Leggi on line - SATURA art gallery

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SaTuRa
Trimestrale
di arte letteratura e spettacolo
Redazione
Giorgio Bárberi Squarotti,
Milena Buzzoni, Giuseppe Conte,
Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia,
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Anno 5 n° 19
terzo trimestre
Autorizzazione del tribunale
di Genova n° 8/2008
In copertina
Rodolfo Vitone, OOHH, tecnica mista
su carta, 50x35, 1981
SATURA è un trimestrale di Arte
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sommario
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INTERVISTA
A CORRADO CALABRÒ
Liliana Porro Andriuoli
QUATTRO POESIE
Vikingo
La vita dietro i fiori
Temporale marino
Ultimo aquilone
di Liana De Luca
CULTURA E DINTORNI
IN TEMPO DI CRISI
Fiorangela di Matteo
LA VOLPONA
Guido Zavanone
93
BERLINO: LA RETORICA DI IERI,
LA PROMESSA DI DOMANI
Milena Buzzoni
IL BORGO
UN PRESEPE DA SCOPRIRE
Wanda Castelnuovo
96
GOZZANO
LETTORE DI NIETZSCHE
Fabrizia Scapinello
33
DA QUATTRO ANGOLI
DEL MONDO
Giuliana Rovetta
42
QUATTRO POESIE
La commedia dell’arte
La tragedia
Waterman
Volatili
Davide Puccini
44
NATURA E LETTERATURA
Di Rosa Elisa Giangoia
57
LA RISCOPERTA IN FRANCIA
DEL POETA JEAN-MAX TIXIER
Bruno Rombi
61
PROSPEZIONI
Fedeltà alla vita
Stefano Verdino
Scrittori dietro le sbarre
Giuliana Rovetta
Genova, una storia
Giuliana Rovetta
Rimembranze e presenze femminili
Liana De Luca
CRITICA
RODOLFO VITONE
TRENT’ANNI DI RICERCA
E DI CREATIVITÀ
Renato Barilli
74
LE SCULTURE DI PALADINO
NELL’AMBIENTE
DELLA PINACOTECA
PROVINCIALE DI BARI
Silvia Bottaro
78
INTERVISTA A RENATA MINUTO
Sonia Pedalino
81
84
IL PERSONAGGIO
IINTERVISTA A GIULIANO DORIA
DIRETTORE DEL MUSEO
DI STORIA NATURALE
DI GENOVA
Francesca Camponero
91
24
65
89
ARCHITETTURA
IL LIBERTY MESSO IN RIGA
Gianluigi Gentile
FUMETTO
L’IRRAZIONALITÀ E L’EMOTIVITÀ
DI LORENA CANOTTIERE
Manuela Capelli
IL CONCERTO
LA PRIMA MONDIALE
DI GIOVANNI ALLEVI
AL CARLO FELICE
Francesca Camponero
98
ANDANDO PER MOSTRE
Wanda Castelnuovo
108
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
Elena Colombo
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di Liliana Porro Andriuoli
Ogni individuo avverte in sé il richiamo della propria terra d’origine: in
quale misura ha influito nel suo caso particolare questo richiamo, sia per quanto riguarda la sua identità di poeta che per quella di uomo? Il mare è stato per
lei una specie di culla primigenia, condizionando gran parte della sua attività
poetica: cosa ha rappresentato il mare nella sua vita? Quale significato assume nella sua poesia?
Non ricordo l’età in cui ho cominciato a nuotare. Dev’essere stata un’età antecedente quella della ragione. Per me è difficile immaginare che uno non sappia
nuotare come non ci passa per la testa che qualcuno non sappia camminare. Avevamo una casa di villeggiatura a Bocale (ch’è solo a quindici chilometri da Reggio
Calabria, ma che allora sembrava Macondo), al bordo della spiaggia. In autunno,
con le mareggiate, le onde giungevano fino alla soglia di pietra e la smuovevano.
Lì, ma anche altrove sulla costa ionica (a Locri, a Roccella, a Soverato), dove avevo dei parenti, d’estate facevo grandi nuotate. Ho, così, tra l’altro attraversato a
nuoto più volte il mare lungo la spiaggia di Riace senza sospettare minimamente che sotto pochi metri d’acqua ci fosse un’altra presenza: i guerrieri di bronzo,
rimasti distesi sopra un letto di sabbia per millenni e levatisi in piedi ai nostri giorni come se soltanto adesso, soltanto per noi, prendessero forma dall’inconscio dello scultore che li ha plasmati. Due statue bellissime, le più belle statue in bronzo
che ci siano pervenute dall’antichità; corpi perfetti, di contemporanei, ma con gli
occhi di chi non ha più fretta. Da ragazzo uscivo in mare, di notte, coi pescatori;
di giorno, con la barca a vela.
Passavano al largo le navi che attraversavano lo Stretto di Messina e piano piano s’allontanavano fino a venire ingoiate dalla distesa liquida. Avrei voluto seguirle, a nuoto o in barca, fino a veder aprirsi dinanzi a me un nuovo
orizzonte.
È questa una sensazione che il mare mi lascia dentro da sempre: la possibilità, l’impulso a sfuggire al condizionamento delle strade (ferrate o asfaltate) terrestri, l’aspirazione a inoltrarmi in una dimensione inesplorata. Lo stesso impulso che, proprio in quell’epoca, sui 15 anni, m’indusse a scrivere le prime poesie.
Il mare lo si porta verso il petto a ogni bracciata, ma non lo si trattiene;
eppure, chi si è inoltrato in mare aperto non dimentica più quella sensazione
di indeterminatezza e al tempo stesso di appartenenza.
Si direbbe che il mondo della scienza eserciti un enorme fascino su di
lei, sia dal punto di vista delle nuove scoperte e della loro ricaduta sul nostro
modo di vivere sia, e ancor più, dal punto di vista della formulazione delle sue
leggi e dei suoi principi, da cui quelle scoperte hanno tratto origine. Cosa la
attira tanto del pensiero scientifico da far sì che esso si ripercuota anche nel
suo modo di fare poesia, come è ad esempio avvenuto in Roaming?
Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò
INTERVISTA A CORRADO CALABRÒ
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Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò
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Sono, da sempre, appassionato di fisica, e in particolare di astrofisica. Oggi
è l’astrofisica a porsi i grandi interrogativi sull’origine, sulla fine dell’universo e
dell’esistenza che una volta si ponevano la religione e la filosofia. È l’astrofisica
a disegnare la cosmogonia. Nello stesso tempo, dall’immensamente grande la fisica si rivolge anche all’immensamente piccolo, alle particelle elementari. Nell’acceleratore di Ginevra si cerca di scoprire le componenti ultime della materia e
dell’energia e allo stesso tempo si mira a ricreare le condizioni in cui si trovava
l’universo dopo qualche centesimo di secondo dal Big Bang.
Ma come avviene questa ricerca? Pur con gli strumenti tecnologici più avanzati non possiamo vedere le particelle ricercate, ma solo dedurne l’esistenza
esaminando gli effetti delle collisioni ad altissima velocità tra le particelle accelerate nel circuito. Anzi, spesso, non vediamo neanche l’effetto diretto di quelle collisioni ma soltanto delle particelle mediatrici, dalla cui angolazione e curvatura desumiamo l’esistenza delle particelle ricercate.
Che significa tutto questo? Significa che sulle frontiere più avanzate della scienza non si ha percezione diretta dei fenomeni ma, per così dire, intuizione indiretta, allusiva, evocatrice degli stessi.
Ma non è questo il linguaggio della metafora, cioè della principale figura simbolica di cui si avvalgono i poeti per dire una cosa facendone intendere un’altra?
Sull’estremo confine della conoscenza, dunque, scienza e poesia si ritrovano.
Mi sembra che la sua poesia cerchi un equilibrio fra due diverse polarità: da un lato infatti lei sembra avvertire l’attrazione verso le forme classiche
della nostra tradizione letteraria, dall’altro ha un linguaggio e un ritmo del tutto moderni. È sua intenzione quella di raggiungere una compiuta sintesi tra il
passato e il futuro? Quale valore ha secondo lei la tradizione nella nostra moderna poesia?
Sono da sempre innamorato della poesia antica: con Omero, con i lirici
greci la poesia ha raggiunto vertici mai superati e forse mai eguagliati. Ancora oggi, per esprimere qualcosa che sento premere oscuramente dentro, mi vengono sulle labbra i versi di qualche lirico greco.
La mia non è una “maniera” letteraria. All’opposto, falserei la spontaneità della mia espressione se rinnegassi questo genoma che mi caratterizza.
Ma ciò non toglie, ovviamente, che io sia un uomo inserito nella realtà
contemporanea con gli interessi e le nozioni d’oggi, né che ignori i secoli di elaborazione poetica intercorsi. Della esperienza dei grandi lirici io conservo questo insegnamento, questo “credo”: l’incisività del segno poetico, il rifiuto del
qualunquismo per il quale l’espressione poetica non ha una sua connotazione, fluisce via amorfa come l’acqua.
Salvo questo imprinting, il dettato poetico non può che essere quello che
la realtà vivente (e non la reminiscenza letteraria) ci induce a “dire”. E in questa realtà entrano irrecusabilmente parole nuove, sanguigne, sullo sfondo dell’attuale concezione del mondo e dei rapporti sociali. Sarebbe quindi innaturale ricusare il nuovo; anche nel ritmo che spesso è più sincopato, più contratto del ritmo classico (ma già gli antichi conoscevano i versi giambici e i voli pindarici sorvolano i secoli).
Ambizione? È una parola grossa e un po’ esteriore. Tutto il mio sforzo è di
restare il più fedele possibile a quel lampo di bellezza che m’ha attanagliato nell’istante della folgorazione poetica. Il poeta, se vuole farlo intravedere agli altri,
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La sua poesia recentemente ha assunto, accanto a quello lirico, un andamento poematico. Quale ritiene le sia più congeniale?
Ho scritto poesie delle dimensioni più varie: di una o due pagine, di uno o pochi versi (La penuria di te mi affolla l’anima. // Sei apparsa sul mio sentiero / come
una nuvola fredda / che in un istante è grande quanto il cielo. // Alla notte / anche
questo giorno si consegna. / Come la notte al giorno / come il giorno alla notte mi
manchi.). Ma ho scritto anche, fin dall’inizio, poesie che hanno l’estensione del poema. Ad esempio: Colpo di luna (quando avevo 18 anni), L’esorcismo dell’Arcilussurgiu (nel 1984), Il vento di Myconos (nel 1992), e, ultimo, Roaming (nel 2008).
So che la dimensione del poema è poco frequentata (e poco accettata) dai
poeti italiani contemporanei. Ma io non obbedisco ad altra regola e misura che
a quella dell’ispirazione. Quando l’ispirazione finisce, poso la penna: non aggiungo né tolgo un verso. Roaming, ad esempio, ha ben 602 versi. L’ho scritto in due giorni e due notti, senza alzarmi dalla scrivania, senza togliermi il
pigiama, senza farmi la barba. 602 versi; non uno di più, né uno di meno.
Si considera un poeta essenzialmente d’amore?
Ho scritto molte poesie d’amore. L’amore ci spinge a oltrepassare la soglia del nostro egoismo per cercare il baricentro della nostra vicenda esistenziale fuori di noi stessi, nell’incontro col partner. C’è molto in comune tra l’innamoramento e l’impulso a poetare: entrambi rompono la scorza del nostro
ego. In poesia, come in amore, si smette di impersonare ruoli, di compiere azioni orientate a uno scopo e, nella ricerca della propria autenticità, si diventa qualcosa di diverso rispetto a ciò che eravamo prima di quell’esperienza.
“L’amore è essenzialmente un atteggiamento che l’infinito assume verso il finito. L’inverso si traduce in fede o in poesia”(Brodskij). Se il tema dell’amore ricorre così spesso nei versi dei poeti “ciò si deve non già alle storie
romantiche realmente vissute, bensì alla nostalgia del finito per l’infinito.”
Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò
quel lampo, deve inevitabilmente scendere a un compromesso, perché per esprimere l’inesprimibile deve usare le parole, vale a dire il mezzo più usato, più abusato, più sciupato che ci sia. Ma non può ricorrere al trucco di far credere di “dire”
quando non riesce a dire proprio niente; fingersi sarto senza stoffa e senza capacità di taglio e di cucito; pittore quando è solo un imbrattatele; poeta quando
è solo capace di arzigogolare intorno al suo piccolo io.
Il poeta deve “dire” quando gli è proprio impossibile reprimere quello
che gli urge dentro, affiorando da uno strato subliminale. “Dire” - s’intende col linguaggio della poesia, cioè non in maniera diretta, ma in modo allusivo,
evocativo. La poesia dice una cosa per farne intendere un’altra. Quando Garcia Lorca nel suo Lamento per Ignacio Sánchez ripete 25 volte “A las cinco de
la tarde”, non vuol certo dirci l’ora.
Ma da qui a giungere alla dissociazione e allo scetticismo cinico e autoderisorio di certa pseudo-poesia, ci corre molto. No, non si fa poesia buttando le parole come si buttano i dadi e nemmeno facendo il vuoto spinto.
È vero che l’evocazione provocata dalla poesia è indotta più dal “non detto” che dal “detto”. Ma non si tratta di un “non detto” generico: si tratta proprio del “non detto” suscitato da quello specifico “detto”.
Il verso non è qualcosa di ridicolo né un mezzo di autocompiacimento. Il
verso serve a tentare di esprimere quello che guardiamo con gli occhi di ogni giorno senza vederlo. In questo senso, come ha scritto D’Annunzio, “Il verso è tutto”!
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Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò
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I N T E R V I S TA A C O R R A D O C A L A B R Ò
Sì, c’è in amore, e c’è in poesia, un bisogno di assoluto, come se alla scala di Jacob si aggiungessero sempre nuovi gradini in funzione del nostro desiderio di salire. Un impulso analogo a quello che spinge il nuotatore ad addentrarsi in mare aperto e l’alpinista a salire sempre più in alto; analogo a quello che ha indotto Reinhod Messner a scalare, una dopo l’altra, le vette dell’Himalaya, persino senza ossigeno. Se la nostra individualità ci bastasse non c’innamoreremmo. Se la vita ci bastasse non faremmo poesia.
Ma ho scritto anche molte poesie sul mare (credo di essere il poeta che
ne ha scritte il maggior numero). E persino la guerra può essere fonte d’ispirazione della poesia, se si va oltre il convenzionale, se ci fa aprire gli occhi.
Che valore ha la narrativa nel contesto della sua produzione?
Mi è difficile rispondere perché non ho mai avuto il tempo per scrivere i romanzi che avrei voluto. Ne ho scritto solo uno, Ricorda di dimenticarla, in un periodo della mia vita in cui ero paralizzato a letto. È un romanzo in cui credo, ma che
probabilmente non è stato ritenuto bastante per farmi annoverare tra i romanzieri e non solo tra i poeti. È però vero che niente mi prende l’anima come la poesia.
Quale futuro pensa si dischiuda alla poesia in genere e a quella italiana
in particolare?
Si deve rigenerare. Deve tornare ad attingere alle sorgenti profonde e non
limitarsi a fare canalette per giochi cerebraloidi. I poeti saputi e insipienti di
oggi sono come i generali che giocano ai soldatini o ai videogame, senza mai
mettersi alla prova sul campo.
E il poeta Corrado Calabrò cosa vede nel proprio futuro?
Non programmo nulla per la mia produzione poetica. Nella casa della poesia la stanza più grande è la camera d’attesa. Nessuno, nemmeno il grande poeta,
sa se e quando scriverà di nuovo una vera, autentica poesia. Il poeta nasce e muore con la sua creazione e ogni volta lo fa con l’innocenza di una nuova nascita.
Quale influenza ha avuto la sua professione di magistrato sulla sua attività letteraria?
Sono due attitudini diverse, due emisferi cerebrali distinti. O, se preferisce, sono come due gemelli siamesi uniti dalla schiena che tirano in direzioni opposte. Coesistono, non interagiscono tra loro. Non so nemmeno se si tratti della stessa persona.
Il magistrato deve dare dimostrazione delle sue tesi con una logica irrecusabile. Il poeta scrive perché non può tacere quello che lui stesso non sa
di dover dire ma che poi, man mano che sgorga dal profondo, riconosce come
il messaggio che inconsciamente lui e il lettore attendevano. La poesia è come
un commutatore di banda che su uno schermo, sul quale ballavano caoticamente tanti puntini luminosi, faccia apparire all’improvviso le immagini.
In poesia all’inizio c’è un grande balzo in avanti dell’immaginazione. “Il
primo verso è sempre un dono degli dèi” ha detto Paul Valéry, ch’era sì un poeta ma aveva un temperamento non romantico; era un freddo, un raziocinante. Sì, “esistono ancora funzioni vestigiali della nostra area di Wernicke destra,
in qualche modo simili alle voci degli déi (Giuseppe Nappi).”
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Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò
CORRADO CALABRÒ è nato a Reggio Calabria, sulla riva del mare.
Il primo volume di poesie di Calabrò, scritto tra
i diciotto e i vent’anni, venne pubblicato nel 1960
dall’editore Guanda di Parma col titolo Prima attesa. Sono venuti poi numerosi altri volumi, tra
cui: Agavi in fiore (1976), ed. SEN; Vuoto d’aria
(1979 e 1980, tre edizioni), ed. Guanda; Presente anteriore (1981), ed. Vanni Scheiwiller; Mittente sconosciuta (1984), ed. Franco Maria Ricci; Rosso d’Alicudi, pubblicato nel 1992 (tre edizioni) da
Mondadori, raccolta completa (all’epoca) delle poesie di Calabrò; Lo stesso rischio (Le même risque)
(2000), ed. Crocetti.
Nel 2002 ancora Mondadori ha pubblicato una
vasta raccolta dell’ultraquarantennale produzione poetica di Calabrò, in un Oscar dal titolo Una vita per il suo verso (due edizioni).
Del 2004 è la raccolta Poesie d’amore, edita da Newton & Compton. Sono uscite infine nel 2009
i due più recenti volumi di poesie di Calabrò: La stella promessa, nella collezione “Lo Specchio” di Mondadori; T’amo di due amori, raccolta tematica delle sue poesie d’amore (con un
CD che contiene 19 poesie lette da Giancarlo Giannini), Vallardi.
Numerose sono le traduzioni delle sue poesie: quattro in spagnolo; due in francese, inglese,
ungherese, svedese, ucraino; una in rumeno, russo, serbo, portoghese, greco, polacco, danese (e, in frammenti, in altre tre lingue).
Delle poesie di Calabrò sono stati fatti vari compact disks con le voci di alcuni dei più apprezzati interpreti: Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra. Il suo poemetto Il vento di Myconos (tradotto in greco) è stato trasposto in musica classica: la prima rappresentazione è avvenuta a Roma, nell’Auditorium Santa Cecilia, il 6 dicembre 2005.
I testi di Calabrò sono stati più volte presentati in teatro, in recitals-spettacoli, in varie città
in Italia e all’estero (Roma - al Teatro Argentina e all’Auditorium Conciliazione -, Torino - al
Teatro Regio -, Milano - al “Piccolo” -, Genova - al Teatro Govi -, Bari, Cagliari, Orvieto, Foggia,
Arezzo, Perugia, Pesaro, Lodi, Vicenza, Vercelli, Cosenza, Pavia, Reggio Calabria, Sidney, Melbourne, Varsavia, Parigi).
Calabrò è autore anche di un romanzo, Ricorda di dimenticarla (Newton & Compton, 1999),
finalista al premio Strega del 1999. Ad esso è ispirato il film Il mercante di pietre, regista Renzo Martinelli.
Per la sua opera letteraria l’Università Mechnikov di Odessa, nel 1997, e l’Università Vest Din
di Timişoara, nel 2000, hanno conferito a Calabrò la laurea honoris causa.
Merita un cenno anche l’attività professionale di Calabrò magistrato.
Dopo una laurea in Giurisprudenza, conseguita nel giugno 1957 all’università di Messina, Calabrò ha fatto carriera prima nella Corte dei Conti e poi, dal 1968, nel Consiglio di Stato, del
quale nel 1982 è diventato Presidente di sezione. Dal 2002 al 2005 è stato Presidente del Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore. Il 9 maggio 2005 è stato nominato, con
decreto del presidente della Repubblica e su indicazione del Consiglio dei ministri, presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Calabrò, specialista di Diritto del lavoro e di Diritto amministrativo, è autore di numerosi volumi in materia.
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Liana De Luca Vikingo
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QUATTRO POESIE
di Liana De Luca
Vikingo
Percorre
le fredde e turbinose acque del nord
alla ricerca
di ricche spiagge da prede e bottini.
Intanto affissa
approdi in terre lontane e nuove
sospinto dalla brama di avventura.
Sicuri i compagni eseguono gli ordini
chini sui remi
in cabotaggio lungo la costiera
o al primo vento
issano la quadrata vela a scacchi
secondo il meteo di antico sapere.
Gli occhi
sono fissati negli occhi del drago
scolpito
in cima alla spirale della prua
ma il cuore
è nella casa a forma di nave
illuminata da una chioma bionda.
Sulla drakkar
fende il pirata la nebbia compatta
sicuro
fino a tornare a riveder le stelle
inquieto
nella sua solitaria solitudine
alla scoperta di un nuovo mondo.
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Q U AT T R O P O E S I E
La vita dietro i fiori:
fiori di ghiaccio alla finestra.
La strada
non è più quella di tutte le sere.
(Piume cadute dalle ali degli angeli
le nevi trapuntano fiabe!)
Un sentiero d’impronte
continua languido dietro la svolta.
Nell’ombra bianca
una lampada filtra
riflessi d’acquario.
Temporale marino
Pioggia
sulla spiaggia dove ho camminato
fulmini
sul bikini furtivamente indossato
mareggiata
sull’impronta di un ricordo dimenticato.
Fra i morbidi seni delle colline
giace il franto frattale di un frantoio
e i tronchi dei carrubi assumono
sembianze di figure mitologiche.
Singhiozzano i gabbiani in rapida discesa
alla ricerca di un’onda stabile
nell’inganno fugace della linea d’ombra.
E il vento, il vento
scivola sulla pelle abbrividita
avvolge mulinelli nella sabbia dei capelli
ulula canoni inversi nelle vene
avviluppa con collane di conchiglie
stasa le valve dei sensi addugliati
travolge le risorse del riserbo
fibrilla nei ritmi scomposti del cuore
in sarabanda di estivo temporale.
Liana De Luca La vita dietro i fiori - Temporale marino
La vita dietro i fiori
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Liana De Luca Ultimo aquilone
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Q U AT T R O P O E S I E
Ultimo aquilone
Ultimo bagno
ultima passeggiata ultimo incontro
ultimo segno dell’unghia sul libro
ultima sabbia sotto la doccia
ultimo raggio di sole negli occhi.
Un bambino solleva un aquilone
tirando due cordini:
un poco sale,
cade, risale, si affloscia
e precipita come falena
nell’arco della luce.
Raccoglie il bimbo deluso
le ali fradice di mare:
ultimo gioco fallito.
E come gli adulti spera
nell’aquilone dell’estate prossima.
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di Guido Zavanone
Riassunto delle puntate precedenti (1)
Maria, detta la Volpona, è un’anziana e ricca vedova, che vive nel culto del denaro, circondata da una piccola corte di persone che sperano nella sua eredità
e l’accudiscono quasi gratuitamente.
Tutta tesa ad accrescere il proprio patrimonio, la Volpona acquista, con ingegnosi quanto spregiudicati artifici, un grande appartamento di proprietà della
sua parrocchia, per poi destinarlo a Casa di Riposo per anziani, il “San Pio”,
che gestisce senza scrupoli, ricavandone cospicui guadagni.
Ma, un giorno, irrompe nei locali dell’Istituto la Guardia di Finanza, che sequestra
la documentazione contabile e interroga gli anziani ospiti. Successivamente intervengono gl’ispettori sanitari che dispongono la chiusura della struttura per
varie settimane, mentre la Procura apre un procedimento penale nei confronti
della Volpona, accusandola di frode fiscale, maltrattamenti e persino di omicidio
colposo in persona di due anziani. Del caso si occupano anche i giornali e la televisione nazionale che mettono impietosamente alla gogna Maria.
Nel dibattimento penale la Volpona proclama la sua innocenza ed è abilmente difesa da un principe del Foro, l’avvocato Filippone. I giudici del Tribunale si sono
ritirati in camera di consiglio e Maria attende, con il cuore in gola, la sentenza,
consapevole che è in gioco tutto quanto da lei faticosamente costruito in vita.
(1) Apparse sui numeri 5 – 7 – 9 – 10 – 11 – 12 - 13 -14 – 15 - 16 - 17 di questa rivista.
La Volpona ancora singhiozzava “Sono innocente”, guardando la scritta
“La legge è uguale per tutti” e il crocefisso –“Vedete anche a me cos’hanno
fatto”, quando il collegio tribunalizio ricomparve, circonfuso di mistero.
Come per incanto si era acquietato il vociare degli spettatori, richiamati
in aula dallo squillare imperioso della campanella del Tribunale. E, nel silenzio più assoluto, il Presidente, schiaritasi la voce, lesse la sentenza, che, preceduta dall’evocazione degli articoli di legge applicati, dipinse lo sconforto
sui volti dei rappresentanti dell’Accusa e della Parte civile, mentre un sorriso
trionfante illuminava i tratti, finora tesi, dell’avvocato Filippone.
Era l’assoluzione da “tutti i reati ascritti” con formule varie; e Maria, appena udite le parole liberatorie, si sollevò con insospettato slancio dal seggiolone e gettò le braccia al collo del suo difensore. Il quale, mentre cercava di
calmare le effusioni dell’anziana donna, già pregustava lo schiudersi, per lui,
di tanti altri lucrosi patrocini in favore delle numerose Case di riposo coinvolte in analoghi scandali.
“E ora santificatela”, non poté trattenersi dal dire il Pubblico Ministero;
e parve una stonatura nello scrosciare degli applausi.
Guido Zavanone La Volpona
LA VOLPONA
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Guido Zavanone La Volpona
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LA VOLPONA
Maria volle tornare subito al suo “San Pio”, dove l’attendeva un piccolo
assembramento di persone desiderose di congratularsi con lei e condividere
la sua gioia. Lei si teneva abbracciata alla statua di San Pio, che, evidentemente,
aveva fatto un altro dei suoi miracoli; e non certo il minore.
Però il Santo aveva sempre quel suo sguardo severo ed un poco imbronciato; e forse per questo la Volpona, lasciata la statua, scese a pregare nella
cappella adorna di fiori, sotto gli occhi sorridenti e indulgenti della Madonna
di Medjugorie.
È di comune esperienza che i processi, quelli penali come quelli civili, allungano la vita dei protagonisti, quasi che la spasmodica attesa del loro esito
esalti le difese immunitarie. È, questa, verosimilmente, la ragione per cui in Italia, dove i processi sono pressoché interminabili, si vive più a lungo che in
ogni altro Paese del mondo (giapponesi a parte, di cui non possediamo statistiche attendibili sulla durata dei processi).
Fatto sta che la Volpona, la quale fino allora godeva di una salute di
ferro, d’improvviso si ammalò.
Ci fu qualcuno, forse qualche spirito faceto, che le consigliò di farsi visitare dal famoso geriatra dell’Università del Buon Consiglio che, con la sua illuminata dottrina, tanto aveva contribuito alla vittoriosa conclusione del
processo; altri le suggerì il primario che –grande amico del presentatore- imperversava da anni sulla televisione nazionale (e aveva per ciò stesso quadruplicato i propri guadagni); altri ancora, uccelli del malaugurio, volevano
indirizzarla da un oncologo di chiara fama, e d’insaziata fame.
Ma la Volpona per istinto rifuggiva da professori e primari (per meriti
politici, diceva) che, per il solo fatto di fregiarsi di siffatte qualifiche, raddoppiavano spudoratamente le parcelle. Preferì rivolgersi al medico della mutua.
“Tanto sono tutte bestie” proclamava con sano realismo: confortata in tale
suo convincimento proprio da quanto raccontato in udienza dal geriatra circa
la dimezzata mortalità riscontrata durante i mesi di sciopero dei sanitari.
Il medico di base, per principio, scriveva ricette e non s’imbarcava in
diagnosi avventate; solo prescriveva, a volte, una raffica di esami clinici da
svolgersi – dati i tempi biblici del Servizio sanitario – da parte di medici “non
convenzionati” suoi amici, con cui intratteneva continui e salutari rapporti gastronomici. Nel caso della Volpona, il bravo medico prescrisse un gran numero di esami che, tanto per non sbagliarsi, non risparmiavano alcuna parte
del corpo umano.
I risultati degli esami furono impietosi; e impietoso fu lo specialista che,
rivolto all’impaurita vecchietta: “Ma sa che lei ha un bel cancro” annunciò. “Poteva aspettare ancora un po’ a fare gli esami” ammonì severo. Poi le spiegò che
aveva un tumore al colon, ma che alcune cure appropriate (l’intervento chirurgico era sconsigliato per l’età e le condizioni generali scadenti) le avrebbero ancora consentito sette, otto mesi di vita sopportabile. E, per farsi meglio capire,
protese altrettante falangi della mano. “Su, su! Non faccia così” disse vedendo
spuntare le lacrime dagli occhi dell’anziana. “Vorrei vivere io quanto ha vissuto
lei” aggiunse per rincuorarla e perché si rendesse conto di aver vissuto abbastanza. “Ritorni a trovarmi il più presto possibile” – la congedò cordiale, accompagnandola all’ingresso. Dal bancone, dov’era annidata la segretaria,
spuntò un volto sorridente: “Sono trecento” disse con garbo.
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Tornata a casa, Maria radunò la sua piccola corte, ridotta, ora, alla cugina Laura, al figlioccio Carlo e alle due domestiche.
Disse loro la verità e, dapprima, non fu creduta, tanto appariva la falsariga di ciò che, alcuni anni prima, aveva loro, con callida fantasia, raccontato.
Ma la preoccupazione sussisteva egualmente al pensiero che, anche questa
volta, la “rivelazione” precorresse le modifiche testamentarie tanto spesso minacciate. A temere erano soprattutto Eufemia ed Elisabetta cadute in disgrazia dopo le loro performances alla televisione e al processo.
Si decise d’interpellare Don Carlo che, dopo l’allontanamento di Gianna,
era diventato un poco la guida spirituale di Maria e si sostituiva ormai alla
santona nel prometterle, a certe condizioni, il paradiso.
Don Carlo era, a buon diritto, dubbioso, memore della turlupinatura per
cui aveva svenduto l’appartamento della parrocchia poi adibito dalla Volpona
a “residenza assistenziale per anziani”. Anch’egli aveva ricevuto la triste confidenza della Volpona, ma, pressato dalle domande delle pie donne, ritenne miglior partito trincerarsi dietro il segreto della confessione. Anche perché lui,
per quanto riguardava il testamento, si avvertiva ormai in “conflitto d’interesse” con l’entourage della Volpona.
Si era intanto rifatta viva l’insegnante cinese di joga, assicurando che la
medicina cinese era in grado di guarire qualsiasi malattia attraverso l’agopuntura e l’esercizio joga; ma occorreva la fiducia della paziente, che era proprio
quella che Maria aveva perduto dopo tante promesse di lunghissima vita fattele, ad ogni piè sospinto, dalla sedicente medichessa.
Fu il geriatra, attinte notizie sulle reali condizioni di salute della Volpona presso il medico di base, a informare il clan che, questa volta Maria “faceva sul serio” ed anzi – per riportare l’immagine brutalmente colorita del
medico – “l’aveva in un piede”.
Dire che il clan dei potenziali eredi, che comprendeva anche la vicina di
casa e l’infermiera, fosse costernato, sarebbe peccare d’ingenuità o voler forzare
comunque la verità; ma una tensione ben visibile veniva creandosi perché ognuno
temeva che l’altro cercasse di avvantaggiarsi per quanto riguardava le volontà testamentarie della Volpona nelle ultime battute della sua vita. Cominciando dalla
cugina Laura. La Volpona l’aveva sempre collocata nella fascia medio-inferiore
dell’intelligenza, ma ora doveva ricredersi. Laura capiva al volo le ansie di Maria,
i suoi dolori, le sue esigenze e diventava ogni giorno più indispensabile, prodigandole ogni genere di cure. In realtà Laura possedeva la non comune intelligenza di
celare la propria intelligenza, l’astuzia di mascherare la propria astuzia. E aveva
un’ulteriore qualità: quella di affezionarsi sinceramente a chi poteva essere utile
a lei ed ai suoi figli: “che non nuotavano nell’oro” – soleva dire. Oltre tutto Laura
aveva esperienza così di vita che di morte avendo seppellito due mariti in età relativamente giovane e cresciuto da sola i suoi figli.
Ora Laura non abbandonava un sol momento la sua cara assistita e non
permetteva a Gianna, “che aveva saputo”, di venirle a far visita e farsi perdonare, ciò in cui era già riuscita altre volte. Ma teneva lontane anche le domestiche e la vicina e l’ infermiera, per impedir loro di raccomandarsi all’inferma,
approfittando della sua debolezza. Infine aveva cacciato in malo modo la cinese; “Ti ha sempre ingannato” – diceva alla cugina.
In tal modo Laura era rimasta, insieme a suo figlio, padrona del campo.
Ma forse non era così. Perché il campo era, dall’esterno, insidiato da un predatore di razza, che rispondeva al nome, e alla veste prestigiosa, di Don Carlo.
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Mons. Carlo Rapetti o, semplicemente, Don Carlo come i parrocchiani,
per famigliarità acquisita, continuavano a chiamarlo, aveva buona cura delle
anime a lui affidate; con particolare predilezione per quelle unite ad un corpo
femminile attraente o ad un patrimonio cospicuo. Alle prime dedicava un’attenzione vigile, sì, ma non troppo costante, alle seconde invece era fedele fino
alla morte, accompagnandole con affetto nell’ultimo tratto del loro viaggio
terreno per scaricarle del bagaglio delle ricchezze accumulate, ormai inutile e
anzi ingombrante nell’altra vita. Nei confronti della Volpona c’era anche un
umano desiderio di rivalsa per lui, di riparazione per lei, relativamente alla vicenda della Casa di riposo. In verità mons. Carlo non era mosso da personale
avidità; la “residenza assistita per anziani” (così la profilava) sarebbe, nelle
sue intenzioni, diventata l’Opera parrocchiale più importante e benefica; lui ne
avrebbe avuto il merito dinanzi a Dio ed ai Superiori.
Va detto che in vescovado e anche più in alto si conosceva la disponibilità amatoria del monsignore, e se è vero che la cosa veniva messa a tacere
anche per la discrezione con cui veniva condotta, gli ammonimenti non erano
mancati ed erano segnati da qualche parte nigro lapillo. D’altra parte, non si poteva negare una positiva correlazione tra ars amandi e lasciti propiziati a favore
della Chiesa, come nel caso della marchesa Aldobrandi; ma l’una abilità offuscava l’altra ed era un ostacolo verso quella nomina a vescovo ausiliare che l’intelligenza, la cultura, l’efficienza e il carisma di mons. Carlo avrebbero meritato.
E un colpo d’ala come l’acquisizione alla parrocchia di una casa di riposo per
anziani, inattaccabile, nel caso, sotto il profilo morale, avrebbe potuto far pendere la bilancia a favore della legittima aspirazione del solerte sacerdote.
L’impresa però si presentava ardua, nonostante le generiche “aperture”
della Volpona e il venir meno dell’influsso malefico di Gianna e della cinese.
In effetti l’ostacolo Laura, padrona della situazione, era troppo grande per
poter essere rimosso. Esso doveva quindi essere aggirato.
Don Carlo andava settimanalmente a far visita a Maria, portandole il conforto della fede ed alcuni libri religiosi, la cui lettura la Volpona alternava ai giornali, in particolare a quelli finanziari. Sfortunatamente Laura era sempre presente
nella camera da letto dell’inferma, non si distaccava un istante e, quindi, il bravo
sacerdote non era in condizioni d’intavolare un discorso serio su quanto gli stava
a cuore. Tanto più che, da alcune frasi di Maria, aveva percepito che Laura sperava che il “San Pio” andasse al figlio, che già l’amministrava. Non a caso, appena
don Carlo accennava, prendendo il discorso alla larga, all’angosciosa situazione
degli anziani poveri, impossibilitati a pagare una retta, Laura interveniva magnificando la comprensione caritatevole del figlio. Ciò, tra l’altro, contrariava e allarmava la Volpona, la quale sviava subito il discorso; per poi riprenderlo con il
figlioccio, che veniva giornalmente a renderle conto della gestione della Casa, “Ricordati – ammoniva – che non siamo un Istituto di beneficenza”.
Ma un giorno che Laura, per incarico e delega di Maria, aveva dovuto recarsi fuori città presso i paisan (come Maria chiamava i suoi cugini) per rinnovare alcuni contratti d’affitto agricolo, don Carlo, avvisato dalle complici
domestiche, aveva avuto finalmente via libera per un discorso a quattr’occhi
sul destino del “San Pio”. Il bravo sacerdote contava di avere parecchio tempo
a disposizione prima che tornasse Laura e, dopo aver chiesto premurosamente
a Maria notizie della sua salute, incominciò a parlare di San Francesco di cui
erano in corso presso la parrocchia devoti festeggiamenti.
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“È il più grande Santo della Chiesa – proclamò mons. Carlo – più grande
ancora di San Pio – aggiunse per rendere l’idea. – Eppure prima della conversione e della donazione di tutti i suoi beni, conduceva vita sfarzosa e dissipata,
e fu proprio l’insorgere dello spirito di carità a salvarlo e a guidarlo lungo il
cammino della perfezione e della santità. E ora è là – proseguì ispirato – sulla
soglia del Paradiso, a braccia aperte, ad accogliere coloro che la carità ha reso
graditi al Signore”.
La Volpona non era spiritualmente preparata a questo sermone. Per lei
essere ed avere erano inseparabili e soleva ripetere il detto di un grande presule della città: Homo sine pecunia tamquam cadaver.
Ma ora Maria sentiva aleggiare sopra di lei l’ombra della morte e di Colui
“che verrà a giudicare i vivi e i morti”. E ne tremava.
“Anche San Pio predicava e praticava la povertà – riprese con forza il sacerdote – e sono sicuro che lei, Maria, quando ha fondato la Casa assistenziale
per gli anziani, chiamandola con il nome di San Pio e a lui dedicandola, aveva
ben presenti questi aspetti eminentemente caritativi dell’opera del Santo”.
“È vero – convenne la Volpona. - E cerco di venire incontro in tutti i modi
a quei vecchi che sono in ristrettezze e non hanno beni di fortuna”. Taceva dei
vecchi che beni di fortuna possedevano e che lei cercava di persuadere a lasciarli in eredità all’Istituto, cioè a lei. Su questo punto poteva intendersi perfettamente con don Carlo che esercitava con profitto la stessa arte e ora – la
Volpona l’aveva subito capito – stava compiendo con lei quelle manovre avvolgenti di cui era maestro.
“Dio ci legge nel cuore, Maria – continuò gravemente l’aspirante presule –
e noi non ce ne accorgiamo. Ma Lui ci scruta persino nel portafoglio. Sa quanto
abbiamo e quanto in proporzione possiamo dare. Ricorda la parabola dell’obolo
della vedova? Costei dava tutto quello che possedeva, ma i ricchi non erano disposti a fare altrettanto e per questo davanti a loro si chiudeva il Regno dei cieli.
Vede, Maria – proseguì don Carlo, prendendole la mano per dare maggior forza
emotiva al suo dire – non è riducendo qualche retta che si soddisfa il precetto
evangelico, ma donando tutto quello che non ci è strettamente necessario. E donarlo in vita, privandocene, non per quando saremo morti e i beni dovremo comunque lasciarli quaggiù. Noi siamo polvere, immersi nella polvere dei beni
terreni, ma d’ogni granello dovremo rispondere dinanzi a Dio”.
La Volpona ascoltava e stranamente le tornavano alla memoria le parole di Gianna quando, durante la finta evocazione di San Pio, cercava di convincerla a cederle l’amministrazione della Casa di riposo.
“Lei crede in Dio? – incalzava intanto don Carlo – Onnipotente e misericordioso ad un tempo”.
“Ma chi è Dio?” domandò Maria, uscendo dalla trincea in cui si era fino
ad allora riparata dalle bordate del monsignore. Ora la donna rivolgeva la domanda a se stessa, interrogandosi con angoscia nelle vicinanze della morte. E
don Carlo spariva quasi, nella nuvola catechistica in cui era avvolto.
“E se Dio fosse un protone, un neutrone o un busone come la scienza
moderna sembra suggerirci? – chiese ancora Maria, la quale molto aveva letto
da quando la malattia non le consentiva più di occuparsi attivamente del “San
Pio” e della Borsa.
“Se fosse come dice lei – contrattaccò con impeto il buon prelato – nulla,
neppure la vita, avrebbe più senso”.
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“E perché dovrebbe aver senso? – replicò Maria – Ed ha senso forse vivere per morire, hanno senso le devastazioni dei terremoti, degli tsunami, il
cancro dei bambini innocenti, gli stermini, la fame? Quando quello che il suo
catechismo chiama Dio onnipotente e Bontà infinita potrebbe con un solo
cenno evitare tutto questo dolore, tutta questa morte. E che padre è che non
alza un dito per salvare i suoi figli?”
Il monsignore non si attendeva una siffatta requisitoria da parte di una
parrocchiana che, all’apparenza, non aveva molto navigato nei mari della filosofia. Ma, pur in difficoltà, non si perse d’animo. La posta era troppo alta per
mostrarsi insicuro e titubante. E, d’altra parte, la Fede ha molte risorse e Don
Carlo poteva attingervi a piene mani. “Sì, il male nel mondo è un grande mistero che ci verrà rivelato a suo tempo, nell’Aldilà. Ma certo se Dio lo permette
vuol dire che anche il male è per il nostro bene”.
Il sofisma era evidente. Ma la Volpona, che aveva letto Machiavelli, si limitò a controbattere: “Allora anche per Dio il fine giustifica il mezzo”.
Ora il monsignore si sentiva confuso. Vedeva in un sol momento scuotersi le sue certezze e allontanarsi il “San Pio”.
“Lei, Maria, legge troppi libri!”. Di fronte a quell’anima scalpitante, il povero don Carlo non trovava di meglio che aggrapparsi a quella santa, fiduciosa
ignoranza, tanto raccomandata al gregge dai suoi pastori.
“Verrò a trovarla ancora – disse con ritrovata energia – e lei intanto mediti sulle mie parole. E pensi ai poveri che attendono da lei un gran gesto”.
“Si prenda il “San Pio”, se lo fa davvero per i poveri” – rispose, con voce
affaticata, Maria.
Il buon parroco uscì sollevato e, insieme, turbato, pensando che forse la
Chiesa non aveva più nulla da insegnare se non la carità. Ma senza la compagnia delle altre due virtù teologali.
[continua]
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Attraversando il Tegel, si ha subito la consapevolezza di essere lontani
anni luce dalla Berlino rosselliniana di “Germania anno zero”. Non abbiamo ancora visto niente ma gli young men in completo grigio seduti agli alti tavolini
dei caffè con il computer davanti, danno subito l’impressione di un diffuso benestare e la figura del piccolo Edmund che cammina fra le macerie di una città
annientata e si getta nel vuoto da una casa che somiglia a un teschio, appartiene a un passato remotissimo da cui, già da questo circoscritto avamposto,
non si intuisce traccia.
La periferia che attraversiamo è invece uguale a quella di tante grandi
città: casermoni, supermercati, immigrati. Entriamo in centro con l’autobus
che per 2 euro e 30 dall’aeroporto ci traghetta alla nostra fermata di Spandauer-Marienkirche. Il compound è del tutto diverso. Passiamo davanti al Reichstag, alla Brandenburger Tor, percorriamo la Unter den Linden, la famosa
arteria tracciata nel 1647 sotto il regno di Federico Guglielmo il Grande, e scendiamo proprio davanti alla Berliner Dom, la più grande chiesa della città, separata dal Radisson Blu Hotel da un canale della Sprea. Entriamo nel nostro
albergo dove un enorme cilindro di vetro, l’AquaDom, un acquario di 16 metri
che poggia sulla zona centrale dell’atrio, con la sua turchese trasparenza e il
guizzo di centinaia di pesci tropicali, cattura totalmente la nostra attenzione.
Le nostre camere affacciano sulla cattedrale che con la sua mole ispirata al
tardo rinascimento italiano, occupa buona parte della vista che si gode dalla
finestra. Qualche battello, compatibilmente con il tempo nuvoloso, passa sul
canale della Sprea mentre a sinistra la visuale arriva alla Unter den Linden.
Dopo una rapida sistemazione, arriviamo a piedi alla vicina Alexander
Platz, cuore della vecchia Berlino est e guardiamo dal basso la Fernsehturm,
la torre della televisione, alta 207 metri, che sovrasta tutto il quartiere e che
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è diventato uno dei simboli della città. Terminata nel 1969, una colonna di cemento di 26.000 tonnellate sorregge una sfera di acciaio all’interno della quale
si trovano un ponte panoramico e un ristorante girevole. Un modernissimo
ascensore permette di salire in 40 secondi sulla cima di quello che i berlinesi
chiamano affettuosamente “l’asparago”.
Orgoglio della Ddr, prima della caduta del muro, consentiva ai cittadini
dell’est di guardare la zona ovest a pochi passi da loro eppure proibita e irraggiungibile. Siamo nel cuore della vecchia Berlino est. La piazza è circondata da
squallidi casermoni del passato socialismo reale. Per entrare, oltrepassiamo un
gruppetto di punka-bestia locali che, così, alla prima occhiata, sembrano più cattivi di quelli nostrani. Torniamo verso l’albergo attraverso un ampio giardino
dove troneggia una bronzea fontana di Nettuno, realizzata a fine ottocento, in
stile neo-barocco. E non trascuriamo una rapida visita all’adiacente Marienkirche, uno dei pochi edifici medioevali rimasti a Berlino, in stile gotico, risalente alla
fine del tredicesimo secolo. A parte il settecentesco pulpito di alabastro di Andreas Schluter e un fonte battesimale in bronzo sorretto da tre dragoni neri simbolo del demonio, la cosa più notevole e insolita della chiesa è un affresco di 22
metri sulla parte sinistra dell’ingresso raffigurante la Totentanz, la Danza della
Morte, e datato 1485. Le figure ormai sbiadite ma ancora riconoscibili, un contadino, un mercante, un nobile, un borghese, un medico, un abate, un re, un papa
si muovono in un macabro, suggestivo ballo verso l’aldilà.
In pochi passi siamo di ritorno al Radisson. Una doccia e di nuovo fuori
per la cena che per 17 euro ci consente di mangiare un ottimo stinco con
crauti, puré e birra. Torniamo alle nostre stanze e sotto soffici piumini aspettiamo la mattina per andare alla scoperta di Berlino. Alle 8 siamo tutti nella
hall compresa la giovane Federica, figlia di Silvana e Marcello, che tra poco
“andrà sposa” e che, con questo viaggio, regala ai genitori un poco trasgressivo addio al nubilato.
Sul primo tram che passa timbriamo le nostre Berlin Welcome Card che
ci consentiranno di entrare nei principali musei e di utilizzare tutti i mezzi
della città. Attacchiamo subito l’Isola dei Musei a pochi metri dal nostro albergo. Colpito da una visita al Louvre, il re Federico Guglielmo III decise che
anche una capitale come Berlino dovesse possedere un grande museo. Nasce
così l’ambizioso progetto dell’Isola dei Musei nel cuore della città. Edifici espositivi e giardini avrebbero dovuto ricreare una sorta di acropoli dedicata all’evoluzione dell’uomo con fini didattici. Alla base di questo progetto c’è la
teoria hegeliana secondo la quale perché il singolo possa capire se stesso è
necessario che conosca la vicenda dell’umanità intera e vi si confronti. Dei cinque musei che verranno costruiti, il primo ad aprire è l’Altes, il “vecchio”, nel
1830 ( l’ultimo sarà il Pergamon esattamente un secolo dopo ). L’architetto
Schinkel realizza un vero e proprio monumento neoclassico, dalle linee rigorose ed eleganti, in forma di tempio con un peristilio dorico e una grande scalinata interna che porta dall’ingresso alle sale espositive. Oltre alle collezioni
archeologiche con manufatti di Creta, Micene e delle Cicladi, il museo egizio
allestito al secondo piano è uno dei più importanti al mondo. Imperturbabile,
lo sguardo verso un futuro che sembra già prevedere lontanissimo a scavalcare
i limiti del tempo, circondato dal silenzio e da uno spazio che ne garantisce
la priorità, il busto di Nefertiti del 1340 a.C. è sicuramente uno dei pezzi più
spettacolari, in pietra calcarea dipinta e perfettamente conservato.
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Dovunque si posino gli occhi qui si scoprono meraviglie, i più bei gioielli,
le più belle sculture, i reperti più significativi, quelli che sulle pagine dei libri di
testo non avremmo pensato di vedere da vicino. Il tempo limitato a disposizione
ci costringe a scegliere tra le irresistibili offerte di questi musei. Così saltiamo il
Neues e ci dirigiamo verso l’Alte Nationalgalerie, progettata da August Stuler con
le forme di un tempio classico, elevato su un basamento, con una monumentale
scalinata all’esterno e un’altra all’interno. Saliamo subito al piano degli Impressionisti, il secondo. Ed ecco i lilla bianchi di Manet, il ritratto di Menkel dipinto
da Boldini, i bronzi di Rodin e poi Cezanne, Monet e altre suggestioni impressioniste, perfino “L’isola dei morti” di Boklin, l’inquietante tela che in Vietnam aveva
influenzato il mio passaggio nella baia di Halong!
Per non perdere tempo mangiamo un rapido “panino del pezzente” tra
le aiuole dell’isola dei musei dove, per non sovraccaricarci, torneremo venerdì
pomeriggio. Prima di raggiungere la porta di Brandeburgo, ritiriamo i biglietti
per lo spettacolo di stasera, “Las Vegas in Berlin” dove vedremo esibirsi leggendarie star di ieri e di oggi in un fantasmagorico concerto.
La porta, un tempo simbolo della divisione in due parti della capitale tedesca, costruita nella Pariser Platz tra il 1788 e il 1791 da Langhaus il Vecchio
che si ispirò ai propilei di Atene, doveva costituire l’appendice occidentale dell’elegante Unter den Linden. Sulla sommità della struttura bassa e larga con colonne doriche, venne collocata una quadriga in rame (danneggiata nella
seconda guerra mondiale fu sostituita con una copia realizzata a Berlino est
negli anni Sessanta). La scultura, trasportata a Parigi da Napoleone nel 1807 e
recuperata dai prussiani nel 1814, raffigura Irene, dea della pace, che entra in
città su un carro trainato da quattro cavalli. Quando nel 1961 la porta venne
chiusa dagli sbarramenti della Ddr, la quadriga venne girata verso la parte est
della città e solo nel 1989, dopo la caduta del muro, i cavalli tornarono a guardare nella direzione originaria. Scattiamo qualche foto ma il tempo è grigio e
la porta un po’ spettrale. Anche il Reichstag ha un aspetto imponente e austero
in uno stile rinascimentale enfatizzato da una fascia bugnata, lesene, colonne
e timpano. Purtroppo ci vuole un appuntamento per visitare la spettacolare cupola di vetro costruita nel 1991 dall’inglese Norman Foster e occupata, al suo
interno, da una forma conica rivestita di specchi. Pazienza! Torneremo a Berlino per colmare le lacune che di giorno in giorno si accumulano!
Proseguiamo per l’Holocaust Mahnmal, una delle tante testimonianze che
negli ultimi anni i tedeschi hanno voluto erigere a ricordo della persecuzione contro gli ebrei, nell’intenzione di commemorare e ricordare le vittime. Progettato dall’americano Peter Eisenman, il memoriale è una distesa di 20.000 metri quadrati
di blocchi di cemento. I parallelepipedi la cui altezza varia dai 20 cm. ai 5 m. poggiano su un basamento ondulato e da ogni punto in cui ci si trova, si può avere
una vista differente di questa silenziosa foresta grigia che si può percorrere seguendo innumerevoli perpendicolari passaggi simili a un labirinto. Sul lato est alcune sale espositive permanenti ripercorrono le tappe dell’Olocausto in Europa.
La serata al “ Las Vegas in Berlin”, nonostante le difficoltà per raggiungerlo dovuta a un’interruzione della metro che ci costringe a un interminabile
percorso in autobus, ci solleva il cuore. Gli artisti, replicanti di Elvis, Joe Coker,
Marilyn e Luis Amstrong, sono davvero bravi e una scolaresca danese di tredicenni contribuisce a rallegrare l’atmosfera. Per fortuna al ritorno, ci adotta
un ragazzone locale che ci permette di tornare all’albergo in tempi brevi.
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Anche il venerdì mattina si presenta piovigginoso. Scrutando il cielo, ci incamminiamo verso la Posdamer Platz completamente ricostruita con modernissimi edifici di cristallo. Rimasta per decenni una terra desolata tagliata dal muro,
in pochi anni è tornata ad essere una delle zone più vivaci della città, come lo
era stata negli anni ’20, diventando probabilmente il quartiere di architettura
contemporanea più famoso in Europa. Renzo Piano ha concepito la piazza come
nuovo centro urbano sul quale convergono gli edifici progettati dalle più importanti archistar a livello internazionale. Così l’ipertecnologico Sony Center di Helmut Jahn, il simbolo della Berlino moderna con il grande invaso centrale a forma
ovale circondato da locali di ritrovo e uffici e coperto da una calotta di vetro e
acciaio che la sera viene illuminata con effetti cromatici sempre diversi.Sulla sinistra della piazza restano in piedi porzioni del vecchio muro abbattuto nel novembre del 1989. Su questi sono appesi pannelli con foto e didascalie che
riportano agli anni in cui il muro era in funzione. Per terra ne resta traccia nella
pavimentazione più scura che segue l’andamento del vecchio muro. Centinaia di
gomme americane sono incollate sul retro. Un ragazzo che parla perfettamente
italiano avendo una fidanzata di Molfetta, in divisa da Vopos, simula un controllo e per 2 euro mette una serie di visti su una cartolina.
Ci avviamo verso la cosiddetta “Topografia del Terrore”, l’area su cui tra il
1933 e il 1945 si trovavano le principali istituzioni dell’apparato di persecuzione:
Gestapo, SS e dal 1939 l’ufficio della sicurezza del Reich (RSHA). Gli edifici parzialmente distrutti o danneggiati furono demoliti nel 1956; nel 1987 fu creato un
centro di documentazione e nel 2010 fu inaugurata la nuova struttura. Poco distante da questa, in una zona più bassa, resta un lungo tratto di muro che, con
la giornata grigia, si presenta quanto mai squallido, una cicatrice recente drammatizzata da una sequenza di pannelli che illustrano ancora la storia del nazismo
attraverso testi, documenti e foto. Questa area è separata dal Museo del Terrore
da un terrapieno di pietre aguzze che occupano anche lo spazio attorno all’edificio. Pure qua, come per i parallelepipedi dell’Holocaust Mahnmal, protagonista
è la desolazione. È come se in queste pietre appuntite fossero imprigionate le
anime tormentate delle vittime, pietre ordinatamente distribuite, in realtà ammucchiate una sull’altra come i corpi degli ebrei nei campi di sterminio. Anche il
colore: sono pietre scure, tinta ruggine, tinta sangue rappreso, evocatrici di martirio. Poco più avanti ci troviamo al Checkpoint Charlie. Ricostruito nel 2001 insieme a una copia del tristemente famoso cartello che avvisava gli stranieri in
visita a Berlino est: “State abbandonando il settore americano”, questo passaggio
era l’unico confine per stranieri tra le due Berlino negli anni della guerra fredda.
Qui i finti Vopos vogliono 2 euro per farsi fotografare! In un edificio adiacente è
possibile visitare il Museo del Muro creato per documentare sia i tentativi di fuga
riusciti ( dall’utilizzo di una mongolfiera al nascondiglio dentro un enorme altoparlante!) sia, molto più numerosi, quelli falliti e conclusi con l’uccisione dei fuggiaschi. Fa rabbrividire pensare che ciò sia avvenuto fino al 1989 qui, a un’ora
d’aereo da casa!
La parte femminile del gruppo decide di rinunciare al museo, privilegiando un percorso artistico meno ossessivo. Con la metro raggiungiamo l’Hamburger Banhof, il principale museo d’arte contemporanea di Berlino.
Aperto nel 1996 all’interno di una stazione ferroviaria costruita nel 1874, l’edificio è stato realizzato dall’architetto Josef Paul Kleihues come contenitore
polifunzionale di mostre temporanee, permanenti, performance e altro. Un’in-
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Milena Buzzoni Berlino: la retorica di ieri, la promessa di domani
tera sala è dedicata a Andy Warhol dono del collezionista Erich Marx. Campeggia la gigantesca immagine di Mao e, tra le altre, una drammatica tela di un
“ambulance disaster” che resta nella mente, staccandosi dai più noti cliché
dell’autore. Accanto a Warhol, Rauschenberg, Anselm Kiefer, Marcel Duchamp
e opere della Minimal Art, dell’Arte Povera e della Land Art. Nell’ingresso spiccano le grandi strutture in ferro retaggio della vecchia stazione. Due sale
hanno ancora l’originario pavimento in mosaico e qualche lampada di ottone.
Usciamo un tantino deluse. Forse avevamo in mente il Quai d’Orsay e ci aspettavamo qualcosa di meglio sia dal punto di vista artistico che architettonico.
Sulla nostra destra intravediamo la faraonica struttura dell’Hauptbahnhof, la stazione ferroviaria inaugurata nel 2006 interamente coperta da una
galleria di vetro. Non abbiamo tempo di girare per gli 80 negozi e locali che animano il suo interno né di assaggiare le ostriche dell’Austern Bar: dobbiamo azzeccare il treno giusto per tornare indietro e non fare brutte figure con i
“maschi” che ci aspettano in albergo.
Ci rifacciamo della rinuncia allo shopping nell’Hauptbahnhof con un giretto pomeridiano al Mitte, lo storico quartiere ebraico nel cuore della città,
star incontrastata della rinascita berlinese. Il restyling ha dato vita a un caleidoscopio di caffè, ristoranti, cabaret, discoteche, gallerie d’arte, negozi, poli
multifunzionali e hotel di design. Una vetrina dietro l’altra sotto arcate rococò, in immense fabbriche fin de siècle e cortili restaurati dove, grazie ad affitti accessibili si sono insediate piccole aziende, agenzie di pubblicità e
fondazioni culturali. Mai banale, il Mitte è il quartiere dove ognuno crea una
sua tendenza dall’arte off alla moda sia wear, street style o vintage.
Ma la meta più spettacolare ed emozionante di questo pomeriggio sarà
quella del Pergamon imperdibile museo che da solo vale un viaggio a Berlino.
Visitando l’Isola dei Musei, ce lo siamo tenuto per ultimo perché sapevamo
che era una chicca anche se le meraviglie che vi sono contenute sarebbero
state comunque indimenticabili. In realtà è l’ultimo museo, anche in senso
cronologico, ad essere stato costruito nel 1930. Vero e proprio santuario dell’antichità, nelle tre ali che lo compongono sono conservati esempi mirabili di
architettura, scultura e oggetti provenienti da Grecia, Iraq, Siria, Turchia che
raccontano seimila anni di storia. La meticolosa ricostruzione dell’altare di
Pergamo, nella sezione centrale, con resti inediti trovati nella Turchia occidentale tra il 1870 e il 1890 è stupefacente per le dimensioni enormi con la scalinata centrale, la completezza dell’allestimento e la suggestione delle fasce a
bassorilievo che corrono lungo il perimetro dell’altare.
In tutte le sale di questo trionfo dell’umana creatività, di questo scrigno della bellezza in tutte le sue forme c’è qualcosa che lascia a bocca aperta,
ben superiore alle immagini dei libri di storia o di arte, qualcosa che la maggior parte di noi non immaginava così grandioso, così perfetto. E la perfezione
annulla il tempo, appiattisce i secoli, ci mette di fronte ai fasti di un passato
che qui continua a vivere e a mascherare un potere irripetibile unito a una
somma capacità di bellezza. Di fronte alla Porta di Babilonia dedicata alla dea
Ishtar, signora del cielo, dea dell’amore e patrona dell’esercito, alla vivacità
degli smalti, al realismo degli animali rappresentati, così come di fronte a un
bassorilievo del palazzo di Dario a Susa con la sequenza di guerrieri che spiccano sullo sfondo color malachite o di fronte alla stanza di Aleppo minuziosamente ricostruita o alla lunga cimosa della facciata del giordano Palazzo
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Mshatta, ci si domanda: “ma allora è tutto vero?” Senza graffi né scalfitture,
le testimonianze delle passate civiltà si offrono a noi, a tutti i visitatori del
mondo che mettono piede qui dentro come un regalo da portar via, certo, solo
con gli occhi ma con quell’esaltazione e quella sazietà che spesso un pieno di
bellezza riesce a dare.
Siamo quasi alla fine della nostra vacanza, cominciamo il count down.
Sabato mattina un bel sole caldo ci accoglie al Tiergarten, uno dei tanti polmoni verdi della città i cui parchi occupano ben un terzo del territorio. Più
che dal richiamo naturalistico siamo spinti dalla curiosità per il mercatino
della pulci settimanale. Già dalla metropolitana che corre su binari esterni vediamo lo schieramento delle bancarelle. Ordinato e pulito offre merce di buona
qualità. C’è una quantità di posate d’argento dalle più svariate fogge che scintillano al sole, porcellane, quadri, gioielli, cristalli. Non è molto grande e lo
percorriamo due o tre volte. Agnese compra tante tazzine colorate a smalto e
oro. Federica, appassionata di gatti, ne trova due di porcellana per la sua futura casa. Io mi limito a un cucchiaino traforato con il manico di madreperla
e a un paio di irresistibili orecchini da zingara di oro basso. Tra le foglie tenere
degli alberi e il cielo azzurro, si intravede la Brandenburger Tor a cui il sole di
questo sabato di metà aprile non sottrae severità e un senso di soggezione.
In pomeriggio con Lorenzo e Agnese rinunciamo al castello di Charlottenburg dove invece passa il pomeriggio l’altra parte del gruppo, per dare
un’occhiata al quartiere turco. Anche questo ristrutturato e animatissimo,
offre una sequenza di locali grandi e piccoli i cui déhors sono pieni di giovani.
Ci sediamo al tavolo di un bar lungo il fiume a bere una birra e facciamo un
giro in un supermercato. Al ritorno ci accorgiamo che, oltre a centinaia di altre
cose, manca al nostro itinerario la Gendarmenmarkt, la vecchia piazza del
mercato, non troppo lontana dal nostro albergo. È effettivamente una delle
più belle piazze di Berlino, lontana dalle avveniristiche strutture di metallo e
vetro, elegante nella distribuzione degli edifici: due chiese gemelle in mezzo
alle quali si staglia la Konzerthaus di Schinkel che riutilizzò le sei colonne e
alcune parti sopravvissute all’incendio del 1817. Il Franzosischer Dom fu costruito per gli ugonotti francesi che si stabilirono a Berlino in seguito alle persecuzioni nel loro paese. Queste vicende sono ricordate nell’annesso museo
situato alla base della torre aggiunta alla fine del ‘700 quando Federico III decise di realizzare la piazza. Il suo nome, Gendarmenmarkt, deriva dall’aver
ospitato il quartier generale e le scuderie del reggimento delle “Gens d’Armes”
un secolo dopo la sua costruzione.
Dal bus che ci trasferisce all’aeroporto do un’ultima occhiata in giro:
non c’è l’allegria di Parigi, la compostezza di Londra, il disordine di Barcellona, la signorilità di Vienna, la tenerezza di Praga, la suggestione decadente
di Lisbona. Non è spensierata questa città che ti guarda dall’alto delle sue facciate, dalla trasparenza dei suoi occhi di vetro, una città dove il passato ha
ancora tutto il suo peso e dove la vergogna per l’olocausto si annida ovunque
per trasformarsi in un mesto gesto di commemorazione.Non la lascio con la
nostalgia con cui di solito lascio luoghi molto lontani, la baia di Halong o le rovine di Ankor dove forse non mi capiterà di tornare. Questa città mi ha sopraffatto con la sua monumentalità soggiogante, con la retorica di una passata
architettura fatta di colonnati, timpani, cupole e bronzi e una moderna architettura fatta di cristallo e acciaio, accomunate da una “grandezza” che sembra
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Milena Buzzoni Berlino: la retorica di ieri, la promessa di domani
innata, l’espressione di un carattere. A Berlino c’è un’impronta di forza che
certo non si traduce in un gesto di accoglienza e non aiuta a sentirsi a casa.
Ma è come se questa forza che la sostiene si trasformasse in energia e desse
slancio al futuro. Se i palazzi a volte respingono con l’enfasi delle dimensioni
e delle forme, le attività che pulsano in ogni strada attraggono perché ti fanno
indovinare le mille possibilità dell’avvenire. La creatività delle gallerie d’arte
rompe la staticità degli edifici più severi, gli allestimenti dei più moderni negozi di moda spezzano la sequenza delle facciate più monotone, i caffè affollati di giovani fanno pensare al versante esterno e futuro di una popolazione
a cui le idee non mancano. E sono proprio queste a suscitare interesse: viene
voglia di sapere cosa passa per la testa di questa gente, di conoscere le sue iniziative, il suo movente, il suo destino. Berlino è soprattutto una città che incuriosisce. Oltre al desiderio di vedere ancora e vedere tutto, ho voglia di
saperne molto più di quanto questi pochi giorni mi abbiano consentito. Avrei
bisogno di un altro viaggio, un altro soggiorno, ancora un’altra settimana….mi
servirebbe un’altra vita.
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Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche
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GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE
di Fabrizia Scapinello
Nella biblioteca personale di Guido Gozzano conservata presso il Centro
Studi Gozzano-Pavese dell’Università di Torino non è possibile riscontrare, né tra
le edizioni in lingua francese, né tra le opere pubblicate in Italia, pubblicazioni attribuibili a Friedrich Nietzsche. Tuttavia è lecito ipotizzare che Gozzano abbia
letto almeno parzialmente l’opera di un filosofo che negli anni della sua formazione era, nel bene e nel male, al centro di tanta attenzione del mondo accademico e culturale1. Questa apparente lacuna può trovare spiegazione nell’abitudine
del poeta a servirsi di libri presi in prestito dalle biblioteche torinesi. In particolare sappiamo che Gozzano era frequentatore assiduo del circolo della Società di
1
Nietzsche visse a Torino dal 5 aprile 1888 fino ai primi giorni del 1889, quando il crollo
psicologico definitivo lo costrinse a tornare in Germania. La prima pubblicazione italiana di
un’opera nietzschiana giunse un decennio dopo (Al di là del bene e del male, Torino, Bocca, 1898),
tuttavia la fama dei suoi scritti si diffuse in Italia ancor prima, attraverso recensioni e articoli. Il
periodico «La Rivista Europea» di Firenze, diretta da De Gubernatis, pubblicò già nel 1872 la prima
recensione in assoluto dedicata alla Nascita della tragedia. Nel 1882 il filosofo napoletano Antonio Tari tradusse un passo tratto dalla stessa opera (A. TARI, Sull’essenza della musica secondo
Schopenhauer ed i Wagneriani, Napoli, «Archivio Musicale», 1882). A partire dal 1893 si susseguirono posizioni discordanti, a favore o severamente contrarie alle tesi esposte dalle opere, la cui diffusione nei primi anni Novanta in Italia fu favorita dalla pubblicazione dell’intera opera in francese
a cura della «Société du Mercure de France» (cfr. E. MORSELLI, in «Il Pensiero Italiano», Milano,
1894, vol. X; D. CORTESI, La storia morale di F. Nietzsche, ottobre 1897; «Il Fanfulla della domenica», Roma, 2 agosto 1897.) Ancor prima che Così parlò Zarathustra fosse pubblicato in Italia,
Cantalupi scrisse il primo articolo sul Superuomo (Nietzsche, il superuomo e l’amore, «Domenica
italiana», 16 maggio 1897) dimostrando di saper comprendere la grandezza del pensiero nietzschiano senza banalizzarlo. Nel 1899 i Fratelli Bocca diedero alle stampe la prima edizione italiana
di Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, nella versione di Edmondo Weisel riveduta da Renato Giani. Secondo De Roberto per Nietzsche il Superuomo era destinato a nascere dall’uomo soppresso perché annichilito dal dolore (F. DE ROBERTO, Il Superuomo, in «Il colore del
tempo», Milano-Palermo, 1900). Del 1901 è la prima edizione della Gaia scienza tradotta da Antonio Cippico per la casa editrice Bocca. Molti scritti dei primi anni del secolo XX denunciarono ai lettori la pericolosità delle posizioni di Nietzsche, accusato di individualismo e di volersi imporre
anche con la violenza. Per Orestano (F. ORESTANO, Le idee fondamentali di Federico Nietzsche nel
loro progressivo svolgimento: esposizione e critica, Palermo, Reber, 1903) Nietzsche era il teorico
del libero egoismo individualistico. Una lettura più accurata e rispettosa del pensiero del filosofo
tedesco fu avanzata invece da Andrea Loforte Randi («Letterature straniere», 1905; ma cfr. anche
T. TOSI, F. Nietzsche, R. Wagner e la tragedia greca, Firenze-Roma, Bencini, 1905). Secondo Papini
all’origine della filosofia di Nietzsche vi sarebbe stata la reazione ad uno stato di debolezza e cattiva salute (P. PAPINI, Il crepuscolo dei filosofi: Kant, Hegel, Schopenhauer, Compte, Spencer, Nietzsche, Milano, Società editrice lombarda, 1906). Nel 1907 Benedetto Croce diede il patrocinio per la
prima edizione italiana della Nascita della tragedia (Ellenismo e pessimismo) curata, per l’edizione
Laterza, da Mario Corsi e Attilio Rinieri. Dopo aver dato alle stampe la terza edizione di Così parlò
Zarathustra, nel 1910 la casa editrice Bocca di Torino pubblica, tradotta da Aldo Oberdorfer, Ecce
Homo: come si diventa ciò che si è. Stimolata quindi anche dalla florida attività di pubblicazione
ad opera di Bocca, tra XIX e XX secolo la città di Torino risultava un centro altamente ricettivo nei
confronti del pensiero di Nietzsche.
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1913: F. Nietzsche, La gaia scienza, Torino, F.lli Bocca, 1905;
1911: F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Torino, F.lli Bocca, 1902;
1913: F. Nietzsche, Le origini della tragedia, Bari, Laterza, 1907;
Gozzano aveva l’abitudine di personalizzare in qualche maniera i testi che
studiava: il poeta era solito segnare con tratto a lapis alcune pagine delle pubblicazioni che più amava, con le quali aveva una frequentazione più assidua. Si può
trovare esempio di tale abitudine anche tra i volumi della sua biblioteca: nel Centro Studi Gozzano-Pavese è possibile osservare i cosiddetti “profili gozzaniani”
sia sull’esemplare dei Fioretti di San Francesco d’Assisi2, sia sul Canzoniere di
Petrarca3 – per citare solo due esempi4. Si tratta di disegni di volti, spesso femminili, tracciati con sottile segno di matita lungo i margini bianchi delle pagine,
segni che presentano caratteri ricorrenti di eleganza e ironia: una vera e propria
firma grafica lasciata da Gozzano, che di conseguenza consente di attribuire al
poeta un certo tipo di sottolineature tracciate a matita con tratto sottile sulle medesime opere. Gozzano inoltre manifestava un modo personale di sottolineare:
dall’osservazione delle opere raccolte nella biblioteca personale del poeta è possibile riscontrare come il tratto orizzontale di sottolineatura spesso anticipi il
bordo di impaginazione in cui inizia il rigo, invadendo quindi il margine di stampa
sinistro. I margini stessi possono ospitare i cosiddetti “profili gozzaniani”, che si
accompagnano talvolta a bozzetti di carattere più comico e disegni caricaturali.
L’uso della matita nei modi appena descritti riguarda non soltanto opere di proprietà del poeta, ma anche opere prese in prestito da Gozzano. Si può in un certo
senso stimare che l’impronta di Gozzano sia ancora presente in talune delle opere
conservate presso la Biblioteca Civica Centrale di Torino.
Una delle pubblicazioni a cui probabilmente Gozzano ebbe accesso in
tale biblioteca è la seguente:
FEDERIGO NIETZSCHE, Le origini della tragedia ovvero Ellenismo e Pessimismo, trad. di M. Corsi e A. Rinieri, Bari, Laterza & Figli, 1907 (segnatura
COLL.34.23).
2
I Fioretti di San Francesco e Il Cantico del Sole, con prefazione di G. Bertacchi, Milano,
Sonzogno, 1915 (BIBL. GOZZ. 45).
3
F. PETRARCA, Le rime […]di su gli originali commentate da Giosuè Carducci e Severino
Ferrari, Firenze, G.C. Sansoni Editore, 1899, sonetto XXV (BIBL. GOZZ. 14).
Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche
Cultura, che comprendeva al proprio interno una fornita biblioteca del cui catalogo disgraziatamente non rimane alcuna traccia. Altro punto di riferimento per
le letture gozzaniane era la Biblioteca Civica Centrale, situata a Torino in Via della
Cittadella 5. Nel catalogo sono presenti alcune opere di Nietzsche pubblicate in
lingua francese dalla casa editrice Société du Mercure a cavallo dei secoli XIX e XX,
ma soprattutto alcune edizioni italiane di opere tedesche di recentissima pubblicazione. Attraverso la consultazione dei registri d’ingresso della Biblioteca Civica è possibile selezionare un ristretto numero di testi conservati in tale
biblioteca già prima del 1916, anno della morte del poeta. Si tratta di tre pubblicazioni il cui lemma è qui preceduto dalla data d’ingresso:
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Ad avvalorare tale ipotesi è il ritrovamento a p. 113 di un disegno semicancellato attribuibile con buona sicurezza al poeta. Il tratto a lapis raffigura
due teste maschili con evidenti tratti caricaturali. Risulta impossibile avanzare una interpretazione riguardo all’identità dei soggetti, ma lo stile grafico
appare conforme ai numerosi bozzetti gozzaniani inclusi in Libri e lettere di
Mariarosa Masoero o osservabili presso il Centro Studi “Gozzano-Pavese”, diretto dalla stessa Masoero.
Qui sopra sono raffigurati i suddetti bozzetti: a sinistra compaiono in forma originale e a destra sono messi in evidenza con intervento grafico.
A seguito di tale ritrovamento, le sottolineature presenti su tale pubblicazione hanno acquisito un valore particolarmente significativo, tanto da suggerirne una più accurata analisi. Dall’attenta osservazione delle pagine emerge la
presenza di sottolineature di carattere eterogeneo: alcune sottili e a tratto leggero,
altre spesse e con segni molto evidenti. Appare molto probabile che tali differenti sottolineature risalgano a più di una mano, e di conseguenza a momenti
storici diversi. Fino a pochi mesi fa la pubblicazione risultava disponibile al prestito, ed è quindi facile immaginare che possa essere stata oggetto di studio da
parte di numerose e differenti tipologie di lettori. Nonostante sia molto difficile
ricostruire con completa coerenza la mappatura dei segni che emergono dalle
pagine, e sia altresì impossibile ipotizzare un’identità da attribuire a ciascuno di
essi, si riconoscono caratteri ricorrenti in almeno due tipologie di sottolineatura.
Un primo tipo di sottolineatura, grave e spessa, condotta a matita, appare risalire ad epoca recente e risulta totalmente estranea alla mano di Gozzano. La sottolineatura fine – tracciata leggermente con punta di matita e con alcuni fenomeni
di anticipazione del rigo (analoghi a quelli osservabili nella biblioteca di Gozzano)
– sembra invece riconducibile al poeta torinese.
Volendo concentrare l’analisi soltanto sulla base dell’osservazione di
questo secondo tipo di sottolineatura, tralasciando perciò ulteriori commenti
riguardo a segni ad esso non conformi, è opportuno specificare che tali tratti
lineari di messa in evidenza si presentano regolarmente in interlinea. A volte
brevi e isolati frammenti di testo vengono messi in rilievo, in altri casi si evidenziano termini tra loro distanti sul rigo ma ugualmente capaci di consegnare al lettore un ordine sintattico dotato di senso. Le sottolineature
gozzaniane interessano il testo in maniera quasi continua fino al capitolo XIX;
4
Per una più ampia argomentazione riguardo ai “profili gozzaniani” e ai volumi della biblioteca del poeta cfr. M. MASOERO, Guido Gozzano. Libri e lettere, Firenze, Olschki, 2005.
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L’artista plastico, come l’artista epico che gli assomiglia, si tuffa nella contemplazione delle imagini. Senza l’aiuto di nessuna imagine il musicista dionisiaco è lui
solo e di sé stesso il dolore e l’eco primordiale di esso11.
L’unico punto di contatto tra queste due poetiche è raggiunto dal «genio
lirico», il quale «sente in sé nascere, sotto la mistica influenza della rinuncia all’individualità e dello stato d’identificazione, un mondo d’imagini e di simboli12».
Queste righe rispecchiano alcune fra le trattazioni fondamentali per la definizione del pensiero nietzschiano, e giustamente il senso critico di Gozzano le ha
poste in evidenza. «Il vero canto», «espressione di uno stato d’animo ora così
complesso, ora così semplice», è poi il cardine del discorso estetico nietzschiano
quale è divulgato in Italia dal trattato La beata riva di Angelo Conti13.
5
F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia ovvero Ellenismo e Pessimismo, trad. di M. Corsi
e A. Rinieri, Bari, Laterza & Figli, 1907, p. XIII.
6
Ivi, p. 40.
7
Ibidem.
8
Ivi, p. 51.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
11
Ivi, p. 60.
12
Ibidem.
13
Cfr. A. CONTI, La beata riva. Trattato dell’oblio, Milano, Treves, 1900, p. 215: «Quando l’artista riesca a mettersi in comunicazione diretta e immediata con l’anima delle cose, egli è la voce
stessa della natura». L’opera di Conti fu oggetto di grande curiosità e attenzione da parte del mondo
italiano non solo accademico all’inizio del secolo XX. L’autore si presentava come primo entusiasta divulgatore e discepolo delle tesi di Schopenhauer in Italia. Il testo divenne punto di riferimento per molti autori novecenteschi (tra cui Gabriele d’Annunzio) che ne riconobbero e
apprezzarono la portata rivoluzionaria dei contenuti filosofici tramandati. Anche per la diffusione
delle idee di Nietzsche in Italia il testo di Conti ebbe certamente un ruolo fondamentale. Riguardo
ai meriti di Conti nella divulgazione di Nietzsche e Schopenhauer un contributo molto importante
è costituito dal saggio di VALTER BOGGIONE, Ad Arturo per Ariele: Gozzano lettore della “Beata
Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche
tuttavia appaiono più frequenti in particolare nella prima parte – dove predomina l’argomento estetico –, mentre vanno a diradarsi laddove il filosofo tedesco si concentra sull’esposizione della teoria circa la nascita del genere
tragico sotto un punto di vista quasi antropologico. Le sottolineature diventano sporadiche dal capitolo XI, in corrispondenza della spiegazione circa le
cause del declino della tragedia nella civiltà greca e delle responsabilità del
pensiero razionale diffuso da Socrate.
Le sottolineature presenti nella Prefazione e nel Tentativo di autocritica
si concentrano sulla figura di Nietzsche e sul suo interesse per l’ellenismo
(«Nietzsche pensava che l’ideale classico fosse modello imperituro anche per
l’epoca moderna5»), per poi toccare le riflessioni circa il rapporto dell’uomo
greco col dolore: nell’opposizione a quest’ultimo è riconosciuta la vera spinta
verso l’ideale di bellezza comunemente associato alla cultura greca.
Nel capitolo II Gozzano dimostra interesse per la teoria che associa la musica all’elemento dionisiaco; in particolare il ditirambo sarebbe capace di condurre l’uomo «alla più grande esaltazione6» e di presentare «l’Essere assoluto
come genio tutelare della riproduzione, cioè la natura7». Al contrario Apollo è indicato come «l’imagine divinizzata del principium individuationis 8», «divinità
etica9» che «esige dai suoi la misura10». La definizione oppositiva di “apollineo” e
“dionisiaco” genera il riconoscimento di due categorie di artisti:
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Il capitolo VI sottopone all’attenzione di Gozzano il ruolo speciale che
Nietzsche attribuisce alla poesia popolare: «la canzone popolare ci appare
come specchio musicale del mondo, come melodia primordiale, palesandosi
un’apparizione di sogno, e ciò come poesia14». La connessione con l’opera di
Gozzano è piuttosto immediata: la poesia La via del rifugio, collocata in apertura dell’omonima raccolta, si sviluppa proprio partendo da una filastrocca
popolare. I versi della tradizione si alternano alle quartine del poeta avvolgendole in maniera ipnotica e trasportando il lettore in una dimensione sospesa
tra due racconti che gradualmente sembrano sovrapporsi:
Trenta quaranta / Tutto il mondo canta / Canta lo gallo / Risponde la gallina… // Socchiusi gli occhi, sto / Supino nel trifoglio / E vedo un quadrifoglio / Che non raccoglierò. //
Madama Colombina / si affaccia alla finestra / con tre colombe in testa: / passan tre fanti...15
Un altro esempio dell’interesse di Gozzano nei confronti della cultura e
della musica popolare è rappresentato dal “melologo popolare” La notte santa.
Il componimento presenta i caratteri del genere popolare sia nella struttura (ciclico alternarsi di quartina e distico, quartina e distico secondo uno schema di
rime ABAB CB, ecc.), sia nella scelta di un argomento attinto della tradizione:
– Consolati, Maria, del tuo pellegrinare! / Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di
trofei. / Presso quell’osteria potremo riposare, / ché troppo stanco sono e troppo stanca
sei. // Il campanile scocca / lentamente le sei16.
A partire dal capitolo VII, Nietzsche supera i precetti estetici e si addentra nella teoria circa la nascita del genere tragico. Attraverso il coro, la Grecia
osservò gli «spaventosi cataclismi» della Storia: all’arte è riconosciuta la funzione consolatoria perché capace di trasportare l’uomo tra le braccia dell’oblio.
Il disgusto verso il reale si trasforma in «un’esistenza dalle imagini ideali17».
Dalle sottolineature successive è evidenziato il carattere speciale attribuito
al satiro, definito «sognatore entusiasta» depositario dell’elemento dionisiaco e testimone del «fenomeno drammatico primordiale: vedersi trasformato dinanzi a sé
stesso ed agire allora come se si vivesse realmente in un altro corpo, con un altro
carattere18». Del capitolo X del trattato nietzschiano a Gozzano interessa in particolare come la maschera di Dioniso sia riconoscibile dietro le vesti di molti personaggi mitologici greci: la figura di Prometeo per esempio, condannato a patire lo
strazio per essere sceso tra gli uomini, è l’emblema della sofferenza generata dall’individuazione. Secondo Nietzsche solo l’«erculea forza della musica19» può liberare l’uomo dalla sofferenza dello stato d’individuazione. La matita del poeta
torinese scorre poi sulle pagine dedicate a Euripide, definito come responsabile
riva”, in D’Annunzio e dintorni. Studi in memoria di Ivanos Ciani, Pisa, ETS, 2006, pp. 69-97. Nel
testo sono messi in evidenza i punti di contatto tra l’opera di Gozzano e il pensiero dei due grandi
filosofi, con particolare attenzione al ruolo chiave giocato da Conti quale mediatore intellettuale e
promotore di idee di respiro europeo.
14
F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit., p. 67.
15
G. GOZZANO, La via del rifugio, vv. 1-8, in Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, Milano,
Mondadori, 1980, p. 69.
16
G. GOZZANO, La notte santa, vv. 1-6, in Tutte le poesie, cit., p. 356.
17
F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit, p. 83.
18
Ivi, p. 89.
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Socchiudo gli occhi, estranio / ai casi della vita. / Sento tra le mie dita / la forma
del mio cranio… // Ma dunque esisto? O strano! / Vive tra il Tutto e il Niente / questa
cosa vivente / detta guidogozzano!21
L’esperienza del distacco dall’io è qui il primo passo verso il raggiungimento della massima aspirazione del poeta: «l’inconsapevolezza».
Certo non ci si può nascondere che, stando alla data d’ingresso della pubblicazione nella Biblioteca Civica torinese, le sottolineature sarebbero da collocarsi
in data posteriore al 1913. Tuttavia l’affinità tra le tesi di Nietzsche e le poesie
composte da Gozzano tra il 1903 e il 1907, poi raccolte nella Via del rifugio, suggerisce che molto probabilmente il poeta avesse già avvicinato il testo attraverso
la lettura dell’edizione francese ad opera della «Société du Mercure», oppure che
avesse già avuto in mano la traduzione italiana, ma in altra copia.
È importante osservare che sin da principio il poeta riconosce l’attenzione riservata da Nietzsche ad un preciso momento storico-culturale: «la più
completa, la più bella, la più invidiata, la più viva fra le razze umane, la
greca»22, colta nel suo periodo di maggiore fulgore artistico e intellettuale.
Nella prosa nietzschiana l’indicazione storica diventa il pretesto per la speculazione estetica in cui centrale è l’esposizione dei concetti complementari e opposti di “apollineo” e “dionisiaco”. Gozzano dimostra interesse per tale
andamento discorsivo:
Quando noi incontreremo “ l’ingenuità “ nell’arte, dovremo riconoscere in essa
la più alta espressione della cultura apollinea, la quale, sempre, deve da prima abbattere un impero di titani, vincere dei mostri, e, con la presente illusione de’ sogni felici,
trionfare sul profondo orrore dello spettacolo del mondo e sulla esacerbata sensibilità
al dolore.
[...]
Noi tendiamo le braccia verso quell’immagine e, per la nostra illusione, la natura raggiunge la sua meta. Per i greci la “ Volontà “ voleva contemplarsi da sé stessa
nella trasfigurazione del genio e dell’arte; per glorificarla occorreva che le creature di
questa “ Volontà “ si sentissero da sé stesse degne d’essere glorificate. [...] Questa è la
sfera della bellezza in cui le creature olimpiche vedevano la loro propria immagine.
Con l’aiuto di questo miraggio di bellezza, la “ Volontà “ ellenica combatte l’attitudine
correlativa alla sofferenza, la sapienza cioè del male e del dolore; e, come un monumento commemorante la sua vittoria, s’innalza a noi Omero, l’artista ingenuo23.
Gli echi di Nietzsche sono nuovamente evidenti nella prima produzione
di Gozzano: il carattere ingenuo dell’artista e il riconoscimento dell’arte come
19
20
21
22
23
Ivi, p. 111.
Ivi, p. 130.
G. GOZZANO, La via del rifugio, vv. 29-32, in Tutte le poesie, cit., p. 70.
F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit, p. 2.
Ivi, pp. 47-48.
Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche
della morte «volontaria» della tragedia greca poiché portavoce di ciò che Nietzsche
chiama «socratismo estetico20». Si tratta di teorie non estranee alla prima produzione di Gozzano: il componimento La via del rifugio prima citato è interamente dedicato allo slancio verso lo scioglimento dal vincolo del principium individuationis:
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unico strumento di rifugio dal dolore dell’esistenza sono tappe fondamentali
per approdare alla «via del rifugio». La meta suggerita del titolo della raccolta
poetica è indicata lungo un sentiero tracciato dalla natura e dall’arte. L’uomo
si confronta con un’ineludibile condizione di dolore implicita nella propria
natura. L’unica possibile soluzione è l’oblio:
Resupino sull’erba / (ho detto che non voglio / racorti, o quadrifoglio) / non
penso a che mi serba // la Vita. Oh la carezza / dell’erba, non agogno / che la virtù del
sogno: / l’inconsapevolezza24.
In altre poesie della Via del rifugio troviamo ulteriori tracce dell’aspirazione al distacco dall’individuazione. Nell’impossibile dialogo con un’oca nella
Differenza assistiamo ad una riflessione di fronte al destino fatale: «la Morte
non esiste: / solo si muore da che s’è pensato. / Ma tu non pensi. La tua sorte
è bella!»25. Similmente nell’Amica di nonna Speranza le confidenze tra due adolescenti lasciano spazio a desideri di dissoluzione: «Il Lago s’è fatto più denso
/ di stelle — …che pensi? … — Non penso… — Ti piacerebbe morire? / Sì! —
Pare che il cielo riveli più stelle nell’acqua e più lustri. / Inchìnati sui balaustri:
sognamo così tra due cieli… / son come sospesa: mi libro nell’alto!...»26.
Lo strumento più efficace per raggiungere il distacco dal principium individuationis è la musica, forza creatrice generata dal genio: il tema presenta
evidenti vicinanze con il pensiero di Nietzsche. Miecio Horszovski, altro sonetto incluso nella Via del rifugio, è dedicato al celebre pianista polacco allora dodicenne. Qui il tema dell’arte è inoltre connesso con il mondo
dell’infanzia. È assai probabile che La beata riva di Angelo Conti possa nuovamente essere un riferimento importante per queste riflessioni estetiche27.
La tensione verso l’«Assoluto» è certamente tematica debitrice a Nietzsche, con il notevole influsso del trattato di Conti:
L’apparizione dell’idea segna per l’uomo una tregua al suo dolore, è la visione
d’un porto ove potrebbe approdare dopo la tempesta della passione, è l’apparizione
della beata riva, ov’egli potrebbe bere la pura acqua che fa dimenticare28.
Come già evidenziato da Boggione, il riferimento alla Beata riva compare come ripresa testuale nella poesia di Gozzano La più bella, pubblicata
nel luglio 1913 su «La lettura». Il superlativo è rivolto ad un’isola favolosa,
l’«Isola Non-trovata», di cui il poeta parla con tono incantato e divertito. Al v.
21 Gozzano sceglie una formula che risulta citazione del titolo contiano: «radono con le prore quella beata riva»29. È vero che la formula è attestata prima
di Conti in Dante30, ma il tono di questo componimento autorizza a pensare
G. GOZZANO, La via del rifugio, vv. 37-44, in Tutte le poesie, cit., p. 70.
G. GOZZANO, La differenza, vv. 10-12, in Tutte le poesie, cit., p. 104.
G. GOZZANO, L’amica di nonna Speranza, vv. 95-99, in Tutte le poesie, cit., p. 96.
27
A. CONTI, La beata riva, cit., p. 26-27: «L’artista è come un fanciullo a cui tutte le cose
producono un senso di meraviglia. […] Le medesime cose che il bambino chiede, chiede il filosofo e chiede l’artista. Il quale, al cospetto della natura, ritrova la sua anima infantile;».
28
A. CONTI, La beata riva, cit., p. 215-216.
29
G. GOZZANO, La più bella, v. 21, in Tutte le poesie, cit., p. 283.
30
DANTE, Purg., XXXI, 97: «Quando fui presso alla beata riva».
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S’annuncia col profumo, come una cortigiana, / l’Isola Non-Trovata… Ma se il piloto avanza, // rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell’azzurro color di lontananza…31
«L’Isola Non-Trovata» ha per il poeta lo stesso valore già giocato nella
Via del rifugio dal «quadrifoglio / che non raccoglierà»32, poiché entrambe le
circostanze diventano occasione per scegliere l’abbandono e rifiutare la voluntas: la strada che nella Via del rifugio conduceva all’inconsapevolezza qui
trasporta il poeta in una dimensione “altra” e sospesa, proprio grazie all’impossibilità di essere percepita con lo sguardo. Tuttavia dalle sottolineature di
Gozzano sul volume Le origini della tragedia si può vedere come la diretta conoscenza del pensiero di Nietzsche sia la tessera mancante in questo mosaico
di riferimenti:
Nel culto della bellezza l’unico rifugio contro la vita, l’unica possibilità di pace33.
Soltanto come fenomeno estetico l’esistenza del mondo può essere giustificata34.
La traccia della conoscenza di Nietzsche è riscontrabile anche dal limpido riscontro dell’Albo degli appunti, manoscritto che raccoglie le sperimentazioni compositive e le citazioni raccolte dal poeta nel periodo precedente
alla pubblicazione dei Colloqui. Tra le opere compulsate ci sono anche testi di
Nietzsche: in particolare tra il 1906 e il 1907 Gozzano riporta veri e propri
estratti da opere del filosofo e si confronta con una figura tanto importante35:
18.
19.
20.
21.
22.
23.
Nietzsche – il professore – bellezza d’una
immagine interiore: facoltà apollinea sfuggire
al pessimismo con una contemplazione della bellezza,
dire alla vita: ti voglio, perché la tua immagine
è bella, tu sei degna non di essere vissuta, ma
di essere sognata36.
Il frammento estratto dall’Albo degli appunti presenta numerosi elementi
di vicinanza con la trattazione nietzschiana. La fonte di tali tematiche è facilmente riconoscibile nelle Origini della tragedia, edito in Italia proprio nel 1907:
L’analogia del sogno può darci un insegnamento intorno alla natura di questo artista ingenuo [Omero]. Nella medesima guisa che di due metà della vita, – quella in cui
noi siamo svegli e quella del sogno, – la prima ci appare incomparabilmente più perfetta,
G. GOZZANO, La più bella, vv. 25-28, in Tutte le poesie, cit., p. 283.
G. GOZZANO, La via del rifugio, v. 7-8, in Tutte le poesie, cit., p. 69.
33
F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit., p. XIII.
34
Ivi, p. 11.
35
Il richiamo ad una lettura diretta di Nietzsche da parte di Gozzano è stato suggerito per la
prima volta da FRANCO CONTORBIA, Il sofista subalpino, Cuneo, L’arciere, 1980, pp. 16-18.
36
G. GOZZANO, Albo dell’officina, a cura di N. Fabio-P. Menichi, Firenze, Le lettere, 1991.
31
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che il racconto dell’isola favolosa veicoli anche un messaggio estetico degno
d’attenzione:
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più importante, più degna di essere vissuta, io direi anzi la sola vissuta, nella stessa
guisa io vorrei sostenere, per quanto possa sembrare un paradosso, che il sogno delle
nostre notti ha un’eguale importanza, in confronto di quell’essenza misteriosa della
nostra natura, di cui noi siamo l’apparenza esteriore. [...] Noi siamo costretti a concepirla come il vero Non-Ente, cioè come un continuo divenire nel tempo, nello spazio e
nella causalità, in altre parole come una realtà empirica37.
L’ambiguo rapporto tra sogno e realtà, presente in numerosi componimenti raccolti nella Via del rifugio, appare quindi coerente con la poetica
espressa da Nietzsche nelle Origini della tragedia. L’aspirazione al sogno, all’inconsapevolezza, è uno dei contenuti più speciali del primo periodo della
produzione di Gozzano. Parallelamente, il riconoscimento di un inedito valore attribuito all’ingenuità è elemento riscontrabile sia nei passi nietzschiani
prima citati, sia nella prima raccolta poetica di Gozzano. Ulteriore esempio ne
sia l’analfabeta protagonista dell’omonimo componimento di Gozzano: non
soltanto costui è depositario delle verità della Natura, ma incarna l’analogo di
Omero nelle Origini della tragedia. È l’artista ingenuo, che attraverso l’inconsapevolezza sa attingere alle più profonde radici del reale. Possiede il privilegio di un rapporto dialettico con la natura nient’affatto dissimile da quello cui
Nietzsche anela prima nelle Origini della tragedia e poi nello Zarathustra:
«Guardi le stelle attingere i fastigi / dell’abetaia, contro il cielo, e l’orsa / volger le sette gemme alla sua corsa; / senti il ritmo macàbro delle strigi / e il
frullo della nottola ed il frullo della falena… Pel sereno illune / spazi tranquillo, vecchio saggio immune. / La tua pupilla è quella di un fanciullo»38.
Alla luce di queste osservazioni appare dunque fuor di dubbio l’influenza feconda che la potenza evocativa delle parole di Nietzsche fu in grado
di esercitare sull’humus culturale da cui Gozzano stava per trarre la sua prima
raccolta di poesie. Le citazioni di Nietzsche diventarono in seguito più disinvolte, a partire dall’elaborazione di quella poetica della Natura come depositaria delle “forme prime” di cui si alimenta la produzione immanentista di
Gozzano, e in particolare Le epistole entomologiche. Tuttavia rimane molto interessante assistere da vicino e testimoniare l’interesse che il giovane poeta torinese nutrì nei confronti di un testo così rivoluzionario come Le origini della
tragedia.
37
38
F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit., 48-51.
G. GOZZANO, L’analfabeta, vv. 145-152, in Tutte le poesie, cit., p. 80.
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di Giuliana Rovetta
È solitamente durante l’estate che il desiderio di viaggiare si fa sentire,
come occasione per cambiare abitudini ma a volte anche come ansia di scoperta. L’orizzonte può essere vicino o lontanissimo, esotico o domestico: quel
che conta è la capacità di vedere luoghi diversi con occhi curiosi, attenti, e soprattutto conta la possibilità, al rientro nel proprio ambiente, di ritrovare il panorama abituale leggermente cambiato rispetto a quando l’abbiamo lasciato.
Allora avremo compiuto un viaggio di andata che avrà aggiunto al nostro repertorio d’immagini delle suggestioni mai viste prima, mentre al ritorno la nostra quotidianità si sarà arricchita di qualche piccola sfumatura fino ad allora
nascosta al nostro sguardo distratto. Approfittare dell’estate per fare un viaggio virtuale senza tappe obbligate, senza alcuna costrizione di repertoriare gli
eventi, semplicemente attraversando le letterature di altre parti del mondo:
ecco un buon modo di evadere dalla nostra quotidianità. Entrando in contatto
con voci a cui il nostro orecchio è poco assuefatto, si potrà ampliare la capacità d’ascolto al di là dei vincoli linguistici. Potrà anche essere la via per avvicinare, con la personale sensibilità di ognuno, temi che non fanno parte della
nostra tradizione culturale. E potrà infine presentarsi l’opportunità di accostarsi al patrimonio letterario che segna e denota la nostra appartenenza con
strumenti nuovi di analisi e apprezzamento.
Volendo spingerci, come prima tappa, molto lontano dal nostro orizzonte ordinario (ma sempre ricordando, come afferma Macé-Scaron, che rien
de ce qui est littéraire ne nous est étranger1) constatiamo che alla radice della
scrittura dei grandi autori sud-africani degli anni 1980 sta ancora l’apartheid
e il modo in cui ognuno di essi si definisce in rapporto al problema della segregazione. Così se Nadine Gordimer, da una posizione privilegiata nella comunità bianca anglofona di Johannesburg, conduce la sua battaglia contro la
differenza razziale e tutti i pregiudizi connessi, dando spazio nei suoi romanzi
e nei suoi saggi in uno stile colto (Flaubert, Eliot, James sono i suoi riferimenti)
alle tensioni di una terra “profumata e colorata” che non ha mai voluto lasciare2, altri come André Brink puntano alla appropriazione e trasformazione
della lingua coloniale col recupero della scrittura in afrikaans. In più entrambi
valorizzano un punto di vista anche femminile, più riflessivo e sofferto, in relazione al difficile snodo fra l’esperienza dell’apartheid e il lento percorso
volto a sanare le fratture ereditate dal passato. Anche quando le opere scritte
in inglese gli hanno dato la notorietà, Brink non ha mai smesso di mettere in
guardia su certi atteggiamenti discriminatori, tanto più se ovvi e quasi invoJoseph Macé-Scaron, Du goût des autres, Magazine Littéraire, n. 522, 2012.
Nadine Gordimer, I giorni della menzogna (The Lyng Days, 1953), Feltrinelli, Milano, 1987;
Il Conservatore (The Conservationist,1972) La Tartaruga, Milano, 1987; La figlia di Burger (Burger’s Daughter, 1979), Feltrinelli, Milano, 1992; L’aggancio (The Pickup, 2001), Feltrinelli, Milano 2001.
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lontari, come quelli assunti dalla sua famiglia d’origine: “Fino a quando non
sono partito per un viaggio di studio a Parigi ho sempre vissuto in una comunità bianca molto razzista”, afferma riferendosi soprattutto al padre magistrato, incaricato di amministrare la giustizia nei vari distretti del Sud Africa3.
Meno centrata sul tema predominante della situazione dei neri nella Rhodesia del Sud, dove ha vissuto a lungo nella fattoria dei genitori, Doris Lessing
spazia attraverso stili e scritture diverse: il presente storico, la fantascienza,
il sufismo, e sempre sullo sfondo i controversi affetti familiari. Per quanto riguarda i rapporti tesi e difficili fra i coloni inglesi e gli indigeni di quella zona
(che corrisponde all’odierno Zimbabwe) la scrittrice manifesta la sua comprensione sia per le sofferenze degli abitanti autoctoni che per le frustrazioni dei
colonizzatori, alle prese con una terra infruttuosa malgrado ogni sforzo4.
Sempre molto determinato nell’approccio ai problemi del suo tempo J.
M. Coetzee, nato a Cape Town ma con non lontane ascendenze olandesi e polacche, opera un certo décalage in direzione dell’attualità per poi farsi cantore dell’orientamento post-colonialista del suo tempo. Molti sono i temi della
società moderna che toccano la sua sensibilità di scrittore nelle due lingue (inglese e afrikaans) e di uomo rigoroso, integerrimo, per nulla incline al compromesso. La sua immagine, che corrisponde a un giovanile settantenne
dall’aspetto severo e quasi ascetico, risulta poco nota malgrado il clamore mediatico degli innumerevoli riconoscimenti che gli sono stati conferiti, in primis
il Nobel nel 2003. Questa assenza dalla ribalta, che non è tuttavia simile alla
scomparsa radicale ed enigmatica di un Salinger o di un Pynchon, Coetzee è
disposto ad interromperla per affrontare, sempre con un linguaggio fermo e
quasi lapidario, questioni del vivere civile che lo coinvolgono (o più spesso lo
indignano) come la pretesa antropocentrica nei confronti dell’ambiente e degli
animali5. Le opere dei suoi esordi esulano dal contesto strettamente sudafricano per evocare con asprezza i rapporti di sopraffazione e soggezione che determinano in generale la vita dei deboli rispetto ai forti. Il suo atteggiamento
non viene assunto in obbedienza ad un credo politico, ma piuttosto per evidenziare il bisogno connaturato nell’uomo di avere come riferimento una legge
morale. Nel romanzo In the Heart of the Country una giovane donna nubile
persa nella soffocante solitudine di una fattoria isolata del Sudafrica evoca
nel corso di 266 monologhi la figura di un padre tirannico e violento che in un
crescendo di orrore e disgusto annienta in lei ogni sentimento d’affetto fino
a condurla alla follia6. Più direttamente in Waiting for the Barbarians, l’autore
3
André Brink, Un’arida stagione bianca (A Dry White Season, 1966), Frassinelli, Torino, 1989; La
polvere dei sogni (Imagining of Sand, 1996), Feltrinelli, Milano, 1998; Desiderio (The Rights of Desire,
2000), Feltrinelli, Milano, 2001.
4
Doris Lessing, L’erba canta (The Grassi is Singing, 1950), La tartaruga, Milano, 2000; Martha
Quest (Martha Quest, 1952), Feltrinelli, Milano, 1997; Racconti africani (African Stories, 1964), Felrinelli,
Milano, 1997.
5
J.M.Coetzee, The Lives of Animals, Princeton University Press, Princeton, 1999. La vita degli animali, Adelphi, Milano, 2000, traduzione di Franca Cavagnoli e Giacomo Arduini. Proprio in questo testo
appare per la prima volta il personaggio di Elizabeth Costello, scrittrice australiana di fama che in diverse conferenze nelle varie parti del mondo esprime con determinazione i suoi punti di vista su vari temi
anche molto controversi e complessi che sono poi quelli cari all’autore. Elizabeth Costello, Penguin, Londra, 2004, è stato pubblicato da Einaudi nel 2004, nella traduzione di Maria Baiocchi.
6
J.M.Coetzee, Nel cuore del paese (In the Heart of the Country, 1977), Einaudi, Torino, 2007, traduzione di Franca Cavagnoli.
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Facilmente s’intuisce che il mondo post-apartheid descritto con parole taglienti e strazianti da Coetzee è tutto meno che addomesticabile in categorie
ben definite. Da una parte i beni, che non bastano per tutti, dall’altra l’insicurezza come prezzo da pagare alla storia per i delitti commessi nel passato. Umiliazione e dignità sono i due termini che polarizzano i sentimenti di persone
che non sono mai completamente né dalla parte della ragione né dalla parte del
torto, ma alla ricerca di una, purtroppo ancora lontana, pacificazione.
7
J.M. Coetzee, Aspettando i barbari (Waiting for the Barbarians,1980), Einaudi, Torino,
2000, traduzione di Maria Baiocchi.
8
J.M. Coetzee, Vergogna (Disgrace, 1999), Einaudi, Torino, 2000, traduzione di Gaspare Bona.
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denuncia in termini aspri e incondizionati le derive coloniali e dittatoriali delle
grandi potenze. La minaccia dei barbari ai margini dell’Impero è lo spunto di
questo romanzo che evoca nel titolo il poeta Kavafis e nella trama Il deserto
dei Tartari di Buzzati: l’incertezza su chi sia veramente l’aggressore, unita agli
equivoci di coloro che si sentono vittime dell’assedio in una fantomatica fortezza di frontiera, evoca situazioni di divisione e paura come quelle che in Sudafrica hanno stentato a dissolversi pur con la fine dell’apartheid 7. E infatti lo
strascico di angoscia e risentimento che le nuove soluzioni politiche in senso
democratico non sono state in grado di cancellare, segna una nuova epoca di
contrapposizione. Raccontando in Disgrace8 la caduta in disgrazia di David
Lurie, professore bianco dai raffinati gusti letterari, messo poi al bando dalla
comunità universitaria e dall’intera società per i suoi atteggiamenti giudicati
immorali e provocatori, Coetzee sembra voler spiegare l’impossibilità di questa sperata riconciliazione. Mentre assiste alla progressiva sottrazione delle
prerogative del suo successo, il protagonista trascina con sé nel baratro tutti
i valori in cui crede, che sono poi quelli della democrazia e della cultura. Un
destino individuale viene così assunto a simbolo della regressione verso una
nuova barbarie, ammantata di buoni sentimenti ma bloccata nella sua verità
storica ad uno stadio lontano dalla modernità. Quando si troverà, impotente,
a dover avallare una scelta per lui irragionevole della figlia Lucy, il protagonista si scontra proprio con questa paralizzante realtà. La giovane, convinta in
coscienza di dover scontare gli errori della élite dei colonizzatori da cui discende per guadagnarsi il permesso di restare su quella terra, in fondo non veramente sua, così dialoga col padre:
“No di qui non me ne vado. Cerca Petrus e riferiscigli quello che ti ho detto.
Gli cederò la terra con un regolare atto di proprietà. Sarà musica per le
sue orecchie”.
C’è una lunga pausa in cui nessuno dei due parla.
“Che umiliazione, -dice David alla fine-. Tante grandi speranze per poi
ridursi così”.
“Sì, concordo con te, è umiliante. Ma forse è il punto di partenza giusto
per ricominciare da capo. Forse è una lezione da accettare. Bisogna saper ricominciare dal fondo. Senza niente. Senza una carta da giocare, senza un’arma,
senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità”.
“Come un cane”.
“Sì, come un cane”.
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La distanza aerea fra Johannesburg e Tokyo è di circa 18 ore: un lungo
volo per passare da un mondo ad un altro. Come in altre parti del pianeta
anche nell’arcipelago giapponese nulla è uniforme: la discontinuità corre lungo
linee di frattura in una società che appare ben organizzata ma è sostanzialmente fragile. A illuminarci sulle insidiose discordanze del suo paese, con una
scrittura che moltiplica i personaggi e gli effetti nel corso di narrazioni dal
percorso labirintico, è un autore dalla forte personalità e dalla formazione in
parte cosmopolita. Se si fa cenno a Haruki Murakami viene subito in mente il
testo di grande successo intitolato cripticamente 1Q84 (ma con un’evidente allusione orwelliana: la lettera Q tiene il posto del numero 9)9. Ma vale la pena
di percorrere le tappe dell’avvicinamento alla scrittura di questo intrigante
personaggio che alterna un’intensa attività fisica da podista (ha corso in Grecia la maratona del 1983) con la posizione sedentaria del narratore, rendendo
complementari due modalità di espressione quasi antitetiche allo scopo di potenziare, attraverso la loro interazione, la forma sia fisica che mentale. I circa
dieci chilometri che s’impegna a percorrere quotidianamente sono il viatico
per una giornata all’insegna della libertà di pensiero, mediata da una concentrazione quasi monacale10.
Lo scenario degli anni giovanili di Murakami, nato a Kyoto, è la città portuale di Kobe, luogo deputato ai ricordi anche per Dacia Maraini e la sua famiglia d’origine. Quando cura la pubblicazione dei diari di sua madre, una cruda
testimonianza delle difficoltà di sopravvivenza in Giappone per gli oppositori
della Repubblica di Salò, Maraini parla di una ferita mai rimarginata11. Anche
Murakami sente viva alle spalle una storia tragica, da ricordare con emozione
e con stringenti interrogativi, e questa riguarda in particolare la guerra sinogiapponese, teatro di azioni, premeditate o inconsulte, di estrema atrocità. La
parziale occidentalizzazione di questo scrittore, che ha conosciuto da studente le opere di autori inglesi come Fitzgerald e Carver, e che, dopo aver viaggiato in Grecia e in Italia, ha insegnato nell’università americana di Princeton,
non è mai disgiunta da un forte senso di appartenenza a quell’identità giapponese che se pure ha mutuato, nel cammino verso la modernità, alcuni caratteri dalla cultura occidentale, non potrà però esaurirsi meccanicamente in
essa. Laborioso e metodico, questo giapponese timido che dimostra molto
meno dei suoi 63 anni, non è per nulla l’artefice di una scrittura monotona e
autoreferenziale: la sua prosa piena di sottigliezze, di corrispondenze ironiche, di scatti verso improvvisi cambiamenti di scena, forza l’ordine cronologico e disegna universi paralleli in una continua sfida al lettore. Dal romanzo
d’esordio del 1979, Ascolta la canzone del vento 12, con i suoi scenari metropolitani e i riferimenti alla cultura pop americana, fino ai successivi romanzi
degli anni 1970-80, Murakami non cessa di stupire il suo pubblico con i molti
riferimenti critici alla società nipponica, dove -questa è l’accusa che muovel’immaginazione non riesce a farsi strada attraverso il muro del conformismo.
9
In Italia è uscito presso l’editore Einaudi IQ84 Libro 1 e 2, 2011, e con data settembre
2012 anche il Libro 3, nella traduzione di Giorgio Amitrano. In Giappone sono stati pubblicati dall’editore Shinchosha i Libri 1 e 2 nel 2009 e il Libro 3 nel 2010.
10
L’Express, 5 gennaio 2006, intervista di Philippe Coste.
11
Dacia Maraini, La nave per Kobe, Rizzoli, Milano, 2010.
12
H. Murakami, Ascolta la canzone del vento, Einaudi, Torino,1979.
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Dalla generazione dei Grandi Narcisi, definizione con cui Foster Wallace
indicava gli scrittori “egoisti” (e anche alquanto maschilisti) appartenenti al
fortunato filone della narrativa pstmoderna come Norman Mailer, Updike, Philip Roth, molta acqua è passata sotto i ponti, e soprattutto l’acqua torbida dell’attentato dell’11 settembre che ha avuto un innegabile impatto sulla
letteratura statunitense così come in generale sulla psicologia e il senso di sicurezza del popolo americano. La predisposizione al racconto che è connatu-
13
H.Murakami, Tutti i figli di dio danzano, Einaudi, Torino, 2010, traduzione di Giorgio
Amitrano. Underground, Einaudi, Torino, 2011, traduzione di Antonietta Pastore.
14
L’Express, cit.
Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo
Molto sensibile ai fatti salienti che toccano l’essere umano nel profondo, Murakami ha pubblicato due opere generate da avvenimenti che hanno avuto
come scenario il Giappone. Tutti i figli di dio danzano, 1995, e Underground,
199713, si strutturano rispettivamente come una raccolta di sei racconti e un’inchiesta condotta in mezzo alla gente, entrambe sollecitate da tragedie di risonanza internazionale. Dopo il sisma di Kobe del gennaio 1995, che comportò
la perdita di oltre seimila vite umane, Murakami rientra in Giappone e mette
sulla pagina le storie di alcuni sopravvissuti (alle volte anche con un certo humour, per far scattare la molla dell’orgoglio e del riscatto) non con l’intento di
restituire una cronaca del disastro, cosa che hanno fatto in tempo reale i media
di tutto il mondo, ma per approfondire gli effetti traumatici dell’avvenimento
sulla psiche delle persone comuni. Lo stesso anno, due mesi dopo, alcuni
adepti del culto religioso Aum attentano alla vita di passeggeri inermi della
metropolitana di Tokyo diffondendo un potentissimo veleno. Attraverso una
serie di domande ai superstiti e agli affiliati della setta, Murakami cerca di
chiarire i motivi di un gesto che ha scosso la coscienza collettiva generando
panico e insicurezza. “Il Giappone degli anni Ottanta era diventato troppo
ricco, troppo potente e arrogante -spiega in un’intervista- mentre poi la crisi
economica e questi avvenimenti l’hanno precipitato in una disperazione che
mi ha colpito profondamente e mi ha fatto pensare che come scrittore potevo
nuovamente assumere un ruolo nel mio paese”14.
Da allora, vivendo tra il Giappone, le Hawai e i viaggi in Occidente Murakami ha inventato un suo stile, enigmatico, volutamente poco espressivo,
percorso da emozioni represse e si è anche costruito addosso un personaggio
di scrittore cult distaccato, oggetto di un successo un po’ fanatico. Con un
cocktail vincente, vale a dire intuizione più metodo, ha macinato in tre anni le
millecinquecento pagine di 1Q84, un romanzo che pur essendo così esteso
resta il regno del non detto, dato che l’autore si esercita nell’arte dell’allusività
e dell’ellissi, spiazzando (e qualche volta estenuando) il fedele lettore. Romanzo statico, in cui però succedono molte cose, romanzo di sentimenti basati sulla più grande incoerenza, dove sono eliminate le frontiere tra realtà e
fantasia, tra bene e male, tra interiorità e mondo esterno. E così seguendo una
tra le tante digressioni improvvise o indugiando nelle descrizioni minuziose
a caccia di indizi depistanti, si coglie in controluce il filo conduttore di una
serie di infanzie tormentate a cui l’autore non nega, sul finire, la malinconica
speranza di un balsamo d’amore che potrà sanare le ferite, offrendo così un
esito contrario a quello ultrapessimistico di Orwell.
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rata alla tradizione del Nord America, con la sua storia policentrica distribuita
in grandi spazi, dove attraverso la vocazione all’ascolto di diverse voci è nato
il fenomeno del melting pot, dopo l’attentato subisce un rallentamento nel
suo tradizionale slancio verso orizzonti sempre più avanzati. Lo stesso Roth,
dopo il Teatro di Sabbath (1995) opera di eccezionale forza bruta in sintonia
con l’accelerazione impressa dall’ingresso nel terzo millennio, trovandosi davanti alle rovine delle torri gemelle trattiene la sua rincorsa per piegarsi ad
uno stile riflessivo, in cui la sua travolgente energia si smorza in una scrittura
dal tono quasi classico. Lo stesso ripensamento sembra aver guidato Cormac
McCarthy. Su questo scrittore ci soffermiamo perché emblematico degli umori
del paese in questa fase che avrebbe dovuto segnare per gli Stati Uniti il riscatto dopo il dramma, riscatto reso invece impossibile dalla drammatica depressione economica che smorza ogni euforia. Le opere scritte da McCarthy
negli anni Sessanta e Settanta, a partire dal romanzo d’esordio The Orchard
Keeper fino a Child of God mostrano una notevole carica immaginativa. In
particolare Suttree, che evoca, sia per il personaggio eponimo che per il tipo
di narrazione l’Ulisse di Joyce, segna una tappa importante nell’espressività (in
parte autobiografica) dell’autore. Con Blood Meridian McCarthy inaugura il genere romanzo-western che porterà avanti in termini molto personali anche
con i tre racconti riuniti in Border Trilogy e ancor più con No Country for Old
Men15, dove la contrapposizione fra bene e male, in un contesto che sembra di
per sé generatore di violenza e teatro di ininterrotti spargimenti di sangue, è
rappresentativa dell’America avventurosa e primordiale, non meno di quanto
lo siano le immagini rassicuranti delle villette allineate tra siepi e fiori nelle periferie residenziali urbane così ben descritte, nel loro ambiguo perbenismo,
da film come American Beauty e Revolutionary Road.
Con la stessa ottica da pioniere che ha adottato per raccontare, e attualizzare, il mito della frontiera, McCarthy affronta in The Road lo scenario di un
mondo in cui un non ben precisato avvenimento apocalittico prodottosi dieci
anni prima (meteorite? incidente nucleare? eruzione vulcanica?) ha ridotto il
paese visibile a un cumulo di macerie16. Tutti i simboli della civiltà (in particolare quelli che contraddistinguono la moderna deriva iperconsumistica) sono
ridotti a reperti inutilizzabili: supermercati sventrati, rottami di auto bruciati,
fusi e riagglomerati in forme mostruose, insediamenti urbani abbandonati,
piante schiantate al suolo. Ogni cosa è ricoperta di una polvere acre e sottile,
non cresce più un filo d’erba, non sono sopravissuti animali, nulla di decentemente umano è rimasto a indicare che non molto tempo prima esisteva sulla
terra una comunità operosa e solidale. Bande di predoni ridotti allo stato bestiale dalla fame traversano lande desolate in cerca di cibo (anche di carne
umana, l’unica ancora a stento reperibile). In questo paesaggio spettrale e infido passa la strada, altro mito consolidato della cultura americana, che un
padre ormai allo stremo e un ragazzino -malgrado tutto- ancora fiducioso,
15
C.McCarthy, Trilogia della frontiera (Border Trilogy, 1992-1998): Cavalli selvaggi, Guida,
Napoli, 1993, traduzione di Riccardo Duranti; Oltre il confine, Einaudi, Torino, 1995, traduzione di
Rossella Bernascone; Città della pianura, Einaudi, Torino, 1999, traduzione di Raul Montanari.
16
C. McCarthy, La strada (The Road, 2006), Einaudi, Torino, 2007, traduzione di Marina
Testa. Da questo romanzo, vincitore del Pulitzer Price for Fiction 2007, è stato tratto un film per
la regia di John Hillcoat nel 2009.
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Dal suo primo libro La Place de l’Étoile, 1968, all’ultimo, L’Herbe des nuits,
in uscita a ottobre 2012 da Gallimard17, Patrick Modiano ha pubblicato circa una
trentina di romanzi percorsi da motivi ricorrenti, dove la ripetitività è cifra stilistica non meno che esercizio terapeutico. Scrivere per esorcizzare gli incubi di
un passato sentito come impresentabile, libro dopo libro, avvolgendo il lettore
in una rete di allusioni alle stagioni trascorse, quelle dell’attesa della liberazione
e poi del dopoguerra, seminando enigmi che non saranno mai risolti. Amico,
giovanissimo, di Queneau e Vian, Modiano malgrado le sue frequentazioni anche
mondane (da Malraux a Françoise Hardy, al regista Louis Malle), resta una figura
a parte nelle lettere francesi, distante dalle avanguardie politiche e artistiche.
La critica, che ne registra l’eccezionale appeal presso un pubblico avvertito e fedele, considera la sua scrittura ora leggermente rétro, ora di stampo quasi classico. Anche se ha esordito in una fase storica in cui riviste e movimenti
assumevano nel panorama letterario una certa rilevanza, Modiano, personaggio
schivo, dall’eloquio tutt’altro che disinvolto e spesso inceppato, ha considerato
inutile posizionarsi rispetto ad altri: il suo pensiero ricorrente era, ed è, la filiazione da quei padri (come il suo: piccolo trafficante di borsa nera, senza troppi
scrupoli) che hanno vissuto prima e dopo l’Occupazione, il dramma non risolto
di una generazione segnata à jamais dalla guerra.
“Sono nato il 30 luglio 1945 a Boulogne-Billancourt, da un ebreo [d’origine italiana] e da una donna fiamminga che si erano conosciuti nella Parigi occupata. Scrivo ebreo ignorando che cosa questa parola significasse davvero
per mio padre e per quale motivo fosse menzionata allora sulle carte d’identità. I periodi di grande turbolenza provocano spesso incontri azzardati, così
che non mi sono mai sentito un figlio legittimo e ancor meno un erede”.
Così nell’autobiografia dei suoi primi 20 anni, ironicamente intitolata
Un pedigree, ancora una volta lo scrittore, con la scusa di chiarire e di fissare
dati e immagini, non fa che allontanarsi da se stesso, dissimularsi nell’ombra,
17
18
Babboni.
P. Modiano, La place de l’ Étoile, Gallimard, Parigi,1968.
P. Modiano, Un pedigree (Un pedigree, 2005),Einaudi, Torino, 2006, traduzione di Irene
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percorrono verso l’oceano, verso un sud dove forse, se avranno fortuna, se
sfuggiranno a tutti gli agguati, potrà esserci la salvezza. Nell’andare, il padre
si sforza di descrivere al bambino la bellezza del mondo perduto, e vorrebbe
salvaguardare l’innocenza del suo sguardo a dispetto degli atti violenti che si
trova costretto a compiere per non soccombere. “Siamo ancora noi i buoni?”
chiede il ragazzo dopo aver assistito alla violenza con cui il padre deve liberarsi, uccidendolo, di un uomo affamato come un lupo e pronto a sbranarli. “Sì,
siamo ancora noi. Ucciderò chiunque proverà a toccarti. Perché questo è il mio
compito.”
È questo romanzo una metafora del degrado cui può arrivare la civiltà,
se non ci si fa carico di salvaguardarla? O è piuttosto uno specchio dell’America, il paese dell’ottimismo e del pragmatismo, dove ogni cosa è stata conquistata con metodi duri e spietati, anche a costo di sacrificare ogni volta una
parte della propria umanità? McCarthy, artefice di una prosa contratta e minimale, sceglie di valorizzare, contro la disperazione, lo spirito di conquista:
sopravvivere ancora un giorno, un giorno in più, è già una vittoria.
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confondere le piste tra presente e passato, tra sé e altro da sé.18
Del resto il tempo di Modiano non è lineare, non è la contemporaneità
ma una dimensione di tipo proustiano, fatta di slanci in avanti e improvvisi rallentamenti. Anche il linguaggio, pur corredato da una miriade di dettagli, finge
di voler fare chiarezza mentre in realtà non svela mai nulla: così nel labirinto
delle parole regna l’approssimazione. Personaggi sfumati, situazioni ambigue,
identità sovrapposte: la giovane Louki, enigmatica presenza nel quartiere parigino dell’Odéon, turba col suo passaggio e la sua repentina scomparsa i ricordi di molti19 ; Jacqueline, distratta artefice di un investimento stradale in
Accident nocturne diventa un’ossessione per la sua vittima, un je autobiografico che, uscito dall’ospedale, inseguirà questo fantasma di donna seguendo
depistanti indizi20 ; Dora Bruder, il personaggio centrale del romanzo più compiuto e coinvolgente, adolescente sparita nel periodo dei rastrellamenti senza
lasciare traccia, apre la via ad una serie di ricerche che, cinquant’anni dopo,
porteranno l’autore sui luoghi che presumibilmente furono scenario della sua
giovinezza e che oggi corrispondono a strade periferiche, alberghi dismessi,
scorci di una Parigi completamente cambiata21.
Nella circolarità della sua scrittura Patrick Modiano sembra voler comporre diversi volets di un’unica opera, da cui si ritrae non appena viene sfiorata l’ipotesi di una conclusione, di una affermazione finale. Ciò che conta
non è conseguire un risultato, ma la qualità e la continuità dell’indagine, ostinatamente ripresa dalla sua origine, ogni volta con angolazioni leggermente variate. In un certo senso l’autore si rende prigioniero del suo stesso sguardo:
secondo questo modo di osservare e raccogliere niente più che semplici indizi, l’ombra conta più della luce, l’enigma più della soluzione. Anche nell’universo ovattato della stazione termale svizzera in cui si svolge Villa Triste22, la
toile de fond (i negoziati del 1960-61 per l’Algeria) riportano ad una oscurità
originaria, a un momento buio della storia francese. Una presa di coscienza
continuamente evocata e avvicinata, ma mai raggiunta, è il nodo che lega questo scrittore parigino al suo contesto di riferimento.
Pur entro i limiti di una scelta rappresentativa dei vari paesi assolutamente arbitraria, in questa breve panoramica si possono cogliere in controluce
le tracce di alcune linee di forza che caratterizzano, in sintonia o in contrapposizione, le opere di questi autori nati negli anni Quaranta (ad eccezione di
McCarthy, 1933) tutti in qualche modo in posizione polemica rispetto all’attualità e al contesto di appartenenza
Il recente libro di Murakami, 1Q84, che postula la presenza -surreale- di
un mondo “più realistico di quello esistente”, frutto di un accurato assemblaggio di dati non reali, apre alcuni degli interrogativi centrali della nostra civiltà:
il potenziale umano è completamente espresso nella vita reale (che l’autore
chiama vita A) o non è invece solo una minima frazione, realizzata e visibile,
19
P. Modiano, Nel caffè della giovinezza perduta (Dans le café de la jeunesse perdue,
2007), Einaudi, Torino, 2010, traduzione di Irene Babboni.
20
P. Modiano, Accident nocturne, Gallimard, Parigi, 2003.
21
P.Modiano, Dora Bruder (Dora Bruder, 1997),Guanda, Milano, 2004, traduzione di Francesco Bruno.
22
P. Modiano,Villa Triste (Villa Triste,1975), Rusconi, Milano 1976, traduzione di Anna e
Alfredo Cattabiani.
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René Char, Rougeurs des Matinaux, in Les Matineaux, Gallimard, Parigi, 1950.
P. Modiano, Livret de Famille, Gallimard, Parigi, 1977, p. 96.
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di un universo personale molto più complesso che resta inattivo fino a quando
non viene sollecitato (questo è, fra l’altro, il compito di ogni vero scrittore) a
mettersi in moto? Non molto diversamente René Char richiamava la “mission
d’éveiller” propria del poeta23. Per Murakami il peccato dei suoi connazionali è
il conformismo, la mancanza di fantasia che invece dovrebbe essere il motore
dell’innovazione culturale. Anche il paese desertificato immaginato da McCarthy, nei termini strazianti che abbiamo detto, rappresenta un secondo (o ennesimo) livello delle possibilità di vita: in questo caso la minacciata sparizione di
ogni bene materiale e morale di cui l’uomo si sentiva a buon diritto depositario mette in risalto il valore, non scontato, di quanto è andato perduto. Nel caso
di La strada, alle spalle dell’autore pesa una storia fatta di orgoglio nazionale
che sembrava premiare la fuga in avanti sempre e comunque, l’azione anche a
costo di qualche prepotenza. Più drastica l’ingiustizia della storia che dipinge
Coetzee parlando del suo Sud Africa, dove le cicatrici restano indelebili e anche
a distanza di tempo impediscono il corretto armonizzarsi fra gli abitanti di diversa origine. Là dove la crudeltà ha tracciato un solco troppo profondo, la rimarginazione è così lenta da perdere il contatto con la realtà. Il
condizionamento della storia (anche Murakami faceva riferimento ad una specie di nodo irrisolto che era per lui la guerra con la Cina) resta il motivo ispiratore, sia pure circoscritto a un’area temporale breve, di tutta l’opera di Patrick
Modiano. Un retaggio comunque non meno lancinante: anziché nelle praterie
del West o nel Sud dell’Africa, la partita con il passato si gioca ad ogni coin de
rue, o nelle allées dei grandi boulevards; anziché il colore della pelle a dividere
in forti e deboli può essere un nome, una divisa, una scelta opportunista. Per
Modiano non si sfugge alla memoria che è indipendente dalla volontà umana.
Così afferma in un passo di Livret de famille: “Avevo solo vent’anni, ma i miei
ricordi erano precedenti alla mia nascita…”24
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QUATTRO POESIE
di Davide Puccini
La commedia dell’arte
La vita è una commedia
dell’arte nella quale l’importante
è recitare liberi da impaccio
restando bene in parte nei costumi,
fedeli al canovaccio più incalzante
con lazzi bòtte azione e putiferio,
che fingiamo di prendere sul serio
per non passare, futili, per pazzi.
Quando volge al finire
la rappresentazione
ci abbandoniamo inutili all’inedia
aspirando a un riposo senza lotte:
e dopo, divertìti da morire,
spengiamo tutti i lumi e buonanotte.
La tragedia
Quando cala il sipario fanno pace
i nemici: si prendono a braccetto
e si presentano sul palcoscenico
a riscuotere applausi meritati
il tiranno con il tirannicida,
vittima e boia, oppressore ed oppresso,
invasore ed invaso affratellati,
il vinto e il vincitore ormai sicuri.
Ben presto è in calendario un altro autore:
la rappresentazione ricomincia
con tamburi e fanfare rimbombanti,
con luci scintillanti e grande ardore,
ma velata dall’ombra di un sudario.
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Q U AT T R O P O E S I E
Io che scrivo con questa stilografica
dal segno fine sono – nomen, omen –
un uomo d’acqua. Inconsistente scorro
come l’inchiostro liquido bluastro,
trascorro la mia vita sulla ruga
di una sottile lamina di carta,
pallido astro che rapido declina,
lasciando appena un’orma diluita
che si trasforma in labili parole:
il sole la prosciuga ed è finita.
Volatili
Passa rombando il caccia militare
rasente al mare, argenteo e prepotente
in un frastuono che riempie il cielo;
è già lontano e sembra ormai un trattino
all’orizzonte e ne rimbomba il tuono:
insieme agli altri, un piccolo gabbiano.
Ed anche noi così rapidamente
umbratili spariamo a bruciapelo,
in questo senso non meno volatili.
Davide Puccini Waterman - Volatili
Waterman
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Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura
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NATURA E LETTERATURA
di Rosa Elisa Giangoia
La presenza della natura nei testi letterari è costante nel tempo, ampia,
ma diversificata per scelte nell’ambito del mondo naturale ed interpretazioni
dei diversi elementi.
Agli inizi della nostra tradizione classica, come di quella di quasi tutti
i popoli, ci sono i miti, che rappresentano il comune patrimonio di riferimento
capace di creare l’unità e la coesione culturale. Nella mitologia greca la Natura
è descritta tramite un processo di personalizzazione, secondo cui i vari elementi sono creature divine, maschili e femminili, che interagiscono tra di loro,
in rapporti diversi, di alleanza o di conflittualità, e che determinano la varietà
degli aspetti naturali e la loro incidenza sulla vita degli uomini. Così Gea è la
Terra, Eolo il Vento e Poseidone il mare, mentre il ciclo delle stagioni è spiegato con il rapimento di Proserpina da parte di Plutone, dio dell’Ade.
L’adesione degli uomini a questi miti avviene in un tempo ancora fuori
dalla storia, anche se permane nei poemi omerici. Nell’Iliade e nell’Odissea si
aprono, però, forse anche attraverso stratificazioni creative diacroniche, altre
prospettive di visione ed interpretazione della Natura. Innanzitutto la descrizione
secondo verisimiglianza, soprattutto nei paragoni e nelle raffigurazioni in opere
artistiche. Ricordiamo in particolare la terza zona dello scudo di Achille1, in cui
sono rappresentate tre scene, ispirate alla vita campestre e riconducibili ai momenti più importanti dell’anno agricolo: l’aratura nella stagione primaverile, la
mietitura estiva e la vendemmia nel rigoglio dell’autunno; scene che ci fanno capire la predilezione del poeta per la natura coltivata rispetto a quella selvaggia.
Nella quarta zona, invece, sono raffigurati due momenti di vita pastorale: un armento assalito da due leoni ed un gregge di pecore al pascolo; anche qui la natura è in rapporto al lavoro e alla vita dell’uomo, con insidie e pericoli.
Nell’Odissea prevale invece la rappresentazione di una natura fantastica con sfondamento del muro del naturalismo, in luoghi lontani e misteriosi, come l’isola
delle Sirene2, l’antro del Ciclope Polifemo3, il paese dei Lotofagi4, oltre all’ipotizzare luoghi nel mondo fuori dal ciclo del tempo, come l’isola di Calipso5 ed il
giardino di Alcinoo6. Ma soprattutto il vero protagonista del poema è il mare, che
domina tutta la vicenda con l’immensità della sua presenza, con la furia delle
sue tempeste, con il placido splendore della sua calma. Di conseguenza le terre
sono soprattutto isole: Itaca, Ogigia, Eea, l’isola dei Ciclopi, quella delle Sirene, Trinakria, l’isola del Sole e Scheria.
1
2
3
4
5
6
Iliade XVIII, 671 - 843
Odissea XII
Odissea IX
Odissea IX, 82 – 102.
Odissea V
VII, 81 - 131
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N AT U R A E L E T T E R AT U R A
Curtius E.R., Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992
Celebrata dai poeti come uno dei luoghi favoriti di Apollo e delle Muse, è una gola nel nord
della Tessaglia, tra il Monte Olimpo, a nord, e il Monte Ossa, a sud. E’ lunga 10 km, stretta circa 25
m e con dirupi anche di 500 m. Al centro scorre il fiume Peneo, che sfocia nel vicino mare Egeo.
9
Virgilio (Georg. II, 146 – 148); Properxio (XIX, 2); Silio Italico (Pun., IV, 543); Stazio (Eclog.
IV, 139); Giovenale (XII); Claudiano (Cons. Hon., 506); Thomas Macaulay (Orazio); Byron (Aroldo, l.
IV); Ladislao Kulczycki (Una passeggiata alle sorgenti del Clitumno); Giosue Carducci (Alle fonti
del Clitumno).
7
8
Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura
Dal punto di vista letterario tutto questo mondo reale o immaginario, diventa importantissimo come bagaglio imprescindibile per la produzione letteraria successiva, greca, latina e delle lingue europee moderne, che proprio
per il fatto di avere questa base comune costituiscono un sistema culturale
unitario e continuativo.
Successivamente si affermano nella Grecia classica altri due modi di rapportarsi alla Natura con significative ripercussioni letterarie. Infatti tra l’VIII e il
VII secolo a. C. il poeta Esiodo, con il suo poema Le opere e i giorni, introduce
l’idea che l’uomo con il suo lavoro, l’impegno e la fatica personale possa trasformare la Natura a suo vantaggio, attraverso la coltivazione, per produrre
quanto a lui utile. In questo spirito diventano importanti gli astri, personaggi mitologici mutati in stelle o costellazioni, che, con il sorgere e tramontare, scandiscono il succedersi delle occupazioni agricole secondo le stagioni.
In seguito, a partire dal VI secolo a.C., vengono abbandonati i miti cosmogonici e si inizia a cercare l’origine di tutto in un principio naturale. Ha così
inizio la filosofia che, proprio con quegli autori che poi impropriamente verranno chiamati Presocratici, si pone nella prospettiva di un’ indagine critica nei
confronti della Natura, di cui cerca di individuare il principio primo, l’arché ,
nei diversi poemi intitolati Perì phýseos, ritrovandolo di volta in volta nell’acqua (Talete), nell’aria (Anassimene), nel fuoco (Eraclito) o nel numero (Pitagora). In questo momento la letteratura rappresenta il terreno di elaborazione
e di espressione del sapere in quanto tale, in una concezione unitaria, senza
contrapposizione tra sfera scientifica e umanistica.
Nello stesso lasso di tempo inizia con Alceo e Saffo la poesia lirica monodica che, proprio per l’impostazione sentimentale e soggettiva, stabilisce il
primo rapporto tra individuo e Natura fatto di consonanza personale, che si
esplicita soprattutto nei paragoni e negli elementi esornativi del testo poetico.
Saffo soprattutto avvertì con straordinaria intensità il fascino della Natura, di
cui seppe cantare i particolari in un’atmosfera di incantata osservazione.
Con Socrate e successivamente con Platone, tra il V ed il IV secolo a.C.,
l’interesse della filosofia si sposta dalla ricerca dell’arché ad altri argomenti,
ma, per quanto riguarda la percezione e la descrizione della Natura in letteratura, fondamentale è la creazione, da parte di Platone, del tópos del locus
amoenus 7, un luogo suggestivo e felice per l’uomo, caratterizzato da una fonte
o da un corso d’acqua e da una rigogliosa vegetazione, di lunga e vasta ripercussione letteraria in tutta Europa. Platone prende spunto dalla valle di Tempe
in Grecia8, ma forse quello che ancora oggi si può ammirare come locus amoenus rimasto immutato dalla classicità è rappresentato dalle Fonti del Clitumno9. Successivamente con Aristotele, che separa la Fisica dalla Metafisica,
avviene la distinzione tra la descrizione della Natura, propria della letteratura,
e l’indagine conoscitiva su di essa, affidata alla scienza.
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Dal mondo greco si passa a quello latino, dove Lucrezio con il poema De
rerum natura riprende, adattandola alla filosofia epicurea, la tradizione presocratica dei Perì phýseos, impegnandosi a spiegare l’origine del cosmo, della
realtà fenomenica e dei fenomeni naturali, al fine di liberare, grazie alla teoria degli atomi, gli uomini dalla paura della morte e degli dei. La Natura viene
vista come matrigna (praedit ă culp ā10), non Madre degli uomini, a cui, fin dalla
nascita, infligge difficoltà e sofferenze e a cui riserva anche situazioni molto
drammatiche, come la grande epidemia di peste che dilagò ad Atene nel V secolo, con la cui descrizione11 il poema si conclude, creando nello stesso tempo
il tema letterario della malattia capace di sconvolgere la vita e la storia degli
uomini, che avrà grandi ripercussioni da Virgilio a Paolo Diacono a Boccaccio
a Manzoni a Camus.
Ma a determinare un rapporto letterariamente imperituro tra la Natura
e la letteratura sarà nel volgere di pochi decenni Virgilio con la sua poesia
delle Bucoliche e delle Georgiche. Con le dieci egloghe delle Bucoliche il poeta
inventa e fissa il paesaggio dell’Arcadia, come ha ben dimostrato lo Snell12.
Questa era in realtà la regione centrale della penisola del Peloponneso, montuosa, divisa in molte valli e separata dal resto del paese. Il poeta, sulla scorta
dello storico Polibio, che di essa era originario e che molto l’amava, tanto da
evocarla come una terra particolare in cui gli abitanti venivano fin dalla prima
giovinezza esercitati al canto e si impegnavano in gare musicali, e del poeta
Teocrito, che nel III sec. a.C. aveva fatto conoscere i luoghi della sua vita (gli
uliveti egei, i campi di grano egizi, i vigneti ed i pascoli siciliani), riportando
tutto all’Arcadia, le diede una fama imperitura, facendo di questa regione non
un luogo della Natura, ma un luogo della Letteratura creato con l’accostamento
voluto di singoli elementi naturali. Di conseguenza divenne il luogo ideale in
cui i pastori vivono, dedicandosi alla poesia e al canto, gratificati dall’amore,
in comunanza con gli dei, per cui s’intrecciano fatti mitici e dati reali in un paesaggio che ha tutte le caratteristiche del locus amoenus, ma che per di più diventa patria d’elezione della poesia, che solo in esso può nascere e prosperare.
Virgilio, però, si appropria anche di un altro atteggiamento della poesia
nei confronti della Natura ed è quello che gli deriva dalla conoscenza di Esiodo
e dall’osservare con occhio amoroso le pianure ubertose delle sue terre mantovane, quelle terre amate e perdute, poi forse in parte recuperate, terre generose, capaci di ripagare con l’abbondanza del loro prodotto, la fatica degli
uomini che sapevano abilmente lavorarle. Di tutta questa esperienza, personale e letteraria, Virgilio fa tesoro per la composizione delle Georgiche, in cui
fissa con intento didascalico quelle che sono le competenze in ordine all’agricoltura e all’allevamento a cui si è giunti nel suo tempo, rendendole patrimonio duraturo ed utile per gli uomini dei secoli seguenti, in versi di grande
armonia e ricercatezza formale, adornati da riferimenti mitologici e geografici.
Accanto alle posizioni di Lucrezio e di Virgilio si evidenzia, sempre nell’età augustea, un altro atteggiamento della poesia nei confronti della Natura.
È rappresentato dai poeti elegiaci del circolo di Messalla Corvino, che si conT. Lucrezio Caro, De rer. Nat. V, 199.
De rer. Nat. VI, 1145 – 1196.
12
B. Snell, L’Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale, in La cultura greca e le origini del
pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963.
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trappongono a quelli, come Virgilio e Orazio, appartenenti al circolo di Mecenate e quindi sostenitori delle guerre di conquista fulcro della politica augustea. Questi poeti, tra cui primeggia Tibullo, vedono la Natura come la
campagna quieta e ridente, in contrapposizione al mondo della città e soprattutto come l’ambiente in cui rifugiarsi per sfuggire al pericolo di dover partecipare alle sanguinose e funeste guerre di conquista. A questo atteggiamento
si lega il rimpianto per la mitica età dell’oro, in cui la terra dava tutto all’uomo,
senza richiedere la fatica del lavoro ed in cui soprattutto non c’erano guerre
di conquista. È un mito di contrapposizione di tempi e stili di vita, ma anche
tra Natura e Cultura, che avrà lunga ripercussione nella storia della letteratura (Tasso, Monti, ecc.), ma è anche un’interpretazione della vita che crea attesa e rinnovamento, favorevole quindi alla diffusione del Cristianesimo.
Con il Cristianesimo la Natura viene vista in una dimensione nuova, in
quanto frutto della creazione divina, concesso per generosità da Dio agli uomini
come luogo di vita dopo la caduta conseguente al peccato originale, habitat da
cui raccogliere i frutti, ma anche da far prosperare con il lavoro e la fatica personale. Tra i vari elementi della Natura con il Cristianesimo assume una valenza particolarmente forte l’acqua, vista come occasione di purificazione in
rapporto al rito del battesimo, con la conseguenza di valorizzare anche i fiumi,
a partire dal Giordano, in cui sarebbe avvenuto il battesimo di Gesù. Ma a determinare un forte cambiamento di mentalità è la sacralizzazione di alcuni elementi della Natura, in particolare l’agnello, con la conseguente immagine del
“buon pastore”, nonché la vite, che assumono un forte valore simbolico, portato ad altissimo livello significante con la consacrazione e la conseguente transustanziazione del pane e del vino, che da elementi della realtà naturale
diventano il Corpo e il Sangue di Gesù. Questo procedimento mentale, fortemente innovativo e senza precedenti nella tradizione culturale, riverbera una
luce nuova su tutti gli elementi della Natura che lungo i secoli della cristianità
e con forte accentuazione nel Medio Evo, assumono un’intensa configurazione
simbolica, capace di trascendere la loro semplice realtà naturale per diventare
immagine e raffigurazione di qualche cosa al di fuori del mondo fenomenico.
Investito di particolari valori simbolici ed escatologici è anche l’albero, non
tanto poiché già oggetto di culto in tradizioni romane autoctone e celtiche,
quanto piuttosto come legno morto, cioè albero della croce, che da elemento naturale morto diventa fonte di vita nuova, cioè di salvezza eterna.
Possiamo inoltre pensare che la bipartizione del mondo ultraterreno
in Inferno e Paradiso (la nascita del Purgatorio avverrà solo nel XIII secolo) determini uno schema mentale che si trasferisce nel mondo creato, producendo
la contrapposizione tra ‘luogo del male’, la selva, che non è più la silva classica, abitata da benefiche divinità inferiori (dio Pan, ninfe e satiri), ma diventa
la foresta (da foris), cioè luogo “al di fuori”, insidioso, non protetto, abitato
da eremiti, infestato da animali feroci e briganti, in contrapposizione alla
città protetta e sorvegliata, e soprattutto all’hortus, il giardino dei monaci, che
proprio in concomitanza con la fondazione dei monasteri benedettini inizia
a fiorire per opera di quei monaci che, seguendo i precetti delle Georgiche di
Virgilio, si fanno giardinieri del mondo creato, preservando le specie naturali
ed incrementandone la produzione. È un giardino chiuso, ben protetto da
mura, proprio perché la forza naturale della foresta non lo sommerga ed annienti.
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Nei secoli del Medioevo le conoscenze della natura sono scarse e limitate,
anche se qualche contributo alla classificazione viene dato, ad esempio con l’Hortulus di Valfrido Strabone, ma la percezione della Natura è piuttosto generica, come possiamo vedere dal Cantico delle creature di San Francesco, in cui
la flora è del tutto indeterminata, mentre gli elementi della Natura (il Sole, la
Luna, l’acqua) vengono percepiti solo come oggetti della creazione divina.
In questo periodo è importante l’assunzione di valori simbolici da parte
di alcuni elementi della Natura. Gli esempi che si potrebbero fare sono molti,
ma per brevità soffermiamoci solo su uno: la rosa13. Questo fiore, che nel
mondo classico era legato al sensualismo paganeggiante, essendo sacro a Venere e per la funzione decorativa e festiva che aveva nei banchetti, era andato
scomparendo con l’affermarsi del Cristianesimo proprio per queste sue connotazioni, ma successivamente era stato recuperato e utilizzato in rapporto
alla Madonna (Rosa mystica). Sembra che anche la sua coltivazione fosse andata progressivamente limitandosi ai giardini dei conventi benedettini, non
accessibili al popolo, tanto da assumere una connotazione di inaccessibilità,
come possiamo ricavare anche dal Roman de la Rose, in cui rappresenta la
verginità femminile, difficile da raggiungere e violare. Con le Crociate la rosa
fa la sua ricomparsa in Europa, in una specie semplice e piatta (Rosa di Provins, ovvero rosa gallica semplice), portata dal Medio Oriente nella Francia Meridionale, dove si acclimata e diffonde in tutta l’Europa con grandi ricadute in
ambito artistico.
Innanzitutto, attraverso la produzione poetica dei Provenzali, dei Siciliani e degli Stilnovisti, molto probabilmente su suggestione della poesia persiana, la rosa viene assunta come elemento assoluto di paragone della bellezza
femminile. D’altro lato diventa il modello per l’elemento architettonico del rosone, che si apre sulla facciata delle cattedrali gotiche e che assume grande importanza anche simbolica, in quanto consente il passaggio della luce del sole
nella navata centrale per raggiungere direttamente l’altare, stabilendo un legame tra cielo e terra attraverso l’elemento della luce, sentito come materializzazione del divino. Altra ricaduta di grande rilievo si ha nel Paradiso
dantesco, in quanto a questo luogo viene dato l’aspetto di una rosa (candida
rosa14), anche per il fatto che il fiore ha rapidamente assunto una configurazione più ricca di petali e più complessa. Nel mondo dell’oltretomba dantesco
gli elementi della natura che assumono valenze simboliche particolarmente
forti sono due, il buio che caratterizza l’inferno, privandolo di ogni colore, a
cui si aggiungono l’acqua nelle sue diverse forme (fiume, pioggia, palude, lago
ghiacciato) ed il vento, mentre la luce, progressivamente crescente, fino a non
essere più tollerabile per l’occhio umano, anch’essa capace di annullare ogni
varietà cromatica, caratterizza il Paradiso. Quindi questi due elementi creano
i poli di un itinerario che va dal massimo di negatività, con la conseguenza di
dolore, sofferenza e punizione, al massimo di beatitudine, a cui si correlano
felicità e gioia imperitura, legate all’idea del premio eterno. Tra questi due
mondi sta il Purgatorio, a cui Dante attribuisce i caratteri positivi del mondo
terreno con una luce diffusa e gradevole, con l’alternarsi del giorno e della
notte, con la varietà del mare e della natura amena, fino ad arrivare al Paradiso
13
R.E. Giangoia, La santità della rosa, in La poesia, il sacro, il sublime, Fara Editore, Rimini
2009, pp. 197 – 214.
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Pd XXXI, 1.
R.E. Giangoia, Il lauro e la rosa. Flora petrarchesca, in “Satura”, n.° 11, 2010, pp. 16 – 27.
Ars III, 683 – 746; Met. VII, 664 – 865.
Carm. I, 9, 2.
Familiares, IV 1.
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Terrestre, che riprende, cristianizzandoli, gli elementi del locus amoenus, lasciandoli, però, generici, senza precisazioni naturalistiche. È il mondo terrestre positivo per eccellenza, che riprende appunto l’hortus, il giardino, in
contrapposizione alla selva oscura dell’inizio. Pochi gli altri elementi della natura presenti nel poema, pochi i fiori, oltre la rosa, la viola, il giglio, il fiordaliso e la palma, sempre con prevalenza del valore simbolico su quello
descrittivo-naturalistico.
Da questo momento, nella produzione letteraria, la rosa, la viola ed il giglio si fissano come i fiori per eccellenza, imprescindibili ed unici ad essere
presenti nella poesia, anche se alcune significative innovazioni avvengono con
Francesco Petrarca15. Egli infatti introduce il lauro come materializzazione
della donna amata che da esso e da l’aura prende appunto il proprio nome, con
un ulteriore intreccio significante con l’auro, cioè l’oro, in modo tale che la
donna amata viene a materializzarsi nell’incontro di questi tre elementi della
natura, l’alloro, albero ricco di tradizione letteraria, in quanto, nella mitologia
classica, risultato della metamorfosi di Dafne (nome greco della pianta), fanciulla invano amata dal dio Apollo, albero che per questo diventerà sacro al
dio, nonché simbolo della gloria poetica, testimoniata dalla corona d’alloro
con cui il Petrarca sarà incoronato a Roma in Campidoglio (1343), per mano
di Roberto d’Angiò. Inoltre l’aura, l’aria, anch’essa nobilitata dalla tradizione
poetica classica, grazie al mito ovidiano di Cefalo e Procri16, in cui la donna
viene uccisa dal giavellotto lanciato dal marito, essendosi appostata dietro un
cespuglio, per sorprenderlo insieme ad Aura da lui invocata e da lei supposta
una ninfa di cui Cefalo si fosse innamorato. E poi l’auro, cioè l’oro, elemento
chimico, il più pregiato e nello stesso tempo centrale nella tradizione alchemica. Ma Petrarca innova anche perché ai fiori ormai consolidati nella tradizione letteraria (rosa, viola e giglio), aggiunge gli alberi fioriti nel tripudio
primaverile, soprattutto nella canzone Chiare, fresche e dolci acque, in cui il
locus amoenus della tradizione classica si arricchisce della presenza della
donna amata nell’incanto di un paesaggio così attraente che il poeta vorrebbe
essere lì sepolto per goderne eternamente. Il paesaggio è quello delle sorgenti
della Sorge a Vaucluse, vicino ad Avignone, dove Petrarca si trovava a vivere
l’intensa stagione d’amore per Laura. In questo modo il poeta crea quello che
potremmo definire “il paesaggio del cuore”, un luogo prediletto, una piccola
porzione di natura che caricata di elementi affettivi e sentimentali, nonché
nobilitata dalla poesia, acquista valori assoluti di fascino per sempre. Ma ancora un’altra è la linea d’innovazione che Petrarca dà per quanto riguarda il
rapporto tra Letteratura e Natura. Finora infatti nessuna considerazione avevano avuto le montagne (a parte il fuggevole accenno di Orazio al monte Soratte17), Petrarca invece guarda con interesse al Mont Ventoux, sempre vicino
ad Avignone, solitaria ed impraticabile cima, che in una celebre lettera18 dice
di aver scalato, facendo di quest’avventura alpinistica l’immagine allegorica
dell’itinerario personale verso le più alte vette della spiritualità.
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Nella produzione letteraria dell’Umanesimo assume rilievo la posizione
di Angelo Poliziano, che, escludendo ogni rapporto realistico con la Natura,
crea una Natura tutta letteraria, in cui, in base alla sua poetica della docta varietas, mette insieme, al di là delle verisimiglianze stagionali ed ambientali,
tutte quelle piante che hanno avuto una nobilitazione letteraria, sia attraverso
i poeti classici sia tramite quelli della tradizione in volgare19. Questo ha la sua
espressione più completa nella descrizione del giardino di Venere nelle Stanze
per la giostra20, in cui vengono raggruppati in un unico paesaggio, innaturale,
ma letterario, quelle piante e quei fiori che già avevano avuto cittadinanza in
testi poetici precedenti. Da lui, soprattutto con la Ballata delle rose, e da altri
autori umanistici, in particolare Lorenzo il Magnifico, viene poi ripresa la centralità tra i fiori della rosa, la quale però si svincola dalle significanze e dalle
simbologie religiose, per recuperare quella funzione di rappresentare la giovinezza nella sua fugacità che aveva avuto in età Romana21 e passare poi ad
emblema della verginità femminile con Ariosto22, fino all’altissimo elogio che
le dedica Marino nell’Adone23.
Mentre da noi la percezione della Natura in poesia si limitava alla cristallizzazione della flora, qualcosa di profondamente nuovo avveniva nel nord
dell’Europa, quando nel Quattrocento fiammingo, soprattutto nella pittura,
come ben spiega Simon Schama24, nasce il concetto di “paesaggio” (landskap),
completamente nuovo, come dimostra il fatto che il vocabolo non abbia corrispettivo né nelle lingue classiche, né nei dialetti.
Nel Cinquecento e nel Seicento, però, novità di enorme rilievo avvengono, prima con la scoperta del Nuovo Mondo e poi con la rivoluzione copernicana, rinnovamenti che cambiano totalmente non solo il rapporto con la
Natura, ma la stessa percezione del mondo. Limitandoci ad un orizzonte più
ristretto, possiamo anche notare che, con le scoperte del Nuovo Mondo e con
l’infittirsi degli scambi con l’Oriente, a poco a poco nuove specie botaniche
entrano in Europa, ma se queste determinano vistosi, seppure non repentini,
mutamenti nell’ambito dell’alimentazione (patate, mais, pomodori, fagioli, peperoni, ecc.), scarsa incidenza hanno nella produzione letteraria. Infatti con il
cristallizzarsi della teoria dell’imitazione del Petrarca, formulata da Pietro
Bembo con le Prose della volgar lingua del 1525 ed affermatasi come regola
poetica indiscussa, i fiori presenti nei testi poetici continuano ad essere ripetitivamente la rosa, la viola ed il giglio, anche se dopo la scoperta dell’America
giunsero in Europa le zinnie, i girasoli, le gardenie, le magnolie, la passiflora
e il tulipano, ed anche se fiori spontanei, come gli anemoni e i narcisi, che si
erano persi, quando i primi esemplari coltivati furono portati in Europa, alla
fine del ‘500, vennero accolti come novità. Tra queste nuove introduzioni bo19
J. Maier J., Ange Politien. La formation d’un poète umaniste (1469-1480), Droz,. Génève
1966; Stanze per un giardino: il paesaggio e il giardino nella cultura umanistica : V centenario della
morte di Agnolo Ambrogini detto il Poliziano, Archivio Italiano dell’arte dei giardini, Editoriale
Donchisciotte, San Quirico d’Orcia 1994.
20
I, 77-81.
21
A. Fo, Rose dall’”Antologia latina”, in Antologia della poesia latina, Mondadori, Milano
1993, pp. 1513-1523.
22
Orlando Furioso, I, 42 – 43.
23
III, 155 – 161.
24
S. Schama, Paesaggio e memoria, Milano 1997, pp. 10-12 (ed. orig. Landscape and memory,
London 1995).
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VI, 138, 5-8.
VI, 134.
27
Daniello Bartoli, La ricreazione del savio I, 12 (1659)
28
R.E. Giangoia, Dall’elitropio al girasole, in “Resine”, a. XXX, n. 122, 4° trim. 2009, pp. 66-70
29
Il testo più noto è il sonetto Amori di pesci, compreso ne La lira (1614).
30
Le più note sono le Piscatoria di Jacopo Sannazzaro.
25
26
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taniche ha particolare rilevanza nella letteratura edificante la passiflora, che
pure il Marino nell’Adone25 colloca fra le aiuole di Venere. Infatti il nome del
genere, adottato da Linneo nel 1753 e che dal latino significa “fiore della passione”, gli fu attribuito dai missionari Gesuiti nel 1610, per la somiglianza di
alcune parti della pianta con i simboli religiosi della passione di Cristo: i viticci
sarebbero la frusta con cui venne flagellato, i tre stili, i chiodi, gli stami, il martello, la raggiera corollina, la corona di spine.
Anche un fiore di grande rilievo in Europa, soprattutto in Olanda, come
il tulipano, diffusosi dal Medio Oriente ed assurto a livelli di enorme importanza commerciale, seppure abbia una presenza molto rilevante nella pittura
floreale, soprattutto fiamminga, in letteratura ha da noi scarso rilievo, se si
esclude la presenza nel poema del Marino26 e l’elogio che ne fa Daniello Bartoli27. Fiore che invece determina qualcosa di importante in letteratura è il girasole28, proveniente dal Messico, dove rivestiva funzioni di grande rilievo sia
nelle cerimonie religiose che in quelle politiche. Entrato in Europa, si impone
a livello letterario, in quanto, avendo la particolarità di volgersi sempre verso
il sole, gli vengono attribuite le caratteristiche che nel mondo classico erano
tipiche di un fiore di modesta rilevanza ornamentale, cioè l’eliotropo, che,
come dice il nome, si rivolge sempre verso il sole e che era legato al mito di
Clizia, fanciulla innamorata senza successo del dio Sole e da lui trasformata
nel fiore destinato a guardarlo sempre. Non è facile individuare quando questo trasferimento letterario sia avvenuto, in quanto lo troviamo ormai completamente elaborato nella lirica Ode all’Helianthus di Ippolito Pindemonte della
fine del Settecento. Comunque questo trasferimento avrà poi conseguenze letterarie molto importanti, sia nella poesia inglese con Oscar Wilde che in quella
italiana, soprattutto con Montale.
Per quanto riguarda la percezione del mondo naturale, invece, occorre
segnalare il fatto che al consolidarsi del tradizionale paesaggio letterario in cui
i caratteri del locus amoenus si combinano con quelli arcadici, soprattutto
nell’esperienza poetica che prende il nome di Arcadia e che nella seconda metà
del Settecento tenta di ridimensionare in letteratura gli eccessi del gusto barocco, si affianca una certa attenzione al paesaggio marinaresco, soprattutto
a Napoli, dove già il Marino aveva fatto dei pesci e della vita di mare il soggetto
di sue composizioni poetiche29, dove inoltre si compongono delle “egloghe piscatorie”30, come variante di quelle bucoliche, in cui ai pastori si sostituiscono
i pescatori con il loro mondo, e dove anche la pittura, in particolare con la
bottega dei Recco, testimonia questa propensione del gusto.
Il mito dell’Arcadia come luogo felice, ideale per la poesia, era iniziato,
in Italia dapprima e nel resto d’Europa poi, sulla metà del XV secolo, quando
presero a circolare edizioni a stampa delle opere di Virgilio. Il primo testo che
si riappropria di questo clima è l’Arcadia di Iacopo Sannazzaro (1504): storie
di amori contrastati in scenari di impossibile dolcezza; un’età dell’oro in cui i
campi sono in comune, i raccolti sempre abbondanti, non esistono armi,
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guerra, distruzione. Ma l’Arcadia di Sannazzaro non consiste solo in canti di
uccelli, miele selvatico e mazzolini di fiori al chiaro di luna, gran parte del suo
fascino sta nel fatto che, accanto agli scenari più tradizionalmente bucolici, il
poeta introduce elementi diversi e sensazionali per esprimere più oscuri sentimenti. Ci sono infatti cascate spumeggianti e precipizi da cui pastori tormentati da amori infelici minacciano di buttarsi, tema che, ripreso poi dal
Tasso nell’Aminta, diventerà successivamente molto diffuso, mentre un «non
umile monte» torreggia sopra il paese, su cui crescono cipressi giganti e pini.
Intanto nel Settecento giungono in Europa nuovi fiori, che avranno
grande diffusione, rinnovando pure il paesaggio. Dapprima in Spagna arrivarono le dalie, poi dal Brasile giunse la buganvillea, mentre nella seconda metà
del secolo entrarono le ortensie, le camelie e le peonie. Non tutti i fiori ebbero
un uguale rilievo letterario, particolarmente notevole fu quello della camelia31.
Ma furono proprio gli elementi arcadici che contribuirono, insieme ad
altri di provenienza nord-europea, a determinare quella svolta decisiva nella
percezione e nella rappresentazione letteraria della Natura che avviene con il
Romanticismo, per il confluire e l’intrecciarsi di esperienze e di sensibilità diverse. Innanzitutto agli elementi del giardino e del locus amoenus, di tradizione classica e recentemente riportato in auge dall’Arcadia, si sostituisce la
foresta, per il prevalere di influssi anglo-germanici. Sulla base della descrizione della Silva Hercynia fatta da diversi autori latini e greci32, questo luogo
diventa simbolo di una memoria mitica, di una libertà tipica dei popoli celti e
germanici, che si esprimeva appunto con la vita nei boschi. Il paesaggio stesso
sollecitava l’attenzione a questo elemento, vissuto ed osservato direttamente,
non più vagheggiato letterariamente. Basta pensare al nuovo contatto diretto
con la selva delle Ardenne, teatro di gran parte delle vicende dell’Orlando Furioso, ma del tutto sconosciuta all’autore, o a certe città fortemente compenetrate di bosco, come Heildelberg, per capire meglio molti aspetti del
Romanticismo nel suo nascere. A presentare il bosco, come luogo di libertà e
di eroismo, è soprattutto il romanzo di Walther Scott Ivanhoe (1820), di grande
successo e diffusione in Europa tra la fine del Settecento ed i primi dell’Ottocento. Soprattutto perché il bosco inglese non è, come la selva oscura di Dante,
luogo dove ci si perde, ma l’opposto, spazio dove ci si ritrova, dove si ritrova
se stessi. Inoltre, per antica tradizione, ben testimoniata nelle tragedie di Shakespeare, è il contrario della corte, come per noi il mondo pastorale (basta
pensare all’episodio di Erminia tra i pastori nella Gerusalemme Liberata del
Tasso). Il bosco nella cultura anglosassone è luogo dove le convenzioni del
sesso e del rango sono temporaneamente sospese e rovesciate in favore della
scoperta di verità, amore, libertà e giustizia.
Questa attenzione per il mondo della natura, rinnovato con precisa
sguardo al bosco, ha un momento significativo negli Idilli del Gessner, pubblicati una prima volta nel 1756 e poi nel 1772.
31
R.E. Giangoia, I fiori alla moda: la camelia, in Atti del Convegno La camelia e il giardino
in Europa, in Liguria e a Genova, 28 febbraio 1998, Civico Museo di Archeologia Ligure – Villa Pallavicini in Pegli – Genova, a cura di AGI Garden Club – ITALIA NOSTRA (Consiglio Regionale Liguria – PEGLIFLORA, 1999.
32
Cesare, De bello Gallico, VI, 25; Plinio il vecchio, Naturalis Historia, IV, 79; XVI, 5, 6; Tacito,
De Origine et situ Germanorum, 1; Strabone, Geografia, VII, 1, 5; Tolomeo, Geografia, II, 11, 3.
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La teoria classica (Pseudo Longino, Del sublime) viene messa in discussione, a partire da
Burke, in un’ampia riflessione che ha i suoi momenti più significativi nella Critica del giudizio di
Kant e nelle successive prese di posizione di Schopenhauer.
34
I Promessi Sposi, XXXIII.
35
R. E. Giangoia, Flora leopardiana, in “Satura”, n.° 9, 2010, pp. 33 – 36.
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Ma con il nuovo secolo l’aspetto più importante è il rapporto personale
e soggettivo che si viene a stabilire tra il singolo individuo ed elementi della
natura che si caricano di motivazioni individuali che li rendono importanti.
Possiamo fare due esempi: il significato che assume il fiore della pervinca per
Rousseau, come testimonia la pagina memorabile delle sue Confessioni, e
l’emozione straordinaria che suscita la contemplazione del mare del Nord in
tempesta per l’Alfieri, provocandogli quel tumulto dell’animo di cui ci dà conto
nella sua Vita.
Nasce così un modo completamente nuovo di percepire la Natura: la si
guarda, la si osserva e soprattutto si analizzano ed esprimono le emozioni, i
cambiamenti di stato d’animo, i ricordi che da questo nuovo rapporto nascono.
Proprio per questo nuovi elementi ed aspetti del paesaggio naturale diventano
oggetto d’attenzione e di conseguenza letterariamente importanti: soprattutto i monti ed i laghi, mentre nasce il nuovo gusto dell’orrido33, che mette in
discussione il concetto di sublime di ascendenza classica. Artefice di questa
polarizzazione dell’attenzione letteraria è ancora una volta Rousseau, insieme
a Lamartine: entrambi portano alla ribalta letteraria la regione della Savoia
con il suo paesaggio di laghi, tra cui famosissimo diventerà quello di Bourget,
cantato da Lamartine nella sua poesia Le lac, e di montagne altissime, quelle
Alpi che Rousseau adolescente valica a piedi, andando da Chambery a Torino
attraverso il Monginevro, e su cui lascerà pagine memorabili, sempre nelle
Confessioni, che contribuiranno a creare, insieme ad altri fattori, di derivazione soprattutto inglese, il gusto e l’attenzione per le montagne, aspetto che,
però, avrà più rilievo in pittura che in letteratura. Anche Rousseau contribuirà
alla fortuna letteraria del lago, in particolare per il suo essersi fatto seppellire
in un’isoletta, la famosa Ile des Peupliers, in mezzo al lago di Ermenonville, vicino a Parigi.
In questo clima anche nella produzione letteraria italiana comincia a
farsi strada un’osservazione più attenta e diretta degli elementi della natura,
di cui una testimonianza esemplare si può ritrovare nella famosissima descrizione d’apertura dei Promessi Sposi, di ambiente lacustre, di taglio cinematografico, attenta e precisa, modello per molte altre descrizioni successive, ma
anche in quella della vigna di Renzo34, descritta con la precisione naturalistica
di molti elementi, tra cui spicca un bel tasso barbasso. Ma il punto nodale della
nostra tradizione poetica è indubbiamente rappresentato nell’Ottocento dalla
poesia del Leopardi35. Egli, innanzitutto, propone una visione sistematica della
Natura, con la sua teoria della Natura matrigna, di derivazione classica, a cui
arriva progressivamente attraverso le varie fasi del suo pessimismo, che da
storico ed individuale diventa cosmico (dall’ Ultimo canto di Saffo al Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia). Nello stesso tempo porta a vette altissime il rinnovato rapporto soggettivo, individuale e meditativo con aspetti
del paesaggio (L’infinito, Alla Luna, Le ricordanze, ecc.), contribuendo a polarizzare l’attenzione, secondo il gusto della sensibilità romantica, sul cielo,
sulle stelle ed in particolare sulla Luna, elemento centrale del Romanticismo.
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Ma in Leopardi troviamo anche descrizioni di tipo bozzettistico-naturalistico,
in stretta consonanza con il rinnovato gusto pittorico dei Macchiaioli che ha
determinato l’archiviazione della pittura accademica di impostazione storica
e mitologica (Delacroix), in particolare nei Grandi Idilli (La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, ecc.). Per documentare questo rinnovamento in
direzione realistica, basta soffermarsi sul fatto che finalmente Leopardi infranga quello che era il cristallizzato mondo dei fiori in poesia. Infatti, quando
nel Sabato del villaggio mette in mano alla fanciulla un quanto mai improbabile (come ha rilevato il Pascoli) «mazzolin di rose e di viole», liquida la tradizione floreale della poesia italiana e successivamente con La ginestra inaugura
una nuova stagione di attenzione alla realtà naturale e di conferimento di valori simbolici ad elementi della natura, in particolare fiori, anticipando quella
forte funzione simbolica che i fiori avranno nella poesia dei Simbolisti francesi,
a partire da Les fleurs du mal di Baudelaire (1857).
D’ora in poi la flora poetica non sarà più letteraria, ma reale, osservata,
scelta ed amata, semplice e naturale nel Pascoli36, che anche quando recupera la
tradizione classica delle myricae, parte dalla sua esperienza personale di uomo
abituato a vivere a contatto con la natura, invece ricercata, caricata di valori simbolici, ancora recuperata da memorie letterarie, ma soprattutto inglesi e francesi,
in D’Annunzio37, che tra tutti i fiori privilegia la rosa bianca a cui dà ampio rilievo ne Il piacere come simbolo di seduzione e di purezza insieme.
Intanto in Europa si sono affermate nuove specie floreali che determinano anche vistose introduzioni in letteratura, soprattutto in consonanza con
il gusto liberty, tutto incentrato sui fiori, come elementi di ornamento, grazia
ed armonia, nonché di propensione femminile. Alcuni fiori sono particolarmente significativi in questo contesto: la camelia bianca e rossa, protagonista
del famoso romanzo di Dumas, La signora delle camelie, l’orchidea, in particolare la cattleya, che nelle pagine della Recherche di Proust si carica di forti
valenze erotiche, il crisantemo, fiore da poco venuto dall’Oriente, ancora nelle
pagine di Proust decorativo e ridente, che solo il fatto di fiorire in autunno
farà sì che nella nostra cultura assuma progressivamente il ruolo di fiore dei
morti, e il glicine, che per la sua flessuosità, ramificazione e fioritura pendente, ha una tipica grazia tutta femminile, particolarmente gradita al gusto
liberty, che se ne appropria, come da noi testimoniano alcune liriche di Gozzano38 e molta produzione pittorica.
Bisogna anche considerare che nel corso dell’Ottocento si intensifica
l’interesse da parte della letteratura per il mare, visto come campo delle avventure e dell’affermazione della forza dell’uomo, soprattutto nell’ambito della
produzione inglese. Questo filone si potrebbe far iniziare con La ballata del
vecchio marinaio (1798) di Samuel Taylor Coleridge, ma narrativamente si
apre con Le avventure di Gordon Pym (1838) di Edgard Allan Poe, in cui si
36
M. Pozzi, La flora pascoliana : presenze botaniche nella poesia di Giovanni Pascoli, Memoria di licenza presentata alla Facoltà di Lettere dell’Università di Friburgo [Svizzera] 1990; M.
Pozzi – L. Notari, Fiori e piante nella poesia di Pascoli e di Montale : repertori e studi, Edizioni Universitarie, Friburgo [Svizzera] 1997.
37
R. Garzia, Il vocabolario dannunziano, Stabilimento Poligrafico Emiliano, Bologna 1913; P.
Gibellini, Fiori di carta, la fonte botanica di “Alcyone”, in “Lettere italiane”, 14, 1980.
38
R. E. Giangoia, La flora in Guido Gozzano tra tradizione ed innovazione, in “Satura”, n.
16 (2011), pp. 26 – 33.
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Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura
snoda il resoconto di un viaggio per mare su una baleniera che naufraga in seguito ad un ammutinamento. Dopo l’apparizione di una nave fantasma affollata di cadaveri in putrefazione, il viaggio prosegue sulla Jane Guy facendo
rotta verso il Polo Sud, dove una misteriosa gigantesca figura bianca prefigura
gli arcani del Moby Dick di Melville (1891): pura epopea dove il mare, omerico
e biblico insieme, che diventa il regno dei mostri, del terrore. La balena bianca
contro la quale lotta ostinatamente e inutilmente il capitano Achab è il simbolo
dell’assurdità del mondo. Invece in Redburn (1849) e in White jacket (1850)
prevale l’aspetto sociologico con il resoconto della vita a bordo, come nel postumo Billy Budd (1924). Negli stessi anni ci sono gli importanti romanzi di Joseph Conrad: The nigger of ‘Narcissus’ (1898), Lord Jim (1900), Typhoon (1903)
e Twixt land and sea (1912), accanto al romanzo d’avventura Captains courageous (1897) di Joseph Ruyard Kipling, autore anche delle raccolte poetiche
The seven seas (1896). Per rimanere nel Mediterraneo, possiamo ricordare
anche Le comte de Montecristo (1844-45) di Alexandre Dumas padre. Mare e
natura esotica sono ancora i protagonisti dei romanzi di Robert Louis Stevenson, che, malato di tisi e desideroso di avventura, nel 1888 parte per una crociera nel Pacifico e nel 1891 si stabilisce nelle Isole Samoa. Frutto di
quest’esperienza sono Treasure island (1883), di cui è protagonista assoluto
il mare e i racconti d’ambiente polinesiano The island nights’ entertainments
(1893), nonché il postumo In the South seas (1896). In Italia questo filone non
ebbe incidenza, se si eccettua il carattere marinaresco de I Malavoglia (1881)
di Giovanni Verga, oltre ad alcune narrazioni, più di viaggi e di attenzione sociale che di mare, di Edmondo De Amicis (Marocco, 1876, Costantinopoli,
1878/79 e Sull’Oceano, 1889), e di Guido Gozzano (Verso la cuna del mondo.
Lettere dall’India, 1917) e il poema Maia (1903), primo delle Laudi di D’Annunzio, in cui però il mare viene recuperato soprattutto nella sua dimensione
classica e mitologica, oltretutto rivisitata alla luce del superomismo di Nietzsche. Dovremo aspettare diversi decenni per avere un romanzo di grande intensità sul mare, come Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo (1975).
Il rapporto soggettivo con il mare entra nella letteratura italiana soprattutto con gli Ossi di seppia di Eugenio Montale, in cui il paesaggio marino di
Monterosso, località dove il poeta trascorreva le vacanze estive, diventa protagonista di liriche cariche di significati esistenziali, tramite il correlativo oggettivo, come in Meriggiare pallido e assorto.
Con il proseguire del Novecento e sino ai nostri giorni tutto è libero e
possibile in letteratura, senza schemi, modelli o pregiudizi, per cui ogni singolo
autore sceglie della natura ciò che sente maggiormente in consonanza con il suo
cuore, il suo stato emotivo, la sua sensibilità, la sua storia e la sua vita. Capita
così che tanti, soggettivi ed occasionali, siano i luoghi, gli scorci di paesaggio,
gli ambienti naturali che assumono in letteratura una rilevanza particolare.
Dobbiamo, però, osservare che, proprio nel tempo in cui è emerso e si è affermato in letteratura il paesaggio come realtà, la Liguria ha acquisito un ruolo determinante, per cui si può dire che la Liguria è la terra della letteratura
novecentesca. È stato l’avvento del turismo dalla seconda metà dell’Ottocento
a fare del paesaggio delle Riviere Liguri un luogo letterario privilegiato per tanti
viaggiatori europei che silo ricordano ed esaltano (Shelley, Byron, Maupassant,
ecc.) o pittori per fissarne gli scorci più suggestivi sulle loro tele (Monet a Bordighera). Quello della Liguria diventa il paesaggio naturale moderno, sfondo
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del drammatico dialogo del soggetto novecentesco alla ricerca del senso dell’esistenza e con la poesia di Giorgio Caproni definitivo superamento della concezione decadente del paesaggio. Nella sua poesia, infatti, i suoi luoghi
privilegiati, Genova e la Val Trebbia, sono lontanissimi “dal pittoresco o dal
gusto del ritratto impressionistico ed evocativo” per quella “stupefacente accelerazione intellettuale impressa da Caproni al paesaggio”39. Per Caproni la Val
Trebbia non è “la valle più bella del mondo” come avrebbe scritto Hernest Hemingway nei suoi diari di corrispondente di guerra, non tanto perché vi ha vissuto vicende di dolore personale (ma anche di gioia) e storico, ma perché nella
sua poesia, fin dalle prime prove, avviene il “mutamento dell’idea e della funzione del paesaggio. Propriamente è uso e interpretazione del paesaggio come
idea “filosofica”, meglio, come figura speculativa evocata e plasmata dal di dentro del materiale poetico.”40 Il paesaggio non serve a Caproni per comunicare
sensazioni o sentimenti: per questo si riduce ad una spazialità semplificata,
espressa da segni geometrici, funzionale al disvelarsi nel rapporto con il destino
visuale e spaziale dell’uomo. È un paesaggio-immagine, muto, sulla cui consistenza e realtà il poeta si interroga. Questa spazialità di Caproni, in cui le città
(Genova, Livorno…) sembrano lasciare sempre più spazio alla campagna, contrassegnata da un luogo preciso (la Val Trebbia) con i suoi borghi e la sua strada
(Statale 45), rivela il passaggio da una configurazione organizzata ad una dimensione più vasta, aperta, senza centro. In definitiva è il passaggio dalle certezze alle domande. Come osserva giustamente Alessandro Rivali, Caproni "ha
trasformato la ligure Statale 45 in uno straordinario cantiere di metafore. Nella
sua rielaborazione una strada come tante si è trasformata in un trampolino
per le più radicali domande sul destino dell'uomo"41. Per questo la dimensione
del paesaggio totalmente nuova in Caproni ne fa il poeta del superamento della
tradizione. Con lui la visione tradizionale della Natura in poesia si apre a nuove
e moderne possibilità, affidate ad altri poeti.
39
G. Bertone, Letteratura e paesaggio. Liguri e no. Montale, Caproni, Calvino, Ortese, Biamonti, Primo Levi, Yehoshua, Lecce 2001, p. 122.
40
G. Bertone, op. cit., p. 126.
41
A. Rivali, Statale 45: la musa di Caproni, in "Luoghi dell'infinito", n. 30
(http://www.cmc.milano.it/Archivio/2012/Articoli/caproni2_sls.pdf).
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di Bruno Rombi
Accade spesso che uno scrittore, che in vita abbia goduto di una certa
notorietà, ma non della celebrità che si sarebbe meritato, per via delle sue
opere, al momento della sua scomparsa venga sottoposto ad un’indagine che
alla fine gli rende merito per quanto ha fatto.
E’ il caso di Jean-Max Tixier, poeta, scrittore e critico letterario, autore
di una ventina di opere di poesia, narrativa e saggistica (di cui in Italia le deboli tracce sono costituite da una piccola raccolta di versi: Fragments de l’obscur – Frammenti dal buio, a cura di chi scrive1, e l’inclusione nella bella
antologia Preface à la vie – Prefazione alla vita – Otto poeti francesi della rivista “Autre Sud”2, a cura di Guido Zavanone che ne ha anche tradotto, con viva
partecipazione, i testi.
Il profilo, che qui se ne traccia, non è quello dettato dal sentimento
d’amicizia, ma dall’analisi attenta del suo lavoro e di quanto la critica francese
sta portando alla luce.
Nato 1l 13 febbraio 1935 a Marsiglia, nel quartiere di Pointe Rouge, di
fronte al mare, e scomparso a Hyères il 29 settembre 2009, Jean-Max incarnava
il prototipo dell’amico schietto, sincero, che non consente a nessuno di giocare
a nascondino con i propri sentimenti e le proprie opinioni in merito alla letteratura. La sensibilità di Jean-Max era, in sostanza, quella tipica della gente di
mare. Trascorsa la propria infanzia, fino a sei anni, nell’angolo più pittoresco
della città sulla foce del Rodano, Boulevard des Dardanelli, come scrive JeanClaude Villain nel volume Jean-Max Tixier à l’arête des mots 3, non aveva voluto,
crescendo, abbandonare la sua città natale fino al 1990, quando, pur conservando stretti legami, s’è trasferito a Hyère. Ma è sicuramente Marsiglia il luogo
dove s’è sviluppata la sua sensibilità, dove si è alimentata la sua immaginazione e dove ha intessuto le principali amicizie. Tutto ciò ha contribuito a
quella celebrazione della sua città che il volume Lecture d’une ville4 bene
esprime, in una sorta di metafora da poema, evidenziando quella vena che ha
alimentato la sua poesia, alcuni testi in prosa e, in particolare, molte novelle
del volume Le festin des mouettes 5.
Per il fatto di appartenere ad un’antica famiglia provenzale, la cui provenienza si può situare ad est del Rodano, nel famoso “triangolo sacro”, stando
all’espressione di Marie Mauron, vale a dire tra Arles, Saint Remy e Salon de
Provence, egli riservava un ambivalente attaccamento alla Provenza. Durante
1
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4
5
Campanotto, Udine 2004.
De Ferrari Editore, Genova 2009.
L’Harmattan Editions, Paris 1995.
Sud Editeur, Marseille 1977.
Parpaillon Editeurs, Gonfaron 2000.
Bruno Rombi La riscoperta in Francia del poeta Jean-Max Tixier
LA RISCOPERTA IN FRANCIA
DEL POETA JEAN-MAX TIXIER
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la sua prima infanzia visse presso un nonno librettista d’operette con i cui
manoscritti giocava mentre il vecchio lavorava. Ebbe quindi il suo primo incontro con la scrittura in un clima di affezione. Per alcuni anni, preoccupato di
non essere annoverato tra gli scrittori regionalisti, si è sforzato di prendere le
distanze, di rompere con la sua terra d’origine, aiutato in ciò dalle collaborazioni effettuate in seno ad un gruppo di riflessione e ricerca poetica della rivista “Encres vives”. In Ecrits de l’autre rive, ripreso nel volume Le festin des
mouettes, egli annotava: “Longtemps j’ai dénié à la Provence d’avoir des droits
sur moi. Rayé des registres, je pesais sur elle par hasard, rencontrant par habitude sa consistence et sa lumière”. A questo proposito c’è uno scritto di Jean
Jourbert che così recita: “… si tout poète porte en lui un paysage esssentiel,
qui est souvent celui de l’enfance, c’est la Provence qui, ici, irrigue et féconde
les champs des mots et des images … (…) Jean-Max Tixier a su tirer de la terre
natale (…) un sens plus large que manifeste un langage de poète”.
E’ possibile che insieme alla forza del paesaggio provenzale, oltre che di
quella della volontà e dell’intelligenza, abbia contribuito a formare il poeta
l’assenza del padre naturale che non ha mai conosciuto, essendo cresciuto in
un clima di grande libertà, secondo un metodo educativo in anticipo coi tempi,
accanto al secondo marito della madre. Ma fu soprattutto il padre di quest’ultimo che influì in maniera determinante sulla sua formazione intellettuale.
Medico umanista e spirito vivace, e grande lettore, quest’uomo, mostrandogli
quale importanza assume la cultura nell’esistenza di un individuo, lo ha influenzato fortemente.
Più tardi, durante gli anni di studio, brillante studente liceale, dedica
molto del suo tempo a scrivere poesie e a disegnare caricature, mostrando
chiaramente la sua abilità nel tratteggiare sulla pagina figure e situazioni con
la matita al pari che con la penna. Entrato all’Università di Aix-en-Provence
nella facoltà di Lettere e Scienze Umane, diretta da Raymond Jean, si laurea con
una tesi sui “Rapporti tra la poesia contemporanea e la matematica”, dalla
quale ricaverà più tardi il saggio Vers une logique poétique6con la prefazione
di Raymond Jean. Da allora sarà permanente in lui la riflessione sui rapporti
tra la letteratura e le scienze; e, grazie a ciò, intesserà relazioni e amicizie con
Calude Ollier, Roger Caillois, André Verder e Lorand Gaspare.
Intanto alcuni avvenimenti avevano influenzato la sua esistenza. Il suo
periodo di tregua finiva infatti nel 1960 con lo scoppio della guerra d’Algeria.
Dai ventinove mesi trascorsi sotto l’uniforme egli trae molta amarezza e poche
illusioni sugli uomini. Ne ricava una lezione di disperazione che maschera tra
l’umorismo e la derisione.
Dal 1964 partecipa spesso alle riunioni del mercoledì della rivista “Cahiers du Sud” dove conosce Jean Ballard, Jean Tortel, Pierre Guerre, Jean Malrieu, Jean Todrani, Joseph Guglielmi ed altri. Jean Tortel, con il quale
intratterrà strette relazioni sino alla sua morte, con le sue critiche severe, ma
oculate, lo indurrà ad essere più esigente e a progredire. Tali rapporti con i
“Cahiers du Sud” furono determinanti, tanto che avvertirà la scomparsa, nel
1966, della prestigiosa rivista come una grande perdita. Ciononostante JeanMax continuerà a frequentare la soffitta dei “Cahiers” fino alla scomparsa di
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La Table rase, Cesson-la-Forêt 1980.
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La Médecine (1978); La Cuisine (1980).
Ed. Mic Berthe, 1967.
9
Ed. Encres vives, 1967.
10
Ed. Cahierrs de “Jeunesse”, 1968.
11
Gallimard, Paris 1985.
12
Ivi, p. 89.
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Jean Ballard, ed ancor dopo, fino a quando la vedova Marcou continuerà ad agitarne la bandiera.
Terminato il servizio militare nel mese di novembre del 1962, iniziò la
sua carriera di insegnante. Nel 1965 è incaricato presso il Liceo Agricolo di
Hyère nel Var, dove finirà per risiedere dal 1990 fino alla morte. Durante un
lungo periodo si dedicherà allo studio della pedagogia, partecipando ad incontri e stages con il “Groupe Français d’Education Nouvelle” e collaborando
alla rivista “Cahiers de Poèmes” in seno all’INRAP (Institut National de Recherches et d’Applications Pédagogiques), pubblicando due opere presso Larousse
nella collana “Idéologies et Sociètes”7 e infine collaborando dal 1980 al 1988
alle Edizioni Marketing con opere di preparazione ai concorsi per l’insegnamento nelle Scuole Superiori con studi su Montaigne, Ponge, Baudelaire, Giono,
Saint-John Perse.
Il suo vero ingresso nel mondo letterario si verifica con la pubblicazione
di tre raccolte di poesie: La Vague immediate8, La Poussée des choses 9 e La
pierre hypnotisée10, tutti volumi vincitori del Premio Blaise Cendras nel 1968.
La sua opera poetica comincia ad avere successo nel 1980, mentre egli
segue le opere degli scrittori e dei pittori con la critica letteraria ed artistica
su varie riviste, come “Marseille”, diretta da Louis Branquier e “Poésie”, che
uscirà fino al 2000 a Parigi.
Il 1989 è un anno cerniera per Jean-Max. All’interno della redazione di
“Sud” le lotte intestine lo inducono alle dimissioni nel mese di ottobre del
1990. La sua ultima raccolta Etat du lieu11 è premiata dalla Societé des Gens des
Lettres – Prix Campion-Guillaumet. Il 17 settembre 1994 riceve il Grand prix
Littéraire de Provence per l’insieme della sua opera.
La sua biografia ne delinea la feconda attività, mentre il senso della sua
opera ne sottolinea la grandezza acquisita lavorando con pazienza e con una
sorta di propria ideologia sul modo di essere poeta.
Tentare d’inserire il dato biografico nella poesia di Jean-Max Tixier è
estremamente difficile, in quanto alla lettura della sua opera Vers une logique poétique ci si smarrisce – come sottolinea André Miguel – in una vertigine
d’impersonalità in quanto Tixier ha sempre rifiutato, fino ai tempi più recenti,
di far menzione nei suoi libri del suo vissuto. Invano si cercherebbe una semplice allusione alla sua vita nelle sue opere prima del 1985, anno in cui in Le
Berger d’ombres 12 il racconto La fleur qui tue rievoca un ricordo familiare.
D’altra parte, con i suoi amici della rivista “Encres Vives”, sin dal 1967,
Tixier s’era impegnato a denunciare le leggende che si sviluppano attorno alla
persona e all’esistenza degli scrittori, col rischio d’occultare l’essenziale, ovvero il testo. L’opera letteraria, secondo Tixier, si nutre della vita dell’autore
attraverso sottili capillari anche quando essa pretende di rifiutarla. Non è improbabile che in Tixier il rifiuto della biografia, la ripugnanza a svelare qualcosa di sé, quel famoso “esilio dell’Io”, siano conseguenti all’esperienza
infantile. Per lui “La poésie est une pratique de l’imaginaire”.
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In un’intervista ad Alain Freixe così precisa: “Commençon par distinguer l’imaginaire et l’imagination. Celle-ci consiste en la capacité de produir
des raprésentations. Elle ne dé tourne pas du reel. Au contraire, il lui est indispensable pour investir l’inconnue. Je parle, bien entendu, de l’imagination
créatrice, non de “la folie du logis” dénoncée par Pascal. L’imaginaire désigne
à la fois un espace interieur qui conserve les traces d’experiences singulières
et les prediletions du sujet pour telles orientations thématiques en function
d’imitations appropriée. Mais ells peuvent rester entérieures et ne jamais débvoucher sur une ouvres”13.
La nostra capacità di immaginare scaturisce da ciò che noi abbiamo vissuto e dal modo in cui l’abbiamo vissuto, dalle impressioni che ci hanno modificato. Ciò che noi percepiamo non è registrato tale e quale. Subisce le
trasformazioni del nostro sguardo e della condizione di registrazione da parte
del cervello. Potremmo pertanto dire che nella poesia intervengono e hanno
ampio spazio le “metamorfosi della memoria” la quale registra, col vissuto, ciò
che la determina: le cose, la realtà, la terra e l’acqua, la palude – elemento
misto di terra e d’acqua – e tutto può diventare metafora, anche il mito quando
la realtà non basta, perché esso precede e sorpassa la storia.
Trattandosi di miti e dei loro misteri, Tixier avanza sul loro territorio
con lucidità, come se si muovesse nella realtà tangibile cercando la parte più
rivelatrice del canto, pronto a svelarne i sortilegi. Con l’indagine dello spazio
in cui vive la rivelazione di ciò che intorno a sé coglie, Jean-Max Tixier, uscendo
dal territorio dell’esilio volontario entro cui ha cercato di penetrare il senso
della realtà, si ritrova con un “Io” che si riconosce in una “vertigine dell’impersonalità” – come ha scritto André Miguel nel 1977, ovvero un “Io” intimo e geloso della propria intimità.
“Je pense – scrive Michel Cosem – que Jean-Max Tixier est un grand lirique, mais qu’il se mefie de lui-même et qu’il ne cesse de vouloir fixer un cadre
logique à ce lyrisme. Serait-il donc, au fond de lui, très timide?”14.
Direi che più che timido, Tixier è nel contempo un pudico orgoglioso
con l’orgoglio di uno “spirito scientifico” che alla fine della vita, con la cicatrice
aperta dissimulata con lucidità e distacco, in un momento di crisi, dubitando,
si rende conto che ciò che gli resta è solo la constatazione e la confessione in
prima persona, di un male a lungo dissimulato.
“Là menacé pliant déjouant toutes lignes / Si je ne suis vivant toute parole est morte / Le monde est déserté tous mes regards perdus / Rien ne compose plus / Avec la nuit”15.
Forse il silenzio può essere vinto. Non è soltanto un nuovo chiudersi
sul dolore o conoscenza acuta della vanità, ma pace, al di là della quale può
esservi una nuova parola, una raccolta di parole per un semplice rumore, un
“pépiement”16 – direbbe René Char – che farà ritrarre la morte: “Si tu parles /la
mort recule / Et l’important / n’est point de sens / mais de la seule rumeur”.
13
J.M. Tixier, Chants de l'évidence - entretien avec Alain Freixe, Autres Temps, Marseille
2008, p. 89.
14
J.P. Villain, op. cit, p. 76.
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Op. cit., p. 79.
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Letture di Liana De Luca, Giuliana Rovetta e Stefano Verdino
FEDELTÀ ALLA VITA
Stefano Verdino
Nella poesia I colori della mia vita Bruno
Rombi non ha dubbi: chiederebbe “in prestito a van Gogh il giallo”, “Al Pablo nato
sul mio parallelo” “i blu”, infine “i rossi e
i verdi di Mirò”. Colori intensi, colori frontali, come frontali sono i versi di Bruno
Rombi, una frontalità che non è stata molto frequentata nel Novecento italiano e che
non ha caso ha avuto come modello piuttosto un poeta latino come Pablo Neruda,
al cui ‘canto generale’ si può dire Rombi
si sia sempre ispirato. Nel volume Il viaggio della vita, con saggio introduttivo di
Francesco De Nicola, che raccoglie il corpus della sua attività di oltre mezzo secolo, la fedeltà a questo bisogno di ‘canto generale’ è evidente : “Qui vivo e muoio /
proteso ai vertici d’ un sentimento”, si legge in Il tempo, al mio paese, ‘targato’ Calasetta 1962 e “Protesa su un precipizio
/ la mia anima, ancora bambina, / scruta
lo spazio oscuro che l’attira”, da E dire ancora…, la raccolta di inediti che chiude il
libro. Certamente i versi ultimi hanno un
tono più spirituale, in quelli giovanili domina una diversa fisicità, ma il tono è analogo, in ogni caso la situazione è frontale, direi perentoria, senza mediazioni. C’è
quasi un urgenza che il verso tenga il passo dell’occasione emotiva, ne costituisca
la voce ed una voce ferma, stentorea.
Nella loro traiettoria di ‘canto generale’ i
versi di Bruno Rombi hanno così alternato il canto dell’io, con le sue vibrazioni tra
fisico e spirituale, e canto dei noi, del tempo che si vive, anche con cospicui episodi di poesia civile, come il poemetto Otto
tempi per un presagio, che piacque a Franco Croce, che ne fu prefatore, e che prende le mosse da una ricognizione ‘intestinale’ in Genova: “La città del mistero ci disperde / tra i vicoli più stretti intorno a
Banchi”. Accanto alle vicende personali della propria vita (alcune assai dolenti) e al
loro riverbero emotivo ed espressivo,
Rombi è stato anche in testimone del tempo, si è sempre guardato in giro e ha catturato nei suoi versi diverse realtà, dalla
Sardegna povera ed arcaica, alle stagioni
della corruzione italiana, ai quadri allarmanti del mondo globale.
Francesco De Nicola, nel suo citato saggio
introduttivo, ha notato come la parola “mistero” sia una delle dominanti di Bruno
Rombi e che motiva, in fondo, sia la sua
ricerca spirituale, sia la corda della sua indignazione civile, alle prese nel sondaggio
di quello che altri chiamò “guazzabuglio”.
Forse quasi ad antidoto di tanta incertezza di confini, il verso ha bisogno di chiarezza e di determinazione, di tagli netti,
senza sfumature. Naturalmente nell’arco
di una produzione vasta ci sono stagioni
e percorsi diversi, dai margini autobiografici o intimi o esistenziali o polemici o anche irati, così come ci sono diverse modalità di scrittura, oltre la dominante lirica,
come le prose poetiche di Forse qualcosa
e L’attesa del tempo, che costituiscono probabilmente i testi di maggior confidenza
verso l’istanza spirituale, scaturita da
occasioni specifiche dell’esistenza. Su un
altro versante invece troviamo la sperimentazione di Enigmi animi con il suo lessico spesso portato a fusione di due vocaboli, in un bisogno di maggiore tensione
espressiva.
Voglio prestare infine attenzione ad una
poesia di Il battello fantasma, sorta di poema della propria interiorità, catturato in
sequenze di liriche; in Spesso procedi…
Rombi riflette sulla propria ombra, non ne
cava spietata moralità come Montale, ma
osserva la dinamica del rapporto con il
corpo e quindi con l’io: “Spesso procedi
dentro la tua ombra, / ma qualche volta
/ l’ombra tua ti segue / e non sai se si muove in consonanza / o se avanza come più
le aggrada. / E’ difficile dire quando l’ombra / è ancora specchio nostro / e quando invece / riflette solo un senso dell’andare: / quello che non riusciamo a controllare”. Ecco in questo esempio credo si pos-
Stefano Verdino Fedeltà alla vita
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Giuliana Rovetta Scrittori dietro le sbarre
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sa catturare al meglio la concreta presenza di quel ‘mistero’ che si diceva, captato nel sottile incrocio di fisico e metafisico, nel semplice passo di un’andatura.
Bruno Rombi, Il viaggio della vita, saggio
introduttivo di Francesco De Nicola, Le
Mani, Recco (Ge) 2012, pp. 330, € 20,00.
SCRITTORI DIETRO LE SBARRE
Giuliana Rovetta
Fin dalla copertina sorprende, di Scritti galeotti, l’istantanea in bianco e nero che mostra un corrucciato William Borroughs,
piantato a gambe larghe davanti all’obiettivo, intento a brandire un coltellaccio sullo sfondo di una stanza abbastanza anonima. Non con quest’arma, ma con una pistola automatica che aveva peraltro deciso di vendere perché poco precisa (e per
racimolare in Ecuador i soldi che servivano al suo fabbisogno di droghe e alcool)
lo scrittore icona della beat generation uccide per sbaglio la giovane moglie, mancando clamorosamente l’obiettivo -un
bicchiere posato sulla testa- nel tentativo
di emulare Guglielmo Tell. Associato al carcere di Quito per tredici giorni, non è certo l’unico scrittore ad aver conosciuto la
galera. Anzi dalla rapina a mano armata
all’omicidio, un intero catalogo di crimini più o meno gravi sono collegabili a nomi
illustri di poeti, scrittori, oltre che di registi noti e amati, come ad esempio Truffaut, Con arguzia e con l’appoggio di un
corredo minuzioso di riferimenti, Daria Galateria passa in rassegna un certo numero di questi casi, evocando celle di libertini settecenteschi come Sade e Casanova,
o episodi di vita in stabilimenti di pena
come il carcere di Reading in cui Oscar Wilde pagò per un crimine che il diritto penale inglese considerava inferiore solo all’omicidio. Se la permanenza dietro le sbarre di Jean Genet è nota, segnata come fu
la sua vita da trasgressioni e furti d’ogni
genere, tanto da essere studiata da Michel
Foucault come esempio per un saggio sul
sistema penitenziario, meno prevedibile
è la discesa agli inferi di Goliarda Sapienza, passata dall’ambiente “pseudoelegante” d’origine alla reclusione di Rebibbia.
L’accusa era quella di aver tentato di vendere i gioielli rubati a una cara amica (e per
di più sfruttando il nome del regista Maselli, con il quale aveva vissuto per quasi
vent’anni): un modo di procedere che denota la volontà di farsi ritrovare, arrestare, imprigionare. Singolare la sorte carceraria di Norman Mailer, eccentrico e instabile scrittore newyorkese. Per l’accoltellamento della amata moglie, colpevole di
avergli rivolto una frase poco gentile, viene arrestato ma, difeso a spada tratta dalla sua stessa vittima, per fortuna sopravvissuta, nel dubbio dei giudici circa
le sue reali condizioni mentali si vede comminare una pena irrisoria: un anno con la
condizionale e 500 dollari di multa (di fatto se la caverà con una sola notte in guardina). Paradossalmente sconterà invece
una pena più lunga per aver partecipato
alla marcia pacifista contro la guerra in
Vietnam. Contraddittorio, come si sa, è
sempre stato l’atteggiamento di Céline, arrestato con la moglie a Copenaghen dove
si era rifugiato temendo ritorsioni per le
invettive antisemite contenute nel Voyage au bout de la nuit che avevano scandalizzato la Francia intera. Rintracciato dalla polizia, si era mostrato sollevato alla vista degli agenti, avendo temuto il peggio:
l’editore del suo libro, Denoël, era appena stato ucciso da un colpo di pistola in
pieno centro di Parigi da un ignoto vendicatore. Durante la detenzione, che durerà diciotto mesi, trova modo di sfruttare
le sue conoscenze mediche per ottenere
frequenti ricoveri in infermeria dove, con
una certa continuità, scrive una prima versione di Féerie pour une autre fois.
A sfruttare i ritmi lenti del carcere, traendo
nuova ispirazione rispetto alla vita libera,
sono in molti: Verlaine, imprigionato per tentato omicidio ai danni di Rimbaud, proprio
a Bruxelles nella prigione dei Petits Carmes
scrive con mezzi di fortuna (un fiammifero immerso nel caffè, carta da pacchi) buona parte di Jadis et Naguère; Hans Fallada,
bloccato dalle camicie brune nella sua casa
di campagna vicino a Berlino con l’accusa di
cospirazione contro il Führer, nel carcere sulla Sprea si dedica alla scrittura; nuovamente rinchiuso, questa volta in un manicomio
criminale per aver sparato alla moglie procede alacremente nella stesura de Il bevito-
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Daria Galateria, Scritti galeotti, Sellerio, Palermo 2012, pp. 302, € 14,00.
GENOVA, UNA STORIA
Giuliana Rovetta
Uno scrittore esordiente, emerso dalla generazione dei quarantenni considerati ancora “giovani”, sceglie come sfondo per un
romanzo di vicina attualità la città che meglio conosce nei suoi vizi (molti) e nelle sue
poche virtù. È la città dalla quale il protagonista, alla fine degli studi universitari, si
allontana un po’ disgustato e un po’ affranto alla ricerca di un contesto meno logoro
e prevedibile in cui sviluppare il suo presunto talento nel campo delle lettere. Il viaggio
Genova-Parigi (un’oretta di volo sull’airbus
di Air France) non è particolarmente avventuroso e i limiti della moderna bohème a cui
il neolaureato è tenuto a sottoporsi sono comunque garantiti dalla sicurezza finanziaria. L’avventura non è dunque nei fatti e nelle cose ma all’interno, là dove cresce l’astio
per i suoi simili e contemporanei, dove matura il disprezzo per l’accolita dei padri, dove
–in odio anche a se stesso- si annida l’impulso a bere fino ad averne “il cervello sanguinante”. Malinconico e, a suo modo, non
privo di un romanticismo sottotraccia, La
fine dell’altro mondo ripete con naturalezza alcuni clichés legati al genere del romanzo di formazione: l’ambizione di raggiungere l’affermazione artistica, l’invettiva
contro il milieu d’origine, la famiglia vissuta come legame claustrofobico, in sintonia
con il famoso grido gidiano di condanna
espresso nelle Nourritures, gli amori disorganizzati vissuti con franca misoginia.
Non manca nel campo dei sentimenti l’accenno ad un’attrazione non cameratesca tra
fratello e sorella, complice coppia di viziatissimi enfants terribiles alla Cocteau. Messi in campo tutti i riferimenti, il romanzo
si dipana cercando di far rivivere certi grovigli della mente, tra l’ossessione di una ricerca documentaria su un introvabile testo
di Cyrano e brandelli di vita di relazione improntati a un timido cinismo.
Al centro campeggia sempre il blando eroe
che mira a una graduale autodistruzione,
ma senza mai incorrere in rischi reali. Di
solito risolve l’aggressività nel confronto
con colleghi, professori e maltrattati genitori, utilizzando l’arma di una certa ingenua arroganza. Sembra che nulla possa intaccare la superiorità di questo “eccentrico di talento” cui la buona società
genovese, “grigio assemblaggio di eruditi dilettanti e borghesi” (tirati in causa con
trasparenti allusioni e cognomi assonanti) ha decretato, bontà sua, una posizione di ammirazione guardinga. A Parigi, invece, dove si reca per preparare la tesi di
dottorato, Ludovico detto “Ludò” vive
nell’anonimato tipico delle grandi città. Ha
pochi amici sparsi, una ex con cui vorrebbe riprendere i rapporti, spesso si perde
nei quartieri in rapida trasformazione, indugia nella vita notturna: “In prossimità
di Pigalle, le insegne lampeggianti dei bar
à putes lo distolsero da un turbine di pensieri angosciosi, per rigettarlo sul terreno
delle usuali pulsioni”. Erotomane per eccesso di malinconica disperazione, il giovane aspirante letterato non si fa mancare un’avventura a Mosca, dove due volonterose gemelle, dopo averlo drogato con
l’ecstasy, lo derubano di soldi, carte di credito e prezioso computer.
Fin qui niente di veramente nuovo sotto il
sole, se non fosse che la sonnolenta città archiviata da sempre come invivibile per eccesso di monotonia si trova proprio allora al centro di avvenimenti ben lontani dai suoi
standard: “Al suo ritorno, Genova era una città sotto assedio. Nel tragitto a piedi dalla stazione Principe a casa propria, Ludovico attraversò le barriere costruite a difesa della
zona rossa: chilometri d’inferriate alte più di
tre metri, con porte di accesso ancora aper-
Giuliana Rovetta Genova, una storia
re, un memoriale in cui ricorda gli anni trascorsi sotto la dittatura nazista. Per non insospettire i guardiani adotta una grafia microscopica e riempie anche gli spazi fra una
riga e l’altra. Quanto alle donne paradossalmente sembrano trarre partito dal regime
di restrizione che mentre le sottrae all’obbligo di farsi sempre carico della famiglia,
in più le esime dal render conto ad altri dell’uso del loro tempo: se Goliarda Sapienza,
con la pubblicità negativa conseguente al carcere, ha imboccato la strada verso una visibilità prima negata, Louise Michel, la pasionaria dei tempi della Comune scrive nei suoi
Mémoires: “In carcere si è liberi. La notte poi
ci si sente vivere, si può scrivere”.
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Liana De Luca Rimembranze e presenze femminili
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te ma già sorvegliate da sbirri in assetto antisommossa”. Dalla cronaca degli eventi
che seguono quella tiepida vigilia, quindi la
giornata dedicata al corteo multicolore che
si snoda munito di tamburi, travestimenti,
banderuole, viene avanti un’altra immagine
della città, dove le strade piene di giovani e
i segnali esteriori di un’accettabile protesta
non lasciano presagire gli scontri dell’indomani. Nelle pagine finali, mentre sbiadisce la
figura del protagonista col suo “mortifero narcisismo”, a prendere il sopravvento sono gli
umori delle varie componenti della folla mentre il mondo intero guarda, in un crescendo
di tensione e paura, a quanto sta, imprevedibilmente, accadendo tra manifestanti infiltrati, difficilmente gestibili, e forze dell’ordine che paiono eterodirette. Amaramente
si deve constatare che Genova non galleggia
più nell’apatia. E parallelamente anche Ludovico, una volta vissuta da vicino questa esperienza, sembra raccogliere i suoi pensieri per
decidere, forse, di non “atteggiarsi” più, bensì di provare a vivere.
Filippo D’Angelo, La fine dell’altro mondo, minimum fax, Roma 2012, pp. 329, €
15,00.
RIMEMBRANZE
E PRESENZE FEMMINILI
Liana De Luca
Sarebbero piaciute a Petrarca del Canzoniere, a parte certo la diversità di stile, le
poesie di Nevio Nigro, per il continuo sottofondo di una presenza femminile, che
le ispira e le contiene nella dimensione della rimembranza e della malinconia. Tale
è anche il clima dell’ultima raccolta dell’autore, intitolata con felice ossimoro Possiedo la tua assenza. Ritorna “la donna
oscura”, secondo il titolo di una precedente pubblicazione, in cui bisogna leggere,
oltre il significato letterale, quello allegorico: “Sui prati della notte / danza una donna oscura. / Viene da un golfo d’ombra /
in cui scompare il tempo”. Ella giunge da
“lontananze” indeterminate e continua a
danzare, accrescendo con il movimento il
mistero della sua assenza: “Rimani con me
un poco. / Fai conto di essere rugiada / al
sorgere di un’alba smarrita. / Ricordo quel
passo di danza / e i piedi sull’erba bagna-
ta”. Ma anche quando il ricordo sembra essere più realistico la figura assume le dimensioni di una fantasiosa apparizione:
“Tu danzi / sempre più lontana. Seguo il
profumo / della rosa rossa / mentre ti
aspetto”. I “pensieri di primavera” gustano ancora “il sapore salato dei baci” con
l’immagine ripresa da un’altra pubblicazione dell’autore: “Forse non è bello il giorno. / Certo è bella la sera / se riesci ad andare sulla collina / dove si vede la piana
/ ed il mare lontano / senza onda né riva.
/ Di là ti accorgi della primavera / che torna / e passa. / Del sapore salato dei baci.
/ Di là ti accorgi di qualcuno / che viene
per strade oscure / e ti segue da tanto. /
E del silenzio. / Se è cancellato dal vento”.
Ma a dare all’ultima silloge un tono nuovo ed
un maggiore spessore alle sensazioni è un più
profondo intendimento dell’umano terreno
percorso, della fragilità e fugacità dell’esistenza, dell’ineluttabile scorrere del tempo e delle illusioni, della vanità dell’Attesa: “L’ora è
lenta / ed il silenzio / dolce. / Assenti / le parole innamorate. / La rosa / della speranza
/ ha perso / il cuore. / All’ombra / della nuvola / che passa / l’immobile / stagione / attende”. Pure proprio alimentata dalla nostalgia s’illumina l’iperbole della speranza: “A luna
spenta / il bosco / sembra nero. / Ma il cuore / appeso ai rami / si ridesta / se compare / il tuo viso. / Corrono i piedi / verso l’irreale. / Il bosco brilla. / E tu non dire. / Non
dire / che la luna / è spenta”.
L’approfondimento dell’indagine personale e critica è provato anche dalla poesia Ricordo del padre, riproposta con sapienti tagli che ne acuiscono il valore affettivo e simbolico: “Accompagnami intanto / con la tua
vecchia mano, / con la tua mente giovane,
/ con la tua voce / sempre vicina. / Arrivederci”. E con uguale pudore e sapienza l’invocazione è rivolta alla donna amata: “Seguimi in questa sera / così non sarò solo.
/ Ti aspetterò / sul molo del mio mare. /
Sai dove sono. / Insegnami la luce. / Possiedo la tua assenza. / Perciò vieni. / Poco
si deve andare. / Così poco.” (Seguimi).
Nevio Nigro propone insomma una voce
personale e inconfondibile nel panorama
della poesia contemporanea.
Nevio Nigro, Possiedo la tua assenza,
Crocetti, Milano 2011, pp. 58, € 10,00.
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di Renato Barilli
Nel trentennio che ci sta alle spalle Genova si è iscritta nelle vicende dell’avanguardia soprattutto per i contributi dati a una situazione che si potrebbe dire, con etichetta larga, “nuova scrittura”. Ci sarebbe, ovviamente, da ricordare anche l’Arte Povera, che nel capoluogo ligure ebbe la sua
prima uscita ufficiale, e perfino il battesimo, ma poi migrò altrove.
Invece i protagonisti della “nuova scrittura” sono rimasti più a lungo
a covare le loro ricerche nella metropoli chiusa tra monti e mare, e forse per questo portata a schiacciare le proprie energie migliori, nel caso
che queste tentino di rimanere in patria, entro una morsa di tradizionalismo. E proprio all’inizio del trentennio in questione ci volle una
bella folata temporalesca dall’esterno, per portare aria nuova: si trattò di Eugenio Battisti, piombato nella città ligure con una carica enorme di energie che si espressero in varie iniziative: fra l‘altro, la nascita di “Marcatré”, di cui Rodolfo Vitone fu il primo editore, rivista pronta a inserirsi nel dibattito della neoavanguardia, accanto al “Verri”; perfino il giovane Celant fece le sue prime apparizioni nel ruolo di allievo prediletto del ciclone-Battisti.
Sferzati da quel pungolo, i genovesi meglio disposti seppero riscuotersi e andare anche oltre, maturando appunto quell’“oltranzismo” che
si addice alle situazioni compresse.
Anacenosi, tecnica mista su tela, 40x60, 1965
Rodolfo Vitone
RODOLFO VITONE
TRENT’ANNI DI RICERCA
E DI CREATIVITÀ
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Rodolfo Vitone
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Qualcosa del genere si potrebbe ripetere per Firenze, che non a caso fu il laboratorio in cui nacque la poesia visiva di
Pignotti e Miccini. Ma gli sperimentatori di Genova intuirono che bisognava fare
qualcosa di più, che non bastava cioè allineare parole ed immagini, lasciandole
ciascuna nelle forme consuete a una civiltà tipografica avanzata, confermata,
più che essere contraddetta dall’avvento dei rotocalchi e da altre forme visive
pur sempre affidate alla stampa.
Il materiale verbale doveva ritrovare
tutta la sua concretezza, secondo la prospettiva che in effetti era già stata riportata alla poesia “concreta”, e entrare nell’opera alla pari con ogni altro materiale di esperienza: questo, in definitiva, il
nuovo traguardo cui giunsero in modo
precipuo gli sperimentatori genovesi, in
quanto il limite storico della poesia
concreta propriamente detta era stato
quello di lasciare le parole, anzi, le lettere, entro un loro lazzaretto, per evitare che si contaminassero andando in giro
per il mondo. Invece i Genovesi non vollero evitare l’impurità, abbatterono i
cordoni sanitari, patrocinando la grande commistione reciproca, tra le lettere
e tutto il diverso da loro. Ecco così le linee di ricerca cui si sono ispirati Ugo Carrega da una parte e gli Oberto, Martino
e Anna, dall’altra. Vero è che anche i primi due ad un certo momento obbedirono alla tentazione dell’esodo.
Ma altri sono rimasti, come Rodolfo Vi-
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Rodolfo Vitone
Da sinistra:
X-63, tecnica mista, 1965
W, tela emulsionata e colori, 110x70,1970
K-SE, disegno china su carta, 30x21, 1967
Echi, vetrina con oggetti diversi, 47x33x6, 1970
tone, a continuare sulla strada del grande missaggio, dove la lettera non arretra
di fronte ad alcun passo, per ardito ed
estremo che questo possa sembrare.
Ci fu una fase di espansione incontenibile, in sintonia con gli happening statunitensi, in cui Vitone portava certe lettere enormi a innestarsi su spettacoli da
strada, a siglarli col loro gigantismo,
come in altrettanti “rebus” proposti all’attenzione di un popolo di Ciclopi. Infatti una delle costrizioni cui sottoponiamo la popolazione delle lettere è quella di ridurle in dimensioni piccole, lillipuziane, come utensili che non devono
dare fastidio, né permettersi di prevaricare. Ma che cosa succederebbe, se un bel
mattino ci svegliassimo, e dovessimo con-
statare che quei nostri sudditi fedeli (della mente) sono cresciuti, vittime di
un’ipertrofia inopinata?
Furono quelli gli anni attorno al ‘68 e dintorni, quando l’intero sistema dell’arte
“esplose” fuori dalle misure convenzionali; poi esso “implose”, ritornò a proporzioni più usuali ed affabili, e anche Vitone ne ha tenuto conto, non rinunciando però alle mescolanze “impure”.
Se ci rivolgiamo alla produzione di questi ultimi anni, constatiamo, innanzitutto, che le lettere non sono ritornate, docili e “pentite”, entro i piccoli formati loro
assegnati per tradizione, ma al contrario, sono rimaste a giganteggiare, fiere
anche di una loro relativa purezza, di elementi pur sempre a matrice concettua-
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Rose, tecnica mista, 28x20x7, 1970
Consigli, collage su carta, 20x30, 1972
La Gioconda, collage, 70x120, 1973
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Grande sogno, tela emulsionata, 100x80, 1983
to mai profanato, viziato da ogni traccia
e umore dell’esistenza: macchie, colate,
magari brani di scrittura, ma sorpresa
quando anch’essa dà luogo ad un tessuto pittoresco, corroso dagli agenti atmosferici. Col che si crea una bella dialet-
Rodolfo Vitone
le, a definizione pubblica, il che ne fa altrettanti stereotipi. Quei segni dell’alfabeto sono pertanto, nelle opere di Rodolfo Vitone, come dei guerrieri catafratti,
delle salamandre che se ne vanno immuni entro un contesto per parte sua quan-
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senza l’altra; e soprattutto, non c’è
elemento alfabetico che non si presti a
sollecitazioni in su e in giù: per un verso, è sempre possibile scomporlo ulteriormente, mettendo in mostra la materia che lo costituisce (come sventrare una bambola e farne uscire l’imbottitura); per un altro, si può procedere a
riaggregazioni che tentano di restituire il senso là dove dominava l’informale più spinto. Rodolfo Vitone gioca
abilmente su tutte queste possibilità,
percorrendole simultaneamente.
Lettere, n° 27, tecnica mista su tela, 75x50, 1991 / S.A.P.E., tecnica mista su legno 1991
Lettere, n° 101, tecnica mista su tela, 90x60, 1994 / Ricordi, collage 19x31 1996
In basso:
Fata fatale, tela emulsionata, 80x120, 1997
Rodolfo Vitone
tica tra elementi rigorosi ed altri invece
deliberatamente informi; ed è anche
una dialettica tra scale diverse, tra quella grande, “a caratteri cubitali”, con cui
si presentano le lettere, e le altre successive via via più miniaturizzate, in cui deflagrano tanti minuti accidenti.
È tipico del linguaggio, a ben pensarci,
il presentarsi a noi proprio come una serie di scatole cinesi che si susseguono,
l’una dentro l’altra. Forma e materia, in
ogni particella verbale, sono come le facce di un Giano bifronte, non c’è l’una
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A cena da Leo n°10, tecnica mista su tavola, 35x25, 1997
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artista autore attore autista ateo amante amico azionista anarchico avanguardista acrobata agente altruista artigiano affarista baro balilla buonista
ballerino bandito cantante cinofilo compositore critico commesso collagista contadino cuoco cameriere coltivatore collezionista comunista collaboratore cronometrista confidente coloritore confessore colorista corniciaio
direttore dotto dattilografo dirigente egoista esploratore edonista escursionista enologo fantasioso fantasista falegname fascista figlio fedele filantropo filosofo fondista fotografo fidato giornalista grafico gastronomo
grafologo garzone grafomane illuminato insegnante illuminista intelligente
individualista iracondo ironico idraulico illusionista lettore latitante montatore musicista muratore maestro marito manovale mago marxista montanaro nuotatore narratore nomade nipote nullatenente navigatore operaio
operato operatore orante ozioso pianista pittore professore partigiano pentito padre psicologo poeta povero padrone pattinatore prestidigitatore visivo romanziere ricco regista romantico realista religioso ribelle
rappresentante suonatore sciatore scultore serigrafo scrittore scrivano sarto
semiologo studente sessuologo studioso tatuato tubista teatrante trombonista ufologo umile trappista vogatore venditore visionario viaggiatore zio
Rodolfo Vitone
BIOGRAFIA
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LE SCULTURE DI PALADINO
NELL’AMBIENTE
DELLA PINACOTECA
PROVINCIALE DI BARI
di Silvia Bottaro
L’occasione speciale del “gemellaggio” culturale ed artistico tra l’Associazione “Renzo Aiolfi” no profit di Savona e la Pinacoteca Provinciale di Bari, avvenuto il 16 ottobre 2012, mi ha dato l’opportunità, non
solo di trovare l’opera di Tuccio d’Andria, artista oggetto dell’impegno dell’Associazione e, quindi, del gemellaggio (a Savona è stata restaurata una pala d’altare del 1487 del Pittore pugliese in questione
donando un futuro a tale unica opera firmata e datata dall’Artista) ma
di vedere, ambientate nelle sale espositive di tale Istituzione pubblica, le “Sculture” di Mimmo Paladino: su questo vorrei scrivere alcune
riflessioni.
Le immagini delle opere di Mimmo Paladino sono tratte dal libro a cura di Clara Gelao e Enzo
Di Martino, "Paladino La Scultura", Marsilio, Bari, Pinacoteca Provinciale, cat. mostra, 29 giugno - 28 ottobre 2012; su autorizzazione della Pinacoteca Provinciale di Bari.
Tavolo con 72 sculture, 1982-2007, bronzo, dimensioni varie
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Mimmo Paladino
Da Antonello da Messina, 2002, legno e ferro, cm. 60x60x60
Paladino è un artista del nostro tempo
che ha scelto, sala dopo sala, dove collocare le sue opere poste in un dialogo
silenzioso ma potente con i capolavori
di Vivarini, Bellini, Tintoretto, Veronese
fino al trittico di Tuccio d’Andria (Santa Caterina d'Alessandria, Sant’Antonio
e San Giacomo della Marca, opera di gusto vagamente pierfrancescano, come è
stata definita da Clara Gelao) che abitualmente “abitano” lo spazio della Pinacoteca in un interagire continuo, intenso tra
passato e presente: Paladino ridisegna,
in un certo senso, i confini tra ordine e
disordine con una continua “ricerca”
dove ogni elemento, forma, materia illuminano la percezione dell’altro.
Fin dalla sua prima opera scultorea documentata nel 1980 - una stele di legno
con sopra una testa di marmo bianco –
l’Artista dimostra la sua libertà nell’uso dei materiali (legno, bronzo, marmo, pietra, ceramica, alluminio) e la
manifestazione concreta di certe proprie
iconografie più focalizzate per la sua ricerca espressiva. Sovrapposizioni di cul-
ture, mi pare di poter dire, che creano
l’humus originale dal quale attinge, non
solo come memorie delle cose, o metafora, mai didascalica o accademica, ma
come progetto in fieri del futuro: un crogiuolo di idee dove convivono forme arcaiche, citazioni colte (un esempio in questa mostra sono le opere “Da Antonello
da Messina” e “Etrusco Omaggio a Marino Marini”), forme geometriche, immagini figurative.
La sua ricerca costante di nuove fogge
ha una straordinaria potenza visiva e pathos in questa mostra che si snoda in
cinque sale della Pinacoteca provinciale barese che diviene, così, speciale ambiente, come nel catalogo (“Paladino La
Scultura”, a cura di Clara Gelao e Enzo
Di Martino, ed. Marsilio, 29 giugno – 28
ottobre 2012) la Prof.a Gelao scrive definendo tale ambientazione “… un vero
atto di fede…”. In queste sculture avverto un senso di donazione interattivo tra
esse, le loro presenze (Don Chisciotte,
Architettura), l’immaginazione e il pensiero che scambievolmente s’incrocia-
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no e commutano e spostano le loro intuizioni.
Si avverte il mistero dell’icona in quelle
qui esposte regolarmente nella prima sala
della Pinacoteca barese – una mariana
(fine XII – inizio XIII secolo), quella Hodigitria, e altre due databili alla fine del secolo XIII – testimonianze del forte legame che ebbe la Puglia col mediterraneo
orientale, dove Paladino presenta il suo
gigantesco cavallo di bronzo, la figura
dormiente con una grande lucertola (forse con echi dai bestiari e dalle leggende greche ed europee, come il basilisco),
il dodecaedro stellato (è un poliedro di Keplero-Poinsot), in questa opera Paladino
sembra far convivere arcaicità ed umanesimo e la sua icona moderna, quest’ultima pare porre in asse il mistero dell’icona con la rivelazione della realtà: in un
mondo contemporaneo dominato dall’immagine, anche negativa, dove la realtà è
sfuggente, evanescente, si deve recuperare con una indagine profonda; tale rap-
porto ci deve ricondurre al concetto di
“bellezza” come categoria culturale.
L’Assediato è stato proprio collocato di
fronte al trittico di Tuccio d’Andria in una
sommessa scoperta ed intuizione: si
coglie la disibinizione che ha lo Scultore in questo dialogo tra Santi e l’uomo
di oggi “assediato” da paure ancestrali,
da animali oscuri, dal buio del futuro.
Umanità tormentata che teme anche
animali domestici ma che non vuole diventare “reliquia” del passato, ma intende “disvelare” togliendo l’indifferenza e
cercando, invece, il coinvolgimento e la
conoscenza.
Il bronzo è diventato, grazie alla sua cifra personale, “croccante”, mai levigato
in modo manierato ed accademico, ma
martoriato e straziato da segni, ferite, simboli e…dall’impronta di quel polpastrello che pare utilizzato da un figulo antico, come se il metallo fosse terra. Dico
“croccante” perché quelle impronte digitali mi ricordano come le donne della Pu-
In primo piano: Assediato, 1992, bronzo, cm. 140x120x120; in secondo piano: Senza titolo, 2005,
alluminio dipinto, cm. 199x77x48; in fondo a destra: Senza titolo, 2000, bronzo, cm. 6,5x129,5,x65,4
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glia abbiano usato l’acqua e la farina di
grano duro per fare le orecchiette (la loro
dimensione è di circa 3/4 di un dito pollice, e si presentano come una piccola cupola di colore bianco, con il centro più sottile del bordo e con la superficie ruvida),
nate nella zona provenzale francese, fin
dal lontano, diffuse in tutta la Basilicata
e la Puglia con il loro nome attuale dagli
dinastia che nel Duecento dominava le
terre delle regioni. Il bronzo di Paladino
è, quindi, etnografico in questo connotato e risulta al palato ed al tatto dell’osservatore mosso, incavato quale padiglione uditivo fossile per spingerci all’ascolto dell’altro e della Natura. L’Umanità è
sospesa tra cielo e terra e noi siamo inquilini di questo orizzonte. Davanti al
mare i nostri occhi impiegano ore e ore
per mettere a fuoco la linea dell’infinito;
il mare mosso dai venti non è più una piscina e ci mette soggezione; si conosce
il suo colore bianco quando le onde sbattono sulle scogliere ed allora, da quell’attrito energico, emerge la sua verità. Noi
siamo da un lato custodi e dall’altro coltiviamo il culto per la divinità. Guardando volare un uccello avvertiamo la sua libertà nell’aria tersa, ma dobbiamo capi-
Mimmo Paladino
Senza titolo, 2005, bronzo e ferro dipinto, cm.
205x80x60
re che essa nasce laddove noi cessiamo
di usare gli altri e la natura per meri fini
egoistici e che ha una spinta trascendente, dal basso verso l’alto come osserviamo nei sempre sorprendenti pensieri poetici che Paladino crea con libertà e coinvolgimento emotivo dell’osservatore.
Nel suo fare arte pone al centro la relazione tra la materia, l’immagine ed il linguaggio in una sorta di disvelamento dell’antropologia delle rappresentazioni.
Un esempio è l’opera Tavolo con 72 sculture (1982- 2007, bronzo, varie dimensioni) dove l’osservatore, costretto a
seguire i lati lunghi e corti del gran rettangolo formato da una selva di supporti, reggenti 72 sculture tutte diverse, scopre forme mai viste, incontra volti ciechi,
lampi di colore rosso e maschere d’oro:
il partecipante indagatore è coinvolto nella forza del linguaggio dell’arte, dove la
verità della scultura si riafferma.
Un kaos creatore dove i documenti si accumulano con i dati del passato, del presente e del futuro senza sintesi cronologica, ma in un magmatico gioco di rimandi, di associazioni per immagini o per ricorrenze formali. Una sintesi visiva davvero straniante. Una sorta di epica dell’umanità. Il visitatore è rapito dal respiro del tempo. Dall’eternità. Dalla nobiltà delle imprese dei guerrieri e da quelle cavalleresche di Don Chisciotte.
Una mostra questa – Paladino La Scultura – particolarmente pregnante anche
per aver lasciato da parte la struttura
strettamente museale della Pinacoteca
ed aver accolto, nel solco della politica
culturale della stessa Istituzione provinciale barese e dell’Assessore per i Beni
e Attività Culturali della Provincia di Bari
Trifone Altieri ciò che nel catalogo ha
scritto: “Sono certo che tale commistione contribuirà a dare ai visitatori una
prospettiva ancora più ampia e più
profonda dell’arte di Mimmo Paladino la
cui eleganza, forza ed essenzialità sono
frutto del genio, ma anche delle radici
storico-culturali in cui la ricerca dell’artista getta le sue basi per l'imprinting di
italianità che l’ha resa unica e inimitabile nel panorama dell’arte contemporanea internazionale”.
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Renata Minuto
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CRITICA
INTERVISTA A RENATA MINUTO
di Sonia Pedalino
Renata Minuto pittrice e ceramista savonese è la prima artista ad avere avuto una committenza dal Vaticano e l’onore di vedere una sua opera collocata nei prestigiosi Giardini.
Artista schiva e riservata, svolge la sua attività tra Savona, Albisola e
Roma.
La sua prima mostra di pittura risale al 1957, ad Albisola Marina , da
“Checchin”, ritrovo abituale degli artisti quali Lam, Jorn, Sassu, Fontana, Garelli, Fabbri.
Carlo Cardazzo, grande gallerista, la nota e nel 1963 le organizza una
personale a Venezia nella sua galleria “Il Cavallino”.
Da allora l’impegno costante e la professionalità di questa artista sono
diventate il comune denominatore di tutte le sue opere realizzate sia
in pittura, che in ceramica e in vetro.
“La passione per la pittura l’ho avuta da sempre – esordisce Renata
Minuto – il “senso del colore” è qualcosa di innato al quale si dà voce
Antico stemma della città di Savona, 1902, dipinto su tela, cm. 60x60
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CRITICA
Renata Minuto
con lo studio costante e con una “lunga
pazienza” come mi ricordava spesso Luigi Pennone, critico, giornalista e soprattutto sincero amico.
Non ho frequentato scuole d’arte: il Liceo Artistico, ai miei tempi, non c’era a
Savona. Avrei dovuto andare a Genova…ma questa prospettiva non suscitò
l’entusiasmo dei miei familiari…
Ma non mi persi d’animo.
L’amore per l’arte era così forte, che iniziai il mio percorso da sola, grazie alla
guida del pittore Renzo Bonfiglio.”
I primi soggetti, ritratti sempre dal vero,
erano navi arrugginite, cantieri in demolizione, il mare, le barche di Porto Vado.
“Ho sempre amato la mia terra , la Liguria, e, i miei quadri ritraggono il paesaggio ligure. – continua – Nel corso del tempo ho attraversato vari “periodi” come
è uso per i pittori, ma il soggetto è rimasto invariato, è cambiata la prospettiva
con cui lo guardo”.
Il paesaggio ligure viene interpretato e
visto come sotto una lente, che riprende particolari sempre più piccoli, gli scorci diventano “scorci” di pittura astratta.
Il colore viene adattato ai vari soggetti,
come ad esempio le sfumature per la ruggine, o per la raffigurazione delle venature del legno; la tecnica cambia a seconda del soggetto ritratto.
Un tema particolare della nostra artista,
sono le vecchie porte, rappresentate
con i loro colori stinti e consumati dal
tempo, ed evidenziano le molteplici
“stagioni” passate.
I soggetti trattati da Renata Minuto sono
veramente tanti e vanno, come dicevamo
poc’anzi, dal paesaggio ligure, alle “ruggini”, dalle navi in demolizione, dai “Cavalli di San Marco”, ai “secchi dei muratori”,
ai “bidoni di bitume”, con uno sguardo all’arte povera, per approdare agli “Stemmi
dei Papi”…solo per citarne alcuni.
A proposito della pittura di Renata Minuto possiamo citare quanto affermava
Aligi Sassu: “Realismo? Neofigurazione?
Espressionismo plastico?” concludeva dicendo “… che non ha mai amato le definizioni dogmatiche per identificare
un artista”. Secondo il Maestro, Renata
Minuto, si differenzia dagli altri pittori
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Secchi con piccozza, 1977, scultura ceramica
multipla, cm. 45x45x85
per: “…un segno deciso dotato di un’ allusività fantastica, ma soprattutto… per
un amore della materia pittorica.”
Appassionata di storia, Renata Minuto ha
dedicato ai grandi Papi savonesi, Sisto IV
e Giulio II Della Rovere importanti mostre.
Tra queste ricordiamo: “Savona e i Della Rovere” per i 500 anni della morte di
Sisto IV, presso la Sala Consiliare del Comune di Savona, nel 1985;
“IULIUS II SIXTI IV NEPOS” per i 500 anni
dell’elezione al Soglio Pontificio di Giuliano Della Rovere, nella Cappella Sistina e nel Chiostro della Cattedrale di Savona nel 2004;
“I Della Rovere e Roma - 500 anni della Patriarcale Basilica di San Pietro” presso il Museo di Castel Sant’Angelo, Sala delle Colonne, a Roma nell’ aprile 2008 e alla Pinacoteca Civica di Savona, Palazzo Gavotti, Sala
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CRITICA
Renata Minuto
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Renata Minuto e Sonia Pedalino
Mostre temporanee, nel novembre 2008.
Il lavoro che però ha dato maggiore soddisfazione alla nostra artista è senza dubbio il pannello in ceramica dedicato
alla “Madonna della Misericordia di Savona”. Collocato nei Giardini del Vaticano e offerto al Pontefice Giovanni Paolo II nel 1995, in occasione del 180° anno
dell’incoronazione della Madonna di
Misericordia da parte di Pio VII. Tale opera era stata voluta fortemente dal Papa.
“È stata una emozione grandissima incontrare Papa Giovanni Paolo II, non lo
dimenticherò mai - puntualizza Renata
Minuto - ricordo con commozione, quel
10 maggio 1995, l’eccitazione provata,
l’affetto di tutti gli amici presenti.”
L’opera in questione è una ceramica policroma in alto rilievo (mt. 4,80 x 2,40)
realizzata presso la “Fabbrica Casa Museo Giuseppe Mazzotti - 1903 Albisola.”
Quando chiediamo a Renata Minuto cosa
pensa dell’arte “attuale” risponde citando
i giudizi che di essa danno molti critici ed
anche molti pittori: “Oggigiorno, l’arte,
sta divenendo tutta uguale con le nuove tecniche, specialmente con l’uso del compu-
ter, sta sparendo il romanticismo dalla pittura. Le opere dei grandi del passato come
i pittori del Rinascimento o anche quelle di
artisti a noi più vicini come Toulouse Lautrec o gli artisti del Futurismo, hanno
sempre regalato e continuano a regalare
grandi emozioni, mentre oggi quelle create con le nuove tendenze e le nuove tecniche ci lasciano indifferenti.”
Renata Minuto artista di fama internazionale ha al suo attivo una ottantina di mostre personali o su invito, più di duecento
collettive; all’estero ha esposto ad Odessa
ed a Ginevra. In occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000 l’artista ha allestito nella Cappella Sistina e nel Chiostro della Cattedrale e di Savona la personale: “Gli Stemmi dei Papi dei Giubilei”. La mostra è stata portata anche a Firenze, nella Fortezza
da Basso, nel 2001 partecipando, su invito, alla Terza Biennale Internazionale dell’Arte Contemporanea Città di Firenze.
Di particolare importanza è stata anche
la mostra allestita nel 1992 in onore di
Cristoforo Colombo, per il 500° anniversario della Scoperta dell’America, alla fortezza del “Priamar” a Savona.
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ARCHITETTURA
di Gianluigi Gentile
Sospeso tra il rigore della Secessione tedesca e l’esuberanza degli influssi Art Nouveau francese, lo Jugendstil di Riga nasce dall’incontro fra il
complesso panorama estetico internazionale con una ricca potenzialità
culturale autoctona, fino a divenire un paradigma significativo della cultura baltica tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Riga si ritiene fondata nel 1201, nel periodo in cui il vescovo Alberto edificava il
suo castello, sull’estuario di un fiume agevolmente navigabile, il fiume
Daugava. La posizione rese la città adatta immediatamente alla funzione di porto commerciale, proponendosi come un immediato caposaldo
nell’ambito della Lega Anseatica, da poco costituita.
Riga è nata romanica, omologando in seguito il suo sviluppo architettonico all’evolversi dell’architettura europea, mediata dal filtro della
cultura tedesca, fino ad acquisire una specifica fisionomia estetica, dalla metà del diciannovesimo secolo fino ai primi anni del ventesimo.
Grazie alla sua posizione strategica di tramite tra l’Europa occidentale, la Russia e l’Asia, Riga conobbe un importante sviluppo architettonico, nel periodo in cui l’Europa attraversava una fase eccezionalmente stabile di pace e di progresso tecnologico, col manifestarsi delle nuove opportunità offerte dalla rivoluzione industriale, mentre dalle colonie affluivano apporti non solo di materie prime di buona qualità, ma anche di idee nuove e di sensazioni inedite, che provocavano
un rinnovato interesse per la storia e l’antropologia collegate alla conoscenza delle culture esotiche, con un impatto determinante sulle arti
figurative e l’architettura.
Frontiera e tramite d’Europa, centro di una regione in cui si intersecano gli antichi assi del mondo, la Riga dello Jugendstil procedeva nella sua maturazione autunnale tra Oriente ed Occidente, tra la nostal-
Residenze in Elizabetes iela (Einsestein)
Fregio di un edificio residenziale in Alberta iela (1904 Einsestein)
Il liberty messo in riga
IL LIBERTY MESSO IN RIGA
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ARCHITETTURA
Il liberty messo in riga
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Abitazioni in Alberta iela (Einsestein)
gia delle nebbie nordiche e l’anelito alla
solarità delle luci dell’oriente, divenendo luogo di accumulo di conflitti continuamente mutevoli, fra la spinta evolutiva verso l’Europa e il richiamo alla radici della cultura popolare.
Affascinava soprattutto il lato occulto
della civiltà orientale, che trovava espressione nelle ricerche spirituali, nella cabala, nella figurazione di creature mitiche e misteriose come sfingi e grifoni, destinati a diventare elementi di moda, così
come gli ornamenti dell’antica Cristianità, celtici, irlandesi, che confluirono nel
repertorio figurativo e simbolico dell’Art
Nouveau insieme ai contenuti tecnologici assolutamente inediti connessi all’uso dei nuovi materiali e al progressivo affermarsi dell’approccio funzionalista nell’organizzazione del sistema distributivo.
Lo Jugendstil a Riga si declina sull’ossimoro, generato da incontri lontani che
solo questa città può accogliere: le influenze teutoniche da città anseatica e
il mito della cultura egemonizzata dalla Parigi metropolitana.
Questa bipolarità la si avverte negli stilemi figurativi in cui contrastano forme ricurve e rigorose geometrie. Forme diverse e contrastanti, congruenti con la struttura etnica di Riga in cui sono presenti lettoni, tedeschi ed ebrei; una tangenza di
linguaggi e culture differenti, dai confini
ancor più segnati dagli squilibri sociali.
Dopo la demolizione dei bastioni tra il
1858 e il 1865 la città fu circondata da
una circonvallazione di boulevards. La de-
cisione fu presa per poter disporre dello spazio necessario alla costruzione di
edifici rappresentativi, che vennero nel
corso del tempo edificati fino a costituire un importante insieme di architetture storicamente significative.
La comunità tedesca, secolare detentrice
del potere economico e politico, in quel
periodo registrava un sensibile calo di importanza, a fronte delle spinte autonomiste crescenti in ordine allo sviluppo economico e sociale, con effetti e connessioni riguardo alla cultura letteraria e artistica d’importanza decisiva per la generazione che si affacciava sulla scena e che
avrebbe dato vita allo Jugendstil.
Un’evoluzione travagliata, che si contrapponeva al declino periferico della casta
tedesca, e che venne a maturazione
completa alla fine del diciannovesimo secolo, periodo in cui lo Jugendstil a Riga
raggiunge le sue massime espressioni.
In questo periodo confluiscono pulsioni come la ricerca di un’identità patria,
l’apertura agli stimoli internazionali,
creativamente assimilati, il neobarocco
si sovrappone alla compostezza luterana e neoclassica, mentre il simbolismo
figurativo pervade l’architettura trovan-
Residenza in Skunu iela (1902 Arch. Scheel e Sheffel)
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ARCHITETTURA
do un’inconsueta assonanza con il funzionalismo strutturale dei materiali della prima rivoluzione industriale.
Gli esempi più originali sono concentrati in Alberta iela, in cui prevalgono gli interventi di Mikhail Eisenstein, frequenti
anche in Elizabetes iela, dove si trova anche un significativo esempio di architettura degli interni, lo studio del pittore Janis Rozentals, progettato da Konstantins
Pêksens, autore di almeno 250 palazzi.
Prove dello Jugendstil righese sono
quelle in cui l’arte popolare lettone contamina lo stile di importazione tedesca,
come in Stabu19, nelle abitazioni in
Brivibas iela, Terbatas iela e Valdemãra
iela, costruite da Eižens Laube in cui compaiono elementi decorativi ispirati alla
tradizione della scultura lignea.
Dall’esempio iniziale offerto da Scheel,
Scheffel, Einsestein, per citare solo alcuni, per un intero decennio, il volto di Riga
Jugendstil avrà contorni liberi e francofili, densi di riferimenti mitologici locali, con
una valenza aperta verso una successiva
rielaborazione di stampo germanico.
La tradizione architettonica portava gli architetti lettoni all’utilizzo di elementi figu-
Edificio residenziale in Alberta iela (1904 Einsestein)
Il liberty messo in riga
Edificio scolastico in Strelnlieku iela 4
(Einsenstein 1905)
rativamente allusivi alla mitologia classica
e locale, elementi che con l’affermarsi dello Jugendstil, vennero ripresi e stilizzati.
La chiave di lettura dello Jugendstil a Riga
consiste proprio nella continuità filologica fra gli stilemi e i simbolismi autoctoni e austeri condivisi con la tradizione popolare germanico luterana e l’irresistibile suggestione figurativa dell’Art
Noveau francese.
Questa diversa polarità di ispirazione si
riscontra agevolmente nel panorama
degli orientamenti stilistici degli edifici
che varia dall’approccio espressionista
della tradizione nordica fino all’eleganza lirica degli edifici d’ispirazione Art
Nouveau.
L’inizio del ventesimo secolo porta grandi cambiamenti sociali in Lettonia; il malcontento verso il regime russo dello Zar
Nicola porta alla rivoluzione del 1905.
La rivolta fu repressa ma fu ottenuta una
forma di autogoverno nazionale.
In quel momento il Romanticismo Nazionale divenne l’ideologia ispiratrice, portando al prevalere degli influssi scandinavi,
maturati attraverso il libero commercio con
la Finlandia dirimpettaia, e all’adozione di
ornamenti in pietra grezza, mutuati dall’arte popolare, poiché ci si poneva l’obiettivo di fondare un’architettura moderna
ispirata alla tradizione nazionale.
Nel 1912, alle soglie di quel crogiuolo di illusioni che fu la Grande Guerra, la breve ma
intensa stagione Jugendstil a Riga si può
considerare conclusa, i germi già contenuti allo stato latente portano l’architettura
della capitale lettone ad allinearsi con la tendenza europea del Funzionalismo.
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FUMETTO
L’IRRAZIONALITÀ E L’EMOTIVITÀ
DI LORENA CANOTTIERE
di Manuela Capelli
Lorena Canottiere, un passato fumettistico che risale al Correrino, passa per il gruppo Struwwelpeter, Terre di Mezzo e Animals, è famosa
per il blog www.capousse.it (termine usato in francese per indicare i
germogli che sbucano dalla terra e vigorosamente e in fretta crescono per diventare piante), la strip che, senza commenti e interferenze,
dà voce al mondo visto dai bambini.
Da un anno è però in libreria anche con il suo primo graphic novel,
Oche- il sangue scorre nelle vene (Ed. Coconino Press), in cui mette in
scena le storie di Henry, ex bambino-soldato della Sierra Leone che,
a differenza dei genitori adottivi, non crede “veramente a questa strana famiglia”, di Nadia, che detesta la madre alcolizzata e indifferente, e di Davide, figlio di una borghesia che disprezza. Tre adolescenti che il destino unisce nella dura realtà di un pomeriggio di razzismo,
ma anche nel sogno di cambiare le regole del gioco della vita.
Iniziamo proprio da Oche.
Nel testo si dice: “Il porto, il mare, le navi, ho sempre pensato che le
storie iniziassero in posti così”. Questa storia, invece, la tua prima graphic novel, come e dove è nata?
“Oche” è nato dalla proposta di Igort di scrivere una storia “lunga” per
Coconino. In quel momento avevo già una storia in cinque capitoli, scritta e disegnata, che avevo iniziato per pura passione, ma come al solito presi la decisione più irrazionale (e penso vincente, in questo caso): lasciai
quella nel cassetto e iniziai
una nuova storia dal nulla. Sapevo solamente che volevo
che parlasse in parte dei bambini soldato. Mi documentai
con libri, articoli e documentari finché l’orrore mi impedì
di dormire la notte. Decisi che
volevo ambientare la vicenda
in Occidente, nella nostra società, per poter raccontare il
contrasto tra Africa ed Europa, delineai i personaggi e me
li portai un po’ “a spasso”.
Penso sia importante per entrare nella storia (una sorta di
conoscenza reciproca), poi
partii direttamente con lo
story-board, pagina dopo pagina, senza fermarmi. Avevo
evidentemente bisogno di
raccontare tutto quello che
“Oche” contiene, non solo la
vicenda di Henry, il bambino
soldato.
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FUMETTO
Lorena Canottiere
Dove finisce l’ingenuità di Ça pousse nei
bambini che diventano i “giovani già vecchi” nell’amarezza di Oche?
L’ingenuità dei bambini di “ça pousse”, che
è la fantasia, la sincerità, la curiosità e l’entusiasmo verso la vita viene frenata dalla società adulta che non sa farsi carico di
tutto ciò. Ha altri interessi e prerogative
spesso lontane o addirittura conflittuali
con il mondo infantile.
Riferendomi ad “Oche” la situazione è ancora più estremizzata, descrive una società (la nostra, attuale) che non ha spazio per i ragazzi protagonisti della storia, né il coraggio di ascoltarli e tantomeno di capirli e rispondere ai loro bisogni.
I giovani già vecchi sono bambini a cui
non si sa offrire nulla e che, in molti casi,
sono costretti a sostituirsi a genitori assenti o che non sanno fare gli adulti, rifuggono il loro ruolo, non sanno che farsene di se stessi né tantomeno dei figli.
Torino negli occhi di un adolescente o nei
tuoi occhi, perché forse loro non la vedono neanche e sognano il mare, il suo significato di spostamento, mentre tu riproduci il tuo sguardo sulla città… Con inquadrature che ne sottolineano sempre la bellezza.. il Po, i portici… i palazzi…
I ragazzi di “Oche” non si curano di Torino, vorrebbero fuggire dalla città e dalle loro vite. È un’ottima cosa volersene
andare via da adolescenti, anche senza
dover scappare da situazioni familiari difficili. Io sono arrivata a Torino da poco
tempo. Ho vissuto in diverse città, dopo
quella d’origine. A Torino mi trovo bene:
è una bella città, vivibile, umana, buffa,
multietnica, viva ma anche celata, colta,
un po’ operaia e un po’ sabauda. Esistono diverse città, una incastrata nell’altra,
ma i contrasti si mischiano come le tante lingue parlate per strada. Inoltre è bellissimo disegnarla, perché è particolare
e varia. Ricorda in gran parte Parigi, la
sera l’illuminazione la trasforma in estati spagnole, c’è il fiume, più nordico, con
i circoli di canottaggio e i parchi, la parte occulta medievale e la periferia, vecchia e nuova, i quartieri Fiat degli operai e dei colletti bianchi...
È stato impossibile disegnare una città
qualunque, una città inventata, che rap-
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presentasse esclusivamente l’idea di città, come avevo pensato di fare iniziando
“Oche”, avendo sotto gli occhi Torino.
Colgo ancora un paio di battute dal tuo
libro: “È come dire che tutti i pianisti destri si sono un po’ fregati la vita”. Quanto il talento e quanto la tecnica valgono
nel fare fumetto?
Il fumetto è un mezzo espressivo complesso, con possibilità narrative molto vaste. Per imparare ad usarlo si studiano cinema, letteratura, pittura, teatro per cui
un certo livello di capacità e conoscenza
del linguaggio ci vuole, ma non credo che
tecnica e talento siano così importanti. Almeno, a me non interessano granché.
Ci sono altri aspetti che ritengo più importanti come l’espressività, la capacità di
raccontare emotivamente una storia (sia
attraverso le immagini che i testi).
Talento e tecnica servono per affrontare
il percorso, sono un punto di partenza, che
però ad un certo punto deve evolvere o
addirittura decadere, per lasciare posto a
nuovi aspetti espressivi indispensabili al
percorso artistico individuale.
“L’idea di occupare uno spazio preciso,
delimitabile, codificabile mi soffoca”.
Sono parole di Henry. Valgono anche per
uno scrittore?
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FUMETTO
Ciascuno ha il proprio modo di scrivere.
Il mio compagno, ad esempio, è musicista e quando inizia a scrivere un pezzo
non si occupa d’altro fino a quando non
lo ha finito.
Io non potrei. In una situazione del genere mi sentirei soffocare come Henry.
Io ho bisogno di divagare, di guardare la
storia con la coda dell’occhio, non averla sempre di fronte. Ho bisogno che il
mondo passi in mezzo alle idee e mi distragga: non so perché, forse così riesco
a tener stretto l’indispensabile.
pre amato sia il pennino che le matite, come
tecniche di disegno, ma con il tempo è cambiato radicalmente il mio modo di usarle e
sono convinta che cambierà ancora. Non mi
fido di chi rimane fermo, non cambia, non
cresce. È come non porsi dubbi o prendersi troppo sul serio: non potrei mai.
In Oche il colore nasce solo nei sogni di Nadia, benché all’inizio siano incubi alla
stregua dei ricordi di Henry. Come mai?
Il testo dei sogni di Nadia è parte del racconto “Il demonio è cane bianco” di Sergio Atzeni, uno scrittore che amo parti-
Passando alla tecnica…
Il tratto che utilizzi… tutto tratteggio,
senza aree di colore piene… come l’hai
scelto, e perché e quali sono i tuoi riferimenti in questo campo, se ce ne sono?
Penso che l’uso del tratteggio così fine e fitto mi sia arrivato dall’uso delle matite colorate. È buffo, adesso che ci penso: sono
passata da un segno a pennino netto e forte ad uno più sottile, costruito da tanti segni fini, che creano volumi per sovrapposizione, mentre per le matite è stato esattamente il contrario. Sono passata da un uso
più leggero, pulito della matita colorata a
cercare segni più decisi, espressivi. Ho sem-
colarmente. È un racconto duro, visionario, che la mia mente ha subito tradotto in immagini a colore. Inoltre la vita di
Nadia è desolante e il suo solo rifugio è
quel sogno che si ripete, un sogno di fuga,
di libertà: ci nasconde tutta se stessa e la
speranza , che consciamente non sa neppure di avere dentro. Per tutti questi motivi la parte a colori del libro è la parte del
sogno, non c’è stato neanche il bisogno di
pensarci, di prendere una decisione.
Cosa pensi del colore della cover?
Eri d’accordo con questa esplosione di luminosità? L’artwork è tuo, ho letto, ma
il design no.
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FUMETTO
mangono sulla tavola. La fase del passaggio a china, ad esempio, è un momento
che adoro e non vorrei privarmene.
Si ottengono risultati molto differenti disegnando in modo “tradizionale” o a
computer e penso si debbano usare i due
metodi così, per ricercare mondi diversi,
non escludendone uno in favore dell’altro.
Strip e graphic novel… per “consuetudine” la prima pare strumento ideale
per l’umorismo, la seconda per storie
di maggior spessore. E così è anche nel
tuo caso. Il contrario è possibile? Si può,
una copertina. Alla fine è stata scelta proprio per la sua forza, per i colori. C’era
un’altra copertina in lizza, più narrativa,
ma questa era emotivamente più forte.
Avevo letto in una precedente intervista
che ami disegnare su carta. È sempre vero
o sei poi passata alla tavoletta grafica?
Qual è il tuo modo di procedere?
Uso la tavoletta grafica per pochissime
cose, più estemporanee, e per colorare
a computer, ma mi piace immensamente di più disegnare su carta.
Amo l’attrito del pennino, del pennello,
della matita sulla carta, gli odori, i tempi e gli imprevisti, le imperfezioni che ri-
soprattutto, far emozionare in poche
vignette, o il dolore ha bisogno di
tempi più lunghi?
La differenza sta soprattutto nella scelta del modo di raccontare, dal tono, ma
se la satira è considerata ovunque, in tutto il mondo, pericolosa e scatena minori o maggiori reazioni di fastidio da parte di chi gestisce il potere, il motivo è proprio perché riesce a dire in maniera molto semplice e diretta ciò che filosofi, letterati, politici, etc., teorizzano in modo
più profondo e sofisticato. Il concetto rimane invariato e a volte il potere emotivo ne esce addirittura rafforzato.
Lorena Canottiere
Effettivamente può sembrare in contrasto con il resto del libro.
“Oche” racconta del disagio dei tre giovani protagonisti, di una società che li respinge, che non ha posto per loro. Non
c’è però solo questo, c’è un passaggio di
consapevolezza, c’è il loro riscatto grazie alla scoperta dell’altro e di una propria valenza personale.
Su questa base abbiamo scelto quella copertina. Ha partecipato la redazione intera alla discussione, perché quell’immagine non è convenzionale, come taglio, per
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Il fatto che la striscia susciti una risata non
sta a significare assolutamente che racconti storie allegre: spesso ridiamo amaramente delle nostre vite, le nostre angherie, i nostri difetti e il fatto che la striscia le riesca
a raccontare in maniera ridicola, ironica,
non vuol affatto dire che non ci racconti
un dolore. Ha un linguaggio irriverente e
spesso per questo riesce ad essere più saggia ed arguta di un “opera drammatica”
come ad esempio, riferendomi alla tua domanda, di una graphic novel.
Sempre a proposito di strip, in particolare legate al mondo dell’infanzia, si potrebbe dire che a volte sono vere e proprie maestre di vita. “Ogni volta che sento gli adulti parlare di cose inutili mi spavento”. Questa è una frase presa da Oche, ma la raccolgo per farti una domanda su Ça pousse. I bambini possono far riflettere di più?
“Ça pousse” è un progetto nato per puro
divertimento personale. Ho iniziato ridendo per ciò che dicevano mio figlio e i suoi
amici e poi mi sono resa conto che c’era
molto di più di una risata.
I bambini descrivono il mondo, i nostri atteggiamenti, le abitudini, le convinzioni degli adulti in maniera arguta, saggia, dissacrante, senza tabù né compromessi. In questo modo ci portano a riflettere su cose
che, da adulti, diamo per scontate, vere e
irrefutabili, ma che non hanno nessun
buon motivo per essere ritenute tali.
Per questo motivo ho iniziato a disegnarle sotto forma di strisce, che prima hanno trovato posto sul blog omonimo e che
sono approdate poi alla rivista ANIMAls
e infine sono state raccolte in un libro
(“Marmocchi”) che esce contemporaneamente in Italia, Spagna e Francia.
Proprio a proposito dell’iter dal blog a
“Marmocchi”: quali differenze ci possono
essere fra la lettura online, di un blog, nello specifico, e quella su carta?
La differenza grande tra pubblicare on line
su un blog o su carta è il contatto diretto
con i lettori. Attraverso il blog si può dialogare con i lettori attraverso i commenti ai post; scambiare pareri più approfonditi tramite mail (tante strisce mi sono state raccontate così, dai lettori di “ça pousse”). È possibile anche consigliare il link
di siti amici, che ampliano conoscenze e
arricchiscono lo scambio con il pubblico;
ci sono i collegamenti diretti con i siti, o
i profili dei lettori che seguono il blog... Ciascun blog è una finestra, un contenitore
che ci permette di passare da un sito all’altro, da un racconto all’altro dandoci la
possibilità di costruire un mondo nostro,
più vasto, più completo. Il difetto della lettura on line è la possibilità di perdersi.
Il libro su carta, viceversa, ci assicura una
concentrazione assoluta su ciò che si sta
leggendo, ci permette di calarci nella maniera più profonda possibile nel mondo di
chi racconta: ciascun libro (su carta) racconta una vita, un’avventura.
Pro e contro.
Il blog fa sentire meno soli gli autori, c’è
un riscontro facile col pubblico, mentre
quando si pubblica un libro su carta, se
non si incontrano i lettori alle presentazioni o lo si vede recensito, si ha la sensazione (e la paura) che nessuno lo abbia letto.
Il libro su carta regala altri due aspetti per
me fondamentali: il contatto fisico e il fatto che ti possa seguire ovunque. Un libro
di carta lo si può leggere su una spiaggia
deserta, in mezzo al bosco, pigiati nel caos
dei mezzi pubblici, in coda in posta e di
straforo ad un convegno noioso. Ti segue
dappertutto e la sua lucina luminosa, da
uscita d’emergenza, non si scarica maiEXIT - e sei da un’altra parte.
Per concludere:
Cosa consiglieresti oggi a una donna che
volesse intraprendere questa carriera?
A chi volesse cominciare a fare fumetti,
uomo o donna (non è un ambiente sessista per cui lascerei da parte le distinzioni di genere, sperando di non doverle mai
usare) consiglio di essere curiosi, di cibarsi di libri, cinema, teatro, mostre, ma anche del quotidiano che ci circonda, di essere coraggiosi e di mettere avanti ad ogni
cosa il piacere del proprio lavoro; di
ascoltare le proprie urgenze narrative e di
divertirsi a realizzarle; e di prepararsi a
“studiare” tutta la vita, perché fare fumetti vuol dire ricercare sempre ed evolversi
di conseguenza.
Tutte le immagini sono © Lorena Canottiere e Coconino Press per l’edizione italiana.
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IL PERSONAGGIO
di Francesca Camponero
Rincontrare un compagno di classe del liceo dopo trent’anni fa sempre piacere e ancora di più quando la vita gli ha riservato le soddisfazioni sperate dopo un percorso di studio fatto di passione. Mi riferisco a Giuliano Doria, direttore dal primo ottobre 2011 del Museo Civico di Storia Naturale “Giacomo Doria” di Genova. Un museo che nella sede attuale di Via Brigata Liguria compie 100 anni e che il neo direttore ama e a cui il 20 ottobre appena passato ha deciso di dedicare una giornata di festeggiamenti.
Un museo che ha un storia importante e che peraltro nasce da un tuo
antenato…
Il museo nacque a Genova nel 1867 su proposta di Giacomo Doria e la
prima sede fu a Villetta di Negro nell’area dove oggi si trova il Museo
d’Arte orientale “Edoardo Chiossone”. In seguito a numerosi viaggi di
naturalisti in ogni parte del mondo che negli ultimi 30 anni dell’800
fino ai primi del 900 fecero affluire una notevolissima quantità di reperti, si venne a creare la necessità di trovare una location più grande
in una zona spaziosa. Così su progetto dell’Ing. Cordoni, lo stesso progettista della stazione Brignole, nel 1905 iniziarono i lavori di una costruzione più grande, quella attuale, che venne inaugurata il 17 ottobre 1912, appunto cent’anni fa; va messo in evidenza che l’edificio venne costruito dal Comune di Genova quindi con fondi pubblici.
Giuliano Doria
INTERVISTA A GIULIANO DORIA
DIRETTORE DEL MUSEO
DI STORIA NATURALE DI GENOVA
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Giuliano Doria
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IL PERSONAGGIO
Cosa significa per te questo centenario
e cosa si è svolto in questa giornata di
festeggiamenti?
Io lavoro presso il museo dal 1987,
pertanto si può dire abbia passato un significativo periodo della mia vita tra queste mura e con il prezioso materiale che
vi viene conservato; festeggiare i cent’anni del palazzo è un onore e un piacere
che ho voluto condividere con la cittadinanza, per questo coi miei collaboratori, e con la sponsorizzazione di Iren e
Coop Liguria, abbiamo studiato una serie di eventi che potessero essere interessanti per tutte le fasce di età. Dalle 15
alle 18 l’ingresso è stato gratuito per tutti e in anfiteatro sono state proiettate una
serie di fotografie d’epoca che illustrano le varie fasi di costruzione del palazzo; dopo gli interventi di Carla Sibilla, Assessore Cultura e Turismo del Comune
di Genova, e di Laura Malfatto, Dirigente del Settore Musei, il pubblico ha potuto ascoltare le testimonianza di Lilia
Capocaccia, Gianna Arbocco e Roberto
Poggi già direttori del Museo e oggi conservatori onorari; gli interventi si sono
chiusi con i rappresentanti delle Associazioni che da anni collaborano con il museo per le attività di promozione della
cultura scientifica e per le iniziative rivolte al mondo della scuola e alle famiglie: la Società degli Amici del Museo, Pro
Natura Genova e l’Associazione Didattica Museale; un saluto è stato portato dal
rappresentante della Società Entomologica Italiana che ha sede legale in Museo.
Per i bambini a metà pomeriggio nella
sala di Paleontologia è stata offerta una
merenda. Tornati in anfiteatro i bambini e gli adulti hanno anche potuto godere di uno spettacolo con canzoni tratte dalle colonne sonore dei cartoon.
Al di là di questa festa quali sono le tue
idee per dare una nuova immagine al museo?
Sinceramente, pur consapevole di non essere all’altezza, vorrei continuare l’attività da sempre portata avanti da chi ha
guidato il Museo: incrementare, conservare e studiare il ricchissimo patrimonio
scientifico e contemporaneamente svolgere un’importante opera di divulgazio-
ne della storia naturale. Sin dal 1867 infatti questo museo ha fatto politica di rinnovamento, tanto è vero che poi si è arrivati a questa nuova struttura più grande, dove le sale espositive sono state più
volte ristrutturate. Il nostro pubblico qui
ha la possibilità di vedere 6.000 esemplari esposti, e dietro le quinte, nelle collezioni di studio rivolte agli addetti ai lavori abbiamo altri 4.500.000 esemplari.
Oltre l’esposizione permanente, sono tante le iniziative rivolte al pubblico: mostre
temporanee, mediamente due l’anno
che non è poco, convegni, proiezioni, cicli di conferenze e proposte legate ad
eventi culturali come quello del Festival
della Scienza, che porta mostre e laboratori all’interno delle nostre sale. Tantissime sono poi le attività didattiche per
scuole e famiglie in collaborazione con
l’Associazione Didattica Museale. Un
grosso impegno è quello di informare
bene i cittadini e i turisti di questa
grande risorsa culturale.
Cosa ti interesserebbe di più portare nel
museo e che magari farebbe affluire più
pubblico all’interno?
Francamente noi non abbiamo nulla da
invidiare agli altri musei europei. La nostra esposizione è notevole, gli esemplari sono preparati molto bene ed abbiamo avuto encomi da parte di studiosi
per esempio americani, australiani,
norvegesi che sono venuti qui per esaminare le collezioni. Se parliamo di desideri o sogni i miei sono questi: avere
più personale sia scientifico che tecnico, poter riallestire alcune sale espositive e riuscire ad avere un impianto di
illuminazione generale a led, col quale
ottimizzare i costi, installando magari
anche un sensore che accenda e spenga automaticamente la luce a seconda
della presenza del pubblico nelle varie
sale. In fondo non mi sembra sia molto, ma i soldi al momento si sa sono
quelli che sono, vedremo…”.
Insomma Giuliano Doria sembra avere le
idee chiare, guardare avanti con le tecnologie di oggi, ma attenzione, salvaguardare assolutamente il passato che è la nostra storia e ricchezza vera.
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C U LT U R A E D I N T O R N I
di Fiorangela Di Matteo
Quando si è sul lastrico c’è poco da programmare: bisogna sopravvivere. Senza aspettative, si tratta di sopravvivenza o di declino irreversibile mal camuffato? Oggi è tempo di fare dei programmi; “come?”,”
così presto?” Nel bel mezzo del caos? Ebbene è questo il momento giusto. I programmi ci aiuteranno a scandire delle tappe per la risalita.
Programmi semplici, complessi, revisione dei compiti, realizzazione
delle aspettative: tutte cose ottime, nella teoria, ma nella pratica? Un
programma senza possibilità di spesa è un fallimento già in partenza. Come realizzare, allora, cose per le quali non ci sono soldi, o che
si sa che non saranno finanziati? Semplice: si cambia. Bisogna cambiare modo di pensare; cioè pensare per costruire e non per sopravvivere o, peggio, per aggiustare.
È l’approccio al programma che deve cambiare: oggi, in periodo di stasi, si ha il tempo per pensare alla cosa da affrontare nella sua completezza. Chi di noi, da ragazzo, ha letto Conan Doyle, ricorda libri dove
era chiaro l’elogio del ragionamento, il suo trionfo. Eppure il segreto
di una buona riuscita è proprio nell’ovvio e sta nell’affrontare i programmi. Holmes diceva più o meno: “Bisogna osservare, concatenare
e dedurre: semplice”. Oggi ci troviamo ad affrontare il futuro allo stes-
Cortona (AR) Porta Bifora – Maec città di Cortona
In tempo di crisi
IN TEMPO DI CRISI
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In tempo di crisi
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C U LT U R A E D I N T O R N I
so modo? Guardiamo? Analizziamo? E,
soprattutto, deduciamo? La storia ci
può aiutare, si può analizzare il lavoro
alla luce delle fonti (buona parte degli archivi descrivono, alle volte al dettaglio,
ciò che noi chiamiamo “scoperta”) con le
giuste differenze dovute al progresso; la
telematica e la globalizzazione faranno
la differenza. Una volta terminata l’osservazione e l’analisi, si potrà passare alla
redazione del programma. Anche l’approccio globale e omnicomprensivo aiuterà nel fare la differenza. Infatti sarà utile ad affrontare e risolvere le problematiche esistenti (prima, al momento della deflagrazione si analizzava quel singolo aspetto avulso dal contesto si aggiustava, come si può, ed infine si aspettava il prossimo guasto).
Così facendo si è arrivati ai crolli di Pompei. Proprio Pompei ci insegna, e molto,
come succede anche quando si costruisce
una nuova strada, o le fondamenta di un
edificio, o ancora un tratto di metropolitana: ci si imbatte in reperti archeologici
e si fermano i lavori, una, due, …. dieci riunioni, ci si interroga se sia il caso di coinvolgere un determinato ufficio, gli archeologi, gli studiosi, i geologi, alla fine manca sempre qualcuno e, nel momento di definire una decisione, non ci si cura se tutti si sono espressi. Ed i lavori ripartono.
Dopo un tot di tempo si trova ….. una fal-
da creduta secca e si ripete il copione già
espresso.
In tempo di crisi si ha il tempo di chiamare intorno al tavolo di progettazione
tutti gli attori che concorrono al lavoro
in preparazione, si possono esaminare
con calma tutti gli aspetti dei problemi
del suolo, del sottosuolo, della qualità
dell’aria etc. Si ha pure il tempo di redigere uno scadenziario di interventi, di fissare gli step, i monitoraggi, i collaudi ed
infine il tempo per valutare il realizzato. Sembra così ovvio! Ma se è così banale perché non si fa? O perché non si fa
più? Chissà? Secondo me è solo perché
la qualità dei nostri amministratori è bassa, e, di conseguenza, nessuno di loro ha
voglia di scontrarsi con i propri capi ansioso come è di non apparire né di prendere iniziative personali o, peggio ancora, assumersi responsabilità.
In ogni caso è questo il momento giusto per
invertire il senso di marcia, complice la mancanza di fondi, quei pochi soldi che si possono utilizzare si devono spendere con oculatezza e ... se non sapremo cogliere al volo
il momento propizio per “costruire” mai saremmo in grado di risorgere. Questa volta,
invocare la creatività non solo sarà inutile,
c’è il rischio che sia anche dannoso; troppe volte abbiamo assistito alle manovre dei
creativi della finanza e, onestamente, sarebbe meglio evitare altri tentativi.
GenovARTE 5^ Biennale d’Arte Contemporanea
Genova Palazzo Stella, 15 giugno – 6 luglio 2013
Genova, vivo coacervo di arti, culture e tradizioni, è da sempre palcoscenico ideale per numerosi eventi a carattere culturale e sociale, come hanno dimostrato gli anni passati. Un fermento
dinamico volto alla valorizzazione del patrimonio artistico che questa città offre: il suo cuore
pulsante di vicoli, gli splendidi palazzi, il Porto Antico, il Polo Museale di via Garibaldi e molto
altro ancora. Una città fiera della sua storia e delle sue potenzialità come ha saputo dimostrare
nel 2004, quando è stata la capitale europea della Cultura. Arte e cultura, quindi, espresse in
un’unica città che porta con sé l’epoca medievale, barocca, rinascimentale sino ad arrivare alla
contemporaneità di un’architettura moderna, che porta la firma di Renzo Piano. Genova è pertanto simbolo di una storia dell’arte sempre in divenire, capace inoltre di inserirsi in un contesto europeo vasto, con lo scopo di valorizzare le risorse presenti e di creare nuovi processi di
crescita e di sviluppo interculturale. SATURA sente concretamente questo processo di sviluppo
artistico e per tale motivo promuove la V Biennale d’Arte Contemporanea GenovARTE 2013. Il concorso patrocinato da Istituzioni pubbliche e private vuole essere un momento di riflessione e di
confronto tra artisti, critici e pubblico interessato ai fatti culturali; un appuntamento per allacciare nuovi contatti nel comune interesse per l’arte.
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IL BORGO
di Wanda Castelnuovo
Una sorpresa che spunta come una gemma preziosissima da un forziere dimenticato, così si può definire la scoperta del delizioso borgo di Torre di Palme, frazione del Comune di Fermo (Ascoli Piceno),
abbarbicato a circa 120 m. s.l.m. su uno sperone di tufo scosceso su
tre lati: un balcone da cui si contempla da una parte la vastità marina di un lungo tratto dell’Adriatico e dall’altra tutto il territorio fino
al monte Conero che domina maestoso ed elegante questo tratto marchigiano. Così in tanto fiorire di cemento contemporaneo e nella dimenticanza di questo borgo - la cui bellezza può forse intimorire chi
non comprende che più chicche si propongono al turista più se ne trae
un vantaggio generale - pare di avere trovato un ‘presepe’ scaturito da
un passato coperto di oblio con testimonianze e ricordi di straordinario fascino.
Il piccolo nucleo medievale caratterizzato da viuzze ed edifici antichi
che portano i segni dello scorrere della storia affonda le proprie radici forse nel VI-IV secolo a.C. come confermerebbero ritrovamenti archeologici avvenuti durante il XX secolo.
Il territorio diviene poi ager palmensis - zona costiera tra i fiumi Tesino e Chienti - fino al Medio Evo quando Palma (questo l’antico nome
del vecchio insediamento - forse ascrivibile a palma-ae riferito al pampino della vite essendo la città picena nota per la produzione di un
vino pregiatissimo - situato però a sud est dell’attuale e citato nella
“Tavola Peuntingeriana” del III secolo d.C. destinata a uso militare) fondendosi con Turris del Castello dà origine all’odierna Torre di Palme.
Questa per secoli nell’area di influenza di Fermo, ma autonoma amministrativamente per molto tempo, dal 1877 le si unisce “volontariamente” (così recitano i documenti): la popolazione oggi rispetto a tale
Piazza Risorgimento con la Fontanina (1910). Sul fondo Panorama di Porto San Giorgio
Torre di Palme
UN PRESEPE DA SCOPRIRE
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Torre di Palme
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IL BORGO
data è diminuita considerevolmente e
sono scomparsi i servizi caratteristici di
un comune autonomo.
La particolare dovizia e la fastosa eleganza degli edifici pubblici, privati e religiosi testimoniano il ruolo e il fascino di questo luogo nei secoli prediletto e scelto anche perché dotato di autonomia idrica grazie a pozzi e cisterne di cui ne restano tuttora alcuni - da famiglie più che
abbienti in grado di invitare famosi
maestri d’arte per abbellirlo.
La sua importanza è testimoniata da citazioni illustri come quelle di Varrone,
che nel suo De re rustica parla dell’ager
palmensis, di Palma e in particolare
della ‘vite palmense’, di Strabone, Columella e Plinio il Vecchio.
Nel Medio Evo non mancano riferimenti al nuovo borgo che si sviluppa in una
posizione strategica.
Importante già per l’antica Palma (i Palmensi erano considerati ab antiquo abili costruttori di navi) è il suo Navale - porto forse alla foce dell’attuale Fosso Cugnòlo - rilevante in ogni epoca poiché permetteva
un veloce e sicuro trasporto di persone e
merci in particolare nel XV e XVI secolo.
Inserito nella cerchia dei Castelli Fermani (marini, di mezzo e montani a seconda dell’ubicazione), Torre di Palme ha un
impianto urbanistico ellissoidale con
asse est-ovest circondato da mura e con
porte ‘da Sole’ o ‘da Bora’: a proposito di
quest’ultima testimonianze anche del
XIX secolo dimostrano che era collocata
a nord ovest.
Il borgo deve la sua conformazione attuale a quando nel Medio Evo, per proteggere lo scalo marittimo della città romana da incursioni piratesche, sorge un
solido castello con un saldo sistema difensivo. Nell’VIII/IX secolo gli Eremitani
di S. Agostino (riuniti nel XIII secolo nell’unica Regola Agostiniana) collaborano
alla costruzione del nucleo più antico che
man mano viene abitato fino a diventare popoloso lasciando ricordi e testimonianze da scoprire.
I momenti migliori per visitare Torre di
Palme e respirarne lo spirito antico che
vi aleggia sono quelli in cui non è molto frequentato come in estate quando
Chiesa di Santa Maria a mare con torre campanaria
del sec. XIV (Piazza Amedeo Lattanzi)
l’aria un po’ troppo ‘caciarona’ di alcuni vacanzieri rischia di incrinare la magia che vi spira.
All’ingresso del paesetto si possono lasciare i propri veicoli in un ampio parcheggio
per poi esplorare gli angoli più suggestivi con l’ausilio del cavallo di S. Antonio.
Imboccata Via Piave che taglia il borgo
da ovest a est, non si vede anima viva
come se si trattasse di un luogo abbandonato, ma le narici accarezzate da deliziosi profumi provenienti da una cucina conducono a una porta aperta. Una
simpatica cuoca dal phisique du rôle accoglie ospitale insieme a chi gestisce il
Ristorante ‘Lu Focaro’ e, mentre - seduti su una piazzetta con un panorama
mozzafiato - si gusta un ottimo caffè accompagnato da deliziosi biscottini fatti in casa, si ricevono anche indicazioni
per scovare i segreti del luogo.
Lungo la via centrale fanno mostra di sé
alcune belle dimore e lo sguardo corre
ammirato ed estatico verso deliziosi
scorci con passaggi medievali (alcuni con
copertura a botte) e strette viuzze (dai
nomi più disparati) le cui abitazioni
con le facciate in cotto sono adornate da
vasi fioriti, in fondo si stagliano scorci
di mare o di verdi colline. È evidente che
è stata compiuta un’intelligente azione
conservativa del borgo.
Si viene colti da una sorta di frenesia che
porta a scendere e salire gradini con vi-
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IL BORGO
Piazzale della Rocca (ingresso del paese)
splendenti colori smaltati, resi ancora più
intensi dall’oro dello sfondo. L’altare
maggiore è un antico sarcofago non facente parte dell’edificio originale.
Più avanti lungo il corso la Chiesa di Santa Maria a Mare (del XII secolo con modifiche successive) in conci di pietra e cotto seduce per il decoro del campanile con
archetti intrecciati, per i bacini maiolicati su una parete e per l’interno a tre navate con presbiterio sopraelevato e affreschi bizantineggianti del XIV secolo.
Sulla sinistra della chiesa, in un giardinetto, si trova una vera da pozzo in pietra dalmata, adibita un tempo a Battistero.
Di fronte sorge il romanico Oratorio di
San Rocco del XII secolo, il cui portale cinquecentesco presenta l’arma di Torre di
Palme e quella di San Giovanni in Laterano poiché all’epoca questa chiesaoratorio era sotto il patrocinio dei Canonici Lateranensi.
Ecco finalmente il Piazzale Belvedere
(Piazza Amedeo Lattanzi), luogo privilegiato dal quale si gode di un panorama
eccezionale sulla costa e sul mare: non
solo i turisti vi convergono curiosi, ma
gli stessi abitanti lo utilizzano come luogo di ritrovo.
E dopo la spina centrale non si può non percorrere ciò che resta del Cammino di
ronda, antico sistema difensivo rimasto
purtroppo visibile solo a tratti. Da qui si può
vedere che il borgo è circondato dalla fitta vegetazione del Boschetto di Cugnolo (a
forma di cugno, cuneo), area floristica protetta, interessante perché conserva tipiche
specie della macchia mediterranea.
La zona è una meta affascinate anche grazie alla suggestiva Grotta degli Amanti,
teatro del tragico amore di Antonio e Laurina, due innamorati che nel 1911 pongono termine alla loro vita gettandosi nel
vuoto dal Fosso di San Filippo.
La quiete e il senso di pace che partendo
si porta come bagaglio induce a pensare
di ritornare sperando di trovare un inverno come quello dello scorso anno quando la neve ha fatto la sua comparsa rendendo ovattata la magica atmosfera che
si respira nel piccolo e delizioso borgo.
Torre di Palme
talità entusiasta finché ubriachi di suggestioni ci si ritrova di fronte alla Chiesa di San Giovanni - in conci di pietra e
archetti pensili - nel cui interno si trovano affreschi del secolo XV e che, originaria dell’X/XI secolo, conserva il fascino
di una religiosità antica.
Il Palazzetto dei Priori (Palazzo Priorale)
del XII/XIV secolo porta i segni di numerose modifiche come dimostrano nella facciata due bifore e un arco a tutto sesto di
un’ampia loggia ivi murati e all’interno tracce di affreschi. Il campaniletto a vela, l’orologio civico a sinistra e una meridiana a destra rendono elegante l’insieme.
Proseguendo, ci si trova di fronte all’affascinante Chiesa di Sant’Agostino (XV secolo) con annesso convento: in stile romanico-gotico con il tipico cotto rosso, presenta la facciata a capanna resa più preziosa da un bel portale gotico e da un rosone. Ricca nel passato di affreschi andati distrutti per l’uso della ‘calce viva’ quale disinfettante, conserva un San Nicola
che tiene nella destra un volto di cherubino con i raggi e nella sinistra la Regola. Vi si possono ammirare anche una tavola di Vincenzo Pagani (terza decade del
XVI secolo) e un imponente polittico di Vittore Crivelli (trafugato nel 1972 e poi recuperato salvo tre scomparti della predella), nobilitato dalla cornice originale in legno intagliato e caratterizzato dagli
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Giovanni Allevi al Carlo Felice
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IL CONCEERTO
LA PRIMA MONDIALE
DI GIOVANNI ALLEVI
AL CARLO FELICE
Francesca Camponero
Se al Carlo Felice deve affluire pubblico che salga pure Allevi sul palco
del nostro teatro, se però si deve giudicare quanto quel palco sia idoneo alla sua musica salgono spontanee molte obiezioni. Certo dal numero di persone che occupavano platea, palchi e galleria lo scorso 14
novembre, si direbbe che il maestro sia stimatissimo e apprezzatissimo davvero da tutti, ma non è proprio così. Chi conosce a fondo la
musica classica non può lasciarsi ingannare da quanto si è sentito la
sera di questa prima mondiale, un nuovo progetto, un’ennesima sfida
del musicista per farsi ancora più apprezzare dai suoi fans. E sono
stati proprio i suoi fans ad essere i protagonisti della serata che li ha
visti riversare in massa nelle prime file della platea per applaudire il
loro beniamino anche quando non era dovuto come ai cambi dei movimenti del concerto. Tutti provvisti di una sciarpa arancione intorno
al collo si alzavano continuamente in piedi acclamando l’artista con
un atteggiamento più da stadio che da teatro lirico. Ma veniamo al
concerto. Giovanni Allevi non ce la faceva proprio più a stare dentro
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IL CONCERTO
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Giovanni Allevi al Carlo Felice
le sue fantasie al pianoforte e inebriato
dalla sua fama probabilmente ha sentito l’esigenza di spingersi più in là cimentandosi in un concerto per violino e
orchestra in Fa minore denominato ”La
danza della strega”. Un concerto in tre
tempi, mosso, adagio e allegro con slancio che a fatica teneva attento il pubblico. In termine gastronomico si
potrebbe definire il concerto in un ratatouille di stili in cui sembra di riconoscere qualche nota romantica di
Rachmaninov assieme a qualche incongruenza dinamica paganiniana mischiata a melodie di nuevo tango di
Piazzolla, ma lo stile di Allevi dov’è?
Qual è? Ma soprattutto esiste? Il concerto che parte con un assolo di violino
non trova adeguata risposta nell’orchestra che si riduce a fare da semplice accompagnamento al solista. Non c’è
sinfonia, non c’è melodia, diciamocelo
chiaro, non c’è nulla, se non la straordinaria bravura di Mariusz Patyra, vincitore del Premio Paganini 2001. Patyra
con le sue capacità virtuose riesce a rendere bello anche quello che non lo è, impreziosendo una partitura povera a
tutti gli effetti. Ma se il primo tempo
dello spettacolo aveva il virtuoso violinista polacco, il secondo prevedeva una
fantasia concertante per pianoforte e
orchestra con Allevi alla tastiera, e allora si è andati di male in peggio. Cinque i brani della fantasia, Sunrise (che
dà il nome al nuovo album), Mandela,
Symphony of life, Elevazion, Heart of
snow in cui si è riscontrato l’Allevi di
sempre, quello abile a fare musica da
spot pubblicitari e, quando va meglio,
da colonna sonora da film. Anche in
questo caso le frasi orchestrate altro
non erano che un supporto alla melodia del piano confermando l’incapacità
dello sviluppo musicale. Grandi applausi alla fine e tre bis concessi dal
maestro che per fortuna ha fatto anche
rientrare Patyra che ha rifatto un assolo
del concerto per violino. Fans in delirio
e fiori lanciati come se al posto del riccioluto Allevi sul palco ci fosse Maria
Callas, e allora anche se dovremmo dire
in ogni caso “meno male che Allevi fa
affluire la gente nei teatri lirici!” resta
l’amarezza di considerare che anche il
valore della musica (arte sublime) ad
oggi viene determinato solo da quanto
è pubblicizzato.
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
ANDANDO PER MOSTRE
ARTE POVERA, IL GRANDE RISVEGLIO
Basilea, adagiata lungo il placido e potente
fiume Reno - che la divide in due
(Grossbasel, Grande Basilea più antica,
sulla riva sinistra e Kleinbasel, Piccola
Basilea sulla destra) e ha visto Celti,
Romani, Principi-Vescovi, Riforma
Protestante, Erasmo da Rotterdam e…
l’industria farmaceutica - non finisce di
stupire per la sua apertura internazionale
all’arte con un’interessante mostra
dedicata all’Arte Povera.
Si tratta di un movimento artistico
rivoluzionario - il cui nome si deve al titolo
di un’omonima mostra curata nel 1967 a
Genova da Germano Celant che ne parlò
anche in un articolo successivo di qualche
mese - nato in Italia verso la fine degli anni
’60 e durato fino agli inizi degli anni ’90
con artisti che, utilizzando materiali poveri
e mezzi semplici come terra, vetro, legno,
rami, neon luminosi o cera, hanno prodotto
quadri, disegni, sculture, arazzi, fotografie,
installazioni e performance.
Al Kunstmuseum è esposto un centinaio di
opere provenienti dalla collezione
Sammlung Goetz di Monaco di Baviera, una
tra le più cospicue e famose al mondo di
arte contemporanea iniziata negli anni ‘70
- in un’epoca di cultura ‘appisolata’ - dalla
tedesca Ingvild Goetz affascinata dallo
spirito innovatore di questo movimento
aperto al nuovo e ‘metafora di libertà’.
Tra gli altri si possono ammirare artisti
quali Alighiero Boetti (1940-1994) con
l’ormai famosissima Mappa, Luciano Fabro
(1936) con L’Italia d’oro, stupefacente
metafora del 1971 di una penisola in cui i
valori si sono degenerati e modificati a tal
punto da farla apparire appesa al contrario,
Jannis Kounellis (1936) con Senza titolo libertà o morte. W Marat W Robespierre,
Mario Merz (1925-2003) con il notissimo
di Wanda Castelnuovo
Igloo e le eleganti Lance e Michelangelo
Pistoletto (1933) con Donna sdraiata e
L’Etrusco, calco in gesso di un’antica
statua, allo specchio, Giovanni Anselmo
(1934) con la divertente Torsione e il bravo
Giuseppe Penone (1947), maestro nel
trattare il legno, con Albero di 230 cm.
_ ARTE POVERA Il grande Risveglio
Basilea: Kunstmuseum, St. Alban-Graben 16
10.00 – 18.00 da martedì a domenica
lunedì chiuso
Biglietto mostra: intero Fr. 21.00, ridotto Fr.
16.00, ridotto scuole Fr. 8.00
Fino al 3 febbraio 2013
Informazioni: 0041 (0)61 2066262,
www.kunstmuseumbasel.ch
Catalogo: Hatje Cantz Editore
BAGLIORI DORATI
GOTICO INTERNAZIONALE A FIRENZE
1375-1440
Per evidenziare la straordinaria stagione di
transizione politico-culturale fiorentina che
va dal 1375 al 1440 - periodo in cui i
Medici gettano le basi del loro potere - e
vede il passaggio dal Gotico Internazionale
al primo Rinascimento fiorentino (lo si fa
risalire alla data simbolica del 1401
quando i migliori orafi-scultori dell’epoca
concorrono ciascuno con una formella alle
‘porte bronzee del Battistero’) una mirabile
e ricchissima mostra affianca opere
conosciute e famose ad altre
pregevolissime provenienti da ogni parte
del globo.
Vengono presentati dipinti, sculture lignee
e marmoree, codici miniati e lavori d’arte
sacra e profana a cominciare da fine ‘300
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ANDANDO PER MOSTRE
LA RACCOLTA EUGENIO BALZAN A
BELLINZONA 1944/2012
Deliziose la mostra e Bellinzona, la città
che la ospita, degne di trascorrervi un
momento di relax per ritemprarsi
dall’odierno ritmo convulso godendovi
serenità e bellezza.
Quella stessa pace che Eugenio Balzan
(Badia Polesine/RO 1874 - Lugano 1953)
trova in Svizzera dove si ritira nel 1933
dopo reiterati attacchi da parte di fascisti
incuranti della sua funzione di mediatore,
pur nella difesa dell’indipendenza del
“Corriere della Sera”, tra i fratelli Abertini
proprietari estromessi dal regime e i
Crespi, nuovi padroni.
Dopo studi irregolari, Balzan scopre la sua
vocazione al giornalismo e entrato al
Corriere come correttore di bozze compie
una fulgida carriera giornalistica finché ormai inserito nella Milano intellettuale
dell’epoca - nel 1903 gli è affidata la
gestione della società editrice del
quotidiano cui dà un notevole impulso e
del quale diverrà anche comproprietario
con una piccola partecipazione azionaria.
In quegli anni inizia a collezionare opere
qualitativamente ottime di cui in mostra se
ne possono ammirare una quarantina con
tematiche sul paesaggio e sulla pittura di
genere, riproposta dell’esposizione
itinerante del 1944 - allora connotata da
una chiara valenza politica - iniziata al
Kunsthaus di Zurigo, continuata al Palazzo
Comunale di Bellinzona e poi al
Kunstmuseum di Berna.
Tutte chicche della produzione artistica
italiana a cavallo tra XIX e XX secolo come il
raffinato Ritratto muliebre di Achille
Beltrame (autore dei disegni della
“Domenica del Corriere”), La sultana che
torna dal bagno capolavoro di Domenico
Morelli, il palpitante Paesaggio in laguna di
Eugenio Gignous, la sognante e dolcissima
Fanciulla sulla roccia a Sorrento di Filippo
Palizzi, La mia rossa vibrante di vita e di
fresca giovinezza uscita dal pennello di
Andando per mostre
con artisti quali Agnolo Gaddi, Spinello
Aretino, Antonio Veneziano, Gherardo
Starnina e Lorenzo Monaco.
Seguono numerosi autori di ottimo livello a cavallo tra tradizione e innovazioni,
dettate dalla cultura umanistica che porta
in auge l’antico - insieme a Lorenzo
Ghiberti, personaggio emblematico del
tardo gotico fiorentino, nel cui cantiere per
la ‘prima porta del Battistero’ si sono
formati quasi tutti gli artisti di rilievo attivi
in città.
Spicca Beato Angelico con la sua pittura
soave: insieme a Michelozzo tende a
coniugare il passato con le novità
apportate da Brunelleschi e Masaccio in un
clima in cui continua a trionfare la
tradizione e il nuovo si fa largo a fatica.
Restano prediletti nella mia memoria la
splendida Madonna col Bambino (rivestito
da una tunicella chiusa da fermagli) di
Nanni di Bartolo, il raffinato Ritratto di
giovane (sul cui retro si trova una Fenice
con quattro monogrammi e un cartiglio) di
cui si è molto discussa l’attribuzione e
l’Annunciazione di Giovanni di Francesco
Toscani.
Chiude la mostra come esempio di mirabile
sintesi tra fantasia e rigore matematico la
Battaglia di San Romano di Paolo Uccello,
presentata in anteprima dopo l’intervento
di restauro.
_ BAGLIORI DORATI Gotico Internazionale
a Firenze 1375-1440
Firenze: Galleria degli Uffizi
8.15 – 18.50 da martedì a domenica
lunedì chiuso
La biglietteria chiude 45 minuti prima
Fino a novembre 2012
Biglietto mostra: intero € 11.00, ridotto €
5.50, gratuito per i cittadini dell’U. E. sotto
i 18 e sopra i 65 anni
Informazioni e prenotazioni:
www.unannoadarte.it, tel. 055 294883
Catalogo: Giunti Editore
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
Ettore Tito e l’incandescente Campo di
papaveri di Federico Rossano che
ripropongono la vivacità e i gusti di
un’epoca da riscoprire con il piacere di un
viaggio nel tempo.
_La raccolta Eugenio Balzan a Bellinzona
1944/2012
Bellinzona (CH): Museo Civico Villa dei
Cedri, Piazza San Biagio 9
14.00 – 18.00 martedì-venerdì (fino alle
20.00 il primo giovedì di ogni mese)
11.00 – 18.00 sabato, domenica e festivi
lunedì non festivo chiuso
Fino al 20 gennaio 2013
Biglietto mostra: intero € 6.00 (chf 8),
ridotto € 4.00 (chf 5). Ogni domenica ore
11 visita guidata gratuita compresa nel
biglietto
Informazioni: 0041 (0)91 8218518/20,
www.villacedri.ch, museo@villacedri.ch
Catalogo: Skira Editore
GABRIELLA BENEDINI
‘NON SI RIPOSA IL MARE’
Singolare rapporto con la natura attraverso
materiali che il mare restituisce sulle
spiagge dopo averli sottoposti alla sua
azione di demolizione quello di Gabriella
Benedini.
L’artista, cremonese d’origine e milanese
d’adozione, restituisce nuova vita a
numerosi piccoli e grandi relitti senza
patria e senza padrone - dopo averli scelti
e raccolti con cura sui litorali della Liguria producendo lavori polimaterici che
richiamano i temi del cielo, del viaggio e
della navigazione, elementi di grande
suggestione nell’immaginario degli uomini
in ogni epoca.
I più di cinquanta lavori della serie
“Costellazioni, Arpe e Navigazioni” presenti
in mostra sono articolati nelle nove sale
dello Spazio Oberdan (appartenente alla
provincia di Milano) e comprendono tre
magniloquenti installazioni site-specific
per tale luogo.
Suggestive le due grandiose (più di due
metri ciascuna) Arpe, raffinati gusci
verticali concavi e convessi, bianchi e neri,
che danno il benvenuto a chi visita la
mostra per compiere un viaggio metaforico
insieme all’artista e capire e comprendere
meglio se stessi e gli altri anche
incontrando le divertenti e raffinate
Costellazioni in cui dall’azzurro intenso di
un cielo sereno emergono candide
esistenze che paiono pulsare di luce.
Diversi e disparati i materiali: legni, attrezzi
rotti, pezzi di ferro arrugginito… che
trovano nuova armonia in base ad affinità
elettive intuite dall’artista che diventa
creatrice di vite simboliche.
Nell’installazione Bibliotheca (con una serie
di scaffalature interrotte da false ‘porte’)
trovano posto i libri polimaterici della
Benedini tra cui l’ultimo nel quale la sua
arte visiva dialogando con liriche inedite
della poetessa Maria Luisa Spaziani (dal
titolo Non si riposa il mare) - stampate con
torchio a mano da Enrico Tallone (i libri
delle Edizioni Tallone sono nella saletta
accanto) - converge in una pubblicazione
(130 copie) di notevole originalità.
_Gabriella Benedini Non si riposa il mare
Milano: Spazio Oberdan, Viale Vittorio
Veneto 2
10.00 – 22.00 martedì e giovedì
10.00 – 19.30 mercoledì, venerdì, sabato e
domenica
lunedì chiuso
Fino a novembre 2012
Ingresso libero
Informazioni: 02 7740.6302/6381,
www.provincia.milano.it/cultura
BOLDINI, PREVIATI E DE PISIS
DUE SECOLI DI GRANDE ARTE A FERRARA
Palazzo dei Diamanti di Ferrara presenta
un’affascinante e ampia selezione di
capolavori del Museo Boldini e delle altre
raccolte d’arte moderna e contemporanea
di Palazzo Massari chiuso in seguito al
recente sisma e bisognoso di lavori di
consolidamento.
Invece di giacere dimenticate nei magazzini
dove sono state messe in salvo, le opere
dei più importanti Maestri ferraresi tra
Ottocento e Novecento diventano simbolo
della vitalità e del coraggioso impegno
della città nella ricostruzione.
Non solo Boldini, Previati e De Pisis, ma
anche Mentessi, Minerbi, Melli, Funi oltre a
Gemito, Boccioni, Carrà e Sironi: si auspica
che vengano presentati in altre sedi quale
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ANDANDO PER MOSTRE
a Filippo de Pisis con superbe
testimonianze quale la Strada di Parigi.
Di Giovanni Boldini, figura trainante del
rinnovamento della pittura non solo
italiana della seconda metà dell’Ottocento
e della Belle Époque, emergono splendide
testimonianze di una ritrattistica raffinata e
accattivante come il Ritratto del piccolo
Subercaseaux e quelli femminili quali La
signora in rosa, icona della mostra, e La
Passeggiata al Bois de Boulogne, veri e
propri concentrati della femminilità
imperante fatta di sensualità, inquietudine,
civetteria, grazia e cultura.
Dalla mondanità al sociale testimoniato da
Giuseppe Mentessi in Panem nostrum
quotidianum, più realistico rispetto al
commovente Pacem, alle altre opere degli
artisti esposti, ambasciatori tutti di una
Ferrara più vitale che mai.
_BOLDINI, PREVIATI E DE PISIS. Due secoli
di grande arte a Ferrara
Ferrara: Palazzo dei Diamanti, Corso Ercole
I d’Este, 21
9.00 – 19.00 tutti i giorni festività
comprese
La biglietteria chiude 30 minuti prima
Fino al 13 gennaio 2013
Biglietto mostra: intero € 8.00, ridotto €
6.00, ridotto scuole € 4.00
Informazioni e prenotazioni: tel. 0532
244949, fax 0532 203064,
diamanti@comune.fe.it,
www.palazzodiamanti.it
Catalogo: Ferrara Arte Editore
MAXIM KANTOR VULCANO
Nelle due Gallery della Fondazione Stelline
di Milano suscita un interessante fluire di
emozioni la prima esposizione italiana
esaustiva dell’opera dell’eclettico Maxim
Kantor (Mosca 1957), pittore, incisore e
scrittore (figlio dell’intellettuale e filosofo
Karl Kantor) la cui produzione artistica
figura in importanti Musei e dalla cui fertile
penna sono usciti saggi, opere letterarie,
pièce teatrali e collaborazioni in varie
lingue con importanti periodici.
Nucleo della mostra, realizzata con il
Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, è
il portfolio Vulcanus. Atlas - disegnato nel
2010 con segno rapido e incisivo
caratterizzato da ironia sferzante e severità
di giudizio nei confronti dei protagonisti
della storia del XX secolo e da compassione
verso la gente comune - cui fanno da
cornice una ventina di dipinti
rappresentativi dell’intera (1980-2012)
attività pittorica di Kantor.
Andando per mostre
stimolo a fare riacquistare a Ferrara il
tradizionale ruolo egemone nel panorama
artistico nazionale e internazionale.
Un compendio di storia dell’arte attraverso
un’ottantina tra dipinti, sculture e opere su
carta a cominciare da Giovanni Antonio
Baruffaldi e Giovanni Pagliarini, che
trattano temi religiosi o letterari con taglio
purista, e ancora da Girolamo Domenichini,
Massimiliano Lodi e Gaetano Turchi, i quali
attraverso il ricordo dei fasti estensi
costituiscono stimolo al Risorgimento, fino
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Artista connotato da melanconia e
pessimismo quasi congeniti nell’animo
russo - emblematica la figura solitaria di
Leone Tolstoj, sacerdote di un’antica
spiritualità - si è espresso attraverso
un’ampia produzione che si può dividere in
tre periodi.
Il “periodo rosso” (1980 - fine anni ’90) in
cui i temi trattati con colori gialli, arancioni
e rossi sono quelli di uomini moscoviti che,
pur oppressi da un regime alienante e
intruppati in gruppi o comunità,
conservano bagliori di dolente umanità
come La mia famiglia.
Diverso “Il nuovo impero” (fine anni ’90 2008) quando, dopo il crollo del
comunismo, Kantor può viaggiare
liberamente a Berlino, Londra, Parigi…
colmo di speranze, ma attento a cogliere le
prime avvisaglie di una crisi non solo
economica ed europea.
Nel terzo periodo “Atlantide” (dal 2008 a
oggi) - pur connotato dal raggiungimento
di una certa serenità nella stupenda Ile de
Ré davanti a La Rochelle sulla costa
atlantica - si manifesta la consapevolezza
della fine di un ciclo: Atlantide secondo il
racconto di Platone si inabissa nelle acque.
_MAXIM KANTOR VULCANO
Milano, Fondazione Stelline, Corso Magenta 61
10.00 – 20.00 da martedì a domenica
lunedì chiuso (aperto 7, 8 e 26 dicembre
2012e 1 e 6 gennaio 2013)
Fino al 6 gennaio 2013
Biglietto mostra: intero € 6.00, ridotto €
4.50, ridotto scuole € 3.00
Informazioni: 02 45462411, www.stelline.it
Catalogo: Palace Edition
LA NUOVA FRONTIERA
Coinvolgente modo per celebrare il quinto
centenario della scomparsa a Siviglia di
Amerigo Vespucci da parte della natia
Firenze (1454) quello di dedicare una
mostra a coloro che vivevano nel Nuovo
Mondo prima dell’arrivo di Cristoforo
Colombo e di altri esploratori europei come il cartografo e navigatore fiorentino
che ha avuto il merito di comprendere di
non essere nel continente asiatico, ma in
uno ‘nuovo’ e sconosciuto cui ha dato il
nome - e della colonizzazione del West da
parte dei bianchi.
Il sottotitolo Storia e cultura dei nativi
d’America dalle Collezioni del Gilcrease
Museum di Tulsa (Oklahoma) - uno dei più
ricchi di testimonianze sul Nord America
raccolte dall’omonimo fondatore, petroliere
della Nazione indigena Muscogee della
popolazione dei Creek - spiega come
attraverso i reperti prestati a Firenze si
apra una pagina importante di conoscenza
su popoli spesso raccontati da tanta
filmografia in modo superficiale, quasi una
‘riparazione’ morale per le violenze
perpetrate.
Divisa in due settori - una storica
nell’Andito degli Angiolini e un’altra più
antropologica nella Galleria del Costume la mostra presenta documenti cartografici e
fotografici insieme a ritratti a olio e
fotografie di capi e membri di varie tribù.
Delle diverse Nazioni indigene sono
presenti oggetti d’uso e cerimoniali, capi di
vestiario tra cui i famosi “caschi piumati”,
copricapi di penne da cerimonia e da
battaglia con complessi simboli e segni
distintivi.
Eccezionali i dipinti tra metà ‘800 e primi
‘900 di artisti americani, formatisi in
Europa, che guardano con stupore la
natura incontaminata e le abitudini di
popoli diversi cancellate dall’avanzata
verso Ovest dei nuovi centri urbani e
dell’industrializzazione: splendidi di Joseph
Henri Sharp Tepee dei Crow di sera e
Crucita - Ragazza di Taos e di Olaf Carl
Seltzer Uomo della Medicina e la sua guida
entrambi a cavallo, grande riscoperta di un
animale scomparso da 10.000 anni dal
nord America dove regnavano i bisonti.
_LA NUOVA FRONTIERA
Firenze: Andito degli Angiolini e Galleria
del Costume di Palazzo Pitti
8.15 – 16.30 tutti i giorni salvo il primo e
l’ultimo lunedì del mese
Fino al 9 dicembre 2012
Biglietto mostra: intero € 10.00, ridotto €
5.00, gratuito per i cittadini dell’U. E. sotto
i 18 e sopra i 65 anni. Consente ingresso
anche al Museo degli Argenti, al Giardino di
Boboli e al Giardino Bardini
Informazioni e prenotazioni:
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ANDANDO PER MOSTRE
LA VOCE DELLE IMMAGINI/PAROLES DES
IMAGES/VOICE OF IMAGES
Negli affascinanti ambienti di Palazzo
Grassi - edificio neoclassico costruito nel
‘700 dall’omonima ricca famiglia borghese
e modificato nei secoli secondo il variare
delle mode (anche Gae Aulenti vi ha messo
mano) fino all’ultimo ammodernamento
sobrio e lineare degli interni, operato dal
giapponese Tadao Ando - le immagini in
movimento, che hanno sempre affascinato
François Pinault tanto da essere presenti in
molte mostre da lui promosse, sono
divenute protagoniste di un progetto
interamente dedicato a tale forma di
espressione artistica.
27 artisti provenienti da tutto il mondo
hanno realizzato una trentina di opere tra
film, video e installazioni legati dal fil
rouge di un’analisi intimistica delle attuali
problematiche politico-sociali.
Si tratta di un percorso sensoriale - tra
leggerezza, umorismo, miseria, angoscia e
gravità capaci di indurre diffidenza,
curiosità e desiderio di agire - con opere
dagli anni ’70 da Bill Viola, pioniere
dell’immagine in movimento, a Bruce
Nauman con For Beginners (per la prima
volta esposta in Europa) in cui luce e
musica si alternano a oscurità e silenzio.
Tale Medium estremamente duttile dà
luogo a risultati sorprendenti come quello
di Mircea Cantor (1977 Oradea/Romania)
Vertical Attempt, video semplice ed
essenziale della durata di un secondo, ma
proiettato in loop, quindi ripetitivo: il gesto
del bimbo che taglia con le forbici il getto
d’acqua del rubinetto è simbolo di “un
coraggio folle”, quello di tentare
l’impossibile.
Delizioso di Peter Fischli e David Weiss
(nati entrambi a Zurigo, Weis è scomparso
nel 2012) Hunde in cui i due cani dietro la
rete diventano simboli dell’uomo
prigioniero dei propri desideri e delle
proprie frustrazioni.
Dolorosamente drammatico il video Faezeh
di Shirin Neshat, nata in Iran, ma vissuta
per studio negli Stati Uniti: in un paesaggio
surreale una giovane è tormentata da
dolorosi ricordi ignara di quanto sta per
succederle.
Un’esperienza coinvolgente che vale la
pena provare.
_LA VOCE DELLE IMMAGINI/PAROLES DES
IMAGES/ VOICE OF IMAGES
Venezia: Palazzo Grassi, Campo San
Samuele 3231
10.00 – 19.00 tutti i giorni tranne martedì
La biglietteria chiude un’ora prima
Fino al 13 gennaio 2013
Biglietto mostra: intero € 15.00, ridotto €
10.00
Informazioni: tel. 041 5231680, fax 041
5286218, www.palazzograssi.it
Prenotazioni: tel. 199 139 139 (a
pagamento), www.vivaticket.it
Catalogo: Electa Editore
LE METAMORFOSI DEL VIAGGIATORE
Divertente, simpatica, allegra e stimolante
la mostra che raccoglie una selezione dei
lavori partecipanti al 1° Concorso sul tema
del ‘viaggio’ in tutte le sue sfaccettature e
accezioni promosso dalla Fondazione
Gruppo Credito Valtellinese e
dall’Associazione Illustratori e rivolto a
illustratori, fumettisti e artisti italiani e
stranieri.
Dei 112 autori selezionati dalla giuria presieduta da Stefano Faravelli (1959),
pittore, filosofo, orientalista e notissimo
‘carnettista’ (tanto da avere ricevuto un
premio speciale alla Biennale du Carnet de
voyage di Clermont-Ferrand) presente in
mostra in una Sezione Speciale a lui
dedicata con alcuni interessanti carnet
ispirati ai suoi lunghi viaggi in Africa e in
Oriente - sono stati scelti 123 opere
singole, 18 carnet de voyage e 9 fumetti
contenuti nell’agile catalogo edito da
Carthusia.
Come recita egregiamente il sottotitolo
“Stati mentali, onirici e reali del partire e
del tornare” si tratta di un meraviglioso
vagare tra le sensazioni suscitate dal
viaggiare, felice e rasserenante attività cui
ogni uomo dovrebbe dedicarsi - anche
indirettamente come accaduto a tanti
autori che nei secoli hanno parlato di
fantastici viaggi della mente - per i benefici
Andando per mostre
www.unannoadarte.it, tel. 055 294883
Catalogo: Sillabe Editore
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ANDANDO PER MOSTRE
Andando per mostre
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che procura alla mente e al corpo.
Ecco allora che Federica Bordoni nel suo
girovagare tra realtà e sogno finisce con
l’assimilarsi all’acqua nella deliziosa
Metamorfosi Acqua in cui l’elemento
liquido si fonde con la terra attraverso la
figura femminile o all’aria in Metamorfosi
Aria dove si trasforma in una donna
gigante che cammina tra le nuvole.
Non ci sono limiti al fantasticare e ciascuno
riesce a comunicare emozioni e simboli di
grande efficacia come in Ride di Carmine
Bellucci con la trasformazione del globo in
un megaorologio intorno a cui girano due
viaggiatori su una bici/calesse a quattro
ruote preceduti da una farfalla.
Di fronte a ogni lavoro sorgono riflessioni e
osservazioni che possono migliorare il
nostro esistere.
_Le Metamorfosi del Viaggiatore
Milano: Galleria Gruppo Credito
Valtellinese, Corso Magenta 59
15.00 – 19.00 da martedì a venerdì
10.00 – 18.00 sabato
domenica e lunedì chiuso
Fino al 1° dicembre 2012
Ingresso libero
Informazioni: 02 48008015, www.creval.it
Catalogo: Carthusia Editore
NOVECENTO ITALIANO
PASSIONE E COLLEZIONISMO
Veramente eccezionale questa mostra che
nella nuova ala del Museo Civico di Bassano
del Grappa disvela una serie di tesori
nascosti - relativi a nostri artisti del ‘900 non provenienti da Istituzioni pubbliche,
ma collezionati con intelligenza,
entusiasmo e impegno faticoso e attento a
creare entità omogenee da appassionati
privati e galleristi che diversamente da
coloro che oggi creano tendenza hanno
individuato con occhio esperto e creduto in
artisti loro contemporanei.
Un’indagine ricognitiva ancorché parziale
su alcuni centri e su personaggi carismatici
e ‘sconosciuti’ che hanno collaborato a
costruire collezioni proprie e di personaggi
importanti ha portato a radunare in mostra
quasi 90 opere (di cui 30 da collezioni
bassanesi cui è dedicato un apposito
percorso) di 46 straordinari artisti.
Tali raccolte di industriali, imprenditori,
professionisti e intellettuali hanno
incrementato l’arte del tempo così come le
gallerie, luogo d’incontro con le opere
esposte e con gli stessi artisti.
Nel periodo tra le due guerre è l’asse
Roma-Milano a pilotare il gusto con nomi
come Pier Maria Bardi senza contare il
coraggio di Carlo Cardazzo che, dopo
avere proiettato nel 1942 Venezia nel
mondo artistico contemporaneo affidando
a Carlo Scarpa la costruzione di una
galleria in una zona proibita perché vi era
stato ucciso un doge, apre anche a Milano
uno spazio in cui nascerà lo Spazialismo.
Anche Torino, Bologna e altre città ancora
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ANDANDO PER MOSTRE
PICASSO
CAPOLAVORI DAL MUSEO NAZIONALE
PICASSO DI PARIGI
Ghiotta occasione a Milano le più di 250
opere - tra dipinti, disegni, sculture,
fotografie, libri illustrati, stampe e una
sezione dedicata all’indimenticabile
mostra milanese del 1953 (cui è seguita
quella del 2001), provenienti dal
prestigioso Musée Picasso (il più ricco al
mondo di opere del Maestro spagnolo) che forniscono un iter cronologico ampio
e soddisfacente della poliedrica
produzione di Pablo Picasso (Malaga 1881
- Mougins 1973) attraverso le diverse fasi
e movimenti cui si è avvicinato, i dubbi
esistenziali e le fobie come quella per gli
specchi.
Un percorso che va dagli esordi al periodo
blu, a quello rosa, a quello della ricerca
“africana” o proto-cubista, al Cubismo
Sintetico e Cubismo Classico, e ancora alle
pitture surrealiste, al coinvolgimento
politico con dipinti sul tema della guerra,
all’interludio pop e alle variazioni ispirate
ai grandi maestri dell’arte rinascimentale
e moderna fino alle più recenti produzioni
antecedenti la sua scomparsa.
Curata da Anne Baldassari, tra i più
importanti studiosi dell’artista oltreché
curatrice dell’Istituzione parigina,
presenta affascinanti capolavori quali Le
bagnanti dal vivace dinamismo, il
dolcissimo e melanconico Paulo nei panni
di Arlecchino, il Ritratto di Olga in
poltrona dal sapore tipicamente spagnolo,
l’intrigante Ritratto di Dora Maar e tra gli
splendidi disegni il Ritratto di Erik Satie di
una vitalità straordinaria e ancora tra le
sculture La capra e l’essenziale Donna
incinta.
Si delinea così una figura - formatasi tra
la natia Malaga, La Coruña, Barcellona e
poi Parigi e la Francia - tra genio e
sregolatezza la quale, al di là della
volubilità come uomo dall’immaturo
egoismo nei confronti della donna musa
ispiratrice e soggetto/oggetto di una vita
turbolenta, rappresenta il protagonista
indiscusso dell’arte del secolo scorso di
cui ha percepito novità e stimoli,
reinterpretandoli con mano abile e
risultati eccellenti, e incarnato le
contraddizioni e lo spirito tumultuoso.
_PICASSO Capolavori dal Museo Nazionale
Picasso di Parigi
Milano: Palazzo Reale, Piazza Duomo 12
8.30 – 19.30 lunedì, martedì e mercoledì
9.30 – 23.30, giovedì, venerdì, sabato e
domenica
La biglietteria chiude un’ora prima
Fino al 6 gennaio 2013
Biglietto mostra: intero € 9.00, ridotto €
7.50, ridotto scuole € 4.50
Informazioni: 02 54911,
www.mostrapicasso.it
Catalogo: 24 ORE Cultura Editore
Andando per mostre
da esaminare in modo approfondito hanno
visto vivacizzarsi una capillare
intraprendenza nel mondo dell’arte.
La passione collezionistica ha contribuito
alla diffusione e valorizzazione del
dinamico ‘900 italiano come dimostrano
opere di altissima qualità presenti in
mostra quali tra le altre la delicata Quando?
di Giacomo Balla, la stupenda, accattivante
e invitante Simultaneità dentro osteria fuori
paese di Fortunato Depero e di Gino
Severini la misteriosa Rue des arts à Civrai:
capolavori assolutamente da non perdere.
_NOVECENTO ITALIANO Passione e
collezionismo
Bassano del Grappa/VI: Museo Civico,
Piazza Garibaldi 34
9.00 – 19.00 da martedì a domenica
lunedì chiuso (aperto 31 dicembre 2012 e
1° gennaio 2013)
Fino al 20 gennaio 2013
Biglietto mostra: intero € 10.00, ridotto €
8.00, ridotto scuole € 4.00
Informazioni e prenotazioni: tel. 0424
519901, www.mostra900bassano.it
Catalogo: Skira Editore
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ANDANDO PER MOSTRE
EDGARDO RATTI
IL TRIONFO DELLA SEMPLICITÀ
Suggestivo e originale l’ambiente naturale
- disegnato da vigneti variegati tramite il
pennello di un autunno fantasioso e da
sentieri che s’inerpicano sulle colline di
Castelrotto dove in località Vallombrosa
(nel verde Malcantone) sta crescendo
grazie al proprietario imprenditorecollezionista un’affascinante collezione
d’arte all’aperto - che accoglie la mostra di
Edgardo Ratti (Agno 1925).
Semplice, comunicativo, immediato, senza
fronzoli cittadini e spocchiosa ridondanza
verbale, il simpatico artista si presenta
subito qual è con la sua voglia di
raccontare se stesso e il suo vissuto
tramite la natura e tutto quanto essa offre
all’uomo.
Figlio di una guardia di confine, ha studiato
al ginnasio di Bellinzona, alla scuola di
disegno di Friburgo, sempre in Svizzera,
per poi frequentare l’Accademia di Brera a
Milano. Stabilitosi a Vira Gambarogno, ha
insegnato nel medesimo ginnasio in cui è
stato alunno del suo primo maestro
Augusto Sartori e da sempre racconta con
amore il suo rapporto con l’ambiente
esprimendosi attraverso diversi linguaggi
artistici: disegni, tele, sculture, monotipi e
opere su vetro.
In questa mostra con lavori dal 1950 al
2004 colpiscono, pur nella diversità
espressiva, le numerose testimonianze
relative a persone della famiglia e in
particolare alla figura materna ricordata
con deferente rispetto anche per la
capacità di essere presente in modo
discreto.
Molto ricorrente anche il tema della
maternità: donna e terra madre da cui
derivano le varie espressioni vitali.
Un racconto continuo della sua esistenza:
come non pensare che in Felicità o in Gioia
di vivere non si celi l’allegria spensierata di
sua moglie mancata in giovane età dopo
avergli dato tre figli?
Figure quasi liberate da legno, pietra,
marmo o alabastro come Dormiente
vengono alla luce per narrarsi con la
semplicità di una vita lineare e tranquilla
come quella dell’artista.
_EDGARDO RATTI La pietra filosofale
Opere 1950-2004
Castelrotto/Malcantone/CH: Tenuta
Vallombrosa, Via Mött 4
Fino al 22 novembre 2012
Ingresso libero tutti i giorni
Informazioni: tel. +41 91 6081866, +41
91 9357545, www.rattinvallombrosa.ch
Catalogo: Vallombrosa Arte Editore
RENOIR LA VIE EN PEINTURE
A Pavia, nei suggestivi ambienti delle
Scuderie del Palazzo Visconteo,
un’intrigante mostra su Pierre-Auguste
Renoir (Limoges 1841 - Cagnes-sur-Mair
1919), uno degli artefici
dell’impressionismo: artista curioso e
duttile, è maestro nel rendere la bellezza e
la felicità di vivere e, pur prediligendo il
paesaggio, non prescinde dalle figure
umane destreggiandosi con sagacia tra
libertà espressiva ed esigenze della
committenza.
Una selezione di disegni, dipinti e pastelli
(più di 5000 le opere realizzate) mette in
evidenza questo inno continuato alla vita
allo scopo di controbattere le “troppe cose
spiacevoli”.
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ANDANDO PER MOSTRE
BERTIL VALLIEN 9 ROOMS
In occasione della XIII Mostra
Internazionale di Architettura-La Biennale
di Venezia, le suggestive sale di Palazzo
Cavalli Franchetti, che si affaccia elegante
sul Canal Grande, ospitano la prima
retrospettiva in Italia di Bertil Vallien, il più
noto maestro e designer svedese del vetro
d’arte, con una sessantina di opere da lui
realizzate presso gli studi svedesi Kosta
Boda, partner per i suoi lavori e main
sponsor con Berengo Studio della mostra.
Le nove sezioni raccontano il legame
profondo tra la progettualità dell’artista e
la realizzazione delle sue idee, opere che si
pongono in stretta correlazione con
l’ambiente in cui vengono ospitate
mettendone così in evidenza il rapporto
con tutte le manifestazioni del
contemporaneo.
Opere tra tradizione e innovazione - grazie
anche all’invenzione di una particolare
tecnica di lavorazione del vetro a stampo alcune delle quali create presso le fornaci
Berengo Studio di Murano: un’interessante
dialogo tra due tradizioni importanti come
quella veneziana e svedese dovuto all’estro
di questo artista pluripremiato, considerato
tra i primi al mondo e le cui opere si
trovano nei musei di tutto il globo.
Colpiscono per la singolarità fantastica
vetri opachi, scuri e colati in stampi:
blocchi vitrei con inclusioni alcune ispirate
alla storia di una giovane tredicenne
svedese che, trascorsi 32 anni in coma,
racconta svegliandosi di avere visto intorno
uomini blu. Così la fanciulla trasformata in
una principessa in bianco è attorniata da
24 teste ciascuna con un suo aspetto che
richiama altri mondi lontani e tematiche
antiche come la piroga che traghetta le
anime verso la vita eterna: in blu - colore
dominante di molte sue opere - è In transit
(water), seducente risultato di un rapporto
con la materia trasformata dal fuoco
attraverso una sfida eccitante e continua.
_BERTIL VALLIEN 9 ROOMS
Venezia: Ist.to Veneto di Scienze Lettere ed
Arti, Palazzo Franchetti,
Campo S. Stefano 2847
10.00 – 18.00 tutti i giorni
Fino al 25 novembre 2012
Biglietto mostra: intero € 10.00,
ridotto € 8.00
Informazioni: tel. 041 2407711, fax 041
5210598 www.istitutoveneto.it
Catalogo: Marsilio Editori
Andando per mostre
Amante anche della musica, non riceve
un’educazione accademica, ma è
indirizzato dalla famiglia all’apprendistato
in una bottega di ceramica dove si mette in
luce. Approfondisce la disciplina pittorica e
viene ammesso all’École des Beaux-Arts
dove si lega con Bazille, Sisley e Monnet
con i quali inizia a dipingere en plein air
distinguendosi in seguito per le vedute
cittadine vibranti di vita, calore e umanità.
Pur sostenendo la necessità di seguire il
gusto del proprio tempo, si rende conto
che è al Museo che si approfondisce il
piacere della pittura non essendo
sufficiente la sola natura per cui si
definisce “figlio di Madre Natura e di Padre
Museo” e così spiega l’entusiastica
soddisfazione nell’ammirare le opere
classiche durante il viaggio in Italia.
Nel percorso pavese trionfano oltre al
paesaggio e alle nature morte sempre
splendidi e consolatori - per Roses del 1915
Renoir afferma “un mazzo di rose per
dimenticare il dolore” (della perdita della
moglie) in sintonia con l’altra sua
considerazione “La vita è un mazzo di fiori
rossi” - i ritratti dei figli e la figura femminile
come nell’impareggiabile e delicata Jeune
femme au chapeau noir: lo sguardo intenso e
sereno evidenzia quella complicità che
Renoir soleva instaurare con le modelle per
scoprirne maggiormente l’anima.
_RENOIR La vie en peinture
Pavia: Scuderie del Castello Visconteo, Viale
XI Febbraio 35
10.00 – 13.00 e 15.00 – 19.00 lunedì,
martedì, mercoledì e venerdì
10.00 – 13.00 e 15.00 – 21.00 giovedì
10.00 – 19.00 sabato, domenica e festivi
La biglietteria chiude trenta minuti prima
Fino al 16 dicembre 2012
Biglietto mostra: intero € 10.00, ridotto €
9.00/8.50, ridotto scuole € 5.00
Informazioni e prenotazioni: 02 45496874,
0382 538932, www.scuderiepavia.com
Catalogo: Silvana Editoriale
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I libri di Elena Colombo
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
I LIBRI
di Elena Colombo
IL SILENZIO DELL’ONDA
Gianrico Carofiglio
Rizzoli, 300 pp., 19 €
Roberto è un carabiniere in
congedo. Nella sua esperienza
sotto copertura ha visto
troppe crudeltà orribili. È
entrato in un mondo marcio,
dove i soldi e il lusso sono
l’unico movente delle azioni,
nell’ambiente sordido e
perverso dei narcos (nostrani
e latinoamericani) che si
presenta nei toni di un
burlesque meno allegorico di
quello di La Ballata del Re di
Denari di Yuri Herrera: qui i
diversi episodi sono tappe
che servono a spiegare la
crescita del protagonista e a
mostrare la genesi di un
veleno psicologico che si è
lentamente instillato nella sua
mente facendolo vacillare, ma
forse lui – soprannominato
Mangusta – è quasi immune
alle tossine generate da
questa esistenza parallela.
Nonostante la forza delle sue
convinzioni, si è dovuto
fermare un momento a
riflettere a un passo
dal’abisso e riattivare i sensi
attutititi, per riscoprire la
genuinità della città che lo
circonda. È la sua Roma ma la
conosce poco e deve
reinventarla passo dopo
passo, in una sorta di terapia
per venire a patti col passato.
Leggendo l’ultimo romanzo di
Gianrico Carofiglio – finalista
al sessantaseiesimo Premio
Strega – torna in mente il
miglior Sandro Veronesi.
Anche il titolo “Il Silenzio
dell’Onda” rievoca la stessa
atmosfera di sospensione
ovattata di Caos Calmo. Nel
surf è possibile stare dritti
sulla tavola e attraversare
dall’interno il muraglione
azzurro di un cavallone: è
quello che gli americani
chiamano tube; ed è ciò che
succede in certi periodi della
vita, quando tutto dev’essere
messo in discussione ed è
necessario che le colpe
individuali s’incontrino e che
il racconto diventi balsamo
per lenire le ferite. A volte è
sufficiente creare uno spazio
nuovo, inaspettato e intimo
per sentirsi a proprio agio,
altre volte il solo modo per
esprimersi è il linguaggio dei
sogni, perché non si sa mai se
“la vida es sueño” il sonno e
la realtà possono intersecarsi
su un piano intermedio che è
difficile spiegare a parole e
che riassume i desideri, le
paure, le solitudini, come
avviene a Giacomo e al suo
amore per Ginevra. Ma non
c’è bisogno di spingersi
troppo in là con le teorie. In
fondo, come diceva Louis
Amstrong: “If you have to ask
what the jazz is, you’ll never
know”
IL SONNO DEL
CAIMANO
Antonio Soler
Tropea, 188 p., 14.50 €
Se l’incoerenza è l’unica verità
concepibile, nessuno potrà
mai sfuggire al proprio
passato per quanto cerchi di
nascondersi nella quiete di
una città lontana e straniera,
nel silenzio di un lago che
riflette l’assurdità della vita e
della morte. Basta una piccola
scintilla per mettere in moto
la macchina inceppata della
memoria. Una macchina che
procede per continui flashback, riassemblando i
frammenti dispersi di un
puzzle che unisce Canada e
Spagna, un presente
intorpidito grigio e spoglio e i
fantasmi della guerra civile.
Un uomo arriva a Toronto
per inaugurare un
monumento ai membri delle
Brigate Internazionali e,
dietro alla sua voce stanca,
dietro alle rughe di vecchio
e oltre a quel nome che gli
giunge come un proiettile,
l’anziano alla reception
dell’albergo Regina
riconosce il suo antico
compagno. La persona che,
con il suo tradimento, aveva
preso in mano il filo di tanti
destini. Il sonno del
caimano amplia la visuale
soggettiva del precedente
libro del malagueño
Antonio Soler attraverso un
denso concentrato
d’immagini – sogni in
bianco e nero che
rimangono nella penombra
della veglia e strappano il
velo del disamore anonimo,
illusioni del cinema che
nascondono messaggi
utopici – in cui i personaggi
quasi si perdono, trascinati
dalla poesia del linguaggio e
dalla difficoltà fotografica
dei ricordi, rispecchiati nel
mercurio (che non allunga
la vita, anzi la intossica). Il
paesaggio, i suoni rubati, le
conversazioni smozzicate
riportano indietro episodi
che si connettono nella
trama di un sogno che quasi
spinge il protagonista a
un’eteronimia pessoana. A
volte, la vera natura di un
individuo resta sopita, a
volte devono passare anni
prima di poter chiudere i
conti con la storia collettiva,
troppo spesso riscritta
arbitrariamente per
convenienza; come il
partigiano Tristano di
Tabucchi racconta di sé in
un tempo circolare e
allucinato, il nostro
“Portiere di Notte” è
chiamato a spiegarsi, per
convivere con il dolore degli
ideali frustrati. Per quanto
abbia tentato di scappare, il
caimano che pareva
inoffensivo si è svegliato
per azzannare la sua preda.
Non si tratta di cercare
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
ILUSTRADO
Miguel Syjuco
Fazi Editore, 476 pp.,
€ 19.50
Tutto ha inizio con il corpo
dello scrittore filippino
Crispin Salvador ritrovato
nell’Hudson, e con il mistero
di un manoscritto scomparso,
ma la storia si compone di
mille altre storie cucite
insieme con una rara
maestria: frammenti di blog,
citazioni, sketch umoristici …
in una girandola di stili che
pian piano trasformano i
narratori in personaggi
tingendo i personaggi fittizi
di una patina di autenticità.
Ogni vicenda inventata da un
romanziere contiene un
fondo di verità, ogni deriva
dell’immaginazione è
essenzialmente frutto delle
esperienze personali in un
meccanismo affabulatorio che
trae linfa dal reale come in
una sorta di Vivere per
Raccontarla. Anche se
bisogna separare la
letteratura filippina dal boom
del realismo mágico, gli
spunti e i collegamenti sono
numerosi, se non altro per
l’espediente testuale delle
scatole cinesi, che riecheggia
le ultime memorabili pagine
di Cent’Anni di Solitudine di
García Márquez o Il
Viaggiatore delle Quattro
Stagioni di Littín, e che ha la
sua origine illustre nel Don
Chiscotte di Cervantes.
Rielaborando gli elementi
vissuti si crea un ideale
astratto che prende una
forma concreta. C’è una
Dulcinea quasi mitica, ma
oggi non è possibile
allontanarsi troppo dal
mondo per sfuggire al
proprio destino. Lo scrittore
non è più solo un Deus ex
machina ma una persona
bombardata da una miriade
di stimoli artistici e pop. In
universo in cui la cultura di
massa e quella alta finiscono
per collimare la Manila
contemporanea, illuminata
dalle luci dei locali notturni e
frequentata da giovani vacui e
senza futuro, hard boiled e
caricaturali è una megalopoli
globalizzata, dove si
concentrano vizi e virtù di
una nazione moderna e
insulare, un palcoscenico
tragico simile a Spoliarium
del pittore Juan Luna: alcuni
cadaveri dilaniati sono
trascinati via, resi
irriconoscibili dai nemici, ma
in un angolo della coscienza
resta il fulgore verde della
speranza. Grazie al “potere
balistico delle parole”, i nuovi
Ilustrados (“Illuminati”,
intellettuali rivoluzionari)
plasmano uno strumento per
la comprensione del passato
e del presente; e Syjuco,
vincitore del Man Asian
Literary Prize e segnalato dal
New York Times, punta
direttamente al Nobel.
L’ULTIMO UOMO NELLA
TORRE
Aravind Adiga
Einaudi, 441 pp., 20€
Conosciamo davvero i nostri
vicini? Tutti noi viviamo una
routine solitaria e scambiamo
col prossimo solo qualche
garbata formalità, senza
preoccuparci seriamente dei
problemi di chi abita alla
porta accanto. Oppure ci
illudiamo bonariamente di
aver trovato una piccola
nicchia famigliare dove
rifugiarci per sfuggire al
dolore che ci riserva la sorte.
Ma l’avidità fa scaturire la
vera natura dell’Uomo e – un
po’ come avveniva in The
Millionaire – la promessa di
soldi facili svela le mille
storie che si nascondono
dietro alla facciata. Homo
homini lupus. Il miraggio
della ricchezza fa svanire la
solidità dei legami e persino
un edificio rassicurante e
chiaramente pucca – costruito
in cemento e acciaio, in
contrapposizione con le
baracche degli slum – diventa
solo uno scheletro, un guscio
che racchiude la meschinità
delle cosiddette “brave
persone”. La Bombay dei
vecchi tempi non esiste più,
sostituita dalla sfavillante
Mumbai, un gigante in
continua espansione,
specchio di un’economia in
crescita che posa i suoi piedi
d’argilla sui tre quarti della
popolazione che sopravvive
con meno di cinquanta cent
al giorno. Per questo, quando
un costruttore promette circa
330 mila dollari a famiglia
per un progetto di
riqualificazione urbana, a
tutti sembra una manna dal
Cielo. A tutti tranne uno.
Qualcuno cercherà di
resistere al fascino di
“quattro o cinque secondi da
milionario” in nome
dell’amicizia, della libertà
individuale e di una lotta
collettiva, portata avanti con
la lucida dignità che sfiora la
pazzia. In primo luogo gli
affetti, quindi, e l’importanza
dei ricordi che dormono tra i
muri del condominio che per
anni è stato chiamato “casa”;
poi l’adrenalina di una nuova
battaglia, che fa sentire
giovani e il desiderio
personale di testare le
proprie convinzioni, e infine
la causa portata avanti per i
diseredati che restano
nell’ombra e che
compongono la polifonia
della megalopoli in fermento.
Lo stabile Vishram Society è
un microcosmo che riproduce
le infinite sfaccettature della
nuova India, sempre più
moderna, multietnica e multiconfessionale , ricca di sapori
e odori speziati che stillano
dalle pagine di Adiga come se
il lettore passeggiasse in una
sorta di Penny Lane del
Maharashtra.
I libri di Elena Colombo
giustizia ma semplicemente
di rispondere a un bisogno
primordiale.
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I libri di Elena Colombo
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
QUALCOSA CAPITERA’,
VEDRAI
Christos Ikonomou
Editori Internazionali
Riuniti, 224 pp. 15 €
“Una volta si lavorava per un
pezzo di pane, adesso si
lavora per una manciata di
briciole”. Vincitore del più
prestigioso premio letterario
ellenico ( il Premio Nazionale
per la Narrativa Breve),
Christos Ikinomou descrive
una Grecia strangolata
dall’umiliazione della povertà.
La poesia misurata delle
parole dà volti e storie umane
alla freddezza dei dati
economici che da mesi stanno
invadendo i telegiornali di
tutta l’Europa e un senso
morale alla realtà che sta
dietro al “debito sovrano”;
troppo spesso, infatti, il
sistema trasforma le persone
in numeri senza nome, senza
memoria né diritti e divorati
dalla globalizzazione.
L’autore che è stato definito il
Faulkner greco scrive la
cronaca dello sgretolarsi di
una classe media minacciata
dagli avvisi delle banche e
privata di ogni garanzia. In
questi racconti non c’è più
molto spazio per i paesaggi
idilliaci, per gli epici eroismi: i
grandi personaggi omerici
diventano persone
terribilmente e
splendidamente fragili sui
bordi delle strade dei
sobborghi e i frammenti di
vita si collegano a figure
piccole, spaurite, immerse nel
dramma del quotidiano.
Persino il canto e la danza,
che rappresentavano il
linguaggio liberatorio del
proletariato delle campagne
nel dopoguerra, oggi ha perso
valore e lirismo. Pian piano i
disoccupati, gli espropriati e i
precari perderanno i loro
tratti comuni e si
trasformeranno nei
personaggi delle favole del
prossimo millennio, fieri
soldati di una nuova
resistenza. Ognuno cerca per
un istante di lasciare il
presente, ma non è facile
concedersi dei sogni perché
anche quelli possono causare
involontarie e dolorose ferite ,
lo sguardo cerca
d’intravedere ciò che
succederà in futuro, ciò che si
nasconde al di là
dell’orizzonte di terre
sconosciute, oltre le vie
polverose del Pireo. Nessuno
propone soluzioni, nessuno
lancia accuse ma il senso
d’oppressione è sempre
chiaro e palpabile come un
velo che ricopre un arcipelago
di voci comunicanti, unite tra
loro dal voltare delle pagine
di un calendario
UCCIDERE IL PADRE
Amélie Nothomb
Voland, 96 pp., 9 €
I detrattori di Amélie
Nothomb guardano con
sospetto alla sua sconcertante
puntualità nel “partorire” un
nuovo romanzo ogni anno, a
giugno. Alcuni dicono che
“scrive tanto per scrivere”, o
che i suoi libri sono sempre
troppo brevi. In un’epoca così
materialista, lo “scrivere tanto
per scrivere” andrebbe
considerato un pregio: la
capacità straordinaria di
inventare storie spaziando
abilmente da
un’ambientazione all’altra. Se
la biografia dell’autrice è stata
un fertile terreno di spunti –
come figlia di un diplomatico
belga, ha viaggiato fin
dall’infanzia – il suo stile
immediato ci ha abituato alla
genesi immaginativa a partire
da un piccolo frammento
quotidiano e alla
giustapposizione di pensieriaforisma alla Oscar Wilde.
La vicenda di Uccidere il
Padre è una partita di poker
che esplora il mondo della
magia e l’ebbrezza del gioco:
due tipi d’illusione che
deformano la realtà. Il
procedimento narrativo è lo
stesso utilizzato da Màrius
Serra in Farsa, ma il tetro
dell’azione è il deserto
polveroso del Nevada,
lontano dalle luci della ribalta
del caos di Las Vegas. Il
talento di un mago si misura
dallo sforzo costante, dal
sacrificio che si avvicina
all’amore e all’estasi dei sensi.
I trucchi più difficili nascono
dalla tecnica ma sono anche
l’espressione finale di un
percorso individuale. La
prestidigitazione non è solo
inganno ma diventa il segnale
per mantenere viva la
coscienza, ancorandola al
“qui e ora”. I numeri di
destrezza dei fire dancers che
maneggiano il pericolo
sfruttano il principio di
ricerca della Bellezza.
Christina è una danzatrice e
la carezza dei suoi movimenti
sensuali la rende una divinità
lisergica adorata da Joe Whip.
Le esperienze del ragazzo al
Festival Burning Man e il suo
conflittuale rapporto con il
suo mentore, Norman
Terrence, riecheggiano il più
classico complesso di Edipo
che corrode come
un’ossessione – tra eros e
thanatos, etica e bramosia – e
rimanda implicitamente agli
episodi sciamanici della
carriera poetica di Jim
Morrison che cantava “All the
children are insane” e poi
“Father I want to kill you”. Ma
chi è davvero degno di essere
chiamato “padre”: chi ci
accetta o chi ci sceglie, chi ci
ha conquistato o chi si è
preso cura di noi?
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SATURAPRIZE 2012
III EDIZIONE
Concorso Internazionale Under 40 indetto dalla rivista
SATURA arte, letteratura e spettacolo
1 - 22 DICEMBRE 2012
Bisogna ammetterlo, in Italia il 2012 non è stato un anno dei migliori per l'arte.
Le tante situazioni in bilico che nei mesi scorsi hanno colpito il settore artisticoculturale, sparse un po' indistintamente per tutta la Penisola (si pensi alla travagliata vicenda del Museo di Villa Croce a Genova, fortunatamente giunta a buon
fine; alla recente debacle del Maxxi di Roma, passato per il commissariamento e
arrivato alla discussa nuova presidenza; alle traversie non ancora concluse del
Madre di Napoli), non fanno che tacciare negativamente il “contemporaneo” e insieme a lui un po' tutto il sistema culturale nostrano, con la conseguenza - non sottovalutabile - di sottrarre visibilità all'arte proprio negli spazi che le competono,
spostando l'attenzione verso intrighi e manovre più o meno trasparenti e che in fin
dei conti con essa hanno - o almeno teoricamente dovrebbero avere - ben poco a
che spartire. In questo contesto, nell'ambito di un'arte bistrattata e messa a dura
prova dalla moltitudine di eventi (e interessi) che le gravitano intorno, diventa sempre più difficile per gli artisti, e in particolar modo per gli esordienti, continuare a
portare avanti ideali e idee che possano realisticamente entrare a far parte del
grande motore artistico-culturale-economico italiano; qui verte il compito di SATURA con la nuova edizione del concorso SATURAPRIZE, per il terzo anno dinamico centro propulsivo dei nomi più giovani nel panorama artistico contemporaneo
e viva dimostrazione che, nonostante tutto, gli stessi giovani non hanno mai seriamente rinunciato al mezzo artistico per veicolare le proprie idee, e che c'è ancora
chi a quelle idee vuole dedicare ampio spazio.
Focalizzandosi sul rapporto tra under 40 e fotografia/pittura, SATURAPRIZE è quella
rassegna che senza inutili polemiche ribatte a tutti quei “reduci” di un concettualismo estremizzato (solitamente così poco inclini nei confronti delle arti “canoniche”), consentendo di captare in pieno le odierne potenzialità comunicative di
tecniche secolari, talvolta espresse secondo i modelli di un'estetica storicizzata nel
tempo, in altri casi utilizzando l'apporto della modernità come arricchimento da
poter giocare a proprio favore, come nuovo linguaggio da decodificare e introdurre
in rappresentazioni dove il forte impatto visivo è immagine per contenuti autentici
e mai semplice sconcerto fine a se stesso. Un connubio tra antichi e nuovi linguaggi
che concorre all'ottenimento di quel pluralismo culturale ed espressivo che da sempre contraddistingue l'attività di SATURA e che garantisce una visione il più possibile ampia, al di là di confini mistificatori e parzializzanti. Perché evidentemente i
giovani artisti non sono stereotipati burattini di un circo più o meno mediatico, ma
individui che hanno la voglia, e il diritto, di esprimersi apertamente e senza alcun
tipo di censura. È arrivato il tempo di dare spazio all'arte, quella nuova.
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GIURIA DI SATURAPRIZE 2012
Marino Anello collezionista, Silvia Barbero critico letterario, Wanda Castelnuovo critico
d’arte, Elena Colombo critico d’arte, Laura Delle Piane critico d’arte, Milena Mallamaci architetto, Marta Marin collaboratore restauratore, Flavia Motolese critico d’arte, Mario Napoli presidente associazione Satura, Lucia Pasini artista, Mario Pepe critico d’arte, Andrea
Rossetti critico d’arte, Nina Tsitlidze critico d’arte.
ARTISTI VINCITORI
1° Premio Pittura Carmen Testa, 1° Premio Fotografia Jacopo Baccani, 2° Premio Pittura Valentina Chillè, 2° Premio Fotografia Giusi Lorelli, 3° Premio Pittura Flavio Ullucci,
3° Premio Fotografia Renato Dametti, Premio della Critica Pittura Elena Mantovani, Premio della Critica Fotografia Maria Bertolino, Premio della Giuria Pittura Linyuan Wei, Premio della Giuria Fotografia Francesco Rombaldi.
ARTISTI PREMIATI
Giuseppe Alletto, Elisa Bardi, Elisa Bertolini, Stefano Canotti, Carlo Firullo, Enzo Modolo,
Luca Salvetti, Paola Sottanis, Valeria Vittani, Alessandro Vullo.
ARTISTI FINALISTI IN MOSTRA
Gina Affinito, Federica Aglietti, Giulia Avvenente, Serena Baretti, Pierdamiano Bontempo,
Davide Bosch, Mauro Brugnera, Antonio Buttitta, Carmela Calimera, Valeria Candiani, Cinzia Cannavale, Katia Celestini, Antonio Contoli, Emanuele Cutrino, Riccardo Dametti, Laura
De Angelis, Valentina De Chirico, Giorgio De Lucchi, Sabrina Di Giacomo, Antonio Di Martino, Beatrice Durando, EliSio PH, Francesco Falace, Sibilla Fanciulli, Elisa Ferrari, Michele Ferrarini, Tommaso Fettucciari, Cristina Fornarelli, Erika Garbin, Maura Ghiselli, Ada
Giaquinto, Francesca Giraudi, Andrea Izzo, Claudio Maria Laruccia, Francesco Maria Leonzi, Piercarlo Marin, Vincenzo Mascoli, Fabio Mazzitelli, Valeria Morasso, Laura Neirotti,
Maddalena Palladini, Alice Palmieri, Stefano Pane, Cristina Parravicini, Alessandro Pastorino, Delia Pizzuti, Laura Rossi, Manuela Rossin, Antonio Sacco, Loredana Salzano, Erika
Sambiase, Katia Scotti, Andrea Sessarego, Cinzia Stalteri, Greta Stella, Amanta Strata, Valentina Toscano, Chiara Valdambrini, Giorgia Vit.