Gioielli al Museo degli Argenti una collezione permanente Ornella

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Gioielli al Museo degli Argenti una collezione permanente Ornella
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino
a cura di Ornella Casazza
sillabe
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino
Museo degli Argenti e Museo delle Porcellane
Direzione e coordinamento
Ornella Casazza
Commissione scientifica
Ornella Casazza, Dora Liscia Bemporad, Marilena Mosco, Maria Sframeli, Franco Torrini
Allestimento e direzione dei lavori
Antonio Fara, Mauro Linari
Realizzazione allestimento
Opera Laboratori Fiorentini S.p.A
Fotografie
Gabinetto Fotografico Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino: fotografie F. Del Vecchio;
Giovanni d’Errico
Ringraziamenti
Un doveroso ringraziamento all’Ente Cassa di Risparmio di Firenze per il contributo alla realizzazione dell’allestimento. Un particolare ringraziamento agli artisti e alle loro famiglie che hanno donato importanti opere delle loro
collezioni, al personale della segreteria e del Museo degli Argenti e delle Porcellane. Si ringrazia inoltre Arterìa per
aver contribuito al trasferimento del gioiello Circle bracelet di Gijs Bakker
Schede degli autori e delle opere
I.B. - Ilaria Bartocci
C.C. - Chiara Calvelli
O.C. - Ornella Casazza
G.C. - Giuliano Centrodi
M.A.D.P. - Maria Anna Di Pede
V.F. - Veronica Ferretti
R.G. - Riccardo Gennaioli
D.G. - Donata Grossoni
S.I. - Sonia Iacomoni
P.L. - Paola Luciani
M.E.M. - Maria Elena Marchi
E.P. - Eleonora Pecchioli
C.S. - Chiara Sperti
E.S. - Elisa Staderini
A.V. - Anita Valentini
La numerazione degli oggetti in catalogo rispetta l’ordine cronologico, per autore, riportato nelle Schede delle opere
ISBN 978-88-8347-349-4
© 2007 Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino
Una realizzazione editoriale
s i l l a b e s.r.l.
Livorno
www.sillabe.it
info@sillabe.it
sommario
Presentazioni
Cristina Acidini
7
Antonio Paolucci
8
Edoardo Speranza
9
Gioielli al Museo degli Argenti
una collezione permanente
11
Ornella Casazza
Catalogo
17
Autori: Stefano Alinari, Aprosio & Co, Giampaolo Babetto, Gijs Bakker, Bino Bini, Mario e Gianmaria
Buccellati, Antonio Bueno, Luigi (Gió) Carbone, Tony Cassanelli, Pino Castagna, Saverio Cavalli,
Francesco Cenci, Paola Crema Fallani, Gioconda Crivelli, Alessandro Dari, Ada Daverio, Corrado De
Meo, Piero Dorazio, Giorgio Facchini, Roberto Fallani, Novello Finotti, Fausto Maria Franchi, Maria
Rosa Franzin, Marco Garezzini, Pilar Garrigosa, Alberto Giorgi, Gigi Guadagnucci, Antonio Angel
Guarnieri, Marcello Guasti, Claudio Mariani, Bruno Martinazzi, Gualtiero Nativi, Orlando Orlandini,
Paolo Penco, Armando Piccini, Giordano Pini, Enrico Pinto, Mario Pinton, Alessandro Poli, Giò
Pomodoro, Angelo Rinaldi, Roberto Romani, Jacqueline Ryan, Valerio Salvadori, Antonella Sicoli,
Vittorio Tolu, Franco Torrini, Barbara Uderzo, Uno a Erre Italia (Gori&Zucchi), Sophia Vari, Federico
Vianello, Flora Wiechmann Savioli, Alberto Zorzi
Schede delle opere
126
direzione editoriale: Maddalena Paola Winspeare
redazione: Barbara Galla
progetto grafico: Susanna Coseschi
Bibliografia
146
Note sul progetto di allestimento
150
fotolitografia: La Nuova Lito, Firenze
Antonio Fara e Mauro Linari
Se ci guardiamo intorno in una autentica “stanza dei tesori” qual è il Museo degli Argenti, così come nelle
altre illustri Schatzkammern che abbelliscono le residenze europee, al godimento per lo splendore dei materiali esaltato dalla bellezza delle forme si accompagna lo stupore per la presenza di tanti preziosi manufatti
antichi ai nostri giorni. Se infatti il patrimonio artistico in generale è giunto fino a noi a dispetto del degrado,
delle guerre, delle calamità e delle iconoclastie, in particolare quello delle gioie, delle suppellettili preziose,
delle onorificenze e dei regalia ha per nemico naturale l’avidità umana, e se sopravvive a quella vince la
sfida più ardua del proprio percorso attraverso la storia.
Più di tutto, non a caso i gioielli si rivelano fragili al passaggio attraverso la Storia: oggetti d’ornamento
personale oltre che componenti della magnificenza pubblica d’un casato, sono andati soggetti a smembramenti, riuso dei metalli e delle gemme, doni e dispersioni che ne hanno drammaticamente assottigliato il numero, che era invece di solito, come testimoniano gli inventari, alto o addirittura altissimo nelle
corti e nelle famiglie abbienti.
Anche per questo, è amatissimo il nucleo delle gioie e delle “galanterie” che Anna Maria Luisa de’ Medici
riuscì a legare al tesoro familiare, e che adorna oggi il Museo degli Argenti.
A fronte delle perdite del passato, è entusiasmante segno di vitalità che il Museo, sotto la guida di Ornella
Casazza e prima di Marilena Mosco, si rivolga al variegato universo del gioiello a noi prossimo – dall’Ottocento al contemporaneo – per riprendere le fila di una presenza interrotta ma necessaria all’interno delle
collezioni preziose. Fiabeschi oggetti al confine tra molte arti e abilità tecniche, ispiratori di leggende, bersagli di desideri più e meno leciti, i gioielli hanno attraversato la storia dell’umanità senza perdere nemmeno
neanche per un giorno il loro fascino. Anzi, è semmai l’umanità che ha perso fascino nel momento in cui
ha rinunciato a goderne: come è accaduto agli uomini dalla Rivoluzione Francese in poi, quando la drastica
riduzione all’ornamento maschile ha sottratto agli uomini la possibilità di abbellimento della persona e di
conseguente compiacimento estetico, di cui le donne sono ancora titolari appieno.
La creatività odierna, felicemente ignorando il confine accademico tra arti maggiori e arti minori, ha dato e
sta dando al gioiello uno status di espressione dalle altissime potenzialità, che i pezzi qui riuniti testimoniano
a livelli d’eccellenza. Mi è gradito esprimere un ringraziamento non formale a tutti i donatori, che hanno
reso possibile con la loro generosità che questo ramo collezionistico così prezioso e fragile tornasse a
dare splendidi frutti, arricchendo così le già straordinarie raccolte del Museo degli Argenti e dell’intero Polo
Museale Fiorentino.
Cristina Acidini
Soprintendente per il Polo Museale Fiorentino
La vitalità di un museo storico la si misura anche dalla sua capacità di crescere
nel tempo presente. Adeguandosi alle culture, agli stili, ai gusti della modernità,
senza con ciò nulla perdere, tuttavia, della sua riconoscibile immagine. Come un
antico albero, carico di anni e di umori, rampolla di nuovi virgulti ad ogni primavera, così si comporta il museo vivo. Rimane quello di sempre, quello che conosciamo e che mai vorremmo cambiasse ma il tempo presente preme con tumultuosa
iridescente urgenza e allora al tempo presente il museo risponde con le mostre,
con l’attività didattica, con la ricerca scientifica ed anche, quando possibile, con
le addizioni virtuose.
Il caso del Museo degli Argenti a Palazzo Pitti è esemplare. È una pubblica collezione che custodisce ed espone i tesori dei granduchi: gli smalti, gli avori, le
ambre, gli argenti, i cammei in pietra dura, i gioielli. Chi entra in questa parte della
Reggia di Pitti che chiamiamo Museo degli Argenti, entra nella dimensione del
lusso, nella splendida gratuità dell’eleganza fine a se stessa, del supremo artificio
messo al servizio della bellezza, del rango, del censo. Quando l’arte è effimero
splendore, è vanità, è narcisismo allora siamo nel mondo del gioiello, quel mondo
di cui il Museo degli Argenti è archivio e vetrina.
Ma il gioiello – ecco il pensiero dominante della direttrice Ornella Casazza e, prima di lei, di Marilena Mosco, indimenticabile e bellissima la sua mostra dell’anno
2001 – il gioiello è una categorie eterna, non solo dell’arte in tutte le sue storiche
stagioni ma della condizione umana. Sempre si sono fatti gioielli, se ne fanno ancora e di bellissimi e ancora se ne faranno finché ci saranno uomini e donne sotto
il cielo. Da questa constatazione elementare è nata l’idea brillante della addizione
virtuosa.
Ornella Casazza con entusiasmo e con competenza ammirevoli, si è mossa
sulle tracce di chi (artigiani, scultori, orafi professionisti) in Italia e nel mondo
produce o ha prodotto negli ultimi decenni del xx secolo, gioielli d’eccellenza.
Quali risultati ha consegnato alla contemporaneità l’arte del gioiello? Ecco la
ricerca affascinante ed ecco la addizione virtuosa perché, con crescita costante
e quasi esponenziale negli ultimissimi tempi, il fiorentino Museo degli Argenti si
sta arricchendo di un intero comparto dedicato alla gioielleria contemporanea
d’autore. All’interno del museo storico e in continuità di percorso con quello,
sta prendendo forma quel settore espositivo specialistico – didatticamente confrontato con i modelli antichi e scientificamente selezionato e studiato – che in
Italia mancava. Ecco il miracolo di una venerabile collezione che si scopre incredibilmente giovane e vitale. Ad Ornella Casazza, che in continuità di intenti con
Marilena Mosco ha reso il miracolo possibile, va la mia viva gratitudine.
Antonio Paolucci
Abbiamo dedicato l’inizio del nuovo anno ad Anna Maria Luisa de’ Medici, ultima
discendente in linea diretta della prestigiosa casata che per secoli ha governato
Firenze e la Toscana.
Dobbiamo alla Principessa ‘saggia’ se quella che era la collezione d’arte più importante d’Europa è rimasta a Firenze. Anche molti oggetti a lei regalati, quali
preziosi ninnoli, insieme ai gioielli di Stato dei suoi antenati non trafugati, si conservano in città, al Museo degli Argenti, custode di rarità del tesoro mediceo.
E proprio in memoria e in omaggio alla Principessa, Carlo e Lucia Barocchi, grandi collezionisti privati di gioielli, dal 1988 su consiglio della direzione del Museo
degli Argenti, hanno voluto integrare la preziosa collezione depositando meravigliosi gioielli realizzati dal xvii al xx secolo, rendendo così viva la raccolta posta nei
locali forse più affascinanti dell’antica reggia fiorentina.
Non solo: a questa benemerita iniziativa altre famiglie si sono aggiunte, consegnando anch’esse bellissimi monili tempestati di pietre preziose, del xix e xx secolo, che hanno arricchito questo eccezionale tesoro fiorentino.
Tesoro di una città che deve acquisire piena coscienza della presenza viva di
un bene culturale unico e tipico, che è stato anche in grado di adeguarsi alla
cultura e al gusto della modernità accogliendo opere di artisti orafi ormai entrati
in quell’ambito della Storia dell’Arte, visibili in un nuovo allestimento capace di
accogliere l’espansione di questo stupendo scrigno della nostra Firenze.
Edoardo Speranza
Presidente Ente Cassa di Risparmio di Firenze
Gioielli al Museo degli Argenti
una collezione permanente
Ornella Casazza
1 – Orologio da polso Tonneau
con iniziali - Cartier - in platino,
brillanti, smeraldi, 1910-1920.
Firenze, Museo degli Argenti di
Palazzo Pitti, collezione Carlo
e Lucia Barocchi
2 – Bracciale e anello a torciglione con rubino, zaffiro e brillantini, sec xx. Firenze, Museo
degli Argenti di Palazzo Pitti,
inv. Gemme 2729-2730. Donazione Adele Paola Bergonzi
3 – Spilla tremblant a forma di
giglio in turchesi e perle, fine
sec. xix inizio xx. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo
Pitti, inv. Gemme 2681
Al Museo degli Argenti si conserva il Tesoro Mediceo costituito da gemme, preziose rarità, vasi in pietre,
cristalli, vasi d’oro e d’argento, gioielli, “galanterie gioiellate”, frutto di un collezionismo colto e raffinato. Dobbiamo a Anna Maria Luisa de’ Medici Elettrice Palatina e al Patto di Famiglia, stipulato nel 1737 a Vienna con
la subentrante dinastia dei Lorena, se queste preziosità e ciò che restava del famoso ricco nucleo dei gioielli
della Corona è a Firenze nel nostro museo: sono esposti nelle vetrine del Mezzanino, suddivisi tra “pendenti”,
“bottoni”, “animaletti”, “figurine” e “oggetti vari”.
A memoria, riconoscenza e omaggio a lei, Carlo e Lucia Barocchi dal 1988 hanno inteso dare continuità alla collezione depositando nel Museo ben trecentotrentatre gioielli, realizzati dal xvii secolo al xx da prestigiose manifatture
europee e italiane, suddivisi in: Gioielli dal Barocco al Rococò; Cammei e Intagli; Micromosaici e Cammei; Coralli;
Il Gioiello Borghese e Vittoriano nel xix secolo; Alta gioielleria; Orologi, Sigilli, Tabacchiere e Objets de vertu, da
Dora Liscia Bemporad che ne ha curato anche un breve catalogo messo a disposizione del pubblico1.
Si sono aggiunte a questo meraviglioso primo nucleo altre donazioni di gioielli del xix-xx secolo, provenienti da
altre famiglie fiorentine (Paola Bergonzi e Piera Tesei Manganotti), e da una famiglia romana che hanno arricchito
ulteriormente la collezione già in nostro possesso con monili valorizzati dalla bellezza di pietre preziose, fiocchi in
oro e diamanti, spille con diamanti e opali, coralli e diamanti che esprimono forme smaglianti della natura a ricordare grappoli d’uva e rami di rosa canina, bracciali in grani di corallo di maestranze napoletane, spille a forma di
serpe realizzate in turchese o tempestate di diamanti e rubini2.
L’indiscutibile gusto di Piera Tesei Manganotti e di Paola Bergonzi, che hanno indossato
gioielli di così alto livello artistico, espressione della loro intelligenza e sensibilità colta e
raffinata, rappresenta, nella varietà delle nostre collezioni, le fasi di maggior interesse
nella storia del gioiello moderno tra Ottocento e Novecento.
Ma al di là di produzioni orafe che ben tratteggiano le tendenze etnografiche dei secoli passati, il percorso sul Novecento inizia con un Diadema (collezione Barocchi)
databile proprio ai primi anni del Novecento, caratterizzante lo stile della Maison
Cartier del primo ventennio con il cosiddetto “stile ghirlanda” che, “estraneo a ogni
forma di esotismo, reinterpreta i modelli settecenteschi mitigati da una accentuato
classicismo maggiormente adatto a prodotti di alta gioielleria”3.
È composto da ovali degradanti formati da tre cornici concentriche, di cui quella mediana a serto di
alloro, incastonate di brillanti. Nel mezzo di ciascuno vi è una
grossa ametista tagliata a goccia, che lo rende inusuale, poiché in quegli anni si usava accostare al platino i soli brillanti
a formare un gioiello bianco. Ancora un rubino al centro di
una grande fibbia in platino, a struttura geometrica a imitazione di merletto, tempestata di diamanti, aggiunge un punto di colore
al bracciale con dodici fili di perle donato da Piera Tesei Manganotti.
Intorno alla metà del primo decennio del Novecento, Cartier inizia ad
utilizzare il platino, materiale che aveva già caratterizzato il successo dello stile “ghirlanda”, anche nelle creazioni di orologi-gioiello. Questo nuovo metallo così freddo e discreto, che favorisce
la creazione di montature leggere e duttili, trova nell’applicazione
sugli orologi, per la prima volta da mostrare al polso, la conferma
del suo carattere moderno, contribuendo a formare una stretta relazione fra novità del materiale e originalità dell’invenzione, tra mondo
delle macchine ed espressione artistica. L’orologio diventa così visibile a
tutti, esposto e a diretto contatto con il corpo; non un semplice strumento di misurazione, da tenere celato fino al momento di usarlo, ma anche
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4 – Spilla a forma di grappolo
d’uva, tempestata di diamanti, sec. xix. Firenze, Museo
degli Argenti di Palazzo Pitti,
inv. Gemme 2617. Donazione
Piera Tesei Manganotti
5 – Spilla a forma di rosa canina, tempestata di diamanti,
sec. xix. Firenze, Museo degli
Argenti di Palazzo Pitti, inv.
Gemme 2618. Donazione
Piera Tesei Manganotti
accessorio di abbigliamento e di distinzione capace di interagire con gli
abiti e le acconciature grazie alla forma, ai materiali e ai colori impiegati: un gioiello per la donna ma anche per l’uomo. Il tradizionale disegno
rotondo dell’orologio da tasca o da taschino è profondamente messo in
discussione e quindi la ricerca sulle varie forme si indirizza tra il tondo e il
quadrato, il rettangolare, il poligonale, l’ovale, il tonneau, il tortue, e le loro
varie combinazioni.
Due splendidi orologi-gioiello della collezione Barocchi sono testimoni delle
innovazioni tecniche ed estetiche della Maison Cartier e della ricerca formale del modernismo: uno spettacolare orologio tonneau con cassa in platino
e smeraldi, dotato di un bellissimo bracciale in platino con attacchi a forma di barrette orizzontali, collegati alla cassa da brillanti e un raffinatissimo
orologio a clip rettangolare, sempre con cassa in platino e smalto nero,
quadrante con pavé di brillanti e indici romani in onice, entrambi dotati di
movimenti piatti a carica manuale di produzione European Watch Clock &
Co. che, dal 1909, forniva i movimenti alla grande parte della produzione di orologi Cartier.
È con orgoglio che presentiamo un’altra prestigiosa Maison, grazie al generoso sostegno della famiglia Buccellati
e in particolare di Gianmaria, erede del mestiere, della tecnica e dei canoni estetici del fondatore, il padre Mario;
a sua volta lo ha trasmesso ai suoi figli, creando con Andrea – come lui stesso ha ammesso, presentando una
mostra a Washington nel settembre del 2000 – “una miscela moderna di tendenze e di gusto da cui nascono
oggetti sempre fedeli al nostro stile”. Da Buccellati oggi lavorano ancora i figli e i nipoti degli artigiani di Mario,
affiancati da una nuova generazione di professionisti.
Gianmaria ha ‘viaggiato’ a lungo e con passione ha sostato nei musei, fonti vitali di ispirazione, iniziando dall’antica Grecia, ha proseguito nelle civiltà orientali, ha attraversato il Rinascimento per giungere in Francia, nel Palazzo
di Versailles alla corte di Luigi xiv. Ma la sosta più ‘emotiva’ probabilmente l’ha fatta proprio a Firenze, al Museo
degli Argenti, a rendere omaggio ai Medici, che favorirono il riutilizzo di antiche tecniche e l’orgoglio per il possesso di impareggiabili abilità manuali dei grandi artisti da loro sostenuti.
A loro l’artista ha dedicato dagli anni Settanta i suoi “oggetti preziosi”: Scatole, Candelieri, Anfore e Coppe in cristallo di rocca, legate con oro bianco, giallo e rosa, arricchite di pietre preziose e colorate, in diaspro muschiato,
in giada, tempestate di zaffiri cabochon che hanno impegnato la sua mente per lunghi anni.
Siamo grati a Gianmaria Buccellati che ha saputo plasmare e rielaborare la sua profonda cultura e ricrearla con
l’oro e l’argento per il Museo degli Argenti. A noi ha donato una spilla lavorata a tulle, tempestata di brillanti, disegnata da Mario Buccellati nel 1926 e nel 1932, e una spilla da lui ideata, quali esempi bellissimi di creatività e
di finissima lavorazione che distinguono lo stile Buccellati e che testimoniano ancora una volta che modernità sta
per continuità. Sono opere di grande interesse soprattutto per noi fiorentini che ci rimandano alla nostra storia
più prestigiosa, quella che portiamo giornalmente negli occhi e ci sorprende come l’intelligente rielaborazione di
Mario abbia saputo far sue le trine degli intarsi marmorei dell’ambone della Basilica di San Miniato al Monte.
Gianmaria Buccellati non può quindi essere identificato quale sperimentatore di nuove forme e di nuovi linguaggi o
del tutto indifferente a forme e linguaggi d’avanguardia, o privo del coraggio di ammettere la necessità di un totale
cambiamento di linea. D’altra parte “è impossibile immaginare – come ha detto Camille Holzach4 – l’oreficeria
italiana senza pensare all’antico lascito”, soprattutto se si pensa all’oreficeria del xix secolo e del xx secolo.
In questi ultimi anni con crescita costante e quasi esponenziale il Museo si sta ormai arricchendo di un intero comparto dedicato alla gioielleria contemporanea d’autore. In effetti, come ha detto Antonio Paolucci, ci siamo mossi nella
ricerca di artigiani, scultori, architetti disegnatori di gioielli e orafi professionisti che in Italia e nel mondo si sono dedicati
alla realizzazione di gioielli utilizzando eccellenti tecniche orafe per la creazione di pezzi unici e di design innovativo.
Erede di una eccellente tradizione familiare tutta fiorentina con vetrina sul Ponte Vecchio e dell’insegnamento prestigioso di Libero Andreotti che lo volle insegnante all’Istituto d’Arte a porta
Romana, Armando Piccini a soli ventitré anni si era aggiudicato il primo
premio alla xx Biennale di Venezia del 1936, dove presentava le nostre
Quattordici pietre preziose e semipreziose incise con grande virtuosismo
e qualità artistica.
Artisti orafi italiani, presentati alla mostra del 2001 su L’arte del gioiello e il
gioiello d’artista dal ’900 ad oggi curata da Marilena Mosco nelle Sale di
Rappresentanza del Museo, hanno sentito l’urgenza di affiancare a questi
meravigliosi gioielli, opere del loro percorso artistico, anche se in antitesi
con la dimensione del lusso e della preziosità delle pietre dei gioielli del
passato, aprendo un vero e proprio percorso innovativo sul Novecento.
Flora Wiechmann Savioli ha donato a Palazzo Pitti, divisi tra la Galleria del
Costume e il Museo degli Argenti un ricco nucleo di gioielli da lei creato
dalla metà degli anni Cinquanta al 1968 con materiali “poveri” (dall’argento,
all’acciaio, all’ottone, al cristallo), che ha assemblato naturalmente, a mano,
senza alcuna saldatura5, con una sensibilità comparabile a quella dello
scultore americano Alexander Calder6. Ancora in materiali “poveri” sono i gioielli creati con grande perizia tecnica da
Saverio Cavalli che si lasciava condurre dalla fine degli anni Sessanta dalla casualità nella scelta di materiali inusuali
quali il legno, il vetro, le pietre dure e l’objet trouvé raggiungendo un puro godimento estetico7: un Bracciale e anello
in ferro e oro giallo con granulazione “etrusca” a raffigurare un occhio azzurro (zaffiro) e una Collana in oro giallo, avorio e smalto degli anni ’64, ’67, ’72 sono arrivati a noi per generosa donazione dell’autore. I materiali usati
sono quelli rispondenti ormai alla recente tradizione orafa e la tecnica raffinata ben risponde alle sua
esigenze di esprimere un linguaggio astratto e geometrico. È ormai una personale esperienza di “affrancamento dal concetto tradizionale di preziosità”8 per questi artisti che si esprimono con materie
non privilegiate e la bellezza dell’ornamento è ricercata in altri materiali o in nuovi materiali espressi
con nuove tecniche o tecniche reinventate, al servizio di un’idea o di un’intuizione creativa.
Non ha mai smarrito invece il significato di prezioso, a significare un legame, un’unione, una
dolcezza senza fine, il torinese Bruno Martinazzi anche in un piccolo oggetto d’oro sbalzato e
cesellato realizzato con attenta riflessione e mirabile tecnica per essere donato o scelto e portato da coloro che decidono di indossare e interagire con il mondo denso di cultura e di armonia
che l’artista riesce a ricreare in foglie d’oro.
Negli anni Sessanta si dedica a una produzione di opere di piccole dimensioni e forme per il
corpo come ornamenti da indossare anche l’architetto Alessandro Poli, in un percorso di ricerche
e riflessioni sull’Architettura Interplanetaria, portato avanti a Firenze dal Gruppo Superstudio di cui
facevano parte Frassinelli, Magris, Natalini, Toraldo di Francia, come ipotesi di lavoro in un’area libera dalla
logica razionale e tradizionale.
L’orologio-spilla-pendente Corona solare è la rappresentazione di un corpo celeste formata da una corona tubolare ellittica
in oro giallo, cinta di raggi solari stilizzati e una lastra in oro
bianco che nasconde il meccanismo, segnalato soltanto da
una lancetta in oro con diamante incastonato. Attorno all’objet
trouvé, l’orologio elettronico, l’artista immagina lo scorrere di un
tempo astratto, siderale, libero e estraneo alla condizione terrestre. Così nella collana Rara vegetazione trova un’affascinante
forma della natura, un particolare ramoscello e la sua capacità
d’artista lo trasforma da elemento vegetale in materia preziosa,
mantenendone il suo aspetto tipico e la sua flessibilità per renderlo ornamento del collo femminile.
A Firenze Bino Bini dal 1967 ha invece creato gioielli molto preziosi, adorni di pietre colorate e di diamanti, realizzati a sbalzo e cesello e si contraddistinguono per la superficie
granulosa ottenuta con la saldatura di microsfere d’oro bianco, che lo hanno portato nel 1965 a ricevere il Primo
Premio Internazionale Oreficeria e Gioiellerie Uno A Erre di Arezzo.
Al nostro invito hanno risposto generosamente anche gli scultori Gio’ Pomodoro, lo stesso Bruno Martinazzi, Marcello Guasti, Pino Castagna, Novello Finotti, Gigi Guadagnucci, Toni Cassanelli donando splendide opere del loro
impegno nell’ambito dell’oreficeria, non condizionate necessariamente da preziosismi, esprimono nelle possibili
qualità del trattamento dell’oro e comunque del metallo prezioso il valore dell’espressività della nuda materia, scoprendo la loro natura di scultori. Mantiene una consapevolezza scultorea della forma anche la collana Bacchus
della scultrice greca Sophia Canellopoulos conosciuta con lo pseudomino Vari (dalla sua città natale), realizzata in
ebano e oro giallo in un grande contrasto cromatico che caratterizza la sua scultura in grandi dimensioni.
Nella piccola dimensione trattiene tutti i problemi e gli impegni della sua poetica lo scultore orafo Vittorio Tolu, con
elaborazioni appassionate di temi che dal mondo primitivo proprio della sua terra e da mondi lontani traggono
vigore d’ispirazione.
6 – Spilla a forma di serpe,
tempestata di diamanti e due
rubini per occhi, 1820-1840.
Firenze, Museo degli Argenti
di Palazzo Pitti, inv. Gemme
2619. Donazione Piera Tesei
Manganotti
7 – Braccialetto con 12 fili di
perle e grane fibbia tempestata
di diamanti e rubino centrale,
inizio sec. xx. Firenze, Museo
degli Argenti di Palazzo Pitti,
inv. Gemme 2623. Donazione
Piera Tesei Manganotti
8 – Diadema Cartier, 1900 ca.
Firenze, Museo degli Argenti di
Palazzo Pitti, collezione Carlo
e Lucia Barocchi
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9 – Orologio a clip Cartier, 19101920. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, collezione
Carlo e Lucia Barocchi
Paola Crema prosegue il suo percorso artistico con “sculture preziose” che
rivelano un amore attento non solo alla storia medicea ma anche alla storia
più recente della Mitteleuropa, riapprezzando perle scaramazze, coralli e
giade. Si mescolano i colori, ma anche gli stili con allusioni all’Art Nouveau.
Roberto Fallani si esprime con estrose contaminazioni materiche e meccanismi fantastici unendo materiali nobili a ferro e acciaio. I suoi preziosi
sono però esclusivamente in oro e l’elemento figurativo è il volto di donna, protagonista assoluta e centro di memorie decó che si snodano
liberamente nelle montature in una fantastica e virtuosa elaborazione
formale e tecnica facendo dell’eclettismo il suo vero linguaggio.
Emergono nelle nostre collezioni personalità note di artisti orafi, formatisi al prestigioso Istituto Pietro Selvatico di Padova che ha avuto tra
i suoi insegnanti Mario Pinton, Giampaolo Babetto, Francesco Pavan,
Alberto Zorzi e Maria Rosa Franzin, ben rappresentati con loro opere nel
nostro Museo. Si è formato a Padova anche Angelo Rinaldi e frequentando gli atelier di importanti artisti contemporanei, Saetti, Guidi, Vedova, Finotti e Viani ha sperimentato la pittura e la scultura, la tecnica del
vetro e dei metalli preziosi: nelle spille Adamo ed Eva del 1995 l’artista si
riconcilia con la storia in sagome in oro ritagliato e sbalzato e impreziosite di perle, in forme sinuose e sensuali
adatte ad ornare anche la figura maschile.
I gioielli di Alberto Zorzi rappresentano per intero il suo percorso artistico: due anelli e una spilla pendente si affidano alla plasticità di forme solide, spesso giocate sulla sfera e sul suo frazionamento, dove il metallo, pulitissimo,
si alterna a pietre levigate spesso dai colori accesi e dalle forme taglienti. Collane e bracciali si affidano invece a
forme lamellari, filiformi e trasparenti sorrette sempre: “da una sorta di libera dialettica tra razionalità e gestualità,
giocando quasi esclusivamente sull’incidenza della luce lungo le lamelle leggere come elitre di libellule e sul colore
del metallo trattato con acidi, talvolta con smalti lucenti”9.
Tra Padova e Venezia si è formata Maria Rosa Franzin che sviluppa un’interessante produzione di grande rigore
compositivo, caratterizzata da una successione di mobili lamine leggere, sensibili alla luce e al colore grazie a
impronte di pennellate d’oro.
La veneta Barbara Uderzo è presente con tre opere: un anello, Blob ring, ricoperto da una fusione di materia plastica bianca in cui è intrappolata una mela rossa quale tipologia di gioiello da lei concepito come forma morbida,
fluida che eleva ad opera d’arte quegli oggetti-gioiello che lei stessa ha definito “effimeri”; un altro anello Deinos
che richiama alla memoria elementi ossei e una collana, Ondina infinita, ispirata alla natura che origina un’onda
sinuosa che sembra rigenerarsi senza fine.
Altri prestigiosi Istituti d’arte (Pesaro, Fano e Firenze) hanno licenziato creatori di gioielli che si sono distinti nel settore dell’oreficeria interessando la critica più specialistica e ricevendo consensi di pubblico nelle varie mostre personali
e collettive a cui hanno partecipato, entrando così nella storia.
A Pesaro Claudio Mariani ha svolto la sua costante ricerca su effetti ottico-percettivi e cinetici nella creazione di
splendide spille, spesso quadrate, concepite come superfici bidimensionali a disegno geometrico, definito e sezionato secondo un preciso ordine matematico a lamelle d’oro, disposte a griglia, mobili e ruotanti sui loro perni.
All’Istituto d’Arte di Fano, con Edgardo Mannucci, e poi all’Accademia di Belle Arti a Venezia, si è formato Giorgio
Facchini, creatore artigiano di gioielli dagli anni Sessanta. La sua spilla-scultura del 1997 in oro giallo e rosa priva di
decorativismo, intitolata Penetrazione, un elemento a spirale verso l’alto interrotto dalla penetrazione di altra forma,
esprime riflessioni sulla natura dell’uomo, facente parte del cosmo.
Da Roma si trasferisce a Firenze Ada Daverio per dedicarsi con successo alla scultura e alla arti orafe che la portarono
a partecipare nel 1961 alla mostra International Exhibition of Modern Jewelry a Londra aggiudicandosi la segnalazione
di personalità tra le più originali nel panorama orafo italiano e europeo.
Sono degli anni Sessanta del Novecento due splendide sue opere realizzate con la tecnica della fusione a cera
persa: un bracciale caratterizzato da superfici frastagliate che definiscono una struttura scultorea nelle cui irregolarità sono incastonate le pietre preziose e una collana con pendente composta di sedici perle alternate a quattro
elementi in oro di forma irregolare decorata al centro da un pendente raffigurante una creatura fantastica, di gusto
surreale, arricchita sul corpo di brillanti, zaffiri e una tormalina montata a goccia.
Cinque splendidi girelli realizzati tra gli anni Ottanta e Novanta bene identificano l’opera del romano Enrico Pinto,
formatosi nel laboratorio del gioielliere Mario Masenza, dove realizzava opere dai disegni di pittori e scultori affermati: Afro, Mirko Basaldella, Giuseppe Uncini, Giuseppe Capogrossi, Franco Cannella, Nino Franchina e Mario
Ceroli. L’abilità tecnica acquisita, unita al suo inconfondibile gusto per il colore e la sua fantasia, gli permettono di
realizzare invitanti composizioni dove le forme della natura sono rese con altrettante forme estremamente semplificate in rapporto armonico con il materiale prezioso, il colore degli smalti e delle pietre preziose.
Alla Scuola orafa del Museo Artistico di Roma, si forma Fausto Maria Franchi e dal 1962 inizia una sua attività
che lo imporrà all’attenzione della critica e del pubblico italiano e internazionale. Sono di questi ultimi anni tre
splendidi gioielli da lui donati al Museo: due anelli in oro giallo e una spilla in oro giallo e argento. L’anello, monile
amato dall’artista, lavorato a sbalzo, a cesello e rifinito con sapienti tecniche da banchetto è inteso come simbolo
10 – Ambone, Firenze, Basilica di San Miniato a Monte
e Spilla di Mario Buccellati,
1926 (cat. n. 14)
d’amore e fedeltà nel tempo che permette, come lui stesso dice di “giocare con le materie e i colori per stimolare
l’immaginazione e l’emotività dell’utente”; la spilla, ideata e realizzata appositamente per il Museo, come “un’introspezione culturale” è intitolata Affinità Elettive e si costituisce di elementi affini, aderenti tra loro che mantengono tuttavia una loro individualità.
Siamo grati alla collezionista Paola Crema Fallani per averci donato un’opera del pittore romano Piero Dorazio
che negli anni Sessanta forniva i suoi disegni all’orafo romano Mario Masenza, alla casa milanese gem Montebello
e alla Maison Artcurial. È un anello in oro e smalti policromi, composto da una serie di piccole lamelle semoventi,
arricchite dalla vivacità del colore che esprime totalmente la sua ricerca pittorica e ribadisce i suoi concetti sull’espressione astratta applicati anche all’arte del gioiello.
Altri artisti, dopo la formazione scolastica, lavorano a Firenze per gioiellieri e per una produzione più personale
che svolgono nei loro laboratori: nascono dalla mano di Stefano Alinari con ordine misurato e al tempo stesso
fantastico, bracciali, orecchini, collane e anelli costruiti secondo schemi asimmetrici dove il fulcro di ogni elemento
si impone con una testa femminile in bronzo, con una mano o addirittura con un ingranaggio di orologio o una
moneta antica, recuperati e integrati nella preziosità dell’oro e delle pietre preziose, quali misuratori del tempo e
dei ritmi di un’esistenza.
Assieme a Corrado De Meo e Antonella Sicoli, Alinari è presente in mostre collettive in Italia e all’estero: nel novembre del 2006 infatti hanno esposto con numerosi altri artisti orafi stranieri le loro creazioni alla Galleria Kara a Parigi.
Dagli anni Ottanta Orlando Orlandini, dopo un lungo periodo di collaborazione con l’azienda orafa aretina Uno
a Erre, di intensa attività didattica e di appassionata ricerca progettuale per il nuovo Atelier di Arte Orafa Gori &
Zucchi a Arezzo, nell’atelier della sua casa nel Chianti ha continuato il suo incessante percorso tecnico-estetico,
basato sul recupero di tradizionali metodi artigianali e sulla ricerca di una tecnica sublime. Nelle sue mani l’oro e il
platino ridotti a fili e maglie finemente intrecciate si trasformano in morbidi e piacevoli tessuti da indossare. Pezzi
unici realizzati dall’Atelier Orlandini della Collezione Scintille sono stati premiati nel 2000 a Vicenza con l’Oscar
Gold Virtuosi e la collana mantello Feeling a Las Vegas nel 2005 ha vinto il prestigioso Oscar Internazionale Town
& Country per il miglior gioiello in platino.
Si deve alla generosità di Franco Torrini la presenza nelle nostre collezioni di artisti che hanno segnato la storia
del costume del Novecento: Francesco Cenci, con due spille-pendenti che ben si inseriscono nel filone astratto
e surrealista a cui l’artista ha dedicato gran parte della sua attività artistica e Alberto Giorgi che dopo un’attività a
Fano, nel 1970 inizia un’importante collaborazione con Franco Torrini a Firenze.
È degli anni Settanta l’anello Germinazione, ideato e realizzato dallo stesso Franco Torrini, in oro bianco e oro
giallo con una perla contenuta da due petali aperti che sbocciano alla vita.
All’opificio Torrini è stata eseguita con la tecnica dello sbalzo e del cesello la spilla Cantante, di Antonio Bueno,
per essere esposta alla mostra Aurea a Palazzo Strozzi nel 1974, che raffigura un viso di donna dalla cui bocca
fuoriesce, in rilievo, un pentagramma con note musicali, rispecchiante pienamente le caratteristiche stilistiche
dell’artista-pittore e del suo ritratto femminile. La peculiarità “toscana”, quasi battisteriale, della poetica del
pittore Gualtiero Nativi si riflette nelle geometrie rigorosamente colorate dei suoi gioielli: un bracciale e una
collana con pendente.
In Toscana si sono distinti artisti orafi ancora capaci di portare avanti una lavorazione raffinata e sensibile degna della grande tradizione: espone sue opere nella bottega in San Niccolò a Firenze Alessandro Dari; sono
vere e proprie “microsculture” di architetture medievali, di castelli e di cattedrali. Così Paolo Penco, profondo
conoscitore delle più antiche tecniche orafe del traforo, dell’incisione, del “cesoro” e del niello, nella sua bottega artigianale realizza insieme alla moglie Beatrice pezzi unici ispirati ai grandi maestri del Quattrocento e del
Cinquecento e monili dal design innovativo. Da anni Marco Garezzini, in collaborazione con la Scuola Perseo,
tramanda il “mestiere” a giovani provenienti da tutto il mondo insegnando l’evoluzione di anni di storia fiorentina
15
16
Cinquantatre artisti, italiani e stranieri, hanno risposto dunque con grande slancio alla nostra richiesta di entrare a far parte delle già prestigiose collezioni del Museo degli Argenti e dell’intero Polo Museale Fiorentino,
privandosi delle loro opere più belle, molte delle quali da loro custodite a memoria e testimonianza di importanti
riconoscimenti conseguiti nell’arco della loro appassionata attività o trattenute e mai cedute perché ritenute
espressioni irrepetibili di una particolare fase del loro faticoso fare. Agli artisti si sono aggiunti collezionisti e
famiglie italiane che ancora trattenevano con orgoglio opere significative di loro familiari che durante il loro
percorso artistico si sono dedicati a questa splendida arte, preferendo consegnarle alla proprietà pubblica fiduciosi di compiere l’azione più bella in loro memoria, arricchendo così ulteriormente la rilevante raccolta già in
nostro possesso. Sono centoquindici le opere acquisite in questo primo e corposo nucleo e saranno esposte
al Mezzanino in sale affrescate con ricchi pergolati di vegetazione floreale movimentati da uccelli esotici volanti
che ospitavano dagli anni Settanta le Porcellane Cinesi e Giapponesi che hanno trovato la loro sede al piano
terra del Museo in appositi armadi. Un nuovo allestimento, che si integra magistralmente nell’architettura e
nella decorazione pittorica delle sale, progettato dagli architetti Antonio Fara e Mauro Linari e eseguito dalla
ditta Opera Laboratori Fiorentini, rispettando le normative di corretta esposizione e di buona conservazione, è
stato realizzato grazie al generoso e intelligente sostegno del presidente Edoardo Speranza e del vicedirettore
generale Antonio Gherdovich dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, che hanno concretizzato il nostro ambizioso e appassionato progetto.
Liscia Bemporad 2001b.
Casazza 2004, pp. 221-235.
Liscia Bemporad 2001b, p. 200.
4
Holzac 2005, p. 7.
5
L. V. Masini, Gioiello d’artista, gioiello d’autore, in Firenze 2001b,
1
2
3
pp. 348-359.
6
Bergesio 2005a, pp. 291-292.
L. Lenti, Saverio Cavalli, in Firenze 2001b, pp. 366-367
8
Masini 1972.
9
Milano 1999, pp. 49-50.
7
catalogo
dell’arte orafa, ma anche la tenacia, la pazienza e la passione che richiede la lavorazione di un gioiello realizzato
interamente a mano; Federico Vianello dal 1982 ha aperto una propria bottega lavorando metalli che sottopone
a particolari ossidazioni per monili in oro, ferro ossidato, grafite e pietre in un continuo dialogo fra il prezioso
e il non prezioso nei suoi ornamenti per la donna; Giordano Pini, discendente dalla scuola dello scultore Jorio
Vivarelli sembra riuscire a catturare nelle sue opere l’energia vitale della natura dell’Appennino pistoiese e del
vicino mare “toscano”; Roberto Romani vive ed opera da più di trent’anni a Firenze impegnato in una ricerca sui
materiali e sulle forme: così l’acciaio, l’oro, l’argento, il lapislazzulo e il corallo divengono nei suoi monili forme
di seduzione; Valerio Salvadori lavora in collaborazione con Marco Frangini nel laboratorio orafo VM Preziosi
Firenze nella progettazione di gioielli al computer e accessori per la moda della collezione Redò, ma la sua
padronanza della tecnica artistica tradizionale lo identifica anche per una creatività realizzata con sistemi
di lavorazione complessa e innovativa; a Firenze si distingue nella realizzazione artigianale di gioielli ed
accessori in perline di vetro di Murano e cristalli di Boemia, Ornella Aprosio e con lei la storia si riavvolge nel riutilizzo di una manodopera femminile di alta professionalità e nel recupero di materiali di
grande fascino già cari all’Art Déco: perline in vetro, in cristallo e in corallo che rinnovano il gusto di un
nuovo lusso e il culto della novità. Favorisce di nuovo lo sfoggio di smisurati orecchini e di smisurate
spille a forme di fiore che si ispirano alle delicate nuances di colore delle famose orchidee smaltate
e ornate di pietre preziose di Tiffany, disegnate da G. Paulding Farnham (1859-1927). Ritornano
anche preziose cloch, borsette da giorno e da sera e trousse, sautoir maliziosamente ondeggianti,
finti orologi da polso in stile Cartier e tessuti lavorati rigorosamente a mano, ad ago e filo, a ferri, a
uncinetto e a telaio, lumeggiati di perline.
L’artista orafa Gioconda Crivelli, cresciuta in una famiglia di artisti (il padre Renzo pittore e la madre
americana, scultrice), si è trasferita giovanissima in America, a New York, dove progetta, modella e
disegna gioielli che fa realizzare però a Firenze, certa di trovare eccellenti laboratori artigiani.
Luigi (Giò) Carbone nel 1985 ha fondato in Oltrarno la scuola Le arti Orafe Jewellery School a cui si è dedicato con grande competenza e passione, organizzando al suo interno importanti mostre su artisti italiani e
stranieri e promovendo anche eventi internazionali e centri di formazione per Enti ed Amministrazioni in Italia
ed all’Estero. Artista lui stesso si identifica nei gioielli in argento e oro realizzati con la tecnica del cesello, su
un progetto di grande rigore geometrico.
Oltre alla già citata Sophia Vari, hanno donato opere significative dei loro percorsi artistici così diversi
altri artisti stranieri quali la catalana Pilar Garrigosa, che fa divenire protagoniste di ogni sua creazione le
gemme e l’olandese Gijs Bakker, che concepisce il gioiello come opera di design. Al centro della poetica
dell’argentino trapiantato a Firenze Antonio Guarnieri è la figura, motivo inesauribile della sua ricerca da
“cacciatore di nuvole” (titolo della sua collana cat. n. 58). Esprime il suo virtuosismo tecnico Jacqueline Ryan
in un anello in oro giallo con perle di fiume inserite in piccoli mobili coni, evocativo di un raffinato bouquet di
fiori di mughetto.
Stefano Alinari
18
2. Collana con pendente Eco, 2006
Stefano Alinari è un’artista di solida
formazione orafa iniziata presso
l’Istituto d’Arte di Porta Romana e
maturata sotto la guida dei maestri
Alberto Pintucci e Andrea Baldi. Nel
1988 apre la propria bottega in via
San Zanobi ed inizia la sua particolare ricerca estetica. Ha insegnato
presso la Scuola Perseo dal 1998
al 2002. Nel settembre di quest’anno la gioielleria Conti di Firenze gli
dedica un’esposizione: si tratta di un
evento importante perché da questo
momento Alinari sente maggiormente l’impegno e la volontà di creare
gioielli che siano soprattutto opere
d’arte e non ornamenti legati al
capriccio della moda.
L’artista ha partecipato a mostre
personali e collettive ed attualmente
collabora con prestigiose gioiellerie
di Firenze e di New York e con gallerie d’arte in Italia e a Parigi. Le sue
creazioni sono da tempo oggetto
d’interesse da parte di importanti
collezionisti privati.
Stefano Alinari indirizza la propria
ricerca lontano da una visione
tradizionale del gioiello e i suoi pezzi
sono incentrati sulla frammentazione
asimmetrica degli elementi. Peculiare del suo stile è l’attenzione che
pone nel caratterizzare ogni singolo
componente dei suoi gioielli: i castoni presentano incisioni con funzione
decorativa ma anche citazioni letterarie che servono a comprendere
l’opera. Ogni elemento, concepito
singolarmente, è poi assemblato in
un insieme armonico che testimonia
l’unità concettuale e progettuale
dell’opera.
La frammentazione è una peculiarità
di questo artista, egli infatti si definisce un “agglomeratore” di materiali,
di elementi formali ed estetici diversi:
nella sua opera si riscontrano moltissimi richiami e citazioni afferenti
alle più disparate discipline e culture,
che conferiscono ai suoi oggetti
una grande ricchezza di significati. Facendo proprio il pensiero di
Nietzsche, Alinari attribuisce al Caos
una valenza positiva ed i suoi gioielli,
nella ricchezza degli elementi che li
compongono, si caratterizzano per
l’assenza di ogni rigidità ed effetto
statico. Tuttavia è importante sottolineare come i pezzi di questo artista
pur nella loro estrosità risultano
estremamente portabili.
Il tempo è una delle tematiche più
indagate da Alinari: nei suoi gioielli,
infatti, si incontrano sia pezzi di orologi, ingranaggi e ruote che alludono
alla sua ripetitività e alla sua cadenza
regolare, sia monete antiche e riferimenti mitologici che rappresentano
un tempo dilatato ed infinito.
D.G.
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1. Orecchini Barbara, 2006
3. Bracciale Eco, 2006
Aprosio & Co
20
Aprosio & Co, ditta italiana con sede
a Firenze, si dedica alla realizzazione
di gioielli e accessori in perline di
vetro di Murano e cristalli di Boemia.
L’ideatrice è la romana Ornella Aprosio che crea decorazioni in perline di
vetro dopo un meticoloso lavoro di
recupero di abiti vintage degli anni
Venti-Quaranta.
Il vetro è stato largamente utilizzato
nel corso dei secoli, principalmente
sotto forma di perline: si fa risalire al
Medioevo e il suo centro principale
fu Venezia, in particolare l’isola di
Murano; da allora l’arte di ideare
manufatti in perline si diffuse nei
castelli e nei conventi d’Europa. Nel
Settecento trionfi di fiori in perline
decoravano le tavole durante i banchetti o gli altari delle chiese; così
anche nell’Ottocento e nel periodo
Liberty le perle di vetro venivano
usate nell’arredamento e nell’abbigliamento per creare fiori da mettere
in vaso, frange, paralumi, bigiotteria,
stupende acconciature. L’amore
per le perline esplose però soprattutto negli anni Venti quando furono
largamente impiegate soprattutto
nella moda e acquisirono una nuova
dignità. In Francia, grazie all’influenza di René Lalique, il vetro venne
utilizzato al pari di un materiale nobile su pendenti e colliers e non più
come materiale “di imitazione”
delle pietre preziose.
Dopo un periodo di declino
che ha visto quasi scomparire questo tipo di
produzione, negli anni
Ottanta la moda italiana
ha recuperato il gusto
per le perline di vetro attraverso
l’opera di stilisti quali Pucci, Ferrè e
Versace.
Negli ultimi anni Aprosio ritorna a
utilizzare questo materiale rielaborandone il fascino delle trasparenze
per gioielli unici in cui un materiale
di antica tradizione si incontra con
il design contemporaneo. Questo
connubio si è rivelato molto fortunato
poiché i manufatti di Aprosio & Co
oltre a riscuotere successo commerciale, sono riusciti ad attirare l’attenzione della critica. Le sue creazioni
sono periodicamente pubblicate su
prestigiose riviste internazionali e
sono state presentate in anteprima
a eventi-moda di notevole risonanza
come Pitti Immagine a Firenze e la
“Premiere Classe”, esclusivo salone
di accessori-moda a Parigi.
Insieme ai gioielli, fanno parte delle
collezioni di Ornella Aprosio, anche
pregiatissimi manufatti per la decorazione di interni.
Ogni oggetto è prodotto in serie limitata, eseguito interamente a mano,
secondo variate tecniche artigianali e
con l’utilizzo di “perle” di Murano. A
seconda delle varie
tipologie che
intende
realizzare,
l’Aprosio
si avvale
di numerose tecniche
di lavorazione, in modo
da creare ogni volta
manufatti di particolare
valore e fascino eccezionale: si serve, quindi,
del telaio per la creazione di accessori tessuti come le antiche tappezzerie;
di ago e filo per inventare gigli, forme
vegetali, libellule, farfalle e altri insetti;
del crochet per gioielli, borse, cappellini e, infine, dei ferri per abbinare la
lucentezza dei cristalli alla leggerezza
della lana merinos e creare accessori
con trame in maglia.
Le opere di Aprosio fondono sapientemente creatività e pazienza
femminile all’eleganza delle forme
naturali donando una moderna immagine di bellezza a chi le indossa:
sono “gioielli preziosi” e spettacolari
che, grazie alla loro freschezza e
originalità, si adattano perfettamente
al gusto delle donne di oggi.
C.C.
5. Spilla Vespa, 2006
6. Spilla Farfalla notturna, 2006
4. Spilla Lilium Candidum, 2006
Giampaolo Babetto
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Esponente tra i più noti e apprezzati
della cosiddetta Scuola di Padova, studia all’Istituto Statale d’Arte
Pietro Selvatico di Padova, dova ha
come insegnante Mario Pinton che
esercita un ruolo determinante nella
sua formazione. Da Padova arrivano
altre suggestioni fondamentali per la
sua crescita artistica: in particolare
sente l’influenza del Gruppo N, che
contribuisce a proiettare la città nel
panorama artistico internazionale,
con conseguenze decisive anche
per gli artisti-orafi della Scuola di
Padova. Le ricerche visive e cinetiche
del Gruppo N ispirano Babetto nelle
sue sperimentazioni sulla percezione
delle forme: negli anni Sessanta crea
gioielli dove gli elementi geometrici sono ripetuti e assemblati per
originare particolari effetti ottici e di
movimento. Negli anni Settanta, in
linea con gli sviluppi dell’arte minimalista realizza opere geometricamente
rigorose dove sintetizza le forme e i
temi degli anni precedenti. In questo
periodo inizia ad accostare all’oro altri
materiali: occasionalmente pietre preziose e soprattutto intarsi di ebano
che ricordano superfici laccate.
Nel 1983, ispirato dalla mostra
dedicata dal Metropolitan Museum
di New York alle lacche giapponesi,
inizia ad elaborare gioielli bicromi in
cui il giallo dell’oro è abbinato a resine sintetiche nere, bianche o rosse
e grazie a questi vince il premio della
Japan Jewellery Association.
Il disegno crea l’effetto di un oggetto
prospetticamente scorciato, effetto evidenziato dalle linee nette che
separano le superfici colorate.
Alla fine del decennio, la sua produzione artistica si apre a elementi
figurativi: dai dipinti di Pontormo
estrapola le sagome di figure umane,
di elementi vegetali e architettonici,
trasformandole nei contorni estremamente puliti e netti dei suoi gioielli.
Talvolta sono esclusivamente piani
d’oro, in altri casi si nota una stratificazione di metalli colorati ed in altri
ancora la meditazione su Pontormo
porta a pezzi dal carattere maggiormente plastico e naturalistico.
Nello stesso periodo, le superfici
colorate, realizzate con pigmenti puri,
non si presentano più levigate come
in precedenza, ma acquisiscono un
aspetto poroso. Amplia, inoltre, la
gamma delle tonalità impiegate, introducendo l’International Klein Blue.
Il colore ha un ruolo fondante nel
gioco prospettico che enfatizza o
stravolge la struttura geometrica dei
pezzi. Babetto stesso li definisce
“gioielli decostruttivisti”, richiamandosi ad una tendenza dell’architettura
contemporanea, dove non è possibile
individuare una gerarchia di forme e
funzioni e in cui gli opposti si amalgamano in modo singolare. Coerentemente le sue creazioni scaturiscono
dai concetti, solo apparentemente
contrari, di tensione ed armonia che si
sostanziano in un gioiello dove la semplicità della forma riesce a comunicare
la complessità della sua realizzazione.
Nella ricerca estetica di Babetto è centrale il problema della percezione che
lo induce a progettare dei gioielli essenziali capaci di porsi in relazione con lo
spazio e con il corpo. La scelta di lavorare su figure geometriche è dettata
unicamente dalla volontà di interpretare
forme semplici, evitando ogni elemento decorativo. Per questo, per il suo
lavoro sono spesso citate ascendenze
al De Stijl e al Costruttivismo russo,
tuttavia l’artista afferma di essere principalmente ispirato dall’architettura e
di ammirare soprattutto van der Rohe,
Barragan, Foster e Fuksas.
Anche l’arte e l’architettura rinascimentale hanno una decisiva
influenza sulla produzione di Babetto
il quale dichiara che per lui “sono
importanti i principi classici come
chiarezza formale, misura e proporzioni” (Nickl 2002, p. 85). È proprio
per queste caratteristiche e perché
le sue creazioni sono pensate “quale
frammento di un’architettura corporale” (Celant 1996, p. 13) che le
sue opere non rischiano di apparire
ricerche fini a se stesse, ma si connotano come gioielli, ovvero oggetti
concepiti per essere indossati e per
essere depositari di significati simbolici, di arte e sapere tecnico.
La sua passione per l’oreficeria è
dimostrata anche dalla lunga attività
di insegnamento che lo ha visto professore all’Istituto Statale d’Arte Pietro
Selvatico di Padova (1969-1983),
alla Rietveld Akademie di Amsterdam
(1979-1980, 1983), alla Fachhoschule
di Düsseldorf (1985), alla San Diego
University (1987), al Royal College
of Art di Londra (1990), alla Sommer
Akademie di Graz (1993), alla Rhode
Island School of Design a Providence
(1994, 1996), alla Sommer Akademie
di Salisburgo (1995, 1998).
D.G.
23
7. Spilla, 1984
24
25
8. Orecchini, 1993
9. Spilla, 1997
Gijs Bakker
26
L’artista olandese è principalmente
un designer ed è quindi portato più
alla progettazione che all’esecuzione dei suoi pezzi: inclinazione già
evidente dalla sua formazione. Dopo
aver studiato design e oreficeria dal
1958 al 1962 all’Istituto d’Arte Applicate di Amsterdam (Instituut voor
Kunstnijverheidsonderwijs divenuto
poi Accademia Gerrit Rietvield),
si perfeziona nell’industrial design
alla KonstfackSkolan di Stoccolma
(1962-1963). I tre anni successivi lo
vedono attivo come designer presso
la Van Kempen en Begeer a Zeist,
periodo in cui si consolida il sodalizio artistico e sentimentale con la
famosa designer di gioielli Emmy van
Leersum (1930-1984).
Nella metà degli anni Sessanta i due
si sposano e aprono l’Atelier voor
Sieraden (“Bottega di gioielleria”) ad
Utrecht, concepito, anche nell’arredo, per discostarsi quanto più
possibile dalle classiche botteghe
artigiane olandesi: a dimostrazione
del loro intento di rompere con la
tradizione e di rinnovare l’idea di
gioiello tenendo quali punti fermi il
nuovo ruolo che l’ornamento ricopre
nella società moderna e il rapporto
tra questo e il corpo.
Le opere progettate in questi anni
infatti sono ispirate dal tentativo di
applicare le leggi dell’industrial design, serialità compresa, alla gioielleria
con il fine di raggiungere un pubblico
sempre più ampio. Rilevante è il
rifiuto dei metalli preziosi tradizionali
in favore di materiali emblematici
della contemporaneità (alluminio e
PVC) che consentono di disegnare
forme particolarmente ampie contenendo i costi e il peso degli oggetti.
Ne sono un esempio i grandi collari
in alluminio creati per la mostra del
1967 “Sculpture to wear by Emmy
van Leersum and Gijs Bakker” le cui
dimensioni erano volutamente esagerate per impedire che potessero
essere contenute nelle vetrine dello
Stedelijk Museum di Amsterdam
tradizionalmente dedicate alle arti
decorative.
La realizzazione di multipli eseguiti in
materiali economici è stata spesso interpretata quale desiderio di
dar vita al “gioiello democratico”,
ma questa lettura è stata spesso
contestata dallo stesso Bakker il
quale ricorda che i suoi pezzi hanno
comunque dei costi troppo elevati
per essere realmente un prodotto di
massa. Inoltre Bakker ha più volte
affermato che egli crea per una
propria necessità interiore e non per
assecondare un committente o le
leggi del mercato e dell’industria.
Tuttavia il suo design mira ad attrarre
un pubblico più vasto e giovane di
quello cui generalmente è rivolto
questo settore.
Bakker disegna dei pezzi che si
connotano principalmente come
oggetti e sculture, ma che, essendo stati espressamente concepiti
per essere indossati, acquistano la
funzione di monile risultando incompleti se scissi dal corpo: ne sono
esempio le opere presentate alle
mostre “Objects to wear” e “Sculpture to wear”. La sua ricerca artistica infatti ha il cardine essenziale
nella corrispondenza tra persona
e gioiello. L’iterazione è ancora più
evidente nel caso della Shadow
Jewelry (1973) dove il gioiello è
volutamente stretto per lasciare un
segno – un’ombra – sulla pelle che
diventa il vero ornamento, in quanto
la persistenza del leggero solco
è direttamente proporzionale alla
delicatezza dell’epidermide di chi lo
indossa. Ha creato gioielli incentrati
sul concetto di unicità del nostro
corpo e che replicano l’aspetto del
destinatario: Bib (1976) è un bavaglio in stoffa con la fotografia del
petto di chi lo porta, Profile brooch
(1983) è un filo di acciaio inossidabile, curvato per ritrarre il profilo
della persona.
Altre opere con fotografie laminate
in PVC, talvolta arricchite da pietre
preziose, riproducono corpi, interi o
soltanto particolari, di modelli reali
o desunti da capolavori del passato
quali gli affreschi michelangioleschi
della Cappella Sistina. Si tratta di
“corpi che indossano corpi: si intesse una fitta e intrigante rete di rimandi, citazioni, riferimenti all’arte, alla
società, mettendo in tutta evidenza
la forza del gioiello come efficace e
potente mezzo di comunicazione e
commento sulla realtà in cui viviamo”
(Lucca 2006, p. 45).
L’uso della fotografia trova delle applicazioni tanto interessanti quanto
ironiche nella sua opera, diventando
un particolare mezzo per esprimere
la sua riflessione sul gioiello e sulla
società. L’ampia collana Pforzheim
1780 del 1985, costituita da una
foto laminata in PVC di un’antica
collana, esprime l’ambiguità insita
nella rappresentazione dei concetti di preziosità e di realtà. Questo
tema è presente anche nella recente
serie Real in cui l’artista assembla
dei pezzi di bigiotteria, acquistati
nei suoi viaggi, con delle piccole
repliche appositamente realizzate in
pietre preziose. Con queste opere,
l’artista s’interroga se sia più “vero”
l’originale pezzo di bigiotteria con
pietre di imitazione o la copia in pietre preziose. La capacità di un gioiello di manifestare simili riflessioni e
significati costituisce, per l’artista, la
ragione e il mezzo che consentono
ad un monile di superare la dimensione angusta delle arti applicate,
intese nel loro senso più tradizionale
e riduttivo, per diventare compiuta
espressione artistica.
L’opera di Bakker, che dagli anni
Settanta si occupa anche di design
industriale, ha influenzato diverse
generazioni di artisti tramite la sua
attività di insegnante in varie scuole,
tra cui l’Academie van Beeldende
Kunsten di Arnhem (1971-1978) e
The Design Academy di Eindhoven
(1987-2003). Importante, in questo
senso, è la sua collaborazione con
Renny Ramakers alla costituzione
nel 1993 di Droog Design, impresa
olandese innovatrice nel design.
Nel 1996 ha dato vita con Marijke
Vallanzasca a Chi ha Paura…?, una
fondazione che domanda ad artisti
di livello internazionale di disegnare
pezzi in cui il concept sia più importante delle materie impiegate. Chi ha
Paura…? è divenuto in seguito un
marchio che si occupa di collezionare, promuovere e vendere questo
genere di gioielli.
D.G.
10. Bracciale Circle bracelet, 1967
Bino Bini
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È un artista colto che si è dedicato
a varie discipline quali l’oreficeria,
la medaglistica, la numismatica, la
scultura ed il restauro; ha una notevole conoscenza delle tecniche orafe
grazie ad una solida formazione iniziata a partire dall’età di dodici anni
presso le botteghe degli Artigianelli e
affinata all’Istituto d’Arte di Firenze,
dove ha conseguito il diploma e ha
poi insegnato per molti anni.
Nel 1951 inaugura la sua bottega
in piazza del Duomo dove esegue gioielli soprattutto di indirizzo
tradizionale. Nel 1966, in seguito alle
gravi perdite subite per l’alluvione,
decide di chiudere il suo esercizio e l’anno successivo apre
lo studio di via Metastasio
dove, libero dalle esigenze di mercato, segue
un percorso estetico
che lo porta a
sintetizzare il suo
stile personale
immediatamente
riconoscibile. In
via Metastasio
accoglie molti
apprendisti e
nel 1983 fonda
la Scuola dell’Arte dei Metalli
ispirandosi al
modello della
bottega fiorentina del Rinascimento. Per Bino
Bini l’insegnamento
ha sempre avuto
molta importanza ed
è per questo che oltre
a istituire una propria
scuola, dal 1955 al 1977 è
docente presso l’Istituto “Margaritone” di Arezzo.
Questa città lo vede anche impegnato in un sodalizio con la Uno
A Erre, azienda che a partire dagli
Sessanta chiama a collaborare
affermati artisti e designers per
rilanciare la propria immagine. Per
la Uno A Erre Bini disegna una serie
di medaglie e gioielli, sia pezzi unici
che opere in serie, affermando così
la sua felice versatilità.
La volontà di sperimentare in diversi
ambiti è uno dei tratti salienti di questo artista, la cui multiforme creatività
lo ha portato a misurarsi anche con
la scultura di grandi dimensioni e ne
è un esempio La gloria del mattino
del 1995 per lo stabilimento ibiza di
Tokyo e Gallo Nero del 1999 a Greve
in Chianti. La sua notevole abilità
nella medaglistica e nella numismatica gli ha procurato commissioni di
grande prestigio tra cui la medaglia
Inverno per la serie Le quattro stagioni emessa dalla Zecca Italiana o la
monetazione ufficiale per la Repubblica di San Marino di otto valori a
corso legale nel 1975. In qualità di
orafo ha creato arredi sacri per importanti chiese come l’ostensorio in
argento per la cattedrale di Helsinki
e il ciborio e candelieri in argento e
smalti per la cattedrale di Fiesole,
solo per citarne alcuni.
Come creatore di gioielli ha partecipato alle più prestigiose manifestazioni nazionali ed internazionali
(Biennale Internazionale del Gioiello
d’Arte di Massa Carrara, le triennali
della Japan International Jewellery Arts Exhibition di Tokyo, “Oro
d’autore” di Arezzo) e sue personali
si sono tenute nelle principali capitali
dell’arte. L’infaticabile attività espositiva mostra la determinazione di Bini
di voler uscire dal circuito strettamente fiorentino e di volersi collocare nel clima artistico internazionale,
facendosi conoscere ed apprezzare
da un ampio pubblico. L’opera di
Bini riflette lo scenario artistico del
suo tempo, da cui gli provengono
suggestioni che egli declina secondo
una sua personale interpretazione,
dove il linguaggio moderno si unisce
con la tradizione orafa.
Nei gioielli, il suo stile si connota
per la grande abilità tecnica, che gli
permette di controllare la materia e
piegarla alla sua capacità di sintesi
con cui è in grado di rappresentare,
attraverso forme originali e quasi
astratte, concetti ed azioni.
Le sue opere sono tutti pezzi unici
sbalzati e cesellati a mano. Un tratto
peculiare è dato dal trattamento
della superficie che si contraddistingue per un aspetto grumoso: la
lamina, infatti, è martellata sul retro e
successivamente vi sono applicate,
per saldatura, delle piccole sfere di
oro bianco 800. Le pietre preziose,
generalmente a taglio navette e
montate à griffe, sono spesso presenti, senza predominare nella composizione in maniera tale da creare
un insieme armonico e omogeneo.
D.G.
29
11. Spilla Lo specchio, 1963
13. Pendente Pioggia, fine anni Settanta
12. Collana Aggressione, 1965
Buccellati
30
Le radici orafe di una delle più importanti famiglie italiane di gioiellieri
del xx e del nuovo secolo risalgono
alla metà del Settecento, quando
Contardo Buccellati avvia una bottega a Milano nella strada degli Orafi
oggi via degli Orefici.
Dopo la Prima Guerra mondiale, il
capostipite “moderno” dei Buccellati è Mario (Ancona, 1891 - Milano, 1965), il quale, nel capoluogo
lombardo, apre un negozio con il
suo nome in via Santa Margherita.
Egli segue i canoni rinascimentali
delle botteghe d’arte suntuaria,
accompagnando il gioiello da lui
inventato dal disegno fino alla sua
completa realizzazione, che si avvale
di artigiani abilissimi. La bellezza nei
“gioielli Buccellati” prende corpo nell’utilizzo di metalli preziosi e di pietre,
queste ultime, tuttavia, sempre al
servizio della struttura architettonica
dell’opera, determinata e accentuata
dagli stessi metalli.
I gioielli di Mario Buccellati, frutto di
una straordinaria combinazione di
pieni e di vuoti – come nei lavori “a
pizzo” e in quelli “a tulle” –, affascinano perché sono, al tempo stesso,
classici e nuovi. Il riferimento alla
grande tradizione rinascimentale è
esplicito ma è altrettanto trasparente
la capacità dell’artista di interpretare
i modelli del passato, imprimendo su
ogni opera un segno del tutto speciale, unico, facilmente identificabile.
Il suo animo era potente, violento,
impaziente. La sua personalità era
fortissima. Lavorava con l’intuito.
I suoi disegni accennavano un
concetto che l’artigiano poi doveva
saper interpretare (Mario Buccellati
nel ricordo del figlio Gianmaria).
Una tecnica particolarmente significativa, fra le numerose che sottolineano lo stile Buccellati, è quella
“inventata” da Mario Buccellati e
molto eseguita anche ai nostri giorni:
si tratta della tecnica di lavorazione
dei metalli preziosi chiamata “a tulle”
o “a nido d’ape”, che comporta una
lunga esecuzione, in cui si ritrovano
criteri di origine classico-rinascimentale e il cui prodotto altro non è che il
risultato della creatività dell’ideatore
e dell’abilità artigianale di coloro che
ne seguono le varie fasi di produzione. Dal disegno indicato dall’artista-gioielliere si passa alla scelta
dei materiali e ai vari momenti della
fabbricazione. Esperte mani d’arti-
giano riportano il disegno sulla lastra
di metallo e poi, con un piccolo
trapano manuale, praticano un foro
nel centro di ciascuna sagoma “ad
alveare” tracciata sulla superficie del
metallo. Con un seghetto di minute
dimensioni si dà la forma “a pentagono” al foro; vi è, a seguire, il delicato momento della pulitura, quando
si passa un filo di cotone impregnato
di pietra pomice in ciascun foro.
Dopo la scelta e l’incassatura delle
pietre, si incide la superficie col bulino, coinvolgendo anche il rovescio
dell’oggetto. Al disegno è necessario, quindi, che corrisponda una
manodopera capace, conoscitrice
profonda delle tecniche più antiche.
Incisione, traforo, modellato, cesello,
incastonatura sono fasi proprie della
lavorazione Buccellati.
Di grande fascino anche le sculture,
gli argenti, e gli oggetti progettati
da Mario Buccellati, dove è palese
il richiamo non solo all’arte europea
classica e dei secoli xv e xvi ma
anche all’arte orientale e alla natura,
secondo quanto lo stile Liberty
e quello Déco gli suggeriscono.
L’antico tesoro di coppe in argento
della villa romana di Boscoreale
(Pompei), ad esempio, per Mario
Buccellati è un modello a cui rifarsi
nella creazione delle Otto Coppe
di Boscoreale (1922-1924) con
decorazioni a rilievo, ottenute riscaldando ripetutamente la superficie
e martellandola all’interno, al fine di
non danneggiare il metallo. Celebri,
ancora, i candelabri per i quali si
ispira alle forme della natura come
quelle di una quercia: in queste
opere d’argento i rami ed il fogliame
sembrano danzare nel vento.
Dal suo laboratorio si diffonde in
Italia e all’estero quello che sarebbe
diventato con lui, e dopo di lui, lo
“stile Buccellati”, a cui è stato riconosciuto un altissimo livello qualitativo, una suprema armonia. Fantasia
inesauribile e sicura padronanza
della tecnica orafa, infatti, incontrano
presto il favore di una clientela importante: Mario Buccellati lavora per
il Vaticano, per le case regnanti, per
la nobiltà e per il mondo imprenditoriale. Le sue creazioni vengono apprezzate da pontefici e da cardinali
ed elogiate da uomini di cultura. La
sua bottega diviene un centro d’attrazione per musicisti, scrittori, artisti
famosi. Fra i tanti estimatori incon-
triamo Gabriele D’Annunzio, il quale
lo soprannomina Principe degli Orafi.
D’Annunzio acquista gioielli e oggetti
Buccellati, fra i quali ricordiamo, ad
esempio, i cosiddetti Portasigarette
eroici, in cui un’inscrizione attesta le
gesta del Vate. Un intenso rapporto
epistolare, inoltre, prova l’amicizia fra
il poeta e Mario Buccellati.
Sull’onda del successo Buccellati
apre, nel 1925, un negozio a Roma
e, nel 1929, uno a Firenze. Nel 1951
la Buccellati sbarca a New York
dove avvia un’attività commerciale
sulla 51ª strada per trasferirsi, in
seguito, sulla Quinta.
Quattro dei cinque figli di Mario
Buccellati lavorano nell’azienda di
famiglia: Luca, Lorenzo, Federico e,
specialmente per l’essenziale parte
creativa, Gianmaria (Milano, 1929).
Uno stile riconoscibile quello della
Casa Buccellati, non costretto nei
decenni a inseguire le modificazioni
del gusto, che, dopo la morte di
Mario nel 1965, viene riproposto
e rielaborato dal figlio Gianmaria,
il quale mostra, fin da giovanissimo, un talento precoce. Dal padre
eredita il mestiere, i segreti della
tecnica e i canoni estetici, occupandosi oltre che di gioielli anche della
creazione di argenti.
I gioielli disegnati da Gianmaria
Buccellati sono testimonianza
dell’interesse che egli nutre, al pari
del padre, per le tecniche rinascimentali, arricchite dall’influsso dello
stile Rocaille del Settecento francese, una delle epoche predilette
dal designer milanese. Gli oggetti
nascono dall’immaginazione e dalla
contemplazione dell’arte, ma la fonte
di ogni creazione va ricercata nella
teca della memoria, dei ricordi, dei
sogni (Gianmaria Buccellati).
Nel periodo successivo alla scomparsa del padre Mario, Gianmaria
subisce l’influenza della rigorosa
estetica paterna, mentre nei tardi
anni Settanta e negli anni Ottanta conosce una fase più vivace e
fantasiosa. Quando altre illustri ditte
di oreficeria si dedicano in particolare alle gemme di grandi dimensioni
(brillanti, rubini, zaffiri e smeraldi
montati in forme semplici), Gianmaria Buccellati persegue un disegno
che sia la cornice unica per un’unica
pietra. I suoi gioielli dichiarano il suo
amore per le perle di forma insolita,
per le gemme preziose – in primo
31
14. Mario Buccellati, Spilla, 1932
32
Le collane preferite dall’artista
sono quelle che riprendono la
grazia degli ampi colli di pizzo
veneziano del Seicento.
E negli “oggetti preziosi” le tecniche
del maestro gioielliere si associano a
quelle del maestro argentiere. Calici,
candelieri, cofanetti e altri oggetti
sono realizzati con metalli pregiati
e gemme. Tutte opere forgiate con
procedimenti manuali di estrema
difficoltà, come quelli per rendere le
superfici metalliche ricoperte da fini
incisioni, una vera specialità di Casa
Buccellati. La tradizione classica e
lo stile Luigi xiv diventano, poi, basilari per dare vita ad un’idea che si
plasma con la pietra e i metalli, con
l’argento lavorato con le tecniche
dell’incisione e dell’ombreggiatura,
con il cristallo di rocca “fesonato”.
In numerose coppe di Gianmaria
Buccellati, inoltre, troviamo figure
animali in oro a cera persa che si
fondono intorno alla pietra, alla
coppa vera e propria, come nelle
opere d’arte dell’età ellenistica e del
Barocco europeo.
Fra i tanti oggetti di questo tipo,
molto nota è la Coppa Smithsonian
(2000), che deve il nome al Smithsonian National Museum of Natural
History di Washington, istituzione
per la quale è stata foggiata: si tratta
di uno straordinario blocco di agata
grigia (calcedonio variegato), con
oro giallo e bianco, argento e perle.
Una coppa evocativa, sagomata
alla maniera di un calice del piacere,
pensata per unire la spiritualità alla
materialità. In essa l’armonia nell’architettura del disegno – per cui il
fregio asimmetrico riequilibra il bordo
diseguale dell’agata –, la dinamica
dell’avvitatura e dei perni, che ne
tengono insieme le parti, e i motivi
a rouches mostrano in che modo
l’oreficeria possa raggiungere la vetta
dell’estro artistico, in un senso affine
ad altre forme di arte figurativa.
Se, ancora, le due Coppe della
Mitologia (1979) rievocano il Rococò
francese (1730-1770) in altri oggetti
troviamo sculture in avorio, che rimandano allo stile dell’epoca Tudor,
o pietre tagliate in figure geometriche, che si ispirano alle maniere
arabo-moresche, all’Oriente o
all’arte precolombiana. Rinomato è,
infine, un vero e proprio mobile, un
Tavolo in malachite e argento (1991)
pensato e compiuto per essere
un esplicito omaggio al Barocco
romano – al Bernini –, con tre delfini
guizzanti fra onde, modellati a cera
persa, che fanno da base ad un
piano in malachite.
La bellezza non è un fatto estetico
quanto un pensiero mistico (Gianmaria Buccellati). Un oggetto Buccellati
non ostenta la sua bellezza, la offre.
Negli anni Settanta e Ottanta l’artista-gioielliere avvia negozi nelle più
prestigiose località del mondo – con
particolare attenzione per il continente asiatico, di cui apprezza la
tradizione di eleganza e la millenaria
storia artistica – ma è senza dubbio
l’anno 1979 che ne consacra l’affermazione mondiale con l’inaugurazione di un negozio in place Vendôme
a Parigi, dove le gioiellerie più importanti del mondo hanno la loro sede.
E in questo aureo scrigno d’Oltralpe
la Buccellati fu la prima firma italiana
ad essere accolta.
Gianmaria concretizza il sogno del
padre: conseguire una rinomanza
internazionale per il nome Buccellati.
Le personalità più influenti della società cosmopolita vengono affascinate non solo dalla produzione di gioielli
ma anche dall’insieme di opere e
dalla posateria in argento massiccio. Nel 2002 Gianmaria Buccellati
entra nel mondo dell’orologeria con
creazioni originali che sottolineano
anch’esse lo stile della Casa: la
totalità della produzione è realizzata
in Svizzera, tuttavia il disegno, la
prototipizzazione e le varie tecniche
di lavorazione vengono concepite da
Gianmaria Buccellati in Italia.
Gianmaria Buccellati trasmette il
mestiere e la passione ai figli, in
primo luogo ad Andrea, il cui lavoro
rappresenta una miscela moderna
di tendenze e di gusto, dalla quale
nascono oggetti sempre fedeli allo
stile di famiglia.
A.V.
15. Gianmaria Buccellati, Spilla, 2006
Antonio Bueno
luogo gli zaffiri nei vari colori gialli,
azzurri e rosa – e semipreziose e per
i diamanti grezzi combinati in modo
da creare pezzi assolutamente singolari, di grande effetto scenografico
ma, al contempo, leggeri e “sobri”.
I gioielli, se non adornano il volto di
una donna, non sono interessanti
e nemmeno belli. Una donna deve
sempre risaltare sull’oggetto che
indossa (Gianmaria Buccellati).
Nei gioielli – dalle forme geometriche,
zoomorfe e fitomorfe – tipiche sono
le lavorazioni “a nido d’ape” e “a
pizzo” in oro giallo e oro bianco o argento. Gianmaria Buccellati suscita,
con i metalli preziosi, l’illusione di un
antico tessuto damascato e si serve
di brillanti “fancy” su oro giallo e di
brillanti su oro bianco per esaltare il
contrasto dei colori e l’estetica della
composizione.
Antonio nasce a Berlino, dove il padre Javer, corrispondente di guerra
del quotidiano madrileno “ABC”,
si era trasferito. La professione di
giornalista del padre costringe la
famiglia a spostarsi frequentemente: nel 1919 ritornano in Spagna, e
nel 1923, con l’avvento del regime
del generale Primo de Rivera si
trasferiscono di nuovo fermandosi
in Svizzera. Con il nuovo prestigioso
incarico di funzionario internazionale
la famiglia passa un lungo periodo
di stabilità a Ginevra che permette ai
figli Antonio e Xavier di frequentare
l’Accademia di Belle Arti il Conservatorio, di formarsi in quel clima
cosmopolita, già per loro costituzionale, e di partecipare alla vita
politica del Partito comunista. Ma
poi la famiglia si disgrega perché il padre si era legato
ad un’altra donna
e inizia di nuovo
un periodo di
instabilità che
porta Antonio a raggiungere il
fratello a
Parigi e ad
iniziare un
sodalizio
che durerà
dieci anni,
sfociando
in un vera e
propria coabitazione che si
perpetuerà anche
in Italia, a Firenze.
A Parigi Antonio continuerà i suoi studi all’Ecole des
Beaux Arts e pur seguendo le lezioni
d’impronta cèzanniana del professor
Guèrin, imparerà la vera meticolosità
tecnica dal fratello Xavier e insieme
guarderanno i grandi maestri italiani,
spagnoli e fiamminghi del passato.
Approderanno a Firenze nel 1940
nella città d’arte che diverrà la loro
stabile residenza e la loro patria di
adozione. Già nel giugno del 1942 i
due fratelli si riveleranno al pubblico, alla Galleria Ranzini di via Brera
a Milano, presentati da Pietro Annigoni, divenuto amico nei loro primi
anni fiorentini. È anche l’occasione
in cui Sciltian vede per la prima
volta la loro pittura.
Lavoravano a San Domenico, in una
villa presa in affitto nella cui dépen-
dance anche Annigoni teneva uno
studio e dove nel 1941 anche De
Chirico comprerà una casa.
Nel dopoguerra aderiscono con gli
amici Pietro Annigoni e Sciltian, seppure con intenti polemici, al gruppo
che si definì “Pittori moderni della
realtà” e presentano il loro “manifesto” nel novembre del 1947 in
occasione della mostra alla “Galleria
Illustrazione” di Milano.
Il loro programma muove dall’osservazione “oggettiva” del vero e
della natura “fonte prima ed eterna
della pittura”, e dalla sua riproduzione, il più possibile fedele,
ricercata e proclamata anche quale
mezzo di scontro al “postimpressionismo decadente” e alla cosiddetta pittura astratta.
Insieme continuano ad esporre
con il gruppo nel 1948 a Roma alla
Galleria “Margherita” e nel 1949 di
nuovo alla Ranzini di Milano, anno
in cui fondarono la rivista “Arte”
che dopo solo tre numeri cessa le
pubblicazioni. È anche il momento in cui il gruppo costituito anni
prima si scioglie definitivamente
così come avviene per il sodalizio
dei fratelli Bueno dopo l’ultima
esposizione alla galleria “Numero”
di Firenze nel 1952.
Antonio rivolge il proprio interesse
verso esperienze di pittura geometrica e si inserisce nell’ambito della
rivista d’arte astratta “Numero”.
Inizia così un percorso di sperimentazione risolto in modo estremamente originale in una mediazione
tra astratto e figurativo che trasferisce in atmosfere metafisiche oggetti
isolati ed estraniati della realtà quali
pipe di gesso, gusci d’uovo, gomitoli di spago, che esporrà nel 1956
alla Biennale di Venezia dove la sua
opera ottiene il pieno consenso e il
riconoscimento della critica (Argan,
Sanguineti, Praz, Quasimodo, Camus, Goldmann, Guillén).
Di nuovo Antonio Bueno è pronto a
rinnovarsi per ricominciare tutto da
capo. L’opera Il cimitero delle pipe
del 1959 segna la fine del periodo
“metafisico”.
L’artista intraprende poi alcune
esperienze estemporanee come
quelle dei monocromi con Scheggi
e Manzoni nel 1962 e successivamente altre di natura interculturale
dapprima con il Gruppo 63, in una
mostra di poesie a Reggio Emilia, e
quindi con il Gruppo 70 nell’ambito
di ricerche multimediali.
Nel 1968 con pitture monocromatiche a rilievo partecipa alla xxxiv
Biennale di Venezia, presentato
in catalogo da Sanguineti. L’anno
successivo si distacca dal Gruppo
70 per dedicarsi definitivamente alla
raffigurazione delle sue emblematiche donne, pitture che lui stesso
amava definire “neokitsch”, “neopassatiste”, “neoromantiche” e addirittura “pompieristiche”.
Antonio Bueno ha interpretato in
modo personalissimo l’arte del
passato e particolarmente quella
della Scuola di Fontanebleau, alla
quale dedica due opere nel 1961 e
nell’84, per poi giungere ad un modello di ritratto da lui stesso ideato
che lo identificherà come leitmotiv
della sua espressione artistica.
La donna diventa così una vera e
propria “icona” che racchiude in sé
il contraddittorio senso della pudicizia, espressa dal volto ancora di
bambina, e della sensualità, sottolineata talvolta anche dai piccoli
seni scoperti, un modello che si
ripeterà anche nella creazione di
opere di gioielleria.
Ironico e contraddittorio ma consapevole dell’originalità della sua arte,
Bueno diventa, negli ultimi anni della
sua produzione, un vero e proprio
“consumatore” dei ritratti più famosi
della storia dell’arte sostituendo ai
volti originali il suo “modello” come
nel Ritratto di Eleonora da Toledo
con il figlio Garcia del Bronzino o
nelle bagnanti di Ingres.
In linea con Andy Warhol e Lichenstein anche Bueno, attingendo a
figure simbolo della società dei
consumi, trasmette i connotati delle
sue celebri figure che sono passate
nell’immaginario collettivo assicurando all’artista una fama durevole.
O.C.
16. Spilla Cantante, 1974
33
Luigi (Gió) Carbone
34
L’artista dal 1985 svolge l’attività
d’orafo presso il proprio atelier-laboratorio di oreficeria a Firenze, in
piazza S. Spirito. La sua è un’attività
di produzione che promuove la creazione di oggetti unici, la realizzazione
di modelli e di piccole serie.
Osservando le opere di Giò Carbone nella sua totalità, ciò che
emerge è la ricerca strutturale dell’oggetto. L’attenzione per strutture
e forme strettamente matematiche
si rifanno allo studio delle opere di
Escher che analizzano la relazione
tra spazio e superficie.
Escher, si pone il problema di come
rappresentare le tre dimensioni in
una superficie bidimensionale, mentre Carbone lo risolve nella tridimensionalità dando forma alle Figure
Impossibili dove crea un’illusione
ottica, provocando nell’osservatore
un cosciente inganno.
Nel 1985 fonda “Le Arti Orafe
Jewellery School” stimolato, come
lui spesso afferma, dal contatto
con i giovani e dalla passione per
l’insegnamento; si tratta della prima
scuola italiana privata di oreficeria,
situata in Oltrarno, tra San Frediano
e il quartiere di S. Spirito, a poca
distanza da Palazzo Pitti, della quale
è attualmente coordinatore didattico
ed insegnante senior di laboratorio.
Nel corso degli anni la scuola si
è ingrandita e Giò Carbone si è
dedicato completamente all’insegnamento delle Tecnologie dei
metalli preziosi e al Laboratorio di
oreficeria, e grazie alle sue ampie
competenze tecniche, che spaziano dalla conoscenza dell’oreficeria
classica alla padronanza delle tecniche e dei materiali contemporanei,
ha sviluppato modi di lavorazione
e tecniche speciali come: il cesello,
il mokume (un tipo di lavorazione
dei metalli che imita la disposizione
delle fibre del legno) la granulazione
e la lavorazione delle cere.
Le “Arti Orafe Jewellery School”,
per molti anni è stata l’unica scuola
di arti della zona, ha formato figure
professionali che, attraverso la
ricerca formale e l’utilizzo di nuove
tecnologie e materiali, operano sulla
scena nazionale e internazionale.
18. Spilla Figura impossibile 2, 2000
Nel 1991, su designazione del Ministero per l’Industria e l’Artigianato
di Avignone, partecipa al convegno-esposizione “Europe Artisanat”
organizzato dalla CEE e segue i
lavori della DG xxiii per lo sviluppo
della formazione artistica.
Dal 1985 al 1993 realizza centri di
formazione e nuove attività produttive per conto di amministrazioni locali e stati esteri; diviene
membro fondatore del Parlamento
Europeo delle Scuole d’Arte Orafa;
responsabile della “Commissione
Educazione e Ricerca”. Negli anni
successivi continua a ricoprire questa carica e quella di responsabile
della “Commissione Tecnica e Progetti”: in questo ambito, elabora un
progetto nel quadro del programma
Comunitario “Leonardo”, ossia il
progetto “Cellini”, un dizionario
multilingue dell’oreficeria (Jewellery
Multilingual Dictionary). Il Dizionario
multilingue dei termini e dei concetti
riguardanti il settore dell’oreficeria
e della gioielleria, pubblicato nel
2001, è uno strumento di ricerca e
di lavoro, volto a facilitare la comunicazione e lo scambio di informazioni in questo specifico settore,
che spesso adotta terminologie
difficili da tradurre in altre lingue.
Nel 1993, l’Ufficio Commerciale del
Cile a Milano incarica Giò Carbone
di studiare lo sviluppo del settore orafo in Cile. Dal 1994 al 2001
promuove la realizzazione di nuovi
centri di formazione professionale in
Venezuela e in Libano ed è invitato
a rappresentare l’Italia per la mostra
celebrativa presso la Hong-Jk University of Applied Art di Seoul.
L’artista svolge anche il ruolo di
ideatore e coordinatore di eventi,
ultimo dei quali Lucca Preziosi 2006,
mostra sul gioiello contemporaneo.
35
C.S.
17. Spilla Figura impossibile 1, 2000
Pino Castagna
Tony Cassanelli
L’artista è un giovane scultore che
si è formato a Trani presso Franco
Scaringi da cui ha appreso i segreti
dell’arte plastica. Dopo alcune esperienze nell’ambito della lavorazione
della creta e della pietra di Trani,
decide di concentrare i suoi studi sul
marmo e si trasferisce in Toscana
dove studia all’Accademia di Belle
Arti di Carrara. In questo periodo
collabora con alcuni orafi per l’esecuzione di cammei marmorei.
La sua ricerca è improntata principalmente sulla figura umana, sul
disegno e sul modellato. Ha fatto
bagaglio, con sensibilità e passione,
della più prestigiosa cultura plastica
italiana incentrata sulle capacità
espressive dei corpi e riesce a dare
alle sue sculture morbidezza plastica
e delicata sensualità. Esegue soprattutto sculture di grandi e medie
dimensioni in marmo, terracotta
o bronzo. L’artista ha partecipato
a numerose collettive e realizzato
mostre personali nel 2003 a Carrara
e nel 2004 a Bari.
E.S.
36
19. Spilla raffigurante Sara, 2005
Personalità versatile ed infaticabilmente poliedrica, Castagna si muove nelle varie fasi del suo percorso
artistico con una fedeltà incessante
a quella duplice ed inscindibile identità di artista e di artigiano padrone
del mestiere che così fortemente caratterizza le sue opere e che lo porta
a non accettare “di dover distinguere
fra arte e artigianato, arte pura e
arte applicata, e ancor meno fra arti
maggiori e arti minori” (M. Bertozzi,
in Massa 2006, p. 41).
Questa convinzione affonda le
radici nella sua formazione peculiare
basata su una somma di esperienze
eterogenee che vanno dal restauro
di affreschi e vetri, all’insegnamento
del disegno per giungere fino alla
progettazione di mobili, alla tipografia ed altro; lasciato Castelgomberto
nel vicentino dove nasce nel 1932,
studia e si forma a Desenzano e
successivamente all’Accademia di
Belle Arti di Venezia, affiancando
agli studi una serie di sperimentazioni che gli consentono di acquisire
una vasta conoscenza tecnica ma
soprattutto una infinita padronanza
di materiali come il vetro, la ceramica, l’acciaio, il marmo, il cemento, il
legno, il bronzo, l’alluminio, la ghisa,
le fibre tessili per arazzi e tappeti.
Così Pier Carlo Santini, presentando
nel 1986 la mostra su Castagna,
Carmassi e Guadagnucci nel Parco
della Versiliana “Castagna muove
sempre dalla materia: ne esalta
talora rischiosamente le proprietà;
la conduce quasi ai limiti di rottura e
di resistenza” (P.C. Santini, in Marina
di Pietrasanta 1986) finché non ha
ottenuto i risultati voluti e corrispondenti alle intuizioni prodotte dalla sua
infinita libertà creativa.
Il suo percorso formativo arriva ad
una svolta nel 1959 quando incontra
Michael Noble che lo chiama a
collaborare nello studio di ceramiche
sul Garda. Con lo scultore inglese
la sua formazione si focalizza sulla
ceramica attraverso sperimentazioni interessanti, non ultima quella
intensa del laboratorio per i pazienti
dell’ospedale psichiatrico di Verona,
esperienza che affronta dimostrando
infinita generosità non soltanto come
artista ma soprattutto come uomo.
Quando nel 1963 l’atelier di Noble
viene chiuso, Castagna è ormai
in possesso dei segreti del ‘fare
ceramica’, attività alla quale continua
a dedicarsi anche nel suo nuovo
laboratorio.
20. Anello, 1979
Sperimentatore infaticabile, inizia
in quegli anni le sue prime ricerche
sulla scultura e una volta aperto
nel 1969 a Costermano sul Garda
uno studio-laboratorio attrezzato e
‘politecnico’, immerso in una natura
atta ad ospitare grandi volumi, la sua
vocazione di scultore si precisa e si
puntualizza. Nascono i primi grandi
pezzi in ceramica, bronzo, alluminio
ma anche in materiali insoliti come
la terra refrattaria e la pietra morta,
prime testimonianze di quel “fare in
grande” che caratterizzerà tutta la
sua attività e che sarà sempre incapace di rinnegare totalmente.
Nel 1976 interviene sui solenni e
grandi tronchi di alberi africani alti
più di otto metri e da vita alla serie
degli Iroko, realizzati con tecnologie
“di tipo leonardesco” (N. Pozza, in
Bardolino 1982). Ogni volta la concretizzazione di un’opera comporta
l’utilizzo di metodologie progettuali
consone e strumenti speciali e dove
gli strumenti non rispondono alle
finalità, Castagna li modifica o ne
inventa di nuovi.
37
38
Sempre nello stesso periodo si dedica alla serie dei Canneti in porcellana
e realizza alcune sculture in marmo,
Figura seduta con figura in piedi
(1972-1973), Tre figure (1970-1974) e
Piani scivolati che segnano una fase
di passaggio alle grandi e grandissime dimensioni, come avverrà nel
1974 con Diapason e nel 1975 con le
due Colonne (Santini 1980, p. 418).
Dal 1975 al 1979 espone a Monaco, Verona, Imola, Lucca, Rimini e
Salisburgo in grandi mostre en plein
air che lo rendono noto ad un vasto
pubblico internazionale e gli procurano i primi saggi critici di Mario De
Micheli, Licisco Magagnato e Pier
Carlo Santini. Le sue opere esigenti, che richiedono spazi allargati,
trovano la loro collocazione ideale
nel cortile di Castelvecchio a Verona,
nelle mura urbane di Lucca, nei prati
e sugli alberi di Rimini.
La sua attività di scultore continua
negli primi anni Ottanta con l’Acaia
(1980), la Memoria della Giudecca
(1981-1982) la Pietra fiorita (1983)
e la Memoria architettonica (19841985) che richiamano le precedenti
sculture d’aspetto colonnare come
il Diapason, i vari Iroko o le pesanti
masse squadrate dei Piani scivolati.
Ancora una volta riprendendo temi
già trattati, realizza poi una versione
in vetro dei Canneti (1981), le Memorie neoclassiche (1982) e i Nudi
(1980-1981), in legno ed in bronzo,
ricollegabili alle versioni in marmo
carnico del 1973 e ad una variante
in bronzo nota anche come Trancio di Madame Findus del 1975.
“Sempre dopo aver realizzato una
scultura, egli pensa a come potrebbe risultare se eseguita in materiale
diverso, o con tale o talaltra modificazione di rapporti e di forme”
(P.C. Santini, in Mantova 1985, p. 6)
ma non si tratta di versioni ripetitive
ma piuttosto eterogenee e motivate
dalla diversità delle occasioni.
È in questi primi anni Ottanta che
“nel maestro scatta la molla dell’utopia, che metterà in moto una produzione di opere di gran mole che non
trova paragoni nei contemporanei” (F.
Batacchi, in Pergine Valsugana 2001
p. 26). Appartiene a questo periodo
una delle sue creazioni più significative, le Vele (1981): in quest’opera,
realizzata in ghisa e formata da tre
elementi diseguali ancorati soltanto
nella parte inferiore, l’artista riesce a
sfidare “la forza di gravità trasformando tonnellate di materia inerte in fogli
di miracolosa levità” (F. Batacchi, in
Pergine Valsugana 2001, p. 26).
Ma è con il Muro, realizzato fra il
1983 e il 1984, che l’artista scrive
un nuovo capitolo nella storia della
macroscultura: con i suoi tredici
metri di lunghezza e un peso di
milleduecento chili, è un opera di
dimensioni colossali che testimonia, ancora una volta, la sua
sconfinata capacità di piegare la
materia alle proprie esigenze: è
una sfida impossibile, un’utopia
che l’artista rende possibile e
realizzabile; è proprio questa sua
caratteristica che, anni dopo, nel
2001, porterà Franco Batacchi a
coniare il termine ‘Concrete utopie’
per intitolare la splendida personale al Castello di Pergine.
Sempre negli anni Ottanta, la figura
di Castagna assume un ruolo di
primo piano nel contesto artistico
internazionale, grazie soprattutto alla
retrospettiva al Palazzo delle Albere
di Trento ed alla mostra antologica di
Palazzo Te a Mantova, entrambe del
1985. La sua notorietà è poi consolidata dalla partecipazione alle più
importanti rassegne d’arte fra cui la
xlii Biennale di Venezia nel 1986 e la
3éme Biennale Européenne Sculture
de Normandie a Jouy-sur Eure, in
Francia, nel 1984 e nel 1986.
Continua ininterrottamente l’attività anche negli anni Novanta con
la realizzazione di altre importanti
sculture come Paesaggio sonoro
(1993), foresta di canne d’acciaio
innestate su cemento armato che
le persone, attraversando, fanno risuonare, Cespo veneziano (1995) in
acciaio e ceramica, Onde (1998), in
acciai vari, una delle ultime versioni
del Canneto (1999), in vetro soffiato
a più colori e la suggestiva Foresta
di Birnam (1990), la famosa selva di
Macbeth di Shakespeare: 537 travi
di ferro e 96 elementi in cemento
armato che danno l’idea di soldati
che si muovono nella notte, mimetizzati con i rami degli alberi; in questa
realizzazione c’è tutta la complessità
del suo processo creativo e il carattere visionario delle sue sculture.
Questa ed altre opere di grandi
dimensioni sono state più volte
definite ‘archisculture’ a sottolineare quella sua intensa aspirazione
architettonica, la stessa che è alla
base di una serie di interventi in
scala urbana ed extra urbana che
hanno suscitato interesse non solo
in Italia ma anche all’estero: AlpiniaCascade de Beynost (1991-1992),
opera in acciaio cor-ten e cemento,
di forte impatto visivo nel paesaggio
autostradale francese nei pressi
di Lione, la chiesa all’aperto nel
sagrato antistante la parrocchiale
di Zemeghedo (1994), il Canneto in
porcellana alto 6 metri per l’Università di Braunscweig (1997).
Alcune sue sculture sono presenti al
Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, fra cui il Canneto
in bambu in porcellana smaltata e
metallo e lo splendido Albero Veneziano in metallo, maiolica e vetro.
Altre opere si trovano invece presso
la Fondazione Ragghianti.
Nel suo incessante bisogno di sperimentare nuove avventure espressive spaziando da un campo artistico
all’altro, Castagna non poteva non
cedere alla tentazione di cimentarsi
anche nell’oreficeria: alla fine degli
anni Sessanta comincia a realizzare gioielli e “pone all’origine del
suo lavoro in questo settore, l’aver
modellato mani di giovane donna
in cera d’api, adornate da un anello
in argentone e pietra lucidissima”
(Somaini-Cerritelli 1995, p. 55).
Nel 1979 realizza un bracciale in argento ad elementi sovrapposti che
rimanda alla Vele, e poi un bracciale
ed un anello, entrambi in argento,
che ricordano la serie delle Pietre
fiorite degli anni Sessanta.
Nel 2001 partecipa all’importante
mostra Immaginazione Aurea alla
Mole Vanvitelliana di Ancona con
opere fortemente strutturali che
ancora una volta richiamano i temi
delle sue sculture: Bambus (2000)
in argento 1925 e oro 750, Intervento (2000) e Mura di Nabucodonosor (2000), entrambe realizzate
con lastre d’oro lavorate a laminatoio su corpi d’argento e successivamente patinate.
I.B.
21. Collana, 2004
Saverio Cavalli
40
Saverio Cavalli si forma nell’ambito
della consolidata tradizione orafa
di Valenza e nel 1951 inizia la sua
attività in proprio depositando il
marchio 464 AL. Agli esordi del
suo percorso affianca all’oreficeria
l’interesse per la pittura astratta, ed
espone nelle più importanti manifestazioni italiane ottenendo prestigiosi premi e riconoscimenti.
Già nel 1954 si presenta alla x
Triennale di Milano con Anello N.
91, realizzato ancora con materiali
tradizionali quali l’oro e una perla di
fiume; nel 1957 in occasione della xi
Triennale di Milano, di cui i fratelli Pomodoro curano la Sezione Oreficeria, emerge un nuovo indirizzo nello
stile dell’artista, maturato grazie alla
collaborazione con designer quali
Dova e Sottsass: da questo momento la volontà di Cavalli è quella di
declinare il suo astrattismo geometrico secondo i canoni e le tecniche
tradizionali dell’arte orafa.
Dal 1968 l’ideazione e la costruzione delle sue opere evidenziano un’impostazione strutturale
secondo la quale la scelta dei
materiali sembra divenire
casuale tra legno,
vetro, pietre dure,
come si può
vedere dai pezzi presentati a Carrara alla i Biennale del Gioiello d’arte.
Dal 1974 inizia a volgere la propria
attenzione all’alpacca, all’alluminio e
alle plastiche (perspex, metacrilato),
trascurando sempre più le pietre
e i metalli preziosi, fino a lavorare
esclusivamente con materiali poveri
e di riciclo: brandelli di stoffa, frammenti di ossa, pezzi di legno e di
ferro, sabbia, carta.
Gli anni Settanta, Ottanta e Novanta
lo vedono impegnato in esposizioni
di alto livello ricevendo consensi di
critica e di pubblico.
La sua perizia tecnica, unita all’abilità
manuale, gli permette di realizzare
opere dalle lavorazioni particolarmente complesse, dimostrando
di padroneggiare la granulazione etrusca, gli
smalti champlevé e
cloisonné.
22. Bracciale N. 239 e Anello N. 240, 1964
Le opere esposte riassumono il percorso svolto dall’artista in ambito
formale maturato con un linguaggio
in cui convergono le sue ricerche:
da un lato il geometrismo puro
espresso in composizioni sempre
equilibrate e dall’altro la continua
sperimentazione di materiali naturali
e artificiali, preziosi, semipreziosi e
poveri.
P.L.
24. Collana N. 346, 1972
23. Anello N. 300, 1967
26. Spilla pendente (n. 7), 1973
25. Spilla pendente Opera 62 (n. 19/100), 1973
Paola Crema Fallani
Francesco Cenci
42
Fin da giovanissimo si è dedicato
alle ricerche ed agli studi delle arti
figurative iniziando come pittore, si
è formato presso il Liceo artistico
ed è stato poi allievo dello scultore
Corrado Vigni.
Partecipa alle prime rassegne del
dopoguerra in Toscana ed espone
nel 1945 al Convento fiorentino di
san Marco dove è evidente che la
sua opera rompe con gli schemi
accademici convenzionali.
I dipinti si caratterizzano per la ricerca di movimento, di struttura e di
luce derivati dalla tradizione italiana
fino ad arrivare a sfiorare il fauvismo
e il cubismo. L’artista viene, inoltre,
inquadrato dalla critica italiana tra
quelli che proseguono la strada della
metafisica surrealista o, meglio, del
surrealismo metafisico.
Pratica nella materia una sperimentazione del fantastico, della realtà
esaltata e deformata, elementi che
ricorreranno anche nelle opere
d’oreficeria a cui l’artista si dedicherà negli anni successivi.
Nei suoi gioielli utilizza materiali
come oro, argento, bronzo e smalto,
materiali “genuini” accostati a forme
altrettanto semplici e naturali, spesso privi di elementi decorativi, come
pietre preziose o semi-preziose, e
dove sono esaltati in primis la forma
e il movimento.
Negli anni Settanta inizia a percorrere nuove strade nel mondo dell’arte
dedicandosi con passione alla creazione di gioielli dove la materia che
usa si scontra con impulsi improvvisi
e vivaci e dove tutto si avvolge in
“incastri pericolosi”.
Le sue opere sono riconducibili
all’ambito del “surrealismo spaziale”
e propongono forme affascinanti di
personaggi formati da parti umane,
da fiori, macchine come una sorta
di mixage dei tre mondi della natura.
L’artista indaga in una vita nascosta
che emerge dall’inconscio e lo fa
attraverso “occhi di plastica” che
escono dalla materia e che indagano
nel nostro mondo reale.
Il motivo dominante della sua espressione è il movimento. I suoi gioielli
sono come spazi aperti, “informali”
(quasi caotici), che escono sotto
forma di rilievi dalla struttura metallica
diventando piccole sculture. Il rilievo
acquista autonomia traducendosi
con semplicità in “gioiello-scultura” o
“scultura-gioiello”.
I monili di Cenci allundono all’astrazione ma anche all’armonia in una
continua contraddizione e richiedono un’intensa partecipazione dello
spettatore.
M.E.M.
L’artista è nota per la sua Galleria di
antiquariato Fallani Best, inaugurata
a Firenze all’inizio degli anni Settanta, che nel giro di un ventennio ha
acquisito prestigiosi riconoscimenti,
comprovati da numerose pubblicazioni su riviste internazionali di
antiquariato e di arredo.
Inizialmente indirizzata al Quattrocento e Cinquecento, ha rivolto poi
il suo interesse all’epoca a cavallo
tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento. Dai primi anni Novanta
ha trasformato la sua galleria in un
originale spazio di esposizione di
arte contemporanea, dove ha scelto
di collezionare anche gioielli creati
dai suoi artisti preferiti, tra cui Arnaldo e Giò Pomodoro, Lucio Fontana,
Giuseppe Capogrossi. Ha giocato
un ruolo di primo piano come promotrice culturale, dedita a favorire
incontri, iniziative culturali e a creare
situazioni a favore di una Firenze più
vitale e costruttiva.
Paola Crema occupa un posto di
rilievo nell’attuale panorama della
sperimentazione del gioiello. Alla fine
degli anni Novanta ha ripreso il tema
che l’aveva portata ad esporre le sue
creazioni personali ad “Aurea ’76”: i
gioielli, intesi come oggetti d’arte ed
espressione della creatività.
Differenti sono i fattori che hanno
giocato un ruolo fondamentale nella
sua formazione: la vicinanza del marito
Roberto Fallani (architetto, scultore,
pittore, designer e creatore lui stesso
di gioielli) che ha stimolato la sua
vena creativa e la sua abilità tecnica
e l’attività di antiquaria, che le ha
permesso di conoscere e capire in
profondità l’essenza di vari stili,
contribuendo a maturare
una personalità vivace,
creativa e versatile
che mira sempre
al raggiungimento del
miglior
risultato.
43
27. Spilla Rugiada, 1998
31. Pendente Ondina, 2000
44
I bracciali, gli anelli, i pendenti, le
spille sono delicati e leggeri, esclusivi e ricercati, misurati negli effetti
cromatici; sono creazioni sobrie ed
eleganti, in cui il pensiero è rivolto
all’immagine di una donna che, nel
suo monile, possa cercare e trovare
un messaggio in cui identificarsi.
In questi oggetti tra scultura e
oreficeria sono rivitalizzati e rielaborati alcuni tratti stilistici dell’Art
Nouveau: la tendenza alla deliquescenza, l’idea di dare ai tradizionali
materiali duri e resistenti un aspetto
di morbidezza o di sostanza fluida
e organica, a cui l’artista accosta
un elegante classicismo inserendo
figure che rappresentano ninfe della
mitologia greca.
La modernità delle creazioni è
data dalla vitalità delle forme, dalla
novità di interpretazione e fusione
di diversi stili tra loro lontani: la
composta armonia classica e il
dinamismo del Liberty.
Il suo gioiello ha una validità artistica autonoma che non ricalca la
tipologia tradizionale del concetto
di prezioso: i materiali sono tutti
semipreziosi, l’argento è amato dall’artista per le qualità pittoriche che
gli permettono di assumere patine
diverse; le perle, di mare o di fiume,
bianche, lucenti e opache, dai riflessi
cangianti, le piacciono non per il
valore commerciale, ma per la loro
qualità estetica; del corallo sceglie i
pezzi cariati, irregolari, di cui esalta
le fattezze naturali con montature
originali che li custodiscono come
scrigni segreti.
Durante la lavorazione l’artista tende
ad impadronirsi a fondo dell’oggetto
e del materiale che lo costituisce,
per trasformare e modellare la materia cercando di imprimervi una forte
caratterizzazione personale; tende a
rompere l’equilibrio statico e cerca il
dinamismo e l’asimmetria rimanendo
entro i limiti del buongusto e della
compostezza.
29. Bracciale, 1999
Il motivo dominante e ricorrente della
sua espressione è la metamorfosi:
i monili sono oggetti in continua
trasformazione, che giocano sulla
modificazione della forma e della
simbiosi di una materia con un’altra:
l’argento, le perle raffinate, il corallo
vivace, la giada imperiale, i frammenti d’oro, sono trattati in modo da
far dimenticare la materia costitutiva: non sembra di tenere in mano
argento e perle, corallo, giada, ma
meravigliosi frammenti di natura.
Nella lavorazione del gioiello
emerge la personalità dell’artista
caratterizzata da una vivace versatilità che non interrompe mai la sua
ricerca: una continua trasformazione, evoluzione, metamorfosi di
interessi, che ha come filo conduttore e come scopo la ricerca e la
sicura scoperta della perfezione,
del bello inatteso ma assoluto.
P.L.
45
28. Anello Magma, 1998
30. Pendente Dafne, 2000
Gioconda Crivelli
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È cresciuta in una famiglia di artisti: il
padre, Renzo Crivelli (Sarsina, 1911
- Firenze, 1997), pittore, allievo di
Felice Carena, si era affermato a Firenze, un suo autoritratto è conservato alla Galleria di arte moderna di
Palazzo Pitti (acquistato dallo Stato
nel giugno del 1943, inv. Gam Giornale n. 867), la madre americana
era una scultrice e virtuosa pianista.
Gioconda Crivelli è pittrice, scultrice
e creatrice di gioielli, ha studiato a
Firenze, culla dell’arte orafa, e si
è formata nello studio del padre e
all’Accademia delle Belle Arti; il suo
lavoro si è sviluppato soprattutto
tra l’Italia e gli Stati Uniti. A Firenze,
ancora giovanissima, ha curato le
pubbliche relazioni per Salvatore
Ferragamo, è stata Fashion Coordinator per la casa di moda di Irene
Galitzine a Roma e per tre anni ha
lavorato come Fashion Editor di Harper’s Bazaar per l’Italia. Frequentare
l’ambiente della moda e dell’arte l’ha
portata ad individuare la sua vera
passione: ha iniziato così a disegnare gioielli e nel 1965 ha aperto,
proprio nella sua città natale, uno
studio dove le sue creazioni vengono realizzate da esperti artigiani. Per
tre anni, dal 1983 al 1986 l’American
Museum of Natural History di New
York ha concesso all’artista uno
spazio-studio per poter creare le sue
opere e nel 1982 ha realizzato per
papa Giovanni Paolo ii dodici paia
di gemelli con raffigurato lo stemma
papale smaltato in rosso e blu. Ha
partecipato a numerose mostre nelle
più importanti città del mondo.
32. Anello Delfino, 1964
33. Catena Zodiaco, 1965
Nei suoi gioielli, interamente eseguiti
a mano, vengono impiegate le antiche tecniche di lavorazione dell’oro,
dallo sbalzo al cesello, dalla cera
persa all’incisione e proprio questo
“tocco umano”, che rende ogni
gioiello unico, e questa maestria
artigiana, sono alcune delle caratteristiche distintive delle creazioni
dell’artista che non solo disegna
il gioiello, ma realizza il modello in
cera per poi seguire ogni momento
dell’esecuzione in laboratorio con gli
artigiani.
Soggetti ispirati al mondo marino,
alla natura, allo zodiaco, al mondo
dell’islam, all’arte greca ed etrusca
sono i preferiti dall’artista i cui gioielli,
curati nei più piccoli particolari, sono
sempre stati apprezzati da una clientela internazionale per la fantasia e
per l’originalità. Ogni pietra utilizzata,
preziosa e semi-preziosa, viene da
lei scelta con cura, dalle meteoriti
provenienti dallo spazio e montate
rispettandone la forma naturale, ai
cristalli dal potere taumaturgico.
E.S.
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35. Collana Farfalle, 1998
34. Spilla pendente Capricorno, 1969
Alessandro Dari
La sua indole artistica è influenzata
dalle antiche civiltà e dai maestri del
passato da cui, tuttavia, tende a distaccarsi per orientare la sua ricerca
verso la creazione di forme originali
attraverso l’uso di materiali insoliti e
la sperimentazione di nuove tecniche
di lavorazione sui metalli, legando
così il suo percorso agli artisti della
seconda metà del Novecento.
La sua formazione segue percorsi
indipendenti che si distaccano da
qualsiasi forma di insegnamento
e si riflette nel lavoro dell’artista
che evidenzia la sua attitudine a
separarsi da qualunque schema o
forma prestabilita.
Nonostante questa formazione piuttosto indipendente, è facile trovare
delle affinità con altri artisti orafi quali
Bruno Martinazzi, Alberto Giorgi o
Nino Franchina. Ciò che lo accomuna a questi autori non è tanto il
genere di monili creati, ma un tipo
di ricerca rivolta in particolar modo
al virtuosismo nel manipolare la
materia e alla scoperta di molteplici
possibilità creative.
Ciò che spinge l’artista a lavorare e studiare la consistenza della
materia, dei colori e delle forme, è la conoscenza scientifica,
acquisita durante i suoi studi alla
facoltà di chimica; competenza che
lo ha spinto a lavorare con passione, cercando di mettere in pratica,
attraverso le proprie creazioni, nuove
tecniche e variazioni cromatiche, che
lo allontanano talvolta dall’oreficeria
tradizionale.
Alessandro Dari crea gioielli ornamentali che si avvicinano, per
dimensioni e materiali, all’universo
scultoreo come diventa evidente
nella seconda fase del suo percorso
artistico, quando continua a creare
monili sempre meno indossabili
e sempre più vicini ad un nuovo
indirizzo definibile “microscultura”.
Sono sorprendenti le “collezioni a
tema” sul motivo della cattedrale,
del castello, della musica, della
magia e dell’alchimia.
Attualmente Dari insegna Arti Orafe
all’Università degli Studi di Firenze
ed opera nel museo-bottega in via
San Niccolò a Firenze, dove espone
la maggior parte delle sue opere.
Tra le manifestazioni a cui ha partecipato, risalta la mostra “Tahitian
Pearl Trophy” di Vicenza Oro, dove
ha vinto, per due volte consecutive,
prestigiosi premi.
M.E.M.
48
49
37. Anello Madrepora luna, 1999-2000
36. Collana Ragno sacro, 1996
Ada Daverio
50
Nata a Roma nel 1899, Ada Daverio
si formò nella sua città diplomandosi
in pianoforte e composizione presso
il Conservatorio di Santa Cecilia. Abbandonata la carriera musicale, iniziò
a Firenze a dedicarsi allo studio della
scultura e delle arti orafe, campo nel
quale la sua naturale inclinazione alla
sperimentazione la indusse ad effettuare, fin dagli anni Cinquanta, una
serie di personali ricerche in campo
tecnico e formale, sfociate nella
creazione di piccole sculture e gioielli
con fascinose raffigurazioni di animali fantastici di gusto surreale, dai
ricercati effetti materici, conseguiti
attraverso un’esperta padronanza
dei processi di lavorazione. Tra le
varie tecniche utilizzate dall’artista,
particolare importanza rivestì la fusione a cera persa, usata soprattutto
con l’oro, materiale ideale per la
trascrizione delle tensioni energiche
e dei segni che compongono il suo
personale linguaggio. Ricorrendo allo
stesso procedimento, la Daverio realizzò anche monili di gusto informale,
arricchiti da coloratissime pietre
preziose (diamanti, rubini, smeraldi
e zaffiri), sapientemente distribuite
sulle superfici metalliche.
38. Bracciale, fine anni Sessanta
La partecipazione all’importante
mostra “International Exhibition of
Modern Jewellery” svoltasi a Londra
nel 1961, la segnalò tra le personalità più originali del panorama
orafo italiano ed europeo. A questa
esposizione, seguirono varie personali in diversi centri italiani, affiancate
da assidue presenze in collettive e
rassegne nazionali e internazionali.
Due sue opere fanno parte dal 1973
della prestigiosa collezione della
Galleria d’Arte Moderna di Roma.
R.G.
51
39. Collana con pendente, anni Settanta
Corrado De Meo
52
Orafo e scultore sviluppa la propria
ricerca nel campo dell’ornamento
prezioso rielaborando suggestioni
e motivi estremamente diversi tra
loro. Il suo amore per l’arte, e la
cultura in generale, lo hanno portato a confrontarsi con civiltà molto
lontane, non solo dal punto di vista
geografico, ma anche temporale,
studiandone i simboli e indagandone i più profondi significati.
Il culto per l’arcaico, la rimembranza del mondo antico, in specie
quello romano, emerge con forza
in certi pendenti in oro giallo, nei
quali l’artista, sfruttando la forma di
alcune perle barocche, ripropone
piccole figure propiziatorie per la
fecondità e la fertilità di ispirazione pompeiana. A questo gioco
tra forma e forza evocativa dei
soggetti, l’autore ha dedicato una
parte importante della sua intensa
produzione orafa, resa ancor più
affascinante dall’accostamento di
materiali ‘poveri’ e ‘nobili’, come il
bronzo patinato e l’oro.
La fusione a cera persa resta la
soluzione tecnica a cui più spesso
Corrado De Meo ama ricorrere, sfruttandone le potenzialità
per creare intricate e aggressive
strutture di grande suggestione,
basate sulla combinazione di linee
spezzate, che presentano superfici sensibilizzate da minuti segni.
Con la stessa attenzione, l’artista
si è cimentato nella creazione di
gioielli di indubbia qualità e stile,
armonizzando le vivaci suggestioni
di luce delle pietre preziose con
eleganti forme asimmetriche, basate
sulla stretta relazione con il corpo
femminile.
R.G.
40. Bracciale Prometheus, 2006