due occhi... e un sorriso

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due occhi... e un sorriso
BENFAREMO DEVIS
DUE OCCHI...
E UN SORRISO
Racconti dallo Zambia
A Wadia,
con i suoi occhi e il suo sorriso
“Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da
spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore,
ma il Signore non era nel vento.
Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto.
Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco.
Dopo il fuoco ci fu una voce di sottile silenzio...”
(1Re 19, 11-12)
“Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore...”
(Lc 4, 18-19)
“Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l'animo in ansia:
di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno.
Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta...”
(Lc 12, 29-31)
“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi...”
(Marcel Proust)
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02/08/2008
UN SOGNO TUTTO AFRICANO
Prima o poi deve succedere. Si parte. E bisogna scegliere la strada. O bianco o nero. O vita
o morte. Non è dato di fare scelte paurose ed incomplete. “Va, vendi tutto quello che hai e
dallo ai poveri. Poi vieni e seguimi (Lc 18,22)”. Fino in fondo e senza riserve, senza cercare
le false sicurezze della vita di tutti i giorni. Senza contare su altro se non quello che si è,
liberandosi dalla zavorra del possesso con una scelta precisa e puntuale.
Partire per l’Africa è un esperienza che conquista. In tutti i sensi. Sembra una cosa facile
ma in realtà non lo è. Ad un certo punto bisogna dire: Va bene, metto da parte me stesso e
prendo il volo. Ed eccomi dunque in partenza per lo Zambia. E’ la realizzazione di un sogno
ad occhi aperti, il Sogno africano. Africa, una parola che in genere evoca molte immagini…il
bambino con la pancia gonfia e la mosca al naso…la donna che lavora con il figlio dietro alle
spalle…i colori, i suoni…ma l’Africa sarà poi soltanto questo o ci sarà qualcosa in più che
non conosco e proverò a comprendere? Quel che è certo è che cercherò di vivere l’Africa
in tutte le sfaccettature, belle o brutte che siano.
Partiamo in tredici dal casello autostradale di Pesaro, diretti all’aeroporto di Verona. Il
gruppo è molto eterogeneo, sia per età che per stile di vita. Il leader è Franco Diotalevi,
pesarese doc, animatore del gruppo missionario We for Zambia, che ha sede a Carpegna.
Con lui ci sono la moglie Daniela, che gestisce un negozio di biancheria intima, e i figli Luca
e Federico, di 11 e 8 anni. Una famiglia in missione. Unita. Testimonianza forte e sicura per
molte famiglie segnate da violenze, litigi, incomprensioni e divisioni.
Ci sono poi diversi giovani di Pesaro e dintorni. Silvia ha 21 anni e studia ingegneria
biomedica a Cesena, oltre a essere una bravissima clown e arbitro di basket. Annalisa di
anni ne ha 27, ma è già a capo di un azienda di tubature idrauliche. Nel tempo libero ama
lanciarsi con il paracadute dalle alte quote. Elisabetta ha solo 19 anni, si è appena
diplomata ed ha intenzione di fare sociologia ad Urbino. Jacopo ha 22 anni, studia
ingegneria civile ad Ancona e nel tempo libero è arbitro di basket. Valentino ha 22 anni e
lavora come tornitore in un’azienda pesarese. C’è anche Giacomo, trentenne
simpaticissimo sempre in vena di battute, impiegato in una ditta di mattoni. Completano il
gruppo Anna Maria di Corridonia, in Zambia per scrivere la tesi di laurea in scienze della
cooperazione, e Leonardo di Montefiore dell’Aso, studente di matematica a Bologna, ed
anche appassionato praticante di yoga. Sembra davvero una bella Armata Brancaleone,
pronta a fare disastri a destra e a manca.
E poi ci sono io. Si, forse sono davvero l’ultimo arrivato nel gruppo, forse non c’entro per
niente…ma che ci vado a fare in fondo in Zambia? Per vacanza, per lavoro, per svago…? È
difficile dare una risposta ad una domanda del genere ora come ora. Non so cosa l’Africa
potrà offrirmi, non so cosa potrò chiederle. Forse alla fine del viaggio sarò in grado di
capirci qualche cosa di più…
Di certo c’è che ho una certa voglia di cambiare aria. Anche se solo per pochi giorni.
Distaccarmi per un attimo dalla nostra cultura occidentale, così piena di mille
contraddizioni intrinseche. Il maitre a penser Ivan Ilich qualche anno fa definì l’occidente
Assurdistan, con un ironia molto fine ma che entra decisamente nel cuore del problema. Il
fatto (o meglio misfatto) è che oggi in occidente tutti noi dovremmo gridare all’assurdo.
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Non è un assurdo palese come quello africano, fatto di fame, guerre, malattie e morte.
L’assurdità della guerra e della miseria. È un assurdo molto più subdolo perché quasi
impercettibile, specie per quelli che non spengono mai la televisione, e restano per ore
incollati di fronte al tubo catodico ingurgitando tutto ciò che viene trasmesso. E’ chiaro
ormai, siamo tele-dipendenti. Ormai non serve più l’esercito per instaurare una dittatura.
Ce l’hanno portato direttamente dentro casa il braccio armato del regime. E ci violenta,
conquistando a poco a poco l’unico spazio di libertà che ci resta, la nostra mentalità.
Sempre Ilich parlava di colonizzazione dell’immaginario per definire il potere che ha su di
noi quel pensiero unico che ci ripete: nasci, consuma, crepa. E il braccio armato di questo
nuovo assolutismo sono proprio i mass media. Senza accorgercene lasciamo che la nostra
vita sia dominata dalla logica del consumo, del profitto, del sorpasso sugli altri. L’occidente
con la sua logica sono i nuovi colonizzatori, che vanno in giro in giacca e cravatta e come
arma hanno un’innocua carta di credito gold. È una logica dominante, sicura di se,
inzuppata di razionalismo e pragmatismo. E’ la logica del fare. Produrre a qualsiasi costo. Il
nuovo è bello, il vecchio è ormai stantio, bisogna mandarlo al macero e produrre rifiuti non
smaltibili. Tutto ciò che conta è lo sviluppo, parola abusata da ogni parte politica. Che cos’è
lo sviluppo? E’ forse la crescita economica illimitata evocata dai molti saggi incartapecoriti
che costellano il nostro mondo intellettuale? Ma come? Una crescita infinita in un mondo
finito? Non si può non gridare all’assurdo, è chiaro come la luce del sole che una frase del
genere stona di brutto. E’ questo il nostro peccato originale: aver perso ogni legame con la
terra, con le persone, con la vita reale, a vantaggio di un’economia inesistente e falsa
fondata sul credito e sull’abuso. Di qualsiasi genere. Di tutto questo siamo fieri e i nuovi
(falsi) profeti pontificano: “Ma indietro non si torna!” E’ proprio questo il punto. Siamo un
treno in corsa senza più inibizioni verso una muraglia cinese impietosa. E chi ha il biglietto
di prima classe, purtroppo, o per fortuna, si schianterà per primo.
“Sono l’occidente perché mi permetto di inseguire sciocchezze e di chiamare sciocchezze le
cose che non comprendo”, scrive Walter Siti nel suo romanzo Troppi paradisi. Viviamo di
sciocchezze e non ce ne accorgiamo. Forse su questo punto l’Africa e i suoi abitanti
silenziosi, con la loro sapienza millenaria, avranno qualcosa da dirci, chissà. Magari, ed è
ciò che mi auguro, la loro concezione della vita sarà sostanzialmente diversa dalla nostra…
Una classica obiezione a chi decide di partire: “Ma l’Africa è pure qui da noi…non li vedi
tutti i problemi che ci circondano? A che serve spostarsi così tanto e non vedere quello che
succede sotto casa?”. Vero. Se riguarda l’Africa della fame, delle violenze e delle malattie,
ma non l’Africa della vita. Quella concezione dell’Africa puzza di bruciato e sa di ipocrisia. E’
un luogo (topos) sui generis dove uomini incravattati con tanto di rolex al polso fanno la fila
per “andare ad aiutare quei poveracci!” E’ l’Africa, o meglio il mondo, del volontariato.
Che brutta parola. Non mi è mai piaciuta. Come se ognuno per legge dovesse prima
pensare a se stesso e poi, se gli avanza del tempo (concetto molto occidentale di tempo)
fare qualcosa di utile per gli altri. Preferisco in genere parlare di solidarietà. In questa
magnifica parola c’è la radice latina solidus, che richiama l’idea di stabilità e di costanza.
Non quando voglio perché me lo sento, ma in ogni istante la mia vita deve essere servizio,
anche inutile, per l’Altro. E allora si che il mio cuore si purificherà dall’orgoglio, dal
perbenismo borghese e dall’egoismo, derive quotidiane del volontariato. E noi partenti per
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l’Africa, terra di missione, vogliamo essere non portatori sani della verità assoluta, ma
testimoni umili di Gesù Cristo, che è Via, Verità e Vita…
Il gruppo partito da Pesaro
Da sinistra in alto: io, Anna Maria, Annalisa, Leonardo, Elisabetta, Silvia, Iacopo, Nicoletta,
Valentino; in basso: Franco, Federico, Luca, Giacomo, Maria Pia, Daniela
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03/08/2008
ALLORA…L’AFRICA?
Sono le nove di mattina circa quando il Boeing 747 proveniente da Francoforte atterra a
Johannesburg, Sudafrica. Quella che ci accoglie è la faccia imbellettata dell’Africa, che sa di
America e consumismo, ma che sembra nascondere qualche segreto scomodo. In
aeroporto si iniziano a vedere volti nerissimi, e sorrisi di un bianco candido. I dipendenti
dell’aeroporto indossano la divisa canonica, giacca e cravatta. Tutto è pulito e igienico, e la
musica di sottofondo accompagna lo sguardo di chi indugia di fronte a lussuose vetrine e
bancarelle piene di gingilli. Ci dirigiamo in fretta verso l’area transiti: la nostra coincidenza
non ci lascia tempo per le pause. Giungiamo di fronte al gate per partire alla volta di Ndola,
ma al di là del sorriso adulatore dello steward la realtà si mostra nella sua crudezza. E’
l’altra parte del Sudafrica. The other side of the moon. “The flight has left”, ci sentiamo
dire, “you can try to ask for some help at the desk”. Abbiamo perso la coincidenza! Ma se
siamo ancora in perfetto orario! A nulla valgono le suppliche, mentre aspettiamo litigando
con tutto e tutti il volo parte e viene cancellato dal tabellone. La rabbia e la frustrazione
iniziano a ribollire nei cuori di tutti noi. Le discussioni continuano al desk della Lufthansa e
di altre compagnie aeree. A volte lo sconforto prende il sopravvento, e si innescano dei
veri e propri litigi con delle persone che stanno semplicemente svolgendo il proprio lavoro.
E intanto si preannuncia una giornata trascorsa interamente in aeroporto...
La nostra reazione di insofferenza è comprensibile. Da bravi occidentali, precisi, puntuali,
pretendiamo il rispetto di orari, prenotazioni, liste di attesa…ma in Africa siamo un isola in
mezzo all’oceano. La fretta e il calcolo tipici dell’organizzazione occidentale non sembrano
essere compresi a pieno dagli africani.“L’eccessivo valore che diamo ai minuti, la fretta, che
sta alla base del nostro vivere, è senza dubbio il peggior nemico del piacere”, scriveva
Herman Hesse, imbevuto di filosofia orientale. A un occidentale non puoi chiedere di
aspettare, ti prende per pazzo. Ma senza questo imprevisto, forse, pensandoci bene, le
cose sarebbero andate diversamente. Non avremmo avuto il tempo per conoscerci bene,
per passare qualche ora insieme, con gli stessi problemi ma cercando di risolverli in gruppo
in tutta serenità. Non avremmo fatto pranzo in un bar dell’aeroporto ridendo a crepapelle
per ogni schifezza che abbiamo ordinato. E forse abbiamo anche capito l’importanza di
relativizzare le difficoltà della vita. Hakuna matata, non ci sono problemi. E’ quello che gli
africani vivono sulla propria pelle ogni giorno. Hakuna matata, non ci sono problemi, va
tutto bene. A ripeterlo incessantemente non è il dirigente incravattato, che anzi di
problemi se ne crea sempre di più, quasi con gusto masochistico. E poi magari chiama lo
psichiatra che da bravo medico prescrive droghe assunte sotto il nome di psicofarmaci.
Non è lui che dice Hakuna matata. È l’uomo che non sa se domani riuscirà ad avere il pane
necessario per far vivere tutta la famiglia. Nonostante questo non ha problemi, né
tantomeno se li va a cercare. Secondo la filosofia africana, l’unico problema è trovare il
cibo per sopravvivere in questo giorno. Il resto non conta, e non mette ansia. Se ci
pensiamo bene anche la storia ebraica insegna che l’importante è avere il “pane
quotidiano (Mt 6,11)”. Quando il popolo ebraico era nel deserto, Dio mandò la manna dal
cielo, ma essa aveva una particolare caratteristica. Dopo un giorno si faceva immangiabile
e quindi nessuno, neanche i più furbi, potevano raccoglierne in quantità superiore a quella
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necessaria per la sopravvivenza quotidiana (cfr. Es 16,1-36). Tutto questo per far capire che
bisogna fidarsi sempre del Signore, e non accumulare per se i beni comuni, ma condividerli
con gli altri fratelli. “Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo?(Mt 6,31)”. E’
questo il consiglio che da Gesù ai suoi discepoli, aggiungendo che solo i pagani si occupano
di queste cose. Chissà, forse oggigiorno siamo tutti un po’ pagani.
Durante l’attesa Franco racconta un aneddoto esemplare sulla logica degli africani. Sembra
che gli autobus in Zambia abbiano un orario molto lasso e variabile, in base alla
disponibilità dell’autista, che a volte parte soltanto quando il bus è pieno, altre effettua
lunghe soste per andare a trovare le concubine sparse lungo il tragitto. E la gente che
attende il bus denuncia la compagnia? Ma che. Prende coperte e fornelli, e improvvisa un
campeggio nella fermata in attesa dell’eventuale passaggio dell’autobus, che a volte
ritarda anche di due giorni. Una storia di idiozia per chi ragiona secondo la logica della
produttività e dell’efficienza, forse meno difficile da accettare per chi considera la vita
soltanto un dono da vivere…
Leonardo e i bambini sembrano proprio aver capito l’insegnamento africano. Giocano a
carte tranquilli sul pavimento, immuni ai sentimenti di rabbia e insofferenza che ci hanno
accecato. Dopo varie vicissitudini, usando uno striminzito vocabolario riusciamo a ottenere
dalla Lufthansa alcuni biglietti per il volo di domani. Altri saranno in lista d’attesa. Queste
garanzie riescono a risollevare il morale collettivo, e con più calma ci apprestiamo a fare il
visto e mettere piede in Sudafrica…
Il Sudafrica è per antonomasia il paese dei contrasti. Bianchi e neri, ricchi e poveri. Un
paese di grattacieli e di deserti. Il paese dell’apartheid. Come per confermare la regola dei
contrasti la Lufthansa ci fa dormire in un hotel a cinque stelle, che nulla ha da invidiare ai
maggiori lodge del mondo occidentale. Porte scorrevoli, luci soffuse, jazz di sottofondo e
camerieri in doppio petto…difficile da credere che questa sia l’Africa. Ma lo è. E’ l’Africa
violentata, colonizzata e martoriata da un consumismo appariscente e volgare oltre che
cieco. E’ una ricchezza che non fa altro che alimentare la povertà e soprattutto l’invidia del
povero. Quanta ipocrisia in questo mondo di cristallo! Racconta un saggio africano: Anche
nel gesto del donare c’è una mano che sta sopra e una che sta sotto. Quanta ipocrisia nella
mano che elargisce, ricca, potente, che sa di essere sempre un palmo sopra alla mano nera
che mendica, indifesa. È la pornografia del dono. Scandalosa e appariscente.
Una mano bianca che stringe una nera. Ecco forse un immagine efficace di altruismo e
generosità…
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A cena, hotel di Johannesburg
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04/08/2008
WE FOR ZAMBIA
Dopo un sonno ristoratore torniamo all’aeroporto con le valigie pronte e una grande voglia
di arrivare finalmente in Zambia. Soltanto nove di noi possono salire sul volo della mattina.
Quattro persone, che erano in lista d’attesa, dovranno aspettare il volo del primo
pomeriggio. Decidiamo di mandare prima le ragazze e Franco con la famiglia, per cui
restiamo a terra io, Giacomo, Valentino e Leonardo. Il tempo sembra non scorrere mai
quando non si ha null’altro da fare che due chiacchiere e qualche giro nel duty free.
Compriamo una palla da rugby in un chioschetto. Da qui a fare due tiri nel bel mezzo
dell’aeroporto il passo è breve! Da bravi italiani tralasciamo le regole e trascorriamo il
tempo improvvisando dei passaggi, con tanto di telecronaca, riuscendo anche a
coinvolgere i dipendenti dell’aeroporto e alcuni passanti…
Lo Zambia è una nazione nata molto recentemente, in epoca post-coloniale, a partire
dall’allora Rhodesia del nord. E’ un paese grande tre volte l’Italia ma i suoi abitanti sono
circa dodici milioni, divisi tra circa 73 tribù che hanno lingue e tradizioni anche molto
diversi tra loro. Proprio il fatto di avere così tante tribù al suo interno ha preservato lo
Zambia, secondo Maria Pia, da guerre civile e lotte intestine, a differenza di molti altri
paesi dell’Africa.
Il territorio zambiano è per la maggior parte un grande altopiano, di altezza variabile tra
800 e 1800 metri. Il clima è di tipo tropicale, e si alternano due stagioni: quella secca, da
maggio a settembre, e quella delle piogge, da ottobre ad aprile. Lo Zambia è un paese ricco
d’acqua, e include due grandi bacini fluviali: quello dello Zambesi, a sud, e quello del fiume
Congo, a nord. Le cascate Vittoria, sullo Zambesi, nelle vicinanze di Livingstone, sono fra le
più imponenti del mondo e nella stagione delle piogge raggiungono la larghezza di un
chilometro e mezzo. La capitale dello Zambia è Lusaka, che ha circa due milioni di abitanti.
La moneta zambiana è il kwacha, mentre la lingua ufficiale è l’inglese, anche se nelle zone
non urbanizzate la maggior parte della popolazione parla comunemente il dialetto locale.
Nel primo pomeriggio atterriamo a Ndola, seconda città dello Zambia per numero di
abitanti dopo la capitale Lusaka. Il cielo è plumbeo, e appena metto piede sulla scaletta
dell’aircraft percepisco uno strano odore, secco, quasi indefinibile, che sa bruciaticcio.
L’odore che mi accompagnerà sempre. L’odore dell’Africa.
Ndola è la capitale del Copperbelt, la regione zambiana in cui si concentra una grande
quantità di miniere di rame. L’estrazione del rame è l’occupazione principale della
popolazione, e ciò ha fatto del Copperbelt una zona parecchio urbanizzata, quasi al pari
della capitale. La regione ha perso parecchio del suo carattere tradizionale tribale a causa
dello spostamento in massa di manodopera verso le miniere. Furono gli inglesi a
perpetuare questa diaspora zambiana, con uno stratagemma a dir poco perverso. Dissero
infatti agli zambiani che abitavano la zona a nord, vicino al confine con il Tanzania, per la
maggior parte abitata dalla tribù dei Babemba, che se volevano diventare benestanti
dovevano comprare quello che veniva loro offerto. L’unico prezzo da pagare, poiché
ovviamente non sapevano cosa fossero i soldi, era di trasferirsi nella zona delle miniere in
modo da lavorare e guadagnare denaro, che di conseguenza avrebbe arricchito di nuovo gli
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inglesi stessi quando avrebbero venduto loro i propri prodotti. Oggigiorno questa
situazione ha fatto si che la lingua parlata comunemente da circa tre milioni di persone nel
Copperbelt sia il cibemba. Nata come lingua della tribù dei Babemba, è finita per diventare
la lingua più parlata di tutto lo Zambia.
L’aeroporto di Ndola è fatiscente e polveroso, le valigie sono consegnate a mano dagli
inservienti. Spendiamo 50$ per il visto di ingresso. Gli addetti al controllo passaporti sono
freddi e non sembrano esprimere alcun sentimento. Ad attenderci all’uscita c’è la mitica
Maria Pia Ruggeri. Originaria di Carpegna, in provincia di Pesaro, nel 1985 sente il bisogno
di partire per l’Africa a causa di una crisi esistenziale. Dopo la prima esperienza ne compirà
molte altre, a cadenza annuale, fino al 1994 quando decide di stabilirsi definitivamente in
Zambia. In un primo tempo non ha un posto fisso ma si appoggia alle missioni dei frati
conventuali nella zona del Copperbelt, poi si stabilisce nella città di Luanshya, dalle suore.
Nel 2000 apre la casa di accoglienza We for Zambia, situata nel centro di Luanshya e inizia
a portare avanti il progetto del Malaika Village. Oggi Malaika è una realtà viva e in
continua crescita. Maria Pia non è una donna ma due uomini, mi sono sentito dire prima
della partenza. Ed è vero. Lavora infaticabilmente sei giorni alla settimana per gestire i
diversi progetti che l’associazione We for Zambia ha messo in opera nella provincia di
Ndola.
Il tachimetro del pick up di Pia segna i cento chilometri all’ora. Lungo le strade asfaltate ma
decisamente poco trafficate non è raro vedere mercatini improvvisati e piccoli falò dove si
cuoce del mais o delle patate dolci in vendita. C’è anche chi offre pitture, abbigliamento
vario e addirittura delle porte di legno. I colori del tramonto iniziano a deliziare presto i
nostri occhi. I raggi di un sole rossastro bucano la folta coltre di nubi che, a detta di Maria
Pia, insolitamente copre il cielo zambiano di agosto. Girando lo sguardo a destra e a
sinistra si nota solo una distesa sterminata di foresta, con colori che variano dal rosso della
terra al verde – rossastro delle sparute chiome. In Zambia infatti siamo in pieno inverno, e
bisogna aspettare ottobre per godere a pieno della rigogliosa vegetazione.
In mezz’ora arriviamo a Luanshya, un tempo vera città giardino, oggi un popoloso
agglomerato urbano di case, capanne, rifugi di fortuna. Passiamo facilmente il posto di
blocco che bisogna attraversare prima di entrare in ogni città zambiana. Maria Pia è molto
conosciuta in città, e la nostra fermata si riduce a un fugace saluto. Dopo poche centinaia
di metri il pick up svolta a sinistra, in Cheswa Avenue, dove attraversando un cancello
verdastro entriamo nella casa di ospitalità. E’ molto bella e pulita. La cucina e alcune stanze
si aprono sul cortile interno, dove tra l’erba appena innaffiata salterella qualche ranocchia
rossastra. Ad ogni porta e finestra ci sono robuste zanzariere, segno di una presenza
inquietante che fa paura anche nel secolo d’oro della medicina: la malaria. Malattia
tutt’altro che sconfitta, che continua a mietere vittime nell’Africa equatoriale e anche se
non uccide lascia segni indelebili su chi sopravvive.
Gli altri stanno tutti bene, si sono già ambientati e sono indaffarati in cucina. Una breve
pausa per la sistemazione e poi subito è pronta una cena all’italiana con spaghetti ed
affettato. C’è anche un dolce fatto ad hoc per festeggiare il compleanno di Jacopo. Dopo la
festa non manca un momento serio. Federico domanda con la sua lingua, come la chiama
Daniela, taglia e cuci: “Ma Pia, perché hai deciso di vivere qui in Africa?” Pia fa una risatina
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rauca. “Eh, bella domanda. Sai che facciamo? Te lo dico domani che è meglio…”. Come dice
un proverbio africano: La notte è lunga ma poi viene il giorno…
Compleanno...zambiano
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05/08/2008
LA CARICA DEI BASUNGU
“Musungu, musungu!” Le voci dei bambini rompono il silenzio al Malaika Village, situato
nella periferia di Luanshya. Uomo bianco. Ogni volta che arrivano dei basungu (bianchi) è
un evento straordinario, e i bambini si accalcano intorno ad essi. Alcuni scappano, altri
tendono le manine per prendere le nostre, altri ancora vogliono essere abbracciati.
Ovunque ci muoviamo veniamo inseguiti da una folla festante di nasi gocciolanti e occhi
tenerissimi. Anche se sono abituati ormai a vedere bianchi in giro per Malaika ( i volontari
si alternano praticamente durante tutto il corso dell’anno) questa volta sembra ci sia
qualcosa di particolare. Mi fermo un attimo a riflettere e poi comprendo il perché.
“Musungu, musungu!”. Il grido non è per tutti i bianchi, ma per uno in particolare,
Federico. Non hanno mai visto un bambino bianco, né a Malaika né nei compound che
attraversiamo a piedi in periferia. I bambini gridano e corrono dietro a Federico, che non ci
sta e sembra prendersela un poco. Cammina con lo sguardo basso a terra, e cerca il papà
per nascondersi. Gli ci vuole un po’ prima che decida di mettersi a giocare con i bafita
(neri) rincorrendo un pallone fatto di stracci, vestiti usati e spaghi. Vederlo giocare
sorridente tra le risate e gli urli incomprensibili dei bambini, chissà perché, mi riempie di
gioia…
Federico e Luca giocano a pallone con un amichetto
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Nel mese di agosto le scuole in Zambia sono chiuse, ma Maria Pia ci fa visitare lo stesso la
Malaika School. Facciamo un giro delle aule vuote, in cui sono ancora conservati disegni e
lavori che i bambini hanno svolto nel corso dell’ultimo anno. A farci da guida è Sidney, un
ragazzo piccolino a vedersi ma che ha circa trenta anni. Risponde a tutte le nostre
domande e curiosità. Per esempio ci spiega che all’interno della stessa classe ci sono dei
posti per gli studenti più bravi, altri per quelli meno bravi e così via fino agli ultimi. Tutto
ciò non per creare divisioni tra i bambini ma per spronarli a studiare e imparare.
Incontriamo Petronella, la head teacher della scuola, donna dal carattere molto forte, che
ringrazia tutti gli italiani per aver ideato e costruito il progetto della Malaika School. Per
sbaglio entriamo in un aula dove è in corso un esame. “Oggi c’è matematica” ci dice
Richard, il maestro, “ma l’esame dura tre giorni”.
Sidney mostra a Iacopo e Valentino i lavori dei bambini
Dopo aver visitato la scuola Maria Pia ci accompagna verso il Centro nutrizionale e la clinica
passando per la main road. Le donne al lavoro negli orti alzano la mano e ci salutano,
sorridenti. La Malaika Clinic fornisce i servizi medici di base, non avendo personale medico
in senso stretto. Ci sono diversi infermieri, e una figura di infermiere professionale che
sostituisce il medico. A lato della clinica attualmente in funzione è stata costruita negli anni
scorsi una nuova ala, che dovrebbe essere adibita a piccolo ospedale non appena sarà
possibile avere un medico stabile a Malaika. È prevista la possibilità di una breve degenza
dei pazienti, e l’attrezzatura di due sale operatorie.
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Il Centro nutrizionale si trova di fronte ad uno spazio adibito a piazza o campetto di calcio a
seconda dei momenti. Nel Centro ogni giorno si distribuisce almeno un pasto ai bambini
con maggiori problemi di malnutrizione, all’occasione hanno anche la colazione mattutina.
Attualmente vengono serviti circa centotrenta bambini di ogni fascia d’età, da alcuni mesi
a circa tredici anni.
Mentre arriviamo le maestre stanno facendo giocare i bambini della scuola materna. Il
nostro arrivo, però, deve aver interrotto il loro gioco perché tutto ad un tratto ci
ritroviamo circondati da una folla di bambinetti urlanti. Intenerito, ne prendo alcuni in
braccio e li faccio volare in alto, ma sono costretto a pentirmi. Non riesco a metterne a
terra uno che subito sono sommerso da un coro di “Musungu, na ine!” Anche io! E come
dire di no a degli occhi così belli e gioiosi? Per fortuna arriva in mio aiuto Elisabetta che a
fatica organizza un cerchio e fa cantare a tutti Giro giro tondo! Sorprendentemente tutti i
bambini conoscono la canzone a memoria, e la ripetono quasi senza errori. Confuso, mi
sento spiegare da Nicoletta, ragazza trentenne che passa ogni estate da Maria Pia, che i
bemba hanno una memoria sorprendente per imparare filastrocche o frasi a pappagallo
(lei dice a registratore!), ma non hanno in realtà altrettanta capacità logico-razionale.
Sanno cantare o ripetere qualsiasi cosa dopo due minuti, ma non riescono a capire quello
che dicono. E se tu gli chiedi qual è il dito numero quattro, per esempio, essi iniziano a
contare sempre dal primo come la maestra ha insegnato loro a scuola. In un momento in
cui sono senza bambini intorno incontro Mary, una maestra. Mi saluta molto cordialmente,
vuole sapere cosa faccio nella vita e quando glielo dico confessa che anche lei il prossimo
anno vorrebbe iscriversi alla scuola per infermiere, to become a nurse. Buona fortuna,
carissima Mary...
Malaika Clinic
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Elisabetta e Mary, la maestra
Nel pomeriggio lasciamo Malaika perché abbiamo appuntamento nel compound di
Buntungwa per aiutare Maria Pia nella distribuzione alimentare mensile. Buntungwa dista
da Malaika circa un’ora di strada a piedi. Passiamo attraverso diversi compound di periferia
pieni di bambini curiosi accompagnati da alcune donne del villaggio. Sentiamo ripetere Pia,
Pia dalle loro vocine sorprese, e Nicoletta ci spiega che per loro i basungu sono tutti uguali
a Maria Pia. Il compound non ha bisogno di commenti. Strade polverose di terra rossa,
capanne (alcune col tetto in lamiera), venditori di farina e carbone lungo le strade, e
bambini scalzi che corrono, tirano calci a qualcosa che assomiglia ad un pallone o fanno
volare un aquilone rimediato con una busta di plastica.
Ci ritroviamo sotto un grosso albero di mango, che ha un largo spiazzo attorno. Dopo un
po’ arriva Pia con un camioncino pieno di cibo e utilità per la casa, acquistati con i soldi
delle adozioni a distanza di famiglie locali da parte di altre famiglie, in particolare del
pesarese. Maria Pia si sistema con un banchetto e una sedia, e le donne iniziano a mettersi
in fila, mostrando di volta in volta la loro tessera di solidarietà.
Nel frattempo c’è bisogno di far giocare i numerosi bambini accorsi all’evento. E allora via
si improvvisa un One, two, three star! di fronte ad un muro di cinta e si prova a insegnare
loro qualche canzoncina. Ho visto bambini ridere come matti mentre tutti insieme si
giocava al cerchio che si allarga e che si chiude. Apriti cielo. E pensare che i nostri bambini
iniziano a fare i capricci se non hanno la stanza piena di mille cianfrusaglie che si ostinano a
chiamare giocattoli, con cui magari giocano una settimana e poi si stancano subito. Mi
metto a sedere per riposare un po’ e saluto alcune donne. Il saluto è un rito
importantissimo nelle diverse tribù zambiane. Due zambiani possono passare anche diversi
minuti solo a salutarsi senza dire nulla di diverso prima di iniziare una conversazione.
Mulishani, mukwai? Come stai, signore? è il saluto più importante a cui si risponde Bwino!,
bene. Non si sentirà mai uno zambiano dire Così, così...Mah si campa..., e cose del genere.
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Una volta che si è mangiato non c’è più alcun problema da risolvere nella giornata e
dunque va tutto bene. Bwino.
Maria Pia controlla la distribuzione, le donne fanno la fila...
Faccio un giro verso il camion della distribuzione e vedo Annalisa che tiene in mano la
tessera di un’anziana signora. Domando il motivo. “Perché non ha mandato a scuola i figli,
e dunque deve ricevere meno cose questo mese” mi sento rispondere. Tutto ad un tratto
vedo che i bambini urlanti si vanno a disporre in un'unica fila tutti accostati al muro di cinta
di un cortile.
Sweetie, sweetie!
Inizia la distribuzione delle caramelle, due per ogni bambino. Non dicono nulla, ma
ringraziano con gli occhi. Poi la maestra intona un canto, seguita a ruota dai bambini. Tu
vuoi bene a tutti, o Signore, noi ti ringraziamo! Alleluia!
La distribuzione delle...caramelle!
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06/08/2008
BLACK AND WHITE
Il furgoncino si ferma sul piazzale di fronte alla clinica del Malaika Village. Scendiamo in
quindici, anche se il pulmino potrebbe contenerne al massimo nove. Oggi è una giornata di
lavoro al villaggio. Ci dividiamo i compiti. Le ragazze si dirigono verso la scuola primaria
dove faranno giocare i bambini e inizieranno a riempire di disegni e pitture le pareti del
cortile interno.
Anna Maria si dedica invece all’agricoltura piantando basilico e rosmarino portati dall’Italia
nell’orto del Centro nutrizionale. I ragazzi con Franco hanno già un lavoretto da fare. Nella
notte precedente al nostro arrivo è crollata una parte del controsoffitto della nuova ala
della clinica. Il motivo resta ignoto, ma con un po’ di fatica in un paio d’ore si riesce a
rimetterlo in piedi. Alla fine, soddisfatti del nostro lavoro, ci concediamo un applauso.
Si lavora al controsoffitto
Carol è la direttrice del Centro nutrizionale. Cammina con una stampella. Nei primi anni
novanta è venuta in Italia per curarsi e farsi operare insieme al marito Fanwell, ora capo
cantiere e direttore dei lavori del Malaika Village. Entrambi parlano abbastanza bene
l’italiano, grazie alla loro permanenza di due anni nel nostro paese. Carol e Fanwell hanno
una figlioletta, Michela, molto graziosa, con due treccine a forma di cornetto. Con loro vive
anche la sorella di Carol, Gloria di undici anni, e un ragazzo orfano che hanno adottato,
Simon, di sedici anni.
Verso mezzogiorno il Centro nutrizionale si riempie di bambini. Si inginocchiano per terra,
di fronte ad una panca di legno, e poi una mayo (in genere una stretta collaboratrice di Pia
di nome Anna) fa recitare loro la preghiera in cui ringraziano il Signore per il cibo che ha
loro donato. Il loro pasto, costituito da nshima (polenta di mais bianco) e verdure cotte,
viene portato ad ognuno dentro a delle vaschette di plastica. La porzione è molto
abbondante ma le proprietà nutrizionali del bwali (altro nome della polenta) sono davvero
scarse. La carne, le uova e il kapenta (pesce affumicato) sono disponibili in genere una
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volta alla settimana. Tutti i bambini mangiano la loro porzione, composti, con le piccole
manine. Il più tenero è Wadia, di due anni appena, che tranquillo mangia tutto il suo bwali
sulle gambe di Leonardo. Tutti in genere terminano ciò che viene messo nel loro piatto e
non è raro vedere bambini che leccano il fondo della vaschetta. Nemmeno un capriccio...
Congo! grida Anna più volte, cioè “rumore”, e al contrario di noi lo dice per ottenere il
silenzio dei bambini. Ottenutolo facilmente, intona un canto di ringraziamento per i
basungu insieme ai bambini:
Mwaiseni mwe beni besu
Tatwaishibe tukamonana lesa ewa
Maka yonse twamona nomutende
Chawama na lelo chawama
Chawama na lelo chawama
Chawama na lelo chawama
Twamona nomutende
Benvenuti nostri ospiti
Noi sapevamo che ci saremmo incontrati
Dio ha tutta la forza (decide lui)
Ci siamo incontrati per il bene (nella pace)
Oggi c’è gioia c’è gioia
Oggi c’è gioia c’è gioia
Oggi c’è gioia c’è gioia
Ci siamo incontrati per il bene (nella pace)
Il piccolo Wadia...
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Nel pomeriggio non ci si riposa, anzi. Fanwell ci aspetta su un camioncino per caricare
parecchi mattoni da portare al di là della strada asfaltata dove è in costruzione la nuova
scuola secondaria. È un’opera molto grande e la manodopera, uomini ma più spesso
ragazzi minorenni, è per la maggior parte volontaria. In cambio ricevono un compenso che
può essere farina o più raramente denaro.
Ogni mattone è molto pesante e molto fragile allo stesso tempo, e il sistema migliore per
caricarli e poi scaricarli sembra essere la staffetta...
I bambini nel Centro Nutrizionale
Tornando al Malaika ci imbattiamo in un gruppo di bambini che giocano con la palla
insieme ad alcuni nostri compagni. Ci inseriamo nel cerchio e cominciamo a dare due calci
qua e là, tra le risate delle bambine che ci guardano da bordo campo. Al centro della
mischia c’è sempre lui, Cisanga, un ragazzino terribile, nel senso buono della parola,
ovviamente. Dove c’è un musungu lui è presente, ora per giocare a pallone, ora per saltare
la corda, ora per prendere gli altri bambini a spintonate per essere il primo a salire sulle
spalle del più alto. Una vera forza della natura, che sa a memoria Giro giro tondo! ma
anche Il coccodrillo come fa...Ora eccolo, nella mischia, a calciare il pallone a piedi nudi,
cadere a terra nella polvere e rialzarsi come se nulla fosse.
Mi getto uno sguardo addosso. Sono sporco e impolverato, ma non mi sono mai sentito
meglio in vita mia. Vedere i piedi dei bambini bianchissimi e impolverati mi fa pensare.
Quanto sono forti e robusti questi neri! Ma non perché ci nascono. Sono le condizioni della
vita a renderli quello che sono: forti e resistenti. E penso ai nostri figli, che crescono dentro
ad una bolla igienica, attrezzata con aria condizionata e riscaldamento centralizzato, e
appena escono fuori casa si beccano una qualche malattia...Dov’è la nostra forza?
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Circondarci di tutte le comodità possibili non fa altro che indebolirci, profetizzava già
trent’anni fa Konrad Lorenz, padre dell’etologia. Lui che studiava gli animali aveva capito
benissimo come si diventa forti e resistenti alle condizioni avverse. Non facendo
affidamento ai diversi tipi di protesi e marchingegni ma vivendo le difficoltà sulla propria
pelle, giorno dopo giorno. E penso ai nostri nonni dalla pelle coriacea, forti che a guardarli
sembrava che nulla potesse scalfirli...e poi ci vengono a dire che noi siamo in salute!
Si caricano i mattoni sul camion di Fanwell
A cena ci aspetta una sorpresa. È ospite Padre Anselmo Bonfigli, originario di Recanati ma
vissuto per parecchio tempo a Montottone prima di partire per la missione zambiana nella
seconda metà degli anni ottanta. Francescano conventuale, vive al Franciscan Centre di
Ndola, ma ci comunica che purtroppo (lo dice lui stesso) dal primo settembre verrà
spostato all’istituto Seraphicum di formazione a Roma. Ci parla un po’ della sua vita, della
sua scelta africana, dei problemi e della cultura locali. Padre Anselmo è un grande
osservatore e ci fa un’interessante analisi della cultura africana in genere.
Le differenze tra noi e loro, dice, stanno nel diverso modo di affrontare le naturali paure
quotidiane. È la paura, in ogni sua sfaccettatura, che decide l’atteggiamento di un popolo
di fronte alla vita. Il metodo occidentale è quello preventivo, pianificatorio, orientato verso
il futuro sulla scia del passato. La cultura nera, invece, è molto brava nel rimedio e nel
recupero post-eventum. I neri sono gente ingegnosa, che si adatta molto facilmente alle
diverse situazioni che la vita gli pone davanti. Essi vivono l’oggi, il presente, l’hic et nunc. Il
futuro, e un passato che si possa chiamare storia, non esistono e ai neri non interessano in
alcun modo. È per questo che è molto difficile far funzionare le invenzioni europee
(economiche, politiche, tecniche) in terra africana. E’ un male o un bene? Nessuno può
dirlo. La nostra ermeneutica è carica di contenuti e formae mentis occidentali e mettersi a
giudicare le culture altrui sarebbe davvero un gesto di pretesa superiorità.
Federico come al solito fa la sua domanda pungente: “Padre Anselmo, cos’è che ti piace di
più dell’Africa?” La risposta non tarda ad arrivare: “Gli africani...”
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07/08/2008
JANET, LA DISABILE DI MALAIKA
Italia – Zambia 5-3. Non è una partita di calcio ufficiale. Non è nemmeno un amichevole in
vista dei mondiali. È il risultato di una partita di calcio che forse non merita neanche questo
nome. Ma che nome dare ad una scena in cui i basungu e i bafita si affrontano cercando di
calciare il pallone verso una porta delimitata da due mattoni rossastri? Una confusione
generale, magari. Specie perché in proporzione i neri sono tre a uno rispetto a noi italiani.
Ma che gioia immensa, per uno come me che non gioca a pallone da secoli, correre a
perdifiato e vedersi sottrarre la palla da un bambinetto che avrà si e no sei anni. C’è da
rimanerci con un infarto, a 1200 metri di altitudine sul livello del mare.
Partita di calcio
Per fortuna ci sono dei basungu che sanno giocare, e il risultato finale premia la nazionale
italiana, altrimenti chissà che figura. La partita viene interrotta dai richiami delle mayo che
invitano i bambini a sedersi nel centro nutrizionale per la distribuzione della colazione. Non
sempre è disponibile il pasto mattutino, ma oggi ci sono molti bambini presenti. C’è anche
il piccolo Wadia, che senza dire una parola manga la sua porzione di porridge sulle mie
gambe. Ma la mattina è lunga e mi chiamano a lavoro. Oggi siamo impegnati nella fabbrica
di mattoni, situata di fronte alla clinica. C’è da impastare i mattoni e poi lasciarli ad
asciugare per alcuni giorni. Ci sono tutti i ragazzi e qualche giovane mufita, e il lavoro
scorre veloce. Alcuni portano la sabbia del fiume con delle carriole e ne fanno diversi
mucchi sul massetto della fabbrica. Poi si forma l’impasto con un po’ di cemento e di
acqua. In genere quattro carriole di sabbia si mescolano con un sacco di cemento e due
taniche di acqua. Il tutto si rigira molte volte con le pale, fino a che assume una consistenza
omogenea. L’impasto viene poi messo in una macchina che gli da la forma del mattone. I
blocks che ne vengono fuori non hanno proprio l’aria di essere resistenti ed infatti si
rompono facilmente, ma in Africa si recupera tutto. L’impasto dei mattoni rotti viene usato
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di nuovo per crearne di nuovi. Mentre si lavora si chiacchiera con qualche parola di inglese,
e alcuni si fanno una sigaretta con tabacco e carta di newspaper...
Lavoro nella fabbrica di mattoni
Oggi è un giorno davvero speciale. Oltre alla colazione, per pranzo i bambini avranno bwali
e carne macinata. Capita raramente e Carol spera sempre che nei giorni di carne ci siano
molti bambini. E’ importante che le proteine e il ferro non manchino nella loro dieta. Maria
Pia ci aveva accennato che da quando si è aperto il centro, i segni della malnutrizione sono
diminuiti costantemente nei bambini. Guardandoli bene negli occhi quando li tengo in
braccio mi sono accorto che parecchi bambini hanno gli occhi con la sclera di color
giallastro, un colorito molto simile all’ittero. “L’anemia è molto diffusa in queste zone”, mi
spiega Maria Pia. Ciò nonostante, gli occhi dei bambini africani sono una delle cose più
belle che io abbia mai visto...
Janet è una signora con un grave handicap fisico. Come succede spesso nelle popolazioni
tribali, viene evitata da tutti e resta isolata nella sua casa nell’ignoranza generale, eccezion
fatta per alcune donne più sensibili che di tanto in tanto vanno a trovarla. Nicoletta, molto
esperta dei problemi del Malaika, ci consiglia di passare un po’ di tempo con lei ogni
giorno. Portiamo con noi uno ngoma (tamburo) e andiamo verso la sua casa, trovandola
affaccendata nel lavorare ad una coperta di lana. Ci ringrazia subito cordialmente della
visita, e dice che sta molto bene. Poi sentendo il suono dello ngoma iniziano ad arrivare
donne e bambini e nel cortile di Janet si improvvisa una festa africana. Le ragazze danzano
e cantano, mostrando i loro movimenti del bacino. Il ritmo lo hanno nel sangue, come si
suol dire degli africani in genere. Ma poi un po’ di nostalgia italiana ci fa accennare qualche
canzoncina nostrana. E vedere Janet che si fa una risata genuina ci può fare soltanto
piacere...
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Con Janet, la disabile di Malaika
Prima di ripartire per Luanshya c’è il tempo di mettere su due squadrette di calcio. Questa
volta i basungu sono pochi e prendiamo con noi alcuni piccoli bafita. Il caldo pomeridiano
aumenta la fatica, e tenere testa ai neri, almeno per me, è molto difficile. Per fortuna
abbiamo in squadra due ragazzini, di cui uno, chiamato Devis, ma presto soprannominato
Cannavaro, fa squadra a sé in difesa e recupera tutti i palloni che tentano di avvicinarsi alla
nostra porta. Il risultato finale è un modesto 4-3 per la squadra dei basungu...
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08/08/2008
MISSIONE...IN FORESTA
Io e Leonardo oggi siamo partiti un po’ prima degli altri per Malaika, insieme a Nicoletta.
C’è infatti l’occasione di assistere alla preghiera mattutina alla clinica. Durante il percorso
col Toyota di Maria Pia salgono con noi tre infermiere. Arrivati alla clinica, tutti gli
operatori sanitari si riuniscono e con canti e preghiere lodano il Signore per la sua bontà.
Alcuni sono cattolici, altri evangelici, anglicani, avventisti, anabattisti...l’ecumenismo della
preghiera. Una preghiera assolutamente unica. Si deve venire in Africa per vedere dei
cristiani che non puntano il dito per dire “Tu sei di questa Chiesa, io sto bene a casa mia”?
Prima di mettersi all’opera alla fabbrica di mattoni c’è il tempo di fare una partitella
mattutina con i bambini, sotto un sole assopito e sornione. Gli uccellini cantano e giocano
a rincorrersi nell’azzurro del cielo africano. E le risate dei bambini, che gioia...
In un momento di pausa decido di fare un salto a scuola per veder a che punto sono le
ragazze con i disegni. Sembra che vada tutto per il meglio, i disegni sono molto belli. Alla
compagnia di painters si sono aggiunti Franco e Giacomo, che stupisce tutti quando
disegna una banana che farebbe invidia ad una vera. Nel cortile incontro Petronella che mi
saluta molto cordialmente.
Mentre torno alla fabbrica, vengo fermato da un tizio in bicicletta che dice di volermi
rubare soltanto un minuto. Dice che ringrazia tutti gli italiani per tutto il lavoro che hanno
fatto e faranno per lo Zambia. Gli rispondo che non deve ringraziare me, ma chi ha speso
molti anni della sua vita per dare vita a delle realtà concrete come il Malaika Village...
Daniela mentre pittura la frutta
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Non riusciamo a rimanere per il pranzo dei bambini. Alle due dobbiamo essere pronti a
partire con il pulmino e la Toyota di Maria Pia. Fino a lunedì mattina saremo ospiti della
missione francescana St. Joseph Mission, nel cuore della foresta del Copperbelt. Con l’auto
ci vogliono circa un paio d’ore. La distanza in linea d’aria non sarebbe molta, ma le strade
per arrivarci sono polverose, piene di buche e di sassi che sbucano fuori quando meno te lo
aspetti. Eppure gustare con occhi trasognati il paesaggio africano sopra ad un Nissan che
sobbalza continuamente di qua e di là è un’esperienza unica. Se poi aggiungiamo cantare a
squarciagola Battisti, De Gregori e Guccini...
Entrando nella foresta le case assumono l’aspetto di capanne col tetto di paglia. Nei cortili i
bambini si accalcano per salutare i motorcars che passano con le loro manine, mentre le
donne prese dai lavori domestici ci rivolgono un sorriso dolcissimo...
St. Joseph’s mission
La St. Joseph’s Mission è stata una delle prime missioni cattoliche fondate in Zambia. Era il
1932 quando il francescano Francesco Mazzieri, nativo di Osimo, giunge a St. Joseph con
sei compagni. Da allora la missione è in continuo sviluppo e il legame delle Marche con lo
Zambia si fortifica sempre di più. Mons. Mazzieri diviene il primo vescovo della nuova
diocesi di Ndola, seguito da Mons. Nicola Agnozzi, recentemente scomparso a Fermo.
Mazzieri muore il 19 agosto 1983, ed è venerato come Servo di Dio. E’ tuttora in corso la
causa di beatificazione. Ad accoglierci troviamo Padre Rolando e Padre Massimiliano,
pesarese il primo e ascolano il secondo. Con loro c’è Antonio, simpatico e un po’ ingenuo
mufita, e i due cani Ciko e Dingo. I due frati sono molto simpatici e parlare con loro è
davvero interessante.
Padre Rolando ci racconta vari aneddoti sui frati in Zambia, sulla missione, sul seminario di
St. Joseph. Dice che non si sente bene e probabilmente ha preso la malaria alle cascate
Vittoria la scorsa settimana. Ci parla dei problemi della missione e dello Zambia in
generale.
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A St. Joseph hanno un bel convento e un seminario per il noviziato dei giovani zambiani.
“Spesso i giovani si fanno frati o sacerdoti per sfuggire alla povertà, per il ruolo sociale che
ricoprono più che per una vera chiamata”, confessa Padre Rolando, “proprio come
succedeva in Europa fino a qualche tempo fa. Per questo cerchiamo di discernere il più
possibile la loro vocazione con questi due anni di noviziato”. Nel cortile interno alla
foresteria c’è una bella insaka (capanna), sotto la quale si può stare al fresco e fare due
chiacchiere in compagnia. Nell’aia i padri missionari hanno anche degli animali come
galline, papere, capre e maiali, mentre un po’ più lontano si possono visitare due laghetti
artificiali in cui allevano carpe. “Eh, quanti coccodrilli ho ammazzato”, dice ancora Rolando,
“mi volevano mangiare tutti i pesci. Contro le aquile pescatrici però non posso fare
nulla...”. Nella missione di St. Joseph ci sono anche una scuola per sordomuti, gestita da
Suor Carmela, e un piccolo ospedale. “Potete andare a visitarlo”, dice Padre Rolando, “ogni
giorno c’è almeno un parto e forse vi piacerà vedere i neonati africani”. Ma non tutte le
donne riescono a raggiungere l’ospedale per partorire. Per questo quando sanno di essere
prossime al parto vanno sempre in giro con un taglierino per tagliare il cordone ombelicale.
E spesso succede che partoriscano per strada prima di raggiungere l’ospedale, magari
aiutate da altre donne del villaggio.
Il tramonto è il periodo della giornata che da sempre amo di più. Ma un tramonto africano
ha sempre quel qualcosa in più rispetto agli altri che ti fa restare boccheggiante senza
riuscire a dire alcunché. Sulle sponde del laghetto della missione, seduti sulle rocce,
ognuno di noi affida al tramonto di questa giornata le proprie speranze, le proprie
esaltazioni, i propri dubbi, le proprie angosce. Un solo, stridulo verso lacera il silenzio
piombato d’un tratto sulla foresta già assopita. Il sole da giallo che era diventa infuocato,
sempre più velocemente, e sembra vestire tutti i colori che esistono in molte lunghezze
d’onda in pochi minuti, come in un camerino di prova, fino a che con un ultimo giro
scompare tra gli alberi, lasciando sulla terra quel senso di nostalgia che si prova di fronte
ad una grande perdita. Tutti vorremmo avere mille tramonti, come il Piccolo Principe. Ma
la sapienza africana, che conosce la natura e i suoi ritmi, sa bene che “Non esiste un unico
giorno, anche domani il sole risplenderà (proverbio andoga)”. Siamo noi, i sapienti e gli
scienziati, che non riusciamo più ad avere un rapporto umano con la natura che ci
circonda. La rivoluzione industriale ci ha insegnato che la natura è nostra nemica, e non
nostra Madre. Per questo va combattuta con tutti gli strumenti possibili, specie con la
scienza e la tecnologia. E come dei bravi Prometeo esultiamo ogni volta che riusciamo a
rubare il fuoco agli dei, senza considerare che alla fine ne è uscito incatenato e dolorante.
Lo avevano capito i Greci, che la tecnologia non libera ma rende schiavi. Schiavi di una
concezione che non considera indispensabile per la vita l’equilibrio degli ecosistemi, ma
permette di fare tutto ciò che può essere tecnicamente fatto. “Tutto mi è lecito! Ma non
tutto giova. Tutto mi è lecito! Ma io non mi lascerò dominare da nulla (1Cor 6,12)”. Tutto
ciò che non libera e non giova rende schiavi. E la condizione della libertà è la verità. “La
verità vi farà liberi (Gv 8,32)”. Dobbiamo dirci la verità, che cioè siamo nati nella natura e
non possiamo farne a meno. Ne va della nostra stessa vita. I nostri figli crescono senza
avere coscienza che l’uomo nasce nella natura, non è suo nemico ma ne fa parte come
ogni altra creatura. Pensare di poter fare a meno della natura è presuntuoso oltre che
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perverso. E chissà, la hybris dell’uomo occidentale, il nuovo Prometeo, sarà davvero fatale
a chi non ha più la capacità di capire la natura ed il suo fragile equilibrio...
Tramonto africano...
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09/08/2008
HAKUNA...MATATA
Giornata tutta africana. Dopo la colazione in foresteria si parte. Padre Rolando sta
preparando il nostro mezzo di locomozione con cui ci muoveremo nella foresta: un vecchio
camion della Fiat, di quelli scoperti, che forse in Europa avrebbero già portato al macero,
ma in Africa, si sa, non si butta via niente. Dobbiamo fare circa un ora di strada fino alla
chiesa di Santa Clara, di cui sono parroci i nostri padri missionari. Per stare un po’ più
comodi Rolando ci procura un paio di materassi da mettere sul vano del camion. Una vera
salvezza. La prima mezz’ora di strada è davvero scomoda, le buche si susseguono e
Rolando cerca di fare il possibile per evitarle, anche facendo un certo slalom. Ai lati della
strada la gente saluta, i bambini alzano le mani gridando Musungu!, mentre noi veniamo
sommersi dalla polvere rossiccia sollevata dalle ruote, che si attacca sulla pelle riarsa e sui
vestiti sudaticci.
Sul camion di Padre Rolando verso Santa Chiara...
Giunti in mezzo al nulla, il camion arranca un po’ e poi si ferma del tutto. Invani sono i
tentativi di Padre Rolando per farlo ripartire con qualche giro di chiavetta. Siamo fermi nel
cuore della foresta, troppo distanti da qualsiasi cosa per raggiungerla a piedi. Qualche
passante in bicicletta si ferma, ma non può fare nulla per aiutarci. I più pratici provano ad
alzare la motrice e dare un’occhiata al motore. Per fortuna con noi c’è un parrocchiano di
St. Joseph che sembra cavarsela con la meccanica. Riesce a capire che c’è un problema al
filtro dell’aria o alla pompa dell’olio, ma serve una chiave inglese che non abbiamo. Intanto
i bambini arrangiano due tiri al pallone e mi unisco a loro. Quando sembra che il problema
sia risolto anche senza attrezzi riusciamo a ripartire, ma l’esultanza si trasforma in
sconforto quando dopo appena duecento metri il motore si ferma di nuovo,
boccheggiando. Scendiamo di nuovo dal camion, arrangiandoci con frisbee e pallone per
passare il tempo. Mentre le riparazioni proseguono sotto il sole cocente, propongo di fare
un giro nella foresta a Silvia e Nicoletta. Ci addentriamo per un po’, godendo del silenzio e
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del fresco. Alberi altissimi si slanciano verso il cielo terso, mentre altri, caduti, si
appoggiano a terra ricoperti da un fitto sottobosco di foglie secche. Tra una storiella e
l’altra sull’eventuale incontro di animali selvaggi, ci divertiamo a saltare sui tronchi caduti o
cercando di mantenere l’equilibrio come in un percorso ad ostacoli. Quanto torniamo alla
base troviamo il camion quasi pronto. Dal villaggio vicino sono giunti aiuti provvidenziali.
La pompa dell’olio è salva e con una buona spinta riusciamo a far partire il vecchio camion.
Con un pizzico di filosofia africana tutto si risolve e si trascorrono ore cantando e ridendo.
Un assaggio di vera Africa. Per l’africano i problemi non esistono. Per questo sono estranei
a malattie come ansia e depressione, tipiche dell’uomo occidentale. Scrive Thomas
Merton, monaco trappista: “Il nostro è un tempo di ansietà perché siamo noi a volerlo così,
siamo noi che inventiamo mille problemi inesistenti...” Noi europei siamo sempre in
movimento, sempre in ansia, non c’è mai un momento per se stessi o semplicemente per
annoiarsi. Dobbiamo sempre rincorrere il tempo, perché vediamo problemi a destra e a
manca, quasi tutti irreali e frutto delle nostre ansietà. Evviva l’Africa allora...Hakuna
matata!
Si riparte...a spinta
Arriviamo a Santa Clara che la messa è già iniziata. Padre Max, infatti, è venuto in macchina
con alcuni ospiti dei frati. Padre Rolando si veste e va a concelebrare, mentre entriamo in
chiesa sotto gli sguardi curiosi dei fedeli. Fa un effetto strano sentire dei frati italiani
celebrare la messa in cibemba. I canti si susseguono accompagnati dal suono degli ngoma
e del banjo. Impossibile resistere al ritmo, e non sciogliersi nella danza o nel battito delle
mani. Per i Babemba, come per gli africani in genere, è importantissimo esprimersi nella
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musica, nel canto e nella danza. Finita la messa vengo invitato a suonare uno ngoma. Ce ne
sono di diversi tipi, alcuni con toni alti altri bassi. Il risultato è un’armonia di suoni che non
ha paragoni. Ringrazio per la suonata che avevo proprio il piacere di fare, e ricevo anche
dei complimenti, penso più per gentilezza che per reale bravura.
Fuori dalla chiesa è stata allestita una festicciola in allegria. Oggi gli abitanti del villaggio
festeggiano Santa Chiara. Gli uomini sono seduti da una parte e le donne con i bambini
dall’altra. Per festeggiare si beve il munkoyo, bevanda formata da farina di mais con
aggiunta una radice selvatica che cresce in queste zone. Non sa quasi di nulla, ma dopo una
settimana diventa alcolica e i babemba ne sono molto ghiotti, come sostituto della birra.
Alcune donne stanno preparando il bwali in un pentolone sul fuoco a lato della chiesa.
Tutti i basungu sono ospiti per il pranzo. Ci mettiamo seduti in chiesa, sulle panche.
Davanti abbiamo nshima, verdure cotte, riso, alcuni tipi di carne arrostita e ovviamente
munkoyo. Il tutto si mangia rigorosamente con le mani, che ci vengono gentilmente lavate
con dell’acqua calda prima del pasto. Cosa c’è di meglio che leccarsi le dita dopo aver
mangiato?
Brindisi a base di...munkoyo
Il villaggio è fatto di capanne (insaka) sparse per la foresta, a parecchia distanza le une
dalle altre. Un uomo ci fa gentilmente visitare la sua home, che consiste di due capanne,
un insaka aperta per cucinare e mangiare e un riparo per le galline. Sembra molto
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contento quando gli chiediamo di farci una foto con lui e la sua home. Ci addentriamo per
un po’ nella foresta. Jacopo e Valentino si mettono a fare le scimmie sugli alberi, Giacomo
attacca con le battute e l’allegria esplode.
Durante il ritorno a St. Joseph il camion si ferma di nuovo. Questa volta no worry, ormai ci
abbiamo fatto il callo e aiutati da un gruppo di passanti riusciamo a risolvere il solito
problema. Hakuna matata...
Preparazione del bwali
Un abitante del villaggio e la sua home
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10/08/2008
SAN LORENZO...NELL’INSAKA
La domenica del villaggio. Una giornata sorniona e pacata. Il sole splende già alto quando
ci svegliamo, in tutta tranquillità. Alle dieci orario africano inizia la messa in cibemba. Come
al solito la liturgia è partecipata e coinvolgente. Le risate dei fedeli durante l’omelia sono
frequenti. Dopo la comunione discorsi e canti, senza fretta. Fuori dalla chiesa ci si saluta, si
parla, si sta un po’ insieme. Le donne col citenga sorridono e i bambini cercano di
accaparrarsi un posto vicino al musungu, magari in cerca di caramelle. Non mi sembra ci sia
nessuno che abbia fretta, anche perché i più vivono a ore di cammino e si sono alzati molto
presto per andare incontro al Signore nell’Eucarestia.
La messa a St. Joseph
Il nostro pranzo si svolge in fraternità con i padri conventuali. Padre Rolando con la sua
simpatia ci racconta diversi aneddoti, che a volte fanno sorridere, altre impauriscono la
platea. Dice che gli animali più pericolosi in Africa sono quelli che non si vedono e non
fanno rumore. Le formiche carnivore sono capaci di mangiarsi un elefante intero, il cobra
sputatore cerca sempre di rendere cieco chi gli si para davanti, poi ci sono le zanzare
Anopheles, le pulci penetranti e chi più ne ha più ne metta. Tutti ora siamo più tranquilli.
“Se incontrate un leone c’è da esultare”, ridacchia Padre Rolando, dopo aver visto le nostre
facce preoccupate. Poi racconta dei suoi vari viaggi verso le cascate Vittoria, una vera
meraviglia della natura. “Ci sono pure dei pazzi che si lanciano nel vuoto attaccati solo ad
una corda. La maggior parte riesce ma qualcuno cade nello Zambesi, lasciandoci le penne”,
continua il missionario. E infine ci parla della sua grande passione: cacciare i coccodrilli,
specie quelli che vede girare intorno ai laghetti dei frati. Sembra anche che una volta con
un frate polacco, Padre Timothy, siano riusciti a far passare la pelle di coccodrillo per
quattro aeroporti, fino in Europa. Un colpo da maestro, non c’è che dire...
Suor Carmela è da quarantotto anni nella missione di St. Joseph. Forse la persona più
longeva, di sicuro ha visto crescere il villaggio e diverse generazioni. La chiamano Internet,
perché sa sempre tutto quello che succede nei villaggi circostanti. Viene da Campobasso.
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“Ero proprio una monella”, ci confessa, “non volevo neanche fare la prima comunione.”
Poi la visita al santuario di Pompei, e la svolta religiosa della sua vita. “Le suore mi
sembravano una famiglia molto bella e felice. Il Signore all’inizio mi ha nascosto tutte le
loro marachelle” dice con una risatina fioca, mentre sorseggiamo del succo di litchis, che lei
continua a versare nei nostri bicchieri appena si vuotano. “Ora gestisco questa scuola per
sordomuti. E’ davvero un lavoro magnifico e ringrazio il Signore per tutto quello che ci da
di vivere”, confessa. Ci fa vedere gli stanzoni dove dormono gli studenti. “Alcuni sono
davvero molto bravi, e il loro handicap non risulterà un problema per la loro vita”. Poi Suor
Carmela ci fa vedere con orgoglio il suo orto. Raccogliamo alcune papaie, degli aranci e il
passion fruit, molto succoso e dolcissimo. Salutiamo Suor Carmela e la ringraziamo per la
bella testimonianza.
Suor Carmela versa succo di litchis per tutti...
Per noi ragazzi è ormai tempo di fare la consueta partitella di calcio, mentre le ragazze si
portano verso l’ospedale per visitare le partorienti e i neonati. Il solito vociare dei bambini
accoglie il nostro arrivo sul campo. Con poche parole di inglese riusciamo a formare due
squadre e si può cominciare. Loro sono molto bravi, la fatica si fa sentire subito, almeno
per me. Ogni tanto i bambini ripetono qualcosa che non riusciamo a comprendere, molto
concitati. Più tardi proviamo a chiedere a Padre Rolando, pensando magari ad un insulto o
una presa in giro. “Assolutamente no, loro non insultano e non bestemmiano mai. Forse
era il nome di qualche giocatore...” Se penso alle nostre partitelle di calcetto in cui le
bestemmie si susseguono gratuitamente...
San Lorenzo. La notte è stellata, ma la luna rischiara il cielo e disperde la sua luce nel buio.
Disteso sull’erba, sotto all’insaka, provo a cercare i disegni di stelle che hanno fatto
sognare popoli e genti di tutto il mondo. Ecco la Croce del Sud, risplende indicando terre
sperdute e distese sterminate verso il Meridione. Antares è la regina del cielo australe,
bella e azzurra, nella costellazione dello Scorpione, ma Alpha Centauri la tallona con la sua
luce dorata. Raramente qualche stella, forse stanca, cade, lasciando una scia di luce e,
chissà, desideri inespressi nei cuori di ciascuno...
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11/08/2008
RICCHEZZA E POVERTA’
Ci si sveglia all’alba per la messa mattutina in inglese. Il sole è nascosto da poche nuvole
basse e non riesce ancora a riscaldare la terra. Fa un po’ freddo e rabbrividisco. In chiesa,
pochi fedeli aspettano in preghiera l’arrivo dei sacerdoti e ne approfitto anche io per un
attimo di raccoglimento. Durante la messa si salmodia insieme ai novizi della fraternità. Poi
ascolto con un certo interesse l’omelia, tenuta da un diacono della comunità locale. “Oggi
è la festa di Santa Chiara”, esordisce. “Lei ha seguito la strada della povertà e della
preghiera”. Poi un’annotazione sul significato della povertà. Essa non parte dalla rinuncia
pura e semplice a tutto, ma secondo il mio diacono scaturisce piuttosto dalla condivisone
(sharing) di ciò che abbiamo in sovrabbondanza con gli altri. Essere poveri significa non
accumulare per se stessi, ma fare in modo che ognuno abbia il necessario per vivere.
Nell’Esodo Dio manda la manna nel deserto, ma nessuno può raccoglierne in quantità
superiore a ciò che gli è sufficiente per quella giornata. Non c’è accumulo, non c’è profitto.
Alla faccia di chi pensa che cristianesimo e capitalismo possono stare perfettamente a
braccetto. Quella di Dio è la logica del dono e della condivisione. Non del possesso, della
vittoria sugli altri e dell’egoismo. Che bella la parola condivisione. Dividere-con l’Altro è ciò
che il Signore si aspetta dalla nostra vita. Tutto si può condividere…il pane, il denaro, la
casa, il tempo, la vita stessa. Nel film Into the wild il giovane protagonista Cris McCandless
giunge nel finale a comprendere che bisogna chiamare le cose con il loro vero nome e
scrive sul suo diario Happiness is only real when shared. Non si danno felicità e gioia senza
condivisione. L’egoismo e l’accumulo creano astio, invidia e gelosia. Creano divisione e
quindi morte. E’ il regno del diavolo (che nella sua etimologia significa colui che divide).
Solo dalla condivisione nasce la vita che non muore mai. Gesù, il Figlio, ha voluto
condividere la nostra natura umana, dice San Paolo. Solo così ha potuto dare a noi uomini
la possibilità di entrare nel Regno dei cieli, regno della gioia e dell’amore…
E’ ormai tempo di salutare tutti. Faccio un ultimo giro per la missione di St. Joseph,
salutando Suor Carmela e tutti i frati. Maria Pia arriva con la sua Toyota e tutti insieme si
riparte per Luanshya, dopo aver condiviso il pranzo con la comunità francescana.
Prima di tornare alla casa di accoglienza c’è il tempo per fermarsi a Kitwe, oggi divenuta
una grande città, quasi al pari di Ndola stessa. Kitwe è famosa per i suoi mercatini di
artigianato locale. Fare un giro tra le bancarelle è molto divertente, anche per uno come
me a cui non piace lo shopping. Veniamo avvertiti da chi sa come funziona in questi casi di
tirare parecchio il prezzo iniziale del venditore, perché spesso se ne approfittano di ignari
basungu per fare giornata. Il gioco della contrattazione riesce quasi sempre, e alla fine sia
chi vende che chi compra ne esce soddisfatto. Si vende di tutto, in particolare bellissimi
oggetti in legno, strumenti musicali, collane e abbigliamento locale. Con poche parole di
inglese riesco a fare qualche acquisto a buon prezzo. Poi un seller, leggendo la scritta
dietro alla mia t-shirt, mi fa: “Hei, you’re an african too, eh?”. Non so cosa rispondere e mi
esce solo: “Yes!”. Lui continua a fissarmi negli occhi e commenta: “So you and me…we are
the same, my friend…” Hai proprio ragione, ragazzo mio, siamo proprio la stessa cosa, io e
te, figli dello stesso Padre…
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12/08/2008
UGUALI O DIVERSI?
Pia, Pia, Pia…E’ bello tornare a Malaika, con i bambini che intonano la consueta litania
quando compare il Nissan bianco guidato da Maria Pia. Interrompono i loro giochi per
rincorrere il furgoncino, e poi attendere che i basungu scendano prima di correre ad
abbracciarli festanti. E’ bello vedere ancora una volta il bambinetto con le mani alzate
verso di me che invoca “Musungu, njimyako!” Tirami su. E a me non resta che prenderli e
fargli fare un giro in aria, finché il giramento della mia testa non ha il sopravvento su tutto
il resto…
Oggi i bambini hanno anche la colazione. Si siedono composti come sempre e al segnale
della mayo, una donna, recitano la consueta preghiera al Signore. Il piccolo Wadia non c’è.
La madre questa settimana non lavora al centro nutrizionale e sono rimasti a casa, a
qualche chilometro di distanza. Dopo la colazione chiediamo a Carol di far rimanere i bimbi
nei paraggi perché Silvia e altri ragazzi stanno preparando una sorpresa. E quando una
marea di palloncini coloratissimi si innalza sopra di essi, i bambini iniziano a gridare Baloon,
baloon. Ce ne sono di tutti i colori, e ognuno è felicissimo di mostrare il proprio palloncino
sventolandolo con foga. E c’è una sorpresa anche per le mayo: palloncini con la forma di un
braccialetto da mettere al polso, sempre coloratissimi. Ci ringraziano con un canto che
esprime gioia e gratitudine. Anche la cara Janet riceve un fiore e un cagnolino. E lei, tutta
contenta e sorridente, se li gira e rigira tra le mani con occhi trasognati…
A volte basta un palloncino...
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In clinica c’è un nuovo lavoro da fare. Nicoletta mi dice che c’è bisogno di dare una
sistemata ai farmaci che arrivano dall’Italia, perché gli infermieri siano in grado di usarli
correttamente e senza errori. Ci mettiamo al lavoro. Decine di scatoloni devono essere
aperti, e ogni medicinale deve esser ordinato per tipo di farmaco, principio attivo e data di
scadenza. Molti farmaci sono già scaduti, anche se da pochi mesi, ma Nicoletta dice che
anche qui vale la solita regola che in Africa non si butta via niente. “Anche se non fanno
bene, l’importante è che non facciano male”, è il suo commento. Mi fido, anche perché lei
lavora come farmacista a Genova e quindi sa il fatto suo. Il lavoro è abbastanza lungo, ma
di tempo in Africa ce n’è in abbondanza. Anche perché il tempo, qui, non esiste…
Esiste invece il tempo all’interno dello Shoprite, il più grande supermercato di Luanshya.
Esiste ed equivale a denaro. Proprio come in occidente. Lo Shoprite di Luanshya è proprio
identico alla Coop che abbiamo sotto casa. Stessi prodotti. Stesse marche. Stesse casse
suonanti, festanti, esultanti ogni volta che battono il prezzo sullo scontrino. In occidente ci
siamo riusciti, ora anche il Africa cerchiamo di creare consumatori. Non più uomini, meno
di bestie da lavoro. Nasci, consuma, crepa. Il solito ritornello. Vivi in una casa identica alle
altre, compra le stesse cose, vota gli stessi partiti. E’ una torre di Babele rovesciata.
L’esplosione dell’uguaglianza. Anzi, dell’omologazione. Siamo omologati per comprare
proprio come lo scooter è omologato per andare su strada. Compriamo e buttiamo via le
stesse cose nello stesso identico modo. Tutti uguali, belli, ma in fin dei conti
profondamente infelici.
Ma se c’è una cosa che provoca le catastrofi è proprio il rendere tutto uguale. La vera
molla dell’evoluzione è la diversità. Solo la diversità è in grado di dare completezza al
mondo che ci circonda. Solo la diversità non si trova in difficoltà di fronte a domande
inedite e problemi mai visti prima. La vita stessa nasce dalla diversità. E’ la biodiversità la
vera ricchezza del creato.
L’unità si può ritrovare solo nella diversità di ognuno. La Trinità è l’esempio per eccellenza
di unione nella diversità. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono tre persone unite in una
sola sostanza dall’amore reciproco che si vogliono. Solo l’amore è capace di superare la
diversità di ognuno per divenire veramente Uno…
“Di cambiamenti ne ho visti tanti, ma c’è ancora molto da lavorare”. Maria Pia è sincera.
Poi aggiunge: “E comunque, per fare qualsiasi cosa mi rimetto sempre nelle mani del
signore. Ragazzi, badate bene. La Provvidenza esiste. Io credo fermamente nella
Provvidenza, nell’uomo giusto al momento giusto. Ho sperimentato la Provvidenza in
milioni di casi. Non uno, milioni. E continuo ad affidare al Signore ogni cosa che faccio,
sapendo che se è una cosa giusta col tempo necessario avrà una soluzione.” Grazie per la
bella testimonianza di fiducia nell’amore incondizionato del Padre, cara Maria Pia…
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13/08/2008
CICETEKELO, PIANETA SPERANZA
Oggi andiamo a trovare alcuni amici della comunità Papa Giovanni XXIII a Ndola e a visitare
i loro progetti. Ci accompagna Gennaro, ragazzo che ha fatto già tre anni in Zambia ed
ormai prossimo alla partenza. La comunità Papa Giovanni XXIII è stata fondata da don
Oreste Benzi parecchi anni fa, ed oggi è costituita da diverse realtà missionarie sparse in
tutto il mondo. La missione zambiana è stata la prima in assoluto, aperta nel 1985. Il
progetto è iniziato con una casa famiglia per disabili, poi è stato amplificato per accogliere
anche ragazzi di strada. Oggi il Cicetekelo Youth Project è una realtà molto ampia. I
volontari raccolgono ragazzi di strada e li portano nel centro di Cicetekelo. Il progetto è
diviso in due fasi. La prima prevede la scolarizzazione dei ragazzi più piccoli e l’accoglienza
in case famiglia. La seconda è ospitata in un villaggio di campagna vicino a Ndola e prevede
l’introduzione dei ragazzi più maturi nel mondo del lavoro, in particolare agricoltura,
falegnameria e meccanica. Gennaro ci fa fare un giro nelle due fasi del progetto. Gli
studenti sono ora in vacanza ma per chi resta a Cicetekelo i maestri organizzano attività
ricreative come sport, quiz per ripassare le lezioni…
Sotto l’insaka di Cicetekelo
Il villaggio della fase due è molto più ampio. Ci sono diversi capannoni adibiti a
falegnameria, a riparo per gli animali e ad officina. Nell’insaka si lavorano le pietre
saponaie per farle diventare bellissime sculture di animali. Nella scuola Gennaro ci
presenta il preside. “Cicetekelo in bemba significa speranza”, dice. “La nostra speranza è
che i giovani non perdano la speranza di un mondo migliore…”. Nel pomeriggio, dopo un
pasto a base di bwali, fagioli e verdure cotte, ovviamente mangiati con le mani,
incontriamo Mara, da tredici anni in Zambia, responsabile del progetto Rainbow.
Microcredito di sementi, adozioni e gestione di centri nutrizionali sono i pilastri di questo
progetto della comunità Papa Giovanni. “Nel nostro piccolo facciamo ciò che è possibile”,
ci dice. Mara tiene in braccio un bambinetto di un anno, orfano, da lei preso in
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affidamento in attesa dell’adozione. “Si chiama Gabriele”, dice entusiasta, mentre lui gioca
sul triciclo. Più tardi Nicoletta mi confida le sue perplessità. “Gabriele vivrà come un
occidentale, ma è nero. Non avrà mai una sua identità. Non cresce nella cultura locale ma
d’altro canto non può essere occidentale a tutti gli effetti. Mi domando se da adulto non
potrà incontrare seri problemi…” E’ ovvio che potrà avere dei problemi. L’identità, in tutte
le accezioni noi la intendiamo, è fondamentale per la crescita di ogni essere umano. Non si
può tenere il piede su molteplici staffe. O bianco o nero. D’altro canto, come Nicoletta
stessa mi conferma, era forse meglio lasciarlo morire sulla strada?
Con Gennaro nella fase due
C’è il tempo di fare un salto anche al Franciscan
Centre di Ndola. Padre Anselmo è assente, è molto
impegnato a dieci giorni dalla partenza per l’Italia.
Ad accoglierci è Padre Camillo, con il suo volto
sorridente e sornione. Ci fa entrare nella Mission
Press, una grande tipografia con circa ottanta
dipendenti. Poi facciamo un giro verso il Vocational
Trading Centre, dove incontriamo Andrew Chowa ed
Enrico Kilima, portando loro i saluti di Franco e
Giusy. Il tempo di farsi una foto e scambiare quattro
chiacchiere che è già ora di ripartire alla volta di
Luanshya, col tramonto che, nel giro di pochi minuti,
lascia la terra africana in balia delle stelle…
Al Franciscan Centre di Ndola
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14/08/2008
CHIBOTE A TE, FRATELLO MIO...
In mattinata ha luogo la consueta sfida calcistica nella piazza di Malaika. I bambini sono
carichi, nei loro occhi si legge la voglia di esprimere tutta la loro vitalità. La loro voglia di
vivere non ha paragoni. Ridono per un nulla, non si arrabbiano mai, se si annoiano sono
capaci di inventarsi di tutto con quello che hanno a disposizione, con le cose più semplici
possibili. Macchinine fatte con i fili di ferro, cerchi che ruotano sulla sabbia, improbabili
palloni di stracci, salti con corde rimediate qua e là, sculture di fango, danze irresistibili...è
questo il loro mondo, la loro vita. Non vanno dalla mamma a chiedere l’ultimo gioco della
Playstation. Non pretendono chissà quali grandi cose. A loro basta un po’ di affetto e di
amore. Purtroppo spesso ne hanno poco. Già a due anni si staccano dalla madre e sono
autosufficienti quasi per ogni bisogno. Prenderli in braccio, fargli fare due salti, il semplice
accarezzarli li rende felici. A volte basta un po’ di amore...
Ma i farmaci attendono, impassibili, di essere sistemati a dovere. Il resto della mattinata lo
trascorro leggendo nomi, sperando di non sbagliare a riordinare i medicinali. Cecilia è
un’operatrice sanitaria della Malaika Clinic. E’ infermiera ma si occupa praticamente di
tutto ciò di cui c’è bisogno. A Malaika i medici arrivano raramente e sono sempre volontari.
Ultimamente Maria Pia ha fatto richiesta al governo per avere un medico stabile, ma per
ora non ha ottenuto nessuna risposta. Visto il lavoro che stiamo facendo, Cecilia sorride e
ci ringrazia. Poi allunga una mano, prende due scatoline appena sistemate. “Ho un
paziente epilettico”, dice, “per fortuna ho trovato il farmaco che cercavo...”.
Si sistemano i farmaci in farmacia...
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Nel pomeriggio Maria Pia ci accompagna nella missione di Santa Teresa, ad Ibenga, pochi
chilometri da Luanshya. Padre Angelo Panzica, siciliano, ci viene incontro tutto sorridente.
“Benvenuti”. Ha un barbone bianchissimo e lunghissimo, ed è accompagnato dovunque
vada dalla sua cagnetta, Enesti. Padre Angelo è una vera forza della natura. Tutto contento,
ci fa entrare nel chiostro della fraternità, dove troviamo ad attenderci Padre Giuseppe
Verdicchio, di Mogliano, che ci saluta prima di doversi recare in cappella. Seduto, un po’
più in disparte, c’è una nostra vecchia conoscenza. Padre Timothy, polacco, era a St.
Joseph quando siamo stati lì, ma ora per motivi di salute si è spostato ad Ibenga, dove c’è
un ospedale molto famoso. Ottantaquattrenne, Timothy mostra sorridendo la sua
dentatura un po’ ingiallita. Poi mi prende la mano, chiedendomi il nome, con tenerezza.
Sembra quasi di stringere la mano a Giovanni Paolo II, tanta è la loro somiglianza, nonché
la tenerezza che esprimono con le poche parole che riescono a dire. Uno sguardo negli
occhi di Timothy vale comunque di più di mille parole. Padre Angelo ci fa vedere alcune
acrobazie che ha insegnato ad Enesti, poi ci accompagna verso il villaggio dei lebbrosi di
Chibote, che in bemba significa pace. Il nome è tutto un programma. Padre Angelo inizia a
distribuire sigarette a destra e a manca, ricevendo dei Natotela mukwai! (grazie) dai
lebbrosi, che spesso sono costretti a tenerla con il moncherino dei polsi. Sempre sorridenti,
salutano i basungu e tornano a fumare. Chibote è un villaggio composto interamente da
lebbrosi e completamente autosufficiente. Padre Angelo ci fa conoscere dei novelli sposi,
entrambi con la malattia. I figli ovviamente nascono sani, e i centinaia di bambini che
scorazzano per le strade del villaggio ne sono la prova.
La missione di Santa Teresa, ad Ibenga
Interessante è la conversazione che ha Padre Angelo con un lebbroso. “Dove hai messo le
dita tu?” “Le ho perse nel bosco, padre” “Farai bene a mandare un bambino a cercarle
sennò quando risorgi ti ritrovi senza!” Angelo e il lebbroso scoppiano a ridere, mentre
quest’ultimo ringrazia e torna a lavorare.
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Ad Ibenga c’è anche un orfanotrofio. “Abbiamo molti bambini, orfani di padre e di madre”,
dice Padre Angelo.”Qui vanno a scuola e mangiano ogni giorno...”. I bambini sono
dolcissimi. Li facciamo mettere in fila e poi consegniamo loro alcune caramelle. Su una
panca siede una bambina di otto anni con in braccio la sorellina più piccola, che spesso
piange quando vede dei bianchi. “Devo farle fare il test per l’HIV”, dice Padre Angelo, “ho
scoperto che chi ha i capelli deboli e sfilacciati piuttosto che belli ricci spesso è malato di
AIDS...”. Oltre l’orfanotrofio ci sono le stalle, con parecchie mucche da latte, tre asini,
alcuni cani e ovviamente pollame. “Eh già, non ci facciamo mancare niente”, è il commento
del frate siciliano.
Timothy con Nicoletta e Annalisa
Il cuore della missione di Santa Teresa è però la foresta. Lì, immersa tra il folto degli alberi,
c’è una cappellina piccola e semplice. All’interno è sepolto il primo vescovo di Ndola, il
conventuale Francesco Mazzieri. Quando arrivò in Zambia nel 1930 con sei compagni non
c’era nulla. Iniziarono comprando delle biciclette e facendo diversi chilometri di strada ogni
giorno. Nell’arco di due o tre anni aprirono le prime missioni, cioè San Giuseppe e Santa
Teresa. Quando la presenza cattolica in Zambia inizia ad essere consistente, Mazzieri è
consacrato vescovo di Ndola, ma poi si ritira ad Ibenga fino alla morte avvenuta 25 anni fa.
Al suo posto subentra Mons. Nicola Agnozzi, morto a San Francesco di Fermo lo scorso
anno. Sono passati molti anni, e ormai la missione zambiana si è arricchita di nuovi
sacerdoti autoctoni. Il vescovo oggi è un irlandese ma il suo predecessore era uno
zambiano. Quanto sembra lontano il servo di Dio Francesco Mazzieri che con sei compagni
giunge in Zambia per annunciare la Parola del Signore con amore e dedizione...
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Padre Angelo con una lebbrosa di Chibote
La tomba del servo di Dio Francesco Mazzieri
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15/08/2008
DEPRESSIONE? NO, AMORE…
Il giorno dell’Assunta in Zambia è come tutti gli altri. Si lavora in clinica, al centro
nutrizionale, nei mercatini e nei bar. La festa viene posticipata alla domenica successiva.
A Malaika i bambini attendono come sempre l’arrivo del Nissan Vanette bianco per
intonare il Pia, Pia! quotidiano. Vorrei recarmi subito in clinica, ma ormai i ragazzini si sono
abituati alla partitella mattutina e pretendono palla e giocatori.
Cecilia è già nel locale della farmacia che ci attende. Ha bisogno di alcuni farmaci
antitumorali, ma non sembra che ce ne siano in giro. Lei non fa una piega e torna
sorridente come sempre in clinica. Forse proverà a consigliare al paziente di recarsi in
qualche ospedale più grande. Gli scatoloni arrivati dall’Italia sono ancora molti, e
dobbiamo spostare altri scaffali per poter sistemare tutti i farmaci. La maggior parte dei
farmaci appartiene ad una categoria, e sono curioso di scoprire a cosa servono. Mi basta
poco capirlo. Antidepressivi. Sono tutti campioni gratuiti che la dicono lunga sulla
pressione delle case farmaceutiche nei confronti dei medici e sull’abuso di tali farmaci nel
mondo occidentale. Un mondo di depressi. Una malattia sconosciuta o quasi prima della
rivoluzione industriale. C’è chi considera la depressione come malattia etno-culturale,
poiché a sua diffusione è circoscritta a delle aree ben precise. Chiedo a Cecilia se usano
spesso antidepressivi. “Quasi mai”, mi risponde, “ma quando vengono i medici a volte li
danno a pazienti che vengono da lontano, dalle città”. Eccola lì, la nostra civiltà, tanto
imbellettata quanto piena di brutture. Dovevamo venire in Africa a portare un po’ di
progresso, altrimenti questi poveri africani non avrebbero mai conosciuto gli psicofarmaci.
Una grande conquista dell’umanità. Una droga dopo l’altra aiuta a sostenere dei ritmi di
vita che altrimenti sarebbero impensabili. Come si fa a vivere in un mondo dove tutto ciò
che conta sono i soldi e la prevaricazione dell’altro e poi non potersi drogare? Impossibile.
Per fortuna si è pensato bene di mettere al bando le droghe naturali, usate da millenni
dalla sapienza di ogni popolazione umana, e sostituirle con delle droghe sintetiche. Non
hanno controindicazioni e poi, vuoi mettere i profitti delle aziende? Non c’è paragone. E
allora, viva il mondo dei drogati alla occidentale...
Appena dopo pranzo arriva a Malaika un camioncino che solleva un polverone incredibile.
È Padre Angelo Panzica, ovviamente accompagnato dalla cagnetta Enesti. Deve caricare un
po’ di mattoni dalla fabbrica per portarli ad Ibenga. Angelo inizia a prendere in giro gli
operai, poi lo convinciamo a venire verso il Centro nutrizionale dove i bambini hanno
appena finito di mangiare. Enesti inizia a saltare sopra le panche e crea scompiglio tra i
piccoli. Angelo si fa una gran risata, poi intona O sole mio con la sua voce da tenore e si
improvvisa uno spettacolo con tanto di claque e risate del pubblico. I bambini rispondono
con la loro canzoncina di ringraziamento, ed io non riesco a trattenere una lacrima di
gioia...
Per tornare a Luanshya ci facciamo una passeggiata dentro ai diversi compound. Ci
accompagnano alcune ragazzine di Malaika, che ovviamente sanno la strada. Il gruppo dei
basungu non è mai solo. Ovunque passiamo, una folla di bambini saltellanti si unisce al
fiume che cammina verso nord. Ognuno di loro cerca di avvicinarsi il più possibile ai
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bianchi, di stringergli la mano. Affianco a me c’è Chanda, un piccolo di Malaika. Avrà due
anni si e no, ha già fatto diversi chilometri a piedi con noi solo con la sorellina di otto anni.
Mi fermo, Chanda mi sorride quando lo prendo in braccio, ma poi cerco di far capire alla
sorella che deve girare e tornare a casa finché si ricorda la strada.
Il compound è davvero labirintico, anche se non è facile perdersi perché chiunque è in
grado di dare delle indicazioni precise e molto spesso ti accompagna lui stesso. Lungo la
strada si susseguono i bar, le bancarelle, tutto rigorosamente in legno. Gli uomini sono
tutti nei locali, al fresco, mentre il jukebox suona una musica ad alto volume. C’è chi va in
bicicletta, chi allestisce una bancarella di fortuna vendendo patate dolci fritte, cassava,
arachidi e banane. Prendiamo le patate, buonissime, specie con il sale. E mentre il sole sta
già calando sull’Africa, mi sembra davvero di essere entrato in un bellissimo sogno...
Padre Angelo canta “O sole mio...”
A cena è ospite Padre Umberto Davoli, con alcuni ragazzi venuti a trovarlo dall’Italia. Padre
Umberto è forse il francescano più conosciuto di tutto lo Zambia. Direttore per diversi anni
della Mission Press, la grande tipografia del Franciscan Centre di Ndola, attraverso il
giornale in cibemba “Icengelo” ha sostenuto molte battaglie contro i diversi presidenti di
turno, Kaunda prima e Ciluba poi, che stavano in pratica instaurando una dittatura. “Oggi
c’è bisogno di giustizia, bisogna liberare l’uomo dalla schiavitù, bisogna ricordare che
esistono dei diritti dell’uomo”, è il suo commento sulla faccenda. Più volte Padre Umberto
è stato minacciato di morte, bollato come nemico della patria, ma la sua fede nella
giustizia per tutti gli uomini è rimasta sempre incrollabile. Ci racconta di quando è stato
convocato dal Ministro degli Interni, trovandosi di fronte ad una tavolata di persone in
giacca e cravatta, quasi fosse stato un imputato a processo. E lui, con il suo tipico modo di
fare, che mai scende a compromessi, dopo ben due ore di litigi su questioni politiche si è
semplicemente alzato ed ha lasciato la stanza lasciando a bocca aperta ministro e tirapiedi
annessi.
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Ci racconta inoltre che lo scorso anno è rimasto vittima di uno spaventoso incidente
stradale. “Guidavo la mia macchina sulla strada tra Ndola e Kitwe. Non era molto
transitata, ma trovandomi dietro ad un camion ho cercato di sorpassarlo. E cosa c’era sulla
corsia di sorpasso? Un altro camion fermo sulla carreggiata, che non ho potuto evitare. Ci
sono entrato con tutta la macchina, sventrandolo. Quando mi hanno ritrovato hanno
stentato a credere che fossi ancora vivo, poiché avevo il cranio scoperchiato. Sicuramente
sono vivo per miracolo. Sono rimasto in coma per sette giorni. I medici dicevano che il mio
cervello non sarebbe rimasto più quello di prima. Ma li ho sorpresi ancora...” E infatti
eccolo qui, più forte e sorridente che mai, con molte storie da raccontare e molti consigli
da dare a noi giovani. “Ragazzi, la vita è un dono, è un grande regalo, così come la salvezza.
Il Padre misericordioso non guarda i nostri meriti, perché noi non meritiamo nulla in realtà.
Noi non ci dobbiamo meritare la nostra amicizia con Dio, non ci dobbiamo meritare la
salvezza! Anche tra i sacerdoti c’è ancora questa mentalità legalista, ma il cristianesimo è
ben altro. Non è il do ut des. Dobbiamo superare questa mentalità farisaica, fatta di
precetti e regole assurde. Se la religione è obbligo e legge non libera, ma rende schiavi! Il
cristianesimo predica invece una salvezza universale. Il Signore sa bene che le creature
sono limitate e imperfette, ma allo stesso tempo ci fa un dono immenso perché ci ama così
come siamo, con le nostre debolezze ed infermità. Il Signore non ti ama perché tu sei
santo, ma perché hai bisogno di essere amato. Non ti ama perché sei bello, ma ti rende
bello amandoti. Dio ti ama così come sei. Non è quindi per i nostri meriti o per la nostra
santità che noi ci salviamo, ma per l’Amore immenso di Dio Padre e creatore. Nessuno ha
un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. E’ Gesù che ci ha manifestato
l’amore grande del Padre, morendo sulla croce per noi. E quando scopri di essere amato
così profondamente non puoi far altro che amare con lo stesso amore. Amore è darsi tutto
all’altro, completamente, fino a morire a noi stessi. Io amo quando non desidero altro che
la felicità dell’amato.”
E’ proprio vero. Non si vive che per amore. La gioia e la felicità provengono solo dal fatto di
amare come Dio. Altrimenti credo proprio che la vita non avrebbe senso...
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16/08/2008
UOMINI E DONNE
Il sabato è una giornata sorniona a Malaika. Il centro nutrizionale non è in funzione e i
bambini che si sono allontanati da casa soni pochi, la maggior parte sono quelli che abitano
nei dintorni. Per passare un po’ di tempo Annalisa propone di fare visita a Janet. Lei è
sempre lì, sulla soglia della sua casa a cucire. Oggi però ha un problema. “ Non funziona la
radio, riuscite a fare qualcosa?” Leonardo prova a controllare tutti i pulsanti possibili, ma
alla fine il problema sembrano essere le batterie. Le promettiamo di portagliele lunedì
dalla città e ringrazia. Alcune bambine si affacciano incuriosite dalla musica che abbiamo
messo sul cellulare. E allora comprendo che è tempo di fare musica dal vivo e cerchiamo di
far cantare e danzare le ragazze, molto timide. Qualcosa si riesce a improvvisare lo stesso,
e sulle note dei canti tradizionali Janet non riesce a trattenere un sorriso...
Sul campo si sono intanto radunati alcuni ragazzi. Fatte le squadre si inizia a giocare, come
sempre. Il sole è già alto, si suda parecchio, si ride, si scherza. Tutto è pronto per vivere
un’altra splendida giornata in pienezza...
A scuola Silvia, Daniela e le altre stanno completando di pitturare alcuni lavori sul muro.
Molto è stato fatto dal nostro arrivo, ma ci sono ancora tante pareti vuote nel cortile
interno. Comunque, la fantasia non manca e neanche il tempo sembra correrci dietro più
di tanto...
Nel pomeriggio torniamo a casa per un po’ di riposo. Troviamo Maria Pia che distribuisce
abbigliamento a una folla di persone che ne hanno bisogno. C’è gente che fa la fila per ore,
per avere qualche vestito o qualche cosa da mangiare, ma tutto si fa con la dovuta calma
africana. Al tramonto tutti hanno già ricevuto il necessario e si avviano con tranquillità sulla
strada di casa...
La donna africana è qualcosa di veramente straordinario. E’ una donna forte, fortissima, ci
racconta Padre Umberto. “Tira su la famiglia da sola, nella totale assenza del marito. Il
marito è spesso un despota, è il capo famiglia, tutto ciò che dice è legge. Nella cultura
africana esistono due tipi di potere assoluto: il re e lo stregone. Il primo ha il potere civile,
il secondo quello religioso. Gli africani hanno quindi vissuto sempre tra questi due poteri, e
l’atteggiamento che ne è nato è fondamentalmente quello della paura. Gli uomini africani
sono deboli, incapaci di risolutezza, proprio perché hanno sempre vissuto tra assolutismi
che li riempivano di paure. Essendo vissuti sempre in funzione delle decisioni altrui non
conoscono il significato della parola responsabilità. Nei confronti della famiglia, della
società ma anche di se stessi. Invece tutto ciò ha fatto della donna il punto focale della
famiglia africana, tutto dipende da lei, spesso anche il sostentamento della famiglia. Lei
assiste i genitori malati, i figli, se ha un progetto lo porta avanti. L’uomo ha avuto sempre
una vita troppo facile, tutto ciò che faceva era mettere incinta sua moglie. Ho visto donne
che portavano venticinque chili di farina in testa con il marito accanto che fumava una
sigaretta”, dice ancora Padre Umberto, poi continua con un taglio ironico ma forte: “Avevo
una voglia di picchiare quell’uomo che non vi immaginate...”.
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Spesso si dice, credo a sproposito, che l’uomo africano è un fannullone, un incapace. Certo,
se lo giudichiamo dal punto di vista della nostra cultura occidentale, così attaccata alla
produttività e all’efficienza, avremmo anche ragione. Ma è lecito giudicare una cultura che
è così sostanzialmente diversa dalla nostra? Non diremmo forse le stesse cose di un
occidentale che viveva nel Medioevo, o in un qualsiasi periodo anteriore alla rivoluzione
industriale? L’uomo africano, avendo vissuto per millenni sempre nelle stesse condizioni,
non ha avuto modo di sviluppare una mentalità simile alla nostra, e non sorprende quindi
che il nostro arrivo in Africa abbia causato tutti gli sconvolgimenti di cui noi per primi ci
lamentiamo. Ormai la cultura africana è compromessa, e il nostro modello ha fatto piazza
pulita di ogni altra espressione di forme di vita, ognuna delle quali sarebbe lecita,
semplicemente perché è nata in seno all’umanità...
Tramonto africano
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17/08/2008
CRISTO, PLATONE E LO SCACCO AL RE
Chiunque ha messo piede in Africa ripete spesso che la messa africana è tutta un’altra cosa
rispetto alla nostra. Ed è vero. Ci svegliamo presto perché a pochi minuti da Malaika c’è la
parrocchia di San Massimiliano Kolbe, di cui oggi si celebra la festa. E che festa.
Innanzitutto gli orari. Entrare alle nove in chiesa ed uscirne solo verso mezzogiorno e
mezzo non significa che sono passate tre ore e mezzo. Calcolare il tempo in Africa non ha
alcun significato, anche e soprattutto durante la messa lo scorrere dei minuti non ha
valore. A che serve guardare continuamente gli orologi quando si passano splendide ore
lodando e ringraziando il Signore? Purtroppo da noi la messa sembra quasi un’abitudine, o
a volte una costrizione. La nostra messa sembra più un blaterare parole senza senso che
un’azione di lode e di ringraziamento. La Parola diviene una semplice lettura di passi del
Vangelo, l’omelia è un ripetere frasi che non hanno attinenza alla vita fattuale, con il
risultato che si esce dalla celebrazione eucaristica come quando ci si è entrati. Se la messa
non ci mette in cuore una gioia profonda, se non ci sprona a cambiare vita, allora serve a
ben poco, come servono a ben poco i canti, le statue e le processioni dei santi, i battesimi
con i fotografi invadenti...Se il rito si sostituisce all’evangelizzazione dei cuori, allora la
nostra fede è povera, non è fede vissuta.
La messa africana ci immerge in un’altra prospettiva, la prospettiva di un popolo che sente
il bisogno di vivere la propria fede. E poi i canti, le danze e i vestiti...Tutto ha il sapore di
una grande festa vissuta nella gioia. Il canto di ingresso è lunghissimo, poi una specie di
presidente del consiglio pastorale prende la parola e mischiando inglese e bemba fa
un’introduzione alla liturgia. Sembra che tra le altre cose siamo citati anche noi, e infatti
veniamo chiamati sull’altare per essere presentati all’assemblea. Gli applausi sono
scontati, ma i fedeli seduti vicino all’altare addirittura si alzano e vengono a darci il loro
Welcome! con una stretta di mano e un sorriso caloroso. Se ne vanno altri dieci minuti.
Un’accoglienza tutta africana...
La messa a St. Max
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L’offertorio, diviso in tre momenti, è decisamente il momento più esaltante della messa a
Saint Max. Impossibile non essere trascinati nel canto e nella danza. Le donne indossano
dei citenga che le distinguono in diversi gruppi. Alcune sono molto giovani, altre, più
anziane, fanno parte del Catholic Women Association. Durante la danza portano le offerte:
frutta e verdura, bibite in bottiglia, animali da cortile...portano di tutto all’altare. Ad un
certo punto mi è sembrato che l’intera chiesa ballasse. Chierichetti, sacerdoti e fedeli. Un
ritmo di lode e di gioia, vissuto nell’amore fraterno. Proprio come ha fatto San
Massimiliano Kolbe. Proprio come ci suggerisce Gesù nel Vangelo odierno. Amatevi gli uni
gli altri come io vi ho amato. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra
gioia sia piena. Il diacono fa un omelia che in Italia sarebbe definita lunghissima. Certo è
vero che le nostre omelie spesso sono noiose, si ripetono sempre le stesse cose come non
peccare qui, non fare quest’altro, mettendo sempre da parte la cosa più importante: la
Parola. Invece chissà perché ma durante l’omelia del diacono prima e poi del sacerdote
sembra di assistere ad uno spettacolo di cabaret. Risate dei fedeli, applausi al sacerdote,
urla di approvazione...si respira un clima di vera unità.
Danze e canti durante la celebrazione...
Forse è ora di ripensare un po’ anche alla nostra messa. Facciamoci un bell’esame di
coscienza e diciamoci che del cristianesimo abbiamo capito poco o niente. Dobbiamo
tornare presto alla fede apostolica, al coraggio di testimoniare, alla gioia di celebrare,
all’amore da donare agli altri. Io sono convinto che la contaminazione del cristianesimo con
la filosofia greca, Platone ed Aristotele in primis, ha causato più misunderstandings che
vantaggi dal punto di vista della fede cristiana. La forza liberatrice di Cristo, che ci allontana
dal peccato e da una vita senza senso, è stata troppo spesso ingabbiata dall’armonicismo e
dal perfezionismo, di cui la cultura greca è soprassatura. Il politically correct del Tardo
Antico. Cristo non si può e non si deve confondere con le ipostasi di Plotino. Il nous ha
preso troppo risalto a discapito della materia, della corporeità. Ma la cultura ebraica, da
cui la Bibbia ha preso origine, è molto concreta, direi quasi corporea. Il mondo delle idee è
qualcosa che ci ha confuso, e ha finito per creare un cristianesimo intellettuale piuttosto
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che un cristianesimo vissuto nel concreto della quotidianità. Forse l’Africa ci darà la
possibilità che la fede torni ad essere vissuta nelle esperienze di ogni giorno, con i suoi
dubbi e le sue angosce, e non resti triste appannaggio delle idee platoniche...
Una domenica pomeriggio passata in riva al lago di Luanshya. Pochi chilometri col Nissan
Vanette, pochi kwacha per entrare (molti da principio, ma dopo una rapida contrattazione
si arriva ad una cifra che accontenta entrambe le parti) e ci ritroviamo in una specie di
villaggio vacanze all’africana. In realtà sembra tutto un po’ in degrado. Ombrelloni fatti con
le canne, musica dal reggae al rock passata a tutto volume, vento fresco e tanto, tanto
sole. Un pomeriggio di assoluto relax, vissuto in compagnia e condivisione. Chi preferisce il
sole, chi l’ombra, fatto sta che tutti sono accontentati.
Annalisa e il lago di Luanshya
Con noi ci sono anche Fanwell, Carol e tutta la loro famiglia. La piccola Michela non si
ferma un attimo, corre per il prato, saltella borbottando frasi che solo lei comprende
mentre il vento le carezza le belle treccine. Carol sembra molto felice di stare con noi. Mi
dice che fino a qualche anno fa questo posto era messo un po’ meglio, era più frequentato,
soprattutto dagli stranieri. Ma anche così a me non dispiace. Leonardo e Annalisa provano
ad azzardare un bagno nel lago, ma scoprono ben presto che l’acqua è fredda e melmosa.
Intanto Michela non ha perso il suo entusiasmo e vola in braccio a chiunque gli capiti a tiro.
Come me e Marco inventa un gioco che la fa divertire da matti, e passiamo parecchio
tempo a farla volare, poi scopre i miei occhiali da sole e se li prende tranquillamente.
Leonardo prova a sfidare a scacchi Simon, figlio adottivo di Fanwell e Carol, ma perde
entrambe le partite con uno scacco matto velocissimo. Fa anche i complimenti a Simon per
la sua bravura, ma forse è lui che non sa giocare così bene...
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Guardando la scena dei due giocatori, con il lago sullo sfondo, mi viene da pensare all’inizio
del Settimo Sigillo, in cui Block gioca a scacchi con la morte sulle sponde dell’oceano. E
ripenso al testamento spirituale del cavaliere, le parole con cui termina il film:
Lo ricorderò, questo momento: il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola
del latte, i vostri volti su cui discende la sera, Mikael che dorme sul carro, Jof e la sua lira…
cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo
delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto che non si vuol versare, e
sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere...
Guardo Carol e la sua famiglia...non posso che confermare in me stesso le parole del
cavaliere Block. Li porterò nel cuore, saranno un segno indelebile di questa giornata che
ormai volge al tramonto...
Michela e il suo sorriso
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18/08/2008
ILASTETI MOI!
Lunedì di lavoro a Malaika. Il cielo è leggermente coperto e la giornata si preannuncia
parecchio ventosa. Le varie piante di mango sparse per Malaika sembrano danzare sotto la
melodia del vento, e scuotono il loro fogliame appassito. Di fronte alla clinica, Fanwell è già
pronto con il camion in attesa di braccia robuste per caricare i mattoni.
I bambini aspettano la colazione. Ne approfitto per giocare un po’ con loro prima di
recarmi alla clinica. Cecilia mi aspetta per chiedermi alcune informazioni sui farmaci che
non conosce e che hanno il foglietto illustrativo in italiano. Riesco a farle capire anche se al
mio inglese mancano diverse parole tecniche, e lei se lo segna per non scordarselo più. Il
lavoro di sistemazione dei medicinali prosegue, un po’ a rilento visto che mi ritrovo da
solo. In un momento di pausa ne approfitto per fare un salto al cantiere della scuola
secondaria. I lavori sono andati avanti da quando siamo arrivati, ma ad un ritmo che in
Italia sarebbe definito molto lento. Per fortuna in Africa il tempo non manca mai. Torno
sereno verso la clinica con il vento che mi carezza la faccia...
La troupe della Malaika Clinic
Padre Umberto stasera è in grande spolvero. Non ci lascia il tempo di finire la cena che
subito inizia a parlare del “suo” Luca. Di tutti i vangeli è il suo preferito. “Quando ho capito
Luca è cambiata la mia vita”, racconta con le lacrime agli occhi. “Luca è l’evangelista dei
poveri, dei piccoli, degli ammalati e degli esclusi. In una parola è l’evangelista di quelli che
in greco sono chiamati anawim. Sono quelli che non hanno occasione per studiare, per
conoscere la legge, come i pastori, i pubblicani, le prostitute, i samaritani. Luca li mette
sempre in primo piano, sono loro i veri destinatari del messaggio evangelico. Luca è anche
l’evangelista della misericordia del Padre, del suo Amore immenso per tutta l’umanità.”
La parabola del fariseo e del pubblicano è un esempio mirabile della diversità tra la
religione di Gesù e quella dei farisei. Padre Umberto continua con una passione
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sconvolgente: “Ci sono due tipi di pubblicani: i capi, come Matteo e Zaccheo, gente temuta
e potente, amica dei romani. I pubblicani in subappalto, invece, sono quelli veramente
disprezzati. Essi lavoravano per i capi, ed erano costretti a portare una certa cifra entro un
certo lasso di tempo. Per questo spesso erano usurai, strozzini, estorsori. Avranno rovinato
intere famiglie, avranno fatto morire bambini, sperando magari di poter diventare
anch’essi capi. Il pubblicano del tempio è uno di questi. E lo immagino una notte che non
riesce a dormire, che ripensa al male che ha fatto, poi magari ha degli incubi, si pente e
vuole convertirsi, vuole cambiare vita. Ma come fa a convertirsi, se non ha da dare indietro
quello che ha rubato? Ma non ha nulla, è disperato, ha degli incubi che lo assalgono. Poi
parte verso il tempio, di fretta, vuole andare a pregare, cercando qualcuno che lo aiuti. Si
ferma nel cortile dei circoncisi, e grida al Padre Ilasteti moi! Non si può tradurre questa
frase con “Abbi pietà di me”, come fa la nostra Bibbia. Ilasteti moi! significa letteralmente
“Paga per me, riscattami!” La capite la portata di questa cosa? Nell’Arca dell’Alleanza c’era
l’ilasterion, la tavola d’oro dove poggiavano i due cherubini. Era il punto focale
dell’incontro tra Dio e l’uomo. Originariamente questa parola indicava il prezzo che
bisognava pagare per riscattare uno schiavo. Il pubblicano dice: Paga i miei debiti, le mie
colpe, perché io sono un povero miserabile, non riesco più a vivere in questo mondo falso
che mi sono creato, sono schiavo di me stesso, dei miei peccati, della mia debolezza.
Ragazzi, siamo a sei giorni dalla crocifissione e morte di Cristo. Gesù ha pagato davvero, ha
pagato per tutti. Ci ha riscattati a prezzo del suo sangue. E’ l’amore grande del Padre che ci
dona la salvezza anche se non ce la meritiamo, anche se siamo fragili e deboli.” Padre
Umberto si è riscaldato, è rosso in volto ma parla con una dolcezza magnifica. Si ferma un
po’ poi dice sorridendo a bassa voce: “Vi ho annoiato, eh?”
Quando Gesù vuole parlare del Regno prende spesso in braccio un bambino. “Certi
sacerdoti si ostinano a dire che essi rappresentano l’innocenza. Che assurdità!” La voce di
padre Umberto si scalda. “Sappiamo benissimo che i bambini sono delle pesti, che ti
fregano alla grande, sono proprio il contrario dell’innocenza semmai.” Ciò che vuole farci
capire Gesù invece è che i bambini si fidano dei genitori nel modo più assoluto,
ciecamente. Gesù ci suggerisce di abbandonarci tra le braccia del Padre, senza paura.
L’amore del Padre non ha confini, non tiene conto delle nostre colpe. Una madre non
smette di amare il figlio ladro o assassino. Nemmeno il Padre può smettere di amare i suoi
figli. Anzi, se sono ladri, assassini, prostitute, adultere, Egli li ama di una amore ancora più
grande. Perché ne hanno più bisogno. Proprio come il Figlio minore della parabola del
Padre Misericordioso, che si accorge di avere un grande bisogno dell’amore del Padre...
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19/08/2008
GIUBILEO…IN LIBERTA’
Il martedì è il giorno della distribuzione mensile. Oggi è il turno del compound di St.
Anthony. Ma oggi è anche una giornata speciale e in mattinata dobbiamo recarci ad
Ibenga. Il 19 agosto di venticinque anni fa moriva Mons. Francesco Mazzieri. Oggi tutta la
diocesi di Ndola vuole festeggiare il suo giubileo con una ricchissima celebrazione.
L’anfiteatro della foresta è già pieno di fedeli al nostro arrivo. Poi giungono in processione
dalla tomba del vescovo i celebranti. C’è il vescovo di Ndola, padre Max, padre Umberto,
padre Anselmo, padre Giuseppe e molti altri francescani giunti ad Ibenga per ricordare la
figura di questo grande servo di Dio. La messa ha una durata di quattro ore, ma non c’è
davvero da annoiarsi tra canti, balli, risate, applausi, fischi...Tutto è un’esplosione di gioia
incontenibile. Tra la folla passa qualche bambino che vende frittelle o gelati, giusto per
racimolare qualche kwacha. Durante l’omelia, in cibemba, non resistiamo a fare una
passeggiata verso il laghetto dentro alla foresta insieme ad alcuni drum players. Hanno
addosso il citenga, generalmente riservato alle donne, ma spiegano che per suonare gli
ngoma c’è una abbigliamento particolare. Sono giovani, uno è informatico, uno ingegnere
e uno meccanico. Dicono di voler venire in Italia prima o poi e gli impariamo qualche parola
per salutare in italiano. C’è anche il tempo di fare un salto alla tomba di Mons. Mazzieri per
stare un po’ in preghiera, oggi in comunione con tutta la chiesa locale. La messa intanto
prosegue. I diversi offertori sono la particolarità della messa zambiana. Oltre ai soldi si
portano generalmente frutta e verdura, ma anche animali come galline e capre. La messa
giunge al termine ma la festa proseguirà nel pomeriggio tra canti, balli e tornei sportivi...
La celebrazione del giubileo di Mons. Mazzieri
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Di ritorno da Ibenga sul fuoristrada sento una strana sensazione addosso. Mi sento libero
come non mai, guardando fuori dal finestrino verso le distese di foresta zambiana, col
vento che mi leviga dolcemente il volto. Rendersi conto di essere liberi è un’esperienza
fantastica. La verità vi farà liberi diceva Gesù ai suoi, ma anche la libertà vi farà veri
aggiungeva Mons. Franceschetti qualche anno fa ai giovani. Non si può essere veri senza
essere liberi, così come non si può essere liberi se la verità non è in noi. La vita è un canto
di libertà, scriveva Gibran nel Profeta. E’ una dolce melodia scritta sulle note della freedom.
E ora, sul fuoristrada, voglio soltanto cantare alla vita. E mi ritrovo, bambino, a dare forma
alle nuvole, ora il leone, ora la iena, ora il falco alto levato...
In seconda fila, Padre Anselmo Bonfigli e Padre Umberto Davoli
Maria Pia sta iniziando la distribuzione a St. Anthony, nel cortile della chiesa. Ogni famiglia
riceve farina, olio, sale, zucchero, saponi vari, kapenta e fagioli. Tutto questo grazie
all’impegno di numerose famiglie italiane che adottano altre famiglie zambiane. Le donne
sono in fila con la tessera in mano e, spesso, i bambini sul citenga dietro alla schiena. Ci
sono anche qualche disabile e parecchie donne anziane. Una di queste, Quin, ha talmente
tanta energia che si mette a ballare tra le risate di tutti, Pia compresa.
Altre donne non sono brave come lei a casa. “Tuo figlio non va a scuola e non lavora”, dice
Pia, “questo mese solo farina. La prossima volta voglio vedere i quaderni...” Tutti i mesi Pia
ripete sempre le stesse cose, ma è difficile far capire alle famiglie l’importanza della scuola
e del lavoro. Gli aiuti sono assicurati, ma alle famiglie è richiesta una cifra simbolica (circa
sei euro) da versare ogni mese. In un paio d’ore si riesce a sistemare tutte le persone
presenti.
In fondo alla fila resta solo una ragazzina, molto carina, con un bimbetto di cinque mesi in
braccio. “Quanti anni hai?”, chiede Pia. Dice di averne diciassette, ma probabilmente
anche di meno. E’ stata messa incinta e poi il ragazzo non si è più fatto vedere. “Succede
sempre più spesso, da qualche anno a questa parte”, è il commento di Maria Pia. “Non
sanno cos’è l’amore, non hanno idea di cosa sia la responsabilità...”
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Quin si esibisce nella danza...
Maria Pia e le sue collaboratrici pronte per la distribuzione
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20/08/2008
FANGO E GRATTACIELI
Arriviamo col pulmino abbastanza presto. A Malaika tutto è già in fervore. I bambini come
sempre ci inseguono sulle note di Pia, Pia! Davanti alla clinica si è già formata una bella fila
di gente, e per fortuna la signora che vende le frittelle è già lì, a due passi dall’insaka.
Fanwell e i muratori sono già al lavoro, chi a scavare la ghiaia, chi a costruire la scuola.
Anche Carol e le mayo sono pronte per dare la colazione ai bimbi. Prima di recarmi in
clinica c’è tempo di stare un po’ di tempo con loro. Il piccolo Wadia mangia ancora una
volta tutta la scodella di porridge sulle mie gambe. Poi ci sono Chanda e la sorella. Chanda
è sempre sorridente ma schivo, e al solo vedermi si rifugia dietro alla sorella facendo dei
gran lamenti. Terminata la colazione faccio un salto da Janet per darle il buongiorno. La
trovo sorridente, ma mi ricorda subito che dovevamo portarle le pile per la radio. Le
assicuro che provvederemo, pensando a quanto mi scordo facilmente delle promesse che
faccio.
Davanti al centro nutrizionale i bambini si sono già inventati qualche cosa da fare. Oggi
giocano un po’ con il fango, creando sculture e forme. Alcuni bambini prendono la sabbia
dal termitaio, poi la impastano e portano il fango ottenuto per far giocare gli altri. Una
bella scena. Rinuncio a tutte le mie remore e prendo anche io un pugno di fango per fare
qualcosa insieme a loro. Poi la mia mente si ferma. Non so davvero cosa fare con il fango.
Alla fine esce qualche cosa di simile ad una banana e la mostro ai bambini soddisfatto.
Spinti dalla curiosità, tutti si accalcano intorno a me per vedere che cosa ha fatto il
musungu, ma penso siano rimasti delusi perché subito mi tolgono la banana di mano e la
rimpastano nel fango. Forse avevano ragione perché a guardare le loro creazioni c’è da
rifarsi gli occhi. Riescono a fare di tutto:i pupazzi, le macchine, gli utensili da
cucina...davvero la genialità e la creatività di questi bambini non ha paragoni. Mubanga mi
mostra soddisfatto il suo car. È un fuoristrada con tanto di fari e paraurti. Poi lo mette ad
asciugare al sole e più tardi torna da me dicendo “For you!”...un gesto di vero cuore...
Wadia
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Mubanga e il suo car...
Alla clinica mi ritrovo di nuovo da solo e riesco a concludere poco niente. Dopo pranzo
invece di tornare al lavoro vengo coinvolto nella partitella messa su da alcuni bambini. Con
me ci sono Mubanga, il fratello Cisanga, Mwape, Leonardo ed altri. Il caldo e soprattutto il
pranzo che si rigira nello stomaco si fanno sentire, ma riesco a segnare due goal con la
tecnica del “sto fermo davanti alla porta e aspetto che me la passano”. Sembra proprio che
funzioni quando non è previsto il fuorigioco...
A casa troviamo di nuovo padre Umberto. Questa volta si presenta con la Spe salvi del
Papa, per leggerci alcuni passi a conferma di quello che ha detto le volte passate. “Ho
paura che abbiate preso quello che ho detto come un inno al lassismo”, confessa. “Prendo
in prestito il Papa. Dice che Dio concilia in sé grazia e giustizia nei confronti di noi peccatori.
E’ in questo senso che si dice che Dio non è giudice. Egli ci ama come un padre e una
madre, con amore onnipotente e incondizionato. Questo però non significa che possiamo
fare come ci pare. Il ragazzo non prende a calci la ragazza che ama dicendo tanto mi amerà
per sempre. In realtà se io scopro che Dio mi ama non posso fare a meno di cambiare vita.
Scopro infatti anche quanto è vuota la mia vita senza amore. Guardate i giovani del mondo
ricco. Guardateli e vedete se sono felici, se hanno una pienezza di vita. Al contrario, sono
vuoti, e si riempiono di droga e divertimento. Ma la colpa non è loro. Crescono come dei
piccoli sovrani, hanno tutto ciò che desiderano, troppo! Guardate piuttosto i bambini
africani. Non troverete mai una gioia e una pienezza più grandi nel mondo. Essi hanno
capito la vita, perché sono poveri e possono vivere soltanto di amore. Basta poco per
renderli felici: una caramella, un sorriso, una corda per saltare. La verità è che la ricchezza
rende ciechi ed egoisti.”
Nella sala scende il silenzio. “Bene, ho parlato troppo anche stasera. Penso che resterò a
cena, ho una fame...”
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21/08/2008
UNA GIORNATA TUTTA AFRICANA
My last day. Oggi il lavoro alla clinica è breve perché voglio passare più tempo possibile
con le persone di Malaika. La partitella mattutina è entusiasmante, ma mi sento l’amaro in
bocca al pensiero che è l’ultima con i miei amici zambiani. Come è bello sentirsi chiamare
per nome ormai da quasi tutti i bambini, ma è ancora più bello scoprire che riesco a
ricordare parecchi nomi...ben più di quelli che pensavo. I bambini fanno colazione, poi ne
approfitto per fare un salto a casa di Janet. Nel frattempo i bambini si sono inventati i soliti
giochi, ed io mi metto a sedere in mezzo a loro non facendo nulla. Ascolto il loro
borbottare, guardo i loro occhi, assaporo i loro sorrisi, godo della loro manine che mi
carezzano il volto e i capelli. Se prima ero musungu ora sono per tutti Devisi. Le ragazzine si
divertono a chiamarmi per poi nascondersi e fare sorriseti maliziosi.
Dopo pranzo io e Leonardo, in partenza domani, iniziamo un grande giro per salutare tutti.
Innanzitutto i bambini, e questo è facile perché sono tutti nel Centro nutrizionale per il loro
pranzo. Carol e Anna li spronano a cantarci una canzoncina di addio. Eccolo il piccolo
Wadia che ancora una volta viene verso di me con le braccine alzate e un sorriso birichino.
E lo abbraccio per l’ultima volta, lui, con quel pancino rotondo e quegli occhi così luminosi.
Salutiamo Carol e le mayo. Leonardo esagera e le bacia tutte, tra le risate generali delle
altre donne. E godiamo del privilegio di avere un urlo tutto per noi. Poi andiamo a casa di
Janet per salutarla calorosamente. Lei ci ringrazia di tutto, anche delle batterie che
finalmente le abbiamo comprato. A scuola speriamo di incontrare Petronella e Sidney, ma
non ci sono e lasciamo detto di salutarli da parte nostra. Un salto nella fabbrica di mattoni,
e poi via verso la clinica, dove Leonardo si mette a baciare tutte le donne possibili. Cecilia
mi ringrazia per il lavoro (poco) che ho fatto in questi giorni e mi raccomanda di non
dimenticarmi della Malaika Clinic. Nel frattempo Leonardo è sparito e scopro che è
abbracciato con Anna, la receptionist, mentre lei lo chiama my son e lui mamy. Davvero
una scena esilarante...
Leonardo con Anna, mamy...
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Incontriamo Mubanga, Edwini e gli altri e chiediamo se gli va di accompagnarci verso il
centro di Luanshya passando per il compound. Ovviamente ci accompagnano. Grazie alla
loro presenza è stata una della più belle passeggiate che io abbia mai fatto. Salutiamo tutte
le persone che incontriamo, tutti sono molto cordiali e amichevoli. Incontriamo un uomo
che cerca di parlarmi in lamba, ma gli spiego che so soltanto l’inglese sperando che abbia
capito. Ci fermiamo poi in un chioschetto e compriamo sweeties e aranciata per i bambini
che ci accompagnano. Loro, contentissimi, vanno in giro sorseggiando e commentando la
faccenda a modo loro. Arrivati sulla strada principale li facciamo tornare a casa salutandoli
con affetto. Devo ammettere che mi mancheranno. Facciamo solo pochi passi che mi sento
chiamare per nome. Sono quattro ragazze che avevamo salutato a Malaika, che ora stanno
tornando a casa. Sembrano già grandi ma hanno solo tra i sedici e i diciassette anni.
Leonardo ovviamente fa il playboy della situazione e i commenti positivi si sprecano. Si
parla del più e del meno, della scuola e dei sogni di ognuna di esse, poi si prende una Coca
e delle patatine fritte in compagnia. Una ragazza, Petty, vuole il mobile number di
Leonardo, e pur di averlo se lo incide bianco su nero sul braccio con una cannuccia. Non
penso che lo cancellerà prima di averselo scritto da qualche parte. Il sole su Luanshya è al
tramonto e anche sul nostro viaggio in Africa. Passando al mercato prendiamo due patate
dolci da sgranocchiare mentre ci godiamo gli ultimi momenti in questo posto magnifico in
cui la vera ricchezza è il cuore delle persone...
Con Mubanga, Edwini, Moses, Mwape e gli altri...
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22/08/2008
DUE OCCHI…E UN SORRISO
Il volo Ndola – Johannesburg della South African Airlines è in perfetto orario. Dall’oblò
scorro con gli occhi e con la mente l’Africa e le sue meraviglie…il fiume Zambesi, il deserto
del Kalahari…tutto sembra allontanarsi senza pietà, con una fretta che solo l’aereo può
avere. Il mio distacco con la terra africana è stato più nostalgico del previsto. Il mal d’Africa
non è soltanto un’invenzione di pochi ma una realtà per molti, forse per tutti quelli che
hanno assaporato questa terra, con i suoi colori caldi, il suo odore di bruciaticcio, le sue
persone dal cuore limpido…Ora posso dirlo. Tutto questo è l’Africa, e forse ancora di più.
Ero partito senza sapere cosa sono venuto a fare qui, in questo posto fuori dal mondo. Ora
so che non sono venuto a fare ma a vivere. Per noi occidentali è così difficile capire la
differenza, così abituati a vantarci del nostro lavoro che produce cose. Siamo gli uomini del
fare, dei doers. Forse l’Africa così povera di cose ma così ricca di persone può insegnarci
davvero qualcosa sulla vita. In Zambia ho visto l’assurdo di un’opulenza volgare e ostentata
proprio di fronte alla miseria del povero che invoca aiuto, che forse non sa nemmeno se
quel giorno riuscirà ad avere un piatto di bwali. Un’opulenza pornografica, che crea
soltanto l’invidia e la disperazione del povero. Cartelloni pubblicitari di banche e telefonia
mobile sopra capanne dal tetto di paglia che non hanno né acqua né luce. Un’oscenità da
gridare ai quattro venti senza timore. Silvia diceva una volta rispondendo alla consueta
domanda di Federico di essere venuta in Zambia per osservare e per sporcarsi le mani.
Ecco di cosa c’è bisogno. Ne ho abbastanza di mani igieniste, pulitissime, che non toccano
nulla di compromettente tranne il denaro. E’ stato stupendo sporcarsi le mani con la terra
rossa africana o con il fango giocando con i bambini. Le mie mani sudice e polverose mi
rivelavano che c’è qualcosa d’altro nella vita che ancora non abbiamo compreso, che
bisogna ritrovare il contatto con le persone anche sporcandosi le mani. Non esiste contatto
umano che non ci contamini anche un poco, che non ci faccia smuovere le viscere in
qualche modo. Ho capito che bisogna infettarsi toccando le persone, abbracciandole,
amandole senza riserve. E’ ora di mettersi in gioco dalla parte degli ultimi, di quelli che
non hanno voce in capitolo. E’ ora davvero di scorciarsi le maniche per liberare gli oppressi
e dare il pane agli affamati, senza pretendere il diritto ad avere il piede su due staffe. Lo
Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha
mandato per annunciare ai poveri il lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la
liberazione, ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di
grazia del Signore. E’ con questo spirito che dobbiamo fare i conti, non si tratta di essere
buoni perché adottiamo un bambino o facciamo i volontari per un mese. Non è questa la
giustizia cristiana. E allora forse c’è davvero qualcosa d’altro. L’ho ripetuto parecchie volte
senza mai spiegare che cos’è quest’altro. In realtà prima non lo sapevo neanche io. Ora lo
so, credo di averlo intuito. Lo si legge negli occhi delle persone, nei loro sguardi, nei loro
sorrisi, in una parola detta sottovoce. Non è un libro che tutti sono in grado di leggere. Solo
chi ha il cuore umile (ed ho scoperto di non essere tra questi) e sincero può capirci
qualcosa, ma quel che è certo è che l’Africa non può essere spiegata a parole. Bisogna
farne esperienza per comprenderla, e qualche frate mi diceva che in trenta anni in Zambia
non è riuscito a capire un briciolo di tutto ciò che l’Africa rappresenta. E allora cosa mi
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resterà di questo viaggio di scoperta, che come scriveva Marcel Proust, non consiste nel
cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi? Si, ne sono certo. Mi accontenterò di poco.
Mi basterà uno sguardo carico di senso, e una bocca dai denti perlacei…Amenso yabili ndi
kuseka kamo. Due occhi, e un sorriso.
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INDICE
UN SOGNO TUTTO AFRICANO
ALLORA...L’AFRICA?
WE FOR ZAMBIA
LA CARICA DEI BASUNGU
BLACK AND WHITE
JANET, LA DISABILE DI MALAIKA
MISSIONE...IN FORESTA
HAKUNA MATATA
SAN LORENZO...NELL’INSAKA
RICCHEZZA E POVERTA’
UGUALI O DIVERSI?
CICETEKELO, PIANETA SPERANZA
CHIBOTE A TE, FRATELLO MIO...
DEPRESSIONE? NO, AMORE...
UOMINI E DONNE
CRISTO, PLATONE E LO SCACCO AL RE...
ILASTETI MOI
GIUBILEO...IN LIBERTA’
FANGO E GRATTACIELI
UNA GIORNATA TUTTA AFRICANA
DUE OCCHI...E UN SORRISO
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