TAO . PDF - Ordine Architetti Torino

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TAO . PDF - Ordine Architetti Torino
monografia
Made in Italy
Architetture Rivelate
04 2010
TAO n.4/2010
www.taomag.it
Direttore Responsabile
Consiglio OAT
Riccardo Bedrone
Riccardo Bedrone, presidente
Maria Rosa Cena, vicepresidente
Giorgio Giani, segretario
Felice De Luca, tesoriere
Coordinatore Redazionale
Liana Pastorin l.pastorin@awn.it
Tel. +39 0115360513
Redazione
Via Giolitti, 1 - 10123 Torino
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Foto di copertina
Italian Americans – Ralph Iodice at the San Silverio
Shrine of Dover Plains, New York, USA, 2008
Carlotta Maitland Smith
La mostra Italian Americans documenta una comunità
di italiani provenienti dall’Isola di Ponza ed emigrati a
New York negli anni ’20. Nonostante il tempo e la distanza
sono ancora uniti da un incredibile amore per la loro isola
e da una forte devozione al loro santo patrono San Silverio.
Dopo Parigi (17 febbraio - 17 marzo 2010) la mostra sarà
trasferita a Roma e allestita alla Galleria Micro.
Periodico di informazione della Fondazione
dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori,
Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torino
n. 4/2010
Registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51
del 9 ottobre 2009
Le informazioni e gli articoli contenuti in TAO
riflettono esclusivamente le opinioni, i giudizi
e le elaborazioni degli autori e non impegnano
la redazione di TAO né l’Ordine degli Architetti PPC
della Provincia di Torino né la Fondazione OAT
Raffaella Bucci raffaella.bucci@awn.it
Emilia Garda garda.emilia@libero.it
Raffaella Lecchi r.lecchi@awn.it
Art Director
Fabio Sorano - Lorem
Consiglieri
Marco Giovanni Aimetti
Roberto Albano
Sergio Cavallo
Pier Massimo Cinquetti
Franco Francone
Gabriella Gedda
Maria Adriana Giusti
Elisabetta Mazzola
Gennaro Napoli
Carlo Novarino
Marta Santolin
Direttore OAT
Laura Rizzi
impaginazione
Davide Musmeci - Lorem
Consiglio Fondazione OAT
FOTOGRAFIE
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Simona Castagnotti
Carlo Novarino, presidente
Sergio Cavallo, vicepresidente
Consiglieri
Riccardo Bedrone
Mario Carducci
Giancarlo Faletti
Emilia Garda
Ivano Pomero
Direttore Fondazione OAT
Eleonora Gerbotto
Si ringrazia
Serena Pastorino
Indice
Contributors
Comitato scientifico
5 L’Italia creativa editoriale di riccardo Bedrone
2
4
Italiani
12
14
8
10
Vivere fra due mondi erminia dell’oro
L’italiano globale il sondaggio
'Luogocomunismo' e outlet color ocra davide banfo
Torinesi del mondo e il mondo a Torino
intervista a loredana ionita, juraj valcuha, allegra hicks, laura tonatto
Capitali
Italia fuori Italia riccardo bedrone
Capitali italiane nel Mondo
24 Le vie dell’Oriente. Istanbul roberta ferrazza
25 Il piano regolatore di Tripoli ezio godoli
2 6 Una piccola Italia in Cina giulio machetti
7 Il teatro Colón a Buenos Aires edgardo salamano
2
8 New York e le Little Italy lorena bari
2
2 9 Berlino, nuova capitale italiana? alvise del pra'
30 Migrazioni italiane e segni italiani maddalena tirabassi
20
23
Italici
6
3
0
4
2
4
4
4
La Ferrari come modello da esportare gianni rogliatti
100% Made in Italy pasquale de angelis
Una lezione di francese cristiano seganfreddo
Gli italici: una nuova comunità glocale piero bassetti
Roundabout
Un dialogo per immagini
4 6
48
Contributors
DAVIDE BANFO
ERMINIA DELL’ORO
ROBERTA FERRAZZA
LORENA BARI
ALVISE DEL PRA'
EZIO GODOLI
PIERO BASSETTI
PASQUALE DE ANGELIS
ALLEGRA HICKS
Giornalista torinese, ha iniziato come professionista
alla Gazzetta del Popolo. Da vent’anni è a La Repubblica, dove ha lavorato nelle redazioni di Torino,
Bari e nella sede centrale di Roma. Attualmente si
occupa delle edizioni locali del sito internet. Insegna
tecniche e linguaggio multimediali presso il master
di Giornalismo di Torino. Tra i suoi interessi l’architettura contemporanea e le trasformazioni urbane.
Ha scritto alcune guide per il Touring Club Italiano
dedicate al Piemonte e alla Valle d’Aosta.
Giornalista televisiva. Lavora a Canale 5 e si occupa
di arte, architettura, design, comunicazione. Relatrice in diverse conferenze, tiene lezioni in numerosi
istituti italiani. Considera le arti come laboratorio
antropologico, analizzando l’oggetto culturale in
tutte le sue sfaccettature: dalla produzione alla mediazione, al consumo, per comprendere i processi
di decodifica (e costruzione) da parte dell’utente.
Attualmente si interessa dei meccanismi della comunicazione televisiva del costume.
È presidente di Globus et Locus, associazione attenta alla dialettica tra globale e locale, e della Fondazione Giannino Bassetti, che studia la ‘responsabilità
nell’innovazione’. È stato consigliere e assessore del
Comune di Milano, primo presidente della Regione
Lombardia e deputato al Parlamento Italiano; è stato
inoltre presidente della Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Milano, dell’Unione delle Camere
di Commercio Italiane e dell’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’estero.
È nata ad Asmara, in Eritrea, dove suo nonno paterno si stabilì nel 1896. È autrice di numerosi reportage dal suo Paese d’origine, anche come inviata
durante la guerra Eritrea-Etiopia. Ha lavorato per
quindici anni nella storica Libreria Einaudi di Milano.
Ha scritto libri per adulti, ragazzi e bambini, affrontando anche le tematiche del colonialismo italiano,
della Shoà, delle guerre e delle recenti immigrazioni;
sono frequenti i suoi incontri con gli studenti delle
scuole primarie e secondarie.
Laureato in Storia presso l’Università degli Studi di
Milano, attualmente è ricercatore presso il Centro
Altreitalie della associazione Globus et Locus. In
passato si è occupato di temi attinenti alle migrazioni storiche e contemporanee, ha lavorato come
giornalista e traduttore a Berlino. È autore di Nuove
mobilità europee e partecipazione politica. Il caso
degli italiani a Berlino (Altreitalie 36-37, 2007) e di
Giovani italiani a Berlino: nuove forme di mobilità
europea (Altreitalie 33, 2006)
Dal 1989 è amministratore delegato e responsabile
commerciale della S.EL.DA. INFORMATICA, leader
sul territorio nazionale nel software gestionale per
fotolaboratori industriali e aziende ortoflorovivaiste.
Docente in molti corsi privati di discipline informatiche e aziendali, ha acquisito un’ampia esperienza in ambito associativo e politico. Attualmente è
vicepresidente dell’Istituto di Tutela dei Produttori
Italiani (ITPI) e membro della Commissione Provinciale per l’Artigianato di Ascoli Piceno (CPA).
In qualità di storica dell’arte e funzionaria del Ministero per i beni culturali, ha lavorato per molti
anni a Firenze come curatrice e nel campo della
didattica museale per bambini e per adulti. Dal
2002 al 2007 ha lavorato come addetto culturale
e vicedirettrice presso l’Istituto italiano di cultura
di Istanbul, dove ha avuto l’opportunità di condurre ricerche approfondite e di curare testi sulla
comunità italiana di Istanbul. Dal 2007 è direttrice
dell’Istituto italiano di cultura di Lubiana.
Professore ordinario di Storia dell’architettura
presso l’Università di Firenze dal 1987, negli ultimi
anni ha partecipato a progetti di ricerca sull’opera
degli architetti europei nei Paesi della riva meridionale del Mediterraneo. Dal 2008 ha organizzato tre
esposizioni promosse dal Ministero italiano degli
affari esteri sull’opera degli architetti italiani in Siria e Libano, in Egitto e in Marocco. Ha promosso
inoltre cicli di convegni sulla presenza degli architetti italiani nei Paesi del Mediterraneo.
Nata a Torino, ha studiato Design a Milano e Belle
arti a Bruxelles, prima di trasferirsi negli Stati Uniti,
dove ha iniziato la sua carriera nel settore dell’arte. Ormai rinomata per l’arredamento d’interni,
nel 1998 ha dato vita alla prima serie di Kaftani.
Attualmente vive a Londra e disegna collezioni di
tappeti e tessuti, d’abbigliamento femminile e per
la casa. Autrice di Design Alchemy con Ashley
Hicks (Conran Octopus), pubblicherà nel 2010 En
eye for design (Abrams).
LOREDANA IONITA
GIANNI ROGLIATTI
MADDALENA TIRABASSI
GIULIO MACHETTI
EDGARDO SALAMANO
LAURA TONATTO
Claudio Mellana
CRISTIANO SEGANFREDDO
JURAJ VALCUHA
Nata nel 1972 a Bacau (Romania), è in Italia dal
2001. Torinese ‘di adozione’, avvocato, professore
all’agenzia formativa TuttoEuropa ove precedentemente ha conseguito un master in Traduzione
giuridico-amministrativa per l’UE. Specializzata in
mediazione culturale, ambito penale giudiziario.
Nel percorso di integrazione ha svolto diverse attività lavorative (interprete, traduttrice, mediatrice
culturale), prima di diventare il primo legale rumeno
iscritto all’Albo forense nel capoluogo piemontese.
Insegna Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Napoli L’Orientale. Dalla fine del
2001 è consigliere di amministrazione della società
partecipata S.i.re.na. cittàstorica. I suoi interessi di
ricerca si sono orientati sullo studio della struttura sociale, economica e politica del Mezzogiorno
d’Italia tra età crispina e fascismo e sulla mobilità
sociale in epoca contemporanea. Attualmente coordina con Brunella Como una ricerca sulla storia
dell’ex-concessione italiana a Tianjin.
Vignettista, dalla fine degli anni ’60 pubblica su riviste underground e di controcultura alcune delle quali
ha partecipato a far nascere: Ca Balà, Puzz, Gero
Zoom, Pelo & Contropelo. È autore di contributi su
riviste e giornali tradizionali come Paese Sera, La
Stampa, Stampa Sera, l’Unità, Radiocorriere, Pianeta, ABC, Novasocietà, Gong, Il Collezionista. Nel
1991, insieme a Dino Aloi, per Feltrinelli, pubblica Un
lavoro da ridere nel centenario delle Camere del Lavoro di Torino, Milano e Piacenza.
Torinese del 1929, giornalista, direttore editoriale
de La Manovella, ha iniziato a scrivere nel 1959
interessandosi al mondo dell’auto a 360 gradi ed
in particolare alla Ferrari, grazie allo stretto rapporto instaurato sin dal 1956 con il fondatore Enzo
Ferrari e successivamente con il figlio Piero e con
l’attuale presidente Luca di Montezemolo. Sulla
Casa di Maranello ha scritto molti libri e articoli e la
storia ufficiale edita nel 2007 in occasione del 60°
anniversario del primo esemplare prodotto.
Laureato alla Facoltà di Architettura e Urbanistica
di Buenos Aires e dottore di ricerca in Pianificazione regionale e progetto urbano presso l’Università Sorbona di Parigi, ha frequentato la scuola di
specializzazione in Urbanistica a Berlino. Ha curato mostre e pubblicazioni e ha tenuto lezioni in
ambito accademico; si è occupato di urbanistica e
pianificazione per numerose istituzioni pubbliche.
Attualmente è consulente del Ministero per lo sviluppo urbano della città di Buenos Aires.
Direttore di Fuoribiennale (piattaforma di sviluppo
del contemporaneo), di Innov(e)tion Valley (progetto
di pianificazione strategica del Nord-Est come area
al mondo con il più alto tasso di industria creativa),
e amministratore di Agenzia del Contemporaneo
(società di servizi dedicati all’ambito della contemporaneità, per istituzioni e brand). Curatore di eventi
e mostre con una particolare attenzione alle interazioni con la moda, il design e l’architettura, in uno
stretto rapporto con il tema di impresa-cultura.
È direttore del Centro Altreitalie sulle Migrazioni
Italiane (associazione Globus et Locus) e della rivista Altreitalie. Curatrice della mostra itinerante Migrazioni italiane esposta in numerose città italiane
ed europee, è nel comitato scientifico di Italia 150
per la sezione emigrazione e fa parte del comitato
scientifico del Museo dell’Emigrazione di Roma. È
stata docente di letteratura angloamericana presso
l’Università di Teramo. Ha pubblicato numerosi saggi su riviste italiane e straniere e alcune monografie.
Torinese per nascita, ha collaborato con il maestro
profumiere Hassan del Cairo e con Serge Kalouguine. Alla creazione di profumi su misura, affianca
un’intensa attività divulgativa, divenendo docente
nel master post-laurea in Scienza e tecnologie cosmetiche a Ferrara. Ha sviluppato numerose collaborazioni con istituzioni culturali (dal Festival del
Cinema di Roma all’Hermitage di San Pietroburgo).
È stata inoltre insignita di numerosi premi tra cui il
Creativity Award 2008 nel Regno Unito.
Nato nel 1976 a Bratislava, in Slovacchia, ha studiato al Conservatorio Nazionale a San Pietroburgo e a
Parigi. Dal 2003 al 2005 è stato direttore assistente
presso l’Orchestra e l’Opéra National di Montpellier,
debuttando nello stesso periodo con l’Orchestre
Nationale de France. Ha diretto le più importanti orchestre del mondo: Parigi, Lione, Bologna, Londra,
Berlino, Pittsburgh, Lipsia, Milano. Dal novembre
2009 è direttore principale dell’Orchestra Sinfonica
Nazionale della Rai.
Comitato scientifico
Marcello Cini
Professore emerito di Istituzioni di fisica teorica e di Teorie quantistiche all’Università La Sapienza di
Roma, è stato vicedirettore della rivista internazionale Il Nuovo Cimento. Il suo ambito di ricerca interessa
prevalentemente lo studio delle particelle elementari della meccanica quantistica e dei processi stocastici.
Dagli anni ’70 ha accompagnato questa attività con studi di storia della scienza e di epistemologia, e
interventi su varie riviste e sul quotidiano Il manifesto, di cui è tra i fondatori. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo l’Ape e l’Architetto (1976) scritto insieme a Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria
e Giovanni Jona-Lasinio, Il paradiso perduto (1994), Dialoghi di un cattivo maestro (2001). Ha ricevuto il
premio Nonino 2004 “A un maestro italiano del nostro tempo”.
Mario Cucinella
Architetto, ha fondato lo studio Mario Cucinella Architects, a Parigi, nel 1992 e, a Bologna, nel 1999 con
la socia Elizabeth Francis. I suoi progetti sono caratterizzati da innovazione tecnologica, salvaguardia
ambientale e sostenibilità architettonica; tra i più significativi, il progetto di ricerca sulla casa 100K, il Sino
Italian Ecological Building a Pechino e la nuova sede del Comune di Bologna. Ha partecipato a grandi
concorsi internazionali, ricevendo numerosi riconoscimenti, tra cui il Mipim Green Building Award 2009
e l’Architectural Review Future Projects Award 2009 a Cannes, Francia. Si dedica inoltre alla ricerca e
allo sviluppo di prodotti di design industriale e all’attività didattica, ricoprendo il ruolo di Visiting Professor
all’Università di Nottingham e tenendo regolarmente conferenze in Italia e all’estero.
PHILIPPE POTIÉ
Architetto, è professore ordinario di Histoire et cultures architecturales a Versailles. Membro del comitato di redazione della rivista Le visiteur (Société Francaise des Architectes, SFA) dal 2007, è fondatore
della rivista Dessin/Chantier in collaborazione con Cyrille Simonnet (1982). È autore di numerosi saggi
e monografie sui temi dell’architettura, della storia delle tecniche costruttive e della rappresentazione di
cui, fra le più significative, si segnala Le couvent Sainte Marie de la Tourette, Fondation Le Corbusier/
Birkhäuser (bilingue francese-inglese, 2001 – inglese/cinese, 2007). Responsabile nazionale di numerosi
gruppi di ricerca nell’ambito della cultura costruttiva, tra cui Le Plan Urbanisme Construction Architecture, histoire et devenir d’une politique d’expérimentation, Plan Urbain Construction Architecture, 2007.
CYRILLE SIMONNET
Architetto e ricercatore presso il Laboratoire Dessin Chantier a Grenoble (1985-96). Dal 1997 è professore ordinario di Architettura e arti applicate presso l’Institut d’architecture de Genève, e direttore
dello stesso istituto di Ginevra dal 1998 al 2002. Attualmente è professore di Storia dell’arte presso la
facoltà di Lettere dell’Università de Genève. Le sue principali pubblicazioni a carattere storico e teorico
riconducono ad una lettura dell’architettura come fatto costruttivo e sociale. È referente culturale di una
rete di ricerca legata sia all’ambito accademico che professionale (Réseau Cultures Constructives) che
organizza convegni e seminari nell’ambito del rapporto fra architettura e tecniche costruttive. È membro
del comitato di redazione della rivista FACES (Ginevra). Ha al suo attivo più di cinquanta pubblicazioni
oltre alle numerose partecipazioni ad opere collettive.
L’Italia creativa
Editoriale di Riccardo Bedrone
Ma si può, oggi, parlare dell’Italia come metafora di creatività, cultura, fantasia, insomma di tutto ciò che siamo abituati a pensare di noi stessi, guardando alla nostra gloriosa
storia passata?
Già al termine del ‘miracolo economico’ un autorevole
osservatore delle nostre attitudini, come Ennio Flaiano, non
ci credeva più e scriveva amaramente “fra trent’anni l’Italia
non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta
la televisione” e ancora “l’italiano è un tentativo della natura di
smitizzare se stessa”.
Questa volta TAO ha voluto provare a verificare se il pessimismo sia giustificato e condiviso, oppure se sussistano
motivi di orgoglio e di speranza, almeno guardando alle testimonianze che gli italiani hanno saputo esprimere, in passato,
di quella creatività che ancor oggi è indissolubilmente intrecciata con il marchio Made in Italy.
Lo spunto è offerto dal progetto di mostra Capitali italiane
nel Mondo che l’Ordine degli architetti di Torino ha preparato
per i festeggiamenti del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, nel 2011, e che lo ha portato a scandagliare il contributo
di innovazione nei costumi, negli stili di vita, nell’ambiente
urbano adattato o creato ex novo dagli italiani all’estero dal
1861 ad oggi. E dagli interventi ospitati sulla rivista sembra
prevalere la fierezza di chi riconosce quanto sia stato importante il nostro contributo nel mondo e quanto anche oggi e in
futuro possa esser utile e apprezzato.
Certo, c’è chi (Banfo) segnala la perdita delle nostre radici
architettoniche come effetto derivato della (in)cultura di
massa. Ma c’è anche chi (Bassetti) propone una lettura totalmente nuova dell’italianità e della sua forza innovativa, che
preferisce attribuire all’‘italicità’, come idea aggregante di una
comunità allargata agli extracomunitari integrati, ai figli degli
italiani all’estero, agli ‘italiofili’…
E chi esalta i prodotti italiani come simbolo assoluto di
supremazia creativa e tecnica – la Ferrari – e chi si impegna
a tutelarli, ritenendoli più che mai valore in sé e come tale
patrimonio collettivo da non disperdere. Nello stesso senso
si possono intendere le interviste ai ‘nuovi creativi’ che l’Italia produce, come fucina continua di genialità, purtroppo
spesso più apprezzate al di fuori dei suoi confini.
Ma, soprattutto, gli interventi qui ospitati di tanti studiosi
evidenziano il quadro straordinario che traspare dalle testimonianze materiali dell’architettura italiana all’estero, in ogni
Paese, in ogni latitudine ove, per emigrazione o per aggressione, l’Italia abbia messo piede.
Questo perché, come ben sottolinea Tirabassi, se in termini numerici i movimenti migratori presentano cifre impressionanti, gli italiani che li hanno alimentati “hanno lasciato
profondi segni della loro presenza nelle diverse società.
Si tratta di segni diretti, legati alle loro professionalità,
architetti, ingegneri e artisti, maestranze, artigiani, scalpellini, stuccatori, intagliatori e manovali” con “influenze derivate dal continuo intreccio tra migrazioni di professionisti e
migrazioni non specializzate”.
Insomma, parrebbe di capire che la creatività, l’inventiva, l’estro, la genialità, come caratteristiche peculiari della
gente italiana (e non solo dei suoi rappresentanti eccellenti),
sopravvivano ancor oggi, nonostante tutto, alla decadenza
dei costumi e della morale che ogni giorno di più le pagine di
cronaca ci riferiscono tristemente.
Gli abitanti dello Stivale
Italiani
Chi è più italiano? Chi lo è per nascita
o chi lo diventa per scelta? Come è possibile
veicolare l’italianità nella propria professione?
Quali stereotipi ci perseguitano?
Davide Banfo
'Luogocomunismo'
outlet color ocra
Nascono all’estero tante 'piccole
Italie', caratterizzate da un modo
comune di intendere i luoghi urbani
Erminia Dell’Oro
Vivere fra due mondi
Una città descritta come una giostra
di lingue, di colori, di profumi.
Asmara è una città sospesa.
Solo entrando nel mondo degli altri non
sono più stranieri e noi stranieri a loro
Quali sono i nomi a cui si riconosce
maggiore italianità? Esiste un Made
in Italy anche in architettura?
Loredana Ionita
Allegra Hicks
Torinesi del mondo
e il mondo a Torino
Laura Tonatto
Quattro storie per raccontare
chi è italiano, come e dove
Juraj Valcuha
Ph © Carlotta Maitland Smith - Adele in her sitting room. She was born in the Bronx and has never returned to Italy, Bronx, New York, USA, 2008
L’italiano globale
8 — Italiani
Vivere fra due mondi
Erminia Dell’Oro
Un tempo, in uno dei luoghi più magici di
Asmara, il Caravanserraglio, sostavano le
carovane dei cammellieri che risalivano l’altopiano. Immagino che la notte i mercanti
accendessero fuochi per tenere lontane le
iene, i leopardi, gli sciacalli. Per cucinare e
scaldarsi nelle ore notturne sull’altopiano.
Fumavano narghilè e si raccontavano storie, sotto un cielo coperto di stelle.
“Vado al Caravanserraglio”, diceva talvolta mio padre.
Quando ero bambina credevo che
andasse in un luogo incantato, con animali fiabeschi dove soltanto gli adulti
potevano entrare. Forse aveva capito che
mi ero inventata una fiaba, e non rivelava
l’acquisto di ferri vecchi che si trovavano
soltanto in quell’immensa fucina.
Mio nonno paterno lasciò la natia
Lecco nel 1896, diretto in Congo Belga.
Durante la tappa forzata nel porto di
Massaua, avendone abbastanza di quel
lungo viaggio, sbarcò. L’Eritrea era da
pochi anni una colonia italiana. Il giovane
e avventuroso Carlo decise di raggiungere il grande villaggio posato sull’altopiano, a duemilaquattrocento metri.
Non c’erano strade, né ferrovia.
Salì, immagino, con una carovana di
cammellieri. Mi chiedo se anche lui, nella
prima notte ad Asmara, abbia sostato al
Caravanserraglio, ascoltando i racconti di
altri viaggiatori, e narrando dei luoghi che
aveva lasciato. Uno scambio di esperienze
e culture diverse come in un bellissimo racconto di Italo Calvino ne Le città invisibili.
La mia città è invece sospesa.
Sospesa nel tempo, in attesa. Un balcone fiorito, attraversato da uccelli variopinti, posato sull’orlo dei precipizi.
Arrivarono ad Asmara, in quel primo
Novecento, gli ebrei adeniti che fuggivano dalle persecuzioni nello Yemen, arabi
yemeniti, indiani, greci, armeni. Architetti
italiani costruirono la sinagoga (1906), la
cattedrale in stile lombardo con mattoni a
vista, la grande moschea, e la bellissima
chiesa copta Nda Mariam-Casa di Maria.
Entravo con le amiche nei variopinti
negozietti degli indiani, profumati da
incensi, compravamo braccialetti di vetro,
andavamo a guardare i tessuti sgargianti
e le babbucce di seta nei negozi degli
ebrei, compravamo datteri e biscotti al
miele nelle bottega di Ahmed e lui, conoscendoci, ci regalava caramelle.
Nella grande casa di Sansone Banin,
con le stanze piene di voci che mescolavano parole arabe ebraiche inglesi italiane, mi affascinava la figura della nonna.
Una signora anziana, vestita sempre con
abiti lunghi, orientali, che fumava un
lungo narghilé, sdraiata su un divano.
Andavamo al mercato, dal signore dei
coralli. Era un uomo dalla lunga barba
bianca, seduto con le gambe incrociate,
avvolto nella jallabia e con il gilè per metterci i soldi. Portava il turbante, come tutti
i mercanti arabi. Ci vendeva straordinarie
perline colorate, aveva tempo e pazienza,
il mercante delle mille e una notte.
In quel mercato delle meraviglie, accanto alle stradine delle botteghe orientali, avevo visto, sulla piazza, un fantoccio
che si muoveva nel vento, appeso a uno
strano congegno. La donna eritrea che
mi accompagnava – ero ancora bambina
– mi portò via in fretta, ma io mi voltavo
a guardare quella tunica bianca, una vela
nell’aria, e sentivo le urla di una povera
donna. Avevano impiccato “un bandito”.
Ph Anna Godio
Italiani — 9
Mio padre aveva rapporti di lavoro e di
amicizia con imprenditori arabi, indiani,
greci, e giocava a scacchi, quasi ogni
sera, con un maggiore dell’esercito britannico. Io mi dividevo fra la mia abitazione e quella della mia amica più cara,
di famiglia ebraica.
Andavamo spesso nella casa dei suoi
nonni, parlavano spagnolo quando
non volevano farsi capire da noi bambini. La nonna veniva da Cipro, il nonno
dalla Spagna.
C’è sempre quella casa avvolta dalle
buganvillee, dove Beniamino Levi mi
offriva il tè speziato e mi raccontava,
affascinandomi, storie bibliche. Cultura
e religioni diverse che in un microcosmo mi rendevano partecipe di un vasto
mondo. Non pensavo, allora, che si
potesse vivere in un mondo diverso.
I bambini italiani non giocavano con i
coetanei eritrei, che abitavano periferie
estreme senza alberi e fiori, senz’acqua, con la polvere sollevata dal vento.
Conoscevamo i bambini eritrei, che
si arrangiavano nel centro della città, a
guadagnarsi la sopravvivenza.
Li salutavamo, ci davano informazioni preziose, c’era fra noi la complicità dell’infanzia. Ma abitavamo mondi
distanti, divisi da barriere create dagli
adulti. Erano i bianchi i padroni, nella
terra dove da sempre abitavano i neri.
Quando torno ‘a casa’ cammino, per
ore, nei luoghi amati. Cammino con un
senso di felicità e con un senso di angoscia per questo popolo orgoglioso, ospitale, che ha attraversato lunghi anni di
guerre, di sacrifici, di infinite perdite, e
ancora soffre. Li sento fratelli, gli eritrei.
Cammino per le piccole strade con
pareti dove si arrampicano nasturzi,
buganvillee e per i viali principali. Edifici di
diverse epoche e stili fanno della luminosa
Asmara una città molto particolare.
Vado al mercato delle granaglie, banchi colorati da frutta, verdura, piramidi di
cereali, grani di sale lucente.
Salgo l’Amba che porta al cimitero
di Asmara, dove è narrata, fra date e
fotografie sbiadite, la storia dei vecchi
coloni. Il cielo blu, la terra rossa, i colori
dei fiori, le lepri che corrono fra le tombe
danno vita a questo luogo dei morti.
Torno al mercato, passo accanto alla
chiesa copta e percorrendo ‘strade mercato’ arrivo davanti al Caravanserraglio. Oltrepasso, emozionata, l’ingresso
a portico. All’interno, fra le mille scintille
dei fonditori, regna un magico caos. Nubi
di polvere rossa avvolgono le donne che
macinano il berberè, ragazzini offrono
tappeti colorati, modellano ogni genere
di attrezzi, espongono macinini di caffè
di altre epoche. Si intrecciano cesti, si
fabbricano scarpe ricavate da vecchi
pneumatici. Voci, suoni, odori. Forse una
notte, nel silenzio, torneranno i mercanti
con i loro cammelli, carovane dei tempi
lontani. E narreranno altre storie.
Penso all’Italia, dove nei primi anni mi
sono sentita straniera, io cittadina italiana… I bambini di oggi condividono i banchi di scuola con bambini di altri Paesi, di
altre religioni. Ancora non sanno che è una
grande ricchezza ‘stare insieme’. Anch’io
non lo sapevo. L’ho capito negli anni vissuti
in Italia. Sono stata fortunata a crescere in
un Paese di culture diverse. Chissà, forse
mio padre mi aveva trovato al Caravanserraglio, dove l’inimmaginabile è possibile.
10 — Italiani
L’italiano globale
Un sondaggio tra gli iscritti OAT (e non solo) per indagare
che cos’è il Made in Italy nel linguaggio comune
Il concetto di ‘italiano’ non indica esclusivamente l’appartenenza
ad una nazione, ma assume un significato più ampio, descrive
un vero e proprio stile di vita, rappresentato soprattutto attraverso stereotipi radicati nel tempo. E sono proprio gli stereotipi a
rendersi veicoli dell’italianità nel mondo: pizza, mafia e mandolino
sono tra i termini più ricorrenti per descrivere l’Italia e si sono diffusi a tal punto da entrare a far parte di un linguaggio universale.
Ma esistono anche aziende e prodotti che hanno saputo guadagnarsi il favore del mercato internazionale, diventando famosi
in tutto il mondo. Marchi come ‘Fiat’ e ‘Ferrero’ sono così noti
all’estero da divenire simbolo dell’Italia e hanno contribuito a rendere il Made in Italy rinomato.
In questo contesto viene spontaneo interrogarsi sul ruolo dell’architettura nel veicolare l’italianità fuori confine. Esiste ancora (o è
mai esistito) un Made in Italy in architettura? Gli architetti di epoca romana e rinascimentale hanno contribuito a rendere famosa
l’Italia nel mondo, ma è corretto parlare della loro opera come di
un Made in Italy? E oggi chi ha preso il loro posto? Renzo Piano
e Massimiliano Fuksas sono espressione di un modo di progettare all’‘italiana’ o esclusivamente individuale?
Hanno risposto al sondaggio Federico Alzu, Barbara Biasiol,
Maria Vittoria Capitanucci, Alberto Brunasso Cassinino, Giorgio
Comoglio, Romina Cuda, Tommaso Delmastro, Roberto Doglio, Marco Virginio Fiorini, Francesca Gianola, Giudy Girardina,
Raffaela Maglio, Enrico Maritano, Andrea Muzio, Giuseppe Pollichino, Paolo Pitone, Alberto Raimondi, Giovanni Sessa, Monica
Stroscia, David Terracini, Davide Turaglio, Stefano Vellano, Silvia
Zanetti, Andrea Zavattaro e molti altri anonimi.
Italiani — 11
Nel campo del restauro Renzo Piano, Noumea. Nomi di archistar (Renzo Piano, Gae Aulenti, ecc). Palazzo Lascaris a Nizza. Il teatro del mondo di Aldo Rossi. Se estendiamo architettura al design soprattutto
nella componentistica e finiture (rivestimenti illuminazione sanitari arredi ecc). Beaubourg. Acquedotti e
costruito romano, Rinascimento e Barocco, stop Architetture locali e nei materiali. Da Palladio a Juvarra,
dal Rinascimento al Barocco, un periodo di tempo a cui non corrisponde nell'era attuale un concetto di
architettura così grandioso e importante se non con singoli e limitati progetti architettonici e urbanistici.
Le architetture delle archistar sono a volte l'espressione di una idea che spesso è solo autocelebrazione
e non un vero Made in Italy; l'architettura è una idea universale e non può essere l'espressione chiusa
di una sola nazione ma di un individuo che l'ha pensata. Le opere di Giò Ponti, Ridolfi, Michelucci, Carlo
Scarpa, E. Sottsass, A. Mendini Il rapporto con la storia e il territorio. Le grandi opere di Renzo Piano.
Esisteva nei secoli passati, dai Romani all'800. Oggi l'Italia ha perso il primato dell'arte internazionale
nel campo dell'architettura, mantenendolo ancora nel design, nel cinema, nella moda. Perché? Perché
l'italiano non ha più il senso della civitas cioè della collettività (cui l'architettura è rivolta). Sopravvive il
bello nel privato. Nel pubblico è morto. Renzo Piano. Purtroppo è visibile da chiunque giornalmente.
Sono gli edifici comuni che si continuano a costruire diffusamente nel nostro Paese, senza alcuna qualità architettonica o tecnica. Probabilmente sono questi i rappresentanti veri del Made in Italy architettonico,
e non le rare e pregevoli eccezioni, realizzate da studi che hanno passione per questo mestiere. In negativo: quello scempio fatto da più generazioni di geometri scatenati, incompetenti complici una classe
politica corrotta e una popolazione sostanzialmente amorfa. In positivo: il design degli anni ’60, ’70 e
'80 che ha contaminato in positivo molti architetti. Semplice... Vitruvio... solo noi abbiamo questo innato
senso della proporzione, l'armonia, il bello! Difficile fare un esempio... esiste una cultura italiana che permea l'architettura e fa si che essa diventi riconoscibile e non confondibile con quella di altri Paesi. Forse
ciò era più vero nei secoli passati, però qualcosa di quel genius loci ancora rimane. Isola, Rossi... Roma
antica, Palladio, il Rinascimento in genere, Nervi, Rossi, Piano, le piazze disegnate. Esisteva, le opere di
architetti come Terragni ne sono un esempio.
12 — Italiani
'Luogocomunismo'
e outlet color ocra
L’Italia perde le sue radici architettoniche
Davide Banfo
Un piccolo episodio, ma significativo.
Un candidato alle elezioni regionali del
Lazio finisce al centro di un caso politico per aver regalato dei calendari con
le gesta del Duce e il banner del suo sito
personale. Il politico si difende parlando
di un ‘omaggio’ dei suoi sostenitori per
– testuali parole – “i 70 anni dell’inaugurazione di Pomezia”. Inaugurazione?
Possibile che un ex esponente di An non
ricordi proprio nulla della mistica fascista. Le città si fondano, non si inaugurano come i centri commerciali.
Osservando l’Italia del 2010 da lontano
o, meglio ancora, dalla siderale distanza
del web, si avverte una specie di cesura
netta con le sue radici. Anche l’Italia del
Ventennio, come dimostra il patetico aspirante consigliere regionale del Lazio, è
stata cancellata. Il ‘piccone demolitore’
è confinato nei libri di storia, il quartiere
dell’Eur viene difeso paradossalmente
dalla Lega Nord che non vuole farsi scippare da ‘Roma ladrona’ il gran premio di
Formula 1 che si vorrebbe correre usando
come grande paracarro il Palazzo delle
Civiltà. L’Italia del passato non esiste più. I
grandi monumenti diventano delle specie
di cartoline, o meglio sfondi per cartoline.
Quella che prevale, e non vale citare come
al solito l’antropologo Marc Augé, è un’Italia, architettonicamente parlando, del non
luogo. L’unica Italia vera e riconosciuta è
quella ricreata negli outlet gestiti da multinazionali. Basse costruzioni ad un piano
rosa, ocra o gialline. Il resto è stato dimenticato. Prevale una specie di ‘luogocomunismo’ che tende a omogeneizzare tutto.
Le periferie delle grandi città sono ormai
tutte uguali. Sembrano quelle francesi
con forse qualche rotonda in meno ma le
stesse insegne dei centri commerciali.
Il discorso non è quello di rimpiangere le
città italiane degli anni ’60-’70, ma forse
qualche identità locale ancora all’epoca
si avvertiva. Il Nord era segnato dalle fratture tra le banlieue industriali e le campagne che tendevano ad essere occupate dai capannoni. Nelle città del Sud
la campagna arrivava quasi all’improvviso, con gli ultimi palazzi che anno dopo
anno venivano superati da altri agglomerati spesso abusivi. Uno scenario andato
avanti con qualche modificazione per
quasi vent’anni nel mito della crescita
economica, della cementificazione del
territorio. I capannoni degli anni ’60 sono
i progenitori dei capannoni che negli anni
’90 hanno invaso tante zone pregiate
come le Langhe, la campagna romagnola, le colline o le pianure toscane e
venete. Una metastasi che non è stata
sufficientemente combattuta, ma anzi
promossa e agevolata da tante amministrazioni pubbliche. Le stesse amministrazioni che si ritrovano poi a fare i conti
con le vecchie fabbriche nei centri storici, vecchie fabbriche tutte promosse a
pezzi di archeologia industriale nella speranza di trasformarle in qualche museo o
spazio sociale.
Il problema, senza avere la presunzione
di parlare di massimi sistemi, non è provare nostalgie, ma riflettere un attimo. La
ricorrenza dei 150 anni dall’Unità d’Italia potrebbe essere una grande occasione. L’Italia è un Paese che ancora si
‘vende’ bene. Turisticamente parlando
è in crisi da anni, ma all’estero stanno
crescendo tante ‘piccole Italie’. Il web,
come accennato, ne è l’esempio. Non
Ph wikimedia commons - Croq
Italiani — 13
ci sono solo il cibo e la moda a rendere
interessante il Made in Italy. Forse c’è
ancora un modo di intendere le città con
la loro storia che rende questo paese
unico. Firenze non è uguale a Venezia
non solo perché non ci sono il mare, le
gondole o l’acqua alta. Torino non assomiglia a Catania o a Palermo nonostante
siano evidenti per tutte e tre le città gli
influssi del Barocco. Milano ha ancora
meno grattacieli di qualsiasi piccola città
della Cina o degli Stati Uniti. Roma (‘fondata’ dai gemelli Romolo e Remo e non
‘inaugurata’!) resta unica e straordinaria con i suoi palazzi finalmente ripuliti
e i monumenti sopravvissuti a duemila
anni di angherie e devastazioni. A proposito: anche il Colosseo non si sottrae
alla ignominia di certe definizioni da
reality show dove il sussidiario di terza
elementare è l’ultimo libro letto o sottolineato. L’Anfiteatro Flavio è stato definito da uno studente in gita scolastica
che si era perso “quel muro alto, alto e
pieno di buchi”. Una definizione perfetta
per farsi venire a prendere da una professoressa rassegnata, precaria e mal
pagata. L’Italia è un Paese che rispetto
a 150 anni fa sta decisamente meglio.
Grazie al sommerso ha un’economia
in grado di superare crisi internazionali che hanno messo in ginocchio altre
nazioni. La sua capacità di reagire alle
grandi emergenze non è stata neanche scalfita dagli ultimi scandali che
hanno fatto precipitare in un unico calderone eroi (civili) e faccendieri (miserabili). L’Italia resta un Paese fatto di mille
piccole realtà che, nonostante il processo di unificazione sia andato avanti
in modo contradditorio ma impetuoso,
rimangono gelose della propria autonomia, della propria identità.
Riempiamo gli outlet sparsi per il Bel
Paese di pannelli per spiegare chi sono
stati i grandi architetti italiani, quali sono
i fondamenti della civiltà italiana. Alimentiamo qualche speranza per il 2061…
14 — Italiani
Torinesi del mondo
e il mondo a Torino
L’Italia e gli italiani: il punto di vista di chi è appena arrivato nel nostro Paese
e di chi se ne è andato da tempo e porta all’estero la sua italianità.
Interviste a Loredana Ionita, Juraj Valcuha, Allegra Hicks, Laura Tonatto
Loredana
Ionita
Loredana Ionita è un’avvocato rumeno,
nata a Bacau, arrivata a Torino per ricongiungersi alla madre Viorica, già precedentemente emigrata in Italia per motivi
di lavoro. Nel nuovo contesto sociale, in
seguito ad un iniziale periodo di difficoltà, Loredana si è agevolmente integrata,
quasi a voler testimoniare la vicinanza tra
i due popoli latini.
DOMANDA Quando è arrivata a Torino e
quale motivazione l’ha spinta a rimanere?
Risposta Ho visitato per la prima volta la
città in un breve soggiorno avvenuto nel
2000. Mi sono trasferita definitivamente
nel 2001, per stare vicina a mia madre,
ma anche attratta dalla piacevolezza del
luogo e dalla cordialità delle persone,
nonché per il desiderio di inseguire il mio
destino, alla stregua di un cavaliere errante che insegue ed è ad un tempo artefice
della propria ‘Leggenda Personale’.
D Dove ha preso avvio la sua professione di avvocato? In Italia o in Romania?
R Mi sono laureata in Romania nel 1996
e ho ottenuto nel 1998 l’abilitazione alla
professione forense e la titolarità del
mio studio. In quel periodo la situazione
economica generale del mio Paese, effetto di un’inflazione galoppante, non offriva interessanti opportunità lavorative,
né di crescita professionale. Per questo
motivo molte persone sono emigrate
all’estero. Grazie al mio percorso di integrazione e agli studi, a luglio dell’anno
scorso sono riuscita ad ottenere il riconoscimento dei miei titoli e l’iscrizione
all’Albo degli Avvocati di Torino.
D Quali stereotipi conosce legati all’Italia o agli italiani?
R Gli stereotipi accomunano tutti i Paesi; certo bisogna conoscere le diverse
realtà per avere opinioni ‘oggettive’ e
non sconfinare nei pregiudizi. In Romania gli italiani erano soprannominati
ironicamente ‘macaronari’ e ‘broscari’,
in quanto mangiatori di maccheroni e di
rane. In generale l’idea che mi ero fatta
era di persone gentili e simpatiche, con
uno spiccato senso degli affari. Avevo
sentito parlare anche della mafia italiana, ma naturalmente non si deve fare di
tutta l’erba un fascio.
D Secondo lei, con quali stereotipi sono
connotati i rumeni in Italia?
R Le donne rumene ‘rubano’ gli uomini
alle italiane, gli uomini rumeni ‘amano’
più la grappa che le loro donne, per citare stereotipi che potrebbero suscitare
ilarità. Altri rasentano la calunnia o la diffamazione e questi preferisco ometterli
ed esprimere così il mio dissenso.
D Quali sono i suoi ricordi del regime?
R Durante la dittatura di Ceausescu era
garantito il minimo vitale. Pur non mancando il lavoro e la casa, la vita era fatta di sacrifici, di privazioni e tutto era
subordinato al ‘bene’ dello Stato. Nelle
cooperative agricole di produzione, veniva reclutata tutta la forza lavoro disponibile, inclusi gli studenti delle medie e
delle superiori, che svolgevano un ‘lavoro patriottico’, raccogliendo granoturco,
barbabietole ecc. Per approvvigionarsi
di generi di prima necessità, occorreva
avere la tessera e fare code estenuanti
Italiani — 15
dalle quattro del mattino. La privazione
più abominevole era quella di non poter
esprimere apertamente le proprie idee,
aggravata dalla presenza ovunque della securitate, la polizia segreta che si è
macchiata di crimini efferati. L’unica finestra sul mondo occidentale era la stazione radio La voce dell’America, ascoltato
di nascosto, con timore e circospezione.
Nel 1989, la caduta di Ceausescu e della
moglie Elena (considerata la vera mente
delle azioni del marito) aveva suscitato speranza e disperazione. Ricordo la
sensazione di terrore del Paese, le strade
deserte e le porte sbarrate. Dalla televisione appresi ciò che stava accadendo,
qualcosa che rasentava l’impossibile. Poi
i bus pieni di ragazzi che andavano verso Bucarest e che salutavano con le due
dita alzate in segno di vittoria; la guerra
civile in un vortice di terrore e di crudeltà,
con il sacrificio di troppe vittime innocenti; infine l’esecuzione di Ceausescu.
D Quali sono i luoghi di Torino che apprezza di più?
R Appena arrivata, sono rimasta colpita
dal monumento emblema di Torino, la
Mole Antonelliana. Successivamente ho
avuto modo di ammirare ed apprezzare
l’architettura dei palazzi della città, sono
rimasta affascinata dal barocco torinese
di Juvarra e Guarini e dai tanti musei cittadini, e non per ultimo dallo stupendo
polmone verde, il Parco del Valentino.
D Gli architetti hanno realizzato anche architetture giudicate orribili per la forma e per il
degrado sociale e ambientale che hanno
alimentato. Esiste un reato per distruzione
di opere d'arte e costruzione di mostri architettonici? Che pena infliggerebbe?
R Le strutture architettoniche rispecchiano la civiltà di un popolo, la sua storia e
devono avere un valore simbolico in sintonia con canoni estetici raffinati; proprio
per questo non credo esista una pena
sufficientemente adeguata per quello
che considero una grande offesa, non
solo ambientale ma anche morale.
D Un piatto tipico che ha assaggiato?
R La conoscenza dei piatti tipici di una regione credo sia una tappa fondamentale
nel processo di integrazione. Ho avuto
modo di assaggiare ed apprezzare alcuni specificità della cucina piemontese, tra
cui la bagna cauda, il fritto misto alla piemontese, i dessert al cioccolato. Seppure
i sapori della cucina torinese si discostino
da quelli tradizionali della cucina rumena,
apprezzo ugualmente ambedue.
D Prima di venire a Torino, dove si era fatta un’idea dell’Italia?
R Attraverso i film d’autore, i documentari sul ‘Bel Paese’, che in Romania sono
in lingua originale sottotitolati, e dai libri
di autori italiani.
D Che cosa non sopporta di Torino?
R Lo smog e il traffico, ciò che mi ha indotto a trasferirmi nella tranquillità di un
paesino di provincia.
D Che cosa sta leggendo in questo momento e quali sono i suoi autori preferiti?
R Sto leggendo un libro motivazionale,
Come trattare gli altri e farseli amici di
Dale Carnegie. Leggo molto, tra i miei
autori preferiti ci sono i classici della letteratura italiana e della letteratura internazionale. Mi piacciono Pirandello, D’Annunzio, Svevo, Hemingway, Antoine de
Saint-Exupéry, Hugo, Eminescu, ecc.
D Ha un suo motto?
R “Prima ci ho creduto col cervello, poi
l’ho fermamente voluto con il cuore, infine mi sono semplicemente dato da fare”
(Barone Bich).
Juraj
Valcuha
Juraj Valcuha, trentatreenne, slovacco,
già affermato a livello internazionale, è da
novembre 2009 il nuovo direttore principale dell’Orchestra sinfonica nazionale
della Rai. La sua formazione artistica è
avvenuta tra Bratislava, San Pietroburgo
e Parigi e la sua carriera di direttore lo
sta portando in giro per il mondo.
DOMANDA Che cosa conosceva dell’Italia
prima della nomina della Rai?
RISPOSTA Conoscevo già l´Orchestra
della Rai, che avevo diretto almeno in 4
programmi diversi. Avevo già trascorso
qualche settimana a Torino. Ho diretto
anche a Napoli, Venezia, Bologna, Genova e Milano, tutte città affascinanti.
D Le piace Torino?
R È una città positiva, ha un’ottima energia.
D Torino è una città antica che ha conosciuto un importante passato industriale, ora in fase di grande trasformazione. Può citare qualche edificio di Torino
storico o moderno che l’abbia più colpita e perché?
R Direi il Lingotto, con il suo Auditorium
progettato da Renzo Piano, architetto a
me familiare: abito a Parigi e vado spesso al Beaubourg, dirigo a Berlino e passo
sempre nel Sony Center per andare alle
prove. Il Lingotto è una fabbrica trasformata in una sala da concerti apprezzata
dalle piu grandi orchestre che vi fanno
tappa nelle loro tournée europee.
D Secondo lei, esiste un’atmosfera torinese? Qual è l’angolo della città nel quale
trascorre volentieri una pausa?
R Torino ha una vera personalità: non è
esuberante, non è ‘ostentatoria’, ma è
accogliente, ha un certo stile. Mi piace
vagare per le vie del centro, osservare le
facciate orgogliose degli edifici.
D Un piatto o una bevanda torinese e un
esempio invece tipicamente italiano.
R I marrons glacés, il bicerin, ma anche
i piatti col tartufo e con un bel bicchiere
di Barbaresco.
D Il teatro più bello e funzionale in Italia
nel quale vorrebbe o tornerebbe a dirigere un’orchestra?
R Finora ho diretto alla Fenice, al San
Carlo di Napoli, al Comunale di Bologna: uno più bello dell’altro. La parola funzionale non mi sembra molto in
sintonia con questi prestigiosi edifici. Il
fatto di trovarsi a fare musica in questi
luoghi, testimoni di tanta grandezza e
creatività, aiuta ad accettare la mancanza di funzionalità. Dirigo anche spesso
in sale molto sofisticate che offrono
soluzioni tecnologiche all’avanguardia.
Entrambi gli aspetti sono interessanti.
D L’ha mai affascinato il Made in Italy e
a che cosa lo riconduce? Secondo lei
esiste ancora?
R Come non rimanere affascinato?
L’estetica, la purezza delle linee, la qualità dei prodotti. Si può ancora parlare
del Made in Italy e bisogna puntare sul-
16 — Italiani
la qualità e l’esclusività. In poche parole: si deve resistere.
D La musica usa un linguaggio universale, ma l’opera è un elemento di orgoglio
italiano, che ha anche rappresentato
l’unità del Paese. Lei dirige anche l’opera.
Quanta italianità c’è allora nella sua arte?
R L´opera è una forma d´arte italiana.
Non solo l´opera è stata inventata in Italia, ma in tutte le sue manifestazioni fuori Italia deve fare i conti con la tradizione
interpretativa italiana. Tutti direttori e
interpreti devono cercare d´appropriarsi
di un´italianità ogni volta che dirigono o
interpretano l´opera (che sia tedesca,
russa o francese). È ovvio che Verdi e
Puccini sono i più legati all´Unità d´Italia
e… l´Unità d´Italia è partita da Torino…
D Un gioco per chiudere. Quali architetti
italiani conosce e quale brano musicale
abbinerebbe a ciascuno di essi?
R Il primo che mi viene in mente è Palladio abbinato a Mozart (e Palestrina).
Allegra
Hicks
Allegra Hicks, torinese fino a 18 anni, si
trasferisce a Milano per frequentare una
scuola di design e successivamente a
Bruxelles, specializzandosi nel disegno
tessile; inizia a lavorare a New York per
un artista contemporaneo e successivamente si sposta a Londra.
DOMANDA Come è iniziata ed è proseguita la sua carriera londinese?
RISPOSTA Nel 1996 ho iniziato a disegnare tappeti e stoffe per interni (prodotti in
25 unità per modello) in collaborazione
con diversi studi di architettura; tre dei
miei tappeti sono utilizzati nel Parlamento
inglese come arazzi decorativi. Recentemente ho aperto un negozio lifestyle in
cui vendo i tessuti d’arredamento, i tappeti e le collezioni d’abbigliamento che disegno; la matrice della mia creatività è la
produzione di stampe disegnate e questo
mi consente diverse applicazioni.
D Le piace Torino? Qual è il suo rapporto con la città natale?
R Considero Torino una città viva e interessante da un punto di vista intellettuale.
È una città bella a livello architettonico.
Ma per me è soprattutto un luogo allo
stesso tempo familiare e sorprendente.
Ho lasciato Torino da ragazzina; non è
stato difficile perché stavo per iniziare una nuova esperienza e la curiosità ha prevalso sulla nostalgia. Il posto
da cui si arriva è sempre in noi e vi si
può sempre fare ritorno. È diverso se
invece si lascia la propria città in fuga o
da emigrante: sapere di non potere più
ritornare indietro avrebbe reso l’addio
molto più difficile.
D Come mai ha scelto Londra?
R Ero attratta dal mondo anglosassone,
che per me rappresentava l’eccesso,
l’esotico, il diverso. Vivere prima a New
York e poi a Londra mi permetteva una
forte astrazione, mi consentiva di non
sentirmi radicata alle mie radici. Allo
stesso tempo però mi ha sempre lasciato con un piede ancora in Italia.
D È stato facile integrarsi all’estero?
R Gli Stati Uniti sono molto inclusivi: ci
si integra facilmente e nell’arco di poco
ci si sente immediatamente ‘statunitensi’. Gli inglesi sono molto diversi: non
sono inclusivi, ma sono tolleranti. Non
incasellano chi arriva da un altro Paese e questo consente ampia libertà. È
difficile però sentirsi ‘inglesi’, si resta
sempre ‘italiani’. Amano molto l’Italia
(dai Grand Tour del Settecento in poi) e
questo mi aiuta, come italiana, a rinsaldare le mie radici.
D Ritiene che essere italiana le sia stato
d’aiuto nel suo lavoro?
R Torino è una città con un’eleganza incredibile: è uno ‘stile’, non una semplice
‘moda’ che dura tre mesi; il suo fascino
non si esaurisce facilmente. Nel mio lavoro e nei prodotti che vendo ho cercato di portare questo senso di eleganza
che caratterizza la mia città.
D Esiste ancora un Made in Italy nel
campo della moda?
R Sì. Il Made in Italy è sinonimo di qualità e non si tratta solo di un’etichetta.
In Italia esiste un know-how diffuso nel
campo della moda che è impensabile in
altri Paesi, ad esempio in Gran Bretagna
dove non esiste nemmeno l’industria
della moda. Tuttavia non sempre il concetto di ‘made in’ trasmette un’immagine
positiva: ad esempio i miei ricami sono
prodotti in India perché la qualità degli
artigiani in questo ambito è la più alta
al mondo; in India sono ancora diffuse
delle abilità che noi occidentali abbiamo
perso da secoli. Tuttavia se un tappeto è Made in India è automaticamente
visto come un prodotto hippie, da tutti
i giorni; è inimmaginabile associarlo ad
un oggetto di alta qualità.
D Secondo lei quanto è diverso dall’Italia vivere a Londra?
R Gli inglesi non hanno la capacità di
godersi la vita con la stessa naturalezza che abbiamo noi: hanno un culto
della vita molto diverso dal nostro. Ad
esempio noi diamo molta importanza al
mangiare bene; gli inglesi molto meno.
Io sono regionalista: ogni città ha le
sue specificità. Torino ha il cioccolato,
la Fiera del Libro, il Conservatorio; Londra il teatro e i musei.
D Con quali stereotipi sono rappresentati gli italiani in Gran Bretagna?
R Gli inglesi sostengono che quando vedi
uno vestito da inglese è sicuramente un
italiano. Gli italiani sono visti come focosi,
istintivi, goduriosi, ritardatari e inaffidabili. Però se si chiede a un inglese “Dove
vorresti vivere?”, la risposta è sempre “In
Italia”. Se con i francesi c’è sempre un
rapporto di concorrenza e competizione,
gli italiani invece sono posti su un piano
diverso, non confrontabile perché prevale sempre l’ammirazione.
D Quale edificio torinese e quale londinese vestirebbe e come?
R Se potessi scegliere ricoprirei la GAM
di Torino con gigantografie che riproducano le opere esposte all’interno e
la Mole Antonelliana con del muschio
verde; a Londra sceglierei invece il London Bridge e lo ricoprirei di monete di
cioccolato.
D Se dovesse descrivere un architetto
con una stoffa, chi sceglierebbe?
R Guarino Guarini è per me damasco,
Carlo Mollino è velluto rosso, Tadao
Ando è lino grezzo e Zaha Hadid è pelle
nera e voile trasparente.
Italiani — 17
D Quale lingua parla il profumo?
R Una e tutte. L’olfatto risiede nell’ipotalamo, sede degli istinti come la fame, il
sonno e il sesso. Non è quindi un senso addomesticabile: se sento una cosa
Laura Tonatto, uno dei ‘nasi’ più famosi e e sto bene, mi piace; al contrario, se mi
ricercati al mondo, è stata una dei relatori procura disagio, la detesto. Nei rifugi di
alla Conversazione OAT, Il naso nell'archi- Londra della seconda Guerra Mondiale,
tettura. Il primo incontro è stato nella sua il diffuso profumo di lavanda ricordava ai
casa-laboratorio dove crea profumi, die- sopravvissuti i cadaveri e in generale un
tro le grandi vetrate che guardano i bo- senso di morte. Il profumo è un linguagschi della collina, la città e le montagne.
gio universale, ma l’istinto è personale.
Ognuno di noi ha una sensibilità diversa.
DOMANDA Un ‘naso’ si eredita o si educa? D Quanta italianità c’è nei suoi profumi?
RISPOSTA Si educa e un po’ si nasce. Il mio R Moltissima, e come italiani possiamo vanprimo ricordo olfattivo risale a quando ero tare anche capacità, che ci riconoscono in
bambina e mi ero ferita il naso cadendo. tutto il mondo: gli italiani hanno lasciato un
Ricordo distintamente l’odore del sangue imprinting per esempio nella rinomata (per
e dell’acqua clorata del medicamento usa- i profumi) Francia, dove le coltivazioni di
to da mia madre. Avevo una nonna con fiori quali la rosa, il gelsomino e la lavanda
questo mio stesso istinto, che però non ne sono un’eredità di Caterina de’ Medici anaveva fatto un lavoro. Dei miei due figli, il data in sposa al re di Francia. Un campo
maschio è come me, la femmina assoluta- dove gli italiani eccellono è il cibo: mangiamente no, a dimostrare che la passione da re una mozzarella di bufala è un’esperienza
sola non basta.
sensoriale! Così è per me l’orto botanico
D Chi sono stati i suoi maestri?
di Palermo, dove ho scoperto l’odore di
R La prima maestra è stata la nonna, che zagara che tanto contribuì alla buona riuha rappresentato il punto di partenza, la scita del film di Luchino Visconti, che volle
presa di coscienza delle mie capacità. Mi quella fragranza per Claudia Cardinale per
parlava di Guerlain e di Guy Robert, oggi renderla meravigliosa e permearne il set,
ultraottantenne, che ho avuto la fortuna rendendo l’atmosfera olfattiva reale.
di conoscere e che mi ha molto seguita. D Caravaggio l’ha ispirata per un profuIl ‘privilegio’ che si vuole riferire ai ‘nasi’ in mo, come è nata questa idea?
realtà non esiste: bastano due fragranze, R Colleziono Maddalene del periodo
di cui una deve essere la rosa, e il profu- barocco romano: Maddalena è la santa
mo è fatto. Ecco perché realizzo corsi: protettrice dei profumieri. Mi sono apperché chiunque può comporre un pro- passionata al periodo e ho studiato il
fumo. Mi piace trasmettere la capacità di Suonatore di liuto che è ospitato all’Herusare l’olfatto soprattutto per aiutare a mitage di San Pietroburgo. Quell’opera,
capire la realtà che ci circonda. “Perché commissionata a Caravaggio dal cardiil profumo”, come diceva Yves Saint Lau- nale Giustiniani, era programmaticamenrent, “è il fratello del respiro”.
te multisensoriale. Ho svolto un lavoro
È necessario un allenamento continuo filologico, consapevole del fatto che Cacome per la musica anche per chi crea ravaggio dipingesse dal vivo e che quindi
fragranze. Le fragranze sono come i colori sentisse tutti quegli odori, anche quello
per i pittori. Certo di Caravaggio ce ne fu della cera usata per incerare il liuto e il tauno soltanto… Miscelare è un istinto ed è volo di finto marmo su cui erano appoggiati gli oggetti da ritrarre. Avevo realizlo stesso che guida i migliori chef.
zato quel profumo per me, ma il direttore
D Qual è stata la fragranza-rivelazione?
R L’ambra d’Egitto, che esiste solo nel Pa- dell’Hermitage mi propose un’esperienese che le dà il nome e che ho scoperto za interessante: far vedere il quadro agli
quand’ero diciannovenne. È una costan- spettatori anche con il naso.
te nelle mie esperienze olfattive. Chi ama D Lei ha prodotto profumi per personaggi
famosi: quali caratteristiche l’hanno guii miei profumi ama quella fragranza.
Laura
Tonatto
data e da dove ha tratto l’ispirazione?
R Creo profumi dal 1986. Tutto è cominciato in un piccolo negozio in via Brera a
Milano nel quale si affacciarono presto i
primi clienti importanti che desideravano
una fragranza su misura: Ornella Vanoni,
Elio Fiorucci, Lucia Locatelli, Francesco
Totti, Asia Argento, Ornella Muti, Giorgio
Armani. Ma il cliente più importante, quello
che da solo basterebbe a rendere famoso
un marchio nel mondo, è Elisabetta II d’Inghilterra. Nel 2008 la Regina mi chiese una
fragranza esclusiva per le candele e gli ambienti di Buckingham Palace e delle altre
residenze reali. Il profumo che ho realizzato
per la regina Elisabetta unisce stile inglese
a creatività italiana: abbiamo investigato insieme tutto il percorso olfattivo da quando
era una ragazzina ad oggi.
D Per quale città creerebbe un profumo?
R Sicuramente per Roma, che è la città
più bella al mondo e per me fonte di relax. In particolare mi ispirano il Palazzo
Doria Pamphilj e la sua collezione e Villa
Giulia. Mi piacerebbe creare un profumo
anche per Torino e le fonti di ispirazione
sarebbero il fiume, dove amo ‘canottare’
e dal quale mi godo lo spettacolo della
città, e Piazza Vittorio Veneto, che amo
per la sua atmosfera magica soprattutto
quando c’è la nebbia o anche quando c’è
l’aria frizzantina della prima primavera.
D Per quali architetti realizzerebbe un
profumo e con quali essenze?
R Per tre donne: per Francesca Moroso
userei note di legni africani, per Paola
Navone mughetti e fiori d'arancio e per
Gae Aulenti rosa e ambra.
D Esiste il Made in Italy? E nei profumi?
R Esiste uno “Smerd in Italy”, per citare Olivero Toscani e la grandissima vergogna di
cui si è coperto il nostro mercato. Ma è il
pubblico che decide e alla lunga qualcuno il conto deve pur pagarlo, se le borsette vengono prodotte in Cina a due euro e
rivendute in Italia a duemila… Preferisco i
piccoli artigiani, sempre coerenti con il loro
lavoro. La profumeria italiana è conosciuta
e stimata e sicuramente rappresenta un
Made in Italy di cui andare orgogliosi.
D In primavera uscirà il suo nuovo profumo da donna Notte a Taif. Qual è il suo
profumo meglio riuscito?
R Quello che devo ancora realizzare.
Made out of Italy
Capitali
Il mondo è pieno di un Made in Italy che non siamo
abituati a riconoscere e che esiste da sempre:
è quello di città o di pezzi di città immaginate,
disegnate, costruite da italiani in giro per il mondo,
tanto che possono considerarsi 'anche italiane'
Capitali italiane nel mondo
Storia e geografia di una
vicenda extraterritoriale
Istanbul | Roberta Ferrazza
Tripoli | Ezio Godoli
Tianjin | Giulio Machetti
Buenos Aires | Edgardo Salamano
New York | Lorena Bari
Berlino | Alvise del Pra'
Riccardo Bedrone
Italia fuori Italia
Maddalena Tirabassi
Migrazioni italiane
e segni italiani
Sono 29 milioni gli emigrati che in
un secolo e mezzo dall’Italia si sono
diretti in ogni parte del mondo
Ph © Carlotta Maitland Smith - Brothers Giuseppe and Biagio Rivieccio at their restaurant “Papa Joe’s”, Connecticut, New York, USA, 2008
La mappa di una storia dimenticata
che illustra l’attualità delle proposte
degli architetti italiani nel mondo
20 — Capitali
Italia fuori Italia
Un progetto di mostra
Riccardo Bedrone
150 anni di emigrazione italiana corrispondono spesso, nelle grandi città del
mondo, ad altrettanti valori culturali e artistici, apporti economici e professionalità
che hanno lasciato segni ed esempi mai
veramente indagati. Eppure essi fanno
parte della storia italiana e sono particolarmente visibili nell’architettura urbana
estera. Molte grandi città possono dirsi
‘anche italiane’ e non solo quelle di fondazione. Gli esempi sono numerosissimi in Albania, Etiopia, Eritrea, Grecia,
Libia, oppure in Argentina, Uruguay, Brasile, Stati Uniti, Belgio, Germania, Francia, Svizzera, Turchia, fino alle recenti
realizzazioni portate a compimento da
imprese italiane o comunità italiane in
Cina o in molti Paesi arabi.
I festeggiamenti del centocinquantenario dell’Unità d’Italia sono la giusta
occasione per descrivere anche questo
contributo di inventiva e stile italiano nel
mondo, raccontando non soltanto ‘storie’ d’architettura ma anche i modelli di
comportamento esportati, le abitudini
di vita che hanno implicato, le relazioni
sociali alla base delle trasformazioni dei
quartieri di insediamento, nonché la
conformazione degli stessi.
Ma non bisogna guardare solo al passato, ricostruendo le mappe di una storia
dimenticata, semmai riproporre anche
l’attualità delle professionalità italiane,
dal disegno ai materiali, dal progetto ai
nuovi criteri realizzativi, a dimostrazione
della continuità della ricerca e della proposta italiana nel mondo.
Questo progetto vuole valorizzare il ricco
patrimonio culturale del lavoro italiano nel
mondo riconnettendolo alla storia identitaria nazionale e ‘raccontandolo’ soprattutto alle giovani generazioni.
Centro focale dell’azione generale è lo
sviluppo della conoscenza reciproca,
volta a stimolare l’avvio di azioni congiunte a respiro internazionale, nuclei iniziali di sistemi di reti e relazioni (identificazione di patrimoni culturali di riferimento,
costruzione di buone pratiche, diffusione
di risultati, identificazione di nuovi progetti pilota) come possibili nuove soluzioni
all’integrazione culturale.
Integrazione rivolta soprattutto al pubblico fruitore degli eventi di Italia 150,
attraverso un forte richiamo internazionale derivante dalle tematiche progettuali
(volendo significare l’Italia come nazione
unitaria ma ‘diffusa’ nel mondo).
Il concetto di capitale:
una definizione operativa
La capitale – estesamente città capitale
di Stato o, in altri contesti, capitale politica
– è in senso proprio la città che ospita la
sede del governo di uno Stato. Pertanto
l’idea di capitale racchiude in sé la funzione del potere: la capitale si definisce in
quanto luogo dell’esercizio e dell’immagine del potere.
Nel divenire storico il potere si caratterizza come funzione nomade e cambia
sede nel tempo: da questo punto di vista
si osserva che in qualche modo anche le
capitali ‘emigrano’ e non sono luoghi fissi
nel tempo, come ben dimostra il caso italiano con tre capitali diverse in un arco
temporale di dieci anni.
Oggetto del progetto sono dunque le
Capitali Italiane nel Mondo. 1861-2011
ed è bene spiegare, a partire dalla sua
Capitali — 21
definizione, che cosa si comprenda in questo vasto concetto. In prima analisi, queste
capitali sono città, individuate come spazi
fisici sui quali vengono misurate la forza e la
qualità dell’impatto di un ‘innesto’ esterno,
diverso e straniero, che rappresenta una
discontinuità o una evidente novità.
Talvolta coincidenti con la capitale politica di un Paese, sono capitali in quanto
città da cui, nel periodo di tempo oggetto
della ricerca, l’influenza italiana si è manifestata e irradiata con tale riconoscibilità
da farle considerare – in tutto o in parte
– ‘un pezzo di Italia fuori dall’Italia’. Sono
capitali in quanto luoghi di ‘riproduzione’
dell’italianità, frutto della creatività di
architetti, ingegneri, artisti, del lavoro di
maestranze, dell’insediamento dovuto a
flussi migratori che cambiano e modellano il panorama urbano attraverso gli
stili di vita e le opportunità commerciali,
ma talvolta attraverso l’uso delle armi e
l’imposizione forzata.
Il progetto, quindi, si concentra su architettura e urbanistica, sugli spazi pubblici e
su quelli del potere, ma anche, inevitabilmente, su come questi spazi sono vissuti,
quali processi li generano, li alimentano,
li contaminano, li superano e li abbandonano, in un intreccio di relazioni che sono
parte integrante degli spazi stessi.
La definizione operativa di capitale considera tale attribuzione come funzione
mobile nello spazio e nel tempo, che procede da una città a un’altra in luoghi lontani geograficamente e culturalmente,
accomunati da fenomeni di trasformazione riconducibili a una matrice identitaria italiana che, da un lato, agisce sull’ambiente (o paesaggio) urbano e la sua
identificazione, dall’altro sulla morfologia
urbana. Sono fenomeni spesso intrecciati
e complementari, ma in alcuni casi, l’uno
prevale nettamente sull’altro.
Tuttavia diversi sono gli agenti della
trasformazione: nel caso dell’ambiente
urbano si tratta di una comunità in grado
di modificare a sua immagine lo stile di
vita – e dunque lo spazio che ne è la ‘scenografia’ – di una città o di una sua porzione riconoscibile. Nel caso della morfologia urbana il cambiamento è operato
da una élite, politica e tecnica in grado di
imporre un disegno e una visione.
Élite di potere ed emigrazione
Se ci si attiene alla stretta definizione
di capitale come ‘luogo dell’esercizio
e dell’immagine del potere’ ne consegue che il disegno stesso della capitale, i suoi spazi e gli edifici pubblici
sono costruiti per essere espressione
del potere di un’élite che si serve dei
migliori architetti e artisti a disposizione.
Spesso gli architetti e gli urbanisti chiamati a lavorare nelle capitali sono italiani
e progettano dunque ‘capitali italiane
nel mondo’. In questo caso il disegno
delle capitali avrà un’influenza diretta,
tangibile, documentabile, essenzialmente morfologica di modelli italiani,
portata all’estremo nel caso delle colonie del ventennio fascista.
A questo tipo di influenza hard – dovuta
alla cooperazione di un’élite di potere
con un’élite intellettuale e professionale
– si accompagna un’influenza più vasta
e diffusa (soft), che riguarda solo occasionalmente la sfera del potere: quella
della grande massa di emigranti italiani.
L’emigrazione italiana non sembra infatti
22 — Capitali
avere esiti eclatanti e coordinati sul piano
della morfologia urbana, ma molto di più
su quello del ‘paesaggio urbano’, inteso
come somma di paesaggi di vita, paesaggi sonori e di gusto.
È un influsso indiretto, non immediatamente visibile, ma osservabile, una sorta di
semantizzazione italiana delle capitali nel
mondo. Fra queste due ipotesi di indagine
si estendono territori intermedi ed esplorazioni trasversali, come nel caso della particolare categoria di emigranti rappresentata da manovali e lavoratori di cantiere,
importanti per l’influenza in entrambe le
ipotesi, o nei casi di piccole capitali ‘culturali o morali’ piuttosto che politiche.
procede per macroaree geografiche definite dall’area di influenza di una capitale
leader e di altre eventuali città presenti
nell’area, città correlate, che rappresentano una variante originale delle caratteristiche della capitale leader: alle macroaree geografiche corrispondono altrettante
macroaree tematiche.
Ciò consente di proporre una doppia
chiave di lettura delle capitali, insieme
semantica e morfologica e richiede,
di conseguenza, di rappresentare la
complessità delle capitali selezionate
attraverso immagini e visioni immersive dell’ambiente urbano, con gli
aspetti più immediati e sensoriali del
vivere degli immigrati italiani, accanto
Una narrazione ‘per capitali’
a momenti tecnici di approfondimento
puntuale (interviste, selezione di proIl racconto propone le Capitali italiane nel getti e maquettes) della morfologia
Mondo, ovvero le città di potere – politico, urbana, ovvero della produzione archieconomico e culturale – in cui in epoca tettonica di un’élite di professionisti itapost-unitaria si sono verificate condizioni liani incaricati dalle classi al potere.
tali sia da attrarre flussi di immigrazione
Il progetto, che l’Ordine degli archiitaliana, sia da consentire la realizzazione tetti di Torino ha immaginato per le
di momenti puntuali di espressione archi- celebrazione del 2011, prevede una
tettonica di matrice culturale italiana. E mostra di forte impatto per contenuti
e tecnologie, scenografica e, appunto,
‘immersiva’, che presti particolare attenzione all’esposizione di modelli di
costruzione, alla visione di documenti,
immagini, reportage, disegni e progetti,
alla proiezione di materiali dell’Istituto
Luce ma anche filmati successivi o realizzati ex novo, alla divulgazione di tradizioni e testimonianze.
Non solo per parlare di quartieri italiani ma anche per sottolineare come lo
stile architettonico italiano ha costituito un modello per le città, soprattutto
americane. Non solo per ricordare gli
architetti ma anche i manovali italiani
che hanno costruito la metropolitana
o le ferrovie, i mosaicisti impiegati nella
decorazione dei grattacieli, gli stuccatori che hanno lasciato un’impronta
inconfondibile sugli edifici, ecc.
Tutte le città selezionate andranno
indagate attraverso i due filtri interpretativi, per restituirne storicamente quell’immagine prevalente, in un senso piuttosto che nell’altro, che le rende ulteriori
testimonianze imperdibili dello spirito e
della genialità italiana.
Capitali — 23
Capitali italiane nel Mondo
1861-2011
L’Italia fuori Italia.
Aggirare stereotipi e sentirsi a casa
un progetto di
Ordine degli Architetti PPC
della Provincia di Torino
28 gennaio 2010
Incontri al Circolo dei Lettori a Torino con
Lorena Bari
Riccardo Bedrone
Mercedes Bresso
Brunella Como
Sergio Conti
Alvise del Pra’
Erminia Dell’Oro
Roberta Ferrazza
Maria Adriana Giusti
Ezio Godoli
Giulio Machetti
Gian Giacomo Migone
Carlo Novarino
Gianni Oliva
Paolo Riani
Edgardo Salamano
Maddalena Tirabassi
Enrica Viola
con il contributo di
Regione Piemonte
con il patrocinio di
Comitato Italia 150
Comitato preparatorio
Riccardo Bedrone presidente
Lorena Bari
Sergio Conti
Alvise del Pra’
Maria Adriana Giusti
Alfredo Mela
Antonio Morone
Gianni Oliva
Maddalena Tirabassi
Domenico Vassallo
Stefania Vola
Coordinamento progetto
Raffaella Lecchi
Ufficio stampa Fondazione OAT
Liana Pastorin, media-arch
Raffaella Bucci
Marchio e progetto grafico
Lorem, Torino
Si ringrazia
Luigi Garretti
Interviste
Liana Pastorin, media-arch
Riprese
Visual-studio
Si ringrazia
Il Circolo dei Lettori, Torino
24 — Capitali
Le vie dell’Oriente. Istanbul
La comunità italiana di Istanbul è una
delle più antiche al mondo e la sua formazione risale all’epoca delle Repubbliche Marinare.
Composta inizialmente da mercanti e
da famiglie dalle origini antiche, sopravvisse e si sviluppò nei secoli, grazie al
modello ottomano di governo delle
minoranze religiose.
Nell’Ottocento una grossa ondata migratoria cambiò completamente il volto della
comunità grazie ai patrioti del Risorgimento – accolti con favore sulle rive del
Bosforo – al personale diplomatico e agli
artisti e ai professionisti il cui contributo
di idee e conoscenze tecniche favorì
l’opera di modernizzazione messa in atto
dall’Impero Ottomano.
Tale ondata migratoria, a netta predominanza operaia, si caratterizzò per il forte
patriottismo e per il senso di appartenenza, contribuendo in maniera decisiva alla diffusione dei principi di democrazia, solidarietà, identità nazionale che
ispirarono gli statuti delle varie associazioni che la comunità seppe darsi (a
cominciare dalla Società Operaia Italiana di Mutuo Soccorso nata nel 1863).
Anche molti architetti e ingegneri italiani che operarono ad Istanbul in questi anni rispecchiarono questi valori. Tra
questi Raimondo d’Aronco, chiamato a
Istanbul nel 1894 per la Seconda Esposizione Nazionale Ottomana (poi annullata a causa del terremoto) e rimasto
in Turchia fino al 1910 ad occuparsi
(Gruppo dei Soci fondatori della Società Operaia Italiana di Mutuo Soccorso di Costantinopoli, 1863)
Roberta Ferrazza
dell’opera di restauro dei tanti e celebri
monumenti danneggiati.
I fratelli Gaspare e Giuseppe Fossati,
in diverse occasioni ferventi patrioti e
modello di riferimento degli architetti
italiani a Istanbul.
Luigi Storari, ingegnere, incaricato dal
Sultano di realizzare una pianta di Istanbul nel 1855 e carbonaro emigrato da
Ferrara nel 1849.
Tante le ditte italiane di progettazione
architettonica e di costruzioni: passarono dalle sei del 1869 alle centotrenta
del 1912, occupandosi, oltre agli edifici
per il Sultano e la sua corte, della collina
di Pera e del quartiere di Galata, dove
sorsero a ritmo sostenuto luoghi di particolare rilevanza.
Capitali — 25
Il piano regolatore di Tripoli
In un articolo apparso nel settembre 1929
nel quotidiano L’Avvenire di Tripoli e firmato
da Maurizio Rava, segretario generale
della Tripolitania, sono contenute autorevoli indicazioni per il futuro piano regolatore della città. Vi si affermano le esigenze
di salvaguardare il ‘carattere’ del vecchio
centro tripolino, al quale viene attribuito
un “enorme valore ambientale”, elemento
di attrazione per il turismo, e di tutelare le
specificità delle zone verdi dell’oasi. Per
le emergenze monumentali sono auspicati interventi per isolarle creando loro
dintorno uno spazio “abbastanza vasto,
in modo da consentire da ogni lato sufficiente ampiezza di visuali prospettiche”.
La preoccupazione di tutela della medina
è recepita nel piano regolatore e di
ampliamento di Tripoli di cui sono incaricati nel 1931 Guido Ferrazza, Alberto
Alpago Novello e Ottavio Cabiati, ma
redatto solo dagli ultimi due tra il 1931 e il
1933 e integrato da successive varianti.
Rispetto alla ‘fondamentale’ questione
della separazione tra quartieri per indigeni e per metropolitani l’atteggiamento
degli estensori del piano è improntato a
pragmatismo. Più che ad una logica di
separazione etnica, la differenziazione
delle zone residenziali sembra corrispondere alla distinzione tra quartieri signorili e popolari comune dei piani regolatori
per le città italiane: una zonizzazione più
classista che etnica.
Nella definizione dei caratteri architettonici della nuova Tripoli, la visione di
(Sistemazione architettonica dell’imbocco del Corso Vittorio Emanuele)
Ezio Godoli
Alpago Novello e Cabiati si discosta
invece dalle raccomandazioni dell’articolo
di Rava, che invitava a ricercare nella edilizia minore locale le radici ‘latine’ di una
comune identità mediterranea, oltre che
un funzionalismo fondato sulla lezione del
buonsenso costruttivo della tradizione
autoctona. Alpago Novello e Cabiati concepiscono la nuova architettura per la
colonia libica come imposizione alle
popolazioni sottomesse dei modelli culturali della potenza dominante e propongono un classicismo improntato al Novecento lombardo, che, trapiantato in Libia,
appare negli esterni decantato, come disseccato al sole del Mare nostrum, salvo
riacquistare negli interni tutta la sua opulenza materica e ricchezza ornamentale.
26 — Capitali
Una piccola Italia in Cina
Quella che si affaccia in Cina agli inizi
del Novecento è una piccola Italia ridimensionata sul piano politico internazionale dalla disfatta di Adua. Con questo spirito il nostro Paese partecipa alla
missione militare dell’estate del 1900
per liberare le legazioni diplomatiche di
stanza a Pechino dall’assedio dei boxer
e accetta di aprire nella città di Tianjin
una concessione con gli altri Paesi che
hanno partecipato alla missione.
L’Italia, l’ultima a firmare gli accordi
(1902), è costretta ad accettare il più infelice lembo di terra rimasto tra quelli destinati alle potenze straniere: circa 100 ettari
di terreno che si insinuano tra la concessione russa e quella austro-ungarica
lungo la riva sinistra del fiume Hai-He.
(Tianjin, piazza Marco Polo, direzione nord)
Per poter avviare l’ambizioso progetto
si procede alla stesura del piano regolatore (approvato nel 1905), all’elaborazione del regolamento edilizio (1907) e
alla stesura del bando dell’asta per la
vendita dei terreni.
Nell’acquisto si cerca di privilegiare gli
italiani, ciononostante a farsi avanti per
primi sono nella maggior parte dei casi
ricchi cinesi.
L’immagine della concessione comincia a delinearsi: uno spazio destinato ad
abitazioni signorili rappresentativo di una
cultura architettonica rigorosamente italiana, ben distinta da quella locale e da
quella delle altre concessioni dove primeggiano costruzioni destinate a banche, uffici, alberghi.
Giulio Machetti
Ampie strade che si incrociano ad
angolo retto su cui si affacciano villini
di due piani con piccoli giardini recintati
dove si insediano circa 600 connazionali, 700 cittadini di varie nazionalità che
operano nelle diverse concessioni straniere e circa 6.000 cinesi.
Una comunità mista che vive ben lontana e poco partecipe dei travagli della
madrepatria.
La concessione, infatti, fino al 1925 è
amministrata da antifascisti. Solo con la
soppressione del consiglio municipale fa
il suo ingresso ufficiale il fascismo che
inciderà sui caratteri formali del quartiere con la costruzione secondo i canoni
dell’architettura del regime del Forum e
della Casa degli italiani.
Ph © Secretária de turismo de la nación
Capitali — 27
Il teatro Colón a Buenos Aires
Buenos Aires e la sua area metropolitana contano più di 6 milioni di cittadini
di discendenza italiana.
Gli italiani hanno contribuito significativamente al disegno e alla costruzione
della capitale argentina e il teatro Colón
è sicuramente l’edificio simbolo dell’Italia
in Argentina e dell’Argentina nel mondo.
Progettato dall’italiano Francesco Tamburini e proseguito dal suo allievo Vittorio Meano con il finanaziamento di un
altro italiano, Angelo Ferrari, il teatro fu
concluso dal belga Jules Dormal dopo
18 anni di costruzione.
Fu inaugurato nel maggio 1908 con
la messa in scena di Aida di Giuseppe
Verdi. Negli anni Trenta fu ampliato nei
sotterranei per dotarlo di un atelier di
(La grande sala del Teatro Colón)
scenografia, ampliato nuovamente trenta
anni dopo da Mario Roberto Alvarez per
incorporare altri 20.000 metri quadri
destinati a sale prova, produzione e aree
amministrative.
Il teatro Colón è un’opera fondamentale della cultura argentina, che promuove e proietta l’identità nazionale su
scala mondiale. La sua notorietà deriva
dall’insuperabile acustica, dall’imponente architettura eclettica, dall’ampiezza e genialità tecnica della sala e
dalla capacità artigianale della produzione di spettacoli. Qui si sono esibiti
musicisti, cantanti, registi e ballerini tra
i più prestigiosi: da Toscanini a Stravinsky, da Nijinsky a Nureyev, alla Callas,
Pavarotti, Domingo.
Edgardo Salamano
Oggi il Colón è nella fase conclusiva di un
profondo processo di restauro conservativo e di modernizzazione tecnologica che
restituirà lo sfavillio degli anni di splendore.
La sfida è grande tanto quanto il prestigio del teatro e prevede l’applicazione di
un metodo di gestione in grado di coordinare tutti gli attori coinvolti in questa
grande opera. Un progetto che si suddivide in 60 sottoprogetti coordinati
a cui lavorano più di 500 fra operai ed
esperti. Tutte le aree principali del teatro Colón verranno terminate prima della
sua riapertura nel maggio 2010, mentre
le cosiddette ‘opere complementari’ verranno consegnate nel 2011.
www.teatrocolon.org.ar
Ph wikimedia commons - Haxorjoe
28 — Capitali
New York e le Little Italy
New York ci permette di analizzare il luogo
comune, lo stereotipo dell’appartenenza:
la costruzione di quell’idea di ‘italianità’
che non è mai stata data in sé e per sé
ma che si è sempre modificata a seconda
dei bisogni e delle opportunità. Del resto,
molto spesso la tradizione procede al
contrario: proietta nel passato immagini e bisogni che appartengono al presente. A New York dunque, si cerca l’architettura come costruzione delle identità,
quelle identità declinate nelle Little Italy
(luoghi grandi come un nucleo familiare,
un paese, un ristorante, una strada); negli
spazi che hanno contrassegnato il tempo
del Made in Italy (boutique, ristoranti di
alta cucina, showroom di design); negli
oggetti culturali creati da curatori di musei,
direttori di testate prestigiose, docenti universitari, artisti, designer, fino ad arrivare
agli interstizi di un presente dalla complessa lettura: questo tempo che, dopo
la crisi finanziaria, sembra scivolare oltre
gli oggetti e declina il concetto di ‘nuovo’
non più all’interno di categorie estetiche
ma temporali. Little Italy, dunque, come
‘architettura degli stereotipi’. Dall’immigrato rozzo dell’Ottocento all’Italian way
of life degli anni ’80 e ’90 del Novecento,
dalla costruzione dell’identità di ritorno con
i suoi rituali legati a santi patroni di un’altra
latitudine all’edificazione dei luoghi culturali dell’‘apolide italiano’ Renzo Piano, fino
al trionfo dell’indistinto contemporaneo.
Nel Duemila quasi sedici milioni di americani
hanno dichiarato di avere antenati italiani.
(Renzo Piano Building Workshop, The New York Times Building, New York, 2000-2007)
Lorena Bari
Dall’inizio del nuovo millennio però, si vanno
acuendo alcune caratteristiche. Si assiste a
una tendenza che il sociologo Richard Alba
ha definito “crepuscolo dell’etnicità”: quella
condizione di assimilazione nella quale si
trovano gli italoamericani di terza generazione per cui il retroterra di immigrati è privo
di un autentico significato.
Si assiste a una sorta di trionfo dell’indistinto – come afferma il sociologo Giuseppe De Rita – dove le identità storiche,
nazionali o ideologiche si dissolvono e si
ricompongono velocemente e spesso al
loro posto si insedia un insieme di comportamenti (di consumo, di comunicazione
di massa, di mobilitazione emotiva) strutturalmente troppo labili e generici per garantire nuove identità.
Ph Filippo Proietti
Capitali — 29
Berlino, nuova capitale italiana?
L’architetto vicentino Franco Stella firmerà
l’ambizioso e discusso progetto della ricostruzione dell’antico castello cittadino di
Berlino (Berliner Stadtschloss). L’edificio
originale, rovinato dai bombardamenti,
fu abbattuto dal regime della DDR perché considerato simbolo del militarismo
prussiano; al suo posto fu eretto il Palast
der Republik tirato giù, a sua volta, dopo
il crollo del muro. Il progetto si compone
di una parte conservativa – la ricostruzione
secondo i piani originali di tre facciate
barocche (nord, est e ovest) – e di una parte
completamente innovativa: la facciata sud
dell’edificio, infatti, sarà edificata secondo
il progetto originale dell’architetto.
Non è la prima volta che architetti italiani
‘riempiono i buchi’ della storia berlinese.
(L’area del cantiere della ricostruzione dello Stadtschloss)
Basti pensare a Potsdamer Platz, simbolo della divisione della città a due passi
dal bunker dove si suicidò Hitler, ricostruita da zero sotto la supervisione di Renzo
Piano; oppure alla riedificazione ad opera
di Aldo Rossi dello Schützenquartier, area
centrale accanto al Checkpoint Charlie; senza dimenticare i contributi di Giorgio Grassi, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi
e altri alla Internationale Bauausstellung
(la mostra internazionale dell’edilizia) del
1984 a Berlino ovest.
Ma la Berlino ‘italiana’ non si riduce a queste importanti opere. Di fatto, la capitale
tedesca nell’ultimo ventennio è diventata
una meta ambita di un flusso di mobilità
composto da giovani italiani alla ricerca
non solo di esperienze professionali, ma
Alvise del Pra’
anche di studio e di vita (in merito, basti
pensare che il tasso di disoccupazione
nella città si aggira intorno al 17%, e,
secondo alcuni studi, nella collettività italiana rasenterebbe il 30%).
Le autorità tedesche calcolano che, nel
2008, gli italiani residenti a Berlino fossero
14.964, di cui oltre un quarto da meno di 5
anni, a cui ogni anno si aggiungono tra i cinquecento e i mille individui, in maggioranza
giovani studenti, ricercatori, professionisti
attratti anche dal basso costo degli immobili in locazione, grazie al surplus di offerta
rispetto alla domanda nel mercato immobiliare. I rappresentanti di queste ‘nuove
mobilità’ partecipano così, assieme ai
grandi architetti italiani, nel dare alla capitale
tedesca un volto sempre più ‘italiano’.
30 — Capitali
Migrazioni italiane
e segni italiani
Grandi opere infrastrutturali e singoli edifici…
Quanto è riconoscibile l’influenza che gli italiani hanno avuto
sul disegno delle città in cui sono andati a vivere
Maddalena Tirabassi
Le migrazioni italiane sono lette in
senso globale e diacronico per cominciare a esplorare il contributo architettonico, artistico, urbano e paesaggistico che gli italiani hanno apportato ai
Paesi di insediamento.
In termini numerici i movimenti migratori presentano cifre impressionanti. Sono
29 milioni gli emigrati che nel corso di un
secolo e mezzo hanno varcato i confini
italiani per poco, o per sempre, per dirigersi in ogni parte del mondo: quasi 15
milioni in Europa (2.970.040 in Germania,
4.436.965 in Francia, 4.434.113 in Svizzera), 12 milioni nelle Americhe (672.410
in Canada, 5.800.706 negli Stati Uniti,
1.476.552 in Brasile, 3.007.361 in Argentina) e attorno al mezzo milione tra Africa
e Oceania. Ancora oggi si trovano nel
mondo 3.734.428 cittadini italiani, per
non parlare degli oriundi che si stimano in
decine di milioni. Nella sola Argentina essi
costituiscono la maggioranza della popolazione del Paese.
Gli italiani hanno lasciato profondi
segni della loro presenza nelle diverse
società. Si tratta di segni diretti, legati
alle loro professionalità: architetti, ingegneri e artisti, maestranze, artigiani, scalpellini, stuccatori, intagliatori e manovali.
Ma non sono da trascurare le influenze
derivate dal continuo intreccio tra migrazioni di professionisti e migrazioni non
specializzate. Anche quando, come al
momento dell’emigrazione di massa, par-
è da trascurare nemmeno l’attività edilizia
‘privata’: molti degli emigrati, indipendentemente dalla loro attività lavorativa, tendevano a costruirsi la propria casa, per
necessità se si trovavano nelle campagne
argentine o brasiliane, per risparmiare,
nelle zone urbane. Come testimonia il letterato italoamericano Fred Gardaphè nel
video Segni italiani quando racconta che
il nonno manovale, a Chicago, portava
a casa ogni sera, come tutti i suoi compagni, un mattone ‘rubato’ dal cantiere
per costruirsi la casa. L’intreccio tra cultura del risparmio e tradizione si è riflettuto anche nella creazione di orti in ogni
fazzoletto di terra limitrofo all’abitazione,
sia che si trattasse di una backyard o
di un terreno incolto. Assieme a chiese,
tivano prevalentemente i contadini, essi in cimiteri e edicole i segni italiani sul paemolti Paesi preferirono dedicarsi a lavori saggio straniero si sono così moltiplicati
all’aperto piuttosto che rinchiudersi nelle nel tempo, affiancati dalle capitali italiane
fabbriche. Parteciparono così alle grandi dell’Italia coloniale in cui all’architettura
opere infrastrutturali dell’epoca come ufficiale si unì l’impronta della emigraferrovie, metropolitane, viadotti, dighe e zione, seppur limitata nei numeri, e quella
a tutte quelle opere relative allo sviluppo dell’Italia diplomatica con ambasciate,
delle grandi città. Fenomeno che si è consolati, Case italiane che si possono
riproposto nel secondo dopoguerra. Non trovare in ogni grande città del mondo.
Capitali — 31
Non meno importanti sono poi i mutamenti del paesaggio urbano, legati al concentrarsi delle migrazioni in quartieri poi
definiti ‘etnici’: con l’arrivo degli italiani in
molte città gli incroci diventano piazze,
le strade, spesso teatro di processioni e
feste, con ristoranti e negozi di generi italiani. Capitali italiane nel mondo, quindi,
ma anche capitali degli italiani nel mondo.
Il fenomeno più eclatante in questo senso
è quello delle Little Italy statunitensi, in cui
non erano gli edifici, preesistenti alla presenza italiana, ma lo stile di vita a segnare
il quartiere, con negozi legati alle più
varie attività commerciali, a conferire un
aspetto particolare… ‘Piccole Italie’ che,
seppur in misura e in tempi diversi, si possono trovare in tutti i continenti.
Le migrazioni di professionisti sono state
spesso offuscate dall’immagine dominata
da una lettura pauperistica dell’emigrazione. Al contrario esse costituirono un
segmento importante che trova le sue
radici in epoche antecedenti di molto
l’unificazione del Paese. Già ai tempi delle
colonie genovesi e veneziane, gli italiani
avevano lasciato la loro impronta nelle
città del Mediterraneo. Si trovano quartieri e strade italiane a Salonicco, a Chio e
a Creta, in Asia minore, a Costantinopoli e
a Smirne, in Siria, in Palestina e in Egitto,
fino all’estremo del Marocco.
A partire dal Seicento, mercanti e banchieri si diressero in Europa, dove architetti e artigiani italiani parteciparono alla
Seicento si costruiranno fortezze sia in
Europa che nell’America spagnola.
Nel Settecento in Germania si avvicendarono intere dinastie di decoratori
e stuccatori contribuendo alla realizzazione di saloni e cappelle a Stoccarda e a
Wurzburg. Le compagnie di lavoro costituite da gruppi familiari avevano competenze che andavano dall’architettura, alla
scultura e all’intaglio, fino alla stuccatura
e alla decoratura.
Nella Russia degli zar architetti ticinesi e lombardi tracciarono le muraglie
del Cremlino: Aristotele Fioravanti, Pietro
Antonio Solari, Marco Ruffo furono tra gli
italiani a cui fu commissionata l’elaborazione dello stile russo che si trova nelle
cupole multicolori a smalto e oro delle
cultura e alla costruzione delle grandi città cattedrali di Mosca e dintorni. Bartolomeo
europee, che a Londra e a Parigi davano Rastrelli diverrà la figura centrale dell’arrispettivamente il nome a Lombard Street chitettura russa importando il Barocco.
e a Rue de Lombards.
Quarenghi contribuirà con lo stile neoA Vienna architetti, impresari edili e arti- classico a trasformare San Pietroburgo,
sti italiani imporranno lo stile barocco, il dandole un tono italiano.
teatro moderno, la musica. Ma il primato
La Francia di Francesco I venne conitaliano si ha nell’architettura e nell’inge- quistata dai modelli artistici e architetgneria militare: fino alla seconda metà del tonici italiani: i palazzi-fortezza verranno
32 — Capitali
rimpiazzati da edifici rinascimentali.
A Parigi Fra Giocondo assieme al suo
giardiniere Pacello da Mercegliano e
all’ingegnere Domenico da Cortona guideranno il passaggio dallo stile gotico a
quello rinascimentale.
Anche negli Stati Uniti il contributo italiano alla società è stato particolarmente
rilevante in campo artistico, come testimoniano le ricerche di Regina Soria, che
elenca 350 artisti: scultori e pittori, ma
anche scalpellini, intagliatori di marmo
e legno, figurinai, stuccatori, e bronzisti,
esercitarono un ruolo importante nel ‘dar
forma’ all’America. Ad esempio alcune
delle icone americane sono state prodotte da italiani. Da citare lo scultore del
Campidoglio, Giuseppe Franzoni, autore
dell’aquila americana simbolo della
repubblica, Enrico Causici, scultore della
prima statua di Washington e dei busti
di Jefferson e Moore, Costantino Brumidi, che introdusse in America la tecnica dell’affresco
Oltre alle influenze veicolate dall’immigrazione, delle masse e degli ‘artisti’,
ci furono quelle indirette, costituite dai
modelli architettonici italiani importati nel
Paese dagli ‘scenografi’ americani del
paesaggio urbano all’opera negli anni a
cavallo tra Ottocento e Novecento. Il caso
di New York offre l’esempio più interessante. I grandi cantieri che dovevano trasformare la fisionomia della metropoli:
quelli dei grattacieli – Flat Iron, 1902,
a modelli rinascimentali e orientali introducendo accanto ai minareti, vedute del
Vesuvio, la caduta di Pompei, una ricostruzione del Canal Grande e del Palazzo
Ducale di Venezia. La New York di inizio
secolo si avvalse in larga misura della
manodopera italiana, creativa e abile,
per decorare i grattacieli e la metropolitana (1904) con stucchi, mosaici. L’Arts
and Crafts Movement – che enfatizzava
la figura del maestro artigiano – si avvalse
ampiamente delle loro competenze.
Anche in Brasile architetti e artisti italiani
sono stati autori di numerosi edifici simbolici e monumenti: Tommaso Gaudenzio Bezzi (Monumento do Ipiranga a San
Paolo che commemorava l’indipendenza
del Brasile); Luigi Pucci, un toscano, ediWorld Tower ed Equitable Building, 1915 ficò numerose ville per la famiglia di Anto– della metropolitana inaugurata nel 1904, nio Prado e poi fu responsabile di impordei ponti (Brooklyn Bridge, 1883) oltre ad tanti cantieri edili e costruttore di canali,
avvalersi del lavoro degli immigrati italiani, strade e gallerie. Un altro italiano, ingesi rifacevano a modelli architettonici euro- gnere, Bertolotti nel 1891 vinse il concorso
pei, spesso italiani. Già il parco Luna, a per la direzione delle Obras Publicas di
Coney Island, aperto nel 1903, creato da San Paolo. A lui venne affidato il comFrederick Thompson, considerato l’ide- pito della realizzazione del primo nucleo
atore dell’utopia di Manhattan, si ispirò urbano di Piracicaba e della fabbriche di
Capitali — 33
ceramica di Calmon Viana. Adolpho Josè
del Vecchio diplomato al Politecnico di Rio
costruì l’edificio della Dogana su un’isoletta davanti a Rio de Janeiro. In questa
città nel primo Novecento in occasione
dei grandi lavori di trasformazione urbana
intrapresi dal governo repubblicano gli
architetti e ingegneri italiani assumeranno
un ruolo di primo piano diffondendo “il
loro decoroso classicismo passe partout”. Ma è in alcune zone rurali del Paese
che si respira, grazie all’isolamento in cui
sono rimaste per decenni, un’aria italiana,
come mostrano le imponenti ricerche
sulla cultura vernacolare italiana nel Rio
Grande Do Sul.
In Argentina, l’edificazione della capitale
Buenos Aires coincise con il picco dell’immigrazione e gli italiani contribuirono a tutti
i livelli all’edificazione della nuova capitale. Ma anche qui, oltre ai numerosi segni
lasciati da architetti come Francesco Tamburini e Giovanni Antonio Buschiazzo fu
la presenza italiana a segnare profondamente la cultura del Paese. Ci troviamo di
fronte a una nazione in cui è difficile rintracciare i segni italiani poiché tutto ricorda
l’Italia o, per citare Luigi Einaudi, “l’ambiente argentino è saturo di italianità”.
Gli italiani parteciperanno anche alla
ricostruzione europea nel secondo
dopoguerra. L’edilizia, assieme alle attività commerciali e di ristorazione offrì le
migliori opportunità di mobilità sociale:
mentre la manovalanza dei cantieri veniva
reclutata fra gli immigrati della costa meridionale del Mediterraneo, gli italiani andarono progressivamente a occupare posizioni tecniche e imprenditoriali.
Le migrazioni italiane attraverso i meccanismi della catena migratoria familiare
e di mestiere, concentrandosi in specifici quartieri, hanno formato nel mondo
tante piccole Italie che, negli Stati Uniti,
a differenza di tanti altri quartieri etnici
‘euroamericani’: German, Jewish e
Polish Towns, sono sopravvissute al melting pot, allo sradicamento post bellico,
alla gentrificazione.
Gli spostamenti degli americani di origine
italiana nei sobborghi, grazie al benessere
finalmente acq isito negli anni del dopoguerra hanno visto trasformarsi, ma non
estinguersi le Little Italy, che divennero
meta di loro visite per ritrovare i ristoranti, i negozi, le chiese. ‘Quartieri etnici’
andarono a riformarsi a Brooklyn, Long
Island, Benson Hearst. Le ragioni di questo attaccamento al territorio sono da rintracciarsi nella cultura italiana: il possesso
di una casa, o meglio la costruzione di
una casa, rappresenta il simbolo del successo dell’esperienza migratoria. A dare
continuità nel tempo sono poi i materiali utilizzati, pietre e mattoni. Questo ha
fatto sì che le case degli italiani abbiano
resistito meglio agli incendi che hanno in
più occasioni distrutto le città americane
costruite prevalentemente in legno.
Fonte dati: rielaborazione a cura di Centro Altreitalie su base
ISTAT, Sommario di statistiche storiche italiane, vari anni
Dal cibo alle scarpe,
il mito di una nazione
Italici
Esiste nel mondo una comunità di persone
che si sentono vicine all’Italia per sensibilità
e origini. È un’Italia descritta attraverso le icone,
i prodotti, lo stile di vita, ma anche e soprattutto
tramite l’architettura
Cristiano Seganfreddo
Una lezione di francese
Esclusività e unicità sono gli
ingredienti di un’abilità radicata
nelle mani degli artigiani italiani
Gianni Rogliatti
La Ferrari
come modello da esportare
L’architettura è chiamata a promuovere
il marchio più simbolico del Made in Italy
all’estero
Pasquale De Angelis
100% Made in Italy
Piero Bassetti
Gli italici:
una nuova comunità glocale
Immigrati, oriundi, italofoni e italofili:
la rete degli italici sparsi nei cinque continenti
Ph © Carlotta Maitland Smith - Sally Fuca-Scalisi, aged 9, at home in her Yankees T-shirt. She has never been to Italy and speaks little Italian, Pearl River, New York, USA, 2009
I distretti da eredi delle botteghe
rinascimentali a principali artefici
di un saper fare italiano
36 — Italici
La Ferrari
come modello da esportare
I nuovi edifici dello stabilimento costruiti secondo la 'Formula uomo'
Gianni Rogliatti
Che la Ferrari sia il marchio automobilistico italiano più conosciuto nel mondo
non ci sono dubbi, ed è forse il marchio
italiano più famoso tout court, il portabandiera del Made in Italy.
Sui motivi di questo successo molto è
già stato detto, ma il tutto si può riassumere in una serie di concetti: c’è il
carisma del fondatore Enzo Ferrari, che
col passar del tempo diventa sempre
più misterioso, poi la tecnica vincente
che ne ha fatto delle auto leggendarie
vittoriose in tutte le gare più importanti
del mondo e, non ultimo, il fascino della
bellezza rappresentato dalle carrozzerie
Pininfarina. Si potrebbe anche aggiungere che il costo elevato ed il tempo
richiesto per la consegna dei singoli
esemplari conferisce loro una caratteristica di esclusività, ma questo è sicuramente l’elemento meno importante.
La storia della marca raggiunge
quest’anno i 70 anni dalla sua fondazione nel 1940 con il nome di Auto Avio
Costruzioni e i 63 anni dalla uscita su
strada della prima automobile col marchio Ferrari, la mitica 125 S del 1947.
Questa storia si è sviluppata in due
periodi, il primo dei quali parte dall’origine e si è concluso negli anni ’90: ha
visto l’espansione della capacità produttiva che è passata dai tre esemplari del
1947 ai 3.518 del 1997 grazie al continuo
ampliamento dei vecchi capannoni e la
costruzione di nuovi.
In questo periodo ci sono stati grandi
avvenimenti, le vittorie, il diffondersi della
fama internazionale della marca anche
nel bel mondo dove il possesso di una
Ferrari diventava sinonimo di successo
personale, ma anche la scomparsa di
Enzo Ferrari nel 1988 cui erano seguiti
alcuni anni di assestamento per metabolizzare la perdita. Alla fine del 1991 Luca
Cordero di Montezemolo veniva nominato presidente ed amministratore delegato. Scelta azzeccata in quanto conosceva bene la Ferrari essendo stato dal
1973 al 1976 assistente del presidente e
direttore della squadra corse.
Dopo avere risolto problemi organizzativi, come la scelta di nuovi modelli e il
rilancio della squadra corse che da alcuni
anni offriva risultati non all’altezza della
tradizione Ferrari, Montezemolo affrontava nel 1997 un problema nuovo, dandogli un nome che ricordava il mondo
delle corse e cioè ‘Formula uomo’.
Si trattava di ridisegnare la fabbrica in
modo che fosse sempre più efficiente
dal punto di vista tecnologico, ma presentasse un’elevata qualità dell’ambiente
di lavoro. Per dirla con le parole di Montezemolo: “qualità dell’ambiente significa
qualità della vita e del lavoro, in spazi non
coercitivi e non deprimenti, dove il lavoro
non sia vissuto come un obbligo”.
Era un impegno gigantesco, che richiedeva la costruzione di nuovi edifici al posto
di quelli vecchi, il tutto senza interrompere la produzione, che anzi è aumentata
dai citati 3.518 ‘pezzi’ del 1997 agli oltre
6.000 del 2009. Ma l’innovazione andava
oltre, perché i nuovi edifici sono stati tutti
‘firmati’ da grandi architetti, in modo tale
che, sono ancora parole di Montezemolo,
“chi arriva a Maranello vuole soprattutto
vedere delle bellissime macchine, vuole
capire cosa c’è dietro la macchina e il suo
successo, ma io voglio che vedano anche
alberi dentro stabilimenti pulitissimi, che si
Italici — 37
senta la simbiosi tra un lavoro fortemente
manuale e la grandissima sofisticazione
delle macchine utensili”.
In realtà la ‘Formula uomo’ non consiste solo negli edifici ma anche in una
serie di iniziative tese a migliorare le
condizioni del personale e delle famiglie, e nei programmi per migliorare la
sicurezza sul lavoro, l’uso ottimale ed
il risparmio di energia nonché la cura
dell’ambiente. A proposito di questi
ultimi due punti va detto che la Ferrari
ha già istallato molti pannelli fotovoltaici
e sta costruendo una centrale di trigenerazione che la renderà praticamente
autosufficiente sul piano energetico. Per
l’ambiente ha piantato mille alberi nei
viali interni dello stabilimento.
Ma ecco il programma relativo agli edifici.
Il primo, costruito secondo la nuova filosofia aziendale nel 1997 è stato quello
della Galleria del vento, di Renzo Piano.
La galleria del vento è, in pratica, un
grosso tubo entro il quale circola l’aria
mossa da un potente ventilatore ed i
cui effetti sull’automobile in prova possono essere accuratamente misurati.
In genere queste istallazioni vengono
racchiuse entro parallelepipedi senza
finestre e senza personalità. Piano ha
lasciato all’aperto questo tubo, adagiandolo di sbieco contro una collinetta
ed ha creato di fatto un richiamo anche
paesaggistico in quanto si trova vicino
alla nuova entrata della fabbrica.
Grandi architetti sono stati chiamati
a ridisegnare la fabbrica in modo
che oltre all’efficienza tecnologica
presentasse un’elevata qualità
dell’ambiente di lavoro,
facendo emergere la simbiosi
tra un lavoro fortemente manuale
e la grandissima sofisticazione
delle macchine utensili
Nel 2001 è entrata in funzione la
Nuova meccanica, opera di Marco
Visconti dove tra le macchine utensili si
trovano aiuole verdi e dove la luminosità ed il basso livello di rumorosità possono trarre in inganno il visitatore circa
la vera attività che si svolge nell’edificio
dove si producono i pezzi delle automobili. Nel 2003 è stata la volta della
Nuova logistica, una struttura che non
sta nel complesso dello stabilimento,
bensì accanto alla pista di prova di Fiorano: ospita i mezzi di trasporto necessari per partecipare alla gare di Formula
1 in tutto il mondo ed è stata progettata
da Sturchio Architects & Designers, con
una forma che ricorda chiaramente un
dirigibile, quasi volesse muoversi con
tutti gli autocarri dentro.
Il Centro sviluppo prodotto, costruito
nel 2004, è stato progettato da Massimiliano Fuksas e si potrebbe definire semplicemente come un parallelepipedo,
ma la definizione, geometricamente corretta, non rispecchia la realtà di un edificio le cui pareti sono di vetro e creano
effetti ottici curiosi, aiutate in questo dai
solai esterni che sono piscine con 10
centimetri di acqua attraversate da camminamenti. È un ambiente arioso, atto a
stimolare la creatività.
Nello stesso 2004 è stato ultimato l’edificio della Nuova verniciatura, anche questo opera di Marco Visconti, con proporzioni gigantesche e con la caratteristica
di possedere una balconata esterna dalla
38 — Italici
quale i visitatori possono vedere come si
svolgono i processi di verniciatura, totalmente automatizzati.
Infine nel 2008 venivano completati altri
due edifici: uno è il Ristorante aziendale
strategicamente piazzato al centro del
complesso industriale in modo da avere
una distanza massima predefinita che i
lavoratori debbano percorrere dai punti
più lontani. Anche questo progetto è di
Marco Visconti: la linea innovativa che
ricorda un profilo alare sistemato alto da
terra in modo da apparire come in volo e
l’ambiente interno molto gradevole fanno
da contenitore ai prodotti della cucina
emiliana che sono preparati sul posto
e sempre freschi. Un locale che, se non
fosse riservato ai soli dipendenti, sarebbe
da segnalare nelle guide gastronomiche.
Infine l’ultimo della serie è quello destinato al Montaggio vetture: progettato
da Jean Nouvel si sviluppa su due piani,
quello terra dedicato alle automobili
con motori V8 e quello superiore alle
12 cilindri. La sua lunga facciata realizzata parte in acciaio e parte in vetri
riflettenti è visibile dalla Statale dell’Abetone e appare come un lungo specchio, con effetti non solo estetici ma
anche di regolazione della luce e della
temperatura dell’ambiente di lavoro.
È stato costruito sulla traccia dell’edificio originale, di cui si conserva parte
della parete esterna come elemento
decorativo e monumento alle origini.
Va da sé che la progettazione di
ciascuno di questi edifici è avvenuta con
la più stretta collaborazione tra gli architetti e i dirigenti della Ferrari, in modo
che il risultato fosse proprio quello programmato e cioè la bellezza esterna
unita alla funzionalità delle operazioni
cui sono destinati. Come dicevano i
grandi architetti greci καλòς καì αγαθòς
ossia ciò che è bello è anche buono, nel
senso di utile, pregevole.
Il risultato è impressionante sia che lo
si osservi camminando negli ampi viali
interni, sia vedendo una foto aerea: il
piccolo stabilimento di 10.000 metri
quadri del 1947 è diventato un complesso luccicante di 209.070 metri quadri che si sviluppano sull’area complessiva di ben 551.519 metri quadri ottenuti
Ph © Ferrari S.p.A.
Italici — 39
con successive acquisizioni dei terreni
circostanti quello originale che già Enzo
Ferrari aveva previdentemente comprato abbondante rispetto alle sue esigenze di allora. Tutto ciò ha richiesto un
investimento di oltre 200 milioni di euro
e costituisce il fiore all’occhiello per la
città che attualmente ha un sindaco
architetto, Lucia Bursi.
A questo va poi aggiunto lo Stabilimento
Scaglietti di Modena con una superficie coperta di 15.467 metri quadri, storica sede del carrozziere principe per le
auto da corsa Sergio Scaglietti, di cui si
è voluto conservare il nome, (presente
anche in modello in produzione il 612
Scaglietti appunto) anche questo completamente rinnovato e dove oggi sono
assemblate le scocche in alluminio di cui
sono dotate tutte le Ferrari stradali.
È stata un’operazione in cui si rispecchia la filosofia del fondatore, il quale
diceva che per fare delle buone macchine ci vogliono prima di tutto gli
uomini, poi le attrezzature e infine gli edifici e con la sua ‘Formula uomo’ Montezemolo ha fatto proprio questo.
Il modello naturalmente è esportabile:
deciso il prodotto e il posto dove farlo
si possono applicare tutti i canoni elencati all’inizio e il risultato sarà probabilmente buono e comunque sufficiente
per le esigenze di mercato. Esiste però
il fattore tempo di maturazione, bene
esemplificato da una storia che si asserisce essere vera. Un ricco americano
si era fatto costruire un castello inglese
in America, del tutto uguale all’originale
salvo un dettaglio: il prato di erba fitta,
verde e rasata, detto appunto prato all’inglese. Chiamato un esperto ebbe come
responso che, sì, il prato si poteva ottenere: bastava annaffiare e tosare regolarmente… per 400 anni.
Oggi le automobili si fanno dovunque nel mondo ma una Ferrari non si
potrebbe costruire in nessun altro posto
che a Maranello. Non a caso esiste
anche un reparto chiamato Ferrari Classiche dove qualunque automobile uscita
dal portone col numero 4 di via Abetone
Inferiore a partire dal 1947 può ritornarvi
per essere rimessa a nuovo coi pezzi di
ricambio e le istruzioni originali.
40 — Italici
100% Made in Italy
L’Istituto per la Tutela dei Produttori Italiani è nato per garantire
che il Made in Italy non sia realizzato solo 'prevalentemente' in Italia
Pasquale De Angelis
Un autorevole studioso tedesco, Jacob
Burckhardt, circa un secolo e mezzo fa,
parlando dell’uomo del Rinascimento italiano, lo definiva dotato di straordinaria versatilità, animato dal desiderio di allargare
le sue conoscenze in tutti i campi, che poi
applicava alle varie esperienze della vita
operativa, dalle forme più alte dell’arte ai
più comuni oggetti di squisita bellezza.
Oggi ritroviamo questa nostra cultura
del ‘saper fare’ e ‘fare bene’, che ci deriva
dalle botteghe di arti e mestieri rinascimentali, trasformata e allargata su varie
aree della nostra penisola. I nostri distretti
industriali sono in chiave moderna l’evoluzione di quelle botteghe artigiane, rinascimentali. Da questa arte di prestigio antico
nasce il Made in Italy. Un nome quest’ultimo che insieme a ‘pizza’ e ‘pastasciutta’
è fra i più famosi al mondo. Gli eredi di
quelle intelligenze rinascimentali sono
oggi i nostri artigiani che, appena hanno
avuto l’opportunità, si sono imposti in tutti
i mercati internazionali.
Ebbene, questa grande ricchezza nazionale rischia di scomparire nell’arco di pochi
anni perché la concorrenza di coloro che
producono parzialmente all’estero, senza
alcun rispetto per le norme e con un costo
di manodopera molto basso, la sta mettendo in ginocchio. L’Istituto per la Tutela
dei Produttori Italiani (ITPI) è sorto oltre 15
anni fa, senza scopo di lucro, per opporsi
a ciò e ha sostenuto la battaglia per far
togliere la scritta ‘sole Made in Italy’ dalle
suole... e si tratta proprio di suole e non
delle scarpe!
Infatti le fabbriche italiane di semilavorati
erano riuscite a far inserire su una legge la
possibilità di scrivere Made in Italy anche
sui loro prodotti. Ai loro clienti esteri interessava comperare la scritta e poi la suola.
Dopo anni nel 2001 con un Decreto del
30 gennaio di Enrico Letta, che modificava il Decreto 11 aprile 1996, siamo riusciti a fare qualche passo avanti. Tutti però
oggi possono ancora fregiarsi della scritta
Made in Italy anche producendo il 49%
all’estero. Come dire “bevo del vino con
il 49% di acqua, tanto è vino comunque”.
Noi estimatori del vino e del Made in Italy
pensiamo che ciò sia tutto uno scherzo.
Ma poi vediamo che è amara realtà.
A noi questo sembra ambiguo e
ingiusto. Ambiguo perché è difficile,
se non impossibile, stabilire e controllare quando un prodotto è ‘prevalentemente’ fatto in Italia. Ingiusto perché così
si penalizza chi produce interamente in
Italia. Tuttavia, dal momento che lo stile,
il buon gusto, la creatività sono caratteristiche che sui mercati internazionali vengono tradizionalmente riconosciute agli
architetti italiani e alle imprese italiane,
creatività e design sono le migliori leve
per il rilancio competitivo del Made in
Italy e dell’industria italiana.
Non possiamo non considerare però
quale sia il comportamento dei gruppi
di forza del mercato e… dei furbi, fabbricanti che continuano a dire che producono in Italia ma poi si scopre che
non è vero. Il consumatore vorrebbe
comprare Made in Italy vero, ma ha
sempre il dubbio di essere raggirato.
Sempre più spesso sente che è vero.
La ragione dell’esistenza del nostro
Istituto deriva proprio da un quadro
così falsato. Vogliamo fare in modo
che l’autentico Made in Italy diventi
logo, una firma, seppur firma collettiva,
Italici — 41
di sistema e non di una sola ditta, un
brand ombrello promuovendo l’immagine collettiva: selezionando i produttori
che rispondono a rigidi requisiti e associandoli, sensibilizzando i negozianti,
inducendo i consumatori a saper distinguere tra il vero e il falso Made in Italy.
Con l’avvento della globalizzazione si
è trascurato il contenuto del prodotto,
valorizzandone di più l’aspetto economico: non ci preoccupiamo di come è
fatto, di quali materiali vengono utilizzati, da dove proviene, ma si punta sul
prezzo e sulla grande firma che supplisce all’analisi dei contenuti e della qualità. Noi però vogliamo riportare l’attenzione sui contenuti, visto che il Made in
Italy è contenuto. Con la Certificazione
del ‘100% Made in Italy’ vogliamo evitare
ai consumatori di bere vino annacquato!
Oggi la sede dell’istituto è nella città
di Fermo, in uno dei più antichi opifici di
questo territorio. Un edificio del Settecento nato per la raccolta del baco
da seta. Nel 2003, dopo un attento
restauro conservativo, è ritornato il
‘Palazzo dei produttori’, per dare
continuità alle sue origini manifatturiere, in un distretto della calzatura fra i più importanti nel mondo.
Vediamo in breve come avviene la
certificazione ‘100% Made in Italy’.
L’istituto ha realizzato un sistema di certificazione volontaria in base al quale i
produttori distinguono le loro creazioni da quelle di dubbia provenienza,
ridando certezza al consumatore finale
sull’origine e la qualità.
Alcuni requisiti indispensabili per
avere il marchio 100% Made in Italy
sono: innanzitutto materie prime naturali di qualità e di prima scelta. In generale sappiamo che l’Italia non ha materie prime; prendendo ad esempio il
settore delle calzature, i pellami vengono dall’estero, però la conciatura
deve essere rigorosamente italiana ed
i pellami di prima scelta. Inoltre, fabbricazione interamente italiana, semilavorati prodotti in Italia, modelli esclusivi dell’azienda, prodotti conformi alle
norme sulla sicurezza e l’igiene.
L’istituto ha provveduto anche alla realizzazione di un sistema di tracciabilità
per i prodotti ‘100% Made in Italy’.
L’azienda certificata dovrà utilizzare i
segni distintivi rilasciati dall’istituto. I
prodotti sono dotati di marchio olografico anticontraffazione e di numerazione
progressiva.
Oggi l’istituto estende la propria certificazione a molti settori produttivi: abbigliamento, arredamento (mobili, sedie, parquet, poltrone, illuminazione), intimo, abiti
da sposa, cosmetici, giocattoli, arredi
e oggetti sacri, rubinetterie, ceramiche
d’arte, gioielli, ecc. In sintesi: tutti quei prodotti che riguardano principalmente la casa
e la persona. Le produzioni ‘100% Made
in Italy’ certificabili sono anche gli accessori moda e i particolari che vengono contenuti in produzioni più complesse come
borse e
calzature.
marchio dello stile e della creatività del
lavoro italiano. Scomparirà una cultura,
una tradizione, sarà mortificata l’inventiva e la capacità creativa italiana di cui
invece dobbiamo essere fieri. Ma soprattutto si rischia di far diventare un giardino
in un deserto, con l’espulsione di migliaia
di addetti che non troveranno un lavoro
in un altro settore.
Eleganza e attenzione ai dettagli sono
la forza dello stile italiano. In architettura
gli ingredienti importanti sono creatività e
materiali selezionati, un incontro vincente
tra progetto e produttività. Nell’ultimo
decennio anche l’architettura abbraccia
i validi principi della certificazione, solo
che dobbiamo distinguere i due livelli:
certificazione obbligatoria per legge e
certificazione volontaria.
Nel primo livello troviamo la normativa antisismica, la manutenzione degli
impianti, ecc. Sono tutte certificazioni
obbligatorie per salvaguardare principalmente la vita delle persone.
Nel secondo livello troviamo invece
quelle volontarie. ICMQ (Istituto di
Certificazione e Marchio Qualità per
prodotti e servizi per la costruzione)
che valuta e certifica il livello di soddisfacimento dei diversi requisiti cui
la costruzione deve rispondere; dalla
prestazione energetica al benessere termico ed acustico. Oltre ai requisiti legati
al benessere luminoso ed al risparmio
Obiettivo
primario delle risorse idriche. Oppure il protocollo
del nostro istituto è tutelare, valorizzare e SBC (Sustainable Building Council), un
promuovere il ‘100% Made in Italy’ per- sistema di certificazione della sosteniché il Made in Italy è un prestigio antico, bilità delle costruzioni, che permette di
che si basa sulla creatività che sposa valutare edifici di diversa destinazione
qualità ed inventiva. Il Made in Italy dalla d’uso (terziario, commerciale, industriale,
moda alle calzature, dall’arredamento residenziale, ospedali, musei, grattacieli,
alle invenzioni e alle scoperte scientifi- ecc.) in tutte le fasi del ciclo della vita, dal
che, da sempre ci distingue nel mondo. progetto all’esercizio dell’edificio.
Tutte le certificazioni volontarie, in
Oggi il paradosso è che si vuole trasporre il marchio di Made in Italy anche qualsiasi settore e contesto di applicasui prodotti realizzati all’estero, senza zione e diffusione, diventano di fatto lo
tener conto del significato delle parole. strumento per affermare la qualità e far
Chiaramente il tutto a discapito di quegli emergere le eccellenze. In generale nel
imprenditori che non hanno delocalizzato definire un disciplinare di certificazione,
l’importante per noi italiani è quello di stie che operano con sani principi etici.
Senza una prospettiva certa, senza lare regole semplici e chiare, sul modello
alcun intervento a correzione di certe anglosassone.
storture, si può solo ipotizzare una
rapida scomparsa del Made in Italy quale www.madeinitaly.org
42 — Italici
Una lezione di francese
L’artigiano italiano, da interprete di antiche pratiche sedimentate e desuete,
diviene oggi il principale artefice del Made in Italy
Cristiano Seganfreddo
Qualche mese fa il buon signor Vuitton
ha mandato in scena una nuova campagna pubblicitaria sui mezzi nazionali. Chi si
aspettava Madonna o la Jolie, Gorbaciov
o qualche nuova starlette planetaria deve
essere rimasto profondamente deluso.
Un colpo basso è stato portato a tutti
i fashion victim. Convinti di trovarsi Lara
Stone (la prossima modella) si sono trovati invece tre diverse immagini di tre
signori intenti ad eseguire lavori manuali.
‘Piccoli gesti’, che vengono descritti
come fondamentali, nel garantire quello
che ognuno di noi cerca nel momento in
cui acquista un prodotto di lusso: esclusività, unicità, sapore manuale, ‘imperfezione’ perfetta.
Vuitton, indirettamente, forse, ha portato
alla causa dell’artigianato più di tutte le
azioni consociative messe assieme negli
ultimi trent’anni. I difensori o i tutori dell’artigianato hanno sempre rilasciato l’idea
naif e folk dell’artigiano capace di reiterare gesti che vengono letti dalla società
come desueti. Come vecchi e non interessanti. Cose che spesso stanno meglio
nei mestieri in piazza, la domenica, che
in un negozio di design. L’immaginario
dell’artigiano da noi corrisponde all’impagliatore di sedie, o al falegname vecchietto che usa lima e scalpello, davanti
alla classe di scolaretti delle elementari.
L’artigiano italiano è relegato a un ruolo di
antico interprete di antiche pratiche che
ormai non corrispondono più alla nostra
vita in bilico da un’applicazione all’altra,
tra iphone, ipad e infinite connessioni
wireless. Il signore del lusso cosa ci dice
invece? Vuitton ci racconta che i suoi
artigiani sono contemporanei. Che sono
fondamentali nel processo di creazione
di un prodotto di altissima qualità, dove
ogni dettaglio è determinante nel risultato
complessivo. Vuitton ci racconta che non
è solo una questione di stile o di bozzetti
di uno stilista glamour (di cui ci siamo tutti
più o meno stancati, come dimostra la
riduzione del 30% nei fatturati anche dei
grandi marchi), ma è questione di mani.
Di preziosissime mani. Che permettono
ai suoi ambiti prodotti di mantenere un
ruolo di diversità sul mercato. Motivo per
cui il colosso francese decide di imbastire
un’astronave di migliaia di metri quadri a
Fiesso d’Artico, in provincia di Venezia.
Viene in Italia a farsi costruire le scarpe.
Perché dall’altra parte delle Alpi nessuno
le sa più fare. L’Italia sapeva fare, come
Geppetto con il suo Pinocchio. Aveva
una straordinaria padronanza manuale,
diffusa e sedimentata, in secoli di tradizione artigianale, poi diventata industria.
Una sapienza di controllo di materiali
e idee che, inaspettatamente, diventavano oggetto.
Storie. Narrazioni, come le chiamano le ultime frontiere del marketing esperenziale. Partendo dalle mani.
Il progetto si fondeva con l’oggetto, grazie
a quel mix impreciso, instabile e indefinibile
di competenze, passione, rischio. Gusto e
precisione. Di prove e tentativi andati male.
Di frequentazione, quasi maniacale, di
un’idea. Basi per l’innovazione di prodotto
di quello che è diventato il Made in Italy
nel mondo. Se da altre parti l’innovazione
è stata progetto e pianificazione, l’Artificial Intelligence, da noi è stato l’artigianato
industriale. Qualcosa di diverso, che non
nega ricerca e tecnologia, ma che si fonde
con altri saperi e modalità. Mondi mandati
spesso in outsourcing o in pensione, e che
dovremmo riprendere, perché quella ‘roba
lì’, la nostra AI, può essere la via d’uscita,
dall’impasse economica e sociale italiana.
Ma solo se resa contemporanea e non,
ancora una volta, folklore.
Interi comparti, infatti, si sono rinchiusi
nell’autarchia. Non capiscono più il mercato. Non si ritrovano più sulla cartina
geografica. I cui punti cardinali, nel frattempo, sono completamente cambiati.
E così molte aziende vivono in un isolamento che le sta portando alla chiusura.
Dall’oro alla ceramica, dalla pelle al tessile. Realtà con una grande capacità produttiva e di lavorazione che non sanno
più per chi e per cosa producono. E che
così stanno deperendo quotidianamente
la loro capacità ‘manuale’. Quando il
mondo cerca esattamente quelle capacità. Non servono stilisti ma modellisti.
Non servono art director isterici ma programmatori seri. È dunque un enorme
problema di alfabetizzazione del Paese.
Come fare allora? Quali politiche applicare? Togliere il mondo artigiano dagli
organismi datati e politicizzati che l’hanno
Ph Campagna savoir-faire Louis Vuitton
Italici — 43
malamente governato. Risemantizzare
integralmente la parola e il mondo che
le sottostà. Creare una task force multidisciplinare che ritraduca l’artigiano con
nuovi codici. Creare scuole interdisciplinari vere, che mixino cultura a tecnica.
Costruire piattaforme con le imprese
di innovazione. Produrre link internazionali. Mettere in rete mondi diversi...
Ma prima di tutto lanciare una straor-
dinaria campagna di comunicazione.
A tutti i livelli. Dedicata ai giovani.
Che renda orgogliosi di essere artigiani del nuovo millennio. Di essere
artigiani aperti, internazionali, colti.
Persone che fanno un lavoro unico e
insostituibile. Che sia la sarta o il programmatore. E che ogni volta raccontano un pezzo di una storia.
Un pezzo di Italia.
44 — Italici
Gli italici:
una nuova comunità glocale
La globalizzazione non deve far paura. Le nuove organizzazioni transnazionali
nascono e si sviluppano a partire da cultura, economia e tradizioni locali
dando vita a global communities
Piero Bassetti
Per affrontare la questione dell’italicità,
di cui noi di Globus et Locus ci occupiamo ormai da anni, è centrale il tema
del Made in Italy, che andrebbe ripensato
o quanto meno riposizionato, per scoprire che, forse, questo riposizionamento
sfocia ormai in una accezione più ampia,
quella del ‘fare italico’.
Ma che cosa vuol dire ‘italico’? Se a
questa domanda dovessi rispondere con
un titolo di giornale, necessariamente
sintetico e non esauriente, direi che l’italico è il passo successivo all’italiano: è il
modo che ci viene offerto di affrontare ed
entrare nella globalizzazione. Un passo
inevitabile, pena l’esclusione dai nuovi
grandi flussi sociali, economici e politici su
cui – sotto gli occhi di ognuno di noi – si va
riaggregando la comunità internazionale.
Questa aggregazione, proprio perché
è nuova, avviene utilizzando parametri
nuovi. Il cui elenco è sempre più lungo.
Comprende:
- le aggregazioni di Stati che, dopo
essersi scontrati per generazioni in guerre
sanguinose ed eterne, confluiscono in
nuove realtà come l’Unione europea,
mettendo per ora insieme le proprie economie e poi, auspicabilmente, la propria
politica estera e la propria difesa;
- le alleanze politiche e/o economiche
anche più ampie della Ue, sia pure meno
vincolanti: Nato, Onu ma anche Asean,
Unione degli Stati africani eccetera;
- le macro-regioni, cioè le comunità
di interessi economici sulla base di vicinanze territoriali che, per parlare ancora di
Europa, non soltanto trascendono i confini
elaborati circa due secoli fa con il trattato
di Westfalia, ma ormai si stanno articolando secondo modalità nuove. Un esempio per tutti: l’area lombardo-ticinese.
La globalizzazione fa paura o può fare
paura, lo sappiamo. Tant’è che le reazioni
e le chiusure a riccio, per primi dai noglobal, sono nelle cronache quotidiane.
Noi di Globus et Locus, ormai da anni
impegnati in ricerche e analisi in questo
settore, pensiamo invece che non ci sia
da avere paura. Purché si capisca che
anche se si scrive ‘globalizzazione’ si
deve in realtà leggere ‘glocalizzazione’.
Pensare localmente, agire globalmente:
è questa la risposta non intimorente
a un fenomeno – la globalizzazione,
appunto – che altrimenti spaventa i più.
Molto in sintesi, la glocalizzazione –
intuita per primi da sociologi come Zygmunt Bauman e Roland Robertson –
ritiene che il fondamento della società in
ogni epoca è stata ed è la comunità locale:
l’interazione degli individui, organizzati in
gruppi, costituisce un insieme di ‘sistemi’
che diventano ‘sottosistemi’ se relazionati a organizzazioni più complesse. Ad
esempio, la famiglia è un sottosistema
del sistema quartiere ma il quartiere è
un sottosistema del sistema città e così
via. La glocalizzazione, insomma, inizia
la propria analisi dai sistemi semplici per
arrivare ai più complessi: se alla base di
tutte le società c’è il micro-gruppo, questo
cresce, si sviluppa, interagisce con gli altri
gruppi sempre più macro fino ad arrivare
alle complesse realtà globalizzanti di oggi.
Mantenendo, però, alcune caratteristiche
locali, culturali, economiche e legate alle
tradizioni, che rendono più tranquillizzante l’inevitabile confluire in un sistema
gigantesco. Al contrario la globalizzazione
tout court privilegia in partenza i sistemi
Italici — 45
complessi e, trascurando le implicazioni
dei sottosistemi, rischia di diventare un
freddo e dispotico ‘regime’.
Il futuro – un futuro che è già quasi il
presente – sarà delle global communities.
Con il progressivo venir meno dei vecchi,
statici e sempre più inutili confini nazionali, a governare il mondo del Terzo millennio sarà un insieme di comunità che si
vanno aggregando su quei parametri del
tutto nuovi che ho già evidenziato.
E in questo insieme di nuove reti, qual è
il percorso riservato agli italiani? Secondo
noi è quello di ‘pensare italico’, di diventare italici. Superando i confini e i limiti
mediterranei dello Stivale si scopre così
che nel mondo globale – o meglio: glocale – c’è una rete di persone, di interessi,
di stili di vita che sta avviando una nuova
aggregazione, anzi: l’ha già avviata.
L’aggregazione italica, appunto. Ne
fanno parte: gli abitanti dell’Italia, sia i
cittadini di passaporto sia gli emigranti
e i loro figli – la cosiddetta Generazione
2 o G2 – ormai diventati italiani a tutti
gli effetti. Ma ne fanno parte anche: gli
oriundi, gli italofoni (ticinesi, dalmati,
sanmarinesi, ecc.). In più – ed è questo
il vero e nuovissimo ‘valore aggiunto’ –
di questa rete di persone fanno parte gli
italofili: professionisti e/o amanti dello
stile di vita italiano che, pur non avendo
italiani tra gli antenati e i parenti acquisiti,
ma, per passione o per interesse economico e professionale, hanno abbracciato l’Italian way of life. Si va dai cultori
dell’arte italiana, agli operatori e imprenditori il cui core business ruota attorno
a commerci e attività in stretto legame
con aziende e affari italiani, agli appassionati del modo di vestire o di cucinare italiano, a quella rete radicata del
mondo e delle opere cattoliche e vaticane che parla direttamente in italiano
o, comunque, l’italiano lo conosce, per
arrivare al mondo dello sport i cui protagonisti – non solo del calcio – parlano e
anche bene la lingua di Dante.
Impossibile fare un censimento. Ma,
finora nessuno ci ha smentito, quando
facendo un calcolo approssimativo riteniamo che della rete italica facciano
parte almeno 250 milioni di persone.
Sparse nei cinque continenti e operanti
in tutti i settori. Una rete con i suoi leader in ogni campo: economia, cultura,
politica, moda, architettura, gastronomia e, perché no, anche sport. Troppo
lungo fare una lista, e si farebbe torto
a chi ne restasse fuori. Ma almeno
due nomi mi sento di farli: Sergio Marchionne e Mario Botta. Il primo ha tre
passaporti – italiano, canadese e svizzero – il secondo solo uno, svizzero. Ma
entrambi sono, sostanzialmente, italici.
Ecco, questa è la sfida che ci siamo
posti e che lanciamo: noi, con il think
tank Globus et locus, vogliamo aggregare la comunità degli italici. Vogliamo
far capire che, senza nulla togliere alle
rispettive tradizioni e appartenenze di
origine, ‘servire’ una sola nazione sarà
sempre più un’anomalia. È quello che,
faticosamente, sta avvenendo per noi
europei nei confronti dell’Europa unita.
E noi italiani, in particolare, per la nostra
storia siamo portatori di un universalismo
che nel mondo glocalizzato può realizzarsi molto più di quanto abbiano finora
provato a fare le singole nazioni raffrontandosi con il contesto internazionale.
roundabout
Il caratteraccio
di Silvana Patriarca
Lusso & Autarchia. 1935-1945.
Salvatore Ferragamo
e gli altri calzolai italiani
Mondadori, Frecce, 2009
pp. 256 | € 18,50
ISBN 978880459367
Laterza, Storia e Società, 2010
pp. 348 | € 22,00
ISBN 9788842092070
Sillabe, 2005
pp. 96 | € 17,00
ISBN 9788883472923
Perché siamo come siamo, noi italiani? Perché ci
piacciamo sempre di meno e cominciamo a trovarci antipatici? Che cosa è accaduto nella nostra
storia nazionale, da Porta Pia alle Veline, che ha
fatto di noi quello che siamo diventati: rissosi,
astiosi, perennemente ‘incazzati’ contro gli altri e
sfacciatamente ipocriti, capaci di celebrare il Family Day un giorno e di tradire la stessa Family il
giorno dopo?
Vittorio Zucconi sceglie, fra i tanti possibili, dieci
eventi chiave della storia d’Italia – dalla presa di
Roma alla Grande Guerra, dal fascismo al boom
economico, da Tangentopoli a Berlusconi, passando per la tv di Mike Bongiorno, i furgoncini Ape
e la ‘gioiosa macchina da guerra’ post comunista
– in cerca di quel ‘cromosoma storto’ che non ha
permesso di ‘fare gli italiani’. Sì, perché l’homo italicus, incline a denigrarsi con passione, ha ormai
maturato la certezza di non possedere un vero carattere nazionale, ma un caratteraccio. Prendendo
spunto da un ciclo di ‘lezioni americane’ tenute agli
studenti di una prestigiosa ed esclusiva università
del Vermont, il Middlebury College, Zucconi mette
da parte, rispettosamente, Boccaccio e Cavour
per rivisitare, con la sua ironia affettuosa tessuta di
deliziose esperienze personali e con la coscienza
di rivolgersi non ad accademici, ma a chi della storia italiana sa molto poco (cioè quasi tutti), pregiudizi e cliché sul dramma pirandelliano degli italiani
in cerca di se stessi.
“Il carattere nazionale è stato un elemento centrale delle riflessioni di una parte importante del
mondo intellettuale e politico dal Risorgimento
alla Repubblica, e il discorso sui vizi degli italiani è
stato anche parte integrante della lotta politica, nel
senso che è stato regolarmente messo in campo
e utilizzato come strumento nella battaglia per la
definizione della nazione”. Dai patrioti risorgimentali
che volevano che gli italiani prendessero in mano il
loro destino, al fascismo che voleva trasformarli in
una massa disciplinata e militarizzata, fino all’Italia
postbellica, in ogni epoca il discorso sul carattere nazionale ha assunto toni e contenuti differenti.
Nel corso del tempo le analisi dell’‘italianità’ hanno
contribuito a richiamare l’attenzione sulla vita pubblica e la qualità della cittadinanza, ma sono anche
state utilizzate dai nazionalisti per i loro scopi sciovinistici, oppure sono servite da alibi per nascondere
responsabilità precise. Ricorrenti autostereotipi negativi hanno continuato a circolare anche quando si
inventavano le narrazioni dei ‘primati’ o della ‘brava
gente’. Ma può esserci davvero una speranza di
cambiamento se il carattere di un popolo si percepisce in questo modo e se il passato ha lasciato su
di esso un’impronta quasi ‘genetica’?
Il volume, a cura di Natalia Aspesi, nota giornalista
e studiosa di storia del costume, e di Stefania Ricci, direttrice del Museo della calzatura ‘Salvatore
Ferragamo’ di Firenze, illustra uno dei periodi più
interessanti della storia della calzatura italiana, dalla seconda metà degli anni ’30 fino alla Seconda
Guerra Mondiale.
Mussolini pronunciò la parola autarchia nel marzo
1936 come risposta alle sanzioni commerciali che
la Società delle Nazioni aveva imposto all’Italia nel
1935, a causa della guerra in Etiopia. Nella realtà si
ufficializzavano provvedimenti, già in atto in precedenza, destinati a potenziare la produzione interna
e a limitare le importazioni alle merci non reperibili
sul territorio nazionale.
Nell’abbigliamento e negli accessori, la politica autarchica incoraggia il progetto di una moda italiana
e, soprattutto nel settore calzature, stimola la ricerca sulle materie alternative, come le plastiche, il
cellofan e il sughero, impiegato nell’invenzione più
celebre del periodo, il tacco a zeppa, brevettato da
Salvatore Ferragamo nel 1937.
Tra alto artigianato, ricerca qualitativa e sperimentazione nei materiali, le calzature italiane cominciano a farsi conoscere fuori dei confini nazionali, maturando una propria autonomia in grado di opporsi
al monopolio francese e preparando il terreno per
il futuro Made in Italy anni ’50.
di Vittorio Zucconi
Italianità.
La costruzione del carattere nazionale
a cura di Natalia Aspesi e Stefania Ricci
Made in Italy.
Storia del design italiano
Pecore nere
Roma capitale senza centro
di Renato De Fusco
di Gabriella Kuruvilla, Ingy Mubiayi,
Igiaba Scego, Laila Wadia
Laterza, Grandi Opere, 2010
pp. 338 | € 30,00
ISBN 9788842082552
Laterza, Contromano, 2009
pp. 148 | € 9,50
ISBN 9788842077978
Officina Edizioni, 2007
pp. 208 | € 16,50
ISBN 9788860490346
Il liberty, il futurismo, l’art déco, il fascismo, il razionalismo, lo stile Olivetti, il neo-storico, l’high
tech, il minimalismo, il radical design, fino all’era
informatica: Renato De Fusco traccia la complessa evoluzione del design nel nostro paese privilegiando le continuità formali che la caratterizzano,
piuttosto che la pura successione cronologica da
cui è scandita. Questo volume, dopo il grande
successo editoriale della Storia del design dello
stesso autore, approfondisce le peculiarità proprie di una nazione come l’Italia dove mancano,
o sono mancati, solidi riferimenti come risorse,
grandi imprese industriali, vasta committenza:
un contesto produttivo-commerciale che ha inevitabilmente influenzato la vivacissima parabola
artistico-culturale del nostro design.
La prima generazione di figlie di immigrati, nata o
cresciuta in Italia, racconta la propria identità divisa, a cavallo tra il nuovo e la tradizione, una identità obliqua, preziosa, su misura. Quattro voci, otto
storie, molte culture. L’incrocio dei mondi e delle
esperienze, tra integrazione e diversità, accoglienza e rifiuto. Tra noi e loro. La raccolta è stata curata da Flavia Capitani e Emanuele Coen.
La singolare anomalia riguardante Roma è quella
di trovarsi ancora oggi, a più di un secolo dall’essere diventata capitale italiana, senza un nuovo
‘centro’, senza una centralità chiaramente riconoscibile come moderna, nel senso che a questo termine si può attribuire in riferimento alle altre capitali
europee. Il libro intende verificare se l’‘anomalia’,
le cui origini vanno ricercate nei tempi lunghi della
storia urbana post-unitaria ed ancor prima, possa
costituire un limite insormontabile nel giocare un
ruolo di capitale di rango europeo.
Si tende in ultima analisi ad interrogarsi – partendo da basi storiche, ma anche con un particolare
interesse rivolto alle prospettive progettuali – se
oggi, mentre la diffusione metropolitana della ‘città
esplosa’ sembra ancor più allontanare la possibilità di rincorrere i tempi perduti della trasformazione moderna, la posta in gioco debba intendersi
definitivamente persa. Ovvero se proprio la nuova
confusa condizione ‘ambientale’ non offra un’inestimabile riserva di risorse, tale da poter prefigurare un assetto territoriale del tutto originale
e, rispetto al tema trattato, alternativo ai modelli
classici, europei ed occidentali.
di Vieri Quilici
Un dialogo
per immagini
Le fotografie di Carlotta Maitland Smith
Per questo numero di TAO, dedicato all’influenza che gli italiani hanno avuto
nei Paesi colonizzati o in cui sono immigrati, si è scelto di affiancare alle parole
scritte un dialogo per immagini trasversale. Sono state proposte quattro fotografie, utilizzate nella copertina e nelle aperture di sezione, di Carlotta Maitland Smith, fotografa freelance, specializzata in reportage documentaristico e
in ritratti di persone immortalate nel loro ambiente. Carlotta Maitland Smith ha
studiato Fotografia presso lo SPEOS (Paris International Photographic Institute) e l’ICP (International Centre of Photography, New York).
Spinta dalla sua inesauribile curiosità nei confronti di popoli e di persone distanti geograficamente e culturalmente, ha viaggiato a lungo in giro per il
mondo, immortalando comunità sparse in vari angoli del pianeta.
Nei mesi a cavallo tra il 2008 e il 2009, mentre si trovava a New York, Carlotta
Maitland Smith ha colto l’opportunità offertale dal soggiorno negli Stati Uniti per
entrare in contatto con una comunità di italoamericani emigrati nel Bronx negli
anni ’20 e tutti originari dell’isola di Ponza. Il suo interesse per questa comunità
si è alimentato non solo delle sue radici familiari (madre italiana di Asti, Piemonte) ma, più in particolare, dei lunghi periodi trascorsi a Ponza. Periodi nei quali
ha avuto occasione di sentire spesso parlare dei ponzesi d’America, tanto da
desiderare di conoscere personalmente la loro comunità. Ma non si sarebbe
mai aspettata di entrare in case e ristoranti, sia nel Bronx sia altrove, con le
pareti coperte di dipinti di Ponza e statue di San Silverio, il patrono dell’isola.
Sebbene nei pochi mesi a disposizione abbia avuto modo di conoscere personalmente solo una componente necessariamente limitata di questa comunità, Carlotta Maitland Smith ha potuto constatare che oggi sono presenti a
New York molti più ponzesi di quanti ne siano rimasti sull’isola stessa. Inoltre,
è stata colpita da come, nonostante la distanza e il tempo trascorso, essi
rimangano un gruppo di persone unito e fortemente caratterizzato.
Ad affascinarla più di ogni altra cosa è stato il fatto di trovarsi a documentare
un chiaro esempio di come, dovunque nel mondo, le culture degli immigrati
stiano evolvendo rapidamente a causa del contatto con altre culture. Si è
infatti imbattuta in un momento decisivo nell’equilibrio fra la devozione e
l’impegno della prima generazione – ancora rappresentata dai più anziani,
che cercano disperatamente di aggrapparsi alle radici e trasmetterne i valori
culturali ai nipoti – e la generazione dei più giovani, che sentono i legami con
l’Italia troppo allentati perché possano essere parte della loro vita.
www.maitlandsmith.co.uk