Il nazionalismo nella cultura. Un percorso artistico
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Il nazionalismo nella cultura. Un percorso artistico
1 Il nazionalismo nella cultura. Un percorso artistico Sara Valentina Di Palma Il percorso artistico qui proposto è uno spunto di approfondimento sul tema del nazionalismo, affrontato in un ciclo di lezioni tenute nel corso di Storia Contemporanea della Facoltà di Lettere dell’Università di Siena tra il 18 e il 25 marzo 2010. Si tratta di un’interpretazione personale e soggettiva, volta ad introdurre una prospettiva diversa dalla mera ricostruzione storiografica dell’idea di nazione e del nazionalismo tra XIX e XX secolo. Alle diverse produzioni culturali nazionaliste ottocentesche ha dedicato alcuni capitoli del suo studio La creazione delle identità nazionali in Europa (1999, il Mulino 2001) Anne-Marie Thiesse, storica sociale che nei suoi ultimi lavori si occupa della relazione tra costruzione dell’identità europea e comunicazione politica dell’Unione Europea. Thiesse nota come concorrano a produrre l’idea di nazione diversi elementi, tra cui fondamentale è la “legittimità culturale” (p. 19) creata da una nuova cultura moderna in cui sono prodotte nuove opere letterarie che devono rappresentare il popolo ed essere ad esso rivolte. Centrale è la questione della lingua come espressione del popolo stesso, in polemica con l’egemonia culturale francese e il manierismo della sua cultura; per esaltare la nuova cultura popolare, o meglio le nuove culture, vengono riscoperti i canti popolari. Due esempi della rifondazione della cultura europea sono il concorso indetto a Copenhagen nel 1800 per sostituire alla mitologia greco-romana quella degli antichi scandinavi e il progetto patriottico delle Fiabe dei fratelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm (1786-1859) Grimm, i quali mirano a “mettere in grado la nazione tedesca di conoscere il passato perché abbia coscienza della propria unità” (p. 57). Fondamentali sono poi l’edificazione delle lingue nazionali, una produzione letteraria poliedrica nuova comprendente raccolte di proverbi, inventari di canzoni popolari, cataloghi d’arte, opere ispirate a testi antichi o traduzioni dei medesimi disinvoltamente propagandati come creazioni originali. Sono inoltre costruite storie nazionali che per modello narrativo si avvalgono di un genere letterario nuovo, il romanzo; anche il teatro sostituisce il dramma alla tragedia classica per meglio rappresentare le vicende nazionali. Anche l’arte diventa protagonista della costruzione della nazione: la storia nazionale non è infatti solo scritta, ma anche raffigurata, dipinta o scolpita e messa in musica nelle melodie popolari. Nascono i musei nazionali destinati alla funzione pragmatico-pedagogica di fornire agli artisti dei modelli di ispirazione, prima accessibili solo ai ricchi collezionisti privati. “L’idea di costruire una proprietà scientifica e artistica comune alla nazione, in teoria accessibile a tutti, si unisce, via via che si arricchisce il patrimonio ancestrale, al desiderio di raccogliere il tesoro specifico della nazione: estetico, storico, e in seguito folclorico” (p. 139). Si spiegano così il rinnovato interesse per i monumenti storici e l’edificazione di nuovi monumenti in stile gotico medievale; la ricerca di un patrimonio artistico antico “da salvare” preservandolo dalle opere modernizzatrici in cui il primo passo è l’inventariazione 2 dei beni esistenti. Come scrive Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc (1814-1879) nel suo Dizionario ragionato dell'architettura francese dal sec. XI° al XVI° alla voce Restauro, nasce una nuova linea interpretativa della funzione restauratrice. Mentre in precedenza si preferiva, infatti, la distinguibilità dell'intervento integrativo rispetto alla parte preesistente, integrando le lacune in maniera riconoscibile attraverso la distinzione del materiale o la semplificazione delle forme (ad esempio i restauri del Colosseo (1807-1826), ora prevale l’idea secondo la quale il restauratore deve immedesimarsi nel progettista originario e integrarne l'opera nelle parti mancanti (perché mai realizzate, perché successivamente distrutte o degradate, perché alterate da nuovi interventi). Secondo Viollet-le-Duc, “restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, è ripristinarlo in uno stato di completezza che può non essere mai esistito in un dato tempo” (E.E.Viollet-le-Duc, L'architettura ragionata. Estratti dal dizionario, 1856, Jaca Book, 1982, p. 247). Questa posizione è abitualmente definita restauro stilistico. Anche i pittori ritraggono la nazione, raffigurando il ceto contadino che più sembra rappresentarne l’originaria purezza, raffigurando figure umane vestite in costume tradizionale – il kilt scozzese sarebbe stato inventato all’inizio del Settecento diffondendosi oltre un secolo dopo come antico costume celtico – e infine rinnovando i paesaggi. Ne sono esempi rispettivamente le raccolte di incisioni sui costumi popolari, di cui celebre rappresentante è Bartolomeo Pinelli (1781-1835) sui Costumi romani (1815-1820), e il paesaggio archetipico di Fontainebleau, riprodotto tra gli altri da Filadelfo Simi (18491923) in La foresta di Fontainebleau (1876) per trasmettere i sentimenti romantici di sublime e Sensucht (struggimento). BARTOLOMEO PINELLI, COSTUMI DI ROMA, 1815 3 FILADELFO SIMI, LA FORESTA DI FONTAINEBLEAU, 1876 Nel 1851 è inaugurata a Londra la prima International exibition, per la quale è appositamente costruito il Crystal Palace, innovazione tecnologica di vetro e acciaio. Prende così avvio una lunga serie di manifestazioni volte a mettere in mostra manufatti e innovazioni che esaltino le identità di ogni nazione. In realtà la maggior parte delle strutture espositive è temporanea, ma esistono eccezioni come la torre Eiffel di Parigi (nel centenario della Rivoluzione, 1889) e appunto il Crystal Palace di Londra, costruito per essere poi smontato e riciclato ma poi spostato e reso permanente grazie al suo inaspettato successo. CRYSTAL PALACE, LONDRA, 1851 Si sviluppano le mostre identitarie, che riproducono scenografie paesaggistiche e innovano la museografia etnografica a partire dal modello svedese delle esposizioni parigine del 1867 e del 1878. Proprio la sezione svedese dell’Exposition Universelle del 1878 a Parigi, con manichini in costume in interni tradizionali e paesaggi nazionali, non 4 solo costituirà il modello per tutti i musei etnografici europei dei decenni successivi, ma porterà alla creazione dei musei patriottici. Il primo di essi è non a caso in Svezia: si tratta del Nordiska Museet di Stoccolma, fondato dal filologo Artur Hazelius (1833-1901) e inaugurato nel 1880, seguito dal museo francese (1884), danese (1885), tedesco (1889). Hazelius va ricordato anche per il primo museo all’aperto a Skansen, inaugurato nel 1891 con circa 150 edifici provenienti da diverse regioni svedesi smontati e ricostruiti in modo da formare un villaggio che riproduce la vita svedese tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo; anche questo museo farà scuola e verrà imitato in tutta Europa. NORDISKA MUSEET, STOCCOLMA: FOTOGRAFIE DI COSTUMI TRADIZIONALI DI FINE OTTOCENTO SKANSEN, STOCCOLMA, 1891 5 All’interno della produzione artistica nazionalista, un filone interessante per il suo significato allegorico è quello filoellenico, che appoggiava cioè la lunga lotta dei Greci per la liberazione del paese dal dominio turco. Letteratura e arte filoellenici ebbero una diffusione internazionale sull'onda della commozione suscitata da questo impari scontro tra un popolo asservito e un immenso impero, che diventava anche simbolo della lotta tra Occidente e Oriente. Decisivo fu il contributo del più popolare poeta dell'epoca, Lord George Byron (1788-1824), alla causa filellenica. Anche i pittori italiani si appassionarono a questi temi, che non solo permettevano di adombrare la sorte simile dell'Italia, anch'essa dominata da un impero straniero, ma davano pure la possibilità di cimentarsi con la rappresentazione di vicende avventurose e terre esotiche e leggendarie. Ad esempio, Cesare Mussini (1804-79) ritrae in Saremo liberi (1849) un greco che si suicida insieme alla propria compagna per non cadere in mano turca. CESARE MUSSINI, SAREMO LIBERI, 1849 L’esponente più celebre della pittura filoellenica è però il francese Eugène Delacroix (1798-1863), il quale si cimenta spesso con il tema. Il suo Il massacro di Scio (1824) mostra alcuni civili greci feriti e in punto di morte che stanno per essere massacrati dai turchi. Si tratta di uno dei numerosi dipinti che l’artista realizza riguardo a quest'argomento di cronaca a lui contemporanea, esprimendo la simpatia per la causa greca nella guerra d'indipendenza contro i turchi, un sentimento assai diffuso tra gli intellettuali europei dell'epoca. 6 EUGÈNE DELACROIX, IL MASSACRO DI SCIO, 1824 Delacroix realizza un secondo quadro a sostegno dei greci in lotta per l'indipendenza, questa volta ispirandosi alla cattura di Missolungi da parte delle forze turche nel 1825. La Grecia morente sulle rovine di Missolungi (1826) è una allegoria che mostra una donna in costume greco con il seno scoperto e le braccia mezze alzate in segno di implorazione prima che si verifichi un'orribile scena: il suicidio dei greci che preferiscono togliersi la vita e distruggere la propria città piuttosto che arrendersi ai turchi. In basso si scorge una mano il cui proprietario è stato schiacciato dalle macerie. Il dipinto vuole essere un monumento commemorativo per la gente di Missolungi e per l'ideale di libertà in opposizione alle regole della tirannia. La caduta di Missolungi interessa Delacroix non solo per la sua simpatia verso i greci, ma anche perché il poeta Byron, che ammirava moltissimo, era morto in quel luogo. 7 EUGÈNE DELACROIX, LA GRECIA MORENTE SULLE ROVINE DI MISSOLUNGI, 1826 La Libertà che guida il popolo (1830) venne invece realizzata da Delacroix per ricordare la lotta dei parigini contro la politica reazionaria di Carlo X (1757-1836) di Francia. Oggi l'opera è conservata al Musée du Louvre di Parigi. Il personaggio della libertà costituisce il primo tentativo di riprodurre un nudo femminile in abiti contemporanei; fino ad allora i nudi venivano solitamente filtrati attraverso rappresentazioni di carattere mitologico o di storia antica. Delacroix riuscì a superare il problema dell’accettazione del nudo attribuendo alla donna la funzione allegorica della Libertà. EUGÈNE DELACROIX, LA LIBERTÀ CHE GUIDA IL POPOLO, 1830 8 Nel dipinto è rappresentata la lotta per la libertà di varie classi sociali, dal borghese al popolano al militare, incitati da una figura femminile che incarna la Libertà. Benché la rivolta del 1830 sia stata borghese, l'autore inserisce nel dipinto tutte le classi sociali: il borghese (probabile autoritratto di Delacroix), il proletario, il soldato, il bambino. La figura della Libertà, rappresentante Marianne, ricorda la Venere di Milo, scoperta nel 1820, ed è un omaggio a questo ritrovamento. Ella indossa il berretto frigio, simbolo di libertà, stringe nella destra la bandiera repubblicana francese e nella sinistra un fucile. L’opera mette in evidenza le differenze tra l'approccio all'arte romantico e lo stile neoclassico. Si tratta probabilmente del suo dipinto più famoso e rappresenta un'indimenticabile immagine dei parigini che si sono sollevati in armi e marciano insieme sotto la bandiera tricolore. La donna rappresenta la libertà e l'indipendenza; Delacroix si ispira ad eventi a lui contemporanei per evocare l'immagine romantica dello spirito della libertà. Nel quadro l'artista sembra aver cercato di rappresentare lo spirito e il carattere del popolo più che glorificare gli avvenimenti del momento, la rivolta contro Carlo X, che non otterrà altro che di insediare sul trono un altro re, Luigi Filippo (1773-1850). Contrariamente a quanto era avvenuto in Francia, dove i pittori avevano potuto rappresentare le vicende della storia contemporanea e addirittura celebrare la gloriosa epica popolare delle barricate del luglio 1830, la situazione politica italiana, condizionata dallo stretto controllo imposto dall'egemonia asburgica, non consentì agli artisti di rappresentare le vicende patriottiche precedenti l'unità d'Italia. La situazione cambia dopo l’unificazione del paese, cui contribuisce un’arte che potremmo definire “militante”. Tutti conoscono Giuseppe Mazzini (1805-1872) come insurrezionalista repubblicano, fondatore della “Giovine Italia”, ma non tutti sanno quanto lui amasse l’arte, e quanto credesse nel potere che la pittura aveva di comunicare ideali politici. Nel 1841 scrisse un importante saggio, intitolato Le peinture moderne en Italie, in cui affermava che l’Italia andava unificata non solo politicamente, ma anche culturalmente, e pensava che in questo grande progetto di unificazione l’arte, grande motivo di orgoglio per il popolo e la storia italiana, potesse svolgere un ruolo fondamentale. Mazzini riteneva che fosse il Romanticismo Storico del pittore Francesco Hayez (1791-1882) e del letterato Alessandro Manzoni (1785-1873) il movimento artistico e culturale che aveva saputo esprimere meglio gli ideali politici e nazionalisti del suo tempo. Mazzini amava molto anche i macchiaioli toscani, gruppo di artisti formatosi a Firenze nel 1855, che oltre alla rivoluzione tecnica di dipingere non più per sfumature ma per macchie di colore accostate l’una all’altra, avevano come lui profondamente aderito ai principi democratici e repubblicani. Alcuni tra i pittori macchiaioli, come Giovanni Fattori (livornese, fondatore del gruppo Macchiaiolo, 1825-1908) e Gerolamo Induno (1825-1890), partirono anche sul fronte di guerra, vivendo in prima persona la celebre battaglia di Magenta. Uomini pronti a combattere per l’unificazione della propria patria: l’Italia. Giovanni Fattori, in Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta (1861-62), ritrae proprio la cruenta battaglia in cui morirono più di 6.000 soldati. La vittoria franco-piemontese del 4 giugno sull’esercito austriaco fu il primo grande passo verso l’Unità d’Italia. 9 GIOVANNI FATTORI, IL CAMPO ITALIANO DOPO LA BATTAGLIA DI MAGENTA, 1861-62 Il dipinto celebra uno degli episodi più noti della seconda guerra di indipendenza italiana. La scelta rappresentativa sposta però la visuale su un momento particolare dello scontro: il ritorno dei feriti. L’artista ha ritratto il momento successivo alla battaglia, quando ormai il fervore si è acquietato. La visione dello scontro è in lontananza e quasi metà del quadro è simbolicamente occupata da un cielo azzurro che si apre verso l'infinito, espandendo la prospettiva del dipinto e consentendo nel contempo l'ampliamento degli orizzonti dello spettatore, che già guarda “da fuori" gli eventi. Anche Induno dipinse La battaglia di Magenta, come Fattori abbandonando la precisione dello sfumato, ma usando anche il colore in modo nuovo e “rivoluzionario”: per macchie di colore che creavano un’immagine sintetica, ma di forte impatto. La sua prospettiva è molto diversa da quella di Fattori, dato che si fonda sulla descrizione delle vicende militari più che sugli aspetti emozionali. GEROLAMO INDUNO, LA BATTAGLIA DI MAGENTA, 1861 Induno in particolare fu uno dei più validi soldati di Garibaldi. Le sue opere sono esposte nel Museo del Risorgimento di Milano (museo che illustra quel periodo della 10 Storia Italiana che va dalla prima campagna di Napoleone Bonaparte in Italia, nel 1796, al Regno d’Italia, nel 1870) con una serie di tele in cui ha saputo con grande abilità ritrarre i fatti di guerra in ordine cronologico, come se stesse col pennello narrando fatti di cronaca. I suoi quadri sono come degli appunti, delle annotazioni visive di ciò che accadeva sui campi di battaglia. Infatti la tecnica del colore dato per macchie è risolta in modo molto veloce. La sua attenzione non andava tanto ai combattimenti quanto ai combattenti; i volti dei soldati hanno una fortissima carica espressiva. Induno è forse il principale esponente un filone pittorico destinato a grande successo anche nell’ambito delle commissioni ufficiali, orientate a una promozione e celebrazione dei successi nazionali: nel 1859 Bettino Ricasoli (1809-1880), allora ministro degli Interni del Governo Provvisorio toscano, indiceva un memorabile concorso pittorico per la rappresentazione delle battaglie fondamentali del Risorgimento (Curtatone, Palestro, San Martino e Magenta), vinto da Giovanni Fattori con il dipinto sopra analizzato. Rientra nel gruppo, tra gli altri, anche Amos Cassioli (1832-91) con La battaglia di Legnano (1860-70), il cui cartone vince nel 1860 il concorso indetto dal Governo Provvisorio della Toscana. Il grande dipinto che seguirà, terminato solo nel 1870, impone Cassioli all’attenzione dei contemporanei come pittore di storia. AMOS CASSIOLI, LA BATTAGLIA DI LEGNANO, 1860-70 Questi artisti che partirono in guerra furono chiamati pittori-soldati, poiché continuarono ad essere artisti anche in campo di battaglia. Portarono con se, oltre alle armi e alla divisa, anche le tele e i pennelli e dipinsero scene di battaglia e le macerie generate dalla brutalità della guerra. Dopo il crollo degli ideali mazziniani, però, la rivoluzione del gruppo dei Macchiaioli continua dal punto di vista pittorico, ma i temi affrontati non sono più quelli patriottici, bensì scene di vita quotidiana più intima e raccolta, che nulla ha a che fare con lotte politiche. Mazzini apprezzava soprattutto Hayez, pittore che secondo lui aveva saputo comunicare ideali di patriottismo, nazionalismo, e nei suoi dipinti aveva giustamente esaltato il Medioevo come periodo storico Italiano dove il sentimento nazionalista era forte come nel suo tempo. Alle azioni patriottiche più isolate, come nel caso dei moti carbonari, si andava sostituendo, grazie proprio all'iniziativa mazziniana, una strategia collettiva più 11 coordinata tra le diverse zone del paese. Questo determinò un diverso approccio dei pittori nei confronti della storia. Dai dipinti basati sulla vicenda tragica del singolo eroe, si passò alla rievocazione di episodi in cui il protagonista era proprio quel popolo vagheggiato poi nel pensiero di Mazzini, dando vita alla cosiddetta “pittura civile” di cui massimo esponente fu Hayez. Esprimere, da parte del pittore, con uno stile più disteso rispetto a quello degli anni precedenti, la coralità dell'azione popolare significava esaltare la forza coesiva e la possibilità di tradursi in un'azione storica positiva dei grandi ideali. Ideali che, ricercati nel passato, dovevano diventare strumento per il riscatto politico e morale della nazione italiana. La battaglia romantica risultava ormai vinta, e la pittura era chiamata ad assolvere un'alta funzione educativa. Il pittore storico non si interessava quindi più, come nella precedente epoca neoclassica, a soggetti mitologici, ma dipingeva vicende storiche per comunicare un particolare messaggio. Pertanto diventava necessario, come poi preciserà uno dei maggiori critici del tempo, Pietro Estense Selvatico, in Sull'educazione del pittore storico odierno italiano pubblicato a Padova nel 1842, che gli artisti approfondissero la loro cultura letteraria e disponessero di una preparazione storica che li mettesse in grado di riprodurre fedelmente la meccanica degli avvenimenti, i personaggi, i luoghi, i costumi e tutti gli accessori. Dalla rievocazione di personalità eccezionali il pittore passava a illustrare la vita del tempo e le vicende più significative, affinché potessero servire come esempio per il riscatto della nazione italiana. La figura del pittore storico venne quindi ad assumere un enorme prestigio e una funzione che, nel caso di Hayez, verrà consacrata appunto dall'autorità di Mazzini. Durante l'esilio londinese, l'uomo politico pubblicò infatti nel 1841 il già menzionato saggio su Le peinture moderne en Italie (firmato J. M. e uscito con il titolo Modern Italian Painters, in “London and Westminster Review”, vol. XXXV, gennaio-aprile 1841, pp. 363-390), che rimane la testimonianza più significativa sul Romanticismo storico. Hayez, scrive Mazzini […] non è pagano, né cattolico, né eclettico, né materialista: è un grande pittore idealista italiano del secolo XIX. È il capo della scuola di Pittura Storica, che il pensiero Nazionale reclamava in Italia: l'artista più inoltrato che noi conosciamo nel sentimento dell'Ideale che è chiamato a governare tutti i lavori dell'Epoca. La sua ispirazione emana direttamente dal Popolo; la sua potenza direttamente dal proprio Genio: non è settario nella sostanza; non è imitatore nella forma [...] Là è grande e solo: lo storico della razza umana, e non di qualcuna delle sue individualità preminenti. Nessuno, fin qui, tra i pittori, ha sentito come lui la dignità della creatura umana, non quale brilla agli occhi di tutti sotto la forma del potere, del grado, della ricchezza o del genio, ma quale si rivela agli uomini di fede e di amore [...] artista completo per quel tanto che i tempi lo permettono che assimila, per riprodurlo in simboli, il pensiero dell'epoca, quale esso s'agita compresso nel seno della nazione; che armonizza il concetto e la forma; idealizza le sue figure senza falsarle; crea protagonisti, non tiranni; fa molto sentire e molto pensare. 12 Forte era la convinzione che la pittura storica avesse sia una funzione didattica nell'illustrazione di personaggi, circostanze, ambienti e costumi, sia civile grazie all'incisività con cui proponeva messaggi morali o politici. Un tema diffuso in tutta Italia riguarda le Crociate, portate alla ribalta della pittura storica da Hayez con Pietro l'eremita che cavalcando una bianca mula con Crocifisso in mano e scorrendo le città e le borgate predica la Crociata del 1827-29. Il motivo della difesa della fede rispondeva alle esigenze ideali e politiche di quegli anni, mentre le suggestioni esotiche esaudivano i desideri d'evasione del pubblico contemporaneo. Questi temi derivavano sia da fonti storiche sia da una ormai fitta tradizione letteraria, dalla Gerusalemme liberata del Tasso ai moderni Lombardi alla prima Crociata (1826) di Tommaso Grossi, sicuramente la fonte più utilizzata dai pittori, ai romanzi storici di Walter Scott. FRANCESCO HAYEZ, PIETRO L'EREMITA CHE CAVALCANDO UNA BIANCA MULA CON CROCIFISSO IN MANO E SCORRENDO LE CITTÀ E LE BORGATE PREDICA LA CROCIATA ,1827-29 Un valore più decisamente politico fece la fortuna dei quadri che illustravano le invasioni straniere in Italia durante il Medioevo: la lotta tra Federico Barbarossa e gli antichi Comuni italiani, o le lotte degli Svevi contro gli Angioini. Mentre a fatti memorabili, come I Vespri siciliani, venne dato un immediato significato patriottico: ancora Francesco Hayez ne dà due interpretazioni, una del 1821-22 e una seconda del 1846. La storia racconta che in seguito all’oltraggio ad una fanciulla palermitana si scatena l’insurrezione contro gli Angiò, che dominavano in quell’epoca la città siciliana. I personaggi sono ancora molto legati alla rappresentazione di tipo Accademico, mentre i costumi sono stati rielaborati mischiando elementi della cultura popolare a quelli storici. 13 FRANCESCO HAYEZ, I VESPRI SICILIANI, 1846 Nel filone del culto degli uomini illustri, vennero celebrati non solo i grandi geni nazionali, ma anche quei personaggi che avevano meriti locali e servivano quindi a rivendicare l'orgoglio civico dei maggiori centri della provincia italiana. Sul versante della storia locale, i soggetti di storia lombarda, veneziana e fiorentina erano destinati, dopo un'iniziale fortuna municipale, a una popolarità in ambito nazionale. Ancora Hayez ne è un esempio con La congiura dei Lampugnani (1826-29): la congiura fu ordinata nel 1476 contro Galeazzo Maria Sforza. In quell’occasione tre giovani milanesi (Giovanni Andrea Lampugnani, Girolamo Olgiati e Carlo Visconti) si trovarono all’interno della chiesa di S. Stefano, aspettando il duca Galeazzo Maria Sforza per assassinarlo con un pugnale, ponendo così fine alla sua tirannide. La composizione di Hayez è teatrale, grazie all’uso della luce che rende l’atmosfera incalzante. Il fascino del dipinto consiste nell'assimilazione dei congiurati ai cospiratori carbonari ottocenteschi animati da un uguale spirito di libertà che dal 1820 organizzavano cospirazioni affinché l'Italia ottenesse libertà e unità. 14 FRANCESCO HAYEZ, LA CONGIURA DEI LAMPUGNANI, 1826-29 Una volta unificato il Paese, gli ultimi due decenni del Diciannovesimo secolo sono impegnati soprattutto alla costruzione monumentale dell’Italia unita al fine di alimentare il mito del Risorgimento e colmare lo iato tra paese “legale” e paese “reale” (Bruno Tobia, Una patria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita (1870-1900), Laterza, 1991, p. V). Mostrare insieme la modernità civile del paese e l’unità politica diviene un vero e proprio dovere patriottico, come si evince ad esempio dal “valore irradiante” (p. 25) dei nuovi edifici nelle parole dell’onorevole Ruspoli alla Camera: Un palazzo di giustizia ove risieda l’autorità suprema giudiziaria del regno: caserme e un campo d’armi che ispirino al popolo il sentimento della sua forza militare insieme al convincimento della sua sicurezza e l’orgoglio legittimo dei suoi nuovi destini: un policlinico, un palazzo delle scienze, un palazzo delle belle arti che simboleggino il progresso intellettuale d’Italia, sono codeste le sole opere che potranno mostrare come Roma sia chiamata ad una terza riscossa, ad essere cioè la vita ed il centro di una nuova gloriosa civiltà italiana” (ibidem). Opere architettoniche quali il monumento a Vittorio Emanuele II di Savoia (182078), primo re d’Italia, o il futuro Palazzo di Giustizia in Prati non sono quindi exempla isolati nella città,ma opere congrue ad un progetto di nuova città monumentale in cui si leghino il passato archeologico romano e la modernità liberale. Il vincitore del progetto per il Vittoriano, il giovane architetto marchigiano Giuseppe Sacconi (1854-1905), si ispira ai grandi monumenti classici come l’altare di Pergamo, per realizzare un grande spazio 15 pensato come un "foro" aperto ai cittadini, in una sorta di piazza sopraelevata nel cuore della Roma imperiale, simbolo di un'Italia unita dopo la Roma dei Cesari e dei Papi. IL VITTORIANO, 1885-1911