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Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 1 SaTuRa Trimestrale di arte letteratura e spettacolo Redazione Giorgio Bárberi Squarotti, Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone Redazione milanese Simona De Giorgio via Farneti,3 20129 Milano tel.: 02 74 23 10 30 e-mail: simodergiorgio@libero.it Direttore responsabile Gianfranco De Ferrari Segreteria di Redazione Virginia Cafiero Collaboratori di Redazione Francesca Camponero, Manuela Capelli, Wanda Castelnuovo, Anita Colombo, Elena Colombo, Fiorangela Di Matteo, Maura Ghiselli, Flavia Motolese, Lucia Pasini, Andrea Rossetti Editore SATURA associazione culturale Amministrazione e Redazione SATURA piazza Stella 5, 16123 Genova tel.: 010 2468284 cellulare: 338 2916243 e-mail: saturanews@satura.it sito web: www.satura.it Progetto grafico Elena Menichini Stampa Essegraph Via Riboli 20, 16145 Genova Abbonamenti versamento sul conto corrente bancario: Banca Intesa IBAN: IT37 G030 6901 4950 5963 0260 158 intestato a SATURA ASSOCIAZIONE CULTURALE ANNUALE € 40,00 SOSTENITORE A PARTIRE DA € 50,00 Anno 5 n° 19 terzo trimestre Autorizzazione del tribunale di Genova n° 8/2008 In copertina Rodolfo Vitone, OOHH, tecnica mista su carta, 50x35, 1981 SATURA è un trimestrale di Arte Letteratura e Spettacolo edito dall'Associazione Culturale Satura Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l'autorizzazione scritta della Direzione e dell'Editore Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile per la redazione per la pubblicazione vanno inviati a: SATURA associazione culturale, piazza Stella 5/1 16123 Genova Le opinioni degli Autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quella della direzione della rivista Tutti materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 2 sommario 3 8 11 17 INTERVISTA A CORRADO CALABRÒ Liliana Porro Andriuoli QUATTRO POESIE Vikingo La vita dietro i fiori Temporale marino Ultimo aquilone di Liana De Luca CULTURA E DINTORNI IN TEMPO DI CRISI Fiorangela di Matteo LA VOLPONA Guido Zavanone 93 BERLINO: LA RETORICA DI IERI, LA PROMESSA DI DOMANI Milena Buzzoni IL BORGO UN PRESEPE DA SCOPRIRE Wanda Castelnuovo 96 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE Fabrizia Scapinello 33 DA QUATTRO ANGOLI DEL MONDO Giuliana Rovetta 42 QUATTRO POESIE La commedia dell’arte La tragedia Waterman Volatili Davide Puccini 44 NATURA E LETTERATURA Di Rosa Elisa Giangoia 57 LA RISCOPERTA IN FRANCIA DEL POETA JEAN-MAX TIXIER Bruno Rombi 61 PROSPEZIONI Fedeltà alla vita Stefano Verdino Scrittori dietro le sbarre Giuliana Rovetta Genova, una storia Giuliana Rovetta Rimembranze e presenze femminili Liana De Luca CRITICA RODOLFO VITONE TRENT’ANNI DI RICERCA E DI CREATIVITÀ Renato Barilli 74 LE SCULTURE DI PALADINO NELL’AMBIENTE DELLA PINACOTECA PROVINCIALE DI BARI Silvia Bottaro 78 INTERVISTA A RENATA MINUTO Sonia Pedalino 81 84 IL PERSONAGGIO IINTERVISTA A GIULIANO DORIA DIRETTORE DEL MUSEO DI STORIA NATURALE DI GENOVA Francesca Camponero 91 24 65 89 ARCHITETTURA IL LIBERTY MESSO IN RIGA Gianluigi Gentile FUMETTO L’IRRAZIONALITÀ E L’EMOTIVITÀ DI LORENA CANOTTIERE Manuela Capelli IL CONCERTO LA PRIMA MONDIALE DI GIOVANNI ALLEVI AL CARLO FELICE Francesca Camponero 98 ANDANDO PER MOSTRE Wanda Castelnuovo 108 I LIBRI DI ELENA COLOMBO Elena Colombo Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 3 3 di Liliana Porro Andriuoli Ogni individuo avverte in sé il richiamo della propria terra d’origine: in quale misura ha influito nel suo caso particolare questo richiamo, sia per quanto riguarda la sua identità di poeta che per quella di uomo? Il mare è stato per lei una specie di culla primigenia, condizionando gran parte della sua attività poetica: cosa ha rappresentato il mare nella sua vita? Quale significato assume nella sua poesia? Non ricordo l’età in cui ho cominciato a nuotare. Dev’essere stata un’età antecedente quella della ragione. Per me è difficile immaginare che uno non sappia nuotare come non ci passa per la testa che qualcuno non sappia camminare. Avevamo una casa di villeggiatura a Bocale (ch’è solo a quindici chilometri da Reggio Calabria, ma che allora sembrava Macondo), al bordo della spiaggia. In autunno, con le mareggiate, le onde giungevano fino alla soglia di pietra e la smuovevano. Lì, ma anche altrove sulla costa ionica (a Locri, a Roccella, a Soverato), dove avevo dei parenti, d’estate facevo grandi nuotate. Ho, così, tra l’altro attraversato a nuoto più volte il mare lungo la spiaggia di Riace senza sospettare minimamente che sotto pochi metri d’acqua ci fosse un’altra presenza: i guerrieri di bronzo, rimasti distesi sopra un letto di sabbia per millenni e levatisi in piedi ai nostri giorni come se soltanto adesso, soltanto per noi, prendessero forma dall’inconscio dello scultore che li ha plasmati. Due statue bellissime, le più belle statue in bronzo che ci siano pervenute dall’antichità; corpi perfetti, di contemporanei, ma con gli occhi di chi non ha più fretta. Da ragazzo uscivo in mare, di notte, coi pescatori; di giorno, con la barca a vela. Passavano al largo le navi che attraversavano lo Stretto di Messina e piano piano s’allontanavano fino a venire ingoiate dalla distesa liquida. Avrei voluto seguirle, a nuoto o in barca, fino a veder aprirsi dinanzi a me un nuovo orizzonte. È questa una sensazione che il mare mi lascia dentro da sempre: la possibilità, l’impulso a sfuggire al condizionamento delle strade (ferrate o asfaltate) terrestri, l’aspirazione a inoltrarmi in una dimensione inesplorata. Lo stesso impulso che, proprio in quell’epoca, sui 15 anni, m’indusse a scrivere le prime poesie. Il mare lo si porta verso il petto a ogni bracciata, ma non lo si trattiene; eppure, chi si è inoltrato in mare aperto non dimentica più quella sensazione di indeterminatezza e al tempo stesso di appartenenza. Si direbbe che il mondo della scienza eserciti un enorme fascino su di lei, sia dal punto di vista delle nuove scoperte e della loro ricaduta sul nostro modo di vivere sia, e ancor più, dal punto di vista della formulazione delle sue leggi e dei suoi principi, da cui quelle scoperte hanno tratto origine. Cosa la attira tanto del pensiero scientifico da far sì che esso si ripercuota anche nel suo modo di fare poesia, come è ad esempio avvenuto in Roaming? Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò INTERVISTA A CORRADO CALABRÒ Satura 19-2012 nero:Layout 1 Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò 4 10-12-2012 18:02 Pagina 4 I N T E R V I S TA A C O R R A D O C A L A B R Ò Sono, da sempre, appassionato di fisica, e in particolare di astrofisica. Oggi è l’astrofisica a porsi i grandi interrogativi sull’origine, sulla fine dell’universo e dell’esistenza che una volta si ponevano la religione e la filosofia. È l’astrofisica a disegnare la cosmogonia. Nello stesso tempo, dall’immensamente grande la fisica si rivolge anche all’immensamente piccolo, alle particelle elementari. Nell’acceleratore di Ginevra si cerca di scoprire le componenti ultime della materia e dell’energia e allo stesso tempo si mira a ricreare le condizioni in cui si trovava l’universo dopo qualche centesimo di secondo dal Big Bang. Ma come avviene questa ricerca? Pur con gli strumenti tecnologici più avanzati non possiamo vedere le particelle ricercate, ma solo dedurne l’esistenza esaminando gli effetti delle collisioni ad altissima velocità tra le particelle accelerate nel circuito. Anzi, spesso, non vediamo neanche l’effetto diretto di quelle collisioni ma soltanto delle particelle mediatrici, dalla cui angolazione e curvatura desumiamo l’esistenza delle particelle ricercate. Che significa tutto questo? Significa che sulle frontiere più avanzate della scienza non si ha percezione diretta dei fenomeni ma, per così dire, intuizione indiretta, allusiva, evocatrice degli stessi. Ma non è questo il linguaggio della metafora, cioè della principale figura simbolica di cui si avvalgono i poeti per dire una cosa facendone intendere un’altra? Sull’estremo confine della conoscenza, dunque, scienza e poesia si ritrovano. Mi sembra che la sua poesia cerchi un equilibrio fra due diverse polarità: da un lato infatti lei sembra avvertire l’attrazione verso le forme classiche della nostra tradizione letteraria, dall’altro ha un linguaggio e un ritmo del tutto moderni. È sua intenzione quella di raggiungere una compiuta sintesi tra il passato e il futuro? Quale valore ha secondo lei la tradizione nella nostra moderna poesia? Sono da sempre innamorato della poesia antica: con Omero, con i lirici greci la poesia ha raggiunto vertici mai superati e forse mai eguagliati. Ancora oggi, per esprimere qualcosa che sento premere oscuramente dentro, mi vengono sulle labbra i versi di qualche lirico greco. La mia non è una “maniera” letteraria. All’opposto, falserei la spontaneità della mia espressione se rinnegassi questo genoma che mi caratterizza. Ma ciò non toglie, ovviamente, che io sia un uomo inserito nella realtà contemporanea con gli interessi e le nozioni d’oggi, né che ignori i secoli di elaborazione poetica intercorsi. Della esperienza dei grandi lirici io conservo questo insegnamento, questo “credo”: l’incisività del segno poetico, il rifiuto del qualunquismo per il quale l’espressione poetica non ha una sua connotazione, fluisce via amorfa come l’acqua. Salvo questo imprinting, il dettato poetico non può che essere quello che la realtà vivente (e non la reminiscenza letteraria) ci induce a “dire”. E in questa realtà entrano irrecusabilmente parole nuove, sanguigne, sullo sfondo dell’attuale concezione del mondo e dei rapporti sociali. Sarebbe quindi innaturale ricusare il nuovo; anche nel ritmo che spesso è più sincopato, più contratto del ritmo classico (ma già gli antichi conoscevano i versi giambici e i voli pindarici sorvolano i secoli). Ambizione? È una parola grossa e un po’ esteriore. Tutto il mio sforzo è di restare il più fedele possibile a quel lampo di bellezza che m’ha attanagliato nell’istante della folgorazione poetica. Il poeta, se vuole farlo intravedere agli altri, Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 5 I N T E R V I S TA A C O R R A D O C A L A B R Ò La sua poesia recentemente ha assunto, accanto a quello lirico, un andamento poematico. Quale ritiene le sia più congeniale? Ho scritto poesie delle dimensioni più varie: di una o due pagine, di uno o pochi versi (La penuria di te mi affolla l’anima. // Sei apparsa sul mio sentiero / come una nuvola fredda / che in un istante è grande quanto il cielo. // Alla notte / anche questo giorno si consegna. / Come la notte al giorno / come il giorno alla notte mi manchi.). Ma ho scritto anche, fin dall’inizio, poesie che hanno l’estensione del poema. Ad esempio: Colpo di luna (quando avevo 18 anni), L’esorcismo dell’Arcilussurgiu (nel 1984), Il vento di Myconos (nel 1992), e, ultimo, Roaming (nel 2008). So che la dimensione del poema è poco frequentata (e poco accettata) dai poeti italiani contemporanei. Ma io non obbedisco ad altra regola e misura che a quella dell’ispirazione. Quando l’ispirazione finisce, poso la penna: non aggiungo né tolgo un verso. Roaming, ad esempio, ha ben 602 versi. L’ho scritto in due giorni e due notti, senza alzarmi dalla scrivania, senza togliermi il pigiama, senza farmi la barba. 602 versi; non uno di più, né uno di meno. Si considera un poeta essenzialmente d’amore? Ho scritto molte poesie d’amore. L’amore ci spinge a oltrepassare la soglia del nostro egoismo per cercare il baricentro della nostra vicenda esistenziale fuori di noi stessi, nell’incontro col partner. C’è molto in comune tra l’innamoramento e l’impulso a poetare: entrambi rompono la scorza del nostro ego. In poesia, come in amore, si smette di impersonare ruoli, di compiere azioni orientate a uno scopo e, nella ricerca della propria autenticità, si diventa qualcosa di diverso rispetto a ciò che eravamo prima di quell’esperienza. “L’amore è essenzialmente un atteggiamento che l’infinito assume verso il finito. L’inverso si traduce in fede o in poesia”(Brodskij). Se il tema dell’amore ricorre così spesso nei versi dei poeti “ciò si deve non già alle storie romantiche realmente vissute, bensì alla nostalgia del finito per l’infinito.” Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò quel lampo, deve inevitabilmente scendere a un compromesso, perché per esprimere l’inesprimibile deve usare le parole, vale a dire il mezzo più usato, più abusato, più sciupato che ci sia. Ma non può ricorrere al trucco di far credere di “dire” quando non riesce a dire proprio niente; fingersi sarto senza stoffa e senza capacità di taglio e di cucito; pittore quando è solo un imbrattatele; poeta quando è solo capace di arzigogolare intorno al suo piccolo io. Il poeta deve “dire” quando gli è proprio impossibile reprimere quello che gli urge dentro, affiorando da uno strato subliminale. “Dire” - s’intende col linguaggio della poesia, cioè non in maniera diretta, ma in modo allusivo, evocativo. La poesia dice una cosa per farne intendere un’altra. Quando Garcia Lorca nel suo Lamento per Ignacio Sánchez ripete 25 volte “A las cinco de la tarde”, non vuol certo dirci l’ora. Ma da qui a giungere alla dissociazione e allo scetticismo cinico e autoderisorio di certa pseudo-poesia, ci corre molto. No, non si fa poesia buttando le parole come si buttano i dadi e nemmeno facendo il vuoto spinto. È vero che l’evocazione provocata dalla poesia è indotta più dal “non detto” che dal “detto”. Ma non si tratta di un “non detto” generico: si tratta proprio del “non detto” suscitato da quello specifico “detto”. Il verso non è qualcosa di ridicolo né un mezzo di autocompiacimento. Il verso serve a tentare di esprimere quello che guardiamo con gli occhi di ogni giorno senza vederlo. In questo senso, come ha scritto D’Annunzio, “Il verso è tutto”! 5 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò 6 10-12-2012 18:02 Pagina 6 I N T E R V I S TA A C O R R A D O C A L A B R Ò Sì, c’è in amore, e c’è in poesia, un bisogno di assoluto, come se alla scala di Jacob si aggiungessero sempre nuovi gradini in funzione del nostro desiderio di salire. Un impulso analogo a quello che spinge il nuotatore ad addentrarsi in mare aperto e l’alpinista a salire sempre più in alto; analogo a quello che ha indotto Reinhod Messner a scalare, una dopo l’altra, le vette dell’Himalaya, persino senza ossigeno. Se la nostra individualità ci bastasse non c’innamoreremmo. Se la vita ci bastasse non faremmo poesia. Ma ho scritto anche molte poesie sul mare (credo di essere il poeta che ne ha scritte il maggior numero). E persino la guerra può essere fonte d’ispirazione della poesia, se si va oltre il convenzionale, se ci fa aprire gli occhi. Che valore ha la narrativa nel contesto della sua produzione? Mi è difficile rispondere perché non ho mai avuto il tempo per scrivere i romanzi che avrei voluto. Ne ho scritto solo uno, Ricorda di dimenticarla, in un periodo della mia vita in cui ero paralizzato a letto. È un romanzo in cui credo, ma che probabilmente non è stato ritenuto bastante per farmi annoverare tra i romanzieri e non solo tra i poeti. È però vero che niente mi prende l’anima come la poesia. Quale futuro pensa si dischiuda alla poesia in genere e a quella italiana in particolare? Si deve rigenerare. Deve tornare ad attingere alle sorgenti profonde e non limitarsi a fare canalette per giochi cerebraloidi. I poeti saputi e insipienti di oggi sono come i generali che giocano ai soldatini o ai videogame, senza mai mettersi alla prova sul campo. E il poeta Corrado Calabrò cosa vede nel proprio futuro? Non programmo nulla per la mia produzione poetica. Nella casa della poesia la stanza più grande è la camera d’attesa. Nessuno, nemmeno il grande poeta, sa se e quando scriverà di nuovo una vera, autentica poesia. Il poeta nasce e muore con la sua creazione e ogni volta lo fa con l’innocenza di una nuova nascita. Quale influenza ha avuto la sua professione di magistrato sulla sua attività letteraria? Sono due attitudini diverse, due emisferi cerebrali distinti. O, se preferisce, sono come due gemelli siamesi uniti dalla schiena che tirano in direzioni opposte. Coesistono, non interagiscono tra loro. Non so nemmeno se si tratti della stessa persona. Il magistrato deve dare dimostrazione delle sue tesi con una logica irrecusabile. Il poeta scrive perché non può tacere quello che lui stesso non sa di dover dire ma che poi, man mano che sgorga dal profondo, riconosce come il messaggio che inconsciamente lui e il lettore attendevano. La poesia è come un commutatore di banda che su uno schermo, sul quale ballavano caoticamente tanti puntini luminosi, faccia apparire all’improvviso le immagini. In poesia all’inizio c’è un grande balzo in avanti dell’immaginazione. “Il primo verso è sempre un dono degli dèi” ha detto Paul Valéry, ch’era sì un poeta ma aveva un temperamento non romantico; era un freddo, un raziocinante. Sì, “esistono ancora funzioni vestigiali della nostra area di Wernicke destra, in qualche modo simili alle voci degli déi (Giuseppe Nappi).” Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 7 I N T E R V I S TA A C O R R A D O C A L A B R Ò Liliana Porro Andriuoli Intervista a Corrado Calabrò CORRADO CALABRÒ è nato a Reggio Calabria, sulla riva del mare. Il primo volume di poesie di Calabrò, scritto tra i diciotto e i vent’anni, venne pubblicato nel 1960 dall’editore Guanda di Parma col titolo Prima attesa. Sono venuti poi numerosi altri volumi, tra cui: Agavi in fiore (1976), ed. SEN; Vuoto d’aria (1979 e 1980, tre edizioni), ed. Guanda; Presente anteriore (1981), ed. Vanni Scheiwiller; Mittente sconosciuta (1984), ed. Franco Maria Ricci; Rosso d’Alicudi, pubblicato nel 1992 (tre edizioni) da Mondadori, raccolta completa (all’epoca) delle poesie di Calabrò; Lo stesso rischio (Le même risque) (2000), ed. Crocetti. Nel 2002 ancora Mondadori ha pubblicato una vasta raccolta dell’ultraquarantennale produzione poetica di Calabrò, in un Oscar dal titolo Una vita per il suo verso (due edizioni). Del 2004 è la raccolta Poesie d’amore, edita da Newton & Compton. Sono uscite infine nel 2009 i due più recenti volumi di poesie di Calabrò: La stella promessa, nella collezione “Lo Specchio” di Mondadori; T’amo di due amori, raccolta tematica delle sue poesie d’amore (con un CD che contiene 19 poesie lette da Giancarlo Giannini), Vallardi. Numerose sono le traduzioni delle sue poesie: quattro in spagnolo; due in francese, inglese, ungherese, svedese, ucraino; una in rumeno, russo, serbo, portoghese, greco, polacco, danese (e, in frammenti, in altre tre lingue). Delle poesie di Calabrò sono stati fatti vari compact disks con le voci di alcuni dei più apprezzati interpreti: Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra. Il suo poemetto Il vento di Myconos (tradotto in greco) è stato trasposto in musica classica: la prima rappresentazione è avvenuta a Roma, nell’Auditorium Santa Cecilia, il 6 dicembre 2005. I testi di Calabrò sono stati più volte presentati in teatro, in recitals-spettacoli, in varie città in Italia e all’estero (Roma - al Teatro Argentina e all’Auditorium Conciliazione -, Torino - al Teatro Regio -, Milano - al “Piccolo” -, Genova - al Teatro Govi -, Bari, Cagliari, Orvieto, Foggia, Arezzo, Perugia, Pesaro, Lodi, Vicenza, Vercelli, Cosenza, Pavia, Reggio Calabria, Sidney, Melbourne, Varsavia, Parigi). Calabrò è autore anche di un romanzo, Ricorda di dimenticarla (Newton & Compton, 1999), finalista al premio Strega del 1999. Ad esso è ispirato il film Il mercante di pietre, regista Renzo Martinelli. Per la sua opera letteraria l’Università Mechnikov di Odessa, nel 1997, e l’Università Vest Din di Timişoara, nel 2000, hanno conferito a Calabrò la laurea honoris causa. Merita un cenno anche l’attività professionale di Calabrò magistrato. Dopo una laurea in Giurisprudenza, conseguita nel giugno 1957 all’università di Messina, Calabrò ha fatto carriera prima nella Corte dei Conti e poi, dal 1968, nel Consiglio di Stato, del quale nel 1982 è diventato Presidente di sezione. Dal 2002 al 2005 è stato Presidente del Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore. Il 9 maggio 2005 è stato nominato, con decreto del presidente della Repubblica e su indicazione del Consiglio dei ministri, presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Calabrò, specialista di Diritto del lavoro e di Diritto amministrativo, è autore di numerosi volumi in materia. 7 Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 8 Liana De Luca Vikingo 8 QUATTRO POESIE di Liana De Luca Vikingo Percorre le fredde e turbinose acque del nord alla ricerca di ricche spiagge da prede e bottini. Intanto affissa approdi in terre lontane e nuove sospinto dalla brama di avventura. Sicuri i compagni eseguono gli ordini chini sui remi in cabotaggio lungo la costiera o al primo vento issano la quadrata vela a scacchi secondo il meteo di antico sapere. Gli occhi sono fissati negli occhi del drago scolpito in cima alla spirale della prua ma il cuore è nella casa a forma di nave illuminata da una chioma bionda. Sulla drakkar fende il pirata la nebbia compatta sicuro fino a tornare a riveder le stelle inquieto nella sua solitaria solitudine alla scoperta di un nuovo mondo. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 9 Q U AT T R O P O E S I E La vita dietro i fiori: fiori di ghiaccio alla finestra. La strada non è più quella di tutte le sere. (Piume cadute dalle ali degli angeli le nevi trapuntano fiabe!) Un sentiero d’impronte continua languido dietro la svolta. Nell’ombra bianca una lampada filtra riflessi d’acquario. Temporale marino Pioggia sulla spiaggia dove ho camminato fulmini sul bikini furtivamente indossato mareggiata sull’impronta di un ricordo dimenticato. Fra i morbidi seni delle colline giace il franto frattale di un frantoio e i tronchi dei carrubi assumono sembianze di figure mitologiche. Singhiozzano i gabbiani in rapida discesa alla ricerca di un’onda stabile nell’inganno fugace della linea d’ombra. E il vento, il vento scivola sulla pelle abbrividita avvolge mulinelli nella sabbia dei capelli ulula canoni inversi nelle vene avviluppa con collane di conchiglie stasa le valve dei sensi addugliati travolge le risorse del riserbo fibrilla nei ritmi scomposti del cuore in sarabanda di estivo temporale. Liana De Luca La vita dietro i fiori - Temporale marino La vita dietro i fiori 9 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Liana De Luca Ultimo aquilone 10 10-12-2012 18:02 Pagina 10 Q U AT T R O P O E S I E Ultimo aquilone Ultimo bagno ultima passeggiata ultimo incontro ultimo segno dell’unghia sul libro ultima sabbia sotto la doccia ultimo raggio di sole negli occhi. Un bambino solleva un aquilone tirando due cordini: un poco sale, cade, risale, si affloscia e precipita come falena nell’arco della luce. Raccoglie il bimbo deluso le ali fradice di mare: ultimo gioco fallito. E come gli adulti spera nell’aquilone dell’estate prossima. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 11 11 di Guido Zavanone Riassunto delle puntate precedenti (1) Maria, detta la Volpona, è un’anziana e ricca vedova, che vive nel culto del denaro, circondata da una piccola corte di persone che sperano nella sua eredità e l’accudiscono quasi gratuitamente. Tutta tesa ad accrescere il proprio patrimonio, la Volpona acquista, con ingegnosi quanto spregiudicati artifici, un grande appartamento di proprietà della sua parrocchia, per poi destinarlo a Casa di Riposo per anziani, il “San Pio”, che gestisce senza scrupoli, ricavandone cospicui guadagni. Ma, un giorno, irrompe nei locali dell’Istituto la Guardia di Finanza, che sequestra la documentazione contabile e interroga gli anziani ospiti. Successivamente intervengono gl’ispettori sanitari che dispongono la chiusura della struttura per varie settimane, mentre la Procura apre un procedimento penale nei confronti della Volpona, accusandola di frode fiscale, maltrattamenti e persino di omicidio colposo in persona di due anziani. Del caso si occupano anche i giornali e la televisione nazionale che mettono impietosamente alla gogna Maria. Nel dibattimento penale la Volpona proclama la sua innocenza ed è abilmente difesa da un principe del Foro, l’avvocato Filippone. I giudici del Tribunale si sono ritirati in camera di consiglio e Maria attende, con il cuore in gola, la sentenza, consapevole che è in gioco tutto quanto da lei faticosamente costruito in vita. (1) Apparse sui numeri 5 – 7 – 9 – 10 – 11 – 12 - 13 -14 – 15 - 16 - 17 di questa rivista. La Volpona ancora singhiozzava “Sono innocente”, guardando la scritta “La legge è uguale per tutti” e il crocefisso –“Vedete anche a me cos’hanno fatto”, quando il collegio tribunalizio ricomparve, circonfuso di mistero. Come per incanto si era acquietato il vociare degli spettatori, richiamati in aula dallo squillare imperioso della campanella del Tribunale. E, nel silenzio più assoluto, il Presidente, schiaritasi la voce, lesse la sentenza, che, preceduta dall’evocazione degli articoli di legge applicati, dipinse lo sconforto sui volti dei rappresentanti dell’Accusa e della Parte civile, mentre un sorriso trionfante illuminava i tratti, finora tesi, dell’avvocato Filippone. Era l’assoluzione da “tutti i reati ascritti” con formule varie; e Maria, appena udite le parole liberatorie, si sollevò con insospettato slancio dal seggiolone e gettò le braccia al collo del suo difensore. Il quale, mentre cercava di calmare le effusioni dell’anziana donna, già pregustava lo schiudersi, per lui, di tanti altri lucrosi patrocini in favore delle numerose Case di riposo coinvolte in analoghi scandali. “E ora santificatela”, non poté trattenersi dal dire il Pubblico Ministero; e parve una stonatura nello scrosciare degli applausi. Guido Zavanone La Volpona LA VOLPONA Satura 19-2012 nero:Layout 1 Guido Zavanone La Volpona 12 10-12-2012 18:02 Pagina 12 LA VOLPONA Maria volle tornare subito al suo “San Pio”, dove l’attendeva un piccolo assembramento di persone desiderose di congratularsi con lei e condividere la sua gioia. Lei si teneva abbracciata alla statua di San Pio, che, evidentemente, aveva fatto un altro dei suoi miracoli; e non certo il minore. Però il Santo aveva sempre quel suo sguardo severo ed un poco imbronciato; e forse per questo la Volpona, lasciata la statua, scese a pregare nella cappella adorna di fiori, sotto gli occhi sorridenti e indulgenti della Madonna di Medjugorie. È di comune esperienza che i processi, quelli penali come quelli civili, allungano la vita dei protagonisti, quasi che la spasmodica attesa del loro esito esalti le difese immunitarie. È, questa, verosimilmente, la ragione per cui in Italia, dove i processi sono pressoché interminabili, si vive più a lungo che in ogni altro Paese del mondo (giapponesi a parte, di cui non possediamo statistiche attendibili sulla durata dei processi). Fatto sta che la Volpona, la quale fino allora godeva di una salute di ferro, d’improvviso si ammalò. Ci fu qualcuno, forse qualche spirito faceto, che le consigliò di farsi visitare dal famoso geriatra dell’Università del Buon Consiglio che, con la sua illuminata dottrina, tanto aveva contribuito alla vittoriosa conclusione del processo; altri le suggerì il primario che –grande amico del presentatore- imperversava da anni sulla televisione nazionale (e aveva per ciò stesso quadruplicato i propri guadagni); altri ancora, uccelli del malaugurio, volevano indirizzarla da un oncologo di chiara fama, e d’insaziata fame. Ma la Volpona per istinto rifuggiva da professori e primari (per meriti politici, diceva) che, per il solo fatto di fregiarsi di siffatte qualifiche, raddoppiavano spudoratamente le parcelle. Preferì rivolgersi al medico della mutua. “Tanto sono tutte bestie” proclamava con sano realismo: confortata in tale suo convincimento proprio da quanto raccontato in udienza dal geriatra circa la dimezzata mortalità riscontrata durante i mesi di sciopero dei sanitari. Il medico di base, per principio, scriveva ricette e non s’imbarcava in diagnosi avventate; solo prescriveva, a volte, una raffica di esami clinici da svolgersi – dati i tempi biblici del Servizio sanitario – da parte di medici “non convenzionati” suoi amici, con cui intratteneva continui e salutari rapporti gastronomici. Nel caso della Volpona, il bravo medico prescrisse un gran numero di esami che, tanto per non sbagliarsi, non risparmiavano alcuna parte del corpo umano. I risultati degli esami furono impietosi; e impietoso fu lo specialista che, rivolto all’impaurita vecchietta: “Ma sa che lei ha un bel cancro” annunciò. “Poteva aspettare ancora un po’ a fare gli esami” ammonì severo. Poi le spiegò che aveva un tumore al colon, ma che alcune cure appropriate (l’intervento chirurgico era sconsigliato per l’età e le condizioni generali scadenti) le avrebbero ancora consentito sette, otto mesi di vita sopportabile. E, per farsi meglio capire, protese altrettante falangi della mano. “Su, su! Non faccia così” disse vedendo spuntare le lacrime dagli occhi dell’anziana. “Vorrei vivere io quanto ha vissuto lei” aggiunse per rincuorarla e perché si rendesse conto di aver vissuto abbastanza. “Ritorni a trovarmi il più presto possibile” – la congedò cordiale, accompagnandola all’ingresso. Dal bancone, dov’era annidata la segretaria, spuntò un volto sorridente: “Sono trecento” disse con garbo. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 13 LA VOLPONA Guido Zavanone La Volpona Tornata a casa, Maria radunò la sua piccola corte, ridotta, ora, alla cugina Laura, al figlioccio Carlo e alle due domestiche. Disse loro la verità e, dapprima, non fu creduta, tanto appariva la falsariga di ciò che, alcuni anni prima, aveva loro, con callida fantasia, raccontato. Ma la preoccupazione sussisteva egualmente al pensiero che, anche questa volta, la “rivelazione” precorresse le modifiche testamentarie tanto spesso minacciate. A temere erano soprattutto Eufemia ed Elisabetta cadute in disgrazia dopo le loro performances alla televisione e al processo. Si decise d’interpellare Don Carlo che, dopo l’allontanamento di Gianna, era diventato un poco la guida spirituale di Maria e si sostituiva ormai alla santona nel prometterle, a certe condizioni, il paradiso. Don Carlo era, a buon diritto, dubbioso, memore della turlupinatura per cui aveva svenduto l’appartamento della parrocchia poi adibito dalla Volpona a “residenza assistenziale per anziani”. Anch’egli aveva ricevuto la triste confidenza della Volpona, ma, pressato dalle domande delle pie donne, ritenne miglior partito trincerarsi dietro il segreto della confessione. Anche perché lui, per quanto riguardava il testamento, si avvertiva ormai in “conflitto d’interesse” con l’entourage della Volpona. Si era intanto rifatta viva l’insegnante cinese di joga, assicurando che la medicina cinese era in grado di guarire qualsiasi malattia attraverso l’agopuntura e l’esercizio joga; ma occorreva la fiducia della paziente, che era proprio quella che Maria aveva perduto dopo tante promesse di lunghissima vita fattele, ad ogni piè sospinto, dalla sedicente medichessa. Fu il geriatra, attinte notizie sulle reali condizioni di salute della Volpona presso il medico di base, a informare il clan che, questa volta Maria “faceva sul serio” ed anzi – per riportare l’immagine brutalmente colorita del medico – “l’aveva in un piede”. Dire che il clan dei potenziali eredi, che comprendeva anche la vicina di casa e l’infermiera, fosse costernato, sarebbe peccare d’ingenuità o voler forzare comunque la verità; ma una tensione ben visibile veniva creandosi perché ognuno temeva che l’altro cercasse di avvantaggiarsi per quanto riguardava le volontà testamentarie della Volpona nelle ultime battute della sua vita. Cominciando dalla cugina Laura. La Volpona l’aveva sempre collocata nella fascia medio-inferiore dell’intelligenza, ma ora doveva ricredersi. Laura capiva al volo le ansie di Maria, i suoi dolori, le sue esigenze e diventava ogni giorno più indispensabile, prodigandole ogni genere di cure. In realtà Laura possedeva la non comune intelligenza di celare la propria intelligenza, l’astuzia di mascherare la propria astuzia. E aveva un’ulteriore qualità: quella di affezionarsi sinceramente a chi poteva essere utile a lei ed ai suoi figli: “che non nuotavano nell’oro” – soleva dire. Oltre tutto Laura aveva esperienza così di vita che di morte avendo seppellito due mariti in età relativamente giovane e cresciuto da sola i suoi figli. Ora Laura non abbandonava un sol momento la sua cara assistita e non permetteva a Gianna, “che aveva saputo”, di venirle a far visita e farsi perdonare, ciò in cui era già riuscita altre volte. Ma teneva lontane anche le domestiche e la vicina e l’ infermiera, per impedir loro di raccomandarsi all’inferma, approfittando della sua debolezza. Infine aveva cacciato in malo modo la cinese; “Ti ha sempre ingannato” – diceva alla cugina. In tal modo Laura era rimasta, insieme a suo figlio, padrona del campo. Ma forse non era così. Perché il campo era, dall’esterno, insidiato da un predatore di razza, che rispondeva al nome, e alla veste prestigiosa, di Don Carlo. 13 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Guido Zavanone La Volpona 14 10-12-2012 18:02 Pagina 14 LA VOLPONA Mons. Carlo Rapetti o, semplicemente, Don Carlo come i parrocchiani, per famigliarità acquisita, continuavano a chiamarlo, aveva buona cura delle anime a lui affidate; con particolare predilezione per quelle unite ad un corpo femminile attraente o ad un patrimonio cospicuo. Alle prime dedicava un’attenzione vigile, sì, ma non troppo costante, alle seconde invece era fedele fino alla morte, accompagnandole con affetto nell’ultimo tratto del loro viaggio terreno per scaricarle del bagaglio delle ricchezze accumulate, ormai inutile e anzi ingombrante nell’altra vita. Nei confronti della Volpona c’era anche un umano desiderio di rivalsa per lui, di riparazione per lei, relativamente alla vicenda della Casa di riposo. In verità mons. Carlo non era mosso da personale avidità; la “residenza assistita per anziani” (così la profilava) sarebbe, nelle sue intenzioni, diventata l’Opera parrocchiale più importante e benefica; lui ne avrebbe avuto il merito dinanzi a Dio ed ai Superiori. Va detto che in vescovado e anche più in alto si conosceva la disponibilità amatoria del monsignore, e se è vero che la cosa veniva messa a tacere anche per la discrezione con cui veniva condotta, gli ammonimenti non erano mancati ed erano segnati da qualche parte nigro lapillo. D’altra parte, non si poteva negare una positiva correlazione tra ars amandi e lasciti propiziati a favore della Chiesa, come nel caso della marchesa Aldobrandi; ma l’una abilità offuscava l’altra ed era un ostacolo verso quella nomina a vescovo ausiliare che l’intelligenza, la cultura, l’efficienza e il carisma di mons. Carlo avrebbero meritato. E un colpo d’ala come l’acquisizione alla parrocchia di una casa di riposo per anziani, inattaccabile, nel caso, sotto il profilo morale, avrebbe potuto far pendere la bilancia a favore della legittima aspirazione del solerte sacerdote. L’impresa però si presentava ardua, nonostante le generiche “aperture” della Volpona e il venir meno dell’influsso malefico di Gianna e della cinese. In effetti l’ostacolo Laura, padrona della situazione, era troppo grande per poter essere rimosso. Esso doveva quindi essere aggirato. Don Carlo andava settimanalmente a far visita a Maria, portandole il conforto della fede ed alcuni libri religiosi, la cui lettura la Volpona alternava ai giornali, in particolare a quelli finanziari. Sfortunatamente Laura era sempre presente nella camera da letto dell’inferma, non si distaccava un istante e, quindi, il bravo sacerdote non era in condizioni d’intavolare un discorso serio su quanto gli stava a cuore. Tanto più che, da alcune frasi di Maria, aveva percepito che Laura sperava che il “San Pio” andasse al figlio, che già l’amministrava. Non a caso, appena don Carlo accennava, prendendo il discorso alla larga, all’angosciosa situazione degli anziani poveri, impossibilitati a pagare una retta, Laura interveniva magnificando la comprensione caritatevole del figlio. Ciò, tra l’altro, contrariava e allarmava la Volpona, la quale sviava subito il discorso; per poi riprenderlo con il figlioccio, che veniva giornalmente a renderle conto della gestione della Casa, “Ricordati – ammoniva – che non siamo un Istituto di beneficenza”. Ma un giorno che Laura, per incarico e delega di Maria, aveva dovuto recarsi fuori città presso i paisan (come Maria chiamava i suoi cugini) per rinnovare alcuni contratti d’affitto agricolo, don Carlo, avvisato dalle complici domestiche, aveva avuto finalmente via libera per un discorso a quattr’occhi sul destino del “San Pio”. Il bravo sacerdote contava di avere parecchio tempo a disposizione prima che tornasse Laura e, dopo aver chiesto premurosamente a Maria notizie della sua salute, incominciò a parlare di San Francesco di cui erano in corso presso la parrocchia devoti festeggiamenti. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 15 LA VOLPONA Guido Zavanone La Volpona “È il più grande Santo della Chiesa – proclamò mons. Carlo – più grande ancora di San Pio – aggiunse per rendere l’idea. – Eppure prima della conversione e della donazione di tutti i suoi beni, conduceva vita sfarzosa e dissipata, e fu proprio l’insorgere dello spirito di carità a salvarlo e a guidarlo lungo il cammino della perfezione e della santità. E ora è là – proseguì ispirato – sulla soglia del Paradiso, a braccia aperte, ad accogliere coloro che la carità ha reso graditi al Signore”. La Volpona non era spiritualmente preparata a questo sermone. Per lei essere ed avere erano inseparabili e soleva ripetere il detto di un grande presule della città: Homo sine pecunia tamquam cadaver. Ma ora Maria sentiva aleggiare sopra di lei l’ombra della morte e di Colui “che verrà a giudicare i vivi e i morti”. E ne tremava. “Anche San Pio predicava e praticava la povertà – riprese con forza il sacerdote – e sono sicuro che lei, Maria, quando ha fondato la Casa assistenziale per gli anziani, chiamandola con il nome di San Pio e a lui dedicandola, aveva ben presenti questi aspetti eminentemente caritativi dell’opera del Santo”. “È vero – convenne la Volpona. - E cerco di venire incontro in tutti i modi a quei vecchi che sono in ristrettezze e non hanno beni di fortuna”. Taceva dei vecchi che beni di fortuna possedevano e che lei cercava di persuadere a lasciarli in eredità all’Istituto, cioè a lei. Su questo punto poteva intendersi perfettamente con don Carlo che esercitava con profitto la stessa arte e ora – la Volpona l’aveva subito capito – stava compiendo con lei quelle manovre avvolgenti di cui era maestro. “Dio ci legge nel cuore, Maria – continuò gravemente l’aspirante presule – e noi non ce ne accorgiamo. Ma Lui ci scruta persino nel portafoglio. Sa quanto abbiamo e quanto in proporzione possiamo dare. Ricorda la parabola dell’obolo della vedova? Costei dava tutto quello che possedeva, ma i ricchi non erano disposti a fare altrettanto e per questo davanti a loro si chiudeva il Regno dei cieli. Vede, Maria – proseguì don Carlo, prendendole la mano per dare maggior forza emotiva al suo dire – non è riducendo qualche retta che si soddisfa il precetto evangelico, ma donando tutto quello che non ci è strettamente necessario. E donarlo in vita, privandocene, non per quando saremo morti e i beni dovremo comunque lasciarli quaggiù. Noi siamo polvere, immersi nella polvere dei beni terreni, ma d’ogni granello dovremo rispondere dinanzi a Dio”. La Volpona ascoltava e stranamente le tornavano alla memoria le parole di Gianna quando, durante la finta evocazione di San Pio, cercava di convincerla a cederle l’amministrazione della Casa di riposo. “Lei crede in Dio? – incalzava intanto don Carlo – Onnipotente e misericordioso ad un tempo”. “Ma chi è Dio?” domandò Maria, uscendo dalla trincea in cui si era fino ad allora riparata dalle bordate del monsignore. Ora la donna rivolgeva la domanda a se stessa, interrogandosi con angoscia nelle vicinanze della morte. E don Carlo spariva quasi, nella nuvola catechistica in cui era avvolto. “E se Dio fosse un protone, un neutrone o un busone come la scienza moderna sembra suggerirci? – chiese ancora Maria, la quale molto aveva letto da quando la malattia non le consentiva più di occuparsi attivamente del “San Pio” e della Borsa. “Se fosse come dice lei – contrattaccò con impeto il buon prelato – nulla, neppure la vita, avrebbe più senso”. 15 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Guido Zavanone La Volpona 16 10-12-2012 18:02 Pagina 16 LA VOLPONA “E perché dovrebbe aver senso? – replicò Maria – Ed ha senso forse vivere per morire, hanno senso le devastazioni dei terremoti, degli tsunami, il cancro dei bambini innocenti, gli stermini, la fame? Quando quello che il suo catechismo chiama Dio onnipotente e Bontà infinita potrebbe con un solo cenno evitare tutto questo dolore, tutta questa morte. E che padre è che non alza un dito per salvare i suoi figli?” Il monsignore non si attendeva una siffatta requisitoria da parte di una parrocchiana che, all’apparenza, non aveva molto navigato nei mari della filosofia. Ma, pur in difficoltà, non si perse d’animo. La posta era troppo alta per mostrarsi insicuro e titubante. E, d’altra parte, la Fede ha molte risorse e Don Carlo poteva attingervi a piene mani. “Sì, il male nel mondo è un grande mistero che ci verrà rivelato a suo tempo, nell’Aldilà. Ma certo se Dio lo permette vuol dire che anche il male è per il nostro bene”. Il sofisma era evidente. Ma la Volpona, che aveva letto Machiavelli, si limitò a controbattere: “Allora anche per Dio il fine giustifica il mezzo”. Ora il monsignore si sentiva confuso. Vedeva in un sol momento scuotersi le sue certezze e allontanarsi il “San Pio”. “Lei, Maria, legge troppi libri!”. Di fronte a quell’anima scalpitante, il povero don Carlo non trovava di meglio che aggrapparsi a quella santa, fiduciosa ignoranza, tanto raccomandata al gregge dai suoi pastori. “Verrò a trovarla ancora – disse con ritrovata energia – e lei intanto mediti sulle mie parole. E pensi ai poveri che attendono da lei un gran gesto”. “Si prenda il “San Pio”, se lo fa davvero per i poveri” – rispose, con voce affaticata, Maria. Il buon parroco uscì sollevato e, insieme, turbato, pensando che forse la Chiesa non aveva più nulla da insegnare se non la carità. Ma senza la compagnia delle altre due virtù teologali. [continua] Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 17 17 di Milena Buzzoni Attraversando il Tegel, si ha subito la consapevolezza di essere lontani anni luce dalla Berlino rosselliniana di “Germania anno zero”. Non abbiamo ancora visto niente ma gli young men in completo grigio seduti agli alti tavolini dei caffè con il computer davanti, danno subito l’impressione di un diffuso benestare e la figura del piccolo Edmund che cammina fra le macerie di una città annientata e si getta nel vuoto da una casa che somiglia a un teschio, appartiene a un passato remotissimo da cui, già da questo circoscritto avamposto, non si intuisce traccia. La periferia che attraversiamo è invece uguale a quella di tante grandi città: casermoni, supermercati, immigrati. Entriamo in centro con l’autobus che per 2 euro e 30 dall’aeroporto ci traghetta alla nostra fermata di Spandauer-Marienkirche. Il compound è del tutto diverso. Passiamo davanti al Reichstag, alla Brandenburger Tor, percorriamo la Unter den Linden, la famosa arteria tracciata nel 1647 sotto il regno di Federico Guglielmo il Grande, e scendiamo proprio davanti alla Berliner Dom, la più grande chiesa della città, separata dal Radisson Blu Hotel da un canale della Sprea. Entriamo nel nostro albergo dove un enorme cilindro di vetro, l’AquaDom, un acquario di 16 metri che poggia sulla zona centrale dell’atrio, con la sua turchese trasparenza e il guizzo di centinaia di pesci tropicali, cattura totalmente la nostra attenzione. Le nostre camere affacciano sulla cattedrale che con la sua mole ispirata al tardo rinascimento italiano, occupa buona parte della vista che si gode dalla finestra. Qualche battello, compatibilmente con il tempo nuvoloso, passa sul canale della Sprea mentre a sinistra la visuale arriva alla Unter den Linden. Dopo una rapida sistemazione, arriviamo a piedi alla vicina Alexander Platz, cuore della vecchia Berlino est e guardiamo dal basso la Fernsehturm, la torre della televisione, alta 207 metri, che sovrasta tutto il quartiere e che Milena Buzzoni Berlino: la retorica di ieri, la promessa di domani BERLINO: LA RETORICA DI IERI, LA PROMESSA DI DOMANI Satura 19-2012 nero:Layout 1 Milena Buzzoni Berlino: la retorica di ieri, la promessa di domani 18 10-12-2012 18:02 Pagina 18 BERLINO: LA RETORICA DI IERI, LA PROMESSA DI DOMANI è diventato uno dei simboli della città. Terminata nel 1969, una colonna di cemento di 26.000 tonnellate sorregge una sfera di acciaio all’interno della quale si trovano un ponte panoramico e un ristorante girevole. Un modernissimo ascensore permette di salire in 40 secondi sulla cima di quello che i berlinesi chiamano affettuosamente “l’asparago”. Orgoglio della Ddr, prima della caduta del muro, consentiva ai cittadini dell’est di guardare la zona ovest a pochi passi da loro eppure proibita e irraggiungibile. Siamo nel cuore della vecchia Berlino est. La piazza è circondata da squallidi casermoni del passato socialismo reale. Per entrare, oltrepassiamo un gruppetto di punka-bestia locali che, così, alla prima occhiata, sembrano più cattivi di quelli nostrani. Torniamo verso l’albergo attraverso un ampio giardino dove troneggia una bronzea fontana di Nettuno, realizzata a fine ottocento, in stile neo-barocco. E non trascuriamo una rapida visita all’adiacente Marienkirche, uno dei pochi edifici medioevali rimasti a Berlino, in stile gotico, risalente alla fine del tredicesimo secolo. A parte il settecentesco pulpito di alabastro di Andreas Schluter e un fonte battesimale in bronzo sorretto da tre dragoni neri simbolo del demonio, la cosa più notevole e insolita della chiesa è un affresco di 22 metri sulla parte sinistra dell’ingresso raffigurante la Totentanz, la Danza della Morte, e datato 1485. Le figure ormai sbiadite ma ancora riconoscibili, un contadino, un mercante, un nobile, un borghese, un medico, un abate, un re, un papa si muovono in un macabro, suggestivo ballo verso l’aldilà. In pochi passi siamo di ritorno al Radisson. Una doccia e di nuovo fuori per la cena che per 17 euro ci consente di mangiare un ottimo stinco con crauti, puré e birra. Torniamo alle nostre stanze e sotto soffici piumini aspettiamo la mattina per andare alla scoperta di Berlino. Alle 8 siamo tutti nella hall compresa la giovane Federica, figlia di Silvana e Marcello, che tra poco “andrà sposa” e che, con questo viaggio, regala ai genitori un poco trasgressivo addio al nubilato. Sul primo tram che passa timbriamo le nostre Berlin Welcome Card che ci consentiranno di entrare nei principali musei e di utilizzare tutti i mezzi della città. Attacchiamo subito l’Isola dei Musei a pochi metri dal nostro albergo. Colpito da una visita al Louvre, il re Federico Guglielmo III decise che anche una capitale come Berlino dovesse possedere un grande museo. Nasce così l’ambizioso progetto dell’Isola dei Musei nel cuore della città. Edifici espositivi e giardini avrebbero dovuto ricreare una sorta di acropoli dedicata all’evoluzione dell’uomo con fini didattici. Alla base di questo progetto c’è la teoria hegeliana secondo la quale perché il singolo possa capire se stesso è necessario che conosca la vicenda dell’umanità intera e vi si confronti. Dei cinque musei che verranno costruiti, il primo ad aprire è l’Altes, il “vecchio”, nel 1830 ( l’ultimo sarà il Pergamon esattamente un secolo dopo ). L’architetto Schinkel realizza un vero e proprio monumento neoclassico, dalle linee rigorose ed eleganti, in forma di tempio con un peristilio dorico e una grande scalinata interna che porta dall’ingresso alle sale espositive. Oltre alle collezioni archeologiche con manufatti di Creta, Micene e delle Cicladi, il museo egizio allestito al secondo piano è uno dei più importanti al mondo. Imperturbabile, lo sguardo verso un futuro che sembra già prevedere lontanissimo a scavalcare i limiti del tempo, circondato dal silenzio e da uno spazio che ne garantisce la priorità, il busto di Nefertiti del 1340 a.C. è sicuramente uno dei pezzi più spettacolari, in pietra calcarea dipinta e perfettamente conservato. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 19 BERLINO: LA RETORICA DI IERI, LA PROMESSA DI DOMANI Milena Buzzoni Berlino: la retorica di ieri, la promessa di domani Dovunque si posino gli occhi qui si scoprono meraviglie, i più bei gioielli, le più belle sculture, i reperti più significativi, quelli che sulle pagine dei libri di testo non avremmo pensato di vedere da vicino. Il tempo limitato a disposizione ci costringe a scegliere tra le irresistibili offerte di questi musei. Così saltiamo il Neues e ci dirigiamo verso l’Alte Nationalgalerie, progettata da August Stuler con le forme di un tempio classico, elevato su un basamento, con una monumentale scalinata all’esterno e un’altra all’interno. Saliamo subito al piano degli Impressionisti, il secondo. Ed ecco i lilla bianchi di Manet, il ritratto di Menkel dipinto da Boldini, i bronzi di Rodin e poi Cezanne, Monet e altre suggestioni impressioniste, perfino “L’isola dei morti” di Boklin, l’inquietante tela che in Vietnam aveva influenzato il mio passaggio nella baia di Halong! Per non perdere tempo mangiamo un rapido “panino del pezzente” tra le aiuole dell’isola dei musei dove, per non sovraccaricarci, torneremo venerdì pomeriggio. Prima di raggiungere la porta di Brandeburgo, ritiriamo i biglietti per lo spettacolo di stasera, “Las Vegas in Berlin” dove vedremo esibirsi leggendarie star di ieri e di oggi in un fantasmagorico concerto. La porta, un tempo simbolo della divisione in due parti della capitale tedesca, costruita nella Pariser Platz tra il 1788 e il 1791 da Langhaus il Vecchio che si ispirò ai propilei di Atene, doveva costituire l’appendice occidentale dell’elegante Unter den Linden. Sulla sommità della struttura bassa e larga con colonne doriche, venne collocata una quadriga in rame (danneggiata nella seconda guerra mondiale fu sostituita con una copia realizzata a Berlino est negli anni Sessanta). La scultura, trasportata a Parigi da Napoleone nel 1807 e recuperata dai prussiani nel 1814, raffigura Irene, dea della pace, che entra in città su un carro trainato da quattro cavalli. Quando nel 1961 la porta venne chiusa dagli sbarramenti della Ddr, la quadriga venne girata verso la parte est della città e solo nel 1989, dopo la caduta del muro, i cavalli tornarono a guardare nella direzione originaria. Scattiamo qualche foto ma il tempo è grigio e la porta un po’ spettrale. Anche il Reichstag ha un aspetto imponente e austero in uno stile rinascimentale enfatizzato da una fascia bugnata, lesene, colonne e timpano. Purtroppo ci vuole un appuntamento per visitare la spettacolare cupola di vetro costruita nel 1991 dall’inglese Norman Foster e occupata, al suo interno, da una forma conica rivestita di specchi. Pazienza! Torneremo a Berlino per colmare le lacune che di giorno in giorno si accumulano! Proseguiamo per l’Holocaust Mahnmal, una delle tante testimonianze che negli ultimi anni i tedeschi hanno voluto erigere a ricordo della persecuzione contro gli ebrei, nell’intenzione di commemorare e ricordare le vittime. Progettato dall’americano Peter Eisenman, il memoriale è una distesa di 20.000 metri quadrati di blocchi di cemento. I parallelepipedi la cui altezza varia dai 20 cm. ai 5 m. poggiano su un basamento ondulato e da ogni punto in cui ci si trova, si può avere una vista differente di questa silenziosa foresta grigia che si può percorrere seguendo innumerevoli perpendicolari passaggi simili a un labirinto. Sul lato est alcune sale espositive permanenti ripercorrono le tappe dell’Olocausto in Europa. La serata al “ Las Vegas in Berlin”, nonostante le difficoltà per raggiungerlo dovuta a un’interruzione della metro che ci costringe a un interminabile percorso in autobus, ci solleva il cuore. Gli artisti, replicanti di Elvis, Joe Coker, Marilyn e Luis Amstrong, sono davvero bravi e una scolaresca danese di tredicenni contribuisce a rallegrare l’atmosfera. Per fortuna al ritorno, ci adotta un ragazzone locale che ci permette di tornare all’albergo in tempi brevi. 19 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Milena Buzzoni Berlino: la retorica di ieri, la promessa di domani 20 10-12-2012 18:02 Pagina 20 BERLINO: LA RETORICA DI IERI, LA PROMESSA DI DOMANI Anche il venerdì mattina si presenta piovigginoso. Scrutando il cielo, ci incamminiamo verso la Posdamer Platz completamente ricostruita con modernissimi edifici di cristallo. Rimasta per decenni una terra desolata tagliata dal muro, in pochi anni è tornata ad essere una delle zone più vivaci della città, come lo era stata negli anni ’20, diventando probabilmente il quartiere di architettura contemporanea più famoso in Europa. Renzo Piano ha concepito la piazza come nuovo centro urbano sul quale convergono gli edifici progettati dalle più importanti archistar a livello internazionale. Così l’ipertecnologico Sony Center di Helmut Jahn, il simbolo della Berlino moderna con il grande invaso centrale a forma ovale circondato da locali di ritrovo e uffici e coperto da una calotta di vetro e acciaio che la sera viene illuminata con effetti cromatici sempre diversi.Sulla sinistra della piazza restano in piedi porzioni del vecchio muro abbattuto nel novembre del 1989. Su questi sono appesi pannelli con foto e didascalie che riportano agli anni in cui il muro era in funzione. Per terra ne resta traccia nella pavimentazione più scura che segue l’andamento del vecchio muro. Centinaia di gomme americane sono incollate sul retro. Un ragazzo che parla perfettamente italiano avendo una fidanzata di Molfetta, in divisa da Vopos, simula un controllo e per 2 euro mette una serie di visti su una cartolina. Ci avviamo verso la cosiddetta “Topografia del Terrore”, l’area su cui tra il 1933 e il 1945 si trovavano le principali istituzioni dell’apparato di persecuzione: Gestapo, SS e dal 1939 l’ufficio della sicurezza del Reich (RSHA). Gli edifici parzialmente distrutti o danneggiati furono demoliti nel 1956; nel 1987 fu creato un centro di documentazione e nel 2010 fu inaugurata la nuova struttura. Poco distante da questa, in una zona più bassa, resta un lungo tratto di muro che, con la giornata grigia, si presenta quanto mai squallido, una cicatrice recente drammatizzata da una sequenza di pannelli che illustrano ancora la storia del nazismo attraverso testi, documenti e foto. Questa area è separata dal Museo del Terrore da un terrapieno di pietre aguzze che occupano anche lo spazio attorno all’edificio. Pure qua, come per i parallelepipedi dell’Holocaust Mahnmal, protagonista è la desolazione. È come se in queste pietre appuntite fossero imprigionate le anime tormentate delle vittime, pietre ordinatamente distribuite, in realtà ammucchiate una sull’altra come i corpi degli ebrei nei campi di sterminio. Anche il colore: sono pietre scure, tinta ruggine, tinta sangue rappreso, evocatrici di martirio. Poco più avanti ci troviamo al Checkpoint Charlie. Ricostruito nel 2001 insieme a una copia del tristemente famoso cartello che avvisava gli stranieri in visita a Berlino est: “State abbandonando il settore americano”, questo passaggio era l’unico confine per stranieri tra le due Berlino negli anni della guerra fredda. Qui i finti Vopos vogliono 2 euro per farsi fotografare! In un edificio adiacente è possibile visitare il Museo del Muro creato per documentare sia i tentativi di fuga riusciti ( dall’utilizzo di una mongolfiera al nascondiglio dentro un enorme altoparlante!) sia, molto più numerosi, quelli falliti e conclusi con l’uccisione dei fuggiaschi. Fa rabbrividire pensare che ciò sia avvenuto fino al 1989 qui, a un’ora d’aereo da casa! La parte femminile del gruppo decide di rinunciare al museo, privilegiando un percorso artistico meno ossessivo. Con la metro raggiungiamo l’Hamburger Banhof, il principale museo d’arte contemporanea di Berlino. Aperto nel 1996 all’interno di una stazione ferroviaria costruita nel 1874, l’edificio è stato realizzato dall’architetto Josef Paul Kleihues come contenitore polifunzionale di mostre temporanee, permanenti, performance e altro. Un’in- Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 21 BERLINO: LA RETORICA DI IERI, LA PROMESSA DI DOMANI Milena Buzzoni Berlino: la retorica di ieri, la promessa di domani tera sala è dedicata a Andy Warhol dono del collezionista Erich Marx. Campeggia la gigantesca immagine di Mao e, tra le altre, una drammatica tela di un “ambulance disaster” che resta nella mente, staccandosi dai più noti cliché dell’autore. Accanto a Warhol, Rauschenberg, Anselm Kiefer, Marcel Duchamp e opere della Minimal Art, dell’Arte Povera e della Land Art. Nell’ingresso spiccano le grandi strutture in ferro retaggio della vecchia stazione. Due sale hanno ancora l’originario pavimento in mosaico e qualche lampada di ottone. Usciamo un tantino deluse. Forse avevamo in mente il Quai d’Orsay e ci aspettavamo qualcosa di meglio sia dal punto di vista artistico che architettonico. Sulla nostra destra intravediamo la faraonica struttura dell’Hauptbahnhof, la stazione ferroviaria inaugurata nel 2006 interamente coperta da una galleria di vetro. Non abbiamo tempo di girare per gli 80 negozi e locali che animano il suo interno né di assaggiare le ostriche dell’Austern Bar: dobbiamo azzeccare il treno giusto per tornare indietro e non fare brutte figure con i “maschi” che ci aspettano in albergo. Ci rifacciamo della rinuncia allo shopping nell’Hauptbahnhof con un giretto pomeridiano al Mitte, lo storico quartiere ebraico nel cuore della città, star incontrastata della rinascita berlinese. Il restyling ha dato vita a un caleidoscopio di caffè, ristoranti, cabaret, discoteche, gallerie d’arte, negozi, poli multifunzionali e hotel di design. Una vetrina dietro l’altra sotto arcate rococò, in immense fabbriche fin de siècle e cortili restaurati dove, grazie ad affitti accessibili si sono insediate piccole aziende, agenzie di pubblicità e fondazioni culturali. Mai banale, il Mitte è il quartiere dove ognuno crea una sua tendenza dall’arte off alla moda sia wear, street style o vintage. Ma la meta più spettacolare ed emozionante di questo pomeriggio sarà quella del Pergamon imperdibile museo che da solo vale un viaggio a Berlino. Visitando l’Isola dei Musei, ce lo siamo tenuto per ultimo perché sapevamo che era una chicca anche se le meraviglie che vi sono contenute sarebbero state comunque indimenticabili. In realtà è l’ultimo museo, anche in senso cronologico, ad essere stato costruito nel 1930. Vero e proprio santuario dell’antichità, nelle tre ali che lo compongono sono conservati esempi mirabili di architettura, scultura e oggetti provenienti da Grecia, Iraq, Siria, Turchia che raccontano seimila anni di storia. La meticolosa ricostruzione dell’altare di Pergamo, nella sezione centrale, con resti inediti trovati nella Turchia occidentale tra il 1870 e il 1890 è stupefacente per le dimensioni enormi con la scalinata centrale, la completezza dell’allestimento e la suggestione delle fasce a bassorilievo che corrono lungo il perimetro dell’altare. In tutte le sale di questo trionfo dell’umana creatività, di questo scrigno della bellezza in tutte le sue forme c’è qualcosa che lascia a bocca aperta, ben superiore alle immagini dei libri di storia o di arte, qualcosa che la maggior parte di noi non immaginava così grandioso, così perfetto. E la perfezione annulla il tempo, appiattisce i secoli, ci mette di fronte ai fasti di un passato che qui continua a vivere e a mascherare un potere irripetibile unito a una somma capacità di bellezza. Di fronte alla Porta di Babilonia dedicata alla dea Ishtar, signora del cielo, dea dell’amore e patrona dell’esercito, alla vivacità degli smalti, al realismo degli animali rappresentati, così come di fronte a un bassorilievo del palazzo di Dario a Susa con la sequenza di guerrieri che spiccano sullo sfondo color malachite o di fronte alla stanza di Aleppo minuziosamente ricostruita o alla lunga cimosa della facciata del giordano Palazzo 21 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Milena Buzzoni Berlino: la retorica di ieri, la promessa di domani 22 10-12-2012 18:02 Pagina 22 BERLINO: LA RETORICA DI IERI, LA PROMESSA DI DOMANI Mshatta, ci si domanda: “ma allora è tutto vero?” Senza graffi né scalfitture, le testimonianze delle passate civiltà si offrono a noi, a tutti i visitatori del mondo che mettono piede qui dentro come un regalo da portar via, certo, solo con gli occhi ma con quell’esaltazione e quella sazietà che spesso un pieno di bellezza riesce a dare. Siamo quasi alla fine della nostra vacanza, cominciamo il count down. Sabato mattina un bel sole caldo ci accoglie al Tiergarten, uno dei tanti polmoni verdi della città i cui parchi occupano ben un terzo del territorio. Più che dal richiamo naturalistico siamo spinti dalla curiosità per il mercatino della pulci settimanale. Già dalla metropolitana che corre su binari esterni vediamo lo schieramento delle bancarelle. Ordinato e pulito offre merce di buona qualità. C’è una quantità di posate d’argento dalle più svariate fogge che scintillano al sole, porcellane, quadri, gioielli, cristalli. Non è molto grande e lo percorriamo due o tre volte. Agnese compra tante tazzine colorate a smalto e oro. Federica, appassionata di gatti, ne trova due di porcellana per la sua futura casa. Io mi limito a un cucchiaino traforato con il manico di madreperla e a un paio di irresistibili orecchini da zingara di oro basso. Tra le foglie tenere degli alberi e il cielo azzurro, si intravede la Brandenburger Tor a cui il sole di questo sabato di metà aprile non sottrae severità e un senso di soggezione. In pomeriggio con Lorenzo e Agnese rinunciamo al castello di Charlottenburg dove invece passa il pomeriggio l’altra parte del gruppo, per dare un’occhiata al quartiere turco. Anche questo ristrutturato e animatissimo, offre una sequenza di locali grandi e piccoli i cui déhors sono pieni di giovani. Ci sediamo al tavolo di un bar lungo il fiume a bere una birra e facciamo un giro in un supermercato. Al ritorno ci accorgiamo che, oltre a centinaia di altre cose, manca al nostro itinerario la Gendarmenmarkt, la vecchia piazza del mercato, non troppo lontana dal nostro albergo. È effettivamente una delle più belle piazze di Berlino, lontana dalle avveniristiche strutture di metallo e vetro, elegante nella distribuzione degli edifici: due chiese gemelle in mezzo alle quali si staglia la Konzerthaus di Schinkel che riutilizzò le sei colonne e alcune parti sopravvissute all’incendio del 1817. Il Franzosischer Dom fu costruito per gli ugonotti francesi che si stabilirono a Berlino in seguito alle persecuzioni nel loro paese. Queste vicende sono ricordate nell’annesso museo situato alla base della torre aggiunta alla fine del ‘700 quando Federico III decise di realizzare la piazza. Il suo nome, Gendarmenmarkt, deriva dall’aver ospitato il quartier generale e le scuderie del reggimento delle “Gens d’Armes” un secolo dopo la sua costruzione. Dal bus che ci trasferisce all’aeroporto do un’ultima occhiata in giro: non c’è l’allegria di Parigi, la compostezza di Londra, il disordine di Barcellona, la signorilità di Vienna, la tenerezza di Praga, la suggestione decadente di Lisbona. Non è spensierata questa città che ti guarda dall’alto delle sue facciate, dalla trasparenza dei suoi occhi di vetro, una città dove il passato ha ancora tutto il suo peso e dove la vergogna per l’olocausto si annida ovunque per trasformarsi in un mesto gesto di commemorazione.Non la lascio con la nostalgia con cui di solito lascio luoghi molto lontani, la baia di Halong o le rovine di Ankor dove forse non mi capiterà di tornare. Questa città mi ha sopraffatto con la sua monumentalità soggiogante, con la retorica di una passata architettura fatta di colonnati, timpani, cupole e bronzi e una moderna architettura fatta di cristallo e acciaio, accomunate da una “grandezza” che sembra Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 23 BERLINO: LA RETORICA DI IERI, LA PROMESSA DI DOMANI Milena Buzzoni Berlino: la retorica di ieri, la promessa di domani innata, l’espressione di un carattere. A Berlino c’è un’impronta di forza che certo non si traduce in un gesto di accoglienza e non aiuta a sentirsi a casa. Ma è come se questa forza che la sostiene si trasformasse in energia e desse slancio al futuro. Se i palazzi a volte respingono con l’enfasi delle dimensioni e delle forme, le attività che pulsano in ogni strada attraggono perché ti fanno indovinare le mille possibilità dell’avvenire. La creatività delle gallerie d’arte rompe la staticità degli edifici più severi, gli allestimenti dei più moderni negozi di moda spezzano la sequenza delle facciate più monotone, i caffè affollati di giovani fanno pensare al versante esterno e futuro di una popolazione a cui le idee non mancano. E sono proprio queste a suscitare interesse: viene voglia di sapere cosa passa per la testa di questa gente, di conoscere le sue iniziative, il suo movente, il suo destino. Berlino è soprattutto una città che incuriosisce. Oltre al desiderio di vedere ancora e vedere tutto, ho voglia di saperne molto più di quanto questi pochi giorni mi abbiano consentito. Avrei bisogno di un altro viaggio, un altro soggiorno, ancora un’altra settimana….mi servirebbe un’altra vita. 23 Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 24 Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche 24 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE di Fabrizia Scapinello Nella biblioteca personale di Guido Gozzano conservata presso il Centro Studi Gozzano-Pavese dell’Università di Torino non è possibile riscontrare, né tra le edizioni in lingua francese, né tra le opere pubblicate in Italia, pubblicazioni attribuibili a Friedrich Nietzsche. Tuttavia è lecito ipotizzare che Gozzano abbia letto almeno parzialmente l’opera di un filosofo che negli anni della sua formazione era, nel bene e nel male, al centro di tanta attenzione del mondo accademico e culturale1. Questa apparente lacuna può trovare spiegazione nell’abitudine del poeta a servirsi di libri presi in prestito dalle biblioteche torinesi. In particolare sappiamo che Gozzano era frequentatore assiduo del circolo della Società di 1 Nietzsche visse a Torino dal 5 aprile 1888 fino ai primi giorni del 1889, quando il crollo psicologico definitivo lo costrinse a tornare in Germania. La prima pubblicazione italiana di un’opera nietzschiana giunse un decennio dopo (Al di là del bene e del male, Torino, Bocca, 1898), tuttavia la fama dei suoi scritti si diffuse in Italia ancor prima, attraverso recensioni e articoli. Il periodico «La Rivista Europea» di Firenze, diretta da De Gubernatis, pubblicò già nel 1872 la prima recensione in assoluto dedicata alla Nascita della tragedia. Nel 1882 il filosofo napoletano Antonio Tari tradusse un passo tratto dalla stessa opera (A. TARI, Sull’essenza della musica secondo Schopenhauer ed i Wagneriani, Napoli, «Archivio Musicale», 1882). A partire dal 1893 si susseguirono posizioni discordanti, a favore o severamente contrarie alle tesi esposte dalle opere, la cui diffusione nei primi anni Novanta in Italia fu favorita dalla pubblicazione dell’intera opera in francese a cura della «Société du Mercure de France» (cfr. E. MORSELLI, in «Il Pensiero Italiano», Milano, 1894, vol. X; D. CORTESI, La storia morale di F. Nietzsche, ottobre 1897; «Il Fanfulla della domenica», Roma, 2 agosto 1897.) Ancor prima che Così parlò Zarathustra fosse pubblicato in Italia, Cantalupi scrisse il primo articolo sul Superuomo (Nietzsche, il superuomo e l’amore, «Domenica italiana», 16 maggio 1897) dimostrando di saper comprendere la grandezza del pensiero nietzschiano senza banalizzarlo. Nel 1899 i Fratelli Bocca diedero alle stampe la prima edizione italiana di Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, nella versione di Edmondo Weisel riveduta da Renato Giani. Secondo De Roberto per Nietzsche il Superuomo era destinato a nascere dall’uomo soppresso perché annichilito dal dolore (F. DE ROBERTO, Il Superuomo, in «Il colore del tempo», Milano-Palermo, 1900). Del 1901 è la prima edizione della Gaia scienza tradotta da Antonio Cippico per la casa editrice Bocca. Molti scritti dei primi anni del secolo XX denunciarono ai lettori la pericolosità delle posizioni di Nietzsche, accusato di individualismo e di volersi imporre anche con la violenza. Per Orestano (F. ORESTANO, Le idee fondamentali di Federico Nietzsche nel loro progressivo svolgimento: esposizione e critica, Palermo, Reber, 1903) Nietzsche era il teorico del libero egoismo individualistico. Una lettura più accurata e rispettosa del pensiero del filosofo tedesco fu avanzata invece da Andrea Loforte Randi («Letterature straniere», 1905; ma cfr. anche T. TOSI, F. Nietzsche, R. Wagner e la tragedia greca, Firenze-Roma, Bencini, 1905). Secondo Papini all’origine della filosofia di Nietzsche vi sarebbe stata la reazione ad uno stato di debolezza e cattiva salute (P. PAPINI, Il crepuscolo dei filosofi: Kant, Hegel, Schopenhauer, Compte, Spencer, Nietzsche, Milano, Società editrice lombarda, 1906). Nel 1907 Benedetto Croce diede il patrocinio per la prima edizione italiana della Nascita della tragedia (Ellenismo e pessimismo) curata, per l’edizione Laterza, da Mario Corsi e Attilio Rinieri. Dopo aver dato alle stampe la terza edizione di Così parlò Zarathustra, nel 1910 la casa editrice Bocca di Torino pubblica, tradotta da Aldo Oberdorfer, Ecce Homo: come si diventa ciò che si è. Stimolata quindi anche dalla florida attività di pubblicazione ad opera di Bocca, tra XIX e XX secolo la città di Torino risultava un centro altamente ricettivo nei confronti del pensiero di Nietzsche. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 25 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE 1913: F. Nietzsche, La gaia scienza, Torino, F.lli Bocca, 1905; 1911: F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Torino, F.lli Bocca, 1902; 1913: F. Nietzsche, Le origini della tragedia, Bari, Laterza, 1907; Gozzano aveva l’abitudine di personalizzare in qualche maniera i testi che studiava: il poeta era solito segnare con tratto a lapis alcune pagine delle pubblicazioni che più amava, con le quali aveva una frequentazione più assidua. Si può trovare esempio di tale abitudine anche tra i volumi della sua biblioteca: nel Centro Studi Gozzano-Pavese è possibile osservare i cosiddetti “profili gozzaniani” sia sull’esemplare dei Fioretti di San Francesco d’Assisi2, sia sul Canzoniere di Petrarca3 – per citare solo due esempi4. Si tratta di disegni di volti, spesso femminili, tracciati con sottile segno di matita lungo i margini bianchi delle pagine, segni che presentano caratteri ricorrenti di eleganza e ironia: una vera e propria firma grafica lasciata da Gozzano, che di conseguenza consente di attribuire al poeta un certo tipo di sottolineature tracciate a matita con tratto sottile sulle medesime opere. Gozzano inoltre manifestava un modo personale di sottolineare: dall’osservazione delle opere raccolte nella biblioteca personale del poeta è possibile riscontrare come il tratto orizzontale di sottolineatura spesso anticipi il bordo di impaginazione in cui inizia il rigo, invadendo quindi il margine di stampa sinistro. I margini stessi possono ospitare i cosiddetti “profili gozzaniani”, che si accompagnano talvolta a bozzetti di carattere più comico e disegni caricaturali. L’uso della matita nei modi appena descritti riguarda non soltanto opere di proprietà del poeta, ma anche opere prese in prestito da Gozzano. Si può in un certo senso stimare che l’impronta di Gozzano sia ancora presente in talune delle opere conservate presso la Biblioteca Civica Centrale di Torino. Una delle pubblicazioni a cui probabilmente Gozzano ebbe accesso in tale biblioteca è la seguente: FEDERIGO NIETZSCHE, Le origini della tragedia ovvero Ellenismo e Pessimismo, trad. di M. Corsi e A. Rinieri, Bari, Laterza & Figli, 1907 (segnatura COLL.34.23). 2 I Fioretti di San Francesco e Il Cantico del Sole, con prefazione di G. Bertacchi, Milano, Sonzogno, 1915 (BIBL. GOZZ. 45). 3 F. PETRARCA, Le rime […]di su gli originali commentate da Giosuè Carducci e Severino Ferrari, Firenze, G.C. Sansoni Editore, 1899, sonetto XXV (BIBL. GOZZ. 14). Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche Cultura, che comprendeva al proprio interno una fornita biblioteca del cui catalogo disgraziatamente non rimane alcuna traccia. Altro punto di riferimento per le letture gozzaniane era la Biblioteca Civica Centrale, situata a Torino in Via della Cittadella 5. Nel catalogo sono presenti alcune opere di Nietzsche pubblicate in lingua francese dalla casa editrice Société du Mercure a cavallo dei secoli XIX e XX, ma soprattutto alcune edizioni italiane di opere tedesche di recentissima pubblicazione. Attraverso la consultazione dei registri d’ingresso della Biblioteca Civica è possibile selezionare un ristretto numero di testi conservati in tale biblioteca già prima del 1916, anno della morte del poeta. Si tratta di tre pubblicazioni il cui lemma è qui preceduto dalla data d’ingresso: 25 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche 26 10-12-2012 18:02 Pagina 26 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE Ad avvalorare tale ipotesi è il ritrovamento a p. 113 di un disegno semicancellato attribuibile con buona sicurezza al poeta. Il tratto a lapis raffigura due teste maschili con evidenti tratti caricaturali. Risulta impossibile avanzare una interpretazione riguardo all’identità dei soggetti, ma lo stile grafico appare conforme ai numerosi bozzetti gozzaniani inclusi in Libri e lettere di Mariarosa Masoero o osservabili presso il Centro Studi “Gozzano-Pavese”, diretto dalla stessa Masoero. Qui sopra sono raffigurati i suddetti bozzetti: a sinistra compaiono in forma originale e a destra sono messi in evidenza con intervento grafico. A seguito di tale ritrovamento, le sottolineature presenti su tale pubblicazione hanno acquisito un valore particolarmente significativo, tanto da suggerirne una più accurata analisi. Dall’attenta osservazione delle pagine emerge la presenza di sottolineature di carattere eterogeneo: alcune sottili e a tratto leggero, altre spesse e con segni molto evidenti. Appare molto probabile che tali differenti sottolineature risalgano a più di una mano, e di conseguenza a momenti storici diversi. Fino a pochi mesi fa la pubblicazione risultava disponibile al prestito, ed è quindi facile immaginare che possa essere stata oggetto di studio da parte di numerose e differenti tipologie di lettori. Nonostante sia molto difficile ricostruire con completa coerenza la mappatura dei segni che emergono dalle pagine, e sia altresì impossibile ipotizzare un’identità da attribuire a ciascuno di essi, si riconoscono caratteri ricorrenti in almeno due tipologie di sottolineatura. Un primo tipo di sottolineatura, grave e spessa, condotta a matita, appare risalire ad epoca recente e risulta totalmente estranea alla mano di Gozzano. La sottolineatura fine – tracciata leggermente con punta di matita e con alcuni fenomeni di anticipazione del rigo (analoghi a quelli osservabili nella biblioteca di Gozzano) – sembra invece riconducibile al poeta torinese. Volendo concentrare l’analisi soltanto sulla base dell’osservazione di questo secondo tipo di sottolineatura, tralasciando perciò ulteriori commenti riguardo a segni ad esso non conformi, è opportuno specificare che tali tratti lineari di messa in evidenza si presentano regolarmente in interlinea. A volte brevi e isolati frammenti di testo vengono messi in rilievo, in altri casi si evidenziano termini tra loro distanti sul rigo ma ugualmente capaci di consegnare al lettore un ordine sintattico dotato di senso. Le sottolineature gozzaniane interessano il testo in maniera quasi continua fino al capitolo XIX; 4 Per una più ampia argomentazione riguardo ai “profili gozzaniani” e ai volumi della biblioteca del poeta cfr. M. MASOERO, Guido Gozzano. Libri e lettere, Firenze, Olschki, 2005. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 27 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE L’artista plastico, come l’artista epico che gli assomiglia, si tuffa nella contemplazione delle imagini. Senza l’aiuto di nessuna imagine il musicista dionisiaco è lui solo e di sé stesso il dolore e l’eco primordiale di esso11. L’unico punto di contatto tra queste due poetiche è raggiunto dal «genio lirico», il quale «sente in sé nascere, sotto la mistica influenza della rinuncia all’individualità e dello stato d’identificazione, un mondo d’imagini e di simboli12». Queste righe rispecchiano alcune fra le trattazioni fondamentali per la definizione del pensiero nietzschiano, e giustamente il senso critico di Gozzano le ha poste in evidenza. «Il vero canto», «espressione di uno stato d’animo ora così complesso, ora così semplice», è poi il cardine del discorso estetico nietzschiano quale è divulgato in Italia dal trattato La beata riva di Angelo Conti13. 5 F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia ovvero Ellenismo e Pessimismo, trad. di M. Corsi e A. Rinieri, Bari, Laterza & Figli, 1907, p. XIII. 6 Ivi, p. 40. 7 Ibidem. 8 Ivi, p. 51. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 60. 12 Ibidem. 13 Cfr. A. CONTI, La beata riva. Trattato dell’oblio, Milano, Treves, 1900, p. 215: «Quando l’artista riesca a mettersi in comunicazione diretta e immediata con l’anima delle cose, egli è la voce stessa della natura». L’opera di Conti fu oggetto di grande curiosità e attenzione da parte del mondo italiano non solo accademico all’inizio del secolo XX. L’autore si presentava come primo entusiasta divulgatore e discepolo delle tesi di Schopenhauer in Italia. Il testo divenne punto di riferimento per molti autori novecenteschi (tra cui Gabriele d’Annunzio) che ne riconobbero e apprezzarono la portata rivoluzionaria dei contenuti filosofici tramandati. Anche per la diffusione delle idee di Nietzsche in Italia il testo di Conti ebbe certamente un ruolo fondamentale. Riguardo ai meriti di Conti nella divulgazione di Nietzsche e Schopenhauer un contributo molto importante è costituito dal saggio di VALTER BOGGIONE, Ad Arturo per Ariele: Gozzano lettore della “Beata Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche tuttavia appaiono più frequenti in particolare nella prima parte – dove predomina l’argomento estetico –, mentre vanno a diradarsi laddove il filosofo tedesco si concentra sull’esposizione della teoria circa la nascita del genere tragico sotto un punto di vista quasi antropologico. Le sottolineature diventano sporadiche dal capitolo XI, in corrispondenza della spiegazione circa le cause del declino della tragedia nella civiltà greca e delle responsabilità del pensiero razionale diffuso da Socrate. Le sottolineature presenti nella Prefazione e nel Tentativo di autocritica si concentrano sulla figura di Nietzsche e sul suo interesse per l’ellenismo («Nietzsche pensava che l’ideale classico fosse modello imperituro anche per l’epoca moderna5»), per poi toccare le riflessioni circa il rapporto dell’uomo greco col dolore: nell’opposizione a quest’ultimo è riconosciuta la vera spinta verso l’ideale di bellezza comunemente associato alla cultura greca. Nel capitolo II Gozzano dimostra interesse per la teoria che associa la musica all’elemento dionisiaco; in particolare il ditirambo sarebbe capace di condurre l’uomo «alla più grande esaltazione6» e di presentare «l’Essere assoluto come genio tutelare della riproduzione, cioè la natura7». Al contrario Apollo è indicato come «l’imagine divinizzata del principium individuationis 8», «divinità etica9» che «esige dai suoi la misura10». La definizione oppositiva di “apollineo” e “dionisiaco” genera il riconoscimento di due categorie di artisti: 27 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche 28 10-12-2012 18:02 Pagina 28 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE Il capitolo VI sottopone all’attenzione di Gozzano il ruolo speciale che Nietzsche attribuisce alla poesia popolare: «la canzone popolare ci appare come specchio musicale del mondo, come melodia primordiale, palesandosi un’apparizione di sogno, e ciò come poesia14». La connessione con l’opera di Gozzano è piuttosto immediata: la poesia La via del rifugio, collocata in apertura dell’omonima raccolta, si sviluppa proprio partendo da una filastrocca popolare. I versi della tradizione si alternano alle quartine del poeta avvolgendole in maniera ipnotica e trasportando il lettore in una dimensione sospesa tra due racconti che gradualmente sembrano sovrapporsi: Trenta quaranta / Tutto il mondo canta / Canta lo gallo / Risponde la gallina… // Socchiusi gli occhi, sto / Supino nel trifoglio / E vedo un quadrifoglio / Che non raccoglierò. // Madama Colombina / si affaccia alla finestra / con tre colombe in testa: / passan tre fanti...15 Un altro esempio dell’interesse di Gozzano nei confronti della cultura e della musica popolare è rappresentato dal “melologo popolare” La notte santa. Il componimento presenta i caratteri del genere popolare sia nella struttura (ciclico alternarsi di quartina e distico, quartina e distico secondo uno schema di rime ABAB CB, ecc.), sia nella scelta di un argomento attinto della tradizione: – Consolati, Maria, del tuo pellegrinare! / Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei. / Presso quell’osteria potremo riposare, / ché troppo stanco sono e troppo stanca sei. // Il campanile scocca / lentamente le sei16. A partire dal capitolo VII, Nietzsche supera i precetti estetici e si addentra nella teoria circa la nascita del genere tragico. Attraverso il coro, la Grecia osservò gli «spaventosi cataclismi» della Storia: all’arte è riconosciuta la funzione consolatoria perché capace di trasportare l’uomo tra le braccia dell’oblio. Il disgusto verso il reale si trasforma in «un’esistenza dalle imagini ideali17». Dalle sottolineature successive è evidenziato il carattere speciale attribuito al satiro, definito «sognatore entusiasta» depositario dell’elemento dionisiaco e testimone del «fenomeno drammatico primordiale: vedersi trasformato dinanzi a sé stesso ed agire allora come se si vivesse realmente in un altro corpo, con un altro carattere18». Del capitolo X del trattato nietzschiano a Gozzano interessa in particolare come la maschera di Dioniso sia riconoscibile dietro le vesti di molti personaggi mitologici greci: la figura di Prometeo per esempio, condannato a patire lo strazio per essere sceso tra gli uomini, è l’emblema della sofferenza generata dall’individuazione. Secondo Nietzsche solo l’«erculea forza della musica19» può liberare l’uomo dalla sofferenza dello stato d’individuazione. La matita del poeta torinese scorre poi sulle pagine dedicate a Euripide, definito come responsabile riva”, in D’Annunzio e dintorni. Studi in memoria di Ivanos Ciani, Pisa, ETS, 2006, pp. 69-97. Nel testo sono messi in evidenza i punti di contatto tra l’opera di Gozzano e il pensiero dei due grandi filosofi, con particolare attenzione al ruolo chiave giocato da Conti quale mediatore intellettuale e promotore di idee di respiro europeo. 14 F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit., p. 67. 15 G. GOZZANO, La via del rifugio, vv. 1-8, in Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, Milano, Mondadori, 1980, p. 69. 16 G. GOZZANO, La notte santa, vv. 1-6, in Tutte le poesie, cit., p. 356. 17 F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit, p. 83. 18 Ivi, p. 89. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 29 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE Socchiudo gli occhi, estranio / ai casi della vita. / Sento tra le mie dita / la forma del mio cranio… // Ma dunque esisto? O strano! / Vive tra il Tutto e il Niente / questa cosa vivente / detta guidogozzano!21 L’esperienza del distacco dall’io è qui il primo passo verso il raggiungimento della massima aspirazione del poeta: «l’inconsapevolezza». Certo non ci si può nascondere che, stando alla data d’ingresso della pubblicazione nella Biblioteca Civica torinese, le sottolineature sarebbero da collocarsi in data posteriore al 1913. Tuttavia l’affinità tra le tesi di Nietzsche e le poesie composte da Gozzano tra il 1903 e il 1907, poi raccolte nella Via del rifugio, suggerisce che molto probabilmente il poeta avesse già avvicinato il testo attraverso la lettura dell’edizione francese ad opera della «Société du Mercure», oppure che avesse già avuto in mano la traduzione italiana, ma in altra copia. È importante osservare che sin da principio il poeta riconosce l’attenzione riservata da Nietzsche ad un preciso momento storico-culturale: «la più completa, la più bella, la più invidiata, la più viva fra le razze umane, la greca»22, colta nel suo periodo di maggiore fulgore artistico e intellettuale. Nella prosa nietzschiana l’indicazione storica diventa il pretesto per la speculazione estetica in cui centrale è l’esposizione dei concetti complementari e opposti di “apollineo” e “dionisiaco”. Gozzano dimostra interesse per tale andamento discorsivo: Quando noi incontreremo “ l’ingenuità “ nell’arte, dovremo riconoscere in essa la più alta espressione della cultura apollinea, la quale, sempre, deve da prima abbattere un impero di titani, vincere dei mostri, e, con la presente illusione de’ sogni felici, trionfare sul profondo orrore dello spettacolo del mondo e sulla esacerbata sensibilità al dolore. [...] Noi tendiamo le braccia verso quell’immagine e, per la nostra illusione, la natura raggiunge la sua meta. Per i greci la “ Volontà “ voleva contemplarsi da sé stessa nella trasfigurazione del genio e dell’arte; per glorificarla occorreva che le creature di questa “ Volontà “ si sentissero da sé stesse degne d’essere glorificate. [...] Questa è la sfera della bellezza in cui le creature olimpiche vedevano la loro propria immagine. Con l’aiuto di questo miraggio di bellezza, la “ Volontà “ ellenica combatte l’attitudine correlativa alla sofferenza, la sapienza cioè del male e del dolore; e, come un monumento commemorante la sua vittoria, s’innalza a noi Omero, l’artista ingenuo23. Gli echi di Nietzsche sono nuovamente evidenti nella prima produzione di Gozzano: il carattere ingenuo dell’artista e il riconoscimento dell’arte come 19 20 21 22 23 Ivi, p. 111. Ivi, p. 130. G. GOZZANO, La via del rifugio, vv. 29-32, in Tutte le poesie, cit., p. 70. F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit, p. 2. Ivi, pp. 47-48. Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche della morte «volontaria» della tragedia greca poiché portavoce di ciò che Nietzsche chiama «socratismo estetico20». Si tratta di teorie non estranee alla prima produzione di Gozzano: il componimento La via del rifugio prima citato è interamente dedicato allo slancio verso lo scioglimento dal vincolo del principium individuationis: 29 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche 30 10-12-2012 18:02 Pagina 30 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE unico strumento di rifugio dal dolore dell’esistenza sono tappe fondamentali per approdare alla «via del rifugio». La meta suggerita del titolo della raccolta poetica è indicata lungo un sentiero tracciato dalla natura e dall’arte. L’uomo si confronta con un’ineludibile condizione di dolore implicita nella propria natura. L’unica possibile soluzione è l’oblio: Resupino sull’erba / (ho detto che non voglio / racorti, o quadrifoglio) / non penso a che mi serba // la Vita. Oh la carezza / dell’erba, non agogno / che la virtù del sogno: / l’inconsapevolezza24. In altre poesie della Via del rifugio troviamo ulteriori tracce dell’aspirazione al distacco dall’individuazione. Nell’impossibile dialogo con un’oca nella Differenza assistiamo ad una riflessione di fronte al destino fatale: «la Morte non esiste: / solo si muore da che s’è pensato. / Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!»25. Similmente nell’Amica di nonna Speranza le confidenze tra due adolescenti lasciano spazio a desideri di dissoluzione: «Il Lago s’è fatto più denso / di stelle — …che pensi? … — Non penso… — Ti piacerebbe morire? / Sì! — Pare che il cielo riveli più stelle nell’acqua e più lustri. / Inchìnati sui balaustri: sognamo così tra due cieli… / son come sospesa: mi libro nell’alto!...»26. Lo strumento più efficace per raggiungere il distacco dal principium individuationis è la musica, forza creatrice generata dal genio: il tema presenta evidenti vicinanze con il pensiero di Nietzsche. Miecio Horszovski, altro sonetto incluso nella Via del rifugio, è dedicato al celebre pianista polacco allora dodicenne. Qui il tema dell’arte è inoltre connesso con il mondo dell’infanzia. È assai probabile che La beata riva di Angelo Conti possa nuovamente essere un riferimento importante per queste riflessioni estetiche27. La tensione verso l’«Assoluto» è certamente tematica debitrice a Nietzsche, con il notevole influsso del trattato di Conti: L’apparizione dell’idea segna per l’uomo una tregua al suo dolore, è la visione d’un porto ove potrebbe approdare dopo la tempesta della passione, è l’apparizione della beata riva, ov’egli potrebbe bere la pura acqua che fa dimenticare28. Come già evidenziato da Boggione, il riferimento alla Beata riva compare come ripresa testuale nella poesia di Gozzano La più bella, pubblicata nel luglio 1913 su «La lettura». Il superlativo è rivolto ad un’isola favolosa, l’«Isola Non-trovata», di cui il poeta parla con tono incantato e divertito. Al v. 21 Gozzano sceglie una formula che risulta citazione del titolo contiano: «radono con le prore quella beata riva»29. È vero che la formula è attestata prima di Conti in Dante30, ma il tono di questo componimento autorizza a pensare G. GOZZANO, La via del rifugio, vv. 37-44, in Tutte le poesie, cit., p. 70. G. GOZZANO, La differenza, vv. 10-12, in Tutte le poesie, cit., p. 104. G. GOZZANO, L’amica di nonna Speranza, vv. 95-99, in Tutte le poesie, cit., p. 96. 27 A. CONTI, La beata riva, cit., p. 26-27: «L’artista è come un fanciullo a cui tutte le cose producono un senso di meraviglia. […] Le medesime cose che il bambino chiede, chiede il filosofo e chiede l’artista. Il quale, al cospetto della natura, ritrova la sua anima infantile;». 28 A. CONTI, La beata riva, cit., p. 215-216. 29 G. GOZZANO, La più bella, v. 21, in Tutte le poesie, cit., p. 283. 30 DANTE, Purg., XXXI, 97: «Quando fui presso alla beata riva». 24 25 26 Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 31 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE S’annuncia col profumo, come una cortigiana, / l’Isola Non-Trovata… Ma se il piloto avanza, // rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell’azzurro color di lontananza…31 «L’Isola Non-Trovata» ha per il poeta lo stesso valore già giocato nella Via del rifugio dal «quadrifoglio / che non raccoglierà»32, poiché entrambe le circostanze diventano occasione per scegliere l’abbandono e rifiutare la voluntas: la strada che nella Via del rifugio conduceva all’inconsapevolezza qui trasporta il poeta in una dimensione “altra” e sospesa, proprio grazie all’impossibilità di essere percepita con lo sguardo. Tuttavia dalle sottolineature di Gozzano sul volume Le origini della tragedia si può vedere come la diretta conoscenza del pensiero di Nietzsche sia la tessera mancante in questo mosaico di riferimenti: Nel culto della bellezza l’unico rifugio contro la vita, l’unica possibilità di pace33. Soltanto come fenomeno estetico l’esistenza del mondo può essere giustificata34. La traccia della conoscenza di Nietzsche è riscontrabile anche dal limpido riscontro dell’Albo degli appunti, manoscritto che raccoglie le sperimentazioni compositive e le citazioni raccolte dal poeta nel periodo precedente alla pubblicazione dei Colloqui. Tra le opere compulsate ci sono anche testi di Nietzsche: in particolare tra il 1906 e il 1907 Gozzano riporta veri e propri estratti da opere del filosofo e si confronta con una figura tanto importante35: 18. 19. 20. 21. 22. 23. Nietzsche – il professore – bellezza d’una immagine interiore: facoltà apollinea sfuggire al pessimismo con una contemplazione della bellezza, dire alla vita: ti voglio, perché la tua immagine è bella, tu sei degna non di essere vissuta, ma di essere sognata36. Il frammento estratto dall’Albo degli appunti presenta numerosi elementi di vicinanza con la trattazione nietzschiana. La fonte di tali tematiche è facilmente riconoscibile nelle Origini della tragedia, edito in Italia proprio nel 1907: L’analogia del sogno può darci un insegnamento intorno alla natura di questo artista ingenuo [Omero]. Nella medesima guisa che di due metà della vita, – quella in cui noi siamo svegli e quella del sogno, – la prima ci appare incomparabilmente più perfetta, G. GOZZANO, La più bella, vv. 25-28, in Tutte le poesie, cit., p. 283. G. GOZZANO, La via del rifugio, v. 7-8, in Tutte le poesie, cit., p. 69. 33 F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit., p. XIII. 34 Ivi, p. 11. 35 Il richiamo ad una lettura diretta di Nietzsche da parte di Gozzano è stato suggerito per la prima volta da FRANCO CONTORBIA, Il sofista subalpino, Cuneo, L’arciere, 1980, pp. 16-18. 36 G. GOZZANO, Albo dell’officina, a cura di N. Fabio-P. Menichi, Firenze, Le lettere, 1991. 31 32 Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche che il racconto dell’isola favolosa veicoli anche un messaggio estetico degno d’attenzione: 31 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Fabrizia Scapiniello Gozzano lettore di Nietzsche 32 10-12-2012 18:02 Pagina 32 GOZZANO LETTORE DI NIETZSCHE più importante, più degna di essere vissuta, io direi anzi la sola vissuta, nella stessa guisa io vorrei sostenere, per quanto possa sembrare un paradosso, che il sogno delle nostre notti ha un’eguale importanza, in confronto di quell’essenza misteriosa della nostra natura, di cui noi siamo l’apparenza esteriore. [...] Noi siamo costretti a concepirla come il vero Non-Ente, cioè come un continuo divenire nel tempo, nello spazio e nella causalità, in altre parole come una realtà empirica37. L’ambiguo rapporto tra sogno e realtà, presente in numerosi componimenti raccolti nella Via del rifugio, appare quindi coerente con la poetica espressa da Nietzsche nelle Origini della tragedia. L’aspirazione al sogno, all’inconsapevolezza, è uno dei contenuti più speciali del primo periodo della produzione di Gozzano. Parallelamente, il riconoscimento di un inedito valore attribuito all’ingenuità è elemento riscontrabile sia nei passi nietzschiani prima citati, sia nella prima raccolta poetica di Gozzano. Ulteriore esempio ne sia l’analfabeta protagonista dell’omonimo componimento di Gozzano: non soltanto costui è depositario delle verità della Natura, ma incarna l’analogo di Omero nelle Origini della tragedia. È l’artista ingenuo, che attraverso l’inconsapevolezza sa attingere alle più profonde radici del reale. Possiede il privilegio di un rapporto dialettico con la natura nient’affatto dissimile da quello cui Nietzsche anela prima nelle Origini della tragedia e poi nello Zarathustra: «Guardi le stelle attingere i fastigi / dell’abetaia, contro il cielo, e l’orsa / volger le sette gemme alla sua corsa; / senti il ritmo macàbro delle strigi / e il frullo della nottola ed il frullo della falena… Pel sereno illune / spazi tranquillo, vecchio saggio immune. / La tua pupilla è quella di un fanciullo»38. Alla luce di queste osservazioni appare dunque fuor di dubbio l’influenza feconda che la potenza evocativa delle parole di Nietzsche fu in grado di esercitare sull’humus culturale da cui Gozzano stava per trarre la sua prima raccolta di poesie. Le citazioni di Nietzsche diventarono in seguito più disinvolte, a partire dall’elaborazione di quella poetica della Natura come depositaria delle “forme prime” di cui si alimenta la produzione immanentista di Gozzano, e in particolare Le epistole entomologiche. Tuttavia rimane molto interessante assistere da vicino e testimoniare l’interesse che il giovane poeta torinese nutrì nei confronti di un testo così rivoluzionario come Le origini della tragedia. 37 38 F. NIETZSCHE, Le origini della tragedia, cit., 48-51. G. GOZZANO, L’analfabeta, vv. 145-152, in Tutte le poesie, cit., p. 80. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 33 33 di Giuliana Rovetta È solitamente durante l’estate che il desiderio di viaggiare si fa sentire, come occasione per cambiare abitudini ma a volte anche come ansia di scoperta. L’orizzonte può essere vicino o lontanissimo, esotico o domestico: quel che conta è la capacità di vedere luoghi diversi con occhi curiosi, attenti, e soprattutto conta la possibilità, al rientro nel proprio ambiente, di ritrovare il panorama abituale leggermente cambiato rispetto a quando l’abbiamo lasciato. Allora avremo compiuto un viaggio di andata che avrà aggiunto al nostro repertorio d’immagini delle suggestioni mai viste prima, mentre al ritorno la nostra quotidianità si sarà arricchita di qualche piccola sfumatura fino ad allora nascosta al nostro sguardo distratto. Approfittare dell’estate per fare un viaggio virtuale senza tappe obbligate, senza alcuna costrizione di repertoriare gli eventi, semplicemente attraversando le letterature di altre parti del mondo: ecco un buon modo di evadere dalla nostra quotidianità. Entrando in contatto con voci a cui il nostro orecchio è poco assuefatto, si potrà ampliare la capacità d’ascolto al di là dei vincoli linguistici. Potrà anche essere la via per avvicinare, con la personale sensibilità di ognuno, temi che non fanno parte della nostra tradizione culturale. E potrà infine presentarsi l’opportunità di accostarsi al patrimonio letterario che segna e denota la nostra appartenenza con strumenti nuovi di analisi e apprezzamento. Volendo spingerci, come prima tappa, molto lontano dal nostro orizzonte ordinario (ma sempre ricordando, come afferma Macé-Scaron, che rien de ce qui est littéraire ne nous est étranger1) constatiamo che alla radice della scrittura dei grandi autori sud-africani degli anni 1980 sta ancora l’apartheid e il modo in cui ognuno di essi si definisce in rapporto al problema della segregazione. Così se Nadine Gordimer, da una posizione privilegiata nella comunità bianca anglofona di Johannesburg, conduce la sua battaglia contro la differenza razziale e tutti i pregiudizi connessi, dando spazio nei suoi romanzi e nei suoi saggi in uno stile colto (Flaubert, Eliot, James sono i suoi riferimenti) alle tensioni di una terra “profumata e colorata” che non ha mai voluto lasciare2, altri come André Brink puntano alla appropriazione e trasformazione della lingua coloniale col recupero della scrittura in afrikaans. In più entrambi valorizzano un punto di vista anche femminile, più riflessivo e sofferto, in relazione al difficile snodo fra l’esperienza dell’apartheid e il lento percorso volto a sanare le fratture ereditate dal passato. Anche quando le opere scritte in inglese gli hanno dato la notorietà, Brink non ha mai smesso di mettere in guardia su certi atteggiamenti discriminatori, tanto più se ovvi e quasi invoJoseph Macé-Scaron, Du goût des autres, Magazine Littéraire, n. 522, 2012. Nadine Gordimer, I giorni della menzogna (The Lyng Days, 1953), Feltrinelli, Milano, 1987; Il Conservatore (The Conservationist,1972) La Tartaruga, Milano, 1987; La figlia di Burger (Burger’s Daughter, 1979), Feltrinelli, Milano, 1992; L’aggancio (The Pickup, 2001), Feltrinelli, Milano 2001. 1 2 Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo DA QUATTRO ANGOLI DEL MONDO Satura 19-2012 nero:Layout 1 Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo 34 10-12-2012 18:02 Pagina 34 D A Q U AT T R O A N G O L I D E L M O N D O lontari, come quelli assunti dalla sua famiglia d’origine: “Fino a quando non sono partito per un viaggio di studio a Parigi ho sempre vissuto in una comunità bianca molto razzista”, afferma riferendosi soprattutto al padre magistrato, incaricato di amministrare la giustizia nei vari distretti del Sud Africa3. Meno centrata sul tema predominante della situazione dei neri nella Rhodesia del Sud, dove ha vissuto a lungo nella fattoria dei genitori, Doris Lessing spazia attraverso stili e scritture diverse: il presente storico, la fantascienza, il sufismo, e sempre sullo sfondo i controversi affetti familiari. Per quanto riguarda i rapporti tesi e difficili fra i coloni inglesi e gli indigeni di quella zona (che corrisponde all’odierno Zimbabwe) la scrittrice manifesta la sua comprensione sia per le sofferenze degli abitanti autoctoni che per le frustrazioni dei colonizzatori, alle prese con una terra infruttuosa malgrado ogni sforzo4. Sempre molto determinato nell’approccio ai problemi del suo tempo J. M. Coetzee, nato a Cape Town ma con non lontane ascendenze olandesi e polacche, opera un certo décalage in direzione dell’attualità per poi farsi cantore dell’orientamento post-colonialista del suo tempo. Molti sono i temi della società moderna che toccano la sua sensibilità di scrittore nelle due lingue (inglese e afrikaans) e di uomo rigoroso, integerrimo, per nulla incline al compromesso. La sua immagine, che corrisponde a un giovanile settantenne dall’aspetto severo e quasi ascetico, risulta poco nota malgrado il clamore mediatico degli innumerevoli riconoscimenti che gli sono stati conferiti, in primis il Nobel nel 2003. Questa assenza dalla ribalta, che non è tuttavia simile alla scomparsa radicale ed enigmatica di un Salinger o di un Pynchon, Coetzee è disposto ad interromperla per affrontare, sempre con un linguaggio fermo e quasi lapidario, questioni del vivere civile che lo coinvolgono (o più spesso lo indignano) come la pretesa antropocentrica nei confronti dell’ambiente e degli animali5. Le opere dei suoi esordi esulano dal contesto strettamente sudafricano per evocare con asprezza i rapporti di sopraffazione e soggezione che determinano in generale la vita dei deboli rispetto ai forti. Il suo atteggiamento non viene assunto in obbedienza ad un credo politico, ma piuttosto per evidenziare il bisogno connaturato nell’uomo di avere come riferimento una legge morale. Nel romanzo In the Heart of the Country una giovane donna nubile persa nella soffocante solitudine di una fattoria isolata del Sudafrica evoca nel corso di 266 monologhi la figura di un padre tirannico e violento che in un crescendo di orrore e disgusto annienta in lei ogni sentimento d’affetto fino a condurla alla follia6. Più direttamente in Waiting for the Barbarians, l’autore 3 André Brink, Un’arida stagione bianca (A Dry White Season, 1966), Frassinelli, Torino, 1989; La polvere dei sogni (Imagining of Sand, 1996), Feltrinelli, Milano, 1998; Desiderio (The Rights of Desire, 2000), Feltrinelli, Milano, 2001. 4 Doris Lessing, L’erba canta (The Grassi is Singing, 1950), La tartaruga, Milano, 2000; Martha Quest (Martha Quest, 1952), Feltrinelli, Milano, 1997; Racconti africani (African Stories, 1964), Felrinelli, Milano, 1997. 5 J.M.Coetzee, The Lives of Animals, Princeton University Press, Princeton, 1999. La vita degli animali, Adelphi, Milano, 2000, traduzione di Franca Cavagnoli e Giacomo Arduini. Proprio in questo testo appare per la prima volta il personaggio di Elizabeth Costello, scrittrice australiana di fama che in diverse conferenze nelle varie parti del mondo esprime con determinazione i suoi punti di vista su vari temi anche molto controversi e complessi che sono poi quelli cari all’autore. Elizabeth Costello, Penguin, Londra, 2004, è stato pubblicato da Einaudi nel 2004, nella traduzione di Maria Baiocchi. 6 J.M.Coetzee, Nel cuore del paese (In the Heart of the Country, 1977), Einaudi, Torino, 2007, traduzione di Franca Cavagnoli. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 35 D A Q U AT T R O A N G O L I D E L M O N D O Facilmente s’intuisce che il mondo post-apartheid descritto con parole taglienti e strazianti da Coetzee è tutto meno che addomesticabile in categorie ben definite. Da una parte i beni, che non bastano per tutti, dall’altra l’insicurezza come prezzo da pagare alla storia per i delitti commessi nel passato. Umiliazione e dignità sono i due termini che polarizzano i sentimenti di persone che non sono mai completamente né dalla parte della ragione né dalla parte del torto, ma alla ricerca di una, purtroppo ancora lontana, pacificazione. 7 J.M. Coetzee, Aspettando i barbari (Waiting for the Barbarians,1980), Einaudi, Torino, 2000, traduzione di Maria Baiocchi. 8 J.M. Coetzee, Vergogna (Disgrace, 1999), Einaudi, Torino, 2000, traduzione di Gaspare Bona. Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo denuncia in termini aspri e incondizionati le derive coloniali e dittatoriali delle grandi potenze. La minaccia dei barbari ai margini dell’Impero è lo spunto di questo romanzo che evoca nel titolo il poeta Kavafis e nella trama Il deserto dei Tartari di Buzzati: l’incertezza su chi sia veramente l’aggressore, unita agli equivoci di coloro che si sentono vittime dell’assedio in una fantomatica fortezza di frontiera, evoca situazioni di divisione e paura come quelle che in Sudafrica hanno stentato a dissolversi pur con la fine dell’apartheid 7. E infatti lo strascico di angoscia e risentimento che le nuove soluzioni politiche in senso democratico non sono state in grado di cancellare, segna una nuova epoca di contrapposizione. Raccontando in Disgrace8 la caduta in disgrazia di David Lurie, professore bianco dai raffinati gusti letterari, messo poi al bando dalla comunità universitaria e dall’intera società per i suoi atteggiamenti giudicati immorali e provocatori, Coetzee sembra voler spiegare l’impossibilità di questa sperata riconciliazione. Mentre assiste alla progressiva sottrazione delle prerogative del suo successo, il protagonista trascina con sé nel baratro tutti i valori in cui crede, che sono poi quelli della democrazia e della cultura. Un destino individuale viene così assunto a simbolo della regressione verso una nuova barbarie, ammantata di buoni sentimenti ma bloccata nella sua verità storica ad uno stadio lontano dalla modernità. Quando si troverà, impotente, a dover avallare una scelta per lui irragionevole della figlia Lucy, il protagonista si scontra proprio con questa paralizzante realtà. La giovane, convinta in coscienza di dover scontare gli errori della élite dei colonizzatori da cui discende per guadagnarsi il permesso di restare su quella terra, in fondo non veramente sua, così dialoga col padre: “No di qui non me ne vado. Cerca Petrus e riferiscigli quello che ti ho detto. Gli cederò la terra con un regolare atto di proprietà. Sarà musica per le sue orecchie”. C’è una lunga pausa in cui nessuno dei due parla. “Che umiliazione, -dice David alla fine-. Tante grandi speranze per poi ridursi così”. “Sì, concordo con te, è umiliante. Ma forse è il punto di partenza giusto per ricominciare da capo. Forse è una lezione da accettare. Bisogna saper ricominciare dal fondo. Senza niente. Senza una carta da giocare, senza un’arma, senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità”. “Come un cane”. “Sì, come un cane”. 35 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo 36 10-12-2012 18:02 Pagina 36 D A Q U AT T R O A N G O L I D E L M O N D O La distanza aerea fra Johannesburg e Tokyo è di circa 18 ore: un lungo volo per passare da un mondo ad un altro. Come in altre parti del pianeta anche nell’arcipelago giapponese nulla è uniforme: la discontinuità corre lungo linee di frattura in una società che appare ben organizzata ma è sostanzialmente fragile. A illuminarci sulle insidiose discordanze del suo paese, con una scrittura che moltiplica i personaggi e gli effetti nel corso di narrazioni dal percorso labirintico, è un autore dalla forte personalità e dalla formazione in parte cosmopolita. Se si fa cenno a Haruki Murakami viene subito in mente il testo di grande successo intitolato cripticamente 1Q84 (ma con un’evidente allusione orwelliana: la lettera Q tiene il posto del numero 9)9. Ma vale la pena di percorrere le tappe dell’avvicinamento alla scrittura di questo intrigante personaggio che alterna un’intensa attività fisica da podista (ha corso in Grecia la maratona del 1983) con la posizione sedentaria del narratore, rendendo complementari due modalità di espressione quasi antitetiche allo scopo di potenziare, attraverso la loro interazione, la forma sia fisica che mentale. I circa dieci chilometri che s’impegna a percorrere quotidianamente sono il viatico per una giornata all’insegna della libertà di pensiero, mediata da una concentrazione quasi monacale10. Lo scenario degli anni giovanili di Murakami, nato a Kyoto, è la città portuale di Kobe, luogo deputato ai ricordi anche per Dacia Maraini e la sua famiglia d’origine. Quando cura la pubblicazione dei diari di sua madre, una cruda testimonianza delle difficoltà di sopravvivenza in Giappone per gli oppositori della Repubblica di Salò, Maraini parla di una ferita mai rimarginata11. Anche Murakami sente viva alle spalle una storia tragica, da ricordare con emozione e con stringenti interrogativi, e questa riguarda in particolare la guerra sinogiapponese, teatro di azioni, premeditate o inconsulte, di estrema atrocità. La parziale occidentalizzazione di questo scrittore, che ha conosciuto da studente le opere di autori inglesi come Fitzgerald e Carver, e che, dopo aver viaggiato in Grecia e in Italia, ha insegnato nell’università americana di Princeton, non è mai disgiunta da un forte senso di appartenenza a quell’identità giapponese che se pure ha mutuato, nel cammino verso la modernità, alcuni caratteri dalla cultura occidentale, non potrà però esaurirsi meccanicamente in essa. Laborioso e metodico, questo giapponese timido che dimostra molto meno dei suoi 63 anni, non è per nulla l’artefice di una scrittura monotona e autoreferenziale: la sua prosa piena di sottigliezze, di corrispondenze ironiche, di scatti verso improvvisi cambiamenti di scena, forza l’ordine cronologico e disegna universi paralleli in una continua sfida al lettore. Dal romanzo d’esordio del 1979, Ascolta la canzone del vento 12, con i suoi scenari metropolitani e i riferimenti alla cultura pop americana, fino ai successivi romanzi degli anni 1970-80, Murakami non cessa di stupire il suo pubblico con i molti riferimenti critici alla società nipponica, dove -questa è l’accusa che muovel’immaginazione non riesce a farsi strada attraverso il muro del conformismo. 9 In Italia è uscito presso l’editore Einaudi IQ84 Libro 1 e 2, 2011, e con data settembre 2012 anche il Libro 3, nella traduzione di Giorgio Amitrano. In Giappone sono stati pubblicati dall’editore Shinchosha i Libri 1 e 2 nel 2009 e il Libro 3 nel 2010. 10 L’Express, 5 gennaio 2006, intervista di Philippe Coste. 11 Dacia Maraini, La nave per Kobe, Rizzoli, Milano, 2010. 12 H. Murakami, Ascolta la canzone del vento, Einaudi, Torino,1979. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 37 D A Q U AT T R O A N G O L I D E L M O N D O Dalla generazione dei Grandi Narcisi, definizione con cui Foster Wallace indicava gli scrittori “egoisti” (e anche alquanto maschilisti) appartenenti al fortunato filone della narrativa pstmoderna come Norman Mailer, Updike, Philip Roth, molta acqua è passata sotto i ponti, e soprattutto l’acqua torbida dell’attentato dell’11 settembre che ha avuto un innegabile impatto sulla letteratura statunitense così come in generale sulla psicologia e il senso di sicurezza del popolo americano. La predisposizione al racconto che è connatu- 13 H.Murakami, Tutti i figli di dio danzano, Einaudi, Torino, 2010, traduzione di Giorgio Amitrano. Underground, Einaudi, Torino, 2011, traduzione di Antonietta Pastore. 14 L’Express, cit. Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo Molto sensibile ai fatti salienti che toccano l’essere umano nel profondo, Murakami ha pubblicato due opere generate da avvenimenti che hanno avuto come scenario il Giappone. Tutti i figli di dio danzano, 1995, e Underground, 199713, si strutturano rispettivamente come una raccolta di sei racconti e un’inchiesta condotta in mezzo alla gente, entrambe sollecitate da tragedie di risonanza internazionale. Dopo il sisma di Kobe del gennaio 1995, che comportò la perdita di oltre seimila vite umane, Murakami rientra in Giappone e mette sulla pagina le storie di alcuni sopravvissuti (alle volte anche con un certo humour, per far scattare la molla dell’orgoglio e del riscatto) non con l’intento di restituire una cronaca del disastro, cosa che hanno fatto in tempo reale i media di tutto il mondo, ma per approfondire gli effetti traumatici dell’avvenimento sulla psiche delle persone comuni. Lo stesso anno, due mesi dopo, alcuni adepti del culto religioso Aum attentano alla vita di passeggeri inermi della metropolitana di Tokyo diffondendo un potentissimo veleno. Attraverso una serie di domande ai superstiti e agli affiliati della setta, Murakami cerca di chiarire i motivi di un gesto che ha scosso la coscienza collettiva generando panico e insicurezza. “Il Giappone degli anni Ottanta era diventato troppo ricco, troppo potente e arrogante -spiega in un’intervista- mentre poi la crisi economica e questi avvenimenti l’hanno precipitato in una disperazione che mi ha colpito profondamente e mi ha fatto pensare che come scrittore potevo nuovamente assumere un ruolo nel mio paese”14. Da allora, vivendo tra il Giappone, le Hawai e i viaggi in Occidente Murakami ha inventato un suo stile, enigmatico, volutamente poco espressivo, percorso da emozioni represse e si è anche costruito addosso un personaggio di scrittore cult distaccato, oggetto di un successo un po’ fanatico. Con un cocktail vincente, vale a dire intuizione più metodo, ha macinato in tre anni le millecinquecento pagine di 1Q84, un romanzo che pur essendo così esteso resta il regno del non detto, dato che l’autore si esercita nell’arte dell’allusività e dell’ellissi, spiazzando (e qualche volta estenuando) il fedele lettore. Romanzo statico, in cui però succedono molte cose, romanzo di sentimenti basati sulla più grande incoerenza, dove sono eliminate le frontiere tra realtà e fantasia, tra bene e male, tra interiorità e mondo esterno. E così seguendo una tra le tante digressioni improvvise o indugiando nelle descrizioni minuziose a caccia di indizi depistanti, si coglie in controluce il filo conduttore di una serie di infanzie tormentate a cui l’autore non nega, sul finire, la malinconica speranza di un balsamo d’amore che potrà sanare le ferite, offrendo così un esito contrario a quello ultrapessimistico di Orwell. 37 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo 38 10-12-2012 18:02 Pagina 38 D A Q U AT T R O A N G O L I D E L M O N D O rata alla tradizione del Nord America, con la sua storia policentrica distribuita in grandi spazi, dove attraverso la vocazione all’ascolto di diverse voci è nato il fenomeno del melting pot, dopo l’attentato subisce un rallentamento nel suo tradizionale slancio verso orizzonti sempre più avanzati. Lo stesso Roth, dopo il Teatro di Sabbath (1995) opera di eccezionale forza bruta in sintonia con l’accelerazione impressa dall’ingresso nel terzo millennio, trovandosi davanti alle rovine delle torri gemelle trattiene la sua rincorsa per piegarsi ad uno stile riflessivo, in cui la sua travolgente energia si smorza in una scrittura dal tono quasi classico. Lo stesso ripensamento sembra aver guidato Cormac McCarthy. Su questo scrittore ci soffermiamo perché emblematico degli umori del paese in questa fase che avrebbe dovuto segnare per gli Stati Uniti il riscatto dopo il dramma, riscatto reso invece impossibile dalla drammatica depressione economica che smorza ogni euforia. Le opere scritte da McCarthy negli anni Sessanta e Settanta, a partire dal romanzo d’esordio The Orchard Keeper fino a Child of God mostrano una notevole carica immaginativa. In particolare Suttree, che evoca, sia per il personaggio eponimo che per il tipo di narrazione l’Ulisse di Joyce, segna una tappa importante nell’espressività (in parte autobiografica) dell’autore. Con Blood Meridian McCarthy inaugura il genere romanzo-western che porterà avanti in termini molto personali anche con i tre racconti riuniti in Border Trilogy e ancor più con No Country for Old Men15, dove la contrapposizione fra bene e male, in un contesto che sembra di per sé generatore di violenza e teatro di ininterrotti spargimenti di sangue, è rappresentativa dell’America avventurosa e primordiale, non meno di quanto lo siano le immagini rassicuranti delle villette allineate tra siepi e fiori nelle periferie residenziali urbane così ben descritte, nel loro ambiguo perbenismo, da film come American Beauty e Revolutionary Road. Con la stessa ottica da pioniere che ha adottato per raccontare, e attualizzare, il mito della frontiera, McCarthy affronta in The Road lo scenario di un mondo in cui un non ben precisato avvenimento apocalittico prodottosi dieci anni prima (meteorite? incidente nucleare? eruzione vulcanica?) ha ridotto il paese visibile a un cumulo di macerie16. Tutti i simboli della civiltà (in particolare quelli che contraddistinguono la moderna deriva iperconsumistica) sono ridotti a reperti inutilizzabili: supermercati sventrati, rottami di auto bruciati, fusi e riagglomerati in forme mostruose, insediamenti urbani abbandonati, piante schiantate al suolo. Ogni cosa è ricoperta di una polvere acre e sottile, non cresce più un filo d’erba, non sono sopravissuti animali, nulla di decentemente umano è rimasto a indicare che non molto tempo prima esisteva sulla terra una comunità operosa e solidale. Bande di predoni ridotti allo stato bestiale dalla fame traversano lande desolate in cerca di cibo (anche di carne umana, l’unica ancora a stento reperibile). In questo paesaggio spettrale e infido passa la strada, altro mito consolidato della cultura americana, che un padre ormai allo stremo e un ragazzino -malgrado tutto- ancora fiducioso, 15 C.McCarthy, Trilogia della frontiera (Border Trilogy, 1992-1998): Cavalli selvaggi, Guida, Napoli, 1993, traduzione di Riccardo Duranti; Oltre il confine, Einaudi, Torino, 1995, traduzione di Rossella Bernascone; Città della pianura, Einaudi, Torino, 1999, traduzione di Raul Montanari. 16 C. McCarthy, La strada (The Road, 2006), Einaudi, Torino, 2007, traduzione di Marina Testa. Da questo romanzo, vincitore del Pulitzer Price for Fiction 2007, è stato tratto un film per la regia di John Hillcoat nel 2009. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 39 D A Q U AT T R O A N G O L I D E L M O N D O Dal suo primo libro La Place de l’Étoile, 1968, all’ultimo, L’Herbe des nuits, in uscita a ottobre 2012 da Gallimard17, Patrick Modiano ha pubblicato circa una trentina di romanzi percorsi da motivi ricorrenti, dove la ripetitività è cifra stilistica non meno che esercizio terapeutico. Scrivere per esorcizzare gli incubi di un passato sentito come impresentabile, libro dopo libro, avvolgendo il lettore in una rete di allusioni alle stagioni trascorse, quelle dell’attesa della liberazione e poi del dopoguerra, seminando enigmi che non saranno mai risolti. Amico, giovanissimo, di Queneau e Vian, Modiano malgrado le sue frequentazioni anche mondane (da Malraux a Françoise Hardy, al regista Louis Malle), resta una figura a parte nelle lettere francesi, distante dalle avanguardie politiche e artistiche. La critica, che ne registra l’eccezionale appeal presso un pubblico avvertito e fedele, considera la sua scrittura ora leggermente rétro, ora di stampo quasi classico. Anche se ha esordito in una fase storica in cui riviste e movimenti assumevano nel panorama letterario una certa rilevanza, Modiano, personaggio schivo, dall’eloquio tutt’altro che disinvolto e spesso inceppato, ha considerato inutile posizionarsi rispetto ad altri: il suo pensiero ricorrente era, ed è, la filiazione da quei padri (come il suo: piccolo trafficante di borsa nera, senza troppi scrupoli) che hanno vissuto prima e dopo l’Occupazione, il dramma non risolto di una generazione segnata à jamais dalla guerra. “Sono nato il 30 luglio 1945 a Boulogne-Billancourt, da un ebreo [d’origine italiana] e da una donna fiamminga che si erano conosciuti nella Parigi occupata. Scrivo ebreo ignorando che cosa questa parola significasse davvero per mio padre e per quale motivo fosse menzionata allora sulle carte d’identità. I periodi di grande turbolenza provocano spesso incontri azzardati, così che non mi sono mai sentito un figlio legittimo e ancor meno un erede”. Così nell’autobiografia dei suoi primi 20 anni, ironicamente intitolata Un pedigree, ancora una volta lo scrittore, con la scusa di chiarire e di fissare dati e immagini, non fa che allontanarsi da se stesso, dissimularsi nell’ombra, 17 18 Babboni. P. Modiano, La place de l’ Étoile, Gallimard, Parigi,1968. P. Modiano, Un pedigree (Un pedigree, 2005),Einaudi, Torino, 2006, traduzione di Irene Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo percorrono verso l’oceano, verso un sud dove forse, se avranno fortuna, se sfuggiranno a tutti gli agguati, potrà esserci la salvezza. Nell’andare, il padre si sforza di descrivere al bambino la bellezza del mondo perduto, e vorrebbe salvaguardare l’innocenza del suo sguardo a dispetto degli atti violenti che si trova costretto a compiere per non soccombere. “Siamo ancora noi i buoni?” chiede il ragazzo dopo aver assistito alla violenza con cui il padre deve liberarsi, uccidendolo, di un uomo affamato come un lupo e pronto a sbranarli. “Sì, siamo ancora noi. Ucciderò chiunque proverà a toccarti. Perché questo è il mio compito.” È questo romanzo una metafora del degrado cui può arrivare la civiltà, se non ci si fa carico di salvaguardarla? O è piuttosto uno specchio dell’America, il paese dell’ottimismo e del pragmatismo, dove ogni cosa è stata conquistata con metodi duri e spietati, anche a costo di sacrificare ogni volta una parte della propria umanità? McCarthy, artefice di una prosa contratta e minimale, sceglie di valorizzare, contro la disperazione, lo spirito di conquista: sopravvivere ancora un giorno, un giorno in più, è già una vittoria. 39 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo 40 10-12-2012 18:02 Pagina 40 D A Q U AT T R O A N G O L I D E L M O N D O confondere le piste tra presente e passato, tra sé e altro da sé.18 Del resto il tempo di Modiano non è lineare, non è la contemporaneità ma una dimensione di tipo proustiano, fatta di slanci in avanti e improvvisi rallentamenti. Anche il linguaggio, pur corredato da una miriade di dettagli, finge di voler fare chiarezza mentre in realtà non svela mai nulla: così nel labirinto delle parole regna l’approssimazione. Personaggi sfumati, situazioni ambigue, identità sovrapposte: la giovane Louki, enigmatica presenza nel quartiere parigino dell’Odéon, turba col suo passaggio e la sua repentina scomparsa i ricordi di molti19 ; Jacqueline, distratta artefice di un investimento stradale in Accident nocturne diventa un’ossessione per la sua vittima, un je autobiografico che, uscito dall’ospedale, inseguirà questo fantasma di donna seguendo depistanti indizi20 ; Dora Bruder, il personaggio centrale del romanzo più compiuto e coinvolgente, adolescente sparita nel periodo dei rastrellamenti senza lasciare traccia, apre la via ad una serie di ricerche che, cinquant’anni dopo, porteranno l’autore sui luoghi che presumibilmente furono scenario della sua giovinezza e che oggi corrispondono a strade periferiche, alberghi dismessi, scorci di una Parigi completamente cambiata21. Nella circolarità della sua scrittura Patrick Modiano sembra voler comporre diversi volets di un’unica opera, da cui si ritrae non appena viene sfiorata l’ipotesi di una conclusione, di una affermazione finale. Ciò che conta non è conseguire un risultato, ma la qualità e la continuità dell’indagine, ostinatamente ripresa dalla sua origine, ogni volta con angolazioni leggermente variate. In un certo senso l’autore si rende prigioniero del suo stesso sguardo: secondo questo modo di osservare e raccogliere niente più che semplici indizi, l’ombra conta più della luce, l’enigma più della soluzione. Anche nell’universo ovattato della stazione termale svizzera in cui si svolge Villa Triste22, la toile de fond (i negoziati del 1960-61 per l’Algeria) riportano ad una oscurità originaria, a un momento buio della storia francese. Una presa di coscienza continuamente evocata e avvicinata, ma mai raggiunta, è il nodo che lega questo scrittore parigino al suo contesto di riferimento. Pur entro i limiti di una scelta rappresentativa dei vari paesi assolutamente arbitraria, in questa breve panoramica si possono cogliere in controluce le tracce di alcune linee di forza che caratterizzano, in sintonia o in contrapposizione, le opere di questi autori nati negli anni Quaranta (ad eccezione di McCarthy, 1933) tutti in qualche modo in posizione polemica rispetto all’attualità e al contesto di appartenenza Il recente libro di Murakami, 1Q84, che postula la presenza -surreale- di un mondo “più realistico di quello esistente”, frutto di un accurato assemblaggio di dati non reali, apre alcuni degli interrogativi centrali della nostra civiltà: il potenziale umano è completamente espresso nella vita reale (che l’autore chiama vita A) o non è invece solo una minima frazione, realizzata e visibile, 19 P. Modiano, Nel caffè della giovinezza perduta (Dans le café de la jeunesse perdue, 2007), Einaudi, Torino, 2010, traduzione di Irene Babboni. 20 P. Modiano, Accident nocturne, Gallimard, Parigi, 2003. 21 P.Modiano, Dora Bruder (Dora Bruder, 1997),Guanda, Milano, 2004, traduzione di Francesco Bruno. 22 P. Modiano,Villa Triste (Villa Triste,1975), Rusconi, Milano 1976, traduzione di Anna e Alfredo Cattabiani. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 41 D A Q U AT T R O A N G O L I D E L M O N D O 23 24 René Char, Rougeurs des Matinaux, in Les Matineaux, Gallimard, Parigi, 1950. P. Modiano, Livret de Famille, Gallimard, Parigi, 1977, p. 96. Giuliana Rovetta Da quattro angoli del mondo di un universo personale molto più complesso che resta inattivo fino a quando non viene sollecitato (questo è, fra l’altro, il compito di ogni vero scrittore) a mettersi in moto? Non molto diversamente René Char richiamava la “mission d’éveiller” propria del poeta23. Per Murakami il peccato dei suoi connazionali è il conformismo, la mancanza di fantasia che invece dovrebbe essere il motore dell’innovazione culturale. Anche il paese desertificato immaginato da McCarthy, nei termini strazianti che abbiamo detto, rappresenta un secondo (o ennesimo) livello delle possibilità di vita: in questo caso la minacciata sparizione di ogni bene materiale e morale di cui l’uomo si sentiva a buon diritto depositario mette in risalto il valore, non scontato, di quanto è andato perduto. Nel caso di La strada, alle spalle dell’autore pesa una storia fatta di orgoglio nazionale che sembrava premiare la fuga in avanti sempre e comunque, l’azione anche a costo di qualche prepotenza. Più drastica l’ingiustizia della storia che dipinge Coetzee parlando del suo Sud Africa, dove le cicatrici restano indelebili e anche a distanza di tempo impediscono il corretto armonizzarsi fra gli abitanti di diversa origine. Là dove la crudeltà ha tracciato un solco troppo profondo, la rimarginazione è così lenta da perdere il contatto con la realtà. Il condizionamento della storia (anche Murakami faceva riferimento ad una specie di nodo irrisolto che era per lui la guerra con la Cina) resta il motivo ispiratore, sia pure circoscritto a un’area temporale breve, di tutta l’opera di Patrick Modiano. Un retaggio comunque non meno lancinante: anziché nelle praterie del West o nel Sud dell’Africa, la partita con il passato si gioca ad ogni coin de rue, o nelle allées dei grandi boulevards; anziché il colore della pelle a dividere in forti e deboli può essere un nome, una divisa, una scelta opportunista. Per Modiano non si sfugge alla memoria che è indipendente dalla volontà umana. Così afferma in un passo di Livret de famille: “Avevo solo vent’anni, ma i miei ricordi erano precedenti alla mia nascita…”24 41 Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 42 Davide Puccini La commedia dell’arte - La tragedia 42 QUATTRO POESIE di Davide Puccini La commedia dell’arte La vita è una commedia dell’arte nella quale l’importante è recitare liberi da impaccio restando bene in parte nei costumi, fedeli al canovaccio più incalzante con lazzi bòtte azione e putiferio, che fingiamo di prendere sul serio per non passare, futili, per pazzi. Quando volge al finire la rappresentazione ci abbandoniamo inutili all’inedia aspirando a un riposo senza lotte: e dopo, divertìti da morire, spengiamo tutti i lumi e buonanotte. La tragedia Quando cala il sipario fanno pace i nemici: si prendono a braccetto e si presentano sul palcoscenico a riscuotere applausi meritati il tiranno con il tirannicida, vittima e boia, oppressore ed oppresso, invasore ed invaso affratellati, il vinto e il vincitore ormai sicuri. Ben presto è in calendario un altro autore: la rappresentazione ricomincia con tamburi e fanfare rimbombanti, con luci scintillanti e grande ardore, ma velata dall’ombra di un sudario. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 43 Q U AT T R O P O E S I E Io che scrivo con questa stilografica dal segno fine sono – nomen, omen – un uomo d’acqua. Inconsistente scorro come l’inchiostro liquido bluastro, trascorro la mia vita sulla ruga di una sottile lamina di carta, pallido astro che rapido declina, lasciando appena un’orma diluita che si trasforma in labili parole: il sole la prosciuga ed è finita. Volatili Passa rombando il caccia militare rasente al mare, argenteo e prepotente in un frastuono che riempie il cielo; è già lontano e sembra ormai un trattino all’orizzonte e ne rimbomba il tuono: insieme agli altri, un piccolo gabbiano. Ed anche noi così rapidamente umbratili spariamo a bruciapelo, in questo senso non meno volatili. Davide Puccini Waterman - Volatili Waterman 43 Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 44 Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura 44 NATURA E LETTERATURA di Rosa Elisa Giangoia La presenza della natura nei testi letterari è costante nel tempo, ampia, ma diversificata per scelte nell’ambito del mondo naturale ed interpretazioni dei diversi elementi. Agli inizi della nostra tradizione classica, come di quella di quasi tutti i popoli, ci sono i miti, che rappresentano il comune patrimonio di riferimento capace di creare l’unità e la coesione culturale. Nella mitologia greca la Natura è descritta tramite un processo di personalizzazione, secondo cui i vari elementi sono creature divine, maschili e femminili, che interagiscono tra di loro, in rapporti diversi, di alleanza o di conflittualità, e che determinano la varietà degli aspetti naturali e la loro incidenza sulla vita degli uomini. Così Gea è la Terra, Eolo il Vento e Poseidone il mare, mentre il ciclo delle stagioni è spiegato con il rapimento di Proserpina da parte di Plutone, dio dell’Ade. L’adesione degli uomini a questi miti avviene in un tempo ancora fuori dalla storia, anche se permane nei poemi omerici. Nell’Iliade e nell’Odissea si aprono, però, forse anche attraverso stratificazioni creative diacroniche, altre prospettive di visione ed interpretazione della Natura. Innanzitutto la descrizione secondo verisimiglianza, soprattutto nei paragoni e nelle raffigurazioni in opere artistiche. Ricordiamo in particolare la terza zona dello scudo di Achille1, in cui sono rappresentate tre scene, ispirate alla vita campestre e riconducibili ai momenti più importanti dell’anno agricolo: l’aratura nella stagione primaverile, la mietitura estiva e la vendemmia nel rigoglio dell’autunno; scene che ci fanno capire la predilezione del poeta per la natura coltivata rispetto a quella selvaggia. Nella quarta zona, invece, sono raffigurati due momenti di vita pastorale: un armento assalito da due leoni ed un gregge di pecore al pascolo; anche qui la natura è in rapporto al lavoro e alla vita dell’uomo, con insidie e pericoli. Nell’Odissea prevale invece la rappresentazione di una natura fantastica con sfondamento del muro del naturalismo, in luoghi lontani e misteriosi, come l’isola delle Sirene2, l’antro del Ciclope Polifemo3, il paese dei Lotofagi4, oltre all’ipotizzare luoghi nel mondo fuori dal ciclo del tempo, come l’isola di Calipso5 ed il giardino di Alcinoo6. Ma soprattutto il vero protagonista del poema è il mare, che domina tutta la vicenda con l’immensità della sua presenza, con la furia delle sue tempeste, con il placido splendore della sua calma. Di conseguenza le terre sono soprattutto isole: Itaca, Ogigia, Eea, l’isola dei Ciclopi, quella delle Sirene, Trinakria, l’isola del Sole e Scheria. 1 2 3 4 5 6 Iliade XVIII, 671 - 843 Odissea XII Odissea IX Odissea IX, 82 – 102. Odissea V VII, 81 - 131 Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 45 N AT U R A E L E T T E R AT U R A Curtius E.R., Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992 Celebrata dai poeti come uno dei luoghi favoriti di Apollo e delle Muse, è una gola nel nord della Tessaglia, tra il Monte Olimpo, a nord, e il Monte Ossa, a sud. E’ lunga 10 km, stretta circa 25 m e con dirupi anche di 500 m. Al centro scorre il fiume Peneo, che sfocia nel vicino mare Egeo. 9 Virgilio (Georg. II, 146 – 148); Properxio (XIX, 2); Silio Italico (Pun., IV, 543); Stazio (Eclog. IV, 139); Giovenale (XII); Claudiano (Cons. Hon., 506); Thomas Macaulay (Orazio); Byron (Aroldo, l. IV); Ladislao Kulczycki (Una passeggiata alle sorgenti del Clitumno); Giosue Carducci (Alle fonti del Clitumno). 7 8 Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura Dal punto di vista letterario tutto questo mondo reale o immaginario, diventa importantissimo come bagaglio imprescindibile per la produzione letteraria successiva, greca, latina e delle lingue europee moderne, che proprio per il fatto di avere questa base comune costituiscono un sistema culturale unitario e continuativo. Successivamente si affermano nella Grecia classica altri due modi di rapportarsi alla Natura con significative ripercussioni letterarie. Infatti tra l’VIII e il VII secolo a. C. il poeta Esiodo, con il suo poema Le opere e i giorni, introduce l’idea che l’uomo con il suo lavoro, l’impegno e la fatica personale possa trasformare la Natura a suo vantaggio, attraverso la coltivazione, per produrre quanto a lui utile. In questo spirito diventano importanti gli astri, personaggi mitologici mutati in stelle o costellazioni, che, con il sorgere e tramontare, scandiscono il succedersi delle occupazioni agricole secondo le stagioni. In seguito, a partire dal VI secolo a.C., vengono abbandonati i miti cosmogonici e si inizia a cercare l’origine di tutto in un principio naturale. Ha così inizio la filosofia che, proprio con quegli autori che poi impropriamente verranno chiamati Presocratici, si pone nella prospettiva di un’ indagine critica nei confronti della Natura, di cui cerca di individuare il principio primo, l’arché , nei diversi poemi intitolati Perì phýseos, ritrovandolo di volta in volta nell’acqua (Talete), nell’aria (Anassimene), nel fuoco (Eraclito) o nel numero (Pitagora). In questo momento la letteratura rappresenta il terreno di elaborazione e di espressione del sapere in quanto tale, in una concezione unitaria, senza contrapposizione tra sfera scientifica e umanistica. Nello stesso lasso di tempo inizia con Alceo e Saffo la poesia lirica monodica che, proprio per l’impostazione sentimentale e soggettiva, stabilisce il primo rapporto tra individuo e Natura fatto di consonanza personale, che si esplicita soprattutto nei paragoni e negli elementi esornativi del testo poetico. Saffo soprattutto avvertì con straordinaria intensità il fascino della Natura, di cui seppe cantare i particolari in un’atmosfera di incantata osservazione. Con Socrate e successivamente con Platone, tra il V ed il IV secolo a.C., l’interesse della filosofia si sposta dalla ricerca dell’arché ad altri argomenti, ma, per quanto riguarda la percezione e la descrizione della Natura in letteratura, fondamentale è la creazione, da parte di Platone, del tópos del locus amoenus 7, un luogo suggestivo e felice per l’uomo, caratterizzato da una fonte o da un corso d’acqua e da una rigogliosa vegetazione, di lunga e vasta ripercussione letteraria in tutta Europa. Platone prende spunto dalla valle di Tempe in Grecia8, ma forse quello che ancora oggi si può ammirare come locus amoenus rimasto immutato dalla classicità è rappresentato dalle Fonti del Clitumno9. Successivamente con Aristotele, che separa la Fisica dalla Metafisica, avviene la distinzione tra la descrizione della Natura, propria della letteratura, e l’indagine conoscitiva su di essa, affidata alla scienza. 45 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura 46 10-12-2012 18:02 Pagina 46 N AT U R A E L E T T E R AT U R A Dal mondo greco si passa a quello latino, dove Lucrezio con il poema De rerum natura riprende, adattandola alla filosofia epicurea, la tradizione presocratica dei Perì phýseos, impegnandosi a spiegare l’origine del cosmo, della realtà fenomenica e dei fenomeni naturali, al fine di liberare, grazie alla teoria degli atomi, gli uomini dalla paura della morte e degli dei. La Natura viene vista come matrigna (praedit ă culp ā10), non Madre degli uomini, a cui, fin dalla nascita, infligge difficoltà e sofferenze e a cui riserva anche situazioni molto drammatiche, come la grande epidemia di peste che dilagò ad Atene nel V secolo, con la cui descrizione11 il poema si conclude, creando nello stesso tempo il tema letterario della malattia capace di sconvolgere la vita e la storia degli uomini, che avrà grandi ripercussioni da Virgilio a Paolo Diacono a Boccaccio a Manzoni a Camus. Ma a determinare un rapporto letterariamente imperituro tra la Natura e la letteratura sarà nel volgere di pochi decenni Virgilio con la sua poesia delle Bucoliche e delle Georgiche. Con le dieci egloghe delle Bucoliche il poeta inventa e fissa il paesaggio dell’Arcadia, come ha ben dimostrato lo Snell12. Questa era in realtà la regione centrale della penisola del Peloponneso, montuosa, divisa in molte valli e separata dal resto del paese. Il poeta, sulla scorta dello storico Polibio, che di essa era originario e che molto l’amava, tanto da evocarla come una terra particolare in cui gli abitanti venivano fin dalla prima giovinezza esercitati al canto e si impegnavano in gare musicali, e del poeta Teocrito, che nel III sec. a.C. aveva fatto conoscere i luoghi della sua vita (gli uliveti egei, i campi di grano egizi, i vigneti ed i pascoli siciliani), riportando tutto all’Arcadia, le diede una fama imperitura, facendo di questa regione non un luogo della Natura, ma un luogo della Letteratura creato con l’accostamento voluto di singoli elementi naturali. Di conseguenza divenne il luogo ideale in cui i pastori vivono, dedicandosi alla poesia e al canto, gratificati dall’amore, in comunanza con gli dei, per cui s’intrecciano fatti mitici e dati reali in un paesaggio che ha tutte le caratteristiche del locus amoenus, ma che per di più diventa patria d’elezione della poesia, che solo in esso può nascere e prosperare. Virgilio, però, si appropria anche di un altro atteggiamento della poesia nei confronti della Natura ed è quello che gli deriva dalla conoscenza di Esiodo e dall’osservare con occhio amoroso le pianure ubertose delle sue terre mantovane, quelle terre amate e perdute, poi forse in parte recuperate, terre generose, capaci di ripagare con l’abbondanza del loro prodotto, la fatica degli uomini che sapevano abilmente lavorarle. Di tutta questa esperienza, personale e letteraria, Virgilio fa tesoro per la composizione delle Georgiche, in cui fissa con intento didascalico quelle che sono le competenze in ordine all’agricoltura e all’allevamento a cui si è giunti nel suo tempo, rendendole patrimonio duraturo ed utile per gli uomini dei secoli seguenti, in versi di grande armonia e ricercatezza formale, adornati da riferimenti mitologici e geografici. Accanto alle posizioni di Lucrezio e di Virgilio si evidenzia, sempre nell’età augustea, un altro atteggiamento della poesia nei confronti della Natura. È rappresentato dai poeti elegiaci del circolo di Messalla Corvino, che si conT. Lucrezio Caro, De rer. Nat. V, 199. De rer. Nat. VI, 1145 – 1196. 12 B. Snell, L’Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale, in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963. 10 11 Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 47 N AT U R A E L E T T E R AT U R A Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura trappongono a quelli, come Virgilio e Orazio, appartenenti al circolo di Mecenate e quindi sostenitori delle guerre di conquista fulcro della politica augustea. Questi poeti, tra cui primeggia Tibullo, vedono la Natura come la campagna quieta e ridente, in contrapposizione al mondo della città e soprattutto come l’ambiente in cui rifugiarsi per sfuggire al pericolo di dover partecipare alle sanguinose e funeste guerre di conquista. A questo atteggiamento si lega il rimpianto per la mitica età dell’oro, in cui la terra dava tutto all’uomo, senza richiedere la fatica del lavoro ed in cui soprattutto non c’erano guerre di conquista. È un mito di contrapposizione di tempi e stili di vita, ma anche tra Natura e Cultura, che avrà lunga ripercussione nella storia della letteratura (Tasso, Monti, ecc.), ma è anche un’interpretazione della vita che crea attesa e rinnovamento, favorevole quindi alla diffusione del Cristianesimo. Con il Cristianesimo la Natura viene vista in una dimensione nuova, in quanto frutto della creazione divina, concesso per generosità da Dio agli uomini come luogo di vita dopo la caduta conseguente al peccato originale, habitat da cui raccogliere i frutti, ma anche da far prosperare con il lavoro e la fatica personale. Tra i vari elementi della Natura con il Cristianesimo assume una valenza particolarmente forte l’acqua, vista come occasione di purificazione in rapporto al rito del battesimo, con la conseguenza di valorizzare anche i fiumi, a partire dal Giordano, in cui sarebbe avvenuto il battesimo di Gesù. Ma a determinare un forte cambiamento di mentalità è la sacralizzazione di alcuni elementi della Natura, in particolare l’agnello, con la conseguente immagine del “buon pastore”, nonché la vite, che assumono un forte valore simbolico, portato ad altissimo livello significante con la consacrazione e la conseguente transustanziazione del pane e del vino, che da elementi della realtà naturale diventano il Corpo e il Sangue di Gesù. Questo procedimento mentale, fortemente innovativo e senza precedenti nella tradizione culturale, riverbera una luce nuova su tutti gli elementi della Natura che lungo i secoli della cristianità e con forte accentuazione nel Medio Evo, assumono un’intensa configurazione simbolica, capace di trascendere la loro semplice realtà naturale per diventare immagine e raffigurazione di qualche cosa al di fuori del mondo fenomenico. Investito di particolari valori simbolici ed escatologici è anche l’albero, non tanto poiché già oggetto di culto in tradizioni romane autoctone e celtiche, quanto piuttosto come legno morto, cioè albero della croce, che da elemento naturale morto diventa fonte di vita nuova, cioè di salvezza eterna. Possiamo inoltre pensare che la bipartizione del mondo ultraterreno in Inferno e Paradiso (la nascita del Purgatorio avverrà solo nel XIII secolo) determini uno schema mentale che si trasferisce nel mondo creato, producendo la contrapposizione tra ‘luogo del male’, la selva, che non è più la silva classica, abitata da benefiche divinità inferiori (dio Pan, ninfe e satiri), ma diventa la foresta (da foris), cioè luogo “al di fuori”, insidioso, non protetto, abitato da eremiti, infestato da animali feroci e briganti, in contrapposizione alla città protetta e sorvegliata, e soprattutto all’hortus, il giardino dei monaci, che proprio in concomitanza con la fondazione dei monasteri benedettini inizia a fiorire per opera di quei monaci che, seguendo i precetti delle Georgiche di Virgilio, si fanno giardinieri del mondo creato, preservando le specie naturali ed incrementandone la produzione. È un giardino chiuso, ben protetto da mura, proprio perché la forza naturale della foresta non lo sommerga ed annienti. 47 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura 48 10-12-2012 18:02 Pagina 48 N AT U R A E L E T T E R AT U R A Nei secoli del Medioevo le conoscenze della natura sono scarse e limitate, anche se qualche contributo alla classificazione viene dato, ad esempio con l’Hortulus di Valfrido Strabone, ma la percezione della Natura è piuttosto generica, come possiamo vedere dal Cantico delle creature di San Francesco, in cui la flora è del tutto indeterminata, mentre gli elementi della Natura (il Sole, la Luna, l’acqua) vengono percepiti solo come oggetti della creazione divina. In questo periodo è importante l’assunzione di valori simbolici da parte di alcuni elementi della Natura. Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, ma per brevità soffermiamoci solo su uno: la rosa13. Questo fiore, che nel mondo classico era legato al sensualismo paganeggiante, essendo sacro a Venere e per la funzione decorativa e festiva che aveva nei banchetti, era andato scomparendo con l’affermarsi del Cristianesimo proprio per queste sue connotazioni, ma successivamente era stato recuperato e utilizzato in rapporto alla Madonna (Rosa mystica). Sembra che anche la sua coltivazione fosse andata progressivamente limitandosi ai giardini dei conventi benedettini, non accessibili al popolo, tanto da assumere una connotazione di inaccessibilità, come possiamo ricavare anche dal Roman de la Rose, in cui rappresenta la verginità femminile, difficile da raggiungere e violare. Con le Crociate la rosa fa la sua ricomparsa in Europa, in una specie semplice e piatta (Rosa di Provins, ovvero rosa gallica semplice), portata dal Medio Oriente nella Francia Meridionale, dove si acclimata e diffonde in tutta l’Europa con grandi ricadute in ambito artistico. Innanzitutto, attraverso la produzione poetica dei Provenzali, dei Siciliani e degli Stilnovisti, molto probabilmente su suggestione della poesia persiana, la rosa viene assunta come elemento assoluto di paragone della bellezza femminile. D’altro lato diventa il modello per l’elemento architettonico del rosone, che si apre sulla facciata delle cattedrali gotiche e che assume grande importanza anche simbolica, in quanto consente il passaggio della luce del sole nella navata centrale per raggiungere direttamente l’altare, stabilendo un legame tra cielo e terra attraverso l’elemento della luce, sentito come materializzazione del divino. Altra ricaduta di grande rilievo si ha nel Paradiso dantesco, in quanto a questo luogo viene dato l’aspetto di una rosa (candida rosa14), anche per il fatto che il fiore ha rapidamente assunto una configurazione più ricca di petali e più complessa. Nel mondo dell’oltretomba dantesco gli elementi della natura che assumono valenze simboliche particolarmente forti sono due, il buio che caratterizza l’inferno, privandolo di ogni colore, a cui si aggiungono l’acqua nelle sue diverse forme (fiume, pioggia, palude, lago ghiacciato) ed il vento, mentre la luce, progressivamente crescente, fino a non essere più tollerabile per l’occhio umano, anch’essa capace di annullare ogni varietà cromatica, caratterizza il Paradiso. Quindi questi due elementi creano i poli di un itinerario che va dal massimo di negatività, con la conseguenza di dolore, sofferenza e punizione, al massimo di beatitudine, a cui si correlano felicità e gioia imperitura, legate all’idea del premio eterno. Tra questi due mondi sta il Purgatorio, a cui Dante attribuisce i caratteri positivi del mondo terreno con una luce diffusa e gradevole, con l’alternarsi del giorno e della notte, con la varietà del mare e della natura amena, fino ad arrivare al Paradiso 13 R.E. Giangoia, La santità della rosa, in La poesia, il sacro, il sublime, Fara Editore, Rimini 2009, pp. 197 – 214. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 49 N AT U R A E L E T T E R AT U R A 14 15 16 17 18 Pd XXXI, 1. R.E. Giangoia, Il lauro e la rosa. Flora petrarchesca, in “Satura”, n.° 11, 2010, pp. 16 – 27. Ars III, 683 – 746; Met. VII, 664 – 865. Carm. I, 9, 2. Familiares, IV 1. Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura Terrestre, che riprende, cristianizzandoli, gli elementi del locus amoenus, lasciandoli, però, generici, senza precisazioni naturalistiche. È il mondo terrestre positivo per eccellenza, che riprende appunto l’hortus, il giardino, in contrapposizione alla selva oscura dell’inizio. Pochi gli altri elementi della natura presenti nel poema, pochi i fiori, oltre la rosa, la viola, il giglio, il fiordaliso e la palma, sempre con prevalenza del valore simbolico su quello descrittivo-naturalistico. Da questo momento, nella produzione letteraria, la rosa, la viola ed il giglio si fissano come i fiori per eccellenza, imprescindibili ed unici ad essere presenti nella poesia, anche se alcune significative innovazioni avvengono con Francesco Petrarca15. Egli infatti introduce il lauro come materializzazione della donna amata che da esso e da l’aura prende appunto il proprio nome, con un ulteriore intreccio significante con l’auro, cioè l’oro, in modo tale che la donna amata viene a materializzarsi nell’incontro di questi tre elementi della natura, l’alloro, albero ricco di tradizione letteraria, in quanto, nella mitologia classica, risultato della metamorfosi di Dafne (nome greco della pianta), fanciulla invano amata dal dio Apollo, albero che per questo diventerà sacro al dio, nonché simbolo della gloria poetica, testimoniata dalla corona d’alloro con cui il Petrarca sarà incoronato a Roma in Campidoglio (1343), per mano di Roberto d’Angiò. Inoltre l’aura, l’aria, anch’essa nobilitata dalla tradizione poetica classica, grazie al mito ovidiano di Cefalo e Procri16, in cui la donna viene uccisa dal giavellotto lanciato dal marito, essendosi appostata dietro un cespuglio, per sorprenderlo insieme ad Aura da lui invocata e da lei supposta una ninfa di cui Cefalo si fosse innamorato. E poi l’auro, cioè l’oro, elemento chimico, il più pregiato e nello stesso tempo centrale nella tradizione alchemica. Ma Petrarca innova anche perché ai fiori ormai consolidati nella tradizione letteraria (rosa, viola e giglio), aggiunge gli alberi fioriti nel tripudio primaverile, soprattutto nella canzone Chiare, fresche e dolci acque, in cui il locus amoenus della tradizione classica si arricchisce della presenza della donna amata nell’incanto di un paesaggio così attraente che il poeta vorrebbe essere lì sepolto per goderne eternamente. Il paesaggio è quello delle sorgenti della Sorge a Vaucluse, vicino ad Avignone, dove Petrarca si trovava a vivere l’intensa stagione d’amore per Laura. In questo modo il poeta crea quello che potremmo definire “il paesaggio del cuore”, un luogo prediletto, una piccola porzione di natura che caricata di elementi affettivi e sentimentali, nonché nobilitata dalla poesia, acquista valori assoluti di fascino per sempre. Ma ancora un’altra è la linea d’innovazione che Petrarca dà per quanto riguarda il rapporto tra Letteratura e Natura. Finora infatti nessuna considerazione avevano avuto le montagne (a parte il fuggevole accenno di Orazio al monte Soratte17), Petrarca invece guarda con interesse al Mont Ventoux, sempre vicino ad Avignone, solitaria ed impraticabile cima, che in una celebre lettera18 dice di aver scalato, facendo di quest’avventura alpinistica l’immagine allegorica dell’itinerario personale verso le più alte vette della spiritualità. 49 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura 50 10-12-2012 18:02 Pagina 50 N AT U R A E L E T T E R AT U R A Nella produzione letteraria dell’Umanesimo assume rilievo la posizione di Angelo Poliziano, che, escludendo ogni rapporto realistico con la Natura, crea una Natura tutta letteraria, in cui, in base alla sua poetica della docta varietas, mette insieme, al di là delle verisimiglianze stagionali ed ambientali, tutte quelle piante che hanno avuto una nobilitazione letteraria, sia attraverso i poeti classici sia tramite quelli della tradizione in volgare19. Questo ha la sua espressione più completa nella descrizione del giardino di Venere nelle Stanze per la giostra20, in cui vengono raggruppati in un unico paesaggio, innaturale, ma letterario, quelle piante e quei fiori che già avevano avuto cittadinanza in testi poetici precedenti. Da lui, soprattutto con la Ballata delle rose, e da altri autori umanistici, in particolare Lorenzo il Magnifico, viene poi ripresa la centralità tra i fiori della rosa, la quale però si svincola dalle significanze e dalle simbologie religiose, per recuperare quella funzione di rappresentare la giovinezza nella sua fugacità che aveva avuto in età Romana21 e passare poi ad emblema della verginità femminile con Ariosto22, fino all’altissimo elogio che le dedica Marino nell’Adone23. Mentre da noi la percezione della Natura in poesia si limitava alla cristallizzazione della flora, qualcosa di profondamente nuovo avveniva nel nord dell’Europa, quando nel Quattrocento fiammingo, soprattutto nella pittura, come ben spiega Simon Schama24, nasce il concetto di “paesaggio” (landskap), completamente nuovo, come dimostra il fatto che il vocabolo non abbia corrispettivo né nelle lingue classiche, né nei dialetti. Nel Cinquecento e nel Seicento, però, novità di enorme rilievo avvengono, prima con la scoperta del Nuovo Mondo e poi con la rivoluzione copernicana, rinnovamenti che cambiano totalmente non solo il rapporto con la Natura, ma la stessa percezione del mondo. Limitandoci ad un orizzonte più ristretto, possiamo anche notare che, con le scoperte del Nuovo Mondo e con l’infittirsi degli scambi con l’Oriente, a poco a poco nuove specie botaniche entrano in Europa, ma se queste determinano vistosi, seppure non repentini, mutamenti nell’ambito dell’alimentazione (patate, mais, pomodori, fagioli, peperoni, ecc.), scarsa incidenza hanno nella produzione letteraria. Infatti con il cristallizzarsi della teoria dell’imitazione del Petrarca, formulata da Pietro Bembo con le Prose della volgar lingua del 1525 ed affermatasi come regola poetica indiscussa, i fiori presenti nei testi poetici continuano ad essere ripetitivamente la rosa, la viola ed il giglio, anche se dopo la scoperta dell’America giunsero in Europa le zinnie, i girasoli, le gardenie, le magnolie, la passiflora e il tulipano, ed anche se fiori spontanei, come gli anemoni e i narcisi, che si erano persi, quando i primi esemplari coltivati furono portati in Europa, alla fine del ‘500, vennero accolti come novità. Tra queste nuove introduzioni bo19 J. Maier J., Ange Politien. La formation d’un poète umaniste (1469-1480), Droz,. Génève 1966; Stanze per un giardino: il paesaggio e il giardino nella cultura umanistica : V centenario della morte di Agnolo Ambrogini detto il Poliziano, Archivio Italiano dell’arte dei giardini, Editoriale Donchisciotte, San Quirico d’Orcia 1994. 20 I, 77-81. 21 A. Fo, Rose dall’”Antologia latina”, in Antologia della poesia latina, Mondadori, Milano 1993, pp. 1513-1523. 22 Orlando Furioso, I, 42 – 43. 23 III, 155 – 161. 24 S. Schama, Paesaggio e memoria, Milano 1997, pp. 10-12 (ed. orig. Landscape and memory, London 1995). Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 51 N AT U R A E L E T T E R AT U R A VI, 138, 5-8. VI, 134. 27 Daniello Bartoli, La ricreazione del savio I, 12 (1659) 28 R.E. Giangoia, Dall’elitropio al girasole, in “Resine”, a. XXX, n. 122, 4° trim. 2009, pp. 66-70 29 Il testo più noto è il sonetto Amori di pesci, compreso ne La lira (1614). 30 Le più note sono le Piscatoria di Jacopo Sannazzaro. 25 26 Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura taniche ha particolare rilevanza nella letteratura edificante la passiflora, che pure il Marino nell’Adone25 colloca fra le aiuole di Venere. Infatti il nome del genere, adottato da Linneo nel 1753 e che dal latino significa “fiore della passione”, gli fu attribuito dai missionari Gesuiti nel 1610, per la somiglianza di alcune parti della pianta con i simboli religiosi della passione di Cristo: i viticci sarebbero la frusta con cui venne flagellato, i tre stili, i chiodi, gli stami, il martello, la raggiera corollina, la corona di spine. Anche un fiore di grande rilievo in Europa, soprattutto in Olanda, come il tulipano, diffusosi dal Medio Oriente ed assurto a livelli di enorme importanza commerciale, seppure abbia una presenza molto rilevante nella pittura floreale, soprattutto fiamminga, in letteratura ha da noi scarso rilievo, se si esclude la presenza nel poema del Marino26 e l’elogio che ne fa Daniello Bartoli27. Fiore che invece determina qualcosa di importante in letteratura è il girasole28, proveniente dal Messico, dove rivestiva funzioni di grande rilievo sia nelle cerimonie religiose che in quelle politiche. Entrato in Europa, si impone a livello letterario, in quanto, avendo la particolarità di volgersi sempre verso il sole, gli vengono attribuite le caratteristiche che nel mondo classico erano tipiche di un fiore di modesta rilevanza ornamentale, cioè l’eliotropo, che, come dice il nome, si rivolge sempre verso il sole e che era legato al mito di Clizia, fanciulla innamorata senza successo del dio Sole e da lui trasformata nel fiore destinato a guardarlo sempre. Non è facile individuare quando questo trasferimento letterario sia avvenuto, in quanto lo troviamo ormai completamente elaborato nella lirica Ode all’Helianthus di Ippolito Pindemonte della fine del Settecento. Comunque questo trasferimento avrà poi conseguenze letterarie molto importanti, sia nella poesia inglese con Oscar Wilde che in quella italiana, soprattutto con Montale. Per quanto riguarda la percezione del mondo naturale, invece, occorre segnalare il fatto che al consolidarsi del tradizionale paesaggio letterario in cui i caratteri del locus amoenus si combinano con quelli arcadici, soprattutto nell’esperienza poetica che prende il nome di Arcadia e che nella seconda metà del Settecento tenta di ridimensionare in letteratura gli eccessi del gusto barocco, si affianca una certa attenzione al paesaggio marinaresco, soprattutto a Napoli, dove già il Marino aveva fatto dei pesci e della vita di mare il soggetto di sue composizioni poetiche29, dove inoltre si compongono delle “egloghe piscatorie”30, come variante di quelle bucoliche, in cui ai pastori si sostituiscono i pescatori con il loro mondo, e dove anche la pittura, in particolare con la bottega dei Recco, testimonia questa propensione del gusto. Il mito dell’Arcadia come luogo felice, ideale per la poesia, era iniziato, in Italia dapprima e nel resto d’Europa poi, sulla metà del XV secolo, quando presero a circolare edizioni a stampa delle opere di Virgilio. Il primo testo che si riappropria di questo clima è l’Arcadia di Iacopo Sannazzaro (1504): storie di amori contrastati in scenari di impossibile dolcezza; un’età dell’oro in cui i campi sono in comune, i raccolti sempre abbondanti, non esistono armi, 51 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura 52 10-12-2012 18:02 Pagina 52 N AT U R A E L E T T E R AT U R A guerra, distruzione. Ma l’Arcadia di Sannazzaro non consiste solo in canti di uccelli, miele selvatico e mazzolini di fiori al chiaro di luna, gran parte del suo fascino sta nel fatto che, accanto agli scenari più tradizionalmente bucolici, il poeta introduce elementi diversi e sensazionali per esprimere più oscuri sentimenti. Ci sono infatti cascate spumeggianti e precipizi da cui pastori tormentati da amori infelici minacciano di buttarsi, tema che, ripreso poi dal Tasso nell’Aminta, diventerà successivamente molto diffuso, mentre un «non umile monte» torreggia sopra il paese, su cui crescono cipressi giganti e pini. Intanto nel Settecento giungono in Europa nuovi fiori, che avranno grande diffusione, rinnovando pure il paesaggio. Dapprima in Spagna arrivarono le dalie, poi dal Brasile giunse la buganvillea, mentre nella seconda metà del secolo entrarono le ortensie, le camelie e le peonie. Non tutti i fiori ebbero un uguale rilievo letterario, particolarmente notevole fu quello della camelia31. Ma furono proprio gli elementi arcadici che contribuirono, insieme ad altri di provenienza nord-europea, a determinare quella svolta decisiva nella percezione e nella rappresentazione letteraria della Natura che avviene con il Romanticismo, per il confluire e l’intrecciarsi di esperienze e di sensibilità diverse. Innanzitutto agli elementi del giardino e del locus amoenus, di tradizione classica e recentemente riportato in auge dall’Arcadia, si sostituisce la foresta, per il prevalere di influssi anglo-germanici. Sulla base della descrizione della Silva Hercynia fatta da diversi autori latini e greci32, questo luogo diventa simbolo di una memoria mitica, di una libertà tipica dei popoli celti e germanici, che si esprimeva appunto con la vita nei boschi. Il paesaggio stesso sollecitava l’attenzione a questo elemento, vissuto ed osservato direttamente, non più vagheggiato letterariamente. Basta pensare al nuovo contatto diretto con la selva delle Ardenne, teatro di gran parte delle vicende dell’Orlando Furioso, ma del tutto sconosciuta all’autore, o a certe città fortemente compenetrate di bosco, come Heildelberg, per capire meglio molti aspetti del Romanticismo nel suo nascere. A presentare il bosco, come luogo di libertà e di eroismo, è soprattutto il romanzo di Walther Scott Ivanhoe (1820), di grande successo e diffusione in Europa tra la fine del Settecento ed i primi dell’Ottocento. Soprattutto perché il bosco inglese non è, come la selva oscura di Dante, luogo dove ci si perde, ma l’opposto, spazio dove ci si ritrova, dove si ritrova se stessi. Inoltre, per antica tradizione, ben testimoniata nelle tragedie di Shakespeare, è il contrario della corte, come per noi il mondo pastorale (basta pensare all’episodio di Erminia tra i pastori nella Gerusalemme Liberata del Tasso). Il bosco nella cultura anglosassone è luogo dove le convenzioni del sesso e del rango sono temporaneamente sospese e rovesciate in favore della scoperta di verità, amore, libertà e giustizia. Questa attenzione per il mondo della natura, rinnovato con precisa sguardo al bosco, ha un momento significativo negli Idilli del Gessner, pubblicati una prima volta nel 1756 e poi nel 1772. 31 R.E. Giangoia, I fiori alla moda: la camelia, in Atti del Convegno La camelia e il giardino in Europa, in Liguria e a Genova, 28 febbraio 1998, Civico Museo di Archeologia Ligure – Villa Pallavicini in Pegli – Genova, a cura di AGI Garden Club – ITALIA NOSTRA (Consiglio Regionale Liguria – PEGLIFLORA, 1999. 32 Cesare, De bello Gallico, VI, 25; Plinio il vecchio, Naturalis Historia, IV, 79; XVI, 5, 6; Tacito, De Origine et situ Germanorum, 1; Strabone, Geografia, VII, 1, 5; Tolomeo, Geografia, II, 11, 3. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 53 N AT U R A E L E T T E R AT U R A 33 La teoria classica (Pseudo Longino, Del sublime) viene messa in discussione, a partire da Burke, in un’ampia riflessione che ha i suoi momenti più significativi nella Critica del giudizio di Kant e nelle successive prese di posizione di Schopenhauer. 34 I Promessi Sposi, XXXIII. 35 R. E. Giangoia, Flora leopardiana, in “Satura”, n.° 9, 2010, pp. 33 – 36. Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura Ma con il nuovo secolo l’aspetto più importante è il rapporto personale e soggettivo che si viene a stabilire tra il singolo individuo ed elementi della natura che si caricano di motivazioni individuali che li rendono importanti. Possiamo fare due esempi: il significato che assume il fiore della pervinca per Rousseau, come testimonia la pagina memorabile delle sue Confessioni, e l’emozione straordinaria che suscita la contemplazione del mare del Nord in tempesta per l’Alfieri, provocandogli quel tumulto dell’animo di cui ci dà conto nella sua Vita. Nasce così un modo completamente nuovo di percepire la Natura: la si guarda, la si osserva e soprattutto si analizzano ed esprimono le emozioni, i cambiamenti di stato d’animo, i ricordi che da questo nuovo rapporto nascono. Proprio per questo nuovi elementi ed aspetti del paesaggio naturale diventano oggetto d’attenzione e di conseguenza letterariamente importanti: soprattutto i monti ed i laghi, mentre nasce il nuovo gusto dell’orrido33, che mette in discussione il concetto di sublime di ascendenza classica. Artefice di questa polarizzazione dell’attenzione letteraria è ancora una volta Rousseau, insieme a Lamartine: entrambi portano alla ribalta letteraria la regione della Savoia con il suo paesaggio di laghi, tra cui famosissimo diventerà quello di Bourget, cantato da Lamartine nella sua poesia Le lac, e di montagne altissime, quelle Alpi che Rousseau adolescente valica a piedi, andando da Chambery a Torino attraverso il Monginevro, e su cui lascerà pagine memorabili, sempre nelle Confessioni, che contribuiranno a creare, insieme ad altri fattori, di derivazione soprattutto inglese, il gusto e l’attenzione per le montagne, aspetto che, però, avrà più rilievo in pittura che in letteratura. Anche Rousseau contribuirà alla fortuna letteraria del lago, in particolare per il suo essersi fatto seppellire in un’isoletta, la famosa Ile des Peupliers, in mezzo al lago di Ermenonville, vicino a Parigi. In questo clima anche nella produzione letteraria italiana comincia a farsi strada un’osservazione più attenta e diretta degli elementi della natura, di cui una testimonianza esemplare si può ritrovare nella famosissima descrizione d’apertura dei Promessi Sposi, di ambiente lacustre, di taglio cinematografico, attenta e precisa, modello per molte altre descrizioni successive, ma anche in quella della vigna di Renzo34, descritta con la precisione naturalistica di molti elementi, tra cui spicca un bel tasso barbasso. Ma il punto nodale della nostra tradizione poetica è indubbiamente rappresentato nell’Ottocento dalla poesia del Leopardi35. Egli, innanzitutto, propone una visione sistematica della Natura, con la sua teoria della Natura matrigna, di derivazione classica, a cui arriva progressivamente attraverso le varie fasi del suo pessimismo, che da storico ed individuale diventa cosmico (dall’ Ultimo canto di Saffo al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Nello stesso tempo porta a vette altissime il rinnovato rapporto soggettivo, individuale e meditativo con aspetti del paesaggio (L’infinito, Alla Luna, Le ricordanze, ecc.), contribuendo a polarizzare l’attenzione, secondo il gusto della sensibilità romantica, sul cielo, sulle stelle ed in particolare sulla Luna, elemento centrale del Romanticismo. 53 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura 54 10-12-2012 18:02 Pagina 54 N AT U R A E L E T T E R AT U R A Ma in Leopardi troviamo anche descrizioni di tipo bozzettistico-naturalistico, in stretta consonanza con il rinnovato gusto pittorico dei Macchiaioli che ha determinato l’archiviazione della pittura accademica di impostazione storica e mitologica (Delacroix), in particolare nei Grandi Idilli (La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, ecc.). Per documentare questo rinnovamento in direzione realistica, basta soffermarsi sul fatto che finalmente Leopardi infranga quello che era il cristallizzato mondo dei fiori in poesia. Infatti, quando nel Sabato del villaggio mette in mano alla fanciulla un quanto mai improbabile (come ha rilevato il Pascoli) «mazzolin di rose e di viole», liquida la tradizione floreale della poesia italiana e successivamente con La ginestra inaugura una nuova stagione di attenzione alla realtà naturale e di conferimento di valori simbolici ad elementi della natura, in particolare fiori, anticipando quella forte funzione simbolica che i fiori avranno nella poesia dei Simbolisti francesi, a partire da Les fleurs du mal di Baudelaire (1857). D’ora in poi la flora poetica non sarà più letteraria, ma reale, osservata, scelta ed amata, semplice e naturale nel Pascoli36, che anche quando recupera la tradizione classica delle myricae, parte dalla sua esperienza personale di uomo abituato a vivere a contatto con la natura, invece ricercata, caricata di valori simbolici, ancora recuperata da memorie letterarie, ma soprattutto inglesi e francesi, in D’Annunzio37, che tra tutti i fiori privilegia la rosa bianca a cui dà ampio rilievo ne Il piacere come simbolo di seduzione e di purezza insieme. Intanto in Europa si sono affermate nuove specie floreali che determinano anche vistose introduzioni in letteratura, soprattutto in consonanza con il gusto liberty, tutto incentrato sui fiori, come elementi di ornamento, grazia ed armonia, nonché di propensione femminile. Alcuni fiori sono particolarmente significativi in questo contesto: la camelia bianca e rossa, protagonista del famoso romanzo di Dumas, La signora delle camelie, l’orchidea, in particolare la cattleya, che nelle pagine della Recherche di Proust si carica di forti valenze erotiche, il crisantemo, fiore da poco venuto dall’Oriente, ancora nelle pagine di Proust decorativo e ridente, che solo il fatto di fiorire in autunno farà sì che nella nostra cultura assuma progressivamente il ruolo di fiore dei morti, e il glicine, che per la sua flessuosità, ramificazione e fioritura pendente, ha una tipica grazia tutta femminile, particolarmente gradita al gusto liberty, che se ne appropria, come da noi testimoniano alcune liriche di Gozzano38 e molta produzione pittorica. Bisogna anche considerare che nel corso dell’Ottocento si intensifica l’interesse da parte della letteratura per il mare, visto come campo delle avventure e dell’affermazione della forza dell’uomo, soprattutto nell’ambito della produzione inglese. Questo filone si potrebbe far iniziare con La ballata del vecchio marinaio (1798) di Samuel Taylor Coleridge, ma narrativamente si apre con Le avventure di Gordon Pym (1838) di Edgard Allan Poe, in cui si 36 M. Pozzi, La flora pascoliana : presenze botaniche nella poesia di Giovanni Pascoli, Memoria di licenza presentata alla Facoltà di Lettere dell’Università di Friburgo [Svizzera] 1990; M. Pozzi – L. Notari, Fiori e piante nella poesia di Pascoli e di Montale : repertori e studi, Edizioni Universitarie, Friburgo [Svizzera] 1997. 37 R. Garzia, Il vocabolario dannunziano, Stabilimento Poligrafico Emiliano, Bologna 1913; P. Gibellini, Fiori di carta, la fonte botanica di “Alcyone”, in “Lettere italiane”, 14, 1980. 38 R. E. Giangoia, La flora in Guido Gozzano tra tradizione ed innovazione, in “Satura”, n. 16 (2011), pp. 26 – 33. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 55 N AT U R A E L E T T E R AT U R A Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura snoda il resoconto di un viaggio per mare su una baleniera che naufraga in seguito ad un ammutinamento. Dopo l’apparizione di una nave fantasma affollata di cadaveri in putrefazione, il viaggio prosegue sulla Jane Guy facendo rotta verso il Polo Sud, dove una misteriosa gigantesca figura bianca prefigura gli arcani del Moby Dick di Melville (1891): pura epopea dove il mare, omerico e biblico insieme, che diventa il regno dei mostri, del terrore. La balena bianca contro la quale lotta ostinatamente e inutilmente il capitano Achab è il simbolo dell’assurdità del mondo. Invece in Redburn (1849) e in White jacket (1850) prevale l’aspetto sociologico con il resoconto della vita a bordo, come nel postumo Billy Budd (1924). Negli stessi anni ci sono gli importanti romanzi di Joseph Conrad: The nigger of ‘Narcissus’ (1898), Lord Jim (1900), Typhoon (1903) e Twixt land and sea (1912), accanto al romanzo d’avventura Captains courageous (1897) di Joseph Ruyard Kipling, autore anche delle raccolte poetiche The seven seas (1896). Per rimanere nel Mediterraneo, possiamo ricordare anche Le comte de Montecristo (1844-45) di Alexandre Dumas padre. Mare e natura esotica sono ancora i protagonisti dei romanzi di Robert Louis Stevenson, che, malato di tisi e desideroso di avventura, nel 1888 parte per una crociera nel Pacifico e nel 1891 si stabilisce nelle Isole Samoa. Frutto di quest’esperienza sono Treasure island (1883), di cui è protagonista assoluto il mare e i racconti d’ambiente polinesiano The island nights’ entertainments (1893), nonché il postumo In the South seas (1896). In Italia questo filone non ebbe incidenza, se si eccettua il carattere marinaresco de I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga, oltre ad alcune narrazioni, più di viaggi e di attenzione sociale che di mare, di Edmondo De Amicis (Marocco, 1876, Costantinopoli, 1878/79 e Sull’Oceano, 1889), e di Guido Gozzano (Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India, 1917) e il poema Maia (1903), primo delle Laudi di D’Annunzio, in cui però il mare viene recuperato soprattutto nella sua dimensione classica e mitologica, oltretutto rivisitata alla luce del superomismo di Nietzsche. Dovremo aspettare diversi decenni per avere un romanzo di grande intensità sul mare, come Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo (1975). Il rapporto soggettivo con il mare entra nella letteratura italiana soprattutto con gli Ossi di seppia di Eugenio Montale, in cui il paesaggio marino di Monterosso, località dove il poeta trascorreva le vacanze estive, diventa protagonista di liriche cariche di significati esistenziali, tramite il correlativo oggettivo, come in Meriggiare pallido e assorto. Con il proseguire del Novecento e sino ai nostri giorni tutto è libero e possibile in letteratura, senza schemi, modelli o pregiudizi, per cui ogni singolo autore sceglie della natura ciò che sente maggiormente in consonanza con il suo cuore, il suo stato emotivo, la sua sensibilità, la sua storia e la sua vita. Capita così che tanti, soggettivi ed occasionali, siano i luoghi, gli scorci di paesaggio, gli ambienti naturali che assumono in letteratura una rilevanza particolare. Dobbiamo, però, osservare che, proprio nel tempo in cui è emerso e si è affermato in letteratura il paesaggio come realtà, la Liguria ha acquisito un ruolo determinante, per cui si può dire che la Liguria è la terra della letteratura novecentesca. È stato l’avvento del turismo dalla seconda metà dell’Ottocento a fare del paesaggio delle Riviere Liguri un luogo letterario privilegiato per tanti viaggiatori europei che silo ricordano ed esaltano (Shelley, Byron, Maupassant, ecc.) o pittori per fissarne gli scorci più suggestivi sulle loro tele (Monet a Bordighera). Quello della Liguria diventa il paesaggio naturale moderno, sfondo 55 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Rosa Elisa Giangoia Natura e letteratura 56 10-12-2012 18:02 Pagina 56 N AT U R A E L E T T E R AT U R A del drammatico dialogo del soggetto novecentesco alla ricerca del senso dell’esistenza e con la poesia di Giorgio Caproni definitivo superamento della concezione decadente del paesaggio. Nella sua poesia, infatti, i suoi luoghi privilegiati, Genova e la Val Trebbia, sono lontanissimi “dal pittoresco o dal gusto del ritratto impressionistico ed evocativo” per quella “stupefacente accelerazione intellettuale impressa da Caproni al paesaggio”39. Per Caproni la Val Trebbia non è “la valle più bella del mondo” come avrebbe scritto Hernest Hemingway nei suoi diari di corrispondente di guerra, non tanto perché vi ha vissuto vicende di dolore personale (ma anche di gioia) e storico, ma perché nella sua poesia, fin dalle prime prove, avviene il “mutamento dell’idea e della funzione del paesaggio. Propriamente è uso e interpretazione del paesaggio come idea “filosofica”, meglio, come figura speculativa evocata e plasmata dal di dentro del materiale poetico.”40 Il paesaggio non serve a Caproni per comunicare sensazioni o sentimenti: per questo si riduce ad una spazialità semplificata, espressa da segni geometrici, funzionale al disvelarsi nel rapporto con il destino visuale e spaziale dell’uomo. È un paesaggio-immagine, muto, sulla cui consistenza e realtà il poeta si interroga. Questa spazialità di Caproni, in cui le città (Genova, Livorno…) sembrano lasciare sempre più spazio alla campagna, contrassegnata da un luogo preciso (la Val Trebbia) con i suoi borghi e la sua strada (Statale 45), rivela il passaggio da una configurazione organizzata ad una dimensione più vasta, aperta, senza centro. In definitiva è il passaggio dalle certezze alle domande. Come osserva giustamente Alessandro Rivali, Caproni "ha trasformato la ligure Statale 45 in uno straordinario cantiere di metafore. Nella sua rielaborazione una strada come tante si è trasformata in un trampolino per le più radicali domande sul destino dell'uomo"41. Per questo la dimensione del paesaggio totalmente nuova in Caproni ne fa il poeta del superamento della tradizione. Con lui la visione tradizionale della Natura in poesia si apre a nuove e moderne possibilità, affidate ad altri poeti. 39 G. Bertone, Letteratura e paesaggio. Liguri e no. Montale, Caproni, Calvino, Ortese, Biamonti, Primo Levi, Yehoshua, Lecce 2001, p. 122. 40 G. Bertone, op. cit., p. 126. 41 A. Rivali, Statale 45: la musa di Caproni, in "Luoghi dell'infinito", n. 30 (http://www.cmc.milano.it/Archivio/2012/Articoli/caproni2_sls.pdf). Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 57 57 di Bruno Rombi Accade spesso che uno scrittore, che in vita abbia goduto di una certa notorietà, ma non della celebrità che si sarebbe meritato, per via delle sue opere, al momento della sua scomparsa venga sottoposto ad un’indagine che alla fine gli rende merito per quanto ha fatto. E’ il caso di Jean-Max Tixier, poeta, scrittore e critico letterario, autore di una ventina di opere di poesia, narrativa e saggistica (di cui in Italia le deboli tracce sono costituite da una piccola raccolta di versi: Fragments de l’obscur – Frammenti dal buio, a cura di chi scrive1, e l’inclusione nella bella antologia Preface à la vie – Prefazione alla vita – Otto poeti francesi della rivista “Autre Sud”2, a cura di Guido Zavanone che ne ha anche tradotto, con viva partecipazione, i testi. Il profilo, che qui se ne traccia, non è quello dettato dal sentimento d’amicizia, ma dall’analisi attenta del suo lavoro e di quanto la critica francese sta portando alla luce. Nato 1l 13 febbraio 1935 a Marsiglia, nel quartiere di Pointe Rouge, di fronte al mare, e scomparso a Hyères il 29 settembre 2009, Jean-Max incarnava il prototipo dell’amico schietto, sincero, che non consente a nessuno di giocare a nascondino con i propri sentimenti e le proprie opinioni in merito alla letteratura. La sensibilità di Jean-Max era, in sostanza, quella tipica della gente di mare. Trascorsa la propria infanzia, fino a sei anni, nell’angolo più pittoresco della città sulla foce del Rodano, Boulevard des Dardanelli, come scrive JeanClaude Villain nel volume Jean-Max Tixier à l’arête des mots 3, non aveva voluto, crescendo, abbandonare la sua città natale fino al 1990, quando, pur conservando stretti legami, s’è trasferito a Hyère. Ma è sicuramente Marsiglia il luogo dove s’è sviluppata la sua sensibilità, dove si è alimentata la sua immaginazione e dove ha intessuto le principali amicizie. Tutto ciò ha contribuito a quella celebrazione della sua città che il volume Lecture d’une ville4 bene esprime, in una sorta di metafora da poema, evidenziando quella vena che ha alimentato la sua poesia, alcuni testi in prosa e, in particolare, molte novelle del volume Le festin des mouettes 5. Per il fatto di appartenere ad un’antica famiglia provenzale, la cui provenienza si può situare ad est del Rodano, nel famoso “triangolo sacro”, stando all’espressione di Marie Mauron, vale a dire tra Arles, Saint Remy e Salon de Provence, egli riservava un ambivalente attaccamento alla Provenza. Durante 1 2 3 4 5 Campanotto, Udine 2004. De Ferrari Editore, Genova 2009. L’Harmattan Editions, Paris 1995. Sud Editeur, Marseille 1977. Parpaillon Editeurs, Gonfaron 2000. Bruno Rombi La riscoperta in Francia del poeta Jean-Max Tixier LA RISCOPERTA IN FRANCIA DEL POETA JEAN-MAX TIXIER Satura 19-2012 nero:Layout 1 Bruno Rombi La riscoperta in Francia del poeta Jean-Max Tixier 58 10-12-2012 18:02 Pagina 58 L A R I S C O P E R TA I N F R A N C I A D E L P O E TA J E A N - M A X T I X I E R la sua prima infanzia visse presso un nonno librettista d’operette con i cui manoscritti giocava mentre il vecchio lavorava. Ebbe quindi il suo primo incontro con la scrittura in un clima di affezione. Per alcuni anni, preoccupato di non essere annoverato tra gli scrittori regionalisti, si è sforzato di prendere le distanze, di rompere con la sua terra d’origine, aiutato in ciò dalle collaborazioni effettuate in seno ad un gruppo di riflessione e ricerca poetica della rivista “Encres vives”. In Ecrits de l’autre rive, ripreso nel volume Le festin des mouettes, egli annotava: “Longtemps j’ai dénié à la Provence d’avoir des droits sur moi. Rayé des registres, je pesais sur elle par hasard, rencontrant par habitude sa consistence et sa lumière”. A questo proposito c’è uno scritto di Jean Jourbert che così recita: “… si tout poète porte en lui un paysage esssentiel, qui est souvent celui de l’enfance, c’est la Provence qui, ici, irrigue et féconde les champs des mots et des images … (…) Jean-Max Tixier a su tirer de la terre natale (…) un sens plus large que manifeste un langage de poète”. E’ possibile che insieme alla forza del paesaggio provenzale, oltre che di quella della volontà e dell’intelligenza, abbia contribuito a formare il poeta l’assenza del padre naturale che non ha mai conosciuto, essendo cresciuto in un clima di grande libertà, secondo un metodo educativo in anticipo coi tempi, accanto al secondo marito della madre. Ma fu soprattutto il padre di quest’ultimo che influì in maniera determinante sulla sua formazione intellettuale. Medico umanista e spirito vivace, e grande lettore, quest’uomo, mostrandogli quale importanza assume la cultura nell’esistenza di un individuo, lo ha influenzato fortemente. Più tardi, durante gli anni di studio, brillante studente liceale, dedica molto del suo tempo a scrivere poesie e a disegnare caricature, mostrando chiaramente la sua abilità nel tratteggiare sulla pagina figure e situazioni con la matita al pari che con la penna. Entrato all’Università di Aix-en-Provence nella facoltà di Lettere e Scienze Umane, diretta da Raymond Jean, si laurea con una tesi sui “Rapporti tra la poesia contemporanea e la matematica”, dalla quale ricaverà più tardi il saggio Vers une logique poétique6con la prefazione di Raymond Jean. Da allora sarà permanente in lui la riflessione sui rapporti tra la letteratura e le scienze; e, grazie a ciò, intesserà relazioni e amicizie con Calude Ollier, Roger Caillois, André Verder e Lorand Gaspare. Intanto alcuni avvenimenti avevano influenzato la sua esistenza. Il suo periodo di tregua finiva infatti nel 1960 con lo scoppio della guerra d’Algeria. Dai ventinove mesi trascorsi sotto l’uniforme egli trae molta amarezza e poche illusioni sugli uomini. Ne ricava una lezione di disperazione che maschera tra l’umorismo e la derisione. Dal 1964 partecipa spesso alle riunioni del mercoledì della rivista “Cahiers du Sud” dove conosce Jean Ballard, Jean Tortel, Pierre Guerre, Jean Malrieu, Jean Todrani, Joseph Guglielmi ed altri. Jean Tortel, con il quale intratterrà strette relazioni sino alla sua morte, con le sue critiche severe, ma oculate, lo indurrà ad essere più esigente e a progredire. Tali rapporti con i “Cahiers du Sud” furono determinanti, tanto che avvertirà la scomparsa, nel 1966, della prestigiosa rivista come una grande perdita. Ciononostante JeanMax continuerà a frequentare la soffitta dei “Cahiers” fino alla scomparsa di 6 La Table rase, Cesson-la-Forêt 1980. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 59 L A R I S C O P E R TA I N F R A N C I A D E L P O E TA J E A N - M A X T I X I E R La Médecine (1978); La Cuisine (1980). Ed. Mic Berthe, 1967. 9 Ed. Encres vives, 1967. 10 Ed. Cahierrs de “Jeunesse”, 1968. 11 Gallimard, Paris 1985. 12 Ivi, p. 89. 7 8 Bruno Rombi La riscoperta in Francia del poeta Jean-Max Tixier Jean Ballard, ed ancor dopo, fino a quando la vedova Marcou continuerà ad agitarne la bandiera. Terminato il servizio militare nel mese di novembre del 1962, iniziò la sua carriera di insegnante. Nel 1965 è incaricato presso il Liceo Agricolo di Hyère nel Var, dove finirà per risiedere dal 1990 fino alla morte. Durante un lungo periodo si dedicherà allo studio della pedagogia, partecipando ad incontri e stages con il “Groupe Français d’Education Nouvelle” e collaborando alla rivista “Cahiers de Poèmes” in seno all’INRAP (Institut National de Recherches et d’Applications Pédagogiques), pubblicando due opere presso Larousse nella collana “Idéologies et Sociètes”7 e infine collaborando dal 1980 al 1988 alle Edizioni Marketing con opere di preparazione ai concorsi per l’insegnamento nelle Scuole Superiori con studi su Montaigne, Ponge, Baudelaire, Giono, Saint-John Perse. Il suo vero ingresso nel mondo letterario si verifica con la pubblicazione di tre raccolte di poesie: La Vague immediate8, La Poussée des choses 9 e La pierre hypnotisée10, tutti volumi vincitori del Premio Blaise Cendras nel 1968. La sua opera poetica comincia ad avere successo nel 1980, mentre egli segue le opere degli scrittori e dei pittori con la critica letteraria ed artistica su varie riviste, come “Marseille”, diretta da Louis Branquier e “Poésie”, che uscirà fino al 2000 a Parigi. Il 1989 è un anno cerniera per Jean-Max. All’interno della redazione di “Sud” le lotte intestine lo inducono alle dimissioni nel mese di ottobre del 1990. La sua ultima raccolta Etat du lieu11 è premiata dalla Societé des Gens des Lettres – Prix Campion-Guillaumet. Il 17 settembre 1994 riceve il Grand prix Littéraire de Provence per l’insieme della sua opera. La sua biografia ne delinea la feconda attività, mentre il senso della sua opera ne sottolinea la grandezza acquisita lavorando con pazienza e con una sorta di propria ideologia sul modo di essere poeta. Tentare d’inserire il dato biografico nella poesia di Jean-Max Tixier è estremamente difficile, in quanto alla lettura della sua opera Vers une logique poétique ci si smarrisce – come sottolinea André Miguel – in una vertigine d’impersonalità in quanto Tixier ha sempre rifiutato, fino ai tempi più recenti, di far menzione nei suoi libri del suo vissuto. Invano si cercherebbe una semplice allusione alla sua vita nelle sue opere prima del 1985, anno in cui in Le Berger d’ombres 12 il racconto La fleur qui tue rievoca un ricordo familiare. D’altra parte, con i suoi amici della rivista “Encres Vives”, sin dal 1967, Tixier s’era impegnato a denunciare le leggende che si sviluppano attorno alla persona e all’esistenza degli scrittori, col rischio d’occultare l’essenziale, ovvero il testo. L’opera letteraria, secondo Tixier, si nutre della vita dell’autore attraverso sottili capillari anche quando essa pretende di rifiutarla. Non è improbabile che in Tixier il rifiuto della biografia, la ripugnanza a svelare qualcosa di sé, quel famoso “esilio dell’Io”, siano conseguenti all’esperienza infantile. Per lui “La poésie est une pratique de l’imaginaire”. 59 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Bruno Rombi La riscoperta in Francia del poeta Jean-Max Tixier 60 10-12-2012 18:02 Pagina 60 L A R I S C O P E R TA I N F R A N C I A D E L P O E TA J E A N - M A X T I X I E R In un’intervista ad Alain Freixe così precisa: “Commençon par distinguer l’imaginaire et l’imagination. Celle-ci consiste en la capacité de produir des raprésentations. Elle ne dé tourne pas du reel. Au contraire, il lui est indispensable pour investir l’inconnue. Je parle, bien entendu, de l’imagination créatrice, non de “la folie du logis” dénoncée par Pascal. L’imaginaire désigne à la fois un espace interieur qui conserve les traces d’experiences singulières et les prediletions du sujet pour telles orientations thématiques en function d’imitations appropriée. Mais ells peuvent rester entérieures et ne jamais débvoucher sur une ouvres”13. La nostra capacità di immaginare scaturisce da ciò che noi abbiamo vissuto e dal modo in cui l’abbiamo vissuto, dalle impressioni che ci hanno modificato. Ciò che noi percepiamo non è registrato tale e quale. Subisce le trasformazioni del nostro sguardo e della condizione di registrazione da parte del cervello. Potremmo pertanto dire che nella poesia intervengono e hanno ampio spazio le “metamorfosi della memoria” la quale registra, col vissuto, ciò che la determina: le cose, la realtà, la terra e l’acqua, la palude – elemento misto di terra e d’acqua – e tutto può diventare metafora, anche il mito quando la realtà non basta, perché esso precede e sorpassa la storia. Trattandosi di miti e dei loro misteri, Tixier avanza sul loro territorio con lucidità, come se si muovesse nella realtà tangibile cercando la parte più rivelatrice del canto, pronto a svelarne i sortilegi. Con l’indagine dello spazio in cui vive la rivelazione di ciò che intorno a sé coglie, Jean-Max Tixier, uscendo dal territorio dell’esilio volontario entro cui ha cercato di penetrare il senso della realtà, si ritrova con un “Io” che si riconosce in una “vertigine dell’impersonalità” – come ha scritto André Miguel nel 1977, ovvero un “Io” intimo e geloso della propria intimità. “Je pense – scrive Michel Cosem – que Jean-Max Tixier est un grand lirique, mais qu’il se mefie de lui-même et qu’il ne cesse de vouloir fixer un cadre logique à ce lyrisme. Serait-il donc, au fond de lui, très timide?”14. Direi che più che timido, Tixier è nel contempo un pudico orgoglioso con l’orgoglio di uno “spirito scientifico” che alla fine della vita, con la cicatrice aperta dissimulata con lucidità e distacco, in un momento di crisi, dubitando, si rende conto che ciò che gli resta è solo la constatazione e la confessione in prima persona, di un male a lungo dissimulato. “Là menacé pliant déjouant toutes lignes / Si je ne suis vivant toute parole est morte / Le monde est déserté tous mes regards perdus / Rien ne compose plus / Avec la nuit”15. Forse il silenzio può essere vinto. Non è soltanto un nuovo chiudersi sul dolore o conoscenza acuta della vanità, ma pace, al di là della quale può esservi una nuova parola, una raccolta di parole per un semplice rumore, un “pépiement”16 – direbbe René Char – che farà ritrarre la morte: “Si tu parles /la mort recule / Et l’important / n’est point de sens / mais de la seule rumeur”. 13 J.M. Tixier, Chants de l'évidence - entretien avec Alain Freixe, Autres Temps, Marseille 2008, p. 89. 14 J.P. Villain, op. cit, p. 76. 15 Op. cit., p. 79. Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 61 61 Letture di Liana De Luca, Giuliana Rovetta e Stefano Verdino FEDELTÀ ALLA VITA Stefano Verdino Nella poesia I colori della mia vita Bruno Rombi non ha dubbi: chiederebbe “in prestito a van Gogh il giallo”, “Al Pablo nato sul mio parallelo” “i blu”, infine “i rossi e i verdi di Mirò”. Colori intensi, colori frontali, come frontali sono i versi di Bruno Rombi, una frontalità che non è stata molto frequentata nel Novecento italiano e che non ha caso ha avuto come modello piuttosto un poeta latino come Pablo Neruda, al cui ‘canto generale’ si può dire Rombi si sia sempre ispirato. Nel volume Il viaggio della vita, con saggio introduttivo di Francesco De Nicola, che raccoglie il corpus della sua attività di oltre mezzo secolo, la fedeltà a questo bisogno di ‘canto generale’ è evidente : “Qui vivo e muoio / proteso ai vertici d’ un sentimento”, si legge in Il tempo, al mio paese, ‘targato’ Calasetta 1962 e “Protesa su un precipizio / la mia anima, ancora bambina, / scruta lo spazio oscuro che l’attira”, da E dire ancora…, la raccolta di inediti che chiude il libro. Certamente i versi ultimi hanno un tono più spirituale, in quelli giovanili domina una diversa fisicità, ma il tono è analogo, in ogni caso la situazione è frontale, direi perentoria, senza mediazioni. C’è quasi un urgenza che il verso tenga il passo dell’occasione emotiva, ne costituisca la voce ed una voce ferma, stentorea. Nella loro traiettoria di ‘canto generale’ i versi di Bruno Rombi hanno così alternato il canto dell’io, con le sue vibrazioni tra fisico e spirituale, e canto dei noi, del tempo che si vive, anche con cospicui episodi di poesia civile, come il poemetto Otto tempi per un presagio, che piacque a Franco Croce, che ne fu prefatore, e che prende le mosse da una ricognizione ‘intestinale’ in Genova: “La città del mistero ci disperde / tra i vicoli più stretti intorno a Banchi”. Accanto alle vicende personali della propria vita (alcune assai dolenti) e al loro riverbero emotivo ed espressivo, Rombi è stato anche in testimone del tempo, si è sempre guardato in giro e ha catturato nei suoi versi diverse realtà, dalla Sardegna povera ed arcaica, alle stagioni della corruzione italiana, ai quadri allarmanti del mondo globale. Francesco De Nicola, nel suo citato saggio introduttivo, ha notato come la parola “mistero” sia una delle dominanti di Bruno Rombi e che motiva, in fondo, sia la sua ricerca spirituale, sia la corda della sua indignazione civile, alle prese nel sondaggio di quello che altri chiamò “guazzabuglio”. Forse quasi ad antidoto di tanta incertezza di confini, il verso ha bisogno di chiarezza e di determinazione, di tagli netti, senza sfumature. Naturalmente nell’arco di una produzione vasta ci sono stagioni e percorsi diversi, dai margini autobiografici o intimi o esistenziali o polemici o anche irati, così come ci sono diverse modalità di scrittura, oltre la dominante lirica, come le prose poetiche di Forse qualcosa e L’attesa del tempo, che costituiscono probabilmente i testi di maggior confidenza verso l’istanza spirituale, scaturita da occasioni specifiche dell’esistenza. Su un altro versante invece troviamo la sperimentazione di Enigmi animi con il suo lessico spesso portato a fusione di due vocaboli, in un bisogno di maggiore tensione espressiva. Voglio prestare infine attenzione ad una poesia di Il battello fantasma, sorta di poema della propria interiorità, catturato in sequenze di liriche; in Spesso procedi… Rombi riflette sulla propria ombra, non ne cava spietata moralità come Montale, ma osserva la dinamica del rapporto con il corpo e quindi con l’io: “Spesso procedi dentro la tua ombra, / ma qualche volta / l’ombra tua ti segue / e non sai se si muove in consonanza / o se avanza come più le aggrada. / E’ difficile dire quando l’ombra / è ancora specchio nostro / e quando invece / riflette solo un senso dell’andare: / quello che non riusciamo a controllare”. Ecco in questo esempio credo si pos- Stefano Verdino Fedeltà alla vita PROSPEZIONI Satura 19-2012 nero:Layout 1 Giuliana Rovetta Scrittori dietro le sbarre 62 10-12-2012 18:02 Pagina 62 PROSPEZIONI sa catturare al meglio la concreta presenza di quel ‘mistero’ che si diceva, captato nel sottile incrocio di fisico e metafisico, nel semplice passo di un’andatura. Bruno Rombi, Il viaggio della vita, saggio introduttivo di Francesco De Nicola, Le Mani, Recco (Ge) 2012, pp. 330, € 20,00. SCRITTORI DIETRO LE SBARRE Giuliana Rovetta Fin dalla copertina sorprende, di Scritti galeotti, l’istantanea in bianco e nero che mostra un corrucciato William Borroughs, piantato a gambe larghe davanti all’obiettivo, intento a brandire un coltellaccio sullo sfondo di una stanza abbastanza anonima. Non con quest’arma, ma con una pistola automatica che aveva peraltro deciso di vendere perché poco precisa (e per racimolare in Ecuador i soldi che servivano al suo fabbisogno di droghe e alcool) lo scrittore icona della beat generation uccide per sbaglio la giovane moglie, mancando clamorosamente l’obiettivo -un bicchiere posato sulla testa- nel tentativo di emulare Guglielmo Tell. Associato al carcere di Quito per tredici giorni, non è certo l’unico scrittore ad aver conosciuto la galera. Anzi dalla rapina a mano armata all’omicidio, un intero catalogo di crimini più o meno gravi sono collegabili a nomi illustri di poeti, scrittori, oltre che di registi noti e amati, come ad esempio Truffaut, Con arguzia e con l’appoggio di un corredo minuzioso di riferimenti, Daria Galateria passa in rassegna un certo numero di questi casi, evocando celle di libertini settecenteschi come Sade e Casanova, o episodi di vita in stabilimenti di pena come il carcere di Reading in cui Oscar Wilde pagò per un crimine che il diritto penale inglese considerava inferiore solo all’omicidio. Se la permanenza dietro le sbarre di Jean Genet è nota, segnata come fu la sua vita da trasgressioni e furti d’ogni genere, tanto da essere studiata da Michel Foucault come esempio per un saggio sul sistema penitenziario, meno prevedibile è la discesa agli inferi di Goliarda Sapienza, passata dall’ambiente “pseudoelegante” d’origine alla reclusione di Rebibbia. L’accusa era quella di aver tentato di vendere i gioielli rubati a una cara amica (e per di più sfruttando il nome del regista Maselli, con il quale aveva vissuto per quasi vent’anni): un modo di procedere che denota la volontà di farsi ritrovare, arrestare, imprigionare. Singolare la sorte carceraria di Norman Mailer, eccentrico e instabile scrittore newyorkese. Per l’accoltellamento della amata moglie, colpevole di avergli rivolto una frase poco gentile, viene arrestato ma, difeso a spada tratta dalla sua stessa vittima, per fortuna sopravvissuta, nel dubbio dei giudici circa le sue reali condizioni mentali si vede comminare una pena irrisoria: un anno con la condizionale e 500 dollari di multa (di fatto se la caverà con una sola notte in guardina). Paradossalmente sconterà invece una pena più lunga per aver partecipato alla marcia pacifista contro la guerra in Vietnam. Contraddittorio, come si sa, è sempre stato l’atteggiamento di Céline, arrestato con la moglie a Copenaghen dove si era rifugiato temendo ritorsioni per le invettive antisemite contenute nel Voyage au bout de la nuit che avevano scandalizzato la Francia intera. Rintracciato dalla polizia, si era mostrato sollevato alla vista degli agenti, avendo temuto il peggio: l’editore del suo libro, Denoël, era appena stato ucciso da un colpo di pistola in pieno centro di Parigi da un ignoto vendicatore. Durante la detenzione, che durerà diciotto mesi, trova modo di sfruttare le sue conoscenze mediche per ottenere frequenti ricoveri in infermeria dove, con una certa continuità, scrive una prima versione di Féerie pour une autre fois. A sfruttare i ritmi lenti del carcere, traendo nuova ispirazione rispetto alla vita libera, sono in molti: Verlaine, imprigionato per tentato omicidio ai danni di Rimbaud, proprio a Bruxelles nella prigione dei Petits Carmes scrive con mezzi di fortuna (un fiammifero immerso nel caffè, carta da pacchi) buona parte di Jadis et Naguère; Hans Fallada, bloccato dalle camicie brune nella sua casa di campagna vicino a Berlino con l’accusa di cospirazione contro il Führer, nel carcere sulla Sprea si dedica alla scrittura; nuovamente rinchiuso, questa volta in un manicomio criminale per aver sparato alla moglie procede alacremente nella stesura de Il bevito- Satura 19-2012 nero:Layout 1 10-12-2012 18:02 Pagina 63 PROSPEZIONI Daria Galateria, Scritti galeotti, Sellerio, Palermo 2012, pp. 302, € 14,00. GENOVA, UNA STORIA Giuliana Rovetta Uno scrittore esordiente, emerso dalla generazione dei quarantenni considerati ancora “giovani”, sceglie come sfondo per un romanzo di vicina attualità la città che meglio conosce nei suoi vizi (molti) e nelle sue poche virtù. È la città dalla quale il protagonista, alla fine degli studi universitari, si allontana un po’ disgustato e un po’ affranto alla ricerca di un contesto meno logoro e prevedibile in cui sviluppare il suo presunto talento nel campo delle lettere. Il viaggio Genova-Parigi (un’oretta di volo sull’airbus di Air France) non è particolarmente avventuroso e i limiti della moderna bohème a cui il neolaureato è tenuto a sottoporsi sono comunque garantiti dalla sicurezza finanziaria. L’avventura non è dunque nei fatti e nelle cose ma all’interno, là dove cresce l’astio per i suoi simili e contemporanei, dove matura il disprezzo per l’accolita dei padri, dove –in odio anche a se stesso- si annida l’impulso a bere fino ad averne “il cervello sanguinante”. Malinconico e, a suo modo, non privo di un romanticismo sottotraccia, La fine dell’altro mondo ripete con naturalezza alcuni clichés legati al genere del romanzo di formazione: l’ambizione di raggiungere l’affermazione artistica, l’invettiva contro il milieu d’origine, la famiglia vissuta come legame claustrofobico, in sintonia con il famoso grido gidiano di condanna espresso nelle Nourritures, gli amori disorganizzati vissuti con franca misoginia. Non manca nel campo dei sentimenti l’accenno ad un’attrazione non cameratesca tra fratello e sorella, complice coppia di viziatissimi enfants terribiles alla Cocteau. Messi in campo tutti i riferimenti, il romanzo si dipana cercando di far rivivere certi grovigli della mente, tra l’ossessione di una ricerca documentaria su un introvabile testo di Cyrano e brandelli di vita di relazione improntati a un timido cinismo. Al centro campeggia sempre il blando eroe che mira a una graduale autodistruzione, ma senza mai incorrere in rischi reali. Di solito risolve l’aggressività nel confronto con colleghi, professori e maltrattati genitori, utilizzando l’arma di una certa ingenua arroganza. Sembra che nulla possa intaccare la superiorità di questo “eccentrico di talento” cui la buona società genovese, “grigio assemblaggio di eruditi dilettanti e borghesi” (tirati in causa con trasparenti allusioni e cognomi assonanti) ha decretato, bontà sua, una posizione di ammirazione guardinga. A Parigi, invece, dove si reca per preparare la tesi di dottorato, Ludovico detto “Ludò” vive nell’anonimato tipico delle grandi città. Ha pochi amici sparsi, una ex con cui vorrebbe riprendere i rapporti, spesso si perde nei quartieri in rapida trasformazione, indugia nella vita notturna: “In prossimità di Pigalle, le insegne lampeggianti dei bar à putes lo distolsero da un turbine di pensieri angosciosi, per rigettarlo sul terreno delle usuali pulsioni”. Erotomane per eccesso di malinconica disperazione, il giovane aspirante letterato non si fa mancare un’avventura a Mosca, dove due volonterose gemelle, dopo averlo drogato con l’ecstasy, lo derubano di soldi, carte di credito e prezioso computer. Fin qui niente di veramente nuovo sotto il sole, se non fosse che la sonnolenta città archiviata da sempre come invivibile per eccesso di monotonia si trova proprio allora al centro di avvenimenti ben lontani dai suoi standard: “Al suo ritorno, Genova era una città sotto assedio. Nel tragitto a piedi dalla stazione Principe a casa propria, Ludovico attraversò le barriere costruite a difesa della zona rossa: chilometri d’inferriate alte più di tre metri, con porte di accesso ancora aper- Giuliana Rovetta Genova, una storia re, un memoriale in cui ricorda gli anni trascorsi sotto la dittatura nazista. Per non insospettire i guardiani adotta una grafia microscopica e riempie anche gli spazi fra una riga e l’altra. Quanto alle donne paradossalmente sembrano trarre partito dal regime di restrizione che mentre le sottrae all’obbligo di farsi sempre carico della famiglia, in più le esime dal render conto ad altri dell’uso del loro tempo: se Goliarda Sapienza, con la pubblicità negativa conseguente al carcere, ha imboccato la strada verso una visibilità prima negata, Louise Michel, la pasionaria dei tempi della Comune scrive nei suoi Mémoires: “In carcere si è liberi. La notte poi ci si sente vivere, si può scrivere”. 63 Satura 19-2012 nero:Layout 1 Liana De Luca Rimembranze e presenze femminili 64 10-12-2012 18:02 Pagina 64 PROSPEZIONI te ma già sorvegliate da sbirri in assetto antisommossa”. Dalla cronaca degli eventi che seguono quella tiepida vigilia, quindi la giornata dedicata al corteo multicolore che si snoda munito di tamburi, travestimenti, banderuole, viene avanti un’altra immagine della città, dove le strade piene di giovani e i segnali esteriori di un’accettabile protesta non lasciano presagire gli scontri dell’indomani. Nelle pagine finali, mentre sbiadisce la figura del protagonista col suo “mortifero narcisismo”, a prendere il sopravvento sono gli umori delle varie componenti della folla mentre il mondo intero guarda, in un crescendo di tensione e paura, a quanto sta, imprevedibilmente, accadendo tra manifestanti infiltrati, difficilmente gestibili, e forze dell’ordine che paiono eterodirette. Amaramente si deve constatare che Genova non galleggia più nell’apatia. E parallelamente anche Ludovico, una volta vissuta da vicino questa esperienza, sembra raccogliere i suoi pensieri per decidere, forse, di non “atteggiarsi” più, bensì di provare a vivere. Filippo D’Angelo, La fine dell’altro mondo, minimum fax, Roma 2012, pp. 329, € 15,00. RIMEMBRANZE E PRESENZE FEMMINILI Liana De Luca Sarebbero piaciute a Petrarca del Canzoniere, a parte certo la diversità di stile, le poesie di Nevio Nigro, per il continuo sottofondo di una presenza femminile, che le ispira e le contiene nella dimensione della rimembranza e della malinconia. Tale è anche il clima dell’ultima raccolta dell’autore, intitolata con felice ossimoro Possiedo la tua assenza. Ritorna “la donna oscura”, secondo il titolo di una precedente pubblicazione, in cui bisogna leggere, oltre il significato letterale, quello allegorico: “Sui prati della notte / danza una donna oscura. / Viene da un golfo d’ombra / in cui scompare il tempo”. Ella giunge da “lontananze” indeterminate e continua a danzare, accrescendo con il movimento il mistero della sua assenza: “Rimani con me un poco. / Fai conto di essere rugiada / al sorgere di un’alba smarrita. / Ricordo quel passo di danza / e i piedi sull’erba bagna- ta”. Ma anche quando il ricordo sembra essere più realistico la figura assume le dimensioni di una fantasiosa apparizione: “Tu danzi / sempre più lontana. Seguo il profumo / della rosa rossa / mentre ti aspetto”. I “pensieri di primavera” gustano ancora “il sapore salato dei baci” con l’immagine ripresa da un’altra pubblicazione dell’autore: “Forse non è bello il giorno. / Certo è bella la sera / se riesci ad andare sulla collina / dove si vede la piana / ed il mare lontano / senza onda né riva. / Di là ti accorgi della primavera / che torna / e passa. / Del sapore salato dei baci. / Di là ti accorgi di qualcuno / che viene per strade oscure / e ti segue da tanto. / E del silenzio. / Se è cancellato dal vento”. Ma a dare all’ultima silloge un tono nuovo ed un maggiore spessore alle sensazioni è un più profondo intendimento dell’umano terreno percorso, della fragilità e fugacità dell’esistenza, dell’ineluttabile scorrere del tempo e delle illusioni, della vanità dell’Attesa: “L’ora è lenta / ed il silenzio / dolce. / Assenti / le parole innamorate. / La rosa / della speranza / ha perso / il cuore. / All’ombra / della nuvola / che passa / l’immobile / stagione / attende”. Pure proprio alimentata dalla nostalgia s’illumina l’iperbole della speranza: “A luna spenta / il bosco / sembra nero. / Ma il cuore / appeso ai rami / si ridesta / se compare / il tuo viso. / Corrono i piedi / verso l’irreale. / Il bosco brilla. / E tu non dire. / Non dire / che la luna / è spenta”. L’approfondimento dell’indagine personale e critica è provato anche dalla poesia Ricordo del padre, riproposta con sapienti tagli che ne acuiscono il valore affettivo e simbolico: “Accompagnami intanto / con la tua vecchia mano, / con la tua mente giovane, / con la tua voce / sempre vicina. / Arrivederci”. E con uguale pudore e sapienza l’invocazione è rivolta alla donna amata: “Seguimi in questa sera / così non sarò solo. / Ti aspetterò / sul molo del mio mare. / Sai dove sono. / Insegnami la luce. / Possiedo la tua assenza. / Perciò vieni. / Poco si deve andare. / Così poco.” (Seguimi). Nevio Nigro propone insomma una voce personale e inconfondibile nel panorama della poesia contemporanea. Nevio Nigro, Possiedo la tua assenza, Crocetti, Milano 2011, pp. 58, € 10,00. 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:24 Pagina 65 CRITICA di Renato Barilli Nel trentennio che ci sta alle spalle Genova si è iscritta nelle vicende dell’avanguardia soprattutto per i contributi dati a una situazione che si potrebbe dire, con etichetta larga, “nuova scrittura”. Ci sarebbe, ovviamente, da ricordare anche l’Arte Povera, che nel capoluogo ligure ebbe la sua prima uscita ufficiale, e perfino il battesimo, ma poi migrò altrove. Invece i protagonisti della “nuova scrittura” sono rimasti più a lungo a covare le loro ricerche nella metropoli chiusa tra monti e mare, e forse per questo portata a schiacciare le proprie energie migliori, nel caso che queste tentino di rimanere in patria, entro una morsa di tradizionalismo. E proprio all’inizio del trentennio in questione ci volle una bella folata temporalesca dall’esterno, per portare aria nuova: si trattò di Eugenio Battisti, piombato nella città ligure con una carica enorme di energie che si espressero in varie iniziative: fra l‘altro, la nascita di “Marcatré”, di cui Rodolfo Vitone fu il primo editore, rivista pronta a inserirsi nel dibattito della neoavanguardia, accanto al “Verri”; perfino il giovane Celant fece le sue prime apparizioni nel ruolo di allievo prediletto del ciclone-Battisti. Sferzati da quel pungolo, i genovesi meglio disposti seppero riscuotersi e andare anche oltre, maturando appunto quell’“oltranzismo” che si addice alle situazioni compresse. Anacenosi, tecnica mista su tela, 40x60, 1965 Rodolfo Vitone RODOLFO VITONE TRENT’ANNI DI RICERCA E DI CREATIVITÀ 65 19-2012 colore:Layout 1 18:24 Pagina 66 CRITICA Rodolfo Vitone 66 10-12-2012 Qualcosa del genere si potrebbe ripetere per Firenze, che non a caso fu il laboratorio in cui nacque la poesia visiva di Pignotti e Miccini. Ma gli sperimentatori di Genova intuirono che bisognava fare qualcosa di più, che non bastava cioè allineare parole ed immagini, lasciandole ciascuna nelle forme consuete a una civiltà tipografica avanzata, confermata, più che essere contraddetta dall’avvento dei rotocalchi e da altre forme visive pur sempre affidate alla stampa. Il materiale verbale doveva ritrovare tutta la sua concretezza, secondo la prospettiva che in effetti era già stata riportata alla poesia “concreta”, e entrare nell’opera alla pari con ogni altro materiale di esperienza: questo, in definitiva, il nuovo traguardo cui giunsero in modo precipuo gli sperimentatori genovesi, in quanto il limite storico della poesia concreta propriamente detta era stato quello di lasciare le parole, anzi, le lettere, entro un loro lazzaretto, per evitare che si contaminassero andando in giro per il mondo. Invece i Genovesi non vollero evitare l’impurità, abbatterono i cordoni sanitari, patrocinando la grande commistione reciproca, tra le lettere e tutto il diverso da loro. Ecco così le linee di ricerca cui si sono ispirati Ugo Carrega da una parte e gli Oberto, Martino e Anna, dall’altra. Vero è che anche i primi due ad un certo momento obbedirono alla tentazione dell’esodo. Ma altri sono rimasti, come Rodolfo Vi- 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:24 Pagina 67 CRITICA 67 Rodolfo Vitone Da sinistra: X-63, tecnica mista, 1965 W, tela emulsionata e colori, 110x70,1970 K-SE, disegno china su carta, 30x21, 1967 Echi, vetrina con oggetti diversi, 47x33x6, 1970 tone, a continuare sulla strada del grande missaggio, dove la lettera non arretra di fronte ad alcun passo, per ardito ed estremo che questo possa sembrare. Ci fu una fase di espansione incontenibile, in sintonia con gli happening statunitensi, in cui Vitone portava certe lettere enormi a innestarsi su spettacoli da strada, a siglarli col loro gigantismo, come in altrettanti “rebus” proposti all’attenzione di un popolo di Ciclopi. Infatti una delle costrizioni cui sottoponiamo la popolazione delle lettere è quella di ridurle in dimensioni piccole, lillipuziane, come utensili che non devono dare fastidio, né permettersi di prevaricare. Ma che cosa succederebbe, se un bel mattino ci svegliassimo, e dovessimo con- statare che quei nostri sudditi fedeli (della mente) sono cresciuti, vittime di un’ipertrofia inopinata? Furono quelli gli anni attorno al ‘68 e dintorni, quando l’intero sistema dell’arte “esplose” fuori dalle misure convenzionali; poi esso “implose”, ritornò a proporzioni più usuali ed affabili, e anche Vitone ne ha tenuto conto, non rinunciando però alle mescolanze “impure”. Se ci rivolgiamo alla produzione di questi ultimi anni, constatiamo, innanzitutto, che le lettere non sono ritornate, docili e “pentite”, entro i piccoli formati loro assegnati per tradizione, ma al contrario, sono rimaste a giganteggiare, fiere anche di una loro relativa purezza, di elementi pur sempre a matrice concettua- 19-2012 colore:Layout 1 18:25 Pagina 68 CRITICA Rodolfo Vitone 68 10-12-2012 Rose, tecnica mista, 28x20x7, 1970 Consigli, collage su carta, 20x30, 1972 La Gioconda, collage, 70x120, 1973 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 69 CRITICA Grande sogno, tela emulsionata, 100x80, 1983 to mai profanato, viziato da ogni traccia e umore dell’esistenza: macchie, colate, magari brani di scrittura, ma sorpresa quando anch’essa dà luogo ad un tessuto pittoresco, corroso dagli agenti atmosferici. Col che si crea una bella dialet- Rodolfo Vitone le, a definizione pubblica, il che ne fa altrettanti stereotipi. Quei segni dell’alfabeto sono pertanto, nelle opere di Rodolfo Vitone, come dei guerrieri catafratti, delle salamandre che se ne vanno immuni entro un contesto per parte sua quan- 69 19-2012 colore:Layout 1 Rodolfo Vitone 70 CRITICA 10-12-2012 18:25 Pagina 70 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 71 CRITICA Nella pagina precedente: senza l’altra; e soprattutto, non c’è elemento alfabetico che non si presti a sollecitazioni in su e in giù: per un verso, è sempre possibile scomporlo ulteriormente, mettendo in mostra la materia che lo costituisce (come sventrare una bambola e farne uscire l’imbottitura); per un altro, si può procedere a riaggregazioni che tentano di restituire il senso là dove dominava l’informale più spinto. Rodolfo Vitone gioca abilmente su tutte queste possibilità, percorrendole simultaneamente. Lettere, n° 27, tecnica mista su tela, 75x50, 1991 / S.A.P.E., tecnica mista su legno 1991 Lettere, n° 101, tecnica mista su tela, 90x60, 1994 / Ricordi, collage 19x31 1996 In basso: Fata fatale, tela emulsionata, 80x120, 1997 Rodolfo Vitone tica tra elementi rigorosi ed altri invece deliberatamente informi; ed è anche una dialettica tra scale diverse, tra quella grande, “a caratteri cubitali”, con cui si presentano le lettere, e le altre successive via via più miniaturizzate, in cui deflagrano tanti minuti accidenti. È tipico del linguaggio, a ben pensarci, il presentarsi a noi proprio come una serie di scatole cinesi che si susseguono, l’una dentro l’altra. Forma e materia, in ogni particella verbale, sono come le facce di un Giano bifronte, non c’è l’una 71 19-2012 colore:Layout 1 18:25 Pagina 72 CRITICA Rodolfo Vitone 72 10-12-2012 A cena da Leo n°10, tecnica mista su tavola, 35x25, 1997 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 73 CRITICA artista autore attore autista ateo amante amico azionista anarchico avanguardista acrobata agente altruista artigiano affarista baro balilla buonista ballerino bandito cantante cinofilo compositore critico commesso collagista contadino cuoco cameriere coltivatore collezionista comunista collaboratore cronometrista confidente coloritore confessore colorista corniciaio direttore dotto dattilografo dirigente egoista esploratore edonista escursionista enologo fantasioso fantasista falegname fascista figlio fedele filantropo filosofo fondista fotografo fidato giornalista grafico gastronomo grafologo garzone grafomane illuminato insegnante illuminista intelligente individualista iracondo ironico idraulico illusionista lettore latitante montatore musicista muratore maestro marito manovale mago marxista montanaro nuotatore narratore nomade nipote nullatenente navigatore operaio operato operatore orante ozioso pianista pittore professore partigiano pentito padre psicologo poeta povero padrone pattinatore prestidigitatore visivo romanziere ricco regista romantico realista religioso ribelle rappresentante suonatore sciatore scultore serigrafo scrittore scrivano sarto semiologo studente sessuologo studioso tatuato tubista teatrante trombonista ufologo umile trappista vogatore venditore visionario viaggiatore zio Rodolfo Vitone BIOGRAFIA 73 19-2012 colore:Layout 1 Mimmo Paladino 74 10-12-2012 18:25 Pagina 74 CRITICA LE SCULTURE DI PALADINO NELL’AMBIENTE DELLA PINACOTECA PROVINCIALE DI BARI di Silvia Bottaro L’occasione speciale del “gemellaggio” culturale ed artistico tra l’Associazione “Renzo Aiolfi” no profit di Savona e la Pinacoteca Provinciale di Bari, avvenuto il 16 ottobre 2012, mi ha dato l’opportunità, non solo di trovare l’opera di Tuccio d’Andria, artista oggetto dell’impegno dell’Associazione e, quindi, del gemellaggio (a Savona è stata restaurata una pala d’altare del 1487 del Pittore pugliese in questione donando un futuro a tale unica opera firmata e datata dall’Artista) ma di vedere, ambientate nelle sale espositive di tale Istituzione pubblica, le “Sculture” di Mimmo Paladino: su questo vorrei scrivere alcune riflessioni. Le immagini delle opere di Mimmo Paladino sono tratte dal libro a cura di Clara Gelao e Enzo Di Martino, "Paladino La Scultura", Marsilio, Bari, Pinacoteca Provinciale, cat. mostra, 29 giugno - 28 ottobre 2012; su autorizzazione della Pinacoteca Provinciale di Bari. Tavolo con 72 sculture, 1982-2007, bronzo, dimensioni varie 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 75 CRITICA 75 Mimmo Paladino Da Antonello da Messina, 2002, legno e ferro, cm. 60x60x60 Paladino è un artista del nostro tempo che ha scelto, sala dopo sala, dove collocare le sue opere poste in un dialogo silenzioso ma potente con i capolavori di Vivarini, Bellini, Tintoretto, Veronese fino al trittico di Tuccio d’Andria (Santa Caterina d'Alessandria, Sant’Antonio e San Giacomo della Marca, opera di gusto vagamente pierfrancescano, come è stata definita da Clara Gelao) che abitualmente “abitano” lo spazio della Pinacoteca in un interagire continuo, intenso tra passato e presente: Paladino ridisegna, in un certo senso, i confini tra ordine e disordine con una continua “ricerca” dove ogni elemento, forma, materia illuminano la percezione dell’altro. Fin dalla sua prima opera scultorea documentata nel 1980 - una stele di legno con sopra una testa di marmo bianco – l’Artista dimostra la sua libertà nell’uso dei materiali (legno, bronzo, marmo, pietra, ceramica, alluminio) e la manifestazione concreta di certe proprie iconografie più focalizzate per la sua ricerca espressiva. Sovrapposizioni di cul- ture, mi pare di poter dire, che creano l’humus originale dal quale attinge, non solo come memorie delle cose, o metafora, mai didascalica o accademica, ma come progetto in fieri del futuro: un crogiuolo di idee dove convivono forme arcaiche, citazioni colte (un esempio in questa mostra sono le opere “Da Antonello da Messina” e “Etrusco Omaggio a Marino Marini”), forme geometriche, immagini figurative. La sua ricerca costante di nuove fogge ha una straordinaria potenza visiva e pathos in questa mostra che si snoda in cinque sale della Pinacoteca provinciale barese che diviene, così, speciale ambiente, come nel catalogo (“Paladino La Scultura”, a cura di Clara Gelao e Enzo Di Martino, ed. Marsilio, 29 giugno – 28 ottobre 2012) la Prof.a Gelao scrive definendo tale ambientazione “… un vero atto di fede…”. In queste sculture avverto un senso di donazione interattivo tra esse, le loro presenze (Don Chisciotte, Architettura), l’immaginazione e il pensiero che scambievolmente s’incrocia- 19-2012 colore:Layout 1 Mimmo Paladino 76 10-12-2012 18:25 Pagina 76 CRITICA no e commutano e spostano le loro intuizioni. Si avverte il mistero dell’icona in quelle qui esposte regolarmente nella prima sala della Pinacoteca barese – una mariana (fine XII – inizio XIII secolo), quella Hodigitria, e altre due databili alla fine del secolo XIII – testimonianze del forte legame che ebbe la Puglia col mediterraneo orientale, dove Paladino presenta il suo gigantesco cavallo di bronzo, la figura dormiente con una grande lucertola (forse con echi dai bestiari e dalle leggende greche ed europee, come il basilisco), il dodecaedro stellato (è un poliedro di Keplero-Poinsot), in questa opera Paladino sembra far convivere arcaicità ed umanesimo e la sua icona moderna, quest’ultima pare porre in asse il mistero dell’icona con la rivelazione della realtà: in un mondo contemporaneo dominato dall’immagine, anche negativa, dove la realtà è sfuggente, evanescente, si deve recuperare con una indagine profonda; tale rap- porto ci deve ricondurre al concetto di “bellezza” come categoria culturale. L’Assediato è stato proprio collocato di fronte al trittico di Tuccio d’Andria in una sommessa scoperta ed intuizione: si coglie la disibinizione che ha lo Scultore in questo dialogo tra Santi e l’uomo di oggi “assediato” da paure ancestrali, da animali oscuri, dal buio del futuro. Umanità tormentata che teme anche animali domestici ma che non vuole diventare “reliquia” del passato, ma intende “disvelare” togliendo l’indifferenza e cercando, invece, il coinvolgimento e la conoscenza. Il bronzo è diventato, grazie alla sua cifra personale, “croccante”, mai levigato in modo manierato ed accademico, ma martoriato e straziato da segni, ferite, simboli e…dall’impronta di quel polpastrello che pare utilizzato da un figulo antico, come se il metallo fosse terra. Dico “croccante” perché quelle impronte digitali mi ricordano come le donne della Pu- In primo piano: Assediato, 1992, bronzo, cm. 140x120x120; in secondo piano: Senza titolo, 2005, alluminio dipinto, cm. 199x77x48; in fondo a destra: Senza titolo, 2000, bronzo, cm. 6,5x129,5,x65,4 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 77 CRITICA glia abbiano usato l’acqua e la farina di grano duro per fare le orecchiette (la loro dimensione è di circa 3/4 di un dito pollice, e si presentano come una piccola cupola di colore bianco, con il centro più sottile del bordo e con la superficie ruvida), nate nella zona provenzale francese, fin dal lontano, diffuse in tutta la Basilicata e la Puglia con il loro nome attuale dagli dinastia che nel Duecento dominava le terre delle regioni. Il bronzo di Paladino è, quindi, etnografico in questo connotato e risulta al palato ed al tatto dell’osservatore mosso, incavato quale padiglione uditivo fossile per spingerci all’ascolto dell’altro e della Natura. L’Umanità è sospesa tra cielo e terra e noi siamo inquilini di questo orizzonte. Davanti al mare i nostri occhi impiegano ore e ore per mettere a fuoco la linea dell’infinito; il mare mosso dai venti non è più una piscina e ci mette soggezione; si conosce il suo colore bianco quando le onde sbattono sulle scogliere ed allora, da quell’attrito energico, emerge la sua verità. Noi siamo da un lato custodi e dall’altro coltiviamo il culto per la divinità. Guardando volare un uccello avvertiamo la sua libertà nell’aria tersa, ma dobbiamo capi- Mimmo Paladino Senza titolo, 2005, bronzo e ferro dipinto, cm. 205x80x60 re che essa nasce laddove noi cessiamo di usare gli altri e la natura per meri fini egoistici e che ha una spinta trascendente, dal basso verso l’alto come osserviamo nei sempre sorprendenti pensieri poetici che Paladino crea con libertà e coinvolgimento emotivo dell’osservatore. Nel suo fare arte pone al centro la relazione tra la materia, l’immagine ed il linguaggio in una sorta di disvelamento dell’antropologia delle rappresentazioni. Un esempio è l’opera Tavolo con 72 sculture (1982- 2007, bronzo, varie dimensioni) dove l’osservatore, costretto a seguire i lati lunghi e corti del gran rettangolo formato da una selva di supporti, reggenti 72 sculture tutte diverse, scopre forme mai viste, incontra volti ciechi, lampi di colore rosso e maschere d’oro: il partecipante indagatore è coinvolto nella forza del linguaggio dell’arte, dove la verità della scultura si riafferma. Un kaos creatore dove i documenti si accumulano con i dati del passato, del presente e del futuro senza sintesi cronologica, ma in un magmatico gioco di rimandi, di associazioni per immagini o per ricorrenze formali. Una sintesi visiva davvero straniante. Una sorta di epica dell’umanità. Il visitatore è rapito dal respiro del tempo. Dall’eternità. Dalla nobiltà delle imprese dei guerrieri e da quelle cavalleresche di Don Chisciotte. Una mostra questa – Paladino La Scultura – particolarmente pregnante anche per aver lasciato da parte la struttura strettamente museale della Pinacoteca ed aver accolto, nel solco della politica culturale della stessa Istituzione provinciale barese e dell’Assessore per i Beni e Attività Culturali della Provincia di Bari Trifone Altieri ciò che nel catalogo ha scritto: “Sono certo che tale commistione contribuirà a dare ai visitatori una prospettiva ancora più ampia e più profonda dell’arte di Mimmo Paladino la cui eleganza, forza ed essenzialità sono frutto del genio, ma anche delle radici storico-culturali in cui la ricerca dell’artista getta le sue basi per l'imprinting di italianità che l’ha resa unica e inimitabile nel panorama dell’arte contemporanea internazionale”. 77 19-2012 colore:Layout 1 Renata Minuto 78 10-12-2012 18:25 Pagina 78 CRITICA INTERVISTA A RENATA MINUTO di Sonia Pedalino Renata Minuto pittrice e ceramista savonese è la prima artista ad avere avuto una committenza dal Vaticano e l’onore di vedere una sua opera collocata nei prestigiosi Giardini. Artista schiva e riservata, svolge la sua attività tra Savona, Albisola e Roma. La sua prima mostra di pittura risale al 1957, ad Albisola Marina , da “Checchin”, ritrovo abituale degli artisti quali Lam, Jorn, Sassu, Fontana, Garelli, Fabbri. Carlo Cardazzo, grande gallerista, la nota e nel 1963 le organizza una personale a Venezia nella sua galleria “Il Cavallino”. Da allora l’impegno costante e la professionalità di questa artista sono diventate il comune denominatore di tutte le sue opere realizzate sia in pittura, che in ceramica e in vetro. “La passione per la pittura l’ho avuta da sempre – esordisce Renata Minuto – il “senso del colore” è qualcosa di innato al quale si dà voce Antico stemma della città di Savona, 1902, dipinto su tela, cm. 60x60 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 79 CRITICA Renata Minuto con lo studio costante e con una “lunga pazienza” come mi ricordava spesso Luigi Pennone, critico, giornalista e soprattutto sincero amico. Non ho frequentato scuole d’arte: il Liceo Artistico, ai miei tempi, non c’era a Savona. Avrei dovuto andare a Genova…ma questa prospettiva non suscitò l’entusiasmo dei miei familiari… Ma non mi persi d’animo. L’amore per l’arte era così forte, che iniziai il mio percorso da sola, grazie alla guida del pittore Renzo Bonfiglio.” I primi soggetti, ritratti sempre dal vero, erano navi arrugginite, cantieri in demolizione, il mare, le barche di Porto Vado. “Ho sempre amato la mia terra , la Liguria, e, i miei quadri ritraggono il paesaggio ligure. – continua – Nel corso del tempo ho attraversato vari “periodi” come è uso per i pittori, ma il soggetto è rimasto invariato, è cambiata la prospettiva con cui lo guardo”. Il paesaggio ligure viene interpretato e visto come sotto una lente, che riprende particolari sempre più piccoli, gli scorci diventano “scorci” di pittura astratta. Il colore viene adattato ai vari soggetti, come ad esempio le sfumature per la ruggine, o per la raffigurazione delle venature del legno; la tecnica cambia a seconda del soggetto ritratto. Un tema particolare della nostra artista, sono le vecchie porte, rappresentate con i loro colori stinti e consumati dal tempo, ed evidenziano le molteplici “stagioni” passate. I soggetti trattati da Renata Minuto sono veramente tanti e vanno, come dicevamo poc’anzi, dal paesaggio ligure, alle “ruggini”, dalle navi in demolizione, dai “Cavalli di San Marco”, ai “secchi dei muratori”, ai “bidoni di bitume”, con uno sguardo all’arte povera, per approdare agli “Stemmi dei Papi”…solo per citarne alcuni. A proposito della pittura di Renata Minuto possiamo citare quanto affermava Aligi Sassu: “Realismo? Neofigurazione? Espressionismo plastico?” concludeva dicendo “… che non ha mai amato le definizioni dogmatiche per identificare un artista”. Secondo il Maestro, Renata Minuto, si differenzia dagli altri pittori 79 Secchi con piccozza, 1977, scultura ceramica multipla, cm. 45x45x85 per: “…un segno deciso dotato di un’ allusività fantastica, ma soprattutto… per un amore della materia pittorica.” Appassionata di storia, Renata Minuto ha dedicato ai grandi Papi savonesi, Sisto IV e Giulio II Della Rovere importanti mostre. Tra queste ricordiamo: “Savona e i Della Rovere” per i 500 anni della morte di Sisto IV, presso la Sala Consiliare del Comune di Savona, nel 1985; “IULIUS II SIXTI IV NEPOS” per i 500 anni dell’elezione al Soglio Pontificio di Giuliano Della Rovere, nella Cappella Sistina e nel Chiostro della Cattedrale di Savona nel 2004; “I Della Rovere e Roma - 500 anni della Patriarcale Basilica di San Pietro” presso il Museo di Castel Sant’Angelo, Sala delle Colonne, a Roma nell’ aprile 2008 e alla Pinacoteca Civica di Savona, Palazzo Gavotti, Sala 19-2012 colore:Layout 1 18:25 Pagina 80 CRITICA Renata Minuto 80 10-12-2012 Renata Minuto e Sonia Pedalino Mostre temporanee, nel novembre 2008. Il lavoro che però ha dato maggiore soddisfazione alla nostra artista è senza dubbio il pannello in ceramica dedicato alla “Madonna della Misericordia di Savona”. Collocato nei Giardini del Vaticano e offerto al Pontefice Giovanni Paolo II nel 1995, in occasione del 180° anno dell’incoronazione della Madonna di Misericordia da parte di Pio VII. Tale opera era stata voluta fortemente dal Papa. “È stata una emozione grandissima incontrare Papa Giovanni Paolo II, non lo dimenticherò mai - puntualizza Renata Minuto - ricordo con commozione, quel 10 maggio 1995, l’eccitazione provata, l’affetto di tutti gli amici presenti.” L’opera in questione è una ceramica policroma in alto rilievo (mt. 4,80 x 2,40) realizzata presso la “Fabbrica Casa Museo Giuseppe Mazzotti - 1903 Albisola.” Quando chiediamo a Renata Minuto cosa pensa dell’arte “attuale” risponde citando i giudizi che di essa danno molti critici ed anche molti pittori: “Oggigiorno, l’arte, sta divenendo tutta uguale con le nuove tecniche, specialmente con l’uso del compu- ter, sta sparendo il romanticismo dalla pittura. Le opere dei grandi del passato come i pittori del Rinascimento o anche quelle di artisti a noi più vicini come Toulouse Lautrec o gli artisti del Futurismo, hanno sempre regalato e continuano a regalare grandi emozioni, mentre oggi quelle create con le nuove tendenze e le nuove tecniche ci lasciano indifferenti.” Renata Minuto artista di fama internazionale ha al suo attivo una ottantina di mostre personali o su invito, più di duecento collettive; all’estero ha esposto ad Odessa ed a Ginevra. In occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000 l’artista ha allestito nella Cappella Sistina e nel Chiostro della Cattedrale e di Savona la personale: “Gli Stemmi dei Papi dei Giubilei”. La mostra è stata portata anche a Firenze, nella Fortezza da Basso, nel 2001 partecipando, su invito, alla Terza Biennale Internazionale dell’Arte Contemporanea Città di Firenze. Di particolare importanza è stata anche la mostra allestita nel 1992 in onore di Cristoforo Colombo, per il 500° anniversario della Scoperta dell’America, alla fortezza del “Priamar” a Savona. 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 81 ARCHITETTURA di Gianluigi Gentile Sospeso tra il rigore della Secessione tedesca e l’esuberanza degli influssi Art Nouveau francese, lo Jugendstil di Riga nasce dall’incontro fra il complesso panorama estetico internazionale con una ricca potenzialità culturale autoctona, fino a divenire un paradigma significativo della cultura baltica tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Riga si ritiene fondata nel 1201, nel periodo in cui il vescovo Alberto edificava il suo castello, sull’estuario di un fiume agevolmente navigabile, il fiume Daugava. La posizione rese la città adatta immediatamente alla funzione di porto commerciale, proponendosi come un immediato caposaldo nell’ambito della Lega Anseatica, da poco costituita. Riga è nata romanica, omologando in seguito il suo sviluppo architettonico all’evolversi dell’architettura europea, mediata dal filtro della cultura tedesca, fino ad acquisire una specifica fisionomia estetica, dalla metà del diciannovesimo secolo fino ai primi anni del ventesimo. Grazie alla sua posizione strategica di tramite tra l’Europa occidentale, la Russia e l’Asia, Riga conobbe un importante sviluppo architettonico, nel periodo in cui l’Europa attraversava una fase eccezionalmente stabile di pace e di progresso tecnologico, col manifestarsi delle nuove opportunità offerte dalla rivoluzione industriale, mentre dalle colonie affluivano apporti non solo di materie prime di buona qualità, ma anche di idee nuove e di sensazioni inedite, che provocavano un rinnovato interesse per la storia e l’antropologia collegate alla conoscenza delle culture esotiche, con un impatto determinante sulle arti figurative e l’architettura. Frontiera e tramite d’Europa, centro di una regione in cui si intersecano gli antichi assi del mondo, la Riga dello Jugendstil procedeva nella sua maturazione autunnale tra Oriente ed Occidente, tra la nostal- Residenze in Elizabetes iela (Einsestein) Fregio di un edificio residenziale in Alberta iela (1904 Einsestein) Il liberty messo in riga IL LIBERTY MESSO IN RIGA 81 19-2012 colore:Layout 1 18:25 Pagina 82 ARCHITETTURA Il liberty messo in riga 82 10-12-2012 Abitazioni in Alberta iela (Einsestein) gia delle nebbie nordiche e l’anelito alla solarità delle luci dell’oriente, divenendo luogo di accumulo di conflitti continuamente mutevoli, fra la spinta evolutiva verso l’Europa e il richiamo alla radici della cultura popolare. Affascinava soprattutto il lato occulto della civiltà orientale, che trovava espressione nelle ricerche spirituali, nella cabala, nella figurazione di creature mitiche e misteriose come sfingi e grifoni, destinati a diventare elementi di moda, così come gli ornamenti dell’antica Cristianità, celtici, irlandesi, che confluirono nel repertorio figurativo e simbolico dell’Art Nouveau insieme ai contenuti tecnologici assolutamente inediti connessi all’uso dei nuovi materiali e al progressivo affermarsi dell’approccio funzionalista nell’organizzazione del sistema distributivo. Lo Jugendstil a Riga si declina sull’ossimoro, generato da incontri lontani che solo questa città può accogliere: le influenze teutoniche da città anseatica e il mito della cultura egemonizzata dalla Parigi metropolitana. Questa bipolarità la si avverte negli stilemi figurativi in cui contrastano forme ricurve e rigorose geometrie. Forme diverse e contrastanti, congruenti con la struttura etnica di Riga in cui sono presenti lettoni, tedeschi ed ebrei; una tangenza di linguaggi e culture differenti, dai confini ancor più segnati dagli squilibri sociali. Dopo la demolizione dei bastioni tra il 1858 e il 1865 la città fu circondata da una circonvallazione di boulevards. La de- cisione fu presa per poter disporre dello spazio necessario alla costruzione di edifici rappresentativi, che vennero nel corso del tempo edificati fino a costituire un importante insieme di architetture storicamente significative. La comunità tedesca, secolare detentrice del potere economico e politico, in quel periodo registrava un sensibile calo di importanza, a fronte delle spinte autonomiste crescenti in ordine allo sviluppo economico e sociale, con effetti e connessioni riguardo alla cultura letteraria e artistica d’importanza decisiva per la generazione che si affacciava sulla scena e che avrebbe dato vita allo Jugendstil. Un’evoluzione travagliata, che si contrapponeva al declino periferico della casta tedesca, e che venne a maturazione completa alla fine del diciannovesimo secolo, periodo in cui lo Jugendstil a Riga raggiunge le sue massime espressioni. In questo periodo confluiscono pulsioni come la ricerca di un’identità patria, l’apertura agli stimoli internazionali, creativamente assimilati, il neobarocco si sovrappone alla compostezza luterana e neoclassica, mentre il simbolismo figurativo pervade l’architettura trovan- Residenza in Skunu iela (1902 Arch. Scheel e Sheffel) 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 83 ARCHITETTURA do un’inconsueta assonanza con il funzionalismo strutturale dei materiali della prima rivoluzione industriale. Gli esempi più originali sono concentrati in Alberta iela, in cui prevalgono gli interventi di Mikhail Eisenstein, frequenti anche in Elizabetes iela, dove si trova anche un significativo esempio di architettura degli interni, lo studio del pittore Janis Rozentals, progettato da Konstantins Pêksens, autore di almeno 250 palazzi. Prove dello Jugendstil righese sono quelle in cui l’arte popolare lettone contamina lo stile di importazione tedesca, come in Stabu19, nelle abitazioni in Brivibas iela, Terbatas iela e Valdemãra iela, costruite da Eižens Laube in cui compaiono elementi decorativi ispirati alla tradizione della scultura lignea. Dall’esempio iniziale offerto da Scheel, Scheffel, Einsestein, per citare solo alcuni, per un intero decennio, il volto di Riga Jugendstil avrà contorni liberi e francofili, densi di riferimenti mitologici locali, con una valenza aperta verso una successiva rielaborazione di stampo germanico. La tradizione architettonica portava gli architetti lettoni all’utilizzo di elementi figu- Edificio residenziale in Alberta iela (1904 Einsestein) Il liberty messo in riga Edificio scolastico in Strelnlieku iela 4 (Einsenstein 1905) rativamente allusivi alla mitologia classica e locale, elementi che con l’affermarsi dello Jugendstil, vennero ripresi e stilizzati. La chiave di lettura dello Jugendstil a Riga consiste proprio nella continuità filologica fra gli stilemi e i simbolismi autoctoni e austeri condivisi con la tradizione popolare germanico luterana e l’irresistibile suggestione figurativa dell’Art Noveau francese. Questa diversa polarità di ispirazione si riscontra agevolmente nel panorama degli orientamenti stilistici degli edifici che varia dall’approccio espressionista della tradizione nordica fino all’eleganza lirica degli edifici d’ispirazione Art Nouveau. L’inizio del ventesimo secolo porta grandi cambiamenti sociali in Lettonia; il malcontento verso il regime russo dello Zar Nicola porta alla rivoluzione del 1905. La rivolta fu repressa ma fu ottenuta una forma di autogoverno nazionale. In quel momento il Romanticismo Nazionale divenne l’ideologia ispiratrice, portando al prevalere degli influssi scandinavi, maturati attraverso il libero commercio con la Finlandia dirimpettaia, e all’adozione di ornamenti in pietra grezza, mutuati dall’arte popolare, poiché ci si poneva l’obiettivo di fondare un’architettura moderna ispirata alla tradizione nazionale. Nel 1912, alle soglie di quel crogiuolo di illusioni che fu la Grande Guerra, la breve ma intensa stagione Jugendstil a Riga si può considerare conclusa, i germi già contenuti allo stato latente portano l’architettura della capitale lettone ad allinearsi con la tendenza europea del Funzionalismo. 83 19-2012 colore:Layout 1 Lorena Canottiere 84 10-12-2012 18:25 Pagina 84 FUMETTO L’IRRAZIONALITÀ E L’EMOTIVITÀ DI LORENA CANOTTIERE di Manuela Capelli Lorena Canottiere, un passato fumettistico che risale al Correrino, passa per il gruppo Struwwelpeter, Terre di Mezzo e Animals, è famosa per il blog www.capousse.it (termine usato in francese per indicare i germogli che sbucano dalla terra e vigorosamente e in fretta crescono per diventare piante), la strip che, senza commenti e interferenze, dà voce al mondo visto dai bambini. Da un anno è però in libreria anche con il suo primo graphic novel, Oche- il sangue scorre nelle vene (Ed. Coconino Press), in cui mette in scena le storie di Henry, ex bambino-soldato della Sierra Leone che, a differenza dei genitori adottivi, non crede “veramente a questa strana famiglia”, di Nadia, che detesta la madre alcolizzata e indifferente, e di Davide, figlio di una borghesia che disprezza. Tre adolescenti che il destino unisce nella dura realtà di un pomeriggio di razzismo, ma anche nel sogno di cambiare le regole del gioco della vita. Iniziamo proprio da Oche. Nel testo si dice: “Il porto, il mare, le navi, ho sempre pensato che le storie iniziassero in posti così”. Questa storia, invece, la tua prima graphic novel, come e dove è nata? “Oche” è nato dalla proposta di Igort di scrivere una storia “lunga” per Coconino. In quel momento avevo già una storia in cinque capitoli, scritta e disegnata, che avevo iniziato per pura passione, ma come al solito presi la decisione più irrazionale (e penso vincente, in questo caso): lasciai quella nel cassetto e iniziai una nuova storia dal nulla. Sapevo solamente che volevo che parlasse in parte dei bambini soldato. Mi documentai con libri, articoli e documentari finché l’orrore mi impedì di dormire la notte. Decisi che volevo ambientare la vicenda in Occidente, nella nostra società, per poter raccontare il contrasto tra Africa ed Europa, delineai i personaggi e me li portai un po’ “a spasso”. Penso sia importante per entrare nella storia (una sorta di conoscenza reciproca), poi partii direttamente con lo story-board, pagina dopo pagina, senza fermarmi. Avevo evidentemente bisogno di raccontare tutto quello che “Oche” contiene, non solo la vicenda di Henry, il bambino soldato. 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 85 FUMETTO Lorena Canottiere Dove finisce l’ingenuità di Ça pousse nei bambini che diventano i “giovani già vecchi” nell’amarezza di Oche? L’ingenuità dei bambini di “ça pousse”, che è la fantasia, la sincerità, la curiosità e l’entusiasmo verso la vita viene frenata dalla società adulta che non sa farsi carico di tutto ciò. Ha altri interessi e prerogative spesso lontane o addirittura conflittuali con il mondo infantile. Riferendomi ad “Oche” la situazione è ancora più estremizzata, descrive una società (la nostra, attuale) che non ha spazio per i ragazzi protagonisti della storia, né il coraggio di ascoltarli e tantomeno di capirli e rispondere ai loro bisogni. I giovani già vecchi sono bambini a cui non si sa offrire nulla e che, in molti casi, sono costretti a sostituirsi a genitori assenti o che non sanno fare gli adulti, rifuggono il loro ruolo, non sanno che farsene di se stessi né tantomeno dei figli. Torino negli occhi di un adolescente o nei tuoi occhi, perché forse loro non la vedono neanche e sognano il mare, il suo significato di spostamento, mentre tu riproduci il tuo sguardo sulla città… Con inquadrature che ne sottolineano sempre la bellezza.. il Po, i portici… i palazzi… I ragazzi di “Oche” non si curano di Torino, vorrebbero fuggire dalla città e dalle loro vite. È un’ottima cosa volersene andare via da adolescenti, anche senza dover scappare da situazioni familiari difficili. Io sono arrivata a Torino da poco tempo. Ho vissuto in diverse città, dopo quella d’origine. A Torino mi trovo bene: è una bella città, vivibile, umana, buffa, multietnica, viva ma anche celata, colta, un po’ operaia e un po’ sabauda. Esistono diverse città, una incastrata nell’altra, ma i contrasti si mischiano come le tante lingue parlate per strada. Inoltre è bellissimo disegnarla, perché è particolare e varia. Ricorda in gran parte Parigi, la sera l’illuminazione la trasforma in estati spagnole, c’è il fiume, più nordico, con i circoli di canottaggio e i parchi, la parte occulta medievale e la periferia, vecchia e nuova, i quartieri Fiat degli operai e dei colletti bianchi... È stato impossibile disegnare una città qualunque, una città inventata, che rap- 85 presentasse esclusivamente l’idea di città, come avevo pensato di fare iniziando “Oche”, avendo sotto gli occhi Torino. Colgo ancora un paio di battute dal tuo libro: “È come dire che tutti i pianisti destri si sono un po’ fregati la vita”. Quanto il talento e quanto la tecnica valgono nel fare fumetto? Il fumetto è un mezzo espressivo complesso, con possibilità narrative molto vaste. Per imparare ad usarlo si studiano cinema, letteratura, pittura, teatro per cui un certo livello di capacità e conoscenza del linguaggio ci vuole, ma non credo che tecnica e talento siano così importanti. Almeno, a me non interessano granché. Ci sono altri aspetti che ritengo più importanti come l’espressività, la capacità di raccontare emotivamente una storia (sia attraverso le immagini che i testi). Talento e tecnica servono per affrontare il percorso, sono un punto di partenza, che però ad un certo punto deve evolvere o addirittura decadere, per lasciare posto a nuovi aspetti espressivi indispensabili al percorso artistico individuale. “L’idea di occupare uno spazio preciso, delimitabile, codificabile mi soffoca”. Sono parole di Henry. Valgono anche per uno scrittore? 19-2012 colore:Layout 1 Lorena Canottiere 86 10-12-2012 18:25 Pagina 86 FUMETTO Ciascuno ha il proprio modo di scrivere. Il mio compagno, ad esempio, è musicista e quando inizia a scrivere un pezzo non si occupa d’altro fino a quando non lo ha finito. Io non potrei. In una situazione del genere mi sentirei soffocare come Henry. Io ho bisogno di divagare, di guardare la storia con la coda dell’occhio, non averla sempre di fronte. Ho bisogno che il mondo passi in mezzo alle idee e mi distragga: non so perché, forse così riesco a tener stretto l’indispensabile. pre amato sia il pennino che le matite, come tecniche di disegno, ma con il tempo è cambiato radicalmente il mio modo di usarle e sono convinta che cambierà ancora. Non mi fido di chi rimane fermo, non cambia, non cresce. È come non porsi dubbi o prendersi troppo sul serio: non potrei mai. In Oche il colore nasce solo nei sogni di Nadia, benché all’inizio siano incubi alla stregua dei ricordi di Henry. Come mai? Il testo dei sogni di Nadia è parte del racconto “Il demonio è cane bianco” di Sergio Atzeni, uno scrittore che amo parti- Passando alla tecnica… Il tratto che utilizzi… tutto tratteggio, senza aree di colore piene… come l’hai scelto, e perché e quali sono i tuoi riferimenti in questo campo, se ce ne sono? Penso che l’uso del tratteggio così fine e fitto mi sia arrivato dall’uso delle matite colorate. È buffo, adesso che ci penso: sono passata da un segno a pennino netto e forte ad uno più sottile, costruito da tanti segni fini, che creano volumi per sovrapposizione, mentre per le matite è stato esattamente il contrario. Sono passata da un uso più leggero, pulito della matita colorata a cercare segni più decisi, espressivi. Ho sem- colarmente. È un racconto duro, visionario, che la mia mente ha subito tradotto in immagini a colore. Inoltre la vita di Nadia è desolante e il suo solo rifugio è quel sogno che si ripete, un sogno di fuga, di libertà: ci nasconde tutta se stessa e la speranza , che consciamente non sa neppure di avere dentro. Per tutti questi motivi la parte a colori del libro è la parte del sogno, non c’è stato neanche il bisogno di pensarci, di prendere una decisione. Cosa pensi del colore della cover? Eri d’accordo con questa esplosione di luminosità? L’artwork è tuo, ho letto, ma il design no. 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 87 FUMETTO mangono sulla tavola. La fase del passaggio a china, ad esempio, è un momento che adoro e non vorrei privarmene. Si ottengono risultati molto differenti disegnando in modo “tradizionale” o a computer e penso si debbano usare i due metodi così, per ricercare mondi diversi, non escludendone uno in favore dell’altro. Strip e graphic novel… per “consuetudine” la prima pare strumento ideale per l’umorismo, la seconda per storie di maggior spessore. E così è anche nel tuo caso. Il contrario è possibile? Si può, una copertina. Alla fine è stata scelta proprio per la sua forza, per i colori. C’era un’altra copertina in lizza, più narrativa, ma questa era emotivamente più forte. Avevo letto in una precedente intervista che ami disegnare su carta. È sempre vero o sei poi passata alla tavoletta grafica? Qual è il tuo modo di procedere? Uso la tavoletta grafica per pochissime cose, più estemporanee, e per colorare a computer, ma mi piace immensamente di più disegnare su carta. Amo l’attrito del pennino, del pennello, della matita sulla carta, gli odori, i tempi e gli imprevisti, le imperfezioni che ri- soprattutto, far emozionare in poche vignette, o il dolore ha bisogno di tempi più lunghi? La differenza sta soprattutto nella scelta del modo di raccontare, dal tono, ma se la satira è considerata ovunque, in tutto il mondo, pericolosa e scatena minori o maggiori reazioni di fastidio da parte di chi gestisce il potere, il motivo è proprio perché riesce a dire in maniera molto semplice e diretta ciò che filosofi, letterati, politici, etc., teorizzano in modo più profondo e sofisticato. Il concetto rimane invariato e a volte il potere emotivo ne esce addirittura rafforzato. Lorena Canottiere Effettivamente può sembrare in contrasto con il resto del libro. “Oche” racconta del disagio dei tre giovani protagonisti, di una società che li respinge, che non ha posto per loro. Non c’è però solo questo, c’è un passaggio di consapevolezza, c’è il loro riscatto grazie alla scoperta dell’altro e di una propria valenza personale. Su questa base abbiamo scelto quella copertina. Ha partecipato la redazione intera alla discussione, perché quell’immagine non è convenzionale, come taglio, per 87 19-2012 colore:Layout 1 Lorena Canottiere 88 10-12-2012 18:25 Pagina 88 FUMETTO Il fatto che la striscia susciti una risata non sta a significare assolutamente che racconti storie allegre: spesso ridiamo amaramente delle nostre vite, le nostre angherie, i nostri difetti e il fatto che la striscia le riesca a raccontare in maniera ridicola, ironica, non vuol affatto dire che non ci racconti un dolore. Ha un linguaggio irriverente e spesso per questo riesce ad essere più saggia ed arguta di un “opera drammatica” come ad esempio, riferendomi alla tua domanda, di una graphic novel. Sempre a proposito di strip, in particolare legate al mondo dell’infanzia, si potrebbe dire che a volte sono vere e proprie maestre di vita. “Ogni volta che sento gli adulti parlare di cose inutili mi spavento”. Questa è una frase presa da Oche, ma la raccolgo per farti una domanda su Ça pousse. I bambini possono far riflettere di più? “Ça pousse” è un progetto nato per puro divertimento personale. Ho iniziato ridendo per ciò che dicevano mio figlio e i suoi amici e poi mi sono resa conto che c’era molto di più di una risata. I bambini descrivono il mondo, i nostri atteggiamenti, le abitudini, le convinzioni degli adulti in maniera arguta, saggia, dissacrante, senza tabù né compromessi. In questo modo ci portano a riflettere su cose che, da adulti, diamo per scontate, vere e irrefutabili, ma che non hanno nessun buon motivo per essere ritenute tali. Per questo motivo ho iniziato a disegnarle sotto forma di strisce, che prima hanno trovato posto sul blog omonimo e che sono approdate poi alla rivista ANIMAls e infine sono state raccolte in un libro (“Marmocchi”) che esce contemporaneamente in Italia, Spagna e Francia. Proprio a proposito dell’iter dal blog a “Marmocchi”: quali differenze ci possono essere fra la lettura online, di un blog, nello specifico, e quella su carta? La differenza grande tra pubblicare on line su un blog o su carta è il contatto diretto con i lettori. Attraverso il blog si può dialogare con i lettori attraverso i commenti ai post; scambiare pareri più approfonditi tramite mail (tante strisce mi sono state raccontate così, dai lettori di “ça pousse”). È possibile anche consigliare il link di siti amici, che ampliano conoscenze e arricchiscono lo scambio con il pubblico; ci sono i collegamenti diretti con i siti, o i profili dei lettori che seguono il blog... Ciascun blog è una finestra, un contenitore che ci permette di passare da un sito all’altro, da un racconto all’altro dandoci la possibilità di costruire un mondo nostro, più vasto, più completo. Il difetto della lettura on line è la possibilità di perdersi. Il libro su carta, viceversa, ci assicura una concentrazione assoluta su ciò che si sta leggendo, ci permette di calarci nella maniera più profonda possibile nel mondo di chi racconta: ciascun libro (su carta) racconta una vita, un’avventura. Pro e contro. Il blog fa sentire meno soli gli autori, c’è un riscontro facile col pubblico, mentre quando si pubblica un libro su carta, se non si incontrano i lettori alle presentazioni o lo si vede recensito, si ha la sensazione (e la paura) che nessuno lo abbia letto. Il libro su carta regala altri due aspetti per me fondamentali: il contatto fisico e il fatto che ti possa seguire ovunque. Un libro di carta lo si può leggere su una spiaggia deserta, in mezzo al bosco, pigiati nel caos dei mezzi pubblici, in coda in posta e di straforo ad un convegno noioso. Ti segue dappertutto e la sua lucina luminosa, da uscita d’emergenza, non si scarica maiEXIT - e sei da un’altra parte. Per concludere: Cosa consiglieresti oggi a una donna che volesse intraprendere questa carriera? A chi volesse cominciare a fare fumetti, uomo o donna (non è un ambiente sessista per cui lascerei da parte le distinzioni di genere, sperando di non doverle mai usare) consiglio di essere curiosi, di cibarsi di libri, cinema, teatro, mostre, ma anche del quotidiano che ci circonda, di essere coraggiosi e di mettere avanti ad ogni cosa il piacere del proprio lavoro; di ascoltare le proprie urgenze narrative e di divertirsi a realizzarle; e di prepararsi a “studiare” tutta la vita, perché fare fumetti vuol dire ricercare sempre ed evolversi di conseguenza. Tutte le immagini sono © Lorena Canottiere e Coconino Press per l’edizione italiana. 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 89 IL PERSONAGGIO di Francesca Camponero Rincontrare un compagno di classe del liceo dopo trent’anni fa sempre piacere e ancora di più quando la vita gli ha riservato le soddisfazioni sperate dopo un percorso di studio fatto di passione. Mi riferisco a Giuliano Doria, direttore dal primo ottobre 2011 del Museo Civico di Storia Naturale “Giacomo Doria” di Genova. Un museo che nella sede attuale di Via Brigata Liguria compie 100 anni e che il neo direttore ama e a cui il 20 ottobre appena passato ha deciso di dedicare una giornata di festeggiamenti. Un museo che ha un storia importante e che peraltro nasce da un tuo antenato… Il museo nacque a Genova nel 1867 su proposta di Giacomo Doria e la prima sede fu a Villetta di Negro nell’area dove oggi si trova il Museo d’Arte orientale “Edoardo Chiossone”. In seguito a numerosi viaggi di naturalisti in ogni parte del mondo che negli ultimi 30 anni dell’800 fino ai primi del 900 fecero affluire una notevolissima quantità di reperti, si venne a creare la necessità di trovare una location più grande in una zona spaziosa. Così su progetto dell’Ing. Cordoni, lo stesso progettista della stazione Brignole, nel 1905 iniziarono i lavori di una costruzione più grande, quella attuale, che venne inaugurata il 17 ottobre 1912, appunto cent’anni fa; va messo in evidenza che l’edificio venne costruito dal Comune di Genova quindi con fondi pubblici. Giuliano Doria INTERVISTA A GIULIANO DORIA DIRETTORE DEL MUSEO DI STORIA NATURALE DI GENOVA 89 19-2012 colore:Layout 1 Giuliano Doria 90 10-12-2012 18:25 Pagina 90 IL PERSONAGGIO Cosa significa per te questo centenario e cosa si è svolto in questa giornata di festeggiamenti? Io lavoro presso il museo dal 1987, pertanto si può dire abbia passato un significativo periodo della mia vita tra queste mura e con il prezioso materiale che vi viene conservato; festeggiare i cent’anni del palazzo è un onore e un piacere che ho voluto condividere con la cittadinanza, per questo coi miei collaboratori, e con la sponsorizzazione di Iren e Coop Liguria, abbiamo studiato una serie di eventi che potessero essere interessanti per tutte le fasce di età. Dalle 15 alle 18 l’ingresso è stato gratuito per tutti e in anfiteatro sono state proiettate una serie di fotografie d’epoca che illustrano le varie fasi di costruzione del palazzo; dopo gli interventi di Carla Sibilla, Assessore Cultura e Turismo del Comune di Genova, e di Laura Malfatto, Dirigente del Settore Musei, il pubblico ha potuto ascoltare le testimonianza di Lilia Capocaccia, Gianna Arbocco e Roberto Poggi già direttori del Museo e oggi conservatori onorari; gli interventi si sono chiusi con i rappresentanti delle Associazioni che da anni collaborano con il museo per le attività di promozione della cultura scientifica e per le iniziative rivolte al mondo della scuola e alle famiglie: la Società degli Amici del Museo, Pro Natura Genova e l’Associazione Didattica Museale; un saluto è stato portato dal rappresentante della Società Entomologica Italiana che ha sede legale in Museo. Per i bambini a metà pomeriggio nella sala di Paleontologia è stata offerta una merenda. Tornati in anfiteatro i bambini e gli adulti hanno anche potuto godere di uno spettacolo con canzoni tratte dalle colonne sonore dei cartoon. Al di là di questa festa quali sono le tue idee per dare una nuova immagine al museo? Sinceramente, pur consapevole di non essere all’altezza, vorrei continuare l’attività da sempre portata avanti da chi ha guidato il Museo: incrementare, conservare e studiare il ricchissimo patrimonio scientifico e contemporaneamente svolgere un’importante opera di divulgazio- ne della storia naturale. Sin dal 1867 infatti questo museo ha fatto politica di rinnovamento, tanto è vero che poi si è arrivati a questa nuova struttura più grande, dove le sale espositive sono state più volte ristrutturate. Il nostro pubblico qui ha la possibilità di vedere 6.000 esemplari esposti, e dietro le quinte, nelle collezioni di studio rivolte agli addetti ai lavori abbiamo altri 4.500.000 esemplari. Oltre l’esposizione permanente, sono tante le iniziative rivolte al pubblico: mostre temporanee, mediamente due l’anno che non è poco, convegni, proiezioni, cicli di conferenze e proposte legate ad eventi culturali come quello del Festival della Scienza, che porta mostre e laboratori all’interno delle nostre sale. Tantissime sono poi le attività didattiche per scuole e famiglie in collaborazione con l’Associazione Didattica Museale. Un grosso impegno è quello di informare bene i cittadini e i turisti di questa grande risorsa culturale. Cosa ti interesserebbe di più portare nel museo e che magari farebbe affluire più pubblico all’interno? Francamente noi non abbiamo nulla da invidiare agli altri musei europei. La nostra esposizione è notevole, gli esemplari sono preparati molto bene ed abbiamo avuto encomi da parte di studiosi per esempio americani, australiani, norvegesi che sono venuti qui per esaminare le collezioni. Se parliamo di desideri o sogni i miei sono questi: avere più personale sia scientifico che tecnico, poter riallestire alcune sale espositive e riuscire ad avere un impianto di illuminazione generale a led, col quale ottimizzare i costi, installando magari anche un sensore che accenda e spenga automaticamente la luce a seconda della presenza del pubblico nelle varie sale. In fondo non mi sembra sia molto, ma i soldi al momento si sa sono quelli che sono, vedremo…”. Insomma Giuliano Doria sembra avere le idee chiare, guardare avanti con le tecnologie di oggi, ma attenzione, salvaguardare assolutamente il passato che è la nostra storia e ricchezza vera. 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 91 C U LT U R A E D I N T O R N I di Fiorangela Di Matteo Quando si è sul lastrico c’è poco da programmare: bisogna sopravvivere. Senza aspettative, si tratta di sopravvivenza o di declino irreversibile mal camuffato? Oggi è tempo di fare dei programmi; “come?”,” così presto?” Nel bel mezzo del caos? Ebbene è questo il momento giusto. I programmi ci aiuteranno a scandire delle tappe per la risalita. Programmi semplici, complessi, revisione dei compiti, realizzazione delle aspettative: tutte cose ottime, nella teoria, ma nella pratica? Un programma senza possibilità di spesa è un fallimento già in partenza. Come realizzare, allora, cose per le quali non ci sono soldi, o che si sa che non saranno finanziati? Semplice: si cambia. Bisogna cambiare modo di pensare; cioè pensare per costruire e non per sopravvivere o, peggio, per aggiustare. È l’approccio al programma che deve cambiare: oggi, in periodo di stasi, si ha il tempo per pensare alla cosa da affrontare nella sua completezza. Chi di noi, da ragazzo, ha letto Conan Doyle, ricorda libri dove era chiaro l’elogio del ragionamento, il suo trionfo. Eppure il segreto di una buona riuscita è proprio nell’ovvio e sta nell’affrontare i programmi. Holmes diceva più o meno: “Bisogna osservare, concatenare e dedurre: semplice”. Oggi ci troviamo ad affrontare il futuro allo stes- Cortona (AR) Porta Bifora – Maec città di Cortona In tempo di crisi IN TEMPO DI CRISI 91 19-2012 colore:Layout 1 In tempo di crisi 92 10-12-2012 18:25 Pagina 92 C U LT U R A E D I N T O R N I so modo? Guardiamo? Analizziamo? E, soprattutto, deduciamo? La storia ci può aiutare, si può analizzare il lavoro alla luce delle fonti (buona parte degli archivi descrivono, alle volte al dettaglio, ciò che noi chiamiamo “scoperta”) con le giuste differenze dovute al progresso; la telematica e la globalizzazione faranno la differenza. Una volta terminata l’osservazione e l’analisi, si potrà passare alla redazione del programma. Anche l’approccio globale e omnicomprensivo aiuterà nel fare la differenza. Infatti sarà utile ad affrontare e risolvere le problematiche esistenti (prima, al momento della deflagrazione si analizzava quel singolo aspetto avulso dal contesto si aggiustava, come si può, ed infine si aspettava il prossimo guasto). Così facendo si è arrivati ai crolli di Pompei. Proprio Pompei ci insegna, e molto, come succede anche quando si costruisce una nuova strada, o le fondamenta di un edificio, o ancora un tratto di metropolitana: ci si imbatte in reperti archeologici e si fermano i lavori, una, due, …. dieci riunioni, ci si interroga se sia il caso di coinvolgere un determinato ufficio, gli archeologi, gli studiosi, i geologi, alla fine manca sempre qualcuno e, nel momento di definire una decisione, non ci si cura se tutti si sono espressi. Ed i lavori ripartono. Dopo un tot di tempo si trova ….. una fal- da creduta secca e si ripete il copione già espresso. In tempo di crisi si ha il tempo di chiamare intorno al tavolo di progettazione tutti gli attori che concorrono al lavoro in preparazione, si possono esaminare con calma tutti gli aspetti dei problemi del suolo, del sottosuolo, della qualità dell’aria etc. Si ha pure il tempo di redigere uno scadenziario di interventi, di fissare gli step, i monitoraggi, i collaudi ed infine il tempo per valutare il realizzato. Sembra così ovvio! Ma se è così banale perché non si fa? O perché non si fa più? Chissà? Secondo me è solo perché la qualità dei nostri amministratori è bassa, e, di conseguenza, nessuno di loro ha voglia di scontrarsi con i propri capi ansioso come è di non apparire né di prendere iniziative personali o, peggio ancora, assumersi responsabilità. In ogni caso è questo il momento giusto per invertire il senso di marcia, complice la mancanza di fondi, quei pochi soldi che si possono utilizzare si devono spendere con oculatezza e ... se non sapremo cogliere al volo il momento propizio per “costruire” mai saremmo in grado di risorgere. Questa volta, invocare la creatività non solo sarà inutile, c’è il rischio che sia anche dannoso; troppe volte abbiamo assistito alle manovre dei creativi della finanza e, onestamente, sarebbe meglio evitare altri tentativi. GenovARTE 5^ Biennale d’Arte Contemporanea Genova Palazzo Stella, 15 giugno – 6 luglio 2013 Genova, vivo coacervo di arti, culture e tradizioni, è da sempre palcoscenico ideale per numerosi eventi a carattere culturale e sociale, come hanno dimostrato gli anni passati. Un fermento dinamico volto alla valorizzazione del patrimonio artistico che questa città offre: il suo cuore pulsante di vicoli, gli splendidi palazzi, il Porto Antico, il Polo Museale di via Garibaldi e molto altro ancora. Una città fiera della sua storia e delle sue potenzialità come ha saputo dimostrare nel 2004, quando è stata la capitale europea della Cultura. Arte e cultura, quindi, espresse in un’unica città che porta con sé l’epoca medievale, barocca, rinascimentale sino ad arrivare alla contemporaneità di un’architettura moderna, che porta la firma di Renzo Piano. Genova è pertanto simbolo di una storia dell’arte sempre in divenire, capace inoltre di inserirsi in un contesto europeo vasto, con lo scopo di valorizzare le risorse presenti e di creare nuovi processi di crescita e di sviluppo interculturale. SATURA sente concretamente questo processo di sviluppo artistico e per tale motivo promuove la V Biennale d’Arte Contemporanea GenovARTE 2013. Il concorso patrocinato da Istituzioni pubbliche e private vuole essere un momento di riflessione e di confronto tra artisti, critici e pubblico interessato ai fatti culturali; un appuntamento per allacciare nuovi contatti nel comune interesse per l’arte. 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 93 IL BORGO di Wanda Castelnuovo Una sorpresa che spunta come una gemma preziosissima da un forziere dimenticato, così si può definire la scoperta del delizioso borgo di Torre di Palme, frazione del Comune di Fermo (Ascoli Piceno), abbarbicato a circa 120 m. s.l.m. su uno sperone di tufo scosceso su tre lati: un balcone da cui si contempla da una parte la vastità marina di un lungo tratto dell’Adriatico e dall’altra tutto il territorio fino al monte Conero che domina maestoso ed elegante questo tratto marchigiano. Così in tanto fiorire di cemento contemporaneo e nella dimenticanza di questo borgo - la cui bellezza può forse intimorire chi non comprende che più chicche si propongono al turista più se ne trae un vantaggio generale - pare di avere trovato un ‘presepe’ scaturito da un passato coperto di oblio con testimonianze e ricordi di straordinario fascino. Il piccolo nucleo medievale caratterizzato da viuzze ed edifici antichi che portano i segni dello scorrere della storia affonda le proprie radici forse nel VI-IV secolo a.C. come confermerebbero ritrovamenti archeologici avvenuti durante il XX secolo. Il territorio diviene poi ager palmensis - zona costiera tra i fiumi Tesino e Chienti - fino al Medio Evo quando Palma (questo l’antico nome del vecchio insediamento - forse ascrivibile a palma-ae riferito al pampino della vite essendo la città picena nota per la produzione di un vino pregiatissimo - situato però a sud est dell’attuale e citato nella “Tavola Peuntingeriana” del III secolo d.C. destinata a uso militare) fondendosi con Turris del Castello dà origine all’odierna Torre di Palme. Questa per secoli nell’area di influenza di Fermo, ma autonoma amministrativamente per molto tempo, dal 1877 le si unisce “volontariamente” (così recitano i documenti): la popolazione oggi rispetto a tale Piazza Risorgimento con la Fontanina (1910). Sul fondo Panorama di Porto San Giorgio Torre di Palme UN PRESEPE DA SCOPRIRE 93 19-2012 colore:Layout 1 Torre di Palme 94 10-12-2012 18:25 Pagina 94 IL BORGO data è diminuita considerevolmente e sono scomparsi i servizi caratteristici di un comune autonomo. La particolare dovizia e la fastosa eleganza degli edifici pubblici, privati e religiosi testimoniano il ruolo e il fascino di questo luogo nei secoli prediletto e scelto anche perché dotato di autonomia idrica grazie a pozzi e cisterne di cui ne restano tuttora alcuni - da famiglie più che abbienti in grado di invitare famosi maestri d’arte per abbellirlo. La sua importanza è testimoniata da citazioni illustri come quelle di Varrone, che nel suo De re rustica parla dell’ager palmensis, di Palma e in particolare della ‘vite palmense’, di Strabone, Columella e Plinio il Vecchio. Nel Medio Evo non mancano riferimenti al nuovo borgo che si sviluppa in una posizione strategica. Importante già per l’antica Palma (i Palmensi erano considerati ab antiquo abili costruttori di navi) è il suo Navale - porto forse alla foce dell’attuale Fosso Cugnòlo - rilevante in ogni epoca poiché permetteva un veloce e sicuro trasporto di persone e merci in particolare nel XV e XVI secolo. Inserito nella cerchia dei Castelli Fermani (marini, di mezzo e montani a seconda dell’ubicazione), Torre di Palme ha un impianto urbanistico ellissoidale con asse est-ovest circondato da mura e con porte ‘da Sole’ o ‘da Bora’: a proposito di quest’ultima testimonianze anche del XIX secolo dimostrano che era collocata a nord ovest. Il borgo deve la sua conformazione attuale a quando nel Medio Evo, per proteggere lo scalo marittimo della città romana da incursioni piratesche, sorge un solido castello con un saldo sistema difensivo. Nell’VIII/IX secolo gli Eremitani di S. Agostino (riuniti nel XIII secolo nell’unica Regola Agostiniana) collaborano alla costruzione del nucleo più antico che man mano viene abitato fino a diventare popoloso lasciando ricordi e testimonianze da scoprire. I momenti migliori per visitare Torre di Palme e respirarne lo spirito antico che vi aleggia sono quelli in cui non è molto frequentato come in estate quando Chiesa di Santa Maria a mare con torre campanaria del sec. XIV (Piazza Amedeo Lattanzi) l’aria un po’ troppo ‘caciarona’ di alcuni vacanzieri rischia di incrinare la magia che vi spira. All’ingresso del paesetto si possono lasciare i propri veicoli in un ampio parcheggio per poi esplorare gli angoli più suggestivi con l’ausilio del cavallo di S. Antonio. Imboccata Via Piave che taglia il borgo da ovest a est, non si vede anima viva come se si trattasse di un luogo abbandonato, ma le narici accarezzate da deliziosi profumi provenienti da una cucina conducono a una porta aperta. Una simpatica cuoca dal phisique du rôle accoglie ospitale insieme a chi gestisce il Ristorante ‘Lu Focaro’ e, mentre - seduti su una piazzetta con un panorama mozzafiato - si gusta un ottimo caffè accompagnato da deliziosi biscottini fatti in casa, si ricevono anche indicazioni per scovare i segreti del luogo. Lungo la via centrale fanno mostra di sé alcune belle dimore e lo sguardo corre ammirato ed estatico verso deliziosi scorci con passaggi medievali (alcuni con copertura a botte) e strette viuzze (dai nomi più disparati) le cui abitazioni con le facciate in cotto sono adornate da vasi fioriti, in fondo si stagliano scorci di mare o di verdi colline. È evidente che è stata compiuta un’intelligente azione conservativa del borgo. Si viene colti da una sorta di frenesia che porta a scendere e salire gradini con vi- 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:25 Pagina 95 IL BORGO Piazzale della Rocca (ingresso del paese) splendenti colori smaltati, resi ancora più intensi dall’oro dello sfondo. L’altare maggiore è un antico sarcofago non facente parte dell’edificio originale. Più avanti lungo il corso la Chiesa di Santa Maria a Mare (del XII secolo con modifiche successive) in conci di pietra e cotto seduce per il decoro del campanile con archetti intrecciati, per i bacini maiolicati su una parete e per l’interno a tre navate con presbiterio sopraelevato e affreschi bizantineggianti del XIV secolo. Sulla sinistra della chiesa, in un giardinetto, si trova una vera da pozzo in pietra dalmata, adibita un tempo a Battistero. Di fronte sorge il romanico Oratorio di San Rocco del XII secolo, il cui portale cinquecentesco presenta l’arma di Torre di Palme e quella di San Giovanni in Laterano poiché all’epoca questa chiesaoratorio era sotto il patrocinio dei Canonici Lateranensi. Ecco finalmente il Piazzale Belvedere (Piazza Amedeo Lattanzi), luogo privilegiato dal quale si gode di un panorama eccezionale sulla costa e sul mare: non solo i turisti vi convergono curiosi, ma gli stessi abitanti lo utilizzano come luogo di ritrovo. E dopo la spina centrale non si può non percorrere ciò che resta del Cammino di ronda, antico sistema difensivo rimasto purtroppo visibile solo a tratti. Da qui si può vedere che il borgo è circondato dalla fitta vegetazione del Boschetto di Cugnolo (a forma di cugno, cuneo), area floristica protetta, interessante perché conserva tipiche specie della macchia mediterranea. La zona è una meta affascinate anche grazie alla suggestiva Grotta degli Amanti, teatro del tragico amore di Antonio e Laurina, due innamorati che nel 1911 pongono termine alla loro vita gettandosi nel vuoto dal Fosso di San Filippo. La quiete e il senso di pace che partendo si porta come bagaglio induce a pensare di ritornare sperando di trovare un inverno come quello dello scorso anno quando la neve ha fatto la sua comparsa rendendo ovattata la magica atmosfera che si respira nel piccolo e delizioso borgo. Torre di Palme talità entusiasta finché ubriachi di suggestioni ci si ritrova di fronte alla Chiesa di San Giovanni - in conci di pietra e archetti pensili - nel cui interno si trovano affreschi del secolo XV e che, originaria dell’X/XI secolo, conserva il fascino di una religiosità antica. Il Palazzetto dei Priori (Palazzo Priorale) del XII/XIV secolo porta i segni di numerose modifiche come dimostrano nella facciata due bifore e un arco a tutto sesto di un’ampia loggia ivi murati e all’interno tracce di affreschi. Il campaniletto a vela, l’orologio civico a sinistra e una meridiana a destra rendono elegante l’insieme. Proseguendo, ci si trova di fronte all’affascinante Chiesa di Sant’Agostino (XV secolo) con annesso convento: in stile romanico-gotico con il tipico cotto rosso, presenta la facciata a capanna resa più preziosa da un bel portale gotico e da un rosone. Ricca nel passato di affreschi andati distrutti per l’uso della ‘calce viva’ quale disinfettante, conserva un San Nicola che tiene nella destra un volto di cherubino con i raggi e nella sinistra la Regola. Vi si possono ammirare anche una tavola di Vincenzo Pagani (terza decade del XVI secolo) e un imponente polittico di Vittore Crivelli (trafugato nel 1972 e poi recuperato salvo tre scomparti della predella), nobilitato dalla cornice originale in legno intagliato e caratterizzato dagli 95 19-2012 colore:Layout 1 Giovanni Allevi al Carlo Felice 96 10-12-2012 18:25 Pagina 96 IL CONCEERTO LA PRIMA MONDIALE DI GIOVANNI ALLEVI AL CARLO FELICE Francesca Camponero Se al Carlo Felice deve affluire pubblico che salga pure Allevi sul palco del nostro teatro, se però si deve giudicare quanto quel palco sia idoneo alla sua musica salgono spontanee molte obiezioni. Certo dal numero di persone che occupavano platea, palchi e galleria lo scorso 14 novembre, si direbbe che il maestro sia stimatissimo e apprezzatissimo davvero da tutti, ma non è proprio così. Chi conosce a fondo la musica classica non può lasciarsi ingannare da quanto si è sentito la sera di questa prima mondiale, un nuovo progetto, un’ennesima sfida del musicista per farsi ancora più apprezzare dai suoi fans. E sono stati proprio i suoi fans ad essere i protagonisti della serata che li ha visti riversare in massa nelle prime file della platea per applaudire il loro beniamino anche quando non era dovuto come ai cambi dei movimenti del concerto. Tutti provvisti di una sciarpa arancione intorno al collo si alzavano continuamente in piedi acclamando l’artista con un atteggiamento più da stadio che da teatro lirico. Ma veniamo al concerto. Giovanni Allevi non ce la faceva proprio più a stare dentro 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:26 Pagina 97 IL CONCERTO 97 Giovanni Allevi al Carlo Felice le sue fantasie al pianoforte e inebriato dalla sua fama probabilmente ha sentito l’esigenza di spingersi più in là cimentandosi in un concerto per violino e orchestra in Fa minore denominato ”La danza della strega”. Un concerto in tre tempi, mosso, adagio e allegro con slancio che a fatica teneva attento il pubblico. In termine gastronomico si potrebbe definire il concerto in un ratatouille di stili in cui sembra di riconoscere qualche nota romantica di Rachmaninov assieme a qualche incongruenza dinamica paganiniana mischiata a melodie di nuevo tango di Piazzolla, ma lo stile di Allevi dov’è? Qual è? Ma soprattutto esiste? Il concerto che parte con un assolo di violino non trova adeguata risposta nell’orchestra che si riduce a fare da semplice accompagnamento al solista. Non c’è sinfonia, non c’è melodia, diciamocelo chiaro, non c’è nulla, se non la straordinaria bravura di Mariusz Patyra, vincitore del Premio Paganini 2001. Patyra con le sue capacità virtuose riesce a rendere bello anche quello che non lo è, impreziosendo una partitura povera a tutti gli effetti. Ma se il primo tempo dello spettacolo aveva il virtuoso violinista polacco, il secondo prevedeva una fantasia concertante per pianoforte e orchestra con Allevi alla tastiera, e allora si è andati di male in peggio. Cinque i brani della fantasia, Sunrise (che dà il nome al nuovo album), Mandela, Symphony of life, Elevazion, Heart of snow in cui si è riscontrato l’Allevi di sempre, quello abile a fare musica da spot pubblicitari e, quando va meglio, da colonna sonora da film. Anche in questo caso le frasi orchestrate altro non erano che un supporto alla melodia del piano confermando l’incapacità dello sviluppo musicale. Grandi applausi alla fine e tre bis concessi dal maestro che per fortuna ha fatto anche rientrare Patyra che ha rifatto un assolo del concerto per violino. Fans in delirio e fiori lanciati come se al posto del riccioluto Allevi sul palco ci fosse Maria Callas, e allora anche se dovremmo dire in ogni caso “meno male che Allevi fa affluire la gente nei teatri lirici!” resta l’amarezza di considerare che anche il valore della musica (arte sublime) ad oggi viene determinato solo da quanto è pubblicizzato. 19-2012 colore:Layout 1 Andando per mostre 98 10-12-2012 18:26 Pagina 98 ANDANDO PER MOSTRE ANDANDO PER MOSTRE ARTE POVERA, IL GRANDE RISVEGLIO Basilea, adagiata lungo il placido e potente fiume Reno - che la divide in due (Grossbasel, Grande Basilea più antica, sulla riva sinistra e Kleinbasel, Piccola Basilea sulla destra) e ha visto Celti, Romani, Principi-Vescovi, Riforma Protestante, Erasmo da Rotterdam e… l’industria farmaceutica - non finisce di stupire per la sua apertura internazionale all’arte con un’interessante mostra dedicata all’Arte Povera. Si tratta di un movimento artistico rivoluzionario - il cui nome si deve al titolo di un’omonima mostra curata nel 1967 a Genova da Germano Celant che ne parlò anche in un articolo successivo di qualche mese - nato in Italia verso la fine degli anni ’60 e durato fino agli inizi degli anni ’90 con artisti che, utilizzando materiali poveri e mezzi semplici come terra, vetro, legno, rami, neon luminosi o cera, hanno prodotto quadri, disegni, sculture, arazzi, fotografie, installazioni e performance. Al Kunstmuseum è esposto un centinaio di opere provenienti dalla collezione Sammlung Goetz di Monaco di Baviera, una tra le più cospicue e famose al mondo di arte contemporanea iniziata negli anni ‘70 - in un’epoca di cultura ‘appisolata’ - dalla tedesca Ingvild Goetz affascinata dallo spirito innovatore di questo movimento aperto al nuovo e ‘metafora di libertà’. Tra gli altri si possono ammirare artisti quali Alighiero Boetti (1940-1994) con l’ormai famosissima Mappa, Luciano Fabro (1936) con L’Italia d’oro, stupefacente metafora del 1971 di una penisola in cui i valori si sono degenerati e modificati a tal punto da farla apparire appesa al contrario, Jannis Kounellis (1936) con Senza titolo libertà o morte. W Marat W Robespierre, Mario Merz (1925-2003) con il notissimo di Wanda Castelnuovo Igloo e le eleganti Lance e Michelangelo Pistoletto (1933) con Donna sdraiata e L’Etrusco, calco in gesso di un’antica statua, allo specchio, Giovanni Anselmo (1934) con la divertente Torsione e il bravo Giuseppe Penone (1947), maestro nel trattare il legno, con Albero di 230 cm. _ ARTE POVERA Il grande Risveglio Basilea: Kunstmuseum, St. Alban-Graben 16 10.00 – 18.00 da martedì a domenica lunedì chiuso Biglietto mostra: intero Fr. 21.00, ridotto Fr. 16.00, ridotto scuole Fr. 8.00 Fino al 3 febbraio 2013 Informazioni: 0041 (0)61 2066262, www.kunstmuseumbasel.ch Catalogo: Hatje Cantz Editore BAGLIORI DORATI GOTICO INTERNAZIONALE A FIRENZE 1375-1440 Per evidenziare la straordinaria stagione di transizione politico-culturale fiorentina che va dal 1375 al 1440 - periodo in cui i Medici gettano le basi del loro potere - e vede il passaggio dal Gotico Internazionale al primo Rinascimento fiorentino (lo si fa risalire alla data simbolica del 1401 quando i migliori orafi-scultori dell’epoca concorrono ciascuno con una formella alle ‘porte bronzee del Battistero’) una mirabile e ricchissima mostra affianca opere conosciute e famose ad altre pregevolissime provenienti da ogni parte del globo. Vengono presentati dipinti, sculture lignee e marmoree, codici miniati e lavori d’arte sacra e profana a cominciare da fine ‘300 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:26 Pagina 99 ANDANDO PER MOSTRE LA RACCOLTA EUGENIO BALZAN A BELLINZONA 1944/2012 Deliziose la mostra e Bellinzona, la città che la ospita, degne di trascorrervi un momento di relax per ritemprarsi dall’odierno ritmo convulso godendovi serenità e bellezza. Quella stessa pace che Eugenio Balzan (Badia Polesine/RO 1874 - Lugano 1953) trova in Svizzera dove si ritira nel 1933 dopo reiterati attacchi da parte di fascisti incuranti della sua funzione di mediatore, pur nella difesa dell’indipendenza del “Corriere della Sera”, tra i fratelli Abertini proprietari estromessi dal regime e i Crespi, nuovi padroni. Dopo studi irregolari, Balzan scopre la sua vocazione al giornalismo e entrato al Corriere come correttore di bozze compie una fulgida carriera giornalistica finché ormai inserito nella Milano intellettuale dell’epoca - nel 1903 gli è affidata la gestione della società editrice del quotidiano cui dà un notevole impulso e del quale diverrà anche comproprietario con una piccola partecipazione azionaria. In quegli anni inizia a collezionare opere qualitativamente ottime di cui in mostra se ne possono ammirare una quarantina con tematiche sul paesaggio e sulla pittura di genere, riproposta dell’esposizione itinerante del 1944 - allora connotata da una chiara valenza politica - iniziata al Kunsthaus di Zurigo, continuata al Palazzo Comunale di Bellinzona e poi al Kunstmuseum di Berna. Tutte chicche della produzione artistica italiana a cavallo tra XIX e XX secolo come il raffinato Ritratto muliebre di Achille Beltrame (autore dei disegni della “Domenica del Corriere”), La sultana che torna dal bagno capolavoro di Domenico Morelli, il palpitante Paesaggio in laguna di Eugenio Gignous, la sognante e dolcissima Fanciulla sulla roccia a Sorrento di Filippo Palizzi, La mia rossa vibrante di vita e di fresca giovinezza uscita dal pennello di Andando per mostre con artisti quali Agnolo Gaddi, Spinello Aretino, Antonio Veneziano, Gherardo Starnina e Lorenzo Monaco. Seguono numerosi autori di ottimo livello a cavallo tra tradizione e innovazioni, dettate dalla cultura umanistica che porta in auge l’antico - insieme a Lorenzo Ghiberti, personaggio emblematico del tardo gotico fiorentino, nel cui cantiere per la ‘prima porta del Battistero’ si sono formati quasi tutti gli artisti di rilievo attivi in città. Spicca Beato Angelico con la sua pittura soave: insieme a Michelozzo tende a coniugare il passato con le novità apportate da Brunelleschi e Masaccio in un clima in cui continua a trionfare la tradizione e il nuovo si fa largo a fatica. Restano prediletti nella mia memoria la splendida Madonna col Bambino (rivestito da una tunicella chiusa da fermagli) di Nanni di Bartolo, il raffinato Ritratto di giovane (sul cui retro si trova una Fenice con quattro monogrammi e un cartiglio) di cui si è molto discussa l’attribuzione e l’Annunciazione di Giovanni di Francesco Toscani. Chiude la mostra come esempio di mirabile sintesi tra fantasia e rigore matematico la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, presentata in anteprima dopo l’intervento di restauro. _ BAGLIORI DORATI Gotico Internazionale a Firenze 1375-1440 Firenze: Galleria degli Uffizi 8.15 – 18.50 da martedì a domenica lunedì chiuso La biglietteria chiude 45 minuti prima Fino a novembre 2012 Biglietto mostra: intero € 11.00, ridotto € 5.50, gratuito per i cittadini dell’U. E. sotto i 18 e sopra i 65 anni Informazioni e prenotazioni: www.unannoadarte.it, tel. 055 294883 Catalogo: Giunti Editore 99 19-2012 colore:Layout 1 Andando per mostre 100 10-12-2012 18:26 Pagina 100 ANDANDO PER MOSTRE Ettore Tito e l’incandescente Campo di papaveri di Federico Rossano che ripropongono la vivacità e i gusti di un’epoca da riscoprire con il piacere di un viaggio nel tempo. _La raccolta Eugenio Balzan a Bellinzona 1944/2012 Bellinzona (CH): Museo Civico Villa dei Cedri, Piazza San Biagio 9 14.00 – 18.00 martedì-venerdì (fino alle 20.00 il primo giovedì di ogni mese) 11.00 – 18.00 sabato, domenica e festivi lunedì non festivo chiuso Fino al 20 gennaio 2013 Biglietto mostra: intero € 6.00 (chf 8), ridotto € 4.00 (chf 5). Ogni domenica ore 11 visita guidata gratuita compresa nel biglietto Informazioni: 0041 (0)91 8218518/20, www.villacedri.ch, museo@villacedri.ch Catalogo: Skira Editore GABRIELLA BENEDINI ‘NON SI RIPOSA IL MARE’ Singolare rapporto con la natura attraverso materiali che il mare restituisce sulle spiagge dopo averli sottoposti alla sua azione di demolizione quello di Gabriella Benedini. L’artista, cremonese d’origine e milanese d’adozione, restituisce nuova vita a numerosi piccoli e grandi relitti senza patria e senza padrone - dopo averli scelti e raccolti con cura sui litorali della Liguria producendo lavori polimaterici che richiamano i temi del cielo, del viaggio e della navigazione, elementi di grande suggestione nell’immaginario degli uomini in ogni epoca. I più di cinquanta lavori della serie “Costellazioni, Arpe e Navigazioni” presenti in mostra sono articolati nelle nove sale dello Spazio Oberdan (appartenente alla provincia di Milano) e comprendono tre magniloquenti installazioni site-specific per tale luogo. Suggestive le due grandiose (più di due metri ciascuna) Arpe, raffinati gusci verticali concavi e convessi, bianchi e neri, che danno il benvenuto a chi visita la mostra per compiere un viaggio metaforico insieme all’artista e capire e comprendere meglio se stessi e gli altri anche incontrando le divertenti e raffinate Costellazioni in cui dall’azzurro intenso di un cielo sereno emergono candide esistenze che paiono pulsare di luce. Diversi e disparati i materiali: legni, attrezzi rotti, pezzi di ferro arrugginito… che trovano nuova armonia in base ad affinità elettive intuite dall’artista che diventa creatrice di vite simboliche. Nell’installazione Bibliotheca (con una serie di scaffalature interrotte da false ‘porte’) trovano posto i libri polimaterici della Benedini tra cui l’ultimo nel quale la sua arte visiva dialogando con liriche inedite della poetessa Maria Luisa Spaziani (dal titolo Non si riposa il mare) - stampate con torchio a mano da Enrico Tallone (i libri delle Edizioni Tallone sono nella saletta accanto) - converge in una pubblicazione (130 copie) di notevole originalità. _Gabriella Benedini Non si riposa il mare Milano: Spazio Oberdan, Viale Vittorio Veneto 2 10.00 – 22.00 martedì e giovedì 10.00 – 19.30 mercoledì, venerdì, sabato e domenica lunedì chiuso Fino a novembre 2012 Ingresso libero Informazioni: 02 7740.6302/6381, www.provincia.milano.it/cultura BOLDINI, PREVIATI E DE PISIS DUE SECOLI DI GRANDE ARTE A FERRARA Palazzo dei Diamanti di Ferrara presenta un’affascinante e ampia selezione di capolavori del Museo Boldini e delle altre raccolte d’arte moderna e contemporanea di Palazzo Massari chiuso in seguito al recente sisma e bisognoso di lavori di consolidamento. Invece di giacere dimenticate nei magazzini dove sono state messe in salvo, le opere dei più importanti Maestri ferraresi tra Ottocento e Novecento diventano simbolo della vitalità e del coraggioso impegno della città nella ricostruzione. Non solo Boldini, Previati e De Pisis, ma anche Mentessi, Minerbi, Melli, Funi oltre a Gemito, Boccioni, Carrà e Sironi: si auspica che vengano presentati in altre sedi quale 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:26 Pagina 101 ANDANDO PER MOSTRE a Filippo de Pisis con superbe testimonianze quale la Strada di Parigi. Di Giovanni Boldini, figura trainante del rinnovamento della pittura non solo italiana della seconda metà dell’Ottocento e della Belle Époque, emergono splendide testimonianze di una ritrattistica raffinata e accattivante come il Ritratto del piccolo Subercaseaux e quelli femminili quali La signora in rosa, icona della mostra, e La Passeggiata al Bois de Boulogne, veri e propri concentrati della femminilità imperante fatta di sensualità, inquietudine, civetteria, grazia e cultura. Dalla mondanità al sociale testimoniato da Giuseppe Mentessi in Panem nostrum quotidianum, più realistico rispetto al commovente Pacem, alle altre opere degli artisti esposti, ambasciatori tutti di una Ferrara più vitale che mai. _BOLDINI, PREVIATI E DE PISIS. Due secoli di grande arte a Ferrara Ferrara: Palazzo dei Diamanti, Corso Ercole I d’Este, 21 9.00 – 19.00 tutti i giorni festività comprese La biglietteria chiude 30 minuti prima Fino al 13 gennaio 2013 Biglietto mostra: intero € 8.00, ridotto € 6.00, ridotto scuole € 4.00 Informazioni e prenotazioni: tel. 0532 244949, fax 0532 203064, diamanti@comune.fe.it, www.palazzodiamanti.it Catalogo: Ferrara Arte Editore MAXIM KANTOR VULCANO Nelle due Gallery della Fondazione Stelline di Milano suscita un interessante fluire di emozioni la prima esposizione italiana esaustiva dell’opera dell’eclettico Maxim Kantor (Mosca 1957), pittore, incisore e scrittore (figlio dell’intellettuale e filosofo Karl Kantor) la cui produzione artistica figura in importanti Musei e dalla cui fertile penna sono usciti saggi, opere letterarie, pièce teatrali e collaborazioni in varie lingue con importanti periodici. Nucleo della mostra, realizzata con il Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, è il portfolio Vulcanus. Atlas - disegnato nel 2010 con segno rapido e incisivo caratterizzato da ironia sferzante e severità di giudizio nei confronti dei protagonisti della storia del XX secolo e da compassione verso la gente comune - cui fanno da cornice una ventina di dipinti rappresentativi dell’intera (1980-2012) attività pittorica di Kantor. Andando per mostre stimolo a fare riacquistare a Ferrara il tradizionale ruolo egemone nel panorama artistico nazionale e internazionale. Un compendio di storia dell’arte attraverso un’ottantina tra dipinti, sculture e opere su carta a cominciare da Giovanni Antonio Baruffaldi e Giovanni Pagliarini, che trattano temi religiosi o letterari con taglio purista, e ancora da Girolamo Domenichini, Massimiliano Lodi e Gaetano Turchi, i quali attraverso il ricordo dei fasti estensi costituiscono stimolo al Risorgimento, fino 101 19-2012 colore:Layout 1 Andando per mostre 102 10-12-2012 18:26 Pagina 102 ANDANDO PER MOSTRE Artista connotato da melanconia e pessimismo quasi congeniti nell’animo russo - emblematica la figura solitaria di Leone Tolstoj, sacerdote di un’antica spiritualità - si è espresso attraverso un’ampia produzione che si può dividere in tre periodi. Il “periodo rosso” (1980 - fine anni ’90) in cui i temi trattati con colori gialli, arancioni e rossi sono quelli di uomini moscoviti che, pur oppressi da un regime alienante e intruppati in gruppi o comunità, conservano bagliori di dolente umanità come La mia famiglia. Diverso “Il nuovo impero” (fine anni ’90 2008) quando, dopo il crollo del comunismo, Kantor può viaggiare liberamente a Berlino, Londra, Parigi… colmo di speranze, ma attento a cogliere le prime avvisaglie di una crisi non solo economica ed europea. Nel terzo periodo “Atlantide” (dal 2008 a oggi) - pur connotato dal raggiungimento di una certa serenità nella stupenda Ile de Ré davanti a La Rochelle sulla costa atlantica - si manifesta la consapevolezza della fine di un ciclo: Atlantide secondo il racconto di Platone si inabissa nelle acque. _MAXIM KANTOR VULCANO Milano, Fondazione Stelline, Corso Magenta 61 10.00 – 20.00 da martedì a domenica lunedì chiuso (aperto 7, 8 e 26 dicembre 2012e 1 e 6 gennaio 2013) Fino al 6 gennaio 2013 Biglietto mostra: intero € 6.00, ridotto € 4.50, ridotto scuole € 3.00 Informazioni: 02 45462411, www.stelline.it Catalogo: Palace Edition LA NUOVA FRONTIERA Coinvolgente modo per celebrare il quinto centenario della scomparsa a Siviglia di Amerigo Vespucci da parte della natia Firenze (1454) quello di dedicare una mostra a coloro che vivevano nel Nuovo Mondo prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo e di altri esploratori europei come il cartografo e navigatore fiorentino che ha avuto il merito di comprendere di non essere nel continente asiatico, ma in uno ‘nuovo’ e sconosciuto cui ha dato il nome - e della colonizzazione del West da parte dei bianchi. Il sottotitolo Storia e cultura dei nativi d’America dalle Collezioni del Gilcrease Museum di Tulsa (Oklahoma) - uno dei più ricchi di testimonianze sul Nord America raccolte dall’omonimo fondatore, petroliere della Nazione indigena Muscogee della popolazione dei Creek - spiega come attraverso i reperti prestati a Firenze si apra una pagina importante di conoscenza su popoli spesso raccontati da tanta filmografia in modo superficiale, quasi una ‘riparazione’ morale per le violenze perpetrate. Divisa in due settori - una storica nell’Andito degli Angiolini e un’altra più antropologica nella Galleria del Costume la mostra presenta documenti cartografici e fotografici insieme a ritratti a olio e fotografie di capi e membri di varie tribù. Delle diverse Nazioni indigene sono presenti oggetti d’uso e cerimoniali, capi di vestiario tra cui i famosi “caschi piumati”, copricapi di penne da cerimonia e da battaglia con complessi simboli e segni distintivi. Eccezionali i dipinti tra metà ‘800 e primi ‘900 di artisti americani, formatisi in Europa, che guardano con stupore la natura incontaminata e le abitudini di popoli diversi cancellate dall’avanzata verso Ovest dei nuovi centri urbani e dell’industrializzazione: splendidi di Joseph Henri Sharp Tepee dei Crow di sera e Crucita - Ragazza di Taos e di Olaf Carl Seltzer Uomo della Medicina e la sua guida entrambi a cavallo, grande riscoperta di un animale scomparso da 10.000 anni dal nord America dove regnavano i bisonti. _LA NUOVA FRONTIERA Firenze: Andito degli Angiolini e Galleria del Costume di Palazzo Pitti 8.15 – 16.30 tutti i giorni salvo il primo e l’ultimo lunedì del mese Fino al 9 dicembre 2012 Biglietto mostra: intero € 10.00, ridotto € 5.00, gratuito per i cittadini dell’U. E. sotto i 18 e sopra i 65 anni. Consente ingresso anche al Museo degli Argenti, al Giardino di Boboli e al Giardino Bardini Informazioni e prenotazioni: 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:26 Pagina 103 ANDANDO PER MOSTRE LA VOCE DELLE IMMAGINI/PAROLES DES IMAGES/VOICE OF IMAGES Negli affascinanti ambienti di Palazzo Grassi - edificio neoclassico costruito nel ‘700 dall’omonima ricca famiglia borghese e modificato nei secoli secondo il variare delle mode (anche Gae Aulenti vi ha messo mano) fino all’ultimo ammodernamento sobrio e lineare degli interni, operato dal giapponese Tadao Ando - le immagini in movimento, che hanno sempre affascinato François Pinault tanto da essere presenti in molte mostre da lui promosse, sono divenute protagoniste di un progetto interamente dedicato a tale forma di espressione artistica. 27 artisti provenienti da tutto il mondo hanno realizzato una trentina di opere tra film, video e installazioni legati dal fil rouge di un’analisi intimistica delle attuali problematiche politico-sociali. Si tratta di un percorso sensoriale - tra leggerezza, umorismo, miseria, angoscia e gravità capaci di indurre diffidenza, curiosità e desiderio di agire - con opere dagli anni ’70 da Bill Viola, pioniere dell’immagine in movimento, a Bruce Nauman con For Beginners (per la prima volta esposta in Europa) in cui luce e musica si alternano a oscurità e silenzio. Tale Medium estremamente duttile dà luogo a risultati sorprendenti come quello di Mircea Cantor (1977 Oradea/Romania) Vertical Attempt, video semplice ed essenziale della durata di un secondo, ma proiettato in loop, quindi ripetitivo: il gesto del bimbo che taglia con le forbici il getto d’acqua del rubinetto è simbolo di “un coraggio folle”, quello di tentare l’impossibile. Delizioso di Peter Fischli e David Weiss (nati entrambi a Zurigo, Weis è scomparso nel 2012) Hunde in cui i due cani dietro la rete diventano simboli dell’uomo prigioniero dei propri desideri e delle proprie frustrazioni. Dolorosamente drammatico il video Faezeh di Shirin Neshat, nata in Iran, ma vissuta per studio negli Stati Uniti: in un paesaggio surreale una giovane è tormentata da dolorosi ricordi ignara di quanto sta per succederle. Un’esperienza coinvolgente che vale la pena provare. _LA VOCE DELLE IMMAGINI/PAROLES DES IMAGES/ VOICE OF IMAGES Venezia: Palazzo Grassi, Campo San Samuele 3231 10.00 – 19.00 tutti i giorni tranne martedì La biglietteria chiude un’ora prima Fino al 13 gennaio 2013 Biglietto mostra: intero € 15.00, ridotto € 10.00 Informazioni: tel. 041 5231680, fax 041 5286218, www.palazzograssi.it Prenotazioni: tel. 199 139 139 (a pagamento), www.vivaticket.it Catalogo: Electa Editore LE METAMORFOSI DEL VIAGGIATORE Divertente, simpatica, allegra e stimolante la mostra che raccoglie una selezione dei lavori partecipanti al 1° Concorso sul tema del ‘viaggio’ in tutte le sue sfaccettature e accezioni promosso dalla Fondazione Gruppo Credito Valtellinese e dall’Associazione Illustratori e rivolto a illustratori, fumettisti e artisti italiani e stranieri. Dei 112 autori selezionati dalla giuria presieduta da Stefano Faravelli (1959), pittore, filosofo, orientalista e notissimo ‘carnettista’ (tanto da avere ricevuto un premio speciale alla Biennale du Carnet de voyage di Clermont-Ferrand) presente in mostra in una Sezione Speciale a lui dedicata con alcuni interessanti carnet ispirati ai suoi lunghi viaggi in Africa e in Oriente - sono stati scelti 123 opere singole, 18 carnet de voyage e 9 fumetti contenuti nell’agile catalogo edito da Carthusia. Come recita egregiamente il sottotitolo “Stati mentali, onirici e reali del partire e del tornare” si tratta di un meraviglioso vagare tra le sensazioni suscitate dal viaggiare, felice e rasserenante attività cui ogni uomo dovrebbe dedicarsi - anche indirettamente come accaduto a tanti autori che nei secoli hanno parlato di fantastici viaggi della mente - per i benefici Andando per mostre www.unannoadarte.it, tel. 055 294883 Catalogo: Sillabe Editore 103 19-2012 colore:Layout 1 18:26 Pagina 104 ANDANDO PER MOSTRE Andando per mostre 104 10-12-2012 che procura alla mente e al corpo. Ecco allora che Federica Bordoni nel suo girovagare tra realtà e sogno finisce con l’assimilarsi all’acqua nella deliziosa Metamorfosi Acqua in cui l’elemento liquido si fonde con la terra attraverso la figura femminile o all’aria in Metamorfosi Aria dove si trasforma in una donna gigante che cammina tra le nuvole. Non ci sono limiti al fantasticare e ciascuno riesce a comunicare emozioni e simboli di grande efficacia come in Ride di Carmine Bellucci con la trasformazione del globo in un megaorologio intorno a cui girano due viaggiatori su una bici/calesse a quattro ruote preceduti da una farfalla. Di fronte a ogni lavoro sorgono riflessioni e osservazioni che possono migliorare il nostro esistere. _Le Metamorfosi del Viaggiatore Milano: Galleria Gruppo Credito Valtellinese, Corso Magenta 59 15.00 – 19.00 da martedì a venerdì 10.00 – 18.00 sabato domenica e lunedì chiuso Fino al 1° dicembre 2012 Ingresso libero Informazioni: 02 48008015, www.creval.it Catalogo: Carthusia Editore NOVECENTO ITALIANO PASSIONE E COLLEZIONISMO Veramente eccezionale questa mostra che nella nuova ala del Museo Civico di Bassano del Grappa disvela una serie di tesori nascosti - relativi a nostri artisti del ‘900 non provenienti da Istituzioni pubbliche, ma collezionati con intelligenza, entusiasmo e impegno faticoso e attento a creare entità omogenee da appassionati privati e galleristi che diversamente da coloro che oggi creano tendenza hanno individuato con occhio esperto e creduto in artisti loro contemporanei. Un’indagine ricognitiva ancorché parziale su alcuni centri e su personaggi carismatici e ‘sconosciuti’ che hanno collaborato a costruire collezioni proprie e di personaggi importanti ha portato a radunare in mostra quasi 90 opere (di cui 30 da collezioni bassanesi cui è dedicato un apposito percorso) di 46 straordinari artisti. Tali raccolte di industriali, imprenditori, professionisti e intellettuali hanno incrementato l’arte del tempo così come le gallerie, luogo d’incontro con le opere esposte e con gli stessi artisti. Nel periodo tra le due guerre è l’asse Roma-Milano a pilotare il gusto con nomi come Pier Maria Bardi senza contare il coraggio di Carlo Cardazzo che, dopo avere proiettato nel 1942 Venezia nel mondo artistico contemporaneo affidando a Carlo Scarpa la costruzione di una galleria in una zona proibita perché vi era stato ucciso un doge, apre anche a Milano uno spazio in cui nascerà lo Spazialismo. Anche Torino, Bologna e altre città ancora 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:26 Pagina 105 ANDANDO PER MOSTRE PICASSO CAPOLAVORI DAL MUSEO NAZIONALE PICASSO DI PARIGI Ghiotta occasione a Milano le più di 250 opere - tra dipinti, disegni, sculture, fotografie, libri illustrati, stampe e una sezione dedicata all’indimenticabile mostra milanese del 1953 (cui è seguita quella del 2001), provenienti dal prestigioso Musée Picasso (il più ricco al mondo di opere del Maestro spagnolo) che forniscono un iter cronologico ampio e soddisfacente della poliedrica produzione di Pablo Picasso (Malaga 1881 - Mougins 1973) attraverso le diverse fasi e movimenti cui si è avvicinato, i dubbi esistenziali e le fobie come quella per gli specchi. Un percorso che va dagli esordi al periodo blu, a quello rosa, a quello della ricerca “africana” o proto-cubista, al Cubismo Sintetico e Cubismo Classico, e ancora alle pitture surrealiste, al coinvolgimento politico con dipinti sul tema della guerra, all’interludio pop e alle variazioni ispirate ai grandi maestri dell’arte rinascimentale e moderna fino alle più recenti produzioni antecedenti la sua scomparsa. Curata da Anne Baldassari, tra i più importanti studiosi dell’artista oltreché curatrice dell’Istituzione parigina, presenta affascinanti capolavori quali Le bagnanti dal vivace dinamismo, il dolcissimo e melanconico Paulo nei panni di Arlecchino, il Ritratto di Olga in poltrona dal sapore tipicamente spagnolo, l’intrigante Ritratto di Dora Maar e tra gli splendidi disegni il Ritratto di Erik Satie di una vitalità straordinaria e ancora tra le sculture La capra e l’essenziale Donna incinta. Si delinea così una figura - formatasi tra la natia Malaga, La Coruña, Barcellona e poi Parigi e la Francia - tra genio e sregolatezza la quale, al di là della volubilità come uomo dall’immaturo egoismo nei confronti della donna musa ispiratrice e soggetto/oggetto di una vita turbolenta, rappresenta il protagonista indiscusso dell’arte del secolo scorso di cui ha percepito novità e stimoli, reinterpretandoli con mano abile e risultati eccellenti, e incarnato le contraddizioni e lo spirito tumultuoso. _PICASSO Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi Milano: Palazzo Reale, Piazza Duomo 12 8.30 – 19.30 lunedì, martedì e mercoledì 9.30 – 23.30, giovedì, venerdì, sabato e domenica La biglietteria chiude un’ora prima Fino al 6 gennaio 2013 Biglietto mostra: intero € 9.00, ridotto € 7.50, ridotto scuole € 4.50 Informazioni: 02 54911, www.mostrapicasso.it Catalogo: 24 ORE Cultura Editore Andando per mostre da esaminare in modo approfondito hanno visto vivacizzarsi una capillare intraprendenza nel mondo dell’arte. La passione collezionistica ha contribuito alla diffusione e valorizzazione del dinamico ‘900 italiano come dimostrano opere di altissima qualità presenti in mostra quali tra le altre la delicata Quando? di Giacomo Balla, la stupenda, accattivante e invitante Simultaneità dentro osteria fuori paese di Fortunato Depero e di Gino Severini la misteriosa Rue des arts à Civrai: capolavori assolutamente da non perdere. _NOVECENTO ITALIANO Passione e collezionismo Bassano del Grappa/VI: Museo Civico, Piazza Garibaldi 34 9.00 – 19.00 da martedì a domenica lunedì chiuso (aperto 31 dicembre 2012 e 1° gennaio 2013) Fino al 20 gennaio 2013 Biglietto mostra: intero € 10.00, ridotto € 8.00, ridotto scuole € 4.00 Informazioni e prenotazioni: tel. 0424 519901, www.mostra900bassano.it Catalogo: Skira Editore 105 19-2012 colore:Layout 1 Andando per mostre 106 10-12-2012 18:26 Pagina 106 ANDANDO PER MOSTRE EDGARDO RATTI IL TRIONFO DELLA SEMPLICITÀ Suggestivo e originale l’ambiente naturale - disegnato da vigneti variegati tramite il pennello di un autunno fantasioso e da sentieri che s’inerpicano sulle colline di Castelrotto dove in località Vallombrosa (nel verde Malcantone) sta crescendo grazie al proprietario imprenditorecollezionista un’affascinante collezione d’arte all’aperto - che accoglie la mostra di Edgardo Ratti (Agno 1925). Semplice, comunicativo, immediato, senza fronzoli cittadini e spocchiosa ridondanza verbale, il simpatico artista si presenta subito qual è con la sua voglia di raccontare se stesso e il suo vissuto tramite la natura e tutto quanto essa offre all’uomo. Figlio di una guardia di confine, ha studiato al ginnasio di Bellinzona, alla scuola di disegno di Friburgo, sempre in Svizzera, per poi frequentare l’Accademia di Brera a Milano. Stabilitosi a Vira Gambarogno, ha insegnato nel medesimo ginnasio in cui è stato alunno del suo primo maestro Augusto Sartori e da sempre racconta con amore il suo rapporto con l’ambiente esprimendosi attraverso diversi linguaggi artistici: disegni, tele, sculture, monotipi e opere su vetro. In questa mostra con lavori dal 1950 al 2004 colpiscono, pur nella diversità espressiva, le numerose testimonianze relative a persone della famiglia e in particolare alla figura materna ricordata con deferente rispetto anche per la capacità di essere presente in modo discreto. Molto ricorrente anche il tema della maternità: donna e terra madre da cui derivano le varie espressioni vitali. Un racconto continuo della sua esistenza: come non pensare che in Felicità o in Gioia di vivere non si celi l’allegria spensierata di sua moglie mancata in giovane età dopo avergli dato tre figli? Figure quasi liberate da legno, pietra, marmo o alabastro come Dormiente vengono alla luce per narrarsi con la semplicità di una vita lineare e tranquilla come quella dell’artista. _EDGARDO RATTI La pietra filosofale Opere 1950-2004 Castelrotto/Malcantone/CH: Tenuta Vallombrosa, Via Mött 4 Fino al 22 novembre 2012 Ingresso libero tutti i giorni Informazioni: tel. +41 91 6081866, +41 91 9357545, www.rattinvallombrosa.ch Catalogo: Vallombrosa Arte Editore RENOIR LA VIE EN PEINTURE A Pavia, nei suggestivi ambienti delle Scuderie del Palazzo Visconteo, un’intrigante mostra su Pierre-Auguste Renoir (Limoges 1841 - Cagnes-sur-Mair 1919), uno degli artefici dell’impressionismo: artista curioso e duttile, è maestro nel rendere la bellezza e la felicità di vivere e, pur prediligendo il paesaggio, non prescinde dalle figure umane destreggiandosi con sagacia tra libertà espressiva ed esigenze della committenza. Una selezione di disegni, dipinti e pastelli (più di 5000 le opere realizzate) mette in evidenza questo inno continuato alla vita allo scopo di controbattere le “troppe cose spiacevoli”. 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:26 Pagina 107 ANDANDO PER MOSTRE BERTIL VALLIEN 9 ROOMS In occasione della XIII Mostra Internazionale di Architettura-La Biennale di Venezia, le suggestive sale di Palazzo Cavalli Franchetti, che si affaccia elegante sul Canal Grande, ospitano la prima retrospettiva in Italia di Bertil Vallien, il più noto maestro e designer svedese del vetro d’arte, con una sessantina di opere da lui realizzate presso gli studi svedesi Kosta Boda, partner per i suoi lavori e main sponsor con Berengo Studio della mostra. Le nove sezioni raccontano il legame profondo tra la progettualità dell’artista e la realizzazione delle sue idee, opere che si pongono in stretta correlazione con l’ambiente in cui vengono ospitate mettendone così in evidenza il rapporto con tutte le manifestazioni del contemporaneo. Opere tra tradizione e innovazione - grazie anche all’invenzione di una particolare tecnica di lavorazione del vetro a stampo alcune delle quali create presso le fornaci Berengo Studio di Murano: un’interessante dialogo tra due tradizioni importanti come quella veneziana e svedese dovuto all’estro di questo artista pluripremiato, considerato tra i primi al mondo e le cui opere si trovano nei musei di tutto il globo. Colpiscono per la singolarità fantastica vetri opachi, scuri e colati in stampi: blocchi vitrei con inclusioni alcune ispirate alla storia di una giovane tredicenne svedese che, trascorsi 32 anni in coma, racconta svegliandosi di avere visto intorno uomini blu. Così la fanciulla trasformata in una principessa in bianco è attorniata da 24 teste ciascuna con un suo aspetto che richiama altri mondi lontani e tematiche antiche come la piroga che traghetta le anime verso la vita eterna: in blu - colore dominante di molte sue opere - è In transit (water), seducente risultato di un rapporto con la materia trasformata dal fuoco attraverso una sfida eccitante e continua. _BERTIL VALLIEN 9 ROOMS Venezia: Ist.to Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Palazzo Franchetti, Campo S. Stefano 2847 10.00 – 18.00 tutti i giorni Fino al 25 novembre 2012 Biglietto mostra: intero € 10.00, ridotto € 8.00 Informazioni: tel. 041 2407711, fax 041 5210598 www.istitutoveneto.it Catalogo: Marsilio Editori Andando per mostre Amante anche della musica, non riceve un’educazione accademica, ma è indirizzato dalla famiglia all’apprendistato in una bottega di ceramica dove si mette in luce. Approfondisce la disciplina pittorica e viene ammesso all’École des Beaux-Arts dove si lega con Bazille, Sisley e Monnet con i quali inizia a dipingere en plein air distinguendosi in seguito per le vedute cittadine vibranti di vita, calore e umanità. Pur sostenendo la necessità di seguire il gusto del proprio tempo, si rende conto che è al Museo che si approfondisce il piacere della pittura non essendo sufficiente la sola natura per cui si definisce “figlio di Madre Natura e di Padre Museo” e così spiega l’entusiastica soddisfazione nell’ammirare le opere classiche durante il viaggio in Italia. Nel percorso pavese trionfano oltre al paesaggio e alle nature morte sempre splendidi e consolatori - per Roses del 1915 Renoir afferma “un mazzo di rose per dimenticare il dolore” (della perdita della moglie) in sintonia con l’altra sua considerazione “La vita è un mazzo di fiori rossi” - i ritratti dei figli e la figura femminile come nell’impareggiabile e delicata Jeune femme au chapeau noir: lo sguardo intenso e sereno evidenzia quella complicità che Renoir soleva instaurare con le modelle per scoprirne maggiormente l’anima. _RENOIR La vie en peinture Pavia: Scuderie del Castello Visconteo, Viale XI Febbraio 35 10.00 – 13.00 e 15.00 – 19.00 lunedì, martedì, mercoledì e venerdì 10.00 – 13.00 e 15.00 – 21.00 giovedì 10.00 – 19.00 sabato, domenica e festivi La biglietteria chiude trenta minuti prima Fino al 16 dicembre 2012 Biglietto mostra: intero € 10.00, ridotto € 9.00/8.50, ridotto scuole € 5.00 Informazioni e prenotazioni: 02 45496874, 0382 538932, www.scuderiepavia.com Catalogo: Silvana Editoriale 107 19-2012 colore:Layout 1 I libri di Elena Colombo 108 10-12-2012 18:26 Pagina 108 I LIBRI DI ELENA COLOMBO I LIBRI di Elena Colombo IL SILENZIO DELL’ONDA Gianrico Carofiglio Rizzoli, 300 pp., 19 € Roberto è un carabiniere in congedo. Nella sua esperienza sotto copertura ha visto troppe crudeltà orribili. È entrato in un mondo marcio, dove i soldi e il lusso sono l’unico movente delle azioni, nell’ambiente sordido e perverso dei narcos (nostrani e latinoamericani) che si presenta nei toni di un burlesque meno allegorico di quello di La Ballata del Re di Denari di Yuri Herrera: qui i diversi episodi sono tappe che servono a spiegare la crescita del protagonista e a mostrare la genesi di un veleno psicologico che si è lentamente instillato nella sua mente facendolo vacillare, ma forse lui – soprannominato Mangusta – è quasi immune alle tossine generate da questa esistenza parallela. Nonostante la forza delle sue convinzioni, si è dovuto fermare un momento a riflettere a un passo dal’abisso e riattivare i sensi attutititi, per riscoprire la genuinità della città che lo circonda. È la sua Roma ma la conosce poco e deve reinventarla passo dopo passo, in una sorta di terapia per venire a patti col passato. Leggendo l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio – finalista al sessantaseiesimo Premio Strega – torna in mente il miglior Sandro Veronesi. Anche il titolo “Il Silenzio dell’Onda” rievoca la stessa atmosfera di sospensione ovattata di Caos Calmo. Nel surf è possibile stare dritti sulla tavola e attraversare dall’interno il muraglione azzurro di un cavallone: è quello che gli americani chiamano tube; ed è ciò che succede in certi periodi della vita, quando tutto dev’essere messo in discussione ed è necessario che le colpe individuali s’incontrino e che il racconto diventi balsamo per lenire le ferite. A volte è sufficiente creare uno spazio nuovo, inaspettato e intimo per sentirsi a proprio agio, altre volte il solo modo per esprimersi è il linguaggio dei sogni, perché non si sa mai se “la vida es sueño” il sonno e la realtà possono intersecarsi su un piano intermedio che è difficile spiegare a parole e che riassume i desideri, le paure, le solitudini, come avviene a Giacomo e al suo amore per Ginevra. Ma non c’è bisogno di spingersi troppo in là con le teorie. In fondo, come diceva Louis Amstrong: “If you have to ask what the jazz is, you’ll never know” IL SONNO DEL CAIMANO Antonio Soler Tropea, 188 p., 14.50 € Se l’incoerenza è l’unica verità concepibile, nessuno potrà mai sfuggire al proprio passato per quanto cerchi di nascondersi nella quiete di una città lontana e straniera, nel silenzio di un lago che riflette l’assurdità della vita e della morte. Basta una piccola scintilla per mettere in moto la macchina inceppata della memoria. Una macchina che procede per continui flashback, riassemblando i frammenti dispersi di un puzzle che unisce Canada e Spagna, un presente intorpidito grigio e spoglio e i fantasmi della guerra civile. Un uomo arriva a Toronto per inaugurare un monumento ai membri delle Brigate Internazionali e, dietro alla sua voce stanca, dietro alle rughe di vecchio e oltre a quel nome che gli giunge come un proiettile, l’anziano alla reception dell’albergo Regina riconosce il suo antico compagno. La persona che, con il suo tradimento, aveva preso in mano il filo di tanti destini. Il sonno del caimano amplia la visuale soggettiva del precedente libro del malagueño Antonio Soler attraverso un denso concentrato d’immagini – sogni in bianco e nero che rimangono nella penombra della veglia e strappano il velo del disamore anonimo, illusioni del cinema che nascondono messaggi utopici – in cui i personaggi quasi si perdono, trascinati dalla poesia del linguaggio e dalla difficoltà fotografica dei ricordi, rispecchiati nel mercurio (che non allunga la vita, anzi la intossica). Il paesaggio, i suoni rubati, le conversazioni smozzicate riportano indietro episodi che si connettono nella trama di un sogno che quasi spinge il protagonista a un’eteronimia pessoana. A volte, la vera natura di un individuo resta sopita, a volte devono passare anni prima di poter chiudere i conti con la storia collettiva, troppo spesso riscritta arbitrariamente per convenienza; come il partigiano Tristano di Tabucchi racconta di sé in un tempo circolare e allucinato, il nostro “Portiere di Notte” è chiamato a spiegarsi, per convivere con il dolore degli ideali frustrati. Per quanto abbia tentato di scappare, il caimano che pareva inoffensivo si è svegliato per azzannare la sua preda. Non si tratta di cercare 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:26 Pagina 109 I LIBRI DI ELENA COLOMBO ILUSTRADO Miguel Syjuco Fazi Editore, 476 pp., € 19.50 Tutto ha inizio con il corpo dello scrittore filippino Crispin Salvador ritrovato nell’Hudson, e con il mistero di un manoscritto scomparso, ma la storia si compone di mille altre storie cucite insieme con una rara maestria: frammenti di blog, citazioni, sketch umoristici … in una girandola di stili che pian piano trasformano i narratori in personaggi tingendo i personaggi fittizi di una patina di autenticità. Ogni vicenda inventata da un romanziere contiene un fondo di verità, ogni deriva dell’immaginazione è essenzialmente frutto delle esperienze personali in un meccanismo affabulatorio che trae linfa dal reale come in una sorta di Vivere per Raccontarla. Anche se bisogna separare la letteratura filippina dal boom del realismo mágico, gli spunti e i collegamenti sono numerosi, se non altro per l’espediente testuale delle scatole cinesi, che riecheggia le ultime memorabili pagine di Cent’Anni di Solitudine di García Márquez o Il Viaggiatore delle Quattro Stagioni di Littín, e che ha la sua origine illustre nel Don Chiscotte di Cervantes. Rielaborando gli elementi vissuti si crea un ideale astratto che prende una forma concreta. C’è una Dulcinea quasi mitica, ma oggi non è possibile allontanarsi troppo dal mondo per sfuggire al proprio destino. Lo scrittore non è più solo un Deus ex machina ma una persona bombardata da una miriade di stimoli artistici e pop. In universo in cui la cultura di massa e quella alta finiscono per collimare la Manila contemporanea, illuminata dalle luci dei locali notturni e frequentata da giovani vacui e senza futuro, hard boiled e caricaturali è una megalopoli globalizzata, dove si concentrano vizi e virtù di una nazione moderna e insulare, un palcoscenico tragico simile a Spoliarium del pittore Juan Luna: alcuni cadaveri dilaniati sono trascinati via, resi irriconoscibili dai nemici, ma in un angolo della coscienza resta il fulgore verde della speranza. Grazie al “potere balistico delle parole”, i nuovi Ilustrados (“Illuminati”, intellettuali rivoluzionari) plasmano uno strumento per la comprensione del passato e del presente; e Syjuco, vincitore del Man Asian Literary Prize e segnalato dal New York Times, punta direttamente al Nobel. L’ULTIMO UOMO NELLA TORRE Aravind Adiga Einaudi, 441 pp., 20€ Conosciamo davvero i nostri vicini? Tutti noi viviamo una routine solitaria e scambiamo col prossimo solo qualche garbata formalità, senza preoccuparci seriamente dei problemi di chi abita alla porta accanto. Oppure ci illudiamo bonariamente di aver trovato una piccola nicchia famigliare dove rifugiarci per sfuggire al dolore che ci riserva la sorte. Ma l’avidità fa scaturire la vera natura dell’Uomo e – un po’ come avveniva in The Millionaire – la promessa di soldi facili svela le mille storie che si nascondono dietro alla facciata. Homo homini lupus. Il miraggio della ricchezza fa svanire la solidità dei legami e persino un edificio rassicurante e chiaramente pucca – costruito in cemento e acciaio, in contrapposizione con le baracche degli slum – diventa solo uno scheletro, un guscio che racchiude la meschinità delle cosiddette “brave persone”. La Bombay dei vecchi tempi non esiste più, sostituita dalla sfavillante Mumbai, un gigante in continua espansione, specchio di un’economia in crescita che posa i suoi piedi d’argilla sui tre quarti della popolazione che sopravvive con meno di cinquanta cent al giorno. Per questo, quando un costruttore promette circa 330 mila dollari a famiglia per un progetto di riqualificazione urbana, a tutti sembra una manna dal Cielo. A tutti tranne uno. Qualcuno cercherà di resistere al fascino di “quattro o cinque secondi da milionario” in nome dell’amicizia, della libertà individuale e di una lotta collettiva, portata avanti con la lucida dignità che sfiora la pazzia. In primo luogo gli affetti, quindi, e l’importanza dei ricordi che dormono tra i muri del condominio che per anni è stato chiamato “casa”; poi l’adrenalina di una nuova battaglia, che fa sentire giovani e il desiderio personale di testare le proprie convinzioni, e infine la causa portata avanti per i diseredati che restano nell’ombra e che compongono la polifonia della megalopoli in fermento. Lo stabile Vishram Society è un microcosmo che riproduce le infinite sfaccettature della nuova India, sempre più moderna, multietnica e multiconfessionale , ricca di sapori e odori speziati che stillano dalle pagine di Adiga come se il lettore passeggiasse in una sorta di Penny Lane del Maharashtra. I libri di Elena Colombo giustizia ma semplicemente di rispondere a un bisogno primordiale. 109 19-2012 colore:Layout 1 I libri di Elena Colombo 110 10-12-2012 18:26 Pagina 110 I LIBRI DI ELENA COLOMBO QUALCOSA CAPITERA’, VEDRAI Christos Ikonomou Editori Internazionali Riuniti, 224 pp. 15 € “Una volta si lavorava per un pezzo di pane, adesso si lavora per una manciata di briciole”. Vincitore del più prestigioso premio letterario ellenico ( il Premio Nazionale per la Narrativa Breve), Christos Ikinomou descrive una Grecia strangolata dall’umiliazione della povertà. La poesia misurata delle parole dà volti e storie umane alla freddezza dei dati economici che da mesi stanno invadendo i telegiornali di tutta l’Europa e un senso morale alla realtà che sta dietro al “debito sovrano”; troppo spesso, infatti, il sistema trasforma le persone in numeri senza nome, senza memoria né diritti e divorati dalla globalizzazione. L’autore che è stato definito il Faulkner greco scrive la cronaca dello sgretolarsi di una classe media minacciata dagli avvisi delle banche e privata di ogni garanzia. In questi racconti non c’è più molto spazio per i paesaggi idilliaci, per gli epici eroismi: i grandi personaggi omerici diventano persone terribilmente e splendidamente fragili sui bordi delle strade dei sobborghi e i frammenti di vita si collegano a figure piccole, spaurite, immerse nel dramma del quotidiano. Persino il canto e la danza, che rappresentavano il linguaggio liberatorio del proletariato delle campagne nel dopoguerra, oggi ha perso valore e lirismo. Pian piano i disoccupati, gli espropriati e i precari perderanno i loro tratti comuni e si trasformeranno nei personaggi delle favole del prossimo millennio, fieri soldati di una nuova resistenza. Ognuno cerca per un istante di lasciare il presente, ma non è facile concedersi dei sogni perché anche quelli possono causare involontarie e dolorose ferite , lo sguardo cerca d’intravedere ciò che succederà in futuro, ciò che si nasconde al di là dell’orizzonte di terre sconosciute, oltre le vie polverose del Pireo. Nessuno propone soluzioni, nessuno lancia accuse ma il senso d’oppressione è sempre chiaro e palpabile come un velo che ricopre un arcipelago di voci comunicanti, unite tra loro dal voltare delle pagine di un calendario UCCIDERE IL PADRE Amélie Nothomb Voland, 96 pp., 9 € I detrattori di Amélie Nothomb guardano con sospetto alla sua sconcertante puntualità nel “partorire” un nuovo romanzo ogni anno, a giugno. Alcuni dicono che “scrive tanto per scrivere”, o che i suoi libri sono sempre troppo brevi. In un’epoca così materialista, lo “scrivere tanto per scrivere” andrebbe considerato un pregio: la capacità straordinaria di inventare storie spaziando abilmente da un’ambientazione all’altra. Se la biografia dell’autrice è stata un fertile terreno di spunti – come figlia di un diplomatico belga, ha viaggiato fin dall’infanzia – il suo stile immediato ci ha abituato alla genesi immaginativa a partire da un piccolo frammento quotidiano e alla giustapposizione di pensieriaforisma alla Oscar Wilde. La vicenda di Uccidere il Padre è una partita di poker che esplora il mondo della magia e l’ebbrezza del gioco: due tipi d’illusione che deformano la realtà. Il procedimento narrativo è lo stesso utilizzato da Màrius Serra in Farsa, ma il tetro dell’azione è il deserto polveroso del Nevada, lontano dalle luci della ribalta del caos di Las Vegas. Il talento di un mago si misura dallo sforzo costante, dal sacrificio che si avvicina all’amore e all’estasi dei sensi. I trucchi più difficili nascono dalla tecnica ma sono anche l’espressione finale di un percorso individuale. La prestidigitazione non è solo inganno ma diventa il segnale per mantenere viva la coscienza, ancorandola al “qui e ora”. I numeri di destrezza dei fire dancers che maneggiano il pericolo sfruttano il principio di ricerca della Bellezza. Christina è una danzatrice e la carezza dei suoi movimenti sensuali la rende una divinità lisergica adorata da Joe Whip. Le esperienze del ragazzo al Festival Burning Man e il suo conflittuale rapporto con il suo mentore, Norman Terrence, riecheggiano il più classico complesso di Edipo che corrode come un’ossessione – tra eros e thanatos, etica e bramosia – e rimanda implicitamente agli episodi sciamanici della carriera poetica di Jim Morrison che cantava “All the children are insane” e poi “Father I want to kill you”. Ma chi è davvero degno di essere chiamato “padre”: chi ci accetta o chi ci sceglie, chi ci ha conquistato o chi si è preso cura di noi? 19-2012 colore:Layout 1 10-12-2012 18:26 Pagina 111 S AT U R A P R I Z E 2012 SATURAPRIZE 2012 III EDIZIONE Concorso Internazionale Under 40 indetto dalla rivista SATURA arte, letteratura e spettacolo 1 - 22 DICEMBRE 2012 Bisogna ammetterlo, in Italia il 2012 non è stato un anno dei migliori per l'arte. Le tante situazioni in bilico che nei mesi scorsi hanno colpito il settore artisticoculturale, sparse un po' indistintamente per tutta la Penisola (si pensi alla travagliata vicenda del Museo di Villa Croce a Genova, fortunatamente giunta a buon fine; alla recente debacle del Maxxi di Roma, passato per il commissariamento e arrivato alla discussa nuova presidenza; alle traversie non ancora concluse del Madre di Napoli), non fanno che tacciare negativamente il “contemporaneo” e insieme a lui un po' tutto il sistema culturale nostrano, con la conseguenza - non sottovalutabile - di sottrarre visibilità all'arte proprio negli spazi che le competono, spostando l'attenzione verso intrighi e manovre più o meno trasparenti e che in fin dei conti con essa hanno - o almeno teoricamente dovrebbero avere - ben poco a che spartire. In questo contesto, nell'ambito di un'arte bistrattata e messa a dura prova dalla moltitudine di eventi (e interessi) che le gravitano intorno, diventa sempre più difficile per gli artisti, e in particolar modo per gli esordienti, continuare a portare avanti ideali e idee che possano realisticamente entrare a far parte del grande motore artistico-culturale-economico italiano; qui verte il compito di SATURA con la nuova edizione del concorso SATURAPRIZE, per il terzo anno dinamico centro propulsivo dei nomi più giovani nel panorama artistico contemporaneo e viva dimostrazione che, nonostante tutto, gli stessi giovani non hanno mai seriamente rinunciato al mezzo artistico per veicolare le proprie idee, e che c'è ancora chi a quelle idee vuole dedicare ampio spazio. Focalizzandosi sul rapporto tra under 40 e fotografia/pittura, SATURAPRIZE è quella rassegna che senza inutili polemiche ribatte a tutti quei “reduci” di un concettualismo estremizzato (solitamente così poco inclini nei confronti delle arti “canoniche”), consentendo di captare in pieno le odierne potenzialità comunicative di tecniche secolari, talvolta espresse secondo i modelli di un'estetica storicizzata nel tempo, in altri casi utilizzando l'apporto della modernità come arricchimento da poter giocare a proprio favore, come nuovo linguaggio da decodificare e introdurre in rappresentazioni dove il forte impatto visivo è immagine per contenuti autentici e mai semplice sconcerto fine a se stesso. Un connubio tra antichi e nuovi linguaggi che concorre all'ottenimento di quel pluralismo culturale ed espressivo che da sempre contraddistingue l'attività di SATURA e che garantisce una visione il più possibile ampia, al di là di confini mistificatori e parzializzanti. Perché evidentemente i giovani artisti non sono stereotipati burattini di un circo più o meno mediatico, ma individui che hanno la voglia, e il diritto, di esprimersi apertamente e senza alcun tipo di censura. È arrivato il tempo di dare spazio all'arte, quella nuova. 111 19-2012 colore:Layout 1 112 10-12-2012 S AT U R A P R I Z E 18:26 Pagina 112 2012 GIURIA DI SATURAPRIZE 2012 Marino Anello collezionista, Silvia Barbero critico letterario, Wanda Castelnuovo critico d’arte, Elena Colombo critico d’arte, Laura Delle Piane critico d’arte, Milena Mallamaci architetto, Marta Marin collaboratore restauratore, Flavia Motolese critico d’arte, Mario Napoli presidente associazione Satura, Lucia Pasini artista, Mario Pepe critico d’arte, Andrea Rossetti critico d’arte, Nina Tsitlidze critico d’arte. ARTISTI VINCITORI 1° Premio Pittura Carmen Testa, 1° Premio Fotografia Jacopo Baccani, 2° Premio Pittura Valentina Chillè, 2° Premio Fotografia Giusi Lorelli, 3° Premio Pittura Flavio Ullucci, 3° Premio Fotografia Renato Dametti, Premio della Critica Pittura Elena Mantovani, Premio della Critica Fotografia Maria Bertolino, Premio della Giuria Pittura Linyuan Wei, Premio della Giuria Fotografia Francesco Rombaldi. ARTISTI PREMIATI Giuseppe Alletto, Elisa Bardi, Elisa Bertolini, Stefano Canotti, Carlo Firullo, Enzo Modolo, Luca Salvetti, Paola Sottanis, Valeria Vittani, Alessandro Vullo. ARTISTI FINALISTI IN MOSTRA Gina Affinito, Federica Aglietti, Giulia Avvenente, Serena Baretti, Pierdamiano Bontempo, Davide Bosch, Mauro Brugnera, Antonio Buttitta, Carmela Calimera, Valeria Candiani, Cinzia Cannavale, Katia Celestini, Antonio Contoli, Emanuele Cutrino, Riccardo Dametti, Laura De Angelis, Valentina De Chirico, Giorgio De Lucchi, Sabrina Di Giacomo, Antonio Di Martino, Beatrice Durando, EliSio PH, Francesco Falace, Sibilla Fanciulli, Elisa Ferrari, Michele Ferrarini, Tommaso Fettucciari, Cristina Fornarelli, Erika Garbin, Maura Ghiselli, Ada Giaquinto, Francesca Giraudi, Andrea Izzo, Claudio Maria Laruccia, Francesco Maria Leonzi, Piercarlo Marin, Vincenzo Mascoli, Fabio Mazzitelli, Valeria Morasso, Laura Neirotti, Maddalena Palladini, Alice Palmieri, Stefano Pane, Cristina Parravicini, Alessandro Pastorino, Delia Pizzuti, Laura Rossi, Manuela Rossin, Antonio Sacco, Loredana Salzano, Erika Sambiase, Katia Scotti, Andrea Sessarego, Cinzia Stalteri, Greta Stella, Amanta Strata, Valentina Toscano, Chiara Valdambrini, Giorgia Vit.
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