderben... Also, schön brav sein!... So, hab'n S' keine
Angst, 's hat niemand was gehört... es ist schon alles gut... so! Und damit keiner glaubt, daß wir uns
gestritten haben, werd' ich jetzt sehr freundlich mit Ihnen sein! – Habe die Ehre, Herr Leutnant, hat
mich sehr gefreut – habe die Ehre!«
Um Gottes willen, hab' ich geträumt? Hat er das wirklich gesagt?... Wo ist er denn?... Da geht er...
Ich müßt' ja den Säbel ziehen und ihn zusammenhauen – – Um Gottes willen, es hat's doch niemand
gehört?... Nein, er hat ja nur ganz leise geredet, mir ins Ohr... Warum geh' ich denn nicht hin und
hau' ihm den Schädel auseinander?... Nein, es geht ja nicht, es geht ja nicht... gleich hätt' ich's tun
müssen... Warum hab' ich's denn nicht gleich getan?... Ich hab's ja nicht können... er hat ja den Griff
nicht auslassen, und er ist zehnmal stärker als ich... Wenn ich noch ein Wort gesagt hätt', hätt' er mir
wirklich den Säbel zerbrochen... Ich muß ja noch froh sein, daß er nicht laut geredet hat! Wenn's ein
Mensch gehört hätt', so müßt' ich mich ja stante pede erschießen... Vielleicht ist es doch ein Traum
gewesen... Warum schaut mich denn der Herr dort an der Säule so an? – Hat der am End' was
gehört?... Ich werd' ihn fragen... Fragen? – Ich bin ja verrückt! – Wie schau' ich denn aus? – Merkt
man mir was an? – Ich muß ganz blaß sein. – Wo ist der Hund?... Ich muß ihn umbringen!... Fort ist
er... Überhaupt schon ganz leer... Wo ist denn mein Mantel?... Ich hab' ihn ja schon angezogen... Ich
hab's gar nicht gemerkt... Wer hat mir denn geholfen? Ah, der da... dem muß ich ein Sechserl
geben... So!... Aber was ist denn das? Ist es denn wirklich gescheh'n? Hat wirklich einer so zu mir
geredet? Hat mir wirklich einer »dummer Bub« gesagt? Und ich hab' ihn nicht auf der Stelle
zusammengehauen?... Aber ich hab' ja nicht können... er hat ja eine Faust gehabt wie Eisen... ich
bin ja dagestanden wie angenagelt... Nein, ich muß den Verstand verloren gehabt haben, sonst hätt'
ich mit der anderen Hand... Aber da hätt' er ja meinen Säbel herausgezogen und zerbrochen, und
aus wär's gewesen – Alles wär' aus gewesen! Und nachher, wie er fortgegangen ist, war's zu spät...
ich hab' ihm doch nicht den Säbel von hinten in den Leib rennen können...
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Stefan George
[Komm in den totgesagten park und
schau]
Komm in den totgesagten park und schau:
Der schimmer ferner lächelnder gestade ·
Der reinen wolken unverhofftes blau
Erhellt die weiher und die bunten pfade.
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Dort nimm das tiefe gelb · das weiche grau
Von birken und von buchs · der wind ist lau ·
Die späten rosen welkten noch nicht ganz ·
Erlese küsse sie und flicht den kranz ·
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Vergiss auch diese lezten astern nicht ·
Den purpur um die ranken wilder reben
Und auch was übrig blieb von grünem leben
Verwinde leicht im herbstlichen gesicht.
Entstehungsjahr: 1895
Erscheinungsjahr: 1982
Aus:
Das Jahr der Seele / Nach der Lese
Referenzausgabe:
Ohne Herausgeber: Stefan George. Sämtliche Werke in 18 Bänden, Bd. 4. Klett-Cotta, Stuttgart:
1982ff., S. 12.
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Hugo von Hofmannsthal
Über
Vergänglichkeit
Noch spür ich ihren Atem auf den Wangen:
Wie kann das sein, daß diese nahen Tage
Fort sind, für immer fort, und ganz vergangen?
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Dies ist ein Ding, das keiner voll aussinnt,
Und viel zu grauenvoll, als daß man klage:
Daß alles gleitet und vorüberrinnt.
Und daß mein eigenes Ich, durch nichts gehemmt,
Herüberglitt aus einem kleinen Kind,
Mir wie ein Hund unheimlich stumm und fremd.
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Dann: daß ich auch vor hundert Jahren war
Und meine Ahnen, die im Totenhemd,
Mit mir verwandt sind wie mein eigenes Haar,
So eins mit mir als wie mein eignes Haar.
Entstehungsjahr: 1894
Erscheinungsjahr: 1984
Referenzausgabe:
Eugene Weber (Bd. 1): Sämtliche Werke. Kritische Ausgabe, Bd. 1. S. Fischer Verlag, Frankfurt a.
Main: 1984, S. 45.
Bemerkungen
Erstdruck in »Blätter für die Kunst« im März 1896. In anderen Ausgaben gerne als Teil I des
Zyklus »Terzinen« bezeichnet
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Robert Musil
Die Verwirrungen des Zöglings Törleß, 1906
Eine kleine Station an der Strecke, welche nach Rußland führt.
Endlos gerade liefen vier parallele Eisenstränge nach beiden Seiten zwischen dem gelben Kies
des breiten Fahrdammes; neben jedem wie ein schmutziger Schatten der dunkle, von dem
Abdampfe in den Boden gebrannte Strich.
Hinter dem niederen, ölgestrichenen Stationsgebäude führte eine breite, ausgefahrene Straße
zur Bahnhofsrampe herauf. Ihre Ränder verloren sich in dem ringsum zertretenen Boden und waren
nur an zwei Reihen Akazienbäumen kenntlich, die traurig mit verdursteten, von Staub und Ruß
erdrosselten Blättern zu beiden Seiten standen.
Machten es diese traurigen Farben, machte es das bleiche, kraftlose, durch den Dunst ermüdete
Licht der Nachmittagssonne: Gegenstände und Menschen hatten etwas Gleichgültiges, Lebloses,
Mechanisches an sich, als seien sie aus der Szene eines Puppentheaters genommen. Von Zeit zu
Zeit, in gleichen Intervallen, trat der Bahnhofsvorstand aus seinem Amtszimmer heraus, sah mit der
gleichen Wendung des Kopfes die weite Strecke hinauf nach den Signalen der Wächterhäuschen,
die immer noch nicht das Nahen des Eilzuges anzeigen wollten, der an der Grenze große
Verspätung erlitten hatte; mit ein und derselben Bewegung des Armes zog er sodann seine
Taschenuhr hervor, schüttelte den Kopf und verschwand wieder; so wie die Figuren kommen und
gehen, die aus alten Turmuhren treten, wenn die Stunde voll ist.
Auf dem breiten, festgestampften Streifen zwischen Schienenstrang und Gebäude promenierte
eine heitere Gesellschaft junger Leute, links und rechts eines älteren Ehepaares schreitend, das den
Mittelpunkt der etwas lauten Unterhaltung bildete. Aber auch die Fröhlichkeit dieser Gruppe war
keine rechte; der Lärm des lustigen Lachens schien schon auf wenige Schritte zu verstummen,
gleichsam an einem zähen, unsichtbaren Widerstande zu Boden zu sinken.
Frau Hofrat Törleß, dies war die Dame von vielleicht vierzig Jahren, verbarg hinter ihrem
dichten Schleier traurige, vom Weinen ein wenig gerötete Augen. Es galt Abschied zu nehmen. Und
es fiel ihr schwer, ihr einziges
Kind nun wieder auf so lange Zeit unter fremden Leuten lassen zu müssen, ohne Möglichkeit,
selbst schützend über ihren Liebling zu wachen.
Denn die kleine Stadt lag weitab von der Residenz, im Osten des Reiches, in spärlich
besiedeltem, trockenem Ackerland.
Der Grund, dessentwegen Frau Törleß es dulden mußte, ihren Jungen in so ferner, unwirtlicher
Fremde zu wissen, war, daß sich in dieser Stadt ein berühmtes Konvikt befand, welches man schon
seit dem vorigen Jahrhunderte, wo es auf dem Boden einer frommen Stiftung errichtet worden war,
hier heraußen beließ, wohl um die aufwachsende Jugend vor den verderblichen Einflüssen einer
Großstadt zu bewahren.
Denn hier erhielten die Söhne der besten Familien des Landes ihre Ausbildung, um nach Verlassen
des Institutes die Hochschule zu beziehen oder in den Militär- oder Staatsdienst einzutreten und in
allen diesen Fällen, sowie für den Verkehr in den Kreisen der guten Gesellschaft galt es als
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besondere Empfehlung, im Konvikte zu W. aufgewachsen zu sein.
Vor vier Jahren hatte dies das Elternpaar Törleß bewogen, dem ehrgeizigen Drängen seines
Knaben nachzugeben und seine Aufnahme in das Institut zu erwirken.
Dieser Entschluß hatte später viele Tränen gekostet. Denn fast seit dem Augenblicke, da sich
das Tor des Institutes unwiderruflich hinter ihm geschlossen hatte, litt der kleine Törleß an
fürchterlichem, leidenschaftlichem Heimweh. Weder die Unterrichtsstunden noch die Spiele auf
den großen üppigen Wiesen des Parkes noch die anderen Zerstreuungen, die das Konvikt seinen
Zöglingen bot, vermochten ihn zu fesseln; er beteiligte sich kaum an ihnen. Er sah alles nur wie
durch einen Schleier hindurch und hatte selbst untertags häufig Mühe, ein hartnäckiges Schluchzen
hinabzuwürgen; des Abends schlief er aber stets unter Tränen ein.
Er schrieb Briefe nach Hause, beinahe täglich, und er lebte nur in diesen Briefen; alles andere,
was er tat, schien ihm nur ein schattenhaftes, bedeutungsloses Geschehen zu sein, gleichgültige
Stationen, wie die Stundenziffern eines Uhrblattes. Wenn er aber schrieb, fühlte er etwas
Auszeichnendes, Exklusives in sich; wie eine Insel voll wunderbarer Sonnen und Farben hob sich
etwas in ihm aus dem Meere grauer Empfindungen heraus, das ihn Tag um Tag
kalt und gleichgültig umdrängte. Und wenn er untertags, bei den Spielen oder im Unterrichte, daran
dachte, daß er abends seinen Brief schreiben werde, so war ihm, als trüge er an unsichtbarer Kette
einen goldenen Schlüssel verborgen, mit dem er, wenn es niemand sieht, das Tor von wunderbaren
Gärten öffnen werde.
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Robert Musil
Der Mann ohne Eigenschaften, 1930-1933
Erstes Buch - Kapitel 9
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Kakanien
In dem Alter, wo man noch alle Schneider- und Barbierangelegenheiten wichtig nimmt und
gerne in den Spiegel blickt, stellt man sich oft auch einen Ort vor, wo man sein Leben zubringen
möchte, oder wenigstens einen Ort, wo es Stil hat, zu verweilen, selbst wenn man fühlt, daß man für
seine Person nicht gerade gern dort wäre. Eine solche soziale Zwangsvorstellung ist nun schon seit
langem eine Art überamerikanische Stadt, wo alles mit der Stoppuhr in der Hand eilt oder stillsteht.
Luft und Erde bilden einen Ameisenbau, von den Stockwerken der Verkehrsstraßen durchzogen.
Luftzüge, Erdzüge, Untererdzüge, Rohrpostmenschensendungen, Kraftwagenketten rasen
horizontal, Schnellaufzüge pumpen vertikal Menschenmassen von einer Verkehrsebene in die
andre; man springt an den Knotenpunkten von einem Bewegungsapparat in den andern, wird von
deren Rhythmus, der zwischen zwei losdonnernden Geschwindigkeiten eine Synkope, eine Pause,
eine kleine Kluft von zwanzig Sekunden macht, ohne Überlegung angesaugt und hineingerissen,
spricht hastig in den Intervallen dieses allgemeinen Rhythmus miteinander ein paar Worte. Fragen
und Antworten klinken ineinander wie Maschinenglieder, jeder Mensch hat nur ganz bestimmte
Aufgaben, die Berufe sind an bestimmten Orten in Gruppen zusammengezogen, man ißt während
der Bewegung, die Vergnügungen sind in andern Stadtteilen zusammengezogen, und wieder
anderswo stehen die Türme, wo man Frau, Familie, Grammophon und Seele findet. Spannung und
Abspannung, Tätigkeit und Liebe werden zeitlich genau getrennt und nach gründlicher
Laboratoriumserfahrung ausgewogen. Stößt man bei irgendeiner dieser Tätigkeiten auf
Schwierigkeit, so läßt man die Sache einfach stehen; denn man findet eine andre Sache oder
gelegentlich einen besseren Weg, oder ein andrer findet den Weg, den man verfehlt hat; das schadet
gar nichts, während durch nichts so viel von der gemeinsamen Kraft verschleudert wird wie durch
die Anmaßung, daß man berufen sei, ein bestimmtes persönliches Ziel nicht locker zu lassen. In
einem von Kräften durchflossenen Gemeinwesen führt jeder Weg an ein gutes Ziel, wenn man nicht
zu lange zaudert und überlegt. Die Ziele sind kurz gesteckt; aber auch das Leben ist kurz, man
gewinnt ihm so ein Maximum des Erreichens ab, und mehr braucht der Mensch nicht zu seinem
Glück, denn was man erreicht, formt die Seele, während das, was man ohne Erfüllung will, sie nur
verbiegt; für das Glück kommt es sehr wenig auf das an, was man will, sondern nur darauf, daß man
es erreicht. Außerdem lehrt die Zoologie, daß aus einer Summe von reduzierten Individuen sehr
wohl ein geniales Ganzes bestehen kann.
Es ist gar nicht sicher, daß es so kommen muß, aber solche Vorstellungen gehören zu den
Reiseträumen, in denen sich das Gefühl der rastlosen Bewegung spiegelt, die uns mit sich führt. Sie
sind oberflächlich, unruhig und kurz. Weiß Gott, was wirklich werden wird. Man sollte meinen, daß
wir in jeder Minute den Anfang in der Hand haben und einen Plan für uns alle machen müßten.
Wenn uns die Sache mit den Geschwindigkeiten nicht gefällt, so machen wir doch eine andre! Zum
Beispiel eine ganz langsame, mit einem schleierig wallenden, meerschneckenhaft geheimnisvollen
Glück und dem tiefen Kuhblick, von dem schon die Griechen geschwärmt haben. Aber so ist es
ganz und gar nicht. Die Sache hat uns in der Hand. Man fährt Tag und Nacht in ihr und tut auch
noch alles andre darin; man rasiert sich, man ißt, man liebt, man liest Bücher, man übt seinen Beruf
aus, als ob die vier Wände stillstünden, und das Unheimliche ist bloß, daß die Wände fahren, ohne
daß man es merkt, und ihre Schienen vorauswerfen, wie lange, tastend gekrümmte Fäden, ohne daß
man weiß wohin. Und überdies will man ja womöglich selbst noch zu den Kräften gehören, die den
18
Zug der Zeit bestimmen. Das ist eine sehr unklare Rolle, und es kommt vor, wenn man nach
längerer Pause hinaussieht, daß sich die Landschaft geändert hat; was da vorbeifliegt, fliegt vorbei,
weil es nicht anders sein kann, aber bei aller Ergebenheit gewinnt ein unangenehmes Gefühl immer
mehr Gewalt, als ob man über das Ziel hinausgefahren oder auf eine falsche Strecke geraten wäre.
Und eines Tages ist das stürmische Bedürfnis da: Aussteigen! Abspringen! Ein Heimweh nach
Aufgehaltenwerden, Nichtsichentwickeln, Steckenbleiben, Zurückkehren zu einem Punkt, der vor
der falschen Abzweigung liegt! Und in der guten alten Zeit, als es das Kaisertum Österreich noch
gab, konnte man in einem solchen Falle den Zug der Zeit verlassen, sich in einen gewöhnlichen Zug
einer gewöhnlichen Eisenbahn setzen und in die Heimat zurückfahren.
Dort, in Kakanien, diesem seither untergegangenen, unverstandenen Staat, der in so vielem ohne
Anerkennung vorbildlich gewesen ist, gab es auch Tempo, aber nicht zuviel Tempo. So oft man in
der Fremde an dieses Land dachte, schwebte vor den Augen die Erinnerung an die weißen, breiten,
wohlhabenden Straßen aus der Zeit der Fußmärsche und Extraposten, die es nach allen Richtungen
wie Flüsse der Ordnung, wie Bänder aus heilem Soldatenzwillich durchzogen und die Länder mit
dem papierweißen Arm der Verwaltung umschlangen. Und was für Länder! Gletscher und Meer,
Karst und böhmische Kornfelder gab es dort, Nächte an der Adria, zirpend von Grillenunruhe, und
slowakische Dörfer, wo der Rauch aus den Kaminen wie aus aufgestülpten Nasenlöchern stieg und
das Dorf zwischen zwei kleinen Hügeln kauerte, als hätte die Erde ein wenig die Lippen geöffnet,
um ihr Kind dazwischen zu wärmen. Natürlich rollten auf diesen Straßen auch Automobile; aber
nicht zuviel Automobile! Man bereitete die Eroberung der Luft vor, auch hier; aber nicht zu
intensiv. Man ließ hie und da ein Schiff nach Südamerika oder Ostasien fahren; aber nicht zu oft.
Man hatte keinen Weltwirtschafts- und Weltmachtehrgeiz; man saß im Mittelpunkt Europas, wo die
alten Weltachsen sich schneiden; die Worte Kolonie und Übersee hörte man an wie etwas noch
gänzlich Unerprobtes und Fernes. Man entfaltete Luxus; aber beileibe nicht so überfeinert wie die
Franzosen. Man trieb Sport; aber nicht so närrisch wie die Angelsachsen. Man gab Unsummen für
das Heer aus; aber doch nur gerade so viel, daß man sicher die zweitschwächste der Großmächte
blieb. Auch die Hauptstadt war um einiges kleiner als alle andern größten Städte der Welt, aber
doch um ein Erkleckliches größer, als es bloß Großstädte sind. Und verwaltet wurde dieses Land in
einer aufgeklärten, wenig fühlbaren, alle Spitzen vorsichtig beschneidenden Weise von der besten
Bürokratie Europas, der man nur einen Fehler nachsagen konnte: sie empfand Genie und geniale
Unternehmungssucht an Privatpersonen, die nicht durch hohe Geburt oder einen Staatsauftrag dazu
privilegiert waren, als vorlautes Benehmen und Anmaßung. Aber wer ließe sich gerne von
Unbefugten dreinreden! Und in Kakanien wurde überdies immer nur ein Genie für einen Lümmel
gehalten, aber niemals, wie es anderswo vorkam, schon der Lümmel für ein Genie.
Überhaupt, wie vieles Merkwürdige ließe sich über dieses versunkene Kakanien sagen! Es war
zum Beispiel kaiserlich-königlich und war kaiserlich und königlich; eines der beiden Zeichen k.k.
oder k.u.k. trug dort jede Sache und Person, aber es bedurfte trotzdem einer Geheimwissenschaft,
um immer sicher unterscheiden zu können, welche Einrichtungen und Menschen k.k. und welche
k.u.k. zu rufen waren. Es nannte sich schriftlich Österreichisch-Ungarische Monarchie und ließ sich
mündlich Österreich rufen; mit einem Namen also, den es mit feierlichem Staatsschwur abgelegt
hatte, aber in allen Gefühlsangelegenheiten beibehielt, zum Zeichen, daß Gefühle ebenso wichtig
sind wie Staatsrecht und Vorschriften nicht den wirklichen Lebensernst bedeuten. Es war nach
seiner Verfassung liberal, aber es wurde klerikal regiert. Es wurde klerikal regiert, aber man lebte
freisinnig. Vor dem Gesetz waren alle Bürger gleich, aber nicht alle waren eben Bürger. Man hatte
ein Parlament, welches so gewaltigen Gebrauch von seiner Freiheit machte, daß man es gewöhnlich
geschlossen hielt; aber man hatte auch einen Notstandsparagraphen, mit dessen Hilfe man ohne das
Parlament auskam, und jedesmal, wenn alles sich schon über den Absolutismus freute, ordnete die
Krone an, daß nun doch wieder parlamentarisch regiert werden müsse. Solcher Geschehnisse gab es
viele in diesem Staat, und zu ihnen gehörten auch jene nationalen Kämpfe, die mit Recht die
Neugierde Europas auf sich zogen und heute ganz falsch dargestellt werden. Sie waren so heftig,
19
daß ihretwegen die Staatsmaschine mehrmals im Jahr stockte und stillstand, aber in den
Zwischenzeiten und Staatspausen kam man ausgezeichnet miteinander aus und tat, als ob nichts
gewesen wäre. Und es war auch nichts Wirkliches gewesen. Es hatte sich bloß die Abneigung jedes
Menschen gegen die Bestrebungen jedes andern Menschen, in der wir heute alle einig sind, in
diesem Staat schon früh, und man kann sagen, zu einem sublimierten Zeremoniell ausgebildet, das
noch große Folgen hätte haben können, wenn seine Entwicklung nicht durch eine Katastrophe vor
der Zeit unterbrochen worden wäre.
Denn nicht nur die Abneigung gegen den Mitbürger war dort bis zum Gemeinschaftsgefühl
gesteigert, sondern es nahm auch das Mißtrauen gegen die eigene Person und deren Schicksal den
Charakter tiefer Selbstgewißheit an. Man handelte in diesem Land – und mitunter bis zu den
höchsten Graden der Leidenschaft und ihren Folgen immer anders, als man dachte, oder dachte
anders, als man handelte. Unkundige Beobachter haben das für Liebenswürdigkeit oder gar für
Schwäche des ihrer Meinung nach österreichischen Charakters gehalten. Aber das war falsch; und
es ist immer falsch, die Erscheinungen in einem Land einfach mit dem Charakter seiner Bewohner
zu erklären. Denn ein Landesbewohner hat mindestens neun Charaktere, einen Berufs-, einen
National-, einen Staats-, einen Klassen-, einen geographischen, einen Geschlechts-, einen bewußten,
einen unbewußten und vielleicht auch noch einen privaten Charakter; er vereinigt sie in sich, aber
sie lösen ihn auf, und er ist eigentlich nichts als eine kleine, von diesen vielen Rinnsalen
ausgewaschene Mulde, in die sie hineinsickern und aus der sie wieder austreten, um mit andern
Bächlein eine andre Mulde zu füllen. Deshalb hat jeder Erdbewohner auch noch einen zehnten
Charakter, und dieser ist nichts als die passive Phantasie unausgefüllter Räume; er gestattet dem
Menschen alles, nur nicht das eine: das ernst zu nehmen, was seine mindestens neun andern
Charaktere tun und was mit ihnen geschieht; also mit andern Worten, gerade das nicht, was ihn
ausfüllen sollte. Dieser, wie man zugeben muß, schwer zu beschreibende Raum ist in Italien anders
gefärbt und geformt als in England, weil das, was sich von ihm abhebt, andre Farbe und Form hat,
und ist doch da und dort der gleiche, eben ein leerer, unsichtbarer Raum, in dem die Wirklichkeit
darinsteht wie eine von der Phantasie verlassene kleine Steinbaukastenstadt.
Soweit das nun überhaupt allen Augen sichtbar werden kann, war es in Kakanien geschehen, und
darin war Kakanien, ohne daß die Welt es schon wußte, der fortgeschrittenste Staat; es war der
Staat, der sich selbst irgendwie nur noch mitmachte, man war negativ frei darin, ständig im Gefühl
der unzureichenden Gründe der eigenen Existenz und von der großen Phantasie des
Nichtgeschehenen oder doch nicht unwiderruflich Geschehenen wie von dem Hauch der Ozeane
umspült, denen die Menschheit entstieg.
Es ist passiert, sagte man dort, wenn andre Leute anderswo glaubten, es sei wunder was geschehen;
das war ein eigenartiges, nirgendwo sonst im Deutschen oder einer andern Sprache vorkommendes
Wort, in dessen Hauch Tatsachen und Schicksalsschläge so leicht wurden wie Flaumfedern und
Gedanken. Ja, es war, trotz vielem, was dagegen spricht, Kakanien vielleicht doch ein Land für
Genies; und wahrscheinlich ist es daran auch zugrunde gegangen.
20
Thomas Mann
Buddenbrooks. Verfall einer Familie, 1901
E r s t e r Te i l
Erstes Kapitel
»Was ist das. – Was – ist das …«
»Je, den Düwel ook, c'est la question, ma très chère demoiselle!«
Die Konsulin Buddenbrook, neben ihrer Schwiegermutter auf dem geradlinigen, weiß
lackierten und mit einem goldenen Löwenkopf verzierten Sofa, dessen Polster hellgelb überzogen
waren, warf einen Blick auf ihren Gatten, der in einem Armsessel bei ihr saß, und kam ihrer kleinen
Tochter zu Hilfe, die der Großvater am Fenster auf den Knien hielt.
»Tony!« sagte sie, »ich glaube, daß mich Gott –«
Und die kleine Antonie, achtjährig und zartgebaut, in einem Kleidchen aus ganz leichter
changierender Seide, den hübschen Blondkopf ein wenig vom Gesichte des Großvaters abgewandt,
blickte aus ihren graublauen Augen angestrengt nachdenkend und ohne etwas zu sehen ins Zimmer
hinein, wiederholte noch einmal: »Was ist das«, sprach darauf langsam: »Ich glaube, daß mich
Gott«, fügte, während ihr Gesicht sich aufklärte, rasch hinzu: »– geschaffen hat samt allen
Kreaturen«, war plötzlich auf glatte Bahn geraten und schnurrte nun, glückstrahlend und
unaufhaltsam, den ganzen Artikel daher, getreu nach dem Katechismus, wie er soeben, anno 1835,
unter Genehmigung eines hohen und wohlweisen Senates, neu revidiert herausgegeben war. Wenn
man im Gange war, dachte sie, war es ein Gefühl, wie wenn man im Winter auf dem kleinen
Handschlitten mit den Brüdern den »Jerusalemsberg« hinunterfuhr: es vergingen einem geradezu
die Gedanken dabei, und man konnte nicht einhalten, wenn man auch wollte.
»Dazu Kleider und Schuhe«, sprach sie, »Essen und Trinken, Haus und Hof, Weib und Kind,
Acker und Vieh …« Bei diesen Worten aber brach der alte M. Johann Buddenbrook einfach in
Gelächter aus, in sein helles, verkniffenes Kichern, das er heimlich in Bereitschaft gehalten hatte. Er
lachte vor Vergnügen, sich über den Katechismus mokieren zu können, und hatte wahrscheinlich
nur zu diesem Zwecke das kleine Examen vorgenommen. Er erkundigte sich nach Tonys Acker und
Vieh, fragte, wieviel sie für den Sack Weizen nähme und erbot sich, Geschäfte mit ihr zu machen.
Sein rundes, rosig überhauchtes und wohlmeinendes Gesicht, dem er beim besten Willen keinen
Ausdruck von Bosheit zu geben vermochte, wurde von schneeweiß gepudertem Haar eingerahmt,
und etwas wie ein ganz leise angedeutetes Zöpflein fiel auf den breiten Kragen seines mausgrauen
Rockes hinab. Er war, mit seinen siebenzig Jahren, der Mode seiner Jugend nicht untreu geworden;
nur auf den Tressenbesatz zwischen den Knöpfen und den großen Taschen hatte er verzichtet, aber
niemals im Leben hatte er lange Beinkleider getragen. Sein Kinn ruhte breit, doppelt und mit einem
Ausdruck von Behaglichkeit auf dem weißen Spitzen-Jabot.
Alle hatten in sein Lachen eingestimmt, hauptsächlich aus Ehrerbietung gegen das
Familienoberhaupt. Mme. Antoinette Buddenbrook, geborene Duchamps, kicherte in genau
derselben Weise wie ihr Gatte. Sie war eine korpulente Dame mit dicken, weißen Locken über den
Ohren, einem schwarz und hellgrau gestreiften Kleide ohne Schmuck, das Einfachheit und
Bescheidenheit verriet, und mit noch immer schönen und weißen Händen, in denen sie einen
21
kleinen, sammetnen Pompadour auf dem Schoße hielt. Ihre Gesichtszüge waren im Laufe der Jahre
auf wunderliche Weise denjenigen ihres Gatten ähnlich geworden. Nur der Schnitt und die lebhafte
Dunkelheit ihrer Augen redeten ein wenig von ihrer halb romanischen Herkunft; sie stammte
großväterlicherseits aus einer französisch-schweizerischen Familie und war eine geborene
Hamburgerin.
Ihre Schwiegertochter, die Konsulin Elisabeth Buddenbrook, eine geborene Kröger, lachte das
Krögersche Lachen, das mit einem pruschenden Lippenlaut begann, und bei dem sie das Kinn auf
die Brust drückte. Sie war, wie alle Krögers, eine äußerst elegante Erscheinung, und war sie auch
keine Schönheit zu nennen, so gab sie doch mit ihrer hellen und besonnenen Stimme, ihren ruhigen,
sicheren und sanften Bewegungen aller Welt ein Gefühl von Klarheit und Vertrauen. Ihrem rötlichen
Haar, das auf der Höhe des Kopfes zu einer kleinen Krone gewunden und in breiten künstlichen
Locken über die Ohren frisiert war, entsprach ein außerordentlich zartweißer Teint mit vereinzelten
kleinen Sommersprossen. Das Charakteristische an ihrem Gesicht mit der etwas zu langen Nase und
dem kleinen Munde war, daß zwischen Unterlippe und Kinn sich durchaus keine Vertiefung befand.
Ihr kurzes Mieder mit hochgepufften Ärmeln, an das sich ein enger Rock aus duftiger,
hellgeblümter Seide schloß, ließ einen Hals von vollendeter Schönheit frei, geschmückt mit einem
Atlasband, an dem eine Komposition von großen Brillanten flimmerte.
Der Konsul beugte sich mit einer etwas nervösen Bewegung im Sessel vornüber. Er trug einen
zimmetfarbenen Rock mit breiten Aufschlägen und keulenförmigen Ärmeln, die sich erst unterhalb
des Gelenkes eng um die Hand schlossen. Seine anschließenden Beinkleider bestanden aus einem
weißen, waschbaren Stoff und waren an den Außenseiten mit schwarzen Streifen versehen. Um die
steifen Vatermörder, in die sich sein Kinn schmiegte, war die seidene Krawatte geschlungen, die
dick und breit den ganzen Ausschnitt der buntfarbigen Weste ausfüllte … Er hatte die ein wenig tief
liegenden, blauen und aufmerksamen Augen seines Vaters, wenn ihr Ausdruck auch vielleicht
träumerischer war; aber seine Gesichtszüge waren ernster und schärfer, seine Nase sprang stark und
gebogen hervor, und die Wangen, bis zu deren Mitte blonde, lockige Bartstreifen liefen, waren viel
weniger voll als die des Alten.
22
BERLINO
1. Berlino è una giovane e sfortunata città rivolta al futuro. La sua tradizione ha un carattere
frammentario. Il suo sviluppo, spesso interrotto e ancora più di frequente sviato e deviato,
viene inibito e contemporaneamente promosso da errori involontari e programmate tendenze
maligne – in un certo senso promosso tramite impedimenti. [...] I risultati – perché questa
città possiede un numero a tal punto elevato e velocemente mutevole di fisionomie da non
poter parlare di un unico risultato – sono un penoso agglomerato di piazze, strade, alveari
cubici, chiese e palazzi. Una confusione ordinata; un arbitrio perfettamente regolamentato;
un’assenza di meta finalizzata al fulgido aspetto.1
2. La velocità, o “Tempo”, è il concetto chiave che Berlino ha di sé durante la Repubblica di
Weimar. La velocità è un articolo di fede generato prevalentemente dai media “veloci”: i
grandi giornali e le riviste, più tardi il cinema e la radio, dei quali Berlino costituiva il centro
economico e istituzionale. In letteratura, il mito di Berlino venne creato dalla poesia e dalla
musica, dai racconti brevi e dalla saggistica, dai resoconti e dalle cronache brevi, dagli
aneddoti, dai pamphlet, dai programmi, dai compendi, dalle polemiche. Tali testi veloci e
moderni aggiunsero dettagli e smalto all’immagine di Berlino intesa come metropoli della
velocità.2
3. Berlino può in certi momenti dare l’impressione della solidità e della sicurezza, ma la sua
storia è la testimonianza di quanto sia insidioso prendere per buona quest’immagine. Berlino
è una città incostante, come molti hanno scoperto a proprie spese: la patina di normalità può
svanire con la stessa rapidità con cui scivola fra le dita la sabbia gialla della Marca di
Brandeburgo.3
4. Il Kurfürstendamm è l’arteria più pulsante di traffico dell’Ovest di Berlino, su di essa si può,
come si confà veramente ad una vena [sic!], provare il polso della città, alla città il polso.
[...] Il Kurfürstendamm inizia presso la Gedächtniskirche e non termina mai.4
5. Esso è contemporaneamente fascio muscolare che lavora e fascio nervoso che soffre, vaso
sanguigno pulsante fra i tessuti e arto che afferra della città Berlino. In esso non si esprime
solamente l’Ovest, questo accadeva una volta, ma anche il Nord, l’Est ed il Sud di Berlino.
Qui la città si incontra.5
6. La strada per questo labirinto, cui non è mancata la sua Arianna, passava sul ponte Bendler,
il cui dolce arco fu per me la prima volta di collina. Non lungi di lì era la meta: Federico
Guglielmo e la regina Luisa. [...] Fra le cariatidi e gli atlanti, fra i putti e le pomone, però,
che una volta mi avevano fissato, ora mi erano più care quelle polverose figure della
famiglia dei numi tutelari che proteggono l’ingresso nella vita e nella casa. Poiché esse ben
sapevano cosa significa attendere. E così per loro era lo stesso aspettare uno straniero, il
ritorno delle antiche divinità, o il bambino che trent’anni prima, con la sua cartella, era
1
J. ROTH, “Das steinerne Berlin”, in Das Tagebuch, 05/07/1930, rist. in M. BIENERT (a cura di), Joseph Roth in Berlin,
Köln 1996, p. 163.
2
E. SCHÜTZ, “Beyond Glittering Reflections of Asphalt: Changing Images of Berlin in Weimar Journalism”, in T. W.
KNIESCHE – S. BROCKMANN (a cura di), Dancing on the Volcano. Essays on the Culture of the Weimar Republic,
Columbia 1994, p. 120.
3
A. RICHIE, Berlino. Storia di una metropoli, Milano 2003, pp. 5-6.
4
A. POLGAR, “Kurfürstendamm”, in ID., Kleine Schriften, Reinbek 1983, Vol. II, p. 462.
5
H. SINSHEIMER, “Mitten im Kurfürstendamm”, in Berliner Tageblatt, 21/11/1930.
23
scivolato davanti ad esse. [...] E di nuovo l’idra e il leone di Lerna trovarono, come nella mia
fanciullezza, il loro posto nella selvaggia vegetazione intorno al Großer Stern.6
7. prese la direzione dell’Ostkreuz, qui salì sul treno che portava alla Friedrichstraße via
Warschauerstraße, Hauptbahnhof, Jannowitzbrücke, e rimase seduto col suo denaro nel
portafoglio fino alla stazione Bellevue, già all’Ovest. Da qui filò in direzione del Kleiner
Stern, poi al Rosengarten e cercò, passando accanto al monumento a Lortzing, il suo posto
prediletto con vista sull’isola di Rousseau. Era tale la determinazione con cui barattò la
Bundesbank per una panca del Tiergarten da indurci a credere che unicamente qui si sentisse
sicuro, unicamente qui potesse starsene da solo con i suoi soldi, nonostante i turchi che in
grandi gruppi famigliari si erano accampati sui prati del Tiergarten sciorinando le ricchezze
della cultura anatolica: aleggiava un lieve odore di saslik.7
8. Bruna colonna o tu della Vittoria
Tu che sorgi dai giorni dell’infanzia
Biscotto inzuccherato dall’inverno.8
6
W. BENJAMIN, “Tiergarten”, in Berliner Kindheit um Neunzehnhundert: Fassung letzter Hand [1950], Frankfurt a. M.
1987, pp. 23-25; trad. it. di M. Bertolini Peruzzi, “Tiergarten”, in Infanzia Berlinese, Torino 1973.
7
G. GRASS, È una lunga storia, Torino 1999, p. 129.
8
W. BENJAMIN, Berliner Kindheit um Neunzehnhundert. Fassung Letzter Hand, op. cit., p. 5; trad. it., Infanzia Berlinese,
cit., p. 7.
24
9. Nelle stazioni di scambio come Ostkreuz si può ancora avvertire l’antico flusso della
metropoli del traffico. Anche Alexanderplatz è così: un gigantesco ingranaggio per lo
svolgimento senza difficoltà del massimo traffico sulla massima superficie. Così i progettisti
degli anni Venti si immaginano una moderna piazza metropolitana.9
10 Durante la costruzione, Alexanderplatz era uno spazio aperto e senza forma, attraverso il
quale il vento soffiava da ogni lato, oggi è un modello di organizzazione. [...] Il meccanismo
è quello di una perfezione artificiale, che deride l’intervento improvvisato e si rende
comprensibile soltanto dopo un lungo studio.10
11 Ci sedemmo in un treno, in una stazione luminosa. Questo partì, attraverso la notte, viaggiò
alcuni minuti, quindi si fermò, e noi fummo nuovamente alla stessa stazione. Credetti di
sbagliarmi. Ma il gioco si ripeté due, tre volte... Le stazioni alla sera sembravano tutte uguali
9
M. BIENERT, Vorwort, in ID., Joseph Roth in Berlin.
S. KRACAUER, “Der Neue Alexanderplatz”, in Frankfurter Zeitung, 18/11/1932
10
25
a Berlino, in particolare se si proveniva da Stettino. Avevamo viaggiato dalla Friedrichstraße
verso Jannowitzbrücke. Ma fu per me un’esperienza indimenticabile.11
12 I tram a cavalli scomparivano, sopra le strade furono tirati fili elettrici, la città soggiaceva ad
un’oscillante, fitta rete. [...] Alexanderplatz mutava, Wittenbergplatz diventava
qualcos’altro; cresceva, cresceva! Su Leipziger Platz l’incantevole costruzione di Wertheim,
una facciata, come l’irrilevante Herrenhaus che vi stava di rimpetto. [...] Su
Schiffbauerdamm in Brunnenstraße, la AEG: un piacere! E più avanti, in campagna, in Tegel
Borsig, e in Oberschöneweide, un’altra volta la AEG.12
13 Da quarant’anni vado in giro qui, sempre curioso, pensoso, su come si muove e su come
repentino si sviluppò.[...] L’arte, i quadri, le sculture [...] non mi avevano mai interessato,
questi oggetti languidi, miti, preziosi, anche agghindati [...] da guardare, per procurare
diletto. Io non sono per il piacere “il divertimento involgarisce”: questo è press’a poco
giusto.13
14 Ci sono grandi magazzini, schematiche confezioni per i più poveri, anche molto ciarpame.
[...] io [un giovane miserabile] devo fare i mie affari come tutti gli altri. Il lavoratore non mi
dà nulla, non ha nulla. [...] Un oste mi [a Döblin] dice ciò che già so: i prezzi alti, e una
fabbrica di birra dovette vendere parte dei suoi cavalli e convertirsi ai generi alimentari. Non
fu un peccato: il pane è meglio della birra.14
15 Un flusso di gente, di mezzi: Alexanderplatz è vicino. Fra molte signore povere, cercando
fra le persone che si affrettano, si aggirano individui lenti e particolari che evidentemente si
conoscono, si riconoscono, camminano in disparte e portano valigette di vestiti. Un via vai
[...] Giunge l’Alexanderkaserne con i poliziotti e l’interminabile lunga costruzione dei
grandi magazzini Tietz. Quindi l’ampia apertura, un verde prato, Alexanderplatz, le cucine
da campo dell’esercito della salvezza, circondate da curiosi e cordoni di poveri e vecchi,
l’oscuro rosso presidio della polizia.15
16 Anzi, anni or sono, mi era stato affidato un reparto d’osservazione criminologico. […] E
praticando questi uomini, e molti altri simili a loro, liberi, potei rilevare un aspetto
caratteristico della società in cui viviamo: l’assenza di un confine nettamente definito fra
criminali e non criminali, e il fatto che la società, o almeno la parte che ne potevo vedere,
era minata dalla criminalità. E questa era una già di per sé una prospettiva singolare.16
17 Il reparto criminale si trova in aperta campagna e acqua e pioggia e neve e freddo, giorno e
notte, avvolgono l’edificio con tutta la loro forza e la loro violenza. […] Vum vum, e il
vento allarga il petto e tira il respiro, poi lo mette fuori come una botte, ogni respiro pesa
come una montagna, la montagna si avanza, crac, e si rovescia sulla casa, si rovescia un
contrabbasso. Vum vum, e alberi si dondolano, non riescono a tenere il tempo, lui va a
destra e loro, li trova piegati a sinistra, li fa scricchiolare. Bolidi precipitano, aria che
11
A. DÖBLIN, Erster Rückblick, in ID., Die Vertreibung der Gespenster. Autobiographische Schriften. Betrachtungen zur
Zeit. Aufsätze zur Kunst und Literatur, , p. 12.
12
A. DÖBLIN, Die Zeitlupe. Kleine Prosa, p. 59.
13
In Vossische Zeitung, 16/11/1922.
14
LINKE POOT [alias A. DÖBLIN], “Östlich um den Alexanderplatz”, in Berliner Tageblatt, 29/09/1923
15
Ibidem
16
A. DÖBLIN, “Il mio libro”, in Berlin Alexanderplatz, p. 504.
26
martella, strepiti, schianti, vieni, vieni, sono tua, vieni, presto siamo arrivati, vum, notte,
notte.17
18 In Alexanderplatz buttano all’aria il marciapiede per costruire la metropolitana. Bisogna
camminare sulle passerelle. I tram traversano la piazza, risalgono Alexanderstraße, per la
Münzstraße fino al Rosenthaler Tor. […] Bar, ristoranti, negozi di frutta e verdura,
drogherie, dolciumi, trasporti, decorazioni, confezioni per signora, farina e prodotti
macinati, garage, assicurazioni contro l’incendio.18
19 Brum, brum: davanti a Aschinger sull’Alex strepita il battipalo a vapore. È alto quanto il
piano di una casa e come niente infila i pali di ferro per terra. […] Brum brum, pesta il
battipalo in Alexanderplatz [...] Zac e il palo si piglia un colpo sulla testa. Alla fine diventa
piccolo come la punta di un dito ed ecco che gli arriva un altro colpo e adesso può fare quel
che vuole: sparito sottoterra. Perbacco, l’hanno combinato bene. E la gente se ne va
soddisfatta.19
20 In riva all’acqua c’è la grande Babilonia, la madre di tutte le impurità e di tutti gli orrori
della terra. Essa siede su un animale di colore scarlatto, e ha sette teste e dieci corna,
bisognerebbe che tu la vedessi. Ogni tuo passo la rallegra. Essa è ebbra del sangue dei santi
che ha divorato. Queste sono le corna con cui ti si getta contro, essa viene su dall’abisso e ti
conduce verso la maledizione. Guardala, le perle, lo scarlatto, la porpora, i denti, come li
digrigna, e quelle labbra grosse e carnose su cui è passato il sangue, con quelle ha bevuto.
La puttana Babilonia! Occhi velenosi giallo-oro, collo di vampiro! E come ti ride in faccia!20
21 „Sul Potsdamer Platz corrono, come folli, gli autobus nelle curve. Le insegne pubblicitarie
luminose scattano come serpenti, si illuminano, in alto, si illuminano, in alto. Si va a fare i
propri acquisti. Natale è vicino. Lì c’è il pentolone e la fanciulla dell’esercito della salvezza,
accanto, invoca: considerate la pentola quando cucinate. E se ci mettessi dentro mille
marchi? Meglio di niente, ma non va bene.”21
22 „A livello della strada e del marciapiede facevano luce le vetrine dei negozi, i caffè e i
ristoranti, i fanali di posizione delle carrozze, i fari delle prime automobili. Questa superficie
di luce, quasi una stanza simile ad un salotto intimo, era l’eredità del XIX Secolo. Il XX
Secolo forzò il tetto di questa stanza verso l’alto. Piano dopo piano la pubblicità luminosa
guadagnò spazio, fino ad approdare al comignolo.”22
17
A. DÖBLIN, Berlin Alexanderplatz, pp. 462-463.
Döblin, Berlin Alexanderplatz, op. cit., p. 137.
19
Ibidem, p. 179; trad. it., ibidem, p. 183:
20
Ibidem, p. 260, trad. it., ibidem, p. 323.
21
B. von Brentano : Wo in Europa ist Berlin. Bilder aus den zwanziger Jahren,, p.189:
22
W. Schivelbusch : Licht, Schein und Wahn. Auftritte der elektrischen Beleuchtung im 20. Jahrhundert, Berlin, 1992.
18
27
Paul Boldt
Auf der Terrasse des Cafés Josty
Der Potsdamer Platz in ewigem Gebrüll
Vergletschert alle hallenden Lawinen
Der Straßentranke: Trams auf Eisenschienen,
Automobile und den Menschenmüll.
Die Menschen rinnen über den Asphalt,
Ameisenemsig wie Eidechsen flink.
Stirnen und Hände, von Gedanken blink,
Schwimmen wie Sonnenlicht durch dunklen Wald.
Nachtregen hüllt den Platz in eine Höhle,
Wo Fledermäuse, weiß, mit Flügeln schlagen
Und lila Quallen liegen – bunte Öle;
Die mehren sich, zerschnitten von den Wagen.
Auf spritzt Berlin, des Tages glitzernd Nest,
Vom Rauch der Nacht wie Eiter einer Pest.23
23
P. Boldt : Auf der Terrasse des Cafés Josty in Junge Pferde! Junge Pferde!, Zürich/Düsseldorf, 1979, p. 70, trad. it. in P.
Chiarini/A. Gargano: La Berlino dell’espressionismo, p.121: “Il Potsdamer Platz in un mugghio ininterrotto/ congela
tutte le valanghe rimbombanti delle strade: tram su rotaie di ferro,/ automobili e rifiuti umani./ I passanti scivolano
sull’asfalto,/ Intancabili come formiche, guizzanti come lucertole./ Fronti e mani lucenti di pensieri,/ nuotano come luce
del sole attraverso un bosco scuro./ Una pioggia notturna avvolge la piazza in una caverna,/ dove pipistrelli, bianchi
sbattono le ali/ e nuotano meduse violacee – olii colorati;/ si moltiplicano, tagliate dalle automobili. -/ Schizza Berlino,
di giorno rifugio scintillante, dal fumo della notte come suppurazione di una pestilenza.
28
Arno Holz
Buch der Zeit (1886)
Ein Bild
Ein Andres
Aus Sandstein ist das gelbliche Portal,
Die rothen Säulen aus Granit gehauen,
Und seitwärts in ein weißes Piedestal
Vergräbt ein Löwe seine Marmorklauen.
Doch schwarz verhängt sind alle Fenster heut
Und Lichter brennen nur im Erdgeschosse,
Der Straßendamm ist hoch mit Stroh bestreut
Und lautlos drüberhin rollt die Karosse.
Fünf wurmzernagte Stiegen geht's hinauf
Ins letzte Stockwerk einer Miethskaserne;
Hier hält der Nordwind sich am liebsten auf,
Und durch das Dachwerk schaun des Himmels Sterne.
Was sie erspähn, o, es ist grad genug,
um mit dem Elend brüderlich zu weinen:
Ein Stückchen Schwarzbrod und ein Wasserkrug,
Ein Werktisch und ein Schemel mit drei Beinen.
Das Treppenhaus vertheidigt der Portier
Und schüttelt grimmig seine graue Mähne,
Und naht gar Einer aus der Haute volée,
Dann fletscht er cerberusgleich seine Zähne.
Im Prunksaal trauern hinter Flor und Tafft
Die bunten Inderstoffe aus Lahore,
Auch schleicht die goldbetreßte Dienerschaft
Nur auf Spitzzehen durch die Corridore.
Das Fenster ist vernagelt durch ein Brett
Und doch durchpfeift der Wind es hin und wieder
Und dort auf jenem strohgestopften Bett
Liegt fieberkrank ein junges Weib darnieder.
Drei kleine Kinder stehn um sie herum,
Die stieren Blicks an ihren Zügen hangen,
Vor vielem Weinen ward ihr Mündlein stumm
Und keine Thräne mehr netzt ihre Wangen.
Der hochgeborne Hausherr, Excellenz,
Schwankt wie ein Rohr umher auf bleicher Düne,
Die erste Redekraft des Parlaments
Fehlt heute abermals auf der Tribüne.
Zwar trat man gestern erst in den Etat,
Doch hat sein Fehlen diesmal gute Gründe:
Schon viermal war der greise Hausarzt da
Und meinte, daß es sehr bedenklich stünde.
Ein Stümpfchen Talglicht giebt nur trüben Schein,
Doch horch, es klopft, was mag das nur bedeuten?
Es klopft und durch die Thür tritt nun herein
Ein junger Herr, geführt von Nachbarsleuten.
Der Armenhilfsarzt ist's aus dem Revier,
Den sie geholt aus Mitleid mit der Kranken,
Indeß ihr Mann bei Branntwein oder Bier
Sich selbst betäubt und seine Wuthgedanken.
Nach Eis und Himbeer wird gar oft geschellt,
Doch mäuschenstill ist es im Krankenzimmer,
Und seine düstre Teppichpracht erhellt
Nur einer Ampel röthliches Geflimmer.
Weit offen steht die Thür zum Vestibul
Und wie im Traum nur plätschert die Fontäne,
Die Luft umher ist wie gewitterschwül,
Denn ach, die "gnä'ge Fraa" hat heut - Migräne!
Der junge Doctor aber nimmt das Licht
Und tritt mit ihm ans Bett des armen Weibes,
Doch gelb wie Wachs und spitz ist ihr Gesicht
Und kalt und starr die Glieder ihres Leibes.
Da schluchzt sein Herz, indeß das Licht verkohlt,
Von nie gekannter Wehmuth überschlichen:
Weint, Kinder, weint! ich bin zu spät geholt,
Denn eure Mutter ist bereits - verblichen!
29
Jakob van Hoddis
Weltende
4
10
Dem Bürger fliegt vom spitzen Kopf der Hut,
in allen Lüften hallt es wie Geschrei.
Dachdecker stürzen ab und gehn entzwei
und an den Küsten - liest man - steigt die Flut
Der Sturm ist da, die wilden Meere hupfen
an Land, um dicke Dämme zu zerdrücken.
Die meisten Menschen haben einen Schnupfen.
Die Eisenbahnen fallen von den Brücken
30
Alfred Lichtenstein
Die
Dämmerung
Ein dicker Junge spielt mit einem Teich.
Der Wind hat sich in einem Baum gefangen.
Der Himmel sieht verbummelt aus und bleich,
Als wäre ihm die Schminke ausgegangen.
5
Auf lange Krücken schief herabgebückt.
Und schwatzend kriechen auf dem Feld zwei Lahme.
Ein blonder Dichter wird vielleicht verrückt.
Ein Pferdchen stolpert über eine Dame.
10
An einem Fenster klebt ein fetter Mann.
Ein Jüngling will ein weiches Weib besuchen.
Ein grauer Clown zieht sich die Stiefel an.
Ein Kinderwagen schreit und Hunde fluchen.
Entstehungsjahr: 1911
Erscheinungsjahr: 1989
Aus:
Gedichte / Die Dämmerung
Referenzausgabe:
Klaus Kanzog / Hatmut Vollmer: Alfred Lichtenstein. Dichtungen. Arche Verlag, Zürich: 1989, S.
43.
Bemerkungen
Erstdruck 1915 in »Der Sturm« I, Nr. 55, 18.3.1911, S. 439
Dem Gedicht gegenübergestellt ist auf Seite 42 die Handschrift des Gedichtes aus Alfred
Lichtensteins Gedichtheften.
31
Die
Stadt
Ein weißer Vogel ist der große Himmel.
Hart unter ihn geduckt stiert eine Stadt.
Die Häuser sind halbtote alte Leute.
5
Griesgrämig glotzt ein dünner Droschkenschimmel.
Und Winde, magre Hunde, rennen matt.
An scharfen Ecken quietschen ihre Häute.
In einer Straße stöhnt ein Irrer: Du, ach, du Wenn ich dich endlich, o Geliebte, fände ...
Ein Haufen um ihn staunt und grinst voll Spott.
10
Drei kleine Menschen spielen Blindekuh Auf alles legt die grauen Puderhände
Der Nachmittag, ein sanft verweinter Gott.
Entstehungsjahr: 1913
Erscheinungsjahr: 1989
Aus:
Gedichte / Die Dämmerung
Referenzausgabe:
Klaus Kanzog / Hatmut Vollmer: Alfred Lichtenstein. Dichtungen. Arche Verlag, Zürich: 1989, S.
65.
Bemerkungen
Erstdruck 1913 in »Die Aktion« III, Nr. 40, 4.10.1913, Sp. 945
32
Georg Heym
Der Gott der
Stadt
Auf einem Häuserblocke sitzt er breit.
Die Winde lagern schwarz um seine Stirn.
Er schaut voll Wut, wo fern in Einsamkeit
Die letzten Häuser in das Land verirrn.
5
Vom Abend glänzt der rote Bauch dem Baal,
Die großen Städte knien um ihn her.
Der Kirchenglocken ungeheure Zahl
Wogt auf zu ihm aus schwarzer Türme Meer.
10
15
20
Wie Korybanten-Tanz dröhnt die Musik
Der Millionen durch die Straßen laut.
Der Schlote Rauch, die Wolken der Fabrik
Ziehn auf zu ihm, wie Duft von Weihrauch blaut.
Das Wetter schwelt in seinen Augenbrauen.
Der dunkle Abend wird in Nacht betäubt.
Die Stürme flattern, die wie Geier schauen
Von seinem Haupthaar, das im Zorne sträubt.
Er streckt ins Dunkel seine Fleischerfaust.
Er schüttelt sie. Ein Meer von Feuer jagt
Durch eine Straße. Und der Glutqualm braust
Und frißt sie auf, bis spät der Morgen tagt.
Entstehungsjahr: 1910
Erscheinungsjahr: 1964
Gedichte aus den Jahren 1910 bis 1912
Aus:
Referenzausgabe:
Karl Ludwig Schneider / Gunter Martens: Georg Heym. Dichtungen und Schriften. Gesamtausgabe,
Bd. 1. Verlag Heinrich Ellermann,: 1962ff., S. 192. Erstdruck in »Der ewige Tag«, Leipzig 1911
33
Der
Krieg
Aufgestanden ist er, welcher lange schlief,
Aufgestanden unten aus Gewölben tief.
In der Dämmrung steht er, groß und unerkannt,
Und den Mond zerdrückt er in der schwarzen Hand.
5
In den Abendlärm der Städte fällt es weit,
Frost und Schatten einer fremden Dunkelheit,
Und der Märkte runder Wirbel stockt zu Eis.
Es wird still. Sie sehn sich um. Und keiner weiß.
10
15
20
In den Gassen faßt es ihre Schulter leicht.
Eine Frage. Keine Antwort. Ein Gesicht erbleicht.
In der Ferne [ wimmert ] ein Geläute dünn
Und die Bärte zittern um ihr spitzes Kinn.
Auf den Bergen hebt er schon zu tanzen an
Und er schreit: Ihr Krieger alle, auf und an.
Und es schallet, wenn das schwarze Haupt er schwenkt,
Drum von tausend Schädeln laute Kette hängt.
Einem Turm gleich tritt er aus die letzte Glut,
Wo der Tag flieht, sind die Ströme schon voll Blut.
Zahllos sind die Leichen schon im Schilf gestreckt,
Von des Todes starken Vögeln weiß bedeckt.
Über runder Mauern blauem Flammenschwall
Steht er, über schwarzer Gassen Waffenschall.
[ Über Toren, wo die Wächter liegen quer,
Über Brücken, die von Bergen Toter schwer. ]
25
In die Nacht er jagt das Feuer querfeldein
34
Einen roten Hund mit wilder Mäuler Schrein.
Aus dem Dunkel springt der Nächte schwarze Welt,
Von Vulkanen furchtbar ist ihr Rand erhellt.
30
35
40
Und mit tausend roten Zipfelmützen weit
Sind die finstren Ebnen flackend überstreut,
Und was unten auf den Straßen wimmelt hin und her,
[ Fegt er in die Feuerhaufen, daß die Flamme brenne mehr. ]
Und die Flammen fressen brennend Wald um Wald,
Gelbe Fledermäuse zackig in das Laub gekrallt.
Seine Stange haut er wie ein Köhlerknecht
In die Bäume, daß das Feuer brause recht.
Eine große Stadt versank in gelbem Rauch,
Warf sich lautlos in des Abgrunds Bauch.
Aber riesig über glühnden Trümmern steht
Der in wilde Himmel dreimal seine Fackel dreht,
Über sturmzerfetzter Wolken Widerschein,
In des toten Dunkels kalten Wüstenein,
Daß er mit dem Brande weit die Nacht verdorr,
Pech und Feuer träufet unten auf Gomorrh.
Entstehungsjahr: 1911
Erscheinungsjahr: 1964
Aus:
Gedichte aus den Jahren 1910 bis 1912
Referenzausgabe:
Karl Ludwig Schneider / Gunter Martens: Georg Heym. Dichtungen und Schriften. Gesamtausgabe,
Bd. 1. Verlag Heinrich Ellermann,: 1962ff., S. 346-347.
Bemerkungen
Erstdruck in »Umbra vitae«, Leipzig 1912
Die in "[ ]" gesetzten Textteile sind vom Herausgeber als unsicher angegeben, da die Handschrift
nicht abschließend interpretiert werden konnte.
35
Gottfried Benn
Schöne
Jugend
Der Mund eines Mädchens, das lange im Schilf gelegen hatte,
sah so angeknabbert aus.
Als man die Brust aufbrach, war die Speiseröhre so löcherig.
Schließlich in einer Laube unter dem Zwerchfell
5
fand man ein Nest von jungen Ratten.
Ein kleines Schwesterchen lag tot.
Die andern lebten von Leber und Niere,
tranken das kalte Blut und hatten
hier eine schöne Jugend verlebt.
10
Und schön und schnell kam auch ihr Tod:
Man warf sie allesamt ins Wasser.
Ach, wie die kleinen Schnauzen quietschten!
Entstehungsjahr: Ca. 1912
Erscheinungsjahr: 1912
Aus:
Morgue
36
Kleine
Aster
5
Ein ersoffener Bierfahrer1 wurde auf den Tisch gestemmt.
Irgendeiner hatte ihm eine dunkelhelllila Aster2
zwischen die Zähne geklemmt
Als ich von der Brust aus
unter der Haut
mit einem langen Messer
Zunge und Gaumen herausschnitt,
10
muss ich sie angestoßen haben, denn sie glitt
in das nebenliegende Gehirn.
Ich packte sie ihm in die Brusthöhle
zwischen die Holzwolle3,
als man zunähte.
Trinke dich satt in deiner Vase!
15
Ruhe sanft,
kleine Aster!
Entstehungsjahr: Ca. 1912
Erscheinungsjahr: 1912
Aus:
Morgue
Anmerkungen:
1 Als „Bierfahrer“ würde man heutzutage LKW-Fahrer bezeichnen, die Bier transportieren. Damals
wurde dies mit Karren gemacht.
2 Die Aster ist eine winterfeste Pflanze. Sie ist hauptsächlich in Amerika beheimatet, es gibt sie
jedoch auch auf fast allen anderen Kontinenten. Sie blüt in weiß, rosa, rot, blau und lila und hat eine
strahlenförmige Anordnung der Blütenblätter. Benn hat die Aster in seinem Gedicht „Kleine Aster“
literarisch unsterblich gemacht.
3 Holzwolle ist ein Baustoff, der zur Wärmeisolierung beim Hausbau verwendet wird. Wurde
früher auch in Stofftieren verwendet. Holzwolle kann Wasser aufsaugen und wurde daher
wahrscheinlich für Obduktionen benutzt.
37
PRAGA
Rainer Maria Rilke
Archaïscher Torso
Apollos
Wir kannten nicht sein unerhörtes Haupt,
darin die Augenäpfel reiften. Aber
sein Torso glüht noch wie ein Kandelaber,
in dem sein Schauen, nur zurückgeschraubt,
5
sich hält und glänzt. Sonst könnte nicht der Bug
der Brust dich blenden, und im leisen Drehen
der Lenden könnte nicht ein Lächeln gehen
zu jener Mitte, die die Zeugung trug.
10
Sonst stünde dieser Stein entstellt und kurz
unter der Schultern durchsichtigem Sturz
und flimmerte nicht so wie Raubtierfelle;
und bräche nicht aus allen seinen Rändern
aus wie ein Stern: denn da ist keine Stelle,
die dich nicht sieht. Du mußt dein Leben ändern
Entstehungsjahr: vor 1908
Erscheinungsjahr: 1986
Aus:
Der neuen Gedichte anderer Teil
Referenzausgabe:
Ernst Zinn: Rainer Maria Rilke. Die Gedichte. Insel Verlag, Frankfurt: 1986, S. 503.
38
39
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“E’ come se i morti richiamassero noi viventi in quei posti dove un tempo trascorsero la loro
esistenza per sussurrarci che non per nulla il nome di Praga significa ‘la soglia’, poiché in
verità essa è una soglia tra ‘l’al di qua e l’al di là’, una soglia molto più sottile che altrove”
(G. Meyrink, Die geheimnisvolle Stadt, 1928)
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“Sono fatto di letteratura, non sono altro e non posso essere altro”
(F. Kafka, Lettera a Felice Bauer)
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1904-1910 - Beschreibung eines Kampfes
1913 – Das Urteil
1913 – Der Heizer (Erstes Kapitel des Romanfragments Der Verschollene)
1914-1915 - Der Proceß
1915 – Die Verwandlung
1915 – Vor dem Gesetz Bestandteil des Romanfragments Der Proceß
1918 – Ein Landarzt (Erzählung von 1918 und Titel des Buches mit 13 weiteren
Prosatexten)
1919 – Brief an den Vater
1919 – In der Strafkolonie
1919 – Ein Landarzt
1922 - Das Schloß
1924 – Ein Hungerkünstler
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Io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo che mi è certo assai vicino e che io
non ho il diritto di combattere, ma, in certa misura di rappresentare. Né al pochissimo di
positivo né al negativo estremo che si rovescia in positivo, io ho partecipato in alcun modo.
Io non sono stato introdotto nella vita dalla mano già cadente del cristianesimo, e neppure ho
afferrato, come i sionisti, l’ultimo lembo del mantello ebraico da preghiera che già volava
via. Io sono una fine o un principio”
(Franz Kafka, Diari)
• “Arricchire artificialmente questo tedesco di carta, gonfiarlo di tutte le risorse di un
simbolismo, di un onirismo, di un senso esoterico, di un significante nascosto – e avremo
così la scuola di Praga, Gustav Meyrink e molti altri, fra cui Max Brod. Ma questo tentativo
implica uno sforzo disperato di riterritorializzazione simbolica, a base di archetipi, di
Kabbala e di alchimia, che accentua il distacco dal popolo e non può trovare altro sbocco
politico che il sionismo come ‘sogno di Sion’. Kafka prenderà presto l’altra via, anzi
l’inventerà”
(G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, 1975)
• “Hofmannsthal ha rinunciato al compito che compare nella lettera di Chandos. Il suo
mutismo era una sorta di punizione. La lingua di cui Hofmannsthal si è privato, potrebbe
essere proprio quella che all’incirca nello stesso momento venne data a Kafka. Kafka si è
assunto infatti il compito di cui Hofmannsthal si è mostrato moralmente e anche
poeticamente incapace”
(W. Benjamin, Lettera a Th. W. Adorno, 1940)
•
Yiddisch: „vive di vocaboli rubati, immobilizzati, emigrati, divenuti nomadi“ (F. Kafka,
Rede über die jiddische Sprache, 1912)
•
Mauscheln: “una combinazione organica di tedesco cartaceo e linguaggio dei segni” (F.
Kafka, Lettera a Max Brod, 1921)
•
“Erkrankung der Tradition” (W. Benjamin, Lettera a Gershom Scholem, 1938)
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