Gioielli al Museo degli Argenti una collezione permanente Ornella
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Gioielli al Museo degli Argenti una collezione permanente Ornella
Ministero per i Beni e le Attività Culturali Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino a cura di Ornella Casazza sillabe Ministero per i Beni e le Attività Culturali Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino Museo degli Argenti e Museo delle Porcellane Direzione e coordinamento Ornella Casazza Commissione scientifica Ornella Casazza, Dora Liscia Bemporad, Marilena Mosco, Maria Sframeli, Franco Torrini Allestimento e direzione dei lavori Antonio Fara, Mauro Linari Realizzazione allestimento Opera Laboratori Fiorentini S.p.A Fotografie Gabinetto Fotografico Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino: fotografie F. Del Vecchio; Giovanni d’Errico Ringraziamenti Un doveroso ringraziamento all’Ente Cassa di Risparmio di Firenze per il contributo alla realizzazione dell’allestimento. Un particolare ringraziamento agli artisti e alle loro famiglie che hanno donato importanti opere delle loro collezioni, al personale della segreteria e del Museo degli Argenti e delle Porcellane. Si ringrazia inoltre Arterìa per aver contribuito al trasferimento del gioiello Circle bracelet di Gijs Bakker Schede degli autori e delle opere I.B. - Ilaria Bartocci C.C. - Chiara Calvelli O.C. - Ornella Casazza G.C. - Giuliano Centrodi M.A.D.P. - Maria Anna Di Pede V.F. - Veronica Ferretti R.G. - Riccardo Gennaioli D.G. - Donata Grossoni S.I. - Sonia Iacomoni P.L. - Paola Luciani M.E.M. - Maria Elena Marchi E.P. - Eleonora Pecchioli C.S. - Chiara Sperti E.S. - Elisa Staderini A.V. - Anita Valentini La numerazione degli oggetti in catalogo rispetta l’ordine cronologico, per autore, riportato nelle Schede delle opere ISBN 978-88-8347-349-4 © 2007 Ministero per i Beni e le Attività Culturali Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino Una realizzazione editoriale s i l l a b e s.r.l. Livorno www.sillabe.it info@sillabe.it sommario Presentazioni Cristina Acidini 7 Antonio Paolucci 8 Edoardo Speranza 9 Gioielli al Museo degli Argenti una collezione permanente 11 Ornella Casazza Catalogo 17 Autori: Stefano Alinari, Aprosio & Co, Giampaolo Babetto, Gijs Bakker, Bino Bini, Mario e Gianmaria Buccellati, Antonio Bueno, Luigi (Gió) Carbone, Tony Cassanelli, Pino Castagna, Saverio Cavalli, Francesco Cenci, Paola Crema Fallani, Gioconda Crivelli, Alessandro Dari, Ada Daverio, Corrado De Meo, Piero Dorazio, Giorgio Facchini, Roberto Fallani, Novello Finotti, Fausto Maria Franchi, Maria Rosa Franzin, Marco Garezzini, Pilar Garrigosa, Alberto Giorgi, Gigi Guadagnucci, Antonio Angel Guarnieri, Marcello Guasti, Claudio Mariani, Bruno Martinazzi, Gualtiero Nativi, Orlando Orlandini, Paolo Penco, Armando Piccini, Giordano Pini, Enrico Pinto, Mario Pinton, Alessandro Poli, Giò Pomodoro, Angelo Rinaldi, Roberto Romani, Jacqueline Ryan, Valerio Salvadori, Antonella Sicoli, Vittorio Tolu, Franco Torrini, Barbara Uderzo, Uno a Erre Italia (Gori&Zucchi), Sophia Vari, Federico Vianello, Flora Wiechmann Savioli, Alberto Zorzi Schede delle opere 126 direzione editoriale: Maddalena Paola Winspeare redazione: Barbara Galla progetto grafico: Susanna Coseschi Bibliografia 146 Note sul progetto di allestimento 150 fotolitografia: La Nuova Lito, Firenze Antonio Fara e Mauro Linari Se ci guardiamo intorno in una autentica “stanza dei tesori” qual è il Museo degli Argenti, così come nelle altre illustri Schatzkammern che abbelliscono le residenze europee, al godimento per lo splendore dei materiali esaltato dalla bellezza delle forme si accompagna lo stupore per la presenza di tanti preziosi manufatti antichi ai nostri giorni. Se infatti il patrimonio artistico in generale è giunto fino a noi a dispetto del degrado, delle guerre, delle calamità e delle iconoclastie, in particolare quello delle gioie, delle suppellettili preziose, delle onorificenze e dei regalia ha per nemico naturale l’avidità umana, e se sopravvive a quella vince la sfida più ardua del proprio percorso attraverso la storia. Più di tutto, non a caso i gioielli si rivelano fragili al passaggio attraverso la Storia: oggetti d’ornamento personale oltre che componenti della magnificenza pubblica d’un casato, sono andati soggetti a smembramenti, riuso dei metalli e delle gemme, doni e dispersioni che ne hanno drammaticamente assottigliato il numero, che era invece di solito, come testimoniano gli inventari, alto o addirittura altissimo nelle corti e nelle famiglie abbienti. Anche per questo, è amatissimo il nucleo delle gioie e delle “galanterie” che Anna Maria Luisa de’ Medici riuscì a legare al tesoro familiare, e che adorna oggi il Museo degli Argenti. A fronte delle perdite del passato, è entusiasmante segno di vitalità che il Museo, sotto la guida di Ornella Casazza e prima di Marilena Mosco, si rivolga al variegato universo del gioiello a noi prossimo – dall’Ottocento al contemporaneo – per riprendere le fila di una presenza interrotta ma necessaria all’interno delle collezioni preziose. Fiabeschi oggetti al confine tra molte arti e abilità tecniche, ispiratori di leggende, bersagli di desideri più e meno leciti, i gioielli hanno attraversato la storia dell’umanità senza perdere nemmeno neanche per un giorno il loro fascino. Anzi, è semmai l’umanità che ha perso fascino nel momento in cui ha rinunciato a goderne: come è accaduto agli uomini dalla Rivoluzione Francese in poi, quando la drastica riduzione all’ornamento maschile ha sottratto agli uomini la possibilità di abbellimento della persona e di conseguente compiacimento estetico, di cui le donne sono ancora titolari appieno. La creatività odierna, felicemente ignorando il confine accademico tra arti maggiori e arti minori, ha dato e sta dando al gioiello uno status di espressione dalle altissime potenzialità, che i pezzi qui riuniti testimoniano a livelli d’eccellenza. Mi è gradito esprimere un ringraziamento non formale a tutti i donatori, che hanno reso possibile con la loro generosità che questo ramo collezionistico così prezioso e fragile tornasse a dare splendidi frutti, arricchendo così le già straordinarie raccolte del Museo degli Argenti e dell’intero Polo Museale Fiorentino. Cristina Acidini Soprintendente per il Polo Museale Fiorentino La vitalità di un museo storico la si misura anche dalla sua capacità di crescere nel tempo presente. Adeguandosi alle culture, agli stili, ai gusti della modernità, senza con ciò nulla perdere, tuttavia, della sua riconoscibile immagine. Come un antico albero, carico di anni e di umori, rampolla di nuovi virgulti ad ogni primavera, così si comporta il museo vivo. Rimane quello di sempre, quello che conosciamo e che mai vorremmo cambiasse ma il tempo presente preme con tumultuosa iridescente urgenza e allora al tempo presente il museo risponde con le mostre, con l’attività didattica, con la ricerca scientifica ed anche, quando possibile, con le addizioni virtuose. Il caso del Museo degli Argenti a Palazzo Pitti è esemplare. È una pubblica collezione che custodisce ed espone i tesori dei granduchi: gli smalti, gli avori, le ambre, gli argenti, i cammei in pietra dura, i gioielli. Chi entra in questa parte della Reggia di Pitti che chiamiamo Museo degli Argenti, entra nella dimensione del lusso, nella splendida gratuità dell’eleganza fine a se stessa, del supremo artificio messo al servizio della bellezza, del rango, del censo. Quando l’arte è effimero splendore, è vanità, è narcisismo allora siamo nel mondo del gioiello, quel mondo di cui il Museo degli Argenti è archivio e vetrina. Ma il gioiello – ecco il pensiero dominante della direttrice Ornella Casazza e, prima di lei, di Marilena Mosco, indimenticabile e bellissima la sua mostra dell’anno 2001 – il gioiello è una categorie eterna, non solo dell’arte in tutte le sue storiche stagioni ma della condizione umana. Sempre si sono fatti gioielli, se ne fanno ancora e di bellissimi e ancora se ne faranno finché ci saranno uomini e donne sotto il cielo. Da questa constatazione elementare è nata l’idea brillante della addizione virtuosa. Ornella Casazza con entusiasmo e con competenza ammirevoli, si è mossa sulle tracce di chi (artigiani, scultori, orafi professionisti) in Italia e nel mondo produce o ha prodotto negli ultimi decenni del xx secolo, gioielli d’eccellenza. Quali risultati ha consegnato alla contemporaneità l’arte del gioiello? Ecco la ricerca affascinante ed ecco la addizione virtuosa perché, con crescita costante e quasi esponenziale negli ultimissimi tempi, il fiorentino Museo degli Argenti si sta arricchendo di un intero comparto dedicato alla gioielleria contemporanea d’autore. All’interno del museo storico e in continuità di percorso con quello, sta prendendo forma quel settore espositivo specialistico – didatticamente confrontato con i modelli antichi e scientificamente selezionato e studiato – che in Italia mancava. Ecco il miracolo di una venerabile collezione che si scopre incredibilmente giovane e vitale. Ad Ornella Casazza, che in continuità di intenti con Marilena Mosco ha reso il miracolo possibile, va la mia viva gratitudine. Antonio Paolucci Abbiamo dedicato l’inizio del nuovo anno ad Anna Maria Luisa de’ Medici, ultima discendente in linea diretta della prestigiosa casata che per secoli ha governato Firenze e la Toscana. Dobbiamo alla Principessa ‘saggia’ se quella che era la collezione d’arte più importante d’Europa è rimasta a Firenze. Anche molti oggetti a lei regalati, quali preziosi ninnoli, insieme ai gioielli di Stato dei suoi antenati non trafugati, si conservano in città, al Museo degli Argenti, custode di rarità del tesoro mediceo. E proprio in memoria e in omaggio alla Principessa, Carlo e Lucia Barocchi, grandi collezionisti privati di gioielli, dal 1988 su consiglio della direzione del Museo degli Argenti, hanno voluto integrare la preziosa collezione depositando meravigliosi gioielli realizzati dal xvii al xx secolo, rendendo così viva la raccolta posta nei locali forse più affascinanti dell’antica reggia fiorentina. Non solo: a questa benemerita iniziativa altre famiglie si sono aggiunte, consegnando anch’esse bellissimi monili tempestati di pietre preziose, del xix e xx secolo, che hanno arricchito questo eccezionale tesoro fiorentino. Tesoro di una città che deve acquisire piena coscienza della presenza viva di un bene culturale unico e tipico, che è stato anche in grado di adeguarsi alla cultura e al gusto della modernità accogliendo opere di artisti orafi ormai entrati in quell’ambito della Storia dell’Arte, visibili in un nuovo allestimento capace di accogliere l’espansione di questo stupendo scrigno della nostra Firenze. Edoardo Speranza Presidente Ente Cassa di Risparmio di Firenze Gioielli al Museo degli Argenti una collezione permanente Ornella Casazza 1 – Orologio da polso Tonneau con iniziali - Cartier - in platino, brillanti, smeraldi, 1910-1920. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, collezione Carlo e Lucia Barocchi 2 – Bracciale e anello a torciglione con rubino, zaffiro e brillantini, sec xx. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, inv. Gemme 2729-2730. Donazione Adele Paola Bergonzi 3 – Spilla tremblant a forma di giglio in turchesi e perle, fine sec. xix inizio xx. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, inv. Gemme 2681 Al Museo degli Argenti si conserva il Tesoro Mediceo costituito da gemme, preziose rarità, vasi in pietre, cristalli, vasi d’oro e d’argento, gioielli, “galanterie gioiellate”, frutto di un collezionismo colto e raffinato. Dobbiamo a Anna Maria Luisa de’ Medici Elettrice Palatina e al Patto di Famiglia, stipulato nel 1737 a Vienna con la subentrante dinastia dei Lorena, se queste preziosità e ciò che restava del famoso ricco nucleo dei gioielli della Corona è a Firenze nel nostro museo: sono esposti nelle vetrine del Mezzanino, suddivisi tra “pendenti”, “bottoni”, “animaletti”, “figurine” e “oggetti vari”. A memoria, riconoscenza e omaggio a lei, Carlo e Lucia Barocchi dal 1988 hanno inteso dare continuità alla collezione depositando nel Museo ben trecentotrentatre gioielli, realizzati dal xvii secolo al xx da prestigiose manifatture europee e italiane, suddivisi in: Gioielli dal Barocco al Rococò; Cammei e Intagli; Micromosaici e Cammei; Coralli; Il Gioiello Borghese e Vittoriano nel xix secolo; Alta gioielleria; Orologi, Sigilli, Tabacchiere e Objets de vertu, da Dora Liscia Bemporad che ne ha curato anche un breve catalogo messo a disposizione del pubblico1. Si sono aggiunte a questo meraviglioso primo nucleo altre donazioni di gioielli del xix-xx secolo, provenienti da altre famiglie fiorentine (Paola Bergonzi e Piera Tesei Manganotti), e da una famiglia romana che hanno arricchito ulteriormente la collezione già in nostro possesso con monili valorizzati dalla bellezza di pietre preziose, fiocchi in oro e diamanti, spille con diamanti e opali, coralli e diamanti che esprimono forme smaglianti della natura a ricordare grappoli d’uva e rami di rosa canina, bracciali in grani di corallo di maestranze napoletane, spille a forma di serpe realizzate in turchese o tempestate di diamanti e rubini2. L’indiscutibile gusto di Piera Tesei Manganotti e di Paola Bergonzi, che hanno indossato gioielli di così alto livello artistico, espressione della loro intelligenza e sensibilità colta e raffinata, rappresenta, nella varietà delle nostre collezioni, le fasi di maggior interesse nella storia del gioiello moderno tra Ottocento e Novecento. Ma al di là di produzioni orafe che ben tratteggiano le tendenze etnografiche dei secoli passati, il percorso sul Novecento inizia con un Diadema (collezione Barocchi) databile proprio ai primi anni del Novecento, caratterizzante lo stile della Maison Cartier del primo ventennio con il cosiddetto “stile ghirlanda” che, “estraneo a ogni forma di esotismo, reinterpreta i modelli settecenteschi mitigati da una accentuato classicismo maggiormente adatto a prodotti di alta gioielleria”3. È composto da ovali degradanti formati da tre cornici concentriche, di cui quella mediana a serto di alloro, incastonate di brillanti. Nel mezzo di ciascuno vi è una grossa ametista tagliata a goccia, che lo rende inusuale, poiché in quegli anni si usava accostare al platino i soli brillanti a formare un gioiello bianco. Ancora un rubino al centro di una grande fibbia in platino, a struttura geometrica a imitazione di merletto, tempestata di diamanti, aggiunge un punto di colore al bracciale con dodici fili di perle donato da Piera Tesei Manganotti. Intorno alla metà del primo decennio del Novecento, Cartier inizia ad utilizzare il platino, materiale che aveva già caratterizzato il successo dello stile “ghirlanda”, anche nelle creazioni di orologi-gioiello. Questo nuovo metallo così freddo e discreto, che favorisce la creazione di montature leggere e duttili, trova nell’applicazione sugli orologi, per la prima volta da mostrare al polso, la conferma del suo carattere moderno, contribuendo a formare una stretta relazione fra novità del materiale e originalità dell’invenzione, tra mondo delle macchine ed espressione artistica. L’orologio diventa così visibile a tutti, esposto e a diretto contatto con il corpo; non un semplice strumento di misurazione, da tenere celato fino al momento di usarlo, ma anche 11 12 4 – Spilla a forma di grappolo d’uva, tempestata di diamanti, sec. xix. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, inv. Gemme 2617. Donazione Piera Tesei Manganotti 5 – Spilla a forma di rosa canina, tempestata di diamanti, sec. xix. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, inv. Gemme 2618. Donazione Piera Tesei Manganotti accessorio di abbigliamento e di distinzione capace di interagire con gli abiti e le acconciature grazie alla forma, ai materiali e ai colori impiegati: un gioiello per la donna ma anche per l’uomo. Il tradizionale disegno rotondo dell’orologio da tasca o da taschino è profondamente messo in discussione e quindi la ricerca sulle varie forme si indirizza tra il tondo e il quadrato, il rettangolare, il poligonale, l’ovale, il tonneau, il tortue, e le loro varie combinazioni. Due splendidi orologi-gioiello della collezione Barocchi sono testimoni delle innovazioni tecniche ed estetiche della Maison Cartier e della ricerca formale del modernismo: uno spettacolare orologio tonneau con cassa in platino e smeraldi, dotato di un bellissimo bracciale in platino con attacchi a forma di barrette orizzontali, collegati alla cassa da brillanti e un raffinatissimo orologio a clip rettangolare, sempre con cassa in platino e smalto nero, quadrante con pavé di brillanti e indici romani in onice, entrambi dotati di movimenti piatti a carica manuale di produzione European Watch Clock & Co. che, dal 1909, forniva i movimenti alla grande parte della produzione di orologi Cartier. È con orgoglio che presentiamo un’altra prestigiosa Maison, grazie al generoso sostegno della famiglia Buccellati e in particolare di Gianmaria, erede del mestiere, della tecnica e dei canoni estetici del fondatore, il padre Mario; a sua volta lo ha trasmesso ai suoi figli, creando con Andrea – come lui stesso ha ammesso, presentando una mostra a Washington nel settembre del 2000 – “una miscela moderna di tendenze e di gusto da cui nascono oggetti sempre fedeli al nostro stile”. Da Buccellati oggi lavorano ancora i figli e i nipoti degli artigiani di Mario, affiancati da una nuova generazione di professionisti. Gianmaria ha ‘viaggiato’ a lungo e con passione ha sostato nei musei, fonti vitali di ispirazione, iniziando dall’antica Grecia, ha proseguito nelle civiltà orientali, ha attraversato il Rinascimento per giungere in Francia, nel Palazzo di Versailles alla corte di Luigi xiv. Ma la sosta più ‘emotiva’ probabilmente l’ha fatta proprio a Firenze, al Museo degli Argenti, a rendere omaggio ai Medici, che favorirono il riutilizzo di antiche tecniche e l’orgoglio per il possesso di impareggiabili abilità manuali dei grandi artisti da loro sostenuti. A loro l’artista ha dedicato dagli anni Settanta i suoi “oggetti preziosi”: Scatole, Candelieri, Anfore e Coppe in cristallo di rocca, legate con oro bianco, giallo e rosa, arricchite di pietre preziose e colorate, in diaspro muschiato, in giada, tempestate di zaffiri cabochon che hanno impegnato la sua mente per lunghi anni. Siamo grati a Gianmaria Buccellati che ha saputo plasmare e rielaborare la sua profonda cultura e ricrearla con l’oro e l’argento per il Museo degli Argenti. A noi ha donato una spilla lavorata a tulle, tempestata di brillanti, disegnata da Mario Buccellati nel 1926 e nel 1932, e una spilla da lui ideata, quali esempi bellissimi di creatività e di finissima lavorazione che distinguono lo stile Buccellati e che testimoniano ancora una volta che modernità sta per continuità. Sono opere di grande interesse soprattutto per noi fiorentini che ci rimandano alla nostra storia più prestigiosa, quella che portiamo giornalmente negli occhi e ci sorprende come l’intelligente rielaborazione di Mario abbia saputo far sue le trine degli intarsi marmorei dell’ambone della Basilica di San Miniato al Monte. Gianmaria Buccellati non può quindi essere identificato quale sperimentatore di nuove forme e di nuovi linguaggi o del tutto indifferente a forme e linguaggi d’avanguardia, o privo del coraggio di ammettere la necessità di un totale cambiamento di linea. D’altra parte “è impossibile immaginare – come ha detto Camille Holzach4 – l’oreficeria italiana senza pensare all’antico lascito”, soprattutto se si pensa all’oreficeria del xix secolo e del xx secolo. In questi ultimi anni con crescita costante e quasi esponenziale il Museo si sta ormai arricchendo di un intero comparto dedicato alla gioielleria contemporanea d’autore. In effetti, come ha detto Antonio Paolucci, ci siamo mossi nella ricerca di artigiani, scultori, architetti disegnatori di gioielli e orafi professionisti che in Italia e nel mondo si sono dedicati alla realizzazione di gioielli utilizzando eccellenti tecniche orafe per la creazione di pezzi unici e di design innovativo. Erede di una eccellente tradizione familiare tutta fiorentina con vetrina sul Ponte Vecchio e dell’insegnamento prestigioso di Libero Andreotti che lo volle insegnante all’Istituto d’Arte a porta Romana, Armando Piccini a soli ventitré anni si era aggiudicato il primo premio alla xx Biennale di Venezia del 1936, dove presentava le nostre Quattordici pietre preziose e semipreziose incise con grande virtuosismo e qualità artistica. Artisti orafi italiani, presentati alla mostra del 2001 su L’arte del gioiello e il gioiello d’artista dal ’900 ad oggi curata da Marilena Mosco nelle Sale di Rappresentanza del Museo, hanno sentito l’urgenza di affiancare a questi meravigliosi gioielli, opere del loro percorso artistico, anche se in antitesi con la dimensione del lusso e della preziosità delle pietre dei gioielli del passato, aprendo un vero e proprio percorso innovativo sul Novecento. Flora Wiechmann Savioli ha donato a Palazzo Pitti, divisi tra la Galleria del Costume e il Museo degli Argenti un ricco nucleo di gioielli da lei creato dalla metà degli anni Cinquanta al 1968 con materiali “poveri” (dall’argento, all’acciaio, all’ottone, al cristallo), che ha assemblato naturalmente, a mano, senza alcuna saldatura5, con una sensibilità comparabile a quella dello scultore americano Alexander Calder6. Ancora in materiali “poveri” sono i gioielli creati con grande perizia tecnica da Saverio Cavalli che si lasciava condurre dalla fine degli anni Sessanta dalla casualità nella scelta di materiali inusuali quali il legno, il vetro, le pietre dure e l’objet trouvé raggiungendo un puro godimento estetico7: un Bracciale e anello in ferro e oro giallo con granulazione “etrusca” a raffigurare un occhio azzurro (zaffiro) e una Collana in oro giallo, avorio e smalto degli anni ’64, ’67, ’72 sono arrivati a noi per generosa donazione dell’autore. I materiali usati sono quelli rispondenti ormai alla recente tradizione orafa e la tecnica raffinata ben risponde alle sua esigenze di esprimere un linguaggio astratto e geometrico. È ormai una personale esperienza di “affrancamento dal concetto tradizionale di preziosità”8 per questi artisti che si esprimono con materie non privilegiate e la bellezza dell’ornamento è ricercata in altri materiali o in nuovi materiali espressi con nuove tecniche o tecniche reinventate, al servizio di un’idea o di un’intuizione creativa. Non ha mai smarrito invece il significato di prezioso, a significare un legame, un’unione, una dolcezza senza fine, il torinese Bruno Martinazzi anche in un piccolo oggetto d’oro sbalzato e cesellato realizzato con attenta riflessione e mirabile tecnica per essere donato o scelto e portato da coloro che decidono di indossare e interagire con il mondo denso di cultura e di armonia che l’artista riesce a ricreare in foglie d’oro. Negli anni Sessanta si dedica a una produzione di opere di piccole dimensioni e forme per il corpo come ornamenti da indossare anche l’architetto Alessandro Poli, in un percorso di ricerche e riflessioni sull’Architettura Interplanetaria, portato avanti a Firenze dal Gruppo Superstudio di cui facevano parte Frassinelli, Magris, Natalini, Toraldo di Francia, come ipotesi di lavoro in un’area libera dalla logica razionale e tradizionale. L’orologio-spilla-pendente Corona solare è la rappresentazione di un corpo celeste formata da una corona tubolare ellittica in oro giallo, cinta di raggi solari stilizzati e una lastra in oro bianco che nasconde il meccanismo, segnalato soltanto da una lancetta in oro con diamante incastonato. Attorno all’objet trouvé, l’orologio elettronico, l’artista immagina lo scorrere di un tempo astratto, siderale, libero e estraneo alla condizione terrestre. Così nella collana Rara vegetazione trova un’affascinante forma della natura, un particolare ramoscello e la sua capacità d’artista lo trasforma da elemento vegetale in materia preziosa, mantenendone il suo aspetto tipico e la sua flessibilità per renderlo ornamento del collo femminile. A Firenze Bino Bini dal 1967 ha invece creato gioielli molto preziosi, adorni di pietre colorate e di diamanti, realizzati a sbalzo e cesello e si contraddistinguono per la superficie granulosa ottenuta con la saldatura di microsfere d’oro bianco, che lo hanno portato nel 1965 a ricevere il Primo Premio Internazionale Oreficeria e Gioiellerie Uno A Erre di Arezzo. Al nostro invito hanno risposto generosamente anche gli scultori Gio’ Pomodoro, lo stesso Bruno Martinazzi, Marcello Guasti, Pino Castagna, Novello Finotti, Gigi Guadagnucci, Toni Cassanelli donando splendide opere del loro impegno nell’ambito dell’oreficeria, non condizionate necessariamente da preziosismi, esprimono nelle possibili qualità del trattamento dell’oro e comunque del metallo prezioso il valore dell’espressività della nuda materia, scoprendo la loro natura di scultori. Mantiene una consapevolezza scultorea della forma anche la collana Bacchus della scultrice greca Sophia Canellopoulos conosciuta con lo pseudomino Vari (dalla sua città natale), realizzata in ebano e oro giallo in un grande contrasto cromatico che caratterizza la sua scultura in grandi dimensioni. Nella piccola dimensione trattiene tutti i problemi e gli impegni della sua poetica lo scultore orafo Vittorio Tolu, con elaborazioni appassionate di temi che dal mondo primitivo proprio della sua terra e da mondi lontani traggono vigore d’ispirazione. 6 – Spilla a forma di serpe, tempestata di diamanti e due rubini per occhi, 1820-1840. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, inv. Gemme 2619. Donazione Piera Tesei Manganotti 7 – Braccialetto con 12 fili di perle e grane fibbia tempestata di diamanti e rubino centrale, inizio sec. xx. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, inv. Gemme 2623. Donazione Piera Tesei Manganotti 8 – Diadema Cartier, 1900 ca. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, collezione Carlo e Lucia Barocchi 14 9 – Orologio a clip Cartier, 19101920. Firenze, Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, collezione Carlo e Lucia Barocchi Paola Crema prosegue il suo percorso artistico con “sculture preziose” che rivelano un amore attento non solo alla storia medicea ma anche alla storia più recente della Mitteleuropa, riapprezzando perle scaramazze, coralli e giade. Si mescolano i colori, ma anche gli stili con allusioni all’Art Nouveau. Roberto Fallani si esprime con estrose contaminazioni materiche e meccanismi fantastici unendo materiali nobili a ferro e acciaio. I suoi preziosi sono però esclusivamente in oro e l’elemento figurativo è il volto di donna, protagonista assoluta e centro di memorie decó che si snodano liberamente nelle montature in una fantastica e virtuosa elaborazione formale e tecnica facendo dell’eclettismo il suo vero linguaggio. Emergono nelle nostre collezioni personalità note di artisti orafi, formatisi al prestigioso Istituto Pietro Selvatico di Padova che ha avuto tra i suoi insegnanti Mario Pinton, Giampaolo Babetto, Francesco Pavan, Alberto Zorzi e Maria Rosa Franzin, ben rappresentati con loro opere nel nostro Museo. Si è formato a Padova anche Angelo Rinaldi e frequentando gli atelier di importanti artisti contemporanei, Saetti, Guidi, Vedova, Finotti e Viani ha sperimentato la pittura e la scultura, la tecnica del vetro e dei metalli preziosi: nelle spille Adamo ed Eva del 1995 l’artista si riconcilia con la storia in sagome in oro ritagliato e sbalzato e impreziosite di perle, in forme sinuose e sensuali adatte ad ornare anche la figura maschile. I gioielli di Alberto Zorzi rappresentano per intero il suo percorso artistico: due anelli e una spilla pendente si affidano alla plasticità di forme solide, spesso giocate sulla sfera e sul suo frazionamento, dove il metallo, pulitissimo, si alterna a pietre levigate spesso dai colori accesi e dalle forme taglienti. Collane e bracciali si affidano invece a forme lamellari, filiformi e trasparenti sorrette sempre: “da una sorta di libera dialettica tra razionalità e gestualità, giocando quasi esclusivamente sull’incidenza della luce lungo le lamelle leggere come elitre di libellule e sul colore del metallo trattato con acidi, talvolta con smalti lucenti”9. Tra Padova e Venezia si è formata Maria Rosa Franzin che sviluppa un’interessante produzione di grande rigore compositivo, caratterizzata da una successione di mobili lamine leggere, sensibili alla luce e al colore grazie a impronte di pennellate d’oro. La veneta Barbara Uderzo è presente con tre opere: un anello, Blob ring, ricoperto da una fusione di materia plastica bianca in cui è intrappolata una mela rossa quale tipologia di gioiello da lei concepito come forma morbida, fluida che eleva ad opera d’arte quegli oggetti-gioiello che lei stessa ha definito “effimeri”; un altro anello Deinos che richiama alla memoria elementi ossei e una collana, Ondina infinita, ispirata alla natura che origina un’onda sinuosa che sembra rigenerarsi senza fine. Altri prestigiosi Istituti d’arte (Pesaro, Fano e Firenze) hanno licenziato creatori di gioielli che si sono distinti nel settore dell’oreficeria interessando la critica più specialistica e ricevendo consensi di pubblico nelle varie mostre personali e collettive a cui hanno partecipato, entrando così nella storia. A Pesaro Claudio Mariani ha svolto la sua costante ricerca su effetti ottico-percettivi e cinetici nella creazione di splendide spille, spesso quadrate, concepite come superfici bidimensionali a disegno geometrico, definito e sezionato secondo un preciso ordine matematico a lamelle d’oro, disposte a griglia, mobili e ruotanti sui loro perni. All’Istituto d’Arte di Fano, con Edgardo Mannucci, e poi all’Accademia di Belle Arti a Venezia, si è formato Giorgio Facchini, creatore artigiano di gioielli dagli anni Sessanta. La sua spilla-scultura del 1997 in oro giallo e rosa priva di decorativismo, intitolata Penetrazione, un elemento a spirale verso l’alto interrotto dalla penetrazione di altra forma, esprime riflessioni sulla natura dell’uomo, facente parte del cosmo. Da Roma si trasferisce a Firenze Ada Daverio per dedicarsi con successo alla scultura e alla arti orafe che la portarono a partecipare nel 1961 alla mostra International Exhibition of Modern Jewelry a Londra aggiudicandosi la segnalazione di personalità tra le più originali nel panorama orafo italiano e europeo. Sono degli anni Sessanta del Novecento due splendide sue opere realizzate con la tecnica della fusione a cera persa: un bracciale caratterizzato da superfici frastagliate che definiscono una struttura scultorea nelle cui irregolarità sono incastonate le pietre preziose e una collana con pendente composta di sedici perle alternate a quattro elementi in oro di forma irregolare decorata al centro da un pendente raffigurante una creatura fantastica, di gusto surreale, arricchita sul corpo di brillanti, zaffiri e una tormalina montata a goccia. Cinque splendidi girelli realizzati tra gli anni Ottanta e Novanta bene identificano l’opera del romano Enrico Pinto, formatosi nel laboratorio del gioielliere Mario Masenza, dove realizzava opere dai disegni di pittori e scultori affermati: Afro, Mirko Basaldella, Giuseppe Uncini, Giuseppe Capogrossi, Franco Cannella, Nino Franchina e Mario Ceroli. L’abilità tecnica acquisita, unita al suo inconfondibile gusto per il colore e la sua fantasia, gli permettono di realizzare invitanti composizioni dove le forme della natura sono rese con altrettante forme estremamente semplificate in rapporto armonico con il materiale prezioso, il colore degli smalti e delle pietre preziose. Alla Scuola orafa del Museo Artistico di Roma, si forma Fausto Maria Franchi e dal 1962 inizia una sua attività che lo imporrà all’attenzione della critica e del pubblico italiano e internazionale. Sono di questi ultimi anni tre splendidi gioielli da lui donati al Museo: due anelli in oro giallo e una spilla in oro giallo e argento. L’anello, monile amato dall’artista, lavorato a sbalzo, a cesello e rifinito con sapienti tecniche da banchetto è inteso come simbolo 10 – Ambone, Firenze, Basilica di San Miniato a Monte e Spilla di Mario Buccellati, 1926 (cat. n. 14) d’amore e fedeltà nel tempo che permette, come lui stesso dice di “giocare con le materie e i colori per stimolare l’immaginazione e l’emotività dell’utente”; la spilla, ideata e realizzata appositamente per il Museo, come “un’introspezione culturale” è intitolata Affinità Elettive e si costituisce di elementi affini, aderenti tra loro che mantengono tuttavia una loro individualità. Siamo grati alla collezionista Paola Crema Fallani per averci donato un’opera del pittore romano Piero Dorazio che negli anni Sessanta forniva i suoi disegni all’orafo romano Mario Masenza, alla casa milanese gem Montebello e alla Maison Artcurial. È un anello in oro e smalti policromi, composto da una serie di piccole lamelle semoventi, arricchite dalla vivacità del colore che esprime totalmente la sua ricerca pittorica e ribadisce i suoi concetti sull’espressione astratta applicati anche all’arte del gioiello. Altri artisti, dopo la formazione scolastica, lavorano a Firenze per gioiellieri e per una produzione più personale che svolgono nei loro laboratori: nascono dalla mano di Stefano Alinari con ordine misurato e al tempo stesso fantastico, bracciali, orecchini, collane e anelli costruiti secondo schemi asimmetrici dove il fulcro di ogni elemento si impone con una testa femminile in bronzo, con una mano o addirittura con un ingranaggio di orologio o una moneta antica, recuperati e integrati nella preziosità dell’oro e delle pietre preziose, quali misuratori del tempo e dei ritmi di un’esistenza. Assieme a Corrado De Meo e Antonella Sicoli, Alinari è presente in mostre collettive in Italia e all’estero: nel novembre del 2006 infatti hanno esposto con numerosi altri artisti orafi stranieri le loro creazioni alla Galleria Kara a Parigi. Dagli anni Ottanta Orlando Orlandini, dopo un lungo periodo di collaborazione con l’azienda orafa aretina Uno a Erre, di intensa attività didattica e di appassionata ricerca progettuale per il nuovo Atelier di Arte Orafa Gori & Zucchi a Arezzo, nell’atelier della sua casa nel Chianti ha continuato il suo incessante percorso tecnico-estetico, basato sul recupero di tradizionali metodi artigianali e sulla ricerca di una tecnica sublime. Nelle sue mani l’oro e il platino ridotti a fili e maglie finemente intrecciate si trasformano in morbidi e piacevoli tessuti da indossare. Pezzi unici realizzati dall’Atelier Orlandini della Collezione Scintille sono stati premiati nel 2000 a Vicenza con l’Oscar Gold Virtuosi e la collana mantello Feeling a Las Vegas nel 2005 ha vinto il prestigioso Oscar Internazionale Town & Country per il miglior gioiello in platino. Si deve alla generosità di Franco Torrini la presenza nelle nostre collezioni di artisti che hanno segnato la storia del costume del Novecento: Francesco Cenci, con due spille-pendenti che ben si inseriscono nel filone astratto e surrealista a cui l’artista ha dedicato gran parte della sua attività artistica e Alberto Giorgi che dopo un’attività a Fano, nel 1970 inizia un’importante collaborazione con Franco Torrini a Firenze. È degli anni Settanta l’anello Germinazione, ideato e realizzato dallo stesso Franco Torrini, in oro bianco e oro giallo con una perla contenuta da due petali aperti che sbocciano alla vita. All’opificio Torrini è stata eseguita con la tecnica dello sbalzo e del cesello la spilla Cantante, di Antonio Bueno, per essere esposta alla mostra Aurea a Palazzo Strozzi nel 1974, che raffigura un viso di donna dalla cui bocca fuoriesce, in rilievo, un pentagramma con note musicali, rispecchiante pienamente le caratteristiche stilistiche dell’artista-pittore e del suo ritratto femminile. La peculiarità “toscana”, quasi battisteriale, della poetica del pittore Gualtiero Nativi si riflette nelle geometrie rigorosamente colorate dei suoi gioielli: un bracciale e una collana con pendente. In Toscana si sono distinti artisti orafi ancora capaci di portare avanti una lavorazione raffinata e sensibile degna della grande tradizione: espone sue opere nella bottega in San Niccolò a Firenze Alessandro Dari; sono vere e proprie “microsculture” di architetture medievali, di castelli e di cattedrali. Così Paolo Penco, profondo conoscitore delle più antiche tecniche orafe del traforo, dell’incisione, del “cesoro” e del niello, nella sua bottega artigianale realizza insieme alla moglie Beatrice pezzi unici ispirati ai grandi maestri del Quattrocento e del Cinquecento e monili dal design innovativo. Da anni Marco Garezzini, in collaborazione con la Scuola Perseo, tramanda il “mestiere” a giovani provenienti da tutto il mondo insegnando l’evoluzione di anni di storia fiorentina 15 16 Cinquantatre artisti, italiani e stranieri, hanno risposto dunque con grande slancio alla nostra richiesta di entrare a far parte delle già prestigiose collezioni del Museo degli Argenti e dell’intero Polo Museale Fiorentino, privandosi delle loro opere più belle, molte delle quali da loro custodite a memoria e testimonianza di importanti riconoscimenti conseguiti nell’arco della loro appassionata attività o trattenute e mai cedute perché ritenute espressioni irrepetibili di una particolare fase del loro faticoso fare. Agli artisti si sono aggiunti collezionisti e famiglie italiane che ancora trattenevano con orgoglio opere significative di loro familiari che durante il loro percorso artistico si sono dedicati a questa splendida arte, preferendo consegnarle alla proprietà pubblica fiduciosi di compiere l’azione più bella in loro memoria, arricchendo così ulteriormente la rilevante raccolta già in nostro possesso. Sono centoquindici le opere acquisite in questo primo e corposo nucleo e saranno esposte al Mezzanino in sale affrescate con ricchi pergolati di vegetazione floreale movimentati da uccelli esotici volanti che ospitavano dagli anni Settanta le Porcellane Cinesi e Giapponesi che hanno trovato la loro sede al piano terra del Museo in appositi armadi. Un nuovo allestimento, che si integra magistralmente nell’architettura e nella decorazione pittorica delle sale, progettato dagli architetti Antonio Fara e Mauro Linari e eseguito dalla ditta Opera Laboratori Fiorentini, rispettando le normative di corretta esposizione e di buona conservazione, è stato realizzato grazie al generoso e intelligente sostegno del presidente Edoardo Speranza e del vicedirettore generale Antonio Gherdovich dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, che hanno concretizzato il nostro ambizioso e appassionato progetto. Liscia Bemporad 2001b. Casazza 2004, pp. 221-235. Liscia Bemporad 2001b, p. 200. 4 Holzac 2005, p. 7. 5 L. V. Masini, Gioiello d’artista, gioiello d’autore, in Firenze 2001b, 1 2 3 pp. 348-359. 6 Bergesio 2005a, pp. 291-292. L. Lenti, Saverio Cavalli, in Firenze 2001b, pp. 366-367 8 Masini 1972. 9 Milano 1999, pp. 49-50. 7 catalogo dell’arte orafa, ma anche la tenacia, la pazienza e la passione che richiede la lavorazione di un gioiello realizzato interamente a mano; Federico Vianello dal 1982 ha aperto una propria bottega lavorando metalli che sottopone a particolari ossidazioni per monili in oro, ferro ossidato, grafite e pietre in un continuo dialogo fra il prezioso e il non prezioso nei suoi ornamenti per la donna; Giordano Pini, discendente dalla scuola dello scultore Jorio Vivarelli sembra riuscire a catturare nelle sue opere l’energia vitale della natura dell’Appennino pistoiese e del vicino mare “toscano”; Roberto Romani vive ed opera da più di trent’anni a Firenze impegnato in una ricerca sui materiali e sulle forme: così l’acciaio, l’oro, l’argento, il lapislazzulo e il corallo divengono nei suoi monili forme di seduzione; Valerio Salvadori lavora in collaborazione con Marco Frangini nel laboratorio orafo VM Preziosi Firenze nella progettazione di gioielli al computer e accessori per la moda della collezione Redò, ma la sua padronanza della tecnica artistica tradizionale lo identifica anche per una creatività realizzata con sistemi di lavorazione complessa e innovativa; a Firenze si distingue nella realizzazione artigianale di gioielli ed accessori in perline di vetro di Murano e cristalli di Boemia, Ornella Aprosio e con lei la storia si riavvolge nel riutilizzo di una manodopera femminile di alta professionalità e nel recupero di materiali di grande fascino già cari all’Art Déco: perline in vetro, in cristallo e in corallo che rinnovano il gusto di un nuovo lusso e il culto della novità. Favorisce di nuovo lo sfoggio di smisurati orecchini e di smisurate spille a forme di fiore che si ispirano alle delicate nuances di colore delle famose orchidee smaltate e ornate di pietre preziose di Tiffany, disegnate da G. Paulding Farnham (1859-1927). Ritornano anche preziose cloch, borsette da giorno e da sera e trousse, sautoir maliziosamente ondeggianti, finti orologi da polso in stile Cartier e tessuti lavorati rigorosamente a mano, ad ago e filo, a ferri, a uncinetto e a telaio, lumeggiati di perline. L’artista orafa Gioconda Crivelli, cresciuta in una famiglia di artisti (il padre Renzo pittore e la madre americana, scultrice), si è trasferita giovanissima in America, a New York, dove progetta, modella e disegna gioielli che fa realizzare però a Firenze, certa di trovare eccellenti laboratori artigiani. Luigi (Giò) Carbone nel 1985 ha fondato in Oltrarno la scuola Le arti Orafe Jewellery School a cui si è dedicato con grande competenza e passione, organizzando al suo interno importanti mostre su artisti italiani e stranieri e promovendo anche eventi internazionali e centri di formazione per Enti ed Amministrazioni in Italia ed all’Estero. Artista lui stesso si identifica nei gioielli in argento e oro realizzati con la tecnica del cesello, su un progetto di grande rigore geometrico. Oltre alla già citata Sophia Vari, hanno donato opere significative dei loro percorsi artistici così diversi altri artisti stranieri quali la catalana Pilar Garrigosa, che fa divenire protagoniste di ogni sua creazione le gemme e l’olandese Gijs Bakker, che concepisce il gioiello come opera di design. Al centro della poetica dell’argentino trapiantato a Firenze Antonio Guarnieri è la figura, motivo inesauribile della sua ricerca da “cacciatore di nuvole” (titolo della sua collana cat. n. 58). Esprime il suo virtuosismo tecnico Jacqueline Ryan in un anello in oro giallo con perle di fiume inserite in piccoli mobili coni, evocativo di un raffinato bouquet di fiori di mughetto. Stefano Alinari 18 2. Collana con pendente Eco, 2006 Stefano Alinari è un’artista di solida formazione orafa iniziata presso l’Istituto d’Arte di Porta Romana e maturata sotto la guida dei maestri Alberto Pintucci e Andrea Baldi. Nel 1988 apre la propria bottega in via San Zanobi ed inizia la sua particolare ricerca estetica. Ha insegnato presso la Scuola Perseo dal 1998 al 2002. Nel settembre di quest’anno la gioielleria Conti di Firenze gli dedica un’esposizione: si tratta di un evento importante perché da questo momento Alinari sente maggiormente l’impegno e la volontà di creare gioielli che siano soprattutto opere d’arte e non ornamenti legati al capriccio della moda. L’artista ha partecipato a mostre personali e collettive ed attualmente collabora con prestigiose gioiellerie di Firenze e di New York e con gallerie d’arte in Italia e a Parigi. Le sue creazioni sono da tempo oggetto d’interesse da parte di importanti collezionisti privati. Stefano Alinari indirizza la propria ricerca lontano da una visione tradizionale del gioiello e i suoi pezzi sono incentrati sulla frammentazione asimmetrica degli elementi. Peculiare del suo stile è l’attenzione che pone nel caratterizzare ogni singolo componente dei suoi gioielli: i castoni presentano incisioni con funzione decorativa ma anche citazioni letterarie che servono a comprendere l’opera. Ogni elemento, concepito singolarmente, è poi assemblato in un insieme armonico che testimonia l’unità concettuale e progettuale dell’opera. La frammentazione è una peculiarità di questo artista, egli infatti si definisce un “agglomeratore” di materiali, di elementi formali ed estetici diversi: nella sua opera si riscontrano moltissimi richiami e citazioni afferenti alle più disparate discipline e culture, che conferiscono ai suoi oggetti una grande ricchezza di significati. Facendo proprio il pensiero di Nietzsche, Alinari attribuisce al Caos una valenza positiva ed i suoi gioielli, nella ricchezza degli elementi che li compongono, si caratterizzano per l’assenza di ogni rigidità ed effetto statico. Tuttavia è importante sottolineare come i pezzi di questo artista pur nella loro estrosità risultano estremamente portabili. Il tempo è una delle tematiche più indagate da Alinari: nei suoi gioielli, infatti, si incontrano sia pezzi di orologi, ingranaggi e ruote che alludono alla sua ripetitività e alla sua cadenza regolare, sia monete antiche e riferimenti mitologici che rappresentano un tempo dilatato ed infinito. D.G. 19 1. Orecchini Barbara, 2006 3. Bracciale Eco, 2006 Aprosio & Co 20 Aprosio & Co, ditta italiana con sede a Firenze, si dedica alla realizzazione di gioielli e accessori in perline di vetro di Murano e cristalli di Boemia. L’ideatrice è la romana Ornella Aprosio che crea decorazioni in perline di vetro dopo un meticoloso lavoro di recupero di abiti vintage degli anni Venti-Quaranta. Il vetro è stato largamente utilizzato nel corso dei secoli, principalmente sotto forma di perline: si fa risalire al Medioevo e il suo centro principale fu Venezia, in particolare l’isola di Murano; da allora l’arte di ideare manufatti in perline si diffuse nei castelli e nei conventi d’Europa. Nel Settecento trionfi di fiori in perline decoravano le tavole durante i banchetti o gli altari delle chiese; così anche nell’Ottocento e nel periodo Liberty le perle di vetro venivano usate nell’arredamento e nell’abbigliamento per creare fiori da mettere in vaso, frange, paralumi, bigiotteria, stupende acconciature. L’amore per le perline esplose però soprattutto negli anni Venti quando furono largamente impiegate soprattutto nella moda e acquisirono una nuova dignità. In Francia, grazie all’influenza di René Lalique, il vetro venne utilizzato al pari di un materiale nobile su pendenti e colliers e non più come materiale “di imitazione” delle pietre preziose. Dopo un periodo di declino che ha visto quasi scomparire questo tipo di produzione, negli anni Ottanta la moda italiana ha recuperato il gusto per le perline di vetro attraverso l’opera di stilisti quali Pucci, Ferrè e Versace. Negli ultimi anni Aprosio ritorna a utilizzare questo materiale rielaborandone il fascino delle trasparenze per gioielli unici in cui un materiale di antica tradizione si incontra con il design contemporaneo. Questo connubio si è rivelato molto fortunato poiché i manufatti di Aprosio & Co oltre a riscuotere successo commerciale, sono riusciti ad attirare l’attenzione della critica. Le sue creazioni sono periodicamente pubblicate su prestigiose riviste internazionali e sono state presentate in anteprima a eventi-moda di notevole risonanza come Pitti Immagine a Firenze e la “Premiere Classe”, esclusivo salone di accessori-moda a Parigi. Insieme ai gioielli, fanno parte delle collezioni di Ornella Aprosio, anche pregiatissimi manufatti per la decorazione di interni. Ogni oggetto è prodotto in serie limitata, eseguito interamente a mano, secondo variate tecniche artigianali e con l’utilizzo di “perle” di Murano. A seconda delle varie tipologie che intende realizzare, l’Aprosio si avvale di numerose tecniche di lavorazione, in modo da creare ogni volta manufatti di particolare valore e fascino eccezionale: si serve, quindi, del telaio per la creazione di accessori tessuti come le antiche tappezzerie; di ago e filo per inventare gigli, forme vegetali, libellule, farfalle e altri insetti; del crochet per gioielli, borse, cappellini e, infine, dei ferri per abbinare la lucentezza dei cristalli alla leggerezza della lana merinos e creare accessori con trame in maglia. Le opere di Aprosio fondono sapientemente creatività e pazienza femminile all’eleganza delle forme naturali donando una moderna immagine di bellezza a chi le indossa: sono “gioielli preziosi” e spettacolari che, grazie alla loro freschezza e originalità, si adattano perfettamente al gusto delle donne di oggi. C.C. 5. Spilla Vespa, 2006 6. Spilla Farfalla notturna, 2006 4. Spilla Lilium Candidum, 2006 Giampaolo Babetto 22 Esponente tra i più noti e apprezzati della cosiddetta Scuola di Padova, studia all’Istituto Statale d’Arte Pietro Selvatico di Padova, dova ha come insegnante Mario Pinton che esercita un ruolo determinante nella sua formazione. Da Padova arrivano altre suggestioni fondamentali per la sua crescita artistica: in particolare sente l’influenza del Gruppo N, che contribuisce a proiettare la città nel panorama artistico internazionale, con conseguenze decisive anche per gli artisti-orafi della Scuola di Padova. Le ricerche visive e cinetiche del Gruppo N ispirano Babetto nelle sue sperimentazioni sulla percezione delle forme: negli anni Sessanta crea gioielli dove gli elementi geometrici sono ripetuti e assemblati per originare particolari effetti ottici e di movimento. Negli anni Settanta, in linea con gli sviluppi dell’arte minimalista realizza opere geometricamente rigorose dove sintetizza le forme e i temi degli anni precedenti. In questo periodo inizia ad accostare all’oro altri materiali: occasionalmente pietre preziose e soprattutto intarsi di ebano che ricordano superfici laccate. Nel 1983, ispirato dalla mostra dedicata dal Metropolitan Museum di New York alle lacche giapponesi, inizia ad elaborare gioielli bicromi in cui il giallo dell’oro è abbinato a resine sintetiche nere, bianche o rosse e grazie a questi vince il premio della Japan Jewellery Association. Il disegno crea l’effetto di un oggetto prospetticamente scorciato, effetto evidenziato dalle linee nette che separano le superfici colorate. Alla fine del decennio, la sua produzione artistica si apre a elementi figurativi: dai dipinti di Pontormo estrapola le sagome di figure umane, di elementi vegetali e architettonici, trasformandole nei contorni estremamente puliti e netti dei suoi gioielli. Talvolta sono esclusivamente piani d’oro, in altri casi si nota una stratificazione di metalli colorati ed in altri ancora la meditazione su Pontormo porta a pezzi dal carattere maggiormente plastico e naturalistico. Nello stesso periodo, le superfici colorate, realizzate con pigmenti puri, non si presentano più levigate come in precedenza, ma acquisiscono un aspetto poroso. Amplia, inoltre, la gamma delle tonalità impiegate, introducendo l’International Klein Blue. Il colore ha un ruolo fondante nel gioco prospettico che enfatizza o stravolge la struttura geometrica dei pezzi. Babetto stesso li definisce “gioielli decostruttivisti”, richiamandosi ad una tendenza dell’architettura contemporanea, dove non è possibile individuare una gerarchia di forme e funzioni e in cui gli opposti si amalgamano in modo singolare. Coerentemente le sue creazioni scaturiscono dai concetti, solo apparentemente contrari, di tensione ed armonia che si sostanziano in un gioiello dove la semplicità della forma riesce a comunicare la complessità della sua realizzazione. Nella ricerca estetica di Babetto è centrale il problema della percezione che lo induce a progettare dei gioielli essenziali capaci di porsi in relazione con lo spazio e con il corpo. La scelta di lavorare su figure geometriche è dettata unicamente dalla volontà di interpretare forme semplici, evitando ogni elemento decorativo. Per questo, per il suo lavoro sono spesso citate ascendenze al De Stijl e al Costruttivismo russo, tuttavia l’artista afferma di essere principalmente ispirato dall’architettura e di ammirare soprattutto van der Rohe, Barragan, Foster e Fuksas. Anche l’arte e l’architettura rinascimentale hanno una decisiva influenza sulla produzione di Babetto il quale dichiara che per lui “sono importanti i principi classici come chiarezza formale, misura e proporzioni” (Nickl 2002, p. 85). È proprio per queste caratteristiche e perché le sue creazioni sono pensate “quale frammento di un’architettura corporale” (Celant 1996, p. 13) che le sue opere non rischiano di apparire ricerche fini a se stesse, ma si connotano come gioielli, ovvero oggetti concepiti per essere indossati e per essere depositari di significati simbolici, di arte e sapere tecnico. La sua passione per l’oreficeria è dimostrata anche dalla lunga attività di insegnamento che lo ha visto professore all’Istituto Statale d’Arte Pietro Selvatico di Padova (1969-1983), alla Rietveld Akademie di Amsterdam (1979-1980, 1983), alla Fachhoschule di Düsseldorf (1985), alla San Diego University (1987), al Royal College of Art di Londra (1990), alla Sommer Akademie di Graz (1993), alla Rhode Island School of Design a Providence (1994, 1996), alla Sommer Akademie di Salisburgo (1995, 1998). D.G. 23 7. Spilla, 1984 24 25 8. Orecchini, 1993 9. Spilla, 1997 Gijs Bakker 26 L’artista olandese è principalmente un designer ed è quindi portato più alla progettazione che all’esecuzione dei suoi pezzi: inclinazione già evidente dalla sua formazione. Dopo aver studiato design e oreficeria dal 1958 al 1962 all’Istituto d’Arte Applicate di Amsterdam (Instituut voor Kunstnijverheidsonderwijs divenuto poi Accademia Gerrit Rietvield), si perfeziona nell’industrial design alla KonstfackSkolan di Stoccolma (1962-1963). I tre anni successivi lo vedono attivo come designer presso la Van Kempen en Begeer a Zeist, periodo in cui si consolida il sodalizio artistico e sentimentale con la famosa designer di gioielli Emmy van Leersum (1930-1984). Nella metà degli anni Sessanta i due si sposano e aprono l’Atelier voor Sieraden (“Bottega di gioielleria”) ad Utrecht, concepito, anche nell’arredo, per discostarsi quanto più possibile dalle classiche botteghe artigiane olandesi: a dimostrazione del loro intento di rompere con la tradizione e di rinnovare l’idea di gioiello tenendo quali punti fermi il nuovo ruolo che l’ornamento ricopre nella società moderna e il rapporto tra questo e il corpo. Le opere progettate in questi anni infatti sono ispirate dal tentativo di applicare le leggi dell’industrial design, serialità compresa, alla gioielleria con il fine di raggiungere un pubblico sempre più ampio. Rilevante è il rifiuto dei metalli preziosi tradizionali in favore di materiali emblematici della contemporaneità (alluminio e PVC) che consentono di disegnare forme particolarmente ampie contenendo i costi e il peso degli oggetti. Ne sono un esempio i grandi collari in alluminio creati per la mostra del 1967 “Sculpture to wear by Emmy van Leersum and Gijs Bakker” le cui dimensioni erano volutamente esagerate per impedire che potessero essere contenute nelle vetrine dello Stedelijk Museum di Amsterdam tradizionalmente dedicate alle arti decorative. La realizzazione di multipli eseguiti in materiali economici è stata spesso interpretata quale desiderio di dar vita al “gioiello democratico”, ma questa lettura è stata spesso contestata dallo stesso Bakker il quale ricorda che i suoi pezzi hanno comunque dei costi troppo elevati per essere realmente un prodotto di massa. Inoltre Bakker ha più volte affermato che egli crea per una propria necessità interiore e non per assecondare un committente o le leggi del mercato e dell’industria. Tuttavia il suo design mira ad attrarre un pubblico più vasto e giovane di quello cui generalmente è rivolto questo settore. Bakker disegna dei pezzi che si connotano principalmente come oggetti e sculture, ma che, essendo stati espressamente concepiti per essere indossati, acquistano la funzione di monile risultando incompleti se scissi dal corpo: ne sono esempio le opere presentate alle mostre “Objects to wear” e “Sculpture to wear”. La sua ricerca artistica infatti ha il cardine essenziale nella corrispondenza tra persona e gioiello. L’iterazione è ancora più evidente nel caso della Shadow Jewelry (1973) dove il gioiello è volutamente stretto per lasciare un segno – un’ombra – sulla pelle che diventa il vero ornamento, in quanto la persistenza del leggero solco è direttamente proporzionale alla delicatezza dell’epidermide di chi lo indossa. Ha creato gioielli incentrati sul concetto di unicità del nostro corpo e che replicano l’aspetto del destinatario: Bib (1976) è un bavaglio in stoffa con la fotografia del petto di chi lo porta, Profile brooch (1983) è un filo di acciaio inossidabile, curvato per ritrarre il profilo della persona. Altre opere con fotografie laminate in PVC, talvolta arricchite da pietre preziose, riproducono corpi, interi o soltanto particolari, di modelli reali o desunti da capolavori del passato quali gli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina. Si tratta di “corpi che indossano corpi: si intesse una fitta e intrigante rete di rimandi, citazioni, riferimenti all’arte, alla società, mettendo in tutta evidenza la forza del gioiello come efficace e potente mezzo di comunicazione e commento sulla realtà in cui viviamo” (Lucca 2006, p. 45). L’uso della fotografia trova delle applicazioni tanto interessanti quanto ironiche nella sua opera, diventando un particolare mezzo per esprimere la sua riflessione sul gioiello e sulla società. L’ampia collana Pforzheim 1780 del 1985, costituita da una foto laminata in PVC di un’antica collana, esprime l’ambiguità insita nella rappresentazione dei concetti di preziosità e di realtà. Questo tema è presente anche nella recente serie Real in cui l’artista assembla dei pezzi di bigiotteria, acquistati nei suoi viaggi, con delle piccole repliche appositamente realizzate in pietre preziose. Con queste opere, l’artista s’interroga se sia più “vero” l’originale pezzo di bigiotteria con pietre di imitazione o la copia in pietre preziose. La capacità di un gioiello di manifestare simili riflessioni e significati costituisce, per l’artista, la ragione e il mezzo che consentono ad un monile di superare la dimensione angusta delle arti applicate, intese nel loro senso più tradizionale e riduttivo, per diventare compiuta espressione artistica. L’opera di Bakker, che dagli anni Settanta si occupa anche di design industriale, ha influenzato diverse generazioni di artisti tramite la sua attività di insegnante in varie scuole, tra cui l’Academie van Beeldende Kunsten di Arnhem (1971-1978) e The Design Academy di Eindhoven (1987-2003). Importante, in questo senso, è la sua collaborazione con Renny Ramakers alla costituzione nel 1993 di Droog Design, impresa olandese innovatrice nel design. Nel 1996 ha dato vita con Marijke Vallanzasca a Chi ha Paura…?, una fondazione che domanda ad artisti di livello internazionale di disegnare pezzi in cui il concept sia più importante delle materie impiegate. Chi ha Paura…? è divenuto in seguito un marchio che si occupa di collezionare, promuovere e vendere questo genere di gioielli. D.G. 10. Bracciale Circle bracelet, 1967 Bino Bini 28 È un artista colto che si è dedicato a varie discipline quali l’oreficeria, la medaglistica, la numismatica, la scultura ed il restauro; ha una notevole conoscenza delle tecniche orafe grazie ad una solida formazione iniziata a partire dall’età di dodici anni presso le botteghe degli Artigianelli e affinata all’Istituto d’Arte di Firenze, dove ha conseguito il diploma e ha poi insegnato per molti anni. Nel 1951 inaugura la sua bottega in piazza del Duomo dove esegue gioielli soprattutto di indirizzo tradizionale. Nel 1966, in seguito alle gravi perdite subite per l’alluvione, decide di chiudere il suo esercizio e l’anno successivo apre lo studio di via Metastasio dove, libero dalle esigenze di mercato, segue un percorso estetico che lo porta a sintetizzare il suo stile personale immediatamente riconoscibile. In via Metastasio accoglie molti apprendisti e nel 1983 fonda la Scuola dell’Arte dei Metalli ispirandosi al modello della bottega fiorentina del Rinascimento. Per Bino Bini l’insegnamento ha sempre avuto molta importanza ed è per questo che oltre a istituire una propria scuola, dal 1955 al 1977 è docente presso l’Istituto “Margaritone” di Arezzo. Questa città lo vede anche impegnato in un sodalizio con la Uno A Erre, azienda che a partire dagli Sessanta chiama a collaborare affermati artisti e designers per rilanciare la propria immagine. Per la Uno A Erre Bini disegna una serie di medaglie e gioielli, sia pezzi unici che opere in serie, affermando così la sua felice versatilità. La volontà di sperimentare in diversi ambiti è uno dei tratti salienti di questo artista, la cui multiforme creatività lo ha portato a misurarsi anche con la scultura di grandi dimensioni e ne è un esempio La gloria del mattino del 1995 per lo stabilimento ibiza di Tokyo e Gallo Nero del 1999 a Greve in Chianti. La sua notevole abilità nella medaglistica e nella numismatica gli ha procurato commissioni di grande prestigio tra cui la medaglia Inverno per la serie Le quattro stagioni emessa dalla Zecca Italiana o la monetazione ufficiale per la Repubblica di San Marino di otto valori a corso legale nel 1975. In qualità di orafo ha creato arredi sacri per importanti chiese come l’ostensorio in argento per la cattedrale di Helsinki e il ciborio e candelieri in argento e smalti per la cattedrale di Fiesole, solo per citarne alcuni. Come creatore di gioielli ha partecipato alle più prestigiose manifestazioni nazionali ed internazionali (Biennale Internazionale del Gioiello d’Arte di Massa Carrara, le triennali della Japan International Jewellery Arts Exhibition di Tokyo, “Oro d’autore” di Arezzo) e sue personali si sono tenute nelle principali capitali dell’arte. L’infaticabile attività espositiva mostra la determinazione di Bini di voler uscire dal circuito strettamente fiorentino e di volersi collocare nel clima artistico internazionale, facendosi conoscere ed apprezzare da un ampio pubblico. L’opera di Bini riflette lo scenario artistico del suo tempo, da cui gli provengono suggestioni che egli declina secondo una sua personale interpretazione, dove il linguaggio moderno si unisce con la tradizione orafa. Nei gioielli, il suo stile si connota per la grande abilità tecnica, che gli permette di controllare la materia e piegarla alla sua capacità di sintesi con cui è in grado di rappresentare, attraverso forme originali e quasi astratte, concetti ed azioni. Le sue opere sono tutti pezzi unici sbalzati e cesellati a mano. Un tratto peculiare è dato dal trattamento della superficie che si contraddistingue per un aspetto grumoso: la lamina, infatti, è martellata sul retro e successivamente vi sono applicate, per saldatura, delle piccole sfere di oro bianco 800. Le pietre preziose, generalmente a taglio navette e montate à griffe, sono spesso presenti, senza predominare nella composizione in maniera tale da creare un insieme armonico e omogeneo. D.G. 29 11. Spilla Lo specchio, 1963 13. Pendente Pioggia, fine anni Settanta 12. Collana Aggressione, 1965 Buccellati 30 Le radici orafe di una delle più importanti famiglie italiane di gioiellieri del xx e del nuovo secolo risalgono alla metà del Settecento, quando Contardo Buccellati avvia una bottega a Milano nella strada degli Orafi oggi via degli Orefici. Dopo la Prima Guerra mondiale, il capostipite “moderno” dei Buccellati è Mario (Ancona, 1891 - Milano, 1965), il quale, nel capoluogo lombardo, apre un negozio con il suo nome in via Santa Margherita. Egli segue i canoni rinascimentali delle botteghe d’arte suntuaria, accompagnando il gioiello da lui inventato dal disegno fino alla sua completa realizzazione, che si avvale di artigiani abilissimi. La bellezza nei “gioielli Buccellati” prende corpo nell’utilizzo di metalli preziosi e di pietre, queste ultime, tuttavia, sempre al servizio della struttura architettonica dell’opera, determinata e accentuata dagli stessi metalli. I gioielli di Mario Buccellati, frutto di una straordinaria combinazione di pieni e di vuoti – come nei lavori “a pizzo” e in quelli “a tulle” –, affascinano perché sono, al tempo stesso, classici e nuovi. Il riferimento alla grande tradizione rinascimentale è esplicito ma è altrettanto trasparente la capacità dell’artista di interpretare i modelli del passato, imprimendo su ogni opera un segno del tutto speciale, unico, facilmente identificabile. Il suo animo era potente, violento, impaziente. La sua personalità era fortissima. Lavorava con l’intuito. I suoi disegni accennavano un concetto che l’artigiano poi doveva saper interpretare (Mario Buccellati nel ricordo del figlio Gianmaria). Una tecnica particolarmente significativa, fra le numerose che sottolineano lo stile Buccellati, è quella “inventata” da Mario Buccellati e molto eseguita anche ai nostri giorni: si tratta della tecnica di lavorazione dei metalli preziosi chiamata “a tulle” o “a nido d’ape”, che comporta una lunga esecuzione, in cui si ritrovano criteri di origine classico-rinascimentale e il cui prodotto altro non è che il risultato della creatività dell’ideatore e dell’abilità artigianale di coloro che ne seguono le varie fasi di produzione. Dal disegno indicato dall’artista-gioielliere si passa alla scelta dei materiali e ai vari momenti della fabbricazione. Esperte mani d’arti- giano riportano il disegno sulla lastra di metallo e poi, con un piccolo trapano manuale, praticano un foro nel centro di ciascuna sagoma “ad alveare” tracciata sulla superficie del metallo. Con un seghetto di minute dimensioni si dà la forma “a pentagono” al foro; vi è, a seguire, il delicato momento della pulitura, quando si passa un filo di cotone impregnato di pietra pomice in ciascun foro. Dopo la scelta e l’incassatura delle pietre, si incide la superficie col bulino, coinvolgendo anche il rovescio dell’oggetto. Al disegno è necessario, quindi, che corrisponda una manodopera capace, conoscitrice profonda delle tecniche più antiche. Incisione, traforo, modellato, cesello, incastonatura sono fasi proprie della lavorazione Buccellati. Di grande fascino anche le sculture, gli argenti, e gli oggetti progettati da Mario Buccellati, dove è palese il richiamo non solo all’arte europea classica e dei secoli xv e xvi ma anche all’arte orientale e alla natura, secondo quanto lo stile Liberty e quello Déco gli suggeriscono. L’antico tesoro di coppe in argento della villa romana di Boscoreale (Pompei), ad esempio, per Mario Buccellati è un modello a cui rifarsi nella creazione delle Otto Coppe di Boscoreale (1922-1924) con decorazioni a rilievo, ottenute riscaldando ripetutamente la superficie e martellandola all’interno, al fine di non danneggiare il metallo. Celebri, ancora, i candelabri per i quali si ispira alle forme della natura come quelle di una quercia: in queste opere d’argento i rami ed il fogliame sembrano danzare nel vento. Dal suo laboratorio si diffonde in Italia e all’estero quello che sarebbe diventato con lui, e dopo di lui, lo “stile Buccellati”, a cui è stato riconosciuto un altissimo livello qualitativo, una suprema armonia. Fantasia inesauribile e sicura padronanza della tecnica orafa, infatti, incontrano presto il favore di una clientela importante: Mario Buccellati lavora per il Vaticano, per le case regnanti, per la nobiltà e per il mondo imprenditoriale. Le sue creazioni vengono apprezzate da pontefici e da cardinali ed elogiate da uomini di cultura. La sua bottega diviene un centro d’attrazione per musicisti, scrittori, artisti famosi. Fra i tanti estimatori incon- triamo Gabriele D’Annunzio, il quale lo soprannomina Principe degli Orafi. D’Annunzio acquista gioielli e oggetti Buccellati, fra i quali ricordiamo, ad esempio, i cosiddetti Portasigarette eroici, in cui un’inscrizione attesta le gesta del Vate. Un intenso rapporto epistolare, inoltre, prova l’amicizia fra il poeta e Mario Buccellati. Sull’onda del successo Buccellati apre, nel 1925, un negozio a Roma e, nel 1929, uno a Firenze. Nel 1951 la Buccellati sbarca a New York dove avvia un’attività commerciale sulla 51ª strada per trasferirsi, in seguito, sulla Quinta. Quattro dei cinque figli di Mario Buccellati lavorano nell’azienda di famiglia: Luca, Lorenzo, Federico e, specialmente per l’essenziale parte creativa, Gianmaria (Milano, 1929). Uno stile riconoscibile quello della Casa Buccellati, non costretto nei decenni a inseguire le modificazioni del gusto, che, dopo la morte di Mario nel 1965, viene riproposto e rielaborato dal figlio Gianmaria, il quale mostra, fin da giovanissimo, un talento precoce. Dal padre eredita il mestiere, i segreti della tecnica e i canoni estetici, occupandosi oltre che di gioielli anche della creazione di argenti. I gioielli disegnati da Gianmaria Buccellati sono testimonianza dell’interesse che egli nutre, al pari del padre, per le tecniche rinascimentali, arricchite dall’influsso dello stile Rocaille del Settecento francese, una delle epoche predilette dal designer milanese. Gli oggetti nascono dall’immaginazione e dalla contemplazione dell’arte, ma la fonte di ogni creazione va ricercata nella teca della memoria, dei ricordi, dei sogni (Gianmaria Buccellati). Nel periodo successivo alla scomparsa del padre Mario, Gianmaria subisce l’influenza della rigorosa estetica paterna, mentre nei tardi anni Settanta e negli anni Ottanta conosce una fase più vivace e fantasiosa. Quando altre illustri ditte di oreficeria si dedicano in particolare alle gemme di grandi dimensioni (brillanti, rubini, zaffiri e smeraldi montati in forme semplici), Gianmaria Buccellati persegue un disegno che sia la cornice unica per un’unica pietra. I suoi gioielli dichiarano il suo amore per le perle di forma insolita, per le gemme preziose – in primo 31 14. Mario Buccellati, Spilla, 1932 32 Le collane preferite dall’artista sono quelle che riprendono la grazia degli ampi colli di pizzo veneziano del Seicento. E negli “oggetti preziosi” le tecniche del maestro gioielliere si associano a quelle del maestro argentiere. Calici, candelieri, cofanetti e altri oggetti sono realizzati con metalli pregiati e gemme. Tutte opere forgiate con procedimenti manuali di estrema difficoltà, come quelli per rendere le superfici metalliche ricoperte da fini incisioni, una vera specialità di Casa Buccellati. La tradizione classica e lo stile Luigi xiv diventano, poi, basilari per dare vita ad un’idea che si plasma con la pietra e i metalli, con l’argento lavorato con le tecniche dell’incisione e dell’ombreggiatura, con il cristallo di rocca “fesonato”. In numerose coppe di Gianmaria Buccellati, inoltre, troviamo figure animali in oro a cera persa che si fondono intorno alla pietra, alla coppa vera e propria, come nelle opere d’arte dell’età ellenistica e del Barocco europeo. Fra i tanti oggetti di questo tipo, molto nota è la Coppa Smithsonian (2000), che deve il nome al Smithsonian National Museum of Natural History di Washington, istituzione per la quale è stata foggiata: si tratta di uno straordinario blocco di agata grigia (calcedonio variegato), con oro giallo e bianco, argento e perle. Una coppa evocativa, sagomata alla maniera di un calice del piacere, pensata per unire la spiritualità alla materialità. In essa l’armonia nell’architettura del disegno – per cui il fregio asimmetrico riequilibra il bordo diseguale dell’agata –, la dinamica dell’avvitatura e dei perni, che ne tengono insieme le parti, e i motivi a rouches mostrano in che modo l’oreficeria possa raggiungere la vetta dell’estro artistico, in un senso affine ad altre forme di arte figurativa. Se, ancora, le due Coppe della Mitologia (1979) rievocano il Rococò francese (1730-1770) in altri oggetti troviamo sculture in avorio, che rimandano allo stile dell’epoca Tudor, o pietre tagliate in figure geometriche, che si ispirano alle maniere arabo-moresche, all’Oriente o all’arte precolombiana. Rinomato è, infine, un vero e proprio mobile, un Tavolo in malachite e argento (1991) pensato e compiuto per essere un esplicito omaggio al Barocco romano – al Bernini –, con tre delfini guizzanti fra onde, modellati a cera persa, che fanno da base ad un piano in malachite. La bellezza non è un fatto estetico quanto un pensiero mistico (Gianmaria Buccellati). Un oggetto Buccellati non ostenta la sua bellezza, la offre. Negli anni Settanta e Ottanta l’artista-gioielliere avvia negozi nelle più prestigiose località del mondo – con particolare attenzione per il continente asiatico, di cui apprezza la tradizione di eleganza e la millenaria storia artistica – ma è senza dubbio l’anno 1979 che ne consacra l’affermazione mondiale con l’inaugurazione di un negozio in place Vendôme a Parigi, dove le gioiellerie più importanti del mondo hanno la loro sede. E in questo aureo scrigno d’Oltralpe la Buccellati fu la prima firma italiana ad essere accolta. Gianmaria concretizza il sogno del padre: conseguire una rinomanza internazionale per il nome Buccellati. Le personalità più influenti della società cosmopolita vengono affascinate non solo dalla produzione di gioielli ma anche dall’insieme di opere e dalla posateria in argento massiccio. Nel 2002 Gianmaria Buccellati entra nel mondo dell’orologeria con creazioni originali che sottolineano anch’esse lo stile della Casa: la totalità della produzione è realizzata in Svizzera, tuttavia il disegno, la prototipizzazione e le varie tecniche di lavorazione vengono concepite da Gianmaria Buccellati in Italia. Gianmaria Buccellati trasmette il mestiere e la passione ai figli, in primo luogo ad Andrea, il cui lavoro rappresenta una miscela moderna di tendenze e di gusto, dalla quale nascono oggetti sempre fedeli allo stile di famiglia. A.V. 15. Gianmaria Buccellati, Spilla, 2006 Antonio Bueno luogo gli zaffiri nei vari colori gialli, azzurri e rosa – e semipreziose e per i diamanti grezzi combinati in modo da creare pezzi assolutamente singolari, di grande effetto scenografico ma, al contempo, leggeri e “sobri”. I gioielli, se non adornano il volto di una donna, non sono interessanti e nemmeno belli. Una donna deve sempre risaltare sull’oggetto che indossa (Gianmaria Buccellati). Nei gioielli – dalle forme geometriche, zoomorfe e fitomorfe – tipiche sono le lavorazioni “a nido d’ape” e “a pizzo” in oro giallo e oro bianco o argento. Gianmaria Buccellati suscita, con i metalli preziosi, l’illusione di un antico tessuto damascato e si serve di brillanti “fancy” su oro giallo e di brillanti su oro bianco per esaltare il contrasto dei colori e l’estetica della composizione. Antonio nasce a Berlino, dove il padre Javer, corrispondente di guerra del quotidiano madrileno “ABC”, si era trasferito. La professione di giornalista del padre costringe la famiglia a spostarsi frequentemente: nel 1919 ritornano in Spagna, e nel 1923, con l’avvento del regime del generale Primo de Rivera si trasferiscono di nuovo fermandosi in Svizzera. Con il nuovo prestigioso incarico di funzionario internazionale la famiglia passa un lungo periodo di stabilità a Ginevra che permette ai figli Antonio e Xavier di frequentare l’Accademia di Belle Arti il Conservatorio, di formarsi in quel clima cosmopolita, già per loro costituzionale, e di partecipare alla vita politica del Partito comunista. Ma poi la famiglia si disgrega perché il padre si era legato ad un’altra donna e inizia di nuovo un periodo di instabilità che porta Antonio a raggiungere il fratello a Parigi e ad iniziare un sodalizio che durerà dieci anni, sfociando in un vera e propria coabitazione che si perpetuerà anche in Italia, a Firenze. A Parigi Antonio continuerà i suoi studi all’Ecole des Beaux Arts e pur seguendo le lezioni d’impronta cèzanniana del professor Guèrin, imparerà la vera meticolosità tecnica dal fratello Xavier e insieme guarderanno i grandi maestri italiani, spagnoli e fiamminghi del passato. Approderanno a Firenze nel 1940 nella città d’arte che diverrà la loro stabile residenza e la loro patria di adozione. Già nel giugno del 1942 i due fratelli si riveleranno al pubblico, alla Galleria Ranzini di via Brera a Milano, presentati da Pietro Annigoni, divenuto amico nei loro primi anni fiorentini. È anche l’occasione in cui Sciltian vede per la prima volta la loro pittura. Lavoravano a San Domenico, in una villa presa in affitto nella cui dépen- dance anche Annigoni teneva uno studio e dove nel 1941 anche De Chirico comprerà una casa. Nel dopoguerra aderiscono con gli amici Pietro Annigoni e Sciltian, seppure con intenti polemici, al gruppo che si definì “Pittori moderni della realtà” e presentano il loro “manifesto” nel novembre del 1947 in occasione della mostra alla “Galleria Illustrazione” di Milano. Il loro programma muove dall’osservazione “oggettiva” del vero e della natura “fonte prima ed eterna della pittura”, e dalla sua riproduzione, il più possibile fedele, ricercata e proclamata anche quale mezzo di scontro al “postimpressionismo decadente” e alla cosiddetta pittura astratta. Insieme continuano ad esporre con il gruppo nel 1948 a Roma alla Galleria “Margherita” e nel 1949 di nuovo alla Ranzini di Milano, anno in cui fondarono la rivista “Arte” che dopo solo tre numeri cessa le pubblicazioni. È anche il momento in cui il gruppo costituito anni prima si scioglie definitivamente così come avviene per il sodalizio dei fratelli Bueno dopo l’ultima esposizione alla galleria “Numero” di Firenze nel 1952. Antonio rivolge il proprio interesse verso esperienze di pittura geometrica e si inserisce nell’ambito della rivista d’arte astratta “Numero”. Inizia così un percorso di sperimentazione risolto in modo estremamente originale in una mediazione tra astratto e figurativo che trasferisce in atmosfere metafisiche oggetti isolati ed estraniati della realtà quali pipe di gesso, gusci d’uovo, gomitoli di spago, che esporrà nel 1956 alla Biennale di Venezia dove la sua opera ottiene il pieno consenso e il riconoscimento della critica (Argan, Sanguineti, Praz, Quasimodo, Camus, Goldmann, Guillén). Di nuovo Antonio Bueno è pronto a rinnovarsi per ricominciare tutto da capo. L’opera Il cimitero delle pipe del 1959 segna la fine del periodo “metafisico”. L’artista intraprende poi alcune esperienze estemporanee come quelle dei monocromi con Scheggi e Manzoni nel 1962 e successivamente altre di natura interculturale dapprima con il Gruppo 63, in una mostra di poesie a Reggio Emilia, e quindi con il Gruppo 70 nell’ambito di ricerche multimediali. Nel 1968 con pitture monocromatiche a rilievo partecipa alla xxxiv Biennale di Venezia, presentato in catalogo da Sanguineti. L’anno successivo si distacca dal Gruppo 70 per dedicarsi definitivamente alla raffigurazione delle sue emblematiche donne, pitture che lui stesso amava definire “neokitsch”, “neopassatiste”, “neoromantiche” e addirittura “pompieristiche”. Antonio Bueno ha interpretato in modo personalissimo l’arte del passato e particolarmente quella della Scuola di Fontanebleau, alla quale dedica due opere nel 1961 e nell’84, per poi giungere ad un modello di ritratto da lui stesso ideato che lo identificherà come leitmotiv della sua espressione artistica. La donna diventa così una vera e propria “icona” che racchiude in sé il contraddittorio senso della pudicizia, espressa dal volto ancora di bambina, e della sensualità, sottolineata talvolta anche dai piccoli seni scoperti, un modello che si ripeterà anche nella creazione di opere di gioielleria. Ironico e contraddittorio ma consapevole dell’originalità della sua arte, Bueno diventa, negli ultimi anni della sua produzione, un vero e proprio “consumatore” dei ritratti più famosi della storia dell’arte sostituendo ai volti originali il suo “modello” come nel Ritratto di Eleonora da Toledo con il figlio Garcia del Bronzino o nelle bagnanti di Ingres. In linea con Andy Warhol e Lichenstein anche Bueno, attingendo a figure simbolo della società dei consumi, trasmette i connotati delle sue celebri figure che sono passate nell’immaginario collettivo assicurando all’artista una fama durevole. O.C. 16. Spilla Cantante, 1974 33 Luigi (Gió) Carbone 34 L’artista dal 1985 svolge l’attività d’orafo presso il proprio atelier-laboratorio di oreficeria a Firenze, in piazza S. Spirito. La sua è un’attività di produzione che promuove la creazione di oggetti unici, la realizzazione di modelli e di piccole serie. Osservando le opere di Giò Carbone nella sua totalità, ciò che emerge è la ricerca strutturale dell’oggetto. L’attenzione per strutture e forme strettamente matematiche si rifanno allo studio delle opere di Escher che analizzano la relazione tra spazio e superficie. Escher, si pone il problema di come rappresentare le tre dimensioni in una superficie bidimensionale, mentre Carbone lo risolve nella tridimensionalità dando forma alle Figure Impossibili dove crea un’illusione ottica, provocando nell’osservatore un cosciente inganno. Nel 1985 fonda “Le Arti Orafe Jewellery School” stimolato, come lui spesso afferma, dal contatto con i giovani e dalla passione per l’insegnamento; si tratta della prima scuola italiana privata di oreficeria, situata in Oltrarno, tra San Frediano e il quartiere di S. Spirito, a poca distanza da Palazzo Pitti, della quale è attualmente coordinatore didattico ed insegnante senior di laboratorio. Nel corso degli anni la scuola si è ingrandita e Giò Carbone si è dedicato completamente all’insegnamento delle Tecnologie dei metalli preziosi e al Laboratorio di oreficeria, e grazie alle sue ampie competenze tecniche, che spaziano dalla conoscenza dell’oreficeria classica alla padronanza delle tecniche e dei materiali contemporanei, ha sviluppato modi di lavorazione e tecniche speciali come: il cesello, il mokume (un tipo di lavorazione dei metalli che imita la disposizione delle fibre del legno) la granulazione e la lavorazione delle cere. Le “Arti Orafe Jewellery School”, per molti anni è stata l’unica scuola di arti della zona, ha formato figure professionali che, attraverso la ricerca formale e l’utilizzo di nuove tecnologie e materiali, operano sulla scena nazionale e internazionale. 18. Spilla Figura impossibile 2, 2000 Nel 1991, su designazione del Ministero per l’Industria e l’Artigianato di Avignone, partecipa al convegno-esposizione “Europe Artisanat” organizzato dalla CEE e segue i lavori della DG xxiii per lo sviluppo della formazione artistica. Dal 1985 al 1993 realizza centri di formazione e nuove attività produttive per conto di amministrazioni locali e stati esteri; diviene membro fondatore del Parlamento Europeo delle Scuole d’Arte Orafa; responsabile della “Commissione Educazione e Ricerca”. Negli anni successivi continua a ricoprire questa carica e quella di responsabile della “Commissione Tecnica e Progetti”: in questo ambito, elabora un progetto nel quadro del programma Comunitario “Leonardo”, ossia il progetto “Cellini”, un dizionario multilingue dell’oreficeria (Jewellery Multilingual Dictionary). Il Dizionario multilingue dei termini e dei concetti riguardanti il settore dell’oreficeria e della gioielleria, pubblicato nel 2001, è uno strumento di ricerca e di lavoro, volto a facilitare la comunicazione e lo scambio di informazioni in questo specifico settore, che spesso adotta terminologie difficili da tradurre in altre lingue. Nel 1993, l’Ufficio Commerciale del Cile a Milano incarica Giò Carbone di studiare lo sviluppo del settore orafo in Cile. Dal 1994 al 2001 promuove la realizzazione di nuovi centri di formazione professionale in Venezuela e in Libano ed è invitato a rappresentare l’Italia per la mostra celebrativa presso la Hong-Jk University of Applied Art di Seoul. L’artista svolge anche il ruolo di ideatore e coordinatore di eventi, ultimo dei quali Lucca Preziosi 2006, mostra sul gioiello contemporaneo. 35 C.S. 17. Spilla Figura impossibile 1, 2000 Pino Castagna Tony Cassanelli L’artista è un giovane scultore che si è formato a Trani presso Franco Scaringi da cui ha appreso i segreti dell’arte plastica. Dopo alcune esperienze nell’ambito della lavorazione della creta e della pietra di Trani, decide di concentrare i suoi studi sul marmo e si trasferisce in Toscana dove studia all’Accademia di Belle Arti di Carrara. In questo periodo collabora con alcuni orafi per l’esecuzione di cammei marmorei. La sua ricerca è improntata principalmente sulla figura umana, sul disegno e sul modellato. Ha fatto bagaglio, con sensibilità e passione, della più prestigiosa cultura plastica italiana incentrata sulle capacità espressive dei corpi e riesce a dare alle sue sculture morbidezza plastica e delicata sensualità. Esegue soprattutto sculture di grandi e medie dimensioni in marmo, terracotta o bronzo. L’artista ha partecipato a numerose collettive e realizzato mostre personali nel 2003 a Carrara e nel 2004 a Bari. E.S. 36 19. Spilla raffigurante Sara, 2005 Personalità versatile ed infaticabilmente poliedrica, Castagna si muove nelle varie fasi del suo percorso artistico con una fedeltà incessante a quella duplice ed inscindibile identità di artista e di artigiano padrone del mestiere che così fortemente caratterizza le sue opere e che lo porta a non accettare “di dover distinguere fra arte e artigianato, arte pura e arte applicata, e ancor meno fra arti maggiori e arti minori” (M. Bertozzi, in Massa 2006, p. 41). Questa convinzione affonda le radici nella sua formazione peculiare basata su una somma di esperienze eterogenee che vanno dal restauro di affreschi e vetri, all’insegnamento del disegno per giungere fino alla progettazione di mobili, alla tipografia ed altro; lasciato Castelgomberto nel vicentino dove nasce nel 1932, studia e si forma a Desenzano e successivamente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, affiancando agli studi una serie di sperimentazioni che gli consentono di acquisire una vasta conoscenza tecnica ma soprattutto una infinita padronanza di materiali come il vetro, la ceramica, l’acciaio, il marmo, il cemento, il legno, il bronzo, l’alluminio, la ghisa, le fibre tessili per arazzi e tappeti. Così Pier Carlo Santini, presentando nel 1986 la mostra su Castagna, Carmassi e Guadagnucci nel Parco della Versiliana “Castagna muove sempre dalla materia: ne esalta talora rischiosamente le proprietà; la conduce quasi ai limiti di rottura e di resistenza” (P.C. Santini, in Marina di Pietrasanta 1986) finché non ha ottenuto i risultati voluti e corrispondenti alle intuizioni prodotte dalla sua infinita libertà creativa. Il suo percorso formativo arriva ad una svolta nel 1959 quando incontra Michael Noble che lo chiama a collaborare nello studio di ceramiche sul Garda. Con lo scultore inglese la sua formazione si focalizza sulla ceramica attraverso sperimentazioni interessanti, non ultima quella intensa del laboratorio per i pazienti dell’ospedale psichiatrico di Verona, esperienza che affronta dimostrando infinita generosità non soltanto come artista ma soprattutto come uomo. Quando nel 1963 l’atelier di Noble viene chiuso, Castagna è ormai in possesso dei segreti del ‘fare ceramica’, attività alla quale continua a dedicarsi anche nel suo nuovo laboratorio. 20. Anello, 1979 Sperimentatore infaticabile, inizia in quegli anni le sue prime ricerche sulla scultura e una volta aperto nel 1969 a Costermano sul Garda uno studio-laboratorio attrezzato e ‘politecnico’, immerso in una natura atta ad ospitare grandi volumi, la sua vocazione di scultore si precisa e si puntualizza. Nascono i primi grandi pezzi in ceramica, bronzo, alluminio ma anche in materiali insoliti come la terra refrattaria e la pietra morta, prime testimonianze di quel “fare in grande” che caratterizzerà tutta la sua attività e che sarà sempre incapace di rinnegare totalmente. Nel 1976 interviene sui solenni e grandi tronchi di alberi africani alti più di otto metri e da vita alla serie degli Iroko, realizzati con tecnologie “di tipo leonardesco” (N. Pozza, in Bardolino 1982). Ogni volta la concretizzazione di un’opera comporta l’utilizzo di metodologie progettuali consone e strumenti speciali e dove gli strumenti non rispondono alle finalità, Castagna li modifica o ne inventa di nuovi. 37 38 Sempre nello stesso periodo si dedica alla serie dei Canneti in porcellana e realizza alcune sculture in marmo, Figura seduta con figura in piedi (1972-1973), Tre figure (1970-1974) e Piani scivolati che segnano una fase di passaggio alle grandi e grandissime dimensioni, come avverrà nel 1974 con Diapason e nel 1975 con le due Colonne (Santini 1980, p. 418). Dal 1975 al 1979 espone a Monaco, Verona, Imola, Lucca, Rimini e Salisburgo in grandi mostre en plein air che lo rendono noto ad un vasto pubblico internazionale e gli procurano i primi saggi critici di Mario De Micheli, Licisco Magagnato e Pier Carlo Santini. Le sue opere esigenti, che richiedono spazi allargati, trovano la loro collocazione ideale nel cortile di Castelvecchio a Verona, nelle mura urbane di Lucca, nei prati e sugli alberi di Rimini. La sua attività di scultore continua negli primi anni Ottanta con l’Acaia (1980), la Memoria della Giudecca (1981-1982) la Pietra fiorita (1983) e la Memoria architettonica (19841985) che richiamano le precedenti sculture d’aspetto colonnare come il Diapason, i vari Iroko o le pesanti masse squadrate dei Piani scivolati. Ancora una volta riprendendo temi già trattati, realizza poi una versione in vetro dei Canneti (1981), le Memorie neoclassiche (1982) e i Nudi (1980-1981), in legno ed in bronzo, ricollegabili alle versioni in marmo carnico del 1973 e ad una variante in bronzo nota anche come Trancio di Madame Findus del 1975. “Sempre dopo aver realizzato una scultura, egli pensa a come potrebbe risultare se eseguita in materiale diverso, o con tale o talaltra modificazione di rapporti e di forme” (P.C. Santini, in Mantova 1985, p. 6) ma non si tratta di versioni ripetitive ma piuttosto eterogenee e motivate dalla diversità delle occasioni. È in questi primi anni Ottanta che “nel maestro scatta la molla dell’utopia, che metterà in moto una produzione di opere di gran mole che non trova paragoni nei contemporanei” (F. Batacchi, in Pergine Valsugana 2001 p. 26). Appartiene a questo periodo una delle sue creazioni più significative, le Vele (1981): in quest’opera, realizzata in ghisa e formata da tre elementi diseguali ancorati soltanto nella parte inferiore, l’artista riesce a sfidare “la forza di gravità trasformando tonnellate di materia inerte in fogli di miracolosa levità” (F. Batacchi, in Pergine Valsugana 2001, p. 26). Ma è con il Muro, realizzato fra il 1983 e il 1984, che l’artista scrive un nuovo capitolo nella storia della macroscultura: con i suoi tredici metri di lunghezza e un peso di milleduecento chili, è un opera di dimensioni colossali che testimonia, ancora una volta, la sua sconfinata capacità di piegare la materia alle proprie esigenze: è una sfida impossibile, un’utopia che l’artista rende possibile e realizzabile; è proprio questa sua caratteristica che, anni dopo, nel 2001, porterà Franco Batacchi a coniare il termine ‘Concrete utopie’ per intitolare la splendida personale al Castello di Pergine. Sempre negli anni Ottanta, la figura di Castagna assume un ruolo di primo piano nel contesto artistico internazionale, grazie soprattutto alla retrospettiva al Palazzo delle Albere di Trento ed alla mostra antologica di Palazzo Te a Mantova, entrambe del 1985. La sua notorietà è poi consolidata dalla partecipazione alle più importanti rassegne d’arte fra cui la xlii Biennale di Venezia nel 1986 e la 3éme Biennale Européenne Sculture de Normandie a Jouy-sur Eure, in Francia, nel 1984 e nel 1986. Continua ininterrottamente l’attività anche negli anni Novanta con la realizzazione di altre importanti sculture come Paesaggio sonoro (1993), foresta di canne d’acciaio innestate su cemento armato che le persone, attraversando, fanno risuonare, Cespo veneziano (1995) in acciaio e ceramica, Onde (1998), in acciai vari, una delle ultime versioni del Canneto (1999), in vetro soffiato a più colori e la suggestiva Foresta di Birnam (1990), la famosa selva di Macbeth di Shakespeare: 537 travi di ferro e 96 elementi in cemento armato che danno l’idea di soldati che si muovono nella notte, mimetizzati con i rami degli alberi; in questa realizzazione c’è tutta la complessità del suo processo creativo e il carattere visionario delle sue sculture. Questa ed altre opere di grandi dimensioni sono state più volte definite ‘archisculture’ a sottolineare quella sua intensa aspirazione architettonica, la stessa che è alla base di una serie di interventi in scala urbana ed extra urbana che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma anche all’estero: AlpiniaCascade de Beynost (1991-1992), opera in acciaio cor-ten e cemento, di forte impatto visivo nel paesaggio autostradale francese nei pressi di Lione, la chiesa all’aperto nel sagrato antistante la parrocchiale di Zemeghedo (1994), il Canneto in porcellana alto 6 metri per l’Università di Braunscweig (1997). Alcune sue sculture sono presenti al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, fra cui il Canneto in bambu in porcellana smaltata e metallo e lo splendido Albero Veneziano in metallo, maiolica e vetro. Altre opere si trovano invece presso la Fondazione Ragghianti. Nel suo incessante bisogno di sperimentare nuove avventure espressive spaziando da un campo artistico all’altro, Castagna non poteva non cedere alla tentazione di cimentarsi anche nell’oreficeria: alla fine degli anni Sessanta comincia a realizzare gioielli e “pone all’origine del suo lavoro in questo settore, l’aver modellato mani di giovane donna in cera d’api, adornate da un anello in argentone e pietra lucidissima” (Somaini-Cerritelli 1995, p. 55). Nel 1979 realizza un bracciale in argento ad elementi sovrapposti che rimanda alla Vele, e poi un bracciale ed un anello, entrambi in argento, che ricordano la serie delle Pietre fiorite degli anni Sessanta. Nel 2001 partecipa all’importante mostra Immaginazione Aurea alla Mole Vanvitelliana di Ancona con opere fortemente strutturali che ancora una volta richiamano i temi delle sue sculture: Bambus (2000) in argento 1925 e oro 750, Intervento (2000) e Mura di Nabucodonosor (2000), entrambe realizzate con lastre d’oro lavorate a laminatoio su corpi d’argento e successivamente patinate. I.B. 21. Collana, 2004 Saverio Cavalli 40 Saverio Cavalli si forma nell’ambito della consolidata tradizione orafa di Valenza e nel 1951 inizia la sua attività in proprio depositando il marchio 464 AL. Agli esordi del suo percorso affianca all’oreficeria l’interesse per la pittura astratta, ed espone nelle più importanti manifestazioni italiane ottenendo prestigiosi premi e riconoscimenti. Già nel 1954 si presenta alla x Triennale di Milano con Anello N. 91, realizzato ancora con materiali tradizionali quali l’oro e una perla di fiume; nel 1957 in occasione della xi Triennale di Milano, di cui i fratelli Pomodoro curano la Sezione Oreficeria, emerge un nuovo indirizzo nello stile dell’artista, maturato grazie alla collaborazione con designer quali Dova e Sottsass: da questo momento la volontà di Cavalli è quella di declinare il suo astrattismo geometrico secondo i canoni e le tecniche tradizionali dell’arte orafa. Dal 1968 l’ideazione e la costruzione delle sue opere evidenziano un’impostazione strutturale secondo la quale la scelta dei materiali sembra divenire casuale tra legno, vetro, pietre dure, come si può vedere dai pezzi presentati a Carrara alla i Biennale del Gioiello d’arte. Dal 1974 inizia a volgere la propria attenzione all’alpacca, all’alluminio e alle plastiche (perspex, metacrilato), trascurando sempre più le pietre e i metalli preziosi, fino a lavorare esclusivamente con materiali poveri e di riciclo: brandelli di stoffa, frammenti di ossa, pezzi di legno e di ferro, sabbia, carta. Gli anni Settanta, Ottanta e Novanta lo vedono impegnato in esposizioni di alto livello ricevendo consensi di critica e di pubblico. La sua perizia tecnica, unita all’abilità manuale, gli permette di realizzare opere dalle lavorazioni particolarmente complesse, dimostrando di padroneggiare la granulazione etrusca, gli smalti champlevé e cloisonné. 22. Bracciale N. 239 e Anello N. 240, 1964 Le opere esposte riassumono il percorso svolto dall’artista in ambito formale maturato con un linguaggio in cui convergono le sue ricerche: da un lato il geometrismo puro espresso in composizioni sempre equilibrate e dall’altro la continua sperimentazione di materiali naturali e artificiali, preziosi, semipreziosi e poveri. P.L. 24. Collana N. 346, 1972 23. Anello N. 300, 1967 26. Spilla pendente (n. 7), 1973 25. Spilla pendente Opera 62 (n. 19/100), 1973 Paola Crema Fallani Francesco Cenci 42 Fin da giovanissimo si è dedicato alle ricerche ed agli studi delle arti figurative iniziando come pittore, si è formato presso il Liceo artistico ed è stato poi allievo dello scultore Corrado Vigni. Partecipa alle prime rassegne del dopoguerra in Toscana ed espone nel 1945 al Convento fiorentino di san Marco dove è evidente che la sua opera rompe con gli schemi accademici convenzionali. I dipinti si caratterizzano per la ricerca di movimento, di struttura e di luce derivati dalla tradizione italiana fino ad arrivare a sfiorare il fauvismo e il cubismo. L’artista viene, inoltre, inquadrato dalla critica italiana tra quelli che proseguono la strada della metafisica surrealista o, meglio, del surrealismo metafisico. Pratica nella materia una sperimentazione del fantastico, della realtà esaltata e deformata, elementi che ricorreranno anche nelle opere d’oreficeria a cui l’artista si dedicherà negli anni successivi. Nei suoi gioielli utilizza materiali come oro, argento, bronzo e smalto, materiali “genuini” accostati a forme altrettanto semplici e naturali, spesso privi di elementi decorativi, come pietre preziose o semi-preziose, e dove sono esaltati in primis la forma e il movimento. Negli anni Settanta inizia a percorrere nuove strade nel mondo dell’arte dedicandosi con passione alla creazione di gioielli dove la materia che usa si scontra con impulsi improvvisi e vivaci e dove tutto si avvolge in “incastri pericolosi”. Le sue opere sono riconducibili all’ambito del “surrealismo spaziale” e propongono forme affascinanti di personaggi formati da parti umane, da fiori, macchine come una sorta di mixage dei tre mondi della natura. L’artista indaga in una vita nascosta che emerge dall’inconscio e lo fa attraverso “occhi di plastica” che escono dalla materia e che indagano nel nostro mondo reale. Il motivo dominante della sua espressione è il movimento. I suoi gioielli sono come spazi aperti, “informali” (quasi caotici), che escono sotto forma di rilievi dalla struttura metallica diventando piccole sculture. Il rilievo acquista autonomia traducendosi con semplicità in “gioiello-scultura” o “scultura-gioiello”. I monili di Cenci allundono all’astrazione ma anche all’armonia in una continua contraddizione e richiedono un’intensa partecipazione dello spettatore. M.E.M. L’artista è nota per la sua Galleria di antiquariato Fallani Best, inaugurata a Firenze all’inizio degli anni Settanta, che nel giro di un ventennio ha acquisito prestigiosi riconoscimenti, comprovati da numerose pubblicazioni su riviste internazionali di antiquariato e di arredo. Inizialmente indirizzata al Quattrocento e Cinquecento, ha rivolto poi il suo interesse all’epoca a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Dai primi anni Novanta ha trasformato la sua galleria in un originale spazio di esposizione di arte contemporanea, dove ha scelto di collezionare anche gioielli creati dai suoi artisti preferiti, tra cui Arnaldo e Giò Pomodoro, Lucio Fontana, Giuseppe Capogrossi. Ha giocato un ruolo di primo piano come promotrice culturale, dedita a favorire incontri, iniziative culturali e a creare situazioni a favore di una Firenze più vitale e costruttiva. Paola Crema occupa un posto di rilievo nell’attuale panorama della sperimentazione del gioiello. Alla fine degli anni Novanta ha ripreso il tema che l’aveva portata ad esporre le sue creazioni personali ad “Aurea ’76”: i gioielli, intesi come oggetti d’arte ed espressione della creatività. Differenti sono i fattori che hanno giocato un ruolo fondamentale nella sua formazione: la vicinanza del marito Roberto Fallani (architetto, scultore, pittore, designer e creatore lui stesso di gioielli) che ha stimolato la sua vena creativa e la sua abilità tecnica e l’attività di antiquaria, che le ha permesso di conoscere e capire in profondità l’essenza di vari stili, contribuendo a maturare una personalità vivace, creativa e versatile che mira sempre al raggiungimento del miglior risultato. 43 27. Spilla Rugiada, 1998 31. Pendente Ondina, 2000 44 I bracciali, gli anelli, i pendenti, le spille sono delicati e leggeri, esclusivi e ricercati, misurati negli effetti cromatici; sono creazioni sobrie ed eleganti, in cui il pensiero è rivolto all’immagine di una donna che, nel suo monile, possa cercare e trovare un messaggio in cui identificarsi. In questi oggetti tra scultura e oreficeria sono rivitalizzati e rielaborati alcuni tratti stilistici dell’Art Nouveau: la tendenza alla deliquescenza, l’idea di dare ai tradizionali materiali duri e resistenti un aspetto di morbidezza o di sostanza fluida e organica, a cui l’artista accosta un elegante classicismo inserendo figure che rappresentano ninfe della mitologia greca. La modernità delle creazioni è data dalla vitalità delle forme, dalla novità di interpretazione e fusione di diversi stili tra loro lontani: la composta armonia classica e il dinamismo del Liberty. Il suo gioiello ha una validità artistica autonoma che non ricalca la tipologia tradizionale del concetto di prezioso: i materiali sono tutti semipreziosi, l’argento è amato dall’artista per le qualità pittoriche che gli permettono di assumere patine diverse; le perle, di mare o di fiume, bianche, lucenti e opache, dai riflessi cangianti, le piacciono non per il valore commerciale, ma per la loro qualità estetica; del corallo sceglie i pezzi cariati, irregolari, di cui esalta le fattezze naturali con montature originali che li custodiscono come scrigni segreti. Durante la lavorazione l’artista tende ad impadronirsi a fondo dell’oggetto e del materiale che lo costituisce, per trasformare e modellare la materia cercando di imprimervi una forte caratterizzazione personale; tende a rompere l’equilibrio statico e cerca il dinamismo e l’asimmetria rimanendo entro i limiti del buongusto e della compostezza. 29. Bracciale, 1999 Il motivo dominante e ricorrente della sua espressione è la metamorfosi: i monili sono oggetti in continua trasformazione, che giocano sulla modificazione della forma e della simbiosi di una materia con un’altra: l’argento, le perle raffinate, il corallo vivace, la giada imperiale, i frammenti d’oro, sono trattati in modo da far dimenticare la materia costitutiva: non sembra di tenere in mano argento e perle, corallo, giada, ma meravigliosi frammenti di natura. Nella lavorazione del gioiello emerge la personalità dell’artista caratterizzata da una vivace versatilità che non interrompe mai la sua ricerca: una continua trasformazione, evoluzione, metamorfosi di interessi, che ha come filo conduttore e come scopo la ricerca e la sicura scoperta della perfezione, del bello inatteso ma assoluto. P.L. 45 28. Anello Magma, 1998 30. Pendente Dafne, 2000 Gioconda Crivelli 46 È cresciuta in una famiglia di artisti: il padre, Renzo Crivelli (Sarsina, 1911 - Firenze, 1997), pittore, allievo di Felice Carena, si era affermato a Firenze, un suo autoritratto è conservato alla Galleria di arte moderna di Palazzo Pitti (acquistato dallo Stato nel giugno del 1943, inv. Gam Giornale n. 867), la madre americana era una scultrice e virtuosa pianista. Gioconda Crivelli è pittrice, scultrice e creatrice di gioielli, ha studiato a Firenze, culla dell’arte orafa, e si è formata nello studio del padre e all’Accademia delle Belle Arti; il suo lavoro si è sviluppato soprattutto tra l’Italia e gli Stati Uniti. A Firenze, ancora giovanissima, ha curato le pubbliche relazioni per Salvatore Ferragamo, è stata Fashion Coordinator per la casa di moda di Irene Galitzine a Roma e per tre anni ha lavorato come Fashion Editor di Harper’s Bazaar per l’Italia. Frequentare l’ambiente della moda e dell’arte l’ha portata ad individuare la sua vera passione: ha iniziato così a disegnare gioielli e nel 1965 ha aperto, proprio nella sua città natale, uno studio dove le sue creazioni vengono realizzate da esperti artigiani. Per tre anni, dal 1983 al 1986 l’American Museum of Natural History di New York ha concesso all’artista uno spazio-studio per poter creare le sue opere e nel 1982 ha realizzato per papa Giovanni Paolo ii dodici paia di gemelli con raffigurato lo stemma papale smaltato in rosso e blu. Ha partecipato a numerose mostre nelle più importanti città del mondo. 32. Anello Delfino, 1964 33. Catena Zodiaco, 1965 Nei suoi gioielli, interamente eseguiti a mano, vengono impiegate le antiche tecniche di lavorazione dell’oro, dallo sbalzo al cesello, dalla cera persa all’incisione e proprio questo “tocco umano”, che rende ogni gioiello unico, e questa maestria artigiana, sono alcune delle caratteristiche distintive delle creazioni dell’artista che non solo disegna il gioiello, ma realizza il modello in cera per poi seguire ogni momento dell’esecuzione in laboratorio con gli artigiani. Soggetti ispirati al mondo marino, alla natura, allo zodiaco, al mondo dell’islam, all’arte greca ed etrusca sono i preferiti dall’artista i cui gioielli, curati nei più piccoli particolari, sono sempre stati apprezzati da una clientela internazionale per la fantasia e per l’originalità. Ogni pietra utilizzata, preziosa e semi-preziosa, viene da lei scelta con cura, dalle meteoriti provenienti dallo spazio e montate rispettandone la forma naturale, ai cristalli dal potere taumaturgico. E.S. 47 35. Collana Farfalle, 1998 34. Spilla pendente Capricorno, 1969 Alessandro Dari La sua indole artistica è influenzata dalle antiche civiltà e dai maestri del passato da cui, tuttavia, tende a distaccarsi per orientare la sua ricerca verso la creazione di forme originali attraverso l’uso di materiali insoliti e la sperimentazione di nuove tecniche di lavorazione sui metalli, legando così il suo percorso agli artisti della seconda metà del Novecento. La sua formazione segue percorsi indipendenti che si distaccano da qualsiasi forma di insegnamento e si riflette nel lavoro dell’artista che evidenzia la sua attitudine a separarsi da qualunque schema o forma prestabilita. Nonostante questa formazione piuttosto indipendente, è facile trovare delle affinità con altri artisti orafi quali Bruno Martinazzi, Alberto Giorgi o Nino Franchina. Ciò che lo accomuna a questi autori non è tanto il genere di monili creati, ma un tipo di ricerca rivolta in particolar modo al virtuosismo nel manipolare la materia e alla scoperta di molteplici possibilità creative. Ciò che spinge l’artista a lavorare e studiare la consistenza della materia, dei colori e delle forme, è la conoscenza scientifica, acquisita durante i suoi studi alla facoltà di chimica; competenza che lo ha spinto a lavorare con passione, cercando di mettere in pratica, attraverso le proprie creazioni, nuove tecniche e variazioni cromatiche, che lo allontanano talvolta dall’oreficeria tradizionale. Alessandro Dari crea gioielli ornamentali che si avvicinano, per dimensioni e materiali, all’universo scultoreo come diventa evidente nella seconda fase del suo percorso artistico, quando continua a creare monili sempre meno indossabili e sempre più vicini ad un nuovo indirizzo definibile “microscultura”. Sono sorprendenti le “collezioni a tema” sul motivo della cattedrale, del castello, della musica, della magia e dell’alchimia. Attualmente Dari insegna Arti Orafe all’Università degli Studi di Firenze ed opera nel museo-bottega in via San Niccolò a Firenze, dove espone la maggior parte delle sue opere. Tra le manifestazioni a cui ha partecipato, risalta la mostra “Tahitian Pearl Trophy” di Vicenza Oro, dove ha vinto, per due volte consecutive, prestigiosi premi. M.E.M. 48 49 37. Anello Madrepora luna, 1999-2000 36. Collana Ragno sacro, 1996 Ada Daverio 50 Nata a Roma nel 1899, Ada Daverio si formò nella sua città diplomandosi in pianoforte e composizione presso il Conservatorio di Santa Cecilia. Abbandonata la carriera musicale, iniziò a Firenze a dedicarsi allo studio della scultura e delle arti orafe, campo nel quale la sua naturale inclinazione alla sperimentazione la indusse ad effettuare, fin dagli anni Cinquanta, una serie di personali ricerche in campo tecnico e formale, sfociate nella creazione di piccole sculture e gioielli con fascinose raffigurazioni di animali fantastici di gusto surreale, dai ricercati effetti materici, conseguiti attraverso un’esperta padronanza dei processi di lavorazione. Tra le varie tecniche utilizzate dall’artista, particolare importanza rivestì la fusione a cera persa, usata soprattutto con l’oro, materiale ideale per la trascrizione delle tensioni energiche e dei segni che compongono il suo personale linguaggio. Ricorrendo allo stesso procedimento, la Daverio realizzò anche monili di gusto informale, arricchiti da coloratissime pietre preziose (diamanti, rubini, smeraldi e zaffiri), sapientemente distribuite sulle superfici metalliche. 38. Bracciale, fine anni Sessanta La partecipazione all’importante mostra “International Exhibition of Modern Jewellery” svoltasi a Londra nel 1961, la segnalò tra le personalità più originali del panorama orafo italiano ed europeo. A questa esposizione, seguirono varie personali in diversi centri italiani, affiancate da assidue presenze in collettive e rassegne nazionali e internazionali. Due sue opere fanno parte dal 1973 della prestigiosa collezione della Galleria d’Arte Moderna di Roma. R.G. 51 39. Collana con pendente, anni Settanta Corrado De Meo 52 Orafo e scultore sviluppa la propria ricerca nel campo dell’ornamento prezioso rielaborando suggestioni e motivi estremamente diversi tra loro. Il suo amore per l’arte, e la cultura in generale, lo hanno portato a confrontarsi con civiltà molto lontane, non solo dal punto di vista geografico, ma anche temporale, studiandone i simboli e indagandone i più profondi significati. Il culto per l’arcaico, la rimembranza del mondo antico, in specie quello romano, emerge con forza in certi pendenti in oro giallo, nei quali l’artista, sfruttando la forma di alcune perle barocche, ripropone piccole figure propiziatorie per la fecondità e la fertilità di ispirazione pompeiana. A questo gioco tra forma e forza evocativa dei soggetti, l’autore ha dedicato una parte importante della sua intensa produzione orafa, resa ancor più affascinante dall’accostamento di materiali ‘poveri’ e ‘nobili’, come il bronzo patinato e l’oro. La fusione a cera persa resta la soluzione tecnica a cui più spesso Corrado De Meo ama ricorrere, sfruttandone le potenzialità per creare intricate e aggressive strutture di grande suggestione, basate sulla combinazione di linee spezzate, che presentano superfici sensibilizzate da minuti segni. Con la stessa attenzione, l’artista si è cimentato nella creazione di gioielli di indubbia qualità e stile, armonizzando le vivaci suggestioni di luce delle pietre preziose con eleganti forme asimmetriche, basate sulla stretta relazione con il corpo femminile. R.G. 40. Bracciale Prometheus, 2006