Nel suo più recente saggio Giuseppe Berta va alla scoperta delle
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Nel suo più recente saggio Giuseppe Berta va alla scoperta delle
L’intervista | Lo storico dell’economia Nel suo più recente saggio Giuseppe Berta va alla scoperta delle imprese innovative La produzione intelligente esiste. Anche in Italia. Si tratta di fabbriche e imprese che possono rappresentare paradigmi di progresso. Anche perché raccontano la trasformazione industriale italiana. Inclusi i limiti che l’accompagnano anche nel terzo millennio di Massimiliano Panarari C’è ancora futuro per le fabbriche E siste una «intelligenza della produzione» tutta speciale, oggi in modo sempre più palese ed eclatante; ed è precisamente quella a cui si rivela collegato il rilancio dell’industria nel mondo, ma, vien da dire, specialmente in questa nostra Italia che, nonostante tutto e tutti, annovera ancora una gloriosa (e imprescindibile) tradizione manifatturiera. Alla ricerca di nuovi paradigmi manifatturieri e al racconto di quanto di innovativo c’è sul suolo del Belpaese risulta dedicata l’ultima fatica di uno dei più autorevoli e importanti studiosi dell’industria (nonché uno tra i più conosciuti storici contemporaneisti), il professore dell’Università Bocconi Giuseppe Berta. «Produzione intelligente» (edito da Einaudi) è, come re- LUGLIO/AGOSTO 2014 - OUTLOOK 43 L’intervista | Lo storico dell’economia Il profilo Lo studioso della fabbrica G iuseppe Berta è professore di Storia contemporanea all’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano. È stato fra i fondatori dell’Assi (Associazione di storia e studi sull’impresa), di cui ha ricoperto la presidenza fra il 2001 e il 2003, e responsabile dell’Archivio storico Fiat dal 1996 al 2002. Fa parte del comitato di direzione del Dizionario biografico degli imprenditori italiani, edito dall’Istituto della enciclopedia italiana. «Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche» (Einaudi, 2014) è il suo ultimo saggio. Tra i volumi più recenti che compongono la sua produzione, ricordiamo la nuova edizione di quest’anno del suo classico «L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento» (Il Mulino, 2001), «L’ascesa della finanza internazionale» (Feltrinelli, 2013), «Fiat- Chrysler e la deriva dell’Italia industriale» (Il Mulino, 2011). Tra le sue pubblicazioni principali: «Le idee al potere. Adriano Olivetti tra la fabbrica e la Comunità» (1980, Edizioni di Comunità); «Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat, 1919-1979» (1998, Il Mulino); «L’imprenditore. Un enigma fra economia e storia» (2004, Marsilio). Per gli Annali della Fondazione Feltrinelli ha curato il volume «La questione settentrionale» (2007). cita il sottotitolo, «un viaggio nelle nuove fabbriche» e negli stabilimenti modello che consentono di concepire un futuro industriale per la nostra nazione nello scenario rivoluzionato dai processi della «terza globalizzazione». Ed è al tempo stesso un libro scritto assai bene, come sanno i lettori di Berta, che è sempre attento all’aspetto dell’eleganza dello stile. Le tesi decliniste riguardanti la manifattura, dunque, possono essere messe in discussione, anche se bisogna naturalmente mettere da parte l’idea (tutta italica) che «ci salveremo» per l’ennesima volta; per stare nelle dinamiche globali di una produzione che si è in buona parte trasferita negli (ex) Paesi in via di sviluppo occorre infatti internazionalizzarsi e aumentare esponenzialmente e quanto più possibile le dosi di creatività, innovazione, sviluppo e, giustappunto, intelligenza, collocandosi su una fascia differente da quella che ha contraddistinto finora, e per lungo tempo, tutta una parte delle piccole e medie imprese nazionali. Ridisegnando in tal senso il nostro ruolo di seconda potenza manifatturiera del continente dopo la ben più solida (e avvantaggiata) Germania. Professor Berta, come sono cambiati in questi anni gli insediamenti produttivi in un contesto di progressivo indebolimento e di deriva dell’Italia industriale? «Per molto tempo, gli economisti mainstream hanno accreditato quale inevitabile la transizione da un’economia su base manifatturiera alla service economy, con l’irreversibile trasferimento degli impianti di produzione nelle aree del pianeta che si erano candidate a diventare i nuovi opifici del mondo. Il passaggio dall’industria ai servizi era reputato fino a poco tempo fa nell’ordine delle cose scritte una volta per tutte (e c’è da scommettere che alcuni ne restino ancora convinti), e come un percorso immodificabile. Una visione che non ammetteva repliche e confinava nella posizione del retrogrado chi aveva l’ardire di metterla in discussione. Applicata all’Italia, per di più, non poteva (e non può) che destare preoccupazione: la nostra economia dei servizi, come si sa, nel suo insieme risulta tutto fuorché sofisticata. Nel migliore dei casi ci consegnerebbe a un futuro popolato di centri commerciali e di una gamma di servizi alla persona di modesta qualità, senza chance di competizione sul mercato globale. La ritirata dell’economia della produzione apre la strada a un coacervo di attività che non generano sufficiente ricchezza e non si configurano come quegli agglomerati di creatività tecnologica capaci di guidare la marcia dell’innovazione. Una politica economica intelligente e appropriata oggi dovrebbe infatti puntare a dare vita, almeno all’interno delle maggiori aree metropolitane, a nuclei e distretti entro i quali i lavoratori della conoscenza possano associarsi in modo da non disperdere un patrimonio di professionalità già sottoutilizzato e nient’affatto valorizzato. Ma ciò non si rivela alternativo al mantenere l’attenzione elevata, come deve essere, nei riguardi della manifattura intelligente. Per capire i fondamentali di questo processo possiamo e dobbiamo ritornare, ancora una volta, ai clas- L’idea del saggio è nata dalla visita allo stabilimento Fiat-Chrysler di Pomigliano d’Arco nell’aprile del 2012. «Un impianto innovativo e modernissimo che cancella le immagini tradizionali, anche se corrette, associate alla fabbrica», spiega l’autore Giuseppe Berta. «Nel volume non mi occupo di società ma di singoli stabilimenti. Da questa ricognizione sul campo emerge come esistano delle unità produttive d’avanguardia» «I consumi tendono a individualizzarsi sempre di più, e la previsione più realistica è che non ci saranno più mercati di massa. Al loro posto subentreranno varie nicchie e mercati assai specifici e segmentati. Ecco perché sono fiducioso che ci siano delle chance per le nostre aziende. Però non per tutte, ma esclusivamente per alcune di esse. E con la consapevolezza che mancano il sistema Paese e una piattaforma complessiva» 44 OUTLOOK - LUGLIO/AGOSTO 2014 sici dell’economia, quelli negletti dalle tendenze e dai filoni dominanti in questi ultimi decenni. Ovvero, anche se sono consapevole di essere impreciso adoperando quell’espressione per mettere assieme, dislocandoli lungo un asse di continuità, due autori assai di rado accomunati, Karl Marx (sì, proprio lui) e Alfred Marshall, due grandi vittoriani. Il carattere che alla fine prevale nella rappresentazione della fabbrica dei due economisti è quello che fa di essa il luogo di sperimentazione per antonomasia di un’economia della conoscenza in grado di ridefinirsi e riplasmarsi senza sosta». In cosa consiste precisamente la «manifattura intelligente» oggetto di questo suo ultimo libro? «L’idea è nata dalla visita allo stabilimento FiatChrysler di Pomigliano d’Arco nell’aprile del 2012, un impianto modernissimo e assai innovativo, che cancella all’istante, in chi la vede, le immagini che tradizionalmente, ancorché correttamente, vengono associate alla fabbrica. Nel libro lo racconto insieme alle altre fabbriche visitate per dare conto di una trasformazione profonda: la ProTocuBe (una microimpresa specializzata nello stampaggio 3D, che rappresenta un’autentica produzione industriale e una delle più promettenti per gli anni a venire), lo stabilimento Maserati di Grugliasco, quello Pirelli di Settimo Torinese, la Saet Group (induttori elettromagnetici) col suo carattere tipicamente glocal, la Tenaris di Dalmine, e Prima Industrie (laser). Nel volume non mi occupo di imprese-marchio, bensì di singoli stabilimenti avanzati. Da questa ricognizione sul campo, molto empirica, emerge pertanto come esistano delle unità produttive molto avanzate e collocate in una posizione di avanguardia. Noi italiani, dunque, sappiamo ancora fare industria, ma non siamo in grado di convertire questa attitudine e questo sapere nella piattaforma per farne uno sviluppo diffuso e condiviso; non siamo purtroppo in grado di fare sistema. Non serve la mano pubblica per questo: non è più l’epoca, da molti punti di vista e per tante ragioni, delle politiche industriali. Va chiarito, per l’appunto, che se si volesse ripristinare il dirigismo dei bei tempi andati è meglio rinunciarvi in partenza; tanto più se si pensa a esperienze come la legge degli anni Settanta relativa ai processi di riconversione industriale. Ci potrebbe invece essere spazio per una politica dei fattori produttivi, trasversale alle attività e ai settori, e che puntasse a fare perno su alcune leve portanti dello sviluppo. In buona sostanza, prima di ogni tentativo di politica industriale dovrebbe venire l’e- LUGLIO/AGOSTO 2014 - OUTLOOK 45 L’intervista | Lo storico dell’economia laborazione collettiva di una visione dello sviluppo. Mentre serve sicuramente l’intervento pubblico per fare formazione e diffondere istruzione; per usare una formula molto di moda in questi anni: education, education, education per le giovani generazioni. E in questo caso è indispensabile che se ne incarichi il sistema pubblico». Cambiando gli stili di vita, mutano anche le modalità e le tipologie di produzione. «Pensiamo a Coca Cola, uno dei simboli della produzione di massa (un po’ come la celeberrima Ford modello T, quintessenza del modo di produzione fordista, giustappunto). Anche la famosa bevanda risulta in crisi proprio perché i consumi di massa standardizzati, per come li abbiamo conosciuti e per come hanno strutturato la stessa società consumistica, si rivelano sotto attacco. Questa è precisamente la ragione per la quale anche la corporation Coca Cola si è tuffata a fare cialde, al pari di altre imprese che vendono il caffè sotto questa forma e stanno incontrando un considerevole successo da qualche «Noi italiani sappiamo ancora fare industria ma non siamo in grado di convertire questo sapere in una piattaforma per farne uno sviluppo diffuso e condiviso; non siamo purtroppo in grado di fare sistema. Per questo non serve la mano pubblica: non è più l’epoca delle politiche industriali, ma di una politica dei fattori produttivi» tempo a questa parte. I consumi tendono a individualizzarsi sempre di più, e la previsione che possiamo agevolmente fare è che non ci saranno più, d’ora in avanti, mercati di massa. Al loro posto subentreranno varie nicchie e mercati assai specifici e segmentati; ecco perché sono fiducioso riguardo al fatto che ci siano delle chance per le nostre aziende. Anche se, ecco il punto, non per tutte, ma esclusivamente per alcune di esse. E nella consapevolezza che mancano il sistema Paese e una piattaforma complessiva». Cosa può, dunque, dire ancora l’industria italiana al mondo? «La mia idea è che l’industria italiana possa sopravvivere in maniera significativa e facendo vale- LUGLIO/AGOSTO 2014 - OUTLOOK 47 2008 L’intervista «Prima di ogni tentativo di politica industriale dovrebbe venire l’elaborazione collettiva di una visione dello sviluppo. L’intervento pubblico serve sicuramente per un altro aspetto fondamentale della crescita industriale, fare formazione e diffondere istruzione» Sede: Baccelliera, 6 - 41100 Modena Via Baccelliera, ax +39 059 468806 Tel. +39 059 468808 - FFax Tel. e-mail: in fo@commercialefond.it e-mail: info@commercialefond.it W eb: ww w.commercialefond.it Web: www.commercialefond.it Filiale di Milano: uroldo 31/35 Via P adre D Padre D.. M. 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Address: Address: www.commercialefond.it www.commercialefond.it - inf info@commercialefond.it o@commercialefond.it re con forza il suo ruolo nella competizione mondiale solamente se si posiziona a livello alto, con produzioni a elevato valore aggiunto. Spostarsi verso la gamma alta delle produzioni significa che non si deve “unicamente” saper fare e realizzare un manufatto, ma anche mettere a disposizione servizi, caratterizzati da livelli sempre crescenti di conoscenza. Perché ciò accada bisogna adempiere a tre condizioni fondamentali: avere una notevole apertura internazionale, possedere un sofisticato livello tecnologico e disporre di un adeguato capitale sociale. Le dimensioni ora contano molto meno di una volta: le fabbriche odierne più grandi arrivano a contare non più di 1.500-2.000 addetti, numeri parecchio inferiori a quelli dei maggiori impianti produttivi del passato. Ciò che occorre, soprattutto, è la realizzazione di molti sistemi locali di sviluppo. Perché conta sempre di più il territorio; di qui, l’esigenza anche di una rappresentanza che metta insieme territori e filiere reagendo alla crisi delle sue strutture (che si sta trascinando ormai da diversi anni). Chi, come me, è cresciuto nell’involucro dell’industrialismo, fino al punto di trovare in esso quanto di meglio esista all’interno del tessuto economico e civile del nostro Paese, non può non pensare che sia un male e una colpa grave trascurare i nostri modelli ed esempi di manifattura intelligente e le innovative culture d’impresa che a essi soggiaciono». •