Speciale Convegno - Diocesi Suburbicaria Velletri

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Speciale Convegno - Diocesi Suburbicaria Velletri
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia, pastorale per la vita della Diocesi di Velletri-Segni
Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 96100596 - curia@diocesi.velletri-segni.it
Anno 5 - numero 2 (40) - Febbraio 2008
IN QUESTO NUMERO:
Speciale Quaresima
Speciale convegno
Caritas
Grandi Temi
- Convegno Pastorale
Diocesano
- Rassegnarsi alla
povertà
- Quaresima
- L’aborto e la grande
Testi e commenti dei
la grande moratoria di
Vangeli
Ferrara
Concilio Vaticano II
Diaconato
- La collegialità
episcopale
- Perchè è importante
diventare diacono
oggi
Speciale comunità
Diritto e Matrimonio
- Parrocchia di S. Bruno - Il Matrimonio nel
Diritto Canonico
Colleferro
Febbraio
2008
2 Speciale Convegno
? Mons. Vincenzo Apicella
Il Convegno diocesano appena concluso ha mostrato, ancora una volta, il vero volto della nostra
chiesa, fatta di persone motivate e attente, vivaci e, al tempo stesso, consapevoli della loro responsabilità.
D’altra parte, il tema trattato, “Gli organismi di
partecipazione nella chiesa”, era proprio tagliato su misura dell’assemblea, composta da presbiteri, diaconi e congregazioni religiose, ma soprattutto dai laici, delegati dalle parrocchie e dalle
aggregazioni della diocesi. Ma l’espressione che
rimane più profondamente nella mia memoria
è una frase, detta quasi incidentalmente, del professor Diotallevi: “la chiesa non è il primo problema della chiesa”.
Tutto il cammino che stiamo percorrendo,
infatti, non ha come scopo primario quello di elaborare programmi e progetti
che facciano funzionare meglio
una organizzazione o rilanciare
una immagine più accattivante
della comunità cristiana. Alla base
c’è una vocazione ed una missione che abbiamo ricevuto, la
vocazione è quella di seguire Gesù
Cristo e la missione è quella di
rendere concreta ed efficace la
sua presenza nella nostra storia e in quella dei fratelli.
Il problema non è, allora, quello di progettare ma di rispondere, diceva il relatore, è di scegliere
secondo il Vangelo e, quindi, di
discernere ciò che il Signore oggi
ci chiede, relativizzando noi
stessi e non mettendoci al centro della scena. Cristo risorto opera sempre nella sua chiesa e, nello Spirito Santo, continua a parlare al nostro cuore: per questo
non ci perdiamo d’animo e sap-
piamo di non cominciare da zero, abbiamo la
sua Parola, i Sacramenti, in special modo l’Eucarestia,
che richiede da noi la stessa “presenza reale”,
assicurataci da parte sua dal Signore.
Questo rapporto continuo è scandito dall’Anno
liturgico, che ci fornisce il nutrimento necessario al tempo opportuno e, quest’anno, ci sta portando velocemente alla Quaresima e alla
Pasqua.
Proprio nella Quaresima siamo chiamati a scoprire sempre più profondamente la portata del
nostro battesimo, non solo come singoli, ma anche
come comunità, confrontandoci anzitutto con la
tentazione, necessaria e provvidenziale per Cristo
come per noi e per la chiesa, poiché solo in questo modo possiamo renderci conto di ciò che abbiamo nel cuore. Anche alla chiesa viene proposto di cambiare le pietre in pane, quando pensiamo di accontentarci senza sforzi della solita
routine, di mettere in piedi una bella organizzazione
Mons. Apicella durante i lavori del convegno
di servizi, magari utili e “filantropici”,
dimenticandoci che per vivere occorre nutrirsi anzitutto della Parola di Dio,
che sempre ci sorprende e ci sospinge sempre oltre.
Anche la chiesa è tentata di dare spazio a ciò che è “spettacolare”, che “fa
colpo”, nelle varie forme, tradizionaliste o progressiste, col rischio di voler
essere noi a dettare al Signore i tempi e i modi con cui attuare e manifestare la sua opera di salvezza.
Non è, infine, troppo difficile riconoscere che anche nella chiesa esiste
la tentazione del potere e della ricchezza,
magari “a fin di bene” e con le migliori intenzioni, ma che porta inesorabilmente
all’idolatria e al tradimento di Cristo,
che ci ha arricchito con la sua povertà e ci rende forti per mezzo della debolezza della sua croce:…”vi mando come
agnelli in mezzo ai lupi…”(Lc.10,3), e
quante volte ci lamentiamo della
mancanza di mezzi umani per attuare le nostre lodevoli iniziative! Un ascolto attento della Parola di Dio in questa Quaresima illumina il nostro cammino di chiesa e ci fa salire sul monte della Trasfigurazione, per farci scoprire che solo attraverso la passione
si giunge alla gloria che risplende sul volto del
Risorto e che, come ci ha ricordato recentemente
Benedetto XVI, “nella speranza siamo salvati”,
una speranza che non delude, poiché lo Spirito
di Cristo è stato riversato nei nostri cuori, che
sono stati confermati e resi capaci di “ascoltarlo”, cioè di seguirlo, nell’obbedienza al Padre.
E’ lo stesso Spirito, acqua zampillante in eterno dal costato di Cristo e in cui siamo stati battezzati, che ci rende veri adoratori di Dio nella
chiesa e, liberandoci dalle nostre infedeltà, ci permette di amare e di annunciare l’amore ricevuto, mostrandoci lo sconfinato campo di lavoro
e la inaspettata messe, in attesa degli operai che
se ne prendano cura. Infine i grandi segni della guarigione cieco nato e della resurrezione di
Lazzaro ci aiuteranno a liberarci dalla presunzione
dei farisei, che pretendono di vedere senza
amare, e dalla rassegnazione iniziale di Marta
e Maria, con le quali dovremo
scoprire che nessun sepolcro
è definitivo e nessuno, compresi
noi, è tanto morto da non
poter essere risvegliato dalla vita,
che è Cristo risorto.
Il cammino quaresimale, quindi, non sarà solo individuale e
personale, ma anche comunitario e sociale (cf. SC 110), accompagnando, anche quest’anno,
i catecumeni adulti che, durante la veglia pasquale, entreranno
a far parte a pieno titolo della
nostra chiesa, da cui attendono la testimonianza che il
nostro battesimo ci rende veramente “segno e strumento” della presenza del Signore.
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Speciale Convegno 3
La Chiesa in Italia è viva e vivace con problemi che
derivano dalla difficile situazione della società italiana
della quale fa parte
Mons. Luigi Vari
Fra il 18 e 20 gennaio si è celebrato il convegno diocesano, appuntamento che ormai da anni è un punto fermo nel cammino della nostra diocesi. Un convegno serve soprattutto ad incontrarsi per riflettere
su temi che si considerano importanti per la vita della Chiesa. Riflettere, guidati da persone che, su campi specifici hanno una particolare competenza, aiuta a dare corpo alle intuizioni, e, pure se questo non
appare immediatamente, a progettare cammini che
aiutino a vivere meglio la propria esperienza. L’anno
appena trascorso ha visto la diocesi, ad esempio,
riflettere sulla Parola di Dio , riprendendo la riflessione della Dei Verbum. L’utilità di quella riflessione
sta nel passaggio dall’intuizione per cui occorrerebbe
più Bibbia nella vita pastorale alla convinzione che
ne occorre di più ed anche all’acquisizione di strumenti che possono rendere possibile la maggiore presenza della Parola nella vita delle diverse comunità.
Il convegno, pensato in questa maniera è una risposta ad una domanda diffusa che, a sua volta, chiede una risposta alle comunità della diocesi che fanno tesoro delle indicazioni per poterle poi verificare, modificare ed arricchire.
Ad un convegno, quindi, si deve solo chiedere che
tracci una pista verso obiettivi condivisi , sono poi
le parrocchie che decidono di percorrere quella pista
e danno significato alla riflessione, oppure di ignorarla e di non utilizzarla.
L’ultimo incontro ha avuto come tema quello della
partecipazione. L’attualità della domanda nasce dall’esperienza che vede una crisi forte delle strutture
di partecipazione in molte parrocchie, infatti, come
più volte è stato sottolineato , le forme delle partecipazione stentano a decollare; i consigli pastorali faticano, i consigli degli affari economici sono spesso
ridotti al lumicino.. Ci si domanda se questo sia la
punta di un iceberg , cioè se mancano le forme della partecipazione perché la gente non partecipa alla
vita della Chiesa in generale, oppure se sia un problema di malinteso senso di delega da parte di molti laici che, protagonisti nella vita della Parrocchia,
non ritengono di doversi far carico di tutta la vita parrocchiale pensando che questo sia un problema del
parroco.
Il convegno ha
risposto attraverso lezioni e testimonianze che hanno evidenziato alcuni elementi, hanno, cioè tracciato una pista.
La prima risposta nasce da una riflessione sulla Chiesa
che ha dominato la prima serata del convegno , è
apparso con chiarezza che la Chiesa in Italia è viva
e vivace con problemi che derivano dalla difficile situazione della società italiana della quale fa parte, attenta ad essere presente senza voler diventare parte
o controparte del potere politico. Certamente il clima di sospetto e del tutti contro tutti nel quale si vive
in Italia tende ad esasperare parole e comportamenti,
ma il comandamento di
esse-
Pastorale non dice: ci vorrebbe un oratorio, ma: facciamo un oratorio.
La mattina del Sabato ha visto un intervento molto
interessante sulle strutture di partecipazioni al quale è seguito il lavoro dei gruppi che hanno dato delle indicazioni e delle testimonianze molto profondei
delle quali è stata fatta la sintesi nel pomeriggio di
Domenica.
L’indicazione, però più coinvolgente è venuta dalle
testimonianze previste per la sera del Venerdì e per
il pomeriggio della Domenica.
La sera del 18 i giovani animatori dell’associazione
nata a Locri: “ed ora ammazzateci tutti”, reduci di una giornata
passata di fronte al palazzo
del CSM dove si
decideva del giudice De Magistris,
hanno portato
una ventata di
passione e dalle loro considerazioni nate
anche da drammi personali,
nasceva
la domanGruppi di studio al lavoro
da ai cristiani di
re nel mondo senza essere del mondo ha sempre essere presenti nel territorio con coraggio, con schietcreato qualche tensione e sempre deve essere com- tezza di parole e di comportamenti. Non una richiepreso. La Chiesa dunque c’è. L’altro problema che sta generica dal momento che essa poneva come
nasce e che nel convegno è apparso, riguarda l’ar- esempio positivo l’opera del Vescovo di Locri, mons.
monia delle diversità che formano la Chiesa; alcuni Bregantini. Molto bella la loro provocazione che inviconvegnisti sono rimasti un po’ perplessi da alcuni tava, ma è un tema che si sta facendo strada anche
accenni fatti ai movimenti ed ai cammini. Credo che per opera di molti missionari, a difendere la vita, tutsu questo tema non dobbiamo essere ideologici; per- ta la vita, nel suo iniziare e finire e nel suo svolgerché prendersela con chi, di fatto, in molte realtà con- si.
tinua l’azione missionaria della Chiesa? È vero che Emozionante è stata la testimonianza del dott. Paolo
la Parrocchia è la somma di tutto, ma, spesso, quan- Giuntella che ha concluso i lavori, da questo giordo mancano anche i movimenti, la somma degli adden- nalista, scout, membro del Consiglio pastorale deldi rischia di essere zero. Allora come fare perché ci la sua parrocchia, sono venute parole che hanno spiesiano addendi da sommare? Qui entra il discorso del- gato che cosa significhi appassionarsi del Vangelo
le Parrocchie che devono ricominciare a riflettere su e della sua debolezza. Un invito a cercare tutti i mezse stesse, sul loro mandato di evan- zi per portare Cristo a tutti, ma a farlo con povertà,
gelizzare e che, per far- con umiltà, mostrando più il sorriso che i muscoli.
lo, non si posso- In un convegno nel quale la domanda iniziale semno affidare solo alle brava essere un po’ burocratica centrata come era
intuizioni del par- sulle forme della parteroco. Nasce la cipazione, si è finito per
necessità di un parlare di evangelizzazione
consiglio pastorale e di testimonianza a dire
che aiuti a com- che non si fanno consiprendere le stra- gli pastorali per moltiplide da percorrere care le riunioni, ma per
e che si faccia cari- aiutarci ad essere più testico di creare le con- moni e più evangelizzadizioni per farlo. tori.
Il Consiglio
Gruppi di studio al lavoro
4 Speciale Convegno
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mancanza di un minimo di progettualità pastorale.
In qualche parrocchia non c’è
il CPP.
mons. Luigi Vari
Nella mattinata di sabato 19 gennaio c’è stato, dopo
la relazione di Mons. V. Peri sugli organismi di partecipazione nella Chiesa, un lavoro per gruppi sulla partecipazione e corresponsabilità che si sperimenta negli consigli pastorali delle nostre parrocchie.
I gruppi erano otto di circa 10-15 persone per gruppo.
Ecco la sintesi dei lavori.
La chiesa e gli organismi di partecipazione
la prima parte del lavoro di ieri mattina è stata dedicata ai motivi del perché gli organismi di partecipazione (si è fatto riferimento al CPP) fanno fatica a funzionare.
Un primo gruppo di motivazioni è legato ai membri del CPP: la loro presenza non sempre è rappresentativa della realtà parrocchiale (i giovani non
sono molto presenti in esso e anche i religiosi);
si nota una fatica ad un ricambio generazionale
o anche a crearne le condizioni; in molti casi si
ha l’impressione di girare a vuoto, e cresce una
sorta di insoddisfazione del lavoro svolto. Si avverte, insieme alla necessità di una formazione alla
vita spirituale (le motivazioni della presenza
e dell’agire); la carenza
all’ ascolto dell’altro che
pensa ed agisce diversamente, e la fatica ad
agire in unità. Questo porta anche ad un abbandono dell’impegno preso o ad un calo di tono
e di qualità di tempo rispet-
2. Quali i passi da compiere (iniziative, scelte di fondo, atteggiamenti, ecc) perché parole e
concetti forti quali: <comunione>, <corresponsabilità>, <partecipazione>, <luogo di scelta
ecclesiale> diventino prassi
ecclesiale?
Il richiamo alla formazione
sembra essere il ritornello cantato da tutti i gruppi: è una formazione alla vita spirituale,
occorre crescere nella imitazione
di Gesù Cristo (ascolto della Parola,
preghiera, vita comunitaria,ecc).
La scelta dei membri del
CPP (chi li sceglie? Come vengono scelti?), è un passaggio
fondamentale per il cammino e
per gli stimoli che esso sarà in
grado di offrire alla comunità parrocchiale.
È stata richiamata più volte la necessità di un progetto pastorale diocesano verso il quale il CPP
si pone a servizio nella diversità dei territori in cui
sono presenti le parrocchie. Questo potrebbe aiutare i CPP a lavorare con un po’ di capacità progettuale. A questo proposito si potrebbe fare qualche incontro a livello diocesano tra rappresentanti
dei diversi CPP per confrontarsi sulla identità e sul
metodo di lavoro e per far circolare qualche esperienza di partecipazione più matura e efficace.
Favorire la partecipazione del laico nella fase del-
to allo slancio iniziale. Nessun gruppo di lavoro ha
sottolineato posizioni decisioniste o autoritarie del
parroco all’interno del CPP, in qualche si è invece sottolineato la delega al parroco nel fare proposte o indicare soluzioni. Forse i membri del CPP
non hanno conoscenza del territorio? Si è spenta la loro vena creativa? Manca il coraggio? C’è
poco tempo? Non ci si sente all’altezza del compito?
Un secondo blocco di motivazioni le possiamo raggruppare sull’identità del CPP. In molti casi non
c’è chiarezza
condivisa circa
le finalità e le
funzioni. Allora
c’è il rischi per
non sentirsi dire
che <qui non si
fa niente e si
conclude poco>
di diventare un
luogo operativo (ad es. in
molti CPP ci si
incontra per
organizzare la
festa o incontri comunitari).
Gruppi di studio al lavoro
Il provare ad
esercitare la responsabilità con il discernimento lo studio di un problema, nella elaborazione dele far maturare le decisioni sembra essere un tra- le possibili soluzioni e nel dare forma alla decisione.
guardo non troppo vicino. Gli argomenti all’o.d.g. In questo modo il CPP assicura la continuità del
vengono talvolta percepiti non corrispondenti alle lavoro pastorale anche di fronte ad un cambio del
esigenze delle persone e della comunità parroc- parroco. In alcuni gruppi (due per la precisione)
chiali: chi fa l’o.d.g.?. In molte parrocchie l’o.d.g. è stata fatta notare la necessità che il CPP sia visi(cioè l’elenco dei temi/problemi fatti oggetto di dis- bile nella comunità parrocchiale per favorire il suo
cussione) rivela un procedere a piccoli passi e la essere luogo di comunione.
Febbraio
2008
Stanislao Fioramonti
La giornata conclusiva del Convegno Pastorale
Diocesano, domenica 20 gennaio nel Teatro
Aurora di Velletri, ci ha donato la testimonianza del
dr. Paolo Giuntella, il noto giornalista del TG1.
Paolo Giuntella è nato a Roma il 5 ottobre 1946.
Suo padre Vittorio (1913-1996) è stato docente di
Storia alla “Sapienza” e cattolico impegnato in politica (nella DC con Moro e Dossetti) e per i diritti
umani, in particolare per l’Opera Nomadi.
Da giovane Paolo ha frequentato lo scoutismo cattolico (Agesci), è stato attivo nei gruppi cattolici ed
è stato anche dirigente nazionale dell’Azione Cattolica.
Si è laureato in Storia Contemporanea alla
“Sapienza” ed ha approfondito i suoi studi di Storia
economica grazie a una borsa di studio del CNR
(Consiglio Nazionale delle Ricerche).
Ha iniziato a lavorare come giornalista “free lance” (libero professionista), poi fu assunto all’”Avvenire”
come redattore parlamentare, quindi al “Mattino”
di Napoli come capo della pagina culturale e dei
supplementi. Nel 1998 è entrato nella RAI al TG1,
nella redazione del “TG7”, il settimanale di attualità del quale poi fu nominato curatore; dal 1993
al ’94 è stato capo degli speciali del TG1, quindi
inviato speciale. Dal 1999 è il quirinalista della testata, e ci informa dell’attività del Presidente della Repubblica
Giorgio Napoletano, dopo aver seguito il suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi.
Giuntella è stato uno dei fondatori ed è il presidente
della “Rosa Bianca”, associazione culturale impegnata fin dai primi anni ’80 nel dibattito socio-politico e nel dialogo interreligioso, cui aderiscono anche
persone non cattoliche o non credenti; la sede dei
corsi o conferenze o altre attività dell’associazione è spesso il monastero toscano di Camaldoli.
Il suo lavoro lo ha spesso portato in aree calde del
nostro tempo, come l’Irlanda del Nord, la ex-Jugoslavia
e in particolare il Kosovo, l’Albania della quale ha
raccontato la difficile situazione e la lenta evoluzione verso la democrazia. Da queste esperienze professionali o da esigenze personali più profonde sono ispirati i suoi libri: Dossier Irlanda (1974);
E’ notte a Kukas: storie di profughi, volontari e cronisti (RAI-ERI 1999); Kukas (Marietti-Nuova ERI,
1999); Il Concilio raccontato ai miei figli; E Dio suonò il sax (Marietti, 2002) nel quale, con un linguaggio
semplice e brillante, si affrontano argomenti di controversa attualità (guerra, profughi e rifugiati, ricerca della pace, problemi giovanili come la precarietà e la paura del futuro); Strade verso la libertà, il Cristianesimo spiegato ai giovani (Edizioni Paoline,
2004).
Paolo Giuntella è una vecchia conoscenza dei gruppi cattolici, giovanili e non, della nostra diocesi; lo
ricordiamo nel 1977 come uno dei relatori del convegno su don Milani, organizzato a Valmontone dal
Centro Giovanile Interdiocesano nel decennale della morte del curato di Barbiana; qualche tempo dopo,
invitato da mons. Bernini, partecipò a Gavignano
Speciale Convegno 5
a un incontro giovanile
diocesano;
infine dopo
circa venti
anni è tornato
a
Valmontone
per parlare a
uno degli
incontri quaresimali della parrocchia di S.
M a r i a
Maggiore.
Giuntella ha
iniziato a parlare dicendosi molto
contento di
essere a
Velletri, sia perché ritrovava mons. Apicella, che
era stato vescovo del suo settore quando era ausiliare di Roma, sia perché il primo vescovo di VelletriSegni, mons. Dante Bernini, era stato alunno di un
suo amato prozio nel seminario di Viterbo.
Ha detto di non aver nulla da insegnare a nessuno, di sentirsi un peccatore, un cristiano comune
che fa parte del Consiglio Pastorale della sua parrocchia romana di Cristo Re a piazza Mazzini. Il
suo impegno morale attuale è quello di trovare il
modo di risolvere l’interrogativo sentito da uno storico francese: si può trasmettere il piacere di essere cristiani?
Per secoli, ha detto, i cristiani hanno ecceduto in
pessimismo, in moralismo, mentre specie in un mondo come il nostro dovrebbero vivere la loro condizione con allegria perché, cita un pensatore francese, “la bellezza e l’amore ci riscattano dal banale”. Dobbiamo allora recuperare la dimensione dell’amore, parola che oggi è talmente sfruttata da sembrare retorica, ma che invece si deve rivalutare nel
suo significato più vero. E la comunicazione dell’amore comincia dall’amicizia, ha proseguito
citando il “Vi ho chiamato amici” del Vangelo di Giovanni;
chi crede nell’unità del genere umano, che si compirà, sono proprio i cristiani.
Diceva Vittorio Bachelet nel 1947, in piena guerra fredda: i cattolici devono combattere il male, ma
non possono essere nemici degli uomini, anche se
sono al servizio del male. E Charles de Foucault
ricordava che Gesù ci ha insegnato ad essere caritatevoli, uniti, umili con tutti, a non essere contro
nessuno. E i monaci morti per la fede in Algeria
anni fa hanno amato e pregato fino all’ultimo per
la gente musulmana.
Anche Paolo Giuntella, per una malattia che contrasta tenacemente (e ironicamente, tanto da definirsi un… diversamente sano), per la perdita di due
sorelle, per le esperienze della sua vita, ha capito che un cristiano deve unire profezia e mitezza,
lui che per tanto tempo ha lottato animosamente
per riunire tutte le pecorelle smarrite nell’ovile di
Cristo. Ha capito che il bene si fa con discrezione, che si deve amare con discrezione; sempre studiando, ricercando, dialogando, sempre pronti ma
senza invadenza.
Ha però anche avvertito di non ridurre il cristianesimo
alla filantropia da pianerottolo, di fare attenzione
a quei cristiani devoti, convinti di essere nel giusto, ormai già convertiti e quindi non più convertibili; forse sono migliori i non credenti o i non cristiani. Il cristiano deve invece considerarsi dentro
una grande, globale avventura; anche se gli sembra di fare poco (ha parlato proprio di pulire il sedere a un vecchio infermo o cambiare il pannolino a
un bambino…), deve sentirsi ogni giorno insieme
a tutti quelli che nel mondo – missionari, medici,
laici anche non credenti – lottano per l’uomo in nome
di Cristo; anche noi lottiamo insieme a tanti che
spendono la vita per la giustizia, la pace, la liberazione degli oppressi.
A conclusione dell’incontro è stata citata una storiella ebrea riportata da Bruno Forte in una sua operetta teologica. Il vero cristiano, ha notato Giuntella,
condivide con l’ebraismo la condizione dell’esilio,
del nomadismo verso la vera vita, perché per tutti la condizione dell’esilio è la condizione umana.
Allora se, come il saggio della storiella, i cristiani
davvero saltassero e ballassero il Vangelo, davvero potrebbero sentirsi guariti e pronti per il
Regno.
Parole che, dette da un
sessantenne pienamente attivo benché in
lotta per riguadagnare
la sua salute fisica,
sono davvero una bella testimonianza di fede
e di speranza.
Febbraio
2008
6 Speciale Convegno
La Chiesa, mistero di
comunione:
dialogo tra
don Dario Vitali e
Luca Diotallevi
Il Convegno pastorale diocesano si è aperto con
una particolare forma di intervento. Invece di due
relazioni sul tema della Chiesa, una dal punto di
vista sociologico, l’altra a carattere più teologico, i due relatori hanno tentato un discorso a due
voci, un dialogo o, se si vuole, un’intervista.
La particolarità, peraltro, è stata che il teologo
ha interrogato il sociologo, e non viceversa. A partire dai dati consolidati in dottrina, l’intenzione è
stata quella di interrogare la situazione presente, domandando al sociologo – e Luca Diotallevi
è sociologo di fama nazionale – di fornire la lettura della Chiesa in Italia nel periodo post-conciliare, per verificare la recezione del modello di
Chiesa come mistero di comunione.
Il punto di partenza è stata la constatazione dell’assenza di un modello condiviso di Chiesa che
ispiri la prassi ecclesiale. Al di là delle affermazioni di circostanza sull’ecclesiologia di comunione,
il consenso sulla formula è più che altro formale. Il problema non è di poco conto, perché ha
come esito un linguaggio – e quindi una
comprensione – della
Chiesa a dir poco ambiguo: i molti soggetti che
compongono la compagine ecclesiale possono tutti parlare di
«ecclesiologia di comunione», intendendo tutti un significato diverso!
Con la conseguenza che termini come partecipazione e
corresponsabilità assumono
spesso un valore ideologico,
che alza i toni delle rivendicazioni
e quindi del conflitto, più che
costruire la comunione ecclesiale.
Il prof. Diotallevi
ha indicato un
processo, che
non è solo ecclesiale, capace di
lumeggiare molto questa situazione. Si tratta di quel processo di diversificazione
sociale che ha conosciuto l’Italia nel dopoguerra, e del concomitante processo di diversificazione
interna che ha contrassegnato il cattolicesimo in
Italia nella stagione post-conciliare. Si tratta di
un processo di individuazione, con una forte crescita dei soggetti, che si traduce in una altrettanto
forte richiesta di partecipazione. Naturalmente,
questo processo non è una disgrazia; è un dato
di fatto, che costituisce una sfida di maggiore maturità per tutti; è un tempo propizio per proporre la
sfida della comunione ecclesiale come modello
e criterio dell’esperienza ecclesiale.
Il discorso sui livelli di diversificazione interna del
cattolicesimo italiano rimandano alla stagione postconciliare, segnata da un’attuazione prima e da
una recezione poi sicuramente faticosa. Don Dario
ha ricordato le due ermeneutiche del concilio proposte da Benedetto XVI: quella della continuità
e della riforma contro quella della discontinuità
e della rottura. Di fatto, due sparute minoranze
(quella tradizionalista e quella progressista) hanno monopolizzato la scena e condizionato il processo di recezione. Peraltro, la polemica intorno ad alcuni nodi dottrinali del Vaticano II ha finito per polarizzare i modelli ecclesiologici in alternative di carattere inutilmente polemico: ChiesaPopolo di Dio contro Chiesa-corpo di Cristo, carisma contro istituzione.
La domanda al sociologo è qui d’obbligo: c’è parallelo tra il processo di recezione del concilio e quello di diversificazione dei livelli del cattolicesimo
italiano?
Il Vaticano II, a parere di Luca Diotallevi, è stato un evento di fedeltà a Dio e di fedeltà all’uomo. Che è avvenuto attraverso il rinnovamento
stesso della Chiesa. I documenti del concilio costituiscono la testimonianza dello sforzo che ha fatto la Chiesa per rinnovare se stesso, in un tempo di forte cambiamento della società stessa a
livello mondiale. Se si può fare un rilievo, è che
il Vaticano II è stato troppo tempestivo: di fronte alla crisi delle istituzioni e delle norme, il concilio aveva proposto la via del dialogo, dell’incontro.
Via che a molti è sembrata una dissoluzione della Chiesa e delle sue istituzioni. Ma senza questa scelta profetica, cosa ne sarebbe stato della Chiesa di fronte alle rivoluzioni del nostro tempo? E comunque, il processo di diversificazione
interna del cattolicesimo italiano nasce da qui,
ed è segnato da una coscienza ecclesiale molto più forte rispetto alla stagione pre-conciliare.
A livello ecclesiologico – è stata l’affermazione
dell’ecclesiologo – questo può essere letto in molti modi, addirittura alternativi: da una parte si parla di un tessuto ecclesiale vivace, plurale, capace di tante esperienze nuove e diversificate (identificabili grosso modo con le esperienze dei movimenti), dall’altro si vede la medesima situazione come massimamente frammentata, con
esperienze ecclesiali chiuse in compartimenti stagni, fortemente autoreferenziali. Il diverso giudizio dipende, naturalmente, dall’idea di Chiesa che
si persegue: la domanda è se il modello ecclesiologico non sia stato piegato a questa situazione ipotizzando una Chiesa a carattere universalistico
come una grande cornice o un grande contenitore dove tutti hanno uno spazio e un potere garantito, purchè stiano dentro e purchè mantengano
alto il numero e quindi la visibilità della Chiesa
stessa.
Il sociologo ha sottolineato il rischio di trasformare la Chiesa in una holding, con imprese parallele (i movimenti e le associazioni) senza connessione tra loro. Con il rischio per la Chiesa di
trasformarsi essa stessa in un movimento. Si possono distinguere due fasi di questo processo: la
prima, caratterizzata da una fortissima domanda di identità, ha portato alla moltiplicazione dei
soggetti ecclesiali, e quindi alla emersione dei movimenti; la seconda, caratterizzata da una forte visibilità, che ha portato molti a identificare la Chiesa
nei movimenti. A fronte di questa evoluzione, che
oggi manifesta caratteri di problematicità, i
vescovi italiani hanno insistito sull’elemento di continuità che è la parrocchia. In un mondo che cambia, le comunità parrocchiali sembrano esprimere
ancora l’aspetto tipicamente popolare del cattolicesimo italiano, dove le comunità si caratterizzano per la presenza di tutti, senza distinzione
di élites, strutturate come sono intorno ad alcuni elementi di normalità condivisa.
Bisogna tornare alla realtà delle Chiese locali: è
questo l’elemento di continuità, che c’è da sempre e che garantisce la missione della Chiesa dentro la storia. Su questa forma di Chiesa, fondata sul rapporto necessario del vescovo con il Popolo
di Dio a lui affidato si fonda un cammino di Chiesa
che voglia vivere secondo i principi della comunione, della corresponsabilità, della partecipazione.
Don Dario Vitali
Febbraio
2008
Sara Bianchini
Caritas Diocesana Velletri-Segni
L’incontro inizia con un po’ ritardo, venerdì 18 gennaio, di sera. Aldo Pecora e Rosanna Scopelliti
vengono da Roma, ma girano ormai in tutta Italia,
portando la loro testimonianza di cosa voglia dire
vivere la legalità ed educare ad essa. Parlano
come “rappresentanti” del movimento nato dai giovani di Locri “Ed ora ammazzateci tutti”. Quella
che portano è soprattutto un’esperienza personale. Troverete di seguito solo il resoconto di quanto hanno affermato.
Aldo Pecora, che studia giurisprudenza all’università di Roma, inizia con la lettura di una petizione che il giorno precedente aveva diffuso con
altri suoi colleghi, per dissociarsi formalmente
dalla non-accettazione del papa nell’ateneo. Fare
antimafia significa oggi scontrarsi dovunque con
persone abituate alla clientela: i discorsi non
devono volare alto, devono invece tenere presente che il clientelismo è già mafia. Chiedere
un favore per avere anticipati i tempi di una
TAC, significa implicitamente non credere che
la TAC sia un nostro diritto. E ciò avviene per
un difetto di comunicazione, perché cioè in
Italia oggi non si parla di alcune cose, come
per esempio i problemi legati alla giustizia.
Riteniamo comunemente in relazione alla magistratura, che il problema principale sia la divisione delle cariche. In realtà i problemi sono
anche e soprattutto altri: p.e. con la riforma
attuale se un magistrato vuole arrestare un
mafioso non può farlo “immediatamente”, perché il suo mandato di cattura deve essere controfirmato dal procuratore capo. Questo è un
modo per rallentare la giustizia. In Italia la presa in giro dei cittadini arriva a tutti i livelli: abbiamo inquisiti che siedono in commissione anti-mafia,
proscritti che rappresentano il paese in tutto il mondo,. Pecora è passato poi al racconto più diretto della loro esperienza, cercando di calibrarlo
molto sul tema del convegno che riguardava la
partecipazione. Quando il loro movimento ha preso coscienza che la ‘ndrangheta in Calabria era
lo specchietto per le allodole per spiegare perché le cose vanno male, ed ha iniziato a riflet-
Aldo Pecora
Speciale Convegno 7
tere sul rapporto fra malaffare
e malapolitica, le simpatie verso questo movimento sono iniziate a diminuire. La Chiesa dovrebbe assumere una presa i posizione netta contro la mafia, arrivando a supplire alla crisi di coesione sociale che c’è oggi in
Italia. Chi combatte per la giustizia e per il bene, è spinto da
qualcosa, allora la Chiesa
dovrebbe arrivare a queste
persone, laddove le istituzioni non lo facciano.
La Chiesa può dare organizzazione là dove ci
sono contenuti non organizzati, avendo il vantaggio di essere diffusa su tutto il territorio. Un
esempio concreto è stato quello dell’operato di
Mons. Bregantini: creare lavoro dove non c’era,
coinvolgendo chi nel lavoro legale non era coin-
Rosanna Scopelliti
volto (una cooperativa con a capo un ragazzo
che aveva in precedenza scontato 15 anni di galera per associazione mafiosa). Da questo è nato
per Pecora stesso, come sottolinea, il sentimento
forte di dovere parlare con tutti, particolarmente con queste persone che hanno un passato di
delinquenza (tenendo presente che in carcere finisce soprattutto la bassa manovalanza giovanile e non chi la assolda e comanda). Dalla parola nasce la comunicazione, dalla comunicazione nasce la partecipazione. Il movimento
“Ammazzateci tutti” è composto da ragazzi che
non sono funzionari dello Stato, ma che girano
per l’Italia, per riattualizzare il significato della testimonianza di chi è morto per alcuni valori. Sono
volontari della parola, il cui obiettivo è restituire a cittadini la palla, nella consapevolezza che
la lotta alla criminalità non è portata avanti solo
dalle forze dell’ordine. È troppo facile pensare che
siano gli altri che fanno le cose per me. È storia solo se il futuro è passato da noi. Rosanna
Scopelliti è figlia di un magistrato di cassazione,
che si era occupato di processi contro il terrorismo e contro la mafia. Del padre racconta che
credeva nella giustizia vedendola come un forma di redenzione: le persone che hanno sbagliato
possono correggersi. Che aveva reso partecipe
la sua famiglia di tutta la sua vita, anche delle
situazioni di pericolo. È stato ucciso il 9 agosto
del 1991, quando lei aveva 7 anni. Lei sapeva
bene che il padre era in pericolo, perché egli stesso glielo aveva fatto presente.
Proprio nell’ultimo anno della sua vita, il padre
decide di tornare a vivere da solo in Calabria, senza famiglia e senza scorta. Aveva deciso di non
avere paura, come scelta esistenziale, al di là
della paura normale che tutti comunque hanno. Perché si fidava della Calabria. Quando il
padre è stato ucciso, la reazione di Rosanna
è stata dura: ha pensato che egli avesse fatto la scelta sbagliata preferendo il lavoro a loro;
si è sentita ferita per la non reazione della Calabria.
Lei stessa ha deciso di non tornare in
Calabria.
Il processo in secondo grado e in cassazione,
ha assolto i mandanti dell’omicidio (fra cui
Provenzano, Riina). Di questo Rosanna dice
di non avere accettato: il fatto che la cronaca
non abbia parlato di questa soluzione e che
nessuno si sia indignato per questo. Si è trovata di fronte ad una scelta: continuare a fare finta di nulla o ricercare la giustizia per suo padre,
facendo qualcosa. Ma non sapeva cosa.
Concretamente sapeva di dovere tornare in Calabria,
ma non voleva. Il cambio si è avuto quando ha
visto la partecipazione dei giovani calabresi contro l’omicidio di Fortugno. E soprattutto quando
ha visto che questa partecipazione continuava
e non si era fermata alle prime manifestazioni dopo
l’omicidio. Rosanna afferma che raccontare del
padre è per lei un modo di sentirselo ancora vicino e per le persone (almeno è quello che lei desidera) un modo di spronarsi a partecipare.
Questi sono alcuni degli spunti tratti dalla loro testimonianza. Ritengo personalmente che vadano
approfonditi e soprattutto contestualizzati alle nostre
personali e comunitarie situazioni. Il rischio
è che la commozione
e l’indignazione frutto
dell’ascolto di queste testimonianze non mettano radici e non si concretizzino. Parleremo di
questo in un prossimo
numero.
Febbraio
2008
8
Chialastri don Cesare
direttore
Ad ottobre 2007 è stato presentato a Roma il VII Rapporto
sulla povertà e esclusione sociale in Italia, curato dalla Caritas Italiana e dalla Fondazione “E. Cancan”
dal titolo: Rassegnarsi alla povertà, ed. il Mulino,
Bologna. Partendo da questo documento cercheremo di rispondere ad alcune domande: chi sono oggi
i poveri in Italia? Per quali motivi molte famiglie sono
a <rischio povertà>? Quali scelte politiche aiuterebbero
a contrastare la povertà? Infine ci sembra utile riflettere sulla provocazione del titolo: l’Italia si sta rassegnando alla povertà?
Prima di entrare nella presentazione di alcuni dati
che emergono dal Rapporto e delle proposte concrete per un piano di lotta alla povertà, ci sembra utile richiamare alcune premesse sottolineate da G. Pasini,
presidente della Fondazione Zancan: “La povertà non
esiste in natura, ma è conseguenza è conseguenza di situazioni in cui la politica non frequenta la giustizia. Essa non è limitata a singoli casi pur numerosi, ma costituisce un vero fenomeno sociale che
perdura, quasi immutato da decenni e che riguarda
circa 7,5 milioni di cittadini, ossia l’12% della popolazione. Preoccupano, in questo quadro, l’inerzia dello Stato e la sua mancanza di iniziative. C’è davvero la sensazione di essere in presenza di una certa rassegnazione diffusa, come quando ci si trova
di fronte ad un problema insolubile, oppure c’è l’illusione che il problema in qualche modo si risolva
da solo. È certo che la soluzione di un così grave
problema non può essere affidata esclusivamente
ad agenzie di carità e di solidarietà”.
Dunque secondo gli ultimi dati dell’Istat sono circa
2.623.000 famiglie, vale a dire 7.537.000 persone
(il 12% della popolazione), si trovano in stato di povertà relativa (la soglia si calcola sulla base di un valore convenzionale che individua il valore di spesa per
consumi al di sotto del quale una famiglia definita
<povera> in termini relativi. La soglia della povertà,
secondo i calcoli dell’ Isae, nel 2004 era pari a 815
euro). I dati fanno emergere una novità. In questi anni
si assiste ad un fenomeno di cui la società italiana
è poco consapevole: stanno notevolmente aumentando le famiglie che non sono definite come povere solo perché superano la soglia della povertà per
somma minima che va da 10 a 50 euro al mese. Questi
nuclei familiari <a rischio povertà>, che secondo i
dati Istat sono circa 900.000, nonostante abbiano un
lavoro e un reddito, ricorrono ai centri assistenziali
per poter far fronte alle loro necessità. Ciò che può
determinare una situazione di povertà, secondo il Rapporto,
sono alcuni fattori: la presenza di bambini piccoli; la
presenza di anziani ammalati; il basso livello di istruzione; la scarsa capacità di partecipare al mercato
del lavoro.
Attraverso il servizio delle Caritas diocesane, fatto
di mense sociali, centri di accoglienza notturna, poliambulatori per minori, stranieri, per malati di Aids, il Rapporto
ha elaborato i dati di 30.453 persone in difficoltà nel
semestre aprile-settembre 2006 facenti capo a 264
centri di ascolto, appartenenti a 134 diocesi italia-
ne. Questo ci permette di tracciare un quadro significativo e reale delle situazioni e dei bisogni.
Il 60% delle persone che vanno al centro di ascolto sono stranieri, a fronte di un 40% che sono cittadini italiani (nel nostro centro di ascolto di San Lorenzo
a Velletri gli italiani salgono al 55%). Per questi ultimi i problemi più gravi sono quelli familiari dovuti a
separazioni e divorzi (pari al 19,9%), mentre per gli
stranieri è del 12,0%, e quelli legati alla mancanza
di istruzione: solo il 9,8% degli italiani che si sono
recati al centro di ascolto aveva conseguito la licenza media superiore, rispetto al 31,6% di immigrati.
In generale emerge dal Rapporto che gli italiani in
difficoltà economiche chiedono un sussidio (24,3%),
mentre gli stranieri cercano un lavoro (28,8%). I due
terzi delle persone che si sono rivolte alla Caritas sono
disoccupati e chiedono beni e servizi materiali per
fronteggiare le necessità quotidiane (41% di italiani, 54% di stranieri). Molti (circa il 13%) risulta in condizioni
di grave precarietà abitativa.
C’è davvero un fossato che
separa chi sta bene da chi
sta male: rispetto agli altri paesi europei, il nostro paese presenta grandi differenze fra chi
vive in un più che discreto
benessere, chi lotta ogni giorno per non oltrepassare la
soglia della povertà e chi dentro la povertà ci sta da tempo e non vede nulla di nuovo nel futuro.
Nel Rapporto non mancano
molte pagine di speranza,
come ad esempio, quelle in
cui si raccontano i percorsi
di uscita da situazioni di povertà (sono narrate 124 storie
di persone: 53 italiani e 71
stranieri). Mentre per gli italiani il “punto di svolta” è
stato determinato dall’aver avviato un’attività produttiva
e aver risolto il problema della casa; per gli stranieri ciò che ha permesso di uscire dalla situazione di
povertà è stata l’opportunità di avviare un’attività in
proprio, risolvere il problema dell’alloggio, ricongiungersi
con i familiari e decidere di restare nel nostro paese impegnandosi con più forza nel processo di integrazione e inserimento sociale. Tutto ciò è accompagnato dal sostegno morale degli operatori Caritas
e per molti è stato l’inizio di una nuova fase di consapevolezza.
Il Rapporto arriva a formulare la sua proposta per
contrastare la povertà. Occorre innanzitutto dire che
il denaro per le spese sociali non manca, al punto
che quasi un quarto del Pil annuale (il 26,1%) viene destinato per la protezione sociale. Siamo poco
di sotto alla media europea che è del 27,3%. La spesa destinata all’assistenza sociale è di un volume complessivo di 44 miliardi e 540 milioni di euro, e da un
suo peso specifico pari a 750 euro pro capite. Nonostante
tutto questo, afferma T. Vecchiato, direttore della Fondazione
Zancan, le caratteristiche dl welfare del nostro paese:<si basano su squilibri interni evidenti: più della
metà della spesa sociale (56,1%) è destinata alla voce
“Pensioni in senso stretto e Tfr”. Il resto è ripartito
tra le voci “Assicurazioni sul mercato del lavoro” (6,6%),
“Assistenza sociale” (11,9%), “Sanità” (25,4%).
Gran parte delle risorse vanno all’ultima fase della
vita, e molto meno alla prima e al sostegno delle responsabilità familiari”. I curatori dello studio, propongono che vengano fatte scelte politiche coraggiose, affinché, sottolinea T. Vecchiato, si trasferiscano progressivamente i fondi destinati “a livello regionale e
locale, vincolando la loro gestione ad azioni prioritarie di contrasto alla povertà. Attuando così non più
politiche basate soltanto sul sostegno economico e
sui trasferimenti di reddito, ma su piani di inserimento
lavorativo e sociale, con sostegno al reddito”. Ad oggi,
purtroppo, ai Comuni è permesso di gestire, di questi fondi, solamente 5 miliardi e 11 milioni di euro,
con una spesa pro capite media di 86,15 euro, mentre la parte restante, pari a circa 664 euro, è gestita dallo Stato o da amministrazioni da esso controllate.
Oltre agli investimenti in servizi sociali nel Sud, propongono il diritto ad un minimo reddito, l’accoglienza di
prima necessità per quelli che
perdono l’abitazione, aiuti più
consistenti alle famiglie con
disabili o anziani non autosufficienti. Questo progetto ambizioso non può essere affidato
solo alla politica, ma chiama
in causa anche le forze
sane della società civile.
Siamo arrivati alla conclusione
della breve presentazione del
Rapporto sulla povertà in Italia.
Alcuni punti essenziali ci
sembra che debbano essere oggetto di riflessione:
A) il tasso della povertà non
è sceso, i poveri restano una
percentuale alta (circa il 1315% della popolazione). Non
si ha solo a che fare con la
povertà <classica>, legata alla disoccupazione, all’insufficienza del reddito, alle difficoltà abitative, ma ci
sono i nuovi poveri, e molti italiani non lo sono per
poco;
B) il volto del povero che ne esce fuori, va molto al
di là dell’immaginario collettivo: oggi, infatti il povero può vestire in giacca e cravatta, essere il nostro
vicino di casa, può avere un cellulare e prendere la
pensione. Nessuno, data l’apparenza imposta dalla società dei consumi, potrebbe accorgersi che non
ce la ad arrivare alla fine del mese. E di fatto, molte famiglie italiane possono improvvisamente ritrovarsi povere per una grave malattia di un familiare,
per la precarietà del lavoro o a causa degli oneri finanziari sempre maggiori;
C) queste nuove condizioni di sofferenza devono spingere, non solo la Chiesa, ma anche il volontariato e
il Governo, a creare nuovi percorsi di giustizia e di
solidarietà che intendono favorire condizioni di uguaglianza e di pari opportunità per tutti; altrimenti il divario tra coloro che stanno bene e coloro che non ce
la fanno diventerà sempre più profondo fino a minacciare la pace sociale e la sicurezza.
È davvero una grande sfida: dare, attraverso politiche di giustizia e di equità, una dignità permanente
a chi fa più fatica. La caritas e le comunità parrocchiali non possono tirarsi fuori.
Febbraio
2008
Grandi Temi 9
Pier Giorgio Liverani
«Gutta cavat lapidem», scriveva il poeta latino Ovidio. La goccia scava anche la pietra: nel nostro
caso il cuore di pietra (ricordate Ezechiele?) di tanti uomini e
di tante donne. Insomma, basta
insistere per ottenere qualche risultato. Sono trent’anni, da quando una legge ha legalizzato gli
aborti, che il Papa e i Vescovi
sul piano del magistero e il
Movimento per la vita su quello politico e culturale e, soprattutto, su quello dell’impegno concreto dell’aiuto alle madri in difficoltà, insegnano e testimoniano il valore e l’amore alla vita.
Circa 85.000 bambini, in questi
anni, sono stati salvati dall’aborto e, insieme, le loro
madri dal tradimento della loro missione e spesso
da paurose depressioni. I Cav (Centri di aiuto alla
vita) dimostrano che l’aborto non è un destino inevitabile e che i problemi di una nascita non desiderata o addirittura temuta non sono insuperabili. In più
moltissime donne che avevano abortito sono oggi fortemente impegnate in questa stessa azione. Tanto
può la grazia di Dio quando assume intelligenza, mani
e cuori umani.
Sembrava – così dicevano gli abortisti – che essere contrario agli aborti significasse essere cattolici
o, meglio, che l’opposizione all’aborto fosse soltanto un aspetto della religione, un dato di coerenza con
la propria fede (“abortire è peccato”), e che, quindi,
che non fosse o non si sentisse cattolico potesse sentirsi libero di abortire o di sostenere il “diritto” di aborto.
Ora, però, qualche cosa cambia, qualcosa si muove anche in campo “non cattolico”. I milioni di creature innocenti uccise al primo fiorire della loro vita –
qualche centinaio di migliaia l’anno in Italia, 40-50
milioni nel mondo, forse un miliardo da quando sono
cominciate le legislazioni abortiste nei vari Paesi (l’Urss
nel 1917 e poi la Gran Bretagna nel 1967, il Canada,
i Paesi Scandinavi, la Danimarca, la Svizzera, poi
ancora gli Stati Uniti nel 1973, la Francia nel 1975)
si sono per così dire sedimentati in molte coscienze “laiche” fino a quando il loro peso è diventato “culturalmente” insopportabile. Un simile genocidio perpetrato, quali che siano le motivazioni particolari di
ogni singolo aborto, nell’indifferenza, anzi con la complicità degli Stati e di tanta parte dell’industria farmaceutica costituiscono un terribile atto d’accusa: è
l’umanità che uccide se stessa, che pregiudica il proprio futuro. Già Publio Ovidio Nasone, il poeta pagano contemporaneo di Cristo, in una delle sue elegie: «Se la stessa usanza fosse parsa opportuna alle
madri di un tempo, la stirpe umana si sarebbe perduta per questa colpa e bisognava trovare qualcuno che di nuovo gettasse nel mondo vuoto le pietre
origine della nostra specie».
Chissà che la «grande moratoria» contro l’aborto lanciata da Giuliano Ferrara e dal suo Il Foglio non possa in qualche modo, almeno simbolicamente, diventare una di queste pietre. Lo dico ricordando una frase di Madre Teresa di Calcutta: «L’aborto è il primo
gesto di guerra. Sono sicura che, se ci fosse un giorno in cui nel mondo non si compisse nessun aborto, Dio regalerebbe all’umanità un’era di pace».
Di sicuro non bisogna farsi grandi illusioni, anche se
la proposta di Ferrara è andata crescendo nei giorni della sua «dieta liquida»: dalla richiesta di
«garantire fondi al movimento per la vita e ai centri
di assistenza che lavorano contro l’aborto, come ha
chiesto ieri (la vigilia di Natale) il giornale dei vescovi (Avvenire) e come dovrebbero chiedere i giornali borghesi e laici», alla proposta, contenuta in una
lettera alle Nazioni Unite, di fare della moratoria un’iniziativa internazionale e di aggiungere all’art. 3 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo di sessant’anni fa («Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà
e alla sicurezza della propria persona») le parole «fin
dal concepimento». È bene ricordare che quest’anno cade il sessantesimo anniversario dell’approvazione da parte dell’Onu della Dichiarazione: 10 dicembre 1948.
Dopo l’approvazione della moratoria sulla pena di morte (una semplice sospensione, si badi bene), basata sul principio che la vita dell’uomo – anche quella
di Caino – è sacra e intangibile, dovrebbe essere logica conseguenza anche una moratoria per l’aborto
volontario, cioè per la pena di aborto inflitta milioni
di volte ad Abele, l’innocente. Certo non bisogna farsi illusioni che la richiesta venga accolta, perché ormai
si è diffusa nel mondo l’assurda idea che l’aborto costituisca un vero “diritto” della donna e, nell’attuale clima di pluralismo e di relativismo etico, che ognuno
possa costruirsi la propria morale. Tuttavia anche il
solo lancio di questa duplice proposta (finanziamento
al MpV e ai Cav e moratoria mondiale) ha provocato l’interesse e dibattito tra i cosiddetti “laici”: ne parlano tutti i giornali e tutte le tv (lo stesso segretario
del Partito Democratico, Veltroni, sia pure ribadendo che «la legge 194 è una conquista di civiltà e dev’essere difesa» (!), ha scritto a Ferrara per dirgli «parliamone») e dal giorno d’inizio della «dieta liquida»
del suo Direttore, Il Foglio pubblica quotidianamente intere “paginate” di lettere di adesione e di manifestazioni di consenso.
Naturalmente neanche la proposta della grande moratoria costituisce una soluzione: Essa ha il merito di
aver posto la “questione aborto” sul piano culturale
e non su quello religioso (la sacralità della vita umana non si fonda sulla fede, ma sulla ragione, vale a
dire sulla idea di uomo; la fede aggiunge ulteriori e
straordinari motivi per considerarla sacra) e proprio
per questo ha sicuramente anche una valenza educativa oltre che politica. Ha anche il merito, forse, di
aver per così dire “superato” il discorso sulla legge
194, che, per il fondamentalismo dei suoi sostenitori, blocca tuttora qualsiasi discorso. Fa correre il
rischio, però, di mandare nel dimenticatoio questa
legge, che è una delle principali cause di tanti aborti; oppure di far penare che, siccome alcune sue (pochissime) parti hanno contenuti positivi (il tentativo di dissuadere la donna, la collaborazione del volontariato) peraltro quasi mai applicati, la legge possa essere considerata “buona” mentre non bisogna stancarsi
di agire su tutti i piani per sostituirla con una di preferenza per la vita, oppure per rivederla, oppure per
ottenerne almeno l’applicazione delle “parti buone”.
Infine la moratoria non prende in considerazione la
necessità, sempre quanto mai urgente, che le donne tentate di abortire hanno bisogno di essere accolte, comprese, sostenute; di veder condivisa la propria pena o di capire l’errore che stanno per compiere. E tutto ciò il solo “piano della cultura” o la sola
politica non sono capaci di fare, se non si continuerà
a suscitare, in quello che Giovanni Paolo II ha chiamato “il popolo della vita” (Evangelium Vitæ, n. 79),
la passione della carità cristiana, dell’accoglienza, della condivisione. Le sole che sanno far rinascere la
speranza (Spe salvi, di Benedetto XVI) nelle anime
e nei cuori dolenti. Le sole che sanno testimoniare
il valore che ogni vita ha non soltanto per chi la vive,
per la madre che la coltiva, ma anche e, sotto certi
profili, soprattutto per gli altri. Per tutti.
Febbraio
2008
10
Commenti a cura di
Don Roberto Mariani
parroco della cattedrale doc di S. Scrittura
I Domenica
(Gen 2,7-9; 3,1-7 Mt 4,1-11)
Commento
Nella prima domenica di Quaresima la liturgia
della Parola ci fa incontrare due luoghi, molto cari alla tradizione biblica, ma in contrasto
fra loro: il giardino e il deserto. C’è però un elemento che accomuna questi luoghi ed è l’arrivo del tentatore.
La prima lettura, tratta dal libro della Genesi,
ci racconta di Adamo ed Eva posti dal Signore
nel meraviglioso giardino dell’Eden. A loro era
stato donato tutto e dei frutti degli alberi nel
giardino ne potevano mangiare, anche dell’albero
posto al centro, quello dalla vita, ne potevano mangiare. Dio aveva solo ordinato: «Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; ma
dell’albero della conoscenza del bene e del male
non devi mangiarne, perché, nel giorno in cui
tu te ne cibassi, dovrai certamente morire» (Gn
2,16-17). Il tentatore arrivando mette nel cuore della coppia un terribile sospetto…non è vero
che Dio è buono e generoso, al contrario, è
geloso dell’uomo, ha paura che l’uomo strappi a lui il suo potere…mangiate, non morirete
affatto, anzi diventerete come Dio… La voce
del tentatore accarezza i sensi e non fa’ più
ragionare né con il cuore e né con la mente,
«Allora la donna vide che l’albero era buono
da mangiare, seducente per gli occhi e
attraente per avere successo; perciò prese del
suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche a
suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò» (Gn 3,6) …ma anziché diventare come
Dio (avevano dimenticato di essere già fatti a
immagine e somiglianza di Dio), si ritrovano
nudi, senza niente, soli…
Questa storia continua nella nostra. Quale voce
ascoltiamo? Di quale parola ci fidiamo? Da chi
e da che cosa ci lasciamo guidare nelle nostre
scelte?
La storia dell’umanità iniziò in un giardino, al
contrario Gesù all’inizio del suo ministero pubblico è condotto nel deserto dallo Spirito. Il deserto, di cui si parla nel Vangelo, è probabilmen-
Prima domenica
Vangelo Mt 4, 1-11
Testo
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo
aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore allora gli si accostò e
gli disse: «Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» .
Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli
disse: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il
tuo piede”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non tentare il Signore Dio tuo”».
Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del
mondo con la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». Ma Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto: “Adora il Signore Dio tuo e a lui
solo rendi culto”».
Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servirono.
te il deserto di Giuda (80 per 25 Km), calcareo, roccioso, formato da monti, da valli e da
altopiani. I rabbini ebrei dicono che dal vocabolo «dabar» (= Parola) deriva il vocabolo «midbar» (= Deserto), per cui il deserto è il luogo
del silenzio in cui risuona la vera Parola quella capace di parlare al cuore e trasformare la
vita. Il deserto si presenta ancora oggi come
ciò che è solo l’indispensabile, in altre parole
la realtà spogliata di tutto, fuorché della sua
essenza. Il deserto esige poi, umiltà e distacco. Vuol dire ancora silenzio, vale a dire atteggiamento di ascolto, quell’atteggiamento che
caratterizza la spiritualità ebraica e cristiana:
«Ascolta, o Israele: il Signore è il nostro Dio,
il Signore è uno
solo» (Dt 6,4).
Solo allora Dio è
libero di sedurre
e di parlare al cuore, ma ad un
cuore libero e
disponibile, e
dona quello che
i mistici chiamano «la rugiada dello Spirito» l’unica
capace di far
rifiorire un terreno arido e roccioso.
Entriamo, o
meglio lasciamoci anche noi
guidare nel deserto, lasciamo che sia
il silenzio e la semplicità a prevalere in
questo tempo di quaresima…allora anche
in noi la Parola trasformerà
il nostro deserto in un giardino dove come all’inizio della storia con l’uomo Dio «passeggiava nel giardino alla brezza del giorno» (Gn 3,8).
Febbraio
2008
II Domenica
(Mt 17,1-9)
Commento
Dopo il deserto siamo invitati, in questa seconda domenica, a salire il monte della trasfigurazione.
Il monte è il luogo prediletto delle rivelazioni divine. Possiamo ricordare il monte Sinai e il monte Sion della prima alleanza per convincerci. Il Vangelo
di Matteo conosce diversi monti: il monte della
tentazione (4,8), il monte delle beatitudini (5,1),
il monte della preghiera (14,23), il monte della trasfigurazione (17,19, il monte degli ulivi (24,3) e il
monte della missione universale (28,16). È un luogo molto caro, allora, anche alla tradizione cristiana…è
un luogo che dobbiamo ricordare che appartiene al nostro cammino di fede, anche noi siamo
chiamati a salire i diversi monti della vita spirituale,
necessari per crescere nella fede, senza dimenticare cha anche sul “monte” si può incontrare la
tentazione e la prova.
Il Vangelo di questa domenica c’immerge anche
nella luce, o meglio
Q u a r e s i m a 11
è anche colui che la tradizione del popolo d’Israele
attendeva perché avrebbe preparato la strada al
Messia. È vero, allora, che è la luce del Cristo
trasfigurato ad illuminare i due personaggi, ma è
anche vero che la Legge, rappresentata da Mosè,
e i Profeti (rappresentati da Elia) permettono di
vedere la gloria del Cristo…«Dio, dunque ispiratore e autore dei libri dell’uno e dell’altro testamento,
ha sapientemente disposto che il nuovo fosse nascosto nell’antico e l’antico diventasse chiaro nel nuovo» (Dei Verbum 4,16). Dunque la gloria, lo splendore di Gesù è visibile fra Mosè ed Elia, fra la Legge
e i Profeti ovvero le Sacre Scritture. Possiamo dire
che sul monte della trasfigurazione non appare
il Cristo della fantasia religiosa, il Cristo che ognuno di noi si può fare, ma il Cristo di Dio, il Cristo
delle Scritture. È molto facile anche per noi la tentazione di costruirci un Cristo secondo il nostro
modo di pensare, di vivere. Un cristo che ben si
adatta a quanto noi siamo disposti a credere e
a vivere. Saliamo il monte, lasciamoci guidare dalla Scrittura per scoprire il vero volto del Signore,
per entrare nella sua luce capace di illuminare anche
i nostri cammini.
La chiave di lettura del nostro brano è
l’invito che udiamo dal Padre «Questi
è il mio Figlio diletto nel quale ho posto
la mia compiacenza: ascoltatelo» (Mt
17,5). Ascoltare Lui, questo è l’invi-
Seconda
domenica
Vangelo Mt 17, 1-9
c’inonda
con la
luce che da
Gesù s’irradia e illumina
Mosè, Elia e gli apostoli, e attraverso
loro anche noi: « E
apparve trasfigurato
davanti a loro: la sua faccia diventò splendida come
il sole e le vesti candide come
la luce. Ed ecco, apparvero loro
Mosè ed Elia in atto di conversare con lui.Allora Pietro prese la
parola…» (17,2-4). Ma cosa
vogliono dire i due personaggi che
stanno ai lati di Cristo? Mosè è colui
che guida il popolo d’Israele, liberato dalla schiavitù egiziana, verso il monte Sinai per ricevere il dono delle “Dieci
Parole”. Elia è il padre dei profeti, ma
Testo
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo
e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le
sue vesti divennero candide come la luce.
Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che
conversavano con lui.
Pietro prese allora la parola e disse a Gesù:
«Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi,
farò qui tre tende, una per te, una per Mosè
e una per Elia». Egli stava ancora parlando
quando una nuvola luminosa li avvolse con
la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore.
Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: «Alzatevi
e non temete». Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo.
E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa
visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
to del Padre in questa seconda domenica. Ascoltarlo
e non solo sul monte, ma anche quando ci chiede di “scendere a valle” e di seguirlo sulla via
della croce. Ascoltarlo nelle Scritture, dentro
il tuo cuore, nel silenzio dell’Eucaristia, nel fratello…questo ci trasfigurerà.
III Domenica
(Es 17, 3-7
Gv 4,5-42)
Commento
Il Vangelo di questa domenica ci parla dell’acqua, non la semplice, umile acqua che
tocchiamo ogni giorno, ma quella viva. L’acqua
che non solo toglie la sete, ma dona anche
la vita. Anche nella prima lettura possiamo trovare il tema dell’acqua…il popolo
mormora contro Mosè e contro Dio a causa della sete, della mancanza d’acqua «
Il popolo mormorò contro Mosè e disse:
- Perché ci hai fatto salire dall’Egitto, per
far morire me, i miei figli e il mio bestiame di sete?- Mosè gridò al Signore, dicendo: - Che cosa farò a questo popolo? Ancora
un po’ e mi lapiderà». (Es 17,3-4). Mosè
gridò al Signore che gli ordina di percuotere
con il bastone, con cui aveva aperto le
acque dell’esodo, una roccia…e da
quella roccia scaturisce l’acqua che salva il popolo. Per san Paolo quella roccia è figura di Cristo «tutti hanno bevuto la stessa bevanda spirituale (bevevano
infatti da una roccia spirituale che li accompagnava: quella roccia era Cristo»
(1Cor 10,4), il quale, colpito dalla lancia, farà scaturire “acqua” dal suo
costato per dare la salvezza dei suoi. Cristo
accompagna sempre il nostro cammino
per essere la roccia cui aggrapparsi nei
momenti della prova e da cui ricevere la
vera acqua che salva e dona la vita.
Nel Vangelo Gesù è in viaggio da
Gerusalemme verso la Galilea per la strada centrale che passa per la regione chiamata Samaria. È mezzogiorno (circa l’ora sesta), quando arriva alle porte di un
villaggio di nome Sicar. I
discepoli erano andati in
città a comprare qualcosa
da mangiare. Gesù invece dice l’evangelista
Giovanni: «affaticato
com’era dal viaggio, si
era seduto sul pozzo;
era circa l’ora sesta. »
(Gv 4,6). Possiamo
immaginarcelo Gesù,
Febbraio
2008
12 Q u a r e s i m a
seduto sul bordo del
pozzo di Giacobbe
che aspetta…i discepoli? No, una donna.
Di questa donna non
è detto il nome, non
importa, lei rappresenta il suo popolo,
i samaritani, che
accanto al Dio di
Giacobbe avevano
accolto altri déi…rappresenta tutti noi quando accanto al Signore permettiamo ad altri
di condividere il primo posto, quando non
ci preoccupiamo più di tanto se accanto
(qualche volta al posto) del Signore ci mettiamo “altro”. Proprio come quella donna
che era passata a cinque “mariti”. Eccola
arrivare, ad un’ora insolita per attingere
l’acqua. La gente è a casa a mangiare…forse
lei viene proprio per questo: non vuole incontrare nessuno. Probabilmente stanca
delle chiacchiere sulla sua storia. Ma al
pozzo incontra qualcuno che parla a lei
e non del suo passato o presente, ma per
chiedergli: «dammi da bere» (Gv 4,7).
Meraviglioso! Colui che vuole donare l’acqua viva chiede lui per primo dell’acqua.
Apre con la samaritana un dialogo che porterà la donna a scoprire la verità su se
stessa «non ho marito » (Gv 4,17) e a scoprire l’identità dell’uomo che seduto sul
pozzo di Giacobbe è venuto a portare l’acqua viva a tutti i popoli…non c’è più bisogno di un pozzo scavato nella terra, Cristo
è la vera sorgente e tutti possono attingere da lui per bere la “vera acqua”. Quando
arrivano i discepoli si meravigliano di trovare Gesù a parlare con una samaritana…non
era conveniente per un Maestro parlare
con una donna. Ma non fanno domande.
Del resto la samaritana fugge via, si dimentica perfino della brocca che si era portata per attingere l’acqua…ormai non ne
ha più bisogno, l’acqua viva che Gesù le
ha donato non ha bisogno di recipienti,
chi beve di quest’acqua diventa a sua volta una sorgente… «Colui invece che beve
dell’acqua che gli darò io, non avrà mai
più sete; ma l’acqua che gli darò diverrà in lui una sorgente di acqua che zampilla verso la vita eterna» (Gv 4,14).
Gesù attende anche noi per darci l’acqua
viva, ci chiama a fare verità dentro la nostra
vita cosicché riempiti della sua acqua diventeremo sorgenti per gli altri.
Terza
domenica
Vangelo Gv 4, 5-42
Testo
In quel tempo, Gesù giunse ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina
al terreno che Giacobbe aveva dato a
Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di
Giacobbe. Gesù dunque, stanco del
viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse:
«Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da
bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non mantengono
buone relazioni con i Samaritani.
Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono
di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi
da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva».
Gli disse la donna: «Signore, tu non hai
un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua
viva? Sei tu forse più grande del nostro
padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo
gregge?».
Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve
dell’acqua che io gli darò, non avrà mai
più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a
venire qui ad attingere acqua». Le disse: «Và a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene “non
ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito;
in questo hai detto il vero».
Gli replicò la donna: «Signore, vedo che
tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che
è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, è
giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il
Padre. Voi adorate quel che non conoscete,
noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è
giunto il momento, ed è questo, in cui i
veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali ado-
ratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità».
Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli
verrà, ci annunzierà ogni cosa». Le disse Gesù: «Sono io, che ti parlo».
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia
gli disse: «Che desideri?» , o: «Perché
parli con lei?». La donna intanto lasciò
la brocca, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha
detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?». Uscirono
allora dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo
pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose: «Ho
da mangiare un cibo
che voi non conoscete».
E i discepoli si domandavano l’un l’altro:
«Qualcuno forse gli ha
portato da mangiare?».
Gesù disse loro: «Mio cibo
è fare la volontà di colui
che mi ha mandato e
compiere la sua opera.
Non dite voi: Ci sono
ancora quattro mesi e poi
viene la mietitura? Ecco,
io vi dico: Levate i vostri
occhi e guardate i campi che già biondeggiano
per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita
eterna, perché ne goda
insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete.
Io vi ho mandati a mietere ciò
che voi non avete lavorato; altri
hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro».
Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: «Mi ha detto tutto
quello che ho fatto» . E quando i Samaritani
giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi
con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti
di più credettero per la sua parola e dicevano alla donna: «Non è più per la tua
parola che noi crediamo; ma perché noi
stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Febbraio
2008
IV Domenica
(Gv 9,1-41)
Commento
Il tema di questa domenica è la luce. Gesù si
è manifestato come luce del mondo, «Gesù parlò di nuovo, dicendo: Io sono la luce del mondo. Chi mi segue non cammina nelle tenebre,
ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12), venuto non
solo per illuminare il cammino d’ogni uomo, ma
per guarire la sua cecità. La disgrazia peggiore non è il buio degli occhi, ma è quello della
mente e del cuore. È la mancanza di senso che
Q u a r e s i m a 13
molto spesso prende l’uomo d’oggi. Abbiamo bisogno di luce, abbiamo bisogno di Cristo che guarisce le nostre cecità.
Il racconto inizia con Gesù che è in cammino,
non però, un correre senza prestare attenzione a chi c’è e a quanto avviene intorno a lui. «Ora,
mentre passava, vide un uomo cieco dalla nascita» (Gv 9,1), è il camminare attento, è il camminare che non tira dritto, ma sa “vedere”…sa
lasciarsi fermare da chi sta accanto…anche noi
camminiamo, meglio, siamo sempre presi dalla fretta di arrivare (dove?), ma guai a fermarsi e non ci accorgiamo più di chi ci sta accanto, di chi ha bisogno di noi, preoccupati solo di
noi stessi. Il Signore
“vede”, non passa oltre
o fa finta di non vedere, non acquieta la
coscienza con i nostri
“non spetta a me...tanto non posso fare niente…tanto qualcun altro
lo farà”. Il Signore
cammina, vede, si ferma…aiutaci Signore
a rallentare i nostri
passi a non passare oltre
i tanti fratelli e sorelle
che camminano con noi
e che attendono che noi
ci accorgiamo di
loro…essere invisibili è
la cosa peggiore. Quanti
per noi sono invisibili?
Anche i discepoli vedono e rivolgono al Maestro
la domanda «Rabbì, chi ha
peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (Gv 9,2)…quanto ci rassomigliano questi discepoli, anche
noi quando ci accorgiamo di qualcuno che ha bisogno non troviamo
di meglio che parlare per individuare le cause, per cercare chi dovrebbe occuparsene, per discutere delle
mancanze di strutture adeguate…Gesù
vede un uomo concreto, in una situazione di bisogno, spazza via la mentalità di coloro che legano la malattia al comportamento e dà all’incontro con il cieco nato,
un valore salvifico: essere nato cieco non
è per un castigo di Dio, al contrario Dio vuole che ogni uomo sia libero e abbia luce, come
Gesù manifesterà nel miracolo. Gesù compie dei gesti semplici ma espressivi: « Detto
questo, sputò per terra, fece del fango con la
saliva e spalmò il fango sugli occhi di lui. Poi
gli disse: Va’ e làvati alla piscina di Siloe, (che
significa “inviato”)» (Gv 9,6-7), sembra di ascoltare la pagina della Genesi in cui si parla della
creazione dell’uomo dal fango. E’ questa la creazione dell’uomo nuovo formato dal fango (= carne) e saliva (= lo Spirito di Gesù). Gesù pone
sugli occhi del cieco questo fango, cioè sulla sua
realtà di tenebra, ma non basta questo…l’uomo può essere nella luce solo se lo vuole. Egli
liberamente potrà andarsi a lavare o meno nella piscina per riacquistare la vista. E Gesù lo dice
espressamente “Va’ e làvati alla piscina di Siloe”
interessante il nome della piscina “Siloe” cui volutamente l’evangelista dà il significato “inviato”.
Chiaramente per san Giovanni l’Inviato di Dio
è Gesù. Comprendiamo allora: il cieco per vederci deve andare a bagnarsi nell’acqua di Gesù.
Il cieco obbedisce prontamente «andò, si lavò
e ritornò che vedeva.» (Gv 9,7).
Ecco il cammino di guarigione che siamo invitati a fare anche noi in questa domenica di quaresima, anche a noi il Signore c’invita a lavare
i nostri occhi nella sua acqua perché passino
dalle tenebre alla luce, anche a noi chiede di
fidarci della sua Parola-luce per squarciare le
tenebre che avvolgono la nostra esistenza.
L’evangelista racconta che proprio quando il cieco comincia a vedere iniziano per lui i guai…non
scoraggiamoci allora se, dopo esserci lavati nell’acqua del Cristo e guariti dalle nostre cecità,
iniziano i guai anche per noi…vale la pena anche
soffrire se questa è la condizione per avere ed
essere luce.
Quarta domenica
Vangelo Gv 9, 1-41
Testo
In quel tempo, Gesù passando vide un
uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché
si manifestassero in lui le opere di Dio.
Dobbiamo compiere le opere di colui che
mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel
mondo, sono la luce
del mondo».
Detto questo sputò per
terra, fece del fango
con la saliva, spalmò
il fango sugli occhi del
cieco e gli disse: «Và
a lavarti nella piscina
di Siloe (che significa “Inviato”)». Quegli
Febbraio
2008
14 Q u a r e s i m a
andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima,
poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli
quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?».
Alcuni dicevano: «E’ lui» ; altri dicevano: «No, ma
gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora
gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli occhi?».
Egli rispose: «Quell’uomo che si chiama Gesù ha
fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha
detto: “Va’ a Siloe e lavati!”. Io sono andato e,
dopo essermi lavato, ho acquistato la vista». Gli
dissero: «Dov’è questo tale?». Rispose: «Non lo so».
Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: era infatti
sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto
gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse
acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha posto del fango sopra
gli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato».
Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c’era dissenso tra di loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici
di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «E’ un
profeta!». Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco
e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui
che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «E’ questo il vostro
figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori risposero: «Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato
cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha
aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso».
Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come
il Cristo, venisse espulso dalla sinagòga. Per questo i suoi genitori
dissero: «Ha l’età, chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero:
«Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore».
Quegli rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima
ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero di nuovo: «Che cosa ti ha
fatto? Come ti ha aperto gli occhi?».
Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?».
Allora lo insultarono e gli dissero: «Tu sei suo discepolo, noi siamo
discepoli di Mosè! Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma
costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio
questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma
se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che
mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi
a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far
nulla».
Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?».
E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu
credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché
io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto: colui che parla con
te è proprio lui». Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò
innanzi. Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?». Gesù rispose loro:
«Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi
vediamo”, il vostro peccato rimane».
V Domenica
(Gv 11,1-45)
Commento
Il Vangelo di questa quinta domenica ci porta a Betania.Qui c’è
la casa degli amici di Gesù: due sorelle, Marta e Maria, e il loro
fratello Lazzaro. Gesù capitava spesso a Betania, di ritorno dai
viaggi nella terra di Palestina e la casa dei suoi amici era il luogo del riposo, della gioia, del ritrovarsi. Ora
quella casa è in lacrime, perché Lazzaro
è morto…è già sepolto. Proprio ora Gesù
è assente. Non passa inosservato che, all’annuncio della gravità della malattia, Gesù
non si precipita da Lazzaro per guarirlo,
non dice nulla, al contrario « quando sentì che era ammalato, rimase ancora due
giorni nel luogo in cui si trovava. Solo dopo
dice ai discepoli: «Andiamo di nuovo in
Giudea.» (Gv 11,6-7). A Betania ci va quando sa che il suo amico è morto ed è già
da quattro giorni nel sepolcro. Allora comprendiamo la reazione di Marta e di Maria:
«Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello
non sarebbe morto» (Gv 11,21)…possiamo immaginare il silenzio carico di dolore, di paura e forse di delusione di Lazzaro
(protagonista silenzioso di tutto il racconto). Possiamo immaginarci le tante domande nella mente di queste sorelle: sull’amore
di Cristo, sul loro amare ed accogliere Cristo,
se poi quando la morte entra nella tua casa
il Signore è nel silenzio.
La fede di Marta, così come quella di Maria,
fino a questo punto, è una fede imperfetta legata alla presenza fisica di Gesù, «Signore se tu fossi stato qui» (vv. 21.32), al suo potere taumaturgico e alla sua preghiera d’intercessione. Gesù vuole
condurre le due sorelle, e attraverso di loro anche noi,
ad una fede totale in Lui, ad una completa fiducia in Lui
e nel suo progetto salvino. Questo sarà il cammino che
Marta farà nel dialogo con Gesù…a volte dimentichiamo
che solo il dialogo-preghiera con il Signore si cresce nella
vita spirituale, si dissolvono i dubbi, scompaiono le paure, si
esce dalle nostre tiepidezze spirituali…«Le disse Gesù: «Io
sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi
tu a ciò?» (Gv 11,25-26). Gesù rivela a Marta, e a questo punto a tutti noi, che Egli comunica la vita eterna a chi crede in Lui
e questo libera l’uomo dalla morte fisica (anche se si dovrà sperimentarla) «se uno morisse, vivrà», sia spirituale « chiunque
vive e crede in me, non morirà mai». Marta risponde: « Sì, Signore.
Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve
venire nel mondo » (Gv 11,27). Allora proprio perché il Figlio di
Dio è venuto che la vita, il germe della resurrezione è qui nel
nostro mondo. La vita di Dio non è più al di fuori del nostro mondo, perché il Figlio è venuto tra noi per donarcela (Maggioni).
Questa è la fede matura, che non poggia più nell’uomo taumaturgo,
ma solo sulla parola di colui che riconosciamo come “Messia”,
Febbraio
2008
“Figlio di Dio”, “Colui che viene nel mondo”. Lasciamoci
afferrare per mano da Marta e percorriamo anche
noi il cammino della fede attraverso l’ascolto e
il dialogo con il nostro Signore. Non abbiamo
paura dei silenzi e delle apparenti assenze del
Signore, non si è dimenticato di noi, non ha posto
la sua attenzione ad altro è accanto a noi, meglio
dentro di noi perché i nostri occhi vedano prima e meglio quello che gli altri nel buio della loro
vita fanno fatica a cogliere.
Q u a r e s i m a 15
Quinta domenica
Vangelo Gv 11, 1-45 Testo
In quel tempo, era malato un certo Lazzaro di Betania,
il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era
quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore
e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo
fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, il tuo amico è
malato».
Foto: Angeli della Passione,
di A. Mariani 1927;
Velletri, Cattedrale S. Clemente,
Cappella S. Cuore.
All’udire
questo,
Gesù disse: «Questa
malattia non è
per la morte,
ma per la gloria di
Dio, perché per
essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù
voleva molto bene a
Marta, a sua sorella e a
Lazzaro. Quand’ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel
luogo dove si trovava. Poi, disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?».
Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma
se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce». Così parlò e poi soggiunse loro: «Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado
a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se s’è addormentato, guarirà». Gesù parlava della morte di lui, essi
invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro
è morto e io sono contento per voi di non essere
stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!».
Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Venne
dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro. Betania distava da
Gerusalemme meno di due miglia e molti Giudei
erano venuti da Marta e Maria per consolarle per
il loro fratello. Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche
ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te
la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà».
Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita;
chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque
vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu
questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che
tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel
mondo». Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: «Il
Maestro è qui e ti chiama». Quella, udito ciò, si alzò
in fretta e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era
andata incontro. Allora i Giudei che erano in casa
con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in
fretta e uscire, la seguirono pensando: «Va al sepolcro per piangere là». Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non
sarebbe morto!». Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti
con lei, [ si commosse profondamente, si turbò e
disse: «Dove l’avete posto?». Gli dissero: «Signore,
vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero
allora i Giudei: «Vedi come lo amava!». Ma alcuni
di loro dissero: «Costui che ha aperto gli occhi al
cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?».
Intanto Gesù, ancora profondamente commosso,
si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era
posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!».
Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, già
manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni» .
Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai
la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù
allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti ringrazio che
mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dài ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno,
perché credano che tu mi hai mandato». E, detto
questo, gridò a gran voce:
«Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, con i piedi e le mani
avvolti in bende, e il volto
coperto da un sudario.
Gesù disse loro: «Scioglietelo
e lasciatelo andare». Molti
dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel
che egli aveva compiuto, credettero in lui.
Febbraio
2008
16 Q u a r e s i m a
CANTARE LA MESSA:
TEMPO DI QUARESIMA.
Tutta la liturgia del tempo quaresimale è una
grande catechesi battesimale, che ci invita a
vivere e a recuperare il desiderio di uscire da sé
stessi per incontrare Cristo lungo il cammino del
deserto, per riconoscere la sua voce e vivere i segni
della sua presenza nel mondo.
Nell’immaginario collettivo la Quaresima è tempo di penitenza e di rinuncia, ma ridurla solo a
questi aspetti è semplicemente riduttivo. La liturgia ci propone altri temi ben più ricchi e significativi. Il credente si avvia verso la Pasqua percorrendo un itinerario di conversione e di riscoperta del proprio battesimo, per giungere rinnovato nel cuore e nello spirito incontro al Risorto.
E il protagonista, come sempre, non è l’uomo, ma
Cristo. Lui è la guida che apre il cammino alla chiesa verso la conoscenza sempre più profonda del
suo mistero. Le risorse dell’uomo, da sole, non
possono condurre alla salvezza, perché essa è
dono del Risorto, dono gratuito della grazia di Dio.
E questo cammino si realizza necessariamente
nella dimensione ecclesiale, dove il singolo credente cammina assieme ai fratelli nella fede, perché la comunità dei salvati, il popolo della nuova alleanza è la chiesa nel suo insieme.
I canti e una scelta appropriata, aiutano a scoprire il significato di questo tempo prezioso e a
gustarne la bellezza.
Per le indicazioni pratiche, prima di tutto valgono
i medesimi criteri più volte ribaditi per gli altri tempi liturgici. I princìpi esposti sono sacrosanti, non
dimentichiamocelo mai!
Anche per la Quaresima, il canto di ingresso potrebbe essere una canto-sigla, che accompagna le cinque settimane. Il Repertorio Nazionale propone Attende
Dorina e Nicolino Tartaglione
La speranza ci indica il cammino, la direzione della vita, per raggiungere ciò che si è già
compiuto in Gesù morto e risorto. Questo percorso si concretizza in una modalità specifica
del vivere che è la carità e nel matrimonio assume una realtà specifica che è la vita di coppia.
“La carità coniugale è il modo proprio e specifico con cui gli sposi sono chiamati a vivere la
carità stessa di Cristo che si dona sulla croce”
(Familiaris Consortio 13), Nel matrimonio qualunque tipo o forma di carità senza la carità coniugale non è vera. Se nel sacramento i due diventano una carne sola, ancor di più la virtù della
carità non può essere pensata e vissuta da soli.
Sul piano pratico questo può accadere, qualcuno
può anche pensare che ciò sia la norma, tuttavia essere accoglienti e generosi con gli altri, senza esserlo prima con il coniuge, forse inficia l’au-
tenticità della testimonianza.
Quale servizio alla comunità verrebbe offerto
da chi, magari, non “sopportando ” la moglie o
il marito svolge attività pastorali o catechetiche?
“Se ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta e va’ prima a riconciliarti con lui”
La carità coniugale è l’identità della coppia: porto l’amore agli altri partendo dall’amore di chi mi
sta accanto, dell’amore familiare, che non
significa assenza di problemi, difficoltà, “litigi”,
ma significa che prima di tutto viene sempre l’a-
Domine nella bella versione
in italiano: Signore ascolta,
ma va bene anche Chi mi
seguirà di A. Parisi.
Altri brani adatti: Miserere e
Benedici il Signore di M. Frisina,
Se Dio è con noi e Apri le tue
braccia di D. Machetta,
Donaci, Signore, un cuore nuovo di L. Deiss.
Un rito previsto e raccomandato
è l’aspersione con l’acqua benedetta, come alternativa all’atto penitenziale. Il canto che
accompagna l’aspersione
può benissimo essere Il
Signore ci ha salvati di L.
Capello.
Importante: in Quaresima
non si canta l’Alleluia. Come
acclamazione al vangelo
suggeriamo Cristo Signore,
gloria e lode a Te di F. Raino
E, prima di concludere: in
Quaresima è “quasi obbligatorio”
sottolineare con la musica l’Atto
penitenziale e l’Agnello di Dio
alla frazione del pane. È inutile qualsiasi indicazione perché ogni Comunità e Coro parrocchiale sa bene come
comportarsi.
P.S. Come sempre, si possono richiedere gli spartiti dei brani indicati al seguente indirizzo: f.fagiolo@tiscali.it
more. La fede permette agli sposi di dire che
Dio li ha pensati ed amati, per dire nel mondo
che Dio è l’amore vero; la speranza dà loro l’obiettivo dell’amore, rendendoli consapevoli della potenza esplosiva dell’amore di Dio, nel senso che l’amore di Dio traspare attraverso il loro
amore, come la luce illumina, l’acqua bagna
ed il fuoco brucia; la carità è la manifestazione storica di quest’amore, è vivere o, almeno
tendere a vivere, una qualità d’amore come Cristo.
L’imitazione di Gesù per gli sposati passa nel
vivere la dimensione sacerdotale, profetica e regale di Gesù, a cui sono stati incorporati con il Battesimo,
(Lumen Gentium n. 31), secondo le modalità ed
il contenuto che derivano dall’essere coppia .
“E’ nell’amore coniugale e familiare che si realizza ed esprime la partecipazione della famiglia
cristiana alla missione profetica, regale e sacerdotale di Gesù Cristo e della sua Chiesa”( Familiaris
consortio n. 50)
Febbraio
2008
B o l l e t t i n o D i o c e s a n o 17
Decreti
Prot. VSCA 03/2008
DECRETO DI NOMINA DEI MEMBRI DEL C.D.A
DELL’ISTITUTO DIOCESANO PER IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO
A norma dell’art. n° 7 dello Statuto dell’Istituto
Diocesano per il Sostentamento del Clero (=I.D.S.C.)
della Diocesi di Velletri-Segni, approvato dal Ministero
dell’Interno in data 23.04.1987 e pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale del 21.05.1987,
NOMINO CONSIGLIERI DELL’I.D.S.C.
I SEGUENTI SIGNORI:
Mons. Paolo PICCA, designato dal Clero, nato a
Velletri il 12.03.1938
Mons. Luciano LEPORE, designato dal Clero, nato
Colleferro il 5.05.1945
Rag. Italo SAVO, nato a Velletri il 6.02.1924
Avv, Carlo PALLICCIA, nato a Roma, il 21.10.1954
Rag. Nando DI CORI , nato a Artena il 21.03.1941
NOMINO
Mons. Paolo PICCA, PRESIDENTE dell’I.D.S.C.
Rag. Italo SAVO,
VICE-PRESIDENTE dell’I.D.S.C.
Velletri, 18.01.20
? Vincenzo Apicella
Prot. VSCA 04/2008
DECRETO DI NOMINA
DEL DELEGATO VESCOVILE PER IL DIACONATO
PERMANENTE
La nostra Chiesa locale da moltissimi anni ha arricchito
la sua azione pastorale con l’apporto dei Diaconi permanenti. Attualmente il gruppo dei diaconi si compone
di ben undici membri e altri candidati sono inseriti nel
cammino di formazione e discernimento. Il vescovo che
è stato e rimane sempre il punto di riferimento per ogni
diacono e per ogni candidato, si avvale dell’opera di un
suo delegato per seguire più assiduamente la formazione. Sino ad oggi questo compito è stato svolto in modo
meritevole dal vicario generale Mons. Angelo Lopes,
per questo servizio la Diocesi lo ringrazia.
Volendo proseguire con l’opera costante e continua della formazione, ben conoscendo le tue doti umane,
sacerdotali e culturali
nomino te
Don Roberto Mariani
Parroco della Cattedrale di San Clemente I, p.m.
Delegato Vescovile per il Diaconato Permanente
Nell’adempiere questo importante e delicato compito ti
di
nomina
accompagni la mia personale benedizione, l’intercessione dei Santi Patroni Clemente I, p.m. e Bruno.
Velletri, 18.01.2008
? Vincenzo Apicella
Prot. VSCA 05/2008
DECRETO DI NOMINA
DEL DIRETTORE DELL’UFFICIO CATECHISTICO
DIOCESANO
Nella propria Chiesa i Vescovi sono “i primi responsabili
della catechesi, i catechisti per eccellenza” (CT 62,2). A
questo riguardo essi hanno un duplice compito: normativo e promozionale. Spetta ad essi regolamentare l’attività catechistica e favorire e coordinare le attività e le
iniziative catechistiche. A questo scopo ho ritenuto
opportuno istituire un Servizio Diocesano per la
Formazione Cristiana che si prenda cura di tutti gli
ambiti della formazione e catechesi.
Avendo il direttore dell’ambito della catechesi, don
Roberto Mariani, nel frattempo assunto altri incarichi,
con il presente Decreto
nomino te
Don Daniele Valenzi
Parroco di S. Maria Assunta in Gavignano
Direttore dell’Ufficio Catechistico e Catecumenato
degli Adulti
nel Servizio Diocesano per la Formazione Cristiana
Velletri, 18.01.2008
? Vincenzo Apicella
Prot. VSCA 06/2008
DECRETO DI NOMINA
DELL’INCARICATO PER IL SERVIZIO DIOCESANO
DI PASTORALE GIOVANILE
Con la nomina ad altro incarico del rev.do Valenzi Don
Daniele, si è reso vacante l’Ufficio dell’Incaricato della
pastorale giovanile.
Con il desiderio di dare continuità al cammino intrapreso ma anche maggiore vitalità in sintonia con l’azione
pastorale più generale della diocesi, essendoci ben
note le tue attitudini,
per la facoltà concessami dal C.I.C.
nomino te
Rev.do FANFONI Don Corrado
nato a Palestrina il 06.09.1977; ord. il 21.06.2002
Incaricato del Servizio Diocesano per la Pastorale
Giovanile
In questo compito ti assistano i santi patroni Clemente I
e Bruno vescovo.
Alessandro Gentili
E’ il titolo di un servizio fotografico realizzato
da Gianfranco Angelico
Benvenuto. Il tema è
doloroso: la paraplegìa.
Dodici ragazze hanno
accettato di posare
nude per attirare l’attenzione. Molte associazioni di volontariato vorrebbero riproporlo. Pare che sia stata un’idea geniale, allora, dato
il grande successo! E così abbiamo scoperto che
a tutt’oggi il nudo fa ancora notizia. E così abbiamo scoperto che per attirare l’attenzione sulla sofferenza bisogna ancora fare scandalo. Ma, ci si chiede, fa scandalo ancora il nudo? O l’eccessiva “offerta” ha portato a un’indifferenza generale? O, peggio ancora, il presunto scandalo soffoca e nascon-
de il vero intento per cui è stato realizzato? A noi il
servizio ha generato molta tristezza: questi corpi “mutilati” sono pur belli, ma le altre? Quelle che non si
possono permettere di comparire senza veli? Una
doppia “mutilazione”? Lo scandalo si nasconde altrove. Il fotografo detiene il ghiotto copyright. L’ennesimo
oltraggio al pudore, che è o dovrebbe essere il nostro
primo vestito, fa sorridere e si rischia di essere bol-
Velletri, 18.01.2008
? Vincenzo Apicella
Prot. VSCA 07/2008
DECRETO DI NOMINA
DEL COODIRETTORE DEL CENTRO DIOCESANO
VOCAZIONI
La pastorale vocazionale è un dovere che grava su tutta la comunità cristiana, … ma in special modo sul
vescovo diocesano, (cfr can 233).
Conscio di questo particolare compito, volendo affiancare all’attuale direttore del Centro Diocesano Vocazioni
Mons. Leonardo D’Ascenzo un valido collaboratore, con
il presente decreto
nomino te
rev.do FIORE Don Marco
parroco di S. Pietro in Montelanico
Co-Direttore del Centro Diocesano Vocazioni
Nell’adempiere questo importante e delicato compito in
sintonia con Don D’Ascenzo, ti accompagni la mia personale benedizione, l’intercessione dei Santi Patroni
Clemente I, p.m. e Bruno.
Velletri, 18.01.2008
? Vincenzo Apicella
Prot. VSCA 08/2008
DECRETO DI NOMINA MEMBRI
COMMISSIONE DIOCESANA PER I BENI ARTISTICI
E CULTURALI
Dopo la nomina del nuovo Direttore diocesano degli
Uffici Beni Culturali e l’Arte Sacra e Delegato Vescovile
per i Rapporti con le Soprintendenze, nella persona del
Rev.do Nemesi Don Marco, si ritiene necessaria la
costituzione di una commissione che collabori nella
gestione con il Direttore.
Con Il presente decreto si istituisce la Commissione
Diocesana per i Beni Artistici e Culturali e se ne indicano i membri:
Direttore
Membro
Membro
Membro
rev.do Nemesi Don Marco
Sig. Tullio Sorrentino
Cav. Fausto Ercolani
Sig. Alfredo Serangeli
Velletri, 18.01.2008
Il Cancelliere Vescovile
Mons. Angelo Mancini
? Vincenzo Apicella
lati come bacchettoni. Ci faranno
sapere gli effetti
collaterali di questo
successo?
La solidarietà vive
ormai di questi espedienti. Si è costretti a ricorrere all’immagine scandalistica per attivare un briciolo di attenzione.
Attorno al letto di un
malato terminale, si affaccendavano amici e parenti. L’argomento principale era il medesimo: “ Sono
sicuro che ce la farai. Quando starai meglio faremo quel viaggetto di cui abbiamo parlato tante volte”.
Nessuna parola di speranza. Solo vuote parole attorno all’unica cosa di cui sappiamo cincischiare e usare malamente: il nostro corpo.
18 S p e c i a l e P a r r o c c h i e
Parrocchia
S. Bruno di
Colleferro
Febbraio
2008
la vita. Il tutto è riconducibile al mistero della libe- la Canonica, restauro della Chiesa parrocchiara elezione divina: “non voi avete scelto me, ma le in tutte le sue parti e restauro dell’Organo a
io vi ho scelto voi e vi ho costituiti perché andia- canne e, non in ultimo la costruzione della Chiesa
te e portiate frutto e il vostro frutto riman- sussidiaria della Madonna del Buon Consiglio
ga” (Gv 15, 16). Cresciuto, si può dire, in Contrada Forma. Da un punto di vista più pastoall’ombra del campanile, attraverso un rale questi anni per me sono stati molto intenpercorso molto normale in quei tempi, si, per il contatto diretto con la gente, con cui
sono entrato in seminario da subito: scuo- ho condiviso totalmente i problemi del territorio.
le medie a Segni e poi il Liceo Durante questo periodo ho avuto la responsaClassico e il Corso teologico-filosofico bilità dell’Ufficio Catechistico Diocesano e ho anche
ad Anagni. Sono diventato prete all’e- espletato l’incarico di Insegnante di Religione Cattolica
tà di 24 anni, il giorno 13 settembre 1980, a Colleferro, a Segni, a Gavignano e ovviamente
ed ho celebrato la Prima Messa all’in- a Montelanico, impegno che ho assolto con entudomani nel giorno della Festa siasmo fino al 2007 e che mi ha consentito di
dell’Addolotata appuntamento molto caro ai segni- allargare molto l’orizzonte della mia formazione e che mi dato occasione di stabilire collaborazioni
Abbiamo rivolto ni.
educative extraparrocchiali anche grazie all’eFatta
eccezione
del
primo
biennio
del
alcune domande al
mio ministero, appoggiato al Seminario, in cui sperienza del Composcuola con le tende ad Ovindoli.
parroco
ho avuto modo di girare abbastanza la Diocesi Intorno a questa iniziativa, frutto delle mia granDon Augusto Fagnani impegnato nel Centro Giovanile Interdiocesano, de passione per la montagna, ho scoperto preche così si presenta: e in cui ho potuto frequentare il Pontificio Accademia ziosissime collaborazioni, ho potuto trasmetteAlfonsiana per la specializzazione in Teologia re valori cristiani, ma anche stimolare l’interesSono nativo di Segni, cit- Morale, che però non ho completata, praticamente se per il problema della tutela e del rispetto per
tà nella quale hanno visto ho trascorso un quarto di secolo a Montelanico. il creato.
la luce tanti preti, poco
In Diocesi
più di mezzo secolo fa,
sono tuttora memil 23 giugno 1956. Nella
bro del Consiglio
mia famiglia (mamma,
Presbiterale e ho il
papà e il sottoscritto) ho
titolo di Cappellano
trovato da subito quel clid’onore di Lourdes
ma di amore necessa. Per quanto riguarrio per lo sviluppo della
da il grado di colvocazione. La storia
laborazione e di
personale della propria
amicizia con gli
chiamata chi la conosce?
altri sacerdoti ritenCertamente non sfugge
go di avere un
a Dio che ne è l’artefibuon rapporto con
ce. Per dirla, con una
tutti, visto anche il
espressione molto cara
mio carattere mite,
a Giovanni Paolo II,
ma credo che si
“ogni vocazione sacerdebba fare un po’
La chiesa parrochiale di San Bruno
dotale è un grande
di più da parte di tutmistero, è un dono che In questo paese sono stato mandato nel 1982 ti, sforzandoci di sentirci parte di un presbiterio
supera infini- come viceparroco e poi dal 1986 come parro- che è la vera nostra famiglia.
tamente l’uo- co fino al 2006. Mi sono impegnato ad essere
mo” (Dono e uno di loro ed ho cercato in tutto di dare del mio b) riguardanti la parrocchia S. Bruno
mistero, LEV meglio, impegnandomi soprattutto in una ope- Dal 22 ottobre 2006, chiamato a nuovo incari1996, p. 9). ra di ricostruzione sia materiale che spirituale. co da Mons Vincenzo Apicella, sono stato nomiOgnuno ne E così, a poco a poco, con la collaborazione del- nato parroco di San Bruno ove sono stato accolfa più o meno la gente, hanno visto la luce alcuni importanti to con rispetto ed encomiabile amicizia. La Parrocchia,
esperienza lavori: restauro del Santuario della Madonna del eretta canonicamente il 2 marzo1985, ha celetutti i giorni nel- Soccorso, realizzazione di un piccolo edificio con brato la dedicazione della sua Chiesa il 20 aprile diverse cir- giardino annesso al Santuario, Sistemazione del- le 1997. Il complesso parrocchiale è davvero noteDon Augusto Fagnani
costanze del-
Febbraio
2008
vole: è stato realizzato dall’Ing Gianfranco Siniscalchi
sotto la guida di Mons Franco Fagiolo il parroco che praticamente ha accompagnato la
nascita di questa Comunità e al quale di deve
sincera gratitudine per aver gettato solide fondamenta nella comunità. Il territorio della
Parrocchia, sul quale insiste una popolazione
di circa 7.000 abitanti, si trova nella zona sud/ovest
di Colleferro, nei pressi del Cimitero. Le abitazioni sono quasi tutte costruite di recente salvo quelle adiacenti alla zona del “Murillo” e di
Valle Purera”. La popolazione nel suo insieme
è molto eterogenea: accanto ad un nucleo più
stabile ed originario, molti provengono dalle più
diverse parti d’Italia e mi sembra che siano molto bene integrati e costituiscono sicuramente un
fattore di arricchimento culturale. Come è la presenza degli immigrati? E’ notevole, ma per lo
più non desta problemi: alcuni di essi, un trentina, sono assistiti ogni settimana dallo sportello
della caritas. Mi impegno personalmente e suggerisco anche agli altri di esprimere sempre relazioni cordiali con tutti, stimolando la capacità di
stimarsi a vicenda, atteggiamenti che incoraggio ad assumere specie verso coloro che appartengono ad una fede diversa. Nello svolgimento del lavoro pastorale sono coadiuvato dal viceparroco Don Angelo Prioreschi che è anche amministratore parrocchiale di S. Gioacchino e dal diacono Vito Cataldi. Tutte le domeniche vengono celebrate cinque Sante Messe, una prefestiva di sabato e quattro la domenica stessa. La
partecipazione dei fedeli alla eucaristia domenicale credo che si attesti intorno al 15%. Per
quanto riguarda invece la partecipazione attiva
alla vita della parrocchia posso dire che è matura e costante con una forte impronta di corresponsabilità. Non ci sono Istituti di vita consacrata che risiedono nella Parrocchia. Coltivo
quotidianamente il sogno e l’impegno di ricambiare la fiducia e la collaborazione accordate dal
folto gruppo dei catechisti, ministri straordinari
della comunione ai membri del Comitato, al personale volontario addetto alle pulizie, ai membri della Caritas, al Coro, agli educatori
dell’Azione Cattolica, dal nuovo Gruppo Amici
di Padre Pio”. Nella nuova comunità mi sento,
comunque, chiamato a ripensare la mie posizioni su molte cose: anzitutto devo far fronte a
relazioni con molte più persone, molte delle quali di fatto non vivono un cristianesimo di tipo sociologico e che vanno oltre civiltà che potremmo
chiamare “parrocchiale”. Come raggiungerli? Non
S p e c i a l e P a r r o c c h i e 19
so ancora, ma di certo sarà necessario trovare tempo e strategie. Sono numerosi i gruppi,
le onlus, le associazioni culturali, sportive e ricreative che operano in città e che pur non facendo parte della parrocchia in senso stretto, comunque con essa si relazionano. Penso francamente
che la Parrocchia, accanto alla ingente attività
interna alla vita della Chiesa, molta della quale è espletata da alcuni membri del Comitato,
debba essere molto più impegnata a coltivare
speranza, fraternità, senso e valori di fronte ad
un’epoca che prova disagio rispetto al futuro. Sarà
necessario sviluppare, secondo le indicazioni del
recente Convegno Ecclesiale di Verona, una pastorale “sempre più integrata” tra i diversi soggetti ecclesiali in campo: tra la parrocchia e la Diocesi,
tra la parrocchia e i vari gruppi, tra la parrocchia e le altre parrocchie nella città e nel vicino territorio, vincendo la tentazione di incappare
in personalismi o competizioni che possono risuonare solo di scandalo. Ritengo indispensabile
una azione di discernimento per individuare e
mettere in campo tutte le energie presenti nel
territorio per meglio lavorare insieme sui grandi temi di oggi: vita, lavoro, pace, giustizia, devianze giovanili e non, salvaguardia dell’ambiente,
sicurezza, ecc…. In parrocchia già opera una
realtà in questa direzione: il Centro Ricerche Sociali
“Vittorio Bachelet”, che grazie all’intuito e alla
buona volontà del suo presidente Claudio
Gessi, ha promosso nel tempo diverse ed interessanti iniziative. Mi piacerebbe però che aves-
Quali iniziative sono presenti per le fasce
di età 6-8 9-11 12-14 15-17 18-22? In genere
interviene l’azione dell’equipe dei catechisti a cui
si affianca o si sostituisce l’azione degli educatori
di azione cattolica. Quest’ultimi si riuniscono ogni
settimana secondo le fasce di età, svolgono i
campi estivi diocesani all’Acero e partecipano
ad altre iniziative diocesane tipo le “Notti di Nicodemo”.
Lo scorso anno si sono svolti degli incontri di
formazione esclusivamente per i giovani, mentre per questo nuovo anno si è preferito estenderli anche agli adulti, vale a dire a tutti coloro
che voglio avviare una fede più matura. Nel breve tempo del mio mandato come parroco non
mi è stato possibile andare oltre. Credo comunque di aver dato molto agli adulto e agli anziani anche in occasione delle numerose gite o pellegrinaggi che hanno radunato moltissime persone.
Come viene svolta l’azione caritativa
nella Parrocchia? Senza alcun dubbio in un modo
trasversale, vale a dire che tutti nel loro specifico ambito cercano di risponde alle varie esigenze della carità, dai sacerdoti, ai catechisti,
ai ministri straordinari della comunione, ai
fedeli tutti. Comunque c’è in parrocchia un organismo Caritas molto attivo, con un suo
Responsabile Alfio Brischetto, un Segretario Ruggero
Chiostri e una squadra di collaboratori che operano tutto l’anno e che ogni settimana aprono
uno sportello di ascolto e di carità diretto a beneficio dei poveri e che tengono vivi i legami con
la Diocesi.
C’è un collegamento con
l’amministrazione
comunale? Si. Ed
è anche
continuativo ed
improntato da uno
stile di
rispetto
reciproco
e mutua
La celebrazione per la nomina del nuovo parroco, don Augusto
collaborazione. E’
se un po’ più di seguito.
stata la sensazione che ho percepito sin dal pri-
Febbraio
2008
20 S p e c i a l e P a r r o c c h i e
mo istante del mio insediamento
come Parroco di San Bruno. Che
cosa consiglieresti al Sindaco
di Colleferro? Una cosa che con
tutta probabilità egli si sforza
di fare: di essere il sindaco di
tutti, di collaborare con tutte le
forze in campo, di cercare convergenze per il bene comune.
E se mi venisse accordata la
possibilità di indicare un aspetto all’amministrazione per
migliorare la vita sociale della
città? Incentiverei l’azione del
volontariato sociale quello
autentico che non coltiva scopi utilitaristici, ma si colloca come
dono alla città. Se potessi parlare con il Papa che
cosa gli chiederesti?
Quando era ancora
Cardinale fui incaricato
di porgergli una domanda
sulla catechesi durante un
convegno diocesano. La
sua risposta mi sembrò, per
la verità, un po’ enigmatica. Oggi mi basta ascoltarlo. Trovo che le sue parole sono sempre efficaci. E’
un artista della parola. E’
un profondo conoscitore di
Dio e dell’uomo. “Benedetto
chi usa la sapienza”!
Infine una richiesta/proposta per vivere o
riscoprire la fede da lanciare alle diverse componenti della parrocchia? La
fede, si dice, è dono e impegno, non è un fatto che tocca
solo il campo delle conoscenza; il Papa direbbe che essa
è “performante”. Un luogo e uno
spazio di apprendimento ed esercizio della fede è il silenzio sempre più castigato, tra i giovani
come in famiglia e persino nelle nostre Chiese. Decisamente
allora è da proporre per tutti una
ri-educazione al silenzio e
all’ascolto.
Parrocchia S. Bruno
di Colleferro
Abbiamo chiesto a Claudio Gessi, laico impegnato da sempre in parrocchia
e in diocesi, di parlare un po’ della sua
parrocchia San Bruno di Colleferro.
Questa la sua presentazione:
Claudio Gessi, 52 anni, diploma maturità scientifica, diploma in Scienze Religiose, dirigente
sindacale della Cisl, proveniente da famiglia
operaia (mio padre era un lavoratore edile,
come gran parte dei miei parenti, mia madre
casalinga)
Presidente del Comitato Parrocchiale,
Claudio Gessi
Presidente del Ce.R.S. (Centro Ricerche Sociali)
“Vittorio Bachelet”, centro culturale collegato
alla Azione Cattolica Diocesana e riconosciuto
dalla Conferenza Episcopale Italiana.
Presidente Diocesano di Azione Cattolica dal
1995 al 2002, in tale veste ho promosso la
nascita della Consulta Diocesana delle
Aggregazione Laicali. Componente del
Consiglio Pastorale Diocesano dal 1992 al
2002.
Attualmente Incaricato Diocesano insieme
a Mons. Luciano Lepore della Pastorale Sociale
e del Lavoro, campo nel quale sono componente dell’Esecutivo della specifica
Commissione Regionale presieduta dal
nostro vescovo Mons. Apicella. Collaboro con
l’Ufficio Nazionale della Pastorale Sociale e
del Lavoro in qualità di coordinatore del Gruppo
di Lavoro dei “Sindacalisti credenti”.
In rappresentanza della nostra Diocesi ho
partecipato ai Convegni Ecclesiali di Loreto
(1985), Palermo (1996) e Verona (2006), ed
alle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani di
Torino (1993), Napoli (1997), Bologna
(2003), Pistoia/Pisa (2007).
Dal 1981 al 1990 ho svolto attività politica
nella Democrazia Cristiana di Colleferro, prima come Consigliere Comunale (1981-1985)
poi come Assessore al Personale ed allo Sport
(1985-1990).
Sono il coordinatore di “Humana Civitas” (Città
dell’Uomo) associazione per la promozione della cultura politica e della partecipazione.
Con altri amici ho fondato a Colleferro la Condotta
di Slow Food.
Ho iniziato la mia attività ecclesiale nel 1972,
avevo 17 anni, e da allora ho partecipato con
continuità alla vita delle mie comunità parrocchiali, prima in quella dell’Immacolata, poi,
dal 1989, contribuendo alla nascita ed allo
sviluppo di S. Bruno. La Diocesi mi ha visto
sempre partecipe delle sue attività.
Penso di aver costruito con il clero, non solo
di Colleferro, ma diocesano in genere, un
forte rapporto di dialogo e di confronto, nel
pieno rispetto dei rispetti ruoli, funzioni, responsabilità e carismi.
Colleferro è una realtà sociale relativamente
giovane, essendo stata fondata nel 1935. Ha
da sempre avuto il ruolo di fulcro socio-politico del territorio circostante, ricoprendo la
funzione di luogo vocato al lavoro nella grande industria. A tale specificità sono dovute
anche la presenza di diverse scuole superiori e di strutture ad alta funzione sociale
(Ospedale, Inps, Centro per l’impiego, ecc.)
Con la crisi degli anni ’80 la città ha in gran
parte ridotto il numero dei posti di lavoro nell’industria, promuovendo diversi spazi di attività nel “terziario” e nei “servizi”.
Attualmente conta poco meno di 25.000 abitanti, con 4 parrocchie attive sul territorio,
tre di simile dimensione, con circa 7.500 abitanti ciascuna (S. Barbara, Immacolata e S.
Bruno) ed una più piccola avendo a riferimento il quartiere di Colleferro Scalo (S.
Gioacchino).
S. Bruno è la parrocchia ultima nata a Colleferro.
Giuridicamente nasce nel 1987, prendendo
Febbraio
2008
in eredità l’azione pastorale condotta per oltre 15
anni dai frati minori conventuali della parrocchia
Immacolata, che dal 1972 avevano iniziato l’attività pastorale nell’ormai “storico” garage della
famiglia Parenti.
L’azione pastorale vera e propria della nuova Parrocchia
inizia nel 1989 con la nomina del suo Parroco “fondatore” Don Franco Fagiolo. In poco più di 15 anni
la comunità ha compiuto passi da gigante, sia nella realizzazione di importanti opere architettoniche (Locali di Ministero Pastorale, Chiesa) sia nella promozione e concretizzazione di diverse attività pastorali e sociali, incentivando la partecipazione
dei fedeli in tutti gli spazi di impegno.
Da Ottobre 2006 la comunità ha un nuovo parroco, Don Augusto Fagnani, che con disponibilità ed attenzione si è inserito nella continuità dell’azione pastorale.
La Parrocchia copre tutti gli ambiti tradizionali di
attenzione alla Liturgia, alla Carità, alla Catechesi,
con i rispettivi gruppi di impegno e di servizio.
Ha promosso notevoli iniziative a carattere
sociale attraverso il Ce.R.S. (nel 1981 il 100° anniversario della Rerum Novarum, presente l’allora
Ministro del Lavoro Franco Marini, il 50° anniversario
della morte di Alcide De Gasperi con una mostra
fotografica, iniziative per ricordare le figure di Vittorio
Bachelet, cui è dedicato il Salone Convegni, di
Aldo Moro, di Paolo VI, ed ultimo il 40° anniversario della scomparsa di Don Lorenzo Milani. Inoltre
è promossa costantemente una intensa attività
culturale, particolarmente rivolta alla proposta musicale, con l’organizzazione di diversi concerti, che
hanno visto la presenza dell’Orchestra Regionale
del Lazio, dell’organista Daniele Rossi, di alcuni
solisti di fama internazionale, e di tante “corali”.
Sin dal suo nascere la Parrocchia ha organizzato
momenti di coinvolgimento popolare: ne sono testimonianza la “Festa Parrocchiale” tradizionalmente
fissata a metà Giugno, giunta alla sua XIX Edizione,
e la “Festa dell’Esultanza”, vera ricorrenza religiosa in onore del santo patrono S. Bruno, in ricordo del suo ritorno a Segni proveniente da Montecassino.
In parrocchia è presente sin dalla sua nascita l’Azione
Cattolica, che svolge attività in tutti gli ambiti, con
grande attenzione alle fasce dei ragazzi 6/8, 9/11,
12/14 e giovanissimi. E’ presente il gruppo giovani composto in buona parte dagli Educatori ACR.
Essendo cresciuto in Azione Cattolica ho maturato una chiara idea della presenza dei laici nella vita ecclesiale, presenza fondata sullo stretto
e vitale rapporto con la comunità parrocchiale e
sulla corresponsabilità nell’azione pastorale. In tal
senso il nuovo parroco Don Augusto Fagnani, dopo
un doveroso ma intenso periodo di ambientamento,
S p e c i a l e P a r r o c c h i e 21
ha promosso il rilancio degli Organismi di
Partecipazione, partendo da quello a maggior funzione di coinvolgimento, il Consiglio Pastorale
Parrocchiale. Al suo sforzo va la mia totale adesione, unita all’incitamento a non mollare di fronte ad ogni imprevisto e difficoltà.
Va certamente realizzato un maggior dialogo e
confronto tra le realtà ecclesiali presenti a
Colleferro. Ad oggi vi sono alcune significative esperienze (Via Crucis cittadina, Pellegrinaggio
annuale, corsi preparazione al matrimonio) ma
è ancora troppo poco. E’ auspicabile la realizzazione
di momenti di confronto periodico tra i Consigli
Pastorali, una attenzione alla formazione riguardante la Pastorale d’Ambiente (penso alla
Dottrina Sociale della Chiesa, alla cura dell’Ecologia
e del Creato, alla Pace ed alla Giustizia) Ma è
anche una priorità il rilancio di un’azione pastorale diretta ai giovani, in grado di risvegliare la
partecipazione ed il confronto.
Agli amministratori locali, vista la mia passata esperienza politica, chiedo solo di
promuovere una reale e convinta azione di promozione di
“partecipazione” dei cittadini alla
vita pubblica, con spazi di
coinvolgimento vero e non formale. Il distacco dalla politica
è ben visibile anche a Colleferro.
Un consiglio al Vescovo, anzi
due:
- Rilanciare un processo di integrazione reale tra le diverse anime della diocesi, a livello territoriale, tra le comunità parrocchiali,
all’interno del presbiterio, tra
i movimenti e le associazioni laicali, in uno spirito di “ecclesialità
di comunione” condivisa e praticata (non solo predicata!)
- Avvalersi in maniera costante e concreta delle tante intelligenze, competenze e disponibilità presenti in Diocesi nei
vari ambiti, rendendo praticabili spazi di azione e proposta.
Resto in trepida attesa della preannunciata prima Enciclica Sociale
di Benedetto XVI. Il mio sogno,
ispirato da una immagine magistrale di Don Tonino Bello, mio
grande maestro di spiritualità,
è quello di vedere viva una chiesa che fa della propria stola il
grembiule, segno del servizio
più umile ed esigente!
Penso alla Chiesa come albero della vita e della speranza, con le radici saldamente radicate in
“Lumen Gentium” ed il tronco sviluppato ed animato da “Gaudium et Spes”.
Un messaggio al mondo laicale della nostra Diocesi:
la chiamata alla “corresponsabilità” segna una svolta epocale ed una occasione irrinunciabile di impegno per ciascuno. Non lasciamola naufragare!
Un’ultima cosa sul rapporto clero-laici. Ho fatto
del detto: “fa più rumore un albero che cade che
un bosco che cresce” un principio di vita e di azione. Di fronte a tante testimonianze di sacerdoti
mirabili e straordinari non possiamo cedere a pochi
esempi poco edificanti! In tal senso, avendo del
sacerdozio in genere una grande stima e rispetto, costruisco con i sacerdoti che il Risorto mi dona
di incontrare un rapporto franco, costruttivo, di forte confronto, basato sul riconoscimento reciproco, convinto che lavoriamo tutti per la “vigna del
Signore”.
Febbraio
2008
22 G r a n d i T e m i
Stanislao Fioramonti
Forse, tra pranzi e regali, non ci si è fatto troppo
caso, ma a Natale e dintorni Benedetto XVI ha fatto discorsi davvero “pesanti”, su alcuni dei quali vale
la pena di meditare, per cominciare il nuovo anno
con il passo giusto. Ne ricorderemo almeno tre.
Il primo è stato l’omelia della messa della Notte di
Natale. Quella notte, come ogni anno da anni, ero
davanti alla TV e vi confesso che ho sentito parole emozionanti. Accenneremo per brevità solo alla
parte iniziale dell’omelia, che prendeva spunto dal
Vangelo della messa (Lc 2,6s): “Per Maria si compirono i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio
primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una
mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”.
Commentando l’ultima frase il papa ha detto: “L’umanità
attende Dio, la sua vicinanza. Ma quando arriva il
momento, non ha posto per lui. E’ tanto occupata
con sé stessa, ha bisogno di tutto lo spazio e di
tutto il tempo in modo così esigente per le proprie
cose, che non rimane nulla per l’altro – per il prossimo, per il povero, per Dio. E quanto più gli uomini diventano ricchi, tanto più riempiono tutto con sé
stessi. Tanto meno può entrare l’altro”. E subito dopo,
ricordando le parole dell’evangelista Giovanni
(1,11): “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”, si (ci) chiede: “Queste parole riguardano in definitiva noi, ogni singolo e la società nel
suo insieme. Abbiamo tempo per il prossimo che
ha bisogno della nostra, della mia parola, del mio
affetto? Per il sofferente che ha bisogno di aiuto?
Per il profugo o il rifugiato che cerca asilo? Abbiamo
tempo e spazio per Dio? Può egli entrare nella nostra
vita? Trova uno spazio in noi, o abbiamo occupato tutti gli spazi del nostro pensiero, del nostro agi-
re, della nostra vita per noi
stessi?”.
Il messaggio natalizio
“Urbi et Orbi” ha preso invece lo spunto dall’acclamazione al Vangelo della messa del giorno di
Natale: “Oggi una splendida luce è discesa sulla terra”. Dio è luce, ha detto il papa con san Giovanni
(1 Gv 1,5), e quando Gesù
nacque dalla Vergine
Maria, la Luce stessa è
venuta nel mondo, e la Luce
di Cristo è portatrice di pace!
“Possa essa finalmente rifulgere, e sia consolazione
per quanti si trovano nelle tenebre della miseria,
dell’ingiustizia, della guerra; per coloro che vedono ancora negata la loro
legittima aspirazione a una
più sicura sussistenza, alla
salute, all’istruzione, a
un’occupazione stabile, a
una partecipazione più piena alle responsabilità civili e politiche, al di fuori di ogni oppressione e al riparo da condizioni che offendono la dignità umana.
Vittime dei sanguinosi conflitti armati, del terrorismo
e delle violenze di ogni genere, che infliggono inaudite sofferenze a intere popolazioni, sono particolarmente le fasce più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani. Mentre le tensioni etniche, religiose e politiche, l’instabilità, le rivalità, le contrapposizioni, le ingiustizie e le discriminazioni, che lacerano il tessuto interno di molti Paesi, inaspriscono
i rapporti internazionali. E nel mondo va sempre più
crescendo il numero dei migranti, dei rifugiati, degli
sfollati anche a causa delle frequenti calamità naturali, conseguenza spesso di preoccupanti dissesti
ambientali. In questo giorno di pace – ha concluso il papa quasi mettendo in chiaro le allusioni fatte – il pensiero va soprattutto laddove rimbomba il
fragore delle armi: alle martoriate terre del Darfur,
della Somalia e del nord della Repubblica
Democratica del Congo, ai confini dell’Eritrea e dell’Etiopia,
all’intero Medio Oriente, in particolare all’Iraq, al Libano
e alla Terrasanta, all’Afghanistan, al Pakistan e allo
Sri PAROLE DA RIPENSARE
Stanislao Fioramonti
Forse, tra pranzi e regali, non ci si è fatto troppo
caso, ma a Natale e dintorni Benedetto XVI ha fatto discorsi davvero “pesanti”, su alcuni dei quali vale
la pena di meditare, per cominciare il nuovo anno
con il passo giusto. Ne ricorderemo almeno tre.
Il primo è stato l’omelia della messa della Notte di
Natale. Quella notte, come ogni anno da anni, ero
davanti alla TV e vi confesso che ho sentito parole emozionanti. Accenneremo per brevità solo alla
parte iniziale dell’omelia, che prendeva spunto dal
Vangelo della messa (Lc 2,6s): “Per Maria si com-
pirono i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio
primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una
mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”.
Commentando l’ultima frase il papa ha detto: “L’umanità
attende Dio, la sua vicinanza. Ma quando arriva il
momento, non ha posto per lui. E’ tanto occupata
con sé stessa, ha bisogno di tutto lo spazio e di
tutto il tempo in modo così esigente per le proprie
cose, che non rimane nulla per l’altro – per il prossimo, per il povero, per Dio. E quanto più gli uomini diventano ricchi, tanto più riempiono tutto con sé
stessi. Tanto meno può entrare l’altro”. E subito dopo,
ricordando le parole dell’evangelista Giovanni
(1,11): “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”, si (ci) chiede: “Queste parole riguardano in definitiva noi, ogni singolo e la società nel
suo insieme. Abbiamo tempo per il prossimo che
ha bisogno della nostra, della mia parola, del mio
affetto? Per il sofferente che ha bisogno di aiuto?
Per il profugo o il rifugiato che cerca asilo? Abbiamo
tempo e spazio per Dio? Può egli entrare nella nostra
vita? Trova uno spazio in noi, o abbiamo occupato tutti gli spazi del nostro pensiero, del nostro agire, della nostra vita per noi stessi?”.
Il messaggio natalizio “Urbi et Orbi” ha preso invece lo spunto dall’acclamazione al Vangelo della messa del giorno di Natale: “Oggi una splendida luce
è discesa sulla terra”. Dio è luce, ha detto il papa
con san Giovanni (1 Gv 1,5), e quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta
nel mondo, e la Luce di Cristo è portatrice di pace!
“Possa essa finalmente rifulgere, e sia consolazione
per quanti si trovano nelle tenebre della miseria,
dell’ingiustizia, della guerra; per coloro che vedono ancora negata la loro legittima aspirazione a una
più sicura sussistenza, alla salute, all’istruzione, a
un’occupazione stabile, a una partecipazione più
piena alle responsabilità civili e politiche, al di fuori di ogni oppressione e al riparo da condizioni che
offendono la dignità umana. Vittime dei sanguinosi conflitti armati, del terrorismo e delle violenze di
ogni genere, che infliggono inaudite sofferenze a
intere popolazioni, sono particolarmente le fasce
più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani. Mentre
le tensioni etniche, religiose e politiche, l’instabilità, le rivalità, le contrapposizioni, le ingiustizie e le
discriminazioni, che lacerano il tessuto interno di
molti Paesi, inaspriscono i rapporti internazionali.
E nel mondo va sempre più crescendo il numero
dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati anche a causa delle frequenti calamità naturali, conseguenza
spesso di preoccupanti dissesti ambientali. In questo giorno di pace – ha concluso il papa quasi mettendo in chiaro le allusioni fatte – il pensiero va soprattutto laddove rimbomba il fragore delle armi: alle
martoriate terre del Darfur, della Somalia e del nord
della Repubblica Democratica del Congo, ai confini dell’Eritrea e dell’Etiopia, all’intero Medio
Oriente, in particolare all’Iraq, al Libano e alla Terrasanta,
all’Afghanistan, al Pakistan e allo Sri Lanka, alla
regione dei Balcani e alle tante altre situazioni di
crisi, spesso purtroppo dimenticate. Il Bambino Gesù
porti sollievo a chi è nella prova e infonda ai responsabili di governo la saggezza e il coraggio di cer-
Febbraio
2008
care e trovare soluzioni umane, giuste e durature”.
L’ultimo messaggio papale che ci sembra importante non dimenticare è quello dato il 10 gennaio
agli amministratori della Regione Lazio, della Provincia
di Roma e del Comune capitolino, in occasione del
tradizionale scambio di auguri per il nuovo anno.
L’appuntamento, ha esordito il papa, “ci offre l’opportunità di riflettere su alcune materie di comune
interesse e di grande importanza e attualità, che
toccano da vicino la vita delle popolazioni di Roma
e del Lazio. Quindi si è fatto “interprete dei sentimenti e dei legami che hanno unito attraverso i secoli i successori dell’apostolo Pietro
alla città di Roma, alla sua provincia e a
tutta la regione Lazio”. E poi, individuando nella centralità della persona umana il
criterio fondamentale sul quale convenire nell’adempimento dei loro diversi compiti, ha evidenziato quattro emergenze sulle quali riversare, ciascuno nel proprio ambito di lavoro, il proprio impegno immediato. Esse sono:
a) L’emergenza educativa. Benché l’educazione e la formazione della persona siano oggi di importanza decisiva, ha detto
il papa, è oggi sempre più difficile proporre
in maniera convincente alle nuove generazioni solide certezze e criteri su cui costruire la
propria vita. Lo sanno bene i genitori e gli insegnanti,
che spesso sono tentati di abdicare ai propri compiti educativi, anche perché la società relativista e
nichilista non offre loro sicuri punti di riferimento che
li possano guidare nell’impegno. Sono così in gioco le basi stesse della convivenza e il futuro della
società.
Al riguardo il papa ha ringraziato la Regione per il
sostegno offerto a oratori e centri d’infanzia promossi
dalle parrocchie e per la realizzazione di nuove parrocchie nella regione. E ispirandosi alla centralità
della persona umana il papa ha detto che l’attuale emergenza educativa si può affrontare se si dà
importanza primaria al rispetto e al sostegno concreto della famiglia fondata sul matrimonio, nella
certezza di operare così per il bene comune.
b) L’emergenza povertà. Essa aumenta soprattutto nelle grandi periferie urbane, ma comincia ad essere presente anche in altri contesti e situazioni che
ne sembravano al riparo. E ciò è dovuto soprattutto
ad alcuni fattori: aumento del costo della vita, specie dei prezzi degli alloggi; mancanza di lavoro; salari e pensioni spesso inadeguati, che rendono dif-
G r a n d i T e m i 23
ficili le condizioni di vita di tante persone.
c) L’insicurezza e il gravissimo degrado di alcune
aree di Roma. Il papa ricorda l’uccisione di
Giovanna Reggiani a Tor di Quinto e dice necessaria un’opera costante e concreta che garantisca
la sicurezza dei cittadini e assicuri a tutti, in particolare agli immigrati, almeno il minimo indispensabile
per una vita onesta e dignitosa. Ricorda in questo
campo l’impegno della Chiesa, mediante la Caritas
e il volontariato laicale e religioso, ma sottolinea l’indispensabilità e l’insostituibilità dei pubblici poteri.
d) La sollecitudine verso gli ammalati. Questa deve
esserci sia da parte della Chiesa che delle istituzioni. Pur conoscendo le difficoltà della Regione Lazio
in campo sanitario, il papa afferma che spesso è
drammatica la situazione di strutture sanitarie cattoliche anche prestigiose e famose. Chiede dunque che nella distribuzione delle risorse esse non
siano paralizzate, non per interesse della Chiesa,
ma per non compromettere un servizio indispensabile alle nostre popolazioni.
Lanka, alla regione dei Balcani e alle tante altre situazioni di crisi, spesso purtroppo dimenticate. Il Bambino
Gesù porti sollievo a chi è nella prova e infonda ai
responsabili di governo la saggezza e il coraggio
di cercare e trovare soluzioni umane, giuste e durature”.
L’ultimo messaggio papale che ci sembra importante non dimenticare è quello dato il 10 gennaio
agli amministratori della Regione Lazio, della Provincia
di Roma e del Comune capitolino, in occasione del
tradizionale scambio di auguri per il nuovo anno.
L’appuntamento, ha esordito il papa, “ci offre l’opportunità di riflettere su alcune materie di comune
interesse e di grande importanza e attualità, che
toccano da vicino la vita delle popolazioni di Roma
e del Lazio. Quindi si è fatto “interprete dei sentimenti e dei legami che hanno unito attraverso i secoli i successori dell’apostolo Pietro alla città di Roma,
alla sua provincia e a tutta la regione Lazio”. E poi,
individuando nella centralità della persona umana
il criterio fondamentale sul quale convenire nell’adempimento dei loro diversi compiti, ha evidenziato
quattro emergenze sulle quali riversare, ciascuno
nel proprio ambito di lavoro, il proprio impegno immediato. Esse sono:
a) L’emergenza educativa. Benché l’educazione
e la formazione della persona siano oggi di
importanza decisiva, ha detto il papa, è oggi
sempre più difficile proporre in maniera convincente alle nuove generazioni solide certezze e criteri su cui costruire la propria vita.
Lo sanno bene i genitori e gli insegnanti, che
spesso sono tentati di abdicare ai propri compiti educativi, anche perché la società relativista e nichilista non offre loro sicuri punti
di riferimento che li possano guidare nell’impegno.
Sono così in gioco le basi stesse della convivenza e il futuro della società.
Al riguardo il papa ha ringraziato la Regione
per il sostegno offerto a oratori e centri d’infanzia promossi dalle parrocchie e per la realizzazione di nuove parrocchie nella regione. E ispirandosi
alla centralità della persona umana il papa ha detto che l’attuale emergenza educativa si può affrontare se si dà importanza primaria al rispetto e al
sostegno concreto della famiglia fondata sul matrimonio, nella certezza di operare così per il bene
comune.
b) L’emergenza povertà. Essa aumenta soprattutto nelle grandi periferie urbane, ma comincia ad essere presente anche in altri contesti e situazioni che
ne sembravano al riparo. E ciò è dovuto soprattutto
ad alcuni fattori: aumento del costo della vita, specie dei prezzi degli alloggi; mancanza di lavoro; salari e pensioni spesso inadeguati, che rendono difficili le condizioni di vita di tante persone.
c) L’insicurezza e il gravissimo degrado di alcune
aree di Roma. Il papa ricorda l’uccisione di
Giovanna Reggiani a Tor di Quinto e dice necessaria un’opera costante e concreta che garantisca
la sicurezza dei cittadini e assicuri a tutti, in particolare agli immigrati, almeno il minimo indispensabile
per una vita onesta e dignitosa. Ricorda in questo
campo l’impegno della Chiesa, mediante la Caritas
e il volontariato laicale e religioso, ma sottolinea l’indispensabilità e l’insostituibilità dei pubblici poteri.
d) La sollecitudine verso gli ammalati. Questa
deve esserci sia da parte della Chiesa che delle istituzioni. Pur conoscendo le difficoltà della Regione Lazio in campo sanitario, il papa
afferma che spesso è drammatica la situazione
di strutture sanitarie cattoliche anche prestigiose e famose. Chiede dunque che nella distribuzione delle risorse esse non siano paralizzate, non per interesse della Chiesa, ma per
non compromettere un servizio indispensabile
alle nostre popolazioni.
24 C o n c i l i o V a t i c a n o I I
Don Dario Vitali,
Parroco e Teologo
A unanime giudizio degli esegeti del concilio, il
tema della collegialità è uno dei più delicati e decisivi del concilio Vaticano II. Quello, anzitutto, a
cui è stato dedicato il maggior tempo in assoluto nelle discussioni in aula; quello che più di ogni
altro ha radicalizzato le posizioni di minoranza e
maggioranza al limite della opposizione ideologica; quello, infine, che più di ogni altro ha messo in questione l’iter stesso dei lavori, rischiando di far naufragare il concilio stesso.
E si capisce perché: la Curia romana temeva che
un riconoscimento di potere al collegio dei vescovi potesse compromettere il potere personale del
papa, sancito al concilio Vaticano I con la costituzione Pastor aeternus (18. 07. 1870), dove si
affermava invece il primato petrino e l’infallibilità
del papa quando parla ex cathedra. Nonostante
i tentativi di boicottaggio, tuttavia, il confronto serrato (dentro il quale ebbe un posto notevole mons.
Carli, allora vescovo di Segni, come voce della
minoranza) portò a una dottrina condivisa sulla
collegialità, benché i timori della Curia si possano registrare nella Nota explicativa praevia, che
per volontà di Paolo VI accompagna la Lumen
Gentium.
Quella nota – che contiene sostanzialmente i modi
sui quali i Padri si sono pronunciati e che ha costituito i criteri fondamentali su cui si è basata la discussione in aula – fissa quattro passaggi: 1) anzitutto il significato del termine “collegio”, che non
è da intendersi in senso strettamente giuridico,
come «un gruppo di uguali, i quali abbiano demandato il loro potere al loro preside, ma come un
gruppo stabile, la cui struttura e autorità devono
essere dedotte dalla Rivelazione»; 2) la modalità con cui si diventa membro del collegio, cioè
«in virtù della consacrazione episcopale e
mediante la comunione gerarchica con il capo del
collegio e con le membra»; 3) la chiarificazione
dei soggetti che detengono un potere pieno e supremo nella Chiesa, vale adire «il collegio, che non
si dà mai senza il capo, [che] è detto essere anch’es-
so “soggetto di supremo e pieno potere” sulla Chiesa
universale», e il romano pontefice singolarmente preso (ma la nota preferisce indicare due forme di potere supremo: quella del papa da solo
e quella del papa in unione con il collegio); 4) l’esercizio di questo potere, che «il sommo pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la sua potestà sempre, mentre il collegio,
pur esistendo sempre come soggetto, non sempre agisce collegialmente».
Si tratta di cautele che intendono affermare la dottrina della collegialità senza compromettere le affermazioni sul primato petrino. E, comunque, la dottrina sulla collegialità condensata nei nn. 22-23
è molto equilibrata: si tratta di due numeri intensi, dove ogni parola è pesata e limata. Anzitutto
l’affermazione sull’esistenza del Collegio episcopale:
«Come per decisione del Signore san Pietro e gli
altri Apostoli formano un unico Collegio apostolico, in modo analogo sono uniti tra loro il Romano
Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli» (LG 22). Il testo è costruito sul doppio parallelismo Pietro/papa – apostoli/vescovi. Pietro è insieme membro e capo del
collegio e il collegio non può esistere sine Petro.
D’altronde, questo emerge dalla Tradizione circa «il carattere e la natura collegiale dell’ordine
episcopale»: che i vescovi dall’antichità comunicassero «tra di loro e con il vescovo di
Roma nel vincolo dell’unità»; che si riunissero in concilio; che partecipassero alla consacrazione di un nuovo candidato all’ordine episcopale, sono argomenti che fondano la dottrina della collegialità. Anzi, chiariscono anche la modalità con cui un candidato viene assunto nel collegio, vale a dire
«mediante consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica con il capo e
con i membri del collegio».
A seguire il testo spiega che il collegio ha
autorità sulla Chiesa unicamente a condizione di avere il papa come capo, il quale
peraltro «conserva integralmente il suo potere primaziale su tutti, pastori e fedeli». Per
cui esistono due soggetti che hanno auto-
Febbraio
2008
rità sulla Chiesa: il papa, il quale ha personalmente
«sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale», e l’ordo Episcoporum, che è esso pure
«soggetto di piena e suprema potestà su tutta la
Chiesa», esercitatile unicamente con il consenso del papa quale supremo pastore della Chiesa.
Il concilio non ha recepito l’idea di chi, per salvaguardare le prerogative del papa, voleva riconoscere il collegio unicamente e solo a condizione
della convocazione pontificia, ad esempio in un
concilio generale, quasi che fosse un soggetto
occasionale: per la Lumen Gentium il collegio è
realmente e permanentemente soggetto di autorità suprema e piena nella Chiesa, che può esercitare sempre e solo in unione con il capo e mai
senza di lui.
La bellezza e la forza di questa dottrina risplende nell’affermazione, che illustra la natura esemplare e rappresentativa del collegio dei vescovi:
«Questo collegio, in quanto composto da molti,
esprime l’universalità e la varietà del popolo di
Dio; in quanto raccolto sotto un solo capo, esprime l’unità del gregge di Cristo». Il testo fa salvi
i diritti del papa e quelli del collegio, evidenziando la natura complessa dell’autorità nella Chiesa,
che si fonda e deve obbedire al principio della communio hierarchica.
Febbraio
2008
Antonio Galati
«Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far
della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la
folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. Ma Gesù rispose: “Non occorre che vadano;
date loro voi stessi da mangiare”. Gli risposero: “Non
abbiamo che cinque pani e due pesci!”. Ed egli disse: “Portatemeli qua”. E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci
e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione,
spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li
distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini» (Mt 14, 14-21).
Il brano sopra citato ci dice che Gesù passa parecchio tempo con le persone che Lo seguono, cura i
malati e, probabilmente (anche se il brano non ce
lo dice), rivolge alla gente un discorso: si intrattiene
con loro (Mt 14, 14). Questa è una caratteristica di
Gesù che nei Vangeli è facile notare: il Signore sta
in mezzo alle persone che ama1, cammina con loro2
e con loro si mette a tavola3. Questa stessa caratteristica dovrebbe essere presente in ogni cristiano
e specialmente in coloro che, dal Signore, sono chiamati al sacerdozio per renderLo continuamente presente in mezzo a tutta l’umanità che Lui non ha mai
smesso di amare e per la quale è morto e risorto4.
Nel proseguo del racconto, i discepoli fanno notare
al Maestro che si è fatta sera e che non c’è possibilità per la folla di saziare il loro bisogno di cibo se
non congedandosi da Lui e andando a comprare del
pane nei villaggi vicini. Notiamo, però, che il brano
evangelico non ci dice che la folla si lamentava per
qualche motivo. Viene in mente, allora, l’atteggiamento
degli ebrei durante il cammino nel deserto che li ha
portati dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa: anche in quel caso Dio era presente
in mezzo a loro5, ma loro, al contrario della folla che
seguiva Gesù, non facevano altro che lamentarsi di
tappa in tappa per qualcosa che mancava e non perdevano nessuna occasione per offendere Dio, rimpiangendo la loro condizione in Egitto e dubitando
del fatto che era veramente Lui a guidarli. Dio, però,
nel suo grande amore acconsentiva sempre ai loro
bisogni e sembrava non curarsi del modo in cui il Suo
popolo si comportava nei Suoi confronti6.
Questo parallelismo con l’Antico Testamento ci permette di sottolineare un altro atteggiamento caratteristico del modo di comportarsi di Dio nei confronti
dell’umanità e di ognuno di noi singolarmente preso: Dio ci ama nonostante tutto. L’amore, quando è
vero e sincero, è sinonimo di accoglienza e di sacrificio verso l’altra persona che si ama e ciò non è condizionato dal modo in cui l’altra persona ripaga questo amore: corrisponde o no, si continua a amarla
e si è sempre pronti a fare tutto ciò che si può per
lei, anche se poi non dirà neanche grazie. Questo
è l’amore che Dio prova nei nostri confronti e questo è l’amore che il chiamato alla vita sacerdotale
deve provare per l’umanità tutta intera e per le persone che si trova accanto. Il compito della vita sacerdotale (ma anche semplicemente cristiana) sembra
impossibile: il cristiano, il prete, è un uomo e deve
V o c a z i o n i 25
fare i conti con
la sua fragilità e
con il suo carattere che seleziona le persone più simpatiche e quelle più
antipatiche.
Mentre con le prime l’amore si
esercita più facilmente, con le
seconde risulta
più difficile e
figuriamoci poi
con chi la pensa diversamente e con chi
apertamente si
professa nemico o che egli sente tale7.
Dio dice di amare anche questi
ultimi, ma non
lascia solo nessuno in questo
compito e, come
sempre, aiuta
chi lo invoca e dà
la forza per riuscire. Lo stesso
brano evangelico sopra riportato
ci mostra come
Gesù interviene nella nostra vita per sostenerci nell’amore verso
gli altri. Quello che chiede è che noi ci affidiamo a
Lui. Vediamo come. Il brano evangelico, dopo l’intervento dei discepoli, continua con un breve dialogo tra Gesù e i suoi: «ma Gesù rispose: “Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare”. Gli
risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci!”.
Ed egli disse: “Portatemeli qua”» (Mt 14, 16-18)8. Di
fronte all’immensità della folla (Matteo annota infatti, al versetto 21 dello stesso capitolo: «erano circa
cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini») cosa sono cinque pani e due pesci? Dal tono
della risposta dei discepoli a Gesù che gli dice di dare
loro stessi da mangiare a tutti, comprendiamo che
anche loro notano l’insufficienza delle loro risorse
di cibo. Gesù però sa bene cosa fare: si fa dare dai
discepoli tutto quel poco che hanno e lo benedice,
gli aggiunge del Suo (Mt 14, 19). Dopo aver fatto
questo riconsegna i pani e i pesci ai discepoli e i
essi danno effettivamente da mangiare a tutti (Mt
14, 19), come Gesù aveva loro suggerito prima (Mt
14, 16). Addirittura «portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati» (Mt 14, 20). Per risolvere, allora, la difficoltà, o meglio l’impossibilità, umana di amare tutti nello stesso modo in cui ci ama Dio, basta
parafrasare il testo e, al posto dell’invito rivolto da
Gesù ai discepoli di dar da mangiare alla folla presente, leggiamo l’invito di Dio a amare tutta l’umanità che Egli rivolge a noi cristiani d’oggi, e in particolare ai sacerdoti e a coloro che si preparano a
diventarlo o stanno discernendo in cuor loro la loro
vocazione. La soluzione è quella di affidare al Maestro
la nostra pochezza e i nostri limiti, sicuri che Egli li
benedirà e ce li riconsegnerà pieni del Suo Amore
e capaci di abbracciare tutto il genere umano e anche
oltre.
Per sintetizzare tutto il discorso fatto fino a ora, possiamo dire che il sacerdote è chiamato a riproporre
Cristo in mezzo all’umanità e il Suo Amore che ama
nonostante tutto. Questo lo può fare perché come
cristiano è chiamato a amare tutti come Cristo stesso ha fatto, affidando a Lui la sua pochezza, e come
sacerdote ha il potere di rendere presente il Maestro
in mezzo ai Suoi, offrendo la pochezza del pane e
del vino e donando la grandezza del Corpo e del Sangue
re.
1
Mt 18, 20.
Lc 24, 13-15.
Mc 2, 15-17.
4
Messaggio di Sua Santità Benedetto XVI per la
XLV giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 5.
5
Es 13, 21-22.
6
Es 15, 22-27; 16, 1-15; 17, 1-7.
7
Mt 5, 43-48.
2
3
8
Sorvolo sull’affermazione centrale di Gesù «date
loro voi stessi da mangiare» (Mt 14, 16), che
riprenderò, per problemi di spazio, nel prossimo
articolo.
Febbraio
2008
26 A t t u a l i t à
Sara Gilotta
Non è certo facile comprendere le cause effettive che hanno spinto un esiguo numero di docenti dell’Università “La Sapienza” a rifiutare la presenza del Pontefice nel giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico. E’ certo, tuttavia, che
la loro “protesta” è nata dai loro convincimenti
laici, che essi hanno visto messi in pericolo così
come hanno temuto per la loro libertà di pensiero
e di azione. Ma a che pro, per dimostrare che
cosa? Ed ancora, davvero rispettabili docenti non
certo giovanissimi, hanno potuto aver paura delle parole di Benedetto XVI? Ora per quanto si
possa tentare di comprendere, è certo che l’atteggiamento assunto da essi, è stato solo il modo
per provocare una situazione tanto più negativa, quanto meno essa risulta evidentemente giustificabile. Ma al di là di della cronaca, credo che
per comprendere, sia necessario guardare al rapporto laici-cattolici, che tanto impegna in questo
periodo intellettuali e teologi, tutti rivolti a cercare
di stabilire un rinnovato colloquio tra i due modi
di pensare, basato sul reciproco rispetto e sulle
reciproca comprensione, nel rispetto della libertà di tutti. E, del resto il Pontefice nel discorso
che avrebbe dovuto tenere, ha ribadito, come è
tradizione della Chiesa Cattolica, di non voler imporre la fede, perché la fede deriva da una libera
scelta, che spetta a ciascun individuo desideroso di riconoscersi in una realtà come quella che
il Cristianesimo propone da più di due millenni
e basata innanzitutto sul rispetto della persona
e sull’amore che, legando tra loro gli uomini, li
avvicina a Dio che non è se non Amore trascendente
e perfetto, capace di abbracciare l’umanità tutta pur nelle sue debolezze ed incertezze.
Il Cristianesimo è, infatti, apertura all’altro, come
ha insegnato con la Sua vita e la Sua morte proprio il fondatore del Cristianesimo stesso Gesù,
figlio di Dio. Un Dio che ha mandato Suo figlio
a salvare l’umanità insegnando con la più perfetta semplicità principi rivoluzionari, mai prima
sentiti dagli uomini di quel tempo e che, forse ancora da troppi, nemmeno oggi si può dire che sia-
no davvero ed appieno compresi e seguiti. Anzi
della Parola di Gesù ancora si ha paura, ancora si pensa che essa possa essere imposta con
l’autorità o peggio con la forza. Ma se così fosse, allora non si potrebbe più parlare di
Cristianesimo, che è la religione della libertà e
non della sottomissione ad un Dio che impone
le sue leggi e punisce chi le trasgredisce, anzi
aderire alla Parola di Cristo ha significato per tutti divenire figli di Dio, che, appunto, ama come
solo un padre tenerissimo può fare.
Ecco perché chi veramente ha perso una preziosa occasione, per mostrare la capacità di affermare, accogliendo e non rifiutando il Pontefice,
la sua libertà è stato il mondo laico, che in tal
modo ha mostrato la propria debolezza, rafforzando l’importanza del messaggio cristiano
sempre disponibile ad accogliere tutti e ad ascoltare tutti senza barriere o preconcetti di sorta, come
è tipico, invece, di quelle ideologie che hanno
voluto nei secoli imporre verità rigide e fondate
su uno scientismo assoluto incapace di aperture di qualunque genere e che per questo sono
presto tramontate, sempre sconfitte dalla necessità avvertita profondamente dall’uomo, che ha
bisogno di nutrire il suo spirito, per uscire dagli
stretti limiti di quei pensieri, che nel predicare la
morte di Dio hanno proclamato anche la morte
dell’uomo chiuso nei confini angusti dell’immanenza incapace, comunque, di dare valore alla
vita e all’uomo stesso.
E per ultimo si deve dire che, prima ancora della difesa della libertà laica, si è avuta paura di
Benedetto XVI, dando vita in tal modo al peggiore dei pregiudizi, per il quale si rifiuta qualcosa
o qualcuno apriori, senza neanche conoscerlo e
senza nemmeno voler tentare in dialogo e un confronto, che certo il Papa non avrebbe rifiutato sia
per il grande livello intellettuale, sia soprattutto
perché come successore di Cristo non può che
guardare all’altro in spirito di fraternità.
Colleferro, S. Barbara 13 gennaio 2008
Giubileo Missionario di P. Angelo Ferrazza
Dopo cinquant’anni, nella stessa chiesa di S. Barbara
la celebrazione del Mandato ricevuto dal Redentore
direttamente da Padre e con l’unzione dello Spirito
santo, è stata estesa al mandato missionario del medesimo sacerdote, a cui il 15 gennaio 1858 il vescovo di Segni, Mons. Carli, consegnò il crocifisso di
apostolo in terra di missione. Domenica, 13 gennaio
2008, mons. Luciano Lepore, il giorno prima che il
P. Angelo Terrazza riprendesse il volo verso la sua
missione nello Zambia, volle celebrare con i parrocchiani
il giubileo d’oro di apostolato missionario. La s. messa fu allietata da un fraterno comunitario con molteplici doni per le opere evangeliche e umanitarie,
che il p. Angelo conduce nelle sue quindici stazio-
ni missionarie e ottanta comunità di base. La cerimonia giubilare riconferma sul giubilante il sentimento
di benigna riconciliazione con cui il Buon Pastore
assolve il suo servo dalle deficienze nel corso del
suo mandato e lo riassume al suo servizio con vera
e generosa benedizione. Il giubileo, come anno di
grazia, non è elargito al giubilato da Dio come congratulazione e atto di pensionamento. E’ per il Signore
l’occasione per adattare l’operaio ad un impegno più
consono alla sua situazione attuale.
Del P. Angelo Ferrazza si può dire a buon titolo che
ha aiutato la giovane Chiesa di Ndala nello Zambia
a crescere. Infatti mentre la diocesi di Ndala cresceva
nel numero di vocazioni e quindi si rendeva capa-
ce di autogovernarsi, il P. Ferrazza, andava per i villaggi a gettare le basi per la costruzione di comunità che da lì a poco sarebbe state prese in cura
da sacerdoti locali. Questo però non ha risolto tutti i problemi, in parte di responsabilità dell’autorità
di governo. Qui s’innesta la sensibilità e la generosità della comunità di Colleferro S. Barbara che nel
corso degli anni ha mantenuto il legame con P. Angelo
e ha risposto alle sue richieste di aiuto. Così si sono
potuto realizzare luoghi per lo studio dei ragazzi, piccoli laboratori per il lavoro degli adulti, e mini ambulatori.
Febbraio
2008
G i o r n a t a d e l M a l a t o 27
Cari fratelli e sorelle!
L’11 febbraio, memoria della Beata Maria Vergine
di Lourdes, si celebra la Giornata Mondiale del
Malato, occasione propizia per riflettere sul senso del dolore e sul dovere cristiano di farsene carico in qualunque situazione esso si presenti. Quest’anno
tale significativa ricorrenza si collega a due eventi importanti per la vita della Chiesa, come si comprende già dal tema scelto “L’Eucaristia, Lourdes
e la cura pastorale dei malati”: il 150° anniversario
delle apparizioni dell’Immacolata a Lourdes, e la
celebrazione del Congresso Eucaristico Internazionale
a Québec, in Canada. In tal modo viene offerta
una singolare opportunità per considerare la stretta connessione che esiste tra il Mistero eucaristico, il ruolo di Maria nel progetto salvifico e la
realtà del dolore e della sofferenza dell’uomo.
I 150 anni dalle apparizioni di Lourdes ci invitano a volgere lo sguardo verso la Vergine Santa,
la cui Immacolata Concezione costituisce il dono
sublime e gratuito di Dio ad una donna, perché
potesse aderire pienamente ai disegni divini con
fede ferma e incrollabile, nonostante le prove e
le sofferenze che avrebbe dovuto affrontare. Per
questo Maria è modello di totale abbandono alla
volontà di Dio: ha accolto nel cuore il Verbo eterno e lo ha concepito nel suo grembo verginale;
si è fidata di Dio e, con l’anima trafitta dalla spada del dolore (cfr Lc 2,35), non ha esitato a condividere la passione del suo Figlio rinnovando sul
Calvario ai piedi della Croce il “sì” dell’Annunciazione.
Meditare sull’Immacolata Concezione di Maria è
pertanto lasciarsi attrarre dal «sì» che l’ha congiunta mirabilmente alla missione di Cristo, redentore dell’umanità; è lasciarsi prendere e guidare per
mano da Lei, per pronunciare a propria volta il “fiat”
alla volontà di Dio con tutta l’esistenza intessuta
di gioie e tristezze, di speranze e delusioni, nella
consapevolezza che le prove, il dolore e la sofferenza rendono ricco di senso il nostro pellegrinaggio
sulla
tera.
Non si può contemplare Maria senza essere attratti da Cristo e non si può guardare a Cristo senza
avvertire subito la presenza di Maria. Esiste un legame inscindibile tra la Madre e il Figlio generato nel
suo seno per opera dello Spirito Santo, e questo
legame lo avvertiamo, in maniera misteriosa, nel
Sacramento dell’Eucaristia, come sin dai primi
secoli i Padri della Chiesa e i teologi hanno messo in luce. “La carne nata da Maria, venendo
dallo Spirito Santo, è il pane disceso dal cielo”,
afferma sant’Ilario di Poitiers, mentre nel
Sacramentario Bergomense, del sec. IX, leggiamo:
“Il suo grembo ha fatto fiorire un frutto, un pane
che ci ha riempito di angelico dono. Maria ha
restituito alla salvezza ciò che Eva aveva distrutto con la sua colpa”. Osserva poi san Pier Damiani:
“Quel corpo che la beatissima Vergine ha generato, ha nutrito nel suo grembo con cura materna, quel corpo dico, senza dubbio e non un altro,
ora lo riceviamo dal sacro altare, e ne beviamo il
sangue come sacramento della nostra redenzione. Questo ritiene la fede cattolica, questo fedelmente insegna la santa Chiesa”. Il legame della
Vergine Santa con il Figlio, Agnello immolato che
toglie i peccati del mondo, si estende alla Chiesa
Corpo mistico di Cristo. Maria - nota il Servo di Dio
Giovanni Paolo II - è “donna eucaristica” con l’intera sua vita per cui la Chiesa, guardando a Lei
come a suo modello, “è chiamata ad imitarla anche
nel suo rapporto con questo Mistero santissimo”
(Enc. Ecclesia de Eucharistia, 53). In questa ottica si comprende ancor più perché a Lourdes al culto della Beata Vergine Maria si unisce un forte e
costante richiamo all’Eucaristia con quotidiane Celebrazioni
eucaristiche, con l’adorazione del Santissimo
Sacramento e la benedizione dei malati, che costituisce uno dei momenti più forti della sosta dei pellegrini presso la grotta di Massabielles.
La presenza a Lourdes di molti pellegrini ammalati e di volontari che li accompagnano aiuta a riflettere sulla materna e tenera premura che la Vergine
manifesta verso il dolore e le sofferenza dell’uomo. Associata al Sacrificio di Cristo, Maria, Mater
Dolorosa, che ai piedi della Croce soffre con il suo
divin Figlio, viene sentita particolarmente vicina dalla comunità cristiana che si raccoglie attorno ai suoi
membri sofferenti, i quali recano i segni della passione del Signore. Maria soffre con coloro che sono
nella prova, con essi spera ed è loro conforto sostenendoli con il suo materno aiuto. E non è forse vero
che l’esperienza spirituale di tanti ammalati spin-
Messaggio del Santo Padre
Benedetto XVI in occasione della
16a
Giornata Mondiale del Malato
(11 febbraio 2008)
ge a comprendere sempre più che “il divin
Redentore vuole penetrare nell’animo di ogni sofferente attraverso il cuore della sua Madre santissima,
primizia e vertice di tutti i redenti”? (Giovanni Paolo
II, Lett. ap. Salvifici doloris, 26).
Se Lourdes ci conduce a meditare sull’amore materno della Vergine Immacolata per i suoi figli malati e sofferenti, il prossimo Congresso Eucaristico
Internazionale sarà occasione per adorare Gesù
Cristo presente nel Sacramento dell’altare, a Lui
affidarci come a Speranza che non delude, Lui accogliere quale farmaco dell’immortalità che sana il fisico e lo spirito. Gesù Cristo ha redento il mondo con
la sua sofferenza, con la sua morte e risurrezione
e ha voluto restare con noi quale “pane della vita”
nel nostro pellegrinaggio terreno. “L’Eucaristia dono
di Dio per la vita del mondo”: questo è il tema del
Congresso Eucaristico che sottolinea come
l’Eucaristia sia il dono che il Padre fa al mondo del
proprio unico Figlio, incarnato e crocifisso. E’ Lui
che ci raduna intorno alla mensa eucaristica, suscitando nei suoi discepoli un’attenzione amorevole per i sofferenti e gli ammalati, nei quali la comunità cristiana riconosce il volto del suo Signore.
Come ho rilevato nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, “le nostre comunità, quando celebrano l’Eucaristia, devono prendere sempre più coscienza che il sacrificio di Cristo
è per tutti e pertanto l’Eucaristia spinge ogni credente in Lui a farsi ‘pane spezzato’ per gli altri”
(n. 88). Siamo così incoraggiati ad impegnarci in
prima persona a servire i fratelli, specialmente quelli in difficoltà, poiché la vocazione di ogni cristiano è veramente quella di essere, insieme a Gesù,
pane spezzato per la vita del mondo.
Appare pertanto chiaro che proprio dall’Eucaristia
la pastorale della salute deve attingere la forza
spirituale necessaria a soccorrere efficacemente l’uomo e ad aiutarlo a comprendere il valore
salvifico della propria sofferenza. Come ebbe a
scrivere il Servo di Dio Giovanni Paolo II nella già
citata Lettera apostolica Salvifici doloris, la
Chiesa vede nei fratelli e nelle sorelle sofferenti
quasi molteplici soggetti della forza soprannaturale di Cristo (cfr n. 27). Unito misteriosamente a
Cristo, l’uomo che soffre con amore e docile abbandono alla volontà divina diventa offerta vivente per
la salvezza del mondo. L’amato mio Predecessore
affermava ancora che “quanto più l’uomo è minacciato dal peccato, quanto più pesanti sono le strutture del peccato che porta in sé il mondo d’oggi,
tanto più grande è l’eloquenza che la sofferenza
umana in sé possiede. E tanto più la Chiesa sente il bisogno di ricorrere al valore delle sofferenze
umane per la salvezza del mondo” (ibid.). Se pertanto a Québec si contempla il mistero dell’Eucaristia
dono di Dio per la vita del mondo, nella Giornata
Mondiale del Malato, in un ideale parallelismo spirituale, non solo si celebra l’effettiva partecipazione della sofferenza umana all’opera salvifica di Dio,
ma se ne possono godere, in certo senso, i preziosi frutti promessi a coloro che credono. Così il
dolore, accolto con fede, diventa la porta per entrare nel mistero della sofferenza redentrice di Gesù
e per giungere con Lui alla pace e alla felicità della sua Risurrezione.
Mentre rivolgo il mio saluto cordiale a tutti gli ammalati e a quanti se ne prendono cura in diversi modi,
invito le comunità diocesane e parrocchiali a celebrare la prossima Giornata Mondiale del Malato
valorizzando appieno la felice coincidenza tra
il 150° anniversario delle apparizioni di Nostra
Signora a Lourdes e il Congresso Eucaristico
Internazionale. Sia occasione per sottolineare
l’importanza della Santa Messa, dell’Adorazione
eucaristica e del culto dell’Eucaristia, facendo
in modo che le Cappelle nei Centri sanitari diventino il cuore pulsante in cui Gesù si offre incessantemente al Padre per la vita dell’umanità. Anche
la distribuzione ai malati dell’Eucaristia, fatta con
decoro e spirito di preghiera, è vero conforto per
chi soffre afflitto da ogni forma di infermità.
La prossima Giornata Mondiale del Malato sia inoltre propizia circostanza per invocare, in modo speciale, la materna protezione di Maria su quanti sono
provati dalla malattia, sugli agenti sanitari e sugli
operatori della pastorale sanitaria. Penso, in particolare, ai sacerdoti impegnati in questo campo,
alle religiose e ai religiosi, ai volontari e a chiunque con fattiva dedizione si occupa di servire, nel
corpo e nell’anima, gli ammalati e i bisognosi. Affido
tutti a Maria, Madre di Dio e Madre nostra, Immacolata
Concezione. Sia Lei ad aiutare ciascuno nel testimoniare che l’unica valida risposta al dolore e alla
sofferenza umana è Cristo, il quale risorgendo ha
vinto la morte e ci ha donato la vita che non conosce fine. Con questi sentimenti, di cuore imparto
a tutti una speciale Benedizione Apostolica.
Febbraio
2008
28 S p i r i t u a l i t à
Alessandro Gentili
Chiesa povera o Chiesa per i poveri? Il dilemma continua ad animare le serate dei cristiani
del mondo occidentale riuniti attorno alle tavole imbandite mentre fuori, a pochi passi, poveri, emarginati, carcerati, anziani, malati attendono
fiduciosi la salvezza promessa dal Salvatore. La
domanda vaga lungo una tranquilla serata tra
altri argomenti: i mutui troppo alti, la sanità che
non funziona, il petrolio troppo caro, le prossime ferie … Rovinare una così bella serata ci vuole veramente poco: basta, ad esempio, proporre
arditamente una leggera, leggerissima variante alla prima beatitudine di Matteo che la Cei
traduce così: “ Beati i poveri in spirito perché di
essi è il regno dei cieli”.
In uno straordinario libro (“Padre dei poveri” due
volumi: Le Beatitudini-Il Padre nostro; euro 26,50)
pubblicato dalla Cittadella, il Padre Servita Alberto
Maggi, propone questa variante:“Beati i poveri
PER lo spirito”.
E si comprende bene il perché questa versione non è mai stata proposta ai fedeli riuniti in
assemblea. La povertà alla quale invita la beatitudine della prima versione CEI, viene intesa
come l’atteggiamento interiore di chi, pur
restando saldamente in possesso dei propri beni,
ne è “spiritualmente” distaccato: la povertà di spirito si trasforma in spirito di povertà. Immaginiamo
dunque le reazioni di chi potrebbe ascoltare questo invito, quello, cioè, di farsi materialmente (e
non solo spiritualmente) povero per soccorrere i fratelli bisognosi. Anche chi scrive potrebbe avere la tentazione di alzare i tacchi e andarsi a cercare una Chiesa più comprensiva, più
UMANA. Peccato che i Padri della Chiesa abbiano sempre inteso nel loro cuore (e negli scritti)
la versione per noi più dura da digerire (pensate
ancora a quella bella tavola natalizia in cui si
sa a che ora inizia il pranzo e non si sa a che
ora termina la cena …). Per Agostino è umile
chi sceglie volontariamente la povertà. Girolamo,
Crisostomo, Giustino seguono la stessa versione
e potrei elencare Leone Magno, Basilio di Cesarea
e molti altri, ma sarebbe noioso. A che servirebbe?
Per i duri di cuore, come dice Gesù nella parabola, neanche i morti che resuscitano sarebbero
sufficienti alla conversione… La Chiesa primi-
tiva amava designare se stessa come la “comunità dei santi-poveri”. Gesù non si accontenta
di chiedere al ricco un distacco “spirituale” dai
propri beni, ma un abbandono effettivo, radicale e immediato: “ … và, vendi quello che
hai e dallo ai poveri …” (Mt 19,21). Nel Nuovo
Testamento i ricchi e la ricchezza appaiono
sempre sotto una luce negativa. Per costoro non c’è posto nel regno: “ … difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli …” (Mt
19,23). Soltanto Giuseppe di Arimatea e Zaccheo
vengono presentati positivamente nei Vangeli
e sono coloro che, una volta accolto il messaggio di Gesù, hanno coerentemente rinunciato
alla ricchezza. Gesù invita i credenti a farsi volontariamente poveri perché nessuno lo sia.
Modello di scelta volontaria è proprio il Signore
che “…da ricco che era, si è fatto povero per
voi …”(2Cor 8,9). Nel Vangelo di Luca, la proclamazione “Beati voi poveri” non ha un senso
generico, ma ben determinato. Proclamando “beati” i poveri, Gesù non intende gratificare i miserabili di questo mondo, ma assicurarli che la loro
indigenza è finita perché i suoi discepoli hanno
scelto di condividere con loro quello che hanno. Discepoli!... Cristiani!... Penso all’umiliante
beneficienza e alla facile filantropia di chi conteggia i propri beni e faticosamente mette via il
superfluo per elargirlo e tacitare una coscienza sempre più addormentata dal grasso benessere.
Ostacolo alla sequela di Gesù e all’ingresso nel
regno, è la ricchezza. Non solo il possesso, ma
lo stesso desiderio è causa di fallimento per il
discepolo (“l’inganno della ricchezza” Mt 13,22).
Ma torniamo, dopo questa antipatica omelia, alle
nostre belle tavole, ai cenoni, alle feste di compleanno, alle prime comunioni ove molte famiglie si sono indebitate pur di invitare tanti ospiti. Torniamo dalla Messa
domenicale ai nostri progetti di
ampliamento di case e appartamenti,
di auto nuove, di cellulari più sofisticati, di televisori al plasma, di computer, di borse e maglioni firmati. Evitiamo
di rovinarci il quotidiano con progetti
irrealizzabili, evitiamo di entrare
dentro la Parola di Dio che giace ammuffita in libreria (Nella Bibbia di
Gerusalemme, la più venduta, la più
commerciale, andate a leggervi il commento alla prima beatitudine. Sì, anche
lì, nelle ultime righe, proprio le ultime, giù in fondo, c’è l’ammissione
che Gesù inviterebbe proprio a farsi materialmente poveri), e piantiamoci dinanzi all’ennesimo dibattito
televisivo: Lady D è stata vittima di
un complotto?
Febbraio
2008
D i a c o n a t o 29
Diacono Pietro Latini
Domenica 9 dicembre u.s. si è tenuto presso Villa
Mater Dei in Lariano l’incontro dei diaconi, degli
aspiranti al diaconato e delle loro famiglie; ha presieduto il Vescovo. Tutta la giornata è stata improntata alla riflessione sul diaconato come vocazione, sull’importanza di questo ministero nella vita
della chiesa e sulle conseguenti responsabilità personali degli ordinati. Il vescovo in mattinata nell’omelia ha messo in relazione la figura di
Giovanni Battista “che preparava le strade del Signore”
con la figura del diacono che prepara le strade dei
cuori a ricevere l’annuncio del Signore; i relatori
nel pomeriggio hanno insistito sulla necessità di
requisiti forti per la preparazione al diaconato. È
stata una giornata bella e proficua che ha lasciato spazio e tempo ad una serie di domande tutte
articolate tra loro: perché tanto rigore nelle ordinazioni diaconali? Se la preparazione deve essere uguale o simile per tutti, perché ordinare alcuni sacerdoti ed altri diaconi? Oltretutto i sacerdoti potrebbero essere più efficacemente impiegati
nel ministero e potrebbero ricoprire un ventaglio
più ampio di servizi. Perché sprecare tante energie sul diaconato a livello di preparazione, se poi
ai diaconi è inibito l’accesso ad un ampio ventaglio di servizi? A che serve allora il Diaconato? A
riempire i buchi vuoti? Oppure il grande impedimento è il matrimonio? Domande apparentemente
superficiali che invece richiedono spiegazioni profonde perché la Chiesa non prevede scopi efficientistici
nella propria azione, ma è tutta proiettata verso
la lettura dei segni che lo Spirito gratuitamente dona.
Pensieri tratti dalle riflessioni del Cardinal Martini
nel ventennale del ripristino del diaconato permanente
nella diocesi di Milano ci aiutano ad approfondire la nostra riflessione su queste domande. Il Cardinale
ricorda che il diaconato permanente è dono dello Spirito, che lo Spirito non segue le logiche dell’uomo e che alcune volte spira diversamente da
come l’uomo si aspetta, come è accaduto nella diocesi di Brescia, dove il diaconato permanente è
stato reintrodotto dopo che la Conferenza
Episcopale Lombarda si era pronunciata negativamente. In merito a questo contrasto il Vescovo
responsabile, ai curiosi che lo stimolavano in proposito, ha precisato di essersi semplicemente dimenticato della precedente contrastante direttiva. È
stato così che, per una dimenticanza del
Vescovo, il diaconato permanente è stato reintrodotto
prima a Brescia, poi a Milano e quindi in tutta la
Lombardia. Noi, però, pensiamo che nella decisione del Vescovo di Brescia ci sia stata non dimenticanza ma ispirazione di Dio. Così come noi pensiamo che non è stato per caso che proprio in quel
periodo sia capitato arcivescovo della diocesi di
Milano colui che sarebbe diventato poi il Cardinal
Martini: il Cardinale tanto benemerito per la Chiesa
e tanto innamorato del diaconato. Per il Cardinale
il diaconato permanente deve essere reintrodot-
to nella Chiesa senza troppe domande, semplicemente perché Cristo vuole così. È la ragione cristologica, che trae fondamento dalla sacra
Scrittura e dalla Tradizione. Questa ragione è indiscutibile perché non può essere discusso il modello che Cristo ci ha dato: se non ci fosse il diaconato permanente la Chiesa non sarebbe la stessa. Il modello va applicato, non discusso; ciò nondimeno va capito, rispolverandolo dalle incrostazioni e dalle sovrastrutture che il passato dell’uomo ha apportato, per restituirlo alla Chiesa nelle
forme che Cristo ha pensato. A questa ragione cristologica si aggiungono per completezza le motivazioni ecclesiologica, evangelica e ministeriale.
La motivazione ecclesiologica marca il diaconato come irriducibile presenza della Chiesa in mezzo al popolo. Il diacono in quanto consacrato incarna la Chiesa; in quanto sposo e lavoratore è inescludibilmente presente nel mondo, perché lo sposo ed il lavoratore fanno parte integrante delle dinamiche del mondo. In una società secolarizzata che
si dimentica di Dio e della Chiesa il diaconato permanente nella doppia immagine di uomo che incarna la Chiesa e di uomo radicato nel mondo continua a garantire al mondo la presenza di Dio
oltre le dimenticanze dell’uomo. La motivazione evangelica segna il
servizio del diacono permanente come servizio di gratuità. Il Diacono
esprime nella società
il precetto evangelico
della gratuità: <<gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente
date>> (Mt 10,8). Nella
Chiesa ci sono già i
sacerdoti che si dona-
no totalmente; ma nella società secolarizzata c’è
bisogno anche di un altro tipo di gratuità, che sia
più vicina, più tangibile. Che il sacerdote si doni
totalmente e gratuitamente è atto eroico che il mondo capisce ed apprezza perché appartiene ad una
sua scelta eroica e diversa; ma che un padre di
famiglia si doni gratuitamente la sensibilità moderna spesso tarda a capirlo. Di questo il diaconato
permanente oggi deve essere segno. Ma oltre il
bello delle immagini della incarnazione e della gratuità, la ragione ministeriale si chiede: c’è posto
oggi nella Chiesa per il diaconato permanente? <<Che
cosa fa il diacono che non possa fare il laico in
circostanze particolari>>? Si può rispondere in tanti modi e si possono cercare spiegazioni articolate. Penso però che la risposta migliore sia il rovesciamento della domanda: <<che cosa durante i
secoli il sacerdote ha preso per sé, mentre invece era dovuto al diacono?>>. È la domanda che
il Cardinal Martini pone a se stesso ed alla riflessione della Chiesa. Solo così pensiamo possa restituirsi verità al diaconato e fulgore alla Chiesa. Resta
da vedere se siamo capaci di questa purificazione.
Febbraio
2008
30 S p i r i t u a l i t à
L’”Instrumentum Laboris”1, documento base di studio, di riflessione, di riferimento per i Padri sinodali, si articola, come i “Lineamenta”, in tre parti,
con un’introduzione ed una conclusione. Dopo il
consueto sguardo alla situazione contemporanea
(cf. I.L. 4-13), esso tratta del fedele laico nel mistero della Chiesa (cf. I.L. 14-33), e delle modalità,
luoghi e ambienti della sua partecipazione alla missione della Chiesa di Cristo nel mondo (cf. I.L. 3478). L’”Instrumentum laboris” rappresenta il risultato delle risposte ai “Lineamenta” senza però esserne un vero e proprio riassunto.2
L’intero documento dichiara che il laico è considerato un cristiano in cammino verso la santità,
sulla base della sua vocazione e con la propria
originalità. La chiamata del laico trova la sua ragion
d’essere proprio nel radicamento della sua esistenza
sul modello cristologico dell’Incarnazione. Le
vocazioni cristiane non sono qualcosa, per così
dire, legata a dei carismi particolari, misteriosamente
fatti avere a questo o a quel cristiano, attraverso
questa o quella esperienza ecclesiale, ma sono
tante forme personali d’inserimento nella storia,
idonee a ripetere il modello cristologico
dell’Incarnazione nel tessuto della vita quotidiana
(cf. I.L. 35-36)A motivo di questa ampia prospettiva l’”Instrumentum Laboris” si presenta certamente
come più ricco nei contenuti rispetto ai “Lineamenta”;
in esso prevale più chiaramente il tema della comunione ecclesiale, più idonea a promuovere la spiritualità laicale: difatti essa lascia meglio vedere
la figura del laico nella sua duplice relazione alla
comunione con Dio e con il prossimo.
Più esplicitamente egli è chiamato alla comunione on la Trinità e con la Chiesa; la risposta è la
missione di dilatare la comunione ecclesiale a tutti gli uomini.
In tale contesto L’”Instrumentum Laboris” riprende l’affermazione conciliare dell’indole secolare del
laico fedele (cf. LG 31), sebbene lo faccia con
pochi riferimenti3, tuttavia sufficienti a
farcene comprendere tutto il valore. “Infatti,
l’indole secolare dei fedeli laici li rende attori particolarmente attendibili nella missione della Chiesa nel mondo;
essi la vivono partecipando a tutte
le realtà di cui è tessuta l’esistenza
degli uomini. Sono così necessariamente coinvolti nelle complesse dinamiche della storia contemporanea”4.
Per realizzare questo programma
l’”Instrumentum Laboris” esige per il laico cristiano “la partecipazione, in un
determinato modo, ai tre uffici di Cristo,
inaugurata dal battesimo, accresciuta
dalla Confermazione ed esercitata
pienamente grazie all’Eucarestia”5. A
tal fine, il documento domanda ai Pastori
della Chiesa di preoccuparsi di offrire ai fedeli laici”la possibilità di una
formazione permanente con approfondimenti in diversi campi (biblico, teologico, mora-
le, liturgico, spirituale). Così i fedeli laici potranno
affrontare con spirito cristiano le loro responsabilità sociali, economiche e politiche e inculturare il
Vangelo nelle situazioni particolari della loro vita
quotidiana”.6
L’importanza riconosciuta alla formazione dei laici cristiani ha spinto il documento presinodale a
proporre la creazione di nuovi centri per lo sviluppo
e la crescita della vita spirituale dei laici. Il documento, inoltre, presenta alcuni luoghi della formazione
laicale:
Il primo e il più importante è la famiglia, perché in
essa si compie la prima esperienza d’amore, di
perdono e di gioia;
Il secondo luogo educativo è la parrocchia, come
pure le diverse comunità e le diverse associazioni cristiane (azione cattolica, movimenti), che costituiscono per tutti i fedeli laici, soprattutto per i giovani, un ambiente familiare di grande valore per
l’autentica crescita della coscienza ecclesiale;
Il terzo luogo formativo è costituito dalla scuola,
dai collegi, dalle università cattoliche: per ogni età
e grado di cultura, essi contribuiscono ad una formazione profonda, integrale e dinamica.
Ai fedeli laici mancherebbe l’alimento necessario
per corrispondere alla loro vocazione e missione
ecclesiale se non avessero un’intensa vita spirituale e un’autentica formazione; lo spazio concreto
che essi occupano nei diversi ambiti della vita, fa
capire quanto sia urgente una vita spirituale cristocentrica, fondata sul mistero dell’incarnazione
e frequentemente alimentata dal memoriale eucaristico. In tale ottica l’”instrumentum Laboris” sostiene che “il sacrificio eucaristico deve occupare il
posto centrale nell’esistenza di ogni fedele laico;
questi vi partecipa attivamente sia nella celebrazione eucaristica sia nella vita quotidiana, offrendo a Dio Padre tutta la sua giornata terrena in unione di carità col sacrificio di Cristo”7.
Da questa sorgente di santità, ne deriva che il laico amerà la Chiesa come luogo della sua pienezza
umana e della sua salvezza. Il laico ama la Chiesa
storica, quella che incontra nella sua vita quotidiana,
con i suoi volti, i suoi problemi, le sue luci e le sue
ombre: è qui che si realizza la salvezza degli uomini. A tale riguardo A. Faivre afferma nel suo libro
“I laici alle origine della Chiesa” che “I laici sanno
ormai di avere un posto e un ruolo da sostenere
nella Chiesa di oggi”8. Inoltre il cristiano ama il mondo, opera del Signore affidata agli uomini. Egli ama
e non può non amare la gente, cioè tutte le persone nelle quali riconosce il volto nascosto di Cristo.
L’”Instrumentum Laboris” sostiene in generale che
questa spinta in positivo, offerta al laicato perché
cresca nella sua spiritualità, ha avuto origine dal
Vaticano II e sta oggi manifestando tutta la sua
forza feconda e aperta a nuovi sviluppi; difatti nella Chiesa di oggi la vocazione e la missione dei
laici vengono riconosciute in modo più esplicito e
concreto. Tale situazione è frutto dell’ecclesiologia di comunione e dell’impostazione della “lumen
Gentium” riguardo alla comune dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, alla comu-
Febbraio
2008
ne grazia dei figli, alla comune vocazione e alla
propria perfezione (cf. LG 32). Per questo tutti i
laici cristiani, con la propria spiritualità, contribuiscono generosamente, mediante un crescente senso di responsabilità, alle diverse espressioni della vita della Chiesa sia nel suo sviluppo interno,
sia nel suo apostolato verso tutti. Dal dibattito sinodale,avente come traccia di base l’”Instrumentum
Laboris”, mi sembra opportuno ricavare queste tre
conclusioni importanti:
Il laico cristiano, all’interno del popolo di Dio che
è nel mondo, assume in maniera più specifica la
dimensione secolare della Chiesa; ciò richiede che
il laico, ricercando la santità, non trascuri nessun
campo dell’attività umana. Il messaggio dei Padri
sinodali al Popolo di Dio afferma: “Lo spirito ci fa
scoprire più chiaramente che oggi la santità non
è possibile senza impegno per la giustizia, senza solidarietà con i poveri e gli oppressi. Il modello di santità dei laici deve integrare la dimensione sociale della trasformazione del mondo secondo il piano di Dio”9.
La partecipazione attiva del laico alla vita della Chiesa
deve essere soprattutto comunitaria; occorre
però rifuggire dal clericalizzarla mediante un’effettiva
moltiplicazione dei ministeri che possono essere
loro affidati.
Oggi è necessario andare incontro alla richiesta
del laico aiutandolo nella crescita costante della
propria vita spirituale. Difatti leggiamo nel
“Messaggio al Popolo di Dio”: “I laici cristiani han-
S p i r i t u a l i t à 31
no sete di vita interiore, di spiritualità, di partecipazione missionaria e apostolica. Ciò esige un processo di maturità alla luce della parola di dio ricevuta nella Tradizione della Chiesa e interpretata
autenticamente dal Magistero e in una partecipazione
sempre più fruttuosa ai Sacramenti. Tale crescita è alimentata dalla pratica della confessione e
dalla direzione spirituale10. Il Sinodo dei Vescovi
1Cf. il testo in Caprile G., “Il Sinodo dei Vescovi
è stato veramente aperto alla più affascinante, coinvolgente e fattiva ripresentazione della figura del
laico cristiano, nella cornice dell’insegnamento conciliare sulla Chiesa come «mistero», come «comunione» e come «missione».
Terminato il Sinodo sul laicato, il lavoro del nuovo Consiglio della Segreteria Generale del Sinodo,
in vista dell’Esortazione Apostolica, è iniziato nel
gennaio 1988. Una particolare Commissione
aveva già preparato uno schema-base articolato in otto capitoli, che lasciavano intravedere l’impostazione generale basata sul trinomio «mistero – comunione - missione». Essi erano preceduti
da un’introduzione che riaffermava la dottrina conciliare e descriveva la figura del “Christifideles” laico. La conclusione indicava in Maria il modello della Chiesa: mistero – comunione - missione. Inoltre
ricordava la figura la figura dei santi laici11 e con-
27.
6 Caprile G., ibidem, 670, n°74.
cludeva con un richiamo alla vocazione di tutti alla
santità. Lo stesso Giovanni Paolo II desiderava che
il testo riflettesse la ricchezza del Sinodo dando
risposte alle attese pastorali, alle speranze apostoliche e spirituali dei fedeli laici. Il testo definitivo all’Esortazione Apostolica “Christifideles Laici”
con la data del 30-12-1988, venne presentato ufficialmente a tutto il Popolo di Dio il 30-01-1989.12
Mara Della Vecchia
Molti ricorderanno le scene del noto film
Mission, del 1986, quando il gesuita padre
Gabriel tenta un primo contatto con le popolazioni guaranì per mezzo del suono del
suo oboe. Il celebre tema musicale, composto da Ennio Morricone, echeggia attraverso la foresta amazzonica e giunge al
cuore degli indigeni guaranì, così inizia,
nella vicenda narrata nella pellicola, l’amicizia tra padre Gabriel e la popolazione
locale e la costruzione di una missione
tra la natura selvaggia dell’Amazzonia.
I padri gesuiti che partivano dall’Europa
diretti alle missioni in America del sud,
nel desiderio di convertire gli Indios al
Cristianesimo, portavano con sé, nella lunga traversata
dell’oceano Atlantico, non solo immagini e testi sacri,
ma anche attrezzi da lavoro e soprattutto strumenti musicali perché sapevano che per mezzo della musica, avrebbero potuto più facilmente dialogare con popoli così diversi da loro e avvicinarli alla propria fede.
Nelle “Reducciones” , le missioni, si cantava molto,
con abilità e partecipazione, e durante le funzioni religiose i canti erano accompagnati da i più svariati strumenti musicali: provenienti dall’Europa e strumenti
tradizionali locali. Così accanto al suono dei violini
o delle arpe o dei clavicembali, risuonavano anche
i più incredibili tipi di percussioni, sicuramente simili a quelli che oggi ritroviamo nei negozi di artigianato esotico.
Dall’incontro della complessa musica barocca europea del XVII secolo con i canti degli Indios e il contributo dei ritmi africani, introdotti nel Nuovo Mondo
dagli schiavi deportati dall’Africa, è nata una nuova musica bellissima, ricca di spiritualità e di sentimenti, che parla di gioia, ma anche di sofferenza e
che purtroppo ha rischiato di scomparire quando cir-
1987”, 616-686.
2 Cf. Caprile G., ibidem, 616 n°2.
3 La LG è richiamata nell’”instrumentum Laboris” nei
numeri 4, 16, 22, 25, 28.
4 Caprile G., “Il Sinodo dei Vescovi 1987”, 619, n° 4.
5 Caprile G., “Il Sinodo dei Vescovi 1987”, 641, n°25-
7 Caprile G., ibidem, 670, n°74.
8 Faivre A., “I laici alle origini della Chiesa”, Paoline,
Cinisello Balsamo (Mi).
9 Sinodo dei Vescovi (1987), “Sui sentieri del Concilio.
Messaggio al Popolo di Dio”, E.V. 10. 2221. Devoniane,
Bologna 1990.
10 Sinodo dei vescovi (1987), ibidem, E.V. 10, 2232.
11 Cf. Semeraro M., “Con la Chiesa nel mondo, cit.,
156 nota 54 “nel corso del Sinodo Giovanni Paolo II
procedette alla canonizzazione del laico Giuseppe
Moscati (25-10-1987) e di 16 martiri in Giappone nel
sec. XVII, tra cui alcuni catechisti (18 ottobre). Il 4
ottobre 1987 Giovanni paolo II procedette alla beatificazione di tre giovani laici: Marcel callo (1921-1945)
operaio francese martire; Pierina Morosini (19311956) bergamasca, vergine e martire;Antonia Mesina
(1919-1935) sarda, vergine e martire”.
12 Per un commento all’Esortazione Apostolica, che
tiene conto del dibattito sinodale, cf. Coughlan P.,
“Laici responsabili chiamati ad una comunione missionaria”, Ave Roma 1990. Il Volume si presenta
come un compendio-commento della “Christifideles
Laici”. Ogni capitolo contiene nella prima parte un
fedele e ampio sunto dei paragrafi dell’Esortazione
Apostolica
ca 200 anni fa i gesuiti furono costretti
ad abbandonare per sempre le loro missioni nel continente americano.
Fortunatamente, nel corso del XX secolo si è sviluppato un grande interesse per
la musica etnica che ha visto impegnati, alla riscoperta delle musiche popolari dimenticate, molti ricercatori musicologi e ciò ha favorito anche il recupero
di questa musica preziosa, proprio perché frutto del desiderio degli uomini di
incontrarsi e comprendersi. Durante il XVII
e XVIII secolo le missioni dei gesuiti furono visitate da molti viaggiatori europei e
tra questi, sicuramente, molti musicisti
i quali con certezza lasciarono il loro contributo alla nascita delle tante musiche
che venivano eseguite nella vita quotidiana delle missioni, sia durante il lavoro che nelle celebrazioni liturgiche.
Tornando al film Mission, nelle ultime scene della pellicola, dopo la distruzione della “Reducciòn” di padre
Gabriel da parte dei coloni portoghesi, tra resti semidistrutti trascinati dal fiume, si scorge un violino, quasi un simbolo dell’opera svolta in quei luoghi grazie
alla musica e un violino, che era stato veicolo di comunicazione e conoscenza reciproca da gente diversa, può continuare ad esserlo.
32 D i r i t t o e M a t r i m o n i o
Fin dall’inizio del secondo millennio, il principio dell’assoluta indissolubilità del matrimonio
cristiano non appare soggetto a particolari contestazioni. Nella discussione scolastica sul momento costitutivo del vincolo coniugale si suppone
assodato il principio dell’indissolubilità. Per la
scuola di Parigi (Pietro Lombardo) il vincolo viene costituito nella sua totale fermezza nel momento dello scambio del consenso; quindi, a partire da tale momento costitutivo, il matrimonio
diventa assolutamente indissolubile. Per la scuola di Bologna (Graziano), invece, il vincolo non
è pienamente costituito se il matrimonio non è
consumato e, quindi, l’assoluta indissolubilità
del matrimonio ha luogo soltanto nel matrimonio consumato. La sintesi dottrinale a cui si giungerà dopo mezzo secolo di serrata discussione costituisce la dottrina che sta alla base del
magistero e della prassi della Chiesa, in materia matrimoniale: il sacramento del matrimonio
consiste nel patto coniugale valido di due battezzati (matrimonio rato); tuttavia tale matrimonio
non è assolutamente, ma solo relativamente,
indissolubile se non è consumato, secondo quanto indicato dal can 1141 del CIC: «il matrimonio rato e consumato non può essere sciolto
da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte». Questa dottrina diventa
comune tra i teologi e i canonisti verso la fine
del sec. XII. I canonisti che a volte vengono citati quali sostenitori della dottrina secondo cui il
papa potrebbe sciogliere il matrimonio rato e
consumato si riferiscono a casi specifici di patologia del vincolo coniugale: matrimonio «ad tempus», «sub condicione», o celebrato con
impedimento non dispensato o dubbiamente dispensato; che, oggettivamente, costituiscono casi
di nullità. La dispensa di cui parlano non si riferisce allo scioglimento del vincolo del matrimonio
rato e consumato, ma ad altri istituti canonistici,
all’epoca non ancora sufficientemente definiti.
Nei decenni precedenti il concilio di Trento, i
teologi domenicani Gaetano e Catarino si posero il problema della dissoluzione del vincolo in
caso di adulterio. Particolarmente il Gaetano
(1469-1534), commentando il testo di Matteo,
lo intese nel senso di un permesso a lasciare
il coniuge adultero e a passare a nuove nozze. Ancora più convinto si manifestò il Catarino
che difese questa opinione con maggiori argomentazioni. Nella stessa linea si espressero,
infine, l’umanista Erasmo (1467-1536) ed il civilista Alciato (1482-1550). Il concilio di Trento
dedicò al problema del divorzio un’attenzione
particolare, già a partire dalle prime discussioni,
iniziate a Bologna nel 1547, fino all’approvazione dei canoni riguardanti il matrimonio, avvenuta a Trento, l’11 novembre 1563. Opponendosi
alle dottrine degli innovatori, il Tridentino sancisce che il vincolo matrimoniale non può essere sciolto dal coniuge per causa di eresia, di
molesta coabitazione o di affettata assenza
(sess. XXIV, can. 5 DS 1805). Relativamente
alla questione dell’adulterio, il concilio cercò una
formula che affermasse la dottrina cattolica, sen-
Febbraio
2008
za condannare quei padri e teologi cattolici che,
in forza della clausola matteana, avessero affermato un’opinione contraria. Il can. 7 colpisce
con l’anatema «chiunque affermi che la Chiesa
sbaglia quando ha insegnato ed insegna, secondo la dottrina evangelica ed apostolica, che il
vincolo matrimoniale non può essere sciolto a
causa dell’adulterio dell’altro coniuge» (can. 7
DS 1807). Tale formula ha dato adito alle più
svariate interpretazioni, tendenti in prevalenza
a dare al canone un peso dogmatico che oggettivamente non ha. Tuttavia, come afferma l’enciclica Casti connubii di Pio XII, se la Chiesa
non sbaglia quando ha insegnato ed insegna,
secondo la dottrina evangelica e apostolica, che
il vincolo matrimoniale non può essere sciolto
in caso di adulterio, è proprio perché questo insegnamento corrisponde alla verità di tale dottrina. Inoltre, prosegue l’enciclica, se il vincolo matrimoniale non può essere sciolto nemmeno in
caso di adulterio, a maggior ragione non potrà
essere sciolto per cause di minore gravità. Dopo
Trento, specialmente nei due ultimi secoli, vescovi, sinodi diocesani, conferenze episcopali, concili particolari, romani pontefici e particolarmente
il Vaticano II, hanno ribadito in un’infinità di documenti e di espressioni questa dottrina dell’assoluta indissolubilità del matrimonio rato e consumato tra due battezzati, mentre gli altri matrimoni, dati determinati presupposti, possono essere sciolti in forza della potestà del romano pontefice per il bene delle anime (cfr. cc. 1142-1150
del CIC). Tale dottrina fonda legislazione e prassi amministrativa e pastorale della Chiesa in materia. Un ultimo punto da chiarire, per comprendere l’esatta portata dell’insegnamento magisteriale, è la distinzione tra intrinsicità ed estrensicità dell’indissolubilità del vincolo coniugale,
distinzione non operata dal concilio di Trento.
I citati canoni 5 e 7 puntavano, infatti, solo contro la dottrina degli innovatori, i quali insegnavano che il matrimonio veniva sciolto per il fatto stesso dell’adulterio, oppure dal coniuge in
caso di eresia, molesta coabitazione o affettata
assenza. L’indissolubilità intrinseca esclude proprio questa forma di dissoluzione del vicolo matrimoniale, vale a dire la dissoluzione per volontà dei contraenti, senza l’intervento dell’autorità pubblica. Dopo Trento, il magistero ecclesiastico, nella grande varietà delle sue manifestazioni, si preoccupò, soprattutto, di definire i limiti della potestà di intervento della Chiesa
sul vincolo coniugale, più che operare, in concreto, una distinzione tra indissolubilità intrinseca, ingenerata dal momento consensuale costitutivo del vincolo, ed indissolubilità estrinseca
propria del suo perfezionamento. In questa difficile materia, fin dalla prima riflessione teologico-canonica, si profilano due distinzioni fondamentali: la prima, fra il matrimonio di due persone battezzate; la seconda fra il matrimonio
di due battezzati non consumato e quello consumato.
Con la maturazione della dottrina e della terminologia, la prima distinzione si consoliderà
Febbraio
2008
nella distinzione fra matrimonio non rato e matrimonio rato; la seconda darà luogo alla distinzione tra matrimonio rato non consumato e matrimonio rato e consumato. Due fatti sono, dunque, determinanti: il battesimo dei due coniugi,
in forza del quale il matrimonio diventa sacramento (can 1060, 1), e la consumazione del matrimonio-sacramento in forza della quale i coniugi diventano «una caro» esprimendo, nella loro
vita, l’unione sponsale di Cristo con la sua Chiesa.
Il contesto applicativo della potestà ecclesiale
di scioglimento del vincolo coniugale è costituito
da tutte le situazioni che rientrano nel privilegio
petrino ed in quello paolino (cc. 1141 e 1143 del
CIC). Il primo fa riferimento alla potestà primaziale del romano pontefice di sciogliere, ai sensi del can. 1141, il matrimonio rato, quindi il matrimonio celebrato tra due battezzati, che non sia
consumabile, «modo humano», mediante copula, per difetti psico-fisiologici, inerenti la loro sfera personale e, pertanto, non possa diventare
estrinsecamente indissolubile. In questo caso,
il matrimonio, pur acquistando in virtù della sua
sacramentalità il carattere dell’indissolubilità (indissolubilità intrinseca), può essere sciolto dalla suprema autorità della Chiesa, dal momento che viene a mancare la condizione di perfezionamento del vincolo costituito mediante consenso: la
possibilità di perseguire la duplice finalità unitiva e procreativa sottesa dalle proprietà essenziali che strutturano il patto coniugale (can. 1056).
Il privilegio paolino fa, invece, riferimento alla possibilità, per l’autorità della Chiesa, di scogliere,
ai sensi del can. 1143, il matrimonio non sacramentale (non rato) quello, cioè, contratto da due
non battezzati in cui una delle parti abbia successivamente ricevuto il battesimo e l’altra, legittimamente interpellata, ai sensi del can. 1144,
abbia rifiutato di riceverlo e non sia dimostrata
nemmeno disponibile a proseguire la coabitazione pacifica con il coniuge battezzato. Anche
in questo caso il riconoscimento della possibilità di scioglimento del vincolo appare chiara: permettere alla parte battezzata di vivere in pienezza,
secondo le esigenze della fede riscoperta, una
dimensione di vita, quale è quella coniugale, chiamata a configurarsi sempre più come via del suo
progressivo cammino verso la salvezza, nella
prevenzione di ogni possibile conflitto di coscienza tra dimensione interiore della ricerca individuale e dimensione esteriore delle aspettative
sociali. Il controllo che l’autorità della Chiesa esercita sul vincolo coniugale non è, dunque, esercizio di un potere dispositivo su un bene di cui
la stessa Chiesa risulti proprietaria, ma forma
di un servizio finalizzato a far emergere sempre di più la pienezza delle potenzialità di uno
stato di vita destinato a colmare la sete di felicità di coloro che in esso sono chiamati dal Signore,
fin dall’eternità, ad abbandonare tutto per
diventare una cosa sola, secondo le bellissime
parole della Genesi: «l’uomo lascerà suo padre
e sua madre e si unirà alla sua donna e i due
saranno una sola carne». Tale è, per gli sposi,
il significato profondo dell’indissolubilità del patto contratto: essere nel mondo segno di questo amore eterno.
E c u m e n i s m o 33
“Dio, l’uomo, e la tutela del creato”
La Commissione per “L’ecumenismo e il dialogo” Università Gregoriana.
della Conferenza Episcopale del Lazio presieduta Il confronto franco fra le diverse concezioni relada S.E.Mons.Giuseppe Petrocchi, vescovo di Latina- tive al rapporto fra Dio, l’uomo, il creato - in vista
Terracina-Sezze-Priverno, ha posto in agenda il della sua tutela - condurrà i partecipanti e gli edu28 febbraio 2008, a Tivoli, un Convegno sul tema: catori ad una maggiore consapevolezza dei dif“Dio, l’uomo e la tutela del Creato”. L’assise ferenti approcci, nella pur comune e responsaraccoglie le suggestioni offerte da Benedetto XVI bile preoccupazione necessariamente orientata
in occasione della Giornata mondiale per la pace, anche alle future generazioni. Ad esse e per esse,
il 1 gennaio scorso, a considerare la terra come Papa Benedetto, nella sua omelia in occasione
nostra casa comune, necessaria alla famiglia uma- dell’agorà dei giovani italiani, il 2 settembre 2007,
na per intesservi le sue relazioni. Essere comu- si è espresso con chiarezza, ricordando come “uno
nità di pace, non può prescindere dalla cura del- dei campi nei quali è urgente operare, è senz’altro
l’ambiente: “Esso è stato affidato all’uomo, per- quello della salvaguardia del creato”, a proposiché lo custodisca e lo colto del quale, “occorre
tivi con libertà responsaadottare scelte coraggiobile, avendo sempre come
se che sappiano ricreare
Convegno delle
criterio orientatore il bene
una forte alleanza tra
Diocesi del Lazio
di tutti”. Il Papa ha voluto
Giovedì 28 febbraio 2008 l’uomo e la terra”.
esplicitare al contempo una
Nel pomeriggio, in una proTivoli Terme
priorità ed un atteggiamento
spettiva ecumenica, e
sapiente, fuggendo ogni deriquindi di solo confronto fra
va che consideri la natura materiale o animale le confessioni cristiane, avrà luogo una tavola rotonpiù importante dell’uomo ed evitando accelera- da che porrà a tema “la responsabilità dei cristiani
zioni ideologiche che penalizzino i poveri, esclu- per il creato”. La complementarietà o le differenze
si in molti casi dalla destinazione universale dei fra cattolici, ortodossi ed evangelici, risulterà dal
beni del creato, e distribuendo con giustizia i costi dibattito animato da Thierry Bonaventura deldella tutela dell’ambiente. La riflessione saggia la CCEE (Consiglio delle Conferenze Episcopali
e ponderata delle decisioni concertate in vista di d’Europa), Valdo Bertalot, Direttore della
uno sviluppo sostenibile debbono “rafforzare quel- Società Biblica Italiana, e l’Archimandrita
l’alleanza tra essere umano e ambiente che deve Evanghelos Yfantidis, del Patriarcato Ecumenico
essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal di Costantinopoli. Dalla festa del Creato, il I setquale proveniamo e verso il quale siamo in cam- tembre, alle proposte emerse nell’oikumene euromino”.
peo, alle indicazioni proprie a ciascuna tradizioA rendere ragione di questa visione cristiana e ne, docenti IRC, parroci, catechisti, insieme a stucattolica, S.E. Mons. Gianfranco Ravasi, denti universitari e giovani delle scuole
Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, superiori potranno beneficiare di questa suggededicherà la prima delle relazioni della mattina, stiva e articolata riflessione, irrinunciabile se s’intraendo spunto dall’Epistola di S.Paolo ai Romani tende guardare al presente e al domani in una
(cap.8). Il gemito della creazione nell’attesa del- prospettiva più serena e vivibile per tutti.
la rivelazione dei figli di Dio, ne è il motivo por- E’stato richiesto al Ministero dell’Istruzione, dell’Università
tante. Questa prospettiva biblica e spirituale sarà e della Ricerca (MIUR) l’esonero dal servizio
messa a confronto con la visione ebraica del crea- per i docenti di ogni ordine e grado di scuoto, tratteggiata dal Rabbino Capo di Roma, Riccardo la. Il Convegno è riconosciuto dalla Pontificia Università
Di Segni. “L’Islam e le risorse della terra”, costi- Lateranense quale corso di aggiornamento valituirà viceversa il fuoco della riflessione del Prof. do per l’attribuzione dei crediti scolastici.
Adnane Mokrani, docente presso la Pontificia
Febbraio
2008
34
Antonio Venditti
L’immagine che i mass media presentano della scuola non aiuta certo a conoscere la realtà e non contribuisce allo sviluppo di quel processo di rinnovamento che abbiamo sempre indicato come fondamentale
ed irrinunciabile.
Televisioni e giornali, nel riferire la cronaca di momenti di crisi contrassegnati da episodi spesso di inquietante gravità, ne enfatizzano la portata al solo scopo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica,
molto sensibile ai problemi del sistema scolastico,
ma nulla fanno per analizzare la complessa realtà
e per chiarire che, in molti casi, la scuola non è propriamente la causa ma piuttosto l’effetto di “mali”, che
hanno origine nella famiglia e nella società.
Inoltre si dà quanto meno l’impressione che i fatti indicati riguardino non soltanto quella determinata scuola , in una realtà locale ben circoscritta, ma tutta la
scuola in generale, come se non esistessero, ed in
prevalenza, realtà scolastiche positive, di cui non si
parla, perché non fanno notizia.
Dico questo, non per “giustificare” o per coprire disfunzioni ed errori, che sempre ho denunciato e continuerò a denunciare, con proposito costruttivo e con
“amore” per la scuola, che è una realtà grande ed
importante che nessuno può permettersi di ridicolizzare
e di infangare, perché da essa dipende il destino delle nuove generazioni.
Con tale spirito si devono considerare le “immagini”, purtroppo deteriori, che emergono dalla presentazione
dei mezzi di comunicazione di massa, che, pur con
i limiti, le contraddizioni e le esagerazioni che sopra
ho indicato, possono stimolare gli operatori scolastici
ad essere più cauti e prudenti nella pratica educativa, a prevenire certi fatti, non certo esaltanti, per
evitare il turbamento delle coscienze ed anche la conseguente divisione e contrapposizione tra fautori del
“rigore” e della “tolleranza” in campo educativo.
Le stesse “esternazioni” dei politici e dei responsabili a livello amministrativo dell’ordinamento scolastico non contribuiscono a prendere coscienza della sostanza dei problemi, perché si limitano ad esprimere un’opinione sul fatto del giorno, con un giudi-
zio immediato sulle presunte responsabilità.
Annunciano severe “punizioni” ma esaltano anche
operatori ritenuti “diligenti”. Al termine dello scorso
anno scolastico, lo stesso Ministro della P.I. ha elogiato un dirigente scolastico, salito alla ribalta della
cronaca, per il suo “rigore” nel fronteggiare una situazione che non era affatto eccezionale e che, a mio
avviso, aveva prodotto un’ eccessiva quanto inopportuna “autoesaltazione” dello stesso protagonista
in una intervista televisiva. Come se il caso fosse stato unico e non fosse specifico compito del dirigente di un’istituzione scolastica prevenire i conflitti, anche
con le famiglie “difficili” - cosa che non mi sembra
il suddetto abbia fatto nella situazione specifica e poi gestirli con il massimo equilibrio e con la massima riservatezza possibile, per raggiungere i due
obiettivi irrinunciabili : la tutela di ogni ragazzo/a, soprattutto se in difficoltà, e il recupero della collaborazione con la famiglia, in un rapporto schietto e reciproco
di fiducia.
Altri dirigenti si sono vantati di aver risolto per “primi” e prima ancora della disposizione ministeriale il
problema dei “telefonini in classe”, cosa che , in realtà, era avvenuta come misura educativa per tutti docenti compresi - in tante scuole, senza bisogno
di informare Ministro, giornali e televisione.
All’inizio del presente anno scolastico, un altro dirigente è salito alla ribalta, per aver formato una “classe di ripetenti” (la deprecata “classe differenziale” di
tanti anni fa) presentata come un’innovazione
“pedagogica”, perché favorirebbe - a suo dire - il recupero di alunni/e; è invece evidente la divisione anacronistica degli studenti in “bravi” e “somari”, senza
rispetto delle persone e del principio della comunità “educante” , nella quale si sviluppano gli itinerari personalizzati di formazione; e pertanto i genitori
che giustamente si sono opposti, tutelando i diritti dei
loro figli ad un sano ambiente educativo senza discriminazioni, hanno dimostrato maggiore sensibilità
“pedagogica”.
Televisione e giornali sono altresì parziali e superficiali nello scegliere e nel presentare fatti e personaggi del mondo scolastico, con criteri discutibili se
non clientelari e basati sulla segnalazione di qual-
cuno “influente”, anche se in una cerchia ristretta,
senza voler scomodate, come talvolta si fa, le alte
gerarchie. Il risultato è che non si dà una corretta informazione, non contribuendo né alla formazione imparziale dell’opinione pubblica, né a stimolare la scuola a prendere coscienza delle difficoltà ed a superarle adeguatamente.
Anche sulla tanto declamata necessità di controbilanciare i fatti negativi con fatti virtuosi, bisogna evitare una scelta di quest’ultimi affidata a cronisti frettolosi o troppo sensibili a segnalazioni di parte, perché rientra nella norma il buon andamento della vita
scolastica e semmai deve essere l’eccellenza,
oggettivamente comprovata, a determinare il “diritto” ad essere proposta, sulla scena nazionale, come
esempio da imitare e comunque da accettare come
stimolo all’automiglioramento continuo.
Talvolta, invece, nel Telegiornale seguito da milioni
e milioni di telespettatori, il telecronista con espressione compiaciuta presenta episodi di vita scolastica che sono ben poca cosa, rispetto alle questioni
di grande rilievo e quindi di vero interesse, e non sono
nemmeno indice della validità complessiva di quella singola istituzione di paese o di città. Ultimamente
si è dato risalto al “telegiornale” preparato da alunni/e di una quarta elementare, presentandolo addirittura come una “proposta innovativa” data dai piccoli scolari ai “grandi” giornalisti della televisione. Ora,
ad onor del vero, l’attività così esaltata aveva poco
di “scolastico”, nel senso della libera espressione e
dell’attivismo rettamente inteso, perché evidente era
l’impostazione adultistica di maestri/e troppo influenti e desiderosi di fare bella figura, con troppi luoghi
comuni, compreso il ripetuto appello alla pace, con
tanto di “sigla” o canzoncina composta e cantata per
l’occasione.
Anche quando si riportano notizie sulle “innovazioni” ministeriali, trasmesse per “ordinanza” a tutte le
scuole d’Italia di ogni ordine e grado, i giornalisti già
nei titoli operano interpretazioni e sintesi non rispondenti alla “volontà” ministeriale, del resto spesso poco
lineare, perché basata sulla logica del dire e non dire,
del fare e non fare, con stravolgimento però anche
di quel concetto di base più chiaro e comprensibile,
sacrificato al tentativo ad ogni costo di dare una notizia “sensazionale”, inefficace se non addirittura dannosa sul piano della difficile pratica scolastica.
Purtroppo la situazione non migliora quando il giornalista fa intervenire un addetto ai lavori, un dirigente
o un docente, scelti non si sa come, i quali, spesso, non contribuiscono al chiarimento, forse perché
non sufficientemente preparati e competenti e nemmeno forniti di una spiccata capacità espressiva.
Allora possiamo concludere che la trattazione dei problemi scolastici richiede una grande prudenza da parte di tutti, con manifestazione più che di propositi e
di parole, di fatti concreti nella gestione scrupolosa
e nella quotidiana ricerca di soddisfacenti risultati.
Per poter comprendere, all’esterno, la complessità
del mondo della scuola, è bene porre l’attenzione sulle “autonome” istituzioni, che devono essere considerate nella loro capacità di influire nel tessuto culturale e sociale dell’ambiente in cui operano, con i
risultati oggettivi che raggiungono.
Febbraio
2008
D o t t r i n a S o c i a l e 35
Arch. Gianfranco Siniscalchi
Così il pontefice Paolo VI, annunciò all’Angelus
di Domenica, 11 settembre 1966 la visita a Carpineto
e Colleferro
Noi andremo quest’oggi a Carpineto, per onorare la memoria di Papa Leone XIII, che ivi nacque; il Papa dell’Enciclica «Rerum Novarum»,
della quale abbiamo quest’anno celebrato il 75°
anniversario dalla sua pubblicazione.
E poi Ci fermeremo a Colleferro, il più notevole centro industriale di questi dintorni; e vi celebreremo la Santa Messa per avere un incontro spirituale con la popolazione lavoratrice.
È una semplice breve escursione, ma alla quale vogliamo attribuire un importante significato: quello d’invocare la benedizione di Dio su
tutto il mondo del lavoro, affinché il progresso industriale ed economico sia accompagnato dal progresso sociale e morale; e affinché ancora i principi cristiani siano guida e forza per lo sviluppo moderno del nostro popolo, per la sua vera prosperità,
per la sua concordia, la sua libertà e la sua pace.
Maria, Madre di Cristo, renda efficaci i Nostri voti.
Riportando la cronaca di quel giorno si intende testimoniare, così come traspare dal testo integrale
dell’omelia la profonda conoscenza che Paolo VI
ha del mondo operaio e dell’apporto che lo stesso Pontefice profuse alla Dottrina Sociale della Chiesa.
Grazie, infatti, al fortuito rinvenimento di un documento dell’epoca (il periodico quindicinale L’UNIONE
del 15 settembre 1966), che pubblicò integralmente
l’omelia del Pontefice, si riesce a cogliere quei significati profondi della conoscenza umana e del mondo del lavoro di Paolo VI, contenuti nel discorso
rivolto a tutti i lavoratori degli stabilimenti della Bombrini
Parodi Delfino (B.P.D.) e della Calce e Cementi Segni
di Colleferro. ( Cfr. Schede n.1, n.2 tratte dal periodico L’UNIONE del 15 sett. 1966 ) Attraverso la lettura del testo, di seguito riportato, si avverte la forte carica umana del Santo Padre nel trovare un
posto all’interno delle coscienze degli operai, li presenti, che attendono, appunto, un aiuto, un atto di
giustizia sociale, finanche la sola consolazione,
da Colui che può e sa capirli, venuto appositamente,
a testimoniare l’impegno della Chiesa verso il mondo operaio.
Il discorso del Santo Padre Paolo VI agli operai
Colleferro Domenica 11 Settembre 1966.
( Tratto dal periodico quindicinale L’UNIONE )
“Saluti, saluti a Voi: innanzi tutto al Vostro vescovo che è qui, al Vostro Parroco che ci dà l’agio di
celebrare bene questa S. Messa, agli altri sacerdoti, alle religiose e poi anche a tutte le autorità
civili, politiche, militari, scolastiche.
So che tante illustri persone sono presenti e sappiano che io le saluto tutte e che per tutte ho un
pensiero , una preghiera e una benedizione, così
come per tutti quelli che promuovono il lavoro di
questa Vostra città. Ma sapete intanto che è mol-
to bella la Vostra città? E’ la prima volta che io la
vedo, ma, siccome ne ho viste tante, il vedere questa mi dà davvero una impressione che potremmo dire simbolica: simbolo di che cosa? Dei tempi nuovi, dell’Italia nuova,delle generazioni nuove,
di questo doloroso, faticato ma anche glorioso dopoguerra che ha visto risorgere il nostro Paese in opere grandi, buone, oneste e protese verso l’avvenire e che sta dando a questo nostro Paese una
impronta, una fisionomia che non aveva in passato,
e cioè una fisionomia industriale, del lavoro organizzato, dell’uomo che opera non da solo con le
sue mani, ma con le macchine e tutti insieme; è il
lavoro moderno. Ebbene lo vedo espresso in questa Vostra nuova città e a tutta la città do il mio
saluto ed esprimo la mia compiacenza ed il mio
augurio. Ma il grande saluto, il vero saluto è per
voi, per voi lavoratori. Per voi sono venuto specialmente,
voi siete l’oggetto principale della mia visita. Ho cercato qui d’intorno dove potermi incontrare con una
bella espressione del mondo lavoratore ed eccomi a Colleferro. Viva Colleferro operaia.”
“Ma il motivo della mia venuta voi lo sapete, è stato quello di tributare onore ad un mio grande predecessore Papa Leone XIII che nel 1891 e cioè
75 anni fa pubblicò un documento, di cui certo voi
avete notizia e che si intitola “Rerum Novarum” ed
è la grande enciclica che tratta della questione operaia, della questione sociale ed è stata la grande
parola con cui la Chiesa, direi, si è impegnata alle
Vostre questioni e dopo di allora non ha mai smesso di interessarsi delle vostre situazioni, dei vostri
bisogni, delle vostre aspirazioni, delle vostre fatiche, delle vostre difficoltà , delle vostre lotte. Diciamo,
in una parola sola, della vostra anima lavoratrice.
Ed allora tutta la mia predica, tutto il mio discorso
sta in questa semplice proposizione: perché sono
venuto? La presenza lo dice, più che la parola: sono
venuto per dirvi che la Chiesa ama il mondo del
lavoro, ama i lavoratori, gli operai, tutti quelli che
faticano secondo il modo con cui il lavoro moderno è organizzato e con la psicologia, le aspirazioni,
i bisogni, le difficoltà che questo porta con sé. Sono
venuto ad assicurarVi, ripeto, dell’affetto, della solidarietà, dell’interesse che la Chiesa ha per voi”.
Passando quindi a parlare del messaggio sociale
della Chiesa ha detto rivolgendosi agli operai:
“La Chiesa vi conosce, noi vi conosciamo, noi desideriamo conoscervi, la Chiesa si è curvata sopra
le vostre condizioni, la Chiesa ha esaminato i vostri
problemi, la Chiesa ancora oggi studia le condizioni di vita in cui siete, sente spesso salire da Voi
qualche rancore, qualche lamento, qualche aspirazione., sente tanti desideri e tante domande che
dicono “non abbiamo ottenuto tutto e la società ,
se davvero vuole essere giusta, deve ancora considerare tante, altre nostre legittime aspirazioni”.
“Ebbene, sappiate, sappiate tutti che la Chiesa vi
conosce, che la Chiesa vi studia, che la Chiesa non
ignora le vostre istanze, che la Chiesa le esamina con tutta la sua osservazione onesta e attenta, guarda in faccia le cose e cerca davvero di capirle, non soltanto nella facciata esteriore che può anche
essere disciplinata e apparentemente ordinata, ma
vi vede nel cuore, vi studia nel profondo della vostra
psicologia, tante volte anche andando in mezzo agli
operai. Voi sapete che io sono stato per diversi anni
Arcivescovo di Milano e là mi è capitato tanto di
girare in mezzo a officine, a laboratori , a stabilimenti, a campi di lavoro, ecc., e sapete, una delle cose che mi ha fatto sempre impressione è di
vedere tanti volti di lavoratori silenziosi, muti, che
non dicono nulla, che stanno ad osservare. Ma
non è che non abbiano dentro qualche cosa, è che
o non lo sanno esprimere o non lo vogliono esprimere, non si fidano, non si fidano della parola e
non si fidano di chi li ascolta e restano quasi intimiditi, sono li e aspettano. Ebbene, guardate che
questo vostro silenzio, questa vostra attitudine di
attesa e quasi di timidezza, Noi la comprendiamo, Noi guardiamo dentro, Noi vediamo che cosa
nascondete, tante volte il senso dell’ingiustizia. Chi
ci rende giustizia? Chi ci dirige? Chi ci solleva? Ebbene
tutti questi desideri sappiate che la Chiesa li comprende, che la Chiesa vede ed è questo un altro
segno dell’affetto, dell’amicizia che la Chiesa ha
per le classi lavoratrici. La Chiesa Vi difende, la
Chiesa è la Vostra avvocata, la Chiesa cerca di essere la Vostra protettrice, la Chiesa fa sue le Vostre
istanze, la Chiesa riconosce i Vostri diritti, la Chiesa
difende la Vostra dignità e prende risolutamente,
arditamente, le Vostre difese.
Febbraio
2008
36 D o t t r i n a S o c i a l e
La Chiesa è con voi.
Non lo farà , figliuoli miei, con voce rivoluzionaria.
E’ facile, sapete, fare la demagogia e dire le parole grosse e imprecare a destra e a sinistra. Non è
facile invece prendere la difesa come si deve, cioè
guardando le cose reali, giuste e possibili. Ma la
Chiesa questo fa quando è convinta, e lo è, che
Voi avete ragione, che Voi avete ancora da conquistare altri livelli sociali, sappiate che la Chiesa
è con Voi. Guardate del resto quante opere la Chiesa
ha generato per darvi questa certezza e per venire, non soltanto con le parole, ma col fatto, con l’opera, con l’efficacia e la organizzazione in vostro
soccorso. Voi le conoscete le associazioni e le istituzioni che vengono al vostro livello, vengono al
vostro fianco, vi danno la mano, dicono: lavoriamo insieme, stiamo insieme, facciamoci forti, la Chiesa
fra i grandi diritti vostri che ha difeso considera quello di essere insieme di associarvi di essere forza,
di essere popolo, ed è questa vostra volontà unitaria che vi rende davvero giustizia nelle vie del
progresso sociale. Voi sapere che la Chiesa ve le
viene spianando e viene schierandosi al vostro fianco per dire: questi operai, queste classi sociali, questi lavoratori, su questo sentiero diritto dell’ascesa al progresso della giustizia sociale, hanno ragione, ed Io sono con loro”.
Il Papa si è quindi nuovamente riferito all’enciclica “Rerum Novarum”, ricordando ai fedeli che “sono
le idee che guidano la vita, che fanno trionfare le
cause, che tracciano i sentieri del destino. Vi è oggi
una parola che corre per dire quello che io sto dicendo ed è la parola ideologia. Ebbene, la Chiesa vede
quali sono le buone e vere ideologie. Guardate che
sbagliare sulle ideologie è gravissimo, è importantissimo
scegliere le ideologie che tengono, le ideologie veramente umane, le ideologie collaudate dalla esperienza e dalla storia, le ideologie su cui riposa
la luce del Vangelo, la luce del grande,
umanesimo e divinissimo Maestro,
nostro Signore Gesù Cristo.
La Chiesa vi parla e vi dice che cosa è veramente il valore della vita, la Chiesa vi parla e
vi dice che cosa è veramente la dignità del lavoro, la Chiesa vi parla e vi dice cosa è in realtà la
libertà umana e come la dobbiamo impiegare, la
Chiesa vi parla e vi dice che cosa è questo mistero della fatica e del dolore che sembra una sorte
maledetta sopra la nostra esistenza, mentre invece non è perché il Signore, assumendo per sé la
più grande sofferenza che mai sia stata, la Croce,
insegna che attraverso il dolore noi possiamo trovare la nostra nobiltà, la nostra virtù, la nostra redenzione, la nostra speranza e la nostra vita”.
“Ebbene, la Chiesa vi dice queste parole e ve le
dice non per una scienza che potrebbe essere contestata e contestabile, ma, ve le dice, con l’amore immenso che ha per Voi nel nome di Cristo e
ve lo dice con l’autorità che appunto le viene del
magistero di Cristo; e allora, figlioli miei, raccogliete
questa sera questa paterna, amica parola che vi
dico, ricordatela, meditatela, sappiate che la
Chiesa vi vuole bene, che vi comprende, che la
Chiesa non ha nessun interesse proprio, non ha
nessuna aspirazione sopra di voi, non vi vuole dominare, non vi vuole, direi, inquadrare a suo talento. Vuole liberarvi, vuole risuscitarvi, vuole farvi comprendere quali sono i veri valori della vita, vuole
ridarvi la gioia di essere insieme, non nell’odio, nella contesa, e nella lotta, ma nell’amore, nella concordia, nella speranza”.
“Adesso – ha concluso Paolo VI – io ritornerò all’altare e pregherò per voi, per le vostre persone, per
le vostre officine, per chi ha il merito di organizzare bene il lavoro, per chi vi dà la retribuzione alle
vostre fatiche, ma specialmente pregherò per le
vostre famiglie, per le vostre case, i vostri figlioli,
per il vostro avvenire, per tutto Colleferro, città del
lavoro”.
La conclusione del discorso del Papa è stata accolta dagli interminabili applausi della folla, che si è
quindi ricomposta ad ascoltare con devozione il rito
della S. Messa. Più avanti hanno ricevuto la Comunione
dal Santo Padre alcuni malati, rappresentanze dei
lavoratori, dell’Azione Cattolica e di istituti religiosi femminili.
Al termine della Santa
Messa il Papa, prima di ricevere l’omaggio delle
autorità e di rappresentanze dei lavoratori, ha annunziato al parroco il dono, a ricordo della sua visita
del calice e dei sacri paramenti e una paterna offerta per i più bisognosi, mentre ha consegnato al Sindaco
tre esemplari in oro argento e bronzo della medaglia commemorativa del LXXV della Rerum Novarum.
Parole che commuovono, che illuminano, che consolano, che inducono a camminare nella giusta via,
che ravvedono, che incoraggiano, parole
che sca-
turiscono
dal cuore
di un Padre
presente che ti tende la mano per risollevare dalle fatiche di ogni giorno, mai inutili, perché rafforzano nella dignità personale e sociale il mondo operaio. Queste le
intense emozioni, trasmesse da Paolo VI, in tutti
i cuori dei convenuti, durante l’omelia della messa di domenica 11 settembre 1966.
Le stesse vibrazioni non si percepiscono dalla lettura dell’omelia riportata nel sito internet, a cura
della Santa Sede perché priva di alcune parti e del
rapporto dialogico che il discorso diretto genera.
Un’altra considerazione, che scaturisce dalla lettura integrale dell’omelia, è nella personalità del
Papa Paolo VI che contrariamente a quanto la sua
figura lasciava intravedere, colta, distaccata, azzarderei quasi “fredda”, qui, invece, assume la veste
di un padre premuroso “ figlioli miei, raccogliete questa sera questa paterna, amica parola che vi dico,
ricordatela, meditatela, sappiate che la Chiesa vi
vuole bene, che vi comprende,......” Ancora, in altri
passaggi il Pontefice mostra il suo grande amore
disinteressato, volto solo al bene, alla giustizia ed
alla difesa delle aspirazioni legittime degli operai
“.... la Chiesa non ha nessun interesse proprio,
non ha nessuna aspirazione sopra di voi, non vi
vuole dominare,....” Viceversa la Chiesa, comunica Paolo VI “ .......Vuole liberarvi, vuole risuscitarvi,
vuole farvi comprendere quali sono i veri valori della vita, vuole ridarvi la gioia di essere insieme, non
nell’odio, nella contesa, e nella lotta, ma nell’amore,
nella concordia, nella speranza”. In queste ultime parole sembra quasi profetizzare i futuri eventi della lotta operaia che a pochi mesi dal discorso
Papale si scatena in tutti i paesi Europei. Dalla Francia,
all’Italia ( “l’ottobre caldo” dei media “il ‘68” ), al
Belgio, alla Gran Bretagna, alla Germania fino ad
arrivare alla Spagna per rivendicare più equi trattamenti salariali, che arrivarono, comunque in ritardo dopo il boom economico 1957 /’67, a vantaggio, quindi, della sola classe imprenditoriale.
Il Papa lo annuncia, avverte una tensione negli animi, comunica quanto percepisce con queste semplici parole: “ .............la Chiesa ancora oggi studia le condizioni di vita in cui siete, sente spesso
salire da Voi qualche rancore, qualche lamento, qualche aspirazione., sente tanti desideri e tante domande che dicono “non abbiamo ottenuto tutto e la società , se davvero vuole essere giusta, deve ancora
considerare tante, altre nostre legittime aspirazioni”.
Ancora una volta questo ascolto, da parte del “padrone” manca ........... “i maggiori guadagni li tengo
per me” sembra dire l’imprenditore, ed allora ecco
i risultati prevedibili della lotta operaia per rivendicare i propri diritti, purtroppo anche con la violenza. Il messaggio della Rerum Novarum
si fa nuovamente attuale e il Pontefice lo richiama dicendo che egli stesso è presenza tangibile del messaggio della D. S. C. “............... Ma
il grande saluto, il vero saluto è per voi, per voi lavoratori. Per voi sono venuto specialmente, voi siete l’oggetto principale della misa visita. ..........“Ma
il motivo della mia venuta voi lo sapete, è stato quello di tributare onore ad un mio grande predecessore Papa Leone XIII che nel 1891 e cioè 75 anni
fa pubblicò un documento, di cui certo voi avete
notizia e che si intitola “Rerum Novarum” ed è la
grande enciclica che tratta della questione operaia,
della quesitone sociale ed è stata la grande parola con cui la Chiesa, direi, si è impegnata alle Vostre
questioni e dopo di allora non ha mai smesso di
interessarsi delle vostre situazioni, dei vostri bisogni, delle vostre aspirazioni, delle vostre fatiche,
delle vostre difficoltà , delle vostre lotte.
La parola del Pontefice assicura i lavoratori del diretto coinvolgimento della Chiesa attraverso la Dottrina
Sociale a difesa degli operai, dicendo “...... La Chiesa
Vi difende, la Chiesa è la Vostra avvocata, la Chiesa
cerca di essere la Vostra protettrice, la Chiesa fa
sue le Vostre istanze, la Chiesa riconosce i Vostri
diritti, la Chiesa difende la Vostra dignità e prende risolutamente, arditamente, le Vostre difese”.
Febbraio
2008
M u s i c a / C i n e m a 37
Valentina Fioramonti
La promessa dell’assassino (Eastern Promises)
di David Cronenberg, con Naomi Watts, Viggo Mortensen,
Vincent Cassel, Armin Mueller-Stahl, Raza Jaffrey, Radoslaw
Kaim, Cristina Catalina, Alice Henley, Tamer Hassan, Gergo
Danka, Olegar Fedoro. Usa – Gran Bretagna, 2008, drammatico, 100’.
Thriller molto complesso, teso, ma allo stesso tempo bellissimo. Dopo “Ahistory of violence”, David Cronenberg firma un altro avvincente film sul peso che hanno le scelte
sulla vita dell’uomo.
Rispettando tutti gli stilemi del noir, la storia è ambientata in
una Londra grigia, umida e deprimente, che toglie qualsiasi
speranza a chi la sceglie come casa; i personaggi si muovono lenti, insicuri, e profondamente fragili, nello scenario
che il destino ha tracciato per loro.
Una giovane ragazza russa muore dando alla luce un figlio.
L’ostetrica, Anna (Naomi Watts), ne traduce il diario alla ricerca dei parenti cui dare in affido il bambino. Scoprirà inquietanti rapporti con la mafia russa, giri di prostituzione e criminalità che rapidamente la stringono in una pericolosa rete.
Durante le ricerche incontrerà il misterioso e ruvido Nikolai
Luzhin (Viggo Mortensen), legato a una delle più note famiglie criminali di Londra. La famiglia è capeggiata da Semyon
(Armin Mueller-Stahl), l’impeccabile proprietario dell’elegante
ristorante transiberiano, la cui cortesia nasconde una natura fredda e brutale; le sue fortune sono amministrate dal
figlio Kirill (un intenso Vincent Cassel), un uomo capriccioso e instabile, che è in realtà più legato a Nikolai che non
C’era un tempo in cui la carne veniva considerata l’alimento energetico per eccellenza, adatta a
nutrire guerrieri, i potenti che dalle armi e dalla forza fisica traevano legittimazione sociale. La carne era considerata il cibo ideale per tutti e, a maggior ragione, per coloro che erano chiamati a governare e ad essere forti. Il consumo della carne e
l’uso delle armi erano strettamente connessi e posti
sullo stesso piano. Una volta anche i poveri mangiavano la carne data l’abbondanza dei pascoli e
selvaggina presente ovunque: ma quando iniziarono a sorgere nei vari principati e contee riserve
e divieti di caccia e quindi quei territori furono riservati alle classi nobili, allora al popolo non rimase
altro che sognarla e farla diventare ancora di più
un “culto”. Nella quotidiana lotta contro la fame la
carne rimase un miraggio al quale aspirare. Quello
era il tempo in cui si diceva che i legumi erano “la
carne dei poveri” con chiaro riferimento al contenuto energetico della carne.La cultura monastica
esaltava ancora di più il valore della carne, che assumeva per la gente comune il significato di piatto “principe”. L’astenersi dal mangiarla aveva il significato
di una “penitenza” e la cosa da cui ci si asteneva diveniva fonte di desiderio…”Il piacere della carne” era
un concetto ben presente nella cultura e comprendeva tutto ciò che l’uomo poteva desiderare: la carne era fonte di vigore legata alla forza fisica e alla
sensualità.”Mangiar magro” “Mangiar grasso” erano
momenti temporali in cui si dividevano i periodi dell’anno, erano una classificazione sociale e un modo
al suo vero padre. Nikolai conduce la sua vita con estrema
prudenza, ma l’incontro con Anna lo porterà a riconsiderare alcune sue scelte e il suo ruolo all’interno della criminalità russa. È un uomo combattuto: gentile ma anche brutale, duro e freddo, ma che mostra una qualche bontà d’animo, anche se con tantissima difficoltà. È un uomo che vive
in un mondo complicato, che cerca di aiutare persone che
non sono in grado di gestirsi da sole. Ma lo sforzo maggiore in cui è impegnato Nikolai è quello di rimanere comunque un essere umano all’interno di una realtà a volte disumana. Questo film è forse uno dei lavori stilisticamente meglio
riusciti di Cronenberg. La fotografia che vira sul rosso e il
nero; i ritmi lenti e sospirati; l’atmosfera sospesa in cui si muovono i protagonisti, costruiscono un mondo disturbante e
precario. Il tutto consente la messa in scena dell’ossessio-
di concepire l’alimentazione. Sognata come simbolo di benessere e riscatto sociale, poi snobbata per
le sue virtù proteiche, messa in discussione dai vegetariani, animalisti e dietologi oggi recupera in cucina tutta la sua grandezza: quando si parla di convivialità della tavola, del “piacere”, la carne affiancata ad un buon bicchiere di vino, è sempre presente. In ebraico il termine che definisce la carne è basar
e può essere usato anche per definire il concetto più
generico di corpo. In alcuni testi indica unicamen-
ne per il corpo – uno dei topoi più ricorrenti nelle opere del
regista – come superficie d’iscrizione della propria memoria, luogo in cui rimangono visibili tutte le tracce del nostro
passato.
I protagonisti sembrano racchiusi nei propri corpi, attraverso i quali lasciano trasparire una profonda inquietudine esistenziale. Al centro della riflessione di Cronenberg, come
accadeva in “A history of violence”, la questione morale: il
comportamento dell’ uomo nel momento in cui il suo mondo, regolato dalla bugia e dal delitto, si scontra con quello
cosiddetto “normale”. Da sempre attento scrutatore del corpo per ricercarne all’interno la vera essenza dell’uomo, Cronenberg
indugia sul valore dei tatuaggi, sulle ferite, sul suono delle
armi da taglio a contatto con la pelle, supportato da una lucidità e una maestria registica insuperabili. Splendida a questo proposito, la scena clue del film, in cui Viggo Mortensen
combatte nudo in un bagno turco contro due mafiosi: la sequenza è una delle migliori scene d’azione degli ultimi anni per
la capacità che ha di trasmettere il senso di violenza, sofferenza e resistenza di cui è capace il corpo umano. Una
scena, questa, che andrà ad arricchire il lungo elenco di scene memorabili che Cronenberg ha saputo donare al cinema: dalle allucinazioni massmediali di “Videodrome” (1983)
agli scontri automobilistici di “Crash” (1996), passando per
il delirio paranoico de “Il pasto nudo” (1991) prima e di “Spider”
(2002) dopo. Antihollywoodiano per eccellenza, Cronenberg
è il re della fenomenologia della mutazione umana, che ha
saputo dimostrare che si può tenere il pubblico con il fiato
sospeso centellinando le scene d’azione e facendo tranquillamente a meno degli effetti speciali.
te la parte carnosa del corpo, in altri passi acquista un significato estensivo, e designa il corpo nel
suo insieme quindi l’individuo completo, l’essere
vivente. Essendo la carne legata al concetto di discendenza fisica, talvolta il termine viene usato, in senso ovviamente eufemistico, al posto di genitali e in
maniera più specifica per la sua accezione maschile. Attraverso questo termine si sviluppa anche il
concetto di affinità di sangue e quindi di appartenenza, leggiamo spesso nel testo “ Tu sei mie ossa
e mia carne” e a questo proposito ricordiamo quanto disse Abimelech in visita ai fratelli della madre
“Io sono vostro osso e vostra carne” (Gdc 9,2). La
dichiarazione di fedeltà delle tribù al re Davide ci
dice testualmente “Ecco, noi ci consideriamo come
tue ossa e tua carne” (2Sam 5,1) proprio per sottolineare il legame con il capo. Già dall’inizio della
storia biblica si parla di carne in relazione al decadimento generale di costumi, infatti leggiamo nella Genesi che “ Ogni carne aveva corrotto la sua
condotta sulla terra” (Gen 6,12) , laddove si dice
“ogni carne” dobbiamo considerare che il testo biblico si riferisce a “tutti gli uomini”. Dio dà “cibo ad ogni
carne”e la sua pietà deve durare per sempre (Sal
136,25). Certamente la parola carne indica la debolezza e la transitorietà dell’uomo e, dato che la concupiscenza ha vinto lo spirito, quest’ ultimo non resterà sempre nell’uomo pertanto, come leggiamo nella Genesi, “la carne è mortale”. Nel Siracide a proposito del passar del tempo leggiamo “Ogni carne
invecchia come un abito, è una legge da sempre:
Febbraio
2008
38 A r t e
Certo si muore!” (Sir 14,17). A proposito invece del
vedere in profondità, Giobbe dice che Dio vede meglio
dell’uomo perché non ha “occhi di carne”. Invece, come
dice San Paolo, chi ha per alleato solo “un braccio
di carne” confida in un aiuto impotente (2Cor 32,8).
Il termine carne viene così a comprendere in sé i caratteri, le manifestazioni, il modo d’essere e d’agire della creatura vivente. Tutti questi caratteri nella prospettiva dell’Antico Testamento, sono sempre posti
in relazione a Dio. Il termine “carne” designa dunque l’essere umano, ma non in senso pieno, anzi,
esprime piuttosto, dell’essere umano, l’infermità, la
caducità, i limiti, in contrasto con gli attributi di Dio.
Il problema si complica nel Nuovo Testamento, in quanto “carne e sangue” diventano due termini che allu-
dono sia all’impotenza dell’uomo, che alla sua caducità, tanto che la rivelazione agli apostoli viene direttamente da Dio, non passando affatto per la carne
(cfr Mt 16,17). Ai significati tipici dell’Antico Testamento
si ricollegano molti testi del Nuovo Testamento nell’uso del termine greco ???? (sarx). Il detto di Marco
(Mc10:7) “I due saranno una sola carne” riferito al
matrimonio indica nella comunione fisica la comunione delle esistenze; le espressioni di Paolo “nella carne”, “secondo la carne”, alludono alla realtà dell’esistenza umana nella sua totalità nel significato anche
di umanità piú che di esistenza singola. San Paolo
invece vede la carne legata a qualcosa di naturale
e di umano in contrasto con lo spirituale. Naturalmente
non si può avere fiducia nella carne se si è mossi
dallo spirito di Dio in quanto “Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio” e ciò che
ad essa è associato è considerato di scarso valore
ed è venduto come schiavo del peccato, da qui è comprensibile l’esortazione a crocifiggere la carne con
le sue passioni e i suoi desideri.(Gal 5,24). La “carne” designa così l’ esistenza umana, la storia umana quale è diventata in seguito alla caduta ed al peccato. Ritroviamo applicata a Cristo l’antica profezia
di Isaia che dice che “ogni carne”, cioè ogni uomo,
“vedrà la gloria di Dio” (Is 40, 3-5) . Nel Vangelo di
Giovanni possiamo invece ritrovare le tre ben note
parole che alludono all’incarnazione del Signore “
Il giudizio universale della
Cappella Sistina
don Marco Nemesi
Il giudizio universale è il grande affresco situato sulla parete retrostante l’altare della Cappella
Sistina e fu progettato e realizzato da Michelangelo
fra il 1533 e il 1541. La sua collocazione estremamente anomala - normalmente questo tema
compare infatti sulla controfaccia o sulla facciata
degli edifici sacri - è frutto della specifica volontà del primo committente dell’opera, papa
Clemente VII (1523-1534), che giunse solo a vederne il “modello” compositivo: l’esecuzione in affresco del dipinto
ebbe infatti luogo sotto il pontificato di Paolo III (1534-1549) ed
ebbe inizio nel 1536 dopo una lunga e tormentata fase preparatoria.
Per realizzare il Giudizio, Michelangelo
dovette demolire da un lato la decorazione preesistente del tempo di
Sisto IV (1471-1484) - ovvero i quattro pontefici a lato delle due finestre
che un tempo si aprivano nella parete e tre affreschi del Perugino: le due
storie con la Natività e il Ritrovamento
del piccolo Mosè e la pala d’altare con
l’Assunzione della Vergine -, dall’altro le due lunette da lui affrescate nel 1512, al termine dei lavori per la volta. Nel gennaio 1564, un mese prima della morte di Michelangelo, il Concilio di Trento
approvò la richiesta, da più parti sollecitata, di
censurare le nudità del Giudizio. Dell’operazione
fu incaricato Daniele da Volterra, allievo dell’artista,
il quale però morì due anni dopo, avendo realizzato solo una parte dei “braghettoni”, come
vennero chiamate le aggiunte. Altri interventi censori seguirono negli anni successivi, alternati a
interventi di manutenzione e di restauro.
Tuttavia i fumi delle candele e le colle date per
tentare di aumentare la luminosità dell’affresco
finirono col formare un velo scuro di sporco che
ne impediva la piena leggibilità. L’intervento di
restauro del 1990-1994 ha permesso di recuperare la nitidezza dei colori, il vigore delle forme, la definizione dei particolari e l’unità complessiva dell’opera.
ANGELI CON I SIMBOLI DELLA PASSIONE
(LUNETTA DI SINISTRA)
Nelle due lunette in cima alla composizione,
Michelangelo colloca due gruppi di angeli apteri cioè senza ali, con gli strumenti della
Passione. Un primo gruppo di angeli è impegnato
a tenere sollevata la Croce di Cristo. Una figura in verde, piuttosto che sorreggere il legno, sembra tenervisi aggrappata mentre guarda con aria
smarrita verso di noi. Subito dietro un angelo
indica verso il basso i beati e un altro gli risponde mostrando la Croce, strumento di salvezza.
Un gruppetto di figure, a destra, si rivolge verso la lunetta del lato opposto; uno tiene la corona di spine mentre col capo si gira verso i com-
pagni a sinistra, gli altri gesticolando sembra volersi ricongiungere con le altre schiere di angeli.
ANGELI CON I SIMBOLI DELLA PASSIONE
(LUNETTA DI DESTRA)
Nella lunetta di destra, altri angeli portano in trionfo i simboli della Passione: al centro la colonna; sulla destra un angelo, dal manto arancione, porta la canna con in cima la spugna imbevuta di aceto. Rispetto alla
grande varietà di simboli che si legano tradizionalmente alla Passione,
Michelangelo riduce la scelta a soli
quattro elementi (croce, corona,
colonna, canna, che curiosamente iniziano tutte con la C di Cristo), scartando tutti gli altri; ad affresco completato aggiunse poi sullo sfondo, con
tecnica “a secco”, alcuni angeli in ombra,
che portano la scala usata durante
la crocifissione. Rispetto all’altra
lunetta, questa si presenta, dal punto di vista compositivo, molto più compatta. Gli
angeli sembrano far ruotare piuttosto che spostare in avanti la colonna; questo moto circolare trascina i corpi stessi degli angeli e sembra
attirare a sé anche quelli ancora distanti.
Insieme con l’altra lunetta vengono definite due
grandi linee direzionali, date dalla croce e dalla colonna, che convergono a punta, come gli
spioventi di un tetto; le due linee sono parallele a quelle del braccio sinistro e dell’avambraccio
destro di Cristo, del quale amplificano così la
gestualità, perché il giudizio divino si rifletta nei
simboli del male fatto dall’uomo e nella misericordia di Dio, che salva coloro che hanno seguito l’esempio di Cristo.
Febbraio
2008
CRISTO GIUDICE E MARIA VERGINE
Il gruppo centrale con Gesù e Maria nel nimbo
di luce, è stato dipinto subito dopo le due lunette, e costituisce il motore dell’intera composizione.
Dai contemporanei fu criticato i1 ruolo di Maria,
simbolo della Chiesa, che assumerebbe una posizione sottomessa e non avrebbe quel ruolo di
intercessione verso il Figlio che richiede la devozione mariana. Non è comunque vero che il Cristo
michelangiolesco sia evocatore solo di un’implacabile terribilità, perché il duplice gesto a incrocio che egli compie corrisponde a un duplice significato: la mano destra è sollevata sopra il capo e fa ruotare il busto
e la testa verso la sua sinistra, lo
sguardo cade in basso dove sono
i dannati e le bocche degli inferi, il gesto è di condanna e sembra accumulare forza per respingere verso il basso i peccatori, piuttosto che, come è stato detto, pronto a scagliare un fulmine giustiziere. Al contrario le gambe di Cristo
sono frontali o appena ruotate e
la mano sinistra si stende delicatamente in avanti, inclinata in
direzione dei risorti che ascendono
verso l’alto: è un gesto di rassicurazione che si
lega allo sguardo di Maria, rivolto nella stessa
direzione della mano del Figlio. La Vergine conferma ai risorti la salvezza, assumendo la tradizionale posa delle braccia incrociate e dei piedi sovrapposti: chi ha imitato Cristo fino al sacrificio della Croce non deve temere, ha diritto alla
vita eterna. Michelangelo rappresenta il Redentore
senza il tradizionale trono e senza la barba; forse la scelta è legata ad un esplicito richiamo con
la scena della creazione di Adamo sulla volta:
Cristo è il nuovo Adamo che salva dal peccato
originale.
GRUPPO DI BEATI A SINISTRA E INTORNO A CRISTO
Nella zona più alta sono disposti gli eletti, i beati, i santi, distinguibili solo per la maggiore o minore vicinanza al Redentore (l’assenza delle aureole fu aspramente criticata durante la Controriforma).
In effetti, una parte delle figure forma al centro
un anello, che arriva quasi a chiudersi e che rimanda alla “rosa mistica” dantesca: le figure restanti si dividono in due ali, a formare un semicerchio spezzato. Procedendo da sinistra, troviamo in alto una vecchia che scopre le orecchie
e mostra i seni cadenti, forse da interpretare come
la Sibilla che nel testo del Dies Irae apre la profezia del Giudizio. Più sotto una folla si accalca orante; il gruppo ancora più in basso sem-
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bra intento a cercare un contatto fisico senza
prestare attenzione al gesto di Cristo. Un poco
più a destra, in primo piano, una donna dal seno
scoperto ha aggrappato alle gambe un’altra figura femminile; difficile l’identificazione, mentre la
posa rimanda al gruppo classico della Niobe. Nell’anello
centrale sono individuati i vari personaggi: il vigoroso uomo che trattiene con le mani la pelliccia è il Battista, che ha a destra Andrea con la
tipica croce; ai due corrispondono dal lato opposto il fratello di Andrea, Pietro, nell’atto di rendere a Gesù le chiavi d’oro e d’argento, e die-
tro di lui nel manto rosso san Paolo. Seduto, in
primo piano, san Lorenzo tiene sulla spalla la
graticola con cui è stato arso. Dietro di lui una
figura femminile, avvolta nel manto arancione,
è stata identificata con Vittoria Colonna, musa
ispiratrice di Michelangelo, ma l’ipotesi va piuttosto sostituita con una santa martire, forse Lucia,
alla quale fanno pensare gli occhi, emersi nel
restauro, che vengono “sottolineati” dall’asta della graticola.
GRUPPO DI BEATI A DESTRA
Seguendo il modello del Paradiso dantesco si
possono individuare: spiriti amanti, sapienti, militanti, giusti, contemplanti; troviamo infatti figure abbracciate o che si baciano, volti pensosi e
gesti di eloquenza, mani giunte e sguardi imploranti. Sul margine destro, l’uomo che porta la
grande Croce, va identificato con Disma, il buon
ladrone, o forse con il Cireneo; nel sostenere il
peso è assistito da un uomo barbuto, dietro di
lui altre mani giungono in soccorso facendo pensare agli spiriti militanti, ai quali Dante fa comporre l’immagine della croce. Sulla sinistra, san
Bartolomeo tiene in una mano il coltello con cui
è stato scorticato e nell’altra la pelle, nel viso
della quale si vede un autoritratto di Michelangelo.
Disposti sulla nube in basso, la schiera dei santi martiri, che mostrano gli oggetti del loro supplizio: l’apostolo Simone con la sega, l’aposto-
lo Filippo con la croce, seguono san Biagio con
i pettini di ferro, santa Caterina d’Alessandria con
la ruota dentata e san Sebastiano con le frecce. Sono tutti protesi verso il gruppo dei dannati che, sotto di loro, lottano per salire, ma il
cui sforzo è inutile: i martiri mostrano attraverso quali strumenti si giunge in cielo.
ANGELI CON LE TROMBE DEL GIUDIZIO
Michelangelo pone un gruppo di angeli al centro della fascia mediana, inscritto
in forma circolare e isolato dal flusso umano. Questi angeli hanno il
compito di svegliare i morti col suono delle trombe, per questo sono
anche detti “angeli tubicini”. In realtà solo quattro si rivolgono verso
la scena della Resurrezione, mentre un quinto, con la tromba sulla
spalla e l’indice puntato, sembra
voler correggere l’angelo sotto di
lui, che stava suonando in direzione
della barca dei dannati. In primo
piano sono gli angeli che sostengono i libri con le sentenze, ricordati nell’Apocalisse. Il “libro della
vita” viene rivolto a sinistra, cioè alla destra del
Signore, verso la resurrezione dei corpi e l’ascesa
dei beati; l’altro libro, che contiene la condanna
a finire “nello stagno di fuoco”, è direzionato a
destra verso Caronte. Se il primo è un libro di
modeste dimensioni, il secondo è un grosso tomo
che richiede l’intervento di due angeli per essere sostenuto, perché più numerosa è la lista dei
peccatori rispetto a quella dei santi. Gli angeli tubicini, con le loro guance gonfie, si rifanno all’iconografia dei venti che soffiano in tutte le direzioni.
L’uso delle trombe, invece, rimanda a un’altra profezia dell’Apocalisse, quella del settimo sigillo in
cui sette angeli, suonando le loro sette trombe,
scatenano cataclismi e stermini che precedono
la finale vittoria di Cristo. Va però notato che il
riferimento è puramente allusivo, qui infatti le trombe risultano essere otto e non sette, e che la scena rimanda complessivamente al testo medievale
del Dies Irae.
REDENTI CHE SALGONO TRA I BEATI
Una forza misteriosa spinge lentamente verso l’alto i corpi risorti di coloro che rientrano nel libro
dei giusti. L’azione sembra svolgersi indipendentemente
dalla volontà divina, non ci sono forze angeliche,
i redenti si aiutano tra di loro o si aggrappano alle
nubi, molti sono ancora con gli occhi chiusi o come
accecati, altri sono trascinati verso l’alto da alcuni beati del registro superiore. A destra, due uomini dalla pelle più scura sono tirati in alto con un
grande rosario, simbolo delle orazioni che hanno portato alla conversione dei popoli lontani e
dell’azione salvifica e universale della fede. Le
espressioni dei volti e dei gesti hanno una gradazione che va dall’ardore implorante alla paura o all’indecisione. L’umanità redenta sembra non
credere alla propria salvezza eterna o non averne preso ancora piena coscienza, non appare felice ma quasi sgomenta perché solo nella mente
imperscrutabile di Dio è chiaro il disegno della Grazia.
In contrapposizione alla scena posta simmetricamente
a destra, con la lotta tra angeli e dannati, qui
Michelangelo ha dato ai corpi una maggiore rilassatezza. La loro disposizione suggerisce una specie di danza circolare e ascendente che si staglia sul cielo, di un azzurro intensissimo, realizzato a lapislazzuli.
DANNATI RICACCIATI NEGLI INFERI
Come avviene nell’inferno dantesco, alcuni dannati non accettano la loro condanna e si ribellano; agli angeli, distinguibili dalle vesti colorate, è
dato il compito, in collaborazione con i demoni,
di ricacciarli in basso. Questo gruppo di dannati si fa in genere risalire alle tipologie dei sette vizi
capitali, alcuni di sicura identificazione, altri attribuibili in via ipotetica. Cominciando da destra troviamo un lussurioso, tirato giù da un diavolo. Quello
che gli sta subito sopra dovrebbe essere un superbo, che per contrappasso è punito venendo capovolto a testa in giù. Tra i due, dietro in ombra, un
dannato dall’aria disidratata con una mano puntata sulla gola e la bocca aperta potrebbe essere un goloso. Il successivo, di schiena, è probabilmente un iracondo, che lotta accanitamente con
l’angelo in verde, in aiuto del quale ne arriva uno
in rosso. Più in basso, un dannato avvolto nella
veste e con le mani giunte sembra scivolare negli
inferi, senza l’intervento dei demoni, quasi per inerzia: potrebbe essere un accidioso. L’avaro,
respinto dall’angelo in arancione mentre un demone lo tira in basso, è invece ben riconoscibile dalla sacchetta con il denaro e le chiavi dei forzieri. L’ultimo, di spalle, dovrebbe essere un invidioso,
che vedendo salire un risorto verso l’alto si spinge a rincorrerlo, inseguito dall’angelo in verde. Nelle
due figure diafane, quasi trasparenti, in volo sotto di lui, alcuni hanno voluto vedere Paolo e Francesca.
Isolato a sinistra compare infine un dannato del
quale nessun angelo si occupa, di solito identificato come orgoglioso o disperato, mentre sembra più probabile che rappresenti la categoria degli
ignavi, che Dante definisce senza infamia e senza lode, cioè un indeciso e vile che non reagisce al morso del drago, non aspira a salire né a
scendere e che nemmeno l’intervento di due demoni riesce a smuovere.
RESURREZIONE DEI CORPI
Al suono delle trombe degli angeli, i defunti si svegliano dal sonno della morte. Michelangelo li rappresenta nei vari stadi successivi con cui gli scheletri riacquistano la carne e riprendono l’aspetto
di corpi umani ricongiunti insieme con l’anima; l’artista si rifà alla profezia del libro di Ezechiele, ma
anche all’iconografia stabilita pochi anni prima da
Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio nel
duomo di Orvieto. In basso a sinistra, alcuni defunti escono da un avello sollevando una lastra di
pietra; intorno i corpi escono invece direttamente dalla terra, nella quale sono affossati secondo livelli diversi: chi esce solo con la testa, chi
con tutto il busto, chi infine ha ancora sepolta solo
una gamba. I corpi sono intorpiditi e stanchi, deboli e pesanti, e sono perlopiù nudi oppure avvolti
nei sudari funebri. Mentre altri liberati, salgono
lenti e fluttuanti verso l’alto. La figura barbuta in
piedi, all’estrema sinistra, che non fa parte dei defunti e sembra come benedirli, è stata interpretata
nei modi più svariati. Nella parte di destra avviene una disputa tra gli angeli e i demoni per due
corpi messi in posizione inversa: il primo, completamente privo di forze, è trattenuto in basso
da una corda-serpente tirata da una mano che
esce dalla roccia; il secondo, capovolto a testa
in giù, aiuta i due angeli che lo portano in alto a
liberarsi dal demonio che lo tira per i capelli. La
scena della resurrezione dei corpi è però anche
una grande metafora del lavoro dell’artista e in
modo particolare dell’opera stessa di Michelangelo,
che ha fatto dello studio della figura umana e della ricerca anatomica la sua ossessione. L’artista
fa risorgere i corpi attraverso la pittura. I corpi dipinti sono la visione di una realtà che deve ancora
avvenire, ma sono allo stesso tempo una realtà
che già avviene, che si manifesta sotto gli occhi
dell’osservatore, sono la testimonianza della veridicità della promessa di salvezza.
INGRESSO DEI DANNATI AGLI INFERI
L’ultimo spazio in basso a destra contiene l’epilogo del giudizio divino: per le anime dannate è
pronta la barca di Caronte che le traghetta agli
inferi, dove le attende una banda di demoni, alcuni diabolicamente ligi nel loro lavoro, altri addirittura intenti a fare gesti e boccacce agli osservatori. La fonte principale cui l’artista si ispira è
la Commedia dantesca. Il gesto di Caronte che
minaccia le anime riprende il passo: “Caron dimonio, con occhi di bragia, loro accennando, tutte
le raccoglie; batte col remo qualunque s’adagia”;
i dannati scivolano giù, dice Dante, come le foglie
cadono in autunno, e così li dipinge Michelangelo,
traboccanti dalla barca mentre ricadono sui demoni, i quali con lunghi arpioni tirano quelli più restii.
Una fila di diavoli in attesa occupa la parte all’estrema destra, che si staglia su un cielo infuocato
e fumante. Sempre ripresa da Dante è la figura
di Minosse, dalle orecchie asinine, che ha il compito di associare alla colpa del dannato un certo girone dell’inferno, indicandone il numero con
i giri del serpente attorno alla vita. Si racconta che
mentre Michelangelo componeva il Giudizio
Universale, Biagio da Cesena, maestro di cerimonie, si scandalizzò di tante nudità, che vi erano state dipinte, e giudicò che l’opera era degna
di osterie. Allora Michelangelo si vendicò in modo
terribilmente satirico, raffigurando lo stesso
Biagio sotto sembianza di Minose, in mezzo ai
diavoli. Biagio, indignato, si rivolse a Paolo III, il
quale gli rispose che se fosse stato messo in Purgatorio
avrebbe cercato di toglierlo, ma che, essendo nell’
inferno, non c’era speranza di redenzione.
Michelangelo raggiunge in questa scena degli inferi un vertice insuperato di “terribilità”, cioè quell’effetto di imponenza mista a paura e ammirazione che i contemporanei individuarono come
una delle grandi novità dell’opera del Buonarroti.