In ascolto di Dio `nei solchi della storia` : la secolarità parla alla
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In ascolto di Dio `nei solchi della storia` : la secolarità parla alla
In ascolto di Dio ‘nei solchi della storia’ : la secolarità parla alla consacrazione 23 – 25 luglio 2012 Domus Pacis Santa Maria degli Angeli, Assisi, Italia RACCOLTA DEI TESTI IN LINGUA ORIGINALE INDICE Messaggio del Santo Padre trasmesso dal Segretario di Stato (cardinal Tarcisio Bertone) ............................................................................................. pag. 3 Intervento del Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (Cardinal João Brazde Aviz) ..............................................................................................“ 5 Presentazione del tema del Congresso (Ewa Kusz) .........................................................................................................................“ 14 La consacrazione di Gesù nel mondo e per il mondo (Padre Paolo Gamberini SJ) ..............................................................................................“ 20 In der Welt, nicht von der Welt. Nachdenken über die bleibende Spannung, ein Christ zu sein (Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz) .......................................................................................“ 34 Comment etre au service de l’eglise comme laics et en tant que laics? (Pierre Langeron)...............................................................................................................“ 46 Un noveau modèle de sainteté comme fidélité a Dieu dans le monde (mons. Gérald Cyprien Lacroix) ........................................................................................“ 64 New Languages and a new language for the Church (Ivan Netto M.D.) ...............................................................................................................“ 82 Come cambia la vocazione quando cambiano il mondo e noi stessi (dott.ssa Piera Grignolo) ...................................................................................................“ 92 Sintesi conclusiva (Giorgio M. Mazzola).........................................................................................................“ 95 Statistiche CMIS...............................................................................................................“ 100 SEGRETERIA DI STATO Dal Vaticano, 18.07.2012 Gentile Signorina, mi è grato inviare ai membri degli Istituti secolari il presente Messaggio del Santo Padre, in occasione del Congresso che si celebra ad Assisi e che è stato organizzato dalla Conferenza Mondiale degli Istituti Secolari per trattare il tema In ascolto di Dio ‘nei solchi della storia’: la secolarità parla alla consacrazione. Tale importante tematica pone l’accento sulla vostra identità di consacrati che, vivendo nel mondo la libertà interiore e la pienezza dell’amore che derivano dai consigli evangelici, vi vede uomini e donne capaci di uno sguardo profondo e di buona testimonianza dentro la storia. Il nostro tempo pone alla vita e alla fede interrogativi profondi, ma anche manifesta il mistero della nuzialità di Dio. Infatti, il Verbo che si è fatto carne celebra le nozze di Dio con l’umanità di ogni epoca. Il mistero nascosto da secoli nella mente del Creatore dell’universo (cfr. Ef 3,9) e manifestatosi con l’Incarnazione, è proiettato verso il compimento futuro, ma già innestato nell’oggi, come forza redentrice e unificante. Dentro l’umanità in cammino, animati dallo Spirito Santo, potete cogliere i segni discreti e a volte nascosti che indicano la presenza di Dio. Solo in forza della grazia che è dono dello Spirito potete scorgere nei sentieri spesso tortuosi della vicende umane l’orientamento verso la pienezza della vita sovrabbondante. Un dinamismo che rappresenta, al di là delle apparenze, il senso vero della storia secondo il disegno di Dio. La vostra vocazione è di stare nel mondo assumendone tutti i pesi e gli aneliti, con uno sguardo umano che coincida sempre più con quello divino, da cui sgorga un impegno originale, peculiare, fondato sulla consapevolezza che Dio scrive la sua storia di salvezza sulla trama delle vicende della nostra storia. In questo senso, la vostra identità dice anche un aspetto importante della vostra missione nella Chiesa: aiutarla cioè a realizzare il suo essere nel mondo, alla luce delle parole del Concilio Vaticano II: “Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito (Gaudium et Spes, 3). La teologia della storia è parte essenziale della nuova evangelizzazione, perché gli uomini del nostro tempo hanno bisogno di ritrovare uno sguardo complessivo sul mondo e sul tempo, uno sguardo veramente libero e pacifico (cfr. Benedetto XVI, Omelia nella S. Messa per la nuova evangelizzazione, 16 ottobre 2011). È sempre il Concilio a ricordarci come la relazione tra Chiesa e mondo vada vissuta nel segno della reciprocità, per cui non è solo la Chiesa a dare al mondo, contribuendo a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia, ma è anche il modo a dare alla Chiesa, così che essa possa meglio comprendere se stessa e meglio vivere la sua missione (cfr. Gaudium ed Spes, 40-45). I lavori che vi accingete a svolgere si soffermano poi sullo specifico della consacrazione secolare alla ricerca di come la secolarità parli alla consacrazione, di come nelle vostre vite i tratti caratteristici di Gesù – vergine, povero ed obbediente – acquistino una tipica e permanente “visibilità” in mezzo al mondo (cfr. Esort. Ap. Vita Consecrata, 1). Sua Santità desidera indicare tre ambiti su cui puntare la vostra attenzione. In primo luogo, la donazione totale della vostra vita come risposta a un incontro personale e vitale con l’amore di Dio. Voi che avete scoperto che Dio è tutto per voi, avete deciso di dare tutto a Dio e di farlo in un modo peculiare: restando laici tra i laici, presbiteri tra i presbiteri. Ciò richiede una particolare vigilanza perché i vostri stili di vita manifestino la ricchezza, la bellezza e la radicalità dei consigli evangelici. In secondo luogo, la vita spirituale. Punto fermo e irrinunciabile, riferimento certo per alimentare quel desiderio di fare unità in Cristo che è tensione di tutta l’esistenza di ogni cristiano e tanto più di chi risponde a una chiamata totale di dono di sé. Misura della profondità della vostra vita spirituale non sono le tante attività, che pure richiedono il vostro impegno, ma piuttosto la capacità di cercare Dio nel cuore di ogni avvenimento e di riportare a Cristo ogni cosa. È il “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, di cui parla l’apostolo Paolo (cfr. Ef 1,10). Solo in Cristo, Signore della storia, tutta la storia e tutte le storie trovano senso e unità. Nella preghiera, dunque, e nell’ascolto della Parola di Dio si alimenti quest’anelito. Nella celebrazione eucaristica ritrovate la radice del farvi pane d’Amore spezzato per gli uomini. Nella contemplazione, nello sguardo di fede illuminato dalla grazia, si radichi l’impegno a condividere con ogni uomo e ogni donna le domande profonde che abitano ciascuno, per costruire speranza e fiducia. In terzo luogo, la formazione, che non trascura nessuna età anagrafica, perché si tratta di vivere la propria vita in pienezza educandosi a quella saggezza che è consapevole sempre della creaturalità umana e dalla grandezza del Creatore. Ricercate contenuti e modalità di una formazione che vi renda laici e presbiteri capaci di lasciarsi interrogare dalle complessità che il mondo oggi attraversa, di restare aperti alle sollecitazioni provenienti dalla relazione con i fratelli che incontrate sulle vostre strade, di impegnarvi in un discernimento della storia alla luce della Parola di Vita. Siate disponibili a costruire, insieme a tutti i cercatori della verità, percorsi di bene comune, senza soluzioni preconfezionate e senza paura delle domande che restano tali, ma pronti sempre a mettere in gioco la vostra vita, nella certezza che il chicco di grano, caduto nella terra, se muore porta molto frutto (cfr. Gv 12,24). Siate creativi, perché lo Spirito costruisce novità; alimentate sguardi capaci di futuro e radici salde in Cristo Signore, per saper dire anche al nostro tempo l’esperienza d’amore che sta a fondamento della vita di ogni uomo. Abbracciate con carità le ferite del mondo e della Chiesa. Soprattutto vivete una vita gioiosa e piena, accogliente e capace di perdono, perché fondata su Gesù Cristo, Parola definitiva di Amore di Dio per l’uomo. Mentre vi indirizza queste riflessioni, il Sommo Pontefice assicura per il vostro Congresso e la vostra Assemblea un particolare ricordo nella preghiera, invocando l’intercessione della Beata Vergine Maria, che ha vissuto nel mondo la perfetta consacrazione a Dio in Cristo, e di cuore invia a Lei e a tutti i partecipanti l’implorata Benedizione Apostolica. Nell’unire anche personalmente ogni miglior auspicio, Profitto della circostanza per confermarmi con sensi di distinta stima. +Tarcisio Card. Bertone Segretario di stato 1 CMIS – CONFERENCE MONDIALE DES INSTITUTS SECULIERS CONGRESSO E ASSEMBLEA GENERALE ASSISI – 23-28 luglio 2012 (Domus Pacis – Santa Maria degli Angeli, Assisi – Italia) IN ASCOLTO DI DIO ‘NEI SOLCHI DELLA STORIA’: LA SECOLARITA PARLA ALLA CONSACRAZIONE GLI ISTITUTI SECOLARI E LA COMUNIONE ECCLESIALE Joao Braz Cardinale DE AVIZ Prefetto della CIVCSVA Carissime Consacrate laiche e Consacrati laici e sacerdoti degli Istituti secolari, sono felice di essere qui tra voi all’inizio di queste giornate così dense di attese. Giornate che vi vedono impegnati prima nel Congresso, un luogo di ascolto, di confronto e di elaborazione e poi nell’Assemblea. Un appuntamento particolarmente importante quest’anno, nel quale approverete i nuovi Statuti. Il mio augurio a questo proposito è che affondare lo sguardo nelle norme che regolano il vostro percorso comune per delinearne le forme, vi aiuti a vivere in pienezza la comunione, non per annullare le differenze, ma per camminare insieme, ciascuno con il proprio passo, dentro lo stesso solco: quello della secolarità consacrata. Solo a questo prezzo, perché certo si tratta di un percorso complesso, potranno nascere frutti di bene. La mia presenza è espressione di quella comunione che lega la Conferenza mondiale degli Istituti secolari al Santo Padre attraverso la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Si tratta di quel Sentire cum Ecclesia al quale l’Esortazione Apostolica Vita Consecrata ha dedicato il numero 46 del quale rileggo con voi le prime parole: “Un grande compito è affidato alla vita consacrata anche alla luce della dottrina sulla Chiesa-comunione, con tanto vigore proposta dal Concilio Vaticano II. Alle persone consacrate si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come «testimoni e artefici di quel “progetto di comunione” che sta al vertice della storia dell'uomo 1 2 secondo Dio». Il senso della comunione ecclesiale, sviluppandosi in spiritualità di comunione, promuove un modo di pensare, parlare ed agire che fa crescere in profondità e in estensione la Chiesa. La vita di comunione, infatti, «diventa un segno per il mondo e una forza attrattiva che conduce a credere in Cristo [...]. In tal modo la comunione si apre alla missione, si fa essa stessa missione», anzi «la comunione genera comunione e si configura essenzialmente come comunione missionaria». Riprendo qui le parole del Santo Padre Benedetto XVI rivolte alla Signorina Ewa Kusz, presidente del Consiglio esecutivo, inviate attraverso il Secretario di Stato +Tarcisio Cardinale Bertone, appena lette: “I lavori che vi accingete a svolgere si soffermano poi sullo specifico della consacrazione secolare, alla ricerca di come la secolarità parli alla consacrazione, di come nelle vostre vite i tratti caratteristici di Gesù – vergine, povero ed obbediente – acquistino una tipica e permanente “visibilità” in mezzo al mondo (cfr Esort. ap. Vita consacrata, 1). Sua Santità desidera indicare tre ambiti su cui puntare la vostra attenzione. In primo luogo, la donazione totale della vostra vita come risposta a un incontro personale e vitale con l’amore di Dio. Voi che avete scoperto che Dio è tutto per voi, avete deciso di dare tutto a Dio e di farlo in un modo peculiare: restando laici tra i laici, presbiteri tra i presbiteri. Ciò richiede una particolare vigilanza perché i vostri stili di vita manifestino la ricchezza, la bellezza e la radicalità dei consigli evangelici. In secondo luogo, la vita spirituale. Punto fermo e irrinunciabile, riferimento certo per alimentare quel desiderio di fare unità in Cristo che è tensione di tutta l’esistenza di ogni cristiano e tanto più di chi risponde a una chiamata totale di dono di sé. Misura della profondità della vostra vita spirituale non sono le tante attività, che pure richiedono il vostro impegno, ma piuttosto la capacità di cercare Dio nel cuore di ogni avvenimento e di riportare a Cristo ogni cosa. E’ il “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, di cui parla l’apostolo Paolo (cfr Ef 1,10). Solo in Cristo, Signore della storia, tutta la storia e tutte le storie trovano senso e unità. Nella preghiera, dunque, e nell’ascolto della Parola di Dio si alimenti quest’anelito. Nella celebrazione eucaristica ritrovate le radici del farvi pane d’Amore spezzato per gli uomini. Nella contemplazione, nello sguardo di fede illuminato dalla grazia, 2 3 si radichi l’impegno a condividere con ogni uomo e ogni donna le domande profonde che abitano ciascuno, per costruire speranza e fiducia. In terzo luogo, la formazione, che non trascura nessuna età anagrafica, perché si tratta di vivere la propria vita in pienezza educandosi a quella saggezza che è consapevole sempre della creaturalità umana e dalla grandezza del Creatore. Ricercate contenuti e modalità di una formazione che vi renda laici e presbiteri capaci di lasciarsi interrogare dalla complessità che il mondo oggi attraversa, di restare aperti alle sollecitazioni provenienti dalla relazione con i fratelli che incontrate sulle vostre strade, di impegnarvi in un discernimento della storia alla luce della Parola di Vita. Siate disponibili a costruire, insieme a tutti i cercatori della verità, percorsi di bene comune, senza soluzioni preconfezionate e senza paura delle domande che restano tali, ma pronti sempre a mettere in gioco la vostra vita, nella certezza che il chicco di grano, caduto nella terra, se muore porta molto frutto (cfr Gv 12,24). Siate creativi, perché lo Spirito costruisce novità; alimentate sguardi capaci di futuro e radici salde in Cristo Signore, per saper dire anche al nostro tempo l’esperienza d’amore che sta a fondamento della vita di ogni uomo. Abbracciate con carità le ferite del mondo e della Chiesa. Soprattutto vivete una vita gioiosa e piena, accogliente e capace di perdono, perché fondata su Gesù Cristo, Parola definitiva di Amore per l’uomo” (Segreteria di Stato, Lettera del 18.09.2012, n. 201.643). E’ proprio sulla comunione ecclesiale che vorrei soffermarmi oggi con voi. Non per togliere importanza alla specifica tematica del vostro Congresso, sulla quale avrete modo di riflettere in questi giorni, ma quasi come contesto, come orizzonte di senso, in cui inserire le vostre riflessioni. La vostra vocazione non ha significato se non partendo dal suo radicamento nella Chiesa, perché la vostra missione è missione della Chiesa. Nella preghiera sacerdotale contenuta nel Vangelo di Giovanni, l’intensità della relazione tra Padre e Figlio fa tutt’uno con la forza della missione d’amore. È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa diventa segno e strumento capace di creare comunione con Dio e fra gli uomini (cf Lumen Gentium 1). 3 4 Per questo già Paolo VI vi esortava: “Non vi lasciate mai sorprendere, neppure sfiorare dalla tentazione oggi troppo facile, che sia possibile un'autentica comunione con Cristo senza una reale armonia con la comunità ecclesiale retta dai legittimi pastori. Sarebbe ingannevole e illusorio. Che cosa potrebbe contare un singolo o un gruppo, pur nelle intenzioni soggettivamente più alte e perfette, senza questa comunione? Cristo ce l'ha chiesta come garanzia per ammetterci alla comunione con Lui, allo stesso modo che ci ha chiesto di amare il prossimo come documentazione del nostro amore per Lui” (Paolo VI, Allocuzione ‘Ancora una volta’ ai Superiori degli Istituti Secolari, 20 settembre 1972). E ancor più accoratamente Benedetto XVI vi ripeteva: “La Chiesa ha bisogno anche di voi per dare completezza alla sua missione …Siate seme di santità gettato a piene mani nei solchi della storia”. Non c’é comunione che non apra continuamente alla missione, né missione che non germogli dalla comunione. I due aspetti toccano il cuore vivo e palpitante di tutta la Chiesa, permettendole una nuova lettura della realtà, una ricerca di significato e magari anche di soluzioni che vogliono essere risposta certo parziale ma di un cuore sempre più autenticamente evangelico. Un’altra considerazione mi spinge nella scelta di questo tema ed è la seguente: una delle prime preoccupazioni che mi sono state presentate come Prefetto negli incontri con gli Istituti secolari è stata “nella Chiesa siamo poco conosciuti o conosciuti male”. Il legame profondo che c’è tra conoscenza e comunione mi sembra fondamentale in un duplice senso. Solo attraverso la conoscenza, che significa ascolto, attenzione, sintonia di cuore, può nascere la comunione che a sua volta, proprio perché va alla radice dell’essenziale e dilata la capacità di incontro, genera autentica conoscenza. Ecco perché, omettendo ora il pensare alla comunione all’interno di ogni Istituto (argomento che meriterebbe una riflessione a parte) mi soffermo su alcuni spunti riferiti alla comunione ecclesiale. Lo faccio partendo da quel Documento che la Sacra Congregazione dei Religiosi e gli Istituti Secolari inviò alle Conferenze Episcopali dopo la riunione Plenaria tenutasi nel mese di maggio del 1983. 4 5 Ripercorrendo le origini di questa vocazione ho potuto constatare come da subito, nella nuova forma riconosciuta giuridicamente con la Costituzione Apostolica Provida Mater, sono confluite realtà profondamente diverse tra loro, soprattutto a motivo della differente finalità apostolica. Sono stati proprio i Convegni organizzati da quella che sarebbe diventata poi la Conferenza Mondiale degli Istituti secolari che hanno permesso una conoscenza vicendevole – leggo nel suddetto documento – che ha portato gli Istituti ad accettare la diversità (il cosiddetto pluralismo), ma con l’esigenza di chiarire i limiti di questa stessa diversità ( Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, Gli Istituti secolari: la loro identità e la loro missione, 3-6 maggio 1983 n. 4). Mi sembra questo un punto fondamentale. Quest’opera di accoglienza reciproca credo sia ancora in atto e non bisogna perdere di vista l’importanza di mantenere desta la tensione ad approfondire questo percorso. Come anche continua il cammino di comprensione di quelli che il documento, lo abbiamo appena sentito, definisce i limiti di questa diversità. Limiti, o anche confini, che hanno radice tanto nell’essenza dello Spirito che sempre rinnova la terra con doni nuovi, quanto nel momento che la Chiesa sta vivendo. E’ un contesto quello attuale nel quale, nella prospettiva anche dell’Anno della Fede voluto da Benedetto XVI nei 50 anni del Concilio Vaticano II, popolo di Dio, consacrati, presbiteri, ma anche pastoralisti, canonisti, tutti sono chiamati a collaborare per costruire insieme percorsi nuovi di evangelizzazione e di compagnia all’uomo del nostro tempo. Comprendete bene che un simile discernimento richiede da voi un atteggiamento fondamentale: quello di non avere la pretesa di conoscere la vera (e quindi unica) identità di un Istituto secolare. Occorre invece una disponibilità di fondo che vi permetta di scoprire come l’altro declini, nella propria spiritualità, con la propria missione e modalità di vita, la sintesi tra consacrazione e secolarità; come nei diversi ambiti sociali culturali ed ecclesiali sia possibile manifestare, pur se in modo differente, l’originalità e l’unicità della vostra vocazione. Solo attraverso questa dinamica di ascolto e accoglienza, che richiede un sapiente discernimento, vi troverete tutti più ricchi perché potrete sperimentare la grandezza di Dio, che, per manifestare il suo grande amore al mondo, non si fa chiudere nei nostri piccoli percorsi, ma sa suscitare risposte che a noi possono sembrare anche stravaganti, ma che certo hanno qualcosa da dire e da dare alla vita di ciascuno. Partendo dunque da quello che vi accomuna potrete confrontarvi non solo sulle diversità, ma anche sulle sfide sempre nuove che il mondo pone in modo particolare a voi, chiamati a spendere la vostra vita in una “terra di confine”. Di fronte a problematiche nuove siete sollecitati a cercare nuovi percorsi 5 6 che dicono l’attualità della vostra missione, sempre pronti a rimetterli in discussione, nel confronto, quando i tempi e i luoghi richiedono nuove elaborazioni. Mi viene da pensare a una delle domande che mi sono state rivolte nel mio incontro con la Conferenza Polacca degli Istituti Secolari che si è tenuto nel mese di novembre del 2011. Mi è stata chiesta una riflessione circa la necessità che il membro di un istituto secolare mantenga la discrezione sulla propria vocazione. Più che una risposta è seguito un invito ai singoli Istituti a confrontarsi, al loro interno e tra loro, sulle motivazioni di una simile discrezione, a chiedersi: “Perché se ne è sentito il bisogno? Cosa vuol dire alla Chiesa e al Mondo?”. Le risposte possono essere diverse per ogni istituto, per ogni nazione e per ogni epoca storica, ma per verificare l’attualità e l’efficacia di uno strumento occorre partire sempre dal fondamento, dal valore che vuole realizzare ed esprimere. Ecco questo credo sia un possibile metodo per attivare quella conoscenza che può portare alla comunione e che scaturisce dalla comunione. Dunque, ascoltarsi reciprocamente, senza precomprensioni, sia all’interno dei singoli istituti che nei luoghi propri di confronto, per raggiungere una meta che, lo sapete benissimo, è solo una tappa nel cammino dello Spirito! Sappiate che in quest’opera non siete soli: la Chiesa, attraverso la parole dei Pontefici e il servizio della Congregazione che rappresento, vi accompagna. E qui vi propongo un altro aspetto che è quello di una comunione con la Chiesa locale. Anche qui riprendo le parole del Beato Giovanni Paolo II a conclusione della Plenaria sopra citata: “Se ci sarà uno sviluppo e un rafforzamento degli Istituti Secolari, anche le Chiese locali ne trarranno vantaggio”. Segue un duplice invito rivolto agli Istituti e ai Pastori: Pur nel rispetto delle loro caratteristiche, gli Istituti Secolari devono comprendere e assumere le urgenze pastorali delle Chiese particolari, e confermare i loro membri a vivere con attenta 6 7 partecipazione le speranze e le fatiche, i progetti e le inquietudini, le ricchezze spirituali e i limiti, in una parola: la comunione della loro Chiesa concreta. E ancora, deve essere una sollecitudine dei Pastori riconoscere e richiedere il loro apporto secondo la natura loro propria. In particolare, incombe ai Pastori un’altra responsabilità: quella di offrire agli Istituti Secolari tutta la ricchezza dottrinale, di cui hanno bisogno. Essi vogliono far parte del mondo e nobilitare le realtà temporali ordinandole ed elevandole perché tutto tenda a Cristo come a un capo (cfr. Ef l, l0). Perciò, si dia a questi Istituti tutta la ricchezza della dottrina cattolica sulla creazione, l'incarnazione e la redenzione, affinché possano fare propri i disegni sapienti e misteriosi di Dio sull'uomo, sulla storia e sul mondo. Oggi la domanda di verifica è d’obbligo: a che punto è questo percorso? Naturalmente in questo luogo mi rivolgo a voi, sollecitando una riflessione sul cammino fatto da parte vostra. Ma è una domanda rivolta anche ai Pastori invitati a favorire tra i fedeli una comprensione non approssimativa o accomodante, ma esatta e rispettosa delle caratteristiche qualificanti …di questa difficile, ma bella vocazione. (sono sempre parole rivolte dal Beato Giovanni Paolo II alla Plenaria) La comunione di cui parliamo, non lo dimentichiamo mai, è un dono dello Spirito Santo, crea unità nell’amore e nella reciproca accettazione delle diversità. Prima di traduzioni concrete a livello comunicativo e strutturale, essa richiede un cammino spirituale senza il quale – ribadiva chiaramente il Beato Giovanni Paolo II – non ci facciamo illusioni, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita. (Novo millennio ineunte, n. 43). Ciascuno di voi si senta interpellato, come singolo, come Istituto e come Conferenza, a individuare strumenti e modalità che possano far sì che l’ideale di una piena comunione ecclesiale prospettata in tanti documenti della Chiesa, diventi comunione reale dentro la storia. Anche qui prioritario è un atteggiamento di fondo: non cedete mai alla tentazione della rinuncia. A volte può accadere che i vostri tentativi non portino frutto e il cammino non proceda: anche in questo caso, non abbandonate la meta! Non 7 8 fermatevi dinanzi agli insuccessi, ma da questi traete nuova forza per attivare la creatività; sappiate passare dal risentimento alla disponibilità, dalla diffidenza all'accoglienza. Portate le ferite alla comunione ecclesiale nella preghiera, leggete con verità le vostre responsabilità, non lasciate nulla d'intentato e nel discernimento riprendete il faticoso cammino verso la comunione. Nel mese di marzo di quest’anno in Congregazione abbiamo avuto un incontro tra i Superiori e il Consiglio della CMIS nel quale il Consiglio ha presentato alcuni argomenti da affrontare insieme riguardanti tre tematiche così suddivise: La conoscenza reciproca; I Criteri di discernimento dell’identità degli Istituti secolari; Il ruolo della CMIS. Come Dicastero abbiamo accolto molto volentieri la proposta indicando una possibile modalità di attuazione: che sia questa Assemblea a individuare il primo aspetto su cui avviare una riflessione comune; ad indicare gli interlocutori con il Dicastero, e soprattutto a stabilire in quale modalità tutti gli Istituti possano partecipare alla riflessione. Un esempio di comunione ecclesiale che stiamo costruendo! Rivolgo infine a tutti voi un ulteriore invito: siate promotori di comunione con le altre espressioni di vita consacrata e le altre realtà ecclesiali che condividono con voi alcuni aspetti della vostra identità o missione. Penso alle altre forme di vita consacrata con le quali siete accomunati dalla consacrazione per la professione dei consigli evangelici in senso canonico. Penso a quelle associazioni e ai movimenti con i quali siete accomunati per una presenza evangelica nel mondo, pur conservando una missione e uno stile di vita profondamente differenti. E’ una proposta che potrebbe sembrarvi audace, ma che è suggerita dalla vostra stessa vocazione che vi porta a sperimentare già all’interno degli Istituti la ricchezza della diversità, e che fa del vostro vivere un laboratorio di dialogo. Disponetevi a conoscere queste realtà e soprattutto a lasciarvi conoscere da esse: non avete nulla da cui difendervi, avete solo da mostrare la bellezza della vostra vocazione che insieme a quelle di tanti altri fratelli e sorelle, è espressione della ricchezza e della vivacità del’Amore trinitario. Quell’Amore sorprendete e creativo, che supera la nostra capacità di immaginazione, e che fa della Chiesa un magnifico giardino dove la moltitudine di fiori e piante consente a ogni uomo di 8 9 trovare e di sperimentare, nella varietà dei profumi e dei colori, la profondità e la gioia di una vita piena e buona. NB.: Ringrazio la collaborazione della Dottoressa Daniela Leggio, officiale della CICSVA per la ricerca elaborata intorno ai documenti sugli Istituti secolari. 9 1 Pochodzicie z różnych krajów, żyjecie, pracujecie i starzejecie się w różnych środowiskach kulturowych i politycznych, a także religijnych. W nich wszystkich szukacie Prawdy, ludzkiego objawienia Boga w życiu. Jest to, jak wiemy, długa droga, nie pozbawiona niepokoju, ale pewna. Głoście piękno Boga i Jego stworzenia. Biorąc przykład z Chrystusa, bądźcie posłuszni miłości, łagodni i miłosierni, zdolni iść drogami świata, czyniąc jedynie dobro. W centrum waszego życia stawiajcie Błogosławieństwa, abyście przecząc w ten sposób ludzkiej logice, dawali wyraz bezwarunkowego zaufania do Boga, który chce, by człowiek był szczęśliwy. Kościół potrzebuje również was, aby wypełnić swoją misję. Bądźcie ziarnami świętości szczodrze rzucanymi w bruzdy historii. Otwarci na bezinteresowne i skuteczne działanie Ducha Pańskiego, który kieruje ludzkimi dziejami, przynoście owoc autentycznej wiary, pisząc waszym życiem i waszym świadectwem przypowieści o nadziei, pisząc je dziełami podyktowanymi «wyobraźnią miłosierdzia» (Jan Paweł II, List apostolski Novo millennio ineunte, 50). “Venite da diversi Paesi, diverse sono le situazioni culturali, politiche ed anche religiose in cui vivete, lavorate, invecchiate. In tutte siate cercatori della Verità, dell’umana rivelazione di Dio nella vita. È, lo sappiamo, una strada lunga, il cui presente è inquieto, ma il cui esito è sicuro. Annunciate la bellezza di Dio e della sua creazione. Sull’esempio di Cristo, siate obbedienti all’amore, uomini e donne di mitezza e misericordia, capaci di percorrere le strade del mondo facendo solo del bene. Le vostre siano vite che pongono al centro le Beatitudini, contraddicendo la logica umana, per esprimere un’incondizionata fiducia in Dio che vuole l’uomo felice. La Chiesa ha bisogno anche di voi per dare completezza alla sua missione. Siate seme di santità gettato a piene mani nei solchi della storia. Radicati nell’azione gratuita ed efficace con cui lo Spirito del Signore sta guidando le vicende umane, possiate dare frutti di fede genuina, scrivendo con la vostra vita e con la vostra testimonianza parabole di speranza, scrivendole con le opere suggerite dalla “fantasia della carità” (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 50)” (Benedetto XVI, 3.02.2007). Przytoczyłam te słowa Papieża Benedykta XVI z 2007 roku, gdyż były one źródłem inspiracji dla tematu Kongresu, który rozpoczynamy, a który brzmi: In ascolto di Dio „nei solchi della storia”: la secolarita parla alla consacrazione. To moje wprowadzenie do Kongresu i tematyki Kongresu przedstawię w dwóch częściach. W pierwszej przybliżę, a niektórym przypomnę statystykę instytutów świeckich. Skorzystam tutaj z opracowania przygotowanego przez Kongregację Instytutów Życia Konsekrowanego i Stowarzyszeń Życia Apostolskiego z Sequela Christi z 2011 r. W drugiej spróbuję wprowadzić w tematykę Kongresu, a którą przywołałam przed chwilą 1. [STATYSTYKA] 2. Wprowadzenie w tematykę Kongresu Warto przyjrzeć się w jakim kontekście eklezjalnym odbywa się aktualny, IX. Międzynarodowy Kongres IS, jak również następująca po nim XI Assemblea generale. Wkrótce - od 7. do 28. października - odbędzie się XIII Zwyczajne zgromadzenie ogólne synodu biskupów, które podejmie temat Nowa ewangelizacja dla przekazu wiary chrześcijańskiej. W trakcie trwania Synodu, 11. października, rozpocznie się Rok Wiary ogłoszony przez Papieża Benedykta XVI dla upamiętnienia 50. rocznicy otwarcia Soboru Powszechnego Watykańskiego II i 20. rocznicy opublikowania Katechizmu Kościoła Katolickiego. Tematyka naszego Kongresu wpisuje się w te wydarzenia, które podkreślają prymat wiary w życiu każdego chrześcijanina, przeżywany i realizowany w miejscach życia i pracy. Zaprasza to do zatrzymania się nad pytaniem o stan naszej wiary, o to jak w dzisiejszym świecie być świadkiem Ewangelii oraz do wsłuchania się z uwagą i troską, a nawet z pewną fascynacją w to wszystko, co przez ten „dzisiejszy” świat mówi do nas Bóg. Do takiej refleksji w klimacie troski o wiarę i otwartości na świat stworzony i odkupiony przez Miłość zaprasza nas również Asyż, miejsce, gdzie się urodził i gdzie oczekuje na zmartwychwstanie św. Franciszek, który swoim życiem wniósł i wciąż wnosi do Kościoła i społeczeństwa świeży powiew Ewangelii. Prymat wiary Musimy sobie zadać pytanie o to, dlaczego jesteśmy w świecie? Dlaczego ten aspekt naszego życia jest jednym z istotnych elementów naszego powołania? Pytamy o to nie dlatego, że istniejąc tu na ziemi nie mamy innego wyjścia, ale dlatego, że świat i bycie w nim są dla nas wartością i zadaniem. Papież Benedykt XVI w Motu Proprio Porta fidei (6) wskazał m.in. na zadanie chrześcijanina: „chrześcijanie są faktycznie powołani, aby przez samo swoje istnienie w świecie ukazywali blask Słowa prawdy, jakie pozostawił nam Pan Jezus”. Stąd, można powiedzieć, że nie ma innego powodu bycia w świecie, pośrodku świata jak ten, by stale i na nowo, coraz pełniej „nawracać się do Pana, jedynego Zbawiciela świata” (ibid, 7). Rodzi to kolejne pytania dla naszej refleksji - jak więc - w kontekście prymatu wiary - ma wyglądać nasza konsekracja pośrodku świata? Przyjmujemy, że na wzór Chrystusa, który został posłany przez Ojca, aby świat zbawić (por J 3, 16). Temat konsekracji Jezusa w świecie i dla świata podejmie w pierwszym wykładzie włoski teolog, prof. Paolo Gamberini SJ. My spróbujmy natomiast zastanowić się przez chwilę nad konkretnym sposobem bycia w świecie. Naszą refleksję otwiera pytanie: Świat chrześcijański czy chrześcijanin w świecie? Rozróżnienie pomiędzy koncepcją Kościoła, który wkłada wysiłek w budowanie świata chrześcijańskiego a Kościoła, który skupia się na tym, aby w tym świecie byli obecni autentyczni, święci chrześcijanie nie jest grą językową czy też teoretycznym ćwiczeniem. Odpowiedź na pytanie, jaką koncepcję przyjmujemy za własną i w jaką się angażujemy, całkowicie zmienia sposób istnienia Kościoła w dzisiejszym świecie i ma istotne konsekwencje dla naszego powołania świeckich konsekrowanych. Chrześcijański świat próbowano budować w Europie przez kilkanaście stuleci. Początkiem tego procesu był edykt mediolański, w którym uznano chrześcijaństwo za religię 2 panującą/obowiązującą na terenie cesarstwa rzymskiego. Ta tendencja łącząca religię z władzą, swoistego rodzaju sojusz pomiędzy tronem a ołtarzem wydawała się wtedy oczywista: przecież zbawienie jest najwyższym dobrem, zatem należało zrobić wszystko, aby każdy mógł go dostąpić. Swoistym owocem takiego myślenia była panująca przez wieki w wielu europejskich krajach zasada – cuius regio eius religio. Istnienie poza Kościołem było równoznaczne z istnieniem poza społecznością lokalną, a były też miejsca i okresy, kiedy władza świecka stała na straży zasad głoszonych przez Kościół i pilnowała wcielanie ich w życie przez poddanych. Innymi słowy, niekwestionowaną praktyką było coś podobnego, co dzieje się w wielu dzisiejszych krajach islamskich. Święte pragnienie powszechnego zbawienia w połączeniu z mniej świętym pragnieniem a nawet postulatem, by norm i zasad kościelnych, strzegło prawo państwowe, pragnienie budowania świata chrześcijańskiego jest nadal obecne – i nie przynależy jedynie do danej kultury, kontynentu, czy poszczególnej grupy w Kościele. Niejednokrotnie przechodzi także w poprzek naszych pragnień, gdyż w samej swojej istocie jawi się dobre, ponieważ jest ściśle złączone z pragnieniem zbawienia, czyli najwyższego dobra dla drugiego, dla społeczeństwa, narodu… Wydaje się jednak, że czasami następuje pomieszanie pomiędzy celem a metodą. Nie tylko chcemy (na siłę) wszystkich zbawić, ale jeszcze dokonujemy tego w ten jeden, według nas, najlepszy sposób. Przestaje być ważne czego pragnie ten konkretny człowiek – to my wiemy lepiej czego mu potrzeba – on jest przecież zagubiony i nie wie co jest dla niego dobre. Trzeba mu o tym nie tylko powiedzieć, ale tak zorganizować życie w ziemskiej ojczyźnie, by nie miał możliwości pobłądzić. Niejednokrotnie przyjmujemy postawę rodzica wobec bardzo małego dziecka lub opiekuna wobec osoby o ograniczonej poczytalności, zapominając, że mamy przed sobą osobę dorosłą, świadomą siebie. Osobę, która ma własny czas i proces dojrzewania – nieraz różny od naszego. Bóg w swej cierpliwej, miłości czeka, a my? Tym, co próbujemy narzucać również wewnątrz wspólnoty Kościoła jest też nieraz zestaw praktyk modlitewnych, bardzo sztywno określony sposób formacji, itp. w naszych instytutach. Może to również być spis zachowań, „jedynie słusznych” zasad moralnospołecznych, które mają obowiązywać wszystkich, niezależnie od tego, czy deklarują się jako wierzący, a których staramy się wymagać (werbalnie lub też nie) w naszych środowiskach pracy czy otoczeniu społecznym. Tak rozumiana i realizowana koncepcja świata chrześcijańskiego gubi osobę, jej wolność i jej osobistą relację z Bogiem. Sam fakt przynależności do grupy chrześcijańskiej, a nawet instytutu świeckiego, zachowywanie zasad, odmawianie kolejnych modlitw nie czyni nikogo chrześcijaninem, czyni go jedynie członkiem danej grupy społecznej o określonych zasadach, normach, praktykach i strukturze. Tym, co sprawia, że jesteśmy czy też stajemy się chrześcijanami jest realna więź z Chrystusem podejmowana i pogłębiana każdego dnia na nowo. To ona buduje tożsamość chrześcijańską, która z kolei generuje konkretne chrześcijańskie postawy, które można sprowadzić do wspólnego mianownika - do realizacji przykazania miłości. Nie jest więc celem wkładanie wysiłku w to, aby prawo we wszystkich jego przejawach wokół mnie było „chrześcijańskie”, aby mnie i innym pomagało zachowywać wartości ewangeliczne. Chodzi o to, abyśmy my, ludzie wierzący, a już tym bardziej my – jako członkowie instytutów świeckich byli chrześcijanami. To chrześcijanin przestrzega zasad wynikających z Ewangelii, 3 żyje nimi we wspólnocie i świadczy o nich w społeczeństwie, gdyż są dla niego wartością, gdyż pragnie naśladować Chrystusa, być z Nim blisko. Oczywiście, chrześcijanin pragnie pociągnąć do naśladowania Chrystusa wszystkich, ale czyni to tak, jak sam Jezus czynił – „jeśli chcesz…”, „przyjdź i zobacz…”. Jest rzeczą znamienną, że Benedykt XVI 28 sierpnia 2011 r., w homilii do uczestników spotkania kręgu jego byłych studentów (doktorantów), podczas którego głównym tematem refleksji była nowa ewangelizacja uznał za konieczne dawanie jasnego świadectwa wierze, promieniowanie wiarą. A dawanie świadectwa wierze zaczyna się nie od mówienia, nie od głoszenia, ale od słuchania i zrozumienia sytuacji współczesnego człowieka w świecie, jego języka i poszukiwań, jego głodu Boga i sposobu, w jaki ten głód się wyraża. Nie ma słuchania bez zwrócenia się z uwagą ku człowiekowi, ku światu, bez wejścia – na wzór Wcielenia – w ten świat, by dzielić z nim wszystko, co ludzkie, oprócz grzechu, by dzielić jego troski i nadzieje. A to niesie za sobą napięcie. O powołaniu chrześcijanina w świecie, stałym napięciu wpisanym w bycie chrześcijaninem/chrześcijanką będzie mówiła niemiecki filozof religii prof. Hanna Barbara Gerl-Falkovitz. Jeśli nie chrześcijański świat, to jak podejmować wezwania nowej ewangelizacji? Jak nieść Ewangelię do świata który jest miejscem realizacji naszego powołania? Człowiek, drogą Kościoła Najprostszą odpowiedzią wydaje mi się odpowiedź Dana przez bł. Jana Pawła II w jego pierwszej encyklice, Redemptor hominis, a mianowicie to, iż drogą Kościoła jest człowiek. Zarówno ten, który – jak starszy brat z przypowieści o synu marnotrawnym – jest zawsze przy Ojcu ale nie umie się cieszyć z powrotu brata, jak i ten młodszy, który poszedł szukać swoich dróg i potrzebował czasu, aby wrócić (por. Łk 15, 11-32). Jeden i drugi potrzebuje innej uwagi Ojca, innego traktowania, innej troski, innego towarzyszenia. W świecie chrześcijańskim, tak jak on był kształtowany nie znalazłoby się miejsce dla młodszego syna. Nawet wtedy, gdyby sam wrócił, zapłaciwszy gorzką cenę za swoje oddalenie. Wydaje się iż pozostałby człowiekiem na zawsze naznaczonym swoją historią odejścia i zagubienia. Nasze powołanie kieruje nas do tych właśnie ludzi znajdujących się poza strukturami Kościoła; wskazuje nam miejsca spotkania „na dziedzińcach pogan”. Przypomina o tym dość często Papież Benedykt XVI, a promuje kard. Gianfranco Ravasi, przewodniczący Papieskiej Rady ds. Kultury. Czasami wydaje nam się, iż Kościół w swoim hierarchicznym wymiarze, będąc zwrócony ku ekspansywnym i bardzo dynamicznym ruchom eklezjalnym czy nowym wspólnotom, jakby zapomniał, albo niedocenia instytutów świeckich. Wydaje się, że to inny sposób ewangelizowania czy wychodzenia na drogi świata by głosić Chrystusa jest „na topie”, bo przyciąga - jak się wydaje – to, co jest spektakularne, co jest oceniane jako sukces w wymiarze oddziaływania. Powinniśmy się cieszyć, że Pan Bóg w historii wzbudza różne charyzmaty, których celem jest odnowa Kościoła. Do nas należy wierność naszemu powołaniu zanurzonemu w tajemnicy Wcielenia. Zrobię krótką osobistą dygresję. W lutym br. uczestniczyłam w międzynarodowym sympozjum Verso la guarigione e rinnovamento, a 4 dotyczącym nadużyć seksualnych w Kościele. Jednym z głęboko przeżyciowych momentów było nabożeństwo pokutne za grzechy nadużyć wobec ofiar. Rozpoczęło się ono od kontemplacji tajemnicy Wcielenia. W ciemnym Kościele Św. Ignacego w Rzymie, przy pięknej muzyce pokazywane były slajdy - piękno świata, stworzenia i kolejno destrukcja: wojny, krzywda, ból, cierpienie. Spojrzenie na pełen napięć świat, które było zaproszeniem do wejścia w perspektywę Trójcy Św., zakończyło się posłaniem Jezusa do świata, który Bóg tak bardzo umiłował. Można powiedzieć, że takie jest źródło określające nasz sposób życia, gdy mówimy za Izajaszem „oto ja, poślij mnie”, poślij w to lub inne miejsce, aby, po prostu, być tam chrześcijaninem, człowiekiem naśladującym Chrystusa. To nasza droga, by przyjmować świat nie jako zagrożenie do przezwyciężenia, ale jako miejsce chrześcijańskiego świadectwa, by „pytać” co świeckość świata mówi naszej konsekracji. Przyjmowanie świata rozumianego pozytywnie, jako miejsce świadectwa, wynika z przyjęcia ewangelicznej prawdy, że Królestwo Boże nie jest z tego świata, że do miejsca, gdzie ujrzymy Boga twarzą w twarz dopiero zmierzamy. Królestwo i królowanie Boże nie jest utopią do zrealizowania tu na ziemi. Ta perspektywa eschatologiczna pozwala zobaczyć, że czasy w których żyjemy nie są jakimś specjalnym zagrożeniem dla chrześcijaństwa, nie są zagrożeniem dla Kościoła, ale są dla niego wyzwaniem, szansą, próbą wiary i wierności swemu Mistrzowi i Panu. Jeśli więc są wyzwaniem, szansą to warto wsłuchać się w to, co świat do nas mówi. Jakie stawia przed nami wyzwania, czego nas uczy. W wystąpieniach przedstawicieli instytutów świeckich zostanie podjęta próba przyjrzenia się czterem tematom, które wydawały się nam istotne. Są to: nowy model świętości, który przedstawi abp Gerald Cyprien Lacroix, prymas Kanady; co znaczy być świeckim w Kościele - …… z Francji, nowe modele komunikacji – Ivan Netto z Indii oraz jak zmienia się powołanie, gdy zmienia się świat – Paola Grignolo z Włoch. Tytułem zakończenia Powiedział ktoś, że „Proroctwo nie jest odejściem od rzeczywistości ku mistycznemu i sakralnemu niebu, ku mitycznej przyszłości odtwarzającej iluzje ideologii. Proroctwo, jak nauczają prorocy biblijni, to wierność wobec historii przy równoczesnym oparciu stóp na ziemskich drogach, nawet jeśliby się miały zakurzyć. Proroctwo to pozostanie dziećmi własnej epoki, społeczeństwa, kultury, w której się jest zanurzonym, ale po to, by stać się rodzicielami nowego pokolenia nie zauroczonego chwilą, ale nie dlatego, że nie dostosowanego lub zbuntowanego, lecz dlatego, że zdolnego do jej ponownego tworzenia. Wcielenie, które jest sercem chrześcijaństwa, to krzyż osadzony w glebie historii po to, aby odbudować pęknięcie miedzy transcendencją i immanencją, miedzy czasem i wiecznością, między przestrzenią a nieskończonością i nawiązać w ten sposób nowe spotkanie miedzy człowiekiem a Bogiem (s.112)”. 5 Życzę więc każdemu z nas stawania się prorokiem – dzieckiem własnej epoki, który staje się rodzicem nowego pokolenia. 6 LA CONSACRAZIONE DI GESÙ L'italiano «sacro» deriva dal latino sacer, la cui radice pare collegabile all'accadico saqàru ("sbarrare, interdire"). In greco, la costellazione dei significati ruota attorno ai termini di &ytO<; (grandezza, trascendenza e separatezza del divino). tep6<; (uomini o oggetti segnati in modo privilegiato dall'influenza divina). La loro radice indoeuropea sa c, sak sag significa attaccare, aderire, avvincere. Ne scaturisce il senso di una realtà avvinta, legata alla divinità. L'etimologia suggerisce che il termine può concorrere a definire un luogo, un oggetto, un ruolo (sacerdote) o un atto ritualizzato (sacrificio, consacrazione) che sono «sacri» in quanto dicono ad un tempo inclusione/unione e esclusione/separazione. Il sacro quindi unisce e separa. Nella parola «consacrazione» compare la parola «sacro»: «consacrazione» significa infatti rendere sacro, unire una data realtà profana alla sfera di ciò che è «sacro». Tale senso compare anche in un'altra parola collegata sempre a questa sfera del sacro che è il sacrificio: sacrum facere, rendere sacro una data realtà attraverso la sua eliminazione o annientamento perché renda possibile una comunione con la divinità e la sfera del sacro. I termini sacro, consacrare, sacrificio, sacerdozio, sace/lo esprimono tutti la medesima dinamica . Nella consacrazione viene connesso, più o meno intimamente, con la sfera della divinità, con il suo mistero, una realtà non-sacra che chiamiamo profana (' ciò che sta davanti al fanum ovvero al tempio). Il sacro è una struttura essenziale della reIigiosità, dal momento che l'esperienza umana di Dio è necessariamente mediata, costretta cioè a passare attraverso qualcosa che non è Dio, e questo qualcosa diventa, perciò, evocatore del divino, diventa, appunto, sacro, diverso, separato dall'uso profano, oggetto di rispetto, venerazione e timore. Per entrare in contatto con il divino l'uomo ritaglia dalla vita - cioè dal mondo profano - gesti, persone, spazi e tempi, e li carica di valenza simbolica, considerandoli il luogo privilegiato dell'incontro con il divino. Si forma cosÌ l'ambito del sacro, che troviamo in tutte le religioni. L'uomo considera «sacro» il luogo, il tenpo e la persona dove avviene la sua esperienza del divino. A motivo di ques1 a mediazione simbolica, la realtà che viene scelta per mediare il divino è a'. esso assimilato e diventa anch'essa oggetto di riverenza e di venerazione (co ltrapposto in genere a profano). Il sacro ha a che fare in modo s Jeciale con la religione. Preferendo il significato dato da Lattanzio (cf Divina, Institutiones, IV, 28). La religione ci parla di un legame stretto (il religare) tra uomo e Dio. Nel predisporre la grammatica del religare (legare uomo e Dio, e gli uomini in una comunità di fede) il sacro ordina e predispone le l agioni del separare e del togliere via. Separare e «tollere» (togliere): chi non ( Jndivide la dimensione del sacro a cui una comunità fa riferimento, resta se )arato da quella comunità. Regole e comportamenti di «purità» ed «impurità> esprimono la grammatica del sacro. Nell'ambito della filosofia della r delle scienze bibliche e della teologia designato tutto ciò che è si~ ~ligione, della scienza delle religioni, cematica, con il termine «sacro» viene venerato dall'uomo come indisponibile, sperimentato come potenza dalla quale gli uomini sono totalmente dipendenti. Le esperienze religiose del sacro possono assumere le forme più disparate, ma si riassumono prevalentemente in due forme opposte: il sacro può essere percepito in maniera sconvolgente e imprevedibile (tremendum), espresso nelle testimonianze bibliche soprattutto nei racconti delle teofanie, dove lo spavento improvviso e le illuminazioni folgoranti rivelano l'spetto numinoso del divino, presente in particolare nell'esperienza della morte; 2 oppure sperimentato in maniera attraente e coinvolgente (fascinans) come nel vento e nell'esperienza dell'amore 1. Questa duplicità dell'esperienza del sacro è presente anche nella rivelazione biblica. Da un lato la santità d' Dio, con i suoi attributi di trascendenza, ineffabilità e indisponibilità, fa sì che l'uomo sia mosso con timore e tremore nei suoi confronti in quanto Gli è lontano e distante. Dall'altro lato questa stessa santità si comuni a a ciò che non è divino - al profeta, al consacrato, all'uomo in generale - c In misericordia, perdonandogli la colpa, e questi si sente attratto amorevolmente verso di Lui. Troviamo presente questa duplice esperienza tanto nell'Antico quanto nel Nuovo Testamento, benché va constatato che l'e~ :Jerienza che Gesù fa del sacro costituisca un decisivo superamento della sua latente ambiguità. Questa novità non è stata sempre in modo cons qU€llziale riconosciuta ed assunta dai testi neotestamentari e tantomeno è div nuta p,'assi ecclesiale. Nel Nuovo Testamento, infatti, rit-oviam J ancora le due caratteristiche fondamentali della rivelazione di Dio dell' Antico Testamento: da un Iato il Dio dalla volontà incomprensibile e terribile, che troneggia in una luce inaccessibile (Eb 10,31; lPt 5,6; 1 Tm 6,16), punitivo, vendicativo, supremo difensore e giustiziere; mentre da un altro lato il Dio-Abbà, donatore di vita, di perdono e amore che non più ama i buoni e punisce i cattivi, ma ama tutti, perché tutti sono ugualmente sue creature (Mt 5,45): un'immagine di Dio che scandalizza il mondo religioso di Gesù. L'esperienza singolare che Gesù fa di Dio si situa all'apice sia dell'Antico che del Nuovo Testamento. In lui il sacro viene ridefinito e liberato dalla sua ambiguità: le realtà fondamentali della religione ebraica, ma di qualsiasi religione in quanto tale, quali il sacrificio e la comprensione di ciò che è sacro --------------.--- Cf R. Ono, Il sacro. L'irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, l Mi lano 1966. 3 vengono interrotte e rivissute da Gesù a partire dalla sua consacrazione. Voglio dunque ripercorre i punti centrali di questo percorso cristologico: il battesimo, il ministero prepasquale e la passione-morte. 1. Il battesimo I Vangeli narrano questo evento nella vita di Gesù nella forma di un midrash cristiano, un genere letterario tipico dell'Antico Testamento, che ci dà un'interpretazione dell'identità di Gesù. Tale midrash ha la funzione di rispondere all'imbarazzo dei primi cristiani che vedevano nel battesimo al Giordano una subordinazione di Gesù al Battista e la costatazione che Gesù aveva avuto bisogno anche lui di perdono e di conversione. Ci potremmo chiedere, come mai Gesù abbia deciso di farsi battezzare da Giovanni. È ragionevole affermare prima di tutto che Gesù era rimasto colpito dall'annuncio del Battista e dall'invito alla penitenza e conversione per il perdono dei peccati. Dobbiamo vedere a questo punto, se il battesimo di Gesù, in quanto battesimo di penitenza, implica che Gesù abbia avuto motivi per pentirsi. Se così fosse, ciò significherebbe che Gesù aveva coscienza del proprio peccato. Il gesto di Gesù rivela il modo con cui Dio sceglie di essere in mezzo agli uomini: dell'essere-con. Gesù non si limita a chinarsi sui peccatori: è con loro. Proprio poiché è senza peccato, la sua solidarietà con l'umanità peccatrice è totale 2• Gesù, proprio perché «è con» i peccatori, vive dal di dentro, senza commetterlo, il loro peccato. Gesù può prendere su di sé il peccato, poiché è senza peccato. Ciò significa che la solidarietà di Gesù con il peccatore è tale da identificarlo come peccatore (cf 2Cor 5,21). Il battesimo di Gesù è paradigmatico, poiché ci aiuta a comprendere quali sono gli elementi costitutivi della sua consacrazione. 2 CfF. VARILLON, L'umiltà di Dio, Eizioni Qiqajon, Magnano (BI) 1999, 146- 147. 4 La "consacrazione" mira ad unire una data realtà profana alla sfera di ciò che è "sacro", essendo esclusione/separazione e questa di Uila dinamica inclusi me/unione. fenomenologica del battesimo di Gesù j ad Già un dalla tempo di ricognizione rendiamo conto che è assente il momento di esclusione/separazione. -;esù si identifica con i peccatori: piena solidarietà con quella realtà profan , anzi dis-sacrante, che è il mondo del peccato e dell'impuro. Gesù è "con i peccatori" in modo non religioso. Non c'è rifiuto del mondo dei pr\ccatori rr a un profondo farsi prossimo e solidale. L'apertura dei cidi nella scena del battesimo (cf Matteo e Luca) e la discesa dello Spirito ind: cano il movimento di identificazione che la sfera del sacro pone con Colui cht. è a sua volta identificato con i peccatori. «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento"» (Lc 3,21-22). In questa teofania battesimale l'evangelista ci rivela che il nucleo profondo dell'esperienza religiosa di Gesù non è tanto una decisione o un comando, ma sentirsi originati da un amore precedente e ricevuto. 2. La consacrazione prepasquale Per un certo periodo Gesù non solo battezzava, ma anche predicava lo stesso annuncio di Giovanni, incluso il messaggio sociale. Ad un certo punto, tuttavia, è successo qualcosa che spinse e motivò Gesù a lasciare Giovanni. Gesù cessò di battezzare e di annunciare l'imminente giorno di giudizio. Cosa mai gli ha fatto cambiare idea tanto da dover parlare di una radicale conversione di Gesù? Infatti ad un certo punto i Vangeli testimoniano che Gesù aveva il proprio messaggio e definiva se stesso in contrasto con Giovanni. 5 Succede qualcosa per cui ad un certo punto Gesù smette di battezzare, di digiunare, di svolgere la preghiera rituale. Questi atteggiamenti nuovi in Gesù di Nazaret balzano subito all'occhio tra la gente di Galilea (cf Mt 9,14-15; 11,18-19; Lc 11,1). Da uno stile di vita ascetico, incentrato sull'annuncio dell'imminente ira di Dio, Gesù annuncia che il Regno di Dio è ormai giunto. Il testo evangelico che mostra questo radicale cambiamento è il testo di Lc 11,20 (Mt 12,28). «Se invece scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il Regno di Dio». Gesù era conscio che dove lo Spirito operava lì faceva irruzione il Regno di Dio. Il Vangelo apocrifo di Tommaso afferma questo chiaramente: «Gesù disse: colui che è vicino a me è vicino al fuoco, e chi è lontano da me è lontano dal Regno» (VgTom 82). È agli inizi del suo ministero che Gesù prende consapevolezza della sua consacrazione. «Si dimentica spesso che l'espressione "Gesù Cristo", nella quale fin dalle origini i cristiani hanno racchiuso la loro fede, significa "Gesù il consacrato". Lui stesso si è cosÌ definito nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,16ss), citando un passo del profeta saia (61,1-2): "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato e mi ha mandato ad annunziare la lieta notizia ai poveri»"3. L'esperienza dello Spirito, operante in lui, ha comportato un cambiamento cosÌ radicale nella vita di Gesù che da questi viene spinto fino agli ultimi membri della società. I malati, i peccatori e gli indemoniati sono i diretti destinatari del Regno. Questo Gesù lo impara dalla sua esperienza e dal suo ministero. Gesù attende la venuta del Regno di Dio e non più la venuta di un battezzatore messianico. Se il battesimo di Gesù al Giordano costituisce la svolta dalla vita privata di Gesù a quella pubblica, il ministero di guarigione e di esorcismo costituisce invece la svolta radicale nella vita pubblica di Gesù. La domanda che Giovanni rivolge a Gesù mostra chiaramente la differenza tra il modo con cui il Battista attendeva il Regno escatologico e l'esperienza di 3 B. MAGGIONI, «Gesù il consacrato», in Vita Consacrata 46 (20] 0),389-395, ivi 389. 6 Gesù. Ciò che Gesù compie e dice, purtroppo, non rientra totalmente nello schema del Battista; egli si aspettava il battezzatore messianico, invece ha ora qualcuno che è amico dei pubblicani e dei peccatori. Perché continuare a battezzare la gente per il perdono dei peccati, cosicché possono fuggire all'ira imminente, quando i malati, i poveri e i peccatori sono visitati direttamente dalla misericordia di Dio senza la venuta dell'ira di Dio? L'attenzione non è più rivolta all'uomo che fa penitenza, ma all'amore di Dio che usa misericordia e risana la sua creatura. L'avvento del Regno non è legato solo alla sua opera taumaturgica, ai miracoli e alle parole di Gesù: al centro c'è la sua persona. Chiunque incontrava questo Gesù, si trovava faccia a faccia con il Dio di Abramo, d'lsacco e di Giacobbe. «Per i contemporanei di Gesù l'incontro con lui era un invito all'incontro personale col Dio vivente, poiché quell'uomo era personalmente il Figlio di Dio. L'incontro umano con Gesù è il sacramento dell'incontro con Dio»4. L'esperienza di Gesù, in questo senso, è la realizzazione suprema e, perciò stesso, sorgente o norma di ogni incontro con Dio. Nei gesti e nelle parole di Gesù di Nazaret si è talmente vicini al Regno di Dio, che incontrando Gesù si fa esperienza di Dio stesso. «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi» (Cv 15,9). Gesù si comprende totalmente a partire dall'amore di Dio e a partire da questo amore propriamente eksiste. Quanto più Dio Padre si fa prossimo di Gesù di Nazaret, tanto più l'essere di Gesù si svuota per far spazio alla L'espressione di Giovanni (1,18) ~U(nÀcla. «o wv Eiç rròv K6A710V rroD 71urrQòç» indica un moto a luogo (Eiç rròv K6A710V): si tratta di un restare dinamico nel seno del Padre. Il suo essere uomo consisteva nella libertà di non voler essere nulla per sé. «Gesù è un uomo unificato, totalmente incamminato in una sola direzione. Ha un solo interesse, non tanti. Ha una sola parola da dire, non molte [ ...] Gesù è una 4 E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento dell'incontro con Dio, 29. 7 persona unificata, sempre volta al centro, e di quel centro parla, non di altro»5. L'essere di quest'uomo era piuttosto l'evento di una dimenticanza di sé che supera qualsiasi attenzione per sé. Nella sua radicale «proesistenza», Gesù rivela la modalità della sua consacrazione. È l'unto di Dio, ovvero il «testimone fedele», poiché Gesù rende visibile il Dio ineffabile ed invisibile. «Se rendo testimonianza a me stesso la mia testimonianza non vale. Un altro rende testimonianza, e vale» (Gv 5,31); «Sì io rendo testimonianza a me stesso, tuttavia la mia testimonianza vale, perché io so da dove sono venuto e dove vado» (Gv 8,14). La differenza tra i profeti dell'AT e Gesù di Nazaret consiste nel fatto che quest'ultimo è il «testimone fedele» (cf Ap 1,5), il rivelatore di Dio: «il volgersi di Gesù al mondo non è soltanto la conseguenza del suo volgersi a Dio, ma la sua continuazione, la sua visibile trasparenza»6. L'essere tale non trasgredisce la struttura rivelatrice della rivelazione biblica. Gesù non si sostituisce a Dio; non si pone accanto a Dio e non si pone al posto di Dio, usurpando ne la dignità: Gesù rivela l' origine dell'Amore del Padre e proprio in questo "è" Figlio. Gesù non dà testimonianza di se stesso, se non lasciando che sia Dio Padre ad amare per lui e attraverso di lui. «Se [Gesù] ha accolto pubblicani e peccatori, è perché voleva in tal modo svelare chi è Dio (Lc 15): non soltanto un gesto di salvezza in favore dei peccatori, ma ancor prima, e più profondamente, un gesto di rivelazione»7. Quando Gesù pronuncia «lo sono» non vuole altro che manifestare Colui che l'ha mandato: il Padre. «Quando dunque Gesù pronuncia l'tyw Ei~L, non rivela innanzitutto se stesso, ma il Padre (cf Gv 8,24s)>>8. Ciò che è detto del dire e del fare di Gesù - «io non faccio nulla da B. MAGGIONI, «Gesù il consacrato», 395. Ib., 391. 7 Ib., 390. 8 H. ZIMMERMANN, <,Das absolute . Erro l>Ìllt als neutestamentliche Offenbarungsformel», in Biblische Zeitschrift 4 (1960), 270. 5 6 8 me stesso; io non dico nulla da me stesso, ma come il Padre mi ha insegnato e come fa il Padre, così io parlo e agisco» - vale ancor più per l'essere di Gesù: «lo sono» in quanto relazionato al Padre (TIpÒç TÒV 9EOV). 3. Consacrazione come apertura all'altro La nota caratteristica e la minima base storica dell'autentica tradizione sul Gesù prepasquale ci attestano che Gesù ha avuto un amore preferenziale per tutti coloro che si trovavano ai margini della società del suo tempo: i malati e gli indemoniati, i pubblicani e le prostitute, i piccoli e i poveri. Anzi Gesù è aperto all'altro anche in termini di cultura e religione: cioè al pagano. In alcuni incontri (cfr Mc 5,1-20; Mc 7,24-30; Lc 17, 11-19) Gesù oltrepassa il proprio limite confessionale e missionario (non-ebreo) e si lascia guidare nella comprensione del Regno di Dio da chi è al di fuori del popolo eletto. «In queste brani Gesù si mostra come qualcuno che è capace di oltrepassare confini e di costruire ponti»9. È interessante notare, a proposito, il ruolo dei Samaritani nel disvelamento dell'identità di Gesù e di ciò che è la vera fede. L'apertura di Gesù verso l'altro è maggiormente evidente nei confronti di coloro che erano i nemici di Dio: i peccatori. Gesù svuotò se stesso cosÌ totalmente verso costoro che definÌ se stesso in relazione ai peccatori. «Amico dei peccatori» (cf Mt 11,19). Offrendo il perdono senza farlo precedere dal pentimento, Gesù trasgredisce le esigenze morali imposte dalla Legge. L'azione di Gesù di mangiare con i peccatori simboleggia la priorità della misericordia di Dio (indicativo) sul giudizio e l'ira di Dio (imperativo). Gesù ha offerto ai pubblicani, alle prostitute e ai peccatori la partecipazione al Regno di Dio mentre essi erano ancora peccatori (cf Rom 5,8). In questa 9 W. LOGISTER, «Jesus Christ as Source of assertiveness and plurality», in Studies in interreligious dialogue, Il (200 l), 31. 9 condivisione della mensa, Gesù va ben oltre ad una semplice simpatia nei confronti di coloro che sono fuori da ogni relazione. Gesù realizza la sua consacrazione divenendo una cosa sola con il destino di chi è "altro" ed "altro-da Dio". Facendosi peccatore coi peccatori, pubblicano coi pubblicani, Gesù sottrae il peccatore e il pubblicano da ciò che costituisce l'essenza del peccato, cioè la non-relazione, l'isolamento infernale in cui l'uomo si trova. Gesù si è caricato di tutti coloro che vivevano nell'inferno e nella morte. «Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie» (Mt 8,17). Il Nuovo Testamento esprimerà questa identificazione di Gesù con l'altro con le espressioni: «peri emon» e «peri pollon». «Paolo chiama questo scambio con il nome di "riconciliazione" (katallage). Il termine greco contiene l'aggettivo alias (altro); riconciliazione significa dunque un diventar-altro»lO. Dio riconcilia gli uomini, fa comunione con l'uomo, divenendo uomo: divenendo altro. 4. La consegna di Gesù nella sua passione e morte Tutta l'esistenza di Gesù è stata un lasciarsi determinare fino in fondo dall'amore di Dio Padre: è Lui, l'Abbà, che gli determina vita così come la morte (cf Mt 26,38). Gesù sa di essere costituito dal Regno-che-viene, cioè è ben consapevole che la sua vita e la sua morte hanno il loro senso definitivo nella speranza escatologica. «Amen, io vi dico: non berrò più del frutto della vite fino a quel giorno in cui ne berrò di nuovo nel Regno di Dio» (Mc 14,25); «Infatti vi dico: ormai non berrò più del frutto della vite finché non venga il Regno di Dio» (Le 22,18). «La sua ferma fiducia include la disponibilità ad accogliere dalle mani di Dio questa morte»l1. Gesù è stato il «testimone fedele» poiché si è affidato totalmente e radicalmente all'amore di Dio Padre (cf Le 23,46). «Gesù, sapendo che lO Il W. KASPER, Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia 1975, 302. Ib.. 363. lO era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Cv 13,1). Nel Nuovo Testamento troviamo un verbo che collega in unità i Vangeli e la primitiva interpretazione della morte di Gesù elaborata dall'apostolo Paolo. Questo verbo permette di comprendere più intimamente in che cosa consiste il segreto della consacrazione di Gesù. Si tratta del verbo "consegnare" (nupmSuS6vm) 12. Il verbo "consegnare", in latino tltradere", trova in Mt 26,46-47 il significato di tradimento. Gesù è consegnato a Giuda; Giuda consegna Gesù ai Sommi sacerdoti (Mc 14,10) e agli scribi; questi lo consegnano a Pilato (Mt 27,1); Pilato consegna Gesù ai soldati (Mt 27,26); i soldati consegnano Gesù alla croce (Mt 27,31). Gli evangelisti sottolineano, però, che Gesù non è passivo in questa successione di mani: «il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Anche Marco, Luca e Giovanni sottolineano la libera e cosciente autodonazione di Gesù: «io offro la mia vita/ho il potere di offrirla» (Cv 10,17). In Gal 1,4; 2,20 e nei testi deuteropaolini Et 5,2.25; Tit 2,14 e lTim 2,6 è Cristo il soggetto che dona tutto ciò che ha ricevuto da Dio Padre (Mt 11,27). «Consegnò lo spirito» (Cv 19,30). Lo Spirito ricevuto al battesimo nel Giordano è ora consegnato al battesimo del Golgota. Gesù immerso nelle acque profonde della morte Gesù ne riemerge e «uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto"» (Mc 1,10-11). Ormai lo Spirito che scaturisce dalla morte di Gesù è effuso sopra ogni persona, «i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno» (Atti 2,17 -18). Donando se stesso "per noi" rivela il fine della sua consacrazione. Giovanni afferma all'inizio del suo Vangelo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da 12 M. HENGEL, Croc!fissione ed espiazione, Paideia Editrice, Brescia 1988, 181. II dare (fOWKEV) il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato (mxptowKEV) per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rom 8,31-32). 5. Consacrazione come sacrificio di Gesù La parola I/consacrazione" significa rendere sacro, unire una data realtà profana alla sfera di ciò che è I/sacro". Tale senso, dicevamo, compare anche nella parola I/sacrificio": sacrum facere, rendere sacro una data realtà attraverso la sua eliminazione o annientamento perché renda possibile una comunione con la divinità e la sfera del sacro. I termini consacrare, sacrificio e sacerdozio si richiamano a vicenda in questa dinamica. Questa terminologia di consacrazione permette a Gesù di tematizzare la sua donazione, specialmente attraverso i Canti del servo del Signore e la cena pasquale 13 • In particolare Is 53 ha avuto un ruolo effettivo nella comprensione che Gesù ha dato di tutta la sua vita, soprattutto a partire dal momento in cui ha sentito come imminente la possibilità di morire violentemente. Offrendo la sua vita per i molti, Gesù adempie l'essere-per, la proesistenza del Servo. Ritroviamo qui due categorie soteriologiche fondamentali che riprenderemo nel terzo punto: l'espiazione e la vicari età, in base al quale la consacrazione di Gesù rivela la sua definitiva dimensione dell'essere-per 14 • Nel segno del pane e del vino Gesù ha interpretato la propria morte. In questi simboli Gesù esprime il suo I/Eccomi": questo è il mio corpo' questo sono io-per-voi. 13 Cf J. GNILKA, Gesù di Nazaret, Paideia, Brescia 1993, 357-369; H. MERKLEIN, «Der Tod Jesu als stellvertretender Silhnetod», in Studien zu Jesus und Paulus, Mohr Siebeck, Tilbingen 1987, 181-191. 14 J. GNILKA, Gesù di Nazaret, 365. 12 Questa terminologia di consacrazione e di espiazione vicaria è ben espressa nella Lettera agli Ebrei (5,7-9; 9,11-14)15. A differenza del rito dell'espiazione, in cui era l'offerente che identificava se stesso con l'animale da sacrificare per trovare comunione con il Santo, nella consacrazione di Gesù, è Dio stesso che si identifica con Gesù di Nazaret (Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento) e questi con i peccatori consegnandosi a loro. In tale rovesciamento di dinamica si rivela la novità della consacrazione di Gesù. Non è più compresa né in una logica di "rito espiatorio", in cui il peccatore deve offrire sacrifici per ottenere il perdono dei peccati, né in una logica di "capro espiatorio", in cui l'innocente è la vittima dei peccatori. Come nel superamento del rito espiatorio non è il peccatore ma è Dio che si identifica con la vittima sacrificale, così nel superamento della dinamica del "capro espiatorio" non è il peccatore che scarica la propria morte sull'innocente - passivo e costretto dalla violenza del peccatore - ma è l'innocente che si consegna attivamente e liberamente. La consacrazione di Gesù porta con sé un potenziale rivoluzionario, poiché esprime una solidarietà vissuta fino alle estreme conseguenze, in quanto non è solo la semplice partecipazione alle altrui sofferenze, bensì l'assunzione del destino, della storia e dell'essere altrui. Ma questa solidarietà è vissuta nella dimenticanza di sé nelle mani di Dio Padre. Senza questa consegna nelle mani di Dio Padre non sarebbe stato possibile per Gesù stare al di fuori del cerchio diabolico della violenza religiosa che impone agli uomini sacrifici per ricongiungersi al Sacro. Gesù prende su di sé ciò che è loro (peccato/ morte) per donare ad essi ciò che è suo (perdono/ vita). «[Gesù] con uno Spirito eterno offrÌ se stesso senza macchia a Dio» (Eh 9,14). Gesù è consacrato, poiché è Colui che dona lo Spirito. Lo Spirito che ha ricevuto al battesimo nel Giordano è ora 15 Cf A VANHOYE- F. MANZI-U. VANNI, 11 sacerdozio della nuova alleanza, Ancora, Milano 1999; G. FULVIO, 11 giorno dell'espiazione nella Lettera agli Ebrei, Gregorian Press, Roma 2000. 13 consegnato al battesimo del Golgotha. Ormai lo Spirito che scaturisce dalla morte di Gesù è effuso sopra ogni persona per il perdono dei peccati (cf Gv 20,22). La consacrazione di Gesù ci sollecita a ridefinire il nostro concetto di sacro, rendendo ormai superflua ma ancor più contraddittoria ogni richiesta di sacrifici, a motivo dei sensi di colpa, per ristabilire la comunione con il Santo. «Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori» (Mt 9,13). Ormai il rapporto, la re-ligio, con il sacro non avviene più attraverso la negazione della vita, attraverso il rito di un sacrificio, ma nella riconoscenza del dono e la sua ridondanza. Il Signore non aspetta che gli uomini Gli offrano qualcosa, ma Egli stesso si è fatto dono per noi. Non sono più gli uomini che devono offrire a Dio, ma è Dio che si è offerto agli uomini, e Dio si offre donando la sua stessa capacità d'amare. Con le parole di San Ignazio di Loyola nella Contemplazione per ottenere l'amore al n. 234: «esamino con molto amore quanto Dio nostro Signore ha fatto per me e quanto mi ha dato di quello che ha; poi ancora quanto egli desidera darsi a me, in tutto quello che può, secondo la sua divina disposizione. Quindi rifletto su me stesso, considerando che cosa è ragionevole e giusto che io, da parte mia, offra e doni alla sua divina Maestà, cioè tutte le mie cose e me stesso con esse, come chi offre con molto amore e dice: Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: di tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta». 14 © Autorin Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz In der Welt, nicht von der Welt. Nachdenken über die bleibende Spannung, ein Christ zu sein 1. Zwei Welten: ein Zugang mit Hildegard von Bingen Wo Christus ist, kommt es zu einer Spannung. Sie kann leise vibrieren, sie kann aber auch in einem tödlichen Kampf auflodern, denn Christus hat nicht den Frieden, sondern das Schwert gebracht. Auf der einen Seite ist er – unhintergehbar - der Herr des Ganzen, aller Dinge, aller Menschen, aller Engel: „Durch Ihn ist alles geworden“ (Joh 1,3). So trägt alles seine Signatur, ist bis in den Grund von ihm getränkt. Aber andererseits kann sich das Ganze ihm verschließen, und zwar, was besonders furchtbar ist, durch eben die Kraft, die er selbst in die Schöpfung gelegt hat: den Selbstand, das Lebendig-Autonome, die Freiheit. Diese Kraft zum Selbstsein, die schon im Geschaffensein durch Ihn wirkt, die ausdrücklich im „Ebenbild“ sichtbar wird, kann sich unbegreiflicher Weise gegen ihn wenden. „Immer haben wir den Geschmack des Paradiesesapfels im Munde“ 1, sagt Hildegard von Bingen (1098-1179), den Geschmack der Empörung, der Selbstzerstörung. Diese große Benediktinerin, die im September dieses Jahres zur Kirchenlehrerin ernannt wird, hat einen tiefen Blick in die „zwei Welten“ getan, zwischen denen wir pendeln. Denn es gibt es zweierlei Welt: jene, die vom Logos geschaffen und sein „Eigentum“ ist (Joh 1,3), und jene, die sich aus ihrem Geliebtsein löst und selbst-eigen sein will (obwohl sie das letztlich nicht sein kann). Und hier verläuft das Drama Jesu, die dramatische Geschichte des Menschensohns, der an dieser Selbstverschließung seines „Eigentums“ zugrundegeht. Kennzeichnen wir mit den kraftvollen Worten Hildegards die Stelle, die Gott bei der Schöpfung nicht festlegen konnte und wollte: die Stelle, an welcher die Geschöpfe freiwillig ihren Ursprung anerkennen. Hier sitzt die Möglichkeit der Urwunde, und sie wird immer dort sitzen. Hätte Gott diese freie Zuneigung ausgeschlossen, so hätte er statt der Menschen (und Engel) Produkte, Imitate, Willenlose vor sich - wer läßt sich aber von Automaten lieben? Gerade weil Gott kein Sklavenhalter war, schuf er keine Sklaven. Wenigstens ein Blick mag in die Tiefe dieses verwickelten Problems leiten: Die wirklich souveräne Liebe, Seine Liebe, sehnt sich nach der Freiheit, dem Selbstsein des anderen - und das ist ihre Verletzlichkeit. Grenze nicht der Allmacht, sondern von innen aufgerichtete Grenze der Liebe. „Mit der Macht deiner überaus herrlichen Kraft überwältigst du niemand.“ 2 Hier liegt die offene Flanke, Gottes ebenso wie des Menschen: die Möglichkeit, die Urliebe zu verletzen, Widerstand gegen das Geliebtsein zu üben, die Gegenliebe zu verweigern. Statt Du und Ich zu sagen, sagt der Mensch (mit dem schwarzen Engel) nur Ich und Ich allein. Es gibt eine Stimme in uns: „Warum soll ich mich um etwas kümmern außer um mich selbst? (...) Was wäre das für ein Leben, wenn ich auf alle Stimmen der Freude und der Trauer antworten wollte? Ich, ich weiß nur von meiner eigenen Existenz.“ 3 Genau dies war der Fall des Lichtträgers und seiner Mitgeschöpfe, „die aus sich selbst etwas sein wollten. Denn als sie ihre großartige Herrlichkeit und glanzvolle Schönheit in funkelnder Fülle aufstrahlen sahen, 1 Hildegard von Bingen, Liber vitae meritorum (=LVM); Das Buch der Lebensverdienste, übers. u. erläutert v. Heinrich Schipperges, Salzburg 1972. 2 Hildegard von Bingen, Umarmt vom lebendigen Licht. Prophetische Worte und Gebete, hg. v. Maria-Assumpta Hönmann, Freiburg 1993 (= Licht), 113. 3 LVM. vergaßen sie ihres Schöpfers“. 4 In furchtbarer Wiederholung ist es auch der Fall des Menschen, „der sich anmaßend selbst das Gesetz gibt, so als ob er sein eigener Gott sei (...); dann tritt er in sich jene Liebe mit schmerzlicher Bitterkeit nieder“ 5. Aus der religiösen Sprache gelöst und alltäglich betrachtet ist darin getroffen die Vergessenheit des eigenen Ursprungs und die Krümmung auf sich selbst (curvatio animi nennt Augustinus die Sünde). Gerade die Kräfte, die uns gegeben sind, nämlich Stärke und Eigenstand, verlocken zur Trennung von ihrem Geber. „Als sie in ihrem eigenen Licht erwachten, haben sie mich vergessen.“ 6 Die Berauschung am eigenen Licht wird normalerweise gefaßt in den eher langweiligen und abstrakten Ausdruck einer Abkehr von Gott. Konkret spricht sich die unauslöschliche Wahrheit darin aus, daß wir nicht aus uns sind und daß jeder Versuch, aus uns zu sein, auf die Länge tödlich endet. „So ist die ganze Natur des Menschen verdreht oder verkrampft.“ 7 Unausrottbar ist der Verdacht, den Nietzsche am schärfsten - für so viele - in seine bösen Überlegungen faßte: Wo Gott ist, kann ich nicht sein. Und dieses Verwerfen Gottes zugunsten der eigenen Kraft ist die düstere Signatur des letzten Jahrhunderts. „Wie ja auch die Seele Selbstmord begeht, wenn sie nicht mehr Gott anzuhangen versucht.“ 8 So gibt es in der Schöpfung eine ungeschützte Flanke. Sie muß ungeschützt sein, weil Gott sie nicht absichern will, sonst würde er sein Geschöpf merkwürdigerweise beschädigen. Der Mensch selbst müßte sich - falls Gott ihm seinen Willen als etwas „Hilfreiches“ aufzwingen würde - gegen jedes Eingreifen verwahren. Damit ist ein harter und langer Kampf um die Wahrheit über uns selbst vonnöten. Wo liegt die wirkliche Quelle der Kraft? Wo schneidet man sich selbst von aller Kraft ab - was ja nur ein anderes Wort für Kastration ist? Ebenso wie die Gesellschaften kastriert sind, denen sich der Himmel geschlossen hat. „Wie sehr hat das Geschöpf nach dem Kuß des Schöpfers verlangt...“ 9 – und doch wehrt es sich dagegen. Betrachten wir dieses immer wirksame mysterium iniquitatis mit Hilfe auch der philosophischen Anthropologie. 2. Die Welt der Selbstliebe und der Gewalt Nach allen anthropologischen Befunden ist Aggression ein Grundtrieb. Das will sagen, daß – wie alle Triebe – auch dieser zur Erhaltung des Lebens notwendig ist: Sie ist Selbstmächtigkeit, Lebenskraft, durchaus sinnvolle Selbstbehauptung. Aber damit liegt auch eine dunkle Seite nahe: Selbstdurchsetzung auf Kosten anderer. Und Aggression dieser Art ist allem Lebendigen eingeschrieben, ob der Pflanze, die andere überwuchert, um genügend Licht zu haben, ob dem Tier, das ein schwächeres, auch seiner eigenen Art, vernichtet, ob dem Menschen, der sich schon von Kind auf gegen andere durchsetzen lernt. So gehört es zum Gesetz allen Daseins, daß es anderes verdrängt, von anderem zehrt, anderes um des eigenen Aufbaus willen unterwirft, sogar auslöscht. Religionen wissen es längst vor aller Tiefenpsychologie: Lebensgier und Angst, Schuld und Dasein sind in ihrer Tiefe unauflöslich miteinander verflochten. Augustinus, der große Kopf des frühen Christentums, hat dieses Verworrene „Erbsünde“ genannt: eine Auslegung des Daseins durch schlichtes Hinsehen. Arthur Schopenhauer sprach von einer „schweren Verschuldung des Menschengeschlechts durch sein Daseyn selbst“ 10, die gleichermaßen in 4 Hildegard von Bingen, Liber divinorum operum (=LDO), PL 197. Deutsch in: Hildegard von Bingen, Welt und Mensch. Das Buch ‚De operatione Dei’, übers. u. erläutert v. Heinrich Schipperges, Salzburg 1965 (=WM), 29. 5 Licht, 114. 6 Licht, 52. 7 Licht, 128. 8 LDO 908f; WM 194f. 9 Licht, 58. 10 Arthur Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung II, 4, 48. 2 Christentum, Brahmanismus und Buddhismus anzutreffen sei. Mittlerweile wird der Begriff Erbsünde scharf bekämpft. „Und doch sind wir ohne das dunkelste aller Geheimnisse uns selber das größte Rätsel“, meinte Pascal. Leben wütet gegen Leben, lebt von fremdem Tod. In dieses instinktive Gewebe ist jeder hineingeboren – kann dann diese naturwüchsige Aggression überhaupt bezwungen werden? Wie läßt sie sich konstruktiv in Lebenskraft umpolen? Um die Macht der Gewalt, aus der die „Welt“ lebt, deutlicher ins Auge zu fassen, ist das Geheimnis Leben, in welchem die Gewalt verankert ist, tiefer zu betrachten. 3. Das Doppelgesicht des Lebens Leben hat einen verwirrenden und zugleich unerschöpflichen Doppelcharakter 11: Einerseits ist es unvordenklich „gegeben“, nicht gewählt (auch nicht in seinen auferlegten Grenzen); andererseits ist es sich selbst gegeben und kann autonom gelebt werden. Leben als Gabe und Leben als Habe also. Und in letzterem liegt offenbar eine entscheidende Wurzel der Aggression: Leben als Eigentum gegen andere zu verteidigen, auszubauen, durchzusetzen, notfalls zu deren Schaden. Aggression als Gegenwehr aus unbewußter Angst, möglicherweise nicht genug vom Leben abzubekommen. 3.1 Leben als Vorgabe Leben wird sich selbst nur von „Außen“, in seinem Vollzug an Menschen und Dingen ansichtig, kann sich nur anhand von „etwas Erlebtem“ greifen. Doch öffnet sich darin dem Nachdenken ein zugrundeliegendes Leben: Tun oder Erleiden kommen aus einem unmittelbaren „Innen“, welches zwar niemand bewußt vor Augen hat, worin sich jeder aber ständig bewegt. Das heißt: Wir „sehen“ unser Leben nicht als lebendigen, radikalen Grund des Daseins, sondern es vollzieht sich ursprünglich, vorreflexiv, „von selbst“. So verbirgt dieser Grund eine unanschauliche „Nacht“; wir sind uns selber nocturn. So sieht auch das Auge alles, nicht aber sich selbst. Leben „macht“ sich nicht und läßt sich – sogar empirisch - überhaupt nicht „machen“, sondern nur erhalten und weitergeben. Selbst wenn - in dem häßlichen Ausdruck - die Eltern ein Kind „machen“, geht der Vorgang des Zeugens und Empfangens weit über ein biologisches Verfertigen hinaus: Auch Eltern müssen das Kind in seiner ihm eigenen Lebendigkeit erst (unabschließbar) kennenlernen; es ist gerade nicht ihr gezieltes „Produkt“. Selbst In-vitro-Fertilisation, selbst Klonen bedient sich schon vorhandener lebendiger Materialien. Die Kette des Lebens reicht durch die Generationen hindurch, wird nicht jeweils vom Nullpunkt aus neu installiert. Leben ist Vor-Gabe, selbst unbegriffen, unbegreiflich, uneingeholt, auch aller Annahme vorweg. Leben ist also nicht einfach vorhanden, es kommt ungefragt zu, mehr noch: es kommt aus Fülle zu. Leben selbst ist Fülle, ist das schon eingetroffene Ankommen bei sich selbst. Leben entspringt der Urtatsache, sich geschenkt zu sein. Und es ist nicht sparsam ausgegossen und durchwegs kärglich bemessen, vielmehr vollzieht es sich fortwährend als eine creatio continua, deren Fülle auch morgen zu erwarten ist. Der „nächtige“ Kern ist der Charakter des Lebens, ist Vorgabe schlechthin: Sprung aus dem Ursprung, Leben aus dem Urleben. Dies bleibt seinerseits entzogen und unbegreiflich, wie wir uns selbst auch. Unser Ursprung ist immémorial, nicht erinnerbar. 3.2 Leben als Selbstand 11 Das Folgende verwendet Gedanken von: Michel Henry, „Ich bin die Wahrheit.“ Für eine Philosophie des Christentums, Freiburg1992. 3 Andererseits ist Leben, obwohl Gabe, dennoch unbezweifelbar selbständig: Es ist sich gegeben, als Wachstum (natura meint das, was sich ausgebärt). Aus sich heraus greift es in Welt ein, bezieht aus ihr eigentätig die „Materialien“ seines Daseins. Schon im Atem nehmen wir beständig teil am Umgebenden, so auch im Essen, Trinken... Woher immer Leben stammt (die Frage nach dem Geber ist damit noch nicht beantwortet), handelt es sich um eine Gabe des Selbstseins; anders: eine Gabe eigener, sich zu eigen überantworteter Kraft. Aus unerschöpflichem, unergründlichem Anfang ist Leben wirklich selbstgehörig. Anschaulich wird das in dem Bild: Wenn eine Kerze eine zweite entzündet, brennt die zweite Flamme aus sich heraus, obwohl sie sich der ersten verdankt. Es gehört zur Größe der Gabe „Leben“, daß sie die eigene Mitwirkung freisetzt. Selbstsein ist nicht prometheischer Raub, sondern Gabe. Gegebensein und Selbstgebung schließen sich also nicht aus: Gerade Selbstand ist verliehen. Selbständig greift Leben in Welt ein und wird dort seiner selbst ansichtig, auch in Gestalt eigener Freiheit. So wandelt sich der lebendige Kern zum „Ego“, zum Bezugspunkt von Welt, Dingen, Menschen in der Bewegung der „Sorge“ um sich selbst. Das ist nicht schon ein „Abfall“, vielmehr gehört diese Bewegung zur Ausgestaltung des Lebendigen. 3.3 Leben als Habe: Die „ontische“ Schuld der Welt Gerade wegen ihrer Unsichtbarkeit kann die Gabe Leben aber auch eigennützig beansprucht werden, danklos und gedankenlos. Darin liegt der Keim dunkler Möglichkeiten: im angemaßten, fraglosen Nehmen (dem Armen soll auch noch das einzige Lamm genommen werden), im berechneten Geben (do ut des: ich gebe, damit du gibst), im Tauschen, das von einem geheimen Übervorteilen des anderen ausgeht, oder radikal: im Behalten der „Gabe Leben“ für sich, ohne sie zeugend weiterzureichen. Diese bedenkenlose und danklose Schwerkraft, die Selbstdurchsetzung des Lebens läßt sich nennen: sein Dasein als Habe leben, ebenso aggressiv wie geizig. Als Habe, die beständig zu vermehren und als Besitz abzuschotten ist. Weil sich Dasein in seiner absehbaren Endlichkeit „nicht genügt“, bedarf es der Habe als des scheinbaren Bollwerks gegen das Verlieren und „Einbüßen“ (ein bedeutungsschweres Wort!) von Leben, bis der letzte Verlust, der Tod, unumgänglich wird. Zwingt das ungesicherte Dasein nicht geradezu zum Haben? Zum Übergehen und sogar „Ausschalten“ des Anderen? Aggression also aus geheimer Angst: daß der Vorrat nicht genügt, daß das Leben nicht ausgeschöpft wird, daß der Andere mehr hat und mir etwas vorenthält, sogar wegnimmt... Damit ist aber ein gedanklicher Überschritt verbunden: Wie so häufig wurzelt die individuelle Schuld in einer grundlegenden Verstörung. Denn im Dasein ist bereits naturwüchsig, ja, geradezu unausweichlich eine Störung angelegt: im Sinne einer im Leben selbst sprungbereiten, ja notwendigen „Habgier“. Damit sind wir bei der vorschuldigen Aggression, der vormoralischen „ontischen“ Schuld angekommen. Davon sprechen viele Religionen in Mythen und Bildern, und zwar auf der Ebene des gesamten Daseins. Eine der solcherart tragischen Mythen ist jene des Ödipus, dessen „unschuldige Schuld“ sich im Mord am Vater und dem Inzest mit der eigenen Mutter erfüllt. Und dies ist die Erfahrung von „Welt“ auch im Sinne des Johannes-Evangeliums; so sind wir alle „in der Welt“: unausweichlich in ihre Art des egozentrischen Lebens eingebunden. Ein berühmter Beleg aus der Vorsokratik, das Fragment 110 von Anaximander (5. Jh. v. Chr.), thematisiert Schuld sogar auf der Ebene der Dinge: „Die Dinge strafen und vergelten einander gegenseitig ihr Unrecht (adikias) nach der Ordnung (taxin) der Zeit.“ Dieser eigentümliche Spruch führt zu einer Deutung von Aggression als einer seinshaften Schuld: 4 durch Dasein selbst. 12 Denn immer nimmt das Entstehen und Sich-Gestalten aller Dinge Raum ein, der anderes verdrängt, ja, von anderem zehrt, anderes vielleicht löscht, um selbst zu sein. Doch leistet nach Anaximander die „Ordnung der Zeit“ die Aufhebung der aggressiven Verdrängung, indem die Zeit alles ins Vergehen, Verschwinden, Vergessensein zurückzwingt. Was dem modernen Unschulds-Bewußtsein wohl am weitesten entfernt liegt, ist das eigentümliche Verstricktsein auch auf der Ebene von Pflanze und Tier in „Schuld“. „Alles, was im Schoß der Natur lebt, ist nur auf Kosten eines anderen entstanden und wird eines Tages diesem anderen Platz machen müssen. Die Natur gebiert und vernichtet, und es ist ihr gleich, was sie gebiert, was sie vernichtet, wenn nur das Leben nicht aufhört (...)“ 13 So wütet Leben gegen Leben, stürzt Leben auf Tod, den eigenen und den fremden, zu. Was so gierig lebt, kann nur Grauen ernten. Thomas von Aquin spricht beim Anblick der Schöpfung von einer discordia naturalis, einem naturhaften Kampf, wo es nicht nur um Eroberung eigener Lebensräume, sondern unmittelbar um Vernichtung des anderen im Fressen und Gefressenwerden geht – um eine Natur, „an Zähnen und Klauen rot“ (Alfred Tennyson (18091892)). Es gibt keine Ausnahme vom Gesetz, andere leiden zu machen, fremde Lebenskraft unbefragt zu nehmen. Der späte Reinhold Schneider (1903-1958), ein bedeutender katholischer deutscher Schriftsteller, fiel beim Betrachten der „Techniken“ von Insekten, ihre Wirte durch Larven von innen her langsam aufzuzehren, in den Unglauben seiner Jugend zurück. 14 Daraus erklärt sich das enge sachliche Band zwischen Schuld und Religionen, die in all ihren vielgefächerten Weisen den Gestus der kollektiven rituellen Entschuldung üben, freilich in höchst unterschiedlicher Form. Daher sind Religionen auch nicht einfach religionskritisch aufzulösen, als genüge ihre aufklärerische Löschung, um ihr Pendant, die Schuld, zum Verschwinden zu bringen. Da „ontische“ Schuld keine Erfindung dekadenter Moral, sondern eine (vorbewußt bleibende) Zuständlichkeit ist, kommt es bei einem oberflächlichen Tilgen von Schuld zu ihrem „Mäandern“: zum Wechsel ihrer Erscheinungsformen, zu Verkleidungen monströser Art. In Kafkas Prozeß erfährt der Angeklagte Josef K. nie den Anlaß seiner Anklage; die Ursache aber steht fest: Er ist schlechthin schuldig. Solche „ontische“ Schuld ist zwar im aufgeklärten Bewußtsein weithin verlorengegangen, damit aber nicht aus der Unordnung der Welt verschwunden. In diesem Kontext erhellt sich die eigentümliche Wortprägung der Erbsünde, die zunächst eine Eigenheit des Christentums in der Auslegung der Genesis zu sein scheint. Bei prüfendem Hinsehen aber ist die Verfallenheit des Daseins (und nicht allein des menschlichen) mehr oder minder bildlich und reflektiert in den unterschiedlichsten Kulturen und Religionen ausgedrückt; ja, in der „Analyse“ dieser Verfallenheit, und sei sie nur narrativ-mythisch vollzogen, ähneln sie sich sachlich am meisten. „Erbsünde“ ist in biblischer Tradition vorindividuell-menschheitlich verstanden und besagt eine Schuldfähigkeit, die in der Weise naturhaft-aggressiver Selbstdurchsetzung angelegt ist. Sie manifestiert und aktiviert sich vorwiegend im Zwischenmenschlichen als dem eigentlichen Raum der Verfehlung. Naive Erläuterungen einer biologisch oder genetisch oder psychologisch „vererbten“ Schuld greifen daneben; vielmehr geht es um eine Gefährdung der menschlichen Beziehungen. Schuldigwerden aneinander heißt in der einfachsten Bestimmung, das eigene Ich gegen den anderen zu setzen. Eben dies vollzieht sich aber geradezu naturhaft-vorbewußt: in der Verwahrung des Ich gegen das Du, in dessen Instrumentalisierung für eigene Zwecke, im Nicht-Zulassen und Beiseiteschieben des anderen aus dem eigenen Dominium. Aus Du soll Es werden, ein willenloses Gegenüber. 12 Vgl. Martin Heidegger, Sein und Zeit, Halle 1928, § 58: „Dasein ist Schuld.“ 13 Iwan S. Turgenjew, Genug. Ein Abschnitt aus den Aufzeichnungen eines verstorbenen Malers, in: ders., Erzählungen 1857 – 1883. Gedichte in Prosa, Darmstadt 21998, 183. 14 Reinhold Schneider, Winter in Wien, Freiburg 1958. 5 In dieses Gewebe gegenseitiger Nachrangigkeit und instinktiver Selbstsetzung wird jeder hineingeboren, nimmt – selbst noch in der Gegenwehr - daran teil und ist konstitutiv, als „Erbe“, darin verschränkt. Nicht wenige Religionen und Kulturen, die eine hierarchisch gebaute Anthropologie besitzen, verankern Degradierungen anderer Menschen systemisch, betrachten bestimmte Gesellschaftsschichten gar nicht im vollen Sinne als menschlich: So bilden die Parias, die Unberührbaren, im hinduistischen Kastensystem eine Art „Untermenschen“. Aber auch die Totalitarismen des 20. Jahrhunderts führten diese Verzweckungen bestimmter Menschen oder Gruppen planmäßig durch: „Sie haben versprochen, für uns zu bauen; nun bauen sie aus uns“ (Wassili Stus). Die skizzierte Ur-Schuld, als Disposition jedes menschlichen Daseins, ist die Schuld einer Selbstdurchsetzung - entweder gegen den Ursprung des Daseins, gegen Gott, oder gegen den „Bruder“; bei genauer Betrachtung gegen beide. Denn beide werden in den Bannkreis des eigenen Wollens einbezogen, möglichst dienstbar eingepaßt. „Erbsünde“ meint im Wortsinn also Abtrennung zugunsten von Selbstbehauptung und Eigensein anstelle von Mitsein mit anderen. Dies ist die „Welt“, die sich gegen das Eintreten Jesu wehrt. 4. Lösung der Macht der „Welt“ Es gehört zur Aufgabe der Religionen, eine Bezwingung oder zumindest Hegung der Aggression vorzubereiten. Schon das „Heilige“ verweist auf das Heilen von etwas Zerstörtem und Zerstörerischem. Weit über die Lebensgier hinaus öffnet religiöses Denken eine hilfreiche, aufrichtende Sicht: Dasein ist auch, ja vor allem Gabe. Niemand hat sich selbst ins Leben gesetzt; ein unvordenklicher Ursprung gönnt allen Geschöpfen das Dasein. Anderem Geschaffenen daher das Leben einzuräumen wird zum Maßstab einer Kultur. Niemand ist eines anderen „Zweck“, das weiß schon die Aufklärung. Anderen die Geburt gönnen, Leben einräumen wird zum Maßstab einer Kultur: Übernimmt sie z. B. das Kind als „reine Gabe“? Das setzt voraus, daß das eigene Dasein nicht selbstverständlich, habgierig oder mißmutig hingenommen, sondern immer erneut als staunenswert erfahren und dankend bestätigt wird. Tiefer aber setzt es voraus: Leben muß befreit sein von der Angst um seine eigene Kraft und Grenze, vor der „Einengung“ durch anderes Dasein. Es muß nicht als Raub verteidigen, was ihm doch aus „Huld“, aus unerklärlicher Überfülle gegeben ist: das eigene Leben. Ist ein solches Leben aus Fülle, ohne Aggression, Angst und Gier, denkbar? Unterschiedliche religiöse Ansätze reichen vom buddhistischen Unterlaufen des Lebens bis zur biblischen Welt-Bändigung: Leben strömt „umsonst“ zu. Den Charakter dieses gratis aufzudecken meint, Leben als (aggressiv verteidigte) Habe abzulösen gegen ein Leben als (göttliche) Gabe. 4.1 „Unterlaufen“ der Welt durch Auslöschen: Buddhismus Das alte Indien der vielgefächerten hinduistischen Tradition kennt für das sich gleichgültig drehende Rad des Lebens keine andere Lösung als die Wiedergeburt, die den lastenden Kreislauf immer wieder von vorn beginnt. Aber Wiedergeburt meint auch neue Lebensgier und Wiedertod in unendlicher Reihung, kennt also keine Lösung. Diese Empfindung enthält so viel Bedrohliches, daß der historische Gautama Buddha (5. Jh. v. Chr.) forderte, das Rad müsse einmal im Nichtsein stillstehen, das Leben ins Nichts verwehen: Nirwana. Freilich ist dann alles mitgelöscht, was „Ich“ heißt: Der Durst (nach Leben) stirbt mit dem Dürstenden. Das Leiden wird gelöscht, indem der Leidende verschwindet. So hat Indien selbst im Buddha als Antwort den Weg des inneren Sterbens entwickelt, allem Glück und aller Enttäuschung vorgängig, um das Unglück des Geborenseins zu entgiften. Sterben vor dem Sterben, lautet die Lösung Buddhas. Seine Askese arbeitet auf 6 ein Verwehen hin als wirklich letzten Absprung, als „Flucht aus dem brennenden Haus“, wobei der Springende und Flüchtende sich endgültig auflöst. Im Ur-Buddhismus geht es also um Erlösung von der als Unheil erfaßten Wiedergeburt in ein immer wieder angst- und gierbesetztes „Anhaften“. Achtfach ist der Pfad zur Heilung der Selbstdurchsetzung: Je mehr der Mensch seinen Durst nach Essen und Trinken, Geschlechtlichkeit, Macht zurücknimmt, desto rascher wird er „auswurzeln“. Diese asketische Konzentration auf sich selbst ist allerdings letztlich nur dem Mann möglich ist, weil sich in der Frau das „Anhaften“ ans Leben buchstäblich verkörpert – als der Trägerin immer neuer Geburten. Dem Asketen gelingt jedoch der Absprung in das Nichts, der Auszug aus der Wiedergeburt, überhaupt aus der Existenzangst. Das ist freilich nur über völlige Rücknahme des Selbst zu erreichen. Das jetzige Leben dient als Sprungbrett in das Glück, nicht mehr zu sein – was freilich als Glück nicht mehr erfahrbar ist. So vergleicht Schopenhauer plastisch „den Menschen, der im Tod besondere Aufschlüsse erwartet, einem Gelehrten, der einer wichtigen Entdeckung auf der Spur ist, doch im gleichen Augenblick, wo er die Lösung zu sehen meint, wird ihm das Licht ausgeblasen.“ 15 Buddhistisch gesehen ist also Aggression zu „unterwinden“, zu unterlaufen. Das ist nicht nichts – aber gibt es noch eine andere Lösung als den Durst selbst auszutrocknen? 4.2 Antithesen zur Gewalt der Welt: Die Bergpredigt Die Bergpredigt Jesu verdichtet entscheidende Elemente einer neuen Anthropologie, in der umgekehrt das Wasser des Lebens überreich zufließt. Im Bild gleich geliebter Kinder eines einzigen Vaters entspringt das Konzept einer neuen Menschlichkeit gegen die triebhaft-natürliche Selbstbehauptung sowohl der Wir-Gruppe wie des Einzelegoismus. Die Forderung der Bergpredigt ist nichts Geringeres als diese „Vollkommenheit des himmlischen Vaters“ zu leben. Als entscheidendes Novum kann dabei gelten, dass der Appell an das forum internum, an die nicht von außen justitiable Gewissensentscheidung des einzelnen, zu einer bisher unbekannten Individualethik führte. Grundlage der Ethik ist nach wie vor zwar die Thora in der Gestalt einer Unterlassens-Ethik („nicht schaden“); sie wird aber in den Antithesen der Bergpredigt radikalisiert zu einer TunEthik, die den einzelnen zu einem optimum virtutis aufruft: das Äußerste zu tun - für den anderen. Zu diesem Äußersten gehört nicht einfach das Untersagen von Gewalt, sondern die Erkenntnis der Wurzeln der Gewalt: in der eigenen Seele, oder hebräisch formuliert: „im Herzen“. Daher rühren die scharfen Antithesen, die nicht einfach einen vollzogenen Mord verwerfen, sondern von seiner inneren, scheinbar harmlosen, weil „nur gedanklichen“ Vorbereitung ausgehen: „Wer seinem Bruder nur zürnt, wird dem Gericht verfallen sein.“ (Mt 5, 22) Was übertrieben scheint, nämlich den Ehebruch bereits mit dem „lüsternen Ansehen“ beginnen zu lassen (Mt 5, 28), ist freilich im Lichte der Psychologie und der unbewußten „Formatierungen“ völlig plausibel. Auch die ungeheure Forderung nach Verzicht auf Rache, ja, nach dem Hinhalten der anderen Wange (Mt 5, 39) verliert ihre scheinbare „Unmännlichkeit“, wenn man die unkontrollierbare Dynamik von Vergeltung erwägt. Allerdings ist Gewaltverzicht nur für den Betroffenen und seine Selbstrücknahme gefordert: Nicht davon gedeckt ist Tatenlosigkeit im Blick auf andere Opfer oder Leichtsinn im Blick auf mögliche Prävention. Zugleich verbietet sich eine rasche Verurteilung, ja sogar eine Beurteilung des anderen, wiederum in bezug auf sich selbst: Siebenmal siebzigmal ist ihm zu verzeihen, um im eigenen „Herzen“ die Überheblichkeit der Selbsteinschätzung zu unterbinden. 15 Schopenhauer, zitiert nach Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung Frankfurt 1960, III, 1384; 52, V. 7 So sind die alttestamentlichen Anstöße im Evangelium - in der Theorie, gewiß nicht durchgängig in der Praxis - zur Fülle entfaltet: Auch der Feind ist im Liebesgebot enthalten. Den Kampfbegriff gibt es nur gegen die Sünde, gegen eigene und strukturelle Bosheit. Zwar gehört Gewalt zu diesem Äon, zeigt aber gerade darin dessen Verdorbenheit. Das Reich Gottes wird demgegenüber ohne Gewalt errichtet, ja seine erwählten Propheten, am Ende der Sohn liefern sich dieser Gewalt ohne Gegenwehr aus. Allerdings gibt es rechtmäßige Mittel der Verteidigung, vor allem im Blick auf den schutzbedürftigen Nächsten, aber Gewalt zum Zweck religiöser und anderer Selbstbehauptung ist verwerflich (Röm 12, 17ff; 1 Petr 2, 19ff). 4.2 „Wunderbarer Tausch“ (admirabile commercium): Erlösung von der aggressiven Angst - In der Art der Weltüberwindung liegt ein „Alleinstellungsmerkmal“ des Christentums. Setzen wir am Boden der Schuld an, wie Gen 3 sie kennzeichnet: Schuld ist die verschwendete, göttlich-große Möglichkeit, Sein Ebenbild zu sein, das eigene Antlitz rückhaltlos aus einem göttlichen Anfang zu schöpfen. Genesis 3 kündigt dem Geber des Lebens: Sie erzählt Böses, denn sie vermutet in ihm den großen Vorenthalter des eigentlichen Lebens. Augustinus generalisiert knapp: Schuld sei „die bis zur Herabsetzung Gottes gesteigerte Selbstliebe“ 16. Hier setzt die Fleischwerdung Jesu an: „sein Leben zu geben als Lösegeld für viele“ (Mk 10, 44f), ebenso wird das „Blut des Bundes für viele vergossen“ (Mk 14, 24). Leben und Blut werden selbst in das Nichts hineingegeben, welches durch das ontische, mehr noch durch das personale Fehlverhalten des Menschen aufgerissen ist. Das Opfer Jesu wirft sich in diesen Tiefpunkt des Menschen, der die Schöpfung mit sich gerissen hat, wirft sich in das Nichts, um es zu unterfangen. Die Kenosis ist das Mysterium der freiwilligen „Vernichtung“ Gottes, wie sie der Philipperhymnus ausspricht. „In ihm, in einer jeden Psychologie und Metaphysik unzugänglichen Tiefe, ist der Wille erwacht, sich selbst zu ‚vernichtigen’ (...) So ist er hinabgestiegen. Nicht nur auf die Erde, sondern auf eine Tiefe zu, die wir nicht ermessen können; eine furchtbare Tiefe und Leere, von der wir erst dann ein Empfinden bekommen, wenn einmal wirklich, innerlich an uns herantritt, was die Sünde ist. Es ist die Vernichtung des Opfers, das sühnt, erlöst und neu beginnt.“ 17 Dazu gehört auf eine selbst furchtbare Weise die Nichtannahme des Lebens Jesu durch viele damalige Zeitgenossen. Sein Opfer zielt auf ein admirabile commercium: „Der Herr zahlt für die Knechte.“ Das meint Verzicht Gottes auf seine Göttlichkeit, um die Ur-Relation wieder zu öffnen: Mit-Sein statt Ich-Sein, das Dasein als Gabe, nicht als Habe zu leben. Das Kreuz ist, von der Seite der schuldhaften Welt her formuliert: Rücknahme des „mörderischen“ Eigenlebens; stattdessen angstfreie Selbstvergessenheit: Leben in Proexistenz, Heilung der bösartigen, vernichtenden Relationsbrüche des Individuums, der neue kommunikative Gabentausch = Gabe und Rückgabe des Lebens füreinander, im „fröhlichen Tausch“ des Dankens, gegenüber Gott, zwischen Mann und Frau, Geschwistern und Geschöpfen untereinander; Leben als Beziehung leben, aus der „reinen Gabe“ 18 des göttlichen Ursprungs und des anderen Menschen. Gegenwärtig ist freilich zu halten, wie furchtbar der Verzicht des Sohnes auf seine Sohnschaft war, wie es Balthasar leidenschaftlich in Worte faßt: „So beschloß ich mich zu geben, mich aus der Hand zu geben. Wem? Gleichviel. Der Sünde, der Welt, auch allen, dem Teufel, der Kirche, dem Himmelreich, dem Vater... Der schlechthin Preisgegebene zu sein. Der Leib, auf dem die Geier sich versammeln. Der Verzehrte, der Gegessene, Getrunkene, Verschüttete, der 16 Aurelius Augustinus, De civitate 14, 28. Romano Guardini, Der Herr. Über Leben und Person Jesu Christi (1938), Freiburg 31983, 431. 18 Jacques Derrida hat le don pur als Ausweg aus der bloßen Tauschlogik formuliert, in: Falschgeld. Zeit geben I, München 1993. 17 8 Hinvergossene. Der Spielball. Der Ausgenützte. Der bis zur Hefe Ausgepreßte, bis zur Unendlichkeit Zertretene, der Überfahrene, zu Luft Verdünnte, zum Ozean Verströmte. Der Aufgelöste. (...) Gott selber war in mir erschöpft.“ 19 Peccatum factum pro nobis heißt das unausdenkbare Drama nach den Worten des Paulus (2 Kor 5,21), ebenso lakonisch wie entsetzlich wie tröstlich. Denn tröstlich ist es eben: „Liebe vertreibt alle Furcht. Nicht einmal Asche bleibt von meiner Schuld aus jenem Blitz der Liebe, der alles verzehrt.“ 20 In solcher Erfahrung wird angstvolle Schuld glücklich: hat sie doch den Löser gefunden. „Flut um Flut drängt sich aus Dir unversieglich, für immer, Fluten von Wasser und Blut, (...) wälzend sich über die Wüsten der Schuld, überreichlich bereichernd, jeden Empfang überbordend, jedem Begehren übergenug.“ 21 4.4 Leben aus Fülle: in der Welt, nicht von der Welt Der „Geschmack der Gnade“ 22 meint die reine Gabe des (neuen) Lebens im Überfluß ohne Verpflichtung zur Rückgabe: „Ich bin gekommen, damit sie das Leben haben und es in Fülle haben“ (Joh 10, 10). Erst der Gedanke der „reinen Gabe“ fügt dem Gedanken der bloßen Tauschlogik das entscheidend Neue der christlichen Umwandlung von Welt hinzu. Damit wird ein neues Gottesbild eingeleitet: Am „Leben in Fülle“ wird die Unvollkommenheit der Welt erkennbar, ja der Kultur überhaupt, die grundsätzlich auf Tausch, nicht aber auf dem vorbehaltlosen Geben aufruht. Gabe soll „supererogatorisch“ werden, über alles Verlangte und Erwartbare oder Geschuldete hinaus überfließend, sie ist nach dem Paradigma Jesu das Überflüssige selbst, reine „Huld“, Freude am Geben. „Wenn dich einer um eine Meile Weges bittet, gehe zwei mit ihm; will einer deinen Rock haben, gib ihm auch den Mantel.“ (Mt 5,40) Der Charakter solchen neu möglichen Gutseins läßt sich in die soziale Welt „übersetzen“, um die Tauschgerechtigkeit nochmals zu prüfen und zu überarbeiten. Dann ergäbe sich als wesentliches Korrektiv des Satzes do ut des der Satz: „gib, weil dir gegeben wurde.“ 23 Damit ändert sich die punktgenaue Rückzahlung in eine Haltung freier, uneigennütziger WeiterGabe. Das deutlichste Beispiel dafür bildet die Liebe. Sie ist mit Gerechtigkeit nicht abzugleichen, sie besteht von beiden Seiten nur auf der Ebene des Ungeschuldeten, aus freien Stücken Gegönnten. Überfülle wirkt sich aus als Freiheit des Gewährens, als Selbstgabe: in der Welt, in die Welt. Existenz wird zur Pro-Existenz: zur Quelle für andere. „Wer an mich glaubt, aus dessen Leib werden Ströme lebendigen Wassers fließen.“ (Joh 7,38) 4.5 Überwindung der Todesangst der Welt Noch eine letzte Folgerung: Überwindung der Welt muß auch den Tod überwinden und die antwortende Angst vor der Vergänglichkeit allen Fleisches. Nur das Christentum konnte Sätze formulieren im Unterschied zum Resonanzboden der philosophischen Antike, in denen das Fleisch zum Angelpunkt wird: caro cardo, anders: carne carnem liberans: „Er befreit das Fleisch durch das Fleisch.“ 24 Dem Verständnis des Christentums nach inkarniert Gott nicht einfach als Es-Macht, als magische Mächtigkeit, als mythische Dynamik, sondern in einem menschlichen Antlitz. Und 19 Hans Urs von Balthasar, Das Herz der Welt, Zürich 1945, 133. Therese von Lisieux, Poésies I, Paris ²1988, 54. 21 Balthasar, Das Herz der Welt, 113. 22 Paul Ricoeur, Das Rätsel der Vergangenheit: Erinnern - Vergessen - Verzeihen, Göttingen 1998, 156. 23 Ebd., 59. 24 Caecilius Sedulius (+ ca. 450), A solis ortus cardine, in: Andreas Schwerd (Hg.), Hymnen und Sequenzen, München 1954, 38. 20 9 eben in diesem Fleisch vollzog sich etwas Unerhörtes, streckt sich nach konsequenter Entfaltung des Verbürgten: – nämlich auf das eigene Auferstehen aus dem Tod. Schon Ijob (13, 15) wirft das eigene Herz über die Mauer der Todesangst: „Wenn er mich auch tötet, so werde ich doch auf ihn hoffen.“ In dieser Überwindung der Todesangst liegt eine Freigabe des Lebens. Aus dem unvermeidlichen Ende des Menschen wird christlich Voll-Endung. Vollendung meint tatsächlich: Aufhebung des Todes als Folge aggressiver Verstörung des Ganzen. Bleibend wird Geschaffenes befreit: „Auch die Schöpfung soll von der Knechtschaft der Vergänglichkeit befreit werden zur Freiheit und Herrlichkeit der Kinder Gottes.“ (Röm 8, 20f) doxa, die Herrlichkeit der Menschen, soll erstmals wieder sichtbar werden, ebenbildlich ihrem Schöpfer im Sündelosen und Todlosen. Diese große Eschatologie erfaßt alles, läßt nichts unbefreit, und die Apostelbriefe haben dafür kein treffenderes Wort als immer wieder doxa, Herrlichkeit. Die Apokalypse kleidet dasselbe Konzept in das Bild der vollendeten, leuchtenden Stadt. Überhaupt ist es ebenso bewegend wie nachdenkenswert, daß das Ziel aller Hoffnung in wechselnden Bildern purer Schönheit ausgesagt wird - Schönheit ist Ende der Wege Gottes. Doch ist Schönheit nur der Widerschein des eigentlich Großen: der Überwindung des Todes. Hierin liegt die höchste Konkretion der Hoffnung: „An den Gott, der die Toten lebendig macht und das, was nicht ist, ins Dasein ruft“, läßt sich auch „gegen alle Hoffnung auf Hoffnung hin glauben“ (Röm 4, 13f). 5. In der Welt, nicht von der Welt Gerade große religiöse Wahrheiten bedürfen – ihrer Größe wegen – des vielleicht erschütternden Durchgangs durch Angst und Gegenwehr: Dann kann die Tröstung kommen, erst dann weiß der Geprüfte, was er weiß. Ins Gespräch kommt christliche Weltauffassung, wenn sie weiß, wovon sie selber spricht: vom umfassend geängsteten, erlösungsbedürftigen und erlösten Menschen. Christentum darf den Unterschied zu anderen Religionen festhalten, demütig, wenn es ihn nicht als überheblichen, sondern als aufbauenden begreift. Es hat den Vorteil, dass es das Leben bejaht, das jetzige und auch das künftige, dass es kein Verlöschen als Lebensziel ansieht (was ja rückwirkend auch dieses Leben asketisch verschattet). Es hat zum Inhalt ein Antlitz, eine Person: das Antlitz des Sohnes, sein Eingehen in irdisches Unglück und seine verheißene Wendung des Ganzen in strahlendes Glück. Nihil humani alienum, nichts Menschliches ist ihm fremd. So kann es eine - mit religiös anders geprägten Menschen - gemeinsame Achtsamkeit auf die Schöpfung, ein gemeinsames Bemühen um die Zucht der Leiblichkeit und den Kampf gegen aggressive Ängste aller Art geben, es kann auch gemeinsames Schweigen und Wahrnehmen des von innen aufsteigenden Friedens geben, überhaupt eine gemeinsame Reinigung der Sinne vor den anbrandenden Überreizungen - dennoch sind dies für den Christen erst die Sprossen auf einer Leiter, die nicht einfach zu einer göttlichen Natur, zu einem göttlichen Selbst, zu einem göttlichen All-Einen oder ins Nichts führt, sondern zum Antlitz des lebendigen Gottes. Das übrigens gleichzeitig ein bezaubernd menschliches Antlitz ist. 25 Wieweit die Leitersprossen anderer spiritueller Haltungen an das Geheimnis Christi heranführen, ist nicht im vorhinein zu bestimmen, auch keineswegs auszuschließen. Aber ist Atmen wirklich schon Anbeten? Ist die bewundernswerte Abtötung des Schmerzes, deren die Yogis fähig sind, wirklich schon die Seligkeit einer Begegnung? Ist Buddhaschaft wirklich dasselbe wie die Fülle des Lebens, von der die Bergpredigt spricht? 25 Romano Guardini, Landschaft der Ewigkeit, München 1958, 175: In Dantes Göttlicher Komödie erscheine im unfaßlichen Licht der Dreieinigkeit überraschend ein menschliches Antlitz: begreiflich, erkennbar, überwältigend. 10 In der Bergpredigt wird der Mensch nicht aufgelöst, er wird getröstet. Statt der endgültigen Löschung verheißt die Schrift Erhöhung. Gott ist nicht der Vernichter, der große Vorenthalter, sondern der Vollender der Identität. Selbst das „Fleisch“, das in allen Kulturen für Vergänglichkeit und Verwesung steht, wird zum „leidfreien Leib“ gewandelt. 26 Die Auferstehung Jesu, worin er alle Wunden seiner Folterung an seinem verklärten Leibe behielt, ist das Zeugnis für die identische Bewahrung und Verklärung alles irdisch Gebrochenen, Verletzten und Zukurzgekommenen. Geschweige daß diese Lehre die Angst schürt, ist sie von Grund auf Überwindung aller Gegenwehr. „Laßt uns an diesem unwandelbaren Bekenntnis der Hoffnung festhalten, denn er, der die Verheißung gegeben hat, ist treu.“ (Hebr 10, 23) Die Frage lautete: Ist ein Leben aus Fülle, ohne Angst und Gier, denkbar? Es gibt eine Hinführung zu einer Macht, die unsere Selbstbesessenheit mit dem Leben Gottes tauscht: Gratis e con amore heißt die neue Melodie des Daseins, nicht mehr Fressen und Gefressenwerden. Schon im Wasser der Taufe wird unsere angstvolle Abschottung überströmt, eingetaucht in flutendes Urleben. Gott ist Beziehung, glühende Selbstgabe. Er antwortet auf die Lebensgier freiwillig, souverän, mit geöffneter Hand (wir wissen sogar: mit geöffnetem Herzen). Freilich wird man nicht schlagartig angstlos, braucht wohl viele Anläufe dazu, um sich von Ihm lösen zu lassen. „Ich zähle mich, mein Gott, doch Du, Du hast das Recht, mich zu verschwenden.“ (Rilke) Glaube löscht das naturhafte Festkrallen an sich und gönnt Leben, jedem übergenug. O fröhlicher Tausch: „Umsonst habt ihr empfangen, umsonst sollt ihr geben.“ (Mt 10,8) 6. Der dreifache Rat des Evangeliums in der Erfahrung Hildegards von Bingen Wem das neue angstfreie Leben zuströmt, der kann eine dreifache Gier, einen dreifachen Kampf gegen „Welt“ aufgeben: den Kampf um Reichtum, um Sex (als bloße Triebstillung), um Macht. Das Evangelium rät zur Umwandlung der Aggression in Kraft: - durch Armut; um der großen inneren Gelöstheit willen: immer übergenug zu empfangen; - durch Keuschheit; den „keusch“ kommt von conscius = bewußt; und so meint Keuschheit: wissen, wen man einzig liebt, um seiner selbst willen; - durch Gehorsam; hören können auf die Stimme der Autorität: das ist die Stimme, die mich „wachsen läßt“ (augere); statt der Hörigkeit gegen den eigenen Launen. Widerspricht das wirklich zu sehr unserer eigenen Natur? Trauen wir der Erfahrung Hildegards von Bingen, die als Benediktinerin diesen dreifachen Rat befolgt hat: „Wenn so der Mensch das Rechte ergreift, verläßt er sich selbst, kostet die Kraft und trinkt. Er wird davon gestärkt, wie die Adern eines Trinkenden voll Wein werden. Er wird nie maßlos, wie ein Trunkener von Wein außer sich gerät und nicht mehr weiß, was er tut. Auf diese Weise lieben die Gerechten Gott, an dem kein Überdruß sein kann, sondern nur Beseligung in reiner Dauer.“ 27 Der Einsatz heißt allein: Sich selbst verlassen, aber selig verlassen. Es gibt ein Antlitz, einen Namen, den einzigen übrigens, der diesen Wein zu bieten hat: Christus medicus. Denn das Leben ist auf Gesundheit und Glück hin entworfen, nicht auf Unglück. „So hat die Liebe ihr Werk vollkommen gemacht, allmählich, doch deutlich und bestimmt, damit keine schwache Stelle bleibe, vielmehr jegliche Fülle darin sei.“ 28 „Wenn jemand auf der Höhe 26 Notkeri poetae liber ymnorum/Notker des Dichters Hymnenbuch, hg. v. Wolfram von den Steinen, Bern/München 1960, 31: Feria II/Die Montagshymne: „Resurgens et impassibile corpus sumpsit“. 27 WM 48. 28 WM 31. 11 triumphierenden Unterwerfens sich Gott unterstellt und den Satan überwindet, ragt er empor und genießt die Seligkeit des göttlichen Schutzes. Und wenn er, entbrannt zum Heiligen Geist, sein Herz erhebt und seinen Blick Gott zuwendet, dann erscheinen darin in heller Klarheit die seligen Geister und bringen Gott die Hingabe seines Herzens dar.“ 29 In diesem Schutz richtet der Mensch sich auf, lebt auf, greift selber aus. Der Wille Gottes wandelt sich in Motorik. „Bei ihm finde ich den Reichtum der Gotteskräfte, so daß ich zuversichtlich aufsteige von Kraft zu Kraft.“ 30 Es ist älteste Erfahrung: Solcher Dienst beugt nicht, sondern stärkt. Wen Gott berührt, der ist nicht Sklave, sondern Freier. „O wie schön sind deine Augen, wenn sie Göttliches verkünden.“ 31 Es ist Heimkehr, nicht allein zu ihm, ebenso zu sich selbst - und zugleich Lösung der Welt. „Wenn der Mensch sein Herz zu Gott öffnet und es dadurch licht macht, wird alles grünen, was dürre ist. Korn und Wein wachsen durch diese geheime Kraft.“ 32 Auch Korn und Wein des eigenen Herzens. Und das ist nicht als theologische Schreibtischerkenntnis oder gut versponnene Mystik gemeint, sondern das meint Alltag und ist an seinem Probierstein zu prüfen. Es ereignet sich Erstaunliches: Etwas anderes, nein, jemand anderer hat die Mitte des Denkens und Tuns besetzt, und die beladene Seele hat dort abgeladen, ist jetzt größer als zuvor. „O feuriger Geist, Lob sei dir! [...] Aus dir glüht das Herz der Menschen. Und die Brust umspannt alle Kräfte der Seele. Von da steigt der Wille auf und gibt der Seele den Wohlgeschmack.“ 33 Die Sicherheit, mit der Hildegard das Gezogenwerden von Gott ausspricht, trägt das Siegel der Wahrheit an sich: Es gibt die Kraft von der anderen Seite, und man kann sich ihr, aus allen Wunden blutend, aber selig überlassen. „Vom Herzen aber geht Heilung aus, wenn das Morgenrot eines Neubeginns sichtbar wird. Unsagbar ist, was dann aufbricht an neuem Verlangen nach Gott und an Eifer für sein Werk, unsere Welt.“ 34 „Und so erkennt der Mensch, der die Eingeborgenheit Seiner Wunder ist, Ihn mit dem Auge des Glaubens und umarmt ihn mit dem Kuß des Wissens.“35 Ja, der Mensch hat einen Urtrieb nach Kuß und Umarmung: welche er immerwährend empfängt und welche er fröhlich weitergibt. Das heißt: in der Welt sein, aber nicht von der Welt sein. 29 WM 28. Licht, 61. 31 Licht, 39. 32 Zit. nach Caecilia Bonn, Predigten zum Fest der hl. Hildegard, Abtei St. Hildegard o. J., 5. 33 Licht, 63f. 34 Brief an Papst Anastasius IV. 35 LDO 998; WM 280. 30 12 l CMIS 2012 Assise 24 J uiii et COMMENT ETRE AU SERVICE DE L'EGLISE CaMME LAICS ET EN TANT QUE LAICS? Monsieur le Cardinal, Monseigneur, chère Ewa, cher( e)s ami(e)s, A l'occasion de la Pentecòte, le joumal catholique français La Croix a publié un dossier sur le thème : «Ces laics qui font fonctionner l'Eglise ». Et sous le titre en première page, une très grande photo : une dame àgée qui depuis 25 ans, précise-t-on - prépare un beau bouquet de fleurs devant l'autel d'une église vide ... Choc des photos. Est-ce déjà la réponse à la question qui nous est posée cet après-midi ? Est-ce le service que l'Eglise attend des laics ? Allons jusqu'à l'absurde : peut-on imaginer une Eglise sans laics? Il y a quelques années à Florence, au Musée des Offices, un petit tableau médiéval avait attiré mon attention, avec un titre qui était à peu près : la cité idéale. On y voyait un beau village avec ses maisons et son église, dans une campagne paisible; des hommes et des femmes occupés aux activités ordinaires de la cité terrestre: des laboureurs aux champs, des artisans dans leurs ateliers, des femmes à la cuisine. Tout respirait la sérénité et l'harmonie, dans une douce lumière dorée. Un beau tableau, oui ; une cité pleinement chrétienne, comme un achèvement. Juste une petite précision : il n'y avait que des moines et des religieuses ... Quelle image étonnante d'une Eglise ... sans lalcs, et sans postérité ! Or une Eglise sans lalcs serait comme une école sans élève, ou un hòpital sans malade. Mise à part cette illusion symbolique d'un artiste du Moyen Age, revenons à cette évidence : il y a des laics dans l'Eglise. Et puisqu'il s'agit d'examiner comment les lalcs peuvent servir l'Eglise en tant que lalcs, commençons par observer notre assemblée. Elle est presque exc1usivement composée de laYcs. Oui, les membres d'Instituts séculiers sont et restent des laics. Je rappelle avec plaisir l'excellente formule de notre vieil ami Mgr Dorronsoro: «pleinement lalcs et pleinement consacrés ». Nous ne sommes pas des laYcs à moitié, nous ne sommes pas des consacrés à moitié. C'est la grande «révolution» de Provida Mater, pour reprendre les termes du P. Beyer. Jusqu'alors en effet, un laYc qui s'engageait dans la vie consacrée quittait l'état lai"c et devenait religieux ; on ne pouvait etre lalc et consacré, c'était l'un ou l'autre. Depuis 1947 dans nos Instituts, il est désormais possible d'etre 2 lalc et consacré, de s'engager dans la vie consacrée sans quitter l'état lalc. Paul VI parlait de ({ la double réalité de notre configuration» l. Latc à 100%, et consacré à 1000/0 ; c'est la merveille de notre vocation, et tant pis pour les mathématiques. Etre lalc n'est pas seulement une manière de vivre, comme un religieux qui exercerait un métier séculier et vivrait dans les conditions ordinaires du monde. Paul VI expliquait : « V otre condition existentielle et sociologique devient votre réalité théologique et votre voie pour réaliser le salut. »2. Nous sommes pleinement lai'cs et pleinement consacrés. Il n'est pas sùr que dans l'Eglise, dans nos paroisses, et peut-ètre mème dans nos Instituts, cette vérité ontologique soit toujours bien comprise, ni mème bien vécue par certains de nos membres. Cumuler deux états de vie n'est d'ailleurs pas une nouveauté dans l'Eglise: il est évident pour tous, et depuis longtemps, qu'un prètre qui s'engage dans la vie consacrée reste pleinement prètre tout en devenant pleinement franciscain, jésuite ou oblat de Marie Immaculée. le prends à témoin les prètres dans notre assemblée, qui sont membres d'Instituts séculiers cléricaux: ils sont pleinement prètres et pleinement consacrés : leur consécration ne diminue en rien leur état clérical. Après avoir brièvement rappelé ces quelques données de notre vocation, nous pouvons aborder le creur mème de notre sujet : « Comment ètre au service de l'Eglise comme laYcs et en tant que laYcs? ». La matière est immense, et je ne suis ni théologien, ni historien, ni sociologue, mais seulement juriste, professeur de droit public à l'Université d'Aix-Marseille en France, très engagé dans mon Université, mais aussi dans les paroisses, dans mon diocèse et dans des reuvres sociales ou éducatives d'Eglise. l'ai également vécu comme une grande gràce ma participation de 9 ans au Bureau de la Conférence nationale des Instituts séculiers de France, lieu de communion fraternelle et d'échanges constructifs, et organe moteur de nombreuses réalisations au service de nos Instituts. Notre sujet est comme une grande montagne: on peut la photographier sous bien des aspects sans jamais l'épuiser. Nos précédents Congrès ont amplement développé certains de ces aspects, comme la présence au monde et la sécularité. le tiens compte par ailleurs des autres conférences sur le thème général de notre Congrès : « A l' écoute de Dieu dans les sentiers de l'histoire : la sécularité parle à la consécration ». Aussi, dans le temps qui m'est donné, et pour ne pas épuiser votre attention en cette chaude après-midi d'été, je voudrais simplement détailler avec vous quelques points qui, dans le contexte actuel, semblent mériter une attention particulière et plus de clarté. le les regrouperai autour de deux axes simples : les laYcs et l'Eglise d'abord, les laYcs et la mission de l'Eglise ensuite, en me référant surtout aux enseignements du Concile Vatican II, dont nous célébrons avec joie le 50e anniversaire 3 • Texte du 2 Février 1972 (n° 10 ), à l'occasion des 25 ans de Provida Mater. Discours aux Instituts séculiers, 20 Septembre 1972 ( nO 13 ). 3 Le texte originaI a parfois été un peu corrigé, pour aider à la traduction. 1 2 ·, 3 I / Les la'ics et l'Eglise Je centrerai le premier point de cette conférence sur l'Eglise, et la pIace des lalcs dans l'Eglise. Je ne suis pas théologien; je ne me risquerai donc pas à des analyses théoriques qui dépasseraient largement mes compétences, et je me limiterai à quelques textes essentiels de Vatican II. Pour comprendre comment les lalcs sont appelés à servir l'Eglise, il nous faut envisager une question préalable et fondamentale: comment servons-nous l'Eglise : de l'intérieur, ou de l'extérieur? Ou plus précisément, quelle est notre pIace exacte de lalcs par rapport à l'Eglise? Sommes-nous seulement des utilisateurs extérieurs de services spirituels et matériels que nous offre l'Eglise? Ou bien sommes-nous des acteurs dans l'Eglise, lui apportons-nous une contribution spécifique ? Pour répondre au mieux à cette question, je vous propose de dérouler notre réflexion en quatre temps. Que veut dire pour un lare : servir /'Eglise en tant que lare ? Pour bien comprendre la question, commençons logiquement par nous demander ce que signifie le terme « service ». Que nous apprend l'étymologie ? Le mot service en français, service en anglais, servizio en italien ou encore serviGio en espagno l, vient du latin « servus », qui voulait dire: esc1ave. L'aspect passif est très net: servir, c'est obéir. L'allemand aussi est proche, mais avec une étymologie différente : Dienst et bedienen. Aujourd'hui encore, cette signification origine Ile est utilisée dans le langage courant : on parle volontiers du personnel de servi ce, d'une entrée de service, de la qualité du service dans un restaurant, ou encore du « service militaire» ( Wehrplicht en allemand, avec en plus la dimension morale du devoir à accomplir ). Dans cette première perspective, le lalc au service de l'Eglise apparaìt d'abord comme celui qui obéit aux autorités de l'Eglise. Poursuivons l'analyse du mot «service ». Le terme servus a été enrichi de sens nouveaux, comme beaucoup d'autres, au temps de l'empire romain d'Orient, devenu officiellement chrétien après l'édit de Thessalonique en 380. De mème que l'imperium est devenu ministerium ( d'où le qualificatif de ministères dans l'Eglise, par exemple ), de mème le servitium est devenu une fonction, une responsabilité au servi ce des autres. Aujourd'hui par exemple, on parlera sans équivoque de servi ce public: celui de l'éducation, de la santé, des transports, etc. ; service public signifie avant tout service mème si, hélas, ce n'est pas toujours vrai en pratique! Dans cette du public deuxième perspective, le lai'c au servi ce de l'Eglise assume une fonction active au profit des autres membres de la communauté des croyants. 4 Le mot « service » a donc deux significations, qu'il faut bien connaitre et distinguer. Prenons l'exemple d'une école: les enfants et leurs parents sont habituellement des consommateurs de la formation délivrée et des services offerts. Mais dans certains pays et dans certaines cultures, les parents et les autorités locales, parfois aussi les enfants, sont aussi des acteurs de l'école, associés aux choix pédagogiques, culturels et mème économique. Il s'agit moins d'un partage de l'autorité que d'une participation à son exercice, avec une contribution spécifique. Les lai"cs et la structure de fEglise Dans un deuxième temps de notre réflexion, et en partant des deux sens du mot « service », demandons-nous ce qu'est l'Eglise que les laYcs sont appelés à servir en tant que lalcs. Dans la constitution dogmatique Lumen Gentium, l'Eglise est d'abord présentée comme un mystère, que des images peuvent aider à illustrer : construction, tempIe, bercail, famille, champ de Dieu, etc. 4 L'Eglise est aussi présentée comme le peuple de Dieu, la foule des hommes qui croient au Christ (christifideles ) et qui ont été baptisés. L'Eglise est le Corps mystique du Christ, une communauté spirituelle de foi, d'espérance et de charité. Mais elle est aussi une assemblée visible, une société organisée selon un principe hiérarchique 5 : « Le Christ Seigneur, pour assurer au peuple de Dieu des pasteurs et les moyens de sa croissance, a institué dans son Eglise des ministères variés qui tendent au bien de tout le corps ( ...), pour que tous ceux qui appartiennent au peuple de Dieu ( ...) parviennent au salut ( ...). »6 Nous trouvons ici l'aspect le plus connu et le plus visible de l'Eglise - institution : la distinction des clercs et des laics. Nous savons tous que l'ensemble des c1ercs est structuré en trois niveaux : d'abord le collège des évèques, avec à leur tète le Pape ; puis les prètres, qui sont les collaborateurs des évèques dans l'exercice de leur charge ; et enfin les diacres. Tous les autres membres de l'Eglise sont des laYcs. Soit on est c1erc, soit on est laIc : sive clericos, sive laicos, selon la formule traditionnelle. Un lalc est donc celui qui n'est pas clerc. Cette définition négative du laIc justifie une certaine visÌon c1éricale de l'Eglise qui a marqué des sièc1es de notre histoire : l'Eglise, ce sont d'abord et surtout les c1ercs. Le langage courant en a d'ailleurs conservé de nombreuses traces : en français par exemple, on parle encore volontiers des «gens d'Eglise» ou des «biens d'Eglise ». Et dans certaines assemblées dominicale s, la prière universelle mentionne volontiers l'Eglise et ses pasteurs, puis les fidèles comme si les fidèles n'étaient pas aussi l'Eglise. Lumen Gentium nO 6. 5 Cf Catéchisme nO 771. 6 Ibid. nO 18 § 1. 4 5 Cette approche instituti onne Ile a engendré une étrange VlSlOn de l'Eglise, l'image d'une construction originale. Tout d'abord, une pyramide, bien structurée, avec les trois niveaux que nous avons rappelés. En dessous de cette pyramide et distincte d'elle, la masse informe des fidèles. Enfin et à còté, dans une situation un peu complexe, l'ensemble des religieuses et religieux. D'où cette pIace des laYcs dans l'Eglise, qu'un Pape avait clairement résumée : « Personne ne peut ignorer que l'Eglise est une société inégale dans laquelle Dieu a destiné les uns à commander, et les autres à obéir. Les premiers sont les clercs, et les seconds les laYcs. » Ce propos est de Grégoire XVI, au milieu du XIXe siècle. Il exprime bien, pour les laYcs, le premier sens du mot « service » que nous avons dégagé : servir, c'est obéir. Dans une telle logique, le servi ce des laYcs est réduit au service de l'institution Eglise ; ce que beaucoup de sociologues ont pu appeler le cléricalisme. Dès le Moyen-Age occidental, les papes eux-memes avaient revendiqué cette autorité première des clercs sur les laYcs et sur la société civile tout entière. La meilleure illustration en a été foumie par « la théorie des deux glaives)}, en partie inspirée de St Bemard : «Dans l'Eglise et en son pouvoir, il y a deux glaives ( i.e. deux pouvoirs ), le spirituel et le temporel. Les deux sont au pouvoir de l'Eglise. Le premier doit etre utilisé par l'Eglise, et le second pour l'Eglise. L'un par la main du pretre, et l'autre par la mai n du roi et du soldat, mais avec l'accord et sur l'ordre du pretre. »7 Ces propos très officiels du pape Boniface VIII, au début du XIV e siècle, illustrent cette volonté et souvent cette pratique de l'Eglise à exercer son pouvoir sur la société temporelle et l'activité des laYcs. Ici, la notion d'obéissance est première, l'activité des laYcs ne peut s'exercer que dans le cadre et sous }'autorité des clercs. En philosophie politique, cette approche médiévale a été qualifiée d' «augustinisme politique », en référence à St Augustin bien sùr, ou plus simplement de « sacerdotalisme ». Elle a fortement imprégné notre histoire et notre culture en Occident, peut-etre meme jusqu'à nos jours. En voi ci juste quelques exemples : - pendant le Moyen-Age, : les papes faisaient et défaisaient les rois et les empereurs; l 'histoire de l'Allemagne ou de la Sicile, par exemple, en a été profondément marquée ; - p armi les erreurs énoncées en 1864 par le bienheureux pape Pie IX dans le célèbre Syllabus : toute séparation de l'Eglise et de l'Etat est condamnée, car l'Eglise perdrait alors son pouvoir et son influence sur l'Etat ( nO 55 ) ; - la société québécoise a longtemps vécu dans l' étroite dépendance du clergé, jusque dans les questions strictement personnelles et familiales ; cette longue période est parfois critiquée aujourd'hui comme «le temps de la grande n01rceur » ; - dans l'Italie de l'après-guerre, caractérisée par l'existence de deux grands partis, la Démocratie chrétienne et le Parti communiste, des éveques n'hésitaient pas à Bulle Unam Sanctam, 18 Novembre 1302, in H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, 37c ed, Le Cerf 1996, p.316. 7 I 6 éclairer leurs fidèles en leur rappelant avec insistance, au moment des élections, qu'ils étaient dans une démocratie et qu'ìls étaient chrétiens .. , ; - faut-il rappeler enfin que la charge de la catéchèse est longtemps restée le monopole des clercs et des religieuses, les laIcs n'étant pas jugés sùrs meme s'ils étaient bien formés. On pourrait encore ajouter qu'aujourd'hui, dans certains pays de vieille chrétienté OÙ l'importance de l'Eglise continue de diminuer, on constate comme un retour de ce cléricalisme. Pour quelques jeunes pretres par exemple, il est une réponse compréhensible au besoin de renforcer une identité menacée. Pour d'autres parfois, il ali mente l'espoir d'un retour à une pyramide d'autorité, OÙ les laYcs redeviendraient de fidèles exécutants. On observera enfin que cette vision cléricale de l'Eglise a été diversement mise en ceuvre dans les pays OÙ le christianisme s'est implanté plus tardivement. Souvent les missionnaires occidentaux l' ont emportée avec eux par conviction, ou par nécessité. A l'inverse parfois, ce sont les laIcs qui ont davantage porté la fiamme de l'Eglise, comme en Corée ou au Japon. Quoi qu'il en soit, une des premières taches des laIcs reste bien de s'engager dans les diverses activités de leurs paroisses, de leurs diocèses et de leurs mouvements. Mais ce service est-il le seui et le plus important pour un laIc ? Les larcs et /'Eglise selon Vatican /I Nous avons rappelé en commençant les deux sens du mot service, et nous venons d'en voir une illustration réductrice. Considérons à présent la véritable eccIésiologie que le Concile nous rappelle avec cIarté. Dans Lumen Gentium en effet, le principe de la constitution hiérarchique de l'Eglise est bien sùr rappelé, mais il est écIairé, interprété, comme une communion de services entre les cIercs et les laIcs. D'une l'art «les ministres qui disposent du pouvoir sacré sont au service de leurs frères » . D'autre part, les laIcs sont au service de l'Eglise tout entière: «Les pasteurs doivent reconnaltre et promouvoir la dignité et la responsabilité des lai"cs dans l'Eglise, leur remettre avec confiance des charges au service de l'Egli se, leur laisser la liberté et la marge d' action nécessaires ( ... ) »9 La pyramide subsiste bien sùr ; mais elle s' inscrit désormais dans un cercIe de relations et de services réciproques. Le bienheureux Jean-Paul II a cIairement développé cette image de l'Eglise communion dans son Exhortation sur les LaIcs: «La communion dans l'Eglise se présente comme une communion organique, analogue à celle d'un corps vivant et 8 9 Lumen Gentium nO 18 § 1. Ibìd. n° 37 § 3. 7 agissant: elle se caractérise en effet par la présence simultanée de la diversité et de la complémentarité des vocations et des états de vie, des ministères, des charismes et des responsabilités. Grace à cette diversité et complémentarité, chaque fidèle laic se trouve en relation avec le corps tout entier, et il apporte au corps sa propre contribution. »10 Pour nous, les Instituts séculiers, Paul VI commentait aussi : «Les instituts séculiers doivent etre encadrés dans la perspective que le Ile Concile du Vatican a définie pour présenter l'Eglise : comme une réalité vivante, visible et spirituelle tout ensemble, ( ... ) composée de beaucoup de membres et d'organes divers, mais intimement unis et communiquant entre eux, participant à la me me foi, à la meme vie, à la meme mission, à la meme responsabilité, et cependant distincts par un don, un charisme particulier de l'Esprit vivificateur ( ... ). »11 A cette communion des vocations et des services, Lumen Gentium ajoute l'égalité de tous les fidèles du Christ : « Il n'y a donc qu'un seuI peuple de Dieu choisi par lui ( ... ). Commune est la dignité des membres du fait de leur régénération dans le Christ; commune la gràce d'adoption filiale; commune, la vocation à la perfection. ( ... ) Il règne entre tous une véritable égalité. »12 Communion de services, égalité de tous les fidèles ; il reste la mission de l'Eglise. Le décret conciliaire sur l'Apostolat des laics explique : « Il y a dans l'Eglise diversité de ministères, mais unité de mission. Le Christ a confié aux apòtres et à leurs successeurs la charge d'enseigner, de sanctifier et de gouvemer en son nom et par son pouvoir. Mais les laics, rendus participants de la charge sacerdotale, prophétique et royale du Christ, assument dans l'Eglise et dans le monde leur part dans ce qui est la mission du peuple de Dieu tout entier. »13 Les laYcs sont donc, comme les clercs, pleinement au service de la mission de l'Eglise dans le monde, chacun selon son état. Nous y reviendrons dans la deuxième partie de cette conférence. Une demière remarque sur cette relation entre les divers membres de l'Eglise. Il faut bien reconnaìtre que l' ecclésiologie renouvelée de Vatican II a généré à son tour des excès, dans une direction opposée aux excès précédents. Oubliant la structure hiérarchique de l'Eglise, ou la minimi sant, certains laYcs ont, en quelque sorte, laicisé toute l'Eglise, et sont allés jusqu'à affirmer, en Autriche par exemple : «wir sind die Kirche» ; je traduis : nous les laics, nous sommes l'Eglise. Une telle revendication est tout aussi erronée: il n'y a pas d'Eglise sans clercs ! Avec beaucoup de finesse et d'habileté, le saint Père Benoit XVI a répondu lors de son demier voyage en Allemagne : «wir alle sind die Kirche» ; je traduis : nous tous, nous sommes l'Eglise, laYcs et clercs ! A un niveau plus modeste, on peut trouver la meme dérive dans des Christifideles laici nO 20 § l. Il Discours du 2 F évrÌer 1972 aux Instituts séculiers, à l'occasÌon des 25 ans de Provida Mater. 12 Ibid. nO 32 § 2 et 3. 13 Apostolicam Actuositatem nO 2 § 2. IO 8 paroisses, et j'en connais en France, où le curé ne décide rien sans l'accord des laIcs : c'est la communauté tout entière qui exerce la responsabilité pastorale et matérielle. Il faut admettre que la grave pénurie des vocations sacerdotales encourage parfois ces solutions alternatives. Il existe aussi des paroisses et des diocèses immenses dans certains continents, avec très peu de pretres : on peut comprendre la prise en charge de responsabilités pastorales plus grandes par des lalcs, et aussi des membres d'Instituts séculiers. Faut-il s'inquiéter beaucoup de ces pratiques ? Il existe en sociologie une loi de bon sens, la loi du balancier : un mouvement excessif dans un sens engendre un mouvement presque aussi excessif dans l' autre sens ; avec le temps, le balancier se rapproche peu à peu de l'équilibre. Peut-etre meme faut-il ce mouvement inverse pour éviter de revenir trop en arrière. La tria munera Pour bien comprendre la pIace et le service des laics dans l'Eglise, il nous reste à voir un aspect essentiel que les spécialistes appellent : la tria munera. Par leur bapteme en effet, les lalcs participent à la triple fonction du Christ et de l'Eglise: fonction sacerdotale, fonction prophétique et fonction royale l4 • De quelle manière? Vatican II et l'Exhortation de Jean-Paul II sur les Lalcs le précisent : - La fonction sacerdotale; «Toutes les activités des laics, leurs prières et leurs entreprises apostoliques, leur vie conjugale et familiale, leurs travaux quotidiens, leurs détentes d'esprit et de corps, s' ils sont vécus dans l'Esprit de Dieu, et me me les épreuves de la vie - pourvu qu'elles soient patiemment supportées - tout cela devient offrandes spirituelles agréables à Dieu par Jésus Christ. Et dans la célébration eucharistique, ces offrandes rejoignent l'oblation du Corps du Seigneur pour etre offertes en toute piété au Père. C'est ainsi que les lalcs consacrent à Dieu le monde lui-meme, rendant partout à Dieu un culte d'adoration dans la sainteté de leur vie. }}15 Retenons les trois composantes : pIace centrale de l'Eucharistie, dimension spirituelle de toute la vie ordinaire, et enfin consecratio mundi, la consécration du monde ; ce concept clé éclaire toute notre vie et notre mission de lalcs dans l'Eglise ; il est malheureusement peu connu et pas toujours bien compris. Pour nous, membres d'Instituts séculiers, Paul VI développait: «Un domaine immense sera ouvert à votre double mission: d'une part votre sanctification personnelle, c'est-à-dire votre àme, et d'autre part la consecratio mundi, tàche si délicate et attirante, comme vous le savez, c'est-à-dire le monde des hommes tei qu'ii est, avec son actualité inquiète et ébIouissante, avec ses vertus et ses passions, avec ses possibilités de bien et son attirance vers le mal. }} 16 Cf Lumen Gentium nO 34, 35 et 36. Lumen Gentium nO 34 § 2. 16 Discours aux Instituts séculiers, 26 Septembre 1970 nO 14. 14 15 9 - La fonction prophétique : les la'ics l'exercent d'abord par le témoignage de leur vie, « afin que brille la force de l'Evangile dans leur vie quotidienne, familiale et sociale» 17. Ils l' exercent aussi par la parole, vis-à-vis de leur famille, dans leur milieu de travail et leurs divers engagements sociaux et pastoraux ; c'est ainsi que les la'ics peuvent pleinement participer aux activités de catéchèse, dès lors qu'ils sont suffisamment formés. Ils peuvent enfin assumer des taches d'accompagnement spirituel, cette fonction n'étant pas réservée aux clercs : que l'on pense d'abord à toutes les religieuses en responsabilité dans leurs congrégations, mais aussi à des laYcs com me Chiara Lubich en Italie, à l'origine des Focolari, Marthe Robin en France, à l'origine des Foyers de charité, ou Jean Vanier au Canada, fondateur de l'Arche. - La fonction royale : il revient aux la'ics de contribuer à établir le règne de Dieu dans le monde. «Que les laYcs, unissant leurs forces, apPortent les assainissements nécessaires aux institutions et aux conditions de vie dans le monde, quand elles provoquent au péché, pour qu' elles deviennent toutes conformes aux règles de la justice et favorisent les vertus au lieu d'y faire obstacle. En agissant ainsi, ils imprègneront de valeur morale la culture et les reuvres humaines. Par ce moyen, le champ du monde se trouve mieux préparé pour accueillir la semence de la Parole de Dieu, et les pOrtes de l'Eglise s'ouvrent plus larges pour permettre au message de paix d' entrer dans le monde. »18 Pour conclure ce premier point sur les laYcs et l'Eglise, il est bon de rappeler qu' etre lalc, ce n'est pas seulement une condition sociologique ou un simple état de fait dans l'Eglise. Dans Christifideles laici, le bienheureux Jean-Paul II développe une magnifique théologie du laYcat. Utilisant la parabole évangélique des ouvriers de la vigne, il commehce en effet par souligner que l'état la'ic n'est pas un état par défaut ( est laYc celui qui n'est pas clerc ), mais un état positif dans lequel chacun fait l'objet d'un appel particulier de la part du Maìtre de la vigne: « tous sont appelés à travailler à la vigne ». Il existe bien une vocation laYque, comme une vocation sacerdotale ou religieuse. Cette vocation, Dieu l'adresse à tous les laics; encore faut-il le savoir, l'entendre et ensuite y répondre. Avons-nous assez conscience de cette vocation, meme dans nos Instituts? Pourrait-on meme suggérer qu'à la suite de l'année sacerdotale, qui a été amplement célébrée en 2009/2010, il y ait bientòt dans l'Eglise universelle une année du laIcat? Qu'en pensez-vous ? Ce serait peut-ètre un projet que nos Instituts pourraient soutenir ... 17 18 Lumen Gentium nO 35 9 1. Ibid. n° 36 §3. ~ lO Il Les la"ics et la mission de l'Eglise Après avoir examiné la pIace et le statut des laIcs dans l'Eglise, nous pouvons dans un deuxième temps de notre réflexion commune, nous interroger sur la part des laIcs dans la mission de l'Eglise. Quelle est la spécificité et l'objet de leur participation ? Et quelle est l'étendue de leur responsabilité ? Une fois encore, vous voudrez bien excuser mon incompétence en matière de théologie. Aussi, pour exprimer simplement la mission du Christ et de l'Eglise dans son ampleur universelle et cosmique, je me limiterai à citer Saint Paul : le Père « nous dévoile ainsi le mystère de sa volonté, selon que sa bonté l'avait prévu dans le Christ : pour mener les temps à leur rlénitude, récapituler toutes choses dans le Christ, celles du ciel et celles de la terre »] C'est le grand mystère de notre foi chrétienne : l'reuvre de la rédemption et du salut. La mission de /'Eglise Le Concile explicite clairement cette mlSSlOn de toute l'Eglise: «L'reuvre de rédemption du Christ, qui concerne essentiellement le salut des hommes, embrasse aussi le renouvellement de tout l' ordre temporeL La mission de l'Egli se, par conséquent, n'est pas seulement d'apporter aux hommes le message du Christ et sa gràce, mais aussi de pénétrer et de parfaire l' ordre temporel par l'esprit évangélique »20 Ce texte est essentiel à notre sujet. Il est au creur du Décret sur l'Apostolat des lalcs, au numéro 5. Il mérite d'ètre commenté en détaiL Commençons par dégager ensemble sa structure : - D'abord, un but: l'a;uvre de rédemption du Christ; il s'agit bien de la dimension téléologique, et mème ici eschatologique, de la mission du Christ et de l'Eglise ; non pas un but particulier, mais un but général, global, essentieL - Ensuite, et pour atteindre ce but, deux voies complémentaires: le salut des hommes d'une part, et le renouvellement de l'ordre temporel d'autre part ; nous reviendrons sur ce point tout-à-l'heure. - Enfin, deux séries d'acteurs: le texte permet de distinguer la responsabilité respective des clercs et des lalcs: c'est aux clercs en premier qu'il revient d'apporter aux hommes le message du Christ et sa gràce, par le moyen de la prédication et des sacrements; c'est aux lalcs en premier qu'il revient de pénétrer et de parfaire l'ordre temporel par l'esprit évangélique. Ce mème texte nous permet ensuite d'approfondir le service que les laIcs peuvent assumer dans l'Eglise. Je reprendrai ici trois éléments utiles pour notre réflexion. Ep. l, 9 - lO. 20 Apostolicam Actuositatem n° 5. 19 11 11 La mission commune de toute l'Eglise: il n'y a qu'une mission, mais elle a deux objets distincts. Les domaines et les moyens sont différents, mais il n'y a qu'un seuI but. Le décret sur l'Apostolat des laYcs précise à ce sujet : «Bien que ces deux ordres soient distincts, Hs sont liés dans l'unique dessein divin ; aussi Dieu lui-mème veut-il réassumer le monde tout entier dans le Christ, pour en faire une créature nouvelle en commençant dès cette terre et en lui donnant sa plénitude au demier • 21 JOUr. » V oilà qui paraìt c1air. Mais dans le temps et dans l'espace, la mission de l'Eglise n'a pas toujours été perçue de cette manière. Au cours des demiers sièc1es par exemple, l'Eglise catholique a rencontré beaucoup d'hostilité: persécutions au Japon, au Vietnam ou en Chine, Révolution française, Kulturkampf allemand, guerre des Cristeros au Mexique, antic1éricalisme italien, guerre d'Espagne, etc. L'Eglise s'est souvent repliée sur sa mission spirituelle : la liturgie, les sacrements, la prière et les dévotions, les pèlerinages, la morale personnelle, familiale et sexuelle. Un grand jésuite, Michel de Certeau, a mème parlé d'une «Eglise hors de l'histoire » - c'était moins vrai dans les pays de mission. Cette approche restrictive de la vie chrétienne existe encore. Aujourd'hui par exemple, on trouve, sur divers continents, de nombreuses populations très croyantes et pratiquantes, mais qui réduisent parfois la vie chrétienne à cette dimension trop exc1usivement spirituelle et sacramentelle. En Mars demier, dans l'avion qui l'amenait au Mexique, notre Pape Benolt XVI a évoqué cette situation. Avec le grand courage de la vérité qui le caractérise, il a osé la qualifier de schizophrénie : «On voit, en Amérique latine mais ailleurs aussi, une certaine schizophrénie chez certains catholiques entre morale individuelle et morale publique. Dans la sphère privée, ils sont catholiques, et croyants à titre personnel. Mais dans la vie publique, ils suivent d'autres chemins qui ne correspondent pas aux grandes valeurs de l'Évangile, nécessaires pour la fondation d'une société juste. Par conséquent, il faut éduquer à surmonter cette schizophrénie, éduquer non seulement à une morale individuelle, mais aussi à une morale publique, et c'est ce que nous essayons de faire avec la doctrine sociale de l'Église. »22 Permettez-moi d'évoquer un exemple plus personnel. Un membre de mon Institut est Philippin. Il travaille à Manille dans une grande entreprise. Cette entreprise faisait un jour l' objet d'un contròle fiscal, et elle devait payer une assez grosse amende. L'inspecteur lui a dit c1airement qu'il pouvait effacer cette amende s'il lui versait discrètement, en billets de banque, une somme à négocier. Il a longtemps insisté; finalement, il s'est énervé en disant : « il faut absolument conc1ure avant 17 heures, car après je vais à l' église pour le chemin de croix et pour la messe)} .... ! Ibid. 22 Discours dans l'avion, en réponse aux questions des journalistes ; 3 Mars 2012, http://www.vatican.va/holy fatherlbenedict xvi/speeches/20 12/march/documents/hf ben xvi spe 20120323 incontro-giornalisti fr.html 21 12 Pour aider à préciser la mission de l'Eglise, et donc celle des laIcs, le Concile reprend les thèmes de St Augustin et rappelle c1airement cette «compénétration de la cité terrestre et de la cité céleste »23 : « Ce divorce entre la foi dont ils se réc1ament et le comportement quotidien d'un grand nombre est à compter parmi les plus graves erreurs de notre temps. ( ... ) Que l'on ne crée donc pas d'opposition artificielle entre les activités professionnelles et sociales d'une part, et la vie spirituelle d'autre parto En manquant à ses obligations terrestres, le chrétien manque à ses obligations envers le prochain et surtout envers Dieu lui-mème ( ... ) »24 Le texte encourage ensuite les chrétiens à une synthèse vitale entre les deux domaines, spirituel et temporel. L'Eglise et sa mission ne peuvent se comprendre que dans la perspective de l 'Incamation. 2/ Le salut des hommes: derrière la banalité apparente de cette expression bien connue, il y a une grande vérité que le Concile a remi se en lumière. Jusqu'alors en effet, il était habituel dans l'Eglise de parler des àmes plus que des hommes. Aviez vous remarqué cette petite différence dans les mots ? Hier, on disait volontiers qu'il fallait sauver les àmes, conduire les àmes à Dieu, etc. Depuis Vatican II, l'Eglise parle surtout des hommes. Car c'est toute l'anthropologie chrétienne qui est en cause dans cette question de vocabulaire. L'Eglise rappelle avec force que l'homme est « corps et àme, mais vraiment un »25. C'est peut-ètre le bienheureux Jean-Paul II qui a le mieux exprimé ce mystère, avec la force et la puissance habituelle de ses formules. Dès sa première encyclique, Redemptor hominis, il martèle en un seuI paragraphe : « l'homme réel, l'homme concret, l'homme historique, l'homme tout entier, tout l'homme, l'homme dans sa pleine dimension, dans toute sa vérité, dans sa réalité humaine, c'est cet homme qui est la route de l'Eglise »26 Pour bien mesurer la portée de cette remarque, j'évoquerai volontiers deux exemples un peu extrèmes ; mais pour cette raison, ils sont très révélateurs. Il y a quelques années dans une revue catholique, fai découvert l'activité d'une congrégation missionnaire à Calcutta à la fin du XIXe. Elle avait pour mission principale de baptiser les enfants qui mouraient dans les rues. Des comptes-rendus rédigés pour la maison généralice mentionnaient régulièrement le nombre d'enfants qui avaient ainsi été envoyés au Paradiso Oui, les àmes étaient sauvées. Mais je me demandais s'il ne fallait pas d'abord sauver les corps et nourrir ces enfants. Un siècle plus tard, la bienheureuse Mère Teresa ne cherchait pas à baptiser tous les mourants qu'elle accueillait ; elle les soignait à Kalighat. Deuxième exemple extrème. Il n 'y a pas si longtemps, dans l'aumonerie universitaire pour laquelle je travaille depuis plus de 25 ans, un étudiant très croyant affirmait sa position vis-à-vis des jeunes atteints du SIDA : « ils ont péché, qu'ils se confessent, et Gaudium et spes, n° 40 § 3 Ibid. nO 43 § 1. 25 Ibid. nO 14 § 1 ; cf aussi Catéchisme de l'Eglise Catholique n° 362 26 Redemptor hominis, 1979, n° 13 et 14. 23 24 365. 13 tant pis s'ils meurent : Ieur àme sera sauvée ». Propos terribies de queIqu'un enfermé dans ses convictions, et tranchant comme une lame de couteau. C'est donc bien« l'homme, tout l'homme », pour reprendre la célèbre formule de Paul vf 7, que l'Eglise doit prendre en compte et qui est l' objet de sa mission et de sa charité pastorale. 3/ Parfaire /'ordre tempore/ par l'esprit évangélique: le texte que nous commentons indique 3 domaines pour la mission de l'Eglise : - diffuser la grace du Christ: par le moyen principal des sacrements, cette participation à la charge sacerdotale du Christ revient évidemment aux clercs ; apporter aux hommes le message du Christ: cette participation à la charge prophétique du Christ est partagée entre les clercs et les laYcs ; renouveler tout l'ordre temporel, pénétrer et parfaire l'ordre temporel par l'esprit évangélique: cette participation à la charge royale du Christ revient presque exclusivement aux lalcs. Ce demier point va alimenter encore notre réflexion ; il mérite à son tour quelques développements. Le Concile explique: « Les laYcs doivent assumer comme leur tàche propre le renouvellement de tout l'ordre temporel. ( ... ) Tout ce qui compose l'ordre temporel : les biens de la vie et de la famille, la culture, les réalités économiques, les institutions de la communauté politique, les institutions intemationales et les autres réalités du mème genre, leur évolution et leur progrès, n'ont pas seulement valeur de moyen par rapport à la fin demière de l 'homme. Ils possèdent une valeur propre, mise en eux par Dieu lui-mème. »28 Pour Dieu, pour l'Eglise et pour chacun de nous, le monde a donc une valeur propre. En avons-nous suffisamment conscience? Le monde a trop souvent été perçu dans l'Eglise de manière négative, comme le royaume du démon et du péché : « Si le monde vous hait, a dit Jésus, sachez qu'il m'a haI le premier; vous n'ètes pas du monde, voilà pourquoi le monde vous hait ( ... ) le prince de ce monde a été jugé. »29 C'était oublier que le mème Saint Jean nous dit aussi : «Dieu a tant aimé le monde qu'il a donné son Fils unique, pour que tout homme qui croit en lui ne périsse pas, mais qu'il ait la vie étemelle. Car Dieu n'a pas envoyé son Fils pour juger le monde, mais pour que le monde soit sauvé par lui. »30 Dès son introduction, Gaudium et spes nous invite à cette vision grandiose et magnifique du monde qui réconcilie ces deux aspects : «Le monde qu'il a ainsi en vue ( le concile ) est celui des hommes, la famille humaine tout entière avec l'univers dans Populorum Progressio 1966, nO 14. Apostolicam Actuositatem nO 7 § 5 et 2. 29 Jn 15, 18 19 et 16, 11. 30Ibid. 3, 16 - 17. 27 28 14 lequel elle vit. ( ... ) Certes il est tombé sous l' esclavage du péché, mais par sa croix et sa résurrection, le Christ a brisé le pouvoir du Malin et l'a libéré pour qu'il soit transfonné selon le dessein de Dieu et parvienne ainsi à son accomplissement. »31 Cette perspective dessinée par le Concile éclaire en profondeur la responsabilité particulière des laYcs dans l'Eglise : « La vocation propre des laYcs consiste à chercher le règne de Dieu précisément à travers la gestion des choses temporelles qu'ils orientent selon Dieu. ( ... ) A cette pIace, Hs sont appelés par Dieu pour travailler comme du dedans à la sanctification du monde, à la façon d'un ferment, en exerçant leurs propres responsabilités sous la conduite de l'esprit évangélique ( ...). C'est à eux qu'il revient, d'une manière particulière, d'éclairer et d'orienter toutes les réalités temporelles auxquelles ils sont étroitement unis, de telle sorte qu' elles se fassent et prospèrent constamment selon le Christ et soient à la louange du Créateur et Rédempteur. »32 La doctrine sociale de /'Eglise Comment donc « transfigurer le monde selon l'Evangile », pour reprendre la très belle formule du bienheureux Jean-Paul II? Si le Magistère évoque en premier lieu la vie familiale et la sphère de la vie privée de chacun de nous, il insiste également sur son aspect collectif, social - au sens large. Et c'est là qu'il faut évoquer le ròle et l'importance de la doctrine sociale de l'Eglise. Depuis plus d'un siècle en effet, l'Eglise mère et éducatrice, Mater et Magis tra , comme disait le bienheureux Jean XXIII, éclaire notre regard et oriente notre action de laYcs dans le monde. Cet enseignement a été marqué à ses débuts par l' encyclique Rerum Novarum de Léon XIII, en 1891. Il s'est considérablement développé ensuite. Il couvre aujourd'hui presque tous les aspects de la vie en société : le travail, la paix et le développement, les droits de l 'homme, les dérèglements du commerce international et de la finance mondiale, la protection de l' environnement, etc. Sa plus récente expression est la grande encyclique de notre Pape Benoìt XVI: Caritas in veritate . Il n'est pas question ce soir d'explorer avec vous cet immense trésor. Mais pour enrichir encore notre réflexion sur la mission des laYcs dans l'Eglise, j'évoquerai simplement la définition synthétique de tout cet enseignement : «La doctrine sociale de l'Eglise propose des principes de réflexion ; elle dégage des critères de jugement ; elle donne des orientations pour l'action. »33 Reprenons chacun de ces trois éléments : - L'Eglise propose des principes de réflexion: l'Ecriture et la Tradition de l'Eglise nous offrent des principes SÙfS et fondamentaux, comme la dignité de la Gaudium et spes nO 2 § 2. 32 Lumen Gentium nO 31 § 2. 33 Catéchisme de l'Eglise Catholique nO 2423. 31 15 personne humaine, les exigences de la justice, de la vérité et de la charité, la recherche du bien commun, etc. Nous trouvons ces principes exposés dans de grands documents comme Paeem in terris, Populorum progressio, Laborem exereens, Evangelium vitae, etc. - Appliqués à des situations concrètes, ces principes permettent de dégager des eritères de jugement. Pie XI par exemple, dans le sombre contexte de 1937, analyse les fondements du communisme et du nationalisme (Divini redemptoris et Mit brennender Sorge). Après la chute du mur de Berlin et l'effondrement du bloc soviétique, le bienheureux Jean-Paul II propose son analyse de la nouvelle situation mondiale ( Centesimus annus, 1991 ). Notre Pape Benolt XVI présente en 2009 une anaIyse courageuse et lucide des excès du capitalisme mondial et de l'individualisme libéral, et de Ieurs conséquences ( Caritas in veritate ). - Le Magistère donne enfin des orientations pour l'aetion. Dans des situations concrètes, les autorités peuvet inviter les chrétiens à agir ensemble dans un sens déterminé. Pensons à l'extraordinaire résistance de l'Eglise polonaise au temps du communisme, sous la direction du cardinal Vichinsky. Pensons à la Iutte contre les lois favorisant l'avortement ou le mariage homosexuel, en Espagne et ailleurs. Pensons au combat contre la corruption, les injustices et la drogue, dans beaucoup de pays du monde. Cette doctrine sociale de l'Eglise éclaire et oriente la mission des laics dans le monde ; mais elle ne la détermine pas. Il n'y a pas en effet un régime politique chrétien, une économie chrétienne, une pédagogie ou une médecine chrétienne. Mais il y a une manière chrétienne de faire de la politique, de l'économie, de la pédagogie ou de la médecine. Avez-vous observé les 3 verbes utilisés dans cette définition ? « proposer », « dégager », « donner ». Ce ne sont pas des impératifs. Ils ouvrent au contrai re à la diversité des réponses possibles, au pluralisme qui n'a pas toujours été bien accepté dans la pratique des chrétiens. Et pourtant ! Il y a un siècle et demi par exemple, dans une France très monarchique, il était interdit aux catholiques de soutenir une République héritée de la Révolution; à la meme époque en Italie, il était interdit aux catholiques de soutenir la monarchie qui venait d'annexer Rome. Ou encore, pendant la seconde guerre mondiale en Europe, il s'est trouvé des évèques et des catholiques dans les deux camps. De meme aujourd'hui, si la Conférence épiscopale des Etats-Unis a pris position contre l'arme nucléaire, elle est peut-ètre la seule. Ce pluralisme des choix possibles éclaire la responsabilité personnelle de chaque laYc dans le monde, un domaine dans lequel le Concile reconnalt la juste autonomie des réalités temporelles: «Une telle exigence n'est pas seulement revendiquée par les hommes de notre temps, mais elle correspond à la volonté du Créateur. »34 Liberté et responsabilité des laYcs. Paul VI le rappelait aux membres d'Instituts séculiers : « La 34 / Gaudium et spes n° 36 § 2. 16 première attitude à prendre devant le monde est le respect de son autonomie légitime, de ses valeurs et de ses lois. »35 Mais cette autonomie ne signifie pas indépendance : les choses créées dépendent de Dieu, et les hommes ne peuvent en disposer à leur gré, sans référence au Créateur. De mème, ils ne peuvent s'engager dans une voie qui serait . aux eXlgences . de leur C ' 36 contralre 101. Dès lors, comment les laYcs vont-ils effectuer leurs choix et décider de leurs actions dans le monde ? Le Concile répond : « C'est à leur conscience, préalablement formée, qu'il revient d'inscrire la loi divine dans la cité terrestre. Qu'ils attendent des prètres lumières et forces spirituelles. Qu'ils ne pensent pas pour autant que leurs pasteurs aient compétence pour leur fournir une solution concrète et immédiate à tout problème, mème grave, qui se présente à eux, ou que telle soit leur mission. Mais plutòt, éclairés par la sagesse chrétienne, qu'ils prètent fidèlement attention à l'enseignement du Magistère, et qu'ils prennent eux-mèmes leurs responsabilités. »37 Pour exercer au mieux leur mission dans l'Eglise, les laYcs ont donc deux outils, deux boussoles: - un outil objectif pour les éclairer intellectuellement : c'est la doctrine sociale de l'Eglise ; le bienheureux Jean-Paul II en a mème fait un des trois piliers de toute formation sérieuse des laYcs, avec la formation doctrinale et la formation spirituelle38 ; un outil subjectifpour les éclairer spirituellement : c'est leur conscience. C'est une exigence essentielle pour la mission des laYcs dans l'Eglise, car il n'est pas nécessaire d'ètre croyant pour mettre en reuvre cette Doctrine sociale. Gaudium et spes décrit ainsi la conscience, en s'inspirant du bienheureux John Henry Newman : « La conscience est le centre le plus secret de l'homme, le sanctuaire où il est seuI avec Dieu et OÙ sa voix se fait entendre. »39 Pour obéir à sa conscience, le latc doÌt donc apprendre aussi à discerner la voix de Dieu dans le silence intérieur. Il ne peut assumer sa mission dans l'Eglise sans développer sa propre intériorité dans le secret de la prière; il ne peut servir Dieu dans le monde si, dans la foi, il n'écoute pas d'abord la voix de Dieu dans le creur à creur de l'oraison. Car les laYcs - que l'on peut espérer croyants - sont avant tout des instruments vivants et des collaborateurs de l'Esprit Saint, le seuI véritable maitre et agent de la mission. Paul VI aux Instituts séculiers, à l'occasion du 2S e anniversaire de Provida Mater ,2 Février 1972, n° 13. 36 CfPauI VI, Populorum progressio 1967, n° 39. 37 Gadium et spes nO 43 § 2. 38 Christifideles laici n° 60 § 3. 39 N° 16. 35 17 Il est temps de conc1ure à présent cette trop longue intervention. Je soulignerai d'abord un glissement sémantique que fai discrètement introduit. En effet, je suis parti du thème proposé : « le service de l'Eglise comme laIcs et en tant que lalcs» ; puis ce thème est progressivement devenu « la mission des lalcs dans l'Eglise»: la mission est plus riche de sens que le service; et «de l'Eglise» est devenu de manière plus explicite: «dans l'Eglise ». C'était déjà une manière de répondre à la question posée. D'autre part, et pour souligner l'urgence de l'engagement des la'ics dans la mission de toute l'Eglise, je rappellerai un bref souvenir personnel. Il y a une vingtaine d'années, j'ai travaillé tout un semestre à l'Université de Tiibingen, en Allemagne. Pendant le Carème, les églises avaient toutes affiché en grandes lettres cette belle phrase : « Gott hat keine Bande, nur deine », Dieu n'a pas d'autres mains que les tiennes; quelle invitation ! A sa manière déjà, saint Ignace de Loyola nous invitait à «prier Dieu comme si tout dépendait de Lui, et à agir comme si tout dépendait de nous ». De mème le bienheureux Jean- Paul II s'adressant aux laics: «Des sÌtuations nouvelles, dans l'Eglise comme dans le monde, dans les réalités sociale s, économiques, politiques et culturelles, exigent aujourd'hui de façon toute particulière l'action des laYcs. S'il a toujours été inadmissible de s'en désintéresser, c'est à présent plus répréhensible que j amais. Il n'est permis à personne de ne rien faire. »40 Nous ici, qui sommes membres d'Instituts séculiers, laissons à nouveau résonner en nous ces formules de Paul VI que nous connaissons bien et qui résument si bien notre idéal : - «alpinistes spirituels »41 ; - «dans le monde, non pas du monde, mais pour le monde »42 - «aile avancée de l'Eglise dans le monde »43 ; - «laboratoire d'expériences dans lequel l'Eglise vérifie les modalités concrètes de ses rapports avec le monde » 44 Enfin, et puisque nous sommes à Assise, dans la proximité fratemelle de saint François, écoutons l'une de ses prières dans la lumière de tout ce qui vient d'ètre dit : ChrisNfideles laici nO 3 § 2. 41 Discours aux Instituts séculiers, 20 Septembre 1970 n° 14. 42 Ibid. nO 16. 43 Discours aux Instituts séculiers, 20 Septembre 1972 n° 13. 44 Id. 25 Aoiìt 1976, nO 4 40 18 Seigneur, fais de moi un instrument de ta paix! Là où est la haine, que je mette l'amour. Là où est l'offense, que je mette le pardon. Là où est la discorde, que je mette l'union. Là où est l'erreur, que je mette la vérité. Là où est le doute, que je mette la foi. Là où est le désespoir, que je mette l'espérance. Là où se sont les ténèbres, que je mette ta lumière. Là où est la tristesse, que je mette la joie. Merci pour votre patiente et bienveillante attention ! Pi erre Langeron Conférence de Monseigneur Gérald Cyprien Lacroix Archevêque de Québec Primat du Canada CONGRÈS MONDIAL DES INSTITUTS SÉCULIERS Assise, Italie, 24 juillet 2012 « Un nouveau modèle de sainteté comme fidélité à Dieu dans le monde » Une très belle chanson du grand poète québécois Félix Leclerc contient les paroles suivantes : « C'est beau la vie, c'est grand la mort, c'est plein de vie dedans ». En regard du thème que l'on m'a demandé d'exposer aujourd'hui dans le cadre de cette Conférence mondiale des Instituts séculiers, je me permets de paraphraser notre illustre chansonnier en disant à ma façon : « C'est saint la vie ; c'est saint la mort, c'est plein de Dieu dedans » ! En effet, puisque Dieu est saint, voire trois fois saint, l'œuvre de ses mains ne porte-elle pas l'empreinte même de son Créateur ? Nous réfléchissons depuis hier à ce défi qu'il nous est demandé de relever, celui d'être à l'écoute de Dieu sur les sentiers de l'histoire dans laquelle nous sommes appelés à vivre intensément notre vocation chré- tienne. Nous cherchons à définir de nouveaux modèles de sainteté dans le monde, tout en demeurant fidèles à Dieu. D’entrée de jeu, je vous livre en un seul mot la clé d’interprétation de mes propos concernant la sainteté, son essence et sa plus belle manifestation, Jésus Christ ! Il est, Lui, le nouveau modèle de sainteté. Il est Celui qui a incarné la fidélité à Dieu dans le monde. Nous ne trouverons rien de neuf en dehors de Lui, car il est l’Alpha et l’Oméga. « Jésus Christ est le même, hier, aujourd’hui et éternellement » (He 13, 8). L'œuvre sainte de Dieu Créateur J’attire votre attention sur le mot saint, lequel résonne dans notre Église depuis des siècles en chacune des célébrations eucharistiques. Le SANCTUS est le principal hymne d'adoration de notre liturgie ; c'est le cantique du cérémonial céleste. La première partie de cet hymne vient du prophète Isaïe qui a entendu les Séraphins s'exclamer par trois fois : « Et ils se criaient l'un à l'autre ces paroles : Saint, saint, saint est le Seigneur Sabaot, sa gloire remplit la terre » (Is 6, 3). La seconde vient de l'acclamation de la foule agitant des rameaux lors de l'entrée de Jésus à Jérusalem, la veille de sa passion : « Les foules qui marchaient devant lui et celles qui suivaient criaient : « Hosanna au fils de David ! Béni soit celui qui vient au nom du Seigneur ! Hosanna au plus haut des cieux ! » (Mt 21, 9). Vous aurez sans doute remarqué que dans le premier texte en particulier, la référence à la sainteté de Dieu ne se chuchote pas comme cela pourrait convenir dans la majesté d'une cour divine. Elle se crie à tuetête comme un tonnerre qui se répercute jusqu'aux confins de l'univers et au tréfonds des cœurs. Cette sainteté est contagieuse et impérieuse. Elle a d'abord dicté au prophète Isaïe une prise de conscience de sa nature peccable : « Malheur à moi, je suis perdu ! car je suis un homme aux lèvres impures » (Is 6, 5). Mais immédiatement après cet aveu, un formidable processus de conversion s'est opéré en lui. Lorsque la voix de Dieu trois fois saint se fait entendre pour l'inviter, malgré tout, à Le servir dans l'accomplissement d'une exigeante mission prophétique, il relève le défi et répond : « Me voici, envoie-moi » (Is 6, 8). Comment, tel Isaïe, sommes-nous interpellés, appelés, dans notre vie chrétienne, et comme membre d’un Institut séculier, par la sainteté de Dieu ? Quel lien peut-on 2 faire entre la sainteté de Dieu et notre mission de vivre saintement dans ce monde, en quelque temps et en quelque lieu que ce soit ? L'appel de Dieu à la vie Au cours de notre vie, chacun et chacune de nous sommes invités à répondre à un grand nombre d'appels, à commencer par le plus fondamental, celui du Créateur à entrer dans le monde des vivants : « Dieu créa l'homme à son image, à l'image de Dieu il le créa, homme et femme il les créa. » (Gn 1, 26-27). Dès le moment de notre conception et de notre naissance, nous sommes appelés par Dieu à faire partie de la noble cohorte de ces êtres qui, depuis des millions d'années, peuplent la terre et lui confèrent son caractère le plus prestigieux, l'humanité. L'entrée dans un monde créé par Dieu pour que l'homme y réalise son destin porte l'empreinte indélébile de son Créateur : « Dieu vit tout ce qu'il avait fait : cela était très bon. » (Gn 1, 31). En tant que membres d'un Institut séculier, nous avons à cœur de reconnaître la sainteté de ce monde créé par Dieu et de devenir des modèles pour la réalisation de son projet pour l'humanité. De quel autre modèle plus approprié pouvons-nous aujourd'hui évoquer le souvenir dans cette douce ville d'Assise, que celui du plus illustre de ses fils, une figure parmi les plus sympathiques de l'hagiographie chrétienne, celui que nous appelons fraternellement François, ce jeune, séduit par Jésus Christ et son Évangile ? Nous y reviendrons plus tard dans cette conférence. Voici un homme qui a perçu avec une étonnante sensibilité le caractère sacré de la nature créée par Dieu, et qui l'a chanté en des accents poétiques qui témoignent de sa foi profonde : « Loué sois-tu, mon Seigneur, avec toutes tes créatures, et surtout Messire frère soleil... » et de décliner par la suite tous les éléments de la création. N'est-ce pas de cette façon que nous devrions reconnaître la beauté dont le Créateur a pourvu son œuvre qu'il a faite sainte, tout ce qui est visible et ce qui est invisible, et ainsi d'enrichir notre vie de la joie d'en être partie prenante pour nous exclamer avec le psalmiste : « Les cieux racontent la gloire de Dieu, et l'œuvre de ses mains, le firmament l'annonce ! » (Ps 19, 2) ? L'influence de François a traversé les siècles et franchi les continents et les mers. Il a prêté son nom à de 3 nombreuses générations de chrétiens dont celui de mon prédécesseur, le Bienheureux François de Laval, premier évêque de Québec. Loin de moi l'idée de suggérer l'image d'une terre idyllique, sans failles et sans défauts, une sorte de paradis terrestre comme le décrivent certains auteurs du XVIe siècle après s'être aventurés, souvent par hasard d'ailleurs, dans le Nouveau Monde. Nous sommes bien loin de nous imaginer le monde créé par Dieu comme un paradis, même perdu, et les humains qui l'habitent comme des anges, qui nous paraissent parfois hélas quelque peu déchus. L'histoire récente de l'humanité a douloureusement mis en exergue des traits particulièrement violents du comportement de certains de nos contemporains. Les conflits continuent de causer des ravages en de nombreux points du globe. Nous assistons ébahis et impuissants à la dégradation rapide de notre planète contaminée par des gaz à effet de serre et par de multiples autres matières polluantes. Les bulletins d'information ne cessent de nous transmettre des images de massacres d'humains, de cataclysmes qui fauchent en une seule vague ou en de violentes secousses telluriques des milliers de personnes qui n'avaient pour seule faute que de s'y trouver à ce moment précis. Est-ce bien cette terre que le Créateur, dans son infinie sainteté, a léguée en héritage aux humains pour qu'ils s'y multiplient et la soumettent ? Pour diverses raisons, j'affirme que nous avons le devoir de surmonter les obstacles que la vie nous impose et de percevoir partout le bel ouvrage de Dieu. Et voici la principale raison. Le chef-d'œuvre de la création : le Verbe de Dieu donné au monde Dieu a parfait l'œuvre de sa création en donnant au monde le plus saint de ses trésors, son Fils lui-même : « Et le Verbe s'est fait chair et il a demeuré parmi nous et nous avons vu sa gloire, gloire qu'il tient de Son Père comme fils unique, plein de grâce et de vérité. » (Jn 1, 14). Dès les débuts de sa vie publique, lors de son baptême dans le Jourdain, Jésus de Nazareth se voit désigné par le Père comme « ... le Fils bien aimé qui a toute ma faveur » (Mc 1, 11). Dans le même récit évangélique, cette fois à l'occasion de la Transfiguration de Jésus, la voix de Dieu enjoindra les disciples à le choisir comme modèle : « Celui-ci est mon Fils, mon élu ; écoutez-le. » (Lc 9, 36) Voilà donc établie la suprématie du Christ et 4 confirmé le rôle qu'il va jouer dans le salut de l'humanité tout entière, et dans l'accomplissement du projet de sanctification de toutes les personnes qui, pour la suite du monde, voudront suivre ses pas. Jésus Christ, le parfait modèle de sainteté pour tous les temps Quel modèle plus pertinent pouvons-nous évoquer pour s’assurer de vivre selon le plan que Dieu a tracé pour l'humanité et de transformer le monde avec Lui, que de porter notre regard sur Jésus lui-même ! Le Christ Jésus a bien balisé le chemin pour que nous soyons à notre tour le sel de la terre et la lumière du monde, et que nous devenions de nouveaux modèles de sainteté aujourd'hui, dans ce monde qui est le nôtre. Le Seigneur Jésus a sincèrement aimé la terre et tous ses habitants et il en a reconnu le caractère sacré. Un grand nombre de paraboles qu'il utilise pour annoncer son message font référence à une nature qu'il trouve belle, qu'il habite de jour et souvent de nuit. Ainsi, il évoque le figuier, les lys des champs, les blés cueillis même le jour du sabbat, les oiseaux, l'eau des lacs et des rivières, la terre, le vent et le ciel, le vin des noces à Cana et le pain de la Cène. Tous ces éléments témoignent d'une étroite familiarité avec l'environnement dans lequel il vit. Mais sa plus grande sollicitude se traduit envers son peuple, les femmes, les petits enfants et les hommes de son temps, à l'endroit desquels il démontre un profond intérêt, une touchante affection, de sincères effusions de sympathie et de pitié. Il constate combien le mal et la maladie ravagent les corps et les esprits et il s'emploie à les soulager et à les guérir. Loin de se défiler devant les problématiques sociopolitiques ou religieuses de son époque, il propose des réponses qui témoignent de son attachement inconditionnel à l'Amour de son Père qui s'avère le fondement de toute son action, de toutes ses décisions et de toute sa vie. Cette sainteté fera une telle impression sur ses contemporains, qu'elle enflammera le cœur de nombreux disciples. Comme le Christ le leur a enseigné, ils se répandront à travers le monde connu et leur action aura des effets jusqu'à nous : « Jésus leur dit ces paroles : Tout pouvoir m'a été donné au ciel et sur la terre. Allez donc, de toutes les nations faites des disciples, les baptisant au nom du Père et du Fils et du Saint Esprit, et leur apprenant à observer tout ce que je vous ai prescrit. Et moi je suis avec vous pour toujours, jusqu'à la fin du monde. » (Mt 28, 19-20) 5 Le message évangélique qui inspire la vie des chrétiennes et des chrétiens émane en droite ligne de la personne du Christ « ... le Chemin, la Vérité et la Vie » (Jn 14, 6). L'existence chrétienne est porteuse d'un sens qui nous guide dans l'ensemble de notre parcours de vie, dans nos relations humaines, dans nos activités professionnelles et sociales. Nous tentons alors d'imiter les valeurs les plus fondamentales que le Christ a jugées lui-même conformes à la volonté de son Père : « Si vous gardez mes commandements, vous demeurez en mon amour comme moi j'ai gardé les commandements de mon Père et je demeure dans son amour » (Jn 15, 10). Ce sont en effet de telles valeurs qui ont suscité l'admiration des personnes qui ont eu le privilège de le connaître ou de le rencontrer, et qui ont marqué celles qui ont accueilli son enseignement. Regardons de plus près quelques-unes de ces valeurs fondatrices privilégiées par Jésus. Prenons le temps de constater comment elles sont susceptibles de provoquer l'engagement des chrétiennes et des chrétiens, particulièrement les membres d'Instituts séculiers que nous sommes, dans notre marche vers la sainteté au cœur du monde. La reconnaissance de la dignité de la personne humaine est une des valeurs les plus fondamentales prisées par le Christ Jésus dans sa vie et dans son enseignement. De nombreux récits évangéliques décrivent le Seigneur franchissant certains tabous sociaux de son époque. Il a osé manifester de la compassion envers des personnes qui étaient considérées comme une quantité négligeable dans la société, par exemple les enfants ou certaines catégories de personnes malades comme les lépreux qui étaient frappés d'exclusion et méprisés. Il a exprimé une profonde pitié envers les malades qui accouraient vers lui par milliers pour être guéris d'afflictions souvent considérées comme honteuses. Une des attitudes les plus audacieuses et les plus novatrices pour un homme de ce temps, c’est sa position à l'égard des femmes, fussent-elles prostituées, veuves, étrangères ou tout simplement des amies très chères. Voilà quelques-unes des valeurs estimées par Jésus, et qui sont susceptibles de faire naître par émulation de nouveaux modèles de sainteté parfaitement compatibles avec le plan de Dieu dans notre monde. Comment peut-on y arriver ? 6 Baptisés en Jésus Christ, nous vivons de sa vie et rayonnons de l'ardeur de notre foi Nous sommes appelés à devenir à notre tour des témoins de la sainteté de Dieu dans cette communauté croyante qu'est l'Église de Jésus Christ et dans le monde qu'elle a pour mission de guider et de sanctifier. Le moment fondateur de notre vocation, c’est le baptême qui nous recrée et qui nous confère notre identité insigne d’enfant de Dieu pour une vie nouvelle et éternelle. Lorsque nous avons choisi de parfaire notre vie baptismale en nous joignant à un Institut séculier, c'était pour mieux répondre, jour après jour, à l'appel du Christ à devenir saints, saintes : « Mais, de même que celui qui vous a appelés est saint, devenez saints, vous aussi, dans toute votre conduite, selon qu'il est écrit : Vous serez saints, parce que moi, je suis saint » (1 P 1, 15-16). Voilà le défi que nous devons surmonter ou la belle mission à réaliser, vivre saintement dans notre monde toujours en quête de sens, assoiffé de vérité, qui semble si rébarbatif à toute référence au sacré, notamment à la religion, sans céder à l'effet d'osmose qui risquerait de nous entraîner et de nous décourager mais en demeurant centrés sur le Christ. Car ni le Christ Jésus, ni les Écritures, nous fournissent une réponse facile et immédiate aux problèmes majeurs de notre temps. Notre foi ne dispose pas de recettes magiques pour résoudre les grandes questions existentielles sur l'origine du monde et de la vie, ou sur ce que l'on doit entendre par la qualité de la vie ou la dignité de la mort. Elle est constamment confrontée aux problèmes éthiques résultant des recherches biomédicales, technologiques et des transformations sociopolitiques et économiques qui remodèlent le monde à un rythme affolant. Elle n'efface pas nos craintes devant le déploiement d'armes de destruction massive, ni devant l'incertitude à laquelle peut conduire un développement erratique de la science et de la technologie. Nous vivons au cœur d’un monde en pleine ébullition. Nous savons reconnaître les avancées positives de la science, de la technologie et les progrès de la médecine, ce qui met en valeur les capacités humaines reçues du Créateur. Toutefois, nous sommes appelés, par notre baptême et notre condition de disciple du Christ, à porter un regard critique devant des choix de société qui contribuent en rien à l’avancement de l’humanité parce qu’ils ne respectent pas la dignité de l’être humain. 7 Dans un monde sécularisé et rébarbatif Un regard rapide sur les grandes tendances de nos sociétés occidentales nous renvoie une image qui heurte souvent notre compréhension des repères les plus fondamentaux de notre code de conduite chrétien : hédonisme, individualisme, mercantilisme, injustice, indifférence, voire mépris à l'égard du sacré et de la religion, faisant apparaître des comportements qui vont à l'encontre de l'idéal proposé par l’Évangile. On assiste présentement à un désolant manque de culture religieuse même chez les personnes d'une génération où la foi a été plus systématiquement enseignée mais où, pour des raisons diverses, ces hommes et ces femmes n'ont pas fait la rencontre personnelle avec le Christ. C'est dans ce terreau que nous sommes invités à être « une lampe qui brille pour ceux qui sont dans la maison » (Mt 5, 16). Les propos qu'adressait le Bienheureux pape Jean-Paul II aux participants du Congrès mondial des Instituts séculiers, en 1980, demeurent tout aussi pertinents pour nous ici à Assise, en ce 24 juillet 2012. Le Saint Père citait alors les paroles de son prédécesseur, le pape Paul VI, aux Responsables généraux des Instituts séculiers (le 25 août 1976) : « S'ils demeurent fidèles à leur vocation propre, les Instituts séculiers deviendront comme le laboratoire d'expériences dans lequel l'Église vérifie les modalités concrètes de ses rapports avec le monde. C'est pourquoi ils doivent écouter comme leur étant adressé surtout à eux, l'appel de l'Exhortation apostolique Evangelii nuntiandi : « Leur tâche première... est la mise en œuvre de toutes les possibilités chrétiennes et évangéliques cachées, mais déjà présentes et actives dans les choses du monde. Le champ propre de leur activité évangélisatrice c'est le monde vaste et compliqué de la politique, du social, de l'économie, mais également de la culture, des sciences et des arts, de la vie internationale, des mass media (no 70). » Voilà le champ fertile déjà tout tracé pour entreprendre une nouvelle évangélisation! Voyons rapidement comment notre recherche de modèles de sainteté pourra fructifier dans ce nouveau paysage où nous sommes les ouvriers envoyés à la vigne du Seigneur. Prêtons encore l'oreille à ce que le Bienheureux pape Jean-Paul II écrivait dans son Exhortation apostolique Christifideles Laici (30 décembre 1988, No 3) sur l'attitude qu'il convient d'avoir face au monde dans lequel nous vivons : « Il faut donc regarder en face ce monde qui est le 8 nôtre, avec ses valeurs et ses problèmes, ses soucis et ses espoirs, ses conquêtes et ses échecs : un monde dont les conditions économiques, sociales, politiques et culturelles présentent des problèmes et des difficultés encore plus graves que celles décrites par le Concile dans la Constitution pastorale Gaudium et Spes. De toute manière, c'est là la vigne, c'est là le terrain sur lequel les fidèles laïcs sont appelés à vivre leur mission. Jésus veut pour eux, comme pour tous ses disciples, qu'ils soient le sel de la terre et la lumière du monde. » Est-il donc si difficile de répondre à l'invitation du Christ, notre voie et notre modèle, qui nous invite à le suivre « ... afin que, là où je suis, vous soyez vous aussi » (Jn 13, 3) ? Nous touchons ainsi au cœur du dilemme qui nous guette comme disciples avides d'accomplir notre idéal de sainteté en demeurant fidèles au plan de Dieu sur le monde. Comment agir conformément à nos convictions dans le monde dans lequel nous vivons ? Faut-il le mépriser et s'en retirer, l'ignorer et vivre en vase clos, ou plutôt l'aimer et croire que l'Esprit l'habite et le sanctifie ? Je propose une vision positive de notre appartenance au monde. Dieu l'a créé pour nous. « Dieu est notre Père en tant qu'Il est notre créateur. Parce qu'Il nous a créés, nous Lui appartenons. L'être en tant que tel vient de Lui, il est donc bon et participation de Dieu. » (Ratzinger/Benoît XVI, Jésus de Nazareth, 2007, p 161). Nous sommes maintenant invités à participer avec Lui à sa recréation avec la force de l'Esprit de Jésus ressuscité ! La voix du Seigneur se transmet à travers les événements de l'histoire de l'Église et de l'humanité, comme nous le rappellent les Pères du Concile Vatican II : « Mû par la foi, se sachant conduit par l'Esprit du Seigneur qui remplit l'univers, le Peuple de Dieu s'efforce de discerner dans les événements, les exigences et les aspirations de notre temps, auxquels il participe avec les autres hommes, quels sont les signes véritables de la présence ou du dessein de Dieu. La foi, en effet, éclaire toutes choses d'une lumière nouvelle et nous fait connaître la volonté divine sur la vocation intégrale de l'homme, orientant ainsi l'esprit vers des solutions pleinement humaines. » (Constitution pastorale Gaudium et Spes, 11). Les récits de la Création nous rappellent comment Dieu s’est émerveillé devant son œuvre et l’a trouvée « bonne ». Nous devons être capables d’en faire autant. Toutefois, le Seigneur a aussi été capable de voir la souffrance et le mal qui sont entrés dans le monde à cause du pé9 ché. Ce monde dans lequel nous vivons, souvent inquiétant et menaçant, nous force à nous en remettre aux lumières de l'Esprit de Dieu et aux enseignements du Magistère de son Église. Nous avons le devoir de veiller, de travailler dans la mesure de nos moyens à modifier certaines problématiques qui sont de notre ressort et à espérer, contre toute espérance, dans la joie et la solidarité humaine. Voilà des pistes que les baptisés, et particulièrement les femmes et les hommes membres d'Instituts séculiers, peuvent explorer pour esquisser des modèles de sainteté dans leurs engagements respectifs. Certes, ce n'est pas une mince tâche, mais quel défi intéressant ! Un monde en attente d'amour, de foi et d'espérance Comment définir un modèle de sainteté dans un monde qui fait du plaisir le principe et le but de la vie, et qui recherche le maximum de satisfaction par le minimum d'effort ? Vous aurez reconnu en ces mots la définition de l'hédonisme et de l'individualisme qui s'en rapproche, deux courants caractéristiques de notre société actuelle. Il est vrai que cette tendance à la facilité et au repli sur soi s'observent dans le comportement de groupes sociaux et d'individus toujours plus avides d'obtenir de plus en plus de bénéfices au détriment des responsabilités qui devraient les accompagner. Mais il est aussi vrai que de formidables forces de générosité et de partage sont à l'œuvre dans le monde. Pensons aux luttes contre la pauvreté et l'analphabétisme, aux secours apportés aux victimes de guerres et d'autres catastrophes par les médecins sans frontières et des bénévoles au grand cœur, aux milliers d'hommes et de femmes qui, au nom de leur foi chrétienne, militent en faveur du respect de la vie ou pour l'établissement de la justice et de la paix. Considérant ces multiples manifestations de gratuité, de générosité et d'altruisme, je ne puis qu'admirer la mise en œuvre de ce que nous pouvons appeler la Charte de la sainteté chrétienne, le magistral discours des béatitudes : « ... Heureux les affamés et assoiffés de justice car ils seront rassasiés... Heureux les artisans de paix car ils seront appelés fils de Dieu. » (Mt 5, 69) C'est dans ce monde que nous sommes appelés à porter la Bonne Nouvelle par une nouvelle évangélisation. Appelés à témoigner de l'amour de Dieu par une nouvelle évangélisation 10 Bien que le terme « nouvelle évangélisation » soit maintenant assez répandu et suffisamment assimilé, il demeure une expression récemment apparue dans l'univers de la réflexion ecclésiale et pastorale, de sorte que sa signification n'est pas toujours claire et établie. C'est le Bienheureux pape Jean-Paul II qui a d'abord prononcé le terme nouvelle évangélisation. Il en a fait une pièce maîtresse de son Magistère : « Aujourd'hui, on doit affronter avec courage une situation qui se fait toujours plus diversifiée et plus prenante, dans le contexte de la mondialisation et de la mosaïque nouvelle et changeante de peuples et de cultures qui la caractérise. À maintes reprises, j'ai répété ces dernières années l'appel à la nouvelle évangélisation. Je le reprends maintenant, surtout pour montrer qu'il faut raviver en nous l'élan des origines, en nous laissant pénétrer de l'ardeur de la prédication apostolique qui a suivi la Pentecôte. Nous devons revivre en nous le sentiment enflammé de Paul qui s'exclamait : « Malheur à moi si je n'annonçais pas l'Évangile ! » (1 Co 9, 16) (Novo Millenio Ineunte, No 40). Sa Sainteté notre pape Benoît XVI poursuit maintenant l'orientation de son prédécesseur comme l'attestent la création du Conseil pontifical pour la nouvelle évangélisation, le 12 octobre 2010, et la tenue du prochain Synode des évêques à Rome, du 7 au 28 octobre, lequel portera sur « La nouvelle évangélisation pour la transmission de la foi chrétienne ». Le Saint Père précisera d'ailleurs ses intentions en regard de ce Conseil en affirmant : « Faisant mienne la préoccupation de mes vénérés prédécesseurs, je considère opportun d'offrir des réponses adéquates afin que l'Église tout entière, se laissant régénérer par la force de l'Esprit Saint, se présente au monde contemporain avec un élan missionnaire en mesure de promouvoir une nouvelle évangélisation » (Motu Proprio « Ubicumque et Semper », 21 septembre 2010). L'Église et le monde ont besoin d'une nouvelle évangélisation, non d'un nouvel Évangile! Il s'agit donc d'annoncer la Bonne Nouvelle d'une manière renouvelée, en veillant à se concentrer sur le cœur de la foi qui peut retourner nos vies, toucher et attirer les cœurs des croyants et des non-croyants. Pour nous, membres de divers Instituts séculiers qui sommes appelés à participer à ce vaste chantier, il importe de se rappeler les conditions optimales de sa mise en œuvre, soit l'expérience profonde et personnelle de l'amour du Christ et de son salut. « Celui qui a vraiment rencontré le Christ ne peut le garder pour lui-même, et doit l'an11 noncer au risque de devoir se poser courageusement cette question : Si je n'ai pas le goût de l'annoncer, l'ai-je vraiment rencontré? » (Novo Millenio Ineunte, No 40). En tant que véritables croyants, croyantes, et avec le soutien de l'Esprit de Dieu, nous sommes appelés à la sainteté et invités à témoigner par toute notre vie de la beauté des valeurs évangéliques. Celles-ci doivent transpirer dans tout ce que nous sommes et faisons. L'évangélisateur témoigne de l'expérience personnelle et communautaire de l'Amour de Dieu, des merveilles de Dieu dans sa vie et non ce qu'il a appris sur Dieu. « Et voici quelle est la volonté de Dieu : c'est la sanctification » écrit l'apôtre Paul aux Thessaloniciens (1 Th 4, 3). Quelques beaux témoins de la présence agissante de Dieu Nous admirons des grands témoins dont la vie et l’œuvre ont touché et transformé l’humanité. Des laïcs comme Jean Vanier, Madeleine Delbrêl, Chiara Lubich, une Mère Teresa de Calcutta, et bien d’autres que nous pourrions évoquer. Voilà de véritables modèles dont le travail et l'influence témoignent de la puissance de l'Esprit en notre temps. Ce sont de tels comportements qui doivent nous inspirer dans notre cheminement de vie et dans la recherche de la sainteté. Le pape Paul VI disait bien que « L'homme contemporain écoute plus volontiers les témoins que les maîtres, ou s'il écoute les maîtres, il le fait parce qu'ils sont des témoins » (Evangelii Nuntiandi, no 41). Tout comme vous d'ailleurs, je connais personnellement des personnes qui, dans leur vie, expriment cette même soif de perfection et d'imitation du Christ, et qui agissent comme des phares dans l'univers nébuleux de la vie de certains de leurs contemporains. J'appartiens à l'Institut séculier Pie X, fondé en 1939 par le Père Henri Roy. Celui-ci avait l'habitude de dire : « Le seul défaut d'une vie c'est de ne pas devenir un saint. » Les gens qui l'ont côtoyé, l'ont qualifié de « obsédé de sainteté » (Revue Je Crois, 1985). Je conviens que cette expression peut paraître péjorative, mais je vous assure qu'il n'en est rien. Comme Frère François, comme tous les saints et saintes qui ont ponctué la vie de l'Église et marqué leur époque, le Père Roy aura été un véritable témoin de l'Amour et de la sollicitude de Dieu dans le monde. Il fut un ardent 12 artisan de la charité du Christ envers tous les humains, particulièrement les pauvres, les jeunes et les plus démunis d'entre eux. Comme l'exprimait déjà le prophète Jérémie, ces hommes et ces femmes sont des « fous de Dieu » : « Tu m'as séduit, Seigneur, et je me suis laissé séduire » (Jr 20, 7). Un modèle inspirant pour notre temps À certains moments de l'histoire, le destin semble hésiter entre heurt et malheur, comme s'il attendait la venue de quelqu'un mais personne ne vient. Vers la fin du XIIe siècle, dans cette ville d'Assise, un jeune réussit presque à faire triompher l'idéal. Sa vie se déroule en deux temps comme si elle devait illustrer ce qu'il y a de triste et de joyeux dans la vie, de petit et de grand, de mondain et de spirituel, d'oisif ou de sublime, dans un affrontement existentiel dont saint Paul résume à sa façon les paramètres, une vie où « les tendances de la chair s'opposent à l'esprit et les tendances de l'esprit s'opposent à la chair » (Ga 5, 16). Je cite l'exemple de saint François, non seulement parce que sa sainteté a été reconnue officiellement par l'Église, mais surtout parce que je perçois dans son cheminement un modèle susceptible d'inspirer nos propres recherches d'une vie sainte et épanouissante. François voit le jour à une époque où tous les excès de la vie sont monnaie courante. L'Antiquité païenne n'est pas encore oubliée et ses mœurs dissolues n'ont pas été oblitérées par le message chrétien. Le pays, comme l'ensemble de ceux d'Europe d'ailleurs, est déchiré par des guerres intestines et des luttes de pouvoir. Le clivage entre les riches et les pauvres crée des inégalités scandaleuses qui engendrent l'ignorance, la maladie, et la famine. L'Église elle-même vacille sur ses bases ; elle s'est éloignée de la fidélité à son Maître et sa mission s'en trouve pervertie. Un jour, François entendra la voix du Christ lui dire : « François, va et répare mon Église qui est en ruine. » François grandit dans une famille bourgeoise et sa jeunesse se gorge de tous les plaisirs et de toute l'insouciance que lui procurent la richesse, la notoriété et un caractère débonnaire qui lui attire facilement l'admiration et la sympathie de tous. Cette première partie de sa vie prendra fin dans une expérience spirituelle inusitée qui a débuté dans la petite église de San Damiano. Comme Blaise Pascal qui, en 1654, connaîtra une expérience similaire qu'il qualifiera de « nuit de feu », François 13 prend subitement et douloureusement conscience de sa condition pécheresse. L'image qu'il a de lui-même devient insupportable comparativement à ce qu'il perçoit de la personne du Christ. Saisi de remords mais surtout brûlant d'un amour inconditionnel pour Celui qu'il appelle désormais l'Amour, il s'engage à devenir un autre Christ. Il expérimentera à son tour cette expérience vécue avant lui par saint Paul : « Je suis crucifié avec le Christ ; et si je vis, ce n'est plus moi mais le Christ qui vit en moi. » (Gal 1, 19-20) François est désormais un homme nouveau. Il connaît bien la société et le monde dans lequel il vit. Il prêche en termes simples et compréhensibles la conversion, le renouveau, le retour à une foi non pas basée sur la connaissance de dogmes, la mise en œuvre de préceptes et la récitation machinale de prières, mais sur une véritable communion personnelle d'amour avec le Christ. Sa prédication n'est pas moralisante ; elle n'a rien de dogmatique, ni d'autoritaire. Il lui suffit de vivre comme Jésus, dans la joie, le partage, la compassion et la sainte pauvreté pour que son témoignage devienne son langage le plus éloquent. Celui qui n'a pas fait d'études théologiques, mais qui brûle de partager la joie que lui procure l'amour fou qu'il a de Dieu, se met en route et répand la Bonne Nouvelle en des mots qui sonnent vrais et qui touchent les cœurs. Par une vie d'obéissance et de pauvreté élevée au rang de vertu, pourvu qu'elle s'identifie à celle du Christ, François devient l'artisan d'une nouvelle évangélisation dans son monde. Son influence infléchira le cours de l'histoire de l'Église et celle du monde entier. Son message est un appel pressant aux hommes et aux femmes de tous les temps à se convertir, une invitation à se tourner résolument vers le Christ notre parfait modèle pour qu'il nous inspire les attitudes qui sont les siennes dans notre vie de tous les jours. 14 À notre tour de relever le défi et de servir de modèles dans la prière et l’accueil de la Parole de Dieu Chers frères et sœurs des Instituts séculiers qui œuvrez au cœur du monde par votre profession et par votre engagement au sein de l'Église, dans divers secteurs de la vie humaine et pastorale, ensemble nous croyons sincèrement que l'Esprit Saint nous guide dans notre recherche d'une vie épanouissante, ce que appelons notre aspiration à la sainteté. Et nous nous en remettons à son action bienfaisante et rassurante pour qu'il soit indéfectiblement notre guide pour la sainteté, tel que nous le dit le prophète Ézéchiel : « Je mettrai mon Esprit en vous et je ferai que vous marchiez selon mes lois et que vous observiez et suiviez mes coutumes » (Ez 36, 26-27). Profondément enracinés dans ce monde dont nous nous employons à découvrir les beautés et les grandeurs, nous savons qu'il est saint parce qu'il vient de Dieu et qu'il est habité par Lui. Nous constatons que le don le plus sublime du Créateur envers les humains est son Fils, notre Seigneur Jésus Christ. Par Lui et en Lui, nous reconnaissons la Voie et la Vérité. Nous sommes assurés de pouvoir compter sur la force de son Esprit pour affronter pacifiquement et positivement tous les obstacles qui surgiront sur nos chemins de vie. « Oui, cherchez à imiter Dieu, comme des enfants bien-aimés, et suivez la voie de l'amour, à l'exemple du Christ qui vous a aimés et s'est livré pour nous, s'offrant à Dieu en sacrifice d'agréable odeur » (Ep 5, 1). Ce défi n'est pas simple à relever. Il a été difficile pour Jésus de surmonter les embûches qui lui furent tendues, les trahisons de ses amis, l'incompréhension à l'égard de son message, les souffrances de sa passion. Mais il a vaincu l'adversité par le moyen de la prière. En tout temps, jour et nuit, et particulièrement lorsque le poids de sa mission s'avérait lourd à porter, il se tournait vers son Père et il priait. La prière était au cœur de la vie de Jésus. Elle était un dialogue constant avec Celui qui l'avait envoyé. Elle était la consolation dans la nuit du doute, sa nourriture dans les déserts et son réconfort dans l'épreuve. La prière était l'exutoire dans les moments d'intenses joies et des grandes émotions, la source à laquelle il s'abreuvait pour réaliser les miracles de la guérison des âmes et des corps. Jésus était prière, accomplissant en toutes choses la volonté de son Père, faisant de nous ses enfants. « Et la preuve que vous êtes des fils, c'est que Dieu a envoyé dans nos cœurs l'Esprit de son Fils qui crie : Abba ! Père ! » (Ga 4, 4-6). 15 Quand les apôtres demanderont au Seigneur de leur apprendre à prier (cf. Lc 11, 20), Il leur enseignera à dire « Notre Père » avec des mots qui jailliront de son cœur, la prière qu'il a adressé lui-même à Dieu et à laquelle il a associé désormais tous les membres de sa famille. Chers amis, voilà l'outil par lequel nous pouvons devenir des modèles de sainteté. La prière est le cri et le souffle de l'Esprit en nous qui nous propulse vers nos frères et sœurs partout où ils se trouvent. Un autre élément essentiel dans la conquête de la sainteté se veut la place qu’occupe la Parole de Dieu dans notre vie quotidienne. Les prophètes avaient deux ressources pour vivre leur mission : la prière et la Parole de Dieu. Il ne peut pas en être autrement pour nous. Accueillir, méditer, vivre de la Parole de Dieu se révèle un chemin sûr pour faire de nous des saints, des saintes, pour que notre vie soit ajustée au plan de Dieu et porte de grands fruits. Car la Parole, c’est Quelqu’un, c’est le Verbe fait chair. Dans la vigne du Seigneur, ici et maintenant Nous travaillons à faire en sorte que la beauté éclate de partout, qu'elle témoigne de la bonté, de la grandeur, du génie et de l'Amour du Créateur. Là où nous sommes, dans nos institutions d'enseignement, dans nos familles, nos villages et nos villes où nous veillons à la croissance d'une jeunesse heureuse et de citoyens engagés dans des causes nobles et durables ; dans les usines et les laboratoires où nous cherchons à améliorer les conditions de vie de nos concitoyens ; dans les hôpitaux, les cliniques, les résidences de personnes âgées où nous soulageons la maladie, la souffrance de l'abandon et de la solitude ; dans les associations où nous créons des conditions favorables à l'établissement de la paix, de la justice et du bonheur ; dans nos communautés chrétiennes où nous nous employons à redire le message d'amour et de réconciliation inspiré par notre fol amour pour le Christ, voilà le terreau dans lequel nous semons quotidiennement les germes d'une sainteté dont émergent et émergeront de nouveaux modèles. Nous le faisons avec les yeux et le cœur fixés sur le Christ dont nous sommes les témoins actifs en tout ce que nous réalisons. Je cite avec plaisir les paroles du Cardinal Etchegaray aux prêtres de son diocèse de Marseille, en la célébration du Jeudi saint 1978. Elles 16 résument avec pertinence cette préoccupation qui est la nôtre, de devenir des modèles de sainteté en notre temps : « Si tu diminues le pas, les croyants s'arrêtent ; si tu faiblis, ils titubent ; si tu t'assoies, ils se couchent ; si tu doutes, ils se découragent ; si tu critiques, ils détruisent ; si tu vas en avant d'eux, ils vont te surpasser ; si tu leur donnes la main, ils donneront même leur peau ; si tu pries, alors ils seront des saints » (Texte attribué à Michel Menu, adressé aux Scouts de France). Mais le véritable mot de la fin appartient à Jésus, comme un appel urgent, un défi emballant, une invitation à participer joyeusement et courageusement à sa mission : « À la vue des foules il eut pitié car ces gens étaient las et prostrés comme des brebis qui n'ont pas de berger. Alors il dit à ses disciples : La moisson est abondante mais les ouvriers peu nombreux ; priez donc le Maître de la moisson d'envoyer des ouvriers à sa moisson » (Mt 9, 36-38). Il nous reste à répondre comme Isaïe : « Me voici, envoie-moi » (Is 6, 8). En tout et pour tous à la suite de Jésus Avec le Christ, nous irons arpenter les sentiers de l'histoire. Ceux qui sont sinueux et sillonnés d'ornières, ceux qui semblent conduire à des impasses, ceux qui semblent moins encombrés et moins menaçants, ceux qui ouvrent grand sur des horizons prometteurs. Nous irons à la rencontre de nos frères et de nos sœurs en humanité qui fréquentent ces chemins, partout où ils se trouvent. Nous leur tendrons tantôt une main secourable, nous leur offrirons à boire ou à manger pour leur corps et pour leur esprit. Nous partagerons avec eux qui un vêtement, nos biens, nos talents, notre temps. Nous consolerons des affligés et nous sécherons leurs larmes ; nous visiterons des prisonniers et nous leur dirons des mots qui réchaufferont leur cœur. Nous mettrons l'épaule à la roue pour que tous nos efforts contribuent à l'édification de la paix et de la réconciliation. Nous dénoncerons les injustices et les inégalités, et nous prendrons le parti des pauvres et des déshérités. Nous travaillerons à l'avènement d'un monde meilleur, plus beau, plus prospère, plus équitable et nous affirmerons que c'est ainsi que Dieu notre Père l'a voulu. Sur ces routes, nous annoncerons partout que Dieu est Amour, qu'il est Juste et Bon, que chaque personne est unique, qu’elle compte pour Lui et qu'il l'aime. Nous tenterons de convaincre chacune 17 des personnes qu'en dépit de toutes les apparences et de tout ce qu'elle s'imagine, elle n'a qu'à se laisser aimer puisque que Lui n'attend qu'à l’aimer, à être aimé et à entrer dans une Alliance éternelle. À la suite de Jésus qui a marché sur nos routes, y semant les germes d'une vie humaine heureuse et aimante, mais encore plus une vie qui s'épanouira dans la maison de notre Père, nous nous recommanderons à son Esprit pour qu'il nous guide, nous renforce dans nos efforts et nous accompagne. Alors, comme il l'a promis, nous l'entendrons dire : « Venez les bénis de mon Père, recevez en héritage le Royaume qui vous a été préparé depuis la fondation du monde. Car j'ai eu faim et vous m'avez donné à manger, j'ai eu soif et vous m'avez donné à boire, j'étais un étranger et vous m'avez accueilli, nu et vous m'avez vêtu, malade et vous m'avez visité, prisonnier et vous êtes venus me voir... En vérité je vous le dis, dans la mesure où vous l'avez fait à l'un des plus petits de mes frères, c'est à moi que vous l'avez fait » (Mt 25, 34-40). À ce moment, nous réaliserons que nous aurons parcouru les chemins de la sainteté dans une démarche amoureuse de fidélité à Dieu dans le monde où il nous a créés. Ensemble, poursuivons avec audace, courage et dans la joie la mission confiée. Le Seigneur nous y appelle, ne tardons pas, il est toujours avec nous. 18 New Languages and a new language for the Church Dr. Ivan Netto M.D. ( A talk delivered at the 2012 Congress of the CMIS (World Conference of Secular Institutes) What is new media? It is a generic term for the many different forms of electronic communication that are made possible through the use of computer technology. The term is in relation to "old" media forms such as print newspapers and magazines that are static representations of text and graphics. New media includes: Web sites, chat rooms, e-mail, online communities, web advertising, DVD and CD-ROM media, virtual reality environments, internet telephony (integration of digital data with the telephone), podcasts, RSS feeds, social networks, text messaging, blogs, virtual worlds, mobile computing etc The Catholic Church once a leader in communications, according to some, now lags behind the rest of the world in new media participation. They argue that the utilization of new media by the Catholic Church would seriously benefit its catechetical, evangelical, and other communications efforts by providing easy-access, cost-effective, community-building resources to the church members at home or abroad as well as to the rest of the world. What does new- media help you to do? It CONNECT people with information and services. For example: AIDS patients can connect with their families, friends, other AIDS patients and care providers. It helps people COLLABORATE with other people. For example: It helps organization working for AIDS to work together for AIDS patients. 1 It helps one to CREATE new content, services, communities, and channels of communication that help to deliver information and services. For example: AIDS organizations can make their own websites and blogs What are the reactions to new media? The Holy Father Pope Benedict VI emphasized that new media should not be greeted with facile enthusiasm or skepticism. He said however that the Church should learn to use new media effectively. Like any language, the Pope said, the new media bring its own distinctive ways of conveying thoughts and organizing ideas. All languages shape the way thoughts are expressed and the social media bring to the front capacities that are more intuitive and emotional than analytical, tending towards a different logical organization of our ideas and our relationship with reality. This new language has drawbacks, the Pope added—particularly for those who use the social media without understanding how it operates. The risks involved are many such as the loss of inner depth, superficiality in relationships, the flight into emotionalism, the prevalence of the most convincing opinion over the desire for truth. The Pope recommends that the Pontifical Council for Social Communications to help people in positions of responsibility in the Church to understand, interpret and speak the 'new language' of the mass media in their pastoral functions. What is the Catholic Church’s teaching on new media? There have been many Church teaching on evangelization, media, and new media. There is the hope of an update on the Church’s teaching in the near future. The first teaching on the subject was Apostolicam Actuositatem, the Second Vatican Council’s decree on the Apostolate of the Laity in 1965 followed ten years later by Evangelii 2 Nuntiandi both promulgated by Pope Paul VI. These two documents serve as a basis for understanding the Church’s view of evangelization, especially as it pertains to the laity. Then followed Pope John Paul II’s apostolic letter, “The Rapid Development” in 2005 and Pope Benedict XVI’s encyclical letter “Caritas in Veritate” in 2009. These two documents help in understanding the Church’s teaching on communications and media. Finally, a recent document, “New Technologies, New Relationships,” promulgated by Pope Benedict XVI on new media and their effects on human relationships. In Apostolicam Actuositatem, the Council encourages laypeople to be more diligent in doing what they can to explain, defend, and properly apply Christian principles to the problems of our era in accordance with the mind of the Church. This emphasizes that all Christians, are entrusted with the mission to make the divine message of salvation known and accepted by all men throughout the world. They should do so by personal witness and the proclamation of the gospel in their daily life to the laity who live near them. The documents highlights that evangelization is a rich and personal process and the duty of every Christian. The Council makes it clear that evangelization should not only be the work of individuals but also of communities. All should witnesses and proclaim of the gospel. Pope Paul VI in Evangelii Nuntiandi, teaches that evangelizing is in fact the grace and vocation proper to the Church and her deepest identity. The Church exists in order to evangelize. The Pope emphasizes that what is important is to evangelize man's culture and cultures not in a purely decorative way but in depth and right to their very roots. The Pope clarifies two points. First, evangelization must create change at the root of a culture where the values are present. Second the Pope maintains that the person-to-person form of encounter is very important and is in imitation of to Jesus Christ’s own encounters with individuals in the gospels like the Samaritan woman. In “The Rapid Development”, John Paul II teaches that in communications media, the Church has precious aid for spreading the Gospel and religious values, for promoting dialogue, ecumenical and inter-religious cooperation, and also for defending those solid principles 3 which are indispensable for building a society which respects the dignity of the human person and is attentive to the common good. The Church sees media as tools which must be used to fulfill its multifaceted, God-given mission in the world. The Pope adds that everything must be done for this mission to be completed. He points out how media can render the bonds of communion among ecclesial communities more effective. The Pope remarks that the modern technologies increase to a remarkable extent the speed, quantity and accessibility of communication. He pointed to some flaws in communications media that they above all do not favor that delicate exchange which takes place between mind and mind, between heart and heart, which should characterize any communication at the service of solidarity and love. Pope Benedict XVI in Caritas in Veritate maintains that communications media and technology in general, express the inner tension that impels humanity gradually to overcome material limitations and that they reflect a transcendent desire. Technology is a response to God’s command to till and to keep the land that he has entrusted to humanity.(Gen 2:15) The Church views technology itself as not inherently good or evil, but the expression of a God-given human quality which can be used for the good of humanity. Pope Benedict XVI in “New Technologies, New Relationships” offers some guidance to those using new media, emphasizing several ways new media affects human relationships. He begins by saying that the speed with which new media technologies develop and become popular should not surprise us, as new media respond to a fundamental desire of people to communicate and to relate to each other. He celebrates the idea that new media not only allows people to connect with one another but that these connections facilitate forms of cooperation between people from different geographical and cultural contexts that enable them to deepen their common humanity. Pope Benedict XVI launched the new Vatican website on 29th June 2011 through an iPad tablet device in these words “Dear Friends, I just launched News.va. Praised be our Lord Jesus Christ! 4 With my prayers and blessings, Benedictus XVI.” This added many thousands subscribing to the Vatican’s English-language Twitter account. Areas of concern Pope Benedict VI then addresses the subject the digital divide. This term expresses the idea that new media are readily available to and express the values of the upper- and middle-classes while remaining unavailable to and not representative of the poor. The Pope supports the endeavor to ensure that the benefits new media offer are put at the service of all human individuals and communities especially those most disadvantaged and vulnerable. He cautions that it would be a tragedy if the continuous development of new media should contribute only to increasing the gap separating the poor from the new networks that are developing at the service of human socialization and information. So while the Church supports the bringing together of peoples via new media, it calls for a movement to represent the poor and marginalized through these new media Pope Benedict VI also cautioned that relationships should not simply be the focus of new media efforts but the quality of the content remains equally importance. He encouraged everyone involved with new media to promote a culture of respect, dialogue and friendship within it respecting the dignity of the human person. Dialogue should be made in a genuine search for truth. Though new media, users may easily fall prey to believing that they are consumers in a market of undifferentiated possibilities, where choice itself becomes the good, novelty is more important than beauty and subjective experience displaces truth. New media should not deter people from relationships with families, neighbors, and community members off-line. He warned that if the desire for virtual connectedness becomes excessive, it may in fact function to isolate individuals from real social interaction while also disrupting the patterns of rest, silence and reflection that are necessary for healthy human development. The Church 5 supports moderation in all areas of new media interaction. The Pope also stressed the role of young people in the Church’s relationship with new media and evangelization that is perhaps more important than ever before. What other Christian sources are using new media? Insights into the benefits of new media have been reported by secular marketing, Protestant, and Catholic sources. Many organizations in the Church have been using new media technologies in a big way with varying degrees of success. What about Secular institutes and new media? Secular institutes have also been using new media in a big way. Since members of secular institutes live alone or with their families it is possible for them to get connected to others by email, skype etc. CMIS (International Conference of Secular Institutes) has a website which connects with various secular institute conferences and secular institutes. Other continental and national conferences of secular institutes are also available on the web. Vocation awareness and formation material is also available on the web. What have modern research workers to say about new media? Researches James Katz and Ronald Rice have done extensive research on the social consequences of internet use. In “Project Syntopia,” they report a summary of their research. In general internet online activity reflects people’s offline activity. No evidence supports the “social paradox” that heavy Internet usage increases social isolation rather Katz and Rice conclude that Internet use is associated with “increased community and political involvement, and significant and increased online and offline social interactions” . Their findings have been confirmed by numerous other studies. 6 Erik Qualman evidence of the year 2009 suggests that social media not only enjoy more new adopters than any previous medium in history but that their popularity will only increase over time. Radio took 38 years to reach 50 million users and television 13 years, social media site Facebook added 100 million users in less than nine month according to him. He states that if Facebook was a country it would be the world’s fourth largest. The popular online encyclopedia, Wikipedia, where users create and edit each article, contains over 13 million articles, 78 percent of which are in a language other than English. From a marketing perspective, consumers are free to expose themselves to however much advertising they choose. They can choose which television show to watch, which commercials to skip through and can navigate through a web site using software that keeps stand-alone or “pop-up” advertisements from their view. Consumers are tired of being marketed to. This creates a challenging situation for marketers who want to reach today’s consumers. Only 14 percent trust advertisements but 78 percent of consumers trust peer recommendations according to Qualman. Consumers do not trust marketers to tell them what is best. They want authentic interaction with people like them. The 2008 Edelman Trust Barometer found that the most trusted voice on the Internet according to consumers was the voice of “a person like me” Youth and the internet Internet plays an important role in the lives of the youth. It has been found that 87% (21 million youth) of the American youth of today go online. Text messaging, instant messaging, chat rooms, and personal web sites increase the speed of multiple and simultaneous interaction which present with many challenges. Influences in the Social Domain Communicating through the Internet helps one to expand ones social circle. No longer does the social circle have to be limited to geographic locations as there is a “virtual” rather then 7 “physical” presence. Young people geographically remote, disabled, or housebound due to illness may find online chat an important form of communication. However, this may lead to social isolation according to some and the impact on family relations is a concern. New situations such as cyber-bullying, cyber-stalking, cyber-harassment conversations, cyber pornography, hacking or “flaming,” a public personal attack, where people demonstrate verbal aggression are now being created. Other dangers include the open display of group norm violations such as racism, sexism, and homophobia. Influences in the Emotional Domain The Internet is increasingly being accessed as a key resource for issues relating to anything from abuse to self-help allowing the youth to express themselves. Many youth access healthy resources like suicide hotlines, support groups, information on medical conditions, and contact with appropriate organizations. This interaction helps to give them a support system outside of their immediate environment to assist in dealing with emotional issues. The disadvantages are that many resources regarding the emotional domain can be harmful. There are hemlock (suicide) societies on-line. There is information on how to build bombs, selfmutilate, be sexually active, participate in drug use, and many other illegal and illicit activities. Cyber-Safety is an important issue for the youth of today. It is important for parents and children to be aware of cyber-safety to avoid victimization, including sexual solicitations and harassment. Teachers can integrate instructions to address plagiarism, cheating, and other forms of unethical communication methods. Cyber-Lessons and cyber-helpers are important for the youth of today. Lessons such as critiquing an instant/text message or an email to understand the message/messenger, discussing “netiquette,” reviewing appropriate use of cyberspace are important today. 8 Cyber-communication has changed many aspects of the lives of youth—private, social, cultural, economic, and intellectual. However, with proper instruction, guidance, and supervision, there is the potential for the impact of positive, personal growth. Theology over technology? Pope Benedict XVI addressing the members of the International Theological Commission, December 2010 has said that whoever loves God is impelled to become, in a certain sense, a theologian. Our every activity should be intimately related to our relationship with God. He also said that theology is not theology unless it is integrated into the life and reflection of the Church through time and space. Jesus said “Many will say to me in that day, Lord, Lord, did we not prophesy by thy name, and by thy name cast out demons, and by thy name do many mighty works? And then will I profess unto them, I never knew you: depart from me, you that work iniquity.’ (Mt. 7:22-3) No matter how much we speak about how new media can help in the mission of the Church, it will mean nothing if we do not embrace a prayerful, theological foundation for media work. It is a matter of theology over technology! How should the Church develop a theological foundation? The Holy Father considers as our teachers the Fathers and theologians of the whole Christian tradition. We have to begin by reflecting on the evangelizing as done in the Church from the prophets to Christ and the saints. We need also to reflect on the following fathers, doctors and new media personalities of the Church. They are :Saint Paul the Apostle, Saint Francis de Sales – Bishop & Doctor of the Church, 1567-1622, Blessed Giacomo (James) Alberione – Founder of the Pauline Family, 1884-1971, Servant of God Fulton J. Sheen – Bishop & Award-winning Media Personality, 1895-1979 and Saint Daniel Comboni, whose words about missionary work echo into this new media age Where do we go from here? 9 New media has created a new environment for human thinking, learning and communication. Many see this as more than just a media revolution but rather a “language” revolution. New media technologies have fundamentally changed the way human beings think and express themselves. I have tried to present a framework and language in which the emerging new media technologies can be considered, evaluated, and if appropriate, be encouraged and used in the Church. I have collected the material for my presentation from the Church documents and the thesis of Ms. Santana Angela. The Church has “New languages” and must consider which “new language” is good for the Church. References: 1. Santana Angela M New Media, New Evangelization: The Unique Benefits of New Media and Why the Catholic Church Should Engage Them. St. Mary's University San Antonio, Texas 2. Encyclical Letter Caritas In Veritate. Of The Supreme Pontiff Benedict XVI To The Bishops Priests And Deacons Men And Women Religious The Lay Faithful And All People Of Good Will On Integral Human Development. 3. Decree On The Apostolate Of The Laity. Apostolicam Actuositatem. Solemnly Promulgated By His Holiness, Pope Paul VI. On November 18, 1965. 4. Apostolic Letter The Rapid Development Of The Holy Father John Paul II. To Those Responsible For Communications. 5. MESSAGE OF THE HOLY FATHER BENEDICT XVI FOR THE 43rd WORLD COMMUNICATIONS DAY. "New Technologies, New Relationships. Promoting A Culture Of Respect, Dialogue And Friendship." [Sunday, 24 May 2009 ] 6. James Katz and Ronald Rice. Project Syntopia: Social consequences of Internet Use. 10 COME CAMBIA LA VOCAZIONE QUANDO CAMBIANO IL MONDO E NOI STESSI… Il tema che mi è stato affidato è quanto mai suggestivo e ricco di considerazioni. Mi pare che il termine “ cambiamento “ stia alla base del discorso per quanto riguarda la realtà socioculturale in cui siamo immersi e la nostra realtà personale: non credo riguardi la nostra VOCAZIONE laicale: cambia il modo di vivere e di attualizzare i carismi, ma non cambia la sostanza, cioè una vita donata a Dio per i fratelli nella realtà temporale, nel mondo. Non si tratta di cambiare mentalità, ma di acquisire “ una mentalità di cambiamento o del viaggiatore” (E. Leed - La mente del viaggiatore, Bologna 92) cioè la capacità di maturare un pensiero nomade, come è giusto che sia in un’epoca di mobilità e di cambiamento, dove tanto chi viaggia quanto chi rimane nel suo luogo vive comunque da “homo migrans”. Si tratta di ripensare ad una nuova forma educativa dettata dal superamento del soggettivismo moderno - l’IO al centro - per aprirci all’insegna del volto dell’altro: ecco il cambiamento, apertura ad un umanesimo planetario, conviviale, interculturale. È la novità del terzo millennio: riscoprire la realtà relazionale. Noi occidentali apparteniamo ad una tradizione filosofica e pedagogica molto ben radicata nel principio del “ conosci te stesso “, che sottende la convinzione che l’altro sia uguale a noi e, se non lo è, “ barbaro, infedele, comunque inferiore”. Ma cosa succede quando l’altro è diverso e io sono consapevole che non posso più considerarlo un barbaro o un pagano? Il filosofo Italo Mancini in - Tornino i volti – scrive “ ……nel terzo millennio il termine comprensivo di tutto dovrà diventare l’altro e il suo volto, biblicamente il prossimo, e gli si stenderà intorno una cultura di pace”. Si tratta di riscoprire il senso dell’accoglienza e della solidarietà, educarci, cioè alla reciprocità che ci rende progressivamente capaci di ascolto, di dialogo, di silenzio, di solitudine abitata dalla presenza dell’altro. È un notevole cambiamento che viene chiesto a tutti, ma direi, in modo particolare, a noi laici, chiamati per vocazione a condividere la vita quotidiana della gente che abita le nostre città e i nostri territori. È vero, oggi esiste il territorio dell’isolamento, freddo e desolato e senza memoria o memorie, che dalla nostra presenza va trasformato in territorio vissuto, identificato, carico di futuro e di profezia, che è quello dell’uomo e della donna, delle relazioni significative, dove l’io si definisce con il noi, dove la terra abitata diventa spazio affettivo e relazionale, dove insieme costruiamo il senso della vita e dove ogni persona possa trovare pane e pace. È in questa prospettiva che si impara a CONDIVIDERE. La condivisione dà la misura stessa della relazione: non può esistere una relazione significativa senza che ci sia condivisione. Il condividere tocca gli aspetti più profondi della persona: chi condivide è partecipe della vita degli altri e partecipa all’altro la propria, in un rapporto di parità, in cui ognuno divide con l’altro le proprie energie, le capacità, i limiti, le debolezze, la gioia e il dolore. Non è il rapporto “ io dò, tu prendi,” ma piuttosto il dire tra più persone: l’uno all’altro “ entra nella mia vita, nella mia realtà di persona” e accettare per questo di cambiare, nel concreto e nel quotidiano. È un ricercare insieme agli altri la costruzione di qualcosa da condividere, qualcosa che dia senso alla mia vita e a quella degli altri e porti miglioramento alle persone attraverso un cambiamento delle strutture per renderle più umane, più a servizio della persona. Non si devono pensare e fare grandi cose, ma essere attenti ai bisogni reali delle persone che con noi compiono un pezzo di storia. Direi che la novità di oggi consiste nel dover vivere una presenza diversa e nuova nel nostro ambiente di vita avendo come obiettivo “ vivere lo stile evangelico per dire, con la vita, Dio all’uomo contemporaneo”. Ciò richiede una attenzione continua ai cambiamenti socioculturali in cui siamo immersi, ai cambiamenti che avvengono in noi per poter vivere in novità di vita la nostra VOCAZIONE laicale che si concretizza nella consapevolezza dell’essere INCONTRO con l’altro e la relazionalità sta alla base della nostra presenza. Non ci viene chiesto soltanto di FARE, di ORGANIZZARE, ma soprattutto di ESSERE fedele nel cambiamento con nuove modalità di presenza. È vero che ciascuno di noi cambia: penso all’entusiasmo e alle motivazioni iniziali con le quali ci siamo buttati nell’accoglienza del progetto di Dio su di noi: essere sale, lievito, luce nel quotidiano è stato per ciascuno un desiderio profondo che ci ha fatto superare le difficoltà. Gradualmente gli anni ci hanno fatto sperimentare la fatica del non essere riconosciuti per la nostra presenza apparentemente anonima, per la solitudine spesso non capita, per la non assistenza nella malattia, per la non sicurezza della vecchiaia assistita…… Ho letto con molto interesse e stupore un articolo, comparso nella rivista “Credere oggi” della teologa Lilia Sebastiani dal titolo “ Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione”. Non avevo mai sentito parlare di Spiritualità del consumo, ma di consumismo, logicamente in senso negativo. “ …Oggi è realmente una scelta spirituale la fuga della “anima bella” fuori della civiltà compromessa con il fattore-denaro? Anche ammettendo che quest ’anima (singola) trovi una sua felicità e realizzazione nella forma di vita extra-economica che sceglie per sé, vorremmo chiederci: una vita extra- economica non è anche, in qualche misura, extrasociale? E può esserci una scelta autenticamente spirituale senza solidarietà? Forse oggi l’anima bella è soprattutto quella che accetta il confronto con le cose del mondo: che accetta di “ sporcarsi le mani”, si diceva volentieri fino a qualche tempo fa, ma la prospettiva sottintesa non ci sembra soddisfacente, anche perché contiene sempre un implicito giudizio negativo ( mondo = sporco) . La scelta non è quella di sporcarsi le mani o il cuore, ma di purificare il mondo fino a renderlo capace di “trasparenza”, fino a rendere leggibile in esso il progetto di Dio. Occorre dunque anche riconciliarsi con i beni, con le cose: non per dimenticarsi in esse, non per identificarsi con il mondo, non per smarrire la propria innata “verticalità”, ma per rendere la logica della Redenzione sempre più riconoscibile e operante in tutti gli ambiti del vivere terreno”. Mi pare questa una lettura molto significativa per noi, membri di Istituti Secolari, una proposta di riflessione e di apertura nuova, dalla quale oggi non si può prescindere, se vogliamo veramente ricercare un creativo, ma fedele modo di essere presente nella storia mettendo al centro la PERSONA e non le cose, ma usare i beni senza dipendere o essere da essi consumati. E’ una pista di ricerca. COME VIVERE LA VOCAZIONE OGGI - NELLA PROSPETTIVA EDUCATIVA Rimanere in stato di conversione continua: una nuova mentalità. Mai dire …tanto ormai….ma vivere con le antenne alzate per captare modalità nuove di presenza e idonee alla nostra età e condizione: 1) Pensare una Chiesa povera e umile, che si affida alla forza del Vangelo: “ la Chiesa stessa non è che il mondo convertito” ( Moioli 1990). Noi siamo chiesa, noi siamo mondo sempre. - No alla fuga dal mondo - No alla conquista del mondo - Sì alla conversione del mondo a partire da noi: vivere una testimonianza credibile: il nostro stile di vita, la nostra umanità, suscitano una domanda di senso in coloro che ci incontrano? - Con la povertà di mezzi: usare i mezzi del mondo nella misura in cui sono utili, ma abbandonarli qualora facessero dubitare della sincerità della testimonianza ( Dianich) 2) Guadagnare “la sapienza” - Abitare la nostra sensibilità ed evangelizzarla “sensi spirituali, perché recettivi della Grazia vivificante dello Spirito”. I sensi ci permettono di comunicare con l’esterno nelle due direzioni; accogliere il dono di DIO e ridonarlo. Coltivare la relazione con l’Unico necessario ° dimensione contemplativa e comunionale con Gesù Cristo, come fondamento dell’essere nel mondo senza perdere il “sapore” ° come fondamento all’accettazione del “rischio della condivisione” ( Moioli 91) Abitare la nostra umanità e rimanere in contatto profondo con l’umanità di Cristo ci trasforma interiormente, ci rende sapienti e perciò prudenti, donne e uomini in grado di “portare ad efficacia di vita” (GS 42) la fede e la carità che ci deriva dall’accoglienza del vangelo. Ognuno di noi farà proprio l’invito che Gesù rivolge a Maria Maddalena ( Giovanni 20) “ Va dai miei fratelli”, vivi in mezzo a loro e con la tua testimonianza annuncia il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. Piera Grignolo Elementi per una sintesi Concludiamo il nostro Congresso cercando di raccogliere alcuni stimoli emersi in queste giornate e provando a trarre qualche indicazione di percorso. Cominciamo da Assisi, da S. Francesco. Ricordo che durante un incontro con la CMIS, l’allora Segretario della Congregazione, Mons. Gardin, ascoltando e cercando di comprendere il significato profondo della vocazione degli Istituti secolari, concludeva con questa analogia: ‘S. Francesco, quando volle costituire un ordine di frati, li volle Minori, cioè piccoli’. Piccoli, ma necessari per rinnovare la Chiesa, che in quel tempo soffriva a causa di un grave sbandamento, per riportare la Chiesa alla sua unica missione, quella di essere testimone dell’amore di Dio. Dopo tanti secoli, pare di essere nelle medesime condizioni: la Chiesa, che pure sta vivendo un certo sbandamento – e non mi riferisco semplicemente a ciò che capita di leggere nei titoli dei quotidiani, che semmai può indicare un sintomo di un disagio più profondo, una certa confusione di cui più volte ha parlato il Papa – la Chiesa, dicevo, deve eliminare tante sovrastrutture che ormai rappresentano un peso inutile e, in qualche caso, persino dannoso, e deve tornare a prendere contatto vivo, e perciò autenticamente umano, con la parola del Vangelo, e avendo fiducia solo in questa. Se ci si pensa bene, e se ci si guarda attorno, è un’opera immensa di rinnovamento. In questo rinnovamento, gli istituti secolari devono fare la loro parte. Piccoli, ma necessari. Qual è questa parte, che non è lecito abbandonare? Bisogna che ci riflettiamo bene, non è detto che possiamo dirci fedeli a questo compito solo per il fatto che siamo qui. Essere fedeli, va ricordato, per noi significa essere fedeli a consacrazione e secolarità, ad una piena consacrazione e ad una piena secolarità. Partiamo dalle parole del Papa. Ancora una volta abbiamo fatto esperienza di una parola del Magistero alta, densa, impegnativa. È sempre il Concilio a ricordarci come la relazione tra Chiesa e mondo vada vissuta nel segno della reciprocità, per cui non è solo la Chiesa a dare al mondo, contribuendo a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia, ma è anche il modo a dare alla Chiesa, così che essa possa meglio comprendere se stessa e meglio vivere la sua missione (cfr. Gaudium ed Spes, 40-45). Ho riletto i numeri di Gaudium et Spes citati nella lettera del Papa, e devo dire che l’espressione della lettera a noi indirizzata mi sembra ancora più efficace. In ogni caso, in questo scambio tra Chiesa e mondo, noi dobbiamo partecipare di entrambi i flussi. Noi, per così dire, stiamo da entrambe le parti. Questa reciprocità, di cui si parla qui, noi dobbiamo sentirla nelle nostre vite. Facendo attenzione, però, a capirci bene: non si tratta, per noi, di agire da messaggeri, come se dovessimo prendere da una parte e portare dall’altra. Questa reciprocità noi la viviamo sulla nostra pelle, perché in quel mondo ci stiamo. È la nostra vita, purché nel mondo ci si stia davvero, ad essere attraversata continuamente da quel flusso. Poi, così ci ha chiesto il Papa: Si deve essere capaci di lasciarsi interrogare dalle complessità che il mondo oggi attraversa, di restare aperti alle sollecitazioni provenienti dalla relazione con i fratelli che incontrate sulle vostre strade, di impegnarvi in un discernimento della storia alla luce della Parola di Vita. Siate disponibili a costruire, insieme a tutti i cercatori della verità, percorsi di bene comune, senza soluzioni preconfezionate e senza paura delle domande che restano tali. Prima di provare a trarre qualche indicazione da queste parole, vorrei segnalare che l’insegnamento del magistero sugli istituti secolari, in particolare quello dei Papi, si conferma di grandissimo valore e contenuto. È come se la Chiesa continuasse a ripeterci, con forza: guarda che questa vocazione è importante! È importante! Ma noi …. noi non ci crediamo fino in fondo. Non ci fidiamo a consegnare (uso un termine importante della relazione di P. Gamberini) tutto il significato della nostra vita all’esistenza comune. Cerchiamo scorciatoie per renderla importante in altro modo. Dice il Papa: Senza paura delle domande che restano tali. Ci vuole coraggio a dire così! Che bello se i nostri Istituti si presentassero ai giovani in questo modo: noi non siamo qui, anzitutto, per fornire risposte (magari preconfezionate) ma per accogliere domande. Abbiamo bisogno di domande importanti perché dobbiamo continuamente fare l’esercizio di raccogliere domande. In particolare, quelle che vengono dal mondo non credente. Il Vangelo è fatto per essere inteso da tutti gli uomini di buona volontà. Se questo non succede, dobbiamo allora interrogarci sui modi con i quali lo presentiamo. Dovremmo sapere entrare ogni tanto nel cuore del non credente – e non sarebbe difficile se avessimo il coraggio di ascoltare il non credente che sta dentro di ciascuno di noi – per vedere quanto siamo ridicoli, a volte, e insulsi, con le nostre liturgie contraffatte, con le nostre sentenze moralistiche, con le nostre iniziative ornamentali, per non parlare di quando, addirittura, contraddiciamo il Vangelo. Il Papa ci ha chiesto di abbracciare con carità le ferite del mondo e della Chiesa, perché … sono le nostre ferite. L’ascolto del mondo non credente dovrebbe essere un compito che gli istituti secolari devono sentire loro vicino. Ma perché quel mondo sia ascoltato, bisogna che ci siamo realmente dentro. P. Gamberini ci ha mostrato che in Gesù il santo, il puro, la vita, hanno incontrato il peccato, l’impuro, la morte, e solo così la vita ha potuto fluire, scorrere. La nostra salvezza si è originata propriamente così: quando il sacro ha raggiunto il profano. Bisogna che riflettiamo su questo. Come dicevo già immediatamente dopo la relazione, non vorrei qui aggiungere altro. Ma dobbiamo riflettere. Quando diciamo che la nostra povertà, castità ed obbedienza deve essere vissuta in modo rispondente alle esigenze della secolarità, intendiamo che deve accogliere quella intenzionalità di Dio, ed il criterio con cui quelle virtù devono essere vissute e verificate è questo: perché tutti ‘abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza’ (Gv 10,10b). Abbiamo parlato di linguaggio: i nuovi media stanno accelerando l’evidenza che il linguaggio ecclesiale rischia di risuonare a vuoto, quando in quel linguaggio non dovesse scorrere più la vita (in termini evangelici potremmo dire il sangue, cioè una vita piena). Gesù parlava con autorità perché era il Verbo fatto carne, in Lui Parola e Vita coincidevano. Interessante il racconto della prof.ssa Gerl Falkowitz a proposito di quella iniziativa di preghiera rivolta agli atei: ci diceva che quando al vangelo si aggiungevano le nostre parole, i non credenti erano meno interessati; quando si è letto il vangelo direttamente, gli atei si sono sentiti interrogati. C’è appunto un certo linguaggio – e un certo modo di pensare la Chiesa – che si sta avviluppando su se stesso, che non incide più, che non riesce più a trasmettere la vita, perché è lontano dalla vita. Nella presentazione di Ivan Netto mi ha colpito un’espressione sintetica di un’indagine sui giovani: ‘non sono disposto ad ascoltare messaggi che vengono dall’alto, ma sono disposto ad ascoltare uno come me’. Gesù ha incontrato le persone dove erano, si è fatto uno come loro. Un intervento in sala diceva: Madeleine Delbrel riteneva di non aver fatto grandi cose se non amare la gente con la quale viveva. Piera Grignolo, nella sua relazione, ci ha detto che non è così scontato incontrare l’altro. Bisogna imparare. Un altro che è sempre più altro. Non standogli davanti, ma a lato. Non è impresa da poco. Nella conversazione che ha seguito la sua relazione, P. Gamberini ci diceva che la prima forma di esorcismo è l’ascolto, il dare spazio all’altro perché possa esprimere la sua esperienza. Spazio: questa è una parola che ci deve appassionare. In questo incontro con l’altro, noi dobbiamo imparare a creare spazio, anziché riempirlo, che è ciò che facciamo di solito. Sapendo che, secondo il mistero cristiano, nel momento in cui, in questo incontro, ci fosse qualcuno che deve pagare e deve morire – deve, appunto, cedere spazio – quel qualcuno, siamo noi. La Chiesa deve imparare a non dire sempre il massimo possibile, ma a dire il minimo necessario, perché sia chiaro che ‘questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi’ (2 Cor 4,7). Noi dobbiamo smetterla di comportarci da padroni dello Spirito. Dobbiamo, invece, avere la consapevolezza che Dio scrive la sua storia di salvezza sulla trama delle vicende della nostra storia (sono le parole del Papa). È la sua storia di salvezza, non la nostra. Il mondo non ha bisogno di faccendieri dello Spirito (ci diceva il Prefetto che rischiamo di morire sotto il peso delle nostre opere), che usano la fede come un manuale di risposte preconfezionate, ma di cercatori della verità – cito ancora le parole del Papa. Misura della profondità della vostra vita spirituale non sono le tante attività (…) ma piuttosto la capacità di cercare Dio nel cuore di ogni avvenimento. (…) Solo in forza della grazia che è dono dello Spirito potete scorgere nei sentieri spesso tortuosi della vicende umane l’orientamento verso la pienezza della vita sovrabbondante. La Chiesa deve imparare anch’essa ad essere serva inutile – non sto dicendo uno sproposito, sono le parole di Gesù. Noi vogliamo un gran bene alla Chiesa, perciò la vogliamo bella, e fedele al Vangelo. Grazie all’intervento della Prof.ssa Gerl Falkowitz, abbiamo anzitutto ricordato, nel caso ce ne fossimo dimenticati, che è necessario pensare la fede; manca, infatti, nei nostri ambienti una riflessione continua ed aggiornata, con il rischio che tutto sia lasciato alla sola emotività; vedremo se nell’Assemblea dei prossimi giorni sapremo indicare qualche percorso. La professoressa ci ha aiutato molto a comprendere la necessità di uno sguardo antropologico profondo, che mette il mistero cristiano nel cuore della questione fondamentale della vita: come userò questa vita? La devo tenere per me? Come posso uscire dalla paura di perderla? Sono domande che … ci mettono propriamente a lato dell’altro. Per questo, dicevo, dopo la sua relazione, che dovremmo porci, in modo aperto, questa domanda: qual è il compito del cristiano nel mondo? Se mettessimo al centro la vita, dovremmo concludere che noi siamo nel mondo non per fare le nostre cose, le presunte cose cristiane, ma per accettare fino in fondo questa tensione che la vita di ogni uomo e di ogni donna comporta, e provando, dentro di essa, ad essere testimoni di un significato che abbiamo contemplato. Il mondo ha bisogno di persone che guardino in faccia a queste domande e con esse sappiano, senza finzioni, fare i conti. La sola mancanza di una vita è quella di non diventare santi: così ci diceva, in modo molto significativo e con grande forza, mons. Gérald Lacroix, ricordando la chiamata ad essere santi. Siamo entrati in un istituto secolare esattamente per questo. Ma questo non è un dono per noi, è per tutti, e l’appello alla santità esige di essere tradotto nel concreto. Noi dobbiamo aiutare l’impiegato, l’insegnante, la mamma, il papà, il fabbro, il sindaco, il malato… ma anche l’artista, lo sportivo, a rispondere: come posso farmi santo facendo l’impiegato, l’insegnante, la mamma, ….”? C’è appunto un nuovo modello di santità da preparare, perché il cristiano comprenda che si fa santo non prendendo distanza dall’impuro, dal profano, ma rendendosi presente, e santo, in mezzo a quella condizione. Gesù ci ha ottenuto la vita quando è venuto a contatto con l’impuro, con ciò che è malato. Tutto nella Chiesa deve sostenere questo cammino di santità, perché il nostro modo di ‘far funzionare’ la Chiesa è proprio questo. Pierre Langeron ci ha ricordato, con precisione, tutta la fatica di un cammino di riappropriazione del ruolo dei laici nella Chiesa. In questo cammino non deve però trovare spazio una ‘rivendicazione’ del ruolo dei laici, quasi che questi chiedessero delle concessioni o delle deleghe. Quel tempo deve finire perché nella Chiesa ci si deve semplicemente rendere conto che il popolo di Dio è fatto di laici, e a servizio di quel popolo ci sono i ministeri, ad esso assolutamente necessari, della Parola, dei sacramenti, del discernimento, della preghiera incessante. Per questo motivo io non farei, nella Chiesa, un ‘anno sul laicato’, perché mi parrebbe di trattare il laicato come una categoria: il laicato, infatti, è, fondamentalmente, il popolo di Dio; se nella Chiesa non ci si occupasse di esso, di che ci si occuperebbe? Di altro, sì, è possibile, ma con i rischi di tradire il Vangelo che oggi, come sempre, sono sotto i nostri occhi. Il Cardinale Prefetto ci ha ricordato il grandissimo valore della comunione e della necessità di respirare con tutta la Chiesa. Non dobbiamo guardare a noi stessi, ci ha ripetuto, non dobbiamo restringere il nostro sguardo al proprio, ma aprirci alla comunione. Colpisce quanto ci riferiva il Prefetto: l’origine di tante infedeltà nella vita consacrata nasce dalla poca comunione, dalla poca apertura. Vorrei quindi lanciare una richiesta, che, alla luce di queste parole, diventa un appello: abbiamo vissuto delle belle giornate di comunione qui ad Assisi, non lasciamo che restino un episodio isolato, cerchiamo di vivere insieme il cammino della Conferenza mondiale e ogni altra occasione di condivisione tra noi. Non chiudiamoci, per non rischiare di essere infedeli. Ciò richiede una particolare vigilanza perché i vostri stili di vita manifestino la ricchezza, la bellezza e la radicalità dei consigli evangelici. Sono ancora le parole del Papa, che ci riportano alla necessità della trasparenza, e, come si diceva all’inizio, della fedeltà alla piena consacrazione e alla piena secolarità. Se fosse un gradino meno, non basterebbe. E se fosse un gradino meno, noi staremmo perdendo il nostro tempo. Il mondo ha bisogno della dedizione di tutta la nostra vita. Concludiamo così il nostro Congresso. Abbiamo raccolto preziose indicazioni per il lavoro dell’Assemblea che si apre tra poco, ma, soprattutto, per aiutarci a vivere, e così mostrare quel dono straordinario che è la vita che abbiamo ricevuto. degli istituti secolari 214 riconosciuti 200 dipendono dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (CIVCSVA) 4 dipendono dalla Congregazione per le Chiese Orientali 1 Diritto pontificio Diritto diocesano Numero totale N. dei membri Femminili 61 119 180 26 580 (82,16%) Maschili laicali 2 6 8 569 (1,76%) Sacerdotali 8 2 10 3 987 (12,32%) C Con rami 2 6 8 1 216 (3,76%) totale 73 137 210 32 352 % femminili maschili laicali sacerdotali con rami 2 Laici donne D= Incorp. Definitiva F= in Formazione 25 682 1 713 (6,67%) 27 395 Fino a -10 Laici uomini Sacerdotali D F D F 642 134 (20,87%) 3 538 643 (18,17%) 776 totale 32 352 4 181 N. istituti 8 11-20 11 20 16 21-50 52 51-100 51 101-200 50 201-500 201 500 21 501-1000 6 1001-2000 4 2001- 2 3